Atelier 2.
AccessibilitĂ come cittadinanza Coordina: Roberto Bobbio Discussant: Giovanni Laino
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Crediti
Comitato scientifico della XV Conferenza Nazionale SIU: Alessandro Balducci (Segretario SIU), Massimo Angrilli (Responsabile), Alberto Clementi, Roberto Bobbio, Daniela De Leo, Luca Gaeta (Tesoriere), Elena Marchigiani, Daniela Poli, Michelangelo Russo, Maurizio Tira Segreteria organizzativa della XV Conferenza Nazionale SIU: Massimo Angrilli (Coordinamento), Cesare Corfone, Antonella de Candia, Claudia Di Girolamo, Federico Di Lallo, Fabio Mancini, Mario Morrica, Patriza Toscano, Ester Zazzero (Mostra Piani di ricostruzione), Luciano Di Falco (Assistenza tecnica) La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è il risultato di tutti i papers accettati alla conferenza. Solo gli autori regolarmente iscritti alla conferenza sono stati inseriti nella presente pubblicazione. La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è stata curata dalla redazione di Planum. The Journal of Urbanism: Giulia Fini e Salvatore Caschetto con Marina Reissner Progetto grafico: Roberto Ricci Segreteria tecnica SIU: Giulia Amadasi, DiAP - Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano L’immagine della copertina della pubblicazione e delle copertine dei singoli Atelier sono tratte da opere di Francesco Millo ©. Francesco Camillo Giorgino in arte Millo nasce a Mesagne (BR) nel 1979. Consegue la Laurea in Architettura e parallelamente porta avanti una personale ricerca estetica nel campo della pittura, spaziando dalla micro alla macroscala “rivelando la labilità dell’esistenza umana, sospesa a metà tra ciò che conosciamo e ciò che si nasconde dentro di noi” (Ziguline). Riceve diversi premi e riconoscimenti in ambito nazionale, fra cui il prestigioso “Premio Celeste” nel 2011.
Abstract Nella società composita l’urbanistica che si sforza di individuare i nuovi bisogni rischia di fornire risposte settoriali, sancendo la suddivisione dei cittadini per categorie poco permeabili. Un’alternativa è porsi l’obbiettivo di potenziare la capacità degli individui di trovare da sé le risposte, assumendo la fruibilità generalizzata dei beni e delle opportunità che la città offre quale diritto di cittadinanza. Occorre quindi ampliare l’accessibilità dei servizi in relazione alle diverse fasce di età, a coloro che sono svantaggiati (per condizione fisica, sociale, culturale, religiosa, sesso, scelta di vita) ai soggetti (immigrati e non) che aspirano a perseguire un nuovo progetto di vita.
Indice
Atelier 2.
Accessibilità come cittadinanza Coordina: Roberto Bobbio Discussant: Giovanni Laino
Mobilità Addomesticare le Infrastrutture Bruna Vendemmia La conquista del diritto alla cittadinanza: il PIM del 1963 Corinna Nicosia Luoghi accessibili per una città che cambia Natalina Carrà Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale Giuseppe Critelli L’accessibilità in un sistema integrato trasporti-territorio Vincenza Chiarazzo Diritto alla casa “Cittadinanze dimezzate”: il governo dell’immigrazione tra politiche e pratiche Elena Ostanel Verso una prospettiva integrata per l’housing sociale Valeria Lingua Gestire i beni comuni Comunanze urbane e domanda di partecipazione Chiara Belingardi Rispetto delle differenze I. Nuovi abitanti Nuovi abitanti e diritto alla città: compiti (tecnici) e responsabilità (etiche) della disciplina urbanistica Francesco Lo Piccolo Accessibilità come cittadinanza Nausica Pezzoni Nocività e conflitto: il caso bresciano Giovanni Lonati Rispetto delle differenze II. Genere Le politiche urbane di genere come strumento di cittadinanza Maria Sole Benigni
Accessibilità come cittadinanza Introduzione Roberto Bobbio In Italia le politiche urbane fanno ancora in gran parte riferimento agli ipotetici bisogni di una società contraddistinta dal modello familiare mononucleare (un modello, per altro, recente e non corrispondente a più articolati sistemi di relazioni radicati nella tradizione e tuttora vivi in molti milieu) e dall’appartenenza di ogni individuo alla religione cattolica; mentre il progetto di città assume correntemente quale utente tipo il maschio adulto normodotato. La questione del riconoscimento di nuovi bisogni viene per lo più posta in termini di integrazione di immigrati portatori di culture diverse e, in qualche caso e misura, di tolleranza verso nativi con comportamenti atipici. L’Atelier parte dal rifiuto di quest’impostazione del problema dei nuovi bisogni, considerandola incapace di fare fronte alle richiesta di una società che si va imprevedibilmente diversificando e inadeguata rispetto al programma di realizzare una democrazia più avanzata. L’immagine della città multiculturale e multicomportamentale, in cui le minoranze rispettate trovano i loro spazi (e possibilmente, producendo “colore”, alimentano flussi commerciali e turistici, sul modello dei “quartieri etnici” e delle enclave gay delle grandi metropoli) porta alla deriva verso una società frammentata, a scomparti poco permeabili, in cui gli individui rischiano di essere prigionieri di alcune delle loro scelte o della condizione in cui sono nati e cresciuti – l’opposto del programma europeo e occidentale di cittadinanza come libertà, sintetizzato nel motto antico: “Stadtluft macht Frei”. La linea suggerita dall’Atelier è quella di ripensare i compiti dell’urbanistica a partire dal potenziamento delle capacità degli individui di trovare da sé le proprie risposte, ponendo l’accessibilità come primo requisito della città contemporanea. Le esigenze da considerare sono quelle di una popolazione in cui con l’allungarsi delle piramidi della popolazione i bisogni si diversificano per fasce di età; si affacciano nuovi soggetti che prima erano relegati in spazi protettivi ma anche reclusivi o che aspirano a perseguire un nuovo progetto di vita (indipendentemente dal luogo di nascita). Da questo punto di vista, la condizione di immigrato assume rilevanza relativa, mentre ne acquista quella più generale di svantaggiato: per condizione sociale, culturale, religiosa, sesso, scelta di vita. I primi destinatari di una “urbanistica dell’accessibilità” sono, ovviamente, gli anziani e i disabili; ma anche i bambini, che in altri tempi l’urbanistica moderna assunse come parametro di buona progettazione (si pensi al modello di Unità di Vicinato di Clarence Perry), mentre nelle città italiane di oggi sono privati di ogni autonomia. Linea tematica complementare è quella che, anziché considerare le possibilità dell’individuo di accedere ai servizi e fruire delle opportunità che la città offre, considera il livello di fruibilità di determinati beni, pubblici o di interesse generale. Un esempio significativo è quello di beni demaniali come le coste o di altre risorse ambientali primarie, che spesso sono di fatto sottratte all’uso pubblico o rese inaccessibili a molti. Obiettivo dell’Atelier è documentare esperienze di ricerca e, soprattutto, raccogliere esempi di politiche, progetti e buone pratiche che riguardino lo sviluppo di criteri, strumenti e metodi disciplinari per rendere la città accessibile, in un quadro di ridefinizione dei diritti di cittadinanza.
Accessibilità e scala della città.
Accessibilità e scala della città Bruna Vendemmia Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: bruna.vendemmia@gmail.com Tel. 081.19242430
Abstract Questa ricerca analizza gli effetti causati sulle logiche insediative della città contemporanea dalla diffusa infrastrutturazione del territorio, avvenuta a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso. In particolare si ipotizza che la crescita dell’accessibilità abbia modificato la scala della città. Gli effetti di questo fenomeno di re-scaling sono da individuare sia nelle trasformazioni fisiche del territorio che negli stili di vita dei suoi abitanti. Ed infatti assistiamo, da un lato, ad un cambiamento nel processo di urbanizzazione stesso in cui alle dinamiche tipiche della città metropolitana si sostituiscono quelle di un’urbanizzazione regionale multi-scalare, che coinvolge effetti spaziali, economici e sociali (Soja, 2011); dall’altro, al fiorire di traiettorie individuali, che offrono agli abitanti la possibilità di utilizzare il territorio in modo più ampio e creano l’opportunità per una compresenza di diverse popolazioni (Crosta, 2010). Possiamo considerare questa Città Regionale realmente accessibile per tutti i suoi abitanti?
Addomesticare le Infrastrutture “Come tutti noi anche io, ora, non trovavo a mio parere abbastanza veloce, nei suoi bruschi mutamenti, lo straordinario incantesimo grazie al quale bastano pochi istanti perché appaia accanto a noi, invisibile ma presente, l’essere con cui vogliamo parlare e che, restando al suo tavolino, nella città dove abita (per la nonna Parigi), sotto un cielo diverso dal nostro, con un tempo che non è necessariamente lo stesso, in circostanze e impegni che ignoriamo e che quell’essere ci racconterà, si trova di colpo trasportato a centinaia di leghe (lui e tutto l’ambiente in cui resta immerso), vicino al nostro orecchio, nel momento voluto dal nostro capriccio”. (Proust, 1987) Marcel Proust, in uno dei volumi della sua Ricerca pubblicato nel 1920, descrive la rivoluzione apportata dall’invenzione del telefono nella Francia dei primi decenni del Novecento: il telefono trasporta in un colpo persone lontane vicino al nostro orecchio. È questo un modo eccellente per descrivere l’impatto che il processo di infrastrutturazione ha generato nella nostra società: opere rivoluzionarie, progressivamente addomesticate, che divengono azioni della nostra quotidianità.
Crescita urbana e sviluppo infrastrutturale Infatti, ad un’attenta lettura delle trasformazioni del territorio nazionale, a partire dagli inizi del ‘900, risulta evidente che la capacità di trasportare persone e merci, ed i relativi supporti infrastrutturali che hanno reso possibili tali spostamenti, rappresentano uno degli elementi principali di trasformazione delle nostre città, definendone, potremmo dire, l’ossatura. È stato sostenuto da numerosi studiosi che, la soluzione tecnologica data, di volta in volta, ai problemi della mobilità e della circolazione delle cose, delle persone e delle idee è una delle maggiori cause di cambiamento, in epoca moderna, dei territori e delle città occidentali, del loro ruolo, delle loro dimensioni e della loro forma, questi cambiamenti generano, a loro volta, una domanda di mobilità Bruna Vendemmia
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costantemente crescente. Ponti sottolinea che l’attrito, “che per essere vinto richiede energia”, ha reso necessario l’uso, in epoche successive, di tecniche sempre più innovative ed economiche per il trasporto: dapprima l’acqua, poi la rotaia e solo successivamente l’asfalto (Ponti, 2007). La conseguenza di questo susseguirsi di infrastrutture sul territorio è tuttora leggibile nei processi di localizzazione. Queste grandi infrastrutture, in modo particolare le autostrade, localizzate inizialmente in funzione della grande distribuzione, hanno poi subito un processo di addomesticazione operato dagli utenti del territorio, fino a diventare parte della quotidianità dei suoi abitanti. Nel mondo occidentale si considera che attraverso il sistema infrastrutturale vengono distribuiti, in modo quasi omogeneo, servizi essenziali praticamente ad ogni abitante della città o della regione (Graham, 2009). In questo senso, una diffusa rete d’infrastrutture, combinata ad un’elevata accessibilità alla rete stessa, determina un notevole mobilità potenziale, divenendo, in questo modo, “fattore localizzativo che agisce nel tempo sulle polarità e quindi sull’organizzazione del sistema insediativo, predisponendo nuovi assetti” (Pucci, 1996). Possiamo, quindi, considerare che una diffusa accessibilità del territorio, in quanto fattore localizzativo, mette in atto una trasformazione delle logiche insediative della città, e genera due implicazioni fondamentali per il processo di cambiamento: da un lato, infatti, essa permette di superarne i limiti: la città si trasforma da entità che si autocontiene, limitata da chiari confini territoriali ed i cui attori sono facilmente riconoscibili, in un’entità senza confini composta da numerose geografie di organizzazione, influenze e flussi (Amin, 2009), determinando, attraverso questo processo, la formazione di conurbazioni urbane; dall’altro essa favorisce la compresenza di popolazioni differenti nello stesso spazio urbano. Si delinea, quindi, una nuova dimensione della città, che, sebbene geograficamente frammentata e più estesa, viene ricomposta dall’attraversamento da parte dei suoi abitanti, attraverso il processo di addomesticazione delle grandi infrastrutture. È, quindi, possibile affermare che quando un sistema di trasporto può accedere ad un territorio più esteso, utilizzando lo stesso tempo impiegato precedentemente per raggiungere distanze minori, si modificano la scala della città e la dimensione della sua popolazione. Un esempio di questo fenomeno è la crescita della conurbazione napoletana, che si espande lungo le infrastrutture di mobilità a scorrimento veloce, progettate tra gli anni ‘60 e ‘80 del secolo scorso come supporto allo sviluppo industriale ed al collegamento, necessario, tra il Nord ed il Sud del Paese (A1, Asse Mediano ed Asse di Supporto ad esempio). Esse scardinano il sistema multipolare preesistente, costituito da Napoli e dai piccoli centri disseminati nel territorio, e favoriscono l’esplosione di un continuum urbano (Figura 1), permettendo ad una popolazione di circa 3.000.000 di abitanti di abitare lo stesso territorio.
Figura 1. Crescita urbana e sviluppo infrastrutturale a Napoli, 1906, 1956, 2006.
Città regione Parlare di scala della città è un tema quanto mai complesso. Basta considerare che già all’inizio degli anni ‘90, Martinotti esaminando le trasformazioni legate allo sviluppo della Metropoli, osservava che “l’assetto metropolitano non è precisamente definibile sul territorio entro confini spaziali rigidi”, al contrario, “esso deve essere valutato in base a continue variabili, che molto spesso non hanno soglie territoriali facilmente osservabili e non sono sempre distribuite in modo biunivoco con lo spazio fisico”. Se ne deduce, quindi, che “la forma metropolitana non è rappresentabile come una città più grande, ma è una forma di insediamento diffusa sul territorio, dai confini poco percepibili e non facilmente definibili” (Martinotti, 1993, p. 62). È evidente, quindi, che il modello di urbanizzazione metropolitano innesca nuove logiche insediative, che si discostano da quelle tipiche della città tradizionale, circoscritta e chiaramente definita da un punto di vista territoriale; queste logiche Bruna Vendemmia
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sono difficili da individuare, data la natura “liquida” dei confini delle aree in cui agiscono. In questo momento, inoltre, stiamo assistendo ad un’ulteriore rivoluzione nelle dinamiche insediative urbane, che si manifesta attraverso la nascita di Città Regioni. Anche in questo caso non si può affermare che la Città Regione sia un ampliamento della Metropoli, bisogna invece considerarla come un modello di urbanizzazione regionale multiscalare, che coinvolge effetti spaziali, economici e sociali (Soja, 2011); l’aspetto probabilmente più innovativo di questo sistema è la trasformazione del rapporto tra città centrale e periferie. Come precedentemente osservato, infatti, il fenomeno urbano è la sovrapposizione di numerose geografie: flussi di persone, idee, informazione e conoscenza, che si sovrappongono in alcuni punti dello spazio; risulta evidente, quindi, che esso è fortemente connotato dall’attraversamento da parte dei suoi abitanti, che utilizzano le infrastrutture per ricomporre un territorio geograficamente frammentato, e che attraverso le infrastrutture modificano la percezione e la dimensione della città, permettendo di costruire “una topologia che può differire anche radicalmente dalla topografia” (Secchi & Pellegrini, 2010). Attraverso quest’operazione di ridisegno del territorio, che avviene grazie all’incremento della mobilità, si ricompone una geografia di territori plurali, attraversati da popolazioni, anch’esse plurali, che reinventano la dimensione urbana e la scala della città; la centralità non è più una condizione geometrica territoriale ma relazionale e topologica. Di conseguenza viene a mancare la distinzione tipica della Metropoli tra città e periferie. In molte città italiane questo fenomeno può essere registrato attraverso i dati relativi alla mobilità. Si evidenzia, infatti, un cambiamento nelle abitudini legate allo spostamento. In particolare, se osserviamo gli spostamenti che interessano il territorio della Provincia di Milano è importante rilevare che, nonostante l’immaginario consolidato veda la città di Milano come fulcro degli spostamenti di tutta la Provincia, vi sono, da un punto di vista della mobilità, comportamenti molto diversi, tanto da poter definire ben quattro profili di spostamento 1 : a. ambiti di nuova attrattività o con attrattività in crescita; b. ambiti di polarizzazione e con polarità consolidate; c. ambiti autocontenuti; d. ambiti dipendenti (Pucci, 2007). L’abitante della Città Regione milanese si sposta attraverso una concatenazione di movimenti distribuiti su un territorio molto ampio, confermando l’ipotesi che, da un punto di vista della mobilità, la città di Milano non rispetta i suoi confini amministrativi, anzi si evidenzia la crescita di relazioni intercomunali e la definizione, in periferia, di nuove centralità. Ne consegue una nuova modalità di abitare il territorio, simile, a mio avviso, a quella tipica dei popoli nomadi, per i quali lo stile di vita è il carattere distintivo, non potendo essi essere identificati attraverso un’operazione di delimitazione dei confini territoriali. Per questi popoli il proprio territorio non viene definito attraverso una linea che racchiude un area (il confine nella concezione occidentale), al contrario, esso è la traiettoria stessa dello spostamento. Allo stesso modo, il cittadino della Citta Regione utilizza la rete infrastrutturale per raggiungere servizi e punti strategici, spostandosi in un territorio di gran lunga più esteso, di quello a cui egli appartiene da un punto di vista amministrativo, nella Città Regione è il movimento a caratterizzare lo spazio (Ingersoll, 1996). In questo modo ogni individuo o popolazione costruisce un proprio territorio, caratterizzato da confini labili, fatto di traiettorie quotidiane e personali, emerge da queste osservazioni una costituzione dello spazio urbano, materializzato nella sedimentazione di questi percorsi, in cui le trasformazioni fisiche delle spazio abitato progrediscono di pari passo con l’adeguamento dello stile di vita degli abitanti.
Popolazioni e Compresenze In questa situazione frammentata, Martinotti, nel tentativo di collegare le popolazioni al territorio, definisce quattro distinte popolazioni che attraversano ed usano la città: gli abitanti, i pendolari, i city users ed i metropolitan businessmen (Martinotti, 1993, pp. 138-151). Da un punto di vista storico, mentre le cosiddette metropoli di prima generazione erano caratterizzate da fenomeni di pendolarismo chiaramente delineati, in cui i pendolari seguivano modi e tempi dei movimenti ben definiti, successivamente, in quelle che Martinotti definisce metropoli di seconda generazione, crescono gli spostamenti legati al tempo libero, e quindi, ai residenti ed ai pendolari si aggiungono i city users ed i businessmen. I city users utilizzano la città in modo molto intenso e non è semplice individuare i modi ed i tempi dei loro spostamenti, i businessmen, invece, utilizzano la città per lavoro, compiendo in genere spostamenti lunghi e con consumi più qualificati, essi inoltre contribuiscono allo sviluppo economico della città. Recenti studi 2 sulla mobilità, in Italia, hanno evidenziato come negli ultimi anni, e probabilmente come conseguenza della crisi economica, gli spostamenti per lavoro e quelli per il tempo libero siano diminuiti, mentre 1
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I quattro ambiti sono ottenuti considerando l’indice di autocontenimento, l’indice di dipendenza, l’indice di mobilità e quello di gravitazione degli spostamenti (Pucci, 2007). Si fa riferimento al “Rapporto congiunturale di fine anno 2011” elaborato dall’Istituto Superiore di Formazione e Ricerca per i Trasporti.
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si osserva una crescita degli spostamenti legati alla gestione familiare ed ai viaggi per studio. Queste nuove categorie di spostamento, però, ci aiutano anche a riflettere sull’esistenza di altre popolazioni che si aggiungono alle quattro descritte dal Martinotti e che condividono con queste lo stesso territorio. Si delineano, ad esempio, delle popolazioni ibride che nel percorso tra casa e lavoro compiono attività legate alla gestione familiare, aggiungendo un’ulteriore variabile a quelle precedentemente citate; oppure individui che abitano in modo continuativo in una città pur essendo ufficialmente residenti in un’altra. La compresenza di queste popolazioni sullo stesso territorio, che si manifesta in pratiche d’uso allargate e sconfinamenti spazio-temporali, può generare numerosi conflitti. Infatti, se l’espansione delle reti infrastrutturali ha modificato le dinamiche di crescita e relazionali della città, essa ha anche, d’altro canto, implementato l’accessibilità al territorio, moltiplicando le utenze. Una quantità di persone sempre maggiore si è trovata a condividere lo stesso territorio e gli stessi servizi pur restando costretta, da un punto di vista amministrativo, a realtà circoscritte o comunque diverse da quelle di uso abituale. Le dinamiche sopradescritte mettono in discussione le diverse accezioni di cittadinanza, evidenziando che non è più possibile considerare una dimensione giuridica della stessa, ma bisogna ridefinirla attraverso fattori maggiormente legati a ragioni di condivisione di tipo etico, culturale e sociale. Si vuole qui, suggerire una messa in discussione del nesso accessibilità/cittadinanza, considerando che l’estensione dell’accessibilità ad un territorio amministrativamente non omogeneo, obbliga non solo a riprogettare la distribuzione dei servizi ma anche a riformulare le politiche in funzione di questa cittadinanza allargata. D’altro canto, che il sopravvento del modello metropolitano avesse messo in crisi il rapporto tra popolazione e territorio, è confermato da Crosta, il quale sottolinea che a partire dai fenomeni di metropolizzazione questo rapporto “tende a venir declinato in termini non più solo di insediamento, bensì di utilizzazione: distinguendo, di conseguenza, più popolazioni che hanno modi d’uso diversi di un medesimo territorio” (Crosta, 2010, p. 20). L’aumento della mobilità e soprattutto la diversificazione delle sue motivazioni tendono, quindi, a mettere in discussione il rapporto tra società e territorio come un rapporto stanziale, a favore di un’idea lineare di territorio. Si conferma, dunque, l’ipotesi di una tendenza alla nomadizzazione degli stili di vita nella città occidentale contemporanea.
Alcune considerazioni conclusive: infrastrutturazione significa accessibilità? Sebbene un’estesa infrastrutturazione del territorio renda accessibile una porzione più ampia di territorio e trasformi la città metropolitana in Città Regione coinvolgendo nella stessa quotidianità un numero vastissimo di abitanti (non tutti cittadini), essa non produce necessariamente accessibilità. Infatti nella cultura della mobilità che pervade la città contemporanea, la contraddizione tra mobilità ed immobilità non si è dissolta, essa persiste nella differente disponibilità di accesso alla tecnologia, ai servizi ed alle infrastrutture di mobilità. Si evidenzia qui, quello che possiamo definire, il paradosso dei trasporti: una rete infrastrutturale, accessibile a livello globale, ma non interconnessa con il territorio a livello locale, rischia di frammentare e separare invece che connettere e rendere più accessibile un territorio. Nella descrizione del telefono di Proust, ad esempio, “la scomodità di questo straordinario incantesimo” risiedeva nell’ancora instabile connessione con la rete locale, che obbligava, chi interessato, a recarsi nelle stazioni di posta per poter comunicare con l’interlocutore; questo dualismo tra elevata connessione globale e scarsa accessibilità locale è tuttora evidente, e rende necessario affermare che l’efficienza di una rete dipende dalla sua capacità di interconnettere il livello globale a quello locale (Latour, 1997). In una dinamica territoriale risulta evidente che, un’infrastruttura di trasporto, per rendere effettivamente accessibile un territorio, deve poter collegare i suoi punti ed, in particolare i servizi alle utenze. Un esempio, che mostra chiaramente come un territorio, sebbene sovrastrutturato, possa essere scarsamente interconnesso è la conurbazione napoletana. Infatti, come sottolineato precedentemente, qui la presenza diffusa delle infrastrutture ha permesso un’impressionante crescita della città, senza assicurare però un’adeguata distribuzione di servizi 3 , ne deriva un territorio molto accessibile, caratterizzato, da un lato, da una massiccia urbanizzazione e dall’altro da una bassa, o quasi inesistente, qualità abitativa locale. Questo è dovuto al fatto che l’infrastruttura ha connesso a livello globale e regionale, ma non è riuscita, quasi sempre, a creare sistema a livello locale.
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È doveroso qui fare riferimento all’elevato numero di edifici autocostruiti ed abusive, per cui il territorio è stato urbanizzato senza che parallelamente venisse attrezzato con servizi pubblici. La mancanza di servizi ed aree verdi in Campania raggiunge i 4.000 ha (Di Gennaro, 2008).
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I dati sugli spostamenti indicati precedentemente, soprattutto quelli relativi alla gestione familiare, avallano, inoltre, l’ipotesi secondo cui la costruzione di una città di prossimità caratterizzata da una maggiore mixitè funzionale e da una distribuzione più equilibrata di servizi sul territorio, ridurrebbe gli spostamenti obbligati, contribuendo a realizzare una città più accessibile.
Bibliografia Amin, A. (2009), “The good city”, in T. Rieniets, J. Sigler, & K. Christiaanse (a cura di), Open City, Martien de Vletter, SUN, Amsterdam, pp. 141-146. Amin, A., & Thrift, N. (2005), Città. Ripensare la dimensione urbana, Il Mulino, Bologna. Crosta, P. (2010), Pratiche. Il territorio e l'uso che se ne fa, Franco Angeli/Urbanistica, Milano. Graham, S. (2009), “Networked Infrastructure and the Urban Condition”, in T. Riniets, J. Sidler, & K. Christiaanse (a cura di), Open City, Martien de Vletter, SUN, Amsterdam pp. 157 -166. Ingersoll, R. (1996), Sprawltown. Looking for the city in its edges.: Princeton Architectural Press, New York. Latour, B. (1997), Nous n'avons jamais été modernes: essai d'anthropologie symétrique, La Découverte, Parigi. Martinotti, G. (1993), Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, Il Mulino, Bologna. Proust, M. (1987), Alla ricerca del tempo oerduto. I Guermantes. vol. 3. Rizzoli, Milano. Pucci, P. (1996), I nodi infrastrutturali. Luoghi e non luoghi metropolitani, Franco Angeli, Milano. Pucci, P. (2007), “La mobilità nei territori della città contemporanea” in A. Lanzani, & S. Moroni, Riformismo al plurale, Carocci, Roma, pp. 233 - 241. Secchi, B., & Pellegrini, P. (2010), “Linee guida”, in B. a. Secchi, On Mobility. Infrastrutture per la mobilità e costruzione del territorio: linee guida per un progetto integrato, Marsilio, Venezia, p. 23. Soja, E. W. (2011), “Regional urbanization and the end of the metropolitan era”, in S. W. Gary Bridge (a cura di), The New Blackwell Companion to the City, John Wiley and Sons, Oxford, pp. 679-689.
Siti web Atti del congresso la Protezione del Suolo. Verso l’integrazione tra le strategie tematiche regionali. Di Gennaro, A., 2008, Governo pubblico del territorio e tutela dei suoli in Campania. http://ambiente.regione.emilia-romagna.it. Copyright: Le immagini contenute nel documento sono state elaborate da Bruna Vendemmia.
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La conquista del diritto alla cittadinanza: il PIM del 1963
La conquista del diritto alla cittadinanza: il PIM del 1963 Corinna Nicosia corinnanicosia@gmail.com Tel. 339.3344404
Abstract Per gli urbanisti la questione della cittadinanza è indelebilmente legata al tema dell’accessibilità nel senso più concreto e reale del termine, ovvero alla possibilità di consentire a chiunque di poter accedere alle attrezzature da qualsiasi punto di una regione urbana. Guardare nuovamente al primo schema di Piano Intercomunale Milanese con gli occhi di oggi fa comprendere come la riflessione su questo tema abbia fatto emergere la questione del progetto dello spazio quotidiano, inteso come contenitore di significati determinanti per la definizione degli altri materiali urbani. Da tempo ormai questo si è imposto come tema centrale per l’Urbanistica ed è il discriminante attraverso cui individuare le esperienze progettuali eccellenti che hanno saputo costruire la città moderna e che stanno tentando di costruire la città contemporanea. In questo senso la progettazione urbana può diventare ancora un’occasione per riflettere e affrontare i temi degli equilibri sociali, culturali, economici, ecc. Non penso sia errato dire che l’Urbanistica sia mantenuta in vita da una latente e permanente crisi di legittimità che, una volta raggiunto l’apice della tensione, innesca una ciclica revisione e una ricerca di nuovi contenuti e valori. Questo periodico rinnovamento rappresenta il tentativo di sincronizzare il suo agire al mutare delle condizioni della società e del territorio, al fine di riuscire a rispondere coerentemente alle loro istanze attraverso pertinenti politiche di sviluppo, progetti e piani. Il problema della cittadinanza, inteso come la vocazione di un individuo a sentirsi cittadino rispetto a un dato territorio, è sempre attuale per l’Urbanistica quando questa viene considerata nella sua più alta accezione: la materializzazione e l’organizzazione spaziale delle forze che determinano la struttura della società e dell’organismo urbano. La questione può assumere molteplici declinazioni: dall’allarmante squilibrio della garanzia di mobilità e, pertanto, di fruizione dei servizi in senso lato, alle difficoltà insite nell’integrazione di differenti entità, fino agli ostacoli che da sempre hanno caratterizzato il percorso verso la completa apertura alla partecipazione democratica della società alla pianificazione. Per gli urbanisti, però, la questione della cittadinanza è indelebilmente legata al tema dell’accessibilità nel senso più concreto e reale del termine, ovvero alla possibilità di consentire a chiunque di poter accedere alle attrezzature da qualsiasi punto di una regione urbana. La conquista dell’accessibilità e, di conseguenza, l’affermazione del proprio status di cittadino è una battaglia che ha animato l’Urbanistica dal secondo dopoguerra, cioè da quando il fenomeno urbano è esploso assumendo sembianze ingestibili e inedite. La questione del diritto alla cittadinanza, però, non può esaurirsi nella quantificazione delle strutture e infrastrutture necessarie, ma al contrario deve partire dalla riflessione su cosa vuole veramente dire essere cittadino in un determinato momento storico (quali sono le sue pratiche d’uso del territorio, quali i suoi stili di vita, ecc.). Spesso la differenza tra offerta e domanda è considerata pragmaticamente solo come un bisogno a cui porre rimedio, ma poche volte è percepita come il campanello d’allarme che indica il verificarsi di cambiamenti ben più profondi. Il rischio di non appartenere a un luogo era già stato avvertito quando si iniziarono a formare quelle nebulose urbane che vennero definite città moderna e che oggi chiamiamo città contemporanea [SECCHI 2004, p. 288]. Le proposte progettuali in molti casi, però, non sono riuscite a rispondere correttamente a questa domanda, anzi hanno lasciato che la città evolvesse per parti socialmente e anche fisicamente differenti e poco permeabili, facendo in modo che l’emarginazione e l’esclusione trovassero un terreno fertile in cui attecchire. È ancora all’ordine del giorno la necessità di pensare a nuove forme di città, a nuovi metodi di intervento e, in sostanza, a un nuovo modo di intendere il progetto urbanistico. Per queste ragioni penso che, secondo lo spirito di questo convegno L’urbanistica che cambia. Rischi e valori, il riaffiorare di queste domande possa essere l’occasione di rileggere il primo schema di Piano Intercomunale Milanese (meglio noto come la turbina), presentato nel 1963 da Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori e Alessandro Tutino. Questo progetto è un esempio straordinario di come Corinna Nicosia
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La conquista del diritto alla cittadinanza: il PIM del 1963
la critica alla tradizione urbanistica italiana abbia ispirato la ricerca e l’invenzione di nuovi strumenti d’analisi e di intervento che permettessero di comprendere i nuovi fenomeni urbani e fossero aderenti alle esigenze delle reali pratiche urbane. Benché spesso sia stato trascurato dalla Storia dell’Urbanistica, il PIM rappresentò una svolta notevole nel panorama culturale e disciplinare italiano poiché provò ad affrontare i problemi inerenti al diritto alla cittadinanza con un rinnovato impegno sociale, nel tentativo di restituire all’Urbanistica la legittimità che aveva smarrito. Il contesto nel quale mosse i primi passi il PIM era quello della Milano del boom economico: il fiorire della produzione e del commercio aveva dato l’avvio a continue ondate migratorie, sia verso l’interno che verso l’esterno della regione, dando il via a un’edificazione massiccia (a carattere industriale e residenziale) dei centri periferici che infatti, nel volgere di pochi anni, si saldarono a Milano. I problemi scatenati da questa crescita incontrollata non riguardavano solo le infrastrutture e la dotazione di attrezzature, in entrambi i casi sottodimensionate rispetto alla domanda, ma soprattutto interessavano la residenza: il dilagare delle coree, ovvero i nuclei residenziali autocostruiti formati prevalentemente da nuove comunità di immigrati che si aggregavano in base alla regione di provenienza, divenne una prassi comune in tutte le periferie industriali del nord Italia a prescindere dai (pochi) regolamenti edilizi vigenti. La costituzione di queste enclaves fu uno dei chiari segni che le forze regolatrici e ordinatrici della natura e dell’entità dei rapporti territoriali erano ormai dipendenti da fattori variabili e non più esclusivamente riconducibili alle caratteristiche fisiche e spaziali del territorio. Altro segno rivelatore era l’esponenziale estensione della dimensione spaziale rispetto alla quale agivano questi fattori. Prendendo come riferimento numerosi studi angloamericani, gli autori del PIM provarono a leggere il territorio in modo inedito: da una parte, sviscerando i meccanismi attraverso i quali l’interazione tra le forze economiche e sociali determinavano la definizione dei differenti modelli di uso del suolo[Harris, Ullman (1945) 1951, pp. 237-247]; dall’altra parte, esaminando gli effetti delle localizzazioni di diverse attività umane sulla struttura urbana [Lynch, Rodwin 1958, pp. 201-214]. La realtà sociale della comunità fu scandagliata ripetutamente per avere un quadro completo degli stili di vita e delle pratiche d’uso del territorio e per quantificare la domanda dei servizi in relazione ai diversi soggetti e alle loro caratteristiche. Ciò che emerse da queste indagini avvalorò l’ipotesi iniziale secondo la quale la natura dei fenomeni sociali e le modalità di redistribuzione della popolazione fossero tipici di una comunità di tipo metropolitano e non locale. Evidenziarono, inoltre, che gli squilibri della parte centrale della regione, dove il divario tra il centro e la periferia raggiungeva livelli allarmanti, non potevano essere riassestati se non all’interno di una visione che chiamasse in causa tutti gli elementi della regione metropolitana. Gli autori si resero conto che se avessero adoperato gli strumenti tradizionali d’intervento non sarebbero riusciti a imporre nuove politiche di sviluppo: si doveva intervenire dall’interno del sistema senza aggiungere elementi di rigidità. Sostituendo la sterile azione del piano regolatore con un meccanismo ciclico si sarebbe potuta mettere in moto una nuova prassi che, traendo energia dalla partecipazione attiva della popolazione alla formulazione delle politiche di sviluppo e alla redazione delle conseguenti soluzioni urbanistiche, avrebbe permesso di sincronizzare gli interventi alle caratteristiche della realtà territoriale. In questo modo il progetto urbanistico, prima di essere un mezzo attraverso il quale intervenire materialmente sulla fisicità del territorio, diventava uno strumento di cambiamento sociale [Chapin (1963) 1965, pp. 66-68; pp. 31-32; Hatt, Reiss 1951, pp. 739-742]: alterando alcuni modelli di comportamento si sarebbero potute dirigere in modo più ponderato le forze economiche e sociali, in modo tale da sollecitare dei cambiamenti all’interno della struttura urbana e territoriale. Da un certo punto di vista, rivedere la distribuzione dei valori urbani, da intendersi come il valore socio-economico acquisito da una specifica porzione di territorio, significava pianificare il grado di accessibilità di ciascun punto della regione. Sfruttando la stretta interrelazione che esisteva tra il progetto della rete infrastrutturale e la distribuzione delle grandi attrezzature nella definizione delle centralità urbane e regionali, si sarebbe potuta ottenere, quindi, un’organizzazione territoriale equilibrata sia dal punto di vista economico che da quello sociale [Christaller (1933) 1980, pp. 41-50; Guttenberg 1960, pp. 104-108]. Lo schema presentato nel 1963 non era un progetto, ma un diagramma operativo che serviva a indicare quali fossero le potenzialità offerte dal territorio metropolitano milanese in quel preciso momento storico e quali sarebbero state le principali mosse da attuare per convogliare le forze economiche e sociali nella direzione di sviluppo scelta. L’attenzione maggiore fu riservata, quindi, al completo ridisegno della maglia infrastrutturale che, seguendo un andamento ortogonale, avrebbe consentito di localizzare nelle periferie le principali attrezzature senza congestionare ulteriormente Milano. Gli autori pensavano che le nuove centralità di rilievo metropolitano e regionale avrebbero polarizzato nelle periferie forze tali da riattivare gli scambi sia con il centro della regione (Milano) che con i poli secondari (Bergamo, Brescia, Pavia, ecc.). L’obiettivo era riuscire a rovesciare la tradizionale distribuzione piramidale dei valori urbani attraverso queste interrelazioni dinamiche tra tutte le parti della regione. La nuova concezione dell’intervento urbanistico come condivisione e discussione di un ampio ventaglio di proposte e non più come somma di progetti consentiva di lavorare con infiniti gradi di libertà, in modo tale che la struttura urbana potesse assorbire le trasformazioni che avvenivano man mano nelle pratiche d’uso del territorio. Grazie al nuovo modo di leggere le dinamiche territoriali e urbane e alle potenzialità delle innovative tecniche di intervento, inoltre, si poteva ragionare su questioni generali e, quindi, formulare risposte non settoriali. Dal punto di vista formale il tema dell’accessibilità, così centrale nei presupposti teorici, divenne il pretesto per dirottare il ragionamento sulla forma della città verso categorie concettuali poco battute. La forma aperta della turbina non è da intendersi come Corinna Nicosia
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La conquista del diritto alla cittadinanza: il PIM del 1963
differenza figura-sfondo o edificato-non edificato, ma come un’area all’interno della quale svolgere un programma di azioni (ricordiamoci che è un diagramma e non un progetto), parimenti a quanto sarebbe accaduto nelle altre aree tematiche evidenziate nello schema: partendo dalla rottura del tradizionale equilibrio dato dal dualismo città-campagna, si tentò di dare senso allo spazio unico della regione metropolitana (il cosiddetto continuo urbanizzato) riequilibrando il benessere e diffondendo nuovi stili di vita. Il processo di democratizzazione che si sarebbe innescato, ovvero la creazione di nuovi significati e valori condivisi, apprezzabili e modificabili da tutte le entità che componevano la comunità, avrebbe consentito di rivedere la definizione di status di cittadino in chiave moderna. In questi anni stiamo vivendo una fase di mutamento che è molto simile a quella che si trovarono ad affrontare cinquant’anni fa gli autori del PIM, se non per le proporzioni del problema che sono aumentate esponenzialmente e per i contrasti che sono diventati più stridenti. Basta rileggere alcune riflessioni pubblicate all’inizio degli anni ’50 per vedere le affinità: il moltiplicarsi dei punti di concentrazione della popolazione su un territorio sempre più vasto causò la ridefinizione della rete di interrelazioni economiche e sociali esistenti tra i vari poli in cui si distribuiva la comunità a tal punto che non si seppe più cosa chiamare città e ci si chiedeva se si potesse ancora parlare di comunità urbana [Hatt, Reiss 1951, pp. 81-82]. Anche oggi le inusuali forme di dispersione e di concentrazione degli aggregati urbani hanno alterato le caratteristiche proprie di aree territoriali sempre più estese, definendo nuove relazioni con i frammenti preesistenti e dando vita a nuove pratiche d’uso del territorio [Viganò 2004, p. 8]. Un altro profondo cambiamento interessa le comunità urbane, perché adesso non si devono tenere in considerazione solamente le entità che vogliono integrarsi, ma anche le entità o categorie che attraversano la comunità occasionalmente e temporaneamente. Ciò provoca uno slittamento dei temi della progettazione dagli ambiti tradizionali, come potevano essere la residenza o l’industria, a questioni che non si riescono a classificare in una categoria unica e omogenea, ma che riguardano il vivere quotidiano in senso lato. Il problema per gli urbanisti, oggi come cinquant’anni fa, è inserire questi ragionamenti in un disegno completo e coerente. È ormai un’opinione condivisa il fatto che, a causa del preoccupante ritardo con il quale stiamo iniziando a comprendere il funzionamento delle dinamiche contemporanee, vaste parti della città siano rimaste senza un progetto per troppo tempo: le aree della periferia e quelle della nuova dispersione sono cresciute autonomamente e gli spazi creati, proprio perché privi di un progetto, non contengono valori e significati utili né all’individuo né al gruppo [Secchi 2004, pp. 292-295]. Realizzare un progetto critico della città contemporanea è possibile solo se si parte da una nuova lettura e interpretazione delle caratteristiche dell’organizzazione territoriale e della struttura urbana. In questo senso la progettazione urbana può diventare ancora un’occasione per riflettere e affrontare i temi degli equilibri sociali, culturali, economici, ecc. [Viganò 2010, p. 81]. Il progetto dello spazio della quotidianità è il progetto della città contemporanea: leggere, esaminare e modificare questo spazio, nel quale si incontrano e si contaminano le differenti entità che compongono la comunità e che è il legante tra le varie attrezzature urbane, vuol dire qualificare i luoghi dell’accessibilità con nuovi significati. Oggi come cinquant’anni fa e come è prevedibile che accada tra dieci anni, l’offerta dei servizi sarà sempre in difetto rispetto alla domanda, dunque penso che la questione fondamentale non sia unicamente l’ampliamento dell’accessibilità ai servizi, perché banalmente potrebbe risolversi nella moltiplicazione di strutture e infrastrutture, ma dovrebbe essere il pensare alla città come a una rete di relazioni. Guardare nuovamente al PIM con gli occhi di oggi fa comprendere che l’attenzione al progetto dello spazio quotidiano, inteso come contenitore di significati determinanti per la definizione degli altri materiali urbani, fosse un tema già centrale [BIASI 2011, pp. 275-283] ed è il discriminante attraverso cui individuare le esperienze progettuali eccellenti che hanno saputo costruire la città moderna e che stanno tentando di costruire la città contemporanea. “La ‘strada’ è qui intesa quindi in una accezione più specificatamente ‘strutturale‘, nella convinzione che è possibile avviare la riqualificazione delle zone più degradate del territorio assicurando in primo luogo all’interno di esse un elevato potenziale di mobilità.” [De Carlo, Tintori, Tutino 1965, pp. 106-107]. Come si evince da queste parole della relazione illustrativa del secondo schema di piano, il progetto della strada, intesa nel suo significato più ampio di luogo dell’accessibilità, per gli autori del PIM rimase un punto centrale delle tematiche progettuali poiché era l’unico dispositivo capace di agire sia alla scala urbana che a quella territoriale. Ciò che si può leggere tra le righe, poiché purtroppo è rimasto in sospeso a causa della mancata attuazione di questo schema di piano, è il particolare approccio progettuale, volto a creare degli elementi infrastrutturali non votati unicamente a svolgere la funzione per la quale sarebbero stati creati, ma che avrebbero dovuto instaurare un nuovo tipo di rapporto biunivoco con il territorio che avrebbero servito. Il progetto della strada non sarebbe stato più affrontato solamente in termini ingegneristici, bensì sarebbe diventato un vero e proprio tema sociologico dal momento che, secondo il pensiero degli autori, prima ancora degli interventi materiali di ristrutturazione degli ambienti urbani, la riqualificazione sarebbe dovuta partire dall’interno della comunità, altrimenti si sarebbero raggiunti solo risultati superficiali. Altri aspetti notevoli di quella esperienza sono stati esaminati l’anno scorso da numerosi studiosi e da alcuni protagonisti della vicenda del Piano Intercomunale Milanese in dibattiti organizzati dal Centro Studi PIM, in occasione del cinquantenario dalla fondazione 1 . Ciò che emerge da quelle riflessioni è la completa mancanza, 1
Luoghi urbani e spazio metropolitano. Un racconto attraverso piani, funzioni e forme insediative, in “Argomenti e contributi”, n. 14, febbraio 2011
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La conquista del diritto alla cittadinanza: il PIM del 1963
ancora oggi, in Italia di strumenti che consentano di coordinare la progettazione comunale e quella sovracomunale soprattutto quando si devono affrontare temi strategici come la mobilità o la localizzazione delle grandi funzioni urbane. Rileggere l’esperienza del PIM potrebbe essere utile per ripercorrere alcune strade indicate allora: il progetto dell’accessibilità e dei suoi spazi deve necessariamente partire dal basso e si deve esplicare nella ricerca dell’equilibrio tra il pensiero progettuale, le decisioni politiche e la partecipazione democratica della comunità; in quanto progetto urbanistico deve tendere alla formulazione di una nozione condivisa di città e per questo l’urbanista deve essere capace di mettere in discussione i valori disciplinari per cercare nuovi modi di fare pianificazione.
