Atelier 3.
Teorie e pratiche della pianificazione e conflitti Coordina: Daniela De Leo con Ruba Saleh Discussant: Francesco Lo Piccolo
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Crediti
Comitato scientifico della XV Conferenza Nazionale SIU: Alessandro Balducci (Segretario SIU), Massimo Angrilli (Responsabile), Alberto Clementi, Roberto Bobbio, Daniela De Leo, Luca Gaeta (Tesoriere), Elena Marchigiani, Daniela Poli, Michelangelo Russo, Maurizio Tira Segreteria organizzativa della XV Conferenza Nazionale SIU: Massimo Angrilli (Coordinamento), Cesare Corfone, Antonella de Candia, Claudia Di Girolamo, Federico Di Lallo, Fabio Mancini, Mario Morrica, Patriza Toscano, Ester Zazzero (Mostra Piani di ricostruzione), Luciano Di Falco (Assistenza tecnica) La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è il risultato di tutti i papers accettati alla conferenza. Solo gli autori regolarmente iscritti alla conferenza sono stati inseriti nella presente pubblicazione. La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è stata curata dalla redazione di Planum. The Journal of Urbanism: Giulia Fini e Salvatore Caschetto con Marina Reissner Progetto grafico: Roberto Ricci Segreteria tecnica SIU: Giulia Amadasi, DiAP - Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano L’immagine della copertina della pubblicazione e delle copertine dei singoli Atelier sono tratte da opere di Francesco Millo ©. Francesco Camillo Giorgino in arte Millo nasce a Mesagne (BR) nel 1979. Consegue la Laurea in Architettura e parallelamente porta avanti una personale ricerca estetica nel campo della pittura, spaziando dalla micro alla macroscala “rivelando la labilità dell’esistenza umana, sospesa a metà tra ciò che conosciamo e ciò che si nasconde dentro di noi” (Ziguline). Riceve diversi premi e riconoscimenti in ambito nazionale, fra cui il prestigioso “Premio Celeste” nel 2011.
Abstract Le teorie della pianificazione, la ricerca e le pratiche urbane hanno da tempo riconosciuto l’importanza del disvelamento dei conflitti e di più consapevoli e minuti trattamenti degli stessi. Senz’altro, molte pratiche di pianificazione devono quotidianamente misurarsi con i numerosi conflitti che nuovi protagonisti della scena urbana, nuove questioni e domande chiedono di affrontare, tra rischi e valori. In questa direzione, l’atelier si propone di raccogliere e discutere contributi originali su: • connotazioni e varietà dei conflitti urbani (attori, temi, strategie, aree geografiche cruciali); • possibili innovazioni di paradigma recentemente introdotte per pianificare in situazioni conflittuali (di interessi, di potere, di visioni di futuro, etc.); • adattamenti e resilienza urbana come effetto di condizioni conflittuali irriducibili e/o violente.
Indice
Atelier 3.
Teorie e pratiche della pianificazione e conflitti Coordina: Daniela De Leo con Ruba Saleh Discussant: Francesco Lo Piccolo
Politiche, pratiche, narrazioni e retoriche nella post-metropoli e nei territori a margine Globalizzazione, marginalizzazione e pratiche sociali: auto-organizzate nella città di Firenze Giancarlo Paba, Camilla Perrone Quale pianificazione per I territori post-metropolitani? Una riflessione a partire dalla rottura del legame tra forme dell’urbano e confine amministrativi Sandro Balducci Pianificazione e spazi urbani dell’immigrazione: le risorse dei quartieri multietnici e il ruolo delle politiche pubbliche Paola Briata Astrazione dei modelli e realtà delle pratiche informali. Conflitti e accordi nel caso Gela Anna Paola Di Risio Politica e politiche, il “diritto allo spazio” in una zona di conflitto Ruba Saleh Forme spaziali della cittadinanza e dei diritti Una riflessione sull’attivismo politico del planner Francesco Chiodelli Significato e ruolo del diritto per i valori nell’urbanistica che cambia Teresa Lapis Strumenti, strategie e traiettorie (possibili) della pianificazione Villabate, un paese conteso Agata Bazzi Una esperienza che dimostra il ruolo degli strumenti urbanistici nell’educazione alla speranza. La stagione dei programmi integrati in Puglia: prime valutazioni sui processi partecipativi Sergio Bisciglia, Stefania Cascella, Anna Floriello, Giovanna Netti Political re-scaling e pianificazione: asimmetrie di potere nei conflitti sugli usi del suolo Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo GIS e giustizia sociale nella gestione territoriale: luci ed ombre Elena Giannola Malessere territoriale e proteste dai cittadini: i perché di un Atlante Laura Fregolent Innovazioni e permanenze nei modelli di governo e di governance Le Comunità di Valle in Trentino: una sfida tra autonomia politico-territoriale e riconoscimento identitario Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini Il ruolo dei piccoli comuni nel processo di costruzione della identità metropolitana Carmela Mariano I conflitti territoriali: dall’impasse alla durabilità Cristiana Mattioli
Teorie e pratiche della pianificazione e conflitti Introduzione Daniela De Leo Le teorie della pianificazione, la ricerca e le pratiche urbane hanno da tempo riconosciuto l’importanza dello svelamento e della gestione dei conflitti. Senz’altro molte pratiche di pianificazione devono quotidianamente misurarsi con i numerosi conflitti che nuovi protagonisti della scena urbana, nuove questioni e domande ci chiedono di affrontare. In questa direzione, l’atelier si è proposto di raccogliere e discutere contributi originali su: • le connotazioni e la varietà dei conflitti urbani (attori, temi, strategie, aree geografiche cruciali); • le possibili innovazioni di paradigma recentemente introdotte per pianificare in situazioni conflittuali (di interessi, di potere, di visioni di futuro, etc.); • gli adattamenti e la resilienza urbana come effetto di condizioni conflittuali irriducibili e/o violente. Lo spettro, inevitabilmente ampio, dei paper ricevuti è stato poi riorganizzato per ‘temi affini prevalenti’ con riferimento alle questioni sollecitate dai diversi contributi, allo scopo di sollecitare il confronto nel corso della Conferenza almeno rispetto a quattro possibili ambiti di approfondimento e discussione comuni denominati: • Politiche, pratiche, narrazioni e retoriche nella post-metropoli e nei territori di margine • Forme spaziali della cittadinanza, dei diritti e dell’esclusione, • Strumenti, strategie e traiettorie (possibili) della pianificazione, • Innovazioni e permanenze nei modelli di governo e di governance. Come nella tradizione delle Conferenze SIU degli ultimi anni, nell’ipotesi di favorire la conoscenza e, quindi, il confronto e la discussione interna a ciascuna parte dell’Atelier, in luogo della più tradizionale carrellata di presentazioni senza nessi tra loro, abbiamo chiesto, di concerto con il discussant, prof. Francesco Lo Piccolo, di orientare le presentazione concentrando il più possibile l’intervento su: • la tensione tra interessi e valori nelle dinamiche di conflitto e/o cooperazione; • la (lettura della) dimensione conflittuale come rivelatore dell’interpretazione e del trattamento delle questioni urbane e spaziali individuate dallo specifico contributo.
Globalizzazione, marginalizzazione e pratiche sociali auto-organizzate nella città di Firenze
Globalizzazione, marginalizzazione e pratiche sociali auto-organizzate nella città di Firenze Giancarlo Paba Università di Firenze Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio, Email: giancarlo.paba@unifi.it Camilla Perrone Università di Firenze Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio, Email: camilla.perrone@unifi.it
Abstract Il paper è diviso in tre parti. Nella prima parte viene ripresa e commentata una ricerca svolta dieci anni fa a Firenze sulla dialettica tra politiche di controllo spaziale e modificazione molecolare della città da parte delle nuove cittadinanze urbane. Nella seconda parte vengo richiamati gli esiti di una ricerca in corso all’interno dell’Inura (International Network for Urban Research and Action) sulle tendenze di trasformazione di una trentina di città del mondo, con riferimento particolare al caso fiorentino. Nella terza parte vengono commentati alcuni cambiamenti significativi della città di Firenze nell’ultimo decennio, analizzando in particolare alcune difficoltà delle pratiche sociali auto-organizzate e i limiti delle politiche urbane. Viene infine delineata, in forma di domande di ricerca e di ipotesi di ilavoro, una possibile alternativa di trasformazione della città in un tempo di crisi economica, sociale e ambientale, basata sui concetti di resilience, diversità e benessere.
Firenze insurgent city: evoluzione e declino Dieci anni fa un gruppo di ricercatori dell’università di Firenze 1 ha pubblicato i risultati di un’indagine sulle pratiche sociali auto-organizzate nella città di Firenze in un volume intitolato Insurgent City: racconti e geografie di un’altra Firenze (Paba, a cura di, 2002). L’indagine aveva una struttura per così dire contrappuntistica: da una parte venivano ricostruiti i caratteri di Firenze come gated city: “macchina perversa di bellezza”, “città vietata, sorvegliata, città che respinge e si chiude nel tentativo di imbrigliamento e contenimento delle energie urbane alternative […], città dei recinti, delle barriere, dei codici di accesso, del controllo remoto o ravvicinato, delle limitazioni di tempo o di spazio, della privatizzazione e della sorveglianza dello spazio pubblico; [città] che discrimina e mette ai margini, città della pulizia etnica nelle vie centrali e della pulizia ‘ecologica’ sulle sponde dell’Arno, per eliminare anche negli spazi periferici le presenze sociali ritenute pericolose” (Paba 2002, p. 7; Paba et al. 2004). Dall’altra parte venivano analizzate le insurgent living practices, i processi di trasformazione molecolare della città attraverso le pratiche di vita, e le insurgent planning practices, i progetti auto-organizzati di trasformazione urbana e le ‘politiche pubbliche dal basso’ (Paba 2002; Paba 2010). Il libro ricostruiva la contro-geografia delle pratiche sociali di sopravvivenza e gli ‘effetti di luogo’ (Bourdieu 1993) che ne derivavano: l’uso collettivo degli spazi pubblici (anche come resistenza alle politiche di social cleaning); le occupazioni di immobili e di aree dismesse; la ‘colorazione’ del paesaggio urbano da parte dei migranti (Perrone 2010); le geografie della trasgressione sessuale e degli stili di vita borderline, e così via. Un atlante di voci (una sorta di interviste 1
Il gruppo di ricerca comprendeva Giancarlo Paba, Giovanni Allegretti, Manuela Conti, Marvi Maggio, Anna Lisa Pecoriello, Camilla Perrone, Daniela Poli, Francesca Rispoli, Lorenzo Tripodi.
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
Globalizzazione, marginalizzazione e pratiche sociali auto-organizzate nella città di Firenze
partecipate à la Bourdieu) chiudeva il volume restituendo le testimonianze dal vivo delle nuove cittadinanze urbane, intrise allora di speranza, nuova intelligenza, fiducia nel futuro. Il 2002 è stato infatti un anno cruciale della storia sociale fiorentina, almeno secondo un angolo visuale legato alle storia minore dei movimenti e del pensiero critico. Alla fine di quell’anno si è svolto a Firenze il Forum Sociale Europeo: 150mila partecipanti, 6 conferenze tematiche, 150 seminari, 250 workshop, 100 spettacoli ed eventi, una straordinaria manifestazione finale, in una città insieme festosa e blindata, in un clima ancora condizionato dai fatti di Genova. Qualche mese prima era nato il Laboratorio per la democrazia, che avrebbe avuto un ruolo importante, anche a livello nazionale, nei movimenti politici alternativi degli anni successivi (Lucchi, a cura di, 2012). I quartieri mostravano dinamismo e capacità di auto-produzione di politiche sociali da parte delle comunità di base (l’Isolotto, San Bartolo/Argin Grosso, le Piagge); il movimento organizzato delle occupazioni di case ha avuto in quegli anni un’estensione importante, in una rete di iniziative trapuntata da esperienze innovative di abitare collettivo (via Aldini, Asilo Ritter); i centri sociali avevano creato un reticolo di pensiero e di cultura alternativa radicato nei quartieri periferici; l’attività dei comitati dei cittadini era ancora in grado di aggredire i disagi urbani e di elaborare proposte alternative; un associazionismo esteso ed efficace era impegnato a contrastare attivamente gli effetti negativi della gated city (in particolare nei confronti dei rom, dei migranti, degli homeless); si diffondevano esperienze di progettazione partecipata ancora calde, non imprigionate nei meccanismi formali della democrazia deliberativa (Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano, recupero del Vecchio Conventino, forum per il piano strutturale, laboratori di progettazione partecipata nelle scuole, ecc.) (Paba et. al., 2009). Molte di queste forme di protagonismo sociale esistono ancora; esse si muovono tuttavia in un quadro tuttavia socio-urbanistico profondamente diverso sul quale torneremo nella parte finale di questo scritto.
New Metropolitan Mainstream Negli anni successivi siamo ritornati sui processi di cambiamento dell’area metropolitana in una ricerca comparata svolta nell’ambito dell’INURA (International Network for Urban Research and Action), denominata New Metropolitan Mainstream 2 . La ricerca ha come obbiettivo il confronto dei processi di globalizzazione neoliberista e dei movimenti di auto-organizzazione sociale in una trentina di città del mondo, da Toronto a Berlino, da Mexico City a Hong Kong, da Ginevra a Palermo, da Medellin a Firenze. Il confronto è basato sulla definizione di un codice comune di rappresentazione e sull’individuazione dei seguenti layers interpretativi: spazi egemonizzati dalle strategie di city marketing e dalle politiche di immagine (flagship projects, quartieri di tendenza, spazi legati a eventi e spettacoli, ecc.); aree caratterizzate dalle strategie di privatizzazione, commercializzazione, mercificazione, globalizzazione finanziaria; spazi e strumenti di sorveglianza e di controllo sociale; luoghi dell’ingiustizia (aree urbane deprivate, disinvestimenti e abbandoni, degrado ambientale, sfratti e sgomberi, gated communities e exclusionary zones, ecc.); “possible urban worlds” (spazi contesi e aree di resistenza, uso alternativo dello spazio urbano, forme di abitare collettivo, auto-gestione, auto-costruzione e autorecupero, ecc.). Nelle schede interpretative che accompagnano i primi passi della ricerca sono stati ricostruiti quattro mini casi studio: la trasformazione del grande recinto ex Fiat di Novoli (come esempio di riconversione speculativa di una grande area dismessa e fallimento dell’obiettivo di creare un quartiere urbano vivibile); il complesso di attività legate alle manifestazioni di Pitti moda e del settore mostre centrato sulla Fortezza da Basso ed esteso a tutta la città (come esempio di intreccio tra architettura, eventi, immagine urbana e city marketing); le attività della comunità del quartiere periferico delle Piagge (come esempio di community building e di capacità di organizzare “politiche pubbliche dal basso”), e infine una scheda che abbiamo definito di failed projects, progetti abortiti che testimoniano dell’inutilità e insieme del fallimento della politica di cosiddetta “modernizzazione” della città tentata negli ultimi due decenni e naufragata in rinunce, rinvii, cantieri infiniti, scandali e vicende giudiziarie (progetti per l’area di Castello; hotel Belfiore; centro di arte contemporanea; masterplan dell’Arno di Richard Roger; pensilina di uscita dai Grandi Uffizi progetta da Arata Isozaki; nuovo ponte di Calatrava, ecc.). La mappa rappresenta inoltre le pratiche sociali alternative che si sono susseguite nel corso degli anni a Firenze, pratiche che è possibile raggruppare nelle seguenti tre aree di azione collettiva: occupy city, occupazioni di case e di spazi pubblici, occupazione e auto-ristrutturazione di immobili e aree dismesse, stabilizzazione delle occupazioni di case e sperimentazione di forme di abitare collettivo (Asilo Ritter, via Aldini, Cecco Rivolta); community building: costruzione di comunità nei quartieri di periferia (Isolotto, Piagge); participatory planning (contratti di quartiere, progettazione partecipata di strade e piazze, ecc.) (Paba, a cura di, 2002; Paba et al. 2009; Stefani 2009).
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Il gruppo di lavoro fiorentino è costituito da Marvi Maggio, Giancarlo Paba, Anna Lisa Pecoriello, Camilla Perrone e Iacopo Zetti; la legenda, la mappa di Firenze e le schede dei casi studio sono consultabili al seguente indirizzo web: http://www.inura.org/NMM_Posters_PDF/INURA11_Florence.pdf
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
Globalizzazione, marginalizzazione e pratiche sociali auto-organizzate nella città di Firenze
Firenze Resilient City e DiverCity: appunti per una ricerca Dieci anni dopo il Forum Sociale Europeo del 2002, è forse un altro, e ben diverso, evento di cronaca a segnare il paesaggio urbano fiorentino. Il 13 dicembre 2011, Gianluca Casseri, militante della destra xenofoba, compie due sparatorie in due punti importanti della città, il mercato di San Lorenzo e piazza Dalmazia, luoghi non casualmente caratterizzati da una molteplicità di funzioni e di frequentazioni, attraversati quotidianamente da popolazioni provenienti da ogni parte del mondo. Vengono uccisi due senegalesi, Samb Modou e Diop Mor, mentre altri tre rimangono feriti. Nel giorni successivi una parte significativa della città si stringe intorno alla comunità senegalese in una solidarietà spontanea e convinta, ma questo evento rappresenta, secondo noi, insieme ad altri dei quali non è possibile qui parlare (come il caso Luzzi; vedi Marcetti et al. 2011), l’esito di un clima urbanistico e sociale diverso dal passato, sul quale è necessario soffermarsi. Nell’ultimo decennio la situazione fiorentina è cambiata in profondità, per l’involuzione della scena politica locale, per le conseguenze dei processi di cambiamento che colpiscono oggi le aree metropolitane, per i riflessi urbani della crisi italiana e internazionale. Ritorneremo più avanti sugli sviluppi post-metropolitani che investono le città del mondo e che hanno inciso anche sul metabolismo del sistema urbano fiorentino, ma prima accenneremo ad alcuni aspetti specifici della scena politica locale negli anni più recenti. Non è possibile in questa sede argomentare in modo dettagliato il quadro socio-urbanistico fiorentino e ci limiteremo quindi a indicarne i caratteri che riteniamo più importanti: la mediocrità della leadership politica, sia della precedente amministrazione (i cui progetti di cosiddetta “modernizzazione” sono falliti e/o sono stati travolti da scandali giudiziari), sia dell’amministrazione attuale, di impronta populista, attenta agli effetti di immagine delle politiche intraprese e incapace di incidere in modo efficace sugli aspetti più acuti del disagio sociale e della povertà urbana; l’indifferenza istituzionale nei confronti delle esperienze di costruzione di comunità nei quartieri periferici, le quali sopravvivono in una condizione di isolamento e con crescenti difficoltà di azione; alcuni elementi di crisi del tessuto associativo e del terzo settore, comparsi con particolare evidenza in alcuni processi di gestione della presenza sul territorio di popolazione immigrata; la crisi dei movimenti sociali (movimento di lotta per la casa, gruppi alternativi, centri sociali), anche come conseguenza delle politiche repressive, e delle azioni di contenimento e di sgombero; l’indebolimento delle capacità di azione delle reti dei comitati locali (se si escludono le iniziative, viceversa forti e ricche di suggerimenti progettuali alternativi, del movimento contro il sotto-attraversamento per la TAV); l’ossificazione e l’istituzionalizzazione dei processi partecipativi, rifluiti in forme di partecipazione istituzionale e guidata dall’alto; la prevalenza delle dimensioni retoriche ed evasive negli strumenti di pianificazione (piano strategico è bloccato e piano strutturale) che non sembrano in grado di disegnare e governare le trasformazioni urbane e territoriali. La città è quindi profondamente cambiata in questi anni: è cambiato il metabolismo urbano nel suo complesso, la figura fisica e spaziale da una parte, e la dialettica sociale dall’altra parte. Alcuni aspetti spaziali dei processi di globalizzazione (privatizzazione e/o mercificazione dello spazio publico, gentrificazione, “eventizzazione” dello spazio urbano, riduzione del welfare, privatizzazione e/o aziendalizzazione dei servizi urbani, ecc.) hanno ulteriormente approfondito negli ultimi anni i processi di disuguaglianza sociale e spaziale nella città e nel territorio. L’ipotesi di ricerca che stiamo cercando di costruire è che nuovi modelli di costruzione interattiva delle politiche urbane dovrebbero tentare di ricostruire un rapporto tra governance multilivello e “politiche pubbliche dal basso”, agendo sulla capacità di resilience della città (come sistema ambientale e sociale), sulla valorizzazione della diversità, su una nuova definizione di benessere e di felicità pubblica (Paba 2012, Perrone 2011). Nei punti seguenti riportiamo alcuni elementi della ricerca appena incominciata che si pone l’obbiettivo di ricostruire i processi in corso. L’idea di base dell’ipotesi di lavoro è quella di interpretare i cambiamenti in atto come possibilità, di leggere la crisi stessa come opportunità di trasformazione e di innovazione urbanistica, sociale e istituzionale (Clavel 2011; Soja 2001, 2011). Nell’elenco che segue abbiamo quindi cercato di mettere in evidenza gli aspetti più significativi dei processi di trasformazioni post-metropolitane dell’area fiorentina, insieme agli orizzonti di interpretazione e di intervento che quei processi aprono: le modificazioni dell’interfaccia urbano/suburbano e urbano rurale (interpretate come possibilità di ridefinire i limiti delle città, di estendere la rete delle connessioni ambientali, di ricostruire un sistema integrato di agricoltura urbana);
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
Globalizzazione, marginalizzazione e pratiche sociali auto-organizzate nella città di Firenze
i processi di diffusione insediativa e di frammentazione del territorio urbanizzato, con l’obbiettivo di una ricomposizione/riconfigurazione degli insediamenti e di creazione di gradienti di densità/condensazione urbana nel territorio regionale; la creazione di nuove economie a base ambientale e la diffusione di nuove tecnologie di informazione e di comunicazione; la crescita delle migrazioni internazionali e l’incremento della diversità sociale come terreno di sperimentazione per la riduzione dei conflitti interetnici, religiosi e identitari; l’estensione dei processi di deindustrializzazione, solo parzialmente accompagnata da reindustrializzazione e riconversione produttiva, assunta come occasione per una ricostruzione profonda delle relazioni tra economia e territorio; la formazione di nuove e più sottili ineguaglianze spaziali come terreno nel quale sperimentare pratiche di riqualificazione urbana dal basso e di community building nei quartieri e nelle aree residenziali; le dinamiche di trasformazione degli spazi pubblici (di erosione, ma anche di riapropriazione collettiva) assunte come campo di sperimentazione di una nuova collaborazione tra democrazia partecipativa e pratiche sociali con l’obiettivo di aumentare il livello di sicurezza, la convivialità e il benessere urbano, l’accoglienza e la conversazione sociale; le trasformazioni del sistema della mobilità a scala regionale, in una prospettiva che considera la motility come risorsa, verso un modello di accessibilità fondato su nuovi sistemi di movimento, stili di vita e comportamento sostenibili; la crisi delle politiche abitative assunta come occasione per il ridisegno di una politica dell’abitare in grado di intercettare i bisogni delle nuove cittadinanze, anche attraverso la sperimentazione di nuove forme di autoproduzione dell’abitare (Marcetti et. al. 2011); il passaggio da una prospettiva di semplice congelamento, pur necessario, dell’impronta ecologica (ipotesi di consumo di suolo zero) a una visione bioregionale (biopolis) che si ponga l’obbiettivo di ridurre l’impatto ambientale in ogni punto del territorio (Perrone & Zetti, a cura di, 2010; Perrone 2011). I processi sopra indicati verranno interpretati secondo i parametri/indicatori di diversity, resilience e wellbeing. L’applicazione di una forma di “resilience/wellbeing/diversity thinking” può infatti consentire, nella sperimentazione del programma di ricerca, un’innovazione rilavante nel campo delle politiche governance e di pianificazione del territorio. Il concetto di resilience viene inteso in una dimensione integrata, inclusiva degli aspetti sociali e territoriali, e viene utilizzato come strumento per l’interpretazione delle capacità di resistenza e reazione dei territori e delle comunità locali a eventi traumatici di tipo antropico e ambientale (Walket et al. 2006; Newman et al. 2009). Il concetto di diversity (e quello collegato di inclusiveness) è inteso come elemento costitutivo del progetto, secondo un modello di pianificazione sensibile alle differenze. Esso comprende l’attenzione verso il ruolo delle culture e dei diversi stili di vita, per la costruzione di luoghi ospitali e adattabili alle esigenze dei nuovi abitanti (Perrone 2010, 2011; Perrone & Zetti 2010; Perrone et al. 2011; Paba & Perrone 2011). Il concetto di well-being viene affrontato con riferimento alla felicità pubblica e alla diversità sociale, e declinato come “context-based well-being”, legato agli indicatori della qualità delle vita urbana (intesa come organizzazione dello spazio pubblico, partecipazione dei cittadini alla vita della comunità, abitabilità dei territori) (Helliweell & Putban 2004; Paba 2012). Da insurgent city a resilient city e divercity: questo è il percorso interpretativo che ci proponiamo di compiere; resilient city come capacità collettiva di muoversi costruttivamente nella crisi ambientale e sociale, divercity come capacità di superare la frammentazione sociale e spaziale “by creating new, cross-cutting forms of social solidarity and more encopassing identities” (Putnam 2007, p. 137).
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Globalizzazione, marginalizzazione e pratiche sociali auto-organizzate nella città di Firenze
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Giancarlo Paba, Camilla Perrone
“Quale pianificazione per I territori post-metropolitani? Una riflessione a partire dalla rottura del legame tra forme dell’urbano e confine amministrativi”
“Quale pianificazione per I territori post-metropolitani? Una riflessione a partire dalla rottura del legame tra forme dell’urbano e confine amministrativi” Alessandro Balducci Politecnico di Milano Email: sandro.balducci@polimi.it
Abstract In un seminario cui ho partecipato qualche tempo fa a Bruxelles sulle sfide per le città europee sono stato colpito da una presentazione di Ivan Tosics (Tosics 2010), nella quale sosteneva che stiamo cercando di governare la città e l’economia del XXI secolo con i governi del XX secolo e con i confini amministrativi del XIX secolo. Mi ha colpito perché penso davvero che la pianificazione, nelle sue difficoltà, si confronti con questo tipo di dissonanza cognitiva ed operativa. Nel paper vorrei riflettere su questo tema, provando a capire quali possono essere le implicazioni e le vie d’uscita.
Il nuovo spazio post-metropolitano Introducendo il suo libro The Prospects of Cities all’inizio degli anni 2000, John Friedmann scriveva: “The city is dead. It vanished sometime during the 20th century.” Sottolineava con questa affermazione forte, l’impossibilità di chiamare ancora “città” le nuove formazioni urbane e proponeva di nominarle semplicemente come “the urban” (Friedmann 2002). In effetti, di fronte alla accelerazione dei processi di urbanizzazione dei decenni a cavallo del nuovo secolo abbiamo cercato incessantemente nuovi termini per definire una nuova fenomenologia spaziale che ha modificato significativamente le strutture insediative: la città diffusa, la città dispersa, la città infinita, la edge city, la regione urbana, la mega-city-region, ecc. Ciò che sembra diventato chiaro è che concetti come quello di città e di metropoli portano con sé implicazioni gerarchiche e dicotomiche che non sono più utili per comprendere quanto sta avvenendo all’organizzazione spaziale della società (Soja, 2000). Fino ad un periodo relativamente recente, nonostante differenze profonde, le città potevano essere descritte come concentrazioni di popolazioni relativamente simili, sviluppate attorno a centri che contenevano i principali edifici pubblici, e che crescevano seguendo una maglia di diversa forma, percorrendo la quale si raggiungeva la periferia e quindi la campagna fino a raggiungere nuove città, di diverse dimensioni ma con le stesse caratteristiche strutturali, secondo una precisa gerarchia di relazioni. Quando le città hanno iniziato a superare i loro confini e ad invadere il territorio circostante, chiudendo gli spazi aperti fra di loro, costruendo relazioni di dipendenza fra aree prevalentemente destinate alla produzione e al consumo ed aree prevalentemente destinate alla residenza, abbiamo chiamato metropoli le nuove formazioni, con l’intento di designare la relazione tra la città centrale e l’agglomerazione urbana attorno ad essa. E abbiamo continuato a utilizzare termini come città e metropoli anche quando il processo di urbanizzazione ha inglobato centri più lontani di notevole importanza costruendo nuovi fenomeni urbani complessi che vedono la compresenza di bacini locali di lavoro e residenza e di flussi sovralocali e globali di persone ed informazioni (Hall, 2009). Oggi lo spazio delle grandi regioni urbane è ben diverso da ciò che abbiamo chiamato città e metropoli fino a ieri. Uno strato di urbanizzazione si è steso sull’antica struttura urbana e metropolitana creando formazioni così articolate che non possono essere percepite nella loro complessità attraversandole, ma solo dall’alto oppure usando strumenti come Google Earth. Allo stesso modo la dimensione temporale dello sviluppo urbano è cambiata. Il ritmo e l’intensità della crescita non possono essere percepite come nel passato quando l’accrescimento urbano avveniva per contiguità, dal centro verso la periferia. Lo sviluppo avviene soprattutto in quella che una volta era campagna, nelle città piccole e medie, ed è solo Alessandro Balducci
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“Quale pianificazione per I territori post-metropolitani? Una riflessione a partire dalla rottura del legame tra forme dell’urbano e confine amministrativi”
guardando a dati aggregati o usando GIS che riusciamo a realizzare come, anche di fronte ad una popolazione statica o decrescente, anche se non notiamo grandi cambiamenti attraversando il territorio lungo percorsi abituali, l’attività edificatoria ed il connesso fenomeno di consumo di suolo hanno subito una incredibile accelerazione negli ultimi 30 anni (Pileri, 2007), spinti da ragioni differenti: la ricerca di condizioni di accessibilità a un mercato abitativo fortemente selettivo nei centri urbani principali, la ricerca di condizioni residenziali più confortevoli per giovani famiglie con bambini, il circolo vizioso dello sviluppo che ha costretto i comuni a spingere l’edificazione per poter disporre di risorse da investire in politiche ordinarie, la crisi dei mercati mobiliari che hanno spinto molti operatori e molte famiglie a investire nel settore immobiliare ecc. Il contesto urbano contemporaneo è dunque fatto di discontinuità nel tempo e nello spazio. Se ci muoviamo attraverso di esso dagli antichi centri verso i suoi margini, se tentiamo di ricostruire le innumerevoli addizioni degli ultimi decenni, noi troviamo una successione di oggetti e di spazi, una successione di trasformazioni decentrate non coerenti con l’ordine urbano cui eravamo abituati (Balducci 2006).
De-spazializzazione e compresenza Nel ricercare utili chiavi interpretative, mi sembra di poter dire che una serie di fenomeni che abbiamo studiato separatamente oggi giungono a maturazione e si intrecciano strettamente: l’incremento della mobilità, il decentramento delle funzioni residenziali e commerciali, l’esplosione della comunicazione digitale, la frammentazione delle famiglie e delle imprese, stanno oggi producendo i loro effetti combinati determinando una riconfigurazione profonda dell’urbano e della sua strutturazione (Balducci e Fedeli 2007). Vorrei fermare l’attenzione su due aspetti che mi sembrano centrali: il primo è naturalmente quello della conquista di uno spazio di relazioni sempre maggiori da parte delle transazioni che avvengono attraverso reti informatiche. Non molti anni fa’ Manuel Castells nel suo lavoro fondamentale sulla “Nascita della società in rete” (Castells, 1996) ironizzava su fatto che c’erano probabilmente più ricercatori che si occupavano di tele-lavoro di quanti fossero coloro che effettivamente potevano dirsi tele-lavoratori; ma oggi, non possiamo negare che le nuove configurazioni spaziali sono formate da una combinazione inedita di relazioni a distanza e di relazioni faccia a faccia. Quando ci rendiamo conto che la manutenzione al nostro computer viene fatta attraverso un call-center localizzato in India, da un signore che parla perfettamente la nostra lingua e che sa guidarci nella soluzione del problema che stiamo cercando di affrontare avendo di fronte esattamente un esemplare della nostra macchina e potendo entrare nella nostra dalla rete telematica per risolvere problemi di software, è evidente che le relazioni spaziali di questo specifico ciclo produttivo, come di molti altri, si sono completamente trasformate, trasferendosi dallo spazio fisico allo spazio immateriale della rete. Quando pensiamo a quanta parte dei nostri consumi stanno progressivamente migrando verso internet, dalle prenotazioni dei viaggi, agli acquisti di beni e servizi, alla lettura dei giornali e dei libri, alla scelta di brani musicali o di film, non possiamo non renderci conto del fatto che il rapporto tra relazione fisica e relazione a distanza nel mondo del consumo e dei servizi si sta progressivamente ribaltando. Quando consideriamo quanta parte del tempo di giovani ed adolescenti, ma non più solo il loro, è dedicata alla interazione nell’ambito di social network piuttosto che nell’incontro nei luoghi, non possiamo non considerare le notevoli implicazioni che le nuove forme del comunitarismo virtuale hanno sul ruolo e sulla natura dello spazio fisico di cui ci occupiamo. Di tutto ciò cogliamo alcuni indicatori evidenti nella crescita esponenziale dei movimenti non sistematici della popolazione nel territorio, ma facciamo ancora fatica a capire quali possono essere le implicazioni dal punto di vista del funzionamento delle formazioni urbane. Un secondo aspetto su cui vorrei porre l’attenzione è che al di là delle posizioni estreme che affermano o negano decisamente l’esistenza di una trasformazione epocale delle città – che si sarebbe completamente dissolta o che al contrario sarebbe sempre la stessa- , le nuove configurazioni dello spazio urbano si basano sulla coesistenza piuttosto che sulla sostituzione di relazioni virtuali e fisiche. Sappiamo ad esempio che la esplosione delle comunità su internet e dei social network non si accompagna ad una completa de-spazializzazione delle relazioni. Alcune ricerche dimostrano anzi che la gran parte degli scambi nell’ambito di Facebook, che consentirebbe relazioni completamente indipendenti dallo spazio, sono concentrate in un ambiente locale relativamente ristretto. Ciò da luogo a una ricombinazione tra relazioni via rete ed in presenza che non cancella queste ultime, ma le fa dipendere sempre più da una interazione di diversa natura. Allo stesso modo il dinamismo della periferia è stato spesso interpretato come una alternativa e una minaccia al ruolo delle città centrali, mentre risulta sempre più evidente che questa contrapposizione non si da: lo sviluppo delle aree marginali non è sviluppo contro la prosperità della città centrale ma è piuttosto parte dello stesso processo. Le aree periferiche crescono grazie alla loro propria vitalità e attrattività, ma anche grazie alla delocalizzazione di funzioni dai centri maggiori e a una sempre più stretta integrazione con esse. Città di diverse dimensioni nell’ambito delle vaste regioni urbane che stanno progressivamente interconnettendosi non perdono il loro ruolo di comunità urbane dove si Alessandro Balducci
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integrano residenza, lavoro e svago, ma allo stesso tempo appartengono a un più ampio spazio di flussi di scala regionale e globale (Hall e Pain, 2006). Ciò muta in modo significativo la condizione di marginalità che una volta era associata ad una posizione periferica nella gerarchia spaziale metropolitana. O ancora la crisi delle forme tradizionali di aggregazione basate sulla prossimità – il quartiere, la piccola città con le sue reti associative, il gruppo scolastico, le strutture sportive- non ne comporta la completa dismissione, ma piuttosto una trasformazione, un affiancamento. Le persone continuano ad andare al cinema per partecipare ad una fruizione collettiva di ciò che possono vedersi comodamente a casa, i giovani a ritrovarsi a scuola e dopo la scuola, a fare sport insieme piuttosto che giocare solo alla play station simulando il gioco.
Le sfide per la pianificazione urbanistica Le sfide per la pianificazione sono evidenti. La pianificazione si è sempre basata su una relazione lineare tra territorio ed autorità, tra luoghi e funzioni, mentre oggi è chiamata a lavorare attraverso i territori, senza un riferimento stabile ad autorità definite e a confini definiti. Nella fase metropolitana dello sviluppo la pianificazione ha cercato di estendere l’approccio proprio della pianificazione urbana ad intere aree metropolitane inseguendo la possibilità di istituire autorità includenti, che rimettessero la pianificazione in condizioni di assumere decisioni legittime su aree pluricomunali, ma sappiamo che questa tensione ha contato rari successi e innumerevoli insuccessi (Balducci, 2005). Analogamente nella fase metropolitana la pianificazione si è confrontata ancora con problemi di crescita al margine e di nuovi sviluppi in territori poco abitati, mentre nella fase post-metropolitana la pianificazione si deve occupare soprattutto di problemi di riqualificazione, riciclaggio di spazi che hanno perso la loro funzione originaria e di aree sempre abitate da residenti o utilizzatori che reagiscono esprimendo aspettative e provocando conflitti. Di fronte a questo quadro mi sembra importante provare ad elencare una serie di domande che richiedono un intervento di pianificazione cercando di capire quali implicazioni possiamo trarne dal punto di vista delle modalità e delle forme che la pianificazione deve assumere di fronte alle mutate condizioni di esercizio dovute alla rottura del legame tra piano, autorità e territorio. Mi sembra possibile organizzare il ragionamento in tre famiglie di problemi che indicano anche opportunità di trattamento. La prima fa riferimento questioni dure come il controllo della crescita urbana e il contenimento del consumo di suolo. La seconda alla costruzione di progetti appropriati e rilevanti, capaci di lavorare sulla ricucitura e sulla qualificazione degli spazi post metropolitani. La terza alla esplorazione delle nuove opportunità che possono nascere da un uso esteso delle nuove tecnologie come strumento per la conquista di una maggiore abitabilità dello spazio post- metropolitano.
Controllo della crescita e valorizzazione dei beni comuni in assenza di autorità e gerarchia Come possiamo affrontare questioni che da lungo tempo si presentano come problemi irrisolti della pianificazione urbana di scala metropolitana o sovra-metropolitana come il controllo della crescita e salvaguardia dei beni comuni? Il controllo della crescita e del consumo di suolo costituisce uno dei problemi maligni della pianificazione di area vasta che oppone una razionalità generale, di piano, alla razionalità individuale del singolo comune, dell’operatore immobiliare, della famiglia o dell’impresa. Scegliere per una strategia di contenimento implicherebbe ribilanciare il rapporto tra interessi e razionalità individuali e interessi e razionalità collettive o pubbliche. Si tratta di un problema tipico delle politiche distributive (Wilson, 1973), dove i costi sono così distribuiti e i benefici così concentrati da suscitare la mobilitazione di chi trae benefici dall’azione pubblica, senza che chi ne sopporta i costi raggiunga mai quel livello di motivazione capace di provocare una vera mobilitazione. Nel nostro paese abbiamo un esempio che, benchè assai diverso nella sostanza, ha alcune somiglianze nelle caratteristiche formali. Sappiamo tutti e da sempre che l’evasione fiscale costituisce una appropriazione privata di risorse potenzialmente pubbliche, appropriazione che distribuisce il costo del comportamento illegale su quella vasta parte di popolazione che invece per ragioni diverse è obbligata a pagare i propri tributi. È solo con le recenti azioni di comunicazione del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio, che si sta sollevando pubblicamente il problema di chi paga i costi dell’evasione e comincia a esserci una pressione sociale alla individuazione e alla repressione dell’evasione fiscale. Alla narrazione dell’evasore come persona scaltra e capace di difendersi da uno stato predatore, si sta sostituendo la narrazione di un evasore come soggetto riprovevole che non si cura di imporre costi insostenibili alla comunità. E qualche risultato comincia a vedersi. Uscendo dall’esempio ci troviamo in una tipica situazione da “tragedia dei beni comuni”, dove l’interesse individuale a appropriarsi privatamente del bene pubblico ne comporta la distruzione (Hardin, 1969). La possibile via di uscita viene suggerita indirettamente dall’esempio dell’evasione fiscale. È solo quando cresce la consapevolezza pubblica del danno collettivo del comportamento illegale che possono essere attuate misure di repressione. Che scatta una forma di autoregolazione. Fino a pochi mesi fa’ l’evasione era considerata giustificabile e di conseguenza le azioni di Alessandro Balducci
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repressione, pur previste non venivano esercitate. E’ solo quando vengono resi espliciti i costi e si afferma una diversa narrazione che la prospettiva può mutare. Analogamente si potrebbe dire che è solo quando si diffonde la consapevolezza dei costi collettivi di una crescita non regolata, dei costi sociali ed ambientali connessi che è possibile registrare cambiamenti nei comportamenti individuali, dei comuni, delle famiglie o delle imprese. Nel nostro caso la nuova narrazione è una visione del possibile futuro sviluppo dell’area nel suo insieme che deve essere in grado di affrontare anche il problema della salvaguardia e valorizzazione dei beni comuni. Naturalmente ciò comprende una dimensione politica ma anche una dimensione tecnica significativa. Data la difficoltà a percepire il silenzioso ma costante processo di consumo di suolo e di urbanizzazione di aree sempre più lontane e collegate solo con il mezzo privato, se non vi è un dispiegamento di nuova conoscenza, la proposizione di nuovi scenari e visioni sintetiche che facciano percepire le tendenze e le derive del modello di sviluppo è difficile uscire dal circolo vizioso del caso specifico che trova sempre le sue buone ragioni. Non si tratta necessariamente di un piano, ma certamente di una attività di produzione di conoscenza, di previsione che è sempre stata parte della attività di pianificazione (Kunzmann, 2000). Recentemente si stanno diffondendo esperienze di questa natura anche in contesti dotati di forti tradizioni di pianificazione ordinaria; si tratta della produzione di studi e documenti informali volti a proporre strategie spaziali per grandi regioni urbane, che presentano un rapporto piuttosto lasco con le forme statutarie di pianificazione urbanistica, ma che hanno lo scopo di raccogliere attenzione e consenso attorno ad alcuni beni comuni. E’ stato così per l’operazione Grand Paris, con i 10 team interdisciplinari guidati da architetti ed urbanisti di fama internazionale (Fedeli, 2010). Esempio seguito da Lille, Montpellier, Bruxelles, ma anche da Mosca. Lo scopo di queste nuove iniziative difficilmente catalogabili nel novero degli strumenti propri della pianificazione è stato quello di produrre visioni e conoscenze nuove, capaci di modificare le percezioni degli attori attorno al futuro della regione parigina, come degli altri contesti che si sono misurati con lo stesso approccio. Un esempio precedente e di successo di una analoga forma ibrida di pianificazione è rappresentato dalla esperienza della Iba Emscher Park, una iniziativa che ha saputo operare un cambiamento radicale nelle posizioni degli attori attraverso la proposizione di visioni e la attivazione di un meccanismo di partecipazione e di apprendimento collettivo (Kunzmann, 2004). Anziché mettere mano a un piano impossibile, quello della riqualificazione di un’area derelitta e degradata, la agenzia responsabile del progetto ha proposto l’immagine antinomica della Rhur come regione-parco, chiamando soggetti pubblici e privati a proporre progetti esemplari capaci di dare sostanza a quella visione. Una esperienza difficilmente catalogabile ma che ha suscitato notevoli processi imitativi in ogni parte del mondo e sulla quale non si è ancora sviluppata a mio avviso una riflessione adeguata (Kunzmann 2007). Insomma, per chiudere su questo primo punto, mi sembra di poter dire che una sfida importante per la pianificazione in situazioni post metropolitane sia quella di produrre nuovi strumenti di analisi, previsione e progettazione che non hanno una autorità formale di riferimento, ma che debbono affidare la loro efficacia alla loro forza argomentativa, alla capacità di coinvolgere soggetti di natura diversa, alla capacità di innescare tra gli attori dotati di autorità un processo di apprendimento che faccia crescere la consapevolezza dell’effetto aggregato delle innumerevoli azioni individuali e sappia quindi influire su di esse (Balducci 2011a). Si tratta di strumenti in gran parte inediti, che rompendo il legame tra autorità e piano, obbligano ad un lavoro “senza rete”, l’unico probabilmente capace di concorrere alla difesa ed alla valorizzazione dei beni comuni in una società urbana altamente frammentata.
Progetti appropriati e rilevanti per ricucire e qualificare gli spazi post metropolitani Una seconda sfida è data dalla costruzione di progetti capaci di conferire struttura e qualità a uno spazio fortemente frammentato e disarticolato. Uno specifico campo d’azione è dato dai progetti delle reti, infrastrutturali, ecologiche, naturali. Mi sembra che ci siano due aspetti da considerare: da un lato la diffusione urbana ha prodotto una compromissione estesa del territorio; ciò che può riconnettere, ricucire e conferire qualità alla frammentazione sono le reti che lo attraversano che possono essere reinterpretate e riqualificate; dall’altro le formazioni urbane post-metropolitane richiedono nuovi spazi pubblici di qualità che sappiano confrontarsi con la scala dei nuovi processi di urbanizzazione stabilendo dei punti di ancoraggio aggiuntivi rispetto ai centri storici della antica armatura urbana o ai nuovi centri commerciali. Sotto il primo aspetto la trasformazione delle reti infrastrutturali attraverso l’affiancamento di percorsi verdi e ciclabili che ricolleghino parchi, che si connettano con il territorio attraversato, costituiscono una opportunità significativa. Questi interventi possono valorizzare e rendere evidente il carattere di strade urbane di scala sovra-metropolitana che le tangenziali e le autostrade in questi contesti stanno progressivamente assumendo (Balducci, 1996). Lo stesso si può dire per i corsi d’acqua, i fiumi, i canali, spesso coperti e riassorbiti dall’urbanizzazione, degradati a canali di scarico, che possono invece rappresentare fondamentali armature territoriali per ridare ordine e respiro alla successione di oggetti che affollano il territorio post-metropolitano. Ancora le fasce di rispetto di elettrodotti e di altri servizi a rete possono rappresentare delle analoghe opportunità. Alessandro Balducci
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Sotto il secondo aspetto alcune esperienze di nuovi spazi pubblici ci presentano esempi che possono indicare strade interessanti. Il Parco Nord a Milano costituisce, a detta di molti, uno dei progetti di maggiore successo nell’area milanese degli ultimi anni. E’ stato realizzato a partire dal recupero e dalla interconnessione di terreni periferici ed abbandonati di diverse città confinanti e grazie alla abilità di un direttore del parco che ha iniziato a piantare alberi e a rendere fruibile lo spazio producendo una crescente pressione degli utilizzatori alla progressiva realizzazione del parco, che oggi ha raggiunto circa 600 ettari. Il Parco Nord rappresenta uno spazio pubblico inedito: è una nuova grande piazza metropolitana, dove si incontrano tipologie di utilizzatori del tutto diverse, dai sudamericani che si trovano a fare il barbecue, ai gruppi sportivi, a chi cerca il silenzio e la meditazione, ai pattinatori, ai giocatori di scacchi. Si tratta di un luogo aperto e flessibile, che si presta particolarmente bene all’intreccio con le comunità che si ritrovano sulla rete e che poi si danno appuntamento in un luogo bello e gradevole dove c‘è sempre spazio per tutti. Un luogo dove pratiche diverse si possono contaminare e produrre nuove configurazioni. Un secondo esempio che si collega anche al tema delle infrastrutture a rete è dato dalla riqualificazione del Naviglio della Martesana, un canale artificiale che corre per decine di chilometri dall’Adda fino al centro di Milano. Abbandonata la funzione di trasporto per cui era nato, è stato progressivamente trasformato in un canale di scarico su cui affacciavano molti retri di zone industriali e dei paesi che attraversava. Qui, una decina d’anni fa è stata realizzata una semplice pista ciclabile che ha subito attirato ciclisti e camminatori. Il flusso ha prodotto singole iniziative di risistemazione delle rive, da parte di privati e dei molti comuni che il canale attraversa. Alcuni di questi hanno appoggiato al canale propri parchi trasformando la passeggiata e la pista ciclabile in un percorso culturale che consente l’accesso a molti tesori nascosti dell’Est Milanese. Senza che nessuno l’abbia veramente progettata come tale l’area attorno al canale è diventata anch’essa una grande piazza lineare, alla scala della regione urbana, dove non ci si accorge di passare da un comune all’altro, ma dove soprattutto nei fine settimana è possibile incontrare ogni tipo di pratica di incontro e di svago. Credo che le formazioni urbane post-metropolitane abbiano bisogno di costruire luoghi con queste caratteristiche, che possono entrare in rapporto con la complessa trama di centralità esistenti, che assieme a queste possono dare struttura alla urbanizzazione dispersa. Ma progetti di questa natura non possono essere solo buone idee di parte, né possono essere imposte dall’alto, soprattutto in una situazione di crisi della spesa pubblica, di scarsità di risorse e di mancanza di autorità capaci di imporre ad altri progetti strategici. Debbono essere piuttosto progetti capaci di intercettare le aspettative e gli interessi di molti attori anche in conflitto tra loro. Esempi come quelli della greenway progettata con le compensazioni della nuova Autostrada Pedemontana nel Nord-Milano dimostrano che soggetti con obiettivi apparentemente inconciliabili (ambientalisti e costruttori di autostrade) possono convergere su progetti che si propongono come oggetti di confine (boundary objects) fra le posizioni di diversi attori (Starr e Griesmer, 1989; Balducci, 2011b). Ma debbono anche saper costruire le proprie alleanze, sviluppando abili tattiche che gli consentono di conquistare il loro spazio, come nel caso del progetto del Parco Nord o del Canale della Martesana. Devono essere cioè progetti concepiti attraverso una idea guida ma capaci di realizzarsi attraverso un approccio incrementale, che sappia utilizzare le potenzialità scoperte nel proprio percorso, legarsi a progetti già in atto integrandoli, sapendo conquistare la propria forza sul campo. Si tratta di progetti diversi per natura e strategia di implementazione rispetto a quanto siamo abituati a conoscere. Richiedono un grosso sforzo di innovazione di contenuto e di processo
Le nuove opportunità offerte da un uso esteso delle nuove tecnologie Un terzo campo di esplorazione di nuove opportunità è dato dall’uso delle nuove tecnologie nella comprensione e nella gestione dello spazio post-metropolitano. La nostra attenzione allo spazio fisico e a ciò che si muove attorno ad esso rischia di farci inforcare sempre gli stessi occhiali. La grande attenzione ai programmi europei che vanno sotto il titolo di “smart cities” o città intelligenti, vedono un atteggiamento cauto e distaccato da parte di molti urbanisti. C’è la tendenza a interpretare questa attenzione verso le nuove tecnologie ed il loro rapporto con la città come qualcosa che ci riguarda marginalmente. Eppure, come già osservato più sopra l’impatto sul funzionamento dello spazio e sulle possibilità della pianificazione è assai rilevante. In primo luogo abbiamo tutto ciò che si può comprendere attraverso l’utilizzazione di sensori collegati alla rete e che fino a ieri avevamo la possibilità di capire solo con costosissime, approfondite e campionarie indagini sul campo: la mobilità delle persone, i comportamenti nella utilizzazione del trasporto pubblico, i flussi di traffico e gli spostamenti attraverso i dati delle connessioni ai telefoni cellulari, ecc. Ciò che un tempo potevamo sapere solo attraverso i dati del censimento molto tempo dopo, possiamo conoscerlo con continuità. Ma queste informazioni possono essere utilizzabili non solo per pianificare, ma anche per utilizzare la rete stradale o la rete del trasporto pubblico da parte degli utenti. In secondo luogo abbiamo tutto ciò che può essere comandato a distanza e quindi ottimizzato con l‘obiettivo di un uso accorto delle risorse con la realizzazione di edifici intelligenti: servizi di riscaldamento, di condizionamento, di illuminazione, di gestione dei rifiuti, di videosorveglianza. In terzo luogo grossi investimenti stanno avvenendo nel campo delle smart grid che consentono una produzione decentrata di energia. Proprio il tema della applicazione delle tecnologie legate ad internet alla produzione ed al consumo di energia sembra essere particolarmente interessante nella prospettiva di rendere più sostenibili anche Alessandro Balducci
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insediamenti dispersi sul territorio. Gli edifici possono diventare non solo autosufficienti ma anche produttori di energia, capaci di smaltire o riciclare i propri rifiuti. Un altro aspetto rilevante a questo collegato è quello del monitoraggio ambientale in tutte le sue dimensioni, aria acqua, suolo, ivi compreso il consumo di suolo monitorabile attraverso la fitta rete di dati satellitari. La logistica delle merci è già in parte stata rivoluzionata dallo sviluppo delle tecnologie, ma fino ad ora ha prodotto consumo di suolo e creazione di grandi piattaforme che hanno invaso spazi aperti, si può pensare che una ulteriore evoluzione legata ad un uso più avanzato delle tecnologie, che possa invece essere in grado di gestire rapporti quasi diretti tra produzione e consumo. Ciò può diventare particolarmente interessante anche per lo sviluppo di una agricoltura urbana che fino ad oggi ha sofferto della difficile interconnessione tra produttori e consumatori. Le tecnologie di internet già consentono un facile accesso all’informazione, ma se applicate più sistematicamente alla rete territoriale possono consentire di rendere integrati spazi pubblici di diversa natura affrontando problemi che vanno dal loisir alla sicurezza urbana. Allo stesso modo possono essere strumenti per l’accesso ai servizi a distanza in particolare per popolazioni fragili ma non solo. Infine le tecnologie basate su internet possono essere strumenti di partecipazione alla costruzione delle decisioni, un tema sollevato già molti anni fa ma che solo ora comincia a diventare una vera opportunità, per la diffusione capillare dell’accesso alla rete, come hanno dimostrato alcune recenti campagne elettorali anche in Italia. Ciò che mi sembra importante sottolineare in sintesi è che ci troviamo di fronte a mutamenti nella tecnologia che potenzialmente consentono di affrontare alcuni dei limiti propri di formazioni urbane che si sono estese nel territorio: congestione, emissioni nocive, insediamenti dissipatori di energia, mancanza di luoghi di aggregazione, condizione periferica, scarsa accessibilità a servizi di qualità, insicurezza, ecc.
Nota conclusiva C’è dell’altro? Probabilmente molto altro. Ho provato solo a dare qualche suggestione e mi accontento di aprire la discussione su come superare la dissonanza cognitiva ed operativa dell’urbanistica di fronte alle nuove formazioni urbane cui ho accennato in apertura. Il dibattito sulla natura negativa o positiva delle trasformazioni urbane degli anni recenti mi sembra che stia perdendo progressivamente significato. Dobbiamo affrontare lo spazio della urbanizzazione contemporanea a partire dalla considerazione che non si tratta di una forma degradata della città moderna o della metropoli. E’ qualcosa di diverso. Le immagini sono persistenti, e se continuiamo a chiamare città o metropoli le nuove formazioni socio-spaziali possiamo perpetuare una serie di errori di interpretazione e di progettazione. Se continuiamo a cercare la ricostruzione di un ordine che è perso per sempre potremmo mancare l’opportunità di esplorare la capacità dello spazio post-metropolitano di rispondere alle sfide che emergono dalla società. In questa esplorazione gli urbanisti possono entrare con il loro ricco bagaglio di esperienze, ma debbono essere anche pronti ad aprirsi a temi nuovi e a modalità nuove di costruzione del progetto.
