Atelier 6.
Contenimento del consumo di suolo, approcci e forme di riuso dell’esistente Coordina: Elena Marchigiani con Sara Basso Discussant: Patrizia Gabellini
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Crediti
Comitato scientifico della XV Conferenza Nazionale SIU: Alessandro Balducci (Segretario SIU), Massimo Angrilli (Responsabile), Alberto Clementi, Roberto Bobbio, Daniela De Leo, Luca Gaeta (Tesoriere), Elena Marchigiani, Daniela Poli, Michelangelo Russo, Maurizio Tira Segreteria organizzativa della XV Conferenza Nazionale SIU: Massimo Angrilli (Coordinamento), Cesare Corfone, Antonella de Candia, Claudia Di Girolamo, Federico Di Lallo, Fabio Mancini, Mario Morrica, Patriza Toscano, Ester Zazzero (Mostra Piani di ricostruzione), Luciano Di Falco (Assistenza tecnica) La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è il risultato di tutti i papers accettati alla conferenza. Solo gli autori regolarmente iscritti alla conferenza sono stati inseriti nella presente pubblicazione. La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è stata curata dalla redazione di Planum. The Journal of Urbanism: Giulia Fini e Salvatore Caschetto con Marina Reissner Progetto grafico: Roberto Ricci Segreteria tecnica SIU: Giulia Amadasi, DiAP - Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano L’immagine della copertina della pubblicazione e delle copertine dei singoli Atelier sono tratte da opere di Francesco Millo ©. Francesco Camillo Giorgino in arte Millo nasce a Mesagne (BR) nel 1979. Consegue la Laurea in Architettura e parallelamente porta avanti una personale ricerca estetica nel campo della pittura, spaziando dalla micro alla macroscala “rivelando la labilità dell’esistenza umana, sospesa a metà tra ciò che conosciamo e ciò che si nasconde dentro di noi” (Ziguline). Riceve diversi premi e riconoscimenti in ambito nazionale, fra cui il prestigioso “Premio Celeste” nel 2011.
Abstract Contenere il consumo di suolo è ormai diventato un leitmotiv. Il riuso di grandi siti militari e ferroviari dismessi, di aree produttive in crisi, di presenze diffuse all’interno dei tessuti urbani ancora stenta tuttavia a trasformarsi in motore di sperimentazione di nuove configurazioni urbane e territoriali. Molte sono le questioni, non facilmente ricomponibili, che il riutilizzo dell’esistente comporta e che l’Atelier propone alla discussione: • come trasformare una “formula” progettuale spesso puntuale in una strategia per la costruzione di nuove visioni di insieme; • come governare processi che possono prevedere anche fasi di riutilizzo temporanee ovviando ai rischi della strumentalizzazione immobiliare e della gentrificazione; • come individuare nuovi strumenti e modalità di collaborazione e co-progettazione tra pubblico e privato.
Indice
Atelier 6.
Contenimento del consumo di suolo, approcci e forme di riuso dell’esistente Coordina: Elena Marchigiani con Sara Basso Discussant: Patrizia Gabellini
Spazi urbani esistenti come occasione per una diversa trasformazione e un diverso abitare: l’emergere di nuovi diritti, doveri e poteri I. Gli spazi dell’abitare come campo di costruzione e negoziazione di diversi diritti L’abitare torna ad essere un problema politico Cristina Bianchetti Cosa una casa vale. Alcune riflessioni a partire dall’esperienza cilena. Emanuel Giannotti Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio Claudia Mattogno, Elena Cuscinà, Valeria Tullia Di Giacomo Territori della condivisione. Torino Angelo Sampieri Housing Sociale, crisi economica e consumo di suolo: laboratori sperimentali dell’abitare nei “luoghi della ritrazione” Nicola Vazzoler II. Tra diritti d’uso del suolo e diritti di spazi abitabili: quando il capitale fisso sociale della città esistente e le dotazioni di welfare sono a rischio Manutenzione della città Marco Baccarelli Ragioni per il contenimento dell’uso del suolo: i costi delle urbanizzazioni a confronto. Maurizio Tira, Anna Richiedei A Comparative Analysis of Urban Containment Policies Regarding Their Impacts on Urban Housing Market Ali Ustun
Suolo come bene comune e come valore: ripensare la struttura dei territori contemporanei I. Oltre la contrapposizione di città e campagna Nuovi paesaggi. Interventi di rinaturalizzazione urbana Daniela Buonanno Consumo di suolo e ridisegno dell’esistente: rischi e limiti del progetto Antonio E. Longo Politiche agrourbane alla ricerca di strumenti. Esercizi (e acrobazie) di copianificazione tra pianificazione paesaggistica e pianificazione ordinaria. Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia Agricoltura Urbana: strategie per la città dopo la crisi. Emanuele Sommariva II. Land Grabbing e “neocolonialismi” La nuova frontiera del consumo di suolo: il land grabbing. Giuseppe Caridi Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali. Coviello Carmela, Dicillo Cristina
Dismissioni e riuso di spazi e materiali urbani: riflessioni sulla riscrittura del progetto urbanistico I. Azioni puntuali e visioni di insieme: nuovi strumenti, strategie e forme del progetto urbano? Centri storici meridionali e riuso dell’esistente Giuseppe Abbate Il recupero degli scali ferroviari a Milano. Un’opportunità per ripensare alle forme del progetto urbano Antonella Bruzzese On Hold Airports: il ri-ciclo degli aeroporti secondari e nuove opportunità per i territori Mario Cicolecchia, Sara Favargiotta Il riuso delle aree militari dismesse. Innestare “Micro-città” in contesti urbani di piccole dimensioni Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin Contenimento del consumo di suolo, approcci e forme di riuso dell’esistente a L’Aquila Federico D’Ascanio La dismissione delle aree militari: un’occasione per le politiche di rinnovo dei centri storici Francesco Infussi, Chiara Merlini, Gabriele Pasqui Rigenerazione Urbana: Approccio “CircUse”. Area Pilota del comune di Asti Giulia Melis, Marcella Poncini Le aree risorsa a Palermo. Una opportunità di sviluppo urbano sostenibile? Marilena Orlando Un progetto processuale: riflessioni a partire dall’esperienza Mercato Navile a Bologna Cristina Tartari II. Il riciclo della città e dei suoi materiali: tra identità/valore del patrimonio esistente e dispositivi di modificazione Gli insediamenti produttivi nelle società post-crescita. Riscrittura di politiche e progetti Simonetta Armondi Aree Dismesse Ferroviarie, un’opportunità urbana Greta Brugnoli Le addizioni al costruito come strategia sostenibile per lo sviluppo urbano. Elaborazione di uno strumento operativo per l’indirizzo delle scelte progettuali e tecnologiche Elisa Curti Le potenzialità del riuso per la città storica Marika Fior Scarti urbani e pratiche di riciclaggio Giulia Menzietti Ricostruire un’identità / città vulnerabile e spazi negati Maria Luna Nobile Demalling. Centri commerciali tra crisi e opportunità Vincenza Santangelo
Teorie e pratiche della pianificazione e conflitti Contenimento del consumo di suolo, approcci e forme di riuso dell’esistente Introduzione Sara Basso, Elena Marchigiani Il tema generale Contenere il consumo di suolo è ormai diventato un leitmotiv. Il riuso di grandi siti militari e ferroviari dismessi, di aree produttive in crisi, di presenze diffuse all’interno di territori insediati centrali e periferici ancora stenta tuttavia a trasformarsi in motore di sperimentazione di nuove configurazioni urbane e territoriali. L’Atelier ha inteso riflettere sulle opportunità di un’innovazione radicale e sulle ricadute operative che l’arresto all’ulteriore consumo di suolo offre al fare urbanistica oggi. Per rapportare il tema generale a questioni urbane rese urgenti da trasformazioni territoriali note e ampiamente indagate negli ultimi decenni, i paper sono stati ricondotti a tre grandi campi tematici, così definiti: Tema 1. Spazi urbani esistenti come occasione per una diversa trasformazione e un diverso abitare: l’emergere di nuovi diritti, doveri e poteri; Tema 2. Suolo come bene comune e come valore: ripensare la struttura dei territori contemporanei; Tema 3. Dismissioni e riuso di spazi e materiali urbani: riflessioni sulla riscrittura del progetto urbanistico. Dai paper presentati sono affiorate possibili declinazioni e aperture di ricerca, ma sono soprattutto emerse alcune questioni trasversali a quelle proposte (principalmente legate al ripensamento dell’idea di spazio abitabile, ai tempi e ai modi del progetto urbanistico), confermando la necessità di una più profonda riflessione sul mutamento della disciplina e di un paradigma ancorato ad un’idea di città oggi alla ricerca di nuove e più sostenibili configurazioni. Le questioni emerse Il primo tema (Spazi urbani esistenti come occasione per una diversa trasformazione e un diverso abitare: l’emergere di nuovi diritti, doveri e poteri) pone all’attenzione una questione centrale per l’urbanistica: la gestione del conflitto tra l’affermazione di diritti e l’esercizio dei poteri che ne possono promuovere o compromettere l’esplicitazione nello spazio. Una questione resa evidente da contributi di ricerca in cui il consumo di suolo viene rapportato ai processi di trasformazione urbanistica degli ultimi decenni, legati alla dispersione insediativa, ma anche a nuove e spesso inedite forme soggettive del disporre del territorio attraverso pratiche di condivisione, uso, appropriazione. Ripensare al suolo come “spazio di diritto” significa riformulare, alla luce delle letture compiute sui territori contemporanei, l’idea del diritto alla città come insieme eterogeneo di diritti all’abitare e all’abitabilità dello spazio urbano. Diritti difficili da ricomporre, che diversamente esprimono domande di case, servizi, ambienti, paesaggi … e che sempre più coesistono e si sviluppano in contiguità all’interno degli spazi della città esistente. Diritti che non sempre sono disponibili a essere “istituzionalizzati” e tradotti in rapporti dati e stabili tra stato e cittadini, tra politiche e progetti spaziali. I modi della trasformazione e del riuso oggi vanno quindi profondamente ripensa-
ti, prestando particolare attenzione alla manutenzione e alla riconfigurazione dei territori insediati. In questo interpretando il progetto dell’esistente come un’opportunità per ripensare i rapporti tra attori pubblici e privati, individuali e collettivi; per formulare una diversa idea di welfare; per governare gli effetti di processi di rinnovo urbano che troppo spesso non riescono a coniugarsi al miglioramento della qualità sociale ed ambientale dei contesti in cui si vanno a calare. Il secondo tema (Suolo come bene comune e come valore: ripensare la struttura dei territori contemporanei) invita a riflettere sui valori del suolo in termini di risorsa economica, sociale, ambientale ... Dai paper presentati emergono in particolare due prospettive di ricerca. Nella prima, il valore del suolo diventa input per un nuovo progetto di paesaggio, a partire da una critica della visione duale città-campagna. Obiettivo diventa non solo la riduzione del consumo di suolo, ma anche la ricostruzione di rapporti virtuosi tra urbano e rurale, a partire dal riconoscimento allo spazio agricolo del valore di risorsa plurivalente: alimentare e produttiva, ecologica e ricreativa, come luogo della condivisione di usi e pratiche, nonché come strumento di ri-colonizzazione e ri-significazione di aree dismesse interne alla città, anche attraverso la ricostruzione di filiere alimentari corte (city farms). In vuoti e contesti periurbani aggrediti da processi di espansione urbana e metropolitana, la dimensione di contatto (e di conflitto) tra urbano e rurale viene così sollecitata a tramutarsi in spazio di opportunità, dove sperimentare nuove forme di collaborazione e di integrazione tra politiche e progetti troppo a lungo trattati come settoriali. La seconda prospettiva emergente dai paper allarga ulteriormente il campo di riflessione, per interpretare il suolo come risorsa e bene comune, da preservare per i valori collettivi che vanno ad esso riconosciuti. In particolare, alla scala globale i fenomeni di land grabbing (sia pure variamente declinati) oggi impongono con urgenza di ragionare sulle gravi ripercussioni che l’attribuzione al suolo agricolo di usi diversi (e più remunerativi) di fatto ha in termini sia di sicurezza alimentare, sia di giustizia sociale. Il terzo tema (Dismissioni e riuso di spazi e materiali urbani: riflessioni sulla riscrittura del progetto urbanistico) assume, infine, la questione del consumo di suolo come opportunità per ripensare le forme e i modi del progetto urbanistico. Da una comune premessa – il progetto urbano come strumento per trasformare l’esistente – si profilano due linee di indagine. Nella prima la riformulazione del progetto urbano in termini di attuabilità, efficacia, esternalità ed esiti (positivi e negativi) si coniuga alla consapevolezza che la modificazione dei grandi vuoti creati dai più recenti processi di dismissione di aree militari, produttive e infrastrutturali oggi offra una grande occasione per attuare politiche di riqualificazione in grado di porre in relazione le nuove esigenze espresse dalla collettività e una rinnovata sensibilità ambientale. In tale ottica, il progetto va ripensato come un processo complesso, non limitato al solo ambito dell’area dismessa o interessata dalla trasformazione, ma capace piuttosto di costruire visioni di insieme alla scala urbana. Un processo in grado di adattarsi a
tempi variabili e molteplici, per riuscire ad attrarre le risorse cospicue necessarie alla sua attuazione, senza però rinunciare alla visione urbanistica complessiva (sia essa tradotta nelle forme di un master plan, di una vision o di uno scenario possibile) alla quale è comunque necessario tendere. La seconda linea di indagine riformula l’idea del progetto urbano in funzione del possibile riciclo della città, quindi in termini di riuso, ricostruzione di ecologie, rigenerazione di spazi abbandonati o dismessi, ma anche di conservazione di luoghi dello scarto e opere di architettura in disuso. L’idea di convivere con “nuove rovine” pone la questione di come riconoscerne e accettarne i valori, impliciti o espliciti. Ma soprattutto di come, a partire da tali valori, ricalibrare possibilità di intervento che all’applicazione di criteri generali e generalisti contrappongano la messa a punto di strategie e dispositivi progettuali in grado di riattualizzare ruolo e funzione dei singoli manufatti e contesti in rapporto a usi e configurazioni propri della città contemporanea.
L’abitare, oltre la stagione neo-fenomenologica
L’abitare, oltre la stagione neo-fenomenologica Cristina Bianchetti DIST - Politecnico di Torino
Email: cristina.bianchetti@polito.it Tel. 02.26414494/349.4018122
Abstract L’ipotesi sostenuta è che sia necessario, a valle di una lunga stagione neo-fenomenologica, tornare ad una dimensione politica dell’abitare: una dimensione che abbia il suo fondamento nel riconoscimento del rapporto tra stato e cittadini. Le forme dell’abitare (anche quelle abusive, informali, marginali, individuali, condivise, temporanee) si costruiscono su un patto implicito che le rende possibili, praticabili. L’abitare come «realizzazione delle idee» circa il proprio collocarsi nel tempo e nello spazio, ha strettamene a che fare con l’azione individuale, la negoziazione, le pratiche, l’affettività e la strumentalità, ma non è avulso da una cornice istituzionale. E questo lo sottrae dall’ambito puramente privato, lo pone a mezzo tra la sfera individuale e quella politica Negli ultimi quindici anni si è tornati a riflettere sull’abitare: si sono osservate le pratiche, le forme, le esperienze e i luoghi dell’abitare. Si è cercato di coglierne la varietà, con una particolare attenzione all’informale, al temporaneo, al condiviso. Si è messo al centro un concetto complicato come quello di esperienza e sono state duramente criticate le concezioni dell’abitare legate a criteri di specializzazione funzionale dello spazio (Donzelot, 2009; Tosi, 1997). L’indagine fenomenologica è il tratto dominante di questa stagione e a ciò si deve la particolare attenzione rivolta al riconoscimento di diversità, alla catalogazione, ad una sorta di estetica iperrealista impegnata nell’investigare il quotidiano nei suoi minimi aspetti. Una vera e propria passione per la diversità che ha finito, in alcuni casi, con lo spoliticizzare il problema, riconducendo l’abitare a forme che, nelle loro differenze, valgono tutte allo stesso modo. Oggi, quello che possiamo osservare è una sorta di doppio movimento. Da un lato, l’esito di quella stagione: la celebrazione dell’abitare come «realizzazione delle idee circa il proprio collocarsi nel tempo e nello spazio» (Douglas, 1991; pag. 290): qualcosa che si assume abbia strettamene a che fare con le aspirazioni di ciascun individuo, di ciascuna famiglia, di ciascuna impresa. Quasi l’aspirazione individuale fosse avulsa da una cornice istituzionale e possa ricondursi ad ambito puramente privato Appadurai, 2011; pag. 19). Dall’altro lato, la polverizzazione del diritto all’abitare in un insieme di diritti, privilegi, poteri, immunità che non hanno più, nell’insieme, bisogno di riferirsi ad un principio di giustizia che li trascende (così come è invece per il diritto all’abitazione sancito dalla Costituzione, Urbani, 2011; pag. 112), ma derivano da un gioco di differenze e opposizioni. Si potrebbe ovviamente pensare che i due aspetti siano reciprocamente implicati: l’uno causa dell’altro. Ma questa è una spiegazione impegnativa: sovrappone piani analitici che è più prudente tenere separati. E poiché il primo è stato oggetto di qualche considerazione (Bianchetti, 2011), qui vale fermarsi sul secondo.
Cristina Bianchetti
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C’è diritto e diritto Guardare all’abitare come problema politico significa spostare l’attenzione dall’esperienza dell’abitare al rapporto tra stato e cittadini che lo sottende, anche quando l’abitare è informale, abusivo, marginale, temporaneo. Una sorta di patto (esplicito o implicito) che ne definisce le condizioni di possibilità e praticabilità. Questo patto fa riferimento ad un’idea di diritto cioè ad un concetto che è generalmente utilizzato come retorica forte. In realtà si tratta di un concetto fragile quanto fondativo (Rodotà, 2011). Insidiato da una incessante riscrittura. Non c’è un movimento di progressiva espansione dei diritti. Piuttosto un continuo conflitto intorno ai diritti. Un rimodellarsi incessante, poiché «i diritti nascono in corrispondenza del mutamento» scriveva Norberto Bobbio (1990). Si espandono e sono insidiati. Sono insidiati oggi nella resistenza ad includere nei diritti di cittadinanza nuovi soggetti. Lo erano negli anni 80 entro la cosiddetta risposta ordinamentale dello stato (Rodotà, 2011), costruita su provvedimenti limitativi delle libertà, seguita all’esplodere della dimensione del diritto individuale nella seconda parte degli anni 60 e nel decennio successivo. E, di nuovo, lo sono oggi, quando i diritti vengono assunti entro un orientamento per così dire risarcitorio e giocati per indurre determinate forme di comportamento. Il diritto all’abitare non solo è soggetto a espansione e ritrazione. Ma si articola profondamente al suo interno. Peter Marcuse, mutuando il concetto da Wesley Newcomb Hohfeld, parla di bundle of right (Marcuse, 1994). Ovvero di diritti d’uso, potere, privilegi, immunità che riguardano un bene. L’abitare si fonda su una negoziazione continua tra questi differenti diritti. Non c’è solo l’alternativa tra diritto d’uso e diritto di scambio (propria dell’impostazione marxiana), ma un gradiente di condizioni differenti entro le quali rientrano la prerogativa di poter occupare, la prerogativa ad un uso ampio dello spazio abitativo, la prerogativa ad abitare per un tempo continuo (l’immunità dall’espulsione). Il diritto ad escludere altri dall’uso dell’abitazione o dall’uso di determinati spazi collettivi. Il diritto ai servizi legati alla residenza. Il diritto a trarre profitto dall’abitazione. Il diritto e il dovere a mantenere lo spazio abitativo in certe condizioni. Il diritto a sussidi o a supporti economici. Il dovere di pagamenti iniziali o ricorrenti per l’esercizio di diritti e privilegi. Il diritto di modificare diritti, privilegi, poteri, immunità attraverso atti fisici, pagamenti o politiche. Entro il bundle of right di Hohfeld si collocano diritti a usufruire di un proprio spazio (o bene) e diritti alla non interferenza nell’uso ad opera di altri. Nei termini della teoria liberale dei diritti, si direbbero diritti positivi e negativi. Il problema che vorrei sottolineare non riguarda la distinzione tra carattere positivo o negativo del diritto. Né il fatto che queste declinazioni possano rintracciarsi anche in passato. Ma una sorta di autosufficienza dei diritti che oggi riguardano l’abitare (Supiot, 2011). La loro definizione non ha più bisogno di riferirsi ad un principio esterno ad essi. Certo, il diritto all’abitazione è ancora considerato precondizione necessaria alla realizzazione dell’individuo e sottende pertanto un principio generale. Ma quel riconoscimento di un diritto sociale fondamentale diventa, nella polverizzazione dei diritti, il riconoscimento di ciascuno ad abitare come può o come vuole.
Luoghi e diritti Dopo la stagione fenomenologica è utile tornare a ragionare dell’abitare in termini di diritti, nel modo in cui la città contemporanea suggerisce e impone. Si tratta certo di un piano di lavoro non estraneo alla tradizione dell’urbanistica novecentesca saldamente fondata sul tema della redistribuzione dei diritti (d’uso del suolo), delle regole sottese ad essa e dei fini che la guidano. Ma che non può essere ripreso pedissequamente: se i diritti rispecchiano, come scriveva Bobbio, le condizioni sociali, tornare alle formulazioni anni 70 ha il sapore dell’anacronismo. Piuttosto che riprendere ritualmente Lefevre e Harvey (Levebvre, 1970, 1972, Harvey, 2008), serve seguire il loro esempio (Stanek, 2011): guardare agli spazi (e ai comportamenti) dai quali dipende l’affermazione o la negazione di un diritto. Cercando di rendere evidenti gli intrecci tra riconoscimento formale dei diritti e condizioni materiali della loro attuazione. Lo spazio non solo mette in scena i diritti, rendendoli visibili (così come rende visibili le aree di conflitto che essi generano). Non solo è il supporto entro il quale essi si inscrivono (come nella metafora del palinsesto). Ma ne definisce le condizioni di possibilità. Ne accoglie o impedisce la realizzazione. Pone resistenza o agevola. La ricerca urbanistica guarda allo spazio entro questa prospettiva. I luoghi della città contemporanea nella loro materialità sono lo snodo problematico tra usi e poteri. Tra pratiche e azioni, da un lato e politiche, istituzioni e diritti, dall’altro. Qui si colloca la specificità della ricerca urbanistica rispetto, ad esempio, a quella antropologica Cristina Bianchetti
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(non è un esempio qualsiasi, data la forza che quest’ultima ha avuto nella stagione descrittivista richiamata in apertura). La prima pone in primo piano i luoghi. La seconda le tecniche di produzione delle località (Appadurai, 2001). Anche nella ricerca urbanistica i luoghi restano costrutti sociali. Sono «l’uso che se ne fa» (Crosta, 2010). Ma quel che essa afferma è che non se ne possa fare qualsiasi uso. Lo scostamento non è poca cosa: costruisce l’indagine e le strategie di esplorazione delle proprie fonti: alle mitografie dell’indagine di campo (dei colloqui e delle passeggiate) o a quelle del documento si sostituisce l’indagine sulle tecniche di interpretazione e di progetto. Tecniche che oggi sono in fase di profondo e radicale ripensamento (Secchi e Viganò, 2011). Assumere i luoghi come produzioni culturali e sociali (fragili, non scontate, in continua ridefinizione), snodo di usi e diritti (incessantemente rinegoziati) significa, infine, muovere una doppi critica. Da un lato, la critica alle celebrazioni del quotidiano che patrimonializzano la spontaneità, l’informale, il quotidiano (sottostimando il fatto che insieme agli usi e alle pratiche, i luoghi ridefiniscono diritti e poteri). Dall’altro, la critica a quella parte del territorialismo che patrimonializza l’identità, l’appartenenza, lo statuto dei luoghi come qualcosa di dato (sottostimando il movimento e la distanza che ci separa dal Novecento).
Luoghi e diritti: condivisione e privacy Un esempio. Nella città contemporanea è sempre più evidente l’emergere di quelli che chiamiamo territori della condivisione. Il riferimento è ad una ricerca collettiva avviata nel 2011, i cui materiali e esiti sono in www.territoridellacondivisione.wordpress.com. Luoghi (aperti e costruiti) nei quali è possibile cogliere azioni tese a favorire l’incontro e l’ispessimento del legame sociale. I territori della condivisione si pongono in una posizione intermedia tra l’appropriazione individualistica della casa individuale su lotto e l’ossessione comunitaria delle tante versioni, più o meno addomesticate delle gated community. Questi luoghi si connotano per la capacità di accogliere un legame sociale che non è stabile, non è solo funzionale, ma solidaristico. Fondato sul riconoscimento, lo scambio, la difesa e, a volte, la gratuità. Un legame non duraturo, ma soggettivamente significativo. I luoghi della condivisione non rappresentano il «rifugio di un mondo senza cuore» (Leccardi, Rampazi, Gambardella, 2011; pag. 113), la consolazione di qualcosa che funziona in uno spazio urbano inospitale. La loro riproduzione ipertrofica è in parte movimento fine a se stesso; interpreta una propensione smodata per alcune forme di consumo; non espunge il conflitto e può divenire forma di pressione sulle amministrazioni locali. Ma è anche difesa, supermento della dimensione singolare e personale (Sennett, 2012). Esprime una preoccupazione affine a quella che, per Simmel, dà corpo alla socievolezza (Simmel, 2005). Nella città contemporanea l’emergere di una forte propensione alla condivisione coincide con una altrettanto forte propensione alla privacy, reclamata come diritto. Le due si oppongono. La condivisione è apertura, socievolezza, riconoscimento, collaborazione. La privacy afferma l’illeicità dell’intrusione nella solitudine individuale. L’ossessione della privacy si riaccende con forza negli Stati Uniti negli anni Ottanta. In Europa, qualche tempo più tardi. E in questo riaccendersi, sia negli Stati Uniti, sia in Europa, coincide, si sovrappone, si scontra con l’ossessione contraria: quella alla condivisione. In entrambi i casi sono evidenti gli slittamenti ideologici. Il ritirarsi nella vita privata coincide spesso con l’adottare parole d’ordine sull’autenticità, messe in circolazione dalle mode culturali: cura del corpo, new age, sport. Altre mode culturali, più o meno consolatorie, reggono lo stare insieme: spartizione francescana, ecologia, risparmio, mutuo aggiustamento. Lo sfondo ideologico e l’appropriazione da parte del mercato non sminuiscono l’importanza dell’affermarsi di queste due opposte forme del diritto all’abitare (e le loro ragioni di mercato). Il diritto alla privacy è inteso originariamente come diritto ad essere lasciati in pace (Brandeis e Warren, 1890), difesa dall’intrusione nella solitudine dell’individuo. Il diritto ad essere lasciati in pace e il diritto a condividere sono incessantemente negoziati nello spazio della città contemporanea (e nel progetto) principalmente a mezzo di un sistema di distinzioni, confini, intrusioni, esposizioni. Nella negoziazione conta molto la conformazione dello spazio e la sua capacità di offrirsi come spazio di potenzialità, dove «dare inizio a qualcosa». Conta l’indeterminatezza rispetto al titolo giuridico di proprietà, agli usi e alla loro regolamentazione, alla conformazione morfologica. Uno spazio liscio, senza «appigli» funziona male, quanto uno spazio fittamente recintato. Il parco della Colletta a Torino, mostra con chiarezza l’incidenza delle piccole variazioni di livello, ombra, luce, riparo. Conta anche il livello di familiarità (Heller, 1994) che il luogo dichiara. La familiarità facilita la distinzione tra spazio per sé e spazio con altri ed è connessa alla ripetizione, alla consuetudine. Può
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dare luogo sia a strategie di rivendicazione e difesa, sia a strategie di istituzionalizzazione. L’esempio degli orti urbani lungo la Stura, si presta bene ad indagare questi caratteri e queste strategie. Condivisione e privacy pongono come fondamento il riconoscimento del diritto a scegliere «come abitare». La negoziazione di questo diritto (nella forma dello stare per sé o dello stare con altri) avviene ovviamente nel tempo, non solo nello spazio: il carattere puntuale e discontinuo della condivisione che si spegne e si riaccende è anche difesa della propria privacy. La negoziazione si dà in rapporto alla prerogativa di poter occupare un tempo e uno spazio (non necessariamente pubblici) in un caso. Al diritto di esclusione nell’altro caso. Il privilegio di utilizzare spazio e tempo senza pagamenti iniziali o ricorrenti in un caso. Il contrario nell’altro. Tutto questo non solo disegna un modo diverso della città contemporanea, ma cambia il valore dello spazio. Al centro, con più forza rispetto al passato è l’autonomia (cercata o subita) di una sfera privata non necessariamente circoscritta all’individuo o alla famiglia. L’idea di abitare come possibilità di scegliere.
Conclusione In un libro di qualche anno fa, a fronte dell’espulsione di alcune famiglie rom a Torino, Marco Revelli affermava la «finzione reale dell’uguaglianza dei diritti» (Revelli, 1999, 83-84) e confrontava l’assenza di diritti di alcuni alla «cittadinanza ipertrofica» di altri. Immagino che con questo termine si riferisse non solo ai diritti a «come abitare» di cui ho cercato di tratteggiare qualche aspetto nelle pagine precedenti, ma, più in generale, ai diritti ad essere consumatori attivi e consapevoli, produttori di simboli e significati (Isin, Wood, 1999). Osservare la polverizzazione dei diritti porta a questo paradosso, che essi si moltiplicano, valgono in sé, definiscono una cittadinanza che può essere nel contempo nulla e ipertrofica. Un paradosso che esplicita ciò che mi pare essere il punto rilevante: l’assenza di un riferimento ad un principio esterno ai diritti. E’ ciò che Supiot chiama «polverizzazione del Diritto in diritti soggettivi» (Supiot, 2011). Come dire che c’è diritto e diritto. Il diritto (acquisito o da acquisire) all’abitazione nella città pubblica, sostenuto da un principio di giustizia e il diritto (diversamente declinato) a ridefinire in autonomia un proprio (diverso) spazio abitativo. Un diritto a «come abitare» che si coniuga con l’enfasi posta sull’autonomia e trova le sue matrici nella stagione libertaria e utopica degli anni 60, come già avevano osservato (pur non occupandosi di questo), Luc Boltanski e Éve Chiapello (1999).
Bibliografia Appadurai A. (2001), Modernità in polvere, Meltemi, Roma (ed. or. 1996). Appadurai A. (2011), Le aspirazioni nutrono la democrazia, et/al, Milano. Bianchetti C. (2011), Il Novecento è davvero finito, Donzelli, Roma. Bobbio N. (1990)., L’età dei diritti, Einaudi, Torino. Boltanski L., Chiapello E. (1999), Le nouvel esprit du capitalism, Gallimard, Paris. Brandeis L., Warren S. (1890), “The right to Privacy”, Harvard Law Review. Crosta P.L. (2010), Pratiche. Il territorio è l’uso che se ne fa, Angeli, Milano. Donzelot J. (2009), La ville à trois vitesse, Editions de la Villette, Paris. Douglas M. (1991), “The Idea of Home: A Kind of Space”, Social Research, Spring. Harvey D. (2008), “Il diritto alla città” New Left Review, n. 53, 2008, ora anche in http://www.newleftreview.org/?view=2740 Heller A. (1994), “Dove ci sentiamo a casa?”, Il Mulino, n. 353, 1994, pp. 381-399 Isin E.F., Wood P.K. (1999), Citizenship & Identity, Sage, London. Leccardi C., Rampazi M., Gambardella M.G. (2011), Sentirsi casa, Utet, Milano. Lefevre H. (1970), Il diritto alla città, Marsilio, Padova (ed. or. 1968). Lefevre H. (1972), Spazio e politica. Il diritto alla città, Moizzi, Milano (ed. or. 1972). Lefebvre H. (1991), The production of Space, Blackwell, Oxford (ed. or 1974). Marcuse P. (1994), “Property rights, tenure and ownership: towards clarity in concept” in Social Rented Housing in Europe: Policy, Tenure and Design, eds B. Donermark, I. Elander, Delft Unversity Press, Delft, pp. 21-39 Revelli M. (1999), Fuori luogo, Bollati Boringhieri, Torino. Rodotà S. (2011), Diritti e libertà nella storia d’Italia, Donzelli, Roma, 2011 Cristina Bianchetti
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L’abitare, oltre la stagione neo-fenomenologica
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Cristina Bianchetti
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Cosa una casa vale
Cosa una casa vale. Alcune riflessioni a partire dall'esperienza cilena Emanuel Giannotti Università Iuav di Venezia Email: emanuelgiannotti@gmail.com
Abstract Molte ricerche, in anni recenti, hanno mostrato come l'abitare, oggi, sia una pratica molto più variegata rispetto a solo qualche decennio fa. Sempre meno la casa si identifica con la famiglia nucleare e sempre meno è una sola per tutta la vita. Un'accresciuta mobilità e una maggiore frammentazione sociale hanno eroso il significato attributo alla casa. Da un altro lato, la crisi legata alla bolla immobiliare ha messo in discussione anche il suo valore economico. Se generalmente la casa è stata ritenuta un investimento sicuro, oggi, a fronte del calo delle compravendite e del serio affanno dell'industria delle costruzioni, non è più così certo che il mattone sia il modo migliore per salvaguardare i propri risparmi. Questa situazione sospinge verso il riuso e la rivalutazione del patrimonio esistente, mentre solleva molti dubbi rispetto alla costruzione del nuovo. Di fronte a tali incertezze, ha senso riprendere la questione che John Turner ha sollevato negli anni Settanta, cioè quale sia il valore da attribuire a una casa (Turner 1978; Turner, Fichter 1979; Tosi 1994). Il caso cileno può dire qualcosa in merito, poiché fin dagli anni Cinquanta, a fianco delle politiche convenzionali, ne sono state sperimentate altre, rivolte soprattutto al problema abitativo dei più poveri. Per diversi decenni, quest'ultime si sono spesso affidate a strategie incrementaliste, sia per la costruzione del nuovo, sia per il recupero dell'esistente, il cui esito, però, è di difficile valutazione. Se da un lato hanno contribuito a ridurre sensibilmente il deficit abitativo, dall'altro hanno spesso incentivato una crescita urbana orizzontale, creando vasti quartieri la cui qualità è stata e continua a essere oggetto di discussione. Ciò su cui mi interessa soffermarmi, però, non è tanto la valutazione dei risultati, quanto il fatto che queste politiche, messe in campo per rispondere all'urgenza del problema abitativo e alle pressanti rivendicazioni popolari, hanno via via ridefinito la questione della casa. In particolare, hanno dovuto mettere in discussione un'idea fortemente radicata nella cultura cilena, che ha attraversato tutto il Novecento, ovvero che lo Stato dovesse adoperarsi per dare a tutti una "casa degna" (Tosi 1980, 1994).
Case degne e case cattive Le ragioni portate in sostegno della "casa degna" per molti versi sono riconducibili al discorso sulla casa analizzato da Tosi, il quale legava strettamente le politiche abitative con quelle di integrazione sociale (Tosi 1980, 1994). L'intervento dello Stato era giustificato dalla grande incidenza che la casa aveva sulla salute, l’educazione e la vita del popolo, oltre che al mantenimento dell'ordine sociale e della democrazia. Le condizioni abitative insalubri e promiscue erano correlate con i “vizi” della popolazione, mentre, all’opposto, una casa dignitosa avrebbe stimolato la sana crescita delle famiglie, elevato gli standard educativi e di salute e favorito una maggiore propensione al risparmio. 1
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Queste posizioni sono tratte da uno studio molto articolato condotto per la campagna presidenziale del 1958 della Democrazia Cristiana (Saez 1959: 5-8; 13-14). Posizioni simili, però, sono facilmente rintracciabili in molti altri testi che si sono occupati della questione abitativa.
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Una tale posizione, in Cile come altrove, ha retto politiche abitative "convenzionali", basate sulla realizzazione di alloggi finiti, che rispondevano ad alcuni standard minimi. 2 Lo Stato doveva farsi garante che il diritto alla casa fosse a tutti garantito e pian piano assunse il ruolo di principale promotore dei piani abitativi. Il sapere tecnico assumeva un ruolo centrale, al fine di realizzare abitazioni adeguate, confortevoli, economiche e prodotte su larga scala. La casa doveva essere compito di specialisti, i quali avrebbero garantito una progettazione e un'esecuzione a regola d'arte. 3 In un articolo del 1973 padre Josse Van der Rest sovvertiva radicalmente l'idea di casa degna, sostenendo che "vale più una cattiva casa oggi, piuttosto che una buona tra cinque anni" (Van Der Rest 1973). 4 Pochi anni prima, Charles Frankenhoff scrisse che era sbagliato fissare standard minimi per una casa, in quanto il minimo dipende dalla cultura e dalle necessità degli abitanti. La casa, quindi, non può essere predefinita, ma è da intendersi come "un gruppo di servizi in continua evoluzione", anche da un punto di vista economico (Frankenhoff 1969). 5 Questi erano dei principi che reggevano anche il PAP (Programa de Ahorro Popular), un piano di credito varato nel 1967, che prevedeva diverse tappe per la realizzazione di un alloggio, in modo che la casa, intesa come un processo, potesse rispondere organicamente ai requisiti di ogni famiglia, piuttosto che essere qualcosa di rigidamente determinato (Castillo, San Martin 1979; Palma, Sanfuentes 1979; Hidalgo 2005). Il PAP istituzionalizzò l'idea di casa progressiva, dando legittimità a una strategia abitativa emersa almeno dagli anni Cinquanta, attraverso una mobilitazione popolare che aveva il mezzo principale di lotta nelle tomas (le occupazioni di terreno). Con le occupazioni veniva rivendicato principalmente l'accesso alla terra e, con esso, la sicurezza e la stabilità di avere un posto in cui vivere: una sorta di diritto di cittadinanza. L'abitazione rimaneva l'obiettivo principale, ma, in qualche modo, passava in secondo piano. Avendo un terreno, infatti, la casa poteva essere costruita incrementalmente dalle famiglie stesse, come era sempre accaduto nelle campagne o nelle frange periurbane. Le baraccopoli stesse erano espressione di questa cultura, in cui la casa era autocostruita dagli abitanti stessi. Pur essendo un momento di scontro e di conflitto aperto, le tomas avevano come obiettivo principale quello di aprire negoziazioni con le autorità, al fine di vedere legittimate le proprie richieste. La toma de La Victoria del 1957 costituì uno spartiacque, mettendo a nudo il problema abitativo dei ceti più poveri e inaugurando una stagione di dialogo tra lo Stato e i pobladores, cioè coloro che vivevano in situazioni precarie (Loyola 1989; Espinoza 1998; Garces 2002). Le politiche che sperimentarono soluzioni progressive nacquero attraverso il riconoscimento di queste strategie emerse dal basso, da parte della cultura tecnica, dai diversi partiti politici e da alcune associazioni. 6 Tuttavia, le ragioni portate a loro sostegno, che hanno dovuto scontrarsi con molte critiche e forti resistenze, si sono differenziate in modo piuttosto marcato, portando a strategie piuttosto diverse tra loro.
Il ruolo degli abitanti e quello dei tecnici Padre Josse Van der Rest attaccava le politiche convenzionali per almeno tre ordini di motivi. Innanzitutto, perché le "case-con-chiavi-nella-porta" adottavano soluzioni costose, le quali, viste le scarse risorse a disposizione, finivano per avvantaggiare una piccola minoranza della popolazione a scapito della larga maggioranza. Ridurre sensibilmente gli standard, in termini di superficie e qualità, aveva un significato redistributivo, giustificato da ragioni di giustizia sociale. In secondo luogo, padre Josse sottolineava il valore funzionale della casa: per un povero la prima necessità è un tetto che protegga dall'acqua, la seconda è avere un rifugio che salvaguardi il nucleo famigliare, il quale, altrimenti, si sarebbe disgregato nella lunga attesa di una casa degna. In modo ancor più chiaro, John Turner, negli stessi anni, sostenne che esistevano due valori per una casa: quello materiale, che valuta il prodotto casa (cosa la casa è) e quello umano-sociale, che valuta il processo abitativo (cosa la casa fa). I due valori, secondo Turner, dovevano essere chiaramente distinti, in quanto non sempre coincidono, come invece si pensa comunemente. A dimostrazione di questa tesi portava l'esempio di un alloggio ricavato in un garage, che per gli abitanti funzionava in modo molto migliore rispetto a una casa realizzata a opera d'arte. Turner chiamava il 2
In Cile gli standard corrispondenti a una casa degna erano piuttosto vaghi, ma, considerando le leggi, i discorsi di politici e soprattutto le abitazioni popolari realizzate, spesso un alloggio di circa 50 metri quadrati era considerato implicitamente la soglia minima. 3 Gli specialisti, oltre agli architetti, comprendevano anche le imprese di costruzione, che in Cile ebbero sempre un ruolo di primo piano sia nella definizione delle politiche pubbliche, sia nella realizzazione di alloggi. Il loro principale organo è stato la Camera Chilena de la Construcción (CCC). 4 Padre Josse è un gesuita belga arrivato in Cile nel 1957, il quale si è occupato a lungo di alloggi per i più poveri. 5 Charles Frankenhoff è un economista portoricano che visse alcuni anni in Cile, all'interno della missione finanziata dalla fondazione Ford nella seconda metà degli anni Sessanta. 6 Di particolare importanza furono alcune associazioni di ispirazione cattolica, come Hogar de Cristo, fondata dal padre Hurtado e tuttora attiva. Emanuel Giannotti
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primo "the supportative shack" e la seconda "the oppressive house" (Turner 1978). 7 In modo simile, padre Josse Van der Rest accusava le politiche convenzionali di costruire "tombe di cemento che chiudono gli abitanti nella loro miseria". Il terzo ordine di motivi riguarda il ruolo dei soggetti coinvolti. Sia padre Josse sia John Turner tendevano a sminuire il ruolo del tecnico, per porre invece l'accento sulle capacità degli abitanti stessi, che sarebbero stati capaci meglio di chiunque altro di pensare e risolvere da sé i propri problemi abitativi, se solo ne avessero avuti i mezzi. Secondo Turner, il vero problema è quello di chi ha il controllo, che dovrebbe spettare agli abitanti, mentre lo Stato dovrebbe garantire i mezzi basilari perché ciò potesse accadere. Padre Josse scrisse che lo Stato avrebbe dovuto concentrarsi sulla politica dei suoli e quella creditizia, in modo di garantire l'accessibilità di un terreno e di un credito anche ai più poveri. Dipingeva i tecnici come medici le cui soluzioni uccidono il paziente, invece di guarirlo, e lamentava la poca capacità di ascolto dei presunti specialisti, che non riescono a cogliere il problema nella sua interezza, limitandosi a ricette preconfezionate e miopi. 8 Questo andò di pari passo con la rivalutazione degli insediamenti "spontanei", allora chiamati marginali, che iniziarono a essere considerati più efficaci da un punto di vista funzionale ed economico e più adatti ai valori culturali degli abitanti, che si immaginava ancora legati a tradizioni rurali. 9 Questo modo di intendere la professione era piuttosto lontana da quella di altri architetti impegnati durante gli anni Sessanta nell'ideazione e realizzazione di soluzioni progressive, soprattutto quelle che implicavano processi di auto-costruzione. Tali strategie assegnavano un ruolo importante agli abitanti, coinvolgendoli nella progettazione e utilizzandone la manodopera per l'esecuzione. Tuttavia, il sapere tecnico manteneva un ruolo centrale, poiché era il garante dell'efficacia dell'intero processo. L'architetto (insieme al sociologo) era responsabile dell'organizzazione degli abitanti, della direzione dei lavori e, in definitiva, della qualità finale del prodotto. In virtù delle proprie conoscenze tecniche, poteva interpretare gli aneliti della gente, traducendoli in progetti concreti. 10 Il ruolo del tecnico, quindi, era ben diverso da quello previsto nelle politiche convenzionali, che assegnava agli specialisti la responsabilità dell'ideazione e dell'esecuzione dei progetti, senza relazione alcuna con i futuri abitanti, astratti in utenti ideali. Era, però, sensibilmente diverso anche dal ruolo proposto da Turner e padre Josse, poiché assegnava agli esperti un'importanza sia dal punto di vista pratico, come responsabili della buona riuscita del quartiere, sia da un punto di vista sociale, in quanto l'autocostruzione assistita della propria casa era pensata come un mezzo per far intraprendere agli abitanti un percorso di superamento della propria condizione di marginalità. L'integrazione, così come la costruzione della propria casa, era pensata in termini processuali e implicava un impegno in prima persona, in cui l'apporto tecnico era fondamentale al fine di guidare il percorso. 11 L'autocostruzione guidata diventava una sorta di processo pedagogico, in cui l'obiettivo non era solo ottenere una casa, ma anche favorire l'integrazione di quegli strati della popolazione che erano descritti come "marginali". Turner, all'opposto, fu un instancabile accusatore di queste strategie, rivendicando invece l'importanza di sostenere l'autonomia delle persone, dove la casa diventava un mezzo per ridare potere decisionale agli abitanti.
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John Turner maturò queste posizioni durante un'esperienza di circa un decennio in Perù, iniziata nel 1957 ad Arequipa e continuata poi a Lima. Queste posizioni iniziarono a prendere forma in un numero monografico di "Architectural Design" del 1963 dedicato all'abitazione in America Latina. Vennero poi elaborate in alcuni report per l'ONU e in articoli e saggi pubblicati in riviste statunitensi. 8 In modo molto simile, Ivan Illich, che promosse la pubblicazione di Housing by people, sosteneva la necessità, per missionari e cooperanti, di abbandonare idee precostituite su sviluppo e progresso, per imparare ad apprezzare la ricchezza delle culture che si sarebbero incontrate. Illich probabilmente fu colui che portò la critica più radicale alla cultura tecnica specializzata, inserita all'interno di una critica più generale a tutta la modernità. Illich durante gli anni Sessanta, creò un centro di ricerca religiosa a Cuernavaca, in Messico, le cui attività ebbero una grande risonanza a livello internazionale. 9 Il lavoro di studio condotte nelle baraccopoli da parte di sociologici e antropologi (soprattutto di origine anglosassone, come William Mangin o i coniugi Leeds) portò a rivalutarne il valore. Per un'analisi delle diverse interpretazioni delle forme abitative in America Latina si veda: Gorelik 2008. 10 Quest'ultime sono le parole usate più volte da Fernando Castillo, un architetto che, come funzionario del ministero, fu uno degli estensori del PAP (Programa de Ahorro Popular), mentre come sindaco de La Reina fu promotore di un grande quartiere autocostruito, la villa La Reina, progettato nel 1965 e la cui realizzazione, durata diversi anni, si avviò nel 1966 (Eliash 1990; San Martin 1988). 11 La teoria della "marginalità" fu elaborata da DESAL, un centro di ricerca socio-religiosa che fu molto influente in Cile negli anni Sessanta. Nella scia dell'interpretazione dualistica della società latinoamericana, che distingueva il polo tradizionale e rurale da quello urbano e moderno, DESAL descriveva lo stato di povertà come conseguenza non solo della mancanza di mezzi economici, ma anche di capacità e conoscenze. Per uscire dalla povertà, quindi, era indispensabile un aiuto esterno, che avrebbe fornito un supporto adeguato. Le istituzioni dovevano garantire una tale assistenza di natura tecnica, finanziaria e organizzativa (DESAL 1965; DESAL - CEDEP, 1966). Emanuel Giannotti
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Critiche alle soluzioni progressive Fin dalle prime sperimentazioni, la casa progressiva dovette fare fronte a delle forti resistenze e a dei persistenti dubbi, trasversali a tutta la seconda metà del Novecento, determinando le fortune alterne delle strategie incrementaliste. Una prima critica, sollevata da una parte della cultura tecnica e soprattutto dalle imprese di costruzioni, era rispetto alla bassa qualità, ai tempi lunghi e a un'economicità che, a ben guardare, era solo presunta. Tecnici e imprese specializzate, infatti, potevano garantire risultati molto migliori, con tempi e costi ridotti al minimo. Una seconda critica era rispetto alle ricadute urbane ed era mossa soprattutto da chi si occupava di pianificazione. Le soluzioni incrementaliste miravano a risolvere un problema contingente e immediato, ma secondo una logica rimediale, che mancava di una visione a lungo termine. In questo modo, tali politiche aiutavano a risolvere il problema abitativo, ma contribuivano in maniera significativa ad ampliare i problemi urbani e regionali. Da un lato, risolvendo i problemi laddove erano più acuti, favorivano la concentrazione nelle grandi città, invece di promuovere politiche di decentramento. Da un altro lato, erano responsabili dell'espansione orizzontale della città, con il conseguente aumento esponenziale delle necessità di infrastrutture e attrezzature, già drammaticamente carenti, creando quartieri sprovvisti di servizi e caratterizzati da una forte segregazione. Un'ultima critica era di natura politico-sociale e proveniva soprattutto dai partiti di sinistra e dai sindacati. I processi di auto-costruzione, infatti, erano un ulteriore sfruttamento della forza lavoro del proletariato, mentre le soluzioni progressive, con il loro drastico abbassamento degli standard, sanzionavano di fatto uno stato di povertà. Lo Stato, invece, avrebbe dovuto garantire a tutti una casa adeguata e dignitosa, al di là delle loro capacità finanziarie. Durante gli anni Sessanta, sotto la spinta di un'evidente emergenza abitativa, tali critiche passarono in secondo piano. Le soluzioni progressive vennero legittimate ed entrarono a fare parte delle politiche istituzionali, come mezzo privilegiato per risolvere il problema abitativo dei più poveri. In tal modo, diventarono una sorta di strategia complementare alle soluzioni convenzionali, che invece rimasero la soluzione privilegiata per il ceto medio. Nel decennio successivo, però, prima con la vittoria di Allende e poi con il colpo di Stato e l'insediamento della giunta militare, le critiche prevalsero e i programmi fondati sulla casa progressiva vennero interrotti. I partiti di sinistra, riuniti nella coalizione di Unidad Popular guidata da Allende, avevano fatto della questione abitativa uno dei punti principali del proprio programma, criticando le soluzioni progressive e predicando la necessità di introdurre sistemi di costruzione massiva e industrializzata di alloggi. 12 Sebbene per ragioni diverse, anche il governo militare si oppose a soluzioni progressive, privilegiando programmi convenzionali. 13 Tuttavia, intervenne nelle poblaciones (gli insediamenti precari), sradicando quelle ritenute illegittime o insicure e cercando di consolidare le altre. Queste operazioni, che avevano un chiaro significato politico e che si avvalsero della forza militare, vennero formalizzate, nella parte riguardante il consolidamento, con un programma in parte finanziato dal BID, che prevedeva la regolarizzazione degli insediamenti precari tramite l'assegnazione dei titoli di proprietà e la costruzione delle infrastrutture mancanti. Prevedeva, inoltre, l'assegnazione di piccoli nuclei con i servizi sanitari e la cucina, da installare al fianco delle abitazioni precarie esistenti. Questi programmi ebbero un effetto ambivalente: da un lato costituirono un indubbio miglioramento delle condizioni abitative nei quartieri precari, dall'altro, accentuarono la divisione tra aree ricche e povere, rilocando una parte considerevole della popolazione e aumentando sensibilmente la segregazione sociale delle città cilene, in particolare Santiago (Molina 1985; Morales, Rojas, 1986; Sepúlveda 1992; Hidalgo 2005).
Case buone a metà Con il ritorno alla democrazia nei primi anni Novanta, la questione abitativa divenne una delle principali preoccupazioni del nuovo governo guidato da Aylwin (Concertación). Il ministero elaborò un ampio programma di intervento per cercare di affrontare rapidamente il problema del sovraffollamento dei quartieri poveri. Si mise in atto una politica fondata su un ampio spettro di soluzioni, in cui quelle progressive rivestivano grande importanza, in quanto vennero pensate per coprire il segmento della popolazione a basso reddito. 12
Nei fatti, però, questa opposizione fu meno netta. Da un lato, la tolleranza del governo verso le occupazioni di terreno incentivò ulteriormente il fenomeno, che era esplicitamente appoggiato dai gruppi di estrema sinistra. Dall'altro lato, le difficoltà che incontrarono i primi piani abitativi portarono i tecnici del ministero a rivedere le posizioni precedentemente espresse, aprendo all'impiego di soluzioni progressive (Palma, Sanfuentes 1979). 13 Secondo il governo militare la casa doveva essere una responsabilità condivisa da Stato e famiglie, dove la collaborazione era intesa soprattutto rispetto al finanziamento, mentre la progettazione e l'esecuzione furono affidate a specialisti (architetti e imprese private). Secondo tale impostazione, il governo militare avviò una politica fondata su un sistema di crediti e sussidi (Hidalgo 2005, Rojas, Greene, 1995). Emanuel Giannotti
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Le politiche della Concertación ebbero indubbi successi. Anche grazie alla crescita economica, il numero di unità prodotte annualmente raggiunse livelli considerevoli, che permisero di ridurre progressivamente il deficit abitativo accumulato. Le cose, però, non andarono esattamente come inizialmente previsto, in particolare rispetto alle soluzioni progressive. Da un lato, perché i settori poveri della popolazione mostrarono di preferire standard abitativi più alti, anche se comportavano un costo maggiore. Dall'altro lato, perché l'alta incidenza dei costi dei terreni rese le case progressive poco efficaci nelle aree metropolitane (Greene 2004). A partire dalla constatazione di questi e altri problemi, la Concertación ha apportato numerosi aggiustamenti, modifiche e innovazioni. Il programma di densificación predial (densificazione fondiaria) fu introdotto nei primi anni Novanta per risolvere il problema del sovraffollamento, che vedeva la coabitazione di più nuclei famigliari in uno stesso lotto. In tal modo, si volevano salvaguardare le relazioni sociali sviluppate all'interno del quartiere e, allo stesso tempo, avvalersi delle infrastrutture già esistenti. Altri programmi sono stati avviati per risanare i quartieri degradati tramite approcci integrati (programa Chile Barrio) oppure per dare sussidi per la costruzione di un'abitazione minima espandibile, eliminando il credito, che spesso si è rivelato un impegno poco sostenibile per le famiglie meno abbienti (VSDsD, Vivienda Social Dinamica sin Deuda) (MINVU 2004). Avvalendosi di alcuni di tali programmi, il gruppo Elemental, a partire dai primi anni Duemila, ha condotto alcune interessanti esperienze, operando in siti già occupati da insediamenti precari, tramite interventi di sostituzione. 14 La riflessione condotta da Elemental, che ha avuto ampia risonanza a livello internazionale, nasce da una critica alle politiche precedenti, le quali erano state pensate per risolvere un'emergenza (la diffusa mancanza di alloggi), che era ormai superata. Era necessaria, dunque, una ridefinizione delle politiche, in quanto le condizioni della povertà urbana era ormai sensibilmente diverse. Le case costruite in passato, che dovevano affrontare un'urgenza abitativa con risorse estremamente limitate, si erano spesso rivelate simili a un'automobile, perdendo valore nel tempo. Elemental, invece, ha proposto di pensare la casa come un investimento, avendo come obiettivo la costruzione di una casa tipica della classe media. Considerando che i finanziamenti pubblici potevano coprirne metà del costo, Elemental ha preferito realizzare una buona mezza casa, piuttosto che una cattiva casa intera. A tal fine, i finanziamenti sono stati impiegati per realizzare la metà dell'abitazione che una famiglia farà più fatica a realizzare da sola (quella con i servizi e le scale), lasciando agli abitanti l'onere di finire il resto nel tempo. Una parte consistente dei finanziamenti, inoltre, è stata destinata all'acquisto del terreno, poiché la localizzazione è stata considerata una variabile fondamentale, sia per facilitare l'accesso alle opportunità offerte dalla città, sia, soprattutto, per definire il valore di una casa, che, in questo modo, potrà aumentare nel tempo. Entro una tale impostazione il ruolo del tecnico diventa centrale. Infatti, il contributo di un sapere esperto è essenziale per poter garantire standard elevati e una buona qualità dell'intervento. Innanzitutto, le capacità progettuali dell'architetto potranno trovare soluzioni abitative compatte, che riescano ad ammortizzare il costo di una buona localizzazione, senza che la densità si trasformi in sovraffollamento. Inoltre, sarà necessario definire adeguate possibilità di ampliamento, per garantire la stabilità statica. Infine, l'apporto dell'architetto sarà indispensabile al fine di disegnare buoni spazi pubblici e collettivi, dare una certa omogeneità nella costruzione dei fronti stradali, progettare dettagli semplici ma duraturi. Elemental ha impiegato processi partecipativi fin dalle prime fasi dell'ideazione dei quartieri, ma il ruolo degli abitanti è stato precisamente circoscritto. La misura di tali limiti è data dalle possibilità lasciate agli ampliamenti, che sono rigorosamente predefiniti. In questo modo, la dimensione processuale della costruzione della casa diventa un aspetto secondario (quasi un trucco per aggirare le limitazioni dei finanziamenti a disposizione), così come secondario è il valore funzionale dell'abitazione (la cui efficienza è data quasi per scontata). Piuttosto è la qualità della casa (garantita dal tecnico) che, in quanto capitale, diventa la variabile fondamentale per aiutare gli abitanti a uscire da una condizione di povertà. In tal modo, l'aspetto importante non è tanto fornire un tetto su cui ripararsi, ma, piuttosto, fornire un'abitazione che possa essere un capitale. 15
Cosa vale una casa? L'esperienza cilena mette in evidenza come il diritto a una casa non sia mai stato qualcosa di immutabile, ma, piuttosto, si è via via ridefinito a secondo delle situazioni. Si è costruito attraverso rivendicazioni, negoziazioni e conflitti e ha trovato legittimità alla luce di sfondi valoriali precisi e di altrettanto precise esigenze di governo. L'emergere dell'idea di casa progressiva in Cile nasce a partire da una rivendicazione da parte di un ampio strato della popolazione e dal suo successivo riconoscimento da parte dello Stato e della cultura tecnica. Di fronte alle 14
Le prime esperienze sono state la Quinta Morroy a Iquique, finita di realizzare nel 2004, Renca e Lo Espejo a Santiago, terminate nel 2007 (AaVv. 2007: 86-113). 15 Il discorso di Elemental si rifà esplicitamente alle teorie dell'economista peruviano Hernando De Soto, secondo il quale il principale problema dei paesi in via di sviluppo non è la mancanza di risorse, ma la loro mancata rappresentazione. Secondo De Soto, se le baracche costruite illegalmente avessero una rappresentazione legale, immediatamente diventerebbero dei beni che potrebbero essere scambiati sul mercato, diventando in questo modo un "capitale", che potrebbe essere la base per ulteriori investimenti o per chiedere dei prestiti (De Soto 2001, 2007). Emanuel Giannotti
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occupazioni di terreno, i vari governi, anche quando hanno opposto un netto rifiuto, hanno comunque avviato forme di dialogo con la popolazione, che si è manifestato sia in un modo diretto, al fine di risolvere le specifiche situazioni, sia a un livello indiretto, tramite l'avvio di politiche che potessero rispondere al disagio abitativo diffuso. Questo dialogo (spesso conflittuale e ruvido) ha portato a una sperimentazione prolungata di strategie, procedure, politiche, che necessariamente hanno dovuto ridefinire gli attori coinvolti, il ruolo delle istituzioni e quello del sapere tecnico. Hanno inoltre ridefinito il valore attributo a una casa, il quale ha molte dimensioni diverse. La suddivisione di Turner in valore funzionale (che cosa la casa fa) e valore materiale (che cosa la casa è) era strumentale a sottolineare come l'abitazione, in contesti con risorse limitate, dovesse innanzitutto rispondere a esigenze precise e urgenti. L'accento messo da Elemental sul valore immobiliare di un'abitazione sottolinea come, una volta superata l'emergenza abitativa, per uscire dalla povertà è necessario dare qualcosa di più di un semplice tetto sotto cui ripararsi dalla pioggia. Tali riformulazioni del problema sono necessarie a ridefinire il valore della casa in relazione alla situazione contingente, ricordando, come ha fatto Turner, che ciò che si pensa essere una buona casa a volte si può rivelare una casa pessima. Considerare i molti valori legati all'abitazione è probabilmente un modo per ridurre un tale rischio. L'attuale crisi del settore, potrebbe essere stata meno acuta se per molti anni la casa non fosse stata ritenuta quasi solo un investimento immobiliare. Paradossalmente, la crisi immobiliare sembra aver congelato un dibattito sull'abitazione che negli anni passati aveva riacquistato una certa forza. Sarebbe urgente, invece, tornare a interrogarsi sui molti valori di una casa, nella sua dimensione sociale (individuando le reali esigenze abitative di oggi), energetica (che forse è stata quella maggiormente affrontata, anche se con politiche frammentate e senza una visione a lungo termine) e urbana (considerando che oggi, più che mai, è necessario limitare il consumo di suolo, ma che, d'altro lato, la retorica della città compatta tende a semplificare il problema unicamente alla mobilità delle persone).
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Cosa una casa vale
Saez R. (1959), Casa para Chile. Plan Frei, Editorial del Pacífico, Santiago de Chile. Sepúlveda R., et. al., 1992, El programa de mejoramiento de barrios. Análisis del periodo 1983-1992, Universidad de Chile, Santiago. Tosi, A. (a cura di, 1980), Ideologie della casa. Contenuti e significati del discorso sull'abitare, Franco Angeli, Milano. Tosi A. (1994), Abitanti. Le nuove strategie dell'azione abitativa, Il Mulino, Bologna. Turner J. (1978), L'abitare autogestito, Jaca Book, Milano (ed. or. 1976). Turner J., Fichter R., (a cura di, 1979), Libertà di costruire, Il saggiatore, Milano (ed. or. 1972). Articoli AaVv (1985), "Arquitectura y calidad de vida. Los desafios de la vivienda social", numero monografico della revista CA, n. 41, settembre. De Ramón A. (1990), “La población informal. Poblamiento de la periferia de Santiago de Chile. 1920-1970”, in EURE n. 50, pp. 5-17. Giannotti E. (2012), “Case dappoco. La casa progressiva nell'esperienza cilena”, in Territorio n.60. Gorelik A. (2008), “La aldea en la ciudad. Ecos urbanos de un debate antropológico”, Revista del museo de antropologia, Universidad Nacional de Cordoba, pp.73-96. Palma E., Sanfuentes A. (1979), “Políticas estatales en condiciones de movilización social: las políticas de vivienda en Chile (1964-1973)”, in EURE, n. 16, ottobre, pp. 23-55. Rojas E., Greene M. (1995), “Reaching the poor: lessons from the Chilean housing experience”, in Environment & Urbanization, vol. 7, n. 2, ottobre. San Martín E. (1988), “El programa de autoconstrucción de La Reina (Santiago de Chile)”, in DANA n. 26, pp. 69-79. Van Der Rest J. (1973), “Un angustia del tercer mundo”, in Mensaje, n. 222, Settembre, pp. 429-437.
Riconoscimenti: Queste riflessioni nascono entro l’ambito di una ricerca collettiva condotta sui temi della condivisione nella città contemporanea, avviata lo scorso anno. I materiali della ricerca fino ad ora prodotti, le ipotesi, le prime esplorazioni e i loro risultati sono sul blog www.territoridellacondivisione.wordpress.com
Emanuel Giannotti
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio. Claudia Mattogno Sapienza Università di Roma, Email: claudia.mattogno@uniroma1.it Tel. 06 44 585 172 Eleonora Cuscinà Sapienza Università di Roma, Email: eleonora.cuscina@yahoo.it, Tel. 338 2927256 Tullia Valeria Di Giacomo Sapienza Università di Roma, Email: tulliadigiacomo@tiscali.it, Tel. 349 0730370
Abstract L’articolo è frutto di un lavoro collettivo di osservazione, descrizione ed interpretazione dell’area che interessa il quadrante di Roma est tra Via Nomentana e Via Tiburtina ed ha l’obiettivo di riconoscere i segni di possibili connessioni da ristabilire per valorizzare gli spazi aperti come bene comune e mezzo per contrastare il consumo di suolo. Le nostre riflessioni si muovono su un duplice piano, il primo relativo all’ambito fisico territoriale del Fiume Aniene e del progetto dei suoi spazi, il secondo relativo all’ambito delle pratiche sociali degli abitanti e del progetto di buone pratiche, con riferimento particolare al quartiere di San Basilio. Il fiume Aniene è un elemento naturale, che attraversa con continuità il territorio dell’esteso Municipio V, lungo il quale è possibile ripensare connessioni fisiche e sociali. Gli abitanti sono l’altro elemento in grado di costruire un filo di connessioni lungo gli stessi spazi aperti, realizzabili attraverso usi condivisi delle attrezzature locali da parte delle associazioni per la difesa del bene comune.
Campo di argomentazione e tesi sostenuta (Claudia Mattogno) Il territorio urbano contemporaneo, che rifugge da tempo le dicotomie tradizionali di centro-periferia assieme a quella di pieno-vuoto, si va sempre più definendo in relazione alla coesistenza di agglomerati che potremmo chiamare intermedi in quanto sono sempre meno riconoscibili in maniera chiara, sia per morfologia che per funzione. Sottoposte a dinamiche incostanti, sono aree, che oscillano da un punto di vista identitario, frammenti di una città composita, spazi di frangia, spazi limite, a volte interclusi, a volte assemblati in maniera eterogenea. Questi territori del nostro presente, disseminati di nuclei residenziali pubblici e privati e accostati a grandi attrezzature e servizi, alternano lacerti di campagna ad aree in attesa di utilizzazione, discariche abusive ad aree di valore ambientale, archeologico o storico, aree produttive dismesse a spazi di risulta, lasciando ancora emergere trame interstiziali dove mettere in atto strategie di riqualificazione ambientale e paesistica.
Claudia Mattogno, Eleonora Cuscinà, Tullia Valeria Di Giacomo.
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
L’area oggetto del nostro studio ricade all’interno del quadrante nord est di Roma, tra la Via Nomentana e la Via Tiburtina all’altezza del Fiume Aniene. Si tratta di un territorio urbano intermedio dove spazi edificati ben individuabili e quasi ermetici nella loro stereometria si alternano ad altre più pervasive e diffuse specie di spazi, meno riconoscibili, morfologicamente e funzionalmente. Si tratta di spazi aperti di diversa natura, come la riserva naturale della Valle dell’Aniene, il parco regionale urbano di Aguzzano, frammenti di agro, corti residenziali piantumate e piccoli lacerti di orti. È un territorio in trasformazione all’interno del quale sembrano dissolversi e stemperarsi diversità e gerarchie tra gli elementi strutturanti e il loro connettivo, ma che lasciano, tuttavia, intravedere concrete potenzialità di rendere praticabili nuove trame di relazioni tra paesaggio urbano e paesaggio naturale. Un paesaggio che, nonostante la sua apparente dissolvenza, porta impressa l'evoluzione dei segni accumulati nel tempo, rende palesi le tracce sedimentate, esprime i tempi lunghi della geografia e li mette in relazione con il presente. Ri-conoscere questi segni, metterli in relazione con gli spazi delle pratiche sociali, ristabilire delle connessioni, riattribuire degli usi condivisi, costituisce uno dei presupposti fondamentali per un progetto di territorio in cui gli spazi aperti possano riconfermare tutto il loro valore nel contrastare il consumo di suolo.
I territori intermedi dall’Aniene a San Basilio (Tullia Valeria Di Giacomo) Il caso di studio rientra nel quadrante nord est del territorio urbano romano all’interno del Grande Raccordo Anulare ed è compreso nella fascia delimitata a nord dalla Via Nomentana, a sud dalla Via Tiburtina e ad ovest dal corso del fiume Aniene. È un territorio di natura molteplice influenzato dal fenomeno del consumo di suolo come altre analoghe zone della metropoli romana, ma con alcune differenze dovute alla prevalenza di spazi aperti che si alternano ad aree disseminate di nuclei residenziali pubblici e privati. Pianificati e spontanei, i nuclei di San Basilio, Casal de’ Pazzi, Torraccia, Borgata Tidei, San Cleto,sono accostati senza dialogo a grandi attrezzature, come il carcere di Rebibbia o la centrale del latte, e a infrastrutture, come le stazioni della metropolitana e i capolinea degli autobus di Ponte Mammolo, ma rimangono scarsamente fruibili perché scollegati dal territorio circostante e isolati proprio da quei frammenti di spazi aperti che invece potrebbero valorizzarne l’utilizzo, l’accessibilità e agevolare il mantenimento della sicurezza nelle loro vicinanze. Gli spazi aperti alla mercé dell’aggressione speculativa sono costituiti da lacerti di campagna ma anche da aree tutelate, come la Riserva Naturale Regionale della Valle dell'Aniene e il Parco urbano di Aguzzano 1,entrambe inserite nell'Elenco Ufficiale delle Aree Protette 2. La prima è un vero e proprio corridoio verde determinato dal tracciato del fiume Aniene e dalle sue fasce pertinenziali. Ultimo grande affluente del Tevere, il fiume Aniene nella sua parte terminale compresa tra Ponte Mammolo sulla via Tiburtina e il Ponte Tazio sulla via Nomentana,è caratterizzato da un andamento a meandri, con profonde anse rimaste sostanzialmente immuni dall’espansione edilizia sia per limitazioni vincolistiche, sia per disciplina di piano e dinamiche di mercato. Nel suo ultimo tratto l’Aniene interessa i quartieri ricadenti nei Municipi IV (Monte Sacro) e V (Pietralata e Ponte Mammolo), territori di grande complessità per le numerose testimonianze storiche e la ricchezza ambientale dovuta ad una straordinaria varietà di paesaggi naturali in relazione a specificità geologiche, geomorfologiche e vegetazionali, tanto più significative perché a stretto contatto con aree densamente urbanizzate. Nonostante il parziale degrado ambientale e l’abbandono di buona parte delle pertinenze fluviali, l’area riveste un ruolo strategico per la configurazione di proposte concrete di ricucitura delle parti di città che gravitano attorno ad esso, inquadrate e sostenute da un approccio di salvaguardia ambientale e riqualificazione urbanistica. Il contesto insediativo è caratterizzato da una forte continuità storica della struttura viaria di epoca romana: gli antichi tracciati consolari della via Tiburtina e della via Nomentana costituiscono ancora la viabilità principale dell'area, ed è tuttora leggibile, e in parte funzionante, il sistema di attraversamento dell’Aniene tramite gli antichi ponte Tazio e ponte Mammolo, ormai esclusivamente pedonali. Più discontinuo appare, invece, il sistema insediativo. Accanto alla Città Giardino Aniene, progettata nel 1924 da Gustavo Giovannoni con grande attenzione alla morfologia del sito, si giustappone ottusamente il Piano di Zona di Casal de' Pazzi i cui alti edifici a stecca, sorti intorno agli anni Ottanta, non riescono ad intrattenere nessuna relazione con l’intorno, non valorizzano la loro vicinanza con il fiume né cercano, con la disposizione e con l’articolazione dei fronti edificati alcuna relazione con gli spazi verdi adiacenti. Su questi si affacciano anche il quartiere di san Basilio, progettato fra gli anni Cinquanta e Sessanta con grande dovizia di spazi collettivi ma racchiuso in se stesso, e quello di San Cleto, dove la Borgata Tidei, sorta “spontaneamente” come un agglomerato denso di edifici minuscoli, si giustappone ad alcune anonime lottizzazioni.
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Provvedimento istitutivo: L. Regione Lazio n. 29 del 6.10.97 EUAP aggiornato al 27 aprile 2010 con il codice EUAP1045
Claudia Mattogno, Eleonora Cuscinà, Tullia Valeria Di Giacomo.
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
In alcuni tratti in prossimità del fiume, la conformazione geomorfologica alluvionale, un'estesa area grossomodo pianeggiante la cui altimetria varia dai 12metri in prossimità del pelo libero del fiume ai 15metri del percorso che si snoda lungo la riserva fino a raggiungere i 20-25 metri sul livello delle strade confinanti, permette di avere ambiti di terreno a livelli sfalsati. Questi corrono parallelamente in prossimità del fiume e potrebbero costituirsi quali potenziali percorsi principali di strutturazione della viabilità pedonale e ciclabile per innervare anche gli spazi pubblici presenti dei quartieri a ridosso della riserva, prevedendo anche la realizzazione di punti belvedere e terrazzamenti panoramici sul paesaggio fluviale. La creazione di alcuni nuovi ponti pedonali e ciclabili oppure l’ampliamento e la conversione di alcune passerelle ad uso tecnico già esistenti potrebbe contribuire alla riappropriazione controllata e definita di percorsi di fruibilità e di attraversamento fra le due sponde attualmente separate. Mediante lo stesso intervento, si potrebbe al tempo stesso concorrere alla creazione di relazioni e collegamenti con i quartieri contigui o con quelli separati dal margine naturale costituito dal corso d’acqua come nella fattispecie il quartiere di Pietralata in riva sinistra rendendo praticabili nuove trame di relazioni tra paesaggio urbano e paesaggio naturale. Le preesistenze archeologiche che si trovano in questo tratto sono numerose: l’antico Ponte Nomentano, risalente all'età repubblicana;un mausoleo di età imperiale rinvenuto presso il Monte Sacro che vide protagonista Menenio Agrippa; un edificio in opus quadratum di tufo di epoca tardo repubblicana parzialmente riportato alla luce. Queste preesistenze archeologiche si trovano immerse in spazi prevalentemente aperti la cui utilizzazione non risulta però né definita né tantomeno valorizzata, ma la cui esistenza comunque fornisce un valido presidio per contrastare il consumo di suolo in quanto rappresentano dei beni normati e vincolati, così come la villa romana scoperta in occasione delle operazioni di scavo e riporto per la realizzazione di Via Tilli, pianificata come asse di scorrimento veloce a sostegno di quello che avrebbe dovuto essere il "Sistema Direzionale Orientale”. Le incertezze e i tempi lunghi della pianificazione assieme all’abbandono del progetto di infrastrutturazione dello SDO, hanno lasciato in eredità il sedime della grande arteria, prevista e mai realizzata, oggi trasformata in una fascia verde di cui si è riusciti a mantenere negli anni una notevole continuità e la cui valorizzazione potrebbe configurarsi come parte integrante della rete verde urbana. La superstrada prevista, che pur avrebbe potuto contribuire a snellire il traffico di questo denso settore della città, avrebbe tuttavia inficiato la sopravvivenza di questi spazi verdi a ridosso del fiume e concorso alla progressiva cementificazione intensiva dell’area. Il lungo permanere delle incertezze urbanistiche hanno reso questa fascia vuota poco appetibile dal punto di vista speculativo ed hanno evitato interventi di densificazione. Recentemente sono però subentrate lente, ma costanti, aggressioni nelle aree verdi a livello locale da parte di singoli proprietari che sono alla ricerca di ampliamenti edilizi, sebbene tutta l’area ricada in zona esondabile, mentre si sono registrate diffuse e indiscriminate pratiche di scarico dei rifiuti, prive di qualunque autorizzazione. Il territorio è soggetto a dinamiche di forte impatto ambientale. La cementificazione degli argini e la rettifica di piccoli corsi d'acqua, il tombamento dei fossi, la realizzazione di grandi spianamenti e superfici impermeabilizzate per insediamenti civili ed industriali sono causa di alterazione delle dinamiche di deflusso idrico e del microclima dell'area. Elevati rischi ambientali derivano poi dall'occupazione dell'area di esondazione dell'Aniene, dalla trasformazione degli affluenti del fiume in collettori fognari, dell'inquinamento delle acque fluviali che in quest’ultimo tratto si presentano fortemente inquinate, secondo quanto indica la Carta della qualità biologica dei corsi d'acqua 3. Condizioni di degrado e rischio di inquinamento del suolo si rilevano, infatti, in diverse zone del territorio soprattutto in corrispondenza della confluenza con i fossi di Tor Sapienza e di Pratolungo, dove sono sorti capannoni, discariche, depositi di auto, orti spondali e insediamenti abusivi che inficiano le qualità ambientali e paesistiche del restante tratto fino alla confluenza con il Tevere. Altri episodi di degrado, di dimensioni inferiori, sono distribuiti anche lungo il tratto delimitato dalla Riserva che le associazioni locali tentano di frenare con interventi di pulizia e campagne di volontariato anche per contrastare l’abbandono, preludio ad un uso del territorio inappropriato o privatistico. Il degrado ambientale e paesistico, l’incuria e l’insicurezza che ne derivano, sono contrastati quasi esclusivamente dalle iniziative dei cittadini e delle associazioni che partecipano attivamente alla cura del territorio in forma volontaristica e autogestita. Uno dei gruppi più attivi è la Onlus Associazione Insieme per l’Aniene che presidia costantemente i territori aperti e quelli di margine con l’edificato, permettendo che tali spazi rimangano al di fuori dell’edificazione selvaggia e abusiva. La tutela e la conservazione ambientale è infatti affidata a questo tipo di associazioni locali, senza scopo di lucro, che cercano di vigilare sugli usi e le pratiche, si attivano per operazioni di manutenzione e contribuiscono a dare senso alla presenza di vincoli storico-ambientali negli spazi aperti a bordo del fiume.
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Promossa dalla regione Lazio, la Carta è stata elaborata dal laboratorio di Igiene Ambientale dell'Istituto Superiore di Sanità e dal Dipartimento Ambiente e Protezione Civile dell’Assessorato all'Ambiente della Regione Lazio
Claudia Mattogno, Eleonora Cuscinà, Tullia Valeria Di Giacomo.
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
Il ruolo delle associazioni e le pratiche d’uso degli spazi aperti (Eleonora Cuscinà) Le associazioni a carattere volontario sono molto numerose e attive in tutta Roma, ma specialmente nei quartieri periferici come San Basilio il loro ruolo si rivela determinante nel contribuire all’attivazione di processi partecipativi e di radicamento. Il loro operato, tuttavia, è sempre stato di carattere puntuale e limitato a singole iniziative, disperdendo così gran parte delle forze disponibili. A partire dal gennaio 2011, anche per rispondere in maniera più incisiva ad episodi di microcriminalità, è in atto un processo di sensibile cambiamento: le varie associazioni si sono unite nell’associazione “la Rete San Basilio Bene Comune” in cui, pur mantenendo ognuna il proprio statuto e presidente, hanno fatto convergere impegni, risorse e tempo. Lo slogan “San Basilio si anima” esprime bene il lavoro portato avanti con costanza e determinazione per un quartiere più sicuro: riunioni settimanali nelle sedi delle singole associazioni, tavoli tecnici mensili di confronto con la pubblica amministrazione, organizzazione trimestrale di eventi lungo le strade del quartiere, partecipazione alla programmazione delle attività del nuovo centro culturale aperto da pochi mesi. Il quartiere di San Basilio, incuneato fra l’Agro romano ed il Fiume Aniene è circondato da ampi territori che hanno ancora forti connotati di naturalità, mentre al suo interno, specialmente nella parte di città pubblica, è ricco di spazi collettivi, di corti e di piccoli orti. Tali spazi aperti, tuttavia, non sono sempre adeguatamente fruibili: l’incuria in cui versano molte aree le rende poco sicure, e quindi poco frequentate, favorendo una vasta gamma di appropriazioni abusive e rendendole appetibili a fini edificatori. La loro animazione, il loro uso costante e diversificato per pratiche, fasce orarie e tipi di utenti rappresenta una delle condizioni ineludibili per mantenerne lo statuto di spazi aperti e contrastare in tal modo sia i fenomeni di abbandono che quelli di consumo di suolo. Una passeggiata attraverso queste specie di spazi è in grado di offrire atmosfere e sensazioni multiformi: dalla naturalità “selvatica” del parco di Aguzzano alla confusione dell’asse interquartiere di Via di Casal di San Basilio, alla tranquilla quotidianità domestica lungo Via Fabriano, strada locale del quartiere; dalla cordialità delle corti private negli isolati di edilizia pubblica all’accoglienza dello spazio verde del centro anziani in Via Pergola, frequentato centro di socializzazione, al degrado dei giardini pubblici ed all’insicurezza di quello abbandonato, in Via Montegiorgio; dalla vivacità delle colorate case a schiera del Villaggio Unrra Casas alla forza aggregativa del giardino dell’associazione Unrra Casas in Piazza Urbania. Il centro anziani è parte attiva della rete di centri sociali del V Municipio ed ha partecipato ad un progetto europeo finanziato per incentivare le conoscenze, le capacità e le competenze degli adulti/anziani in una prospettiva personale e civica, mentre l’associazione culturale Metropolis Europa, che gestisce lo sportello di formazione municipale, lavora attivamente al progetto Alma con percorsi innovativi e laboratori sperimentali per tesaurizzare la memoria collettiva e favorire il rapporto con le giovani generazioni. La capacità di condividere progetti e di “fare comunità” è il tema portante dell’associazione storica di San Basilio, quella dell’Unrra Casas che, nata nel 2000 come comitato di abitanti per la difesa del quartiere minacciato dall’apertura della bretella Nomentana bis, è composta oggi da 200 soci e rappresenta una delle realtà territoriali più radicate e riconosciute, sia presso gli abitanti stessi, sia presso le istituzioni. Attiva non solo nella rivendicazione dei diritti di cittadinanza, l’Associazione Unrra Casas è direttamente operativa in diversi campi: microprogetti di riappropriazione degli spazi pubblici in abbandono (tra cui la creazione di un giardino di margine nell’area di agro destinata ad ospitare la nuova stazione della metropolitana, la riqualificazione dei cortili delle case ATER, la messa in sicurezza della fermata bus in piazza Urbania e la sistemazione del giardino adiacente, la presa in carico delle strade del Villaggio Unrra Casas dal V Municipio); promozione di attività culturali e ricreative (tra cui la sistemazione dei reperti archeologici in Via Senigallia, l’organizzazione dal 2004 di dieci giorni di eventi nell’ambito dell’Estate Romana, il supporto al dipartimento Dicea della Sapienza Università di Roma per la preparazione di workshops con gli studenti, visite e sopralluoghi di gruppi di studio e delegazioni estere); animazione del commercio locale (come l’attivazione del mercatino Casal Tidei, le azioni per il mantenimento del mercato coperto di Via Recanati, il contributo al ripristino dell’illuminazione pubblica in alcune strade). La percorribilità pedonale, la possibilità di attraversare gli spazi in sicurezza, l’occasione per compiere delle passeggiate costituiscono opportunità fondamentali per comprendere il senso dei luoghi al fine di valorizzare il tempo libero, per realizzare interessi collettivi, per condividere problemi e risorse. Gli spazi aperti sono il substrato su cui articolare una rete di connessioni che possano contribuire al benessere degli abitanti e alla cura del territorio, all’incremento delle relazioni sociali e del senso di comunità, alla condivisione di obiettivi e progetti nell’ottica del benessere collettivo, della qualità di vita e della sicurezza dell’abitare. Attorno a queste tematiche la Rete San Basilio Bene Comune si è promossa come coordinamento delle numerose associazioni, e delle loro iniziative presenti sul territorio, ed ha messo in campo la presenza attiva degli abitanti assieme a quella di operatori sociali volontari per intraprendere un percorso di cambiamento basato sulla coscienza della propria storia e dei propri vissuti, al fine di ridisegnare l’identità di quartiere sottoposto allo
Claudia Mattogno, Eleonora Cuscinà, Tullia Valeria Di Giacomo.
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
stigma e alla marginalità. Le manifestazioni dell’ultimo anno hanno portato gli abitanti in strada e nelle piazze, animando spazi aperti che l’abbandono e l’incuria avevano trasformato in vuoti respingenti. Un esempio è Piazzale Recanati o Piazza della Balena, viale strutturante San Basilio con la sua passeggiata attrezzata, a cui è stato restituito il ruolo di centralità. Piazza della Balena è il nome con cui gli abitanti chiamano una parte di Via Recanati per la presenza della fontana con una scultura che rappresenta una balena colorata da piastrelle di mosaico. La piazza, costruita nell’ambito del Progetto Cento Piazze, rappresenta lo stato in cui versa San Basilio, infatti, la fontana è rimasta subito senza acqua e la balena è diventata un simbolo del degrado degli spazi pubblici del quartiere. La Rete San Basilio Bene Comune è una occasione per ripensare progetti di riappropriazione degli spazi aperti, per gli usi condivisi e per la realizzazione del benessere comune attraverso gli stessi eventi e manifestazioni pubbliche, in cui gli abitanti di San Basilio stanno costruendo un nuovo modo di essere insieme, un senso civico comune e condiviso, una partecipazione in prima persona alla cura del territorio.
Figura 1. Roma, Parco dell’Aniene.
Claudia Mattogno, Eleonora Cuscinà, Tullia Valeria Di Giacomo.
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
Figura 2. Roma, Parco di Aguzzano.
Figura 3. Roma, Il quartiere San Basilio.
Claudia Mattogno, Eleonora CuscinĂ , Tullia Valeria Di Giacomo.
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
Figura 4. Roma, San Basilio, manifestazione Giugno 2011.
Figura 5. Roma, San Basilio, Piazzale Recanati, manifestazione Giugno 2011.
Claudia Mattogno, Eleonora CuscinĂ , Tullia Valeria Di Giacomo.
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Spazi aperti come bene comune. Ristabilire connessioni dalle sponde dell’Aniene al quartiere di San Basilio.
Bibliografia Libri LaboratorioCittàPubblica, Di Biagi P., Marchigiani E. (2009), Città Pubbliche. Linee guida per la riqualificazione urbana, Bruno Mondadori Editore, Milano. Ferraresi G. (2009), Progettare e scambiare valore territoriale. Dalla città diffusa allo scenario di forma urbis e agri, Alinea, Firenze. Munarin S., Maria Chiara Tosi M. C., Renzoni C., Pace M. (2011), Spazi del welfare. Esperienze luoghi pratiche. Officina Welfare Space. Quodlibet studio Città e paesaggio, Macerata. Articoli INU, Osservatorio nazionale sui consumi di suolo.
Claudia Mattogno, Eleonora Cuscinà, Tullia Valeria Di Giacomo.
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Territori della condivisione. Torino
Territori della condivisione. Torino Angelo Sampieri Politecnico di Torino DIST Dipartimento Interateneo di Scienze I Facoltà di Architettura Email: angelo.sampieri@polito.it Tel. 348 2844406
Abstract La condivisione segna con forza la città contemporanea. Il termine è ambiguo: allude ad un ispessimento delle relazioni sociali che nasce dall’inquietudine dell’individualizzazione. Assume forme differenti, generalmente poco durature anche quando ripetute. Osservare i territori della condivisione significa tornare a ragionare della città al di fuori di alcuni luoghi comuni più o meno ricorrenti. Significa al contempo ripensare un progetto capace di dare peso alle pratiche nei luoghi, misurandone estensione, persistenza e continuità. In questo scritto si prova a ridisegnare un “territorio della condivisione” a Torino: una sezione discontinua che lungo la Tangenziale Nord e la Stura, arriva fino ai parchi della Confluenza ed a Barca-Bertolla, attraverso Falchera, l’edilizia sociale di Corso Taranto, i comparti industriali dell’Iveco ed i centri commerciali della periferia nord. L’esplorazione della dimensione fisica, ma anche sociale e simbolica, di questo territorio vuole essere occasione per ripensare un progetto che cerca di osservare criticamente il modo in cui muta l’abitare.
1. La condivisione nella città «La gente deve essere presa a piccole dosi», esortava più di un secolo e mezzo fa Ralph Waldo Emerson la platea di Harvard invitandola a mantenere un equilibrio sapiente e saldo tra solitudine e socialità. «Dobbiamo tenere la testa nell’una e le mani nell’altra» (Emerson, 2008; p.35), spiegava. Ove l’una era lo spazio dell’intimità, della sorveglianza critica di sé stessi e della protezione dagli altri, e l’altra lo spazio ricettivo delle cerchie amicali e sociali, eredi delle comunità fourieriste del tempo e del loro fallimento di cui Emerson studiava e discuteva ragioni e implicazioni (Urbinati, 2008). I moniti di Società e solitudine tornano oggi di qualche interesse. Accanto ad indagini che osservano il riaffiorare di forme di condivisione di usi, risorse e spazi, di rilevanza e peso nelle trasformazioni dei territori contemporanei europei, anche le esperienze comunitariste ottocentesche mostrano una loro ambigua attualità. Associazioni volontarie ed aggregazioni temporanee, ambiti di comunione strutturati o al contrario frammentari e disorganici, gruppi rivendicativi di diritti segnati da orientamenti ideologici, valori e convinzioni, convergenze strumentali al raggiungimento di alcune convenienze. Più frequentemente, occasioni per posizionare qualche significato condiviso, nella consapevolezza del carattere transitorio dell’investimento. Modi e forme dello stare assieme che riguardano l’abitare non meno di altre pratiche. Raggruppamenti mobili ed intermittenti che si accendono e si spengono lasciando tracce spesso deboli e poco incisive. Ma anche rituali ripetuti, con qualche pretesa di permanenza. Come altrove compagini dure, compatte, contrattate e necessarie. Modi e forme difficili da cogliere entro caratteri distintivi e nitidi, capaci di rappresentare in maniera non sfocata il fenomeno. Tanto da farlo apparire espressione eccedente rispetto alla consistenza. Eppure, vi si inciampa continuamente. Osservando la città e non solo. L’attenzione attraversa l’indagine sociologica, filosofica, economica (Sennett, 2012). Nel riconoscimento di un progressivo indebolimento di quelle soluzioni biografiche che per quasi un ventennio si è provato a misurare con problemi e contraddizioni sistemiche (Beck, 1992; Bauman, 2001). Autonomia ed indipendenza non sembrano aver più la forza di incidere. Hanno perso peso, carattere, vitalità. I profili individuali paiono gusci vuoti. Allo stesso modo in cui rarefatte e stanche incedono le ricomposizioni che Bauman riconduceva a sciami: aggregati Angelo Sampieri
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Territori della condivisione. Torino
strumentali ed affatto appassionati, per lo più devoti al consumo, forme di solidarietà meccanica quale prodotto residuale di legami ed interazioni pubbliche di forma moderna (Bauman, 2008). Ad una richiesta di libertà ed affermazione individuale sempre meno esuberante e dinamica non vi è risposta entro collettivismi implicanti costrizioni e cerimoniali obbligati. Tanto che con più forza che in passato si torna a ribadire il superamento di una società individualizzata e la fine di un mondo di consumatori (Bauman, 2008). Non è però qui che si posiziona il ragionamento: nell’aspettativa di una stagione capace di ricostruire da capo forme di cittadinanza virtuose e partecipate entro modelli di condivisione bene organizzati, oltre la società degli individui, oltre la società dei consumi, oltre il presente liquido (Russo, 2008; Brezzi, Russo, 2011). Quanto piuttosto nell’ipotesi che indebolimento di soluzioni biografiche e riduzione del pubblico, a protezione e tutela di impegni e vincoli collettivi, sembrano oggi comporre, accanto a legami consueti, “tenui e fragili, facilmente spezzabili e spesso e volentieri di breve durata” (Bauman 2008, p.18), qualche più robusta relazione. Degli addensamenti di scambi, reciprocità e responsabilità capaci di determinare l’ispessimento di alcune pratiche. Un ispessimento che avviene nel tempo ed in alcuni luoghi, che paiono accendersi ed infittirsi, ove altri si spengono e si rarefanno. I luoghi della città, quale messa in scena della condivisione, determinano le condizioni materiali entro le quali la condivisione può darsi. I luoghi la ostacolano, la contrastano, come altrove la rendono possibile e la facilitano. Accogliendo, entro spazi adeguati o meno, le ragioni simboliche e pratiche che coprono l’ampio orizzonte dei valori in gioco: desiderio di prossimità e riconoscimento, convenienze e pulsioni partecipative, atteggiamenti solidaristici ed istanze radicali, promozione di nuove economie del noi (Carlini, 2011). Forme di intraprendenza collettiva differentemente declinate: tese a prestare servizi e spartire risorse, offrire sicurezze e condividere interessi. Fino ad esprimere nei luoghi dell’abitare una più nitida messa a fuoco del fenomeno. Entro uno spazio circoscritto e connotato ove si osserva da un lato il convergere di interessi di mercato, politiche e progetto attorno all’offerta di forme di condivisione abitativa robuste e bene delineate, dall’altro, ed al contempo, il divergere di questa stessa offerta dalla domanda di condivisione espressa dagli abitanti. Temporanea, duttile, fragile, poco riducibile alle forme più o meno sperimentali di coabitazione che si stanno promuovendo (Bianchetti, 2011; Sampieri, 2011). Una non coincidenza che invita ad indagare a fondo il divario, gli scarti, gli avvicinamenti ed i contatti che si susseguono nel tentare risposte progettuali e politiche al tema. Attraverso formule che però si ripetono entro i confini di modelli per lo più contrattuali, tesi all’istituzionalizzazione ed all’irrigidimento del fenomeno entro formati chiusi e bene strutturati al loro interno. E come tali, poco capaci di restituire estensione e complessità. L’osservazione di alcuni spazi della città di Torino tenta una strada diversa. Fuori dall’alloggio, dalle vecchie e nuove forme dell’abitare collettivo variamente reclamizzate. Fuori dal quartiere, dagli orti in comune e dall’associazionismo culturale ed etnico. O meglio, attraverso ognuna di queste condizioni, ma non al loro interno. Lungo le frontiere, nella relazione con la città. Ove i luoghi in cui si coglie l’ispessimento di qualche legame sociale sono più esposti. E raccontano qui, nel superamento del proprio margine fisico e simbolico, di sè non meno che dell’esterno che li include.