Bibliografia Boeri S., Lanzani A., Marini E. (a cura di, 1993), Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta cataloghi, Milano Calabi D. (2004), Storia dell’Urbanistica europea, Bruno Mondadori, Milano Chapin F.S.Jr., Weiss S.F. (eds. 1962), Urban growth Dynamics – In a Regional Cluster of Cities, J. Wiley and Sons, New York-London Chapin F.S.Jr. (1964), “Selected Theoris of Urban Growth and Structures”, in Journal of the American Institute of Planners, n.1, voll. 30, pp. 51-59 De Carlo G., Tintori S., Tutino A. (a cura di, 1963), Piano Intercomunale Milanese – Relazione illustrativa dello schema di Piano Intercomunale, Centro Studi Piano Intercomunale Milanese, Milano Dickinson R.E. (ed. [1947]1952), City, Region and Regionalism. A Geographical Contribution to Human Ecology, Routledge and Kegan, London Gabellini P. (1996), Il disegno urbanistico, NIS, Roma Geuss R. ([2001] 2005), Beni pubblici beni privati. Origine e significato di una distinzione, Donzelli Editore, Roma Gold J (2000), “Towards the Functional City? MARS, CIAM and the London Plans 1933-42”, in Deckker T. (ed.), The Modern City Revisited, Spon Press, London-New York, pp. 80-97 Guttenberg A.Z. (1960), “Urban Structure and Urban Growth”, in Journal of the American Institute of Planners, n.2, voll. 26, pp. 104-110 Harris D.C., Ullman E.L ([1945] 1963), “The Nature of Cities”, in Hatt P.K., Reiss A.J.Jr. (eds.), Cities and Society – The Revised Reader in Urban Sociology, Free Press, Glencoe, pp. 237-247 Longo A. (1999), Le rappresentazioni visive nella progettazione urbanistica. Materiali per la costruzione di una tradizione tecnica, tesi di dottorato, Milano, dottorato di ricerca in Urbanistica, Pianificazione Territoriale e Politiche pubbliche del territorio XI ciclo Mamoli M, Trebbi G. (1988), Storia dell’Urbanistica. L’Europa del secondo dopoguerra, Laterza, Roma-Bari Padovani L. (1964), “Obiettivi e struttura della ricerca”, in De Carlo G. (a cura di), La pianificazione territoriale urbanistica nell’area milanese, atti del seminario tenuto nel corso di Pianificazione Territoriale Urbanistica dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (Venezia 14-16 maggio 1964), Marsilio Editori, Venezia, pp. 71-76 Pizzorno A. (1967), “Introduzione”, in Park R.E., Burgess E.W., McKenzie R.D (eds.), La città, Edizioni di comunità, Milano Secchi B. (1984), Il racconto urbanistico. La politica della casa e del territorio in Italia, Einaudi, Torino Sica P. ([1978] 1996), Storia dell’Urbanistica, voll. III, Il Novecento, Laterza, Roma-Bari Aa.Vv. (1963), Piano Intercomunale Milanese – Studi e ricerche, vol. I, Centro Studi Piano Intercomunale Milanese, Milano Thomas D. (1970), London’s Green Belt, Faber & Faber, London Viganò P. (2010), I territori dell’urbanistica. Il progetto come produttore di conoscenza, Officina Edizioni, Roma Whitehead A.N. ([1929] 1965), Il processo e la realtà, Bompiani, Milano
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Luoghi accessibili per una città che cambia
Luoghi accessibili per una città che cambia Natalina Carrà Università Mediterranea di Reggio Calabria Dipartimento Architettura e Analisi della Città Mediterranea Email: ncarra@unirc.it Tel. 0965.3222253/0965.3222235
Abstract Il contributo affronta i temi dell’accessibilità ponendo l’attenzione sulla qualità dello spazio dal punto di vista del movimento. L’accostamento delle due nozioni, accessibilità e qualità, porta a rimuovere dai temi progettuali tutti gli eccessi funzionalistici contenuti nell’idea diffusa di mobilità. Per disciplinare gli spostamenti dei cittadini bisogna, cioè, pensare ad una regola d’uso dei luoghi piuttosto che ad un flusso in un tracciato stradale. Le tematiche legate all’accessibilità e fruizione dei servizi e dei luoghi della città si inseriscono, così, in più ampie riflessioni sul progetto della città, ed in particolare alle tematiche relative alla qualità urbana e allo sviluppo sostenibile. Il paper sviluppa nelle prime due parti le tematiche inerenti il concetto di accessibilità/fruibilità in relazione all’uso e al progetto e nel terzo paragrafo da conto di una sperimentazione avviata con un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Calabria all’interno della sua struttura universitaria di appartenenza (Dipartimento AACM-Facoltà di Architettura, Università Mediterranea).
Premesse La città è luogo d’incontro, di scambio e di tutte quelle relazioni che hanno a che fare con ciò che attiene al sociale; mentre l’abitazione, la casa è un luogo fondamentale, ma unicamente legato alle funzioni primarie, tutta la vita sociale, interessi, svago, tempo libero, si localizzano in quelli che definiamo spazi pubblici o luoghi di relazione della città. L’accessibilità spaziale e la fruibilità di luoghi e servizi della città e del territorio, in ragione dei bisogni espressi dai cittadini, secondo le diverse età e le diverse categorie sociali, risulta essere imprescindibile per rendere effettivi i diritti di cittadinanza di tutti. Le trasformazioni che le città hanno subito negli ultimi anni, hanno portato alla formazione di una struttura/sistema urbano, particolarmente complesso organizzato per parti, frammentato difficile da raccordare nelle diverse sfere sociali e spaziali. L’accessibilità sociale e fisica risulta essere, perciò, in tale panorama un tema di notevole criticità e, rilevare una insufficiente accessibilità e appropriazione dei servizi e dei luoghi da parte dei cittadini è come riconoscere una scarsa o assente equità e integrazione sociale, poiché chi è soggetto ad un accesso limitato a quei servizi/luoghi si trova in una condizione di svantaggio e di esclusione. L’accessibilità è dunque una proprietà degli insediamenti urbani che qualifica la società locale nel suo complesso e ne definisce il grado di equità sociale e la qualità della vita per i suoi membri 1 . Un concetto allargato, questo, raggiunto dalla nozione di accessibilità solo negli ultimi decenni, ovvero alla destinazione e ai costi degli spostamenti si aggiungono le differenti possibilità degli abitanti di definire a proprio vantaggio i tempi e gli spazi della vita quotidiana. Le tematiche legate all’accessibilità e alla fruizione dei servizi e dei luoghi urbani divengono, così, paradossalmente la questione-chiave che ci si trova ad affrontare quando si parla di qualità delle città, poiché l’accesso/fruizione, ad un esteso e differenziato gruppo di persone, luoghi e attività è uno degli aspetti sostanziali e indispensabili della vita urbana. Il “paradossalmente” attribuito alla questione è riferito a due aspetti caratterizzanti il tema stesso: il primo è insito nell’idea propria di città, che nasce storicamente e specificatamente come una struttura sociale il cui ruolo è quello di far raggiungere un elevato grado di accessibilità agli individui, alle cose/beni e alle idee/modelli. 1
Cass, N., Shove, E., Urry, J., Social exclusion, mobility and access, The Sociological Review, n. 53, 2005
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Luoghi accessibili per una città che cambia
Tutto ciò che di materiale e immateriale l’organismo città mette insieme riconduce alla nascita di un ambiente sociale unico, per la concentrazione di contatti e relazioni a cui è possibile “accedere” e per la capacità di produzione e divulgazione di idee ed esperienze. Inoltre, individuare l’accessibilità come “il” problema di difficile soluzione della città contemporanea può sembrare paradossale per un ulteriore motivo, soprattutto in questo preciso momento storico. La società attuale, le città di oggi, sono ciò che Manuel Castells definisce spazio di flussi 2 - materiali e immateriali - composto da individui e oggetti in movimento, ma anche da categorie immateriali di informazioni/dati, che si muovono velocemente e vorticosamente attraverso reti tecnologiche 3 , sempre più avanzate e sviluppate. L’avvento di questi fenomeni di mobilità materiale e immateriale, porterebbe a pensare che possano innescarsi processi che potenzialmente sono capaci di creare condizioni tali da annullare le problematicità e le disparità di accesso alle opportunità sociali concentrate nei contesti urbani, ma in realtà così non è. Questo concetto arricchitosi, con gli anni, di diverse sfumature porta a diverse accezioni nel suo significato. Per esempio si parla di accessibilità geografico-spaziale quando ci si riferisce alla possibilità di accedere ai luoghi presenti nel contesto urbano di riferimento. Ciò significa essere capace di mettere in pratica senza difficoltà quel bisogno di mobilità che ogni cittadino persegue per garantirsi l’utilizzo di beni e servizi presenti nelle città. Parliamo invece di accessibilità sociale quando ci riferiamo a ciò che attiene ai concetti di equità, laddove tutti i cittadini hanno le medesime possibilità di essere in connessione/collegamento, evitando forme di disparità ed emarginazione di tessuti e parti di città più svantaggiate. Infine, l’accessibilità fisico-ergonomica si riferisce a quella libertà di movimento e alla permeabilità fisica del cittadino in tutto il sistema dei luoghi e dei servizi urbani. Ci si trova, quindi, di fronte ad elementi costitutivi che fanno ritenere che l’accessibilità urbana deve essere intesa in modo “trasversale” e come supporto e raccordo tra i vari settori attinenti qualsiasi azione progettuale nei contesti urbani, costituendo uno degli elementi di base per l’impostazione degli strumenti di progettazione e di recupero del patrimonio urbano esistente. Integrazione progettuale e integrazione delle esigenze di un’utenza ampliata, che individuino priorità d’intervento sugli spazi esistenti, al fine di elevarne la qualità in termini di accessibilità e di fruibilità, operando una sintesi tra una nuova dimensione funzionale e una nuova dimensione sostenibile (vivibilità degli spazi, inclusione sociale) in un modello progettuale che ponga una nuova idea di fruizione come principio fondamentale e imprescindibile di ogni attività. L’accessibilità, cioè, deve essere intesa come totale fruibilità nell’immediato dello spazio costruito e dei servizi da parte di tutti.
Qualità urbana, accessibilità spaziale e fruibilità di servizi e luoghi La nozione di accessibilità pone, quindi, l’attenzione sulla qualità dello spazio anche dal punto di vista del movimento; accostare le due nozioni accessibilità e qualità, significa rimuovere dai temi progettuali tutti gli eccessi funzionalistici contenuti nell’idea diffusa di mobilità. Cioè, per disciplinare gli spostamenti dei cittadini bisogna pensare ad una regola d’uso dei luoghi piuttosto che ad un flusso in un tracciato stradale. Più nello specifico ci si riferisce al processo di appropriazione, da parte di singoli e collettività, delle risorse materiali e immateriali -beni, servizi, relazioni- presenti in un determinato contesto urbano. Ovvero le differenti possibilità che tutti possono/debbono avere nella fruizione dei luoghi e dei servizi di cui la città dispone. Ciò rimanda a forme di disuguaglianza connesse alla sfera sociale: reddito, livello culturale, età, genere, residenzialità, ma anche alle caratteristiche del sistema infrastrutturale, della mobilità e all’organizzazione spazio-temporale della città. L’accessibilità risulta essere il primo fattore/indicatore di qualità della vita nei contesti urbani. Le città in grado di agevolare l’accessibilità al proprio sistema relazionale e dei servizi assicura un elevato standard di qualità della vita. Gli obiettivi da perseguire per raggiungere buoni standard di accessibilità nei contesti urbani passano, quindi, attraverso l’elevazione del comfort di tutto lo spazio urbano e dei servizi per tutti i cittadini eliminando o riducendo gli ostacoli, le fonti di rischio e le situazioni di disagio; pensando a regole d’uso dei luoghi oltre agli aspetti di natura infrastrutturale e dei flussi. Inoltre, la domanda di accessibilità spaziale e di fruibilità dei servizi, si complessifica a fronte: dei cambiamenti tecnologici che rivoluzionano gli statuti delle relazioni spaziali e temporali della vita collettiva delle persone; dei nuovi stili di vita che chiedono accessibilità a tutte le tipologie di servizi in orari e periodi diversi per tutte le categorie sociali. Quindi, se per accessibilità urbana si intende l’insieme delle caratteristiche spaziali, distributive e organizzativogestionali dell’ambiente costruito, in grado di consentire la fruizione agevole, in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia, dei luoghi e delle attrezzature/servizi della città da parte di tutti, allora le tematiche legate all’accessibilità si inseriscono in più ampie riflessioni sul progetto della città stessa, ed in particolare alle 2 3
M. Castells, La città delle reti, Marsilio ed., Venezia, 2004 Le reti costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società e la diffusione della logica di rete modifica in modo sostanziale l’operare e i risultati dei processi di produzione, potere e cultura. M. Castells, La nascita della società in rete, UBE ed., 2008
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tematiche relative alla qualità urbana e allo sviluppo sostenibile e nello specifico ai temi legati alla mobilità sostenibile. Per esempio, l’uso dei mezzi di trasporto privato e la mancanza di risorse per contrastare il trasporto individuale con un’offerta di servizi pubblici quantitativamente e qualitativamente adeguata, sono problematiche che interessano la gran parte dei contesti urbani contemporanei e interferiscono negativamente sulla fruizione dei servizi da parte delle categorie più deboli, ma più in generale sulla qualità della vita. La mobilità urbana costituisce, perciò, un altro indicatore essenziale per definire il livello di accessibilità e quindi il livello qualitativo totale delle condizioni di vita nelle città. Essa è un presupposto fondamentale per accedere a beni e servizi disponibili e per programmare le attività connesse alla quotidianità. Tra mobilità e accessibilità non esiste, però, una relazione semplice, proporzionalmente diretta: più sono in grado di spostarmi, più accedo. Il concetto di accessibilità, come ampiamente ribadito, non corrisponde, infatti, solo alla semplicità con cui gli individui si muovono nella città, nonostante nella società contemporanea esso implichi necessariamente un buon livello di mobilità. Oggi il trasporto collettivo, per esempio, è diventato un’esigenza fondamentale per l’uomo, ed in particolare per tutte quelle popolazioni che risiedono in grandi aree urbane. Il ruolo intrapreso dai servizi per la mobilità pubblica è di rilevante importanza in quanto permette il rapido spostamento di persone che quotidianamente si recano presso i luoghi della città che offrono servizi. Tuttavia, le politiche di trasformazione urbana e quelle per la realizzazione di infrastrutture di trasporto pubblico hanno avuto percorsi disgiunti. In molte aree urbane, si sono realizzati pezzi di città completamente sprovvisti di queste infrastrutture, per non parlare di indubbie scelte localizzative che, spesso, non hanno favorito la riduzione degli spostamenti quotidiani, ma li hanno notevolmente amplificati (il riferimento è alla realizzazione di quartieri a destinazione monofunzionale). Da qualche decennio, si sta cercando di porre rimedio a tali situazioni, attraverso l’incentivazione del trasporto pubblico in particolare investendo nella realizzazione, per esempio, di linee metropolitane e di altre tipologie di infrastrutture (definite hard). Cioè, al fine di porre rimedio alla difficile situazione che si è andata consolidando, si stanno mettendo in campo politiche finalizzate ad incrementare il trasporto pubblico su ferro come alternativa a quello privato. Gli interventi, però, sono in genere molto complessi e non sempre ben visti anche per la necessità di intervenire in contesti urbani oramai consolidati con i conseguenti problemi legati alla fragilità dei luoghi e dei tessuti, alle difficoltà di cantierizzazione delle opere e con ulteriore aggravio del traffico in prossimità delle aree di cantiere i cui tempi di permanenza, spesso, sono molto lunghi. Altre tipologie di intervento prevedono di incentivare gli spostamenti attraverso modelli innovativi di mobilità sostenibile, identificabili nella più ampia dizione di soft mobility. Questi interventi, oltre alla caratteristica, di ridurre gli elevati costi ambientali e sociali del trasporto individuale cui è, ancora oggi, prevalentemente affidata la domanda di spostamento in ambito urbano ed extraurbano, possiedono sostanziali peculiarità “sostenibili” e innumerevoli ricadute in termini di qualità ambientale e urbana ottenute con poche trasformazioni/stravolgimenti di natura fisica. Difatti parlare di mobilità sostenibile 4 significa parlare di un sistema di mobilità urbana in grado di conciliare il diritto alla mobilità con l’esigenza di ridurre l’inquinamento e le esternalità negative, quali le emissioni di gas serra, lo smog, l’inquinamento acustico, la congestione del traffico urbano e l’incidentalità; esternalità che hanno un costo sociale che grava su tutti. Cioè, una maggiore agilità e flessibilità degli strumenti soft rispetto a quelli hard che si esplica anche nel diverso impatto economico. Attraverso l’uso di questi strumenti soft, la ri-progettazione o l’adeguamento del patrimonio urbano in riferimento al tema dell’accessibilità può, essere fatto in termini positivi, considerando le esigenze dell’utenza ampliata come un complesso insieme di opportunità per l’inclusione sociale e le politiche/progetti sostenibili come opportunità per lo sviluppo sostenibile futuro e la salubrità dell’ambiente, ma, tutto ciò, richiede una profonda comprensione – ottenuta attraverso una lettura spazio-funzionale e socio – economica dei fenomeni – di come l’ambiente viene vissuto o percepito sia dal punto di vista fisico (sostenibilità) che dal punto di vista sociale (equità).
La valorizzazione del patrimonio urbanistico attraverso modelli innovativi di mobilità urbana sostenibile 5 La valorizzazione del patrimonio urbanistico attraverso metodiche che fanno riferimento ai principi/dettami della sostenibilità dello sviluppo, ha favorito la diffusione di pratiche e strumenti finalizzati all’implementazione di interventi che risultino compatibili con l’ambiente e tra questi, particolarmente interessanti, sono quelli che 4
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In Italia la mobilità sostenibile è stata introdotta con il Decreto Interministeriale Mobilità Sostenibile nelle Aree Urbane del 27/03/1998. La normativa non ha però raggiunto i risultati sperati. I problemi relativi alla mobilità sono stati spesso demandati alle amministrazioni locali, senza un vero e proprio piano di intervento a livello nazionale e sovranazionale. Il seguente paragrafo prende il titolo è da conto della ricerca omonima: La valorizzazione del patrimonio urbanistico attraverso modelli innovativi di mobilità urbana sostenibile-CITYMOB, finanziata dalla Regione Calabria (Avviso Pubblico, Per il finanziamento di progetti di ricerca in materia di scienze umane, economiche e sociali, L.R. 22 settembre 1998, n. 10, art. 37- quarter), responsabile scientifico è la prof. Concetta Fallanca.
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Luoghi accessibili per una città che cambia
riguardano il settore della mobilità e/o accessibilità. In effetti l’uso dei mezzi di trasporto privato individuale, con le conseguenze di natura economica e di impatto ambientale, sono problematiche che interessano oramai in maniera più o meno consistente la gran parte dei contesti urbani e interferiscono negativamente sulla fruizione dei servizi e più in generale sulla qualità della vita. Inoltre, la commistione veicoli-pedoni genera condizioni di conflittualità nell’uso delle strade e delle piazze (spesso luoghi di relazione fondamentali per la vita sociale della città) rendendo sempre più difficile non solo la coesistenza tra flussi pedonali e veicolari, ma anche lo svolgimento delle numerose attività legate al tempo libero e all’aggregazione sociale. Strade e piazze sono indubbiamente destinati alla mobilità ma sono, anzitutto, luoghi urbani che si prestano ad usi molteplici, e che possono utilmente concorrere a favorire i legami sociali o viceversa, se non adeguatamente resi fruibili, contribuire ad accrescere il senso di insicurezza e di esclusione all’interno del contesto urbano. In ragione della complessità delle valenze e dei ruoli che tali spazi possono assumere nei contesti urbani, al fine di promuovere sistemi di mobilità sostenibile, è prioritario guardare a strade e piazze non solo come elementi di supporto alla mobilità, ma, soprattutto, come luoghi urbani che, o già rappresentano di per se luoghi centrali, o sono gli spazi su cui si attestano attività e servizi importanti, e pertanto necessitano di essere valorizzati in termini di accessibilità e fruibilità. Da queste considerazioni di partenza prende l’avvio il lavoro di ricerca 6 in oggetto. Lo studio, attraverso la definizione di un sistema di soft mobility da sperimentare in precisi contesti urbani (le maggiori città calabresi), mira a delineare linee guida ed elementi di metodo per la messa a punto di un progetto d’uso degli spazi urbani, volto non soltanto a garantire una migliore coesistenza tra le diverse attività e tra i diversi utenti, ma anche ad accrescere la rispondenza tra gli usi previsti e le caratteristiche spaziali dei luoghi. Il lavoro di ricerca persegue l’obiettivo di ri-progettare il connettivo urbano, attraverso un sistema di soft mobility che consente il ripensamento e la riorganizzazione di alcuni luoghi urbani importanti. Una sorta di progetto del sistema di connessione del patrimonio urbano che prevede: la riappropriazione di spazi pubblici, i luoghi, da parte degli abitanti con la formazione di spazi di relazione multifunzionali; una pacifica convivenza fra i vari utenti della strada (bassa velocità delle auto) e isole pedonali; la garanzia di percorsi pedonali continui e sicuri per tutte le categorie di utenti con particolare riguardo ai fruitori deboli e ai percorsi per il raggiungimento di servizi scolastici e sociali; una migliore qualità del servizio offerto e delle prestazioni (velocità media dei viaggi, efficacia della rete delle corsie preferenziali); una maggiore flessibilità dei servizi offerti (in modo da riuscire a competere con il sempre crescente trasporto individuale). Il fine ultimo vorrebbe, inoltre, pervenire ad una sorta di un linguaggio interdisciplinare tra settori che si occupano del tema mobilità con metodi e approcci diversi, ma uniti dal metodo scientifico (economia urbana, economia della mobilità urbana, urbanistica, sociologia urbana, discipline demo-etnoantropologiche). Nello specifico la ricerca mira a definire un modello di gestione urbana che: individui il sistema delle connessioni ovvero il complesso degli interventi sulla mobilità, (intesa come insieme dei percorsi, carrabili, pedonali, ciclabili, a valenza naturalistica\paesaggistica ecc., delle aree di sosta e dei nodi di scambio plurimodale) volti a favorire l’accessibilità ai siti e alle polarità urbane, al sistema dei servizi e delle attrezzature (musei, teatri, biblioteche, scuole, servizi) e più in generale ai luoghi cospicui che caratterizzano i contesti urbani. L’individuazione di questi sistemi consente la realizzazione di veri e propri corridoi di connessione che costituiscono l’armatura connettiva sulla quale la valorizzazione del patrimonio urbanistico, attraverso la fruizione, si struttura. Essi sono appoggiati sia alla viabilità esistente, sia al reticolo ambientale esistente, assumendo le polarità come punti di centralità e di diffusione principale. La potenzialità innovativa della ricerca consiste nell’elaborazione di un modello interdisciplinare di analisi e di pianificazione della mobilità urbana volto alla valorizzazione (in termini di fruizione, accessibilità e sicurezza) del patrimonio urbano nel suo complesso, col duplice obiettivo di colmare la carenza di informazioni sugli elementi motivazionali che caratterizzano, per i diversi tipi di mobilità, la scelta del mezzo utilizzato e di consentire la focalizzazione di linee e criteri guida per l’attivazione di politiche di mobilità urbana sostenibile. Le strategie di sviluppo della Calabria attribuiscono grande importanza alla sostenibilità dello sviluppo urbano e alla replicabilità di modelli che, possono essere inseriti all’interno dei processi di pianificazione complessiva calabrese per migliorare la qualità della vita, soprattutto delle categorie più svantaggiate, all’interno delle città e centri abitati in genere. In particolare la ricerca si propone di trasferire alla comunità tecnico-scientifica, agli operatori istituzionali i risultati del progetto per misurare i potenziali benefici socio-economici dei prodotti della ricerca soprattutto instaurando un rapporto con il mondo della scuola attraverso specifiche azioni di formazione continua sulle tematiche oggetto della ricerca. Riuscire a modificare alcune modalità d’uso nella fruizione di luoghi e servizi, spesso errate, appare una notevole sfida, che non potrà essere affrontata senza mitigare le difficoltà di accesso che un numero sempre più grande di persone incontra quotidianamente nel raggiungere (non solo in senso fisico), le opportunità sociali della propria città (beni, servizi, relazioni). Le politiche volte a migliorare l’accessibilità e fruibilità degli ambienti (fisici e sociali) urbani, è giusto ribadirlo ancora una volta, giocano, perciò, un ruolo centrale nel
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La ricerca di durata biennale è al suo primo anno di attività.
Natalina Carrà
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Luoghi accessibili per una città che cambia
favorire una maggiore equità sociale e nel rendere più vivibile la città, non solo ai residenti ma anche ad altre tipologie di fruitori. Per tendere verso l’obiettivo della “città accessibile” occorre procedere con programmi organici e tra loro integrati, che consentano di usare al meglio uno spazio urbano più confortevole e sicuro, ottenendo un conseguente potenziamento dell’autonomia personale e facilitando per tutti lo svolgimento delle attività desiderate. L’accessibilità urbana, perciò, non va intesa semplicemente come la risoluzione, in modo episodico e saltuario, di singoli elementi o porzioni dello spazio urbano, ma al contrario va interpretata come un sistema diffuso e complesso di progettazione.
Bibliografia A.A.V.V. (2011), La mobilità urbana sostenibile: strategie e sperimentazioni, Indagine CRITEVAT – Sapienza Università di Roma per Ecopolis AA.VV. (2002), Mobilité et aménagement du territoire, la CeMathèque n. 4, available at, http://mobilite.wallonie.be. Alps Mobility (2004), Progetti pilota per un trasporto compatibile con l’ambiente, available at, www.alpsmobility.org Andreani V., Tortorella W. (2009), Rapporto Cittalia 2009, città mobili, Cittalia Fondazione Anci ricerche Borlini B., Memo F. (2009), Ripensare l’accessibilità urbana, Cittalia Fondazione Anci ricerche Cass, N., Shove, E., Urry, J. (2005), Social exclusion, mobility and access, The Sociological Review, n° 53, pp. 539-555 Castells M. (2004), La città delle reti, Marsilio ed., Venezia Castells M. (2008), La nascita della società in rete, UBE ed. Commissione Europea, “Libro Bianco – La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte”, Ufficio delle Pubblicazioni Ufficiali delle Comunità Europee Euromobility (2006), Mobilità sostenibile in 50 città italiane, available at http://www.euromobility.org., Romagna, Ecomondo Galderisi A. (2007), Città, mobilità e ambiente nelle strategie e nei progetti di ricerca dell’Unione Europea, Te.M.A. Trimestrale del Laboratorio Territorio Mobilità e Ambiente Nuvolati, G. (2007), Mobilità quotidiana e complessità urbana, Firenze University Press Secchi Roberto (a cura di, 2011), Future GRA. Il futuro del Grande Raccordo Anulare di Roma nella prospettiva della città metropolitana, Prospettive Tocci Walter, Utopie ed eterotopie dell'accessibilità, http://eddyburg.it/article/articleview/16953/0/307/ Zajczyk F. (2000), Tempi di vita e orari della città. La ricerca sociale e il governo urbano, Franco Angeli
Natalina Carrà
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Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale
Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale Giuseppe Critelli Università di Reggio Calabria Dipartimento Architettura ed Analisi della Città Mediterranea Email: giuseppe.critelli@unirc.it
Abstract Nella società attuale l’accessibilità e la mobilità degli individui nello spazio è divenuta indispensabile per l’esercizio di una cittadinanza attiva. Il diritto alla mobilità, in particolare, oltre a essere un fattore chiave per la realizzazione personale e un migliore posizionamento nel mercato del lavoro, contribuisce all’inclusione sociale permettendo di reperire, valutare, conservare, produrre e scambiare informazioni, nonché comunicare e partecipare a reti collaborative sociali e di cittadinanza. Spesso però i gruppi e i soggetti svantaggiati, e tra questi, in particolare, le persone con disabilità o sotto la soglia di povertà, non godono di pari opportunità di accesso e utilizzo ai servizi ed alle strutture che garantiscono la mobilità spaziale. Lo scopo di questo lavoro di ricerca è di identificare buone pratiche urbane per il superamento delle limitazioni ai servizi e più in generale al diritto di cittadinanza, che si innescano nelle aree urbane a causa di una inefficiente mobilità urbana.