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Pianificazione e spazi urbani dell’immigrazione: le risorse dei quartieri multietnici e il ruolo delle politiche pubbliche
Pianificazione e spazi urbani dell’immigrazione: le risorse dei quartieri multietnici e il ruolo delle politiche pubbliche Paola Briata Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Via Bonardi 3 20133 Milano Università IUAV Venezia Cà Tron Santa Croce 1957 30135 Venezia Email: paola.briata@polimi.it Tel 02.23995426
Abstract Nel nostro Paese la ricerca sugli spazi urbani dell’immigrazione ha evidenziato l’assenza di “concentrazione etnica”.Un tratto comune di questi studi è quello di cercare di smontare la pervasività di un discorso pubblico che allude a questi luoghi come a dei “ghetti”, costruendo delle descrizioni capaci di guardare alla presenza straniera come ad una risorsa urbana. Tuttavia, anche in Italia l’intervento in questi territori è dominato dall’assunzione della problematicità della concentrazione. Con atteggiamento anche auto-critico, il paper intende evidenziare quanto le narrazioni dell’immigrazione come risorsa rischino di trasformarsi in esercizi di retorica se chiamate in causa nella descrizione di contesti problematici, per poi essere ignorate nel momento in cui quegli stessi contesti sono soggetti a percorsi di riqualificazione. La tesi che si vuole sostenere è che l’assunzione della problematicità della concentrazione abbia condizionato non solo il dibattito pubblico e le agende di policy, ma anche il modo di guardare ai territori da parte dei ricercatori: un atteggiamento che può ostacolare l’individuazione di percorsi innovativi di ricerca e azione.
Introduzione Da almeno quindici anni in Italia gli studi urbani hanno dedicato un’attenzione crescente ai quartieri caratterizzati dalla presenza immigrata. Non mancano descrizioni di come i “nuovi arrivati” si insedino, “usino” e cambino le nostre città. Un tratto comune sembra caratterizzare i territori dell’immigrazione nel nostro paese: l’assenza, con rare eccezioni, di “concentrazione etnica” in specifici quartieri, sia in termini percentuali – nel senso che sono ancora rari i casi in cui la presenza straniera supera il 20-25% della popolazione residente – sia con riferimento alla nazionalità, nel senso che gli insediamenti caratterizzati da una percentuale significativa di immigrati, vedono comunque la compresenza di popolazioni provenienti da paesi diversi. La forma di concentrazione più diffusa riguarda soprattutto alcune aree commerciali e il riferimento alle economie “etniche” come risorsa è stato approfondito da studi che hanno sottolineato aspetti di natura economico-sociale come la disponibilità da parte dei nuovi arrivati a farsi carico di professioni labour-intensive e/o non più presidiate dai lavoratori italiani (Ambrosini, 2010). Da un punto di vista territoriale, gli studi urbani hanno evidenziato come le attività dei nuovi arrivati abbiano garantito la vitalità di numerosi quartieri con riferimento sia ai servizi prestati (anche agli italiani), sia alle forme d’uso dello spazio pubblico (Grandi, 2008). Questi studi guardano alla presenza straniera come una risorsa e cercano di costruire delle descrizioni
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“controcorrente”, capaci di “smontare” la pervasività di un discorso pubblico centrato sugli aspetti problematici della concentrazione. Tenuto conto di questo contesto generale, il contributo approfondisce un percorso già avviato con riferimento al governo dei territori dell’immigrazione in Italia che ha permesso di individuare tre modalità “territoriali” di intervento nei luoghi caratterizzati dalla presenza immigrata (Briata, 2010; 2011b): laddove è presente un uso intensivo dello spazio pubblico da parte degli stranieri, operazioni di “rottura della territorialità” (Yiftachel, 1990) espressa da queste popolazioni attraverso forme di riqualificazione e inserimento di servizi e funzioni capaci di attrarre anche gli italiani; laddove è presente una percentuale significativa di stranieri negli edifici residenziali, operazioni di recupero e valorizzazione immobiliare guidate dalla mano pubblica, che possono comportare l’allontanamento delle popolazioni più fragili, immigrati inclusi; laddove la presenza straniera nei negozi è significativa, visibile o capace di attrarre clientela etnicamente connotata, l’introduzione di regole, restrizioni e ordinanze – incluse forme di zoning che introducono regimi “speciali” per alcune aree – che hanno un impatto negativo prevalentemente sugli esercizi gestiti dagli immigrati o la promozione di politiche di sviluppo commerciale capaci di attrarre nuovamente attività gestite dagli “autoctoni”. Seppure gli studi urbani abbiano insistito sull’assenza delle forme “patologiche” di concentrazione territoriale degli immigrati rilevate in altri paesi, gli strumenti di governo del territorio attivati sono in larga misura gli stessi che si utilizzano in altre realtà per attenuare e ridurre la concentrazione. Questo contributo si propone di esplorare le possibili motivazioni di queste scelte partendo da un’analisi delle logiche che guidano queste forme di intervento, interrogandosi su similitudini e distanze tra l’Italia e altri contesti occidentali e ipotizzando che gli spazi urbani dell’immigrazione del nostro paese, proprio per le caratteristiche multi-etniche e multi-culturali che li caratterizzano, possano rappresentare un terreno di sperimentazione di percorsi innovativi di ricerca e azione.
La problematicità della concentrazione Il dibattito sulla pianificazione nei contesti multietnici è dominato dal tema della problematicità della concentrazione dei nuovi arrivati in alcune aree urbane (Marcuse, Van Kempen, 2000; Tosi, 2000). Nella visione dominante i “quartieri etnici” sono visti come dei “mondi a parte” nei quali sono presenti delle barriere socioeconomiche e culturali che ostacolano i processi di integrazione (Mustered, Andersson, 2005). Il tema della problematicità della concentrazione è una sorta di “narrativa dominante” che condiziona l’intervento pubblico nei quartieri caratterizzati da una presenza immigrata elevata o visibile e, in generale, anche nelle aree dove tendono a insediarsi popolazioni “fragili” e/o che “fanno problema”. Per queste ragioni, le politiche che agiscono sulla dimensione spaziale sono sempre state caratterizzate da un approccio finalizzato a mitigare la concentrazione, cercando di disperdere i gruppi problematici (Home, 1997) o rompendo le territorialità più o meno chiuse dei loro insediamenti attraendovi persone di diverso background economico, etnico e sociale. A tal fine, in molti paesi occidentali sono state promosse politiche finalizzate a stimolare la diversità sociale nelle inner cities, nei quartieri di edilizia sociale “in crisi”, così come nei centri storici degradati. Creare una “giusta” mescolanza è diventato un obiettivo dominante in questi luoghi, inclusi quelli che presentano un’elevata percentuale di persone di origine immigrata (Mustered, Andersson, 2005). Questo approccio ha condizionato anche le forme di intervento messe in atto in Italia, seppure un dibattito “forte” e strutturato su questo tema non sia ancora stato avviato nel nostro paese da parte delle amministrazioni e dal mondo accademico (Briata, 2011a).
Social mixing: perché? Nonostante i diversi pattern di segregazione socio-spaziale che caratterizzano i diversi paesi, la promozione di mescolanza presenta modalità di intervento e forme di giustificazione comuni. Con riferimento alle modalità di intervento, il mix sociale e funzionale sono presentati come obiettivi strettamente interrelati e la promozione di diversità deve riguardare la residenza, il commercio di vicinato, i servizi e gli spazi pubblici (Urban Task Force, 1999). Tuttavia, in molti paesi l’obiettivo della mescolanza sociale si è tradotto soprattutto nella promozione di mescolanza di alloggi in affitto e in proprietà o di tipologie abitative capaci di attrarre le classi medie nelle aree problematiche (Bolt, 2009).
Paola Briata
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Pianificazione e spazi urbani dell’immigrazione: le risorse dei quartieri multietnici e il ruolo delle politiche pubbliche
Per quanto riguarda le argomentazioni a sostegno di questo modo di intervenire, il discorso pubblico e le agende di policy guardano alla mescolanza sociale come ad un fattore chiave per favorire la mobilità sociale degli individui e dei gruppi per almeno tre ordini di motivi 1 : una prospettiva di mobilità sociale in senso stretto – correlata al ruolo di “civilizzazione” che può essere svolto dalle classi medie che, con la loro presenza, possono motivare gli individui e i gruppi grazie al contatto con modelli e ruoli proposti da persone di background socio-economico più elevato; una prospettiva di coesione sociale – nel senso che l’esposizione alla differenza può portare alla mutua comprensione, all’apprendimento o perlomeno alla tolleranza; una prospettiva di sviluppo locale – nel senso che la mescolanza sociale può cambiare la percezione di queste aree “all’esterno 2 ”, contrastando i processi di stigmatizzazione, attraendo nuovi abitanti meno problematici, “aprendo” i quartieri al contesto urbano nel suo complesso, “inserendoli nelle mappe” delle città e stimolando opportunità e relazioni socio-economiche più ampie. Una vasta letteratura internazionale ha fortemente criticato le politiche finalizzate a creare mescolanza sociale concentrandosi sia sui risultati osservati laddove tali iniziative sono state messe in atto, sia sui principi che le sostengono (Briata, 2011a). Con riferimento agli esiti, le pratiche dimostrano che queste politiche possono anche dare luogo a forme di prossimità spaziale tra gruppi di diverso background, ma non è detto che la vicinanza fisica si traduca in interazione sociale (Butler, 2003; Allen et al, 2005). Anche la tesi che l’esposizione alla “differenza” porterebbe automaticamente alla mutua comprensione è lontana dall’essere dimostrata. Allo stesso tempo sembra difficile stabilire una relazione diretta tra social mix e housing mix (Kearns, 2002; Whitehead, 2002). Con riferimento al tema della mobilità sociale, considerare la mescolanza come un fattore chiave nel cambiamento del comportamento dei residenti che vivono in condizioni di difficoltà grazie all’influenza che possono esercitare persone di background “più elevato”, significa ridurre i problemi degli abitanti di questi luoghi a questioni di “patologia sociale”, negando che la povertà e l’esclusione sociale dipendano anche da fattori strutturali che non possono essere affrontati né a livello locale, né contando sulle forze che i singoli individui o i gruppi possono acquisire nel contatto con l’altro (Raco, 2003). Altri studi si sono soffermati sulle iniziative finalizzate a creare mescolanza nel contesto di nuovi scenari di sviluppo delle città post industriali. In questa direzione, le politiche contro la segregazione spaziale sono state viste come delle strategie per cambiare la popolazione, il ruolo e l’immagine dei quartieri degradati, per includerli nelle strategie di sviluppo più ampie delle città. Per questo motivo, è stato sottolineato come le politiche finalizzate a stimolare social mix, pur contribuendo a rendere più “dinamiche” le aree problematiche, si traducano anche in forme di gentrificazione guidate dalla mano pubblica che possono implicare l’allontanamento dei gruppi più deboli dai quartieri dove hanno sempre vissuto (Lees et al, 2008). Altre prospettive si sono soffermate su come queste politiche possano essere lette anche come una declinazione spaziale delle politiche per la sicurezza: un tentativo da parte della mano pubblica di stabilire forme di controllo sociale in luoghi che sembrano avere regole proprie (Atkinson, Helms, 2007).
I ghetti, perché no? Un punto di vista diverso è stato proposto da studi meno centrati sulla stigmatizzazione dei quartieri problematici e più focalizzata sulle loro dinamiche interne. La riscoperta di queste questioni nella letteratura è legata sia al fatto che spesso si tratta di reazioni critiche alle iniziative di social mixing, sia al legame che questi studi stabiliscono tra le potenzialità dei “ghetti” e la contrazione della capacità di intervento del welfare. Si pensi ad esempio al saggio del 2006 di Cattacin Why Not Ghettos? nel quale si riflette sulla capacità di questi luoghi di risolvere problemi concreti grazie al livello di auto-organizzazione che li anima. Tali capacità dovrebbero essere riconosciute da una società che sempre meno sembra essere in grado di affrontare problemi di integrazione economica e sociale di una parte dei suoi cittadini, così come dei nuovi arrivati. Richiamando Donzelot (2006), Cattacin osserva che i luoghi di auto-segregazione sono spesso “contestati”, come se la loro esistenza nelle città contemporanee non fosse “legittima”. Questo avverrebbe perché le politiche sono ancora dominate da una logica di welfare di tipo universalistico, anche se questa capacità di intervento del welfare si è in realtà esaurita da tempo. Questo si traduce anche nell’incapacità di immaginare modelli di intervento diversi da quelli basati sulla lotta alla segregazione. 1
Questa “classificazione” è stata operata direttamente da chi scrive, sulla base una rassegna degli studi portati avanti a livello internazionale da planner, geografi, sociologi e scienziati politici (cfr. Briata, 2011a). 2 Il riferimento a descrizioni e dinamiche “interne” ed “esterne” viene proposto nella consapevolezza che la distinzione tra “ciò che sta dentro e ciò che sta fuori” da un territorio, non è mai definibile in termini assoluti: si tratta di costrutti strategici messi in atto dagli attori in gioco (compreso il ricercatore che a tali distinzioni si affida) per operare delle semplificazioni utili a prefigurare corsi d’azione (e di ricerca) piuttosto che altri. Paola Briata
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Nei ghetti, la povertà e la segregazione spaziale sono correlati nel senso che le risorse a disposizione delle comunità sono limitate, difese e protette dalle comunità stesse. L’immissione di nuove popolazioni per creare “comunità miste” rischia di disaggregare i network interni, senza dare le garanzie che arrivino dinamiche positive dall’esterno. Anche per questo, l’invito è a non applicare indistintamente le strategie di rottura dei ghetti: le città dovrebbero essere al contempo aperte e chiuse a queste realtà, in base alle loro capacità di intervento, da valutare caso per caso, oltre la retorica della mescolanza.
Concentrazione e ruolo delle politiche pubbliche Nonostante la vastità della letteratura che ha analizzato le ambiguità di queste politiche, le iniziative di mixing rimangono una modalità di intervento dominante. Un fatto che permette di immaginare quanto meno uno scarso livello di interazione tra la ricerca e le agende di policy, ma che può anche stimolare una riflessione sui nodi deboli della ricerca che si è occupata di questi temi. In particolare, come evidenziato nei § 2 e 3: emergono visioni critiche delle politiche volte a stimolare mix che sono centrate sui principi che le supportano, così come sui risultati poco convincenti che ottengono. Si tratta però di studi che sembrano rimanere ancorati ad un’immagine solo negativa dei luoghi della concentrazione etnica che può condizionare il punto di vista della ricerca, non risultando utile ad esplorare approcci innovativi; una vasta letteratura ha interpretato le mixing policies come una declinazione territoriale delle politiche per la sicurezza, sottolineando – spesso in negativo – la volontà da parte della mano pubblica di ristabilire un controllo sui quartieri “fragili”. Tuttavia, tali quartieri possono essere caratterizzati problematiche che rendono la volontà pubblica di intervenire tutt’altro che illegittima. Una visione prevalentemente negativa di questa volontà può non essere utile ad esplorare modalità d’azione innovative; emerge una letteratura che suggerisce di ri-considerare le potenzialità dei ghetti: si tratta di visioni talvolta provocatorie, ma utili perché propongono di guardare a questi luoghi in una prospettiva meno condizionata dalla visione stigmatizzata che si produce all’esterno e più attenta alle dinamiche interne. Tuttavia, questi studi non lasciano molto spazio per comprendere se e come possa esserci intervento da parte della mano pubblica in aree caratterizzate da degrado fisico, deprivazione economico sociale, forme più o meno significative di illegalità. I nodi critici evidenziati delineano due ordini di problemi relativi ai nessi tra gli aspetti descrittivi dei quartieri caratterizzati da mix “problematici” e alle conseguenti forme di intervento; al ruolo che può essere giocato dalla mano pubblica in questi luoghi. Nei prossimi paragrafi si cercherà di argomentare per quali motivi si ritiene che i contesti italiani, proprio per le peculiarità che li distinguono dagli altri paesi, possano rappresentare un terreno di ricerca per osservare con maggiore attenzione gli aspetti meno esplorati dalla letteratura internazionale e, al tempo stesso, possano costituire luoghi di particolare interesse per la sperimentazione di approcci innovativi.
Descrizioni e “soluzioni” Un’ampia letteratura sottolinea che nel contesto italiano non sono emersi luoghi della concentrazione etnica confrontabili con quelli presenti in altri paesi occidentali. Tuttavia, le agende di policy non sembrano discostarsi dalle forme di intervento attivate dove questi fenomeni sono riscontrabili. Le ragioni di un tale atteggiamento potrebbero essere in primo luogo ritrovate nell’aggressività di un discorso pubblico sull’immigrazione (Rivera, 2009), che sembra essere in grado di condizionare anche le agende di policy più “progressiste”. “L’urbanistica della paura” (Paba, 2010), rispecchia un atteggiamento dominante verso i nuovi arrivati alimentato dai media che, laddove la presenza immigrata si fa visibile, alludono alle banlieues anche con riferimento ad aree della città storica centrali o che presentano come dei ghetti luoghi dove la presenza italiana è ancora dominante. Queste narrazioni dei quartieri multietnici italiani sembrano in grado di condizionare le agende di policy molto più di quanto non ci riescano le descrizioni “controcorrente” operate dal mondo accademico e dalla ricerca – includendovi in modo autocritico anche ricerche condotte da chi scrive – quando si propone una lettura della presenza immigrata come risorsa urbana. È stato già osservato come le politiche territoriali in contesti multietnici siano sostanzialmente basate sull’assunzione della “problematicità della concentrazione”. Il passo in più che si vuole introdurre è che tali assunzioni non abbiano condizionato solo il dibattito pubblico e le agende di policy, ma anche il modo di guardare ai territori da parte dei ricercatori. Ad esempio, le “distinzioni” per leggere l’immigrazione come Paola Briata
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Pianificazione e spazi urbani dell’immigrazione: le risorse dei quartieri multietnici e il ruolo delle politiche pubbliche
risorsa e per individuare nelle diverse tipologie di commercio etnico un servizio per i quartieri nel loro complesso, sono messe al lavoro non tanto per mettere in discussione la problematicità della concentrazione, ma per dimostrare che, a conti fatti, in quei determinati luoghi la concentrazione non sussiste. Lo stesso può essere detto delle descrizioni della presenza immigrata in termini percentuali così come è stata introdotta anche in questo contributo: non esiste un “indice assoluto” di concentrazione e ciò che la definisce, oltre alle percezioni, è un rapporto “della parte con il tutto”, del quartiere rispetto al resto della città, o ad altre realtà urbane caratterizzate dalla presenza etnica in Italia o all’estero. Questo modo di descrivere i territori contiene in sé anche una natura implicitamente prescrittiva: laddove la concentrazione dovesse esserci, questa è un problema e gli unici strumenti di governo del territorio di cui disponiamo che sembrano in grado di affrontarlo sono quelli finalizzati a creare social mix o a innescare meccanismi di dispersione. Come evidenziato dagli analisti delle politiche e dalla ricerca sociale, le modalità di analisi e costruzione di un problema si intrecciano inevitabilmente con gli strumenti a disposizione dei decisori per affrontarli (Bobbio, 1996; Crosta, 1998). In questo caso è quasi come se, nella veste di ricercatori, cercassimo di costruire il problema in modo che non ci possa portare alle soluzioni “di cui disponiamo”. In questa prospettiva, le mixing policies possono essere viste non come una delle possibili risposte alla concentrazione, ma come una risposta implicita alle descrizioni basate sulla concentrazione. Questo significa che non è sufficiente sollecitare un ripensamento delle agende di policy, come è stato sottolineato dalla letteratura, ma che anche i nostri modi di descrivere questi insediamenti, come ricercatori, dovrebbero essere messi in discussione.
Dall’immigrazione come risorsa alle risorse dei quartieri multietnici L’osservazione degli spazi urbani dell’immigrazione in Italia, anche e soprattutto per i caratteri multi-etnici e multi-culturali che li contraddistinguono, lascia intravedere alcune aperture sulle quali è forse possibile lavorare nella ricerca di nuovi percorsi di ricerca e azione. Ad esempio, emerge la difficoltà, anche e soprattutto da parte degli italiani, a riconoscersi “dall’interno” nelle descrizioni che vengono fatte “all’esterno” (Briata, 2011b). Queste difficoltà possono derivare dai motivi più vari: da una convivenza multietnica de facto – sicuramente problematica e basata su diffidenze e pregiudizi – ma che in alcune situazioni può portare a considerare gli stranieri più come established, che come outsiders 3 ; da una lettura della concentrazione degli immigrati in una determinata area come un’opportunità di sviluppo commerciale anche per gli italiani 4 ; dal disagio espresso da molti commercianti italiani di fronte all’immagine negativa di luoghi dove abitano o lavorano, costruita da attori e mezzi di comunicazione percepiti come “esterni” – un atteggiamento che genera diffidenza e rende le aree ancora meno attrattive, mettendo ulteriormente a repentaglio la sopravvivenza degli esercizi di vicinato. Essere descritti dall’esterno come un luogo “altro” rispetto alla città e rischiare di diventare davvero un luogo dell’esclusione economica, sociale e territoriale: si tratta di un problema sempre più spesso sollevato dagli abitanti italiani dei quartieri dove sono insediati anche gli immigrati. Non a caso i territori dell’immigrazione italiani, ma anche la loro descrizione come ghetti o banlieue hanno stimolato negli ultimi anni l’emersione di una letteratura che ha cercato di mettere in evidenza non tanto la percezione negativa che di alcuni quartieri si ha all’esterno, ma i problemi concreti, più o meno rilevanti e descritti in base alle percezioni degli abitanti italiani e stranieri – singoli o riuniti in forme associative, users di spazi e servizi pubblici più o meno comuni. Vanno in questa direzione le descrizioni operate da Fioretti (2011) per il quartiere romano di Torpignattara, o quelle proposte da Arrigoni (2011) e Gadda (2012) per Via Padova a Milano. Una tensione di questo tipo può essere rilevata anche nelle sperimentazioni portate avanti dalle pubbliche amministrazioni in alcune città laddove a guidare “l’analisi” di un territorio un ruolo chiave è stato svolto da realtà radicate a livello locale che su quello stesso territorio operano, nel quotidiano, cercando di affrontare ancora una volta problemi concreti. Ad esempio, a Padova Banca Etica e l’associazione no profit Mimosa, attiva da molti anni sui temi dell’esclusione sociale, in collaborazione con il Comune e Confesercenti hanno promosso nell’area antistante la stazione dove sono attestate numerose attività gestite da stranieri un progetto di “analisi partecipata” volto a riqualificare la zona con la partecipazione dei gestori degli esercizi commerciali e degli abitanti. Il progetto ha visto la realizzazione di una intensa fase di indagine che ha previsto forme di osservazione etnografica, interviste 3
In Briata (2011b) ho raccontato, ad esempio, il caso di un immigrato musulmano subentrato ad un esercente italiano nella gestione di una panetteria all’Arcella, a Padova, costretto a chiudere a causa degli atteggiamenti razzisti di una parte della popolazione del quartiere ma, al tempo stesso, difeso da alcuni esercenti che esercitano un ruolo di leadership della zona per la sua capacità di svolgere il proprio mestiere, indipendentemente dalla sua origine. 4 “Bambini e matrimoni: una risorsa in crisi profonda nei quartieri a maggioranza italiana”, questa la ragione che ha indotto la proprietaria italiana di una confetteria a insediarsi a Veronetta, nonostante la cattiva fama del quartiere, caratterizzato da una significativa presenza commerciale straniera, nel contesto cittadino (cfr. Briata, 2011b). Paola Briata
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a testimoni privilegiati, la formazione di gruppi di discussione con realtà sociali attive sul territorio e con gli attori individuati come “grandi portatori di interesse”. Tra gli esiti significativi è possibile segnalare: la differenza tra la percezione “esterna” e quella “interna” della zona, tra quella diurna e quella notturna, tra la città degli uomini e quella delle donne; una visione della presenza immigrata da parte degli italiani sicuramente non pacifica, ma neppure stereotipata – più che un giudizio negativo sulla presenza di stranieri, sono le condizioni e il comportamento delle persone a fare la differenza; una visione della sicurezza che, lungi dall’assecondare le immagini emergenziali proposte dai media, non propone l’allontanamento degli stranieri, ma si interroga sulle possibilità di un recupero di una “normalità perduta” attraverso la promozione di iniziative volte a riqualificare l’area, a renderla più vissuta e vivibile, “più simile al centro” (Banca Etica, 2008). Questa indagine ha costituito la premessa di un percorso progettuale che ha visto l’apertura di un mercato agricolo voluto dagli abitanti in un’area problematica, la promozione di alcuni eventi per animare la zona, “l’adozione di un negozio etnico” per costruire dei ponti con gli esercenti stranieri. L’Assessorato al commercio ha deciso di provare a riproporre questo approccio anche in altre zone della città. L’esperienza è stata riportata nel dettaglio non tanto per gli esiti, ancora tutti da valutare 5 , ma per il modo inusuale di “costruire il problema” che sembra in parte individuare, restituendo l’immagine di un quartiere che “all’esterno” è percepito come problematico basandosi su una descrizione “dall’interno” fatta di “voci”: di microstorie 6 che raccontano di problemi concreti e della capacità sviluppata o meno a livello locale di affrontarli; di resistenze da parte di gruppi più o meno strutturati alle dinamiche in atto, ma anche di “tattiche” che rendono possibile, nel quotidiano, forme di convivenza multietnica e multiculturale; di una certa consapevolezza di quali problemi possano essere affrontati tramite forme di auto-organizzazione e regolazione a livello locale e quali necessitano invece di un intervento sovralocale e/o guidato dalla mano pubblica. Una lettura di questo tipo – meno centrata sull’immigrazione come risorsa e più focalizzata sulle risorse di varia natura presenti nei quartieri multietnici – può essere utile anche per comprendere il ruolo che può essere giocato dalla mano pubblica in questi contesti, tendendo conto della contrazione della capacità di intervento del welfare, ma adottando una prospettiva meno centrata sulla “rottura” della concentrazione tramite operazioni – spesso fallimentari – di ingegneria sociale e più focalizzata sulla gestione della convivenza di popolazioni di diverso background (non solo etnico) e potenzialmente, ma non necessariamente, conflittuali. Si tratta di letture dalle quali potrebbero emergere con maggiore chiarezza alcuni caratteri dei contesti quali il livello e la natura di eventuali conflittualità, o la presenza o meno di network capaci di affrontare problemi concreti. Una comprensione di questi aspetti renderebbe forse anche più semplice definire un possibile ruolo della mano pubblica che può essere provider, ma anche enabler, mediatrice di conflitti o regolativa. Questo non significa che all’interno dei quartieri problematici si possano trovare tutte le risorse per affrontare i problemi, ma che nel confronto tra le immagini “da dentro” e quelle “da fuori” e negli scarti che le possono o meno caratterizzare possano essere esplorati nuovi percorsi di ricerca e azione.
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L’area antistante la stazione si presenta tuttora come un ambito urbano problematico e caratterizzato da un tessuto commerciale di scarsissima qualità. Il riferimento alle microstorie è riportato nella consapevolezza che, come ha sottolineato John Foot (2001) nei suoi studi urbani sulle migrazioni, seppure le microstorie non sostituiscano la prospettiva storica generale, di questa storia complessiva sono comunque parte e, anche per questo, il “quotidiano” e il “comune” possono essere in ogni caso messi al lavoro per avanzare una spiegazione del generale.
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Astrazione dei modelli e realtà delle pratiche informali. Conflitti e accordi nella città di Gela
Astrazione dei modelli e realtà delle pratiche informali. Conflitti e accordi nella città di Gela Anna Paola Di Risio Università degli Studi Roma Tre Email: annapaola.dirisio@gmail.com Tel. 320.1175738
Abstract L’analisi dei patrimoni negativi, territori dove lo sviluppo ha prodotto esiti avversi e perversi, mette in luce aspetti delle politiche che sfuggono alle interpretazioni dominanti e richiedono una riflessione. La storia lunga dello sviluppo, nella città di Gela, narra di conflitti locali, anche violenti, nati da un forte disagio economico, ambientale, sociale, urbanistico e culturale. Il disegno riformista di una prolungata stagione di politiche ha fatto leva su principi innovatori che, alla prova delle pratiche, restavano tali solo su un livello ideale, mentre le politiche concrete agivano e alimentavano una dimensione intermedia, caratterizzata da accordi collusivi tra elites locali e sovralocali, economiche e politiche. Ieri e oggi, nella frizione mai sanata tra queste due dimensioni del processo, si celano i termini del conflitto. Il paper, dopo aver decostruito i principali conflitti della storia dello sviluppo a Gela, analizza le dinamiche degli accordi, indagando le figure e i ruoli dell’intermediazione, i circoli viziosi e le responsabilità delle politiche, per poi riformulare i termini del conflitto e indicare alcune vie, percorribili dalle politiche, per tentare di scioglierne o tagliarne i nodi.
Gela e la storia lunga dello sviluppo Gela è una cittadina di tradizione rurale nella Sicilia sudoccidentale che, alla fine degli anni Cinquanta, diviene parte del disegno di sviluppo per “poli” ed è investita da un processo di crescita economica, che sembra condizionarne i percorsi di sviluppo in maniera irreversibile. Si tratta di una scelta politica dettata dalla volontà di “portare sviluppo in aree estreme del Sud del paese”. Secondo la logica “dell’ottimismo modernista”, impiantare una nuova industria avrebbe dovuto generare effetti moltiplicativi sull’apparato produttivo territoriale e dunque apportare crescita e benessere. «Un ingegnere dell'ANIC ci mostrava, da studenti in visita allo stabilimento di Gela, il sogno dell'agricoltura fertilizzata e meccanizzata accanto all'industria di stato: era più efficace della propaganda di Mussolini o di Stalin che mostrava i risultati dell'autarchia o dei piani quinquennali». Un cittadino di Gela racconta così il potere delle suggestioni forti nella Gela degli anni Settanta. Erano passati dieci anni da quando Enrico Mattei, imprenditore e dirigente pubblico, direttore dell’ENI e responsabile nazionale delle politiche energetiche, ago della bilancia del potere italiano dell’epoca, progettava e avviava la creazione di un grande polo petrolchimico lungo la costa di Gela. Il governo, abbracciando la “missione eticizzante” delle imprese di Stato, avviava la realizzazione di uno dei poli industriali per il rilancio del Meridione d’Italia, in realtà definiva uno degli obiettivi della politica industriale energetica nazionale. La politica, che nasce quindi da una decisione centrale, è accolta, sostenuta e “interiorizzata” dalla stragrande maggioranza della popolazione e delle istituzioni locali. Il significato che viene attribuito dal contesto allo sviluppo è leggibile in termini di “miracolismo”. Tuttavia, l’industrializzazione indotta e improvvisa non solo non risolve ma produce, già a distanza di pochi anni, esiti ambientali e sociali imprevisti, in termini di degrado e disagio. Dagli anni Sessanta a oggi, numerose sono le metafore coniate per descrivere la città: ‘Industrializzazione senza sviluppo’, ‘Fondo dell’inferno’, ‘L’infelice’, ‘Feto osceno dello sviluppo’, ‘Città dell’abusivismo’, ‘Città Casbah’, ‘Città senza legge’, ‘Città deviata’, ‘Città sospesa’, ‘Città a rischio’. Tutte raccontano una dimensione urbana di grande disagio, che è ambientale, sociale, urbanistico e culturale.
Anna Paola Di Risio
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Astrazione dei modelli e realtà delle pratiche informali. Conflitti e accordi nella città di Gela
Rappresentata, quindi, nell’immaginario collettivo, come una summa dei problemi del Mezzogiorno, Gela è stata considerata a lungo un caso emblematico per descrivere gli esiti negativi dello sviluppo. Pertanto, una delle ipotesi iniziali di lavoro e di interesse per questa città è legata al fatto che le città e i territori dove lo sviluppo è fallito consentono di mettere maggiormente in luce le debolezze e le cause del mancato sviluppo, ma anche i termini più concreti del dibattito da cui ripartire per individuare possibili alternative. Negli ultimi anni, però, qualcosa si è mosso nel governo locale e ciò ha ulteriormente riportato l’attenzione sul caso. La città ha attraversato recentemente una fase di impegno per la legalità che, facendo leva sul cambiamento della cultura locale, ha prodotto esiti visibili: mille arresti in sei anni, il più alto numero di denunce contro il racket della Sicilia, spazi della città restituiti alla legalità, riduzione sensibile degli abusi edilizi. Pur restando uno spazio e una società a rischio - sociale, ambientale e sanitario - sono rilevanti alcuni segnali di innovazione nelle pratiche e negli orientamenti, che sembrano interrompere una lunga deriva di crisi, insuccessi e fallimenti. Questa discontinuità ha gettato una diversa luce sul caso e ha consentito di vedere con maggiore chiarezza come non sempre l’immagine, prevalente e più diffusa, sia davvero quella che meglio intercetta e racconta la condizione urbana sulla quale vorremmo indirizzare rinnovate politiche di trasformazione e sviluppo. Così appare chiaro come molte volte, quella stessa immagine dominante finisce per risultare ingombrante e avere poi un ruolo nella stessa definizione delle politiche. Per superare questa impasse, è stata tentata una ricomposizione delle descrizioni, delle voci, dei racconti, dei punti di vista, dei discorsi sullo sviluppo (in una parola, delle ‘narrative’) che forse meglio di molti altri materiali consentono di intercettare le contraddizioni e complessità del territorio e di evidenziare la natura e il significato dei conflitti.
Conflitti e risorse contese La storia gelese è segnata da conflitti rilevanti, in alcuni casi violenti e drammatici, che l’hanno resa tristemente nota all’opinione pubblica nazionale. Primo fra tutti, la guerra di mafia degli anni Novanta, che fa registrare 120 morti ammazzati e 240 tentati omicidi tra il 1987 e il 1992 (Becucci, 2004). Gela, in quegli anni, appare agli occhi di tutti come il “fondo dell’inferno”. I racconti e le indagini segnalano episodi delittuosi di spaventosa violenza che vedono coinvolti anche un gran numero di donne e babykiller . «Durante la guerra tra Stidda e Cosa Nostra, man mano che si contavano i morti, ci si accorgeva che ad ammazzarsi tra loro, in questa lotta furibonda, erano spesso ragazzi, molti dei quali ancora lontani dalla maggiore età. Al servizio dei clan c’erano plotoni di minorenni, usati come manovalanza per le attività criminali, dall’estorsione all’omicidio» (Ciccarello e Nebiolo, 2007). Secondo la ricostruzione “ufficiale”, la criminalità organizzata fa il suo ingresso a Gela, tradizionalmente esente dalla presenza mafiosa, all’inizio degli anni Ottanta. Questa tesi trova giustificazione all’interno dei processi di proliferazione dell’associazionismo mafioso in Sicilia (Massari, 2004). Secondo altre fonti locali, invece, la mafia a Gela arriva direttamente con l’industrializzazione (Ciccarello e Nebiolo, 2007), per intercettare gli appalti relativi alla costruzione dello stabilimento e poi quelli dell’indotto. Si dice che le prime interferenze con il nuovo corso economico si manifestino per la vendita all’ENI dei fondi agricoli necessari alla costruzione e perforazione del sottosuolo. Secondo alcuni, fu lo stesso Mattei a contattare Cosa Nostra per il reclutamento di forza lavoro e a portare la “vera” Mafia a Gela dove, fino a quel momento, era presente solo una criminalità comune, rurale e arcaica, nota come la Stidda. Pochi anni prima della guerra di mafia, Gela era balzata agli onori della cronaca per la “rivolta degli abusivi”. Nel 1983, cinquemila persone, prevalentemente abitanti dei quartieri abusivi, assaltano il municipio, minacciano il sindaco e lo costringono a ritirare i provvedimenti antiabusivismo che aveva appena assunto. La deriva violenta viene attribuita a manifestanti esponenti mafiosi e paramafiosi, legati al racket del calcestruzzo. «Alcuni abitanti fecero irruzione negli uffici comunali e misero a ferro e fuoco gli archivi del settore edilizia, bruciando le pratiche relative alle costruzioni abusive. Alcuni presero il sindaco e lo trascinarono in piazza, furono ore di panico e di terrore. Gli impiegati urlavano “qui ci ammazzano tutti”». Il sindaco ricorda: «Chiamai il prefetto, ma mi disse di non potermi aiutare, perché a Roma era da poco insediato il governo socialista, e non si poteva rischiare il bagno di sangue contro manifestanti che si presentavano come massa di lavoratori. Deve trovare lei il modo di venirne a capo. (…) Trattai con i venti facinorosi arrestati in commissariato. Concordai di ritirare il provvedimento sotto accusa. Poi trovammo un escamotage per assolvere all’altra richiesta della piazza, la liberazione dei venti fermati. Con il pretore trovammo una norma che lo consentiva appellandosi allo stato di necessità. Così l’assedio fu tolto» (Ciccarello e Nebiolo, 2007, pp. 34-35). Nel 2002 si assiste a una grande mobilitazione di popolo, nota come “la rivolta del Pet-coke”, per scongiurare i tagli occupazionali previsti per la chiusura di alcuni impianti dell’Anic, in seguito all’apposizione dei sigilli alla raffineria da parte della Procura. Anna Paola Di Risio
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Al grido di “meglio ammalati che disoccupati”, con la scritta “sviluppo, occupazione e legalità” circa ventimila abitanti di Gela scendono in strada in difesa della raffineria e contro l’ordinanza di sequestro, erigendo barricate, chiudendo le porte d’accesso alla città e ingaggiando scontri con le forze dell’ordine. La “rivolta per il pet-coke” è la seconda grande manifestazione del popolo gelese, che ha avuto luogo all’indomani del sequestro dello stabilimento deciso dalla magistratura in seguito a un’inchiesta che, sulla base delle norme del Decreto Ronchi (Dlgs. 22/1997), aveva indotto a definire rifiuto industriale il carbone da petrolio (o pet-coke) e giudicato illecito il suo impiego per alimentare lo stabilimento (Ciccarello e Nebiolo, 2007; Becucci, 2004; Saitta e Pellizzoni, 2010). La contesa per l’acqua non è mai diventata una protesta di popolo, ma è una costante della vita gelese. Le rappresentazioni della questione idrica sono emblematiche per la comprensione del significato di uso e rivendicazione di una risorsa comune. A Gela, l’acqua diretta nelle case arriva un giorno sì e uno no, per 1-2 ore e in orari non stabiliti. L’erogazione peggiora nei mesi estivi, un giorno sì e quattro no. Gli abitanti si dotano di grandi cisterne, sui tetti o interrate e, in alcuni casi, di pompe che si attaccano illegalmente alle condutture idriche, per prelevare autonomamente più acqua possibile. Secondo una definizione di qualche anno fa nei documenti ufficiali della Regione Siciliana, l’acqua è “potabile ma non bevibile”. Il quartiere Macchitella (l’ex quartiere residenziale dell’Eni) accede direttamente all’acqua di falda. Fino a un anno fa parte della città era servita da un dissalatore, costruito negli anni Settanta, impiegando i fondi della Cassa del Mezzogiorno e poi gestito direttamente dall’Eni. Lo stabilimento petrolchimico impiega, invece, l’acqua di falda e in cospicue quantità, perché gli impianti industriali non possono utilizzare acqua salina, sebbene in percentuali minime. La questione idrica oggi a Gela si configura come una deprivazione relativa protratta nel tempo e alimentata da un’inestricabile coltre che rende difficile il compito di accertare dati di fatto e responsabilità (Saitta e Pellizzoni 2010). Nel gennaio 2012 inizia a Gela (la protesta è siciliana e investe in altre forme il territorio nazionale) la rivolta di “Forconi” e “Forza d’urto», che uniscono da una parte autotrasportatori e dall’altra operatori agricoli. Il Movimento rivendica la defiscalizzazione dei carburanti per tutti i siciliani, normative diverse sulla riscossione dei tributi, nuove regole per la grande distribuzione che servano a favorire la ridistribuzione dei profitti in agricoltura, e norme “antitaroccamento” dei prodotti agricoli. Cosa tiene insieme tutte queste rappresentazioni? Sicuramente la dimensione del conflitto urbano per le risorse, di movimenti della popolazione o porzioni di essa, dentro e fuori la legge, in presunta o autentica carenza di risorse. Abbenante (2012), con riferimento alla più recente protesta dei forconi, suggerisce un’interpretazione interessante ai nostri fini: «quando un sistema passa dalla fase dello sviluppo attivo alla fase del "no making power", ossia dello sviluppo passivo o inibitorio, la società civile comincia a creare nuovi processi produttivi che si adattano a tale sistema». La spiegazione di Abbenante è una possibile chiave di lettura che tiene insieme tutte le vicende appena narrate. Il sistema criminale di controllo di appalti, racket e usura può essere letto anch’esso come un processo produttivo endogeno in risposta al non intervento dello Stato. Nello stesso modo può configurarsi l’abusivismo. Il ruolo giocato negativamente dall’intermediazione è esemplare nella questione idrica. Il deficit di risorse occupazionali è al centro della rivolta per il pet-coke. La penuria di risorse materiali, immateriali e strutturali, infatti, attiva processi produttivi informali e adattativi. Quando una risorsa viene sottratta o comunque diminuisce, nasce il conflitto (la rivolta degli abusivi, quella del pet-coke, quella dei forconi) che, apparentemente risolto con sussistenza lavorativa e calmieramento sociale, porta comunque a una rimodulazione degli assetti. La società civile, dunque, comincia a “creare nuovi processi produttivi” che si adattano a tale sistema. Questi processi produttivi sono “sistemi di intermediazione non normati”, che non producono servizi, ma li “modulano”. Gli apparati dell’intermediazione, infatti, sono a servizio di se stessi e non degli obiettivi e, insieme, configurano una terra di mezzo, che tende a crescere sempre più. E il no-making power sostiene questo sistema. Ciò spiega come si riesca a mantenere l’assetto anche in condizione di sottosviluppo, perché si modula il servizio. Non basta, quindi, sanare l’abusivismo, salvare il pet-coke, diminuire le accise dei carburanti o contrastare la concorrenza dei prodotti agroalimentari dei paesi a basso costo. Occorre porsi il problema delle risorse, dove reperirle, come distribuirle e quale legalità accoppiare alla loro distribuzione. E questo non può che passare dal ripristino di componenti fondamentali della regolazione sociale: fiducia, stabilità delle aspettative, certezza delle regole (poche ma imprescindibili), cura delle capacità.
Accordi informali e mediazione collusiva Sebbene i conflitti abbiano duramente segnato e caratterizzato la storia della città, si tratta tuttavia di rappresentazioni parziali. Altre narrative ci raccontano, infatti, come i conflitti siano stati elusi e come l’accordo
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abbia prevalso, e fortemente condizionato, nei significati e nelle forme che lo hanno caratterizzato, il destino avverso della città. Prima di esplorare le modalità di risposta delle politiche ai problemi e ai conflitti, è opportuno analizzarne brevemente le premesse condizionanti. Il disegno politico riformista messo in atto a Gela ha agito su una dimensione ideale, rimasta legata a principi astratti e figure simboliche. Il tentativo di attivazione, attraverso interventi chiave sull’economia, di un circuito virtuoso che coinvolgesse società e istituzioni, si è infranto perché ha alimentato circoli viziosi della povertà, del degrado e della criminalità, e quindi dei circuiti di interessi particolaristici. Nel contempo, la reiterazione delle stesse forme di politiche, ormai riconoscibili e prevedibili, ha favorito, alimentato e consolidato questi circuiti. Lo Stato, nell’incontro con il territorio, ha svolto un ruolo informale che disattendeva i suoi stessi principi e norme, creando delle eccezioni che si sono prestate ad avallare e incentivare interessi particolaristici, locali e sovralocali. Il fenomeno è stato già affrontato e problematizzato (Cremaschi, 1990; De Leo, 2010) nel merito dell’abusivismo. Sicuramente, l’abusivismo edilizio dimostra l’insuccesso di politiche pubbliche volte a conciliare le contraddittorie se non opposte esigenze dell’autonomia (singola, dei cittadini) e dell’istituzione (pubblica, degli interessi collettivi), in pratica, come afferma Cremaschi, tra libertà e giustizia. La sovrapposizione dei due problemi, in ogni caso porta al ruolo che lo Stato ha giocato, o non ha giocato, nella costruzione del mercato edilizio. A Gela lo stato ha tollerato queste forme di promozione per l’assenza di una produzione propria di alloggi pubblici nel numero necessario a soddisfare la domanda, e anche per un calcolo sul consenso politico ottenibile e da una valutazione di convenienza sul costo delle politiche di sanzione e repressione. Esemplare è, poi, la questione idrica. L’acqua è una risorsa comune e preziosa, soprattutto laddove se ne prospetti carenza, in un futuro non remoto. Diventa bene collettivo se la popolazione ne ha accesso, in modo adeguato agli standard del progresso, ovvero se l’acqua esce dai rubinetti di casa ventiquattrore su ventiquattro ed è potabile. Ai gelesi l’acqua arriva nelle case senza continuità e non è chiaro se sia potabile. Tutte le indagini aperte sul caso si chiudono perché, nella complessità della catena di intermediazione dell’acqua, non si riescono a individuare le responsabilità degli abusi. Come si configurano diritti e doveri in tale ampia circostanza? Lo Stato, da un lato si pone come soggetto che risolverà la questione (acqua per l’industria, l’agricoltura e la città), poi disattende le aspettative, derogando (fornisce l’acqua di falda all’Eni e al quartiere che ha costruito per i suoi dirigenti e quella di peggiore qualità agli altri cittadini), costruisce le dighe, che non sono sicure (appalti pilotati e mancato controllo dei processi di realizzazione, più che carenze nei progetti e nelle tecnologia costruttiva) e pertanto non possono essere usate per la capienza massima, e non realizza le infrastrutture secondarie. In un secondo momento, assume che a realizzare il bene collettivo possa concorrere anche il privato, che porta comunque a un leggero miglioramento della situazione, ma soffre di un paradosso, ovvero si rende necessario quando le risorse (in questo caso delle casse statali) si riducono, ma funziona solo (Donolo, 2006, lo indica come “presupposto non risarcito”) laddove esiste un’ampia disponibilità di beni pubblici da mettere a valore e privatizzare. E che, in questo caso, ci sia una disponibilità così ampia, è difficile da dimostrare. Il gelese si sente autorizzato a trovare i suoi modi per accedere all’acqua (le pompe), utilizzandola come se fosse un bene privato e non collettivo. In questo sostenuto da un presupposto culturale diffuso al livello locale, che riconosce come valore la “spirtizze” (termine gelese per indicare l’abilità di frodare l’altro ai propri fini). E così facendo, il bene è sempre meno collettivo. Tuttavia il cittadino continua a esigerlo in termini di diritto. È indispensabile, quindi, una riconfigurazione dei diritti e dei doveri di cittadinanza alla dimensione operativa delle politiche, che a loro volta devono agire sulle regolazioni sociali come condizione per l’efficacia delle altre regole pubbliche. I diritti e i doveri non sono scontati, si costruiscono. La differente capacità di valorizzare le risorse da parte dei territori deriva dalla storia dell’organizzazione del gruppo umano che vi abita, può essere allora considerata come il frutto di un conflitto organizzativo nella società locale, di una frizione tra iniziative private e regolamentazione pubblica: frizione che, a differenza di altre, non è stata recuperata dai canali della politica ufficiale ma, al contrario, è diventata risorsa per la legittimazione di gruppi di mediatori locali (Cremaschi 1990, p. 152). Il conflitto organizzativo nella società locale non è mai stato inglobato nella formulazione del problema, a monte delle politiche. Lo Stato, pertanto, per evitare o sanare il conflitto, si è barcamenato tra un ruolo punitivo e un ruolo permissivo. Nel permissivismo, che può arrivare a includere forme collusive, è contravvenuto alle sue stesse regole. Questo conflitto ha avuto un esito pesante, che oggi scontano i territori, che pur hanno spinto e alimentato. Ed è importante illuminarlo e farsene carico, non soltanto per una questione valoriale, ma come monito per i futuri correttivi dell’azione pubblica. Tale operazione (Cremaschi ibidem) non è possibile a meno di un coinvolgimento diretto dello Stato come parte in causa, e non solo come controparte: protagonista attivo di una diversa distribuzione di risorse e di un disegno di recupero e valorizzazione delle potenzialità sociali e materiali attivate, in questo caso, dal circuito dell’edificazione. Questo, tuttavia, è in apparente contrasto con la formulazione della stessa questione, nella politica messa in atto a Gela con l’industria di Stato. Perché lo Stato Anna Paola Di Risio
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era dall’inizio parte in causa, non controparte del fenomeno, e non solo, come diceva Mattei già in partenza, l’industria si comporta come “lo Stato” e “uno Stato”. Questa ambivalenza dei ruoli, indotta dalla discrasia tra politiche e pratiche, crea una forte ambivalenza in termini di diritti e doveri nella popolazione, una disillusione che non fa che alimentare una concezione distorta, fino al completo annullamento, del senso del dovere della popolazione. In questo caso, emerge addirittura un triplice ruolo della funzione di governo. Il primo, a un livello ideale, che si costruisce nelle premesse che prevedevano l’attivazione delle potenzialità sociali e materiali, pur senza prevedere un disegno di recupero e valorizzazione; il secondo - parziale rispetto al disegno strategico che lo sostiene - che si configura nella realizzazione di infrastrutture (fabbrica, strade, porto, dissalatore, quartiere per i dirigenti dell’Eni etc.), nelle azioni di formazione delle maestranze (capitale umano di livello base a servizio della fabbrica) e di un sistema di welfare che ridistribuisce sostanzialmente posti di lavoro; e infine, un terzo livello informale, di interfaccia con il tessuto sociale locale, attraverso una logica clientelare nella gestione del lavoro, nel pagamento di tangenti alla politica, negli affari particolaristici della gestione dei subappalti, nell’elusione di norme ambientali. Questo livello informale è stato gestito da figure di intermediazione, che insieme configurano una dimensione intermedia dove, in qualche modo, si è sanato, senza risolversi, il conflitto organizzativo della società locale che avanzava interessi individualistici o particolaristici. Con il peso e il potere, comunque ricattatorio, del lavoro, l’industria di Stato, con l’appoggio della politica locale, è andata a rafforzare e connotare ancora più negativamente questa dimensione intermedia. I mezzi usati per mettere in atto i disegni politici hanno rafforzato gli ostacoli, già esistenti nella cultura locale, a una partecipazione reale ai beni che il progresso comporta. Di fatto, ogni processo di sviluppo si svolge su differenti livelli: “governo e territorio”, “centrale e locale”, “istituzioni e società” sono sempre simbolici, mentre il potere esecutivo è sempre nella dimensione intermedia. È il rafforzamento di carico su questa dimensione e le funzioni acquisite, in termini di controsviluppo, che mettono in crisi le politiche stesse. Il problema è che questo livello non è rappresentato tanto da mediatori di istanze collettive ma, piuttosto, da gruppi di interesse, che mediano istanze particolaristiche. A Gela, nella dimensione intermedia c’è la criminalità, l’industria, “parte” dello Stato, “parte” dell’Amministrazione locale, la politica, una miriade di enti territoriali, tutti coloro che esprimono e perseguono interessi particolaristici e non collettivi. All’origine del fenomeno si colloca la produzione di distorsioni e insieme di regolazioni non decisive, che ha preservato all’infinito il potere di mediazione di questi circuiti particolaristici. Il sistema delle regole formali (il diritto, la legalità) da un lato; e le forme di regolazione sociale dall’altro, entrano in un giro vizioso per la sovrabbondanza (non occasionale) di circuiti istituzionali. Questi alimentano infinite riserve di mediazione che si traducono in forme di “disordine” istituzionale, a loro volta capitalizzati a scopo di rendita da reti sociali particolaristiche (Cremaschi 2009). Questa forma di rendita si configura come un processo produttivo che si adatta al sistema, senza produrre servizi, ma modulandoli.
Conclusioni È possibile configurare, dunque, un “controsviluppo” di tipo adattivo, che ostacola lo sviluppo per rapporti di forza, posizioni di rendita, preferenze codificate, opportunismo. Le preferenze degli attori diventano sempre più adattive, mentre cresce l’incapacità di apprendere regole migliori e si impoverisce sempre più il capitale sociale. È, quindi, uno sviluppo al contrario, che beneficia solo alcune categorie della popolazione e nello stesso tempo blocca i reali processi di sviluppo. Si tratta di una forma endogena, ma chiaramente alimentata dall’esterno. Una sorta di astrazione del riformismo dai dati materiali e di contesto, quindi, contribuisce ancora a oscurare la politica e i rapporti di forza tra le parti; ignorando i conflitti e alimentando gli accordi collusivi si incentiva la diffidenza verso la politica e l’ambivalenza etica nei comportamenti collettivi. In particolare, il modello di sviluppo di riferimento per questo territorio, nel perpetuarsi nel tempo e senza entrare in aperto conflitto con le premesse che lo avevano generato, non ha fatto altro che rafforzare una dimensione di adattamento, allontanandosi sempre più da un’idea trasformativa delle pratiche territoriali. Inoltre, questo fenomeno, oltre ad alimentare la collusione, crea una forte ambivalenza in termini di diritti e doveri, che fanno riferimento a un attore ideale, che nella realtà non esiste. È opportuno, pertanto, ricostruire diritti e doveri alla dimensione operativa e contrattuale delle politiche, se si vuole agire in termini ampi di sviluppo culturale. Nel passaggio dalla vecchia programmazione alla stagione dello “sviluppo locale”, il dogma si è stemperato in “dominanza del sentiero”. Se prima lo sviluppo era deciso dallo Stato centrale e perseguito, nel bene e nel male, Anna Paola Di Risio
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dallo Stato stesso, oggi è comunque il governo regionale, nazionale ed europeo che indica gli obiettivi (prospetta un ventaglio di obiettivi possibili, ma non cambia nella sostanza la percezione che resta tale) e le modalità per perseguire lo sviluppo e ne demanda la costruzione al livello locale. Il cambiamento percepito nei contesti dello sviluppo modernista, che ha tra l’altro impoverito le capacità di governo locale, è di aumento dell’onere per i territori, non di opportunità. Inoltre, sono stati sottovalutati i caratteri generalmente artificiali e spesso opportunistici della formazione di reti e coalizioni contingenti (Palermo 2009). In ogni caso, i rischi si perpetuano, in quanto si alimenta la deviazione delle politiche di sviluppo verso “forme adattive e non trasformative delle pratiche territoriali” (Donolo 2009, p. 15), laddove l’accordo si configura come una dimensione ancora più critica del conflitto. Sono, invece, auspicabili interventi che facciano emergere i conflitti, con continui effetti spiazzanti, tali da non permettere l’attivazione o tali da bloccare gli interessi particolaristici, perlomeno quelli a carattere sistemico. Un livello di intervento sperimentale, che inglobi i termini del problema, può incidere maggiormente sul cambiamento di comportamenti e di atteggiamenti, con un mix di risorse, processi e livelli di governo, ma pure di soggettività, di azioni provocatorie che destabilizzino l’equilibrio che si è stabilito e che siano volte a produrre un’insocievole socialità (Donolo, ibidem). «Si apre un gioco non necessariamente cooperativo, che non sempre ammette soluzioni evidenti e univoche di equilibrio, quindi solo l’esito del gioco (che dal processo di interazione costituito, dalle risorse coinvolte, dalle capacità strategiche dell’amministrazione e dei settori coinvolti) potrà mostrare la distribuzione reale degli oneri e dei benefici» (Palermo, p. 112). Infatti, le azioni politiche più recenti e più efficaci nella storia della città di Gela (le narrative al futuro), messe in campo per il ripristino della legalità, sono state proprio quelle tese a destabilizzare “per parti” l’equilibrio economico e sociale del luogo. Solo con un secondo passaggio sarà possibile ricostruire uno o, meglio ancora, più equilibri su nuovi presupposti.