2. Una sezione attraverso Falchera, Corso Taranto, Barca-Bertolla A Torino, una sezione che corre dalla Tangenziale Nord e la Stura, fino ai parchi della Confluenza e BarcaBertolla, attraverso i ritagli incolti lungo il raccordo per Caselle, la ferrovia, i comparti industriali dell’Iveco ed i centri commerciali della periferia nord, incontra alcune parti di città omogenee: Falchera, i quartieri di edilizia sociale su Corso Taranto, Barca-Bertolla. Espressioni di forme insediative del Novecento ben riconoscibili e diverse tra loro: il quartiere satellite degli anni cinquanta, con le corti a prato per la vita collettiva ed i servizi in comune negli spazi tra i nuclei residenziali; la città pubblica del decennio successivo, densa, severa nel ripetersi omogenea lungo l’asse di grande viabilità urbana; la città a bassa densità sul margine dell’ultima periferia, che include in modo più o meno casuale ciò che incontra, frammenti di campagna coltivata, cascine, piccoli borghi, nodi infrastrutturali, strade mercato. Gli spazi di Falchera, Corso Taranto, Barca Bertolla, esprimono, oggi come un tempo, forme e modi di condividere la città molto diversi tra loro. Che è interessante tornare ad osservare. Per comprendere scarti, coincidenze, e più frequentemente distanze, da forme di condivisione nuove, che non siano replica o riflesso di quelle originarie, e che non si consumino entro una prossimità di quartiere. Falchera, Corso Taranto, Barca Bertolla sono in tal senso luoghi dai quali è più facile iniziare un ragionamento, grazie alla loro riconoscibilità e finitezza, quasi una misura del fenomeno, oltre che espressione nitida di come parte della cultura progettuale del Novecento ha provato ad immaginare territori da condividere. A Falchera la condivisione è fondativa, è il suo impianto. Ed ancora oggi pare quella di cinquant’anni fa. Negli spazi ben restaurati dagli ultimi interventi di riqualificazione non vi è traccia di alcuna evoluzione. Ancora il mercato, la chiesa, il patronato, qualche negozio sotto ai portici, una nuova pensilina, un piccolo anfiteatro incassato nel suolo del cuore del quartiere, le grandi superfici a prato delle corti abitate, ben levigate e silenziose. Non sono qui gli spazi in comune a raccontare le nuove forme della condivisione. Gli spazi sono quelli di un Angelo Sampieri
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tempo ed i nuovi modi dello stare assieme sono da cercare altrove. Fuori dal quartiere, ai suoi margini, lungo addensamenti che si protraggono fino alla campagna, o che si insinuano in ambienti più nascosti ed intimi, fino agli spazi (interni) dell’associazionismo e delle nuove forme di condivisione abitativa, spesso emergenziale. Ad osservare i grandi vuoti degli spazi pubblici centrali, accanto al ritrarsi di alcune attività possiamo immaginare come un loro assorbimento esterno. Non per assenza di istituzioni (la biblioteca, le scuole). O per questioni di morfologia (sebbene le politiche di patrimonializzazione del quartiere modello degli anni cinquanta potrebbero aver giocato un ruolo importante nel corso degli anni). E neppure a causa di interventi sbagliati di riqualificazione (anche se gli ultimi, poco innovativi, non facciano che riproporre consueti materiali della città pubblica di mezzo secolo fa). Gli spazi di Falchera, seppur ben connotati, restano sufficientemente indeterminati da poter essere riscritti e reinventati. L’impianto è morbido, malleabile, ricco di ambienti eterogenei, disponibili ad essere attraversati da azioni e relazioni. Che permangono però inespresse. Tanto che Falchera sembra ancora la concrezione satellitare delle origini, poco attrattiva, incapace a divenire nodo, così come ad irrobustirsi sui margini, determinare addensamenti sulle sponde. Occorre l’auto o il bus, e la città vicina. Nei quartieri di edilizia sociale lungo Corso Taranto, Via Pergolesi e Via Gottardo si abita per comparti di varia densità e morfologia. Nuclei per lo più costituiti da fabbricati di cinque o sei piani, ortogonali, o lievemente inclinati rispetto alle strade principali di accesso, poco diversificati tra loro e poco espressivi, se non fosse per gli ingombranti tendaggi che debordano dai balconi e dalle finestre a segnalare una comune operosità in ragione di un’evidente carenza di comfort. Tra gli edifici, lo spazio tecnico: spazio della manovra e della sosta dell’automobile, ma anche ritagli di prato falciato a mantenere i fabbricati a giusta distanza. Gruppi di alberi vi disegnano aiuole. Dentro, qualche fontana senz’acqua e qualche madonna, in segno, debole, di qualche appartenenza. Madonne più grandi e più piccole nei diversi comparti. Più o meno importanti interventi di riqualificazione. Ovunque a ribadire che lo spazio aperto è pubblico. Si potrebbe in realtà pensare altrimenti, ad osservare attentamente la grande quantità di spazio aperto disponibile. E cogliere, nei ritagli, qualche timida forma di appropriazione privata: il desiderio di piantarsi un fiore solo per sé, o una pianta aromatica per cucinare, cingere uno spazio da rendere più intimo di quello domestico su al terzo o quinto piano. Questa occupazione personale dello spazio di tutti è di qualche interesse per il progetto, e merita osservazione al suo ripetersi. Denota una ricerca di spazi ad uso personale che paiono per natura impossibili nell’ampio supporto degli edifici abitati che non si riesce ad intaccare e corrugare, opacizzarne alcune parti, nasconderle. Potrebbe non essere un paradosso: l’accostamento di spazi per sé, a garanzia e presidio di qualche forma di condivisione di un luogo comune. Un po’ come funziona per gli orti urbani lungo le vicine Via Botticelli e Strada dell’Arrivore dove si cercano nuove superfici da colonizzare: spazi lontani appena trecento metri da casa, ma nella sostanza molto esotici. E’ qui che si è intervenuti istituzionalizzando alcune pratiche, come ad esempio quelle ortive. Individuali, collettive, tese alla personalizzazione di uno spazio, strumentali ad un consumo. Difficile definirne con esattezza il carattere. Ciò che è interessante è l’eccentricità della locazione rispetto all’abitazione ed al quartiere. Una sorta di migrazione, per alcuni aspetti compatta, ad indicare, tra le altre cose, caratteri del comfort, ed al contrario dell’inospitalità, dei luoghi abitati. Barca Bertolla era un tempo il contrario di Falchera. Un altro satellite, per lo più costituito da case unifamiliari con giardino, nato nel disinteresse a spartire al proprio interno qualsiasi forma di prossimità. Il mondo nel proprio recinto. E la città sufficientemente vicina da essere subito raggiungibile in caso di necessità. In realtà, la densità ormai raggiunta, rende la prossimità inevitabile. Tanto da fare di alcune parti di Barca Bertolla un susseguirsi e giustapporsi continuo di piccoli e grandi recinti, con all’interno edifici nel tempo cresciuti fino a saturare il giardino e quasi toccarsi tra loro. Barca Bertolla, una volta città diffusa, sembra oggi un paese. Un villaggio dove non è difficile immaginare reciproca conoscenza e continua spartizione di problemi tra piccoli proprietari: la casa divenuta troppo grande, i costi troppo alti, un guasto, ma anche carenza di servizi e spazi inadeguati agli usi che nel tempo si sono incrementati. Il programma “Integrazione sociale, prevenzione, sostegno e animazione del territorio Barca Bertolla”, proposto dalle associazioni locali e sostenuto dal Comune, mira a questo. A fare di Barca Bertolla un quartiere. Tanto che il rischio è che possa essere riqualificato come Falchera (o Corso Taranto): la piazza con il portico, il piccolo anfiteatro, la pista da skate. Entro una sorta di pacificazione delle differenze. Mentre Barca-Bertolla sembra suggerire interventi in cui il differire di forme e modi dell’abitare è costitutivo. Non fosse altro per il fatto che qui la condivisione si regge, con più evidenza che altrove, su una matrice individualista forte, che si insinua nei tessuti, e dai tessuti si protrae verso i residui della campagna e verso la città. Attraverso modalità frammentarie e disgregate. Tanto che Barca-Bertolla pare più disponibile di Falchera e Corso Taranto ad accogliere, aprirsi, modificarsi. Per lo meno se non irrigidita entro le nuove, o vecchie, forme di centralità che la ridisegnerebbero come un borgo.
3. Spazi densi e deserti Falchera, Corso Taranto, Barca Bertolla, quali parti di città ben riconoscibili e caratterizzate che si intercettano attraversando in direzione est-ovest Torino nord. Altre, altrettanto connotate, disegnano, con la medesima forza, modi e forme dello stare assieme nella città. I campi nomadi lungo la Stura, oggetto di ripetute osservazioni Angelo Sampieri
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proprio in ragione della densità di relazioni che essi esprimono (FMPQ, 2011). Radicali, non temporanee ed intermittenti come quelle che segnano i parchi della Colletta, dell’Arrivore, del Meisino, e più in generale molti degli spazi aperti attorno la Confluenza. Di diverso carattere gli addensamenti a ridosso della Manifattura Tabacchi: un incrocio di strade, ben curate e libere dal traffico, attorno ad una chiesa ed a qualche negozio, capaci di riprodurre un paese in pochi metri quadrati. Vi sono poi le enclaves ortive di Basse di Stura e quelle incassate tra corso Vercelli e la ferrovia. Infine i deserti, almeno apparenti, attorno ai grandi comparti produttivi dell’Iveco o di Via Romoli. Una rarefazione che si riproduce in forme non troppo diverse presso il Novotel di Corso Giulio Cesare, o la sera, lungo gli spazi commerciali delle frange più esterne alla città. Attraverso questi spazi, lungo una sezione che, seppure non continua, ha la pretesa di costruire un racconto, i territori della condivisione assumono una forma. Non entro una sequenza ritmata ed ordinata di recinti e sfere: ambiti organici al loro interno, spazi della coesione e della partecipazione, dell’incontro ripetuto e dell’interazione. Accanto a questa immagine, che lo studio dei differenti modi di aggregazione restituisce, ve n’è un’altra. Più complessa ed articolata, perché tesa a cogliere omogeneità e ripetizioni nel momento in cui esse cambiano. Ridisegnando la città come un susseguirsi episodico, e spesso accidentale, di spazi densi (di relazioni, vincoli e scambi) e deserti. Un sistema di pieni e di vuoti attraverso nodi, confluenze e diramazioni che non costruiscono una trama ininterrotta, continua e regolare, tanto meno però un arcipelago di parti distinte ed autonome. Un campo di relazioni, capace di tenere in tensione con la città spazi differentemente vissuti. Spazi di diverso peso politico ed economico, oltre che simbolico, in grado di incidere sui valori immobiliari veicolando scelte politiche e di progetto. Spazi spesso comuni, che inaspettatamente, e temporaneamente, assumono una specifica forza e centralità. Per poi subito dopo, nel tempo e nello spazio, spegnersi e prosciugarsi. Un ritrarsi di usi che di nuovo avviene per punti e non in modo progressivo. Più frequentemente entro tessuti ritenuti pieni e ben compatti, non parti di città marginali, degradate: i luoghi del ceto medio, la città pubblica, ambiti in cui si è investito attraverso politiche di riqualificazione e nuove edificazioni. Falchera, Corso Taranto, Barca Bertolla, per lo meno per come essi appaiono ad un’osservazione di superficie. In gioco c’è la condivisione, non meno del conflitto, la competizione, l’esclusione. Ma anche la varietà. Il comporsi e scomporsi di parti di città differenti. La possibilità, e l’impossibilità, di cambiare modi e forme dell’abitare attraversando sbalzi e fratture. Qualcosa che ha a che fare con la riscrittura di un diritto alla città non meno che con il suo progetto. Un progetto attento alle pratiche nello spazio. Non per assecondarle. Tanto meno teso ad intensificare densità e relazioni in nome di una condivisione che si pretende continua ed ininterrotta, come spesso è stato nel progetto di suolo e dello spazio aperto dagli anni ottanta ad oggi. Si tratta piuttosto di ridiscutere criticamente le forme dello stare assieme nella città contemporanea. Comprendere fino in fondo il loro carattere temporaneo e la loro ritualità breve. Ma anche la domanda di spazio che possa metterla in scena in modo più sofisticato e problematico di come è stato nella città pubblica del secolo scorso. Osservare l’emergenza e l’intreccio delle tante astuzie private che sembrano oggi coagularsi attorno all’uso di spazi e risorse comuni, sovvertendone regole vecchie, norme non più resistenti, capovolgendo formule e consuetudini, consente di distinguere alcuni dei caratteri attraverso i quali nuove regole e nuove consuetudini stanno ridisegnando la città. In modo lento e poco visibile ma persistente e nel tempo sempre più evidente. Il loro aspetto pratico piuttosto che simbolico, strumentale piuttosto che rituale, chiede spazi adeguati ove riposizionare la comune esperienza di mondi non troppo grandi, seppure permeabili ed aperti, e non troppo duraturi, seppure un po’ sicuri e non effimeri.
Bibliografia Bauman Z. (2001), Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari. Bauman Z. (2008), L’etica in un mondo di consumatori, Laterza, Roma-Bari. Beck U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma. Bianchetti C. (2011), Il Novecento è davvero finito, Donzelli, Roma. FMPQ (2011), Il futuro del mondo passa da qui. City Veins, Scritturapura, Torino. Brezzi F., Russo M.T. (a cura di, 2011), Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, Bollati Boringhieri, Torino. Carlini R. (2011), L’economia del noi. L’Italia che condivide, Laterza, Roma. Emerson R.W. (2008), Società e solitudine, Diabasis, Reggio Emilia. Russo M.T. (a cura di, 2008), Oltre il presente liquido. Temi di antropologia ed etica sociale, Armando, Roma. Sampieri A. (a cura di, 2011), L’abitare collettivo, FrancoAngeli, Milano. Sennett R. (2012), Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano. Urbinati N. (2008), “Un intellettuale democratico2, in Ralph Waldo Emerson, Società e solitudine, Diabasis, Reggio Emilia.
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Riconoscimenti: Queste riflessioni nascono entro l’ambito di una ricerca collettiva condotta sui temi della condivisione nella città contemporanea, avviata lo scorso anno. I materiali di questa ricerca, le ipotesi, le prime esplorazioni e i loro risultati sono sul blog: www.territoridellacondivisione.wordpress.com
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Housing Sociale, crisi economica e consumo di suolo: laboratori sperimentali dell’abitare nei “luoghi della ritrazione”
Housing Sociale, crisi economica e consumo di suolo: laboratori sperimentali dell’abitare nei “luoghi della ritrazione” Nicola Vazzoler Roma Tre Università degli Studi, Scuola Dottorale in Culture e trasformazioni della città e del territorio Email: nicola.vazzoler@gmail.com
Abstract La crisi in atto invita a spostare lo sguardo su città e territorio e sviluppare una nuova coscienza progettuale ed economica. A tal fine è utile confrontarsi con il progetto di Housing Sociale (HS), che mira a stabilire un equilibrio tra obiettivi diversi e apparentemente contrastanti. In questo paper si tenta di comprendere se la crisi e i suoi esiti possano trovare risposta all’interno dei “luoghi della ritrazione”. Dopo aver illustrato le ricadute della crisi economica su società e territorio, le forme che l’HS può assumere e i princìpi generali che ne governano il funzionamento, si prenderanno in esame i dati relativi alla ricognizione territoriale svolta in Friuli Venezia Giulia per il Consorzio Housing Sociale FVG: un’esperienza diretta che consente di analizzare l’iter progettuale, gli attori e gli interessi coinvolti, i rapporti con gli enti e le amministrazioni locali.
1. Letture in forma di premessa 1.1 Declinazioni di una crisi Questa non è la sede più adatta per individuare le cause della crisi, credo sia importante però, per la nostra disciplina, osservare come questa ricada su territorio e città, sul loro progetto e sulla società che entro questi spazi si muove. Tre diverse letture, qui restituite come tre diverse declinazioni di crisi, intendono descrivere, anche se solo parzialmente, queste manifestazioni. Nel sentire comune è forse recente la consapevolezza che questa crisi non sia prevalentemente figlia di quella bolla finanziaria scoppiata nel 2008 ma di una congiuntura che vede, fra le altre, l’azione di un’economia caratterizzata da debolezze strutturali, precedenti al 2008 1, e l’incremento del debito pubblico determinatosi in più di vent’anni di governo. Il Patto di Stabilità Interno nasce dall’esigenza di convergenza delle economie degli stati membri dell’Unione Europea verso parametri comuni e condivisi, come deciso nel Patto di Stabilità e Crescita la cui azione primaria è proprio il controllo dell’indebitamento pubblico. La crisi, dettata quindi da una convergenza di fattori, può agire sulla capacità delle amministrazioni locali di garantire una continua manutenzione delle proprie dotazioni (patrimonio, infrastrutture, trasporti e servizi) e la creazione di un’infrastruttura sociale che faccia capo ad un’adeguata politica di welfare (di cui fa parte anche la casa). Città più povere e meno abitabili? Una questione già cara alla disciplina e sollevata in passato (Munarin & Tosi, 2009), nonostante sulla città contemporanea la tradizione del welfare state novecentesco abbia sedimentato, alle diverse scale, i segni di ricerche, esperimenti, dibattiti sul welfare caratterizzando così le città europee del ‘900, infatti Secchi scrive:
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Raccomandazione del Consiglio Europeo sul programma nazionale di riforma 2011 dell’Italia
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“In un certo senso si può affermare che essa ha lasciato nella città il deposito più stabile del ventesimo secolo, ciò ha radicalmente modificato la città nei suoi aspetti di dettaglio e nella sua immagine complessiva, che ne ha cambiato modi d’uso, di costruzione e trasformazione.” (Secchi, 2008; p.110) La tradizione del welfare state oggi potrebbe essere obbligata a trovare nuove formule di rappresentazione e/o traduzione fisica. Il disagio abitativo in aumento, inaugura nuovi ragionamenti sul diritto all’abitare. La crisi, infatti, tende a stimolare la tensione della domanda di alloggio, già in crescita nel nostro Paese per motivi nuovi o da tempo acquisiti: • le diverse forme di immigrazione; • una nuova domanda, plurale e diversificata, che rispecchia le trasformazioni sociali e i mutamenti negli stili di vita e che riguarda fasce di popolazione intermedie e fino a pochi anni fa non toccate dal disagio abitativo; • un patrimonio abitativo in affitto di molto inferiore a quello di proprietà, i dati ISTAT 2 riferiti al 2010, continuano a rivelare infatti che il 73,6% delle famiglie residenti è proprietario dell’abitazione in cui vive invece 17,2% è in affitto, di cui il 22,2% in alloggi pubblici; • un mercato immobiliare che a partire dalla metà degli anni ‘90 ha visto un aumento della produzione di abitazioni, delle compravendite e dei prezzi di vendita a fronte di una crescita minima dei redditi familiari (D’Alessio & Gambacorta, 2007); • un “sistema di riforme parziali” (Campos Venuti, 2010) ovvero la mancanza di un quadro di riferimento legislativo, normativo o di un supporto finanziario pubblico costante; • … Il disagio abitativo è si alimentato dalla crisi, o meglio dai suoi effetti (disoccupazione, perdita di potere di acquisto dei singoli e delle famiglie, ecc..), ma anche da un mercato edilizio, pubblico e privato, in cui l’offerta non riesce ancora ad incontrare la domanda. Il problema dell’accesso alla CASA è centrale ma possono manifestarsi ricadute fisiche su città e territorio che si presentano sotto forma di lento logoramento: forme di degrado e necrosi dei tessuti urbani dovute ad un adattamento autonomo della domanda all’offerta e/o allo scollamento con il tessuto sociale (incapacità delle famiglie a pagare il mutuo o l’affitto); un aumento del pendolarismo privato, quindi dell’inquinamento e del consumo di suolo, dovuto ad un mercato della casa che diventa accessibile in aree periferiche e non servite da mezzi pubblici adeguati; ecc.. Dopo circa 15 anni di crescita costante 3 il mercato edilizio soffre la scomparsa di una fetta di lavoro pari al 20%, del restringimento del credito e dei ritardi nei pagamenti che colpiscono aziende e operatori che lavorano nel settore. Secondo il XIX Rapporto Cresme sul mercato delle costruzioni 4, per uscire da questa condizione si renderebbe necessario inaugurare un nuovo ciclo edilizio indirizzato alla città esistente: riqualificazione, demolizione e successiva ricostruzione, periferie e riqualificazione energetica del patrimonio esistente evitando le grandi opere.
1.2 Convergenze? Come visto, città e territorio diventano i luoghi dove la crisi si manifesta ma sono anche luoghi privilegiati dove si possono gettare o dove si sono gettati sguardi, sedimentate strategie e possibili soluzioni. Di seguito un elenco, non esaustivo, che intende mettere in evidenza attori, temi e sensibilità differenti che gravitano, o hanno gravitato, attorno a questi luoghi. L’Unione Europea nel delineare le future politiche di coesione e i futuri programmi di finanziamento a livello regionale (2014-2020) introduce, accanto ad obiettivi di carattere economico e sociale, una dimensione territoriale: nelle Conclusioni della Quinta relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale 5, città e territorio si rivelano motori di crescita e poli di creatività, nel rispetto delle strategie elencate in Europa 2020 6 che sostiene una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva. La Carta di Aalborg 7 e la Carta di Lipsia 8 restituiscono sguardi e proposte a diverse scale: nel primo caso le amministrazioni locali europee si riconoscono in quell’unità minima alla quale i problemi possono essere risolti attraverso un modello urbano che tenga conto della dimensione sociale, economica ed ambientale. Nel secondo caso, invece, gli Stati Membri concordano su di uno sviluppo urbano sostenibile e promuovono una politica di sviluppo urbano integrato, attraverso spazi pubblici di alta qualità, un ammodernamento delle reti infrastrutturali, un miglioramento dell’efficienza 2
ISTAT Annuario statistico 2011, capitolo 11, famiglie e aspetti sociali vari Il sesto ciclo edilizio, Serie cicliche delle costruzioni, elaborazioni e stime CRESME/SI e dati Istat 4 IL MERCATO DELLE COSTRUZIONI, XIX Rapporto Cresme sul mercato delle costruzioni, 2012 5 Commissione Europea, Quinta relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale 6 Commissione Europea, strategia Europa 2020 7 Carta delle città europee per un modello urbano sostenibile, Aalborg 27 maggio 1994 8 Carta di Lipsia sulle Città Europee Sostenibili, Lipsia 6 marzo 2007 3
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energetica e un intervento sui quartieri urbani degradati realizzando obiettivi di coesione e integrazione sociale e di miglioramento dell’ambiente fisico degradato. Per fare questo si rendono necessari incentivi economici e una solida base finanziaria che fornisca stabilità sul lungo periodo, in tal senso lavora l’iniziativa europea JESSICA 9 dedicata alla creazione di fondi per lo sviluppo urbano sostenibile e la rigenerazione urbana anche di aree dismesse. A questo proposito, AUDIS 10 dal 1995 è attenta al tema delle aree urbane dismesse e al ruolo centrale che possono assumere all’interno di un ragionamento di sviluppo, rilancio e qualità delle città proponendo un dibattito in grado di apportare consapevolezza e capacità d’intervento da parte della pubblica amministrazione e dei privati. I protocolli di valutazione ambientale, fra i più conosciuti il BREEAM e il LEED 11, possiamo qui ricordare anche l’italiano CASACLIMA, propongono ai progettisti scale con le quali confrontarsi, in fase di progettazione, per immettere sul mercato prodotti edilizi dei quali si volessero certificare sostenibilità e basso impatto ambientale, proponendo contemporaneamente riconoscibilità e concorrenzialità dei prodotti, cavalcando una rinnovata, e promossa, sensibilità ambientale. Interessanti i temi sollevati dai protocolli, nel momento in cui la certificazione dal singolo manufatto passa al quartiere: per ridurre gli effetti dello sprawl urbano e quindi preservare habitat naturali, ridurre inquinamento e frammentazione agricola vengono premiati interventi che si collocano in aree da riqualificare, in vuoti urbani e/o in aree vicine ai centri urbani esistenti. Negli ultimi decenni temi come l’ambiente, il verde, la città, il territorio, il paesaggio, ecc.. sono entrati nel dibattito pubblico e nel linguaggio comune, percepiti come diritti da tutelare e/o rivendicare. Quest’attenzione, generata anche da una non troppo giovane sfiducia nei confronti delle grandi opere, sembra sostenere un modello di città che dirige il progetto contemporaneo verso una svalutazione del costruito: ad ogni ipotesi di trasformazione del territorio è facile imbattersi in un’opposizione all’imminente cementificazione. Ai gruppi di liberi cittadini denominati NIMBY 12, pronti ad opporsi alle ipotesi di trasformazione territoriale che direttamente li coinvolgono, sembra sostituirsi e/o giustapporsi una sindrome che rifugge qualsiasi trasformazione in qualsiasi luogo, ovvero i comitati BANANA 13. Sentiamo molto spesso oggi parlare di sostenibilità, un concetto: “… ancora elusivo e dai contenuti vaghi. Questo si deve all’uso comune del termine che è diventato uno slogan pubblicitario, uno strumento di marketing, un manifesto elettorale piuttosto che un obiettivo dai fondamenti epistemologici, culturali e scientifici e profondi.” (Bastianoni, Marchettini, Pulselli, Tiezzi, 2011; p.53) Credo sia importante essere consapevoli che molte parole oggi rischino di andare incontro ad una possibile perdita di significato che può investire i concetti chiave del dibattito pubblico: paesaggio e territorio, pubblico e sociale, low- cost e convenienza, ecc.. Le parole, soprattutto peso e significato attribuitole in determinati contesti, possono trasformare fisicamente e irrimediabilmente città e territorio ma possono anche paralizzarli in un misero silenzio. Etimologia a parte, credo sia importante sottolineare da un lato una convergenza d’interessi, rispetto un progetto di sviluppo urbano sostenibile, e dall’altro una necessità di convergenze, ossia la necessità di individuare strategie e progetti comuni da parte di attori diversi per affrontare questioni trasversali e complesse, fra queste le diverse declinazioni di crisi. In entrambi i casi è possibile riscontrare uno sguardo urbano che si fa centripeto, interessato cioè alla manutenzione e alla riorganizzazione dell’esistente, una cultura che sembrava dimenticata o mancante, e ai “luoghi della ritrazione” (Cigalotto, Santoro,1999) luoghi che si attivano al cedere di una crescita urbana meramente espansionistica.
2. “Luoghi della ritrazione” e Housing Sociale Queste letture restituiscono temi e luoghi specifici: una città che diventa il luogo dove osservare alcune manifestazioni della crisi e nel caso, quando riconosciute, contrastarle o risolverle; città come luogo di riflessione e sperimentazione, luogo ove convergono interessi differenti, luogo che negli ultimi decenni ha prodotto una conoscenza e una coscienza di se in cui, come visto, aree e oggetti abbandonati e/o dismessi possono assumere un ruolo centrale e strategico. 9
JESSICA ("Sostegno europeo comune agli investimenti sostenibili nelle aree urbane") è un'iniziativa della Commissione europea sviluppata in collaborazione con la Banca europea per gli investimenti (BEI) e la Banca per lo sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB). 10 Associazione delle aree urbane dismesse 11 BREEAM: BRE Environmental Assessment Method, metodologia di valutazione ambientale del BRE; LEED: Leadership in Energy and Environmental Design, Leadership nella progettazione ambientale e energia. 12 not in my back yard, non nel mio giardino 13 build absolutely nothing anywhere near anything, non costruite assolutamente nulla da nessuna parte Nicola Vazzoler
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Housing Sociale, crisi economica e consumo di suolo: laboratori sperimentali dell’abitare nei “luoghi della ritrazione”
“Le città, non più in espansione, possono trovare al loro interno gli spazi per ricollocare nuove attrezzature e aree verdi o per riqualificare una parte di città attraverso progetti urbani complessi.” (Cigalotto, Santoro, 1999; p.25) La riqualificazione delle aree dismesse all’interno delle città è un tema centrale da almeno qualche decennio e ha prodotto risultati di trasformazione urbana in tutta Europa: Parc de la Villette e Parc Citroën a Parigi, Borneo Sporenburg e il GWL Terrein ad Amsterdam, HafenCity ad Amburgo, il Forum di Barcellona, ecc.. Lavorare su aree interne e negate alla città per restituirle alla città stessa, garantisce alcuni aspetti positivi immediati: • nel caso di siti pericolosi risanarli dai potenziali inquinanti sedimentati; • limitare il consumo di suolo intervenendo in aree non esterne al perimetro urbano come “aree vergini” o terreni agricoli; • restituire alla comunità aree rimaste per anni confinate colmando così quei gap urbani venutisi a formare col tempo, infatti molte di queste aree, a volte inaccessibili, risultano inglobate in una continuità fisica e di usi che ad oggi non gli appartiene; • definire nuovi assetti, nuove relazioni e nuovi rapporti alla scala urbana e territoriale; • ecc.. In relazione però a ciò che viene restituito o potrebbe essere restituito alla città e/o alla comunità (servizi alla scala urbana o territoriale, nuovi parchi o aree verdi, nuovi quartieri residenziali, ecc..), queste aree assumono oggi il ruolo di vera e propria risorsa (talvolta anche economica), capace anche di rispondere ad una ricerca di convergenze. È possibile che la crisi o alcuni suoi effetti possano risolversi all’interno del perimetro dei “luoghi della ritrazione”? In tal senso i progetti di Housing Sociale (HS), che ricadono all’interno di processi di trasformazione e rigenerazione urbana tentano una risoluzione dei nuovi fabbisogni abitativi entro i limiti dei paesaggi abbandonati, rimossi o negati. Vista la vasta e variegata letteratura prodotta sul tema credo sia utile riportare la definizione di alloggio sociale data dal CECHODAS: “CECODHAS HOUSING EUROPE ha una visione di un'Europa che fornisce l'accesso a un alloggio dignitoso e accessibile a tutti in comunità che sono socialmente, economicamente e ambientalmente sostenibili e dove tutti hanno la possibilità di raggiungere il loro pieno potenziale.” 14 In Italia è possibile fare riferimento al D.M. del 22 aprile 2008 15 che per alloggio sociale intende uno strumento, erogato da operatori pubblici o privati, atto a ridurre il disagio abitativo e che si configura come elemento essenziale dell’edilizia residenziale sociale.
Figura 1. Housing Sociale e Sostenibilità 14
Fondata nel 1988, Cecodhas Housing Europe è la Federazione europea di Edilizia Residenziale Pubblica, Sociale e Cooperativa - una rete di 45 federazioni nazionali e regionali che insieme raccolgono circa 41.400 fornitori di alloggi pubblici, volontariato e cooperazione in 19 paesi. Complessivamente gestiscono oltre 27 milioni di abitazioni, circa il 12% delle abitazioni esistenti nell'UE. 15 Pubblicato sulla G.U. n 146 del 24 giugno 2008 Nicola Vazzoler
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Housing Sociale, crisi economica e consumo di suolo: laboratori sperimentali dell’abitare nei “luoghi della ritrazione”
Le definizioni e le letture dei progetti, italiani ed internazionali, individuano nell’HS un possibile sostegno alle politiche pubbliche di settore favorendo l’incontro fra domanda e offerta, attraverso progetti che ragionano sui nuovi target sociali e sui canoni applicabili, e proponendo un approccio multidimensionale dell’edilizia sociale, che integri cioè gli aspetti immobiliari con quelli sociali e dei servizi. Laboratori che sperimentano nuove forme dell’abitare sostenibile in cui ad ogni azione del processo corrisponde una ricaduta sulla sfera sociale, economica o ambientale (Fig.1), è manifesta, inoltre, la necessità, ma anche l’opportunità, di trovare più punti di contatto possibili fra attori che apportano interessi e domande diverse. Risulta quindi evidente che il tema del riuso in un progetto di HS può essere letto contemporaneamente come opportunità di recupero urbano, di soluzione al fabbisogno abitativo e di salvaguardia ambientale.
3. Consorzio Housing Sociale FVG 3.1 Nuove strategie per affrontare il disagio abitativo Il 2 agosto 2011 alcune società provenienti dal mondo dell’imprenditoria, del terzo settore e della progettazione 16 del Friuli Venezia Giulia, istituiscono il Consorzio Housing Sociale FVG al fine ultimo di realizzare all’interno della Regione: “… un programma integrato di interventi che comprende l'offerta di alloggi, servizi, azioni e strumenti rivolti a coloro che non riescono a soddisfare sul mercato il proprio bisogno abitativo, per ragioni economiche o per l'assenza di un'offerta adeguata.” 17 Un caso di HS che prevede la costituzione di un Fondo immobiliare e che ho potuto seguire direttamente, fino agli inizi di quest’anno, presso lo studio Archest s.r.l. a Pozzuolo del Friuli (UD). Scopo del Consorzio è definire quindi un progetto volto alla costituzione di un Fondo immobiliare locale capace di accedere al Sistema integrato nazionale e locale di Fondi Immobiliari (SIF) previsto dal Piano Nazionale di Edilizia Abitativa del 2009 18, e identificato da Cassa Depositi e Prestiti Investimenti (CDPI Sgr), nell’ottobre dello stesso anno, con il Fondo Investimenti per l’Abitare (FIA). Il Fondo di 2 miliardi di euro circa 19 sostiene l’edilizia privata sociale, a supporto e integrazione delle politiche di settore pubbliche, investendo sui fondi d’investimento immobiliari locali e gestiti da altre Sgr, con una partecipazione non superiore al 40% incentivando l’investimento di altri soggetti e mantenendo un ruolo determinante in ogni singola iniziativa. In questa direzione si sono già prodotte 14 delibere preliminari in tutta Italia che però stentano ad ottenere un’approvazione definitiva forse a causa dei tempi e delle modalità di attuazione di tali iniziative, in merito alle quali è intervenuta anche la Corte dei Conti, e della crisi finanziaria (Maurino, 2012). Per attivare interventi di questo genere è necessario: 1. 2. 3. 4. 5.
La presenza, sul territorio, di un effettivo bisogno abitativo La disponibilità di aree (anche premialità) e/o immobili idonei e a basso costo Capacità progettuali, realizzative e gestionali La capacità di coprire, a livello locale, il 50-60% del fabbisogno finanziario Il raggiungimento della massa critica sufficiente ad attivare un Fondo locale (€50 – 100mln)
Al fine di studiare la fattibilità del Fondo il 5 ottobre 2011 il Consorzio ha sottoscritto una lettera d’Incarico congiunta con Fondazione Housing Sociale, Finabita S.p.A. ed Ispredil S.p.A.. Per comprendere l’effettivo bisogno abitativo regionale si è fatto riferimento ai dati raccolti negli anni dalle cooperative sociali consorziate, ai dati forniti dalle ATER e dai Comuni. Nel caso particolare della Provincia di Udine, è stata di supporto la ricerca Il bisogno e la ricerca di casa in provincia di Udine pubblicata a febbraio di quest’anno, coordinata dal Prof. Gianpaolo Gri dell’Università di Udine e commissionata dalla Cassa Edile di Udine, che ha posto l’attenzione sulle famiglie monoreddito, sulle donne con figli a carico e sulla fascia di età fra i 36 e i 45 anni. Parallelamente si è proceduto con una ricognizione territoriale che permettesse un confronto diretto con le amministrazioni locali e con i privati sul tema e sulla fattibilità del progetto. In queste iniziative di tipo 16
Impresa Tilatti Rinaldo S.R.L., Riccesi - S.P.A., Vicini di Casa Società Cooperativa - Onlus, Lybra - Società Cooperativa Sociale - Onlus, Del Mistro Giacobbe - Impresa Edile S.P.A., Cooprogetti – Soc. Coop. a r.l., I.Co.P. S.P.A., Archest S.R.L." a cui il 9 gennaio 2012 hanno aderito anche le società: Consorzio Cooperative Costruzioni e Cooperativa Abitamondo. Presidente: Vittorino Boem 17 Statuto “CONSORZIO HOUSING SOCIALE FVG”, Art. 4 – SCOPO CONSORTILE 18 DPCM del 16 luglio 2009, art. 1 comma a) 19 CDP Investimenti Sgr: da luglio 2010 a marzo 2012, 2 miliardi e 28 milioni di euro, di cui 1 miliardo sottoscritto da Cassa Depositi e Prestiti, 140 milioni dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e 888 milioni da parte di gruppi bancari e assicurativi e di casse di previdenza privata. Fonte: http://www.cdpisgr.it/caratteristiche_fondo/index.html Nicola Vazzoler
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economico- finanziarie la sostenibilità economica impone di tessere una rete di contatti e di scambio con enti pubblici e privati che renda l’iniziativa stessa solida ed efficace. In questo senso risulta importante l’individuazione di siti idonei e a basso costo: la disponibilità di aree o immobili a basso costo favorisce infatti l’abbattimento del costo dell’opera e successivamente quello dei costi di locazione o di vendita ad inquilini che non accedono alle graduatorie dell’edilizia residenziale pubblica o al libero mercato. Questo però è vero solo in parte e ridurrebbe l’iniziativa a pura speculazione. Un progetto di HS, come detto, può essere visto come il prodotto di un confronto e sintesi di necessità differenti. Questo ha orientato il dialogo con le amministrazioni locali e con i privati e ha indirizzato la ricerca verso siti in cui fossero sedimentate criticità tali da essere risolte con il progetto di HS. Aree che hanno perduto la primaria funzione e che diventano oggi risorsa fondamentale in una logica di ristrutturazione territoriale e urbana vista la posizione centrale e/o strategica e il ruolo di salvaguardia ambientale che possono assumere nei confronti del consumo di suolo. Il Consorzio ha individuato 15 siti sparsi su tutto il territorio regionale (3 in provincia di Udine, 1 in provincia di Gorizia, 4 in provincia di Trieste e i restanti nella provincia di Pordenone), siti per la maggior parte di proprietà pubblica e che possiamo qui distinguere in: aree dismesse, aree libere/spazi di “risulta” e immobili caduti in disuso. La mappa dei siti individuati dal Consorzio, mostra una certa difficoltà a proporre un progetto di HS all’interno di un unico perimetro comunale, come nei casi di Milano (Abitare Sociale 1 e 2) o Parma (Parma Social House), questo è dovuto forse alla struttura e alla dimensione degli insediamenti urbani in FVG e al limitato patrimonio di aree o immobili di natura pubblica disponibili, soprattutto nelle aree con più forte disagio abitativo. Il Consorzio si è indirizzato quindi verso la scala territoriale, come nel caso di Abitare sostenibile Marche e Umbria, con una proposta diffusa che trova riscontro in una Regione che sembra funzionare come una città- territorio e che, nel caso specifico, ammette diversi vantaggi: agire a macchia di leopardo e puntualmente sulle domande inevase soddisfacendo contemporaneamente più amministrazioni locali; a livello di vita del Fondo, la rete di progetti che si viene a creare sembra autosostenersi, i casi più impegnativi da affrontare (es.: valori di mercato molto bassi, costo dell’area alto) possono essere sostenuti da quelli più economicamente sicuri.
Figura 2. Ex Caserma Osoppo e la città di Udine: il sistema infrastrutturale e del “verde”, i servizi e le centralità, le aree dismesse.
Nicola Vazzoler
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3.2 Cronache da un’area dismessa: l’ex Caserma Osoppo di Udine La caserma Osoppo di Udine è uno dei 36 siti ceduti dal Demanio militare alle amministrazioni locali della Regione FVG (Dlgs.237/2001 e Dlgs.35/2007) e rientra all’interno dell’elenco dei siti individuati dal Consorzio. Il ruolo strategico e le potenzialità inespresse dell’area e degli immobili presenti catalizzano da anni l’attenzione della comunità e dell’Amministrazione pubblica che lo scorso anno, in previsione della stesura del nuovo PRGC, ha adottato due varianti (n.189 e n.191) che ne hanno modificato la destinazione d’uso favorendo un processo di recupero del sedime. La vasta area dismessa (circa 117.000 mq) è posta a nord-est della città di Udine (Figura 2), in un mix di tessuti residenziali minuti e lacerti di campagna, dove non sono presenti le grandi attrezzature urbane e/o territoriali che invece possiamo trovare lungo l’autostrada A23, a nord-ovest della città. L’ex sedime militare è cinto da alcuni tracciati minori (via Brigate Re e via delle Acque), che lo mettono a sistema con arterie di carattere territoriale (via Cividale e via Salvo D’Acquisto), dove insistono servizi puntuali, e con il vicino PEEP altrimenti separato dalla linea ferroviaria Udine-Tarvisio, posta in trincea, forte limite fisico che assieme alla vicina Roggia di Palmanova (canale d’irrigazione), e all’elettrodotto, che scavalca l’area e in parte la vincola, caratterizzano questa parte di territorio di frangia. L’attenzione del Consorzio per l’ex Caserma è dettata certamente dalle caratteristiche del sito stesso e dalla richiesta di alloggio presente nella Provincia di Udine, ma anche dall’interessamento al tema dell’HS espresso dall’amministrazione comunale; già ATER, in passato, si era dimostrata interessata al recupero di una parte dell’area. In questo contesto si è cercato fin da subito un confronto ed un dialogo con l’amministrazione (ufficio tecnico, assessori competenti e Sindaco) per comprendere quali fossero le idee, i programmi, le strategie che investivano l’ex caserma Osoppo e contemporaneamente cercare un confronto rispetto al tema dell’HS e alla sua fattibilità. Questo dialogo, che si è ripetuto per gli altri siti, ha portato da parte nostra alla creazione di una serie di progetti di trasformazione per l’area che hanno tenuto conto delle preesistenze, del contesto, delle richieste, delle ricadute a scala locale, urbana e territoriale e all’interno delle quali l’HS sociale prendeva parte alle dinamiche di trasformazione dell’area solo in minima parte. Esplorazioni progettuali (Figura 3) che si sono dimostrate utili per un dialogo aperto e per la comprensione del materiale con cui ci si è trovati a lavorare. Esplorazioni che escludevano una totale cessione gratuita delle aree interessate per proporre programmi d’intervento integrati (mixaggio sociale e funzionale) tali da garantire al progetto anche una sostenibilità economica.
Figura 3. Esplorazioni progettuali per l’ex Caserma Osoppo: estratto
Nicola Vazzoler
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Allo stato dell’arte questo percorso è in attesa di un parere ufficiale, infatti, il 29 dicembre dello scorso anno, il Comune di Udine ha pubblicato un bando d’interesse da parte di soggetti pubblici e privati ad aderire ad un accordo di programma per il recupero dell’ex complesso militare e al quale il Consorzio ha dato risposta positiva con un progetto: la volontà dell’Amministrazione sembra essere quella di trovare partner, risorse e idee da reimpiegare nell’ex Caserma. All’indomani della scadenza del bando, il 27 febbraio di quest’anno, erano 18 le proposte consegnate dai privati e che riguardano l’intera area, porzioni o singoli manufatti che il Comune dovrà analizzare con gli interessati per definire possibili collaborazioni fra pubblico e privato.
4. Necessità, virtù o convenienza? Oggi il tema del riuso dell’esistente è sicuramente centrale, rischiando a volte l’abuso. Di questi tempi, risulta forse necessario, quando vogliamo parlare di trasformazione/rigenerazione/recupero/riciclaggio/ecc.., rispondere alla domanda: Per chi?. La difficile condizione economica che stiamo vivendo porta con se temi e luoghi, sui quali la nostra disciplina già da anni s’interroga, ma che assumono oggi una certa priorità (welfare, diritto alla casa e alla città, ecc..). Gli esperimenti di risoluzione del fabbisogno abitativo entro i “luoghi della ritrazione”, anche attraverso le diverse forme di HS di iniziativa privata, diventano esperienze da approfondire perché capaci di porsi e porre più domande in merito al tema del riuso rispondendo innanzitutto al fabbisogno di casa. È anche vero che tali esperimenti possono sollevare interrogativi, all’interno del dibattito pubblico e disciplinare, in merito alle intenzioni di attori, anche privati, che sollecitano processi di trasformazione di aree o immobili di natura pubblica. Virtù o convenienza? Questi esperimenti, come quello proposto in queste pagine, tentando di mettere a sistema le diverse criticità prodotte dalla crisi (fabbisogno abitativo, difficoltà economiche dei Comuni, delle imprese, delle famiglie) e ricercando equilibri possibili fra tutti gli attori interessati, pubblici o privati, a tutte le scale, rispondono ad una necessità di convergenze su temi come quello della casa, del welfare, dello sviluppo sostenibile, della crescita.. e che oggi, a mio parere, risulta essere fondamentale.
Bibliografia Libri Bastianoni S., Marchettini N., Pulselli F. M., Tiezzi E. (2011), La soglia della sostenibilità ovvero quello che il PIL non dice, Donzelli editore, Roma. Campos Venuti G. (2010), Città senza cultura, Editori Laterza, Bari. Cigalotto C., Santoro M. (1999), “La città di Udine: aree dismesse e luoghi della ritrazione”, in: Ripensare e promuovere la città: Udine. Atti del ciclo di conferenze, Assessorato alla Pianificazione Territoriale, pp. 25-28, Comune di Udine. Secchi S. (2008), La città del ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari. Articoli Munarin S., Tosi M.C. (2009), “La fatica di abitare: per una città confortevole, sana e sicura”, in Urbanistica, 139, pp.88-91. Maurino G. (2012), “Social Housing in frenata”, Casa24Plus, p.13. Siti web D’Alessio G. & Gambacorta R., (luglio 2007). L’accesso all’abitazione di residenza in Italia. Questioni di economia e finanza. (Occasional papers) n.9 [Online]. Disponibile su : <http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef_9/QEF%25209.pdf> Pellizzari G., (28/01/2012). Comune senza “fondi” vende l’area di via Brigata RE. Messaggero Veneto [online]. Disponibile su< http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2012/01/28/news/comune-senza-fondi-vende-l-areadi-via-brigata-re-1.3117026> Redazione, (28/01/2012). Caserma Osoppo, il Comune presenta il bando. Udin è [online]. Disponibile su <http://www.udin-e.it/?p=12706> Ufficio stampa Comune di Udine, (29/12/2011). Caserma Osoppo: il Comune cerca dei partner per riqualificarla. UdineToday [online]. Disponibile su <http://www.udinetoday.it/economia/comune-udine-cerca-partner-riqualificazione-casermaosoppo.html>
Copyright Le immagini qui riprodotte sono parte integrante della ricerca e delle esplorazioni progettuali prodotte dal Consorzio Housing Sociale FVG, sono quindi da ritenersi una gentile concessione limitata al solo paper. Nicola Vazzoler
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Manutenzione della città
Manutenzione della città Baccarelli Marco Politecnico di Milano Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Email: marcobaccarelli@gmail.com Tel. 333.2112013
Abstract The containment of urbanized land and the rethinking of the social overhead capital (for example, in terms of landscapes and infrastructures) does not only correspond to a logic of defence of a more natural soil, but, it is the very condition for the redevelopment and recapitalization of already urbanized areas. Consequently the intervention of urban development should be connected to a re-design of the closest open space where “maintenance” should be intended as a project of modifications which, although based on the idea of making the best use of the individual transformations, implies the provision of common wide-scale scenarios This should be defined as a form of intervention which starts from the autonomy of the single parcel, and then engages the surrounding streets and the small landlocked open spaces in the urban fabric, as well as the periurban agricultural areas which are intrinsically connected to them.
Introduzione In apertura di un suo saggio Cristina Bianchetti cita Albert O, Hirschman a proposito della povertà d’immaginazione che “produce immagini di mutamento totale in luogo di più modeste aspettative” 1 in condizioni in cui non si dispone di quadri di riferimento adeguati a descrivere il cambiamento. Eppure il territorio contemporaneo sembra davvero aver conosciuto “profonde distorsioni”. A partire da quella che si configura come una possibile continuità per il progetto urbanistico, in questo contributo s’intende indagare, attraverso il progetto, la nuova declinazione del welfare, cioè nuove forme di benessere pubblico nella costruzione dei territori urbani ovvero nuovi elementi per una rinnovata qualità urbana 2. Un‘idea di qualità del paesaggio ordinario come bene comune che è alla base della riqualificazione come politica di un welfare positivo 3. Cioè quello che è in grado, di non cadere in tendenze assistenzialiste e monetarie, ma neppure nell’idea di uno sviluppo meramente quantitativo.
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Hirschman A. O. (2003), Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Oxford. Per certi versi questo sembra essere anche l’indirizzo dato dal “Progetto Europeo”, si veda: OECD Territorial Outlook (Paris: OECD 2001); Territorial Review: Milan (Paris: OECD 2006); DG-REGIO European Commission (2005),Territorial state and perspectives of the European Union, Scoping document and summary of political messages (2005); Altro riguardo il Progetto Europeo e più specificatamente sul paesaggio come capitale fisso sociale si confronti Calafati A. (2006), “il capitale come paesaggio”, in Foedus, n1, pp.26-39; e in particolare: Camagni R. (2009) Per un concetto di capitale territoriale, in “Crescita e sviluppo regionale: Strumenti, sistemi, azioni” by Borri D. , Ferlaino L. ( Eds.), E-Book: Franco Angeli, Milano. 3 Tra le principali formulazioni del welfare positivo si fa riferimento a Giddens A. (2007), l’Europa nell’età globale editore Laterza, 2007 mentre per sue specifiche cosiderazioni rispetto all’ambito milanese si veda Lanzani A. (2005), “Ripensando Milano e la Mega city region milanese”, Archivio di studi urbani regionali, 2
Baccarelli Marco
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Manutenzione della città
I territori urbani del Nord Milanese Con particolare riferimento ai territori urbani dell’area Milanese, specie della fascia a nord del capoluogo, si rileva, un processo di massiccia urbanizzazione dei suoli, che si accosta, senza entrare in relazione alcuna, a un processo di progressivo abbandono o sottoutilizzo di aree, edifici e spazi anche di recente costruzione. La questione non è posta nei termini di una contestazione aprioristica di spazio occupato e corpi che occupano, in quanto, riprendendo Lefebvre, si riconosce che “tutto è spazio, e lo spazio si riproduce nello spazio”. Le criticità rilevate risiedono piuttosto nel disequilibrio complessivo delle trasformazioni prodotte nello spazio, nella dissipazione delle energie impiegate per produrle. [figura. 1]
Baccarelli Marco
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Manutenzione della cittĂ
[ Figura 1. Urbaniztion process. Source: Authorâ&#x20AC;&#x2122;s elaboration Baccarelli Marco
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Manutenzione della città
Distorsioni Una prima distorsione sta anzitutto nella non corrispondenza tra la misura di quanto viene costruito e quella del reale sviluppo a suo sostegno (tanto in termini demografici quanto produttivi). Un’altra divergenza riconosciuta è nel segno che, in alcune dinamiche in atto sui territori, pare essere di direzione opposta. Ai consueti processi di addizione si accostano casi che testimoniano l’opportunità di una contrazione degli spazi. Infine meritano una certa considerazione i campi di applicazione delle trasformazioni che, con la loro autonomia e autoreferenzialità nella costruzione incrementale, sembrano aver logorato gran parte del capitale fisso sociale che qualificava i territori stessi 4. Quella ricchezza distribuita sul territorio che ha permesso agli abitanti del territorio milanese di realizzare il loro “progetto implicito” 5 sembra essere ora assorbita, bloccata, talora esaurita 6. La competizione territoriale come paradigma delle relazioni tra città imposto dalla globalizzazione e recepito nel progetto europeo 7 ha evidenziato i limiti del modello italiano di territorializzazione del processo economico e sociale 8 Quel processo di sviluppo incrementale, era il risultato sia di una politica di mobilitazione individuale 9, che puntava sull’iniziativa dei singoli, appunto, per uno sviluppo generale; senza dover affrontare impegnativi investimenti e allocando cosi risorse preziose in altre direzioni; sia della convenienza degli abitanti che esprimevano la loro autonomia e ricercavano interessi personali beneficiando di condizioni di permissivismo 10. I nuovi insediamenti si costruivano tanto dalle espansioni dei nuclei urbani quanto dall’interno del suolo agricolo, già fittamente strutturato e puntualmente abitato. I singoli nuclei familiari con le loro risorse umane e di capitali ne erano i principali artefici. La sottovalutazione del ruolo degli spazi del servizio pubblico e sociale nella formazione spaziale dei territori urbani della dispersione corrisponde evidentemente allo stampo familistico del sistema di welfare italiano che ha prodotto una sottocapitalizzazione dei contesti urbani e territoriali in cui nessuna armatura spaziale, pubblica o collettiva, sembra riuscire a produrre un ordine nei luoghi o a definire delle strutture territoriali riconoscibili. Oggi sembrano essere cambiati gli attori; da una “razionalità minimale” 11 si è passati a una “razionalità di settore” 12. Sempre più le trasformazioni risultano essere prodotte da una rete di attori “specializzati” che in molti casi costruiscono, nel mercato immobiliare, le domande per l’offerta realizzata. Sono cambiate anche le forme: dal prevalere del pulviscolo alla costruzione per placche di lottizzazione, produttive come anche residenziali, a bassa o bassissima densità che ripropongono però, con un leggero salto di scala, la stessa dispersione degli edifici singoli su lotto. Una modalità di costruzione che, alla luce degli argomenti su cui si sta riflettendo, aggiunge difficoltà a difficoltà: quella prevedibile nell’occupazione totale di queste isole. Se poi si assume la sostanziale stagnazione della crescita, tanto economica che demografica, quando anche si realizzi l’occupazione di nuovi spazi evidentemente ne consegue lo svuotamento di qualche altro ubicato altrove e precedentemente utilizzato.
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Sulla definizione di capitale fisso sociale (altrimenti CFS: capitale fisso sociale) e l’individuazione delle sue relazioni con la costruzione dei territori, si vedain particolare: Lorenzo Bellicini, Cristina Bianchetti, Alberto Clementi e Bernardo Secchi in: Clementi A. (a cura di 1996)), Infrastrutture e piani urbanistici, Fratelli Palombi Editori, Roma; e inoltre più recenti formulazioni in Camagni R., “Il Capitale territoriale” (Facoltà di Economia) cit.. 5 Demattesi G. (2002), Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Franco Angeli, Milano. 6 «È generalmente mancata in Europa ed in particolare nel nostro paese la consapevolezza dell’importanza , per la costruzione della città e della società contemporanee, di ciò che un tempo si indicava appunto coi termini di capitale fisso sociale.» Secchi B. (1991), ”Barcellona e le altre”, Casabella, n 585, pp. 23 7 European Commission (2005), Territorial state and perspectives of the European Union, Scoping document and summary of political messages,European commission, Bruxell. 8 Si veda Calafati A. G. (2009), Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia, Donzelli Editore, Pomezia Roma. 9 Per “mobilitazione individualistica” si veda Pizzorno A. (1974), ”I ceti medi nel meccanismo del consenso” in Cavazza F.L. e Gaubard S.R. (a cura di) , Il caso italiano, Garzanti, Milano. 10 Riguardo i collegamenti tra processi incrementali e mobilitazione individualista e il progressivo degrado del capitale fisso sociale urbano in relazione alla competizione tra città in Europa, si fa riferimento a Secchi B. (1996), “ Un’interpretazione delle fasi più recenti dello sviluppo italiano: la formazione della città diffusa ed il ruolo delle infrastrutture”, in Clementi A. (A cura di) infrastrutture e piani urbanistici, Fratelli Palombi Editori, Roma. 11 Secchi B. (1989) Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino. 12 Questione trattata chiaramente da Arturo Lanzani : «A quella razionalità minimale ( che portava per esempio a riutilizzare segni e infrastrutture del territorio rurale e rendeva riconoscibili almeno zenitalmente alcune nuove figure dell’urbanizzato, che consentiva di cogliere qualche regola combinatoria tra differenti materiali urbani) si è sostituita una più agguerrita e paesaggisticamente devastante azione delle diverse razionalità di settore, che moltiplicano il numero di fatti urbani sempre più autoreferenziali non solo nella organizzazione interna ma anche nelle regole localizzative. » In Lanzani A (2003), I paesaggi Italiani, Meltemi Editore, Roma, pg 84. Baccarelli Marco
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Manutenzione della città
Infine cambia anche lo scenario in cui si muove l’attore pubblico e il suo campo d’azione, poiché se è vero che “non è possibile riconoscere ciò che è pubblico a partire da un’autorità pubblica” 13, perché il passaggio dagli standard alla qualità urbana come nuovo paradigma per il perseguimento del bene pubblico apre, secondo i principi della sussidiarietà, a una molteplicità di operatori diversi, è oltremodo vero che la disciplina urbanistica dovrebbe continuare a occuparsi del benessere collettivo come da sua natura fondativa. La questione del contenimento dei suoli urbanizzati e il ripensamento del capitale urbano, ovverosia di strutture fisiche per nuovi sistemi del welfare, non corrisponde solo a una logica di difesa di un suolo a maggior naturalità ma è condizione stessa per la riqualificazione e ricapitalizzazione dello spazio già urbanizzato. Poiché, come recentemente sostenuto da Arturo Lanzani 14, senza nessuna politica di contenimento in molte realtà negli anni a venire saranno sempre più probabili condizioni di problematica convivenza tra dismissioni e sottoutilizzo molecolare e nuova urbanizzazione. Il deposito fisco di strutture d’infrastrutture e spazi pubblici, costitutivi anche della forma organizzativa e urbana degli insediamenti è in attesa di essere messo in valore. Laddove una volta le opposizioni dualistiche bastavano a distinguere città e campagna, pubblico e privato ecc., oggi è necessaria una dimensione culturale per recuperare degli orizzonti di senso, per caricarsi di significati e valori e per considerare il territorio non più come mera occasione di sviluppo ma come patrimonio comune, entro il quale la dotazione di servizi, infrastrutture e spazi di relazione devono essere inclusi.
Tabella 1. Urbaniztion process. Source: Author’s elaboration on data DUSAF and ONCS
“Manutenzione” L’ipotesi è, dunque, che sia opportuno considerare nuovi paradigmi del bene comune che pongano la “manutenzione” entro orizzonti prioritari per territori già ampiamente urbanizzati. “Manutenzione” 15 significa finalizzare le attività umane a un impiego economico e sostenibile delle risorse, nella progettazione e nella gestione dei sistemi antropizzati e dei sistemi naturali. Una progettazione che indaga il valore della compensazione non solo in termini ecologici, di tutela degli equilibri ambientali nei confronti dell’espansione dei sistemi artificiali, ma anche in termini socio economici, ricercando corrispondenze tra opportunità insediative da una parte e modelli proposti dall’altra. Una prima considerazione, per esempio, è che i criteri compensativi delle azioni individuali (mosse queste sempre più da interessi piuttosto che da impellenti esigenze) volti in favore del benessere comune, che portarono all’adozione degli standard quale strumento normativo, oggi possono esprimersi come partecipazione alla “manutenzione”-“aggiornamento” degli spazi esistenti (e del patrimonio su di essi costruito) e non più in termini di quantità di nuovo spazio per servizi in proporzione a quello della costruzione 16. Ma questa “manutenzione”, si ritiene, debba recuperare la dimensione di un progetto per il territorio, un agire concreto; deve poter contare su progetti per la città pubblica, per la costruzione di spazi del welfare rispetto ai quali ricalibrare la misura il segno e il campo. 17 13
Lavinia Bifulco, De Leonardis 2005, Sulle tracce dell’azione pubblica, in L. Bifulco, a cura di, Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Carocci, Roma,.pg 117-136 14 Arturo LANZANI in “Dopo la crescita. Idee sul futuro della dispersione”; PhD seminary; Organizzato da Patrizia Gabellini e Federico Zanfi.; Politecnico di Milano, ( 2010) 15 Circa la necessità della manutenzione per i sistemi semi-naturali come capitale fisso sociale e territoriale: «Interventi di manutenzione finalizzati alla stabilizzazione interna ed esterna devono essere effettuati su tali sistemi affinchè essi mantengano l’organizzazione desiderata e producano materia/energia nella quantità e qualità desiderata”, dove ogni atto di investimento-manutenzione avviene introducendo un nuovo elemento» Antonio CALAFATI, il capitale come paesaggio, Foedus,1,(2000) 26-39 16 Come già puntualizzato due decenni fa da Bernardo Secchi: «Peggio ancora si è ritenuto di poter ridurre il processo di formazione del capitale fisso sociale della città contemporanea ad una procedura, di poterlo definire come funzione subordinata della costruzione dello spazio edificato, farlo divenire “onere di urbanizzazione”, imposta proporzionale al plusvalore fondiario: metri quadri di suolo per metri cubi di edificato.» in ”Barcellona e le altre”, Casabella, n 585, (1991) 23 17 “…è come se il welfare progressivamente, spostandosi sul mero piano regolativo delle modalità di accesso ai servizi e benefits, si sia sganciato tanto dalle biografie di luoghi e persone, quanto dalle dinamiche sistemiche che coinvolgono i Baccarelli Marco
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L’identificazione e la realizzazione, di obiettivi concreti, anche attraverso un maggiore coinvolgimento degli attori delle singole trasformazioni, può responsabilizzare maggiormente l’agire individuale a differenza di quanto avviene con la monetizzazione di diritti e doveri come prassi tutta economica di sostentamento delle amministrazioni. Si ritiene inoltre che solo un progetto per la città possa contenere al suo interno tanto la dimensione quantitativa quanto quella qualitativa necessarie entrambe alla formazione di capitale urbano e che solo un progetto, il più possibile condiviso, possa interpretare le condizioni attuali per poi configurare scenari di lungo periodo sui quali le scelte per l’accumulazione del capitale urbano potrebbero essere misurate 18. Più in generale s’individuano tre possibili obiettivi da perseguire in forma incrementale ma al tempo stesso integrata sui quali la “manutenzione” dovrebbe esprimersi 19 . La riconversione del patrimonio edilizio più obsoleto che non corrisponde più alle attuali esigenze degli stili di vita contemporanei o che non risulti sostenibile in termini di esternalità negative prodotte (sia dal punto di vista sociale che ecologico) Il riassetto del sistema infrastrutturale dei territori urbani: non necessariamente attraverso la realizzazione di “grandi opere” piuttosto per mezzo di una differente strutturazione gerarchica sia dei sistemi della mobilità sia delle reti di distribuzione e raccolta; l’implementazione dei sistemi esistenti dove questi risultino deficitari; l’integrazione dei vari dispositivi individuali alle reti pubbliche; l’uso di dispositivi di compensazione ambientale. La più generale riorganizzazione dello spazio aperto sia negli spazi di prossimità che nella rete ambientale locale e territoriale. In particolare il mantenimento degli spazi aperti interstiziali in una rete ecologica e di fruizione in grado di restituire una complessità paesistica e dare risposta alle esigenze di benessere collettivo con investimenti più contenuti che nelle tradizionali strutture di welfare urbano. Il tema del disincentivo al consumo del suolo, dovrebbe quindi accompagnarsi a una politica di riqualificazione dell’esistente, anche nello spazio tra gli edifici, In questo senso l’intervento di sviluppo urbano dovrebbe legarsi a politiche che favoriscano un ridisegno dello spazio aperto più prossimo dove la “manutenzione” possa essere intesa come un progetto di modificazione che, basandosi sull’idea di fare il miglior uso delle trasformazioni individuali, implichi l’adozione di uno scenario comune condiviso. Ciò può essere definito come una forma d’intervento che, a partire dall’autonomia del singolo lotto, investa non solo lo spazio privato, ma anche le strade, i piccoli spazi aperti interclusi nel tessuto, fino allo spazio agricolo periurbano che s’intreccia con essi.
Il Progetto All’interno di questo quadro interpretativo il progetto si costituisce come strumento cognitivo 20 in grado di considerare, alle diverse scale, articolazioni spaziali che possono rappresentare modelli supplementari e alternativi per le trasformazioni urbane. L’ambio indagato dal progetto, attraverso diverse letture interpretative restituisce in questo caso l'immagine concettuale di un mosaico composto da porzioni di spazi aperti, o meglio "stanze verdi” 21. Questo mosaico è assunto come sistema spaziale strutturante e, più specificamente, come armatura per la realizzazione del nuovo sistema di welfarespace. (fig. 2) Per esemplificare un possibile scenario progettuale le “stanze verdi” possono essere poi assunte come “nuove” centralità urbane diffuse nel territorio in connessione con le centralità “storiche” dei nuclei urbani consolidati La costruzione di questi spazi può così essere l'occasione per una partecipazione al progetto di un nuovo sistema di welfare fisico da parte dalle varie comunità locali anche attraverso l’organizzazione collettiva di spazi individuali. Da retro le frange dell’ espansione urbana possono diventare affacci privilegiati lungo i grandi vuoti consolidati e strutturati.
differenti contesti urbani.” Baiocco R (2011), “Urbanistica e nuove politiche sociali del servizio. Oltre gli standard tra qualità urbana e sociale”; in, Munarin S. e Tosi M. (a cura di), Spazi del Welfare, Quodlibet Studio, Macerata, pp.124133 18 «Il progetto è strettamente necessario come conseguenza delle caratteristiche del capitale urbano- un insieme di elementifondo altamente eterogeneo, non malleabile, con un elevato grado di specificità e il cui valore si alimenta in modo inscindibile alla forma e alla funzionalità dei singoli elementi che lo compongono»; in Calafati A G. (2009), Economie in cerca di città–La questione urbana in Italia, Donzelli editore, Roma, pp. 16 19 Per una più completa trattazione di questi temi si fa riferimento a Secchi B. (1994) in “Il territorio abbandonato 4”, Casabella, n 618, pp. 18-19 20 Si veda in proposito: Viganò P. (2010), I territori dell’urbanistica. Il progetto come produttore di conoscenza, Officina Edizioni, Roma. 21 Un’immagine proposta da Cesare Macci Cassia C. et altri (2002), in Xmilano, Hoepli Editore, Milano. Baccarelli Marco
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Lungo i bordi e nei nodi connessi alla rete infrastrutturale, possono svilupparsi processi di densificazione del tessuto costruito che giustificherebbero, di conseguenza, l’ implementazione della di mobilità pubblica in quei determinati punti. Una sequenza di spazi aperti e la porosità del tessuto urbano può assicurare la continuità trasversale tra i bordi della foglia e il sistema ambientale che la definiscono a scala territoriale. I circuiti locali formati dalle connessioni tra le stanze verdi e i vuoti residui residuali all'interno del tessuto urbano possono costituire, intrecciati uno all'altro, le maglie di una rete che è sia un sistema ambientale che un sistema della mobilità lenta.
Figura 2. Design project strategies. Source: by Author
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Infine, all'interno del tessuto urbanizzato, nelle arre di dismissione molecolare 22, una serie di trasformazioni puntuali possono essere un’ opportunità di rigenerazione e di diradamento come anche di dismissione di porzioni della capillare rete infrastrutturale che ha accompagnato la dispersione ( con evidenti ritorni positivi in termini di sostenibilità ecologica ed economica). Nel suo insieme il complesso delle aree di prossima trasformazione ha un ruolo determinante in considerazione sia del loro possibile ruolo strutturante per il tessuto urbano nel quale s’inseriscono, sia anche, del loro potenziale collettivo, di sistema di aree diffuse in tutto il territorio, per la ridefinizione generale di forme e relazioni a scale “intermedie”. Dimensioni cioè che considerino il territorio nelle sue relazioni per parti, per sistemi locali, scale spesso escluse tanto dalla pianificazione territoriale quanto dai progetti per singoli frammenti. Da una parte riponendo grande attenzione alle dinamiche trasformative che si aggiungeranno al patrimonio esistente; dall’altra cogliendo il senso delle dinamiche latenti che esprimono un segno inverso ai processi additivi oggi prevalenti e provando a stabilire le modalità che in certi tessuti esistenti possono essere proficuamente accolte. Si possono infatti prefigurare, attraverso possibili dispositivi da mettere in campo, alcuni indirizzi per le trasformazioni dei singoli tasselli che compongono il pattern ordinario dei territori urbani. Tre sono le tattiche predisposte: 23 La strutturazione dei processi di frazionamento e densificazione puntuale dei tessuti esistenti a fronte del consolidamento dei vuoti e dell’implementazione di opere di compensazione ecologica o servizi in quelle che sarebbero aree di espansione. Il trasferimento delle volumetrie provenienti dal diradamento avvenuto in tessuti da riqualificare verso aree ad alta concentrazione, di nuova costruzione o di prossima espansione. La valorizzazione o la riqualificazione di porzioni di territorio, prevalentemente non edificate, attraverso opere che guidino le trasformazioni delle aree contigue o anche solo attraverso la realizzazione di opere di compensazione ecologica. Anche nel caso in cui le azioni sopra menzionate avvenissero solo parzialmente, all’interno di trasformazioni autopromosse, la loro implementazione, potrebbe comunque progressivamente costruire un più generale sistema spaziale e contribuire alla sua operatività e contribuire all’accumulazione di nuovo capitale fisso sociale 24. Poi, un riconoscimento della loro realizzazione potrebbe essere fatto, ad esempio, individuando forme di premialità o credito in favore degli attori virtuosi delle trasformazioni che abbiano operato per il bene collettivo nell’ambito di una trasformazione individuale. Per esempio applicando una "deduzione delle opere" 25, cioè identificando le opere di urbanizzazione o compensazione in costruzione o già eseguite sul territorio da parte dei costruttori ( cittadini organizzati in gruppi, cooperative appositamente formate oppure operatori specializzati) gestendo il pagamento dei lavori come deduzione da costi di concessioni o altri obblighi altrimenti dovuti nei confronti del comune. 26 Infine, attraverso la prefigurazione di scenari auspicati, gli esiti dei processi impliciti di naturalizzazione, riforestazione, rifunzionalizzazione agricola, compensazione ecologica e infrastrutturazione, risultanti dalle diverse combinazioni in cui i dispositivi possono essere utilizzati, possono essere in grado di aprire il progetto a nuove verifiche e riflessioni e, augurabilmente, a mantenere una direzione condivisa.
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Un’immagine interpretativa proposta in: Lanzani A. e Zanfi F (2010), “Dopo la crescita: per una diversa agenda di ricerca”, Territorio, n 53, pp. 110-116 23 Per una più completa trattazione di questi temi si fa riferimento a Clement G. (2005), Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata. Donadieu P. (2005), Campagne urbane–Una nuova proposta di paesaggio della città,: Donzelli Editore, Isola del Liri (Fr); Pileri P. (2007), Compensazione ecologica preventiva, Carocci Editore, Roma; Fabian L., Vigano P. (a cura di 2010), Extreme City, Climate change and the transformation of the waterscape, Università IUAV di Venezia Publisher, Venezia; Micelli M. (2004), Perequazione urbanistica, Marsilio, Venezia; Trillo C., Harvey M. J (2009), Perequazione e Qualità Urbana. Transfer of Developement Rights and Urban Form, Alinea Editrice, Firenza. 24 Così come sostenuto da Calafati, l’aumento di capitale urbano a favore dellincremento della qualità urbana e , di conseguenza, del benessere per i cittadini, implica necessariamente di ridurre le esternalità negative del capitale privato; si confronti Antonio G. Calafati (2009), Economie in cerca di città-La questione urbana in Italia, Donzelli Editore, Pomezia (Roma); mentre per una tassonomia del capitale urbano, dove è possibile trovare una chiara correlazione tra proprietà pubblica e privata di molte sue componenti, si fa riferimento anche a Camagni R. , “Il Capitale territoriale”, Facoltà di Economia – http://www.economia.unipr.it/DOCENTI/WOLLEB/docs/files/Camagni%20Capitale%20Territ.doc-.(last accessed 9 september 2011) 25 Si possono considerare i risultati delle recenti esperienze nell’applicazione delle cosiddette “opere a scomputo “ come previsto dal PRG di Roma nelle aree classificate 0 26 Si fa riferimento a Pirani A, Fabbri M., Galimberti G., “Sviluppo del paesaggio urbano: il piano del verde, elemento ordinatore degli spazi aperti” Dipartimento di Economia e politica agraria, agroalimentare e ambientale Università degli Studi di Milano, (last accessed 12 september 2011). Baccarelli Marco
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Figura 3. System of environmental voids (agricultural-grey pattern; forest-green) related to: concentation areas (black), expected expantion areas (violet) dismissed or in-transformation areas (red). Sourece: by Author
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Figura 4. Design project strategies. Source: by Author
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Bibliografia Libri Bagnasco A. (1994), Fatti sociali formati nello spazio. Cinque lezioni di sociologia urbana e rigionale, Franco Angeli, Mialno. Baiocco R. (2011), “Urbanistica e nuove politiche sociali del servizio. Oltre gli standard tra qualità urbana e sociale”, in Munarin S. e Tosi M. (a cura di), Spazi del Welfare, Quodlibet Studio, Macerata. Cristina Bianchetti (2011). “Contrassegni e ricorrenze. Il riarticolarsi di problemi morali nel progetto urbanistico e in quello di paesaggio”, in Ferrario V. e Sanpieri A. (a cura di), Landscapes of Urbanim, Officina Edizioni, Macerata. Bifulco L., De Leonardis (2005), “Sulle tracce dell’azione pubblica”, in Bifulco L. (a cura di), Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Carocci Editore, Roma. Boeri S., Lanzani A. , Marini E. (1993), Il territorio che cambia: Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Segesta, Milano. Clementi A. (a cura di, 1995), Infrastrutture e piani urbanistici, contributi di Secchi B., Palermo P.C., Bellicini L., Dematteis G., Bianchetti C., Calducci A. et alt., Fratelli Palombi Editori, Roma. Calafati A. G. (2009), Economie in cerca di città. Laquestione urbana in Italia, Donzelli Editore, Pomezia (Roma). Dematteis G. (2002), Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Franco Angeli, Milano. Donadieu P. (2005), Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli Editore, Isola del Liri (Fr). European Commission (2006), "European Union thematic strategy for the urban environment", European Commission , Bruxelles. Hirschman A. O. (2003), Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna. Lanzani A. (2003), I paesaggi italiani, Meltemi Editore, Roma. Lefebvre H. (1991), The production of space, translated by Donald Nicholson-Smith, Blackwell, Oxford. ONSC Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo (2009). Primo rapporto 2009, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN). Macchi Cassia C., Orsini M., Privileggio N., Secchi M. (2004), XMilano, Hoepli, Milano. Perulli P. (2007), La città. La società europea nello spazio globale, Bruno Mondatori, Milano. Pileri P. (2007), Compensazione ecologica preventiva. Principi strumenti e casi, Carocci Editore, Roma. Pizzorno A. (1974), I ceti medi nel meccanismo del consenso, in F.l.Cavazza e sS.R. Gaubard ( a cura di), Il caso italiano, Garzanti, Milano. Secchi B. (1989), Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino. Trillo C., Harvey M. J. (2009), Perequazione e Qualità Urbana. Transfer of Developement Rights and Urban Form, Alinea Editrice, Firenze. Viganò P. (2010), I territori dell’urbanistica. Il progetto come produttore di conoscenza, Officina Edizioni, Roma. Articoli Calafati A. G. (2000), “Il capital come paesaggio”, in Foedus, n. 1, pp. 26-39 Camagni R. (2009), “Per un concetto di capitale territoriale”, in Borri D. e Ferlaino L. (a cura di) Crescita e sviluppo regionale: Strumenti, sistemi, azioni, Ebook Franco Angeli, Milano, pp 66-90 Lanzani A. 2005), “Ripensando Milano e la Mega city region milanese”, Archivio di studi urbani regionali, Ebook Franco Angeli, Milano, 1-58 Lanzani A. e Zanfi F. (2010), “Dopo la crescita: per una diversa agenda di ricerca”, in Territorio, n. 53, pp. 110116 Secchi B. (1991), “Barcellona e le altre”, Casabella, n. 585, pp. 23-24 Secchi B. (1994), “Il territorio abbandonato 4, Casabella, n. 618, pp. 18-19 Siti web Camagni R. (2011), Facolta di Economia, disponibile su: http://economia.unipr.it/DOCENTI/WOLLEB/docs/files/Camagni%20Capitale%20Territ.doc Alberto Pirani, Marco Fabbri, Giorgio Galimberti, (2011), Sviluppo del paesaggio urbano: il piano del verde, elemento ordinatore degli spazi aperti, disponibile su: http://www.fupress.net/index.php/ceset/article/view/6926/6427
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Ragioni per il contenimento dell’uso del suolo: i costi delle urbanizzazioni a confronto
Ragioni per il contenimento dell’uso del suolo: i costi delle urbanizzazioni a confronto Maurizio Tira Università degli Studi di Brescia Dipartimento di ingegneria Civile, Architettura, Territorio e Ambiente - DICATA Email: tira@ing.unibs.it Tel. 030.3711304 Anna Richiedei Università degli Studi di Brescia Dipartimento di ingegneria Civile, Architettura, Territorio e Ambiente - DICATA Email: anna.richiedei@ing.unibs.it Tel. 030.3711263
Abstract Il paper analizza le implicazioni, economiche ed ambientali, legate al consumo di suolo, o meglio all’utilizzo dei suoli prevalentemente agricoli per le urbanizzazioni. La riflessione su questo tema è all’ordine del giorno della comunità scientifica, con lo scopo di rispondere alle domande: • il continuo utilizzo di suoli, spinto dalle esigenze di bilancio dei comuni, genera risorse - tramite gli oneri di urbanizzazione - tali da giustificare parzialmente la scelta? • il bilancio complessivo, se si considerano gli impatti ambientali, non è invece negativo, tale da indurre una inversione di tendenza? • come si possono compensare le urbanizzazioni in corso di realizzazione in modo da limitare gli impatti? Il lavoro tende a dimostrare la tesi senza preconcetti e con tutte le approssimazioni introdotte dalla stima economica di beni ambientali, annosa e controversa questione. L’impatto ambientale ed il costo economico di un “abitante teorico insediato” sono valutati tramite l’Impronta Ecologica (per le componenti relative ai consumi non alimentari e non riconducibili alle abitudini dei singoli individui) e l’analisi del piano urbanistico e del bilancio comunale,. Il caso di studio è tratto da un territorio omogeneo dal punto di vista morfologico, economico e sociale quale è la Franciacorta, area ad ovest della città di Brescia, rinomata per la produzione vitivinicola di qualità. Sulla base del lavoro presentato si potrebbe puntare a raggiungere una maggiore affidabilità del dato, aumentando la quantità di casi studio per l’analisi dei costi e analogamente le componenti impattate per la mitigazione ambientale.
1. Introduzione Il contenimento dell’uso del suolo, argomento all’attenzione sia del mondo scientifico (si vedano tra gli altri: Secchi, 1996; EEA, 2006, Tira e Badiani, 2009; Pileri, 2011) che di quello politico e giornalistico, è un tema urbanistico ed un problema ambientale per il quale non si è ancora trovata una soluzione convincente ed efficace (Fregolent e Savino, 2011). La letteratura recente afferma che i problemi relativi agli insediamenti urbani possono essere analizzati da cinque punti di vista (Jaglin e May, 2010): “la questione del paesaggio e del mantenimento delle attività agricole, la questione ambientale […], le vie di comunicazione e il loro sviluppo, la questione sociale […] e l’economia territoriale (i costi di urbanizzazione, le risorse per gli spazi pubblici, ecc..).” Sarà quest’ultimo punto vista che M. Tira e A. Richiedei
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Ragioni per il contenimento dell’uso del suolo: i costi delle urbanizzazioni a confronto
verrà considerato nel seguente contributo, sottolineando il legame tra gli oneri derivanti dalle nuove aree urbanizzate e le uscite causate dalla realizzazione delle infrastrutture tecnologiche urbane, avendo come sfondo i noti problemi dei bilanci comunali. Gli oneri furono istituiti con la Legge n. 847 del 1964 1 e la loro importanza è stata ulteriormente sottolineata dalla Regione Lombardia con l’introduzione tra gli strumenti urbanistici comunali del piano dei Servizi, “al fine di assicurare una razionale distribuzione di attrezzature urbane nelle diverse parti del territorio comunale” (L.R.L. 1/2001 2). Introdotti per la realizzazione delle infrastrutture per le urbanizzazioni, gli oneri sono diventati elemento spesso determinante anche per sostenere la spesa corrente dei comuni (Ceruti, 2003). Nel contributo si è proceduto ad analizzare un caso studio per poi trarne alcune conclusioni generali. Trattandosi di tematiche complesse per la necessità di reperire dati difficili da disaggregare, si è analizzato solo il caso di studio del comune di Rovato (BS), un centro di poco più di 18.000 abitanti (ISTAT, 2011) in Franciacorta, una regione famosa per le sue attività vitivinicole e le sue peculiarità naturalistiche. In questo comune sono infatti disponibili i progetti di potenziamento delle reti in funzione delle trasformazioni urbanistiche del piano. Inoltre il comune partecipa ad un progetto di sostenibilità ambientale, “Franciacorta sostenibile” 3, attivo dal 2007, che permette di mettere a sistema molti dati relativi ai comuni partecipanti e facilita lo scambio di informazioni oltre che a scopo divulgativo anche a scopo scientifico. Si è potuto così dimostrare come gli oneri richiesti per le nuove urbanizzazioni residenziali tra il 2006 e il 2011 non bastino a coprire i costi di realizzazione e le spese di gestione delle opere di urbanizzazione primaria, non consentano investimenti sulle opere di urbanizzazione secondaria e non contemplino la compensazione ambientale dei nuovi impatti causati dai nuovi insediamenti. Tali impatti, sia ambientali che economici, influiscono sull’impronta ecologica e sul bilancio dell’intera comunità, che - per aver permesso di costruire, determinando così dei vantaggi ad alcuni - non ottiene però il dovuto ristoro e - anzi - si carica di potenziali costi per il futuro.
2. Impatti e costi delle nuove urbanizzazioni residenziali: il comune di Rovato La maggior parte degli studi che analizzano i costi delle infrastrutture si basano su costi normalizzati e raramente su costi reali (Jaglin e May, 2010). Verrà invece di seguito esposta, utilizzando i costi di realizzazione stimati dalle aziende realizzatrici e i costi di gestione tratti dai bilanci comunali, la dinamica tra le entrate e le uscite determinate dalle nuove trasformazioni, in particolare di tipo residenziale. Un studio di Ecoffey e Pflier (2010) relativo alla stima dei costi della rete aquedottistica, propone quattro moduli per la disaggregazione dei costi dell’infrastruttura: i costi di realizzazione, i costi di funzionamento, i costi di manutenzione ed i costi fissi amministrativi. Nel caso proposto saranno valutati separatamente due di questi moduli, ovvero la stima dei costi di realizzazione delle reti dell’acquedotto, del gas, della fognatura e dell’illuminazione pubblica, per poi passare ai costi di gestione, che invece contempleranno ancora l’illuminazione pubblica, ma anche gli spazi verdi, le manutenzioni e la pulizia di strade e parcheggi. Non saranno analizzati i costi di funzionamento e quelli amministrativi perché gestiti direttamente dalle aziende eroganti, per i servizi a tariffa, e – per il comune – assorbiti nelle più generali spese di funzionamento. Dato che tutti i costi si riferiscono all’anno 2010, ci si pone a favore di sicurezza rispetto alle opere realizzate negli anni precedenti. Note le dimensioni delle reti dei nuovi insediamenti sarà possibile stimare il costo effettivo per la realizzazione e la gestione dei servizi per confrontarlo con gli oneri richiesti per ogni piano attuativo residenziale avviato tra il 2006 e il 2011.
2.1. I costi dell’infrastrutturazione urbana I costi unitari per la realizzazione dei vari sottoservizi sono stati forniti dagli enti preposti alla loro gestione 4. Sono stati considerati i costi al metro lineare per tipo di materiale e tutte le attività collaterali, quali lo scavo, la manodopera ed il rifacimento stradale. In alcuni casi sono stati necessari interventi aggiuntivi, quali estendimenti e potenziamenti delle linee, determinati dal nuovo insediamento e costruzione di pozzi perdenti, che hanno inciso sul costo totale dell’infrastrutturazione per una percentuale che va dal 7 al 30%. Per la rete di illuminazione si è stimato un costo di 1.000 € per punto luce (valore medio proposto da varie aziende che offrono questo tipo di servizio), ipotizzando che lungo la strada di accesso all’area residenziale ve ne sia una coppia ogni 25 m. La 1
Legge n°847 del 29/09/847 (G.U. n° 248 del 8/10/1964) Legge Regione Lombardia n°1 del 15/01/2001 “disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso di immobili e norme per la dotazione di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico” (B.U.R.L. 19/01/2001, n°3, 1° suppl. ord.). 3 L’iniziativa è gestita dalla Fondazione Cogeme Onlus www.fraciacortasostenibile.org. 4 Nel comune di Rovato la rete dell’acquedotto e della fognatura l’ente gestore è gestita da AOB2, mentre la rete del gas da Linea Distribuzione, entrambe parte della municipalizzata Cogeme S.p.A. (oggi Linea Group Holding). 2
M. Tira e A. Richiedei
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sintesi dei costi di realizzazione dei servizi di fognatura, acqua, gas e illuminazione è riportata nella tabella seguente (Tab. I), accanto alle dimensioni dei 26 insediamenti previsti e per la maggior parte già realizzati. Come si può notare il costo di realizzazione più elevato è quello della fognatura, poiché per quasi tutte le aree di trasformazione rappresenta una doppia rete, sotto forma di fognatura bianca e nera. Il costo delle infrastrutture varia tra i 9 e i quasi 40 €/m2 tuttavia, escludendo i nuovi insediamenti di dimensioni inferiori a 10.000 m2 di estensione territoriale - ove i costi sono molto variabili proprio in funzione delle dimensioni ridotte -, si può constatare un valore medio di 18-20 €/m2.
N° di Ambit o
Tabella I. Sintesi dei costi di realizzazione delle reti di fognatura, acqua, gas e illuminazione per ciascuna delle aree di trasformazione residenziali previste tra il 2006 e il 2011. Costo per la realizzazione Costo totale Estensione Interventi Illuminazio delle reti [€] infrastrutture territoriale aggiuntivi ne [€] [m2] [€] Acqua Fogna Gas [€] [€/m2] 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26
23˙588 5˙289 62˙515 21˙536 12˙744 13˙990 5˙880 2˙701 9˙902 6˙461 6˙669 10˙102 8˙317 13˙185 36˙712 7˙400 9˙809 41˙392 6˙860 14˙521 7˙080 26˙560 23˙970 8˙750 15˙040 10˙700
84˙000 22˙500 117˙150 69˙000 22˙950 26˙250 25˙500 12˙000 28˙500 44˙580 26˙850 41˙700 15˙000 27˙000 54˙000 17˙250 37˙500 58˙350 9˙600 33˙000 9˙300 63˙150 23˙700 35˙250 24˙300 31˙500
400˙400 107˙250 601˙300 328˙900 109˙395 150˙225 121˙550 57˙200 66˙800 97˙670 127˙985 87˙570 71˙500 128˙700 257˙400 71˙425 178˙750 278˙135 57˙200 157˙300 44˙330 301˙015 112˙970 168˙025 80˙500 201˙000
33˙775 22˙500 117˙150 31˙665 22˙950 19˙050 14˙229 12˙000 20˙400 49˙500 26˙850 12˙103 15˙000 27˙000 34˙776 17˙250 37˙500 75˙300 12˙000 27˙451 9˙300 74˙450 23˙700 47˙000 24˙300 64˙500
46˙981 70˙000 35˙000 30˙000 15˙000
72˙408 10˙000 74˙599 29˙317 35˙575 15˙000 69˙599 10˙000 20˙000
45˙000 12˙000 40˙000 37˙000 12˙000 14˙000 14˙000 6˙000 10˙000 26˙000 14˙000 22˙000 8˙000 14˙000 24˙000 9˙000 20˙000 27˙200 6˙000 18˙000 5˙000 29˙000 12˙800 19˙000 13˙000 17˙000
610˙156 164˙250 945˙600 501˙565 167˙295 239˙525 175˙279 102˙200 125˙700 217˙750 195˙685 163˙373 109˙500 196˙700 442˙584 124˙925 273˙750 513˙584 84˙800 265˙068 67˙930 503˙190 188˙170 338˙874 152˙100 334˙000
25,9 31,1 15,1 23,3 13,1 17,1 29,8 37,8 12,7 33,7 29,3 16,2 13,2 14,9 12,1 16,9 27,9 12,4 12,4 18,3 9,6 18,9 7,9 38,7 10,1 31,2
Se la manutenzione dei sottoservizi è garantita dal gestore tramite parte dei fondi ricavati dalla bolletta, non è lo stesso per le spese di gestione di illuminazione pubblica, aree verdi, strade e parcheggi che invece vanno a gravare sul bilancio delle amministrazioni comunali. Inoltre anche i servizi a tariffa andrebbero attentamente valutati. Un aumento dei costi di gestione si ripercuote infatti sulle tariffe pagate anche dai cittadini che non hanno goduto del capital gain legato alle trasformazioni urbanistiche, ma questo argomento non sarà trattato nel seguito.