Introduzione La limitazione ai diritti di cittadinanza rappresenta una minaccia per la prosperità economica e la stabilità sociale delle aree urbane, una tragedia personale per chi ne è colpito e causa primaria di uno sviluppo urbano, in moltissime città, con problemi di segregazione spaziale. Spesso è accaduto che in città anche avanzate le persone con i redditi più bassi e le peggiori prospettive di occupazione sono state concentrate in quartieri caratterizzati da pessime condizioni sociali, urbanistiche ed ambientali, spesso inadeguatamente serviti dai trasporti pubblici e dalle infrastrutture locali. Tali quartieri, praticamente esclusi dai maggiori sviluppi economici e sociali, diventano, di fatto, segmenti urbani spazialmente segregati, fenomeno a volte acuito anche dalla sostanziale inefficienza del sistema di mobilità, in particolare della mobilità pubblica. In questo senso la mobilità risulta sempre più un elemento-chiave per la vita dei cittadini più deboli: per molte persone, a causa di motivi di carattere fisico, economico ed anche strutturale urbano, gli spostamenti nel quartiere o su aree e distanze più ampie possono essere difficoltosi, in certi casi impossibili, con una indiscutibile difficoltà nello stabilire relazioni sociali stabili e con il conseguente aumento di fenomeni di esclusione sociale e di segregazione spaziale. La mobilità risulta un fattore molto importante, non solamente perché essa facilita il conseguimento di un lavoro regolare, stabile e remunerativo, ma anche perché essa fa parte del capitale sociale che assicura le relazioni sociali che formano il margine di sicurezza delle persone meno abbienti. La capacità di spostarsi è una risorsa fondamentale di ogni collettività ed una prerogativa individuale importante. Si può certamente affermare che la mobilità permette di allocare convenientemente le risorse umane sul territorio e - allo stesso tempo - è uno strumento per cercare un migliore adattamento tra circostanze esterne ed esigenze individuali o familiari: l’inefficienza sostanziale del sistema complessivo di mobilità può inceppare il buon funzionamento dello spazio urbano e negare la fruizione totale di questo spazio a tutte le fasce di popolazione con l’apparire di fenomeni di segregazione spaziale. Ricondurre tali fasce socialmente emarginate nelle strutture sociali ed economiche della società costituisce uno degli elementi essenziali delle politiche di inclusione sociale.
Giuseppe Critelli
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Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale
Relazioni tra segregazione spaziale e mobilità urbana La segregazione spaziale di alcuni gruppi urbani induce la necessità di riconciliare priorità sociali e culturali con istanze di natura economicistica e di esaminare temi più ampi concernenti la politica culturale ed il futuro delle città. Nel corso degli ultimi due decenni, gli studi urbani sono stati contraddistinti da una attenzione crescente nei confronti delle tematiche legate alla segregazione spaziale nelle città, in particolare questi studi hanno avuto un nuovo impulso con studi sviluppati in Nord America, in particolare nello stato del Quebec in Canada, nei paesi Sudamericani e in Australia. La divisione dello spazio di convivenza è stata da sempre riconosciuta. Disraeli, alla fine del XIX secolo, riferendosi alla divisione sociale dello spazio britannico, diede inizio alla problematica della “dual city” utilizzando il termine “two nations”, che da allora entrò nel linguaggio comune nei paesi anglosassoni. Alla divisione sociale del lavoro si sovrappose una divisione spaziale che si è caratterizza sia in senso etnico, dando luogo ad aree ecologiche specifiche della città, che negli anni venti ha portato ai fondamentali studi della scuola ecologica di Chicago, sia in relazione alla stratificazione sociale: ne possono derivare, nei casi più estremi, forme di segregazione spaziale più o meno chiuse. Negli ultimi anni l’attenzione al tema della segregazione spaziale ha conquistato un notevole protagonismo anche nella letteratura europea e, ancor di più, ha rappresentato un focus di attenzione di alcune politiche territoriali adottate a livello urbano. Soprattutto nei contesti urbani più complessi la concentrazione residenziale di individui di varia estrazione a cui, per effetto di difficoltà territoriale, vengono limitati i diritti di cittadinanza, ha iniziato a essere rappresentata come una “emergenza pubblica” e a riecheggiare come una minaccia (forse la peggiore) alla coesione sociale urbana. La stessa Commissione Europea in un documento sulle linee di azione per lo sviluppo urbano sostenibile partendo da questi assunti di fondo sottolinea come una speciale sfida è quella di prevenire la segregazione spaziale e le concentrazioni di esclusione nelle città (cit. in Musterd, 2003: 625). Diversi studi hanno sottolineato la rilevanza di meccanismi sociali e istituzionali operanti a livello urbano che influenzano pesantemente i processi di integrazione socio-economici e che segnano ed acuiscono pesantemente il fenomeno della segregazione spaziale di per sè (Bolt & Ozuekren & Phillis, 2010). In questa prospettiva, l’attenzione viene rivolta al fenomeno della segregazione come risultato di processi di discriminazione operanti a scala più ampia e, in particolare, nel mercato del lavoro e nei diritti di cittadinanza, che di fatto promuovono contesti urbani sempre più divisi socialmente (Blanc, 2010) e, di conseguenza, spazialmente, con conseguenti trasformazioni urbane che sono sempre più, oggi, causa, e conseguenza soprattutto, di radicali cambiamenti nell’organizzazione della vita quotidiana con serie ripercussioni sulla qualità della vita. Il concetto di qualità della vita, e qualità della vita urbana, più in particolare (Stanley & Vella-Brodrick, 2009), è andato nel tempo modificandosi. La città è diventata uno specifico contesto ad alta complessità per la verifica del livello di capabilities, per la sperimentazione di soluzioni spaziali, relazionali e tecnologiche volte a migliorare le condizioni generali di vita non solo in termini di possesso di beni ma di effettiva utilizzabilità delle stesse ed in accordo ad uno specifico orizzonte valoriale. Il superamento dei modelli di produzione e riproduzione cosiddetti fordisti ha trasferito l’analisi dai problemi di completezza della offerta, soprattutto per quanto attiene al sistema dei servizi, alle questioni inerenti l’accessibilità della offerta stessa. Le situazioni più o meno patologiche di incertezza, scarsa trasparenza, inadeguatezza – sia dal punto di vista del sistema nel suo complesso sia da parte dei singoli attori – che rendono meno agevole la mobilità spaziale degli utenti, che allungano i tempi di accesso-fruizione dei servizi, che generano le nuove forme di esclusione (Preston & Rajé, 2007), costituiscono un ambito specifico della riflessione economico-sociologica-urbana moderna. Finora sono stati pochi gli studi nel campo della mobilità urbana che hanno indagato le conseguenze del cambiamento sociale o che hanno estrapolato dei modelli predittivi per affrontare questi temi. Inoltre non c’è ancora un’analisi sufficientemente valida degli impatti della mobilità urbana sui temi sociali. I primi studi sono stati limitati a particolari gruppi di categorie sociali, in particolare anziani che vivono in aree suburbane, ed hanno mostrato che un aumento del livello dei servizi di mobilità determinano un importante impatto sulla qualità della vita delle categorie interessate (Banister & Bowling 2004; Spinney & Scott & Newbold 2009; Litman 2009). L’obiettivo del lavoro di Arora e di Tiwari (2007), in questo senso, è quello di valutare l’impatto di grandi progetti di mobilità sulla vita dei ceti urbani meno abbienti e di proporre una metodologia per la valutazione degli impatti socio-economici da integrare nelle valutazioni di impatto di queste grandi opere. I risultati mostrano che il benessere socioeconomico è correlato positivamente con il numero di spostamenti procapite per il lavoro, la scuola e per altri scopi, mentre è correlato negativamente con le distanze percorse, il tempo impiegato e i costi degli spostamenti. La significatività degli indicatori cambia al variare della situazione generale dovuta all’introduzione di grandi infrastrutture come la linea metropolitana. Il numero di spostamenti Giuseppe Critelli
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Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale
procapite per il lavoro è sempre positivamente correlato al benessere socio-economico, qualunque sia il contesto. Inoltre il costo degli spostamenti non è significativo in sè quanto per il fatto che gli abitanti del quartiere demolito si sono trovati a dover pagare grosse cifre per potersi spostare in conseguenza del trasferimento delle loro abitazioni. Molto interessanti risultano anche gli studi che hanno quantificato il gap nel diritto di cittadinanza causato da una localizzazione urbana marginale o periferica, tra questi meritano di essere citati Currie e Stanley (2008), Currie et al. (2010). In particolare quest’ultima ricerca suggerisce ed evidenzia empiricamente che nelle aree urbane marginali e periferiche, spesso caratterizzate da scarsa accessibilità sia privata (di tipo soft) sia pubblica (per l’inefficienza del trasporto pubblico) si allungano, se possibile, ancor di più le “distanze” tra le varie zone urbane, costringendo le popolazioni in esse localizzate, spesso per un mercato immobiliare più abbordabile, ad investire gran parte del loro reddito sulla proprietà dell'auto.
Le capitali dell’innovazione nella mobilità urbana I temi di una mobilità urbana efficiente, aperta a tutti, ed in grado di sostenere la domanda di mobilità di tutte le fasce di popolazione al fine di essere uno strumento efficace per garantire i fondamentali diritti di cittadinanza, sono da sempre molto sviluppati nel Nord Europa, in particolar modo nei paesi di lingua tedesca. Una città che è oramai diventata un modello di efficienza, in questo campo ma anche in altri, è Friburgo in Brisgovia. A Friburgo il 74% della mobilità urbana prescinde dall’utilizzo dell’auto: i dati ci dicono che l’auto in questa città è usata solo per il 26% degli spostamenti, con le modalità soft che invece raggiungono una quota del 50%. Se questo dato si somma al 18% degli spostamenti effettuato con il Trasporto Pubblico, si evince che il 68% degli spostamenti è effettuato con modalità accessibili a tutti con ampi vantaggi soprattutto per le popolazioni più svantaggiate 1 . Le politiche adottate dalla città, in questo senso, costituiscono senza dubbio un esempio di “buona pratica” relativamente alla promozione dei trasporti, rilevante è, in questo senso, la progettazione e la realizzazione di interi quartieri in aree suburbane e distanti dal centro cittadino, ma che sono per l’efficienza generale del sistema di mobilità assolutamente integrati alle aree urbane centrali, con enormi vantaggi per l’accessibilità ai vari servizi delle popolazioni residenti (Figura 1).
Figura 1. Quartiere Vauban a Friburgo Altra città europea in cui molto si è investito in mobilità, legata soprattutto ad un efficiente sistema di trasporto pubblico per il miglioramento dell’accessibilità generalizzata ai servizi è la capitale austriaca Vienna: la città è uno dei posti al mondo dove la mobilità è un diritto di tutti,Vienna è infatti la città con il trasporto pubblico più capillare di Europa. Che gli austriaci siano i più diligenti utilizzatori di mezzi di trasporto pubblico in Europa è risaputo ma basta enucleare qualche dato per capire l’elevato sistema di efficienza del sistema di mobilità: si muove con i mezzi pubblici il 40% delle persone, mentre un altro 35% prediligono spostamenti “soft”, solo il 25% si sposta con il mezzo privato 2 . Ciò è reso possibile dal fatto che a Vienna ci sono 120 linee che formano una rete di trasporto pubblico di quasi 1000 km, con quasi 4.500 fermate: nella capitale austriaca non esiste alcun punto che disti più di 15 minuti a piedi da una fermata di autobus, tram o metro: si può pertanto dire che il trasporto pubblico è un diritto universale a Vienna. Nel 2009 sono stati 796 milioni i passeggeri del sistema di trasporti pubblico. Altro dato 1 2
I dati sono desunti dal Transport Development Plan (TDP, 2010) I dati sono desunti da Smart Moves – Strategies and Measures of Vienna’s Transport, City of Vienna, 2009
Giuseppe Critelli
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Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale
all’insegna del diritto alla mobilità sono i 1000 km e passa di piste ciclabili, raddoppiate rispetto a 15 anni fa, con in particolare una bellissima pista ciclabile che percorre tutto il Ring. Ma il vero primato nelle politiche di mobilità pubblica in grado anche di avere capacità di inclusione sociale e di allargamento ai ceti più in difficoltà dei diritti di cittadinanza, lo si trova nei paesi dell’America Latina. In questa area del mondo vi sono città che si sono rinnovate, urbanisticamente e socialmente, innovando, ed aprendo a tutti il sistema di mobilità pubblica. In questo senso il primo esempio, il più storico, è rappresentato dalla città di Curitiba, città da considerarsi a tutti gli effetti manifesto di creatività urbana, di urbanistica sociale ed eco-urbanistica. La città è diventata famosa per il suo sistema di trasporto pubblico, i parchi e per tutti i modi creativi e fantasiosi con cui ha trasformato i suoi punti di debolezza in punti di forza (Lerner 2003). La città è il baricentro di una vasta area metropolitana che raggiunge una popolazione di 3,17 milioni di abitanti, popolazione in crescita negli ultimi 50 anni di 9,3 volte, con un range di crescita annuo del 4,6% e di 2,1 volte negli ultimi vent’anni con il 3,8% annuo di crescita. [IBGE, 2010]. L’intero sistema è fondato sulla RIT, rete in grado di integrare trasporto ed uso del suolo originariamente solo per la città di Curitiba ed oggi, invece, per 14 delle 26 città dell’area metropolitana, concepita ad assi strutturali che sono la spina dorsale di un TOD (Transit Oriented Development) (URBS, 2010). Il sistema della mobilità pubblica sposta a Curitiba, ogni giorno 1,9 milioni di passeggeri (molti dei quali automuniti), più della città di New York, garantendo rapido trasporto ad una altissima percentuale di chi va a lavorare: quasi l’80% dei lavoratori, di ogni classe sociale, utilizza il sistema pubblico di trasporto. Al progetto della mobilità pubblica è stato accompagnato il programma di riciclaggio dei rifiuti “Rifiuti che non sono Rifiuti” e “Rifiuti di valore”, sistema che funziona e si evolve: la raccolta differenziata svolta dai cittadini viene ricambiata con buoni pasto, biglietti per l’autobus e altre azioni sociali. Non molto lontano a Bogotà vengono presi a modello alcune delle operazioni di Curitiba. A Bogotá c’era un vero problema nei trasporti pubblici: la soluzione dei problemi di trasporto e transito venne battezzata TransMilenio (Vinck 2004). Il progetto nasce dalla necessità di risolvere le gravi questioni causate dalla difficile mobilità dei cittadini con il problema però delle scarse risorse disponibili per poter operare 3 . Da qui la necessità di dar vita ad un sistema, che a differenza del tram e della metropolitana, potesse garantire il completo sostentamento del servizio attraverso il costo dei biglietti degli utenti e necessitasse di un investimento infrastrutturale accettabile per le esigue casse cittadine. Per la realizzazione del nuovo sistema è stato fondamentale introdurre un cambiamento di mentalità dei cittadini nei confronti della mobilità, si è investito nel promuovere una strategia di mobilità alternativa all’automobile, incoraggiando la riduzione dell’uso dei veicoli privati e la priorità del trasporto pubblico come unica maniera in grado di rendere sostenibile lo sviluppo urbano e garantire a tutti il diritto alla mobilità. Per far ciò sono stati utilizzati sistemi di comunicazione innovativa: una mattina gli abitanti di Bogotà alla guida delle loro automobili si sono trovati presidiati da 1000 clown che piangevano a spruzzo quando non si fermavano al rosso e danzavano offrendo fiori quando venivano rispettate le precedenze. Un progetto interessante, direttamente collegato al progetto TransMilenio, volto a migliorare rapidamente e profondamente la qualità della vita dei cittadini di Bogotà, è il completamento della rete ciclabile, denominata Ciclo Ruta (Figura 2), la più grande dell’America Latina. Attraverso il completamento della rete di piste ciclabili gli spostamenti in bicicletta sono cresciuti in dieci anni dallo 0,5% al 4,4%. Il sistema è efficiente in quanto è stato creata un’entrata riservata ai ciclisti in una delle principali fermate di TransMilenio. Il costo dei parcheggi per biciclette alle fermate del bus è coperto dal biglietto di viaggio e si pensa di stimolare l’utilizzo della bicicletta come mezzo per fare affluire più persone alle fermate di TransMilenio.
Figura 2. Il sistema CicloRuta a Bogotà prima e dopo la realizzazione I risultati sulla cittadinanza di queste politiche sulla mobilità sono eccezionali: il traffico migliora, crolla il numero degli omicidi (una vera e propria piaga prima per i cittadini della città), l’efficienza del sistema pubblico di mobilità aiuta la raccoltà dei rifiuti tanto che essa diventa una risorsa per i più poveri: abbonamenti per 3
Da qui la scelta di ottenere il 46% dei 213 milioni di dollari necessari alla creazione del sistema, attraverso una sopratassa sulla benzina.
Giuseppe Critelli
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Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale
TransMilenio, cibo, medicine e Libri vengono dati in cambio dei rifiuti suddivisi, tanto che la macchina inefficiente di raccolta dei rifiuti ora dà lavoro a migliaia di persone. Il primato sudamericano è rafforzato dalle politiche sulla mobilità pubblica realizzate anche a Medellin e Lima. Il sistema Metrocable a Medellin (Figura 3) è stato concepito con lo scopo di migliorare le condizioni di trasporto per i cittadini più deboli, localizzati spazialmente in quartieri-favelas in collina che non possono essere serviti agevolmente dal trasporto pubblico: questo servizio per la prima volta collega la città con le favelas. Il Cable urbano è la soluzione più economica per il servizio ad aree altamente popolate in quanto consente alla sua popolazione un rapido collegamento con il centro della città ed i servizi essenziali in esso localizzati (le favelas sono ovviamente sprovviste di qualunque minimo servizio): con Metrocable in 7 minuti si raggiungono le aree centrali invece delle quasi due ore impiegate precedentemente col sistema bus. Gli impianti di risalita Metrocable ampliano il sistema trasportistico ed integrano la zona di influenza del sistema Metro di Medellín, garantendo gli elevati standard qualitativi, caratteristici del servizio urbano complessivo a Medellin, anche ai Barrios-Favelas Il sistema complessivo è fortemente integrato al MetroCable e permette un pendolarismo dalle Favelas veloce e sicuro. Questa opera e, di conseguenza, gli investimenti su di essa fatti, hanno una rilevanza fondamentale per garantire alla popolazione delle favelas i diritti di cittadinanza. MetroCable è stato pensato da subito per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione a basso reddito, che ne fa ora un grande uso. Si pensi, per valutarne l’impatto sociale, che da quando è stata attivato MetroCable il tasso di omicidi in Medellin e passato da 381 omicidi ogni centomila abitanti a 29.
Figura 3. Sistema MetroCable a Medellin A Lima invece, dall’ 11 luglio 2011, è operativo il primo mezzo di trasporto di massa elettrico, entrato a pieno regime nel successivo mese di ottobre. Il treno unisce nove quartieri di Lima per un totale di 22 chilometri viaggiando per la maggior parte su un viadotto sopraelevato. Questo tratto di 22 Km, dal Cono Sud fino al Cercado di Lima, forma parte della denominata linea 1 di questo sistema di trasporto di massa, il cui proposito più grande è risolvere progressivamente i problemi di trasporto urbano di Lima Metropolitana. La linea prevede cinque treni con 30 vagoni ciascuno con una capacità di trasporto di 1.200 persone per ogni treno, con un utilizzo stimato di almeno 250.000 passeggeri al giorno. La popolazione della capitale potrà spostarsi da Villa El Salvador all’Ospedale Dos de Mayo in meno di un’ora Il servizio è stato gratuito fino alla fine di settembre, quando è terminato il periodo di prova, poi da ottobre è partito il piano tariffario con tariffe popolari per renderlo alla portata di più cittadini possibile.
Conclusioni La necessità di sviluppare sistemi di mobilità pubblica funzionale, che permettano di far fronte alla sempre crescente domanda di spostamento dei cittadini e, soprattutto, sia accessibile a tutti, è oramai una questione prioritaria per garantire parità di accesso a tutti i cittadini al mercato del lavoro, ai servizi, ai luoghi di relazione unitamente allo sviluppo dei nodi delle reti infrastrutturali che collegano il territorio. La mobilità non è più solo una scelta, ma è diventata una necessità. Di fronte a questa necessità, molti sono i cittadini che hanno scarse risorse (nel senso più generale del termine), o meno risorse di altri cittadini. Malgrado la democratizzazione della mobilità, la percentuale di persone in situazione di difficoltà o di minori opportunità per la mobilità è importante; dalla trattazione è emerso che sono vari i motivi alla base di queste più scadenti opportunità e che ancora questa questione non ha trovato il giusto ruolo che dovrebbe avere nel dibattito scientifico e sociale. L’oggetto di attenzione di questo lavoro sono state le politiche urbane più interessanti di rimozione delle barriere alla mobilità urbana attuate in alcune città del NordEuropa e del SudAmerica, barriere che limitavano pesantemente le libertà individuali dei cittadini che sono localizzati in aree con elevato rischio di segregazione spaziale. Giuseppe Critelli
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Accessibilità e cittadinanza: una efficiente mobilità urbana contro la segregazione spaziale
Osservando le azioni di quei sistemi che sono, oramai a tutti gli effetti delle buone pratiche, si è evinto che innovare nella mobilità produce forti ripercussioni sia a livello urbano sia nell’ambito produttivo che sociale. Laddove sono stati sviluppati efficienti sistemi di mobilità pubblica è risultato evidente il contributo da essi dato al miglioramento della sicurezza con una netta diminuzione sia degli indici di incidenti di transito che dei delitti, che segnalano una forte contrazione in tutte le città, oltre che vantaggi indiscutibili dovuti al fatto che si sono fortemente sostenuti, attraverso essa, i più elementari diritti umani, con azioni che legano la mobilità urbana alla raccolta dei rifiuti, ai vantaggi localizzativi, ed altro. Si può altresì osservare che una efficiente mobilità ha facilitato, dove sono state attuate attente politiche, la compattazione del centro cittadino e il consolidamento dei confini della periferia urbana, ponendo un freno all’espansione diffusa nel territorio circostante: gli spazi che vengono rioccupati, l’aumento degli investimenti immobiliari e le opere di riqualificazione del patrimonio architettonico esistente, sono fenomeni che aiutano una nuova dinamica di densificazione della città e una maggiore fruizione dei servizi essenziali anche lontano dalle tradizionali localizzazioni. Questo aumento dei servizi di primaria importanza contribuisce fortemente alla decentralizzazione e al decongestionamento del centro tradizionale, avvicinando i servizi basici alla popolazione periferica, che salta così gli atavici problemi legati alla segregazione spaziale e all’esclusione spaziale. In conclusione si può affermare che le città sono ancora oggi grandi catalizzatrici di popolazione ed anche di povertà estrema e di marginalità, ma in questo articolo si è voluto indicare come ancora oggi esse sono anche poli di moltiplicazione delle risorse e di produzione di capitale sociale. Sono ancora le città, infatti, i luoghi dove si anticipano e si moltiplicano i cambiamenti (demografici, economici, politici, epidemiologici e sociali) che orientano lo sviluppo nel suo complesso. Proprio nelle città è dunque possibile individuare le risorse, e la mobilità urbana è sempre più diventata una risorsa indispensabile, per promuovere l’inclusione sociale, la lotta alla povertà e aumentare i generali diritti di cittadinanza.
Bibliografia Libri Arora A., Tiwari G. (2007), “A Handbook for Socio-economic Impact Assessment (SEIA) of Future Urban Transport (FUT) Projects, Transportation Research and Injury Prevention Program (TRIPP)”, Indian Institute of Technology, New Delhi, file pdf; Lerner J. (2003), Acupuntura Urbana, Editora Record, Rio de Janeiro Articoli Banister, D., Bowling A. (2004), “Quality of life for the elderly: the transport dimension”, Transport Policy 11: pp. 105-115. Blanc M. (2010), “The Impact of Social Mix Policies in France”, in Housing Studies, vol. 25, n. 2, pp. 257-272. Bolt, G. , Özüekren, A., Phillips, D. (2010), “Linking Integration and Residential Segregation”, Journal of Ethnic and Migration Studies, 36: 2, pp. 169-186 Currie G., Stanley J. (2008), “Investigating Links between Social Capital and Public Transport”, Transport Reviews, Vol. 28, No. 4, pp. 529-547, July 2008. Currie, G. (2010), “Quantifying spatial gaps in public transport supply based on social needs”, Journal of Transport Geography, n. 18, pp. 31-41, Elsevier Litman T. (2009), “Community Cohesion as a Transport Planning Objective”, Victoria Transport Policy Institute Musterd S. (2003), Segregation and Integration: a Contested Relationship, in Journal of Ethnic and Migration Studies, vol. 29, n. 4, 2003, pp. 623-641 Preston J., Rajé F. (2007), “Accessibility, mobility and transport-related social exclusion”, Journal of Transport Geography ,n. 15 (2007), pp.151-160. Spinney, J. E. L., D. M. Scott and K. B. Newbold (2009), "Transport mobility benefits and quality of life: A time-use perspective of elderly Canadians", Transport Policy 16(1): pp.1-11. Stanley J., Vella-Brodrick D. (2009), “The usefulness of social exclusion to inform social policy in transport”, Transport Policy 16, pp. 90-96. Vinck D. (2004), “La construcción de un actor que innova colectivo y distribuido. El caso de TransMilenio de Bogotá Universidad Pierre Mendès-France”, CRISTO (Centro di ricerca: Innovazione Socio-Tecnica e Organizzazione Industriale). Siti web IBGE - Brazilian Institute of Geography and Statistics (2010). Demographic Census (in Portoghese). Consultabile su www.ibge.gov.br/home. URBS – Urbanization Company of Curitiba (2010). URBS Official Website (in Portoghese). Consultabile su www.urbs.curitiba.pr.gov.br.
Giuseppe Critelli
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L’accessibilità urbana in un sistema integrato trasporti-territorio
L’accessibilità in un sistema integrato trasporti-territorio Vincenza Chiarazzo Politecnico di Bari Email: v.chiarazzo@poliba.it Tel. 3281544514
Abstract Il lavoro proposto ha l’obiettivo di dimostrare la necessità di nuove forme di intervento per la pianificazione integrata trasporti-territorio, partendo da un approccio di tipo sistemico alla realtà economica e sociale. Nonostante l’evidente legame tra il sistema dei trasporti e il sistema territoriale, nella prassi progettuale e normativa, essi risultano ancora oggi piuttosto separati. Si propone la riflessione sui possibili metodi e approcci rivolti ad una forma più collaborativa tra le strategie urbanistiche e quelle trasportistiche, al fine di migliorare l’accessibilità sociale e vincere l’esclusione sociale. Il caso di studio proposto è il riassetto del nodo ferroviario della città di Bari, dove si sta cercando di portare avanti un ambizioso progetto di riorganizzazione del piano del ferro e dove tale interazione risulta auspicabile.
Introduzione Le città, nel loro insieme, stanno crescendo sempre più: ciò comporta importanti effetti negativi ia sul territorio e sul patrimonio edilizio esistente, sia sulla salute dei cittadini. Inquinamento idrico, atmosferico e acustico, traffico automobilistico, mancanza di spazi verdi, smaltimento dei rifiuti, conservazione dei centri storici sono le questioni più urgenti che le città contemporanee devono risolvere. Ma cosa ci permette davvero di definire città un agglomerato abitativo in espansione? Sicuramente non sono solo le sue dimensioni e il numero di persone che vivono in essa, ma piuttosto il fatto che al suo interno si svolgono determinate funzioni, in grado di soddisfare le esigenze dei suoi abitanti e di quelle dei territori circostanti. Quanto più è esteso il territorio su cui la città esercita un’influenza grazie alle sue funzioni e attività che è in grado di svolgere, tanto più la città è attrattiva. Anche ai giorni nostri possiamo assistere a significative trasformazioni dei paesaggi urbani: la realizzazione di importanti infrastrutture come le linee ferroviarie ad alta velocità o di nuovi tratti autostradali comporta l’occupazione di grandi superfici, la costruzione di viadotti e gallerie. In alcune zone, soprattutto nelle immediate vicinanze delle aree urbane, i terreni agricoli sono utilizzati per localizzare nuovi insediamenti produttivi, interporti, centri sportivi o altre attività, ampliando così gli spazi della città diffusa. L’espansione stessa della città e l’evoluzione dell’economia pongono complessi problemi territoriali cui non sempre è facile trovare soluzioni. Si devono recuperare le aree industriali dismesse per nuove funzioni residenziali, commerciali, culturali? Nello stesso tempo occorre occupare nuovi spazi una volta destinati all’agricoltura per costruire nuove fabbriche? In molte città si pone il problema della salvaguardia dei centri storici e del recupero dei quartieri e delle periferie più degradate. Ognuno di questi casi rappresenta un problema complesso, che richiede studi approfonditi, ma anche l’attenzione degli abitanti dei territori interessati, perché il paesaggio cambi con una decisa inversione di tendenza, motivata non solo da ragionamenti di carattere ecologico, attinenti alla qualità della vita urbana dei cittadini, non solo da ragioni di equità sociale per dare le stesse possibilità agli utenti, ma anche per ragioni di carattere economico perché una città frammentata è anche una città molto costosa, e dove la carenza di trasporto pubblico rende la città insostenibile a tutto tondo. Per far fronte a questi problemi e migliorare l’accessibilità urbana dei cittadini è necessario considerare nuove forme di intervento per la pianificazione integrata tra il sistema dei trasporti e il sistema territoriale, sia nella prassi progettuale che in quella normativa.
Vincenza Chiarazzo
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L’accessibilità urbana in un sistema integrato trasporti-territorio
Sistema di trasporto e sistema territoriale: l’accessibilità L’accessibilità costituisce un elemento chiave per conoscere le relazioni che esistono tra il territorio e il sistema di trasporto. In letteratura risulta riconosciuto il ruolo di tale concetto come potenziale interazione tra le caratteristiche dei modelli anche se spesso se ne riscontra una certa confusione nella sua determinazione scientifica dovuta alla varietà e complessità delle logiche coinvolte. In diverse applicazioni il termine accessibilità, enfatizzando a volte l’una o a volte l’altra componente della struttura spaziale, viene spesso utilizzato indistintamente per intendere la prossimità o la facilità di interazione (Occelli,1999). Tale concetto, affrontato inizialmente da un punto di vista meramente topologico, è andato arricchendosi negli anni di contenuti economico-sociali. È possibile ricostruire una evoluzione storica composta da tre tappe principali (Jones, 1981): 1. Location accessibility | Nei primi lavori l'accessibilità di un nodo era intesa solo in funzione della sua localizzazione. 2. Individual accessibility | Successivamente l'accessibilità fu considerata anche in termini di opportunità o possibilità che una persona o gruppo di persone ha, in una zona concreta, di partecipare ad una attività o insieme di attività determinate. 3. Economic benefit of accessibility | Nei lavori più recenti, alcuni autori hanno identificato l'accessibilità come il beneficio netto che raggiunge un gruppo di persone per risiedere in una determinata regione e poter usufruire un sistema di trasporti. Le più attuali definizioni ci permettono di distinguere quattro elementi presenti in qualsiasi analisi di accessibilità: a. I caratteri fisici, sociali e morfologici, in cui si trovano gli individui e le attività. b. Il sistema di trasporto, necessario perché le persone si spostino per partecipare alle diverse attività considerate. c. Le diverse attività, che si svolgono all'interno dell'area di studio. d. Gli individui o gruppi (utenti), che usufruiscono dell'opportunità di spostarsi. Tante e differenti sono le definizioni che in letteratura vengono fornite per descrivere il concetto di accessibilità. In linea generale, guardando alla funzione del sistema di trasporto rispetto all’uso del territorio, è possibile definire l’accessibilità secondo due prospettive (Cascetta E., 2006): accessibilità attiva, misura della facilità con cui gli attori (famiglie, imprese, utenti) che si trovano in una zona possono raggiungere le diverse funzioni (produttive, commerciali, sociali) dislocate nei diversi punti del territorio; accessibilità passiva, misura della facilità con cui le diverse funzioni (servizi, attività commerciali, sociali) presenti in una zona possono essere raggiunte da utenti localizzati in parti diverse del territorio. Da un lato, per la pianificazione dei trasporti risultano un input, l’assetto del territorio con l’uso del suolo esistente e futuro (Hanson, 1999); mentre la pianificazione territoriale assume il sistema di trasporto come vincolo esterno a cui doversi attenere piuttosto che come elemento da coordinare con le destinazioni d’uso. Dalla stretta dicotomia rilevata tra i due ambiti, che risulta essere sempre ampiamente esistente, nasce la riflessione sui possibili metodi e approcci rivolti ad una forma più collaborativa tra le strategie urbanistiche e quelle trasportistiche. Negli ultimi anni numerosi studi scientifici sono stati proposti per la definizione di teorie per l’interpretazione dei sistemi integrati di ingegneria e pianificazione dei sistemi di trasporto congiuntamente con il governo delle trasformazioni territoriali e dell’urbanistica. Su tali teorie sono state proposte strategie e metodi d’intervento integrati trasporti/territorio (LUTI | Land Use and Transport Interaction) che si basano su una relazione ciclica tra il sistema dei trasporti e il sistema territoriale. Riguardo l’uso del territorio (land use) si possono distinguere le funzioni più significative che da sempre caratterizzano un territorio in tre tipologie: a. Quella residenziale, che garantisce ai cittadini gli spazi in cui abitare; b. Quella politico-amministrativa, che riguarda il controllo politico e amministrativo del territorio; tale funzione è esercitata, ad esempio, da prefetture, questure, tribunali, uffici comunali, provinciali e regionali; c. Quella economico-commerciale, che riguarda la produzione di beni e servizi e la loro commercializzazione; questa funzione viene svolta, ad esempio, da industrie, banche, assicurazioni, centri commerciali, negozi, laboratori artigianali. Il ciclo di interazione trasporti/territorio (Wegener e Furst, 1999) può essere sintetizzato tramite le funzioni appena descritte e che nell’area urbana determinano la localizzazione delle attività umane (come lavoro, studio, shopping, tempo libero); la distribuzione delle attività umane sul territorio che comporta la generazione di Vincenza Chiarazzo
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spostamenti per superare le distanze esistenti tra i diversi luoghi in cui sono localizzate le attività (domanda di trasporto); la distribuzione delle infrastrutture di trasporto che creano opportunità per le interazioni spaziali e può essere misurata tramite il concetto di accessibilità; i livelli di accessibilità che determinano altresì le scelte localizzative e le modifiche sul sistema territoriale (Figura 1) In base a queste teorie si è sviluppata l’ipotesi che considera da un lato la configurazione delle attività urbane come determinante del sistema di trasporto e dall’altro l’accessibilità urbana fornita da quest’ultimo come condizione alle scelte localizzative del sistema delle attività. L’analisi dei modelli di interazione trasporti-territorio comporta per le logiche coinvolte, il reperimento e l’elaborazione successiva di una considerevole quantità di dati relativi al territorio oggetto di studio, quali dati sulla popolazione, sulle attività e sui trasporti. Per l’elaborazione di questi dati possono essere utilizzate tecniche di analisi spaziale, con l’obiettivo di ricavare osservazioni oggettive sulla distribuzione spaziale dei dati, stabilire le cause di interazione, verificare se i valori osservati sono sufficienti per analizzare un fenomeno.
