Atelier
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Le sfide e le nuove forme dell’urbano: praticare la dimensione della post�metropoli Coordinatore Francesco Domenico Moccia Discussant Alessandro Balducci
Introduzione Tematiche emergenti L’argomento metropolitano è immediatamente collegato ad un livello di pianificazione e ciò comporta una selezione delle stesse tematiche da trattare in modo che siano adeguate ad esso. In altri termini, la scala vasta risulta un fattore essenziale della concettualizzazione di metropoli e condiziona ogni pensiero che siamo in grado di sviluppare. Altrettanto evidente è che il meccanismo di selezione avviene in maniera automatica se non inconscia [infatti non lo trovo mai esplicitamente trattato – singolare, infatti è questa assenza di un discorso sui livelli di pianificazione e sulla ripartizione, tra di essi delle competenze: al contrario si coglie la preferenza per la multiscalarità o interscalarità], generando il sospetto che l’automatismo comporti pregiudizi o perlomeno la reiterazione di convinzioni non sufficientemente ponderate. Queste osservazioni non vanno colte come nel senso della negazione della pertinenza dei livelli e della necessaria articolazione che essi comportano per un’ordinata organizzazione del sistema di pianificazione. Si limitano solamente ad invocare una riflessione di merito in un momento in cui non abbiamo ancora una istituzionalizzazione del governo metropolitano, ma ci accingiamo, si spera, a fondarlo. Perciò, questo sarebbe il momento più adatto al dispiegamento di un contributo scientifico su un argomento che, anche se quasi clandestinamente, è entrato nell’agenda politica. Senza alcuna pretesa di essere esaustivo, di seguito estraggo dalla sessione tre gruppi di tematiche significative. Tematiche relazionali Tra le tematiche che in maniera più incontestabile rientrano, a pieno titolo, nel livello metropolitano sono quelle di carattere relazionale. La ragione è tanto ovvia quanto solida. Metropoli è sistema complesso di relazioni. L’altra faccia è che, a differenza della città, difficilmente le riconosciamo unità. Alla radice di questa difficoltà, forse tra tanti altri fattori [in ogni caso a me più chiaro] è l’identificazione della comunità con il comune e con la piccola dimensione. Ne deriva una metropoli priva d’identità se non si voglia ricorrere al meticciato, alla complessità ed alle veloci dinamiche di interazione contemporanee materiali e immateriali. Anche se la sfida della comunità metropolitana è stata lanciata, non si trovano molti che raccolgono questo guanto. Il terreno più propizio sarebbe quello delle metropoli sviluppate secondo una dinamica demografica sorgente dall’interno e proiettata sull’hinterland [crescita naturale]; oppure le concentrazione all’interno di culture molto chiuse all’immigrazione straniera; così singolari da essere sopraffatti dal pervasivo processo di globalizzazione e dalla sua accelerazione della mobilità. In termini spaziali questa molteplicità si traduce in unità spaziali a cui è necessario attribuire una certa compiutezza e identificazione [senza preoccuparsi delle interne articolazioni] e concentrarsi sui rapporti tra di loro. Ad una tale tematizzazione sfugge tutto il territorio tipico della dispersione tanto difficile da definire quanto da perimetrare così come altrettanto codificabile risulta quel tipo di mobilità che attraversa i luoghi talvolta perfino con migrazioni temporali di cui i flash mob sono gli esempi estremi quando connotano luoghi e manufatti di centralità temporanea. Maggiore validità assume quando si propone come modello normativo
specialmente legato alle problematiche del trasporto pubblico di massa. Infatti, bisogna accettare la strategia concettualizzante e conoscitiva fortemente orientata da una scelta di valore come sistema di indagine efficace a selezionare fattori congruenti con il risultato auspicato come desiderabile e perciò in grado di favorirlo. Il ricorso alla rete si colloca proprio in questa posizione di passaggio e riscatta l’interpretazione dalla retorica agnostica del ricercatore neutralmente disincantato, in grado di cogliere una realtà esterna nella sua pienezza di significati ed implicazioni. Per questa via, la tematizzazione si arricchisce di discorsi le cui traiettorie sfuggono ad un ambito analitico sebbene mi appaiano del tutto pertinenti, in special modo, per affollare una teoria [direi meglio un dibattito teorico] sulla metropoli. Probabilmente questa interpretazione non risulterà accettabile agli autori che ricorrono alla “rete” perché si affezionano alla sua flessibilità sia in estensione che in gerarchia. Si parla di rete a geometria variabile, di reti gerarchiche come di reti equipollenti. Il tutto all’ombra [o con l’incubo] di una dilagante globalizzazione dalle veloci dinamiche sempre più adattabile, perfino smaterializzabile [rappresentando flussi, relazioni, impulsi elettromagnetici, viaggi di informazioni] rispetto alla limitatezza delle descrizioni areali tanto ancorate alla zonizzazione. Fuori resta tutto ciò che non è dinamico, sistemico, relazionato. Tematiche ambientali Partirei dall’affermazione che le tematiche ambientali si inquadrano in una agenda politica condivisa per sostenerla anche di fronte alle innumerevoli obiezioni che si possono appellare agli innumerevoli conflitti suscitati intorno a quell’argomento. Nessuno dovrebbe meravigliarsi del fermento di una pubblica arena dove è necessario prendere decisioni che riguardano materie la cui conoscenza continua a presentare capacità di previsione ad elevata incertezza e su cui agiscono soggetti con interessi divergenti rispetto alle medesime scelte i cui costi e benefici si distribuiscono in maniera ineguale. La pianificazione s’innesta su questo medesimo terreno intermedio tra conoscenza [scienza] ed azione assorbendo al suo interno tanto le incertezze delle previsioni quanto i conflitti delle decisioni. Ciò non toglie che ci troviamo in un campo ben definito, quantunque magmatico. Il modo di concettualizzare queste problematiche lo leggerei come strategie di uscita dalla suddetta problematicità. Dall’esame dei paper presentati ho individuato tre di esse che, molto probabilmente non sono esaustive, ma sono certamente significative ed interessanti. La prima strategia si affida alle metodologie valutative. Il motivo per cui vi ricorre è che presuppone una realtà sempre mutevole e differente per cui non sono esportabili buone pratiche, l’impatto dei modelli con le realtà specifiche si prevede sempre povero di risultati, gli stessi obiettivi possono variare rispetto al medesimo scopo in funzione della situazione concreta e dove può portare il suo mutamento. Forse ho accentuato questo relativismo localistico, ma mi serve per stagliarne la sagoma e caratterizzarlo rispetto agli altri approcci. In aggiunta, al complesso delle dichiarate diffidenze di carattere conoscitivo, va ripresa, anche se non altrettanto esplicitamente espressa,
la preferenza per la libertà dell’attore e del progettista che si aggiunge a tutte queste negazioni sostantive e normative, che mi viene da pensare, appaiono come vincoli al libero dispiegamento delle azioni, allo stesso sviluppo della creatività nel concepirle. Infatti, la valutazione è spostata di fatto a valle, sugli effetti [infatti quanto è affidabile una valutazione ex ante, e perfino una in itinere, in un contesto segnato da tanta incertezza?]. Il fuoco di questa tematizzazione ruota intorno agli indicatori la cui solidità deriva dall’istituzionalizzazione, anche se la sperimentazione in questo campo non sarebbe priva di interesse ampliandolo o confutando alcuni degli indicatori assunti nelle misurazioni ufficiali ma anche questa direttrice ci conduce in territori estranei alla pianificazione. Così come altrettanto disagio è comprensibile nel pianificatore quando vede dissolvere, sotto le precedenti critiche, gli attrezzi del suo mestiere nonostante abbia fatto ogni sforzo per assumere la valutazione come verifica nel corso di tutto il processo di piano. La seconda strategia assume connotazioni ideologiche e perciò si addentra nel terreno della cultura e dei comportamenti, seguendo una motivazione che fa dipendere il cambiamento dal modo d’agire consapevole di ogni persona. Sullo sfondo troviamo la critica al consumismo, al sistema economico dominate, alla globalizzazione; proposte come la decrescita, la transizione ad un nuovo ordine; le esperienze di comunità di pratiche virtuose [allargandosi un poco rispetto alla lettera dei saggi presentati]. Queste connotazioni non vanno affatto escluse dal campo della pianificazione perché ad esso va ascritto [forse molti non sono d’accordo] l’elaborazione razionale dei valori, né i comportamenti sono ininfluenti rispetto al cambiamento, come si è dimostrato con apposite ricerche. Il problema sta tutto qui: la discussione sui valori è tutto inscritto nella retorica o necessita di una verifica empirica? C’è da aspettarsi risposte opposte [per es. da idealisti e pragmatici] e perciò uno sviluppo su binari paralleli piuttosto che un incontro [onestamente, quest’ultimo desiderato solamente dai pragmatici]. La terza strategia ricorre all’innovazione tecnologica. Consolidata nella letteratura come wet theory è risultata già molto fertile per la ricerca degli altri paesi, molto meno nel nostro. Qui, infatti, manchiamo dello sviluppo di quei principi in messa a punto di infrastrutture urbane sostenibili alternative a quelle esistenti e alla verifica delle loro performance, sebbene già disponiamo di un ampio catalogo estero di cui va verificata l’efficacia nelle nostre condizioni climatiche. Né ci nascondiamo come la ricerca in questo campo sia incoraggiata dai governi e finisca per premiare settori esterni alla pianificazione. Lo sviluppo dell’innovazione tecnologica in termini settoriali non è funzionale al rinnovo delle città come sistemi o complessi integrati, un piano in cui il contributo dell’urbanistica sarebbe molto utile, ma tuttora poco riconosciuto. Allo stesso tempo non bisogna nascondersi i limiti del nostro settore nelle relazioni con il mondo delle scienze naturali e dell’ingegneria, della difficoltà di fare sintesi tra visioni e metodo tanto diversi specialmente da pare di chi sfugge dal consolidamento disciplinare e metodologico in casa propria. Si tratta di nodi significativi la cui soluzione in un verso o nell’altro non mancheranno
di avere effetti sul futuro della nostra ricerca. I temi della governance Raggruppo per esigenze di sintesi forse anche cose diverse, dove la componente politica assume un ruolo rilevante, in due aree distinte: la città metropolitana e la produzione e gestione degli spazi pubblici. In special modo per il secondo debbo giustificare la rilevanza politica, poiché lo spazio pubblico è concettualizzato come tema sociale. In realtà credo che in questo modo venga relegato ad una condizione residuale ed adattativa [come attrezzarlo, renderlo fruibile ed accogliete], invece che elevato a struttura portante della città e della metropoli [il luogo della vita civile e del governo – provando a coniugarlo con la governance]. La mossa decisiva per realizzare questo scopo è l’affermazione della sua centralità nella pianificazione, sia nel disegno delle espansioni urbani che nella ristrutturazione delle zone edificate. Che su entrambi i temi ci possa essere tanto un approccio processuale che uno sostantivo non c’è problema: non riuscirei a scegliere il migliore e ciascuno lascerebbe qualche insoddisfazione. Né mi sentirei di avanzare queste richieste di completezza al ricercatore forzandone la natura e le inclinazioni. Diversa rivendicazione farei alla comunità scientifica le cui dotazioni dovrebbero essere stimolate da maggiori ambizioni di corrispondere ad aspettative della crescente rilevanza del tema metropolitano in tutta questa molteplicità di aspetti. Ad essa mi sento di chiedere una riflessione su quanto in questa rassegna rapidissima manca o è sottaciuto come tema metropolitano: tra essi i più gravi problemi sociali [social housing, segregazione, ritardo di sviluppo]? Francesco Domenico Moccia Il testo di Francesco Domenico Moccia introduce entrambi gli Atelier 7a e Atelier 7b
Le sfide e le nuove forme dell’urbano: praticare la dimensione della post‐metropoli Coordinatore Francesco Domenico Moccia Discussant Alessandro Balducci
7a Sessione speciale sulla ricerca PRIN 2010: territori post-metropolitani come forme urbane emergenti: le sfide della sostenibilità, abitabilità e governabilità
Mauro Francini, Maria Francesca Viapiana Le forme dell’urbano: il ruolo della pianificazione nei territori postmetropolitani
Nadia Caruso, Giancarlo Cotella, Umberto Janin Rivolin Post-metropoli e strumenti di piano
Maria Gagliardi “La Città-Territorio: un’interpretazione urbana dei fenomeni di metropolizzazione contemporanei
Carlo Cellamare Produzione di politiche, pratiche urbane e nuove condizioni dell’abitare nei territori post-metropolitani romani Valeria Fedeli Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta Laura Fregolent, Francesco Gastaldi, Francesca Gelli, Carla Tedesco Sostenibilità e processi di metropolizzazione in Veneto Giovanni Laino Post-metropoli senza metropoli? Laura Lieto Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca Francesco Lo Piccolo, Filippo Schilleci, Marco Picone Forme di territori post-metropolitani siciliani: un contesto “al margine” Maria Federica Palestino Interpretazioni della post-metropoli napoletana in chiave di resilienza Camilla Perrone, Giancarlo Paba Verso un (New) Ecological Regional City Planning: Osservazioni, appunti, riferimenti Spazi pubblici Gilda Berruti Nodi come spazi pubblici post-metropolitani. Quale abitabilità? Francesco Rossini Hybrid Spaces of Hong Kong Dispersione insediativa Roberta Cocci Grifoni, Rosalba D’onofrio, Massimo Sargolini Forma della città, sostenibilità urbana e qualità del paesaggio
Alessandro Sgobbo La dimensione policentrica della metropoli post-globalizzazione Ignazio Vinci RURBANScape. Forme plurali del progetto per una nuova alleanza tra città e campagna Reti di città Annalisa Contato Espressioni territoriali in evoluzione: cause, effetti, ipotesi di sviluppo Ettore Donadoni Pensare al futuro della città globale. Due scenari evolutivi sullo sviluppo delle reti Mario Francini, Myriam Ferrari Il disegno degli spazi pubblici nei quartieri marginali Alessandro Mingolo Velocità I Densità. Un progetto per la società del rischio Gabriele Pasqui Oltre i confini. Ripensare i temi del governo metropolitano Paola Pucci Fuzzy boundaries per comunità mobili. Disegnare territori contingenti nella Regione Urbana Milanese
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Post-metropoli e strumenti di piano Nadia Caruso Politecnico di Torino DIST - Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: nadia.caruso@polito.it Giancarlo Cotella Politecnico di Torino DIST - Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: giancarlo.cotella@polito.it Umberto Janin Rivolin Politecnico di Torino DIST - Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio Email: umberto.janinrivolin@polito.it
Abstract* La crescente complessità sociale ed economica della vita urbana contemporanea, riassunta in modo eloquente dalle riflessioni sulla post-metropoli, ha messo in crisi, in America come in Europa, l’efficacia delle forme tradizionali del governo del territorio. Come anche il caso elementare dell’area urbana torinese può a mostrare, gli strumenti consueti di pianificazione spaziale alla scala metropolitana e comunale appaiono incapaci di interpretare la varietà di occasioni di trasformazione urbana, che altre forme autonome e mirate di governance territoriale si sono fatte carico di coordinare. Di fronte allo scenario post-metropolitano, ci si domanda se gli strumenti della pianificazione spaziale non vadano riconsiderati, in particolare assegnando l’elaborazione e la gestione dei piani d’uso del suolo ad ambiti “municipali” di governo del territorio, ridotti rispetto al consueto livello comunale e più prossimi alle comunità locali, lasciando ai livelli superiori di governo il compito di coordinare le politiche e i progetti di trasformazione. Parole chiave post-metropoli, governo del territorio, pianificazione spaziale
1 | Difficoltà del governo del territorio nella post-metropoli Ridotta alla sua essenza, la funzione del governo del territorio è il controllo dello spazio al fine dello sviluppo economico e sociale (Gaeta et al., 2013). Strumento cardine del governo del territorio è in tutto il mondo il piano locale degli usi del suolo, anche se è noto che la pianificazione spaziale è tradizionalmente praticata a scale differenti al fine di integrare problemi e politiche di natura diversa nei diversi ambiti territoriali. Fondato sull’applicazione di modelli di ordinamento spaziale sedimentati attraverso i secoli, il governo del territorio contemporaneo nasce come risposta agli effetti spaziali della rivoluzione industriale, che pone allo Stato moderno l’esigenza di organizzare lo sviluppo urbano attraverso forme istituzionali di regolazione. La città moderna, e in seguito la metropoli, sono state così assunte quale ambito principale di applicazione della
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Queste riflessioni sono maturate nel quadro della ricerca PRIN “Territori post-metropolitani come forme urbane emergenti: le sfide della sostenibilità, abitabilità e governabilità”, di cui il Politecnico di Torino è unità locale di ricerca sotto il coordinamento del Politecnico di Milano. Pur riservandosi la responsabilità dei contenuti della nota, gli autori ringraziano Alberta De Luca, Elena Pede, Cristiana Rossignolo, Silvia Saccomani e Alessia Toldo, che partecipano alla ricerca locale, per l’utile confronto avviato.
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pianificazione spaziale tra XIX e XX secolo, mentre l’articolazione amministrativa degli Stati ha alimentato forme di pianificazione regionale e sub-regionale quale strumento di coordinamento spaziale complessivo. Per lungo tempo, lo sviluppo metropolitano è dunque stato considerato l’assetto “naturale” della forma urbana da governare, tanto per contenere i processi di urbanizzazione quanto per affrontare, dagli anni ’70 del ‘900, i fenomeni di contro-urbanizzazione (Martinotti, 1993). Il concetto stesso di “metropoli”, così come concepito nel secolo scorso, non sembra tuttavia più in grado di rappresentare la crescente complessità sociale ed economica della vita urbana contemporanea (Soja, 2000; Soureli & Youn, 2009). Nel contesto statunitense, in particolare, persino il classico dualismo tra urban e suburban – con allusione a due mondi e stili di vita differente, che hanno prosperato con diversa fortuna in realtà fisiche adiacenti ma alternative – si mostra superato, poiché i confini interni vengono meno, e l’hinterland urbano tende ad aprirsi verso l’esterno, alla scala regionale. La trasformazione interna delle aree metropolitane (suburbs inclusi) e i processi di gentrification, con l’abbandono di parti consistenti delle aree urbane, accompagnano la diffusione multi-scalare e a geometria variabile delle dinamiche urbane verso territori più ampi, con effetti socio-spaziali che esulano dalla tradizionale dimensione metropolitana. Soja (2011) definisce questi fenomeni come “nuovo regionalismo” e, insieme ad altri autori, propone di osservare e comprendere i fenomeni urbani in un orizzonte “post-metropolitano”. Malgrado le sostanziali differenze tra la città americana e quella europea, il superamento dell’assetto metropolitano tradizionale è visibile anche nel nostro continente. La trasformazione delle città europee è altresì accompagnata da una progressiva ridefinizione delle forme di governance urbana che, come risposta ai processi di globalizzazione nel “vecchio” continente, attraversa e ridefinisce i poteri di governo del territorio dalla scala locale a quella comunitaria (Bagnasco, Le Galès, 2001; Le Galès, 2002; ESPON, 2007; Dematteis, Lanza, 2011). Ciò ha condotto, tra l’altro, a sostenere che la pianificazione spaziale tradizionale non sia più in grado di confrontarsi con situazioni ed emergenze che presentano un carattere sfuggente, difficilmente imbrigliabile all’interno di confini amministrativi prestabiliti. Rispetto al carattere rigido (hard) degli spazi comunemente regolati dal governo del territorio, e degli stili di piano, si contrappone così una pianificazione dal carattere “morbido” (soft), com’è quello dei nuovi spazi da governare, definiti da confini sempre più confusi (fuzzy), ossia non più dotati di delimitazioni definite ma caratterizzati da geometrie fisiche, sociali e politiche che variano secondo i temi oggetto di policy (Allmendinger, Haughton, 2007; Faludi, 2010; Haughton et al., 2010). L’ipotesi alla base delle riflessioni “di tendenza” in Europa è, in breve, l’opportunità di ripensare il governo del territorio – o forse di sostituirlo – nella forma di governance territoriale, quale insieme di strumenti e modalità finalizzate a formulare decisioni condivise e a organizzare il processo di attuazione di politiche, programmi e progetti di natura territoriale attraverso l’integrazione delle politiche settoriali, degli interessi e delle azioni di una moltitudine di attori diversi all’interno di ciascun contesto. Quali che siano le possibilità reali di sostituire “il governo” del territorio con “la governance”, è abbastanza chiaro che gli strumenti di pianificazione spaziale, concepiti nel contesto socio-economico e amministrativo proprio dello Stato moderno, trovano difficoltà a esercitare il controllo dello spazio nell’odierna realtà della postmetropoli, a incominciare dalla capacità dei governi locali di elaborare e attuare piani per comunità di cittadini e identità collettive sempre meno riconducibili ad un unicum urbano. Anche nella specifica esperienza italiana è avvertita in modo crescente l’esigenza di nuove forme di governo delle grandi città, intese come «società e territori da ricomporre» (Dematteis, 2011). Da un lato, tanto il riconoscimento costituzionale delle “città metropolitane” (l. cost. n. 3/2001, art. 114) quanto la “moda” dei piani urbani strategici negli ultimi 15 anni (Perulli, 2004; Martinelli, 2005) rivelano la necessità di condividere le scelte strutturali di politica e di trasformazione urbana a una scala superiore ai singoli ambiti municipali. Dall’altro lato, tanto le maggiori difficoltà della pianificazione spaziale nelle grandi città rispetto a quelle medie o piccole quanto il contenuto delle riforme regionali del governo del territorio negli ultimi decenni (Janin Rivolin, 2003) suggeriscono l’esigenza di avvicinare la dimensione operativa del piano regolatore generale ad ambiti locali più specifici rispetto all’intero contesto urbano.
2 | L’area (post)metropolitana torinese come caso elementare Come anche confermato dalle recenti elaborazioni del Ministero dello Sviluppo economico, utili a definire la strategia nazionale per le “aree interne” nel quadro della politica europea di coesione 2014-20 (www.dps.tesoro.it/Aree_interne), l’area urbana gravitante intorno al comune di Torino ha conosciuto fenomeni di intensa ridistribuzione demografica negli ultimi quarant’anni (figura 1). Un insieme complesso di variabili analitiche applicate all’intero territorio nazionale mostra che l’attuale organizzazione delle centralità urbane tra i comuni dell’area torinese è tutt’altro che ovvia (figura 2). La ricerca ministeriale ITATER (Ministero delle Infrastrutture, 2007), più datata ma anche più articolata sotto il profilo delle variabili considerate e delle analisi sviluppate, ha descritto ancor meglio la complessità delle dinamiche del mutamento che caratterizzano la postmetropoli torinese nel contesto del nord-ovest italiano, con l’emergere di nuove polarità dinamiche intorno a quelle stabili o in declino nel quadro generale di “città diffusa” che caratterizza l’intero urbanizzato padano (figura 3). Le rappresentazioni statistiche possono concedere, tuttavia, soltanto un’allusiva semplificazione dell’intensità e della poliedricità delle trasformazioni sociali, economiche e spaziali che attraversano Torino Nadia Caruso, Giancarlo Cotella, Umbero Janin Rivolin
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(Santangelo, Vanolo, 2010), riproponendo in forma del tutto inedita – rispetto al consolidato scenario postfordista (Bagnasco, 1990) – la questione del riposizionamento dell’odierna post-metropoli alle diverse scale della competizione europea (Cabodi et al., 2010).
Figura 1. Variazione percentuale della popolazione 1971-2011 in Piemonte (Fonte: www.dps.tesoro.it, 2013)
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Figura 2. Classificazione dei comuni in Piemonte (Fonte: www.dps.tesoro.it, 2013)
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Figura 3. Dinamiche del mutamento nel nord-ovest italiano (Fonte: Ministero delle Infrastrutture, 2007)
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Figura 4. I 23 comuni nell’associazione Torino Internazionale (Fonte: www.torino-internazionale.org)
Figura 5. Area della mobilitĂ metropolitana torinese (Fonte: www.torino-internazionale.org).
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Figura 6. Delimitazione del progetto Corona Verde (Fonte: www.torino-internazionale.org)
Rispetto a tale scenario, il governo del territorio nell’area torinese è tuttora sostanzialmente esercitato attraverso il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP) del 2003 e il piano regolatore generale (PRG) del 1995. Il primo riguarda un territorio che, adeguandosi ai confini amministrativi della provincia, inclusi l’Eporediese e il Pinerolese e le valli di Lanzo e di Susa, tende a dissolvere l’identità urbana in un contesto sub-regionale che, talmente vario persino nell’assetto geomorfologico, ne snatura temi e problemi. Il secondo, approvato dopo un iter di elaborazione avviato fin dal 1980, non ha potuto prevedere le occasioni di rigenerazione urbana prospettatesi di anno in anno – su tutte, l’evento olimpico del 2006 – e ha visto modificare le proprie prerogative di controllo spaziale attraverso ben 280 varianti ad oggi. Non a caso, la comunità metropolitana ha avvertito l’esigenza, interpretata dalla classe dirigente locale già alla fine degli anni ‘90, di dotarsi di un “piano strategico della città” (Torino Internazionale, 2000, 2006) al di fuori dei canali istituzionali del governo del territorio, vale a dire come patto volontario tra soggetti portatori di interessi pubblici e privati volto all’adozione di una serie di iniziative coordinate per conseguire una strategia condivisa (figura 4). La sua missione è stata la creazione di una forma di governance metropolitana (dai confini autodeterminati) più inclusiva ed efficace nella messa in opera di politiche per lo sviluppo, anche se alcuni analisti hanno osservato che «sia alla fine prevalsa una visione strumentale: un piano cioè orientato alla realizzazione di progetti» (Dente, Melloni, 2005, p. 392). Nel frattempo, diverse iniziative di politica settoriale avviate a diversi livelli istituzionali hanno finito per disegnare altrettante possibili “geometrie metropolitane”, di volta in volta differenti e determinate dai problemi affrontati o dalla volontà di adesione degli enti locali potenzialmente interessati. È il caso di richiamare almeno l’“Area della mobilità metropolitana” torinese, identificata dalla Regione Piemonte insieme alla Provincia e alla Città di Torino per regolare il trasporto ferroviario e stradale (figura 5); il progetto “Corona verde”, volto a gestire in modo congiunto l’insieme di parchi, aree verdi, terreni agricoli, giardini, fasce fluviali e fiumi attraverso un sistema complesso di isole interconnesse sotto il profilo paesaggistico e ambientale (figura 6); i “Programmi territoriali integrati” che, a seguito di bando regionale nel 2007, hanno condotto alla formazione di aggregazioni intercomunali interessate al medesimo programma (figura 7). Intanto all’interno dei confini comunali, come si è accennato, il PRG di Torino è stato progressivamente “ridisegnato” in base all’opportunità di realizzare i nuovi programmi e progetti di trasformazione, quasi sempre innescati per iniziativa esogena (europea, nazionale o regionale), coordinati dapprima attraverso il “Progetto speciale periferie” e, in seguito, dal servizio “Rigenerazione urbana” (figura 8).
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Figura 7. Programmi territoriali integrati nell’area metropolitana (Fonte: www.torino-internazionale.org)
Figura 8. Torino, principali interventi di rigenerazione urbana (Fonte: www.comune.torino.it)
Sotto il profilo istituzionale, l’occasione di ridefinire scale e strumenti del governo del territorio si è riaperta in questi mesi, indirettamente, col rilancio delle “città metropolitane” – di cui si prevede l’entrata in vigore nel 2014 in ottemperanza al dettato costituzionale – attraverso la legge n. 135/2012 (disposizioni urgenti per la Nadia Caruso, Giancarlo Cotella, Umbero Janin Rivolin
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revisione della spesa pubblica) e, più direttamente, con la gestazione della riforma regionale in materia, giunta in questi giorni ad approvazione (l.r. n. 3/2013). Nel primo caso, tuttavia, la legge nazionale identifica sbrigativamente i confini dei nuovi enti con quelli delle rispettive province (o di più province limitrofe, come nel caso di Milano e Firenze). Nel caso di Torino, come già osservato, ciò significherà in breve che la nuova Città metropolitana includerà ambiti territoriali che di “città” e di “metropolitano” hanno poco o nulla. Assai più convincenti, sotto questo profilo, appaiono le proposte di delimitazione individuate in sede regionale nel 1995 e persino nel 1972, rispettivamente comprensive di 33 e di 54 comuni (figura 9). Ma, soprattutto, la legge regionale 25 marzo 2013, n. 3, Modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo) e ad altre disposizioni regionali in materia di urbanistica ed edilizia, non comporta alcuna modifica sostanziale né all’articolazione complessiva degli strumenti governo del territorio, né a funzioni e contenuti del piano territoriale di coordinamento provinciale (o della città metropolitana) e del piano regolatore generale.
Figura 9. Delimitazioni dell’area metropolitana torinese, 1972 e 1995 (Fonte: www.torino-internazionale.org)
3 | Post-metropoli, governo del territorio e strumenti di piano Il caso torinese non ha probabilmente nulla di emblematico e, anche per questo, al di là delle imprescindibili specificità, riflette la sostanza delle difficoltà di governo del territorio sperimentate nella gran parte delle città post-metropolitane italiane ed europee. Pur scontando le perplessità che la tradizione amministrativa e culturale consolidata può indurre a manifestare, una riflessione “tecnica” (qual è quella che ci si aspetta dover maturare nell’ambito, tra gli altri, della Società italiana degli urbanisti) dovrebbe saper proporre una qualche visione risolutiva rispetto alle difficoltà che impediscono o rendono inefficace l’esercizio del sapere operativo e professionale. Alla luce di quanto premesso all’inizio di questa nota, e osservato nel caso torinese, sembra che le opzioni risolutive rispetto al governo dei territori post-metropolitani possano scaturire a partire da tre questioni di fondo, che potrebbero rappresentare tanto i caposaldi di un programma di ricerca da sviluppare quanto i presupposti di una prospettiva tecnica da condividere attraverso il confronto. In breve: 1. Pur preso atto dei caratteri labili (soft) e indeterminati (fuzzy) degli odierni spazi post-metropolitani, la (buona) governance territoriale non può sostituire il governo del territorio. In particolare, il controllo dello spazio al fine dello sviluppo economico e sociale, pratica antica quanto l’uomo, impone alle forme sociali organizzate (oggi lo Stato) una regolazione pubblica dei diritti d’uso del suolo che non è contrattabile, pena il venir meno dello stato di diritto (di cui anche la governance si nutre). Piuttosto, la buona governance territoriale – buona quanto più capace di interpretare e dare voce alle mutevoli complessità orizzontali e verticali dei territori (ESPON, 2012) – appare indispensabile all’efficacia del governo del territorio, in tempi in cui le gerarchie spaziali e sociali della metropoli moderna, e la possibilità di controllarle attraverso le forme tradizionali di pianificazione spaziale, sono venute meno. Nadia Caruso, Giancarlo Cotella, Umbero Janin Rivolin
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2. Le maggiori difficoltà del governo del territorio nei territori post-metropolitani e, comunque, nelle grandi città italiane ed europee (rispetto, ad esempio, ai piccoli comuni di provincia) si accompagnano alla tendenza istituzionale a separare la dimensione “strutturale” del piano regolatore da quella “operativa” (a parte la riforma piemontese sopra richiamata). Il combinato disposto porta a confutare la necessità del tradizionale carattere “comprensivo” della pianificazione spaziale, suggerendo piuttosto che il piano degli usi del suolo non sia più idoneo a forme urbane complesse, ormai prive di identità locali tendenzialmente univoche e durature. Ci si domanda, in breve, se non sia venuto il momento di considerare per le città (post)metropolitane, e per i grandi comuni in generale, l’opportunità di assegnare le attività di redazione e di gestione dei piani d’uso del suolo ad ambiti ridotti rispetto al consueto livello comunale (ad esempio, quartieri, circoscrizioni o i “municipi” istituiti a Roma) e perciò più aderenti ai bisogni e alle esigenze delle rispettive comunità e identità locali. A tali “municipalità” spetterebbe, così come ai piccoli comuni di provincia, un ruolo di conservazione e di manutenzione dell’esistente, attraverso un unico e semplice piano dei diritti d’uso del suolo, che non esclude il cambiamento ma lo condiziona ad un controllo puntuale dei progetti di trasformazione avanzati e degli effetti attesi (Mazza, 2011). 3. In tale prospettiva, resta da chiedersi se al cospetto delle geometrie variabili e trans-scalari che, come anche il caso torinese ha mostrato, caratterizzano in modo ormai costitutivo la governance post-metropolitana, i livelli di governo più e meno tradizionali – dal livello sub-regionale a quello europeo – abbiano davvero necessità di ricorrere alla pianificazione spaziale per programmare le proprie politiche e realizzare i rispettivi progetti di trasformazione. Politiche e progetti sono infatti strumenti più flessibili dei piani, e possono realizzarsi indipendentemente dai confini amministrativi, oltre che avvalersi di contributi finanziari non solo locali e non solo pubblici. Anche il coordinamento di progetti e politiche a ciascun livello di governo e tra i livelli di governo non richiede necessariamente una strategia spaziale preventiva (si pensi tanto alle 280 varianti del PRG, quanto al carattere a-spaziale dei piani strategici torinesi), e accordarsi su singoli progetti o su politiche specifiche appare meno complicato che conciliare piani o strategie spaziali di scala uguale o differente. Una volta condivisi progetti e politiche di trasformazione resterebbe, per la loro possibile attuazione, il confronto con i piani locali d’uso del suolo al fine della variazione dei diritti stabiliti e della definizione delle necessarie contropartite, una pratica di valutazione non semplice ma capace, se non altro, di rendere le decisioni più trasparenti e più facilmente controllabili dal pubblico rispetto alla consuetudine delle varianti al piano.
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Nadia Caruso, Giancarlo Cotella, Umbero Janin Rivolin
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Produzione di politiche, pratiche urbane e nuove condizioni dell’abitare nei territori post-metropolitani romani
Produzione di politiche, pratiche urbane e nuove condizioni dell’abitare nei territori post-metropolitani romani Carlo Cellamare Sapienza Università di Roma DICEA – Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Email: carlo.cellamare@uniroma1.it Tel.: 346-2163664 _____________________________________________________ Abstract Il paper intende dare conto di alcuni esiti iniziali della ricerca sui “territori post-metropolitani” romani in evoluzione, nell’ambito della ricerca PRIN 2010-2011 coordinata dal Politecnico di Milano. Il contributo si intende concentrare su una serie di situazioni del contesto post-metropolitano romano ove emerge più chiaramente non solo alcuni fenomeni innovativi, ma l’evoluzione stessa delle forme dell’urbano e delle condizioni dell’abitare, di quello che intendiamo per città. Contestualmente, intende esplorare e sostenere l’importanza di un approccio attento alle pratiche urbane e alla produzione di politiche in grado di promuovere la qualità dell’abitare in rapporto alle mutate condizioni di contesto (crisi globale, trasformazione del welfare state, sviluppo dei territori post-metropolitani, evoluzione delle forme di azione del capitale, ecc.). Parole chiave Post-metropoli, abitare, pratiche urbane
Introduzione1. Una città e un territorio in evoluzione Da diversi anni il territorio della città di Roma sta subendo una profonda evoluzione. Molti abitanti lasciano la città (il Comune di Roma), spesso perché non riescono a sostenere i prezzi del mercato immobiliare romano (ma anche per altri motivi, come la ricerca di un abitare di qualità), e cercano alloggio fuori Roma, caso mai in quei territori di più facile accessibilità, serviti dalle linee su ferro o dalle autostrade. Oltre ai contesti tradizionalmente interessati dallo sviluppo insediativo romano, come i Castelli Romani (a sud-est), la direttrice tiburtina a est (Tivoli, Guidonia, ecc.) e quella pontina a sud, ora nuove direttrici sono investite da questo sviluppo, come quella a sud-est (Colleferro – Valmontone, lungo l’autostrada Roma – Napoli), quella a nord (lungo la Valle del Tevere e l’A1) e quella litoranea (verso nord). Nei territori a nord di Roma abbiamo incrementi della popolazione del 10% anno e si arriva ad abitare fino a Orte, con una totale riorganizzazione della vita quotidiana delle persone e delle forme dell’abitare. Allo stesso tempo gli stessi territori si devono riorganizzare (l’inadeguatezza dei servizi, il problema del pendolarismo e della mobilità, ecc.) e subiscono grandi trasformazioni (lo sviluppo delle aree insediate, il consumo di suolo, la riorganizzazione delle aree industriali, l’arrivo di grandi strutture di servizio espulse dalla città, ecc.). 1
Il presente contributo intende fornire alcune prime evenienze e le prospettive del percorso di ricerca avviato dall’unità locale dell’Università di Roma “La Sapienza”, nell’ambito del PRIN 2010-2011 “Territori post-metropolitani come forme urbane emergenti: le sfide della sostenibilità, abitabilità e governabilità” coordinato dal Politecnico di Milano (coord. naz. prof. A. Balducci). Il gruppo di ricerca, a carattere interdisciplinare, è composto Carlo Cellamare (coord.), Giovanni Attili, Enzo Scandurra (DICEA- Dip. Ingegneria Civile, Edile e Ambientale, Sapienza Università di Roma), Pierluigi Cervelli, Maria Immacolata Macioti (Dip. Comunicazione e ricerca sociale, Sapienza Università di Roma), Roberto De Angelis (Dip. Storia, Culture, Religioni, Sapienza Università di Roma), Giovanni Caudo (Dip. di Architettura, Università di Roma Tre), Lidia Decandia (Dip. di Architettura, Design e Urbanistica, Università di Sassari – Alghero), Bruno Amoroso (economista, Università di Roskilde), nonché da un gruppo di assegnisti, dottori e dottorandi: Federico Scarpelli, Antonella Carrano, Marta Chiogna, Leonardo Lutzoni, Elena Maranghi, Francesco Montillo, Serena Muccitelli, Monica Postiglione, Nicola Vazzoler.
Carlo Cellamare
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Produzione di politiche, pratiche urbane e nuove condizioni dell’abitare nei territori post-metropolitani romani
Ma gli effetti di ‘riverbero’ (riconoscibili, ad esempio, attraverso il pendolarismo quotidiano) si fanno risentire su scala sovraregionale, interessando le regioni contermini, a cominciare dall’Umbria e dall’Abruzzo (Regione Lazio, CREL, Università Roma Tre, 2011).
Percorrere e narrare i territori Le riflessioni proposte si inseriscono all’interno di un ampio dibattito, con particolare riferimento: al tema dello sviluppo dei territori post-metropolitani e dell’evoluzione del welfare state (Amoroso, 2009; Soja, 1999; Brenner, Theodore, 2012; Brenner, Marcuse, Mayer, 2011; ecc.), al tema dell’evoluzione dell’urbano e delle forme dell’abitare (Hou, 2010; Fiorani, 2012; Sandercock, 2003; Cacciari, 2004; Bonomi, Abruzzese, 2004; Nancy, 2002; ecc.), al tema di un approccio (anche interdisciplinare) alle pratiche urbane e di narrazione dell’urbano (Crosta, 2010; Cellamare, 2011; Cancellieri, Scandurra, 2012; Scandurra, 2012; ecc.) La complessità dei processi che si intende studiare richiede una immersione nei territori, di andare a vedere cosa succede effettivamente, e quindi di ‘percorrere’ i territori che sono interessati dai processi di riorganizzazione territoriale e di trasformazione dell’urbano, con un approccio di tipo interdisciplinare (date le specifiche caratteristiche del gruppo di ricerca) e con una attenzione alle pratiche urbane e al rapporto tra grandi processi di sviluppo, dinamiche macroeconomiche e politiche urbane e territoriali, da una parte, e pratiche urbane nella vita quotidiana (anche attraverso il filtro delle condizioni dell’abitare), dall’altra. Queste ultime, infatti, ne sono la proiezione territoriale e dalle prime sono profondamente condizionate; e allo stesso tempo le condizioni dell’abitare rappresentano il nostro criterio di valutazione delle politiche. Nei territori avviene l’intreccio tra le diverse tendenze ed emergono le problematicità altrimenti difficilmente comprensibili ad una lettura dall’alto e puramente quantitativa2. Sono infatti gli effetti sulla vita dei territori, sull’organizzazione della vita quotidiana e sulle condizioni dell’abitare che ci interessano e che ci possono permettere un’interpretazione critica dei processi in corso. L’interpretazione dei territori verrà sviluppata a due livelli: - a livello di ambiti territoriali che devono essere considerati nella loro articolazione per cogliere il complesso dei fenomeni presenti (ad esempio, il sistema complesso da Palestrina a Valmontone, ecc.; o il litorale romano a nord, con Ladispoli, ecc.; o la valle del Tevere, con diverse situazioni come Monterotondo, Passo Corese, Poggio Mirteto, ecc.; e così via); - a livello di contesti più specifici, che permettano ‘carotaggi’ interessanti, giustificati dal fatto che sono contesti emblematici (‘paradigmatici’ nel senso di Agamben, 2008) e che permettono una restituzione complessa altrimenti non possibile. La ‘restituzione’ dei territori attraversati potrà richiede anche l’uso di linguaggi diversi (da quelli letterari a quelli multimediali e audio visuali).
L’evoluzione dell’urbano e le condizioni dell’abitare Se, da una parte, dobbiamo rilevare l’evoluzione della città e del territorio romani con i suoi effetti territoriali ed ambientali, dall’altra, dobbiamo riconoscere che accanto ai nuovi fenomeni insediativi emergono nuovi comportamenti sociali. Ne è un esempio eclatante e paradigmatico la moltiplicazione dei grandi poli commerciali e delle grandi strutture dell’entertainment e del tempo libero (Cellamare, 2013b), dagli outlet (Valmontone, Castel Romano, Soratte, ecc.), ai grandi parchi tematici, alla Nuova Fiera di Roma (lungo l’Autostrada RomaFiumicino), ai grandi centri commerciali (più recentemente denominati anche “parchi commerciali”). Si tratta di oltre 28 nuove grandi strutture insediative (per lo più commerciali, ma con una forte componente residenziale) per lo più localizzate in prossimità delle grandi infrastrutture di accesso o lungo il GRA (Grande Raccordo Anulare): Bufalotta – Porta di Roma, Parco Leonardo, Ponte di Nona – Roma Est, Romanina, ecc.. Esse corrispondono alle cosiddette ‘centralità’ previste dal nuovo PRG di Roma (2008) o realizzate attraverso specifici accordi di programma, esito di una politica intenzionale avviata già dalle precedenti giunte di centrosinistra. Questi fenomeni insediativi illustrano bene una radicale trasformazione dell’urbano. Sono strutture che si relazionano ad una scala decisamente sovralocale e ad altri territori. Porta di Roma ha un’utenza di 16 milioni e mezzo di visitatori all’anno (più dei visitatori del Colosseo) e ha un bacino che arriva fino all’Umbria e a Rieti3. 2
Non mancheranno comunque analisi e valutazioni di questo tipo, anche approfittando del fatto che alcuni studi sono già stati fatti in questa direzione da alcuni componenti del gruppo di ricerca (Regione Lazio, CREL, Università Roma Tre, 2011). 3 Si noti, a questo proposito, che analogamente la delocalizzazione della popolazione residente che pure gravita su Roma per motivi di lavoro, o per servizi o per attività del tempo libero arriva anche oltre i confini regionali, ad esempio a Orte, in territorio umbro, a circa 80 km da Roma, con effetti estremamente rilevanti sul pendolarismo, ma anche sulle condizioni dell’abitare e quindi sul rapporto tra abitanti e appartenenze territoriali. Significativo anche un altro fenomeno emergente, che è quello del pendolarismo quotidiano tra Roma e Napoli che esprime la costituzione di una rete di relazioni e flussi Carlo Cellamare
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Oltre alla dissoluzione della logica centro-periferia (con la costituzione anche di assi trasversali alla città), tutto questo ha molti effetti, soprattutto sulla vita quotidiana e sull’abitare: le persone vivono delocalizzate e con diversi sistemi di relazioni di carattere sovralocale, cambiano i rapporti tra gli abitanti ed i propri contesti di vita (come evidenzia, ad esempio, anche l’assenza di forme di appropriazione degli spazi, che li possano trasformare i ‘luoghi’, generando una sorta di estraniazione ai propri luoghi di vita), si registrano ‘ribaltamenti’ negli orizzonti di vita delle persone (ad esempio, nel tempo libero le persone si orientano verso l’esterno e non verso i tradizionali luoghi centrali dei quartieri e della città), la polarità non è più necessariamente la città consolidata, cambia profondamente il carattere delle attività commerciali ed il suo ruolo funzionale e sociale rispetto ai quartieri, prevale la mobilità veicolare e scompaiono le forme di pedonalità, ecc. Cambiano i modi di vivere la città, cambiano i caratteri dell’urbano, cambia quello che intendiamo per città.
Le retoriche sull’area metropolitana di Roma Negli anni ’80 e poi nei primi anni ’90 (dopo la legge che istituiva le ‘aree metropolitane’, la L. 142/90) si è avuto un moltiplicarsi di studi e di dibattiti sul tema dell’‘area metropolitana’ romana. Questo dibattito si è rivelato inconcludente e senza alcun rapporto con i processi reali che avvenivano sui territori; si è mostrato pervaso di retoriche che assumevano a priori l’esistenza di tale area metropolitana e la presunta positività della stessa idea di ‘area metropolitana’, senza cogliere (anche criticamente) il senso dei processi che stavano avvenendo4. Il più recente dibattito sulla ‘città metropolitana’ e su ‘Roma capitale’, che sta portando ad una profonda riorganizzazione – più amministrativa che istituzionale –, ne rappresenta uno strascico e ne ha le stesse caratteristiche inconcludenti e retoriche. Non sembra, infatti, cambiare la sostanza delle questioni, né porsi interrogativi seri e profondi sulle modalità di governo di questi territori. Oggi i fenomeni hanno un carattere un po’ diverso da quegli degli anni ‘80 e ‘90, e il dibattito sulla ‘regionalizzazione’ e sull’idea di ‘territori post-metropolitani’ vuole evidenziare la capacità dei territori di riorganizzarsi anche in autonomia all’interno di un sistema di relazioni tra i vari centri e le varie polarità. Mentre nella regione milanese o in Emilia-Romagna i fenomeni sembrano avere queste caratteristiche, a Roma questi processi assumono caratteri diversi; tant’è che, per alcuni versi, nel contesto romano sembra difficile parlare di ‘territori post-metropolitani’ nell’accezione con cui è usata negli studi internazionali, ed in particolare in quelli di Soja (1999)5 con riferimento alla realtà americana. La centralità della capitale mantiene un peso rilevante e condizionante per i territori circostanti; ciò non toglie che assistiamo comunque a forme di ri-organizzazione territoriale tutte da studiare. L’attenzione al tema dei “territori post-metropolitani” non è però scevra dal rischio di ricadere (più o meno automaticamente, più o meno implicitamente) in retoriche non dissimili da quelle relative all’“area metropolitana”, soprattutto se si limita ad una logica di “efficienza”, di “funzionalità”, ovvero se il problema si riduce ad “organizzare bene questi territori perché possano funzionare al meglio”. In realtà questi processi di riorganizzazione territoriale rivelano grandi problematicità, soprattutto in termini di effetti territoriali (sulle popolazioni) e di conseguenze sulle condizioni dell’abitare: dal consumo di suolo alla delocalizzazione delle popolazioni migranti, dall’aumento della domanda di servizi in un contesto di regressione del welfare state all’affermazione di una divaricazione sociale su scala territoriale, al pendolarismo, ecc.. Su questi territori vengono proiettate (espulse) quelle funzioni indesiderate della capitale (discariche, scali merci, poli della logistica, ecc.), con tutto il complesso dei conflitti che vi sono connessi (pensiamo ai conflitti sulle nuove discariche di Roma, ad esempio a Riano, o a quelli a Passo Corese, per il polo della logistica in costruzione), trasformandoli in territorio di “serie B”, quando sono invece i territori dove va a risiedere nuova popolazione, o perché espulsa dalle condizioni di inaccessibilità del mercato immobiliare romano o perché in cerca di migliori condizioni dell’abitare e di una migliore qualità della vita. Queste contraddizioni segnano i processi in corso, testimoniano la mancanza di politiche e di un progetto di territorio, e richiedono una lettura critica non neutrale. Roma e il suo territorio rappresentano, infatti, un contesto interessante e problematico allo stesso tempo; una città che per molti versi sembra ‘senza progetto’ e dove la costruzione di una politica che sostenga e orienti lo sviluppo urbano e territoriale appare sempre molto difficile, e di fatto assente. Così come le letture critiche sul Modello Roma hanno evidenziato una visione riduttiva della modernità, più incentrata su una logica di modernizzazione (AA. VV., 2007) Accanto ad uno sviluppo che ‘tenta’ di essere pianificato (ma dove la pianificazione istituzionale è continuamente negata dall’uso sistematico degli accordi di programma e dove, anzi, la pianificazione sembra essere piuttosto il mosaico formalizzato istituzionalmente di questi accordi e delle operazioni ad essi connessi; Berdini, 2008) progredisce, da un lato, lo sviluppo della “città del mercato” (Cellamare, 2013b), frutto della negoziazione quasi totale ed espressione di un’economia “avventizia”, così addirittura sovraregionali configurando la costituzione di una ‘regione centrale’ (o ‘centro-meridionale’) o, meglio, di un bi-polo, fenomeno tutto da approfondire (Perulli, 2009). 4 Alcuni studiosi ritengono anche che Roma non sia stata mai una ‘città metropolitana’, proprio perché non ne ha mai assunto il profilo con un livello di politiche adeguate. 5 Ma anche se volessimo fare riferimento alle riflessioni di Jean-Luc Nancy (2002). Carlo Cellamare
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come, dall’altro, quello dell’abusivismo (la “città fai-da-te”), fenomeno mai concluso e sempre ricorrente, espressione di un vero e proprio sistema di costruzione della città (Cellamare, 2010, 2013a). E, per altri versi, espressione di un’inadeguatezza delle politiche, tanto da far considerare questa – quella della costruzione abusiva e poi legalizzata della città – una politica perseguita più o meno intenzionalmente e/o coscientemente. In questo contesto, e spesso a causa di questo contesto, ovvero della carenza di politiche pubbliche adeguate, ecc., si sviluppa un grande protagonismo sociale e delle istituzioni ‘minori’ (ovvero quelle di maggiore prossimità e cioè i Municipi all’interno del Comune di Roma e i Comuni ‘minori’ nei territori metropolitani), un intenso attivismo degli abitanti (variamente organizzato e non privo di ambiguità e di problematicità), con forte capacità di autorganizzazione e di autogestione, con notevole capacità progettuale e competenze non indifferenti, capace di proposte di alto profilo (Cellamare, 2013c).
E’ possibile un progetto di sviluppo diverso? Ad una prima considerazione l’evoluzione territoriale che osserviamo appare l’effetto della riorganizzazione del capitale sui territori che, consumate le opportunità offerte dal mercato romano, date le “costrizioni” del mercato immobiliare attuale, si rivolge ai contesti contermini, ne sfrutta le opportunità (attivate dai sistemi di mobilità, sia da quelli su ferro sia da quelli stradali e soprattutto autostradali6, e dalla domanda sociale), si riverbera su ulteriori campi di “sfruttamento” delle risorse, in particolare delle risorse ‘suolo’ e ‘ambiente’, ovvero della disponibilità di spazi per la realizzazione di strutture e attrezzature che richiedono ampie superfici e sono di forte impatto sull’ambiente. E’ il caso delle grandi strutture per la logistica, con particolare riferimento alla ‘esportazione’ dello Scalo merci San Lorenzo al di fuori del territorio comunale e alla realizzazione del ‘polo della logistica’ a Passo Corese (Comune di Fara Sabina, primo comune della Provincia di Rieti)7 che ha causato tantissime opposizioni, e non solo a livello locale. E’ il caso del gravissimo problema dei rifiuti che sta avviando Roma su una prospettiva non molto diversa da quella che ha investito la realtà napoletana pochi anni fa. E’ proprio sul territorio circostante Roma, già investito da una intensissima nuova organizzazione, che si vanno cercando le localizzazioni delle nuove discariche (data la necessaria chiusura di quella di Malagrotta), in mancanza di una politica complessiva ed in particolare dell’attivazione della raccolta differenziata in maniera seria e sistematica, generando conflitti ambientali inevitabili8. Si tratta sempre di economie che potremmo considerare “avventizie”, ovvero che, piuttosto che attivare sistemi produttivi e sviluppare politiche (più o meno integrate) che mirino allo sviluppo locale, sono orientate a sfruttare risorse esistenti: nuove opportunità per il mercato immobiliare, discariche e impianti analoghi dentro le grandi economie dei rifiuti, grandi attrezzature che consumano molto territorio (poli della logistica, ecc.), grandi attrezzature destinate al consumo e all’entertainment (le grandi “centralità” del commercio e del tempo libero), ecc. L’interrogativo è quindi se sia possibile pensare progetti di un diverso sviluppo, ovvero se ci sono le condizioni per poter pensare e attivare progetti di sviluppo locale che esprimano delle alternative. Alcune situazioni si interrogano su questa dimensione (pensiamo alla riorganizzazione del sistema produttivo locale di Monterotondo), altre invece sembrano inserirsi pienamente nel mainstream (la Valle del Sacco).
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La rete del trasporto pubblico, in particolare quella su ferro, appare notoriamente deficitaria nel contesto romano. Se la “cura del ferro” è stata per tanto tempo un obiettivo mai raggiunto nel contesto del Comune di Roma, la situazione non appare radicalmente diversa nel contesto metropolitano romano, dove si è registrato un certo impegno – anche se ovviamente non risolutivo – da parte dell’amministrazione provinciale, soprattutto nei confronti dei problemi dei pendolari. Nel contesto metropolitano romano è presente una rete di trasporto pubblico su ferro abbastanza significativa che è diventata col tempo attrattrice di nuove localizzazioni; a parte questi contesti (come i Castelli Romani) che sono risultati già ampiamente saturati. Dopo la direttrice est, che pure è andata saturandosi nel tempo, le direttrici più significative sono quella nord (lungo la “linea lenta” della Roma-Firenze, soprattutto nel tratto Roma-Orte che ha carattere metropolitano e ancor più nel sub-tratto Roma-Passo Corese, che ha frequenze ancora maggiori) e quella litoranea nord (RomaCivitavecchia). Intorno alle polarità costituite dalle stazioni si è registrato un forte nuovo sviluppo insediativo (Fiano-Passo Corese, Poggio Mirteto, ecc. verso nord; Ladispoli, ecc. sulla litoranea), anche al di fuori dei centri abitati consolidati, con gli inevitabili gravosissimi problemi connessi. Ha contribuito fortemente alla riorganizzazione dell’insediamento anche lo sviluppo della rete autostradale, in particolare attraverso la realizzazione di nuove uscite e il triplicamento delle corsie (ora sulla Roma-L’Aquila anche la realizzazione delle complanari nel tratto urbano), soprattutto sull’A1 verso nord (uscita Castelnuovo di Porto con accesso a Monterotondo e a Riano Flaminio; uscita Soratte con accesso ai comuni della Valle del Tevere e all’outlet Soratte; triplica mento fino a Orte) e sull’A24 (uscita Ponte di Nona ancora nel Comune di Roma). 7 In prossimità di uno snodo della linea ferroviaria e connesso attraverso una specifica bretella autostradale al casello ‘Fian o’ dell’A1 Roma-Firenze. 8 Molto interessante su tutti questi temi una ricerca, a cura di d’Albergo e Moini, sui conflitti nell’area metropolitana roman a (d’Albergo, Moini, 2011). Carlo Cellamare
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Produzione di politiche, pratiche urbane e nuove condizioni dell’abitare nei territori post-metropolitani romani
In alcuni territori (come nella Sabina reatina; ad esempio, a Toffia e nei comuni contermini) che pure sono investiti dallo sviluppo territoriale romano stanno emergendo esperienze che sembrano configurare economie e percorsi di sviluppo più fondati sulla dimensione qualitativa (la qualità dell’abitare, la qualità dell’ambiente e del paesaggio, la cultura dell’olio, il recupero dei centri storici, un’attenzione alla dimensione agroalimentare di qualità, ecc.), che rispondono ad una domanda esistente (chi da Roma si sposta in Sabina alla ricerca di una qualità di vita che si nutre anche di un rapporto forte e di cura con i territori che va ad abitare), che si fondano sulle opportunità locali e non si omologano alle tendenze prevalenti dell’‘area metropolitana’. Queste esperienze e queste sperimentazioni rappresentano sicuramente un elemento di grande interesse.
Tendenze e controtendenze in atto nei territori post-metropolitani Se, da una parte, nei processi di trasformazione dell’urbano riconosciamo l’azione forte dei processi neoliberisti che determinano grandi cambiamenti nelle forme stesse dell’abitare (l’estraniazione, lo spaesamento, la deterritorializzazione, il vivere in diverse dimensioni e in forme delocalizzate, la programmazione della vita legata alle logiche del consumo – come diceva Lefebvre, 1968 – , ecc.), dall’altra, leggiamo nei territori la continua azione di radicamento o ri-radicamento, la continua azione di ricostruzione della socialità, anche attraverso processi di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi. Questo si esprime in forme molto diverse, e spesso anche conflittuali, o comunque problematiche, perché i territori attuali spesso non sono conformati per essere dei “luoghi”, anzi spesso registriamo tendenze distruttive di luoghi e comunità. Gli spazi di azione e ri-appropriazione sono quindi molto limitati o contrastati. Tant’è che abbiamo a che fare (a fronte della carenze dei servizi, dell’assenza delle istituzioni, della mancanza di politiche, delle necessità espresse dall’abitare) con una militanza obbligata, che necessariamente deve passare attraverso la ricostruzione del legame sociale. Le forme di ri-appropriazione avvengono spesso in condizioni di subalternità, di costrizione, ma sono luoghi e processi di produzione dei significati, che si scavano negli interstizi dei processi di sviluppo e aprono a modi diversi di riorganizzazione dell’abitare o di progettare lo sviluppo locale. Così come abbiamo forme di riorganizzazione dei territori e di ricostruzione di sistemi produttivi fondati sui caratteri locali, la costituzione di sistemi produttivi agricoli periurbani che strutturano rapporti fiduciari ed economie a km zero con gli abitanti dei territori circostanti, politiche per il recupero di centri storici per una residenza di qualità, processi di ricostituzione di forme di solidarietà e di sostegno al protagonismo sociale nella riorganizzazione dei servizi sociali. Processi che producono nuove identità e nuove risposte ai processi omologanti in cui si subiscono soltanto il riversarsi all’esterno dei problemi di Roma. Come Simmel (1908) segnalava la continua presenza nella città e nella società di tendenze e di controtendenze, così sui territori assistiamo alla compresenza di questi processi opposti o comunque divergenti. Usando linguaggi desueti, ma utili, si può dire che convivono e confliggono forme di de-territorializzazione e forme di ri-territorializzazione. D’altra parte, questa tensione esprime una tensione profonda che ha attraversato la città nella sua lunga evoluzione tra la dimensione dell’accoglienza (legata alla qualità della convivenza e della “vita spirituale”, direbbe sempre Simmel, 1903) e la dimensione dell’efficienza (una città che funzioni e ci dia tutte le condizioni favorevoli al benessere materiale e all’organizzazione di vita, spesso gravosa) che chiediamo alla città, tra la dimensione dell’otium e la dimensione dei negotia (nec-otia). Dice Cacciari (2004, p. 5): “Fin dalle sue origini, la città è ‘investita’ da una duplice corrente di ‘desideri’: desideriamo la città come ‘grembo’, come ‘madre’, e insieme come ‘macchina’, come ‘strumento’; la vogliamo ‘éthos’ nel senso originario di dimora e soggiorno, e insieme mezzo complesso di funzioni; le chiediamo sicurezza e ‘pace’ e insieme pretendiamo da essa estrema efficienza, efficacia, mobilità. La città è sottoposta a contraddittorie domande. Voler superare tale contraddittorietà è cattiva utopia. Occorre invece darle forma. La città nella sua storia è il perenne esperimento per dar forma alla contraddizione, al conflitto”. Gli obiettivi della ricerca cercheranno di far emergere, con chiarezza ed il dovuto approfondimento, le contraddizioni e nel narrare il prendere forma di questo conflitto (per come emerge nei territori che andiamo a studiare), nel cogliere in maniera critica queste “tendenze e controtendenze”, evidenziandone le problematicità e valorizzando le aperture di possibilità, nell’interpretare il rapporto tra “spazio dei flussi” e “spazio dei luoghi” (Cacciari, 2004).
Carlo Cellamare
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Produzione di politiche, pratiche urbane e nuove condizioni dell’abitare nei territori post-metropolitani romani
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Carlo Cellamare
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Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta
Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta Valeria Fedeli Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: valeria.fedeli@polimi.it Tel: 02.23995531
Abstract Il paper intende presentare i primi passi di una riflessione condotta dall’autore rispetto agli obiettivi e allo sfondo concettuale del contributo della unità milanese (Politecnico di Milano) al progetto di ricerca nazionale ‘PRIN 2010-2011- Territori post-metropolitani come forme urbane emergenti: le sfide della sostenibilità, abitabilità e governabilità’. In particolare, traguardando agli obiettivi generali del progetto, questo contributo si propone di discutere in che misura interpretare i processi di trasformazione in corso nella regione urbana milanese a partire dalla concettualizzazione di ‘post-metropolitano’ proposta da Edward Soja, nel 2000 e in particolare rielaborata nel 2011, possa costituire un utile riferimento concettuale e operativo per descrivere e interpretare i processi di trasformazione territoriale, oltre che sociale economica e istituzionale in corso nel contesto italiano e in particolare in quello milanese. Parole chiave Post-metropolitano, suburbano, questione urbana
1 | Post-metropolis: una chiave di lettura della ‘questione urbana’ contemporanea nella regione urbana milanese? Il paper presenta i primi passi di una riflessione condotta dall’autore rispetto agli obiettivi e allo sfondo concettuale del contributo della unità milanese (Politecnico di Milano) al progetto di ricerca nazionale ‘PRIN 2010-2011- Territori post-metropolitani come forme urbane emergenti: le sfide della sostenibilità, abitabilità e governabilità’. In particolare, traguardando agli obiettivi generali del progetto nazionale1, questo contributo si propone di discutere in che misura interpretare i processi di trasformazione in corso nella regione urbana milanese a partire dalla concettualizzazione di ‘post-metropolitano’ proposta da Edward Soja, nel 2000 e in particolare recentemente rielaborata nel 2011, possa costituire un utile riferimento concettuale e operativo per descrivere e interpretare i processi di trasformazione territoriale, oltre che sociale economica e istituzionale in corso non solo nel contesto milanese, ma più in generale in quello italiano. Nello specifico si intende contribuire ad un ampio dibattito (e.g. Bolocan, Bonfantini, 2008), in corso da alcuni anni, che sostiene che la regione urbana milanese abbia vissuto processi consistenti di cambiamento sociale, 1
Gli obiettivi generali del PRIN 2010-2011 sono: (1) “Esplorare alcune forme urbane emergenti dell'Italia contemporanea, con particolare attenzione al formarsi di regioni urbane nelle quali grandi città e centri di medie e piccole dimensioni interagiscono nella produzione della condizione urbana contemporanea in forme simili e al contempo diverse dal passato; (2) riconoscere e tematizzare l'emergere di nuove ‘questioni urbane', con l'obiettivo di indagare in che misura i nuovi fatti territoriali siano in grado di riprodurre urbanità e abitabilità, o se tali condizioni siano state messe in tensione, se stiano deperendo o riproducendosi in modi inediti, a fronte dei processi in corso; (3) riflettere e contribuire a incrementare la capacità dei territori post-metropolitani di rispondere alle sfide proposte dai processi in corso: con l'obiettivo di capire in che misura essi si stiano attrezzando per diventare luoghi efficienti e vivibili per coloro che vi abitano e quale è il ruolo che questi territori possono avere rispetto alle sfide proposte da Horizon 2020".
Valeria Fedeli
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Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta
politico, economico, istituzionale e territoriale, entrando in essi con una serie di aspettative e tensioni e uscendone in maniera rinnovata e al tempo stesso “incompleta”. Rinnovata in quanto la “città” è divenuta un territorio nel quale sono andate assumendo nuovo significato alcune questioni urbane tradizionali (muoversi, consumare, abitare), già concettualizzate in buona parte della letteratura degli anni novanta. Incompleta per il persistere di una condizione di difficoltà della città contemporanea a ri-organizzare la propria agenda a partire dal riconoscimento dei nuovi caratteri dell’urbano, delle nuove domande di cittadinanza e delle nuove questioni urbane che esso produce.
2 |Post-metropoli come prospettiva esplorativa Con il termine ‘post-metropolis’, Edward Soja, in un recente saggio del 2011, torna a ragionare su alcune forme dell’urbano contemporaneo, proponendoci di concentrare l’attenzione su una nuova fase di ‘urbanizzazione regionale multi-scalare’ (‘a new phase of multi-scalar regional urbanisation’, Soja, 2011: 680), in cui sarebbe in corso e concettualizzabile il passaggio da un modello di sviluppo urbano tipicamente ‘metropolitano’ ad un processo di ‘urbanizzazione regionale’. Riprendendo in questo senso i propri testi degli inizi dello scorso decennio, l’autore ripropone una sintesi critica sugli esiti dei processi di ristrutturazione urbana avvenuti nel corso degli ultimi trent’anni in vari contesti mondiali. Tre le ragioni alle quali tale passaggio sarebbe riconducibile: la globalizzazione del capitale, del lavoro e della cultura; i processi di ristrutturazione economica e la formazione di una nuova economia; infine gli effetti della rivoluzione prodotta dalla disponibilità di nuove tecnologie di informazione e comunicazione (Soja, 2011: 684). Tre gli epifenomeni di tale passaggio: l’appiattirsi e l’assottigliarsi del gradiente di densità urbana – ‘great density convergence’ (ibidem, p. 681) laddove cioè appare sempre meno possibile affermare che la densità urbana diminuisca progressivamente con l’allontanarsi dal centro della città –; l’erosione progressiva del confine tra urbano e suburbano – laddove appare difficile pensare di distinguere con chiarezza non solo tra città campagna, ma anche tra urbano e non urbano; infine l’omogeneizzazione del paesaggio urbano pure all’interno di una crescente differenziazione e specializzazione del suburbano – laddove da un lato si assisterebbe alla presenza di paesaggi sempre più simili tra loro anche in territori tradizionalmente molto diversi, e al contempo a fenomeni di differenziazione, spaziale, sociale, economica, di quegli ambiti che tradizionalmente venivano genericamente identificati come suburbani (ibidem: 684). Tra gli effetti prodotti da tali processi, Soja ne enumera quattro: il primo ha a che vedere con la scomparsa delle differenze significative in termini di stili di vita tra contesto urbano e suburbano, e con il delinearsi di diversi modi di vita (sub)urbani; il secondo, sinteticamente identificato con il concetto di exopolis, avrebbe a che vedere con il ribaltamento della condizione urbana e post-metropolitana, e cioè con un rimescolamento che vede da un lato l’emergere di forme di suburbano in contesti tipicamente urbani e l’affermarsi di forme di urbanità in contesti tipicamente suburbani; il terzo con la combinazione paradossale di forme di decentramento e ricentralizzazione, legato a processi di espulsione di alcune funzioni urbane in contesti periurbani, capaci di generare nuove centralità e di dare forma a nuove geografie ‘intra-metropolitane’; infine l’emergere di una nuova forma urbana, quella delle città regione sempre più globalizzata, ‘polinucleare’, ‘densamente reticolare’ e ad alta ‘intensità di informazione’ (ibidem: 684, trad. autore). Riconoscere tali cause ed effetti implicherebbe due conseguenze rilevanti, e cioè secondo Soja : la necessità di lasciarsi alle spalle non solo una idea ottocentesca di città, ma anche una idea di regionalismo e metropolizzazione tipica degli anni sessanta e ottanta e assumere una nuova prospettiva, riconoscendo che i processi in atto evidenziano l’emergere di nuovi motori del cambiamento, che agiscono nelle diverse sfere e a diverse scale e la necessità di declinare nuovi approcci alla pianificazione e alla produzione di politiche, multi scalari e regionali. l’opportunità di fare i conti con il delinearsi di nuove problematicità e caratteristiche della condizione urbana, di elementi che ridefiniscono i termini della questione urbana contemporanea: la città che abbiamo davanti oggi si configurerebbe infatti come una città sempre più densa, ma anche articolata ed eterogenea, caratterizzata da una crescente differenziazione sociale e da notevoli diseguaglianze, e potenzialmente afflitta da un progressivo degrado ambientale, da una insostenibilità che si rivela a più scale contemporaneamente, dal locale al transnazionale al globale (ibidem: 685). Pur tenendo in debita considerazione il background statunitense del lavoro di Soja e della scuola di Los Angeles, appare interessante ‘metterne alla prova’ operativamente le suddette argomentazioni e capire in che misura siano utili da un lato a descrivere in positivo i processi in corso, chiarendo in che senso essi si distinguono profondamente da quelli precedenti e quali conseguenze questo ha, in che modo cioè le nuove formazioni territoriali ci pongono di fronte a nuove questioni urbane. Soja afferma infatti che i processi in corso non contraddistinguono solo il contesto americano, ma al contrario che “le qualità e le condizioni di associate ad una Valeria Fedeli
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Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta
versione regionalizzata della città capitalista e industriale” sono oggi evidenti in larga parte del mondo urbano contemporaneo. Esiste la possibilità di riconoscere il ‘post-metropolitano’, in particolare nel contesto italiano e in quello milanese, per come descritto da autori quali Soja? E se si, quali problemi, tensioni, domande si associano a questa nuova forma di urbano? Siamo cioè ad esempio anche nel contesto milanese di fronte ad una città più densa - in cui quindi la questione della diffusione urbana e quella delle periferie devono essere fatte oggetto di verifica, a distanza di alcuni decenni dai processi per la prima volta osservati negli anni novanta da autori come Boeri, Lanzani e Marini (e.g. Boeri, Lanzani, Marini, 1993)? Siamo di fronte ad una città più articolata ed eterogenea, caratterizzata da differenziazione sociale o afflitta da rilevanti problemi ambientali - in cui quindi, “l’infinita complessità” teorizzata da Bonomi e Abruzzese nel 2004 (e.g. Bonomi, Abruzzese, 2004), in termini di riprodursi delle problematicità tipiche della città in luoghi non tipicamente urbani- è evidente e genera tensioni e contraddizioni rispetto alle aspettative degli abitanti, che spesso hanno invece cercato in questa nuova città in formazione una alternativa ai problemi della città tradizionale?
