L'architettura degli spazi del lavoro.

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L’ARCHITETTURA DEGLI SPAZI DEL LAVORO NUOVI COMPITI E NUOVI LUOGHI DEL PROGETTO a cura di Sara Marini Alberto Bertagna Francesco Gastaldi

QUODLIBET


CITTÀ E PAESAGGIO L’ARCHITETTURA DEGLI SPAZI DEL LAVORO prima edizione ottobre 2012 ISBN 978-88-7462-498-0 © 2012 Quodlibet s.r.l. via Santa Maria della Porta, 43 Macerata www.quodlibet.it

Volume pubblicato in occasione del convegno L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto (Venezia, 16-11-2012, a cura di Sara Marini, Alberto Bertagna, Francesco Gastaldi) con il contributo dell’Università Iuav di Venezia e della Fondazione Francesco Fabbri

La Fondazione Francesco Fabbri non persegue fini di lucro, il suo ruolo è quello di essere strumento di sviluppo culturale, sociale ed economico delle comunità. La missione è perseguita attraverso lo sviluppo di programmi ed azioni da ideare, coordinare e promuovere in una logica di rete orientata alle forme del Contemporaneo. Opera nell’ambito del territorio veneto ma con uno sguardo aperto al sistema nazionale, nei settori dell’assistenza, dell’istruzione e formazione, della promozione e valorizzazione nel campo artistico, culturale, storico, dell’innovazione e, in particolare nel presente periodo, del paesaggio in attuazione della Convenzione Europea di riferimento. www.fondazionefrancescofabbri.it

progetto fotografico Lavoro_Sissi Cesira Roselli_Brescia 2012 (in copertina, pp. 8, 11, 12, 17, 55, 105) Padiglione olandese_Sissi Cesira Roselli_Venezia 2012 (pp. 18, 21, 22) stampa Bieffe s.p.a.


INDICE

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I

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Reload: riattivare il capitale territoriale per re-immaginare lo sviluppo Maurizio Carta

Premesse Sara Marini, Alberto Bertagna, Francesco Gastaldi

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Più cose alla volta Mosè Ricci

ARCHITETTURE E COMMITTENZE PER PRODURRE LUOGHI

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Territori ed architetture del Made in Italy Rosario Pavia

Le ali dell’architettura. Spazi del lavoro ed altre alchimie Sara Marini

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Hashima: economie produttive tra rovine post-industriali Giulia Menzietti

Presentazioni Giustino Moro, Daniele Marini

Luoghi di lavoro, paesaggi del XX secolo Luigi Latini SSIC, Gordola Durisch + Nolli Architetti Là, dove il Paesaggio si fa. Esperienze e confronti nella terra del lavoro Claudio Bertorelli

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III

Productive Landscapes. Common Grounds Emanuele Sommariva, Jeannette Sordi

IL NORD EST, FRA CRISI E NUOVA DOMANDA DI GOVERNO DEL TERRITORIO

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C’è un Nord Est oltre il mito? Francesco Gastaldi

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Spazi condivisi, luoghi ritrovati Marco Ragonese

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Dopo la crisi, quale modello territoriale? Michelangelo Savino

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Milano e la sfida post-fordista. Logiche localizzative e idee di città Laura Montedoro

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Scenari e territori per un nuovo sviluppo del Nord Est Giancarlo Corò

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Le ragioni del lavoro artigiano nell’economia globale Stefano Micelli

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Riqualificare lo sprawl Laura Fregolent

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Oltre il capannone: metamorfosi del Nord Est produttivo Marco Ferrari

II

DALL’IMPRESA NEL TERRITORIO AL PAESAGGIO COME IMPRESA

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Alto lo spread città/territorio. Dettagli in cronaca Alberto Bertagna

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Rigenerare paesaggi in declino: progetti, risorse e strategie per tornare a crescere. Il caso di Napoli est Michelangelo Russo