Figura 1. Il ciclo di interazione trasporti-territorio (Wegener e Fürst)
Con lo sviluppo delle tecnologie informatiche uno strumento sempre più utile per i modelli LUTI è rappresentato dai Sistemi Informativi Geografici (Geographic Information System, GIS). Una delle potenzialità di un GIS è quella di poter studiare analiticamente le relazioni nello spazio, poter riunire, memorizzare, modificare e infine rappresentare graficamente, con i relativi riferimenti geografici, dati rivenienti dal sistema fisico territoriale e dai dati numerici dei sistemi di trasporto. Numerosi studi hanno evidenziato come variazioni differenti di accessibilità tra le zone di un'area metropolitana possono avere un impatto rilevante sul modello di uso del suolo, in particolare sulla distribuzione spaziale della popolazione e delle attività economiche: maggiore risulta l'accessibilità di una zona, a parità di condizioni, maggiore è il numero di attività sviluppate in essa. Inoltre, i cambiamenti di accessibilità possono indurre cambiamenti sulla produttività delle imprese locali oltre che sul mercato immobiliare. Su questi fondamenti teorici può basarsi lo studio strategico dell’impatto che nuove infrastrutture possono avere sulle reti infrastrutturali, economico-spaziali, sociali, sia a livello locale, come sviluppo urbano e regionale, sia a livello Comunitario, così come per determinare l’impatto che nuove modifiche dell’assetto del territorio possono avere sull’interno sistema. È bene tenere presente che aumentare il livello di accessibilità può anche giocare a favore di “ulteriori spinte centrifughe e di delocalizzazione dai centri delle città verso le aree periferiche” (Pagliara e Papa, 2006) causando fenomeni di sprawl urbano e determinando l’esclusione sociale per le fasce di popolazione con basso reddito, anziane, con difficoltà motorie e le minoranze etnico-culturali. L’obiettivo dell’analisi empirica è quello di cercare di sintetizzare le informazioni rivenienti da indicatori parziali, i quali differiscono tra loro a causa dei differenti fondamenti metodologici e teorici, fornendo, se possibile, un’unica misura riassuntiva di accessibilità tramite la stima e la definizione di indicatori sintetici ed esaustivi.
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Il caso di studio L’importanza del sistema di trasporto su ferro L’incremento della domanda di trasporto su strada, sia per le merci sia per i passeggeri, ha fortemente ridimensionato l’importanza della rete ferroviaria in Italia. Ma la crescita vertiginosa del trasporto stradale, veloce e teoricamente più economico, non è priva di inconvenienti: le strade sono sempre più spesso congestionate, la velocità degli spostamenti si riduce mentre cresce il degrado dell’ambiente e l’inquinamento. Per evitare il collasso della rete stradale europea e salvaguardare l’ambiente naturale, l’UE ha elaborato alcune politiche specifiche: l’ampliamento e il potenziamento delle reti esistenti, con la realizzazione di assi di collegamento trans europei capaci di ridurre gli squilibri tra le diverse regioni e di favorire una vera integrazione tra i paesi; la riduzione del trasporto merci su strada, promuovendo l’uso del treno e dell’aereo. A tale scopo, le reti ferroviarie italiane devono essere modernizzate e diventare più veloci (collegamenti ad alta velocità); la promozione del trasporto combinato strada-rotaia o strada/vie navigabili. Per riequilibrare i sistemi di trasporto è necessario garantire l’intermodalità tra forme diverse di trasporto. La necessità di rafforzare l’efficienza energetica fa parte degli obiettivi «20-20-20» per il 2020: gli Stati membri si sono impegnati a ridurre riduzione del 20% del consumo di energia primaria dell’UE e delle emissioni di gas serra, e introduzione nel consumo energetico di una quota del 20% di energie rinnovabili. Il consumo di energia nell’edilizia residenziale e commerciale insieme ai trasporti è all’origine di circa il 40% per settore del consumo totale di energia finale e del 36% delle emissioni totali di CO2 nell’UE. È bene sottolineare che c’è una mancanza di tradizione italiana, una scarsa abitudine nel nostro paese a integrare politiche di trasporti a politiche di uso del suolo. Così non è in altri paesi europei, in particolare si può pensare alla Gran Bretagna e all’Olanda, dove storicamente politiche di Land Use & Transport sono profondamente integrate, e che sono ottimi esempi per ridurre i numerosi ostacoli e per l’attuazione di misure efficaci.
Il riassetto del nodo ferroviario di Bari Lo studio si focalizza sul caso della città di Bari, in cui il progetto di riassetto del nodo ferroviario, con la costruzione di nuove stazioni e fermate, può costituire una possibilità di progettazione integrata con gli interventi di riqualificazione e trasformazione urbana, già avviati sullo stesso territorio. In particolare la costruzione di nuove stazioni e fermate può diventare non solo occasione di riqualificazione della città consolidata, trasformazione delle aree dismesse e rigenerazione delle periferie, ma soprattutto costituisce una possibilità per gli utenti della metropoli di accedere al lavoro, all’istruzione, ai servizi di cura della salute e agli altri servizi presenti sul territorio. La città di Bari rappresenta un territorio di snodo a più livelli: ambientale, insediativo, infrastrutturale. A livello infrastrutturale il territorio comunale è servito da quattro sistemi di trasporto: stradale, ferroviario, marittimo e aereo. Per quel che riguarda la rete ferroviaria, la stazione centrale di Bari è in posizione centrale rispetto a una fitta rete di collegamenti ferroviari che connettono il capoluogo pugliese alle principali città dell’entroterra, oltre ad essere punto di passaggio della linea nazionale che da nord a sud collega Milano, Roma e Napoli a Lecce e Taranto. La città oltre la ferrovia, si è espansa nell’ultimo secolo secondo morfologie d’impianto caratterizzate dall’assenza di un disegno urbano unitario, risultando diffusamente priva di spazi aperti strutturati. Le funzioni e le attività commerciali si sono aggregate intorno alle radiali storiche e i luoghi centrali, in cui la comunità si riconosce. Per la rete del ferro sono in corso una serie di rilevanti progetti e interventi che ne muterebbero l’assetto in maniera rilevante. Per quanto riguarda gli interventi previsti per le linee di RFI: il progetto a nord di interramento del tratto compreso tra Santo Spirito e Palese, intervento che permetterebbe l’eliminazione superficiale del tracciato ferroviario in questi due quartieri settentrionali; il progetto del nuovo tronco per Taranto in fase terminale di realizzazione nella zona di Bari Parco Nord; il nuovo tratto sud delle ferrovie che, oggi si configura come forte elemento di cesura urbana per i quartieri di Madonnella e Japigia, che liberando le aree a ridosso della linea di costa, verrebbe risolto con l’attuazione del “collo d’oca” del Piano Quaroni, un tracciato che, utilizzando in parte il sedime delle Ferrovie Sud Est si riaggancerà verso Torre a Mare passando a cavallo dei territorio comunali di Bari e Triggiano. Questo progetto a sud prevede lungo questa tratta due nuove fermate (Fermata Campus e Triggiano) e una nuova stazione (Bari Executive). L’accessibilità fornita da una nuova stazione può innescare un processo di trasformazione urbana delle aree periferiche, purché il progetto preveda la realizzazione di spazi verdi e di parcheggi di interscambio. La stazione di Bari Executive può diventare così un nodo di interscambio intermodale (auto-trasporto su ferro) al fine di limitare l’ingresso in città di vetture che provengono dall’area esterna all’area metropolitana e Vincenza Chiarazzo
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contemporaneamente diventare uno spazio aperto al quartiere, una nuova piazza per i residenti del quartiere, già teatro in questi anni di un “programma integrato di rigenerazione delle periferie”(PIRP). Allo stesso tempo la stazione centrale può ottenere da questo riassetto globale una nuova vitalità con politiche rivolte anche al riutilizzo di aree degradate e abbandonate (si pensi ad esempio all’ex Caserma Rossani). Perché questi obiettivi diventino davvero possibili, andrà prestata particolare attenzione alla promozione di percorsi collettivi di partecipazione come previsto dalla LR21/2008 “Norme per la rigenerazione urbana”. Sotto questo punto di vista, il quadro istituzionale e pianificatorio pugliese si è notevolmente modificato nel corso degli ultimi anni, creando una forte discontinuità rispetto alla mancanza di integrazione che caratterizza la pianificazione generale e attuativa del nostro paese, tramite una politica di riqualificazione fondata su tre parole chiave: partecipazione, integrazione e sostenibilità. Continua centralità dell’innovazione nelle politiche regionali è da riferirsi al seguente concetto chiave: dalla “quantità alla qualità”, non uno slogan ma una vera esigenza per favorire la riqualificazione e frenare l’espansione. Gli strumenti promozionali messi in opera sono molteplici: regolativi, finanziari, organizzativi e relazionali. Negli ultimi anni sono intervenute innovazioni legislative, tra le quali la principale è l’entrata in vigore della LR 20/2001, che trasforma il tradizionale Piano Regolatore in Piano Urbanistico Generale (PUG) e lo articola in previsioni strutturali e previsioni programmatiche (Rotondo, Selicato, 2008); il “Documento Regionale di Assetto Generale (DRAG) - Indirizzi, criteri e orientamenti per la formazione, il dimensionamento e il contenuto dei Piani Urbanistici Generali (PUG)” che stabilisce metodologie, contenuti e procedure di redazione e formazione dei PUG, la Redazione del nuovo Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, l’elaborazione del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, il Piano Regionale dei Trasporti. Nei provvedimenti della Regione Puglia siano essi le Leggi, la Legge sull’abitare sostenibile e per la rigenerazione urbana (LR 13/2008- LR 21/2008), sino alle ultime misure a sostegno dell'attività edilizia e il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale (LR21/2011) è stata rivolta particolare attenzione ai temi della mobilità. L’interazione tra uso del suolo e trasporti, tra sviluppo della città e sviluppo della mobilità, ed in particolare della mobilità sostenibile è una integrazione indispensabile, per le politiche regionali, pena il fallimento delle politiche di mobilità o di trasformazione urbana.
Conclusioni Il lavoro presentato ha messo in evidenza alcuni aspetti della pianificazione e del governo delle trasformazioni del trasporto e del territorio. In primo luogo è da evidenziare che nella fase decisionale è necessario il lavoro congiunto di diverse professionalità e di una collaborazione tra l’ingegneria dei trasporti e la pianificazione territoriale. Nella fase di definizione dei progetti è necessaria l’integrazione di conoscenze, che sono ancora piuttosto distanti nel nostro paese. I modelli integrati trasporto-territorio sono di fondamentale importanza per poter simulare anche gli effetti che un nuovo intervento infrastrutturale può avere sul sistema delle attività, ovvero che una variazione dell’accessibilità generata dal progetto di sistema di trasporto può avere sulla rilocalizzazione delle attività e degli usi del suolo. Il caso della città di Bari costituisce un esempio in cui le pratiche di integrazione tra programmazione e realizzazione del trasporto pubblico e gli interventi di riqualificazione e trasformazione urbana, già distintamente in atto, sono assolutamente necessarie, affinché il progetto diventi davvero sostenibile, condiviso e integrato.
Bibliografia Libri Ennio Cascetta (2006) Modelli per i sistemi di trasporto. Teoria e applicazioni, Utet Università. Francesco Rotondo, Francesco Selicato (2008). La nuova forma del piano comunale: l'interpretazione in Puglia, in Carmelo M. Torre, Alessandra Angiuli. Reti e percorsi di cooperazione nella pianificazione, Bari, Cacucci Michael Wegener (2004) Overview Of Land-Use Transport Models in David A. Hensher and Kenneth Button (Eds.): Transport Geography and Spatial Systems. Handbook 5. Pergamon/Elsevier Science, Kidlington, UK, pp. 127-146. Nuzzolo A. , Coppola P., (2011) Modeling urban activities spatial distribution and dwellings price interactions in Lorenzo Mussone e Umberto Crisalli (Eds.): Trasport Management and land-use effects in presence of unusual demand. Selected papers. Franco Angeli, pp 151-161 Pagliara F. e Papa E. (2006) Impatti territoriali ed economici dei sistemi di trasporto pubblico locale: un’applicazione alla metropolitana di Napoli. In Didattica e ricerca nell’ingegneria dei trasporti, a cura di p. Ferrari ed e. M. Cepolina, Franco Angeli, cit., pp. 230-237.
Vincenza Chiarazzo
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Articoli Jones, S. R. (1981), Accessibility measures: a literature review. TRRL Report 967: Transport and Road Research Laboratory, Crowthorne. Occelli S. (1999) Accessibilità e Uso Del Tempo Nella Città Postfordista Un’analisi empirica dell’accessibilità in alcuni comuni dell’area metropolitana di Torino W.P. 126, IRES Piemonte. Scagnolari, Reggiani, Martin (2004) Accessibilità e trasporti: sviluppi metodologici ed empirici con riferimento all’introduzione della linea ad alta velocità in Europa, XXVI Conferenza Italiana di Scienze Regionali.
Informazioni aggiuntive Legge 13/2008 “Norme per l’abitare sostenibile” Legge 21/2008 “Norme per la rigenerazione urbana” Legge 14/2008 “Misure a sostegno della qualità delle opere di architettura e di trasformazione del territorio” Legge 14/2009 e successive modifiche con legge 21/2011 “Misure urgenti a sostegno dell'attività edilizia e il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale” Documento Regionale di Assetto Generale (DRAG) – Indirizzi per la redazione dei Piani Urbanistici Generali ed Esecutivi Programma integrato di Rigenerazione delle Periferie (PIRP) Nuovo Piano Paesaggistico Territoriale regionale Piano Regionale dei Trasporti
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“Cittadinanze dimezzate”: il governo dell’immigrazione tra politiche e pratiche
“Cittadinanze dimezzate”: il governo dell’immigrazione tra politiche e pratiche Elena Ostanel Università Iuav di Venezia SSIIM Unesco Chair Email: ostanel@iuav.it Tel. 041.2572300
Abstract Il Paper analizza il caso studio di Padova in relazione alla politica di dispersione per Via Anelli mettendo il luce quelle caratteristiche che la definiscono una “politica speciale”. Il lavoro di ricerca su Via Anelli si colloca su una linea temporale che va dal 2003 al 2010: il processo di produzione e riproduzione (Lefebvre, 1976) dello spazio di marginalità è stato ricostruito attraverso l’utilizzo di un “bricolage metodologico” (Ostanel, 2012) che ha messo in campo momenti di ricerca-azione dove la narrazione si è aggiunta all’osservazione partecipante e all’utilizzo di interviste qualitative e semi-struttutate nei diversi momenti della storia di Via Anelli. Il tema “delle politiche” taglia trasversalmente il lavoro di ricerca cercando di mettere al valore i concetti di “politiche privatistiche” e “popolazioni speciali” mutato dalla de Leonardis (1998). A partire da questa analisi viene proposta una radicale revisione del concetto di cittadinanza come possesso di particolari requisiti di status legati all’appartenenza territoriale e, di conseguenza, vengono messi in discussione quegli strumenti di policy che perpetuano accessi differenziati ai beni pubblici della città.
Il campo dell’argomentazione: posizionare lo studio dell’immigrazione nella pianificazione territoriale e viceversa Lo studio della città rappresenta una concreta possibilità di rappresentare una pluralità di orizzonti semantici. La città fa convivere persone, idee e appropriazioni differenti fra loro e questo processo non è consensuale né armonioso (Amin, Thrift, 2002). La città è una continua “cacofonia di discorsi” (Amin, Thrift, 2002; p. 127), una serie di luoghi comuni che si possono utilizzare come risorse per descrivere più lati del soggetto che vogliamo osservare. Lo spazio urbano non può mai essere compreso in profondità: come descrive Latour “la serie di reti circolanti di comando e controllo non definiscono un ordine panottico in grado di rendere la città trasparente allo sguardo di chi ha il potere” (Latour, 1998a). Piuttosto vengono prodotti una serie di “oligopticon”: ordinamenti spaziali, insiemi localizzati, con la loro abilità a guardare fissamente in certe direzioni e non in altre, che consentono di dominare la città ma di trascurare, allo stesso tempo, tanti oggetti. Lo spazio urbano non può mai essere totalmente condizionato (proprio perché non può essere compreso nella sua totalità): esistono “spazi di fuga”, “spazi tattici”, fortemente interattivi e plasmati dalla vita quotidiana, che dimostrano come lo spazio urbano sia “poroso” (ci sono spazi che tessono legami continui con altri tempi e luoghi) e “aconsensuale” (socialmente e spazialmente). Spazi difformi, stratificazioni sociali multiple, nuove forme di “farsi cittadini”, sono l’esito della costruzione di società sempre più differenziate. Simili pratiche e rappresentazioni non sono meno intensamente politiche per il fatto che non raggiungono il registro discorsivo e rimangono invece nell’ambito della politica molecolare; per Agamben (1999) questo processo porta “all’invenzione di nuovi spazi potenziali della politica” dove generare nuove improvvisazioni e imporre nuove soluzioni originali per l’accesso alla città. Questi interstizi (La Cecla, 1997) non sono immuni dall’influenza del potere: esso è una forza mobile e circolante che attraverso l’utilizzo costante di “altre pratiche” produce conseguenze di governo che si caratterizzano per essere un “potere verso” più che un “potere su” (Amin e Thrift, 2002; p. 151). Attraverso queste lenti è stato osservato il caso Elena Ostanel
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“Cittadinanze dimezzate”: il governo dell’immigrazione tra politiche e pratiche
studio di Via Anelli a Padova, a partire dal processo di produzione e riproduzione per giungere ad un’analisi della politica di dispersione. I processi migratori sono capaci di rendere la città ancora più problematica perché fanno si che essa sia attraversata da popolazioni in continuo transito e capaci di materializzare “domande di città” differenti che necessitano di intermediazione culturale. L’immigrazione è uno dei processi strutturali della globalizzazione e rappresenta una delle modalità attraverso cui si realizza la “localizzazione del globale” (Balbo, 2009; p. 1). La migrazione, ancora, offre alla disciplina urbanistica un dispositivo di analisi dei fenomeni di deterritorializzazione (pluralizzazione del territorio) che contraddistinguono in termini sempre più significativi la città contemporanea. Le offre anche la possibilità di uscire dal proprio recinto disciplinare, verso la costruzione di una poli-disciplina (Cipriani, 2000) in grado di rappresentare un fenomeno complesso come la migrazione e la costruzione di territori e cittadinanze ibridi. Questi ragionamenti hanno tutti assieme delle conseguenze su come le politiche vengono ideate, progettate e realizzate (e analizzate). Se “la città è un luogo di mobilità, flusso e pratiche quotidiane che deve essere letta a partire dai suo schemi fenomenologici ricorrenti” (Amin, Thrift, 2002; p. 248), in questo senso il rapporto tra popolazione (o meglio popolazioni) e territorio è di forte mutualità e reciprocità: sono le pratiche dell’abitare che costruiscono territori e allo stesso tempo popolazioni (Crosta, 2010). Gli spazi metropolitani costituiscono il luogo privilegiato delle pratiche del multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi, 2007): lo spazio metropolitano è lo spazio della differenza e della variabilità (Hannerz, 1992) dove utilizzare e riconoscere le differenze diviene una necessità per avere accesso a risorse materiali e simboliche altrimenti scarse e, ancora, per partecipare in modo appropriato a ricorrenti situazioni di interazione (Bauman, 1996).
Politiche speciali e cittadinanze dimezzate: il caso di Via Anelli a Padova Questo contributo vuole definire una riflessione in merito alla “politica di dispersione” realizzata per disgregare il “ghetto di Via Anelli” a Padova. Il lavoro di ricerca su Via Anelli si colloca su una linea temporale che va dal 2003 al 2010: il processo di produzione e riproduzione (Lefebvre, 1976) dello spazio di marginalità è stato ricostruito attraverso l’utilizzo di un “bricolage metodologico” (Ostanel, 2012) che ha messo in campo momenti di ricerca-azione dove la narrazione si è aggiunta all’osservazione partecipante e all’utilizzo di interviste qualitative e semi-struttutate nei diversi momenti della storia di Via Anelli. Il tema “delle politiche” taglia trasversalmente il lavoro di ricerca cercando di mettere al valore i concetti di “politiche privatistiche” e “popolazioni speciali” mutato dalla de Leonardis (1998). La de Leonardis sostiene che “il welfare state tende a smentire la stessa ragione della sua esistenza e del suo sviluppo quando distribuisca beni e servizi nella forma di beni privati invece di produrre beni pubblici e anzitutto quel fondamentale bene pubblico che è la socialità, la comunicazione, la partecipazione al discorso pubblico sulla definizione dei problemi e la ricerca della soluzioni. In questo consiste la sua valenza privatistica” (de Leonardis, 1998; p. 47). Anche una decisione, se incapace di modificare la natura degli outputs politici e inserirsi in un discorso sulla diseguaglianza, può, al contrario, “non decidere” (Bachrach, Baratz, 1968). In questo senso “quanti vengono fatti oggetto di politiche “speciali” possono vedersi lesa la possibilità di costituirsi come attori d’interazione sociale. In questo caso l’aspettativa dell’operatore di politiche è che l’ “utilizzatore” del territorio si riconduca alla condizione di “utente”: capace di usare un servizio alle condizioni cui esso viene fornito, sacrificando le proprie esigenze senza cercare di modificare le regole contestandone la logica quando risultano inadeguate (Crosta, 2010; p. 13). L’alternativa che l’utente ha, quando può permetterselo, è di astenersi dall’uso del servizio e rimanere distante rispetto a questo processo di “inclusione forzata” che comunque avviene a pochi passi da lui (ibidem). In questo modo l’utente decide/è forzato di porsi ai margini del sistema sociale e di diventare in questo senso “invisibile” e straniero (Crosta, 2010). La de Leonardis mette in guardia rispetto alla pratica di slegare il benessere individuale e quello sociale, con la conseguenza che lo Stato diventa “paternalista” perché in grado di rispondere solamente ai bisogni e alla domanda del singolo e della sua famiglia. Di conseguenza, una cultura privatistica si sviluppa all’interno dei servizi e delle politiche pubbliche: quello che viene a mancare, invece, è il processo secondo il quale la collettività si interroga su quelle materie che diventano il terreno di comunicazioni, scelte, azioni e interazioni (de Leonardis, 1998; p. 38). La collettività, in altre parole, non partecipa alla “ridefinizione ininterrotta” dei beni, dei problemi e delle soluzioni sociali. Si passa in questo senso da un piano relativo ai processi sociali, dove pubblico e collettività dialogano per la definizione di beni pubblici in comune (eventuali), all’enfasi sulla decisione politica e agli atti amministrativi. Habermas (1996) parla di “ritiro privatistico della cittadinanza”: la disattivazione di quel processo che alimenta la discussione pubblica sulle materie trattate dalle istituzioni del welfare e sulle istituzioni stesse. Un’azione a mezzo di politiche che produce una popolazione di utenti può non essere in grado, a conti fatti, di contestare quelle “regole che risultano inadeguate” o, per dirla alla Bachrach e Baratz, “di modificare la natura degli outputs politici”. E, come conseguenza, lo spazio e il tempo sono popolati di “nuove diseguaglianze”: in primo luogo, quelle forme di identificazione imposta che avvengono attraverso la chiusura dell’orizzonte, il congelamento del tempo, e che creano nelle persone che vi sono identificate incapacità di progettarsi nel futuro, di “aspirare” come direbbe Elena Ostanel
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Appadurai (2004). Queste forme possono essere riconosciute come espressioni di un “nuovo criterio di diseguaglianza, sull’asse della mobilità temporale, complementare a quello della mobilità spaziale” (De Leonardis, 2007; p. 8). Paternalismo, cittadinanza “dimezzata” e privatismo sono i risvolti più problematici, secondo la de Leonardis, di tale processo. Nella pratica, politiche redistributive selettive, fondate sul principio del merito continuano a produrre e riprodurre confini e barriere tra inclusi ed esclusi. E, allo stesso tempo, contribuiscono a definire una concezione della cittadinanza dove ciò che conta è la redistribuzione di “beni” e non di “poteri” in un’ottica per cui quello che conta è lo status e non l’azione, è la “domanda” e non “la voce” (Hirshmann, 1995).
Oltre il ghetto? Secondo Vitale (Podestà, Vitale, 2011) l’innovazione politica “può essere letta come una dinamica di interazioni all’interno della quale si produce un cambiamento nel modo di significare e discutere dei problemi, cause, responsabilità e soluzioni, nonché una differenza nei rapporti di forza e una trasformazione degli attori coinvolti”. Anche se in maniera diversa, la de Leonardis esprime preoccupazione per gli effetti di interventi privatistici “tecnicizzati” 1 e basati sul concetto del “povero meritevole” sulla redistribuzione dei rapporti di forza che definisco un diverso accesso ai diritti di cittadinanza. L’analisi della politica di dispersione per Via Anelli mette in luce alcuni aspetti interessanti. Il trasferimento degli abitanti del Complesso Serenissima mette in azione una rete composta da vari settori dell’amministrazione comunale, dall’ATER (Azienda Territoriale di edilizia residenziale) della provincia di Padova e da operatori del privato sociale. Per effettuare l’operazione le sei palazzine del Complesso sono state, una alla volta, dichiarate inagibili e in stato di insicurezza strutturale per poter intervenire anche contro le azioni dei proprietari contrari alla chiusura di un luogo di marginalità che aveva garantito per lungo tempo forti profitti. Alla fine del trasferimento (iniziato nel 2005 e terminato nel 2007) 569 persone sono state trasferite principalmente in alloggi di edilizia residenziale pubblica di proprietà del Comune e dell’ATER. Tali alloggi (144) sono stati temporaneamente esclusi dalla normativa ERP (edilizia residenziale pubblica) per permettere una veloce attuazione del progetto. Nella pratica, ai nuclei familiari sono stati assegnati contratti di 4 anni, mentre ai semplici nuclei di single la durata dei contratti è stata limitata a 2 anni. Le 569 persone trasferite costituiscono la parte “regolare” che abitava nel Complesso che è stata censita dagli operatori dello Sportello Casa. Circa 25 persone riescono invece a trovare casa nel mercato privato grazie alla mediazione della Cooperativa in Sestante con le agenzie immobiliari e i proprietari. Nel 2008 inizia il progetto “Oltre il Ghetto” con l’obiettivo di sostenere l’uscita dal pubblico di quelle famiglie o single che non sono ancora riusciti a farlo. Nonostante l’intervento, secondo i dati rilasciati dall’Assessorato alla Casa a giungo 2010 le persone ancora in alloggi ERP con contratti scaduti sono circa 337, tra cui 122 sono singoli e 215 famiglie (compresi i minori); le case ERP utilizzate per gli sgomberi di Via Anelli sono state 155 (di cui 144 di edilizia residenziale pubblica) di cui 81 con contratto per singoli e 74 con contratto famiglia. A fine giungo 2010 ne sono stati recuperati 58, di cui 36 con contratto singoli e 22 con contratto famiglia, quindi gli alloggi attualmente occupati sono ancora 97: di questi 45 (che sono singoli) saranno recuperati con l’ausilio dell’attuale progetto, 13 con le normali assegnazioni da graduatoria ERP e per i restanti 39 alloggi il Comune di trovare la soluzione migliore in base anche alle singole situazioni sia familiari che economiche. La politica di dispersione ha inciso positivamente sul processo di stigmatizzazione territoriale che è stata una delle principali cause della riproduzione di marginalità. Gli abitanti di Via Anelli hanno faticato per anni nel reperimento di una casa e di un lavoro a causa della residenza scritta nei documenti d’identità; sono stati più volte vittime di fermi da parte della polizia, all’interno di una zona fortemente “presidiata”. Queste routines si sono radicalmente modificate con la dispersione; le narrazioni raccolte descrivono vite “normali” caratterizzate dalla tranquillità, dalla vita in famiglia, e da un uso dell’abitazione privata e del quartiere meno conflittuale di quanto avvenisse in Via Anelli. Vivere in Via Anelli o al di fuori di essa significa definire un rapporto estremamente diverso fra il sé e l’ambiente circostante, come se lo spazio di marginalità fosse davvero una terra di confine, dove il Paese di provenienza viene a riprodursi in quello di accoglienza. In Via Anelli la percezione della propria identità è fortemente legata al Paese di origine in contrapposizione ad “una società che non accoglie” e ad “un potere che non ascolta”. In Via Anelli i confini apparivano come chiaramente definiti: c’era un dentro e un fuori nell’immaginario collettivo, nonostante poi le interazioni sociali (conflittuali) potessero legare i due mondi. Nei nuovi contesti abitativi la propria identità deve essere rinegoziata e il rapporto con il Paese ospitante viene descritto come più “semplice” da agire. Ma la politica di trasferimento sembra portare con sé alcuni aspetti problematici tipici dei progetti urbanistici volti al raggiungimento di una maggiore mixité sociale (Faiella, Mantovan, 2011): agire sullo spazio, disperdendo le persone appartenenti a minoranze etniche e/o a classi inferiori in più quartieri, non modifica le cause dello svantaggio e definisce un effetto “spostamento” delle problematiche in altri aree urbane e, inoltre, una condizione “di dis1
Les Galès e Scott raccontano i limiti di interventi “settoriali” che “tecnicizzano scelte dilemmatiche”: “l’amministrazione spinge verso una marcata risettorializzazione, a scapito di politiche integrate, e verso una tecnicizzazione delle scelte più dilemmatiche, mobilitando un armamentario sempre più costituito da indicatori, programmi quadro e controlli (Les Galès, Scott, 2010). In questo contesto si inserisce anche un più ampio dibattito sugli effetti delle politiche orientate alla dispersione della concentrazione etnica per promuovere quella mixitè particolarmente ricercata in Francia (Faiella, Mantovan, 2010).
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innovazione” politica (intesa alla De Leonardis e alla Vitale). In altre parole una politica di dispersione non rimette in discussione la modalità con cui affrontare tematiche quali il conflitto rispetto all’uso dello spazio pubblico e privato urbano, le controversie rispetto alla legittimità di produrre territorio come “non ancora cittadini”, e le cause che portano alla produzione di marginalità per alcune determinate popolazioni, ma agisce “semplicemente” sugli effetti visibili di tali disfunzioni sociali, territorializzandone la risposta a mezzo di politiche. Anche le condizioni “materiali” continuano ad essere un problema per gli ex abitanti di Via Anelli: la difficoltà di reperire casa nel mercato privato, l’accesso al lavoro reso difficoltoso anche dal ricatto giuridico della legge Bossi-Fini, portano gli immigrati a ricordare Via Anelli come una risorsa economica dove non pagare le utenze e dove poter contare su alcune reti amicali importanti e su alcuni servizi informali. In questo senso le “condizioni macrosociali” (Alietti, 2004) risultano essere importanti, non solo per la relazione con le pratiche ma anche per il loro effetto sulle politiche. Questi ragionamenti non portano a sostenere che in Via Anelli non si dovesse intervenire: questo paragrafo vuole riflettere sulla pratica di strutturare i problemi come “risorsa di consenso” da parte del pubblico e di chi altro partecipa al processo di policy, agendo in questo modo verso un’esacerbazione del conflitto e non utilizzando la controversia come momento di rottura di “routine politiche” prima consolidate, verso una loro innovazione. La politica per Via Anelli si definisce come “speciale” sotto l’effetto di diversi fattori: prima di tutto per la tendenza a strutturare i problemi come arma di consenso che non permette alla collettività di interrogarsi su quelle materie che diventano il terreno di comunicazioni, scelte, azioni e interazioni (de Leonardis, 1998; p. 38). La collettività, in altre parole, non partecipa alla “ridefinizione ininterrotta” dei beni, dei problemi e delle soluzioni sociali. Si passa in questo senso da un piano relativo ai processi sociali, dove pubblico e collettività dialogano per la definizione di beni pubblici in comune (eventuali), all’enfasi sulla decisione politica e agli atti amministrativi. In secondo luogo, la politica per Via Anelli è una politica “settoriale” (abitativa) che redistribuisce “beni” e non “poteri” per dirlo alla Hirshmann. Nonostante l’impatto positivo su alcuni aspetti della vita quotidiana dei trasferiti, la politica di dispersione chiama in causa un ragionamento più ampio rispetto alla dialettica tra politiche di immigrazione e politiche per gli immigrati (Balbo, 2009). Il “compito di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali” (Bauman, 2005) sembra rendere le politiche locali spesso “non sufficienti” e rende attuale un discorso più complesso sul possesso dei diritti di cittadinanza, non considerati come un mero possesso di status, ma come pratica trasformativa dello spazio urbano (Lefebvre, 1978) e capacità di partecipare alla costruzione di una società. Una “politica speciale” è invece propedeutica alla definizione di una certa forma di “cittadinanza che rimane dimezzata” perché in costante attesa di un “aiuto pubblico tecnicizzato” e di conseguenza scarso di effetti sulla redistribuzioni di capacità (Sen, 1992). Una forma di cittadinanza di questo genere è impotente rispetto al contributo, anche innovativo, che potrebbe generarsi sulle possibili modalità di risoluzione alternativa dei problemi e dei loro effetti.
Ragionamenti conclusivi Per tornare a costruire cittadinanze bisognerebbe ripensare ai diritti sociali configurandoli come diritti ad esercitare “capacità” (de Leonardis, 1998; p. 179). Credo che questa sia una dei pensieri centrali del sentiero di ragionamento che ho ripercorso in questo articolo. Politiche redistributive selettive, fondate sul principio del merito continuano a produrre e riprodurre confini e barriere tra inclusi ed esclusi non contribuendo a definire un “avvicinamento” tra chi gode dei diritti di cittadinanza e chi non li può esercitare. In questo senso sono le “capacità” (Sen, 1992) degli individui e la loro “possibilità di scelta” (ivi) ad essere al centro dell’analisi per la costruzione di società “diversamente inclusive”. Secondo Sen le capacità rappresentano le varie combinazioni di funzionamenti (stati di essere e fare) che la persona può acquisire (Sen, 1992; p. 64). L’insieme delle capacità riflettono la libertà dell’individuo di condurre un certo tipo di vita piuttosto che un altro dove la libertà viene interpretata come “what a person is free to do and achieve in pursuit of whatever goals or values he or she regards as important” (Sen, 1985; p. 102). Le capacità sono libertà di agire e di scegliere e quindi espressione di individualità diverse e irriducibili. Essere cittadini in questo senso definisce un diritto a partecipare alla costruzione sociale della società (ibidem) al pari di chi è nato in quel territorio nazionale o locale perché la cittadinanza è un percorso di “attivazione” e non il possesso di uno status. Più in generale quello che viene a mancare è il processo secondo il quale la collettività tutta si interroga su quelle materie che diventano il terreno di comunicazioni, scelte, azioni e interazioni (ivi; p. 38). La collettività, in altre parole, non partecipa alla “ridefinizione ininterrotta” dei beni, dei problemi e delle soluzioni sociali. Si passa in questo senso da un piano relativo ai processi sociali, dove pubblico e collettività dialogano per la definizione di beni pubblici in comune (eventuali), all’enfasi sulla decisione politica e agli atti amministrativi. La questione immigrazione non ha oggi “carattere pubblico”: essa è una issue che viene indagata e gestita, nei termini e modalità, dalla “società di accoglienza” senza che vi sia la possibilità per chi “è immigrato” di mettere in campo la sua storia ed esperienza (expertise). Questo passaggio logico mi ricorda la stessa pratica che la cooperazione internazionale utilizza spesso per definire e dominare un certo discorso sullo “sviluppo”. Necessitiamo di una rottura di queste routines (sia proprie degli “intellettuali”, sia “degli uomini della strada”) che non ci permettono di considerare il migrante come un soggetto che esiste prima che sia “un immigrato” e portatore di tutta una serie di capacità (Sen, 2001) che possono essere messe in campo per costruire (e Elena Ostanel
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ridefinire) intersoggettivamente una società che ormai abbiamo compreso essere “non pacificata” e non chiusa in una “comunità territoriale coesa e omogenea”. Parlare di inclusione significa tornare ad un concetto molto simile a quello proposto da Sen e ripreso dalla de Leonardis, piuttosto che a concetti come quello di “integrazione” o “assimilazione” che vedono il migrante come un soggetto da tutelare o da rendere “abile” in un certo periodo di tempo che è deciso dalla società di accoglienza (e non assieme ai newcomers). Ciò che “serve” non è un allargamento del un diritto di voto agli immigrati (che verrebbe da sé e senza temporalizzazione, per dirla alla Kant 2 ) ma la definizione di un diverso rapporto tra centro e periferia che legittimi “chi sta ai margini” ad una reale partecipazione alla ridefinizione dei beni pubblici, dei problemi e delle soluzioni sociali in quanto cittadino. Forse anche gli interventi a mezzo di politiche hanno delle responsabilità in quanto sono capaci di definire “cittadinanze dimezzate” fino a che si rivolgono a “popolazioni speciali” per risolvere, via decisione, gli effetti visibili di disfunzioni sociali come se fossero beni privati senza mettere in campo delle risorse per allargare la possibilità di accedere a determinate risorse che divengono un diritto solo quando si è cittadini.
