QUODLIBET STUDIO CITTÀ E PAESAGGIO
SPAZI DEL WELFARE ESPERIENZE LUOGHI PRATICHE
OFFICINA WELFARE SPACE Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi, con Cristina Renzoni, Michela Pace
QUODLIBET
CITTÀ E PAESAGGIO SPAZI DEL WELFARE prima edizione dicembre 2011 ISBN 978-88-7462-384-6 Š 2011 Quodlibet srl via Santa Maria della Porta, 43 Macerata www.quodlibet.it
fotografie Michela Pace, dove non diversamente specificato progetto grafico Franco Nicole Scitte impaginazione Emilio Antinori stampa Biemmegraf s.r.l., Macerata
INDICE
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Presentazione Gianfranco Bettin
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Welfare condiviso: il caso ETAM
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Microstorie: interviste agli abitanti di via Piave
Introduzione Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi
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III. L’urbanistica e le nuove politiche sociali e del servizi Oltre gli strandard, fra qualità urbana e sociale Ruben Baiocco
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Riferimenti bibliografici
TEMI E QUESTIONI 14
Tra welfare state e welfare space Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi
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Riferimenti bibliografici
ESPLORAZIONI PROGETTUALI
PERCORSI DI INDAGINE 40
Note su una ricerca Cristina Renzoni
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I. Al di là del social housing. Biografia di un’infrastruttura collettiva: Parco della Bissuola, Mestre Cristina Renzoni
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Sequenze
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Racconti fotografici
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II. Pedinamenti: l’area politiche sociali del Comune di Venezia Michela Pace, Cristina Renzoni
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Per un nuovo welfare landscape a Nord-Est Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi
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Schede: Cadoneghe/Padova/ Vittorio Veneto 1 e 2/Mestre
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Postfazione Bernardo Secchi
TRA WELFARE STATE E WELFARE SPACE Stefano Munarin, Maria Chiara Tosi
TEMI E QUESTIONI
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1 St John's Park, Isle of Dogs, Londra 2 Southbank, Londra
PAROLE L’idea di welfare state ha subìto in questi anni una profonda erosione: non solo le politiche ad essa associate, ma anche la parola oggi sembra inutilizzabile, impresentabile. Sinonimo di spreco e clientelismo, ritenuta colpevole di indebolire non solo le casse dello Stato, ma addirittura la personalità di chi ne percepisce i servizi, negli anni passati si è provato ad “addolcirla” associandola a termini come “terzo settore”, “volontariato”, “federalismo”, ecc., oppure, per poterne parlare, autori come Zygmunt Bauman (Bauman 2011, 34), sperando di spostare l’accento «dalla distribuzione di benefici materiali alle sue motivazioni e finalità condivise» preferiscono usare il termine Stato sociale (Ritter 1996). Come ci ricorda bene Tony Judt oggi il valore sociale delle politiche di welfare è uno dei grandi temi rimossi del ‘900, tanto che «nel corso dell’ultimo terzo del (XX) secolo […] è diventato sempre più comune considerare lo Stato non come il naturale garante dei bisogni primari, ma come una fonte di inefficienza economica e di intrusione sociale […] questa svalutazione dello Stato è diventata una norma nei discorsi pubblici (e) di conseguenza, quando oggi si parla di “riforma” economica o della necessità di rendere più “efficienti” i servizi sociali, di fatto si afferma che bisogna ridurre la partecipazione dello Stato». La riflessione di Judt continua riconoscendo come nelle società occidentali le imposte fiscali siano aumentate costantemente dal tardo Settecento agli anni Settanta del ventesimo secolo mentre da allora abbiano cominciato ad abbassarsi, riducendo di conseguenza il raggio di azione dello Stato: «si può discutere se questa sia una cosa buona o cattiva, e per chi, è invece incontestabile che non sempre è stato assiomatico che lo Stato fosse un male per il cittadino; fino a poco tempo fa, molta gente […] credeva il contrario». Anche perché lo Stato sociale è nato da un consenso trasversale e nella maggior parte dei casi è stato reso effettivo da liberali o conservatori, tanto da poter affermare che «i provvedimenti statali sui servizi sanitari universali, le pensioni, i sussidi di disoccupazione e di infermità, l’istruzione gratuita, il trasporto pubblico sovvenzionato e gli altri prerequisiti di uno stabile ordine civile, non rappresentavano la prima fase del socialismo del Novecento, ma il culmine del liberalismo riformista» e gli Stati assistenziali “socialisti” del ventesimo secolo non sono stati creati come avanguardia di una rivoluzione egualitaria, ma come una sorta di barriera contro il ritorno del passato: «gli Stati assisten-