PREMESSE

Sara Marini, Alberto Bertagna, Francesco Gastaldi


COMMITTENZA TOTALE La coincidenza dell’architettura con una precisa funzione rappresenta da sempre un assunto chiave del progetto. Questo assunto oggi viene a mancare soprattutto per quanto concerne gli spazi del lavoro. La mancanza di funzioni chiare, precise, è determinata da decisivi cambiamenti che hanno investito e investono i modelli economici, da evidenti migrazioni di fasi della produzione da un territorio all’altro, da un continente all’altro e da conseguenti, ma anche autonome, modifiche della mappa sociale. Inoltre l’attuale crisi non solo mette in luce un rivolgimento generale del sistema lavoro ma chiede una progettualità totale: non servono solo e semplicemente progetti architettonici ma idee che sappiano coniugare nuove immagini, nuovi prodotti, nuovi processi, nuovi luoghi, il tutto sulla base di un’economia debole e ancora diffusa. Oltre il disegno modernista della città – che ha sancito la chiara suddivisione degli spazi in base alle attività: lavorare, abitare e tempo libero, e che ha determinato la concentrazione del lavoro in aree monofunzionali, con gli scarti di un sistema che è progredito in un’inarrestabile polverizzazione, un sistema in cui ad una singola proprietà ha corrisposto un’attività produttiva e anche quel filamento di città necessario a connetterla – oggi gli spazi del lavoro tornano a strutturarsi come organismi complessi. La prospettiva non è più rappresentata da semplici edifici industriali ma da nuove realtà dotate di laboratori, centri studi, spazi di relazione con il pubblico e con il paesaggio, o meglio, questo ci si attende ed è sostenuto da alcuni esempi che hanno accolto e interpretato la possibilità posta dal cambiamento in corso. Già da tempo Saskia Sassen rileva nei territori statunitensi una rinnovata centralità della città per quanto concerne l’efficacia dello spazio del lavoro, sempre più luogo dell’incrocio d’idee e sempre meno, in occidente, ambito della produzione. La riscoperta necessità di condivisione dello spazio potrebbe far presupporre una revisione del modello di città sociale che in Italia ha profondamente segnato la progettazione architettonica e urbana, sulla scia del progetto totale di Adriano Olivetti. Il Diesel Village a Breganze e le diverse Factory, che nascono oggi occupando complessi industriali dismessi, rappresentano il controcampo della crisi dei capannoni diffusi. Rispetto però al modello olivettiano emergono significative differenze: il dato sociale non riporta più categorie chiare quali

quella operaia ma comunità costruite sullo scambio del pensiero e quindi sicuramente più mobili; tale mobilità determina l’impossibilità, se non volutamente temporanea, della coincidenza o della prossimità dello spazio del lavoro con lo spazio dell’abitare; e ancora, non è più l’abitare ad essere concepito in funzione dello spazio del lavoro ma è quest’ultimo che ritorna in città a cercare prossimità con le altre funzioni. Da un lato si assiste ad una rinnovata tensione verso il centro urbano, dall’altro gli spazi abbandonati si offrono come soluzioni e conomicamente e spazialmente vantaggiose proprio per le nuove formalizzazioni del lavorare assieme. Il vantaggio del riutilizzo di strutture dismesse presuppone però un preciso atteggiamento progettuale, lontano dall’idea di recupero, disponibile ad assumere la condizione della scena trovata, il suo porsi in fieri. La visione di Adriano Olivetti ricorda, ed è un ricordo che potrebbe suonare come monito o anche invito, quanti sono gli "oggetti" possibili del progetto e come questi possono essere considerati "progetti" solo in virtù di un saldo rapporto, o investimento, tra committenza e progettisti. Dalla città, agli edifici, allo spazio aperto, al prodotto industriale, alla comunicazione dello stesso e del suo immaginario, tutto confluiva nell’idea olivettiana a definire un unico progetto e una salda alleanza con i diversi lavoratori coinvolti, compresi gli architetti. Certo lo scenario attuale sembra quasi imparagonabile con quello in cui la Olivetti costruiva i suoi spazi del lavoro: se allora tutto poteva convergere, oggi il sistema si presenta sincopato. La frammentazione e la segmentazione del lavoro pongono appunto il problema dell’assenza di una funzione chiara, statica, facilmente quantificabile, misurabile. Tale problema può essere risolto attraverso la messa in valore della disponibilità dello spazio, la ricerca di condizioni flessibili, il ritorno ad una convivenza con le altre attività; ma non si può per questo prescindere dal progetto e dal suo essere progetto sociale cercato dalla committenza e condiviso e gestito dai progettisti. Il destino puramente commerciale che è stato costruito negli ultimi decenni per lo spazio della casa dovrebbe rappresentare l’esempio da evitare, l’errore in cui non incorrere, facendo appello al primo articolo della nostra costituzione che non parla solo di un’attività, di un luogo, ma del lavoro quale fondamento di una società. SARA MARINI