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Per approfondimenti: “Sopra il detto comune: “questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” e Principi metafisici della dottrina del diritto”, in Scritti politici e di filosofia della storia del diritto, trad. it. Di g. Solari e G. Vidari, ed. postuma (a cura di) N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Utet, Torino, 1965.
Elena Ostanel
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Verso una prospettiva integrata per l’Housing Sociale
Verso una prospettiva integrata per l’housing sociale Valeria Lingua 1 Università degli Studi di Firenze Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio Emaill: valeria.lingua@unifi.it Tel. 055.2756475/ fax 055.2756488
Abstract Il paper propone di affrontare il tema dell’accesso alla casa lungo tutto il complesso profilo del processo, per ricomporre, in un modello di progettazione integrata, le diverse fasi di pianificazione e progettazione urbanistica, progettazione architettonica e tecnologica, le nuove procedure di finanziamento e i nuovi modelli gestionali e amministrativi. I molteplici apporti tecnico-scientifico-procedurali non sono affrontati in una tradizionale successione a cascata, ma in parallelo secondo un metodo interattivo di messa a punto simultanea e progressiva delle proposte, fino alla loro “immersione” in contesti urbani e amministrativi concreti. La filiera deve inoltre trovare una verifica di efficacia e di fattibilità relativamente agli aspetti finanziari, amministrativi, realizzativi (sia in termini fisici che sociali) e gestionali tali da garantire un’accessibilità a 360°, dal cucchiaio alla città.
Introduzione Tra i beni e le opportunità che la città offre quale diritto di cittadinanza, l’accesso alla casa è da sempre uno dei temi oggetto di attenzione da parte dell’urbanistica. Se in passato sono state formulate risposte settoriali, insufficienti sia dal punto di vista urbanistico che architettonico e prestazionale, che hanno determinato episodi di segregazione sociale e stigmatizzazione all’interno della città, oggi è chiara la necessità di traguardare il tema in una prospettiva multidisciplinare. Negli ultimi decenni, infatti, lo scenario che riguarda il tema dell’housing sociale è profondamente mutato, per effetto sia delle trasformazioni del quadro socio-economico e insediativo, sia della disponibilità di strumenti e procedure costruite a questo scopo nel periodo del massiccio inurbamento, delle migrazioni interne e delle grandi crescite urbane, nonché della recente crisi globale. Sul fronte sociale la difficoltà di accedere al bene casa alle condizioni del mercato riguarda ormai strati di popolazione ben più ampi quantitativamente rispetto a qualche decennio fa, e molto più diversificati qualitativamente, che porta a considerare in difficoltà strati sociali di reddito medio e una pluralità di soggetti
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Le riflessioni in merito al tema dell’accessibilità alla casa sono parte della riflessione più ampia svolta nell’ambito del progetto di ricerca “ABITARE SOCIALE. Modelli architettonici e urbanistici sostenibili”, finanziato con bando pubblico dalla Regione Toscana ai fini fornire metodi e procedure utili a costruire una significativa offerta di alloggi in affitto in Toscana. Il progetto, vinto dall’Università di Firenze (Dipartimento di Architettura, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del territorio, Dipartimento di Tecnologia dell’Architettura e Design) prevede uno sforzo congiunto dell’Università, degli operatori sociali e finanziari e delle amministrazioni locali, coinvolge tutto lo spettro degli attori che operano nel settore, nella convinzione che questa sia una condizione necessaria a portare su un versante di concretezza e operatività un tema sempre più strategico nel quadro sociale economico e insediativo della Regione Toscana. Partecipano alla ricerca: Università di Firenze, attraverso il contributo integrato dei gruppi di Progettazione (Fabrizio Rossi Prodi, Alessandro Flaminio, Francesca Genise, Alessandra Pizzetti, Tommaso Rafanelli, Tommaso Vergelli), Urbanistica (Giuseppe De Luca, Elisa Cappelletti, Gianfranco Gorelli, Valeria Lingua, Camilla Perrone, Stefano Stanghellini, Valeria Ruaro, Lara Tozzi) e Tecnologia (Jacopo Favara, Maria De Santis, Saverio Mecca, Elisabetta Palumbo); Fondazione Housing Sociale (Sergio Urbani); ANCE (Mauro Carri); Comune di Prato (Francesco Caporaso, Salvatore Torre); Comune di Grosseto (Marco De Bianchi); Consorzio Edilcoop Prato (Francesco Bettarini); Serenissima Società Cooperativa (Roberto Gucci).
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Verso una prospettiva integrata per l’Housing Sociale
A partire dalla necessità di perseguire un approccio integrato al tema, il paper propone di affrontare l’accesso alla casa lungo tutto il complesso profilo del processo: dalla individuazione delle strategie pianificatorie di area vasta (ambiti sovracomunali o di comuni associati), alla definizione del ruolo che il tema dell’housing sociale può svolgere nel più generale quadro della riqualificazione e rigenerazione della città contemporanea, sia in termini funzionali che spaziali e sociali, alla definizione di procedure perequative e compensative in grado di incidere sugli aspetti relativi alla rendita fondiaria e compensare l’inutilizzabilità a questi fini dell’istituto dell’esproprio, alla definizione di modelli architettonici tipologici e aggregativi, ai requisiti energetici e ambientali, alla definizione degli aspetti tecnologici e costruttivi. La filiera di operazioni sopra definita deve inoltre trovare una verifica di efficacia e di fattibilità relativamente agli aspetti finanziari, amministrativi, realizzativi (sia in termini fisici che sociali) e gestionali tali da garantire un’accessibilità a 360°, dal cucchiaio alla città. Sulla base dell’inquadramento dell’housing sociale nella più ampia questione della coesione sociale, di seguito verranno analizzati i temi e le sfide della accessibilità alla casa come cittadinanza nel contesto del nuovo millennio. La definizione di una prospettiva integrata al tema è intesa come supporto alla programmazione e progettazione degli interventi dell’edilizia residenziale sociale, capace di sistematizzare la considerevole latitudine delle questioni in campo, coinvolgendo tutto lo spettro degli attori che operano nel settore, sulla base dalla convinzione che questa sia una condizione necessaria a portare su un versante di concretezza e operatività un tema sempre più strategico nel quadro sociale, economico e insediativo attuale.
Accesso alla casa come cittadinanza: l’housing sociale per la coesione sociale Negli ultimi decenni lo scenario che riguarda il tema dell’abitare sociale è profondamente mutato sia per effetto delle trasformazioni del quadro socio-economico e insediativo che della disponibilità di strumenti e procedure costruite a questo scopo nel periodo del massiccio inurbamento, delle migrazioni interne e delle grandi crescite urbane (anni Sessanta e Settanta). La difficoltà di accedere al bene casa alle condizioni del mercato riguarda ormai strati di popolazione ben più ampi quantitativamente rispetto a qualche decennio fa e molto più diversificati qualitativamente. Nel corso degli ultimi tre decenni, il target degli interventi per case in affitto ha infatti subito delle profonde trasformazioni, passando dalle fasce più popolari e di reddito inferiori a un ceto intermedio, che non gode di particolari protezioni, ma non usufruisce di un reddito tale da accedere alla proprietà. Tale fascia di reddito intermedio, chiamata anche “fascia grigia”, è composta da figure sociali nuove rispetto al passato, caratterizzate da diverse composizioni del nucleo familiare, o da una diversa propensione alla mobilità: giovani coppie, singles (giovani, anziani, separati e divorziati), immigrati con famiglia numerosa, studenti, abitanti temporanei. La necessità per il settore dell'housing sociale di ripensare al ruolo alle modalità per rispondere alle esigenze emergenti, implica una riflessione sul concetto di coesione sociale, per comprendere come esplicitare una azione efficace in merito. Se si assume, infatti, una definizione di coesione sociale come capacità non solo di ridurre disparità e ineguaglianze, ma anche di rafforzare il capitale sociale (Berger-Schmitt 2000; Atkinson and Davoudi 2000; Council of Europe 2004), l’housing sociale diventa uno dei fattori capaci di concorrere alla formazione di relazioni sociali, interazioni e legami. In questo senso, assume un certo interesse la definizione di Czasny (2004), che individua due livelli di integrazione e coesione sociale: - un livello macro, basato su un mix di meccanismi regolativi statali, comunali, cooperativi e legati al mercato, intesi come condizioni di base per la soluzione dei problemi relativi alla produzione e distribuzione di beni e servizi sociali. Se applicato alle politiche dell’abitare, tale livello implica l’attivazione di meccanismi di regolazione del mercato libero attraverso l’housing sociale, con i relativi meccanismi di reperimento delle aree e contenimento dei prezzi; - un livello micro in cui l'individuo è integrato in reti di interazione personale in ambiti diversi (vicinato, amicizia, famiglia, associazionismo e volontariato, ambiente educativo e di lavoro). A questo livello, le strategie progettuali riguardanti gli spazi pubblici e semipubblici nell’ambito dell’housing sociale sono finalizzate allo sviluppo di strategie di adattamento e inserimento in reti di relazione informali (Putnam, 1993). In entrambe le dimensioni, il social housing può contribuire al raggiungimento della coesione sociale per la sua stessa natura di politica per la casa tesa «to provide the whole population with good, adequately equipped dwellings of suitable size in a well-functioning environment of decent quality at reasonable cost» (UNECE, 2006; p. 9). In particolare, l’edilizia sociale è chiamata a: contribuire alla lotta contro l’esclusione sociale, attraverso un progetto di territorio integrato sia a livello comunale che di area vasta, basato sulla mixité funzionale e sociale e sull’integrazione delle politiche territoriali con politiche sociali e occupazionali che, insieme all’housing sociale, concorrano alla affermazione personale e sociale dell’individuo e della sua famiglia;
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Verso una prospettiva integrata per l’Housing Sociale
ridurre le disparità di accesso al mercato, soprattutto in relazione alle nuove emergenze della cosiddetta fascia grigia, attraverso modalità di accesso differenziate; prevenire la segregazione spaziale e la polarizzazione sociale, attraverso soluzioni progettuali atte a garantire la massima accessibilità ed un’equa distribuzione dei diversi tipi di spazio funzionale; provvedere alla fornitura di servizi sociali, un ruolo che vanno sempre più assumendo le cooperative oltre alla semplice costruzione e gestione degli alloggi; far crescere il senso di appartenenza alla comunità e il capitale sociale, attraverso l’attivazione di pratiche di coinvolgimento degli abitanti nei processi di governo del territorio, nelle diverse accezioni della partecipazione (Ciaffi e Mela, 2006). Per realizzare questi obiettivi, si rende necessaria una prospettiva integrata capace di affrontare le diverse fasi di pianificazione e progettazione urbanistica, progettazione architettonica e tecnologica, le nuove procedure di finanziamento e i nuovi modelli gestionali e amministrativi andando al di là della tradizionale successione a cascata, secondo un metodo interattivo di messa a punto simultanea e progressiva delle proposte, fino alla loro “immersione” in contesti urbani e amministrativi concreti.
Accesso alla casa e housing sociale: temi e sfide La necessità per il settore dell'housing sociale di ripensare al ruolo alle modalità per rispondere alle esigenze emergenti, richiede alla città di affrontare in modo integrato una serie di problematiche riconducibili al più ampio concetto di coesione sociale, traguardando contemporaneamente il livello macro e quello micro. Tenendo presente che non esiste una formula standard per la costituzione di società coese, nella filiera che va dal progetto territoriale alle caratteristiche prestazionali dell’edificio e alla fattibilità dell’operazione, si tratta di intervenire, rafforzandoli, su alcuni elementi generalmente connessi al tema dell’accessibilità, che assume sfumature diverse a seconda del punto di vista e della scala di riferimento. In particolare, se si considera il tema dell’accessibilità fisica, il tema assume risvolti progettuali tesi a considerare in modo integrato e parallelo l’accessibilità territoriale, urbana, di quartiere e degli spazi pubblici, l’accessibilità carrabile e pedonale, la fruibilità degli spazi interni. In particolar modo, si tratta di garantire: pianificare gli spazi aperti definendo un sistema articolato di spazi pubblici, di uso pubblico e spazi privati; con gerarchie, relazioni, margini e permeabilità ben qualificati, in grado di garantire continuità fisica e paesaggistica e permeabilità tra gli spazi aperti. In particolare è opportuno definire architettonicamente l’uso degli spazi collettivi in modo tale da favorirne l’adozione e/o l’appropriazione da parte degli utenti, attraverso arredi fissi e attrezzature robuste e polivalenti proporzionare dimensioni e funzioni delle attività integrative all’abitare alla misura dell’insediamento residenziale, collocandole al piano terreno o su percorsi semipubblici e pianificando i flussi nelle diverse fasce orarie della giornata. Occorre inoltre valutare gli effetti acustici e di disturbo e le compatibilità fra funzioni diverse. Se in relazione a questi temi sono stati redatti numerosi manuali, che vanno dalla progettazione urbana a quella dell’edificio, come gli urban design manuals anglosassoni, che spesso contengono specifiche sezioni sull’housing sociale, quando non sono esplicitamente dedicati all’argomento, in questo contesto assumono un certo interesse i temi dell’accessibilità maggiormente legati agli aspetti di coesione sociale. In particolare, le pratiche di housing sociale del nuovo millennio sono chiamate a sviluppare, oltre ad una attenzione particolare all’accessibilità dei quartieri residenziali, alla qualità degli spazi pubblici e alla connessione con il sistema del trasporto pubblico locale e tra i luoghi di vita e di lavoro, temi trasversali e multiscalari relativi a: l’integrazione delle politiche dell’abitare sociale con quelle dell’abitare, in particolare in un’ottica di area vasta, una dimensione generalmente non considerata dalle politiche dell’abitare (ancor meno da quelle per l’housing sociale), ma oggi al centro del dibattito politico e culturale; una progettazione attenta alle caratteristiche intrinseche del luogo, alle invarianti e agli elementi identitari, in sostituzione di aree degradate, o in continuità con le aree residenziali esistenti e/o con il tessuto urbano consolidato, per evitare che la prevalenza di determinati gruppi sociali (immigrati o utenze deboli) determini la ghettizzazione o la formazione di aree monofunzionali o di comunità chiuse (gated communities) sia dal punto di vista fisico che sociale; un accurato targeting delle nuove dotazioni di edilizia residenziale nelle diverse parti della città, tale da creare mixité sociale e/o compensare le carenze di mixité nelle aree degradate o affette da esclusione sociale. La diversificazione del parco immobiliare (tra affitto, proprietà e diverse tipologie di edilizia sociale: sovvenzionata, agevolata ecc., nonché attraverso l’integrazione dei gruppi più deboli), determina anche una differenziazione dei profili sociali dei residenti, ma solo se integrata con politiche e programmi per prevenire la microcriminalità, per favorire l'occupazione locale, per l’assistenza all'infanzia e per le pari opportunità. In generale, le politiche sociali dovrebbero essere implementate attraverso la creazione di condizioni tali affinché i residenti possano migliorare le proprie condizioni di vita; Valeria Lingua
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Verso una prospettiva integrata per l’Housing Sociale
l’utilizzo di nuovi dispositivi economico-finanziari per garantire la fattibilità degli interventi. Oggi l’'edilizia sociale può essere utilizzata come strumento di equilibrio del mercato immobiliare solo attraverso il progressivo abbandono dei tradizionali meccanismi di finanziamento pubblico, cui si sostituisce l’ottica dell’investimento, strumenti di gestione innovativi (come i Fondi immobiliari) e la formazione di nuovi soggetti che aggreghino competenze tra loro complementari; una progettazione architettonica e tecnologica rivolta alle più recenti innovazioni tecnologiche e finalizzata a perseguire il risparmio energetico, considerato come uno dei fattori concorrenti alla fattibilità gestionale dell’intervento. La fattibilità finanziaria e gestionale è oggi uno degli aspetti preponderanti della questione housing sociale, che si configura oggi come un vero e proprio segmento autonomo del mercato immobiliare residenziale, caratterizzato da attori e meccanismi di finanziamento propri, ma da alcuni limiti intrinseci: in particolare, la scarsa profittabilità degli investimenti, cui è possibile sopperire non solo attraverso l’attivazione di “leve”, fiscali, finanziarie ed economiche, ma anche attraverso “leve” urbanistiche in grado di contenere i costi della produzione e agevolare l’immissione nel mercato degli immobili. Se nel secolo scorso, la legge 162/67 e i derivati Piani per l’Edilizia Economica Popolare permettevano di acquisire aree a valori inferiori a quelli di mercato, oggi il venir meno di questi strumenti e l’allineamento ai valori di mercato implicano la necessità di reperire aree per l’housing sociale con modalità differenti, e attraverso un maggior coinvolgimento degli attori privati, per fornire una risposta più flessibile ad esigenze sociali in rapido mutamento. Inoltre, la possibilità che siano acquisite gratuitamente le aree per l’edilizia sociale, assimilandole ad uno standard al pari degli standard di cui al DM 1444/68, implica un importante ruolo per la pianificazione comunale, chiamata a individuare e gestire le aree di trasformazione attraverso modalità diverse, dalla perequazione, ai crediti edilizi, ai premi volumetrici 2 .
Verso un approccio integrato I cambiamenti socio-economici che hanno interessato il nuovo millennio, insieme al progressivo abbandono dei tradizionali meccanismi di finanziamento pubblico, hanno portato a un radicale rinnovamento del settore housing sociale, che viene sempre più assimilato a meccanismi di investimento tipici del mercato immobiliare, ma ha ampliato la gamma dei soggetti che compongono la domanda di alloggi ad un canone sostenibile. I nuovi profili sociali, le modalità di utenza e i relativi modelli abitativi comportano necessariamente un ripensamento del progetto di housing sociale, non solo in termini di tipologie abitative e loro aggregazioni (dunque, non solo alla scala del progetto architettonico), ma inserendolo in una forma organica di intervento pubblico nelle politiche abitative e - di riflesso - nelle politiche territoriali, in grado di dare una risposta concreta a tali problematiche. Si tratta di riproporre una nuova stagione nella quale la casa e le infrastrutture urbane, siano esse di nuova realizzazione o "semplicemente" mantenute in efficienza in modo programmato, tornino ad essere il motore delle città e dell'attività non solo delle imprese di costruzione, ma di tutto l'indotto che ruota intorno all'edilizia. Ciò significa che l’edilizia sociale deve perdere i caratteri di settore specialistico, per essere ricollocata nel più generale contesto della città contemporanea e della sua riqualificazione, allargandolo oltre il concetto di edilizia popolare (espressa attraverso i Peep). Si tratta di ridefinire gli strumenti urbanistici e architettonici di intervento oltre il limite dei “piani dedicati” o degli interventi unitari, tenendo conto di una serie di questioni, come la necessità di dotare di propri caratteri identitari le nuove espansioni, o l’esigenza di una limitazione del consumo di suolo attraverso la rigenerazione o il recupero della risorsa urbana esistente. In questo senso, sia la disciplina, sia i processi di intervento, sono chiamati a un aggiornamento, che permetta di recuperare una profondità di ricerca e innovazione almeno in quattro ambiti: la “tipologia dell’alloggio” (rimasta sempre uguale a se stessa nell’immaginario comune e nella pratica della progettazione dalle innovazioni prodotte dal Moderno); il ruolo di questi interventi rispetto alla forma e ai sistemi della città e al suo spazio pubblico; le tecnologie adottate e il giusto compromesso tra eco sostenibilità, soluzioni tecniche, materiali, progettazione e costi; la fattibilità finanziaria e gestionale delle operazioni di riqualificazione o nuova costruzione finalizzati alla realizzazione housing sociale. 2
L’applicazione del principio perequativo implica la possibilità, nell’ambito dello strumento operativo di governo del territorio, di utilizzare opportuni parametri tecnici per ripartire in misura perequativa (Stanghellini e Ruaro, 2011): a) i quantitativi di superficie utile lorda relativi alle funzioni previste; b) gli oneri economici per realizzare le opere di urbanizzazione e gli interventi di interesse pubblico; c) gli oneri relativi alla cessione gratuita al Comune di aree a destinazione pubblica; d) gli obblighi relativi alle eventuali quote obbligatorie di edilizia residenziale con finalità sociali; e) gli eventuali ulteriori benefici pubblici che il piano prescrive come condizione obbligatoria. Valeria Lingua
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Verso una prospettiva integrata per l’Housing Sociale
In particolare, occorre operare un risarcimento rispetto alla distrazione della ricerca architettonica degli ultimi tre decenni su questo tema, emersa in Italia al confronto con alcuni altri paesi europei (Olanda, Francia, Spagna e area germanica), ove la sperimentazione di modelli tipologici a piccola e media scala si è fregiata anche di un livello elevato di qualità architettonica, nel senso della vivibilità e gradevolezza dei luoghi, dell’integrazione dei fattori spaziali, distributivi e tecnici della sostenibilità ambientale, nonché della contemporaneità dell’espressione linguistica. Il tema dell’accessibilità alla casa come impulso alla coesione sociale richiede pertanto di essere affrontato lungo tutto il suo complesso profilo: dall’individuazione delle strategie pianificatorie di area vasta (ambiti sovracomunali o di comuni associati), alla definizione del ruolo che l’abitare sociale può svolgere nel più generale quadro della riqualificazione e rigenerazione della città contemporanea, sia in termini funzionali che spaziali e sociali; dalla definizione di procedure perequative e compensative in grado di incidere sugli aspetti relativi alla rendita fondiaria e compensare l’inutilizzabilità a questi fini dell’istituto dell’esproprio, alla definizione di modelli architettonici tipologici e aggregativi; dai requisiti energetici e ambientali, alla definizione degli aspetti tecnologici e costruttivi. In particolare, la progettazione dell’alloggio sociale, che generalmente si identifica con il raggiungimento di standard minimi abitativi, oggi deve essere sempre più basata sui principi di efficienza energetica e di progettazione sostenibile, identificando in quest’approccio integrato - sociale, economico ed ambientale - la strategia adeguata per far fronte e prevenire il fenomeno della povertà energetica. La filiera di operazioni sopra definita deve trovare una verifica di efficacia e di fattibilità relativamente agli aspetti finanziari, amministrativi, realizzativi (sia in termini fisici che sociali) e gestionali. Si tratta di configurare politiche fondiarie e strumenti finanziari e gestionali che siano funzionali alla produzione di una offerta di edilizia sociale articolata, capace cioè di interfacciarsi con i diversi segmenti di domanda abitativa presenti in realtà urbane differenziate. Questo approccio integrato al tema dell’abitare sociale non è né banale né scontato: siamo ancora lontani, infatti, da una gestione dei processi in cui i molteplici apporti tecnico-scientifico-procedurali non siano affrontati in una tradizionale successione a cascata, ma in parallelo, secondo un metodo interattivo di messa a punto simultanea e progressiva delle proposte. Solo una visione complessa della filiera, dalla pianificazione e progettazione, all’attuazione e costruzione, all’affidamento e gestione, può permettere di accorciare sia il processo decisionale che quello costruttivo, inserendoli un unico modello integrato finalizzato, in ultimo, a perseguire la coesione sociale dell’intero sistema urbano e territoriale.
Bibliografia Atkinson R., Davoudi S. (2000), «The Concept of Social Exclusion in the European Union: Context, Development and Possibilities», Journal of Common Market Studies, 38 (3), pp. 427–448. Berger-Schmitt, R. (2000), Social Cohesion as an Aspect of the Quality of Societies: Concept and Measurement, EuReporting Working Paper No. 14, Subproject “European Systems of Social Indicators”, Mannheim, Centre for Survey Research and Methodology Ciaffi D., Mela A. (2006), La partecipazione. Dimensione, spazi, strumenti, Carocci, Roma Council of Europe (2004), Recent Demographic Developments in Europe, Strasbourg Czasny, K., ed. (2004), The Importance of Housing Systems in Safeguarding Social Cohesion in Europe, Vienna: SRZ Stadt + Regionalforschung GmbH Gelsomino L., Marinoni O. (2009), Territori europei dell’abitare 1990-2010, Editrice Compositori: Bologna Putnam R.D. (1993), Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, Princeton, NJ: Princeton University Press. (Trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori). Rossi Prodi F., De Luca G., Stanghellini S., Gorelli G., De Santis (a cura di, 2012), Abitare sociale. Modelli architettonici e urbanistici sostenibili. Linee guida, Alinea: Firenze (in corso di pubblicazione) Stangellini S., Ruaro V. (2011), Definizione del Sistema Perequativo, Comune di Gorosseto, Regolamento urbanistico.
Valeria Lingua
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Comunanze urbane e domanda di partecipazione
Comunanze urbane e domanda di partecipazione Chiara Belingardi Università degli studi di Firenze Dottorato di ricerca in Progettazione della città, del Territorio e del Paesaggio, indirizzo Progettazione Urbanistica e Territoriale Email: chiara.belingardi@gmail.com Tel/fax 338.9193172
Abstract La domanda di partecipazione dei cittadini storicamente è quella di poter conoscere, essere consultati, avere più trasparenza e voce nelle scelte operate dall'amministrazione. In alcuni casi la domanda si spinge fino all'autocostruzione e autogestione. Alla domanda di partecipazione si accompagna la domanda di spazio pubblico, sia in senso fisico, sia in senso figurato (come spazio di relazione e confronto). Da qualche anno si è formata una domanda di beni comuni, che supera la domanda di partecipazione perché prevede il controllo e la gestione diretta dei beni (comunanze) da parte dei cittadini. I beni comuni sono quei beni che non appartengono ai privati né allo stato; la loro gestione supera questo dualismo soprattutto nella garanzia di accesso. Nella città contemporanea, soprattutto negli spazi residuali, esistono numerose esperienze di spazi aperti autogestiti, che possono essere definiti Comunanze urbane, perché non hanno limitazioni nell'accesso e possono essere utilizzati con un gradi di libertà maggiori di altri spazi, e perché hanno una comunità coinvolta direttamente nella gestione e nella cura.
La domanda di partecipazione Domanda di partecipazione e risposta delle istituzioni. Già da molti anni in Italia esiste una domanda di partecipazione da parte dei cittadini, che chiedono di essere coinvolti nelle scelte che riguardano il loro ambiente di vita (in termini di spazi e servizi). Soprattutto negli ultimi dieci anni alcune amministrazioni pubbliche hanno raccolto queste istanze in maniera più o meno convinta e hanno scelto di aprire alcune decisioni alla consultazione popolare. In molte città sono fiorite esperienze di Bilancio Partecipato/Partecipativo, Agenda 21, Città amica dei Bambini e degli adolescenti, processi di coinvolgimento dei cittadini per la progettazione di aree urbane o di altri spazi e/o strutture pubbliche. Alcuni processi sono stati istituzionalizzati al punto di entrare a far parte di Statuti e Regolamenti comunali. Il Comune di Roma, ad esempio, nell'articolo 1 del suo Regolamento di Partecipazione dei Cittadini alla trasformazione urbana (2006) dice: Il Comune di Roma riconosce nella partecipazione popolare un metodo fondamentale per la formazione delle decisioni in materia di trasformazioni urbane e per la promozione dell'inclusione sociale. Il processo partecipativo non si limita agli aspetti di informazione e consultazione, ha carattere di continuità, strutturazione e di non occasionalità (Comune di Roma, 2006). Alcune Regioni italiane, come ad esempio la Toscana, hanno fatto diventare la partecipazione una procedura da eseguire per legge, soprattutto per quanto riguarda le scelte di governo del territorio. L'articolo 1 della Legge Regionale 69/2007 dice che: La partecipazione alla elaborazione e alla formazione delle politiche regionali e locali è un diritto; la presente legge promuove forme e strumenti di partecipazione democratica che rendano effettivo questo diritto (Regione Toscana, 2007). Chiara Belingardi
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Comunanze urbane e domanda di partecipazione
Tuttavia non sempre alle dichiarazioni corrispondono i fatti e alcuni processi partecipativi hanno lasciato i cittadini frustrati e delusi o perché si sono limitati a trattare di questioni irrilevanti e periferiche rispetto al nocciolo della decisione, o perché alla fine del processo non è seguita la fase della realizzazione e della messa in opera di scelte prese con molto impegno anche di mediazione dei conflitti o perché la delega non è stata effettiva e l'amministrazione ha preso delle decisioni in netto contrasto con quanto emerso dal processo partecipativo. In questo momento a causa della crisi economica la partita si fa ancora più difficile: il Patto di Stabilità imposto dal governo prevede il taglio di ogni spesa da parte degli enti pubblici. Le amministrazioni sono quindi costrette alla privatizzazione dei servizi o alla vendita di terreni pubblici per riuscire a pareggiare il Bilancio. A questo si aggiunge la sensazione di perdita della sovranità a beneficio dei “mercati”, o dell'Europa, a cui gli amministratori di tutti i livelli sembrano dover rendere conto più che ai loro cittadini: si pensi alla realizzazione della TAV in Val di Susa, giustificata perché “é l'Europa che ce lo chiede” o al controllo costante dell'andamento dei mercati per vedere se le manovre economiche e finanziarie votate dal Parlamento saranno sufficienti o se si imporranno nuovi sacrifici. Mai come in questo momento sarebbe quindi necessaria la partecipazione dei cittadini, che dal canto loro la richiedono a gran voce: l'adesione su scala nazionale al movimento NoTav sottintende che non ci si accontenti di vaghe risposte, soprattutto quando di mezzo c'è una spesa di svariati milioni di euro in un momento in cui si impongono risparmi sui servizi essenziali e già da qualche mese si richiede da più parti di avviare processi di Auditoria del debito, sia a livello nazionale sia a livello locale, che permetterebbe di comprendere come il debito pubblico si è formato e di selezionare quali parti pagare perché legittime e quali altre invece non assolvere. Un'operazione del genere rappresenterebbe una sorta di “Bilancio Partecipato del debito” e ridarebbe forza alla politica rispetto ai mercati.
Scale e livelli di partecipazione Per permettere alle persone e alle amministrazioni di orientarsi nelle diverse possibilità di partecipazione, alcuni autori hanno elaborato delle “Scale della Partecipazione” (tra le più note quella di Roger Art, che ne elaborò una specifica per la partecipazione dei bambini e quella di Arnstein del 1969). A seconda del reale grado di apertura e di coinvolgimento dei cittadini si sale di gradino in gradino a partire dalla partecipazione di facciata fino ad arrivare all'autogestione. Una proposta di scala della partecipazione potrebbe essere: 1. informazione: gli enti pubblici informano i cittadini delle loro decisioni; 2. ascolto: gli enti pubblici ascoltano i cittadini per avere un'idea dei loro orientamenti/bisogni e se pensano che ci siano delle buone idee ne tengono conto; 3. consultazione: gli enti pubblici chiedono ai cittadini il loro parere su specifici progetti e ne tengono conto; 4. conferimento di ruolo e coprogettazione: gli enti pubblici fanno un percorso di interazione con i cittadini, impegnandosi a realizzare quanto emerso o a dare conto dei risultati disattesi; 5. partecipazione: i cittadini vengono coinvolti in tutte le fasi del processo, a partire dalle decisioni sulle questioni da discutere e della gestione delle varie fasi del processo; 6. autogestione, autorganizzazione e autocostruzione. Naturalmente ogni scala tiene in conto di alcuni aspetti e ne tralascia altri, perché sono differenti le fasi del coinvolgimento (che può partire in un modo e avere diversi gradi di apertura durante tutto il percorso) e sono diversi i punti di vista delle persone coinvolte: ad esempio un'amministrazione potrebbe essere molto coinvolgente solo con determinati gruppi di cittadini, tralasciando completamente altri per cui un processo potrebbe essere “partecipazione” per gli adulti e “ascolto” per i bambini e “informazione” per i migranti. Il livello più alto della scala della partecipazione è rappresentato dall'autogestione/autorganizzazione, che vuol dire per i cittadini rispondere autonomamente ai propri bisogni, realizzando le politiche pubbliche dal basso descritte da Paba in Corpi Urbani (Paba, 2010). Egli nel libro fa un lungo elenco di caratteristiche di queste pratiche sociali autorganizzate (ibidem), tra le quali: trasportano i destinatari dentro le pratiche, strappandoli all'indifferenza e all'inesistenza sociale, attraverso forme di inclusione attiva, se è possibile dire così; si sintonizzano in modo sottile sui problemi che debbono trattare, aderendo ai corpi degli abitanti, ai contesti umani, sociali e ambientali; esaltano l'aspetto interattivo, costruiscono beni relazionali, producono relazioni a mezzo di relazioni; adottano modelli di conoscenza interattiva, valorizzando il sapere dei destinatari, costruendo/modificando le informazioni nel corso dell'azione; sono multi-obiettivo, colpiscono obbiettivi differenti tra loro intrecciati (intrecciano obbiettivi che sembravano irrelati), il successo di ciascun obbiettivo dipendendo dal raggiungimento degli altri. (ibidem, pp. 104-105) Sostenere queste pratiche per un Ente Locale significa aumentarne la forza dandone riconoscimento, riconquistare la fiducia dei cittadini e fornire un servizio migliore (a volte sostenendo meno spese). Chiara Belingardi
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Comunanze urbane e domanda di partecipazione
La domanda di Beni Comuni Tratteggio di un'istanza insorgente Dare una definizione univoca e completa di che cosa siano i beni comuni è un'impresa ardua se non addirittura impossibile, per questo nel titoletto di questo paragrafo si parla di “tratteggio” e non di “definizione”. C'è una certa confusione (o almeno sembrerebbe, dato che la definizione si sta evolvendo e l'espressione quindi assume sfumature e caratteri diversi) su che cosa può essere definito un “bene comune” e che cosa non può essere inserito nell'insieme, se si va oltre i due o tre elementi riconosciuti di tutti: acqua, aria, conoscenza, etc. Tra le varie definizioni è possibile sceglierne alcune che facciano comprendere la varietà degli approcci con cui ci si può accostare al tema. Alcuni tengono conto soprattutto della possibilità di accesso al bene: è un bene comune ogni risorsa condivisa da un gruppo di persone di cui l'esclusione è molto difficile, ma non impossibile. (Ostrom E., 1990). Altri autori partono da una tassonomia: una prima categoria di beni comuni include l'acqua, la terra, l'aria, le foreste e la pesca, e cioè i beni di sussistenza da cui dipende la vita, in particolare quella degli agricoltori, dei pescatori e dei nativi che vivono direttamente sulle risorse naturali. A questa categoria appartengono anche i saperi locali, i semi sviluppati nei secoli dalle popolazioni locali, gli spazi pubblici, il pool genetico e la biodiversità. Va precisato che per beni comuni non si intendono solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche gli usi civici o diritti collettivi d'uso da parte di una data comunità a godere dei frutti di quella data risorsa, sia essa terra, pascolo o area forestale. Quel che contraddistingue i beni comuni o usi civici è la forma partecipata o comunitaria della proprietà o dell'uso delle risorse naturali, che non sono pertanto né pubbliche, né private; forma partecipata di proprietà o gestione che persiste nonostante la modernità e i cambiamenti da essa indotti. […] una seconda categoria comprende i beni comuni globali come l'atmosfera, il clima, gli oceani, lo spazio esterno, ma anche la sicurezza alimentare e la pace. E inoltre la conoscenza e i brevetti, l'informazione di base e internet, e cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva della nostra specie. I beni comuni globali sono quelli sui quali non possono esistere diritti comunitari territoriali; sono spesso “nuovi” nel senso che solo recentemente sono stati percepiti come beni comuni; e sempre più frequentemente sono regolati da convenzioni o trattati internazionali. […] Una terza categoria di beni comuni sono i servizi pubblici, forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini – bisogni che ovviamente variano nel tempo. Gli esempi sono molti: acqua corrente e luce elettrica, scuola e sanità pubblica; ma anche sicurezza sociale e alimentare, trasporti, amministrazione della giustizia. (Ricoveri G., 2005, pp. 11-12). Altri ancora privilegiano il ruolo della comunità: Un bene comune, a differenza tanto della proprietà privata quanto di quella pubblica (appartenente allo Stato: proprietà demaniale), non può concepirsi come un mero oggetto, una porzione tangibile del mondo esterno. (Mattei U., 2011, p. 52). In un altro punto del suo libro Mattei sostiene che è bene comune tutto ciò che è riconosciuto come tale da una comunità e per tanto è impossibile farne una tassonomia. (ibidem). In un recente articolo, Piero Bevilacqua sostiene: Il concetto di bene comune possiede una fertilità di scoperta e applicazione assolutamente senza confronti. È sufficiente pensarci un po' e subito si scopre che bene comune è l'etere, privatizzato da tante potenze economiche, l'aria che respiriamo, gli spazi urbani della nostra mobilità quotidiana, la bellezza del paesaggio, il tempo di vita. In realtà la rivendicazione di beni comuni è in gran parte l'espressione di un bisogno soggettivo degli individui di riscoprire un tessuto sociale connettivo che li può strappare dal loro isolamento e all'atomizzazione senza coartare la loro libertà.”(Bevilacqua P., 2011). C'è chi prova a tenere insieme le tre cose: Il modo forse più giusto per tradurre commons è comunanze (come suggerisce Massimo Angelini), perché tiene insieme bene, regole d'uso, comunità di riferimento” (Cacciari P., p. 14). Infine sembra utile ricordare due caratteristiche su cui concordano tutti gli autori: l'esclusione dalle logiche di mercato collegata all'inalienabilità e il primato del valore d'uso rispetto al valore economico o monetario. Probabilmente sono queste ultime caratteristiche che hanno fatto la fortuna di questo concetto, che è si è arricchito di significati, passando da essere una delle parole di riferimento per un gruppo di persone a slogan e Chiara Belingardi
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rivendicazione (dagli striscioni della CGIL “il lavoro è un bene comune” a quelli dei movimenti di lotta per la casa “Roma bene comune”). Certamente a gettare le basi della costruzione dell'immaginario legato ai beni comuni hanno giocato prima la raccolta firme per la legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dei servizi idrici, il cui slogan era “L'acqua è un bene comune”, e poi quella per il Referendum del 12-13 giugno a cui è seguita (sicuramente a dare la forza maggiore al concetto) la vittoria, ottenuta grazie al passaparola di milioni di cittadini, accompagnato da atti creativi, marce, iniziative di vario genere. La maggiore importanza riservata valore d'uso rispetto al valore economico fa rientrare in questa categoria anche gli usi civici, che sono storicamente i diritti di acceso ad alcune utilità (legnatico, pesca, fungatico, etc...) da parte degli appartenenti a una collettività. Parlare di comunanze per quanto riguarda gli spazi ci collega alla questione della terra e della sua distribuzione. La maggior parte delle comunanze ha avuto origine o si è rafforzata nel Medioevo, quando in Italia si sono formati Comuni indipendenti (o con sacche di indipendenza) rispetto al feudatario e la vita era pervasa da un forte spirito di associazionismo e corporativismo. Con il rinascimento e il rafforzamento della classe dei borghesi la proprietà privata ha avuto sempre più importanza rispetto al semplice valore d'uso, fino a diventare per la giurisprudenza di alcuni paesi europei un diritto naturale di derivazione del diritto romano e base delle libertà individuali (ogni individuo è un proprietario di qualcosa, fosse anche soltanto della sua forza lavoro). È importante a questo punto accennare a un vivace dibattito a proposito della proprietà privata che si è sviluppato nella seconda metà dell'Ottocento, come riportato da Paolo Grossi nel suo libro Un altro modo di possedere. Il dibattito si sviluppa con l'uscita del libro Ancient law (1861), del giurista britannico Henry Sumner Maine, che, attraverso numerosi esempi di organizzazione attorno alla proprietà collettiva dei popoli tradizionali germanici e di popolazioni esotiche, dimostrava come la proprietà privata non fosse un diritto naturale, ma una convenzione. (Grossi P., 1977). Il dibattito dopo qualche anno, nonostante la virulenza semplicemente si spense, senza portare effettive conseguenze alle legislazioni nazionali europee. Un altra tappa, esclusivamente italiana, è rappresentata dalla legge del 1927 n. 1766: Accertamento, valutazione ed affrancazione degli usi civici. Le terre vengono tutte equiparate a “usi civici” (sia che siano usi civici, sia che siano proprietà collettive) e suddivise in due categorie: quelle utilizzabili a fini agricoli vengono suddivise e vendute, quelle non coltivabili vengono considerate inalienabili e passano alla gestione dell'allora ministero dell'Agricoltura e delle Foreste (oggi alle Regioni). 4. Dopo la legge del 1927 si riconosce il carattere di inalienabilità delle forme di proprietà collettiva, che vengono tutelate nelle leggi di tutela e valorizzazione paesaggistica (a partire dalla legge Galasso 431/1985). La legge quadro 394/1991 riconosce l'interesse dell'intera comunità nazionale alla conservazione degli usi civici. Il nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (157/2006) include le aree destinate agli usi civici e le università agrarie tra quelle da tutelare per il loro interesse paesaggistico. La Costituzione Italiana prevede che esistano soltanto due tipi di proprietà, pubblica e privata (nonostante la proprietà privata debba essere intesa a servizio dell'interesse pubblico). Tuttavia nel 2007 il governo Prodi incaricò un gruppo di esperti giuristi dello studio per una proposta di legge che riformasse la categoria dei beni pubblici. I risultati della commissione non hanno avuto seguito, ma è stato un primo passaggio per dare riconoscimento istituzionale ai beni comuni, che nella legge sono le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona.(Commissione Rodotà, 2007). Una definizione che tenga insieme beni, comunità e regole d'uso è utile per indagare che cosa sottintenda la domanda di beni comuni. Innanzitutto c'è l'istanza di inalienabilità, ovvero di tenere qualcosa fuori dalla portata del “mercato” e quindi il cui accesso sia libero e gratuito, con in più la garanzia di una continuità nel tempo (la diminuzione dei fondi degli Enti Pubblici e la tendenza costante alla privatizzazione da parte degli stessi non fornisce questa garanzia che per pochissime cose). In seconda battuta c'è la questione dell'accessibilità, che non sempre è garantita dal fatto che un bene appartenga allo Stato, per quanto riguarda ad esempio alcuni edifici non accessibili ai cittadini, oppure servizi erogati solo a chi possiede determinate caratteristiche, o ancora la burocrazia percepita come ostacolo alla fruizione di beni e servizi. In terza battuta, ma non meno importante, nel fatto che si dichiari un bene appartenente alla comunità c'è la volontà di un coinvolgimento diretto nella sua gestione o nella decisione delle regole d'uso: controllo diretto e partecipazione , come previste dalla Legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico si sostiene che l'acqua è un bene comune, che l'accesso all'acqua è un diritto di tutti, che la gestione deve essere pubblica e che nella gestione devono essere coinvolti i cittadini – uno o più rappresentanti – nel consiglio di gestione dell'acquedotto (Bersani M., 2011).