3 | Post-metropoli come prospettiva esplorativa: elementi per la costruzione della dimensione analitica del protocollo di ricerca Partendo da queste domande, la prima mossa che si ritiene indispensabile per il programma di ricerca della unità milanese consiste nel mettere in cantiere la costruzione di alcune analisi interpretative che facciano i conti, per quanto possibile e con i dati disponibili, con le ipotesi di lavoro sopra esposte. Così come accade in altri contesti europei, laddove è possibile trovare con una certa facilità elaborazioni cartografiche e mappe che raccontano, ad esempio, quanto sono dense, articolate e differenziate le grandi regioni urbane, provando cioè a trattarle come contesti urbani in trasformazione, spazi di profondo cambiamento sociale, spaziale, economico e istituzionale. Una semplice carrellata tra le mappe disponibili, ad esempio per il contesto parigino, oltre che della bibliografia disponibile su questo caso, scelto semplicemente in quanto noto all’autore, ci propone una serie di elaborazioni particolarmente interessanti, che ad esempio raccontano processi e conseguenze della differenziazione sociale delle grandi regioni urbane, processi e conseguenze della regionalizzazione dell’urbano descritta da Soja. Estèbe, ad esempio, nel 2008 osservava il costituirsi nel contesto francese e dell’Ile-de-France di territori iperspecializzati e di territori club (e.g. Estèbe, 2008). La crescente mobilità delle persone e delle cose spingerebbe i territori a specializzarsi piuttosto: ciascun territorio si orienterebbe in questo modo verso l’attrazione di determinate funzioni, legate a determinati abitanti. Questo farebbe si che i territori si debbano leggere come luoghi di relazione tra sistemi economici che si reggono solo grazie a continui flussi ma anche a barriere di accesso, come sistemi sociali continuamente attraversati e al tempo stesso separati tra loro. Se da un lato infatti le interdipendenze economiche si rinsalderebbero per via della specializzazione crescente, dall’altro emergerebbe una crescente tendenza alla differenziazione sociale dei territori, con effetti di erosione della coesione sociale e territoriale. Estèbe individua le conseguenze di questa condizione nella formazione di “territori club”, in cui vivono cioè persone dello stesso tipo (tutti giovani o tutti anziani, tutti precari o tutti dipendenti o in pensione, tutti liberi professioni o imprenditori) che finiscono per produrre fenomeni di isolamento e anti-urbanità. Contrariamente dunque alla aspettativa che potremmo avere di trovare in ogni parte della regione urbana che abbiamo davanti la complessità dell’urbano, la città contemporanea potrebbe rivelarsi un insieme di luoghi in cui si è tutti simili e il diverso non è contemplato; il carattere relazionale dello spazio urbano, lo spazio della città, si perderebbe; ci si occuperebbe solo di quei problemi, di quelle questioni che stanno a cuore ad una tipologia omogenea di cittadini. Con il risultato che le agende politiche locali potrebbero semplificarsi in maniera molto pericolosa, tenendo fuori dalla porta questioni urgenti, che l’ingresso di elementi destabilizzanti imprevisti potrebbe fare degenerare. Allo stesso modo analizzando alcune delle mappe disponibili sempre sul contesto parigino, appare possibile leggere ad esempio i profili sociali dei territori che oggi lo compongono e gli effetti in termini di espressione di voto: scopriamo così che esiste una forte connessione tra profili territoriali a bassa densità urbana, il configurarsi di territori ad alta problematicità o ad alta qualità della vita e il definirsi di preferenze politiche.2 2
Una tesi di dottorato recente ricostruisce ad esempio il ruolo del pavillionaire in quarant’anni di trasformazioni dell’urbano in Francia, con i relativi riflessi sulla composizione sociale e sulla formazione della scelta politica ed elettorale. Dall’altra accostando mappe diversamente prodotte della situazione parigina, si possono ricostruire con grande interesse i processi di diffusione urbana e le conseguenze sulla composizione sociale che questo ha prodotto; e ad esempio l’emergere di territori del benessere a scapito di altri, territori del malessere e del disagio sociale. Il riferimento è alla tesi di Dottorato dal titolo LE PAVILLON ET L’ISOLOIR Géographie sociale et électorale des espaces périurbains français (1968-2008), sostenuta nel 2009 da M. Jean RIVIÈRE, consultata il 10 aprile http://tel.archivesouvertes.fr/docs/00/46/00/99/PDF/ Le_pavillon_et_l_isoloir.pdf. À travers les cas de trois aires urbaines moyennes (Caen, Metz et Perpignan)
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Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta
nel caso milanese, tali mappature sono ancora poco disponibili e spesso i dati a disposizione non sono utilizzati a questo scopo o sono poco aggiornati 3. Appare urgente provare a costruire quadri analitico-interpretativi che ci aiutino a capire, non solo come la regione urbana milanese sia campo di dinamiche sociali, spaziali, economiche altrettanto significative e che misura i territori che la compongono si trovino oggi ad affrontare questioni e problemi simili non solo nella città centrale, ma anche in quel contesto più ampio di cui Milano è ancora snodo eccezionale, ma alla quale la regione urbana assomiglia sempre di più. E quindi in che misura la regione urbana sia luogo di complessità e mix sociale, o al contrario ad esempio luogo di forte segregazione, riproducendo in altri modi le più tradizionali dinamiche spaziali dell’urbano dell’ottocento e del novecento.
4 | Post-metropoli come prospettiva esplorativa: elementi per la costruzione della dimensione critico-intepretativa del protocollo di ricerca Già Lanzani, proponeva alcuni anni fa di ragionare sulla regione urbana milanese come un coacervo di ‘società locali incomplete’ (e.g. Lanzani, 2006) o di “città di città” territori e società complesse, differenziate, connotate socialmente, economicamente, politicamente, istituzionalmente. Laddove il riferimento era in particolare alla suggestione bagnaschiana (e.g. Bagnasco, 2003). Appare però oggi forse interessante riprendere questo suggerimento anche da un altro punto di vista. E confrontarsi con una letteratura, che in dialogo con Soja e in particolare con riferimento al contesto statunitense (e.g. Young, Wood o Keil) ci propone di riflettere sul ‘suburbano’ come nuova forma emergente e al tempo stesso per alcuni versi incompleta dell’urbano. Come Soja infatti, questi autori affermano che per capire la città contemporanea si debba concentrare l’attenzione proprio su quel ‘suburbano’ a lungo interpretato come forma non matura di urbano o peggio come forma di degradazione dell’urbano - soprattutto nel contesto statunitense, ma non solo. Il suburbano per questi autori è non solo un’altra forma rilevante dell’urbano, ma è lo spazio, privilegiato, di indagine della questione urbana contemporanea. per una serie di ragioni che ci sembra importante richiamare ai fini di una riflessione sul caso milanese e sugli altri casi nazionali. Il suburbano infatti rappresenta ‘l’urbano’ oggi in quanto necessariamente spazio di mezzo, spazio intermedio, da diversi punti di vista: in mezzo tra città e stato nazione, il suburbano o il post-metropolitano, appaiono infatti significativamente rappresentativi di una condizione intermedia, un in-between status (e.g. Phelps and Wood, 2011; Young et al., 2011) che mette in tensione in prospettiva la più tradizionale contrapposizione tra città e stato, tra locale e centrale e ci costringe a rivedere sia le teorie che ragionano sullo svuotarsi dello stato e al configurarsi di un potente neo-localismo, sia quelle che ragionano sulle ragioni e sugli effetti di una tendenza al neocentralismo. Abbiamo infatti ancora un immaginario geografico, come afferma Davezies, organizzato attorno allo ‘spazio nazionale e allo spazio locale’ (Davezies, 2008:5), mentre è nel suburbano o nel post metropolitano che possiamo osservare i tentativi, irrisolti e parziali di costituzione di nuove agende politiche, e che spesso ci appaiono in relazione nuova ma incompleta con locale e centrale. Si pensi in questo senso al contesto italiano, e in particolare al nord Italia come luogo in cui negli ultimi decenni abbiamo assistito da un lato al costituirsi di una forte rivendicazione politica localista, che spesso però è stata incapace di costruire non solo a livello nazionale un programma plausibile per questi spazi intermedi (e.g. Donolo, 2011; Perulli, 2012).nuove agende politiche locali o leadership rappresentative, efficaci e legittimate proprio del 3
Ad esempio sappiamo, da alcune ricerche, che tra il 2003-2004 sono stati edificati in provincia di Milano circa 68,6 milioni di metri cubi, con il relativo carico urbanistico. Dunque la città non solo è esplosa nel territorio con un consumo di suolo ancora particolarmente significativo - e da alcuni anni monitorato da una serie di ricerche- ma anche in termini volumetrici. Così pure si da tempo è stato osservato come i movimenti prodotti dalla città centrale nell’incontro con le dinamiche di territori locali altrettanto dinamici, abbiano dato vita a spazi che sembrano rappresentare in modi al tempo stesso diversi e simili, la densità e la complessità dell’urbano. Le volumetrie realizzate a Milano città tra 2000 e 2004 sono cresciute del 13%, la stessa percentuale è stata registrata nei territori limitrofi della Brianza occidentale, mentre è cresciuto del 17% il volume del costruito nello stesso periodo nei territori orientali dell’Adda Martesana e ancora del 10% quelli dell’Alto Milanese. Simili anche le dinamiche demografiche, con un processo di invecchiamento diffuso in tutta la Provincia, dove circa il 19% della popolazione residente supera i 65 anni; la popolazione immigrata è diffusamente in crescita, anche se il 55% risiede nel comune di Milano; il numero delle famiglie è cresciuto del 26% tra 1971 e 2001, mentre è diminuito ovunque il numero medio dei componenti. La “migrazione forzata” che ha portato ogni anno il 6% della popolazione milanese in età 25-34 anni ad abbandonare la residenza a Milano per trasferirsi in un’area collocata a un raggio di 20-60 km dalla città di origine” come ricorda Costanzo Ranci nella recente edizione del 2006 del rapporto su Milano prodotto dalla Camera di Commercio (Ranci, 2006), quali tipi di stratificazioni sociali ha prodotto nella regione urbana milanese? Sono ancora le periferie della grande città ad esempio a rappresentare i ‘territori a rischio’ oppure ci sono luoghi della regione urbana in cui i processi avvenuti negli ultimi venti ani, hanno accumulato elementi di differenziazione sociale significativa, in cui ad esempio la accessibilità alle risorse della città è ridotta e le opportunità di mobilità sociale sono limitate?
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Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta
suburbano. Se così da un lato il Nord è stato il luogo della rivendicazione dell’autonomia locale e del costituirsi di nuove community policies, non si può non riconoscere che in una grande regione urbana come quella milanese, nel tempo non si è andata consolidando né una reale capacità di produrre nuova leadership rappresentativa di una condizione post-metropolitana, né una progettualità post-metropolitana4. I territori di mezzo, rappresentanti dal suburbano, in questo senso, sono rimasti spesso sospesi tra la rivendicazione locale in termini di self-determination- sulla quale alcune politiche e progetti sono stati messi in campo- e una dimensione regionale- centralista più che realmente federalista, capace di promuovere integrazione e cooperazione. È stato, in altre parole, più forte l’emergere della voce delle periferie più estreme o della regione, che quello dei territori di mezzo. In questo senso ragionare sul suburbano, o sul post-metropolitano, potrebbe permetterci di ragionare in senso più ampio sulla deficit di rappresentazione e rappresentanza - ma anche di idee e di leadership - che contraddistingue questa forma di città contemporanea. E cioè di porre in evidenza il carattere politicamente incompiuto dell’urbano contemporaneo, rispetto al quale né la scena politica locale, né quella centrale riescono a dare voce alle nuove domande di cittadinanza e di politica. In mezzo tra confini, il suburbano o il post-metropolitano vivono in maniera irrisolvibile in una condizione di transizione perenne e contraddittoria tra istituzioni diverse che se ne occupano a vario titolo. Il suburbano infatti attraversa confini e scale precostituite senza trovarvi risposta ma anche sollecitandone continuamente il senso e l’utilità, i limiti e le contraddizioni. In questo senso il postmetropolitano e il suburbano ci aiutano da un lato a raccontare l’evoluzione funzionale continua dei nostri territori e la sconnessione persistente delle istituzioni rispetto alle dinamiche sociali. Raccontano in maniera esemplare la frammentazione della città contemporanea. Esprimono di fatto domande di governo complesso ma d’altro canto trovano risposte che tendono troppo spesso a ridurre la complessità dei processi di governo e quindi la stessa capacità di definire e trattare i problemi di governo. Anche in questo caso questa condizione transcalare (e.g. Brenner, Madden and Wachsmuth, 2012; Allen, Cochrane, 2007), è quella che ci spinge a dovere prendere le distanze, forse definitivamente, come suggerisce Bruno Dente, dalla ricerca di una soluzione ideale e definitiva alla domanda di nuove istituzioni generata da questa città, e a provare a immaginare e gestire reti istituzionali a geometria variabile. Abbandonando quindi la prospettiva di una riforma delle istituzioni, per ragionare pragmaticamente su geografie instabili e transcalari, su assemblaggi, definiti a ridosso di pratiche contingenti e intersezioni relazionali (e.g. Soja, 2011; Kubler, 2012; Amin, 2004; Paasi, 2009). In mezzo, al tempo: tra una urbanità riconosciuta e consolidata, codificata, e una urbanità che non è ancora sufficientemente studiata e riconosciuta da un lato, ma che secondo alcuni non sarebbe ancora sufficientemente ‘maturata’ dall’altro. Perché, in altre parole, del suburbano, e quindi anche della città contemporanea, mentre questa città viene considerata come una forma incompleta di urbano. Eppure molto spesso questi territori sono l’esito di una domanda di città di altro tipo, con Phelps, di una richiesta di diritto al sobborgo - al suburb, e ad una vita con diversi ritmi e qualità dell’abitare, rispetto a quelli della città globale. D’altro canto la ‘sospensione temporale’ del suburbano consiste anche nella difficoltà di operarne letture processuali, come ricorda ancora Phelps (e.g. Phelps, 2014), ma anche Salet (Salet 2014): il suburbano viene spesso osservato come un dato di fatto, statico e non destinato a trasformazioni, ispessimenti, differenziazioni, come è per la città. Per alcuni versi il suburbano, sia nel suo modello a bassa densità, sia nel modello ad alta densità, non viene preso in considerazione in termini di trasformazione temporale. E anche l’idea del sub-urbanism come way of life dovrebbe essere in questo senso rimesso in discussione nel suo fare riferimento sia ad un immaginario urbano, sia ad una domanda di città unitaria. Laddove in realtà saremmo di fronte a forme diversificate e in continua trasformazione. Quali domande di città esprimono il post-metropolitano o il suburbano? In che cosa si differenziano ancora dalla tradizionale domanda di città? Sia di città centrale, che di città media, ad esempio? E ancora in un contesto come quello della regione urbana milanese, potremmo domandarci in quale punto nello spazio è possibile riconoscere il passaggio da un immaginario urbano a uno suburbano? Esiste ancora un netto discrimine o come dice Soja, tra urbano e suburbano o si mescolano continuamente? Infine il suburbano è secondo Nussli and Schmid (Nussli and Shmid, 2014), anche il luogo in cui si accalcano uno vicino all’altro, se non uno sopra all’altro materiali urbani estremamente diversi, senza gerarchie e ordini predefiniti, che appartengono a tempi molto diversi: la grande recente autostrada urbana, di fianco all’isolato a bassa densità, al patrimonio storico extraurbano... Il tempo, corso, troppo velocemente, non ha permesso selezioni e gerarchie come nella città consolidata, che nel tempo ha iniziato a fare pulizia e a separare, distinguere...
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Si pensi ad esempio a come alcuni grandi progetti strategici per il post-metropolitano e per il suburbano non abbiano trovato sufficiente maturazione, finendo per rappresentare in maniera molto limitata le domande del suburbano o per essere subiti conflittualmente da esso.
Valeria Fedeli
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Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta
Queste tre forme dell’essere spazio intermedio del ‘post-metropolitano’, che riprendono in parte la articolazione lefevriana (produzione di spazio- rappresentazione dello spazio -produzione di spazi della rappresentazione), ci permettono forse di ragionare sul post-metropolitano come processo di urbanizzazione, che da luogo alla costruzione di una molteplicità di condizioni dell’urbano, e ad un nuovo vocabolario, anche di domande di rappresentazione e rappresentanza di nuove questioni urbane e di nuove forme di territorialità e cittadinanza.
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Valeria Fedeli
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Processi di regionalizzazione dell’urbano e questioni urbane emergenti: il post-metropolitano come chiave di lettura di una regione urbana rinnovata e incompleta
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Valeria Fedeli
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Sostenibilità e processi di metropolizzazione in Veneto
Sostenibilità e processi di metropolizzazione in Veneto Laura Fregolent Università IUAV di Venezia Dipartimento di Progettazione e pianificazione in ambienti complessi E-mail: laura.fregolent@iuav.it Francesco Gastaldi Università IUAV di Venezia Dipartimento di Progettazione e pianificazione in ambienti complessi E-mail: gastaldi@iuav.it Francesca Gelli Università IUAV di Venezia Dipartimento di Progettazione e pianificazione in ambienti complessi E-mail: fgelli@iuav.it; Carla Tedesco Università IUAV di Venezia Dipartimento di Progettazione e pianificazione in ambienti complessi E-mail: carla.tedesco@iuav.it
Abstract Il modello di sviluppo veneto è stato oggetto di studi che hanno avuto risonanza internazionale, ma oggi si avverte la mancanza di una connessione concettuale ed empirica generale, che interpreti le più recenti dinamiche delle trasformazioni socio-economiche, spesso correlate alla crisi degli ultimi anni. In particolare, appare piuttosto frammentario e insoddisfacente il quadro interpretativo dei modi contemporanei di produzione di territorio. Nel caso Veneto il concetto di metropolizzazione appare dubbio, mentre peculiari dinamiche hanno prodotto una struttura insediativa pulviscolare, con alcuni grandi fuochi di centralità (funzionale, simbolica, di relazioni), non necessariamente legati alle città. Tuttavia, questo peculiare contesto insediativo sembra condividere con le interpretazioni post-metropolitane alcune grandi questioni (le dinamiche della disuguaglianza sociale, un progressivo mismatch tra infrastrutture di trasporto, localizzazione residenziale e delle attività economiche, una diffusa percezione di insicurezza, una domanda crescente di qualità dell'ambiente e dell'abitare, difficili modelli di convivenza tra popolazioni). Parole chiave Veneto, trasformazioni territoriali, sostenibilità, sviluppo locale
1 | Introduzione Nella fase attuale degli studi urbani, sempre più spesso si rileva una tensione tra interpretazioni delle trasformazioni urbane (tra cui sembra emergere con forza il tema del “post-metropolitano”) e riflessioni sullo sviluppo sostenibile. Si tratta di una tensione interpretativa in cui, in genere, descrizione e aspetti normativi sono strettamente intrecciati. Si tratta, anche, di una tensione per lo più implicita, dal momento che lo sviluppo sostenibile non si ‘applica’ solo a particolari società urbane/metropolitane, e che la nozione di post-metropolis non è primariamente interessata agli aspetti (soprattutto normativi) dello sviluppo sostenibile. Più precisamente, l’evocazione della nozione di post-metropoli indica, in particolare negli scritti di Soja, una serie di effetti territoriali delle dinamiche di globalizzazione e anche delle politiche di impostazione neo-liberista, che si sostanziano in una crisi del modello standard di riconoscimento/funzionamento di aree metropolitane, in Laura Fregolent, Francesco Gastaldi, Francesca Gelli, Carla Tedesco
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Sostenibilità e processi di metropolizzazione in Veneto
un’intensa frammentazione sociale e culturale, nel disembeddment spaziale delle società urbane, in nuovi stili di governo, in mutati rapporti tra azioni pubbliche e private, nell’insorgenza di nuovi attori, nel mutamento radicale delle forme e dei contenuti del conflitto, ecc. Sullo sfondo di tutto ciò, agiscono o sono agite issues rilevanti come effetto di complesse costruzioni sociali: questioni ambientali, qualità della vita, sicurezza, accessibilità ecc. In definitiva, la questione (politica e sociale) del o dei modelli di sviluppo. Dall’altra parte, questa prospettiva crea problemi alle visioni dello sviluppo sostenibile. Poiché uno dei principi è quello della coesione sociale (e, ancor più radicalmente, territoriale), il quadro emergente dal dibattito sulla postmetropoli appare inquietante. Ma è proprio forse in questa tensione radicale (che contrappone diverse visioni e interpretazioni dei “fatti sociali formati nello spazio” e diversi “progetti di territorio”) che può forse emergere un’interpretazione originale, alle seguenti condizioni: a) abbandonare qualsiasi concezione oggettivistica nell’osservazione dei fatti urbani; riconoscere il carattere metaforico ed evocativo della post-metropoli, così come dei suoi precedenti nel tempo; pensare al territorio come un fatto radicalmente plurale; guardare lo sviluppo sostenibile come insieme di pratiche (chi fa cosa, come, quando, dove e perché, e con quali esiti); mostrare le dinamiche di ‘coesione’ (reti, idee, coalizioni, ecc.) a fronte della crescente frammentazione. In questo quadro di riferimento ci si propone di osservare e interpretare le trasformazioni avvenute in Veneto, partendo da un punto di vista specifico, che da qualche tempo costituisce una grande questione pubblica e il campo di importanti pratiche sociali e di governo del territorio: i nessi (complicati) tra sviluppo (modelli, politiche e pratiche di sviluppo) e sostenibilità (come attenzione ai rapporti tra dimensioni ambientali, sociali, economiche) supportata da pratiche in alcune aree 'marginali' ed individuata come questione centrale e di lettura di trasformazioni recenti. Il Veneto è anche terreno di forti mobilitazioni sociali e conflitti, rispetto ad alcune questioni riconducibili ai temi dello sviluppo e della sostenibilità, diversamente trattati, in un quadro in cui emergono alcuni attori/relazioni (imprese internazionalizzate, nuove costellazioni di agenti della trasformazione urbana e immobiliare, università, reti di attori locali/trans-locali mobilitati attorno ai temi dello sviluppo o sulle questioni della qualità della vita e dell’abitare).
2 | Il modello di sviluppo veneto, con riferimento agli effetti di trasformazione insediativa e territoriale La prospettiva sopra tracciata si rivela particolarmente efficace per riflettere sulle relazioni tra il modello di sviluppo veneto e i suoi effetti in termini di trasformazioni insediative e territoriali. Nel caso Veneto il concetto di metropolizzazione appare dubbio, mentre peculiari dinamiche hanno prodotto una struttura insediativa pulviscolare, con alcuni grandi fuochi di centralità (funzionale, simbolica, di relazioni), non necessariamente legati alle città; un peculiare contesto insediativo che sembra condividere con le interpretazioni postmetropolitane alcune grandi questioni1. Da un punto di vista territoriale la fase di crescita economica2 è coincisa con lo sviluppo del modello insediativo disperso in tutto il centro veneto che inizia a manifestarsi nel corso degli anni Settanta, prosegue con ritmi di crescita molto intensi lungo tutti gli anni Ottanta e Novanta per progressivamente assestarsi ma non fermarsi fino ai primi anni del 2000. Nel corso degli anni 2000 fino ad oggi, ha subito nel tempo delle variazioni dovute ad andamenti diversi e di maggiore o minore intensità dei fenomeni:, infatti, ad un’iniziale dispersione frammentata e a bassa densità è seguita una fase di compattazione intorno ai centri urbani anche di piccole dimensioni. All’oggi il territorio regionale è interessato soprattutto da processi di crescita che si caratterizzano per operazioni immobiliari di una certa dimensione e consistenza economica, con funzioni miste che interessano residenza, commercio e terziario in genere, mentre il processo di polverizzazione, tipico degli anni precedenti può dirsi per il momento arrestatosi (Fregolent et al., 2012). Le previsioni insediative sono quasi sempre a ridosso delle infrastrutture principali esistenti ma anche lungo quelle in corso di realizzazione come la Pedemontana Veneta, ad esempio, e sono spesso contestati da popolazione e comitati locali. Si ravvede una qualche conseguenza di quanto avviene legata a processi insediativi del passato, caratterizzati da una crescita dell’urbanizzato che non sempre è avvenuta seguendo principi di razionalità localizzativa, di uso del suolo compatibile con le esigenze dello sviluppo economico ma 1
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Le dinamiche della disuguaglianza sociale, un progressivo mismatch tra infrastrutture di trasporto, localizzazione residenziale e delle attività economiche, una diffusa percezione di insicurezza, una domanda crescente di qualità dell'ambiente e dell'abitare, difficili modelli di convivenza tra popolazioni Il Veneto nel suo complesso ha subito una trasformazione profonda: dopo la seconda guerra mondiale i trend di sviluppo della regione sono in media con il resto dell’Italia ma è a partire dagli anni Ottanta che il confronto avviene con le regioni più progredite delle economie industriali europee (Feltrin, Tattata, 2010). Lo sviluppo economico della regione avvenuto nell’arco degli ultimi trent’anni è la matrice attraverso la quale leggere il modello insediativo peculiare come quello dell’area centrale veneta e delle sue caratteristiche di sviluppo insediativo a bassa densità. Tale sviluppo economico si traduce a livello territoriale con lo sviluppo della piccola e media impresa che si insedia sul territorio regionale organizzandosi, in particolare, nella forma distrettuale dando vita a sistemi locali ad alta intensità produttiva.
Laura Fregolent, Francesco Gastaldi, Francesca Gelli, Carla Tedesco
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Sostenibilità e processi di metropolizzazione in Veneto
anche di vivibilità degli spazi abitati e di valorizzazione delle risorse ambientali e del paesaggio storico e naturale, e di nuove scelte urbanistiche poiché i progetti e le opere proposte e che generano conflittualità spesso non sono compatibili o non sono previste negli strumenti di pianificazione vigenti, che vengono sottoposti a variante urbanistica al fine di rendere le trasformazioni realizzabili.
3 | L’occasione del nuovo Ptrc: ripensare il modello di sviluppo territoriale, verso la sostenibilità Gli studi elaborati per l’ultimo Piano Territoriale Regionale avevano già evidenziato la crisi di competitività e la non sostenibilità (ambientale, economica, sociale) delle forme di monocultura produttiva, residenziale, turistica, agricola,3 individuate come i fattori principali della trasformazione territoriale avvenuta nel segno della diffusione/dispersione, in mancanza di una strategia d’assieme e di un quadro politico-programmatico delle politiche territoriali, di vasta scala. Sotto accusa, le tendenze campanilistiche dei comuni, spesso refrattari all’agire cooperativo, in particolare se la posta in gioco è l’espansione residenziale e produttiva; il profondo individualismo degli agricoltori; la domanda abitativa orientata alla casa come bene individuale; l’inefficacia dell’operato delle istituzioni intermedie e della stessa Regione, ai fini del coordinamento e dell’azione di guida e orientamento dei processi di trasformazione territoriale.4 Il processo di elaborazione del Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), concepito nel quadro della nuova legge urbanistica regionale (n. 11 del 2004), è stato accompagnato da una serie di iniziative di dibattito pubblico sui modelli di sviluppo territoriale e economico in Veneto. Il contesto in cui si inserisce la redazione del Ptrc è di forte perdita del consenso per amministratori locali e attori economici, con frequenti episodi di conflitto ambientale e sociale, da un lato, e espressioni significative di forme alternative di economia e di produzione dei beni comuni, di diverse pratiche d’uso del territorio, ad opera di nuovi soggetti dello sviluppo locale 5 (Gelli, 2009, pp. 160-3). L’occasione del nuovo Piano non ha prodotto una svolta netta nelle politiche di sviluppo regionali – l’Amministrazione Regionale ha mostrato aperture e limiti rispetto all’assunzione di un riposizionamento esplicito in materia – ma ha contribuito ad attivare spazi di confronto a più voci e a definire una narrativa delle dinamiche territoriali in discontinuità con le rappresentazioni, ampiamente socializzate e stratificate, del “modello Veneto”, che nella seconda metà del Novecento aveva fatto la fortuna del Nord-Est. La proposta, culturale, di una nuova via da percorrere, contenuta nella metafora del “Terzo modello” (verso lo sviluppo sostenibile, l’investimento sull’economia della conoscenza – innovazione, ricerca e formazione, efficienza dell’amministrazione pubblica, ICT – in un ridisegno complessivo della logistica e del sistema infrastrutturale, della mobilità) significa il venire meno dell’ipotesi stessa che ci sia un modello prevalente dello sviluppo regionale veneto, nella constatazione della differenziazione e della specificità di aree del territorio regionale; significa, anche, la critica al policentrismo come schema territoriale della crescita economica e produttiva, delle tendenze sociali e abitative (vedi il precedente Ptrc, concepito negli anni ’80), alternativo ai processi paralleli di metropolizzazione che in altri territori avevano caratterizzato le dinamiche di industrializzazione e modernizzazione6. Una priorità è costituita dalla valorizzazione delle città, individuate come il patrimonio del Veneto, pur nella cornice del “sistema agropolitano”, in quanto luoghi dell’elaborazione delle idee, dell’incontro, della costruzione di reti, ovvero, luoghi centrali non solo rispetto ai fattori materiali dello sviluppo. Le politiche urbane proposte comprendono politiche abitative e di riqualificazione, di miglioramento dei servizi, della mobilità intraregionale e dell’accessibilità, di diffusione di conoscenze e informazioni, della partecipazione, di controllo dei costi delle aree, di recupero di spazi industriali e produttivi dismessi, di rilancio delle funzioni commerciali dei centri storici urbani, di sviluppo rurale, ecc. (Gelli, 2009, pp. 182-6).
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Lo schema della piccola impresa e l’organizzazione del capannone; la villetta unifamiliare; l’industria termale; il preval ere di coltivazioni di agricoltura estensiva, ecc., tutte forme ad alto consumo di suolo e sfruttamento delle risorse ambientali. 4 Dai dati riportati, il Veneto risulta avere il tasso più elevato di case sparse in Italia (il fenomeno “villettopoli”), un t erritorio che è un tappeto di fabbriche e piccole funzioni produttive, spesso non concentrate in aree artigianali e industriali e pervasive nei centri abitati; un basso tasso di scolarità dei giovani; scarsa capacità di innovazione; dipendenza energetica. 5 Ad esempio, nei settori del turismo (balneare, rurale, culturale), dell’agricoltura specializzata e biologica, del consumo e della produzione di energia, del divertimento, con la creazione di nuovi distretti produttivi, reti e forme di cooperazione (agroalimentare, riciclaggio, ecc.), con la sperimentazione di approcci partecipativi e inclusivi delle popolazioni “sopravvenienti” (nuove generazioni, immigrati, studenti, ecc.). 6 Rispetto al modello policentrico vengono riconosciuti: un sistema metropolitano centro-veneto e l’area metropolitana di Verona; il sistema reticolare della pedemontana; il sistema turistico della costa e della montagna. Laura Fregolent, Francesco Gastaldi, Francesca Gelli, Carla Tedesco
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Sostenibilità e processi di metropolizzazione in Veneto
4 | La crisi e le nuove domande di governo del territorio Alle occasioni di ripensamento del modello di sviluppo territoriale sopra delineate è subentrata la situazione di crisi economica, che ha aperto nuovi scenari di trasformazione insediativa e territoriale. Nessuno avrebbe potuto immaginare fino a qualche anno fa che l’area traino del dinamismo economico del Paese, soprattutto nell’export e nei prodotti del made in Italy, potesse avviarsi verso una spirale di crescente debolezza. Il Veneto non ha più la corsa slanciata d’un tempo, ha corso velocemente, ma non ha saputo nello stesso tempo adeguare il motore alle nuove esigenze della competizione internazionale. La crisi economica è una “slavina” sta che generando non solo problemi finanziari ed occupazionali (aspetti prevalenti nel dibattito politico-istituzionale), ma anche diverse forme di fruizione del territorio. In termini di prospettive di lavoro occorrerà indagare come la recente crisi economica ha fatto emergere le contraddizioni del rapporto fra tessuto di piccola impresa e territorio. Si assiste alla dismissione di aree industriali a causa di chiusure, delocalizzazioni, riorganizzazioni aziendali ed emerge una nuova domanda di governo di territorio, non più legata ad una fase espansiva, bensì al problema della dismissione dei “capannoni” (molti dei quali sotto-utilizzati), delle possibili destinazioni d’uso, della limitazione della crescita edilizia e, più in generale, della transizione verso nuovi modelli di sviluppo. Nelle aree venete che sono state soggette al processo di internazionalizzazione, il sistema economico ha dimostrato un certo grado di flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti della domanda di lavoro, ma il futuro permane incerto. La coscienza di aver sviluppato forme di successo dal punto di vista imprenditoriale ha fatto sì che si sia creata una sorta di presunzione di essere indenni da problemi, che ha generato isolamento e incapacità nel cogliere segnali di cambiamento provenienti dal mercato. Il Veneto sta attraversando una fase di metamorfosi molto profonda che investe non solo il tessuto produttivo, ma anche le comunità locali, quest’ultime da sempre vero “carburante” del successo del sistema distrettuale. Crisi economica, dunque, ma anche crisi sociale, di identità e di ruolo. Inoltre, se l’interazione tra sistema economico e sistema sociale, considerata nei suoi aspetti storici, culturali, politici, istituzionali, è stata il punto di forza di questo modello di sviluppo, cosa può accadere se i legami o qualche tassello di tale rapporto saltano? Il dibattito che sembra svilupparsi in questi ultimi anni sembra voler indagare come la crisi abbia modificato non solo i comportamenti delle imprese, ma anche il modo in cui conoscenze, valori, istituzioni e mondo della produzione oggi interagiscono fra di loro.
5 | Un programma di ricerca La produzione di territorio, così come delineata nei paragrafi precedenti, può essere indagata in relazione ad alcune dimensioni dell’azione e ad alcuni campi empirici che appaiono particolarmente significativi per esplorare e discutere le ipotesi in gioco rispetto alle questioni post-metropolitane, o, meglio, della produzione contemporanea di territorio. Una prima dimensione è quella relativa agli strumenti, di cui appare fondamentale il ruolo (mai neutrale, ma costitutivo) nell'orientare i quadri cognitivi, le condotte e le azioni (Lascoumes, Le Galès, 2004). In particolare, con specifico riferimento al territorio veneto appare rilevante portare avanti un’indagine relativa a: a) strumenti d’iniziativa regionale: documenti di programmazione, piani e politiche (Programmi dei fondi strutturali UE, Piani settoriali e territoriali ecc.), atti legislativi che, anche in virtù di un adeguamento alle direttive europee, sollevano la questione della sostenibilità dello sviluppo, ponendosi in continuità o discontinuità con le logiche e rappresentazioni prevalenti, che hanno configurato il “modello di sviluppo Veneto”, con riferimento alla definizione dell'agenda politica degli ultimi tre governi regionali (2000, 2005, 2010) agli ultimi periodi di programmazione comunitaria (2000-2006, 2007-2013) e al prossimo 2014-2020, anche nel quadro della costruzione dell’agenda urbana nazionale); b) piani e politiche locali (in particolare Piani di Assetto Territoriale, comunali e intercomunali), azioni cooperative a scala interlocale e intercomunale, iniziative territoriali, ‘dal basso’, promosse dalle amministrazioni e/o da segmenti della cittadinanza attiva e/o da operatori economici, nei quali il richiamo alla sostenibilità si articola variamente, oscillando dalla promozione del miglioramento della qualità della vita al contenimento del consumo di suolo. Strettamente connessa alla precedente appare un’altra operazione empirica di ricerca, relativa ai conflitti territoriali, (dei quali risulta cruciale indagare forme, risorse mobilitate, reti di attori coinvolte) con un focus sulla partecipazione “contro” e sulle iniziative che valorizzano le conoscenze e competenze locali di progettazione, di auto-governo e di auto-determinazione di elementi della società, che si fanno attori per il trattamento di queste problematiche, anche in senso antagonista. Le domande che guidano questa parte della ricerca empirica riguardano le eventuali retoriche standard che vengono replicate, indipendentemente dal contesto, le immagini Laura Fregolent, Francesco Gastaldi, Francesca Gelli, Carla Tedesco
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territoriali emergenti, gli eventuali indizi di ‘sostenibilità’ all’opera, le idee di strutture e strategie di lungo periodo che emergono e i loro eventuali nessi con le questioni post-metropolitane, la dimensione simbolica delle politiche. Ancora, il territorio regionale è caratterizzato, in particolare negli ultimi anni, da casi di grandi trasformazioni territoriali, in corso o in previsione. Le “forme” spaziali che queste tendono a configurare sono quelle delle “centralità”/ “polarità” direzionali, commerciali , produttive e del tempo libero (ma anche residenziali) fortemente dipendenti dalla mobilità individuale privata. Ci si riferisce ad operazioni ingenti dal punto di vista delle risorse finanziarie impiegate, delle superfici e delle volumetrie in gioco, in grado di incidere sugli assetti insediativi, in particolare creando nuove centralità che modificano significativamente le dinamiche e le pratiche urbane, caratterizzate da diversi tipi di relazione tra attori pubblici e privati, legate, in modo più o meno intenzionale ad un ciclo politico e ad una idea di città, spesso accompagnate da conflitti. Rispetto a queste operazioni appare rilevante la capacità delle amministrazioni comunali, da un lato di posizionarsi rispetto alle strategie e ai quadri programmatori/pianificatori regionali, attraverso i quali attivare la capacità delle città di inserirsi nei circuiti nazionali e internazionali; dall'altra la capacità di intercettare le pratiche di ‘cura' promosse da segmenti della cittadinanza attiva. A queste grandi trasformazioni territoriali si accostano quelle riconducibili alla situazione di crisi economica, che porta ad interrogarsi sui legami tra la dismissione manifatturiera e la dismissione degli spazi della piccola impresa e del terziario, le relazioni tra la dismissione colturale (che è di lungo periodo) e gli eventuali processi di riuso dei territori rurali o post-rurali, e secondo prospettive di sviluppo da indagare. Infine, una dimensione rilevante di indagine nel quadro della ‘post-metropoli’ è quello delle pratiche di uso del territorio nell’attuale società di ‘individui mobili’ (Cresswell, 2006; Crosta, 2010); più nello specifico, una dimensione di ricerca empirica riguarda le pratiche di multilocalità come pratiche d’uso del territorio da parte di soggetti che sono presenti in modo routinario, per svariate ragioni, in luoghi diversi da quello di residenza. Posto che si tratta di un fenomeno che gli studiosi (in particolare i geografi) hanno solo recentemente cominciato ad osservare, una questione centrale riguarda le circostanze entro le quali azioni individuali in situazioni di copresenza si trasformano in azioni collettive e diventano un problema pubblico.
Riferimenti bibliografici
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Laura Fregolent, Francesco Gastaldi, Francesca Gelli, Carla Tedesco
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Post-metropoli senza metropoli ?
Post-metropoli senza metropoli? Giovanni Laino Dipartimento di Architettura Università Degli Studi di Napoli, Federico II Email: laino@unina.it
Abstract L’analisi dei processi di urbanizzazione, delle dinamiche e delle morfologie territoriali, fa tesoro delle elaborazioni offerte da studiosi di chiara fama che hanno osservato città e regioni di altri continenti (Burdet e Sudjic,2007; Soja, 1999, Sassen 1997). Emerge però l’interrogativo se questo repertorio di immagini e concetti è abbastanza soddisfacente oppure se sia necessario puntare a elaborare frame e categorie concettuali significativamente più idonee per immaginare le dinamiche di sviluppo agenti in Italia. Questo ancor di più se ci si occupa di città del Sud. La tesi è quella secondo cui politiche territoriali effettivamente più efficaci potranno essere pensate e realizzate solo a partire da un immaginario che – pur utilizzandolo - problematizzi l’assunzione acritica dello strumentario concettuale del mainstream anglosassone. È indispensabile quindi ribadire se esistono e quali sono le specificità della storia recente del territorio meridionale, cogliere le peculiarità essenziali dei processi di sviluppo e delle dinamiche territoriali recenti del Paese che vive da almeno venti anni una particolare fase di trasformazione (Barca, 2011a, 2011b; Calafati 2010; De Matteis, 2008; Donolo 2011; Moccia e Coppola 2005).
Area metropolitana definizioni e idoneità del concetto per le città italiane Per l'Italia, esistono diverse definizioni e modalità di identificazione delle metropoli e delle aree metropolitane, compresa quella data dalla legislazione vigente (Cafiero S., Busca A.,1970; Martinotti, 2001; De Matteis, 2008; Bartaletti, 2009)1. Come ha scritto Martinotti “non va dimenticato che il concetto di metropolitan community, e più ancora quello di metropolitan area, derivano dalla tradizione anglosassone e in particolare da quella statunitense. Nell'importare questo termine non dobbiamo quindi trascurare un'importante circostanza storica. La morfologia fisica, sociale e amministrativa della metropoli americana si è venuta configurando in una situazione territoriale caratterizzata dall'assenza di un precedente impianto urbano e quindi in grado di diffondersi liberamente entro un'area di unincorporated land, priva di quei vincoli amministrativi comunali presenti invece nella situazione europea e italiana in particolare” (Martinotti, 2001). I caratteri di densificazione di centri di potere delle istituzioni finanziarie, politiche, culturali, produttive, con forte interdipendenza con altre aree di pari rango, sono costitutivi del concetto di metropoli quando viene utilizzato in termini non generici. Per questo, pur tenendo conto delle buone ragioni per cui in Italia i geografi considerano di tipo metropolitano le conurbazioni delle principali città meridionali, si può sostenere che le principali città del Mezzogiorno, dal punto di vista funzionale, non siano mai state delle metropoli. Negli ultimi trenta anni è risultato evidente, soprattutto nei paesi meno sviluppati, che il progressivo ampliamento demografico ed edilizio delle città non comporta di per se una crescita delle capacità di produrre ricchezza, un consolidamento della loro base produttiva, delle istituzioni localizzate in quel territorio. Questo ancor più in seguito alle vicende degli ultimi venti anni che, nel Sud Italia, hanno notevolmente indebolito il già fragile sistema bancario locale e le società a partecipazione statale (Giannola, 2010). Malgrado questo, le traiettorie di sviluppo delle grandi città meridionali non vanno 1
Questo testo raccoglie in parte una prima riflessione avviata nell’ambito del gruppo di ricerca Prin che l’autore coordina a Napoli “Trasformazioni del territorio e forme dell’abitare: le dinamiche territoriali fra sregolazione, resilienza e differenziazione. Rinnovo delle analisi e indicazioni per le politiche”, coordinato a livello nazionale da Alessandro Balducci..
Giovanni Laino
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necessariamente ricondotte allo schema dell'arretratezza. È indispensabile andare oltre l’uso della tipologia weberiana che contrappone città dei produttori e città dei consumatori. Nel nuovo secolo l’analisi delle dinamiche urbane chiede un approfondimento, il superamento dell’adozione di questa tipologia dualistica non convincente (Barbagli, Pisati,2012) Fra molti studiosi e policy maker è stata ed ancora è egemonica pur se implicita una posizione culturale fondata su un insieme di assunti teorici, a)la teoria degli stadi di sviluppo (Rostov 1960), b)una concezione dell’economia mondo per cui l’insieme dei contesti sono assimilabili entro un flusso complessivo che vede alcuni paesi in uno stadio più avanzato di altri che, per crescere, in qualche modo dovranno costruire condizioni che li avvicinano a quelle dei paesi più avanzati; i paesi del Sud sono in condizioni che sostanzialmente possono essere utilmente interpretate come un ”non ancora” del più avanzato sviluppo dei paesi in migliori condizioni di Pil. Da molti anni questa impostazione viene criticata (Rist, 2013, Chambers 2007).
Altre immagini del post urbano Metropolitanizzazione, polarizzazione, ghettizzazione, gentrificazione, slumizzazione, post-metropoli sono solo alcune fra le più note categorie di analisi che molti studiosi europei hanno desunto dai contributi elaborati dai colleghi che hanno studiato quasi sempre il continente nord americano o le regioni del centro o nord Europa. Certamente tali studi sono molto fertili ed essenziali per cogliere caratteri importanti di dinamiche transcalari. Si può sostenere però che, in tale adozione, abbia influito anche una concezione banalizzante della globalizzazione che suggerisce una visione troppo uniforme dei processi. Sembra sia stata ancora forte l’impostazione secondo cui gli stessi processi di sviluppo, più avanzati negli Stati Uniti, producessero delle dinamiche territoriali che poi in seguito sostanzialmente gli studiosi potevano riscontrare in tutti gli altri paesi. Per proporre interpretazioni e descrizioni delle trasformazioni gli studiosi hanno elaborato molte immagini: dalla Megalopoli (Gottman,1970) all'Ipercittà (Corboz,1998) alla Metapolis (Gausa e Al.2001), sino alla più recente Endless City (Burdet e Sudjic,2007). La diffusione urbana, l'esplosione della città sono state riscontrate empiricamente e analizzate, in modo originale, anche dagli studiosi italiani (Indovina,2005; Viganò,2010). Secondo Soja (1999), che fa un’utile rassegna critica di queste categorie riferendosi quasi sempre ad aree di ampia estensione, qualsiasi metafora scegliamo per descrivere la metropoli liberata, la nuova forma urbana è “segnata da una frammentazione finora inimmaginabile; da immense differenze tra i suoi cittadini; dai nuovi problemi di pianificazione, che alzano la posta in gioco e richiedono cambiamenti nel modo stesso in cui pensiamo alla pianificazione urbana”. Ciò vale anche per un'altra metafora utilizzata, Cosmopolis, che contiene anche il carattere globale della metropoli (…) ancora una polis, ma una polis frammentata, allargata e globale (Isin e Bloch, citati in Soja, Ed.It.2007). Secondo Sassen, “la città globale esige un approccio di ricerca costruito con l'intersezione tra microanalisi e etnografia. Le descrizioni topografiche non catturano la moltiplicazione delle geografie intercittà che collegano spazi specifici delle città. Né tali descrizioni catturano la città informale come sito delle imprese e delle famiglie immigrate transnazionali o delle nuove reti di artisti e di aziende dei nuovi media. La città diventa un amalgama di molteplici frammenti situati su diversi circuiti transurbani”. (Sassen,1997). Le stesse proposte di Soja e Scott non vanno intese in termini eminentemente cartografici. La sfida è sempre quella di elaborare interpretazioni e rappresentazioni che restituiscano al meglio l'interazione fra spazio e società, con analisi approfondite degli assetti spaziali che d'altra parte non si limitino alle letture delle mappe zenitali alle varie scale. Nello studio delle città del Sud è ancor più evidente quindi l’approfondimento dei caratteri costitutivi delle formazioni economico sociali dei territori meridionali, evitando le trappole del dualismo come quelle del pittoresco.
Uno sguardo dal Sud L’analisi che mette in dubbio l’utilità di considerare le città del Sud del Mediterraneo come centri di aree metropolitane non implica la sottovalutazione di articolate e complesse dinamiche urbane, sensibili e connesse anche con processi di scala ampia, secondo cui flussi di informazioni, merci e persone, anche di rango elevato, hanno rafforzato e complessificato le formazioni economico sociali di alcune città meridionali. Negli ultimi decenni, nelle conurbazioni meridionali si sono comunque realizzati fenomeni riscontrabili anche in aree del pentagono europeo, connessi sia con le dinamiche delle aree forti dell'Europa come pure con quelle delle città frontiera del Mediterraneo. Da molti anni diversi studiosi evidenziano che alcune dinamiche che sembrano tipiche delle città con processi di sviluppo più avanzati, Giovanni Laino
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sono in qualche modo attive anche in città che non rientrano negli elenchi delle città mondiali o che comunque non sono collocate in aree regionali più sviluppate. Un altro insieme di contributi che vanno considerati da parte di chi si propone di interpretare le recenti traiettorie di trasformazione delle città meridionali è quello che mette in discussione l’idoneità di modelli e categorie di analisi costruite in contesti molto avanzati per l’interpretazione delle condizioni delle città di contesti del tutto diversi. Da qualche anno rifletto in merito alla poca adeguatezza di categorie di analisi certo molto interessanti, utili per contesti statunitensi, la cui adozione per i contesti meridionali mi sembra poco rigorosa, in parte fuorviante. Concetti come polarizzazione sociale, ghetto, gentrificazione vengono forzati se utilizzati per interpretare di amiche significative e documentabili di gran parte delle medie e grandi città italiane (Gaeta 2006; Laino 2007; Pfirsch 2011). Anche sulla categoria della segregazione (sociale, residenziale) andrebbe approfondita l’analisi critica cercando di decostruire l’assunzione veloce del concetto fatto in molte ricerche. Certamente anche i territori delle città del Sud sono oggetto, strumento e scena della divisione sociale dello spazio ma per indagini veramente approfondite le categorie classiche ormai sembrano fuorvianti. La questione è più profonda. Da Autori di diverse discipline viene suggerita la tesi secondo la quale “città del sud come le nostre non possano essere comprese tramite teorie occidentali o nordiche, e necessitano di qualcosa di nuovo” (Mabin, 2013). Si tratta della critica alle pretese di universalità, insite nell’adozione di categorie interpretative proposta dagli studi postcoloniali. La critica all’universalismo associato al pensiero illuminista sviluppatosi in Europa Occidentale nel diciottesimo secolo. Critiche elaborate anche prima dei più noti studi di Said, Spivak o Bhabha. Secondo Mabin (2013) si tratta di esplorare il “campo delle modernità multiple, forse un elemento centrale nella contemporanea teoria del sud da seguire in altri percorsi postcoloniali (asiatico ed africano), più delle incerte origini separate di tale discussione sul lato ovest dell’Oceano (Sud) Atlantico (cf. Cesarino 2012)”. Tenendo conto del contributo di Leontidu (1990) che ha proposto alcune specificità delle città del sud del Mediterraneo, inoltre poi si pone per noi la domanda quanto e come sia utilizzabile una univoca categoria di Sud, dal Mezzogiorno italiano, assimilabile forse alla fascia che associa il Portogallo, la Spagna l’Italia del Sud e la Grecia, alle diverse regioni del continente Africano, di quello Asiatico o dell’area Sud Americana. Forse Sud funziona in termini univoci solo nel senso di quello che non è Nord poi però si deve necessariamente pluralizzare l’analisi. Oltre alle potenzialità emergono quindi profondi e seri limiti in un approccio da sud sulle città del sud. Nella nuova prefazione ad un libro molto apprezzato d’altra parte Legales ribadisce la necessità di una visione plurale delle traiettorie di sviluppo delle città europee (Legales 2011). Mabin richiama un’impostazione ancora più radicale di “Comaroff e Comaroff (2011) in base alla quale sarebbero Europa e America che tendono ad evolversi secondo i processi osservati in Africa, e non il contrario come di solito si sostiene. Lo stesso può essere vero anche per le città…’ – ‘In alcuni aspetti, [le città del sud] sono… addirittura la prefigurazione di ciò che può accadere (in senso positivo o negativo) nelle città occidentali (Choplin 2012). (…) Un variante di questa argomentazione nel dibattito attuale che deriva dalla generale ‘teoria del sud' – consiste nel fatto che le ‘città del sud’ presentino uno spazio di sperimentazione che prefigura il futuro prossimo dell’Occidente (o del Nord)”. (Mabin, 2013). Ritengo quindi che sarà utile e promettente soffermarsi sull’elaborazione di indagini che esplorino possibili peculiarità delle città del Sud (Leontidou, 1990; Perouse. 1998 e 1999; Peraldi 2009; Pfirsch, 2011).
Le città del Mezzogiorno Un ripensamento sull’adozione di approcci e categorie elaborate in riferimento ad altri contesti è ancora più rilevante per l'analisi del territorio meridionale. Lo studio delle dinamiche più recenti all'interno della principale costellazione metropolitana del Sud, realizzato con l'assunzione di una visione plurale, può trarre molti spunti dal confronto con le immagini elaborate in riferimento ad un contesto considerato come più avanzato. Vi sono buoni argomenti per confutare la lettura del territorio campano in termini di postmetropoli, ma vanno colte diverse dimensioni evolutive delle trasformazioni territoriali, che anche qui sono multiscalari, connesse a processi globali, tenendo presente diversi modi di leggere le condizioni del Mezzogiorno (Cassano,2009; Casavola, Trigilia 2012). È evidente quindi la necessità di superare definitivamente una impostazione tutta desunta dalla teoria degli stadi si sviluppo (Rostow,1960) secondo cui il Mezzogiorno verrebbe letto sempre come un non ancora rispetto a territori più avanzati. Nel corpus di letture del territorio campano è frequente il ricorso a immagini limite. Napoli è città estrema, alla deriva, terra di vulcani attivi, devastata da crisi strutturali, ambientali e politico sociali; paradigma della crisi delle periferie del mondo globalizzato (AA.VV.2006b, Petrillo 2011); particolare espressione della crisi cognitiva e regolativa che ha caratterizzato la storia recente dell'Italia (Donolo, 2011). “Napoli è forse emblematica della città in crisi, o della città come crisi” (Chambers, 2007, p.86). Giovanni Laino
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Alcune problematiche degli ultimi anni, soprattutto le crisi ambientali dovute allo sversamento illegale di rifiuti tossici in ampie zone della conurbazione fra Napoli e Caserta, insieme alla crisi del ciclo dei rifiuti solidi urbani, alla depurazione delle acque, alla profonda crisi economica, occupazionale e di governabilità dell’area suggerisce a molti analisti una riproposizione delle narrazioni orientate al frame della particolarità cosmica e non di rado antropologica. Una impostazione sempre ben argomentata da dati di fatto: “Quale che sia l'indicatore o il criterio guida per giudicarne la competitività e l'attrattività le città del Sud appaiono ancora affette da un forte divario con le città del Centro-Nord” (Svimez 2011). A questo proposito, si vedano anche i dati sul rischio idrogeologico o il tasso di contaminazione dei territori. Secondo i geografi campani il Mezzogiorno finisce per essere prevalentemente un mercato sussidiato per lo sbocco delle produzioni del centro nord o straniere. Un territorio fortemente urbanizzato, ma a basso grado di industrializzazione, con città che consumano quote elevate di risorse che provengono dall'Unione Europea senza una buona capacità di capitalizzarle, disperdendole nell'ipertrofia delle burocrazie comunali, regionali, statali, o in un sistema commerciale frammentato. Il Mezzogiorno è anche inteso come campo di azione per i “mediatori del consenso”, per le “ingordigie clientelari” o, peggio, per le inframmettenze camorristiche e mafiose. (Mazzetti in AA.VV. 2011). È infine un territorio per cui le politiche di coesione europee degli ultimi quindici anni hanno rivelato un livello di efficacia ben poco soddisfacente. Anche se molti studiosi hanno superato “l'antica diagnosi dell'immobilismo urbano come sorda resistenza a ogni cambiamento” (Petrillo, 2011) per l'area napoletana qualche autorevole storico parla di “una modernità distorta, una versione degradata e patologica della modernità, gravata da una serie di fattori che impedirebbero alla città l'accesso pieno al mercato libero (Macry citato in Petrillo, 2011). Dall’osservazione costante sembra che nella più grande città del Sud sia operativo un circuito vizioso fra crisi politica, economico sociale, deficit di competenze delle elite e depressione di ampi strati della popolazione che avvertono un’afasia, un senso di impotenza, sfiducia, una sorta di sostanziale impossibilità di migliorare le condizioni di riproduzione della sfera pubblica. A guardar bene ci sono anche fattori positivi, dinamiche di crescita. Il crescente deficit di sviluppo e capacità organizzative convive con cambiamenti rilevanti. Oggi nel Mezzogiorno si vive, in alcuni casi discretamente, in città medie e in alcune aree delle grandi città. La Campania, che non è più definita come l'area di influenza di Napoli ma come regione metropolitana, si avvia ad essere dotata di una tra le migliori reti integrate di trasporto in Italia. Ovunque, anche nelle porzioni più marginali, si riscontra una geografia molto variegata di dinamismi locali, talvolta poco chiari sotto il profilo della legalità. (AA.VV. 2011). Anche se le grandi polarità restano i vertici forti degli impianti urbani regionali che le ospitano, è evidente l'attenuazione della storica frattura territoriale tra aree interne e di costa. Sono evidenti processi di decongestione delle grandi aree urbane costiere, verso un assetto tendenzialmente più policentrico. Sebbene in forma caotica, si è venuta configurando una “regione urbana” che, nella parte fra Napoli, Nola e Caserta, si pone come la più importante città-porta del Mezzogiorno. Napoli è anche una grande piazza commerciale, con grandi ipermercati e un notevole fatturato “à la valise”, alimentato da migliaia di migranti2, anche imprenditori, che sperimentano la dimensione della città frontiera fra Tangeri, Napoli, Istanbul (Peraldi 2011). Allora ci sono molti buoni motivi per esplorare i caratteri delle nuove configurazioni territoriali, della loro evidente resilienza, nella prospettiva di dare un contributo all'elaborazione e all'attuazione delle politiche di coesione (Barca, 2011a; 2011b). Forse in analisi necessariamente transcalari vanno approfondite indagini di quadranti territoriali di piccole dimensioni ove gruppi di popolazioni da anni realizzano strategie resilienti di sopravvivenza, convivendo con dinamiche molto critiche senza soccombere.
Le rappresentazioni: un territorio con metastasi diffuse Napoli (il centro urbano e le aree limitrofe più note per i caratteri paesaggistici) già dalla metà dell’Ottocento ha ispirato letture animate dalla metafora della particolarità cosmica, del luogo estremo, la città serena sull’abisso, il vulcano inattivo, terremoto quotidiano, paradiso abitato da demoni (Laino, 1989). Grazie alla diffusione di una sensibilità ecologica e di un significativo nesso fra lavoro di inchiesta e documentazione da parte di militanti e di esperti, sensibilità dei magistrati rispetto ad alcuni temi di rilevanza sociale, interessamento di commissioni parlamentari che negli ultimi quindici anni hanno operato in riferimento alle problematiche del ciclo dei rifiuti 3 di fatto è stata elaborata, si è consolidata ed 2
Secondo i dati della Banca d’Italia, nel 2012 gli immigrati sono riusciti a inviare nei paesi di origine rimesse per circa trecentomlioni di euro. Poco più del 50% di tale cifra è stata inviata dai cinesi. 3 Nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti guidata dal Dott. Pecorella è scritto “Per l’inquinamento delle falde acquifere – che avrà il suo picco nei prossimi 50 anni – per lo smaltimento delle ecoballe, l’inquinamento da rifiuti tossici in Campania «costituisce ormai un fenomeno di Giovanni Laino
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ampiamente diffusa una visione tragica delle condizioni di vita e di riproduzione soprattutto di alcune aree della conurbazione napoletana e casertana. Queste analisi hanno un buon corpus di materiali con cui argomentano le tesi che sostengono; materiali che in diversi casi sono elaborati da enti pubblici come i diversi uffici della Regione Campania che si occupano di questioni ambientali. Le indagini giornalistiche più eclatanti si alimentano molto dei materiali prodotti nell’ambito delle inchieste giudiziarie. Va detto però che gli esiti di alcune inchieste pongono anche l’interrogativo su quanto quest’approccio sia ancora una volta condizionato dalla visione del territorio campano come luogo estremo, tragico 4. Altra fonte rilevante per letture meno emergenziali sono le analisi elaborate nell’ambito dei Piani Provinciali di Coordinamento di Napoli e Caserta (di Gennaro, 2012), che presentano un quadro delle condizioni del territorio della conurbazione che collega buona parte dei comuni delle due città Napoli e Caserta. Proprio analizzando queste diverse rappresentazioni affiora un possibile scarto fra una narrativa tendenzialmente tragica ed una attenta alla resilienza del territorio, alla particolare localizzazione delle aree effettivamente molto compromesse. Dall’insieme di queste indagini emerge che l’area dei comuni fra Napoli Nord, Caserta e il litorale Domizio costituisce un territorio con zone profondamente compromesse sia dal punto di vista ambientale che per il radicamento delle organizzazioni camorristiche più potenti. Un territorio ove lo Stato ha sostanzialmente abdicato la responsabilità e la capacità di controllo della vita comune pesantemente condizionata da gruppi criminali che, grazie a varie alleanze e collusioni, di fatto hanno devastato un territorio che sino agli anni Sessanta aveva caratteri di alto livello qualitativo (di Gennaro, 2012). Subito dopo tale lettura gli studiosi pongono una questione: viste queste condizioni tanto gravi perché a Napoli e nel Sud non scoppia il conflitto sociale, i moti urbani ? Anche qui serve una logica plurale, capace di abitare l’ambivalenza. Una varietà di condizioni compongono un quadro (la città porosa, non effettivamente polarizzata), che almeno in parte da una risposta a tale domanda. Si può ipotizzare che siano in gioco diversi fattori : a)il ruolo assistenziale svolto dalla famiglia, con la possibilità di utilizzare spezzoni di reddito assicurati dagli anziani e da componenti invalidi presenti nei nuclei; b) il contenimento dei consumi e la parziale evasione di imposte da parte dei più deboli (dal canone RAI alle tasse per i rifiuti solidi urbani); c) le opportunità offerte dall’economia informale sino alla perdurante diffusione dell’usura; d) la riproduzione di condizioni di sofferenza urbana molto evidente, soprattutto nelle eterotopie (Magatti, 2007) delle periferie di prima, seconda e terza cintura, come nei campi Rom o nei piccoli slum degli immigrati di Castel Volturno. Con tutto questo la città porosa offre possibilità di sopravvivenza, favorisce la resilienza adattiva (Davoudi, 2012): un esempio è dato dai caratteri del patrimonio edilizio che con una significativa varietà delle taglie di abitazioni nei quartieri popolari, come della frantumazione della proprietà, dispone la possibilità della convivenza in prossimità di gruppi con capacità di spesa ben diverse. D’altra parte, forse, si può considerare che almeno una parte dei fenomeni criminali, per alcune quote più povere della popolazione (e non solo ?) come una perversa forma di conflitto, “resistenza”, certamente uno sfogo…. in questo stato di cose. Certamente bisogna costruire argomenti e spiegazioni più plurali. Senza sminuire la portata della gravità di alcune analisi, credo che sia indispensabile anche decostruire la rappresentazione tragica che alcuni studiosi, politici, giornalisti e magistrati hanno costruito.
Conclusioni Nell’analisi territoriale ritorna spesso un frame riferibile all’ambivalenza. Parlando del carattere degli italiani, più in generale, Bollati (1996) dice che nella simultaneità di primato e di decadenza, di inferiorità compensata da un senso di superiorità, si istituisce uno degli schemi più caratteristici e stabili dell'intera storia italiana. Rispetto ad una parte della conurbazione napoletana questo framing ha assunto caratteri particolarmente intensi. Negli ultimi anni, oltre al libro Gomorra di Roberto Saviano, poi in parte sceneggiato in un film, uno dei testi emblematici di tale sguardo è rappresentato dal film del 2005 “Biutiful cauntri”5. Si tratta di due testi emblematici ove il “paesaggio dell’Ecocamorra” sembra prevalere
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portata storica, paragonabile soltanto ai fenomeni di diffusione della peste secentesca. Il paragone non sembri azzardato, in considerazione del fatto che anche per i rifiuti a Napoli emergono, sia pure con connotazioni moderne, le figure degli untori che popolavano le tragedie cui si è fatto riferimento» (…) «…., facendo un parallelismo tra organismo umano e ambiente, può essere soltanto paragonata all'infezione da Aids (…)». Una delle principali e prime inchieste sugli sversamenti dei rifiuti tossici in Campania, denominata Cassiopea, ha visto dopo molti anni, praticamente assolti tutti gli imputati, certo anche per le lacune della legislazione in materia. Biùtiful cauntri è un film documentario realizzato nel 2007 da Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio e Peppe Ruggiero. Affronta il tema della crisi dei rifiuti in Campania e dell'inquinamento nella regione italiana, focalizzandosi sui problemi delle innumerevoli discariche abusive, dell'ecomafia e delle conseguenze dell'inquinamento sull'allevamento, in particolare delle pecore, e sull'agricoltura, oltre a fornire degli indizi sul
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(Corona, Sciarrone, 2012). Lo studio critico e approfondito delle categorie di analisi è doveroso e fertile anche se va evitato il solipsismo culturalista sempre in agguato. Indagando le condizioni di riproduzione sociale e dell’assetto territoriale della conurbazione napoletana, nei prossimi anni di lavoro dovremo forse porci una questione. Come è capitato ai ricercatori americani negli anni Cinquanta, Hirschman, Friedman, che trovandosi a fare programmi per le zone depresse hanno pensato che dovevano cambiare a fondo la teoria che pensavano di applicare, forse anche noi dobbiamo ripensare a fondo l’approccio che adottiamo, destreggiandoci fra tentazioni apologetiche, nostalgie illuministiche, suggestioni occasionali. Ribadendo il criterio sapienziale secondo cui il linguaggio e le categorie non sono mai neutrali e ingenue, si tratta di tornare a fare inchiesta, reinventando narrazioni con l’ambizione di adottare qualche categoria necessariamente elaborata in contesti particolari e specifici. Tenendo molto presente i migliori contributi offerti da autori che operano in altri contesti ma cercando anche di elaborare con coraggio immagini originali.