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LUOGHI DI LAVORO, PAESAGGI DEL XX SECOLO 1

Luigi Latini 1 Ulla Bodorff, giardino La fabbrica di cemento, Stora Vika a Nynäshamn, Svezia («Il Giardino Fiorito», n. 10, 1951)


GIARDINI DI FABBRICA Tra le carte e i volumi che popolano l’archivio di Pietro Porcinai a Fiesole, una striscia di carta fuoriesce da un libro con la scritta «giardini di fabbrica». Il volume dal titolo Olivetti 19081958 (Ivrea 1958), edito in occasione dei cinquant’anni dell’avventura olivettiana, si presenta in questo luogo come richiamo a un capitolo avventuroso e inedito del paesaggio italiano del Novecento, quello di un landscape architect nato sulla collina fiorentina, “inventore” di un mestiere allora inedito in terra italiana, che matura nell’arco della sua vicenda professionale autorità e carisma presso molte delle grandi famiglie industriali italiane. Famiglie, e cioè figure appartenenti a una committenza lungimirante che riconosce anche nella sfera del giardino e del paesaggio l’espressione di un’ambizione culturale e di una visione sociale aperta. Porcinai si presenta con un bagaglio di conoscenza tecnica e finezza intuitiva che riversa nell’intero campo di azione di tali “famiglie”: dall’allestimento di un matrimonio (si pensi all’ingente lavoro svolto per le famiglie PiaggioAgnelli a Varramista nel 1959) al progetto di giardini per le residenze, fino alle fabbriche e ai luoghi di lavoro, o di svago in genere. Vale la pena ricordare a questo proposito, in Veneto, il ruolo esercitato dai coniugi Brion, Rina specialmente, per i quali Porcinai progetta paesaggi che accompagnano l’intero ciclo della loro esistenza: le case (in particolare il giardino ligure di San Michele di Pagana), il luogo di lavoro (la fabbrica Brionvega di Caselle d’Asolo, con Marco Zanuso), sino all’ultima, ambiziosissima dimora e cioè il recinto funebre di San Vito di Altivole nel quale Porcinai presta la sua collaborazione nel campo botanico1. Ci sono aspetti singolari in questa vicenda, che travalicano il binomio apparentemente banale che accomuna la figura del committente industriale perennemente alla ricerca di scenari di pura rappresentanza e del giardiniere di talento, ma entrano – negli anni del cosiddetto boom economico, nel vivo di questioni che riguardano la reale qualità dei luoghi di lavoro: progetti che sono espressione di un luogo specifico, di un’idea di adesione tra l’uomo e le forme di un paesaggio che accompagna il tempo del proprio lavoro, esplorazioni di una reale misura ecologica imprescindibile da quella estetica, rapporto paritetico con l’architettura, valutazione economica dei progetti che non perde mai di vista il ruolo del tempo e delle cure manutentive.

Tutto questo avviene sulla scorta di un doppio registro che caratterizza il lavoro di Porcinai segnato da un’istruttiva chiarezza di ruoli e di missioni: altissima preparazione tecnica e convincente padronanza nel campo botanico, fine curiosità intellettuale che, fin dagli esordi, gli consente di portare il suo contributo tecnico sul piano dei contenuti e dei principi progettuali essenziali2. Questa curiosità si nutre del suo costante desiderio di andar lontano, carpire i temi e le figure che rappresentano la professione e la “missione” sociale del paesaggismo nel campo internazionale, soprattutto, in questo caso, la familiarità con il mondo scandinavo, nel quale la ricca produzione di progetti di paesaggio che accompagna la migliore stagione del sistema politico socialdemocratico non manca di addentrarsi nel mondo dei complessi industriali: dalla fabbrica Marabou (1937-1945), a Sundbyberg (Svezia) dove Sven Hermelin costruisce un paesaggio di grande finezza, aperto anche a finalità didattiche, fino al caso danese di Herning dove C.Th. Sørensen coniuga in un unico progetto di paesaggio, negli anni Sessanta, il disegno della fabbrica, dei giardini e quello degli spazi per una grande collezione d’arte3. Da questa incessante attività di aggiornamento e autopromozione, Porcinai matura una posizione di riferimento sia nel mondo degli architetti che in quello della committenza proveniente dal mondo industriale, un mondo che sembra voglia riconoscere anche nelle forme del paesaggio il veicolo espressivo di un processo di rinnovamento anziché il fondale scenico estraneo se non addirittura l’ostacolo all’attuazione di un disegno innovativo. Ecco che, già all’inizio degli anni Cinquanta, Pietro Porcinai e Luigi Cosenza, due figure di orientamento molto diverso, maturano a Pozzuoli un’appassionata discussione comune come quella, ad esempio, di trovare sotto il sole spietato del golfo flegreo un punto di incontro tra architettura, microclima e vegetazione che converge su un obiettivo che travalica la sola qualità estetica del progetto ma guarda alla dignità degli spazi di lavoro delle officine Olivetti. La discussione, in questo caso, emersa tra i due a proposito di guardare al “pioppo con la vite a festoni” del paesaggio campano come punto di partenza per inventare modalità ottimali di schermatura delle pareti vetrate delle officine e condizioni di lavoro in armonia con l’ambiente progettato, esprime il senso di un lavoro orientato alla visione di una fabbrica che si è «elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno (…) concepita nella misura dell’uomo perché