Comunanze urbane È possibile pensare a Beni Comuni negli spazi urbani della città contemporanea? Per rispondere a questa domanda si possono citare 3 autori: Edoardo Salzano e Carlo Cellamare (urbanisti) e Maria Rosa Marella (giurista). Salzano sostiene che La città è un bene comune, intendendo che la città deve tornare a soddisfare i bisogni dei cittadini a partire dalle loro richieste e di conseguenza essere fornita di beni e servizi distribuiti su tutto il Chiara Belingardi
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territorio, mettere a servizio della collettività la ricchezza derivata dalla rendita e dotarsi di regole trasparenti e partecipate. (Salzano E., 2009) Carlo Cellamare sostiene che: Le forme di autorganizzazione e di autogestione stanno costruendo in molti casi uno spazio di azione diretta e autonoma degli abitanti, dove lavorare “nonostante” l'amministrazione. Allo stesso tempo è all'interno di questi processi che si producono “beni comuni”, non come categoria astratta legata ai diritti o alle identità, ma come insieme di condizioni concrete, materiali e immateriali, esito indiretto di un processo collaborativo, o anche semplicemente concorrente, comune. (Cellamare C., 2012, p. 40). Maria Rosa Marella, docente di diritto privato, in un libro di marzo del 2012 ha affrontato il tema dicendo: Predicare come Commons lo spazio urbano – ma il discorso vale anche per ogni altro ambito – non significa certo invocare un intervento del pubblico potere che limiti o conformi la proprietà urbanistica in funzione dell'utilità sociale, ma invece contestare in radice la legittimità di ogni atto di governo del territorio, ovvero di uso dello stesso, che sottrae utilità alla collettività in termini di salute, libertà, socialità, dignità del vivere, felicità. E ciò può riguardare l'uso che il proprietario privato imprime al proprio bene (il proprietario che trasforma lo storico teatro di quartiere in sala scommesse), ma riguarda tanto più la potestà pubblica di pianificazione e governo del territorio (il piano regolatore del comune che prevede nuova edilizia e ulteriore saccheggio del verde pubblico anziché decidere per il riutilizzo di quella abbandonata). Poiché il modo in cui lo spazio urbano si struttura, per l'interazione di pubblico e privato, determina i modi di vita e le relazioni sociali che in esso si sperimentano. E dunque non c'è nulla di più comune dello spazio nel quale l'andamento delle nostre vite si definisce. (Marella M.R., 2012, p. 187). Sebbene con sfumature diverse, queste tre definizioni sottolineano l'importanza della partecipazione e dell'autorganizzazione (nel caso di Salzano intesa soprattutto come rivendicazione, nel caso di Marella soprattutto come intreccio di relazioni e azioni anche non programmatiche) nella costruzione sociale di beni comuni. Come per i beni comuni in senso generale, anche quelli urbani sfuggono a una tassonomia univoca: parlare di spazio urbano in generale come bene comune vuol dire sottolineare il fatto che è uno spazio denso di relazioni, da cui nessuno può essere escluso, che quindi deve essere governato e gestito in un certo modo. Ma cosa accade provando a definire quali spazi all'interno della città sono beni comuni? Una strada non può essere un bene comune se è chiusa da una sbarra che impedisce l'accesso. Piazza Colonna a Roma teoricamente è di libero accesso, ma in pratica è quasi sempre piena di polizia che controlla chi vi accede e impedisce il passaggio davanti alla sede del Governo. Riprendendo la definizione che tiene insieme bene, regole d'uso e comunità di riferimento, si possono intendere come comunanze urbane tutti quegli spazi (bene) che sono gestiti in autonomia dai cittadini/abitanti (comunità di riferimento), che ne hanno cura in maniera costante (regole d'uso). Un altro elemento caratterizzante è l'inalienabilità (o la richiesta/desiderio di inalienabilità) di uno spazio: capita così che si costruiscano comunanze per combattere la speculazione edilizia in aree verdi (con conseguenza di cementificazione e peggioramento della qualità della vita). Si potrebbe aprire un dibattito sulla necessità che questi spazi siano aperti a tutti o che si possano considerare comuni anche spazi recintati, ma ad accesso collettivo; inoltre bisognerebbe approfondire che cosa si intenda per “comunità di riferimento” (chi la compone, se deve essere aperta o chiusa etc.). Tuttavia, partendo da queste imperfette definizioni possono essere individuate alcune pratiche: esse sono orti e giardini condivisi, occupazioni di spazi a scopo culturale, siano essi all'aperto o al chiuso e così via.
Conclusioni: accessibilità, beni comuni e partecipazione La città contemporanea è un organismo complesso in cui si intrecciano diverse istanze, anche rispetto all'utilizzo degli spazi. Gli spazi di autogestione (molti di essi) sono luoghi che, quando aperti a tutti, sono in grado di generare e moltiplicare relazioni, sia tra chi li gestisce (la comunità di riferimento, fatta di legami volontari rafforzati dal lavorare insieme) sia tra curatori e fruitori (che spesso grazie alla reiterazione delle visite diventano sostenitori e parte della comunità). Come le politiche pubbliche dal basso, anche le comunanze urbane assumono forme e modalità di gestione che sono le più adatte alle esigenze degli abitanti – curatori. Per questa ragione possono rappresentare un passo in avanti nella soluzione della crisi dello spazio pubblico e concretizzare il diritto alla città. Lavorare sulle comunanze urbane significa trovare modalità per cui i cittadini/abitanti possano autonomamente rispondere alle domande di spazio pubblico e luoghi di incontro che non sono soddisfatte dallo spazio pubblico inteso in senso tradizionale. Significa dichiarare alcune parti della città al di fuori della logica del mercato e quindi farle diventare inalienabili, dando in questo modo anche una risposta al problema del
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consumo di suolo e valorizzando il verde cittadino. Significa trovare delle modalità di gestione che non passino dalla burocrazia, ma dalle relazioni.
Bibliografia Libri Bersani M. (2011), Come abbiamo vinto il referendum. Dalla battaglia dell'acqua pubblica alla democrazia dei beni comuni, Edizioni Alegre, Roma. Cacciari P. (2010), La società dei beni comuni. Una rassegna, Ediesse, Roma. Cellamare C. (2012), Progettualità dell'agire urbano. Processi e pratiche urbane, Carocci, Roma. Grossi P. (1977), Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post unitaria, Giuffrè, Milano. Marella M. R. (a cura di, 2012), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre Corte, Verona. Mattei U. (2011), Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari. Ostrom E. (1990), Governing the Commons: The evolutions of Institutions for Collective Actions, New York, Cambridge University Press, trad. it. Ostrom E. (2006), Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia. Paba G. (2010), Corpi Urbani. Differenze, interazioni, politiche, FrancoAngeli, Milano. Ricoveri G. (a cura, 2005), Beni comuni fra tradizione e futuro, Quaderni della rivista CNS – Ecologia Politica, EMI, Bologna. Salzano E. (2009), La città bene comune, Ogni uomo è tutti gli uomini Edizioni, Bologna. Articoli Smith J., Adams J. (2002), “Planning Cities”, Journal of Planning, 1(2), pp. 209-222. Siti web Bevilacqua P. (2011), Il racconto dei beni comuni, [Online]. Disponibile su: http://eddyburg.it. Commissione Rodotà (2007), Disegno di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, del 14 giugno 2007, [Online] disponibile su: http://www.giustizia.it. Comune di Roma, (2006). Regolamento di Partecipazione dei Cittadini alla trasformazione urbana [Online]. Disponibile su: http://www.comune.roma.it. Regione Toscana, (2007). Legge Regionale n. 69/2007: Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali. [Online] disponibile su: http://regione.toscana.it.
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Nuovi abitanti e diritto alla città: compiti (tecnici) e responsabilità (etiche) della disciplina urbanistica
Nuovi abitanti e diritto alla città: compiti (tecnici) e responsabilità (etiche) della disciplina urbanistica Francesco Lo Piccolo Università degli Studi di Palermo Dipartimento D’Architettura Email: francesco.lopiccolo@unipa.it Tel/fax 091.60790308 / 091.60790113
Abstract All’interno di uno scenario di ‘società delle diversità’, acquista sempre più rilievo il tema della cittadinanza, e questo sia per i ‘nuovi arrivati’, a cui la cittadinanza è spesso preclusa o garantita soltanto in forme ‘differenziate’, che per i ‘cittadini ospitanti’, a cui spetta il compito di affrontare rapporti sociali improvvisamente cambiati. L’ambito, teorico e politico, su cui misurarsi, è quello della cittadinanza e, per quel che più ci riguarda, del rapporto tra forme di cittadinanza (inclusive o esclusive), riconoscimento di queste, e tecniche di pianificazione. Il riconoscimento della cittadinanza garantisce il diritto a forme di rappresentanza, e partecipazione, in relazione ai processi di trasformazione della città; al tempo stesso i piani incidono, e molto, sulla formazione della cittadinanza. Il ridisegno della cittadinanza attraverso strumenti ed atti di pianificazione può avvenire in modo diretto o indiretto, con effetti ora intenzionali ora imprevisti, consapevoli o inconsapevoli; in ogni caso, si verifica sempre e comunque una “costruzione progettuale” della cittadinanza, a partire dall’esplicarsi dell’azione redistributiva delle risorse che è esito delle scelte di pianificazione, sia che si tratti di economie, spazi o diritti.
Nuovi abitanti e dinamiche urbane In un mondo sempre più segnato da flussi, interscambi e mobilità di merci, economie, informazioni e servizi, le migrazioni tornano ad assumere – negli ultimi decenni – un ruolo di primo piano, con tutte le complessità e (drammatiche) contraddizioni del fenomeno. L’Italia, in questo, non fa eccezione. Da recenti indagini statistiche è emerso come l’incidenza di cittadini stranieri in Italia rispetto al totale della popolazione si sia attestata, per la prima volta nel corso del 2008, su livelli superiori a quelli della media europea. Questo produce processi sociali inediti, che incidono sulla redistribuzione (e complementare resistenza alla redistribuzione) di risorse materiali ed immateriali, di diritti (riconosciuti o negati) e privilegi: dal diritto di cittadinanza al lavoro, dall’alloggio al diritto alla città, in termini di accesso e fruizione dei suoi spazi e delle sue risorse. Lo spazio (pubblico) della città diventa pertanto il luogo (potenziale) dell’integrazione, dell’inter-relazione o del conflitto, in un moltiplicarsi di gruppi, soggetti e interessi, a fronte di un progressivo indebolimento e riduzione della sfera pubblica nella dimensione urbana (Mitchell, 2003; Low & Smith, 2006). Rispetto a tali mutamenti, e al progressivo (ri)emergere di funzioni e fabbisogni primari, le dinamiche urbane e conseguenti politiche tengono in conto altre priorità. Le nuove dinamiche urbane (e le relative politiche) tendono infatti a considerare solo in parte la funzione residenziale, soprattutto nella pluralità dei soggetti e dei gruppi che la alimentano, e questo sia nella più ovvia interpretazione di funzione primaria di vita urbana che soprattutto nel suo contributo alla competizione urbana che continua ad essere oggetto di attenzione privilegiata da parte delle politiche pubbliche. Questo inevitabilmente implica un indebolimento del potere di autodeterminazione dei residenti, siano essi immigrati o autoctoni, e tale indebolimento è tanto più accentuato quanto meno ‘rappresentati’ risultano essere i residenti stessi, come ovviamente avviene nel caso degli stranieri immigrati, in un processo che enfatizza e accentua in forme esponenziali svantaggi e diseguaglianze. Francesco Lo Piccolo
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Lo spazio urbano diventa pertanto il luogo di rivendicazione e (talvolta) lotta per il riconoscimento dei diritti individuali e di una maggiore giustizia; ma, in alcuni casi, e per alcuni gruppi di immigrati o rifugiati in particolare, il ‘diritto alla città’ finisce per coincidere con il diritto alla sopravvivenza. Sotto questo aspetto, la letteratura che da Lefebvre (1974) a Mitchell (2003) ha sottolineato ruolo e valore del ‘diritto alla città’ (e, conseguentemente, del diritto allo spazio pubblico) come essenziale per la sopravvivenza stessa del concetto di democrazia, assume nuove e ulteriori implicazioni per coloro cui il riconoscimento di tale diritto è, per status e riconoscimento giuridico, riconosciuto solo parzialmente o addirittura negato. All’interno di uno scenario di ‘società delle diversità’, acquista sempre più rilievo il tema della cittadinanza (Lo Piccolo, 2006 e 2010), e questo sia per i ‘nuovi arrivati’, in fuga da condizioni ostili, cui la cittadinanza è spesso preclusa o garantita soltanto in forme ‘differenziate’, che per i ‘cittadini ospitanti’, a cui spetta il compito di normalizzare rapporti sociali improvvisamente cambiati, e di difficile comprensione (Indovina, 1999). Prevale in tal modo una concezione statica della cittadinanza, che viene sostanzialmente a coincidere con una garanzia dei diritti acquisiti; minoritaria è di contro una concezione dinamica della cittadinanza, come attività e pratica politica processuale, al cui interno possa trovar spazio una fertile tensione di riconoscimento, difesa, articolazione e ridisegno dei diritti (Friedmann, 1999). L’affermazione della cittadinanza come status costruisce pertanto nuove geografie, all’interno delle quali si collocano centralità e periferie dei soggetti titolari di diritti; in tal modo forme giuridiche di inclusione ed esclusione si ripercuotono (e determinano) forme spaziali, e relativi ambiti, di inclusione ed esclusione. L’ambito, teorico e politico, su cui misurarsi, è quello della cittadinanza e, per quel che più ci riguarda, del rapporto tra forme di cittadinanza (inclusive o esclusive), riconoscimento di queste, e tecniche di pianificazione. Sono questi termini fortemente interconnessi, e complementari: il riconoscimento della cittadinanza garantisce il diritto a forme di rappresentanza, e partecipazione, in relazione ai processi di trasformazione della città; al tempo stesso i piani incidono, e molto, sulla formazione della cittadinanza (Hoch, 1993). Quali che siano le finalità primarie – dichiarate e riconosciute – di ogni atto di pianificazione, di volta in volta privilegiando ragioni di ordine funzionale, economico o estetico, in ogni caso tali atti contribuiscono a ridisegnare la cittadinanza all’interno del proprio ambito di intervento, esercitando di conseguenza forme (spaziali e non) di controllo sociale, così come dimostrato da una letteratura oggi ampia ed esaustiva, che fonda le sue basi nei lavori di Lefebvre (1974) e Foucault (1975) e giunge ad analizzare le connessioni ed implicazioni in ambito disciplinare (Hillier, 2002). Il ridisegno della cittadinanza attraverso strumenti ed atti di pianificazione può avvenire in modo diretto o indiretto, con effetti ora intenzionali ora imprevisti, consapevoli o inconsapevoli; in ogni caso, si verifica sempre e comunque una “costruzione progettuale” della cittadinanza, a partire dall’esplicarsi dell’azione redistributiva delle risorse che è esito delle scelte di pianificazione, sia che si tratti di economie, spazi o diritti. Qualora queste condizioni non siano presenti, le regole del mercato, incluse quelle del mercato immobiliare, non possono che produrre nei fatti accentuate forme di marginalizzazione e disagio, aggravando la dimensione dell’esclusione come problema urbano.
Assenza di politiche, politiche implicite La geografia dei flussi, e la loro incrementale incidenza negli ultimi anni, richiede, da un lato, adeguate analisi e conseguenti politiche pubbliche in materia di alloggi, lavoro e servizi; dall’altro essa si scontra con l’affermarsi di una “politica della paura” che contribuisce a far comprendere le ragioni dell’assenza o inefficacia di politiche finalizzate. La ‘paura dell’altro è un fenomeno in crescita in numerosi paesi europei, sia a livello individuale che politico (England & Simon, 2010); in questo, l’Italia non fa eccezione, e al contrario in anni recenti registra incrementi notevoli (Tulumello, 2012). Questo riguarda in termini generali le politiche pubbliche, e l’uso strumentale di tale percezione (mediaticamente enfatizzata) da parte dell’agenda politica; tuttavia il fenomeno non esclude le pratiche disciplinari. La “politica della paura” è molto efficacemente analizzata, tra gli altri, da Leonie Sandercock (2002), che interpreta la storia delle politiche di pianificazione per l’appunto come tentativo di gestire la paura nella città, e di trarne al tempo stesso vantaggio da parte delle élites dominanti. In Italia riscontriamo, sfortunatamente, un accentuato sovrapporsi dei due aspetti: paura dell’altro e scarsa rilevanza delle politiche (non solo abitative) pubbliche. Riguardo al primo aspetto, il dibattito politico e mediatico palesano in modo indiscutibile l’uso spregiudicatamente strumentale da parte del governo nazionale (e di numerosi governi regionali) di episodi di cronaca per sfruttare ed alimentare la “paura dell’altro”, delegittimando o cancellando la natura della città (e quindi dello spazio urbano) come vitale sfera pubblica. Riguardo il secondo aspetto, occorre anzitutto sottolineare come l’assenza di politiche sia, inevitabilmente, una politica. All’interno di questo quadro di riferimento, compiti e responsabilità della disciplina urbanistica sono non secondari, e possono assumere ruoli significativi. Il più recente e innovativo dibattito disciplinare sottolinea – riannodando antiche trame fondative e riscoprendo storiche vocazioni e finalità politiche – la necessità di assumere al centro delle problematiche urbane i principi dell’equità e della giustizia (sociale). Tuttavia, se i temi e fondamenti si ancorano a tradizioni e figure di riferimento storicamente consolidate (Lo Piccolo, 2009), i Francesco Lo Piccolo
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contesti e gli ambiti applicativi sono oggi radicalmente mutati, necessitando di appropriate ‘ricalibrature’ e ulteriori approfondimenti. Infatti, una letteratura ormai ampia e consolidata (cfr. ad esempio Hoch, 1993 e Thomas, 2000 e 2008) mostra la persistenza in numerosi sistemi di pianificazione di forme di razzismo (o comunque di implicita o in alcuni casi inconsapevole discriminazione razziale), che ha come causa ed effetto al tempo stesso una riluttanza sostanziale nell’affrontare la plurale composizione della dimensione urbana. A dispetto di un dibattito ampio e consolidato sul multiculturalismo, e sulle diverse modalità di approccio e riconoscimento dei gruppi minoritari all’interno di una società plurale, le implicazioni disciplinari stentano ad essere diffusamente riconosciute e considerate, ed ancora più stentatamente trovano applicazione nelle pratiche. Certo, negli ultimi quindici anni abbiamo assistito in Italia alla costruzione di un ampio panorama di ricerche su forme di discriminazione e razzismo; al tempo stesso, il dibattito internazionale ha alimentato riflessioni a volte anche molto sofisticate sulla necessità di includere sempre più ampie casistiche ed espressioni di fenomeni socio-culturali plurali nella teoria e nella pratica della pianificazione; così come si è largamente consolidato il dibattito sulla svolta argomentativa (e inclusiva) della pianificazione; ed infine registriamo un consistente numero di ricercatori e attivisti impegnati su tale fronte, con approcci partecipativi, insorgenti o radicali. Tuttavia, a dispetto di questo ampio bagaglio di conoscenze ed esperienze, ancora marginale e insoddisfacente risulta la riflessione disciplinare sulle modalità operative per orientare le politiche urbane e gli strumenti urbanistici verso un riconoscimento più ampio (e più equo) dei diritti di cittadinanza nella sfera urbana, anche a fronte della regressione involutiva del dibattito politico e delle conseguenti azioni intraprese. Politiche e piani risultano infatti ancora piuttosto deboli e frammentari nell’affrontare il tema della presenza degli stranieri. Di contro, si assiste in molte città (come ad esempio Roma, Napoli o Palermo) a pratiche urbane autogenerate ed azioni ‘paradossalmente conservative’(Laino, 2001 e 2007; Lo Piccolo & Leone, 2008), anche a fronte della inefficacia o assenza di politiche pubbliche adeguate.
Responsabilità disciplinari: attitudini individuali e costrutti sociali L’appropriazione di spazi e la costruzione di nuovi usi e pratiche (in forme insorgenti o istituzionalizzate) nell’ambito della sfera urbana (Paba, 2003) supplisce ad un riconoscimento di quei diritti di cittadinanza che spesso non sono riconosciuti ai nuovi arrivati a livello politico e giuridico. In tal senso forme insorgenti di modificazione degli habitat, azioni locali di partecipazione, pratiche formali o (più spesso) informali di coesistenza nello spazio urbano, iniziative inclusive all’interno delle politiche urbane assumono così un ruolo non marginale nella ridefinizione della categoria della cittadinanza a fronte dei mutamenti sostanziali (e plurali) del corpus sociale nella città contemporanea. Tuttavia, è opportuno sottolineare che tali fermenti, se trovano da un lato riscontro nelle formulazioni teoriche del dibattito disciplinare più recente, dall’altro si scontrano con notevoli difficoltà nelle loro declinazioni operative, specie se istituzionali. La difficoltà nella transizione ad una dimensione operativa non coincide, come talvolta avviene per fraintendimento, inconsapevolezza o disattenzione, con la negazione di questa. Solo per fare un esempio delle possibili implicazioni strettamente disciplinari, la tradizionale nozione di spazio pubblico, costruita in base ai classici parametri dell’universale e dell’individuale, richiede di essere sostituita da una più sfumata e articolata versione, che sia in grado di riconoscere sia i diritti dell’individuo che quelli della comunità o gruppo (Young, 1990). Ulteriori esempi applicativi riguardano standard e dimensionamenti, erogazione di servizi (alla persona o alla comunità), il trasporto pubblico, i criteri di localizzazione, progettazione ed assegnazione dell’edilizia residenziale pubblica, a fronte di una difformità ‘plurale’ del fabbisogno abitativo. Analogamente, la regolamentazione della pluralità di attività commerciali e micro-imprenditoriali implica una innovazione ragionata (e ragionevole) degli strumenti tecnici urbanistici, con approcci, norme e soluzioni non più improntate a criteri standard (e, per l’appunto, indifferenti alle differenze), ma ad una pluralità di trattamento e regolamentazione. Ciò riguarda, ad esempio, gli orari di vendita, le previsioni per i parcheggi, i vincoli e le previsioni inerenti le destinazioni d’uso, la regolamentazione per l’accessibilità e fruizione dello spazio pubblico, l’applicazione delle norme di igiene per i pubblici esercizi. E tuttavia, le azioni intraprese per rispondere a tali nuove esigenze risultano sporadiche e frammentarie. Le responsabilità disciplinari che entrano in gioco soffrono pertanto di questa difficoltà nella transizione dalla formulazione concettuale alla dimensione applicativa, sia nella prassi professionale che nella ricerca. Tuttavia, nello scontrarsi con tale gap all’interno delle pratiche, la questione che emerge riguarda la ‘dimensione’ e la natura delle responsabilità disciplinari; in altri termini, può tale responsabilità disciplinare essere circoscritta (e addebitata) ad attitudini individuali o necessita del passaggio ad una dimensione di costrutto sociale? In altri termini, l’impegno e la prospettiva plurale ed inclusiva nella disciplina possono unicamente essere addebitati alle responsabilità ed alla condotta etica dei singoli individui, nella prassi così come nella ricerca? Nell’affrontare il tema dei dilemmi etici nella ricerca in urbanistica, recentemente (Lo Piccolo & Thomas, 2008) si sono avanzate alcune riflessioni critiche sulla interpretazione ‘individualistica’ di tale dimensione, che semplificherebbe la problematica, limitandosi a prefigurare una condizione ‘eroica’ del ricercatore che – novello Francesco Lo Piccolo
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Nuovi abitanti e diritto alla città: compiti (tecnici) e responsabilità (etiche) della disciplina urbanistica
S. Antonio – resiste alle tentazioni del mondo. Pur senza sottovalutare ruolo e valore della responsabilità morale individuale, si è infatti sottolineato in precedenza la rilevanza del contesto sociale, e più specificatamente la natura sociale delle pratiche nella formulazione e condizionamento della percezione morale, all’interno di attività collettive e di contesti istituzionali o istituzionalmente guidati. Se dall’ampio spettro di dilemmi etici con cui la dimensione disciplinare si scontra restringiamo qui il nostro campo di riflessione alla interazione conflittuale fra i principi di uguaglianza e differenza, la pratica sociale della disciplina urbanistica (nella ricerca così come nella pratica) risulta essere strutturalmente influenzata dalla nozione giuridica di cittadinanza, così come dalla interpretazione istituzionale dei principi di uguaglianza e differenza nella loro applicazione operativa all’interno degli strumenti urbanistici e delle politiche urbane. In precedenza si è affrontato tale tema, esplorando come l’integrazione plurale dei differenti bisogni e attese nella dimensione urbana può essere condizionata dalle diverse interpretazioni giuridiche della ‘differenza’, e dalle implicazioni operative di tali interpretazioni (Lo Piccolo & Thomas, 2001). Analizzando quattro differenti sistemi di interpretazione giuridica della differenza (indifferenza, differenziazione, omogeneizzazione e riconoscimento), si sono pertanto messe in luce altrettante modalità di ‘reazione’ o ‘risposta’ disciplinare che discendono da tali molteplicità di costruzione giuridica (e, al tempo stesso, sociale). Numerose ricerche sviluppate in contesti nazionali, europei e non, mettono in evidenza come i primi tre modelli di interpretazione giuridica della differenza (e le relative contaminazioni fra di essi) continuino ad influenzare – a partire da radici storiche consolidate (Sandercock, 1998a) – i sistemi e le pratiche di pianificazione, ostacolando o limitando un pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza nell’esercizio dei sistemi di controllo delle trasformazioni urbane (Lo Piccolo & Thomas, 2001). Un punto di svolta può essere rappresentato dal capovolgimento della questione, che può essere presentata in questi termini: in che modo le ricerche e le pratiche disciplinari possono contribuire a modificare – concettualmente ed operativamente – il sistema giuridico e le formulazioni concettuali che ne sono all’origine? Sandercock (2000) ha opportunamente sottolineato come la revisione del sistema giuridico e delle leggi che ne conseguono è un obiettivo di lungo termine, che richiede azioni di pressione e di coinvolgimento ampie e stabili nel tempo, per un arco temporale che può coinvolgere anche più di una generazione. Tuttavia, un tale processo, pur se lungo e complesso, è indubbiamente un requisito di fondamentale importanza, al fine di costruire pratiche pubbliche istituzionali diffuse e riconosciute, a fronte delle altalenanti posizioni politiche, dei cambiamenti di governo e delle emotive o strumentali reazioni che da ciò conseguono. In tal senso, il processo cumulativo di conoscenze ed esperienze disciplinari succedutesi negli ultimi venti anni rappresenta un patrimonio certo frammentato e poco sistematizzato, ma niente affatto marginale o ininfluente. Certo è ottimistico, ma non totalmente stravagante o irrealistico, ipotizzare di attribuire a questo incrementale patrimonio di esperienze il compito di costruire, passo dopo passo, un percorso per il pieno riconoscimento giuridico delle differenze. In tale prospettiva, il migliaio di ‘tiny empowerments’ (Sandercock, 1998b) sparsi per il globo non rappresenta soltanto un atlante di ‘buone pratiche’ utile per una moltiplicazione e diffusione di queste, ma potenzialmente può essere determinante – certo in un processo di lungo termine – nel modificare sostanzialmente le basi teoriche e giuridiche su cui il diritto di cittadinanza (e il relativo diritto alla città) si fonda.
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Francesco Lo Piccolo
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Nuovi abitanti e diritto alla città: compiti (tecnici) e responsabilità (etiche) della disciplina urbanistica
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Francesco Lo Piccolo
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La rappresentazione come dispositivo per abitare la città: i migranti mappano Milano
La rappresentazione come dispositivo per abitare la città. I migranti mappano Milano Nausica Pezzoni Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: nausica.pezzoni@gmail.com Tel. 349.8549119
Abstract Il paper propone il tema di una cittadinanza che diviene accessibile, per le popolazioni migranti, attraverso un gesto di auto-organizzazione dello spazio urbano, che si esplicita nella rappresentazione di una mappa mentale della città. “Come fa un estraneo a costruire l’immagine per una città che gli è nuova?”: dopo aver esplorato il significato che l’immagine della città può assumere per suoi abitanti, Lynch suggerisce alcuni indirizzi per future ricerche, fra i quali lo studio della rappresentazione dello spazio urbano da parte di popolazioni straniere. Cogliendo lo spunto proposto da Lynch per indagare, a mezzo secolo di distanza, quello che appare oggi come un tema emergente nella città contemporanea, il paper presenta gli esiti di una ricerca sperimentale di mappatura della città di Milano da parte di un campione di cento immigrati, intervistati nella prima fase della loro permanenza in città. Un’indagine dove immaginare e rappresentare la geografia urbana corrisponde al tentativo di abitare mentalmente la città: appropriandosi di uno spazio che, da esperienza chiusa di straniamento, ha la possibilità di trasformarsi in luogo aperto ricco di imprevedibili condizioni dell’abitare.
Introduzione Il paper si interroga sulle forme di accessibilità degli spazi e dei servizi urbani per le popolazioni transitorie che sempre più numerose abitano la città contemporanea, intrecciando il tema della costruzione di una nuova cittadinanza per le popolazioni migranti con il processo di apprendimento che esse instaurano nei confronti della città attraverso il disegno di una mappa mentale. In particolare, la ricerca si propone di esplorare la costruzione di un immaginario urbano da parte dei nuovi abitanti, a partire dal presupposto che lo sguardo dei migranti costituisca un fattore di conoscenza fondamentale per costruire un progetto di città che sia realmente inclusivo delle istanze che essi introducono. Essa si fonda sull’analisi delle relazioni che tali popolazioni stabiliscono con la città, individuando quale campo di indagine il contesto urbano di Milano: nel processo di appropriazione di alcuni spazi della città, che vengono reinterpretati e abitati in un modo diverso da quello per cui erano stati progettati, avviene una decostruzione del significato dei luoghi e una loro ricostruzione attraverso nuove interpretazioni e nuovi usi, tali da dar vita anche a nuove forme della città. Muovendo dall’osservazione di questi processi, che raccontano della decostruzione e ricostruzione della forma fisica della città, la ricerca propone un passaggio alla decostruzione e allo scardinamento della rappresentazione della città. Obiettivo dell’indagine è ideare una cartografia diversa e più complessa rispetto a quella tecnica, che sia capace di svelare i paesaggi invisibili, e i luoghi imprevedibili, abitati dai migranti nel momento del primo approdo in una nuova città: paesaggi disegnati da pratiche di vita incentrate su una relazione di transitorietà con lo spazio urbano.