Bibliografia Becucci S. (a cura di, 2004), La città sospesa. Legalità, sviluppo e società civile a Gela, EGA Editore, Torino. Ciccarello E., Nebiolo M. (2007), Fuga dall'illegalità. Gela, i cittadini, le leggi, le istituzioni, EGA-Edizioni Gruppo Abele. Cremaschi M. (1990), “L’abusivismo meridionale: realtà e rappresentazioni”, in Meridiana. Cremaschi M. (a cura di, 2009), “Legalità debole, criminalità e periferie”, in Territorio, n. 49. De Leo D. (2010), “La partita aperta dei quartieri abusivi”, in Cremaschi M., De Leo D., Annunziata S. (a cura di), Atti della XIII Conferenza Nazionale della SIU-Società Nazionale degli Urbanisti, in Planum, The European Journal of Planning on-line, ISSN 1723-0993 Roma; Donolo C. (2001), Disordine. L’economia criminale e le strategie della sfiducia, Donzelli, Roma. Donolo C. (a cura di, 2006), Il futuro delle politiche pubbliche, Bruno Mondadori Paravia, Milano Massari M. (2004), L’evoluzione della criminalità organizzata e le dinamiche della violenza, in La città sospesa. Legalità, sviluppo e società civile a Gela, EGA Editore, Torino. Palermo P. C. (2009), I limiti del possibile: governo del territorio e qualità dello sviluppo, Donzelli, Roma. Saitta P. Pellizzoni L. (2010), Spazi e società a rischio. Ecologia, petrolio e mutamento a Gela, Think Thanks edizioni, Salerno.
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Politica e politiche, il “diritto allo spazio” in una zona di conflitto
Politica e politiche, il “diritto allo spazio” in una zona di conflitto Ruba Saleh Università IUAV di Venezia Email: rubasalehamato@gmail.com
Abstract Questo paper mira a riflettere sulle politiche di occupazione e ri-appropriazione spaziale in una zona ad altissimo conflitto come la città vecchia di Hebron nei Territori Palestinesi Occupati. Il paper tenta di esplorare il ruolo interdipendente tra Politica e politiche ma soprattutto tenta di riflettere sulla capacità della politica e della diplomazia nell’incassare un riconoscimento internazionale di sovranità nazionale su uno “spazio conteso”.
La città di Hebron La prima domanda che ti viene in mente quando entri nella città vecchia di Hebron 1 è “what time is this place”? (Lynch 1972). Si può sentire la ricchezza del suo patrimonio culturale e si può facilmente immaginare che un giorno qualche tempo fa questo posto era di vitale importanza. Ma quando si tenta di interpretare il suo ritmo ascoltando e seguendo attentamente i suoni, le luci e le pratiche quotidiane si raffigura una storia inconsueta. Anche se ogni osservatore nota e racconta una versione diversa basata sulla sua indagine spaziale e temporale, la narrazione comune descrive la città vecchia come una città fantasma. La città di Hebron rappresenta l’unica città della Cisgiordania dove i coloni si sono insediati nel cuore del città vecchia 2 e gli abitanti si trovano circondati da coloni sia nel cuore della città vecchia che nella sua prima periferia. Per gli aspetti politici, religiosi e storici coinvolti, è stato firmato nel 1997 un accordo speciale tra l’OLP e lo Stato di Israele conosciuto come il protocollo di Hebron. Questo protocollo divide la città nelle aree H1 e H2. L’area H1 si estende per 18kmq (circa l’80% della città) in cui vive la maggior parte degli abitanti palestinesi della città ed è stato lasciato sotto il controllo civile e “militare” dell’ANP. L’area H2 copre la Città Vecchia, al cui interno esistono cinque 3 nuclei coloniali abitati da poche famiglie di coloni ebrei ultraortodossi estremisti e un paio di centinaia di studenti Yeshiva. L’area H2 si estende per 4.3kmq (20% della città) ed è sotto il controllo dell'esercito israeliano, lasciando solo poteri civili all'ANP sui civili palestinesi. A Hebron city abitano 183.312 4 palestinesi, circa 35.000 di essi sono residenti in H2 insieme a 500 coloni 5 . Durante l’operazione militare israeliana “scudo difensivo” eseguita nel 2002 nelle città palestinesi, Israele ha rioccupato anche H1 e conduce tutt’oggi operazioni militari in entrambe le aree.
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Hebron è la quarta città santa per i musulmani ed è anche sacra per ebrei e cristiani. La città si trova a 35 km a sud di Gerusalemme, ed è confinante con il distretto di Betlemme a nord e con la linea Verde dalle altre direzioni. 2 Hebron è l’unica città della Cisgiordania ma non è l’unica città palestinese visto che il cuore Gerusalemme Est è stato invaso dai coloni sino dal primo momento della sua occupazione nel 1967. 3 I cinque nuclei coloniali sono: Beit Hadassah (Al-Dabbuya), Gutnick center (Al-Istiraha), Avraham Avinu (il Hesbeh), Beit Romano (Madraset Osama), Tel Rumaida. 4 Dati forniti dal Palestinian Central Bureau of Statistics (PCBS), Hebron Governorate Statistical Yearbook - No. 3, November 2011, www.pbs.org 5 http://www.btselem.org/English/Hebron/ Ruba Saleh 1
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La nascità delle “politiche di separazione” Nella primavera del 1968, un gruppo di famiglie israeliane ultra-ortodosse guidate dal rabbino Moshe Levinger, ha chiesto alle Forze di Difesa israeliane (IDF) il permesso di trascorrere la Pasqua ebraica in un albergo a Hebron. Dopo le festività religiose, il gruppo si è rifiutato di andarsene. Dopo qualche giorno il gruppo ricevette la visita di sostegno di alcuni ministri e per diversi mesi il governo israeliano fece finta di niente mentre l’esercito armava e addestrava i coloni (Btselem 6 2007). Dopo diversi mesi, fu raggiunto un compromesso tra il gruppo e le autorità israeliane. Inizialmente furono trasferiti all’interno del compound militare del governatore militare e gli furono costruite delle unità abitative. Nel marzo del 1970, la Knesset approva l'istituzione della colonia Kiryat Arba nella prima pereferia di Hebron. Il 31 agosto 1970 il governatore militare della Cisgiordania rilascia l’ordine militare n.12/70 dando l’ordine di confiscare 12 ettari a nord est di Hebron e nella seconda metà del 1971, le prime cinquanta famiglie si spostarono nella colonia fondata sulla terra confiscata ai palestinesi 7 (Jubeh 2009). Second peacenow 8 nel distretto di Hebron ci sono attualmente 19 9 colonie e 14 avamposti. Il 25 febbraio 1994, 29 fedeli palestinesi furono uccisi e altri 100 feriti dal colono Baruch Goldstein 10, che entrò sparando all’interno della moschea del Haram Al-Ibrahimi (Tomba dei Patriarchi). Il massacro provocò nella settimana successiva proteste e rivolte in cui persero la vita un’altra decina di palestinesi. Il governo israeliano nominò una commissione d'inchiesta presieduta dall'allora Presidente della Corte Suprema, il giudice Meir Shamgar. La Commissione Shamgar stabilì che Goldstein agì da solo e che bisognava “ridurre al minimo” la possibilità di incontro tra coloni e palestinesi. A seguito del massacro, Israele ha gradualmente adottato un’ufficiale “politica di separazione” dei palestinesi dai coloni ebrei. Inizialmente dentro e intorno alla Tomba dei Patriarchi, e poi ovunque nella città vecchia. Come primo atto il comandante militare israeliano ordinò la chiusura di molti negozi di proprietà palestinese al centro della città che rappresentavano la fonte di sostentamento per migliaia di persone. AL-Shuhada Street (strada dei martiri)- la strada che fungeva d’arteria nord-sud del traffico dell’intera città è stata chiusa al traffico veicolare dei palestinesi. Soltanto i residenti della via erano autorizzati ad entrarci a piedi. Amici, parenti ma soprattutto il commercio non erano più permessi in quella strada. Di conseguenza 60 negozi 11 e i due distributori che si trovavano lungo la strada sono stati chiusi (btselem 2007). Nel 1999 la strada è stata aperta per il trasporto pubblico ma soltanto per un breve tratto, dal mercato ortofrutticolo fino a Bab a-Zawiya. Con l’esplosione della seconda intifada nel 2000, tutto è tornato allo status precedente e il movimento palestinese è stato di nuovo ristretto esclusivamente ai residenti lungo la via. L’esercito israeliano da quel momento intensificò la “politica di separazione” all’intera area H2. Ciò ha comportato una miriade di restrizioni di movimento per i residenti palestinesi. Prolungati periodi di coprifuoco, la chiusura di migliaia di negozi e attività commerciali e il totale divieto al movimento dei palestinesi in alcuni strade in H2. Difatti i palestinesi non sono autorizzati ad utilizzare tutte le strade che collegano, o risultano adiacenti oppure portano verso i nuclei coloniali della città vecchia. Ciò comprende 21 strade vietate al traffico palestinese. Nelle aree aperte al movimento palestinese, i passanti sono soggetti a detenzione ripetute e ad umilianti ispezioni. Questa situazione ha isolato il centro della città dal resto dell'area urbana e ha interrutto l'unità e la contiguità territoriale della città 12 . Queste restrizioni hanno svuotato e distrutto economicamente la città vecchia e la maggior parte dei negozianti che non avevano un ordine militare di chiusura sono stati costretti a chiudere comunque per paura della violenza dei coloni e dei soldati ed anche per la mancata clientela. Tutto ciò ha contribuito ad alzare il livello della disoccupazione e ad aumentare il numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà nella città vecchia. Molte famiglie hanno lasciato le loro case e le uniche famiglie rimaste sono quelle disagiate economicamente e senza alternative plausibili. Prima della seconda intifada, nell’area H2 si trovava il mercato all’ingrosso, il mercato ortofrutticolo e migliaia di negozi e una zona industriale. A causa delle restrizioni di movimento imposte sull’ordinamento spaziale le attività commerciali si sono trasferite nell’area H1. Nel suo rapporto del 2007, Btselem ha stimato che circa
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B'Tselem - The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories. www.btselem.org Secondo peacenow, ad oggi la colonia di Kiryat Arba ha confiscato circa 300 ettari ai palestinesi e ci abitano circa 7000 coloni. www.peacenow.org 8 http://www.peacenow.org.il/eng/content/settlements-and-outposts, visitato il 13 dicembre 2011. 9 Esclusi i 5 nuclei coloniali nel cuore della Città Vecchia. 10 Goldstein viveva nella colonia di Kiryat Arba, nella periferia di Hebron. era un medico delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), ed era il rappresentante del partito Kach nel consiglio della colonia di Kiryat Arba. Dopo la sparatoria fu ucciso dai fedeli superstiti 11 Shuhada Street si estende dal posto di blocco di Bab a-Zawiya fino alla scuola Ibrahimiya, I mercati famosi della strada sono il mercato della vendita all’ingrosso, il mercato ortofrutticolo, e il mercato di Bab al-Khan. Gli attivista di Youth Against Settlements (YAS), hanno lansciato in 2011 la campagnia internazionale “open apartheid street”. (intervista a Issa Amro, 10 maggio 2011). 12 l'articolo 9 del protocollo di Hebron firmato nel 1997 specificava che Israele e l'Autorità Nazionale Palestinese dove le due parti si impegnavano a garantire un fluido movimento dei residenti della città:“..both sides share the mutual goal that movement of people, goods and vehicles within and in and out of the city will be smooth and normal, without obstacles or barriers”(Btselem 2007, P.11). Ruba Saleh 2 7
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2000-2500 attività sono state chiuse nella città vecchia dall’inizio della seconda intifada 13 . Secondo il rapporto del Hebron Rehabilitation Committee (HRC) 14 , nel 2010 c’erano 1829 negozi chiusi nella città vecchia, 512 di loro con ordini militari che vengono rinnovati ogni 6 mesi. Il totale dei negozi chiusi si stimava del 76.6% del numero originale 15 . Hebron soffre l’assedio più restrittivo rispetto agli altri governatorati della Cisgiordania ,un assedio che determina lo svolgimento delle attività giornaliere e compromette notevolmente l'accesso ai servizi di base e ai mezzi di sostentamento da parte della popolazione palestinese. Nell’Agosto del 2011, OCHA 16 stimava la presenza di 519 forme di restrizione di movimento in tutta la cisgiordania, 122 17 di esse si trovano in H2.
Figura 1. Incursione nel suq della città vecchia e chiusura dei negozi 2010. Fonte HRC archive Ciò che Israele chiama ufficialmente “politiche di separazione” ufficiosamente sono “politiche di segregazione e espulsione” che si manifestano su tre dimensioni. La prima è la dimensione del movimento che ha reso impossibile le normali pratiche quotidiane, il semplice andare al lavoro, a scuola o da un medico, ecc.. La seconda è rappresentata dagli ordini militari per la chiusura delle attività commerciali che mirano a distruggere la 13
B’TSELEM (2003), Hebron, Area H-2, Settlements Cause Mass Departure of Palestinians, Report Dopo il massacro del 1994 e la messa in atto delle “politiche di separazione”, e visto il ritmo sostenuto dell’avanzamento della colonizzazione nel cuore della città vecchia e il suo svuotamento dei propri abitanti e commercianti, nel 1996 l’allora presidente Yasser Arafat rilasciò un decreto presidenziale per istituire l’Hebron Rehabilitation committee (HRC), con il fine di preservare il patrimonio culturale autentico della città di Hebron e salvaguardare la città vecchia dalla colonizzazione ebraica. Il comitato viene istituito come corpo indipendente dal contesto comunale, con i seguenti obbiettivi: preservare il patrimonio culturale; riattivare la città vecchia; limitare i nuclei coloniali ebraici all'interno della città vecchia circondandoli con edifici abitati per impedire a loro di espandersi orizzontalmente; Promuovere il commercio e l'economia, la promozione del turismo locale e internazionale, e avviare progetti per combattere la disoccupazione e la povertà. Il comitato viene composto da rappresentanti locali dei competenti ministeri dell’ANP, le figure più importanti del Comune e dell'Università di Hebron ed esperti tecnici. 15 Rapporto annuale del HRC 2010 in Arabo. 16 United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, Occupied Palestinian Territory (2011), “West Bank Movement and Access Update”, Special Focus, August, P2, report 17 18 posti di blocco fissi, 12 posti di blocco parziali, 1 mucchio di terra (earthmound), 55 blocchi stradali (roadblocks), 7 cancelli stradali (road-gate), 3 barriere stradali, 26 altro (per esempio fili spinati, muri di cemento, cancelli di ferro, torchietti). Ruba Saleh 3 14
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vita economica della città vecchia rendendola poco appetibile per commercianti e abitanti palestinesi. Queste due dimensioni si traducono nella mappa del comando militare Israeliano che divide la città vecchia in 4 zone basandosi su 21 ordini militari che vengono puntualmente prolungati (vedi figura 2). Ogni zona corrisponde ad un colore, la linea viola rappresenta la zona dove è vietato ai cittadini palestinesi entrare con le loro macchina ma possono entrarci a piedi e aprire i negozi (ciò che in realtà non accade). La linea rossa è dove vietato ai palestinesi aprire i negozi e circolare con le macchine ma è permesso entrare a piedi con enorme difficoltà. La zona dei blocchi ripieni di viola o rosa è dove vietato ai palestinesi entrare a piedi o in macchina ed è vietato aprire i negozi. Questa zona subisce più restrizioni perché si delinea attorno ai 5 nuclei coloniali insediati al cuore del città vecchia. L’ultima è la linea grigia che divide H1 da H2. La terza dimensione riguarda la violenza dei coloni e la loro impunità. Sia l'esercito che la polizia israeliana hanno consapevolmente e sistematicamente protetto innumerevoli atti di violenza dei coloni contro i palestinesi nella città vecchia. I Palestinesi non subiscono soltanto le aggressioni dei coloni, ma anche quelle dei soldati e delle guardie dei confini che li proteggono. Come documentato da Btselem, negli ultimi dieci anni si sono registrati abusi fisici e psicologici e perfino uccisioni di civili palestinesi. Lette in termini spaziali queste politiche mirano a rendere “meno appetibile” questa zona. Non solo cercano di svuotarla dagli attuali abitanti occupando le loro case e rendendo impossibile la loro vita, ma mandano dei messaggi chiari a chiunque pensi di trasferirsi per vivere o lavorare nel città vecchia di Hebron.
Figura 2. L’effetto spaziale delle “Politiche di separazione 18 ”. Fonte: West Bank Clouser, Hebron H2 Area, OCHA OPt, Dicembre 2011. www.ochaopt.org.
Lo spazio conteso La potenza coloniale, ha sviluppato un sistema duale per il movimento e dei diritti in H2. L'introduzione di forme spaziali di restrizione è stato lo strumento per proteggere e collegare i nuclei coloniali tra loro e con la colonia madre Kiryat Arba. Mentre i coloni ebrei circolano armati e attaccano e molestano gli Hebroniti senza conseguenze legali, i residenti palestinesi sono intrappolati in enclave disconnesse e soggette a severe restrizioni di movimenti. Attraverso la sua "occupazione civile" (Segal, Weizman, & Tartakover 2003) lo stato di Israele pratica una graduale pulizia etnica e territoriale, annettendo con la politica dei fatti compiuti altre terre palestinesi. H2 è una zona ad altissimo conflitto per l’estremo uso ideologico dello spazio. Lo spazio conteso - la città vecchia di Hebron- viene rivendicata sia dai palestinesi che dagli israeliani 19 come luogo di vitale 18
I cerch rossi e blu rappresentano rispettivamente i posti di blocco fissi e mobili. La linea blu rappresenta la strada pianificata per collegare la colonia di Tel Rumaida con il resto dei nuclei coloniali nella città vecchia. 19 A partire dal Medioevo, Hebron era stata sede di una piccola comunità di ebrei palestinesi, il cui numero è aumentato sotto l’Impero Ottomano con l'immigrazione di pellegrini ebrei dalla Spagna e dal Nord Africa (Vitullo 2003). Il conflitto tra i palestinesi e i coloni ebrei in Palestina cominciò con l’immigrazione di massa degli ebrei est europei e russi tra 1870-1880 e la maggior parte delle dispute nascevano sulle terra e in particolare sulle terra da pascolo e al diritto di accesso alle terre agricole tra agricoltori palestinesi e nuovi coloni. Il conflitto prese forme violente soltanto quando l’immigrazione ebraica in Palestina è uscita formalmente alla luce del sole dopo l’occupazione militare della Palestina da parte del mandato britannico nel 1917, anno in cui la Gran Bretagna annunciò la dichiarazione di Belfour che favoriva la nascita di uno stato per il popolo ebraico in Palestina (Kattan 2009). Dal 1920 diverse rivolte sono scoppiate in varie città palestinesi, tra il 1928-29 ci sono state diverse manifestazioni tra ebrei e arabi sul diritto di culto presso il muro occidentale nella città Ruba Saleh 4
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importanza religiosa, identitaria e simbolica ed è sopratutto la tomba dei patriarchi ad essere rivendicata da entrambi come legame storico con le radici di ciascun popolo. Al-Haram 20 Al-Ibrahimi (Tomba dei Patriarchi) è il quarto sito religioso dell'Islam Sunnita dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme. Lo stesso sito viene chiamato Grotta di Machpela dagli ebrei ed è considerato il secondo luogo sacro dopo il Monte del Tempio. Secondo la Genesi, Abramo aveva comperato la grotta e il campo che lo circonda per seppellire sua moglie Sara. Successivamente Abramo, Isacco, Rebecca, Giacobbe e Lea sono stati sepolti nella grotta. È stato Erode a costruire un monumento sopra la tomba. La tomba viene trasformata in una casa di culto soltanto nell’epoca islamica. Con la nascità delle città islamiche, alcune città iniziano a nascere attorno al Haram come per esempio nel caso della Mecca, lo stesso è accaduto a Hebron ed è cosi che nasce la città vecchia attorno al paesaggio sacro che diventa lo spirito della città. A partire dal periodo mamelucco, dal 1266 e in poi, la casa di culto, che era stata ristrutturata di chiesa in moschea per ben due volte, è diventata esclusivamente un luogo sacro per i musulmani, e non è più stato concesso l’ingresso agli ebrei e i cristiani al Haram Al-Ibrahimi 21 . Dopo la Guerra del 1967, iniziarono a venire informalmente dei gruppi religiosi ebrei a pregare nella tomba dei patriarchi. Nel 1972 l’autorità militare israeliana ha dato il permesso ufficiale agli ebrei di pregare all’interno della tomba dei patriarchi in orari differenti da quelli dei fedeli musulmani. Il 27 Agosto 1972 il rabbino Meir Kahane, leader del partito ultra nazionalista Kach 22 , arrivò a Hebron con cento seguaci per manifestare contro la divisione d’orario imposta dall’autorità militare israeliana (Jubeh 2009). A Settembre, l’autorità militare israeliana diede il permesso agli ebrei di pregare durante l’orario di preghiera dei fedeli musulmani. A Novembre dello stesso anno, il governatore militare israeliano decise di aumentare le ore di preghiere per gli ebrei, fare entrare delle sedie per far sedere durante la preghiera e di portare due armadi per i torah (uno dei quali è stato portato nella sala di Giacobbe), e di diminuire gli orari degli arabi e di vietarli di pregare sui loro morti all’interno della tomba dei patriarchi (Jubeh 2009). Il 19 Gennaio 1979, il governo israeliano ha approvato la raccomandazione dell’allora ministro degli interni Ezer Weizman, di permettere agli ebrei di pregare nell’unico posto concesso oramai ai fedeli musulmani, la sala principale, sala di Isacco (Jubeh 2009). Tra il 1967-1994, l’autorità del Waqf ha documentato 55 incidenti di rilievo contro la moschea da parte di militari israeliani e la violenza dei coloni (Vitullo 2003). Ma il massacro del 1994, fu il pretesto perfetto per cambiare definitivamente la caratteristica del sito. A seguito del massacro la tomba dei patriarchi è stata divisa per la prima volta in due parti: una ebraica e l’altra araba. Questo è stato l’intervento più radicale che non solo ha cambiato il suo carattere religioso ma anche le sue funzioni millenarie. La “politica di separazione” ha facilitato il raggiungimento della parte ebraica tramite la strada di collegamento diretta dalla colonia Kiryat Arba ad uso esclusivo dei coloni ed è stato fatto un parcheggio per gli autobus dei coloni davanti all’ingresso. Le stesse politiche di collegamento e maggior comfort e sicurezza per i coloni hanno reso la piazza del Haram Al-Ibrahimi quasi deserta e molto difficile da raggiungere per i Palestinesi. Un palestinese deve passare tre posti di blocco a piedi ad una distanza di due metri uno dall’altro prima di raggiungerla. L’ingresso delle persone è soggetto all’arbitrarietà dei soldati che a loro discrezione possono permettere o negare l'ingresso. I giovani palestinesi sono i più molestati e fermati per l'identificazione ai posti di blocco fissi o mobili, appositamente per rendere questa destinazione “poco attraente”. Questo ordinamento spaziale imposto ha isolato Al-Haram dalla sua gente, privandolo della sua aura di sacralità spirituale, ma ha soprattutto stabilito la suddivisione del città vecchia nella mente delle persone e di conseguenza nelle loro abitudini spaziali.
vecchia di Gerusalemme (Kattan 2009). Il 23 agosto 1929, i soldati britannici diffusero la voce a Hebron di rivolte scoppiate a Gerusalemme perché gli ebrei volevano impadronirsi del Monte del Tempio. Come risultato, i leader religiosi e politici durante un raduno di massa nelle strade di Hebron invitarono gli arabi ad attaccare gli ebrei. La mattina del Sabato 24 agosto 1929, Migliaia di arabi di Hebron e dai villaggi circostanti riuniti nel centro della cominciarono ad attaccare gli ebrei. Gli attacchi portarono ad un massacro in cui furono uccisi 67 ebrei, e 100 feriti. Più di 400 ebrei hanno chiesto e ottenuto la protezione dai loro vicini arabi. Dopo il massacro, gli ebrei rimasti sono stati evacuati a Gerusalemme dalle autorità del Mandato Britannico. Entro aprile del 1936, gli ultimi ebrei avevano lasciato Hebron, mettendo fine alla storica presenza ebraica nella città. 20 Moschea. 21 Il racconto storico è attribuito all’Intervista con lo storico di archeologia e architettura Prof. Nazmi Jubeh, 4 maggio 2011. 22 Nel 1988, il governo israeliano ha bandito il partito Kach come "razzista" e "antidemocratico" ai sensi di una legge ad hoc. Nel 1994, in seguito al massacro perpetrato da Baruch Goldstein, seguace di Kahane, Kach fu messo al bando completamente e il Dipartimento di Stato americano ha elencato il partito come organizzazione terroristica. Ruba Saleh 5
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Figura 3. La militarizzazionel dello “spazio conteso”
L’effetto del fallimento del processo di pace sulla Tomba dei Patriarchi Dopo un anno di totale congelamento dei negoziati di pace a seguito della massiccia offensiva militare israeliana piombo fuso 23 a Gaza. Il 21 febbraio 2010 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato 24 , durante una riunione del gabinetto dei ministri, l’intenzione delle autorità israeliane di candidare la tomba dei patriarchi a Hebron e la tomba di Rachel 25 a Betlemme come patrimonio ebraico dell’umanità dell’UNESCO e di stanziare 107 milioni di dollari per ristrutturare e sviluppare i siti e il loro legame storico con Israele e il popolo ebraico. La mattina del giorno seguente più di 300 palestinesi marciarono pacificamente sulla piazza della tomba dei patriarchi contro la dichiarazione del governo e come ogni manifestazione non-violenta la folla è stata allontanata con i gas lacrimogeni e granate stordenti 26 . Il segretario del partito Hadash, e membro della Knesset israeliana, Mohammed Barakeh, che aveva partecipato alla manifestazione insieme ad una trentina di pacifisti israeliani, ha dichiarato: "Netanyahu is an expert at lighting fires...the Netanyahu-Barak government is pushing towards a regional explosion in order to damage any chance of progress 27 ". L’ANP ha replicato sull’annuncio dicendo che questa era un’ulteriore conferma che Israele vuole cancellare tutti i tentativi Internazionali di ritornare ai negoziati di pace. Mentre il partito israeliano Meretz aveva rilasciato un comunicato stampa in cui dichiara che: "this is another attempt to blur the borders between the State of Israel and the
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Durante l’offensiva militare e in sole tre settimane, l’esercito israeliano uccise oltre 1400 palestinesi e ferì almeno altri 5000 persone. Migliaia di abitazioni furono distrutte o danneggiate gravemente lasciando immensi danni alle infrastrutture civili. 24 L’annuncio viola il diritto internazionale, visto che lo Stato di Israele ha ratificato sia la Convenzione dell'Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in situazioni di conflitto armato, che vieta alla Potenza occupante di danneggiare i beni culturali situati nei territori occupati. e la Convenzioni di Ginevra del 1949 che prevede che la Potenza occupante nte non può acquisire alcuna proprietà situata nel territorio occupato. 25 Rachele è la seconda moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, la tomba che è situata nella città palestinese di Betlemme, ed è considerato il terzo luogo sacro per gli ebrei ed è un area militare israeliana chiusa a Betlemme. 26 Intervista a Issa Amro, coordinator nazionale di Youth Against Settlements (YAS). 27 Levinson C. (2010), “Netanyahu: 'Heritage' list won't change West Bank status quo, PM says outrage over addition of West Bank shrines to list of heritage sites stems from a 'misunderstanding”, 03 March, Haaretz ,consultabila a: http://www.haaretz.com/news/netanyahu-heritage-list-won-t-change-west-bank-status-quo-1.263745 Ruba Saleh 6
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occupied territories 28 ". La mossa di Netanyahu non è stata avanzata soltanto in funzione di una potente base elettorale a Hebron ma è una mossa pragmatica per normalizzare la presenza dei coloni. Lo scopo è di portare il “temporaneo” ordinamento spaziale dettato dalle “politiche di separazione” ad uno status finale dove la militarizzazione e l’occupazione viene normalizzata e legittimata. Il 21 ottobre 2010, l’executive board dell’UNESCO ha votato con la maggioranza di 44 voti contro 1 e 12 astensioni per riaffermare quanto segue: “…the two sites are an integral part of the Occupied Palestinian Territories and any unilateral action by the Israeli authorities is to be considered a violation of the International law, the UNESCO conventions and the United Nations and Security Council resolutions 29 ”. Netanyahu ha condannato la decisione dell’UNESCO dichiarando in una nota ufficiale: “The attempt to disconnect the nation of Israel from its heritage is absurd” 30 . Sabato 30 ottobre 2010, migliaia di coloni sono arrivati a Hebron per la lettura annuale del Torah del Hayei Sarahm. Diversi membri del knesset e rappresentanti del Likud e dell’unione nazionalista erano presenti. Per l’importante occasione i coloni e i soldati hanno tenuto la città vecchia sotto assedio per l’intera giornata, e gli ospiti dei coloni hanno goduto di una passeggiata lungo tutta la città Vecchia. Un evento che non si avverava da 12 anni per i coloni. Pochi giorni dopo, il vice-premier, 14 ministri, 5 vice-ministri, 19 membri della knesset sia dall’opposizione che dalla coalizione, e il portavoce della Knesset Reuven Rivlin (del Likud) hanno mandato lettere di supporto ai coloni di Hebron 31 . Il 15 febbraio 2011, il Ministro dell’Educazione, Gideon Sa'ar, ha annunciato un nuovo programma per il 2012 in cui gli studenti israeliani visiteranno la Tomba dei Patriarchi a Hebron. Prima di ora soltanto scuole di coloni della Cisgiordania e Gerusalemme Est hanno visitato il sito. Il ministro Sa’ar è stato già il promotore delle visite delle scuole alle colonie ebraiche a Gerusalemme Est mettendo a disposizione un budget di 15 milioni di ILS (3,072,880 €). Sa'ar aveva inaugurato il programma nel sito della Città di Davide, sito occupato nel villaggio di Silwan a Gerusalemme Est e gestito dall’associazione dei coloni estremisti El Ad. Il teatro del conflitto a Hebron, che ha visto protagonista la tomba dei patriarchi per tutto il 2010, non si è fermato a costatazioni nazionali, religiose e culturali ma il 05 aprile 2011 ha avuto l’ennesimo risvolto spaziale. Parlamentari tra cui il ministro dei trasporti Yisrael Katz, hanno inaugurato la prima fase di una nuova strada che dovrà collegare la colonia di Kiryat Arba con la tomba dei patriarchi32. La strada di accesso, che comprende tre fasi, comporterà un investimento di circa 25 milioni ILS (5,121,470€).
La controffensiva Consapevole che L'attuale governo israeliano ha rifiutato di accettare il diritto internazionale e le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite come base dei negoziati, e visto che il governo di Netanuayhu boccia i confini del 1967 come confini dei due Stati previsti dalle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite 242 e 338, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) 33 ha deciso di cambiare strategia e di cogliere il riconoscimento del successo del piano di costruzione 34 dello Stato per presentare il dossier della Palestina al consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come stato membro. Il 23 settembre 2011, Mahmud Abbas in veste di presidente dell’OLP ha presentato la richiesta ufficiale della Palestina di diventare lo stato membro numero 194 all’ONU. A partire da questo momento e in avanti la battaglia sulla tomba dei patriarchi acquista una nuova dimensione. Una battaglia Internazionale per ristabilire i nuovi equilibri Internazionali e rivendicare “il diritto allo spazio”. Da questo momento e in poi la battaglia diplomatica si sposta da New York a Parigi, alla sede centrale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Educazione, Scienza e Cultura, l’UNESCO. Il 31 ottobre 2011, la 28
Al-Jazeera, (2010), “West Bank sites spark heritage row, Israeli cabinet adds two Palestinian sites in West Bank to 'Israeli heritage List”, Al-Jazeera, 21 February, consultabile a: http://www.aljazeera.com/news/middleeast/2010/02/20102211933459711.html 29 Consultabile a: www.unesco.org/news/en/media_service/single_view/news/executive_board_adopts_five_decisions _concerning_unsecos_work_in_the_occupied_palestinain_and_arab_territories/ 30 Lazaroff T. & Mandel J. (2010), PM slams UNESCO calling Rachel's Tomb a mosque, Jerusalem Post, 31 October, consultabile a: http://www.jpost.com/Israel/Article.aspx?id=193364 31 Lazaroff T. & Mandel J. (2010) 32 Il Protocollo di Hebron del 1997 che prevede la ridistribuzione delle forze israeliane a Hebron richiede il consenso dei palestinesi per i progetti di costruzione nella città, e durante i colloqui tra le Forze di Difesa di Israele (IDF) e la municipalità di Hebron, l’ultimo ha rifiutato di approvare il progetto. 33 L’Autorità Nazionale Palestinese è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi di Oslo tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e lo stato di Israele come corpo temporaneo per 5 anni. Durante il periodo temporaneo dovevano prendere parte i negoziati di status finale tra le due parti. 34 Il 13 Aprile del 2011 e dopo 16 anni della nascita dell’ANP senza nessun status finale raggiunto, il Primo Ministro Palestinese Salam Fayyad annunciò di aver ricevuto il “certificato di nascita” dello Stato Palestinese. Questo annuncio avviene a seguito della celebrazione da parte della Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Unione Europea e le Nazioni Unite del successo del piano per la costruzione dello Stato Palestinese lanciato nel settembre del 2009 da Fayyad, affermando che le istituzioni Palestinesi sono pronte per la nascita dello Stato e che l’unico ostacolo rimasto era quello dell’occupazione Ruba Saleh 7
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Palestina diventa il 195esimo paese membro dell’UNESCO. Come risposta a tale riconoscimento sullo scenario Internazionale Stati Uniti e Israele hanno congelato i loro contributi annuali all’organizzazione. Sullo scenario locale invece, entrambi hanno annunciato una serie di punizioni, la prima delle quali è stato il trattenimento delle tasse palestinesi da parte di Israele e il congelamento dei progetti di cooperazione americani in Palestina, che ha aggravato molto la situazione assai precaria delle casse dell’ANP. Il ministro israeliano della diplomazia pubblica e gli affari della diaspora, Yuli Edelstein (membro del Likud), ha colto l’occasione per invitare gli israeliani e gli ebrei da tutto il mondo a partecipare Sabato 19 Novembre 2011 alla cerimonia “Life of Sarah” organizzata dai coloni a Hebron, per sostenere i coloni e riaffermare che il governo Israeliano considera il sito parte integrante della lista dei siti di patrimonio ebraico. La municipalità di Hebron non aveva nel frattempo perso tempo. Il 21 ottobre 2009 a Arcueil e Parigi in Francia, è stato lanciato il comitato Internazionale per la conservazione e la promozione della Città Vecchia di Hebron co-presieduto dai sindaci di Arcueil, Belfort (città francesi gemellate con Hebron) e Hebron. Il comitato ha gli obbiettivi di difendere il patrimonio culturale, sostenere azioni e campagne di informazione e riabilitazione portate avanti da decenni da parte dell’ANP 35 e sostenere la candidatura della città vecchia di Hebron nella lista del Patrimonio mondiale dell'UNESCO. Nel 2010 la municipalità di Belfort ha inviato un’archeologa per raccogliere il materiale necessario per la costruzione del dossieur della città vecchia e ha fatto un accordo con il dipartimento di architettura dell’università di Versailles per preparare la cartella tecnica della città vecchia 36 . Subito dopo il riconoscimento della Palestina come stato membro all’UNESCO, il primo cittadino Khaled Osaily, insieme ad una delegazione ufficiale da Hebron e dalle istituzioni palestinesi competenti, è partito per una serie di incontri ufficiali insieme alle istituzioni delle due città gemelle francesi. Il 13 Novembre 2011 a Belfort è stata celebrato l’ “Hebron Day”, durante ad un workshop di tecnici esperti nella preparazione del nomination file. Successivamente, l’Institut du monde arabe a Parigi ha ospitato due giorni di lavoro tra il 25-26 Novembre 2011 per lavorare sul dossieur della città vecchia di Hebron e il suo piano di gestione. Il sindaco di Hebron dopo aver spiegato tutte le difficoltà che vive la città vecchia ha detto: “l’idea di registrare Hebron sulla lista del patrimonio dell’umanità è iniziata come un sogno difficile che dubitavamo di poter realizzare, ma dopo quest’esperienza siamo fiduciosi che finalmente il sogno si realizzerà 37 ”. Il dossieur della città vecchia di Hebron può essere consegnato la prossima data utile per il “World Heritage List Nomination” a secondo della priorità nazionale palestinese 38 .
Conclusioni La dichiarazione del sito come patrimonio dell’umanità affermerebbe un riconoscimento politico internazionale della sovranità palestinese. Forse porterà anche ad allentare l’assedio della città vecchia. La guerra sulla tomba dei patriarchi è una battaglia –israeliana- di colonizzazione e –palestinese- di ri-appropriazione spaziale. Lo “spazio conteso” diventa lo strumento di affermazione geopolitica e di egemonia culturale. Già il voto dell’UNESCO ha riportato le Nazioni Unite ad essere di nuovo un’arena significativa nella storia della lotta Palestinese. Ciò ha richiamato la famosa immagine di Arafat nel 1974, con l'olivo e la dichiarazione del combattente per la libertà. Questo riconoscimento –forse- può giocare un fattore cruciale nel mobilitare gli attori regionali, europei e internazionali per intervenire. E forse incentiverà la creazione di un'alternativa al ruolo egemonico delle Stati Uniti e il ruolo del paralizzato Quartetto. Un eventuale simbolico riconoscimento del sito rappresenterà una conquista diplomatica che potrebbe a lungo andare tradursi in una “conquista spaziale”. Il ruolo del planner nel frattempo è di cercare di svegliare l’intenzione collettiva reintroducendo un’interazione con il luogo. Lo scopo è di risvegliare la memoria del passato attraverso l’attivazione di quello che De Certeau chiama art of memory (De Certeau 1988). Il motore dell'azione collettiva secondo Geddes è l'emozione, e il progettista può stimolare emozioni concentrandosi inizialmente sulla zona della Tomba dei patriarchi. Un elemento prezioso e significativo che possa risvegliare e rafforzare il senso di cittadinanza e di appartenenza al fine di attivare i cittadini come city makers (Ferraro 1998). Politici e tecnici da entrambi le parti usano un lessico comune. Per condurre la battaglia spaziale viene fatto uno uso strumentale della storia del popolo, radice, identità e legame fra stato e nazione, religione, valori culturali, ecc..tutte parole chiave per una politica di riappropriazione spaziale dove la partecipazione e la fiducia della comunità sono i pilastri vitali.
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Nel 2005 la città vecchia di Hebron viene presentata all’interno del "inventario dei siti di patrimonio culturale palestinese di potenziale eccezionale valore universale" da presentare all’UNESCO, ma non essendo stato membro, la ambasciatore della delegazione palestinese all’UNESCO consegnò l’inventario all’unità del patrimonio mondiale senza avere in ricambio nessun risultato concreto. 36 Intervista a Chantal Abu Eisheh, Hebron France association for cultural exchange, 2 Giugno 2011 37 Maannews (2011), “Parigi ospita una conferenza per registrare Hebron sulla lista del patrimonio dell’umanità dell’UNESCO”, maannews, 26 November, consultabile a: http://www.maannews.net/arb/ViewDetails.aspx?ID=439586, (Traduzione mia dall’Arabo) 38 Intervista a Alaa Shahin, pianificatore, municipalità di Hebron, 3 Aprile 2012 Ruba Saleh 8
Politica e politiche, il “diritto allo spazio” in una zona di conflitto
Bibliografia Al-Jazeera, (2010), “West Bank sites spark heritage row, Israeli cabinet adds two Palestinian sites in West Bank to 'Israeli heritage List”, Al-Jazeera, 21 February, consultabile a: http://www.aljazeera.com/news/middleeast/2010/02/20102211933459711.html B’tselem (2003), Hebron, Area H-2, Settlements Cause Mass Departure of Palestinians, B’tselem. B’tselem (2007), Ghost Town, Israel’s Separation Policy and Forced Eviction of Palestinians from the Center of Hebron, B’tselem. De Certeau M. (1988), The practice of everyday life, University of California John, Berkeley, Los Angeles, London Ferraro G. (1998), Rieducazione alla speranza, Patrick Geddes, Planner in India, 1914-1924, Jaca Books, Milano Hebron Rehabilitation Committee, (2010), annual report, HRC. Jubeh N. (ed. 2009), Old Hebron, charm of a historical city and architecture, Hebron Rehabilitation Committee, Hebron, Palestine Kattan V. (2009), From Coexistence to Conquest: International Law and the Origins of the Arab-Israeli Conflict 1891-1949, Pluto Press, London Lazaroff T. & Mandel J., (2010), “PM slams UNESCO calling Rachel's Tomb a mosque”, Jerusalem Post, 31 October, consultabile a: http://www.jpost.com/Israel/Article.aspx?id=193364 Levinson C. (2010), “Netanyahu: 'Heritage' list won't change West Bank status quo, PM says outrage over addition of West Bank shrines to list of heritage sites stems from a 'misunderstanding”, Haaretz, 03 March, consultabila a: http://www.haaretz.com/news/netanyahu-heritage-list-won-t-change-west-bank-status-quo1.263745 Lefebvre H. (1976), Il diritto alla città, Marsilio, Padova Vitullo A. (2003), People Tied to Place: Strengthening Cultural Identity in Hebron's Old City, Journal of Palestine Studies, Vol. 33, No. 1, pp. 68-83 Maannews (2011), “Parigi ospita una conferenza per registrare Hebron sulla lista del patrimonio dell’umanità dell’UNESCO”, maannews, 26 Novembre, (Traduzione libera dell’autore dall’Arabo). consultabile a: http://www.maannews.net/arb/ViewDetails.aspx?ID=439586 United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), Occupied Palestinian Territory, (2011), West Bank Movement and Access Update, Special Focus, August, P2, OCHA
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Una riflessione sull’attivismo politico del planner
Una riflessione sull’attivismo politico del planner Francesco Chiodelli Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: francesco.chiodelli@polimi.it
Abstract Il paper propone una riflessione sulla relazione tra pianificazione e politica. L’obiettivo è quello di indagare i limiti di legittimità del coinvolgimento diretto del planner in questioni politiche. Si analizzano in particolare le questioni problematiche sollevate dalla delega sui mezzi, ossia dalla delega (implicitamente o esplicitamente) conferita dalla committenza pubblica al planner in riferimento alla definizione di strumenti spaziali per perseguire obiettivi politici lato sensu.La tesi sostenuta è che da un punto di vista teorico il planner dovrebbe essere essenzialmente un traduttore spaziale delle volontà politiche; di conseguenza un suo ruolo di “attivista politico” è quanto meno problematico. In questo senso, la virtù principale del planner non è il sostegno attivo a certi valori (ad esempio di democrazia, inclusione sociale, uguaglianza), quanto il rispetto di alcuni principi deontologici, tra cui, in particolare, un principio di “verità” (o “noninganno”).
Introduzione: la specificità del planner Individuare una sfera circoscritta di competenze e ambiti all’interno della quale racchiudere il ruolo del planner (riconoscendo qui la sua specificità) è un’operazione sicuramente difficile. Tuttavia si tratta di un’operazione analiticamente fondamentale: senza dei limiti ai propri ambiti principali di competenza (e una specificità sulla base della quale definire tali ambiti) quella di planner (e di pianificazione) rischia di essere soltanto un’etichetta, da appiccicare, a seconda dei casi, a diverse figure (politici, burocrati, professionisti di vario tipo, comitati, semplici cittadini); se così fosse ci sarebbe però motivo di dubitare del senso stesso dell’esistenza di una figura professionale chiamata planner (Friedmann, 1998). In caso contrario è necessario ammettere che le funzioni del planner sono in qualche modo delimitate e che esistono alcune competenze che fondano la sua specificità (mentre altre sono in questo senso secondarie, per quanto ciò non significhi affatto che siano inutili). Quale sia tale dominio unico di competenze specifico della pianificazione non è chiaro. Nel corso della storia del planning diverse sono state le risposte proposte in relazione a tale questione. Indipendentemente dai contenuti delle specifiche proposte, ciò che in termini generali si può individuare è, nel corso dei decenni, un movimento dal riconoscimento di un ruolo piuttosto univoco e specialistico attribuito al planner a una visione più plurima e sfaccettata, in cui le competenze del planner e i suoi ambiti di riferimento si moltiplicano. Nel corso di questo movimento, una delle funzioni che è stata spesso attribuita al planner è quella “politica” (intesa qui nel senso di relativa a scelte di valore riferite al campo delle politiche pubbliche) 1 . E’ questa funzione legittima e opportuna? 2 . 1
Si tenga presente che, secondo Howe e Kaufman (1979), sul finire degli anni Settanta, quasi il 70% dei planners statunitensi intervistati dichiarava di avere un ruolo politico attivo nell’ambito della propria attività professionale. Vedi anche Howe (1994). Da sottolineare non ci si chiede qui se la pianificazione sia o meno un’attività di natura politica. Questo fatto è non solo dato per assodato, ma costituisce il presupposto del ragionamento qui sviluppato. La domanda di ricerca di questo articolo è in sostanza la seguente: come il planner si deve rapportare alla natura intimamente politica (proceduralmente e sostantivamente politica) della pianificazione? Deve ad esempio assumere un “ruolo politico attivo”, ad esempio facendosi promotore presso i decisori e la società civile di certi specifici valori? Spesso, infatti, dal riconoscimento della natura politica della pianificazione si fa discendere l’assunto che
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Una riflessione sull’attivismo politico del planner
I ruoli del planner L’ampio ventaglio di attività del planner può essere in ultima istanza ricondotto a due distinti ruoli principali: il ruolo professionale e il ruolo accademico. Il primo caso (“planner-professionista”) riguarda tutti coloro che sono impegnati in attività dirette di pianificazione (ad esempio la redazione di un piano); il secondo caso (“planner-accademico”) riguarda tutti coloro che sono impegnati in attività di ricerca e studio che hanno come oggetto la pianificazione. Una delle differenze fondative tra questi due ruoli riguarda la committenza: nel primo caso il planner è un professionista al servizio di una committenza specifica; nel secondo caso il planner è uno studioso che non è al servizio di alcun committente specifico e svolge quella che potrebbe essere definita una funzione di “libero intellettuale”. Come argomenterò nei paragrafi successivi, è in primis l’esistenza in sé di tale committenza a definire un preciso campo di vincoli e prerogative all’azione del planner (in particolare in relazione alla sfera politica). Una delle caratteristiche chiave del planner-professionista è dunque il suo essere al servizio di una committenza specifica. Quando tale committenza è pubblica è incarnata dal potere politico; 3 la pianificazione del territorio è una parte specifica del governo del territorio (che a sua volta è una componente del più generale governo lato sensu) (Mazza, 2011). Da specificare che in questo paper si fa riferimento: con pianificazione soprattutto all’attività di produzione di piani; con politica al campo di allocazione intenzionale e autoritativa di decisioni di valore (e dunque di diritti e doveri); con potere politico all’insieme dei rappresentanti politici democraticamente eletti (come noto, i rappresentanti democraticamente eletti costituiscono solo la rappresentazione formale del potere politico: alla definizione delle scelte politiche concorrono nella pratica numerosi attori portatori di interessi specifici, ad esempio di tipo economico 4 ; ciò non modifica tuttavia il fatto che il “committente responsabile” resta comunque costituito dagli organi politici istituzionali, che mantengono il potere formale e la responsabilità pubblica della decisione). Assumendo tali definizioni, si può dichiarare che, in linea di principio, la pianificazione è interpretabile come uno strumento per attuare le decisioni del potere politico e, più precisamente, per tradurre in “fatti spaziali” le volontà politiche. La pianificazione è lo strumento tecnico (e quindi inintenzionale) dell’intenzionalità politica (per un’argomentazione più dettagliata di quest’affermazione vedi Chiodelli, 2012). Ciò delinea un quadro di netta separazione fra politici e tecnici/amministrativi (administrators) di weberiana memoria 5 che è certamente astratto e idealtipico. Nella pratica i tecnici hanno sempre un ruolo politico (concorrono cioè a influenzare le decisioni politiche): la rigida dicotomia politica-burocrazia disegna uno scenario lontano dalle realtà, come gli studi di public administration hanno dimostrato da lungo tempo. In questo senso è sicuramente vero che «i rappresentanti eletti e il personale amministrativo [administrators] mantengono ruoli distinti […] ma le funzioni che svolgono necessariamente si sovrappongono» (Svara, 2001: 179); tuttavia la relazione fra politici e amministrativi si fonda su «uno scambio attivo all’interno di certi limiti. E’ una relazione in cui gli attori di una sfera non possono prendere il controllo di una funzione che è prerogativa di un attore dell’altra sfera […]. La natura della relazione può variare considerevolmente all’interno di questi limiti, ma tali limiti non possono essere completamente rimossi senza stravolgere la natura di tale relazione» (Svara, 2008: 49). Politica e amministrazione (e dunque politica e pianificazione) sono due sfere che si sovrappongono; tuttavia tale sovrapposizione, per quanto ampia, non è mai completa. E’ in questo senso possibile sostenere che, sebbene con un proprio grado di autonomia, il planner-professionista è pur sempre un tecnico al servizio degli interessi del potere politico (Flyvbjerg, 1996). Di conseguenza la sua azione dovrebbe essere tutta interna agli indirizzi stabiliti dal potere politico. La deviazione da ciò è infatti, da un punto di vista teorico, sbagliata, ossia contraria ai principi della democrazia delegata: in termini generali il planner-professionista dovrebbe essere semplicemente un “traduttore spaziale” di scelte politiche (nel senso di politicamente connotate e di decise dalla politica), ossia dovrebbe ragionare su quali mezzi (per esempio quale organizzazione dello spazio,
il planner debba svolgere una funzione politica attiva (come ad esempio piuttosto chiaramente in Campbell, 2002; Campbell, 2006; Campbell e Marshall, 1999). 2 E’ utile sottolineare che propongo qui una riflessione di carattere prettamente normativo e astratto. I limiti di uragionamento di questo tipo sono sicuramente molti e noti. Il vantaggio è però quello di far emergere in modo molto chiaro, nei propri tratti essenziali, alcuni nodi problematici cruciali che stanno alle radici della pianificazione. Le conclusioni a cui si giunge possono in questo senso essere pensate come orizzonti di riferimento (una sorta di infinità fichtiana, ma non necessariamente cattiva), utili da diversi punti di vista (tra questi, ad esempio, in direzione della formulazione di “principi deontologici” per la pianificazione). 3 In questo paper mi interesso solo della committenza pubblica. Riflessioni (parzialmente) differenti andrebbero sviluppate in relazione alla committenza privata. 4 Vedi Flyvbjerg, 1998 5 Vedi ad esempio Weber (1946).
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Una riflessione sull’attivismo politico del planner quali usi del suolo, quale processo, quali attori coinvolti) possono essere utilizzati per raggiungere un certo fine politicamente deciso, qualunque esso sia 6 (vedi ancora Chiodelli, 2012).
La delega Il rapporto tra decisori politici e planners è sempre regolato da un meccanismo (esplicito o implicito) di delega: per realizzare i propri desideri in termini di policies, la politica deve passare necessariamente attraverso una struttura tecnicoamministrativa; quando in gioco ci sono questioni spaziali, questo tramite è rappresentato dal planner. Al di là del suo specifico funzionamento, è già l’esistenza in sé della delega ad avere rilevanti implicazioni per il planner nella sua relazione con la politica. In termini analitici è possibile distinguere tra una delega sui mezzi (come raggiungere certi fini) e una delega sui fini (quali fini raggiungere). Nella pratica i due tipi di delega sono di norma sovrapposti. Tuttavia è utile separarli analiticamente (qui mi occuperò soltanto della delega sui mezzi). La delega assegna al planner, delimitandoli, certi gradi di libertà. Il meccanismo della delega sottende l’idea da parte del committente che l’esito del delegare possa essere l’indicazione di uno strumento adeguato a materializzare al meglio i suoi desideri e le sue volontà; ciò tuttavia non si basa sull’assunzione che la decisione sui mezzi sia determinabile in maniera diretta e oggettiva a partire da un sapere tecnico; si basa invece su una sorta di fiducia nell’affinità tra delegante e delegato - è sulla base della forza che, nelle diverse situazioni concrete, tale idea assume che si determinano l’ampiezza della delega e i meccanismi di controllo messi in campo dalla committenza. Il principio che (generalmente) guida la delega è il cosiddetto ally principle: «i principali [principals] delegheranno maggiore autorità nel caso in cui diminuisca la loro incertezza politica (ossia l’incertezza rispetto alle preferenze dell’agente) o la differenza tra le preferenze dell’agente e le loro preferenze» (Lavertu and Weimer, 2009: 96). In sostanza, dal punto di vista della committenza il problema della delega è strumentale, e riguarda il rapporto tra i guadagni del delegare le decisioni a un soggetto esperto e i costi relativi al non compiere in prima persona le scelte (Bendor et al., 2001). Dal punto di vista del planner, invece, la delega solleva soprattutto questioni di etica professionale: qual è il “giusto” grado di autonomia del planner? Qual è lo spazio che, nella propria attività, il planner può riservare ai propri valori personali? E’ legittimo che un tecnico compia scelte di valore che si discostano consapevolmente dai desiderata dell’autorità pubblica? La delega sui mezzi implica infatti, sempre, volenti o nolenti, un certo grado di autonomia sostantiva del delegato, poiché diversi sono i mezzi possibili per raggiungere un certo fine e poiché, chiaramente, i diversi mezzi non sono equivalenti nelle proprie esternalità.