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RIGENERARE PAESAGGI IN DECLINO: PROGETTI, RISORSE E STRATEGIE PER TORNARE A CRESCERE. IL CASO DI NAPOLI EST 1

Michelangelo Russo 1 Napoli, Ambito 43 del Prg, ex Magazzini di approvvigionamento ferroviario, veduta degli spazi aperti centrali. Foto: A. Formisano


Il ruolo del paesaggio nel trattamento delle aree urbane in declino si afferma come criterio guida e come materiale strategico per progetti mirati a recuperare tracce di identità di intere parti di città che hanno perso il loro uso originario, e devono ridefinire il loro ruolo nel contesto urbano e metropolitano. Il recupero del paesaggio nelle politiche di riqualificazione dei territori post-industriali rappresenta una pratica diffusa e sperimentata1: tuttavia l’ipotesi che si vuole qui sostenere è che il paesaggio – come termine ampio e comprensivo che include i significati di landscape e di environment2 – rappresenta un riferimento essenziale per concepire la trasformazione di un’area urbana, in un’accezione sempre site specific, anche quando il contesto non sia connotato da specificità paesaggistiche. Il paesaggio, cioè, configura quei caratteri strutturali della trasformazione urbana, talvolta latenti, che riguardano la storia di un sito e possono essere colti dalla capacità di leggerne le stratificazioni e la provenienza, ma anche di immaginarne il futuro, i suoi assetti potenziali ed il ruolo che l’area, rinnovata, giocherà a partire dalla sua specifica posizione nel sistema delle reti e delle connessioni territoriali. RIGENERAZIONE: UNA PRATICA MULTIDIMENSIONALE ED INCLUSIVA Per argomentare questa ipotesi è utile partire da una duplice considerazione. La prima è che l’uso del paesaggio come materiale di progetto moltiplica le sue valenze in una interpretazione della trasformazione urbana come regeneration piuttosto che renewal. La “rigenerazione del territorio” riguarda un insieme di pratiche connaturate allo sviluppo e alla crescita di una comunità che interviene sulla forma del suo ambiente insediativo, ed è orientata a ridefinire quegli aspetti immateriali che attengono alla forma delle relazioni sociali, agli aspetti culturali ed ambientali della trasformazione urbana. La rigenerazione non coincide solo con la riqualificazione fisica della città, ma riguarda uno spettro molto più ampio di effetti sullo spazio fisico e sociale: la crescita economica e l’offerta di lavoro e di occupazione, la mobilità e la mixité sociale degli abitanti, la produzione di cultura e l’affermazione dell’immagine territoriale, i valori ambientali e della sostenibilità, l’identità territoriale locale nei processi dello sviluppo. Il termine “rigenerazione”3 indica le possibili forme di azione volte ad attivare4 risorse locali, anche in ambito urbano, attraverso processi che legano ine-