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La rappresentazione come dispositivo per abitare la città: i migranti mappano Milano
Rappresentare la città dei migranti “Si può accettare che la conoscenza si fondi sull’esclusione del soggetto conoscente, che il pensiero si fondi sull’esclusione del soggetto pensante, e che il soggetto sia escluso dalla costruzione dell’oggetto?” (Edgar Morin, Il metodo. La natura della natura)
Ripensare la città cercando di includere un progetto di abitabilità transitoria non può prescindere, secondo l’ipotesi di ricerca, dallo sguardo e dall’esperienza di chi vive e abita la condizione di transitorietà. Nella rappresentazione della città che i migranti esprimono, potrebbero emergere indicazioni su una percezione del paesaggio urbano specifica di chi lo osserva da un punto di vista ‘mobile’, non radicato, imprevedibile, utili a indirizzare la ricerca urbanistica verso una pianificazione che contempli approcci non codificati ai temi dei servizi e dell’abitare, tradizionalmente fondati su un progetto di stanzialità. Includere il punto di vista dei migranti è operazione necessaria per comprendere cosa significhi, per chi arriva in una nuova città, conoscerla e abitarla; è il proposito culturale di ascoltare i soggetti che della nuova città sono ospiti e al contempo artefici della sua trasformazione. Nei racconti dell’esperienza migratoria, che spesso accompagnano gli studi sulle condizioni di vita degli immigrati nelle nostre città, il punto di vista dei migranti viene incluso sotto forma di voce narrante: il più delle volte viene riportato il racconto della propria complessa storia di spostamenti, incontri, abbandoni, difficoltà di comunicazione, di integrazione, di accoglienza, dove la relazione con la città in quanto oggetto da abitare emerge nelle pieghe della narrazione, tra le righe della relazione con le persone e con i problemi di accesso e di sopravvivenza. Non è oggetto di riflessione autonoma. Chiedere a una persona proveniente da altri luoghi del mondo qual è il suo rapporto con la nostra città, ovvero che cosa sia, e come dovrebbe essere, per lei, la città, è tuttavia una domanda molto astratta, difficile da porre e da comprendere non tanto sul piano linguistico quanto per l’approccio analitico e il processo di sintesi che richiede. Che cosa sia la città, quali siano le caratteristiche del vivere il primo approdo in una nuova città, è questione dalle molteplici sfaccettature e stratificazioni, che non può essere contenuta in una domanda e la cui risposta non può essere codificata. Occorre un elemento di mediazione, un piano d’appoggio su cui poter generare una riflessione intorno ai caratteri rilevanti di questo nuovo abitare. Rappresentare la città dei migranti è lo strumento individuato per indagare questo specifico, inedito rapporto tra i nuovi abitanti e la città, è la scelta di un indizio per cominciare a definire i contorni di un vivere urbano transitorio ancora inesplorato eppure tanto diffuso tra le popolazioni migranti, e altrettanto significativo nel determinare gli sviluppi della relazione futura tra questi e la città. Il ‘rappresentare’ la città viene inteso quale gesto di riflessione immaginativa dei soggetti che si apprestino a raccontare la propria idea/esperienza di città: tramite l’atto del rappresentare, i migranti vengono invitati ad assumere un punto d’osservazione creativo, utilizzando la rappresentazione grafica come mezzo d’espressione principale.
‘Come fa un estraneo a costruire l’immagine per una città che gli è nuova?’ Una rappresentazione che possa restituire il quadro delle prime relazioni instaurate tra i migranti e la città dovrà soprattutto contenere gli elementi che i nuovi abitanti ritengano più significativi nella loro relazione con lo spazio urbano. Rintracciare tali elementi nella propria esperienza della città – un’esperienza spaesante, frammentaria, densa di impressioni e di immagini nuove, come sempre avviene quando si entra in contatto con un ambiente sconosciuto – può risultare difficile, può indurre a figurarsi un insieme caotico oppure a non riuscire a identificare alcun elemento specifico. Si è scelto pertanto di avvalersi di un’ulteriore mediazione, proponendo agli intervistati di riflettere sulla propria esperienza di città attraverso alcuni elementi considerati rappresentativi delle principali azioni di conoscenza e di relazione con la città. Questa operazione è stata predisposta attingendo da quella che è considerata la fonte più autorevole nell’esplorazione del significato dei luoghi attraverso l’esperienza diretta degli abitanti, “L’immagine della città” di Kevin Lynch. In Direzioni per future ricerche, Kevin Lynch suggerisce alcuni indirizzi di ricerca per proseguire e approfondire il suo lavoro, e tra questi si chiede “Come fa un estraneo a costruire l’immagine per una città che gli è nuova?” Questa domanda, a mezzo secolo di distanza da quando fu posta, appare oggi di straordinaria attualità, e viene assunta come spunto per proseguire il lavoro di Lynch applicando il suo metodo di indagine nel contesto della città di Milano, attualizzando i contenuti dei cinque elementi su cui si basa il disegno delle mappe mentali da lui introdotto - ripensando, adattando e riformulando ciascun elemento al fine di poter interrogare i nuovi abitanti della città contemporanea.
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La trasposizione dei cinque elementi della mappa lynchana La rilettura dei cinque elementi in cui Lynch divise l’immagine della città, viene sviluppata declinandone i contenuti in funzione della condizione specifica del migrante nella città contemporanea: una condizione in cui la percezione del luogo è tesa a costruire un orientamento nello spazio urbano, e in questa tensione ad appropriarsi dello spazio, a significarlo e a renderlo famigliare. Il lavoro di trasposizione dei cinque elementi lynchani si fonda sull’ipotesi che il processo di conoscenza della città da parte di un estraneo segua un percorso di apprendimento che tende ad attribuire maggiore importanza agli elementi più facili da riconoscere, per arrivare gradualmente a far emergere gli elementi meno concreti, meno direttamente leggibili – che necessitano di una riflessione più profonda sulla città. L’ordine presentato da Lynch viene pertanto riscritto sulla base di quella che si presume essere la sequenza più rispondente all’approccio conoscitivo dei migranti nei confronti della nuova città. 1. Riferimenti: Sono i luoghi di riferimento, che identificano la città o che servono per orientarsi nella città; riprendono dalla categoria “riferimenti” di Lynch il fatto di essere elementi puntuali e di essere utilizzati come indizi di identità, tanto più riconoscibili quanto più la loro importanza visiva sia coincidente con quella simbolica. 2. Spazi dell'abitare: sono i luoghi dove il migrante abita e ha abitato dal momento del suo arrivo a Milano; trattandosi della fase che precede un eventuale radicamento, spesso sono luoghi non deputati all’abitare e ne viene richiesta una descrizione. Come nella categoria dei “quartieri” di Lynch, si tratta di luoghi in cui “l’osservatore entra mentalmente dentro”; in Lynch essi “rappresentano una parte importante e gradita dell’esperienza di vivere nella città” (Lynch, 1964), qui vengono intesi quali parti importanti in quanto ‘familiari’, gli spazi quotidiani di un’esperienza abitativa transitoria. 3. Percorsi: Sono gli spostamenti abituali nella città, quelli seguiti più frequentemente a piedi o con mezzi di trasporto pubblici. Come in Lynch, i percorsi sono intesi come “i canali lungo i quali l’osservatore si muove” (Lynch, 1964), ma soltanto “abitualmente” e non “potenzialmente”, poiché l’elemento che interessa non è quello che viene percepito come percorso, bensì quello che viene abitualmente utilizzato come tale. 4. Nodi: Sono i luoghi più frequentati, quelli dove si svolgono le principali attività e dove si incontrano altre persone, “fuochi intensivi”, secondo la definizione di Lynch, non per la loro posizione strategica - “tipiche congiunzioni di percorsi o concentrazioni di alcune caratteristiche” -, ma in quanto punti di aggregazione, che “ricavano la loro importanza dal condensarsi di qualche uso o di qualche caratteristica fisica” (Lynch, 1964) secondo un’accezione che non riguarda la riconoscibilità della forma fisica, bensì l’importanza attribuita al tipo di attività che in quel luogo viene svolta. 5. Confini: E’ la trasposizione della categoria dei “margini” di cui viene mantenuto il concetto di barriera, di interruzione di continuità, di divisione tra un ambiente e un altro, inteso però non per indicare confini fisici, “elementi lineari che non vengono usati o considerati come percorsi dall’osservatore” (Lynch, 1964), ma elementi di confine tra una città conosciuta (o conoscibile) e una città che viene considerata off limits, dove il migrante non va o ritiene di non poter andare; sono i luoghi considerati inaccessibili, gli spazi impenetrabili, le mura immaginarie della città.
Il metodo di lavoro Allo straniero non domandare il luogo di nascita, ma il luogo d’avvenire. (E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato)
A partire dalla trasposizione degli elementi della mappa lynchana, è stato costruito uno metodo di indagine mirato a esplorare il punto di vista dei migranti sulla città di Milano, utilizzando i cinque elementi quali tracce su cui fondare il disegno della mappa mentale della città da parte dei nuovi abitanti. A questo fine è stata predisposta un’indagine empirica definendo il campione a cui rivolgere le interviste; gli strumenti con cui condurre il disegno della mappa; e individuando i luoghi rappresentativi della città dei migranti dove realizzare le interviste. Tra i metodi di campionamento utilizzati nelle indagini statistiche, è stato individuato un ‘campione a scelta ragionata’ - ritenuto il più adatto fra le tecniche solitamente utilizzate al fine di intervistare popolazioni dall’identità sconosciuta, o difficili da rintracciare - per rilevare una popolazione connotata da una condizione di transitorietà. Entro questo metodo, sono stati introdotti alcuni requisiti specificatamente diretti a individuare un campione di migranti che fosse rappresentativo delle popolazioni al primo approdo presenti a Milano: sono state intervistate persone provenienti da 41 Paesi, non appartenenti allo stesso nucleo famigliare, e, al fine di incontrare gli intervistati, sono stati individuati luoghi del primo approdo sul territorio milanese diversificati per tipo di servizio erogato. Con questi criteri, si è inteso costruire un campione eterogeneo sia dal punto di vista
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della provenienza geografica degli intervistati sia dal punto di vista degli spazi della città frequentati dai migranti transitori. Per quanto riguarda gli strumenti, è stata introdotta la necessità di utilizzare un foglio bianco per realizzare la mappa, dove non vi fossero segni di una città già pensata da un determinato punto d’osservazione, e restituita secondo canoni già acquisiti della rappresentazione cartografica, ma vi fosse la possibilità di tracciare liberamente sulla carta una nuova esperienza della città. Gli strumenti utilizzati per realizzare le interviste sono dunque un foglio di carta in formato A4, penne, matite colorate e pennarelli, che vengono lasciati sul tavolo a disposizione dell’intervistato il quale può scegliere gli strumenti grafici più idonei a elaborare il suo disegno. Sul retro della mappa, viene richiesto di scrivere il proprio nome, l’età, il Paese di provenienza – specificando se l’abitazione originaria sia in una città oppure in campagna – e il tempo trascorso dall’arrivo a Milano. I luoghi dove incontrare i migranti da intervistare, sono stati scelti distinguendo le principali attività legate ai servizi di primo accesso alla città, per ciascuna delle quali è stato individuato uno spazio di riferimento. 1
Figura 1. Mappa di Florjan Murati, Albania
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ORIENTARSI: Per quanto riguarda l’attività ‘orientarsi’ è stato scelto il Centro Aiuto del Comune di Milano presso la Stazione Centrale, dove vengono fornite le indicazioni di primo accesso alla città ai migranti appena arrivati, che spesso conoscono soltanto la stazione non essendosi ancora spostati dal luogo del loro approdo a Milano. DORMIRE: Relativamente all’attività ‘dormire’, sono state analizzate diverse tipologie di spazi che offrono un’ospitalità notturna, scegliendo un luogo per ogni tipo di accoglienza temporanea presente a Milano, o per ogni tipo di gestione: il dormitorio di via Saponaro per il servizio di prima accoglienza in una struttura comunale (affidata in gestione a una fondazione religiosa), la Casa della Carità per il servizio di prima e seconda accoglienza in una struttura di una fondazione religiosa; lo Scalo ferroviario di Porta Romana come esempio di spazio dismesso e occupato da abitazioni informali. MANGIARE: Per quanto riguarda l’attività ‘mangiare’, è stata individuata la mensa dell’Opera San Francesco, la più conosciuta a Milano. CERCARE ASSISTENZA LEGALE: Relativamente alla ricerca di assistenza per questioni legali, si è fatto riferimento al Naga, un'associazione di volontariato che promuove e tutela i diritti dei cittadini stranieri. AGGREGARSI: Relativamente all’attività ‘aggregarsi’ è stato individuato il Centro Naga Har che, oltre a fornire assistenza legale e sociale a richiedenti asilo e rifugiati, contiene una biblioteca, un’aula dove si svolgono corsi di italiano, una sala con televisore, una saletta dove si può bere il tè e giocare a dama. CURARSI: Relativamente ai servizi medico-sanitari, è stato individuato il poliambulatorio della Fondazione Fratelli di San Francesco, quale centro di riferimento per i migranti che cerchino assistenza medica in varie discipline: medicina generale, psichiatria, ginecologia, oculistica, ORL, dermatologia, odontoiatria e altro. COMUNICARE: Per quanto riguarda l’attività ‘comunicare’, sono state analizzate alcune scuole di italiano: la scuola di viale Romagna, all’interno della struttura di una scuola statale, la scuola serale presso la Casa della Carità, all’interno della relativa biblioteca, la scuola pomeridiana per rifugiati e richiedenti asilo all’interno del Naga Har.
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La rappresentazione come dispositivo per abitare la cittĂ : i migranti mappano Milano
Figura 2. Mappa di Kairucca, Afghanistan
Figura 3. Mappa di Abdelhadi, Marocco
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L’interpretazione delle mappe Le mappe mentali disegnate dai migranti sono state analizzate secondo diversi registri di lettura, ciascuno dei quali corrisponde a una delle possibili declinazioni del processo conoscitivo che viene innescato con il disegno della mappa. La prima analisi si riferisce al livello di conoscenza della città espresso dalle mappe: sono stati identificati quattro livelli di conoscenza - dalle mappe più elementari alle più complesse. Questa analisi rivela un modo di conoscere la città che avviene soprattutto attraverso l’esperienza dei luoghi frequentati quotidianamente – i luoghi della giornata tipo, come evidenziano le mappe in cui sono raffigurati i punti toccati nel percorso quotidiano attraverso la città. L’analisi del livello di conoscenza della città rivela anche un grado complessivamente elevato delle rappresentazioni, dove le mappe più elementari corrispondono soltanto al 10% del totale, mentre nel restante 90% emerge uno sforzo di rappresentazione sotto forma di racconto visivo o di sintesi in una forma astratta, che comporta un lavoro molto complesso di riconoscimento, di codificazione e raffigurazione dei segni e dei significati con cui viene conosciuta la città. Vengono inoltre analizzati gli approcci alla rappresentazione della città, ovvero il processo con cui la conoscenza del territorio viene costruita: secondo questo registro di lettura, emerge la prevalenza di modelli di conoscenza basati sull’esperienza di relazione con gli oggetti urbani, che rivela un apprendimento di tipo esperienzialeaffettivo, in cui vengono raffigurati soprattutto gli spazi del vissuto quotidiano, che sono i canali attraverso i quali introdursi nel tessuto urbano e riconoscerlo. Le mappe sono state quindi analizzate attraverso la lente dei cinque elementi su cui è stata costruita la rappresentazione. I RIFERIMENTI sono costituiti soprattutto dal Duomo, ma anche dal Castello, e dalla Stazione Centrale, che è il riferimento principale per i nuovi arrivati; oppure dai luoghi di orientamento rispetto alle zone dell’abitare, come piazzale Loreto, o piazzale Maciachini, che sono gli snodi verso le zone più densamente abitate da immigrati. In generale, i migranti tendono a cercare riferimenti che siano luoghi significativi dell’esperienza della città, piuttosto che oggetti rappresentativi dell’immagine della città. Gli SPAZI DELL’ABITARE fanno affiorare le diverse declinazioni dell’instabilità: dalle mappe emerge soprattutto la quantità di luoghi abitati a Milano dai migranti, come si può osservare dalle numerose mappe in cui vengono raffigurati i diversi dormitori abitati; emerge inoltre come le strutture comunitarie vengano considerate come le soluzioni più stabili, più protette, pur essendo soluzioni estremamente precarie, dove la possibilità di permanenza è limitata nel tempo e dove mancano luoghi di reale intimità. Tuttavia se vengono confrontate con altre sistemazioni abitative, come quelle rappresentate in mappe in cui compaiono baracche, case abbandonate, sistemazioni precarie sotto i ponti, si osserva come i dormitori corrispondano effettivamente a un livello più integrato dell’abitare. Anche per quanto riguarda le abitazioni private, che sono per lo più in condivisione, vengono evidenziati continui spostamenti; le zone indicate nelle mappe sono quelle connotate da una forte presenza di immigrati, ma anche zone miste, che corrispondono ai quartieri popolari della città. Questa distribuzione degli spazi dell’abitare sul territorio rivela una morfologia piuttosto eterogenea dell’insediamento dei migranti a Milano. L’elemento dei PERCORSI fa emergere una conoscenza dettagliata del trasporto pubblico – in molte mappe vengono disegnati i tragitti della metropolitana, a volte segnalando tutte le fermate; spesso compare il tracciato della filovia 90-91, che percorre la circonvallazione della città. Un altro piano di lettura dell’elemento PERCORSI ha evidenziato le connessioni logico-esperienziali, dove non compare la componente territoriale della rappresentazione, ma vengono raffigurati i collegamenti tra luoghi significativi dell’abitare: ad esempio in una mappa compaiono diverse reti, di colori differenti, che connettono i nodi corrispondenti ai luoghi legati alla ricerca di un lavoro, agli spazi dell’abitare, ai luoghi di incontro. Oppure vengono raffigurati collegamenti che raccontano i percorsi quotidiani attraverso la città, o ancora collegamenti tra le problematiche dell’abitare, tra le quali spesso viene evidenziato il problema di non potersi spostare per la mancanza di soldi per il biglietto del tram. L’elemento dei NODI è stato rappresentato attraverso tre diverse interpretazioni, corrispondenti a luoghi pubblici che si differenziano per il livello di integrazione nella città di cui sono indice: al primo livello appartengono i servizi legati al primo approdo, al secondo livello i servizi utili all’abitare, al terzo livello i luoghi d’aggregazione. Il confronto delle percentuali di mappe relative a ciascuna interpretazione, evidenzia come la maggioranza dei migranti identifichi come nodi i luoghi in cui viene cercato un servizio per la sopravvivenza nella città. Questa prevalenza di nodi legati ai ‘bisogni primari’ dell’abitare apporta un cambiamento simbolico nel ruolo dello spazio pubblico, che ha sempre rappresentato il luogo delle attività più astratte dell’abitare, quelle dell’incontro, della discussione pubblica, dello scambio, e attraverso le rappresentazioni dei migranti sembra invece diventare il luogo delle funzioni legate alla condizione più basilare dell’abitare. Anche all’elemento dei CONFINI vengono attribuite accezioni diverse, che sono quelle di luoghi pericolosi, soprattutto a causa della delinquenza presente, e si riferiscono quasi sempre alla Stazione Centrale; luoghi marginali, che corrispondono alle zone abitate da molti immigrati, percepite come ‘ghettizzate’, e quindi da Nausica Pezzoni
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La rappresentazione come dispositivo per abitare la città: i migranti mappano Milano
evitare, indipendentemente dal fatto che la popolazione presente sia della propria o di un’altra etnia; luoghi temuti, primo fra tutti il carcere; luoghi inaccessibili, in quanto al di fuori della propria possibilità di frequentazione, soprattutto per la lontananza.
Conclusioni L’indagine empirica descritta introduce, con lo strumento della mappa mentale, un dispositivo di conoscenza della città che interessa entrambi i soggetti dell’esplorazione: il migrante che osserva e rappresenta la città, e il ricercatore che osserva, attraverso la rappresentazione realizzata dal migrante, la città che emerge nella relazione tra il migrante stesso e lo spazio urbano. Dal punto di vista del migrante che osserva e rappresenta la città, questa indagine offre una possibilità di appropriarsi della città attraverso il riconoscimento della relazione con lo spazio urbano, che viene esplicitata con il disegno. Un disegno che permette dunque che un territorio estraneo – spaesante - diventi familiare, si faccia pensabile, svelandosi attraverso gli oggetti urbani riconosciuti e raffigurati sulla mappa. Nel gesto del rappresentare, il migrante si mette in relazione con il nuovo territorio in modo attivo e partecipe, costruendo un campo di mediazione tra il proprio spaesamento e la città in cui si trova ad abitare – attraverso i segni che fanno diventare il foglio bianco una città. Immaginare e rappresentare la geografia urbana corrisponde al tentativo di abitare mentalmente la città, e dunque di potersi pensare come abitante. Attraverso il disegno della mappa della città, viene proposto un punto d’osservazione creativo, progettuale, pur trattandosi di una partecipazione che antecede il progetto - ovvero che non è mirata a un contributo diretto del migrante nel progetto della città. “Ogni carta è innanzitutto un progetto sul mondo (…) e il progetto di ogni carta è quello di trasformare – giocando d’anticipo, cioè precedendo – la faccia della terra a propria immagine e somiglianza”. (Farinelli, 1992): ciascun migrante nella propria mappa porta alla luce il progetto trasformativo implicito che è sotteso alla sua descrizione della città. Dal punto di vista del planner che osserva la città che emerge attraverso le mappe dei migranti, questa esplorazione permette di ampliare il campo di indagine, includendo lo sguardo dei migranti e il loro apporto creativo, dunque superando una visione che considera gli abitanti come i destinatari passivi del progetto di città, e includendo una tipologia di abitanti – e di modalità dell’abitare - tradizionalmente esclusa o considerata marginalmente nella pianificazione della città. Attraverso questa esplorazione, la città in trasformazione viene osservata non dall’esterno e dall’alto, ma addentrandosi nel territorio e raccogliendo le esperienze e le visioni della città per come queste appaiono nella restituzione che ne viene fatta dai suoi nuovi abitanti: provando quindi ad astrarsi dalla cartografia scientifica e dalla necessità di oggettivare il territorio, per lasciar emergere qualcosa di nuovo dai nuovi sguardi che si soffermino a pensare la città. Focalizzando l’attenzione su un momento specifico dell’abitare - quello della transitorietà, del passaggio tra l’arrivare da altrove e l’essere parte della nuova città – viene analizzata la condizione dell’abitare nel momento che precede l’insediarsi, un momento poco esplorato nelle analisi urbane, che in questo lavoro viene invece scelto come il momento più fecondo, il punto di vista più pertinente per osservare la città in trasformazione. L’indagine empirica fondata sul metodo di Lynch costituisce un tentativo di rendere fertile il suo apporto innovativo entro la città contemporanea, attraverso un’applicazione sperimentale che coinvolge nuove categorie di abitanti e che interessa un nuovo contesto geografico, come Lynch stesso suggeriva nelle considerazioni successive all’Immagine della città. Al tempo stesso la trasposizione dei cinque elementi della mappa lynchana diventa il terreno su cui fondare un’esplorazione volta a interrogare la città contemporanea lungo il crinale delle sue trasformazioni profonde e tuttavia non ancora affiorate alla luce della analisi urbane: diventa lo strumento empirico per indagare la città insorgente. 2
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Spaces of insurgent citizenship sono chiamati, da James Holston, “gli spazi sottratti al dominio moderno e pianificato della città: il territorio dei senza casa, le reti dei migranti, i quartieri dell’appartenenza omosessuale, le periferie auto costruite (…) Holston considera insurgent gli spazi nei quali si svolgono pratiche che disturbano le storie consolidate della città contemporanea”. In un articolo dal titolo Insurgent City. Topografia di un’altra Firenze, G. Paba ripercorre le interpretazioni del termine insurgent, da Sandercock a Geddes a Mumford, per spiegare una ricerca in cui “l’oggetto della rappresentazione doveva essere proprio il mondo in ebollizione della città insurgent (…). I materiali da rappresentare non erano quindi costituiti da oggetti, ma da intrecci di relazioni umane, di nuovi rapporti intersoggettivi e dal loro difficile e controverso rapporto con la struttura morfologica e organizzativa della città”. Paba G., 2004, Insurgent City’. Topografia di un’altra Firenze, in Urbanistica n. 123, Milano.
Nausica Pezzoni
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La rappresentazione come dispositivo per abitare la città: i migranti mappano Milano
Bibliografia Andriello V. (1997), La forma dell'esperienza. Percorsi nella teoria urbanistica a partire da Kevin Lynch, Franco Angeli, Milano. Farinelli F. (1992), I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso cartografico in età moderna, La Nuova Italia, Scandicci. Lynch K. (1964), L'immagine della città, Marsilio, Venezia. Lynch K. (1981) Il senso del territorio, il Saggiatore, Milano. Lynch K. (1985), “Reconsidering the Image of the City”, in Banerjee T., & Southworth M. (1995), City Sense and City Design. Writings and Projects of Kevin Lynch, Cambridge, Massachusetts, MIT Press. Paba G. (2004) “'Insurgent City'. Topografia di un'altra Firenze”, in Urbanistica n. 123, INU, Roma.
Nausica Pezzoni
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
Nocività e conflitto: il caso bresciano Lonati Giovanni Università IUAV di Venezia Email: giovannilonati@gmail.com Tel. 329.4093549
Abstract Le tematiche ecologiche si sono progressivamente affermate in vari ambiti, proponendosi come sfide cruciali per la pianificazione territoriale ed urbanistica; esse impongono radicali ridefinizioni degli orientamenti d'azione sul e nel territorio, in rapporto anche ai nuovi paradigmi della sostenibilità ambientale (nelle sue declinazioni di resilienza, decrescita, impronta ecologica etc). Il paper descrive alcuni recenti casi di conflitto ambientale nel contesto bresciano, in particolare in relazione alla realizzazione di discariche ed impianti produttivi altamente inquinanti, per poi proporre alcune considerazioni sulle problematiche inerenti le scelte di pianificazione ed uso del territorio, nonchè le differenti visioni di ambiente, natura, sviluppo locale, qualità della vita, accettabilità del rischio (etc) espresse dagli attori di tali conflitti.
Crisi ecologica globale: la situazione di Brescia La crisi ecologica rappresenta la grande sfida del nostro tempo; la centralità odierna del problema ambientale si evidenzia nella rilevanza che hanno progressivamente assunto le tematiche ecologiche in vari ambiti sociali, politici, economici e scientifici, ponendosi come sfide cruciali anche per la pianificazione territoriale ed urbanistica. Le eterogenee forme attuali di ecologismo e ambientalismo 1 hanno nelle politiche del territorio un importante riferimento, in una duplice accezione: innazitutto molte forme di ambientalismo si attivano in opposizione e/o reazione agli effetti indesiderati (effettivi o potenziali) di scelte politiche concernenti urbanistica e pianificazione territoriale. In secondo luogo le politiche del territorio sono oggetto di operazioni di reframing (Harrison, 2001) delle scale di priorità, universi valoriali e paradigmi d'azione da parte dei soggetti coinvolti nelle controversie ambientali. Le amministrazioni locali sono tra le più coinvolte nelle criticità di gestione delle problematiche ambientali (e delle controversie da esse suscitate) in quanto sono i referenti istituzionali più prossimi, anche dal punto di vista spaziale, alle espressioni di dissenso, preoccupazione, partecipazione di coloro che sono "involved in the concrete, sensory experience" 2 (Schön, 1979) degli effetti indesiderati dalle politiche di governo del territorio. Le conseguenze locali della crisi ecologica globale evidenziano dunque la necessità d'una sensibilità nuova verso il territorio, che problematizzi la governance di quest'ultimo in maniera differente, alla luce delle sempre più evidenti conseguenze su ambiente e salute d'un modello di "sviluppo" e "crescita" cieco ai limiti del pianeta, nonchè della diffusa importanza riconosciuta ad un approccio meno "dirigistico" nella trattazione delle controversie e dei conflitti che nel territorio si manifestano. Nel caso bresciano, la portata delle problematiche ecologiche inerenti il territorio e chi lo abita sono indice di una progettazione del territorio che è stata quantomeno poco attenta agli impatti ambientali di queste scelte e negligente nella tutela della salute dei cittadini. La provincia di Brescia ha una lunga storia di sfruttamento intensivo del territorio (agricolo, industriale, edilizio); la sua crescita economica è andata in parallelo ad un pesante deterioramento ambientale, i cui rischi sono stati a lungo relegati in una beckiana fase di latenza, che oggi sempre più viene meno, evidenziando le proprie gravi conseguenze, sia sulla popolazione che sul territorio. 1 2
Termini ambigui e polivalenti, che verranno in questa sede utilizzati senza distinzione In una gamma molto ampia di effetti, percebili in diverso modo ed a diverso "livello"; si va dall'inquinamento acustico alle alte incidenze tumorali, dalla compromissione del territorio di produzioni regionali tipiche alla scomparsa di intere specie, alla compromissione di un paesaggio, d'uno spazio di vita,etc.
Lonati Giovanni
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
Emblematico in questo senso è il caso della contaminazione prodotta delle ex-industre Caffaro, nelle quali dal 1906 al 1997 sono stati prodotti composti chimici (principalmente cloroderivati e soda caustica); tale attività ha provocato una dispersione nelle acque, nell’aria e nel suolo di elementi fra i più tossici quali mercurio, cloro, PCB e diossine su di un'area enorme, principalmente a sud dello stabilimento. Nel luglio 2002, l'area contaminata "Brescia-Caffaro" (una superficie pari a circa1.700.900 mq) viene riconosciuta, con legge dello Stato 3 , Sito Inquinato di rilevanza Nazionale (SIN); ciò non ha impedito che l'espansione urbana della città attorno al sito proseguisse, nonstante nella zona si registrano livelli di contaminazione peggiori che nel caso di Seveso (Ruzzenenti 2001) e le bonifiche siano state nulle o minime. Non sorprende quindi che lo storico e ambientalista Marino Ruzzeneneti, parli di Brescia come contesto particolarmente "ricettivo" per i rifiuti (Ruzzenenti, 2008) nel quale si è sviluppata una sorta di "industria del nocivo" che "internalizza nel processo economico le esternalità ambientali" (Leff 2009, p.236) sia nel loro stoccaggio (cave che divengono discariche) che nel loro trattamento (incenerimento, lavorazioni di smaltimento, riutilizzo). Tale tesi viene confermata dalla presenza a Brescia del più grande inceneritore d'Europa che alimenta, con il proprio sovradimensionamento, l'importazione di rifiuti e disincentiva la raccolta differenziata; non sorprende che Brescia sia "maglia nera" della Lombardia nella raccolta differenziata (ferma al 40%), con l'abnorme produzione di 2 kg pro capite al giorno di rifiuti (Cerani, Ruzzenenti 2012). Del resto il ruolo disincentivante dell'incenerimento nei confronti della riduzione della produzione di rifiuti procapite e delle pratiche di raccolta differenziata è stato evidenizato anche in altri casi 4 . Si potrebbe ipotizzare che le esternalità negative siano state, e sempre più sono, importanti attanti (Latour, 2005) nello sviluppo economico del territorio bresciano, anche considerando l'alto numero di aree estrattive e la presenza di numerose aziende specializzate nel trattamento e/o riutilizzo dei rifiuti. Brescia "esporta della buona ghiaia ed importa rifiuti, questo è il meccanismo". (Commissione Parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, 2011a, p.4), ed è in base a tale meccanismo che ogni anno: "nella nostra provincia finiscono in discarica circa 100 mila tonnellate di residui del ciclo dei rifiuti urbani (le scorie del termoutilizzatore, i rifiuti ingombranti e via dicendo) e 4 milioni di tonnellate di rifiuti speciali; per cui, su 20 discariche, 19 sono per i rifiuti speciali e una per i residui del ciclo dei rifiuti urbani" (Ibid 2011a, p.2) Non a caso dunque, "per quanto riguarda la produzione pro capite di rifiuti speciali, Brescia ne ha praticamente il triplo rispetto al dato nazionale" (Ibid, 2011b, p.2). Queste forme "legalizzate"di inquinamento si sono sviluppate in un contesto in cui era assente un quadro normativo di riferimento 5 ; a queste si devono aggiungere le forme illegali di smaltimento: "il Piano provinciale dei rifiuti, che ha effettuato una radiografia del nostro territorio sotto questo aspetto, ha segnalato 18 siti di smaltimento illegale da bonificare, e 18 siti sono una piccola parte di quello che in realtà esiste. Si tratta di scorie per lo più di tipo industriale – scorie di acciaieria, magari anche di natura pericolosa – che negli anni sono state interrate in cave dismesse e ricoperte da uno strato di terra." (Ibid, 2011a, p.2) Le conseguenze di questa gestione del territorio sono oggi sempre più evidenti: Brescia e la sua provincia presentano una panoramica inquietante di criticità ambientali, basti pensare che nel 2010 e nel 2011 circa il 20% degli interventi dell'ARPA per emergenza ambientale in Lombardia sono stati svolti nella provincia di Brescia (ARPA 2012). Solo una piccola parte degli impatti di queste nocività su territorio e popolazione bresciani sono stati documentati da approfonditi ed estesi studi epidemiologici, ma i dati a disposizione sono preoccupanti, solo per citarne alcuni: nel 2009 Brescia ha registrato il "primato" italiano di morti per tumore con 36,43% delle morti contro la media nazionale del 29,53% (Rapporto Sole24ore Qualità della vita 2009), è stata nel 2008 la terza città europea per inquinamento atmosferico 6 , mentre nel 2010-11 si è registato un incremento dell'8% nei tumori infantili (Cerani e Ruzzenenti, 2012).