ziali erano Stati preventivi», ideati per soddisfare il desiderio generalizzato di sicurezza e stabilità. Stati che hanno cercato di «garantire una qualità della vita capace di prevenire l’avvento di nuove derive totalitarie fasciste […] un programma di governo niente male […] che non mi pare si possa buttare tranquillamente dalla finestra». Il fatto è, continua ancora Judt, che «grazie a mezzo secolo di prosperità e sicurezza, in Occidente abbiamo dimenticato i traumi politici e sociali dell’insicurezza di massa e, di conseguenza, non ricordiamo per quale motivo abbiamo ereditato questi Stati sociali e cosa portò alla loro creazione». Ritrovandoci nella paradossale situazione per cui «il successo dell’economia mista degli Stati sociali […] ha portato una più giovane generazione politica a dare per scontata quella stessa stabilità […] e a richiedere l’eliminazione dell’”impedimento” rappresentato da uno Stato che tassa i cittadini, li disciplina e, più generalmente, interferisce con le loro vite». In questa condizione, se diventa importante domandarsi «se le disposizioni e i provvedimenti sociali erano realmente un ostacolo per il “progresso” e il “rendimento” e non forse la condizione che li ha facilitati» ciò che più preoccupa invece è riconoscere «fino a che punto abbiamo perso la capacità di concepire una politica pubblica che trascenda un economicismo limitato, abbiamo dimenticato come si pensa politicamente (e) questo è uno degli strascichi paradossali del ventesimo secolo». Perché ci siamo ritrovati con una sorta di «esaurimento delle energie politiche […] che ci ha privati di buona parte dell’eredità politica degli ultimi duecento anni… Siamo scettici, se non addirittura sospettosi, rispetto agli obiettivi politici globali […] e così descriviamo i nostri obiettivi collettivi in termini esclusivamente economici – prosperità, crescita, prodotto interno lordo, efficienza, produttività, tassi d’interesse e rendimento dei mercati azionari – come se non fossero solo mezzi per raggiungere un fine politico o sociale collettivo, ma fini necessari e sufficienti in sé». Concludendo questa parte della sua riflessione Tony Judt sottolinea che «questo è solo come sono le cose adesso. Non sono state sempre così, e non ci sono valide ragioni per supporre che continueranno ad esserlo in futuro. Non soltanto la natura aborrisce il vuoto: quelle democrazie in cui non ci sono opzioni politiche significative, in cui la politica economica è tutto […] o cesseranno di essere democrazie o torneranno ad ospitare la politica» (Judt 2009, 10-14).
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I. AL DI LÁ DEL SOCIAL HOUSING BIOGRAFIA DI UN’INFRASTRUTTURA COLLETTIVA: PARCO DELLA BISSUOLA, MESTRE Cristina Renzoni
PERCORSI DI INDAGINE
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3 Cantiere del parco, lavori di bonifica e movimento terra (ca. 1979-80). Diapositive, ASGA – Archivio Studio Gregotti Associati
AL DI LÀ DEL SOCIAL HOUSING L’espressione «città pubblica» è entrata nell’uso corrente all’incirca nel corso dell’ultimo decennio per indicare quegli interventi pubblici di edilizia sociale che hanno costellato le città e le campagne italiane a partire dai primi anni Venti, passando per i piani poliennali di edilizia economica e popolare del secondo dopoguerra fino agli interventi più recenti. Un ingresso che è segnato dal noto volume curato da Paola Di Biagi sulla grande ricostruzione in occasione del cinquantenario del Piano Fanfani (Di Biagi 2001), cui hanno fatto seguito altri studi che intorno ai quartieri di edilizia abitativa di iniziativa pubblica hanno costruito un nutrito gruppo di ricerca, nonché un filone di indagine che possiamo dire consolidato sulla città italiana del Novecento (Di Biagi, Marchigiani, Marin 2002; Di Biagi 2008; LaboratorioCittàPubblica 2010). Il volume su La grande ricostruzione viene anticipato