vitabilmente le trasformazioni fisiche con la crescita sociale ed economica di un territorio. Si tratta di un modello di intervento sulla città in cui l’integrazione tra gli aspetti sociali, culturali, economici, ambientali, e gli aspetti fisici e quantitativi dello spazio urbano, misura l’efficacia di una politica o di un progetto, rendendo il concetto di rigenerazione dinamico e legato alla capacità di elaborazione di una vision strategica come idea guida e percorso metodologico per trasformare la città. La seconda considerazione riguarda il tema della crescita, nelle condizioni attuali. Il territorio, la sua trasformazione, la realizzazione di nuove infrastrutture e di azioni più complessive di riconversione urbana, rappresenta il settore d’intervento trainante a cui, nei periodi storici di crisi più profonda, le economie nazionali hanno fatto ricorso per far fronte al declino economico e produttivo: cioè per “tornare a crescere”. Nei periodi più difficili di recessione e di crisi economica e sociale si è tradizionalmente fatto ricorso a politiche espansive del territorio, attraverso la costruzione di grandi opere, come avvenne nelle politiche keynesiane del new deal successive alla grande depressione del ‘29, o nella ricostruzione post-bellica in Italia, in cui l’industria delle costruzioni ha trainato lo sviluppo economico e sociale degli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi ci sono segnali, alla scala nazionale come a quella sovranazionale, di una ripresa di attenzione per le politiche territoriali, mirate alla sua trasformazione e al suo sviluppo5. In quei precedenti, il territorio è stato tradizionalmente oggetto di un’attenzione legata prevalentemente ad una dimensione quantitativa dello sviluppo: questo approccio, poco sensibile ai valori del patrimonio territoriale come “bene comune”, ha condotto alla depauperazione dei suoi caratteri ambientali, storici, paesaggistici, insediativi, come ad esempio nel boom edilizio in Italia degli anni Sessanta. Questi due aspetti, la trasformazione territoriale in chiave di rigenerazione e l’esigenza di tornare a crescere con modalità sostenibili e progressive per i valori del territorio, sono lo sfondo per affermare l’attualità di una concezione del paesaggio come principio guida, struttura del progetto contemporaneo. Il territorio contemporaneo non ha la resilienza per sopportare gli errori del passato. La città contemporanea mostra sempre più l’urgenza di occuparsi degli spazi-residuo delle civiltà industriali e fordiste, e delle politiche settoriali che hanno disgregato l’unità tipologica e funzionale generando gli spazi disarticolati delle città che viviamo. È un territorio che ha biso-

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C’È UN NORD EST OLTRE IL MITO? 1

Francesco Gastaldi 1 Edificio a funzione abitativa nel villaggio artigiano di Modena (progettista Vinicio Vecchi). Foto: Andrea Costa


A scatenare il dibattito nell’estate 2011 è stata la dichiarazione fatta a Padova (alla presentazione del rapporto annuale realizzato dalla Fondazione Nord Est) dall’ex premier Romano Prodi che ha affermato: «Il Nord Est non è più un fenomeno, tutti i miti calano. Trent’anni fa inseguivamo il modello dell’Emilia Romagna, quindi è stata la volta di quello del Veneto. Oggi siamo tutti sulla stessa barca. Qui c’è un problema di cultura d’impresa familiare che è drammatico, siamo in una continua situazione di fibrillazione delle aziende. Serve incoraggiare, anche in modo fiscale, le aggregazioni, perché altrimenti così in giro per il mondo non ci andiamo più […] Se il Nord Est vuole tornare ad avere un peso, deve puntare sull’internazionalizzazione e sull’aggregazione delle piccole imprese, anche se forse tutto ciò non servirà a far rinascere il mito, quello ormai è tramontato»1. La netta presa di posizione dell’ex presidente del Consiglio ha suscitato una serie di reazioni a catena con due fronti contrapposti che sono intervenuti sui principali quotidiani locali nei giorni successivi: coloro che, sostanzialmente, hanno sposato l’analisi di Romano Prodi e coloro che invece hanno teso a sottolineare come l’area sia ancora lontana dal declino e sia prematuro stilare un de profundis. Secondo questi ultimi andrebbe rilevato, più prudentemente, il fatto che il dinamismo dei sistemi locali non è esaurito (specie in alcuni comparti quali alimentare, arredo casa, abbigliamento, automazione industriale) e che la sfida che li attende oggi è quella di soddisfare l’esigenza di una sempre maggiore specializzazione, sebbene, al contempo, sia necessario mantenere una versatilità aperta a nuovi settori e nicchie di mercato. Nell’ambito del dibattito che si è sviluppato2, le due fazioni sono apparse però concordi sulla necessità di valutare con attenzione le condizioni indispensabili affinché il modello produttivo del Nord Est possa ancora fare da traino all’economia italiana. L’ex presidente della regione Veneto, Giancarlo Galan, si è spinto ad evidenziare un «problema nord»3 riprendendo un tema che per tutti i primi anni Duemila è stato fortemente dibattuto intorno alla «questione settentrionale»4. Tutti gli osservatori (critici e non) riconoscono come la produzione del Nord Est sia ancora una parte quantitativamente, e più ancora strategicamente importante del sistema produttivo italiano: quest’area realizza articoli di consumo durevoli nei settori dell’abbigliamento, della lavorazione del legno, delle pelli e del cuoio e beni strumentali per questi articoli; senza