L’inganno Come detto, tramite la delega viene concesso al planner un certo grado di libertà. Tale libertà è amplificata e rafforzata dal carattere tecnico della pianificazione: in quanto depositario di un sapere specialistico il planner gode per definizione di una certa dose di autonomia rispetto alla committenza. Questi ambiti di libertà sono fonte di grande responsabilità: nella delega è infatti insita la possibilità di contravvenire (per quanto parzialmente) ai valori e alle volontà dei decisori politici. Se si accetta quanto detto nei paragrafi precedenti, ne consegue che, in termini ideali, gli sforzi del planner dovrebbero essere precauzionalmente indirizzati a restringere il più possibile gli ambiti della delega concessagli dal potere politico. In sostanza il planner dovrebbe tentare di fare di sé stesso, il più possibile, un mero strumento al servizio delle volontà del potere, evitando qualsiasi interferenza con gli obiettivi posti della committenza - a differenza, ad esempio, di quel che pensano il 57% dei planners intervistati nella ricerca di Howe e Kaufman (1979: 250). Il vincolo principale alla sua azione dovrebbe essere rappresentato da un principio deontologico di “competenza professionale”: analizzare in modo competente e approfondito i diversi mezzi utilizzabili per raggiungere un certo fine, mettendone in evidenza esternalità positive e negative in relazione ai diversi gruppi e ai diversi attori. Le soluzioni spaziali proposte dovrebbero essere selezionate nel modo più distaccato possibile dai suoi valori personali. A differenza di quanto si tende spesso a sostenere, si potrebbe dunque affermare (un po’ provocatoriamente) che il planner non ha alcun vincolo sostantivo che deriva direttamente del cosiddetto “interesse pubblico” (anche ammettendo che questa nozione sia ancora utilizzabile) o da valori quali ad esempio giustizia sociale ed equità (per quanto essi possano essere individualmente considerati come desiderabili). L’unico vincolo rispetto alla 6
Com’è noto, spesso i fini non sono né definiti né chiaramente esplicitati. La sostanza della riflessione proposta sulla delega rimane comunque interamente valida.
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Una riflessione sull’attivismo politico del planner collettività è deontologico, e concerne, come detto, la responsabilità e la competenza professionale: non ingannare volontariamente (responsabilità professionale) o involontariamente (competenza professionale) la committenza. Allo stesso tempo il planner deve rifiutare il fatto che le proprie argomentazioni siano utilizzate dalla committenza per irretire o ingannare soggetti terzi: è assai comune, ad esempio, che le ragioni tecniche vengano presentate come risolutive nella decisione di una politica pubblica, mentre la conoscenza tecnica non genera mai meccanicamente le policies. 7 E’ in tal senso che la delega deve essere guardata con sospetto, e in alcuni casi addirittura rifiutata: il rischio sempre in agguato è che si tratti solo di un artifizio per scaricare la responsabilità politica delle decisioni sul tecnico. E’ per questo sempre utile che il planner cerchi di evidenziare il proprio ruolo di “traduttore spaziale” (o meglio, di suggeritore di possibili traduzioni spaziali) e non di decisore. Se poi ciò non fosse sufficiente e il planner-professionista percepisse che il proprio ruolo è soltanto quello di garantire copertura tecnica rispetto a decisioni di natura politica, la strada che rimane è soltanto quella delle dimissioni.
L’impegno politico del planner Ciò che si può dedurre da questo quadro è che, sicuramente, il ruolo del planner-professionista non è quello dell’ “attivista politico”, intendendo con questo termine il planner che cerca sempre di difendere e promuovere (ad esempio rappresentandoli nel piano) i valori in cui crede o quelli di uno specifico gruppo sociale al quale si sente simpatetico, anche se questi sono in contrasto con le scelte della committenza politica. Ogni problema di non condivisione dei valori e delle finalità della committenza politica (e delle scelte territoriali attraverso cui questa si esprime) non rientra infatti nell’alveo della deontologia professionale, ma si riferisce soltanto a questioni di etica individuale. Quale ruolo dovrebbe allora riservare il planner-professionista ai propri valori? La questione è sicuramente complessa (vedi ad esempio Marcuse, 1976). Schematizzando si può però affermare che le strade che il planner-professionista può legittimamente praticare sono solo due. Il planner può ad esempio scegliere una sorta di atarassia, di “sospensione valoriale”: in quanto mero esecutore delle volontà del potere può scegliere di lavorare anche al servizio di posizioni politiche contrarie alle proprie convinzioni. Nel caso in cui invece il planner non voglia rinunciare ai propri valori, l’unica soluzione possibile è quella di lavorare al servizio di un potere politico rispetto al quale è simpatetico, di cui condivide i valori e le finalità (tanto più che questo è ciò che, usualmente, anche la politica ricerca e ciò su cui, come detto, la delega si fonda). Tertium non datur: l’opzione dell’attivista politico che “combattere il sistema dall’interno” è, in linea generale, illegittima. Quando detto riguarda il planner-professionista. E’ però interessante chiedersi se analoghe conclusioni valgono anche per il planner-accademico. Rispetto al planner-professionista, il planner-accademico è in termini generali sottratto ai vincoli posti da una committenza esterna, alla quale rispondere e rispetto alla quale dovrebbe commisurare la propria azione e interrogare i propri valori. In questo senso il suo raggio di azione si può allargare anche al campo della teoria normativa (ossia alla sfera del “che cosa è giusto o sbagliato fare”): non è più vincolato allo studio dei mezzi, ma può interessarsi anche dei fini. Lo scopo, ad esempio, può essere quello di dipingere l’immagine della “città giusta”, come nella proposta di Susan Fainstein (2010); oppure quello di costruire un “ordine alternativo”, come nella proposta di John Friedmann (1987). Nel fare ciò, tuttavia, il planner-accademico dovrebbe comunque rispettare quel vincolo strutturale di natura logico-filosofica che definisce l’impossibilità di derivare prescrizioni da asserzioni, e viceversa (la cosiddetta “Legge di Hume”). Ciò che da questo vincolo discente per il planner-accademico è, allo stesso modo di quanto succede per il planner-professionista, l’erroneità (logica) di utilizzare ragioni puramente tecniche per giustificare argomenti normativi (politici, etici od estetici); 8 si potrebbe in questo senso parlare del principio deontologico della argomentazione tecnico-anankastica. 9 In caso contrario si avvalora l’impressione che scelte normative (ad esempio politiche) possano essere considerate ineluttabili necessità naturali (ossia possano derivare semplicemente da una certa descrizione dei fatti). Dunque, quando argomenta la propria idea di “città giusta” o di “città bella”, il planner dovrebbe evitare di farlo servendosi di tesi categoriche (ossia di tesi che prescrivono qualcosa come buono in sé, con una giustificazione di carattere apodittico: X è meglio di Y; X è buono e giusto, Y è cattivo e sbagliato); ciò infatti potrebbe lasciar intendere che tali tesi siano fondate causalmente sul suo sapere specialistico, quando invece sono per lo più determinate da predisposizioni e convinzioni personali. Anche quando il planner-accademico si esprime (legittimamente) in relazione a fini (ossia sostiene tesi di natura 7
Nella scelta di una policy vi è sempre un irriducibile surplus di scelte etiche, opportunità politiche, ragioni simboliche, motivazioni e idiosincrasie personali che esulano dal sapere tecnico. 8 Nonostante questo, alcune delle più diffuse teorie della pianificazione postulano proprio la derivabilità di prescrizioni da descrizioni e la triade geddesiana rilievo-analisi-piano è ancora piuttosto in voga. 9 Dal greco ?νάγκη, necessità. Dove con anankastica si definisce, nella filosofia analitica, la sfera relativa al mondo delle proposizioni che esprimono una necessità: se si vuole X, si deve Y (Azzoni, 1991).
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Una riflessione sull’attivismo politico del planner etica, estetica, politica), dovrebbe dunque farlo formulando relazioni anankastiche (ossia formulando un’argomentazione tecnica: se si vuole X si deve Y, dove X è un fine connotato valorialmente posto arbitrariamente dal planner-accademico). Un tipo di argomentazione diversa, ma altrettanto logicamente corretta, è quella che si mantiene tutta all’interno del campo normativo, fondando la propria forza ad esempio sulla persuasività delle tesi e dei valori, o sulla coerenza e la logica. Tuttavia, se utilizza soltanto un tale tipo di argomentazione, lo studioso più che di pianificazione si occupa di teoria politica: più che planner è filosofo politico. Ciò non è per forza un problema, 10 ma è probabilmente un impoverimento; si rinuncia infatti al contributo specifico che il planner in quanto tecnico può dare in più rispetto al filosofo politico. Tale contributo è per l’appunto quello dell’argomentazione tecnico-anankastica: non solo persuadere della giustezza della propria idea, ma proporre anche mezzi spaziali (efficaci ed accettabili nelle proprie esternalità) per realizzarla. Allo studioso di planning è concessa inoltre la possibilità di svolgere un’attività di critica delle politiche messe in campo da una certa amministrazione pubblica in materia di governo del territorio. Per le ragioni appena evidenziate, anche tale critica dovrebbe però svolgersi essenzialmente a livello dei mezzi scelti e non a livello dei fini e dei valori perseguiti. Se invece il planner-accademico vuole contestare i valori che guidano tali politiche (sostenendone ad esempio altri) lo può fare, ma solo in quanto semplice cittadino (o ritagliandosi il ruolo di filosofo politico), e avendo pertanto sempre l’accortezza di spogliarsi di qualsiasi abito tecnico. In questo caso, infatti, egli svolge una funzione politica “piena”. Ad essere negativo è in sostanza il connubio tra tecnica e politica, poiché genera l’impressione che vi possa essere una connessione necessaria fra i due campi; al contrario la politica non è una techné, e la tecnica non genera mai la politica. 11 L’impegno politico diretto di alcuni planner, ad esempio come assessori all’urbanistica, è in questo senso rischioso, perché può trasmettere l’idea che la loro carica sia di natura tecnica, quando invece è sempre essenzialmente politica - problematica è in questo senso l’idea stessa di governo tecnico. Riprendendo la nota accezione di “sfere di giustizia” di Michael Walzer (1983), si può pensare a tecnica e politica come a due “sfere” distinte (per quanto attigue e spesso tangenti).
Conclusioni Nella pratica quotidiana il planner ricopre svariati ruoli e svolge svariate funzioni. Tra questi, quello di “attivista politico” solleva dubbi di legittimità e opportunità, se interpretato nel senso di sostenere che il planner può compiere rilevanti scelte di valore in vece del potere politico (magari addirittura divergenti dai valori e dalle indicazioni di quest’ultimo). Non solleva dubbi di legittimità e opportunità se tale ruolo è interpretato ad esempio secondo la proposta originaria di Paul Davidoff (1965), in cui il planner è al completo servizio del committente, di cui supporta tecnicamente le argomentazioni e rispetto ai valori del quale è simpatetico. Per quanto tali riflessioni possano sembrare scontate a chi dall’esterno guarda alla pianificazione come a una tra le tante professioni, non sono affatto scontate per chi guarda l’urbanistica dall’interno. La storia del planning ci consegna infatti una disciplina che molte volte ha avuto la tentazione di compiere scelte di valore sostitutive o alternative alla politica; se ciò era più evidente in passato, ancor oggi la pianificazione non ha abbandonato questa tendenza. Più che con le scelte politiche, il planner dovrebbe invece confrontarsi con le componenti tecniche insite nelle policies, se non altro perché è sulla solidità del suo sapere tecnico che si fonda la ragione d’essere (e, se vogliamo, anche l’utilità sociale) della pianificazione. 12 Il ruolo sociale del planner non risiede infatti nella sua capacità di cambiare dall’interno un sistema di potere che si considera ingiusto, o di ergersi a difensore/promotore di valori di partecipazione, giustizia sociale e democrazia. La sua utilità sociale risiede nel fornire argomenti tecnici per trasformare scelte di valore in fatti spaziali. Rispetto alla politica la sua funzione è dunque sempre di servizio: a seconda del ruolo che si assegna alla pianificazione e alla sua posizione nel sistema istituzionale, il planning produce argomenti tecnici che aiutano la politica a decidere, che aiutano a concretizzare certe decisioni, che aiutano a criticare certe scelte, che aiutano la mobilitazione di certi gruppi, ma che di per sé non annullano le componenti non tecniche insite in qualsiasi politica.
Bibliografia 10
A patto che sia chiaro che si sta esprimendo non come planner, ma come filosofo politico. Già Aristotele argomentava l’esistenza di due forme di ragione: quella poietica, che riguarda il fare per uno scopo, e quella pratica, in cui il fine dell’agire non è relativo ad altro che la perfezione pratica stessa (Aristotele, Eth. Nic., IV). “L’etica, insomma, governa l’agire pratico e dice come agire per agire bene; la tecnica, invece, riguarda l’agire poietico e stabilisce come agire per produrre un certo risultato e in quanto lo si voglia produrre” (Gometz, 2008: 22-23). 12 Inoltre, maggiore è la solidità del sapere tecnico, maggiori sono le possibilità, da parte del planner, di ritagliarsi un ruolo autonomo e distinto dalla sfera politica, sottraendosi ai tentativi di utilizzo strumentale da parte del potere. Naturalmente una conoscenza forte è una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire l’autonomia della pianificazione dalla politica (Flyvbjerg, 2003; Mouffe, 2000). 11
Francesco Chiodelli
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Francesco Chiodelli
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Significato e ruolo del diritto per i valori dell’urbanistica che cambia
Significato e ruolo del diritto per i valori dell’urbanistica che cambia Teresa Lapis Università IUAV di Venezia Dottorato in Urbanistica Email: teresalapis@libero.it Tel. 3356024651/042154554
Abstract La mia tesi intende focalizzare la discussione sul significato del diritto come scambio pacifico più che sanzione. Nello Stato di diritto, i diritti fondamentali nella Costituzione sono il criterio di misura dell'agire e il diritto ha il ruolo di farlo funzionare come requisiti per la tutela delle diversità, senza compromettere l'identità dei partecipi al discorso pubblico. La sfida riguarda la ricerca condivisa dei concetti che operano come criteri regolativi e valutativi delle relazioni sociali. Per forgiare la disciplina urbanistica alle sfide del futuro sono fondamentali i concetti di diritti umani e solidarietà, come concetti e pratiche che segnano profondamente il mondo giuridico e politico contemporaneo per agire nei processi sociali per la certezza del diritto e per la coesione sociale. Il tema è quello del disegno della governance territoriale nel segno della gestione dei conflitti tra pubblica amministrazione e società civile e della amministrazione della giustizia non solo come pratica giurisdizionale
Se i cambiamenti toccano la sostanza dell'agire dell'urbanistica per la considerazione dei valori posti a fondamento delle scelte dei piani e dei progetti, allora mi sembra importante approfondire la questione del diritto come inteso e percepito in modo che possa contribuire alla gestione dei conflitti che caratterizzano nel presente come per il futuro la città contemporanea. La mia tesi intende focalizzare la discussione sul significato del diritto come scambio pacifico più che sanzione. Mutuando dalla antropologia giuridica la proposta si basa sulla tesi che il diritto non consiste tanto in un tipo particolare di relazioni sociali quanto in una qualificazione specifica che ogni società sceglie di dare a certe relazioni. Perciò il diritto non consiste solo in un insieme di regole, ma in un processo internormativo in un campo che è estremamente variabile. La particolarità del possibile dialogo tra urbanistica e diritto riguarda la centralità del livello di osservazione che le accomuna, ma oltre a questo ci sono le enunciazioni esplicite, le leggi e il codice,le pratiche, quali atti posti effettivamente dagli individui e dai gruppi e le rappresentazioni, intese come le costruzioni, simboliche e non, che esprimono la coscienza del diritto e delle regole che hanno coloro che le utilizzano, le violano o le criticano. Si intende proporre di riflettere criticamente su concetti fondamentali dell'agire urbanistico che sono gli stessi, sui quali si propone di riflettere il giurista per ripensare: le basi comuni della convivenza e definire le precondizioni del conflitto tra soggetti appartenenti a culture diverse, quindi il senso del pluralismo che caratterizza il mondo dell'interazione sociale e come la diversità che rappresenta si svolga entro lo spazio pubblico, inteso come l'ambito dell'interazione tra individui e gruppi solo se risulta contrassegnato da un senso di eguaglianza sul versante della garanzia della pari dignità. Ciò implica il riconoscimento reciproco delle differenze in uno spazio dove il diritto assume un ruolo centrale nella sua funzione di garante della dinamica delle relazione del/per il riconoscimento. Nello Stato di diritto, i diritti fondamentali nella Costituzione sono il criterio di misura dell'agire e il diritto ha il ruolo di farlo funzionare come requisiti per la tutela delle diversità, senza compromettere l'identità dei partecipi al discorso pubblico. La valutazione della partecipazione nelle decisioni diventa la cartina di tornasole per verificare se esiste ancora uno spazio pubblico in cui è possibile sostenere una ragionevolezza intesa come predisposizione verso soluzioni
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Significato e ruolo del diritto per i valori dell’urbanistica che cambia
comprensive di tutte le ragioni che possono rivendicare buoni principi a proprio a favore e che possano soddisfare tutti nella maggiore misura consentita e per la riduzione del danno. La ragionevolezza potrebbe essere il punto di partenza per trovare soluzioni in grado di tener conto della specificità dei conflitti prestando attenzione al rapporto tra giustizia, pluralismo e tolleranza. Come il progetto e il piano possano o debbano farsi carico di questi concetti e di queste pratiche sta nella sfida della domanda che intendo discutere. La sfida riguarda la ricerca condivisa dei concetti che operano come criteri regolativi e valutativi delle relazioni sociali. In quanto “rappresentazioni sociali normative” assumono una valenza simbolica che può essere interpretata da urbanisti e architetti insieme a giuristi per condividere aspetti fondamentali della vità collettiva e individuale. Per forgiare la disciplina urbanistica alle sfide del futuro sono fondamentali i concetti di diritti umani e solidarietà, come concetti e pratiche che segnano profondamente il mondo giuridico e politico contemporaneo per agire nei processi sociali per la certezza del diritto e per la coesione sociale. Il tema è quello del disegno della governance territoriale nel segno della gestione dei conflitti tra pubblica amministrazione e società civile e della amministrazione della giustizia non solo come pratica giurisdizionale. In tale visione è centrale, in uno scenario rinnovato, la riconcettualizzazione della proprietà come paradigma consolidato. Per considerare il diritto come scambio pacifico, è necessario raccontarlo con approccio antropologico e filosofico, e ciò presuppone che si abbia chiarezza di cosa significhi la norma sin dalla sua formazione, per comprendere le ragioni del diritto nella loro incidenza nella vita pratica e per riconoscerne i percorsi all’interno della complessità dell’agire umano.”Bisogna cercarle nelle pieghe dell’esigenza generale di dare ordine e sicurezza alla vita sociale, sottoponendo l’esercizio del potere pubblico e privato a vincoli di vario genere” 1 (Zaccaria Viola 2003). Per questo le condizioni per la comprensione del discorso si fondano sulla condivisione di alcuni corollari che cercano nel diritto non solo le sue funzioni ma anche la sua operatività nel perseguimento degli obiettivi che sono propri anche della vita pratica: che il diritto in quanto positivo non sia visto solo come una mera tecnica di controllo e di direzione sociale ma anche di perseguimento dei valori che pone; che il diritto muta con le trasformazioni sociali, storiche e strutturali; che è rilevante la considerazione del diritto come pratica sociale interpretativa ed argomentativa. Se “torna l’idea, arendtiana, del prendersi cura della Terra” 1 come scrive C.Bianchetti, allora si apre un panorama, soprattutto giuridico al femminile, che riguarda la presa in carico 2 , la funzione della cura, la comunità a mani riunite, la gestione di un bene comune. Nonostante le raccomandazioni di questa autrice a riferirci alla scala del pianeta e a quella degli spazi interstiziali, “caricati di valore simbolico e ciò nondimeno residuali, indecisi e sospesi, capace di svelare le smagliature nelle logiche di appropriazione” 3 , e a rifuggire regolazioni e modelli, sussiste il bisogno di riferirsi al modello della Teoria del garantismo penale, del quale L. Ferrajoli è il massimo esponente e da cui si può apprendere come la prospettiva del diritto possa interagire in modo positivo rispetto alle trasformazioni in atto a fronte della possibilità che la questione venga interpretata, dai più, non giuristi, come una provocazione ideologica. Pur essendo il diritto nato per contrapporsi alle soluzioni dei conflitti in alternativa all’uso esclusivo della forza come nello stato di natura, deve essere comprensibile come la sanzione non muti la ratio del diritto nel perseguimento dei suoi obbiettivi ovvero le ragioni su cui si fonda e cioè la tutela del debole, la gestione del conflitto e la giustizia economica. La Teoria del Garantismo (P.Costa 1993) 4 è un modello giuridico che “...ritrova uno dei problemi centrali della storiografia, il problema del rapporto tra teoria (modello) e ricostruzione (storiografica) di un contesto di situazione, e lo risolve a suo modo sulla base del presupposto, per così dire già dato dall'intero impianto del lavoro: l'esclusione, cioè, di una narrabilità pura ed immediata dell'esperienza, la necessità di rapportarsi ad essa, per renderla comprensibile e comunicabile, attraverso complicate mediazioni concettuali, attraverso una qualche forma di teoria”. Sorta di dispositivo, non solo di scrittura ma per la lettura, ma anche come strumento di interpretazione della realtà, la cui comprensione appare utile nella costruzione di comportamenti, nella valutazione delle politiche: “il garantismo è un modello normativo di diritto che sul piano epistemologico si caratterizza come un sistema cognitivo o di potere minimo, sul piano politico come una tecnica di tutela idonea a minimizzare la violenza e a massimizzare la libertà e sul piano giuridico come un sistema di vincoli imposti alla potestà punitiva dello Stato a garanzia dei diritti dei cittadini” 5 .
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C. Bianchetti “Urbanistica e sfera pubblica” Donzelli 2010 pag. 23 Cruz scrive sulla necessità della presa in carico per individuare le responsabilità sociali 3 C.Bianchetti op. cit. pag. 24 che rinvia al “Manifesto del terzo paesaggio”, Quoadlibet, Macerata 2005 4 L.Ferrajoli “Diritto e Ragione. Teorie del garantismo penale” Laterza 1989 con la prefazione di N.Bobbio. 5 L.Ferrajoli, op.cit.pag.891 2
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E’anche però una teoria della validità dell'essere e del dover essere dove si tematizza, come questione centrale, la divaricazione tra ordinamenti e prassi 6 ed anche, e soprattutto, è “una filosofia politica che richiede al diritto e allo Stato l'onere della giustificazione estrema sulla base dei beni e degli interessi alla cui tutela e garanzia sono finalizzati” 7 Come il tema etico sia centrale anche per gli urbanisti e non solo nel dibattito attuale, per le direttrici sulla democratizzazione e sul dibattito della giustizia nel contesto della crisi globalizzata, basta rinviare alla letteratura più recente di importanti autori che fanno dottrina ma che operano professionalmente per la trasformazione del territorio e per il suo governo. C. Bianchetti 8 si chiede come è percepito un territorio per tentare nuove domande. La sua lettura permette al giurista lettore di riappropriarsi dello sguardo dell’urbanista del progetto per rivendicare il ruolo che il diritto in esso ha anche se fa parte, ancora dell’indicibile. Precisamente mi riferisco al concept definito come principio di definizione interpretativa e all’azione definita come “ciò che produce e per ciò che la rende possibile o la ostacola. Permette e rende percepibile il modificarsi del territorio” 9 . Il giurista potrebbe contribuire sostenendo la necessità della garanzia che apre la generalità e l’astrattezza della norma per l’applicazione al caso concreto per l’effettiva tutela dei diritti e quindi delle aspettative e dei bisogni/ sogni che è necessario interpretare. L’occasione, poi, di parlare con una sola voce della possibilità di ripensare alla prospettiva abituale e cioè a porsi ”il problema della scelta di un punto di osservazione” 10 , trasforma la pedagogia del lavoro come una “risistemazione non coercitiva” prima di desideri che di significati 11 , solo se si apre lo spazio per l’immaginazione che riferisce della molteplicità delle biografie e delle narrazioni, ma ciò non sembra sempre possibile o permesso. “Nel recente testo “La città giusta. Idee di piano e atteggiamenti etici” di Ugo Ischia 12 (Secchi 2012), sono espressamente dichiarati l'interesse e l'attenzione alla funzione sociale del piano ed alla necessità che l'azione urbanistica sia fondata sull'etica. I contributi, però, evidenziano uno spazio comune indifferenziato di analisi dove lo scenario prospettato non pare tener conto delle differenze e delle posizioni degli autori. Secchi riflette la vastità di riferimenti della cultura e dell’esperienza sociale, accademica e professionale delle riflessioni sul tema e con grande chiarezza presenta i conflitti tra urbanistica e politica, in una periodizzazione di date ed autori che permette di segnare una corrispondenza con il mondo giuridico che, però, a causa dell'approccio eccessivamente economicista ed ingienieristico o per la presunzione della gerarchia delle discipline, non gli permettono di individuare. Di fatto, la polemica tra Benevolo e Aymonino sulla natura partecipe o esterna dell'urbanistica alla politica e quella tra Argan e Ragghianti sulla unitarietà o meno tra valori etici e valori estetici hanno, in realtà, sono state causa di conflitti, alcuni non narrati e indicibili, che caratterizzano sia l'accademia che parti del territorio, del paesaggio, e delle città così come concepiti da questi protagonisti, e a loro volta dai loro allievi, per un percorso che è parzialmente narrato dai report dei Cuamm e dagli articoli delle riviste, comunque residuali nelle università, ciò che rivela un conflitto sull’identità della disciplina 13 . E ‘ importante indagare se (Secchi 2012) tale conflitto sia uno ”scontro di due specifiche moralità” 14 oppure ”un conflitto tra un orientamento volto a privilegiare un'etica della responsabilità, quale necessità di rispondere delle conseguenze prevedibili 15 delle proprie azioni rispetto un'etica della convinzione,intesa come facoltà di operare secondo principi di giustizia”. In questo caso Ferrajoli ben spiega come la separazione tra il diritto e la morale si affronta anche sostenendo come il diritto sia un oggetto artificiale, non solo “posto” e “fatto” dagli uomini ma anche come “prodotto” come la Costituzione quale progetto che costruisce una conoscenza di un certo territorio rispetto alle scelte degli uomini che in quel territorio intendono convivere, per abitare e per transitare, in pace, “costruendo” istituzioni capaci di realizzare la funzione prevista dalla norma per l’uso così come l'architetto costruisce il palazzo per la formazione e quello per la decisione, per il sacro come per il profano, come l'urbanista prevede il territorio per la connessione e l'accesso ai luoghi dove si esercitano le interazioni legate alla relazione tra i diritti soggettivi e il diritto oggettivo. La connessione con il dibattito giuridico tra diritto e politica ripercorre, negli stessi anni, elementi che rispecchiano la stessa realtà osservata dagli urbanisti, gli anni 60 e 70, il boom economico, la crisi dei valori tradizionali, il femminismo,il terrorismo, i diritti umani e il resto del mondo. Anche il diritto ha messo in crisi le sue categorie,dal giusnaturalismo al positivismo, tra universalisti e realisti. 6
Meglio ed ampliamente “Le ragioni del garantismo discutendo con luigi ferrajoili”di L. Gianformaggio (a cura di) in testo citato nota 1, pag. 25 7 Op. cit.pag.893 8 C.Bianchetti Op. cit. pag 28 9 C.Bianchetti Op. cit pag 35 10 C.Bianchhetti Op. cit pag 42 11 Op.cit nota 54 pag 43 12 U.Ischia pubblicato postumo con interventi di B.Secchi e di due dottorandi M.Bianchettin e K.Rshidzadeh Donzelli 2012 13 V.Gregotti “ Contro la fine dell'architettura”Einaudi 2008 14 B.Secchi Op. cit. pag 5 15 B:Secchi Op. cit. pag 5 Teresa Lapis
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Il dibattito tra Ferrajoli e Zolo, e intorno a loro tutte le posizioni che infelicemente ripongo in due scatole che non li possono contenere, mostra una tradizione di una sapere compatto e ricchissimo che, penetra la vita. L’oggetto della discussione è il conflitto tra teoria del diritto e lotta per il diritto che ha significato non solo nei discorsi ma anche nelle rappresentazioni e nelle pratiche, formali e non, di cui né i territori né le città, possono esimersi di sapere in quanto ne sono caratterizzati profondamente per la stessa artificialità per cui lo Stato moderno di diritto ha interpretato territori e soggettività, costituendosi nei suoi elementi di “popolo e territorio” per la sovranità. Per Ferrajoli “Il mondo come è e non può essere altrimenti” “certamente vedere il mondo come è – analizzando il funzionamento concreto ed effettivo delle istituzioni, svelandone fino in fondo il grado di illegalità, prendere atto di quello che Zolo chiama ”la crisi della capacità regolativa del diritto nelle società complesse – è indispensabile se non vogliamo cullarci nella opposta fallacia normativistica, così diffusa tra i giuristi, di chi confonde le norme con la realtà. Ma non c'è nulla di deterministicamente necessario o di sociologicamente naturale nell' ineffettività dei diritti e nella violazione sistematica delle regole da parte dei titolari dei pubblici poteri.” 16 Ritorna la questione tra realtà e verità anche in riferimento alla felicità, oltre allo sguardo e alla percezione per l’interpretazione: “ Non si può fare a meno del reale del suo starci di fronte e non essere disponibili a negoziare”. 17 E’comunque, differente da quanto ci raccontava Lukacs sull'ontologia sociale o sul marxismo come dissipatore efficace di qualsiasi nebbia irrazionale e mistica del sentimentalismo perchè “coglie ogni fenomeno nelle sue radici materiali, nella sua connessione storica, riconoscendo le leggi nel suo svolgimento e dimostrandole dalle prime radici fino alla fioritura?” 18 Se, però, è una questione di percezione, quale può esser la posizione critica di chi scrive sullo spazio dell'etica, fra urbanistica e politica: “ il piano è un'etica del fare che è anche visione politica” 19 . Quale visione politica che promuova pratiche può essere proposta dall’urbanista al giurista per la formulazione della regola giusta per quell’agire? Posso convenire, invece, con Antonia S. Byatt 20 quando racconta di una conferenza sulla donna ed il futuro per proporci di riflettere, qualunque sia il contesto, sulla complessità del vivere che contempla l’intima connessione delle singolarità e pluralità di uomini e donne e quanto siano significative le differenze femminili e maschili del divenire e crescere uomini e donne della contemporaneità, per immaginare, per decidere, quale il posto della donna 21 oggi, in modo da ridiscuterne la centralità anche nello spazio pubblico. Dagli anni ‘70 ad oggi è stato fatto molto lavoro perché si cominciava ad interrogarci sull’assenza delle donne dalla scena politica ma come mai la centralità del corpo è stata assunta dai tesi di francesi come Foucault, Deleuze e Guattarì e non invece da quelli basati sulle scritture delle donne che spiegavamo l’esclusione secondo una gerarchia, indicibile e che oggi confluisce non solo nelle pratiche discorsive ma soprattutto nelle azioni per il cambiamento 22 : conflitti nella città non solo per il dibattito su privato e pubblico nei quali, fini dagli anni '70 il femminile è stato la cartina di tornasole per individuarne i confini ma anche tra centro e periferie, tra cittadini e non, ma soprattutto la chiave di lettura della città biopolitica per il tema della sicurezza in cui il conflitto di genere assume importanza paradigmatica. Ancora per affrontare il diritto come scambio pacifico e sulla ragionevolezza della interpretazione, è necessario occuparci del conflitto della fragilità della cultura e della necessità del nuovo umanesimo. Il tema, che appare teorico, riguarda soprattutto le opere, le relazioni e la questione del realismo, tra percezione e relativismo delle appartenenze e che è insito nel conflitto tra oriente e occidente 23 è il terzo contributo della “Città giusta” che affronta la concettualizzazione proponendo un glossario che può mostrare diversi punti di vista
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Ferrajoli “Le ragioni del garantismo, L. Gianformaggio (a cura di) risponde alle critiche pag 517 M.Ferraris “ Il Manifesto el nuovo realismo” Laterza 2012 18 G.Lukacs”Saggi sul realismo”Einaudi 1957 .Traduzione dall'originale ungherese delle opere “Balzac,Stendhal,Zola e Nagy orosoz realistàk,Budapest 1946 19 M. Bianchettin Del Grano in “La città giusta. Un progetto per l'urbanistica” pag. 146, il cui intervento segna un punto importante nel chiarire molti passi del testo soprattutto in riferimento al comune maestro B.Secchi e quindi anche una genealogia che configura la realtà di una scuola di cui Secchi è promotore ma evidenzia un distacco dell' autrice dall' analisi dell' attualizzazione dei problemi rispetto alle istanze del contesto, soprattutto dal punto di vista esistenziale e politico della donna e, che pone, oltre al problema etico, anche quello della centralità dell'esperienza su cui si fonderebbe la conoscenza per il cambiamento. 20 A.S.Byatt “ The Children’s Book” A. Knopf, New York 2009, trad. Il Libro dei bambini 2010 Einaudi. Per riferimenti ampi del testo vedi “ L.Fortini “Critica “ in alfabeta, 2 dicembre 2010 21 L.Fortini “Critica “ in alfabeta 2 dicembre 2010, pag 27 Di “posto” vedi anche P.G. Crosta “ Pratiche “ Il territorio e” l’uso che se ne fa” F.Angeli Ed. 2010 22 La letteratura delle riviste a cui si rinvia riguarda anche tutte le reti di donne, soprattutto ecologiche e ambientali. Degli ultimi 10 anni, e per le autrici e una lettura veloce di riferimenti si rinvia all’ articoli di alfabeta 2 citato, e a tutto il numero intitolato ”l’arte delle donne”. 23 Kaveh Rashidzadeh “ Glossario su tre concetti :” diritto alla città,giustizia spaziale e città giusta, su “ La città giusta” di Ugo Ischia op cit. 2012 pag 129- 151 17
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tra oriente e occidente, tra il vecchio e il nuovo, per un progetto produttore di conoscenza 24 , su contenuti e forme del senso di giustizia e sulla base delle teorie di Rawls quando prevede una giustizia senza diritto, ”applicativa di criteri di giustizia rinvenuti ed argomentati – dal punto di vista dei fondamenti – altrove, su un piano di pura filosofia morale razionalistica, autosufficiente e separata” 25 o rinviando a geografi e sociologi anglosassoni. Con ciò, però, si abbandona la prospettiva di costruire un’organizzazione giuridica, con tutti i rischi di arbitri, più o meno consapevoli, che ne conseguono”. 26 Questa mancanza di consapevolezza o di sapere, evidenzia che lo scenario del conflitto è proprio questo indicibile, tra strumenti diversi di valori e di concetti giuridici senza porsi la questione di quale sistema giuridico si parli e se l’interiorizzazione della norma derivi da interpretazioni comuni oppure discenda da una ricerca avventurosa e casuale. Più precisamente, senza trattare di questioni come le mutilazioni genitali oltre ad altri temi di bioetica che dividono la tutela dei diritti e gli spazi (soprattutto della donna) tra oriente e occidente, vorrei discutere di divergenze e convergenze sulle concezioni dei diritti e delle costituzioni tra i paesi dell’area mediterranea e quelli europei. Prima di tutto cosa può significare, nella percezione dei luoghi, il fatto che la secolarizzazione dei diritti in Occidente non sia avvenuta anche nell’Islam 27 ? E che concetti come “costituzionalismo” o “governo della legge” non abbiano termini equivalenti usati negli scritti politici arabi-islamici 28 ? E qui il tema della sfera pubblica, poi diventata spazio pubblico, che trova la sua giustificazione proprio nel fatto che le pratiche hanno interiorizzato la norma sia che la inseguano che sia che la violino. Il dibattito giuridico e le scuole su questo tema sono ampi però in questa sede mi basti solo accennare ai temi di etica pratica che sono l'oggetto principale della giustizia per i diritti umani perchè le pratiche culturali e le sfide del diritto si confrontano continuamente su territori dove la convivenza prova a costruire un vero spazio comune ma il senso della vita e della sua tutela, pur nascendo dalla medesima situazione ontologica si producono, poi, in ambivalenze e contrasti non solo propri della antinomia della norma ma accumulati dalle differenze che caratterizzano il nostro limitato mondo tondo. “Le leggi sono pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla portata del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci sono scritte tutte le quiddità delle cose in breve” è la citazione di T.Campanella della Città del Sole 29 (1602) con la quale uno dei maggior giuristi sui temi delle parole e le cose, la vita e il diritto, S. Rodotà, introduce uno dei suoi testi fondamentali sulla bioetica che è propria disciplina di confine sulla tutela della vita attraverso i vari saperi e le varie culture nel cui spazio possiamo riflettere su cosa è giusto o meno. 30 Quindi, solo una proposta per il focus di quanto detto finora è la riconcettualizzazione dello spazio pubblico attraverso le differenti culture, in riferimento al paradigma della proprietà. Vorrei usare l’Europa come concept sia per mancanza di spazio sia perché mi sembra il paradigma più idoneo come dispositivo per il futuro di un “posto” del diritto: Europa come progetto giuridico ma anche come progetto storico e territoriale nel quale mi sembra particolarmente interessante indagare come si sia determinato il nesso tra sfera pubblica e democrazia che ci riguarda come parte di un tutto e che si sta allargando come la città diffusa e che promuove i nessi, tra città e territorio, tra popoli e civiltà nella ricerca di cosa possa essere spazio pubblico e Bene comune. 31 La definizione di pubblico a cui possiamo rinviare è quella di Habermas per il quale “definiamo pubbliche quelle istituzioni che, contrariamente alle società chiuse, sono accessibili a tutti, nello stesso senso,in cui parliamo di
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P.Viganò “I territori dell'urbanistica. Officina edizioni 2011 Il progetto come produttore di conoscenza” Il bel testo di spunto cognitivo e di valenza didattica bene esprime cosa si potrebbe richiedere al progetto e all'urbanistica ma l'internazionalizzazione della nostra formazione rischia sempre di rinchiudersi in genealogie paternalistiche non permettendo di conoscere fino in fondo le percezioni di chi arriva, da altri territori come in quelli in cui il sacro pervade ancora lo spazio della regola e dove il dibattito tra diritto e morale, per esempio deve assumete altri paradigmi di lettura per essere compreso. Così l'interiorizzazione delle categorie valoriale nelle diverse generazioni ed esperienze di vita. 25 G. Preterossi, “Giustizia senza diritto in “Teoria politica” XIX, 2003 pag 329 che in fine si domanda “ come si fa a prescindere dalla realizzazione della giustizia nella” forma” del diritto (positivo) 26 U. Vincenti “Diritto senza identità. la crisi della categorie giuridiche tradizionali” Laterza 2007 pag 161 27 V. Colombo e G. Gozzi (a cura di) “Tradizioni culturali, sistemi giuridici e diritti umani nell’area del Mediterraneo. Il Mulino 2003 pag.211. 28 P. Costa e D. Zolo ( a cura di ) LO Stato di diritto Storia, teoria , critica” Feltrinelli 2002, in particolare e diffusamente Raja Bahlul “ Prospettive islamiche del costituzionalismo” pag 617 29 S. Rodotà “La vita e le regole. Tra diritto e non diritto” Feltrinelli 2006 30 Tra gli autori citati e a cui rinvia W. Benjamin, Angelus Novus Einaudi 1962; G. Agamben “Homo Sacer. Il potere sovrano e la vita nuda,” Einaudi 1995;”Lo Stato d'eccezione” Bollati Boringhieri 2003; Derrida Foucault, ed altri ritengo siano riferimenti fondamentali per la comprensione sui temi della giustizia e della tutela della vita. 31
Habermas “Storia dell’opinione pubblica” Laterza 1981. Sarebbe interessante soffermarsi, perché significativo sull’origini europee del concetto di sfera pubblica, ma partendo da Habermas, che rimane sullo sfondo del nostro scenario con il suo testo pioneristico del 196231 si può affermare che si tratta della sfera pubblica borghese che già ci permette di individuare una specificità spazio temporale del concetto.
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pubbliche piazze e di cose pubbliche 32 ”. Anche per la definizione di sfera ci si riferisce a qualcosa di delimitato e proprio di qualcuno ma anche virtualmente aperto con accesso differenziato 33 e quindi sfera pubblica appare uno spazio dinamico “all’interno del quale i membri di una società confrontano le proprie opinioni su questioni di interesse generale collettivo; un luogo fisico… dove vengono discussi con regolarità variabile i nuclei problematici che interessano la maggior parte dei membri ovvero la parte più consapevole di sé e delle proprie esigenze” 34 . Sfera pubblica come luogo di circolazione delle merci e delle notizie e implementazione della rete amministrativa e luogo del mercato. Semanticamente dal principe allo Stato, strutturalmente connesso al funzionamento dell’apparato a cui spetta il legittimo esercizio del potere e della forza. Il Pubblico però è anche paradossalmente l’insieme dei “ privati “ ovvero di chi non esercita in proprio o in via funzionariale alcuna forma di potere (politico, amministrativo o giurisdizionale)” 35 sono l’insieme dei cittadini. Il concetto ha, poi, mutato effetto e senso man mano che la sfera privata veniva invasa e limitata per consumi e spostamenti, con una individuazione della propria identità privata contrapposta, soprattutto per lo spazio femminile 36 . La sfera pubblica è legata, quindi, alla sfera privata dei cittadini che si riuniscono per presentare allo Stato istanze condivise, per rendere pubblici i contratti e al luogo dove le persone assumono valore come pubblico consapevole. Anche qui il tema della costruzione dell’identità, nell’epoca moderna, porta a rileggere il nesso con la letteratura dove si raccontano di popolo, comunità e società. La sfera pubblica si arricchisce di altri soggetti come le Banche, l’opinione pubblica diventa critica con l’abolizione della censura e il nesso con la democrazia diventa inscindibile. La storia e la dottrina distinguono una sfera pubblica forte dove si decide e una debole, dove si esprime solo un parere e questo porta ad una scissione sintomatica della definizione dello spazio pubblico, insieme ad altri elementi occidentali europei come la imprescindibilità del diritto, se esito di un processo comunicativo di condivisione e la pubblicità e la obbligatorietà della previsione della motivazione, prima delle sentenze e poi, più di recente in Italia, dei provvedimenti amministrativi 37 . Il nesso pubblicità –legittimità sia politica che giuridica, infine, apre il discorso sulla cittadinanza inteso come il vincolo giuridico che lega un popolo al territorio per il “possesso e nell’acquisizione per ognuno dello status necessario per essere e venire riconosciuto a pieno titolo come membro di quella ideale sfera debole o forte ma pubblica sempre” 38 salvo poi considerare sia la società multiculturale che la società europea nella quale non pare avere più senso declinare il tema della cittadinanza in riferimento alla territorialità. Bene pubblico, spazio pubblico, bene comune, sono parole chiave da definire su cui far convergere saperi diversi soprattutto per far fronte ai cambiamenti da governare e non da subire.”Le questioni di interesse collettivo non si risolvono necessariamente entro gli spazi che si definiscono collettivi” 39 ma, prima di indagare i luoghi delle risoluzioni è necessario verificare di quali beni, quali interessi, quali diritti e quali spazi stiamo discutendo e se di questi se ne abbia la medesima percezione e nozione e se sia possibile farne lo stesso uso. 40 A. Lucarelli definisce “beni comuni, al di là della proprietà, dell’appartenenza che è tendenzialmente dello Stato o comunque delle istituzioni pubbliche, assolvono, per vocazione naturale ed economica, all’interesse sociale, servendo immediatamente non l’amministrazione pubblica, ma la stessa collettività in persona dei componenti”, 41 definizione, però, ancora non sufficiente se non letta in riferimento con la decostruzione dell’istituto giuridico della proprietà, che U. Mattei rinvia al modello di comunione di tipo germanico a mani riunite. B. Della transazione ritrovata in Dewe, contrariamente al modello di tipo romano, individualista, di comunione di quotisti, che sta alla base del nostro sistema giuridico 42 il giurista ne può discutere perché è un contratto in 32
Habermas Op. Cit pag.3 La forma della sfera può rinviare ad altre trattazione che inseriscono interessanti temi di confronto come Arendt e Walzer ma non è la sede per tale approfondimento 34 A. Pirni “ Il nesso sfera pubblica- democrazia eredità compito per l’Europa”in ragion Pratica n.30 giugno 2008 Il Mulino, ma più ampliamente stesso autore “Filosofia pratica e sfera pubblica. Percorsi a confronto “Reggio Emilia. Diabasis 2005 35 A.Pirni Op Cit pag 193 36 Ampliamente con uno sguardo privilegiato allo spazio femminile , anche ma non esclusivamente,M. Perrot “Storia delle camere “Sellerio 2011 37 Vedi storicamente il ministro del regno di Napoli Tanucci nel Dispaccio del 12 settembre 1974, la legge sul nuovo procedimento amministrativo 241/90 e vedi anche Habermas su “fatti e norme”Einaudi 2002 38 A. Pirni op cit pag 200 39 C. Bianchettini Op.Cit pag 74C’è anche la consapevolezza degli urbanisti della necessità glossario tra lessici. 40 P.G.Crosta, “Pratiche. Il territorio e l’uso che se ne fa” F.Angeli 41 A. Lucarelli “Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica” citato in alfalibri 09, supplemento di alfabeta 2, marzo 2012 in “Comunità di Comunità” di P. Cacciari, pag. 12 42 Così come previsto nel codice civile agli artt. 1100 e ss. - U. Mattei “Beni comuni. Un manifesto” Laterza 2011 citato da P. Cacciari, ripercorre l’evoluzione del diritto dal modello proprietario individualistico fino alla complessità olistica dei beni comuni passando dal Medioevo. Ma per fonti più ampie sulla nascita e sul dibattito tra proprietà individuale e proprietà 33
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cui le parti, per prevenire una lite potenziale o attuale, disponendo dei beni di cui all’oggetto, si fanno reciproche concessioni per addivenire all’accordo. Per farlo. bisogna dialogare e comprendersi ,ma soprattutto apprendere dalla situazione in modo da gestire il conflitto nella trasformazione, e se il fine è la gestione del conflitto ma anche un lavoro pedagogico, allora potrebbe essere utile leggere quello che M. Nussbaum scrive nel suo ultimo libro 43 : “Prima di elaborare un progetto di istruzione dobbiamo capire quali sono i problemi che incontriamo nel formare gli studenti, come cittadini responsabili, che siano in grado di scegliere” poiché lo spirito creativo, l’indipendenza e l’autonomia critica insieme alle capability sono le precondizioni senza le quali l’economia cognitiva perde valore”.
Bibliografia Libri Perrot M. (2011), Storia delle camere, Sellerio, Palermo. Mattei U. (2011), Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari. Bianchetti C. (2010), Urbanistica e sfera pubblica Donzelli, p. 23, Roma. Ferrajoli L. (1989), Diritto e Ragione. Teorie del garantismo penale. Laterza con la prefazione di N. Bobbio.Bari Cruz Manuel. (2005), Farsi carico. A proposito di responsabilità e di identità personale. Presentazione di G. Vattimo. Meltemi. Roma. Scrive sulla necessità della presa in carico per individuare le responsabilità sociali Gregotti V. (2008), Contro la fine dell'architettura, Einaudi, Torino. Pirni A. (2005), Filosofia Pratica e sfera pubblica. Percorsi a confronto Diabasis, Reggio Emilia . Grossi P. (1977), Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Quaderni Fiorentini n.5 Giuffrè, Milano. Nussabaum M. (2010), Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino. Ferraris M. (2012), Il Manifesto el nuovo realismo, Laterza, Bari. Vincenti U. (2007), Diritto senza identità. la crisi della categorie giuridiche tradizionali Laterza, Bari, p.161. Rodotà S. (2006), La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano. Benjamin W. (1962), Angelus Novus, Einaudi, Torino. Agamben G. (1995), Homo Sacer. Il potere sovrano e la vita nuda” Einaudi. Agamben G. (2003), Lo Stato d'eccezione, Bollati Boringhieri Lukacs G. (1957), Saggi sul realismo. Einaudi, Torino. Traduzione dall'originale ungherese delle opere “Balzac,Stendhal,Zola e Nagy orosoz realistàk, Budapest 1946 Crosta P.G. (2010), Pratiche Il territorio e l’uso che se ne fa, F. Angeli, Milano. Viganò P. (2011), I territori dell'urbanistica. Il progetto come produttore di conoscenza, Officina, Venezia. Habermas (1981), Storia dell’opinione pubblica, Laterza, Bari. Gianformaggio. L. (a cura di, 1993), Le ragioni del garantismo discutendo con luigi ferrajoli, G.Giappichelli editore Torino, nota 1, p. 25. Bianchettin.M. Del Grano (a cura di, 2012), Ugo Ischia La città giusta. Idee di piano e atteggiamenti etici, Donzelli, Roma. Colombo V. Gozzi G. (a cura di, 2003), Tradizioni culturali, sistemi giuridici e diritti umani nell’area del mediterraneo. Il Mulino Bologna pag.211 Costa P. Zolo D. (a cura di, 2002), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli particolare e diffusamente” p. 617. Secchi B. (2012), “Prefazione”, in Bianchetti M. (a cura di), Ugo Ischia La città giusta. Idee di piano e atteggiamenti etici. VII, Donzelli, Roma. Rashidzadeh Kaveh (2012), “Glossario su tre concetti: diritto alla città, giustizia spaziale e città giusta” in Bianchettin M. (a cura di), Ugo Ischia La città giusta. Idee di piano e atteggiamenti etici, Donzelli, Roma. pp. 129 - 151. Raja Bahlul, “Prospettive islamiche del costituzionalismo” in Costa P. Zolo D. (a cura di 2002) Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica. Feltrinelli particolare e diffusamente” p. 617. Articoli Lucarelli A. (2012), “Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica”, in alfalibri 09 supplemento alfabeta,n. 2 Marzo Cacciari P. (2012), “Comunità di Comunità”, alfalibri 09 supplemento alfabeta,n. 2 Marzo p.12 Byatt A.S. (2010), “The Children’s Book” A. Knopf, New York 2009, trad. Il Libro dei bambini Einaudi. Per riferimenti ampi del testo vedi “ L. Fortini “Critica “ in alfabeta,n. 2 dicembre 2010 p.27 collettiva P. Grossi “Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria”. Quaderni fiorentini n.5, Giuffrè 1977 43 M. Panarari “ La fragilità della cultura”, in alfalibri in alfabeta 2 maggio 2011. M. Nussbaum “Non per profitto. Perchè le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”. il Mulino 2010 Teresa Lapis
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Palermo.C. (1998), “L'autonomia del progetto e il problema della visione condivisa", in Urbanistica, n. 110, pp. 61 – 65 Preterossi.G. (2003), “Giustizia senza diritto” in Teoria Politica XIX p.329 che si domanda “ come si fa a prescindere dalla realizzazione della giustizia nella “ forma” del dritto (positivo) Pirni A. (2008), “ Il nesso sfera pubblica – democrazia eredità compito per l’Europa”, in Ragion Pratica n.30 giugno, Il Mulino Bologna ma più ampliamente lo stesso autore “Filosofia Pratica e sfera pubblica. Percorsi a confronto “ Diabasis Reggio Emilia Panarari M. (2011), “La fragilità della cultura”, in alfabeta, n. 2 Maggio.
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Villabate, un paese conteso
VILLABATE, un paese conteso Agata Bazzi Settore V UTC Gestione del Territorio Comune di Villabate (PA) Email: agatabazzi@libero.it Tel 333.4901657
Abstract Il racconto dell’urbanistica di Villabate, paese di 20.000 abitanti alle porte di Palermo, propone una riflessione sul conflitto tra territorio, amministrazione pubblica e criminalità organizzata. Villabate è stata commissariata due volte, a distanza di meno di cinque anni, per infiltrazioni mafiose nel Consiglio Comunale legate a decisioni urbanistiche. Ciascun periodo temporale presenta un contesto paradigmatico. Un primo periodo (1995-2004) ricostruisce una serie di eventi culminata in un processo penale per infiltrazione mafiosa, concluso con condanne per amministratori e imprenditori. Un secondo periodo (2004-2007) analizza il lavoro della seconda Commissione Straordinaria Prefettizia, che ha messo a punto strumenti e strutture resistenti. Un terzo periodo (2007-2012) riflette su quanto realizzato dall’Amministrazione eletta dopo il secondo Commissariamento. L’autore è responsabile del Settore Urbanistica del Comune e ha assunto il ruolo nell’epoca della seconda Commissione Straordinaria, con incarico prefettizio.