2.2. La gestione degli spazi pubblici “I servizi sono l’insieme delle aree, delle opere, e delle prestazioni necessarie alla vita di una comunità, cioè le dotazioni pubbliche o d’interesse pubblico che servono a migliorare la città” (Pogliani, 2003). Non avendo tuttavia un panorama così ampio per poter valutare i costi di gestione della ricca ed articolata offerta di possibili servizi di una comunità, si restringerà il dominio d’indagine alla rete d’illuminazione pubblica, alle aree verdi, alle strade e ai parcheggi, quali opere pubbliche indispensabili e capillari, comuni a qualsiasi area di M. Tira e A. Richiedei
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Ragioni per il contenimento dell’uso del suolo: i costi delle urbanizzazioni a confronto
trasformazione. La stima per le spese di gestione delle opere appena citate è fatta tramite varie fonti. La prima è il Piano dei Servizi del comune di Cellatica (BS), prossimo a Rovato e per il quale è stato possibile reperire i dati (costi di gestione di aree verdi, parcheggi e strade), mentre una stima effettuata proprio nel comune di Rovato (Badiani e Richiedei, 2011) permette di definire le spese per la gestione annuale dell’illuminazione pubblica (manutenzione e consumo) per ogni punto luce. La sintesi dei costi unitari di gestione è riportata nella Tabella II. Tabella II. Stima dei costi unitari annuali per la gestione di alcuni servizi Tipologia di servizio Aree verdi Strade Parcheggi Illuminazione
Costo annuale 0,75 €/m2 15 €/m2 3 €/m2 120 €/ punto luce
Gli abitanti teorici insediabili in ciascuna delle aree di trasformazione residenziale sono definiti in base ai parametri contenuti nel Piano dei Servizi del comune di Rovato (art.9 comma 5): standard minimo per le aree residenziali di 26,5 m2 ogni 33 m2 di slp (superficie lorda di pavimento), distinto in 17,5 m2 per le aree verdi e 9 m2 per i parcheggi. Alle aree a standard e alle strade sono state sottratte le aree monetizzate (rispettivamente 25% dai parcheggi, 50% dalle aree verdi e 25% dalle strade). La superficie destinata alle strade è stata valutata pari al 10% della superficie totale dell’area di trasformazione, mentre il numero di punti luce per l’illuminazione pubblica è stato stimato come detto nel paragrafo precedente. I costi di gestione annuali così calcolati sono mostrati nella Tabella III. Il costo di gestione annuale (calcolato per il primo anno) per le nuove aree residenziali è di poco meno di 634˙000 €, con una forte incidenza della manutenzione stradale che contempla l’asfaltatura, il rifacimento della segnaletica orizzontale e la pulizia periodica. I costi della gestione del verde e dei parcheggi invece si equivalgono. Quindi, in media, verranno spesi 1,54 €/m2 all’anno per la gestione delle nuove aree residenziali. Tabella III. Stima dei costi di gestione annuali per le nuove aree residenziali del comune di Rovato. N° di Aree verdi Parcheggi Strade Illuminazione Costi di gestione annuali Ambito [€/anno] [€/anno] [€/anno] [€/anno] [€] 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 M. Tira e A. Richiedei
2˙110 473 5˙592 1˙932 1˙140 1˙251 526 241 886 563 597 904 744 1˙180 4˙867 662 877 3˙703 614 1˙925 633 2˙146 1˙937
4˙398 986 11˙658 4˙027 2˙376 2˙609 1˙097 503 1˙846 1˙175 1˙244 1˙884 1˙551 2˙459 10˙012 1˙380 1˙828 7˙719 1˙279 3˙960 1˙320 4˙494 4˙056
25˙208 5˙654 66˙814 23˙072 13˙619 14˙951 6˙285 2˙885 10˙582 6˙755 7˙127 10˙799 8˙891 14˙093 55˙068 7˙909 10˙480 44˙238 7˙331 21˙782 7˙564 26˙093 23˙550
5˙400 1˙440 8˙160 4˙440 1˙440 1˙680 1˙680 720 1˙200 3˙120 1˙680 2˙640 960 1˙680 3˙600 1˙080 2˙400 3˙720 720 2˙160 600 3˙480 1˙080
37˙116 8˙553 92˙224 33˙470 18˙574 20˙491 9˙588 4˙350 14˙514 11˙613 10˙647 16˙227 12˙146 19˙411 73˙547 11˙031 15˙585 59˙379 9˙944 29˙827 10˙116 36˙213 30˙624 4
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24 25 26
707 1˙216 865
1˙480 2˙546 1˙810
8˙595 14˙779 10˙511
2˙280 1˙560 2˙040
13˙062 20˙100 15˙226
2.3. Il bilancio tra entrate ed uscite determinate dalle nuove trasformazioni e confronto con il recupero Noti i costi di realizzazione e gestione delle opere di prima urbanizzazione viene spontaneo il confronto con le entrate che il comune riscuote per le medesime aree. A favore di sicurezza è stato considerato il contributo di costruzione e il valore delle monetizzazioni del 2011, anche per quelle aree la cui convenzione è stata stipulata in precedenza. Il comune di Rovato prevede: • l’onere di urbanizzazione primaria pari a 6,38 €/m3 • l’onere di urbanizzazione secondaria pari a 8,31 €/m3 a fronte di un indice di fabbricazione di 1 m3/m2. • il valore di monetizzazione pari a 90 €/m2 nel capoluogo comunale e 75 €/m2 nelle frazioni. Il contributo commisurato al costo di costruzione, ipotizzando di avere delle tipologie edilizie simili che ricadano nella classe intermedia (classi tipologiche ex. Art.8 D.M. 10 maggio 1977), è pari al 10% del valore del costo di costruzione stesso, ovvero 378,81 € per m2 di slp.
N° di Ambito
Tabella IV. Entrate derivanti dalle nuove urbanizzazioni residenziali previste nel comune di Rovato tra il 2006 e il 2011. Contributo Estensione Onere di urbanizzazione [€] commisurato al Contributo di Monetizzazioni territoriale Costo di costruzione [€] [€] 2 [m ] Primario Secondario costruzione [€] 1 23˙588 150˙491 196˙016 203˙475 297˙846 847˙828 2 5˙289 33˙744 43˙952 54˙720 66˙784 199˙200 3 62˙515 398˙846 519˙500 647˙010 789˙377 2˙354˙732 4 21˙536 137˙400 178˙964 221˙580 271˙935 809˙879 5 12˙744 81˙307 105˙903 131˙940 160˙918 480˙068 6 13˙990 89˙256 116˙257 144˙810 176˙652 526˙975 7 5˙880 37˙514 48˙863 60˙840 74˙247 221˙464 8 2˙701 17˙232 22˙445 27˙990 34˙106 101˙773 9 9˙902 63˙175 82˙286 85˙425 125˙033 355˙918 10 6˙461 41˙221 53˙691 70˙470 81˙583 246˙965 11 6˙669 42˙548 55˙419 57˙525 84˙209 239˙702 12 10˙102 64˙451 83˙948 87˙075 127˙558 363˙031 13 8˙317 53˙062 69˙114 71˙700 105˙019 298˙895 14 13˙185 84˙120 109˙567 113˙700 166˙487 473˙875 15 36˙712 234˙223 305˙077 non previste 463˙562 1˙002˙862 16 7˙400 47˙212 61˙494 63˙825 93˙440 265˙971 17 9˙809 62˙581 81˙513 101˙610 123˙858 369˙562 18 41˙392 264˙081 343˙968 428˙400 522˙657 1˙559˙105 19 6˙860 43˙767 57˙007 59˙175 86˙621 246˙570 20 non previste 14˙521 92˙644 120˙670 183˙357 396˙670 21 7˙080 45˙170 58˙835 61˙125 89˙399 254˙529 22 26˙560 169˙453 220˙714 329˙940 335˙373 1˙055˙480 23 23˙970 152˙929 199˙191 297˙720 302˙669 952˙508 24 8˙750 55˙825 72˙713 108˙720 110˙486 347˙744 25 15˙040 95˙955 124˙982 186˙750 189˙910 597˙598 26 10˙700 68˙266 88˙917 110˙775 135˙109 403˙067 Il contributo di costruzione per le aree residenziali del comune di Rovato può essere sintetizzato tramite un valore normalizzato rispetto al totale delle aree di trasformazione pari a 36,4 €/m2. M. Tira e A. Richiedei
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Ragioni per il contenimento dell’uso del suolo: i costi delle urbanizzazioni a confronto
Tabella V. Confronto tra le entrate e le uscite determinate dalle nuove aree residenziali per il comune di Rovato. % del contributo di Differenza tra onere Differenza tra contributo N° di costruzione utilizzato per Autonomia di primario e costi di di costruzione e costi di Ambito realizzare le opere gestione [anni] realizzazione [€] realizzazione [€] primarie 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 Media
-459˙665 -130˙506 -546˙754 -364˙165 -85˙988 -150˙269 -137˙765 -84˙968 -62˙525 -176˙529 -153˙137 -98˙922 -56˙438 -112˙580 -208˙361 -77˙713 -211˙169 -249˙503 -41˙033 -172˙424 -22˙760 -333˙737 -35˙241 -283˙049 -56˙145 -265˙734 -176˙041
237˙672 34˙950 1˙409˙132 308˙314 312˙773 287˙450 46˙185 -427 230˙218 29˙215 44˙017 199˙658 189˙395 277˙175 560˙278 141˙046 95˙812 1˙045˙521 161˙770 131˙602 186˙599 552˙290 764˙338 8˙870 445˙498 69˙067 298˙785
72% 82% 40% 62% 35% 45% 79% 100% 35% 88% 82% 45% 37% 42% 44% 47% 74% 33% 34% 67% 27% 48% 20% 97% 25% 83% 56%
6,4 4,1 15,3 9,2 16,8 14,0 4,8 0,0 15,9 2,5 4,1 12,3 15,6 14,3 7,6 12,8 6,1 17,6 16,3 4,4 18,4 15,3 25,0 0,7 22,2 4,5 11,0
Da quanto sopra esposto (Tabella V) emerge che in nessuno dei 26 casi analizzati l’onere di urbanizzazione primario è in grado di coprire le spese di realizzazione delle reti. Se per questi ambiti di trasformazione l’amministrazione dovesse provvedere autonomamente alla realizzazione delle reti andrebbe ad utilizzare in media il 56% dell’intero contributo di costruzione (con un minimo del 20% e un massimo del 100%). Se con le entrate residue si coprissero i costi di gestione, vi si potrebbe far fronte in media per soli 11 anni. Le amministrazioni comunali tendono spesso a far realizzare le opere dai lottizzanti, scomputando la quota di oneri primari corrispondente. Lo scomputo degli oneri è possibile soltanto quando l’opera pubblica non supera i 5.000.000 € (iva esclusa) secondo la Corte di Giustizia europea (12 luglio 2001 C-399/98), quindi per le opere pubbliche legate all’urbanizzazione primaria dei comuni medio piccoli, ciò è sempre possibile (cfr. Tab. I), ma la giurisprudenza sottolinea anche che qualora il costo delle opere di urbanizzazione primaria ecceda l’importo dell’onere di urbanizzazione primario, il privato abbia diritto ad ottenere lo sconto del costo eccedente dalla quota dovuta di onere di urbanizzazione secondaria (Tar Emilia Romagna-Parma, sentenza n.219/2002), salvo non sia specificato diversamente nella convenzione stipulata tra pubblico e privato. Quindi il costo delle opere di prima urbanizzazione va sempre sottratto al totale del contributo di costruzione. In questo modo comunque, non restano fondi dedicati alle manutenzioni ordinarie. Se si volesse stimare la quota richiesta per ogni area per mantenere i propri servizi per 25 anni, in media l’incremento del contributo di costruzione necessario a raggiungere tale quota sarebbe del 63%. Come si può notare dalle tabelle precedenti, utilizzando i contributi ricavati dalle aree più estese si riescono a gestire i relativi spazi pubblici per un periodo di
M. Tira e A. Richiedei
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tempo più lungo, nonostante un’incidenza dei costi di gestione annui più elevata, mentre le più piccole arrivano a stento a 5 anni di autonomia anche con spese di gestione inferiori.
2.4. Confronto tra nuovi insediamenti: costruzione ex-novo o recupero? Secondo quanto detto nel paragrafo precedente la soluzione più vantaggiosa per contenere il consumo di suolo e salvaguardare gli interessi pubblici sembrerebbe quella di innalzare gli oneri di urbanizzazione. Tuttavia aumentare gli oneri, finanche del 60%, in un periodo in cui il mercato immobiliare è forte andrà probabilmente a ripercuotersi sul prezzo di vendita, mentre nel caso in cui il mercato immobiliare sia in stallo (come oggi) potrebbe limitare pesantemente le trasformazioni, anche quelle necessarie a far fronte ad una reale domanda di nuove abitazioni. Per valutare quanto sarebbe vantaggioso favorire il recuperando del patrimonio edilizio esistente si propone un confronto tra una nuova realizzazione e due casi di recupero della medesima tipologia edilizia per una superficie di 200 m2 e 348 m3 nel comune di Rovato. La tipologia edilizia residenziale di riferimento è la casa bifamigliare. Nel caso del recupero, dato che le caratteristiche dell’edificio di base sono determinanti ai fini della valutazione del costo del recupero stesso e variano molto da caso a caso, si è cercato di delineare il più chiaramente possibile le ipotesi della ristrutturazione. La residenza su cui eseguire il recupero potrebbe essere una bifamigliare Marcolini - tipo “U” (Busi, 2000) e su di essa si propongono due diversi tipi di interventi: • Il CASO A non prevede interventi strutturali e quindi si ipotizza che l’edificio non sia in condizioni tali da richiedere stabilizzazioni della struttura portante, demolizioni con conseguenti ricostruzioni, aumenti volumetrici, ecc..; • Il CASO B invece prevede un piccolo incremento volumetrico (di 43 m3 pari a circa 14 m2), classificabile come modifica strutturale al quale viene associata la ristrutturazione in toto dell’edificio. Tale operazione potrebbe essere assimilabile anche ad attività di recupero che richiedano un miglioramento strutturale anche consistente senza incremento volumetrico. Nel caso di un edificio da ristrutturare mediante Piano di Recupero in una zona residenziale esistente (B), quindi non sottoposta a particolari vincoli architettonici, il comune di Rovato prevede una riduzione degli oneri rispetto alle nuove costruzioni (per il quale ci si riferisce agli indici proposti nel par. 2.3). Gli oneri nel caso del recupero sotto queste condizioni sono: • oneri di urbanizzazione primari pari a 2,83 €/m3, • oneri di urbanizzazione secondari pari a 2,77 €/m3. I dati di riferimento per il contributo richiesto dal comune al privato sono riportati nelle tabella seguente (Tabella VI). Tabella VI. Confronto tra entrate ed uscite per il comune di Rovato nel caso di una nuova realizzazione e di due tipi di recupero (CASO A e B) di una casa bifamigliare tipo (la stima si riferisce all’anno 2010). Recupero Recupero Insediamento Nuovo CASO A CASO B Oneri di urbanizzazione primari [€] 985 2˙220 1˙106 Oneri di urbanizzazione secondari [€] 964 2˙892 1˙083 5 Monetizzazioni [€] 3˙758* 3˙758 4˙221 Contributo commisurato al costo di costruzione [€] 4˙394 4˙394 4˙773 TOTALE Contributo di costruzione [€] 13˙265 10˙101 11˙183 6 Costo medio realizzare opere primarie [€] 4000 0 0 Fondi utilizzabili per la gestione degli spazi pubblici [€] 5˙507 10˙101 10˙804 Autonomia di gestione (anni) 7 16 32 35 * Valore stimato del bene acquisito dal comune Dalla tabella è evidente come il caso del recupero sia più vantaggioso per il comune rispetto alla costruzione exnovo, poiché il totale delle entrate percepito dall’amministrazione comunale - dedotte le spese reali per la realizzazione delle opere primarie - è quasi il doppio che nel caso del recupero. Il vantaggio deriva dal fatto che non dovendo realizzare nuove opere di urbanizzazione il contributo di costruzione non viene ridotto da queste 5
Riferiti a 41,8 m2 per la nuova realizzazione ed il recupero CASO A ed a 46,9 m2 nel CASO B. Inoltre le monetizzazioni del caso di nuova realizzazione non sono un vero e proprio esborso monetario, ma una cessione di aree effettiva di pari valore. 6 Il costo delle opere di urbanizzazione è stimato utilizzando il dato medio riportato nel par.2.1 pari a 20 €/m2. 7 Gli anni di autonomia del comune nella gestione e nella manutenzione degli spazi pubblici si riferiscono al valore medio annuo riportato nel par. 2.2 nel caso (raro) che tutti i contributi ottenuti dalle urbanizzazioni si traducano in tali attività. M. Tira e A. Richiedei
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spese, come nel caso della nuova realizzazione, e resta intatto per essere utilizzato completamente per le spese di gestione degli spazi pubblici, garantendo un’autonomia di più di 30 anni. Il tutto malgrado si incentivi il recupero con minori entrate per oneri di urbanizzazione sia primari che secondari. Ci si rende conto tuttavia che i dati di base per la stima degli anni di autonomia e della spese per le opere pubbliche siano estremamente variabili, anche se riferiti al comuni in esame, ed inoltre si considera il caso (raro) che tutti fondi ottenuti dalle urbanizzazioni vengano investiti nella gestione e nella manutenzione degli spazi pubblici. Un’ulteriore considerazione può essere fatta sulle monetizzazioni: nel caso di nuova realizzazione le aree cedute costituiscono un patrimonio del comune - che andrà gestito - e non un'entrata reale in termini monetari, quindi in una caso ci si trova di fronte ad un potenziale miglioramento dal punto della qualità urbana e dall’altro si hanno più vantaggi diretti in termini di gestione di aree pubbliche 8. La prima obiezione possibile a questo tipo di ragionamento potrebbe essere quella che se per il pubblico questo tipo d’intervento è vantaggioso non lo è per il privato. La stima del guadagno del privato su un’operazione immobiliare può essere fatta indirettamente utilizzando il metodo del cost approach per le valutazione del valore di un’immobile (IVSC, TEGoVA 9). La determinazione del valore mercato (VM), viene operata aggiungendo al valore di mercato del terreno (V s ), il costo di realizzazione (K r ), il deprezzamento (D) e il profitto normale del promotore (P n ). Nel nostro caso l’incognita risulterà essere proprio quest’ultimo termine, come mostrato nella relazione seguente:
Pn = VM − (Vs + Kr + D )
dove, per semplicità, chiameremo costo di produzione C p la somma dei termini tra parentesi (V s +K r +D). Il primo dato indispensabile per confrontare il vantaggio economico tra pubblico e privato è il valore di mercato (VM) dell’immobile, nuovo o recuperato, nel comune in studio. Quest’informazione, riferita al 2010, anno di ipotetica costruzione o recupero delle abitazioni, è stata desunta dal “Listino dei valori degli immobili” fornito dalla Camera di commercio di Brescia (agenzia ProBrixia). Nel comune di Rovato per tutte le operazioni immobiliari tale valore medio è pari a 1900 €/m2. Il valore del suolo edificabile (V s ) è valutato analogamente per i tre casi e, nuovamente, ci si riferisce al valore proposto dalla Camera di commercio di Brescia per il comune di Rovato , pari a 220 €/m3edificabile , il quale ha un’incidenza sul valore di mercato dell’immobile del 35%. Per il valore del costo di realizzazione (K r ) bisogna invece conoscere varie componenti: • il valore del costo di costruzione del bene (K c ); • gli oneri legati alle urbanizzazioni (O u ), ovvero, gli oneri primari e secondari, monetizzazioni e contributi commisurati al costo di costruzione (cfr. Tabella VI e par. precedenti). Il valore del costo di costruzione della nuova realizzazione, comprensivo degli oneri professionali, è stimato tramite indici ISTAT 10 ed è pari a 305,61 €/m3. Nel caso di un edificio da recuperare tale valore dipende moltissimo dalle condizioni al contorno e soprattutto dallo stato dell’edificio stesso. I dati per la stima della realizzazione del recupero di una casa bifamigliare per il CASO A sono stati desunti dalle informazioni offerte dal prezzario tipologico “Costi per tipologie edilizia” (Bassi, 2011), supponendo che l’incidenza dei costi di recupero rappresentasse una quota in percentuale delle componenti calcolate per la realizzazione ex-novo 11. Da tale stima sintetica il costo di realizzazione risulta pari a 220,7 €/m3, comprensivo degli oneri professionali. Nel CASO B, invece, nel quale si popone un recupero strutturale, ci si basa sulla quota proposta dal medesimo prezzario per il recupero di un edificio esistente, pari a 331 €/m3 ai quali andranno aggiunti gli oneri professionali pari al 10% del costo di costruzione. Il deprezzamento o interesse passivo viene stimato con un tasso d’interesse medio del 4% su tutte le altre componenti. I dati di confronto sono riportati nella seguente Tabella VII.
8
In questo caso non sono considerate le monetizzazioni per la realizzazione ex-novo, ma in altri ciò potrebbe essere possibile. 9 International Valuation Standards Committee e The European Group of Valuers' Associations. 10 Costo di costruzione di un edificio residenziale di tipo medio proposto da Il sole 24 Ore in Indici Mensili, giugno 2011. 11 In particolare nota il costo di realizzazione del nuovo pari a 305,61 €/m3 (ISTAT, 2010) si sono considerate le seguenti proporzioni per la stima del costo di realizzazione del recupero rispetto ai dati forniti dal prezzario tipologico: scavi e interri 20%; calcestruzzi, ferri e giunti 20%; drenaggi, sottofondi e massetti 100%; solai 30%; tetti e coperture 50%; murature e tavolati 100%; intonaci 100%; assistenze murarie 100%; pavimenti e rivestimenti 100%; impermeabilizzazioni e isolanti 70%; pluviali e gronde 100%; opere in ferro 50%;facciate continue, serramenti e vetri 100%; verniciature e tinteggiature 100%; pietre e marmi 100%; impianti RCV 100%; impianti idrico-sanitari 100%; impianti elettrici e speciali 100%; fognature (compresi allacciamenti) 70%; sistemazioni esterne 100%; opere per la sicurezza 100%. M. Tira e A. Richiedei
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Ragioni per il contenimento dell’uso del suolo: i costi delle urbanizzazioni a confronto
Tabella VII. Stima indiretta del profitto normale del promotore per la realizzazione o il recupero (CASO A e B) di una casa bifamigliare nel comune di Rovato (la stima si riferisce all’anno 2010). Recupero Recupero Insediamento Nuovo CASO A CASO B Valore di mercato del suolo - V s [€] 76˙560 76˙560 85˙990 Valore del costo di costruzione - K c [€] 106˙352 76˙799 127˙375 Contributo di costruzione da versare al comune - O u [€] 11˙358 10˙101 10˙804 Interesse passivo - D [€] 7˙771 6˙538 9˙579 Valore del costo di produzione - C p = V s + K c +O u +D [€] 202˙041 169˙999 236˙128 Valore dell'immobile o prezzo di vendita - VM [€] 220˙400 220˙400 239˙400 Profitto del promotore - P n [€] 18˙359 50˙401 3˙271 Il profitto del promotore nel caso del nuovo rappresenta l’7% del prezzo dell’immobile, mentre nel caso del recupero raggiunge il 23% nel CASO A. Dato che nel CASO B il profitto del promotore non è accettabile (1%), l’intervento non è attuabile in queste condizioni. L’incidenza degli oneri richiesti dal comune si aggira tra il 5-6% della stima del valore di mercato (che si riduce al 2% a seguito della spesa per le opere di urbanizzazione primarie nel caso della nuova realizzazione). Se ne deduce che il privato dovrà pagare più oneri nel caso della nuova realizzazione e che il pubblico abbia anch’esso più vantaggi nel caso del recupero, poiché – come detto precedentemente – non si dovrà accollare o scomputare le spese della realizzazione delle opere di urbanizzazione primarie. Il privato, d’altro canto, riesce a guadagnare maggiormente in un investimento legato al recupero in area di esistente che non abbia problemi strutturali, rispetto ad una realizzazione ex-novo.
3. Considerazioni conclusive Il caso di studio di Rovato ha permesso di dimostrare con un campione di 26 aree residenziali, realizzate o in corso di realizzazione negli ultimi 5 anni, che il contributo di costruzione richiesto per le nuove aree di trasformazione non è commisurato ai costi di realizzazione e gestione delle opere pubbliche. Inoltre, secondo l’ipotesi che gli oneri derivanti dalle urbanizzazioni debbano servire per gestire le infrastrutture nel tempo, ci si è resi conto che ciò è possibile per periodi molto variabili. Oltre alla miglior gestione di questa problematica, per la quale sarebbe auspicabile probabilmente una revisione normativa, inizialmente si è proceduto con la stima di un incremento del contributo di costruzione. Come visto in precedenza l’incremento del contributo di costruzione per consentire la gestione dei servizi per 25 anni è mediamente pari al 63%. Oltre a tale quota si potrebbe prevedere un ulteriore incremento per contemplare anche l’impatto delle trasformazioni con l’acquisto di crediti per la compensazione ambientale (Tira e Richiedei, 2012). In questo modo si andrebbero a sgravare le casse dei comuni dai costi legati alle manutenzioni per un periodo di tempo più lungo (almeno delle nuove aree di trasformazione). Non si può non concludere tuttavia evidenziando come tale incremento andrebbe anche indirettamente ad incidere sull’attività edilizia: • aumentando presumibilmente il costo delle operazioni immobiliari che probabilmente si ripercuoterebbe poi in gran parte sul prezzo di vendita dell’edificato; • ma anche, forse, limitando il consumo di nuovo suolo, se si governassero i contributi richiesti per il recupero di aree già urbanizzate, dove i costi di realizzazione delle reti e di gestione delle aree sono già ammortizzati e assorbiti nel bilancio corrente. L’incentivazione al recupero quindi può essere una buona alternativa se adeguatamente governata. Nella seconda parte del lavoro si è cercato di dimostrato come recuperare il patrimonio edilizio esistente, sotto certe condizioni, sia vantaggioso, non solo per l’amministrazione comunale, ma anche per il privato. L’amministrazione comunale non dovrebbe realizzare le opere di urbanizzazione primaria o scomputarle perché già esistenti, garantendosi un’entrata consistente e certa, accompagnata dalle monetizzazioni, che potrà essere spesa per la gestione e le manutenzioni degli spazi pubblici (per quanto questo attualmente accada raramente). Il privato, caricato di oneri leggermente inferiori rispetto al caso della realizzazione ex-novo, guadagnerà comunque una cifra consistente nel caso di un recupero “leggero”, mentre invece avrebbe bisogno di un ulteriore incentivo per recuperare edifici in condizioni più precarie o assimilabili ad edifici che necessitino di interventi strutturali. In queste occasioni quindi il comune dovrebbe azzerare gli oneri richiesti per permettere un guadagno al privato, rivalendosi magari sugli interventi di nuova realizzazione. Considerando la situazione nel complesso, associare l’adeguamento degli oneri ad una quota per compensare gli impatti ambientali e favorire il recupero, sfavorendo così le nove urbanizzazioni a vantaggio sia delle
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ristrutturazioni leggere che spinte, renderebbe gli interventi più compatibili dal punto di vista ambientale oltre che economico, sia per il pubblico che per il privato.
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A Comparative Analysis of Urban Containment Policies Regarding Their Impacts on Urban Housing Market
A Comparative Analysis of Urban Containment Policies Regarding Their Impacts on Urban Housing Market Ali Ustun Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: ustun.ali@hotmail.com Tel. 329.462 0175
Abstract The dispersion of urban settlements continue to force local & regional governments to take measures to tackle the dispersion usually taking place on the expense of agricultural land and natural resources. The complexity of containing the development is especially high as it’s phenomena strongly associated to housing needs among many other, which makes urban containment subject to intense criticism due to creating higher residential demand on urban fringe resulting in uplifting effect on housing prices. Having acknowledged that lack of any attention to dynamics in development of containment policy might create such lateral effect undermining the overall efficiency of the policy, the paper compares two cases which are widely recognized as successful in their spatial outcomes and in their effect on the urban residential market. Outcomes signal a lack of consideration of complexity of housing as a commodity in most of the criticism directed to containment policies as the main reason of the rise in residential prices. The expansion of the urban land contrary to the diminishing agricultural land has been a significant challenge in the contemporary urban development policy agenda since its earliest days when automobile-dependant sprawl in the United States threatened the sustainable growth and attracted urban planner’s and policy-maker’s attention. (Milward 2006; Hammer et. al 2004; Gennaio et al. 2009; Marjo et al, 2006) Since the late ‘80’ies which marked the starting point of this phenomena, the U.S. government has tried to tackle the problem both on the centralstate level and on the local level with different legislative tools. (Carruthers 2002). Soon after the same questions emerged also in the largely urbanised nodes of Central Europe and the British Island. The focal point of the problem in the European context is the scarcity of the green land and the correlated resources. (Marjo et al, 2006). Furthermore, urban sprawl is held responsible for habitat endangerment (Price et al., 2006), social segregation (power, 2001), a significant rise in infrastructure maintenance cost (Burchell et al., 2002) Today, the development of strategies to address the environmental problems posed by the urban sprawl is a significant challenge in the face of the growing criticism on urban sprawl. It’s widely accepted that the transformation of the non-urban land into urban land calls for policy-intervention, yet the containment policies have also been subject to fierce opposition as they are claimed to impose side effects on the urban housing market as the introduced policies tend to tackle the growth problems by intervening solely on the land production which in turn creates several problems in ensuring he access to affordable housing and moreover it shall even jeopardize the efficiency of the containment itself as it create speculative consequences which forces the price upwards in the urban residential market, leading to a higher residential demand in periphery and suburban areas and therefore controversially forces sprawl. This paper acknowledges that lack of economic concerns and of attention to property market dynamics in development of urban containment policies result in inefficiency. Therefore it aims to analyse various urban containment policies in different context on the basis of their effect on the urban growth and of the urban property market mainly in two contexts: Portland, USA and Netherland, both of which are highly recognized by the success in minimizing the urban growth. Analysis will give specific attention on followed policies, their effects on the urban growth and their effect on the housing market. The paper will proceed by the analysis of
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both cases and then will conclude by critics and highlights regarding some short-comings of various attempts in analysing the economic effects of urban containment policies.
The Portland Case “a rigorous achievement in urban containment” The urban containment history of the Portland city is marked in the 1979, when the Oregon region has mandated the creation of urban growth boundaries all over the state. Portland Metropolitan took an additional step and created the regional government “Metro” which became in charge of ensuring the urban containment and planning activity. The rigorous urban containment policy in the metropolitan area has also been consolidated with complying downtown revitalization projects which helped to increase the number of jobs created in the downtown area; vacant land in the urban area has been reutilized by new activities which helped significantly to slow down the transformation of the high quality farm land into urban land. Another point to note, the growth policy followed by Metro hasn’t foreseen static borders between the urban areas and the rural ones yet boundary is intended to limit the development within the urban area. Metro is also in charge of defining the long - term planning goals such as population - density targets and promoting transportation systems encouraging the public transport. By law the Metro is held responsible to ensure the land availability within the growth boundaries (Philips & Goodstein, 2000). Between the 1979 -1995, Portland has caused a sharp population growth as an expected effect of containment policies and downtown improvements. Despite, the total area of the boundary has expanded by only 5 square miles which can be viewed as a success when thought that Denver (having the more or less the same initial and final population in the same time period) has expanded by 180 square miles. (Philips & Goodstein, 2000). As also ascribed by Gibson & Abbott (2002), the strict policies have been quite successful in the conservation of the agricultural land on the Columbia River basin while enabling the Portland city to grow as a regional transport, finance and service centre, to which lately also added the substantial interest of electronics industry. Further to strict spatial regulations to contain the development, the housing need of the Portland citizens has been soundly addressed since the establishment of Metro. It’s worthwhile to mention that Portland already had an established agenda for affordable housing thanks shipyard industry which attracted low-income labour-force during the second world war. As stated by Gibson & Abbott, 2002, the public housing administration in Portland (Housing Authority of Portland) is considered as the one of the best public housing authorities in the States holding a reputation to innovate ways in financing the affordable housing via the redevelopment of existing buildings. The Bureau of Housing Community Development has been established to channelize the federal government fund into production and rehabilitation of housing as well as neighbourhood streets, parks and other infrastructure, and it proved to be effective in providing housing and shelter for the low-income groups as well as the socially disadvantaged. (Gibson & Abbott, 2002). This has contributed to revitalization of many inner city neighbourhoods suffering from poverty, bad environmental conditions. Despite the community development efforts have made a great effort since the introduction of urban growth boundaries in the mid ‘90’ies the booming economy, prospering city centre with environmental enhancements together with the increasing population have propelled an important demand on the vacant land especially for the poorer areas. As a result, during the 90’ies the housing stock at Portland has experienced significant uplift. As Gibson & Abbott, (2002, 433) reports: “…From 1990 to 1999 the average home price in Portland region rose %97 from USD 96.000 to USD 188.600.” Even though the income per capita has also shown a significant positive trend during the same period (Phillips & Goldstein, 2000). Consequently housing affordability has become a major problem in Portland region starting from the late ’90’ies. Since the late 90’ies the Portland region urban growth boundary has been stigmatized for the uplifting effects and held responsible for enlarging gap of the provision of affordable housing especially from the economist domain. However, as figured Phillips & Goodstein (2000), much of the criticism seems to be groundless as the price change of median house in Portland demonstrate a 69% increase from 1991 to 1996 (furthermore showing a reasonable consistence with the figures demonstrated by Gibson & Abbot for the period of 1990-1999), which shows a faster pace than national average. However, Phillips & Goodstein (2000) figures that the median residential prices in Portand followed a similar trend shown by other cities with similar size and population (more than 1 million inhabitants), such as Denver, Phoenix and Salt Lake City although these cities don’t have any urban growth boundary. As the study by Phillips & Goodstein (2000) evidenced, using a regression analysis, a significant part of the price change in the Portland residential market stems from housing consumers’ perception of the good economic conditions and growing income and decreasing unemployment rate and improvements in the environmental conditions in the city centre creating a demand-driven speculative effect on housing prices. Today, housing affordability rests as major problem in Portland. Despite the per capita income in Portland is higher than the national level, the income level has raised just as half the rate of residential prices (Gibson & Abbott 2002). According to Metro, the long term unmet housing need is projected at 90.000 units in 2017 and the five-year production goals of Metro aim to recover only 10% of such gap, despite of the strict policies to Ali Ustun
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protect the existing low-income housing stock and encourage developer to provide low income housing in new developments. The housing prices doubled also in the most disadvantaged parts of the city, the community builders had to compete with private constructors in the process of redevelopment. In order to prevent transformation of low-income housing stock into luxurious housing, in 2000 the Portland passed a regional ordinance which required one- for - one replacement of low income housing units. By this strategy Portland minimized the risk of gentrification and redevelopment of ex industrial areas into luxurious housing areas. The developers have been encouraged to provide low income housing in high-end residential projects by density bonuses.
The “Dutch” Case The policy attitude of the Dutch government has also been regarded as successful in the international realm. (Alterman, 1997) which managed to deal with the problem of the land-scarcity and today as figured by Kolpron et al. (2001), has left 86% of the land in the country as greenfield. The crucial point in the open space protection in the Dutch case became the definition of the open spaces, within which, agricultural and natural landscape are placed. (Koomen et al, 2008). The main trend in the land transformation, as analysed by the Dutch policy maker, is the dimension of the natural land remains almost stable while that of the agricultural land diminishes favouring the increase of urban land. Therefore the policy priority is defined to protect the agricultural land. The Dutch planning perceives farmland as an asset to structure the urban land and defines two types of areas: buffer zones and green hearts. (Koomen et al 2008). While green hearts ensure a certain amount of open space for recreation, accessible by a short distances, buffer zones are subject to higher urbanization pressure. The main rationale of this approach was to avoid urban growth along the road lines, which create urban belts. Initially, green heart spatial policy has been very restrictive enabling virtually no development yet, in 1998 a limited development right for working and living has been granted yet, the buffer zones are subject to a national-level legislation with financial means, practically the vacant lots in the urban fringe is purchased by government in order to prevent further growth and provide recreational uses. The urbanisation pressure is tried be relieved by complying zoning regulations. The policy foresees the incremented the urban density in certain zones and conserve the density in other ones. The infill development and brown field development are promoted by the development policy, however the urbanisation pressure to be created on the surrounding areas (where the development is addressed) is quite not well addressed by the policy. (as also pointed out by Koomen et al. 2008). The effects of this rather “aggressive” open space preservation policies, confirm, achievement in containing the most of the development in urban centres. The Dutch landscape can easily be observed as a cluster of cities and open areas with a clear distinction in between. However, Koomen et al (2008) identifies four peculiarities, which contribute to the success of Dutch urban containment: first, the value of agricultural land in Netherlands is significantly high due to intensive agriculture and strong agricultural sector. Despite limited area of the available land, the Netherlands a major worldwide agricultural exporter. The value of agricultural land is higher (than urban land) in certain types of land; secondly, the higher investment cost of infrastructure provision for urban development due to the physical characteristics of the soil, which is “wetland” containing a large amount of water. The non-urban land is usually not readily suitable for the building requiring high costs for preparation. Land preparation costs can get even higher in certain regions when considered that the major part of the country lies below the sea level. This increases the infrastructure provision costs for the new development and principally for this reason the urban most of the developments in the Netherland are usually composed of large scale developments with high density in order to minimize the unit production cost of land treatment/preparation and infrastructure provision, which becomes the most suitable development form given market conditions and local governments take advantage of this situation by designing the planning procedures in order to ensure the provision of large areas servicing the new development; thirdly, the housing market has been dominated by largely dominated by subsidized housing until the 80’ies. Local government policies often well supported the supply side of housing market. The share of the socially rented housing in the total housing stock has risen from 12% to 44% from 1945 to 1990 (Korthals, 2009, 235); finally the efficiency of the planning system. Even the urban development process is highly regulated by strict policies and procedures the Dutch planning system has efficiently provided the fully – serviced urban land where and when needed (Faludi & Van der Valk, 1994). Even though it seems insignificant minimized time lagging in meeting the urban development demand has left no space for speculative forces.
Conclusions The literature on the urban containment policies and the housing market consistently find that the urban containment policies contribute the upwards tendency in housing prices which is observed on two cases studies Ali Ustun
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examined. The main standing point of such trend is usually associated to the contradictory relation between the inelastic supply caused by urban containment policies and income elastic housing demand (Chessire & Sheppard, 2005). However, there are some theoretical and practical objections to the above-mentioned equation minimizing the price the problem into a demand – supply – income triangle. As Nelson and Dawkins (2002) points out, we mustn’t forget the segmented character of the housing market. The usual problem in limiting the developable land availability, the policies usually make it less cost efficient for developers to use the land for affordable housing which will lead to over abundance of highly priced new housing in the urban fringe. As seen in the case of Portand, such problem is addressed as the planning, which introduces density premiums to developers who reserves a certain portion of the new development for affordable housing. (Although no exact quantitative data could be found). A second problem relates to the complex character of housing as a commodity. In my opinion, any housing policy cannot fail to acknowledge this factor and it’s consequences on the housing demand. As proven by the Portland case, the rising income of the city residents has revived the demand for the high-end housing with improved social and environmental amenities and actually this have undeniably a major factor in the residential price in the long term. This is even further proven by Dawkins & Nelson (2002) on the theoretical basis as they essentially associate the outward shift in housing demand curve (as caused by urban containment policies) to the presence of additional public and social amenities usually at closer distances in the contained communities. At this point it remains highly questionable if the upper force on the housing demand is introduced by urban containment policy or improved quality in the urban environment. It’s worthwhile to mention that even though Portland has been highly criticised of the price rise due the growth boundary and urban containment policies the price trend over the 1991-1996 followed the same trend as other American cities of similar size and population but without urban growth boundary (Phillips & Goodstein, 2000). Therefore it remains highly questionable whether such price change has been caused by the improved environmental conditions and public amenities at the inner city? or the improved transport? or by increasing jobs created in the inner city or to increasing population? The Dutch case, evidences that highly aggressive containment policies for the urban and non-urban land are precisely-adapted to Dutch land market. The success of the policy also owes much to a very competitive agricultural land market with respect to urban land market and relatively higher investment costs of land preparation, which undeniably help to keep the fringe development “under control”. Even under these circumstances of great facility to control the land development, the Dutch government however does strictly control the public provision urban and environmental amenities as well as the provision of the socially rented housing which is undeniable tool to regulate the urban housing market. However, even in the Duch-Case where a benevolent State with a financially strong public sector, (which achieved to increase relevantly the share of socially rented housing in the latest developments) the housing prices gradually continue to rise in relation to the income level and cost of construction. (Korthals, 2009; Koome et al. 2007) To conclude, the paper revised two successful land containment cases with respect to the imposed policy style and their effects on the property market. First one highly stigmatized for it’s unforeseeable effect on the residential prices and the second one as an “absolute” success case under favourable conditions. Yet it’s not surprising to note that in both cases the residential prices are headed upwards which in direct relation to the rising income level. Therefore this study shows us an “isolated” correlation between the residential property market and urban containment policies is destined to be imprecise principally because the housing market is fairly elastic to the income changes. It’ should be considered naturally true that urban containment policies create and upwards effect on the urban residential property market however the magnitude and sources of this effect cannot immediately be defined since the housing is a complex commodity, composed of a high number elements with different characteristics.
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Nuovi paesaggi. Interventi di rinaturalizzazione urbana
Nuovi paesaggi Interventi di rinaturalizzazione urbana Daniela Buonanno Università degli Studi di Napoli “Federico II” Dipartimento di Progettazione Urbana e di Urbanistica Email: danielabuonanno@libero.it
Abstract I dati inerenti l’uso del suolo e la sua capacità produttiva ci impongono di dover ripensare radicalmente a come affrontare il nostro futuro in termini di gestione dello spazio fisico e di progettare per questo spazi “abitabili e coltivabili” allo stesso tempo (Ciorra, 2011). Attraverso ipotesi di città-territorio in cui coltivare e abitare sono azioni vicendevolmente compatibili, lo studio si sofferma ad analizzare esempi di rinaturalizzazione urbana intesa come intervento di riattivazione di aree sterili, provando a dimostrare la necessità di progetti strategici e di pianificazione capaci di cogliere e di valorizzare anche le tante azioni sociali che spontaneamente hanno dato luogo a modelli di sviluppo alternativi: orti urbani, parchi agricoli, fattorie urbane ecc. Il progetto di ricerca, che qui si presenta, ha provato a lavorare su un’idea di città fertile, rivolgendo grande attenzione alle dinamiche di trasformazione, ai processi di dismissione funzionale e di sterilizzazione del suolo, agli scenari in cambiamento generatori di nuove nature e di nuovi paesaggi che caratterizzano le aree oggetto di studio.
Nuovi paesaggi Il più recente Dossier sul Consumo di Suolo (gennaio 2012), elaborato dal FAI- Fondo Ambiente Italiano e il WWF Italia, dall’eloquente titolo “Terra Rubata- Viaggio nell’Italia che scompare”, ci restituisce un quadro del territorio italiano di estrema gravità e alla soglia dell’irreversibilità. A parlare soprattutto i dati numerici: nei prossimi venti anni, 600mila ettari di suolo italiano potrebbero essere sommersi da una colata di cemento. Le regioni prese in considerazione sono undici, e a spiccare sono i casi limite dell’Emilia Romagna, dove il tasso d’incremento dell'urbanizzazione dagli anni '50 supera il 500%; della Puglia, che sfoggia una copertura sei volte più consistente rispetto a quella del dopo guerra; della Sardegna, che è definita "caso esasperato" con un incremento del suolo urbanizzato del 1154% in sessanta anni, e della Campania che ha visto negli ultimi anni più che quadruplicate (+321%) le proprie superfici urbanizzate a fronte di una popolazione cresciuta solo del 21%, a differenza di quanto accadeva invece fino agli anni ’50, quando l’espansione della città assecondava la crescita demografica e al progressivo raddoppio della popolazione corrispondeva quello delle aree urbanizzate. La propensione dei privati a capitalizzare in beni immobili per evitare altre e più rischiose forme d’investimento, insieme con una strutturale debolezza delle funzioni pubbliche di controllo e governo del territorio hanno determinato un divario sempre più netto della forbice tra demografia e sviluppo urbano, il tutto a discapito dei suoli agricoli e delle aree rurali. I processi di urbanizzazione diffusa e a bassa densità abitativa, che sono dunque sotto accusa, contribuiscono alla definizione di altri dati in merito ad una diminuzione del suolo destinato (-8%) e utilizzato (-2,3%) a fini agricoli e nella conseguente flessione della presenza (-32,2% dal 2000) di aziende agricole e zootecniche nel territorio. Ne deriva un terreno meno presidiato e più fragile, per questa ragione il 70% dei Comuni è interessato da frane e il 4,3% della superficie della Penisola è considerato "sensibile a fenomeni di desertificazione”. 1. Indagini statistiche condotte a livello mondiale ci forniscono ogni anno 1
“Il 27% del territorio italiano, secondo alcuni fonti il 30%, è a rischio desertificazione, il 7% è dichiarato sterile e il 4% è già deserto.” (Piscopo, 2010), da Fonti Desertec 2010, Enea 2010.
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allarmanti dati, sempre numerici, delle conseguenze dirette e indirette dei fenomeni di cementificazione incontrollata del suolo, conseguenze relative ai danni all’ambiente e all’ecosistema da cui derivano fenomeni naturali quali l’erosione delle coste, l’innalzamento della linea d’acqua, le variazioni climatiche, l’aumento della temperatura terrestre, le emissioni di Co2 nell’aria, o fenomeni antropici quali lo spopolamento di interi centri storici che diventeranno, nel prossimo futuro, probabili ghost town a “rischio estinzione", in seguito all’emigrazione della popolazione locale, soprattutto giovane, verso centri di nuova costruzione (Lega Ambiente 2008). Nel 2050 circa il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città e nelle aree urbane e la popolazione stimata per quella data è di circa 9 miliardi di persone, che in termini alimentari vorrà dire circa un terzo in più di bocche da sfamare rispetto a oggi (FAO 2009). All’elenco purtroppo lungo di questioni numericamente quantificabili nel loro peso sul nostro futuro e nel loro evolversi rispetto al passato, si affiancano immagini, fotografie, scenari incomprensibili di una realtà che è già, sotto i nostri occhi, presente. Ci sono altre “forze”, come quelle economiche dei finanziamenti europei o statali, che decidono oggi le sorti dei nostri territori: nel garantire lo sviluppo e la riqualificazione di un’area si decreta spesso la morte o la dismissione di altre. Nel governare un territorio, ma molto più nel progettarlo, si deve accettare l’esistenza di variabili continue, di condizioni instabili e transitorie; siamo di fronte ad un cambiamento globale che si manifesta attraverso nuove nature (Piscopo, 2010) generatrici di paesaggi un tempo in movimento (mouvance), oggi in mutazione (mutations), e con i quali sarà necessario confrontarsi per ridefinire bisogni, abitudini, attività, e per ragionare su un’aggiornata idea di contemporaneità (Cibic, 2010). La vera sfida sarà riuscire a leggere ciò che non è stato ancora scritto, interpretare nei segni latenti della nostra società i sintomi di un cambiamento che non tarderà ad arrivare, così da essere pronti, da tecnici, a darvi risposta. Bisognerà mettere in gioco quello che Ginzburg definisce un paradigma indiziario (Ginzburg, 1979), cioè un atteggiamento capace di prevedere, e quindi prevenire, gli effetti che presto o tardi coinvolgeranno anche lo spazio fisico, e che oggi sembrano investire e riguardare solo altre sfere della ricerca, ad esempio quella sociale, economica o quella ambientale.
Interventi di rinaturalizzazione urbana I temi legati alla dispersione del costruito, alla riduzione delle risorse ambientali disponibili, al consumo di suolo, alla sua capacità produttiva e alle forme di cementificazione a suo discapito sono invece dei grandi ambiti di ricerca che animano il dibattito sulle politiche e le pratiche urbane di trasformazione della città. La ricerca ancora in via di sviluppo, che qui si presenta, proverà ad analizzare uno dei possibili metodi d’intervento per rispondere non solo alla mancanza di aree agricole da coltivare, ma soprattutto alla domanda, sempre in aumento, di prodotti alimentari freschi in città. Il fenomeno della rinaturalizzazione urbana, che preso letteralmente, consiste in azioni volte a facilitare la diffusione spontanea delle essenze autoctone di un luogo, è qui utilizzato come pratica puntuale o sistematica di riappropriazione degli spazi aperti urbani aridi o abbandonati, per renderli nuovamente produttivi sia dal punto di vista alimentare che sociale e quindi economico. Il termine natura deriva dal latino, participio futuro del verbo nasci (nascere) e letteralmente significa "ciò che sta per nascere"; la ri-nascita indica una trasformazione radicale di un luogo, di una persona, ed è detto di una pianta nel senso di tornare a germogliare, a fiorire. La rinaturalizzazione è come una seconda possibile vita che viene concessa a dei territori compromessi o a suoli divenuti aridi, e consistente in interventi di riattivazione attraverso uno stadio intermedio rurale, che può essere permanente o transitorio, in attesa cioè di nuove altre possibili configurazioni. Nel suo ultimo libro, Ciorra (2011, p.52) descrive l’intervento di rinaturalizzazione urbana come possibile ed efficace strumento per sottrarre i vuoti urbani ai processi di urbanizzazione tradizionali […] per farne dei paesaggi abitabili e coltivabili, spazio pubblico e produttivo allo stesso tempo, con in mente l’obiettivo del “chilometro 0” e dell’“autosufficienza”. Le prime concrete applicazioni, legate a un interesse sempre crescente da parte della popolazione urbana nei confronti del territorio aperto e in particolare dei contesti agricoli, si rintracciano soprattutto in azioni sociali spontanee, che in tutto il mondo, in assenza di incentivi o di progetti strategici, hanno dato vita a modelli di sviluppo urbano alternativi (orti urbani, parchi agricoli, fattorie urbane etc..), dimostrando l’incapacità di una certa politica di gestione e di pianificazione del territorio di leggere e interpretare le dinamiche, gli scenari in cambiamento e i fenomeni di trasformazione in atto, e per tanto non in grado di dare risposte concrete alle nuove istanze e ai nuovi bisogni di terra all’interno della città. Solo da qualche anno comunque alle iniziative private si stanno aggiungendo quelle pubbliche e in Italia con notevole ritardo rispetto al resto del mondo. Dal punto di vista della pianificazione e della programmazione territoriale il più interessante esempio d’incentivazione e di sviluppo di attività agricole, anche piccole, all’interno delle aree urbane (definita urban agriculture), è fornito dal Piano per lo Spazio Pubblico di New York 2 (2011). Per il 2050, il piano operativo previsto dal Plan, già forte di sorprendenti numeri (più di 1.000 orti comunitari presenti nella città di cui l’80% 2
Si veda anche Buonanno D. Rural urbanism. Da New York a Milano: Architettura Agricoltura Alimentazione, CittàEnergia, Atti del Convegno, Napoli, Gennaio 2012.
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produttori di cibo, 150 orti/giardino per le scuole nelle cui mense si cucinano i prodotti ivi coltivati), mira a incrementare ancora di più l’uso di forme agricole integrate all’interno della città, in modo da attivare strategie dinamiche di comunità, lavoro e produzione. In questo modo si potranno dotare soprattutto i quartieri più poveri di New York di nuovi spazi pubblici, gestirli in maniera comunitaria, e farne fonte di guadagno collettivo in termini di produzione di cibi freschi, altrimenti difficilmente reperibili in quelli che vengono non a caso definiti “deserti alimentari”. E se in America, in città come San Francisco è addirittura possibile vendere gli ortaggi coltivati nei propri giardini direttamente nei mercati o nei ristoranti, in Italia si sta appena iniziando a ripristinare lotti di terreno abbandonati da affidare in comodato d’uso gratuito a cittadini agricoltori: si pensi ai 65 orti romani affidati a privati o ad associazioni con contratti di comodato di sei anni o ai 130 terreni milanesi affittati a 360 euro l’anno per iniziativa dell’associazione ambientalista Italia Nostra. Il tema del rapporto tra agricoltura e architettura è ormai al centro del dibattito nazionale italiano come dimostrano le due principali fiere nazionali di architettura appena trascorse: il Saie e il Made 2011. La fiera bolognese ha indetto un concorso di idee, dal titolo “Ruralcity- per una nuova alleanza tra città e campagna”, con l’obiettivo di riuscire a dimostrare come gli spazi agricoli prossimi alle nostre città possano essere attivi e vivibili, attraverso la progettazione di un’alternativa valida dentro la città compatta, che sappia generare condizioni di abitabilità, di comfort e di costo collettivo migliori di quelle offerte dalla città diffusa. Il Made di Milano invece ha presentato a Ottobre “AAA Agricoltura, Alimentazione, Architettura”, con lo scopo di sottolineare il nesso ormai inscindibile tra questi tre termini, che hanno dato luogo a metafore e figure progettuali sempre più interessanti, che vanno dall’intervento tecnologico di riconversione di facciate o tetti (window farm/ green wall, roof tops), a progetti di prototipi capaci di soddisfare le esigenze alimentari di una piccola o media città (come le ipotesi di vertical farm di Despommier, o il progetto utopico della Pig City dei MVRDV), fino ad arrivare all’ideazione di vere e proprie città produttive o City Farms di cui gli esempi più noti sono il “Continuos productive landscapes” ipotizzato per Londra da Viljoen nel 2005, Agropolis progetto vincitore del concorso Open Scale bandito a Monaco di Baviera nel 2008 e l’orto planetario 3 di Boeri in occasione dell’Expo 2015 a Milano. A legare tutti questi interventi la necessità non solo di garantire una maggiore sicurezza ed efficienza alimentare delle metropoli, ma anche, e soprattutto, di dare risposta alle domande e alle nuove esigenze che la nostra società esprime nei confronti dello spazio agrario, dimostrando la possibilità per l'architettura di occupare un ruolo di primo piano nel "governo del cambiamento". Si tratta di tendenze che nascono da più fattori: da una parte l’esigenza di sicurezza alimentare dei consumatori, che chiedono sempre di più trasparenza e tracciabilità del prodotto, dall’altra l’urgenza di pianificare un futuro sostenibile soprattutto per i 9 miliardi di persone che abiteranno il nostro pianeta nel 2050. La spinta demografica, che in modo più significativo si concentra nei paesi in via di sviluppo, sta imponendo a livello planetario la creazione di nuovi modelli urbani, capaci di assorbire le esigenze dei cittadini, prime fra tutte quelle alimentari, minate dall’espansione incontrollata dei centri abitati a spese del territorio agricolo. A favorire queste pratiche, rispetto al passato, un interesse sempre più elevato della popolazione urbana nei confronti dei contesti agricoli e delle nuove forme di socialità adesso collegate (si pensi alle esperienze anglosassoni degli allotments e delle community garden), che è dovuto dunque a un cambiamento sociologico, giacché il desiderio di spazi aperti e coltivabili in città è diventato un fattore principalmente culturale (Ingersoll, 2005). L’urban agriculture può infatti rispondere a molteplici funzioni e diversi obiettivi: integrazione sociale, gestione partecipata dello spazio, tutela dell’ambiente e delle biodiversità, conservazione del patrimonio culturale, riconoscibilità della appartenenza ad un luogo, offerta di spazi per il tempo libero e altri servizi alle popolazioni urbane; nelle sue diverse forme, può essere interpretata come opportunità per l’incremento di valori sociali, culturali ed ambientali dei territori coinvolti. La difficoltà di conciliare nello stesso spazio tutte queste esigenze fa emergere la necessità di considerare lo spazio agrario tra i materiali del progetto urbano e del territorio. Ed è proprio in termini di società e cultura che il rurale e l’urbano non sono più oggi separabili come un tempo: dal concetto di agri-coltura si è infatti passato a quello di agri-cultura, che si manifesta nella volontà, da parte di un numero sempre maggiore di cittadini, non solo di vivere un’esperienza completa del territorio, legata ai valori di ricreazione, educazione, terapia, ambientalismo, ma anche di cambiare il proprio stile di vita urbano, senza però allontanarsi dalla città come avveniva un tempo. E nella storia dell’urbanistica non sono nuove ipotesi di città-territorio in cui coltivare e abitare sono azioni vicendevolmente compatibili, che possono avvenire sul piano della prossimità e della mescolanza piuttosto che su quello della separazione e della distinzione (Ferrario, 2011), così come dimostrano le ipotesi della “Broadacre City” (193435) di Frank Lloyd Wright, la “Ferme Radieuse” di Le Corbusier (1934) o il “The New Regional Pattern” (194549) di Ludwing Hilberseimer, a cui fanno seguito i più recenti progetti di “urbanizzazione debole” di “Agronica” (1993-94) di Andrea Branzi o di “Rural Urbanism” (2010) di Aldo Cibic. Sulla base dei dati presentati e all’interno del quadro culturale sopra descritto, è stato sviluppato il progetto di ricerca, elaborato all’interno del Dottorato in Progettazione Urbana e di Urbanistica dalla Facoltà di Architettura di Napoli “FedericoII”, e che ha avuto per oggetto lo studio di una futuribile riconnessione tra un’area del porto di Napoli e la città stessa, attraverso la realizzazione di una rete di strutture in grado di produrre alimenti, spazi 3
Il progetto per un “orto botanico planetario” è stato elaborato nel 2009 per l’Expo 2015 di Milano dalla Consulta di architettura composta da Stefano Boeri, Richard Burdett, Jacques Herzog e William McDomough.
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pubblici e cultura. Nel caso specifico, partendo dalla domanda se fosse possibile e auspicabile riconsiderare l’intreccio tra spazio dell’agricoltura e spazio urbanizzato come potenzialmente positivo in questo luogo, grazie alla multifunzionalità ormai unanimemente riconosciuta all’agricoltura (Ferrario, 2011), si è pensato di preservare, ridefinendolo, il carattere produttivo del porto, finalizzandolo però ad una produzione altra, immediatamente di tipo alimentare diretto, ma indirettamente anche sociale e didattica, ipotizzando un uso del suolo più integrato, attrattivo e funzionale per la città stessa. Grande rilievo nel lavoro è stato rivolto alle dinamiche di trasformazione, ai processi di dismissione funzionale e di sterilizzazione del suolo, agli scenari in cambiamento generatori di nuove nature e di nuovi paesaggi che caratterizzano le aree oggetto di studio. Il progetto ha provato a lavorare su un’idea di città fertile ipotizzando tre interventi (enhancing the green, hybrid nature, compressed nature) accomunati dallo stesso obiettivo: connettere parti di città con il porto, integrare resti di una dispersione non relazionata, produrre terra.
Napoli città fertile Dai frammenti dei torrioni, simbolo dell’antica murazione vicereale della città, l’area studio si estende longitudinalmente alla via Marina- che assume da quel punto in avanti il nome di via Amerigo Vespucci- e prosegue fino al punto di innesto dell’ autostrada A3, nuova porta di ingresso della città contemporanea. L’estensione dell’area, di dimensione variabile, è data dallo scarto esistente tra queste strade e il bordo netto e forte del porto, che proprio in questo tratto si chiude completamente alla città mostrando il suo carattere duro e deciso. Vista dall’interno, l’area si mostra come un insieme disomogeneo di materiali urbani diversi che raccontano di passati interrotti (come la Caserma Vanvitelliana o il Ponte della Maddalena), di progetti deboli nel loro riuscire a creare un sistema forte di relazioni (come il parco, ancora non realizzato, della Marinella o il Mercato Ittico di Luigi Cosenza) e di interventi privi di qualsiasi organicità, come i comparti residenziali esistenti lungo via Alessandro Volta (Figura 1). Un tempo la natura di questo luogo era molto più vicina a quello che ancora oggi è possibile leggere lungo i bordi del fascio autostradale, che connette fisicamente la città bassa con la sua parte orientale: un sistema fatto di serre, di orti e di coltivazioni agricole, che erano collocate al di fuori delle mura della città storica, segnando la separazione tra città e campagna così profondamente da renderla addirittura dicotomica e tutt’ora difficilmente scardinabile. Attraverso la rilettura di tutti gli interventi, anche quelli previsti (PUA) ma non ancora realizzati, è stato possibile disegnare una figura sottesa di spazi aperti continui, una sorta di lungo corridoio ecologico-urbano, che si sarebbe potuto configurare come luogo di connessione dell’intera fascia retro portuale, coinvolgendo anche aree interne del porto, con funzione strategica notevole all’interno della città (Figura 1). L’idea di rendere fertile, in tutte le dimensioni socialmente possibili, questo pezzo di città ormai sterile è stata sviluppata prevedendo per ogni sistema (ne sono stati individuati tre) un intervento diverso, una sorta di variazione sul tema, che riassume, in poco spazio, tutte le sollecitazioni che provengono dalla singole realtà adiacenti. 1. Parco agricolo della Marinella. Enhancing the green 4 (Figura.2). Nell’accettazione delle indicazioni previste nel Piano Urbanistico Comunale di Napoli, che prevede, per l’area compresa tra la via della Marinella e la via Amerigo Vespucci, la realizzazione di un nuovo parco cittadino, in memoria dell’antica e preesistente Villa del Popolo, si è lavorato sull’idea di integrare e migliorare il progetto in via di realizzazione (da cui la strategia dell’ enhancing the green), ipotizzando però per esso un uso più integrato, attrattivo e funzionale del suolo, al fine di produrre alimenti, servizi, energia e relazioni sociali. L’ipotesi di questo nuovo parco urbano cerca di unire alle caratteristiche di fruibilità, accessibilità e godibilità estetica tipiche di un parco, una funzione agricola produttiva che, sviluppata in termini compatibili con l’ambiente, rappresenta prerogativa di sostenibilità, di ristoro, di ricreazione alimentare e soprattutto di riequilibrio ecologico sia per la città che per il porto. Questo spazio agricolo è stato dunque ripensato in termini di spazio pubblico di qualità, dove poter convogliare esigenze, forme e funzioni assolutamente diverse tra loro, ma non per questo non compatibili. La struttura fisica del parco è stata pensata come un sistema dinamico, diversamente configurabile a seconda delle funzioni e degli usi previsti. Alla rigidità di una forma perfettamente definita dalla recinzione continua che ne fissa il perimetro, si oppone un’immagine di progetto più flessibile, elastica, tale da consentire di volta in volta una vera integrazione tra ambiente progettato e ambiente naturale. Per questo motivo è stata ipotizzata la realizzazione di una fitta griglia tridimensionale, trave-pilastro, attraverso elementi naturali (tronchi d’albero di piccolo fusto e pilastrini), che a seconda degli usi, sono diversamente assemblabili per creare spazi chiusi, recintati o semplicemente coperti.
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La classificazione delle strategie progettuali prende spunto da un intervento del gruppo MVRDV tenutosi a Milano (ottobre 2011) in occasione del convegno Bring the forest in the city, all’interno dell’evento “AAA Agricoltura, Alimentazione, Architettura”, nell’ambito del Made Expo 2011.
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All’interno del parco agricolo, compatibili con la diversa lettura che di tale sistema si è dato, sono state ipotizzate funzioni di tipo: • agricolo-produttivo • turistico-ricreativo • sociale • ecologico-ambientale • didattico-scientifica 2. Hybrid Nature. Eco-Acupunture La seconda sotto-area presa in considerazione, all’interno del più generale inquadramento di cui si è parlato, delimitata dalla via A. Volta e dallo storico Ponte della Maddalena, si configura come un sistema chiuso, organizzato da recinti contenuti in altrettanti recinti, e caratterizzato da un uso misto di funzioni che convivono confusamente nello stesso spazio (hybrid nature). All’interno dell’area, come tanti dadi lanciati a caso su di un tavolo, si ritrovano edifici commerciali specializzati, piccole autofficine improvvisate, una pompa di benzina, capanni per il rimessaggio di imbarcazioni, edifici residenziali multipiano e tante baracche o capannoni provvisori che occupano confusamente e abusivamente lo spazio. Tra questi elementi frammentari si individuano una serie di vuoti differenti, per dimensione, funzione e posizione (sono stati considerati tali anche le coperture piane e i terrazzi superiori di alcuni edifici). L’idea progetto è stata quella di mettere a sistema tali vuoti, per trasformarli in uno spazio continuo e fluido capace di ricucire gli strappi esistenti nel tessuto edilizio. Per dare concretezza a tale immagine, è stato costruito un abaco di possibili interventi (eco-acupunture). Si tratta di strutture leggere, removibili, che intervallandosi con spazi di coltivazione e di produzione, possono a diversa scala ospitare funzioni per lo svolgimento della vita collettiva. Questi spazi consentono inoltre, attraverso sistemi di risalita puntuali, non solo di riappropriarsi di ulteriori livelli, come appunto terrazzi e piani superiori, che possono ospitare orti e giardini pubblici, ma anche di poter ristabilire con lo storico Ponte della Maddalena una relazione molto più chiara e diretta. Percorrendo il Ponte si ha infatti la possibilità di avere una vista quasi completa dei punti di orientamento principali del nostro territorio, dal Vesuvio, alla collina di San Martino, intercettando con lo sguardo il campanile di piazza del Carmine (il più alto della città di Napoli) e il mercato Ittico di Luigi Cosenza. 3. Compressed Nature La terza ed ultima area si trova invece all’interno del porto, in un’area di proprietà dell’Autorità Portuale, che la utilizza attualmente come spazio di raccolta e di smistamento container. Figurativamente l’area si presenta come una sorta di prolungamento del fascio autostradale all’interno del porto, come una “goccia”, delimitata lungo tutto il suo perimetro dall’autostrada, che corre in quel punto ad una quota sopraelevata rispetto alla strada via Reggia di Portici. L’ipotesi progettuale, ritenendo possibile una delocalizzazione dei contenitori, assecondando la decisione dell’Autorità Portuale di costruire un’ulteriore piattaforma per lo stoccaggio dei container all’interno del nuovo terminal di Levante, prevede la trasformazione completa della natura del luogo, attraverso la realizzazione di un edificio-infrastruttura. In un luogo fortemente inaccessibile e altamente inquinato si è pertanto pensato di progettare una oasi verde, un luogo di ricerca scientifica ma anche di scambio e di incontro. L’edificio richiama nelle forme e negli intenti un progetto realizzato in California da Renzo Piano, l’Academy of Science, che sviluppa il tema della riconciliazione tra tecnologia e natura. Anche questo progetto è stato pensato come un grande istituto di ricerca per esplorare tipologie di produzione agricola sempre più efficienti e sofisticate, e dove studiare e riprodurre ecosistemi e paesaggi differenti. Per questo motivo sono state ipotizzate due enormi serre simmetriche con controllo del clima, dove poter riprodurre i principali biomi del pianeta 5, la foresta pluviale, tropicale, il mediterraneo etc., (compressed nature). La forma circolare delle serre è visibile anche all’esterno; la copertura ondulata costituisce la fonte principale di diffusione della luce, che in direzione zenitale penetra all’interno dell’edificio, illuminando gli ambienti, compresa l’enorme piazza rettangolare centrale, progettata come vero luogo pubblico di incontro e di scambio. Il tetto risulta quindi il vero segno forte di questo intervento; è pensato come una superficie verde che attraverso la geometria flessibile delle sue curve consente non solo di essere attraversato e percorso pedonalmente o in bicicletta, ma anche di avere una vista completamente nuova sulla città. All’interno di questo spazio si è cercato volutamente di creare un senso di estraneità rispetto alla realtà circostante, con l’idea di voler ancora una volta trasformare del tutto quella che è l’attuale natura del luogo (Figura 3).
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Si veda al riguardo anche il progetto del Dutch Pavilion ad Hannover (1997-2000) del gruppo MVRDV, organizzato secondo la sovrapposizione di sei modi di essere del paesaggio: dune landscape, greenhouse landscape, pot landascape, forest landscape, rain landscape, polder landscape
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Figura 1. a. Quadro delle trasformazioni urbane previste dai PUA e costruzione di una prima immagine continua di aree verdi produttive. b. Identificazione di una possibile nuova figura urbana, sottesa e nascosta tra le trame della cittĂ , a sostegno di una futuribile immagine di â&#x20AC;&#x153;ville fertileâ&#x20AC;?. c. Concept di progetto: realizzazione di un sistema urbano verde, malleabile, per integrare i resti della dispersione urbana.
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Figura 2. Masterplan di progetto e sezioni. Individuazione dei tre ambiti di intervento e dei corrispondenti approcci progettuali previsti: Enhancing the green, Hybrid nature, Compressed nature. I singoli interventi sono letti in continuità con il sistema a più grande scala individuato, a sottolineare l’obiettivo, interpretabile dalle sezioni, di riconnettere parti di città con il porto. Si ipotizza in tutti i casi la realizzazione di spazi che producono terra e nuove forme di socialità.
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Figura 3. Dettaglio degli elementi progettuali ipotizzati per il Parco agricolo della Marinella con individuazione degli elementi costruttivi che lo definiscono; Dettaglio dellâ&#x20AC;&#x2122;intervento di eco-acupunture allâ&#x20AC;&#x2122;interno del comparto residenziale su via A. Volta. Esploso assonometrico del centro di ricerca e indicazione delle funzioni ivi previste. Esempi dei possibili biomi riproducibili allâ&#x20AC;&#x2122;interno in una operazione di compressed nature.
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Bibliografia Libri Attili G. (2008), Rappresentare la Città dei Migranti, Jaca book, Milano. Boeri S. (2011), L’Anticittà, Laterza, Bari. Branzi A. (2006), Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira, Milano Cibic A. (2010), Rethinking Happiness , Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te- Nuove realtà per nuovi modi di vivere, Corraini, Mantova. Ciorra P. (2011), Senza architettura. Le ragioni di una crisi, Laterza, Roma-Bari. Ginzburg C. (1979), “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, in Gargani A. (a cura di), La crisi della ragione, Einaudi, Torino. Ferrario V. (2011), “Governare i territori della dispersione. Il ruolo dello spazio agrario in Abitare L’Italia. Territori, Economie, Diseguaglianze”, XIV Conferenza SIU, 2011 , Torino OMA (2010), Roadmap 2050, vol. 3, Imperial College London, Kema, McKinsey & Company, Oxford Economics and AMO. Piscopo C. (2010), “Deserti”, in Molinari L., Ailati. Riflessi dal futuro, XIIa Biennale di Architettura di Venezia, Skira, Milano. Russo M. (2011), Città-Mosaico. Il progetto contemporaneo oltre la settorialità, Clean, Napoli. Ingersoll R., Fucci B., Sassatelli M. (a cura di) AGRICivismo. Agricoltura urbana per la riqualificazione del paesaggio. (Linee guida e buone pratiche per l’agricoltura urbana), Progetto pays.doc, Regione Emilia Romagna, 2007 Viljoen A. (ed.2005) CPULs –Continuous Productive Urban Landscapes. Designing Urban Agriculture for Sustainable Cities. Architectural Press. Siti web PlaNYC full report, April 2011. Disponibile su: http://www.nyc.gov/html/planyc2030/html/theplan/theplan.shtml WWF, FAI (2012) Terra Rubata. Viaggio nell’Italia che scompare. Disponibile su: http://www.fondoambiente.it/ upload/oggetti/ ConsumoSuolo_Dossier_finale-1.pdf Camera di Commercio, Lega Ambiente (2008), Rapporto sull’Italia del “disagio insediativo”. Disponibile su: http://www.confcommercio.it/home/ArchivioGi/2008/index.htm
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Consumo di suolo e ridisegno dell'esistente: rischi e limiti del progetto
Consumo di suolo e ridisegno dell’esistente: rischi e limiti del progetto Antonio E. Longo Politecnico di Milano DiAP Email: antonio.longo@polimi.it
Abstract Le caratteristiche dell'attività progettuale, limiti di azione e responsabilità e rischi di errore, sono le condizioni che ne fanno un potente strumento di conoscenza contestuale. Il saggio, dopo una introduzione sui limiti e la necessità delle analisi quantitative che hanno caratterizzato i recenti studi sul consumo di suolo, descrive come l'opportunità di avvicinare lo sguardo e declinare qualitativamente il tema abbai trovato risposta nella strutturazione da parte di Fondazione Cariplo di un bando per progetti sugli spazi aperti periurbani di grande interesse sperimentale.
Premessa: rischio e limiti del progetto Che l'attività progettuale si svolga entro spazi di responsabilità limitata è un fatto noto e dibattuto, che sia un'attività rischiosa è dato per scontato da chi la pratica, meno da chi il progetto lo frequenta come osservatore o critico. Mi riferisco ai rischi propri della relazione con il contesto, che spesso è ignoto e la cui conoscenza avviene durante il progetto, ai rischi e ai pericoli di cadere (in errore) nel difficile equilibrio tra maturazione autonoma delle scelte da parte del progettista e interazione con il mondo che al progetto partecipa, non ultimo ai rischi professionali di chi ha responsabilità diretta di opere e investimenti. E' probabilmente vero che un approccio responsabile al progetto può ridurre i rischi e ampliare lo spazio di responsabilità, ma altrettanto vero che questa condizione necessaria, ineludibile e connaturata ad un'attività poco scientifica e intensamente relazionale, può essere la chiave per produrre la forma di conoscenza contestuale tipica dell'attività progettuale, utile per affrontare in modo efficace molte delle questioni che attraversano la città contemporanea. Chi ha consuetudine con la pratica del progetto non teme l'errore e mette in conto il rischio, riduce senza timore la distanza tra le intenzioni, i desideri e le situazioni reali, permette di osservare le cose da vicino nelle loro relazioni, entrando in contatto con la superficie dei fenomeni e con le strutture più profonde. Questo scritto considera il tema concreto, urgente e centrale del consumo di suolo e racconta come la politica di interesse pubblico di una fondazione bancaria abbia promosso e sperimentato l'uso del progetto come forma di conoscenza e di innovazione delle pratiche di governo in contesti di amministrazione pubblica. Il testo è suddiviso in due parti distinte: la prima parte si sofferma sula necessità di avvicinare lo sguardo e considera le specificità che caratterizzano i fenomeno, la seconda parte descrive le caratteristiche del bando e ne descrive la capacità di mobilitare energie e iniziative progettuali.
1. Il consumo di suolo visto da vicino Gli studi e le ricerche recenti sul consumo di suolo in Italia (rapporti di ricerca 2009, 2010, Bianchi e Zanchini 2011) e le principali valutazioni argomentate sul tema che li completano hanno inquadrato il fenomeno e le sue conseguenze territoriali negative riconoscendone le origini lontane, il recente aggravamento, le ragioni culturali ed economiche anche in confronto con il contesto europeo. Le cause sono analizzate e dibattute, il tema e le sue implicazioni raccolto e rilanciato da voci autorevoli (Settis 2011, Napolitano 2012), il giudizio negativo sugli Antonio E. Longo
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Consumo di suolo e ridisegno dell'esistente: rischi e limiti del progetto
effetti è condiviso anche se la reale condivisione è ben lontana dall'essere parte della comune cultura politica e amministrativa. Gli studi sul consumo di suolo si presentano come azioni tecniche, culturali e civili indispensabili per produrre consapevolezza e per influire su scelte di sistema, attraverso la legislazione nazionale e regionale, le politiche di investimento, attraverso le scelte di pianificazione locale. Tuttavia il modo con cui la questione è stata fin'ora sviluppata, peraltro da un gruppo relativamente ristretto di lavoro, appare necessariamente stilizzato: la scelta comunicativa del tema/patologia richiede una necessaria semplificazione del messaggio che si ritrova anche negli argomenti che sostengono le possibili soluzioni/cure, secondo uno schema retorico noto e ben sperimentato dall'urbanistica che fa succedere ad uno scenario di peggioramento possibili rimedi. A distanza di alcuni anni dall'emergere della questione, ora che gli effetti della crisi economica e immobiliare riducono la spinta verso nuove urbanizzazioni e indistinte valorizzazioni finanziarie dei suoli, sembra giunto il momento utile per avvicinare e precisare i punti di osservazione sulla questione dell'utilizzo erosivo e indistinto del suolo come risorsa scarsa, per meglio comprenderne la natura articolata e connessa a specificità locali. La conoscenza più precisa e localizzata del fenomeno può infatti suggerire alternative retoriche ed operative, soluzioni specifiche o strategie generali più efficaci. L'articolazione tecnica e culturale portata dall' avvicinamento dello sguardo ai fenomeni di consumo di suolo, aggirando il rischio di un irrigidimento ideologico, può aprire le condizioni di dialogo tra chi, nel mondo tecnico, progettuale e politico ha costruito le condizioni per una piena consapevolezza del tema e chi, non necessariamente in malafede, in modo pervasivo e drammaticamente diffuso continua a praticare scelte e comportamenti negativi e distruttivi del bene comune. I primi segnali di un nuovo modo di affrontare la questione in modo ravvicinato corrispondono a tre tipi di attività: ricerche e approfondimenti locali funzionali ad esemplificare e articolare il tema generale; valutazioni e monitoraggi di singoli piani e progetti; esperienze progettuali che comportano una conoscenza critica del contesto trattato. Si tratta di attività molto diverse che indicano possibili linee di ricerca e azione complementari.
1.1 Tre modalità di avvicinamento Il primo insieme è ben rappresentato da alcune parti del più recente rapporto del "centro ricerca sui consumi di suolo" promosso dall'INU e sostenuto dal settore Ambiente di Fondazione Cariplo (AA.VV. 2010). Il rapporto contiene schede comparative alla scala provinciale e una serie di approfondimenti metodologici applicati a specifiche situazioni territoriali che pongono in relazione le informazioni e la riflessione sul consumo di suolo con le specificità insediative e morfologiche di diversi contesti italiani. Oltre a queste ricerche vi è poi un insieme di studi rivolti a specifiche situazioni locali che oltre a scendere di scala documentando con maggiore dettaglio l'evoluzione quantitativa del fenomeno sono corredati con valutazioni e linee guida di tipo qualitativo, tematico e topologico che considerano le forme fisiche e le situazioni specifiche in cui il consumo di suolo si manifesta. Queste ricerche integrano la lettura fenomenologica delle dinamiche di conurbazione con il racconto di vicende locali specifiche. (Pileri, Giudici, Tomasini 2011). Il secondo insieme è costituito dalle migliori esperienze di Valutazione Ambientale Strategica legate ai piani di governo del territorio, ove non rappresentino, come spesso purtroppo è accaduto, un mero monitoraggio acritico e spesso mistificatorio delle scelte di piano. La traduzione quantitativa di scelte progettuali distribuite nel tempo offre un insieme di dati e di esperienze comparabili e costituisce un potenziale materiale di base per costruire una lettura comparata basata sulla prassi delle recenti esperienze di pianificazione, un racconto del consumo di suolo come processo. In tal senso è particolarmente interessante il contesto Lombardo, ove le dinamiche intense di crescita dell'urbanizzato negli ultimi 10 anni, le modalità di redazione dei piani previste dalla Legge Urbanistica lombarda n.12, dirompenti per la possibilità di prevedere le conseguenze territoriali e qualitative del piano, rendono opportuno articolare la lettura delle ragioni molteplici e degli effetti possibili sulle trasformazioni del suolo. Le Valutazioni Ambientali Strategiche che accompagnano i Piani di Governo del Territorio sono testi compositi, spesso al limite dell'eclettismo, che integrano parti del testo originale del Piano restituendone e commentandone gli obiettivi strategici e che seguono un procedura di condivisione con gi attori locali e con gli enti e le istituzioni. Le VAS contengono analisi originali dello stato di fatto e la sintesi degli obiettivi quantitativi e, assai più raramente, morfologici e qualitativi, delle scelte di Piano. La rilettura dei Piani e delle rispettive Valutazioni, costituisce quindi un materiale interessante non solo per quantificare e qualificare gli effetti territoriali dei progetti di uso del suolo ma anche per ricostruirne la dimensione processuale entrando nel merito del sistema delle scelte politico tecniche e dei principi di regolazione locale, dei temi dei ruoli delle responsabilità. (Longo, Alì 2011) Il terzo insieme di esperienze, trattato in modo approfondito nella la seconda parte di questo contributo, si lega alle pratiche progettuali e dunque all'osservazione approfondita e contestualizzata delle condizioni di cambiamento contestuali. La pratica progettuale a cui mi riferisco include un'accezione ampia e multidisciplinare di attività che considerano i luoghi e i contesti entro la prospettiva del cambiamento possibile, del governo delle trasformazioni, non solo attraverso il disegno degli elementi fisici ma anche attraverso la gestione degli aspetti organizzativi: è un'attività propriamente compositiva, che consiste nel mettere in relazione opportunità, spazi, Antonio E. Longo
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risorse, capacità presenti o mobilitabili, un'attività dai chiari limiti e dagli elevati rischi, ove corrisponde ad precise assunzioni di responsabilità amministrativa. Per questo, pur nei limiti di questa breve nota, ritengo importante spostare l'attenzione sull'attività progettuale che viene praticata operativamente sul territorio, nelle amministrazioni pubbliche e presso le autonomie funzionali lasciando momentaneamente in secondo piano le espressioni dell'attività progettuale e di ricerca più astratte e autonome. Nella pratica il progetto può essere fortemente orientato dall'obiettivo di cura e difesa del suolo libero, può essere esplicitamente guidato da un principio etico o da uno stile di pianificazione ideologicamente orientato o, con meno enfasi, rappresenta un modo per entrare in stretta relazione con la multidimensionalità di un contesto e permette di rendere evidenti aspetti altrimenti non visibili e sottotraccia: aspetti politico decisionali, tecnici, geografico/territoriali, culturali, storici, che coesistono nell'interazione rapida e intensa caratteristica di ogni attività progettuale che abbia come obiettivo prefigurare e comunicare, produrre concretamente una trasformazione. Attraverso la pratica progettuale, a condizione che sia strettamente relazionata con il contesto, le dinamiche del consumo di suolo possono essere allora lette dall'interno, in azione, come processi che producono forme territoriali, in tempo reale. Come in ogni ricerca progettuale questa lettura avviene inizialmente in forma intuitiva e congetturale, quindi in forma più riflessiva e sistematizzata assumendo progressivamente la distanza necessaria a rappresentare la relazione tra gli elementi. Si tratta di una modalità più stilizzata, certamente non scientifica, e meno rigorosa ed analitica delle due precedentemente accennate che tuttavia può produrre esiti interessanti da diversi punti di vista: ridimensiona inevitabilmente i presupposti riduttivi tipici di una lettura aggregata, rende più laico il giudizio sul fenomeno e sulle sue manifestazioni, permette di comprendere e interpretare le relazioni dinamiche proprie di un contesto complesso e, se possibile, offre le conoscenze necessarie per intervenire, nel momento e con lo strumento più opportuno, entro lo spazio di responsabilità del progetto stesso o, eventualmente, identificando atri e differenti spazi di responsabilità da mobilitare. La pratica progettuale, così intesa, è una modalità di conoscenza e azione dinamica, relazionale, sempre più necessaria in contesti il cui lo spazio di azione è limitato e talvolta davvero sproporzionato rispetto all'estensione e alla complessità dei problemi emergenti, affatto semplice da praticare e non consueta nelle prassi progettuali diffuse.
2. Esperienze di progetto orientate Tra i molti settori di intervento di Fondazione Cariplo in ambito Lombardo vi è il sostegno alle ricerche sul consumo di suolo, sia attraverso finanziamenti di ricerca - tra questi, come si è detto, il Centro di ricerca sui consumi di suolo promosso dall'Istituto Nazionale di urbanistica sia attraverso la promozione e il sostegno diretto di progetti e azioni di enti e soggetti del terzo settore per la tutela del territorio e dell'ambiente. E' il caso dell'iniziativa che ha portato tra il 2010 e nel 2011 la Fondazione - con il supporto tecnico del gruppo di ricerca guidato da Paolo Pileri presso il DiAP del Politecnico di Milano - a lanciare il bando "Qualificare gli spazi aperti in ambito urbano e peri-urbano" con l'obiettivo di tutelare aree a rischio, esterne a marginali rispetto ad aree protette e di cerniera tra territori già tutelati e conservati. L'attribuzione dei finanziamenti attraverso bandi e selezione di progetti, ha permesso di testare una modalità molto efficace sia per precisare meglio conoscere la queestione del consumo di suolo, sia per responsabilizzare i soggetti locali nei confronti della azioni di tutela e di possibile cura e trasformazione di parti di territorio, nonostanti i limiti amministrativi, ponendo in primo piano il territorio, gli spazi di transizione e di margine e sollecitando le amministrazioni pubbliche, i funzionari, gli amministratori a identificare le difficoltà, i rischi e i limiti dell'azione progettuale. Molto spesso infatti evidenti problemi, noti e dibattuti localmente, come il rischio di saturazione di una fascia di spazi aperti, la realizzazione di un intervento di irreversibile impatto paesaggistico, non vengono affrontati non tanto per non meglio precisate ragioni politiche o per dominanza di interessi ma più semplicemente perché si considera impossibile stabilire relazioni e nessi tra azioni considerate singolarmente praticabili se non ordinarie. Dare forma a progetti di composizione urbanistica, non aulici ma necessari e ordinari, definendo i limiti dell'azione possibile e valutando i rischi e le possibilità di successo è il tipo di attitudine sollecitata dal bando. La precisione delle azioni richieste e la chiarezza nell'impegno da parte degli attori coinvolti si è rivelata un importante punto di forza nel fare emergere proposte interessanti e utili e un criterio fondamentale nella selezione dei progetti finanziati. Il bando è stato rivolto a comuni con un numero di abitanti compreso tra 15.000 e 500.000 (e loro raggruppamenti) o inferiore a 15.000 unità solo se in raggruppamento, a Province, Comunità montane, Unioni di comuni, Enti gestori di Parchi Locali di Interesse Sovracomunale, ad associazioni ambientaliste o altre organizzazioni private senza scopo di lucro. Ai soggetti partecipanti sono state richieste due azioni strettamente connesse: il censimento di insiemi coerenti di spazi aperti soggetti al rischio di urbanizzazione, studi di fattibilità per interventi di consolidamento della naturalità, dell'agricoltura sostenibile, delle reti verdi, dei percorsi lenti nell'ambito individuato dal rilievo stesso. Il legame tra censimento e progetti ha rappresentato un aspetto delicato e di grande importanza. Il censimento è stato orientato ad interpretare e riconoscere le aree che per condizioni di degrado, posizione relativa rispetto alle infrastrutture e all'edificato, consuetudini urbanistiche locali erano esposte al rischio di Antonio E. Longo
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edificazione mentre la redazione di studi di fattibilità è stata finalizzata ad individuare all'interno delle aree gli spazi effettivamente disponibili (per impegno delle proprietà, sia pubbliche che private) per un eventuale intervento.
2.1 La definizione del campo progettuale come condizione di fattibilità La varietà e l'articolazione degli interventi possibili, materiali assemblabili in disegni d'insieme dagli esiti diversissimi, è stata in grado di intercettare progettualità esistenti sul territorio, progetti interrotti o di valorizzare prassi locali. L'apertura a molte possibilità ha reso possibile la candidatura di progetti diversi, da quelli più urbani, dove il tema della tutela degli spazi aperti implica il progetto di materiali minuti come orti e giardini, filari e percorsi, piccole impermeabilizzazioni, ad intervento estesi di ricostruzione di sistemi agroambientali e irrigui. Gli studi di fattibilità finanziabili hanno avuto come obiettivo la riattivazione di campi agricoli, la costruzione di siepi e filari e l’introduzione di prestazioni eco paesistiche efficienti; la conservazione o la reintroduzione dell'agricoltura in aree abbandonate; il mantenimento di aree naturali e la deframmentazione di ambienti naturali; la rinaturazione di aree sigillate; la riorganizzazione dei margini di aree agricole e naturali per renderle meglio connesse all’intorno e permeabili orizzontalmente; il mantenimento e la riorganizzazione delle fasce erbacee/arbustive/ arboree lungo campi/canali/rogge; il mantenimento di spazi agricoli della tradizione come marcite, fontanili; la creazione, mantenimento e ampliamento di corridoi verdi e ciclabili, specie se raccordati a livello sovracomunale; la creazione, mantenimento e ampliamento di orti organizzati; interventi di riqualificazione paesaggistica e di aree degradate. La presentazione delle domande e la condizione per accedere al finanziamento, è stata vincolata ad un insieme di precondizioni stringenti: partnership di progetto dei proprietari dei fondi interessati dagli studi di fattibilità, la cui presenza doveva essere presenza documentata attraverso atti formali, la perfetta conoscenza argomentata del territorio, dello stato giuridico delle aree da censire, dell'assetto proprietario, delle modalità di conduzione. Un ulteriore insieme di requisiti molto responsabilizzanti riguarda le modalità di costruzione della partnership e di impegno tra comuni confinanti, legata alla predisposizione comune di un piano finanziario dettagliato, al cofinanziamento del 40% dell'impegno economico complessivo, al coinvolgimento degli uffici tecnici locali, alla creazione di gruppi di lavoro multidisciplinari, alla formazione di un partenariato ampio che includa enti, attori economici, associazioni coinvolti nella cura del territorio da censire. I progetti candidati hanno dovuto esplicitare in modo molto circostanziato il rapporto tra il territorio di riferimento, l'area di censimento, gli studi di fattibilità, l'individuazione degli attori e dei portatori di interesse. Oltre la necessità burocratica di documentare i differenti punti qualificanti, i criteri di selezione hanno reso necessario anticipare i temi e le condizioni di fattibilità dei progetti, responsabilizzare e coinvolgere nella competizione e i partners. Gli studi di fattibilità si configurano come interventi parziali su aree, sia pubbliche che private, scelte considerando due requisiti: l'effettiva disponibilità e il ruolo potenziale delle stesse nella ricomposizione del paesaggio e nella tutela complessiva degli spazi aperti agricoli. I due requisiti non sono necessariamente conciliabili. Si è posto dunque il problema di immaginare e reinventare un possibile nesso progettuale tra interventi localizzati spesso per opportunità e scenari complessivi di riqualificazione estesa. Questa impostazione ha spinto le amministrazioni a mobilitare innanzitutto risorse progettuali e relazioni tra soggetti già disponibili e sperimentate, a volte solo singolarmente, muovendo dall'occasione e dall'opportunità particolare per costruire composizioni parziali e connetterle con una possibile visione generale. Tuttavia la semplice operazione di rappresentare insieme e riconoscere insiemi di progetti altrimenti distanti e separati ha fatto emergere piccoli cluster territoriali e tematici ed ha come conseguenza portato luce su nuovi temi e nuovi soggetti altrimenti non mobilitati, allargando la geografia di riferimento del progetto. La competizione generata dall'impostazione del bando, l'accompagnamento da parte della Fondazione e dei suoi consulenti nella fase di predisposizione delle proposte, il livello di impegno richiesto alle amministrazioni nel contattare in modo credibile attori privati, nel coinvolgerli attraverso atti formali, ha permesso di orientare molti progetti e di generare, già nella fase istruttoria e di raccolta delle candidature un importante processo di apprendimento e di consapevolezza. In particolare il coinvolgimento dei conduttori e dei proprietari nella fase di raccolta delle adesioni formali ha comportato l'anticipazione di strategie e intenzioni progettuali d'insieme, la precisazione con dettaglio catastale delle aree in cui prevedere interventi parziali che dessero concretezza a quelle ipotesi, ha rappresentato, nei pochi mesi di predisposizione del progetto e in presenza di attori portatori di un grande sapere pratico ma poco abituati a bandi, strategie e realizzazioni differite nel tempo lo sviluppo di modalità raramente praticate in precedenza. Nel progetto per la città contemporanea l'utilizzo e la composizione delle risorse esistenti, attraverso l'attribuzione di significati nuovi e attraverso movimenti e variazioni minime rappresenta una sfida necessaria e complessa. Temi e materiali del progetto, se non si opera entro scenari di grandi trasformazioni e si punta all'attribuzione di nuovi valori e senso all'esistente, non sono dati a priori ma sono esito della valutazione e dell'interpretazioni delle condizioni del campo progettuale: l'estensione della geografia di riferimento del progetto, i temi e gli obiettivi, gli elementi di resistenza, gli elementi di variabilità, sono interdipendenti e debbono essere raccolti e rappresentati, anche per tentativi, in un quadro d'insieme. Il bando ha tradotto questa condizione, apparentemente astratta, in un dispositivo di indirizzo e apprendimento efficace e contagioso. Antonio E. Longo
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Bibliografia AA.VV. (2009), Rapporto 2009 CRCS, Maggioli Editore. AA.VV. (2010), Rapporto 2010 CRCS, INU Edizioni. Bianchi D., Zanchini E. (2011), Ambiente Italia 2011. Il consumo di suolo in Italia, Edizioni Ambiente. Alì A., Longo A. (2011), Progetto urbanistico e risorse scarse. Il Piano di Governo del Territorio di Cernusco sul Naviglio, Alinea Napolitano G. (2012), “Il paesaggio della ricchezza futura”, Il Sole 24 Ore - 25 Marzo 2012 Settis S. (2010), Paesaggio Costituzione cemento, Einaudi Giudici D., Pileri P., Tomasini L. (2011), Suoli D.O.C. Effetti dell'uso e del consumo di suolo in Franciacorta e nella Pianura bresciana, Fondazione Cogeme Onlus, Brescia Siti web http://www.spaziaperti.fondazionecariplo.it/public/spaziaperti/introduction.php
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Politiche agrourbane alla ricerca di strumenti. Esercizi (e acrobazie) di copianificazione tra pianificazione paesaggistica e pianificazione ordinaria
Politiche agrourbane alla ricerca di strumenti. Esercizi (e acrobazie) di copianificazione tra pianificazione paesaggistica e pianificazione ordinaria 1. Mariavaleria Mininni Università degli studi della Basilicata Dipartimento Tecnico Economico per la gestione del Territorio Agricolo e Forestale (DITEC) Email: mv.mininni@poliba.it Luigi Guastamacchia Politecnico di Bari Dipartimento di Scienze dell'Ingegneria Civile e dell'Architettura (ICAR) Email: lugu@tiscali.it
Abstract Complesso è per l’attività amministrativa mettere a fuoco la gestione del periurbano, ovvero quello spazio non perimetrato in alcuno strumento di pianificazione, né alla scala locale né alla scala vasta, né in quella settoriale e neppure in quella strategica. Uno spazio problematico che oscilla tra le dinamiche di espansione della città e le tendenze di marginalizzazione/resistenza dell’agricoltura mentre, inconsapevolmente, su di esso si concentrano sempre di più le aspettative e gli interessi della collettività. Nell’attuale processo di pianificazione generale, soprattutto paesaggistica, riconoscere un valore di tutela e sviluppo al periurbano potrebbe rappresentare, progettandone caratteri prestazionali e regole di uso del suolo, una maniera per individuare discipline d’uso, condivise con gli attori istituzionali e sociali coinvolti a vario titolo nel processo di pianificazione (Comuni, Enti, Cittadini). Ai professionisti riflessivi, nel senso lato in cui il mestiere di urbanisti può essere inteso, è dato di pensare, ridisegnare e problematizzare la periurbanità. In che modo essa può essere messa a fuoco attraverso gli strumenti che sono a disposizione per governarla? Quali sono i termini attraverso i quali il perturbano si attiva nelle politiche agrourbane costruendo campi di interferenza tra la città e la campagna? Dove la pianificazione urbanistica incontra quella dello spazio rurale? Il nuovo Piano Paesaggistico potrebbe provare a dare risposte a queste domande?