dimenticare il ruolo del settore meccanico. Infatti, in molti casi, nei distretti, vengono fabbricati i macchinari per la lavorazione e il trattamento di altri prodotti (macchine tessili, per il legno, per il cuoio, per l’imballaggio). Se poi andiamo a vedere chi produce il saldo attivo ancora esistente, vediamo che lo creano soprattutto i distretti, non certo “imprese senza territori”. In alcuni distretti le specializzazioni tradizionali si abbinano o a settori complementari o strumentali, a nuovi settori particolarmente innovativi nel campo dei servizi alle imprese e della commercializzazione dei prodotti. Naturalmente, non tutti i distretti vanno bene, alcuni hanno reagito positivamente perché si sono internazionalizzati (es. meccanica). Un fenomeno rilevante è certamente l’affermazione di “medie imprese” leader dentro i distretti, che hanno avuto un effetto trainante. Ci sono però produzioni più in difficoltà, si pensi al tessile, all’oreficeria, a molti distretti dell’abbigliamento e delle calzature. Bisogna tenere in ogni caso presente che, nel complesso, i distretti restano il motore principale che tiene in piedi la bilancia commerciale costituendo oltre il 70% della occupazione manifatturiera. Oggi le aree produttive e distrettuali di più antica formazione hanno subito processi di parziale dismissione o rilocalizzazione. Le imprese che non attraversano segnali di grave crisi, spesso già internazionalizzate e con una dimensione aziendale consistente, hanno scelto di trasferire la produzione all’estero, sperando in vantaggi sotto l’aspetto dell’ambiente fiscale e amministrativo, infatti molti imprenditori si sentono abbandonati dallo Stato italiano e lamentano la mancanza di riforme strutturali. Sebbene sia indubbio che la crisi economica abbia investito le imprese impreparate al dialogo con l’estero e chi non ha attuato processi di innovazione, questa ha anche promosso nuove nicchie e alleanze tra imprese che fanno massa critica. L’EREDITA DEL DINAMISMO IMPRENDITORIALE E DEL “DISORDINE PUBBLICO” Lo sviluppo economico del Nord Est è sorto in forma spontanea, senza interventi di sostegno svolti da azioni di politica economica nazionale o dal ruolo di enti locali e senza un’esplicita politica di sviluppo; nessun economista era stato in grado di prevedere le grandi e durature potenzialità delle risorse territoriali presenti5. Il successo delle aree caratterizzate da queste forme di organizzazione socio-economica è stato inaspet-

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DOPO LA CRISI, QUALE MODELLO TERRITORIALE? 1

Michelangelo Savino 1 Dolo, Venezia


BODY OF EVIDENCE Che il territorio fosse uno dei vantaggi competitivi del modello di sviluppo del Nord Est era evidente e che questo fattore ponesse dei problemi di efficienza e di costi crescenti era segnalato già ai tempi della crisi del ‘92. Non è il caso in questa sede di riprendere gli aspetti che varie discipline hanno a lungo esplorato1 dimostrando come il territorio2 abbia rappresentato qualcosa di più di un contesto favorevole allo sviluppo della piccola e media impresa. La letteratura sui distretti ha sufficientemente sottolineato natura, potenzialità e limiti di queste relazioni, ne ha registrato l’epopea, l’apogeo come il progressivo declino. E se spesso alla voce degli imprenditori (sempre pronti a minacciare una hirschmanniana exit dal territorio) non si è voluto dare credito (anche per il loro facile cedere alle malie della politica e alle sue false promesse), non sono stati certo incunaboli accademici (di difficile reperibilità o di ardua comprensione) tantomeno astrusi rapporti di fondazioni e di centri di ricerca a segnalarlo, bensì documenti ufficiali e puntuali della Regione (ma non solo in Veneto), relazioni ben fondate del Ministero che nel corso degli ultimi due decenni hanno delineato con estrema chiarezza le difficoltà del sistema Nord Est, le misure da prendere e gli investimenti necessari. Era noto quali ritardi ci fossero da parte delle istituzioni nel provvedere con tempestività e con cospicui finanziamenti pubblici ai problemi del sistema, per quanto ad una “lettura globale” delle problematiche si siano spesso preferite disposizioni normative, provvedimenti economici, opere pubbliche “molto locali”. Insorgenti distorsioni del mercato del lavoro, distribuzione subottimale delle unità produttive, crescenti defaillances delle tradizionali relazioni di conto-terzismo e sub-fornitura, scarsa innovazione tecnologica, bassa propensione alla R&S, difficoltà del ricambio generazionale erano lamentate da più parti, ma nessuna azione correttiva delle disfunzioni che la macchina “territorio” mostrava è stata concretamente intrapresa: il sistema del Nord Est mostrava di essersi adagiato su se stesso, di aver perso il suo slancio e la sua vitalità, per vivere di una supposta rendita conquistata con l’ingente sforzo dei decenni precedenti. Ma anche il territorio denunciava le sue prime difficoltà: i primi costi ambientali dovuti agli insediamenti produttivi disseminati con problemi di smaltimento dei residui industriali spesso risolti in modo illegale e non appropriato; l’incremen-