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fatturato derivante dallo smaltimento illegale dei rifuti. Il film rappresenta l'avvelenamento lento della popolazione a causa dell'inquinamento causato dalla camorra e sfrenato dai politici e dal governo. È stato presentato a novembre 2007 nell'ambito del Torino Film Festival, dove ha ricevuto una menzione speciale, ed è poi uscito il 7 marzo 2008 in dieci sale italiane (cfr. Wikipedia). È stato utilizzato in molti incontri pubblici come testo di documentazione e denuncia con esiti politici nelle vicende amministrative locali (uno dei personaggi centrali, già referente di Lega Ambiente è diventato poi il presidente della Società ASIA per l’igiene urbana a Napoli).
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Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca
Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca Laura Lieto Università di Napoli “Federico II” DiARC - Dipartimento di Architettura Email: lieto@unina.it
Abstract Il paper offre una preliminare esplorazione del tema delle disuguaglianze/differenze nella post-metropoli aderendo criticamente all’ipotesi che la loro spazialità non sia tanto riconducibile a forme spinte di polarizzazione e segregazione, quanto invece a forme di socialità frammentata e fluida, legate a fenomeni di vario tenore strutturale, dalla globalizzazione dei processi economici alla ri-articolazione dei flussi migratori, che si intrecciano in parallelo a fenomeni e pratiche di portata locale. L’idea di fondo è che la post-metropoli italiana, proposta come un’ipotesi di ricerca più che come un dato di fatto, non sia tanto assimilabile alle forme marcate di polarizzazione riscontrate nella metropoli nordamericana o europea continentale, quanto piuttosto pertenga a geografie sociali più trasversali e ibride. Questa ipotesi offre un’occasione per ripensare teorie e metodi mainstream in una prospettiva critica rinnovata. Parole chiave Post-metropoli, disuguaglianze, differenze
Premessa Il paper offre una preliminare esplorazione del tema delle disuguaglianze/differenze nello spazio postmetropolitano, aderendo criticamente all’ipotesi – sviluppata nell’ultimo decennio dagli studi geografici e sociologici sulla metropoli europea e nordamericana (Fincher and Jacobs, 1998; Soja, 2000) – che la spazialità di questi processi sociali si dispieghi in forme frammentate e fluide, riferibili a fenomeni di vario tenore strutturale, dalla globalizzazione dei processi economici alla ri-articolazione dei flussi migratori, che si intrecciano in parallelo a fenomeni e pratiche di portata locale. Questa spazialità non corrisponderebbe, come suggeriscono invece le visioni ancorate alla tradizione di studi sulla metropoli occidentale nel Novecento, a forme riconoscibili di polarizzazione, riflesso di una marcata disparità tra una underclass urbana – crescentemente caratterizzata su base etnica – e gruppi sociali affluenti, nonché di una classe media in rapida scomparsa (Jencks and Peterson, 1991). Si manifesterebbe piuttosto sotto forma di configurazioni ibride, nelle quali non solo si riconoscono i pattern della segregazione socio-spaziale indagati sin dai tempi di Louis Wirth, ma si riscontrano pure le forme inedite di una differenza che ‘si fà spazio’, che rivendica un diritto alla città attraverso pratiche e configurazioni nuove, prodotte da crescenti fenomeni di mescolanza etnico-religiosa, di genere, di appartenenza politica. Su questo terreno si misurano, con esiti ancora molto incerti, politiche e programmi di governo metropolitano che ambiscono a indirizzare le questioni della disparità e della differenza verso obiettivi di riequilibrio insediativo e di maggiore accessibilità a risorse, beni e servizi (Buser, 2012). Ed è qui che la post-metropoli italiana, pensata come un’ipotesi di ricerca più che come un dato di fatto, può contribuire a un avanzamento singificativo, nel tentativo di mettere a fuoco geografie sociali che si dislocano nello spazio post-metropolitano in maniera più trasversale e spuria che nei casi indagati dalla letteratura internazionale. Un contributo può venire, in particolare, dalla prospettiva delle grandi città meridionali, nelle quali la specificità dei processi in corso, come quello delle più recenti ondate migratorie, o la tenuta di reti informali in linea con la tradizione di questi luoghi, rendono l’ipotesi di una geografia delle differenze un percorso interessante da indagare.
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Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca
Il tema delle disuguaglianze sociali ed economiche nella città è, come noto, di lunga tradizione e viene tutt’oggi indagato sulla base di categorie stabilizzate nei dati censuari, come il reddito, l’etnia, il genere, l’età, l’occupazione. Senza confutarne la validità, studi più recenti hanno messo in evidenza come aprire al tema delle differenze consenta di sviluppare visioni più in sintonia con la complessità del fenomeno post-metropolitano. Laddove le disuguaglianze pongono l’accento sulle forme di disparità economica e di accesso a beni e servizi, le differenze danno invece luogo a letture più orientate da fattori di ordine culturale (etnico, religioso, di genere, etc..), che a loro volta richiamano con particolare evidenza la dimensione politica delle geografie sociali emergenti nella post-metropoli. La letteratura offre, come è noto, diverse interpretazioni del fenomeno della polarizzazione come forma costitutiva della geografia metropolitana, dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione (Castells, 1989), alla transizione verso un’economia post-industriale basata su tecnologie, finanza e real estate (Sassen, 1991), alla persistenza del meccanismo della distruzione creatrice come motore del capitalismo (Harvey, 1985, 2004, 2008). In parallelo, diversi studi empirici (ad esempio Allen and Turner, 1997; Kofman, 1998) che adottano categorie e indicatori più complessi e sperimentali per misurare e comprendere la ri-articolazione del mosaico sociale nello spazio della post-metropoli, mettono l’accento su fenomeni come la diffusione di nuovi pattern di ibridazione sociale, la riorganizzazione dei mercati del lavoro e del quadro delle competenze, le geografie multi-culturali delle aree cosmopolite emergenti. Dal confronto tra teorie e indagini empiriche stanno emergendo interpretazioni più sfrangiate e dinamiche dei modi con cui le società si riorganizzano nello spazio metropolitano, ed è su questo fronte che si aprono le piste più promettenti per innovare un ‘vecchio’ tema di ricerca alla luce di fenomeni in buona parte inediti, sia per le scale di riferimento che attraversano, che per l’elevato grado di interconnessione tra attori, politiche e configurazioni socio-spaziali. Il paper si colloca in un progetto di ricerca nazionale sulla condizione post-metropolitana in Italia1. In questa cornice, l’obiettivo è offrire spunti teorici e tematici per un’agenda di ricerca dalla particolare prospettiva delle grandi aree urbane meridionali, che si offrono come contro-caso utile a rileggere criticamente ipotesi teoriche influenti, modulate su contesti affatto diversi e, per loro ruolo e posizione nei circuiti economici e geo-politici globali, dominanti.
Polarità, disuguaglianze e differenze: la narrazione della metropoli frattale Una delle tesi emergenti sul fenomeno della post-metropoli è che si tratti di formazioni socio-spaziali caratterizzate da un inedito quanto elevato grado di frammentazione sociale ed economica (Soja, 2000), frutto dell’azione combinata di almeno tre grandi processi, già richiamati in precedenza: la globalizzazione economica e l’intensificarsi dei flussi migratori, la persistenza amplificata del meccanismo della distruzione creatrice del capitalismo, l’espansione permanente di una under-class urbana di nuovi poveri. Secondo questa tesi, il fenomeno della polarizzazione sociale nello spazio, che ha notoriamente segnato la formazione della città moderna industriale, è diventato sensibilmente polimorfo, caratterizzato da una geometria sociale più fratturata e ineguale rispetto alle forme di concentrazione e segregazione spaziale osservate nella città fordista. In questo senso, già a partire dai contesti metropolitani che, negli ultimi vent’anni, hanno costituito il principale punto di osservazione sulla post-metropoli nel grande Nord – Los Angeles, in particolare, per quanto riguarda le ricerche della LA School – si sono messe in discussione alcune categorie interpretative che in passato avevano guidato le ricerche sulla polarizzazione urbana (come nel caso della dual city di cui parlano Mollenkopf e Castells, 1991), mettendo l’accento sulla inadeguatezza delle categorie classiche con cui, sin dalla scuola di Chicago, si sono lette le geografie della concentrazione/segregazione e le diverse forme di divide socio-spaziale (classe, razza, reddito, occupazione, competenze, etnia). La correlazione tra polarizzazione, segregazione e povertà è, notoriamente, una struttura portante del discorso sulla metropoli contemporanea: alla prova di numerose ricerche empiriche condotte nelle metropoli occidentali, in particolare quelle americane, questa struttura si conferma alla luce di un divario sempre più ampio tra gruppi agiati e under-class urbane, e di una progressiva contrazione della classe media, soggetta, per effetto dei processi di ristrutturazione dei mercati del lavoro, a un diffuso fenomeno di redistribuzione geografica (la fuga dai centri urbani, la suburbanizzazione, le edge cities). La struttura polarizzazione-segregazione-povertà è, possiamo dire, portatrice di un discorso mainstream fondamentalmente basato sul tema del divario tra forme di ricchezza concentrata e forme di povertà diffusa, e sugli effetti combinati che questo divario determina sulle società urbane. Il tema della povertà e delle disuguaglianze è, in questo contesto discorsivo, un tema centrale, che eredita una lunga tradizione di studi e di esperienze di pianificazione urbana che, con aspirazioni riformiste (tanto nella versione statale-keynesiana di matrice europea, che in quella del capitalismo filantropico degli ‘inizi’ del city 1
PRIN Territori post-metropolitani come forme emergenti dello spazio urbano: problemi di sostenibilità, di abitabilità e di governo – coord. nazionale A. Balducci (Politecnico di Milano); coord. unità locale di Napoli G. Laino (Università “Federico II”).
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Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca
planning negli Stati Uniti), hanno costituito un patrimonio di grande rilevanza per lo sviluppo della città moderna, nei termini non solo di soluzioni concrete ai problemi dell’abitare, ma anche di una cultura politica attorno al tema dei diritti urbani. Su quest’ultimo tema, la tesi corrente che non basti più riferirsi alle forme di disuguaglianza di classe, ma che sia invece necessario soffermarsi anche sulle differenze culturali mobilizzate, in società sempre più miste e cosmopolite, dai processi di globalizzazione, apre a una ‘costruzione del soggetto’ che, a differenza del soggetto segregato (tipicamente il povero da dotare dei mezzi necessari al suo riscatto sociale, nella scia della scuola di Chicago), mostra un potenziale politico di più ampio momento e prospettive. La posta in gioco non è solo una politica di lotta ai fenomeni più vistosi e drammatici di ineguaglianza e segregazione urbana individuati grazie alle categorie di classe, genere, etnia, etc.., ma la rivendicazione di un diritto alla differenza che fa dello spazio il terreno privilegiato delle lotte e delle innovazioni politiche. In questo senso, alcuni studiosi tendono a individuare il passaggio cruciale da una stagione oramai tramontata di politiche keynesiane in cui lo stato, attraverso i sistemi di welfare, si fa carico delle principali forme di disuguaglianza e ingiustizia, di sfruttamento economico e dominio culturale che caratterizzano la città fordista, a una fase in cui «i movimenti urbani del passato stanno diventando sempre più esplicitamente movimenti spaziali, che rispondono direttamente agli effetti geograficamente squilibrati della globalizzazione, del processo di ristrutturazione economica post-fordista e della riconfigurazione della forma urbana» (Soja, 2000:282). In questo passaggio è in gioco un’aspirazione politica: il riconoscimento di una città delle differenze, accanto a una delle disuguaglianze, è il tentativo di mobilitare soggetti, pratiche e saperi nella prospettiva di una rivendicazione diffusa e attiva del diritto alla città. È il tentativo, in altre parole, di riconoscere e attivare, nella complessa spazialità della post-metropoli, quella dimensione frattale che Ed Soja enfatizza non solo come tratto caratteristico di Los Angeles ma, più in generale, come forma costituente della post-metropoli contemporanea. La figura del frattale suggerisce l’idea di un continuum tra la scala dei contesti locali a quella della metropoli: lungo questa traiettoria, si manifesta «dal corpo alla sfera globale, la natura fondamentale della spazialità umana in tutta la sua ricchezza e complessità» (p.283). Il caos e la complessità del fenomeno post-metropolitano, suggeriti dalla visione di enormi aggregazioni geografiche di diversa forma, diventerebbero, in questa prospettiva, più ‘gestibili’ tanto allo sguardo dello studioso che del policy-maker. Ed è in questo passaggio che la riconfigurazione del mosaico sociale ed etnico della post-metropoli, indicato come uno dei processi caratteristici del post-metropolitano, diventa fenomeno leggibile, esperienza, e soprattutto spazio dei potenziali e della politica.
Venire a patti con una tesi influente, e oltrepassarla Dai brevi rimandi alla letteratura mainstream sul tema della polarizzazione, delle disuguaglianze e delle differenze, emerge sostanzialmente una questione che mi pare utile discutere nel tentativo di far luce sulla formazione di fenomeni di natura post-metropolitana anche in Italia, in un contesto decisamente diverso e difficilmente allineato (nei dati, nelle forme, nell’agenda politica, nei discorsi accademici) al discorso introdotto dalla scuola di LA e dalla letteratura anglo-americana in generale. La questione, provando a schematizzare, è la seguente: la post-metropoli è un fenomeno che eccede la visione moderna – abbracciata dalle istituzioni e implementata dal welfare state nella fase fordista – di uno spazio polarizzato segnato da fenomeni di distribuzione (gravemente) ineguale di ricchezza e diritti; con l’avanzare della globalizzazione e dei processi di ristrutturazione economica e occupazionale, la sua spazialità si è profondamente alterata alla luce di una visione sempre meno focalizzata sulle forme di disuguaglianza (il divide tra upper e under-class) e sempre più attenta alle differenze culturali, introdotte dalle grandi migrazioni e dalla profonda riorganizzazione dei mercati del lavoro e delle società urbane. Quest’ultima questione apre, come abbiamo visto, a una prospettiva che non è solo analitica ma anche, inerentemente, politica: la fine del welfare lascia il posto a movimenti ‘spaziali’ di rivendicazione dei diritti, oltre che di lotta alle forme più severe di segregazione e discriminazione sociospaziale. Rispetto a questa tesi, mi sembra opportuno evidenziare almeno due questioni di fondo che, nel contesto di ricerca in cui si colloca la presente riflessione, risultano particolarmente fertili e nello stesso tempo difficoltose: la prima – che definirei capacità teorica di un territorio – è che il ‘laboratorio’ di questa tesi sono, in prevalenza, le metropoli degli Stati Uniti e, solo in parte, dell’Europa continentale; la seconda – che definirei politica di nominazione – è che il corpo di questa tesi si è formato grazie all’impiego di una serie di indicatori, praticati negli studi empirici che l’hanno fondata e dimostrata, che hanno dato luogo a rappresentazioni del fenomeno post-metropolitano che a loro volta, e in diverso modo, partecipano della produzione di politiche territoriali. Rispetto alla prima questione, lo spazio di ricerca che si apre, nella prospettiva polarizzazione-disuguaglianzedifferenze, è dedicato al riconoscimento – nelle formazioni territoriali che nel nostro paese (e nel nostro sud) provvisoriamente definiamo post-metropolitane – di una capacità teorica che, analogamente e da una prospettiva geo-politica affatto diversa, gli studiosi delle metropoli occidentali, come quelli delle megalopoli del Sud globale (si veda l’ipotesi worlding cities di Ong e Roy, 2011) stanno avanzando nel dibattito su questi temi. Laura Lieto
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Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca
La ricerca nazionale cui questo paper vuole offrire un contributo potrebbe a ragion veduta – assumendo cioè il territorio di riferimento come portatore di una capacità teorica – comprovare la presenza di fenomeni e processi la cui entità e le cui relazioni non corrispondono (o quanto meno fortemente dialettizzano) alla struttura interpretativa offerta dalla letteratura mainstream. In questo senso, il paper offre alcune considerazioni preliminari sul tema polarizzazione-disuguaglianze-differenze per come esso sembra delinearsi alla luce dei fenomeni di urbanizzazione in corso nell’area metropolitana di Napoli in questi ultimi anni. Ponendo attenzione alle peculiarità con cui si manifesta – dunque utilizzando teorizzazioni come quella di Ed Soja come contro-caso di riferimento. Rispetto alla seconda questione, il problema è la costruzione di indicatori e categorie utili a indagare il mosaico sociale che caratterizza la spazialità della metropoli contemporanea alla luce dei concetti di polarizzazione, disuguaglianza e differenza. Nella prospettiva specifica della pianificazione e, prima ancora, del governo del territorio, i campi di politiche che possono utilmente intervenire a mitigare le forme più severe di polarizzazione e a sostenere la rivendicazione di principi e diritti come la differenza e la coesione, sono molto diversi, pertengono a soggetti e livelli di intervento distinti, spesso si trovano in posizioni reciprocamente problematiche. In genere, nei documenti di indirizzo come nelle politiche, tende a prevalere un approccio settoriale, laddove, come qui si vuole sostenere, è più utile lavorare entro un quadro concettuale integrato e allargato. L’intreccio delle tre categorie indica, tentativamente, una strada percorribile in questo senso.
Prima questione: riconoscere la capacità teorica del territorio Non ambisco a inquadrare la questione partendo da una ricostruzione, pur necessaria, di studi e ricerche sul tema metropolitano in Italia e nel Sud. Per ragioni di sintesi, provo a tracciarne alcune coordinate a partire dall’esame di una serie di documenti ufficiali recenti – dall’ultimo censimento Istat ai rapporti prodotti da una serie di agenzie governative o non-profit che si occupano del tema della povertà e della marginalità. È un modo sicuramente angolato e parziale, ma tentativamente efficace, per mettere sul tavolo una serie di questioni pertinenti rispetto all’ipotesi in discussione. L’impoverimento, in Italia e nel Mezzogiorno in particolare, appare come una condizione trasversale, più che un fenomeno con apici di concentrazione consistenti. Il Mezzogiorno è l’area del paese maggiormente colpita da questo fenomeno, con stime che sottolineano chiaramente l’aumento dello storico divario nord sud, specie se proiettato sul quadro generale di sviluppo e competitività delle regioni europee (Censis, 2013). Almeno tre campi di osservazione delle dinamiche socio-economiche suggeriscono questa considerazione: la debolezza della struttura dei sistemi locali di sviluppo (Burroni e Trigilia, 2008), solo in parte contrastata dalla presenza di sistemi locali di piccola impresa con un certo dinamismo (nei quali, per altro, risultano rilevanti le relazioni informali), ma sostanzialmente caratterizzata da poche realtà realmente competitive; l’innalzamento dell’indice di invecchiamento della popolazione, direttamente correlato alle stime crescenti di popolazione in età medio-giovane che si sposta in altre regioni italiane e alla crisi del sistema del welfare, specie nel settore dei servizi pubblici (vedi Istat, censimenti 2001-2011); l’incremento delle forme di povertà relativa, che colpisce in particolare le famiglie con figli e che è influenzato dalle nuove forme di povertà legate alla presenza dei migranti (Caritas, 2012). Una domanda cui la ricerca deve tentare di offrire risposte è come questo processo di impoverimento trasversale si dispieghi nello spazio, non dando per scontato che le condizioni di arretratezza e povertà si traducano immediatamente in forme di segregazione spaziale riconoscibili secondo le forme indicate in letteratura sulle metropoli globali. Rispetto alle forme insediative ‘tipiche’ della polarizzazione/segregazione osservate in queste metropoli (enclave, ghetti, gated communities, corone suburbane), nell’area metropolitana napoletana non compaiono, a prima vista, forme analoghe di organizzazione socio-spaziale. O quanto meno, rispetto alla rapidità e alla consistenza con cui queste configurazioni si sono diffuse negli ultimi anni nelle grandi regioni metropolitane globalizzate, nel nostro territorio sembrano prevalere, tutto sommato, configurazioni insediative assimilabili più all’esito di processi di medio-lungo termine con una forte componente endogena, che a veri e propri fenomeni di discontinuità, leggibili nella loro consistenza anche su vasta scala. Tra le ragioni a sostegno di questa ipotesi, è la persistenza, nel sud, di forme tradizionali di coesione sociale ed economica, come la famiglia ma anche, in alcuni casi soprattutto, la pervasività di legami ed economie di natura informale (Burroni e Trigilia, 2008). E anche, non ultima, la tendenza diffusa al riuso a fini abitativi del patrimonio residenziale, anche quello più degradato. Tale tendenza viene riscontrata, per contro, a fronte della disparità tra nuova domanda abitativa e iniziative pubbliche o di housing sociale, stimolate, recentemente, dal Piano Casa. La previsione di uno stock di circa 7000 alloggi di housing sociale, promossa dalla Regione Campania e tra le più alte registrate in ambito italiano, sembra confermare, in negativo, la tendenza diffusa a sfruttare il patrimonio esistente, in alcuni casi anche oltre il limite delle sue condizioni di vivibilità (come nei casi degli insediamenti di immigrati in alcune aree della regione, in particolare il litorale domizio).
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Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca
L’idea, da verificare, è che la spazialità delle disuguaglianze/differenze, nella nostra area metropolitana, non sia tanto un fenomeno polarizzato e segnato dalle forme tipiche della segregazione spaziale, quanto pulviscolare e diffuso, intramato in strutture insediative e sociali tradizionalmente miste e resilienti, che tendono a riprodursi con una certa adattabilità ai fenomeni esogeni (come la povertà legata all’immigrazione, le relazioni inter-etniche etc..). Certo non mancano le aree segregate e ad alta concentrazione di povertà, come accennato in precedenza: parti del territorio casertano, la zona di Castelvolturno, la piana del Sele e alcuni quartieri della periferia di Napoli, diventati negli ultimi anni insediamenti di migranti. Ma, d’altro canto, non sono diffuse – se non in casi sporadici o nella variante ibridata dei parchi residenziali storici dell’area napoletana – le forme tipiche di autosegregazione del ceto medio con tendenze suburbane. La ricchezza, cioè, non tende a concentrarsi nelle forme tipiche delle gated communities o degli insediamenti suburbani a bassa densità. Piuttosto frequenti risultano, invece, le forme di riuso del patrimonio abitativo, specie di quello storico, con una tendenza molto forte alla mixitè sociale ed interetnica. Un esempio, tra i molti possibili, è il tessuto storico di comuni dell’hinterland come Palma Campania o S. Giuseppe Vesuviano, parte di un distretto del tessile di un certo rilievo che l’unità locale di ricerca ha cominciato a indagare, dove gran parte della manodopera viene fornita da migranti bengalesi o maghrebini, che trovano alloggio in prevalenza nei centri storici, in forme di contiguità molto miste con i residenti autoctoni. Qui il modello duale non ha attecchito. Non ci sono campi per i lavoratori immigrati (come nei casi, più eclatanti, riscontrati in alcune metropoli globali), tanto meno ghetti. La società risulta spazialmente piuttosto integrata. E non mancano le forme di ibridazione culturale, a partire dalla diffusione degli esercizi commerciali e dei servizi di prima necessità per i lavoratori migranti.
Seconda questione: la nominazione come costruzione politica delle differenze Uno dei temi sollevati dalla discussione in corso in ambito sociologico sulle differenze è la costruzione politica delle identità. Parte centrale, di questo discorso, sono le pratiche di naming messe in gioco da diversi tipi di agency, a partire dalle istituzioni: secondo questa linea critica – che arricchisce il concetto di azione, oltre i limiti imposti tradizionalmente dalla teoria dell’azione razionale – la razionalità non viene semplicemente identificata come una qualità dell’attore (Pizzorno, 2007), ma «dipende dai modi in cui è ‘recepita’, ‘identificata’ o ‘riconosciuta’ da quanti a vario titolo partecipano ad una situazione d’azione – partecipanti che interagiscono, osservatori che debbono spiegarla ad un ‘uditorio’, e l’uditorio stesso» (de Leonardis, 2007:730). L’operazione del nominare – dove con questo termine qui intendiamo, in senso lato, le forme disparate con cui i fenomeni e i gruppi sociali vengono classificati, descritti, misurati, rappresentati nello spazio – risulta in questa chiave molto importante, non solo perché costituisce una pratica di messa in forma, di riconoscimento di entità e fenomeni su cui intervenire, ma anche perché comporta evidentemente dei rischi, dal momento che, in casi estremi, può essere strumento di una identificazione subalterna, di uno stigma o di una volontà di marginalizzazione. Il tema, qui, riguarda come le differenze tra persone sono intrinsecamente create, esternamente imposte e culturalmente rappresentate attraverso un processo politico di formazione delle identità (quello che i teorici del sociale definiscono ‘la costruzione del soggetto’ e che, nella prospettiva della pianificazione, possiamo definire, variamente, una pratica di agenda-setting, di determinazione di priorità, di identificazione di problemi emergenti). Nella città ci sono coalizioni e regimi che si focalizzano esplicitamente sul tema: l’oppressione, la marginalità e l’ineguaglianza sono infatti riprodotte in maniera significativa attraverso i nuovi processi di urbanizzazione e le spazialità ristrutturate dell’urbanismo contemporaneo. Una vastissima letteratura, a partire dai primi studi sulle città globali (Friedmann, 1986; Sassen, 1991), ha ampiamente illustrato gli effetti ineguali della finanziarizzazione del capitalismo, dell’ascesa dei grandi nodi metropolitani di concentrazione dell’economia dei servizi, in termini di un ampliamento massivo di una underclass (in gran parte composta da migranti) che ha rimpiazzato gran parte delle posizioni più basse dei mercati locali del lavoro. I movimenti urbani su base spaziale, che reagiscono agli effetti geograficamente ineguali della globalizzazione, sono una testimonianza concreta della gravità delle disuguaglianze, ma anche del potenziale politico legato al tema delle differenze. E costituiscono, in molti casi, una risposta politica al problema dell’identità imposta, specie ai gruppi cosiddetti marginali o svantaggiati. Questo discorso ha diverse implicazioni per la pianificazione dello spazio abitato, se si considerano le pratiche stesse di produzione di piani e politiche come pratiche di naming, di identificazione di questioni, categorie sociali e soluzioni a problemi percepiti. E risulta particolarmente interessante sul piano della polarizzazionedisuguaglianza-differenza assunto, qui, come prospettiva di riflessione. Su questo punto, mi sembra opportuno fare due diverse considerazioni, utili a dare le coordinate del campo entro cui l’urbanistica come pratica di nominazione delle disuguaglianze/differenze prende forma: una riguarda il rapporto tra urbanistica e governo del territorio, l’altra riguarda la tecnica urbanistica come pratica di produzione di confini.
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Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca
Il rapporto tra urbanistica, politica e mercato si dispiega nell’orizzonte, più vasto, del governo del territorio 2. In questo ambito, l’urbanistica occupa uno spazio, seppur limitato, che tende a uniformarsi al quadro di regole e principi del GdT, operando in maniera tendenzialmente settorializzata. In particolare, rispetto ai problemi sociali come la povertà e la marginalità, l’urbanistica assume storicamente una posizione filtrata da grandi apparati tecnici e da organizzazioni sovra-ordinate che li «denaturalizzano e semplificano» (Cremaschi, 2010) e tende, di conseguenza, a considerare questo tipo di problemi di competenza di altri settori amministrativi (i servizi sociali, di accoglienza). Se, da una parte, il GdT recepisce, in via di principio, indicazioni e indirizzi di politica sovraordinata (come è il caso dei trattati europei, ad esempio), dall’altra il quadro di riferimento risulta estremamente eterogeneo: non sempre l’autorità nazionale recepisce in maniera diretta le dichiarazioni di principio formulate a livello internazionale e, in ultima analisi, il contrasto tra principi e prassi – che si fa spesso più acuto nei contesti locali – è di per sé motivo di una più intensa dialettica politica volta ad aumentare l’efficacia di politiche e programmi. In questo specifico senso, dunque, è interessante rilevare che le pratiche di naming (identificazione/descrizione/trattamento dei problemi sociali) si dislocano in un ambiente molto eterogeneo, segnato dalla concorrenzialità tra livelli istituzionali, ma tanto più decisive, quanto maggiore è il grado di incertezza nella definizione delle categorie di intervento. Ed è chiaro che, in questa prospettiva, l’atteggiamento settoriale dell’urbanistica nei confronti delle disuguaglianze/differenze sociali viene fortemente messo in discussione. In maniera poi non secondaria, occorre osservare che la tecnica urbanistica tende a produrre confini, sebbene l’effetto della tecnica sui modi con cui la società si organizza nello spazio sia tutt’altro che scontato. L’identità non è l’effetto determinato di una data configurazione spaziale, ma è pur vero che, in molti casi, è bounded, ovvero più o meno fortemente legata a una base geografico-spaziale, definita da una molteplicità di fattori – economici, culturali, giuridici (Pratt, 1998). In particolare, con l’affermazione del modello liberista che, dagli anni ’70, ha profondamente modificato la domanda di politiche urbane, anche in urbanistica il principio della competizione ha rimpiazzato, di fatto, quello redistributivo: la questione, sul tema della disuguaglianza, non è più tanto compensare gli squilibri, quanto potenziare la competitività dei gruppi sociali svantaggiati (Cremaschi, 2010). Alla luce di queste considerazioni, è utile costruire un’agenda di ricerca che indaghi una serie di campi di produzione di politiche urbanistiche allo scopo di mettere a fuoco, con progressiva capacità critica, i diversi modi con cui queste nominano, ovvero riconoscono e di conseguenza intervengono, ambiti problematici, gruppi sociali a rischio, conflitti, domande e tendenze. Tra questi, sicuramente l’housing (età del patrimonio abitativo, distribuzione dei titoli di proprietà, tipologie residenziali, disagio abitativo e indici di sovraffollamento), le forme di accoglienza abitativa (come nel caso dei campi nomadi), le politiche di rigenerazione urbana e di sviluppo locale, la produzione di nuovi spazi pubblici e di mixitè. La posta in gioco, tutta da verificare, è capire come il fenomeno della disuguaglianza si spazializzi, e soprattutto se – come ho posto in precedenza – non dia necessariamente luogo a una rarefazione delle opportunità di interazione tra diversi (come è tipico delle exclusion zones nelle regioni metropolitane globali), ma a forme di co-abitazione ‘non incommensurabili’, ovvero non del tutto prive di metriche e di alfabeti volti al riconoscimento reciproco. A fronte di questa ipotesi – da valutare e mettere al lavoro sulla base di ricostruzioni empiricamente robuste – l’esame dei diversi modi con cui politiche, piani e programmi affrontano la questione delle disuguaglianze/differenze può aprire a una prospettiva di lavoro non banale e di pertinenza del nostro campo disciplinare, su temi cui frequentemente l’urbanistica tende ad avere un atteggiamento subalterno o derivato rispetto a formulazioni elaborate in altri campi disciplinari.
Conclusioni Il tema delle disuguaglienze/differenze si propone, nell’agenda internazionale delle ricerche sulle metropoli contemporanee, come uno dei fronti di maggiore innovazione teorica, sostenuto da un numero crescente di studi empirici che rimettono in questione categorie e visioni di lungo corso, debitrici delle ricerche pionieristiche della Scuola di Chicago. Ad un’ecologia della povertà e della marginalità fondata su configurazioni più o meno stabili e riconoscibili, tende a sostituirsi – come sollecita la narrazione della metropoli frattale proposta da Ed Soja – una geografia irregolare e composita dei modi con cui le società tendono a distribuirsi nello spazio sulla base di differenze non solo di classe e di reddito, ma anche di natura culturale, religiosa, di genere. La trama complessa di queste geografie sollecita, come abbiamo visto, una visione del problema delle ineguaglianze che non è solo legata a questioni meramente distributive, ma anche a forme inedite di appropriazione e sovrapposizione di spazi vitali generate da una crescente domanda politica di uno ‘spazio delle differenze’. 2
Quest’ultimo, facendo riferimento alla riforma costituzionale del 2001, comprende le attività delle regioni, nell’ambito delle loro competenze, volte a promuovere lo sviluppo sociale, economico e civile, attraverso la promozione di usi appropriati delle risorse naturali, paesaggistiche, territoriali e culturali. Il governo del territorio, in questo senso, definisce un campo d’azione in cui intervengono principi e priorità nazionali o sovra-nazionali, così come norme e principi di pertinenza locale; interagisce quindi fortemente tanto con la dimensione politica che con le forze di mercato.
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Disuguaglianze e differenze nello spazio della post-metropoli: temi per un’agenda di ricerca
Questa posizione, emergente in un campo di studi che ha prevalentemente indagato le metropoli occidentali del capitalismo avanzato, si offre come fronte di ricerca cui le specificità di territori diversi, a partire dal caso italiano che è sotto osservazione nell’ambito del PRIN qui richiamato, possono utilmente offrire un contributo in termini di un ampliamento critico delle ipotesi messe al lavoro. Il paper guarda al superamento di una visione polarizzata delle forme spaziali prodotte da una società ineguale, per avanzare una ipotesi di ricerca che, a partire dalle forme della post-metropoli osservabili nel contesto del Mezzogiorno, si focalizzi sulle configurazioni ibride che le società insediate producono nello spazio, nella prospettiva che le differenze, oltre che le forme di disuguaglianza, diano corpo a forme di mobilitazione sociale, producano forme di astrazione politica e le rendano applicabili ai contesti locali. In questo senso la produzione di forme osservabili di abitabilità nello spazio della post-metropoli può essere riguardata come ‘un’arena di produzione culturale’ (Tsing Lowenhaupt, 2005:51) che sollecita un ripensamento delle politiche di lotta alla marginalità e all’esclusione in almeno due direzioni: quella del riconoscimento della capacità teorica del territorio, e quella della costruzione politica delle differenze. La discussione è animata da una tensione di fondo, che riconosce al caso italiano, e al Mezzogiorno in particolare, un potenziale significativo nei termini di una diversa geografia delle ricerche sulla post-metropoli, meno ‘polarizzata’ tra i due estremi che dominano il discorso mainstream – la metropoli occidentale, di cui Los Angeles rappresenta per molti versi il caso emblematico, e la megalopoli del Sud globale, pensata come alternativa critica radicale alle forme più vistose di accesso ineguale a risorse e diritti. La post-metropoli italiana delle disuguaglianze e delle differenze si offre qui come ipotesi di ricerca capace di oltrepassare, innovandole, categorie di osservazione dei processi e delle forme costituenti della metropoli contemporanea in una prospettiva che si avvantaggia della posizione periferica del nostro territorio rispetto ai discorsi dominanti il panorama accademico e politico internazionale, assumedola come sguardo decentrato, ‘poco ortodosso’ e quindi fertile sulle forme emergenti della città agli inizi degli anni 2000.
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Forme di territori post-metropolitani siciliani: un contesto “al margine”
Forme di territori post-metropolitani siciliani: un contesto “al margine” Francesco Lo Piccolo Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: francesco.lopiccolo@unipa.it Tel: 091 23865442 Filippo Schilleci Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: filippo.schilleci@unipa.it Tel: 091 23865440 Marco Picone Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: marco.picone@unipa.it Tel: 091 23865441
Abstract Il paper tratta gli argomenti affrontati dall’unità di ricerca di Palermo all’interno del progetto PRIN 2010. La ricerca, centrata sui temi dell’abitare nei territori post-metropolitani, intende individuare modalità di risposta e strumenti utili in termini di inclusione, benessere, sicurezza e garanzia di diritti di cittadinanza attraverso l’aggiornamento di strumenti e politiche utili ad affrontare le nuove modalità e geografie dell’abitare. Si tratta di un obiettivo prioritario tanto della strategia Europa 2020 (European Commission, 2010) quanto del programma Horizon 2020; entrambi individuano nella costruzione di una 'società inclusiva, innovativa e sicura' una delle sfide che l’Europa dovrà affrontare nel prossimo decennio. Alla luce di ciò, in riferimento al contesto regionale siciliano, la ricerca propone lo studio di due aree che, per le loro storie, sono testimoni di modelli diversi ma altrettanto rappresentativi negli sviluppi post-metropolitani regionali: la regione palermitana e quella sud-orientale. Parole chiave Città post-metropolitane, città inclusive, abitare aree periferiche
1 | Post-metropoli marginali A partire dall’analisi e interpretazione delle trasformazioni urbane e territoriali, particolare rilievo assume lo studio delle differenti forme territoriali post-metropolitane in un contesto 'marginale', quale è la Sicilia, caratterizzato dall’assenza storica di una fase metropolitana vera e propria, sia per quel che riguarda l’assetto fisico - ma anche demografico, sociale, funzionale - sia per quel che riguarda i modelli di sviluppo e i processi economici del secondo Novecento. Nello specifico, rivestono particolare interesse le questioni sollevate dai processi di cambiamento in atto in termini di abitabilità - nella molteplicità delle sue declinazioni/interpretazioni - per affrontare le sfide poste alla pianificazione dalle trasformazioni post-metropolitane emergenti. In particolare, l’analisi si concentra su due aree: il Palermitano e la Sicilia di sud-est. Infatti, i territori del Palermitano e del sud-est siciliano hanno attraversato notevoli fasi di cambiamento fisico, sociale ed economico, mostrando una transizione, per molti aspetti inedita, verso forme post-metropolitane. Si
Francesco Lo Piccolo, Filippo Schilleci, Marco Picone
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Forme di territori post-metropolitani siciliani: un contesto “al margine”
tratta di aree per molti aspetti paradigmatiche in grado di restituire le diverse nature del 'post' sotto tre profili, elencati di seguito. - Spaziale: da un lato l’area di Palermo con il suo sviluppo incontrollato legato alla presenza di una città capoluogo, dall’altro le 'cento città' del sud-est dell’isola che interpretano l’evoluzione di una struttura policentrica dell’organizzazione insediativa. - Economico: il Palermitano con un’economia legata prevalentemente al terziario ed una ridotta capacità industriale e agricola versus l’area sud-orientale contrassegnata da un sistema economico apparentemente dinamico e innovativo in grado di valorizzare le proprie risorse territoriali. - Demografico e sociale: ad esempio, in relazione alla presenza di immigrati, si registra nel Palermitano una concentrazione della popolazione straniera nel capoluogo a fronte di una distribuzione di immigrati nelle aree rurali della Sicilia sud-orientale. Il 'confronto', e quindi la proposta di lavorare in parallelo sui due contesti territoriali, nasce da una ipotesi di lavoro che affronta criticamente la declinazione locale (regionale) del modello metropolitano e le differenti realtà 'post' che si riscontrano, al fine di rilevare le differenti traiettorie del cambiamento in relazione alla questione più specifica delle nuove domande dell’abitare. Assumere la sfida dell’abitabilità quale prerogativa per la costruzione di territori post-metropolitani inclusivi può consentire un’innovazione nel campo della pratiche urbanistiche, con una riformulazione non solo della nozione di benessere/welfare, ma anche di cittadinanza: in sintesi, nuovi abitanti, nuove domande/modalità di abitare, nuova cittadinanza - a fronte di una pluralità dei 'modi' dell’abitare, incluso quello informale, cui le politiche e gli strumenti disciplinari non riescono a dare risposte.
2 | Possono esistere post-metropoli in Sicilia? Sotto il profilo disciplinare, è da oltre 20 anni che si indagano le relazioni tra le nuove forme della città occidentale e le forme dell’abitare (Sorkin, 1992; Amendola, 1997; Bauman, 2000; Dehaene, De Cauter, 2008), producendo una porzione significativa dei ragionamenti teorici sulla cosiddetta 'post-metropoli'. Il sud Europa, ad eccezione del nord Italia, è considerato come una porzione 'marginale', la 'meno globale' del continente e poco tempo fa c’era chi lo dipingeva come appartenente al 'Terzo Mondo' (King, 1982). Indubbiamente, i territori metropolitani del sud Europa sono particolarmente 'disorganizzati' (Malheiros, 2002) ed il rinnovamento delle pratiche di governo urbano sono state rallentate da reti burocratiche ed inerzia istituzionale (Seixas, Albet, 2010). La Sicilia è considerata al limite di questa 'marginalità' e, per molte ragioni, lo è (Cannarozzo, 2000; Lo Piccolo, 2009; Rossi-Doria, 2003; Rossi-Doria et al., 2005). Studi disciplinari consolidati hanno evidenziato tali tratti distintivi ravvisando «una crescita non necessariamente eccessiva, ma certamente abnorme della città meridionale, con una netta obsolescenza di qualsiasi modello interpretativo della gerarchizzazione dei centri» (Becchi Collidà, 1978, p. 43). Eppure, nuovi processi sono in corso. È recente la transizione della Sicilia dallo stato di terra di emigrazione a quello di terra di immigrazione (Lo Piccolo, 2000). Un’ampia letteratura affronta il tema della difficile conciliazione tra diritti di cittadinanza e pluralità di abitanti (Mitchell, 2003; Sandercock, 2000, 2002; Young, 1990, 2000). La pluralità dell’abitare richiede nuove analisi e risposte che siano in grado di affrontare la questione dell’inclusione insieme a quelle del benessere e della sicurezza, non in opposizione - come avviene (Sandercock, 2000, 2002; Kern, 2010; England, Simon, 2010) - né con progressiva riduzione dello spazio pubblico (Mitchell, 2003; Glasze, Webster, Frantz, 2006). Per gli aspetti sociali, si osservano forti cambiamenti nel sistema organizzativo complessivo e un aumento della 'diversità'. Anche la Sicilia sta sperimentando tardive forme di cosmopolitismo (Guarrasi, 2012). Tra queste rientrano i flussi di migranti ed i processi di internazionalizzazione delle città, soprattutto Palermo (Söderström, Fimiani, Giambalvo, Lucido, 2009). Nel capoluogo regionale vive oltre il 70% degli immigrati della provincia: le ragioni di questa concentrazione sono varie e complesse. Nell’area di sud-est la popolazione straniera è concentrata nelle zone rurali ed è legata alle attività agricole stagionali (Caritas Migrantes, 2007). Tale area è un miscuglio di dinamiche di stabilità e mutamento: da un lato continua a non riuscire a ridurre le differenze socioeconomiche con le regioni dell’Italia centrale e settentrionale (Schilirò, 2012); per altri versi, vi sono segnali di progresso economico - grazie a produzioni agricole di pregio e all'alta qualità territoriale, naturale e antropica (Abbate, 2011; Cannarozzo, 2010), riconosciuta dalla presenza di numerosi siti Unesco - e socio-culturale che alcuni ascrivono alla imprenditorialità (Asso, Trigilia, 2010), altri collegano a una pianificazione urbana e territoriale innovativa (Lingua, 2007). Tuttavia, sia la strumentazione urbanistica regolativa della Sicilia sud-orientale che quella del contesto metropolitano di Palermo risultano obsolete o in rinnovo casuale e parziale (Schilleci, 2005). D’altro canto, negli ultimi vent’anni i territori dell’oriente siciliano hanno espresso forte dinamismo rispetto a pianificazione negoziata, programmazione economica ed altre forme di pianificazione innovativa. Le 'patologie' legate alla
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realtà post-metropolitana sono più avvertibili sul territorio palermitano dove più forte è stata l’urbanizzazione e meno significativo l’avvento di pianificazione negoziata e programmazione economica. I territori oggetto di studio sono comunemente rappresentati, infine, con retoriche molto forti, con origini differenti tra l’ambito di Palermo e i territori della Sicilia sud-est. Esistono retoriche negative (mafialand, la Sicilia dell’abusivismo) e positive (il territorio delle ville, le terre del barocco, il paesaggio dei muretti a secco, i luoghi della tradizione), alimentate dai media in forme particolarmente tenaci e durature. Il loro potere di costruzione di immaginari è tale da travalicare spesso le identità reali e da indurre a manifestazioni fisiche ben definite - come turismo generato da fiction - tali da avere anche conseguenze economiche di rilievo. Alla luce delle suddette considerazioni, i risultati di questa esplorazione contribuiranno alla individuazione delle necessarie innovazioni in termini di planning, di politiche e di governance per il governo dei territori postmetropolitani del Mezzogiorno, anche alla luce delle sfide di Horizon 2020 e Europa 2020
3. Metodologie di analisi Costruire una metodologia di analisi per le post-metropoli è già impresa ardua in sé; se poi va applicata a un territorio che appare tutt’altro che post-metropolitano, come è nel caso della Sicilia, è necessaria ulteriore cautela. Tuttavia, coerentemente con quanto sinora asserito, si ritiene che la Sicilia possa fornire elementi interessanti per ampliare la definizione di 'post-metropolitano' e afferrarne l’essenza reale, al di là di pur necessari ragionamenti soltanto spaziali. Per ottenere dunque dei risultati soddisfacenti, le analisi dovranno seguire i filoni di ricerca sia quantitativi che qualitativi. Le letture demografiche e morfologiche, infatti, saranno affiancate da analisi più mirate alla comprensione in profondità del fenomeno post-metropolitano, lavorando anche sulla sua percezione negli attori sociali. Più in particolare, le fasi di analisi saranno due. Durante la prima fase occorrerà: a) definire, attraverso l’analisi della letteratura, la prospettiva concettuale che guiderà l’indagine empirica sulla base di una interpretazione più specifica delle questioni sollevate da Horizon 2020 in relazione alla pluralità di dimensioni dell’abitare post-metropolitano; b) applicare il framework teorico ai territori oggetto di ricerca (Palermo e il sud-est) attraverso: - l’analisi dei dati quantitativi relativi al numero di abitanti, alla composizione per classi d’età e alle dinamiche migratorie nei centri siciliani interessati; tali dati sono già presenti al 2001, ma andranno aggiornati con i risultati del censimento ISTAT 2011 per comprendere le traiettorie di sviluppo postmetropolitano che caratterizzano i casi di studio in particolare negli ultimi due decenni (1991-2011). - la definizione di una tassonomia per descrivere le modalità di aggregazione o disaggregazione delle nuove forme urbane. I metodi riguarderanno l’analisi delle morfologie dei territori post-metropolitani per comprendere le regole implicite delle nuove città, interpretando prevalentemente le mappe, affiancando alla visione azimutale le tecniche orizzontali derivate dalla visione seriale e mutuando esperienze di ricerca più recenti. La seconda fase dell’attività di ricerca prevedrà invece i seguenti passaggi: a) produrre un approfondimento analitico sulla questione dell’abitare come cartina di tornasole per capire le nuove città e gli elementi di novità che si generano in esse in riferimento all’abitabilità dei territori, mostrando le differenze di insediamento causate dalla massicce modificazioni dei contesti sociali. Successivamente all’analisi della rilevazione statistica, lo studio si concentrerà sul contatto diretto con i diversi attori della 'catena dell’housing'; b) produrre un’analisi sul rapporto tra pianificazione regolativa in obsolescenza e forme innovative di organizzazione territoriale che sono state alla base di un rilancio dello sviluppo locale in Sicilia - almeno in alcune sue parti; esito di questa fase dell’indagine sarà la costruzione di un atlante delle nuove questioni urbane; c) individuare le possibili modalità di risposta e relativi strumenti che diano soluzioni in termini di inclusione, benessere, sicurezza e garanzia di diritti di cittadinanza, attraverso l’aggiornamento di strumenti e politiche necessari per affrontare le nuove modalità dell’abitare indagate. A tal fine si opererà una ricerca-azione empirica sui casi di studio, impegnando le comunità con la seguente triangolazione: rappresentanti formali e informali delle comunità (commercianti, gruppi ambientalisti locali, ecc.); stakeholders non appartenenti alle comunità (es. agenti immobiliari); amministratori (es. sindaci). Utilizzando un sistema di interviste semi-strutturate, saranno contattati politici, associazioni, gruppi di abitanti e operatori immobiliari con lo scopo di capire come funziona il sistema dell’abitare pur senza adeguate politiche urbane e strumenti urbanistici e, soprattutto, un reale e corrispondente progetto sociale. In relazione allo studio degli strumenti di pianificazione e programmazione, la ricerca indagherà le modalità attraverso le quali i territori si sono (ri)organizzati, trovando estensioni e confini inediti, per manifestare e promuovere la loro specifica identità e superando, per ambiti di interesse e di azione, i confini amministrativi tradizionali e le tradizionali - e obsolete - possibilità di azione sul territorio. Saranno selezionati i possibili casi di Francesco Lo Piccolo, Filippo Schilleci, Marco Picone
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Forme di territori post-metropolitani siciliani: un contesto “al margine”
buone pratiche attraverso la lettura e declinazione critica dei recenti indirizzi europei sul ruolo - potenziale - dei territori intermedi e delle città medie e piccole.
4 | Prospettive di lavoro La sovra-urbanizzazione dei territori siciliani è un fenomeno consolidatosi in un lungo arco temporale ed assume caratteristiche differenti in ragione dei contesti, ma esiti analoghi per consumo di suolo, sia che si tratti di espansioni residenziali, del proliferare di seconde case, o di strutture terziarie per commercio o tempo libero. Nel contesto siciliano ciò è evidente più che altrove nel Mezzogiorno, per ragioni che travalicano la disgregazione dell’agricoltura e la crisi dei sistemi produttivi territoriali. Nuove pluralità di abitanti e geografie, infatti, producono rilevanti cambiamenti dell’abitare, incidendo su inclusione sociale, equità e sicurezza. Le nuove domande dell’abitare - incluso quello informale cui le politiche non riescono a dare risposte - implicano non solo una riformulazione della nozione di benessere e welfare, ma di cittadinanza (Lo Piccolo, 2010; Paba, Perrone, 2004), bene comune (Paba, 2003) e ridefinizione delle dinamiche identitarie (Picone, Schilleci, 2012). Diviene dunque necessario indagare i nessi tra fenomeni, strumenti disciplinari, politiche e retoriche, al fine di contribuire all’interpretazione della natura delle forme urbane post-metropolitane nel Mezzogiorno d’Italia. In entrambe le aree analizzate (il Palermitano e la Sicilia di sud-est) si riscontra una crescita dei centri urbani che, da una localizzazione a mezza costa, si duplicano verso mare e montagne: la differenza principale riguarda la dimensione, non solo fisica ma anche storica, economica, sociale, di rango) e le tempistiche di questo fenomeno. Laddove Palermo attraversa sin dagli anni ’70 una fase di sub-urbanizzazione, l’area di sud-est vi giunge più tardi (Picone, 2006). Per quanto concerne l’aspetto fisico e morfologico, una delle questioni più significative è, forse, la perdita di un vero e proprio 'centro', la perdita di una forma finita per la città. In questo contesto è utile parlare di tendenze post-metropolitane: infatti, i territori del Palermitano e del sud-est siciliano stanno attraversando notevoli fasi di cambiamento fisico, sociale ed economico, mostrando una transizione, per molti aspetti inedita, verso forme post-metropolitane. D’altro canto, entrambe le realtà si inseriscono in un contesto territoriale debole sotto il profilo della pianificazione, tanto di livello locale, quanto di livello sovra-locale (Schilleci, 2005). Occorre affrontare questo tema cercando una tassonomia per descrivere le regole di questa nuova e peculiare città e i motivi che generano questa particolare forma di aggregazione o disaggregazione. Per ciò che riguarda il campo delle politiche e della pianificazione riferite alla dimensione applicativa, si intende indagare il rapporto tra una pianificazione regolativa in obsolescenza e le forme innovative di organizzazione territoriale - nate sulla spinta di strumenti di pianificazione non ordinari e di occasioni di programmazione negoziata - che sono state alla base di un rilancio dello sviluppo locale in Sicilia, o almeno in alcune sue parti.
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Forme di territori post-metropolitani siciliani: un contesto “al margine”
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Francesco Lo Piccolo, Filippo Schilleci, Marco Picone
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Interpretazioni della postmetropoli contemporanea in chiave di resilienza
Interpretazioni della postmetropoli napoletana in chiave di resilienza Maria Federica Palestino Università “Federico II” di Napoli DiARC - Dipartimento di Architettura Email: palestin@unina.it
Abstract Considerate come sistemi socio-ecologici complessi, le città mostrano due caratteristiche fondamentali: la prima è che, al pari degli ecosistemi naturali, di cui rappresentano l’articolazione più ‘artificiale’, esse godono della resilienza, ovvero della capacità di assorbire disturbo e riorganizzarsi nel momento in cui intraprendono un cambiamento tale da mantenere ancora essenzialmente la stessa funzione, la stessa struttura e i medesimi feedback, e perciò, la stessa identità (Folke et al., 2010); la seconda è che si nutrono dei comportamenti umani beneficiando delle abilità proprie alle comunità, alle organizzazioni e alle istituzioni, e trasformando capacità adattive, memorie, emozioni e savoir faire in risorse creative. Combattere le crisi ambientali senza aspettare il manifestarsi di eventi scatenanti, ma investendo su come sviluppare anticorpi capaci di reagire ai processi di degenerazione, potrebbe rivelarsi, soprattutto per quel tipo di metabolismi urbani che vivono in una condizione di rischio permanente, un rimedio di qualche efficacia. La metafora del ciclo adattivo verrà rivisitata per smontare e interpretare un processo di rigenerazione in corso alla luce della tesi esposta. Parole chiave: resilienza, sregolazione, sistema socio-ecologico complesso
Sistemi adattivi complessi e condizioni di rischio permanente: Napoli e la Campania Per interpretare la doppia crisi che stiamo vivendo: quella globale di cui l'Italia è co-protagonista, e quella locale che si accompagna allo sviluppo delle direttrici del territorio campano prossime a Napoli, manifestandosi con ciclici collassi ambientali (colera '73, terremoto '80, faide di camorra '04, crisi dei rifiuti '07 -'08), sembra utile raccogliere le metafore interpretative suggerite dagli studi sulla resilienza. L’idea di guardare al territorio campano come a un aggregato di sistemi socio-ecologici complessi dei quali esplorare le capacità di resilienza, nasce dall’osservazione delle condizioni di disagio permanente in cui parte di tale territorio versa, cristallizzando i livelli più alti di malessere nel capoluogo, motore simbolico e cinghia di trasmissione mediatica della crisi. Nell'accezione di ponte fra scienze naturali e sociali formulata dai teorici della sostenibilità e recentemente auspicata dalla planning theory (Davoudi, 2012), la resilienza si offre come occasione per esplorare gli aspetti di innovatività che germinano dalle crisi. Se colti e interpretati, questi aspetti possono mitigare gli stress territoriali e allontanarne i tempi di collasso, rafforzando forme di adattamento e reazione indirizzate al riequilibrio. Per intraprendere questa sfida il paper si propone di sottoporre a rilettura uno dei casi emblematici della crisi partenopea, per valutare se decostruire processi di territorializzazione e de-territorializzazione attraverso la metafora del ciclo adattivo fornisca strumenti efficaci per cominciare a descrivere le dinamiche di dissoluzione e ricomposizione del contemporaneo in una chiave più appropriata. La chiave interpretativa della resilienza consente di esplorare la ‘sregolazione’ (Donolo, 2011) della postmetropoli (Soja, 2000) ‘senza metropoli’ (Laino, 2013) in cui si dipana l'arcipelago napoletano, guardando ai comportamenti territoriali degli attori per le opportunità che tali comportamenti offrono al governo del territorio e al riequilibrio degli ecosistemi urbani squilibrati che lo compongono. Sia che si tratti di comportamenti istituzionali e pianificati, sia che si faccia riferimento alla molla informale di pratiche agite dagli abitanti/utenti, oppure di esperienze e memorie che accompagnano la fruizione e la significazione dell’abitare quotidiano. Uno dei modi per aprire una rotta di navigazione della sede di Napoli, rispetto alla ricerca Prin “Territori postmetropolitani come forme urbane emergenti” sembra essere, pertanto, quello di provare a misurare le aree fragili M. Federica Palestino
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Interpretazioni della postmetropoli contemporanea in chiave di resilienza
disseminate a macchia di leopardo sul territorio campano, tenendo conto della persistenza e della consistenza di culture urbane e di comunità insediate che possono essere riguardate in forma di potenziale su cui investire; non solo nell’ottica di mitigazione dei rischi, ma anche in una prospettiva, più lungimirante, di innovazione delle politiche. Circa il potenziale al quale il caso selezionato farà riferimento, esso nasce da luoghi e da soggetti che stili di governo e indirizzi di pianificazione in uso tendono, in questo momento, a bypassare, opacizzare, manipolare. In un siffatto contesto, la resilienza “naturale” di cui un sistema territoriale è dotato, ovvero la sua adattabilità, intesa come capacità di mantenere un equilibrio in forza delle sinergie innescate puntando sul capitale ecologico, socio-culturale e organizzativo di cui dispone (Walker et al., 2004), può essere rivisitata come l’insieme di risorse inscritto nel patrimonio genetico del sistema stesso. Per mettere al lavoro le potenzialità di questo punto di vista, verrà schizzata una lettura della periferia orientale della città, ove le politiche di rigenerazione annunciate minacciano di aggravare situazioni di rischio ambientale già da tempo in essere.
Interpretazioni territoriali di resilienza Una possibilità offerta all'interpretazione degli ecosistemi fragili e squilibrati che configurano il territorio contemporaneo è contenuta nel superamento delle interpretazioni ingegneristiche e ecologiche della resilienza (Holling, 1973; Holling, 1996), tuttora utilizzate nel governo delle emergenze sollevate dalle problematiche di rischio a breve, medio o lungo termine (Vale & Campanella, 2005). Infatti, guardando alle città come aggregati di realtà complesse, che nascono dall’integrazione fra le dinamiche che regolano la vita degli ecosistemi naturali, e le dinamiche alla base delle organizzazioni e, più in generale, dei sistemi sociali e politici, ci accorgiamo che alcune metafore, tuttora considerate prevalente appannaggio delle scienze della natura, possono essere utilmente assorbite, attraverso le teorie della sostenibilità e della complessità, nella sfera sociale e culturale. Considerate come sistemi socio-ecologici complessi1, le città vivono e si sviluppano in base a due caratteristiche fondamentali: la prima è che, al pari degli ecosistemi naturali, di cui rappresentano l’articolazione più ‘artificiale’ (Winston Spirn, 1986), esse godono della resilienza, ovvero della capacità di assorbire disturbo e di riorganizzarsi nel momento in cui intraprendono un cambiamento tale da mantenere ancora essenzialmente la stessa funzione, la stessa struttura e i medesimi feedback, e perciò, la stessa identità, ovvero: la capacità di cambiare per mantenere la stessa identità (Folke et al., 2010; Walker et al., 2004); la seconda, conseguente alla prima, è che si nutrono dei comportamenti umani e beneficiano della abilità proprie alle comunità, alle organizzazioni e alle istituzioni per trasformare le capacità adattive e i savoir faire in risorse creative. In questa ottica, la visione della crisi come occasione di rinascita –anziché ultimo atto della nostra civiltà– cara ai teorici della resilienza socio-ecologica o evolutiva e, di recente, al cuore della planning theory (Shaw, 2012), può essere estesa anche alla città. In questo senso, tanto il funzionamento strutturale di un micro spazio pubblico, quanto quello di una vasta area di rilevanza paesaggistica, possono essere paragonati al funzionamento di un sistema socioecologico complesso organizzato intorno al perpetuarsi di un ciclo di crescita, accumulazione, ristrutturazione e rinnovo descritto dal termine ‘panarchia’, concetto chiave per comprendere la natura evolutiva dei sistemi adattivi complessi (Gunderson & Holling, 2002). Nate dalla ricerca applicata all’osservazione delle dinamiche ecosistemiche, e via via estese a molteplici campi – dall’economia alla scienza delle organizzazioni (Galderisi et al., 2010) – la metafora del ciclo adattivo e il modello della panarchia si offrono, infatti, anche a letture interdisciplinari del territorio contemporaneo, da rivisitare come aggregato di sistemi socio-ecologi complessi in costante evoluzione. La metafora nasce dalla constatazione che i sistemi naturali – che si tratti di una pozzanghera o dell’Atlantico non ha importanza, dato che non è questione di scala – attraversano, nel corso della propria esistenza, quattro fasi di sviluppo guidate da eventi discontinui e processi ricorsivi. Ci sono periodi di cambiamento graduale (corrispondenti alla fase di crescita r), periodi di crescente stasi e rigidità (corrispondenti alla fase di conservazione k) e, a seguito di una fase di disturbo (Ω) che innesca cambiamento rapido, periodi di ri-organizzazione e rinnovo (corrispondenti alla fase α). Mentre delle fasi di crescita e conservazione il campo della gestione delle risorse si è largamente occupato, le fasi del rilascio e della ri-organizzazione, anche dette ‘distruzione creativa’, sono state solo marginalmente considerate, nonostante siano altrettanto importanti nell’equilibrio della più complessiva dinamica. Tenendo conto del fatto che le instabilità presiedono all’organizzazione dei comportamenti almeno quanto le fasi di stabilità, se ne deduce che il disturbo è parte dello sviluppo, e che periodi di cambiamento graduale e periodi di rapida transizione coesistono e sono complementari l’uno all’altro all’interno di un ciclo vitale. Non è questa la sede per entrare nella complessità delle dinamiche a cui i cicli adattivi sono sottoposti dalla panarchia2. Bisogna però evidenziare che, come suggerisce la particella pan a suffisso del termine, essa va ben oltre la semplice gerarchia, determinando delle interrelazioni complesse fra il collasso che si configura ad una determinata scala
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Una delle prime definizioni di Socio-Ecological System (SES) è la seguente: «Any system composed of a societal (or human) component (subsystem) in interaction with an ecological (or biophysical) component», (Gallopin et al., 1989: 375-397). 2 Per una descrizione approfondita del ciclo adattivo e delle dinamiche complesse del modello panarchico si rimanda a (Gunderson & Holling, 2002), capitoli 2 e 3, pp. 25-102. M. Federica Palestino
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Interpretazioni della postmetropoli contemporanea in chiave di resilienza
dell’ecosistema urbano, e le dinamiche che tale collasso può riverberare sia alla scala dell’area più vasta (remember), che a quella inferiore (revolt), lavorando su un intreccio di cicli adattivi ‘a matrioska’ che si ripropongono ricorsivamente e in maniera transcalare – dal grande al piccolo, e dal veloce al lento, o viceversa – secondo combinazioni spaziali e sequenze temporali non necessariamente ordinate, né del tutto prevedibili. A dispetto della complessità appena accennata, propongo di cominciare a testare l’applicabilità del ciclo adattivo agli ecosistemi urbani fragili, partendo da una lettura volutamente semplificata che, per il momento, si configura come ordinata e sequenziale evitando, per scelta, di considerare le conseguenze innescate dalla panarchia attraverso i processi di revolt e remember in ambiti del territorio diversificati per scala. Si tratta di una semplificazione operativa a cui non sfugge la necessità, successivamente, di introdurre ulteriori layout di lettura, capaci di intercettare e declinare le problematiche del ciclo adattivo sia alla scala inferiore (le sacche più ammalorate dell’area est), che a quella superiore (il territorio alle falde del Vesuvio e il golfo di Napoli). La lente della resilienza evolutiva permette questa utile trasmigrazione, a patto di adoperare particolare attenzione al fatto che, nel trasferirne le acquisizioni dalla sfera delle scienze naturali a quella delle scienze sociali, si tenga conto dell’entrata in gioco di dilemmi di tipo normativo, ai quali è necessario rispondere attraverso giudizi di merito; come pure di dispute legate a variabili di equità/iniquità e a dinamiche di conflitto che la natura delle scienze ecologiche tende, di fatto, a escludere (Davoudi, 2012; Porter & Davoudi, 2012).
La metafora del ciclo adattivo applicata all’area orientale di Napoli Nata come paludosa – vi si macerava il lino e la canapa, e vi si produceva il riso – la vasta area ad orti ove oggi insistono i quartieri di Gianturco, Barra, Ponticelli e San Giovanni ha sviluppato, nei secoli, un’ottima performance agricola, legata alla fertilità del suolo vulcanico alle falde del Vesuvio. Soprattutto a seguito delle parziali bonifiche che si sono susseguite fra XVI e XIX secolo, essa ha preso, man mano, a convivere con la condizione umida, traendone alcuni benefici diretti, e divenendo il bacino di produzione dei prodotti orticoli della città. A partire dalla metà del novecento essa comincia, tuttavia, ad essere sottratta a questa funzione per l’incalzare di una destinazione industriale che finirà per compromettere pesantemente il territorio. Il resto, come vedremo, è storia recente. Declinando questo sintetico profilo cronologico attraverso le fasi del ciclo adattivo, vediamo come, a seguito di una crisi della produzione agricola (Ω) che esula dalle nostre analisi, il novecento si affacci sulla piana est attraverso un lento ma progressivo processo di riorganizzazione industriale (α). Esso convive pacificamente con la destinazione agricola fino all’esplosione della fase di crescita (r), allorquando la domanda incalzante di abitazioni, e la saturazione dell’indotto industriale, portano alla progressiva sottrazione di terre agricole al territorio e, successivamente, all’abbassamento delle falde acquifere, a seguito di emungimenti sempre più frequenti in relazione all’aumento delle produzioni industriali. A cavallo fra gli anni ’70 e ’80, nonostante la crescita della popolazione residente, persiste nell’area una sorta di equilibrio fra popolazioni contadine e operaie. Gli anni ’80, anche a seguito del terremoto che colpisce l’Irpinia, e dell’ulteriore infrastrutturazione e dotazione di abitazioni per i nuovi senza tetto, portano alla fase di massima saturazione dell’area (k). In questi anni l’equilibrio fra natura e urbanizzato si perde a favore della seconda variabile e, anche dal punto di vista della popolazione, aumentano i capofamiglia di classe operaia. Il rilascio avviene di qui a poco, siamo a dicembre 1985, con l’esplosione dei depositi delle raffinerie Agip (Ω) che, anche simbolicamente, segnalano il livello di saturazione e di avvelenamento del territorio. Conseguentemente gli anni ’90 hanno siglato l’innesco di una nuova, lenta fase di ri-organizzazione (α*), avviata intorno alla dismissione progressiva delle aree industriali e alle promesse di rinascita affidate all’insediamento di una nuova sede universitaria, alla delocalizzazione della darsena petroli dal porto, a un’estesa riqualificazione affidata alla nuova programmazione urbanistica (i PRU a Ponticelli, il PRUSST e il PIAU a San Giovanni). E’ seguita una fase di crescita (r*) che ha visto la parziale cantierizzazione di alcune delle politiche annunciate. Ad essa è infine subentrato lo stallo (k*), tuttora in corso. Oggi, a fabbriche chiuse, l’area è tornata lentamente allo stato di palude perché sono venuti a mancare quegli emungimenti delle risorse idriche eccedenti che, nel corso del novecento, avevano alimentato gli usi industriali. Non si è trattato però di un felice ritorno al passato agricolo, cui riadattare le esigenze dell’oggi; quanto, piuttosto, di fare fronte a un’involuzione legata alla totale copertura e infrastrutturazione del suolo ex agricolo impossibilitato, ormai, a ricevere l’acqua in eccesso in forma di beneficio diretto. Ci troviamo, dunque, a fare i conti con un primo paradosso in tema di pianificazione ambientale: in termini puramente astratti il surplus d’acqua, se adeguatamente captato, potrebbe riverberare effetti positivi alla scala del micro-clima urbano ma, poiché il suolo e le falde acquifere hanno assorbito per oltre mezzo secolo inquinanti e olii di difficile smaltimento, il riaffiorare delle acque permette a questi inquinanti di circolare rapidamente, di ritornare in falda o, addirittura, di essere sversati in mare nel centro del golfo di Napoli. Il tutto è aggravato dall’insufficienza delle reti di smaltimento e circolazione, progettate per sostenere un carico inferiore a quello realmente insistente sul territorio della piana. A questo squilibrio del metabolismo ecologico, vanno aggiunti alcuni dati di natura organizzativa, politica e sociale altrettanto importanti per delineare la configurazione attuale della questione ambientale a est.