Contesti e questioni Il racconto dell’urbanistica di Villabate, paese di 20.000 abitanti alle porte di Palermo, propone una riflessione sul conflitto tra territorio, amministrazione pubblica e criminalità organizzata. Villabate è stata commissariata due volte, a distanza di meno di cinque anni, per infiltrazioni mafiose nel Consiglio Comunale legate a decisioni urbanistiche. Villabate è un paese conteso. Tra chi? Dire che è conteso tra il pubblico interesse, cioè la collettività, e la mafia non è sufficiente. Esiste una connotazione specifica della criminalità organizzata: struttura, principi, strumenti, obiettivi. Questa connotazione specifica è interesse centrale di chi indaga, di chi – alla fine – condanna. Il punto di vista dell’urbanistica obbliga ad approfondire invece lo specifico tema del rapporto tra mafia e pubblica amministrazione, cioè la capacità della mafia di usare gli uffici tecnici e le amministrazioni comunali per soddisfare i suoi interessi di valorizzazione fondiaria. Poiché si tratta di organi istituzionali eletti, il campo di osservazione si allarga al rapporto tra mafia, pubblica amministrazione e cittadini. Le condizioni di supporto possono essere descritte come un cattivo modo di fare politica, un cattivo modo di gestire la cosa pubblica, una lacuna culturale di senso civico. Cose normali in luoghi normali, in Italia. Varchi per la mafia in luoghi speciali, cioè in quelle collettività dove la mafia è presente. Villabate, come tutte le comunità che convivono con la presenza strutturata della criminalità organizzata, è un paese conteso tra la mafia, la politica, la burocrazia, gli abitanti quando e perché non si sentono cittadini. Villabate è un esempio emblematico di azione urbanistica in un contesto difficile, dal quale è possibile trarre qualche riflessione utile sul rapporto tra straordinarietà e ordinarietà nella gestione del territorio. In questo racconto, il punto di vista è ravvicinato, interno, perché il mio lavoro è di responsabile dell’ufficio urbanistica del Comune di Villabate. Ho iniziato come “sovraordinato prefettizio 1 ” negli anni della seconda Commissione 1
Art. 145. T.U. degli Enti Locali. Il sovraordinato prefettizio è un funzionario tecnico che supporta le Commissioni Straordinarie in campi specifici di competenza. È un funzionario in organico in altri comuni che viene distaccato presso il Comune interessato al Commissariamento e può avere un ruolo non solo di controllo, ma anche di gestione. Sono stata nominata con Decreto del Prefetto della Provincia di Palermo n. 341/05/Area Sic del 31 gennaio 2005. Agata Bazzi 1
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Straordinaria, e ho continuato con l’amministrazione elettiva. È stato possibile restare a Villabate dopo il commissariamento perché negli anni della gestione prefettizia sono stati costruiti strumenti di gestione del territorio, corretti nella sostanza e conclusi nella forma, che hanno garantito un rapporto di reciproca protezione tra lo strumento tecnico e il responsabile della sua gestione. Ho così avuto la possibilità, ancora oggi non esaurita, di monitorare gli effetti nel tempo del lavoro fatto insieme alla seconda Commissione Straordinaria e di cercare di capire come proteggere e far crescere quanto seminato in quegli anni. Il lavoro svolto negli anni successivi all’emergere degli intrecci illegali è lavoro in urbanistica, ma soprattutto è esperienza di contatto umano con una collettività, civica e amministrativa, che ubbidisce a principi e regole e che produce comportamenti. Questa collettività deve essere oggetto di un duplice e opposto sguardo, cercando sia i segnali di una persistenza alla disponibilità al condizionamento, sia i segnali di una crescita civica e culturale. Nell’analisi delle vicende di Villabate è possibile identificare tre periodi. Un primo periodo (1995-2004) presenta una situazione culminata in un processo penale per infiltrazione mafiosa, concluso con condanne per amministratori e imprenditori. Con la parentesi di una prima Commissione Straordinaria che – suo malgrado – è stata funzionale a disegni illeciti. Un secondo periodo (2004-2007) vede al lavoro la seconda Commissione Straordinaria Prefettizia, che ha costruito strumenti e strutture resistenti. Un terzo periodo (2007-2012) rende conto dei risultati della prima Amministrazione eletta dopo il secondo Commissariamento, il cui obiettivo era di proseguire il lavoro iniziato dalla Commissione Prefettizia. L’analisi dei documenti di vent’anni di urbanistica pubblica a Villabate è solo uno degli strumenti usati per cercare di comprendere i motivi profondi di questa vicenda; l’esperienza diretta negli otto anni che comprendono il secondo e il terzo periodo si affianca alla lettura dei documenti, dando un contributo fondamentale. In questi anni si è praticata un’urbanistica “protetta”, si è potuto redigere un nuovo P.R.G., costruire e gestire gli uffici preposti alla sua attuazione. Non ho invece partecipato personalmente ai fatti del primo periodo, durante il quale si sono avvicendate un’amministrazione elettiva, un primo commissariamento e un’altra amministrazione elettiva. Ho potuto però arricchire le fonti documentali con la conoscenza personale di alcuni dei protagonisti. Ogni situazione suscita domande specifiche. Il primo periodo è, in questa relazione, più approfondito perché esemplare del modo di agire della mafia per condizionare le scelte urbanistiche della pubblica amministrazione. I comportamenti acquiescenti di politici e tecnici verso imprenditori e mediatori portano quasi al successo del disegno strategico di regia mafiosa. La società urbana è tristemente assente. Partecipa, quando coinvolta nel breve periodo intermedio della prima Commissione Straordinaria, con posizioni che esprimono consapevolezza e condivisione di valori civici. Ma scompare nei periodi in cui l’amministrazione è collusa, e non reagisce neanche all’evidente tradimento delle volontà correttamente espresse in occasione di assemblee pubbliche. Le domande che questo tratto di storia sollecita sono anche di natura tecnica, alla luce di comportamenti politici. In questi anni, la mafia sostiene il grande imprenditore privato attraverso il controllo del mercato locale. È anche garante dell’efficienza pubblica attraverso la sua influenza sull’amministrazione. Nella sua espressione di maggior potere, la mafia è parte integrante delle pratiche dell’amministrazione e delle azioni dell’imprenditoria. È attiva nell’intermediazione con i livelli istituzionali superiori. Entra nel merito del reperimento dei terreni, programma l’organizzazione dei cantieri, stabilisce la futura spartizione di quello che si realizzerà. Gli imprenditori la ritengono più efficiente dell’istituzione. Come ha fatto la mafia a modificare gli strumenti urbanistici? Qual’è il ruolo dei tecnici esterni e interni al Comune? Quali sono le forze in campo, gli equilibri di potere? Quale, se c’è, il rapporto tra il consiglio comunale e gli elettori? Per il secondo periodo, le domande hanno un carattere più metodologico. Quali azioni e/o strumenti ha attivato la seconda Commissione Straordinaria per porre le basi di un ipotizzato successo, anche in confronto con l’operato della prima Commissione Straordinaria? I ragionamenti sulle Commissioni Straordinarie offerti dalla letteratura scientifica sono parziali, per due motivi. Uno è la delimitazione storica di questi studi, che analizzano i periodi e i metodi del commissariamento, ma non la durata nel tempo degli effetti. L’altro è la posizione esterna del punto di vista; invece sono proprio le dinamiche quotidiane nel lavoro interno alle pubbliche amministrazioni, a determinare varchi attraverso i quali la mafia trova comodo accesso. Da questa osservazione discendono le domande sul terzo periodo. Riguardano la necessità di capire, di valutare se permangono i comportamenti, i riferimenti e i valori suscettibili di ricreare le condizioni di accesso alla criminalità organizzata, anche in un’amministrazione ordinaria e non collusa. Infine, l’urbanistica. Quale urbanistica? Cosa può fare l’urbanistica? Alla luce dell’esperienza quotidiana, ritengo che i comportamenti assumano più importanza degli strumenti. L’urbanistica, come disciplina e come tecnica, ha in sé regole la cui applicazione corretta può essere un deterrente all’illegalità. Questo non vuol dire che l’urbanistica ha la capacità di arginare l’ingerenza mafiosa, ma soltanto che, applicata con rigore e prudenza, può proteggere il territorio da azioni che danneggiano intere comunità a vantaggio di pochi. È difficile capire quali caratteristiche delle regole sono autonome dalle caratteristiche di chi le usa. È un precario equilibrio tra qualità delle regole e qualità degli obiettivi, che implica una valutazione di ordine morale.
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1994-2004 Pratiche illegali Il primo Piano Regolatore di Villabate è approvato dall’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente nel 1995. Per i dodici anni successivi ha un’influenza determinante sul territorio e sarà oggetto di moltissimi tentativi falliti di modifiche. Nel 2007 sarà definitivamente sostituito da un nuovo Piano Regolatore, oggi in vigore. Il Piano del 1995 impone sul territorio un regime normativo che blocca qualunque possibilità di sviluppo poiché la Regione ha stralciato tutte le aree di espansione, destinandole ad agricoltura. La risposta locale è una frenetica ricerca di sfuggire alle maglie urbanistiche troppo strette che mortificano i desideri, leciti e illeciti, di valorizzazione dei suoli. I rigidissimi vincoli imposti dalla Regione alleano le spinte allo sviluppo speculativo dei potentati locali e le aspettative frustrate dei cittadini nei confronti delle loro proprietà. Tra la rigidità della posizione regionale e l’intervento impositivo dei commissariamenti, piani e programmi urbanistici, faraonici e tecnicamente inadeguati, sono sempre stati fermati prima dell’avvio delle operazioni immobiliari. A Villabate, in dieci anni, nessuna delle grandi speculazioni previste è riuscita a realizzarsi, ma non si è neanche elaborato uno scenario differente, credibile e concreto, che prevedesse e governasse uno sviluppo reale. Il continuo fallimento di strumenti di governo dello sviluppo urbano (per inadeguatezza o illegittimità) ha consolidato una frustrazione collettiva, che ha a sua volta alimentato la disponibilità all’infiltrazione mafiosa. Una collettività a cui si impedisce di crescere è debole, e finisce per affidarsi a poteri irregolari o comunque a non avere le forze per esprimersi diversamente. Per aggirare i vincoli, nei quattro anni successivi all’approvazione del P.R.G., a Villabate si produce una grande quantità di strumenti urbanistici, insensatamente sovrapposti e sempre in antitesi alla posizione regionale. È un concitato scontro tra posizioni non conciliabili: da una parte la pressione comunale, che redige carte e sollecita e argomenta la necessità dell’espansione edilizia (che chiama “sviluppo”); dall’altra la freddezza didascalica delle negazioni regionali, che la blocca senza appello. Dalle indagini compiute in anni recenti dalla Magistratura, e riferite dalla stampa, emerge l’attivo contributo all’attività urbanistica della Famiglia mafiosa che in quel periodo condizionava l’Amministrazione comunale. Dopo meno di due anni dall’approvazione del Piano del 1995, l’Amministrazione in carica adotta cinque varianti urbanistiche, tutte bocciate. Contemporaneamente avvia la redazione di un P.R.G., che fin dalle Direttive dimostra di essere un Piano da redigere al contrario, a partire da decisioni prese o fatti avvenuti. Per la prima volta si esplicita formalmente la volontà di realizzare un Centro Commerciale di dimensioni economicamente strategiche, in una particolare area del territorio comunale, molto accessibile dalla mobilità regionale che, nei precedenti strumenti urbanistici era stata destinata, sempre inutilmente, a mercato intercomunale e area industriale. Questa attività urbanistica compulsiva, che dura circa quattro anni, si arena nel maggio del 1999, quando l’Amministrazione Comunale è sciolta per infiltrazioni mafiose. Rimangono sul campo una serie di interventi più volte contemporaneamente normati da strumenti diversi, più volte bocciati dalla Regione e sempre riproposti. Dalla stampa e, soprattutto, dalla deposizione di Francesco Campanella, Presidente del Consiglio Comunale in quegli anni, il cui pentimento ha dato avvio al processo penale, emerge la partecipazione di Antonino Mandalà, capo della Famiglia locale, alla gestione comunale, il suo ruolo “ufficiale” nell’amministrazione. Nel 1999 si insedia a Villabate la prima Commissione Straordinaria Prefettizia che, nei circa due anni di lavoro, non riesce a modificare i consolidati equilibri di potere e le interferenze nell’azione urbanistica comunale. Valutare le azioni della prima Commissione è difficile. Certamente non era coinvolta in intenzioni illecite; altrettanto certamente ha avuto responsabilità nell’infiltrazione mafiosa che ha condizionato la redazione di un Piano Commerciale. La Commissione Straordinaria si avvale di tecnici esterni, con capacità culturali e tecniche superiori a quelle disponibili localmente. I dipendenti del Comune sono lasciati incardinati nelle loro funzioni, anche se le loro azioni sono sottoposte al controllo del gruppo prefettizio. Si stabilisce un contatto con la popolazione attraverso assemblee pubbliche; emerge la posizione contraria dei cittadini all’ipotesi di un Centro Commerciale. La preoccupazione è che la nuova massiccia concentrazione commerciale determini il fallimento dell’imprenditoria locale. La stessa cittadinanza che partecipa con entusiasmo costruttivo alle assemblee si chiuderà nel silenzio quando il Piano Commerciale proseguirà con successo il suo iter. È infatti comparsa a Villabate la Asset Development s.r.l., società di promozione di grandi interventi commerciali sul territorio, che si candida, insieme ai proprietari dei terreni, alla redazione di un Piano attuativo per lo sviluppo commerciale. Il processo penale metterà in luce la centralità della Famiglia Mandalà nell’intermediazione tra i tecnici incaricati dalla Asset per la ricerca dei terreni e i proprietari. La Commissione Straorinaria elabora e adotta un Piano Commerciale in variante al P.R.G. vigente. Rinuncia ad affrontare i temi territoriali per affrontare un argomento settoriale, specifico e di provenienza esterna. Nulla, nella struttura urbana di Villabate, giustifica la scelta di concentrare l’attenzione sul commercio, se non la presenza di aree adeguate, dal punto di vista immobiliare, all’insediamento di Centri Commerciali e l’interessamento di promotori finanziari. È evidentemente in atto un rapporto interlocutorio tra i redattori del Piano e i tecnici della Società Asset, promotrice del Centro. Agata Bazzi
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Villabate, un paese conteso
Le indagini della Magistratura escludono la partecipazione dei tecnici della Commissione Straordinaria alle intermediazioni orchestrate dalla Famiglia Mandalà. Questa rete di rapporti e di pressioni si sviluppa alle spalle dei progettisti prefettizi, ai quali arriva soltanto la tentazione di una grande opportunità progettuale, determinata dalla disponibilità di terreni e di finanziatori. Consapevoli dei rischi legati a un’iniziativa di grandissima scala interamente gestita da privati, i tecnici prefettizi si cautelano con una norma che impone l’esproprio e un bando pubblico per l’assegnazione dell’area. Più che di un comportamento ingenuo, presumibilmente si tratta di una forma di velleitarismo dei tecnici, accompagnato da un eccesso di delega da parte dei Commissari. I documenti testimoniano la volontà e la capacità, da parte dei tecnici del gruppo di lavoro prefettizio, di operare attraverso strumenti sofisticati della disciplina. Tale approccio culturalmente avanzato dava loro fiducia e garanzie sulla qualità dell’intervento e sul controllo delle infiltrazioni. Per i tecnici della Commissione è una sfida professionale. Si vuole realizzare un grande progetto e lo si disegna; si vuole promuovere una qualità progettuale attraverso il concorso di idee; sembra presupporsi che il governo corretto del rapporto pubblico-privato possa dare il massimo sviluppo alla cultura di un luogo. Al momento dell’adozione la Commissione Straordinaria si rende conto della presenza scomoda di grandi imprenditori legati a potentati locali. Questa consapevolezza conduce a mettere in dubbio l’efficacia, oltre che la liceità, dell’esproprio come misura di protezione dalle infiltrazioni. Sei mesi dopo, la Commissione Straordinaria revoca l’adozione e dispone la revisione del Piano Commerciale. Sono gli ultimi mesi del mandato commissariale e la giustificazione della pubblica utilità per il Centro Commerciale sembra diventare poco credibile per il gruppo prefettizio. Leggendo gli atti amministrativi si percepisce la preoccupazione di quei giorni, che si concludono, nell’arco di un mese, con il ritiro dei pareri favorevoli dei responsabili che avevano sottoscritto la Delibera e del Segretario Generale che ne aveva sancito la legittimità, e con le dimissioni del sovraordinato all’urbanistica. La revisione del Piano Commerciale sarà fatta dall’amministrazione eletta pochissimo tempo dopo. Le azioni urbanistiche della prima Commissione Straordinaria falliscono, lasciando una situazione aperta a possibilità speculative, vicine come non erano mai state prima. Meno di un mese dopo la revoca dell’adozione del Piano Commerciale da parte della prima Commissione Straordinaria, si insedia la nuova Amministrazione. Il Piano Commerciale riprende slancio, le volontà convergono, le basi tecniche sono state poste dal gruppo commissariale e su di esse, con pochi ma fondamentali cambiamenti, può concludersi l’operazione immobiliare. Si costituisce un nuovo gruppo di lavoro, questa volta formato soltanto da tecnici interni e in sei mesi la seconda stesura del Piano Commerciale è pronta. È stata modificata una norma; al posto dell’esproprio e del bando pubblico, viene riconosciuto, come titolo fondamentale per proporre il progetto, la disponibilità del 75% delle aree. Così il senso del lavoro fatto dai tecnici della prima Commissione è completamente stravolto. Sarà questa seconda stesura del Piano l’oggetto centrale del processo penale, la cui conclusione è la conferma da parte dei Giudici che, effettivamente, questo strumento urbanistico è il prodotto di infiltrazioni mafiose. Sarà, due anni dopo, la principale motivazione del secondo Commissariamento Straordinario. Il Piano Commerciale viene adottato dal Consiglio Comunale e trasmesso alla Regione. Con qualche incidente di percorso, proseguirà il suo iter fino alla vigenza, anche negli anni della seconda gestione commissariale.
2004-2012 Straordinario e ordinario Riflettendo a posteriori, attraverso la lettura analitica dei documenti integrata da ricordi personali, appare di tutta evidenza che il lavoro della seconda Commissione Straordinaria restituisce una connessione logica tra obiettivi, metodo e strumenti. L’obiettivo generale della seconda Commissione Straordinaria, in aderenza alla norma istitutiva, è la normalizzazione, il recupero della legalità nella gestione ordinaria dell’Ente. Il rapporto tra urbanistica e normalizzazione non è né diretto né immediato. Non si vuole dar vita a una nuova stagione di Piani urbanistici conformi alla legge, ma costruire un diverso sistema amministrativo capace di produrre e gestire, in tempi congrui, strumenti giuridicamente e proceduralmente corretti. Da questo punto di vista, il P.R.G. è solo uno degli strumenti, forse il più importante, ma, in rapporto con l’obiettivo, la regolarizzazione dei provvedimenti dell’Edilizia privata (concessioni edilizie, condoni, autorizzazioni, agibilità, ecc.), il controllo delle opere pubbliche, delle manutenzioni, la messa a norma degli edifici pubblici (gare, affidamenti di incarichi, ecc.), per citare alcune delle competenze dell’Ufficio Tecnico, hanno la stessa importanza. Tutto il Comune è coinvolto in questo processo di normalizzazione, ad esempio nel rispetto dei tempi di approvazione del bilancio comunale o nella verifica e recupero di tributi non pagati. Anche se la motivazione è l’infiltrazione mafiosa nell’urbanistica, l’unica risposta non è la redazione di un nuovo Piano, ma piuttosto l’agire più sagacemente sulla mentalità, sulle pratiche diffuse di malcostume su cui l’illegalità attecchisce. Una delle prime azioni della seconda Commissione è la modifica della struttura del Comune e la riorganizzazione degli uffici. I funzionari in posizione di responsabilità con l’amministrazione precedente sono Agata Bazzi
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Villabate, un paese conteso
destinati ad altri compiti o ad altre sedi, e sostituiti dai sovraordinati, ai quali è assegnato un ruolo non solo di vigilanza, ma anche di gestione e poi anche di ruolo, perché rimangano anche dopo il mandato commissariale. Intanto il Piano Commerciale continua il suo corso e a maggio del 2005 è dichiarato vigente. La Commissione Straordinaria non può che accettare la decisione regionale e assumere un atteggiamento di grande circospezione. Immediatamente, la Asset Development s.r.l. presenta la richiesta di approvazione di un progetto edilizio esecutivo per la realizzazione di un Centro Commerciale chiamato “Immencity”. La Commissione Straordinaria rigetta il progetto con robuste motivazioni tecniche, separando le questioni di competenza della Magistratura da quelle strettamente urbanistiche. Numerose lettere dei legali della Asset contestano la legittimità della decisione; denunciano un’errata istruttoria e attribuiscono responsabilità anche di carattere risarcitorio. Ma per il progetto di Immencity l’istruttoria è per sempre chiusa. Invece, il Piano Commerciale è ancora vigente e lo resterà fino all’adozione del nuovo P.R.G. Durante il suo mandato, la seconda Commissione avvia e conclude il nuovo Piano regolatore. Senza particolari riferimenti a interpretazioni disciplinari e teoriche, come le generazioni o le tipologie di piani, il nuovo strumento urbanistico per Villabate è contemporaneamente un Piano di espansione, in risposta a una domanda identificata, e un Piano di regolamentazione e messa a sistema. Non vuole essere un Piano di trasformazione, ma finisce per esserlo, disegnando un territorio urbano completamente diverso, ma completamente coerente con l’esistente. Non cerca innovazione, se non in alcuni utili ed efficaci meccanismi di attuazione. L’innovazione è intrinseca: è il primo Piano regolatore completo di Villabate, che ha dovuto aspettare il 2007 per averlo. Teoricamente forse avrebbe potuto essere migliore, ma ragionevolmente, considerati i tempi e le condizioni di contesto, è il migliore dei Piani possibile, per il solo fatto che c’è. Nel 2007, con l’elezione del Sindaco Di Chiara, Villabate esprime il desiderio di continuare a muoversi nella legalità. Il nuovo Sindaco ha un programma elettorale di continuità con la gestione precedente, è giovane, fuori dai grandi giochi. Durante il suo mandato non si sono riproposti problemi di infiltrazione mafiosa in campo urbanistico. Ma la sua è una gestione ingenua e inefficiente, carente di ogni conoscenza degli strumenti necessari ad attivare i circoli virtuosi di uno sviluppo economico e sociale, profondo e democratico. É anche una politica intesa come raccolta di consensi individuali e quotidiani, come somma di piccole promesse, dimenticando che il vero salto di qualità è il risultato di un doppio livello di azione, di dettaglio e di sistema. Alla fine del mandato, può affermarsi che nulla è stato fatto rispetto all’obiettivo di conseguire una qualità urbana soddisfacente. Le azioni messe in opera per porre le radici di un cambiamento profondo si sono arenate. È completamente ignorata la complessità della gestione dell’ente pubblico, e proprio questa assenza di comprensione dei meccanismi conflittuali delle interrelazioni, anche umane, penalizza i risultati. Il non voler dispiacere nessuno, il rapporto amichevole e paritario con tutti, il sottovalutare le questioni di merito e l’assenza di azioni conseguenti, hanno lasciato libero un sottobosco di comportamenti arbitrari, di abusi, di negligenze, di favoritismi, che hanno causato danni e scontento in una collettività particolarmente fragile e bisognosa di riferimenti certi. Siamo in periodo elettorale e i problemi si acuiscono. I politici sono allarmati dello scontento dei cittadini e cercano di riconquistare il consenso, voto per voto, favore per favore. Tutti fanno politica, anche chi dovrebbe soltanto erogare il servizio. L’inefficienza diventa arma di dissenso e di opposizione, in un clima avvelenato che rende il lavoro difficilissimo. Sono condizioni sgradevoli, ma normali in luoghi normali. Sono momenti di grande rischio in luoghi difficili. Gli interessi illegali potrebbero approfittare di una situazione complessivamente destabilizzata. Oppure le forze sociali migliori potrebbero far fronte e resistere, proponendo una nuova buona amministrazione.
Agata Bazzi
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La stagione dei programmi integrati in Puglia: prime valutazioni sui processi partecipativi
La stagione dei programmi integrati in Puglia: prime valutazioni sui processi partecipativi Sergio Bisciglia Politecnico di Bari Dipartimento ICAR Email: s.bisciglia@poliba.it Tel. 080.5963840 Stefania Cascella Comune di Barletta Email: stefaniacascella@gmail.com Tel. 339.1583602 Anna Floriello Politecnico di Bari Dipartimento ICAR Email: a_floriello@hotmail.com Tel. 339.2775502 Giovanna Netti Politecnico di Bari Dipartimento ICAR Email: netti_gio@libero.it Tel. 338.5258309
Abstract Il quadro dei nuovi strumenti legislativi e programmatici regionali pugliesi (PIRP, PIRU, PISU/PIST) in materia di rigenerazione urbana, edilizia residenziale sociale e sostenibilità dell’abitare rappresentano non solo il contesto nel quale attuare la riforma delle politiche abitative ma anche la cornice nella quale armonizzare e integrare attori e funzioni della riforma stessa. Il carattere innovativo dei programmi integrati, soprattutto in riferimento ai processi partecipativi, rendono necessario l’avvio di una riflessione ed una valutazione dell’efficacia di questi processi in termini di estensione, eterogeneità e rappresentatività. In mancanza di dati completi sui risultati di questa programmazione, dovuta al fatto che la loro implementazione è ancora in itinere, si ritiene possibile in questa fase procedere attraverso una comparazione degli strumenti legislativi dei PIRP e dei PISU, evidenziand, anche con metodologie di analisi qualitativa, i presupposti cognitivi e teorici che stanno alla base delle scelte del legislatore.
Questo contributo è frutto di una riflessione comune degli autori. In particolare si deve ad Anna Floriello e Stefania Cascella il § “Pratiche di rigenerazione urbana”; a Giovanna Netti il § “I Programmi Integrati di Riqualificazione delle Periferie”; a Stefania Cascella il § “Programmi Integrati di Rigenerazione Urbana”; a Sergio Bisciglia “I processi partecipativi nei PIRP e nei PISU”. Il contributo sui due casi studio si deve rispettivamente a A. Floriello “Il Laboratorio di Progettazione Urbana: PIRP San Marcello”, e a S. Cascella “I Laboratori Urbani del DPRU di Lecce”.
S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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La stagione dei programmi integrati in Puglia: prime valutazioni sui processi partecipativi
Pratiche di rigenerazione urbana Nell’ultimo decennio la Regione Puglia ha avviato e consolidato una profonda riforma delle pratiche di gestione e di governo del territorio, quale risultato anche della domanda di innovazione delle politiche pubbliche e di partecipazione democratica proveniente tanto dal sistema delle autonomie locali quanto da singoli soggetti ed associazioni che chiedevano di fornire il proprio contributo di idee ed esperienze alla costruzione di più efficaci politiche pubbliche. Questo processo di crescita delle capacità di governance regionali è stato favorito dalle esperienze oramai mature di programmazione complessa ed integrata di matrice europea che ha stimolato un approccio alle politiche urbane e territoriali integrato anche rispetto alle pratiche concertative e partenariali nella definizione della pianificazione e programmazione territoriale. Integrazione, partecipazione e sostenibilità rappresentano i princìpi cardine della Programmazione Integrata; i nuovi strumenti di programmazione si basano infatti sull’integrazione delle politiche, degli attori e delle risorse; sulla partecipazione alla costruzione dei nuovi scenari di sviluppo e di trasformazione dei territori, incentrati in particolar modo sul ruolo fondamentale delle città e delle aree urbanizzate nel riequilibrio delle dinamiche sociali ed economiche di sviluppo; e infine, si fondano sulla sostenibilità dei programmi non solo finanziaria ma anche ambientale, ecologica, e temporale. Il sostegno finanziario dei fondi europei ai PI ha infatti consentito all’UE di perseguire uno dei principali obiettivi di crescita del proprio territorio, che guarda alla centralità del ruolo delle città e delle loro capacità di attrazione e competitività per lo sviluppo sociale, ambientale ed economico. Sulla strada tracciata dalle politiche territoriali europee, i Programmi Integrati di intervento, finanziati principalmente proprio con fondi europei, diventano lo strumento per attuare gli interventi di riqualificazione/rigenerazione di cui le città necessitano per divenire “attrattive” e “competitive” attraverso strategie di controllo dell’espansione urbana, commistione delle funzioni e dei gruppi sociali nel tessuto urbano, gestione prudente dell’ecosistema urbano, conservazione e sviluppo del patrimonio ambientale e culturale. In Puglia, dopo le prime esperienze di programmi integrati di riqualificazione urbana e territoriale (PII, PRU, PRIU, CdQ, Urban etc.) ancora troppo incentrate sulla dimensione fisica di parti di città, l’evoluzione dalla riqualificazione alla rigenerazione urbana è stata sostenuta dal processo di sostanziale rinnovamento del sistema di pianificazione regionale mediante la revisione del relativo impianto normativo, con l’obiettivo di costruire scenari coerenti e condivisi di tutela e sviluppo del territorio che consentano di delineare strategie di riqualificazione delle risorse sociali ed ambientali. In questa prospettiva la Regione Puglia ha finanziato nell’ultimo quinquennio due importanti Programmi Integrati, i Programmi Integrati di Riqualificazione delle Periferie (PIRP) previsti dalla legge n.20 del 30 dicembre 2005, art.13 e i Programmi Integrati di Rigenerazione Urbana (PIRU) in attuazione della LR n.21/2008 “Norme per la rigenerazione urbana”, finalizzati alla diffusione delle pratiche di riqualificazione/rigenerazione delle città e delle aree urbanizzate con uno sguardo particolarmente attento alle politiche abitative di edilizia residenziale sociale. I PIRP rappresentano il punto di forza del Piano Casa Regionale istituito con la LR 20/2005, espressione di una nuova politica basata sulla conoscenza sistematica delle condizioni abitative, non solo in termini quantitativi, ma in una accezione qualitativa, che interviene sulle relazioni fra luoghi e abitanti. Quest’accezione implica che la questione della casa sia inserita in un’accorta pianificazione dell’intervento pubblico che privilegi la riqualificazione della città esistente all’espansione, favorisca la mescolanza di funzioni e classi sociali, preveda la realizzazione di servizi integrati alla residenza, e sperimenti nuovi modelli d’intervento che coinvolgano, assieme ai tradizionali attori pubblici (Comuni e IACP) e privati (principalmente cooperative e imprese) il terzo settore e, soprattutto, gli utenti e le loro rappresentanze. I PIRU promuovono la rigenerazione di parti di città e sistemi urbani finalizzate al miglioramento delle condizioni urbanistiche, abitative, socio-economiche, ambientali e culturali mediante strumenti di intervento elaborati con il coinvolgimento degli abitanti e di soggetti pubblici e privati interessati. Gli interventi di rigenerazione hanno contribuito ad accrescere l’attenzione verso temi e obiettivi nuovi, come la sostenibilità economica, ambientale e sociale delle operazioni sul territorio che sostengono la crescita di una città ecologica ed inclusiva, che auspica la partecipazione e la condivisione della cittadinanza nei processi di trasformazione della città, con l’intento di ricostruire una “immagine condivisa” della città, ricercando il significato profondo che ciascuna comunità assegna ai luoghi di vita e di relazione e garantendo che l’organizzazione dello spazio non sia l’esito di scelte dei singoli ma il frutto, più efficace e giusto per ciascuno, di una dimensione collettiva. Tali obiettivi sul piano sociale si riflettono nella progettazione di uno spazio urbano privo di barriere fisiche e culturali, attraverso l'inserimento di luoghi per l'incontro e il confronto, non solo nelle parti di città ormai consolidate, ma anche e soprattutto nelle aree periferiche che più necessitano di tali attenzioni.
S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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La stagione dei programmi integrati in Puglia: prime valutazioni sui processi partecipativi
PIRP e PISU a confronto Nelle pagine che seguono, mediante una lettura “critica” dei bandi regionali che hanno finanziato i PIRP e i PIRU, proveremo a tracciare un bilancio del processo evolutivo negli strumenti promossi dalla Regione Puglia con un attenzione particolare alle forme e al peso della partecipazione delle comunità locali e della concertazione nella definizione degli obiettivi di rigenerazione e degli interventi da realizzare per la loro attuazione; un bilancio quindi, seppure in maniera indiretta, delle capacità di “apprendimento” istituzionale alla propensione alle pratiche concertative e partenariali, sulle capacità progettuali e di governance degli Enti locali.
I Programmi Integrati di Riqualificazione delle Periferie Introdotti dall’art. 13 della legge della Regione Puglia n. 20 del 30 novembre 2005, i Programmi Integrati di Riqualificazione delle Periferie (PIRP) sono interventi promossi dai comuni ed attuati con la collaborazione di organismi pubblici e di privati, finalizzati alla rigenerazione urbana di quartieri interessati da fenomeni di grave disagio fisico, sociale ed economico attraverso azioni mirate al miglioramento della qualità ambientale, alla promozione dell’occupazione e all’impiego dell’imprenditoria locale. Il bando 1 , pubblicato a giugno del 2006, ha dato la possibilità ai Comuni pugliesi di concorrere all’ottenimento di finanziamenti regionali per un massimo di quattro milioni di euro per ciascun PIRP, da destinarsi a interventi di edilizia residenziale e opere infrastrutturali per un ammontare complessivo di circa 93 milioni di euro. Intesi come evoluzione della generazione dei programmi complessi nati per promuovere azioni sinergiche e integrate orientate allo sviluppo del territorio urbanizzato (Contratti di quartiere, Urban) i PIRP hanno inquadrato il problema della riqualificazione delle periferie urbane in un’ottica di largo respiro e di fattibilità. Uno degli aspetti di maggiore innovazione introdotto nei PIRP consiste nel supporto che i programmi devono riservare all’attivazione e al rafforzamento di relazioni immateriali oltre che fisiche, attraverso la richiesta di ricucitura dei quartieri periferici con la città consolidata e nell’invito a promuovere l’occupazione e l’iniziativa imprenditoriale locale, a contrastare l’esclusione sociale attraverso il perseguimento del mix funzionale e del coinvolgimento di diverse fasce di utenti, a favorire la qualificazione degli operatori del ciclo edilizio attraverso l’esperienza di cantieri-scuola. Il programma non tende verso una progettualità, che, per quanto organica ed integrata, risulti autoconclusiva; al contrario, dal bando regionale emerge una ben precisa volontà di innescare processi che non si esauriscano nella semplice realizzazione delle opere previste e propone un’idea di rigenerazione che sia trait d’union tra i diversi interventi, e impulso ad ulteriori iniziative future, capaci di dare continuità alle politiche messe in campo dal PIRP, anche oltre la durata specifica del programma. La formula dei PIRP appare molto interessante perché interpreta e risolve la complessità della riqualificazione urbana attraverso l’impostazione di un processo che richiede una concertazione di elementi politici, socio-istituzionali, economici ed amministrativi; sinergie ormai indispensabili alla buona riuscita degli interventi. La partecipazione dei Comuni al bando PIRP 2 del 2006 è stata massiccia: 127 domande per un totale di 122 Comuni partecipanti (quasi la metà dei Comuni pugliesi). Nella volontà d’innovazione dell’amministrazione regionale pugliese tali programmi non rimangano strumenti isolati e straordinari, bensì i PIRP rientrano in un progetto di ripensamento generale delle formule d’intervento sul territorio urbano periferico, ora ripensate in un’ottica di efficacia e di continuità. Due i principali elementi innovativi: l’istituzione, presso il Settore ERP della Regione Puglia di un Osservatorio della Condizione Abitativa (ORCA), con funzioni di analisi, raccolta e diffusione dati, monitoraggio dei programmi riguardanti l’edilizia residenziale pubblica e in secondo luogo, la L.r. 21/2008 “Norme sulla rigenerazione urbana”, che istituisce i PI, inseriti anche all’interno degli indirizzi del documento programmatico regionale come strumenti ordinari e a forte contenuto strategico che hanno come obiettivo prioritario la promozione di interventi organici di riqualificazione urbana sui territori comunali e intercomunali. Partendo dall’idea che la missione dell’AP non è tanto più produrre beni e servizi quanto agire sulla catena del valore per dare più significato alle cose, la Regione Puglia, ha promosso percorsi di partecipazione tesi all’innovazione delle politiche pubbliche, sia nel metodo che nei contenuti, favorendo una più adeguata rispondenza delle scelte agli interessi della collettività, la verifica di sostenibilità dei progetti e incrementando le possibilità di successo. In coerenza con queste assunzioni, il bando dei PIRP rappresenta un’esperienza innovativa di rigenerazione urbana e di potenziamento dell’offerta abitativa che pone come elemento importante per valutare la qualità dei programmi da finanziare il coinvolgimento degli abitanti e degli attori locali. Nell’elaborazione e nell’attuazione è previsto il massimo coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, degli inquilini, delle forze sociali, dell’imprenditoria e del volontariato sociale. Il bando richiede la documentazione 1 2
D.G.R. 19 giugno 2006, n. 870 - Art. 11 L.r. 30 dicembre 2005, n. 20 e D.G.R. n. 1585 del 15/11/2005 Bando di gara “Programmi integrati di riqualificazione delle periferie” (PIRP). Bando di gara per l’accesso ai finanziamenti per la riqualificazione delle periferie (PIRP) – (D.G.R. Puglia del 19 giugno 2006, n. 870 - Art. 11 L.r. 30 dicembre 2005, n. 20 e D.G.R. Puglia n. 1585 del 15/11/2005 Bando di gara “Programmi integrati di riqualificazione delle periferie” (PIRP).
S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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La stagione dei programmi integrati in Puglia: prime valutazioni sui processi partecipativi
dei processi di partecipazione attivati, e pretende che siano messe in evidenza le relazioni tra i risultati del processo partecipativo e le proposte d’intervento promosse dal programma. Tale punto prova a spostare il ruolo della cittadinanza da un piano semplicemente consultivo ad un livello di apporto concreto al processo decisionale. E’ richiesta la stesura di un vero e proprio piano di comunicazione delle iniziative proposte dal PIRP, nonché il coinvolgimento dei residenti nelle fasi di realizzazione del programma. In conclusione il bando dei PIRP oltre a promuovere con decisione il rafforzamento e la qualificazione del coinvolgimento diretto degli abitanti negli aspetti decisionali, ne ha sancito il valore individuando per la prima volta il “Coinvolgimento degli abitanti e altri attori sociali” come uno dei sei macro indicatori di punteggio (indicatore 4), ai fini della graduatoria. Tabella I. Indicatori della partecipazione Macro indicatore 4) Coinvolgimento degli abitanti e altri attori sociali
Punteggio max
Micro indicatore 4.a Documentazione dei processi partecipativi degli abitanti e degli altri attori sociali (Agenda 21) 4.b Documentazione dei rapporti tra risultati della partecipazione e le proposte previste dal PIRP
6 6
4.c Piano per l’informazione e il coinvolgimento dei residenti
3
TOTALE
15
Tabella II. Criteri di valutazione del PIRP previsti dal bando N.
Macro indicatore
Punteggio max
Peso
20
12%
41
24%
2)
Contesto demografico, sociale ed economico riguardante il Comune Caratteristiche dell’area d’intervento
3)
Qualità del progetto preliminare e risultati attesi
40
23%
4)
Coinvolgimento degli abitanti e altri attori sociali
15
9%
5)
Presenza ed entità di ulteriori finanziamenti pubblici
40
23%
6)
Fattibilità
15
9%
171
100%
1)
TOTALE
I Programmi Integrati di Rigenerazione Urbana Nell’aprile del 2011 la Regione Puglia, attraverso l’Assessorato all’Assetto del Territorio, ha emanato un Avviso pubblico di finanziamento 3 basato su procedura valutativa e negoziale, destinato ad Enti Locali singoli e associati, a sostegno dell’attività di rigenerazione urbana avviata con i PIRP. Il bando attinge a fondi europei del PO FESR 2007-13 destinati all’Asse VII per la rigenerazione urbana e territoriale mediante Piani Integrati di Sviluppo Urbano e Territoriale e, grazie alla convergenza degli obiettivi rispetto ai PISU e ai PIST, “Programmi Integrati di rigenerazione urbana” (PIRU). Due le linee di intervento finanziate a favore di una competizione più equa tra realtà urbane, e relative strutture organizzative e gestionali, più omogenee e dell’incentivazione alla cooperazione tra piccoli centri. Tra i requisiti di ammissibilità il bando prevede la presenza di un “Quadro di coerenza” per le motivazioni della scelta e della rilevanza degli interventi proposti in relazione alle analisi di contesto e agli indicatori contenuti nel DPRU, nel PISU o nel PIRU e di un “Quadro di coerenza con i processi di partecipazione sociale” sviluppati nell’ambito della formazione dei documenti citati e in subordine dei PUG e dei Metaplan di Area Vasta. Nell’economia complessiva dei punteggi attribuiti ai singoli criteri di selezione, tali quadri di coerenza non assumono maggior peso rispetto ad altri criteri; il bando attribuisce infatti gli stessi range di punteggio ad eccezione dei criteri di “esecutività e cantierabilità degli interventi”, di “capacità di sviluppare occupazione qualificata e iniziative a contenuto innovativo”, del “consolidamento dei Laboratori urbani per i giovani”, e della “riqualificazione dei margini delle periferie urbane degradate o delle aree costiere compromesse”, ai quali viene attribuito un valore maggiore. 3
DGR 19 aprile 2011, n. 743 – PO FESR 2007-2013 Asse VII. Avviso pubblico per la presentazione delle candidature per l’attuazione dell’Azione 7.1.1 “Piani integrati di sviluppo urbano di città medio/grandi” e dell’Azione 7.2.1 “Piani integrati di sviluppo territoriale”.
S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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La stagione dei programmi integrati in Puglia: prime valutazioni sui processi partecipativi
In merito ai processi partecipativi il bando valuta dunque il grado di soddisfacimento degli interventi candidati rispetto alle necessità e ai bisogni emersi nelle attività di partecipazione organizzate nella formazione dei programmi di rigenerazione, mentre non sembra valutare la qualità del processo partecipativo e di conseguenza la rispondenza effettiva degli obiettivi di rigenerazione all’espressione collettiva dei bisogni e di un ordine gerarchico delle priorità. L’ampia diffusione delle pratiche di partecipazione non mette al riparo dal rischio che i processi partecipativi vengano vissuti come mero adempimento nella redazione di piani e programmi territoriali. La lettura dei DPRU candidati al bando regionale lascia infatti spesso intravedere un approccio alla partecipazione come ad un enunciato di principio, rimandando la definizione dei contenuti attuativi ad un altro momento; in molte occasioni i soggetti e le forme della partecipazione vengono elencati per categorie, mentre difficilmente si riesce ad apprezzare il reale apporto alla definizione degli obiettivi di rigenerazione urbana da parte degli abitanti piuttosto che dai diversi gruppi di interesse, o la costruzione condivisa dell’idea di rigenerazione all’interno dell’Ente stesso. Una caratteristica comune alla quasi totalità dei DPRU presentati risiede, infatti, proprio nell’essere frutto del lavoro isolato di un unico settore, in genere quello urbanistico, piuttosto che l’esito di una riflessione partecipata all’interno dell’Ente e condivisa dalla comunità locale. Per quanto riguarda le forme di partecipazione è inoltre interessante osservare come le attività di informazione e comunicazione siano poco sostenute da modalità attive di coinvolgimento degli abitanti attraverso, ad esempio, laboratori di progettazione, che potrebbero invece stimolare un’opinione pubblica spesso latente o latitante ed assicurare maggiore certezza circa la rispondenza degli obiettivi e degli interventi di rigenerazione alle esigenze della collettività. Forme più attive di partecipazione come i laboratori richiedono senza alcun dubbio maggiore impegno da parte degli Enti locali e forse per questo sono poco praticate, tuttavia, laddove sono state realizzate, servendosi anche dell’ausilio di “facilitatori” e “animatori”, non solo la gestione dei conflitti tra gruppi di interesse diversificati si è dimostrata più efficace nella definizione degli obiettive e degli interventi da realizzare, ma è stata facilitata anche l’attività di “copianificazione orizzontale” all’interno dell’Ente stesso che ha ulteriormente perfezionato l’individuazione delle strategie di rigenerazione.
I processi partecipativi nei PIRP e nei PISU Entrando nel merito del carattere partecipativo e condiviso dei programmi complessi che hanno connotato in gran misura la politica di assetto del territorio della Regione Puglia degli ultimi anni, le considerazioni che possono essere fatte non riguardano tanto – pur mantenendo fermo l’obiettivo di farne un primo bilancio - la valutazione, nella loro complessità, degli effetti delle modalità di partecipazione, quanto del livello e dei modelli di ‘integrazione’ espressi dai programmi in rapporto appunto al loro intrinseco carattere ‘integrato’. Non si condurrà quindi il discorso sul terreno fin troppo acriticamente battuto dell’efficacia di tali processi nella riduzione dei conflitti o nella composizione delle istanze dei differenti soggetti coinvolti – entrando pertanto in merito a ogni singolo caso - quanto sul confronto tra partecipazione ‘presupposta’ (dai Programmi) e partecipazione ‘realizzata’ e, in definitiva, sull’incidenza degli aspetti prescrittivi o di indirizzo degli stessi strumenti di programmazione sui processi di partecipazione, su come tali processi sono stati in misura differente strutturati e quindi orientati nella prassi da tali programmi. Si tratta di un’analisi dei fattori ‘a monte’ che ci è sembrata propedeutica per qualsiasi ulteriore approfondimento. Tale analisi è stata condotta in particolare sulle ultime due esperienze di programmazione che hanno interessato il territorio regionale - i Programmi Integrati di Riqualificazione della Periferie (PIRP) e i Programmi Integrati di Sviluppo Urbano (PISU) – che, a differenza delle precedenti esperienze (Programmi Integrati d’intervento, Programmi di Riqualificazione Urbana, Programmi di Recupero, Contratti di Quartiere, Urban) presentano un elemento non trascurabile, introducono cioè la partecipazione come azione premiale, valutabile, che incide sulla valutazione complessiva del progetto. Come si è detto, però, PIRP e PISU risultano tra loro differenti secondo diversi aspetti, alcuni dei quali rilevanti rispetto quello della partecipazione: - In primo luogo differente è la connotazione sociale e territoriale delle aree-obiettivo investite dai programmi. Sebbene sia nei PIRP che nei PISU – come d’altronde nei precedenti programmi di rigenerazione – tali aree siano caratterizzate da situazioni di degrado, sia fisico che sociale ed economico, si indebolisce nei secondi il carattere di ‘perifericità’ (già in qualche modo dilatato nei PIRP che prevedevano interventi anche in aree centrali ma con ‘caratteri di perifericità’) e soprattutto si perde il carattere particolarmente stigmatizzante associato all’investimento di contesti di edilizia popolare (IACP) fondamentalmente presente nei PIRP. A questi bisogna aggiungere, relativamente ai PISU, la variabile della dimensione demografica dei comuni (comuni con popolazione non inferiore ai 20.000 abitanti) ma soprattutto la possibilità di localizzare l’intervento anche in diversi ambiti territoriali a differenza dei PIRP, per i quali condizione di ammissibilità dei progetti era l’unicità dell’ambito definito da ben 13 indicatori di criticità. L’insieme di tali caratteri ha evidenziato, soprattutto in alcuni casi PIRP - come quello del rione S. Marcello di Bari (cfr. al box 1) ma anche in altri casi di cui si ha conoscenza diretta e indiretta- come tali strumenti finiscano per creare quelle fratture sociali che si propongono invece di risolvere con i processi partecipativi. Come, nello specifico, la stessa individuazione di quartieri “sensibili” o critici soprattutto dal punto di vista sociale e abitativo produca una connotazione stigmatizzante delle comunità che alimenta in una parte di essa una resistenza a partecipare per non rientrare nello stigma S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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negativo. In secondo luogo differenti risultano essere, sotto certi aspetti, gli obiettivi della rigenerazione di queste aree. Si potrebbe infatti ricostruire una sorta di tendenza a integrare progressivamente nella successione dei Programmi nuovi e sempre più articolati obiettivi che presuppongono nuovi bisogni sociali ai quali dare una risposta – meno indirizzati dalle necessità ‘primarie’ legati al problema dell’abitazione e definiti sempre più da caratteri ‘secondari’ e culturali, secondo un’idea di abitare sempre più ampia, che introduce – come avviene nei PISU – anche i temi del contenimento dell’espansione urbana, della tutela del patrimonio-storico-culturale e paesaggistico e quindi il carattere identitario dei luoghi (previsti dal Programma Operativo FESR 2007-2013). - Infine diversi risultano tra loro i PIRP ed i PISU in base al grado di strutturazione e di indirizzo del processo partecipativo. Il Programma Integrato di Riqualificazione delle Periferie oltre ad attribuire un maggior ‘peso’ all’attività di partecipazione rispetto al PISU [il 10% del punteggio attribuibile rispetto il 4%] risulta essere anche relativamente più strutturato, fornendo ad esempio indicazioni anche sui soggetti e attori che prioritariamente andrebbero coinvolti – con esplicito riferimento alle “organizzazioni nazionali sindacali e degli inquilini maggiormente rappresentative sul territorio, alle forze sociali, alle rappresentanze dell’imprenditoria interessata (edilizia, servizi, commercio, ecc.), al mondo della cooperazione e del volontariato sociale. Il Programma Integrato di Sviluppo Urbano, diversamente, dà evidenza soprattutto alla ‘coerenza’ del programma con le risultanze dei processi partecipativi più che ai loro contenuti e alla loro articolazione 4 . Sostanzialmente non differentemente dal PISU, l’accentuata strutturazione del processo partecipativo prefigurato dal PIRP evidenzia quindi una marcata tendenza a selezionare gli interlocutori ed i partner dei programmi - sulla base della loro legittimità di ‘rappresentanze’ – e a consolidarne in tal modo il potere contrattuale. Tanto più se si considera che questi coincidono approssimativamente con gli stessi soggetti della concertazione del bando, come è da questo esplicitato: “La bozza di bando è stata concertata con ANCI Puglia, IACP, Sindacati dei lavoratori e degli inquilini, ANCE Puglia, CNA Puglia, Assocasa, ANAB, INBAR, Lega delle Cooperative e Confcooperative”. Ciò consolida quel modello delle politiche pubbliche e di governance al quale tendenzialmente si riferiscono gli analisti e gli amministratori della città, composto cioè di azioni settoriali sistematiche orientate verso una popolazione-obiettivo ben definita, basato su un sistema di attori stabili, su un insieme di istituzioni o di organizzazioni stabili (come gli ordini professionali, sindacati o istituzioni del mondo religioso) che comprendono degli specialisti o esperti di settore, così come dei rappresentanti legittimati di interessi settoriali, che si appoggiano su delle risorse o degli strumenti di vincolo ricorrenti o sistematici. A questo quadro si aggiunge, soprattutto nel caso dei PIRP, anche il campo sociale di applicazione del Programma – l’area obiettivo – che viene individuato in base alla stabilità nel tempo di alcuni suoi caratteri critici e alla scarsa dinamicità dal punto di vista economico, fondiario e immobiliare. A queste considerazioni siamo stati condotti analizzando PIRP e PISU secondo alcuni parametri qualitativi 5 . Fondamentalmente le informazioni che sono state utilizzate riguardano le modalità e gli ‘strumenti’ di partecipazione utilizzati, i soggetti coinvolti nel processo di partecipazione e quelli che hanno formalizzato il loro interesse al progetto attraverso le forme di ‘accordi’ e ‘convenzioni’ previsti dai bandi. Ciò che risulta evidente da un confronto tra le due categorie di soggetti (quelli partecipanti e quelli che hanno formalizzato interessi) è una realtà ancora fondamentalmente lontana da una realizzazione piena della modalità integrata del programma, caratterizzata da: a) una debole integrazione interna ai settori amministrativi, con una gestione quasi completa e autoreferenziale da parte di quelli che agiscono nel campo dell’assetto urbanistico, dei lavori pubblici e dell’edilizia sociale, b) da un arco ristretto delle istituzioni pubbliche coinvolte, che mostra però in diversi casi PISU di ampliarsi, probabilmente per il carattere più generale del Documento al quale fa’ generalmente riferimento, il DPRU, un ‘quadro di pianificazione/programmatico di politiche di interventi di rigenerazione urbana’ c) da una scarsa adesione dello Iacp alla costruzione processuale del programma (in riferimento ai PIRP), ma anche d) dell’imprenditoria privata, peraltro quasi completamente rappresentata dal settore dell’edilizia, e) da una scarsa consapevolezza del ruolo che potrebbero giocare in questi programmi – in quanto incorporano politiche di welfare – da parte delle forze sindacali, e dagli enti e centri di formazione, confermato anche mediante interviste informali con rappresentanti provinciali di tali soggetti sociali.
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Peraltro per questi ultimi non vengono richiesti necessariamente dei processi di partecipazione ex novo ma si tengono in considerazione anche processi partecipativi generati da diversi precedenti programmi e azioni (come i PIRU, i Metaplan di Area Vasta o dei Piani Urbanistici Generali e dei relativi Documenti Preliminari Programmatici) – ciò anche in considerazione del rischio di un eccessivo carico partecipativo per le comunità. Dal punto di vista più strettamente metodologico sono stati presi in considerazione i primi 31 progetti PIRP finanziati (sui 130 complessivamente ammessi a finanziamento) e i 31 progetti Pisu ammessi a finanziamento, anche tenendo conto di alcune carenze delle informazioni di base utilizzate – fondamentalmente di ‘seconda mano’ (estratti da report dell’Osservatorio Regionale della Condizione Abitativa – O.R.C.A. – e sintesi di lavoro amministrativo) e quindi solo parzialmente verificate in base alla loro completezza e coerenza.
S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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Figura 1. ◊ Soggetti partecipanti, ▪ Soggetti che hanno sottoscritto un Protocollo d’Intesa)
Figura 2. ▪ Soggetti coinvolti nei processi partecipativi Queste considerazioni aprono questioni di non secondaria rilevanza sul grado di apertura/chiusura alla imprevedibilità delle situazioni e dei contesti di azione, rispetto l’emersione di quelle configurazioni sempre differenti di cooperazione fra gli attori in economia, nel mondo associativo come nelle reti di relazioni private, rispetto l’espressione di quel carattere di flessibilità e d’incertezza che viene dalla teoria attribuito alla città e ai suoi quartieri in trasformazione permanente. Apre altresì alla necessità di guardare ai conflitti non come a delle situazioni limitate a questioni di uso alternativo dei suoli e a fenomeni da ridurre o incanalare ma anche come a dei campi nei quali si gioca la costruzione di regole e si insediano conflitti latenti o ‘a basso voltaggio’. Apre di conseguenza anche ad un approccio problematico relativo alle modalità e agli strumenti di partecipazione che, come nel caso di PIRP e PISU, si riducono ad un utilizzo massiccio di strumenti standardizzati - come forum, incontri pubblici e tavoli tecnici e, soprattutto nei secondi, somministrazione di questionari – che si basano su S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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verbalizzazioni di bisogni ed istanze ad alto contenuto di ‘consapevolezza’ e che con difficoltĂ permettono che tali conflitti latenti emergano.
Figura 3. Esempi di Buone Pratiche nei processi partecipativi del PIRP S. Marcello e del DPRU di Lecce
S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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Bibliografia Libri AA VV(2009), Laboratorio Città Pubblica, Città Pubbliche Linee Guida per la Riqualificazione delle Periferie, Bruno Mondadori Edizioni, Milano-Torino. Cottino P. (a cura di, 2009). Attivare risorse nelle periferie. Guida alla promozione di interventi nei quartieri difficili di alcune città italiane, Franco Angeli, Milano. Cottino P. (2009), Competenze possibili. Sfera pubblica e potenziali sociali nella città, Jaca Book, Milano. Martinelli N. (a cura di, 2009), Per un atlante della città pubblica di Bari, Bari, Adda Editore. Tedesco C. (2007), Politiche regionali per la riqualificazione7rigenerazione urbana, in Rapporto del territorio 2007 – INU edizioni, Puglia, Roma. A. Bourdin, M.-P. Lefeuvre, P. Melè (a cura di, 2006), Le régle du jeu urbain. Entre droit et confiance – Descartes & cie, Paris. Articoli Solarino A. (2009), “Puglia. Processi di qualità. PIRP - Programmi Integrati per la Riqualificazione delle Periferie”, Edilizia Popolare Bottaro P. & Cera M. & Cuonzo M. T., & Vavalle A. (2009), “Osservatorio Regionale della Condizione Abitativa”, Edilizia Popolare Celani G. & Zupi M. (2009), Periferie al centro. La proposta dei PIRP della Regione Puglia. convegno Quante Periferie?