1 L’azione paesaggista nel piano è sensibile e adattiva Le politiche sul paesaggio non appaiono sempre chiaramente nei piani e nei documenti urbanistici, né è facile valutare l’efficacia e la coerenza dell’azione paesaggista 2 nei processi che governano la trasformazione del territorio. Gli ultimi anni testimoniano una ripresa e un cambiamento nel campo della pianificazione del paesaggio in Italia. Molte regioni sono state impegnate in tempi recenti nella redazione del piano paesaggistico alla luce della nuova legge nazionale, (Codice Urbani, L. 42/1992), sperimentando una grande varietà di procedimenti. A riprova della differenza delle geografie, delle tradizioni istituzionali che governano il territorio, si sono prodotti tanti piani diversi che rimarcano la diversa maniera di guardare al paesaggio nel complesso mosaico regionale. Né poteva essere altrimenti dal momento che la nuova legge si presentava come la sommatoria di tutte le precedenti 1
Quantunque il lavoro è frutto di una riflessione collettiva, sono da attribuirsi a Mariavaleria Mininni i paragrafi 1, 2, 3. e a Luigi Guastamacchia il paragrafo 4. L’apparato iconografico è di Luigi Guastamacchia. 2 Cfr. Donadieu Pierre e Elisabeth de Boissieu,( ed.) (2001), Des mots de paysage et de jardin, ENSP , Versailles Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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esperienze legislative in tema di tutela e pianificazione del paesaggio, messe insieme in un tormentato articolato normativo, patinato ma non elaborato secondo i principi della Convenzione Europea del Paesaggio. La recente produzione di piani paesaggistici può offrire un osservatorio italiano interessante per analizzare le funzioni regolamentarici e i dispositivi del progetto di paesaggio nelle diverse condizioni in cui questo è solleciatato. L’esperienza di pianificazione del paesaggio ad un passo dall’adozione in Puglia 3 ha cercato di cogliere gli aspetti innovativi di una ben avviata politica di governo del territorio 4, cercando di rintracciare le ricadute sul paesaggio di attività pensate per altri scopi ma che hanno finito per accompagnare un percorso legislativo e procedurale che sembra volere prendere in conto un’azione paesaggista. Del resto, è impresa complessa cercare di leggere l’azione paesaggista nelle politiche di pianificazione. Il paesaggio non è quantificabile né perimetrabile e rimane un concetto evanescente. Allo stesso tempo, però, riuscire a rintracciare i modi in cui un’attività di trasformazione ha conseguenze sul paesaggio avrebbe l’indubbio vantaggio di consentire una più attenta valutazione degli esiti di altre attività che non nascono dentro questa intenzionalità. Il tentativo che si avanza è quello di provare a rileggere attraverso il cuneo concettuale della prossimità le maniere in cui le politiche territoriali producono azioni paesaggistiche, intendendo con questo termine, da ora in poi, tutte quelle attività che direttamente o indirettamente producono una mise en paysage, nel senso di attivare processi spaziali, sociali e simbolici dentro la nozione di paesaggio (Berque, 2001, Donadieu e de Boissieu, 2001, Rogers, 1997). Il soggetto che agisce paesaggisticamente, sia esso pubblico o privato, secondo il nostro punto di vista, ha alcuni connotati antropologici caratterizzanti. Prima di tutto, cerca di essere attento al bene comune che, a sua volta, fa derivare dalla costruzione razionale del bene pubblico (Cassano, 2004). L’attore paesaggista o l’abitante paesaggista, non sente la fatica della partecipazione e si presta all’ascolto dei luoghi e delle persone (Donadieu, 2009,Lassus, 1999). L’azione paesaggista è diversa da quella che opera senza fini, eterodiretta e alla continua ricerca di emozioni che si esauriscono sul proprio corpo senza la capacità di trascendere. L’azione paesaggista parla di soggetti che vogliono calarsi in una storia e in una società. Se il territorio “è l’uso che se ne fa” (Crosta, 2010), e non è detto che sia quello desiderato, la nozione di paesaggio potrebbe rinviare all’attivismo delle popolazioni che lo costruiscono nel tempo, ricercando i luoghi dove si danno o non si danno le opportunità di farsi valere. Ogni politica paesaggista può essere rintracciata dentro un procedimento urbanistico attraverso alcune categorie ed alcuni parametri (Labat, 2011). La scala territoriale in cui si svolge l'azione paesaggista è uno dei tanti, a maggior ragione se si specifica il senso di prossimità fisica e di prossimità di attori istituzionali che guidano il processo di pianificazione (Torre, 2010). L’interazione tra le scale di definizione delle politiche del paesaggio e il concetto di prossimità parte dalla ricerca di un agire paesaggistico che ha conseguenze nella costruzione dello spazio. Dentro queste due categorie sono stati riletti i nuovi percorsi di governo del territorio regionale pugliese, operanti dentro una sperimentazione di prudente riformismo (Barbanente, 2011). Il lavoro muove da un presupposto tentativo e congetturale nel senso che cerca un campo di applicazione dai modi in cui sono stati selezionati e ordinati alcuni argomenti che partivano dalla teoria della prossimità (Torre, 2010) e dalla domanda sociale di paesaggio (Luginbühl, 2001), sottoponendole a validazione-confutazione nelle esperienze avviate dalle politiche del territorio regionali pugliesi. Secondo Torre, la prossimità si articola in due diverse accezioni, (i) la prossimità dell'azione pubblica, vale a dire i modi in cui si mobilitano gli attori per progettare e rendere operativa una politica del paesaggio; (ii) la prossimità della scala in cui si muove l’azione, ovvero come una politica del paesaggio in una determinata area può essere condivisa e soddisfare i requisiti di efficacia ed efficienza lavorando dentro le normative operanti. Quello che si arriverà a dire è che non è tanto la scala geografica che determina la capacità operativa delle azioni paesaggiste, ma piuttosto la scala attraverso la quale avviene la strutturazione delle relazioni tra gli attori. La costruzione di strumenti, procedimenti e spazi dedicati a organizzare la scala delle interazioni tra istituzioni o tra soggetti pubblici e privati, può aiutare in gran parte a spiegare come agiscono i problemi alla scala di paesaggio, lì dove sorgono i conflitti più stringenti tra il bene comune e la natura privatistica di molti dei beni che sono risorse del paesaggio. La sfida è quella di capire se vi è un margine di possibilità di federare l’azione o di subirla sui valori di cui è portatore il paesaggio nelle attività di pianificazione (Conan, 2004). Il concetto di prossimità ha,secondo noi, un ruolo cruciale per riflettere sull’azione paesaggistica, poiché la salvaguardia della natura e dei valori patrimoniali, fanno emergere conflitti, fomentano l’individualismo e l’interesse privato.
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Attualmente l’iter del piano (Piano Paesaggistico Territoriale Regionale), dopo la presa d’atto della giunta regionale, avvenuta nel gennaio del 2010, concluse le ultime attività di perfezionamento dell’accordo Stato Regione, dovrebbe procedere verso l’adozione. 4 Vedi Rapporto dal Territorio Puglia 2007 e Rapporto dal Territorio Nazionale, (P. Properzi , a cura di), 2010 a cura dell’ INU Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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2 L’invenzione della periurbanità. La prossimità si incrocia per promuovere le politiche del paesaggio nella pianificazione del territoriale Il patto città campagna 5 punta alla riqualificazione delle periferie a partire dallo spazio agricolo periurbano. E viceversa. Risulta evidente che il costrutto del patto ha una forte implicazione dentro una logica di prossimità istituzionale (la costituzione dentro un documento urbanistico e di regolamentazione di uno spazio altrimenti inesistente) e una prossimità sociale, dal momento che questo spazio nasce solo se è percepito e condiviso tra attori che non sono in contatto tra di loro, cittadini e contadini, si fonda su un’alleanza tra vicini molto distanti, la città e la campagna, mondi che si fronteggiano ma che non sono reciprocamente a conoscenza l’uno dei desideri e delle aspettative dell’altro. Le linee guida del patto 6 si muovono dentro l’utopia della spazialità periurbana, promuovono un’azione paesaggista verso la visione e condivisione di uno stesso spazio prospettando le reciproche convenienze. La sua effettiva realizzazione è demandata a una famiglia variegata di strumenti che richiamano differenti ruoli che la campagna può assolvere nella costruzione del patto: il parco agricolo alla scala intercomunale, poco frequentata dalla legislazione italiana, il ristretto, una sorta di dispositivo per una strategia agrourbana, e non solo spaziale, alla scala locale, le foreste CO2, una forestazione urbana per compensare e mitigare seguendo le strategie del carbon footprints. Il patto sollecita le professionalità al mestiere del paesaggista, attiva i soggetti pubblici perché supportino il periurbano, invita quelli che lo abitano a prenderne consapevolezza perché quello spazio lo occupano e lo abitano, stimola gli imprenditori perché siano interessati a valorizzarlo. Nonostante le lg riportino il percorso di individuazione e quantificazione degli spazi periurbani che costruiscono fisicamente le intenzioni dello scenario, come una sorta di macrostandard da verificare caso per caso, tali indicazioni potranno essere rifiutate dai piani e dagli amministratori locali se non saranno sufficientemente esplicitati gli obiettivi da perseguire ai soggetti attuatori e chiarite le convenienze reciproche del patto. Se la prossimità organizzata è data dalle diverse maniere degli attori di stare insieme, come dice Andrè Torre, in riferimento al carattere delle azioni umane, il patto costituisce un laboratorio spaziale e sociale e le lg una sua possibile traduzione operazionale. L’assenza di strategie fondiarie, di premialità direttamente spendibili sul piano degli incentivi e la scarsa sensibilizzazione alla scala comunale di iniziative volontarie che nascono dal basso sono i principali ostacoli alla trasferimento del patto città campagna alla scala operativa. Il patto rappresenta, dunque, un regolatore potenziale promettente tra progetto e gestione dello spazio periurbano.
3 La prossimità geografica: i conflitti di interesse tra le comunità, i piani e i progetti La prossimità geografica è definita da Torre come le condizioni spaziali e geografiche che possono avvicinare gli attori sotto il profilo spaziale o attraverso le infrastrutture. Per altri versi essa può rappresentare la distanza tra gli attori e dei loro diversi problemi. Essa dipende dalla strutturazione sociale, dal modo con cui la società affronta i problemi e come essa partecipa ai modelli decisionali (Gueymard, 2004). La prossimità subita, nel senso di ciò che limita in un processo decisionale l’azione paesaggista nel raggiungere il suo potenziale, e la prossimità ricercata, ovvero la capacità di far valere un’idea ricercandola creativamente dentro un sistema di regole già date, possono essere due parametri utili per sondare le potenzialità della prossimità geografica nell’azione paesaggista. La seconda parte del nostro costrutto, ovvero le relazioni tra parte strutturale e parte programmatica del piano e di queste con il piano paesaggistico, saranno analizzate attraverso questi due parametri. La parte strutturale del piano urbanistico generale così come emerge dal documento programmatico del 7 regolamento regionale pugliese che ne definisce i contenuti presenta conseguenze paesaggistiche molto 5
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Lo Scenario Strategico del nuovo PPTR prefigura il futuro di medio e lungo periodo del territorio pugliese attraverso cinque differenti progetti territoriali di rilevanza strategica per il paesaggio regionale finalizzati in particolare ad elevarne la qualità e fruibilità. Oltre al Patto città campagna,sono stati costruiti i seguenti scenari quali: Il sistema infrastrutturale per la mobilità dolce, La valorizzazione e riqualificazione integrata dei paesaggi costieri, La Rete Ecologica Regionale, I sistemi territoriali per la fruizione dei beni patrimoniali. Comunicati con un visioning disegnato, tali progetti non descrivono direttamente delle norme, ma mirano a rappresentare i tratti essenziali degli assetti paesaggistici e territoriali desiderabili rispetto a questioni specifiche e in coerenza con gli obiettivi generali. Le linee guida del patto città campagna sono consultabili al sito http://paesaggio.regione.puglia.it/index.php/areadownload/16-downloads/122-scenariostrategico.html Documento Regionale di Assetto Generale (DRAG), ai sensi dell’art. 4, comma 3, lett. b), della Lr 20/2001, determina “gli indirizzi, i criteri e gli orientamenti per la formazione, il dimensionamento e il contenuto degli strumenti di pianificazione provinciale (PTCP) e comunale (PUG).
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Politiche agrourbane alla ricerca di strumenti. Esercizi (e acrobazie) di copianificazione tra pianificazione paesaggistica e pianificazione ordinaria
interessanti. Vediamo anche come le componenti principali del piano strutturale, invarianti e contesti, possono prestarsi ad una interpretazione paesaggistica leggendole per approssimazioni geografiche. La parte strutturale mette a fuoco alla scala locale la pianificazione ambientale e paesaggistica sovraordinata di emanazione statale. Meglio ancora, è il luogo dove le conoscenze costruite alla scala regionale si approssimano a quelle dettagliate della scala comunale attraverso un procedimento duplice: (i) la messa a contrasto (infittimento della grana di risoluzione del quadro cognitivo); (ii) l’attribuzione dei valori rispetto alle aspettative della comunità locale (peso dei fattori sociali ed emozionali, delle tradizioni sul valore percepito della risorsa paesaggistica). Le invarianti paesistico ambientali che costituiscono l’ossatura del versante strutturale del piano in quanto precipitato del quadro delle tutele e della pianificazione ambientale delle scale sovraordinate, dettando gli indirizzi e le regole della trasformazione degli usi del suolo. I contesti territoriali, invece,sono parti del territorio comunale individuati rispetto a criteri interpretativi finalizzandoli alle future trasformazioni nel rispetto della sostenibilità e dei valori paesaggistici e ambientali. Nella scala strutturale l’azione paesaggistica si esplica con un più chiaro orientamento al controllo del territorio e al contenimento dei fattori di rischio (assetto idrogeologico, tutela del patrimonio ambientale), alla tutela dei valori patrimoniali (beni culturali e paesaggistici) esercitato dall’azione coordinata delle istituzioni coinvolte, autorità di bacino, sovrintendenze, assessorati regionali (al territorio, ai trasporti, alla produzione, etc,). Nella scala programmatica l’approssimazione è scarsamente efficace per cui l’azione paesaggistica evapora nei conflitti di uso del suolo e nelle logiche della rendita che riduce la complessità del confronto al solo potenziale edificatorio dei suoli. E’ interessante rispetto alla chiave interpretativa che ci siamo dati, sottolineare come le invarianti, nelle loro differenti provenienze, ambientali, patrimoniali, infrastrutturali, nell’attraversamento dei contesti territoriali, rielaborano un’azione paesaggistica di approssimazione di tipo adattivo. Essa non riguarda solo 8 l’approfondimento di scala del procedimento conoscitivo, che fa emergere nuovi dettagli e maggiore profondità delle conoscenze. Così come non si limita ad una banale verifica di congruenza tra tutela del territorio e suo potenziale trasformativo, ma, piuttosto fa insorge del nuovo: l’invariante subisce un processo adattivo stemperando la durezza del vincolo (divieto di edificazione nell’alveo di un solco erosivo nell’attraversamento di un centro urbano) in nuove opportunità (però si possono realizzare parchi urbani e aree verdi attrezzate con funzione di fasce tampone per la protezione del fiume ma fruibili per la popolazione). In altri termini, l’azione paesaggista prende le mosse non perché si proponga un parco attrezzato ma dal modo in cui le regolamentazioni non escludono e neppure inibiscono ma si confrontano su differenti livelli di possibilità. La prossimità geografica costituisce il constraint in cui si può esplicitare una prossimità sociale e il paesaggio insorge da questa reciprocità. La seconda questione riguarda l’applicazione alla scala locale, in alcuni casi sperimentati 9, della visione proattiva di uno degli scenari strategici, il patto città campagna nella quale vengono avanzate ipotesi di rigenerazione delle periferie urbane a partire dal coinvolgimento dello spazio agricolo periurbano come nuova proposta di paesaggio per la città. L’approssimazione geografica tra città e campagna proposta alla scala regionale è verificabile alla scala locale poiché ha ragione solo e soltanto dentro una forte opzione paesaggista che trova legittimazione nella dimensione transcalare del suo progetto. Tanto è vero che alla scala locale il dispositivo progettuale che sostanzia il patto città campagna ha modo di rielaborarsi, modificarsi, adattarsi sensibilmente senza snaturare il suo significato autentico. Il contesto territoriale periurbano può diventare la traduzione alla scala del piano comunale dello scenario regionale del patto città campagna (figura 1), inventando una spazialità dinamica, quella periurbana, che non era rappresentabile né dai contesti urbani e né da quelli rurali individuati, presi separatamente, e concepiti invece dal documento di indirizzo regionale come due territori distinti. Il contesto periurbano è stato individuato come impianto strutturale dei nuovi PUG della città di Ruvo di Puglia e di Apricena, comuni distribuiti al centro e al nord del territorio pugliese. In entrambi i casi, il contesto periurbano perimetra territori limitrofi costituiti da materiali molto differenti, portatori di una loro progettualità o di una aspettativa di miglioramento e rigenerazione: periferie da riqualificare, spazi aperti da reperire o da riprogettare, spazi da trasformare e da edificare, spazi agricoli da attribuire ai cittadini o alla salvaguardia ambientale dello spazio urbano, agricoltura per il tempo libero e lo sport.
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Come banalmente richiede il procedimento di verifica del piano paesaggistico vigente. (PUTT/P) approvato nel 2001 ai sensi del Dlgs 490/99-Tale strumento si pone sostanzialmente come un piano vincolistico con un carattere meramente ricognitivo e prescrittivo, applicato alle sole emergenze paesaggistiche (come previsto dalla L. 431 del ’85 e precedentemente dalla Lr 56/80) ovvero Ambiti Territoriali Distinti, ed impone una tutela diretta di tipo paesaggistico agli Ambiti Territoriali Estesi. Si fa riferimento a due esperienze di redazione di PUG piano urbanistico generale nei comuni di Ruvo di Puglia e Apricena, redatti presso il dipartimento ICAR del politecnico di Bari, da un team di ricercatori (Mariavaleria Mininni, Sergio Bisciglia, Silvana Milella, Luigi Guastamacchia, Cristina Dicillo) e coordinati scientificamente da Nicola Martinelli.
Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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Per la città di Ruvo di Puglia (figura 2), il contesto periurbano nella proposta di PUG aveva il compito di consolidare il modello virtuoso di espansione accentrato costruendo una cintura agricola multifunzionale e di salvaguardia per supportare il contenimento alla proliferazione di frange urbane. Nella città di Apricena (figura 3) il cui centro urbano è attraversato da un fitto reticolo idrografico, il contesto periurbano, costruito per la gran parte sul sedime di un torrente che circonda il settore nord-occidentale della città, oggi in fase di regimentazione, ha lo scopo di salvaguardare dal punto di vista idraulico la città offrendo al contempo un’occasione per riqualificare e riammagliare una grande area di periferia pubblica alla città consolidata e per dotare la città di un nuovo parco urbano.
4 Le forme del periurbano nelle azioni riflessive I casi studio analizzati rappresentano due esempi in cui il progetto del periurbano è inteso quale luogo di sperimentazione, da parte di professionisti riflessivi portatori di una “riflessione nel corso dell’azione”, e a cui è dato di pensare, ridisegnare e problematizzare la periurbanità indagando sul modo in cui questo spazio è riconosciuto anche da parte degli organi di indirizzo e controllo. La spazialità dinamica del periurbano tra urbano e rurale, sfugge a qualsiasi tentativo di collocarlo nelle attività di controllo e indirizzo degli enti sovraordinati quando sono chiamati ad esprimersi con i propri strumenti tecnici e normativi. Di certo le politiche autorizzative regionali, a cui è demandato il controllo del territorio, guardano con attenzione e interesse alle proposte dal “basso” dello spazio periurbano, per condividerne l’insieme delle regole definite dentro un chiaro sistema di progettazione sia alla scala strutturale che programmatica. Complesso rimane per l’attività amministrativa regionale mettere a fuoco la gestione delle sue trasformazioni, poiché si tratta di uno spazio non ancora individuato in alcun strumento di pianificazione, essendo il piano paesaggistico ancora in iter di adozione. Un lavoro riflessivo si è potuto esercitare nelle attività di consulenza alle Pubbliche Amministrazioni, proprie 10 della “Terza Missione” delle istituzioni universitaria , mettendo a valore le collaborazioni tra mondo della ricerca e istituzioni pubbliche. Nel piano comunale riformato 11 dalla recente legge regionale il contesto territoriale periurbano traduce, nella dimensione locale, lo scenario regionale del patto città campagna verificandolo nella dimensione strutturale del Piano. Nella maggior parte dei casi al periurbano viene attribuita la collocazione di contesto rurale in cui sono presenti fenomeni di urbanizzazione diffusa sottolineandone la loro problematicità piuttosto che valorizzandone la posizione e la prestazione di periurbanità. Dalla analisi della casistica di PUG presentati al vaglio di conformità regionale, la spazialità del periurbano generalmente proposta nei piani comunali quando è riconosciuta, sembra trasformare le attese dei residui di pianificazione non attuata sui margini della città in aspettative di insediamento della campagna per consolidare la vocazione abitativa diffusa, perdendo il suo potenziale di attrezzatura collettiva per il tempo libero e per il benessere delle popolazioni da reperire sul versante urbano o rurale. Le procedure per il controllo di compatibilità paesaggistica espresse dall’organo di controllo regionale cercano di riconoscere le azioni progettuali della spazialità del periurbano purché tale interpretazione non sia causa di interferenze con la disciplina e le regole d’uso del sistema delle invarianti strutturali e sovraordinate presenti nel territorio. Un atteggiamento prudenziale che si attiene strettamente alle regole in vigore cercando una elasticità delle applicazioni contenuta che traduce nel linguaggio normativo tradizionale i valori del piano riformato. Le dinamiche decisionali degli itinerari di pianificazione comunale sono però ancora in corso per poter tracciare un resoconto attendibile delle proposte avanzate dai nuovi strumenti di piani e avanzare una casistica ragionata. Per concludere, la questione principale risiede nella generalizzazione e indeterminatezza delle azioni paesaggistiche alla scala vasta e dei modi attraverso i quali possono diventare operative alla scala comunale. La trascrizione diretta dei vincoli sul territorio senza alcuna distinzione di scala, come ha agito fino ad ora la pianificazione del paesaggio, mostra tutti i limiti in termini di efficacia (qualità del paesaggio vincolato) e di efficienza (rispetto della norma).
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Il Dipartimento ICAR- Politecnico di Bari, sotto il coordinamento scientifico del Prof. N. Martinelli, al fine di garantire attività di supporto tecnico scientifico agli Uffici Tecnici Comunali ha avviato con alcuni comuni pugliesi (in particolare oltre ai due casi studio si fa riferimento anche a Mattinata (FG), Castrignano del Capo (LE), il processo di redazione dei Piani Urbanistici Generali (PUG) ai sensi della LR20/2001. 11 LR 20/2001.
Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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Figura 1. I contesto territoriali periurbani definiti nel piano comunale dei comuni di Ruvo di Puglia e Apricena traducono lo scenario regionale del patto cittĂ campagna, proposto dal nuovo piano paesaggistico -PPTR-, inventando una spazialitĂ dinamica, quella periurbana, che non era rappresentabile nĂŠ dai contesti urbani e nĂŠ da quelli rurali individuati, presi separatamente, e concepiti invece dal documento di indirizzo regionale per la pianificazione generale, come due territori distinti.
Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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Figura 2. Per la cittĂ di Ruvo, il contesto periurbano nella proposta di pug ha il compito di consolidare il modello virtuoso di espansione accentrato costruendo una cintura agricola multifunzionale e di salvaguardia per supportare il contenimento alla proliferazione di frange urbane.
Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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Figura 3. Nella città di Apricena il cui centro urbano è attraversato da un fitto reticolo idrografico, il contesto periurbano, costruito per la gran parte sul sedime di un torrente che circonda il settore nord-occidentale della città, oggi in fase di regimentazione, ha lo scopo di salvaguardare dal punto di vista idraulico la città offrendo al contempo un’occasione per riqualificare e riammagliare una grande area di periferia pubblica alla città consolidata e per dotare la città di un nuovo parco urbano.
Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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Mariavaleria Mininni, Luigi Guastamacchia
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Agricoltura Urbana: strategie per la città dopo la crisi
Agricoltura Urbana: strategie per la città dopo la crisi Emanuele Sommariva Università degli Studi di Genova Dipartimento DSA Email: emanuele.sommariva@gmail.com
Abstract L’urbanizzazione delle società ha fatto emergere un forte attaccamento al concetto di territorio, tale da definire nuovi bisogni di naturalità e sovranità alimentare. Mentre da anni, si assiste ad una progressiva presa di coscienza sul rapporto tra produzione alimentare e sviluppo, poco è stato scritto circa le implicazioni potenzialmente profonde per la forma e la struttura della città. In questo senso, il superamento del rapporto dicotomico città-campagna si scontra con temi sociali estremamente concreti: come la domanda per un alimentazione più sana e la tutela delle produzioni tipiche, come la ricerca di migliori condizioni di vita e la necessità di garantire al contempo servizi decentrati e sistemi di trasporto veloce. Alla luce della recente crisi economico-ambientale, si pone in questa sede una riflessione sul ruolo dell'agricoltura e della filiera corta come occasioni per il progetto degli spazi aperti, urbani e periurbani, in grado di definire nuovi orizzonti per le discipline di governo del territorio.
Una nuova domanda di naturalità Serge Bonnefoy, in un suo noto saggio su Agricoltura e Diritto di cittadinanza, riflettendo sulle profonde relazioni tra capacità di sviluppo delle società e ridisegno dei territori, sostiene che, le relazioni tra città e agricoltura sono antiche quanto la città stessa: dalla città primitiva dell'accumulazione, alla città-mercato dei cereali, fino alle città moderne segnate dalla supremazia agricola e le agitazioni sindacali, per arrivare alla città che da il suo nome ai prodotti di origine controllata, la città come vetrina dell'agricoltura (Bonnefoy, 2005). Tali rapporti riguardano sia l’agricoltura estensiva delle grandi regioni, sia quella di prossimità, detta periurbana 1, più direttamente influenzata dalle dinamiche di sviluppo e dall’evoluzione dei rapporti tra spazio e società. Infatti è in prossimità della città che le pratiche agricole, spesso in contrasto con le grandi politiche pubblico-urbane, sono più direttamente interessate dallo sviluppo delle attività edilizie, ridefinendo contestualmente le categorie agricoltura/territorio, campagna/città/natura, urbano/rurale. Già anticamente Ambrogio Lorenzetti, quando dipinse le due 'Allegorie ed effetti del Buono e Cattivo Governo' 2, affidando all’opposizione città-campagna l’immagine della città di Siena, usò a pretesto questo rapporto per dichiarare solo come attraverso una gestione consapevole del territorio e della cosa pubblica, il popolo ne traesse beneficio. Per lungo tempo, da Cicerone all’Encyclopédie di Diderot e d’Alambert, l’immagine della città tradizionale ha coinciso con questa iconografia, con l’unica differenza che al limite delle mura è stato sostituito il più forte concetto di urbanitas (Corboz, 1995). 1
Per una definizione di agricoltura periurbana si veda AA. VV., (1999). Mouvance, cinquante mots pour le paysage. (a cura) l'Ecole nazionale supérieure du Paysage di Versailles. Paris: Edition 2 Allegorie ed effetti del Buono e Cattivo Governo, Siena Palazzo pubblico_Sala dei Nove. 1337-1340 Emanuele Sommariva
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Agricoltura Urbana: strategie per la città dopo la crisi
Sarebbe scontato infatti pensare che questa demarcazione si attui esclusivamente attraverso di un filtro fisico; nell’antichità, come in epoche recenti, il compito di cingere e delimitare la città viene affidato all’elemento naturale, che sia il pomerium romano di derivazione etrusca o il green belt britannico (Rinaldi, 1998). Ciò sta a significare che la demarcazione tra urbs e rus è più che altro un concetto, un limite mentale che tende a separare due realtà; una fascia di rispetto che aveva la funzione di non creare contaminazione tra due mondi distinti, ognuno regolato da leggi ben precise. A partire dal secondo dopoguerra, invece, gli spazi della ruralità hanno rappresentato sempre più il territorio d'espansione della città; spesso considerati paesaggi in attesa di una rivalutazione immobiliare secondo le logiche transitorie imposte dal mercato. Negli anni più recenti, la pervasività del processo descritto tende ovviamente ad aumentare e si osserva come in molti contesti metropolitani aumenti decisamente il campo della sub-urbanizzazione, che trasferisce sui comuni di seconda e terza corona, molto spesso a forte caratterizzazione agricola, una pressione abitativa di carattere decisamente esogeno. Le conseguenze sulla trasformazione del paesaggio rurale ed agricolo della combinazione di questi vari processi sono tutt’altro che trascurabili. In particolare nei territori della dispersione tendono a configurarsi contesti urbani diversificati ed eterogenei, in cui le strutture agro-paesistiche preesistenti costituiscono, seppur in modo labile, l'unico frame di riferimento. Nei territori ancora rurali e nei più integrati sistemi agroalimentari locali il ruolo dell’agricoltura nel plasmare il paesaggio rimane importante, pur nel quadro di una epocale rottura tra diversi tipi di agricoltura e di paesaggio (Lanzani, 2003). Inoltre oggi sta crescendo sempre più la consapevolezza della crisi, sia in termini politico-ambientali che economici. Lo sviluppo dello sprawl, la fine del modello fordista, i nuovi sistemi di comunicazione globale, le emergenze ambientali così come la sensibilizzazione collettiva sui temi di risparmio energetico ed uso di fonti rinnovabili, hanno contribuito a trasformare i presupposti culturali del progetto contemporaneo. Dopo più di due secoli di centralità del processo industriale, i modelli di sviluppo urbano e di organizzazione sociale legati ad esso hanno condotto l’agricoltura e i territori rurali ad un ruolo sempre più marginale. Mentre lo sviluppo agricolo e l'urbanizzazione sono cresciuti separatamente dalla percezione delle persone - due recenti indagini condotte dalla stampa inglese hanno mostrato che solo il 22% dei cittadini del Regno Unito era a conoscenza che la maggior parte del bacon commercializzato provenisse da aziende agricole estere e solo il 36% dei bambini conosceva i nomi degli ortaggi serviti nelle mense scolastiche - mai come oggi queste due discipline sono state così correlate. I motivi sono semplici, quanto significativi. In primo luogo, sia l'agricoltura che lo sviluppo urbano non possono fare a meno dell'uso delle stesse risorse, tra l'altro sempre più rare: terra, acqua ed energia. In secondo luogo, entrambe le discipline si trovano costrette a rispondere ad interrogativi globali urgenti: come servire, dare alloggio/lavoro e nutrire una popolazione mondiale che è stimata in circa 9 miliardi entro il 2050, di cui più della metà vive ormai in aree metropolitane? E nonostante ciò, mentre il modello della diffusione insediativa continua ad essere adottato a livello mondiale, nuovi terreni a buon mercato, spesso nelle regioni tropicali del Sud America e del Sud Asia, vengono disboscati e trasformati in coltivazioni agricole per la produzione di cotone o di soia per mangimi animali, sfidando il primato del settore detenuto dagli Stati Uniti (il Brasile è recentemente diventato uno dei colossi mondiali dell'agricoltura, fornendo alla Cina più di un terzo delle importazioni di soia). Guardando alla storia e pensando al futuro delle nostre città, vale perciò la pena di riflettere sul tema dell’agricoltura urbana e di prossimità, non tanto come a un rimedio passeggero anticrisi, ma come un modo di pensare, da un lato, a una maniera più sostenibile di progettare e vivere le città e, dall’altro, a sistemi alimentari più articolati che considerino meglio le specificità dei luoghi e le esigenze differenziate espresse dagli attuali stili di vita. Così, mentre l'interesse sul tema del cibo viene affrontato da diversi autori, specialmente nel rapporto tra produzioni agricole biologiche, identità locali e valori culturali ad esso connessi, poco è stato scritto circa le implicazioni potenzialmente profonde per la struttura delle città. Pertanto, la rielaborazione continua della dualità città-campagna rappresenta un’interessante chiave di lettura dei processi evolutivi del territorio e del paesaggio contemporaneo. In questo paper si intende quindi trattare di agricoltura urbana in nuovi termini, come uno dei temi futuri dell'Urbanistica per le città del III millennio; un tema strategico e strutturale allo stesso tempo. Come, dunque, l'agricoltura urbana può essere reintegrata all'interno degli spazi urbani o di frangia tale da rappresentare un paesaggio operativo di sostenibilità per l'ambiente e l'abitare?
Emanuele Sommariva
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Agricoltura Urbana: strategie per la città dopo la crisi
Il terzo paesaggio dell'agricoltura urbana Il paesaggio cui ci si riferisce è in particolare quello dei territori urbani di frangia, visti in relazione ai fenomeni della frammentazione dello spazio agricolo tradizionale, oggi sempre più interessati da nuove pratiche d’uso del suolo e da numerose attività economiche. In questi contesti si stanno delineando indizi di nuove ecologie territoriali, dipendenti sia dalla cultura urbana che da quella rurale, ma per molti aspetti portatrici di una proposta inedita di sostenibilità e di nuove forme di spazialità su cui vale la pena interrogarsi. Le campagne intorno alle città sono, per alcuni versi, i luoghi più instabili del territorio. Nella maggior parte dei casi, il destino delle campagne è quello di essere definito dalle dinamiche di trasformazione della città: le categorie descrittive, sottolineando un disagio interpretativo, parlano di spazi semiaperti, interclusi, chiusi, perché essi non sono portatori di una forma compiuta indipendente, ma risultano da ciò che gli sta intorno (Donadieu, 2006). Il paesaggio periurbano, che per pigrizia continuiamo a chiamare campagna (Pumain & Godard, 1999), rappresenta in realtà quell'insieme di insediamenti che si estende tra i confini delle città consolidate e lo sprawl a bassa densità, strutturato su una evidente matrice rurale, o su quelli che una volta erano gli spazi coltivati più prossimi alla città storica. Questo tipo di paesaggio è spesso caratterizzato da un tessuto sfrangiato ed eterogeneo, da tasselli di aree verdi delimitati da infrastrutture e costruzioni ormai estranee all’attività rurale; rappresenta la porzione di territorio dove la città esercita l'impatto ambientale più intenso dovuto sia alla sua immediata vicinanza al contesto urbano, sia al carattere di scarsa identità che solitamente sembra esprimere. Spesso questi luoghi, definiti distrattamente come residuali o marginali, non vengono riconosciuti come parte integrante della città e quando se ne parla si commette l’errore di sottovalutarne le potenzialità, sia per quanto riguarda le dinamiche di trasformazioni interne ad essi, sia per gli effetti di mitigazione ambientale indotti nei contesti urbani limitrofi. Gilles Clément nel suo saggio 'Manifesto del terzo paesaggio', parla appunto delle potenzialità ecologiche espresse dalle friches, dai territori residuali (délaissé) e dagli incolti, ormai abbandonati dalle attività dell’uomo, o mai sfruttati, che tuttavia costituiscono, nel loro insieme, una risorsa fondamentale per la conservazione della diversità biologica. E' il ribaltamento dell'idea dell'hortus conclusus, della natura ordinata dell'arte dei giardini, a favore di quegli spazi della ginestra di leopardiana memoria. La rivoluzione concettuale, operata dal testo di Clément, si intende se si smette di guardare al paesaggio come l’oggetto di un‘attività umana, scoprendo così una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome (Clément, 2004). Pertanto, la conoscenza e l’interpretazione dei molteplici paesaggi contemporanei necessita di un processo cognitivo nuovo, che superi le definizioni imposte dalla pianificazione tradizionale, così come la dicotomia tra spazio costruito e spazio aperto. Abituare lo sguardo alla comprensione di tutto il territorio, permette di riconoscere il valore anche di quelle porzioni di paesaggio rurale che le attuali logiche di mercato sembrano ignorare. I residui agricoli, i vuoti urbani, le zone di frangia tra diverse urbanizzazioni assumono così il ruolo di serbatoi di biodiversità, luoghi instabili capaci di accogliere specie pioniere per diventarne il loro rifugio biologico. Se letta in un ottica più ampia la tesi fornita da Clément è quella di considerare le potenzialità ambientali offerte dai vacuoli presenti ai margini o nelle città. L’urbanizzazione deve evitare processi di saldatura delle maglie intorno ai margini della città, in modo da assicurare occasioni di continuità biologica e percorsi d’infiltrazione alla biodiversità residuale, poiché la loro eccessiva chiusura sopprime gli scambi e dunque le possibilità di ‘invenzioni’ biologiche tra i territori (Clément, 2004). Questo carattere complesso dello spazio periurbano e della società che sceglie di abitarlo, tuttavia, non riesce ancora ad essere pienamente compreso né dalla cultura urbanistica, né da quella agricola, che lavorando in maniera settoriale, sottovalutano le implicazioni che hanno l’una sull’altra. Spesso i modelli disciplinari funzionalisti, tesi a distinguere nettamente fra dimensione insediativa e quella ambientale evidenziano sempre più l'inconsistenza di comprendere i processi di diffusione urbana ed il crescente degrado ed abbandono dei territori aperti.
Verso sistemi agroalimentari resilienti Diversi esperti internazionali come Joe Nasr, Andrè Viljoen, Andrè Fleury o Pierre Donadieu, solo per citarne alcuni tra i più noti, mettono in evidenza, nei loro studi sul rapporto tra agricoltura urbana e spazio pubblico contemporaneo, quanto la sensibilità a queste tematiche siano evolute negli ultimi anni. Per decenni, infatti, il tema dell'agricoltura è stato assente o molto marginale dalla scena urbana occidentale. Gli abitanti delle città stanno riscoprendo come i luoghi della produzione agricola o del settore alimentare possano trovare spazio tra le
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Agricoltura Urbana: strategie per la città dopo la crisi
frange della sub-urbanizzazione o all'interno dei tessuti consolidati, perfino sui terrazzi, nei cortili, negli spazi residuali in un ottica di ridisegno complessivo del paesaggio metropolitano. Gli spazi urbani se opportunamente reinterpretati possono offrire grandi potenzialità verso processi di trasformazione di questo tipo. Oggi negli Stati Uniti più di un terzo della produzione agricola di valore si trova all'interno delle Metropolitan Statistical Area; perfino nelle zone più densamente popolate del mondo trova spazio una produzione intensiva di cibo per favorire i mercati locali: la Randstad olandese, in questo senso, può essere l'esempio più evidente di conurbazione verde; mentre nel corso degli ultimi 10 anni le città di Hong Kong, Singapore e Taiwan hanno prodotto all'interno dei propri confini amministrativi ben oltre il 65% di pollame, il 16% di maiali e il 45% di ortaggi consumati dai propri abitanti (Smit, Nasr & Ratta, 2001). A seguito del World Summit on Food Security (Roma, 2009) promosso dalla FAO, e di convegni internazionali quali 'Cultivating the Capital' (London Assembly, 2010) o di ricerche di settore come 'Re-naturing Cities' (Bundesministerium für Verkehr, Bau und Stadtentwicklung - Ministero per l'Edilizia e le Infrastrutture tedesco, 2008), grandi città come Londra, Parigi, Berlino, Monaco e New York si sono dotate di documenti per la food policy, connettendo in un unico quadro temi legati alla salute e alla sicurezza alimentare con i programmi territoriali ed ambientali, fino ad obiettivi più specifici come la forma urbana. Le politiche urbane in questo senso si intrecciano con quelle sociali; riguardano la qualità del cibo e della vita dei cittadini, assumendo fenomeni trasversali in gran parte delle città europee e toccando questioni comuni, come la marginalità dei contesti periferici, l’invecchiamento della popolazione e la crisi occupazionale. Inoltre, in moltissimi casi, ciò che sta rendendo possibile il salto dall’agricoltura urbana e periurbana “residuale” alla formazione di sistemi agroalimentari resilienti, in grado di autoregolarsi, sostenendo le sollecitazioni esterne (crescita demografica, forze di mercato, evoluzioni scientifico-tecnologiche, cambiamenti climatici, riduzione della biodiversità...), nonché di affermarsi come componente multifunzionale del tessuto urbano, è lo sviluppo di modelli organizzativi articolati in gruppi di consumatori, ovvero in reti di negozi gestiti da produttori e da consumatori e di altre modalità a carattere partecipativo già esistenti (Calori, 2009). Siamo di fronte sempre più a strategie bottom-up, in cui storie diverse, ambientate in contesti di tutto il mondo, riguardano forme di economia alternativa ai modelli imposti dalla globalizzazione che considerino, riprendendo la riflessione di Andrea Branzi 'Per una nuova Carta di Atene', nuovi modelli di urbanizzazione debole e permeabile, evitando soluzioni rigide e favorendo, al contrario, dispositivi reversibili, incompleti, imperfetti, che permettano di adeguare continuamente lo spazio urbano a nuove attività, non previste e non programmate. Spesso queste storie esistono già da tempo, basti pensare che in Francia, esistono consorzi di coltivatori urbani attivi dalla fine del XIX secolo, mentre in Gran Bretagna la 'National Society of Allotment & Leisure Gardeners', fondata nel 1930, riunisce circa 2000 associazioni locali di piccoli coltivatori e distributori su filiera corta. Nella cittadina di Milton Keynes – a circa 80 Km a nordovest di Londra – come in decine di Parish Food Plans sono stati attivati piani di partecipazione pubblica, che partendo dalla valorizzazione dei prodotti tipici locali, arrivano alla programmazione di diverse politiche che pongono al centro la relazione tra produzione agricola, salvaguardia del paesaggio e nuovi servizi sub-urbani: dalla promozione di orti didattici nelle scuole, fino al reinserimento sistematico su scala più ampia di varietà autoctone di frutta e verdura; attraverso questi piani viene progettato sia un diverso assetto del paesaggio rurale sia la sua stessa gestione nel tempo, mettendo a sistema le microesperienze esistenti e attivandone delle altre. Un’esperienza analoga, che mostra in modo chiaro l’importanza di un’adeguata articolazione della presenza di queste diverse tipologie di attori, è dato dal caso di 'Unser Land', in cui da più di 15 anni, 180 agricoltori dell’area metropolitana di Monaco di Baviera producono, su oltre 4000 ettari di terreno, 40 prodotti locali sostenibili venduti in più di 1000 esercizi commerciali urbani e suburbani.
Building Edible Landscapes Mentre le associazioni non governative si adoperano da tempo su questi temi, architetti, urbanisti, paesaggisti e designers hanno solo recentemente preso in considerazione il ruolo progettuale che l'agricoltura urbana può assumere come motore di rigenerazione degli spazi aperti, trasformando i modi di concepire i paesaggi urbani (edible landscapes), i quartieri (eco-districts), o gli edifici (community-green buildings). L'enfasi sul design e la pianificazione sostenibile, attraverso programmi quali 'Leadership in Energy and Environmental Design' (LEED), ha contribuito ad incoraggiare in misura crescente interventi che sapessero includere temi sociali molto sentiti, quali: la riduzione della quantità di CO 2 prodotta/intrappolata nell'involucro strutturale degli edifici, il risparmio e la raccolta di acqua piovana, la realizzazione di tetti e facciate verdi, la riduzione degli impatti sullo smaltimento dei rifiuti, la mobilità alternativa, la permacultura, i giardini di comunità, le fattorie didattiche etc. La connessione tra temi legati al cibo e l'ecologia, insieme al rapporto tra forma e funzione architettonica, determinano, pertanto, una trasformazione delle tipologie edilizie tradizionali, sia che riguardino i temi della residenza sia quelli dei servizi di quartiere (scuole, palestre, biblioteche, centri commerciali...), fino a quelli dell'architettura informale, come nel caso degli orti urbani. Così in alcune rotatorie e aree di rispetto delle Emanuele Sommariva
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Agricoltura Urbana: strategie per la città dopo la crisi
infrastrutture di Barcellona viene riproposto il disegno delle campagne, mentre nell’ambiente cittadino si afferma il gusto per il jardin potager, un giardino con piantumazioni orticole di tipo ornamentale di matrice francese che richiamano, per struttura quella gli orti produttivi. Nei desideri collettivi lo spazio aperto periurbano si sostituisce allo spazio verde tradizionale che invece viene inteso come spazio del controllo sociale mentre lo spazio rurale viene percepito in una prospettiva di libertà di fruizione di possibilità di interagire con la natura. Il paesaggio rurale si sostituisce al parco come luogo delle passeggiate e del tempo libero, del relax, tanto da diventare anche uno stile progettuale dei nuovi giardini urbani (Rubino,2007).Molti esempi sono già visibili in diversi progetti di ‘rururbanizzazione’ promossi in Francia, nel Parc de Lilas a Vitry-sur-Seine, nelle vigne di Montmartre, nei parchi agricoli urbani del Bercy, o nell'area metropolitana di Montpellier, nel parco de la Lironde, ove i progettisti Portzamparc e Desvigne traspongono in aree urbane degradate motivi vegetali propri della campagna e articolano lo spazio in una sequenza di paesaggi tipica dei bocage naturali; ma anche in Italia, negli orti in concessione del parco Sud di Milano, sulle colline del Chianti o su quelle napoletane di San Martino, così come nella campagna ulivetata del Salento, in cui i sistemi agro-paesistici preesistenti, pur conservando le loro singole identità e senza avere come unica pretesa quella della produttività, vengono definiti da un processo di riorganizzazione più ampia, bene sintetizzato dai documenti del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Lecce con lo slogan Salento come Parco (Viganò, 2001). Per riprendere le riflessioni condotte da Donadieu, tutto questo si traduce nella consapevolezza che gli abitanti del paesaggio agricolo, soprattutto quello periurbano, sono attratti dai valori della campagna senza voler rinunciare ai servizi e al comfort offerti dalla città. Non si tratta, quindi, specificamente di un ritorno alla natura, bensì di un nuovo modo di concepire il paesaggio, unico tramite nel legame sociale della realtà diffusa. La sfida della città contemporanea potrebbe partire proprio dalla ridefinizione di queste realtà - siano esse urbane, peri-urbane, o rurali - le cui aree d’influenza variano a seconda di specifiche situazioni contestuali, ma i cui rapporti agro-urbani si alterano quanto più l’infrastrutturazione del territorio è evidente. Pertanto, la necessità di strutturare processi e politiche di messa in valore dei left overs della città diffusa, così come del recupero di aree dismesse e vuoti urbani, anche attraverso l'inserimento di attività agricole, può coincidere con l'idea di infrastrutture verdi più o meno continue, definite a seconda della scala dell'intervento e in grado di regolare i rapporti tra città e territorio in maniera osmotica (Donadieu, 2004). Questo tipo di lettura comporta la ricerca di nuove forme di governance e pianificazione, così come di un approccio multidisciplinare in grado di coinvolgere attivamente l'opinione pubblica, le istituzioni e gli stakeholder del territorio per dar seguito a programmi urbani partecipati; un progetto, in altre parole, che si costruisca su un’idea di perfezionamento del rapporto tra i luoghi e le comunità in essi insediate, cercando di interpretare il senso del territorio. L’agricoltura urbana e periurbana, così come appena descritta, implica pertanto un ripensamento più profondo all'idea di città e di campagna e che superi il concetto di tutela, in favore di politiche che non si limitino ad assicurare la protezione passiva dei paesaggi - poco efficace e non di rado controproducente - ma che ne assicurino la sostenibilità degli usi, attraverso una gestione appropriata, intervenendo laddove vi fossero situazioni di degrado, criticità, o profonda alterazione ecologica.
Bibliografia Libri Calori A. (2009), Coltivare la città, Milano: Terre di mezzo - Altreconomia Cinti D. (1998), Giardini & Giardini, Electa, Firenze. Clément G. (2004), Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata. Donadieu P. (2004), La construction de la ville campagne. Vers la production d’un bien commun agriurbain, Colloqui, Torino. Donadieu P., (2006). Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città. ed. italiana (a cura) M. V. Mininni. Roma: Donzelli. Lanzani A. (2003), I paesaggi italiani, Meltemi, Roma. Pumain D., Godard F. (1999), Données Urbaines, Anthropo, Torino. Smit J., Nasr J., Ratta A. (2001), Urban Agriculture: Food, Jobs and Sustainable Cities. United Nations Development Programme, The Urban Agriculture Network. Inc¸ New York. Viganò P. (2001), Territori della Nuova Modernità. Il piano territoriale di Lecce, Electa, Napoli.
Articoli Bonnefoy S. (2005), “Agricoltura e diritto di cittadinanza”, Urbanistica, n.128, p. 24 Corboz A. (1995), “L’ipercittà”, Urbanistica, n.103, p.6 Rubino A. (2007), “I paesaggi rurali nella ridefinizione della città contemporanea”, XII Convegno Internazionale Interdisciplinare Volontà, libertà e necessità nella creazione del mosaico paesistico-culturale. Cividale del Friuli
Emanuele Sommariva
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La nuova frontiera del consumo di suolo: il land grabbing
La nuova frontiera del consumo di suolo: il land grabbing Giuseppe Caridi Università degli studi di Reggio Calabria Dipartimento DAACM giuseppe.caridi@alice.it
Abstract Sembra inarrestabile la tendenza all’accaparramento su vasta scala di terra coltivabile (“land rush”). Land grabbing, commercial pressures on land, land deals sono solo alcune delle locuzioni con cui, seppure da diversi punti di vista, viene identificato il fenomeno. In questo quadro il suolo agricolo risulta il più probabile candidato alla prossima bolla speculativa (“land bubble”), indipendentemente dal brusco rialzo dei suoi prezzi su scala mondiale. Ma non è per la prima volta che assistiamo ad una dinamica attraverso la quale il suolo di interi continenti trova un diverso catasto, e perciò un nuovo padrone. Basti pensare alla storia del colonialismo che è piena di episodi di questo tipo. Quella è stata però la storia di un’altra epoca fatta di ‘strutture solide’ (continenti, stati, nazioni, etc.) e di forme di solidarietà e punti di riferimento comunitari. Oggigiorno il carattere ‘liquido’ della globalizzazione, ci costringe a ripensare il mondo nella sua struttura, organizzazione e logica di funzionamento, perciò i rischi indotti da questo fenomeno risultano molto più alti.
La nuova frontiera del consumo di suolo: il lang grabbing Negli ultimi tempi il tema del consumo di suolo sembra essere tornato all’attenzione dell’opinione pubblica e della disciplina urbanistica. Se proviamo a riassumere per grandi linee il senso di quanto si è detto e scritto a questo proposito emergono due principali posizioni che animano il dibattito, con molte sfumature tra l’una e l’altra. Da un lato assume centralità e preminenza l’aspetto tecnico e strumentale, ciò che conta è la definizione di metodologie, criteri e strumenti per il controllo del suolo. Dall’altro, l’attenzione si concentra sulle questioni di carattere epistemologico, con un obiettivo di ri-definizione delle modalità di intendere tale risorsa. In questo quadro il tema del land grabbing (“appropriazione dei terreni”) può essere considerato come la nuova frontiera del consumo di suolo 1. Se proviamo ad interrogare il sito-database gestito dall’ong Grain (http://farmlandgrab.org), utile a monitorare le operazioni di acquisizioni di suolo in corso, in giro per il mondo, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad una partita a risiko lasciata a metà. Ma questo non è un gioco da tavolo, è piuttosto il “risiko della terra” (Roiatti, 2010). E soprattutto, non sono i dadi a decidere la sorte dei concorrenti e perciò dei rispettivi territori, bensì il denaro. Il denaro usato dai paesi più ricchi, per sfruttare il suolo-merce dei paesi più poveri, che proprio in virtù di questa condizione sono costretti a privarsene. Nel dettaglio si tratta di una pratica basata sull’acquisto, o ad ogni modo l’affitto a lungo termine (dai 40/50 e fino a 99 anni), di grandi estensioni di terreni in paesi poveri con lo scopo di adibirli a coltivazioni agricole. Ma, punto essenziale, le relative produzioni sono essenzialmente destinate all’esportazione intercontinentale. I paesi costretti ad appendere il cartello "vendesi" sulle proprie terre 1
Per un approccio critico e documentato al fenomeno del land grabbing in relazione sia al valore strategico assunto dalla risorsa suolo, sia alle radicali trasformazioni che stanno modificando l’assetto dei mercati alimentari si veda Paolo De Castro, (2011). Corsa alla terra. Cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità, Roma, Donzelli. Per una narrazione del fenomeno legata allo schema neo-coloniale e più in generale un reportage sui riflessi del fenomeno riguardo alle società insediate si veda Stefano Liberti, (2011). Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Roma, Minimum Fax. Per una completa rassegna della pubblicistica internazionale si veda Borras S.M. Jr., Hall R., Scoones I., White B., Wolford W., (2011). “Towards a better understanding of global lang grabbing. An editorial introduction”. The Journal of Peasant Studies, 38 (2), 209-216.
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La nuova frontiera del consumo di suolo: il land grabbing
per privarsi del suolo, la più basilare delle risorse, in molti casi rappresentano le emergenze umanitarie del pianeta, e la maggioranza dei contratti finisce per coinvolgere i governi compresi nella lista dei paesi più corrotti (perciò nella sostanza più deboli) elaborata dall’ ong Trasparency International. Le multinazionali che ridisegnano la mappa del mondo acquistando, fanno invece capo a Stati Uniti ed Europa, ed in modo particolare ai paesi emergenti dell’Asia, Medioriente ed America Latina. Proviamo a vedere i numeri di questa partita. Il recente report della International Land Coalition (Anseeuw, Alden Wily, Cotula, Taylor, 2012) parla chiaro. Facendo riferimento agli anni compresi fra il 2000 ed il 2007 il fenomeno è lentamente cresciuto, facendo registrare alla fine del periodo contratti che hanno assorbito 10,4 mln di ettari di suolo. Il fenomeno ha poi subito un’impennata improvvisa, nel triennio 2008-10, che ha fatto registrare cessioni per ben 44,3 mln di ettari (Figura 1).
Figura 1. L’andamento delle acquisizioni 2000-2010 (fonte: ns. elaborazione su dati di Anseeuw et. al. 2012) Ad oggi, in tutto il mondo, sarebbero circa di 203 mln gli ettari di terra venduta, o ad ogni modo ceduta, per questa pratica (Tabella I). Tabella I. Acquisizioni di suolo al 2012 (fonte: ns. elaborazione su dati di Anseeuw et. al. 2012) Africa Asia America Europa Oceania
mln. di ettari 134,5 43,5 18,9 4,7 0,7
% 66,49 21,50 9,34 2,32 0,35
La brusca crescita del fenomeno è collegata a tre ordini di questioni. La sicurezza alimentare, nel senso che la domanda mondiale di cibo si estende quantitativamente e si articola qualitatativamente, mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse, l’impennata dei prezzi delle commodities agricole del 2008 legata alla debordante finanziarizzazione del loro mercato, ed indirettamente la produzione dei biocarburanti soggetta alle direttive americane ed europee che impongono alle multinazionali del petrolio la vendita di quote fisse di questo tipo di carburanti, incentivandone la produzione (Figura 2).
Figura 2. Natura degli investimenti (fonte: ns. elaborazione su dati di Anseeuw et. al. 2012)
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Secondo stime del Global Land Tool Network attraverso questa pratica circa 5 mln di persone in media ogni anni subiscono conseguenze legate agli espropri di terra (GLTN, 2008). Ma questo non è tutto. Sono piuttosto le conseguenze indirette a risultare più preoccupanti. Infatti attraverso questa pratica viene negato il pubblico accesso alle risorse che presuppongono una detenzione, un utilizzo e una gestione collettiva. Le popolazioni insediate si trovano costrette ad allontanarsi dalla loro terra, consentendo l’eliminazione del “controllo sociale” sullo sfruttamento delle risorse che caratterizza ogni gestione collettiva del suolo. Tende a scomparire l’agricoltura differenziata di carattere storico (che provvedeva a molteplici esigenze e rivestiva diverse funzioni), sostituita con le monocolture intensive, utili a soddisfare unicamente le richieste del mercato in termini di materie prime e di beni commerciabili. Più in generale si consolida un immaginario egemonico, che spinge verso il rifiuto a riconoscere l’esistenza di qualsiasi pratica d’uso del suolo esterna al mercato, e la sostituzione degli “interessi individuali” a ogni forma di “interesse comune”. Dunque, il suolo. Un concetto che viene da lontano e che nasconde, dietro molteplici declinazioni disciplinari, una storia in gran parte sconosciuta (Bevilacqua P., 2004), e soprattutto un’ideologia che ha saputo imporsi. In riferimento all’ambito disciplinare dell’urbanistica, la maschera mimetica del concetto di suolo che rinvia continuatamene ad altro da sé (territorio, ambiente, paesaggio, etc.), ha permesso di celare la sua consolidata figura di “bene di mercato”; così, esso finisce per essere il più vago e incerto fra i termini centrali nel lessico urbanistico, nonostante continui a rappresentare il principale elemento concettuale ed operativo posto alla base dell’epistemologia disciplinare. A mio avviso, troppo spesso le molteplici linee di elaborazione sul tema evitano di porre la questione di fondo che riguarda la sua attuale piegatura ideologica e culturale, la sua “essenza” cioè di mero elemento passivo, di banale merce; e, di conseguenza, rinunciano ad ogni obiettivo teso a scardinare i processi che hanno contribuito a determinarla. E questa tendenza fatta da un lato di inconsapevolezza e dall’altro di accettazione della visione dominante del mondo rende immanente e naturalizza, l’attuale stato delle cose. Attraverso la recente inchiesta “Corsa alla terra” di Piero Riccardi per Report (Riccardi, 2011), scopriamo il punto di vista di Klaus Deininger (capo economista di Banca Mondiale) riguardo alla pratica del land grabbing “[…] rispetto a 3 o 5 anni fa, prima di questa ondata di investimenti nessuno era realmente interessato all’agricoltura. Era un’industria al tramonto, un’attività considerata poco sexy. E’ cambiato molto da allora. E penso che sia uno sviluppo davvero positivo, perché saremo in grado di aiutare in maniera significativa i poveri”. Ma è questa una scelta, camuffata dalla presunta necessità di risolvere il problema della fame nel mondo, che proprio non mi convince. A mio avviso occorre porre a corollario di ogni prospettiva politica la necessità di indicare il superamento da una parte della nozione di sviluppo inteso come incremento indefinito della mercificazione, e dall’altra della stessa nozione di crescita intesa, di fatto, come uno stato naturale e positivo. Ciò è tanto più urgente nella misura in cui si ha a che fare con un Terzo mondo, già messo in ginocchio dalla fame, e che peraltro in termini culturali risulta legato all’idea del limite e della sussistenza, piuttosto che a quella di crescita indefinita 2.
Contenere il land grab. Concepire il suolo come un ‘bene comune’ In questo senso occorre porre al centro delle elaborazioni e delle pratiche urbanistiche un punto di vista fondativo: la concezione del suolo come bene comune. Un’istanza questa dei beni comuni che, ancorché “tecnicamente amorfa” (Mattei, 2001), dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui “destini” dell’urbanistica e, più in generale, sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata. Questa prospettiva di ricerca del suolo come bene comune ci permette invece di innescare una dinamica tesa a sottrarre il suolo alle logiche di mercato che hanno determinato negli ultimi decenni non solo una inesorabile e progressiva cannibalizzazione del suolo, ma anche una completa espropriazione di ogni significato “collettivo”. Ciò comporta dare centralità alle relazioni di prossimità tra abitanti e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, lavorando per riaffermare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del proprio lavoro e del proprio abitare. Oggi il dibattito sui beni comuni è sicuramente più maturo. Il tema della “tutela dei beni comuni” ossia quell’insieme di pratiche legate ad interpretare criticamente questioni come la privatizzazione delle risorse naturali, la progressiva erosione dei beni e dei servizi pubblici, l’indebolimento dei meccanismi democratici di controllo, le restrizioni legali sul diritto d'autore sui brevetti e marchi commerciali informano il dibattito scientifico nazionale ed internazionale. Ed in particolare la questione del suolo come bene comune, e per traslato l’interpretazione in termini strategici del suo controllo (dal punto di vista della sua produzione e della sua riproduzione) entra a pieno titolo fra i termini del dibattito urbanistico (Caridi, 2012). Ciò vale, in qualche modo, anche in relazione alle recenti posizioni in merito espresse anche dall’INU che fanno riferimento alla “mancata acquisizione dal vigente sistema normativo del significato di ‘bene comune’ che il suolo indubitabilmente 2
Luci ed ombre in riferimento al fenomeno degli aiuti allo sviluppo sono evidenziate in Dambisa Moyo, (2009). Dead Aid. La carità che uccide, Milano, Rizzoli.
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assume” (Arcidiacono, Di Simine, Oliva, Pareglio, Pileri, Salata, 2011). Questa prospettiva di ricerca permette di assicurare alle comunità insediate un controllo consapevole e democratico del suolo, con l’intenzione di rimuovere le disuguaglianze legate al suo accesso/controllo. Mentre la Banca Mondiale continua ad affermare che questo “crescente interesse globale per le terre agricole” (Deininger, Byerlee, 2011) non costituisce un vero e proprio problema gli indignados della terra di Africa, Asia ed America latina continuano ad organizzarsi e a lottare per difendere il proprio suolo, affermando il loro diritto al lavoro, al cibo ed alla sopravvivenza. La realtà è cruda ed occorre conoscerla per modificarla, se vogliamo modificarla.
Bibliografia Anseeuw W., Alden Wily L., Cotula L., Taylor M. (2012), Land Rights and the Rush for Land: Findings of the Global Commercial Pressures on Land Research Project, ILC, Roma. Arcidiacono A., Di Simine D., Oliva F., Pareglio S., Pileri P., Salata S. (a cura di, 2011), CRCS. Rapporto sul consumo di suolo 2010, Inu edizioni, Roma. Bevilacqua P. (2004), “Il suolo: una storia sconosciuta”, in I frutti di Demetra, n. 4, pp. 5-8. Caridi G. (2010), Figure identificative del suolo nel Mezzogiorno, Tesi di dottorato, Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria, Reggio Calabria. De Castro P. (2011), Corsa alla terra. Cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità, Donzelli, Roma. Liberti S. (2011), Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Minimum Fax, Roma. Borras S.M. Jr., Hall R., Scoones I., White B., Wolford W. (2011), “Towards a better understanding of global lang grabbing. An editorial introduction”, in The Journal of Peasant Studies, n. 38 (2), pp. 209-216. Deininger K., Byerlee D. (2011), Rising Global Interest in Farmland, World Bank, Washington D.C. GLTN (2008), Secure Land Rights for All, UN-HABITAT, Nairobi. Mattei U. (2001), Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari. Moyo D. (2009), Dead Aid. La carità che uccide, Rizzoli, Milano. Riccardi P. (2011), “Corsa alla terra”, in Gabanelli M. (condotto da), Report, Rai Tre, puntata trasmessa il 18 dicembre. Roiatti F. (2010), Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili, UBE, Milano.
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Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali.
Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali. Carmela Coviello International Doctorate Architecture and Urban Phenomenology - UNIBAS Email: coviit@gmail.com Tel. 340.7258140 Cristina Dicillo International Doctorate Architecture and Urban Phenomenology - UNIBAS Email: dicillo.cristina@libero.it Tel. 339.6749843
Abstract Lo sviluppo metropolitano cinese ha registrato, negli ultimi decenni, un’intensificazione senza precedenti delle pratiche di inurbamento identificabili nella proliferazione di villaggi semi-urbanizzati in area metropolitana. Se da un lato questi luoghi, in cui ancora sopravvivono i caratteri identitari della tradizione agricola, vengono coinvolti dalla violenza delle recenti trasformazioni economiche, dando origine a nuove forme ibride agrourbane, i villaggi raggiunti dalle propaggini della conurbazione metropolitana si trovano ad affrontare la sfida della ristrutturazione territoriale e le recenti politiche di demolizione/rilocalizzazione. Una riflessione sulle dinamiche del consumo di suolo che si muove in una dimensione urbana ‘allargata’, laddove l’esplosione della forma metropolitana di fatto mette in crisi il rapporto tra città e territorio reclamando nuove forme di governance capaci di confrontarsi con la scala glocale alla luce di una nuova sensibilità agro-urbana. Questioni attualmente insolubili date le condizioni politiche del Paese che, sebbene in questo momento si mostri particolarmente sensibile alle criticità ambientali e sociali connesse alla crisi abitativa, non è ancora in grado di emanciparsi da una gestione autocratica e nebulosa del proprio territorio.
1. Introduzione: modelli di urbanizzazione nel sub-continente cinese e scenari di consumo di suolo. Le dinamiche dell’espansione metropolitana cinese sono direttamente connesse alle modalità di interazione tra contesti di matrice rurale e aree urbane, le cui criticità in termini giuridici, economici e politici influenzano sensibilmente la morfogenesi di nuove forme insediative ibride ai margini delle megacities e la degenerazione della struttura territoriale storicamente consolidata. L’evoluzione della forma urbana, in un paese che per dimensioni ed eterogeneità di scenari è identificabile come un vero e proprio sub-continente, si declina localmente secondo una ratio diversa in base alle caratteristiche geografiche e socio-economiche della specifica area. A partire dal 1949, quando Mao Zedong avvia il progetto di rinascita della metropoli per consolidare e in certi casi costruire un progetto urbano identitario di un regime e di questo spazialmente rappresentativo attraverso la ricalibrazione ex post delle densità abitative, le politiche cinesi hanno fortemente influenzato e modellato l’urbanizzazione del territorio con risultati spesso catastrofici. Conclusasi la fase maoista che aveva irreggimentato la popolazione paralizzandone gli spostamenti, la rapida transizione verso l’economia di mercato ha innescato un’impennata nella crescita del suolo urbano attraverso la promozione, negli anni ’80, di zone di espansione ad alto profilo sperimentale a discapito della qualità abitativa diffusa. Allo stato attuale è possibile, in maniera sintetica, riconoscere due diversi macro-modelli di urbanizzazione, sostanzialmente esaustivi per quanto riguarda la descrizione delle pratiche insediative nelle grandi megacities cinesi: da un lato lo scenario ad alta densità delle città della costa orientale, in cui i processi di urbanizzazione Carmela Coviello, Cristina Dicillo
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Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali.
registrano accelerazioni senza precedenti ed operano a scala regionale sotto la spinta di un trend economico in continua ascesa (Del Monaco, 2006), dall’altro il panorama delle città della Cina centro-occidentale, investite solo marginalmente dal boom di mercato e caratterizzate da fenomeni di pseudo-urbanizzazione legati al pendolarismo dei lavoratori migranti che produce forme insediative di sussistenza nell’area di influenza dei grandi centri urbani.
2. L'esodo rurale e le modificazioni morfologiche della metropoli cinese. Nell’area continentale del paese lo sviluppo metropolitano, in tutte le sue deformazioni, è in gran parte riconoscibile come conseguenza formale dell’esodo rurale dei lavoratori migranti e dei fenomeni di pendolarismo dei residenti ‘temporanei’ che negli ultimi decenni hanno innescato un’enorme movimentazione di persone dalla campagna verso la città. Un esodo che si traduce nella costruzione abusiva di villaggi lungo le frange urbane, in molti casi vere e proprie realtà-ghetto, enclaves della dispersione (Deng F., Huang Y., 2004). L’accelerazione dei processi di urbanizzazione rappresenta la necessaria conseguenza di una trasformazione socio-economica avvenuta troppo rapidamente (Yu K., Wang S., Li D., 2011): la transizione da un regime socialista di impostazione sovietica ad una logica di mercato ha ulteriormente impoverito gli strumenti di pianificazione, innescando la crescita di conurbazioni esterne all’area del masterplan così che un nuovo spazio rur-urbano si viene formando. Malgrado la crescente globalizzazione di linguaggi, le dinamiche dell’esodo cinese differiscono infatti dalle esperienze europea e statunitense della prima metà del XX secolo per scala e modalità di insorgenza (Ciccarelli S., Fardelli D., Olivieri F. M.). L’abbandono dei modelli socialisti che avevano impostato la pianificazione sulla base di proiezioni demografiche spesso non esaustive, con semplificazioni macroscopiche nella zonizzazione e nella definizione dei land uses, ha invertito la direzione dell’urbanizzazione favorendo un’espansione per ‘scattered clusters’ (Deng F., Huang Y., 2004) che ha inevitabilmente indebolito il territorio rurale. Fenomeni come la suburbanizzazione e la dispersione, diversamente rispetto a quanto accaduto in Occidente, non si configurano come esito di trend abitativi, bensì come risultato di un’ingerenza statale che ancora oggi pesa nelle trasformazioni e della quale non si riescono a definire chiaramente i raggi di influenza . La gestione del regime proprietario dei suoli, disciplinata dalle Riforme del 1978 e 1987, rispettivamente dedicate ai territori agricoli ed urbani, rimane oscura e quasi nella totalità dei casi controllata autocraticamente dal Governo Centrale: il valore dei suoli rurali viene artificialmente mantenuto più basso attraverso un meccanismo di compensazione, alimentando le pratiche di land grabbing da parte delle amministrazioni che, approfittando della poca chiarezza e della sostanziale ignoranza da parte degli abitanti per quanto concerne lo stato proprietario dei suoli, procedono facilmente ad espropriare aree rurali per convertirle in appetibili aree di sviluppo urbano. Le interferenze tra suolo destinato allo sviluppo urbano e territori che reclamano ancora una vocazione prettamente agricola evidenziano una inefficiente capacità di prefigurazione spaziale nei processi di pianificazione dell’espansione urbana, la quale produce una sorta di paradosso (Deng F., Huang Y., 2004) per cui troviamo aree di sviluppo sovradimensionate a dispetto della loro distanza alla città, mentre la dimensione dei villaggi rurali appare ipertrofica, concretizzata in agglomerati discontinui rispetto alla forma riconoscibile dalla città, collocandosi ragionevolmente nella nozione di sprawl. La strategia statale basata sull’individuazione di aree di sviluppo -articolate in maniera discontinua lungo le frange metropolitane e disciplinate in maniera non uniforme sul territorio nazionale- esplode negli anni ‘90 come strumento di promozione dello sviluppo della Cina Occidentale. Tuttavia, malgrado i numerosi tentativi di ridimensionamento e regolamentazione da parte del Governo, culminati nel 2003 con lo stop alle approvazioni per la localizzazione di nuove development zones, questo progetto di urbanizzazione forzata, fatta eccezione per le aree ad alta specificità tecnologica, si è rivelato un sostanziale fallimento. Questo sistema ha infatti dato vita in molti casi ad un’insostenibile struttura duale, raddoppiando di fatto la centralità storica dell’insediamento principale attraverso l’artificiosa creazione di un secondo nucleo in discontinuità: le nuove aree, concepite in maniera ipertrofica ma senza un coerente progetto di socialità, una volta terminate e dotate di servizi rimanevano spesso disabitate senza assolvere in alcun modo alla funzione catalizzatrice attribuita dal Governo Centrale, che, attraverso operazioni di conversione dei territori da rurali a urbani, vi aveva concentrato gli investimenti immobiliari nella speranza di creare scenari appetibili per il mercato nazionale e straniero. La trasformazione ed il leasing dei suoli pubblici costituisce una forma di parziale controllo da parte del Governo che detiene la proprietà dei suoli, alimentando un’ambiguità nel regime statutario che avvantaggia lo Stato a discapito della popolazione residente formalmente prima di diritti, e incrementando contemporaneamente tensioni tra i diversi livelli amministrativi che approfittando di questo stato confuso cercano di appropriarsi indebitamente di quote delle rendite del land leasing (Deng F., Huang Y., 2004). La realtà dei villaggi risulta dunque totalmente opposta: l’edificazione abusiva di insediamenti a bassa densità secondo stilemi rurali e in totale assenza di standard e dotazione infrastrutturale, si connota di un carattere non urbanizzato sebbene la popolazione residente -specie nei villaggi localizzati in prossimità dei centri urbani- sia Carmela Coviello, Cristina Dicillo
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Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali.
spesso non impiegata in attività legate all’agricoltura: in molti casi sono gli stessi contadini ad avviare pratiche di sub-leasing massimizzando lo spazio disponibile, attraverso ampliamenti coatti e riduzione della qualità delle proprie abitazioni, per affittarlo ai lavoratori della città. Se consideriamo che queste realtà si consolidano nel tempo per generazioni, trasformando insediamenti abusivi in comunità etniche place based, è facile capire che la strategia Leaving the land but non the village (che prevede il trasferimento da parte delle autorità dei residenti dei villaggi in altre sedi per appropriarsi dei suoli destinati all’agricoltura scoraggiando la migrazione verso la città) non è in alcun modo sostenibile.
3. La Pechino regionale. Tassonomie dei villaggi all'interno dei processi di ristrutturazione territoriale. La città di Pechino con i suoi 19,72 milioni di abitanti raggiunti con 10 anni di anticipo rispetto alle previsioni statali grazie ad un apporto della popolazione ‘fluttuante’ pari ad oltre 7 milioni di ab, attraversa contemporaneamente, in quanto metropoli globale, processi di urbanizzazione e suburbanizzazione (Del Monaco, 2006). Un’espansione che procede alla velocità di 32 km2 l’anno (Yu K., Wang S., Li D., 2011), il cui impatto distruttivo alimenta enormi conflitti relativamente ai land uses dei territori del distretto, innescando fenomeni di erosione estensiva dei suoli, perdita di fertilità, e degrado dell’identità spaziale e culturale dei paesaggi vernacolari irrimediabilmente invasi dallo sprawl. Superata la fase di crescita concentrica e simmetrica degli anni ‘80, identificabile nel tessuto denso e dominato dalla dimensione orizzontale che si estende in un’area di 20km di raggio dalla Inner city, l’urbanizzazione a Pechino ha assunto un carattere agglomerativo sulla base della trama costituita dalle linee di forza delle infrastrutture stradali, disattendendo le previsioni del Regolamento Edilizio del 1987 e del General Plan of Beijiing 1983-93 che prevedeva uno sviluppo satellitare attorno ad un robusto nucleo consolidato costruito anularmente attorno alla città storica (Del Monaco, 2006). Le previsioni al 2015 riferiscono infatti che quasi tutti gli insediamenti che orbitano intorno alla città verranno raggiunti e inglobati e le aree verdi disposte a cintura tra l’area urbana e quella rurale scompariranno completamente. Il masterplan, che continua ad avere efficacia ed importanza prioritaria rispetto a qualsiasi strumento di tutela e conservazione, è stato fortemente indebolito dal passaggio all’economia di mercato e si trova adesso a misurarsi con la conurbazione di insediamenti a scala regionale che reclama un nuovo approccio alla pianificazione in termini di sostenibilità e abitabilità.
4. I villaggi rurali in area urbana e periurbana: storie ibride di abitanti e frammenti di città I villaggi urbani della città di Pechino, criticati dal governo locale come un tumore maligno 1, sparute rimanenze all’interno del quinto anello stradale che attraversa la metropoli così come i villaggi rurali, un tempo luoghi lontani dalla città seppure parte del suo territorio, sono realtà estremamente complesse, senza regolamentazione e ormai quasi certamente destinati alla scomparsa sostenuta da politiche di accanita urbanizzazione. La rapida urbanizzazione della Cina ha consentito la formazione di questo contesto duale sotto il profilo legislativo, territoriale, dell’housing e amministrativo. E’ in generale il risultato della direzione perseguita dal governo locale che ha permesso l’originarsi di questa dualità urbano/rurale. Il villaggio, sia nell’area urbana che in quella rurale, gioca un ruolo significativo nella rapida ed estensiva urbanizzazione, ed è per questa ragione che la loro riqualificazione dovrebbe abbandonare il metodo bulldozer escludendo l’impulso profit-oriented e la tendenza dual-policy del governo locale. Il sistema politico cinese determina distinzioni tra i diritti e i doveri di un cittadino della città e di uno della campagna: la distinzione è tra il cittadino rurale (nonghu) e quello urbano (chengu); le politiche rigorose hanno scoraggiato i cittadini rurali a cercare di acquisire lo status di cittadini urbani provocando una serie di tensioni il cui prodotto è il villaggio urbano: un villaggio rurale che occupa la periferia del più grande insediamento urbanizzato post 1978; immerso tra i muri dei grattacieli e delle infrastrutture, l’abitante è costretto a cercare un posto di lavoro metropolitano ma non può farlo legalmente a causa del suo status di cittadino rurale. La pianificazione urbana del villaggio non è regolamentata così come la costruzione delle infrastrutture e l’ordine pubblico; il villaggio urbano è di fatto un’enclave indipendente. Comunemente associati ai problemi sociali e alle attività illecite, i villaggi urbani hanno assorbito una popolazione fluttuante fatta di lavoratori rurali a basso costo per gli agglomerati urbani.
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Zhang Jingxiang & Zhao Wei (2007). City Village in Dual System Environment. China Academic Journal, City Planning Review, Vol.31 N(1), 63-67.
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Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali.
Nella Pechino degli anni cinquanta i villaggi urbani erano piccoli insediamenti lontani dall’urbanità e circondati da suolo destinato ad uso agricolo, fonte di sostentamento per gli abitanti dell’area metropolitana. Incorporati adesso all’interno dell’attrattivo contesto urbano (cfr. Fig. 1 Li lang Zuang village ,19 Km dal Palazzo d’ Estate) sono terreno appetibile, soprattutto non essendo loro riconosciuto alcun particolare valore e spesso, nonostante tentativi di sensibilizzazione (cfr. Fig 1 Sun Palace, Migrational Fields project 2) vengono nottetempo demoliti per essere rimpiazzati velocemente con interi quartieri frutto di una tradizionale speculazione immobiliare anche incoraggiata dai governi. A facilitare la manovra anche la condizione degli abitanti facenti parte della lower-class category che non risultano nemmeno proprietari della terra che abitano da sempre destinata ad uso collettivo. Altri villaggi quelli rurali che fanno parte della frangia della periferia di Pechino, sono spinti ad assumere una precisa vocazione turistica legata ad una fittizia immagine di ruralità cinese (cfr. Figura 1, Che ery ing) o se ibridi dal destino non ancora definito, sono probabilmente i primi villaggi destinati a scomparire nella macina speculativa (cfr. Fig Qui An Zhang Cun) quando non inglobati in una logica da lunafolk-park emuli di esempi già rodati (cfr. Fig. 1 Sujitiao, Xugenzhuang) In un’intervista presso la Facoltà di Landscape Architecture della Peking University tenutasi lo scorso settembre, Konjian Yu ( Turenscape, Landscape Architecture Faculty PKU ), alla domanda circa il futuro scenario per queste realtà, ha risposto che una delle argomentazioni più rilevanti è certo quella di proteggere questi luoghi, la loro storia ed il loro valore non riconosciuto dalla demolizione, dalla conseguente speculazione come anche dalla brutale riqualificazione.
Figura 1. Localizzazione di villaggi urbani e villaggi rurali del distretto comunale di Pechino
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Bhatia N., Cheng M., Nguyen E.,Peng L. & Jiang Y., (2011). Migrational Fields: Farming and the Chinese Urban Village. In [ On Farming ] – Almanac 1. Barcelona, ACTAR. 82-88
Carmela Coviello, Cristina Dicillo
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Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali.
Figura 2. Immagini dei villaggi di Li lang Zuang, Qui An Zhang Cun e dei pannelli pubblicitari che pubblicizzano una nuova “Civilized Chaoyang” sulle macerie dell’ormai demolito Sun Palace.
5. Ricostruzione dei processi produttivi di filiera: il rapporto cibo/spazio urbano in Cina. Carolyne Steel lo chiama Urban Paradox (Steel, 2008). La gente che vive le metropoli possiede uno stile di vita che non contempla di conoscere da dove viene il proprio sostentamento; noi continuiamo a chiamarlo countryside e le immagini che questo spazio evoca non hanno nulla a che fare con le realtà della moderna produzione alimentare. Così il concetto di urbanità ereditato da un distante passato rurale presume che il sostentamento possa essere infinitamente estratto dal mondo naturale. Mero sogno. La verità è l’esatto contrario, considerando che metà della popolazione globale vive in città e che i numeri sono destinati a duplicarsi in un non lontano futuro. La rivolta alimentare cresce in maniera esponenziale e i raccolti fallimentari, il petrolio alle stelle, i combustibili e la speculazione spingono i prezzi del cibo a livelli record. Nel 1995 Lester R. Brown scriveva Who will feed China?, una wake-up call per i leaders politici e la gente comune che potesse a suo avviso indirizzare verso questi problemi prima che si potesse verificare il peggiore degli scenari. Diceva Brown:” Se la nazione continua a industrializzarsi, ci sarà bisogno di importare grano per incontrare i bisogni crescenti dei consumatori e dei numeri in crescita. Allo stesso modo i leader fuori dalla Cina hanno bisogno di guardare in faccia alla realtà di come questo può influenzare il prezzo del cibo nei loro Paesi” (Brown L.R. 1995 p. 12). All’epoca sottostimato dalla politica cinese, il suo allarme aveva la pretesa di rendere sensibile la Cina all’idea che un giorno avrebbe avuto bisogno di importare un largo quantitativo di grano. Già nel 1994, dato l’aumento del prezzo del grano del 60%, il governo aveva dovuto importare 6 milioni di tonnellate di grano in un mese alla fine dell’anno, principalmente dagli Stati Uniti. Questo è in generale quello che accade se i paesi diventano densamente popolati prima che industrializzati: inevitabilmente soffrono di una pesante perdita di aree agricole. Nel 2007, la superficie agricola in acri è di 1826 bilioni di Mu nel 2007 rispetto ai 1.914 bilioni di Mu del 2001 (1 ettaro: 15 Mu ), avvicinandosi rapidamente agli 1.8 bilioni che il Governo Cinese vuole mantenere fino al 2020 per garantire la sicurezza alimentare. Anche in questo caso, lo stile di vita del ricco minaccia il povero. Il boom economico ha dato alle città cinesi impressionanti skylines e gigantesche autostrade ricche di macchine, con il numero di possessori di auto che cresce del 20% ogni anno così come il costo del pedaggio sulle strade a scorrimento veloce, condizionando l’economia sul piano dei trasporti di ogni sorta, alimentare compreso. Venti anni fa, il secondo anello di Pechino era considerato periferia; oggi questa città sta costruendo il sesto anello intorno agli altri. Lo sprawl urbano ha coperto vasti tratti di countryside diseredando conseguentemente quaranta milioni di contadini rimasti senza terra.
Carmela Coviello, Cristina Dicillo
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Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali.
Nel caso della città di Pechino la realtà dei villaggi urbani e rurali potrebbe tuttavia essere considerata oggi un potenziale per lo sviluppo dell’agricoltura urbana e peri-urbana, favorendo le economie locali prive di sovrastrutture e potenziando le risorse già esistenti sul territorio (es. il mercato delle uova su due ruote a Dar Er Salaam, Tanzania) per poi includere interventi di pianificazione della zona verde differenziando da questa il paesaggio produttivo/agricolo le cui tracce sono ancora ben evidenti nei villaggi della Greater Beijing. Perchè, se la popolazione cinese è in crescita e richiede enormi quantità di energia, acqua e cibo, il prodotto per il sostentamento della stessa non potrebbe provenire dai villaggi comunque sopravvissuti alla crescita delle città? Brown concludeva il suo saggio sostenendo che pur essendo il mercato del cibo una piccola fetta dell’economia globale, è così basica che qualunque difficoltà nell’espandere gli output adeguatamente caratterizzerebbe il crollo dell’economia e una conseguente instabilità politica in Cina e nel mondo intero (Brown L.R. 1995 p.75).
Figura 3. Immagini che illustrano il rapporto cibo/spazio urbano nei villaggi in area urbana e periurbana. Verdure ai bordi delle strade, beni di consumo alloggiati in improbabili container o posti a terra in pile in attesa di essere venduti, comprati. Lo spazio destinato alla vendita e alla coltivazione di alcuni beni di consumo è arbitrario e poco codificato. I villaggi si configurano, oltre che come serbatoio di aree edificabili per sostenere lo sviluppo urbano, anche come cellule produttive che partecipano alla filiera produttiva/distributiva di beni di consumo.
6. Conclusioni A prescindere dalle implicazioni politiche, gli strumenti messi in campo dall’urbanistica tradizionale hanno mostrato prestazioni inefficaci, dando luogo a episodi di sprawl incontrollato, con conseguente perdita di identità culturale, degrado ambientale, perdita di fertilità dei suoli e vulnerabilità geologica: nuovi dispositivi sono ora chiamati in campo per risolvere l’emergenza territoriale cinese e misurarsi con le criticità esplicitate dalla degenerazione dello spazio metropolitano alla luce di una nuova sensibilità di matrice agro-urbana. La Greater Beijing deve confrontarsi con la sua vocazione globale preservando contestualmente l’identità culturale e l’integrità ambientale dell’intera regione che le gravita intorno, rielaborando il rapporto con gli insediamenti orbitali al fine di reperire nuovi dispositivi da opporre alla crisi ambientale, culturale e abitativa che investe oggi tutto il Paese. Guardando al futuro, numerosi elementi emersi dalle fonti così come dalle indagini condotte sul campo, portano a ipotizzare che la frangia che separa la realtà rurale da quella urbana diventerà presto il punto caldo dello sviluppo e dell'espansione come della proliferazione delle città cinesi. Non da meno le realtà superstiti dei villaggi urbani in area metropolitana hanno bisogno di trovare o ritrovare una vocazione ed un futuro. Allo studio e alla conoscenza dei villaggi rurali in area di frangia urbana e dei villaggi urbani in area metropolitana deve essere urgentemente affiancata un'azione di pianificazione oculata così da affrontare in maniera efficace e sostenibile i problemi di queste forme ibride che contengono in potenza la chiave per un progetto integrato di agro-urbanità. Carmela Coviello, Cristina Dicillo
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Scenari di consumo di suolo e processi di urbanizzazione nella Cina contemporanea. Il caso di Pechino e dei villaggi rurali.
Bibliografia Libri Baoxing Q. (2011), Urban Planning Reform in China’s Urbanization Process, China Architecture & Building Press. Brearley J., Qun F. (2010), Networks Cities, China Architecture & Building Press, ISBN:978-7-112-12438-1 Lester R. Brown (1995), Who will Feed China? Wake-up call for a small planet, W W Norton & Company, NewYork Steel C. (2008), Hungry City: how food shapes our lives, Chatto & Windus, London.
Articoli Bhatia N., Cheng M., Nguyen E.,Peng L. & Jiang Y. (2011), “Migrational Fields: Farming and the Chinese Urban Village”, in On Farming- Almanac 1. Barcelona, ACTAR., pp. 82-88 Cui Gonghao & Wu Jin (1990), “The Spatial Structure and development of Chinese Urban Fringe”, Acta Geographica Sinica, Vol.45 N(4), pp. 399-411. Del Monaco A. (2006), “Tre Modelli Metropolitani nel Sub Continente cinese: Pechino, Shanghai, Shenzhen”. L'Industria delle Costruzioni, vol. 389; pp. 12-25, ISSN: 0579-4900 Deng F., Huang Y. (2004), “Uneven land reform and urban sprawl in China: the case of Beijing”, Progress in Planning 61 (2004), pp. 211-236 Li Zhigang, Yu Taofang, Wei Lihua & Zhang Min (2007), “A Study on the Transition of “Transitional Community” under the High-Speed Urbanization in China”, China Urban Studies, Vol.14 N(5), pp. 84-90. Lan Zong.min & Feng Jian (2010), “The time allocation and spatio-temporal structure of the activities of migrants in “village in city”: Surveys in five “villages in city” in Beijing”, Geographical Research, Vol.29 N(6), pp. 1092-1104 Steel C. ( 2012 ), “Sitopia – harnessing the power of food2, in Sustainable food planning evolving theory and practice. Edit by André Vijoen & J.S.C. Wiskerke, The Netherlands, Wageningen Academic Publishers. pp. 37-45. Yu K., Wang S., Li D. (2011), “The negative approach to urban growth planning of Beijing, China”, Journal of Enviromental Planning and Management, 54:9, pp. 1209-1236 Yunyu Fang,(May 27, 2011), “Paved with gold”, Global Times, pp. 8-10. Zhang Jingxiang & Zhao Wei (2007), “City Village in Dual System Environment”, China City Planning Review, Vol.31 N(1), pp. 63-67. Siti web Ciccarelli S., Fardelli D., Olivieri F. M., Emergenza urbana. Espansione urbana nei paesi emergenti: Pechino. Disponibile su: http://www.dest.uniud.it/dest/eventi/giornategeografia/dvd_geografia/PosterDocuments/ciccarelli%20et%20al. pdf
Informazioni aggiuntive Quantunque il lavoro presentato sia frutto di una riflessione pienamente condivisa, sono da attribuirsi a Cristina Dicillo i paragrafi 1, 2, 3 e a Carmela Coviello i paragrafi 4, 5, mentre il paragrafo 6 relativo alle conclusioni è stato scritto congiuntamente da entrambe le autrici.
Carmela Coviello, Cristina Dicillo
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Centri storici meridionali e riuso dell’esistente
Centri storici meridionali e riuso dell’esistente Giuseppe Abbate Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: giuseppe.abbate@unipa.it Tel. 091.60790101/fax 091.60790113
Abstract Partendo dalla constatazione che le città dell’Italia meridionale rispetto a quelle del nord sono state meno interessate da politiche sistematiche finalizzate al recupero e alla riqualificazione dei centri storici in cui permangono forti squilibri tra ambiti oggetto di interventi di recupero e ambiti ancora degradati dal punto di vista fisico e sociale, la tesi sostenuta è che la “rinascita” delle città meridionali non possa che avvenire se non a partire da una riconfigurazione complessiva del ruolo dei centri storici, puntando alla costruzione di appropriate politiche urbane centrate su un corretto riuso di tutto il patrimonio edilizio anche quello più degradato e sulla valorizzazione degli spazi pubblici. Pur nell’ottica di privilegiare le funzioni culturali e turistiche appare comunque indispensabile non precludere alla città storica il ruolo di struttura urbana vitale dotata di un mix di funzioni, tra cui quella residenziale, facendo in modo che i centri storici meridionali ritornino ad essere parti abitate delle città ed evitando che si inneschino processi di gentrification.
Introduzione A livello internazionale è riconosciuto il primato dell’Italia per avere affrontato, prima e meglio di altri paesi europei, il tema del recupero dei centri storici, articolandolo nelle sue molteplici declinazioni, teoricometodologiche e tecnico-normative, attraverso i contributi provenienti da associazioni culturali come l’Ancsa, l’Inu e Italia Nostra e parallelamente dalle sperimentazioni avviate in occasione della formazione di alcuni piani particolarmente innovativi, a partire da quello avviato alla fine degli anni ‘60 per il centro storico di Bologna, che hanno funzionato come “modelli” per l’intervento su diversi centri storici anche d’oltralpe (Abbate, 2002). Nonostante siano trascorsi più di cinquant’anni dall’emanazione della Carta di Gubbio 1, il processo di recupero fisico e di valorizzazione culturale dei centri storici non può ancora considerarsi totalmente compiuto, ragionando per contesti geografici si può anche dire che i centri storici delle città meridionali, per tutta una serie di motivazioni che attengono alla dimensione culturale e socio-economica, sono stati in minor misura oggetto di politiche pubbliche sistematiche finalizzate al recupero e alla riqualificazione rispetto a quelli delle città del centro-nord (Cannarozzo, 2010a). I centri storici delle città del Mezzogiorno, al di là di quella che è stata l’entità dei processi di trasformazione e dei modi, sempre differenti, di come le strutture edilizie hanno saputo dialogare con la conformazione dei luoghi, oggi presentano analoghe patologie, che in alcuni casi hanno raggiunto livelli parossistici (Abbate, 2010). Nelle città meridionali il degrado del patrimonio edilizio storico dovuto all’assenza di manutenzione da parte della proprietà inizia già nell’ottocento quando le classi più agiate, abbandonate le residenze nobiliari, ormai troppo costose da mantenere, e un consistente numero di altre abitazioni ubicate nei quartieri storici spesso sovraffollati e in cattive condizioni igieniche, iniziano un lento esodo verso le aree di recente urbanizzazione, che
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La Carta di Gubbio nasce come Dichiarazione finale approvata a conclusione del Convegno “Salvaguardia e risanamento dei centri storico-artistici” svoltosi a Gubbio nel 1960. Un anno dopo, gli stessi promotori del convegno daranno vita all’Associazione nazionale per i centri storico-artistici. Nel 1990 l’Ancsa ha emanato una nuova Carta di Gubbio (www.ancsa.org).