di alcuni anni da un saggio della stessa curatrice apparso nel 1986 su «Urbanistica», un articolo che costituirà il blueprint per il pezzo introduttivo al volume del 2001. In entrambi i casi nonostante non venga mai proposta una definizione univoca di «città pubblica» (sempre rigorosamente tra virgolette nel primo saggio), si allude ad una sua dimensione molto più ampia e complessa, di cui l’edilizia sociale costituisce soltanto una delle innumerevoli declinazioni (Di Biagi 1986). Se i lavori di ricerca sui quartieri di edilizia abitativa di iniziativa pubblica hanno costituito, nel corso degli ultimi anni, alcuni dei filoni di studio più interessanti sui modi in cui diversi modelli di convivenza e di pratiche abitative hanno costruito parti rilevanti della città contemporanea, allo stesso tempo appare oggi necessario superare una tendenza della ricerca a concentrarsi quasi esclusivamente sulla costruzione di abitazioni di iniziativa pubblica per le fasce più disagiate della popolazione e sul relativo ruolo dello stato sociale nel dare forma alla città attraverso l’addizione di quartieri di edilizia abitativa. Spingere lo sguardo al di là del social housing può oggi significare osservare quel sistema di manufatti, attrezzature, servizi, parchi, giardini e spazi collettivi che rappresenta la parte collettivamente abitabile – la parte più pubblica, in senso lato – della città. A questa «infrastruttura dell’abitare» concorre un numero molto più vasto e estremamente interessante di infrastrutture collettive: infrastrutture dei servizi (istruzione, sanità, cultura), della mobilità (trasporti pubblici, ferrovie, linee tramviarie, piste ciclabili), ambientali (parchi, giardini, corridoi
ecologici, sistemi di smaltimento e raccolta delle acque) rappresentano quella dotazione di servizi e di attrezzature che ha costituito e continua a costituire il supporto per la vita collettiva, nonché uno degli aspetti caratteristici della città europea del Novecento. Un’ipotesi, questa, che chiede di estendere la riflessione al di fuori dei confini dei quartieri di edilizia sociale alla ricerca di quella rete di beni collettivi che rispondono ad esigenze condivise di benessere. Spostare l’attenzione dalla città pubblica «residenziale» a quella «infrastrutturale» – delle attrezzature e dei servizi, della mobilità e dello spazio aperto collettivo – porta a confrontarsi con logiche periferiche, che hanno spesso radici locali, frammentate, meno in grado forse di fornire un quadro nazionale complessivo, ma che danno l’opportunità di costruire alcune riflessioni sul ruolo dell’azione pubblica (Tissot 2007) – nelle sue innumerevoli accezioni – nell’interpretare domande e bisogni (e quindi risposte e soddisfazioni), nel mettere a punto strumenti di dibattito politico e disciplinare, di sperimentare forme di conflitto e negoziazione. Intesa come una prima riflessione di un più ampio percorso di indagine, si propone qui una lettura «biografica» di una dotazione urbana (un parco pubblico) in un contesto urbano specifico (l'area metropolitana veneziana) attraverso una ricostruzione del discorso pubblico intorno alla sua localizzazione e realizzazione, degli iter procedurali, dei progetti e delle trasformazioni che lo hanno coinvolto negli anni della sua elaborazione politica e progettuale. UNANIMITÀ Lunedì 5 febbraio 1979 il Consiglio Comunale di Venezia approva all’unanimità il «Progetto generale del parco pubblico ed attrezzature sportive in località Bissuola - Mestre»1. Nel corso della seduta consiliare vengono espresse alcune perplessità: lo stato idrogeologico del terreno e la necessità di ulteriori verifiche, un iter procedurale che viene definito «un po’ affrettato», la necessità di alcune revisioni dei prezzi giudicati troppo esosi. Ma quella che prevale, di fondo, da parte di tutti i colori politici, è una sostanziale unanimità intorno alla sua realizzazione. Il Consigliere Rivi [D.C.] osserva che […] occorre una corretta interpretazione dell’uso di questo spazio che al proprio interno deve consentire lo svolgimento di numerose attività in modo da diventare un luogo di vita e di incontro sul quale la città si affaccia.
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PERCORSI DI INDAGINE
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28 1,5kmx1,5km: carte tematiche
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LAVORO DI STRADA, INTERVENTI A BASSA SOGLIA / RIDUZIONE DEL DANNO