to dei costi del trasporto e la congestione, l’inadeguatezza della rete stradale e il generale deficit infrastrutturale regionale, l’assenza di servizi ed attrezzature di eccellenza, le disfunzioni di un processo di urbanizzazione non debitamente controllato e qualche intralcio nel regolare andamento del mercato immobiliare. Ma quale è stata la riposta a queste evidenti tensioni? La crisi del territorio del Nord Est, ancor prima che la crisi economica che attanaglia la sua società, ha quindi origini lontane, ma documentabili, mostra omissioni e colpevoli mancanze, ha responsabili e correi. Ma soprattutto ha ancora soluzioni percorribili e opportunità per tornare ad essere un fattore competitivo dello sviluppo, ma solo se ci saranno rigore e vigore nell’attuazione di una consapevole e condivisa regolazione dell’organizzazione del territorio. MALFUNCTIONING Vittima del suo successo, dunque, il territorio regionale ha fatto registrare più di un decennio fa i segni di un cattivo funzionamento. I rapporti statistici regionali puntualmente indicano come traffico privato e traffico commerciale-industriale non riescono più a convivere come agli albori dello sviluppo su un sistema infrastrutturale debole, la cui capillarità nel territorio (una delle condizioni favorevoli allo sviluppo produttivo diffuso) diventa un fattore di limite per l’impossibilità di un suo generale ed omogeneo potenziamento come per l’impossibilità di distinguere e privilegiare le modalità di uso, in un sistema insediativo in cui impresa e residenza si confondono. L’«incrementalismo infrastrutturale» diventa uno dei fattori di ritardo del Nord Est rispetto ad altri contesti europei più competitivi. La rete ferroviaria (che del sistema strategico disegnato dopo la prima guerra mondiale ha registrato dismissioni, contrazioni e tagli) appare inadeguata e insufficiente (e non sarà la promessa AV a rispondere alle esigenze del sistema produttivo) e per la logistica si registrano scarsi interventi, per lo più “di rimbalzo” per le politiche attuate nei paesi confinanti, mentre porti ed aeroporti vengono potenziati in chiave prevalentemente turistica. Se è vero che la miopia regionale si allinea alla scarsa lungimiranza nazionale nel campo degli investimenti infrastrutturali, è anche vero che il Nord Est perde in questa occasione l’opportunità di diventare un attore dirompente nel modesto dibattito nazionale sullo sviluppo3: invece di farsi promotore di