M. Federica Palestino
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Una delle prime e più simboliche trasformazioni promesse attraverso la variante al piano regolatore generale di Napoli adottata nel 2004 è partita, circa vent’anni fa, e proprio nell’area orientale, dall’interazione fra l’Ufficio di Piano comunale e alcuni estensori di studi che, a seguito dell’industrializzazione del territorio, avevano messo in luce il rimpianto popolare per la perdita della vocazione agricola e, con esso, la volontà di testimoniare la memoria naturale dei luoghi sulle tracce del mitico fiume Sebeto, già divulgato dalla narrativa e dall’iconografia storica come presenza territoriale importante. Si era nel pieno delle speranze dettate dalla ri-organizzazione (α*) in corso, e ci si appoggiava al fiorire di studi che, grazie al contributo di docenti, professionisti, appassionati di cultura materiale e tradizioni contadine provenienti dall’area est, avevano dato vita a un interessante filone pop di ricerca territoriale (Brillante, 2000; Caputo et al., 2000; Caputo et al., 2002). Il dato che interessa valorizzare riguarda il potenziale del sistema analizzato: ovvero la presenza diffusa di capitale culturale capace di stimolare effetti di rinascita simili a quelli generati, in fase di ri-organizzazione, dalla germinazione di vegetazione pioniera su un ecosistema naturale (pensiamo per esempio a un bosco maturo) precedentemente collassato (per esempio a seguito di un incendio). Si tratta, nel nostro parallelo, della presenza di risorse umane che sono state capaci, grazie a un proliferare di studi di diversa natura e caratterizzazione, di tenere in vita la memoria dell’area agricola, diffondendo e radicando culture e tradizioni del passato pre-industriale. Radicamento che ha consentito alla memoria dell’area umida di restare ben viva non solo fra i collezionisti di vedute, guide e descrizioni storiche, ma anche negli strati non professionalizzati della popolazione. Coerentemente con queste premesse culturali, l’interazione fra tecnici del piano e cultori di storia e tradizioni locali ha partorito, a metà degli anni ’90 del secolo scorso, ovvero nel corso della fase (r*), un disegno urbanistico ispirato al ritrovamento del fiume Sebeto che marcava la dichiarata volontà di coniugare trasformazione e, per quel poco che fosse ancora possibile, rinaturalizzazione (Comune di Napoli, 2008). Ciò indica come il mix di memoria, esperienza, conoscenza, capacità di apprendimento, auto-organizzazione in dotazione alla comunità locale costituisse, in quel momento, un importante capitale di adattabilità, da intendersi come «capacità degli attori di influenzare la resilienza del sistema di cui sono parte» (Walker et al., 2004, 5). Capitale sfruttato dai tecnici preposti all’elaborazione del documento di piano che, rivendicando il valore culturale assunto dal passato agricolo nel vissuto delle comunità insediate, ne avevano fatto il punto di forza su cui innestare il processo di trasformazione, orientandolo verso formule di riabilitazione ambientale. Nel caso delle prescrizioni di piano si è trattato, tuttavia, di una retorica che, al di là del riconosciuto significato culturale e simbolico, non è stata politicamente sostenuta attraverso il successivo lavoro strategico di delocalizzazione degli impianti inquinanti e di rilancio di economie alternative, portando allo stallo della fase (k*). Venuta dunque meno la premessa fondamentale all’implementazione di quel disegno, ed essendo rimasti in campo una serie di stakeholder configgenti e un grumo di nodi irrisolti, a oltre dieci anni di distanza dall’elaborazione della variante al Prg per l’area orientale, l’Ufficio di piano ha trovato la forza di aggiungere un altro tassello coerente con la linea preimpostata a livello tecnico, compulsando una società consortile pubblico-privata a commissionare nel 2007 l’elaborazione del primo “Preliminare dei piani urbanistici attuativi” (Pua) per l’ambito delle cosiddette “ex Raffinerie”. Localizzandosi a ridosso della stazione centrale e del Centro Direzionale della città, il preliminare di Pua ha fatto propria la promessa di reintrodurre il Sebeto, riconfigurando un frammento di questo territorio martoriato – corrispondente a oltre quattrocento ettari – a partire dalla reintroduzione dell’acqua come elemento strategico per la riabilitazione dei suoli ex industriali (Gasparrini, 2012). Dopo avere ospitato estesi impianti di raffineria fino alla fine degli anni ‘90, l’area contiene tuttora i depositi petroliferi della Q8, della Esso e dell’Agip. Non c’è spazio per entrare nel merito delle imponenti strategie ambientali, legate alla bonifica di impianti e relative superfici, che stanno dietro alle prescrizioni urbanistiche3 né, tantomeno, per discutere delle politiche redistributive indirizzate allo sviluppo dei quartieri di San Giovanni e Ponticelli. Si tratta, tuttavia, di scelte che patiscono, a tutt’oggi, uno stallo che va a ripercuotersi sull’economia dell’intera città e che ha portato, fra le altre cose, alla recente costituzione di un soggetto imprenditoriale privato multiplo denominato Naplest. Soggetto che, in sinergia con l’attore pubblico, si è dichiarato deciso a spingere sulla riconversione dell’area ex industriale accelerando il processo di rigenerazione (Capua, 2008). Ma quanto la rigenerazione alla quale si riferiscono gli imprenditori terrà conto del processo di riabilitazione ambientale e dell’attenzione alle forme di resilienza sostenute nella fase (α*) dal documento di piano? E in che misura è possibile evitare che queste azioni portino a una fase di ‘distruzione creativa’ che potrebbe determinare un declassamento del ciclo di vita urbano?
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In base alla legge 426/1998, l’ambito ex Raffinerie è stato dichiarato “Sito di Interesse Nazionale” a causa della particolare densità dei fattori di rischio. La perimetrazione del SIN è stata inoltre ratificata da un’ordinanza del sindaco di Napoli il 29 dicembre 1999.
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Interpretazioni della postmetropoli contemporanea in chiave di resilienza
Conclusioni aperte La lettura del ciclo adattivo comporta che non appena i sistemi maturano, la loro resilienza si riduce ed essi diventano ‘un incidente che aspetta di accadere’ (Holling, 1986); mentre, quando i sistemi collassano, ‘una finestra di opportunità’ (Olsson et al., 2006) apre verso configurazioni alternative dei sistemi stessi. Holling usa il simbolo Ω per denotare la fase della distruzione creativa, rapidamente seguita dalla fase α di riorganizzazione e rinnovo. Ω è, perciò, il tempo di più grande incertezza e, tuttavia, anche quello di più alta resilienza. Si tratta dunque di un tempo per l’innovazione e la trasformazione, entro il quale una crisi può trasformarsi in un’opportunità. Una delle conseguenze più rilevanti che la declinazione di una lettura di questo tipo consente è che, guardando in questa ottica alla sregolazione del territorio oggetto di studio, è possibile cogliere nelle fasi di distruzione creativa il motore per aprire nuove finestre di opportunità. La metafora del ciclo adattivo si presta, dunque, a decomporre i processi territoriali ricorrendo a letture interpretative ad hoc: non solo per quanto riguarda le dinamiche di produzione del territorio contemporaneo, ma anche per quelle di disgregazione. Considerare fino in fondo questa ipotesi significa comprendere fino a dove spingere la metafora, valutando se e quanto le componenti attive del ciclo adattivo (specie pioniere, specie dominanti, ecc.) possano essere utilmente trasferite alla lettura di un caso urbano e tradotte nei termini appropriati (innovatori, èlite consolidate, ecc.). Ma ciò che più interessa nella trasposizione di questa teoria è che essa richiede il salto concettuale di pensare alla crisi come foriera di opportunità di ri-organizzazione e di innovazione (Folke, 2006), stimolando inedite descrizioni del territorio campano: sempre in bilico fra rovinose crisi ambientali e improvvise rinascite umane (Palestino, 2012a; Palestino, 2012b). Si è tentato di esemplificare, a partire dalla narrazione di un caso, come le fasi del ciclo adattivo si prestino all’interpretazione dei cicli di vita urbana. Ponendo l’inevitabilità dei cicli come punto fermo, la pianificazione può agire nella direzione dell’accrescimento della resilienza dei sistemi, in modo da ammortizzare il più possibile le crisi quando, inesorabilmente, esse si presenteranno. D’altra parte, combattere una crisi territoriale senza aspettare il manifestarsi di eventi scatenanti, ma investendo sullo sviluppo di anticorpi capaci di mitigare i processi di degenerazione, potrebbe rivelarsi un utile rimedio da sottoporre a verifica. Avvelenata dagli inquinamenti che il passato industriale ha sedimentato nel corso del tempo, la piana orientale è attualmente sottoposta allo stress di un processo rigenerativo che intende eludere il diritto degli abitanti al risarcimento ambientale. Eppure, rivendicare quel risarcimento è un modo per riguadagnare resilienza, allontanando il collasso. Interagire con le comunità nell'atto di affrontare la trasformazione di un territorio significa, allora, inserire il punto di vista degli abitanti entro un’agenda radicale del territorio (Shaw, 2012), investendo sulla possibilità di influenzare la resilienza del sistema di cui sono parte attraverso la diversificazione dei punti di vista. In questo modo l’entrata in gioco delle forme di resistenza attiva può diventare una strategia al servizio delle politiche e delle pratiche.
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Verso un (New) Ecological Regional City Planning. Osservazioni, appunti, riferimenti
Verso un (New) Ecological Regional City Planning Osservazioni, appunti, riferimenti Giancarlo Paba Università di Firenze Dipartimento di architettura Email: gpaba@unifi.it Camilla Perrone Università di Firenze Dipartimento di architettura Email: camilla.perrone@unifi.it
Abstract Vengono affrontati, in questo primo contributo, alcuni nodi teorici (e fenomenologici) delle trasformazioni urbane degli ultimi decenni: l’esplosione delle città, i processi di “urban restructuring”, il significato dei luoghi e dei territori, gli effetti urbani della crisi, nodi problematici che vengono assunti come sfondo del programma di ricerca sulla Toscana settentrionale. Nell’ultimo punto vengono esplorati alcuni assi di lavoro che verranno sviluppati, sia dal punto di vista concettuale che operativo, nel lavoro dell’unità di ricerca fiorentina.
1 | Esplosione e trasformazione delle città, delle regioni urbane, delle (post) metropoli Le forti trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni, gli spostamenti di popolazione a scala regionale, nazionale e internazionale, la modificazione della geografia economica mondiale, gli effetti spaziali della crisi economica, hanno rimesso con forza al centro dell’attenzione il tema della città e della condizione urbana – della nuova “questione urbana”, nella definizione di Bernardo Secchi (2010; 2013). Hanno messo al centro la questione del governo urbano (e regionale) e le modalità di trasformazione e di gestione delle diverse forme di città e di insediamento: le città piccole e medie, le reti di città e le regioni urbane, la grandi città e le metropoli, le megalopoli e i grandi sistemi urbanizzati. La “nuova questione urbana” si impone in primo luogo con la forza dei numeri (ma vedremo più avanti che questo aspetto non è alla fine il più importante). Riassumiano alcuni dati, riprendendoli, senza pretesa di sistematicità, da alcuni recenti resoconti (Storper et al. 2012; Kourtit et al. 2013; Burdett R., Sudjic D. 2011). Nel 1950 viveva nelle città il 28.8 circa della popolazione del pianeta; dal 1950 al 2010 il tasso annuo di crescita della popolazione urbana è stato dello 0.36 per cento, e nel 2009 la quota della popolazione urbana ha superato il 50 per cento della popolazione totale. Nel futuro il tasso di crescita del processo di urbanizzazione sarà dello 0.46 per cento e nel 2050 la quota della popolazione urbana arriverà al 68.7 per cento (Storper et al. 2012, p. 3). La distribuzione della popolazione nel pianeta è profondamente cambiata negli ultimi anni e cambierà ancora fortemente nei decenni futuri. Il peso della popolazione europea è sceso dal 27.4 per cento del 1900 al 10.7 per cento attuale e sarà meno del 7 per cento nel 2075. Sono cresciute fortemente e continueranno a crescere ancora a ritmi sostenuti le città asiatiche (tranne nell’Asia occidentale e nel Giappone) ed esploderà il processo di urbanizzazione nel continente africano (Storper et al. 2012, p. 2). Continueranno a crescere le grandi città: le metropoli con oltre 10 milioni di abitanti erano 5 nel 1975, saranno 26 nel 2015 e aumenteranno in futuro, soprattutto in Asia e in Africa – Dehli, Dhaka, Karachi, Mumbai, Kinshasa, Lagos avranno i tassi di crescita più elevati da qui al 2025, ma cresceranno fortemente anche Khartoum, Nairobi, Dar el Salaam, Luanda, Kabul, Calcutta, Shanghai, Manila (Burdett R., Sudjic D., pp. 36-37). Aumenta la concentrazione dello sviluppo e dell’inquinamento: le città producono infatti insieme ricchezza (il 20% del prodottò lordo mondiale è già oggi generato dalle 10 città più importanti), nuova povertà (il 33% della popolazione urbana abita negli slums),
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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dissipazione di risorse (le città occupano l’1 per cento della superficie terrestre, ma assorbono il 75 per cento dell’energia e producono l’80 per cento dei gas serra; Kourtit et al. 2013, p. 288; Burdett, Sudjic 2011, p. 13). L’importanza della città si dispiega (almeno) su tre fronti, tra loro intrecciati: la (persistenza della) città come fonte di ricchezza, innovazione tecnologica e scientifica, creatività culturale, sviluppo civile; la città come luogo (e/o strumento) di ineguaglianze economiche e spaziali, di polarizzazione sociale e culturale, di emarginazione ed esclusione, di inquinamento e dissipazione delle risorse naturali; la città come arena politica, come teatro della dialettica sociale, di coesione o di conflitto, di dialogo o di contrapposizione, di partecipazione o di lotta. Torneremo più avanti, su alcuni aspetti rilevanti dei tre fronti di cambiamento indicati.
2 | “Urban restructuring” e politiche urbane neoliberiste Le trasformazioni delle città e delle (post)metropoli non sono costituite soltanto dalla semplice crescita demografica, o dall’allargamento del perimetro edificato, o dalla disseminazione degli insediamenti entro sempre più vasti sistemi regionali, o da una diversa ripartizione della popolazione sul tradizionale spartiacque (morfologico e sociale) urbano/rurale. Naturalmente i fenomeni indicati sono rilevanti e hanno modificato le forme della città, la loro impronta nello spazio, le configurazioni e i pattern insediativi. Ci troviamo tuttavia di fronte a un processo più complesso di “urban restructuring”, di cambiamento in profondità del metabolismo urbano, multidimensionale e profondo; Soja lo ha definito vent’anni fa nel modo seguente: “a shift towards a significant order and configuration of social, economic, and political life […], a sequential combination of falling apart and building up again, deconstruction and attempted reconstitution, arising from certain incapacities or perturbations in established systems of thought and action” (Soja 1989, p. 159). In una riflessione a più voci venti anni dopo quella definizione, Soja, Brenner, Friedmann, Mayer e Scott (Soureli, Youn 2009), definiscono il processo di urban restructuring come un processo sfaccettato, non lineare, imprevedibile, aperto: “constantly at work, with highly variable dynamics, affecting spaces unevenly and people unequally; with varying but quite open possibilities for changing its predominant directions; and conditioned upon struggles everyday around the world” (Sourely, Youn 2009, p. 36). L’essenza stessa della city-ness, della “vera natura della città, come luogo di produzione, consumo, insediamento, regolazione e contestazione”, è profondamente cambiata, secondo Brenner, “continually remade through the process of restructuring”, costruita e ricostruita incessantemente nel processo di ristrutturazione. Aggiunge ancora Soja: “To some degree, cities are always changing, always facing problems of some sort. The concept of restructuring, however, suggests both an acceleration of change and a significant redirection, short of total transformation but much deeper than piecemeal reform. As it has come to be used in the literature over the past thirty-five years, urban restructuring refers to the many different ways the modern metropolis and urban life have been deeply reconfigured since the early 1970s.” (Soureli, Youn 2009, p. 42). In uno scritto analitico e argomentato, Tore Sager ha esaminato le “neo-liberal urban planning policies”, così come sono state documentate nella letteratura sul planning dal 1990 al 2010 (Sager 2011), in un periodo cruciale del capitalismo contemporaneo nel quale si sono aggrovigliati i problemi e le contraddizioni che hanno portato all’esplosione della crisi economica (e urbana). Dalla rassegna di Sager, e da altri studi sulle politiche urbane neoliberiste (Brenner, Theodore 2002; Brenner et al. 2010; Peck et. al. 2009; Springer 2010) è possibile ricostruire un quadro articolato di strategie, politiche, provvedimenti, modalità di gestione e di governance che hanno profondamente trasformato la struttura e il funzionamento delle città e dei territori in ogni parte del mondo, creando una situazione diffusa (anche se non omogenea) di incertezza, precarietà, nuove povertà, deprivazione sociale e territoriale. Non possiamo che rinviare allo studio di Sager per un’analisi più sottile, ma ci sembra utile riportarne la conclusione: le politiche di sviluppo urbano, le politiche infrastrutturali e di gestione delle risorse (in particolare delle risorse idriche e energetiche), le politiche commerciali e di gestione dello spazio pubblico, le politiche di rinnovo urbano e di (cosiddetta) rigenerazione delle città, le politiche abitative e di gestione del patrimonio edilizio, le politiche di sicurezza e di controllo urbano, hanno preso corpo negli ultimi decenni in un quadro dominato da “attraction of financial capital, entrepreneurialism, establishment of markets and incentive conditions, privatisation, and economic incentives” (Sager 2011, p. 179). Nei punti seguenti riassumiamo alcuni dei più importanti aspetti dei processi e dei meccanismi di “neoliberal urbanization” che si sono approfonditi negli ultimi anni, ovviamente secondo modalità e intensità differenziate nelle città del mondo (Sager 2011; Peck, Theodore, Brenner 2009; Brenner, Theodore 2002; Swyngedouw, Moulaert, Rodriguez 2002; Paba, Perrone 2013): - smantellamento dei sistemi redistributivi di supporto delle amministrazioni locali; - eliminazione o restrizione dei terminali locali dei sistemi nazionali di welfare; - tagli e/o imposizione di misure di austerità a livello locale e conseguente crisi finanziaria delle amministrazioini decentrate; - privatizzazione e/o liberalizzazione dei servizi pubblici locali e conseguente restrizione dell’offerta e del raggio di azione, e/o incremento dei prezzi e delle tariffe; Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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forte riduzione o blocco dell’offerta di edilizia pubblica e debolezza o inefficacia delle politiche di housing sociale; - riduzione o smantellamento dei sistemi di istruzione e di formazione pubblica, e più in generale degli investimenti in ricerca, cultura, innovazione; - erosione, privatizzazione e degrado degli spazi pubblici; - incremento dei sistemi di sorveglianza dei luoghi pubblici e irrigidimento dei codici di movimento e di accesso; - drastica diminuzione del sostegno pubblico alle comunità locali e in generale alle iniziative “community oriented”; - aumento della disoccupazione, del lavoro irregolare e sottopagato, chiusura di fabbriche, negozi e uffici con conseguente diniuzione della varietà e della vivibilità dei quartieri; - degrado delle strutture edilizie e decadimento fisico delle infrastrutture e dell’ambiente costruito; - isolamento spaziale e sociale delle popolazioni anziane, della famiglie unicellulari, dei poveri e degli senzatetto. Una parte importante del lavoro dell’unità di ricerca di Firenze sarà dedicata alla ricostruzione e alla rappresentazione dei meccanismi di “neoliberal urbanization” che si sono verificati nella Toscana settentgrionale, e nella regione urbanizzata fiorentina, neglu ultimi decenni, sviluppando i risultati di una ricerca comparata tra circa trenta città del mondo svolta all’interno dell’INURA, denominata New Metropolitan Mainstream” (per una coslutazione di una prima mappatura prodotta vedi: http://www.inura.org/NMM_Posters_PDF/INURA11_Florence.pdf).
3 | Il mondo non è piatto: place-based regional development “The world is curved, not flat”, scrive uno degli interpreti della New Economic Geography (McCann 2008). Il mondo non è piatto, anzi è curvo, non solo in senso fisico, ma anche economico e sociale. La superficie del mondo è ruvida e corrugata: ai processi di globalizzazione, che tendono, secondo la “flat world hypothesis” di Thomas Friedman, ad appiattire il territorio, abolire le distanze, abbattere i costi di transazione (Friedman 2007), si contrappongono nuovi processi di localizzazione e concentrazione: “the global economy appears to be simultaneously characterized both by global flattening and local steepening” (McCann 2008, p. 361). Il mondo sta quindi diventando in modo crescente convesso, afferma ancora McCann, le convessità variamente annidandosi nella flatness globale: alcune (vecchie e) nuove economie di agglomerazione (ri)acquistano forza; certi costi di transazione tendono di nuovo a crescere (“spatial transactions costs associated with the high knowledge inputs required for high value-added outputs have increased”; McCann 2008, pp. 361-2); le risorse legate alla distribuzione del capitale umano tendono a mantenere, o ri-assumere, un carattere localizzato; la prossimità, le conoscenze tacite e contestuali (“the local buzz”) riacquistano importanza nei sistemi territoriali (Rodrìguez-Pose, Crescenzi 2008; Bathelt 2004; Becattini 2009). Le città, le regioni dense e urbanizzate, sono come “mountains in a flat world”, convessità appunto, “buzz cities” (Storper, Venable 2004), nelle quali la prossimità cognitiva, organizzativa, sociale e istituzionale agisce come una vera e propria “forza tettonica” (Rodrìguez-Pose, Crescenzi 2008, p. 382). Vedremo più avanti come la curvatura/convessità della geografia mondiale coinvolga, secondo noi, non soltanto le grandi formazioni metropolitane, ma anche le città medie e piccole, le reti di città (city networks), i sistemi urbani minori, le regioni e le regional cities. Vedremo inoltre come una forza tettonica, stavolta in senso proprio, continui ad esercitare la geografia fisica dei territori (e la geografia storica), come i luoghi materiali (e simbolici) continuino a contare, orientando la disposizione e la configurazione dello sviluppo (Batty 2009). Le stesse forme e dimensioni degli insediamenti contano quindi, forse più di sempre: size, scale, shape, “imply different geographical advantages, and this again casts doubt on the question of what the ideal size of city should be. […] The impacts of climate change, the quest for better economic performance, and the seemingly intractable problems of ethnic segregation and deprivation due the failures in job and housing market can all be informed by a science that links size to scale and shape through information, material, and social networks that constitute the essential functioning of cities” (Batty 2008, p. 771). Insomma, ci sembra di poter dire (o almeno porre come ipotesi di lavoro, come domanda di ricerca): il mondo è oggi anisotropo come non mai. Una anisotropia a molte dimensioni, ereditata e insieme (ri)prodotta nelle dinamiche di globalizzazione/localizzazione dello sviluppo: le differenze/specificità locali essendo volta a volta opportunità o reclusione, ricchezza condivisa o (nuova) povertà, capacità di autogoverno della propria traiettoria di trasformazione o intrappolamento nel declino e nella miseria (torneremo più avanti su questo punto fondamentale). Le politiche di governo devono essere consapevoli di questa anisotropia, dell’irriducibile specificità dei luoghi, e porle non come limite, ma come una necessità e una risorsa. Fabrizio Barca sia nei contributi teorici (Barca et al. 2012), sia nel noto rapporto all’Unione Europea sulla coesione territoriale del 2009, argomenta le ragioni di un approccio place-based allo sviluppo regionale/territoriale, in opposizione a un approccio place-neutral: “The Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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importance of aspects such as human capital and innovation (endogenous growth theory), agglomeration and distance (new economic geography), and institutions (institutional economics) has been brought to the fore. As importantly, globalization has also drawn attention to the often neglected role of space. Globalization has made localities and their interaction more important for economic growth and prosperity […]. Space is becoming increasingly ‘slippery,’ in the sense that capital, goods, people, and ideas travel more easily […], but, at the same time, increasingly ‘sticky’ and ‘thick’ because capital, goods, people, and ideas, despite being constantly on the move, tend to remain stuck in large agglomerations […]. Consequently, globalization has made space and place more rather than less important. […] Many scholars have put the capacity of territories to root economic activity in the local social, institutional, and economic fabric at the heart of economic success” (Barca et al. 2012, p. 136). Le conseguenze sul disegno delle politiche sono evidenti: a uno spazio (concepito come) isotropo, flat, piatto, corrisponde l’elaborazione di “isomorphic policies”, politiche uguali dappertutto (‘one-size-fits-all’), prevalentemente infrastrutturali, “top-down, supply-side, spatially blind” (Barca et al. 2012, p. 137). Viceversa in un approccio place-based, “space matters and shapes the potential for development not only of territories, but, through externalities, of the individuals who live in them. Consequently, development strategies should not be space-neutral, but, […] placed-based and highly contingent on context” (Barca et al. 2012, p. 139). Lo spazio e i luoghi contano quindi nei processi di riarticolazione delle “montagne” (e soprattutto delle “colline”) insediative che punteggiano e organizzano la superficie del mondo, lo spazio inteso in senso multidimensionale e complesso, visto come “dynamic, problematic, developmental, ideologically charged, and filled with action, dialectics, process, and social causality, rather than as fixed, dead background, container, stage, extra-social environment“ (Soja 2011, p. 687). L’unità di ricerca di Firenze assumerà interamente l’approccio place-based sopra descritto, articolandolo tuttavia ulteriormente e approfondendolo in particolare nelle direzioni indicate da alcuni recenti contributi di ricerca (Batty 2001, 2008, 2009; Batty, Marshall 2009; Botequilha-Leitão 2012; Paba 2010, 2011). Nel definire i “polynucleated urban landscapes” Batty sottolinea i fenomeni di “persistance and resilience” che è possibile ritrovare nei processi di espansione e trasformazione degli insediamenti, e come sia stata proprio questa resistenza dei luoghi, dei territori, a mantenere vitali nel tempo le strutture insediative policentriche o “polynucleated” (Batty 2001). La ricerca si propone di verificare questo modello insediativo nella Toscana settentrionale (e forse in altri territori dell’Italia centrale). In particolare ci proponiamo di verificare l’ipotesi dell’esistenza di forme efficaci di resistenza/persistenza/resilienza delle matrici biofisiche e geostoriche nei paesaggi insediativi polinucleati.
4 | Geografie della crisi e empowerment urbano/regionale1 “How many crisis is this?” si chiedono Clarke e Newman nel definire i contorni di un’idea di crisi come complessa costruzione sociale: di quante crisi è costituita la crisi, “how many crises might be combined in the present?” (Clarke e Newman 2010, 709-711). La crisi è infatti un costrutto sociale e la riduzione delle molte crisi che fanno la crisi ai soli aspetti finanziari e del debito pubblico, fa parte di una costruzione del discorso politico orientato a imporre un’agenda economica neo-liberista e market-oriented, come unica strada di uscita dalla situazione attuale. Nelle ricostruzioni sulle origini della crisi viene naturalmente prestata attenzione alla bolla speculativa degli investimenti immobiliari e dei mutui ipotecari bancari. La città e le politiche abitative sono tuttavia generalmente considerate solo come origine quasi occasionale o come semplice innesco della crisi finanziaria. Il rapporto tra città, politiche territoriali, crisi economica e modello di sviluppo è raramente al centro dell’attenzione degli analisti e degli osservatori. La considerazione di questo rapporto ha invece secondo noi un’importanza fondamentale per una interpretazione della crisi diversa da quella dominante e per la costruzione di un agenda di uscita dalla crisi centrata sulla città e sul territorio come chance e come opportunità. Nel discutere delle “radici urbane della crisi” David Harvey osserva: “Conventional economics routinely treats investment in the built environment along with urbanization as some sidebar to the more important affairs that go on in some fictional entity called ‘the national economy’. The sub field of ‘urban economics’ is, thus, the arena where inferior economists go while the big guns ply their macro-economic trading skills elsewhere” (Harvey 2012, 1). Si tratta di un’osservazione opportuna che può essere ulteriormente allargata: la città e il territorio – le condizioni di vita delle popolazioni, le ingiustizie spaziali, l’erosione dello spazio pubblico, l’indebolimento del welfare urbano – hanno avuto un ruolo significativo nell’evoluzione della situazione socio-economica degli ultimi decenni, sia nel momento dello sviluppo, sia nel momento dell’esplosione della crisi. I processi di profit-driven urbanization (Brenner, Marcuse, Meyer 2012) hanno quindi visto la crescita di fenomeni come la commodification dell’urbano, l’intreccio tra strategie pubbliche e private nel promuovere processi di gentrificazione estesi a intere aree urbane, la conseguente ‘rimozione’ di segmenti di popolazione 1
In questo punto riprendiamo alcune considerazioni svolte in Paba G., Perrone C. (2013), “Crisi, incertezza, conflitto: il territorio come opportunità”, Archivio di studi urbani e regionali, in corso di stampa.
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marginale, il reiterato rescaling dello sviluppo urbano, la diffusione dell’ingiustizia spaziale, l’aumento dell’urbanizzazione informale dal sud al nord del mondo, la diffusione delle aree di investimento speculativo e così via (Perrone 2012). Discutendo del futuro possibile delle politiche europee, Klaus Kunzmann si sofferma sulla situazione economica globale e in particolare sui “vincitori e perdenti” e sulle conseguenze spaziali della crisi (Kunzmann 2011). Il quadro ricostruito da Kunzmann è molto articolato: gli effetti della crisi colpiscono in modo differenziato e trasversale gli attori economici e sociali, i players della finanza, le industrie mature e quelle innovative, gli stati e i sistemi regionali, il settore pubblico e quello privato, e colpiscono naturalmente i cittadini, in misura diversa a seconda del posto che occupano nell’economia e nella società – con un generale incremento degli “squilibri sociali tra i gruppi più affluenti e una parte crescente dei segmenti marginalizzati della popolazione” (Kunzman 2011, p. 9). Sono soprattutto le conseguenze spaziali della crisi, i diversi aspetti di ciò che è possibile chiamare “sofferenza del territorio”, che è importante analizzare: città che dimagriscono e impoveriscono; quartieri residenziali abbandonati e degradati; politiche abitative insufficienti e inefficaci; incremento degli abitati informali e degli homeless; difficoltà delle economie locali e regionali; declino dei distretti manifatturieri e dei settori artigianali; chiusura dei piccoli negozi e decadimento dei quartieri commerciali tradizionali; moltiplicazione delle sacche di povertà nei centri degradati e nelle periferie abbandonate; erosione e privatizzazione dello spazio pubblico; estensione degli strumenti di sorveglianza e di controllo; restrizioni dei finanziamenti alla ricerca e alla scuola pubblica; tagli degli investimenti nelle infrastrutture e nelle politiche ambientali, cancellazione dei progetti di risanamento delle inner city; tagli e chiusure di teatri e luoghi di spettacolo; indebolimento del tessuto artistico e culturale delle città; tensione sull’uso delle risorse naturali; diminuzione delle attrezzature sociali e dei beni collettivi; riduzione e minore efficienza del trasporto pubblico; abbassamento dei livelli di manutenzione e di cura del paesaggio e dell’ambiente; indebolimento dei legami comunitari e di solidarietà; peggioramento della qualità della vita e dell’ambiente, e molti altri aspetti ancora. Se da un lato i processi di profit-driven urbanization si sono accelerati, generalizzandosi (e anche omologandosi), dall’altro, le azioni di rivendicazione degli spazi urbani si sono diffuse in un processo che potremmo definire di riscoperta dell’urbano, strettamente connessa con le dinamiche della globalizzazione. Ne sono un esempio, i movimenti sociali urbani che hanno resistito alla “modernizzazione” delle loro città, lottando per il “diritto alla città” contro la commercializzazione degli spazi, creando nuovi luoghi, concreti e alternativi, trasformando la società e la vita quotidiana con l’azione politica e sociale (Brenner, Marcuse, Meyer 2012). Un ruolo rilevante ha esercitato la diffusione mondiale del movimento “Occupy” contro le banche e la “privatizzazione” del capitale finanziario in nome di una stabilizzazione fittizia (quasi cento città di 82 paesi del mondo per un totale di quasi tremila comunità promotrici, da New York e Washington all’Europa, a tutti i continenti). Esso ha contribuito a sottolineare le debolezze di un sistema profit-oriented e la rilevanza di modelli di sviluppo e stili di vita alternativa, che trovano nel territorio il loro ambito naturale di radicamento e sviluppo. Nel saggio già ricordato Harvey ragiona sul ruolo delle città nelle lotte sociali: “The city is a terrain where anticapitalist struggles have always flourished. The history of such struggles, from the Paris Commune through the Shanghai Commune, the Seattle General Strike, the Tucuman uprising and the Prague Spring to the more general urban-based movements of 1968 (which we now see faintly echoed in Cairo and Madison) is stunning” (Harvey 2012, 25). E in un recente contributo Davis e Raman, introducendo il concetto di physicality of citizenship, discutono dell’importanza della struttura materiale della città nelle forme di cittadinanza attiva e insurgent, con riferimento alla funzione dello spazio pubblico nei movimenti urbani degli ultimi anni (Davis, Raman 2012). Si tratta di un tema importante che abbiamo considerato in precedenti ricerche (Paba 2002), tuttavia la nostra idea è che gli spazi urbani entrino nella dinamica del conflitto sociale e nella costruzione delle alternative non soltanto come terreno (terrain, scrive Harvey, teatro fisico nel quale si svolgono le battaglie per la giustizia e l’emancipazione), ma come territorio, come struttura complessa che lega i destini umani ai meccanismi naturali, le misure dello spazio alle vicende economiche e sociali. Questa distinzione terreno/territorio ci sembra importante: il terreno è il luogo di operazioni degli attori sociali, dell’activist, del militante (e anche del planner come activist); il territorio è il luogo di operazioni del planner, del professionista riflessivo, dell’attivatore di politiche (e anche dell’activist come planner). Nel considerare il rapporto tra conflitto, pianificazione e partecipazione è di queste distinzioni che dovremmo tenere conto e insieme del gioco che li tiene in relazione. Combinando l’approccio critico degli studi urbani che analizzano l’intersezione tra capitalismo e processi di urbanizzazione – esaminando gli squilibri tra forze sociali, le relazioni di potere, le ingiustizie socio-spaziali, le contraddizioni o i conflitti, e soprattutto esplorando le possibilità per una vita urbana più giusta, progressiva e sostenibile –, con la dimensione attiva della crisi che si esprime nei movimenti di protesta così come nelle pratiche di possible urban worlds, quello che si profila è uno scenario di sfide a due facce. Da un parte ci sono le sfide per la pianificazione chiamata a trattare problemi e conflitti al di fuori delle logiche neoliberiste, o in contrapposizione ad esse, che sembrano rivelarsi come intrattabili. Dall’altra c’è invece l’importanza di difendere l’idea che le città siano luoghi dell’abitare per i cittadini e non arene per l’investimento economico. In entrambi i casi, la partecipazione, o più in generale il modo di costruire innovazione e cambiamento attraverso forme di interazione “spinta”, può giocare un ruolo strategico. Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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La complessità del cambiamento territoriale che la profondità della crisi ci impone, richiede un incrocio ancora più spinto del gioco interattivo e dei piani di azione (e di transizione) nei quali sono coinvolti planner e “attivatori di politiche”, e che coinvolgono le relazioni tra conoscenza, conflitto, protagonismo sociale e institutional change (Fareri 2009, Balducci 2011, Fuller 2010, Perrone 2012). Diventa un problema di politiche pubbliche (che possiamo qui solo indicare) capire in che modo, con quali aspirazioni e quali utilità.
5 | Per un new ecological regional city planning Considerando la complessità e la stratificazione delle dinamiche morfologiche, dei trend economici e dei cambiamenti socio-demografici del territorio toscano, l’unità di ricerca si concentrerà sull’analisi di un sistema di processi contestuali, distintivi delle dinamiche di urbanizzazione regionale e delle loro tendenze. Essi verranno decifrati nell’ambito di un processo di cambiamento che trasforma il concetto di urbano (e quindi anche di città), e riproposti come opportunità rilevanti (tendenze post-metropolitane positive). Questi sviluppi costituiscono quindi – nel complicato intreccio di problemi, disagi e opportunità – il terreno per la creazione di una new regional city “abitabile” e sostenibile. In particolare la ricercherà indagherà, relativamente all’area fiorentina, i seguenti processi, all’interno dei quali tenterà di costruire il proprio orizzonte progettuale: - le modificazioni dell’interfaccia urbano/suburbano e urbano rurale (interpretate come possibilità di ridefinire i limiti delle città, di estendere la rete delle connessioni ambientali, di ricostruire un sistema integrato di agricoltura urbana); - i processi di diffusione insediativa e di frammentazione del territorio urbanizzato, con l’obbiettivo di una ricomposizione/riconfigurazione degli insediamenti e di creazione di gradienti di densità/condensazione urbana nel territorio regionale; - la creazione di nuove economie a base ambientale e la diffusione di nuove tecnologie di informazione e di comunicazione; - la crescita delle migrazioni internazionali e l’incremento della diversità sociale come terreno di sperimentazione per la riduzione dei conflitti interetnici, religiosi e identitari; - l’estensione dei processi di deindustrializzazione, solo parzialmente accompagnata da reindustrializzazione e riconversione produttiva, assunta come occasione per una ricostruzione profonda delle relazioni tra economia e territorio; - la formazione di nuove e più sottili ineguaglianze spaziali come terreno nel quale sperimentare pratiche di riqualificazione urbana dal basso e di community building nei quartieri e nelle aree residenziali; - le dinamiche di trasformazione degli spazi pubblici (di erosione, ma anche di riapropriazione collettiva) assunte come campo di sperimentazione di una nuova collaborazione tra democrazia partecipativa e pratiche sociali con l’obiettivo di aumentare il livello di sicurezza, la convivialità e il benessere urbano, l’accoglienza e la conversazione sociale; - le trasformazioni del sistema della mobilità a scala regionale, in una prospettiva che considera la motility come risorsa, verso un modello di accessibilità fondato su nuovi sistemi di movimento, stili di vita e comportamento sostenibili; - la crisi del settore della casa (homelessness, "inferior housing") assunta come occasione per il ridisegno di politiche in grado di intercettare i bisogni delle nuove cittadinanze, anche attraverso la sperimentazione di nuove forme di auto-produzione dell’abitare; - il passaggio da una prospettiva di semplice congelamento, pur necessario, dell’impronta ecologica (ipotesi di consumo di suolo zero) a una visione bioregionale (biopolis) che si ponga l’obbiettivo di ridurre l’impatto ambientale in ogni punto del territorio. Nello svolgimento della ricerca i territori verranno indagati attraverso i tre assi interpretativi dei concetti di benessere (e felicità), resilience e diversità, secondo le definizioni qui di seguito riassunte. I temi del benessere (urbano) e della felicità (pubblica) sono oggetto di ricerche specializzate, in particolare nelle scienze cognitive, nella psicologia sociale, nell’economia e nelle scienze dell’amministrazione. A partire dalle ricerche di Easterlin e Kahneman (il “paradosso della felicità” e la fondazione della Hedonic Psychology come campo di ricerche interdisciplinari), gli studi recenti hanno aggredito il tema del benessere della città, del territorio e dell’ambiente. I risultati sono controversi. Per alcuni studiosi, a un estremo, la felicità è un fenomeno stocastico e non è influenzata dalle variabili sociali e ambientali (Lykken e Tellegen 1996). Per un numero crescente di studiosi il benessere e la percezione della felicità sono invece condizionati dal contesto (sul benessere context-free e context-specific vedi Borooah 2006). La ricerca sviluppa questo filone di pensiero e in particolare gli studi che indagano le dimensioni sociali e territoriali del benessere (Helliwell e Putnam 2004); la struttura morfologica e sociale della città, dei quartieri e dei luoghi di vita (Sampson 2003); l’organizzazione dello spazio pubblico (Haybron 2011); l’influenza della natura e del paesaggio (Nisbet et al. 2011; Newton 2007); la partecipazione dei cittadini alla vita della comunità (Frey, Stutzer; Paba 2010); la correlazione positiva tra benessere e diversità sociale (Thomas, Darnton 2006). Manzini (2002) ricostruisce l’evoluzione dell’idea di benessere nelle città contemporanee articolandola in tre fasi alle quali corrispondono diverse concezioni/visioni: Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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il benessere basato sui prodotti (product-based well-being); il benessere basato sull’accesso (access-based wellbeing) e infine il benessere basato sul contesto (context-based well-being). La ricerca svilupperà appunto una strumentazione concettuale e operativa per la determinazione del benessere della città e del territorio basata sui concetti di “context-based well-being” (Manzini 2002) e di “felicità territoriale” (Paba 2012). La concezione di benessere e di felicità pubblica sopra delineata è sviluppata con il concetto di resilience, e più in generale di sostenibilità integrata (Perrone, Zetti 2010). La qualità della vita urbana e la sostenibilità ambientale sono legati alla capacità di adattamento, integrazione e trasformazione dei sistemi territoriali (Lynch et al. 2012). Il concetto di resilience viene inteso, sulla base degli studi recenti sulla “social resilience” (Mohaupt 2008) e sulla “urban and regional resilience” (Campanella 2006, Dawley et al. 2010), come capacità dei territori e delle comunità di rispondere alle crisi ambientali e sociali attraverso il sostegno della diversità (Magis 2010), la valorizzazione della variabilità ecologica, la modularità e l’interconnessione degli elementi del sistema, il riconoscimento dei cambiamenti lenti e del controllo delle soglie, la capacità di feedback tempestivi e efficaci, la valorizzazione dei beni relazionali, l’innovazione attraverso l’apprendimento sociale e la sperimentazione locale, l’apprezzamento del valore degli “ecosystem services", il sostegno istituzionale attraverso forme di governance integrata e multilivello (Costanza 2008, Walker et. al. 2006). La riflessione sulla città delle differenze e la pianificazione delle città multiculturali si è arricchita negli ultimi anni, sviluppando teorie, ricerche sul campo e esplorazioni interdisciplinari (Bridge 2005; Talen 2006). Emergono alcune questioni rilevanti per la definizione degli obiettivi e dei risultati attesi della ricerca. Quale interazione (interculturale) è auspicabile nella costruzione delle politiche e dei progetti locali (Sandercock 2000; Rishbeth 2004)? Come gestire attraverso le politiche pubbliche e la progettazione interattiva, le situazioni di diversità sociale e i problemi di convivenza di una popolazione sempre più differenziata e eterogenea? Come rispondere alle complesse esigenze dei quartieri urbani abitati da comunità multiculturali e socio-diverse (Anthony 2001)? Quali possono essere gli strumenti operativi di una pianificazione sensibile alla differenze (Perrone 2010)? L’ipotesi fondamentale della ricerca è che la diversità possa diventare una risorsa per la regional city e uno strumento per la pianificazione interattiva, aumentando la capacità di resilience, sicurezza e benessere dei sistemi insediativi post-metropolitani.
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Verso un (New) Ecological Regional City Planning. Osservazioni, appunti, riferimenti
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Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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Nodi come spazi pubblici post-metropolitani. Quale abitabilità?
Nodi come spazi pubblici post-metropolitani. Quale abitabilità? Gilda Berruti Università degli Studi di Napoli Federico II Dipartimento di Architettura Email: gberruti@unina.it
Abstract Il paper affronta il tema dei nodi della mobilità come nuovi luoghi post metropolitani, traduzioni spaziali dell’idea di centralità, e si pone il problema di come si possa orientare il progetto di questi spazi attraverso i concorsi per le trasformazioni urbane, perché rispondano a requisiti di abitabilità. Questi nuovi luoghi appaiono come cerniere o porte d’accesso, punti di ancoraggio delle formazioni urbane post metropolitane, giocano con l’immagine urbana e in alcuni casi la ridefiniscono. Nei casi meglio riusciti, i nodi riescono a contribuire a migliorare l’abitabilità dei territori in cui si trovano, costruendo ambienti ospitali in cui le diverse popolazioni si sentono a proprio agio, innescando occasioni di permeabilità tra infrastrutture e formazioni urbane contemporanee, ricucendo spazi frammentati e sconnessi. Parole chiave spazi pubblici, abitabilità, concorsi per le trasformazioni urbane
Introduzione Il paper affronta il tema dei nodi della mobilità come nuovi luoghi post metropolitani, traduzioni spaziali dell’idea di centralità, e si pone il problema di come si possa orientare il progetto di questi spazi attraverso i concorsi per le trasformazioni urbane, perché rispondano a requisiti di abitabilità. I nodi dei sistemi infrastrutturali si configurano come piazze della post metropoli, che accolgono una varietà di pratiche e popolazioni che sono espressione di intensità sociale. Questi nuovi luoghi appaiono come cerniere o porte d’accesso, punti di ancoraggio delle formazioni urbane post metropolitane, giocano con l’immagine urbana e in alcuni casi la ridefiniscono, con esperienze che spaziano dal versante dell’attenzione al luogo allo spettacolo delle architetture iconiche fino al marketing rivolto al consumatore. Nei casi migliori, i nodi riescono a contribuire al miglioramento dell’abitabilità dei territori in cui si trovano, costruendo ambienti ospitali in cui le diverse popolazioni si sentono a proprio agio, innescando occasioni di permeabilità tra infrastrutture e formazioni urbane contemporanee, ricucendo spazi frammentati e sconnessi. L’occasione per ragionare sul tema di questo contributo è la ricerca Prin 2009 “Architettura-mercatodemocrazia: come si valuta la venustas dell'architettura? Linee-guida per la redazione dei programmi/bandi di concorso per le trasformazioni urbane”, che approfondisce lo studio di diversi tipi di spazi pubblici contemporanei, a partire dalla selezione di bandi di concorso recenti. La ricerca mira a mettere in luce come la domanda di qualità di tali spazi sia posta nei bandi e come venga interpretata nelle risposte progettuali, con l’obiettivo finale di fornire indicazioni utili ad elaborare in modo appropriato i bandi di concorso alla base delle trasformazioni urbane. La struttura del paper è organizzata in tre parti. In primo luogo, si ripercorrono le questioni principali che riguardano i nodi come nuovi spazi pubblici del contesto urbano contemporaneo. In secondo luogo, si afferma che l’abitabilità, in alternativa al concetto di qualità e in maniera molto più attenta ai contesti locali, è una categoria utile a descrivere come sono fatti questi nuovi spazi pubblici e quali sono le prestazioni alle quali dovrebbero rispondere. Infine, a partire dalla ricerca in corso, si ragiona su quali siano gli immaginari di abitabilità ricostruibili dei nodi oggetto di concorso, e si prova a declinarli in relazione agli enti banditori, ai progettisti e agli utilizzatori reali
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degli spazi, nell’ipotesi che essere consapevoli dei diversi punti di vista potrebbe aiutare a orientare in maniera appropriata il progetto di questi spazi.
I nodi come spazi pubblici contemporanei Il tema dei nodi della mobilità è oggetto di approfondimento teorico già dai primi anni ’90, dagli studi sulla città contemporanea a quelli sull’antropologia della surmodernità, ed è presente anche nel dibattito sulla transizione post metropolitana. Tra le trasformazioni del contesto urbano contemporaneo un peso importante hanno i processi che descrivono la distribuzione delle reti infrastrutturali sul territorio: le infrastrutture di connessione - stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, centri intermodali, autostrade, linee metropolitane e tranviarie, strade urbane ed extraurbane - oltre a garantire l'efficienza dei collegamenti, riorganizzano il sistema delle gerarchie funzionali secondo un processo di «urbanizzazione a schegge» (Graham, Marvin, 2001), che favorisce lo sviluppo dei luoghi in cui si inseriscono. In questo processo di trasformazione si verifica allo stesso tempo una connessione globale con il mondo e il rafforzamento dei confini tra i luoghi secondo il dispiegarsi di logiche di potere. In questa lotta tra interessi diversi si delineano nuovi luoghi, «schegge» tra dispersione e concentrazione, che sono oggetti critici da analizzare in quanto spazi urbani animati, vissuti da singoli o gruppi, che possono essere definiti pubblici, in quanto caratterizzati da fruibilità aperta e apertura nei comportamenti consentiti. Vari sono stati i tentativi di approfondire lo studio di questi luoghi: dai «nuovi spazi senza nome» (Boeri, Lanzani, Marini, 1992) ai «luoghi che scorrono» (Boeri, Lanzani, Marini, 1994), ai «luoghi in sequenza» (Boeri, 1998), oggetto di rapidi guizzi dello sguardo e non di un’interpretazione affettiva, fino ai «nonluoghi», nella versione originaria del 1992 e in quelle successive che mettono al centro le pratiche che vi si svolgono per poterne dare una definizione (Augé, 1997; Augé 2003). Spazi da integrare nel progetto della città contemporanea sono ritenuti i superluoghi, in cui il prefisso super «è connesso alle immagini di superiore, eccessivo, straordinario» (Agnoletto, Delpiano, Guerzoni, 2007: 6). «La caratteristica distintiva del superluogo è la sua capacità di dominare il territorio al quale appartiene, generando fenomeni di forte urbanizzazione, catalizzando masse e flussi. Una capacità che deriva dalla sua potenza simbolica, dal suo peso economico, dal suo ruolo nella società moderna. Ma anche dalla sua velocità d’azione e adattamento» (ivi: 7). Se invece ci si concentra sulle infrastrutture anziché sui nodi, diventa cruciale ragionare di «abitare le infrastrutture» (Isola, 2004: 7-10), laddove l’abitabilità diventa la chiave di lettura per ridefinirne il progetto. La «negazione dell’accessibilità generalizzata a ogni luogo per ogni individuo o gruppo sociale» causa, con l’aumento di evidenti ingiustizie spaziali, la crisi della mobilità che è all’origine della nuova questione urbana (Secchi 2010; Secchi 2011). Intanto, il flusso ininterrotto di persone, merci, informazioni, nonostante la pervasività dei media elettronici, continua ad avere il suo fulcro nello spazio urbano, che è uno spazio «aumentato» (Manovich, 2005), all’interno del quale contano le relazioni che i nodi della mobilità come nuovi spazi pubblici sono in grado di stabilire con il territorio circostante. Questioni essenziali per il progetto delle infrastrutture sono l’attenzione al luogo, ma anche la ridefinizione dell’immagine dei luoghi attraverso la diffusione dell’imaging (Vale, Bass Warner, 2001: xv): «il processo del costruire narrative a base visuale sul potenziale dei luoghi […} La progettazione urbana, in questo contesto, è un processo che si occupa di mediare la miglior metafora, in modi che cambiano o consolidano la sensibilità pubblica e inventano la possibilità per nuovi modi di attaccamento ai luoghi». Da questo punto di vista, il mercato gioca da sempre un ruolo importante nella costruzione dei nodi della mobilità: pone questioni di rendita fondiaria, attrae investimenti immobiliari, coniuga le funzioni tecniche del trasporto con esigenze di riqualificazione urbana, spesso coinvolge le archistar puntando sul valore iconico delle loro architetture. Oggi, in tempi di crisi e in risposta a quanto accade nelle città del mondo, si fa avanti una necessità di cambiamento nel campo della progettazione delle infrastrutture, che superi da un lato l’omologazione connessa all’applicazione delle convenzioni tecniche, dall’altro l’autoreferenzialità dell’architettura delle archistar: le opere infrastrutturali «non potranno evolversi esclusivamente attraverso il progresso della tecnica o la loro illimitata espansione. Ad esse oggi è richiesta una mutazione genetica […] la vera intelligenza delle nuove infrastrutture dovrebbe essere rivolta al miglioramento dello spazio fisico e della vivibilità dei territori che servono» (Ferlenga, 2012: 27 - 30). Questo ragionamento deriva da un confronto dell’esperienza italiana con lo scenario internazionale, in cui la mutazione è già avvenuta: le infrastrutture, al di là del loro ruolo primario, sono «nervature di luoghi in cambiamento» e le giunture, le connessioni tra i luoghi hanno il ruolo di rappresentarne l’immagine oltre che concentrare gran parte delle funzioni di un mondo sempre più complesso. L’esigenza della mutazione è tanto più urgente se partiamo dal presupposto che i nodi, dal punto di vista delle pratiche che ospitano, si comportano da spazi pubblici contemporanei, al di là delle definizioni scelte per descrivere il contesto urbano in cui viviamo. Se condividiamo l’idea che le formazioni urbane contemporanee rimangono «an enormously significant formative arena, not only as the daily space of over half of the world’s Gilda Berruti
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population, but also as the supremely visible manifestation of difference and heterogeneity placed together» (Amin, 2006: 1012), i nodi sono luoghi privilegiati in cui sperimentare la scoperta che deriva dalla sovrapposizione degli spazi con i flussi globali e le interconnessioni, in cui sperimentare risposte di tipo ed intensità diversa rispetto alla questione di entrare in relazione con l’altro. Sono luoghi di passaggio, vissuti da singoli o gruppi che godono della transitorietà degli incontri e delle qualità dell’anonimato della metropoli. Ma c’è anche altro: «i ‘superluoghi’ forniscono oggi il sedime per ‘appuntamenti’ sempre più specializzati, dove si celebra la scomparsa della folla ottocentesca e la sua sostituzione con ‘pubblici’ selezionati e specifici» (Cremaschi, 2007). Se la presenza di assembramenti di persone in uno spazio crea le condizioni per il verificarsi degli incontri, che educano alla prossimità, i superluoghi «riproducono l’esperienza dell’assembramento che sembrava scomparsa» dalla città. All’interno di questi luoghi complessi si può osservare la coesistenza di due logiche diverse: la vita pubblica della strada urbana dominata dall’anonimato e quella dei suoi surrogati caratterizzati da una «promozione della familiarità tipica degli spazi privatizzati» (Jackson, 1998), a volte effetto dell’intreccio con le comunità che si ritrovano in rete e si danno appuntamento in un luogo reale. Chi siano i diversi pubblici che usano questi spazi è un tema da approfondire per orientarne il progetto: si tratta di popolazioni variabili, che non hanno un radicamento territoriale definito, ma che configurano le diverse «comunità di pratiche» (Amin, Thrift, 2005), che definiscono la vita pubblica di questi luoghi.
Quale abitabilità nei nodi? I nodi infrastrutturali, nuovi spazi pubblici delle formazioni urbane contemporanee, possono diventare cerniere di riconnessione con il territorio e punti di ancoraggio aggiuntivi rispetto ai centri storici della città tradizionale e ai centri commerciali. Alla ricerca di spunti per orientarne il progetto, mi sembra che possa essere utile riprendere il concetto di abitabilità, tra i «traguardi della vita urbana» definiti già dall’Urban Design Manifesto (Jacobs, Appleyard, 1987), tornato recentemente al centro del dibattito disciplinare, con un approccio che punta sulle condizioni specifiche dei territori: «sostituire il termine abitabilità a quello più ampio e astratto di qualità è un modo per mettere al centro le relazioni ineliminabili delle popolazioni con lo spazio e per sollecitare la spazializzazione delle politiche» (Gabellini, 2010: 22). In quest’ottica, habitability sarebbe da preferire a liveability per indicare un campo di significati più ampio, che permette di tenere insieme la dimensione spaziale con quella sociale, il supporto fisico delle azioni con la coesistenza nello stesso spazio di diverse popolazioni: «se si abita non si è più stranieri né estranei; ne consegue la possibilità di stabilire un contatto soggettivamente ed emotivamente significativo con lo spazio occupato» (Gabellini, 2010: 24), anche se in modo fugace e transitorio. Il concetto è multidimensionale, tiene dentro anche le spinte del mercato e la capacità di innovare: l’abitabilità ha a che fare con la capacità di attrarre persone capitali culture «all’innesto tra i bisogni di una popolazione che vuole tornare a vivere la città come ambiente coeso, accogliente, stimolante e amichevole (Balbo, 1993) e le necessità delle nuove imprese, che chiedono di svilupparsi in un contesto nel quale i fattori di localizzazione tendono ad avvicinarsi molto ai bisogni espressi dalla popolazione» (Balducci, 2007: 28). Nel progetto strategico "Milano città di città" l’abitabilità ha sei dimensioni: «trovare casa stabilmente o temporaneamente; muoversi liberamente e allo stesso tempo respirare; condividere nuovi spazi pubblici; fare e fruire cultura; promuovere un nuovo welfare locale; innovare e fare impresa». In base a queste premesse, possiamo affermare che i nodi, per essere abitabili, debbano essere luoghi con capacità attrattiva per le popolazioni ma anche per le imprese, in cui diverse popolazioni possano stare a proprio agio, possano muoversi in modo confortevole, anche se per un tempo determinato, possano respirare e distrarsi, condividendo l’uso degli spazi in maniera spontanea o programmata. Le attività sono le più diverse, da quelle connesse al viaggio, allo shopping, alla cultura, fino all’attitudine a vagare tra la folla indistinta, come flâneur contemporanei («phoneur» Luke, 2005), all’interno di spazi pubblici che funzionano in maniera un po’ diversa rispetto a quelli tradizionali. Proviamo a capire come si configura oggi rispetto ai nodi la questione dell’abitabilità, a partire dai concorsi per le trasformazioni urbane. La ricerca Prin da cui prende spunto questo contributo approfondisce 30 casi di nodi per i quali sono stati indetti concorsi di idee o di progettazione negli ultimi 15 anni. Si tratta di concorsi che riguardano la trasformazione di stazioni e di aree ferroviarie, di aeroporti e aree aeroportuali, di stazioni marittime e aree portuali, di centri o aree intermodali. Nella stessa categoria si è scelto di schedare i concorsi riguardanti alcune aree nodali della città in via di trasformazione e altri tipi di funzioni incluse nella definizione di superluoghi. Approfondendo lo studio dei materiali dei concorsi, si può provare ad individuare i diversi tipi di strategie messe in atto da parte degli enti banditori per assicurare l’abitabilità dei luoghi progettati. Per il momento, mi soffermerò sulla declinazione di abitabilità che viene fuori dai bandi di concorso riguardanti le stazioni ferroviarie e gli aeroporti. Gilda Berruti
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Un filone importante dei concorsi è quello messo in atto dalle Ferrovie dello Stato per la progettazione delle stazioni come motori di riqualificazione urbana. Dal primo concorso riguardante il nodo Tiburtino, già realizzato, a quelli più recenti, si è puntato sempre più sulla qualità degli esiti, assegnando al fatturato un peso minore nella selezione dei partecipanti. Obiettivi fondamentali richiesti al progetto di stazione sono: il comfort dell’utente, l’adattabilità o flessibilità degli spazi, insieme all’obiettivo della centralità, individuato attraverso diverse parole chiave: integrazione, osmosi, organismo, baricentro. Ne viene fuori un’idea di stazione ferroviaria integrata con il contesto, che funziona come organismo con le strutture preesistenti, in cui gli spazi sono adattabili a diverse funzioni ed è assicurato il sentirsi a proprio agio del viaggiatore. Il tema della flessibilità è chiaramente connesso anche alla necessità di rendere meno complessa l’assegnazione e la gestione degli spazi commerciali, se questi sono progettati in modo da adattarsi al mutamento della domanda di servizi, riuscendo così a dare una risposta più razionale alle spinte che vengono dal mercato. L’integrazione con il contesto ha un ruolo di primo piano: è tra le parole chiave che definiscono le richieste di qualità dei bandi di concorso dei nodi, non solo delle stazioni. È una risposta alla necessità di nuovi spazi pubblici che funzionino da punti di ancoraggio aggiuntivi con i territori e con le potenzialità locali: in gran parte dei bandi ricorre la richiesta secondo la quale «la stazione si dovrà caratterizzare sia come nodo di trasporti, sia come polo di servizi urbani» in linea con gli obiettivi per le 13 grandi stazioni della rete nazionale. L’integrazione ha il senso di ricucire parti urbane separate - in alcuni casi agendo sulla riqualificazione di percorsi, da trasformare da luoghi di transito in strade urbane - e contemporaneamente di mettere in relazione dal punto di vista delle funzioni la stazione con il territorio limitrofo. Il modello di riferimento per le Ferrovie dello Stato prevede funzioni strettamente legate all'esercizio ferroviario ed altre connesse a luoghi di sosta confortevoli «sull'esempio di quanto avviene negli aeroporti più moderni e sul modello delle stazioni inglesi e tedesche» (Rete Ferroviaria Italiana, 2002). Le stazioni sono luoghi vitali e accoglienti in cui si sentono a proprio agio non soltanto i viaggiatori ma anche chi decide di beneficiare di alcuni «servizi secondari» urbani, dalle attrezzature all’intrattenimento culturale, al ristoro e allo shopping: «è necessario che la stazione appartenga ai cittadini di Bologna e non solo ai turisti e city user attratti occasionalmente da funzioni altamente specializzate» (Rete Ferroviaria Italiana, 2006: 6). Le richieste dei bandi di concorso vengono in parte accolte dai progetti vincitori, come si può vedere da alcuni esempi. La stazione di Bologna, progettata dal gruppo con a capo Arata Isozaki e non ancora realizzata, ricuce centro storico e città industriale, il centro di Bologna e il quartiere Bolognina. Un nuovo accesso alla stazione viene aperto in una posizione che si configurava come una barriera verso il centro storico. È «un condensato di città» (Isozaki A. Associati, 2008: 14), che si inserisce in modo discreto nel tessuto urbano, integrandosi ad esso (cfr. figura 1). Dal punto di vista del comfort si punta sulla luce naturale: lucernari filtrano la luce all’interno, illuminano gli spazi di circolazione e permettono di vedere il cielo, mentre si aspetta il treno. Obiettivo del progetto è trasformare la stazione da infrastruttura ferroviaria, dedicata solo al trasporto, in una parte di città utilizzata dai cittadini anche per altri scopi, oltre al viaggio.
Figura 1. La stazione di Bologna Centrale si configura come un luogo urbano vivo ed attrattivo, che risponde alle esigenze dei viaggiatori, ma allo stesso tempo ospita alcune funzioni urbane utili a tutti i cittadini. La stazione è resa molto più permeabile sui diversi fronti: è contemporaneamente strada urbana e luogo per stare. La luce naturale è trattata come un materiale del progetto: penetra, fino al livello sotterraneo dei binari attraverso tagli e aperture poste sul fronte dell’edificio di stazione (fonte immagini: Maffei, Isozaki 2010).
Roma Tiburtina è la più grande stazione d'Italia, nodo di scambio intermodale di livello nazionale, regionale, metropolitano ed urbano. Nel bando è pensata contemporaneamente come nodo di interscambio, nuova centralità urbana, e luogo di concentrazione di funzioni pregiate. La stazione, progettata e realizzata da ABDR architetti associati, è un ponte sospeso che riconnette i due quartieri Nomentano e Pietralata, storicamente separati dal tracciato ferroviario (cfr. figura 2). Si comporta come un boulevard urbano coperto: funziona come spazio d'incontro, ma nel rispetto delle dinamiche classiche di un terminal. L'idea forte del progetto è quella dei volumi appesi, dal ponte alle «bolle» che ospitano alcune funzioni di pregio. Dal punto di vista strutturale, la sospensione dei volumi attenua le vibrazioni della struttura per il traffico ferroviario e allo stesso tempo assicura un microclima naturale all'interno. Grande attenzione è stata data Gilda Berruti
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al comfort climatico: le facciate sono modulate in base all'andamento dinamico dell'ombra e sono stati adottati sistemi passivi per il naturale raffreddamento estivo e il riscaldamento invernale. La stazione si trasforma in un luogo dove è piacevole stare, una piazza.
Figura 2. Il progetto del Nodo Tiburtina punta alla riconnessione della nuova stazione dell’alta velocità con i quartieri Nomentano e Pietralata. La galleria pedonale si pone non solo come ponte, ma anche come boulevard coperto, occasione di scambio sociale e urbano (fonte immagini: ABDR architetti associati, 2007).
Richieste analoghe tornano anche nei concorsi per altri tipi di nodi, per esempio il Centro intermodale passeggeri e stazione di interscambio di Oristano, che non è progettato come luogo di transito, ma come porta strategica di accesso, capace di intercettare i flussi turistici e di offrire servizi culturali e per il tempo libero ai viaggiatori e alla collettività provinciale e cittadina. Qui il controllo della luce e del microclima interno è studiato nei minimi dettagli e trova una sintesi, funzionale e rappresentativa, nella progettazione della pensilina. Dalla lettura interpretativa dei progetti sembrerebbe che nell’immaginario dei progettisti l’attenzione per l’abitabilità punti ad assicurare nei nodi un’atmosfera da interno che potrebbe definirsi naturale, sia dal punto di vista della luce che delle condizioni climatiche. Chiaramente siamo sempre in un mondo protetto in cui è confortevole stare. Non siamo all’esterno, ma non siamo neppure nell’ambiente artificiale tipico dei cosiddetti nonluoghi, caratterizzati dal far sentire contemporaneamente colui che li percorre immerso in un mondo altro e rassicurato da un effetto di riconoscimento di alcuni segni ricorrenti, comuni a tutti i luoghi che hanno funzioni simili. Nel mondo protetto dei nodi progettati si riscontra un approccio al tema del comfort tutto concentrato sull’attenzione all’ambiente e al risparmio energetico. Ciò che lascia stupiti è che, a fronte di una domanda di spazi ed attività diversificate, la risposta progettuale abbia come riferimento degli utenti la cui unica connotazione sembra essere l’interesse per una città ecologica. Questo atteggiamento può essere in parte letto in relazione alla crisi attuale, come risposta alle sfide ambientali, in parte come effetto di una scelta che punta a modificare l’atmosfera interna dei nodi e la percezione che ne hanno gli utenti. Inoltre, i nodi progettati innescano occasioni di permeabilità tra le infrastrutture e il territorio, a volte riprendono le regole del tessuto urbano circostante e si pongono l’obiettivo di ricucire spazi frammentati, almeno dal punto di vista fisico. Un problema diverso è se entrino in relazione anche con le risorse dei territori, se ci sia un controllo sul tipo di funzioni che sia utile inserire all’interno o il coinvolgimento di alcune forze attive locali. Nella stessa direzione della valorizzazione del senso del luogo e della tendenza a una minore artificialità è la risposta flebile dei progettisti rispetto al peso da dare alla simulazione e all’imaging, che invece resta un punto chiave di alcuni bandi, essenzialmente quelli relativi alle aerostazioni. Nel caso degli aeroporti spesso la richiesta è un’immagine che ritragga o reinterpreti il territorio in cui il nodo si inserisce, con l’obiettivo dichiarato di agire sull’abitabilità per accrescere il capitale dell’impresa: «rafforzare lʼimmagine ‘Toscana’ da proiettare su passeggeri e visitatori; […] innalzare i livelli di qualità percepita dal Cliente e concorrere, anche con la progettazione delle infrastrutture, alla sua fidelizzazione» (SAT Aeroporto G. Galilei, 2011: 23). Per quanto riguarda la volontà di incidere sulla percezione dell’utente, si va dall’idea dell’«aeroporto come entertainment experience» come modello di business, in cui l’ente gestore deve essere in grado di «elaborare idee e “venderle” sotto forma di esperienze, emozioni e relazioni» (ivi: 21), all’obiettivo, più connesso all’attrattività, architettonica e artistica, del luogo, per cui «lo spazio di passaggio tra le infrastrutture di trasporto potrà essere vissuto da parte dei passeggeri in transito come un'esperienza sensoriale e spaziale coinvolgente e completa» (Società Servizi Aeroportuali, 2009). Da questa breve rassegna sembra che i progetti dei nuovi luoghi della mobilità, del tipo stazioni, siano più attenti al rapporto con la vita reale, con la varietà, le differenze. Al valore del luogo e alla sua insostituibilità. Negli aeroporti l’aspetto di simulazione del reale e di riproposizione di un modello globale è più evidente, anche se resta centrale il senso del luogo, come esperienza da vendere o da riproporre per far entrare in contatto, anche se a distanza, l’utente con il territorio. Gilda Berruti
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A questo punto, sarebbe interessante capire se le medesime considerazioni valgono anche per i luoghi della mobilità già realizzati. Stiamo andando in questa direzione? La ricerca è ancora in corso e il passaggio successivo prevede un lavoro sul campo nei nodi che nel frattempo sono stati realizzati, volto ad indagare la relazione che si è stabilita tra progetto e pratiche di uso degli spazi da parte di diverse popolazioni e a verificare quanto negli esiti sia riconoscibile la rispondenza ai requisiti di abitabilità richiesti dal bando e quanto le pratiche siano supportate dall’intenzionalità dei progettisti e committenti. Quello che per il momento si può affermare è che le realizzazioni non sembrano riflettere la medesima atmosfera dei progetti. L’impressione è che, in realtà, l’aspetto di artificialità dell’atmosfera e di piacere che si prova per il riconoscimento di alcuni segni tipici di questi spazi perduri. Nelle stazioni, ma anche nei centri intermodali, ci si sente come in aeroporto e si stenta a credere che i nodi diventeranno più attenti al senso del luogo e meno globalizzati, anche se si tratta di un globale che ha tracce di «localismi sradicati» (Appadurai, 2001: 51) al suo interno. Forse in parte questa sensazione è un effetto dei meccanismi del mercato e del modo in cui avviene l’assegnazione degli spazi commerciali, nella fase successiva alla realizzazione dei nodi infrastrutturali. Ma non è da escludere che una quota di effetto di straniamento sia connessa alla natura dei nodi, e al loro essere luoghi in cui qui e altrove convivono e sono mischiati a tal punto che non è possibile distinguerli. Questi nuovi spazi pubblici sono contemporaneamente nodi di una rete globale, in cui contano le connessioni, e schegge locali, in cui conta il senso del luogo, e sul filo tra queste due interpretazioni sta il concetto di abitabilità. Abitabilità è la possibilità di vivere un’esperienza sensoriale e spaziale completa, in un interno in cui filtra in parte l’ambiente esterno, sperimentando in forme alternative l’immagine del territorio in cui il nodo si trova, a volte entrando materialmente in contatto con quel territorio, attraverso elementi di sutura. Ma è anche la possibilità di vivere contemporaneamente molti mondi altri, astraendosi dal contatto con il luogo in cui si sta, immersi in un’atmosfera di loghi, riconoscibile in tutti i nodi del pianeta, in atteggiamento passivo rispetto all’intorno, con un rapporto con gli altri mediato, che tende ad evitare l’interazione reale. Quale versione di abitabilità dovremmo prendere come riferimento per orientare il progetto di questi spazi? Nei nodi della post metropoli entrambe le definizioni coesistono e si contaminano l’un l’altra, probabilmente in quote che variano a seconda della tipologia di nodo. I nodi sono microcosmi connessi a reti globali, abitati da pubblici diversi che sperimentano pratiche diverse e diversi rapporti di compresenza. I pubblici di riferimento di ciascun nodo sono in parte imprevedibili, e sfuggono ai tentativi di incasellarli in definizioni precise. La questione di quale sia il punto limite fino al quale l’abitabilità sia progettabile resta una questione aperta. Ritengo, che sia utile, nella fase preparatoria dei bandi di concorso, provare a decostruire il concetto di abitabilità, facendo emergere le componenti di cui si compone, per evitare progetti miopi o unidirezionali. Da questo punto di vista è opportuno fare un lavoro esplorativo su quali siano i pubblici ritrovabili all’interno di un nodo, e quale sia il significato di abitabilità per ciascuno di essi. Il senso di stare a proprio agio oscilla continuamente tra il sentirsi a casa e il non sentirsi a casa, il non essere riconosciuti. Questo implica un pensiero sui nodi come mosaici di territori, con regole e dinamiche molto diverse. In ogni modo, che l’obiettivo sia un nodo più aderente al territorio, o un nodo della rete globale c’è da fare di un’attenta valutazione delle opportune modalità di selezione dei gestori degli spazi commerciali, che da un lato preservi la flessibilità e la capacità di adattarsi al cambiamento della domanda di servizi, ma permetta anche di pianificare che tipo di ambiente commerciale si viene a determinare. In questo modo, si ha qualche possibilità di avere un controllo sull’ambiente complessivo e sull’atmosfera, più o meno artificiale, che si respira all’interno dei nodi. Restano valide anche per i nodi alcune questioni classiche dello spazio pubblico, tra queste il rapporto tra libertà e controllo dello spazio, e le opportune dosi da misurare.