S. Bisciglia, S. Cascella, A. Floriello, G. Netti
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Political re-scaling e pianificazione: asimmetrie di potere nei conflitti sugli usi del suolo
Political re-scaling e pianificazione: asimmetrie di potere nei conflitti sugli usi del suolo Barbara Pizzo Email: barbara.pizzo@uniroma1.it Giacomina Di Salvo Email: giacomina.disalvo@uniroma1.it Dipartimento di Pianificazione, Design e Tecnologia La Sapienza Università di Roma Tel. 06.4991 9071
Abstract Si sostiene che il ricorso a meccanismi di compensazione a distanza all’interno del piano regolatore per la soluzione di conflitti sull’uso del suolo, possano essere interpretati come forme di ‘political re-scaling’. In particolare, si discute del caso di Tor Marancia, uno dei più controversi e conflittuali della storia dell’urbanistica a Roma degli ultimi anni, che è stato ‘risolto’ attraverso lo spostamento di diritti edificatori in 16 aree. La riflessione si inserisce nel campo degli studi urbani nel quadro di una riflessione critica sugli esiti spaziali e socio-spaziali delle politiche neo-liberiste, ed è connessa al discorso sulle ‘Politics of scale’ di Brenner (2001, 2004) e agli approcci costruttivisti alla scala (Swyngedouw 1996, Marston 2000, Jessop 2002). Il caso permette di mettere in luce il rapporto tra ridefinizione della scala territoriale, conflitti e potere nei processi di pianificazione.
Introduzione Il contributo si sviluppa intorno al caso di Tor Marancia, uno dei più controversi nella recente storia della pianificazione a Roma. Si tratta di una riflessione iniziata già da diverso tempo, i cui primi risultati sono stati presentati in ambito internazionale 1 , e che si sta portando avanti anche all’interno di una più ampia ricerca interdisciplinare sulle forme che il neoliberismo assume localmente, e nello specifico a Roma 2 . Questo caso è stato scelto perché permette di esplicitare una pluralità di questioni che ci sembrano decisive: in quest’occasione ci proponiamo di approfondire in particolare un aspetto, quello dell’interpretazione delle compensazioni come forma di political re-scaling (Brenner, 2001). A nostro giudizio tale caso mette in luce il rapporto tra ridefinizione della scala territoriale, conflitti e potere nei processi di pianificazione. Il ruolo della pianificazione come forma di ridistribuzione (di reddito, privilegi e potere attraverso la rendita), è argomento consolidato (Mazza 1997; per il caso di Roma: Insolera 1962, 2011; Berdini 2008). La pianificazione, e nello specifico il Piano Regolatore, è stato spesso interpretato come un modo per legittimare questa ridistribuzione determinando quindi, più o meno direttamente, situazioni di conflitto, ma anche – da una diversa prospettiva – come uno strumento ‘inutile’ e inefficace per guidare lo sviluppo urbano (quindi ‘neutrale’ rispetto ai conflitti). 1 2
planning /conflict - Critical perspectives on contentious urban developments - Berlin 27-28 October 2011 “I percorsi della neoliberalizzazione a Roma: una prospettiva di analisi interpretive” – B. Pizzo e G. Di Salvo con E. D’Albergo, G. Moini, et al. – ricerca finanziata, in corso.
Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo
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Dal nostro punto di vista, queste prospettive sono entrambe incomplete e insoddisfacenti, poiché non considerano la pianificazione come un contesto di interazione dal quale i conflitti possono scaturire, nel quale possono svilupparsi ed essere trattati (ed eventualmente risolti), o, come ‘scacchiera’ sulla quale i giochi di potere vengono giocati 3 . In questo caso specifico, il conflitto che la pianificazione aveva generato e che attraverso il processo di pianificazione si è tentato di trattare, è stato risolto attraverso un passaggio di scala.
Il contesto e il problema La tenuta di Tor Marancia è un’area verde ai confini del Parco dell’Appia antica, di 200 ettari, posizionata in una zona centrale e strategica della città, dalle riconosciute valenze ambientali e paesaggistiche. La sua lunga vicenda urbanistica deriva dalle previsioni di sviluppo del piano regolatore del 1962, nel quale erano individuate numerosissime aree di espansione (nuova urbanizzazione) a forte densità abitativa, tra cui quella all’interno della tenuta. Nonostante alcuni significativi prodromi, è solo negli anni novanta, ovvero all’inizio del processo di definizione del nuovo piano, che la presentazione di una proposta di urbanizzazione da parte del consorzio dei proprietari della tenuta ha reso chiare le implicazioni di questa previsione e ha scatenato il conflitto in questione. Le compensazioni sono state utilizzate per risolvere un conflitto tra sostenitori e oppositori al progetto che, di fatto, stava bloccando e mettendo a rischio il processo di pianificazione in corso. Sebbene siano trascorsi quasi 10 anni dalla soluzione giuridica delle controversie su Tor Marancia, le conseguenze territoriali alla scala urbana e metropolitana sono a nostro avviso sottostimate e poco trattate, sia da un punto di vista disciplinare che del dibattito pubblico sulla città. Sinteticamente, si può dire che le origini della controversia sono riconducibili a tre principali fattori: 1) il sovradimensionamento del prg del ‘62, che si basava su una previsione per Roma di 6 milioni di abitanti: contraddetto dalla crescita effettiva che si è verificata negli anni, non ha però comportato un radicale ripensamento e una effettiva revisione delle previsioni di sviluppo urbano; 2) l’incoerenza tra gli obiettivi di tutela ambientale e del paesaggio espressi nei documenti preliminari per il nuovo Piano Regolatore Generale tra la fine degli anni 90 e il 2000, e il mantenimento di una parte comunque consistente delle previsioni di urbanizzazione del vecchio piano regolatore presentato come ‘inevitabile’; 3) l’alto valore paesaggistico attribuito al sito di Tor Marancia, insieme al suo elevato potenziale economico come area edificabile. A partire da queste considerazioni, il caso potrebbe essere definito come un ‘tipico’ conflitto sull’uso del suolo e sui diritti edificatori: pensiamo invece che esso abbia delle implicazioni molto più complesse. In particolare, ci interessa qui evidenziare come attraverso un’interpretazione fondata sugli approcci costruttivisti alla scala (Swyngedouw 1996, Marston 2000, Jessop 2002), sul discorso di Brenner (2001) sulle “politics of scale” e, più specificamente, sul “political re-scaling”, sia possibile leggere la vicenda anche per il suo significato di ridefinizione della scala territoriale e del territorio.
Il ‘caso’ di Tor Marancia: una cronologia critica Sebbene la storia di Tor Marancia sia piuttosto nota, quantomeno nelle sue linee generali, e sia stato un caso di cui si è molto discusso sia a livello disciplinare che sulla stampa, riteniamo necessario in questa sede ripercorrere le tappe principali dell’intera vicenda, fino ai giorni nostri, per poter ancorare adeguatamente la nostra interpretazione del conflitto rispetto al processo di pianificazione e per poter chiarire in che senso intendiamo lo strumento delle compensazioni (strumento fondamentale all’interno del nuovo piano regolatore, e in generale della nuova stagione di piani) come forma di political re-scaling. Una ricostruzione che vede la fine degli anni ‘90 densa di avvenimenti, in un susseguirsi di decisioni su Tor Marancia, e che principalmente vuole capire l’origine della questione e mostrare come implicazioni e conseguenze non sono ancora adesso, a distanza di quasi quindici anni, pienamente comprensibili né valutabili. Sono stati molti i progetti di lottizzazione presentati e approvati per Tor Marancia dagli anni ‘70 agli anni ‘90, che prevedevano, in aderenza alle norme del Piano Regolatore generale vigente (1962) una edificazione di 4 milioni di mc, prevalentemente residenziali. Questa forte densità va inquadrata nel periodo di redazione del Prg del 1962, quando il boom economico e demografico giustificava la previsione, oggi contraddetta, di un aumento della popolazione di Roma a 6 milioni di abitanti. Uno dei problemi di fondo è, quindi, quello del
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Questa interpretazione è stata oggetto di discussione nell’ambito della conferenza ‘planning /conflict’ sopra citata. Al centro, il fatto che la pianificazione è il campo in cui l’azione si svolge ma anche (come parte di un ‘sistema’ - di pianificazione, appunto) quello in cui le ‘regole del gioco’ sono stabilite – che comprende il modo formale/istituzionale in cui i conflitti sull’uso del suolo (che riguardano la proprietà, la possibilità e i modi di trasformazione) sono definiti e “mediati”.
Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo
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sovradimensionamento dei piani appartenenti a quella stagione, e del radicarsi dell’idea che i diritti edificatori stabiliti non possano essere successivamente non riconosciuti. I primi progetti di urbanizzazione della tenuta di Tor Marancia, presentati e approvati negli anni, si sono fortemente ridimensionati all’inizio degli anni ‘90, in seguito all’adozione delle due Varianti di Salvaguardia 4 e al vincolo archeologico imposto dal Ministero nel 1998 5 (Figura 1).
Figura 1. L’area della tenuta di Tor Marancia e il Parco dell’Appia Antica nelle varianti di Salvaguardia. Negli stessi anni si rafforza l’opposizione al progetto di edificazione, estendendosi anche all’esterno della cerchia di intellettuali collegati a Italia Nostra e ad Antonio Cederna, che per primi si erano dimostrati contrari. L’opposizione assume un carattere “trasversale”, e trova sostegno in particolare negli abitanti dei quartieri circostanti, motivati dalla carenza di spazi aperti fruibili e dalle già elevante densità edilizie esistenti. Tale istanza viene raccolta e fatta propria anche dai partiti politici del Municipio. Contemporaneamente le diverse opposizioni al progetto acquisiscono forme e caratteri complessi e articolati, dove le parti in gioco non assumono un ruolo sempre lineare e costante, ma talvolta ambiguo o poco chiaro, in particolare se osservato rispetto agli equilibri politici ai vari livelli istituzionali coinvolti (municipi, comune, regione) 6 .
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I progetti presentati datano 1962, 1974, 1987. Tutti sono stati approvati dal comune. Le varianti di salvaguardia del 1991 e 1994, adottate all’inizio del processo di definizione del nuovo Prg, e approvate solo nel 2002, tutelavano le componenti fondamentali del sistema ambientale romano. Insieme a una serie di intese tra Comune, Regione e Soprintendenza, hanno ridotto la previsione di cubatura edificabile nell’area di Tor Marancia da 4 milioni a 1,9 milioni di mc (il 50% in meno rispetto alle previsioni del Prg del 1962 ), da concentrare nei 114 ha di suolo caratterizzato da un valore ambientale meno elevato. 5 Il vincolo venne richiesto a gran voce dalla Soprintendenza ai beni archeologici di Roma, e nello specifico da Adriano La Regina, che coprì il ruolo di Soprintendente per quasi trent’anni fino al 2005, e che giocò un ruolo decisivo per la tutela dell’area, così come per altre aree di valore archeologico nella città di Roma, tanto da essere sottoposto a pesanti critiche sia da parte dei costruttori che da numerosi amministratori, che negli anni vedevano bloccati progetti di trasformazione urbana. 6 Il primo segnale di ambiguità all’interno del dibattito e di confusione tra il ruolo delle parti in gioco è stata la campagna contro il progetto immobiliare per Tor Marancia portata avanti subito dopo il voto in consiglio comunale da il Messaggero, il più diffuso quotidiano locale, il cui proprietario, F. Gaetano Caltagirone è notoriamente uno dei principali immobiliaristi romani. Il motivo di tale opposizione era legato alla mancanza di interessi diretti sui suoli della tenuta e alla competizione che questo progetto immobiliare avrebbe potuto provocare a discapito di altre sue operazioni immobiliari in zone adiacenti. Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo
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La riduzione di cubatura della previsione di trasformazione, dopo l’inserimento ad opera della Regione di parte dell’area di Tor Marancia nel Parco dell’Appia antica 7 , e la sottomissione dei diversi progetti a due Studi di Impatto Ambientale 8 che avevano lo scopo di verificarne la compatibilità con le istanze di tutela ambientale, non portò ad una discussione sulla sostanza del progetto. Gli oppositori non mutarono la loro posizione in seguito a queste modifiche, che fornivano garanzie di tutela ambientale e di riqualificazione urbana. Nonostante questo il progetto riuscì a passare al vaglio del Consiglio Comunale dopo una strenua battaglia in assemblea, per un solo voto 9 . Questa delibera è il momento centrale di una delle più intense e contraddittorie fasi di dibattito a livello politico e della società civile rispetto alla vicenda di Tor Marancia. L’anno successivo, nel 2001, la Soprintendenza ai beni archeologici di Roma dichiara però la non compatibilità di qualsiasi progetto di sviluppo edilizio con i valori storico-paesaggistici della tenuta. A questa decisione segue la delibera dell’amministrazione Regionale che include l’intera area in oggetto nel perimetro del Parco Regionale dell’Appia antica, annullando di fatto la sua edificabilità. Questa delibera non comportava la necessità di una acquisizione pubblica dell’area, che sarebbe potuta rimanere un’area verde privata, come è di fatto una gran parte del parco dell’Appia Antica. Rispetto al ridimensionamento del progetto, questa decisione scontentava in maniera molto forte i proprietari e costruttori poiché il solo inserimento dell’intera area nel parco non avrebbe comportato diritto al risarcimento, e quindi la compensazione di diritti edificatori negati. Mentre questo sarebbe avvenuto nel caso di vincolo urbanistico preposto all’esproprio per acquisizione pubblica dell’area invece i proprietari avrebbero avuto. Si può affermare che la discussione intorno a questa vicenda molto complessa e articolata si sia incentrata molto poco sulla sostanza dei diversi progetti e ancor meno sull’analisi delle possibili implicazioni rispetto alle alternative in gioco. Le questioni erano relative agli equilibri politici e ai rapporti di potere, che si evidenziavano anche tra i livelli amministrativi per l’adozione del futuro nuovo piano regolatore. Né la versione del 2000, né tanto meno il Prg adottato nel 2003, rappresentavano a pieno titolo gli obiettivi dei movimenti ambientalisti di frenare l’espansione edilizia, la rendita urbana e gli interessi dei grandi attori immobiliari. Al contrario, dietro gli obiettivi di tutela ambientale trapelava la difficoltà – in termini politici (problemi di consenso) e di strumenti/mezzi (scarsità risorse finanziarie pubbliche) – dell’Amministrazione di frenare le istanze di quegli attori immobiliari che a Roma, nella storia della città, hanno sempre avuto posizioni e ruoli predominanti. All’interno di questo quadro più generale, questa specifica ipotesi di trasformazione giocava un ruolo decisivo nel processo di pianificazione: il suo potere di influenzare le scelte urbanistiche dell’Amministrazione è stata tale da essere considerata un “grimaldello” per l’intera politica romana. In particolare l’Amministrazione, nel tentativo di mantenere gli equilibri politici, ha cercato di soddisfare sia le esigenze dei proprietari e dei costruttori (che rappresentavano una parte forte dell’elettorato e del potere economico per Roma) che le istanze di tutela della tenuta di Tor Marancia portate avanti dagli ambientalisti (i Verdi facevano parte della Giunta comunale), dalla Soprintendenza e dai cittadini (che ponevano questioni di consenso). Questo obiettivo è stato raggiunto con lo strumento delle compensazioni e con gli accordi che confluirono nella Delibera del Consiglio Comunale 53/2003 per definire l’entità delle compensazioni dei diritti edificatori e i luoghi di atterraggio di tali trasferimenti in cambio della cessione delle aree di Tor Marancia10 . Nel 7
La Giunta regionale di centro sinistra in carica tra il 1995 e il 2000 (Presidente Piero Badaloni) si era dimostrata molto sensibile alle istanze di tutela del sistema ambientale di Tor Marancia. Inserendo nel 1997 parte dell’area di Tor Marancia nel perimetro del Parco regionale dell’Appia Antica aveva definito la seguente articolazione dell’area: dei 220 ettari totali 106 ettari sarebbero stati ceduti e attrezzati dagli investitori privati per destinarli a Parco pubblico, localizzati sulla via Ardeatina in continuità con il Parco dell’Appia Antica, e 114 ha in area edificabile. 8 Secondo questo studio, che riconosceva il fortissimo valore ambientale dell’area, il progetto di urbanizzazione approvato non avrebbe compromesso l’integrità ambientale, storica e paesaggistica delle parti di maggior valore della tenuta, andando a concentrare l’edificato nella parte di minor rilevanza ambientale e ai margini delle parti già urbanizzate. L’intervento immobiliare privato, inoltre, avrebbe garantito l’attrezzamento e la manutenzione del parco pubblico localizzato in una ampia porzione della tenuta. “Studio di Impatto Ambientale applicato al progetto di piano di lottizzazione del comprensorio residenziale di Tor Marancia, in Roma - Relazione di sintesi”, Consorzio Tormarancio, Roma 1999 – consulenza professionale: F. Karrer. 9
27 voti a favori e 26 contrari. Seduta del Consiglio Comunale del 25 novembre 1999 Questo strumento, inserito nelle norme tecniche di attuazione del nuovo PRG, e già dal Piano delle Certezze del 1997, permette di trasferire le previsioni edificatorie, in caso di trasformazione della destinazione d’uso in aree protette o per la localizzazione di funzioni di interesse generale, dai suoli d’origine ad altri (che vengono definite ‘aree di atterraggio’). I proprietari dei suoli vengono risarciti attraverso una quota di diritti edificatori valutata in relazione allo spostamento che subiscono (lo spostamento da aree centrali a aree periferiche necessita una valutazione economica che si traduce in un aumento di cubatura a disposizione). Questo strumento è un’alternativa all’esproprio per pubblica utilità, in Italia ormai difficilmente eseguibile dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 1980 (A. Bartolini, ‘I diritti edificatori in funzione premiale -le c.d. premialità edilizie-’, in: Atti del Convegno promosso dall’Aidu su ‘I rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale’, Verona, 10-11/10/2008). Il costo stimato per l’esproprio dell’area di Tor Marancia era allora intorno ai 35 miliardi di euro, un prezzo troppo alto per le risorse pubbliche locali. Il meccanismo delle
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Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo
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2002 viene reso pubblico il risultato del lungo processo di negoziazioni che viene presentato come una vittoria per tutti 11 . E’ in questo momento che la controversia ha mostrato più chiaramente la sua natura, a partire dai comportamenti ambigui di una parte di attori coinvolti, incominciando dalla Giunta comunale, e in particolare proprio rispetto alla questione delle compensazioni.
Figura 2. Le 15 aree di atterraggio delle compensazioni di Tor Marancia secondo la Delibera del Consiglio Comunale n. 53 del 2003. Confronto tra totale delle cubature delle 15 aree e del Piano di Lottizzazione del 1999. Il ricorso alle compensazioni ha occupato il dibattito pubblico in maniera molto più debole rispetto alla questione della edificazione dell’area. Chi si era opposto nettamente a qualsiasi forma di edificazione a Tor Marancia non era neppure favorevole allo strumento delle compensazioni ma, di fatto, la questione era posta in modo da non lasciare spazio alla formulazione di alternative. Con la delibera del Consiglio Comunale 53 del 2003, le cubature di Tor Marancia vengono trasferite in 15 programmi di sviluppo (Programmi di Trasformazione Urbanistica 12 ), tutti localizzati nelle aree periferiche di Roma, lungo l’anello del Gran Raccordo Anulare (Figura. 2). E’ proprio sulla scelta delle 15 aree in cui sarebbero atterrate le compensazioni che risiede il problema, che riguarda in particolare: i criteri di scelta delle aree, la subordinazione dei criteri ‘urbanistici’(relativi alla compensazioni determina cambi di destinazioni d’uso che vengono attuati attraverso delle procedure semplificate rispetto a quelle di Variante al PRG e cioè attraverso gli ‘Accordi di Programma’ (L. 142/90; D.lgs. 267/2000 art. n. 34): strumenti negoziali che, per l’abuso che ne ha fatto l’amministrazione pubblica romana in questi anni, sono stati sottoposti a pesanti critiche (Berdini 2008, Insolera 2011) 11 Nel corso di un dibattito pubblico presso l’XI Municipio, l’assessore all’urbanistica della giunta Veltroni, Roberto Morassut annuncia la conclusione delle trattative (di cui erano a conoscenza però solo l’amministrazione e i diretti interessati). Ad avvalorare il risultato, nella stessa occasione pubblica viene annunciato dal WWF che un Piano di utilizzo per il parco sarebbe stato presentato all’amministrazione per rendere fruibile il parco e tutelarne le parti di maggior pregio. 12 I siti di atterraggio sono: Prato Smeraldo, Magliana GRA, Muratella, Massimina, Colle delle Gensole, Torrino Sud, Pontina, Aurelia 13 km, Prima Porta, Tenuta Rubbia, Grottaperfetta, Olgiata, Cinquina, Bufalotta, Divino Amore, Fontana Candida, Pescaccio, quest’ultimo con una capacità edificatoria di 70.000 mc. Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo
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correttezza della localizzazione, all’accessibilità, alla disponibilità – effettiva o programmata – di aree), a criteri di altra convenienza. Le compensazioni infatti hanno portato dei vantaggi in termini di diritti edificatori anche ai proprietari della aree di atterraggio. L’elemento che appare più contraddittorio, in particolare perché queste decisioni sono state prese parallelamente al processo di redazione del piano regolatore generale, è che si è trattato di singoli accordi, senza definire un quadro di verifica complessivo. Sebbene il piano regolatore fosse stato appena adottato , con le zone e destinazioni d’uso definite, la maggior parte delle compensazioni sono state localizzate in aree agricole, anche di pregio, contraddicendo quanto precedentemente dichiarato 13 . Solo nel 2006, quando si avviano le prime procedure di attuazione dei programmi urbanistici mediante Accordo di Programma, emerge quali sarebbero stati gli effetti delle compensazioni a distanza di Tor Marancia sulla crescita edilizia della corona periferica della città. 14 Considerando il totale delle 15 aree (diventate 16 nel 2006, con l’aggiunta dell’area del Pescaccio), la volumetria totale che potrà essere edificata è di 4 milioni 180 mila mc. Pur se frazionata su 16 aree, il totale supera le previsioni di edificazione per Tor Marancia del PRG del 62, il cui sovradimensionamento era stato riconosciuto. Mentre in periferia aumentano per frammenti i suoli edificabili, nella città consolidata le sorti del parco pubblico di Tor Marancia, sono legate all’attuazione dei programmi di trasformazione urbanistica oggetto delle compensazioni. Sebbene infatti Tor Marancia sia oggi interamente parte del ‘Parco dell’Appia Antica’, e nel 2009 il Comune abbia concordato con i proprietari delle aree le opere che questi ultimi dovranno portare a termine per attrezzare e rendere fruibile il parco 15 , la cessione prevista delle aree da parte dei privati è ancora incompleta e il parco uno spazio aperto in stato di semi abbandono. Le questioni più rilevanti che la vicenda evidenzia, sono riconducibili a tre punti, che sintetizziamo qui di seguito e che ci permettono poi di trarre delle conclusioni anche rispetto all’ipotesi interpretativa: Non sono state esplicitate le dimensioni e la configurazione dell’operazione incentrata sulle compensazioni rispetto alle previsioni generali di sviluppo e tutela del territorio comunale. La soluzione adottata, in particolare, ha spostato il conflitto da una dimensione e scala locali verso un territorio più ampio e meno definito; per cui l’attenzione degli attori impegnati nella mobilitazione, peraltro convinti di aver conseguito una importante, storica vittoria, non si è attivata sulle conseguenze che tale operazione avrebbe avuto per la città: l’incapacità di cogliere il problema è stata connessa al passaggio di scala. Gli accordi tra amministrazione e proprietari sono stati definiti singolarmente e non sono stati verificati all’interno del quadro delle previsioni generali di trasformazione del territorio comunale e di sviluppo infrastrutturale e dei servizi, ma hanno risposto prevalentemente ad altre logiche. La soluzione delle compensazioni come soluzione del conflitto viene presentata come unica soluzione possibile, e rafforzata come esempio di quel modello Roma che andava diffondendosi e radicandosi attraverso il discorso politico e programmatico del sindaco Veltroni. Non c’è stata alcuna discussione sulle possibili alternative, come ad esempio quella di lasciare la tenuta di Tor Marancia a verde privato e acquisire per uso pubblico solo la parte più sensibile e di pregio dal punto di vista storico e paesaggistico. Questa soluzione avrebbe tutelato l’area senza necessitare la quantità di compensazioni individuate. Come si è già osservato, infatti il vincolo archeologico apposto dalla Soprintendenza non avrebbe comportato diritto a risarcimenti per i proprietari.
Conclusioni Proponiamo qui una sintesi critica delle questioni emerse nell’ottica della riconfigurazione scalare, nei significati che tali questioni assumono, anche come aperture verso ulteriori ipotesi di lavoro. 1. Lo spostamento del problema dalla scala locale/di quartiere alla scala urbana/metropolitana ha permesso di risolvere un conflitto locale che di fatto stava bloccando il processo di redazione del PRG. Di fatto, si è ‘allontanato’ il problema da un luogo in cui si addensavano opposizioni e conflitti, ad un territorio più vasto e per molti versi ‘indefinito’: certamente non al centro dell’attenzione pubblica, e con un implicito ‘squilibrio 13
Dalla rappresentanza ambientalista della maggioranza che sosteneva l’amministrazione viene dichiarato in quella occasione che le compensazioni sarebbero state localizzate in contesti da riqualificare, senza sprecare nuovo suolo agricolo. Ed è quello che viene dichiarato nella Delibera stessa, ma osservando nel dettaglio le localizzazioni bisogna constatare che nella maggior parte dei casi questo non corrisponde a realtà. Infatti, tra tutte, solo le aree di Colle delle Gensole e di Grottaperfetta, nel XII e XI Municipio avevano una destinazione interamente a nuova urbanizzazione.
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In particolare, la dimensione degli effetti si è capita già con il primo accordo di programma, relativo all’area di atterraggio più vicino alla tenuta stessa, l’area di Grottaperfetta, sull’omonima via, ai margini meridionali della tenuta (nel PRG adottato, questa si configura come Ambito a Trasformazione Ordinaria Integrato 60, nel PRG approvato, come Ambito a Pianificazione Particolareggiata Definita 75 Grottaperfetta). L’atterraggio di parte delle compensazioni per Tor Marancia ha provocato su quest’area l’aumento della volumetria edificabile da 180.000 mc a quasi 400.000 mc. 15 Entro la fine del 2012 Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo
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di rappresentanza’ . L’asimmetria di potere alla nuova scala del problema si manifesta come una riduzione dell’arena alle sole élites politiche ed economiche (Amministrazione Comunale, investitori immobiliari e proprietari delle aree), mentre non si danno le condizioni per la formazione di opposizione da parte della società civile. In questo caso è evidente l’uso ‘politico’ del processo di ridefinizione scalare, sebbene da un punto di vista amministrativo il territorio era e resta quello compreso all’interno dei confini comunali. Si pone quindi la questione del significato e delle implicazioni (eventualmente: della ‘compatibilità/coerenza’) del ricorso allo strumento delle compensazioni nella forma in cui qui è stato utilizzato, all’interno di uno strumento, il PRG, in cui territorio e ‘scala’ (comunali) sono pre-definiti. 2. Lo spostamento dei diritti edificatori e del conflitto dalla scala locale ad una più vasta, non ha comportato una revisione e ridefinizione dell’assetto complessivo alla nuova scala del territorio comunale, né un ripensamento a scala metropolitana (forse la più adeguata a trattare il problema nella nuova configurazione). La ridefinizione della scala del problema è, da un certo punto di vista, solo ‘strumentale’ al raggiungimento di uno specifico obiettivo (la soluzione del conflitto) e mette in luce come, di fatto, il territorio sia stato trattato come ‘supporto neutro’ alle attività economiche (in questo caso, quello dell’edilizia). Questo mette in luce la ‘resistenza’ di una definizione ‘non-thick’ di territorio nei processi di pianificazione come processi redistributivi, che si evidenzia tanto più quanto più gli interessi sono a-spaziali (o non legati a specifici luoghi). E’ quasi ovvio che questo fenomeno assume una rilevanza specifica all’interno del discorso sulle forme e sui modi che in cui il neo-liberismo si manifesta. Le compensazioni a distanza, che implicano uno ‘scollamento’ del diritto edificatorio dal suolo specifico che lo aveva generato, contribuiscono a sostenere e legittimare tale fenomeno. 3. La società civile e le associazioni che si battevano per la tutela della tenuta di Tor Marancia, e che hanno considerato una vittoria la sua non-edificazione non hanno percepito il significato dell’operazione per la città: per far questo sarebbe stata necessaria la capacità di cogliere il problema nel passaggio di scala. Si tratta pertanto, a nostro parere, di un caso emblematico di ‘trappola scalare’ (D’Albergo e Moini 2011), che da un lato è parte (più o meno premeditata) del processo di “political rescaling”, dall’altro dimostra di un limite di capacità ‘strategica’ da parte degli attori impegnati nelle mobilitazioni: questa non riguarda solo la capacità di individuare i giusti interlocutori alla scala adeguata, ma anche il saper interpretare significato e implicazioni di una questione alle diverse scale.
Figura 3. L’effetto ‘esplosivo’ delle compensazioni di Tor Marancia.
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GIS e giustizia sociale nella gestione territoriale: luci ed ombre
GIS e giustizia sociale nella gestione territoriale: luci ed ombre Elena Giannola Università degli Studi di Palermo Dottorato in Pianificazione Urbana e Territoriale Facoltà di Architettura Email: elena.giannola@unipa.it Tel. 327.2062694
Abstract Il tema della giustizia sociale negli ultimi anni è sempre più presente nel dibattito contemporaneo: i meccanismi della politica e dell’economia, il fenomeno della globalizzazione, la concentrazione sempre maggiore di migranti nelle città europee e la composizione del contesto sociale urbano che si fa sempre più complessa e frammentata, rendono più profonde le fratture e le differenze tra cittadini. Politici e amministratori per adeguarsi alle “buone pratiche” internazionali hanno cercato di adottare nella gestione territoriale nuove strategie e nuovi strumenti, tra cui i GIS (Geographic Information System). Tali strumenti, per quanto comportino notevoli vantaggi, tuttavia non sono esenti da limiti ed errate impostazioni metodologiche. Infatti spesso vengono sfruttati solo ai fini di operazioni di “marketing urbano”, per conferire un’immagine di efficienza e modernità, e non per garantire realmente una partecipazione collettiva ed un accesso “democratico” ai processi decisionali.
Giustizia sociale: dibattito contemporaneo L’affermazione del neoliberalismo come sistema economico – politico “vincente” in Europa negli ultimi decenni, la diffusione sempre maggiore del fenomeno della globalizzazione, e di conseguenza le politiche di inclusione/esclusione rivolte alle culture, alle identità “altre”, “estranee” rispetto a quella dominante, hanno reso il tema della giustizia sociale un elemento fondamentale del dibattito contemporaneo. Il contesto privilegiato di applicazione di tali dinamiche politico – sociali è quello urbano: la città infatti è il luogo dove avviene l’incontro/scontro tra i meccanismi economici e i valori – cardine della struttura sociale, tra le ragioni del potere e quelle della vita quotidiana degli abitanti, il luogo dove la gestione delle risorse è soggetta a condizionamenti fortissimi, sostanzialmente esercitati da poteri esterni alla città e sovraordinati rispetto ad essa, che suscitano rivendicazioni e proteste sempre più esasperate da parte di chi è necessariamente costretto a subire le decisioni imposte “dall’alto”. La città odierna è un insieme complesso e intricato di forze e di interessi diversi, spesso inconciliabili. Al di là dei poteri definiti “forti”, costituiti dai rappresentanti istituzionali e dagli esponenti più facoltosi del mondo dell’imprenditoria e dell’industria, la città è popolata non da un’unica comunità ma da numerosi gruppi sociali, diversi per cultura, fascia d’età, provenienza, esigenze, aspettative, idea di futuro possibile. Il conflitto tra le parti per il diritto alle decisioni e alle scelte riguardo il territorio ha visto moltiplicarsi negli ultimi anni livelli, protagonisti e istanze: in tale contesto, in cui vige la “legge del più forte”, la capacità di applicare strategie di persuasione e strumenti di controllo è diventata sempre più indispensabile alla classe politica dirigente per evitare compromessi che possano limitare il suo potenziale d’azione e salvaguardare la propria leadership. Negli ultimi decenni inoltre si è andata consolidando una coscienza della cittadinanza che a partire “dal basso”, dalle minoranze escluse dalla gestione del territorio, sta segnando il passaggio ad una nuova società, in cui le differenze reclamano uno spazio adeguato e pari valore rispetto al resto della collettività. Sulla base teorica del pensiero di Jacques Rancière (Rossi, Vanolo, 2010), secondo cui la politica non equivale all’esercizio del Elena Giannola
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governo ma al contrario alla contestazione dell’ordine costituito per un continuo miglioramento e progresso reale della società, si va consolidando una “geografia minore” (Galluccio 2007) in cui le minoranze adottano sempre di più strategie comunicative e d espressive alternative per testimoniare la loro effettiva presenza sul territorio. Il dibattito sulla giustizia sociale e sulle questioni di democrazia urbana (Rossi, Vanolo, 2010) ha avuto origine nel mondo accademico negli anni ’70 con l’opera di John Rawls, A Theory of Justice (1971), in cui veniva presentata una sorta di mediazione tra libertà individuale e bene collettivo, quest’ultimo visto all’epoca come un intralcio al libero mercato. Del 1973 è l’opera di David Harvey, Social Justice and the City, che ricollega il tema della giustizia sociale a quella della generazione del capitale e del profitto, e alla lotta di classe, secondo un’interpretazione di stampo prevalentemente marxista. Numerosi studiosi hanno in seguito elaborato a tal proposito riflessioni e teorie, da Michael Walzer (1983) a Michael Sandel (1998), fino ad arrivare alla visione critica di Iris Marion Young (1990), che nel suo libro Justice and the Politics of Difference è la prima a parlare di partecipazione delle fasce più deboli alle scelte pubbliche e di necessità di espressione delle istanze delle minoranze all’interno del processo di gestione urbana. Questa visione fa ampio riferimento ad uno dei concetti – chiave del tema “giustizia” in ambito urbano, quello del cosiddetto “diritto alla città”, espresso nell’opera del filosofo francese Henri Lefebvre (1968): per lui lo “spazio” non era soltanto quello costruito ma anche quella dimensione che si viene a creare a livello emotivo, morale, culturale, identitario, che esiste al di là della componente fisico – strutturale in sé e che costituisce il senso di comunità e di appartenenza degli abitanti di una città. Senza questo, un insieme di abitazioni, strade, servizi, spazi pubblici, luoghi istituzionali, centri industriali e commerciali non può chiamarsi “città”: dunque Lefebvre afferma la superiorità del “valore d’uso” sul valore di scambio dei singoli edifici ed elementi che compongono lo spazio urbano. Il senso di appartenenza e di identità a sua volta è uno dei punti fondamentali delle indagini sull’immagine che i cittadini hanno della propria città, sul senso di benessere/malessere percepito, che influisce in modo determinante sulle aspettative, sulla qualità della vita urbana, sui meccanismi di apertura/difesa nei confronti di possibili elementi di novità provenienti dall’esterno. A tal proposito sono illuminanti gli studi di Kevin Lynch nell’opera The Image of the City (1960) sulla figurabilità urbana e le analoghe ricerche, condotte in Brasile, di Maurizio Memoli, raccolte nel suo libro La città immaginata. Spazi sociali, luoghi, rappresentazioni a Salvador de Bahia, (2005). Il bisogno di identificazione in un’immagine, una cultura, un modus habitandi , è uno dei motivi alla base delle proteste e delle contestazioni da parte dei cittadini contro le direttrici di sviluppo stabilite dai protagonisti del governo della città. Spesso infatti, in nome del raggiungimento di una posizione di concorrenzialità nei confronti del più ampio contesto nazionale e/o internazionale, essi adottano strategie e politiche non coerenti con le reali peculiarità e necessità del territorio che amministrano, stravolgendone gli equilibri consolidati. Dunque gli organi amministrativi per gestire i conflitti e trovare convenienti e ragionevoli accordi, al fine di portare avanti tali politiche etichettate con termini quali “modernità”, “progresso”, “sviluppo”, “avanguardia”, rivolgono tutti i loro sforzi verso la conquista del consenso collettivo (Forester, 1989), ottenuto oggi proprio sfruttando quella nuova coscienza urbana, quella nuova consapevolezza dei propri diritti che si è andata rafforzando in questi ultimi decenni. La propaganda dei programmi politici, e in particolar modo di quelli che riguardano il governo del territorio, viene condotta infatti mettendo a disposizione spazi di dialogo e confronto con determinate rappresentanze di cittadini, inaugurando strumenti innovativi come i servizi resi disponibili on – line, giustificando le scelte dell’amministrazione dietro nomi di professionisti illustri, proponendole come “il meglio” di cui si dispone. In quest’ottica, i GIS (Geographic Information System), soprattutto quelli di facile utilizzo da parte di utenti non specializzati nel settore, diventano uno strumento fondamentale di comunicazione tra l’amministrazione e il cittadino, un veicolo fondamentale di costruzione del consenso, piuttosto che di reale informazione e conoscenza.
I GIS: icona o illusione della modernità L’articolo di Jerome Dobson, Automated Geography (1983), inaugura il dibattito sui GIS, (sistemi informatici che mettono in relazione dati alfanumerici con punti georeferenziati di mappe informatizzate). Svolta tecnologica verso la modernità o rischio di riduzione ad un eccessivo ed esclusivo tecnicismo? Il dibattito sui GIS in ambito geografico è stato lungo e controverso, fondato principalmente sulle riserve riguardo la loro effettiva “democraticità”, o piuttosto sul rischio di una loro strumentalizzazione e di un loro possibile utilizzo al servizio dei poteri precostituiti. Le posizioni degli studiosi in merito in questi ultimi 30 anni sono state varie e complesse, dall’entusiastico elogio che ne fa Stan Openshaw (Openshaw, 1996) alla visione più prudente e critica di John Pickles e seguaci, (Pickles, 1995), alimentando un corpus disciplinare notevole e una rielaborazione di concetti e impostazioni metodologiche che hanno portato via via all’accettazione sostanziale di tali nuovi strumenti, a patto di sviluppare adeguate metodologie di utilizzo e di definire opportuni confini disciplinari e relativi criteri di interpretazione. Per dirla con le parole di Alfonso Giordano, “la domanda che molti si pongono è se il tradizionale modo di
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costruire un GIS non rinforzi e legittimi le esistenti relazioni di potere e non perpetui le disuguaglianze sociali” (Giordano, 1996). In Italia tali sistemi informatici vengono anche definiti Sistemi Informativi Territoriali (SIT), con una maggiore enfasi sulla dimensione “territoriale” degli stessi, quindi con un’accezione più materiale e concreta del loro significato essenziale. Nel passaggio dal contesto del dibattito più prettamente teorico – accademico a quello dell’applicazione pratica, i GIS come gli altri strumenti subiscono necessariamente un riadattamento a quelle che sono le specifiche caratteristiche del sistema gestionale in questione, le competenze dei tecnici che li utilizzano e le finalità che essi perseguono. Al contempo, in funzione della novità di tali strumenti, le metodologie non solo di utilizzo degli stessi ma anche e soprattutto di impostazione delle analisi, della raccolta dei dati, dell’individuazione delle potenzialità operative e progettuali, vengono inevitabilmente rielaborate e rimodellate in maniera adeguata. Oggi vi sono svariate forme di GIS e web – GIS, alcuni dei quali aperti a fasce estremamente ampie di utenti. Ѐ il caso, per citarne uno, del software Google Earth, che rappresenta l’icona della “democraticità”: scaricabile gratuitamente da internet, richiede requisiti minimi di sistema per l’installazione, disponibile in diverse lingue, consente di entrare con un semplice “click” all’interno dei centri urbani più impensabili, visualizzando le immagini costantemente aggiornate; consente inoltre di realizzare disegni in 3D di determinati contesti urbani e di caricarli sul sistema. L’idea di fondo sembra essere “tutti possono esplorare ogni luogo possibile”. Certo, i limiti in realtà vi sono e sono notevoli, ma finché il sistema viene utilizzato per scopi puramente personali e per divertimento, non emergono in modo evidente. Tuttavia sono presenti, latenti, e sono rappresentati dal sottile equivoco del considerare “vera” una rappresentazione che per sua definizione non può esserlo. Una rappresentazione è sempre un filtro, una lente di interpretazione della realtà, ma sullo schermo di un computer l’immagine è così verosimile da rendere davvero difficile non considerarla autentica e oggettiva in senso pieno. La discussione sui GIS inoltre è resa più complessa dal fatto che con il termine “GIS” si indica tutta una serie di strumenti estremamente diversi tra loro, per cui restringo qui il campo ai GIS che possono essere utilizzati nella pianificazione urbana e territoriale, o resi disponibili come veicolo di comunicazione di piani, progetti, indirizzi tecnico – politici. L’impatto tra GIS e pubbliche amministrazioni (Ciancarella, Craglia, Ravaglia, Secondini, Valpreda, 1998) costituisce il punto in cui si inserisce l’intervento politico nel controllo e nell’orientamento dei percorsi da seguire, in vista di ben precisi e determinati obiettivi da raggiungere, primo fra tutti come già accennato la diffusione di un’immagine positiva dell’operato dell’amministrazione di riferimento e un implicito suggerimento al consenso. L’utilizzo dei GIS come strumento di pianificazione, per esempio nei Piani territoriali di coordinamento provinciale, è attualmente riservato alla sola categoria dei tecnici, che sfruttano le mappe informatizzate per sistematizzare i dati, ottenere differenti layer, ovvero strati di informazioni, da visualizzare separatamente e mettere in relazione di volta in volta a seconda delle fasi del lavoro: ben altra cosa sono invece i GIS a cui tutti gli altri utenti possono accedere, che servono quasi esclusivamente come strumento informativo e assolutamente non partecipativo. Un esempio concreto può contribuire a rendere più chiaro il concetto: molti siti istituzionali di comuni italiani, come quello del Comune di Milano (Figura 1), riportano al loro interno link che rimandano a mappe interattive, o meglio ancora agli elaborati del Piano Regolatore Generale, o altri Piani che coinvolgono il territorio comunale; sono presenti inoltre link che rimandano a sistemi informativi regionali (per esempio il portale S.I.T.R. della Regione Sicilia). Può essere particolarmente interessante indagare su cosa effettivamente venga messo a disposizione dell’utente, su quale sia il punto di vista di chi propone il servizio o il documento in relazione a chi ne è il destinatario ultimo. Come si vede dall’immagine, questi strumenti vengono presentati come elementi che “facilitano” il dialogo tra amministrazione pubblica e cittadino: termini come “on-line”, “aggiornato”, “accessibile 24 ore su 24”, trasmettono un’immagine di efficienza, trasparenza, comodità, eccezionalmente efficace ed immediata. Si tratta di un’ottima pubblicità che contribuisce ad innalzare la posizione di un comune “virtuoso” come Milano nella graduatoria delle città funzionali, attrezzate, dove la web- communication ha risolto almeno apparentemente tutti i problemi della vecchia, polverosa, obsoleta burocrazia degli uffici e delle scartoffie. In realtà le cose non stanno esattamente così: se analizziamo più in profondità la questione ci renderemo conto che sia a livello strettamente tecnico che a livello disciplinare l’utilizzo di un “GIS per tutti” presenta delle problematiche e delle incongruenze che contribuiscono ad allontanare i cittadini dall’arena del reale conflitto e ad accontentarli con immagini illusorie di qualcosa che nei fatti continua ad essere loro negata, ovvero la possibilità di accedere con pieno diritto al tavolo decisionale.
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Figura 1. Pagina dei servizi on-line presente all'interno del sito istituzionale del Comune di Milano Le rappresentazioni cartografiche, comprese quelle informatizzate, sono fortemente influenzate da molteplici fattori: da chi sono redatte, per quali finalità vengono realizzate, quale contesto culturale le produce, a chi sono rivolte. In quanto prodotti culturali sono dei testi, soggetti ad una precisa “retorica” formale che può essere svelata attraverso un processo di “decostruzione” (Harley, 2001). In qualsiasi elaborato cartografico, compreso quello informatico, può essere rintracciata una retorica di fondo, che è necessario individuare e tenere in conto per cogliere il reale valore semantico e la reale funzione dell’elaborato in questione: solo in questo modo è possibile riconoscerne i limiti, indagarne le caratteristiche e le potenzialità, per leggerlo ed utilizzarlo senza ambiguità, equivoci o forzature. Proviamo per esempio a decostruire il GIS presente sul sito del comune di Milano: innanzitutto teniamo presente che l’autore del GIS è l’ente pubblico. Ciò significa che la raccolta dei dati, la scelta di quali inserire nel sistema e di quali invece fossero superflui o fuorvianti, è stata effettuata da chi ha dirige il governo del territorio che sta descrivendo: dunque tale descrizione non è oggettiva in senso stretto. Le finalità per cui è stato redatto sono ufficialmente la comunicazione delle azioni della pubblica amministrazione in tema di pianificazione e la sensibilizzazione dei cittadini nei confronti dell’utilizzo delle risorse del proprio territorio: ma non è difficile individuare in questo una sottesa volontà di pubblicizzazione dell’impegno degli amministratori, per suscitare negli utenti valutazioni positive del servizio e dunque predisposizione favorevole e fiducia nei confronti degli amministratori stessi. Risulta chiaro che attraverso questo portale web non è possibile esprimere la propria opinione; non è prevista la contestazione delle norme di piano, né quella delle modalità di rappresentazione del territorio, l’utente non è abilitato ad alcuna modifica del sistema. Questo contraddice l’idea di “sportello interattivo” presentata dalla citata pagina web. Inoltre per quanto riguarda l’accessibilità, essa è limitata agli utenti che possiedano un computer e che dispongano di una connessione ad internet, che abbiano le necessarie competenze per utilizzare il portale web: ne risultano dunque escluse significative fasce di popolazione, che per età, dotazione strumentale e conoscenze non possono usufruire del servizio. Naturalmente si tratta solo di un esempio: diversi comuni italiani presentano all’interno dei loro siti modalità di comunicazione tra cittadino e amministrazione tramite posta elettronica, ma se consideriamo che tutto questo è solo un semplice optional, una dotazione facoltativa di amministrazioni che si autodefiniscono “eccellenti”, e non un reale spazio di espressione giuridicamente riconosciuto, la questione resta aperta.
Elena Giannola
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GIS e giustizia sociale nella gestione territoriale: luci ed ombre
Conclusioni Diversi sono gli aspetti da affrontare e ridefinire affinché i GIS possano realmente assumere un ruolo importante in un momento come quello odierno, in cui le riforme legislative e le profonde trasformazioni socio – culturali rendono sempre più urgente un cambiamento profondo dei sistemi di gestione di un territorio in continua e rapida evoluzione. In un contesto sempre più multiculturale e globalizzato, in una congiuntura politico – economica singolare come quella della crisi di cui osserviamo oggi le conseguenze, è necessario analizzare con lucidità e razionalità le potenzialità rappresentate dalla ricerca, perché tali risorse servano finalmente per il miglioramento della qualità della vita quotidiana di tutti noi. Il dibattito non può rimanere confinato all’ambito disciplinare degli specialisti del settore, degli “addetti ai lavori”: se si individua nella partecipazione il futuro della società urbana diventa allora un dovere preciso costruire strumenti adeguati per la sua realizzazione. Al di là dei loro limiti, i GIS possono costituire un importante supporto per la pianificazione e per la realizzazione di quella partecipazione collettiva, di quell’accessibilità alle decisioni e ai processi di elaborazione dei piani territoriali, indispensabile per garantire una reale efficacia delle scelte, un reale progresso socio – economico, un mirato sfruttamento delle risorse. L’indagine sulla diffusione, l’utilizzo e la gestione di tali software appare quindi oggi investita di un ruolo – chiave per interpretare e comprendere le trasformazioni in atto nella società, che si ripercuotono nella visione e nella gestione di uno spazio definito “territorio”, che costituisce il nostro “habitat”.
Bibliografia Ciancarella L., Craglia M., Ravaglia E., Secondini P, Valpreda E., (1998), La diffusione dei GIS nelle amministrazioni locali italiane. Nuove opportunità per il governo del territorio, Milano, Francoangeli; Forester J., (1989), Planning in the Face of Power, The Regents of the University of California; Galluccio F., (2007), “L’impero e le sue scale:«metafisica» del potere, tracce per una geografia minore”, in Rivista geografica italiana, n. 113, vol. 1, pp. 27 – 45; Giordano A., (1996), “Gli aspetti sociali dei sistemi informativi geografici: riflessioni su possibili direzioni di sviluppo dei GIS”, in Geotema n. 6, pp.57 – 68; Harley B., (2001), “Deconstructing the map”, in C. Minca (a cura di), Introduzione alla geografia postmoderna, CEDAM, Padova, pp.237 – 258; Harvey D., (1973), Social Justice and the City, Arnold, London; Lynch K., (1960), The image of the city, Massachussets Institute of Technology and the President and Fellows of Harvard College; Memoli M., (2005), La città immaginata. Spazi sociali, luoghi, rappresentazioni a Salvador de Bahia, Milano, Francoangeli; Openshaw S., (1996), “Il geociberspazio: una nuova frontiera di ricerca per il geografo”, in Geotema n. 6, pp. 88– 99; Rossi U., Vanolo A., (2010), Geografia politica urbana, Bari, Laterza. Sito web Servizi al cittadino disponibili sul sito ufficiale del Comune di Milano, nella sezione Servizi online http://www.comune.milano.it/portale/wps/portal/!ut/p/c1/04_SB8K8xLLM9MSSzPy8xBz9CP0os_hAc8OgAE8 TIwMDJ2MzAyMPIzdfHw8_Y28jQ_1wkA6zeD9_o1A3E09DQwszV0MDIzMPEyefME8DdxdjiLwBDuBooO _nkZ-bqlQnZ3m6KioCADL1TNQ/dl2/d1/L2dJQSEvUUt3QS9ZQnB3LzZfQU01UlBJNDIwT1RTMzAySEtMVEs5TT MwMDA!/?WCM_GLOBAL_CONTEXT=/wps/wcm/connect/ContentLibrary/servizi+on-line/servizi+online/ servizi+on+line+home+page
Elena Giannola
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Malessere territoriale e proteste dei cittadini: i perchè di un Atlante
Malessere territoriale e proteste dai cittadini: i perché di un Atlante Laura Fregolent Università IUAV di Venezia Email: indirizzo@xyz.com Tel. 041.2572114 - fax 041.2572424
Abstract Università IUAV di Venezia e Legambiente Veneto hanno avviato un lavoro di ricognizione sul territorio regionale finalizzato alla rilevazione delle conflittualità legate ad interventi di trasformazione territoriale. Attività che ha portato alla costruzione di un Atlante del malessere territoriale, e cioè di una banca dati informatizzata dei progetti e delle scelte urbanistiche che hanno determinato forme diverse di conflittualità. Il lavoro svolto ci permette di affermare che il numero di conflitti e di comitati attivi evidenziano un interesse permanente nei confronti delle questioni ambientali e di avere una qualche preoccupazione portandoci a pensare che le dinamiche di sviluppo territoriale e di uso del territorio hanno avuto un ruolo significativo nel fenomeno che va ora manifestandosi. Inoltre, la conflittualità va letta come una richiesta di coinvolgimento nei processi di trasformazione territoriale, di volontà di poter incidere sulle scelte che hanno ricadute dirette su cittadini e qualità del vivere.
Un inquadramento Questo saggio restituisce il lavoro di ricerca condotto sul territorio regionale veneto finalizzato alla rilevazione del numero e delle forme di conflittualità esistenti, legate ad interventi di trasformazione territoriale. È stata avviata la mappatura dei casi rilevati che confluirà in una banca dati informatizzata, attraverso la quale si metteranno in evidenza da un lato le condizioni di malessere e conflittualità locale ma soprattutto i progetti e le scelte urbanistiche che hanno determinato tali azioni di protesta. La mappa delle conflittualità è ampia e articolata sia per le motivazioni che per il coinvolgimento di soggetti diversi. I conflitti avvengono: tra cittadini e amministrazione pubblica (Comune, Provincia, Regione, Stato, ecc.) per progetti ed interventi che hanno un impatto significativo o che creano disagi e problemi ai cittadini (costruzioni di nuove infrastrutture, impianti di smaltimento rifiuti, ecc.); tra gruppi di cittadini, associazioni e soggetti privati, ad esempio, per interventi edificatori che mettono a rischio il paesaggio e l’ambiente; tra più amministrazioni pubbliche per scelte e decisioni operate ad un livello istituzionale che hanno però ricadute “negative” ad un altro livello istituzionale. Va detto che il conflitto è un aspetto intrinseco e inevitabile del cambiamento sociale, è espressione dei diversi interessi in gioco, della diversità di posizioni, della ricchezza della composizione sociale. Il conflitto però è anche espressione di malessere, di insofferenza, di una comunicazione interrotta tra soggetti decisori e detentori di potere politico e soggetti portatori di istanze di cambiamento. Si tratta in questo caso di un difetto che incorre nel processo democratico e che mette in guardia rispetto alla necessità di rivedere le scelte fatte e di individuate soluzioni alternative. Quanto emerge ma anche già noto è che la causa di un conflitto non è mai unica, ma le motivazioni sono diverse e profondamente legate al contesto nel quale l’opera si inserisce talvolta a questioni specifiche che vanno dalla realizzazione dell’opera a come il processo decisionale è stato condotto e a quali fratture ha generato tra i diversi soggetti coinvolti. Inoltre ad una causa scatenante che è la ragione stessa del conflitto, vale a dire: la realizzazione dell’opera, lo stravolgimento del progetto esistente, i pericoli per la salute; si associano altre motivazioni concorrenti o effetti dannosi derivanti dalla realizzazione stessa, la cui individuazione contribuisce
Laura Fregolent
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Malessere territoriale e proteste dei cittadini: i perchè di un Atlante
ad un’analisi più attenta del fenomeno e soprattutto all’introduzione di eventuali opere correttive e di mitigazione dell’impatto (Bartolomeo, 2009).