Giuseppe Abbate
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Centri storici meridionali e riuso dell’esistente
proponevano un disegno del tessuto urbano e tipi edilizi residenziali più consoni alle esigenze della vita moderna. Nei centri storici del sud l’esodo degli abitanti e la conseguente chiusura di attività commerciali e artigianali si intensifica in seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale che, oltre ad accelerare il processo di degrado lasciando squarci ancora oggi visibili, non può che aggravare il disagio abitativo, un fenomeno che si tenterà di risolvere trasferendo i ceti economicamente più deboli in nuovi quartieri di edilizia popolare, il più delle volte realizzati molto distanti dai centri storici. Nel dopoguerra, anche le previsioni di più di un piano di ricostruzione contribuiscono a mortificare i centri storici di alcune città meridionali proponendo il risanamento degli ambiti danneggiati dalle bombe attraverso pesanti interventi di ristrutturazione urbanistica e di diradamento a scopo igienico-sanitario che, di fatto, tendono a cancellare ogni traccia del tessuto storico preesistente. A Trapani, ad esempio, il piano di ricostruzione redatto da Edoardo Caracciolo, approvato nel 1950, tra le discutibili previsioni include anche quella di realizzare un nuovo asse urbano (corso Italia) che tagliando da parte a parte l’antico quartiere S. Pietro di impianto arabo-normanno, viene completato con due quinte di anonimi e imponenti edifici multipiano che lasciano irrisolti e forse addirittura acuiscono i problemi di insalubrità del tessuto storico alle spalle dei nuovi volumi edilizi (Abbate, 2004). Non meno discutibili sono le previsioni di molti piani regolatori redatti nel corso degli anni ‘60 e ‘70 relativi a diverse città del sud che, quando non propongono pesanti stravolgimenti del tessuto storico, per il solo fatto di essere piani solitamente sovradimensionati hanno avuto come diretta conseguenza quella di dirottare gli interessi degli imprenditori verso le vaste aree agricole rese edificabili, peraltro particolarmente appetibili in ragione degli alti indici di fabbricabilità consentiti, lasciando nell’oblio i centri storici che in questi anni continuano a perdere residenti e conseguentemente a degradarsi. A partire dagli anni ‘80 il processo di spopolamento relativo ai centri storici delle principali città meridionali risulta attenuato dalla sempre più consistente presenza di immigrati che progressivamente hanno occupato in forme non sempre legali edifici abbandonati dai proprietari perché degradati e inagibili. La presenza dei residenti stranieri ha comunque comportato, sia pure in termini di provvisorietà, l’apertura di diverse attività commerciali legate alla vendita di prodotti alimentari e artigianali etnici, innescando nuove forme di rivitalizzazione di alcune aree storiche (Lo Piccolo, 2003). Il “ritorno” al centro storico da parte dei ceti medi e medio-alti, è invece un fenomeno che ha iniziato ad interessare, in maniera significativa, alcune città del sud a partire dagli anni ’90, ed è da leggersi come esito delle politiche per il recupero e la riqualificazione dei contesti storici intraprese dalle rispettive amministrazioni. Emerge tuttavia che ad oggi in quelle città del Mezzogiorno dove sono stati promossi interventi di recupero sui centri storici gli esiti si possono considerare parziali, nel senso che i processi di recupero innescati si trovano ad uno stadio intermedio, come dimostrano le situazioni di forte squilibrio che permangono tra ambiti interessati da processi di restauro e recupero con la conseguente sostituzione di residenti e di attività e ambiti ancora interessati da processi di degrado fisico e sociale. In particolare, nel caso della Sicilia i centri storici delle principali città stanno vivendo stagioni profondamente differenti, dai casi di Siracusa e Palermo che, rispettivamente nel 1990 e nel 1993, sono state le prime città siciliane a dotarsi di piani per i propri centri storici, e dove è possibile fare i primi bilanci relativamente alle politiche intraprese e ai risultati prodotti, al caso di Agrigento che invece, nonostante dal 2007 sia dotata di un piano per il centro storico che ha avuto una gestazione quasi trentennale, continua ad essere mortificata dai crolli che sempre più frequentemente interessano il patrimonio edilizio storico e non riesce a contrastare il destino di trascuratezza a cui sembra condannata (Cannarozzo, 2009). Peraltro Agrigento, per l’indolenza degli apparati amministrativi, non è stata in grado di utilizzare le risorse finanziarie messe a disposizione dalla legge regionale n. 70 del 1976, destinata a promuovere e finanziare, attraverso la redazione di piani particolareggiati, il recupero dei centri storici di Siracusa e Agrigento, la stessa legge speciale che invece nel caso di Siracusa ha sortito ottimi risultati (Rossi Doria, 2004). Anche per il recupero del centro storico di Ragusa è stata predisposta una legge speciale, la n. 61 del 1981, che dotando il Comune di abbondanti risorse finanziarie, ha consentito di acquisire centinaia di immobili e di attuare interventi di restauro su edifici di pregio, in attesa della redazione dello strumento urbanistico (Trombino, 2004), successivamente avviato e ultimato nel 2010. Catania, Trapani, Caltanissetta ed Enna non dispongono di piani specifici finalizzati al recupero dei rispettivi centri storici, ma mentre i centri storici di Catania e di Trapani si può dire che siano attualmente investiti da un processo di valorizzazione, anche se disorganico e in assenza di politiche pubbliche di ampio respiro, i centri storici di Caltanissetta ed Enna presentano ancora diversi ambiti caratterizzati da degrado e marginalità.
Il processo di recupero dei centri storici di Palermo e Siracusa Le città di Palermo e Siracusa sono il prodotto di vicende storiche millenarie intrecciatesi ai mutamenti culturali, economici e sociali che, nonostante le notevoli differenze, presentano elementi e percorsi comuni, essendo due città appartenenti alla stessa grande isola, entrambe affacciate sul Mediterraneo “un sistema in cui tutto si fonde Giuseppe Abbate
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Centri storici meridionali e riuso dell’esistente
e si ricompone in un’unità originale” (Braudel, 1987; p.9). La scelta dei rispettivi luoghi di fondazione di queste due città da parte degli antichi colonizzatori, fenici nel caso di Palermo e greci in quello di Siracusa, venne operata in ragione della particolare conformazione della linea di costa che offriva in entrambi i casi porti naturali abbastanza sicuri, posizionati in maniera strategica rispetto a quelle che erano le principali rotte marittime. Entrambe le città si consolidano nell’alto medioevo, si dotano nel corso del cinquecento per volere di Carlo V di possenti cinte bastionate, subiscono ulteriori trasformazioni in epoca barocca ed alcuni sventramenti tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, arrivando a configurarsi come due organismi urbani straordinari ma di difficile lettura, caratterizzati da un patrimonio edilizio fortemente stratificato da cui emergono eccezionali testimonianze architettoniche e stilistiche risalenti alle diverse epoche (Cannarozzo, 1996; Pagnano, 1989a). Un esempio di questo sincretismo culturale e stilistico è offerto dalla Cattedrale di Siracusa con splendida facciata barocca che però, sia internamente sia su un fronte laterale, lascia intravedere la sequenza di colonne doriche del tempio di Atena sul quale è stata impiantata; un secondo esempio è offerto invece dalla Cattedrale di Palermo risalente al XII secolo, la cui sagoma merlata ricorda quella di una fortezza maghrebina, su cui si erge la settecentesca cupola progettata da Ferdinando Fuga, creando un’insolita combinazione di architetture normanne e barocche. Negli anni ‘80, quando si inizia a lavorare alla redazione dei due strumenti urbanistici per il recupero e la riqualificazione dei centri storici di Palermo e Siracusa, denominati rispettivamente PPE 2, (Piano Particolareggiato Esecutivo) e PPO 3 (Piano Particolareggiato per Ortigia), la situazione complessiva in cui versavano entrambi i centri storici, considerando il generale stato di abbandono, la fatiscenza del patrimonio edilizio e il degrado diffuso che non risparmiava le aree libere residue come piazze, cortili e quei pochi giardini ancora esistenti, si poteva definire drammatica. Nonostante tale fase di declino, i centri storici di Palermo e Siracusa mantenevano ancora una forte identità ereditata dal passato, derivante dalla presenza di immagini rappresentative del potere politico, religioso e militare; lungo le vie principali resistevano inoltre alcune attività e funzioni istituzionali e, nel caso di Palermo, anche una certa quantità di funzioni culturali, per lo più di tipo museale-espositivo (Cannarozzo, 1999; Abbate, 2002). L’approvazione del Piano Particolareggiato per Ortigia nel 1990 e quella successiva del Piano Particolareggiato Esecutivo per il centro storico di Palermo nel 1993 4, segnano di fatto l’avvio del processo di recupero per entrambi i centri storici che, sia in un caso che nell’altro, parte in realtà abbastanza stentatamente e con un notevole spreco di risorse finanziarie erogate “a pioggia”, per poi avere negli anni recenti una progressiva accelerazione con una parallela ripresa del mercato immobiliare e conseguente lievitazione dei prezzi degli immobili. Oggi il recupero del patrimonio edilizio è di fatto decollato e i centri storici di Palermo e Siracusa riescono ad attrarre un numero sempre crescente di nuovi abitanti ed operatori economici che scelgono la “città storica” come location per prestigiose attività commerciali. I prezzi degli immobili sono cresciuti enormemente e si continua ad assistere a una discreta compravendita di edifici anche abitati, che spesso prelude a un ricambio radicale di abitanti e alla sparizione dei piccoli esercizi commerciali e artigianali. Dopo diciannove anni dall’approvazione del PPE e ventidue anni da quella del PPO sembra quindi possibile tracciarne un sintetico bilancio, evidenziando criticità e nodi irrisolti. Nel caso del centro storico di Palermo, la filosofia di fondo del PPE si basa sullo studio della storia della città e dei suoi processi di trasformazione come matrici delle scelte progettuali, ispirate prevalentemente alla conservazione del patrimonio edilizio e degli spazi inedificati così come consegnati dal passato (Cannarozzo, 1999). Operativamente il PPE ha il merito di avere definito le modalità di intervento per recuperare il patrimonio edilizio e le aree libere, individua infatti le destinazioni d’uso ammissibili e inammissibili e assume, come uno dei criteri fondanti della scelta, la compatibilità della destinazione con i tipi edilizi storici individuati. I privati singoli e associati, coinvolti nel recupero del patrimonio edilizio, hanno utilizzato gli appositi canali finanziari previsti dalla legge regionale (finanziaria) n. 15/93, che stanziava 170 miliardi di vecchie lire per il recupero edilizio ed interventi di riqualificazione (di competenza comunale), e dalla legge regionale n. 25/93, che disponeva l’erogazione di contributi finanziari ai privati per il recupero di edilizia residenziale a cui si sarebbe potuto accedere mediante bandi predisposti dal Comune 5. Dal 1993 ad oggi sono stati emanati sei bandi. Mentre nei primi quattro bandi il Comune aveva predisposto l’erogazione di contributi con condizioni particolarmente restrittive che avevano comunque prodotto la dispersione degli interventi impedendo la riqualificazione di comparti significativi, nel 2001, con il cambio dell’amministrazione dal centro-sinistra al 2
Il PPE, commissionato nel 1988 dalla giunta Orlando a Leonardo Benevolo, Pier Luigi Cervellati e Italo Insolera, nonostante le notevoli dimensioni del centro storico (circa 250 ettari) e la complessità delle analisi da svolgere, è stato redatto in tempi molto brevi. 3 Il Piano per il recupero del centro storico di Siracusa, coincidente con l’isola di Ortigia (circa 45 ettari), è stato redatto da Giuseppe Pagnano. 4 In realtà il PPE copre circa i due terzi del centro storico; la rimanente parte infatti era sta normata contestualmente dal Piano Particolareggiato per l’Albergheria (coordinatore prof. Trombino) e da piani esecutivi redatti dalla Società Italter. Tutti questi piani furono approvati dalla Regione nel 1993. Il Comune ha poi omologato i piani di altra paternità alla normativa del PPE. 5 L’art. 126 della citata legge prevedeva, al fine di attuare gli interventi nel centro storico di Palermo, la creazione di un “parco alloggi transitori” per gli abitanti residenti temporaneamente trasferiti che però, nei fatti, non è stato mai attuato. Giuseppe Abbate
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centro-destra, la politica di recupero dell’Amministrazione comunale utilizza appositi mutui contratti con la Cassa Depositi e Prestiti per 55 milioni di euro, mettendoli a disposizione per immobili appartenenti anche a società immobiliari ed imprenditori edili. Negli ultimi due bandi, (emanati nel 2002 e nel 2006), sono stati quindi modificati i criteri, privilegiando gli interventi su intere unità edilizie, dando la priorità a quelle fortemente degradate a prescindere dai detentori della proprietà (Cannarozzo & Orlando, 2011). Altri soggetti coinvolti nel recupero sono stati il Comune stesso e la Soprintendenza ai Beni Culturali che hanno curato il restauro di alcuni importanti edifici specialistici, lo IACP che ha recuperato alcuni edifici destinati ad edilizia residenziale pubblica e a residenze universitarie, l’Università e l’Opera Universitaria (Figura1). L’amministrazione comunale attuale ha prevalentemente portato a conclusione i restauri avviati dall’amministrazione precedente. Negli interventi realizzati o in corso sul patrimonio edilizio monumentale, le destinazioni d’uso prevalenti sono sedi museali ed espositive, uffici amministrativi, teatri, ma anche numerosi alberghi di lusso. Per la realizzazione di questi ultimi il Comune ha dovuto predisporre apposite varianti urbanistiche. Sull’esempio di quanto è stato fatto a Genova (Gabrielli, 2010), l’amministrazione comunale ha anche puntato sul restauro scenografico delle facciate degli edifici sugli assi principali della città storica, corso Vittorio Emanuele e via Maqueda. Tale intervento, finanziato con 30 milioni di euro dalla Regione, è stato però accantonato perché non è stato trovato l’accordo con i proprietari degli edifici sui quali si voleva intervenire (Cannarozzo, 2010b).
Figura 1. Centro storico di Palermo: l’ex Hotel de France, recuperato dallo IACP e destinato a residenza universitaria.
Risultati certamente meno significativi si sono invece avuti relativamente alla riqualificazione degli spazi aperti, probabilmente anche per il fatto che l’amministrazione comunale non ha compreso appieno il ruolo trainante che opportuni interventi di riqualificazione sugli spazi pubblici avrebbero potuto svolgere nei confronti di iniziative private di recupero del patrimonio edilizio storico. Al di là di quello che ha significato la sistemazione a verde dell’area costiera antistante il Foro Italico in termini di immagine e di visibilità tanto per l’amministrazione Orlando, che ha dato avvio all’intervento, quanto per quella Cammarata, che lo ha portato a conclusione anche se oggi, pur continuando ad essere molto frequentata dai palermitani, presenta palesi elementi di degrado (prato in completo abbandono, arredo urbano vandalizzato), pochi sono stati gli altri interventi sugli spazi aperti. Questi ultimi hanno riguardato l’improbabile sistemazione a verde di piazza Magione e di altre piccole aree libere derivanti per lo più da crolli, come quella recente di fronte palazzo S. Isidoro alla Guilla. Più convincente invece, e ultimo in ordine di tempo, il sobrio intervento di restyling, curato dall’Autorità portuale, che ha interessato l’area comprendente l’antico porto della Cala. Giuseppe Abbate
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Certamente non condivisibile e piegata agli interessi speculativi più biechi, la recente scelta operata dal Comune che, su un’area lungo la via Maqueda di proprietà della Curia, su cui fino all’inizio degli anni ‘80 insistevano i resti di importanti edifici danneggiati dai bombardamenti del ‘43, ha autorizzato la costruzione di un edificio con volumetrie assolutamente inadeguate, sprecando l’opportunità di potere invece implementare l’esigua quantità di spazi verdi all’interno della città storica con la realizzazione di un giardino 6. Anche nel caso di Siracusa, l’esistenza del piano particolareggiato per il recupero del centro storico ha costituito la base di partenza su cui, nel tempo, gli amministratori locali hanno costruito politiche per il recupero e la riqualificazione della città storica, anche al fine di agganciare significativi finanziamenti europei per meglio sostenere gli interventi di recupero sia pubblici che privati (Figura 2). Partendo dalla constatazione che Ortigia dalla sua condizione primitiva di intera città è passata nel tempo ad una condizione marginale e periferica e che non potrà mai più riconquistare il suo ruolo di assoluta centralità (Pagnano, 1992; Lo Piccolo, 2003), il piano identifica nei quattro sistemi funzionali dell’istruzione, del turismo e del commercio, dell’amministrazione pubblica e privata, della cultura, in parte esistenti e da potenziare, in parte innovativi, gli strumenti che determineranno la nuova e forte struttura funzionale dell’isola in un quadro più ampio che include la città contemporanea e nell’obiettivo di rivitalizzare prevalentemente le parti dell’isola in stato di degrado e abbandono 7. Nello specifico il patrimonio edilizio monumentale era destinato ad ospitare attività culturali, uffici amministrativi e sedi universitarie, mentre il patrimonio edilizio minore era destinato alla residenza privata o universitaria (Pagnano, 1989b).
Figura 2. Isola di Ortigia: esempi di edilizia residenziale recentemente recuperata.
I soggetti coinvolti nel recupero sono stati i privati, il Comune in concertazione con altri soggetti, quali lo IACP, il Ministero dei Lavori Pubblici, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la Soprintendenza e l’Università. Il Comune ha predisposto finanziamenti ai privati in attuazione alle leggi regionali n. 70/76, n. 25/93 e n. 34/96, che prevedevano contributi per interventi sulle facciate e sulle parti condominiali degli edifici e per immobili destinati ad attività commerciali e artigianali. La maggior parte delle richieste ha interessato la zona più prossima 6
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E’ stata la stessa Curia a premurarsi di demolire definitivamente i resti degli edifici storici con il benestare della Soprintendenza. Da qualche anno l’amministrazione comunale ha avviato la redazione del nuovo PPO. Il nuovo strumento urbanistico propone un aggiornamento ed una verifica degli elaborati del precedente piano ricalcandone gli obiettivi.
Giuseppe Abbate
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alla terraferma che riveste un ruolo commerciale e la zona del lungomare di ponente, che riveste invece un ruolo più turistico. Limitati sono stati invece i restauri che hanno interessato il patrimonio edilizio monumentale, tenuto conto che il PPO censiva 150 edifici monumentali e che attualmente solo 15 ospitano nuove funzioni, tra cui sei musei, prestigiose fondazioni culturali come l'Istituto Internazionale del Dramma Antico, la Scuola Internazionale di Restauro del Papiro e alcuni uffici dell’Amministrazione Comunale come l’Assessorato al Centro Storico (Cannarozzo & Orlando, 2011). Secondo le indicazioni del PPO, nell’ambito del sistema funzionale relativo all’istruzione, sono state insediate tre scuole materne e sono state introdotte alcune sedi universitarie che hanno portato nell’isola un consistente numero di studenti. A distanza di anni ci si inizia però ad interrogare se la scelta di puntare sulla presenza degli studenti per ripopolare Ortigia sia da considerare positivamente, tenuto conto che l’insieme degli studenti fuori sede costituisce un nucleo sociale con caratteristiche comportamentali ed esigenze diverse da quelle di un residente tradizionale a partire dal fatto che non garantisce una presenza costante. I sistemi della cultura e del turismo sono stati quelli maggiormente coinvolti nel processo di rivitalizzazione dell’isola. In questi anni sono aumentati in maniera esponenziale gli alberghi a quattro e a cinque stelle, i bed and breakfast, le attività commerciali legate prevalentemente alla ristorazione. Ad amplificare il ruolo turistico di Ortigia ha sicuramente contribuito il suo inserimento nella lista dei patrimoni mondiali dell’Umanità tutelati dall’Unesco, condizione che ha incentivato tutta una serie di azioni volte a promuovere nuove forme di marketing turistico ed eventi culturali. Come nel caso di Palermo, anche a Ortigia da un bilancio degli interventi realizzati, emerge la prevalenza di recuperi edilizi rispetto ad interventi di riqualificazione urbana sulle aree libere, l’amministrazione comunale ha comunque provveduto alla progressiva pedonalizzazione, e all’individuazione di zone a traffico limitato. Anche a Ortigia, non si è ritenuto necessario realizzare una quota significativa di edilizia residenziale pubblica, che invece avrebbe potuto contribuire a calmierare il mercato immobiliare, nonostante vi sia stata qualche occasione progettuale di qualità in tale direzione. Ci si riferisce al progetto pilota di recupero di due comparti denominati Graziella e Giudecca per la realizzazione di due interventi pubblici a carattere eminentemente residenziale da parte dello IACP. (Cannarozzo, 1999).
Considerazioni conclusive Le esperienze di Palermo e Siracusa dimostrano che, avere potuto disporre di due buoni piani è stata sicuramente una condizione necessaria ma certamente non sufficiente per avviare il processo di recupero dei rispettivi centri storici. Gli obiettivi dei piani si realizzano infatti attraverso l’impegno costante e la determinazione degli attori pubblici, la disponibilità di ingenti risorse finanziarie, la costruzione di adeguate politiche che, per essere vincenti, devono avere carattere di continuità, il coinvolgimento di operatori pubblici e privati nei processi di recupero. Soprattutto nel caso dei centri storici meridionali, segnati solitamente da evidenti caratteri di marginalizzazione e degrado diffuso è necessario agire non soltanto con il riuso di tutto il patrimonio edilizio, anche quello più degradato e abbandonato, ma con una visione strategica rivolta alla riqualificazione degli spazi aperti ridefinendo le funzioni pubbliche e private in essi insediati, e puntando all’implementazione del sistema delle aree vegetate di cui i centri storici sono spesso carenti. Pur nell’ottica di privilegiare le funzioni culturali e turistiche appare comunque indispensabile non precludere alla città storica il ruolo di struttura urbana vitale dotata di un mix di funzioni, tra cui quella residenziale, facendo in modo che i centri storici meridionali ritornino ad essere parti abitate delle città ed evitando che si trasformino in luoghi frequentati soltanto da coloro che vi esercitano qualche attività commerciale e dai turisti. In altre parole è da contrastare il rischio gentrification, un fenomeno che inizia a manifestarsi anche nel processo di recupero dei centri storici di Palermo e Siracusa, minacciandone la loro intrinseca natura fatta di diversificazione sociale ed economica. Un’ultima riflessione riguarda il futuro ruolo dei centri storici meridionali che, se da un lato costituiscono aree urbane più o meno degradate ma intrise di significati e simboli connessi ai valori identitari e culturali, dall’altro hanno un grande potenziale dal punto di vista delle funzioni che ancora possono svolgere nella città contemporanea. Occorre quindi partire da una riconfigurazione complessiva del ruolo dei centri storici meridionali come luoghi di particolare pregio ma anche di sviluppo e innovazione, attraverso la ridefinizione dei rapporti con la città contemporanea e il sistema territoriale, spostando quindi il ragionamento dal singolo organismo ad un’idea di reti di luoghi in cui i centri storici costituiscono i nodi di una struttura insediativa più complessa. Il destino dei centri storici appare infatti sempre più legato alle dinamiche socio-culturali e di sviluppo (o sottosviluppo) economico di vasti contesti territoriali, come del resto, lo sviluppo sostenibile dei sistemi territoriali locali appare sempre più influenzato dalle possibilità di riuso e valorizzazione del patrimonio storico-culturale.
Giuseppe Abbate
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Giuseppe Abbate
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Il recupero degli scali ferroviari a Milano. Un’opportunità per ripensare il ruolo del progetto urbano
Il recupero degli scali ferroviari a Milano. Un’opportunità per ripensare il ruolo del progetto urbano. Antonella Bruzzese Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: antonella.bruzzese@polimi.it Tel. 02.2399.5311
Abstract Gli scali ferroviari dismessi costituiscono un’opportunità per ripensare intere parti di città. I modi del loro recupero rappresentano tuttavia un complesso banco di prova per le pubbliche amministrazioni: non solo per l’efficacia degli strumenti di governo necessari per la fattibilità delle operazioni ma anche per l’effettiva capacità di garantire la qualità dei progetti e degli spazi abitabili che generano. Alcune direzioni di lavoro appaiono rilevanti a tal proposito: evitare approcci progettuali introversi e quantitativi; considerare il progetto entro una visione strategica urbana e come opportunità per trattare bisogni locali; intendere il riuso come avvio di processi di trasformazione estesi, assumendo lo sviluppo incrementale come tema di progetto; rafforzare il ruolo della regia pubblica per bilanciare la valorizzazione economica delle aree con valutazioni qualitative utili a indirizzare lo sviluppo dei progetti. Percorrere tali direzioni di lavoro significa ripensare alla natura del progetto urbano e al suo ruolo entro il processo decisionale. Le vicende legate alla dismissione degli scali ferroviari milanesi rappresentano uno sfondo rispetto al quale osservare le questioni sopra accennate.
Dismissione, fattibilità e qualità del progetto Il fenomeno della dismissione industriale è iniziato negli anni settanta per le note ragioni legate alla crisi di diversi settori produttivi che hanno causato la chiusura di impianti e stabilimenti, per le trasformazioni del mercato del lavoro e le conseguenti delocalizzazioni delle attività, per le innovazioni tecnologiche e i mutamenti delle dinamiche produttive che hanno reso inadeguate molte strutture, diverse delle quali inglobate dalla crescita urbana in ambiti semicentrali. Se il dibattito intorno al tema in origine si è rivolto prevalentemente ad analizzare i caratteri e le conseguenze del problema, a partire dalla metà degli anni ottanta esso ha posto l’accento da un lato sulle opportunità di sviluppo urbano che questi “luoghi liberati” (Lynch, 1992) potevano rappresentare nella città (Secchi, 1984, Gregotti, 1990), dall’altro sugli strumenti urbanistici necessari per poterle mettere in atto e che in quegli anni erano oggetto di sperimentazione (Bellotti, Gario 1991; Bobbio, 1999; Dansero, Giaimo, Spaziante, 2000; Spaziante, Ciocchetti, 2006). Riconversione e recupero negli ultimi anni sono stati considerati utili strategie di intervento in grado di trattare il fenomeno della dismissione, coniugando crescita e attenzione al consumo di suolo. Tema, quest’ultimo, 1 2 divenuto centrale nelle strategie di molti piani urbanistici a causa del suo crescente e progressivo aumento . Molti scali ferroviari condividono il medesimo destino di dismissione delle aree industriali e, in maniera 1
Obiettivi di contenimento e riduzione del consumo di suolo sono dichiarati nelle relazioni del PGT di Milano del 2009 e riproposti dalla nuova amministrazione nel Documento politico di indirizzo per il governo del territorio (Comune di Milano, 2011) 2 In Lombardia nel periodo 1999-2005 il territorio urbanizzato è cresciuto a ritmi di 13 ettari/giorno. Fonte: Osservatorio Nazionale Consumo di Suolo. Primo Rapporto 2009 Antonella Bruzzese
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analoga, la loro conversione a usi urbani costituisce un’opportunità per ripensare intere parti di città. I modi del loro recupero rappresentano tuttavia uno dei banchi di prova più complessi per le pubbliche amministrazioni: non solo per l’efficacia degli strumenti per il governo dei processi utili ad assicurare la fattibilità delle operazioni, ma anche per possibilità di garantire la qualità dei progetti e la conseguente natura degli spazi abitabili che tali processi generano. Con riferimento a questo tema, alcune direzioni di lavoro appaiono particolarmente rilevanti: evitare approcci progettuali introversi e basati prevalentemente su logiche quantitative e di valorizzazione economica; considerare il progetto delle aree dismesse entro una visione strategica di scala urbana e al tempo stesso come opportunità per dare risposta a bisogni espressi dai contesti limitrofi; intendere il riuso come avvio di processi di trasformazione più estesi, assumendo la possibilità di sviluppo incrementale come tema di progetto; rafforzare, infine, il ruolo della regia pubblica per fare in modo che la valorizzazione economica sia bilanciata da attente valutazioni in merito alla qualità urbana necessarie per indirizzare efficacemente i progetti. Affrontare i nodi critici sottesi a tali direzioni di lavoro significa in molti casi ripensare alla natura del progetto urbano e al suo ruolo entro il processo decisionale.
Gli scali ferroviarie dismessi a Milano: la natura delle aree e il processo in corso Le vicende legate alla dismissione degli scali ferroviari milanesi rappresentano uno sfondo rispetto al quale osservare le questioni sopra accennate. Se da un lato consentono di evidenziare il delicato equilibrio tra esigenze di valorizzazione delle aree, fattibilità dell’operazione e indirizzi di pianificazione alla base dell’avvio del processo, dall’altro lasciano aperte molte domande circa i modi del loro sviluppo e, in particolare, circa il ruolo del progetto dell’assetto spaziale come strumento dentro il processo e non solo come traduzione a posteriori di decisioni prese sulla base di altri parametri.
Figura 1. Gli scali ferroviari a Milano. Gli scali ferroviari a Milano sono sette: Farini-Lugano, Greco-Breda, Lambrate, Rogoredo, Porta Romana, Porta Genova, San Cristoforo (Figura 1). La ristrutturazione delle linee e il ridimensionamento delle strutture Antonella Bruzzese
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Il recupero degli scali ferroviari a Milano. Un’opportunità per ripensare il ruolo del progetto urbano
di servizio ne ha ridotto l’utilizzo ai fini della mobilità e della movimentazione delle carrozze e di conseguenza ne è stata prevista la dismissione totale o parziale. Le aree degli scali, pari complessivamente a 1.300.000 mq, hanno caratteristiche e dimensioni eterogenee. 3 Pur essendo tutti situati a corona in posizione intermedia tra città compatta e situazioni urbane meno dense, gli scali presentano differenti livelli di opportunità e di “strategicità” rispetto alle trasformazioni in atto nel contesto milanese: lo scalo di Porta Genova, ad esempio, è localizzato in un ambito urbano - zona Tortona - che negli ultimi 15 anni ha mutato il suo ruolo nella geografia delle centralità milanesi (Bolocan, 2009); lo scalo di Lambrate è prossimo alle università di Città Studi, alle aree solo in parte recuperate della ex Maserati a Rubattino così come all’enorme sistema ferroviario, anch’esso parzialmente dismesso, del comune di Segrate; lo Scalo Farini è collocato lungo l’asse che porta verso la nuova fiera di Rho-Pero e la zona destinata a Expò; lo scalo Greco, invece, è intercluso tra infrastrutture in una situazione di non facile accessibilità e dunque apparentemente meno appetibile pur essendo prossimo a importanti centralità urbane. In generale, a differenza di altre tipologie di aree dismesse, oltre alla localizzazione in ambiti strategici semicentrali e in trasformazione, gli scali presentano altri elementi di interesse: l’elevata accessibilità data dalla presenza del tracciato ferroviario e delle connessioni al sistema di 4 trasporto pubblico ; la scarsità di volumi edilizi presenti sull’area, spesso di scarso valore e raramente sottoposti a vincoli; e un livello di inquinamento dei suoli solitamente inferiore a quello di altre aree industriali.
Figura 2. Lo scalo di Porta Romana 3
Alcune aree oggi sono dei grandi vuoti urbani: la più grande è l’area dello scalo Farini, pari complessivamente a 650.000 mq, segue Porta Romana con 216.000 mq, entrambe caratterizzate dal mantenimento del tracciato ferroviario. Le altre sono progressivamente più contenute: la meno estesa è l’area di Rogoredo (22.000 mq). 4 Tutte le aree sono servite da stazioni ferroviarie esistenti o da stazioni della metropolitana, oppure saranno servite da stazioni di nuove realizzazione. Antonella Bruzzese
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La dismissione degli scali dà l’avvio nel 2005 a una procedura negoziale tra Ferrovie dello Stato, Comune di Milano e Regione Lombardia. Il processo per definire l’Accordo di Programma inizia quando ancora è in vigore il PRG del 1980 e ha tra gli obiettivi la redazione della variante urbanistica 5 indispensabile per consentire il cambio di destinazione funzionale e rendere attuabili i contenuti degli accordi 6. L’Accordo di Programma è lo strumento con cui governare le plusvalenze che Ferrovie dello Stato avrebbe ottenuto dal cambio delle nuove destinazioni d’uso. L’Accordo Quadro per la riqualificazione delle aree ferroviarie dismesse ed il potenziamento del sistema ferroviario milanese, firmato nel luglio 2005 dall’allora sindaco di Milano Albertini e poi ripreso nel marzo 2007 dal sindaco Moratti, prevede che le utilità delle trasformazioni siano reinvestite nel nodo di Milano con interventi sulle linee del trasporto pubblico ferroviario. Nel 2007 la conferenza dei rappresentanti insieme con la segreteria tecnica del comune redige la variante contenente “obiettivi, principi e regole che consentano di riqualificare tali aree ferroviarie mediante l’assegnazione alle stesse di nuove destinazioni funzionali”(Comune di Milano, 2009a), pubblicata nel contesto della procedura di Valutazione Ambientale Strategica nel dicembre del 2009 7. I materiali della Variante Urbanistica e le indicazioni relative a indirizzi, parametri dimensionali e volumetrie allegate all’Accordo di Programma si riversano nel PGT allora in fase di elaborazione 8. Nella relazione dell’accordo si dichiara, infatti, la sostanziale aderenza agli indirizzi generali del piano in via di definizione e, in seguito, i contenuti dell’Accordo sono trasferiti nelle schede relative agli Ambiti di Trasformazione Urbana del piano (ATU) che riportano gli indirizzi e linee guida per la progettazione attuativa. Ad oggi, tuttavia, il processo di definizione dell’Accordo di Programma non è stato completato. Alla sua chiusura mancano alcuni passaggi fondamentali: le controdeduzioni alle osservazioni fatte alla Variante allegata, la sottoscrizione della Conferenza dei Rappresentanti e l’approvazione del Consiglio Comunale. Allo stallo legato alle procedure della Variante annessa all’Accordo di Programma si è aggiunta la revoca del PGT da parte della nuova giunta milanese insediatasi nel maggio del 2011. Tuttavia nel Documento Politico di Indirizzo (Comune di Milano, 2011) si legge che il Comune “sta valutando l’opportunità di riprendere il procedimento dell’Accordo di Programma, abbandonato dalla precedente Amministrazione, al fine di pervenire ad un “accordo equo” tra la città e RFI, ove queste ultime pongano al centro il rispetto del territorio, impegnandosi in interventi sostenibili per dimensione e qualità”.
Gli strumenti per orientare il progetto: intenzioni virtuose e criticità Gli studi necessari per redigere la variante allegata all’Accordo di Programma sono stati tradotti, da un lato, in line guida e indirizzi per la progettazione, dall’altro, in due suggerimenti per lo sviluppo dell’operazione su cui vale la pena soffermarsi. Si tratta di indirizzi orientati ad accompagnare la fase attuativa che entrano nel merito di alcuni contenuti rilevanti propri delle aree e che si fanno carico della coerenza delle operazioni e del raccordo con la pianificazione del settore urbano. Le schede degli ATU rappresentano un interessante tentativo di costruire relazioni con il contesto limitrofo. Pur nelle differenze tra le aree, particolare importanza è data alle nuove connessioni viarie nel tessuto, attraverso schemi che ne indicano la collocazione, e agli spazi aperti, attraverso indicazioni sulle loro dimensioni (generalmente in misura non inferiore al 50% della superficie territoriale), sulla loro posizione nel lotto, più 9 raramente sul loro carattere . Altre indicazioni riguardano la previsione e la localizzazione di funzioni di eccellenza, le percentuali del mix funzionale e, ancora, le opere di protezione o mitigazione dal rumore laddove è previsto il mantenimento della linea ferroviaria. Anche se i testi della relazione descrivono l’assetto futuro delle aree, poco si dice della qualità dello spazio abitabile e della natura degli ambienti urbani da realizzare.
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L’Accordo di Programma relativo alle aree ferroviarie si compone di tre prodotti: la Variante Urbanistica (comprensiva di tavole, norme e relazione tecnica illustrativa); l’atto deliberativo con il quale si regolamentano le garanzie e le plusvalenze e attraverso cui si redigono il contratto e le convenzioni (non è mai stato pubblicato); e l’allegato trasportistico che deve indicare dove sono localizzati gli investimenti generati dalle plusvalenze. 6 La legge 12/2005 che ha introdotto i Piani di Governo del Territorio (PGT) in Lombardia è approvata nel marzo 2005. 7 La Variante è redatta dal Settore Progetti Strategici, Servizio Grandi Riqualificazioni. Direttore: arch. Giancarlo Tancredi, Coordinamento progettazione urbanistica e procedure amministrative: arch. Michela Brambati. 8 La redazione del PGT di Milano inizia nel 2007 ed è adottato dal Consiglio comunale nel luglio 2010. 9 Alcune indicazioni di contenuto sono fornite, ad esempio, quando si parla nel caso dello scalo di Porta Romana di un “parco di natura compatta” (Comune di Milano, 2009b) (vedi figg.2-3). Antonella Bruzzese
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Il recupero degli scali ferroviari a Milano. Un’opportunità per ripensare il ruolo del progetto urbano
Figura 3. Estratto della scheda relative all’Ambito di Trasformazione Porta Romana, oggetto dell’Accordo Un secondo tentativo di orientare la qualità del progetto presente nell’accordo è la proposta, superata per la verità, di forme di perequazione interna: “si propone pertanto una sorta di meccanismo perequativo interno tra le aree dell’Accordo di Programma, configurando comparti edificatori tra aree remote con lo scopo della migliore collocazione degli insediamenti funzionali e degli spazi pubblici” (Comune di Milano, 2009a). Era prevista, infatti, la possibilità di redigere due Piani Integrati di Intervento (PII) che comprendessero al loro interno, il primo, gli scali di Greco e di Farini, il secondo, gli scali di Porta Genova e Porta Romana, reso possibile dalla circostanza che tutte le aree erano almeno in origine di un unico proprietario. Ciò avrebbe consentito di realizzare dei “bilanci volumetrici” con una maggiore ampiezza di manovra e ripartire volumetrie non solo sulla base della fattibilità interna a ogni singola area, ma di poter considerare la possibilità, sulla base di un progetto, di lasciare inedificate alcune delle aree, destinandole a verde e/o a funzioni non remunerative. Questa possibilità, pur aprendo un campo interessante di lavoro, tuttavia, si è scontrata con la rigidità e i vincoli che essa avrebbe comportato in sede di vendita dove gli acquirenti avrebbero potuto essere molteplici. Un altro tentativo di perseguire la qualità della trasformazione è la proposta di ricorrere allo strumento del concorso: “per garantire la qualità del processo, governato in ogni caso da un ulteriore livello di pianificazione comunale, viene previsto, in fase di formazione delle proposte di PII, il ricorso a forme di selezione concorsuale, orientando in tale modo i proprietari proponenti ad un approccio progettuale, tecnico e culturale elevato” (Comune di Milano, 2009a). Il Comune di Milano è reduce dalla recente esperienza dei concorsi per 10 interventi di edilizia pubblica Abitare a Milano che ha prodotto risultati interessanti in termini di qualità dei progetti. La differenza sostanziale in questo caso riguarderebbe la proprietà delle aree, non più pubbliche ma acquisite da privati. A Milano un riferimento simile è il concorso fatto negli anni ottanta per le aree di Pirelli Bicocca (Bianchetti et al. 1986; Cagnardi, 1995). Gli aspetti descritti sopra, pur nelle difficoltà incontrate, possono essere considerati tentativi virtuosi di orientare il progetto. Accanto ad essi, tuttavia, due temi appaiono particolarmente critici e complessi da trattare. La natura negoziale dell’avvio del processo che ha fissato i parametri volumetrici è imprescindibile per consentire la fattibilità economica dell’operazione, tuttavia tale mossa rischia di rappresentare un limite dal punto di vista della resa tecnica del progetto. La procedura negoziale ha definito in primo luogo le volumetrie complessive ammesse espresse dalle aree degli scali ricondotti a usi urbani: generate da un indice analogo a quello utilizzato in altre aree urbane (0,75 mq/mq), esse sono pari complessivamente a 845.000 mq di slp 11 variamente distribuiti negli scali . Si tratta di circa un sesto delle nuove volumetrie consentite dal piano adottato dalla giunta Moratti e ora in via di revisione. Queste volumetrie rappresentano la misura del valore delle aree e consentono la fattibilità economica dell’operazione di vendita e di reinvestimento da parte di FS. Rappresentano, inoltre, il dato apparentemente invariabile intorno a cui avviare altre operazioni, sia di tipo urbanistico - la specificazione degli indirizzi per la progettazione – sia di natura ancora negoziale - lo sviluppo dei ulteriori passaggi dell’accordo. Il punto è che, sebbene la precedente amministrazione abbia fatto alcune verifiche per valutare la sostenibilità urbanistica di tali volumetrie e che ora l’amministrazione attuale ne stia valutando una contrazione, appare sempre piuttosto rischioso trattare questi aspetti dal solo punto di vista
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Si veda in proposito Aa. Vv., 2006. Le volumetrie ammesse variano dai 533/544.000 mq di slp (ipotesi di minima e di massima) previsti per lo Scalo Farini, ai 163/190.000 di Porta Romana, ai 9/17.000 dello scalo di San Cristoforo (Comune di Milano, 2009a)
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quantitativo, senza esplicitare quali effetti sul progetto delle aree potrebbero avere differenti rapporti di densità edilizia. Il rapporto tra pianificazione ordinaria e progetto degli ambiti di trasformazione appare un ulteriore nodo critico. Una delle criticità principali per il proseguimento della vicenda riguarda certamente le condizioni del mercato attuali. Rispetto alla data di avvio dell’Accordo di Programma le condizioni sono cambiate: la crisi immobiliare è evidente da tempo nella stagnazione relativa di prezzi e transazioni e nella crisi finanziaria di importanti operatori milanesi (Bolocan, Bonfantini, 2007). Diverse operazioni sono ferme, altre sono partite ma le incertezze del mercato lasciano aperti gli interrogativi sull’effettiva domanda: “si tratta di un processo che riguarda sia l’edilizia residenziale, sia quella terziaria e che appare destinato a far tramontare definitivamente l’illusione che negli ultimi dieci anni ha fatto coincidere lo sviluppo urbano con la crescita edilizia” (Comune di Milano, 2011). Il recupero di aree industriali, comprese quelle ferroviarie seppure in misura inferiore ad altre, deve incorporare gli oneri di bonifica che non solo fanno aumentare i prezzi e necessitano ai fini della sostenibilità economica dell’operazione di volumetrie maggiori, ma sono anche alla base del mancato avvio di molte operazioni analoghe (si pensi a Rogoredo Montecity o alle aree dei Gasometri in Bovisa). Ciò fa sì che appaiano più appetibili altre aree di dimensioni più contenute entro il tessuto urbano consolidato che il precedente PGT ha reso più facilmente trasformabili grazie a indici convenienti, ad uno snellimento consistente delle procedure edilizie che limitano la necessità di ricorso a pianificazione esecutiva. Si tratta di un tema certamente di non facile risoluzione, che mette in luce la necessità di un quadro e di una visione di insieme capace di riflettere sugli effetti di “progetti non espliciti” che queste regole sulla progettazione “ordinaria” possono riversare anche sugli ambiti di trasformazione urbana.
Temi di lavoro, progetti per decidere Le schede degli ATU, ci segnala l’amministrazione, sono l’esito di attività progettuali svolte in sede di definizione delle scelte. Le schede sono strumenti di indirizzo a cui devono necessariamente seguire fasi di approfondimento progettuale e che, intenzionalmente e ad eccezione delle volumetrie, non vogliono essere troppo vincolanti, poiché, in condizioni di estrema incertezza come quelli attuali, rischierebbero di ingessare interessi e volontà di procedere. Tuttavia, resta aperta la questione di come orientare il progetto in modo che fin da subito siano chiari la strategia generale complessiva e gli obiettivi in termini di qualità urbana e tipi di spazi abitabili. Se si entra nel merito di possibili sviluppi progettuali sulle aree, alcuni temi appaiono particolarmente rilevanti, non solo perché rendono gli scali aree di progetto più complesse e problematiche di altre, ma anche perché questi temi potrebbero essere potenzialmente generativi di soluzioni innovative. Un primo tema ha a che vedere con la morfologia degli scali. Essi non sono semplici “lotti”: la loro forma, spesso complessa da trattare, dovrebbe essere intesa non come incidente da minimizzare ma come risorsa fisica e “storica” per sperimentare progetti che non replichino modelli insediativi banali e standardizzati; un secondo tema riguarda il mantenimento parziale della funzione ferroviaria. Nei documenti si parla della rilevanza dell’accessibilità o del bisogno di misure di mitigazione e/o protezione acustica. In sede di progetto tuttavia l’accessibilità su ferro e la presenza della linea dovrebbero essere considerati ingredienti per immaginare differenti modi di abitare e riportare il progetto del singolo scalo alla dimensione urbana, dove non addirittura sovra-locale; un terzo tema riguarda le destinazioni funzionali dell’area e al tempo stesso le dimensioni di alcune di esse. La relazione dell’Accordo di Programma e successivamente il PGT suggeriscono alcune “vocazioni” funzionali del settori urbani e negli ambiti di trasformazione urbana. Senza voler aumentare la cogenza nella previsione delle funzioni, un campo di sperimentazione interessante riguarda la riflessione intorno alla proposta di alcune “funzioni innesco”, progettando processi di trasformazione più che disegni di assetto compiuti, immaginando sviluppi incrementali ed evitando di ridurre la nozione di tempo nel progetto a mera successione di fasi di realizzazione. Questi temi di progetto pongono l’accento sull’eccezionalità di queste aree. La complessità delle questioni che sollevano inoltre richiama la necessità di tornare a riflettere sugli strumenti per orientare il progetto (e non solo il processo) in misura maggiore e diversa dalle schede di indirizzo, agendo efficacemente in quel terreno intermedio tra pianificazione e progetto e garantendo sia la qualità che la fattibilità della realizzazione. Mi riferisco in particolare al ruolo del progetto come strumento “per decidere” (Infussi, 2008) e come dispositivo a disposizione dell’amministrazione per dirigere in maniera più consapevole e tecnicamente competente il confronto con gli attori del processo. Le invarianti dimensionali sono fissate sulla base di indici e di valutazioni economiche, mentre gli aspetti formali relativi alla natura degli spazi abitabili sono demandati a successivi confronti in sede di pianificazione negoziata (si prevede che la pubblica amministrazione discuta con i futuri proprietari i contenuti di PII di iniziativa privata). Uno dei rischi di questa procedura è che tale negoziazione, se avviene come reazione a una proposta di un soggetto privato che difficilmente può farsi carico di strategie di scala urbane, avvenga dentro i confini della singola area oggetto di intervento, perdendo di vista non solo la Antonella Bruzzese
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coerenza con il quadro di insieme ma anche con i contesti limitrofi. La storia dei PRU milanesi è significativa a tal proposito. A fronte di ciò, vale la pena interrogarsi sulla necessità di praticare in altra maniera una fase esplorativa progettuale che sia precedente la redazione dei PII, intendendola come strumento operativo dentro il processo decisionale, esplicitando a priori gli obiettivi che si vogliono raggiungere in termini di qualità dello spazio abitabile e se necessario capace in qualche misura anche di rimettere in discussione volumetrie. La negoziazione alla base dell’avvio del processo che fissa le quantità forse agevola le concertazioni, ma rischia di non tenere in dovuto conto gli effetti spaziali che questa produrrà se non è accompagnata da visioni del futuro delle aree anche in merito alle loro caratteristiche morfologiche e dimensionali. La complessità delle aree in oggetto, inoltre, sottolinea l’importanza di esercitare una pratica progettuale capace di esplicitare scenari possibili anche sulla base di avvio di realizzazioni solo parziali sulle aree a fronte di una visione complessiva del destino degli scali. In questi termini il masterplan, inteso come pratica esplorativa che costruisce visioni del futuro possibile (non vincolistiche, né definitive), esercitata da chi è chiamato a decidere dello sviluppo della città, può essere lo strumento utile per indirizzare le scelte, dotarsi di strumenti per non subire interessi particolaristici e orientare in maniera più efficace questo genere di trasformazioni. Restano aperte molte questioni sia di natura sostanziale (il modo di intendere questo strumento, spesso riduttivo e confuso con un planivolumetrico) che procedurale (non ha valore legale nè è previsto per legge) e la sperimentazione sul modo di declinare questo livello di progettazione “intermedia” come strumento per decidere non si è ancora consolidata 12. Proprio per questo l’occasione delle aree ferroviarie dismesse milanesi potrebbe costituire un interessante banco di prova.
Bibliografia AA.VV. (1990), “Territori abbandonati”, numero monografico di Rassegna, n. 42 Aa.Vv. (2006), “Abitare a Milano. Dal Piano ai concorsi”, allegato alla rivista Abitare, n. 459 Bellotti R., Gario G., (a cura di, 1991). II governo delle trasformazioni urbane: analisi e strumenti, Franco Angeli, Milano Bianchetti C., Infussi F., Ischia U., Secchi B. (a cura di, 1986), Progetto Bicocca. Concorso internazionale di progettazione urbanistica e architettonica ideato e realizzato per iniziativa delle Industrie Pirelli S.p.A., Electa, Milano Bolocan Goldstein M. (2009), Geografie milanesi, Maggioli, Santarcangelo di Romagna Bolocan Goldstein M., Bonfantini B. (2007), Milano incompiuta. Interpretazioni urbanistiche del mutamento, FrancoAngeli, Milano. Bobbio L. (1999), "Riconversione delle aree dismesse: aggiornamento e spunti di riflessione" in Urbanistica Informazioni, n. 164, 1999. Bruzzese A., (2007). “Gli elementi del Master Plan” in Territorio n.40 Cagnardi A., (1995). "Il progetto Bicocca per Milano" in Casabella, n. 626 Comune di Milano, Direzione centrale sviluppo del territorio, Settore Progetti Strategici (2009a), Accordo di programma con contenuto di variante urbanistica al Piano Regolatore Generale vigente per la trasformazione urbanistica delle aree ferroviarie dismesse e in dismissione site in comune di Milano. Relazione illustrativa. Comune di Milano Direzione centrale sviluppo del territorio, Settore Progetti Strategici (2009b), Accordo di programma con contenuto di variante urbanistica al Piano Regolatore Generale vigente per la trasformazione urbanistica delle aree ferroviarie dismesse e in dismissione site in comune di Milano. Linee Guida allegate alle NTA. Comune di Milano, Assessorato allo sviluppo del Territorio, (2010), Relazione generale del Piano di Governo del Territorio Comune di Milano, Assessorato urbanistica, edilizia privata, (2011). Informativa alla Giunta Comunale in merito al Documento politico di indirizzo per il Governo del Territorio, 13 ottobre Dansero E., Giaimo C, Spaziante A. (a cura di, 2000), Se i vuoti si riempiono. Aree industriali dismesse: temi e ricerche, Alinea, Firenze Gregotti V. (1990), "Aree dismesse: un primo bilancio" in Casabella, n. 564 Infussi F. (2007), “L’esplorazione di un’opportunità e l’orientamento di un processo” in Territorio n.40 12
Relativamente al modo di declinare l’idea del masterplan in questa accezione, si vedano due esperienze condotte dal Diap-Politecnico di Milano tra il 2005 e il 2007: la prima è il lavoro svolto nell’ambito degli studi preparatori del Comune di San Donato Milanese per la redazione dei progetti per le aree centrali (Infussi, 2008); la seconda è la redazione del Masterplan per le aree dei gasometri della Bovisa svolta in collaborazione con i dipartimenti Best e Dpa. Materiali e riflessioni intorno alla vicenda si trovano nel servizio curato da Infussi F., Bruzzese A., Cognetti F., Una città della scienza e per i giovani a Bovisa, in Territorio n.40/2007 e in particolare in Infussi, 2007 e Bruzzese, 2007.
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Infussi F. (2008), “Progetti per decidere: velocità, scopi e forme” in Urbanistica 136 Lynch K. (1992), Deperire: rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Cuen, Napoli Secchi B. (1984), “Un problema urbano: l’occasione dei vuoti” in Casabella, n. 503 Spaziante A., Ciocchetti A. (2006), La riconversione delle aree dismesse: la valutazione, i risultati, Franco Angeli, Milano
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On Hold Airports: il ri-ciclo degli aeroporti secondari e nuove opportunità per i territori
On Hold Airports: il ri-ciclo degli aeroporti secondari e nuove opportunità per i territori Mario Cicolecchia Université Catholique Louvain La Neuve LOCI - URBA 12 Email: mario.cicolecchia@student.uclouvain.be Tel. 339.1259952 Sara Favargiotti Università degli Studi di Genova Facoltà di Architettura Email: sarafava@yahoo.it Tel. 347.1211611
Abstract Attualmente la diffusione delle compagnie aeree low cost sta promuovendo la rivitalizzazione di piccoli aeroporti regionali o secondari. Queste infrastrutture, solitamente nate per scopi militari, nel corso degli anni sono state sottoutilizzate o persino abbandonate, compromettendo lo sviluppo economico del territorio circostante. A partire dalla fine degli anni ’90 diversi aeroporti secondari sono stati inglobati nel network delle compagnie low cost, con un conseguente rinnovamento sia a livello infrastrutturale sia a livello funzionale e di attività (non solo legate al trasporto aereo). Il riuso dei piccoli aeroporti diventa fondamentale alla scala locale in quanto si genera una rapida trasformazione degli usi del suolo e nella rete delle infrastrutture legate al trasporto via terra: l’aeroporto diventa un punto di riferimento nel territorio e importante elemento per l’economia locale. Quale strategia per i piccoli aeroporti: il rilancio dell’infrastruttura con nuovi mercati del traffico aereo o la chiusura con dismissione e trasformazione? Il caso studio dell’aeroporto di Lleida Alguaire in Catalunya.
Aeroporti e centralità urbane La possibilità di mobilità -e conseguentemente di accessibilità- ha conferito ai territori l’opportunità di sviluppare condizioni di forte centralità rispetto a contesti più ampi. A livello territoriale si è venuta a generare un’importante gerarchizzazione degli spazi in cui solo le città con importanti infrastrutture legate alla mobilità sono state in grado di sviluppare sistemi economici e sociali capaci di garantire un elevato standard di vita, diventando degli attrattori per le popolazioni circostanti e per la nascita di canali di crescita trasversali (Wegener, Fürst, 1999). Il grande patrimonio di infrastrutture aeroportuali di piccole e medie dimensioni presente nel territorio italiano ed europeo (dismesse o sottoutilizzate, eredità soprattutto del periodo bellico), combinato ai nuovi mercati del traffico aereo come ad esempio il low cost, può diventare un importante elemento di decentralizzazione territoriale, in quanto contribuisce ad immettere nel network europeo dello scambio di prodotti, persone e informazioni nuove realtà territoriali che fino a poche decine di anni fa risultavano periferiche e marginali. Il riuso degli aeroporti secondari può contribuire alla costruzione di un territorio accessibile e percorribile con una multi-possibilità di luoghi centrali. Un contesto caratterizzato da una sorta di isotropia dove tutte le parti di territorio vanno ad acquisire un ruolo importante rispetto al macro scenario, in forte contrapposizione all’idea di un territorio gerarchico. Possiamo parlare di un contesto permeabile, ovvero un territorio che garantisce a tutte le sue parti la possibilità di essere allo stesso tempo attrattori e generatori di flussi di spostamenti. Questa M. Cicolecchia, S. Favargiotti
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permeabilità può così tradursi in connettività urbana: la possibilità per tutti gli individui di raggiungere il numero più alto di luoghi possibili. Diventa perciò fondamentale la questione dell’accessibilità, e a livello territoriale e urbano questa può essere considerata come una risorsa estremamente significativa per lo sviluppo di un determinato territorio e diventa l’elemento chiave nel governo delle scelte localizzative degli attori economici, politici e sociali (Cascetta, 2005). Perciò il riuso dei piccoli aeroporti può diventare una strategia importante in grado di moltiplicare i nodi dell’accessibilità per arrivare a definire una nuova geografia dei luoghi centrali.
La dismissione degli aeroporti Gli aeroporti non hanno mai avuto un ruolo così centrale nella vita delle città come oggigiorno, tuttavia essi rimangono ancora marginali e periferici in molte discussioni nella pianificazione urbana e nella progettazione delle città stesse. Gli aeroporti sono una struttura architettonica e, al tempo stesso, una funzione urbana: nella maggior parte dei casi sono privi di un’integrazione fisica e spaziale con il loro contesto urbano. «Gli architetti e gli urbanisti del mondo stanno sempre più trattando l’aeroporto non come un’entità separata ma solo come un’altra parte della condizione urbana. […] Il dovere è ora quello di progettare in modo efficace l’intera esperienza fisica, emozionale ed ambientale dell’aeroporto su una vasta area.» (Pearman, 2008). Attualmente esiste una diffusa condizione di strutture aeroportuali sottoutilizzate e potenzialmente obsolete che non sono mai riuscite a raggiungere un ruolo di centralità, causandone una parziale o totale perdita del loro uso. Processi di recupero sono già avvenuti in aeroporti abbandonati o rimasti inutilizzati per anni. I processi di ri-uso delle strutture aeroportuali dismesse possono essere raccontati attraverso casi studio emblematici, suddivisi in due macro gruppi: 1. da aeroporti dismessi all’espansione urbana + parchi (Stapleton, Denver, CO; München Riem, Germania). 2. da aeroporti dismessi a parchi urbani (Crissy Field, San Francisco; Tempelhof, Berlino, Germania).
1. Da aeroporti dismessi all’espansione urbana + parchi Molti aeroporti utilizzati come basi militari dopo la loro dismissione sono rimasti in uno stato di abbandono per anni. In conseguenza a un aumento della popolazione e a un’elevata richiesta di nuove residenze, molti di questi aeroporti sono stati ri-progettati come una nuova parte della città: un ampliamento della conurbazione urbana. Iniziando dalla trasformazione delle parti più strettamente collegate alle operazioni di aviazione, quali la pista di volo o le strade di collegamento interne in strade e via principali di scorrimento urbano, è stato pianificato un nuovo ampliamento urbano caratterizzato da residenze, servizi pubblici, aree commerciali e di affari estremamente connesse con le principali città limitrofe. I parchi urbani aggiungono valore al graduale rinnovo delle strutture esistenti e alla nuova area di sviluppo urbano. Inaugurato il 17 Ottobre 1929 come Denver Municipal Airport, il suo nome è cambiato in Stapleton Airfield dopo l’espansione del 1944. Stapleton è stato tormentato da numerosi problemi riguardanti l’inadeguatezza delle strutture fisiche e tecniche per gli aerei (piste di atterraggio, scarsità o totale assenza di spazi per altre compagnie aeree) e problemi di inquinamento acustico e ambientale. Nel frattempo venne ufficialmente inaugurato il nuovo Aeroporto Internazionale di Denver (DIA) nella zona nord est di Denver. La pista di atterraggio di Stapleton fu marcata con una grande scritta gialla “Xs” che indicava che non era più legale o sicuro per nessun aereo atterrare su quella pista. Mentre l’aeroporto internazionale di Denver era in fase di costruzione, urbanisti e progettisti iniziarono a considerare come l’area di Stapleton potesse essere ri-trasformata. Nel 1990 si riunì la società privata Stapleton Development Foundation che nel 1995 propose un masterplan per la ri-pianificazione dell’area. A differenza di molti altri piani proposti che attribuivano maggior importanza alla circolazione veicolare, questo progetto poneva la figura del pedone e le sue esigenze come centrali nella riprogettazione dell’area: quasi un terzo dell’area dell’aeroporto è stata riqualificata attraverso la riconversione a parco pubblico che integra il nuovo quartiere urbano a 10 minuti dal centro di Denver e suddiviso in zone residenziali e commerciali che comprendono uffici, parchi e un big box, un grande centro commerciale. Anche l’aeroporto di München Riem era considerato uno degli aeroporti più moderni e all’avanguardia nel mondo nella prima metà del XX secolo. Nel 1992 fu completamente abbandonato. Dopo la dismissione ospitò grandi manifestazioni ed eventi, come rave e concerti, all’interno delle strutture aeroportuali che tuttavia rimanevano utilizzabili. La ri-conversione dell’aeroporto dismesso nella Messestadt Riem (il quartiere fieristico della città di Riem) rappresenta uno dei più grandi progetti di pianificazione urbana intrapreso dalla città di Monaco tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del XXI secolo. Costituito da un centro congressi, residenze e parchi, M. Cicolecchia, S. Favargiotti
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le uniche strutture che ancora oggi restano dell’aeroporto sono la torre di controllo e l’edificio originale destinato a terminal passeggeri, il Wappenhalle (sala degli stemmi). Entrambe le strutture sono valutate patrimonio monumentale da preservare. Inoltre è ancora conservato un piccolo tratto di pista di atterraggio nell’estremità orientale.
2. Da aeroporti dismessi a parchi urbani Molti aeroporti che per la loro localizzazione o per la fatiscenza delle loro strutture risultavano problematici, a distanza di anni dalla loro dismissione si rivelano come potenziali nuove centralità urbane. Col succedersi degli anni, tali aeroporti sono stati inglobati dal contesto urbano, passando da una condizione di perifericità, legata alle loro attività aeroportuali, ad una situazione di centralità fisica per la città stessa che ha semplificato la loro riconversione in strutture urbane. La ri-conversione di questi aeroporti dismessi in parchi pubblici urbani è mostrata da Crissy Field. Oggi è un immenso parco urbano sul mare di San Francisco. In origine era un campo d’aviazione nell’ambito della base militare degli Stati Uniti (Presidio Army base). Negli anni ’90 la base ha cessato tutte le operazioni militari ed è diventata parte dell’area federale pubblica Golden Gate National Recreation Area. Ri-disegnato dallo studio associato Hargreaves Associates nel 1994, Crissy Field si è ri-trasformato: da un aeroporto militare a spazio pubblico aperto. Oggi fa parte dell’area nazionale protetta Golden Gate National Recreation Area. È diviso in sei zone naturalistiche più importanti: queste sono le parti che ri-animano l’aeroporto Crissy Field in un parco, un grande spazio pubblico, nuovo polmone verde di San Francisco. Destino simile è stato vissuto dall’aeroporto di Tempelhof la cui naturale soluzione per il suo ri-utilizzo è stata l’apertura ai cittadini come parco pubblico. Spesso chiamato City Airport, ha ufficialmente cessato di operare nel 2008, a seguito del processo che ha portato ad affermare l’aeroporto di Schönefeld come l’unico aeroporto commerciale e turistico di Berlino. Nel corso della sua fase di utilizzo post-aeroportuale è stato utilizzato per ospitare numerose fiere ed eventi, a livello nazionale e internazionale. Ufficialmente ri-aperto nel maggio 2010 come parco urbano, Tempelhofer Park viene oggi visitato da più di 200.000 berlinesi che frequentano i suoi ampi spazi aperti per dedicare il loro tempo libero ad attività di ciclismo, pattinaggio, baseball, volo di aquiloni, barbecue e relax.
Figura 1. Tempelhofer Park, Berlino, 2010. Le strategie sopra descritte rispondono a politiche urbane strettamente legate a contesti temporali, sociali ed economici di crescita demografica e sviluppo. Oggi le condizioni sono cambiate. Questa strategia, la più auspicabile e desiderata, che voleva ri-generare parti di città attraverso grandi parchi urbani, realizzava sogni di M. Cicolecchia, S. Favargiotti
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tempi non così lontani. Ma non è più pensabile poter attuare oggi questa politica. Le condizioni sono cambiate ed è pertanto necessario seguire strategie in linea con le dinamiche sensibili e sostenibili ai contesti attuali.
La concezione degli aeroporti postmoderni La diffusione dei vettori low cost sta contribuendo in maniera determinante a definire una nuova concezione dell’aeroporto. I piccoli aeroporti offrono condizioni estremamente favorevoli per quanto riguarda i costi dovuti alle operazioni aereonautiche, in maniera tale da attrarre le compagnie low cost. D’altro canto, per produrre degli introiti economici soddisfacenti, gli aeroporti sono portati a sviluppare tutta una serie di attività che non sono direttamente legate al settore dell’aviazione, diventando per i territori poli strategici per lo sviluppo di differenti economie. Gli aeroporti non sono più solo delle infrastrutture di trasporto, ma possono essere considerati a tutti gli effetti come spazi pubblici della città contemporanea (Freeston, Baker, 2011), elementi fondamentali nel mondo globale e nello spazio dei flussi, e quindi elementi trainanti fondamentali per le economie locali. Sono moltissimi oggi gli esempi di piccoli aeroporti in Europa che stanno seguendo questa tendenza, incoraggiati anche dalle politiche -e dagli investimenti- su macro-scala delle regioni che vedono nell’operatività di tali aeroporti un’importante prospettiva di crescita. L’aeroporto di Skavsta in Svezia, distante circa 100 km da Stoccolma, è un primo esempio interessante per capire la nuova natura di questi aeroporti secondari. Sfruttando la sua posizione strategica nel sud della Svezia, tra le città più importanti dello Stato, è stato deciso di realizzare all’aeroporto un “Business Park” che ospita oggi circa 40 imprese legate al terziario (finanza, assicurazioni, servizi di alta qualità, consulenze, ecc.). In questo modo l’aeroporto è oggi sede di meeting di lavoro, convegni, corsi di alta formazione, come un vero centro economico e finanziario tipico dei distretti finanziari nel core delle grandi città. Un altro esempio significativo è l’aeroporto di Weeze in Germania, distante circa 80 km da Dussledorf, dove per lo sviluppo dell’aeroporto si è optato per il settore turistico-ricreativo. L’aeroporto di Weeze è stato storicamente un’importante infrastruttura militare. Si è scelto di valorizzare questa vocazione militare e all’interno dell’aeroporto è possibile svolgere dei veri e propri stage di formazione militare di varia durata, restando più giorni all’aeroporto e vivendo per questo breve periodo come dei veri e propri militari. Sono presenti musei legati all’aviazione e agli armamenti militari, proiezioni di film, percorsi didattici sulla memoria dell’infrastruttura ed altro ancora. In questo caso l’aeroporto, con tutte le sue attrazioni, è il luogo dove trascorrere una parte della vacanza, diventando un vero e proprio polivalente operatore turistico per la regione.
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Figura 2. Formazione militare per i turisti nell’aeroporto di Weeze. Nell’aeroporto di Prestwick in Scozia, collocato a circa 50 km da Glasgow, è stata fatta una scelta completamente differente, in quanto è stato deciso di far diventare l’aeroporto sede delle più importanti imprese del contesto internazionale legate alla fabbricazione di componenti per aeromobili, più in generale imprese del settore aerospaziale concentrate sia sulla produzione che sulla manutenzione. L’aeroporto di Prestwick è oggi un punto di riferimento a livello mondiale in questo settore, e continua ad attrarre imprese che hanno un’evidente ricaduta sulla regione, soprattutto in termini di impiego di personale. Un altro caso interessante è quello del Belgio con gli aeroporti di Charleroi (60 km da Bruxelles) e Liegi. Questi due aeroporti, infatti, sono stati inglobati nel network di attività sviluppate dall’ “Euro Space Center of Wallonie” con sede nella città di Transinne, in quanto parti delle operazioni del centro spaziale -sia a livello turistico/ricreativo/educativo sia a livello di ricerca scientifica- vengono svolte in questi due piccoli aeroporti. Questi due aeroporti diventano perciò componenti basilari di un processo che investe diversi settori economici del Belgio oltre alla mobilità aerea, in primis turismo e innovazione tecnologica. In generale i piccoli aeroporti europei stanno diventando sede di un grosso numero di imprese e attività, in quanto una combinazione di efficienti infrastrutture di trasporto, elevata sicurezza e importanti infrastrutture di comunicazione rende l’area aeroportuale estremamente attrattiva per un ampia varietà di imprese. Ogni aeroporto cerca di coltivare una propria vocazione specifica, come centri economici, turistici, industriali o tecnologici. Gli spazi aeroportuali acquisiscono un ruolo da protagonisti nello spazio metropolitano e si convertono in centralità che attraggono attività economiche differenti e che generano una crescita strategica delle città: la centralità delle città e delle aree urbane può essere pertanto determinata dall’operatività dei piccoli aeroporti. Nasce perciò l’esigenza di capire la natura di queste trasformazioni, per poterle governare coerentemente con le situazioni contestuali in cui queste si sviluppano, arrivando a rendere la presenza di un aeroporto regionale un’energia positiva per lo sviluppo territoriale, e quindi per la collettività, e non causa di esternalità negative. L’attenzione deve essere posta sulla strutturazione del polo aeroportuale, ovvero quali siano le dinamiche di localizzazione di nuove imprese, di strutture di servizio e di infrastrutture di trasporto, quali conseguenze per l’inquinamento, l’occupazione di suolo agricolo, la compromissione di aree naturali. Si tratta di processi che si sviluppano rapidamente e quindi diventa fondamentale pianificare queste dinamiche legate alla crescita dei poli aeroportuali, soprattutto per trovare -in una visione sovra locale- una convergenza tra le politiche aeroportuali e le politiche della città ed arrivare a generare dei canali d’integrazione tra gli attori implicati in questi processi.
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On Hold Airports: il ri-ciclo degli aeroporti secondari e nuove opportunità per i territori
Le città secondarie, grazie ai piccoli aeroporti, diventano attrattive perché sono raggiungibili comodamente e a basso costo e ciò ha implicato una crescita generale del livello infrastrutturale legato al trasporto. A Girona per esempio lo spazio fisico aeroportuale è cresciuto moltissimo negli ultimi anni e inoltre la città ora sarà raggiungibile anche dall’asse dell’alta velocità ferroviaria modificato in seguito al grande sviluppo dell’aeroporto: città in crescita che diventano snodi strategici di riferimento per tutto il territorio. Insieme alle infrastrutture crescono anche le possibilità che la città si ritrova a offrire: eventi culturali internazionali, offerta universitaria di qualità, servizi altamente specializzati legati al terziario. Si tratta di città che si pongono al fianco delle grandi metropoli arricchendo l’attrattività generale di tutto un territorio e non ricoprendo un ruolo da competitors.
Il caso di Lleida Alguaire: quale destino? L’aeroporto di Lleida-Alguaire è operativo dal 5 febbraio 2010. Un anno dopo, le compagnie di volo più importanti hanno cancellato le loro attività di volo. L’aeroporto di Lleida-Alguaire è stato pensato come infrastruttura fondamentale per promuovere e stimolare l’economia e lo sviluppo della provincia di Lleida, dei Pirenei e dell’Andorra. Si prevedeva che tale infrastruttura avrebbe notevolmente incrementato il turismo e avrebbe altresì promosso diversi servizi logistici ed economici. Questo non è mai accaduto. Due anni dopo la sua inaugurazione ufficiale, l’aeroporto di Lleida-Alguaire accoglie alcuni piccoli aerei privati che saltuariamente vengono a visitare la sua pista di atterraggio durante la settimana. Nessuna compagnia aerea effettua più servizi di atterraggio o partenza da qui. L’attività dell’aeroporto è praticamente nulla. Ora l’aeroporto di Lleida-Alguaire è un aeroporto on hold, un’infrastruttura in attesa del suo futuro, una cattedrale nel deserto. Il team di progetto guidato da Fermin Vazquez (b720 Architects) ha saputo realizzare un aeroporto che rappresenta un elegante equilibrio in grado di elude l’effetto di artefatto architettonico atterrato sulla terra ma, allo stesso tempo, non fa perdere all’aeroporto il carattere di punto di riferimento, riconoscibile in lontananza. L’indiscutibile qualità architettonica dell’edificio, l’integrazione con il paesaggio e i sistemi ecologici intelligenti e sostenibili rendono l’aeroporto di Lleida-Alguaire uno degli aeroporti più interessanti e ben progettato tra gli aeroporti regionali di recente costruzione. Più discutibile è la sua funzione operativa: era davvero necessario costruire questo aeroporto? Nella speranza di migliorare le attività dell’aeroporto di Lleida-Alguaire, recentemente è stato firmato un contratto della durata di cinque anni con l’Inghilterra che provvederà a garantire voli per le prossime cinque stagioni invernali. Si suppone che tale accordo darà una spinta all’aeroporto di Lleida-Alguaire e migliorerà l’utilizzo dell’area sciistica spagnola da parte dei turisti inglesi. Tuttavia si tratta di iniziative che non possono generare una rinascita strutturale e permanente dell’aeroporto, ma bensì brevi momenti di operatività in grado di evitare la chiusura definitiva dell’impianto. L’aeroporto di Lleida-Alguaire potrebbe davvero rivelarsi un’infrastruttura fondamentale per promuovere e sviluppare le economie locali e il settore turistico della provincia di Lleida. Rimangono pertanto irrisolti interrogativi sui quali molti sono i dubbi in sospeso: quali sono le strategie migliori per ri-attrarre visitatori e abitanti locali in questo territorio? Sarà sufficiente un nuovo collegamento aereo stagionale tra Inghilterra e Catalogna per ri-attivare le dinamiche legate alla cultura, al patrimonio storico locale, agli affari e al turismo? Quali sono gli scenari futuri possibili per questa infrastruttura appena nata e già in declino?
M. Cicolecchia, S. Favargiotti
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Figura 3. Aeroporto di Lleida-Alguaire nel Settembre 2011. La Generalitat della Catalunya, con il supporto tecnico-scientifico dell’università, sta provando a pensare quali possano essere gli scenari potenziali per lo sviluppo dell’aeroporto di Lleida. Si tratta di visions che derivano dalle opportunità che offre il contesto in cui sorge quest’infrastruttura e volte ad indagare possibili vocazioni future dell’aeroporto. L’aeroporto viene considerato come parte strutturante della vacanza dei turisti e non solo come scalo di arrivo e partenza: un’infrastruttura in grado di poter offrire spazi e funzioni tali da attrarre il viaggiatore -sia esso turista o businesses man- nello spazio aeroportuale durante la visita per usufruire di servizi e prodotti. L’aeroporto è pensato come elemento di punta di un sistema di produzione di energie rinnovabili attraverso le produzioni agricole: l’infrastruttura è collocata all’interno di un territorio potenzialmente valido per l’attività agricola che, accostata alla produzione di energie rinnovabili, garantirebbe una nuova immagine all’infrastruttura e al territorio. L’aeroporto è osservato come parte fondamentale di un sistema produttivo in cui tutte le imprese della regione potrebbero trarre vantaggio dalla promozione del trasporto cargo affiancato al trasporto passeggeri: un’infrastruttura che diventa il trampolino di lancio per le imprese e i prodotti di una regione generando una forte sinergia col contesto economico. L’aeroporto viene presentato come centro di innovazione e creatività culturale, base per la produzione e diffusione artistica: diventa esso stesso catalizzatore di una serie di attività legate alla produzione culturale da inserire successivamente in un sistema di rete e scambio a livello europeo. Infine, l’aeroporto è concepito come polo di sviluppo tecnologico legato all’aviazione e agli studi spaziali: sfruttando la presenza del vicino osservatorio spaziale del Montsec, includendo l’aeroporto nelle attività di ricerca e affiancando attività legate alla formazione, all’educazione e al turismo. Si tratta di cinque scenari diversi tra loro, ma ognuno pensato in base a quelle che sono le potenzialità della regione. Seguire una di queste tracce permetterebbe all’aeroporto di sviluppare attività parallele al traffico aereo con ricadute importanti sulle economie locali e sull’economia dell’aeroporto stesso, con una rinnovata operatività in grado di sviluppare e diversificare la sua offerta. Allo stesso tempo è necessario pensare ad una “nuova identità” per il traffico aereo dell’aeroporto di Lleida tale che possa generare un’attrattività in grado di influenzare positivamente lo sviluppo economico di tutto il territorio, affinché la costruzione di questo aeroporto non si dimostri, nel breve termine, un fallimento strategico. Una nuova identità che permetta di comprendere il passaggio fondamentale che attualmente stanno affrontando molti piccoli aeroporti, ovvero arrivare a concepire l’aeroporto non solo come infrastruttura di trasporto ma bensì come elemento chiave per lo sviluppo dei territori. M. Cicolecchia, S. Favargiotti
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Re-cycling Airports È necessario avvicinarsi alla dimensione quotidiana della vita dell’aeroporto. La riconversione delle infrastrutture aeroportuali aumenterà la qualità e lo sviluppo delle condizioni sociali e urbane circostanti: da on hold airports (aeroporti in attesa), ad aeroporti catalizzatori di processi. La risignificazione di tali infrastrutture può attivare processi di crescita della mobilità, sviluppare le reti di trasporto e comunicazione, ridare nuovo senso e nuovo valore a parti di città che avevano perso la loro precisa connotazione fisica, ma soprattutto può amplificare la presenza di luoghi e paesaggi in cui vivere e riconoscersi. Questa potrebbe essere la strategia per quegli aeroporti che hanno bisogno di ricalibrare la loro funzione principale: l’integrazione e la simbiosi tra le strutture legate al trasporto aereo con attività commerciali o di intrattenimento che ri-generano la loro vita e l’economia circostante. In questo senso, le infrastrutture aeroportuali, per le loro dimensioni e le relazioni che instaurano con il territorio, sono potenziali agenti catalizzatori e attivatori di contesti: valutare ma soprattutto anticipare la corretta strategia di riciclo per gli aeroporti (pre-cycle) è una necessità ogni giorno sempre più urgente per anticipare l’inarrestabile declino di tali strutture e per attivare processi di recupero in sinergia con le differenti realtà urbane. In conclusione, il ri-uso degli aeroporti secondari, proiettando il territorio all’interno del network europeo della mobilità, offre potenziali di sviluppo interessanti. L’obiettivo prioritario rimane quello di valutare sensibilmente quale sia la sostenibilità di tali interventi per le città e per i territori, affinché i post-aeroporti non diventino solo dei problematici buchi neri ma piuttosto valorizzino le potenzialità che l’aeroporto stesso presenta come agente catalizzatore, generatore di una nuova immagine per se stesso e per il territorio circostante.
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M. Cicolecchia, S. Favargiotti
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Il riuso delle aree militari dismesse. Progettare l'innesto di “Micro-città” in contesti urbani di piccole dimensioni
Il riuso delle aree militari dismesse. Innestare “Micro-città” in contesti urbani di piccole dimensioni Paola Cigalotto Università degli studi di Trieste Facoltà di Architettura Email: paola.cigalotto@gmail.com Tel/fax 0432.505676 Marina Bradicic Università degli studi di Trieste Facoltà di Architettura Email: mbradicic@yahoo.it Teresa Frausin Università degli studi di Trieste Facoltà di Architettura Email: teresa.frausin@gmail.com
Abstract Fino alla fine degli anni '90, il tema del recupero di grandi aree dismesse è stato ampiamente frequentato, facendosi progetto principalmente in contesti metropolitani o di città di grandi dimensioni. Negli ultimi anni, tuttavia, qualcosa è cambiato. Il processo di “sdemanializzazione” di siti militari ha contribuito ad aprire nuove sfide progettuali in realtà di provincia, in comuni di piccole e medie dimensioni. Nei piccoli centri le aree militari dismesse, invece di essere uno dei tanti frammenti che compongono il tessuto urbano, si pongono come vere e proprie “micro-città”. Recuperarle significa talvolta raddoppiare il suolo a disposizione delle comunità locali; significa quindi spostare e modificare in maniera molto significativa gli equilibri e le dinamiche dell’esistente. Proprio la fragilità e la “sensibilità” di questi territori mette in evidenza quanto oggi sia inappropriato il ricorso a strategie di riuso generali e generaliste, improntate all'inserimento di nuove centralità o a criteri di mixité fondati sul semplice accostamento di funzioni e quantità e quanto sia necessario un nuovo sguardo.
Il riuso delle aree militari dismesse in Friuli Venezia Giulia, un fenomeno di dimensioni “epocali”. Sdemanializzare, privatizzare, risanare le casse dello Stato vendendo il patrimonio immobiliare inutilizzato è un punto all’ordine del giorno, sul quale si discute trovando consenso unanime dalle diverse parti politiche, ma se ne parla senza porsi alcune fondamentali domande. Quali saranno le ricadute sul territorio? Come governare questi processi guardando anche alle conseguenze sull’assetto fisico e socio economico? Il caso della regione Friuli Venezia Giulia è un caso limite: un territorio fino a poco tempo fa colonizzato pesantemente da centinaia di siti militari, decine di migliaia di soldati e servitù militari che investivano più del 50% della superficie regionale. Dagli anni ’50 agli anni ’70 si è concentrato qui più di un terzo dell’esercito italiano; il Fvg è stata la regione “della naia” con il suo indotto di strutture alberghiere e commercio di basso costo: uno stigma di regione di frontiera segnata da muri e fili spinati. Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin
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Il riuso delle aree militari dismesse. Progettare l'innesto di “Micro-città” in contesti urbani di piccole dimensioni
Poi, nel 1989, il crollo del muro di Berlino, la successiva disgregazione della Jugoslavia, l’apertura delle frontiere verso la Slovenia nel 2004, lo spostamento al Sud delle forze militari e, nel 2005, la fine della leva obbligatoria. Un anno dopo l’altro, l’abbandono e la dismissione di moltissime caserme, arsenali, depositi, ospedali, basi, poligoni, polveriere, alloggi: salutato da molti come la fine di un vincolo e l’inizio di un nuovo ruolo per la regione (l’immagine della “regione ponte” che fatica tutt’ora a concretizzarsi), per alcuni territori è stato uno stravolgimento superiore a quello del terremoto del 1976, con serie implicazioni anche sul tessuto economico. In virtù del proprio Statuto di Autonomia, grazie al lavoro della Commissione Paritetica per il trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni prevista dall’Art. 65 dello Statuto Fvg e presieduta da Antonio Di Bisceglie (attuale sindaco di San Vito al Tagliamento), dal 1998 al 2001 alcune caserme, in capo al Ministero delle Finanze, vengono sdemanializzate. Una non facile trattativa, tra lo Stato che riteneva di poter fare cassa e la Regione che rimarcava le finalità pubbliche del trasferimento, porta alla decisione di assegnare i beni dismessi da più di dieci anni all’ente che li aveva avuti sul proprio territorio. Sulla base di un primo elenco si verificò che i beni non servissero ad altre amministrazioni dello Stato (Ministeri) e infine si arrivò al trasferimento diretto ai Comuni, a titolo gratuito (D.Lgs. n. 237 del 24/04/2001 e successivo D. Lgs. n. 35 del 2/3/2007). La Commissione trasferì alla Regione anche il Demanio Idrico e la invitò a definire una dotazione finanziaria per i Comuni per il riutilizzo dei beni trasferiti: centocinquantuno, su una stima approssimativa totale di ca.400 siti. Questa vicenda anticipa lo schema di Decreto legislativo sul federalismo demaniale approvato dal Consiglio dei Ministri il 18.12.2009, con cui si era dato il via a un massiccio programma di trasferimento di beni, in parte bloccato dal successivo decreto del 28/06/2010 n. 85 e ne mette in luce le complessità. Solo pochissime tra le aree militari cedute sono state riutilizzate o sono in corso di trasformazione. Il trasferimento sembra non aver trovato un adeguato supporto tecnico, gestionale e finanziario, né una regia, né linee guida di riferimento. Solo il Comune di Udine nel 1998 ha promosso uno “Studio preliminare di progettazione urbanistica riferito alle aree dismesse” (architetti cigalotto e santoro) per indirizzare i possibili scenari di trasformazione. Nel convegno del 2009 a Cormons i sindaci dei piccoli Comuni coinvolti si sono trovati a discutere di quella che pare, ora, una “mela avvelenata” (Colussi, 2010). Nello stesso periodo una foto inchiesta viene realizzata da Paolo Fedrigo, del Laboratorio regionale di educazione ambientale dell’Arpa Fvg e dal fotografo Fabrizio Giraldi, per conto dell’associazione culturale Cinemazero di Pordenone, e mostra lo stato di abbandono dei 102 km2 ancora occupati dal demanio militare. Questo lavoro, che ha suscitato un grande impatto, ha dato corpo a un sito (www.primuleecaserme.it) al documentario “Friuli Venezia Giulia: un paese di primule e caserme” e allo studio di Alessandro Santarossa sul reale censimento, ancora sconosciuto, dei siti militari.
Dai “vuoti urbani” alle “micro città” Questa situazione mette a fuoco il tema della ricerca: fino alla fine degli anni '90, il tema del recupero di grandi aree industriali e infrastrutturali dismesse è stato ampiamente frequentato, facendosi progetto principalmente in contesti metropolitani o di città di grandi dimensioni. Negli ultimi anni, tuttavia, qualcosa è cambiato. Nel caso del Friuli Venezia Giulia il processo di “sdemanializzazione” dei siti militari ha contribuito ad aprire nuove sfide progettuali in Comuni di piccole e medie dimensioni, dove le risorse e le richieste funzionali si definiscono a scala nettamente diversa rispetto a entità urbane più estese e inclini a una trasformazione per singoli tasselli come nei “vuoti urbani” di Milano, Torino o Bologna. Nei piccoli centri le aree militari dismesse, invece di essere uno dei tanti frammenti che compongono il tessuto urbano, si pongono infatti come vere e proprie “micro-città”. Recuperarle significa talvolta raddoppiare il suolo a disposizione delle comunità locali; significa quindi spostare e modificare in maniera molto significativa gli equilibri e le dinamiche dell’esistente. Proprio la fragilità e la “sensibilità” di questi territori mette in evidenza quanto oggi sia inappropriato e inattuale il ricorso a strategie di riuso generali e generaliste, improntate all'inserimento di nuove centralità o a criteri di mixité fondati sul semplice accostamento di funzioni e quantità. Quasi ovunque il ridotto apparato tecnico amministrativo di piccole realtà appare inadeguato ad affrontare l’estrema complessità di gestione sia degli “strumenti complessi” (project financing, STU, ecc.) sia dei finanziamenti europei. Il miraggio dell’intervento coordinato pubblico- privato si riduce a proposte semplificate dove il mercato “dà all’abitare una risposta opaca” (Bianchetti, 2011; p. 55) e non fa che riproporre pezzi di città omologati, materiali urbani standardizzati (palazzine, condomini) in progetti banali “la cui ragione morfologica appare direttamente riconducibile alla necessità di mobilitare promotori e imprese”. Anche gli unici due interventi concretizzati, a Latisana e a Spilimbergo, non sembrano aver raggiunto gli obiettivi di qualità prefissati dall’operatore pubblico. Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin
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Il riuso delle aree militari dismesse. Progettare l'innesto di “Micro-città” in contesti urbani di piccole dimensioni
Il laboratorio Come confrontarsi in modo nuovo e adeguato con il recupero delle strutture militari che, dal secondo dopoguerra, hanno condizionato in maniera sensibile lo sviluppo del territorio italiano? Come fare sì che queste aree si trasformino in “città”, recuperando condizioni per un abitare quotidiano di qualità, che possa influenzare positivamente l'intera compagine urbana, anche in un momento in cui l’investimento pubblico sta subendo una battuta d’arresto non trascurabile? Sono queste le domande che da alcuni anni orientano le esperienze didattiche e di ricerca sviluppate dalla Facoltà di Architettura di Trieste in diversi centri urbani di piccole e medie dimensioni della regione, all’interno del Laboratorio di Urbanistica III (dal 2009 al 2012) 1. La scelta è stata quella di orientarsi verso i centri di media dimensione, escludendo inizialmente i capoluoghi: • Cormons: 7.698 ab. 34.58 km2, caserma = 64.600 m2 • Sacile: 20.227 ab. 32,62 km2, caserma = 85.000 m2 2 • Cervignano: 13.590 ab. 28,47 km , caserma = 104.700 m2 2 • Cividale: 11.615 ab. 50,49 km , caserma = 51.000 m2 • Chiusaforte: 705 ab. 100,16 km2, caserma = 68.000 m2 • S. Vito al Tagliamento: 15.015 abitanti, 60,71 km2, caserma = 50.600 m2 Ciò che accomuna i differenti casi è la posizione centrale delle aree dismesse; le ingenti dimensioni delle excaserme (generalmente pari a una decina di ettari) che spesso arrivano a coprire più di 1/3 della superficie dei centri urbani; la difficoltà dovuta al periodo di crisi delle finanze pubbliche locali (spese esose di bonifica di suoli, di demolizione e/o ristrutturazione degli immobili, di gestione dei processi); la difficoltà nel individuare programmi e progetti capaci di coniugare le possibilità delle amministrazioni con le esigenze manifestate dai cittadini. D’altro canto, occasione unica in Italia è il possesso pubblico di superfici molto ampie, centrali e già infrastrutturate; la disponibilità di insediarvi spazi abitativi, attrezzature e centralità, attività terziarie e produttive, la possibilità di ripristinare sistemi ecologici e spazi verdi ad uso collettivo; l’occasione per evitare l’ulteriore consumo di suolo e sperimentare progettualità energeticamente sostenibili. Le quantità in gioco sono ingenti sia alla scala locale che dell’intera regione: le superfici militari dismesse disponibili sono state quantificate in 102 km2 ca. e considerando solo quelle già cedute si può ipotizzare, in astratto, l’insediabilità di 70.00 abitanti (Pascolat, Vragnaz, 2011) su una popolazione totale attuale di 1.235.808 abitanti.
Strategico / non strategico I lavori del laboratorio sono stati suddivisi in due fasi: una prima fase di lavoro volta alla valutazione della strategicità delle aree di progetto in relazione al sistema del paesaggio, dell’accessibilità e dei modi d’abitare, nonché della dotazione di servizi di prossimità e di scala urbana, in modo tale da riuscire a prefigurare scenari ampi in linea con le tensioni in atto, restituiti in masterplan di progetto a scala comunale (Fig. 1). Le ragioni evidenziate negli schemi strutturali generali sono servite poi da guida per progetti a scala più minuta nei quali indagare soluzioni tese all’indagine delle relazioni tra spazi aperti e costruiti, materiali urbani e di paesaggio, usi e assetti funzionali. Il lavoro in aula è stato inoltre accompagnato da una serie di incontri con gli attori privilegiati dei vari contesti urbani, che di volta in volta si sono dimostrati preziose fonti per capire le esigenze più intime dei diversi territori; inoltre –ed è importante sottolinearlo- si è cercato di non relegare i risultati ottenuti nelle stanze della Facoltà, bensì i progetti sono stati organizzati e presentati alle comunità delle cittadine di intervento attraverso delle piccole mostre, che si sono rivelate momento indispensabile di confronto con i rappresentanti delle amministrazioni e con gli abitanti. In termini generali, le problematiche ambientali sollevate dalla bonifica dei siti militari e dal recupero di un vasto patrimonio architettonico ed edilizio non sempre riciclabile si accompagnano, da un lato, a una riflessione sulle opportunità offerte alla costruzione di beni e servizi pubblici, dall'altro, a un ragionamento sulla possibilità di inquadrare il progetto di riuso in una visione strategica complessiva e alternativa a traiettorie di mero sviluppo speculativo e immobiliare. Ne consegue l'importanza di capire come l'attore pubblico in questi contesti possa essere messo in grado di assumere il compito sia di gestire nuovi progetti e programmare gli investimenti necessari in un tempo lungo, sia di individuare attori interessati e competenti, capaci di attuare politiche urbane e 1
Coordinatore Elena Marchigiani, docenti: Paola Cigalotto, Sonia Prestamburgo, Luca Ugolini, collaboratori alla didattica: Marina Bradicic, Teresa Frausin.
Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin
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Il riuso delle aree militari dismesse. Progettare l'innesto di “Micro-città” in contesti urbani di piccole dimensioni
sociali integrate ed efficaci. Difficile possa agire da solo, senza il supporto di enti e strutture sovraordinate. Occorre una valutazione che, tenendo insieme la scala regionale e quella locale (e i rispettivi soggetti) definisca una mappa delle possibilità e un programma di interventi. Per quanto attiene nello specifico alle soluzioni spaziali, il ripensamento di logiche e principi insediativi si coniuga a una ricerca progettuale orientata a costruire: • una maggiore integrazione tra nuovi servizi e forme di abitare all'interno di una dimensione rivisitata di “welfare urbano”; • nuove relazioni con le infrastrutture esistenti al fine di potenziarle e migliorarle; • nuovi paesaggi che si riallaccino ai sistemi naturali già presenti, suggerendo modalità innovative di gestione.
Declinare una questione attuale Il laboratorio ha cercato di ragionare proprio su quale sia il significato del termine “abitare” oggi in contesti di piccole e medie dimensioni che hanno conquistato il loro equilibrio faticosamente e che hanno dovuto, molto spesso, recuperare una vivacità economica e funzionale dovuta anche alla presenza dei siti militari, che al momento della sdemanializzazione rischiava di essere fortemente compromessa (in particolare in realtà come Chiusaforte, piccolo comune montano). Innanzitutto è necessario cercare di ricucire le aree con il territorio: rompere il recinto delle aree militari significa confrontarsi con una città “di tutti i giorni” rispetto a cui le caserme rischiano di continuare ad essere degli elementi alieni, perché poco assorbibili e poco utilizzabili. In una prima fase di lavoro, si è quindi cercato di andare a scavare nella struttura del territorio, a scala urbana ma anche a scala vasta, per recuperare ragioni e temi per progetti fortemente giustificati da punti di forza o criticità dell’esistente. Tema cardine, che rimane sullo sfondo di tutte le riflessioni progettuali, è il ripensamento del set di attrezzature pubbliche o ad uso collettivo e condiviso che tradizionalmente ineriscono alla sfera delle politiche del welfare: servizi sanitari, educativi, culturali, abitativi che contribuiscono a migliorare le condizioni di abitabilità di un contesto urbano, conferendo punti di riferimento per la costruzione di sicurezza, di equità sociale, di reti identitarie e di mutuo sostegno tra gli abitanti. Sicuramente oggi fioriscono moltissimi ragionamenti e casi studio di rilievo internazionale sulla costruzione di luoghi ad uso pubblico. Tuttavia, “una ricerca paziente delle dimensioni fisiche e concrete del benessere individuale e collettivo” (Secchi, 2005, p. 108) diventa quanto meno scontata quanto più i luoghi di indagine, comuni di piccole e medie dimensioni, sono legati a modalità di funzionamento, ad economie e a richieste funzionali di scala nettamente diversa rispetto ad altri luoghi che si sono confrontati con aree dismesse di superfici simili. La questione del progetto del welfare viene declinato in maniera differente a seconda della scala di osservazione. Tuttavia, sia a scala vasta sia a scala più minuta il progetto viene costruito attorno a quattro questioni fondamentali: la dotazione degli spazi verdi e del paesaggio; l’approccio al riuso dell’esistente; l’inserimento di luoghi dell’abitare, integrando residenze e servizi; le modalità di gestione, gli attori coinvolti nel processo di rifunzionalizzazione nonché i tempi di attuazione dei processi e progetti proposti.
Una dotazione di spazi verdi Nei differenti contesti il paesaggio naturale gioca un ruolo fondamentale. Si deve ricordare come queste aree, anche se abbandonate in fondo da circa dieci anni sono state investite da rapidi fenomeni di rimboschimento con la conseguente creazione di inedite situazioni ambientali tra naturale e costruito. Il riuso delle aree dismesse cerca inedite connessioni con il paesaggio locale, in modo tale da tutelare e rendere evidenti i sistemi naturali esistenti nell’intorno. Innanzitutto, si possono codificare oculate e attente strategie di infiltrazione, in cui la vegetazione presente in loco viene mappata, per conservarla e riportarla ad un disegno d’insieme, oppure per favorire, con opportune piantumazioni, la rinaturalizzazione del sito. Lavorare sul paesaggio significa però soprattutto capire come i nuovi residenti possano usare gli spazi verdi, e come questi si mettano a sistema con altri luoghi verdi ad uso dell’intera cittadinanza. Il progetto di paesaggio si apre quindi a declinazioni variegate: parco, orto-urbano, campagna in città, campagna didattica, giardino collettivo a gestione individuale sono modalità che vanno integrate e dosate nel progetto, in modo tale da creare un paesaggio multi-funzionale, tra il quotidiano e lo “straordinario”. Così, la tutela del paesaggio, dal momento della progettazione alla fase della sua manutenzione, diventa opportunità di sviluppo economico e culturale: potersi prendere cura di un piccolo appezzamento di terreno, attraverso una formula di gestione condivisa come quella degli orti sociali per determinate categorie di utenti Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin 4
Il riuso delle aree militari dismesse. Progettare l'innesto di “Micro-città” in contesti urbani di piccole dimensioni
(anziani, persone con disabilità motorie) oppure dedicando parte delle aree ad iniziative per la riabilitazione sociale o fisica (orto- e agro- terapia), o ancora rivitalizzando il settore occupazionale destinando buona parte delle aree ad attività agricole da portare a reddito attraverso mercati a km0. In questo caso, quindi, non viene garantito soltanto un certo grado di sostenibilità ambientale, ma anche di sostenibilità sociale ed economica degli interventi proposti. Potersi confrontare con aree dalle dimensioni davvero notevoli permette di pensare all’installazione di sistemi energetici alternativi, che diventano particolarmente efficaci proprio grazie alle amplissime superfici disponibili. La qualità ambientale si raggiunge anche attraverso un’attenta programmazione delle modalità di approvvigionamento energetico e una valutazione dell’impatto che produrrà l’insediarsi di nuove funzioni sul territorio. E’ necessario integrare tecnologie e sistemi di produzione di energia rinnovabile con gli altri sistemi insediati: la residenza, i servizi, gli spazi aperti, per evitare la monofunzionalità dell’area e “sacrificare” porzioni ingenti di territorio ad uno scopo unico. Fotovoltaico, eolico, energia a biomasse, fitodepurazione e fitorimedio diventano quindi priorità di un progetto forte proprio perché associati ad una lista molto fitta di altri obiettivi e funzioni.
Riuso Una questione che è particolarmente cruciale nell’approccio al riuso delle aree militari dismesse è il confronto con il muro: le aree, quasi sempre interamente recintate, sono state percepite sempre fisicamente e funzionalmente come un perimetro invalicabile e indefinito. Rompere il limite e aprire le aree alla città è un gesto progettuale necessario ma per nulla scontato o semplice. Il recupero deve essere orientato secondo programmi funzionali che interpretino le esigenze della comunità urbana. La caratterizzazione funzionale protende quindi nella maggior parte dei casi ad un intreccio di servizi, residenza e spazi verdi che possono dare risposta in maniera innovativa a obiettivi di interesse pubblico. Nondimeno, le nuove funzioni devono essere ricucite al sistema infrastrutturale esistente: anche quest’azione richiede una sensibilità particolare, per evitare di sovraffaticare delle reti spesso deboli o interessate da flussi già eccessivi per sostenere un nuovo impulso. Pertanto, un riuso eccezionale, che prevede l’insediamento di servizi con attrattiva urbana e regionale deve necessariamente essere accompagnato da elementi di uso più quotidiano quali appunto quote di alloggi, servizi di prossimità, spazi verdi a gestione individuale. Chiaramente, ulteriore sfida del riuso è posta dall’ingente patrimonio di edifici esistenti, che nei casi analizzati possiede di rado una qualità architettonica tale da giustificare la rifunzionalizzazione dei corpi di fabbrica esistenti e un loro restauro. Spesso, le condizioni ambientali ed insediative sono eccessivamente compromesse: edifici con strutture inadeguate e fatiscenti, materiali costruttivi di scarso pregio, livelli di degrado troppo avanzati fanno propendere in molte situazioni per la demolizione piuttosto che per il recupero. Come usare, smaltire o riciclare un patrimonio pesantemente gravato dalla presenza di inquinanti tra cui componenti e residui oleosi o parti in amianto ed eternit? Molte sperimentazioni condotte all’interno del laboratorio propongono quindi di riutilizzare i materiali della demolizione per costruire nuove morfologie, a metà tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale. La riqualificazione diventa quindi occasione di bonifica efficiente e creativa: il riciclo dei materiali, andando a coprire le macerie della demolizione con manti erbosi su cui prevedere piantumazioni particolarmente tenaci, modifica sensibilmente l’aspetto e la composizione dei siti, creando inedite condizioni di fruizione degli spazi aperti. Riusare inoltre l’esistente significa anche chiedersi cosa fare e come fare rispetto agli spazi aperti che, spesso lasciati all’incolto, presentano ampie superfici asfaltate e pavimentate. dosare quindi la permeabilità dei suoli, cercando di limitare l’impatto del progetto e recuperare, per quanto possibile i materiali esistenti.
Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin
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Figura 1. Masterplan Civinatur per il riuso della caserma Zucchi a Cividale. Laboratorio di Prog. Urbanistica 2010/11.
Abitare tra individuale e collettivo Le aree militari dismesse potenzialmente si presentano come aree molto adatte ad ospitare realtà urbane ben collegate col centro cittadino consolidato, da progettare con un livello alto di abitabilità, comfort e sicurezza. Nuove tipologie residenziali possano accogliere un’utenza molteplice, con necessità mutevoli, anche in realtà urbane di piccole dimensioni: giovani famiglie, famiglie monoparentali, persone con disabilità motorie e mentali, immigrati, giovani lavoratori, nuovi poveri pongono domande precise alle quali non si può non dare una risposta. Nondimeno, rispondere ai bisogni contemporanei significa programmare l’offerta funzionale a diverse scale, proponendo modalità di gestione innovative: micro servizi che punteggiano l’area di progetto per sostenere la quotidianità dei nuovi residenti; servizi a scala urbana, che diventino nuove centralità per l’intera cittadinanza. Piccoli negozi e rivendite, doposcuola gestiti dalle mamme, biblioteche di quartiere, piccoli spazi polifunzionali per la socialità del quartiere e per associazioni vanno pensati assieme a attrattori culturali, commerciali, sportivoricreativi che richiamo utenti da un bacino più ampio. In alcuni progetti, viene conservato il carattere monofunzionale delle caserme, come occasione per insediare un grande servizio a scala urbana, mettendo però in discussione tipologie standardizzate e consolidate e aprendo a sperimentazioni che integrino il servizio prevalente con altri tipi di attrezzature. Si vedano ad esempio le proposte di rigenerazione della caserma Dall’Armi a S.Vito al Tagliamento, per la creazione di un carcere, che si apre alla città. L’inserimento di un teatro ad uso condiviso per cittadini e carcerati, di rivendite a km 0 dei prodotti agricoli coltivati all’interno delle mura carcerarie e la diluizione dell’impatto del muro sul paesaggio agricolo attraverso la creazione di un parco adiacente alla struttura possono diminuire il senso di esclusione e di emarginazione di chi sconta una pena, nonché facilitare il processo di reinserimento dei detenuti, durante il periodo di semi/libertà. Un ulteriore ragionamento in alcuni progetti è riuscire a trovare la giusta distanza tra le stanze del domestico e le nuove centralità collettive, ovvero capire la consistenza degli spazi tra la casa e i luoghi ad uso pubblico. Ad esempio, prevedere spazi per orti o giardini semicomuni con caratteri differenziati a seconda degli utenti risponde ad una duplice funzione: separare i flussi più pubblici dai flussi dei residenti sia visivamente che fisicamente e creare delle aree verdi che hanno un ruolo funzionale per la vita degli abitanti. Spesso queste aree sono concepite in aderenza ai spazi dei micro - servizi di quartiere e funzionano come delle estensioni comuni delle residenze. Così, si facilità la gestione e la manutenzione dello spazio aperto, aumentando la sensazione di sicurezza e incentivando l’instaurarsi di forme di sussidiarietà orizzontale. Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin
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Prospettive di lavoro La ricerca, ancora in atto, mira da un alto a sollevare l’attenzione su questo tema, che necessita di nuove prese d’atto a scala regionale, dall’altro a definire una serie di linee guida a sostegno della costruzione di futuri progetti presso le amministrazioni locali delle cittadine analizzate, e infine cerca di promuovere il dibattito in contesti analoghi, ridefinendo il ruolo della progettazione urbanistica. Se i progetti raccolti finora possono suggerire modalità innovative di riuso, intento della ricerca, in una fase prossima di lavoro, è anche quello di esplorare e raccogliere modi efficaci di governo dei processi di rigenerazione dei siti militari in questione, per indicare alle amministrazioni come gestire il progetto nelle sue fasi di attuazione e di manutenzione.
Bibliografia Cigalotto P., Santoro M. (1999), Studio preliminare di progettazione urbanistica riferito alle aree dimesse, o in via di dismissione, industriali, ferroviarie e militari, finalizzato alla stesura delle Direttive per un nuovo PRCG. Secchi B.(2005). La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma Colussi P. (2010), Regalo o mela avvelenata? Il passaggio agli enti locali, a titolo non oneroso, dei beni dismessi dal demanio militare può essere un’occasione di sviluppo o rappresentare un problema in più, Dietrofront!, Architetti Regione, trimestrale di informazione degli architetti del Friuli Venezia Giulia, anno VIII, n.46, luglio 2010 Vragnaz G., Pascolat R. (2010), “Troppa Grazia, Dietro-front!”, Architetti Regione, trimestrale di informazione degli architetti del Friuli Venezia Giulia, anno VIII, n.46, luglio 2010 Bianchetti C. (2011), Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica, Donzelli editore, Roma. Siti web: www.primuleecaserme.com
Paola Cigalotto, Marina Bradicic, Teresa Frausin
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Contenimento del consumo di suolo, approcci e forme di riuso dell'esistente a L'Aquila
Contenimento del consumo di suolo, approcci e forme di riuso dell'esistente a L'Aquila Federico D'Ascanio Università degli Studi di L'Aquila Dipartimento di Architettura e Urbanistica Facoltà di Ingegneria Email: dascanio.federico@gmail.com Tel/fax 0862.65720
Abstract A distanza di tre anni dal sisma del 6 aprile 2009 che ha duramente colpito la città di L'Aquila, pare doverosa una riflessione avente per oggetto le inespresse potenzialità urbane di un territorio che, a problematiche urbane di tipo ordinario, ha sommato quelle generate dai manufatti "temporanei" sorti in seguito all'evento sismico. In assenza di un disegno organico del territorio, capace di fornire indicazioni sullo sviluppo (anche per parti) della città, si assiste ad un proliferare di atti spontanei di riuso degli spazi (urbani ed edilizi) che sfuggono tuttavia a logiche condivise. Il consumo di territorio dell'area aquilana ha raggiunto dimensioni superiori a quelle del G.R.A. nella città di Roma, con un numero di abitanti tuttavia inferiore a quello di un solo quartiere della Capitale, innescando così problematiche infrastrutturali e urbanistiche alle quali è necessario trovare soluzione al più presto, forse prima ancora della riparazione stessa dei fabbricati.
1. Premessa Il tema della riduzione del consumo di suolo, e ancor più del riuso dell'esistente, appare essere oggi in Italia, con particolare riferimento alla città di L'Aquila ed alle nuove imprevedibili connotazioni spaziali assunte dopo il terremoto di tre anni fa, alla base di qualsivoglia dibattito urbanistico e/o architettonico. A L'Aquila l'emergenza post-sisma ha lasciato importanti eredità urbane (Progetti C.A.S.E., M.A.P., M.E.P., M.U.S.P., ed altri acronimi vari, tutti con l'ipocrisia del suffisso "temporaneo") che vanno a sommarsi ai già numerosi e imponenti vuoti periferici delle caserme oramai in via di dismissione e dei nuclei industriali che, già prima della attuale crisi produttiva internazionale, avevano alzato bandiera bianca di fronte al dislocamento delle sedi produttive verso nuove sedi economicamente più vantaggiose. L'Aquila, così come le città europee, ha (o forse aveva) un centro urbano nel quale, strato dopo strato, recupero dopo catastrofe, si è accumulata la sua storia. Se è diventata così rapidamente irriconoscibile, priva di identità, il fenomeno è dovuto alla crescita incontrollata della periferia dove una qualità costruttiva rapida e priva di regole ha cancellato ogni traccia di quell'impianto urbanistico che ben distingueva i suoli urbanizzati da quelli in via di formazione. Le sue periferie si sono costruite con un'unica attenzione: quella rivolta all’ammortamento finanziario dell’investimento. Ammortizzata la spesa, si perde la necessità del manufatto. Si è dimenticato che nei centri storici l’architettura è sempre stato qualcosa di diverso, qualcosa in cui si spende di più di quanto non chieda la mera utilità perché ci si illude, non senza eccessi di autostima, comunque di una certa sua partecipazione ad un miglioramento del contesto urbano, al servizio della collettività che ne potrà beneficiare. Nel contesto aquilano, i contenitori di periferia non hanno mai guardato al soddisfacimento delle necessità di servizi della collettività, demandando al Centro Storico anche l'onere di soddisfare fabbisogni urbanistici ignorati dallo sviluppo edilizio. Venendo poi a mancare quest'ultimo in seguito al sisma del 2009 l'intero territorio aquilano è rimasto sprovvisto di servizi e attrezzature che oggi, senza alcuna logica aggregativa, si ripropongono in modo random sul territorio. Federico D'Ascanio
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Di urbanistica e di architettura si può pertanto discutere fondamentalmente in due modi, come ricordava Giancarlo De Carlo: «o come se fosse un'attività autonoma che si definisce da sola, attraverso quel che produce con gli strumenti della sua propria specializzazione (quindi i suoi oggetti: gli edifici e le opere); oppure come fosse un sistema di comunicazione e di espressione che si può decifrare soltanto se si conosce il contesto in cui sono emessi e ricevuti i messaggi (quindi i processi di interrelazione con le vicende umane)». Entrambi i metodi, se di metodo si può parlare, forniscono indicazioni importanti, ma il secondo appare essere quello che meglio finalizza l'obiettivo dell'uso razionale dei luoghi attraverso l'applicazione di strategie per la costruzione di nuove visioni d'insieme. Oggi l'urbanistica, concepita come gerarchia degli spazi, composizione e tipologia, razionale susseguirsi di pieni e di vuoti, è vittima delle regole dettate dallo «junkspace» (prendendo a prestito il termine sdoganato da Rem Koolhaas), ossia dallo spazio-spazzatura composto da quella roba «assolutamente caotica e paurosamente asettica» che è generata nel mondo dalle attività commerciali e le sue spontanee dinamiche, che a L'Aquila trova analoga percezione anche tra i manufatti "temporanei" in cerca di connessioni con un contesto che li rifiuta. Si tratta di spazi che subiscono continue trasformazioni. Debbono modificarsi senza sosta, perché le loro funzioni e le loro esigenze cambiano e capirne l'evoluzione è una delle sfide che dobbiamo raccogliere. Le nostre città non sono statiche e le dinamiche socio-economiche di una città che tenta di riprendersi dopo una calamità sono ancora più imprevedibili. Sono spinte da un dinamismo perenne che rimette tutto in discussione. Bisogna saper leggere la realtà nella quale viviamo, lo spazio nel quale trascorriamo le nostre esistenze: non limitarci a costruire, ma abitare e pensare gli spazi in funzione delle pulsioni sociali ed economiche che li caratterizzano. Gli spazi che ci si consegnano dopo questo triennio post sisma (centri commerciali, baracche abusive e "temporanee", architetture usate in modo improprio o abbandonate) trascorso apparentemente in perenne emergenza sono informi, privi di qualità architettoniche ma carichi di utilità economiche: dilatabili all’infinito, non hanno quindi determinazione formale propria assumendo caratteristiche di volta in volta diversi in virtù del transitorio che occupano (Figura 1).
Figura 1. Rilocalizzazione temporanea di attività commerciali su via della Croce Rossa e, sullo sfondo, lo stato di evidente abbandono del complesso ospedaliero monumentale dell'ex San Salvatore. Ne è esempio sintomatico il sistema dei centri commerciali dove si può incontrare il ristorante accanto al commerciante di intimo che precede quello di abiti sportivi e l'agenzia di viaggi. All’indomani il ristorante può essere sostituito da una libreria specializzata e ovviamente con essa cambia con la medesima celerità il decoro corrispondente. Allo stesso modo i villaggi residenziali generati dal Progetto C.A.S.E. domani potrebbero Federico D'Ascanio
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assurgere a destinazioni diverse quando, ci si augura, gli attuali ospiti "temporanei" torneranno nelle abitazioni di origine lasciando a nuovi usi gli scheletri antisismici rimasti a segnare il passaggio della governance emergenziale.
2. Gli spazi di relazione La progettazione e la realizzazione di nuovi spazi pubblici di relazione, congiuntamente al rilancio di quelli già esistenti, potrebbe rivelarsi una strategia utile alla determinazione di nuove centralità per confermare l’autenticità dei luoghi, in termini formali e funzionali, come essenza stessa della identità di un centro urbano. Per spazi di relazione si intende un insieme di luoghi e spazi pubblici generalmente frequentati da grandi quantità di individui: in passato strade, piazze, mercati, giardini, porti, luoghi di culto, a cui oggi si aggiungono grandi magazzini, parchi tematici, aeroporti, stazioni, spazi culturali. Alcuni di questi luoghi sono ancora oggi dei luoghi singolari, unici, identitari della città che li accoglie, aventi caratteristiche non rappresentate dai materiali o dalle tecniche costruttive utilizzate per la realizzazione della scena urbana ma soprattutto dal ruolo che la collettività assegnava a questi spazi. Ad analoga metamorfosi si assiste oggi per le vie del centro storico del capoluogo abruzzese, dove gli spazi aperti prendono vita a dispetto dell'abbandono in cui versano gli edifici antistanti, dimostrando la volontà di attribuire ruoli diversi, in funzione delle sopravvenute necessità, a luoghi urbani un tempo sede di altre funzioni.
Figura 2. Inaugurazione di una mostra d'arte lungo i corridoi di un centro commerciale a L'Aquila, ala presenza delle rappresentanze politiche locali Nella città "di fondazione", quale era la città di L'Aquila, lo spazio di relazione, anche se rappresentato da singoli episodi architettonici autonomi e riconoscibili, si definiva contestualmente alla costruzione dell’impianto urbano, oggi ci si trova nella condizione di dover ricercare vuoti interstiziali in cui immaginarne di nuovi a causa della perdita di identità dei luoghi di relazione della città fortemente connotati e di grande qualità storico-ambientale a seguito di fenomeni di degrado sociale o di abbandono. Allo stesso modo il mutare nel tempo dell’identità non per trasformazione degli elementi fisici ma per un differente uso dei medesimi così come la mancanza di corrispondenza fra i luoghi di incontro della collettività e i luoghi di grande valore storico-culturale sono tutti aspetti legati alla socialità ed alle relazioni di chi abita questi luoghi e che, essendo in taluni casi venuto meno il tessuto storico di riferimento (L'Aquila), ricerca in surrogati periferici un'alternativa.
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Un museo, un grande magazzino, la stazione degli autobus sono attrattori urbani che assumono spesso i connotati delle aree centrali. In realizzazioni di questo tipo avviene sempre più spesso che l’idea fondativa sia costituita da spazi che fanno riferimento agli spazi di relazione della città antica (stazioni e centri commerciali che si organizzano attorno a grandi spazi coperti, del tutto simili alle gallerie urbane dell’Ottocento). Sono strutture che nascono spesso da una idea formale autonoma, conclusa in se stessa, e difficilmente si integrano con il tessuto urbano circostante.
3. Le nuove opportunita' Il recupero e la trasformazione di aree fatiscenti, parzialmente abbandonate, o sconnesse dalla città a causa della loro precedente destinazione d'uso implica necessariamente un approccio sia progettuale che gestionale innovativo anche rispetto all'evoluzione degli assetti normativi in materia di urbanistica e pianificazione, definendo i nuovi assetti delle infrastrutture, i percorsi, le dimensioni degli edifici e i loro rapporti, gli spazi pubblici e privati. Tutto questo è da ricercarsi attraverso l'attuazione di procedure negoziali tra le istanze di trasformazione della città e le forze sociali che ne sono coinvolte, o che vorrebbero esserlo, nelle diverse vesti che gli attori assumono: privati investitori, cittadini, operatori sociali. Lo strumento di concertazione (Programma Complesso o Masterplan che sia) dovrebbe tendere pertanto ad annullare la distinzione tra architettura, urbanistica e infrastrutture, sviluppando conseguentemente una predilezione per progetti integrati, magari con finalità interdisciplinari, non solo con obbiettivi edificatori, sotto l'impulso di una committenza pubblico-privata che interviene in settori urbani rifunzionalizzandoli in una strategia complessiva di crescita anche socio-economica della città. Il regime di alleanza tra il soggetto pubblico e quello privato si pone come scelta strategica per un’adeguata trasformazione urbana nonché per una gestione di attrezzature e servizi affidati anche al privato, altrimenti ingessati dalle burocrazie pubbliche prive di fondi sufficienti. Questa novità deriva soprattutto dal fatto che il solo intervento pubblico, con le sue insufficienti risorse, non è in grado di riorganizzare le città odierne, ma anche dal convincimento che il contributo di più attori possa sviluppare sinergie maggiormente efficaci ed efficienti per il raggiungimento degli obiettivi condivisi. Dall’esperienza della riqualificazione urbana appare evidente l’instaurarsi di un nuovo rapporto tra il piano, tradizionalmente inteso quale strumento di applicazione estesa, ed il programma, viceversa, espressione di una attuazione di tipo puntuale, dotato di tempi certi e di finanziamenti disponibili. Si va, dunque, verso un nuovo modello di costruzione del piano, secondo una logica che prende avvio dal “particolare” per ripensare e riformulare l’assetto più “generale” e, con una procedura più agevolata ed una maggiore dotazione di mezzi finanziari, per dar vita e concretezza al processo di attuazione del piano medesimo. Il Masterplan può rappresentare la concretizzazione architettonica delle norme fissate dal piano, in qualità di vero e proprio progetto architettonico a scala urbana. Oggi si assiste, con particolare riferimento al contesto aquilano gravemente compromesso dopo il sisma, ad un proliferare di proposte di trasformazione urbana di media scala che vengono avanzate e gestite direttamente da privati, rispetto alle quali, la Pubblica Amministrazione fatica a trovare gli strumenti di controllo necessari ad un corretto sviluppo dei piani inseguendo una morfologia urbana in continua mutazione, priva di indicazioni e modelli di crescita. In tal senso, il tipo urbano a cui fare riferimento potrebbe essere quello della la città policentrica, il nuovo tipo di agglomerato urbano fatto di spazi e di relazioni eterogenee e discontinue, sempre meno collegate in termini di gerarchia e sempre più aperte, indeterminate e incomplete. L'organizzazione territoriale, più o meno spontanea che sia, disintegra il concetto di corpo urbano della città tradizionale, estendendolo a dismisura fino a perderne il controllo (tanto urbanistico quanto amministrativo). Il rapporto, che prima del terremoto del 2009 governava il modello aquilano, centro-periferia ha lasciato il posto ad un sistema policentrico e non gerarchico, costruendo la nuova città su linee di movimento o di connessione.
4. La strategia urbana La crescita della città per parti, se da un lato rappresenta una scelta della tradizione urbanistica italiana (da Carlo Aymonino ad Aldo Rossi) del ventennio trascorso, rischia di lasciarci di fronte ad una città che va consolidandosi per comparti autonomi, quasi dei piccoli poli urbani indipendenti ognuno dei quali dotato di regole interne efficaci, ma slegate le une dalle altre in assenza di una strategia di ampia scala. Troppo spesso si assiste alla redazione di cosiddetti Piani Strategici da parte delle Amministrazioni che rappresentano una vision personale della classe dirigente in quel transitorio che prescinde dalle opportunità che il tessuto urbano potrebbe fornire, non volendo (o potendo) incidere sulla proprietà privata che spesso invece rappresenta l'unica vera risorsa su cui far leva. Se il momento del confronto tra attori, operatori ed esigenze differenziate potesse davvero (e non solo formalmente) rappresentare il contributo che al pubblico anche i privati portano con ruoli e pesi differenti, allora Federico D'Ascanio
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davvero la concertazione e la condivisione di strategie e procedure operative potrebbe essere possibile, in una difficile situazione economica quale quella che stiamo attraversando, per operare attivamente avendo l'obiettivo comune del miglioramento urbano. In una città che mira ad essere attrattiva, competitiva col difficile contesto di sviluppo socio economico abruzzese, appare imprescindibile porre al primo punto dell'agenda strategica locale la riduzione del consumo di suolo, avendo pressoché ovunque a disposizione percentuali di suoli urbanizzati e abbandonati capaci di assolvere a qualsivoglia fabbisogno richiesto dalle diverse realtà urbane. Tornando all'esempio aquilano, in un momento di completa deregulation in merito al controllo del territorio da parte degli Enti preposti, si assiste ad un proliferare di lottizzazioni periferiche che rappresentano l'assurdo corollario ad una città distrutta ed in costante abbandono. Il contrasto tra l'immobilismo del patrimonio degradato e abbandonato e l'aggressione che si perpetua al territorio circostante (Figura 3) rappresenta la massima espressione dell'assenza di strategie generali: nessuno infatti oggi sembra porsi il problema dello spopolamento della città, dell'esubero già ante sisma del patrimonio immobiliare al quale si sommano gli interventi "provvisori" (ma non troppo) che gli hanno fatto seguito. Continuare ad aggiungere senza criterio volumetrie, in spregio all'effettivo fabbisogno abitativo costituisce un vero pericolo per l'economia locale che rischia di trovarsi paralizzata da investimenti immobiliari destinati a divenire infruttuosi a causa di un eccesso di offerta sul mercato. Al contrario, la carenza di fondi pubblici determina l'impossibilità di realizzare servizi atti a soddisfare le esigenze, seppur minime, con conseguenti forme migratorie intra moenia della popolazione alla ricerca del necessario.
Figura 3. Progetto C.A.S.E. Paganica 2, realizzazione di alloggi emergenziali Infrastrutture che divengono inadeguate ai nuovi flussi, campagne e parchi che si trasformano in nuclei urbanizzati, manufatti temporanei più o meno legittimi, volumi edificati ed abbandonati in attesa di chissà cosa, dismissioni pubbliche e "donazioni" post sisma, nuclei industriali divenuti pezzi di città fantasma in seguito alla crisi economica: questo lo scenario "post bellico" che il capoluogo abruzzese offre a chi si trova oggi a percorrerlo ma, cosa ancora più assurda, nulla si prospetta all'orizzonte. Potrebbe davvero essere una occasione, partendo dai più volte sottolineati punti di debolezza urbana, per tradurre in buone strategie urbane le richieste che i diversi attori lasciano partire. Tutto ciò, tuttavia, meriterebbe luoghi e tempi adatti al confronto, al reciproco soddisfacimento delle esigenze pubbliche e private, quali un Urban Center potrebbe fornire alla comunità locale. Alcuni comuni virtuosi hanno già intrapreso questo percorso, con non poche difficoltà attuative e di ascolto, altre sono in procinto di farlo. Quello che tuttavia si denota è una carenza di volontà di interazione tra le parti (dovuto tra l'altro alla poca fiducia rimasta nella classe politica da parte degli
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investitori) con il rischio di perpetrare la proliferazione quei mostri urbani che costeggiano attualmente le vie di comunicazione urbana ed extra urbana.
Bibliografia Libri De Carlo G., Gli spiriti dellâ&#x20AC;&#x2122;architettura, a cura di Livio Sichirollo, Editori Riuniti, Roma 1999. Rem Koolhaas, Junkspace, a cura di Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006. Aldo Rossi, L'architettura della cittĂ , Marsilio, Padova 1966; nuova ed. Macerata, Quodlibet 2011. Siti web Libro Bianco, Dio salvi L'Aquila-Una ricostruzione difficile, INU Edizioni, Roma 2010 Disponibile su: http://www.laboratoriourbanisticoaquila.eu/ e su http://www.urbanisticainformazioni.it/
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La dismissione delle aree militari: un’occasione per le politiche di rinnovo dei centri storici
La dismissione delle aree militari: un’occasione per le politiche di rinnovo dei centri storici Francesco Infussi Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: francesco.infussi@polimi.it Tel. 02.23995433 Chiara Merlini Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: chiara.merlini@polimi.it Tel. 02.23995500 Gabriele Pasqui Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: gabriele.pasqui@polimi.it Tel. 02.23995465
Abstract Il paper si propone di interpretare i progetti e le strategie di riuso delle aree militari collocate nelle parti centrali di molte città medie italiane come tasselli essenziali per l’avvio di nuove politiche urbane per i centri storici. Ciò è particolarmente interessante in un contesto in cui, al quadro complesso e contraddittorio di risorse e vincoli che connota queste aree, si aggiungono le difficoltà indotte da una congiuntura di generale contrazione, di scarsità di risorse, spesso di necessaria reinvenzione di un ruolo e di una immagine per la città nel suo insieme e di ridefinizione stessa dei modi di fare urbanistica.
Una nuova stagione della dismissione: le aree militari Nel nostro paese 78.300 ettari di territorio sono proprietà del demanio militare, circa lo 0,26% dell’intero territorio nazionale. Oramai da anni, molte fra queste superfici sono ampiamente sottoutilizzate o dismesse in modo definitivo. Le ragioni sono note. Una progressiva riduzione della spesa pubblica relativa alla Difesa, la razionalizzazione e l’innovazione tecnologica dei sistemi d’arma, la cessazione dell’obbligatorietà della leva militare hanno portato a una situazione in cui numerose città vedono oggi affacciarsi ad un futuro di trasformazione aree per molto tempo rimaste estranee ai processi di mutamento, per certi versi “congelate” proprio in virtù della loro particolare destinazione. D’altra parte, la crisi fiscale dello Stato e le esigenze finanziarie delle Amministrazioni centrali hanno moltiplicato negli ultimi anni gli strumenti e gli incentivi all’alienazione del patrimonio immobiliare e fondiario statale, ivi compreso quello nelle disponibilità del Ministero della Difesa. 1 1
Sulla dismissione delle aree militari in Italia si veda (Baiocco, Gastaldi 2012) e, per un allargamento dello sguardo all’Europa ed una comparazione, (Ponzini, Vani 2012). Entrambi i servizi sono di prossima pubblicazione.
Francesco Infussi, Chiara Merlini, Gabriele Pasqui
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La dismissione delle aree militari: un’occasione per le politiche di rinnovo dei centri storici
L’alienazione, l’immissione sul mercato e la valorizzazione di aree e immobili militari si configura dunque come un elemento centrale di una nuova stagione dei processi di dismissione, dopo la fase che ha improntato di sé gli anni Ottanta del Novecento, relativa soprattutto ad alcune grandi aree urbane industriali. Se il fenomeno della dismissione produttiva e dei grandi “vuoti” urbani ha condensato molte delle riflessioni sulla città e i sui processi di trasformazione negli scorsi decenni 2, al punto da divenire uno dei temi chiave per la compilazione di una possibile mappa di “luoghi cospicui e problemi emergenti” (Secchi 1983), ora esso assume connotati in parte nuovi, per la specifica natura delle aree potenzialmente attivabili, per la loro posizione nei contesti urbani, per le conseguenze della particolare congiuntura economica in cui ci troviamo. La oramai lunga riflessione sul tema della dismissione richiede in tal senso di essere forse ripensata. Alle dinamiche di ritrazione che hanno interessato i recinti produttivi della prima modernità, e che hanno innescato processi di puntuale valorizzazione, entro una prospettiva di “costruzione della città nella città”, segue oggi una fase in cui il ripensamento dei “vuoti urbani” e, insieme, di più vaste condizioni di obsolescenza diffusa del territorio, sposta l’accento sui temi della ricomposizione, del riuso, della limitazione del consumo di suolo, sullo sfondo di un più generale ripensamento critico del nesso tradizionale tra sviluppo territoriale ed espansione urbana. 3 Se osserviamo a distanza più ravvicinata caserme, penitenziari, arsenali, aree di addestramento, infrastrutture difensive, polveriere e depositi, fortezze, magazzini, ecc., possiamo riscontrare che, forse a differenza di quanto si dava nelle aree produttive, i materiali che popolano le aree militari assumono configurazioni particolarmente eterogenee, vuoi per la natura tecnica e altamente specializzata che li caratterizza in taluni casi, vuoi per lo stato di conservazione e i livelli di manutenzione che possono essere molto diversificati. Forme insediative, valori economici, significati simbolici, processi evolutivi, sono strettamente legati ai contesti locali e alle specifiche storie di ciascun insediamento. Tuttavia alcuni caratteri comuni possono forse rendere evidente una loro specificità. Nel settore industriale la dismissione si è presentata, lungo un periodo che in Italia è stato almeno ventennale, come l’interruzione di un continuo processo di riuso che in passato era stato costitutivo dell’insediamento produttivo, e che coinvolgeva una molteplicità di attori. Nel caso delle aree militari attuali si presenta invece come un fenomeno in larga misura inedito, complessivo, unitario e che libera risorse in un ristretto intervallo di tempo. Un unico attore rende disponibili ad altri usi un patrimonio di dimensioni notevoli, collocato in contesti assai diversi fra loro e localizzati in tutto il territorio nazionale, sebbene concentrati in alcune aree (non solo urbane) del Paese. Anzitutto, quindi, si tratta di un patrimonio di aree pubbliche. È una caratteristica che se da un lato può comportare una serie di inerzie nell’attivazione dei processi di trasformazione, dall’altro si configura come una opportunità nuova, non riscontrabile entro le precedenti stagioni della dismissione. Le aree militari dismesse sono una risorsa che sembra avere un elevato potenziale strategico al fine di affrontare questioni urbane particolarmente diffuse che potrebbero essere oggetto di politiche dedicate a livello nazionale, miranti ad un loro riutilizzo orientato (riduzione del consumo di suolo, aumento delle dotazioni di spazio aperto pubblico, disponibilità di aree per la realizzazione di edilizia pubblica, realizzazione di attrezzature urbane e servizi, ecc). Anche se, d’altra parte, non va dimenticato che si tratta di aree di proprietà dell’Amministrazione centrale dello Stato (il Ministero della Difesa, in questo caso), che agisce secondo logiche e sulla base di convenienze (tecniche e finanziarie) del tutto autonome rispetto a quelle delle Amministrazioni locali che governano i territori nei quali le aree e gli immobili militari sono collocati 4. In secondo luogo, va ricordato un carattere ricorrente: molte delle aree militari che oggi vengono “restituite” alle città appartengono a una fase di sviluppo del nostro paese oramai significativamente distante e si presentano come l’esito di lunghi processi di sedimentazione, riuso e trasformazione di strutture preesistenti (si pensi ad 2
Si tratta di un dibattito che, con connotati diversi, ha attraversato diverse stagioni, si veda ad esempio: (Secchi 1984; Bianchetti, D. 1985; Boeri, Secchi 1990; Gregotti 1990; Indovina 1997; Bondonio et al. 2005; Ciorra, Marini 2011). 3 Non è possibile in questa sede approfondire il tema. Si segnala soltanto come lo scenario odierno dei fenomeni di dismissione sia particolarmente complesso. Al perdurare di importanti dismissioni produttive si aggiungono altri grandi “oggetti”, quali ad esempio gli scali ferroviari, che prefigurano ancora condizioni straordinarie di ripensamento delle città, ma anche spazi più piccoli, vecchi e nuovi, sparsi tra i tessuti più ordinari dei territori della diffusione. Anche nel nostro paese si fanno strada, sia pure con alcune significative specificità rispetto ad altri contesti territoriali, fenomeni di shrinkage. La dismissione delle aree militari ha caratteri per certi versi più simili alla prima fase, segnata da condizioni di eccezionalità, anche se non è estranea a un più pervasivo processo di contrazione e sottoutilizzo di strutture minori. 4 È importante rilevare, anche se il tema non è oggetto di questo contributo, che le procedure di alienazione delle aree militari sono state più volte cambiate nel corso dell’ultimo decennio. Dopo una fase nella quale l’attività di alienazione è stata gestita dall’Agenzia del Demanio, attraverso l’attivazione dei Programmi Unitari di Valorizzazione degli Immobili, introdotti dalla Legge 27 dicembre 2006, n. 296 (la Legge finanziaria del 2007), la Finanziaria del 2009, all’art. 2 comma 27 ha riportato al centro del processo il Ministero della Difesa, prevedendo la costituzione della società per azioni “Difesa Servizi s.p.a” che si occupa delle attività di valorizzazione e di gestione degli immobili militari, da realizzare anche attraverso accordi con altri soggetti e la stipula di contratti di sponsorizzazione. Il quadro appare oggi in movimento, anche in ragione della necessità crescente di “fare cassa” per le Amministrazioni centrali dello Stato e delle ambiguità contenute nei decreti attuativi del cosiddetto Federalismo demaniale.
Francesco Infussi, Chiara Merlini, Gabriele Pasqui
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esempio alla presenza di forti e cittadelle di epoca rinascimentale cui si sono aggiunte in seguito le attrezzature militari di epoca napoleonica, il riuso delle strutture conventuali a seguito della confisca dei beni ecclesiastici, ecc.). Si tratta cioè di strutture, manufatti, luoghi, che incorporano un carattere “storico”, anche se non propriamente “monumentale”. Un carattere che ha molteplici effetti: da un lato perché assegna loro un particolare valore legato tanto alla natura dei luoghi quanto a un deposito di significati simbolici spesso ben radicati negli immaginari collettivi locali, dall’altro perché sovente circoscrive e orienta, e in alcuni casi vincola, le possibilità di riuso, riconversione, eventuale demolizione e sostituzione. Infine, molte fra le aree militari si trovano spesso oggi ben all’interno del corpo più consolidato della città e in posizioni centrali. Talvolta ciò è dovuto alla loro “storia lunga”, al loro essere stati presidi intorno ai quali lo spazio urbano si è costruito e poi consolidato nel corso del tempo. Anche laddove la presenza delle aree militari è relativamente più recente, però, oggi esse hanno probabilmente perso la loro condizione di attrezzatura “esterna”, di perifericità, per rimanere piuttosto come enclave estranee ai tessuti urbani che le inglobano, nelle parti più dense o ai loro margini. Questa nuova condizione di relativa centralità, insieme con la dimensione spesso considerevole, agisce come un ulteriore elemento condizionante nei possibili orientamenti progettuali. Se, da un lato, essa fa intravedere per le aree militari un ruolo strategico nel riconfigurare nuovi assetti insediativi di insieme, contemporaneamente rende palesi quei problemi locali (ad esempio in ordine all’accessibilità e alle condizioni di particolare congestione) che spesso si danno nelle aree più dense e che possono incidere in modi rilevanti sui possibili scenari futuri. L’essere pubbliche, storiche e centrali qualifica queste risorse spaziali, trasformandole in una opportunità rilevante per la definizione e l’implementazione di strategie urbane unitarie. In particolare, in molti centri di medie dimensioni, nei quali le aree militari non ancora riutilizzate rappresentano una parte rilevante delle aree disponibili alla trasformazione, una politica unitaria (ma anche flessibile nel tempo e nello spazio) di riuso e riprogettazione può costituire uno strumento utile per la costruzione di una politica e di un progetto urbanistico per le parti centrali e semicentrali della città, ed in particolare dei centri storici. L’esperienza compiuta nel Comune di Piacenza e restituita nel paragrafo successivo può fornire alcuni argomenti a supporto di questa riflessione.
Piacenza, ad esempio Nel 2009 il Comune di Piacenza affida al Dipartimento di Architettura e pianificazione del Politecnico di Milano l’incarico per la redazione di un “Master Plan per le aree militari” 5. Il lavoro si colloca nel contesto delle azioni intraprese dall’Amministrazione comunale per precisare gli accordi con il Ministero della Difesa, e per delineare i principi e le regole del complesso processo di progettazione finalizzato al riuso di un notevole insieme di aree militari oramai ampiamente sottoutilizzate o in stato di totale abbandono nella città. 6 Il futuro di Piacenza dipenderà, infatti, in larga misura dal ruolo che esse riusciranno a giocare: 7 dislocate in posizioni cruciali, dentro e fuori le mura, costituiscono una complessa costellazione di luoghi nei quali si 5
Il gruppo di progettazione del Laboratorio “Progetti e politiche per il territorio” del Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DiAP) del Politecnico di Milano era così composto: Francesco Infussi e Gabriele Pasqui (Direzione scientifica e coordinamento); Mariasilvia Agresta, Paolo Bozzuto, Antonella Bruzzese, Chiara Merlini, Anna Moro, Stefano Pendini, Giuseppe Pepe (Ricerca e progettazione); Giancarlo Vecchi (Attori e strategie); Luca Gaeta (Fattibilità economica); Paolo Riganti (Viabilità e mobilità). L’incarico prevedeva tre fasi principali. La prima fase, di natura preliminare, era dedicata alla discussione con l’Amministrazione per verificare aspettative e strategie comunali in relazione alle aree militari e nel quadro più generale delle politiche urbanistiche. La seconda fase si è concentrata sulla realizzazione di un’istruttoria tecnica relativa alle singole aree e al sistema delle aree militari nel suo insieme, anche attraverso una serie di esplorazioni progettuali; sulla costruzione di ipotesi orientative in merito alle funzioni che le aree avrebbero potuto ospitare; sulle strategie e le intenzioni degli attori mobilitati o mobilitabili e sulla dimensione della fattibilità economica, finanziaria e gestionale; sulla formulazione di alcuni differenti scenari evolutivi, in relazione agli aspetti fisico-insediativi, alle strategie progettuali e alle prospettive di sviluppo della città di Piacenza. La terza fase, avrebbe dovuto essere dedicata alla stesura di una bozza di Master Plan e alla sua presentazione all’Amministrazione comunale. Questa fase non si è mai effettivamente avviata, in ragione delle incertezze dei diversi attori (Amministrazione comunale e soprattutto Autorità militari), che non hanno permesso il raggiungimento di un accordo compiuto sulle aree da sottoporre effettivamente a trasformazione. A oggi (aprile 2012) la situazione delle aree militari di Piacenza rimane dunque in larga misura incerta. 6 Come è noto, Piacenza è storicamente una importante piazza militare. In particolare, dalla seconda metà del XIX secolo ha svolto un ruolo essenziale come polo logistico, di manutenzione e produttivo militare per l’Esercito italiano, in particolare nei settori del genio militare e della produzione di proiettili (Ferrari 2011). 7 La dimensione complessiva delle aree militari di Piacenza è pari a 1.256.000 mq. (circa il 4,5 % della superficie urbanizzata della città); quelle che il Ministero sarebbe in grado di dismettere definitivamente e alienare, potrebbero ammontare a 450.000 mq. (il 35% del totale).
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potrebbero condensare la più parte delle trasformazioni urbane del prossimo futuro, 8 ridefinendo sistemi insediativi alla scala dell’intera città e aprendo così una fase del tutto particolare dello sviluppo urbano. Proprio per la natura di tale insieme composito di aree, le operazioni di indagine e progettazione hanno dovuto procedere secondo continue oscillazioni, mobilitando riflessioni più ravvicinate e specifiche a ridosso delle singole aree, e sguardi più distanti, tesi a ricollocare le diverse situazioni nell’intera città e a delineare alcuni possibili scenari di trasformazione. Collocate, nella maggior parte dei casi, in punti di soglia tra ambienti urbani diversi, intercettate dai principali sistemi dello spazio aperto, talora prossime a situazioni di eccellenza (presenze monumentali, nodi dell’accessibilità sovralocale, centri della grande distribuzione commerciale, poli della formazione, ecc.), o lungo gli assi di attraversamento della città, le aree militari oggi dismesse appartengono a una città “interdetta”, inaccessibile, segnata da una serie di enclave. Superare questa condizione di interdizione e consentire una riappropriazione da parte della città sono due obiettivi generali che sono stati articolati in relazione a tre differenti strategie di modificazione, ciascuna delle quali ha assunto un diverso modo di intendere la costruzione dello spazio abitabile e i rapporti con la città esistente, le conseguenze della trasformazione delle aree militari nella città, il posto che potrebbero occupare nell’immaginario locale. Secondo una prima strategia, le esplorazioni progettuali svolte sulle aree sono state indirizzate verso uno sviluppo orientato alla reinterpretazione dell’esistente; in questo caso Piacenza è vista in una prospettiva di “crescita della città sulla città”, secondo un’attenta valorizzazione del patrimonio presente che è ampiamente riutilizzato e una riduzione del consumo di nuovo suolo. Una seconda strategia ha considerato le aree militari come occasione per innescare un processo di crescita più consistente, componendo densificazione e articolazione dello spazio abitabile. Una terza strategia ha invece puntato su una prospettiva di più radicale innovazione, considerando le aree militari come innesco di un processo di trasformazione sia delle forme dello spazio abitabile, sia del loro ruolo, ad esempio con l’immissione di funzioni eccellenti. Le interpretazioni del posto delle aree militari nella città, la riflessione sulle “immagini” della città, l’orientarsi delle esplorazioni progettuali specifiche secondo differenti strategie hanno consentito di mettere a fuoco tre diversi “scenari evolutivi”, tre racconti al futuro che illustrano lo sfondo entro cui le trasformazioni per le aree militari potrebbero, al contempo, innestarsi, essere generate e trovare legittimazione. Una prima direzione evolutiva è quella di Piacenza città “verde”, una città media che cresce in modo contenuto, puntando soprattutto sull’elevata qualità di un abitare a contatto con alcune importanti risorse ambientali e con una elevata dotazione di spazi pubblici; una seconda direzione mette a fuoco una immagine di Piacenza come “città da abitare”, che cresce in modo più intensivo, moltiplicando e diversificando la propria offerta immobiliare per rispondere anche ad una domanda proveniente dall’esterno; infine un terzo scenario fa riferimento a una immagine di Piacenza come “città della conoscenza”, a una città cioè che ospita attività di ricerca e formazione superiore, in grado di competere con altre situazioni per attrarre attività ad alto valore aggiunto. Tali visioni d’insieme presuppongono dunque la disponibilità delle aree a sostenere diverse, e anche alternative, strategie urbane. Strategie che naturalmente dovranno essere integrate a quelle più generali espresse dagli strumenti urbanistici comunali, anche sulla base di una valutazione spaziale e temporale dell’insieme delle aree disponibili alla trasformazione nel contesto piacentino, delle quali le aree militari, come già accennato, sono soltanto una parte. La capacità della città di attivare un processo di trasformazione che implichi l’intero insieme delle aree non è dunque scontata. Inoltre la scelta delle aree militari che parteciperanno eventualmente al processo di valorizzazione non dipende solo dalle strategie urbanistiche. 9 Tuttavia è proprio da tali scelte e dal convergere degli interessi di trasformazione su alcuni luoghi piuttosto che su altri che dipendono diversi futuri della città. In particolare, nel caso di una città di medie dimensioni come Piacenza, sembra di poter dire che le situazioni emergenti sulle quali far leva, entro una strategia di riconfigurazione urbana che possa aspirare a una valenza di insieme, sono principalmente quelle interne al tessuto più compatto della città più antica. È soprattutto nel centro storico, infatti, che i grandi vuoti lasciati dalla dismissione militare si configurano più chiaramente nella loro duplice natura di problema aperto, ma anche di occasione da cogliere. È qui, più che altrove, che un eventuale processo di deperimento e obsolescenza solleverebbe condizioni di particolare criticità o che, al contrario, la restituzione di spazio abitabile alla città potrebbe costituire una leva per innescare un più generale processo di rinnovo e riqualificazione, consolidando ed estendendo all’intero territorio piacentino la qualità (già elevata) del centro storico. I grandi recinti militari dentro la cerchia delle mura (il complesso dell’Arsenale e dell’ex Ospedale militare a sud, il Comparto Pontieri a nord) e la presenza di aree di “soglia” tra il centro storico e la 8
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Le aree militari non sono la sola risorsa spaziale della quale la città può fare uso nei prossimi anni, esse entreranno in competizione con un insieme più ampio di aree disponibili (tra le quali è opportuno citare almeno le aree ferroviarie in prossimità della stazione e alcune grandi aree produttive sottoutilizzate nella fascia tra il fiume Po’ e la città) e ciò rende evidentemente più complesso e incerto il processo del loro riuso. La scelta delle aree da dismettere è l’esito di un processo decisionale nel quale un ruolo centrale è giocato infatti dal Ministero della Difesa e dalle autorità militari locali, che hanno strategie non necessariamente convergenti.
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città moderna (come il “piano Caricatore”) si configurano, infatti, come un insieme di luoghi che potrebbe dare un contributo rilevante a più generali politiche per il centro storico della città. La loro modificazione potrebbe, in altri termini, collaborare a trattare almeno tre temi di notevole rilevanza. Un primo aspetto riguarda la possibilità di incrementare la dotazione di spazio aperto “al centro”, rispondendo in parte alla costante domanda di verde e tematizzandola in riferimento alla valorizzazione dell’intero sistema dei bastioni. Per una città molto densa e poco “porosa” come Piacenza significherebbe accrescere la permeabilità e ridefinire una più generale mappa degli spazi pubblici urbani, trasformando l’alterità attuale delle ex aree militari in un’eccezionalità carica di significato per la collettività. Un secondo aspetto riguarda la possibilità, dentro la parte più consolidata della città, di introdurre spazi abitabili inediti, sia dal punto di vista insediativo (attraverso nuovi formati abitativi o il riuso di strutture esistenti), sia per quanto attiene le convivenze tra usi diversi (ad esempio entro combinazioni possibili tra ambiti domestici e destinati al lavoro). Per una città che ha al suo interno importanti emergenze culturali (Palazzo Farnese con suo il museo, l’Università, ecc.) e dotata di una ricca e diffusa struttura commerciale ciò comporterebbe un’articolazione dell’offerta abitativa e un consolidamento dello spazio collettivo urbano. Infine, un terzo tema che il recupero delle aree più centrali potrebbe trattare è quello della relazione tra l’interno più denso e compatto del tessuto storico e la città esterna più scomposta e frammentata. La posizione di soglia e la collocazione su alcuni assi di attraversamento e ingresso nella città di alcune fra le aree disponibili potrebbe in tal senso collaborare a dare maggiore chiarezza ad alcuni luoghi che sono oggi importanti per la posizione che occupano nella città ma che sono poco risolti dal punto di vista urbanistico e insediativo. È tramite la loro riapertura e riqualificazione che si potrebbero cioè trattare alcuni punti della città oggi particolarmente sensibili.
Un’occasione per le politiche dei centri storici? Quello di Piacenza probabilmente non è un caso isolato, altre “città medie” si trovano forse oggi di fronte a un analogo quadro in cui la dismissione delle aree militari può aprire un’importante opportunità nella definizione delle politiche di rinnovo urbano. In questi contesti, la possibilità di disporre di aree pubbliche si inserisce, tuttavia, in quadri complessi in cui spesso convivono accelerazioni e inerzie, processi di gentrification, valorizzazione commerciale, pedonalizzazione e “arredo” dei centri, da un lato, e, dall’altro, sacche di degrado, ritrazione e abbandono (Lanzani, Pasqui 2011), situazioni cui spesso non sono estranei proprio i presidi militari dismessi o sottoutilizzati. Proprio in ragione del fatto che tali “vuoti” si aprono all’interno di “città medie”, essi si trovano spesso in condizioni duplicemente connotate. Se, da un lato, sono potenziali occasioni di modificazione che evitano l’occupazione di nuovi suoli, essi si scontrano anche con la problematicità, in quei contesti locali, di attivare operazioni sovente di grande respiro, con le difficoltà legate alle bonifiche, con la natura stessa di manufatti che pongono resistenze sia al riuso (vuoi perché sottoposti a tutela, vuoi perché strutturalmente e tipologicamente inadatti), sia a più radicali interventi di demolizione e ricostruzione (su cui incidono pesantemente costi di bonifica e smaltimento). La sproporzione tra l’opportunità offerta dalla riapertura dei recinti militari e il possibile ruolo che essi riusciranno presumibilmente svolgere nel futuro della città è spesso palese. Il loro trattamento richiede forse un cambio di prospettiva che, imparando dalla storia della dismissione industriale, sospenda quelle retoriche di trasformazione (dominanti il dibattito sulla dismissione negli anni Ottanta) che riconoscendo il “caso eccezionale” ne giustificano il trattamento attraverso progetti urbani “risolutivi”. Consapevoli dell’unicità di questa nuova fase, occorre forse, da un lato, ripensare alla posizione e al ruolo che nell’attuale congiuntura svolgono i tanti centri urbani di medie dimensioni, dall’altro riportare il tema ad essere un problema urbano tra gli altri, da misurare localmente a partire dalle risorse e dagli attori attivabili (Bianchetti, C. 2004). Se osserviamo la questione del riuso delle aree militari nella prospettiva delle politiche urbane per i centri storici delle città medie italiane ci troviamo di fronte ad almeno tre temi, strettamente connessi ai caratteri delle aree militari a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza (natura pubblica, valenza storica, collocazione strategica). Il primo tema ha a che fare con il tempo. Proprio in virtù degli specifici problemi procedurali, normativi e progettuali connessi al riuso delle aree militari (costi potenzialmente elevati di bonifica, scarsa disponibilità da parte degli operatori privati, in particolare in questa fase del ciclo del mercato urbano, ad una gestione unitaria della trasformazione), queste si prestano ad essere utilmente pensate insieme e trasformate per parti. Un dispositivo come il Master Plan di natura pubblica, sperimentato parzialmente nel caso piacentino, può dunque delineare uno specifico planning tool per trattare in modo unitario le diverse aree, ma anche per immaginare una strategia temporale adeguata, che identifichi chiare priorità pubbliche rispetto alle aree da mettere immediatamente sul mercato e a quelle per le quali immaginare usi temporanei (Inguaggiato, Inti 2011). Il tema del recupero immediato ad una fruibilità collettiva di aree che per il momento non possono essere compiutamente trasformate può essere rilevante in una strategia incrementale di rivitalizzazione dei centri
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storici, talvolta sottoposti a veri e propri fenomeni di contrazione delle attività commerciali, culturali e del tempo libero. Il rischio del “progetto interrotto” è evidentemente molto elevato laddove le dimensioni sono considerevoli e, ancora una volta, la storia della dismissione e dei progetti che ne sono seguiti negli scorsi decenni fornisce un insegnamento. In casi di sovrabbondanza di risorse territoriali e di complessità per l’avviamento di processi evolutivi, è necessario disporre di una strumentazione “leggera”, anche se ben radicata nelle condizioni che connotano la situazione oggetto di trasformazione. La predisposizione di un Master Plan che abbia il compito di delineare uno sfondo unitario di orientamento alla progettazione, ma che consenta anche una pluralità di percorsi di trasformazione va in questa direzione. Nel caso piacentino, ad esempio, il Master Plan, in connessione alle più generali strategie di sviluppo urbano, intende definire principi, criteri e orientamenti per l’attività di progettazione successiva nelle aree, piuttosto che specifiche configurazioni dello spazio. In tal senso il Master Plan costruisce un campo di possibilità per le aree militari, esplorandone i possibili futuri e indicando gli scenari evolutivi complessivi dei quali eventualmente le puntuali trasformazioni potranno entrare a far parte. Il secondo tema è connesso alla valenza “storica” di immobili e di aree militari. Rispetto a questo carattere, una politica di riuso selettivo e temporalmente articolato può diventare, nelle città medie, un tassello di una strategia urbana dei beni storici, architettonici e culturali. Anche il rapporto con le Sovraintendenze, che spesso si rivela un ostacolo complesso all’attuazione delle politiche di riuso delle aree militari, può essere utilizzato, quando adeguatamente progettato e perseguito, come uno strumento per rafforzare una politica di sviluppo urbano basata sulla valorizzazione delle risorse culturali, nella quale la riqualificazione di edifici e infrastrutture militari diventa parte di una azione progettuale capace di immaginare progetti per intere sezioni del patrimonio storico. In questo senso, il riuso delle aree militari può essere considerato come parte integrante di una politica di sviluppo locale culture-led per i centri storici. La dismissione della città militare potrebbe in altri termini incrociare, entro una logica di reciproca interazione, sia le riflessioni emergenti da una diffusa domanda di riqualificazione e valorizzazione delle risorse storiche e ambientali, sia i temi legati alle politiche nel settore culturale e al loro ruolo nei processi di rigenerazione urbana. Il terzo tema è infine connesso alla posizione spesso strategica delle aree militari ai confini e in prossimità delle “porte” dei centri storici. Il caso piacentino, da questo punto di vista, è per molti aspetti, esemplare, in ragione della collocazione di molte delle aree militari in prossimità o addirittura lungo il confine (le mura storiche) del centro. In questa prospettiva un progetto unitario per le aree militari, articolato nel tempo, costituisce anche un’occasione rilevante per riprogettare bordi, soglie e ingressi nel tessuto del centro storico. Si tratta di spazi urbani che spesso soffrono per diverse ragioni: traffico e congestione, natura poco definita e liminare, progettazione urbana non sempre soddisfacente. L’esperienza di Piacenza evidenzia come le risorse materiali (edifici ma anche spazi aperti) e simboliche rappresentate dalle aree militari possono rappresentare un dispositivo importante per progetti unitari per i bordi e le soglie dei centri storici di molte città medie. I tre temi citati (la costruzione di una strategia spaziale e temporale flessibile, aperta anche alla sperimentazione di usi temporanei attraverso la realizzazione di un Master Plan unitario per le aree militari promosso dall’Amministrazione locale; l’uso delle aree militari come tasselli di una politica spaziale di sviluppo basata sulla riqualificazione e messa a valore di risorse e beni storici e architettonici; la messa al lavoro delle aree militari come dispositivi per la definizione di un progetto per i bordi e le soglie dei centri storici) alludono a dimensioni diverse ma integrate, della costruzione di politiche per i centri storici in contesti di città medie: la definizione di planning tools, l’integrazione tra progetti urbanistici e politiche di sviluppo e rigenerazione, l’identificazione di strategie spaziali peculiari.
Bibliografia Baiocco R., Gastaldi F. (a cura di, 2012), “Aree militari dismesse e rigenerazione urbana”, Urbanistica Informazioni (in corso di pubblicazione) Bianchetti C. (2004), “Dismesse e sfruttate”, Il Giornale dell'Architettura, 23 Bianchetti D. (1985). “Aree industriali dismesse, primi percorsi di ricerca”, Urbanistica, 81 Boeri S. (1985), “Riconversione industriale in luoghi urbani”, Casabella, 517 Boeri S., Secchi B. (a cura di, 1990), I territori abbandonati. Rassegna, 42 Bondonio A., et al. (2005). Stop & go: il riuso delle aree industriali dismesse in Italia, trenta casi studio. Alinea, Firenze. Ciorra P., Marini S. (a cura di, 2011), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta Milano, Fondazione Maxxi, Electa Dragotto M. (2007), “Le aree dismesse nel dibattito urbanistico italiano”, Urbanistica Informazioni, 213 Dragotto M., India G. (2007), La città da rottamare. Dal dismesso al dismettibile nella città del dopoguerra, Cicero Editore, Venezia. Ferrari T. (2011). L’architettura nelle aree militari di Piacenza. San Bonico, Edizioni TIP.LE.CO.
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La dismissione delle aree militari: un’occasione per le politiche di rinnovo dei centri storici
Gregotti V. (1990). “Aree dismesse: un primo bilancio”, Casabella, 564 Indovina F. (1997). Vuoti... Molto pieni. Archivio di studi urbani e regionali, 58 Inguaggiato V., Inti I. (a cura di, 2011), “Riuso temporaneo”, Territorio, 56 Lanzani A., Pasqui G. (2011), L'Italia al futuro. Città e paesaggi, economie e società, F.Angeli, Milano. Ponzini D., Vani M. (a cura di, 2012), “Immobili ex-militari e trasformazioni urbane: problemi emergenti ed esperienze in Italia e in Europa”, Territorio, 62 (in corso di pubblicazione) Secchi B. (1983), “Luoghi cospicui e problemi emergenti”, Casabella, pp. 487-488. Ora in: Id., Un progetto per l’urbanistica. Einaudi, 1989, Torino. Secchi B. (1984), “Un problema urbano: l'occasione dei vuoti”, Casabella, 503, Ora in: Id., Un progetto per l’urbanistica. Einaudi, 1989, Torino.
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Rigenerazione urbana: approccio “CircUse” - Area pilota del Comune di Asti
Rigenerazione urbana: approccio “CircUse”- Area pilota del Comune di Asti Giulia Melis SiTI-Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione Email: giulia.melis@polito.it Tel. 011.19751563 Marcella Poncini Comune di Asti Settore Gestione del territorio e risorse umane Email: circuse@comune.asti.it Tel. 0141.399238
Abstract Il progetto “CircUse” intende promuovere un approccio strategico e condiviso per lo sviluppo sostenibile delle aree urbane e periurbane degradate (brownfields, greenfields, greyfields). Attraverso l’applicazione della metodologia “Circular Flow Land Use Management” i siti abbandonati e dismessi sono riutilizzati e riconvertiti in un ottica di sviluppo sostenibile del territorio. Il progetto “CircUse” intende sostenere lo sviluppo policentrico del territorio, attraverso il recupero e la riconversione delle aree urbane e periurbane degradate. In particolare promuove la gestione sostenibile del territorio urbano attraverso la riconversione dei siti abbandonati e sostiene le politiche pubbliche in termini di governance e di accesso ai finanziamenti. La finalità è di mappare aree dimesse all’interno di aree urbane e suburbane, studiare un possibile riutilizzo e presentare un piano d’azione dettagliato per il recupero e lo sviluppo dell’area prescelta. Il progetto si sviluppa all’interno del programma Central Europe e co-finanziato da fondi FESR.
Introduzione La rigenerazione dei brownfield è diventato un tema importante per la politica territoriale nei paesi europei. Il riutilizzo dei siti brownfield è un elemento sempre più importante nella gestione sostenibile del territorio. All’interno del programma Central Europe, il comune di Asti insieme a SiTI (Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione di Torino) partecipa al progetto “CircUse” (Circular Flow Land Use Management). Il progetto “CircUse” vede la partecipazione di diversi paesi partner europei (dodici in totale), facenti parte dell’area dell’Europa Centrale (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacca, Austria, Germania orientale e Italia settentrionale), che si trovano ad affrontare problemi simili come la forte dispersione insediativa (urban sprawl), l’attuale crisi economica, gli effetti dei cambiamenti demografici. Questi fattori provocano la nascita di schemi insediativi che non favoriscono la competitività e lo sviluppo sostenibile territoriale. La dispersione insediativa infatti, con la sua alta domanda di consumo di suolo, risorse ed energie, può accelerare il processo e le conseguenze del cambiamento climatico (European Commission, 2006). L’obiettivo di “CircUse” è quello di perseguire la realizzazione di progetti che siano presi a modello come best practice, replicabili, per la sostenibilità nella gestione, pianificazione e amministrazione del territorio.
Giulia Melis, Poncini Marcella
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Rigenerazione urbana: approccio “CircUse” - Area pilota del Comune di Asti
L’obiettivo generale è di “sviluppare strutture insediative policentriche e la cooperazione territoriale” 1. Per raggiungere questo risultato concorrono i seguenti temi: • sostegno al cambiamento per una maggiore sostenibilità nell'uso del territorio (tramite i nuovi concetti e strumenti di informazione), • riduzione del consumo di suolo (mediante l'integrazione degli strumenti di pianificazione con strumenti di tutela e misure specifiche per il recupero e riuso delle aree dismesse); • aumento degli investimenti privati per le aree dismesse per favorire insediamenti economicamente efficienti., • coordinamento degli interventi e dei finanziamenti pubblici (compresi i fondi europei), La città è intesa, nell’approccio di “CircUse”, come un sistema soggetto a varie fasi di utilizzo. I cicli di vita dei materiali costituiscono un modello per la gestione del flusso circolare del territorio. In alcuni casi, interi quartieri e aree industriali vengono smantellati e resi idonei ad un utilizzo successivo, per cui la superficie totale di suolo utilizzato rimane invariata. La strategia di gestione circolare del territorio è volta a riutilizzare i terreni abbandonati. In termini pratici, questa strategia implica: riciclo dei siti abbandonati; elevata densità nei tessuti di espansione; operazioni di completamento e ricucitura del tessuto urbano; uso diversificato degli spazi (mix funzionale). L'intero ciclo di utilizzo, dalla progettazione all’utilizzo, al disuso, all'abbandono, fino al recupero degli edifici e del territorio, rappresenta il nucleo della strategia “CircUse”.
Figura 1. Diagramma della strategia “CircUse” L'obiettivo finale è la conservazione dinamica dei siti, ovvero prevederne usi diversi, anche solo temporanei, al fine di evitare l’abbandono definitivo ed il conseguente degrado delle aree, allo scopo di mantenerle sempre vive e adatte ad ospitare funzioni che altrimenti potrebbero andare ad occupare porzioni non urbanizzate di territorio, provocando un aumento del consumo di suolo. La gestione circolare del territorio, dunque, mira a minimizzare la nuova urbanizzazione di terreni ancora vergini, ovvero porzioni di territorio che attualmente costituisco un tassello della "cintura verde" e delle aree agricole intorno alle città, e mettere a disposizione, come scelte preferenziali per lo sviluppo urbano, terreni edificabili già esistenti, compresi i terreni abbandonati, spazi vuoti tra gli edifici e altri spazi di risulta. La gestione circolare del territorio non può essere guidata dalle azioni di un singolo stakeholder, per quanto il suo ruolo possa essere predominante. Il risultato può essere raggiunto attraverso gli sforzi coordinati e la collaborazione attiva e costruttiva dei vari stakeholder pubblici e privati che, a diverso titolo, influenzano l’uso del suolo.
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Fondi strutturali 2007-2014, Cooperazione territoriale, Programma Operativo Central Europe: tema d’azione della Priorità IV - Migliorare la competitività e l’attrattività delle città e delle regioni.
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Questo è di particolare importanza per il riutilizzo di terreni abbandonati, che spesso è visto come compito unicamente dell’amministrazione comunale e raramente come un'impresa che deve essere risolta attraverso uno sforzo di cooperazione complementare tra pubblico e privato.
Iter del progetto La strategia proposta (Preuss et al., 2008) verrà declinata e sperimentata su un caso pilota in ciascun paese partner del progetto, al fine di testare la validità e l’efficacia del metodo e identificare eventuali adattamenti da apportare per renderlo compatibile con ciascuna realtà nazionale e locale, nonché modello ripetibile e applicabile in altre situazioni simili. Uno dei risultati primari del progetto è rappresentato dalla produzione di un database basato su tecnologia GIS (Otparlik et al., 2010), condotti all’interno di uno specifico Working Package (“Transnational land management data and monitoring system”). Parallelamente, per garantire l’applicabilità e l’implementazione del metodo di gestione dell’uso circolare del territorio, è necessaria la presenza di una struttura di gestione con competenze definite e una dichiarazione d’intenti conforme agli indirizzi di pianificazione espressi nei Piani di settore in vigore per l’area. Questi compiti possono essere affidati ad una struttura esistente o ad un organismo creato ad hoc (Working Package “Management structures for circular flow land use management”). Inoltre, per ogni area pilota dei paesi partner verrà redatto un catalogo degli strumenti urbanistici economico, finanziario e legale esistenti. I piani di azione saranno elaborati in cooperazione transnazionale al fine di stabilire le priorità per lo sviluppo regionale e definire le opzioni di finanziamento possibili: ciascuno di essi perseguirà i singoli obiettivi di sviluppo regionale delle regioni pilota: vedi figura 2 (Working Package “Action plans and pilot project implementation”). Verrà condotta un’analisi innovativa dei bisogni e delle potenzialità di ciascuna area, per individuare la funzione più adatta da insediare: si considereranno sia le esigenze del contesto locale sia le aspettative degli investitori e degli utilizzatori futuri, per progettare una rifunzionalizzazione dell’area attraverso studi di fattibilità. Tutti i Piani d’azione regionali comprenderanno concretamente le fasi, le misure ed i progetti indispensabili ad implementare la gestione circolare dell’uso del territorio nei prossimi cinque anni. saranno basati sulle analisi circa le attuali tendenze nell’uso del suolo, gli scenari e su un concetto concordato con le istituzioni in grado di salvaguardare l’equilibrio tra aree libere e sviluppo dei brownfield.
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Figura 2. Indice piano d’azione del commune di Asti, tradotto in italiano
Applicazione L’area pilota di riferimento per il comune di Asti è l’ex Way Assauto, una fabbrica costruita ad inizio del novecento per la fabbricazione di ammortizzatori e la relativa zincatura. Dopo alterne fasi di sviluppo e recessione, alternanza di proprietari, le tecnologie possedute dall’azienda sono state acquistate da imprenditori cinesi. L’area di fatto però è abbandonata. L’aspetto più critico è rappresentato dall’eventuale bonifica che dovrà essere effettuata. Una parte della linea di cromatura è stata oggetto di un incidente a metà degli anni Novanta: lo sversamento di sostanze chimiche dannose nella falda acquifera sottostante all’impianto, ha creato problemi per l’approvvigionamento e la salute umana del vicino villaggio (operaio) residenziale. Attualmente è in opera una barriera idraulica che tenta di ripulire la falda, mentre periodici prelievi in pozzi di ispezione controllano i livelli di sostanze inquinanti. L’acqua attualmente non è ancora potabile nel vicino quartiere. Il Comune di Asti deve affrontare la gestione di numerose aree dismesse, all’interno del territorio comunale con posizioni e caratteristiche molto differenti. Il restauro dell' area della ex Way-Assauto, un’area molto vasta (90.000 mq) e più problematica, è stato inclusa nel Piano di Sviluppo del Comune di Asti : si tratta di un piano strategico che coinvolge tutte le aree brownfields ed edifici abbandonati. L'obiettivo è l'integrazione di azioni per la rinascita delle aree dismesse della città, con la partecipazione di diverse parti interessate. Inoltre, il riutilizzo di una terra è un'opportunità per ri-disegnare un luogo. Potrebbe essere una nuova opportunità per migliorare il territorio di Asti. In molti casi i brownfields possono diventare il nuovo cuore della città con la creazione di un nuovo posto per vivere. In questa circostanza, il progetto “CircUse” è una sfida fondamentale verso un nuovo processo di pianificazione, ri-orientando in tal modo, la pianificazione urbana. L'approccio proposto è multidisciplinare, basato su aspetti economici, sociali e ambientali. La bonifica di un sito comporta l'eliminazione di tutti i contaminanti noti fino a livelli considerati sicuri per la salute umana. La bonifica può essere costosa e complessa e questo deve essere preso in considerazione prima di acquistare terreni abbandonati: in particolare se i costi superano il valore del terreno dopo il recupero. Negli ultimi anni sono emerse nuove tecniche di bonifica, dimostrando di essere relativamente a basso costo rispetto ai Giulia Melis, Poncini Marcella
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processi tradizionali, con il vantaggio di proteggere e preservare l'ambiente. Con il progetto “CircUse”, il Comune di Asti è interessato ad un aggiornamento del piano esistente di bonifica con la partecipazione dell'Università degli Studi di Torino. Per il fabbisogno finanziario, un accordo si renderà necessario tra la parte pubblica e il proprietario privato. Si tratta di un processo di interazione e negoziazione tra i diversi soggetti, nella fase di definizione delle scelte che riguardano una città o un territorio. Il dialogo tra l'Amministrazione e gli operatori privati è importante al fine di gestire in modo più efficiente del territorio, oltre a trovare le risorse finanziarie da investire nel recupero e nella riqualificazione dello sviluppo locale. Sostenibilità delle azioni per le generazioni presenti e future (per esempio un nuovo impiego in tempi brevi), l'uso di risorse rinnovabili nel processo di rigenerazione, un saldo positivo costi-benefici (situazione ottimale tra obiettivi economici, sociali e ambientali): la miriade dei benefici derivanti dalla bonifica e riqualificazione di aree industriali dismesse alimentano il nucleo stesso della sostenibilità ambientale. La bonifica e il riutilizzo di un sito inquinato è un esempio reale di "riciclaggio" al meglio.
Definizione degli obiettivi In primo luogo, per la parte tecnica e progettuale, è fondamentale ridurre gli impatti ambientali negativi sul sito e sul quartiere inclusi i rischi per la salute umana. Per bloccare lo sfruttamento di nuovo suolo, se possibile, potrebbe essere meglio riutilizzare edifici esistenti e le infrastrutture, minimizzando gli sprechi. Per la parte politica, l'amministrazione deve integrare il riutilizzo delle aree dismesse nell’ottica di uno sviluppo urbano sostenibile, in una visione olistica strategica e di lungo periodo. Oltre a ciò, l'amministrazione deve promuovere le funzioni di uso del suolo che si adattino meglio all'ambiente naturale e antropizzato del sito ed ai suoi dintorni per ottenere un’alta qualità della progettazione urbana (fornendo anche un’ adeguata accessibilità). Per il coinvolgimento del pubblico, il miglior comportamento consigliato consiste in un processo di discussione equilibrata per una migliore risoluzione dei conflitti e responsabilizzare i cittadini, promuovendo e gestendo la partecipazione dei soggetti interessati: ciò è necessario per fornire trasparenza nei processi decisionali, il flusso delle strutture dell'informazione e della comunicazione. Inoltre, si può delegare la responsabilità a livelli decisionali più bassi, al fine di rispettare il principio di sussidiarietà e di stimolare un senso di appartenenza ad una determinata realtà e comunità. In questo caso, il senso della legittimità del processo decisionale aumenterà e migliorerà l'efficienza del processo in termini di durata e costo. I nuovi sistemi informativi consentono ai soggetti interessati di partecipare al processo con sistemi evoluti di supporto alle decisioni: SDSS, GIS, mappe interattive, disegni virtuali. Le aree dismesse offrono opportunità uniche nel plasmare il futuro delle nostre aree urbane: la progettazione urbana è chiamata a facilitare l'approccio collaborativo e olistico richiesto. Con un approccio intrinsecamente interdisciplinare e dalla visione a lungo termine, i progettisti urbani sono in grado di capire e mettere insieme interessi apparentemente disparati.
Identificazione dei vincoli Il problema maggiore è rappresentato dalla differenza tra costi vivi di manutenzione e valore immobiliare. Questo è un ostacolo alla rigenerazione delle aree industriali dismesse. I problemi dei rifiuti, il rischio chimico passato e la contaminazione: i requisiti ambientali rappresentano i maggiori ostacoli alla tempestiva riqualificazione dei siti industriali in abbandono, in quanto i costi superano il valore reale dei terreni e fabbricati. Un approccio puramente economico è quindi non applicabile, ma si dovrebbe considerare i benefici per la società in termini di salute e la fruibilità della zona. Oltre a questo, i problemi finanziari e legali svolgono un ruolo importante: la proprietà pubblica e il supporto finanziario sono fondamentali, così come la possibilità di attrarre nuovi investitori. La riluttanza a riqualificare le aree dismesse è associato con l'incertezza circa gli eventuali rischi: posizione sbagliata, l'infrastruttura ridondante, i costi di decontaminazione, i costi di riabilitazione del valore immobiliare. La capacità di rigenerazione della superficie pilota (ex Way-Assauto) è potenzialmente più ampia rispetto alle zone strettamente confinanti, avendo effetti collaterali che si ripercuoteranno a livello di comune intero. L'area pilota sarà in grado quindi di creare benefici per tutto il territorio: esiste un nucleo (core zone), più coinvolto nella trasformazione efficace e operativa, mentre nella zona tampone (buffer zone) si verificherebbero effetti indiretti. La fattibilità del progetto per l'area pilota dipenderà da: partecipazione economica e finanziaria da parte di attori pubblici e privati; valori immobiliari; il livello di inquinamento del suolo e delle acque di falda; livello di biodiversità residuale.
Cambiamenti previsti Lo sviluppo urbano dipende dalla decisione politica di riutilizzare grandi siti abbandonati. Se l'area della ex Way-Assauto nel Comune di Asti sarà recuperata, sarà un’azione strategica per il riutilizzo, con nuove funzioni, di un vecchio sito industriale che fu un importante centro industriale nel territorio: così l'idea di assegnare una Giulia Melis, Poncini Marcella
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nuova funzione a questa zona sarebbe un’ottima svolta per l’identità territoriale. Durante questo progetto, soluzioni integrate potrebbero essere applicate per ottenere una migliore riqualificazione della zona. Per esempio, la pubblica amministrazione potrebbe partecipare con i settori del Comune più coerenti. Se ci sarà la necessità di una partecipazione esterna, il comune potrebbe fare riferimento ad istituzioni private (come SiTI) o singoli professionisti freelance.
Modelli di supporto alle decisioni Nel contesto del Working Package “Action plans and pilot project implementation”, il contributo dei partner italiani (Comune di Asti e SiTI) si sostanzia nella proposta di un metodo replicabile di analisi della compatibilità delle funzioni da insediare nelle aree dismesse di cui si prevede la rifunzionalizzazione: attraverso l’utilizzo di modelli spaziali per il supporto alle decisioni (SDSS - Spatial Decision Support System), tenendo conto di alcune variabili, si presenteranno alcuni scenari di intervento interattivi, che si modificheranno al variare delle condizioni di base (progettualità in atto e previste, stato di fatto), permettendo di cogliere la propensione di ciascuna area dismessa ad ospitare una nuova destinazione d’uso. Con riferimento alla necessità attuale di fornire supporto alle decisioni per i problemi riguardanti lo sviluppo, la trasformazione e la gestione del sistema urbano e territoriale per mezzo di un approccio sostenibile, un ruolo fondamentale è svolto da sistemi SDSS: trattasi di strumenti per l'analisi di sistemi complessi nel campo della spazialità urbana. Il sistema di supporto alle decisioni pubbliche sulla pianificazione dell'uso del territorio beneficerebbe dell'applicazione di un SDSS, in quanto potrebbe ridurre i tempi di decisione e aumentare la coscienza dei singoli decision-makers. Un interessante sviluppo dei DSS ideato recentemente, soprattutto per opera di centri di ricerca olandesi, è rappresentato dai modelli SDSS che accentuano la dimensione spaziale della valutazione multicriteria, rivelandosi ottimali per progetti in cui l’estensione spaziale costituisce un carattere fondamentale. Il processo di sviluppo di un SDSS si struttura in 4 fasi principali: • Acquisizione e valutazione dei dati: già in questa fase deve avvenire una prima valutazione dei dati , con creazione di indicatori aggregati attraverso l'utilizzo di opportuni pesi che l'utente stesso deve decidere a seconda della propria strategia di sviluppo territoriale ed economico (applicata al territorio). • Disegno e costruzione di un database: sviluppa le strutture di dati relazionati; è fondamentale che il database abbia un'interfaccia che faciliti la rappresentazione dei dati per l'utente. • Modellizzazione di previsione spazio-temporale: è in questa parte che sta la forza del modello;il sistema è fornito di strumenti di analisi spazio-temporali applicabili ai dati disponibili e, soprattutto, attraverso modelli di previsione, rende possibile l'analisi su scenari "possibili" ipotizzati ed introdotti dall'utente. La modellizzazione risponde in concerto su quali possano essere le migliori allocazioni, a seconda della situazione, di nuove infrastrutture o di nuovi servizi. • Visualizzazione del risultato: mediante supporto grafico e tecniche dinamiche tridimensionali, il modello mostra in modo efficace i risultati delle simulazioni generate dai modelli di previsione, in modo che l'utente possa valutare facilmente l'impatto provocato sul territorio dalle sue decisioni.
Campo di applicazione Il planning support system estende i sistemi di supporto alle decisioni (DSS) ad ambiti territoriali, implementando la gestione dei dati in ingresso e di uscita GIS, e gestendo in particolare l'interazione tra le tecnologie informatiche e la pianificazione. L'interesse si estende oltre lo specifico calcolo tecnologico in modo da capire anche gli effetti delle informazioni spaziali digitali, investigando ad esempio sugli effetti di queste tecnologie sulla struttura spaziale sia urbana sia regionale e sui processi e metodi di pianificazione con cui si è soliti dare una forma e curare le aree metropolitane. Ciò è importante dal momento che l'applicazione di GIS e l'uso di tecnologie informatiche avanzate nei sistemi di supporto alle decisioni è un campo ancora giovane, che si pone come obiettivo quello di rendere gli stessi sistemi maggiormente user friendly, condizione necessaria per aumentare il numero di utenti.
Struttura del modello Il modello che si propone nello specifico si pone come obiettivo l’analisi della compatibilità di certe destinazioni d’uso con le caratteristiche di un dato tessuto urbano (contesto delle aree dismesse prese in considerazione). Queste dinamiche vengono visualizzate e rese esplicite nell’applicazione del modello, in modo che il decisore possa costantemente tenerne conto in modo semplice e intuibile, senza tralasciare aspetti fondamentali. Le possibili destinazioni d’uso che verranno considerate dal modello sono le macrocategorie residenza, commercio, industria, servizi e terziario. Il medesimo territorio potrà avere caratteri attrattori di alcune funzioni e repulsori di Giulia Melis, Poncini Marcella
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altre, tenuto conto delle sue peculiarità. Il territorio viene descritto attraverso una serie di indicatori che si ritengono significativi e che vengono riportati in un database georiferito. Questi possono essere di vario genere: • Normativi: limiti di inedificabilità, vincoli idrogeologici, indici volumetrici, fasce di rispetto, indicazioni prescrittive sulle destinazioni d’uso, etc. • Infrastrutturali (di tipo puntuale o lineare): assi stradali, autostradali, ferroviari, svincoli autostradali, fermate del trasporto pubblico, etc. • Dotazione di servizi: parchi e giardini, addensamenti commerciali, attività produttive, strutture per il tempo libero, etc. • Ambientali: fasce per grado di emissione di particolato, zonizzazione acustica, aree soggette a bonifica, aree ambientalmente compromesse, etc. • Immobiliari: prezzi di vendita aggregati per microzone. • Censuari, Demografici, Statistici etc. Per ogni caso specifico potranno inoltre essere definiti indicatori ad hoc. Oltre a questi elementi che descrivono lo stato di fatto del territorio, si terrà conto delle progettualità già avviate o di prossima realizzazione che potrebbero avere un’influenza significativa e apportare modifiche apprezzabili rispetto alla situazione attuale.
Proposte emerse per l’area Way Assauto Sul territorio astigiano sono state condotte delle interviste ad alcuni portatori di interesse selezionati, per rilevare informazioni e notizie circa il territorio. Il modello deve consentire ai decisori di valutare quale nuova funzione insediare sulle aree abbandonate. Il modello deve figurare anche delle proposte ex novo, al fine di innescare la riflessione su possibilità non scontate di ri-uso dei territori. A seguito della mappatura delle aree interessate catalogate come brownfield, si è cercato di identificare i possibili determinanti in grado di influenzare le funzioni base: residenza, commercio e industria (Figura 2).
Figura 3. Modello Sdss È stato dunque predisposto un questionario da sottoporre attraverso un incontro frontale ad alcuni osservatori privilegiati, i quali potessero restituire la situazione locale in merito a residenza, industria e commercio. L’obiettivo delle interviste era anche ottenere delle indicazioni aggiuntive relativamente alle dinamiche in atto e alle potenzialità del territorio (Figura 4).
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Figura 4. Schematizzazione delle proposte progettuali emerse dalle interviste
Opportunità legate al progetto La possibilità di collaborare al progetto “CircUse” è importante per la pubblica amministrazione: si tratta di un’occasione per l’amministrazione astigiana di aumentare il proprio know how e sviluppare nuove relazioni anche con istituzioni private (come SiTI). È infatti possibile ottenere questi effetti: definizione di un modello di gestione del Piano d’Azione; scambi di esperienze internazionali; “CircUse” come innesco di un approccio partecipativo alla panificazione locale; “CircUse” come base per accedere a futuri finanziamenti Quando un progetto di riqualificazione di siti industriali in abbandono giunge a buon fine, si ottengono benefici quali la rivitalizzazione o bonifica di terreni. Con la formazione di partnership con vari attori, e massimizzando la disponibilità di finanziamenti, e implementando principi di crescita intelligenti, Asti avrà la possibilità di dimostrare un avanzato e integrato approccio per gestire i progetti di riqualificazione delle aree dismesse. Coinvolgimento della comunità, consenso e supporto di finanziamenti privati sono gli ingredienti più importanti per un progetto di successo. I governi locali devono sviluppare la capacità locale di fornire risposte al fenomeno dell'urbanizzazione, la domanda di posti di lavoro e qualità della vita. Tuttavia, ogni città ha un genius loci: si tratta di un senso unico del luogo e di aspetti specifici, non necessariamente tangibili. Il carattere distintivo di un luogo, come eredità, la creatività, il tessuto ambientale e sociale, dovrebbero essere incorporati nelle strategie per le comunità locali. Per esempio, vorremmo avere questi risultati nel territorio di Asti: sviluppare politiche di urbanizzazione che promuovono la crescita economica, la riduzione della povertà; processi di pianificazione strategica per essere inclusiva e partecipativa; risorse umane e finanziarie in-house per una responsabile partecipazione dei cittadini per accrescere la responsabilità reale; costruire strategie a lungo termine e garantire la sostenibilità degli investimenti pubblici; fare rete con altri comuni per condividere le esperienze; comunicare il piano in modo chiaro e conciso a tutti gli interessati; concentrarsi sulle caratteristiche uniche della città e della sua gente.
Bibliografia European Commission (2006), Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions - Thematic Strategy for Soil Protection. Ferber U., Grimski D., Millar K., Nathanail P. (2006), Final Report: Concerted Action of Brownfield Economic Regeneration (CABERNET), Nottingham. Melis G., Vitale Brovarone E., (2011), Sistemi spaziali di supporto alle decisioni per il recupero di aree dismesse, AISRe, Atti della XXXII Conferenza Scientifica Annuale, Torino Leipzig Charter on Sustainable European Cities (24-25 May 2007), informal ministerial meeting on urban development. Giulia Melis, Poncini Marcella
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Rigenerazione urbana: approccio â&#x20AC;&#x153;CircUseâ&#x20AC;? - Area pilota del Comune di Asti
Otparlik R., Siemer B., Ferber U. (2010), Terms of reference and land typologies for Circular Flow Land Use Management, Freiberg, Dresden. Preuss T., Ferber U. (2008), Circular land use management in cities and urban regions - a policy mix utilizing existing and newly conceived instruments to implement an innovative strategic and policy approach, DifuPapers, Berlin.
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Le aree risorsa a Palermo. Una opportunità di sviluppo sostenibile?
Le aree risorsa a Palermo. Una opportunità di sviluppo urbano sostenibile? Marilena Orlando Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura, sezione Città, Territorio e Paesaggio Email: marilena.orlando@unipa.it Tel. 091.9773312
Abstract La tesi sostenuta nel presente lavoro è che le aree urbane in disuso possono divenire occasioni di sviluppo urbano sostenibile se esiste un progetto complessivo di riqualificazione urbana, formulato all’interno di un piano urbanistico e ridefinito nell’ambito di strategie condivise della città per la città, sotto la giuda indispensabile di un soggetto istituzionale che sappia mobilitare azioni congiunte e interazioni tra reti variegate di attori pubblici e privati. Il campo entro il quale la tesi trova argomentazioni è quello dell’indagine sulle politiche urbane avviate nella città di Palermo, realtà urbana in cui i finanziamenti comunitari hanno creato le premesse per aprire la strada dello sviluppo locale. Le prospettive di lavoro sono quelle di monitorare le politiche urbane in atto, attraverso l’individuazione di un set di indicatori utili a valutare se gli strumenti messi in campo e le azioni avviate sono in grado di avviare un percorso di sviluppo urbano sostenibile.