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Nodi come spazi pubblici post-metropolitani. Quale abitabilità?
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Hybrids spaces of Hong Kong Francesco Rossini Universidad Politecnica de Catalunya Departamento de urbanismo y ordenación del territorio (UOT) Email: francesco.rossini@upc.edu
Abstract Oggi la città di Hong Kong ha certamente rafforzato la sua posizione come centro finanziario internazionale, proponendosi come una delle città globali a livello di Tokyo, Londra e New York. La città riesce a fondere in un mix assolutamente unico la cultura e le tradizioni dell'Oriente e dell'Occidente, l'antico e il moderno si fondono per creare una città dinamica e cosmopolita. Hong Kong rappresenta un caso esemplare in cui la permeabilità della struttura urbana permette di esplorare la città in un modo intensivo, godendo di diversi livelli di utilizzo e dove gli edifici fanno parte della complessità dei flussi che ogni giorno la attraversano. La caratteristica di svilupparsi in altezza ha permesso la moltiplicazione del piano orizzontale, in tal senso, la città ha sviluppato una serie di percorsi aerei (Skyways) che costituiscono un network di mobilità pedonale che collega diversi edifici a differenti livelli. Parole chiave Hong Kong, Spazio Pubblico, Privatizzazione.
La struttura urbana Hong Kong fu fondata come colonia britannica nel 1841, l'isola fu ceduta alla Gran Bretagna dopo la Prima Guerra dell'Oppio (1840-1842). Inizialmente grazie alla sua posizione strategica è stata utilizzata come centro per il commercio con la Cina, sviluppandosi come base navale e porto di esportazione, ma dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata interessata da un rapido sviluppo urbano caratterizzato da una sorta di lasseiz fare economico. Questo atteggiamento ha generato le basi per trasformare la politica territoriale in un mezzo per produrre economia e sviluppo, creando i presupposti per la sorprendente evoluzione della città.
Figura 1. Foto satellitare della parte nord dell'isola di Hong Kong. La foto mostra l'andamento sinuoso della conformazione urbana che segue la morfologia del territorio.
Sicuramente un aspetto che caratterizza la struttura urbana di Hong Kong è dovuto alle caratteristiche morfologiche del suo territorio. L'urbanizzazione della città riguarda solo il 24% della superficie disponibile, che corrisponde alla parte più pianeggiante localizzata a nord dell'isola. (figura 1) Francesco Rossini
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Nonostante questi limiti naturali, la città ha stabilito un forte legame con il suo territorio, sviluppando attraverso l'uso intensivo del suolo la sua dimensione verticale. Hong Kong rappresenta un caso esemplare in cui la permeabilità della struttura urbana permette di esplorare la città in un modo intensivo, godendo di diversi livelli di utilizzo e dove gli edifici entrano a far parte della complessità dei flussi che ogni giorno attraversano la città. La caratteristica di crescere in altezza, ha permesso la moltiplicazione del piano orizzontale, con la creazione di una serie di percorsi aerei (Skyways) che costituiscono un network di mobilità pedonale che collega diversi edifici a differenti livelli.
Figura 2. Il ponte pedonale di collegamento tra Alexandra House e Landmark Building.
Questa complessità porta alla creazione di 'spazi ibridi', luoghi in cui la divisione tra pubblico e privato tende a svanire offrendo nuove tipologie di spazi che potremo definire di 'uso collettivo'. In tal senso, la mancanza di limiti definiti non riguarda necessariamente la distinzione tra spazi interni o esterni, ma di spazi pubblici che si trovano dentro di proprietà private. Se consideriamo come esempio il Central Plaza Building, (il terzo grattacielo più alto di Hong Kong), si può notare come la sua struttura accoglie questa complessità. Il piano terra ed il secondo piano sono uno spazio privato, con controlli per l'accessibilità dei piani superiori, però al terzo piano l'edificio si rende permeabile al pubblico, con un passaggio aperto 24/24 che risulta connesso alla rete degli skyways del distretto di Central1. Ad Hong Kong si possono trovare innumerevoli esempi di questo tipo, la possibilità di passeggiare tra due edifici senza particolari restrizioni, è sicuramente un opportunità data grazie alla collaborazione tra pubblico e privato. Un aspetto importante che contraddistingue e condiziona l'evoluzione della città è quello della gestione della politica territoriale. L'uso intensivo del suolo si è trasformato in un affare per i grandi interessi del settore privato, ma rappresenta anche un fattore importante di crescita per l'economia di Hong Kong. Di fatto gli introiti ricevuti dalla vendita e la gestione del suolo rappresentano circa il 50% delle sue entrate. Questo tipo di gestione del territorio aiuta il governo di Hong Kong a mantenere un basso regime fiscale, sia per i cittadini che per gli investitori. In tal senso, gran parte della struttura urbana è utilizzata come un mezzo di produzione più che di consumo. Questo aspetto influisce negativamente sulla gestione degli spazi pubblici, che non sono sufficienti per soddisfare le aspettative e le esigenze della popolazione. Attualmente Hong Kong ha raggiunto una popolazione di quasi 7.000.000 in un'area urbana di 120 km2, questo dà una concentrazione media 600 persone per ettaro, una densità che può essere paragonata a quella di Mumbai o Dhaka. Questo valore rappresenta una concentrazione media, ma densità maggiori sono abbastanza comuni nel territorio di Hong Kong, addirittura si può raggiungere in alcuni blocchi residenziali la sorprendente cifra di 4.000 persone per ettaro. (Shelto n , Kar akiewic z, Kwan , 2 010 ) I limiti della espansione urbana, a causa della conformazione del territorio e l'uso intensivo del suolo, dovuto alla politica territoriale, hanno condotto all'uso della dimensione verticale, un'aspetto che sempre più caratterizza lo sviluppo e la trasformazione della città. Nel saggio The making of Hong Kong, from Vertical to Volumetric, si definisce la città come una IntenCity. Il termine riassume la combinazione di diverse qualità urbane, concentrazione, densità, complessità e verticalità, dove l'interazione di queste caratteristiche porta un livello di intensità che è in qualche modo più che la somma delle sue parti. È un dato di fatto che nel campo dell'urbanistica nessuna città può rappresentare meglio di Hong Kong questo termine. (Shelto n , Kar akiewic z, Kwan , 2 010 )
Le influenze della storia e della cultura Il concetto di spazio pubblico, e in senso più generale, della la vita civica, è stata in gran parte influenzata da aspetti storici e culturali. Gli spazi aperti creati con lo scopo di stabilire relazioni pubbliche in genere sono 1
Ilquar tier e di Cen tr alpuò es s er e c o n s ider ato ilc uo r e deldis tr etto fin an ziar io di Ho n g Kon g .
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assenti nella cultura tradizionale cinese. Questo fenomeno si basa principalmente sulla strutture sociale e politica delle antiche popolazioni cinesi ed è un aspetto che si è spesso riflesso nella pianificazione e nell'architettura durante il corso della storia. L'imperatore era l'unica autorità, e non aveva bisogno di condividere il suo potere con la nobiltà, la borghesia e i religiosi. Questo sistema ideologico si manifestava nella struttura simmetrica della città; gli assi viari, i giardini, e gli edifici, erano organizzati per rafforzare il monopolio assoluto dell'imperatore. Il resto della popolazione non aveva bisogno di spazi per riunirsi, ma solo di boulevard (che indicavano la direzione) e di elementi simbolici per l'adorazione. In tal senso gli spazi pubblici aperti, avevano la funzione di rappresentanza del potere, piuttosto che luoghi di aggregazione. Un atteggiamento simile al regime dell'antica Cina, nei confronti dello spazio pubblico, fu adottato nei primi anni della colonizzazione da parte del Governo Britannico. Per molti versi le riunioni e qualsiasi forma di aggregazione nei luoghi più rappresentativi della città erano spesso represse o in alcuni casi proibite. Come conseguenza, nel corso degli anni Hong Kong non ha sviluppato un sistema di spazi aperti pubblici tali da soddisfare le esigenze della popolazione. Nel 1998, la dichiarazione sino-britannica sanciva l' acquisizione di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese. Il cambiamento politico e lo scetticismo sull'incertezza per il futuro della ex-colonia, fece risvegliare nella popolazione un maggiore senso di appartenenza verso la propria città. (Law, 2002)
Figura 3. Lo skyline di Hong Kong da Victoria Harbor.
Un altro aspetto che vale la pena sottolineare, è la differenzia del significato del termine 'pubblico' nella cultura cinese. Nel linguaggio occidentale, la parola 'pubblico' deriva dal latino publicus, una contrazione populicus = popolare2, e di solito indica tutto ciò che è comunitario: interesse pubblico, l'ordine pubblico, l'opinione pubblica, o quello che e accessibile a tutti, un luogo pubblico. Nella tradizione cinese, la formazione del carattere composto 'pubblico' (gong 公) si basa sulla formazione di due caratteri semplici, 'dividere' (ba 八) e 'privato' (si
厶)3 che uniti significano 'girare la schiena al privato', nel senso che è pubblico tutto quello che non fa parte del privato. (Novaretti, 2011) Senza approfondire questioni etimologiche e filosofiche, a causa della complessità degli ideogrammi, è importante evidenziare come nella tradizione culturale cinese la differenza tra pubblico e privato sia sempre stata debole, e che nella struttura culturale gli aspetti privati siano prevalenti rispetto a quelli pubblici. Come abbiamo visto in precedenza la stessa formazione dell'ideogramma 'pubblico' ha in se la radice del carattere 'privato'. Nel IX secolo, l'eminente riformatore cinese Mr. Liang Qi-Chao (1873-1929) introdusse il concetto di virtù pubblica (gongdé xin 公德心) nella regolazione della vita sociale, in modo da stabilire di non beneficiare dell'uso del pubblico per interessi privati. (To o Win g - Tak, 2 00 7)
La privatizzazione dello spazio pubblico La tendenza nell'uso del territorio, orientato verso gli aspetti economici, ha portato alla perdita degli attributi dello spazio pubblico. Come conseguenza, la pianificazione per favorire gli interessi finanziari del Governo e dei promotori privati sta perdendo il suo tradizionale ruolo di garante dello spazio sociale, con il rischio di trasferire 2 3
c f r . s ub vo c em , Otto r in o Plan ig ian i, “Vo c abo lar io etimologico della lingua italiana”. Gli ideogrammi cinesi hanno significati multipli, e assumono altri significati se combinati tra loro.
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la gestione e il controllo del territorio pubblico verso la privatizzazione. Secondo Alexander Cuthbert, che ha studiato a lungo gli aspetti e le peculiarità della città di Hong Kong, questo trasferimento di responsabilità si può riassumere in tre aspetti principali. Il primo riguarda la definizione degli spazi pubblici che è sempre più spesso associata allo sviluppo di grandi complessi di nuova costruzione, dove la gestione e la proprietà sono affidati a multinazionali, banche, assicurazioni. Il secondo aspetto, si riferisce al controllo dei flussi pedonali che condizionano la gestione dell'uso del suolo. Gli interessi economici spingono i promotori privati ad approfittare degli spazi di aggregazione e di circolazione per sviluppare luoghi in cui la funzione principale e quella dello shopping. Il terzo aspetto riguarda la questione che il centro commerciale sta sostituendo la funzione aggregativa degli spazi pubblici. L'uso di spazi interni confortevoli, attraverso l'uso di ampie corti e giardini, offre un alternativa agli spazi civici della città, trasferendo la vita pubblica all'interno degli edifici. (Cuthbert, 1999) Negli anni Ottanta il Governo di Hong Kong, al fine di promuovere e migliorare la qualità dello spazio pubblico rispetto alle condizioni di alta densità della città, fece ricorso alla politica degli 'spazi pubblici di proprietà privata', riferito al termine POPS. L'acronimo POPS (Privately Owned Public Space) fu inventato nel 1960 a New York ed è una procedura per la concessione di spazio pubblico all'interno di proprietà private, in cambio di un bonus di superficie costruita. La proprietà resta privata, ma lo spazio in concessione è soggetto alla servitù di uso pubblico in termini di accesso e di utilizzo. (figura 4) L'obiettivo di questa politica era la creazione di spazi pubblici integrati nella struttura urbana, al fine di migliorare l'esperienza pedonale e promuovere la cooperazione con il settore privato. (Kaiden, 1998) Tuttavia, questo tipo di procedura, richiede una riflessione approfondita sull'equilibrio tra uso pubblico e interesse privato. Inevitabilmente in questi spazi ibridi una parte delle attività pubbliche, soprattutto quelle a carattere politico, sono regolate, gestite e spesso vietate. Il rischio è che la gestione privata, possa portare alla perdita degli attributi della vita pubblica, trasformando questi spazi in luoghi in cui l'obiettivo principale è la moltiplicazione delle attività legate al commercio e alla promozione dei beni di consumo. (White, 1980) Nei POPS i proprietari utilizzano le stesse regole che si applicano alla gestione degli spazi privati, contribuendo alla mancanza di identificazione simbolica degli spazi pubblici della città. La soluzione per migliorarne la gestione richiede una chiara definizione dei diritti e delle responsabilità dei proprietari, e linee guida più efficaci per evitare le zone d'ombra della legge. L'uso imponente delle attività commerciali è la principale fonte di conflitto tra il governo e i promotori privati. In questo senso, le norme che regolano la gestione dei POPS prevedono che solo il 10% dello spazio dedicato sia assegnato all'uso commerciale 4.
Figura 4. Jardine House. L'area in rosa rappresenta lo spazio ceduto in concessione per uso pubblico.
Guardando i dati del Dipartimento di Pianificazione, si può notare come la maggior parte dei POPS sia localizzata nel CBD (Central Business District) tra i quartieri di Central e Admiralty. In uno studio più dettagliato della struttura urbana si può notare come gli skyways, i POPS e le stazioni della metropolitana 4
Buildin g Depar tm en t, PNAP n . 2 33
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(MTR)5, formano un un complesso sistema di passaggi e connessioni che attraversano la città a diversi livelli, e canalizzando i flussi pedonali in punti determinati. (figura 5) Questi nodi, con le loro connessioni, sono convergenza di diversi flussi e si configurano essenzialmente come delle vie commerciali. La tendenza verso la commercializzazione dello spazio è un aspetto di fondamentale importanza per i privati, visto che possano approfittare del passaggio diario di migliaia di persone per aumentare i loro profitti. La mancanza di limiti chiaramente definiti tra la sfera pubblica e la sfera privata, genera luoghi in cui la nozione di spazio assume una caratteristica del tutto innovativa e in un certo senso paradossale. Questo sistema, tende a stabilire relazioni e connessioni in se stesso, un labirinto urbano che porta all'esclusione di parti della città. Come conseguenza gli spazi pubblici nelle immediate vicinanze, come Statue Square, e Chater Garden, soffrono della condizione di non essere integrati in questo intricato sistema di flussi pedonali. In realtà questi spazi pubblici sebbene altamente rappresentativi e situati nel cuore della città, non costituiscono luoghi di incontro abituali per la popolazione di Hong Kong.
Figura 5. La sovrapposizione dei POPS, gli skyways e le stazioni della metropolitana. (elaborazione propria) La maggior parte dei POPS si trova in corrispondenza dei principali nodi di trasporto metropolitano. La rete creata dai POPS, gli skyways e le stazioni della metropolitana configura un sistema tridimensionale complesso che permette l'uso intensivo di diversi livelli della città.
Conclusione La politica dell'uso del suolo del governo di Hong Kong si basa sulla ricerca del massimo profitto economico. Questo atteggiamento ha portato ad un impoverimento della pianificazione dello spazio pubblico, che ha perso il suo ruolo strutturale nella formazione della città. La politica dei POPS non ha prodotto un contributo sostanziale, tale da consentire allo spazio pubblico di assumere la condizione di catalizzatore urbano. Gli spazi creati molto spesso hanno tradito le aspettative della proposta. Se ci riferiamo ai dati del Building Department relativi alle dimensioni dei POPS, circa il 70% risultano inferiori a 50m2. Nella maggior parte dei casi, il settore privato usufruiva dei benefici della legge ottenendo il bonus di superficie costruita addizionale, senza però contribuire con spazi che potessero offrire un contributo alla vita pubblica della città. Spesso ci troviamo in presenza di corridoi commerciali, o cul de sac senza alcuna relazione con le strade adiacenti. La commercializzazione priva questi luoghi pubblici della componente sociale e politica, che rappresenta una caratteristica determinante nella formazione dello spazio pubblico come elemento organizzatore delle attività urbane. Come abbiamo visto in precedenza, la pianificazione ad Hong Kong è condizionata da due aspetti principali: la mancanza di suolo edificabile e lo sviluppo strettamente legato agli aspetti finanziari. In tal senso le 5
MTR ( in in g les e, Mas s Tr an s it Railway ) è il s is tem a di tr as po r to f er r o viar io m etr o po litan o della Reg io n e ad am m in is tr azio n e s pec iale di Ho n g Kon g , Repubblic a Po po lar e Cin es e. Attualmen te il s is tem a è c o m po s to da 10 lin ee ( tr e s o n o le lin ee s ubur ban e), è di c ir c a 175 km di lun g hezza c o n 8 7 s tazio n i to tale. Ser ve c ir c a 3,4 m ilio n i di per s o n e o g n i g io r n o , ed è g es tito dall'azien de pr ivata MTR Co r po r atio n , c he dal dic em br e 2 00 7 c o n tr o lla an c he la Kowloo n - Can to n Railway Co r po r atio n ( KCRC).
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norme e i regolamenti fissati dalla Hong Kong standard planning guideline6, possono non essere sufficienti per affrontare i vari aspetti della gestione degli spazi pubblici. Per esempio il capitolo 4 del regolamento stabilisce i requisiti e gli standard da rispettare per la realizzazione degli spazi aperti, ma le norme non specificano se questi debbano essere spazi aperti pubblici o privati. L'ambiguità della legge consente ai promotori di soddisfare i requisiti della legge con la realizzazione di spazi aperti ristretti che non sono accessibili a tutta la popolazione, come ad esempio un giardino realizzato sopra il tetto di un centro commerciale. Questi aspetti sono condizionati dal fatto che una buona parte dell'economia della città si basa sulle entrate ricevute dalla vendita dei diritti dell'uso del suolo, di conseguenza, sia il Governo che gli imprenditori privati tendono ad ottenere il massimo profitto da ogni operazione che interessi la trasformazione e lo sviluppo del territorio. Lo studio intrapreso si propone di analizzare la relazione tra il sistema degli spazi pubblici e le altre componenti che caratterizzano le attività urbane. In particolare l'analisi si concentra sul ruolo dei nuovi spazi della contemporaneità, gli spazi ibridi di uso collettivo, al fine di comprendere la loro logica di funzionamento e stabilire il loro impatto sulla la struttura spaziale della città. La ricerca mira a stabilire una visione approfondita sul fenomeno della privatizzazione dello spazio pubblico nella città di Hong Kong, proponendo un approccio strategico basato sulla lettura fisico-morfologica del tessuto urbano. Attraverso la revisione delle procedure e delle attuali norme urbanistiche, si analizzano le possibilità offerte dai POPS, con l'intento di aumentare la presenza e l'offerta di attività pubbliche all'interno degli edifici, creando un sistema che senza snaturare le caratteristiche della città, possa configurarsi come elemento portante e organizzatore delle attività urbane. È necessario bilanciare la crescita e lo sviluppo della città attraverso l'espansione della vita pubblica, sfruttando le potenzialità offerte dalla collaborazione del pubblico e del privato, e generando spazi che valorizzino il carattere e la cultura del luogo. Per molti versi la città può essere considerata come un 'laboratorio urbano' dove si sperimentano nuove idee assimilando gli errori del passato e migliorando le strategie che si sono rivelate più efficaci. Questa filosofia è condivisa dal Governo e dai promotori privati, che attraverso la loro collaborazione hanno spesso prodotto sinergie positive capaci di tradurre le visioni in realtà ad una velocità sorprendente.
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La Hong Kong standard planning and guideline, rappresenta il documento attraverso cui si stabiliscono le linee guida e le norme per la gestione degli spazi aperti ad Hong Kong.
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Forma della città, sostenibilità urbana e qualità del paesaggio
Forma della città, sostenibilità urbana e qualità del paesaggio Roberta Cocci Grifoni SAD (Scuola di Architettura e Design “E. Vittoria”), Unicam Email: roberta. coccigrifoni @unicam.it Tel/fax 0737. 404259 Rosalba D’Onofrio SAD (Scuola di Architettura e Design “E. Vittoria”), Unicam Email: rosalba.donofrio@unicam.it Tel/fax 0737.404253 Massimo Sargolini SAD (Scuola di Architettura e Design “E, Vittoria), Unicam Email: massimo.sargolini @unicam.it Tel/fax 0733.658488
Abstract Da anni gruppi di ricerca internazionali si stanno interrogando sul rapporto tra la forma della città e l’ecosistema urbano; tuttavia ancora non esiste un quadro concettuale condiviso che ci permetta di confrontare i diversi approcci per l'individuazione di una forma urbana in grado di rispondere efficacemente alle esigenze dell'ecosistema e delle biocenosi in esso rappresentate. Una ricerca che l'Università di Camerino sta coordinando prende proprio in considerazione l’interdipendenza tra processi antropici e naturali nella gestione della crescita e della riqualificazione delle città mediante lo studio di nuovi indicatori di qualità della vita urbana “transdisciplinari” che sviluppino mutue correlazioni e adattabilità al contesto di riferimento. La ricerca si propone di costruire un nuovo modello integrato e multiobiettivo denominato “QLandQLife” che potrà gestire nuovi parametri di qualità della vita urbana, da applicare ai diversi profili idealtipici della città adriatica esistenti e di scenario, e che potrà essere di supporto per un DSS (Sistema di Supporto alle Decisioni) in grado di orientare le scelte nei processi di governance urbana. Parole chiave forma urbana, qualità del paesaggio, qualità della vita
L'ecosistema urbano Il recente dibattito politico, che nel mezzo di profondi cambiamenti economici, ecologici e sociali, scuote il continente europeo, tende a rimettere in discussione il concetto di crescita. Le stesse visioni di importanti studiosi impegnati nel guardare al futuro del pianeta (Georgescu-Roegen N., 2003), (Latouche S, 2004) sono concordi nel considerare il PIL non più come l'unico indicatore possibile del benessere di un Paese e, dal 1968, anche sulla spinta del celebre discorso di Robert Kennedy alla Kansas University, diversi eventi nazionali ed europei si spingono nella direzione di ricercare più adeguati indicatori della crescita. La Conferenza internazionale "Beyound GDP" ("Oltre il PIL") organizzata dalla Commissione Europea, dal Parlamento Europeo, dall'OCSE e dal WWF, nel novembre 2008, si è posta questo obiettivo. I primi risultati si son subito visti, nei mesi successivi, quando Nicolas Sarkozy ha annunciato di aver incaricato due premi Nobel per l'economia, l'americano Joseph Stiglitz e l'indiano Amartya Sen, di studiare indicatori più incisivi per determinare i livelli della crescita in Francia. In queste prime esperienze, vengono tenuti in alta considerazione sia la qualità complessiva del paesaggio che i singoli fattori ambientali, con particolare attenzione agli inquinamenti creati, mitigati o addirittura annullati dall'attività d'impresa. Insomma, studiare la qualità della vita è questione complessa e obbliga chi si occupa di organizzazione urbana e territoriale e di disegno della città a Roberta Cocci Grifoni, Rosalba D’Onofrio, Massimo Sargolini
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ripensare modelli di articolazione degli usi e delle funzioni capaci di rispondere non solo a equilibri formali e compositivi ma anche a parametrizzazioni fisico, chimiche, biologiche, ecologiche, percettive e sociali. Tuttavia se, come sembra, il consumo di merci e servizi non è sufficiente a misurare il benessere umano, e nuovi indicatori dovranno considerarsi, il campo di approfondimento diventa quello dell'ecosistema urbano, dove attualmente si concentra più del 50% della popolazione del pianeta e, probabilmente, raggiungerà il 70% nel 20501. In tal senso, non è più sufficiente delineare l'immagine di una città "attenta alle questioni dell'ambiente", bensì sarà necessario trovare il nesso fondante delle interazioni tra l'uomo e le componenti biotiche e abiotiche. Infatti, nelle regole che disciplinano l'organizzazione complessiva della città si intrecciano e si integrano i prodotti dell'azione umana (trame insediative, produttive, reti infrastrutturali, …) con quelli biologici (aria, acqua, suolo, ...), i servizi che l'uomo organizza per la città e i suoi abitanti, quasi sempre altamente energivori, con quelli ecosistemici che la natura garantisce, a costo energetico pari a zero, anche all'interno della città, entro margini di flessibilità definiti. I fattori climatici, geologici e biologici, che definiscono l'ambiente urbano, sono riferimenti strutturali con cui si dovrà confrontare chiunque intenda dare una forma alla città e l'interazione progettuale con questi fattori diventa operazione complessa tutta da sperimentare. Ad oggi, il rapporto tra le diverse forme di città e gli ecosistemi urbani che comunque vi risiedono non sono noti. Né riusciamo a codificare relazioni tra le diverse densità e i livelli di connettività urbana. Da circa quindici anni gruppi di ricerca internazionali si stanno interrogando su questo tema alle diverse scale spaziali, tuttavia ancora non esiste un quadro concettuale comune che ci permetta di confrontare questi diversi approcci per l'individuazione di una forma urbana in grado di rispondere efficacemente alle esigenze dell'ecosistema e delle biocenosi in esso rappresentate. Una ricerca2 che l'Università di Camerino sta conducendo, attraverso il coordinamento di un ampio gruppo di lavoro interdisciplinare ed interateneo prende proprio in considerazione l’interdipendenza tra processi antropici e naturali nella gestione della crescita e della riqualificazione delle città. Si tratta di mettere in campo un nuovo quadro di riferimento per guidare l’evoluzione della forma urbana rispondendo alle esigenze dell'ecosistema urbano e quindi rispondendo meglio alle complesse interazioni tra processi umani, resilienza ambientale ed ecologica, paesaggio.
Dalla qualità del paesaggio alla qualità della vita Nella succitata ricerca di ateneo in preparazione di un percorso di approfondimento interuniversitario e internazionale, ERC Sinergy Grant, individuando come caso studio la città adriatica, è stato prodotto un avanzamento della riflessione, riguardante il rapporto tra paesaggio e qualità della vita, tenendo sullo sfondo i grandi temi della sostenibilità (fig.1). E' evidente che si parte da una concezione di paesaggio diffusa dalla Convenzione Europea di Paesaggio (2000) che evidenzia le interazioni profonde tra uomo e territorio, e include, da un lato, l'oggettività del paradigma ambientale, dall'altro, la soggettività delle percezioni, degli immaginari, delle emozioni e delle aspettative delle "popolazioni interessate". Nel caso studio, si è indagato dapprima sugli ambiti tematici dell'interpretazione paesaggistica che influiscono sulla qualità della vita; quindi sono state sperimentate modalità di raffronto tra i diversi approfondimenti per la determinazione di indici valutativi sintetici. Soffermiamoci, per ora, sul primo punto analizzando brevemente quei temi ricorrenti nel momento in cui gli obiettivi riguardano la qualità della vita e la sostenibilità urbana. Su questi temi vorremmo aprire un dibattito allargato e aperto per cogliere, con l'ausilio di altre competenze il reale contributo che i diversi saperi possono dare al miglioramento della qualità della vita in ambito urbano. Il primo filone di ricerca si incentra sul tema “ Identity and pleasant”, approfondendo, in particolare, il ruolo dei parchi, degli spazi aperti e del verde (lineare e puntuale) della città e dell'immediato contesto nei rapporti con le infrastrutture ambientali del territorio circostante, i percorsi lenti, le risorse architettoniche ed archeologiche, le centralità ed i luoghi dell'identificazione collettiva della città, per il miglioramento delle attività dell'abitare e quindi del lavoro, della residenza, dell'incontro, delle relazioni sociali, del loisir. Il secondo filone di ricerca “Efficient and fine (nice) ” riguarda, in particolare, l'organizzazione complessiva della città, e dei suoi fabbisogni energetici, alle diverse scale della realizzazione edilizia nei rapporti con la programmazione urbanistica ed economica della città e del suo contesto territoriale, con l'obiettivo di migliorare la qualità dei manufatti edilizi e degli spazi aperti di relazione, in funzione di una complessiva riduzione dei consumi energetici e di una più ampia e intelligente utilizzazione di energia da fonti rinnovabili. In questo caso, la lente paesaggio è affiancata da quella dell'energia che diventa materia e struttura di nuovi paesaggi. I due approcci, insieme, smontano e rimontano i molteplici livelli di lettura e le altrettante diverse problematiche su cui ragionano e lavorano tutte le discipline che incidono sulla trasformazione dei nostri quadri di vita. Il terzo, ”Clean and healthy”, approfondisce, in particolare, i temi della sicurezza e della qualità delle componenti principali dell'ambiente urbano: aria, acqua, suolo; alle diverse scale dell'organizzazione della città; 1 2
Secondo il Rapporto ONU ”State of the World’s Cities 2008/2009 - Harmonious Cities”. Ricerca Interateneo “Qualità del Paesaggio- Qualità della Vita”(2012), Università di Camerino, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Politecnica delle Marche.
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nei rapporti con il contesto territoriale, le esigenze dell'abitare, gli equilibri formali e compositivi complessivi e delle singole realizzazioni, al fine di favorire la riduzione degli inquinanti di ogni tipo e innalzare la qualità dell'ambiente urbano. In questo ambito di approfondimento, il confronto con i saperi delle scienze della terra, naturali e biologiche è particolarmente serrato e uno sforzo particolare dovrà essere prodotto per favorire accordi e confronti di linguaggio e di metodo. Il paesaggio, dunque, che da sempre racconta le metamorfosi del territorio, documentando vicende complesse che hanno interessato la storia delle città e i cui effetti oggi assumono, più che in altri periodi storici, caratteri di irreversibilità, va studiato anche in nome della sostenibilità dello sviluppo e della ricerca di una migliore qualità della vita. Il punto di partenza è comprendere quali siano i gradi di libertà di un luogo e quali siano i gradi di trasformazione che uno specifico territorio può sopportare; avendo cura di restare all'interno dei margini di flessibilità che quel luogo deve mantenere per la sua sopravvivenza paesaggistica.
Figura 1. Il sistema insediativo della costa marchigiana da Senigallia a San Benedetto del Tronto. Ambiente e consumo di Suolo nelle Marche (2012), a cura di Regione Marche.
Le frontiere della ricerca Il rapporto tra forma della città, sostenibilità urbana e qualità della vita non è nuovo. Esso, da alcuni decenni, è oggetto di un serrato dibattito sia a livello accademico che politico; tuttavia si è ancora alla ricerca di una teoria condivisa, applicabile ed utilizzabile da parte dei pianificatori. L’Unione Europea, con il Green Paper on the Urban Environment (1990) e successivamente, con la Carta Europea II (2008) ha indicato la città densa e compatta come la soluzione migliore per il raggiungimento dell’efficienza energetica e della qualità urbana, nonché come la più sostenibile dal punto di vista economico, in quanto richiede minori risorse di funzionamento, garantendo un più efficiente accesso ai servizi da parte della popolazione. Tuttavia tale affermazione non è così scontata e condivisa. Sebbene la densità abbia una profonda relazione con la morfologia urbana, essa da sola non è sufficiente a garantire elevati tassi di qualità ed efficienza della città contemporanea (B.Vale e R.Vale, 2010); le ricerche svolte a sostegno di una maggiore densità, o al contrario di una maggiore dispersione insediativa, mostrano ancora risultati parziali, disomogenei, che non tengono conto di visioni sistemiche e che, ovviamente, richiamano concetti e misure differenti nei diversi paesi e nelle diverse culture (Cheng V., 2010). Dal punto di vista ecologico, il dibattito scientifico di questo ultimo decennio ha spaziato da questioni strettamente attinenti la questione ambientale alla qualità della vita legata alla presenza della natura in città. Alcune argomentazioni strettamente legate alla conservazione della biodiversità sembrano sostenere la città compatta (Jim C.Y., Chen S.S. 2003); altri studi argomentano la capacità del verde di contrastare l’isola di calore diminuendo le Roberta Cocci Grifoni, Rosalba D’Onofrio, Massimo Sargolini
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temperature, consentendo in questo modo di ottenere importanti risparmi di energia, necessaria al funzionamento degli impianti di condizionamento (Santamouris, 2001). La presenza della natura in città è stata, infine, esplorata nel progetto Living cities nella città di Birmingham (Hinchliffe, S., Whatmore, S., 2006), analizzando le relazioni, non solo umane, che caratterizzano le città, e guardando, con particolare attenzione, all'attuarsi della catena biologica tra le diverse specie animali in città. Dal punto di vista del sistema dei trasporti e dei flussi energetici, secondo R. Burdett e D. Sudjic (2008), la città compatta massimizza il rendimento dei sistemi urbani di trasporto meccanizzato; l’alta densità delle costruzioni permette, infatti, l’attuazione di quel “metabolismo circolare” che l’ecologo urbano Herbert Girardet indica come strategia risolutiva per la riduzione dell’impatto ambientale delle aree urbane (Kennedy, C., Pincetl, S., & Bunje, P., 2011). Al contrario, sembra essere proprio la dispersione territoriale a produrre i valori massimi di captazione e utilizzo delle fonti alternative pulite, favorite ovviamente dalla maggiore disponibilità di superficie libera e dalla ridotta presenza di ostacoli (C. Diamantini, D. Vettorato, 2011). A livello sociale, l’importanza riconosciuta al binomio densità urbana-prossimità è sostenuta in Reale L. (2008), da qui la considerazione che la qualità urbana di una città è sicuramente legata anche alla vicinanza tra persone e attività e al rapporto tra la città e le funzioni che vi vengono erogate (Blakely, Edward J., 2001). Infine, nel campo urbanistico, la ricerca dei valori ottimali della densità urbana ai fini della pianificazione urbana e territoriale ha guidato il lavoro di numerosi studiosi nell’analisi comparativa sulla maggiore efficienza (non solo energetica, ma anche sul consumo di risorse) di un modello rispetto all’altro. Tra i lavori più importanti: “The cost of sprawl” condotto dal Governo Americano, tra gli anni '70 e 90 del secolo scorso e, tra i più recenti, quelli che si interrogano non su "qual è la densità ottimale”, ma su “qual è la densità ottimale per ogni specifica citta” (Roaf, S. 2010). Da più parti si invoca un approccio sistemico, non più basato su modalità di indagine e di valutazione di tipo verticalistico e monodisciplinare. In tale direzione si muove, ad esempio, il recentissimo progetto SUME (Sustainable urban metabolism for Europe), finanziato dall'UE (European Community's, 2012). Anche questo studio, però, pur caratterizzato dal tentativo di superare i confini tra i diversi ambiti della conoscenza scientifica, non ha ancora superato la forte cesura tra la conoscenza scientifica / accademica e gli altri tipi di competenze di proprietà dei “city users” (cittadini, professionisti, amministratori pubblici). Al contrario, il contributo di C. S. Bertuglia, L. Staricco, F. Rota (2004) sembra porre maggiore attenzione ai problemi della vita quotidiana nelle città anche aprendo un confronto tra questi e gli attori politici e sociali. In questa prospettiva , le diverse discipline si confrontano da anni anche sulla misurazione della sostenibilità urbana. In ambito internazionale, la individuazione di sistemi di indicatori di sostenibilità ha tratto importanti spunti e impulsi dal lavoro della United Nations Commission for Sustainable Development (UN CSD), della World Bank, del United Nations Human Settlements Programme (Habitat II) e dagli Indicatori Comuni Europei (ICE), ecc. Accanto a tali set di indicatori, che riguardano per lo più singoli aspetti dell’ecosistema urbano, nell’ultimo periodo, si sono individuati indicatori altamente aggregati o indici che condensano più indicatori. Tra di essi: il Global Warming Potential o il set di indicatori Leed 2009 For Neighborhood Development che è stato sviluppato dal Congresso per il New Urbanism (Chicago). Anche in questo caso, però, i risultati non sono soddisfacenti. Un esercizio di innovazione del processo di pianificazione non può più prescindere dalla adozione di set di indicatori interdisciplinari in grado di rappresentare la complessità della realtà analizzata. Si inseriscono in questa prospettiva studi sull’”accounting” nelle città (Lapsley, I., Miller, P., & Panozzo, F. (2010) e sulla selezione delle metriche per l’informazione dei processi di pianificazione (Holman, N., 2009; Joss, S., Tomozeiu, D., & Cowley, R. (2012), ecc.
La costruzione di un Sistema di Supporto alle Decisioni (DSS) per la sostenibilità della città adriatica Rispetto all'attuale quadro delle conoscenze emergono due ambiti principali di riflessione, dai quali è scaturita la ricerca “QLand QLife” dell’Università di Camerino3: la necessità, da una parte, di affrontare la complessità della sostenibilità urbana tramite un approccio transdisciplinare, superando i confini tra i diversi ambiti della conoscenza scientifica e, dall’altra, 3
Il gruppo di lavoro coordinato da Massimo Sargolini è composto dai seguenti ricercatori: Tema di ricerca “ Identity and pleasant”: Giandiego Campetella, Roberto Canullo, Andrea Catorci, Roberta Caprodossi; Marco Cervellini; Stefano Chelli, Maria Teresa Idone; Paolo Santarelli. Consulenti: Paul M. Bray, Teodor Bilushi; Giorgio Osti; Vincenzo Riso. Tema di ricerca “Efficient and fine (nice)” : Anna Bonvini; Roberta Cocci Grifoni; Rosalba D’Onofrio; Marta Magagnini; Federica Ottone; Massimo Perriccioli; Monica Rossi; Massimo Sargolini (P.I.); Michele Talia. Consulenti: Paolo Angelini; Massimo Battaglia; Luca Cetara; Fabrizio Cinquini; Renato De Leone; Marco Frey; Riccardo Santolini; Luciano Spinozzi; Angioletta Voghera. Tema di ricerca ”Clean and healthy”: Alessio Acciarri; Claudio Alimenti; Carlo Bisci; Gino Cantalamessa; Bernardino Gentili; Giorgio Di Pancrazio; Barbara Fenni, Alessandro Fusari; Gilberto Mosconi; Francesco Alessandro Palermo; Adriana Vallesi. Consulenti: Graziano Di Giuseppe; Persebastiano Ferranti; Maria Chiara Invernizzi; Sara Spuntarelli.
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l'opportunità di integrare la conoscenza scientifica / accademica con gli altri tipi di competenze di proprietà dei “city users” (cittadini, professionisti, amministratori pubblici), ecc.; la considerazione che, andando oltre la “città ideale” e la diatriba tra “città compatta / città diffusa”, occorra sempre valutare un ventaglio di soluzioni strettamente legate alla complessità dell'organismo urbano che si ha di fronte. La nostra ricerca, incentrata in alcuni casi studio della città adriatica, prende le mosse da queste riflessioni e tenta di produrre avanzamenti disciplinari relativamente: alla interpretazione e alla valutazione della complessità urbana e del cosiddetto “effetto città” mediante la ricerca di nuovi indicatori di qualità della vita urbana “transdisciplinari” che, superando l’approccio verticalista e monodisciplinare, sviluppino mutue correlazioni e adattabilità al contesto di riferimento; alla definizione di un nuovo modello integrato e multiobiettivo denominato “QLandQLife” che potrà gestire nuovi parametri di qualità della vita urbana, da applicare ai diversi profili idealtipici della città adriatica esistenti e di scenario; alla costruzione di una conoscenza integrata della città finalizzata alla governance urbana e territoriale, che possa orientare le politiche e le strategie decisionali ai diversi livelli di governo del territorio per innalzare la qualità del paesaggio e con essa la qualità della vita degli abitanti delle città. L’obiettivo principale della ricerca è pertanto quello di individuare un modello operativo di sostegno alle decisioni in grado di guidare le pubbliche amministrazioni nella individuazione degli scenari di sviluppo più idonei per rispondere alle esigenze e alle aspettative dei territori e, nello stesso tempo, più sostenibili ai fini dell’efficienza e del risparmio energetico, ai fini ambientali, sociali ed economici. In tal senso, si rendono necessarie attività volte a: reinterpretare, con un approccio transdisciplinare, le relazioni tra le diverse componenti fisiche e ambientali, morfologiche, storiche e socioeconomiche della città, con l'obiettivo primario di assicurare una più elevata sostenibilità e condivisione delle trasformazioni possibili o programmate; “misurare” la sostenibilità dell’ambiente urbano, attraverso lo studio di un “modello dinamico, integrato” che, configurandosi come uno strumento di valutazione multicriteri, superi e aggiorni i tradizionali indicatori della sostenibilità urbana, basati sulla verticalità dei temi di indagine (mobilità, manufatto edilizio, efficienza energetica, qualità dell’aria e delle acque, qualità ambientale, ecc.). Tali indicatori, agendo separatamente, si sono dimostrati ampiamente insufficienti a render conto della complessità urbana e poco efficaci nel proporsi quali elementi di supporto costante e ciclico rispetto agli strumenti strategico-strutturali e operativi della pianificazione; applicare il nuovo modello di valutazione a supporto dei piani urbanistici di scala locale e di scala vasta, al fine di facilitare la valutazione degli scenari di sviluppo contenuti nei piani stessi, mettendoli in relazione con gli obiettivi di sostenibilità che ciascun ambito territoriale vuole raggiungere. L’intento è quello di ottenere un punto di equilibrio dinamico accettabile, raggiungibile e verificabile nel tempo, attraverso operazioni di monitoraggio, in grado di segnalare le criticità e riorientare le opzioni di sviluppo. Per favorire l'individuazione di uno strumento operativo di sostegno alle decisioni (un Sistema di Supporto alle Decisioni - DSS), da applicare nel corso del “policy cycle”, la ricerca si concentra nella costruzione di un modello dinamico integrato con ottimizzazione parametrica in grado di cogliere le complesse interconnessioni tra i diversi modelli (idealtipi) urbani e i possibili “driver” della qualità della vita. Il processo di identificazione del modello da utilizzare potrà avvalersi della combinazione di un approccio neurale (affiancato ad eventuali altre tecniche di Machine Learning), i cui risultati saranno raccordati con quelli di un'analisi di ottimizzazione parametrica multiobiettivo. L'astrazione necessaria per la definizione concettuale del modello denominato “QlandQLife” affianca alcuni “attributi” della forma urbana (densità, complessità, centralità, compattezza, porosità, ecc.) ai “modelli formali” (idealtipi) esemplificativi della città europea desunti dal GMES “Urban Atlas” della Commissione Europea (esplicitati attraverso la costruzione di un transetto tipo “dall’urbano al rurale”). Il modello prenderà in considerazione le connessioni, la mutua relazione dinamica e l’adattabilità tra i differenti “attributi” della forma urbana (utilizzati in forma aggregata) con ciascuno degli idealtipi presi in esame.
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Bibliografia Bertuglia C. S., Staricco L., Rota F., (2004), Pianificazione strategica e sostenibilità urbana. Concettualizzazioni e sperimentazioni in Italia, Milano, F. Angeli. Blakely E. J. (2001),Competitive Advantage for the 21st Century: can a place-based approach to economic development survive in a cyberspace age?, in APA Journal Vol. 67 (2), 133-141. Burdett R., Sudjic D., (2008), The endless city, Phaidon Press, London. Cheng V. (2010), “Understanding Density and High Density “, in Ng E. edited by, Designing High-Density Cities for Social and Environmental Sustainability, Earthscan, London. Diamantini C., Vettorato D. (2011),” Urban sprawl: can it be sustainable? An analysis on energy performances of different urban forms", in C.A. Brebbia, E. Beriatos (a cura di), Sustainable Development and Planning V, Southampton: Witt Press, 133-144. Fusco Girard L., Nijkamp P. (1997), Le valutazioni per lo sviluppo sostenibile della città e del territorio, Milano, F. Angeli. Georgescu-Roegen N. (2003), Bioeconomia, Verso un’economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati- Boringhieri, Torino. Hinchliffe S., Whatmore S. (2006), Living cities: toward a politics of conviviality, in Science as Culture, vol.15, No.2. Holman N. (2009), Incorporating local sustainability indicators into structures of local governance: a review of the literature, in Local environment, 14(4), 365-375; Jim C.Y., Chen S.S. ( 2003), Comprehensive greenspace planning based on landscape ecology principles in compact Nanjing city, China, in Landscape and Urban Planning no.65, 95–116. Joss, S., Tomozeiu, D., & Cowley, R. (2012), Eco-city indicators: governance challenges, in WIT Transactions on Ecology and the Environment, vol. 155: 109-120 . Kennedy C., Pincetl S., & Bunje P. (2010), The study of urban metabolism and its applications to urban planning and design, Selected papers from the conference Urban Environmental Pollution: Overcoming Obstacles to Sustainability and Quality of Life (UEP2010), 20-23 June 2010, Boston. Latouche S, (2004), Degrowth economics: why less should be much more. Le Monde Diplomatique. Reale L. (2008), Densità Città Residenza. Tecniche di densificazione e strategie anti-sprawl, Roma, Gangemi editore. Santamouris M. (2001),”The role of green spaces”, in Santamouris M. (ed) Energy and Climate in the Built Environment, London, James & James Ltd 97-109. Vale, B A., & Vale, R J D. (2010),”Is the High-Density City the Only Option?”, in Designing High-Density Cities. Ins by Ng, E. (Eds). London, Earthscan,21-26.
Roberta Cocci Grifoni, Rosalba D’Onofrio, Massimo Sargolini
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Le forme dell’urbano: il ruolo della pianificazione nei territori post-metropolitani
Le forme dell’urbano: il ruolo della pianificazione nei territori post-metropolitani Mauro Francini * Università della Calabria Dipartimento di Ingegneria Civile Email: francini@unical.it Tel. 0984.496766, Fax 0984.496766 Maria Francesca Viapiana * Università della Calabria Dipartimento di Ingegneria Civile Email: mf.viapiana@unical.it Tel. 0984.496764, Fax 0984.496766
Abstract Lo sviluppo delle post-metropoli appare sempre meno il prodotto di una reale pianificazione urbanistica e sempre più il risultato di un suo cambiamento paradigmatico. Sono le forze di mercato, e non gli organi politico-amministrativi, che ne guidano l’espansione e stabiliscono gli indirizzi della pianificazione agendo sul territorio all’insegna della deregolamentazione, attraverso interventi puntuali piuttosto che coordinati e organici. Alle amministrazioni spetta il compito residuale di inseguire lo sviluppo frenetico dell’iniziativa privata provvedendo, solo in seguito, a realizzare le infrastrutture. Ma le post-metropoli sono altro rispetto alle città? O sono piuttosto nuove forme urbane cui dare nuove risposte? Nel paper si sostiene che questi territori si possono studiare senza considerarli come anomala contrapposizione alla città compatta o come negazione di ogni possibilità di luogo, e che un nuovo approccio al fenomeno può contribuire a restituire un ruolo alla pianificazione. Parole chiave Territori post-metropolitani, metropoli diffusa, deregolamentazione
1 | Le nuove forme di aggregazione urbana e il valore simbolico della città «La storia della città è la storia di diverse forme di organizzazione dello spazio» che mutano nel corso del tempo (Cacciari, 2004). La stessa città contemporanea non è più quella nella quale viviamo ora, ma rappresenta un coacervo di trasformazioni in corso nel quale l’intrecciarsi di una serie di fenomeni determinati dai processi di urbanizzazione degli ultimi decenni − esplosione della mobilità individuale, decentramento delle funzioni residenziali e commerciali, incremento della comunicazione digitale – ha dato vita a nuove forme urbane che aggregano senza distinzioni metropoli, parti di campagna, aree industriali, generando insediamenti eterogenei che hanno saturato gli spazi aperti instaurando rapporti di dipendenza tra aree destinate a usi diversi (residenziale, produttivo, ecc.). La dimensione di indefinibilità di queste entità è data dal fatto che esse difficilmente possono essere riconosciute nella loro interezza: è possibile coglierle complessivamente solo attraversandole in auto, e di alcune si può avere percezione solo attraverso le immagini dei satelliti, in particolare quelle notturne che attraverso le esplosioni luminose restituiscono un’idea del paesaggio antropizzato (Sartoretti, 2012). Questo processo ha comportato la crisi della città intesa come ordine e raziocinio, lasciando spazio a una città che si potrebbe definire infinita, per l’estensione e la grandezza del territorio, ma anche per la complessità dovuta alla pluralità delle sue componenti. Una città che si è aperta a una più ampia dimensione dei flussi (commerciali, * La redazione del paragrafo 1 è di Maria Francesca Viapiana, la redazione del paragrafo 2 è di Mauro Francini. Mauro Francini, Maria Francesca Viapiana
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culturali, informativi) e all’intreccio inestricabile tra flussi e luoghi (interconnessione e comunicazione di ambiti diversi, spesso anche lontani) (Bonomi, 2001), producendo una moltiplicazione degli spazi che si diffondono uno dentro l’altro finendo per sovrapporsi: gli spazi organizzati e riconoscibili (determinati da piani e da classificazioni urbanistiche) si incontrano (scontrano?) con la frammentazione dei tessuti in un intrico di elementi. La metropoli, o post-metropoli, è dunque descrivibile come una semplice contrapposizione di elementi generati sempre più spesso dalle leggi della crescita economica: una città nella quale il tempo dettato dal rapporto produzione/consumo regola tutti gli altri. La logica di questo rapporto viene applicata ovunque, al punto che si può parlare di richiamo “magnetico” esercitato da esso su ogni funzione e ogni aspetto della vita collettiva. Il territorio è stato via via utilizzato solo come supporto tecnico di attività e funzioni economiche, che sono state localizzate secondo criteri interni al contesto di speculazione e tecnologico, e sono diventate sempre più indipendenti dalle relazioni con il luogo e dalle sue tradizioni e identità. Mentre nella città tradizionale esisteva una corrispondenza tra i tempi delle funzioni, del lavoro, delle relazioni e la qualità (Cacciari, 2004), lo sviluppo post-metropolitano ha distrutto questo equilibrio tra spazi, temi, luoghi e funzioni e ha abbattuto la discontinuità identitaria degli spazi e dei volumi, favorendo una continuità che è, in realtà, omologazione e appiattimento; una continuità che è anche alla base dell’assenza di spazi pubblici e di oggetti architettonici riconoscibili. Questo totale sganciamento dalle regole costitutive dell’identità dei luoghi − adottando una regola insediativa intangibile basata sul rapporto uomo-funzioni-auto, e non più sul rapporto uomo-milieu-natura – ha portato all’indifferenza verso il territorio inteso come “bene comune” sul quale la città pubblica si è sempre, se pure in forme diverse, modellata. Alla forma tradizionale della città si è sostituita la grande metropoli senza forma, dove l’elemento della definizione viene meno e il continuum urbanizzato favorisce la privatizzazione dello spazio pubblico, la parcellizzazione del vuoto in spazi amorfi, negando le strutture architettoniche urbane di tipo gerarchico, nelle quali si instauravano differenti relazioni di importanza all’interno del sistema (Fronzi, 2013). Il costruito magmatico si è diffuso, dunque, senza ostacoli e ha pervaso con le proprie regole intere aree occupandole, sfruttandole e creando “non-luoghi”: spazi privi delle espressioni simboliche di identità, relazione e storia che, così come formati, scoraggiano l’idea di insediarvisi, rendendo l’occupazione dello spazio pubblico praticamente impossibile e il cui unico destino è il mero attraversamento. Così facendo è venuta meno la città intesa come organismo, ossia la base antropologica del nostro sviluppo civile: «la città è ovunque, dunque non vi è più città», afferma Cacciari (Cacciari, 2004). Al suo posto esistono territori per i quali la possibilità stessa di fissare confini appare inconcepibile, o meglio, si è ridotta a un affare puramente tecnico-amministrativo; fra una città e l’altra, infatti, spesso c’è un confine che è solo amministrativo, cui non corrisponde di fatto alcuna interruzione fisica. Chiamiamo ancora città questi ambiti per ragioni solamente occasionali; i confini sono solo un puro artificio, perché questi territori non hanno limiti (esterni, così come interni). Sono conurbazioni che saturano il proprio territorio includendo in maniera indistinta pieni e vuoti, riproducendo la propria struttura sempre uguale a se stessa, schiacciando le differenze del territorio e con-fondendo le proprie funzioni. In questa forma di città infinita si dissolvono i margini e cambiano i rapporti che eravamo stati abituati a stabilire (rapporto di subalternità della periferia rispetto al centro, della città rispetto alla campagna, ecc.). Mentre nel sistema accentrato e piramidale, fortemente gerarchico, della società industriale di massa, le periferie hanno sempre costituito le zone di disimpegno della vita civile, oggi questo sistema decentrato, multiforme e trasversale dei processi post-industriali produce delle manifestazioni periferiche che ricomprendono in sé anche i luoghi che le hanno generate (Puglisi, 2009). Il risultato di questo processo, che alle volte appare irreversibile, è una rete di centri dai limiti dissolti, diffusi in maniera discontinua lungo le linee di flusso e le infrastrutture viarie, un territorio policentrico − privo di forti gerarchizzazioni e piuttosto orizzontale − in cui il movimento caratterizza e disegna lo spazio, definendo la rapida evoluzione delle città verso forme prive di identità, non più compatte, ma disgregate in un esteso intorno periurbano, costituito da insediamenti dispersi e decentralizzati. Un’immagine che comunica un senso di disordine e casualità dato, in generale, sia dalle dimensioni imprecisabili della post-metropoli, dalla sua assenza di confini e di un dentro e un fuori, sia da nuove relazioni di vicinanza fra edifici e funzioni. L’immagine di un territorio caratterizzato da un’espansione sempre più occasionale, sempre meno programmata e governabile, in cui la distribuzione dell’edificato sembra seguire il principio di casualità. Quanto più l’irrequieto spazio metropolitano si espande e consuma il territorio limitrofo, tanto più la sua forza vitale sembra perdersi; quanto più esso diventa dominante, tanto meno sembra in grado di disciplinare e sistematizzare la vita che vi si svolge. I poteri che determinano la crescita metropolitana faticano sempre più a concretizzarsi in un ordine territoriale e a dare vita a forme di convivenza visibili sul territorio, ossia spazialmente identificabili. Uno sviluppo senza meta, privo di una sua organicità, che sembra comportare una perdita del valore simbolico della città. In realtà, in questo continuum urbano senza fine dei territori post-metropolitani, in questo susseguirsi di connessioni che attraversano paesaggi funzionalmente eterogenei, il disordine è solo apparente. Lo sviluppo frammentato e disperso degli insediamenti, invece, è piuttosto determinato da un sistema razionale del tutto Mauro Francini, Maria Francesca Viapiana
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Le forme dell’urbano: il ruolo della pianificazione nei territori post-metropolitani
coerente e funzionale ai nuovi stili di vita basati sulla cultura dell’individualismo e sulla motorizzazione di massa (Viapiana, 2009). Il limite dello spazio post-metropolitano coincide con il limite fino al quale si spinge la rete delle comunicazioni; via via che tale rete si fa più rarefatta è possibile immaginare di uscire dalla post-metropoli, ma è tuttavia evidente che si tratta di un confine anomalo, in continua ridefinizione, che esiste soltanto per essere ulteriormente superato.
2 | La crisi dello spazio urbano e il nuovo ruolo della pianificazione Naturalmente, in questo spazio disperso permangono e trovano ancora posto delle polarità, ossia delle attività che si possono considerare essenziali e che attraggono intorno a sé le forme di connessione, la mobilità, ecc. Ma la realtà è che queste polarità potrebbero trovare posto ovunque: le attività prodotte da decisioni di investimento produttivo, commerciale, amministrativo, ecc. possono localizzarsi ormai senza tener conto degli assi tradizionali di espansione della città. I ruoli di centro e di periferia possono interscambiarsi continuamente, ma solo su basi occasionali o dietro ragioni commerciali e speculative, che rigettano ogni schema funzionale predeterminato. Il territorio continua, cioè, a specializzarsi, ma al di fuori di ogni progetto complessivo e secondo una logica de-territorializzante e anti-spaziale. A stabilire i confini e le motivazioni di questo processo non è, dunque, un intenzionale disegno urbanistico, quanto piuttosto dei limiti indiretti − come quelli determinati dal sistema relazionale o da particolari condizioni fisiche − o delle ragioni di natura economica. Lo sviluppo delle post-metropoli appare, infatti, sempre meno il prodotto di una reale pianificazione urbanistica e sempre più il risultato di un suo cambiamento paradigmatico. Sono le forze di mercato che guidano l’espansione di questi territori in luogo degli organi politico-amministrativi: le forze di mercato, più che gli enti statali preposti, stabiliscono gli indirizzi della pianificazione territoriale agendo sul territorio all’insegna della deregolamentazione, attraverso interventi puntuali piuttosto che coordinati e organici. Alle amministrazioni spetta il compito residuale di inseguire lo sviluppo frenetico dell’iniziativa privata provvedendo, a posteriori, a realizzare le infrastrutture, con ciò ponendo le basi per ulteriori ampliamenti di questo processo e ulteriore consumo di suolo (Sartoretti, 2012). Alla luce di queste riflessioni, ci si deve porre l’interrogativo se sia ormai superata l’idea di «città come aggregazione successiva di elementi, dall’abitazione all’edificio, al polo funzionale, alla città intera come “contenitore di contenitori”» (Cacciari, 2004) e se queste nuove forme di organizzazione dello spazio costituiscano la fine di ogni forma di aggregazione o, piuttosto, siano il prodotto di un processo di liberazione da un sistema di vincoli. In altri termini, ci si deve chiedere se questi territori sono altro rispetto alle città o se, invece, sono nuove configurazioni urbane cui dare nuove risposte, abbandonando le interpretazioni tradizionali di città e metropoli. In effetti, lo spazio dell’urbanizzazione post-metropolitana deve essere affrontato a partire dalla considerazione che non si tratta di una disfunzione della città moderna o della metropoli, ma di una nuova forma di aggregazione urbana, e che nel governo di queste realtà la pianificazione deve riacquistare un suo ruolo per ricucire lo strappo consumatosi tra territorio, amministrazioni e strumenti di governo. In questo senso, l’attuale questione urbana necessita di nuovi paradigmi che mettano in primo piano la necessità di proporre nuove visioni sostenibili e nuovi metodi compositivi, per conferire struttura e qualità a un territorio fortemente frammentato e disarticolato, per esempio partendo dalla qualificazione degli spazi pubblici. Il cambiamento dell’organizzazione spaziale e temporale della città fin qui descritto, infatti, oltre ad avere determinato la perdita della città come spazio identitario e di integrazione, la scarsa attenzione ai valori spaziali e architettonici che solitamente sono espressione di una società, la crescita di periferie anonime e il formarsi di luoghi privi di relazioni, ha comportato anche la crisi degli spazi pubblici; una crisi che, in buona parte, ha subito il peso crescente delle nuove tecnologie mediatiche sostituitesi alla funzione di relazione e di costruzione dei valori che era propria dei luoghi urbani (Lelli, Pezzi, 2012). Ma la città è un sistema culturale complesso, dotato di stratificazione e di identità storica, che trova espressione in azioni fondamentali ispirate da idee, progetti sociali, eventi simbolici, archetipi; insomma, dalla costruzione di uno spazio collettivo concepito come vero bene di tutti. Per tale motivo, lo spazio urbano è l’espressione di una cultura civile, il luogo di integrazione e di interazione sociale, l’aspirazione a un principio di sostenibilità capace di contenere valori culturali profondi e vitali. Lo spazio aperto, il “vuoto”, è invece diventato uno spazio di risulta non più pensato in anticipo, qualcosa di incompiuto, di non chiaramente definito e soprattutto di non effettivamente e pienamente abitabile, ridotto a un tessuto connettivo di elementi non troppo delineati e sicuramente non sociali. La riduzione a semplici funzioni dei luoghi di comunicazione sociale ha comportato la marginalizzazione dello spazio pubblico. Alla dimensione civica si è sostituita, in diversi casi, una dimensione individualista caratterizzata da un’indifferenza verso lo spazio comune e da una tendenza a vivere la vita pubblica in spazi
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Le forme dell’urbano: il ruolo della pianificazione nei territori post-metropolitani
chiusi e asociali, destinati a specifiche porzioni di popolazione, spesso di iniziativa privata e quindi legati a un guadagno economico. I due problemi si intrecciano: la sparizione fisica dello spazio pubblico a favore dello spazio privato corrisponde alla progressiva perdita della sfera pubblica da parte della comunità locale. Se, infatti, gli abitanti si disperdono e si frammentano spazialmente nei luoghi del lavoro, del consumo, della produzione, e quindi non hanno più luoghi “eterogenei” da abitare nei quali integrare e socializzare tutte queste attività, essi non hanno più relazione di scambio e di identificazione con il proprio ambiente di vita, che appare loro attraversato da flussi di oggetti e da dinamiche che percepiscono come imposti, estranei e indecorosi (Muciaccia, 2012). Si sta assistendo, dunque, a un vero e proprio mutamento del rapporto fra comunità locali e spazi della vita collettiva che richiede un cambiamento di sguardo sul concetto di pubblico. Per riproporre un possibile senso di “vita urbana”, si pone la necessità di nuovi modelli di comportamento e di costruzione di nuove identità partendo proprio dai vuoti (piazze, strade, giardini), da interpretare come elementi ordinatori del territorio: il loro senso ha un valore strutturale − la pianificazione avviene per vuoti − e la loro dimensione fisica è quella con cui si deve fare i conti se si vuole produrre un risultato concreto sulla realtà urbana (Lelli, Pezzi, 2012). La questione delle nuove forme dell’urbano post-metropolitano, allora, può essere affrontata pensando a nuovi spazi pubblici qualitativi che, integrandosi nell’intreccio di attività centrali esistenti, possano costituire nuovi e diversi punti di riferimento nei quali riconoscersi, per dare senso e forma all’urbanizzazione dispersa (Balducci, 2012). Ma tali questioni non possono essere affrontate, asetticamente, solo dal punto di vista tecnico ed estrapolandole dal contesto sociale; è necessario considerare anche il ruolo svolto dagli attori territoriali coinvolti nel processo. La pianificazione deve confrontarsi con le esigenze molteplici espresse dal territorio, per intercettare le aspettative e contemperare gli interessi di quanti più soggetti possibile. Senza dimenticare le amministrazioni e il progressivo indebolimento, per le ragioni già esposte, della loro capacità di programmare lo sviluppo di questi territori (Francini, 2012). Un ostacolo determinante che la pianificazione può superare solo pensando a nuove forme di governo del territorio (piani, progetti, programmi) innovative nei contenuti e nel metodo; nuovi strumenti con un’efficacia di risultati che dipenda esclusivamente dalla forza delle proposte e dei contenuti e dalla capacità di coinvolgere soggetti e attori di diversa natura, inculcando negli stessi l’importanza dell’integrazione di più azioni individuali − scelte in maniera concertata e secondo principi di pubblico interesse − per ottenere effetti migliori di quelli conseguibili attraverso interventi singoli e slegati tra di loro.
Bibliografia Balducci A. (2012), “Quale pianificazione per i territori post-metropolitani? Una riflessione a partire dalla rottura del legame tra forme dell’urbano e confini amministrativi”, in Planum, n.25, vol.2. Bonomi A. (2001),”Old e new economy: economia e società nella globalizzazione”, in Mappe del ‘900, numero speciale di “I viaggi di Erodoto”, nuova serie anno XIV, supplemento al numero 43/44, pp. 92-94. Cacciari M. (2004), “Nomadi in prigione”, in Bonomi A. e Abbruzzese A. (a cura di), La città infinita, p. 52, Bruno Mondadori, Milano. Francini M (2012), Recupero di aree marginali e mobilità. Interrelazioni sostenibili per lo sviluppo di sistemi urbani, Collana PT&URB, vol. 7, Franco Angeli, Milano. Fronzi G. (2013), “Bellezza e città. Osservazioni sul rapporto tra estetica ed etica negli spazi urbani”, in Il rasoio di Occam, febbraio, Micromega. Lelli C., Pezzi G. (2012), “Urban sprawl, come valutare l’urbanizzazione”, in Ecoscienza, n.5. Muciaccia M. (2012), “Relazione introduttiva”, in Muciaccia M. (a cura di), Atti della Mostra La città perduta. Un dibattito sulla periferia, Roma, http://www.casadellarchitettura.it/mostre/la-citta-perduta/ Puglisi G. (2009), “Il volto e la comunicazione della città nel mondo globale”, in Atti del Convegno Le porte della città. Storie e progetti, Milano, http://www.dibaio.com/home.htm Sartoretti I. (2012), “Lo sprawl urbano”, in Micron, Arpa Umbria, n.22, Anno IX, pp. 18-23. Vannetti G. (2011), Crisi dello spazio urbano, in Overview, Fondazione Centro Studi e Ricerche Professione Architetto, Firenze. Viapiana M.F. (2009), “Dispersione insediativa e mobilità: causa o effetto?”. In Urbanistica Dossier, Vol. 109, pp. 57-58.