I dati raccolti Sono stati schedati complessivamente 52 conflitti distribuiti nel territorio provinciale di Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Rovigo e Treviso. Il primo dato significativo è, quindi, il numero sostenuto di conflitti presenti sul territorio regionale, inoltre la fase di rilevazione è tuttora in corso e all’oggi alcune delle mobilitazioni che nell’arco degli ultimi mesi si sono manifestate in maniera più evidente non sono state ancora mappate. Il numero di proteste, come ovvio, ci pone in una condizione di maggiore attenzione nei confronti di un fenomeno conflittuale che ha proporzioni rilevanti. Il numero di conflitti ed il numero di comitati attivi evidenziano di un interesse che continua ad essere presente nei confronti delle questioni ambientali, e sollevano una qualche preoccupazione di fronte ad un dato così significativo e fanno pensare che forse le dinamiche di sviluppo territoriale e di uso del territorio che il Veneto ha registrato nel corso degli ultimi decenni hanno avuto 1 un peso rispetto al fenomeno che si sta segnalando . L’elaborazione fatta sui dati e restituita è relativa ai conflitti aggregati per il tipo di intervento che ha prodotto forme di mobilitazione collettiva. Dei 52 conflitti schedati 44 sono ancora in atto e otto sono conclusi e possono essere così raggruppati: 13 sono relativi alla costruzione di strade o opere infrastrutturali quali la costruzione di un casello autostradale, la camionabile sul tracciato dell’idrovia Padova-Venezia, il Terminal gasifero al largo dell’area del Delta del Po. Tutte opere ad alto impatto, alcune inserite in contesti territoriali abitati: opere che con la loro realizzazione frammentano il tessuto urbano, disperso per forma e struttura, ma aggregato dal punto di vista delle relazioni sociali; 5 a fenomeni di inquinamento elettromagnetico, dell’aria, causato da scarichi industriali, ad esempio, delle industrie conciarie del vicentino e sversati in corsi d’acqua; 18 sono proteste legate ad espansioni di diverso tipo, residenziali, commerciali, produttive, aree portuali, sostanzialmente progetti (alcuni in fase di realizzazione) anche di grande dimensione che minacciano il paesaggio e consumano suolo libero. Operazioni ad alto impatto sia ambientale che sociale per la superficie libera interessata, per le implicazioni a livello di mobilità che i nuovi progetti determineranno, per la messa a rischio di alcune economie locali come nel caso degli interventi di carattere commerciale; 4 toccano in vario modo la questione rifiuti: si va dal trattamento degli stessi, alla bonifica dei suoli inquinati, all’ampliamento di una discarica esistente per rifiuti non pericolosi. Tema questo dei rifiuti che ha subito nell’arco degli ultimi due decenni alcuni cambiamenti; lentamente le proteste non hanno più interessato la costruzione di discariche o il loro ampliamento, ma da un lato la messa in sicurezza dei terreni, dall’altro e soprattutto le normative progressivamente applicate sul riciclaggio e il riuso dei materiali di scarto ha portato ad una soluzione, quasi definitiva, del problema del trattamento dei rifiuti solidi urbani (Fregolent, 2005). Ora la questione si sposta, infatti, sul trattamento dei rifiuti pericolosi e anche sull’insediamento di impianti di trattamento del rifiuto umido e di produzione di biogas; 3 sono legati ad attività di escavazione o di trattamento di materiali di scavo in aree ad alto valore ambientale. Parallelamente alla protesta nei confronti di un’attività che può produrre polvere e incrementare il livello di rumore e traffico è molto presente la questione dell’aggressione ai valori paesaggistici e ambientali che operazioni di scavo comprometterebbero irreparabilmente; 7 sono connessi a progetti che hanno un alto impatto su aree verdi già previste negli strumenti di pianificazione e destinate a parco pubblico urbano ma che nel tempo sono diventate appetibili per la loro localizzazione e per le loro potenzialità di trasformazione. Il tentativo è quello di trasformarle in aree urbanizzabili trascurando completamente l’importanza dello spazio verde all’interno di quartieri residenziali, il ruolo di polmone verde, il diritto dei cittadini ad una qualità del vivere che passa anche attraverso la qualità del verde pubblico; 2, infine, sono conflittualità legate ad esempi di pianificazione di scala vasta che coinvolgono diversi comuni: il primo in un progetto di piano d’area metropolitano, il secondo in una piano ambientale. L’aver distinto i conflitti in base alle categorie dei progetti individuati restituisce la motivazione principale del conflitto connessa all’opera o alla trasformazione in atto (strade e infrastrutture; inquinamento; espansioni residenziali e non; rifiuti; cave; zone verdi; piani d’area), a queste si associano però altre motivazioni 1
Sarebbe interessante analizzare anche altri contesti regionali per verificare l’affezione alle questioni ambientali. Si veda a questo proposito la ricostruzione fatta da della Porta e Diani (2004, p. 41 e seg.) sui movimenti ambientalisti nei diversi contesti territoriali del nostro paese.
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(individuate nelle schede di rilevazione) che definiamo “sottostanti” e che articolano ulteriormente i caratteri delle conflittualità indagate e che sono state interpretate da chi ha compilato le schede non solo come motivazioni del conflitto ma anche come effetti del progetto e dell’opera da realizzare o realizzata. Viene restituito, quindi, un quadro di cause molteplici ma interrelate che caratterizzano queste proteste con una ragione principale che identifica il conflitto, accompagnata da altre motivazioni. Le connessioni cioè che i comitati stessi mettono in evidenza con l’ambiente ed il territorio sono molto articolate, ad esempio, l’insistenza (nelle schede) della scelta della voce “aggressione al paesaggio” dimostra da un lato l’aumento delle pressioni sul territorio e alle trasformazioni che i territori abitati spesso subiscono dall’altro una rinnovata sensibilità dei cittadini nei confronti dell’ambiente e del paesaggio. Una considerazione che si può fare relativamente a ciò è l’interesse culturale che nel tempo si è manifestato proprio nei confronti delle questioni paesaggistiche e del fatto che l’aggressione al paesaggio, alle bellezze naturali, al territorio incontaminato che viene violato dall’opera sia essa un’infrastruttura, un’espansione industriale, la costruzione di un’antenna per emittenti radiofoniche o la costruzione di un distributore di benzina, danneggia il paesaggio e di conseguenza la collettività nel suo complesso.
Alle origini del conflitto: la mancata pianificazione Spesso alla base delle proteste ci sono scelte urbanistiche discutibili, non compatibili con il contesto sociale ed ambientale, legate alla proposta e/o realizzazione di progetti all’origine non previsti dagli strumenti di pianificazione vigenti che però vengono prontamente modificati con varianti ad hoc al fine di rendere le realizzazioni possibili. Gli esempi sono molteplici, avvengono alla scala territoriale, attraverso un piano regionale che destina funzioni ad alto impatto sul territorio, avvengono alla scala urbana, come nel caso di Padova dove una variante parziale al PRG nel 2003 (cfr. Ginestri, Passi, 2010) mette a rischio alcune zone verdi a ridosso di quartieri abitati, proponendo uno sviluppo urbano intensivo in aree ora libere. Contro questa variante, le associazioni ambientaliste raccolsero migliaia di firme per la difesa dei “cunei verdi” residui e che costituivano la matrice verde del vecchio PRG, ed impedire una nuova edificazione proprio in quegli spazi, così come intorno ad alcuni progetti infrastrutturali che interessano la città. Il caso di Padova è un caso interessante proprio perché siamo di fronte ad un progetto che interessa l’intera città e in parte anche il suo hinterland, si è cioè in presenza di un disegno più ampio che coinvolge soggetti politici ed istituzionali diversi, che interessa grandi interventi impattanti alla scala urbana e territoriale senza essere però alcuna forma di coinvolgimento e partecipazione della popolazione. Le proteste intorno al Piano di Assetto del Territorio Intercomunale (PATI) dell’area metropolitana padovana hanno portato alla definizione di uno Studio sulle emissioni di CO 2 conseguenti agli interventi previsti nel piano (incremento del traffico e nuove lottizzazioni produttive e commerciali) e allegato al Rapporto Ambientale. Tale studio ha messo in evidenza come le emissioni aumenteranno nel prossimo decennio fornendo, quindi, alla protesta contro la realizzazione delle nuove infrastrutture viarie previste e delle nuove lottizzazioni ulteriori elementi di criticità. Una delle critiche maggiori contenute nelle osservazioni al PATI è proprio l’incremento della nuova superficie edificabile in assenza di un progetto unitario di salvaguardia e riqualificazione ambientale e la mancata attivazione di meccanismi di partecipazione. Dalle elaborazioni fatte risulta che nel territorio metropolitano di Padova esistono oltre 3.000.000 mq di aree ancora inutilizzate ma destinate dai PRG dei diversi Comuni ad attività produttive, commerciali e direzionali, che il PATI conferma e aumenta prevedendo 1.446.315 mq di nuove aree di trasformazione. Sono diversi i casi di interesse alla scala urbana che evidenziano un uso dello strumento della variante di piano per introdurre, seppur in mancanza di un disegno complessivo sulla città, interventi di trasformazione importanti e radicali, soprattutto di sottrazione di zone verdi. Dal punto di vista dell’uso e del consumo di suolo è esemplare anche quanto sta succedendo lungo la riviera del Brenta tra Venezia e Padova, area interessata da diversi progetti ad alto impatto contestati dalle associazioni locali. L’area fa parte di un sistema insediativo peculiare studiato e noto come “città diffusa” costruitosi grazie ad una serie molteplice di fattori di carattere economico e sociale che si sono manifestati con una certa rapidità a partire dagli anni ’70, e che hanno determinato un cambio abbastanza radicale della struttura produttiva esistente, evolutasi nella forma distrettuale della piccola e media impresa, e nei caratteri morfologici del territorio interessato ora da una progressiva forma di urbanizzazione a bassa densità insediativa. Forma che all’oggi mostra tutta la sua debolezza e criticità in termini di consumo di suolo, permeabilizzazione dei suoli, difficoltà di portare servizi adeguati negli insediamenti consolidatisi nel tempo. Nell’area si concentrano una serie di opere infrastrutturali (Fregolent, Savino, 2011) profondamente contestate dai comitati locali ma anche i progetti di Veneto city e della Città della moda. Veneto city occupa la superficie di circa 2.000.000 mq con una cubatura prevista di circa 2.000.000 mc tra i comuni di Dolo e Pianiga. Ha una destinazione d’uso mista, infatti, oltre a quella commerciale, sono previste funzioni quali: ospedaliera, Laura Fregolent
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direzionale regionale, polo fieristico, polo universitario, centro ricerche. Veneto City, nelle intenzioni dei suoi promotori, dovrebbe diventare un enorme centro polifunzionale ma le preoccupazioni dei paesi della Riviera si sono manifestate su vari aspetti, dalla qualità del vivere, all’incremento di traffico, al rischio per l’economia legata al commercio minuto questione quest’ultima più volte sollevata anche dalle Associazioni di categoria in particolare da Confesercenti. In prossimità di Veneto city, anche se fuori dal corridoio infrastrutturale, troviamo un’area destinata all’espansione nota come Verve o Città della Moda. Un’area che è diventata oggetto di un Piano integrato di riqualificazione urbanistica edilizia e ambientale, cioè di uno strumento la cui finalità è il recupero urbano ed edilizio e che invece interviene in un’area ad uso agricolo completamente inedificata. Verve propone edilizia residenziale, un centro commerciale con 70 negozi d’alta moda, ma anche uffici, hotel, ristoranti, centro congressi, museo, teatro, parco a tema e attracco sul Naviglio Brenta per imbarcazioni: 115.000 mq complessivi di cui 45.000 mq interessati dal progetto. Se non fosse per la presenza della quota residenziale e del potenziale di mobilità acquea data dalla presenza del Naviglio, potremmo pensare ad un’inutile duplicazione di funzioni. Servizi e funzioni come quelle proposte e contenute nei due progetti vanno, non solo, calibrate su un territorio ampio, ma devono essere frutto di politiche che danno corso ad operazioni di scala territoriale, che riescano a far coagulare progetti ed interessi diversi, senza perdere di vista le valenze ambientali e paesaggistiche presenti e i diritti delle comunità insediate, che interpretano la “crescita” in chiave strategica e sostenibile e quindi incentivando al riuso dell’esistente e del suolo già compromesso anziché ad una nuova antropizzazione di suolo agricolo.
Considerazioni conclusive L’operazione di schedatura e monitoraggio ha consentito la raccolta di osservazioni e commenti di comitati o soggetti rilevatori dei conflitti, relativamente ad altre dinamiche di intervento e trasformazione del territorio. Quello che è stato messo in evidenza è cioè un quadro molto più articolato di quanto non traspaia dalle schede raccolte, che è fatto di mobilitazioni, micro-conflitti non violenti, ma anche denunce, lettere, proteste forse più silenti ma non meno importanti dal punto di vista della nostra rilevazione e riflessione, e che mettono in evidenza la costante aggressione al territorio sotto forma di lottizzazioni selvagge in aree di pregio piuttosto che progetti di campi fotovoltaici in aree agricole. Questo rende necessario un intervento volto a catalizzare intorno a tutte queste proteste, conflittualità e malesseri un’azione propositiva di intervento rivolta ai soggetti istituzionali che, in primis, sono deputati al governo delle trasformazioni del territorio, attraverso proposte ed azioni che rendano indispensabile e imprescindibile il coinvolgimento attivo dei diversi soggetti coinvolti. Partiamo, infatti, dalla considerazione che è necessario affrontare i processi di trasformazione territoriale in maniera diversa, più inclusiva e che il numero sostenuto di schede raccolte sui conflitti in atto o conclusi, restituiscono un quadro regionale di alta frammentazione e che ci spingono a ragionare su quali possano essere le strade da perseguire. Anche se alla scala locale forse amministratori e sindaci godono ancora della fiducia dei loro elettori il numero di comitati spontanei 2 che nascono e che hanno carattere di manifestazione pacifica di interessi collettivi denunciano di un’insoddisfazione nei confronti di chi amministra. I cittadini non si fidano dei propri amministratori e questa mancanza di fiducia non è facilmente recuperabile se non attraverso l’utilizzo di forme di coinvolgimento e informazione, di valutazione e di trasparenza in fase di progettazione e di realizzazione delle opere che consentano al cittadino una verifica sui processi in corso ed un avvicinamento alla complessa macchina amministrativa. La risposta del cittadino è stata quella di riappropriarsi degli spazi che la politica ha disertato, di dichiarare quali sono le mancanze, gli errori e le inefficienze dell’amministrazione e della gestione del territorio (cfr. Rosanvallon, 2006). In una simile situazione sarebbero auspicabili forme consolidate di coinvolgimento allargato che invece risultano essere pratiche estemporanee di qualche municipalità o comune avveduto. I processi inclusivi sono certamente faticosi e richiedono tempo, risorse ed energie ma anche grandi capacità di coordinamento nonché disponibilità da parte dei soggetti in gioco alla ricerca e individuazione di scelte condivise anche in presenza di obiettivi non modificabili. Le associazioni ambientaliste, all’interno di un quadro così delineato, potrebbero svolgere un ruolo importante di cerniera tra cittadini e amministratori, diventando negoziatori di buone pratiche. La politica cioè non sembra essere stata capace di cogliere la complessità dei fenomeni in atto e di rispondere alle istanze dei cittadini con scelte adeguate o strategiche – forse perché troppo presa dalla preoccupazione di catturare un consenso, sempre più difficilmente misurabile –, allontanando azioni di rinnovamento, di maggiore 2
A questo proposito si vedano i lavori di ricognizione sui comitati veneti fatti da Zamparutti (2000) e Varotto e Visentin (2008).
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consapevolezza dei limiti imposti dalle risorse, di maggiore attenzione all’uso degli strumenti attraverso i quali governare i processi di trasformazione territoriale. A questo si affianca una responsabilità dei tecnici, Architetti, Urbanisti, professionisti in genere che si occupano di pianificazione e di trasformazione del territorio, che talvolta non usano le proprie capacità professionali e il proprio sapere per l’individuazione delle soluzioni migliori e che avvallano o supportano, in virtù delle loro conoscenze tecniche, scelte non sempre adeguate ai luoghi e ai caratteri fisici e sociali dei territori e alle esigenze delle comunità ivi insediate. Il sapere tecnico o scientifico, la consulenza esperta «assume sempre più la forma di una merce venduta e comprata» (Pellizzoni, 2011, p. 23) poiché il livello di intersezione tra il decisore e le scelte che il decisore vuole fare ed il suo esperto tendono a coincidere indipendentemente dai vincoli imposti dal contesto e dalle reali possibilità di realizzazione dell’opera. Il pianificatore ha, per sua natura, un ruolo diverso egli è un tecnico che affianca le decisioni politiche di un amministratore ma nel fare ciò non può prescindere dalla sua funzione che è quella di “orientare” alla scelta migliore sulla base di un’analisi ed una valutazione attenta dei vincoli, non solo fisici, imposti dal contesto, delle risorse disponibili, degli effetti potenziali di determinate scelte. Questo ci consente di aprire una riflessione sugli strumenti di piano e sul ruolo che la pianificazione ha o ha avuto in molti dei progetti che hanno originato i conflitti raccolti. Le scelte localizzative sono spesso connesse ad interessi particolari, mancano di respiro collettivo, sono dettate da logiche di profitto che indeboliscono lo strumento di piano. Di qui l’uso di varianti parziali o generali degli strumenti vigenti finalizzate alla realizzazione degli interventi in mancanza però di una valutazione complessiva sugli effetti territoriali delle scelte, ad esempio, Veneto City; in altri casi siamo in presenza di strumenti “orfani” approntati e redatti per obbligo di legge ma non voluti e scomodi, ad esempio, il Piano di Gestione delle ZPS del Delta del Po, strumento con un carattere molto specifico di tutela e salvaguardia di zone fragilissime ma visto da amministratori e cittadini interessati come ostacolo allo sviluppo quando invece la sua applicazione garantirebbe un regime di tutela delle risorse territoriali e ambientali evitando conflitti futuri. A questo proposito è esemplare il caso della darsena di 700 posti barca con alberghi e spazi per il commercio a Porto Caleri in comune di Rosolina in piena ZPS – reso possibile da una variazione al Piano d’Area che ha visto togliere il limite al numero dei posti barca – e il cui iter è stato bloccato nel 2007 da una denuncia alla Commissione Europea per la mancata applicazione della Direttiva Habitat. Vi è, quindi, in alcuni dei conflitti che abbiamo osservato una componente che potremmo ascrivere agli errori della progettazione e della pianificazione; errori che nel tempo si sono resi più evidenti, si sono acuiti a causa di fattori molteplici spesso legati all’uso che di quei territori si è fatto ma che possono trovare soluzione o essere migliorati solo attraverso pratiche di pianificazione che vanno giocate alle diverse scale dell’intervento e cioè combinando contemporaneamente uno sguardo sul quadro d’insieme e l’intervento minuto. Attraverso i diversi esempi raccolti e riportati pare evidente che i conflitti possono essere almeno in parte evitati poiché possono essere previsti, grazie ad un intervento sul territorio più consapevole ma anche attraverso pratiche di coinvolgimento attivo delle popolazioni interessate. Inoltre non va dimenticato che la sfida futura verrà posta anche dai problemi ambientali connessi ai cambiamenti climatici e con i quali le scelte politiche e la pianificazione territoriale auspicabilmente integrata dovranno sempre più fare i conti.
Bibliografia Bartolomeo M., et al. (2009), Libro Bianco su Conflitti Territoriali e Infrastrutture di Trasporto. Disponibile su: http://www.conflittiambientali.it/ricerche2.html. Della Porta D., Diani M. (2004), Movimenti senza protesta? L’ambientalismo in Italia, il Mulino, Bologna. Fregolent, L (2005), Quattro “R” per non litigare. AreaVasta, 10, pp. 67-71. Fregolent L., Savino, M., in Pezzagno M., Docchio S (a cura di, 2011), “Quando la soluzione diventa un nuovo problema. Prospettive della dispersione veneta tra politiche infrastrutturali e consumo di suolo”, Atti della XVII Conferenza Internazionale From metropolitan city to metropolitan corridor: the case of the Po Valley Corridor, Egaf edizioni, Forlì. Ginestri S., Passi L. (a cura di, 2010), Il danno. Padova: verde, speculazione e cemento nella seconda Repubblica, Legambiente, Padova. Pellizzoni L. (a cura di, 2011), Introduzione. La politica di fatti. I conflitti ambientali. Esperti, politica, istituzioni nelle controversie ecologiche, il Mulino, Bologna, pp. 7-38. Rosanvallon P. (2006). La contro-democrazia. La democrazia nell’era della differenza, Ricerche di Storia Politica, 3, pp. 289-301. Varotto M., Visentin L. F. (2008), Comitati locali e criticità ambientali in Veneto. L’evoluzione del fenomeno negli ultimi 10 anni», ARS, n. 116, pp. 9-17.
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Malessere territoriale e proteste dei cittadini: i perchè di un Atlante
Zamparutti A. (a cura di, 2000), Difendere l’ambiente nel Veneto: conflitti e comitati locali, Quaderno 3, Osservatorio Veneto, Verona.
Riconoscimenti Il lavoro restituisce i risultati di una fase della ricerca frutto della collaborazione tra Università IUAV di Venezia e Legambiente Veneto e finalizzata alla costruzione dell’Atlante del malessere territoriale, attraverso la schedatura e mappatura delle opere e dei progetti che generano proteste sul territorio. Le schede sono state compilate dai diversi circoli di Legambiente Veneto e dai Comitati spontanei coinvolti direttamente nelle proteste. Grazie al loro lavoro è stato possibile raccogliere i dati restituiti.
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Le Comunità di Valle in Trentino: una sfida tra autonomia politico-territoriale e riconoscimento identitario
Le Comunità di Valle in Trentino: una sfida tra autonomia politico-territoriale e riconoscimento identitario Rose Marie Callà Università di Trento Email: posta@rosemariecalla.it Alessandro Franceschini Università di Trento Email: a.franceschini@unitn.it
Abstract Nell’ambito di un’indagine conoscitiva socio-territoriale tesa a reperire informazioni utili per la stesura di un documento preliminare propedeutico alla stesura del Piano territoriale di comunità della Comunità Rotaliana Könisberg, il gruppo di ricerca coordinato dal prof. Corrado Diamantini dell’Università di Trento - attraverso la realizzazione di un’analisi «swot» - ha cercato di individuare i conflitti in essere sul territorio di riferimento e tra il territorio e soggetti eterogenei ed esterni ad esso, i punti di forza (strengths), di debolezza (weaknesses), le opportunità (opportunities), le minacce (threats) presenti, ma anche i possibili frammenti identitari al fine di (ri)costruire un’immagine composita e coerente di comunità e di territorio. Inoltre, dalle narrazioni dei soggetti coinvolti si è cerato di inferire l’immagine di futuro che possiedono e/o immaginano, al fine di fornire utili suggerimenti nelle fasi successive di progettazione sia di natura urbanistica, sia di natura sociale.
Premessa Dal recente passaggio di deleghe (dal livello provinciale a quello sovracomunale), avvenuto nel 2010, che ha visto la nascita concreta delle quindici Comunità di Valle nella Provincia autonoma di Trento – una originale ripartizione geografica, politico-territoriale che parzialmente sostituisce gli ex Comprensori –, stanno scaturendo conflitti di varia natura. Di tipo amministrativo: l’organismo centrale provinciale appare lento nel concedere l’effettiva autonomia sui vari comparti prevista, tuttavia, da un punto di vista normativo; di tipo politico: fazioni politiche strumentalizzano retoricamente i presunti elevati costi della nuova articolazione istituzionale come motivo fondamentale per scardinare e delegittimare la nuova ripartizione territoriale; di tipo socio-comunitario: gli amministratori pubblici che hanno tracciato sulla carta le ripartizioni territoriali riferite alle diverse Comunità di Valle, non hanno forse tenuto conto di un assente o immaturo riconoscimento identitario da parte dei gruppi sociali residenti in tali territori.
Le Comunità (di Valle) ed il Piano territoriale di Comunità Il Trentino sta vivendo un’importante stagione urbanistica. La recente Riforma Istituzionale (L.P. nr. 3 del 16 giugno 2006), infatti, ha introdotto un livello amministrativo intermedio di enti pubblici locali, tra Provincia e Comuni, denominato livello di «Comunità», convenzionalmente riconosciuto come il livello delle «Comunità di Valle». L’obiettivo di questo nuovo livello è quello di razionalizzare i servizi e gli interventi sovracomunali e si inserisce in una tradizione amministrativa già presente nella storia del territorio. Già il primo Piano urbanistico provinciale, firmato nel 1967 da Giuseppe Samonà (Provincia autonoma di Trento, 1968), prevedeva una suddivisione del territorio in «Comprensori» che ricalcava, almeno in parte, un’organizzazione austroungarica del Trentino che prevedeva un organismo di gestione sovracomunale chiamato «Bezirk» (Andreatta, 1975). Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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L’obiettivo di questo livello amministrativo, rinnovato con costanza nel corso della lunga storia del Trentino, è quello di dare forza alla grande fragilità causata dalla suddivisione in piccoli territori comunali (in provincia di Trento i comuni sono attualmente 217). Il territorio provinciale è stato suddiviso in 16 Comunità alle quali la legge demanda l’esercizio di importanti funzioni amministrative. Esse sostituiscono, per l’appunto, i comprensori, svolgendo le attività che per alcuni decenni erano state esercitate da tali enti, oltre a molte altre che sono state trasferite progressivamente dalla Provincia e – in modo volontario – dai comuni. Le comunità, infatti, sono costituite obbligatoriamente dai comuni appartenenti a un determinato territorio. Dei 16 territori in cui è stata suddivisa la Provincia, in 15 territori sono state costituite le Comunità (Figura 1). Si tratta, in particolare: Comunità territoriale della Val di Fiemme, Comunità di Primiero, Comunità Valsugana e Tesino, Comunità Alta Valsugana e Bersntol, Comunità della Valle di Cembra, Comunità della Val di Non, Comunità della Valle di Sole, Comunità delle Giudicarie, Comunità Alto Garda e Ledro, Comunità della Vallagarina, Comun General de Fascia, Magnifica Comunità degli Altopiani Cimbri, Comunità RotalianaKönisberg, Comunità della Paganella, Comunità della Valle dei Laghi. In uno dei territori, denominato “Val d’Adige”, coincidente sostanzialmente con il Comune di Trento, non è stata costituito l’ente comunità, ma ai comuni in esso ricompresi (Trento, Cimone, Aldeno e Garniga) sono tate comunque trasferite funzioni amministrative, che sono svolte in modo associato con modalità che tali comuni definiscono tra loro tramite convenzione.
Figura 1. Le sedici Comunità del Trentino La legge prevede che le comunità abbiano la competenza su funzioni molto rilevanti per la popolazione e per lo sviluppo dei rispettivi territori. Si tratta delle funzioni già esercitate dai comprensori in delega in materia di attività socio-assistenziali, edilizia abitativa e diritto allo studio, oltre alle nuove competenze riconosciute in materia urbanistica. Le competenze sono trasferite in modo pieno, non solo a titolo di delega. Quindi mentre il comprensorio storicamente era un “braccio operativo” della Provincia, con limitato potere decisionale e compiti prettamente operativi, vincolato a direttive molto puntuali e stabilite in via generale per tutti i territori, la Comunità diviene titolare di funzioni proprie e può adottare le politiche più rispondenti alle esigenze e alle caratteristiche del proprio territorio, approvando propri piani in settori di grande impatto per la vita dei cittadini (piano sociale, piano territoriale di comunità). Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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Per quanto riguarda più specificatamente le questioni urbanistica, una delle deleghe più significative previste dalla riforma, occorre segnalare che le Comunità devono farsi promotrici di un apposito strumento di governo del territorio, collocato tra il Piano urbanistico provinciale e i Piani regolatori comunali, e che ha il nome di Piano territoriale della Comunità. Si tratta di un piano dalla forte valenza strategica (Zanon e Franceschini, 2011) che, se da una parte rinuncia volutamente alla gestione dell’uso dei suoli – competenza che rimane in capo ai comuni –, dall’altra si pone l’obiettivo di preordinare e di gerarchizzare le strategie che interessano naturalmente i territori a livello sovracomunale, come la mobilità, i servizi socioassistenziali, l’edilizia pubblica, gli impianti sportivi, le aree industriali ed artigianali. Il paesaggio – inteso come esito di un processo ma anche come obiettivo di un progetto – è un altro elemento cardine sul quale deve essere impostata la pianificazione di comunità. Non a caso la legge urbanistica prevede che le comunità, in sede di elaborazione di piano, mettano a punto due particolari carte di lettura del territorio: la carta del paesaggio e la carte dello statuto dei luoghi. Su tratta di due letture del territorio che lasceranno emergere i caratteri fondanti di un territorio omogeneo e che dovranno fornire indicazioni imprescindibili per l’articolazione delle successive scelte progettuali. Un altro aspetto importante, sul quale la legge insiste molto, è il livello di partecipazione che deve esser sotteso al processo di piano. Il protagonismo delle comunità locali, infatti, è inteso come un elemento fondamentale per la costruzione e per il buon esito del percorso di pianificazione. Proprio per favorire la partecipazione il Documento Preliminare al Piano territoriale della Comunità prevede appositi tavoli di confronto ai quali partecipano amministratori e stakeholders della società locale.
La Comunità Rotaliana-Könisberg Il territorio della Comunità Rotaliana-Könisberg occupa quella parte della Valle dell’Adige collocata fra il confine settentrionale del Comune di Trento e il confine provinciale con l’Alto Adige, alla confluenza tra il torrente Noce e il fiume Adige. Si tratta di un territorio geograficamente omogeneo, occupato in gran parte dalla piana della Rotaliana, la superficie pianeggiante più estesa della provincia. Il territorio è chiuso a ponente, da alte quinte montane e a levante da più dolce colline coltivate a vite. A livello amministrativo il territorio è suddiviso in otto comuni (Faedo, Lavìs, Mezzocorona, Mezzolombardo, Nave San Rocco, S Michele all’Adige, Roverè della Luna e Zambana). Gran parte dell’economia è retta dall’agricoltura, ma non va minimizzato l’apporto del settore manifatturiero e del terziario avanzato.
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Figura 2. I territori comunali che compongono la Comunità Rotaliana-Könisberg Per quanto riguarda le trasformazioni territoriali, ed in particolare quelle relative alle dinamiche inseditive, va segnalato come la struttura originaria dell’insediamento (che è possibile ricostruire dalla carte catastali del 1865) contemplasse una presenza di nuclei abitati disposti in maniera equilibrata sul territorio. I centri abitati erano collocati lungo le vie di comunicazione fluviale (Nave San Rocco, S. Michele, Roverè della Luna, Mezzocorona) o allo sbocco di solchi vallivi (Mezzolombardo, Zambana, Lavìs). In generale gli insediamenti avevano un carattere compatto, con una chiara suddivisione tra spazi aperti e spazi costruiti e la collocazione degli stessi entro le aree più soleggiate e più protette dai rischi idrogrologici. L’immagine del territorio intorno al 1950 è caratterizzata da un consolidamento dei centri abitati, in particolare Mezzolombardo e Lavìs, da una crescita equilibrata degli altri aggregati edilizi. Inizia, inoltre, ad essere urbanizzata la piana fra Lavìs e San Michele. Nel 1980 possiamo segnalare un consolidamento di quest’ultima tendenza, la nascita dell’addizione urbana di Zambana (si tratta di un “trasferimento” dovuto ad un avvenimento franoso negli anni Cinquanta), la comparsa delle aree industriali ed artigianali a Lavìs, Mezzolombardo, Roverè della Luna. Negli anni Novanta si può notare il consolidamento delle aree industriali ed artigianali a Lavìs, Mezzolombardo, Roverè della Luna, il consolidamento del nastro tra Lavìs e San Michele e la comparsa della zona artigianale ed industriale di Mezzocorona. 2001: è evidente un consolidamento delle aree industriali ed artigianali a Lavìs, Mezzolombardo, Mezzocorona, e un’ampia urbanizzazione del fondovalle in maniera diffusa. L’ultima immagine, che lascia emergere lo stato attuale delle trasformazioni mostra una tendenza alla costruzione dei un grande raggruppamento urbano (residenziale e produttivo) composto da Mezzocorona, Mezzolombardo e San Michele e una tendenza a creare una continuità tra la periferia urbana di Trento e l’abitato di Lavìs, lungo la strada commerciale di Via Brennero-via Bolzano.
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Figura 3. L’evoluzione delle dinamiche insediative nel territorio della Rotaliana-Könisberg: in alto gli “step” 1865 – 1950 – 1980. In basso 1991 – 2001 – 2010. Per quanto riguarda il sistema economico, nell’impossibilità di approfondirne in questa sede la complessità, va segnalato il carattere preminente dell’agricoltura – in particolare quella della viticoltura – che ha reso questo territorio noto anche oltre i confini provinciali. In particolare c’è da segnalare la produzione del vino “teroldego” che proprio nel cuore della Piana Rotaliana trova il suo habitat ideale. Sulle colline è invece coltivato il vino bianco, mentre nella parte sud-ovest del territorio ha buon riscontro la coltivazione dei frutteti, in particolare del melo. Non va inoltre dimenticata la presenza di un’eccellenza come l’Asparago di Zambana, coltivato alla confluenza tra il fiume Adige ed il torrente Noce. Molto articolato anche il sistema produttivo manifatturiero che trova il suo “centro” nell’abitato di Mezzolombardo, anche se negli ultimi anni soffre la concorrenza internazionale e l’arrivo della congiuntura economica. Vario, infine, il sistema culturale presente sul territorio: vanno segnalati un centro di ricerca “E. Mach” di S. Michele all’Adige e il contiguo Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina – uno dei più antichi ed originali spazi di ricerca etnografica d’Italia. Il sistema delle connessioni infrastrutturali rappresenta infine una delle altre grandi opportunità del territorio che da sempre funziona come anello di congiunzione tra il mondo tedesco e quello italico. Attualmente il territorio è attraversato dal fiume Adige, dalla ferrovia Verona-Brennero, dall’A22, dalla ferrovia Trento-Malè, oltre che da un reticolo fittissimo di strade locali e provinciali.
L’indagine conoscitiva Nell’ambito di un’indagine conoscitiva socio-territoriale tesa a reperire informazioni utili per la stesura di un documento preliminare propedeutico alla stesura del Piano territoriale di comunità della Comunità di valle della Rotaliana-Könisberg, il gruppo di ricerca – attraverso la realizzazione di un’analisi «swot» – ha cercato di Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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individuare i conflitti in essere sul territorio di riferimento, mettendo il luce gli eventuali punti di forza e di debolezza, ma anche le eventuali opportunità e minacce presenti. Inoltre, stante la scelta del tutto formale/burocratica della suddivisione geografica delle Comunità di Valle si è tentato di individuare, se presenti, frammenti identitari al fine di (ri)costruire un’immagine composita e coerente di comunità e di territorio. L’obiettivo, oltre a quello di focalizzare l’attenzione sui principali nodi irrisolti e bisogni del territorio, era anche quello di inferire l’immagine di futuro che i partecipanti all’indagine possedevano, al fine di fornire utili suggerimenti nelle fasi successive di progettazione sia di natura urbanistica, sia di natura sociale. Sono state realizzate 40 interviste in profondità a testimoni privilegiati residenti e/o operanti sul territorio appartenenti ai diversi settori strategici della società: il settore politico amministrativo, quello dell’artigianato, del commercio e del turismo, dell’agricoltura, dell’industria, della società civile. Sono stati ascoltati anche appartenenti ad alcune categorie professionali che più di altre hanno attinenza con il lavoro sul territorio: architetti, ingegneri, agronomi, geologi. Nel corso della realizzazione delle interviste sono state realizzati due incontri pubblici di presentazione alla popolazione dello strumento di pianificazione - il Piano territoriale di Comunità -, il disegno della ricerca e i primi risultati delle interviste al fine di aprire il dibattito ad un più largo pubblico. Al termine della fase delle interviste sono stati realizzati tre focus group con tre categorie importanti e significativamente presenti sul territorio: agricoltori/vignaioli, artigiani e industriali al fine di “testare” ed eventualmente ricalibrare le informazioni più significative desunte dalle interviste in profondità. L’indagine perlustrativa è terminata con altri due incontri: uno rivolto a tutta la popolazione residente nel territorio della Rotaliana Könisberg e l’altro rivolto all’organo politico amministrativo: l’assemblea della Comunità di Valle.
I principali risultati Sulla base delle interviste e degli altri strumenti partecipativi utilizzati al fine di indagare la realtà territoriale della Comunità Rotaliana-Könisberg si è rilevato come gli elementi principali caratterizzanti tale luogo fossero da un lato il paesaggio viticolo (in particolare, dedito alla produzione del Teroldego) che disegna in alcuni punti – la parte collinare in special modo – un’ambientazione esteticamente gradevole e suggestiva ma, contemporaneamente dall’altro lato un territorio segnato e ferito da innumerevoli vie di comunicazione, in particolare sul fondovalle. Per i partecipanti all’indagine l’immagine rappresentativa della Rotaliana Könisberg è una fotografia ambivalente, dove si contrappongono vigneti in appezzamenti territoriali poetici a fronte di rotatorie selvagge, ponti inadeguati al traffico veicolare, superstrada, autostrada, ferrovia nazionale, ferrovie locale (Trento-Malè), bretelle, raccordi, ecc.. La particolare fertilità del territorio è considerata da molti degli intervistati come il principale punto di forza e il fatto di essere un territorio di transito se per alcuni è un punto di debolezza perché veicola traffico e inquinamento, per altri è invece una risorsa per lo sviluppo economico e turistico del luogo. Se per molti un fattore positivo è la presenza di un buon equilibrio tra i diversi settori produttivi, per molti altri uno dei principali conflitti sul territorio è proprio quello di un suo uso poco equilibrato al quale si è assistito nei decenni passati. In particolare, si percepisce una forte preoccupazione da parte dei residenti “comuni” e degli addetti al settore agricolo rispetto alla possibilità di perdere ulteriore territorio verde ai fini di un ulteriore ampliamento delle zone artigianali/industriali/commerciali, ma anche ai fini di incremento edilizio frutto di operazioni immobiliari che rispondono solo parzialmente alla crescita naturale della popolazione (peraltro bassa) e al fenomeno della sub urbanizzazione (piuttosto significativa sul territorio). Se si osservano le tabelle che seguono si evince come la Comunità di Valle Rotaliana Könisberg, pur essendo la comunità di valle con le dimensioni più ridotte (94,61 Kmq) è quella più densamente abitata (302 abitanti per Kmq) e che ha subito negli ultimi anni una forte crescita demografica per effetto del fenomeno della suburbanizzazione: il territorio è significativamente servito da un punto di vista delle vie di percorrenza e dai mezzi di trasporto pubblico, e presenta costi immobiliari più bassi rispetto ai grandi centri occupazionali di Trento e di Bolzano. Per alcuni partecipanti all’indagine le zone residenziali, industriali e artigianali non dovrebbero essere ampliate: la loro è già una presenza soverchia sul territorio, per altri sì perché la Rotaliana deve poter pensare e immaginare uno sviluppo economico che non può essere quello legato all’agricoltura peraltro basata su l’unica produzione viticola. La posizione più equilibrata e realistica rilevata è quella sulla base della quale sarebbe auspicabile realizzare sia un censimento di tutte le abitazioni vuote e/o recuperabili nei quartieri di recente edificazione e nei centri storici e sia un monitoraggio delle aree industriali al fine di identificare tutti i capannoni inutilizzati e dismessi per essere recuperati per nuove attività economiche.
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Tabella I. Confronto tra Comunità di Valle con simile pressione demografica rispetto ai saldi naturali, migratori, ai rapporti tra tali saldi e la popolazione residente per l’anno 2010 Comunità
Popolazione residente 2010
Saldo migratorio
Valsugana Tesino 27122 218 Valle di Non 39134 147 Giudicarie 37556 209 Rotaliana 28556 325 Konigsberg Fonte: Servizio Statistica della Provincia autonoma di Trento
Saldo naturale
-11 +147 -30 +58
Rapporto saldo migratorio e popolazione residente 0.8% 0.3% 0.5% 1.13%
Rapporto saldo naturale e popolazione residente -0.04% 0.05% - 0.07% 0.2%
Tabella II. Confronto tra la popolazione residente nel 1999 e nel 2011 e tasso di incremento di popolazione per gli otto comuni facenti parte la Comunità di Valle Rotaliana Könisberg Comune
Popolazione Popolazione residente 1999 residente 2011 Faedo 540 622 Lavìs 7511 8635 Mezzocorona 4625 5179 Mezzolombardo 5763 6914 Nave San Rocco 1202 1399 S Michele all’Adige 2305 2875 Rovere della Luna 1460 1602 Zambana 1587 1677 Fonte: Servizio Statistica della Provincia autonoma di Trento
Tasso incremento della popolazione 13% 15% 12% 20% 16% 24,7% 9.7% 5,6%
L’opportunità che si ritiene maggiormente approntabile al fine di caratterizzare maggiormente il territorio è quello di sviluppare il settore turistico: gli abitanti si immaginano un turismo leggero, ecosostenibile, legato ai prodotti enogastronomici vista comunque la mancanza di un luogo fisico particolarmente appetibile a flussi turistici importanti. Questa idea di sviluppo turistico unita all’immagine di futuro della Rotaliana che sembra un ritorno al passato quando era descritta come il “più bel giardino vitato d’Europa” rende comprensibili e ragionevoli le minacce percepite dalla maggior parte dei partecipanti all’indagine – spreco di territorio, incremento del traffico automobilistico, incremento inquinamento, incremento popolazione senza adeguati servizi - e le strategie approntabili per evitare l’aggravio di problemi percepiti come esistenti: a) non si ritiene opportuno costruire la nuova linea su rotaia ad Alta velocità fino al Brennero, che dovrebbe “sbucare” proprio nel territorio della Piana Rotaliana, dopo un lungo tratto in galleria; b) si sente come necessario un uso cauto di nuove porzioni del territorio accorpando le aree industriali, utilizzando capannoni abbandonati e dismessi e facilitando il recupero dei centri storici; c) creare comunità e servizi adeguati che sappiano accogliere nuovi arrivi di residenti per evitare l’ampliamento dei “quartieri dormitorio”; d) creare servizi importanti e localizzarli sul territorio in maniera policentrica in modo da valorizzare tutte le diverse porzioni della comunità di Valle. L’idea prevalente è dunque quella di non sprecare territorio con azioni di “non ritorno”, di dare la possibilità ai diversi settori di esprimersi ma senza che nessuno prevarichi sull’altro, di dare avvio ad uno sviluppo che mantenga un’immagine di equilibrio del territorio e del suo paesaggio.
Conclusioni La Comunità di Valle Rotaliana-Könisberg – e gli otto comuni che ne fanno parte, di cui tre tra i più grandi e popolosi comuni del Trentino (Lavìs, Mezzocorona e Mezzolombardo) – è stata più di altre comunità disegnata sulla carta e poco rappresentativa di una tradizione di un territorio “unico”: partendo dalla disgregazione di un comprensorio più ampio – quello della Valle dell’Adige che comprendeva anche la città di Trento, si sono accostati municipi con storie e vocazioni fortemente diversi alcuni dei quali assolutamente autonomi e poco propensi a logiche collaborative che facciano perdere parte della propria autonomia e autodeterminazione. Per questo motivo i partecipanti all’indagine non percepiscono l’esistenza di un’identità comune né di un senso di appartenenza a questo contenitore “Rotaliana-Könisberg”. L’unico, ma a tratti debole, fil rouge che attraversa la Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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Le Comunità di Valle in Trentino: una sfida tra autonomia politico-territoriale e riconoscimento identitario
Piana Rotaliana è l’agricoltura e la produzione viticola. Questa peraltro si trova spesso ad essere letteralmente accerchiata da uno sviluppo residenziale selvaggio (che snatura il paesaggio e non risponde alla crescita naturale della popolazione), e all’ampliamento di aree industriali, artigianali più utili all’acquisizione di tributi per i municipi che rispondenti ad autentici progetti occupazionali, di sviluppo e di miglioramento delle condizioni di vita dei residenti. A fronte di modelli di governance affidati all’egemonia del pubblico, tesi alla riorganizzazione di spazi territoriali che poco hanno a che fare con gli strumenti partecipativi «botton-up», ma che hanno piuttosto una natura impositiva e che di fatto comportano lacerazioni di tipo amministrativo, politico e socio-identitari, l’urbanistica, come disciplina matura e al passo con la modernità, deve necessariamente trovare nuovi mezzi di lettura e nuove forme pervasive della realtà che sappiano confrontarsi con i conflitti senza soccombere, (ri)trovando l’originale legittimità di fronte alle pratiche formali e burocratiche.
Bibliografia Andreatta G. (1975), Bezirk e comprensorio nel Trentino: storia e prospettive di un’idea. Saturnia. Provincia autonoma di Trento (1968). Piano urbanistico provinciale. Marsilio. Zanon B., Franceschini A., (a cura di, 2011), “Il piano territoriale della comunità”, numero monografico di Sentieri Urbani, n. 5.
Rose Marie Callà, Alessandro Franceschini
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Il ruolo dei piccoli comuni nel processo di costruzione della identità metropolitana
Il ruolo dei piccoli comuni nel processo di costruzione della identità metropolitana Carmela Mariano Sapienza Università di Roma Dipartimento DATA - Design, Tecnologia dell’architettura, Territorio e Ambiente Email: carmela.mariano@uniroma1.it
Abstract La tradizione italiana di forte autonomia degli enti locali e la resistenza verso forme di aggregazione in nuovi livelli di governo, rende difficile il percorso di costituzione della città metropolitana prevista dalla legge 142/90. Il fenomeno della cooperazione intercomunale, per la gestione associata di alcuni servizi, costituisce un interessante terreno di sperimentazione per costruire le relazioni di cui la dimensione metropolitana ha bisogno, creando così le condizioni dal basso per la costruzione della città metropolitana al di là di quella che verrà individuata come forma più idonea di governo metropolitano. In tal senso può contribuire, in maniera significativa, la tendenza, già molto consolidata in Italia, da parte dei comuni ad associarsi, in forma autonoma, per proporre strategie, politiche e interventi, dando vita ad una forma di auto-governo (unioni di comuni, associazioni di comuni) in grado di aggregare il sostegno di tutti i soggetti coinvolti nel processo di definizione della vision del territorio metropolitano.
Processi di metropolizzazione e modelli di governo I processi di metropolizzazione del territorio e la nuova dimensione della città contemporanea, la mancata corrispondenza tra la dimensione fisica di questa nuova realtà urbana e la dimensione istituzionale dei comuni che la compongono, è da tempo al centro di molte ricerche e di molte riflessioni da parte di studiosi di diverse discipline: urbanisti, sociologi, politici, economisti e geografi. La nuova realtà urbana, in cerca di identità, è anche oggetto dei più svariati "tentativi di governo". Il termine governo è qui utilizzato in senso ampio: esso attiene ai tentativi di definizione di livelli di governo istituzionale ma attiene anche a tutte quelle procedure che potremmo definire dal basso, attraverso le quali sia le istituzioni locali sia i soggetti economici cercano di gestire questa nuova realtà. Si possono individuare due livelli distinti del dibattito, che potrebbero apparire in contrapposizione ma che in realtà sono assolutamente complementari. Il primo riguarda la discussione su quale forma istituzionale dovrà avere il nuovo livello di governo e su quale siano gli strumenti di pianificazione ad esso attribuiti, quella che potremmo definire come la costruzione dall’alto, il modello “top-down”, sul tipo di quello previsto, mai realizzato, delle “città metropolitane” dalla legge 142/90. Sul tema, nonostante i tentativi di “federalismo dall’alto” con la recente legge 42/09, sembra essere ancora lontani da una soluzione univoca e condivisa da tutti i soggetti coinvolti. I poteri locali infatti sono, nella tradizione del paese, e si potrebbe dire nella tradizione europea, così forti che difficilmente si prestano a cedere parte o tutte le proprie prerogative. In questo quadro si colloca il secondo livello del dibattito, il tema delle azioni concrete che hanno il compito di costruire le relazioni di cui la dimensione metropolitana ha bisogno, creando così le condizioni dal basso (il modello “bottom-up”) per la costruzione della identità metropolitana al di là di quella che verrà individuata come forma più idonea di governo dell’area vasta. Il tentativo di individuare soluzioni per la costruzione dei livelli di governo di scala metropolitana ha prodotto negli ultimi anni la definizione di tre modelli (Heinelt, Kubler, 2005): il modello della riforma metropolitana, il modello della public-choice e il modello del new-regionalism, che corrispondono rispettivamente a situazioni in cui il problema del governo metropolitano è stato affrontato con soluzioni istituzionali rigide e forti e la creazione di livelli di governo a elezione diretta; situazioni in cui, nonostante il problema sia stato affrontato a Carmela Mariano
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Il ruolo dei piccoli comuni nel processo di costruzione della identità metropolitana
livello istituzionale con risultati poco convincenti, esistono solo autonome sperimentazioni dal basso con forme di associazionismo intercomunale e infine reti di cooperazione e coordinamento che si formano tra municipalità, agenzie di governo a vari livelli e i soggetti privati.
I punti di forza del governo metropolitano In tutte le sperimentazioni in atto nelle varie realtà europee si possono individuare alcuni dei principali fattori che hanno consentito il rafforzamento del processo di metropolizzazione e la costituzione di un livello di governo di scala sovra comunale. Tra questi, in primo luogo, la capacità, da parte dei governi locali e dei vari soggetti coinvolti, di costruire l’identità metropolitana e di promuovere una visione condivisa e partecipata del futuro del territorio. L’obiettivo di delineare la vision della cosiddetta area vasta costituisce uno dei punti di forza di un governo in grado di aggregare e sostenere processi di partecipazione, discussione, ascolto con le comunità locali e i cittadini, assunti come soggetti attivi, non più solo per la legittimazione dell'equità delle scelte, quanto per il contributo alla costruzione degli scenari che orienteranno le scelte. Si pone in stretta relazione con il primo fattore la capacità, delle politiche di governo, di promuovere la competitività delle aree metropolitane che, di fatto, nel quadro della crescente globalizzazione, costituiscono i territori maggiormente coinvolti nelle dinamiche di crescita economica, dove più elevati sono gli indicatori di concentrazione della popolazione, di capitale umano e di infrastrutture. Ciò che, dunque, si rende necessario per integrare l’azione del governo locale è la presenza di un progetto capace di renderne sinergiche le iniziative e promuovere una più ampia mobilitazione di reti di attori pubblici e privati che intervengono nel campo di azione di una politica pubblica (Le Galès, 2006). In quest’ottica un altro fattore indiscusso di successo del governo metropolitano è la garanzia del principio di democrazia ed efficienza, che pone la questione di un corretto equilibrio fra le forme della rappresentanza democratica e la capacità e rapidità della assunzione delle decisioni. L’elezione diretta dei membri delle istituzioni di governo metropolitano costituisce dunque un punto di forza per la sua legittimità e per il consenso sociale, perché la formalizzazione di accordi di cooperazione tra soggetti pubblici e privati, sulle scelte strategiche e sui progetti, può funzionare a patto che i soggetti pubblici promotori siano in grado di governarla, siano soggetti forti, autorevoli con un ruolo indiscusso di controllo e monitoraggio delle diverse fasi che garantiscono l’efficacia del processo (Mariano, 2011).
Governo locale e cooperazione A partire dagli anni ’90 il superamento dei modelli dirigistici di direzione politica, dove lo Stato ricopriva il ruolo di attore principale, e la scelta di forme di amministrazione pubblica “snella” hanno rimpiazzato il tradizionale modello di governo e hanno segnato il passaggio dal government alla governance. In tal modo, il governo si è trasformato: da struttura amministrativa organizzata secondo relazioni verticali e gerarchiche è diventata una struttura amministrativa organizzata secondo logiche orizzontali, competitiva, tendente allo sviluppo tra sistemi economici substatali avversari l’uno dell’altro su scala europea e globale. È una trasformazione che ha coinvolto direttamente il governo locale avviando strategie di adattamento caratterizzate da una partecipazione più aperta e dinamica dei vari attori coinvolti all’erogazione dei servizi, con la possibilità di vigilare su democraticità ed equità dell’azione amministrativa. Nello studio condotto da Hulst e Van Montfort (2007) quattro sembrano essere le principali soluzioni proposte dai governi locali come risposta ai cambiamenti del contesto socio-politico ed economico: la fusione come strumento di razionalizzazione dei soggetti amministrativi, soluzione intrapresa dalla Gran Bretagna negli anni ’70 e tentata, senza grande convinzione, in Francia, Italia e Spagna; la redistribuzione delle competenze verso il livello regionale, fenomeno definito del “meso-goverment” (Sharpe, 1993) e che ha interessato vari paesi europei, compresa l’Italia; il new public management che prevede, per ragioni dettate dai vincoli di bilancio, l’affidamento esterno di alcuni servizi della pubblica amministrazione a soggetti privati; la cooperazione intercomunale o intercomunalità intesa come esperienza di gestione associata di funzioni e servizi da parte di più comuni, all’interno di una già differenziata realtà di collaborazioni e cooperazioni tra enti locali.