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Decreto del Ministero dell'Ambiente del 24 febbraio 2003 Si veda ad esempio Pellizzoni 2011 sul caso di Trento, dove per altro è coinvolto anche il gruppo Asm
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Circa varie tipologie di rifiuti industriali, ad esempio quelli derivanti dal settore siderurgico su cui " la normativa (...) è in vigore sostanzialmente dalla fine degli anni ‘80. Fino a quel momento, per queste cose si scavava una buca e si buttava tutto dentro" (Commissione Parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, 2011b p.4) 6 Analisi Istat su dati AirBase dell'Agenzia europea per l'ambiente EEA http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20100622_01/ Lonati Giovanni
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
San Polo e Buffalora: due quartieri “nocivi” I conflitti di seguito brevemente esposti riguardano criticità ambientali della zona compresa tra le frazioni di San Polo (la più popolosa di Brescia, con quasi 20 000 abitanti) e Buffalora (2500 abitanti c.a.), situati nella parte sud est della città, la quale ha negli anni progressivamente "divorato" buona parte dei terreni agricoli del comune di Brescia, il cui terreno cementificato è passato dal 19,11% del 1955 al 55,7% del 2007 (Cerani e Ruzzenenti, 2012). In questa zona, distante solo pochi chilometri dal SIN della Caffaro e dall'inceneritore ASM, si sono concentrate nel corso degli anni molteplici criticità ambientali (figura 1) tra cui: impianti industriali altamente inquinanti: nella zona operano, tra le altre, l'acciaieria l'AlfaAcciai, l'azienda chimica AEB, il bitumificio Gaburri Spa e l'ex-fonderia Bonomi Metalli, ora adibita a deposito di svariati materiali (anche pericolosi); alto numero di cave: il Catasto Cave della Regione Lombardia 7 registra nell'area del comune di Brescia 22 cave (3 attive e 19 dismesse); di queste ben 17 (tra cui le 3 attive) si trovano nella zona di San Polo e Buffalora, e numerose sono state utilizzate, legalmente e non, come discariche; vicinanza a vie di comunicazione ad alta intensità veicolare (autostrada A4 e tangenziale sud di Brescia). Un'altra grave criticità ambientale della zona di San Polo,(ma con conseguenze di ben più ampia portata) è il deposito di Cesio 137 radioattivo nella ex-Cava Piccinelli, scoperto casualmente nel 1997 e tuttora non bonificato, benchè già dal 2000 esso fosse stato inserito tra i siti "prioritari" della Regione Lombardia. L'assenza di lavori di bonifica 8 è stata più volte denunciata da vari comitati di cittadini; le proteste si sono però "indurite" negli ultimi mesi, a seguito della denuncia della possibile contaminazione della falda, documentata dall'inchiesta di un giornalista di Radio Popolare (Tornago 2012). Tale preoccupante situazione viene ulteriormente aggravata dalla notizia, nei primi mesi del 2009, della prossima realizzazione di una discarica di amianto da 78.600 metri cubi (in via Brocchi) e del trasferimento del bitumifico Gaburri nella ex cava Pasotti, in un'area, chiamata dai residenti "l'oasi", dove la falda, affiorando, ha creato un piccolo lago circondato da alberi nel quale nidificano numerose specie di uccelli. Entrambi i siti sarebbero stati parte del Parco delle Cave, un'area verde di 4.500.000 circa di metri quadri, ottenuta dalla riqualificazione delle ex cave (a cui i cavatori sono tenuti per legge) promessa da più di 20 anni dalle amministrazioni comunali e ad oggi ancora non realizzata. E' sul caso di via Brocchi che si innesta, a partire dal maggio dal 2009, il conflitto ambientale più recente nella zona di San Polo, attraverso la mobilitazione del Comitato Spontaneo Contro le Nocività, del Comitato Difesa Salute e Ambiente (CODISA) e di alcune organizzazioni ambientaliste (Legambiente, Lipu). La realizzazione della discarica di via Brocchi appare a molti cittadini di San Polo come l'ennesima nocività sul proprio territorio già pesantemente compromesso; negli anni precedenti vi erano già state proteste contro l'alta concentrazione nella zona di criticità ambientali, ma le mobilitazioni più recenti si sono potute "avvalere" anche delle sempre più precoccupanti evidenze sulle conseguenze dell'inquinamento sulla salute. Nel 2011 infatti la diffusione dei dati 9 di un'analisi dell'ASL sulla mortalità della popolazione di S.Polo evidenzia un incremento delle morti per malattie respiratorie e, rispetto al resto del comune, maggiore tasso di ricoveri per malattie respiratorie e tumori a fegato e vescica . La diffusione di questi dati provoca tra la popolazione preoccupazione ed indignazione, che unite all'annuncio di nuove nocività, accrescono la portata delle rivendicazioni dei comitati, i quali oltre alla denuncia della mancata bonifica dei siti contaminati ed alle richieste di limitazioni all'inquinamento degli impinati operanti nella zona , chiedono un blocco totale alla localizzazione sul proprio territorio di nuove nocività. L'azione dei comitati si articola attono a numerose pratiche di protesta, denuncia e sensibilizzazione: vengono organizzati cortei, sit in, flash mob, conferenze, dibattiti ed assemblee pubbliche, passeggiate collettive e "biciclettate" nelle aree in cui si realizzeranno discarica e bitumificio. Vengono inoltre inviate numerose lettere ad amministratori e stampa locale, nonchè segnalazioni agli enti con competenze in materia sanitaria ed ambientale (ASL, ARPA). Nel luglio 2009, in occasione dei primi sopralluoghi dei tecnici della ditta titolare dei lavori, Comitato Spontaneo contro le Nocività e CODISA organizzano un presidio permanente presso il sito dove sorgerà la discarica durante il quale vengono svolte attività di monitoraggio del sito e di sensibilizzazione della popolazione del quartiere; il presidio viene sgomberato a febbraio 2010 dalle forze dell'ordine per consentire l'inizio dei lavori. Un altro campo su cui si muovono i comitati (tramite l'appoggio di associazioni ed organizzazioni ambientaliste più "strutturate") è quello giuridico; viene presentato nel novembre 2009 un ricorso al Tar, il quale nel marzo 7
Consultabile sul sito http://www.cartografia.regione.lombardia.it/gis_cave2/cartelle/home/default.asp?theBrowser=NET
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l'unico intervento di fatto eseguito è stata la posa di teli nel 1999, che avrebbero dovuto arginare l’emergenza del Cesio per al massimo due anni e che in 12 anni si sono deteriorati, con il conseguente formarsi di percolato radioattivo nella discarica abusiva.
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avvenuta grazie alle anticipazioni pubblicate dal Corriere (3 novembre 2011) le quali obbligano l'ASL a confermare ed a rendere pubblici i dati (di cui era in possesso già dal 2010) http://brescia.corriere.it/brescia/notizie/cronaca/11_novembre_3/20111103BRE03_10-1902033024041.shtml
Lonati Giovanni
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
2010 blocca provvisoriamente i lavori (iniziati da poco più di un mese); a Novembre dello stesso anno, la società Profacta (titolare dei lavori) si rivolge al Consiglio di Stato contro la decisione del TAR; quest'ultimo sollecitato dal Consiglio di Stato ad esprimersi in tempi rapidi, dichiara"inammissibile" il ricorso presentato dai comitati di San Polo. E' da sottolineare come tale decisione del Tar non venga motivata sulla base della documentazione presentata nel ricorso, circa le incongruenze della Valutazione d'Impatto Ambientale e dell'Autorizzazione Integrata Ambientale, ma per la presenza nel ricorso di vizi formali (tardiva notifica alla controparte). I comitati presentano a loro volta un ricorso al Consiglio di Stato perchè si esprima nel merito del ricorso; tale sentenza non è ancora stata emessa, ma ciò non impedisce che nel dicembre 2011 i lavori in via Brocchi riprendano. Per quanto riguarda la realizzazione del bitumificio, questa viene autorizzata a febbraio 2012, nonostante i comitati e la LIPU avessero dimostrato l'interesse naturalistico dell'"oasi", nella quale è stata segnalata la presenza di specie rare come il Cavaliere d'Italia, evento questo "eccezionale nel nord Italia" (Nervi 2011). Le mobilitazioni ad ogni modo proseguono: il 3 marzo scorso circa 400 abitanti di Buffalora e San Polo (ma anche di comuni limitrofi come Castenedolo e Rezzato) preoccupati per la contaminazione della zona protestano non facendo entrare i propri figli a scuola ed organizzando una assemblea pubblica in piazza a Buffalora, a cui partecipano anche alcuni sindaci della zona. Le proteste dei comitati di San Polo e Buffalora hanno ricevuto in questi anni l'appoggio di numerosi comitati di altre zone della città e della provincia, che operano su problematiche analoghe. In particolare alcuni di questi gruppi, tra cui i comitati di San Polo e Buffalora, collaborano dal luglio 2011 alla costituzione della Rete Antinocività Bresciana (RAB), "federazione" di una ventina comitati e gruppi ecologisti, finalizzata al mutuo appoggio, alla condivisione di materiali, contatti ed informazioni. La RAB dichiara di voler "uscire dalla mentalità NIMBY", 10 per inquadrare le problematiche del territorio in maniera più globale (o glocale, per dirla con Bauman, 2005). In virtù di questa riconosciuta interconnessione tra le differenti problematiche locali la RAB organizza il 17 marzo scorso una manifestazione Provinciale dal titolo "Liberiamo aria, acqua e suolo", nella quale si cerca di riunire in un unico momento pubblico le decine di comitati dell'hinterland e nella provincia bresciana. Durante questa manifestazione, a cui partecipano oltre 3000 persone, vengono consegnate al Presidente della Provincia Molgora (tramite un suo rappresentante) numerose segnalzioni e richieste dei singoli comitati, oltre ad essere avanzate richieste comuni, tra cui il riconoscimento dello stato di emergenza ambientale, il blocco alle concessioni per nuove cave ed impianti inquinanti, l'abbandono delle politiche di incenerimento dei rifiuti, la bonifica dei siti inquinati, e la convocazione degli "Stati Generali sull'Ambiente , che veda la partecipazione di tutti i comitati che in questi anni si sono mobilitati per la difesa della salute e dell'ambiente" (RAB, 2012, p.2).
Alcune considerazioni conclusive Di fronte alle manifestazioni di preoccupazione e dissenso dei comitati, le istituzioni comunali e provinciali bresciane (nonchè quelle regionali) hanno assunto un atteggiamento che ha alternato l'indifferenza ad atteggiamenti "paternalistici". Anche per questo motivo la relazione dei comitati di San Polo con le istituzioni si è sviluppata prettamente attraverso forme conflittuali (Gaglione, 2012) ed in un contesto generalmente dominato da concezioni elitaristiche ed organicistiche 11 della partecipazione. Da un lato infatti, sopratutto per quanto riguarda Comune e Provincia, le istituzioni chiamate in causa hanno preferito non rispondere pubblicamente alle sollecitazioni ed alle lamentele dei comitati e delle organizzazioni ambientaliste; il sindaco di Brescia Paroli, ad esempio, non ha mai accettato di incontrare i comitati, nonostante le lettere e le sollecitazioni da questi inviategli e le numerose manifestazioni di dissenso verificatesi durante le sedute del consiglio comunale (di cui il comitato ha bloccato 4 sedute consecutive). Anche a seguito d'una manifestazione pubblica ampiamente partecipata come quella del 17 marzo scorso, il Presidente Molgora (a cui i comitati avevano comunicato da mesi la richiesta di un incontro pubblico durante il passaggio del corteo nei pressi della sede della Provincia) non ha incontrato i rappresentanti delle decine di comitati intervenuti, ed ha inviato una sua rappresentante, la quale ha ascoltato le richieste (impegnadosi a riferirle) ma si è dichiarata non competente a rispondere alle domande ed alle osservazioni presentatele. Del resto, la sensazione che le istituzioni (comunali, provinciali e regionali) non abbiano intenzione di cambiare il proprio atteggiamento in materia di ambientale viene rafforzata dalle ultime decisioni assunte. La scelta di autorizzare la realizzazione della discarica di via Brocchi e del bitumifico si inserisco in questa prospettiva, così come la recente approvazione del nuovo Piano di Governo del Territorio, nel quale si prevede un consumo di suolo complessivo di 1,5milioni di mq 12 , nonchè il nuovo piano Cave Regionale, che esclude il bresciano dai 10
Sito visionabile alla pagina http://www.antinocivitabs.org/chi-siamo/ Le prime nel senso d'un "rifiuto tecnocratico (a causa del quale) partecipano solo gli esperti" (Ciaffi & Mela 2011, p. 16), mentre le seconde hanno "una visione sostanzialmente negativa del conflitto sociale " (Ibid. p.18), per cui le forme di partecipazione devono orientarsi ad una sua prevenzione e mitigazione. 12 Si veda Corriere dell Sera del 19 marzo 2012 versione online, disponibile su: http://brescia.corriere.it/brescia/notizie/cronaca/12_marzo_19/pgt-2003747365325.shtml ) 11
Lonati Giovanni
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
contesti "da revisionare" per quanto riguarda le concessioni di attività estrattive, che sono state prolungate fino al 2015 (Fatolahzadeh, 2011) Negligenze e ritardi negli interventi di bonifica, atteggiamenti elitari ed organicistici nella comunicazione del rischio e nella partecipazione (Ciaffi, Mela 2011) nonchè autorizzazioni ad ulteriore consumo di suolo (sia come cementificazione che come escavazione) ed all'insediamento di nuove nocività sul territorio, sembrerebbero essere le "linee guida" del governo del territorio (in maniera trasversale al "colore" politico) nell'area San Polo e Buffalora (considerazione che si potrebbe probabilmente estendere anche al resto della provincia). Si evidenzia dunque nel caso bresciano un mancato apprendimento istituzionale (Donolo, 1997) alla luce degli effetti collaterali, ed ecologicamente indesiderabili, prodotti (Hirschman, 1975) che sono alla base dei conflitti ambientali locali qui esposti. Gli atteggiamenti delle istituzioni nei confronti delle proteste dei comitati locali hanno alimentato una profonda sfiducia dei comitati verso il dialogo con l'amministrazione comunale bresciana e con le istituzioni provinciali e regionali (sfiducia che è stata ulteriormente approfondita a seguito delle recenti autorizzazioni a nuove nocività). Questa sfiducia, lungi dall'essere semplicemente "antipolitica" (come spesso sbrigativamente la si definisce), è profondamente politica. Come spiega Pierre Rosanvallon l'organizzazione della sfiducia dei cittadini nei confronti del potere costituito è una delle forme per analizzare i fenomeni democratici odierni. Questa organizzazione della sfiducia, che egli chiama contro-democrazia "non è il contrario della democrazia; è piuttosto (...) la democrazia della sfiducia organizzata di fronte alla democrazia della legittimità elettorale (Rosanvallon, 2009 p 17). La contro-democrazia, espressione del contropotere democratico, si sostanzia, secondo Rosanvallon (Ibid. pp 118-128) in tre forme: poteri di sorveglianza (le varie forme di controllo del potere da parte della società), forme di interdizione ("diritto alla resistenza"); ed espressione del giudizio ("correzione" sociale dell'ordinamento normativo). Nelle mobilitazioni dei comitati di san Polo e Buffalora ritroviamo ognuna di queste forme controdemocratiche: i poteri di sorveglianza si sostenziano nelle pratiche di monitoraggio del territorio messe in atto dai comitati nel controllo dei siti contaminati, dello svolgimento dei lavori e del patrimonio naturalistico (come nel caso del Cavaliere d'Italia). In quest'opera i comitati si avvalgono massiccimente delle nuove tecnologie della comunicazione, in primis la rete internet che, come evidenzia Rosanvallon, è divenuta “una forma sociale a pieno titolo, e allo stesso tempo un'autentica forma politica."(Ibid p. 71). Per quanto concerne le forme di interdizione praticate dai comitati di San Polo e Buffalora, queste sono state sia fisiche (occupazione pacifica dei siti e blocco dei cantieri) che giudiziarie (ricorsi legali per sospendere i lavori). L'espressione del giudizio, infine, si è articolata in primis nel ricorso al potere giudiziario (ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato), ma anche attraverso pratiche di giudizio "pubblico" messe in atto dai comitati attraverso iniziative dal forte impatto simbolico e comunicativo, come il "funerale di San Polo" 13 dello scorso 31 marzo o come il flash mob, organizzato nel periodo natalizio, durante il quale i comitati hanno ricoperto la facciata del Teatro Grande di Brescia con un enorme striscione riportante dati sulle patologie connesse all''inquinamento 14 . Queste espressioni controdemocratiche evidenziano come il cittadino "sfiduciato" non sia un cittadino passivo (Rosanvallon 2009), in quanto l'azione dei comitati alle proteste alterna le proposte (rilancio del progetto Parco delle Cave, una nuova viabilità cittadina, incentivi alle bonifiche, maggiore partecipazione della cittadinanza a progettazione e monitoraggio del territorio etc). L'incommensurabilità dei valori (Martinez Alier 1995) mobilitati in questi conflitti, ne determina la non-negoziabilità e ciò alimenta la "tendenza" all'intrattabilità delle controversie ambientali. La caratterizzazione di tali controverise come intractable (Schon e Rein 1994) inoltre, sembra accrescersi nella stessa misura in cui si aggravano gli effetti locali indesiderati (ma non del tutto imprevedibili) della crisi ecologica globale. I rischi ed i danni connessi alla crisi ecologica odierna, generano nuovi valori inerenti ambiente, governo ecologico delle città e del territorio, qualità della vita (etc). Questi nuovi valori, che richiedono il superamento dei modelli di relazione uomo-natura basati sul domino e sull'antropocentrismo (Bookchin, 1988), sono ben presenti nelle mobilitazioni dei comitati di San Polo e Buffalora. Da questi conflitti emergono richieste (sinora inascoltate) a processi di reframing in senso ecologico degli orientamenti delle istituzioni nella pianificazione, e vengono proposte visioni alternative di sviluppo del territorio. Del resto “il conflitto verte innanzitutto sulla tematizzazione e categorizzazione” (Donolo, 1997, p.195) delle problematiche, ed in questo senso è evidente come il territorio oggetto delle rivendicazioni dei comitati sia profondamente differente da quello politicoamministrativo oggetto di policy (Crosta, 2010). Per gli ambientalisti quello in questione è essenzialmente il proprio contesto di vita, considerato in virtù anche delle sue connessioni biologiche con l'ambiente circostante ben al di là dunque delle suddivisioni burocratiche 15 .
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Un video dell'iniziativa realizzato dai Comitati è visionabile su: http://www.youtube.com/watch?v=NoCHlrZjJjQ&feature=bf_next&list=PL8AFC4028973AB606&lf=results_main 14 Un servizio di TeleTutto TG sull'iniziativa è disponibile su: http://www.youtube.com/watch?v=LdW9Wx6aseQ 15
Nei conflitti descritti in questa sede ciò viene confermato, ad esempio, dalle proteste in merito alla possibile realizzazione di una ennesima discarica nella ex-cava Castella (sia veda Figura 1), collocata nel territorio del comune di Rezzato, ma di fatto adiacente agli abitati di San Polo e Buffalora.
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
La protesta si è innestata contro le nuove nocività previste, ma è rapidamente andata al di là della sua iniziale fase reattiva, approfondendo la conoscenza delle nocività già presenti e problematizzando la propria situazione nel più ampio quadro del modello di sviluppo adottato dalla "Leonessa d'Italia". E' specialmente in quest'ultimo passaggio che la definizione di cosa è "sviluppo del territorio" viene profondamente riformulata. I comitati, non cadendo nella "trappola" di sindromi Nimby, mentre rifiutano nuove nocività nel proprio contesto di vita contestano anche quelle collocate nel contesto di vita di altri, ed elaborano un'idea di sviluppo basato sul risanamento del territorio piuttosto che su di una sua ennesima "messa a profitto". Queste espressioni locali della galassia dell'ambientalismo altermundista, quella che Hawken chiama "moltitudine inarrestabile" (Hawken 2009), nell'opporsi alle nocività in quanto tali, chiedono e praticano percosi riflessivi verso una “modernità sostenibile” (Rullani, 2010).
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
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Nocività e conflitto: il caso bresciano
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Le politiche urbane di genere come strumento di cittadinanza
Le politiche urbane di genere come strumento di cittadinanza Maria Sole Benigni Sapienza Università di Roma Dipartimento DATA Email: mariasole.benigni@uniroma1.it
Abstract Se si vuole adottare una prospettiva di pianificazione non universalista e astratta, ma efficace e aderente alla realtà, occorre prima chiarire di quale realtà si vuole parlare. Si interviene su un campo, infatti, solo una volta che se ne sono chiarite le coordinate, individuati i limiti, e diagnosticati i problemi. Possiamo infatti individuare e/o risolvere un problema - una discriminazione, una disuguaglianza o un disagio - solo se lo conosciamo. Nella prospettiva di una urbanistica di genere, la domanda da porsi non è tanto ‘cosa fare per le donne’ ma piuttosto ‘cosa fare con le donne’. Pur mantenendo le competenze e le professionalità indispensabili, bisogna sforzarsi di aprire l’ambito specialistico e tecnico alla partecipazione, poiché in realtà tutte/i si occupano di città, quotidianamente, anche se in modo inconsapevole: quando si mettono alla prova gli assetti spaziali e temporali del territorio, quando si parla di come funziona la città, quando si valuta la qualità e accessibilità dei suoi servizi, quando si decide di frequentare o non frequentare un particolare luogo urbano.
L’urbanistica gender oriented: cenni Il contesto teorico a cui si fa riferimento è quello dei Gender Studies e in particolare degli studi geografici più affini per tematiche e campo di indagine agli studi urbanistici; muovendo dagli studi anglosassoni sull’intersezione tra gender e planning, il tema delle differenze di genere è stato pressoché invisibile nella maggior parte della storia della pianificazione urbanistica: in linea con l’approccio tradizionale, la figura dell’urbanista ricercava infatti un approccio universalista che non permetteva di individuare una distinzione tra persone sulla base del proprio gruppo di appartenenza. Le cose iniziano a cambiare solo con gli anni Sessanta, quando negli Stati Uniti viene pubblicato un libro che incide in modo influente sul corso della pianificazione urbana, The Death and Life of American Cities (1961), della studiosa Jane Jacobs. Nonostante ciò, però, si continuava ancora a evitare e mettere da parte qualsiasi esplicito riferimento alle questioni di genere. Solo la seconda ondata del pensiero femminista negli anni Settanta dà il via ad una serie di ricerche su donne e contesto urbano, che portarono negli anni Ottanta al fiorire di una letteratura attenta al genere nelle questioni di politiche urbane: women and housing, women and transportation, women and economic development (Hayden, 1981; Keller, 1981; Wekerle et al., 1980). Ricerche che però difficilmente riuscirono ad imporsi e ad avere risultati concreti a livello di inserimento nelle teorie mainstream e nei dibattiti sulla pianificazione, giacché questi ultimi erano ancora pervasi da un’ottica prevalentemente maschile, che vedeva quei lavori come tutt’al più pionieristici e suggestivi, e così finiva di fatto per marginalizzarli e ignorarli. Nel libro The thereness of women: a selective review of urban sociology, L. Lofland (1975) afferma che nella sociologia urbana empirica e teorica le donne sono percepite come facenti “parte della scena” ma non “parte di un’azione”: “le donne sono parte del luogo, della zona, dell’area descritta come altri importanti aspetti dello scenario, come il reddito, l’ecologia o la demografia – ma sono largamente irrilevanti all’azione analitica”. Pur essendo “il riflesso della cultura e dell’organizzazione di un gruppo sociale”, esse non sembrano mai essere parte del medesimo processo di costruzione. Solo la seconda ondata del pensiero femminista negli anni Settanta dà il via ad una serie di ricerche su donne e contesto urbano, che portarono negli anni Ottanta al fiorire di una letteratura attenta al genere nelle questioni di politiche urbane. Così come altri “operatori” di differenza (i concetti di “classe sociale”, o di “etnia”), anche il “genere” può funzionare come una categoria di analisi utile a evidenziare lacune, zone d’ombra o potenzialità nascoste Maria Sole Benigni
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Le politiche urbane di genere come strumento di cittadinanza
all’interno di un determinato contesto, nonché un vera e propria categoria che genera conoscenza.
I limiti dell’universalismo Essere nella città non significa affermare dei diritti astratti o un ideale essenziale che trascenda razza, genere e sesso (l’astratta tipologia del “cittadino”); non significa neanche pensare uno stato ideale immaginato, perfetto e condiviso da tutti; in realtà riguarda essenzialmente il “pari diritto alla politica per tutti”, riguarda cioè il diritto di cittadinanza per tutti, il diritto di modellare e influenzare. La città è più di un luogo di accesso e di incontro comune: è anche lo spazio al cui interno si situano le pratiche concrete per far fronte ai bisogni sociali. Se questo è vero, allora il diritto alla cittadinanza “si manifesta come una forma superiore di diritti: diritto alla liberà, all'individualizzazione nella socializzazione, all'habitat e all'abitare” (H. Lefebvre, 1996, p.173). La città contemporanea quindi, intesa come “città delle differenze”, è una città nella quale gruppi di popolazione, differenziati in base a criteri di età, genere, classe, dis/abilità, etnicità, preferenze sessuali, cultura e religione, “hanno rivendicazioni differenti sulla città e in particolare sull'ambiente costruito” (Sandercock, 2000, p.13). In questa prospettiva, il concetto di accessibilità come cittadinanza verrebbe garantito solo attivando processi di dialogo e di conversazione sociale, attraverso strategie di piano cooperative e collaborative: “planning as managing our co-existence in shared space” (Healey, 1973). Diventa impossibile dunque mantenere un punto di vista della città unitario e considerarla, come facevano i grandi teorici americani di inizio Novecento, un unico “organismo delimitato dal punto di vista spaziale in cui prendeva corpo un particolare stile di vita”, e “un sistema sociospaziale dotato di una propria dinamica interna” (Amin, Thrift, 2005, p. 26). Esiste ormai un’abbondante letteratura intorno all’idea per cui le donne e gli uomini hanno differenti (e talvolta opposti) stili di vita e differenti modi di integrazione nella divisione del lavoro in seno alla società. La vita quotidiana degli uomini si è sempre articolata attorno a un impiego remunerato, in luoghi lavorativi distinti dal focolare domestico; il tempo che essi non consacrano al lavoro, inoltre, sia esso dedicato al piacere o al riposo, è trascorso a casa o in luoghi pubblici. Anche se non sempre corrispondente ai fatti (ad esempio in periodi di disoccupazione o quando gli uomini si fanno carico di parte del lavoro familiare), quella appena descritta costituisce una rappresentazione netta e pertinente di elementi importanti dell’identità maschile. D’altra parte, invece, la vita quotidiana delle donne, il loro impiego del tempo e il loro utilizzo dello spazio, sono definiti in modo molto meno lineare. In via generale, si può dire che l’esperienza delle donne è rivolta in parte alla cura della casa e della famiglia, in parte allo svolgimento di lavori a domicilio o comunque in distinti luoghi lavorativi, in parte, ancora, all’accompagnamento dei bambini a scuola o ad attività post-scolari, alla cura e al mantenimento dei familiari più o meno anziani, all’effettuazione delle spese necessarie al sostentamento della famiglia, e così via dicendo – si tratta prevalentemente di attività di “cura”, su più livelli. In tal modo, l’esperienza femminile va al di là dei limiti delle dicotomie casa-lavoro, piacere-professione, riposo-impegno, privato-pubblico – tutte coppie concettuali che sono invece strettamente implicate nel tradizionale modo di comprendere e concepire l’urbanistica. Naturalmente, lo statuto di questa che abbiamo denominato “esperienza” del femminile, nei diversi casi è suscettibile di variazione - in relazione ai luoghi, o alle classi sociali. Ad esempio, a seconda dei livelli di protezione sociale nei differenti paesi, cambiano i limiti di ciò che va fatto in famiglia, di ciò che deve essere acquistato, di ciò che è fornito dallo Stato, etc. Eppure, anche a livello di inquadramento generale, si tratta di un’immagine pregnante, leggibile come diretta filiazione di atteggiamenti e idee che nascono e si radicano con il progressivo affermarsi della “modernità”. Le idee “moderniste” del razionalismo strumentale, della concorrenza economica e della sopravvivenza del più forte, che hanno costituito l’ossatura dello sviluppo del capitalismo degli ultimi due secoli, sono infatti servite implicitamente a definire i ruoli maschili della nostra società. Senz’altro il progetto “modernista” ha portato molti vantaggi in termini di prosperità, di protezione sociale e di opportunità generali: senza tali innegabili conquiste, i progressi di cui beneficiano oggi le donne sul piano della prosperità e della protezione sociale non avrebbero potuto essere possibili. Tuttavia, il rovescio di questo processo è stata la fissazione di dinamiche di “controllo” di tipo oppressivo, non solo nei confronti delle donne, ma più in generale della sfera del pensiero. La razionalità economica fondata sulla concorrenza e l’atomismo hanno finito per modellare la nostra vita e la nostra stessa concezione di “interesse pubblico”. Per riprendere le parole di Dear, una volta preso atto del riflusso del discorso modernista “non solo riscopriamo la diversità sociale della popolazione, ma realizziamo anche che c’è una diversità nei discorsi e nelle forme dei rapporti sociali, nei modi di pensare e di agire” (Dear M., 2001, p. 89). Se questo è vero, allora l’urbanistica e la pianificazione dello spazio nelle città forniscono il quadro in cui si inseriscono i differenti modi di vita, che di quegli spazi costituiscono un elemento fondamentale. Da questo punto di vista, è fondamentale arrivare a comprendere quali sono le divisioni sociali basate sul genere. Si tratta cioè di estendere una procedura d’analisi che in altri settori è già largamente praticata. Molti riconoscono infatti che lo spazio gioca un ruolo fondamentale nell’esercizio del potere, eppure ancora sono pochi coloro che si spingono fino ad ammettere che la stessa regola vale per il potere legato al genere (e quindi per lo spazio ad esso Maria Sole Benigni
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Le politiche urbane di genere come strumento di cittadinanza
relativo). Il nostro intento è mettere a fuoco come lo spazio urbano, nella sua accezione larga rispetto alle relazioni sociali, agisca diversamente sulle donne e sugli uomini nelle città. Da queste valutazioni segue che le decisioni che riguardano l’ambiente urbano si riveleranno essere particolarmente importanti per la lotta femminile contro i rapporti di autorità. Ci sono indubbiamente anche zone d’ombra in questa prospettiva: per dirne una, la partecipazione delle donne non è stata finora quella che ci si potrebbe aspettare da una tale analisi. Eppure ci sono ragioni precise alla base di questo fenomeno. Anzitutto, le donne sono ancora rappresentate solo marginalmente e minoritariamente nei processi di decisione – e spesso non sono al corrente delle questioni di genere che tali decisioni possono sollevare. La stessa retorica diffusa delle “pari opportunità” ha finito per appiattire la questione di genere a un mero calcolo percentuale (peraltro condotto secondo criteri discutibili). In secondo luogo, l’urbanistica è un settore in cui le preoccupazioni femminili sono ancora poco considerate, ragion per cui tanto le conoscenze quanto le pratiche – che pure si vogliono neutre e generali - sono di fatto impostate sul “maschile”. Infine, se si fa eccezione per alcune esperienze virtuose condotte negli anni ’70 del secolo scorso, le campagne di sensibilizzazione delle donne solo di rado e indirettamente hanno coinvolto le questioni dell’urbanizzazione e delle condizioni di vita nello spazio urbano. Allargando lo spettro dell’analisi, se si va a vedere come questo ordine di problemi viene trattato in ambito urbanistico negli altri paesi europei, la situazione non cambia poi molto. La questione di genere pare non essere considerata pertinente ai fini dell’analisi della residenza, e della pianificazione a livello urbano. Nella concezione dell’urbanistica, sottoforma di progetti tecnici riguardanti le infrastrutture, le differenze di genere sono totalmente ignorate. Una tale sottovalutazione dei generi, va detto, è tipica di un’impostazione tutta umanistica dell’urbanistica – sia a livello teorico che sul piano delle pratiche specifiche. Quell’umanismo che costituisce, nella sua operatività ma con tutti i suoi limiti, il corollario ideologico di quello che abbiamo chiamato “modernismo”. Le differenze e le disuguaglianze, su questo piano, vengono tutte stemperate nell’appellativo universale “Uomo”, che si suppone rappresenti tutti gli esseri umani, o per lo meno la “persona-uomo” media. Questa immagine è incarnata e ben rappresentata in quello che Le Corbusier chiama “Uomo Modulare”, le cui dimensioni devono essere il punto di partenza del piano e di tutto il progetto, fino alla città. Lo stesso dicasi per la convinzione che possa esistere un unico “interesse pubblico”: principio encomiabile, se solo dietro di esso non si nasconda un misconoscimento di differenze e disuguaglianze. In tutto ciò, va aggiunto che la stessa nozione di “interesse pubblico” è tutt’altro che solida e ovvia: davanti alle complesse contraddizioni legate alla ristrutturazione economica, e ai conflitti di interesse a livello di città e di concezione dello spazio urbano, la stessa nozione di “pubblico” pare essere divenuta inutilizzabile, e non aver retto alla prova dei fatti. Anzi: il presunto “ordinamento razionale dello spazio” è rimasta quasi sempre lettera morta, per non dire dei casi in cui si è rivelato essere un vettore di disuguaglianza fra zone urbane, o fra gruppi sociali. Si sono senz’altro prodotte delle trasformazioni fondamentali nell’insegnamento dell’urbanistica; eppure questa resta ancora per certi aspetti vincolata al suo passato recente, laddove è il mercato a determinare natura e obiettivi della ricerca – quali che siano le differenze di genere al suo interno. In un tale contesto, anzi, la tendenza pare essere quella dell’affermazione di alcuni punti a mio avviso pericolosi, in quanto tendono a perpetuare l’invisibilità delle donne – e più in generale della questione stessa di genere, derubricata nel migliore dei casi a questione secondaria. Fra questi punti, che altro non sono che asserti ideologici, c’è l’idea per cui l’”Uomo”, onnipresente, sia un essere asessuato: le sue abitudini di vita quotidiana costituiscono più o meno esplicitamente la regola, e si suppone che i suoi bisogni siano quelli degli uomini e delle donne, indistintamente. Al livello del discorso dominante, pertanto, l’urbanistica raramente ha tenuto conto della molteplicità di categorie di esseri umani e delle differenze che li separano – che si tratti di classi sociali, di cultura, di etnia, o, appunto, di genere (parziale eccezione, per le differenze di età o di attitudine fisica: i giovani e i vecchi, i disabili o gli invalidi...). Ciò accade nonostante si tratti di differenze che implicano realmente bisogni diversi, e una diversa organizzazione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana.
Alcune pratiche L’immagine complessiva, insomma, è tutt’altro che incoraggiante, sia se considera la partecipazione delle donne ai processi di decisione, sia se si valuta la considerazione del genere nella progettazione urbana. E’ vero che il carattere “centralizzato” della funzione pubblica non costituisce un quadro favorevole all’acquisizione di prospettive nuove – mentre in un contesto più decentrato le donne mostrano la tendenza a partecipare più attivamente alle decisioni in merito a questioni di ambiente urbano. Tuttavia mancano interventi generali, sia a livello educativo, sia a livello istituzionale. L’obiettivo pratico è chiaro: se nella teoria (a livello giuridico) la discriminazione è stata abolita, si tratta di far passare il messaggio anche a livello concreto. A livello generale, bisogna evitare di riprodurre, invertendolo, l’errore che abbiamo messo in luce finora: quello di legare l’uguaglianza a una nozione generica di “Donna” Maria Sole Benigni
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Le politiche urbane di genere come strumento di cittadinanza
unica e universale che sia la stessa cosa dell’”Uomo”. Al contrario, si deve sottolineare la necessità di riconoscere, apprezzare e rispettare la diversità della storia, dell’esperienza, e delle prospettive delle donne, diverse da quelle degli uomini ma altrettanto importanti. In questa ottica, nel corso delle quattro Conferenze Mondiali sulle donne (Città del Messico 1975, Copenhagen 1980, Nairobi 1985, Pechino 1995) e le due Conferenze ONU sulla condizione delle donne (New York 2000 e 2005), si sono sviluppati e definiti i concetti di empowerment e gender mainstreaming, con conseguente necessità di costruire e supportare programmi di azioni in questa direzione, in tutti i settori della vita di un paese, evidenziando altresì l'urgenza di sostenere e diffondere una cultura attenta alle differenze tra uomini e donne all'interno di contesti, esperienze e generazioni differenti. Questi concetti chiave rappresentano oggi la misura del rapporto che le donne e le loro elaborazioni e proposte intrattengono con i luoghi e le forme della governance e più in generale con l'intera società. Ragionare infatti in termini di empowerment e gender mainstreaming significa “attraversare tutti i campi dell'agire per far emergere saperi, poteri e autorità femminili” (Bassanini, 2008), in un'ottica di accessibilità alla cittadinanza. Più nello specifico, al livello del processo di urbanizzazione e in piccole unità geografiche, alle donne si offrono maggiori possibilità di formulare proposte e processi di decisione alternativi – sia in qualità di “esperte” che come semplici “utenti”: i più noti sono i casi nordeuropei di coinvolgimento delle donne nelle politiche urbane della città (con la creazione dei Gender Mainstreaming Office da parte delle Amministrazioni delle città di Stoccolma, Vienna, Berlino), dove dagli anni '90 si è lavorato al fine di promuovere e far crescere il coinvolgimento delle donne nello sviluppo delle politiche urbane, mostrando come si possano tradurre nella prassi gli obiettivi teorici del gender sensitive planning e dei processi decisionali partecipati. Proprio su questo livello, dunque, sono già scaturire delle istanze-guida rispetto alle politiche urbane generali, dei veri e propri “vademecum” di criteri di progettazione gender-oriented. Sul medio e lungo termine, infine, queste soluzioni alternative e queste linee-guida potranno contribuire a ridurre gli ostacoli che limitano i modi di attività delle donne, e ad accrescere le loro possibilità di scelta – il che a sua volta potrà innescare una loro maggiore presa di coscienza rispetto ai problemi urbani, e un’auspicabile riflesso di ciò a livello di decisioni politiche. Una politica nuova dello spazio urbano si misura dalla sua capacità di valorizzare differenza e diversità attraverso l’ascolto dei portatori oggettivi di tali valori, per una pianificazione urbanistica che sappia coniugare locale e globale. La politica, come si è detto, può essere vista come un'articolazione del potere nello spazio. Di conseguenza intervenire con un approccio di genere nell'organizzazione dello spazio urbano equivale a inventare nuove forme di intervento sui diritti di cittadinanza e sulla gestione del potere politico.
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Atti della XV Conferenza Nazionale SIU Società Italiana degli Urbanisti Pescara, 10-11 maggio 2012
L’Urbanistica che cambia. Rischi e valori
by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723-0993 | n. 25, vol. 2/2012