Mauro Francini, Maria Francesca Viapiana
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La Città-Territorio: un’interpretazione urbana dei fenomeni di metropolizzazione contemporanei.
La Città-Territorio: un’interpretazione urbana dei fenomeni di metropolizzazione contemporanei Maria Gagliardi Università la Sapienza di Roma DATA - Design, tecnologia dell’Architettura, Territorio e Ambiente Email: arch.mariagagliardi@gmail.com
Abstract Il processo di esplosione della città nel territorio ha caratterizzato le dinamiche di antropizzazione dell'ultimo secolo in maniera generalizzata legittimando l'ipotesi di un adattamento della città ad una nuova scala. Questo significa che il “territorio” che fino a ieri era lo spazio della dispersione, oggi coincide con la città? Negli anni '60 G. De Carlo introdusse il concetto di ‘Città-territorio’ come lo scenario più plausibile per descrivere i futuri sviluppi del fenomeno urbano. A 50 anni da quelle prime intuizioni, più o meno progettata, quasi sempre auto-prodotta, la ‘Città-territorio’ è ormai una realtà compiuta. La formazione di una trama territoriale complessa, le dinamiche di accumulazione e stratificazione che la investono e la definizione di nuove gerarchie legittimano la lettura del territorio come città. Dato il rapporto interscalare che intercorre tra la nuova configurazione e la città tradizionale è possibile operare una rilettura del fenomeno contemporaneo dal basso, basata sulle logiche aggregative invarianti delle dinamiche spaziali di antropizazzione dello spazio. Parole chiave Città- territorio, salto di scala, autosomiglianza.
Introduzione I modi e le forme con cui oggi si manifesta il fenomeno urbano sono il risultato ‘provvisorio’ di un lungo processo di cambiamento. Lo spazio urbano non coincide più direttamente con la città consolidata, ma è rappresentato dall’intero contesto territoriale con la sovrapposizione di diversi valori storici, fisici e morfologici. Il territorio che fino a ieri era lo spazio della dispersione, e de delle urbanizzazioni puntuali, oggi coincide con la città, e non tanto poichè in esso appaiono più o meno diffusamente caratteristiche urbane, quanto piuttosto poichè esso è diventato il contenitore delle dinamiche antropiche: l’habitat ed il prodotto dell’uomo contemporaneo. Infatti, se da un lato è evidente l’apparizione di caratteristiche urbane in territori tradizionalmente estranei a questi fenomeni, dall’altro è anche interessante notare come questi fenomeni vadano via via acquisendo una sempre maggiore complessità: le periferie monofunzionali degli anni 70- 80 non somigliano più o sono solo una parte dei nuovi territori metropolizzati che nel tempo hanno acquisito sempre più usi e significati. Questo ci fa intuire che queste nuove aree non siano semplicemente catalogabili come urbanizzazioni, o territori della dispersione, esse infatti sono interessate da fenomeni e dinamiche di stratificazione ed accumulazione, caratteristiche peculiari del processo di formazione della città. Se intendiamo dunque la città sia come ‘nicchia’1 dell’uomo che come il prodotto della sua azione di trasformazione, allora al giorno d’oggi, non possiamo che far coincidere questo spazio con tutto il territorio. Eppure appare ancora incerta la corrispondenza tra il fenomeno urbano territoriale ed il concetto di città. Dagli anni ’60 in poi si è iniziato ad utilizzare termini più “elusivi”, che comprendessero i recenti fenomeni di occupazione dello spazio, senza per questo intaccare il concetto tradizionale di città, che rimaneva ben distinto dai nuovi territori urbanizzati. Si è quindi parlato più genericamente di territori peri-urbani, urbanizzazioni,
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Per una trattazione più ampia del concetto si veda Indovina F. (2005), “La nuova dimensione urbana. L’arcipelago metropolitano” in Maurizio Marcelloni (a cura di), Questioni della città contemporanea. Franco Angeli, Milano, pp.49 - 75
Maria Gagliardi
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La Città-Territorio: un’interpretazione urbana dei fenomeni di metropolizzazione contemporanei.
mosaico urbano. H. Lefebvre ricorre al termine “le cose urbane” per includere anche i fenomeni più elementari, mentre F. Choay parla del “Regno dell’urbano” per distinguere i nuovi territori dalla città tradizionale. Se da un lato esistono molte definizioni che descrivono il “territorio metropolizzato”, altrettante poi, descrivono la città- contemporanea. La maggior parte di queste però ne ha descritto gli aspetti funzionali della: global city, postmetropolis, metapolis; o ha dato descrizioni solo parziali, attinenti cioè esclusivamente ai territori ‘neourbani’: campagna urbanizzata, città diffusa, territorio metropolizzato, edge cities o territori della dispersione. L’ipotesi che si propone in questo articolo è che ‘il territorio’ rappresenti la forma urbana del nostro tempo, e che rappresenti cioè la nostra “città” come nicchia antropica. Senza la pretesa di coniare una nuova definizione per la ‘città contemporanea’ in quest’articolo mi riferirò spesso a questa come ‘città-territorio’2 recuperando un termine introdotto da De Carlo negli anni ’60 per descrivere uno scenario che a distanza di cinquanta anni è diventato realtà concreta. Questa definizione ha il merito di recuperare il termine ‘città’ come ambito antropico e collegarlo a quello del suo supporto fisico il ‘territorio’; inoltre ha il pregio di inglobare il fenomeno urbano attuale nel suo complesso, contenendo tanto la città tradizionale quanto i nuovi spazi metropolizzati. Nell’articolo si affrontano tre questioni determinanti per un’interpretazione urbana del territorio: 1. le caratteristiche che definiscono il territorio come fenomeno urbano; 2. la relazione che intercorre tra città-territorio e città-tradizionale; 3. quali possano essere gli strumenti interpretativi per una rilettura del territorio in chiave urbana.
1 | Il territorio come città La prima questione attinente l’ipotesi di partenza, riguarda l’idea che il territorio non sia semplicemente descrivibile come nuovo spazio urbanizzato, bensì che esso nel suo complesso si comporti come una città. Occorrerà dunque verificare la persistenza anche in questo nuovo assetto di dinamiche ed elementi caratteristici della formazione della città e dunque: • l’esistenza di un ‘canovaccio’ morfogenetico che funge da struttura: una trama urbana su cui si articolano le varie dinamiche urbane di flusso e insediamento; • l’esistenza di un processo di stratificazione che consolida nel tempo le caratteristiche urbane dello spazio; • un’organizzazione allometrica-gerarchica che definisce il centro, la periferia, le parti del sistema.
1.1 | La trama territoriale come struttura matriciale La trama urbana è il segno concreto delle dinamiche di appropriazione antropica dello spazio. Il territorio appare oggi ordinato da un vero e proprio reticolo, una trama complessa che non coincide più solo con gli assi di attraversamento o con i percorsi agricoli che un tempo attraversavano la campagna. Se ad una scala piccola, locale o urbana nel senso tradizionale del termine, si può rilevare una certa perdita di valore o complessità (forse provvisoria), non si può non riflettere sul progressivo complessificarsi ed evolversi della trama alla scala territoriale, dove acquista una morfologia sempre più completa ed omogenea. Nel modello Christalleriano (Christaller 1966) la città viene descritta come un sistema gerarchico funzione dei fattori di localizzazione. Nella struttura classica di tipo concentrato gli elementi che determinano vantaggi in una configurazione compatta si chiamano fattori di agglomerazione, che creano economie di agglomerazione. Le economie di urbanizzazione sono un tipo particolare di economie di agglomerazione e derivano dalla possibilità di utilizzare un gran numero di infrastrutture e servizi messi a disposizione nell’ambiente urbano. Il principio di accessibilità sta alla base dell’organizzazione dello spazio urbano e scaturisce dalla risposta ad una domanda competitiva tra le diverse attività economiche per assicurarsi le localizzazioni più vantaggiose. Differenti settori hanno differenti interessi localizzativi e si crea così una rendita differenziale, che è funzione della disponibilità a pagare dei singoli individui e che rappresenta uno dei principi ordinatori dello spazio urbano. Nella città-territorio una certa indifferenza localizzativa all’interno della trama territoriale ha dato forma a dei ‘reticoli’ (Dematteis 1994) di forma matriciale invece che gerarchica e multipolare come nel sistema precedente. Il disegno della trama si è steso su tutto il territorio configurando una struttura morfogenetica di supporto sulla quale nel tempo si innestano le dinamiche antropiche di flusso e di occupazione. 2
Nel dibattito urbanistico in Italia, il termine “città-regione” o “città- territorio” è stato introdotto nel 1962 da G. De Carlo “ La città regione è un organismo che non ha bisogno di limiti, perché rende possibile ad ognuno la scelta, momento per momento dei limiti più opportuni” . Al dibattito sul tema parteciparono con i loro contributi urbanisti come Quaroni, Aymonino o Tafuri; contributi confluiti in un seminario su “La nuova dimensione della città: la città regione” (Stresa 1962). Il dibattito, che per la verità si concluse in pochi anni con scarsi esiti, da un lato non lasciò una definizione univoca di quello che si intendeva per città-regione o città-territorio, dall’altro, coerentemente con lo spirito di quegli anni, fu quasi esclusivamente concentrato sugli aspetti progettuali della nuova scala urbana ed in particolare sulla progettazione di nodi o elementi cardinali che guidassero la densificazione della “città-territorio”. Di fronte alle difficoltà operative di una tale scala il dibattito sul progetto della Città-territorio e dunque anche su una sua definizione venne ad esaurirsi.
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1.2 | Processi di stratificazione a grande scala La ‘trama territoriale’ è il risultato di un processo di stratificazione che ha investito grandi porzioni di campagna. Considerando gli esiti della ricerca ‘L’esplosione della città’ (Font 2005), condotta su 13 città del sud Europa è forse possibile approssimare una generalizzazione sulla forma di questa esplosione, che ha generato nel tempo la trama matriciale cui abbiamo accennato poc’anzi. Da questa ricerca ed anche da quelle effettuate sull’area milanese si osserva come questa rete non si disponga indifferentemente sul territorio ma piuttosto nasca intorno a delle inerzie localizzative (Macchi-Cassia 1998): insediamenti storici, linee di traffico antiche o tracciati agricoli cui si sovrappongono nuovi elementi con una scala relazionale diversa. Questa rete dunque si sovrapporrebbe a quella precedente come risultato di una stratificazione a grande scala che nell’ultimo secolo ha investito tutti i livelli della gerarchia christalleriana scatenando un processo di riempimento progressivo delle maglie della trama. In ogni caso è interessante rilevare come questo processo di stratificazione a grande scala non abbia interessato solo i territori metropolizzati, ma anche la città capitale, che nel tempo ha subito gli innesti, le integrazioni e sovrapposizioni della grande rete territoriale.
1.3 | Una struttura allometrica gerarchica G. Dematteis fa poi notare come la figura classica di Christaller che definiva uno schema gerarchico, e che abbiamo visto scomparire al livello dei territori ‘neo-urbani’ lasciando posto alla struttura matriciale, si ripropone se consideriamo la città-territorio nel suo complesso. Il conflitto città-campagna si trasforma nel conflitto tra metropoli e territorio funzionale ossia tra centro terziario o quaternario e rete funzionale (G. Dematteis 1994). L’indifferenza localizzativa caratteristica del territorio metropolizzato riguarderebbe dunque solo un livello di una struttura gerarchica a grande scala, che vede comunque il preservarsi di una centralità dei nuclei tradizionali consolidati, che conservano una rendita differenziale dovuta al loro carattere di supercentralità amministrative e direzionali. Nonostante le grandi città perdano centralità rispetto alle loro province per ciò che riguarda le tendenze insediative, i flussi e la distribuzione di funzioni “comuni”, esse acquistano un valore di super-centralità ad una scala più ampia, che spesso va addirittura interpretata in termini nazionali o internazionali, se non mondiali. Se poi ri-zoomiamo ad una scala locale all’interno della rete matriciale ci accorgiamo come questa sia interessata da fenomeni allometrici, ossia non tutte le sue parti crescono omogeneamente. La città infatti, come detto, non si diffonde in maniera del tutto omogenea e indifferenziata sul territorio circostante, ma è largamente guidata dalle matrici storiche territoriali. Essa si appoggia sui percorsi stradali, si addensa attorno alla trama dei centri preesistenti: città minori, borghi e villaggi, si organizza attorno alle antiche trame e strutture agrarie. Nell’insieme, questi elementi svolgono il ruolo di elementi attrattori e organizzatori della trama morfologica agendo come poli, come limiti, interruzioni o assi morfogenetici che ridefiniscono ad una scala minuta nuove strutture gerarchiche.
2 | Salto di scala della città tradizionale La seconda questione riguarda l’idea che la ‘città- territorio’ rappresenti un salto di scala della città tradizionale, dunque ne rappresenti la naturale evoluzione o adattamento alla nuova scala. Parlare di un salto di scala in ogni caso, non equivale a dire che la città crescendo a macchia d’olio abbia poi raggiunto la dimensione territoriale, ipotesi che sarebbe ingenua; ma piuttosto che da un certo punto in poi la città abbia tradotto ad una nuova scala il suo campo di dominio, inglobando in questo nuovo dominio le forme preesistenti ricucendole in una nuova trama, che fonde nuove e vecchie logiche. Occorre dunque chiarire il rapporto di continuità o di innovazione della città territorio rispetto alla città tradizionale, quest’ultima intesa come città “capitale”, anche di medie dimensioni, con una forma grossomodo definita e delimitata, corrispondente per intenderci alla città così come appariva fino all’inizio del secolo scorso. Questa nei secoli si è trasformata su se stessa, mantenendo in gran parte i propri connotati formali, con un processo di espansione caratterizzato da un dinamica di concentrazione intorno al nucleo consolidato. Da un certo periodo in poi però la città è esplosa invadendo nuovi spazi; si passa così da una normale dinamica di trasformazione ad una fase di transizione verso una nuova configurazione spaziale, che attualmente sarebbe ancora in una fase germinale, apparendo come una proto-città in via di formazione. In questo nuovo scenario di esplosione urbana, come dice F. Indovina la campagna urbana e l’urbanizzazione diffusa sono i primi fenomeni, ma poi il diffuso evolve verso la città diffusa, e la città diffusa verso l’arcipelago metropolitano in un processo di continua evoluzione. (Indovina F. 2005) Leggere la città-territorio come un salto di scala della città tradizionale apre alla possibilità di rintracciare delle logiche comuni nel processo di formazione. Maria Gagliardi
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La Città-Territorio: un’interpretazione urbana dei fenomeni di metropolizzazione contemporanei.
3 | Strumenti interpretativi per una rilettura del territorio in chiave urbana. La città-territorio a prima vista comprende un insieme non ordinato di tipi insediativi, esito di stratificazioni e sviluppi successivi. A ben guardare però è possibile rintracciare un ordine nelle forme emergenti che scaturiscono dai processi di antropizzazione dello spazio. L’immagine lascia intravedere in prima analisi le tracce dei più tradizionali modelli urbanistici: la città radiocentrica in espansione apparentemente incontrollata, la densificazione lungo direttrici privilegiate, il disegno di vecchie e nuove strutture policentriche reticolari, habitat a bassa densità e forme di urbanizzazione diffusa; accanto a queste forme già ampiamente descritte nelle ricerche degli ultimi anni, fenomeni di stratificazione puntuale, di ridensificazione selettiva o nuove interconnessioni tra reti descrivono un ambiente urbano in continua evoluzione. Un’ evoluzione che segue regole ben precise che sono quelle della formazione dello spazio antropico. Polarizzazioni, allineamenti, formazione di reti o iterazione di tipi insediativi hanno caratterizzato la crescita della città fin dagli albori. In questo modo nuovi telai insediativi si affiancano e si sovrappongono a quelli preesistenti, risultando talvolta ad essi complementari, talvolta tendenzialmente sostitutivi della trama insediativa storica. L’ipotesi di questo articolo è che queste evoluzioni seguano delle logiche aggregative ricorrenti nella storia di formazione della città, che si concretizzano in sistemi territoriali elementari che a loro volta si consolideranno come permanenze: elementi strutturanti e morfogenetici dei futuri cambiamenti. Gli studi di Hillier confermano l’idea dell’esistenza di ‘regole geometriche’ all’interno dei tessuti urbani che regolano la formazione e disposizione dei blocchi, dei collegamenti e degli spazi aperti rispetto a regole aggregative e regole di movimento; tali logiche genererebbero morfologie di tessuto urbano molto aderenti a quelle riscontrabili nella realtà degli insediamenti “non pianificati” come è in larga parte è la città-territoriale. Anche nelle ricerche di Boeri e Lombradini si evidenzia la continuità tra i segni preesistenti all’interno del territorio rurale e le nuove ramificazioni urbane, nonchè l’esistenza di logiche aggregative ricorrenti. Dato il rapporto interscalare ed autosimilare tra la città tradizionale e la città-territorio è possibile dunque sfruttare le categorie descrittive utilizzate nell’ambito della morfologia tradizionale come chiave interpretativa della nuova forma urbana. Di grande interesse potrebbe essere l’introduzione della visione frattale come possibile chiave interpretativa. C’è da dire che la teoria frattale è quasi sempre applicata come modello matematico per dimostrare o calcolare la dimensione ‘frattale’ di un aggregato e solo raramente viene indagata per quelli che sono i suoi presupposti teorici. L’interesse derivato da una lettura di questo tipo consiste nella possibilità di concentrare il focus dell’analisi morfologica su alcune proprietà, in particolare sulle proprietà di autosomiglianza dei sistemi complessi. L’autosimilarità, caratteristica principale dei frattali, non è solo una semplificazione teorica ma sembrerebbe una caratteristica morfogenetica: ogni parte è generatrice delle parti a scala maggiore e viceversa. (D. Zarza 1996) La città, come un sistema frattale se osservata attraverso diverse scale, mostra forme che si ripropongono, come se le parti fossero il risultato dell’aggregazione di parti di parti ed in queste si possa proseguire zoomando fino alla scala di dettaglio. Caniggia e Maffei hanno ampiamente argomentato il fenomeno dell’autosomiglianza negli aggregati urbani: «una città grande finisce per essere costituita dall’associazione gerarchizzata di tante città piccole, una piccola da un’associazione organica di paesi, un paese da una società di villaggi a loro volta fatti da una gerarchia, sia pur minima, di case. Tutto ciò implica che una metropoli dovrà essere letta attraverso un mondo di moduli progressivamente comprendenti moduli più contenuti, a loro volta fatti di moduli ancor più piccoli» ( Caniggia G. & Maffei G. L., 1995 pp.178). In una analisi morfogenetica della formazione della città appare dunque del tutto legittimo partire da questo presupposto e sfruttare questa proprietà come chiave interpretativa delle dinamiche di aggregazione degli insediamenti antropici. L’utilizzo dell’autosomiglianza come chiave interpretativa della formazione della città a diverse scale ha l’interesse di offrire una mediazione tra la disciplina morfologica classica e le nuove teorie della complessità.
4 | Possibili sviluppi della ricerca. Gli studi geografici ed urbanistici sul territorio e sulle forme spaziali che caratterizzano questo nuovo fenomeno urbano stanno recentemente sperimentando un cambiamento di prospettiva. Si rileva un interesse per la forma di questa città contemporanea, una nuova attenzione alla dimensione morfologica ed alle “componenti endogene dei processi, nonché al senso posizionale delle forme emergenti. A titolo esemplificativo voglio citare alcune esperienze pratiche che seppur di natura diversa hanno alcuni interessanti punti in comune: • Il Piano strutturale di Anversa Maria Gagliardi
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La Città-Territorio: un’interpretazione urbana dei fenomeni di metropolizzazione contemporanei.
• Il Piano strategico della regione Milanese “Città di città” • Il Piano metropolitano di Barcellona • Il Piano paesaggistico territoriale della regione Puglia Gli aspetti comuni che mi interessa sottolineare sono: • L’individuazione di modelli insediativi costanti. • La lettura multiscalare del territorio come risultato di un processo di stratificazione intorno ad elementi strutturanti della forma urbana (elementi sia antropici che naturali). • La lettura del territorio come fenomeno urbano. • L’evidenza del legame tra città capitale ed il suo ‘campo di dominio’ territoriale. Dal punto di vista teorico manca a mio avviso un approccio analogo che consideri la città contemporanea nel suo complesso (includendo nell’analisi tanto la città tradizionale che i nuovi territori) e che rilegga il fenomeno dal basso, rintracciando le regole invarianti di appropriazione antropica dello spazio e ne colga innovazioni o continuità rispetto alla città tradizionale.
Bibliografia Avarello, P. (2010). Semplice, complesso o frattale? Urbanistica, 142 Aymonino, C. (1975). Origini e sviluppo della città moderna (6ª ed.). Padova: Marsilio. Balducci, A. (2006). La città di città un progetto strategico per la regione urbana milanese. Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Pianificazione Batty, M. (1994). Fractal cities. Academic Press, London, Boeri, S., Lanzani, A., & Marini, E. (1993). Il territorio che cambia :Ambiente, paesaggi e immagini della regione milanese. Milano: AIM Associazione Interessi Metropolitani. Caniggia, G., & Maffei, G. L. (1995). Lettura dell’edilizia di base . Venezia: Marsilio. Cappuccitti, A., & Piroddi, E. (2004). Morfogenesi dello spazio urbano: Profilo di una ricerca. Urbanistica, 123 Dematteis, G. (1999). I futuri della città :Tesi a confronto. Milano: Franco Angeli. Donato, F., Piroddi, E., & Lucchi Basili, L. (1996). L'ordine nascosto dell'organizzazione urbana: Un'applicazione della geometria frattale e della teoria dei sistemi auto-organizzati alla dimensione spaziale degli insediamenti. Milano: Franco Angeli. Font Arellano, A., Indovina, F., Portas, N., Fregolent, L., Savino, M., & Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna. (2005). L'esplosione della città :Barcellona, bologna, donostia- bayonne, genova, lisbona, madrid, marsiglia, milano, montpellier, napoli, porto, valencia, veneto centrale. Bologna: Compositori. Fini, G. (2011). Il piano strutturale di anversa. un nuovo linguaggio urbanistico per la città del XXI secolo. Urbanistica, 148 Hillier, B. (2009). Studying cities to learn about minds: Some possible implications of space syntax for spatial cognition. Environment and Planning B: Planning and Design Advance Online Publication, Hillier, B., Alasdair Turner, Tao Yang, & Hoon Tae-Park. (2007). Metric and topo-geometric properties of urban street networks: Some convergeces, divergences and new results. Hillier, B., & Hanson, J. (1984). The social logic of space. Cambridge etc.: Cambridge University Press. Indovina, F. (2003). La metropolizzazione del territorio. nuove gerarchie territoriali. Economia e Società Regionale, 3(4) Indovina, F., & Istituto universitario di architettura di Venezia. (1990). La città diffusa. Venezia: Istituto universitario di architettura di Venezia. Dipartimento di analisi economica e sociale del territorio. Kauffman, S. A. (1992). The origins of order: Self Organization and selection in evolution. Oxford University Press, 24(n.123) Lombardini, G. (2005). Rappresentare i cicli di territorializzazione:L’eco-regione urbana. In A. Magnaghi (Ed.), La rappresentazione identitaria del territorio :Atlanti, codici, figure, paradigmi per il progetto locale(pp. 425). Firenze: Alinea. Macchi Cassia, C. (1998) Il Progetto del territorio urban. Milano: Franco Angeli Magnaghi, A. (2011). La via pugliese alla pianificazione del paesaggio. Urbanistica, 147 Marcelloni, M., & Ascher, F. (2005). Questioni della città contemporanea. Milano: FrancoAngeli. Martín Ramos, Á., Choay, F., Escola Tècnica Superior d'Arquitectura de Barcelona, Universitat Politècnica de Catalunya, & Arteleku. (2004). Lo urbano en 20 autores contemporáneos. Barcelona: Etsab. Nikos A. Salingaros, . (2007). Complessità e coerenza urbana. Department of Mathematics, University of Texas at San Antonio, San Antonio, TX 78249, USA., Traducción de Antonio Caperna, Departamento de urbanismo, universidad de Roma 3 Palermo, P. C., Balducci, A., & Politecnico di Milano. (1997). Linee di assetto e scenari evolutivi della regione urbana milanese :Atlante delle trasformazioni insediative. Milano: Franco Angeli. Piroddi, E. (2000). Le regole della ricomposizione urbana. Milano: FrancoAngeli. Rossi, A. (1995). L'architettura della città. Torino: Città Studi Edizioni. Maria Gagliardi
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La Città-Territorio: un’interpretazione urbana dei fenomeni di metropolizzazione contemporanei.
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Maria Gagliardi
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La dimensione policentrica della metropoli post-globalizzazione
La dimensione policentrica della metropoli post-globalizzazione Alessandro Sgobbo Università degli Studi di Napoli Federico II Dipartimento di Architettura Email: alessandro.sgobbo@unina.it
Abstract Il processo di globalizzazione ha determinato profonde modificazioni nel rapporto tra centro e periferia e nella domanda di servizi. Ne conseguenze l'esigenza di un mutamento della forma fisica e funzionale della metropoli così come del ruolo e localizzazione delle attrezzature di carattere metropolitano anche in relazione al passaggio nell'immateriale di molte delle funzioni che, prima, trovavano naturale collocazione nel centro metropolitano. Nel caso delle grandi città italiane meridionali, la densità contenuta del nucleo e la collocazione periferica di vasti quartieri popolari, ha fatto si che i comuni nell'immediata cintura del capoluogo assumessero un ruolo concorrenziale rispetto al centro metropolitano quali sedi di funzioni e servizi che possono contare su un bacino di utenti serviti che supera abbondantemente i confini amministrativi. Ciò nel caso delle attrezzature pubbliche, pone non poche perplessità rispetto ai costi per la realizzazione e gestione che, solo marginalmente, risultano compensati dai maggiori introiti conseguenti all'incremento di reddito dei servizi privati. Parole chiave Policentrismo, globalizzazione, periferia.
La crescita dell'hinterland L'inarrestabile processo di globalizzazione che ha interessato la dimensione economica, sociale e culturale del vivere quotidiano, ha contestualmente determinato profonde modificazioni nel rapporto tra centro e periferia e nella domanda di servizi. Ne conseguenze l'esigenza di un mutamento della forma fisica e funzionale della metropoli così come del ruolo e localizzazione delle attrezzature di carattere metropolitano. Infatti le innovazioni tecnologiche, che il processo di globalizzazione hanno accompagnato e spesso catalizzato, hanno anche determinato il passaggio nell'immateriale di molte delle funzioni che, prima, trovavano naturale collocazione nel centro metropolitano. Le regole che hanno caratterizzato l'espansione urbana delle grandi città, in particolare quelle meridionali, nel corso degli anni settanta, codificate nei coevi piani regolatori generali, hanno privilegiato due coesistenti modelli. Da un lato si è teso ad incisivamente limitare la crescita e la densificazione dei nuclei originari, di fatto impedendo il naturale processo di periodica sostituzione edilizia che, altresì, aveva, da sempre, accompagnato il rinnovamento del 'centro città'; dall'altro si è favorita la crescita dei nuclei periferici sub urbani con l'insediamento di estesi quartieri di edilizia economica e popolare che, tuttavia, si sono dimostrati incapaci di offrire adeguata risposta all'esigenza abitativa della classe media. Questa scelta, per quanto discutibile, ha trovato la sua giustificazione ideologica nell' esigenza di salvaguardare il centro, cosiddetto storico, dalla speculazione edilizia e, nello stesso tempo, di costituire un cospicuo parco immobiliare destinato alle fasce più deboli della popolazione integrato in quartieri monofunzionali concepiti in armonia con le recenti innovazioni legislative in materia di dotazione minima di spazi destinati alle attrezzature pubbliche e di controllo della densità (Cremaschi, 2010: 59). Il risultato, tuttavia, è stato alquanto discutibile. I nuovi quartieri, sebbene spesso sviluppati in continuità con preesistenti borghi rurali, si sono rapidamente trasformati in ghetti di degrado sociale e culturale, privi di adeguati servizi privati e, soprattutto, di quell'insieme di equilibri formali e funzionali che partecipano al cosiddetto 'effetto città'. D'altra parte la cospicua presenza di aree pubbliche destinate alle attrezzature, spesso anche effettivamente trasformate, non ha determinato i benefici sperati in termini di servizi alla cittadinanza. Le opere realizzate, per lo più con fondi statali e senza un'adeguata valutazione dell'impatto sul bilancio degli enti Phd. ing. Alessandro Sgobbo
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locali dei costi necessari per la manutenzione e gestione, sono state frequentemente abbandonate a se stesse, rapidamente oggetto di degrado e, in molti casi, addirittura chiuse all'uso pubblico per motivi di sicurezza e per l'impossibilità di far fronte alle esigenze di personale necessario per il relativo funzionamento. In definitiva queste fasce di popolazione, peraltro caratterizzate da una drammatica condizione di deficit culturale, si sono ritrovate concentrate in quartieri privi di opere pubbliche funzionanti e, nello stesso tempo, di minimi servizi privati, di fatto impediti dall'impostazione ideologicamente pubblicistica del quadro delle regole che ivi governano le trasformazioni edilizie (Tacchi, 2010: 77-80). Ciò ha fatto si che i comuni posizionati nell'immediata cintura del capoluogo assumessero gradualmente un ruolo concorrenziale rispetto al centro metropolitano in quanto in grado di rispondere a due principali esigenze: offrire servizi privati e commerciali alla popolazione dei sobborghi per la quale, oltretutto, costituiscono anche un 'luogo' dalle morfologie tradizionali in cui esprimere le proprie esigenze di socialità in contrasto con il 'non luogo' offerto dai quartieri di edilizia economica e popolare (Bergaglio, 2008: 168-170); offrire alla classe media, impossibilitata ad accedere al mercato immobiliare delle aree centrali, irrigidito oltretutto dalle conseguenze dell'introduzione del regime dell'equo canone, un luogo di soddisfacimento del fabbisogno abitativo che non trova adeguata risposta nel degrado dei quartieri periferici. L'effetto combinato di questi due fenomeni ha rapidamente innalzato il valore fondiario di aree in cui la pianificazione del territorio era, per lo più, affidata a strumenti urbanistici che, se esistenti, erano inadeguati a governare le conseguenti intense trasformazioni. Quale conseguenza si è assistito alla crescita smisurata di paesi che, seppur accompagnata da impetuose dinamiche demografiche, non sono stati in grado, tuttavia, di trasformarsi in città. La classe media, infatti, espulsa dal centro metropolitano, riluttante ad abitare la periferia degradata, ha compensato la propria frustrazione nel modello abitativo della villetta uni-bifamiliare. Pertanto, all'originario nucleo urbano, si sono affiancate vaste zone di lottizzazione con destinazione monofunzionale abitativa, contraddistinte dal susseguirsi di piccoli immobili isolati, in genere posizionati al centro del lotto e separati dalla strada da una recinzione. Lungo le vie di comunicazione con la metropoli, altresì, si sono concentrate le attività commerciali e di servizio che per dimensione ed in relazione al fabbisogno di spazi abbondanti, non potevano trovare un'idonea collocazione nella città. L'originario centro del paese, infine, più rigido alla trasformazione, viene progressivamente abbandonato in favore delle nuove aree lottizzate e, incapace di attirare gli esodati della città, diventa luogo di degrado fisico e funzionale.
Da paese a centro metropolitano Analizzando il fenomeno nel tempo si è evidenziato un'ulteriore evoluzione del processo di trasformazione. Gli abitanti trasferiti dalla metropoli restano, inizialmente, a questa profondamente legati oltre che per motivi lavorativi anche per svolgere le normali funzioni quotidiane e ricreative. Il luogo di residenza costituisce, in questa prima fase, principalmente un dormitorio in cui le relazioni con i servizi locali sono pressoché inesistenti. Nel tempo, tuttavia, le relazioni con la comunità locale, specie nelle famiglie con prole, cominciano a moltiplicarsi e si crea una forte domanda di servizi cui l'ente comunale, favorito dalla disponibilità degli spazi e dall'improvvisa impennata delle entrate tributarie, riesce, almeno inizialmente, a rispondere adeguatamente. Tale sforzo, inoltre, è accompagnato da molteplici investimenti privati (Giandelli, 2004: 109-110). Questi, infatti, godono di due evidenti vantaggi: da un alto il costo delle aree risulta estremamente più accessibile di quanto riscontrabile nell'area centrale della metropoli e le amministrazioni locali molto più inclini a favorirne la trasformazione; d'altra parte il bacino di utenza della classe media risulta ben più soddisfacente di quello offerto dalle aree di edilizia economica e popolare. Alcuni comuni contermini alla città hanno, pertanto, cominciato a svolgere un ruolo concorrenziale non più solo in termini di offerta abitativa, ma anche di servizi ed offerta commerciale. Ciò, a dire il vero, è avvenuto con una certa selettività. Se, infatti, la crescita demografica connessa con l'immigrazione dalla città è un fenomeno che si è esteso, in modo più o meno indifferenziato, su tutti i comuni dell'hinterland, non altrettanto si è osservato per lo sviluppo di servizi privati e commerciali. Molteplici sono i fattori che hanno determinato il favore degli investitori nelle scelte di localizzazione. Sicuramente la disponibilità degli amministratori locali costituisce uno degli elementi di maggior influenza. Oltre a ciò, le numerose analisi condotte, dimostrano che grande importanza hanno avuto le caratteristiche di qualità urbana, la vocazione commerciale, nonchè il ruolo che il comune ha tradizionalmente svolto nel contesto locale. Particolarmente rilevante, infine, è stata la localizzazione dei grandi centri commerciali. Questi, infatti, sebbene trovassero proprio nel tessuto degli esercizi di vicinato locale le maggiori resistenze all'insediamento, hanno spesso determinato le fortune del luogo in relazione alla capacità attrattiva a livello di area vasta. Infatti, se da un lato il temuto calo della domanda interna è risultato di gran lunga inferiore a quanto paventato dai commercianti locali1, d'altra parte molto rilevante è stata la crescita del 1
Ciò è da attribuirsi al tradizionale ruolo di offerta di generi di prima necessità che contraddistingue il tessuto commerciale locale, tradizionalmente trascurato, per gli acquisti di maggior rilevanza, anche prima dell'insediamento dei centri commerciali.
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numero di utenti potenziali esterni che, attirati dal centro commerciale e dalle numerose attività specializzate che, normalmente, vi si affiancano, rivolgono parte del proprio interesse anche alla rete distributiva di vicinato, specie nei settori di nicchia, vendita diretta dei prodotti artigianali e dei prodotti della tradizione locale (Morandi, 2010: 8-10). Il contraltare di questo accresciuto interesse economico è nella rapida evoluzione del processo di abbandono dell'attività agricola. Questa, infatti, incapace di offrire plusvalenze paragonabili alla trasformazione edilizia del territorio, perde ogni appeal per la popolazione locale rimanendo relegata, nel migliore dei casi, all'attività ortiva delle famiglie in risposta diretta dei propri fabbisogni. Ampie zone di territorio restano incolte, sono abusivamente aggredite da dilaganti costruzioni e, prive di custodia, restano spesso vittime di usi anche illeciti.
Il caso di Volla Un recente studio condotto dall'Ateneo federiciano nell'ambito dell'attività di supporto tecnico-scientifico offerta al Comune di Volla, finalizzata alla redazione del nuovo Piano Urbanistico Comunale, è stata l'occasione per verificare l'effettiva esistenza, nei centri contermini la periferia metropolitana, di fabbisogni fino a qualche anno fa estranei al contesto provinciale. Volla è un comune estremamente giovane, ottiene la sua indipendenza amministrativa nel 1953 e, fino agli anni settanta, ha una popolazione inferiore alle 6.000 unità con abitazioni concentrate lungo la principale arteria stradale locale secondo il classico modello di urbanizzazione lineare che caratterizzava la provincia napoletana.
Figura 1. Volla al 1957. Fonte I.G.M.
E' a partire dalla fine degli anni '70 e, soprattutto dopo il terremoto dell'80, che il territorio subisce una profondissima modificazione sia in termini di dimensione demografica ed edilizia che dal punto di vista economico e sociale. In pochissimi anni la popolazione raggiunge le 20.000 unità e l'edificato satura gran parte del territorio agricolo senza seguire un preciso disegno di piano. Confrontando, infatti, la planimetria sulla quale veniva redatto il Piano Regolatore Generale oggi vigente con il rilievo aerofotogrammetrico messo a disposizione dal Comune due elementi saltano immediatamente all'occhio: in primo luogo l'edificazione ha corrisposto ben poco all'idea di impianto urbano che si era data con il Piano; in secondo luogo il Comune vive una condizione di mancanza di centralità sviluppandosi in modo disordinato, prevalentemente legato agli imponenti insediamenti di edilizia popolare di Napoli Est ed all'area centrale di Cercola. Quello che potremmo considerare il 'nucleo storico' di Volla ha, altresì, perso i propri connotati identitari ed è stato sostituito nella funzione aggregatrice da centralità surrettizie e spesso legate a grandi insediamenti commerciali.
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Figura 2. Sovrapposizione della zonizzazione al rilievo aerofotogrammetrico del 2004 con l'identificazione delle aree di espansione sorte in contrasto alle previsioni di piano.
L'espansione demografica ed edilizia del territorio, ovviamente, non è dipesa dalle naturali dinamiche della popolazione locale. L'estrema vicinanza al capoluogo e la concentrazione di infrastrutture viarie di grande collegamento hanno determinato, infatti, che Volla fosse oggetto di un'intesa richiesta abitativa rinveniente dallo spostamento delle famiglie appartenenti alla classe media napoletana. Saltando, infatti, l'area periferica della città, caratterizzata dall'insediamento di estesissimi quartieri di nuovo impianto di edilizia economica e popolare, fortemente degradati e privi di servizi, Volla costituiva un territorio di facile accessibilità, privo di un impianto urbano storico difficilmente trasformabile e che consentiva, quindi, di assecondare il desiderio di un'abitazione mono-bifamiliare con un spazio vivibile esterno, collocata in posizione centrale nella comunità ed acquistabile a prezzi contenuti rispetto all'offerta disponibile in città. Ma il caso in parola, si rivela particolarmente interessante anche in relazione allo studio delle specificità che rendono un territorio preferito rispetto ad altri per la localizzazione di attività e funzioni di carattere metropolitano. L'imprenditoria locale, infatti, si accorge, forse prima che altrove, del notevole bacino di utenza qualificata disponibile rispetto alle esigenze commerciali e di servizi alla persona. Ciò comporta la nascita, in pochissimi anni, di numerosi centri commerciali intra-urbani, di centri sportivi di grande attrattiva e, persino, di un centro congressi. Inoltre la localizzazione di una struttura di interesse regionale quale il Centro Agro Alimentare di Napoli accende l'interesse anche in favore di investimenti produttivi in grado di sviluppare un'offerta locale di lavoro estranea a centri di analogo livello. La nuova centralità, in termini produttivi e di servizi, offerta da Volla, tuttavia, attira numerosissimi utenti anche dai vicini quartieri popolari della metropoli. In particolare gli abitanti di Barra e Ponticelli2 trovano nei servizi pubblici e privati presenti nel comune, una valida alternativa alla dipendenza dal 'lontano' centro metropolitano. Ciò, se da un lato determina marginali incrementi della redditività delle attività commerciali, dall'altro pone non poche perplessità rispetto al tema dei costi di gestione e manutenzione delle attrezzature pubbliche, nonché del cresciuto fabbisogno indotto di nuovi investimenti sociali.
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che insieme a Scampia costituiscono i più grandi insediamenti di edilizia economica e popolare di Napoli.
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La dimensione policentrica della metropoli post-globalizzazione
Conclusioni Il modello di decompressione demografica adottato da alcune realtà metropolitane italiane3 ha determinato che i comuni ad esse contermini assumessero un ruolo che da iniziale luogo di accoglienza degli 'esodati' della città si è presto concretizzato in quello di centralità locali di un sistema policentrico. Se la classe media della popolazione cittadina ha, infatti, trovato in tali realtà un'opportunità abitativa alternativa alle degradate e spesso inaccessibili periferie, nello stesso tempo gli abitanti degli estesi quartieri di edilizia economica e popolare vi trovano risposta all'esigenza inespressa di attrezzature pubbliche effettivamente fruibili e funzionanti. Ciò, tuttavia, evidenzia la necessità di un ripensamento, in chiave di città metropolitana, nella pianificazione di area vasta, delle scelte di localizzazione delle attrezzature pubbliche e nella gestione delle risorse destinate alla realizzazione, manutenzione e funzionamento delle stesse (Talia, 2007: 63-69). Il caso di Volla, in tal senso, si presenta abbastanza emblematico: sviluppatosi in maniera quasi incontrollata grazie alla domanda di nuove residenze di media qualità vive un grave deficit indotto di servizi pubblici. Infatti sebbene la dotazione pro-capite4 attualmente disponibile di attrezzature effettivamente realizzate e funzionanti sia di gran lunga superiore alla media riscontrabile in città, l'effettiva disponibilità delle stesse per i cittadini vollesi è compromessa dall'enorme pressione proveniente dai quartieri di edilizia economica e popolare amministrativamente appartenenti al capoluogo ma, in effetti, immediatamente contermini al comune.
Bibliografia Bergaglio M. (2008), Popolazioni che cambiano. Studi di geografia della popolazione, Franco Angeli, Milano. Cremaschi M. (2010), Atlanti e scenari del Lazio metropolitano, Alinea Editrice, Firenze. Giandelli V. (2004), “L'alloggio sociale nella grande città e nei centri suburbani. Il progetto e gli esiti”, in Mazzocchi G., VIllani A. (a cura di), Sulla città, oggi: la periferia metropolitana, Franco Angeli, Milano, pp. 109 - 123. Morandi C. (2010), “Polarità commerciali. Costituzione e ruolo territoriale”, in Brunetta G., Morandi C. (a cura di), Polarità commerciali e trasformazioni territoriali. Un approccio interregionale, Alinea Editrice, Firenze, pp. 7 - 12. Tacchi E.M. (2010), “Problemi e prospettive dell'integrazione sociale nelle aree urbane deboli”, in Cesareo V., Bichi R. (a cura di), Per un'integrazione possibile. Periferie urbane e processi migratori, Franco Angeli, Milano, pp. 67 - 109. Talia I. (2007), Forme, strutture, politiche della città, Liguori Editore, Napoli.
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Napoli, ad esempio, ha perso circa 300.000 abitanti a partire dalla fine degli anni settanta grazie ad una politica basata sulla limitazione dell'offerta abitativa privata interna e favorendo la realizzazione di quartieri periferici monofunzionali di edilizia economica e popolare. 4 calcolata rispetto agli abitanti residenti. Phd. ing. Alessandro Sgobbo
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RURBANScape. Forme plurali del progetto per una nuova alleanza tra città e campagna
RURBANScape. Forme plurali del progetto per una nuova alleanza tra città e campagna Ignazio Vinci Università di Palermo DARCH - Dipartimento di Architettura Email: ignazio.vinci@unipa.it
Abstract Nell’ultimo decennio si è manifestata una crescente attenzione alle relazioni di interdipendenza tra dimensione urbana e dimensione rurale. È un interesse alimentato dalla diversa prospettiva con cui ormai viene colta la dialettica, un tempo all’insegna di separatezza e subalternità, tra città e campagna e ciò per ragioni non solo spaziali e funzionali, ma anche economiche, sociali e culturali. Il paper si propone in primo luogo di esplorare il processo di acquisizione di tale nuova sensibilità alla dimensione europea, sia attraverso una lettura sintetica di alcuni documenti ufficiali in materia di sviluppo territoriale, sia osservando gli esiti dei principali progetti di cooperazione che affrontano le relazioni urbano-rurali. Il paper infine si propone di esplorare in termini critici alcune diverse forme in cui è possibile cogliere la convergenza tra urbano e rurale dal punto di vista progettuale ed in particolare riguardo a quattro principali dimensioni: la dimensione paesaggistica e ambientale, la dimensione sociale e culturale, la dimensione economica, la dimensione energetica. Parole chiave Sviluppo urbano e regionale, sviluppo locale, sostenibilità
1 | Introduzione L’economia classica concepisce il rapporto tra città e campagna in termini sostanzialmente dualistici. Il presupposto da cui essa parte, come osservano Basile e Cecchi (2001), è assumere «l’identificazione delle attività produttive con i contesti sociali e territoriali in cui esse sono svolte. Con i termini agricoltura e campagna si indicano indifferentemente la produzione di beni agricoli, il luogo in cui questa viene realizzata, il reticolo di relazioni sociali ed economiche su cui essa poggia; analogamente, le espressioni industria e città individuano l’attività della produzione industriale, ma anche lo spazio fisico in cui questa è localizzata e le relazioni sociali che la caratterizzano» (Basile e Cecchi, 2001: 53). In considerazione del fatto che il modello economico viene concepito come una contrapposizione di interessi espressi da specifiche classi sociali – quelli dell’industria appiattiti sugli interessi dei capitalisti concentrati nelle città, quelli dell’agricoltura espressi dai proprietari terrieri distribuiti nelle campagne – la contrapposizione tra queste due classi sociali dominanti si riflette automaticamente in termini di conflitto tra condizione urbana e condizione rurale. Tracce di questa analisi in termini antagonistici sono particolarmente presenti nel pensiero di Ricardo e Marx, il quale intravedeva nell’abbandono delle campagne e nel trasferimento crescente di manodopera da questa alla città non solo una condizione di disequilibrio dovuta all’eccedenza di produzione dell’industria urbana, quanto anche l’inizio di una posizione di subalternità politica della dimensione rurale rispetto a quella urbana. Tale processo insieme economico e territoriale, i cui effetti sulla condizione urbana sono stati lucidamente descritti dalle letture di ispirazione marxista di Lefèbvre (1973) e Castells (1974), subisce un grande momento di discontinuità con con l’entrata in crisi del modello di produzione fordista tra gli anni sessanta e settanta (Amin, 1994). Il declino della “città fabbrica” come modello dominante nei due secoli successivi alla rivoluzione industriale, innesca un processo di complessiva destrutturazione dei rapporti tra produzione e territorio che, lentamente e con traiettorie diversificate, coinvolgerà anche la campagna e la dimensione rurale nel suo complesso. Insieme all’affermazione di modelli industriali nella produzione anche nel settore agricolo, l’emergere del paradigma della sostenibilità con la mutazione negli stili di vita e di consumo che esso comporta produce cambiamenti strutturali nell’economia e nell’organizzazione sociale dei territori rurali (Charrier, 1991; Ilbery, 1998). Uno Ignazio Vinci
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spazio rurale inteso non solo come luogo di produzione di massa per i consumi alimentari delle città, quanto anche come ambiente di produzione di beni sofisticati (cultura, cibo di qualità, leisure) che inglobano un più alto valore aggiunto e diversificano le fonti di redditto delle comunità locali. È un processo di ibridazione tra modelli di sviluppo storicamente antagonisti che in Europa si afferma con un certo anticipo sull’occidente industrializzato e con una particolare varietà di sfumature e caratteri peculiari nei diversi contesti nazionali. In Italia, dove la prevalenza della piccola e medie impresa e la diffusione territoriale dell’industria hanno svolto un ruolo essenziale nella transizione postfordista (Clementi et al., 1996), il fenomeno di destrutturazione e ricomposizione dell’economia rurale si associa anche a complesse riconfigurazioni sul piano spaziale (Boscacci e Camagni, 1994; Guidicini, 1998): fenomeni quali la ‘campagna urbanizzata’ osservata da Becattini (2001), le giunzioni e sovrapposizioni tra reti di città medie e sistemi rurali diffusi (Magnaghi e Fanfano, 2010), i fenomeni di metropolizzazione scomposti e disorganici verso latifondi resistenti al cambiamento (Lanzani, 2003), esprimono varie morfologie di una “rurbanità” che costituisce un tratto caratterizzante di ampie porzioni del paese.
2 | Le aree urbane europee come emblema e come laboratorio di innovazione Il dualismo tra città e campagna, tra economie urbane e rurali, ha avuto il suo più perdurante effetto nell’incapacità da parte delle scienze urbane e regionali (ma più in generale delle politiche pubbliche) di concepire le due dimensioni dello sviluppo territoriale come parte della medesima questione. Mentre il rilancio delle città e la rigenerazione delle aree rurali, alle prese con le rispettive transizioni produttive e sociali, sono state oggetto di cospicue attenzioni nella letteratura e nelle pratiche progettuali (si pensi, solo per fare un esempio, all’innovazione verso le politiche urbane e rurali sviluppate rispettivamente in ambito anglosassone e transaplino) la loro interazione quale esito di una politica congiunta ha sofferto a lungo di un atteggiamento appiattito su una visione quantitativa e settoriale (Davoudi & Stead, 2002). Tanto la Politica Agricola Comune quanto le politiche di sviluppo regionale hanno progressivamente interiorizzato la necessità di ispirarsi a nuovi principi comuni, quali l’approccio integrato e le partnership pubblico-private, ma la loro convergenza su tematiche territorialmente congiunte è stata ostacolata dalle rigide zonizzazioni settoriali cui lo spazio europeo è stato sottoposto. Alla fine degli anni novanta questo trend sembra parzialmente invertirsi e la questione di un rapporto cooperativo tra aree urbane ed aree rurali in Europa si impone all’attenzione di un più ampio spettro di osservatori e policy maker. Lo spunto iniziale è venuto con la conclusione di un programma di ricerche promosso dalla Commissione Europea – lo Study Programme on European Spatial Planning (Spesp) (Nordregio, 2000) – finalizzato ad approfondire alcune delle opzioni politiche indicate dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo, il primo e finora unico documento di indirizzi ufficiale riguardo alla pianificazione territoriale in ambito comunitario approvato nella sua versione definitiva nel 1998. Il rapporto finale dello SPESP dedicava infatti il secondo dei suoi quattro capitoli alla ‘Urban-Rural Partnership’, un insieme di argomentazioni volte a superare la tradizionale dicotomia tra città e campagna nelle politiche regionali e ad arricchire un dibattito sullo sviluppo policentrico che soffriva (o tuttora soffre) di eccessiva astrattezza nel suo passaggio dall’osservazione dei fenomeni alla costruzione di politiche. Il contributo forse più cospicuo offerto dal rapporto finale dello SPESP sta nel tentativo di offrire una lettura più complessa e articolata della dialettica città-campagna, identificando una varietà di situazioni intermedie tra il rurale e l’urbano come tratto distintivo del fenomeno territoriale in Europa e come campo di sperimentazione per le politiche di coesione regionale ancora troppo condizionate dalle necessità classificatorie dei fondi strutturali. Negli anni successivi il tema mantiene un certo interesse alla scala comunitaria, divenendo il focus per una pluralità di iniziative di ricerca e trasferimento di pratiche progettuali. Ad esempio, l’osservatorio europeo ESPON, che dello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo costituisce il principale strumento di implementazione, indirizza verso l’interazione tra aree urbane ed aree rurali uno dei suoi dieci progetti tematici: il progetto ‘Urban-Rural relations in Europe’ (Espon, 2005). Tale iniziativa sviluppa una lettura sistematica del territorio europeo fino alla scala sub-regionale (basata su dati statistici e di uso del suolo) la quale mostra la considerevole varietà in cui l’interazione urbano-rurale prende forma nei diversi contesti insediativi. Il rapporto finale del progetto si spinge a formulare un insieme di policy recommendations ad uso delle future politiche comunitarie e nazionali, ma allo stesso tempo riconosce l’inafferrabile diversità con cui il fenomeno della “rurbanizzazione” si manifesta nei diversi contesti territoriali. Forse anche per questa ragione, l’ottica comparativa prenderà il sopravvento in un gran numero di progetti comunitari nella seconda metà del decennio, il più importante dei quali è quello risultante dall’azione preparatoria denominata ‘Rurban. Partnership for sustainable urban-rural development’, in cui specifici casi di buone pratiche e progetti vengono passati in rassegna per il loro tentativo di incidere su alcune dei nodi (governance, mobilità, ambiente, innovazione economica) ritenuti rilevanti per le relazioni città-campagna in Europa. Inoltre, alcune interpretazioni del tema divengono campo di sperimentazione per diversi progetti comunitari sia nell’ambito del Sesto e del Settimo Programma Quadro per la Ricerca (Plurel, Faan, Purefood, Ignazio Vinci
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Foodlinks), sia nell’ambito di programmi di iniziativa comunitaria quali Interreg III (Saul, Farland, Hinterland) e IV (Peri-Urban Parks, Surf, Value, Making Places Profitable, Urban Habitats, Solabio, Rururbal). Gli ambiti di sperimentazione, i temi ricorrenti e gli approcci praticati all’interno di queste esperienze di cooperazione si prestano ad alcune preliminari considerazioni critiche. La prima riguarda il significativo scarto di attenzione che si manifesta tra le regioni del nord-Europa e quelle dell’Europa meridionale e mediterranea. Appare evidente come, dinanzi a processi di metropolizzazione che pure investono in maniera altrettanto intensa e pervasiva tutte le regioni europee, nel nord-Europa stiano maturando condizioni cognitive e istituzionali che aprono a più mature interpretazioni della dialettica urbano-rurale e di come sia praticato lo sforzo di inquadrare le pratiche diffuse e talvolta spontanee all’interno di scenari strategici più strutturati. La seconda considerazione è di tipo spaziale e riguarda la prevalenza della dimensione “periurbana” quale contesto privilegiato verso cui le pratiche progettuali legate in varia misura ai rapporti città-campagna vengono osservate ed incoraggiate. Mentre appare ragionevole considerare tali contesti come spazi entro cui conflitti e opportunità delle relazioni cittàcampagna si manifestino con maggiore risalto che altrove, è del tutto evidente che lo spazio periurbano costituisce solo una delle morfologie territoriali in cui una più olistica concezione del rapporto urbano-rurale può essere osservato ed esplorato in termini progettuali. Una risposta che può essere data a tale evidenza è che un numero considerevole di sperimentazioni progettuali sono ispirate da una visione prettamente urbanisticoambientale della questione, in cui il mantenimento degli asset naturalistici e paesaggistici legati all’agricoltura urbana riveste un interesse prevalente rispetto a tematiche di più complessa trattazione quali ad esempio le distrettualità produttive, le catene commerciali in un’ottica di reti territoriali allargate.
3 | Quattro chiavi di lettura come orizzonte per una loro integrazione Osservando gli approcci e le tematiche ricorrenti in queste sperimentazioni progettuali, possiamo affermare che il tema dell’interazione urbano-rurale si presti ad una molteplicità di interpretazioni non tutte ancora perfettamente messe a fuoco dalle pratiche progettuali in corso nell’ultimo decennio. Lo stesso progetto Espon metteva in luce tra le sue premesse come il tema possa assumere connotazioni molto differenziate se lo si osservi da un punto di vista ‘strutturale’, cioè in relazione alle dinamiche demografiche e di urbanizzazione, o da un punto di vista ‘funzionale’, in riferimento alla riorganizzazione dei processi produttivi o ai comportamenti sociali che esprimono nuove forme d’uso del territorio. Il tema, in altre parole, è espressione di quella ‘zona grigia’ creatasi nei modelli di sviluppo delle società occidentali alle prese con processi di trasformazione postindustriale nelle economie sia urbane che rurali, processi a loro volta strettamente dipendenti da innovazioni culturali e tecnologiche e dunque di difficile trattazione per le politiche di pianificazione. Ma mentre appare diffusa la precezione che le relazioni di dipendenza tra città e campagna siano progressivamente sostituite da crescenti rapporti biunivoci fondati sui flussi di persone, capitali, tecnologie ed informazione con un intensità senza precedenti, le implicazioni per lo sviluppo regionale appaiono ancora largamente sottostimate. Dalla prospettiva delle politiche di sviluppo da cui si cerca di osservare in maniera questo fenomeno, crediamo che gli spazi per la ricerca progettuale (praticati o che riservino prospettive nel futuro) si snodino lungo quattro dimensioni prevalenti. Una prima dimensione è quella legata ad un approccio paesaggistico e ambientale del rapporto città-campagna in cui la prospettiva sociologica della dialettica urbano-rurale rimane sullo sfondo. Si tratta di una maniera di avvicinarsi alla questione storicamente influente, in quanto affonda le proprie radici in un percorso di elaborazione intellettuale che potremmo fare risalire ad Ebenezer Howard ed alla sua Garden City (Parsons & Schuyler, 2002). Nella seconda metà del novecento, sotto l’influenza delle ricerche della landscape ecology, emergono forme di progettazione urbana orientate in senso ambientale – si veda, ad esempio, il percorso che da McHarg (1969) conduce a Steiner (2000) – che concettualizzano il rapporto tra la città ed il suo intorno soprattutto in termini di ricucitura delle connessioni ecologiche. A questa prospettiva sistemica più recentemente se ne sono aggiunte altre, anche e soprattutto europee, che guardano al ‘periurbano’, alle urban fringe (Gallent et al., 2006), alle ‘campagne urbane’ (Donadieu, 1996; Mininni, 2013), a quel ‘terzo paesaggio’ generato dai territori in abbandono ai margini delle città contemporanee (Clément, 2005) non solo in quanto luoghi amorfi ma anche quali spazi privilegiati per un progetto urbano contemporaneo, spesso punto di contatto tra sensibilità archtettoniche e urbanistiche, che cerca di accompagnare verso modelli di sviluppo ecologicamente più sostenibili. Una seconda dimensione rilevante, per molte implicazioni progettuali interconnessa alla precedente, legge la dialettica urbano-rurale quale processo di rielaborazione di significati culturali e nuove funzioni sociali. Si tratta dell’emersione di un ‘neoruralismo’ (Merlo, 2006) sempre più diffuso nelle classi intellettuali metropolitane e che costituisce una delle tendenze tipiche della postmodernità nella società occidentale. Il ‘neoruralismo’ si esprime soprattutto in due forme: da un lato, nel percepire la campagna quale valida alternativa residenziale alla città e, in forme più soft, nella frequentazione sistematica dell’ambiente rurale come destinazione privilegiata per il tempo libero; dall’altro (più rilevante per la nostra prospettiva), nel tentativo di riportare la campagna (o frammenti di una ruralità perduta) dentro la città attraverso una varietà di interpretazioni progettuali. Negli ultimi Ignazio Vinci
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due decenni un numero crescente di città occidentali sono state teatro di sperimentazione progettuali – dai community gardens americani alle city farms inglesi, dai jardins familiaux francesi agli ‘orti urbani’ italiani – in cui la portata ambientale ed economica delle iniziative si accompagna all’intento di rafforzare le relazioni sociali ed il senso di comunità nei quartieri (Mougeot, 2005). Ciò che appare più rilevante, in tutte queste esperienze di agricoltura urbana, appare la dimensione simbolica ed educativa, uno spazio ed un insieme di pratiche attraverso cui esprimere modelli alternativi di sviluppo in contrasto con l’immagine individualista ed ecologicamente insostenibile della civiltà urbana contemporanea. Un terzo orizzonte cognitivo e progettuale va necessariamente riferito alle funzioni economiche ed a tutte quell’insieme di attività market-led che regolano, possono promuovere (oppure ostacolare) una diversa interazione tra città e campagna. Ma come sovente accade laddove ci si riferisce a dinamiche di mercato, le politiche pubbliche sono costrette a muoversi tra razionalità differenziate e non sempre convergenti. Il mercato dei prodotti dell’agricoltura, infatti, è regolato da un complesso intrico di norme, alcune formalizzate da regolatori pubblici della concorrenza (si veda la Politica Agricola Comune europea) altre affidate alla forza di attori economici privati in grado di porre forti ostacoli alla rigenerazione dei mercati locali. La politica delle filiere a ‘chilometro zero’, ad esempio, rimane fortemente limitata da un insieme di regole a garanzia della concorrenza che tuttora impediscono una diffusione a scale economicamente rilevanti per le relazioni tra mercati urbani ed i territori rurali circostanti. Eppure, come cerca di argomentare ad esempio Van Leeuwen (2010), in termini economici il futuro dello sviluppo rurale non potrà che focalizzarsi su un diverso rapporto con le aree urbane, le quali costituiscono la destinazione naturale per i prodotti agricoli, in particolare di alta qualità. Al di fuori di queste logiche globali vi sono tuttavia reti, iniziative e politiche locali che indicano direzioni progettuali fondate anche su precisi presupposti di sostenibilità economica (Calori, 2009). Solo il contesto italiano offre esempi, quali la sezione agricola del mercato di Porta Palazzo a Torino o gli store di Eataly in varie città, che esprimono, a scale e con logiche differenziate, direzioni progettuali per una più effettiva convergenza di economie urbane e rurali. Una quarta ed ultima interpretazione, ancora largamente inesplorata nelle sue diverse implicazioni economiche e sociali, è quella che allude alle relazioni città-campagna(agricoltura) dalla prospettiva energetica. Dalla fine degli anni novanta, attraverso il contributo di vari filoni disciplinari, si è sviluppata una riflessione teorica che si interroga sui contorni di un nuovo ‘metabolismo urbano’ (si veda in proposito l’interessante rassegna della letteratura presente in Rapoport, 2011). Una parte significativa di tali riflessioni, anche sotto l’influenza della ricerca nel campo della industrial ecology, guarda alla città come sistema di flussi energetici il cui controllo sarebbe in grado di garantire una prospettiva di parziale autosufficienza. La ricerca industriale ha sviluppato negli ultimi due decenni una varietà di modelli di impiego di biomasse a fini energetici che, oltre a sostenere la prospettiva visionaria di una terza rivoluzione industriale (Rifkin, 2011), sono destinati anche a ridisegnare i rapporti tra le città, l’ambiente naturale e l’agricoltura. Gli sviluppi più promettenti in questa direzione riguardano la sempre maggiore affidabilità dei sistemi che traggono energia dalle biomasse, i cui derivati combustibili assicurano rendimenti energetici ormai comparabili a qualli di natura fossile ma anche un minore impatto in termini di emissioni sulla biosfera (ad esempio nel trasporto pubblico e privato). Molti osservatori concordano sul fatto che, se si resisterà alla tentazione di creare riserve agricole ad hoc (fondate su logiche massificate e quantitative) per volgere la propria attenzione verso il considerevole patrimonio di biomassa presente negli scarti e nei sottoprodotti dell’agricoltura locale, questa prospettiva è destinata a ridisegnare anche sul piano economico le relazioni tra le grandi aree urbane ed i sistemi rurali che le circondano.
4 | Considerazioni conclusive e spunti per le politiche Le quattro ‘aree di sperimentazione’ progettuale che abbiamo indicato, ed all’interno delle quali si stanno sviluppando differenziati processi di innovazione, definiscono a loro volta una più estesa ‘area di integrazione’ con cui le politiche di sviluppo urbano e regionale sono chiamate a confrontarsi. Nel paper si è fatto cenno a quanto le relazioni urbano-rurali siano condizionate da una grande quantità di variabili strutturali e funzionali (dalla molteplicità degli attori implicati alla asimmetria delle relazioni globale-locale) e di come ciò possa costituire un ostacolo alla costruzione di strategie più olistiche ed integrate per rafforzarne le interdipendenze. Tuttavia, nel solco della riflessione più matura sullo sviluppo sostenibile nel modello di sviluppo europeo, appare evidente la portata strategica di questo tema per uno sviluppo territoriale policentrico e per le sinergie che esso è in grado di assicurare su dimensioni complementari quali quelle ambientali, economiche e sociali. Il quadro delle esperienze e delle riflessioni in corso indica alcune direzioni di lavoro su cui gli studi urbani e le scienze regionali potranno offrire un contributo nel prossimo futuro. Una prima è di carattere puramente cognitivo, e riguarda il contributo che è ragionevole attendersi verso una revisione costante delle letture geografiche e relazionali di un rapporto, quello città-campagna o urbanorurale, fortemente dinamizzato dai comportamenti sociali e dalle dinamiche di mercato. Legare più compiutamente queste letture agli andamenti del fenomeno urbano e insediativo nelle grandi regioni urbane e
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nelle reti di città medie, per la cultura della pianificazione territoriale, appare una sfida di decisiva rilevanza per riformare le politiche di sviluppo regionale. Una seconda è di carattere insieme cognitivo e politico, e riguarda la necessità di identificare livelli di governance in cui la formulazione di strategie organiche ed integrate possa più efficacemente tradursi in politiche e progetti locali in grado di intercettare congiuntamente dimensioni ambientali, economiche e sociali. Il quadro europeo in corso mostra, nella diversità dei contesti territoriali e istituzionali, come la scala metropolitana sia la più pertinente per promuovere e governare almeno una parte delle politiche di interazione urbano-rurali (la riqualificazione dello spazio fisico, la promozione di filiere agro-alimentari ‘corte’). D’altro canto, altrettanto evidente appare come la trattazione di tematiche più complesse, quali ad esempio quelle che fanno riferimento alla promozione delle distrettualità produttive od alla valorizzarione del potenziale energetico della campagna, richiedano una dimensione regionale se non l’effetto sinergico di politiche interregionali e nazionali.
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Espressioni territoriali in evoluzione: cause, effetti, ipotesi di sviluppo
Espressioni territoriali in evoluzione: cause, effetti, ipotesi di sviluppo Annalisa Contato Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: annalisa.contato@unipa.it Tel: 333 3650778
Abstract I fenomeni della globalizzazione, dell’economia mondiale, dell’economia dell’informazione e della conoscenza stanno producendo trasformazioni nell’assetto spaziale dei sistemi urbani. Essendo i luoghi espressione delle dinamiche economiche e sociali, le città, tornate ad essere al centro dell’attenzione in quanto rappresentano gli spazi in cui le dinamiche globali si esprimono e si territorializzano, sono in costante riorganizzazione e necessitano di un’adeguata pianificazione del loro sviluppo al fine di creare nuove configurazioni spaziofunzionali, nuove espressioni territoriali strutturate per far convergere i flussi globali e generarne nuovi. Da queste considerazioni la ricerca in corso, da cui questo articolo è estratto, intende elaborare un modello di sviluppo e di governo delle città con l’obiettivo di dare maggiore flessibilità alle configurazioni territoriali e di generare spazi competitivi multi-livello, dove i territori possano interagire, relazionarsi ed interpretare il paradigma della 'rete' come operatore spazio-temporale per l’intercettazione dei flussi. Parole chiave Flussi, City Network, Gateway City.
Spazialità in transizione «Globalisation takes place in cities and cities embody and reflect globalisation. Global processes lead to changes in the city and cities rework and situate globalisation. Contemporary global dynamics are the spatial expression of globalisation, while urban changes reshape and reform the processes of globalisation» (Short, Kim, 1999: 9). Gli effetti della globalizzazione, come la maggiore velocità delle connessioni, la riduzione delle distanze relazionali, la delocalizzazione delle attività produttive nei Paesi con minor costo di manodopera e la concentrazione delle funzioni di controllo nei centri di alcune città, stanno generando profondi cambiamenti non solo nella sfera sociale ed economica, ma soprattutto nell’assetto spaziale delle città. Il mutamento delle relazioni inter ed intra-urbane che si riscontra nelle città, sta generando nuove configurazioni spazio-funzionali, polarizzazioni, ghetti, vuoti urbani indipendentemente dal modo e dal grado con cui sono coinvolte in questo processo. «Globalizing cities is thus the term we are using, to reflect two different points: that (almost) all cities are touched by the process of globalization and that involvement in that process is not a matter of being either at the top or the bottom of it, but rather of the nature and extent of influence of the process» (Marcuse, Kempen, 2000: 263). Ulteriore fenomeno su sui porre l’attenzione per analizzare e comprendere le cause dei mutamenti che investono le città è l’economia globale che, attraverso la liberalizzazione dei mercati e grazie all’economia dell’informazione1, ha ampliato le possibilità di mobilitazione dei capitali creando flussi che tracciano le traiettorie dell’economia mondiale, attraversano l’intero globo e abbattono le distanze fisiche. 1
Per economia dell’informazione si intende «un sistema economico dominato da industrie che producono, manipolano e/o trasmettono informazioni; per la precisione, quel settore dell’economia che è costituito da industrie del genere, in particolare da quelle che forniscono servizi specializzati» (Sassen, 2010: 261), ovvero una configurazione economica immateriale che rappresenta la maggiore causa della dispersione spaziale delle attività economiche.