L’intercomunalità in Italia In Italia il dibattito sui processi di metropolizzazione e sui modelli di governo di scala sovra comunale si è sempre scontrato con la realtà estremamente frammentata del territorio; più di 8000 comuni, per il 70 per cento aventi una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti, con una forte caratterizzazione identitaria che, di fatto, costituisce un impedimento ai tentativi di configurazione di nuovi livelli di governo territoriale intermedi. I conflitti tra grandi comuni e piccoli centri, tra aree metropolitane e regione, tra comune e municipi e le questioni sempre dibattute di natura politica e istituzionale (rappresentatività democratica del livello di governo, Carmela Mariano
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leadership, identità metropolitana), sono alcuni dei principali ostacoli al processo di costruzione della Città metropolitana così come immaginata dal legislatore con la legge 142/90. I piccoli comuni, che di fatto amministrano il 54% del territorio italiano, sono diventati sempre più consapevoli delle loro potenzialità e dell’attrattività del proprio territorio in termini di risorse e possibili localizzazioni di funzioni urbane di eccellenza. Di conseguenza i rapporti con la città centrale sono definitivamente cambiati. Negli ultimi anni si è andata consolidando in Italia la tendenza da parte dei comuni ad associarsi, in forma autonoma, per proporre strategie, politiche e interventi, dando vita ad una forma di auto-governo dal basso che si è concretizzata nella costituzione delle Unioni di comuni, enti locali ad eleggibilità indiretta già previsti dalla legge 142/90 e confermati dal Testo unico degli Ordinamenti locali 267/2000. L’ultimo provvedimento legislativo in materia di “Cooperazione Intercomunale” è contenuto nella manovra finanziaria approvata con legge n. 122 del 30 luglio 2010, che ha profondamente normato la gestione associata delle funzioni fondamentali degli Enti locali, prevedendone l’esercizio obbligatorio dei piccoli Comuni fino a 5.000 abitanti. L’Unione si prospetta come una forma associativa volontaria che i comuni possono attivare per esercitare congiuntamente più funzioni di competenza comunale, siano esse proprie, attribuite, delegate, con potestà regolamentare, titolarità degli introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui servizi ad essa affidati (Fiorillo, Robotti, 2006). Le innovazioni di natura politica introdotte all’inizio degli anni ’90 e le dinamiche di tipo socio-economico, legate alla necessità di attrarre finanziamenti per garantire il funzionamento della macchina amministrativa, sono alcune delle principali variabili che hanno contribuito al consolidarsi del fenomeno della cooperazione intercomunale. L’elezione diretta del sindaco, introdotta dalla legge 81/93, ha prodotto il rafforzamento della stabilità politica dei governi locali e l’attribuzione di maggiori prerogative decisionali al sindaco. In riferimento al tema della cooperazione è evidente che la credibilità politica del sindaco sia strettamente legata ad una efficace gestione ed erogazione dei servizi pubblici. La scarsità di risorse finanziarie esasperata, negli ultimi anni, dalla riduzione delle entrate per via dell’abolizione dell’Imposta Comunale sugli Immobili e dalle conseguenze innescate dal Patto di stabilità e dalla legge 122/10 ha portato le amministrazioni a non disporre di risorse adeguate per investire sul territorio. Gli stessi oneri di urbanizzazione, spesso non adeguati ai costi effettivi dell’urbanizzazione, stanno progressivamente perdendo la loro natura di “tassa di scopo” per la possibilità accordata ai comuni di destinarle, invece che agli “investimenti”, alla spesa “corrente” della manutenzione ordinaria del patrimonio comunale per quasi il 75% del gettito complessivo (legge 220/10). Per questo, in condizioni di esiguità delle risorse finanziarie necessarie all’erogazione dei servizi alle comunità territoriali, i comuni preferiscono ricorrere a forme di associazionismo tra enti, sfruttando la cooperazione come risorsa per garantire l’efficienza amministrativa. In una fase storica in cui il ruolo politico, economico e sociale delle “città metropolitane” assume un ruolo sempre più rilevante, le soluzioni in corso di sperimentazione nelle situazioni di questo tipo appaiono interessanti da analizzare e costituiscono senza dubbio una delle grandi sfide della contemporaneità in quanto mettono in discussione assetti istituzionali profondamente radicati, ma costruiti sulla base di una concezione statuale ispirata dalla precedente fase del processo capitalistico.
Ambiti di cooperazione, competenze e legittimazione I Comuni sono oggi dotati di uno strumento innovativo attraverso il quale possono incamminarsi verso un percorso, certamente complesso, ma dotato di stimolanti prospettive che consente di rispondere in maniera concreta alle sollecitazioni indotte dalle dinamiche in atto nei territori metropolitani. I risultati di una recente ricerca (Cittalia - Fondazione ANCI ricerche) evidenziano l’apprezzamento da parte dei cittadini sui risultati conseguiti dalle Unioni, che negli ultimi anni sono notevolmente aumentate arrivando a 337 Unioni di Comuni (Fonte Atlante Piccoli Comuni 2011-ANCI) volontariamente costituite tra oltre 1.663 Comuni per circa 6 milioni di cittadini. L’indagine condotta mette in evidenza un processo di strutturazione e di istituzionalizzazione in evoluzione e con caratteristiche molto diverse da territorio a territorio e probabilmente fra Unione ed Unione. In particolar modo non emerge dall’analisi un modello univoco di cooperazione, in termini di dimensioni, struttura, servizi e governo dei processi di unificazione, ma al contrario molte strade e singole sperimentazioni praticate in un processo di adattamento locale che è risultato particolarmente efficace. Ma oltre a verificare la capacità di innovazione ed organizzazione delle Unioni sarebbe opportuno anche verificare la capacità di questi enti di instaurare nuove relazioni con i governi di scala superiore (provinciali e regionali), di fare fronte a processi più generali, che attengono alla capacità di costituirsi parte determinante nel processo di costruzione del governo di scala sovra comunale e che, oltre alla ricerca dell’efficienza amministrativa, promuovono processi di natura strategica e di pianificazione locale associata (come già accade in alcune regioni italiane) finalizzati al governo delle trasformazioni urbane e territoriali. Carmela Mariano
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Il ruolo dei piccoli comuni nel processo di costruzione della identità metropolitana
Le principali criticità che permangono sono quelle legate alla definizione dell’ambito di cooperazione, all’individuazione delle competenze delle Unioni, anche in tema di governo del territorio, e infine alla legittimazione democratica dell’ente. Per quanto riguarda la dimensione e la finalità dell’ambito di cooperazione l’alternativa che si profila per l’Unione è quella tra un piano in cui si decide di collaborare per la produzione di servizi, il cui scopo principale è quello di supportare le municipalità essenzialmente nella loro gestione quotidiana, e un più elevato livello di cooperazione, indicato con il termine di coordinamento di policy. Quest’ultimo punto indica che la cooperazione non si limita ad aspetti tecnici di elaborazione di servizi, ma implica un processo di pianificazione e coordinamento più avanzato e strutturato. I dati delle ricerche condotte dall’ANCI evidenziano infatti che il fenomeno dell’associazionismo sembra particolarmente attuato da quei comuni con un peso demografico abbastanza esiguo ma con risorse in termini di territorio abbastanza rilevanti e complesse (pensiamo ad esempio ai comuni montani) in cui la gestione e la garanzia dell’offerta dei servizi risulta pesare particolarmente sulle casse comunali. Riguardo alle competenze assegnate alle Unioni riscontriamo che i servizi maggiormente gestiti in forma associata sono la polizia municipale e i servizi sociali, seguono i servizi tecnici, contabilità, servizi questi che presuppongono un più accresciuto livello di organizzazione e di risorse strumentali (informatizzazione) e negli ultimi anni nuovi servizi come il trasporto pubblico, l'edilizia privata, la viabilità e la formazione (Dati ANCI). Le funzioni legate al governo e alla pianificazione del territorio sono raramente gestite dalle Unioni, o proposte dalle leggi urbanistiche regionali come occasione strategica di associazione, fatta eccezione per alcune esperienze in cui si stanno avviando sperimentazioni in questa direzione. Lo stesso meccanismo di erogazione degli incentivi statali alle Unioni (DM 1/09/2000 n. 318) è legato a parametri quantitativi (numero delle funzioni esercitate dalle Unioni) piuttosto che su criteri qualitativi (che tipo di funzioni). Allo stesso tempo è opportuno sottolineare la difficoltà delle Unioni di comuni a usufruire degli incentivi finanziari in maniera continuativa durante la fase di esercizio, determinata da una norma specifica che garantisce l’aiuto finanziario alle Unioni soprattutto nella fase di avvio della costituzione andando a decrescere progressivamente a discapito dell’efficienza nell’erogazione dei servizi. Un altro tema cruciale per il futuro della cooperazione intercomunale resta quello della legittimazione degli organi di governo delle Unioni di Comuni. Le unioni di comuni sono enti locali di secondo livello, ossia non elettivi, privi quindi di legittimazione democratica attraverso il meccanismo elettorale. Con il trasferimento delle funzioni e la gestione comune di servizi importanti per il territorio, il potere di policy-making e il potere decisionale su materie cruciali riguardanti la vita del territorio sono affidati, di fatto, a enti non eletti direttamente 1 .
Questioni aperte Alcune delle difficoltà descritte rendono più complessa la possibilità, per queste forme di cooperazione, di contribuire al processo di costruzione e riconoscibilità (identità) del governo dell’area metropolitana. Nonostante questo negli ultimi anni, in alcune regioni come l’Emilia Romagna e la Calabria, alcuni Piani territoriali di coordinamento provinciale, riconoscendo il territorio delle Unioni di Comuni come ambiti territoriali ottimali entro cui sviluppare forme di coordinamento degli strumenti di pianificazione comunale e di concertazione delle politiche urbanistiche, hanno promosso l'elaborazione di Piani strutturali comunali in forma associata fra i Comuni della stessa Unione, con l’obiettivo di garantire uniformità e contemporaneità nei processi di formazione dei piani urbanistici comunali. La riflessione sulle opportunità e sui risultati conseguiti dalle Unioni porta quindi a immaginare la possibilità, in futuro, di delineare un quadro di attribuzione delle competenze distinto tra Unioni di dimensioni intermedie (con popolazione tra 20.000 e 50.000 abitanti), alle quali assegnare prerogative più specifiche dei livelli di governo di area vasta, e Unioni di piccole dimensioni (fino a 20.000 abitanti), che si costituiscono per riuscire a conseguire obiettivi di efficienza gestionale. Dalle ricerche e dagli studi condotti sulle Unioni dei Comuni emerge un dato interessante. Il fenomeno è presente in quasi tutte le regioni italiane (fatta eccezione per la Liguria, Valle d’Aosta, Basilicata), in misura diversa nelle singole realtà territoriale. Ma il dato singolare è che la cooperazione intercomunale non è presente, se non in maniera poco significativa, nei territori provinciali in cui ricadono le 10 aree metropolitane previste dalla legge 142/90 (con l’aggiunta di Reggio Calabria prevista dalla legge 42/09).
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L’art. 32, comma 3 del Tuel afferma, infatti, che “Lo statuto deve comunque prevedere il presidente dell'Unione scelto tra i sindaci dei Comuni interessati e deve prevedere che altri organi siano formati da componenti delle giunte e dei consigli dei comuni associati, garantendo la rappresentanza delle minoranze.”
Carmela Mariano
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Il ruolo dei piccoli comuni nel processo di costruzione della identità metropolitana
Genova
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Bologna
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Roma
Napoli
Bari
Reggio Calabria
Tabella I. Il fenomeno delle Unioni nelle 10 aree metropolitane (dato riferito al territorio provinciale)
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Si può ipotizzare che l’assenza del fenomeno sia da ricercare, in parte nel peso e nel ruolo della città centrale, in parte nelle resistenze dei vari soggetti (provincie e comuni più grandi) che hanno il timore che l’istituzione delle Unioni di comuni possa ridurre il loro ruolo politico e istituzionale. Tuttavia è proprio dalla possibilità di sperimentare forme di cooperazione intercomunale in questi territori che si può partire per costruire le basi per la costituzione di un reale governo dell’area vasta. Nel quadro del recente dibattito sulla abolizione o il declassamento a enti di secondo livello delle provincie resta il problema di una pianificazione di area vasta che organizzi il territorio della metropoli territoriale (Indovina, 2011), le cui dinamiche insediative hanno ormai travalicato i confini amministrativi. È evidente che nel futuro sarà questo il livello territoriale di riferimento che avrà più influenza sulla pianificazione comunale. E una riflessione seria deve partire dalla considerazione di quelli che sono attualmente i contenuti dei piani provinciali, di carattere indicativo e non prescrittivo. Le dinamiche insediative, che caratterizzano lo sviluppo della metropoli territoriale, richiedono al contrario un piano di area vasta che abbia valore di cogenza, che definisca le linee programmatiche di organizzazione complessiva del territorio e che contribuisca al buon funzionamento della struttura metropolitana anche in termini di miglioramento della qualità della vita (trasporti, spazi pubblici, verde, edilizia sociale etc). Per raggiungere questi obiettivi è auspicabile che tutte le realtà locali, che costituiscono l’area vasta, si riconoscano nel progetto di sviluppo della metropoli territoriale, rinunciando alla rivendicazione della sovranità assoluta sul proprio territorio. E il sostegno alle forme di cooperazione intercomunale potrebbe collocarsi in questa direzione, con l’obiettivo di promuovere il processo di formazione della cosiddetta identità metropolitana.
Bibliografia Libri e articoli Bobbio L. (2002), I governi locali nelle democrazie contemporanee, Laterza. De Martino U. (a cura di, 2008), Il governo delle aree metropolitane, Officina Edizioni. Fedele M. & Moini G. (2006),” Cooperare conviene? Intercomunalità e politiche pubbliche”, in Rivista italiana di politiche pubbliche, vol. 7, n. 1, pp. 71-98. Fiorillo F. & Robotti L. (2006, a cura di), L’Unione di comuni. Teoria economica ed esperienze concrete, Milano, Franco Angeli. Heinelt H. & Kubler D. (2005), Metropolitan governance, democracy and the dynamics of place, Oxon, ed, Routledge. Heinz W. (2000), City and Region – Cooperation or Coordination? An international comparison. Stuttgart, Berlin, Koln: Kohlhamer. Hulst R. & Van Montfort A. (a cura di, 2007), Inter-Municipal Cooperation in Europe, Dordrecht, Springer. Indovina F. (2009), Dalla città diffusa all’arcipelago metropolitano, FrancoAngeli. Indovina F. (2011), “Provincie e metropoli territoriali”, Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.101-102. Le Galès P. (2006), Le città europee. Società urbane, globalizzazione, governo locale, Il Mulino. Mariano C. (2011), Governare la dimensione metropolitana. Democrazia ed efficienza nei processi di governo dell’area vasta, 1-160, FrancoAngeli. Perulli P. (1998), Neoregionalismo, Bollati Boringhieri. Rao N. (2008), Cities in Transition Growth, Change and Governance in Six Metropolitan Areas, Routledge. Sharpe L. J. (1993), The Rise of the Meso Government in Europe, SAGE Modern Politics series. Vandelli L. (a cura di, 1992), Le forme associative tra enti locali, Giuffrè. Rapporti di Ricerca Cittalia Fondazione ANCI ricerche (2010). Lo stato delle Unioni. Rapporto nazionale 2010 sulle Unioni di Comuni. INU (2006). Rapporto dal territorio 2005, Inu Edizioni. Formez (2005). Le esperienze di gestione associata. Studi di caso, Roma, Dipartimento della funzione pubblica. Carmela Mariano
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Il ruolo dei piccoli comuni nel processo di costruzione della identitĂ metropolitana
Siti web www.cittalia.it www.anci.it
Carmela Mariano
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I conflitti territoriali: dall’impasse alla durabilità
I conflitti territoriali: dall’impasse alla durabilità Cristiana Mattioli DIAP- Politecnico di Milano, Email: cristiana.mattioli@mail.polimi.it
Abstract Il presente paper si occupa di conflitti territoriali legati alla progettazione di grandi infrastrutture. Le opere incontrano spesso l’opposizione delle comunità locali, in grado di mobilitarsi per la difesa del proprio territorio, organizzandosi in comitati e reti sovra-locali e proponendo un diverso modello di sviluppo locale. Da qualche decennio, in opposizione alle scelte legislative del governo centrale italiano, gli esperti propongono approcci partecipativi in grado di coinvolgere stakeholders e comunità locali nelle scelte decisionali; alcune leggi regionali confermano poi la necessità di raggiungere obiettivi di efficienza, equità e trasparenza, inserendo i processi concertativi all’interno delle ordinarie procedure di governo. Assumendo l’infrastruttura come “progetto di territorio”, il paper propone la creazione di arene deliberative capaci di comporre conoscenza tecnica e contestuale e promuovere la cittadinanza attiva quale condizione necessaria sia per la durabilità e l’efficacia dei processi partecipativi che per l’aumento del capitale sociale.
Introduzione La realizzazione di un grande progetto infrastrutturale incontra sempre più spesso l’opposizione delle comunità locali, organizzate ed inserite in reti sovra-locali, capaci di portare a situazioni di impasse decisionale prolungate nel tempo. Se i conflitti territoriali sono legati a caratteristiche intrinseche alle opere 1 , essi sono anche espressione di politiche e scelte transcalari che coinvolgono un numero crescente di attori eterogenei, per obiettivi ed interessi. Una riflessione centrale e preliminare del presente contributo è la necessità di un importante cambiamento di paradigma, capace di dare senso alle pratiche partecipative inserendole all’interno di un processo di lettura del territorio. Questo cambiamento è il passaggio dal progetto di infrastruttura all’infrastruttura come “progetto di territorio”. L’imposizione di un bene comune e il ricorso all’autorità, secondo una logica di semplificazione tesa a velocizzare le procedure 2 , non sono più in grado di superare i conflitti, aggravati anzi dalla diffidenza verso le istituzioni preposte alle scelte decisionali in materia di infrastrutture (Bartolomeo, 2008). In questo contesto problematico, sono state sperimentate, anche in Italia, alternative processuali consensuali e interattive in grado di rappresentare la complessità delle situazioni attraverso i punti di vista dei diversi attori, secondo un approccio inclusivo e plurale. Poiché: “gli strumenti deliberativi cercano il proprio spazio di efficacia in un dialogo e confronto serrato con la riorganizzazione delle modalità di governo (governance, negoziazione, concertazione), con la conflittualità e l’antagonismo sociale (che si carica anche di contenuti positivi e progettuali), con le forme di autoorganizzazione collettiva (che praticano l’auto-produzione di beni pubblici)” (Perrone, 2011),
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Alcune delle caratteristiche intrinseche dei grandi progetti infrastrutturali sono: l’elevato valore posizionale del bene; l’irreversibilità dell’opera; l’incertezza riguardo agli esiti e agli impatti; la diseguaglianza nella distribuzione di costi e benefici; i grandi investimenti, soprattutto pubblici; l’incertezza nella definizione di bene di pubblica utilità. 2 Si fa riferimento alla Legge Obiettivo (L. n. 431/2001) e al suo Decreto Attuativo (Ddlg. 190/2002). Cristiana Mattioli
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I conflitti territoriali: dall’impasse alla durabilità
si cercherà di mettere in relazione le pratiche sperimentate con queste dimensioni per esplicitarne le potenzialità in termini di strumenti che facilitano l’emersione di un “progetto di territorio” condiviso.
Il progetto infrastrutturale come “progetto di territorio” “Il progetto territoriale mette insieme punti di vista diversi, perciò non esclude contraddizioni e conflitti, ma li pone al centro. Il suo punto di forza è la conservazione della complessità.” (Dematteis, 1995) La nozione di governance multi-livello in campo infrastrutturale 3 si lega al passaggio necessario da progetto di infrastruttura a infrastruttura come “progetto di territorio”, un’interpretazione che guarda al territorio non come ad una “macchina banale” sulla quale si cala in modo indifferente l’infrastruttura, ma come una stratificazione di risorse materiali e immateriali in relazione fra loro, e che consente quindi di uscire dalle tradizionali logiche settoriali della progettazione. L’infrastruttura può essere allora una risorsa e generare esternalità positive, legate alla valorizzazione delle traiettorie di sviluppo e del capitale sociale locali (Pucci, 2008), e può contribuire a creare “valore aggiunto territoriale” (Governa, 2001), se inserita in un processo decisionale negoziato e multi-scalare. Il “progetto di territorio”, quale “forma di governance cooperativa che si avvale degli strumenti negoziali già presenti sul territorio” (Clementi in Belli et al., 2008), rappresenta “uno spazio di incontro e di elaborazione di azioni convergenti locali e sovralocali” (Clementi, 1999); esso è quindi una modalità innovativa che consente di costruire conoscenze condivise 4 e passare a visioni complesse e integrate, in grado di dare senso alla partecipazione, intesa come “forma di governo che produce un arricchimento progettuale, facendo interagire le politiche infrastrutturali e quelle di valorizzazione dei singoli luoghi” (Magnaghi in Belli et al., 2008). Emerge da queste riflessioni come la partecipazione non debba limitarsi alla ricerca di consenso intorno ad un’opera, né tantomeno a processi su singole opere, ma debba inserirsi all’interno della pianificazione strategica preliminare. In questo senso, le pratiche partecipative, quindi, dovrebbero rappresentare un’attitudine trasversale della PA, un fondamento della sua azione di governo 5 . E’ significativo l’esempio della Regione Toscana che, prima in Italia, con la legge n°69 del 2007, “Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali”, ha introdotto gli istituti della partecipazione (fra cui anche il dibattito pubblico per le grandi opere 6 ) all’interno delle pratiche ordinarie di governo del territorio.
La democrazia deliberativa come “policy instrument” della governance istituzionale “Si parla di democrazia deliberativa quando, in condizioni di uguaglianza, inclusività e trasparenza, un processo comunicativo basato sulla ragione (e l’argomentazione) trasforma le preferenze individuali, portando a decisioni orientate al bene pubblico” (Della Porta, 2005) Il “progetto di territorio” e la governance infrastrutturale coinvolgono una pluralità di attori eterogenei a più livelli, il cui confronto dovrebbe consentire di giungere ad una visione condivisa e complessa di sviluppo territoriale. La teoria della democrazia deliberativa può fornire utili strumenti sia per il coinvolgimento strutturato e preliminare degli stakeholders e dei cittadini che per la creazione di tavoli interistituzionali per la progettazione 3
La governance infrastrutturale, intesa come “l’insieme delle istituzioni, istituti, regole e prassi che regolano un processo decisionale articolato”, dovrebbe garantire “un bilanciamento tra forze e interessi e, allo stesso tempo, una rapida capacità di adattamento delle risposte ai problemi collettivi emergenti” (Bartolomeo, 2008). 4 “Il percorso di costruzione delle conoscenze è il risultato dell’integrazione tra conoscenza tecnica e conoscenza esperienziale. Il prodotto dell’incrocio fra queste due forme di conoscenza consente di definire gli elementi statutari e fondativi del territorio, ovvero l’insieme delle regole d’uso delle risorse riconosciute e pattuite fra abitanti e istituzioni” (Paba, Perrone, 2011). 5 Si veda, ad esempio, quanto dichiarato dal Presidente della Regione Puglia Niki Vendola in “Una Puglia migliore”, 2005. 6 Purtroppo, nella pratica, nessun progetto infrastrutturale di interesse regionale è stato sottoposto a dibattito pubblico, nonostante alcuni casi fossero adeguati all’uso dello strumento (ad esempio, la nuova pista dell’aeroporto di Firenze). Cristiana Mattioli
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integrata e transcalare. Di fronte a situazioni di impasse decisionale, sono stati elaborati una serie di metodi per ricomporre, gestire e prevenire i conflitti territoriali, coinvolgendo in modo più diretto i cittadini (Podestà, 2009). L’approccio deliberativo presuppone che il confronto dialogico fra interessi differenti possa consentire, grazie all’argomentazione, di individuare una soluzione creativa e condivisa dalle varie parti in causa. In questo caso il tecnico si fa “esperto di processo” e il suo ruolo si avvicina a quello di facilitatore (Forester, 1998). Il metodo dialogico, per la sua natura inclusiva e la sua trasparenza, è in grado di rispondere a due necessità: equità ed efficacia. Esso presenta, inoltre, due vantaggi: accresce il capitale sociale (Fung e Wright, 2003) e produce decisioni migliori (Bobbio, 2004) 7 . La deliberazione può essere anche concepita come “forma d’azione”, pratica condotta collettivamente e orientata all’indagine diagnostica, all’intervento e alla trasformazione di situazioni problematiche caratterizzate da dubbio e ambiguità (Dewey in Podestà, 2011). Questo tipo di indagine può portare alla condivisione di frames cognitivi di interpretazione, cioè all’individuazione di elementi condivisi circa la situazione in una fase preventiva (processo di problem setting). Questa impostazione, che ridefinisce la partecipazione come vero “strumento per le politiche pubbliche” (Fareri in Perrone, 2011) appare di grande interesse all’interno del “progetto di territorio” perché risponde alla necessità di individuare una visione futura condivisa sulla quale impostare gli interventi e le loro priorità.
I casi studio e la sperimentazione in Italia In Italia, l’atteggiamento di risposta di fronte a situazioni conflittuali appare tardivo, si assiste a provvedimenti ex post poco efficaci e applicati perlopiù in situazioni di emergenza. Le pratiche concertative propongono un’alternativa praticabile alle amministrazioni, evidenziando come la prevenzione dei conflitti, e quindi un’attivazione dei processi ex ante, faciliti non solo il raggiungimento del consenso, ma anche la realizzabilità dell’opera “incidendo sulla qualità stessa dell’infrastruttura e migliorando anche la capacità di coordinamento tra politiche e programmi di settore” (Pucci, 2010). Le tecniche inclusive utilizzate per la gestione dei conflitti fanno riferimento a diverse matrici teoriche, ma vengono, nella pratica, combinate in modi alternativi (Podziba in Tegon, 2006) per aumentarne le potenzialità e limitarne i difetti. Si può parlare allora di “partecipazione deliberativa” quando le esperienze cercano di combinare logiche partecipative, inclusive e di empowerment, che consentano ai cittadini di partecipare in arene di comunicazione aperte, plurali e dotate di capacità decisionale 8 per migliorare la legittimità e l’efficacia delle decisioni pubbliche (Tegon, 2006). A livello di analisi dei processi decisionali di policy (Dente, 2011), queste pratiche hanno conseguenze sulle caratteristiche del network di attori (e sulle loro relazioni) e sulla posta in gioco 9 . Soprattutto, esse consentono di ridurre l’incertezza, aumentando le risorse conoscitive, e di incrementare la fiducia tra gli attori, condizione indispensabile per la loro collaborazione e per garantire, quindi, lo sviluppo socio-economico dei territori. Nel presente contributo l’obiettivo dell’analisi dei casi studio del Dibattito Pubblico della Gronda di Ponente di Genova e dell’Osservatorio del collegamento ferroviario Torino-Lione 10 è quello di valutare il potenziale dei processi deliberativi come attivatori di processi e “laboratori di politiche urbane e territoriali” (Pucci, 2004), ossia come sperimentazioni innovative per la progettazione integrata del territorio e l’emersione di sapere contestuale utile per elaborare una visione strategica condivisa, capace di creare le condizioni per una partecipazione continua e durevole.
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A tal proposito, è bene qui sottolineare, come sostenuto da Dente (2011), che spesso “gli autori non si limitano ad osservare come l’allargamento della partecipazione abbia o possa avere effetti positivi sul processo decisionale, ma tendono ad affermare che per questa strada si ottengono decisioni che hanno un maggior valore in quanto partecipative e quindi più democratiche”. Queste strategie sono quindi spesso presentate come “dispositivi in grado di garantire la soluzione del problema di policy” e non, più correttamente, come uno dei modi di superare gli ostacoli per il raggiungimento di una decisione. 8 Le tecniche inclusive non hanno valore giuridico o prescrittivo ma è importante che la partecipazione possa esprimersi su questioni aperte e non su decisioni già prese. Questo aspetto è evidenziato dall’analisi dei casi studio, spesso limitati a discutere del “come” ma non del “dove” e, soprattutto, del “se”, cioè dell’effettiva necessità delle opere. 9 “Ogni limitazione della discussione è sostanzialmente impossibile e viene rapidamente travolta dalla dinamica del confronto” (Dente, 2011). Questo aspetto è ben evidenziato dal caso del Dibattito Pubblico di Genova. 10 Per un’analisi dettagliata dei casi studio citati si rimanda alle seguenti opere: Pomatto G., (2009). Grandi opere e dibattito pubblico. L’esperienza della Gronda di Genova. Working Papers, Università degli Studi di Torino; Podestà N., (2009). Strumenti di mediazione per la risoluzione dei conflitti. L’esperienza dell’osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione. POLIS Working Paper n°137, Università del Piemonte orientale, Alessandria. Cristiana Mattioli
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I conflitti territoriali: dall’impasse alla durabilità
Alcune riflessioni a partire dalle esperienze esaminate: le potenzialità della democrazia deliberativa per la valorizzazione delle risorse locali Le arene deliberative: esperienza temporanea o durabilità? I processi analizzati, sia quelli più strutturati come il DP di Genova, sia quelli meno organizzati come nel caso dell’Osservatorio piemontese, si inseriscono in modo informale e temporaneo all’interno di procedure lunghe e complesse, che coinvolgono una pluralità di attori istituzionali e che vengono variabilmente influenzate dalle decisioni prese nelle arene deliberative. In alcuni casi le conclusioni emerse dal confronto pubblico sono state fatte proprie dall’amministrazione e dai proponenti, che hanno quindi legittimato la loro decisione ma si sono anche vincolati al rispetto di tali condizioni. In altri casi, come nel DP di Genova, il processo ha prodotto modifiche importanti al progetto finale; tuttavia, per alcuni, si è trattato di una “occasione mancata” per il possibile ripensamento collettivo del sistema della mobilità della città. Nonostante ciò, l’esperienza dei tavoli ristretti di Genova, avviati nel corso del processo per volontà dei partecipanti e della commissione e aperti a tutti gli attori locali, lascia un patrimonio di conoscenze e relazioni, “finestre di opportunità istituzionali” 11 (Della Porta, 2002), che potrebbero risultare strategiche e fondamentali per affrontare tematiche generali per la città, come la mobilità (Pucci, 2010). Il Laboratorio del Traffico e della Mobilità ha permesso di approfondire la tematica della congestione, grazie all’intervento di numerosi esperti e all’apporto dei tecnici comunali 12 , di informare e sensibilizzare i cittadini, ha valutato la fattibilità economica dell’opera e ha offerto un terreno di consultazione fra istituzioni e attori 13 che raramente si crea. Nonostante la preponderanza di un clima di protesta e di scontro fra proponenti e oppositori dell’opera, resosi evidente nelle assemblee pubbliche del DP genovese, la Commissione è stata in grado di aprire alcuni spazi in cui si è svolto un confronto costruttivo, improntato alla deliberazione e alla creazione di nuove opzioni (Pomatto, 2009; Bobbio, 2010). Queste “nicchie” rappresentano delle vere e proprie arene deliberative 14 , ovvero “ambiti fisicamente individuabili in cui le persone si incontrano direttamente e in cui ciascuna di esse ha piena consapevolezza di partecipare a quello specifico gioco” (Bobbio, 2002). Queste strutture ristrette pongono, però, qualche problema in relazione a due tipi di attori: l’amministrazione che ha il compito di decidere in merito al problema e i comitati di cittadini. Questi ultimi, infatti, per paura di essere “scavalcati” dai cittadini o di rimanere imbrigliati all’interno dei meccanismi dello strumento, spesso mostrano un’accentuata diffidenza o si oppongono alle occasioni di partecipazione.
I comitati di cittadini: la conoscenza quotidiana come risorsa per la pianificazione I comitati di cittadini rivestono spesso il ruolo di oppositori nei confronti delle grandi opere infrastrutturali; si creano ad hoc per opporsi a una determinata opera o per sollevare un particolare problema, si collocano 11
Le finestre di opportunità sono “essenziali per mettere una questione e una proposta di riforma sull’agenda” (Dente, 2011). La loro creazione è spesso imprevedibile; pertanto, l’innovatore, o il regista dei processi inclusivi, deve essere pronto a cogliere queste (rare) opportunità; a Genova, l’interesse per il tema della congestione, raccolto e strutturato dalla Commissione, è emerso dalle interviste preliminari agli attori locali e durante gli incontri pubblici. 12 Grazie alla stima del traffico effettuata dai tecnici comunali all’interno del Laboratorio del traffico e della mobilità, in contraddizione con quella presentata inizialmente da ASPI, il DP ha “portato alla luce che qualsiasi scenario futuro si basa sulla costruzione di modelli che riducono l’incertezza, ma i cui presupposti sono discutibili e le cui variabili sono spesso incerte nel loro effettivo andamento” (Pomatto, 2009). 13 Agli incontri del Laboratorio del traffico e della mobilità hanno partecipato, infatti, istituzioni e gruppi pro e contro l’opera: un membro della Commissione, coordinatore del tavolo; due tecnici del settore del Comune dedicato alla mobilità; i tecnici di ASPI; l’Autorità Portuale; responsabili di Rete Ferroviaria Italiana; un esperto che collabora con la Regione Liguria; l’Istituto Nazionale di Urbanistica; l’Istituto Internazionale di Comunicazione; tre associazioni ambientaliste (Italia Nostra, Legambiente e WWF); diversi esponenti di comitati di cittadini. 14 Le arene deliberative (Bobbio, 2002) presentano le seguenti proprietà, rintracciabili anche nei casi studio esaminati: sono strutture artificiali create ad hoc per affrontare un compito limitato e sufficientemente definito; sono caratterizzate da incontri ripetuti; l’obiettivo è limitato alla definizione condivisa di uno specifico problema, che viene messo in discussione e ridefinito; necessitano della volontà dell’amministrazione ma, spesso, vengono create dall’incontro fra spinte top down e processi bottom up; sono strutturate intorno a regole condivise e modificabili e a tempi definiti; riguardano generalmente piccoli gruppi di partecipanti; necessitano di un chiaro deliberative setting (Elster, 1998), che induca i partecipanti ad utilizzare argomentazioni fondate sul bene comune e che garantisca un equilibrio fra i diversi punti di vista; producono decisioni giuridicamente non vincolanti; sono assistite da facilitatori o mediatori; promuovono la partecipazione di tutti gli attori interessati dal problema; utilizzano l’argomentazione e promuovono l’incontro fra sapere esperto e profano per superare l’incertezza. Cristiana Mattioli
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normalmente al di fuori dei partiti politici e sono debolmente strutturati, essendo nella maggior parte dei casi costituiti da cittadini che vivono un dato territorio, di cui riconoscono e difendono i valori identitari. In generale, si assiste sempre più spesso alla cosiddetta “montata in generalità” delle argomentazioni dei gruppi di cittadini (Della Porta, 2005), che abbandonano punti di vista egoistici e localistici (stigmatizzati nella nota Sindrome NIMBY-Not In My Back Yard) e sono in grado di creare reti sovra-locali coalizzandosi con associazioni ambientaliste ed esponenti politici, intercettando così risorse e conoscenze utili per il supporto alla loro azione. La tendenza ad associarsi da parte dei cittadini, anche se prevalentemente sotto forma di mobilitazione reattiva, rappresenta una forma virtuosa di partecipazione attiva, che potrebbe efficacemente essere utilizzata come risorsa e valorizzata dalle amministrazioni per migliorare le scelte decisionali. I comitati esprimono un senso di radicamento al territorio che si pone come alternativa all’uscita individuale di fronte a problemi di vivibilità. In questo senso, sembra interessante capire se, e in che modo, sia possibile stabilire un’interazione costruttiva fra i gruppi spontanei e la pianificazione (Pacchi, 2006). Dall’analisi dei due casi studio e di altre esperienze (Pacchi, 2006), sembra ragionevole affermare che i comitati, oltre ad azioni di protesta utili per aumentare la loro influenza e visibilità, facciano ricorso ad attività che producono risorse di conoscenza (documentazione, convegni, ecc.). Inoltre, queste organizzazioni tendono sempre di più ad avvalersi del sostegno di esperti per poter controbattere in modo efficace ai promotori dell’opera. Unendo quindi la conoscenza tecnica alla conoscenza quotidiana del territorio, essi riescono a proporre alternative concrete, puntuali e fattibili. Facendo ricorso ad argomentazioni ricorrenti nel contesto ambientalista, i comitati si fanno anche promotori di ripensamenti collettivi circa le problematiche analizzate, al fine di riorientare le politiche e i progetti; nel caso della Val di Susa, ad esempio, i comitati hanno spostato l’attenzione dalla logica trasportistica a quella ambientale e sanitaria. Il coinvolgimento dei comitati di cittadini all’interno di arene deliberative potrebbe rivelarsi, quindi, molto utile ed efficace per la progettazione di interventi e opere in grado di produrre realmente “territorio” ed incidere sullo sviluppo locale.
L’efficacia del processo deliberativo: apprendimento, monitoraggio e aumento del capitale sociale L’apertura di spazi di dialogo fra le parti all’interno dei processi concertativi dimostra come il confronto strutturato fra esperti e profani si traduca in apprendimento reciproco “trasformativo”, utile sia per il miglioramento del progetto che per le relazioni fra attori. La contrapposizione fra conoscenza esperta e conoscenza ordinaria, infatti, entra in crisi con l’introduzione della conoscenza interattiva (Friedmann in Perrone, 2011), creata dall’effetto trasformativo dell’argomentazione e della deliberazione. I cittadini non sono normalmente riconosciuti come interlocutori dai proponenti a causa della loro ignoranza tecnica sul tema. In realtà, gli esempi riportati dimostrano come, se dotati di informazioni adeguate, gli abitanti siano in grado di dialogare in modo costruttivo coi tecnici, dando apporti significativi al progetto ed esprimendo quell’ “ingegneria popolare” riconosciuta dal Sindaco di Genova e da Autostrade per l’Italia nel corso del DP. La crescita di capitale sociale e di empowerment dei cittadini sembra inoltre essere legata alla durata dei processi e all’istituzionalizzazione di forme di controllo che accompagnano la realizzazione e la gestione dei progetti (Bobbio, 2002). Per questo, il ricorso ad una struttura di monitoraggio è un elemento tipico dei processi partecipativi e fa parte delle misure che possono essere messe in campo per ampliare il consenso e garantire l’efficacia dell’inclusione 15 . In questo senso, il Tavolo delle Garanzie e il successivo Osservatorio locale 16 della Gronda di Genova sono nati dalla dichiarata intenzione dei partecipanti di voler prolungare l’esperienza deliberativa sperimentata e rendere stabile il metodo di confronto dialogico. Nonostante la grande quantità di materiale di documentazione e di riflessione critica prodotta dalle esperienze analizzate, si rende però necessaria una riflessione di metodo: se è vero che i processi deliberativi non hanno solo efficacia in relazione agli effetti che producono sulle scelte decisionali, ma hanno “valore in sé”, in quanto 15
Attraverso il controllo delle fasi di attuazione, realizzazione e gestione dell’opera, nonché la pubblicità di tali operazioni, la predisposizione di ispezioni ripetute e l’istituzione di organismi ad hoc, la partecipazione si struttura e prosegue nel tempo. E’ infatti fondamentale che gli impegni assunti dalle parti vengano rispettati e che la popolazione possa esprimersi su eventuali cambiamenti in corso d’opera, imputabili anche a circostanze non prevedibili (Bobbio, Zeppetella, 1999; Sclavi, Susskind, 2011). 16 Il Tavolo delle Garanzie ha definito un Osservatorio locale, composto da rappresentanti tecnici, enti pubblici e rappresentanti dei cittadini. Aperto alle associazioni ambientaliste e agli stakeholders, esso è la sede permanente di confronto fra il proponente e il territorio nelle fasi di progettazione e realizzazione dell’opera. L’Osservatorio ha tre funzioni principali: 1) propone modifiche e miglioramenti progettuali 2) controlla l’esecuzione dell’opera 3) decide in merito alla distribuzione e all’uso del fondo compensativo (Pillon A., (2010). Dopo il dibattito pubblico: l’osservatorio locale sulla realizzazione della Gronda. Urbanistica, 142). Simili compiti sono stati assunti anche dall’Osservatorio del collegamento ferroviario Torino-Lione. Cristiana Mattioli
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strumenti per accrescere il capitale sociale locale, allora è indispensabile prevedere un “ritorno sui luoghi” dopo un periodo relativamente lungo per valutare quegli “effetti di trasformazione sociale riconoscibili nella lenta rigenerazione delle comunità” che rendono efficace un processo interattivo (Giusti, 2002). Questa attività potrebbe essere efficacemente svolta dagli stessi Osservatori locali, coadiuvati dal supporto periodico di esperti di processo, eventualmente dagli stessi mediatori iniziali. Nell’ottica di potenziare un “ruolo civico” dell’Università si potrebbe assegnare quest’azione di monitoraggio e ricerca continuativa a dipartimenti competenti, ricercatori e studenti, promuovendo un forte legame fra teoria e prassi al fine di “iniettare riflessioni sulle esperienze empiriche nell’attuale dibattito sulla democrazia deliberativa ampliandone gli orizzonti immaginativi” (Fung e Wright, 2003) e fornire serie argomentazioni circa l’efficacia e l’equità delle pratiche deliberative di fronte ad amministratori pubblici e proponenti privati.
Conclusioni – Oltre il locale: cittadinanza attiva e visioni di territorio Il contributo si chiude quindi con un “ritorno sui luoghi” necessario per indagare come i processi siano proseguiti in questi anni e in che modo si sia passati dalla protesta nei confronti di un determinato progetto infrastrutturale alla proposta di uno sviluppo territoriale alternativo e possibile. A Genova, dopo le elezioni dei rappresentanti dei cittadini 17 , l’Osservatorio ha avviato le sue attività di informazione e controllo attraverso l’organizzazione di riunioni e incontri, di cui vengono pubblicati i report sul sito dell’urban center 18 . Parallelamente è però continuata l’opposizione del Coordinamento dei Comitati Anti Gronda, a segnalare che la soluzione raggiunta non è forse quella auspicata dai cittadini attivi sul territorio. I comitati, alleati con il Movimento 5 stelle e solidali alla causa No Tav, esprimono la loro contrarietà verso un’opera che giudicano “dannosa e inutile” 19 e, pur sostenendo la necessità di momenti di partecipazione pubblica, contestano la procedura del DP effettuato, che non ha permesso ai cittadini di entrare nel merito della necessità dell’infrastruttura. A partire dalla posizione antagonista iniziale, il Coordinamento si interessa oggi più in generale al tema dei beni pubblici, partecipando ad incontri incentrati sulla tutela del territorio. Nonostante il caso genovese metta in luce alcune criticità degli strumenti inclusivi e deliberativi adottati, l’esperienza è stata tuttavia utile per il suo grado di sperimentazione e ha aperto dibattiti circa il coinvolgimento attivo dei cittadini alle scelte di governo del territorio, portando anche a proposte di legge sul dibattito pubblico e sugli istituti della partecipazione 20 . Un’applicazione occasionale, infatti, promossa dall’amministrazione in modo strategico al fine di aumentare la propria legittimità e poco collegata alle procedure ordinarie, sembra oggi non garantire quegli obiettivi di efficacia ed efficienza posti alla base dei processi stessi e anzi sembra alimentare tensioni preesistenti sul territorio. Ciò è avvenuto in modo particolare in Val di Susa, dove la mediazione non è riuscita a ricomporre la distanza fra posizioni antagoniste. Le recenti cronache degli scontri e delle manifestazioni sono un chiaro segnale dell’opposizione delle popolazioni locali e della loro presa di distanza dall’Osservatorio, che ha enfatizzato gli aspetti tecnici del problema e non ha incluso le parti sociali. Il presente contributo non intende indagare le ragioni tecniche e finanziarie del progetto, che richiederebbero uno studio approfondito, ma, riprendendo le osservazioni avanzate da Dansero (2008), vuole approfondire il ruolo della protesta nella crescita di capitale sociale locale. Lo studioso interpreta le opposizioni in Val di Susa come un “conflitto di produzione del territorio”, evidenziando le differenti rappresentazioni territoriali degli attori. I proponenti, infatti, esprimono una visione tecnico-trasportistica del territorio, incentrata sui temi dello sviluppo e dell’iperconnettività, entrati a 17
Molti dei candidati appartengono a comitati cittadini che hanno partecipato al DP sulla Gronda di Ponente. Alcuni hanno un’esperienza di militanza in sindacati; altri sono tecnici ed esperti; alcuni infine sono ex dipendenti di società di trasporti. Questa situazione ricalca quanto affermato da Piazza et al. (2003), secondo cui le risorse dei comitati sono, infatti, il capitale umano, cioè l’expertise individuale; il capitale sociale, cioè le risorse create dal processo di networking; e il capitale politico, ovvero le capacità relazionali che dipendono da esperienze passate di militanza politica. 18 www.urbancenter.comune.genova.it 19 www.dibattitopubblico.com 20 Il 13 dicembre 2011 il Consiglio Comunale di Genova ha approvato il Regolamento che disciplina il DP per le grandi opere strategiche. Su modello francese, il testo prevede l’istituzione di un Organo tecnico formato da diversi assessorati che ha il compito di valutare l’applicabilità e la necessità dello strumento. Una Commissione tecnica di esperti nominata dall’amministrazione gestirà la fase preliminare di raccolta dati, la comunicazione e il vero e proprio DP, redigendo il documento finale. Il regolamento afferma esplicitamente che il DP deve aprirsi quando possono essere prese decisioni alternative e deve esprimersi anche in merito alla necessità dell’opera (www.informazionesostenibile.info). Sviluppi in tal senso sembrano possano aprirsi anche a livello nazionale su proposta del Ministro Passera, in seguito all’inasprimento degli scontri in Val di Susa. Cristiana Mattioli
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far parte anche del vocabolario del nuovo Governo, che intende proseguire i lavori in tempi rapidi, nonostante le richieste di ripensamento avanzate da politici, esperti e professori universitari. Diversamente, i cittadini e alcuni amministratori locali si battono da anni per la difesa del territorio, già gravemente compromesso dalle infrastrutture 21 , riscoprendone parallelamente i valori ambientali, patrimoniali e storico-culturali. La resistenza decennale ha portato così alla formazione di una cittadinanza attiva informata e propositiva, che ha saputo ridefinire l’identità locale della Valle attraverso la partecipazione e la socializzazione. Oltre alle attività di presidio continuo compiute dal movimento No Tav, il capitale sociale che si è formato sul territorio ha permesso la creazione di sinergie fra attori finalizzate alla promozione di progetti di sviluppo locale. Ne è un esempio il neonato progetto “Etinomia – imprenditori etici per la difesa dei beni comuni”, una rete di soggetti che volontariamente hanno deciso di tutelare il territorio ed il suo tessuto sociale e “valorizzare la centralità dell’uomo nel contesto territoriale in cui vive e lavora” 22 . In particolare, i partecipanti al progetto riconsiderano la realizzazione della TAV (e delle Grandi Opere) alla luce dell’attuale crisi economica, una situazione che ha accentuato le disuguaglianze e ha portato molti a interrogarsi sulla distribuzione delle risorse pubbliche. La Val di Susa aspira oggi a diventare un “laboratorio sociale sperimentale e innovativo” per dare risposta, attraverso progetti condivisi, ai bisogni concreti e contingenti di una pluralità di attori, non solo locali. L’ormai nota espansione del fenomeno No Tav in tutt’Italia e l’esperienza acquisita dai movimenti di cittadini alimentano e sostengono oggi numerosi conflitti in contesti differenti. E’ il caso del movimento “No Tem-Sì metro” 23 della provincia di Milano che sta portando avanti una campagna di informazione sui possibili danni provocati dalla futura bretella autostradale, organizzando dibattiti, incontri e manifestazioni. I comitati, pur evidenziando i gravi rischi ambientali legati all’infrastruttura, enfatizzano anche altre problematiche, quali la possibile perdita di imprenditoria locale e diffusa con la costruzione di un grande centro logistico e commerciale e le possibilità di infiltrazione mafiosa nei cantieri di costruzione. Come avvenuto nei casi esaminati, i gruppi di cittadini avanzano “proposte di ripensamento progettuale complessivo” (Pacchi, 2006), abbinando il loro rifiuto ad alternative di mobilità più sostenibili e meno impattanti, proposte inserite addirittura nella denominazione (SI’ metro); sostenendo l’imprenditoria locale, riescono poi ad allearsi con attori importanti e vocali, come i sindacati dei lavoratori. Il comitato milanese fa anche parte del forum “Salviamo i paesaggi – difendiamo i territori” 24 che, sul modello di quello nato in relazione alla tematica dell’acqua pubblica, raggruppa singoli, associazioni e amministrazioni pubbliche con l’obiettivo di censire la speculazione edilizia e il consumo di suolo e preservare il paesaggio italiano nel suo complesso. Queste esperienze sono il frutto di un bisogno di partecipazione attiva emergente dalla società civile e, soprattutto, segnalano un cambiamento importante dei comitati locali: le azioni, infatti, tendono a essere sempre più orientate a scale sovra-locali e a protrarsi nel tempo grazie alla progettualità e al ruolo propositivo dei cittadini, “attivi a ridosso di diversi progetti di trasformazione del territorio” (Pacchi, 2006); una risorsa, questa, che l’amministrazione pubblica, e in particolare la pianificazione e l’urbanistica, dovranno saper cogliere e sostenere al fine di produrre progetti integrati e condivisi.
Bibliografia Libri Bartolomeo M. (2008), “La governance incompleta delle infrastrutture lombarde: conflitti d’interesse come causa di conflitti locali”, in Belli et al. (a cura di), Territori regionali e infrastrutture. La possibile alleanza, Franco Angeli, Milano Belli et al. (a cura di, 2008), Territori regionali e infrastrutture. La possibile alleanza, Franco Angeli, Milano Bobbio L., Dansero E. (2008), Geografie in competizione nella vicenda della TAV in Valle di Susa, Allemandi, Torino Bobbio L., Pomatto G. (2007), Modelli di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche (documento redatto per conto della Provincia Autonoma di Trento, nel quadro di una ricerca sulla qualità della democrazia coordinata da Sergio Fabbrini) Bobbio L., Zeppetella A. (a cura di, 1999), Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali, Franco Angeli, Milano Clementi A. (a cura di, 1999), Infrastrutture e progetti di territorio, Palombi, Roma 21
Il banco di prova del movimento di protesta locale era stato il conflitto nato in seguito alla volontà di realizzare un elettrodotto che mettesse in collegamento Italia e Francia passando per la valle del Moncenisio. Dopo anni di scontri, l’ENEL rinunciò al progetto. Per approfondimenti sul caso citato si veda Bobbio L., Zeppetella A. (a cura di), (1999). Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali, Milano, Franco Angeli. 22 www.etinomia.com 23 http://notemsimetro.wordpress.com 24 www.salviamoilpaesaggio.it Cristiana Mattioli
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Ciaffi D., Mela A. (2011), Urbanistica partecipata. Modelli ed esperienze, Carocci editore, Roma Cristoforetti G., Ghiara H. (2002), Progetto, conflitti e territorio, Alinea, Firenze Della Porta D. (a cura di, 2005), Comitati di cittadini e democrazia urbana, Soveria Mannelli, Rubbettino Dematteis G. (1995), Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Franco Angeli, Milano Dematteis G., Governa F. (2001), Contesti locali e grandi infrastrutture, Franco Angeli, Milano Dente B. (2011), Le decisioni di policy. Come si prendono, come si studiano, Il Mulino, Bologna Elster J. (a cura di, 1998), Deliberative Democracy, Cambridge University Press, Cambridge Ferraresi G., Moretti A., Facchinetti M. (2004), Reti, attori, territorio. Forme e politiche per progetti di infrastrutture, Diap, Franco Angeli, Milano Forester J. (1998), Pianificazione e potere. Pratiche e teorie interattive del progetto urbano, Edizioni Dedalo, Bari Fung A., Wright E.O. (2003), Deepening Democracy, Verso, Londra Paba G. Perrone C. (2011), “Partecipazione e pianificazione territoriale: dilemmi e opportunità della democrazia deliberativa”, in Aicardi M., Garramone V. (a cura di), Incontri democratici cittadini del terzo tipo. Spunti per l’uso e l’analisi dell’Electronic Town Meeting, Franco Angeli, Milano Perrone C. (2011), Per una pianificazione a misura di territorio. Regole insediative, beni comuni e pratiche interattive, FUP, Firenze Podestà N., - (2009). Conflitti territoriali e strumenti di confronto, Aracne, Roma - (2011). “Alta Velocità. Gli strumenti di mediazione dentro rapporti di forza su più livelli”, in Podestà N. e Vitale T., Dalla proposta alla protesta, e ritorno, Bruno Mondadori, Milano Sclavi M., Susskind L.E. (2011), Confronto Creativo. Dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, Et al. Edizioni, Milano Articoli Bobbio L., - (2002), “Le arene deliberative”, in Rivista italiana di politiche pubbliche, n. 3 - (2010), “Il dibattito pubblico sulle grandi opere. Il caso dell’autostrada di Genova”, in Rivista italiana di politiche pubbliche, n. 1 Giusti M. (2002), “Il contesto politico delle pratiche di progettazione partecipata”, in La nuova città, n. 6, pp. 2332 Pacchi C. (2006), “Comitati di cittadini e progetti di infrastrutture nell’area milanese”, in Territorio, n. 39 Piazza G. et al. (2003), “Protestare e argomentare: le campagne dei comitati di cittadini contro il traffico in quattro città italiane”, in Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, n. 1 Pucci P. (2008), “Grandi opere infrastrutturali e costruzione del consenso”, in Territorio, n. 46 Pucci P. (a cura di, 2010), “Il Dibattito Pubblico sulla Gronda di Ponente a Genova”, in Urbanistica, n. 142 Siti web Libro Bianco sulle infrastrutture, redatto da Avanzi et al. (2009), disponibile su “Conflitti Ambientali”: http://conflittiambientali.it/pdf_libro%20bianco/Libro%20bianco%20infrastrutture%20di%20trasporto_Executiv e%20Summary.pdf Volume A più voci, a cura di Bobbio L. (2004), disponibile direttamente al link: http://www.magellanopa.it/kms/files/A_piu'_voci.pdf Working Papers dell’Università degli Studi di Torino, Smaltimento dei rifiuti e democrazia deliberativa, di Bobbio L. (2002), disponibile al link: http://www.dsp.unito.it/download/wpn1.pdf Working Papers del Dipartimento di Studi Geoeconomici Linguistici Statistici Storici per l’Analisi Regionale, n. 28, Governance e partecipazione nella pianificazione della Torino-Lione. Relazioni tra attori in un contesto conflittuale, di Celata F. (2005), disponibile al link: http://geostasto.eco.uniroma1.it/utenti/celata/dwnld/wp_fcelata_torinolione.pdf Relazione conclusiva. Posizioni, argomenti e proposte emersi nel Dibattito Pubblico sulla Gronda di Genova (2009), disponibile sul sito dell’Urban Center del Comune di Genova, sezioni “Cambia Genova”, “Percorsi di partecipazione”, “La Gronda Autostradale di Ponente”: http://urbancenter.comune.genova.it/ Atti del XXII Convegno Annuale della Societa’ Italiana di Scienza Politica, Pavia 4-6 settembre 2008, Democrazia deliberativa, strategie negoziali, strategie argomentative: un’analisi del Dibattito Pubblico sul “caso Castelfalfi”, di Floridia A. (2008), sezione “Partecipazione”: http://www.consiglio.regione.toscana.it/ POLIS Working Paper n°137, Università del Piemonte Orientale, Strumenti di mediazione per la risoluzione dei conflitti. L’esperienza dell’osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione, di Podestà N. (2009) disponibile al link: Cristiana Mattioli
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I conflitti territoriali: dall’impasse alla durabilità
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Riconoscimenti Ringrazio la prof.ssa Paola Pucci per avermi introdotto al tema dei conflitti territoriali e per avermi aiutato nell’elaborazione del presente paper, leggendo e commentando le versioni precedenti. Rimango ovviamente la sola responsabile dell’esito finale.
Cristiana Mattioli
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“Antropocene” Millo 2012 ®
Atti della XV Conferenza Nazionale SIU Società Italiana degli Urbanisti Pescara, 10-11 maggio 2012
L’Urbanistica che cambia. Rischi e valori
by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723-0993 | n. 25, vol. 2/2012