Una premessa Da anni la Sicilia è territorio di sperimentazione di pratiche e processi di programmazione indirizzati a perseguire strategie di sviluppo urbano sostenibile, che è un tema trasversale dell’intera programmazione regionale delle politiche di sviluppo. In questa direzione, le aree dismesse, intese come spazi urbani, aperti e costruiti, non più utilizzati per le funzioni originarie, possono assumere una nuova declinazione che ne ridefinisce il ruolo nelle dinamiche attuali delle città, poiché quelli che spesso sono stati definiti vuoti urbani (Bobbio, 1999), talvolta in maniera strumentale (Gambino, 2000), costituiscono in realtà dei pieni, di manufatti, di memorie collettive, di cultura del lavoro (Dansero, Giaimo & Spaziante, 2000), ovvero un potenziale patrimonio da scoprire, riutilizzare e reinterpretare, che diventa strumento per la costruzione di percorsi endogeni di sviluppo. A partire da questa premessa, esploriamo il caso della città di Palermo, realtà urbana in cui i finanziamenti comunitari hanno creato le premesse per aprire la strada dello sviluppo locale. Palermo si distingue, tra l’altro, per una notevole quantità di aree ed edifici non utilizzati, per una progettualità talvolta sconnessa e per atti di piano e politiche strategiche che dovrebbero invertire i processi in atto. A partire da queste premesse, l’analisi qui presentata privilegia una lettura degli interventi in atto sul patrimonio urbano dismesso 1 ed in particolare su una ampia gamma di aree ed edifici non residenziali, utilizzabili per usi diversi da quelli originali, che coinvolgono anche “pezzi di città”, ovvero risorse nodali per qualsiasi politica di trasformazione della città contemporanea (Gambino, 1996; 2000).
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L’indagine fa parte della più ampia ricerca in corso dal titolo “Aggiornamento degli obiettivi e delle strategie dello sviluppo locale” - Assegno di ricerca (2009-2013) presso il dipartimento di Architettura, sezione Città, Territorio e Paesaggio, tutor: prof. Teresa Cannarozzo.
Marilena Orlando
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Le aree risorsa a Palermo. Una opportunità di sviluppo sostenibile?
La trattazione che segue, per i limiti di spazio, dovrà parzializzare l’analisi e tralasciare i processi in atto di riuso del waterfront storico, sul quale si fonda una parte importante della riqualificazione urbana della città di Palermo e che meriterebbe un approfondimento specifico.
Alcuni dati sul consumo di suolo a Palermo. Lo scenario di fondo dei piani. Negli anni novanta la città di Palermo si dotava di due strumenti che dovevano segnare un cambiamento di rotta rispetto alla direzione intrapresa con il Piano Regolatore Generale della stagione di Lima e Ciancimino, la cui attuazione aveva prodotto una crescita smisurata e illegale nel territorio agricolo (Cannarozzo, 2000): il piano per il recupero del centro storico (consulenti Leonardo Benevolo e Pierluigi Cervellati), e il nuovo piano regolatore generale (consulente Cervellati) 2. Il primo ha consentito il recupero di buona parte della città storica (Orlando, 2004; Cannarozzo, 2004; Cannarozzo e Orlando, 2006); sul secondo, le complesse vicende di formazione e approvazione hanno compromesso gli obiettivi iniziali. In quegli anni la superficie urbanizzata è di circa 7.000 ettari su un territorio comunale di 11.000 ettari, mentre la popolazione non raggiunge la soglia prevista di 800.000 abitanti (Cannarozzo, 2000). Se consideriamo che nel 1943 la popolazione residente ammontava a 435.439 abitanti su una superficie urbanizzata estesa 600 ettari, dal dopoguerra agli anni novanta, ad un aumento di circa il 100% della popolazione residente è corrisposto un aumento di circa il 1.000% dell’urbanizzazione. Questo confronto tra domanda di suolo (abitanti) e offerta di suolo (superficie urbanizzata) fa emergere una crescita urbana regolata da interessi speculativi più che da fabbisogni reali. A partire da un tale scenario, il nuovo strumento urbanistico doveva invertire le logiche dissennate che avevano governato la città. Il Prg di Cervellati, infatti, introduce il tema della conservazione all’interno delle politiche di governo della città, da perseguire attraverso alcuni grandi settori di intervento: il sistema del verde; il sistema delle aree risorsa; il sistema delle aree produttive, direzionali, commerciali e turistiche; la mobilità e il traffico; il recupero. Il leitmotiv della salvaguardia e della valorizzazione, del recupero e della riqualificazione si applicano alle aree libere su cui intervenire attraverso la riqualificazione ambientale e al patrimonio edilizio esistente, per il quale si prevede il riutilizzo per la riconversione a nuovi usi. Tuttavia, alla “retorica” del piano fanno riscontro alcuni dati che fanno riflettere sulla mancata incisività dello strumento urbanistico, ampiamente modificato durante il suo iter di approvazione, nell’orientare le trasformazioni sul territorio verso la auspicata conservazione. I rilevamenti più recenti forniti dall’Ispra sul consumo di suolo (Munafò et al., 2011; Ispra, 2010) relativi a Palermo, che riguardano il decennio 1994-2005, mettono in evidenza un aumento della percentuale del consumo di suolo dovuto all’impermeabilizzazione 3 da 37,1% a 38,1% ed un aumento della superficie impermeabile da 5.888 a 6.055 ettari (circa 18 ettari l’anno), cui corrisponde un andamento demografico in lieve decremento (da 693.387 ab. nel 1994 e 670.820 ab. nel 2005). Contemporaneamente, l’intensità d’uso 4 è scesa dal 118,7 a 110,8, mentre si è verificato un aumento della superficie impermeabile procapite da 84 a 90 mq/ab (grafico 1-2). Questo indicatore, che mette a confronto il numero di abitanti per superficie urbanizzata rispetto alla quantità di superficie urbanizzata per abitante, ben rappresenta la progressiva tendenza alla dispersione urbana. Infatti, i dati fanno emergere uno scenario modificato rispetto alla precedente stagione pianificatoria: se da un lato il consumo di suolo cresce molto più lentamente, dall’altro si riscontra un uso antropico del territorio sempre più estensivo, che causa la progressiva perdita di aree agricole.
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Il PPE per il centro storico di Palermo è stato approvato con D. A.R.T.A. n° 525 del 13/07/1993. La Variante Generale al PRG è stata approvata con D.Dir. 124/DRU del 13.03.02 e con D.Dir 558 del 29.07.02, che integra il precedente decreto. Nel 2007 il Prg è scaduto e l’Amministrazione Comunale sta redigendo le direttive generali del nuovo Prg. 3 L’impermeabilizzazione è il cambiamento della natura del suolo, che diventa impermeabile in seguito alla copertura permanente con materiali impermeabili come calcestruzzo, metallo, vetro, asfalto e plastica, per la costruzione di edifici, strade o altri usi, ovvero forme irreversibili di trasformazione del territorio e del paesaggio. 4 Numero di abitanti per ettaro, che a Palermo supera i 100 ab/ha, come per le città di Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino. Cfr. Munafò et al. (2011); Ispra, 2010. Marilena Orlando
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Le aree risorsa a Palermo. Una opportunità di sviluppo sostenibile?
120 120 115 115 110 110 105 105 100 100 95 95 90 90 85 80
Popolazione
85
Superficie Impermeabile
80
Superf. Imp. Pro-capite Intensità d'uso
Grafico 1. Andamento del consumo di suolo a Palermo: percentuale di superficie impermeabile sul totale dell’area comunale. Grafico 2. Rapporto tra superficie impermeabile procapite ed intensità d’uso del suolo nel comune di Palermo. I grafici sono elaborazioni proprie sulla base dei dati Ispra. Cfr. Ispra, 2010. Nuove lottizzazioni commerciali ed edilizie, realizzate spesso in variante al Prg, caratterizzano le trasformazioni più nocive per il territorio di Palermo, ancora oggi in corso. Il riuso di aree ed edifici dismessi, proposto nel Prg come azione predominante nelle nuove trasformazioni della città di Palermo, dovrebbe essere, invece, la strategia predominante se consideriamo che la città dispone di circa 29 siti ex industriali (Piano Strategico, 2010; Carta, 1999), diverse aree ferroviarie dismesse, una grande quantità di aree ed edifici in disuso, carichi di valori simbolici e testimoniali e un notevole patrimonio residenziale abbandonato.
Le aree e le azioni Il Prg di Palermo individua un insieme di aree risorsa, un elenco variegato di aree dismesse e dismettibili che presentano caratteristiche dimensionali, stato di proprietà ed effettive situazioni d’operabilità molto varie. Ad esse viene attribuito, anche se genericamente, il ruolo determinante di caratterizzare le nuove otto “municipalità” (che sostituiscono i venticinque quartieri) in cui il Prg suddivide la città di Palermo. A ogni municipalità, infatti, viene assegnato un centro della municipalità, che viene attribuito a nuove architetture, ma spesso ad aree ed edifici inutilizzati, più o meno pregiati dal punto di vista storico e architettonico (Cannarozzo, 2004), le cui funzioni sono sommariamente indicate come attività di “rappresentanza, e d’incontro, di cultura e di svago, di lavoro e di mercato” (Prg, 1994). Le previsioni di piano relative al patrimonio urbano non residenziale in disuso coinvolgono, pertanto, centri di municipalità, edifici di netto storico ed aree di verde storico 5, aree produttive, direzionali, commerciali e turistiche (zone F e C). Nel Piano Strategico Palermo capitale dell’Euromediterraneo 6, le aree e gli edifici in disuso sono considerati poli di “centralità urbana”, determinanti per promuovere lo sviluppo locale, creare occasioni di innovazione e generare l’interesse negli operatori economici locali, nazionali e internazionali. A partire dai due strumenti, le politiche pubbliche perseguite sono a diversi stati di attuazione. Per alcune aree, il livello di operatività è ancora allo stato embrionale. Ci riferiamo in particolare ai seguenti casi: • la caserma Cascino e la fiera del Mediterraneo dovrebbero costituire un polo congressuale ed espositivo. Tale area dovrebbe fare parte di un unico sistema urbano che, includendo anche la stazione ferroviaria Sampolo già dismessa, il carcere borbonico Ucciardone e il Mercato Ortofrutticolo, entrambi in piena funzione, dovrebbe divenire una nuova centralità urbana che ospiterà servizi culturali, ricettivi, ricreativi e congressuali, secondo le previsioni del Piano Strategico. Le aree, di proprietà mista, si estendono per circa 24 ettari, ma attualmente risultano indisponibili, anche se l’intervento potrebbe essere realizzato grazie ai finanziamenti del POR FESR 2007-2013. • l’ex macello, l’ex gasometro e l’ex deposito locomotive di Sant’Erasmo costituiscono edifici strategici per la costa sud. Il Comune di Palermo e la Soprintendenza BBCC hanno recuperato ed inaugurato nel 2004 l’ottocentesco ex deposito locomotive di Sant’Erasmo, oggi utilizzato come spazio culturale. Non ci sono azioni in corso sugli altri due edifici, il cui recupero congiunto, enunciato nel Piano Strategico, darebbe un forte contributo alla riqualificazione della costa sud, poiché potrebbe produrre il beneficio collaterale di innescare a cascata processi virtuosi di rivitalizzazione del contesto urbano limitrofo. 5
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Per netto storico si intendono “i manufatti già edificati al 1939”. Il “verde storico” include i parchi e giardini storici e le pertinenze delle ville storiche. Cfr. Comune di Palermo (2002). Il Ps è stato approvato dalla Giunta Comunale con delibera n. 251 del 17.12.2010 ed è in corso l’esame da parte della Regione Siciliana per la sua approvazione definitiva.
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l’ex manifattura Tabacchi si trova nella costa nord di Palermo e si estende per circa 3 ettari. L’edificio, costruito nel 1628 per consentire la quarantena di merci e persone provenienti da luoghi a rischio d’infezioni, alla fine dell'800 divenne la Manifattura Tabacchi. L'intervento, in variante al Prg, propone un riuso a prevalenti fini turistici, rispetto a fini “urbani”. Si prevede, infatti, il recupero degli edifici per la realizzazione di un centro polifunzionale con centro commerciale, e parcheggi annessi, immobili per l’edilizia residenziale, attività ricettive, variazione della rete viaria pubblica e un campetto di calcio. Il progetto è stato presentato in occasione del secondo bando PRUSST (2006) e coinvolge il Comune di Palermo, l’Autorità Portuale ed imprese private. Ci sono perplessità circa la effettiva realizzazione dell’opera, poiché la proposta di intervento, che ha avuto un pronunciamento positivo da parte della Commissione Consiliare all’Urbanistica, è in attesa di un parere da parte del Consiglio Comunale da diversi anni, ma tra breve (anno 2013) decorre la scadenza per l’accesso ai finanziamenti del secondo bando Prusst. Gli interventi che possono essere considerati ad un certo stato di avanzamento interessano effettivamente circa 20 ettari e riguardano: la ex Chimica Arenella nella costa nord, i padiglioni Ducrot e la Stazione Lolli immerse in pieno centro cittadino. L’area industriale dell’ex chimica Arenella si trova nella borgata marinara dell’Arenella e si estende per circa 7,4 ettari. La fabbrica, fondata nei primi anni del ‘900, sospende la sua produzione nel 1931 e diventa di proprietà comunale alla fine degli anni novanta. Il Prg considera l’area potenzialmente edificabile, destinata ad attività ricettive e complementari al turismo (Ca, T), e individua i 22 padiglioni come netto storico, con tipologia “non residenziale”. L’area, inoltre, ricade nella fascia di rispetto dei 150 metri dalla battigia (L.r. 15/91) ed è sottoposta a vincolo paesaggistico (D.L. 490/99). Il recupero dell’area dismessa viene confermato nel Piano Strategico per la trasformazione dell’antica fabbrica e delle aree libere di pertinenza in spazio urbano fruibile e si relaziona con la riqualificazione del tratto di costa antistante per consentire la fruizione della spiaggia fino ad oggi impedita. Il progetto portato avanti dall’Amminustrazione Comunale, che ne è l’unico proprietario, prevede il recupero di tre padiglioni industriali da destinare rispettivamente a centro espositivo, a “fiera delle idee” per attività di promozione della produzione artigianale ed industriale locale, ad attività commerciale. Inoltre si prevede la realizzazione di un parcheggio interrato e la riqualificazione degli spazi esterni connessi grazie anche alla demolizione di alcuni corpi prospicienti il mare. L’intervento, promosso dal Pit 7 Palermo capitale dell’Euromediterraneo, è attualmente in corso. Il riuso di tali aree, da un lato, consentirà di rompere i recinti e le barriere che le rendevano fisicamente separati dalla città, dall’altro, potrebbe avviare un percorso di valorizzazione sociale ed economico della borgata marinara (Figura 1).
Figura 1. Ex Chimica Arenella. Fonte: Comune di Palermo Il complesso dell’ex stazione Lolli si estende per circa 7,5 ettari ed è stato realizzato nel XIX secolo su un’area con una forte connotazione urbana, privilegiata nel ‘900 per la sua espansione urbanistica di tipo medio-borghese in prossimità del teatro Politeama.
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Rimasta in abbandono per molti anni, il complesso della stazione, caratterizzato da diversi edifici in stile liberty, e da un giardino di grande interesse dal punto di vista botanico, nel 2006 è stato venduto dalla società di gestione Ferrovie Real Estate del gruppo FS a un raggruppamento di società private. Il Prg prevede la destinazione d’uso di tipo museale “sede espositiva dell’ente proprietario”, individua edifici di netto storico, prevede un parcheggio multipiano e perimetra alcune zone a parco urbano. Sulle aree attualmente occupate dai binari, il Prg prevede la realizzazione di zone per attrezzature culturali e uffici direzionali (F12, F15) e consente, pertanto, nuova edificazione. Il Piano Strategico, confermando le previsioni del piano urbanistico, considera il complesso ferroviario una “centralità urbana” per la realizzazione di un polo culturale e la riconnessione al sistema dei parchi urbani. Il progetto è stato avviato tramite il Programma Innovativo in Ambito Urbano Porti e Stazioni, per il quale nel 2004 il Comune e ha stipulato il Protocollo d’Intesa con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, le R.F.I. s.p.a., le Ferrovie Real Estate e l’Autorità Portuale di Palermo e soggetti privati, ed ha avviato la redazione di un piano particolareggiato. Il finanziamento pubblico è destinato ad attività relative alla progettazione, mentre la trasformazione urbanistica dell'area risulterà totalmente a carico dei promotori privati. Nel 2008 all'interno dell'area di pertinenza della stazione è stato inaugurato il cantiere del passante ferroviario urbano, mentre l’intervento sugli edifici dismessi è in fase di progettazione, per cui non si possono fare previsioni sui risultati dell’opera. Si potrebbe verificare un ulteriore intasamento delle aree centrali, attraverso l’edificazione dell’area, consentita dal Prg proprio sulla trincea ferroviaria, oppure la città si potrebbe dotare di un’area urbana riqualificata e dotata di un sistema di parcheggi e di verde urbano di cui è profondamente carente (Cannarozzo, 2004). Il fatto che il progetto abbia avuto un pronunciamento negativo da parte della Soprintendenza ai BBCC a causa della esistenza di un vincolo etno-antropologico e monumentale che esclude qualsiasi azione edificatoria sull’area, lascia ben sperare. L’area dei Padiglioni Ducrot, denominata oggi Cantieri culturali alla Zisa, si estende per circa 5 ettari, ed è un sito di archeologia industriale, che ospitava le fabbriche produttrici di mobili in stile liberty famosi in tutta Italia. L’area, da un lato confina con un quartiere di edifici residenziali moderni, dall’altro con il complesso monumentale della Zisa. Il Prg prevede la localizzazione di un centro della municipalità, indica aree e manufatti storici (A1, A2), aree a verde pubblico, parcheggi e strutture assistenziali (F14). Anche quest’ambito urbano nel Piano Strategico è considerato un nodo di “centralità urbana”, in cui realizzare un polo culturale da destinare all’incremento e al supporto di attività culturali e ricreative, da integrare agli spazi dismessi dell’ex stazione Lolli. L’area è già da alcuni anni oggetto di interventi di riconversione e rifunzionalizzazione, avviati attraverso canali finanziari pubblici e privati (Prusst, Pist/Pisu). Alcuni padiglioni dei cantieri culturali sono stati concessi dall’Amministrazione Comunale all’Accademia di Belle Arti, che ne cura la gestione per la organizzazione di eventi, laboratori e workshop. L’Amministrazione Comunale ha completato da qualche anno la Scuola Nazionale di Cinematografia, che è attualmente in uso, ma il Museo Euromediterraneo delle Arti Contemporanee, la sala multimediale e le botteghe, il cui recupero si è concluso, non sono utilizzati e pertanto, destinati al progressivo degrado. Ciò dimostra come l’occasione fornita dai finanziamenti pubblici non basti a generare azioni di successo, se mancano strategie di lungo periodo e una rete di soggetti mobilitati dalla fase embrionale fino a quella gestionale dell’opera. A queste aree e edifici in pieno centro urbano o in prossimità della costa si aggiungono una grande quantità di edifici isolati, spesso di proprietà comunale, immersi in alcuni branidi aree agricole ancora presenti. È il caso di villa Raffo all’interno di un’area agricola di circa 28 ettari, che fino agli inizi del ‘700 costituiva un latifondo coltivato dai gesuiti a mandorli, pistacchi e ulivi, parte integrante del più ampio sistema delle Conca D’Oro. L’area, limitrofa al quartiere Zen, nel Prg ricade nella zona omogenea “verde storico”, ed è soggetta a tutela ambientale come “parco urbano” e a “vincolo paesaggistico”. A tali vincoli si contrappone la previsione di un “centro della municipalità” che, non avendo una precisa localizzazione, consente di trasformare l’area in “potenzialmente edificabile” (Cannarozzo et al., 2007). Sull’area è stato realizzato di recente un centro grande commerciale con un parcheggio di pertinenza. Non sono stati realizzati (fino ad ora) i due centri di assistenza per pluriminorati ed anziani, un impianto sportivo, un centro di municipalità con relativo parcheggio pubblico, mentre Villa Raffo, recentemente restaurata, non è utilizzata ed è circondata da un’area su cui sono stati piantumati alcuni alberelli. Emblematico è il nome attribuito al centro commerciale Conca D’Oro, che sembra voler ironicamente mantenere la memoria di un’identità che la città sta perdendo (Figura 2).
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Figura 2. L’area di Fondo Raffo prima e dopo l’intervento. Lo stesso destino ha subito l’area agricola di circa 10 ettari, limitrofa al quartiere Borgonuovo, caratterizzata da vegetazione spontanea e da alberi d’altro fusto, uliveti e agrumeti, gravitante intorno a Torre Ingastone, probabile punto di difesa di una grande masseria, testimonianza del patrimonio agricolo tradizionale. Su quest’area, è sorto il Centro commerciale Torre. Su un’altra grande area agricola, che si estende per circa 18 ettari, limitrofa al quartiere periferico di Brancaccio, è stato realizzato il grande centro commerciale Forum. Tale area costituisce la propaggine del grande parco agricolo di Ciaculli, all’interno del quale si ritrovano il baglio S. Anna e il baglio Villa, risalenti al XVIII secolo. Le tre strutture commerciali realizzate hanno alcuni tratti comuni: costituiscono proposte di trasformazione urbanistica, in variante al Prg, di aree a prevalente destinazione agricola, di pregio agricolo-naturalistico e storico-culturale, contigue a quartieri residenziali periferici privi di qualità, ed in prossimità di una viabilità per la grande affluenza. Il trattamento riservato alle importanti preesistenze storiche ricadenti nelle rispettive aree consiste in una esigua perimetrazione delle aree di pertinenza dei beni storici, in cui il verde storico diventa residuale (cfr. Abbate, Orlando, 2009). Inoltre, il processo di “delocalizzazione economica” (Lissoni, 1996) posto in essere da tali interventi, nonché la sottrazione di spazio che poteva invece essere destinato alla collettività, hanno ridotto ulteriormente le occasioni di riqualificazione dei quartieri periferici coinvolti, già ampiamente compromessi dal punto di vista fisico e sociale.
Note conclusive Dal quadro analizzato possono emergere i temi ricorrenti, i soggetti coinvolti nelle azioni e le occasioni che le muovono, al fine di giungere ad alcune osservazioni critiche. Dai casi analizzati, il tema prevalente è la realizzazione di nuove polarità urbane, attraverso un mix funzionale in cui predominano le attività culturali, commerciali, terziarie e turistiche. Nella maggior parte dei casi sono marginali i temi riconducibili al più ampio dibattito relativo alla sostenibilità urbana delle trasformazioni: l’identità locale, spesso compromessa in nome degli interessi privati, il verde urbano e i parcheggi pubblici, fondamentali per migliorare le condizioni di vivibilità urbana e per sanare, almeno in parte, la carenza di servizi per la collettività, che rende spesso estremamente ostile la città. A tal proposito si riscontra una incerta efficacia del piano urbanistico nelle scelte relative alle aree in disuso. Le aree risorsa sono considerate strategiche per perseguire gli obiettivi di conservazione e riqualificazione su cui è improntato lo strumento urbanistico, ma le destinazioni d’uso di tali aree, così come l’individuazione di spazi da destinare a grandi strutture commerciali sono poco approfondite. Rispetto alle occasioni che avviano gli interventi sulle aree in disuso, si tratta quasi sempre di occasioni “strutturali” (Seassaro, 2000), che traggono origine da finanziamenti comunitari o pubblici, tramite i quali è dato all’Amministrazione locale di avviare interventi, ma che non sempre riescono a tradursi in azioni di successo. Le strategie diventano secondarie rispetto all’obiettivo prioritario di non perdere il finanziamento, piuttosto, si avviano interventi episodici ed azioni “estemporanee”, e il Piano “strategico” non basta ad orientarli “strategicamente”. Rispetto ai soggetti coinvolti emerge un quadro variegato di attori pubblici e privati. Se il soggetto attuatore è il privato, il rischio è che le opere pubbliche non siano contestuali, né tantomeno preliminari a quelle private. Pertanto, tende a prevalere l’interesse economico dei proprietari o dei soggetti finanziatori rispetto alla scelta di soluzioni idonee a migliorare la condizione urbana. Un approccio concertativo, che mira alla creazione del consenso su principi strategici, è stato tentato con l’avvio dei Prusst. Tuttavia, questa esperienza, se da un lato ha avviato un percorso di sinergie tra pubblico e privato, che Marilena Orlando
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era stato assente all’interno della prassi amministrativa, non ha fino ad ora portato gli esiti sperati, piuttosto la preoccupazione collettiva è che possa promuovere forme di collusione e affari della criminalità organizzata (Pitrolo, 2010). È dal contesto fin qui tratteggiato che emerge un diverso grado di maturazione delle azioni, alcune intraprese, poche concluse, altre in via di formazione, altre soltanto enunciate. Appare inoltre evidente la difficoltà da parte dell’Amministrazione Comunale di svolgere un ruolo di regia nel gestire le azioni di trasformazione urbana, difficilmente governate e generate dalle occasioni e dai soggetti di volta chiamati in causa, piuttosto che dalle strategie poste in essere dalla strumentazione urbanistica e strategica, che nonostante carenze ed incoerenze, mostra obiettivi condivisibili di riqualificazione urbana e di sviluppo urbano sostenibile. Il ripensamento critico di quanto emerso porta a sostenere che l’analisi fin qui condotta possa avviare la sperimentazione di un metodo di ri-lettura della dimensione dello sviluppo urbano sostenibile a Palermo in relazione agli interventi sul patrimonio urbano in disuso. In questa direzione, le prospettive del presente lavoro potrebbero essere indirizzate alla costruzione di un sistema di indicatori per misurare gli effetti sociali, urbani, ambientali, paesaggistici, e il rapporto tra interessi molteplici, nelle politiche e nelle azioni poste in essere. Tali indicatori potrebbero diventare uno strumento di supporto per il nuovo Piano Regolatore Generale, di cui è in corso la redazione delle direttive generali, al fine di indirizzare le future politiche di sviluppo urbano sostenibile per le aree risorsa della città di Palermo. L’obiettivo da perseguire dovrebbe essere quello di far prevalere aspettative di riuso a fini “urbani” e trasformare tali aree da potenzialmente immobiliari in risorse urbane, attraverso l’insediamento di funzioni mirate alla qualità urbana, in risorse culturali, attraverso la valorizzazione di luoghi della memoria, in risorse ambientali, attraverso un nuovo ritrovato equilibrio tra tessuto urbanizzato e spazi aperti.
Bibliografia Abbate G., Orlando, M. (2009), “Centri commerciali a Palermo: alla conquista della Conca d’Oro”, in Leone M., Lo Piccolo F., Schilleci F. (a cura di), Il paesaggio agricolo nella Conca d’Oro di Palermo, Alinea, Firenze, pp. 305-313. Bobbio R. (1999), “Riconversione delle aree dismesse: aggiornamento e spunti di riflessione”, in Urbanistica Informazioni, n. 164, pp. 5. Cannarozzo T. (2000), “Palermo: le trasformazioni di mezzo secolo”, in Archivio di Studi Urbani e Regionali, n. 67, 101-139. Cannarozzo T. (2004), “Centro storico di Palermo: dopo il PPE”, in Urbanistica Informazioni, n. 193, pp. 71-72. Cannarozzo T., Orlando M. (2006), “Il processo di recupero del centro storico di Palermo”, in Giornale dell’Architettura, n. 45, p. 9. Cannarozzo T., Fontana, D., Borsellino, D. (2007), Osservazioni al Piano Particolareggiato relativo al Progetto di utilizzo del Centro di Municipalità Fondo Raffo, in variante al P.r.g. vigente, adottato dal Consiglio Comunale con delibera n. 365 del 6/12/2006, Palermo, mimeo. Cannarozzo T. (2004), “Palermo: il martirio di un piano orfano”, in Archivio di studi urbani e regionali, n. 80, pp. 123-143. Comune di Palermo, Ripartizione Urbanistica (1994), Relazione Generale “Palermo città di città” della Variante Generale al Prg, Palermo. Comune di Palermo, Servizio Formazione Strumenti Urbanistici (2002), Adeguamento della Variante Generale al P.R.G. alle prescrizioni dei Dir. 558 e 124/DRU/02 di approvazione. Relazione Generale della Variante Generale al Piano Regolatore Generale, Palermo. Comune di Palermo, Servizio Formazione Strumenti Urbanistici (2002), Adeguamento della Variante Generale al P.R.G. alle prescrizioni dei Dir. 558 e 124/DRU/02 di approvazione. Norme Tecniche di Attuazione della Variante Generale al Piano Regolatore Generale, Palermo. Comune di Palermo (2010). Piano Strategico Palermo capitale dell’Euromediterraneo, Palermo. Dansero E., Giaimo C., Spaziante A. (2000), “Vuoti da non perdere”, in Dansero E., Giaimo C., Spaziante A. (a cura di). Se i vuoti si riempiono. Aree industriali dismesse: temi e ricerche, Alinea, Firenze, pp. 7-12. Carta M. (1999). “Il recupero delle aree dismesse a Palermo, applicazione dell’Agenda 21”, in Urbanistica Informazioni, n. 164, pp. 7-8. Gambino R. (2000), “Aree dismesse. Da problemi a risorse”, in Dansero E., Giaimo C., Spaziante A. (a cura di), Se i vuoti si riempiono. Aree industriali dismesse: temi e ricerche, Alinea, Firenze, pp. 165-172. Gambino R (1996), “Le aree urbane dismesse: un problema, una risorsa. Un fenomeno articolato; politiche e strumenti attivati e attivabili”, in Dossier 1/96, Supplemento al n. 147 di Urbanistica Informazioni, pp. 14-17. Ispra (2010), Qualità dell’ambiente urbano, VII Rapporto, Roma, Ispra. Lissoni C. (1996), “Urbanistica e centri commerciali: le questioni poste da casi recenti in area milanese”, Urbanistica Informazioni, n. 149, pp. 11-12.
Marilena Orlando
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Le aree risorsa a Palermo. Una opportunità di sviluppo sostenibile?
Munafò M., Martellato G., Salvati L. (2011), “Il consumo di suolo nelle città italiane”, Ecoscienza, n. 4, pp. 1015. Orlando M. (2004), “L’attuazione del recupero nel centro storico di Palermo”, in Urbanistica Informazioni, n. 193, pp. 72-74. Pitrolo G. (2010), “L’altalenante percorso del Prusst di Palermo”, Urbanistica Informazioni, n. 233-234, pp. 4344. Seassaro L. (2000), “Attorno al dismesso a Genova. Piani e strategie, aree e azioni, attori e occasioni, problemi e conflitti”, in Dansero E., Giaimo C., Spaziante A. (a cura di), Se i vuoti si riempiono. Aree industriali dismesse: temi e ricerche, Alinea, Firenze, pp. 103-122.
Riconoscimenti: Si ringraziano gli archh. Giovanni Sarta e Tiziana Turrisi, gli ing. De Marines e Di Lorenzo, tecnici del settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di Palermo, per il materiale di supporto fornito per la redazione del presente paper.
Marilena Orlando
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Un progetto processuale: riflessioni a partire dall’esperienza Mercato Navile a Bologna
Un progetto processuale: riflessioni a partire dall’esperienza Mercato Navile a Bologna Cristina Tartari TASCA Studio Architetti Associati Email: cristinatartari@tascastudio.it Tel. 051.6344434/fax 051.6343111
Abstract A partire dall’analisi del caso studio specifico, delineare quali possano essere gli “attrezzi della cassetta del mestiere” per indirizzare un processo di rigenerazione urbana di un luogo dismesso, evitando la crescita esponenziale dei valori immobiliari, arginando dunque i fattori di rischio derivanti da fenomeni di gentrificazione, sostenendo fortemente il processo progettuale e l’inclusione sociale quale chiavi di volta per esplicitare gli obiettivi pubblici delle trasformazioni, perseguendo gli equilibri economici e la sostenibilità ambientale degli interventi. Il mestiere a cui ci si riferisce è quello dell’architetto-urbanista che affronta il tema del progetto urbano, ovvero dell’ideazione e gestione, assieme a tutti gli attori coinvolti nel processo di trasformazione, di interventi che riguardano la “scala media” di un brano di città: non dunque un’opera di architettura né la dimensione della pianificazione (strutturale o strategica che sia), bensì l’architettura assieme allo spazio pubblico quale elemento di sintesi e di integrazione tra le parti.
Dal Laboratorio di urbanistica partecipata al Piano Particolareggiato d’iniziativa pubblica: una storia di rigenerazione urbana Prologo Quello che segue è un breve brano di storia di un pezzo di città, a ridosso della stazione centrale di Bologna e al centro di un quartiere popolare e storico, quale quello della Bolognina. È la descrizione di un progetto di sostituzione e di un processo di discussione e confronto, a volte molto duro e irto, che ha visto avvicendarsi persone e strumenti e che oggi, dopo quasi 20 anni dall’inizio, è un cantiere aperto e in divenire. Molte sono le questioni ancora aperte che devono trovare una risoluzione (una sospensione o al peggio una non soluzione) nella storia che raccontiamo, ma in generale si può affermare che il progetto, per i criteri ai quali si è ispirato, per le forme e le modalità che nel tempo ha assunto e qui sommariamente descritti, si configura sul piano della Città (e forse anche della disciplina del progetto urbano) come un esemplare raro per le sue qualità ambientali, di spazio pubblico e per i rapporti di condivisione e inclusione (fisica e sociale) che ha intesto stabilire. Il Mercato Navile per i presupposti sui quali nasce (il recupero di un brownfield, già destinato ad attività specialistica quale quella di mercato ortofrutticolo cittadino), per le dimensioni che riveste (circa 30 ettari), per la localizzazione strategica in cui si trova (strategica anche dal punto di vista metropolitano, dunque delle connessioni tra le parti), per le modalità con cui è stato sviluppato (laboratorio di urbanistica partecipata), per gli strumenti e le decisioni portate a sintesi dal progetto urbano (è lo spazio pubblico il cardine della trasformazione e la regola del nuovo insediamento) potrebbe rappresentare nel panorama nazionale una forma antesignana di EcoQuartiere, così come oggi lo definisce tra gli altri il “Protocollo Ecoquartieri” promosso e sostenuto da Audis, LegaAmbiente e Green Building Council Italia. Doveroso, nel raccontare la storia, ricordare due fatti di rilevanza strutturale e di valore precipuo per capire la cornice di riferimento: Cristina Tartari
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Un progetto processuale: riflessioni a partire dall’esperienza Mercato Navile a Bologna
• la previsione del Piano di iniziativa pubblica dell’ex Mercato Ortofrutticolo risale al Piano Regolatore Generale del 1985 ed è oggi, solo oggi (!), in fase di realizzazione con quasi 40 anni di distacco rispetto alle sue previsioni iniziali; • la nostra storia, e dunque anche le attività politiche e sociali, nonchè gli investimenti economici e finanziari che sostengono il progetto, è iniziata prima del 2008 e dunque prima di uno scenario di crisi che rende evidentemente necessario il cambio di paradigma rispetto alle grandi trasformazioni urbane delle città europee degli anni 90.
Il Laboratorio Intorno alla fine degli anni novanta la grande area del mercato ortofrutticolo di Bologna si svuotava della sua funzione originaria (trasferita nella zona del Caab Centro Agro Alimentare Bologna, a nord est del capoluogo), ponendo così le basi di una grande occasione di trasformazione urbana nel cuore della città. Dal momento della dismissione del mercato si sono succedute numerose proposte per l’area, fino ad arrivare, fra il 2004 e il 2005, al percorso partecipato “Laboratorio Mercato” e alla definizione di un nuovo Piano approvato dal Consiglio comunale nell’estate del 2006. Nel gennaio 2005, su forte richiesta del contesto locale, una delibera di Giunta ha istituito il laboratorio di urbanistica partecipata “Laboratorio Mercato” conferendogli in tal modo valenza istituzionale. Ad iscriversi alle attività oltre ad un centinaio di cittadini vi furono decine di tecnici, tre commissioni del quartiere Navile e quindici associazioni: soggetti ed enti portatori di esigenze e proposte di sviluppo della città anche contrapposte. Da una parte l’Amministrazione vedeva l’area come primo banco di prova importante per nuove politiche di edilizia residenziale sociale, ma ne riconosceva il potenziale per localizzare poli funzionali a scala urbana e territoriale; dall’altra i soggetti locali che auspicavano nuovi spazi verdi e sevizi per aumentare la vivibilità e qualità della vita, date anche le trasformazioni del contesto subite ed imposte (tra le quali la nuova stazione Alta Velocità); infine i privati proprietari e futuri sviluppatori con volontà di profitto e tempi certi (l’area era “immobile” da oltre 20 anni). La conduzione del Laboratorio è stata affidata dall’Amministrazione a “facilitatori” (Valter Baruzzi, Giovanni Ginocchini, Monia Guarino) con il compito di affiancare ed agevolare i professionisti incaricati della progettazione, lo Studio Corrado Scagliarini e Tasca studio architetti associati di Bologna, che hanno partecipato attivamente al Laboratorio. La prima parte del Laboratorio è stata scandita in tre momenti principali: • fase di ascolto reciproco; • discussione delle proposte; • fase di verifica del piano con presentazione dell’ipotesi definitiva messa a punto dai progettisti. Vari gli strumenti di comunicazione usati durante il Laboratorio: un punto informativo con esposizione temporanea; una newsletter distribuita tramite il Quartiere e le associazioni; un sito web ospitato dalla rete civica comunale, spazio di archivio e consultazione di tutti i materiali prodotti.
Cristina Tartari
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Un progetto processuale: riflessioni a partire dall’esperienza Mercato Navile a Bologna
Figura 1. Un momento del Laboratorio Mercato, 2005 (fotografia di Federico Scagliarini) Dopo una prima fase che ha portato alla rivisitazione del precedente piano e poi all’approvazione del nuovo progetto, vi è stata una seconda fase, che ha ricevuto il supporto dell'Unione Europea (Programma Grow), in cui si è approfondita la definizione degli spazi pubblici. Si intitola “Relemcom” (Reclaiming Land Empowering Communities) il progetto presentato dal Comune di Bologna insieme ad una partnership di organizzazioni ed enti olandesi, inglesi e polacchi oltre che italiani 1; partner dell’Amministrazione bolognese durante il progetto europeo è il Centro Katia Bertasi, centro sociale e di quartiere che ha supportato lo svolgimento del Laboratorio. Obiettivo principale di Relemcom, che ottiene riconoscimento e viene cofinanziato nel 2007, per la parte italiana, da Commissione Europea, Ministero delle Infrastrutture e Regione Emilia-Romagna, è definire processi innovativi per la riqualificazione di aree industriali dimesse o ambientalmente degradate assicurando la sostenibilità sociale, ambientale ed economica delle trasformazioni. Il progetto si sviluppa all’interno del programma GROW – People-Planet-Profit che mira a supportare la cooperazione strategica tra regioni nelle aree tematiche “Crescita verde” (ambiente), “Crescita economica” (ricerca, tecnologia, imprenditorialità), “Crescita complessiva” (occupazione ed inclusione sociale), verso dunque l’implementazione congiunta delle agende di Lisbona e Goteborg. L’esperienza progetto Mercato è il contributo che Bologna porta all’interno di Relemcom: grande è l’interesse suscitato in campo internazionale da questa sperimentazione che coniuga, tra gli altri, due temi oggi all’ordine del giorno nel campo disciplinare, ovvero l’esigenza di coinvolgere cittadini e utenti nelle scelte che riguardano il futuro del territorio, e la necessità di progettare e costruire con una maggiore attenzione alle risorse naturali e all’ambiente. Non sono solo i partner del progetto europeo ad esprimere questo interesse: anche altre amministrazioni e centri di ricerca, sia italiani che internazionali, richiedono informazioni e si recano a Bologna. L’inclusione del rapporto finale del laboratorio tra i documenti di Piano è uno dei risultati del percorso, particolarmente interessante dal punto di vista della disciplina urbanistica. Gli esiti di un processo “sperimentale” e “non codificato” sono infatti inseriti, seppure tra gli allegati, nei documenti ufficiali di un importante strumento di pianificazione.
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I partner del progetto Grow sono stati: Brabant Environmental Federation, Telos, Malopolska Agencja energia i Srodowiska sp, Miejskie Przedsiebiorstwo Oczyszczania sp, Comune di Bologna, SEEDA, University of Brighton, English Partnerships (cfr. www.relemcom.org).
Cristina Tartari
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Un progetto processuale: riflessioni a partire dall’esperienza Mercato Navile a Bologna
A partire dal successo del Laboratorio Mercato, il Comune, in fase di redazione del Piano Strutturale Comunale PSC, poi approvato nel 2008, ha avviato una stagione di laboratori di urbanistica partecipata che hanno, in parte, informato gli strumenti di pianificazione sovraordinata.
Figura 2. La dismissione, 2002 (fotografia di Gregorio Maraschini Montanari)
Il Piano Urbanistico Il progetto complessivo rivede radicalmente alcune caratteristiche delle ipotesi precedenti e configura un piano completamente nuovo, rispondendo alle diverse esigenze che nel tempo si erano manifestate, proponendo spazi pubblici di qualità, prevalenza di una mobilità pedonale e ciclabile, grandi spazi verdi e densità dell’edificato, attenzione al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale, mix fra le diverse funzioni (abitazioni, servizi, uffici, ecc), equilibrio fra residenze per il libero mercato ed edilizia sociale. La progettazione si è sviluppata attorno ad alcuni criteri volti a perseguire il carattere di urbanità dell’insediamento, qui sintetizzati: • il tessuto denso del quartiere trova identità in una nuova polarità: il “vuoto” del parco centrale costituisce la cerniera tra il nuovo insediamento e quello consolidato, diventando il vero cuore della Bolognina; • il reticolo urbano viario continua dentro l’area del Mercato, definendo gli ambiti insediativi da costruire e garantendo la continuità del tessuto urbano e relazionale; • i sistemi di mobilità hanno gradi di estensione e di controllo diversi: mentre è continua e frequente la maglia dei tracciati ciclo-pedonali, la mobilità e la sosta carrabili sono controllati e regimentati secondo una gerarchia di scomposizione del traffico, da quello di attraversamento sino a quello a servizio dell’insediamento residenziale (un’isola ambientale a traffico calmierato 30km/h); • la continuità del carattere urbano è garantita dal mix funzionale, da una fitta rete di spazi ed edifici pubblici con caratteristiche eterogenee e dal rapporto diretto tra edifici privati e strada pubblica. La contiguità di situazioni urbane molte diverse tra loro eppure tra loro continue rappresenta un elemento di analogia con la città storica, che moltiplica e amplifica i paesaggi urbani attraversabili; • la diffusione degli usi e delle attività evita concentrazioni monofunzionali e consente di attivare polarità a presidio dello spazio pubblico; • il quartiere comprenderà una rilevante quota di residenziale, pari a circa 1.200 alloggi in parte finanziati con il contributo regionale e destinati ad abitazioni non convenzionali (circa 300 alloggi), oltre ad uno studentato per 240 posti letto. Non vi è vincolo tipologico alcuno sulle residenze: al contrario il Piano mira ad ottenere la massima differenziazione, dall’appartamento nella torre alla casa con accesso indipendente, offrendo una
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varietà che possa soddisfare le diverse esigenze del cittadino e del mercato, anche rivolgendosi a chi oggi cerca soluzioni abitative al di fuori dell’ambito urbano. Sono la dimensione, il controllo e la cura dello spazio pubblico, inteso come luogo destinato allo svolgimento della vita civica, al centro delle attenzioni del progetto. In particolare la declinazione e dislocazione dei servizi pubblici (particolarmente calibrata e vicina alla realtà del quartiere proprio grazie allo svolgimento del laboratorio), la distribuzione degli usi previsti, la costruzione di una fitta rete di opportunità pubbliche dalle caratteristiche molto diverse tra loro, la densità abitativa concentrata in una porzione ristretta del comparto garantiscono la continuità del carattere urbano, evitando la costruzione di situazioni marginali tipiche dei quartieri periferici e il consolidarsi di terreni vaghi. Il Piano prevede l’assenza di recinzioni, lo spazio pubblico è definito fisicamente dallo spazio costruito, e stabilisce il grado di relazione visiva tra le attività che si trovano ai piani terra e la strada. Al fine di definire la città pubblica, il progetto detta le regole per i singoli blocchi privati, predisponendo speciali Schede dei vincoli, all’interno delle Norme di Attuazione, in cui si stabiliscono le posizioni e le caratteristiche delle attività che hanno un riflesso sulla vita di quartiere (i servizi alla residenza, gli usi non residenziali, gli ingressi pedonali e carrabili, ecc.), scrivendo così le Regole di Reciprocità tra spazio costruito e vuoto. Il progetto urbano non si concentra su vincoli morfologici e materici, ma stabilisce regole per la distribuzione, localizzazione e contestualizzazione delle attività e degli spazi dal carattere pubblico. Stabiliti il confine e il valore di questi ultimi, i presupposti strategici e funzionali da soddisfare e le caratteristiche ambientali da perseguire, il Piano Urbanistico lascia ai singoli progettisti degli edifici la possibilità di caratterizzare e migliorare la qualità del paesaggio urbano. Rispetto alle componenti della città privata, e cioè di quella parte di comparto che sarà prevalentemente occupata dagli edifici, il piano concentra la capacità edificatoria nella parte centrale dell’area. Questo consente di liberare il suolo per destinarlo a spazi aperti e verdi, e di elevare la densità insediativa relativa 2, considerata come un elemento di valore per superare la soglia del distretto periferico e per assicurarsi il cosiddetto “effetto città” di complessità. Tale carattere deriva (ed è generato) da una massa critica in grado di sostenere il commercio diffuso e garantire la presenza continua negli spazi pubblici. L’insediamento farà parte a tutti gli effetti della prima periferia storica della città e, con la realizzazione della nuova stazione centrale, formerà un continuum urbano con la parte nord della città storica. La definizione e il disegno della densità, meglio ancora della densificazione di parti svuotate di città, rappresenta il tema con il quale l’architetto si confronta quando parla di città contemporanea. Il progetto urbano del Mercato Navile non ha voluto svuotare di senso questo confronto, al contrario ha spinto i progettisti architettonici ad affrontarlo, salvaguardando però alcuni principi di fondo: il valore di reciprocità tra le architetture che formano la città, il valore del vuoto dunque dello spazio pubblico quale cardine per la riqualificazione delle città. Dal punto di vista metropolitano la riqualificazione del mercato, insieme al progetto per la nuova Stazione di Bologna, alla nuova sede degli uffici comunali, e alle altre trasformazioni previste dal Piano Strutturale Comunale, contribuirà a riconnettere parti di città storicamente separate dando inizio all’importante processo di definizione di una nuova immagine della città di Bologna. I dati del Piano Urbanistico. Superficie territoriale: 28 ettari Residenza: 92.503 mq Altri usi: 17.159 mq (uffici, commercio, altro) Ostello: 2.000 mq Totale Superficie utile: 111.662 mq Densità 0,45 mq/mq (superficie costruibile/superficie territoriale) Usi e servizi pubblici: 16.700 mq, così suddivisi: Scuola: 4.200 mq Poliambulatorio: 6.150 mq Palestra judo: 850 mq Centro sociale Katia Bertasi: 1.300 mq Ex ingresso (uffici, vigili di quartiere, XM24): 3.000 mq Altri usi da definire: 1.200 mq
Un progetto urbano energeticamente responsabile Il piano urbanistico ha anticipato molti degli obiettivi e degli orientamenti successivamente assunti dal Piano Energetico Comunale. Esso affianca alle ragioni del progetto urbano, valori e priorità ambientali, mettendo a
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Un campione del tessuto storico della Bolognina rileva una densità pari a 1,66mq/mq.
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sistema una cornice di scelte energetiche, di carattere attivo e passivo, con l’obiettivo strategico di ottenere elevati standard ambientali e di qualificare l’insediamento per la sua sostenibilità energetica. La ricerca sui temi energetici troverà applicazione per la prima volta in specifiche Norme Energetiche di Attuazione, confrontandosi col tema della fattibilità economica delle scelte compiute, tentando di trovare un giusto equilibrio tra requisiti obbligatori e consigliati, e relazionandosi con le risorse economiche pubbliche e con il mercato edilizio che andrà ad attuare il nuovo insediamento. Per le dimensioni e i temi trattati, il piano si configura come un progetto pilota nelle politiche di rigenerazione e trasformazione urbana di tutta la città. In sintesi, il piano adotta i seguenti requisiti: • Centrale di trigenerazione (teleriscaldamento e teleraffrescamento) ad alto rendimento, alimentata a gas metano, a servizio dell’intero insediamento. Essa sarà dimensionata al netto del risparmio energetico ottenibile dalle prescrizioni energetiche di piano; • Certificazione energetica degli edifici secondo il protocollo Casaclima: tutti gli edifici privati dovranno essere classe C (70kWh/mqa), gli edifici pubblici classe B (50kWh/mqa) ad eccezione della scuola che dovrà essere classe A (30kWh/mqa). Tale prescrizione anticipò al momento dell’elaborazione del piano la norma regionale di certificazione energetica, cui successivamente è stata adeguata; • Utilizzo degli apporti solari passivi, tramite un corretto orientamento degli edifici e la definizione di “lati caldi” lungo i quali disporre le zone giorno; • Coperture piane e verdi per diminuire il reirraggiamento di calore in atmosfera e aumentare l’inerzia termica delle strutture; • Produzione di acqua calda sanitaria tramite pannelli solari su tutti gli edifici; • Predisposizione di tutti gli edifici all’impianto fotovoltaico; • Predisposizione di una rete duale di raccolta delle acque per il recupero ed il riciclo ad uso irriguo e bacino di laminazione, che scolma nel limitrofo Canale Navile; • Previsione di superfici permeabili, sia pubbliche che private, pari a circa il 35% della superficie territoriale e di una superficie semipermeabile pari al 25%; • Raccolta dei rifiuti solidi urbani tramite 6 isole ecologiche interrate, in sostituzione di 128 contenitori tradizionali fuori terra. La sommatoria di tutti i fattori elencati sarà in grado di portare il sistema insediativo ad una richiesta d’energia inferiore di circa il 66% rispetto alle costruzioni tradizionali.
L’attuatore privato: il progetto dello spazio pubblico La prima parte della storia si conclude di fatto con l’approvazione del Piano Urbanistico nel 2006. È a partire da quella fase che comincia e si avvicendano persone nuove e competenze diverse, per affrontare gli approfondimenti tecnici e progettuali necessari per arrivare a definire le opere (sia pubbliche che private) da realizzare. Questa delicata fase, che apre evidentemente scenari diversi rispetto al Luogo del Laboratorio, tutto sommato circoscritto e limitato, coincide purtroppo con una debacle e un tracollo della politica locale (il commissariamento del Comune a partire dal 2009 sino al 2011) che avrà risonanza anche a livello nazionale e che non mancherà di lasciare importanti strascichi sul proseguo delle attività riguardanti il Mercato (uno fra tutti il mancato controllo dei diversi tavoli, istituzionali e non, che influiscono e decidono sugli scenari infrastrutturali e strutturali previsti dal Piano urbanistico). Alla fine del 2007 nasce il Consorzio Mercato Navile che raggruppa gli attuatori privati e che ha il compito, come previsto da convenzione, di realizzare e coordinare buona parte degli spazi pubblici previsti dal Piano che comprendono: - 101.970 mq di verde e spazi pubblici di cui: 38.000 mq di parco centrale attrezzato 7.630 mq di diagonale verde per una lunghezza di 300 metri 31.419 mq di parco a nord in connessione con Parco Villa Angeletti - la piantumazione di 1.706 nuovi alberi - 22.406 mq di parcheggi pubblici (886 posti auto e 674 posti moto). Nel settembre 2010 sono partiti i lavori per gli spazi pubblici, che ammontano ad un valore complessivo di circa 33 milioni di €, la cui conclusione è prevista entro il 2014.
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Figura 3. Il Cantiere, 2012 (fotografia di Fabio Mantovani)
Questioni aperte (non un epilogo) Oggi il cantiere è in essere e molte ancora sono le questioni aperte, che hanno spinto nel 2011 l’Amministrazione, con il supporto del Consorzio degli attuatori, ad aprire una nuova stagione di monitoraggio, accompagnamento e comunicazione delle attività in fase di piena trasformazione. Il caso, forse esemplare, del Mercato Navile non crediamo possa essere assunto come modello, infatti troppi sono i fattori che lo rendono unico: si tratta probabilmente di un caso, per ora fortunato, di partecipazione o di un riuscito connubio tra progetto e processo, in cui diversi attori si sono incontrati, cercando di andare oltre le astrazioni, affrontando concretamente i problemi della trasformazione. Di certo dalla sua lettura, si possono trarre considerazioni di carattere generale, apparentemente ovvie ma affatto scontate, che possono indirizzare i lavori e le riflessioni disciplinari e professionali su casi analoghi di trasformazione. Di seguito se ne elencano alcune, non in ordine di priorità: • La sostituzione di una parte di città non può andare oltre e soprassedere ad alcune questioni strettamenti afferenti ed inerenti il territorio locale (tema del contesto e dell’identità della trasformazione); • La “dimensione media” del progetto urbano, all’interno del quale rientra il Mercato Navile, impone di pensare nuove regole per la definizione del progetto e per la gestione del processo (dall’ideazione alla trasformazione). In una sola parola, l’attenzione dovrebbe essere posta sul concetto di “connessione” (alla storia, tra persone, tra le parti, infrastrutturale) e dunque per estensione sul valore della “coralità”; • La presenza di forti investimenti privati non può significare l’assenza di investimenti pubblici, quale volano strutturale di qualificazione dei servizi e degli spazi collettivi dell’abitare la città (tema delle priorità); • Le infrastrutture di mobilità e delle reti tecnologiche (dunque ancora una volta di connessione) a servizio dei nuovi insediamenti di sostituzione dovrebbero reggere e sorreggere l’inizio della trasformazione, anche grazie ad un lavoro di coordinamento e regia pubblica delle trasformazioni (tema dei valori immobiliari); • Il rapporto tra pubblico e privato (sia in fase di progetto che in fase di realizzazione) non può risolversi in una partnership occasionale e sporadica, ma deve necessariamente consolidarsi in un “patto per la riqualificazione”, supportato oltre che da fatti convenzionali, da gruppi misti e operativi di lavoro che, dall’inizio della fase di ascolto sino alle fasi del collaudo delle opere, sappiano concentrare su di se la memoria storica oltre che tecnica dei luoghi in trasformazione (tema delle persone).
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Bibliografia Libri Francois Ascher (2004). Los nuevos principios del urbanisme, Madrid, Alianza Editorial. Mauro Boarelli, Luca Lambertini, Mimmo Perrotta (2010). Bologna al bivio: una città come le altre?, (a cura di), Roma, edizioni dell'Asino. Antonio Calafati (2009). Economie in cerca di città, La questione urbana in Italia, Roma, Donzelli editore. Cyria Emelianoff, Ruth Stegassy, (2010). Les pionniers de la Ville Durable, Récits d’acteurs, portraits de ville en Europe, Paris, Ed. Autrement. Jan Gehl, Lars Gemzøe (2002). Nuevos espacios urbanos, Barcelona, Gustavo Gili Editorial. Giovanni Ginocchini, Cristina Tartari, (2007). Il Mercato: una storia di rigenerazione urbana a Bologna, (a cura di), Ferrara, Edisai. Paul Ginsborg (2006). La democrazia che non c’è, Torino, Einaudi. Rem Koolhaas (2010). Singapore Songlines, Macerata, Quodlibet. Tomas Maldonado (1972). La speranza progettuale, Torino, Einaudi editore. Bernardo Secchi (2005). La città del ventesimo secolo, Bari, Editori Laterza. David Sicari (2004). Il Mercato più antico d’Italia, Architetture e Commercio a Bologna, Bologna, Editrice Compositori. Articoli Charmes E. (2010). La densification en débat. Effet de mode ou solution durable?, études foncières, n.145, Paris. Ginocchini G., Tartari C. (2008). Il Mercato e la rigenerazione della Bolognina, Urbanistica Informazioni, n. 218, Roma, INU Edizioni. Siti web AAVV, (2011). Ecoquartieri in Italia: un Patto per la Rigenerazione Urbana. Una proposta per il rilancio economico, sociale, ambientale e culturale delle città e dei territori [Online]. Disponibile su: http://www.ecoquartieri.org/documenti.html David Bravo Bordas, (2011). La sorpresa del flâneur [Online]. Disponibile su: http://www.publicspace.org Benoist Apparu, (2010). Une nouvelle vision : l’Urbanisme de projet [Online]. Disponibile su: http://www.developpement-durable.gouv.fr/Une-nouvelle-vision-l-Urbanisme-de.html http://www.urbancenterbologna.it/index.php?/it/bologna-ex-mercato/ex-mercato-ortofrutticolo.html
Riconoscimenti: Il progetto Mercato Navile ha conseguito negli anni una serie di riconoscimenti e premi, posizionandolo come una buona pratica di rigenerazione urbana a livello nazionale. Tra gli altri si segnalano: - 1° Premio “Biennale dello Spazio Pubblico” 2011, Sezione “Spazio pubblico e città conteporanea”, promosso dall’INU - Istituto Nazionale di Urbanistica e dall’ANCI – Associazione Nazionali Comuni Italiani. - 1° Premio “Energia sostenibile nelle città” 2011, sezione Piani Urbani, promosso dal Ministero dell’Ambiente e dall’INU - Istituto Nazionale di Urbanistica. - 1° Premio “VII Edizione Premio IQU - Innovazione e Qualità Urbana” 2011, Sezione Progettazione Partecipata, promosso da Maggioli Editore. - L’esperienza del Laboratorio appare come buona pratica e viene raccontata nell’inchiesta di Report RAI3 “Le vie del mattone”, a cura di Bernardo Iovine (11/10/2009).
Cristina Tartari
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Gli insediamenti produttivi nelle società post-crescita. Politiche e progetti
Gli insediamenti produttivi nelle società post-crescita. Riscrittura di politiche e progetti Simonetta Armondi Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: simonetta.armondi@polimi.it Tel. 02.23995430
Abstract La tesi principale del contributo è legata a un interrogativo. Si pone una questione “urbanistica” specifica per gli insediamenti produttivi? Gli insediamenti industriali delle fabbriche hanno avuto una storia relativamente breve, con impatti tuttavia molto rilevanti sul consumo di suolo e sulla definizione dei principi di regolazione spaziale. Le prospettive sulle quali lavorare sono molteplici e riguardano sia la dimensione delle politiche pubbliche, ferme a una concezione tecnicistica e igienista dei luoghi del lavoro, dentro e fuori la fabbrica, sia quella più minuta delle pratiche progettuali sul ruolo del progetto di suolo come spazio di welfare materiale. La tipologia di progetto che sembra più familiare e alla quale si fa implicitamente riferimento per gli spazi della produzione, è ancora quella adeguata al governo delle trasformazioni e alla riqualificazione di grandi spazi e manufatti urbani abbandonati dal capitalismo industriale, i quali produttivi non sono più. Nel contributo, da una considerazione delle difficoltà di framing e di costruzione di scenari per alcuni contesti distrettuali anche recenti in trasformazione, si approfondisce il tema dello shrinkage mettendolo alla prova attraverso alcune strategie possibili, non necessariamente legate al riuso.
Il futuro degli spazi della crisi Esiti ed effetti della recessione economica hanno indotto un cambiamento radicale delle priorità e stanno cambiando habitus di lungo periodo di numerose comunità di pratica che intercettano temi e problemi di carattere spaziale. La recessione è, infatti, ormai diventata da qualche tempo un tema tecnico ricorrente per molte discipline ed anche per la letteratura del planning e degli urban studies, dove si tenta di fare sensemaking rispetto alla persistenza dei suoi impatti territoriali (Bertolini, 2011). La crisi sembra investire profondamente anche le pratiche del fare urbanistica dando luogo ad alcune narrazioni “minori”: sia la percezione dell’importanza dei temi sostenibilità, di riuso e di minor consumo di suolo attraverso l’approccio dello smart growth, sia la critica a questo stile di planning, sia alcune delle consuete pratiche urbanistiche tutte costruite sulla speculazione immobiliare e sulla promozione dello sviluppo come crescita. Inoltre le amministrazioni alla scala locale, devono riconsiderare le priorità del portafoglio di progetti, attori tradizionalmente influenti nelle decisioni legate alle politiche urbane, developer, grandi e piccoli proprietari immobiliari, stanno diventando più prudenti, le imprese chiudono, o si rilocalizzano dove il costo del lavoro è più conveniente. La crisi costituisce dunque un’occasione per domandarsi come e se, potrebbero cambiare le pratiche dell’urbanistica. Per sviluppare una riflessione intorno a questo interrogativo è opportuno compiere tre mosse. La prima riguarda l’individuazione di una categoria interpretativa utile a descrivere le trasformazioni che hanno investito, non solo in Italia, alcuni luoghi che più di altri, anche se sovente “rimossi” dal campo di riflessione della disciplina urbanistica, hanno risentito degli effetti della crisi: gli insediamenti produttivi. La seconda mossa da compiere è la comprensione di come sono cambiati alcuni dei territori produttivi italiani maggiormente toccati dalla crisi. Tali riflessioni denunciano quali sono i frame attraverso i quali gli intrecci, che riguardano il nesso produzione/territori/sviluppo e quello dismissione/riuso vengono “inquadrati”.
Simonetta Armondi
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Gli insediamenti produttivi nelle società post-crescita. Politiche e progetti
Davvero poco indagato e sovente frainteso, l’ambito d’indagine è costituito dagli spazi dedicati alla produzione. Contesti eterogenei contrassegnati da modificazioni minime, ma anche dalla compresenza di condizioni di scarto, densificazione, riuso, restringimento, riorganizzazione, nuova edificazione, abbandono, noncurante permanenza di un uso dissipativo dei beni comuni che però sembrano non sollecitare altrettanto l’attenzione della ricerca disciplinare, come dimostra, infatti, la proliferazione di studi legati a politiche e progetti per la residenza e ai grandi quartieri unitari residenziali. Ma non solo. Diversi esempi possono aiutare a capire il modo nel quale si alimenta e si costruisce l’immaginario che riguarda i territori della produzione, attraverso il quale si esprime la relazione tra produzione, ambiente, uso del territorio. Laddove le questioni di progettazione dello spazio pubblico sembrano non avere una dimensione cruciale rispetto ai temi trattati. Nella prospettiva proposta dalle narrazioni più diffuse – convegni, studi, normative – la sostenibilità ambientale è l’argomento ricorrente. Tale sostenibilità tuttavia, è tutta interna al processo produttivo, la qualità sociale è intesa solo in termini di “somministrazione” standard di servizi: il nido aziendale, il servizio di fornitura della spesa settimanale. L’abitabilità degli spazi aperti, la possibilità che il grado di fruibilità e di naturalità diffusa di alcuni spazi possano avere anche una funzione importante sul versante del risparmio energetico (dunque anche con un ritorno economico) o sulla riduzione dell’isola di calore urbano non sono stati finora argomenti frequenti nelle routine di operatori ed esperti. Le storie degli spazi della produzione sono, soprattutto, storie di spazi separati (Armondi, 2011). Anche nell’urbanizzazione diffusa, dove come scriveva Mumford già nel 1961 “lo svago obbligatorio continua a essere l’unica alternativa al lavoro obbligatorio”, la separazione investe congiuntamente la struttura insediativa di gran parte degli insediamenti produttivi contemporanei e la riflessione teorica e concettuale nella quale occupano un ambito marginale. Che cosa vuol dire occuparsi del rapporto tra produzione e spazi pubblici nei territori contemporanei? Innanzitutto provare a interrogarsi su che cosa s’intende oggi per produzione nel campo degli studi territoriali, su come cambia l’uso dello spazio aperto e il suo trattamento. Si tratta di elaborare un contributo alla lettura del rapporto articolato rispettivamente tra produzione, materiali urbani e territoriali anche dal punto di vista degli studi propriamente urbanistici e non sotto il profilo prettamente geografico. Dalle interpretazioni teoriche e dalle evidenze empiriche è possibile evincere come si rendano necessari, entro contesti investiti da nuove questioni urbane, approcci diversi alla progettazione e, soprattutto, al riuso degli spazi della produzione e del commercio. Gli schemi tradizionali della strumentazione urbanistica nomodipendente, ma anche la costruzione di repertori descrittivi e le analisi più strettamente geografiche appaiono insufficienti. La terza mossa riguarda i possibili orientamenti per l’azione. All’interno di questo contributo ci si propone di leggere e trattare alcuni mutamenti delle geografie della produzione, attraverso il filtro di due categorie interpretative. Si tratta di due categorie eterogenee la prima, si ribadisce, è il paradigma dello shrinkage, essenzialmente una categoria interpretativa. La seconda è il tema del retrofit dalla quale prendere le mosse alcuni spunti fertili anche per le pratiche progettuali. Queste categorie appaiono fertili per ragioni diverse. Sono entrambi due “temi dello sguardo” dai quali è possibile evincere una dimensione descrittiva e una progettuale. Attraverso un meccanismo di dissonanza cognitiva, tali categorie consentono temporaneamente di scartare da una lettura rigida di confini, funzione, elementi spaziali e dinamiche economiche e sociali di un certo pattern insediativo (centro storico, insediamento residenziale, produttivo, commerciale), Sono partiture, categorie più flessibili, issue-based che delimitano il tema/problema più che il tipo di spazio. In questo modo non sono mobilitati alcuni, a volte inconsapevoli, frame e pregiudizi rispetto a una certa struttura insediativa.
Shrinking territories: ritrazione, contrazione, abbandono, sottoutilizzo Tradotto nelle riviste di settore come shrinkage – in italiano significa restringimento, ritrazione, contrazione e, in un’interpretazione più negativa che non gli corrisponde pienamente, declino – lo Schrumpfung, da una decina d’anni, è al centro del dibattito tedesco della disciplina. L’ampiezza del fenomeno dei fenomeni di abbandono urbano in Germania ha condotto diversi autori a interpretare lo Schrumpfung come un’opportunità di variazione di paradigma, in relazione ad una visione classica delle politiche urbane centrate sull’espansione e sulla crescita urbana. Crescita – come concentrazione progressiva – e dissoluzione – in forme d’insediamento disperse e frammentate – della città europea e occidentale hanno costituito nel corso del XX secolo due concatenazioni di un racconto che si radica nel periodo precedente. Sovente posto in opposizione alla categoria della crescita, il concetto di shrinkage ha tuttavia un significato diverso da quello del termine dispersione. E’ una nozione che rinvia a un insieme di dinamiche economiche, demografiche e/o sociali regressive che avvengono nello spazio urbano. Il termine shrinkage è interpretato da alcuni studiosi come una nuova etichetta applicata a processi noti e di lunga durata e che s’inscrive entro l’accentuazione delle disparità spaziali ed entro l’affermazione di un processo di declino urbano, in particolare dai paesi dell’Europa centrale e orientale.
Simonetta Armondi
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Gli insediamenti produttivi nelle società post-crescita. Politiche e progetti
Anche il declino urbano è un fenomeno emergente. Le città che stanno sperimentando la perdita di popolazione sono caratterizzate da un alto tasso di disoccupazione e da complesse difficoltà socio-economiche. I problemi principali sono profondamente radicati e s’innesca un circolo imperfetto tra declino economico, calo demografico ed emigrazione. Le aree urbane di stagnazione e declino in Europa condividono un passato industriale e sono situate nell’ex Germania Orientale, nella regione vallona del Belgio, nel nord dell’Inghilterra e della Francia e in larga parte dell’Europa centrale e orientale. Non è un caso che la considerazione dello shrinkage, inteso come processo geograficamente esteso e di lungo periodo, si sia diffusa in Germania una decina d’anni dopo la caduta del Muro. Lungi dall’essere un fenomeno isolato e spazialmente circoscritto alle grandi città, lo shrinkage è un fenomeno che tende a diffondersi entro un elevato numero di regioni europee, nelle grandi agglomerazioni urbane e nelle città di media dimensione. L’espressione Schrumpfung evoca in primo luogo la metafora del restringimento. Cosi come è studiata nella letteratura disciplinare tedesca, è una categoria che rinvia a una doppia accezione, spaziale e demografica, con un accento posto sulla seconda dimensione. Diverse letture delle regioni urbane toccate in modo importante dal fenomeno del restringimento (Oswalt, 2006) riconoscono che le città le quali si suppone si stiano ritirando, in numerosi casi, da un lato non perdono superficie globale e, dall’altro, l’agglomerazione urbana alla quale appartengono, al contrario, si estende. I processi di contrazione urbana che si manifestano nello shrinkage dunque non si traducono nella diminuzione del perimetro di una città, ma in un processo di “perforazione urbana” 1, nel quale si praticano delle aperture nei territori situati all’interno delle aree urbane. L’espressione Schrumpfende Städte è riconducibile alla nozione di shrinking cities coniata nella letteratura statunitense. Sviluppata anch’essa sull’immagine del restringimento urbano, tale ultima nozione rinvia in generale a processi complessivi di declino urbano, che sono stati interpretati per un certo periodo, come esito congiunto della deindustrializzazione e dello sprawl, che hanno riguardato le città della Rust Belt. Nel contesto statunitense i processi di declino urbano sono comunemente associati a fenomeni di pauperizzazione e di segregazione sociale ed etnica. Sebbene i fattori di decrescita siano differenti nei due contesti, alcuni autori hanno posto l’accento sul carattere globale delle shrinking cities, avviando importanti percorsi di ricerca 2. Di recente è stato osservato come la smobilitazione urbana non sia effetto dello sprawl. La connotazione strutturale delle dinamiche urbane regressive è stata dimostrata dall’epilogo della periurbanizzazione delle città tedesche. La cessazione della domanda di alloggi in aree periferiche – causata dalla disaffezione progressiva al modello residenziale pavillonaire, alla rivalorizzazione immobiliare e alla rinnovata attrattività della città centrale – ha condotto a uno shrinkage “diffuso” anche allo spazio periurbano (Herfert, 2007). La generalizzazione dei processi di declino alla scala della regione urbana dagli anni 2000 ha mostrato la profondità e la singolarità di tali processi di decrescita e di contrazione. La transizione economica post socialista in Germania orientale ha dunque destabilizzato la struttura economica, demografica e spaziale delle città, conducendo a forme originali di declino urbano e di segregazione residenziale. Le ricerche più recenti sullo shrinkage tedesco configurano riflessioni generalizzabili a diversi territori contemporanei. Il declino non è più percepito come una deviazione rispetto a una traiettoria ordinaria di crescita urbana e regionale, ma come un fenomeno di trasformazione spaziale compiuto (Florentin, & Fol, Roth, 2009). L’estensione del fenomeno dell’abbandono residenziale comporta effetti rilevanti sulle dinamiche del mercato immobiliare urbano. I suoi effetti depressivi sugli affitti e sui prezzi immobiliari hanno scoraggiato in gran parte l’investimento privato. Dagli anni 2000 sono state dunque messe in campo dal governo federale delle politiche, nell’ambito del programma Stadtumbau Ost, per rispondere al problema degli alloggi abbandonati. La rigenerazione mirata di alcuni quartieri, lo sviluppo dell’accesso alla proprietà e la demolizione a grande scala dei manufatti abbandonati sono gli strumenti principali, non dispensati da letture critiche. Si tratta dunque di assumere la perforazione urbana non come una minaccia, ma come una possibilità per la ricostruzione dello spazio urbano. Il declino può anche offrire spazi per iniziative innovative ad affitto moderato per nuove imprese e per la sperimentazione d’inedite modalità di governance. Infine, altri autori fanno appello alla necessità di costruire un nuovo frame anche sul versante delle politiche urbane. Gli strumenti di pianificazione attuale sono stati costruiti per organizzare la crescita e non il declino. Il tema della perforazione urbana e dell’abbandono, le risorse spaziali nuovamente disponibili richiamano la necessita di trovare nuovi usi e nuove modalità di lettura anche d’insediamenti non strettamente residenziali. Malgrado alcuni studi sui processi di abbandono che investono le due icone dell’architettura pop – i grandi mall e la strip commerciale – siano diventati occasioni per confrontarsi con il dilemma del riuso già nei primi anni 2000 (Smiley, a cura di, 2003, Congress for the New Urbanism, 2005), nella letteratura nordamericana la centralità del tema dello shrinkage, non bilancia la vastità della letteratura sul tema della crescita urbana. 1
Il periodo socialista, privilegiando la costruzione dei grand ensemble residenziali in periferia e lasciando sostanzialmente in stato di abbandono le aree centrali delle città, aveva creato una struttura urbana “duale” (Glock & Häussermann, 2004). 2 Criticato per il carattere esplicitamente mediatico, ma importante per avere sottolineato alcune dimensioni comuni sovralocali e anche per aver divulgato nel dibattito internazionale il tema delle shrinking cities, è il citato lavoro curato da Oswalt. Simonetta Armondi
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Gli insediamenti produttivi nelle società post-crescita. Politiche e progetti
Uno dei più attenti studiosi nordamericani di shrinkage si riferisce alla questione della riduzione di popolazione come a uno “stigma” che urta le aspirazioni e le retoriche dei politici locali (Beauregard, 2003). Nell’ambito del dibattito statunitense dell’urban e regional planning, uno degli argomenti più popolari è senza dubbio lo smart growth. Lo smart growth può essere interpretato come la versione nordamericana dello sviluppo urbano sostenibile, anche se il baricentro della strategia ruota ancora attorno al tema della crescita quantitativa. Una delle principali conseguenze dello shrinkage è la presenza di un elevato numero di unità residenziali e di edifici industriali abbandonati, senza che sia oggi possibile prefigurare la possibilità che la città in futuro sia in grado nuovamente di aumentare il numero dei propri abitanti. Poiché non è sostenibile il costo di manutenzione dell’offerta d’infrastrutture per tutta la città, uno degli interrogativi cruciali per la pianificazione degli usi del suolo, richiamate dagli shrinkage studies, è dove e in che modo, nelle diverse parti della città, sia possibile mantenere le infrastrutture e i servizi largamente sovradimensionati e dove invece, sia possibile prefigurare intenzionalmente un abbandono, ossia lasciare che esse si deteriorino. Come pre-condizione per investigare i caratteri dei fenomeni di abbandono, viene suggerito il passaggio dal paradigma dello smart growth a quello dello shrinking smart (Pallagst et. al., 2009). Questo slittamento di paradigma consentirebbe di coglierne pienamente aspetti critici, ma anche potenziali risorse connesse al riuso di volumi e di spazi aperti.
L’eredità spaziale dei distretti: dal patrimonio allo scarto E’ possibile evincere una specificità italiana di shrinking territories in relazione ai mutamenti della produzione e degli effetti della crisi? La contrazione urbana, almeno così come di frequente interpretata come declino demografico, non configura un problema tra i più rilevanti del Paese. Nel dibattito pubblico e nell’agenda politica nazionale non si riconosce come centrale nemmeno il tema della dismissione industriale, anche perché l’Italia non è stato un paese segnato marcatamente dalla presenza della grande industria fordista. Nella riflessione accademica è un argomento moderatamente sviluppato, anche se non sono mancati espliciti richiami a una messa in discussione del paradigma della crescita nell’ambito delle relazioni tra governo del territorio e politiche di sviluppo generalizzato (Lanzani & Zanfi, 2010; Lanzani & Pasqui, 2011) e di un rilancio della “questione urbana”, a fronte dei fallimenti del cosiddetto paradigma territoriale. Di recente, a fronte delle gravi conseguenze determinate dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007 e dalle scelte di delocalizzazione di molte piccole e medie imprese, si osserva in particolare nel nord est del Paese la presenza pervasiva di capannoni vuoti, sfitti e in vendita, in alcuni casi mai utilizzati. Fare urbanistica oggi comporta un confronto con i depositi materiali del post-fordismo, con l’eredità dell’industrializzazione diffusa. L’abbandono dei capannoni ha segnato diverse aree storiche di distretto del Veneto. La crisi che ha colpito il distretto dell’occhialeria in Cadore è un esempio efficace. La fisionomia di shrinkage che segnerà i territori della Terza Italia, dunque, sembra legato alle difficoltà di rinnovamento e di reinvenzione dei distretti di piccola e media impresa rispetto al proprio sentiero di sviluppo in relazione all’incapacità di interpretare l’abitabilità del proprio territorio. Gli studi e i casi di shrinkage che abbiamo indagato mostrano variazioni importanti nel modo in cui la categoria degli spazi della produzione è coinvolta e porta ad avanzare specifici quesiti al progetto nei termini dei dilemmi legati al riuso dei tanti capannoni vuoti a causa della povertà e serialità dei materiali con cui sono stati costruiti, ma soprattutto a causa della scarsa qualità degli spazi aperti verdi e grigi che connotano questi territori. Il fenomeno dello shrinkage porta a un’inversione del rapporto tra pieni e vuoti e reintroduce la riflessione sul proporzionamento della città in termini di vuoti che non appartiene più alla dimensione dello scenario di crescita e di espansione in un futuro incerto, ma alla reinvenzione del presente. Tornano utili dunque i temi di un filone di riflessione dell’urbanistica moderna che aveva concettualizzato la città nei termini di un’inversione tra pieni e vuoti. Tali temi sono tuttavia da rivisitare, poiché nei territori contemporanei non sempre ai vuoti corrispondono degli spazi aperti e i pieni (anche nel senso di saturi di usi e di funzioni) non sono riconducibili, in alcuni contesti, ai volumi.
Retrofitting territories: smontare il nesso abbandono/riuso Il termine retrofit è stato ripreso dal tema di un libro importante per le disciplina urbanistica (Dunham-Jones & Williamson, 2009) e che s’intitola appunto Retrofitting suburbia. Le principali strategie di retrofit che si intrecciano a tali questioni non sono una novità, a partire dalla considerazione degli appunti di Lynch sul tema pubblicati in un testo poco conosciuto (Lynch, 1990), fino ai casi di riuso creativo delle “grandi scatole”, descritti in Christensen (2008). Tali strategie dunque sono state messe in atto in maniera informale in numerose situazioni ma appare interessante riprenderle proprio consentono di trattare i drosscapes (Berger, 2006) in maniera innovativa, per focalizzare possibilità diverse di percepire il significato degli insediamenti produttivi investiti da fenomeni di sottoutilizzo senza lavorare automaticamente sul nesso sequenziale dismissione /riuso, Simonetta Armondi
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Gli insediamenti produttivi nelle società post-crescita. Politiche e progetti
ma mettendolo in tensione, sia in relazione ad un’interpretazione originale di due termini in apparenza contrapposti – scarto e spazio pubblico – percepiti non come entità risolte in modo definitivo ma come situazioni che possono essere esperite secondo usi/modalità multiple, parziali, o addirittura paradossali e in stretta relazione con le trasformazioni e le domande delle società contemporanee.
Bibliografia Armondi S. (2011), Disabitare. Storie di spazi separati, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna. Berger A. (2006), Drosscape. Wasting land in urban America, Princeton Architectural Press, New York. Bertolini L. (2011), “Setting the scene”, Planning Theory and Practices, n. 3. Christensen J. (2008), Big box reuse, MIT Press. Congress for the New Urbanism (2005), Malls into main street. An in-depth guide to transform dead malls into communities. Dunham-Jones E., & Williamson J. (2009), Retrofitting suburbia, (2011, up. ed.) Wiley and Sons, Hoboken New Jersey. Glock B., Häussermann H., (2004), “New trends in urban development and public policy in Eastern Germany; dealing with the vacant housing problem at the local level”, International Journal of Urban and Regional Research, Vol. 29, 4. Green Leigh N., & Hoelzel Z. N. (2012), “Smart growth’s blind side”, Journal of American Planning Association, n. 1. Florentin D., & Fol S., Roth H. (2009), “La "Stadtschrumpfung" ou "rétrécissement urbain" en Allemagne: un champ de recherche émergent”, European Journal of Geography, marzo. Oswalt P. (a cura di, 2006), Shrinking Cities, Vol. 1. International Research, Ostfildern-Ruit, Germany, Hatje Cantz Verlag. Lanzani A., & Pasqui G. (2011), L’Italia al futuro, Franco Angeli, Milano. Lanzani A., & Zanfi F. (2010), “Piano casa. E se la domanda fosse quella di ridurre gli spazi?”, Dialoghi Internazionali, 13. Lynch K. (1990), Wasting away, ed. Southworth M., Sierra Club Books, San Francisco. Herfert G. (2007), “Campagnes et villes face au déclin démographique de l’Allemagne orientale. De noveau enjeux pour l’aménagement du territoire”, Revue d’études comparatives Est-Ouest, 3. Pallagst K., et. al. (2009), The future of shrinking cities: problems, patterns and strategies of urban transformation in a global context, IURD, University of California Berkeley. Smiley D. J., ed. (2003), Sprawl and public space. Redressing the mall, National Endowment for the Arts.
Simonetta Armondi
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Aree Dismesse Ferroviarie, un’opportunità urbana
Aree Dismesse Ferroviarie, un’opportunità urbana Greta Brugnoli Dipartimento IUAV di Ricerca IUAV Facoltà Architettura Venezia, Email: gretabru@hotmail.it
Abstract Le aree dismesse sono una opportunità economica per gli investitori privati ed una opportunità urbanistica e sociale per la pubblica amministrazione locale. Il punto di comune interesse è rappresentato dal mantenimento della qualità che l’investimento è in grado di espandere all’esterno dell’area di valorizzazione. Questo processo è a parere dell’autore il miglior elemento di difesa che nel tempo possa salvaguardare il valore investito da parte dei privati. La positiva influenza all’esterno dell’area valorizzata è il miglior risultato che socialmente ed urbanisticamente l’amministrazione pubblica può attendersi dall’intervento. Si afferma che il successo nel tempo dell’intervento dipende in maniera determinante dal suo adattamento proattivo al tessuto urbano esistente. L’articolo propone uno schema di valutazione integrato in grado di analizzare gli effetti economici e finanziari all’interno e all’intorno dell’area, valutando così la sostenibilità nel tempo dell’intervento.
Introduzione Il lavoro presenta i risultati dei primi due anni di attività di ricerca, svolti nell’ambito del Dottorato QUOD (Quality Of Urban Design) dello IUAV di Venezia. L’attività ha preso avvio con l’analisi della situazione italiana sulle Aree Ferroviarie Dismesse sottoposte a processo di valorizzazione da parte del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane. Questa attività si è sviluppata costruendo un quadro sinottico delle 136 aree ferroviarie censite sul territorio nazionale e oggetto di possibile valorizzazione. Per indirizzare l’analisi verso situazioni che presentavano un sufficiente livello di definizione del progetto di valorizzazione sono state prese in esame le aree comprese in alcune delle principali città italiane. Ognuna di loro presenta caratteristiche specifiche, in ordine alla definizione del contesto urbano sedimentatosi nel tempo intorno alle aree oggetto di analisi. Presentando molte di queste città più di un’area ferroviaria valorizzabile, per ogni città è stata presa a riferimento del progetto una sola di queste, scegliendo quella con il progetto di riqualificazione più maturo. La ricerca mette in evidenza come i progetti sottoposti ad esame siano stati sviluppati dando importanza prevalente all’aspetto compositivo e funzionalmente a quello delle attività trasportistiche da privilegiare. Sono stati invece normalmente lasciati in subordine gli aspetti urbanistici di relazione con il territorio circostante dell’area sottoposta a valorizzazione. Il pensiero dominante nei progetti esaminati è quello per cui la stazione viene proposta come polo-attrattore strategico per la città, considerando automatico che questo polo, muovendo flussi di persone e di interessi economici, sia in grado, per la sua sola presenza, di influenzare positivamente le aree contermini, innescando un circolo virtuoso tra l’interno e l’esterno dell’area valorizzata. Le osservazioni effettuate su progetti analoghi già realizzati evidenzia come tale automatismo non sia sempre rispettato ed anzi si osservano più frequentemente effetti rovesciati di degrado che dall’esterno si proiettano all’interno dell’area valorizzata, interessandone progressivamente zone sempre più ampie. Il tema del “mantenimento” delle condizioni di qualità del progetto, legato ai temi della “manutenzione efficiente” e della “gestibilità economica”, si affaccia raramente all’interno dei progetti di valorizzazione analizzati, probabilmente per le sue peculiari caratteristiche di prolungamento nel tempo, che non appartengono alla visione di un nuovo progetto. Questa considerazione è vera nonostante il grande contributo che una progettazione mirata è in grado di dare al prolungamento della qualità lungo l’intero corso della vita tecnica. Non va dimenticato il risvolto economico. Infatti la gran parte di questi progetti vengono realizzati attraverso la Greta Brugnoli
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finanza di progetto, questa trova il proprio riscontro economico nella gestione lucrosa delle attività che per anni si svolgeranno all’interno dell’area oggetto della riqualificazione urbanistica. Un degrado nel tempo della qualità, e quindi della appetibilità economica, dell’area valorizzata è in grado di incidere negativamente sulle aspettative economiche degli investitori, come anche sui piani delle pubbliche amministrazioni di riqualificazione di porzioni dell’area urbana.
Le argomentazioni Lo studio partendo dall’evidenza della non automaticità del meccanismo d`influenza positiva tra interno ed esterno del progetto, sottolinea il pericolo dell’isolamento e del conseguente depauperamento del valore economico e urbanistico dell’intervento. La ricerca mette in evidenza la necessità (anche economica e finanziaria) di un maggiore coordinamento tra intervento e piano di sviluppo urbanistico, anche per rispondere alle nuove necessità di una città “compatta”, dove una delle risposte vincenti al tema della mobilità sostenibile è quella della maggiore “prossimità” tra i luoghi (del risiedere, del commerciare, del lavorare, della cultura e dello sport). Per ridare significato ed efficacia alla trasformazione urbana è necessario reinserire il progetto all’interno di una visone urbanistica complessiva, attenta all’integrazione funzionale tra attività e mobilità. Gli indotti economici innescati dai progetti di valorizzazione nel tessuto urbano e all’opposto gli indotti qualitativi dal tessuto urbano verso le aree valorizzate devono essere presi in considerazione nella fase preliminare di progetto proprio per garantire, al di là delle finalità sociali, il mantenimento per il maggior tempo possibile del valore finanziario dell’investimento, contestualmente orientando la trasformazione urbana complessiva della città. L’ottica della ricerca dell’equilibrio tra interno ed esterno, tra nuovo ed esistente, tra costruito privato e riqualificato pubblico, oltre ad una esigenza economica contribuisce anche a dare risposte ai nuovi bisogni che emergono dagli abitanti dei centri urbani, dando corpo al loro desiderio di un ambito di vita radicalmente differente, in cui far evolvere il rapporto di ciascuno con la città. Lo slogan di questo lavoro è “Lavorare al bordo dei progetti e lavorare all’interno delle città, non il contrario”. Significa invertire il modello dell’espansione continua e dei vuoti che creano mobilità, vuol dire dare continuità territoriale alle funzioni urbane contro le specializzazioni d’area che creano vuoti (o affollamento) di servizi, prevede l’integrazione all’interno del tessuto urbano delle funzioni agricole e manifatturiere a misura di città (nel rispetto evolutivo della nostra storia economica). I vuoti, le discontinuità creano “mobilità parassita, poiché allontanano il fruitore dal soddisfacimento del proprio bisogno. Al contrario una “integrazione funzionale” delle attività diviene ricchezza sociale, “avvicinando le distanze” e ampliando il ventaglio dell’offerta di lavoro. Più la città si struttura urbanisticamente e socialmente in maniera da offrire una grande diversità di opzioni di lavoro, manuale ed intellettuale, più occasioni di inserimento sociale offrirà, diminuendo nel contempo la probabilità di senso di disagio e di marginalità sociale. La città integrata evita l’omologazione ad un solo modello di successo sociale ed invece sposta l’attenzione sulla qualità della vita nelle porzioni di quotidianità “non competitiva” (diminuisce l’importanza del dove abito e del come mi sposto), permettendo un’effettiva possibilità di vita sociale, attraverso una maggiore disponibilità all’investimento su se stessi (tempo libero, cultura e formazione). Un’organizzazione urbanistica “poco resistente” determina una città “poco costosa”, dove le risorse (tempo e denaro) impiegabili per il soddisfacimento dei bisogni aumentano e la “competitività” sulle risorse scarse (quartieri centrali, sistemi di mobilità confortevoli – auto private) diminuisce. Il 12% del PIL nazionale è utilizzato per la mobilità e fatto 100 questo solo il 6,5% è spesa pubblica (A. Cappelli,C. Pozzi, 2011). Circa il 67% della popolazione italiana vive in medie e grandi città 1. Questi pochi numeri indicano come un disegno nuovo delle funzioni delle città ha come beneficio potenziale una cospicua massa di risorse liberata e messa a disposizione per finalità differenti dalla mobilità. Lavorare e pianificare i vuoti, prima di progettare, rappresenta la grande opportunità di innesco dell’evoluzione urbana. La scelta primaria di lavorare all’interno e non all’esterno, sulle aree vuote, con un progetto di città urbana e sociale, inserendo funzionalmente nei progetti il coinvolgimento delle aree limitrofe ai progetti, è l’innesco di questo cambiamento. Questa filosofia risponde alla necessità di limitare il consumo di suolo “vergine”, considerato come risorsa per il futuro. Questo modo di agire va nella direzione di contrastare la sottoutilizzazione delle abitazioni esistenti, anche di quelle nuove (ad esempio oggi a Roma esistono circa 120.000 alloggi inutilizzati, sufficienti a coprire il fabbisogno di circa il 10% della popolazione attuale, ed in altre città la situazione non è migliore). L’allargamento a macchia di leopardo dell’area urbana genera piccole localizzazioni urbane senza tessuto sociale, con destinazione unicamente residenziale o unicamente commerciale, con tipologia costruttiva “low density”: tutti fattori che complessivamente comportano, o meglio hanno comportato un enorme aumento della mobilità ed un impoverimento della vita sociale di relazione. Tra il 1981 ed il 2001 circa 1.000.000 di romani hanno deciso di spostare la loro residenza al di fuori del Grande Raccordo Anulare (ben venti chilometri di 1
Censimento ISTAT 2001 (stima)
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diametro!), pur mantenendo inalterato il luogo di lavoro o di studio. Questo ha fatto aumentare vertiginosamente una richiesta di infrastrutture e servizi per la mobilità, assolutamente evitabile con una differente gestione del territorio. Tutto questo inoltre comporta un invecchiamento delle polarità urbane preesistenti ed un forte cambiamento del loro profilo di reddito e di servizi sociali richiesti. In questa maniera l’amministrazione pubblica si trova non solo ad inseguire geograficamente i nuovi insediamenti, ma anche ad adattare i servizi offerti all’evoluzione delle aree già urbanizzate. Questo fenomeno, lungi dall’essere ineludibile è anch’esso se non governabile certamente orientabile. L’evoluzione sociale ed economica non solo italiana indica con chiarezza due linee di tendenza: la progressiva urbanizzazione della popolazione all’interno di grandi centri urbani e la necessità per le nazioni medio grandi di mantenere una parte non secondaria della propria economia legata all’industria manifatturiera (in negativo l’esempio inglese ne è la prova principale) e ad una agricoltura evoluta e di qualità. D’altro canto le dimensioni crescenti delle città nel mondo mettono alla prova le strutture sociali, amministrative e politiche nazionali. Si passa quindi, a parità di popolazione, da città con una grande capacità di autocontrollo ambientale ed economico, Tokyo, New York o Londra, giù giù fino agli esempi di perdita di controllo economico e amministrativo come Città del Messico o Mumbai. Le città rappresentano oggi la principale area di produzione del PIL e della ricchezza sociale di una nazione. La loro vita sociale ed economica cresce di pari passo e non può essere disgiunta: la qualità di una nazione è la qualità delle proprie città. La storia dell’Italia rinascimentale ne è una prova. Gli esempi sopra riportati vogliono mostrare come in questa fase storica l’insieme “città” abbia una naturale tendenza alla crescita dimensionale, quella stessa dimensione che mal gestita ne soffoca la qualità della vita e la capacità economica. Una città deve rappresentare un’opportunità per il maggior numero possibile di persone che vive al suo interno. Ed opportunità significa possibilità di lavoro e possibilità di vita sociale, culturale e di qualità dell’ambiente fruibile. L’esclusione per censo da queste opportunità di una parte consistente degli abitanti di una città rappresenta il prodromo di una involuzione soprattutto economica, poiché progressivamente si perde la capacità di pensare l’innovazione tecnologica sociale e amministrativa. L’ampliamento della platea di coloro che possono accedere a queste possibilità si ottiene attraverso una omogeneizzazione qualitativa delle zone della città ed una diminuzione delle distanze relative. Questo permette di evitare che i servizi siano concentrati solo in poche aree o nel centro, ma al contrario tende ad offrire il maggior numero di servizi “sotto casa”, al tempo stesso facilitando l’accesso a quelli più lontani. Permette quindi di pianificare una limitazione degli spostamenti “meccanizzati”, aumentando contestualmente la qualità e la velocità degli spostamenti “condivisi”: autobus, taxi e car sharing. Un sistema della mobilità che salvaguardi la libertà di scelta individuale per la mobilità, contemporaneamente riconoscendo lo spazio pubblico urbano come “risorsa scarsa”, attraverso un privilegio offerto a quei sistemi che ne limitano il consumo. Lo scopo dello studio è quello di avviare una riflessione sui processi urbani di trasformazione delle grandi aree dismesse, ed in particolare di quelle ferroviarie, progettando un sistema di valutazione che attraverso l’obiettivo di mantenimento del valore economico della valorizzazione nel medio lungo periodo, individui quei parametri che sono in grado di identificare l’efficacia con cui un progetto di valorizzazione si inserisce nell’esistente: • senza creare fenomeni di bordo negativi (la congestione); • che trasferisca all’esterno il proprio valore (somma urbanistica coerente dell’esterno e dell’interno); • che non introiti al proprio interno le negatività ed il degrado esterno (perdita di funzioni e di qualità degli spazi pubblici); • che rappresenti il completamento dei vuoti presenti al suo intorno (servizi alle persone e alle imprese); • che rappresenti un’occasione di sviluppo economico delle persone (posti di lavoro); • che rappresenti un’occasione di sviluppo sociale delle persone (cultura e tempo libero); • che contenga al proprio interno una capacità di equilibrio finanziario (capacità di generare valore per compensare il proprio investimento); • che divenga un contributo al miglioramento della qualità ambientale di un settore della città (emissioni per mobilità e condizionamento termico, gestione dei rifiuti, produzione energia diffusa, efficienza energetica); • che contribuisca alla maggiore efficienza dei servizi pubblici (progettazione e pianificazione urbanistica finalizzate) e alla diminuzione del numero degli spostamenti; • che migliori la qualità estetica e aumenti l’utilità e la sicurezza dei luoghi.