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Se, da un lato, i continui sviluppi del settore delle comunicazioni e l’espansione dell’industria dell’informazione generano una tendenza alla dispersione territoriale delle attività economiche, dall’altro si osserva la contrapposta tendenza della concentrazione territoriale di attività altamente specializzate, di funzioni superiori di controllo e direzione, che stanno generando nodi territoriali caratterizzati da una iperconcentrazione di strutture materiali, che si pongono come luoghi strategici globali delle città e che, interconnessi fra loro, disegnano le reti entro cui l’economia mondiale fluisce e da cui si alimenta. In questo scenario, si può sostenere che le città sono tornate ad assumere un ruolo chiave nei processi globali, che sono in costante trasformazione ed oggetto di nuove configurazioni spaziali, che rappresentano quello spazio reale e fisico in cui la globalizzazione e l’economia mondiale si 'territorializzano' e, come conseguenza, il loro assetto infrastrutturale e logistico, la dotazione di tecnologie smart, la presenza di strutture e capacità competitive in grado di attrarre interessi ed economie, diventano requisiti fondamentali per essere globalmente interconnesse, per intercettare i flussi e, in particolare, per definire la gerarchia, il ruolo e il rango che possono assumere ai diversi livelli di connessione spaziale. Essendo le forme e i processi spaziali espressione delle dinamiche delle strutture economiche e sociali globali, i fenomeni appena descritti hanno condotto le scienze che descrivono e rappresentano il territorio a modificare i tradizionali metodi di analisi. Sempre meno viene presa in considerazione la reale posizione fisica nello spazio geo-referenziato, la contiguità spaziale e la vicinanza fisica, ma è nello spazio geografico inteso in senso relazionale, nella griglia disegnata dai flussi che genera nuove logiche spaziali, e nelle dinamiche economiche e sociali dell’era globale che la scienza della geografia ridefinisce il proprio modo di operare e propone alternative tipologie di analisi e di rappresentazione. La chiave di svolta si può ritrovare nel concetto di posizione geografica «non più riferita alla griglia dei meridiani e dei paralleli (posizione assoluta) ma a una griglia assai più complessa disegnata sulla faccia della Terra dai flussi di persone, beni materiali, informazioni, decisioni, ecc., corrispondenti a tutti i tipi di scambi: economici, politici, culturali. In tale concezione relazionale dello spazio geografico il valore di un luogo diventa il valore di scambio» (Dematteis, 1985: 52). Si parlerà, pertanto, di spazio geografico in senso relazionale (Castells, 2002), non essendo più la contiguità spaziale il punto di riferimento nei processi di sviluppo, e risulterà più efficace analizzare i sistemi territoriali attraverso la 'geografia dei flussi' e la 'geografia delle reti': la prima è la geografia disegnata dalle dinamiche dell’economia globale, dall’information processing e dalle funzioni manageriali dominanti, che devono essere intercettate dalle città; la seconda è la geografia disegnata dai processi di networking attivo che le città instaurano fra loro, formando reti sia a livello globale che a livello locale per l’intercettazione dei flussi. I flussi, espressione dei processi che dominano la vita economica e politica, come forma materiale di supporto dei processi e delle funzioni dominanti nella società dell’informazione, sono la nuova dimensione spaziale entro cui la società si organizza e le città si ricollocano nella geometria globale, determinando la contrapposizione dello spazio dei flussi allo spazio dei luoghi2. Sebbene lo spazio dei flussi, nella sua logica, sia privo di una dimensione spaziale, in realtà questa si materializza in quei luoghi che sono interessati dalle relazioni e che assumono la funzione di snodi o di nodi. Gli snodi rappresentano stazioni di scambio, snodi di comunicazione ed hanno un ruolo di coordinamento per migliorare le interazioni fra tutti gli elementi interagenti nella rete. I nodi, invece, sono le sedi delle funzioni strategicamente importanti, dove risiedono attività e organizzazioni che territorializzano il nodo in uno specifico luogo, e svolgono funzioni che gli attribuiscono un ruolo chiave all’interno della rete. La territorializzazione di un nodo determina il collegamento del sistema locale, a cui il nodo appartiene, all’intera rete. Le conseguenze della globalizzazione e della tecnologia dell’informazione, si traducono, in termini geografici, in un nuovo modo di analizzare, interpretare e restituire lo spazio geografico: le logiche che danno maggior peso ad un territorio dipendono dallo spazio dei flussi e dalle connessioni reticolari di cui quel territorio è parte. Sulla base della tipologia di flussi, e quindi della specifica rete di connessioni, i nodi di una rete − ovvero le città − annullano la distanza spaziale interposta fra loro e operano come se fossero prossimi l’uno all’altro, attivando processi di networking e accrescendo la complementarietà. «I flussi e le interazioni delle reti convergono su un numero limitato di luoghi che sono città. Le città, legate mutuamente da reti di flussi e di interazioni, sono nodi complessi, cioè costituiti da più nodi interconnessi di reti complesse, a loro volta formate da fasci di più nodi» (Perulli, 2007: 176).
Capitalismo in transizione. «L’economia globale non si nutre dell’universale standardizzazione di prodotti, processi e conoscenza, ma è piuttosto un sistema che genera maggiore divisione del lavoro e specializzazione tra i luoghi, poiché premia la
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«Un luogo è una località la cui forma, funzione e significato sono autosufficienti all’interno dei limiti della contiguità fisica» (Castells, 2002: 485). L’autore sostiene che le persone vivono ancora nei luoghi, ma poiché la funzione e il potere nelle società attuali sono organizzati dallo spazio dei flussi, la sua logica struttura lo spazio in modo da alterare il significato e la dinamica dei luoghi nel modo tradizionale in cui questi sono percepiti e vissuti.
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Espressioni territoriali in evoluzione: cause, effetti, ipotesi di sviluppo
ricerca di apporti originali e non ripetitivi all’interno dei reticoli globali. Diversificare e innovare prima, connotare poi, sono leve immateriali per alzare i sentieri della crescita territoriale» (Bonomi, 2010: 16). Come afferma Aldo Bonomi, negli ultimi anni si è assistito al passaggio da un capitalismo manifatturiero a un capitalismo delle reti: il periodo post-fordista vede l’affermarsi di nuove economie, come l’economia dell’informazione e l’economia della conoscenza, che pongono al centro uno specifico attore, detentore delle risorse collettive per lo sviluppo. Le transazioni degli assetti proprietari delle reti dei servizi, richiedono un confronto tra i detentori delle risorse strategiche per lo sviluppo e i soggetti locali, e la necessità di strutturare lo spazio dove sperimentare l’incontro tra flussi e luoghi (Bonomi, 2006). La transizione del capitalismo, avviatasi negli anni ’70, ha condotto ad una nuova forma di capitalismo che pone al centro due importanti temi: il processo della globalizzazione e il processo della 'smaterializzazione' dell’economia, ovvero un economia sempre più basata sulla produzione di beni, servizi e conoscenza, sulla mobilitazione di flussi di capitale finanziario, sociale e culturale. Questa transizione ha anche generato un passaggio da un modello economico verticalmente integrato e concentrato nello spazio, ad un modello organizzato in «reti multi-livello (internazionali, transnazionali, sub-regionali) spazialmente diffuse» (Bonomi, 2010: 15). Il capitalismo di territorio, di conseguenza, è sottoposto a grandi cambiamenti, per diventare più flessibile e per gestire meglio i nuovi processi: il suo sviluppo deve essere ripensato nei termini del capitalismo delle reti3, ossia degli attori che gestiscono i beni competitivi territoriali, il cui prerequisito per lo sviluppo si trova nella centralità dei beni competitivi territoriali. Se prima erano le imprese a competere fra loro, adesso sono i territori a trovarsi in competizione. Nell’ottica del capitalismo delle reti, parlare di flussi e delle relazioni che queste hanno con i luoghi permette di individuare quattro diversi livelli di relazioni, che corrispondo ad altrettanti livelli di 'spazi competitivi'. Un primo spazio è quello delle global cities, spazio virtuale − nel senso che la competizione non avviene fra sistemi territoriali, ma fra networks − che connette i centri che detengono le principali funzioni di gestione e di comando dell’economia mondiale. Un secondo spazio competitivo è quello transnazionale, dove i grandi sistemi territoriali competono fra loro per attrarre il maggior numero di flussi, attori ed economie. Il terzo spazio è definito meso, composto da macro-regioni. Infine, il quarto spazio competitivo è quello a scala locale, dove la competizione avviene tra sistemi territoriali che cooperano all’interno delle piattaforme produttive territoriali. Il rapporto tra flussi e luoghi generato dalla geografia degli spazi economici, configurazioni spaziali a geometria variabile, è il luogo privilegiato in cui il capitalismo delle reti deve agire, attraverso il confronto, favorendo e generando spazi di negoziazione e coalizzando il capitale sociale con il capitale economico.
Spazi competitivi multi-livello. Le logiche di rete. Peter Taylor, nei suoi studi sulle città globali, sottolinea l’importanza delle relazioni che le città intrattengono con le altre città del globo (Taylor, 2004) e, ponendo l’attenzione sui nodi di questi sistemi relazionali, afferma che «leading cities can only be identified and understood in the context of their relations with myriad other cities across the world. That is to say, if London is indeed to be interpreted as a ‘global city’ it will be because many other cities, through their dependences and interdependences with London, make London special […] In other words, cities form interlocking networks; under conditions of contemporary globalisation these are world city networks» (Taylor, 2005: 1594). Le città diventano così nodi di una rete, che fa capo ad una città, nodo di maggior rilievo connesso alle reti globali, ed attraverso questo traggono vantaggio e si relazionano con il contesto internazionale. Nelle analisi di Taylor, si fa riferimento a city networks che si configurano intorno ad una global city, con cui intrattengono una forte relazione di dipendenza (Taylor et al, 2002; Taylor, 2005). Anche Paolo Perulli osserva come, negli ultimi decenni, i processi sociali ed economici si stanno riorganizzando secondo logiche di rete. «Il collegamento in reti è fondamentale per l’esistenza della città, e tende a sostituire la vecchia centralità intesa come servizio a una regione circostante o a un immediato hinterland. I centri, del resto, corrispondono oggi a città globali che detengono l’intera gamma delle funzioni superiori e di comando; ma essi possono essere anche pensati come centri di sistemi reticolari i cui nodi sono rappresentati da città di minori dimensioni» (Perulli, 1998: 39). L’autore individua due diversi tipi di rete: la prima è la stessa individuata da Taylor; la seconda, invece, è formata da città non globali, ma che utilizzano la rete per aumentare le proprie capacità competitive, costruendo nuove posizioni di vantaggio e ridefinendo i propri confini. Pertanto, le città possono essere parte di due diversi tipi di reti: reti interne e reti esterne, ovvero, reti integrate orizzontalmente (reti locali) e/o verticalmente (dal locale al globale). La rete possiede, di conseguenza, una doppia natura: da un lato vi sono alcuni nodi in cui si concentra il potere, dall’altro è un operatore spazio-temporale4 non gerarchico, flessibile e capace di connettere situazioni eterogenee. 3 4
Il capitalismo delle reti è definito da Bonomi come il capitalismo «degli attori che gestiscono beni competitivi territoriali» (Bonomi, 2006: 832). Paolo Perulli definisce la rete un operatore spazio-temporale, ovvero quella struttura spaziale «che ridisegna lo spazio: modifica l’essere-insieme, riscrive i confini della società, rende equivalenti l’appartenenza e l’assenza locale, anzi aumenta l’indifferenza per lo spazialmente vicino e stringe la relazione con ciò che è spazialmente remoto» (Perulli, 2007: 53).
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La città torna così ad essere un luogo denso di importanza, in cui si territorializzano le dinamiche globali e grazie alla struttura reticolare avviene l’interazione tra i contesti locali e globali: «nel denso territorio europeo emergono nuovi fenomeni urbani: la città-nodo, le città-regioni, le città-rete sono forme di irradiamento e di innovazione» (Perulli, 2007: 14). Si può affermare, allora, che le città globali, le regioni urbane e i sistemi locali, traggono vantaggio e rafforzano il proprio ruolo e le proprie capacità competitive dall’organizzarsi in sistemi reticolari, in quanto la rete si pone, morfologicamente, come la forma più adatta alla complessità delle interazioni ed dei nuovi modelli di sviluppo derivanti da essi, in termini di organizzazione spaziale per favorire le connessioni e in termini di organizzazione delle relazioni verso l’interno e verso l’esterno. «La morfologia della rete appare ben adatta alla complessità dell’interazione e agli imprevedibili modelli di sviluppo derivanti dalla forza creativa di tale interazione» (Castells, 2002: 75). Partendo da queste prime deduzioni e analizzando le fasi di evoluzione/transizione dei modelli di capitalismo, particolare rilevanza assume la variazione del soggetto posto alla base della competizione nell’economia globale. Se nel capitalismo molecolare la competizione era svolta dalle singole imprese, sparse sul territorio in maniera diffusa e puntuale, adesso i nuovi processi economici e, soprattutto, le nuove dinamiche che territorializzano i flussi globali, hanno riacceso l’importanza dei territori stessi. Questi ultimi, o meglio, le configurazioni territoriali che emergono in questa fase sono ben rappresentate dalle regioni urbane policentriche5 e dalle piattaforme territoriali, dotate di quelle componenti ad elevato potenziale competitivo necessari per rispondere meglio ai processi globali. L’elevato grado di interazione e specializzazione funzionale presente all’interno di una PUR e il consolidato sistema di relazioni intra-regionali − relazioni orizzontali − conferisce a questi luoghi quella massa critica tale da potersi confrontare con le città globali. In queste, si propongono due livelli di organizzazione spaziale: uno che riguarda l’organizzazione interna, ed uno che riguarda l’oltrepassare i confini geografici delle stesse per attivare il processo, definito da Nadine Cattan (2007), di poly-decentricity. Per quanto riguarda l’organizzazione interna, le regioni urbane policentriche sono caratterizzate dall’essere prive di una gerarchia interna, dovuta al fatto che le strategie di sviluppo intervengono nella direzione dell’integrazione e cooperazione funzionale al fine di evitare fenomeni di competizione interna che annullerebbero i vantaggi del sistema stesso. Le difficoltà si presentano nel momento in cui i flussi provenienti dall’esterno devono essere estesi a tutto il territorio e quando i flussi interni devono essere riversati nelle reti esterne, facendo i modo che i vantaggi non restino al singolo nodo, ma siano estesi all’intero sistema policentrico. Per queste ragioni, si evidenzia la necessità di configurare un nodo dominante in termini di interfaccia, una gateway city all’interno di ogni sistema policentrico organizzato, che svolga il ruolo di commutatore di flussi e servizi per far relazionare il sistema locale con quello globale. L’intero sistema policentrico non sarà dipendente dalla gateway city, ma interdipendente da essa: la gateway city esisterà e potrà competere con le global cities solo perché intrattiene relazioni di interdipendente con un sistema territoriale in cui le città sono funzionalmente interconnesse fra loro e possiedono elevate specializzazioni. In merito alla territorializzazione dei flussi globali, le gateway cities, configurandosi come città di interfaccia, dovranno essere dotate di quelle infrastrutture logistiche necessarie per 'l’atterraggio dei flussi'. Fondamentali saranno, dunque, le strategie di sviluppo territoriale in termini logistico/infrastrutturali, che permettano facili connessioni tra i vari nodi del sistema regionale policentrico e tra le gateway cities di diversi sistemi. In quest’ottica, assume particolare importanza la nuova programmazione dei corridoi europei, e la pianificazione strategica di quei nodi che si troveranno geograficamente ad intercettare più corridoi. Il processo di poly-decentricity permetterà l’intreccio del capitalismo di territorio con il capitalismo delle reti, creando spazi competitivi multi-livello in cui i territori possano agire e relazionarsi. Quello che si propone, nella ricerca in corso, è di favorire, attraverso nuovi sistemi di governance e politiche dedicate, la nascita di relazioni a livello inter-regionale fra le PURs, dove le relazioni non avverranno solo fra le rispettive gateway cities, ma anche fra le altre città con lo scopo di implementare le capacità competitive e le reciproche potenzialità attraverso processi di cooperazione fra specializzazioni funzionali simili, di fornire esternalità che si avvantaggino le une dalle altre, e di trasformare la competizione regionale in motore di sviluppo. Le relazioni fra le gateway cities, invece, dovranno occuparsi della gestione e regolamentazione dei flussi provenienti dall’interno e dall’esterno. Il compito dovrà essere quello di intrecciare le relazioni orizzontali con le relazioni verticali, di commutare flussi e servizi sia verso il sistema territoriale di riferimento, sia verso gli altri sistemi regionali policentrici con cui è connessa. La rete delle gateway cities che così si creerebbe, si configurerà come un reticolo di flussi e relazioni fortemente competitivo in grado di confrontarsi con le città globali. Ma, anche in questo caso, sarà necessario che tutti i flussi, le potenzialità e le risorse che ogni gateway city porta con sé siano fatti convergere in un solo nodo, che acquisterà così una dimensione potenziale tale da poter riversare nei flussi globali tutte le esternalità provenienti dai sistemi territoriali a cui è connesso. Trovandosi così stesso livello delle reti delle global cities, si configurerà un nuovo nodo strategico nella scena globale, capace di intessere relazioni e determinare nuovi reticoli geografici di flussi. Questo sistema gerarchico in cui le gateway cities assumono ruolo e rango crescente, permette di definire tre livelli di spazi relazionali in cui le città possono competere: lo 'spazio delle relazioni inter-regionali', in cui si 5
Da ora in poi le regioni urbane policentriche abbreviate utilizzando la sigla PURs, dall’inglese Polycentric Urban Regions.
Annalisa Contato
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Espressioni territoriali in evoluzione: cause, effetti, ipotesi di sviluppo
strutturano la PURs Network; lo 'spazio delle relazioni transnazionali', in cui si agisce la Gateway Cities Network; ed, infine, lo 'spazio delle relazioni globali', in cui la gateway city, portatrice del potenziale di tutte le altre città della Gateway Cities Network, può relazionarsi e/o competere con le global cities, entrando così a far parte della rete dei flussi globali.
Bibliografia
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Annalisa Contato
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Pensare al futuro della città globale. Due scenari evolutivi sullo sviluppo delle reti
Pensare al futuro della città globale Due scenari evolutivi sullo sviluppo delle reti Ettore Donadoni DAStU - Politecnico di Milano Email: ettoredonadoni@yahoo.it Tel. 3807143828
Abstract Le rappresentazioni reticolari permettono di costruire un’immagine complessiva delle infrastrutture alla scala globale. L’immagine che emerge da tali rappresentazioni sembra essere, oggi, fortemente disomogenea e articolata. E’ possibile ipotizzare due scenari estremi entro i quali sviluppare alcuni ragionamenti sul futuro delle reti: nel primo scenario le reti si diffondono in modo pervasivo su tutto il globo rendendo accessibili (sia in termini di accessibilità fisica, sia in termini di comunicazione) luoghi ora esclusi. Nel secondo scenario, invece si cristallizzano intorno a nodi che ricoprono già un ruolo rilevante nel disegno complessivo, accentuando le condizioni di disuguaglianza esistenti oggi. Questi due scenari costituiscono una semplificazione della realtà, tuttavia essi possono costruire un quadro di sfondo entro il quale riflettere sul futuro della condizione urbana globale e al loro interno si possono sviluppare riflessioni cruciali per la costruzione di nuovi modelli insediativi. Parole chiave Reti, globale, scenari
Descrivere la nervatura della città globale Le considerazioni, che presenterò in seguito, nascono da una ricerca condotta sulle rappresentazioni reticolari, cioè una particolare forma di rappresentazione basata su di una convenzione grafica, che mostra l’oggetto descritto attraverso un codice grafico molto semplice, basato sull’utilizzo di soli due elementi: i nodi e i legami (Bertin J. 1967). Generalmente questo tipo di rappresentazione è riconoscibile in molte descrizioni delle infrastrutture e permette di costruirne immagini rilevanti alla scala globale. Le rappresentazioni reticolari descrivono spazi di natura differente: da spazi urbani percorsi più o meno intensamente o più o meno velocemente, a spazi delle relazioni in cui i legami tra i soggetti contano più della loro posizione geografica. Queste descrizioni ci mostrano la nervatura della Terra, cioè la struttura portante dell’insediamento umano e le sue conseguenze in termini spaziali (Donadoni E. 2012). Si potrebbe dire che queste rappresentazioni concorrono a formare un’immagine alla scala globale del complesso fascio infrastrutturale che sostiene l’insediamento urbano e delle relazioni che permettono di leggere la superficie del globo come un’unica grande città. Le rappresentazioni reticolari, sono forse tra le poche forme di rappresentazione capaci di restituire attraverso un’immagine cartografica alcune tra le più importanti riflessioni sulla città globale degli ultimi vent’anni (ad es.: Sassen 1994, Castells 1996, Perulli 2000). Pur essendo un tipo di rappresentazione specializzata, poiché riconosciamo solo un aspetto specifico del fenomeno urbano come la mobilità, la comunicazione, la distribuzione energetica, ecc., essa ha la capacità di mostrare un’immagine complessiva dell’oggetto descritto. È proprio questa sua caratteristica che rende le rappresentazioni reticolari un utile strumento di lettura e interpretazione del fenomeno urbano e dei suoi modelli. Le rappresentazioni reticolari possono mostrare i tracciati delle reti di trasporto e il loro utilizzo oppure la distribuzione delle reti di comunicazione e i flussi che si generano al loro interno, oppure lo sviluppo delle reti di distribuzione energetica. In tutti e tre i casi, la “rete fisica ”quale compromesso realizzato dall’operatore a partire da una rete virtuale (cioè immateriale) “rivelerebbe, attraverso la creazione di relazioni materializzate, le dinamiche del sistema, attivato dal processo stesso di trasformazione della rete immateriale in rete materiale che consente di interconnettere i luoghi geografici e specificatamente le funzioni” (Raffestin 1981). Reti materiali e Ettore Donadoni
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reti immateriali sono, quindi, strettamente correlate e concorrono alla costruzione di un’immagine, fortemente disomogenea e articolata. Castells rilevava come “la progressiva espansione e proliferazione di reti alla scala planetaria ha innescato un processo mediante il quale centri di produzione e di consumo di servizi avanzati, e le società subordinate, sono collegati da una rete globale sulla base di flussi d’informazioni, i quali allo stesso tempo, riducono l’importanza dei legami delle città globali con i loro Hinterland” (Castells 2002), descrivendo quindi un’immagine della città globale costituita da aree fortemente legate tra loro e altre con legami molto più deboli, seppur fisicamente più vicine. Immagine che è possibile riconoscere anche nelle rappresentazioni reticolari a quella scala. Osservando, infatti, la rappresentazione delle reti di circolazione o di quelle di comunicazione e dei loro effetti si può notare che grandi parti del Pianeta rimangano, di fatto, escluse da tali reti innescando nuove forme di prossimità determinate, non tanto dalla vicinanza fisica dei luoghi quanto dall’inclusione o dall’esclusione rispetto alla rete considerata (fig. 1).
Figura 1. Nelson A, “Travel time to major cities: A global map of accessibility”. In questa mappa di Nelson appare evidente come parti del globo appaiono escluse dalle reti di accessibilità, ed evidenzia la geografia fortemente eterogenea della città globale
La città globale ha quindi l’aspetto di un ipertesto, estendendo alla scala del globo alcune considerazioni che Corboz faceva negli anni Novanta introducendo il termine ipercittà (Corboz 1994). Nella città-ipertesto le relazioni al proprio interno non sono legate esclusivamente da un rapporto consequenziale di contiguità in cui ogni parte dell’insediamento assume senso rispetto alle parti di territorio vicine. Quest’organizzazione spaziale dipende fortemente dai legami che ogni parte di territorio è in grado di istituire con parti di territorio anche distanti da essa, introducendo nuove forme di prossimità dipendenti dalle reti che la interessano. Le rappresentazioni reticolari, mostrano un territorio globale costituito da spazi con tre caratteri distinti: spazi densamente frequentati, che in genere corrispondono ai nodi di una rete; spazi semplicemente attraversati, quelli lungo i collegamenti; e spazi esclusi dalla rete perché si trovano all’interno delle maglie o perché non sono raggiunti da essa. Tre condizioni dello spazio abitabile profondamente diverse, che esprimono possibilità e caratteristiche molto differenti tra loro. Contrariamente a quanto affermano alcuni studiosi (ad es.: Michell W. J., 1995), le reti sembrano avere, quindi, simmetricamente alla capacità di includere, anche quella di generare disuguaglianze ed esclusioni alla scala globale. Anche alcuni studi sociali riconoscono che in un mondo investito dalla globalizzazione, è riscontrabile un aumento delle disuguaglianze sociali (Gallino L., 2000). Generalmente, però, tali disuguaglianze riguardano, le condizioni intrinseche delle classi sociali, descrivendole in termini di stratificazione verticale della società; mentre l’immagine che emerge dalle rappresentazioni reticolari è una descrizione di condizioni urbane con possibilità molto differenti tra di loro. Le disparità sono orizzontali, tra territori e abitanti contigui, inclusi o esclusi dalle reti che stiamo considerando. Sono descritti territori con accesso a risorse cui altri sono inaccessibili; rispetto alle reti di comunicazione, di circolazione o di approvvigionamento dell’energia. L’aspetto su cui riflettere maggiormente però, non riguarda tanto gli spazi che fanno parte della rete, quanto quelli che ne sono esclusi. Parti di territorio probabilmente assimilabili ai “territori lenti” di cui parla Emanuel Lancerini (Lancerini E. 2004) e che non richiedono un legame diretto con le reti che li lambiscono: bolle tra le maglie di una rete dotate di una loro indipendenza specifica. Le rappresentazioni reticolari non trattano questi spazi, non li descrivono, non ci danno strumenti per leggerli; ma solo, eventualmente, per individuarli. Essi sono tuttavia il segno più evidente delle disuguaglianze innescate dalle reti. Il tentativo di costruzione dei due scenari evolutivi delle reti globali s’interroga proprio sul destino di tali disuguaglianze. Ettore Donadoni
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Pensare al futuro della città globale. Due scenari evolutivi sullo sviluppo delle reti
Rete Liquida Vs Rete Minerale Gli scenari proposti sono da intendere come uno strumento di riflessione grazie al quale poter comprendere la reale direzione delle trasformazioni in atto, essi s’interrogano su quale possa essere il futuro di quella nervatura della Terra che permette di osservare la configurazione spaziale dell’insediamento umano alla scala globale. Essi dipendono da specifiche condizioni che orientano le tendenze in atto. Le condizioni economiche che influenzano gli investimenti per la costruzione delle nuove infrastrutture e di conseguenza le scelte localizzative. Le condizioni ecologiche e ambientali che spingono a un’attenta valutazione di come politiche tese al risparmio delle risorse possano condizionare le scelte strategiche d’infrastrutturazione del territorio (Fabian L., Viganò P. 2010). Infine, l’andamento demografico che se proseguirà la tendenza in atto, sporterà a un progressivo aumento della popolazione urbana, a scapito di quella rurale (Castells M. 1996; Burdett R., Sudjic D. 2007) con un riflesso significativo sull’incremento della dotazione infrastrutturale delle parti di territorio più densamente abitate.
La Rete Liquida Nel primo scenario le reti si diffondono in modo pervasivo su tutto il globo rendendo accessibili (in termini di mobilità, di comunicazione e di approvvigionamento energetico) luoghi ora esclusi (fig. 2). Si possono ipotizzare alcune condizioni coerenti con questo scenario. Per quanto riguarda la circolazione si assiste alla diffusione d’interventi promossi da amministrazioni locali e la diffusione delle infrastrutture prevale sulla loro gerarchizzazione. In merito alle reti di comunicazione si assiste alla proliferazione di reti leggere (wifi) che garantiscono la copertura del territorio con investimenti relativamente bassi. Le reti energetiche sono costituite in prevalenza da piccoli impianti domestici di produzione diffusa (Rifkin J. 2011) e alcuni nuovi insediamenti sviluppano tecnologie per l’autosufficienza energetica. In questo scenario gli insediamenti si diffondono sul territorio trovando un equilibrio con le risorse ambientali e la popolazione tende ad abitare agglomerati urbani di piccole e medie dimensioni.
Figura 2. La Rete Liquida: le reti si diffondono pervasivamente sul tutto il globo. Infrastrutture deboli permettono a luoghi inaccessibili di partecipare attivamente alle dinamiche della città globale.
Alcuni studi e vicende in atto in questo momento possono essere inscritte all’interno di questa visione. Rispetto alle reti di comunicazione, esistono ricerche che cercano di sviluppare sistemi d’infrastrutture leggere che si possono diffondere facilmente sul territorio. In Sicilia nel 2008 viene fondata la società Mandarin che nel giro di due anni ha costruito più di diecimila kilometri di ponti radio in tutto il territorio siculo, con una frequenza che permette una connessione a banda larga. La tecnologia che sta sviluppando si basa sul wimax e permette di connettere attraverso la banda larga territori anche scarsamente abitati con investimenti fino a dieci volte inferiori rispetto al cablaggio a terra. Il modello in seguito è stato esportato in Iraq per la costruzione della prima rete libera di accesso alle informazioni, per la sua efficacia nel rapporto tra investimento economico e copertura del territorio. La diffusione dell’informazione è alla base dell’appartenenza alla città globale. Questa convinzione è alla base di un progetto che ha permesso di sviluppare una tecnologia da parte dell’Ixem: un laboratorio che studia le tecnologie wireless all’interno del Politecnico di Torino. L’idea sviluppata dall’Ixem è Ettore Donadoni
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Pensare al futuro della città globale. Due scenari evolutivi sullo sviluppo delle reti
una variante del wimax ma con un costo ancora più basso e non si propaga in maniera circolare. Sono necessarie, infatti due parabole che “guardandosi” possano concentrare il segnale in un unico punto. Da quel punto i flussi di dati si possono trasmettere attraverso reti wireless locali. In questo modo è possibile portare una connessione a banda larga da un punto a un altro, anche a distanze di centinaia di kilometri con investimenti molto bassi. Dopo una prima sperimentazione a Torino, questa tecnologia ha trovato applicazione in Ecuador connettendo diversi villaggi della foresta amazzonica. La diffusione di sistemi basati su reti leggere per portare accesso alle informazioni a territori che diversamente sarebbero marginali o esclusi è sicuramente un processo che porterà alla pervasività delle reti di comunicazione permettendo di superare alcune forme di marginalità che si possono osservare attraverso rappresentazioni reticolari. In merito alle reti di circolazione è possibile individuare alcune ricerche che riflettono sulle possibilità di accesso degli insediamenti diffusi, appoggiandosi alla capillarità della mobilità lenta e alle reti ferroviarie regionali. In particolare una recente ricerca commissionata dalle Ferrovie dello Stato, condotta presso lo IUAV di Venezia si è interrogata sul trasferimento di quote significative del trasporto automobilistico sulla rete ciclabile e ferroviaria attraverso una ridefinizione progettuale di queste due reti e dei nodi d’interscambio. Per quanto riguarda le reti di distribuzione energetica si possono riconoscere diverse politiche messe in atto in Europa finalizzate alla diffusione d’impianti per la generazione di elettricità alla scala della singola abitazione, come l’istituzione dei conti energia e l’erogazione d’incentivi per l’istallazione di impianti fotovoltaici. Inoltre l’Unione Europea ha commissionato uno studio per lo sfruttamento delle energie rinnovabili, intitolato Roadmap 2050. In esso sono riconosciute alcune specificità locali del territorio europeo rispetto le possibilità di sfruttamento delle energie rinnovabili e viene proposta la realizzazione di una rete diffusa di distribuzione dell’energia capace di cogliere nel modo più opportuno tali specificità. In questa visione impianti diffusi di generazione dell’elettricità di natura differente (eolico, fotovoltaico, geotermico, ecc.) trovano nella rete la possibilità di equilibrare i differenziali di produzione legati alle stagioni. In questo scenario, possiamo quindi includere tutti i tentativi di diffusione pervasiva e capillare delle reti caratterizzati da basso costo di investimento alla scala locale, mostrando quanto piccoli progetti alla scala locale possano avere ripercussioni su di una visione globale dell’insediamento umano.
La Rete Minerale Nel secondo scenario le reti si cristallizzano intorno a nodi che ricoprono già un ruolo rilevante nel disegno complessivo, accentuando le opportunità localizzative e le esclusioni esistenti oggi (fig. 3). Anche in questo caso possiamo ipotizzare alcune condizioni coerenti con questo scenario. Le reti di circolazione si sviluppano attraverso la concentrazione degli investimenti in luoghi specifici con interventi centralizzati e sono caratterizzate da una forte gerarchizzazione delle infrastrutture alla scala sovralocale. Nelle reti di comunicazione l’attenzione si condensa sulla diffusione della Banda Larga, attraverso il cablaggio delle grandi concentrazioni urbane e permettendo un accesso sempre più rapido ai flussi d’informazioni. Le reti di distribuzione energetica si basano sulla concentrazione della produzione energetica in grandi impianti centralizzati. La popolazione si concentra nelle aree già fortemente urbanizzate con un progressivo aumento della densità urbana.
Figura 3. La Rete Minerale: le reti tendono a svilupparsi per concentrazione e gerarchizzazione rafforzando parti dell’insediamento dove già la dotazione delle infrastrutture era rilevante.
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In questo scenario è possibile collocare alcuni grandi progetti, caratterizzati da una forte centralizzazione degli investimenti e dal punto di vista decisionale. Gli investimenti per cablare nuovi territori attraverso la fibra ottica, ad esempio, si stanno concentrando soprattutto dove la densità di popolazione è più elevata, e cioè nei grandi insediamenti urbani; in questo modo sono confermate e rafforzate le gerarchie delle città globali che molti studi come quelli di Saskia Sassen e Taylor hanno reso evidente (Sassen 1994, Taylor 2000), rendendo sempre più connesse aree urbane già al centro delle relazioni globali. Rispetto alle reti di trasporto alcuni grandi progetti s’inseriscono in questa prospettiva di progressiva gerarchizzazione della rete, che individua alcune dorsali privilegiate in cui concentrare gli investimenti. Il tunnel sotto lo stretto di Bering è un esempio particolarmente spettacolare di questa tendenza. In esso sono chiare le volontà e gli investimenti di tipo centralizzato e risulta addirittura più impegnativo del progetto di realizzazione del tunnel, la costruzione di importanti tratte della rete ferroviaria russa che servirebbero a connettere il tunnel con la rete esistente. Anche le politiche mirate alla costruzione del TransEuropean Network (TEN) in Europa sono indirizzate alla costruzione di una forte gerarchizzazione della rete ferroviaria esistente, rafforzando alcune direttrici privilegiate, individuate partendo da un modello di sviluppo policentrico in cui le principali città hanno ancora un ruolo ritenuto centrale. Parallelamente si possono riconoscere anche grandi progetti per la generazione di energia che muovono con lo stesso carattere di forte concentrazione degli investimenti in grandi impianti di rilevanza planetaria. Oltre a imponenti impianti per ricavare energia dall’acqua come la diga delle tre gole in Cina sono stati proposti progetti per la realizzazione di enormi centrali a energia solare sparsi nei deserti che possano fornire energia tramite una rete di connessione internazionale che leghi tutto il globo.
Lo sfondo per formulare ipotesi sul futuro È evidente che questi due scenari costituiscono un’estrema semplificazione della realtà, tuttavia essi possono costruire un quadro di sfondo entro il quale riflettere sul futuro della condizione urbana. Innanzitutto non è scontato che infrastrutture di diverso tipo tendano verso lo stesso scenario. Reti di comunicazione e reti di circolazione hanno logiche di sviluppo ormai completamente slegate tra loro (Raffestin C., 1981.) e molto probabilmente, seppur il loro legame sia indissolubile, il loro destino non necessariamente seguirà lo stesso binario, aprendo la strada a diverse declinazioni dei due scenari estremi. Inoltre sarà importante trovare la convergenza tra infrastrutture di comunicazione e quelle di approvvigionamento energetico poiché “L’informazione è sottesa dalla circolazione di energia” (Rafferstin 1983). La distribuzione dell’energia è, infatti necessaria al funzionamento delle reti che permettono la comunicazioni delle informazioni. Inoltre tale convergenza assume valore centrale durante i cambiamenti del paradigma energetico, giacché “Le grandi rivoluzioni economiche nella storia avvengono quando nuove tecnologie di comunicazione convergono con nuovi sistemi energetici: le nuove forme di comunicazione diventano il mezzo per organizzare e gestire una civiltà più complessa, resa possibile dalle nuove fonti di energia” (Rifkin J. 2011). Infine, per quanto globali possano essere le condizioni socio-economiche (Sassen 1994 e 2008, Taylor 2004) le decisioni politiche da cui dipendono le ipotesi alla base degli scenari sono di competenza degli stati sovrani, o di una polverizzazione di enti locali o sovralocali e sarebbe ingenuo pensare a essi come visioni che possano essere perseguite in modo unitario; tuttavia all’interno di essi si possono sviluppare riflessioni cruciali per la costruzione di nuovi modelli insediativi.
Bibliografia Bertin J. (1967). Sémiologie graphique. Les diagrammes - Les reseax – Les cartes, Paris, Éditions GauthierVillars, (ripubblicato 2005, Paris, Éditions de EHESS) Burdett R., Sudjic D. (eds., 2007), The Endless City, New York, Phaidon Press Ltd. Castells M. (1996). The Rise of the Network Society, Cambridge (MA), Oxford, Blackwell, trad. it. (2002), La nascita della società in rete, Milano, Egea Università Bocconi Editore. Donadoni E. (2012). “Le rappresentazioni delle reti”, in Ferlenga A. (a cura di, 2012). L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi, Bologna Editrice Compositori. Fabian L., Viganò P. (a cura di, 2010). Extreme Cities, Venezia, Università Iuav di Venezia. Gallino L. (2000). Globalizzazione e Disuguaglianze, Roma, Laterza. Mitchell W. J (1995). City of bits. Space, Place and Infobahn, Cambridge London, Mit press. Perulli P., La città delle reti, Bollati Boringhieri, Torino, 2000 Raffestin C. (1981). I segni della geografia, Herodote Italia, n. 4. Rifkin J. (2011). La terza rivoluzione industriale. Come il potere laterale sta trasformando l’energia, l’economia, il mondo, Milano, Mondadori.
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Pensare al futuro della città globale. Due scenari evolutivi sullo sviluppo delle reti
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Sitografia
La pubblicazione e descrizione della Roadmap 2050, scaricabile direttamente: http://www.roadmap2050.eu/project/roadmap-2050
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Il disegno degli spazi pubblici nei quartieri marginali
Il disegno degli spazi pubblici nei quartieri marginali Mauro Francini Università della Calabria Dipartimento di Ingegneria Civile Email: francini@unical.it Tel: 0984.496766 Myriam Ferrari Università della Calabria Dipartimento di Ingegneria Civile Email: myriam.ferrari@unical.it Tel. 329.9278047
Abstract Il presente contributo prende spunto dall’importanza che si attribuisce, durante i processi di rigenerazione urbana, al disegno degli spazi comuni nei quartieri ‘difficili’ dove la possibilità di fruire con tranquillità i luoghi è fortemente condizionata da situazioni di degrado sociale e di criminalità. Partendo dunque, dagli episodi quotidianamente riportati dai mass media, la tematica risulta avere una duplice valenza: da una parte l’esigenza di recuperare gli spazi comuni nei quartieri marginali per restituire qualità e dignità ai cittadini e dall’altra l’esigenza di poter avviare una rinascita sociale intesa come opportunità e riscatto sociale. Si ritiene interessante dunque partendo dall’esperienza delle soluzioni progettuali adottate nella città di Barcellona, riflettere su azioni strategiche che possano restituire loro centralità e nuove funzioni e dove possa riattecchire un interesse sociale e culturale finalizzato principalmente al perseguimento di aspetti legati alla tematica urbana e al recupero della disoccupazione giovanile. Parole chiave Conflittualità, rinascita, sicurezza
1 | Considerazioni generali La sicurezza dei quartieri marginali, diventa oggi un tema centrale per la pianificazione urbana, visti i recenti casi di cronaca riportati dai mass media che attribuiscono alle progettazioni urbane inefficienti, le responsabilità sociali dovute alla mancanza dei sistemi di controllo e alle diffuse carenze funzionali che spingono l’attecchimento di fenomeni diffusa di microcriminalità. Tale aspetto, combinato alla pesante recessione economica che ha investito il paese, genera una serie di riflessioni sul senso della pianificazione oggi, che è sempre più vicino agli interventi sulle aree marginali e a rischio, dove lo sviluppo dei fenomeni di sofferenza sociale, dovuti all’aumento delle fasce sociali più povere, infonde nei cittadini un senso di insicurezza e di inquietudine. L’Istat, in merito alla condizione di povertà delle famiglie, si pronuncia pubblicando alcuni dati riferiti ad esempio all’anno 2011, dove l'11,1% delle famiglie è relativamente povero (per un totale di 8.173 mila persone) e il 5,2% lo è in termini assoluti (3.415 mila). Tale situazione cresce tra le famiglie in cui non sono presenti redditi da lavoro, nelle famiglie di operai, nelle famiglie in cui sono presenti più di un figlio minore e nelle famiglie concentrate nel Sud Italia. Il presente lavoro, dunque, si propone di sviluppare una serie di punti interessanti legati al ruolo del disegno dello spazio pubblico nei quartieri marginali e alla loro funzione risolutiva nei confronti della sicurezza e del degrado sociale. In un momento storico in cui le tensioni sociali sono fortemente radicate nel territorio, lo sviluppo del presente lavoro nasce dalla convinzione che la pianificazione urbana deve avere un ruolo più incisivo all’interno della risoluzione delle problematiche sociali e deve strutturare delle strategie e delle conformazioni progettuali che possano generare degli effetti sulla sicurezza dei cittadini e sulla risoluzione di aspetti legati al debellamento del degrado urbano. La valenza del concetto di sicurezza Mauro Francini, Myriam Ferrari
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sociale assume un ruolo molto importante nella società attuale, poiché in contesti definiti ‘a rischio’ provocano non solo un disperdimento delle risorse, ma anche un radicamento di valori sociali negativi. In tal senso, è opportuno riflettere sul disegno urbano della città, sugli elementi che possano offrire nuove declinazioni e nuovi spunti per risolvere le problematiche di emergenza e sulle buone pratiche già adottate in altre città. Da questo punto di vista, è necessario evidenziare come in alcune capitali europee, la pianificazione urbana abbia avuto un ruolo decisivo nelle trasformazioni urbane e come dall’adozione di scelte in alcuni casi rischiose, sono stati generati dei cambiamenti in grado di influenzare le diverse componenti del sistema urbano. In tale senso, si vogliono mettere a fuoco alcune scelte progettuali e strategiche adottate nella città di Barcellona, dove il disegno degli spazi pubblici, correlato ad un complessivo processo di rigenerazione urbana, ha generato una serie di elementi innovativi, in grado di restituire senso funzionale e qualitativo alle aree più a rischio per quanto concerne l’accessibilità, la sicurezza e la fruizione dei cittadini.
2 | Principi ispiratori della rigenerazione urbana nella città di Barcellona Per comprendere il processo di rigenerazione urbana avviato, e poi realizzato, nella città di Barcellona, è indispensabile citare alcuni principi ispiratori che hanno rappresentato il fondamento delle politiche e delle strategie nella città dagli anni ‘80 in poi. Nella città di Barcellona, il concetto di pianificazione tradizionale e di disegno urbano inteso come elemento di funzione puramente decorativo, viene superato da processi di trasformazione urbana innovativi e da nuove idee progettuali che attraverso le diverse applicazioni dimostrano il loro carattere concettuale e teorico. Dagli anni ‘80 in poi infatti, si assiste alla nascita di nuovi contenuti urbani generati dal superamento del blocco urbano creato dalla condizione politica di dittatura di Francisco Franco e dal desiderio di intervenire nello specifico, ed in maniera diffusa, sugli spazi urbani e sulle aree a verde. La rigenerazione di tali componenti ha provocato una serie di effetti positivi sulla società ed una rivalutazione complessiva delle aree urbane più a rischio. Nella figura di seguito (Fig.1) sono collocati tutti gli interventi urbani inerenti gli spazi pubblici e le aree a verde realizzati negli ultimi venti anni nella città di Barcellona. Dall’immagine complessiva, si evince come vi sia stata una strutturazione capillare degli interventi orientata secondo le priorità dettate dai Piani Settoriali. In tali Piani Settoriali, sono indicate le aree di maggiore rischio dove gli interventi, per le condizioni di degrado fisico e sociale, manifestano caratteri di priorità. Si evince inoltre, dall’immagine sottostante, come gli interventi attuati abbiano inciso in una lungimirante prospettiva generale e non isolata.
Figura 1. Localizzazione di alcune delle azioni puntuali negli spazi urbani e nelle aree a verde della città di Barcellona
Mauro Francini, Myriam Ferrari
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Il concetto di ‘progetto urbano’ nel processo di rigenerazione urbana a Barcellona, non viene più inteso come sterile dissociazione tra piano urbanistico e progetto di architettura, infatti, la vecchia definizione aveva ridotto il primo punto in campo di analisi e zonizzazione ed il secondo in proposta isolata. Nell’interpretazione più attuale viene rivalutato il concetto di ‘scala intermedia’ come punto di incontro coerente tra le decisioni programmatiche e quelle strutturali. Dunque, le chiavi di lettura dell’esperienza di Barcellona devono ricercarsi nello sviluppo degli interventi urbani, organizzato in più scale, da quella settoriale a quella generale e nell’integrazione urbana che ha caratterizzato lo sviluppo dei suoi progetti. Nello specifico, il ruolo della riorganizzazione dello spazio pubblico e del verde si è sviluppato secondo tre importanti categorie:
realizzazione di parchi urbani; riqualificazione delle piazze e creazione di giardini; realizzazione dei giardini attrezzati; riqualificazione dei grandi assi storici.
I parchi urbani vengono realizzati per potenziare i servizi all’interno dei quartieri, andando ad intervenire nelle aree a vocazione diversa da quella originale. Nello specifico, i progettisti urbani hanno concentrato la loro attenzione sull’inserimento e sulla rivalutazione di elementi della vegetazione, di topografia e dell’acqua. La complessità dell’azione si è risolta con la realizzazione di grandi interventi quali il parco di ESPAÑA Industrial, il parco Del Clot, etc. In particolare, il parco Del Clot (Figg. 2-3) è stato realizzato all'interno dell'area precedentemente occupata dall'ex-impianto dei trasporti urbani (RENFE), delimitata dal vecchio muro perimetrale, conservato oggi come cornice monumentale. Nella composizione architettonica della piazzagiardino, sono conservate ed integrate le strutture architettoniche preesistenti. La piazza centrale, leggermente ribassata, è suddivisa in due zone sfalsate (con parcheggi nell'interrato), di cui una a verde con una sorta di collinetta centrale. Un percorso diagonale sopraelevato attraversa tutta l'area e funziona da elemento unificatore dell’immagine globale. In seguito, la Fig.2 mostra un particolare dell’intervento realizzato.
Figura 2. Scala di accesso al percorso sopraelevato che attraversa la piazza - giardino e lo specchio d’acqua ai piedi delle arcate del Parco Del Clot
Per quanto concerne la realizzazione di nuove piazze e giardini, esse vengono realizzate per dare risposta alle crescenti necessità di riorganizzazione del traffico e alle carenze di parcheggio ed hanno lo scopo di creare uno spazio di natura variegato. Alcune delle piazze realizzate in passato, sono simili ad opere definite appartenenti all’ ‘architettura dello svuotamento’, concentrate soprattutto nelle aree marginali e periferiche e costruite durante il boom speculativo degli anni ‘60. In realtà, si tratta dell’adattamento di spazi pubblici alle nuove sollecitazioni funzionali e urbane. I giardini invece, sono intesi come luoghi di ritrovo, di scambio e di condivisione, dove possono alternarsi più funzioni e dove il potenziamento delle attrezzature sociali provoca il diffondersi di valori Mauro Francini, Myriam Ferrari
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culturali e sociali vicini ad uno stile di vita più europeo. Per quanto concerne invece la riqualificazione degli assi storici, l’obiettivo principale è quello di rimettere al centro dell’attenzione la figura del pedone e dunque ricollocare tali arterie all’interno forma urbana. Lo scopo inoltre, è quello di creare integrazione con il sistema pubblico esistente in modo da favorire soprattutto le attività commerciali collocate nei piani inferiori degli edifici. In ultimo, è da sottolineare la grande rigenerazione urbana realizzata nell’area del porto vecchio di Barcellona che rientra nelle grandi attuazioni urbane e dove il pedone, per la natura degli interventi realizzati, resta il protagonista principale del processo realizzato.
Fig. 3. Parco de la Crueta del Coll- Una cava abbandonata convertito in uno spazio aperto di singolare interesse
3 | Alcuni punti salienti delle politiche adottate in Spagna Gli interventi urbanistici adottati in Spagna, e nello specifico nella città di Barcellona, hanno seguito un iter procedurale che rappresenta il prodotto di anni di politiche settoriali di grande complessità strategica. E’ necessario, per lo sviluppo del presente lavoro, citare alcune azioni significative delle strategie messe in atto nella città, per meglio comprendere le finalità di tali interventi. La necessità di intervenire sulle aree marginali e sulle aree a rischio, è diventato un carattere prioritario della politica spagnola, partendo in primo luogo, dalla risoluzione delle problematiche concentrate nelle aree industriali dismesse. A partire dagli anni ‘80, dunque, le politiche si incentrarono sulla ristrutturazione del sistema industriale all’interno dell’area metropolitana, un’azione molto complessa che si articolava sul recupero degli vecchie aree abbandonate nel tentativo di ripristinare le antiche vocazioni del territorio. Tale processo venne identificato sotto la dicitura (I+D), che stava ad indicare il binomio ‘investigatiòn y desarollo’ ossia ‘ricerca e sviluppo’. In tale binomio, venivano racchiusi gli obiettivi prefissati dal recupero urbano, ossia la ricerca di soluzioni urbane ad hoc e lo sviluppo contestuale di strategie economiche e sociali in grado di restituire valore ai vari contesti di riferimento. Lo strumento urbanistico con cui si portarono avanti tali azioni, fu l’attivazione dello strumento urbanistico denominato ‘ZUR’ ossia ‘Zona de Urgente Reindustralizaciòn’ chiamato successivamente ‘Piano di Reindustrializzazione di Barcellona’, applicato al perimetro dell’area metropolitana. L’obiettivo, principale fu quello di recuperare le aree a vocazione industriale mediante la trasformazione in aree per lo sviluppo delle imprese esistenti e per l’avviamento di imprese specializzate. L’azione non coinvolge esclusivamente il recupero dell’area industriale, ma si collega direttamente ad una serie di potenziamenti infrastrutturali necessari per riconnettere la città al resto delle aree limitrofe. Mauro Francini, Myriam Ferrari
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I collegamenti locali realizzati vennero sintetizzati nella creazione:
del ‘corridoio del Vallès’, strettamente connesso alle città di Sabadell e Terrassa; dell’ ‘autostrada B-30’, che crea sviluppo nel comune di Sant Cugat del Vallès; della ferrovia; del ‘ tunnel di Vallvidrera’ che collega il centro di Barcellona dalla via Augusta.
Tali infrastrutture hanno potenziato il sistema urbano di una serie di servizi necessari quotidianamente ai fruitori. Sempre negli anni ‘80 un altro ruolo centrale della politica urbanistica, viene svolto dal potenziamento del verde pubblico, in particolare si assiste al fenomeno della riconversione di aree degradate o abbandonate in parchi. Un altro intervento importante viene realizzato sui grandi assi storici della città che vengono recuperati e restituiti alla fruizione della popolazione. Il loro ricollegamento con le altre arterie urbane viene realizzato mediante la costruzione di grandi rotatorie che hanno la funzione di smistare in modo ordinato il traffico quotidiano. Mentre si assiste al potenziamento infrastrutturale, si genera contestualmente da un punto di vista demigrafico un decremento della popolazione rispetto agli anni precedenti; nello specifico, un decremento della popolazione spagnola ed un aumento della popolazione straniera. Tali elementi rappresentano solo una parte delle azioni sviluppate nel processo di rigenerazione urbana di Barcellona, ma racchiudono alcuni punti cardine per comprendere le azioni successivamente realizzate.
4 | Valutazioni e considerazioni tra le politiche di rigenerazione urbana in Spagna ed in Italia Le politiche di rigenerazione urbana adottate in Spagna ( e nello specifico a Barcellona) ed in Italia, si fondono su strategie e applicazioni differenti, provocando nel primo caso effetti e soluzioni in grado di risolvere le problematiche delle aree marginali e nel secondo caso uno sforzo lento e fortemente dipendente dall’iter procedurale e dalle risorse economiche. In Spagna, le politiche adottate per contrastare gli allarmanti fenomeni sociali sono state applicate coinvolgendo la totalità delle gerarchie urbane, dalla scala locale a quella globale. Le aree marginali della città, che coincidevano spesso con ex aree industriali o produttive ( posizionate in molti casi nelle aree centrali) rappresentavano un inutile spreco di potenziale che non trovava declinazioni ottimali per poter risolvere le urgenti emergenze sociali. Le azioni politiche nella città di Barcellona, hanno trovato un forte impulso, sotto la guida di un governo democratico durato circa 20 anni. Un primo punto-chiave, per il rilancio di alcune aree marginali, viene rappresentato dal ridisegno di alcune aree della città, in modo particolare, dall’importanza che si è attribuita all’ideazione di nuovi percorsi pedonali che collegano in modo armonioso più parti della città curando le attrezzature, il verde ed il disegno urbano. Il percorso pedonale, nel ridisegno urbano della città, svolge una funzione essenziale, infatti la risoluzione delle emergenze sociali viene contrastata aprendo nelle aree a rischio grandi arterie pedonali che decurtano la sede stradale e potenziano il concetto di “fruizione sociale”. Si pensi al percorso pedonale della Rambla che da Plaça Catalunya si sviluppa fino al porto marittimo, la realizzazione di tale percorso ha provocato una complessiva azione sociale migliorativa con effetti anche sui quartieri limitrofi (nello specifico nel quartiere Raval) e sulla rivalutazione edificatoria e commerciale dell’intera zona. Il tema del percorso pedonale ricorre in più parti della città e restituisce aree riqualificate e soluzioni alternative alle problematiche sociali derivanti dalla rinnovata attenzione politica e sociale nei confronti delle aree a rischio. Il ruolo del percorso pedonale, anche nella riqualificazione del fronte marittimo, rappresenta una modalità funzionale urbana innovativa che crea contrasto con le vecchie vocazioni dell’area e sviluppa delle potenzialità sociali ed economiche mediante il supporto, anche in questo caso, degli investitori pubblici e privati. Sempre in riferimento alla funzione dei percorsi pedonali, un esempio chiave può essere determinato dall’arteria pedonale denominata ‘Rambla del Raval’. Per comprendere il vero senso dell’intervento occorre specificare che il quartiere del Raval, posizionato nel cuore della città vecchia, rappresenta da un punto di vista urbanistico - sociale, uno spaccato tra la densità edificatoria e le problematiche sociali. Il quartiere del Raval, ha subito dagli anni ‘80 in poi, un processo di bonifica urbana incentrato in primo luogo sull’apertura di spazi pubblici pedonali dedicati alla fruizione dei cittadini. Contestualmente vennero potenziati i meccanismi di controllo nei quartieri a rischio, poiché erano presenti diversi punti a rischio. La Rambla del Raval rappresentava un percorso pedonale realizzato in una posizione urbana dove un tempo insistevano edifici vecchi e poco funzionali. Lo smantellamento degli edifici ha creato da un punto di vista urbanistico uno ‘svuotamento edificatorio’ in un quartiere già altamente denso, dunque positivo. La valenza è stata non solo di tipo urbanistico, ma anche di tipo sociale. Alcuni degli effetti prodotti da tali interventi sono stati il potenziamento dei meccanismi di controllo spontaneo, la riduzione dei fenomeni di microcriminalità, prostituzione e droga; il rafforzamento dei controlli delle forze dell’ordine oltre che ad una ritrovata qualità urbana e ad una complessiva rivalutazione degli immobili. Il percorso pedonale ha creato e rafforzato il concetto Mauro Francini, Myriam Ferrari
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di integrazione e mixitè, già fortemente radicato nell’anima urbana della città ed ha riportato ad una dimensione più adeguata fruitori della’area. Il ridisegno di alcune arterie di collegamento è stato supportato dalla nascita di numerose rotatorie, sistemi di smistamento del traffico urbano che hanno determinato una efficiente razionalizzazione dei flussi. Dunque, uno degli aspetti legati alla rigenerazione urbana nella città di Barcellona, è stato un ridisegno delle aree marginali mediante il loro riposizionamento nella centralità delle azioni strategiche complessive. A tale aspetto, vengono associate una serie di azioni che hanno determinato i punti-chiave dei processi attuati:
continuità amministrativa e coerenza politica di obiettivi e idee in venti anni di governo democratico; riqualificazione urbana di aree marginali o a rischio mediante una ritrovata attrattività sociale; coinvolgimento degli investitori pubblici e privati; ripercussioni concrete sull’economia, sulla società e sulla cultura; riposizionamento della città come meta turistica di grande patrimonio artistico.
In Italia, i processi di rigenerazione urbana sono legati ad azioni e percorsi più articolati dovuti fondamentalmente ai differenti iter di approvazione legislativa ed al reperimento delle risorse economiche. In modo particolare, uno degli aspetti vincenti delle politiche attuate nella città di Barcellona è legato alla continuità del governo democratico e alla coerenza politica adottata nel perseguimento degli obiettivi prefissati dai piani settoriali. In Italia, la discontinuità politica e la mancanza di capacità nel tenere in evidenza gli obiettivi nel tempo, rappresenta un limite oggettivo che si traduce spesso in opere incompiute o in processi di trasformazione che si arrestano a causa del mancato reperimento dei fondi pubblici. I processi di rigenerazione urbana di maggiore rilievo attuati in Italia, sono concentrati nelle città delle regioni del Nord dove il supporto di investitori privati di tipo internazionale, ha contribuito notevolmente alla realizzazione di grandi trasformazioni urbane. Il ruolo del disegno urbano, e nello specifico l’elemento del percorso pedonale all’interno delle trasformazioni urbane in Italia ( molto rappresentativo delle politiche spagnole), viene valorizzato soprattutto nei processi di rigenerazione urbana avviati nelle grandi metropoli italiane. Infatti, mentre nel disegno urbano della città di Barcellona, il percorso pedonale è un elemento sfruttato in maniera risolutiva in molte aree della città, in Italia viene considerato solo ultimamente come elemento di rilievo all’interno dei grandi processi di rigenerazione urbana che coinvolgono i quartieri marginali. Nello specifico, il sistema di percorsi pedonali nei progetti di rigenerazione urbana italiana, viene considerato come elemento urbano all’interno dell’area rigenerata e fatica a creare una connessione con i quartieri limitrofi o con il resto del sistema della viabilità urbana. A Barcellona, il disegno della città ha perseguito l’obiettivo di creare prima di tutto integrazione nel sistema della viabilità urbana. in tal senso in Italia, ciò accade solo per alcune città del Nord - Italia, mentre nel Sud - Italia vi sono dei limiti oggettivi legati alle carenze infrastrutturali che incentivano molto l’utilizzo del mezzo privato. Dunque, in Italia i grandi processi di rigenerazione urbana avviati, quali ad esempio quelli realizzati a Genova o a Milano, racchiudono politiche molto articolate che hanno seguito iter procedurali complessi e lunghi. Nello specifico, Genova ha incentrato la sua trasformazione urbana nell’area del vecchio porto e del centro storico. Negli anni dello sviluppo economico italiano formava insieme a Milano ed a Torino il cosiddetto Triangolo Industriale. Le tre città rappresentavano, almeno fino agli anni ‘80, i vertici della produzione italiana ed erano simbolo di sviluppo e ricchezza. Successivamente si ebbe un periodo di forte declino economico ed industriale, per cui Genova venne lasciata in totale abbandono, le navi dirottavano su altri porti ed il centro storico rappresentava il fulcro del degrado della città. L’immagine non era più quella di una città rigogliosa e ricca, ma di una città abbandonata e senza prospettive. Gli anni in cui si pianificò una trasformazione globale furono gli anni ‘90, in occasione delle Celebrazioni Colombiane del 1992. Le amministrazioni e i progettisti fissarono gli obiettivi per rilanciare la città tra cui si evidenziano:
rigenerare il vecchio porto in disuso; integrare il centro storico e il porto antico; fare diventare l’intera area meta di turismo portuale e commerciale; usare la cultura come strategia per avviare nuove trasformazioni.
L’area venne gestita da una società chiamata ‘Porto Antico di Genova SPA’ partecipata dell’80% dal Comune di Genova e dal 20% dalla Camera di Commercio. Gli interventi attuati furono:
il recupero dei magazzini del cotone; il recupero di alcune palazzine del ‘600; il recupero del quartiere Millo; la costruzione dell’Acquario di Genova; costruzione della Piazza delle feste; Nave Italia.
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Genova, attraverso un restyling urbano, riuscì a gestire l’evento delle Celebrazioni Colombiane, portando al potenziamento non solo dei flussi turistici, ma anche delle ma anche delle infrastrutture. Nell’anno 2004 riceve il titolo di Capitale Europea della Cultura. E’necessario citare un dato significativo, ossia che l’acquario muove ogni giorno 1.300.000 visitatori ed è diventato un importante polo attrattivo turistico per tutta Europa. Un altro caso molto interessante riguarda un progetto of course a Milano: il Progetto di Porta Nuova. Il progetto di Porta Nuova rappresenta il rilancio di un’area abbandonata da circa quarant’anni e lasciata in una situazione di stand by urbano. Nonostante la posizione centrale ( 1,5 km dal centro di Milano, dunque appetibile per molti imprenditori e per il corrente mercato immobiliare), fino a poco tempo fa non è stato possibile attuare una concreta trasformazione dell’area. Il progetto trova consenso, soprattutto grazie ai cospicui investimenti economici che hanno permesso di finanziare per intero il macrointervento. I partner internazionali, la cooperazione con i cittadini e l’esperienza in progettazioni complesse, sono fattori che hanno inciso fortemente sull’identificazione di una strategia vincente finalizzata al superamento di quei limiti, che negli anni, avevano bloccato i diversi tentativi di intervento. Dunque, l’idea originale prevedeva un progetto unitario per i tre quartieri milanesi di Garibaldi, Varesine ed Isola, una riconnessione possibile anche grazie ad una serie di collegamenti pedonali in grado di restituire una continuità urbana e qualitativa. Porta Nuova è posizionata in un punto strategico per la città di Milano, poiché situata nelle vicinanze del Duomo e raggiungibile con facilità sia da piazza San Babila, che dal Castello Sforzesco e dai giardini di Porta Venezia. Gli edifici, progettati da una serie di figure professionali a livello internazionale, prevedono la creazione di una mixitè di funzioni che coesistono in circa 290.000 mq di superficie. Nello specifico si hanno le seguenti destinazioni d’uso:
residenze; aree commerciali; uffici; hotels; servizi, luoghi di aggregazione; centri culturali; laboratori creativi; spazi espositivi, aree verdi e pedonali per adulti e bambini.
I collegamenti saranno garantiti da quattro linee metropolitane e da due stazioni di treno (Centrale e Garibaldi). Inoltre, per supportare i grandi traffici dell’area verranno realizzati quasi 80.000 mq di parcheggi a supporto, sia degli edifici direzionali/residenziali che del normale traffico quotidiano. Nel caso di Porta Nuova, la trasformazione dell’area diventa un’occasione per superare il fenomeno del degrado fisico e combattere la microcriminalità e la prostituzione. Senza tralasciare un aspetto fondamentale, ossia che l’area possiede una vocazione popolare di cui si deve tenere conto per le decisioni future. I nuovi progetti di rigenerazione urbana in Italia sembrano strutturare le aree della città come un All inclusive, ossia un pacchetto dov’è tutto incluso: lavoro, svago, cultura, attività sociale. A differenza dei casi spagnoli in cui la rigenerazione urbana coinvolge in modo più globale le componenti del sistema urbano ed in un certo senso tende a diramare i suoi effetti lungo aree d’influenza molto più ampie.
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Velocità I Densità_un progetto per la società del rischio
Velocità I Densità Un progetto per la società del rischio Alessandro Mingolo Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: alessandro.mingolo@gmail.com Tel: +39 02 36551546
Abstract Si propone un’indagine che riguarda il paradosso tra sviluppo di un sistema territoriale globale e territori locali all’interno dei grandi scenari di sviluppo europeo con una prospettiva progettuale come possibile sfondo di ricerca per la gestione delle metropoli. Lo spazio europeo sta vivendo trasformazioni complesse che investono direttamente l’attuale significato che attribuiamo alla democrazia. Lo spostamento della società contemporanea verso un atteggiamento ‘riflessivo’ ascrivibile alla ‘società del rischio’ ha accettato come modello di governo sistemico la distribuzione del rischio. L’insicurezza generata dallo smantellamento dello stato sociale viene riproposta come occasione per sperimentare nuove libertà. L’emergenza diviene atteggiamento risolutivo di esse. In questo contesto, e in particolare nel nord Italia, la depauperazione di beni primari legati al territorio è associata ad una pratica comune di smantellamento del “bene comune” da parte degli enti locali attraverso i mezzi della pianificazione urbanistica e si manifesta in primo luogo come “consumo di suolo” prodotto in una situazione di emergenza. Parole chiave velocità, densità, democrazia
1 | Velocità | Densità. Introduzione Gli argomenti trattati in questo paper si articolano attraverso alcune parole chiave che provano a sintetizzarne il contenuto. Le velocità: sono quelle infrastrutturali e in particolare quelle dei grandi progetti sulle reti europee che riguardano il nord Italia. Le densità: sono quelle di popolazione che investono la sezione del nord Italia dalle Alpi francesi ad ovest fino a quelle austro-slovene ad est. La società del rischio è quella in cui ci troviamo, quella in cui lo smantellamento dello stato sociale viene visto come sperimentazione di nuove libertà. L’uso di queste parole chiave sottende un obiettivo: quello di costruire un rapporto tra velocità e densità che diventi motore di un progetto che risponda ai grandi scenari di sviluppo europeo e tenti di farlo usando i territori del nord Italia in cui le condizioni al contorno permettono di affermare che esiste un rischio di progettazione casuale o, ancor peggio, dell’emergenza. L’articolazione in tre parti vuole compiere un’azione di scomposizione degli argomenti perché attraverso essi si possa meglio comprendere l’unitarietà delle questioni trattate. Attraverso i ‘Temi’ si tenta di costruire lo sfondo, che pone le basi concettuali per affrontare il progetto, ossia il paradosso tra sistema globale e città reale. Con ‘Territori’ si compie un progetto di descrizione attraverso il racconto dei territori investiti. Per fare questo si sono usate delle grandi famiglie di appartenenza dentro le quali i dati e le informazioni possano trovare una loro corretta collocazione. Con ‘Velocità’ e ‘Densità’ si tenta quindi di schematizzare le informazioni con il fine di ottenere da queste un riscontro confrontabile tra contesti differenti. Caratteristica di queste famiglie è il loro parallelismo, ovvero affrontano parole chiave quasi estrapolate dal contesto di relazione della ricerca per ricavarne la maggior quantità di informazioni possibili. Infine con ‘Progetti’ il tentativo fatto è stato quello di mettere a sistema un’idea, sui territori individuati come “a rischio”. L’ambizione è quella di costruire un rapporto tra le velocità e le densità che permetta di usare il dato finale per il progetto. La simulazione fatta su un territorio ben preciso, ossia quello del nord Italia e delle sue Alessandro Mingolo - Politecnico di Milano - DAStU - alessandro.mingolo@gmail.com
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zone a rischio in particolare, usa il tema dei corridoi europei come traccia comune e continua su cui agganciare le sperimentazioni che ne derivano. L’intensità progettuale deriva dall’intensità di relazione tra le velocità e le densità. La necessità di indagare sui possibili scenari per il futuro dell’Europa tenta di mettere assieme un’astrazione l’Europa come federazione di Stati- e un’idea -quella di dare un disegno all’astrazione- sperimentandola su un territorio -quello del nord Italia- attraverso la forma -del progetto-.