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SCENARI E TERRITORI PER UN NUOVO SVILUPPO DEL NORD EST

Giancarlo Corò


L’EVOLUZIONE DELL’ECONOMIA DEL NORD EST: TRE CHIAVI DI LETTURA La lunga crisi che l’economia italiana sta attraversando non è causata solo dalla recessione mondiale del 2008, ma anche da processi di ristrutturazione industriale e riposizionamento competitivo che hanno preso avvio almeno dieci anni prima. Tali processi hanno investito direttamente l’area del Nord Est, che più di altre regioni del Paese si è trovata esposta alla crisi finanziaria in un difficile momento di cambiamento. Questo articolo si propone di analizzare i processi di aggiustamento strutturale che stanno investendo l’economia del Nord Est, osservando in particolare i movimenti che stanno avvenendo su alcune promettenti frontiere dell’innovazione. Per sviluppare questa analisi è tuttavia necessario esplicitare tre chiavi di lettura. La prima, a cui abbiamo appena fatto cenno, è che già nel corso degli anni Novanta comincia ad incrinarsi l’equilibrio competitivo che aveva consentito all’economia del Nord Est di crescere e affermarsi come una delle aree industriali di maggior successo in Europa. L’emergere di nuove condizioni tecnologiche (in particolare con la diffusione dell’Ict e il ruolo sempre più incisivo delle conoscenze scientifiche nella produzione di beni e servizi), geo-economiche (con la rapida crescita dell’Asia, dell’America Latina e dell’Europa Centro-Orientale nella produzione industriale e nell’attrazione di investimenti) e monetarie (con l’affermazione del regime macro-economico dell’euro), costringe le imprese ad avviare importanti processi di ristrutturazione e spinge l’economia locale a cercare nuove strade di sviluppo. La seconda ipotesi è che, in quanto espressione di un capitalismo imprenditoriale, l’economia del Nord Est non è affatto rimasta ferma di fronte alle sfide competitive, ma ha reagito con determinazione alla ricerca di nuovi percorsi di sviluppo. Con l’espressione “capitalismo imprenditoriale” si intende un modello sociale di produzione basato su una pluralità di agenti economici che operano in mercati aperti, i quali effettuano continuamente investimenti a rischio su nuovi prodotti, nuovi servizi e nuovi processi di creazione del valore1. Diversamente da altri modelli economici – che possono vedere un ruolo più attivo dello Stato nell’economia, oppure avere una struttura oligopolistica dei mercati e una funzione centrale delle grandi imprese – il capitalismo imprenditoriale è un sistema economico meno organizzato, ma proprio per questo più aperto alle

sperimentazioni. Perciò, molto più predisposto ad introdurre innovazioni di tipo incrementale e, in alcuni casi, anche radicale. I cambiamenti continui in cui vive e prospera il capitalismo imprenditoriale pongono ovviamente seri problemi all’indagine economica, che corre il pericolo di bloccare la rappresentazione della realtà entro vecchi schemi di analisi, che si rivelano spesso inadeguati a cogliere i fenomeni emergenti. I percorsi di adattamento e di esplorazione innovativa che l’economia del Nord Est e più in generale del nostro paese ha intrapreso a partire dalla seconda metà degli anni Novanta non hanno ancora portato ad un assestamento definitivo. In ogni caso, nel guardare a come il capitalismo imprenditoriale può superare la crisi in corso bisogna evitare di compiere due errori. Il primo è di confonderlo con un sistema atomistico di piccole imprese in competizione fra loro, privo di istituzioni e di imprese di maggiori dimensioni che, per loro natura, tendono a costruire regole di stabilità e ad allungare l’orizzonte di ritorno degli investimenti. In realtà, per funzionare il capitalismo imprenditoriale presuppone una forte complementarità fra piccola impresa, media impresa (non più assimilabile alla grande, come si è spesso fatto in passato) e grandi gruppi, ma anche fra mercato e istituzioni, richiedendo un insieme di regole in grado di ridurre i costi di transazione e assicurare quelle dotazioni di beni collettivi e capitale fisso sociale che il mercato, da solo, non è in grado di produrre in modo efficiente. Il secondo errore da evitare è pensare che l’esplorazione imprenditoriale porterà, dopo una dura selezione competitiva, ad individuare un unico modello di sviluppo. Una one best way, se mai c’è stata, non è la soluzione che ha senso cercare per uscire dalla crisi (Rullani 2009; Stiglitz 2009). Né, del resto, è una strada unica che si intravede nella realtà e nei progetti di innovazione dell’economia del Nord Est. La terza ipotesi della ricerca è proprio questa: il capitalismo imprenditoriale che anima l’economia e la società del Nord Est sta da tempo esplorando diversi percorsi di innovazione, che non sono affatto fra loro alternativi, quanto molto spesso integrativi. Quelli che hanno assunto o cominciano ad assumere contorni più definiti sono i seguenti: più qualità, differenziazione e significati complessi nei prodotti manifatturieri, che si manifestano, in particolare, nello sviluppo di una “industria su misura” e del “lusso accessibile”, nella riscoperta dell’autenticità e della creatività artigiana, nella valorizzazione dei prodotti agro-alimentari tipici, nel valore di esperienza dell’ospi-

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