Un sistema di valutazione integrata di sistema Lo scopo del sistema di variabili messo a punto per la valutazione è quello di misurare la capacità di mantenimento nel tempo del valore economico della valorizzazione. Si ritiene che questo obiettivo non possa non essere senza la presenza degli obiettivi sociali e ambientali sopra ricordati, gli unici in grado di assicurare alla redditività economica la propria esistenza nel tempo. Per questo è fondamentale che si crei una interazione positiva tra l’interno e l’esterno dell’area di progetto. A partire da queste considerazioni e dalle evidenze elaborate durante questa prima parte della ricerca è stato messo a punto un sistema di valutazione dei progetti Greta Brugnoli
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presi ad esame. Tale valutazione viene definita integrata in quanto stima insieme effetti urbanistici, economici e finanziari del progetto mentre viene definita di sistema in quanto oltre al progetto stand alone, considera anche il suo rapporto con il contesto urbano all’intorno e con l’intera città. I macro ambiti presi in esame sono quello urbanistico, quello economico e quello ambientale, nella prospettiva ciascuno del mantenimento nel tempo del valore del progetto attraverso il mantenimento della sua qualità funzionale. 1. Ambientale dove tale accezione è vista in termini sociali, funzionali oltreché squisitamente ambientali. Per questo è stata elaborata una variabile di sintesi che punti all’equilibrio del sistema in diverse prospettive: a. capacità di essere un intervento “equilibrato”, dove nell’ipotesi di suo totale isolamento dal contesto manterrebbe in ogni caso una sua caratterizzazione di vivibilità e socialità di ottima qualità, attraverso la stima degli equilibri: i. tra le funzioni umane (residenziale, produttiva, commerciale, del verde e dei servizi) ii. ambientali (mobilità sostenibile, smart grid energetica, infrastruttura informatica) iii. della mobilità (privata vs pubblica, collettiva vs singola, meccanizzata vs piedi e biciclette) 2. Urbanistico per questo aspetto sono stati sviluppati tre aree di stima differenti relativamente alla: a. capacità di integrazione con la città, ovvero creare una continuità funzionale con il resto dell’area urbana, contribuendo anzi a migliorare gli assetti geografici ed economici; questo lo si stima attraverso: i. la qualità e la quantità del trasporto pubblico a servizio diretto dell’intervento ii. l’equilibrio tra le funzioni inserite nel progetto e quelle previste dagli strumenti di pianificazione urbanistica iii. la dimensione della nuova polarità in rapporto alla medesima misura del centro storico iv. la percentuale di popolazione direttamente coinvolta dall’intervento rispetto al totale della popolazione cittadina b. capacità di integrazione con il contesto locale, dove si intende il rapporto qualitativo stretto tra l’intervento ed il quartiere in cui si colloca, misurato attraverso: i. le dimensioni delle aree pedonali interne ed esterne all’intervento progettate grazie allo stesso ii. la qualità dei percorsi pedonali possibili tra l’area di intervento e le destinazioni “rilevanti” al suo interno iii. la riqualificazione urbana ed il suo arredo previsti all’intorno dell’area di progetto rispetto a quelle esistenti precedentemente. c. capacità di essere una polarità urbana, con questo misurando la dimensione più che la qualità, delle aree sede di attività attrattive nell’ambito dell’area di valorizzazione i. aree commerciali ii. aree per servizi iii. aree direzionale iv. visitatori in transito 3. Economico per questo aspetto sono previste due aree di valutazione, quella classica relativamente a: a. equilibrio finanziario dell’intervento, considerato nell’ipotesi di tutti i “vincoli” urbanistici ed ambientali sopra richiamati i. VAN (valore attuale netto) ii. tasso di rendimento del progetto iii. ROI (Return of Investment) considerando qui gli eventuali contributi pubblici iv. ROE (Return of Equity) b. equilibrio economico, che prende a riferimento il valore immobiliare prodotto dall’intervento sul patrimonio esistente all’intorno, confrontandolo con il valore delle opere di arredo e riqualificazione realizzate. i. Incremento % del valore immobiliare ii. Maggior valore complessivo prodotto iii. Maggior equilibrio del mix delle funzioni insediate nell’area (comparato con le previsioni degli strumenti di pianificazione).
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Considerazioni finali L’evidenza maggiore che balza agli occhi dall’analisi dei vari progetti di valorizzazione analizzati in Italia è il lunghissimo processo di acquisizione del consenso a cui sono stati sottoposti, spesso per più di una legislatura, comportando un’azione di mediazione non razionale. Questo iter è il risultato di tentativi di mediazione tra gli obiettivi completamente differenti dei soggetti privati, dell’amministrazione pubblica e della collettività locale direttamente coinvolta. Mediazione ricercata in presenza di una asimmetria dell’informazione, ma soprattutto nella scarsa chiarezza degli obiettivi da perseguire da parte di alcuni degli interlocutori, che porta a fasi di approvazione, con compensazioni extra progetto, senza un sostanziale coinvolgimento degli interessi di tutti nella definizione del progetto e dei suoi obiettivi. Alla usuale chiarezza di obiettivi e completezza delle informazioni su cui basano l’iniziativa finanziaria, i soggetti privati affiancano tipologie di investimento poco volte alla gestione economica nel tempo dell’intervento, ma piuttosto indirizzate alla rapida monetizzazione di quanto realizzato. Questo in contrasto con gli scopi e le tempistiche operative proprie delle amministrazioni pubbliche, che si trovano invece a perseguire obiettivi di gestione del territorio e delle aree urbane in archi temporali prolungati. Al vizio dei progetti “mordi e fuggi” dei privati si contrappone il difetto congenito di molte amministrazioni pubbliche senza fondi da impegnare nei progetti di riqualificazione urbana; una disponibilità economica che, anche indirettamente, sarebbe in grado di equilibrare urbanisticamente gli obiettivi degli interventi dei privati. Ciò che sembra sfuggire ad entrambe le visioni, pubblica e privata, è che se il processo di definizione del progetto, invece di fondarsi su di una contrattazione basata sulle compensazioni, trovasse il suo obiettivo primario nella ricerca di un equilibrio economico, finanziario, urbanistico e sociale costante nel medio e lungo termine, entrambe le parti, privata e pubblica, potrebbero fruire di un maggior beneficio, rispetto agli obiettivi perseguiti, economico/finanziario piuttosto che urbanistico sociale. Il punto di equilibrio di questi interessi apparentemente contrastanti è raggiunto attraverso una focalizzazione della progettazione che a partire dal bordo dell’intervento, trasferisce in profondità verso l’esterno e verso l’interno dell’area di valorizzazione gli effetti di qualità urbanistica e sociale, da questi derivandone un maggior beneficio economico e finanziario, misurato nel tempo e attualizzato. Per questo il punto di vista dei privati sul progetto deve prevedere una gestione nel tempo che sia inserita sin dall’ideazione iniziale del progetto con lo scopo di inserire il mantenimento nel tempo degli standard qualitativi iniziali. Ma questo non può esser fatto se non in combinata con una amministrazione che abbia una visione chiara dell’evoluzione nel lungo periodo delle caratteristiche della città e per la quale “i vuoti” rappresentino un’opportunità unica ed integrante del processo evolutivo. È la città compatta, pensata in maniera da generare e beneficiare al tempo stesso di una mobilità essenziale, la tipologia di città in grado di poter assumere nel proprio sviluppo in maniera razionale il contributo della progettazione dei vuoti. Compito dell’amministrazione è quello di non limitare l’intervento all’indirizzo dei progetti di valorizzazione, che per loro stessa caratteristica non possono che essere l’innesco indispensabile della riqualificazione, non rappresentando però la condizione sufficiente al cambiamento urbano. Infine, anche se non è argomento di questa ricerca, tutto ciò ci riporta alla necessità di una nuova struttura di governo del territorio a livello d’area (Municipio, ambito di quartiere o altra porzione sub comunale), che veda più da vicino il coinvolgimento degli attori economici sociali e della collettività. Dove il tema della smart grid si declini in indirizzi generali di area metropolitana, ma in realizzazioni condivise a livello di comunità ristretta, dove oneri e vantaggi di ogni iniziativa incidano in maniera diretta la collettività locale. In questa ottica il limite nelle possibili utilizzazioni delle aree dismesse è solo posto dalla nostra fantasia: mobilità, produzione energetica, artigianato, commerciale, residenziale, gestione del riciclo dei rifiuti, cultura, istruzione, ricerca, e così via ideando.
Bibliografia Libri Aa. Vv. (1998), Il recupero di aree industriali dismesse in ambiente urbano, Franco Angeli, Milano. Camagni R. (1999), Il finanziamento della città pubblica: la cattura dei plusvalori fondiari e il modello perequativo, Maggioli, Ravenna. Camagni R. (2003), Piano strategico, capitale relazionale e community governante, Franco Angeli, Milano. Gambino R. (1986), Il riuso delle politiche urbane, Celid, Torino Tosi A. (1988), Il recupero delle aree industriali dismesse in ambiente urbano, Franco Angeli, Milano. Articoli Camagni R., Gibelli M.C. (2006), “Posizionamento competitivo e crescita della città pubblica:insegnamenti da Monaco di Baviera”, Sviluppo e Organizzazione, 215. Greta Brugnoli
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Cappelli A., Pozzi C. (2011), “Scenari e opzioni per una mobilità sostenibile”, Un rapporto per Roma Capitale. Gregotti V. (1990), “Aree dismesse, un primo bilancio”, Casabella, 564.
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Le addizioni al costruito come strategia sostenibile per lo sviluppo urbano. Elaborazione di uno strumento operativo
Le addizioni al costruito come strategia sostenibile per lo sviluppo urbano. Elaborazione di uno strumento operativo per l’indirizzo delle scelte progettuali e tecnologiche Elisa Curti Università degli Studi di Pavia DICAR - Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura Email: elisacurti@libero.it
Abstract La ricerca 1 affronta il tema dell’innovazione tecnologica nella riqualificazione edilizia. Obiettivo è la definizione di linee guida atte ad individuare una metodologia per l’intervento sul costruito, declinato in forma di addizione volumetrico-spaziale, attraverso l’uso di tecnologie costruttive a secco. Lo studio mette a disposizione uno strumento di ausilio alla progettazione allo scopo di far emergere le potenzialità trasformative del manufatto edilizio ed indirizzare le decisioni progettuali verso le ipotesi additive appropriate.
Introduzione “Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno.” (Calvino, 1993). Le nostre città sono il risultato di una stratificazione architettonica di stili e modi di costruire differenti che si sono succeduti nel tempo. I processi di risistemazione e superfetazione ed i continui riadattamenti svelano una concezione del manufatto edilizio inteso come organismo flessibile ed aperto al cambiamento: le addizioni volumetrico-spaziali (Figura 1), come anche le operazioni inverse di sottrazione, consentono un aggiornamento funzionale-spaziale dell’esistente, in seguito a nuove o mutate esigenze.
Figura 1. Individuazione delle principali azioni addizionali di tipo volumetrico-spaziale (da sinistra): P.1_aggiunta laterale; P.2_aggiunta locale continua a sviluppo verticale; P.3_aggiunta locale continua a sviluppo orizzontale; P.4_aggiunta locale discontinua; P.5_sopraelevazione; P.6_sospensione; P.7_espansione al piede; P.8_interconnessione. La scelta di intervenire attraverso riconfigurazioni tridimensionali può essere letta ed investigata come strategia sostenibile per sviluppare una dinamica e corretta gestione del patrimonio edilizio esistente, come possibile modello di crescita urbana in risposta alla domanda di densificazione, con l’obiettivo di sfruttare le risorse 1
Le tematiche di seguito esposte sono estrapolate dalla ricerca dal titolo “Intervenire sul costruito. La tecnologia costruttiva a secco attraverso l’uso di sistemi incrementali” sviluppata all’interno del Corso di Dottorato in Ingegneria EdileArchitettura UE (XXIV Ciclo), Università degli Studi di Pavia, tutor Prof. Alessandro Greco.
Elisa Curti
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Le addizioni al costruito come strategia sostenibile per lo sviluppo urbano. Elaborazione di uno strumento operativo
presenti negli immobili e preservare il territorio da un consumo incontrollato e, in alcuni casi, non adeguatamente pianificato. La trasformazione nel tempo delle esigenze è il risultato sia di fabbisogni diversificati che di cambiamenti (a livello sociale, economico, ecc.). In particolare, nel settore residenziale: • la modifica della struttura base dei nuclei d’utenza; • il mutamento delle modalità di vivere l’ambiente abitativo (es. telelavoro); • il miglioramento della qualità media della vita; • il verificarsi di nuove ed impreviste situazioni (es. fenomeni migratori); possono tradursi in riconfigurazioni volumetrico-spaziali volte al miglioramento dello standard abitativo con incremento della superficie abitabile della singola unità abitativa, aumento del numero degli alloggi e/o aggiornamento dell’accessibilità verticale/orizzontale. Negli altri settori invece, nuove esigenze si possono manifestare in relazione a: • cambiamenti nell’organizzazione e gestione dell’attività (es. introduzione di nuovi processi produttivi e/o macchinari); • crescita dell’attività; • riuso e rifunzionalizzazione dell’esistente (es. recupero di aree dismesse); • situazioni impreviste, di emergenza o temporanee; e sono traducibili in aggiunte volumetrico-spaziali in genere di dimensioni rilevanti rispetto a quanto avviene per il settore residenziale, combinate ad azioni volte alla riqualificazione energetica e figurativa del manufatto edilizio. Negli ultimi anni però, non solo la necessità di aggiornamento prestazionale, spaziale o figurativo spinge a ripensare il patrimonio edilizio esistente, ma si assiste al proliferare di architetture definite parassite, distinte dall’edificio ospite ed allo stesso tempo legate ad esso da uno stato di necessità, che diventano interpreti di nuove istanze sociali, comunicative, abitative, critica alla mancanza di spazi e servizi, trasformazione delle aree marginali, dismesse e/o di risulta. In genere si tratta di organismi che operano una sovrascrittura dell’esistente alla piccola scala, a volte solo per limitati periodi temporali, ma che si fanno portavoce del potenziale trasformativo insito nella città. Sia in caso di organismi definiti parassiti oppure vere e proprie addizioni (Figura 2), si tratta di architetture ex novo che, inserendosi in corpi già definiti, li rivitalizzano, modificando in parte o completamente gli edifici esistenti e le loro relazioni con l’ambiente circostante. Si introducono modifiche all’assetto originario dell’organismo edilizio (dal punto di vista strutturale, distributivo, ecc.) che devono essere opportunamente valutate in sede progettuale: la scelta di implementare sistemi costruttivi a secco 2 rappresenta un’alternativa sostenibile alle tecnologie tradizionali (c.a., laterocemento, muratura). Le caratteristiche insite in questi sistemi costruttivi (velocità di attuazione, leggerezza dei dispositivi aggiunti con possibilità futura di sostituzione e riciclo, sicurezza dell’intervento, potenziale reversibilità e basso impatto ambientale) diventano punti di forza nell’intervento sul costruito.
Figura 2. Alcuni esempi di addizioni al costruito (da sinistra): Palazzo storico (Vienna, 2004); Lofts Falkenried (Amburgo, 2003); Parasites Las Palmas (Rotterdam, 2001); Kunsthulle LPL (Liverpool, 2006).
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Sistema costruttivo caratterizzato dall’unione fra gli elementi costitutivi del manufatto edilizio mediante giunzioni di tipo prevalentemente meccanico, senza l’impiego di materiali di connessione destinati a consolidarsi dopo la posa; si declina oggi nelle modalità operative dell’assemblaggio a secco e della stratificazione a secco. Nel secondo caso, alla caratteristica giunzione a secco, si aggiunge la prassi della stratificazione, derivante dall’impiego di materiali bidimensionali di matrice industriale, a prestazione calibrata, posati per strati successivi.
Elisa Curti
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Le addizioni al costruito come strategia sostenibile per lo sviluppo urbano. Elaborazione di uno strumento operativo
Proposta di uno strumento operativo La formulazione delle basi teoriche e tecniche affrontata nella fase iniziale della ricerca ha sotteso lo sviluppo di linee guida, concretizzatesi nell’elaborazione di uno strumento di ausilio alla progettazione per l’intervento sul costruito secondo sistemi costruttivi alternativi ai tradizionali. Partendo dalla conoscenza accurata del fabbricato attraverso l’analisi delle caratteristiche materiche, geometriche e formali, delle relazioni instaurate con il contesto e dei vincoli, lo strumento proposto, denominato Scheda di analisi e verifica delle ipotesi d’intervento, consente di valutare tutti i fattori significativi coinvolti nel progetto di addizione ed ottenere una scrematura delle ipotesi d’intervento definite (Figura 3).
Figura 3. Da sinistra: schema di base per l’elaborazione del modello di analisi e verifica proposto; schermata iniziale della Scheda di analisi e verifica delle ipotesi d’intervento. La scheda si presenta strutturata in due macro colonne, corrispondenti alla Fase di analisi (Fase A, Figura 3) ed alla Fase di progetto (Fase P, Figura 3). La prima macro colonna attiene alla conoscenza del fabbricato attraverso l’acquisizione di dati secondo la check list proposta ed individua i parametri ritenuti più significativi in base a cui verificare la fattibilità delle diverse soluzioni additive (P.1_aggiunta laterale; P.2_aggiunta locale continua a sviluppo verticale; P.3_aggiunta locale continua a sviluppo orizzontale; P.4_aggiunta locale discontinua; P.5_sopraelevazione; P.6_sospensione; P.7_espansione al piede; P.8_interconnessione): questo consente di giungere alla comprensione del manufatto architettonico e far emergere le potenzialità e/o le criticità per impostare correttamente l’intervento di tipo additivo incrementale. I fattori considerati nella Fase A sono suddivisi in quattro macro categorie: • A.1_ Analisi delle relazioni del fabbricato con il contesto: le caratteristiche del contesto urbano e l’analisi delle relazioni spaziali e morfologiche possono influire sia sulle scelte architettoniche che tecnologiche e sull’organizzazione logistica del cantiere (accessibilità al lotto, presenza di impedimenti o vincoli nelle vicinanze dell’edificio, condizioni di rischio nell’area, visuali privilegiate, ecc.); • A.2_ Analisi dello stato di fatto del fabbricato: la conoscenza delle caratteristiche dell’edificio avviene attraverso la lettura sistemica del manufatto, individuando le unità tecnologiche coinvolte nel progetto di addizione e richiamando le informazioni da acquisire (caratteristiche costruttive, posizione e dimensione degli elementi tecnici, possibili interazioni, ecc.); • A.3_ Analisi delle condizioni d’uso del fabbricato: l’eventuale presenza di utenti durante le fasi di cantiere diventa un fattore importante da valutare sia in termini di sicurezza che di interferenza fra le diverse utenze. La conoscenza delle condizioni d’uso del fabbricato può incidere sulle scelte operative di organizzazione del cantiere e sulla programmazione delle diverse fasi esecutive; • A.4_ Analisi dei vincoli urbanistici, edilizi e normativi: in base agli strumenti urbanistici ed edilizi vigenti nell’ambito territoriale di riferimento, le verifiche possono essere ricondotte agli indici di superficie o di volume. Altri fattori condizionanti risultano essere l’altezza massima consentita, le distanze dai confini, da altri fabbricati oppure dalla strada. Gli aspetti normativi (relativi a statica, antincendio, sismica e superamento delle barriere architettoniche) saranno invece da prendere in considerazione in base alla destinazione d’uso. Procedendo alla compilazione dei parametri evidenziati all’interno della check list di analisi, in relazione alla specifica situazione di progetto, il programma assegna in automatico un punteggio (0,+1,+2) ad ognuna delle ipotesi d’intervento individuate nella Fase P della scheda. La restituzione finale unitaria dei punteggi parziali Elisa Curti
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Le addizioni al costruito come strategia sostenibile per lo sviluppo urbano. Elaborazione di uno strumento operativo
concorre a determinare la potenziale realizzabilità della singola strategia e/o verificare le condizioni che hanno portato ad un eventuale esito negativo. La parte descrittiva delle linee guida che affianca la check list contenuta nella scheda richiama l’attenzione sull’impiego di tecnologie costruttive alternative ai sistemi tradizionali, in particolare nell’accezione della stratificazione a secco, e sviluppa indicazioni circa l’organizzazione e la gestione del cantiere, la prassi operativa, le soluzioni tecnologiche adottabili, la possibile interazione con l’utenza presente.
Conclusioni L’applicazione dello strumento ad alcuni casi di studio ha permesso di valutarne l’affidabilità ed evidenziarne gli aspetti critici. I parametri individuati nella check list si riferiscono ad analisi condotte alla scala edilizia ed hanno carattere generale per consentire l’applicazione a fabbricati con caratteristiche diverse, senza però entrare nel merito di valutazioni di tipo economico. Lo strumento può ritenersi utile durante le prime fasi della progettazione, nello studio di fattibilità e nel progetto preliminare, come supporto pratico al professionista e/o agli Enti pubblici allo scopo di fornire indicazioni di massima riguardo le potenzialità trasformative del manufatto edilizio. Può essere utilizzato nella programmazione degli sviluppi futuri del territorio, ad esempio in merito ad aree dismesse o da riqualificare per capire le potenzialità insite nel costruito, pianificare interventi urbani che minimizzino il consumo di suolo, valutare la convenienza di una possibile azione di recupero secondo sistemi incrementali e definire la strategia di attuazione che sappia garantire il miglior rapporto economico costo-benefici e risulti essere sostenibile dal punto di vista ambientale.
Bibliografia Libri AA. VV. (1995), Manuale di progettazione edilizia – Fondamenti, strumenti, norme. Volume IV – Tecnologie: requisiti, soluzioni, esecuzione, prestazioni, Hoepli, Milano. Calvino I. (1993), Le città invisibili, Mondadori, Cles (TN). Franco G. (2003), Riqualificare l’edilizia contemporanea. Valutazione, progetto, intervento, sicurezza, FrancoAngeli, Milano. Grecchi M., Malighetti L. E. (2008), Ripensare il costruito. Il progetto di recupero e rifunzionalizzazione degli edifici, Maggioli, Rimini. Marini S. (2008), Architettura parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Quodlibet, Macerata. Turchini G., Grecchi M. (2006), Nuovi modelli per l’abitare. L’evoluzione dell’edilizia residenziale di fronte alle nuove esigenze, Il Sole 24 Ore, Milano. Di Battista V., Fontana C., Pinto M. R. (a cura di, 1995), Flessibilità e riuso, Alinea, Firenze. Imperadori M. (a cura di, 2001), Costruire sul costruito, Carocci, Roma. Zambelli E. (a cura di, 2004), Ristrutturazione e trasformazione del costruito. Tecnologie per la rifunzionalizzazione e la riorganizzazione architettonica degli spazi, Il Sole 24 Ore, Milano.
Articoli AA. VV. (2009), “Retrofit” in Costruire, n. 312, pp.70-73. Anversa M., Giglio F. (2007), “Nuovi modelli per l’abitare” in Costruire, n. 295, pp. 61-68. Gaspari J. (2011), “La “strategia dell’addizione” nei processi di riqualificazione energetica del costruito” in Il progetto sostenibile, n. 28, pp. 68-71. Siti web Paper di Califano L. “Le potenzialità dell’architettura in addizione nella costruzione della venustas”, disponibile su Eurau’10, sezione T3.b http://www.eurau10.it/images/stories/pdf/t3b/t3b-califano.pdf Raccolta di progetti presentati alla Biennale di Architettura di Venezia del 2006, disponibile su Convertible City, sezione Projects http://www.convertiblecity.de/projekte_en.html
Elisa Curti
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Le potenzialità del riuso per la città storica
Le potenzialità del riuso per la città storica Marika Fior Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: marikaricotta@alice.it Tel. 02.23995453 Cel. 347.3334312
Abstract La varietà del patrimonio industriale documentabile attraverso le sue tipologie funzionali racconta una storia urbana di cui raramente ne sono riconoscibili le tracce all’interno dei piani o progetti urbanistici. Allo stesso tempo le recenti tematiche ambientali, volte a contenere il fenomeno del consumo di suolo, impongono di implementare il riuso dei brownfields con l’obiettivo di contenere il processo di metropolizzazione territoriale. Il paper evidenzierà le criticità e le risorse che caratterizzano le trasformazioni delle aree industriali dismesse ed in particolare quelle un tempo destinate allo stoccaggio del gas. La scelta di concentrare la discussione sul tema della riconversione dei gasometri è dovuta al fatto che molti di questi siti hanno compiuto ormai cinquant’anni e potrebbero essere considerati dei resti di archeologia industriale da conservare (considerare) all’interno del processo di riconversione delle aree. Il tema del riuso delle aree industriali, perseguendo nuove politiche per il contenimento del consumo di suolo, si scontra quindi con la volontà di mantenere e conservare le strutture industriali che hanno segnato le vicissitudini delle città europee e che costiuiscono una parte della città storica nella città contemporanea.
Il problema delle aree industriali dismesse Con la dismissione industriale si intende un processo di disattivazione (parziale o totale) di siti e aree (impianti e fabbricati) destinati a usi produttivi il cui recupero presenta aspetti problematici (la bonifica in primis). La cessazione dell’uso produttivo dei siti ha cause di tipo tecnico: gli avvenuti cambiamenti e miglioramenti tecnologici, l’obsolescenza degli immobili, l’incompatibilità ambientale di molte industrie con l’ambiente urbano. Ed è dovuta al cambiamento tecnologico la dismissione dei numerosi gasometri sparsi per l’Europa. I gasometri venivano utilizzati per immagazzinare il “gas di città” prodotto prima per gassificazione del carbone e successivamente tramite processi chimici derivati dal raffinamento del petrolio. Il gas veniva utilizzato sia per usi domestici, sia per l’illuminazione pubblica delle città, ma con la diffusione del gas naturale (il metano) anche i gasometri hanno perso il loro ruolo economico/produttivo. Oggi molte di queste strutture appaiono come i lasciti di un periodo d’oro dell’industria del gas per cui in alcuni casi (Oberhausen, Vienna, Firenze ecc.) vengono interpretati come resti di archeologia industriale. La questione che qui si apre parte dal processo di riconversione e riuso dei siti un tempo destinati allo stoccaggio del gas in città ma in generale appartiene alla riqualificazione delle aree industriali dismesse. In molti casi le aree industriali dismesse permangono in condizioni di abbandono all’interno delle città: queste attrezzature sono localizzate nella prima cintura delle aree urbane costituendo ciò che comunemente viene definito un “vuoto”. Le ragioni di questo stato sono varie ma principalmente si riconducono a una scarsa domanda del mercato immobiliare per queste aree che, specialmente per quelle di proprietà privata, diminuisce ulteriormente a causa del costo delle operazioni necessarie per la bonifica. Ai costi della bonifica si aggiunge, inoltre, il grande peso della rendita fondiaria derivata dai diritti edificatori (prevalentemente produttivi) ricadenti sulle aree che ha posto dei freni al loro riutilizzo alzando notevolmente i valori delle aree stesse [Oliva, 2010].
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Le potenzialità del riuso per la città storica
Esiste anche un problema generale di pianificazione per il riuso delle aree industriali dismesse spesso gestite, almeno in Italia, attraverso strumenti di pianificazione negoziale che non hanno tenuto conto della lunga utilizzazione produttiva delle aree, ma soprattutto dei costi di infrastrutturazione e di realizzazione degli interventi per aumentare le dotazioni di servizi in quei comparti e che le città avrebbero dovuto sostenere. In questo processo di riqualificazione delle aree industriali i temi della conservazione, di tutto o di parte del complesso delle infrastrutture produttive, e l’approccio al riuso, mediante una variazione delle destinazioni d’uso, sono oggi più che mai indispensabili.
La potenzialità delle aree industriali dismesse La potenzialità delle aree industriali dismesse è spesso quella di offrirsi come un’occasione per la comunità di riappropriarsi di spazi urbani strategici dal punto di vista della collocazione nel tessuto consolidato della città vista anche la loro vicinanza a reti di trasporto pubblico su ferro un tempo usate per trasportare le materie prime in città. Il tema della dismissione industriale diviene quindi sinonimo di ripristino ambientale e riappropriazione sociale degli spazi; temi molto vicini alle questioni del consumo di suolo e al mantenimento della memoria collettiva legata al passato industriale. Il più grande progetto mai realizzato con questi obiettivi è sicuramente quello promosso con l’Internationale Baauausstellung Emscher Park nell’antico bacino della Ruhr dalla fine degli anni ’80 [Marchigiani, 2005]. La localizzazione delle aree dismesse nei poli urbani consolidati ne suggerisce le modalità fondamentali di utilizzazione capaci di innescare veri processi di rigenerazione ecologica. Luoghi strategici nei processi di riqualificazione urbanistica le aree dismesse diventerebbero i prototipi di un concreto riciclo dei materiali urbani alla doppia scala: • a quella territoriale come alternativa all’uso di nuovo suolo libero avviando un vero processo di ridefinizione dei margini urbani e di costruzione di corridoi verdi, • a quella locale come alternativa alle “inadeguate culture del restauro” [Erbani, 2011:64]. La necessità di perseguire un riuso delle aree dismesse alla scala territoriale deriva dalla constatazione che esse rappresentano un’opportunità per risolvere i molti squilibri derivati dalla metropolizzazione quali la frammentazione del sistema ambientale, la dispersione insediativa ma anche la perdita di legami identitari con il territorio. La pianificazione di questi ambiti quindi, non dovrebbe avvenire alla sola scala locale bensì in coordinamento con altre amministrazioni perché una sinergia tra molti attori comporterebbe una ricerca più proficua dei finanziamenti attivabili per la riqualificazione delle aree (dai costi della bonifica alla realizzazione di servizi d’eccellenza) permettendo quindi un concreto riuso delle aree dismesse in un’ottica metropolitana. Le buone pratiche di riqualificazione dei siti propongono di progettare tali comparti con un approccio sostenibile per l’intero ciclo di vita delle aree: • dall’aumento della permeabilità del suolo per la rigenerazione di aria e acqua (a questo servono le bonifiche); • al riciclo completo dei materiali edilizi (per questo servono approcci volti al riuso degli immobili esistenti per evitare di produrre materiale di scarto altamente inquinante); • dall’aumento dei spazi verdi e pubblici che permettano una reale fruibilità delle aree da parte della cittadinanza (abbattendo i vecchi recinti industriali); • all’inserimento di funzioni compatibili con gli immobili industriali esistenti avendo l’obiettivo di mantenere una memoria viva del passato produttivo (valorizzando i beni storici-documentali senza per questo confinarli a dei reperti da museo). In questa visione transcalare delle tracce materiali lasciate sul territorio dai processi di industrializzazione si inserisce la questione dei gasometri a cui attribuire una dimensione culturale capace di segnare profondamente l’organizzazione dell’ambiente urbano. Il loro mantenimento in un’ottica non tanto di restauro ma piuttosto di riuso è fondamentale poiché “la perdita della memoria industriale significherebbe la perdita della memoria stessa della città […] La protezione di qualsiasi spazio e manufatto di archeologia industriale, come testimonianze culturali da recuperare nella dinamica sociale odierna, è strettamente legata al riuso. È cioè possibile conservare e valorizzare testimonianze legate la processo di industrializzazione che hanno assunto valori di storia e di testimonianza solo se a questi spazi si da un futuro concreto, reinserendoli nel ciclo di vita della città” [Grecchi e Malighetti, 2008:356].
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Le potenzialità del riuso per la città storica
Il riuso come approccio alla conservazione Le eredità del mondo industriale non rappresentano sempre un insieme di opere meritevoli di tutela dal punto di vista architettonico ma in quanto simbolo dell’evoluzione tecnica e dello sviluppo infrastrutturale delle città dovrebbero quantomeno offrire degli spunti di riflessione a quanti si accingono a rivedere il ruolo delle aree che le hanno ospitate. È interessante notare come il rapportarsi con i resti di un processo evolutivo determini sempre un problema in termini di mantenimento dei materiali stessi quali fondamentali per la “ricostruzione” documentativa di un racconto del “passato appena raffreddato” [Gasparrini, 2002 e 2004] e necessari per la “costruzione” dell’identità contemporanea. Per questo la loro materiale sparizione è sentita come la perdita dei riferimenti concreti su cui radicare l’identità e il pensiero civile odierno. Il mantenimento dei “materiali del tempo industriale” rende sicuramente più evidenti le relazioni interne alla società sia in termini di memoria collettiva, di identità sociale e di condivisione di valori [Papagno, 1987:31-32]. È quindi ampiamente riconosciuto il ruolo di patrimonio anche a parti di città realizzate in epoche recenti. Inoltre, è fondamentale sottolineare la stretta relazione tra il perpetuare della storia e della cultura e il mantenimento dello spazio fisico poiché la distruzione di uno spazio significa perdita di conoscenza della nostra cultura. Infatti Papagno si sofferma sul rapporto “materiale-attività-funzione” mettendo in luce che un lascito per essere realmente parte attiva e costitutiva della memoria contemporanea deve essere anche utile e funzionale alla stessa, altrimenti si rischia di operare sempre verso una museificazione della storia e salvaguardando più lo storicismo che la storicità dei materiali. I gasometri sono una struttura industriale abbastanza presente nei tessuti urbani delle città europee ma raramente dall’elevato valore artistico al punto da essere spesso tralasciata durante la fase di recupero delle aree industriali dismesse. Se, dunque, tali strutture industriali non rappresentano sempre dei casi unici nel panorama internazionale, essi lo diventano per specifici contesti locali fino a poter diventare una delle componenti della città storica nella città contemporanea. L’azione conservatrice, soprattutto per i manufatti produttivi che hanno cessato la loro utilità per la civiltà contemporanea, non necessariamente si deve tradurre in azioni di “restauro” con lo scopo di mantenere l’edificio nella storia e per la storia. Meglio sarebbe che l’azione conservatrice fosse rivolta a un’azione di “riuso” con l’obiettivo di rivitalizzare, ossia riportare a nuova vita, l’edificio in relazione al suo contesto innescando così un processo di qualificazione del sito industriale esteso al luogo in cui esso si inserisce. Il progetto di riuso dei gasometri è quindi necessariamente centrato sul rapporto forma-funzione poiché la difficoltà di rivitalizzare “lo scheletro” degli impianti industriali per lo stoccaggio di gas in città non è poca. Un progetto di riuso può infatti considerarsi riuscito quando la nuova funzione immaginata per gli involucri è arrivata a un buon adattamento con la forma esistente (ad esempio il gasometro di Oberhausen è stato trasformato in piscina per le immersioni subacquee, coniugando perfettamente la forma di recipiente con l’utilità funzionale). La conformità delle nuove funzioni proposte per il riuso delle strutture rispetto alla domanda reale o potenziale fatta dalla società risulta quindi il nodo cruciale per il buon esito del processo di riconversione delle aree industriali. Gli esempi esistenti dimostrano come sia necessario individuare il mix funzionale più adatto che “oltre a intercettare interessi di operatori pubblici e privati, rendono fattibili operazioni miste” nell’ottica di riuso metropolitano dei siti, sia capace anche di rendere vitale l’area evitando di creare “un vuoto nel vuoto urbano”. I gasometri di Vienna sono un ottimo esempio di questa strategia di riuso che coinvolgendo differenti operatori, propone usi integrati con le dinamiche contemporanee della città e determina una reale rivitalizzazione del sito industriale. Il progetto di recupero si inserisce quindi in un atteggiamento progettuale che vede il riuso come un’azione capace di dare un nuovo valore a un materiale esistente ovvero non sostituendo quello originale ma aggiungendo a questo nuovo valore [Manieri Elia, 1998].
Il riuso dei gasometri a Vienna Il progetto di riuso dei gasometri viennesi ha già compiuto 10 anni ma ancora oggi lo si ricorda come uno degli interventi di riconversione industriale meglio riusciti in Europa. La sua notorietà deriva sicuramente dai nomi dei progettisti che hanno firmato l’intervento ma la durata della sua fama è dovuta alla complessità delle variabili considerate per l’operazione: il mix funzionale, la domanda sociale, il contesto di inserimento, la collaborazione tra i soggetti attuatori. Infatti, il riuso delle facciate esterne dei fabbricati interamente fatte di mattoni ha evitato la totale demolizione degli edifici e la produzione di rifiuti da demolizione, reintegrando un simbolo dell’architettura industriale nelle dinamiche della città contemporanea viennese. Il progetto per ognuno dei quattro gasometri è parte integrante di un unico ed organico masterplan di riqualificazione dell’area. La trasformazione dei quattro involucri che compongono il complesso monumentale degli ex gasometri ha dato vita a Gasometer City, un insieme di residenze, uffici, attività commerciali e per lo
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svago. Sito dell’antica fabbrica del gas con diversi edifici facenti parte dell’industria, a partire dalla riconversione dei gasometri, tutto il quartiere si sta trasformando in un nuovo centro urbano. Gasometer City non è stato uno dei progetti più eclatanti della città perché l’intero intervento si è basato su tre temi caratterizzanti l’architettura viennese e il paesaggio urbano in generale: la costruzione di nuove residenze per classi sociali deboli, la tutela monumentale e il dibattito sulla città storica all’interno della pianificazione urbana. A Vienna i monumenti non sono considerati edifici intoccabili ma piuttosto elementi vitali per una città dinamica. Essendo punti di riferimento per il paesaggio urbano, la conservazione dei gasometri è stata segnata dalla volontà di farli rimanere un chiaro esempio della vivacità della città nel saper interpretare i bisogni della sua popolazione. Per questo l’intervento è stato caratterizzato dai temi del riuso: riuso funzionale, dei materiali e del sito. L’intervento, infatti, si è occupato di rispondere alle nuove richieste della società: alloggi per differenti tipologie di popolazione (studenti, single, famiglie monoreddito), creazione di una nuova centralità urbana (visto anche il contemporaneo allungamento della linea metropolitana U3 e della costruzione a nord-est di una nuova autostrada) e interpretazione di un approccio sostenibile alla pianificazione urbanistica volta alla riduzione degli scarti edilizi e al consumo di nuovi suoli liberi. La particolarità del progetto sta nell’alta densità utilizzata, un elemento imprescindibile per la creazione di un nuovo centro urbano. A questo si è legato poi il dibattito sul centro storico, simbolo delle vicissitudini del popolo viennese che non avrebbe dovuto subire contraccolpi a causa dell’intervento. Così il progetto è riuscito a creare una tensione tra storicità e nuovi sviluppi urbani tale per cui i gasometri diventano elemento connettivo tra centro e periferia.
Milano e i gasometri di Bovisa Le Officine del gas della Bovisa nascono nel 1905 ad opera della società Union des Gaz. L’area di produzione, contenuta all’interno dell’anello ferroviario che serviva per trasportare il carbone, è stata per decenni caratterizzata dalla presenza degli impianti di distillazione. La distillazione del carbone, ormai meccanizzata, non necessitava di grandi masse di lavoratori per cui l’area della goccia non ha mai costituito un luogo di lavoro su cui si sono stratificate memorie collettive. Piuttosto essa rappresenta un landmark urbano per i grandi gasometri costruiti, elementi simbolici della periferia milanese che hanno segnato la vita di molti abitanti e colpito la fantasia di altrettanti artisti. A Bovisa la produzione di gas è cessata definitivamente nel 1969, purtroppo però la sua riqualificazione attende da anni in quanto gli scarti e i sottoprodotti derivati dalla distillazione del carbone hanno alimentato una serie di nuovi impianti industriali nel settore chimico che nel tempo hanno reso Bovisa il primo polo chimico dell’industria milanese ma anche un sito altamente inquinato da recuperare. Ed è così che fino alla fine degli anni ‘70 il destino dell’area rimase produttivo; infatti lo stesso PRG del 1976 aveva previsto di mantenere tale destinazione con l’obiettivo di impedire eventuali speculazioni [Erba e Morandi, 1997:130] fino a quando nel 1986 il Politecnico di Milano decise di adeguare la sede dell’Ateneo raddoppiandone le superfici. Nonostante la proposta del PTR Lombardia del 1984 individuasse il nuovo polo decentrato del Politecnico a est della città, il Politecnico decise di scegliere Bovisa come luogo deputato a ospitare il nuovo polo universitario, un’area altamente accessibile attraverso il trasporto pubblico ferroviario, rendendola da zona periferica del capoluogo a zona centrale per l’intera Regione. Comincia allora il grande progetto di rinnovo e riqualificazione dell’area Bovisa (Piani particolareggiati e Accordi di Programma si susseguono fin dagli anni ’90) che però ancora oggi rimane un’occasione di trasformazione per la Milano al futuro perché alla fine del 2010 l’Amministrazione ha previsto di siglare un nuovo AdP con EuroMilano, Politecnico, A2A, Ferrovie Nord e Camera di Commercio [Di Marzio, 2010]. Nel 2007 EuroMilano affida a Koolhaas la predisposizione di un masterplan il cui obiettivo principale è capovolgere le condizioni che un tempo hanno permesso all’area di divenire polo industriale d’eccellenza: l’inquinamento dei terreni e il suo isolamento dovuto al tracciato ferroviario che la circonda. Il progetto predisposto mostra la volontà di ridisegnare il territorio a partire dalla sua storia: l’idea è di creare una nuova centralità urbana basata sulla conoscenza, sulla creatività e sull’innovazione facendo così diventare Bovisa il luogo ideale per un Parco scientifico e tecnologico in cui Politecnico e altri istituti saranno il motore dello sviluppo urbanistico ma anche economico della città. L’obiettivo del masterplan è continuare la vocazione produttiva dell’area, ma non più in termini industriali bensì in termini di innovazione tecnologica. L’area Bovisa nell’immaginario dei progettisti dovrebbe continuare a perpetuare la memoria urbana di un’area dedita al lavoro in cui alla produzione di gas per la città si sostituisce la produzione intellettuale legata alla ricerca e all’innovazione sui temi dell’energia e della mobilità sostenibile. Un obiettivo che, se raggiunto, testimonierebbe la costruzione della città storica nella città contemporanea.
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Le potenzialità del riuso per la città storica
Bibliografia Giuseppe Papagno, (1987). “I materiali del tempo industriale”, in Memoria dell’industrializzazione. Significati e destino del patrimonio storico-industriale in Italia, vol. 3/1987, Annali della fondazione “Luigi Micheletti” Bruno Gabrielli, (1993). Il recupero della città esistente. Saggi 1968-1992, Etas s.r.l. Stefano Boeri, Arturo Lanzani, Edoardo Marini, (1996). Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Valeria Erba; Corinna Morandi, (1997). “I luoghi del Politecnico e la città di Milano: una storia secolare” in Territorio n. 4/1997, Franco Angeli Cesare Macchi Cassia, (1997). “Il nuovo Politecnico: una occasione perduta” in Territorio n. 4/1997, Franco Angeli Mario Manieri Elia, (1998). Topos e progetto. Temi di archeologia urbana a Roma, Gangemi editore Carlo Gasparrini, (2002). Primevisioni: attraverso le scale dei piani e dei progetti, CLEAN Carlo Gasparrini, (2004). “Identità/diversità del patrimonio storico e sfida alla contemporaneità” in Critica della Razionalità Urbanistica n. 15/2004, Alinea Gian Luca Lapini, (2004). “Il Gas a Milano” in http://www.storiadimilano.it/citta/milanotecnica/gas/gas.htm Elena Marchigiani, (2005). Paesaggi urbani e post-urbani, Meltemi Nicola Emery, (2008). Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’architettura, Edizioni Casagrande Manuela Grecchi; Laura E. Malighetti, (2008), Ripensare il costruito, Maggioli Editore Carmen Andriani, (2010). Il patrimonio e l’abitare, Donzelli Editore Mimmo Di Marzio, (2010). “La Nuova Bovisa tra scienza e cultura” in Il Giornale del 22 novembre 2010 Federico Oliva, (2010). “Trasformazioni territoriali e sviluppo urbano nel cuore della città infinita” in Urbanistica Dossier n. 114-115/2010, pp. 51-53 Francesco Erbani, (2011). “Re-cycle. L’architettura che rinasce dalle proprie macerie” in la Repubblica, 1 dicembre 2011, pp. 64-65 Arturo Lanzani, Gabriele Pasqui, (2011). L’Italia al futuro. Città e paesaggi, economie e società, Franco Angeli
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Scarti urbani e pratiche di riciclaggio
Scarti urbani e pratiche di riciclaggio Giulia Menzietti Università degli studi di Camerino Scuola di Architettura e Design Ascoli Piceno, Dottorato Internazionale Villard D’Honnecourt, II ciclo, IUAV, Venezia Email: giulia.menzietti@gmail.com Tel. 349.1992433
Abstract Nei processi di trasformazione delle città prende sempre più piede una logica insediativa volta al risparmio del suolo, e le discipline di programmazione urbana sembrano progressivamente orientarsi verso strategie di riuso e riciclaggio di tessuti già esistenti. In questo scenario i numerosi ‘paesaggi dell’abbandono’ presenti nelle città contemporanee assumono un valore di risorsa e di opportunità per le pratiche del progetto. In particolare in Italia si ravvisa una declinazione specifica di queste opere in abbandono, quella dei resti dell’architettura del Tardo Moderno italiano. Si tratta di opere d’autore realizzate tra gli anni sessanta e ottanta del Novecento e oggi abbandonate, cadute in disuso, mai terminate e prossime alla demolizione. La presenza ormai diffusa di questi materiali negli scenari urbani pone il problema della gestione di tali rovine, e dunque della valutazione delle possibili strategie d‘intervento. Tali realtà rivelano il valore di necessità delle pratiche di riuso e riciclaggio, e rendono evidente l’urgenza di un consolidamento, in termini di consapevolezza e di normativa, delle operazioni sull’esistente.
Scarti urbani e pratiche di riciclaggio A partire dagli ultimi vent’anni il dibattito critico contemporaneo sembra mostrare una crescente attenzione verso il tema dello scarto, del rifiuto, del corpo abbandonato. Questa tensione culturale coinvolge anche il campo dell’architettura, che si sofferma sui resti di opere in abbandono in virtù del valore di occasione e opportunità che queste realtà offrono oggi ai processi di trasformazione delle città. Nel Dicembre del 2011 viene allestita nelle sale del Museo MAXXI di Roma la mostra Re-Cyle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, un’indagine sul tema del riciclo, declinato in maniera trasversale in tutti gli ambiti espressivi della cultura contemporanea. La mole e l’intensità delle opere e delle esperienze in mostra denuncia una pervasività del fenomeno, che da strategia operativa si è progressivamente trasformato in categoria interpretativa della realtà. Tra i materiali in mostra vengono esposti progetti di riuso di edifici e interventi a scala urbana e di paesaggio “che rappresentano la risposta della cultura visiva e progettuale al problema della sostenibilità: ri-costruire invece di costruire: costruire sopra sotto intorno dentro addosso, con i materiali di scarto, invece che costruire, abitare la rovina invece di costruire, rinaturalizzare invece che riurbanizzare” in Ciorra, Marini (2011, pp. 27-28). L’ecologia, lo smaltimento dei rifiuti, l’urgenza di minimizzare l’espansione edilizia e il relativo consumo del suolo rendono necessario il consolidarsi di una cultura del riciclo, che sappia orientare le operazioni di crescita e trasformazione della città e contribuire alla formazione di una nuova consapevolezza verso il patrimonio esistente.
Rovine contemporanee All’interno delle città contemporanee emerge in maniera sempre più evidente la presenza di veri e propri paesaggi dell’abbandono: edifici e strutture in disuso, contenitori dismessi e in via di demolizione. All’interno di tali scenari si ravvisa, in Italia, una condizione specifica di queste realtà, ovvero quella dei resti dell’architettura Giulia Menzietti
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del Tardo Moderno italiano (Figura 1). Numerosi progetti appartenenti al periodo che va dagli anni sessanta agli ottanta del Novecento si sono poi trasformati in opere mancate, edifici mai terminati o mai entrati in uso, abbandonati in tempi brevissimi e oggi in gravi condizioni di deperimento. Si tratta nella maggior parte dei casi di progetti celebri, riconosciuti e apprezzati dalla critica nazionale e internazionale e iper-pubblicati in testi e riviste d’architettura. Incompiute o terminate ma mai entrate in uso, se non per tempi brevissimi, tali opere versano oggi in uno stadio di totale abbandono, molte delle quali prossime alla demolizione. Lontane dall’idea romantica di rovina, prive di storie o passati gloriosi da narrare, tali realtà costituiscono lo scarto, la scoria depositata da un passato appena trascorso. Si fa riferimento ad opere quali l’Istituto Marchiondi Spagliardi (Baggio 1954-57) di Vittoriano Viganò, il Centro studi e Convento dei padri passionisti (Ceretolo di Casalecchio di Reno 1957-71) di Glauco Gresleri, la Colonia Estiva ENEL-SIP (Riccione 1961-1963) di Giancarlo De Carlo, il Complesso Marchesi (Pisa 1972) di Luigi Pellegrin, il Teatro Popolare di Sciacca (Sciacca 1976) di Giuseppe e Alberto Samonà, la Casa dello studente (Chieti 1976) di Giorgio Grassi e Antonio Monestiroli, la Chiesa Madre (Gibellina 1980-2010) di Ludovico Quaroni, la Stazione di S. Cristoforo (Milano 1983-1989) di Aldo Rossi e Gianni Braghieri e il Palasport Cantù (Cantù 1987-1992) di Vittorio Gregotti (Figura 2). Ad accrescere l’attenzione su tali realtà contribuiscono due aspetti fondamentali e comuni a tutte le rovine individuate: l’appartenenza allo stesso contesto storico-culturale e lo spessore riconosciuto ai rispettivi autori. Il primo fattore rivela come tutte queste opere siano nate negli stessi anni, in uno specifico momento della produzione architettonica, caratterizzato dalla spinta a trovare un’identità, una via italiana all’interno della crisi dell’ultima fase del Modernismo. Due riferimenti temporali definiscono cronologicamente e culturalmente il periodo preso in questione: il numero 251 di “Casabella” che esce nel 1961 con l’editoriale Il passo da fare di Ernesto Nathan Rogers, e La Presenza del Passato, la prima Biennale di Architettura di Venezia, curata da Paolo Portoghesi nel 1980. Il secondo, la paternità di tali ruderi, il fatto che i maestri di quegli anni abbiano poi prodotto tali architetture mancate, apre la questione della valenza, del lascito che quel momento culturale, celebre per i suoi risultati nella sfera intellettuale, è poi riuscito a consegnare alle generazioni successive in termini di opere reali, costruite e funzionanti. A tali aspetti si aggiunge poi il dato quantitativo dei ruderi individuati nel territorio italiano: non si tratta infatti di episodi o casi sporadici ma di una consistenza che rivela come tali materiali rappresentino a tutti gli effetti l’ormai evidente manifestazione di un vero e proprio fenomeno. All’interno delle realtà citate si riscontrano aspetti profondamente differenti e distanti, che coinvolgono sia la condizione attuale di disuso e abbandono, sia la natura del progetto, sia le vicende e la storia dell’opera. Alcune architetture non sono mai state terminate, altre sono entrate in uso per brevissimi periodi e poi sono state abbandonate, altre ancore sono state demolite o sono oggi in via di demolizione. Il Teatro di Samonà, il Convento di Gresleri, la Casa dello studente di Grassi e Monestiroli e il Terminal di Rossi e Braghieri sono architetture che ancora oggi sono in attesa di essere terminate. La condizione d’incompletezza, determinata da ragioni ed episodi profondamente differenti, ha impedito a queste opere di entrare in funzione e intraprendere un ciclo vitale, e ha poi bloccato ogni sviluppo delle stesse. Tra le opere sopra citate si collocano poi quelle architetture che sono state terminate ed entrate in funzione, ma che in brevissimo tempo sono cadute in disuso. Le motivazioni dell’abbandono risultano molteplici, e tra queste emerge in alcuni casi un’eccessiva connotazione funzionale dell’edificio, che si traduce in strutture estremamente rigide, sia in senso spaziale che in senso materico. Una volta cessato l’impiego per cui erano state pensate, opere come l’Istituto Marchiondi o la Colonia ENEL sono cadute in disuso e abbandonate, alla luce della difficoltà di riadattare le strutture a nuovi usi e destinazioni altre. Compatibilmente a contesti e storie profondamente differenti, le vicende di queste opere mettono in luce alcuni aspetti comuni, tipici del pensiero progettuale di quel momento, e che in parte hanno condizionato le sorti di tali ruderi d’autore. La loro attuale condizione spinge a ricostruire le cause e le ragioni che hanno portato a tale produzione progettuale e a collocare tali materiali nei contesti urbani contemporanei, alla luce del peso e del valore che possono ricoprire all’interno dei processi di trasformazione delle città.
Città di carta Tali resti d’architetture recano le firme dei maestri che hanno animato il dibattito culturale tra gli anni sessanta e gli anni ottanta. Si tratta di un momento d’intensa trasformazione durante il quale si diffonde, in Italia, l’urgenza di un rinnovamento globale, teso a modificare le condizioni attuali dal punto di vista politico, economico e culturale. L’architettura raccoglie le speranze e le illusioni verso tali proiezioni dai toni fortemente utopici. Piano, programma e progetto diventano dispositivi di prefigurazione di scenari futuri, prossimi a venire, quasi impossibili da inverare. Dall’intensa produzione di testi pubblicati tra il 1965 il 1967, in parte dagli stessi autori che disegnano le opere sopra citate, emerge la centralità del tema urbano nel dibattito culturale di quegli anni: Origini e sviluppo della città moderna (Carlo Aymonino, 1965), L’architettura della città (Aldo Rossi, 1966), Il territorio Giulia Menzietti
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dell’architettura (Vittorio Gregotti, 1966), La torre di Babele (Ludovico Quaroni, 1967), La costruzione logica dell’architettura (Giorgio Grassi, 1967). I ruderi in questione testimoniano poi come, il più delle volte, tali riflessioni sulla città si siano poi dimostrate deboli nell’offrire uno strumento operativo al progetto urbano e architettonico che spesso, come nei casi citati, ha mostrato debolezze nella capacità di saper interagire e modificare i contesti. La lezione teorica di questi grandi autori nell’attenzione ai tracciati, alle parti e alle relazioni della città sembra poi sintetizzarsi nel disegno di edifici sostanzialmente concepiti come oggetti più o meno avulsi dal tessuto urbano. Concepite spesso in riferimento a coordinate astratte e puramente ideologiche, le vicende di queste opere raccontano di come, nell’impatto col disordine e la complessità dei contesti reali, abbiano poi dato prova dell’astrazione e della virtualità di un ragionamento sul tema urbano congelato in una matrice puramente teorica. Le riflessioni sulla città per parti, sulla composizione dei fatti urbani, tradotte poi in questi progetti, si dimostrano inadeguate a descrivere le dinamiche e la complessità del reale, e il passaggio dal disegno alla realizzazione risulta particolarmente difficoltoso nelle architetture di quel periodo. Tali opere si manifestano oggi come monadi, oggetti dimenticati nel proprio isolamento, distanti dai flussi e spesso lontani dai tessuti consolidati. Nella maggior parte dei casi affrontati le opere si sono sviluppate in brani periferici, poste ai margini di città di provincia. I processi di crescita e trasformazione urbana hanno occupato nuove aree e investito in altri fronti rispetto a quelle che erano le previsioni iniziali dei progettisti. Il tessuto della città si è il più delle volte sviluppato altrove, aggravando una condizione di isolamento e autoreferenzialità delle opere che spesso sembra derivare dai progetti stessi. Analizzando i disegni dei progetti della Chiesa di Gibellina di Quaroni, o del Teatro di Sciacca piuttosto che della Casa dello Studente di Grassi sembra che quel tipo di architettura sia stata pensata come una forma di comunicazione, che usa un determinato sistema di segni attribuendovi i rispettivi significati. La riflessione sul linguaggio e sulla semiologia entra, a partire dagli anni sessanta, al centro del dibattito culturale e coinvolge anche il campo dell’architettura. Il senso di quei progetti sembra risiedere nella capacità di esprimere messaggi, e il disegno diviene codice, strumento precipuo di comunicazione. Tanto più astratte sono le composizioni, desunte da un repertorio di forme immaginarie piuttosto che da elementi della realtà, tanto più il progetto diviene linguaggio, forma di espressione di un pensiero irreale, carico di ideologia. Dalle vicende delle opere in questione emerge inoltre la tendenza, diffusa nel periodo affrontato, a conferire commesse di piani, infrastrutture e altre opere, economicamente e funzionalmente sovradimensionate, agli architetti più in vista nel panorama nazionale, quelli che la critica identifica come i protagonisti. In questo modo, con le convocazioni a chiamata diretta degli architetti di chiara fama, le amministrazioni creano consenso, dando un’immagine culturalmente aggiornata ed economicamente esuberante. Il più delle volte le commesse non corrispondono a esigenze reali di programmazione e spesso, dietro il carattere di necessità di teatri, palazzetti, chiese e infrastrutture, si cela l’esigenza di creare consenso elettorale. Tra le sorti più comuni dei progetti nati in questi contesti si registra l’improvviso esaurimento dei fondi e il conseguente rinvio a tempi successivi del completamento dell’opera. Dalle attuali condizioni e dalle vicende delle opere in questione sembra emergere, nell’architettura di quel periodo, una frattura tra il pensiero progettuale e i reali meccanismi che in quegli anni prendono piede nelle dinamiche tra società, territorio e cultura urbana. Le traiettorie culturali che muovono il dibattito sull’architettura e la città si rivelano profondamente distanti da quelli che sono i reali cambiamenti in atto, e tale frattura risulta decisiva nel compromettere le sorti di molti progetti di quel periodo. Le trasformazioni che negli ultimi cinquant’anni hanno coinvolto le città hanno ulteriormente aggravato la situazione di queste opere, isolate e abbandonate come resti di archeologia contemporanea, icone di un pensiero ormai distante dalle dinamiche urbane contemporanee. Il periodo in questione, quello che va dagli anni sessanta agli ottanta, è considerato un momento aureo per l’architettura italiana; tuttavia tale sedime di ruderi a noi oggi pervenuti mette in luce crepe e contraddizioni di quell’impalcatura teorica della disciplina che oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, si manifestano in maniera evidente nel paesaggio di architetture incompiute e abbandonate.
Re-cycle e strategie di sopravvivenza I ruderi d’autore del Moderno vengono collocati e analizzati nei contesti urbani del momento presente. I limiti nella disponibilità di superfici da usare, la consistenza economica del paese e l’atteggiamento mostrato dalla cultura italiana verso le opere d’architettura contemporanea sembrano ridurre sempre più le occasioni di costruzioni ex novo. Le pratiche del progetto si orientano verso strategie di riuso e riciclo del patrimonio esistente che, in questa prospettiva, ravvisano negli scarti, nei resti e nei paesaggi abbandonati nuove risorse e occasioni di intervento. In tale contesto i resti delle architetture d’autore degli anni sessanta costituiscono una risorsa per le pratiche di trasformazione della città, ma allo stesso tempo si dimostrano come materiali profondamente ambigui e dunque complessi da gestire. Si tratta di progetti celebri, firmati da quegli stessi autori che hanno animato il dibattito culturale in un momento specifico dell’architettura italiana e allo stesso tempo di ruderi, carcasse, scheletri di Giulia Menzietti
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cemento, rovine senza uso e connotazione, che costituiscono oggi una ferita e un problema da risolvere nella gestione delle città. Molte delle opere analizzate sono rientrate nelle attenzioni delle Sovraintendenze, riuscendo in questo modo ad evitare stravolgimenti e demolizioni. L’istituto Marchiondi Spagliardi, la Chiesa di Gibellina e la Colonia ENEL di De Carlo sono state salvate grazie ad appelli e campagne di salvaguardia che hanno ottenuto il riconoscimento del vincolo in virtù della fama attribuiti all’opera e all’autore. Per altre opere si è stabilito di intervenire con la demolizione, come per i dormitori della Casa dello Studente di Grassi e Monestiroli o per il Palasport di Gregotti. A tali posizioni si aggiunge una terza via che, a partire da quel che resta, ne valuta le possibilità di riutilizzo, estrapolando le opere dagli usi, dai significati e dai contesti per cui sono state pensate. In questo tipo di strategia il valore, la fortuna critica dell’opera, e allo stesso tempo il disuso e il disagio provocato vengono azzerati in una valutazione condotta in termini eminentemente operativi che, ove possibile, si apre a possibilità di riappropriazione, riadattamento e riciclo di ciò che oggi resta. In questo senso brandelli e frammenti di opere passate vengono inseriti nel contesto odierno e manipolati a seconda delle esigenze del momento attuale. Con l’operazione di riuso si limitano gli interventi sull’esistente e si lavora dentro e intorno alla struttura, costruendo quella rete di relazioni, flussi e dinamiche in grado di restituire un senso all’edificio e aprirlo al dialogo con la città. La prospettiva di riciclo dell’opera apre a prospettive di riciclo e reimpiego degli spazi, qualora possibile, con interventi minimi e un uso limitato di risorse. In occasione dell’XI edizione dell’Esposizione d’Architettura di Venezia, nel 2008, all’interno della mostra collettiva L’Italia cerca casa allestita al Padiglione Italiano, lo studio Albori presenta Ecomostro Addomsticato, una proposta di riuso della stazione incompiuta di A. Rossi e G. Braghieri (Figura 3). Sullo scheletro in cemento vengono inserite come innesti delle cellule abitative che riqualificano il terminal come contenitore di residenze. La struttura dell’edificio diviene una gabbia sulla quale inserire varie tipologie abitative e un mix di servizi. Secondo i progettisti la proposta, concreta e realizzabile, garantita da uno studio di fattibilità e dal rispetto della normativa, ridurrebbe di almeno un quarto i costi necessari ad un intervento di demolizione e nuova costruzione. Il Terminal di Rossi è l’unico, tra i ruderi presi in considerazione, che è stato coinvolto in una proposta di riuso. Essendo stato realizzato solo in minima parte e immediatamente ridotto ad uno scheletro di cemento, la stazione incompiuta si presta ad essere manipolata e rimaneggiata più delle altre architetture citate, in cui le dimensioni e la consistenza fisica dell’opera sembrano inibire qualsiasi tipo di provvedimento. Quanto agli interventi sulle altre opere, in alcuni casi la tutela vincolistica o la delibera di demolizione hanno riconosciuto un’appartenenza e assegnato un destino all’edificio. Negli altri casi la natura dell’opera risulta ancora non ben identificata, e i provvedimenti da adottare sembrano arenarsi nell’incertezza di trattare con materiali ordinari, su cui intervenire con gesti di riciclo e riadattamento senza troppo rispetto dell’impianto originale, o piuttosto con realtà in disuso, abbandonate, prive di vincoli di tutela, ma in qualche modo celebri e dunque intoccabili.
Riuso e pratiche dell’ordinario Il riconoscimento e la collocazione di questi materiali all’interno delle categorie del monumentale o dell’ordinario costituisce una questione cruciale nella valutazione delle strategie d’intervento. Per superare il limbo d’incertezze e lo stato d’inerzia che coinvolge le operazioni su tali realtà occorre ripensare e aggiornare le pratiche d’intervento sull’esistente in Italia, oggi orientate quasi esclusivamente al patrimonio monumentale e in riferimento a termini storico vincolistici. I processi di densificazione e le limitazioni nella disponibilità del suolo hanno portato, in alcuni paesi del Nord Europa, ad una progressiva sensibilizzazione verso tali strategie di riciclaggio. In Olanda, già a partire dal 1988, la pianificazione del territorio si orienta al consolidamento dei tessuti residenziali, così da rispondere alla domanda abitativa senza ricorrere a processi di dispersione urbana. Allo stesso modo in Germania, già nei primi anni ottanta, sono state emanate normative poste a regolare i processi di manutenzione e recupero del costruito. In Italia nel 1999 è entrata in vigore la Legge regionale n. 22 della Lombardia (19 Novembre 1999) che consente la variazione dell’inclinazione delle falde per il reimpiego dei sottotetti, rendendoli abitabili; è stata inoltre redatta una nuova proposta di legge nazionale (Gibelli, Salzano 2006) che prevede la limitazione dell’impiego di suolo, consentita solo nei casi in cui non c’è possibilità di riuso di superfici o materiali esistenti. Emerge tuttavia un ritardo, rispetto agli altri stati europei, nel processo di codifica e ordinamento delle operazioni di riutilizzo delle costruzioni e del territorio. Gli interventi sul patrimonio esistente in Italia si legano principalmente alle pratiche del restauro del Moderno, e dunque hanno spesso a che vedere con un patrimonio di eccellenza, sul quale si agisce quasi sempre con prospettive storiche e vincolistiche. Per quanto riguarda il riuso e il recupero di costruzioni a carattere ordinario, o non di carattere strettamente storico monumentale, manca ancora nel nostro paese una pratica diffusa e una conoscenza consolidata di tali operazioni. Le pratiche in uso tendono spesso a ripristinare l’opera facendo riferimento a un tempo zero, riportando l’edificio alla sua condizione iniziale, prima del degrado e dell’abbandono. Per gli interventi sui ruderi analizzati, al Giulia Menzietti
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contrario, l’attenzione va orientata non tanto alla necessità di riportare l’opera allo stadio originale, trattandosi spesso di realtà neanche mai entrate in funzione, quanto piuttosto alla possibilità di sovrascrivere l’opera, rendendone leggibili le storie, i tentativi di utilizzo, i periodi di abbandono, le forme di riappropriazione o rigetto che hanno coinvolto l’edificio, nell’immediato presente e nel recente passato. In questa prospettiva si collocano le strategie di riciclo, l’architettura parassita, il reimpiego di spazi con altri sensi e funzioni, e in generale tutti quegli interventi che riescono ad attribuire un uso e un significato all’opera in rovina, lavorando sulla condizione esistente del corpo da rianimare, e operando con interventi minimi, senza la pretesa di riportare l’opera ad uno stadio di completezza e integrità. In queste strategie l’edificio in disuso diviene un’opera aperta, disponibile alla sovrapposizione degli usi e delle letture che si succedono nel tempo e capace di rivelare le trasformazioni del contesto, avvenute a partire dall’inserimento dell’opera fino al momento presente. L’edificio non è più un oggetto fisso, definito e risolto, non è più un’opera conclusa, che reca una firma a cui attribuirne i meriti, ma diviene piuttosto un dispositivo, un processo in divenire che non rivela più l’autorialità del manufatto quanto piuttosto l’intelligenza delle strategie di riciclo e riuso che ne garantiscono la sopravvivenza. I ruderi d’autore del tardo Moderno in Italia rappresentano una presenza estremamente complessa e significativa. Testimonianze di un passato recente, che in vari aspetti si manifesta ancora nel momento presente, tali materiali costituiscono delle risorse e delle opportunità per le pratiche e i processi di crescita e trasformazione della città. La loro natura ambigua aggiunge fattori di complessità alla valutazione sulle possibili strategie d’intervento, e rende ancora più evidente la necessità di ricorrere alle pratiche di riuso e riciclaggio del patrimonio in disuso e in abbandono. A fronte di tale scenario, questi resti d’architettura mettono in luce l’urgenza di un quadro normativo aggiornato, che possa disciplinare e implementare gli strumenti e le conoscenze in queste pratiche del progetto contemporaneo, ormai costretto a lavorare sull’esistente.
Giulia Menzietti
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Figura 1. Mappa delle architetture dâ&#x20AC;&#x2122;autore, realizzate in Italia tra gli anni sessanta e ottanta del Novecento e oggi ridotte nello status di rovine contemporane.
Giulia Menzietti
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Figura 2. Le nove opere scelte come riferimento allâ&#x20AC;&#x2122;interno del paesaggio italiano di rovine contemporane.
Figura 3. Studio Albori, 2008, Ecomostro Addomesticato, foto ŠStudio Albori.
Giulia Menzietti
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Bibliografia Ciorra P., Marini S. (2011), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città, il pianeta, Mondadori Electa, Milano. Gibelli M.C., Salzano E. (2006), No sprawl: perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, Alinea, Firenze. Marini S. (2009), Architettura parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Quodlibet, Macerata. Marini S. (2010), Nuove Terre, Quodlibet, Macerata.
Giulia Menzietti
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Demalling. Centri commerciali tra crisi e opportunità
DEMALLING Centri commerciali tra crisi e opportunità Vincenza Santangelo Università della Calabria Quality of Design, Dipartimento di Pianificazione Territoriale Email: enzasan@inwind.it
Abstract La ricerca prova a indagare il lento affiorare del fenomeno della dismissione dei centri commerciali in Italia, partendo dall’assenza di una programmazione dell’obsolescenza e della previsione di dismissione, ipotizzando indirizzi strategici e progettuali per l’intervento di riqualificazione sull’opera dismessa e sul paesaggio in cui ricade e per intervenire nel dibattito attuale sulla promozione e realizzazione di nuovi centri commerciali. Questo contributo prende le mosse da una ricerca avviata in occasione del workshop “Demalling Caserta” 1, in cui il territorio fra Napoli e Caserta, dove si contrappongono un’incessante realizzazione e una lenta dismissione di centri commerciali, è diventato un laboratorio sperimentale privilegiato da cui partire non solo per ragionare sulle vicende e sulle ragioni che hanno innescato questa dismissione, ma anche per esplorare indirizzi strategici e progettuali di intervento su questi paesaggi commerciali in crisi.
Affioramento della crisi dei centri commerciali nel paesaggio italiano Il dibattito recente sul paesaggio italiano, che ha condotto alla revisione degli strumenti culturali, interpretativi e progettuali sul paesaggio e all’adozione di nuovi sguardi sul territorio, ha aperto il campo all’indagine di fenomeni poco esplorati dalle discipline architettoniche e urbane, eppure incisivi nella trasformazione del paesaggio contemporaneo. Tra questi, il fenomeno embrionale dei centri commerciali dismessi, rappresenta una questione significativa in sé e come osservatorio sul paesaggio italiano. L’Italia conta 635 centri commerciali, 232 in apertura, 36 in ampliamento e 258 outlet 2. Sono localizzati per la maggior parte in Lombardia, Piemonte, Lazio, Campania, Sicilia, ma anche regioni come Marche, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia cominciano a registrare dati significativi, confermandosi come i nuovi territori di conquista di una formula commerciale che in Italia è nei fatti piuttosto recente. Nonostante i primi centri commerciali siano comparsi in Italia nei primi anni ’70, la vera e propria proliferazione si è verificata all’inizio degli anni ’90 quando si registra un incremento medio annuo di 50 nuovi centri commerciali e dimensioni superiori ai 2.000 mq di superficie. Dal punto di vista localizzativo-funzionale si replica il modello statunitense degli anni ’70: collocazione in un territorio periurbano a prevalente vocazione agricola e vicinanza a svincoli autostradali; dispositivo commerciale con uno o più magneti, spesso supermercati, e un corollario di negozi specializzati e monomarca; inserimento di piazze coperte, strutture e servizi di intrattenimento e ristorazione; bacino di utenza a carattere provinciale e spesso anche regionale. Il centro commerciale cambia la sua natura: non è più solo un contenitore di merci, ma diventa un luogo che attrae e intrattiene, mimando il centro urbano replicandone all’interno spazi e funzioni.
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V. Santangelo, Responsabile scientifico e co-organizzatrice del Workshop Internazionale di Progettazione Demalling Caserta, promosso dall’Associazione Culturale BlowUp010 e finanziato dalla Provincia di Caserta e Comune di Marcianise. Caserta, 30-05 > 05-06 2011. 2 http://www.centricommercialiitalia.it/ Vincenza Santangelo
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Demalling. Centri commerciali tra crisi e opportunità
Oggi i centri commerciali sono consolidati e potenti attrattori sociali, calamite per speculazioni immobiliari, dispositivi in grado di innescare incisive trasformazioni territoriali a ritmi sempre più accelerati 3. Un processo che comincia però a dare primi segni di cedimento. L’indagine nel territorio fra Napoli e Caserta ha evidenziato come cominciano ad esservi centri commerciali in crisi o già dismessi. L’Euromercato a Casoria, aperto nel 1977 con una superficie totale di 24.608 mq e 12.423 mq di vendita organizzati secondo lo schema di ipermercato con galleria commerciale, è stato il primo centro commerciale del Sud Italia. Localizzato in un’area strategica per la vicinanza alle principali infrastrutture di collegamento del centro di Napoli con l’hinterland a nord, dopo essere stato il motore di sviluppo delle aree circostanti è ora parzialmente dismesso a causa dell’apertura di numerosi parchi commerciali nell’intorno e non sempre efficaci cambi di gestione. I Giardini del Sole a Capodrise sorto nel 1992 nella periferia Sud di Caserta a ridosso del casello autostradale A1, ha una superficie totale di 18.997 mq e una distribuzione secondo il modello classico di ipermercato con galleria commerciale. Nel corso degli anni ha determinato una densificazione dell’area in cui ricadeva, promuovendone lo sviluppo, sino ad arrivare all’attuale crisi e prossima chiusura definitiva, soprattutto a causa dello spostamento del bacino d’utenza verso il vicino Parco Commerciale Campania. Il Polo della Qualità, centro polifunzionale e multi-produttivo dedicato alla moda e alla gioielleria ricadente nell’area commerciale-produttiva ASI di Marcianise, è stato aperto nel 2007 con 131.000 mq di superficie utile lorda e 650.000 mc di superficie costruita, di cui 1.200 mq per sale dedicate a sfilate, eventi, riunioni, meeting. Nonostante le elevate quantità di denaro investito, alcuni fattori come il sovradimensionamento della struttura, la dispersività del luogo, il management improvvisato e i vicini centri commerciali ne hanno comportato il fallimento nel giro di due anni dall’apertura, trasformandola in un complesso fantasma. Esempi rappresentativi di un fenomeno che sta lentamente affiorando nel territorio campano, e non solo, ma di cui all’oggi è inesistente una documentazione quantitativa e qualitativa e una ricostruzione delle vicende e delle ragioni di questa crisi specifiche del territorio italiano. Questa carenza suggerisce la necessità di un inquadramento generale che consenta di cogliere e restituire l’esistenza della dismissione dei centri commerciali nel paesaggio italiano e delle possibili declinazioni nelle singole regioni, da cui prendere le mosse per riabilitare questi paesaggi dismessi ed arricchire di nuove possibilità il progetto.
Ricognizione e codificazione del fenomeno negli USA Questo fenomeno, ancora marginale e inesplorato nel paesaggio italiano, è una realtà riconosciuta e codificata negli Stati Uniti essendo il luogo dove è nato il modello di città dispersa entro cui si sono localizzati i primi centri commerciali e dove ora questa formula commerciale è entrata in crisi, in parte proprio perché in crisi il modello di città per cui era stata creata. Infatti basta percorrere qualsiasi arteria principale di qualunque città statunitense per vedere centri commerciali un tempo attivi e ora sottoutilizzati, se non abbandonati, palesi indizi del dilagante fenomeno di crisi e dismissione di questa formula commerciale. Questi contenitori commerciali dismessi e le migliaia di metri quadri degli spazi sussidiari, come parcheggi e aree per il movimento delle merci, vengono sommariamente indicati come greyfields 4, facendo riferimento alle enormi aree asfaltate che isolano il contenitore dal contesto entro cui sono stati calati. Sono spazi sempre più difficili da definire in maniera univoca: per alcuni il termine greyfields indica i centri commerciali in cui le vendite annuali/mq sono inferiori a 150$ 5; per altri i centri commerciali che raggiungono un tasso di dismissione uguale o superiore al 70% dell’intera struttura. Prevalentemente sono centri commerciali realizzati fra gli anni ’50 e ’70 in aree all’epoca suburbane con vocazione agricola, nei pressi di svincoli autostradali che ne determinavano spesso forma e disposizione, attualmente con una media di altri 22 centri commerciali ricadenti nel raggio di 5 miglia. Nonostante sia un fenomeno ormai riconosciuto e in parte codificato, ancora non esistono dati quantitativi e qualitativi esatti. Secondo una stima orientativa del Congress for New Urbanism (CNU), circa il 7% dei centri commerciali regionali statunitensi è ormai dismesso, con un altro 12% avviato a diventarlo, per un numero complessivo di circa 2.000 unità 6. Dati che, pur non essendo assoluti e definitivi, restituiscono la complessità e pervasività di questo fenomeno, evidenziando la crisi della formula tradizionale del centro commerciale, tale da determinare un processo disinvestimento, un drastico abbassamento dei valori immobiliari, l’annullamento di numerosi posti di lavoro. 3
F. Erbani, “Centri commerciali e outlet stanno invadendo il territorio”, articolo pubblicato su Eddyburg il 27-05-2008. Per maggiori informazioni cfr: http://eddyburg.it/article/articleview/9995/0/149/ 4 Definizione coniata negli Stati Uniti dal PricewaterhouseCoopers e dal Congress for the New Urbanism. Greyfield Regional Mall Study. January, 2001. 5 Sempre il Congress for the New Urbanism identifica come vulnerables quei centri commerciali le cui vendite annuali/mq oscillano fra i 150 e i 199$. 6 Congress for the New Urbanism. Greyfield Regional Mall Study. January, 2001. Versione pdf scaricabile da http://www.cnu.org/sites/files/Greyfield_Feb_01 Vincenza Santangelo
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Le ragioni di questo fenomeno sono riconducibili a una pluralità di questioni convergenti 7: l’incapacità di stare al passo con la rapida evoluzione delle esigenze dei consumatori, che alimentano una continua domanda di nuove esperienze di shopping e la ricerca di nuovi formati sempre più interessanti e vari, con localizzazioni facilmente raggiungibili; la saturazione e la sovrapposizione sullo stesso bacino di utenza di più centri commerciali, che innesca un insostenibile meccanismo di competizione basato sull’effetto novità e sulla crescente dimensione, mettendo in crisi i centri commerciali più piccoli e datati; la mancanza di differenziazione delle offerte dei vari centri commerciali, omologandoli a ciò che può offrire un centro cittadino o un aeroporto 8. Complessivamente emerge la carenza di una programmazione dell’obsolescenza del centro commerciale e quindi la relativa assenza di una previsione di dismissione, che fanno sì che un centro commerciale mediamente diventi “vecchio” dopo 10 anni dall’apertura 9 o nasca già con difficoltà e che in caso di dismissione diventi un paesaggio scartato e abbandonato.
Demalling: strategie, progetti, azioni Questo patrimonio di centri commerciali dismessi è testimone di un’economia obsoleta e specchio della crisi della città dispersa, ma può anche essere considerato un fenomeno che spinge a riflettere su come confrontarsi con i centri commerciali dismessi esistenti, ipotizzando indirizzi strategici e progettuali per l’intervento di riqualificazione sull’opera e sul paesaggio in cui ricade. La riparazione dell’immensa città dispersa americana, caratterizzata dall’insostenibile impatto ambientale, da edifici con bassa densità e qualità, da infrastrutture realizzate in tempi fin troppo brevi e da centri commerciali in via di dismissione si sta connotando come uno dei temi più attuali con cui confrontarsi. Le strategie di Retrofitting Suburbia e Sprawl Repair Manual, le azioni del Tactical Urbanists, gli interventi di Incremental Sprawl Repair e Planned Densification, i progetti ambientali e sostenibili di Original Green, Rainwater-InContext e Light Imprint, le teniche per una ri-zonizzazione di CATS e le iniziative di CNU Sprawl Retrofit sono le diverse voci che provano a ragionare su un ripensamento e sulla riparazione della città dispersa per fronteggiarne la crisi 10. All’interno di questi filoni culturali si collocano i processi di demalling che già da alcuni anni si stanno sperimentando negli Stati Uniti, ossia progetti, strategie e azioni per il riuso di questi paesaggi commerciali abbandonati, che provano a riflettere e confrontarsi da un lato con questi enormi contenitori obsoleti e vaste aree asfaltate sussidiarie, dall’altro con le complesse implicazioni urbanistiche, economiche e sociali 11. Sperimentazioni da cui partire per provare a rintracciare alcuni orientamenti generali e delle categorie di intervento possibili. Addomesticamento per i centri commerciali dismessi che sono nei pressi di quartieri in fase embrionale o in espansione, con gli abitanti in cerca di case a prezzi accessibili vicine al centro città. Questi centri diventano una risorsa di spazi per rispondere a questa domanda abitativa low-cost e catalizzare investimenti più ampi e diffusi. La sfida è progettare complessi che siano adeguati alle esigenze dei nuovi residenti, generalmente sostenibili dal punto di vista energetico, anziché essere offerti al ribasso ad una nicchia di mercato non più sostenibile nell’area. È il caso di Crossing a Mountain View 12, in California, in cui l’ormai dismesso centro commerciale Old Mill degli anni ’60 è stato trasformato in un vivace quartiere altamente collegato tramite trasporto pubblico su gomma e ferro con i quartieri circostanti. Le abitazioni abbracciano varie tipologie: villette unifamiliari, cottages, villette a schiera, appartamenti in condomini, di cui l’85% venduto ai prezzi correnti di mercato e il 15% a prezzi minimi riservati alle fasce economicamente disagiate. Un intervento che prova ad alzare la densità dell’area in modo da ridurre costi e uso del suolo, ma anche a creare una comunità eterogenea. Mixed Use per i centri commerciali la cui decadenza e dismissione è riconducibile alla totale obsolescenza degli scopi a cui erano destinati. In questi casi le strategie si orientano verso progetti incentrati su una trasformazione fortemente connessa al trasporto pubblico e contenente una miscela di funzioni commerciali, di servizio e residenziali. Si punta quindi su una riorganizzazione degli scopi intrecciando il commercio con le nuove esigenze della comunità e delle amministrazioni.
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M. Kures, Greyfields and Ghostboxes: Evolving Real Estate Challenges, 2003 dal sito Let’s Talk Business: http://www.uwex.edu/CES/cced/downtowns/ltb/lets/0503ltb.html. 8 M. Augè, Nonluoghi, Eleuthera, Milano 1993. 9 Dal 1989 ad oggi, il “ciclo di vita” dei centri commerciali, in assenza di interventi, si è ridotto da 18 anni a circa 10 anni. Per approfondimenti cfr: P. Malaspina, Il ciclo di vita degli shopping centres e il rischio di obsolescenza, su www.qiuotidianoimmobiliare.info 10 R. Ingersoll, Sprawltonw: looking for the city on its edges, Princeton Architectural Press, New York, 2006. 11 K.M. Chilton, Greyfields: The New Horizon for Infill and Higher Density Regeneration, Southeast Regional Environmental Finance Center, EPA Region 4, University of Louisville, 2005. 12 F. Kaid Benfield, JutkaTerris, Nancy Vorsagner, Solving Sprawl: Models of Smart Growth in Communities Across America, Island Press, Washington D.C., 2001. Vincenza Santangelo
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Downtown Park Forest a Chigago 13 è uno degli esempi più interessanti di questo orientamento. Il Park Forest Plaza, un centro commerciale dismesso realizzato nel 1953 nell’area suburbana, ha offerto l’occasione per sperimentare e avviare un processo di riconversione dell’area attraverso nuove formule di commercio al dettaglio e l’inserimento di residenze, uffici e spazi collettivi come un teatro, un museo, un parco pubblico, in parte riutilizzando la struttura preesistente del mall. Un doppio processo di riconversione: della funzione commerciale verso un articolato mix funzionale e del contenitore in differenti strutture per dimensioni e tipologia. Istituzionalizzazione quando alcuni di questi centri commerciali dismessi rappresentano dei nodi strategici capaci di ospitare alcune attività istituzionali e collettive come: scuole, ospedali, università, centri di ricerca, uffici pubblici cittadini e statali. Si tratta di una strategia che fa leva sulla grande dimensione dei contenitori, sulle sterminate aree accessorie, sul collegamento con le maggiori infrastrutture della mobilità e sul deprezzamento del costo dell’area. Un esempio interessante è il Jackson Medical Mall in Mississipi 14. Aperto nel 1969 ed esaurito il suo ciclo di vita nel giro di 20 anni, dopo un decennio di totale abbandono e la parallela modificazione della popolazione residente nell’area, prevalentemente afroamericana a basso reddito, il Jackson Mall è stato trasformato in una struttura per diversi servizi pubblici: spazi di ricerca e didattica della Jackson State University, della University of Mississippi, del Tougaloo; ufficio sanitario, alcuni uffici locali e vari servizi sociali; un mix di attività come negozi di alimentari, sedi di organizzazioni comunitarie, ristoranti, parrucchieri, negozi di calzature, un’agenzia di credito e scuole private. Il centro commerciale dismesso ha offerto l’occasione di recuperare un’area sospesa orientandola a soddisfare le esigenze di una comunità sottoservita e svantaggiata dal punto di vista economico e sociale, soprattutto attraverso la promozione e coinvolgimento della comunità. Infill development significa letteralmente riempire le aree urbane non utilizzate o abbandonate in fasi successive. È una strategia estrema messa in atto per quei centri commerciali per i quali momentaneamente non è possibile o proficua una riconversione ad uso abitativo o ad altre destinazione d’uso. In tal senso si promuove un riuso del suolo, in alternativa all’edificazione, come nuovi terreni suburbani, boschi, aree agricole, da intendersi come serbatoi di naturalità, come nel caso della fascia commerciale vuota del Phalen Village, in Minnesota, che è stata restituita alla natura attraverso il ripristino della zona umida, oppure il progetto di parco sull’area del dismesso Columbus City Center, in Ohio. Questa strategia è una fase transitoria e quasi mai definitiva, molto discussa dal punto di vista teorico, ma nei fatti ancora non molto utilizzata, soprattutto perché nella maggior parte dei casi il centro commerciale è di proprietà privata e quindi c’è l’interesse a reinvestire i capitali in strategie edificatorie e remunerative. Queste tendenze nella realtà non sono mai nette, ma negli esiti reali sfumano i loro contorni, fino a intrecciarsi e sovrapporsi per fare reagire le risorse latenti di questi paesaggi commerciali dismessi in una condizione di obsolescenza fisica ed economica. Tendenze che possono offrire numerosi spunti di riflessione e intervento anche per la realtà italiana, purchè si intercettino le dinamiche dei territori dove questi ricadono, spesso latenti eppure fortissime come nel caso dei paesaggi fra Napoli e Caserta, e si registrino desideri ed esigenze degli abitanti, per orientarsi verso scelte integrate con il sistema politico, sociale ed economico che caratterizza quel determinato paesaggio, ponendo una domanda di radicamento con il luogo.
Ripensare i centri commerciali Se da un lato le tendenze del demalling individuano delle azioni possibili per il recupero dei centri commerciali dismessi, dall’altro lato spingono a maturare un punto di vista per intervenire nel dibattito attuale sulla promozione e realizzazione di nuovi centri commerciali, con una cognizione di causa maturata in base alla valutazione degli esiti di progetti precedenti e alle possibilità di intervento. La diminuzione del ciclo di vita di un centro commerciale e l’insorgere di una latente obsolescenza dopo meno di 10 anni dall’apertura, spinge a ragionare su nuove strategie capaci di programmare l’inevitabile obsolescenza fisica, ma soprattutto economica e sociale. Nella maggior parte dei casi le strategie provano a coniugare lo shopping con il leisure, potenziando l’offerta ristorativa o tematizzando il centro commerciale. Strategie che purtroppo non intervengono su una riformulazione del format, ma piuttosto su un re-design del consueto contenitore, incorrendo nel rischio di una precoce obsolescenza e l’inevitabile crisi. Ciò sta spingendo a sperimentare nuove strategie, orientate verso temi innovativi e questioni emergenti che provano ad andare oltre l’intervento circoscritto al contenitore, delineando tendenze incentrate sul paesaggio e sul contesto, sulla processualità e sul ciclo di vita, sulla sostenibilità economica e ambientale. Una prima tendenza vede il ritorno della centralità dello spazio aperto e il riavvicinamento del centro commerciale verso il centro urbano. Il consumatore è sempre più orientato a prediligere centri commerciali che 13
Congress for the New Urbanism & U.S. EPA, Malls into Mainstreets, 2005. Rapporto scaricabile da http://www.cnu.org/sites/files/mallsintomainstreets.pdf. 14 Ibidem K.M. Chilton, 2005 Vincenza Santangelo
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si sviluppano su delle piazze e che hanno una maggiore varietà del rapporto spazio aperto-spazio chiuso, dove poter replicare la logica della viabilità pedonale del centro urbano, smussando la forzatura dell’induzione delle percorrenze del vecchio format di centro commerciale. Ciò spinge in fase progettuale già a prevedere una sempre più consistente aliquota di area da destinare a spazi aperti, che possano non solo attirare più fruitori aumentando la qualità del luogo, ma anche essere di supporto per un’eventuale dismissione e relativa variazione o integrazione di nuove destinazioni d’uso 15. Una seconda tendenza è quella della smart growth. Già da alcuni anni molte città statunitensi, ma anche alcune nordeuropee, stanno limitando le dimensioni dei grandi edifici commerciali usando norme di tipo quantitativo e qualitativo, prevedendo in alcuni casi un versamento cauzionale per la demolizione nel momento stesso dell’edificazione di un grosso complesso commerciale. In tal modo se in futuro gli edifici dovessero rendersi vacanti queste somme sarebbero utilizzate per demolirli per ripristinare le condizioni iniziali dell’area o per avviare processi di riconversione 16. Una terza tendenza è incentrata sul tema dell’eco-planning: contenimento del consumo di suolo attraverso la massimizzazione di superfici permeabili e densificazione delle parti edificate, tutelando le aree con valenza ambientale e naturalistica; contenimento dei consumi energetici attraverso l’utilizzo di strategie passive tali da diminuire l’aliquota dei consumi energetici per il funzionamento del centro commerciale e la promozione dell’utilizzo di energie alternative/rinnovabili per rispondere al fabbisogno quotidiano; contenimento dell’impatto ambientale dovuto alla rete infrastrutturale dei trasporti attraverso la promozione di una mobilità sostenibile orientata verso un maggiore utilizzo del trasporto pubblico. Strategie che provano a progettare secondo una chiave eco-orientata sia il centro commerciale sia le aree entro cui ricadono 17. Tendenze, ancora una volta, mai nette, ma sempre intrecciate tra loro negli esiti reali, che andrebbero ogni volta ripensate a seconda del contesto in cui ricadono e delle reali domande ed esigenze degli abitanti.
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“Antropocene” Millo 2012 ®
Atti della XV Conferenza Nazionale SIU Società Italiana degli Urbanisti Pescara, 10-11 maggio 2012
L’Urbanistica che cambia. Rischi e valori
by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723-0993 | n. 25, vol. 2/2012