1.1 | Temi. Le “mondo città” Se osservassimo una mappa della crescita demografica del nord Italia degli anni settanta, ci accorgeremmo che attorno ai nuclei di Torino, Milano e Venezia si sono addensate le maggiori crescite, con un effetto di espansione centrifuga attorno ai nuclei storici. In queste città si sono concentrate descrizioni e progetti, nonché investimenti di ingenti capitali, per dotarle delle infrastrutture capaci di competere, nell’era globale, alla concorrenza mondiale. In queste si possono spesso ritrovare gli stessi caratteri, così come le stesse grandi imprese economiche e finanziarie, nonché gli stessi prodotti. Marc Augè (Augè, 2007) definisce questo tipo di città “mondo-città”, ossia la rappresentazione del sistema globale, quello in cui tutto circola fluidamente, in maniera facile e veloce. Sono città che governano le grandi trasformazioni, le anticipano e ne divengono capisaldi. Spesso, invece, chi ne progetta lo sviluppo, e tenta di interpretarle, lo fa come se fossero dei macro-oggetti, con morfologie chiare e delineate, senza sfocature. Per questo, frequentemente, diventano delle icone. Il fine ultimo sembra puntare all’affermazione della potenza della città stessa nel ranking nazionale, europeo o mondiale (fig.1).
Figura 1. GaWC - Hinterworlds; pattern delle connettività tra città mondiali; in nero Milano, 2008
Le scelte urbanistiche rappresentano, certamente, un’indicazione importante che può indirizzare strategie e orientare operazioni che coinvolgono scale territoriali vaste, ma spesso si trovano nella paradossale posizione di ratificare delle scelte economiche che viceversa trovano pochi riscontri nelle dinamiche territoriali. La vita in queste città viene perciò confinata ad un livello amministrativo che costringe i suoi abitanti a vivere e a lavorare in un ambiente limitato (non inserito in un network locale), e dall’altra parte ad essere difficilmente accessibile per chi arriva da fuori i suoi confini. Si esclude, di fatto, una possibile interazione e si individua, nella separazione tra città di piccola e media dimensione, un modello di crescita futura.
1.2 | Temi. Le “città mondo” Come i capillari (elementi terminali del sistema) permettono gli scambi sangue/tessuti/sangue, così la moltitudine di piccole città, che caratterizzano il nord Italia, costruiscono una fitta rete di relazioni tra loro e tra loro e il territorio circostante. Nonostante siano state investite dalla metà degli anni settanta da un forte cambiamento dovuto al fenomeno di diffusione dispersiva alla quale non erano preparate, esse hanno spesso tentato di resistere ‘da dentro’ alla lenta Alessandro Mingolo - Politecnico di Milano - DAStU - alessandro.mingolo@gmail.com
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ma graduale perdita di identità dei propri centri, così come all’erosione del proprio territorio. All’interno di esse si sono incarnate le contraddizioni storiche, che le volevano sostenitrici della salvaguardia del paesaggio ma contemporaneamente desiderio ed aspirazione di vita per milioni di persone. Una scelta che vede in queste “città-mondo” la crescita di una tensione frutto anche della mancanza di una narrazione pari a quella delle grandi città. Un’assenza di narrazione che le ha fatte progressivamente scomparire dalle grandi mappe della trasformazione a scala vasta, relegandole al ruolo di esecutrici di decisioni delle quali dovevano solo prendere atto e non essere partecipi. Il reiterarsi di ambiguità urbanistiche è stato il motivo per cui questa ‘nessun città’ ha potuto nel tempo auto-organizzarsi, e gradualmente prendere forma stagliandosi sullo skyline. Decisioni prese senza valutare seriamente le conseguenze hanno portato in pochi anni ad individuare chiaramente una città infinita, una lunga immagine che con poche eccezioni accompagna tutta la sezione trasversale del nord Italia. Se guardata da lontano, dall’alto, riconosce i suoi limiti solamente nelle catene montuose e nei mari che ne impediscono la crescita in ogni direzione.
1.3 | Temi. Nell’era della “società del rischio” Per comprendere appieno le dinamiche insediative che caratterizzano i territori del nord Italia è indispensabile inquadrare l’evoluzione sociale da cui queste scaturiscono. Le nuove tecnologie, affermatesi con eccezionale velocità fin dai primi anni novanta, hanno mutato radicalmente il contesto entro il quale ogni persona vive. La grande quantità di dati a cui ognuno ha accesso ha reso più aperta e autocritica la nostra società, che così facendo è passata dal classismo (dove in pochi prendevano decisioni per molti), al rischio (dove le nostre scelte contengono un errore di fondo difficilmente riconoscibile). Questa nuova era, da alcuni definita seconda modernità (Beck, 1986), crea però alcune evidenti anomalie, la cui sedimentazione nel tempo (seppur breve) ha generato degli atteggiamenti riconoscibili che si possono ricondurre ad una nuova maniera di interpretare la democrazia nei giorni nostri. La società del rischio difatto crea continue emergenze proprio per l’incapacità da parte di milioni di individui di fare scelte migliori piuttosto che demandarle a poche persone preparate ad affrontarle. E queste continue emergenze sono andate creando uno stato di ‘normalità dell’emergenza’ che alcune istituzioni, politiche in primis, tentano di utilizzare per affermare alcuni princìpi, non ultimo quello di una crescita di un territorio piuttosto che l’affossamento delle possibilità di crescita di un altro. L’Unione Europea sembra il mezzo migliore per affermare una ‘società del rischio’, ma anche l’unica Istituzione in grado di poterla governare. La vacuità di alcune sue leggi e l’affermazione di alcuni strumenti attuativi è il risultato di scelte politiche nazionali che tentano di sostenere un nuovo modello democratico che in nome della collettività spinge a fare scelte libere di cui i cittadini non conoscono le dirette conseguenze. Ma in questo contesto la libertà diventa un’esperienza frustrante e non liberatoria, nell’affermazione sempre più palese di una società che demanda alla sola economia la propria crescita.
2.1 | Territori. Velocità-Vecchie reti:emergenze. Le infrastrutture nord Italiane mostrano un deficit rispetto alla crescita urbana dello stesso territorio. Con l’incentivazione del mezzo privato sono andate sommandosi le situazioni a rischio, provocando delle vere e proprie emergenze. La rete che dovrebbe essere di supporto alle nostre attività giornaliere diventa una possibile falla del sistema, una risorsa che diventa vincolo. In questo scenario la grande conurbazione urbana che si estende da Trieste a Torino risulta sconnessa per parti, rischiando di fatto di marginalizzare diverse aree. Emergono aspetti più evidenti di altri. Il primo è la generale scarsità di politiche di integrazioni tra mezzi di trasporto. Ad ogni nodo ci si accorge che gli amministratori dello stesso (che questo sia un porto, un distretto industriale, un aeroporto) lamentano scarsità di relazioni e si augurano politiche di ‘messe a sistema’, piuttosto che di costruzione di nuove infrastrutture. Il secondo è l’inadeguatezza della rete per il movimento di milioni di persone che sconta una storica arretratezza. L’osservazione delle sezioni stradali rispetto alla circolazione dei mezzi, piuttosto che la presenza di treni veloci e ad alta frequentazione rispetto al numero di utenti, mostra una carenza di risposte rispetto alla domanda. Si può parlare, quindi, di una situazione di emergenza dentro la quale le reti di trasporto hanno un ruolo predominante, soprattutto nella nuova visione globale che vuole l’Europa come federazione di Stati inserita tra le grandi potenze mondiali. Di essa le infrastrutture disegnano l’ossatura e anche attraverso l’efficienza della rete si possono misurare i gradi di benessere dei suoi cittadini.
2.2 | Territori. Velocità-Nuove reti reti:permeabilità. Esiste un livello di progettazione delle infrastrutture italiane che investe direttamente l’Unione Europea. Tali progetti permettono di identificare con ristretti margini di errore la futura mappa dell’ossatura della mobilità che renderà i territori investiti molto permeabili. Le nuove arterie riguardano tutti i sistemi di trasporto e cercano di costruire un livello che tenga in considerazione le densità di popolazione con le vastità dei territori che Alessandro Mingolo - Politecnico di Milano - DAStU - alessandro.mingolo@gmail.com
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attraversano, in uno scenario di sviluppo che guarda alla grande unificazione dell’Europa con gli stati dell’est. Questa permeabilità crea, però, anche ambiguità; non è vero, infatti, che ogni territorio avrà le stesse potenzialità perchè raggiunto da una buona dote infrastrutturale. L’Unione Europea demanda all’infrastruttura se non tutti, molti, dei compiti di connessione del network, portando in diversi casi alla separazione tra territorio e infrastruttura, piuttosto che il contrario. Questa separazione, vissuta come atto impositivo da molte popolazioni sta svelando tutti i dubbi di una crescita perseguita attraverso un solo strumento, ossia quello della dotazione infrastrutturale. C’è inoltre un’assenza di collegamento tra politiche aeree, terrestri e marittime che sconta errori di impostazioni provenienti da politiche passate. La nuova organizzazione data dai progetti sta subendo delle rapide modifiche che tentano così di ridimensionare l’impatto delle infrastrutture rispetto alle reali necessità di esse. La costruzione delle infrastrutture come da progetti UE, è vista come una reale possibilità di crescita di posti di lavoro e di guadagni dalle ricadute immediate sull’economia, spesso dimenticandosi del loro portato in termini di inquinamento e consumo di suolo.
2.3 | Territori. Densità-Vecchie densità:concentrazione. Dalla metà degli anni settanta ai giorni nostri le città hanno smesso di crescere e svilupparsi in maniera centrifuga attorno ai loro centri storici e le densità si sono polverizzate in uno spazio ben più vasto e meno definibile (fig.2). La verifica che la dispersione stava raggiungendo livelli considerevoli è venuta attraverso lo studio degli strumenti che queste città hanno messo in campo per rispondere a questi cambiamenti. I linguaggi utilizzati sono spesso discordanti e sommano un progetto di concentrazione ad uno dispersivo, contemporaneamente. Soprattutto il livello concentrativo delle città, messo in forte crisi dalle condizioni esogene poste dalle crisi economiche, non riesce a trovare nei suoi strumenti pianificatori una reale condizione di possibile ‘soluzione finale’, che metta in campo tutto le potenzialità della città, assieme al nascente fenomeno diffusivo. Ne deriva un modello ibrido, che da una parte tenta di attrarre abitanti, ma che dall’altro li respinge, in un trend che vede decrescere l’attrattività delle grandi città del nord, fino ai primi anni del duemila e che probabilmente sta subendo un nuovo fenomeno di espulsione, vuoi per le condizioni economiche nuovamente sfavorevoli, vuoi per una politica della casa non propriamente tarata su modelli ed esigenze attuali. Queste osservazioni dimostrano che la città contemporanea e il suo progetto sono di fronte a nuove forme urbane che stabiliscono nuove relazioni con le forme tradizionali della città. Queste nuove relazioni appaiono però ancora sullo sfondo, dando origine spesso a immagini non nitide e a situazioni poco chiare, che portano a forme che sembrano rispondere ad emergenze piuttosto che delineare scenari futuri.
Figura 2. Nella mappa si mettono a confronto le variazioni medie annue della popolazione residente nel territorio del nordItalia. Dal colore più scuro al più chiaro gli aumenti riferiti ai periodi 1971-1981; 1981-2001; 2001-2006. Si evidenzia un aumento esponenziale lungo l’asse infrastrutturato trasversale che va a costruire un’immagine quasi continua tranne in due parti; ad est, tra Treviso e Trieste e ad ovest tra Novara e Torino. Alessandro Mingolo - Politecnico di Milano - DAStU - alessandro.mingolo@gmail.com
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2.4 | Territori. Densità-Nuove densità:fragilità. La distribuzione delle densità europee è composto da due immagini; quella delle grandi città e quella del ‘pulviscolo’ diffuso. Quest’ultimo ha iniziato un processo di studio e di ‘governance’ da parte di tutti gli Stati dell’Unione Europea che cerca, con i suoi mezzi, di stabilire una misura entro la quale tale fenomeno possa essere circoscritto. Nel nord Italia si è andata creando una lunga e fitta conurbazione che ha disegnato una nuova geografia dei territori che si è andata determinando anche per mezzo di strumenti urbanistici non del tutto appropriati. La grande dispersione si è dimostrata essere il frutto di problemi sociali (le crisi economiche) ma è diventata una prassi da cui piccoli comuni ne hanno tratto benefici (sotto forma di entrate di fondi). Questo atteggiamento, dalle dimensioni non più gestibili a scale così ridotte ha richiesto un intervento degli Stati centrali che, nel tentativo di ‘dare ordine’ alla nascente Europa come federazione di Stati, ha strutturato dei progetti che tentano di governare tale processo di crescita. Tali progetti, però, risultano ancora blandi e soprattutto senza mezzi concreti per poterli attuare. Se si accettano le tesi secondo le quali le gestioni delle emergenze in Italia diventano un modo per affermare alcuni princìpi, tra i quali l’esigenza da parte dei Comuni di attingere dai propri terreni per produrre le proprie economie, si può facilmente intuire come il fenomeno dispersivo sia strettamente legato ad una forma legislativa di governo del territorio. La progettazione del territorio europeo sembra avere un doppio registro: da una parte il disegno chiaro delle infrastrutture, dall’altro un ‘non disegno’ di ciò che sta al di fuori di esse, che rischia di provocare una densa saturazione degli spazi non opportunamente pensati in un contesto più ampio.
Figura 3. lo sviluppo della figura sintetica della città lineare fa emergere come in realtà essa sia composta da una moltitudine di frammenti che si stanno saldando lungo l’asse delle infrastrutture del nord Italia.
3 | Progetti. Due figure Con ‘Progetti’ si tenta di costruire un’immagine che cerchi dei dispositivi spaziali in grado di rispondere ai problemi del territorio europeo e in particolare del nord Italia. L’immagine che ne deriva prova ad avere tre qualità: “è un elemento di riferimento che consente di situare altri fenomeni e politiche; è un’immagine ‘repossouir’, repulsiva e di contrasto, utile a mobilitare reazioni nei confronti dell’andamento dei fenomeni del presente; infine è un’immagine che mostrando i suoi limiti di concezione apre ad ulteriori gradi di libertà di azione” (Viganò, 2010). L’obiettivo è quello di rispondere attraverso il progetto alle esigenze dei territori Alessandro Mingolo - Politecnico di Milano - DAStU - alessandro.mingolo@gmail.com
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indagati, alla luce dei problemi emersi. Nel caso del nord Italia ci troviamo di fronte ad un sistema che ha la necessità di essere colto nella sua unitarietà, e cioè un sistema megalopoideo che contiene tutti i territori che compongono la valle padana e su cui, si può dire da sempre, non esistono progetti unitari. Fare sistema oggi (il sistema Europa) sembra oggi l’unica via percorribile, ma una struttura senza forma è destinata ad un fallimento: “Appare a tutti [...] che esistono esiti formali positivi, esiti formali negativi; così come esiste la carenza di forma consapevolmente ricercata. In mancanza di forma non esiste quel progetto urbanistico definibile come proposta di un intervento capace di comprendere e di intervenire sulla realtà complessa della città, cioè di lavorare congiuntamente sulle variabili funzionali, gestionali e formali” (Macchi Cassia, 2008). Individuata la struttura, quindi, è necessario mettere a fuoco il problema a cui dare soluzione. L’unitarietà del sistema nord Italiano, l’esigenza di confrontarsi con un ordinamento spaziale a scala europea, la situazione in atto già ampiamente compromessa da un uso sconsiderato del suolo porta a definire un disegno chiaro ed esplicito come nuova possibile figura urbana della ‘megalopoli’. Si individua nel grande asse veloce (perchè fortemente infrastrutturato) e denso (perché densamente popolato) che da Trieste porta a Torino una nuova figura urbana continua e lineare, con uno spessore specifico che si estende dal ‘filo’ dell’autostrada a quello della ferrovia (fig.4).
Figura 4. Denso e veloce. Simulazione di uno scenario futuro per lo sviluppo densamente concentrato del nord-Italia. Le densità passano dallo stato attuale di dispersione sul territorio ad uno tendenzialmente concentrato sul fascio di autostrada e ferrovia.
Questo costruisce una nuova fascia di possibile concentrazione che, a partire dalle grandi città può estendersi fino a raccogliere e mettere a sistema quella sterminata serie di piccoli centri che sono cresciuti dentro essa. Su questa si potranno concentrare i grandi sforzi di infrastrutturazione veloce e ad alta capacità, così come i grandi progetti territoriali che abbandonano le moltitudini di PRG, PGT, ecc... per tentare di affrontare un confronto progettuale su scala vasta ma unitaria. Omogeneo ma attento all’eterogeneità degli elementi. Ciò che sta fuori, ‘nel vuoto’, tra fascia e montagne da una parte e tra fascia e mare dall’altra, è invece un territorio che ha bisogno di altre regole, di altre velocità. Sono territori che eliminano i confini amministrativi per abbracciare la continuità geografica in un disegno non di Province, non di Regioni, ma bensì di suoli. L’insieme delle due figure, assieme ai loro confini geografici naturali (le montagne e i mari, che hanno ancora altre regole e altri funzionamenti) costruisce il terreno del progetto, la scena su cui ambientare la sceneggiatura e girare un lungometraggio. Un film che non guardi alla fascia veloce-densa come ad un continuo sganciato completamente dal territorio su cui poggia, ma piuttosto come a due sistemi complementari (‘la fascia’ e ‘i vuoti’) che nelle reciproche presenze individuano le singole necessità di esistenza. Spazi più veloci che si contrappongono a spazi più lenti, ma che insieme disegnano la nuova mappa di vita del nord Italia ed un modello per la possibile strutturazione dell’Europa. Non un ordine gerarchico verticale, ma bensì un reciproco scambio orizzontale che, attraverso la forma dei suoi territori diventi il motore per una riforma in senso politico delle amministrazioni locali.
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Oltre i confine. Ripensare i temi del governo metropolitano
Oltre i confini. Ripensare i temi del governo metropolitano Gabriele Pasqui Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: gabriele.pasqui@polimi.it Tel. +39-02-2399-5406
Abstract Il paper si propone di ripensare ai temi del governo metropolitano in Italia in relazione a tre questioni: le proposte di riorganizzazione istituzionale avviate nel 2012 dal Governo Monti e oggi sospese (riordino delle provincie e istituzione delle città metropolitane); le conseguenze della profonda crisi economica e sociale sugli orientamenti in materia istituzionale; la sfida posta al governo del territorio, nei contesti metropolitani, in relazione alla disgiunzione sempre più forte tra territori, pratiche d’uso dello spazio e sovranità. A partire da questa famiglia di temi il paper offre una lettura delle criticità e delle opportunità aperte in questa fase economica, istituzionale e territoriale ad un ripensamento radicale della questione del governo metropolitano in Italia. Il paper prova a immaginare ruoli e funzioni di un governo metropolitano al servizio della cooperazione intercomunale, orientato a definire politiche e strategie, fortemente integrato con le politiche europee, nazionali e regionali.
1 | Il governo metropolitano in Europa I temi del governo delle grandi regioni urbane europee sono al centro di una rinnovata attenzione sia nel dibattito scientifico, sia dell’agenda politica. I processi di istituzionalizzazione in corso in grandi regioni urbane 1 come quella di Barcellona, che ha istituito nel 2009, attraverso un procedimento legislativo, l’Area Metropolitana de Barcelona, dopo un ventennio di controverse ma intense sperimentazioni (www.amb.cat/web/guest; Tomas, 2010), o come quella di Parigi (www.parismetropole.fr), che nello scorso mese di marzo ha avviato, dopo alcuni di attivazione di accordi volontari, l’istituzione di Paris métropole mostrano come la questione dell’identificazione e della costruzione di strumenti istituzionali efficaci di governo in aree urbane dense, a elevata complessità e frammentazione, costituisca un terreno rilevante per l’azione di governo. D’altra parte, la discussione in atto prende anche le mosse dalla rivalutazione di esperienze di governo ormai consolidate (una per tutte: la Verband Stuttgard Region: www.region-stuttgart.org) ma anche dalle difficoltà rilevanti in alcune realtà significative (a partire da quella della Greater London Authority londinese: Thornley, 2012). Nel loro insieme queste esperienze in atto si collocano d’altra parte oggi in un contesto radicalmente diverso da quello nel quale molti casi di governo metropolitano avevano preso le mosse e si erano radicati a partire dagli anni ’80. Gli elementi di mutamento più rilevanti mi sembrano tre. In primo luogo, la gravissima crisi economica e finanziaria che colpisce da anni l’Europa (sebbene non in modo uniforme) ha influenzato innanzitutto le aree urbane, ponendo prepotentemente al centro dell’attenzione la questione della coesione sociale e dello sviluppo (Le Galés, 2011). In secondo luogo, la crisi fiscale e il peso del debito pubblico in molti Paesi europei hanno drasticamente ridotto le possibilità d’azione del governo locale, imponendo di pensare in modo prioritario a 1
Il tema è stato oggetto di un Convegno .internazionale organizzato dal Comune di Milano con la collaborazione del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico, tenuto a Milano lo scorso 22 marzo (“Milano: cantiere della città metropolitana”: www.milanocittametropolitana.org).
Gabriele Pasqui
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processi di design istituzionale capaci di razionalizzare e ridurre i costi della politica e dell’amministrazione (Consiglio Italiano delle Scienze Sociali, 2013). Infine, le politiche europee per le città negli ultimi anni non hanno saputo rappresentare un quadro chiaro di riferimento per l’azione di governo, anche se la proposta di riserva del 5% del Fondo europeo di sviluppo regionale alle aree urbane sembra indicare potenzialmente una inversione di tendenza (Barca, 2012). Questo cambiamento di contesto politico, economico e istituzionale si colloca d’altra parte sullo sfondo di mutamenti radicali delle forme economiche, sociali e spaziali dell’Europa delle città, che sempre più evidenziano la disgiunzione tra processi e confini amministrativi (Kantor et al. 2012). Da questo punto di vista sia la ormai copiosa letteratura sulle mega-city regions (EMI, 2012), sia le riflessioni sul disaccoppiamento tra territorialità delle pratiche e sovranità dell’azione di governo (Pasqui, 2008) ci consegnano un framework concettuale nel quale tutte le tradizionali letture “areali” dei processi metropolitani appaiono largamente insufficienti (Lefèvre, 2009; Kubler, 2012). In altre parole, una proposta di governo per le regioni urbane mature non può fare a meno di considerare lo sfondo della post-metropolizzazione (Soja, 2000). Questi temi, oggetto ad esempio di un recente e importante convegno parigino 2, mostrano con chiarezza che i processi di design istituzionale in atto, anche nel nostro Paese, devono porre al centro i seguenti nodi: nessuna perimetrazione istituzionale del governo metropolitano è in grado di catturare secondo logiche di ottimizzazione parametrica i confini dei processi territoriali, economici e sociali rilevanti; la complessità dei processi di governo, lungo la filiera orizzontale della cooperazione interistituzionale e del coinvolgimento degli attori non istituzionali così come lungo quella verticale del coordinamento tra livelli di governo, impone di pensare non in contrapposizione ma in modo convergente l’attivazione di dispositivi di government e di governance; la crisi in atto spinge a immaginare processi di disegno istituzionale capaci di promuovere congiuntamente risparmio e razionalizzazione, ma anche semplificazione dell’attività di governo e miglioramento dei servizi ai cittadini.
2 | Governo metropolitano in Italia: come e perché Anche la complessa e confusa vicenda italiana deve necessariamente collocarsi in questo contesto europeo. Il processo in atto, di cui si dirà tra poco, chiama infatti a rispondere a tre questioni essenziali: le grandi aree urbane italiane hanno davvero bisogno di una istituzione metropolitana? Come deve essere pensata tale istituzione? Quali processi devono presiedere alla sua attivazione? Una risposta compiuta a queste domande non è possibile in questa sede. Nei limiti di questo contributo è sufficiente evidenziare come tale risposta debba necessariamente mettere in campo una riflessione sulle tre dimensioni del governo metropolitano (Dente, 2012): il territorio, le funzioni e l’organizzazione di governo. Con riferimento a primo tema, appare evidente come le città italiane interessate ai processi di istituzionalizzazione del governo metropolitano presentino situazioni profondamente diverse. Con riferimento a Milano, ad esempio, le questioni di governo metropolitano assumono un significato diverso se si guarda al “cuore” urbano (il comune capoluogo e i comuni di prima cintura); al territorio funzionale che coincide parzialmente con quello della provincia, e che presidia alcune filiere di policy; al territorio della grande regione urbana che travalica provincie, regioni e addirittura stati, e che si colloca nell’ambito di una mega-city region padana in costruzione (Bolocan, Pasqui, 2012). Come è evidente, la perimetrazione della Città metropolitana che coincide con la provincia appare largamente insoddisfacente. D’altra parte, come già detto qualunque perimetrazione pone problemi rilevanti e, al contempo, un perimetro è necessario (i confini contano!). Per questa ragione è utile immaginare, qualunque sia la perimetrazione assunta, che possano esistere da una parte forme di cooperazione rafforzata su alcuni temi (per esempio: sulla pianificazione territoriale tra comune capoluogo e comuni di prima cintura); dall’altra pratiche associative (tra istituzioni e con le forze economiche e sociali) che permettano di introdurre principi di governance transcalare e a geometria variabile nelle logiche di governo metropolitano. Con riferimento al tema delle funzioni, si tratta di non ragionare in termini astratti, identificando le funzioni coerenti con il governo metropolitano (ad esempio: lo sviluppo economico, la pianificazione territoriale, la programmazione e pianificazione della mobilità e dei trasporti, e così via). Per ciascuna area di policy si tratta invece di scorporare i diversi policy tools che presiedono all’attività di governo e di costruire condizioni di complementarietà tra diversi tools gestiti da differenti istituzioni, senza dimenticare che alcune politiche essenziali sono promosse e implementate attraverso assemblaggi che coinvolgono reti di attori specifiche e transcalari (si pensi alla programmazione delle grandi infrastrutture). Per fare un esempio relativo alla pianificazione territoriale, si tratta di comprendere quali possano essere i meccanismi che presiedono alla distribuzione tra strumenti diversi dell’azione di governo del territorio, in una 2
Il convegno si è tenuto a Parigi nel novembre del 2012 dal titolo “Gouverner le métropole”. I materiali del Convegno e i paper presentati sono disponibili sul sito http://governingthemetropolis.com/.
Gabriele Pasqui
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logica di sussidiarietà e di tutela della funzione di autogoverno dei Comuni. Ciò significa anche rivedere in questo contesto la legislazione urbanistica regionale, in una logica di semplificazione, ma anche di identificazione di dispostivi che possano chiaramente stare in capo all’autorità metropolitana (un documento di strategia spaziale, meccanismi anche cogenti di rigoroso controllo del consumo di suolo, politiche di cooperazione intercomunale basate sulla perequazione territoriale). Infine, il tema della forma e dell’organizzazione di governo allude al trade off tra legittimazione, garantita o almeno irrobustita dall’elezione diretta del Sindaco e del consiglio metropolitano, ed efficienza, rafforzata da un modello istituzionale basato sull’elezione indiretta nel quale l’istituzione metropolitana è essenzialmente “al servizio dei comuni”, svolgendo ruoli di service sulla base di un principio di forte separazione tra politica e amministrazione. Anche in questo caso non è semplice scegliere una strada piuttosto che l’altra. Nell’attuale e incerto assetto legislativo (a fine marzo 2013) l’elezione diretta sarebbe possibile solo nel caso in cui le città capoluogo si dividessero in comuni, cosa che a oggi sembra assai improbabile 3. In questo contesto, sembra comunque indispensabile consolidare una funzione di servizio ai comuni, anche attraverso la creazione di robuste tecnostrutture in capo alla città metropolitana (per esempio, proprio sui temi del territorio, dell’ambiente e delle infrastrutture), ma anche di agenzie di scopo che presidiano filiere di policy (ambiente, mobilità etc..), così come accade in tutti i casi europei di successo.
3 | Il processo in atto: questioni (istituzionali e politiche) aperte Su questo sfondo si colloca il complesso processo in atto nel nostro Paese, avviato con l’approvazione dell’art. 18 della Legge 135 (7 agosto 2012) che prevede l’istituzione, a partire dal 1 gennaio 2014, delle città metropolitane e del decreto legge 5 novembre 2012 n. 188, con il quale si definiscono inoltre alcuni passaggi successivi, con riferimento al ruolo della Conferenza metropolitana e al processo di attivazione. Il dettato normativo definisce un percorso attuativo e identifica le funzioni fondamentali per la Città metropolitana, oltre a quelle ereditate dalla Provincia e a quelle eventualmente trasferite dalla Regione o attribuite/delegate dai Comuni: pianificazione territoriale generale, sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, mobilità e viabilità, promozione e coordinamento dello sviluppo economico. Inoltre, la legge fa coincidere il territorio della Città metropolitana con quello delle Province, che vengono abolite. Dal punto di vista della forma di organizzazione, in prima istanza il dettato legislativo appare più orientato ad un modello basato sull’elezione indiretta, anche se lascia margini di autonomia agli Statuti delle nuove istituzioni metropolitane, e identifica un percorso di costruzione centrato sul ruolo “costituente” di una Conferenza dei comuni. Come è noto, l’apparato normativo (che peraltro presentava già notevoli incertezze) è oggi di fatto sospeso. Il “congelamento” del processo istitutivo della Città metropolitana, determinatosi con la mancata conversione del DL 188/2012, e con la conseguente sospensione dell'applicazione dei dispositivi in materia fino al 31 dicembre 2013, prevista dalla Legge di Stabilità 2013, consegna infatti agli attori in campo una condizione di forte incertezza normativa, che si accompagna ad una altrettanto forte incertezza sulle prospettive politiche e di governo del Paese. In altre parole, i rischi di trovarsi di fronte, tra qualche mese a una nuova occasione perduta sono grandi. D’altra parte, le attese in questa fase sono state effettivamente molto forti, almeno in alcune città. A Milano, per esempio, queste attese hanno alle spalle la delusione per i tanti tentativi abortiti, prima e dopo la legge 140 del 1990, ma anche la percezione che per la prima volta, nel contesto milanese, il Comune capoluogo intende investire su un processo politico e istituzionale capace di promuovere una vera e propria “fase costituente” della città metropolitana. In una situazione di questo tipo, che comunque necessita di un intervento normativo, è tuttavia indispensabile assumere il processo in atto come un passaggio, in una logica realistica e incrementale. Ciò significa in primo luogo attivare da subito forme di coinvolgimento dei comuni, anche in assenza di un riferimento normativo per Conferenza costituente; in secondo luogo lavorare a Statuti che permettano di pensare ad un processo costituente che avviene nel tempo; in terzo luogo attivare le forze sociali e culturali per animare un dibattito pubblico il più possibile ampio e partecipato. Queste mosse operative hanno bisogno, per essere efficaci, di alcune condizioni: un processo di questa natura ha bisogno di una forte leadership e di un chiaro “imprenditore politico”, che in molti contesti italiani non può che essere il Sindaco del comune capoluogo, che peraltro, in assenza di ulteriori interventi normativi dal 1 gennaio 2014 sarà automaticamente Sindaco metropolitano; 3
Anche se alcuni Comuni, come Milano, stanno utilizzando questo processo ripensare il decentramento amministrativo in un’ottica di municipalizzazione. Su questo tema il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico sta collaborando con il Comune di Milano nel percorso di riperimetrazione delle zone del decentramento, in una chiave innovativa e dialogante con il processo di costituzione della Città metropolitana.
Gabriele Pasqui
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d’altra parte, tale processo ha bisogno di un consenso largo. Per questa ragione è indispensabile da subito coinvolgere i comuni della Città metropolitana, senza i quali il processo è destinato a fallire, ma anche interloquire con le Regioni rispetto ai temi essenziali delle funzioni da attribuire all’istituzione metropolitana. La Città metropolitana non si fa né senza i comuni, né contro le Regioni; è importante che il processo in atto si intrecci fortemente con alcune filiere verticali di governo, (verso l’Unione Europea e verso il Governo nazionale) in relazione a processi di policy in atto (grandi opere, eventi, etc.), ma anche rispetto al presidio della nuova stagione delle politiche europee per le città. Anche per questa ragione è indispensabile mettere in rete le costituenti città metropolitane con le migliori esperienze europee, anche al fine di comprendere le condizioni di efficacia e di fattibilità operativa del governo metropolitano (organizzazione, meccanismi di finanziamento, funzioni di service ai comuni, ruolo di agenzie di scopo nel campo delle politiche ambientali e della mobilità); un governo metropolitano ha bisogno di un forte coinvolgimento degli attori economici e sociali, ma anche dei cittadini. Per questo è fondamentale attivare tali forze, anche attraverso percorsi di pianificazione strategica che possano svolgere un ruolo di irrobustimento delle reti di governance e di intreccio tra meccanismi di governance e attività di governo, come era stato tentato nel contesto milanese in esperienze significative per quanto incompiute come il Progetto strategico “Città di città” promosso alcuni anni fa dalla Provincia di Milano (Balducci, Fedeli, Pasqui, 2011); il processo costituente non parte da zero. In molti contesti italiani diverse esperienze di cooperazione intercomunale, di associazione interistituzionale, di pianificazione strategica rappresentano oggettivamente un punto di riferimento dal quale prendere le mosse, assumendo che il percorso e l’esito, anche sotto il profilo istituzionale, potranno essere diversi nelle diverse città e regioni urbane coinvolte; la città metropolitana ha bisogno di innestarsi in politiche e progetti. Se ha qualche chance di partire e di diventare un efficace strumento di governo, ha bisogno di incardinarsi su azioni e programmi in corso. Da questo punto di vista diventa fondamentale attivare progetti concreti di cooperazione intercomunale, sul modello dei progetti di trasformazione urbana nella frangia parigina, che possano diventare parte essenziale del percorso costituente e costruire più robuste condizioni di efficacia e di legittimazione; infine, in questa fase costituente le Città metropolitane devo essere in grado di mostrare come la loro esistenza non rappresenti un nuovo meccanismo di burocratizzazione dell’azione di governo, ma un dispositivo di semplificazione e di risparmio (innanzitutto per i comuni). E’ cioè indispensabile mostrare concretamente che la Città metropolitana è capace di semplificare e razionalizzare l’azione pubblica, anche nel campo della pianificazione territoriale, ma anche di offrire servizi efficienti ai cittadini risparmiando risorse, nella prospettiva della “buona politica”.
4 | Conclusioni La porta è stretta: il rischio che anche questa volta il processo di costruzione di un efficace strumento di governo metropolitano si risolva in un sostanziale fallimento è molto forte. Tuttavia, per molte ragioni l’occasione non dovrebbe essere perduta, almeno per garantire che il processo costituente avviato possa permettere una qualificazione dei processi di government e di governance in una fase drammatica per l’azione di governo nelle città e per la vita del Paese. Anche nel campo specifico del governo del territorio e della costruzione di politiche urbane e territoriali la fase che si è aperta può rappresentare un’importante possibilità per procedere nella direzione della semplificazione e dell’efficacia dei dispositivi, ma anche della costruzione di progetti e politiche capaci di consolidare cooperazione e coordinamento tra istituzioni. Si tratta di dunque di muoversi con un forte spirito sperimentale, assumendo almeno cinque principi: se mai si faranno, le città metropolitane italiane avranno assetti istituzionali e forme organizzative necessariamente diverse; il governo metropolitano dovrà assemblare meccanismi di government e processi di governance, al fine di assumere la natura radicalmente transcalare dei processi economici, sociali e territoriali; in una fase di radicale crisi dell’azione pubblica, l’istituzione metropolitana dovrà essere in grado, indipendentemente dall’assetto organizzativo che si darà, di offrire innanzitutto un profilo di semplificazione, risparmio e servizio nei confronti dei comuni; il processo costituente dovrà essere inclusivo e partecipativo, sia nei confronti delle istituzioni che nei confronti delle forze economiche e sociali e dei cittadini; infine, il processo va pensato in modo incrementale. Anche a fronte del successo del percorso di istituzionalizzazione, il governo metropolitano non potrà che essere un esito di progetti e politiche che si dispiegheranno nel tempo.
Gabriele Pasqui
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Bibliografia Alessandro Balducci, Valeria Fedeli, Gabriele Pasqui (2011). Strategic Planning for Contemporary Urban Regions. London, Ashgate, Fabrizio Barca (2012). Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020. Roma Ministero per la Coesione Territoriale. Matteo Bolocan Goldstein, Gabriele Pasqui (2012). Oltre la crescita edilizia. Una nuova agenda pubblica per Milano. in A. Arcidiacono, L. Pogliani, Milano al futuro, Milano, et/al edizioni, 270-304. Consiglio Italiano delle Scienze Sociali (2013). Forum dell’Agenda Urbana. Roma, CSS. Bruno Dente (2012). Il governo delle metropoli italiane, mimeo. EMI – European Metropolitan Research Institute (2012). A strategic knowlege and research agenda on polycentric metropolitan areas, Amsterdam. Paul Kantor, Christian Lefevre, Asato Saito, H. V. Savitch, and Andy Thornley (2012). Struggling Giants: Governance and Globalization in the London, New York, Paris, and Tokyo City Regions. Minneapolis, MN, University of Minnesota Press. Kubler D. (2012). Governing the metropolis. European Political Science. 11, 430-445. Christian Lefévre, (2009). Gouverner les métropoles, Paris, LGDJ-Dexia. Le Galès P. (2011), Urban Governance in Europe: What Is Governed?, in Gary Bridge and Sophie Watson, editors, The New Blackwell Companion to the City, New York, John Wiley & Sons, 747-758. Gabriele Pasqui (2008). Città, popolazioni, politiche. Milano, Jaca Book. Edward Soja (2000). Postmetropolis: Critical Studies of Cities and Regions. Oxford, Basil Blackwell. Thornley A. (2012) Un governo metropolitano efficiente per Londra: riflessioni sulla Greater London Authority. Dialoghi Internazionali. 17, 54-59. Tomas M. (2010). Gobernalidad metropolitan, democracia y eficiencia. Una comparation Barcelona-Montreal. Revista Española de Ciencia Política. 23, 125-148.
Gabriele Pasqui
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Fuzzy boundaries per comunità mobili
Fuzzy boundaries per comunità mobili. Disegnare territori contingenti nella Regione Urbana Milanese Paola Pucci Politecnico di Milano DAStU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Email: paola.pucci@polimi.it Tel: 02.23995474
Abstract Il paper propone una riflessione sulle modalità con cui definire perimetri d’azione pertinenti per trattare la variabilità e l’interconnettività delle relazioni, la multiscalarità delle pratiche spazializzate con cui le categorie amministrative e le divisioni istituzionali dello spazio non riescono a confrontarsi, con conseguenze in termini di efficacia delle politiche urbane. Il tema, da tempo al centro delle riflessioni nell’ambito dello Spatial Planning, è affrontato a partire da una riflessione sul ruolo della mobilità come strumento euristico e progettuale per restituire la variabilità spazio-temporale delle pratiche e per configurare territori contingenti come parte di un nuovo paesaggio istituzionale. Ricorrendo all’analisi di dati di traffico telefonico si restituiscono carte spaziotemporali della Regione Urbana Milanese che definiscono territori contingenti generati dalle pratiche di diverse popolazioni temporanee e si suggeriscono possibili ricadute su alcune politiche urbane. Parole chiave territori contingenti, fuzzy boundaries, comunità mobili.
Territori contingenti: alla ricerca di un contenuto operativo Definire perimetri d’azione pertinenti per trattare la variabilità e l’interconnettività delle relazioni, la multiscalarità delle pratiche spazializzate che le categorie amministrative e le divisioni istituzionali dello spazio non riescono a trattare, è un tema da tempo al centro delle riflessioni nell’ambito dello Spatial Planning. Se vi è consenso sulla necessità di costruire perimetri d’azione pertinenti sulla base dei quali proporre una diversa articolazione delle competenze e delle risorse che favoriscano una regolazione delle pratiche e la generazione di nuovi frames, necessari alla innovazione dei processi di governo (Healey, 2006), la sfida si pone in termini di strumenti interpretativi per riconoscere Soft spaces (come spazi trasversali) e Fuzzy boundaries1 (come perimetrazioni fluide) e comprenderne operativamente gli effetti su quelli che Haughton chiama « formal hard spaces of governmental activity » (Haughton et alii, 2010: 52). Se infatti i contenuti e le dimensioni principali di queste nozioni raccolgono consenso, anche in ragione delle loro caratteristiche fondanti2, capaci di declinare « the new post-devolution spaces of planning » (Haughton et alii, 2010), meno scontate sono le ricadute operative in termini di rapporti con perimetri istituzionali che orientano e governano il comportamento spaziale individuale e collettivo e a cui corrispondono poteri e 1
Fuzzy boundaries « are used to define functional regions which do not conform to known political or administrative units » (Heley, 2012: 6). 2 I Soft spaces hanno quattro caratteristiche principali (Haughton and Allmendinger 2008) : « They are representative of a deliberate attempt to generate new thinking and insert new models of public engagement; They are not antithetical to hard spaces, but are intended to work alongside, augment and –where more expeditious – challenge existing institutional frameworks and practices ; They are becoming more important and more numerous as part of the changing institutional landscape of spatial planning ; They are predominately defined (or not) in a fluid fashion, and with reference to fuzziness, in order that they are more amenable to shifting range of issues and actors, involved in spatial planning projects ». Paola Pucci
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competenze consolidati. In letteratura3 è stato peraltro evidenziato quanto i confini « are complicated and historically contingent phenomena that are concomitantly both contextual social institutions and symbols and are constituted on spatial scales on various institutional practices and discourses» (Paasi, 2010: 679). Al contempo la stessa organizzazione, anche istituzionale, dello spazio fisico condiziona i comportamenti spaziali, interferendo con l’intensità e con la natura delle pratiche. Questo doppio registro porta a ritenere che se le regole e le consuetudini disegnano nello spazio una rete di confini formali e informali che orientano il comportamento (Agnew, 1994), allo stesso tempo, la delimitazione di uno spazio attraverso dei confini implica una strategia territoriale solo quando i confini sono disegnati per controllare lo spazio e le relazioni sociali che vi si svolgono (Raffestin, 1981). Questa condizione che distingue tra confini formali (hard spaces) a confini informali (soft spaces) può concorrere a superare la contrapposizione tra Fuzzy boundaries e confini istituzionali a cui corrispondono forme di governo e canali di distribuzione delle risorse consolidate, e può consentire di spostare l’attenzione sulla necessità, per le politiche urbane, di individuare ambiti come configurazioni di pratiche iscritte nello spazio, la cui variabilità deve poter essere colta per costruire azioni intriseche ai processi, senza che questo comporti la dissoluzione/sostituzione di perimetri istituzionali. Restituendo la territorialità di pratiche che deformano i confini istituzionali, i ꞌconfini informaliꞌ possono diventare parte di un ꞌpaesaggio istituzionaleꞌ, generando nuovi modelli di coinvolgimento del pubblico e azioni capaci di intercettare e rispondere più efficacemente a domande sociali emergenti lette a partire dalle pratiche. Un esempio sull’importanza di ridefinire i perimetri d’azione di alcune politiche urbane, prestando attenzione ai perimetri delle pratiche, per garantire una migliore efficacia ad azioni settoriali, può venire dalla iniqua ripartizione dei costi del trasporto pubblico urbano nelle aree metropolitane. Nella città di Milano – secondo una ricerca condotta da Pola e Ferri (2012) - 8,5% del budget comunale è destinato a coprire i costi dell’offerta di servizi urbani, tra cui un peso rilevante si ritaglia il trasporto pubblico del cui prezzo ꞌpoliticoꞌ (1,5 euro a biglietto per il trasporto pubblico urbano) beneficiano non solo i residenti, ma anche i city users, i pendolari, le popolazioni temporanee che usano intensamente la rete del trasporto pubblico milanese. Questi ultimi non concorrono a coprirne i costi, poiché non sono interessati dalla tassazione locale, non risiedendo a Milano. Reciprocamente, le popolazioni temporanee usano i servizi urbani, governati da una amministrazione locale di una città in cui non vivono e non votano; condizione che Martinotti ha efficacemente sintetizzato con riferimento al « paradosso del voto » (Martinotti, 1993: 163). Se cioé i confini amministrativi rimangono i prerequisiti per l’allocazione delle risorse e degli interventi, in alcune condizioni, come quella evocata prima e in un regime di finanziamenti pubblici sempre più scarsi e di razionalizzazione dei servizi, la riconfigurazione di ambiti di fiscalità locale sulla base di pratiche di popolazioni che definiscono specifiche geografie d’uso del territorio, diventa una misura non derogabile, oltre che capace di ripartire più equamente i costi di un servizio pubblico essenziale. In questo contesto, la sfida si pone in termini di ricerca di strumenti con cui dare contenuto operativo alla condivisa necessità di definire confini contingenti, confini cioé che esprimano un valore relazionale, che siano variabili in ragione delle dinamiche che si intendono cogliere e regolare. Si tratterebbe cioé di riconoscere, a partire da un percorso induttivo, i processi in atto per poter suggerire modalità di governo, necessariamente deboli, non rigidamente normative, ma di natura regolativa e strategica per trattare la frammentarietà del campo metropolitano. Questa, come ricordato da alcuni autori (Dematteis, 2012), è il prodotto di due forme di scomposizione: Una scomposizione orizzontale che ha messo in evidenza l’inadeguatezza dei confini amministrativi nel trattare la struttura articolata e reticolare delle relazioni tra gli attori nelle pratiche d’uso e di trasformazione del territorio, ormai refrattaria ad ogni modello di governo di tipo puramente autoritativo e conformativo; Una scomposizione verticale, in cui le componenti urbane operano a diversi livelli territoriali con logiche di settore proprie, anche in contrasto con gli interessi generali. In questo caso «i portatori di logiche settoriali riconducibili a grandi interessi particolari (privati e non), attivi soprattutto a scala sovra-locale (nazionale, transnazionale), tendono a sostituirsi al governo eletto democraticamente nello svolgere attività strumentali e di servizio», fino a configurare quello che Cammelli (2012) definisce un governo privato dei servizi pubblici». La dimensione verticale della frammentazione metropolitana è presente nella città come « essenza del moderno che si manifesta nella metropoli in quanto aggregato incoerente e sovente contraddittorio e conflittuale di soggetti diversi tra loro per valori, obiettivi ed azioni» (Dematteis, 2012). La scomposizione orizzontale emerge invece come condizione contemporanea ed è legata da un lato alla non rappresentabilità unitaria dei valori e degli interessi che si riverbera nelle relazioni tra gli attori nelle pratiche di governo, dall’altra parte alle pratiche sociali sempre meno riconducibili a domande standardizzate e 3
Si veda Cella G.P. (2006), Tracciare confini. Realtà e metafore della distinzione, Il Mulino, Bologna
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rappresentabili unitariamente (Pasqui, 2001). Se la scomposizione orizzontale è all’origine di nuovi spazi di gouvernance come « a means of adressing the non-symmetrical institutional settlements which constitute and characterize localities through drawing attention to the territorial and scalar manifestations of micropolitics and power conflicts » (Jones et alii, 2005; Heley, 2012), diventa rilevante riconoscere questi spazi come ambiti dai ꞌconfini informaliꞌ, traduzione di interessi e domande che emergono dai diversi attori sociali e, al contempo, confrontarsi con la loro variabilità temporale. In questo senso la nozione di ꞌterritori contingentiꞌ, come confini informali variabili, può essere utile poiché evidenzia quanto i confini delle pratiche non abbiano valore assoluto, non possano esser studiati oggettivamente, perché «ricevono sempre un valore entro il sistema di relazioni in cui sono posti» (Dematteis, 1986: 112).
Un approccio solo apparentemente settoriale La tesi sostenuta è che per configurare territori contingenti, utili alla definizione di perimetri d’azione capaci di restituire la variabilità temporale connessa alle pratiche, uno strumento utile possa essere l’analisi delle pratiche di mobilità. Numerosi autori (Ehrenberg 1995; Tarrius, 2000; Urry, 2000, Kaufmann, 2002; Orfeuil, 2004; Lévy, 2004 ; Ascher, 2004; Bourdin, 2005, Cresswell, 2006), hanno da tempo evidenziato quanto le trasformazioni nelle pratiche di mobilità nei territori della città cotntemporanea costituiscano uno degli strumenti tra i più completi di lettura dei processi di trasformazione dei tempi, dei luoghi, dei modi di vita e dei programmi di attività che concorrono a strutturare i territori. Non si tratta quindi di analizzare la mobilità in quanto tale, ma « les sociétés contemporaines à travers les faits de mobilité » (Bourdin, 2005). La mobilità come « cadre trasversal de lecture du social » (Bourdin, 2005 : 20), rappresenta cioé un analyseur (Bourdin, 2005), utile per descrivere i territori della città contemporanea e per riconoscere «comunità di pratiche» (Wenger, 1998), come «comunità mobili»4 (Le Breton, 2006). Le potenzialità euristiche e progettuali del concetto - che tiene insieme la dimensione temporale e la dimensione spaziale delle pratiche, difficilmente trattate in modo integrato nel quadro delle politiche urbane - interrogano gli strumenti analitici e le fonti disponibili che devono cioé essere adeguati a restituire le differenti pratiche di mobilità sotto forma di «biografie attive» (Nuvolati, 2003). L’interesse per questo approccio riguarda la possibilità, non solo di costruire politiche appropriate a una gestione diversificata della mobilità in termine di competenze e di perimetri d’azione, ma più in generale di dare una rappresentazione alle diverse pratiche e ai ritmi urbani5, d’uso dei territori della città contemporanea che traducono la variabilità dei processi con cui le politiche debbono confrontarsi.
Disegnare territori contingenti nella Regione Urbana Milanese L’analisi delle mobilità in un territorio articolato e complesso come la Regione Urbana Milanese 6 è finalizzato a identificare le differenti «comunità mobili» (Le Breton, 2006), che spazializzano le loro pratiche, costruendo geografie spazio-temporali d’uso della città che rappresentano ˈ territori contingentiˈ . L’aggettivo contingente si riferisce alla capacità di trattenere, nella definizione di spazialità, la variabilità temporale connessa alle pratiche. Il riferimento a « comunità di pratiche » (Wenger, 2006), piuttosto che a « popolazioni metropolitane » (Martinotti, 1993), deriva dalla capacità della nozione proposta da Wenger di riconoscere la variabilità
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«Groupes sociaux définis à partir de leurs inscriptions territoriales, de leurs pratiques de mobilité, des dispositifs techniques qu’ils mettent en oeuvre» (Le Breton, 2006: 26). 5 Poiché «il tempo delle popolazioni urbane è oscillante, fatto di temporalità ciclica intrecciata alla pluralità di usi degli spazi e dei luoghi» (Pasqui, 2008), il ritmo urbano può essere definito, ricorrendo a Lefebvre come «tempo localizzato» e «luogo temporalizzato». 6 Sulla definizione e descrizione della Regione Urbana Milanese si vedano Boeri S., Lanzani A., Marini E., 1993. Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Aim, Abitare Segesta Cataloghi; Lanzani A.,1996. «Geografie degli ambienti insediativi lombardi. Schede descrittive e interpretative», Territorio n.3, pp. 85-123.; Lanzani A., Prusicki M.,1995.«Azioni a carattere strategico. Progetti e politiche sui sistemi territoriali e urbani», in Magnaghi A. (a cura di), Bonifica, riconversione e valorizzazione ambientale del bacino dei fiumi Lambro, Seveso e Olona. Linee orientative per un progetto integrato, Urbanistica Quaderni n. 2, pp.133-153; Palermo P.C., 1997. (a cura di), Linee di assetto e scenari evolutivi della regione urbana milanese. Atlante delle trasformazioni insediative, Quaderni di Dipartimento, Angeli, Milano; Diap & Provincia di Milano, 2006. La Città di città. Un progetto strategico per la Regione Urbana Milanese, Diap, gennaio; Balducci A., et alii, 2007. Per la città abitabile. Scenari, visioni, idee. Progetto strategico Città di Città, Diap Politecnico di Milano, Provincia di Milano. Paola Pucci
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temporale e spaziale dei ruoli di ogni individuo, che può appartenere cioè a diverse comunità di pratiche nell’arco della giornata7. L’individuazione di queste comunità di pratiche attraverso la lente della mobilità non ha unicamente una finalità euristica, ma rappresenta la condizione attraverso cui riconoscere le nuove domande disaggregate per comunità di pratiche, su cui costruire politiche di offerta più efficaci e meno onerose finanziariamente, poiché non generaliste. Sebbene il ruolo della mobilità come dispositivo di lettura delle trasformazioni urbane sia riconosciuto in letteratura, risulta ancora difficile identificare le diverse popolazioni mobile e i territori che partecipano a queste pratiche. Se spesso le fonti tradizionali offrono rappresentazioni sfuocate, incapaci di restituire i ritmi legati alle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro e delle norme sociali 8, tuttavia nuove possibilità vengono offerte da fonti di dati di telefonia mobile9 (Manfredini, Pucci, Tagliolato, 2012). Negli ultimi anni, infatti, diversi progetti di ricerca hanno indagato se e come i dati di traffico telefonico possano essere utilizzati come strumenti di analisi e di rappresentazione delle dinamiche urbane e delle pratiche di mobilità degli individui10. Tra questi, anche una ricerca 11 condotta presso il Diap/Dastu del Politecnico di Milano su dati di traffico telefonico della rete radiomobile Telecom Italia 12 riferiti alla Regione Lombardia. Pur riconoscendo la valenza sperimentale e i limiti dei dati disponibili, nella ricerca condotta si è cercato di costruire elaborazioni finalizzate a restituire la variabilità spazio-temporale delle presenze nella Regione milanese, anche a partire da una integrazione tra fonti statistiche tradizionali 13 e dati di telefonia mobile. Queste derivano da un trattamento statistico (spatial clustering) dei dati di densità di traffico telefonico, finalizzato a estrapolare unicamente i trends costanti e ricorsivi nell’arco del periodo considerato (http://mox.polimi.it/it/progetti/pubblicazioni/view.php?id=345&en=). L'osservazione della distribuzione spaziale dell'intensità del traffico telefonico durante il giorno – cioè tra intensità e variabilità del traffico telefonico georeferenziato - e le dotazioni del territorio - cioè la presenza di infrastrutture, servizi e attività di diversa natura - ci ha permesso di individuare diverse popolazioni temporanee, caratterizzate da pratiche d’uso diversificate. I risultati ottenuti restituiscono nuove mappe della Regione Urbana Milanese, variabili nel tempo. Allo stesso tempo, consentono di collocare nello spazio ꞌcomunità di praticheꞌ che usano il territorio secondo temporalità e finalità diverse14.
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Si veda anche Pasqui (2008) e, in particolare, la definizione di popolazioni urbane che l’autore propone a p. 148. Sul piano individuale «on assiste à une rationalisation du temps disponible qui est économisé puis redistribué selon des échelles de valeur individuelles, au cours de la journée, de la semaine ou de l’année; le temps libre devient ainsi à la fois plus dense et éclaté car différentié» (…). Sul piano relazionale «le régime de disponibilité permanente tend à effacer les frontières entre les domaines public et privé. Ceci, pour un nombre croissant de catégories professionnelles, atténue les frontières spatiales et temporelles entre le travail et la vie privée selon un double processus qui comprend d’une part, une densification du travail et de son contenu toujours plus immatériel et d’autre part, une diversification des temps de travail et l’apparition de nouvelles catégories de travailleurs» (Godard,1997). 9 Le metodologie di raccolta dei dati da telefonia mobile sono riconducibili a due principali tipologie: il posizionamento attraverso l’utilizzo di dati di telefonia mobile di un campionamento di tracce individuali (tracking tecnologies); l’utilizzo di dati aggregati rilevati da antenne (principalmente cell towers) che restituiscono la densità di chiamate telefoniche. 10 Si vedano Ahas, R., Mark, Ü. (2005), Location based services–new challenges for planning and public administration?. Futures 37(6), 547–561; Ahas, R., Aasa, A., Silm, S. and Tiru, M. (2010), Daily rhythms of suburban commuters’ movements in the Tallin metropolitan area: case study with mobile positioning data. Transportation Research Part C: Emerging Technologies 18(1), 45–54. Kwan, M.-P., Dijst, M. and Schwanen, T., 2007. The interaction between ICT and human activity-travel behavior. Transportation Research Part A: Policy and Practice 41(2), 121–124. URL: http://linkinghub.elsevier.com/retrieve/pii/S0965856406000255; Ratti, C., Pulselli, R. M., Williams, S. and Frenchman, D., 2006. Mobile landscapes: using location data from cell phones for urban analysis. Environment and Planning B: Planning and Design 33(5), 727–748; Reades, J., Calabrese, F., Sevtsuk, A., Ratti, C., 2007. Cellular census: Explorations in urban data collection. IEEE Pervasive Computing 6(3), 30– 38. URL: http://dx.doi.org/10.1109/MPRV.2007.53. 11 “Utilizzazione di dati di traffico telefonico nell’ambito di applicazioni urbanistiche e territoriali”, convenzione di ricerca tra Diap Politecnico di Milano e Telecom Italia; responsabili Fabio Manfredini e Paola Pucci, con Paolo Tagliolato. 12 La ricerca ha utilizzato dati di densità di chiamate telefoniche (Erlang), rilevati dalle antenne della rete Telecom e relativi al territorio della Regione Lombardia, disponibili dal mese di gennaio 2009. L’ Erlang descrive la densità del traffico telefonico ogni 15 minuti per aree di dimensioni pari a 250 m x 250 m. Il dato è stato trattato statisticamente per essere confrontato con variabili ricavabili da fonti di dati consolidate al fine di valutare le possibili ed eventuali correlazioni tra variabilità nell’intensità delle chiamate da rete cellulare e variabilità delle condizioni urbanistico-insediative. 13 Tra queste, la matrice O/D della mobilità della Regione Lombardia (2002) e indagini qualitative condotte dalla Provincia di Milano (2006). 14 Questo approccio è complementare rispetto a metodologie già proposte in letteratura. Tra gli approcci sperimentali per l’identificazione delle pratiche di mobilità di ꞌpopolazioni mobiliꞌ possiamo ricordare: gli studi empirici su abitudini modali, rappresentazione sociale del mezzo di trasporto (predisposizione culturale all’uso), spazialità dei modi di vita (Kaufmann, Jemelin, Guidez, 2001); gli studi sui modi e le forme di organizzazione del tempo come condizione per leggere e riconoscere pratiche di mobilità (Montulet, Hubert, 2004), gli studi sulla mobilità extraprofessionale a partire 8
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Queste differenti popolazioni mobili generano dei perimetri contingenti che traducono i profili delle popolazioni che li definiscono. I risultati ottenuti presentano un certo interesse per le conseguenze che si determinano anche per le politiche di mobilità. E’, ad esempio, interessante osservare l’assenza di coincidenza tra i luoghi della mobilità pendolare del mattino e quelli del tardo pomeriggio (fig. 1). La carta dei territori della mobilità del tardo pomeriggio restituisce una catena di spostamenti molto articolata e complessa, riferibile non solo e non tanto agli spostamenti legati al ritorno a casa dopo una giornata di lavoro, ma piuttosto alla frequentazione di luoghi diversi, legati allo shopping, alla cura della persona, ad attività personali che complessificano gli spostamenti serali, con conseguenze sulla rete infrastrutturale e dei trasporti pubblici. In questo modo, coloro che sono pendolari tra le 8 h et 9 h del mattino si trasformano in city users tra le 17 h e le 19 h. Questo trend confermerebbe il valore euristico della nozione di ′comunità mobili′, così come di quella di territori contingenti.
Figura 1. I territori della mobilità quotidiana: il mattino (sx) e la sera (dx) (fonte: elaborazioni MOX/DiAP di dati Telecom Italia)
L'uso del territorio che ne discende mette in discussione le politiche di offerta del trasporto pubblico. In effetti, se si sovrappone il perimetro della gestione istituzionale del trasporto pubblico locale in Milano agli ambiti, variabili nel tempo, delle pratiche di mobilità desunti dai dati del traffico dei telefoni cellulari (fig. 2), possiamo constatare come « les effets profondément structurants (ou déstructurants) de la mobilité des personnes sur les territoires politiques » (Estèbe, 2008 : 6) evidenziano una discrepanza evidente tra giurisdizioni fisse e « facteurs mobiles ».
Figura 2. Area di influenza di Milano, desunta dai dati di flusso dei telefoni cellulari (rosso) a cui si è sovrapposto il perimetro della gestione istituzionale del trasporto pubblico locale (verde),
La variabilità nel tempo e nello spazio delle pratiche d’uso della città contemporanea di cui danno conto i dati di telefonia mobile è restituito anche da: I territori del divertimento notturno che definiscono una geografia di luoghi densamente frequentati il sabato sera, del tutto differente da quella dei territori del lavoro notturno, cioé di quei luoghi frequentati dal lunedì dalle attività che la determinano (Ramadier, 2002), le indagini sulle posture di mobilità a partire dagli itinerari (Marzloff, 2003), lo studio della distribuzione degli itinerari durante una sequenza temporale (gruppo Chronos, 2004) (Remy, 2004). Paola Pucci
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al venerdì notte, per i quali va garantita un’offerta di trasporto pubblico anche di tipo non convenzionale (fig. 3) ; i territori degli acquisti, del tempo libero e dello svago (tra le 10 h e le 20 h) (fig. 4) che fanno emergere l’importanza non solo del centro di Milano, ma anche del settore occidentale della città consolidate, piuttosto che dei grandi centri commerciali lungo l’anello delle tangenziali che sembrerebbero avere un peo molto meno rilevante nelle pratiche del sabato; I territori dei grandi eventi temporanei (Salone Internazionale del mobile) che attirano una quantità rilevante di turisti e city users che frequentano in modo intermittente la città, i suoi servizi e i luoghi in cui si organizzano eventi temporanei (i luoghi del Fuori Salone) e che risultano del tutto opachi alle fonti di dati tradizionali (fig. 5). Gli stessi dati contribuiscono a mettere in discussione alcune interpretazioni presenti in letteratura sui comportamenti erratici delle popolazioni metropolitane e sul nomadismo che caratterizzerebbe l'uso del territorio, come peraltro già alcuni studi condotti hanno evidenziato 15. Se infatti i dati confermano la importante densità di spostamenti giornalieri, gli stessi dati mostrano anche una forte ricorsività dei percorsi: ci spostiamo molto durante la giornata, ma seguendo percorsi conosciuti e abituali. Questa osservazione rafforza il valore euristico dei territori contingenti, costruiti a partire dalle analisi della ricorsività delle pratiche di mobilità.
Figura 3. I territori del divertimento notturno e del lavoro notturno (fonte: elaborazioni MOX/DiAP di dati Telecom Italia)
Figura 4. I territori dello shopping, dello svago e del tempo libero nel weekend (dalle 10h alle 20h). (fonte: elaborazioni MOX/DiAP di dati Telecom Italia)
Una conclusione provvisoria, con molte questioni aperte
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Chaoming, S., Zehui, Q., Nicholas, B., & Barabási, A.-L. (2010). Limits of predictability in human mobility, in Science 327, 1018.
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Lontani dal ricercare un determinismo analitico che consenta di fotografare la realtà delle pratiche d’uso dello spazio utilizzando fonti quali la telefonia mobile, le riflessioni proposte hanno voluto esplorare le potenzialità di una nuova fonte dati e, più nello specifico, le possibili ricadute applicative di questi dati nel restituire la dimensione spaziale di pratiche d’uso variabili nell’arco della giornata che grande impatto hanno sulle densità d’uso della città e dei suoi servizi. Se «certe tracce possiedono un valore individualizzante (…) ossia segnalano la presenza di una persona che ne è all’origine e che vi è implicata» (Ferraris, 2009), nella nostra ricerca queste ꞌtracce idiomaꞌ non collegano a un individuo, ma a ꞌcomunità di praticheꞌ proprio per la natura dei dati utilizzati che offrono cioè comportamenti aggregati legati alla intensità d’uso del telefono.
Figura 5. Densità di traffico telefonico durante il “Salone Internazionale del mobile” e le attività del “Fuori salone” (16 Aprile 2010 dalle 17h alle 23 h). (fonte: elaborazioni DiAP di dati Telecom Italia)
Questo implica considerare i dati di traffico telefonico come l’effetto di comportamenti e abitudini individuali che diventano, aggregati, un’informazione sulle caratteristiche del territorio, in qualche modo, una sua intrinseca proprietà, che varia nel tempo. In questo senso, ritornando al tema iniziale che si interroga sull’utilità di tratteggiare perimetri contingenti rispetto al governo delle trasformazioni urbane legate a pratiche mutevoli d’uso dello spazio metropolitano, lo sforzo, ancora embrionale, proposto ha la finalità di suggerire un processo induttivo per nominare territori contingenti (fig. 6) e, attraverso questi, per individuare misure per migliorare l’efficacia dei servizi e per rispondere a domande emergenti.
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Figura 6. Nominare i territori delle pratiche come territori contingenti (fonte: nostre elaborazioni dati Telecom Italia)
Avviare un processo induttivo rappresenta la condizione necessaria non solo per riconoscere e per nominare i territori delle pratiche, ma anche per operare un ꞌre-scaleꞌ nelle gerarchie di intervento, quindi per governare processi dinamici, pur non rinunciando a un confronto con confini amministrativi istituzionali dati. Infatti le politiche costruite sui territori contingenti sono «irriducibili a ogni formalizzazione tradizionale e, in definitiva, mettono in discussione la stessa modalità ordinaria di definizione e di trattamento delle politiche pubbliche» (Pasqui, 2008: 149). Nel rapporto tra territori contingenti e territori istituzionali, i problemi legati alla variabilità temporale delle pratiche all’origine dei perimetri osservati, come quelli dei meccanismi di rappresentanza politica delle comunità di pratiche restano ancora irrisolti. Tuttavia il riconoscere territori contingenti come espressione anche di domande sociali non riconducibili a modelli amministrativi rappresenta una condizione necessaria se si intende « prender atto che oggi una governabilità urbana che voglia essere efficace deve essere limitata, intrinseca ai processi e quindi capace di cogliere e valorizzare le sinergie tra interventi settoriali e le potenzialità offerte dal mutare delle situazioni catalizzatrici dei diversi interessi in gioco. Ciò che non significa affatto rinunciare a governare e quindi a ricomporre la città» (Dematteis, 2012). Se si condivide la condizione che « tous les gouvernements territoriaux vivent sous un régime permanent de dissociation entre les citoyens, les habitants et les usagers de la ville (Estèbe, 2008 : 17), la possibilità di ꞌrescaleꞌ offerta dai perimetri dei territori contingenti può aiutare nella costruzione di geografie di partnerships tra i differenti soggetti coinvolti e nella promozione di forme di cooperazione, non necessariamente e forzatamente riconducibile entro ambiti istituzionali.
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by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723 - 0993 | no. 27, vol. II [2013] www.planum.net Proceedings published in October 2013