Atelier 7.
Patrimonio e progetto di territorio Coordina: Daniela Poli, David Fanfani Discussant: Anna Marson
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Crediti
Comitato scientifico della XV Conferenza Nazionale SIU: Alessandro Balducci (Segretario SIU), Massimo Angrilli (Responsabile), Alberto Clementi, Roberto Bobbio, Daniela De Leo, Luca Gaeta (Tesoriere), Elena Marchigiani, Daniela Poli, Michelangelo Russo, Maurizio Tira Segreteria organizzativa della XV Conferenza Nazionale SIU: Massimo Angrilli (Coordinamento), Cesare Corfone, Antonella de Candia, Claudia Di Girolamo, Federico Di Lallo, Fabio Mancini, Mario Morrica, Patriza Toscano, Ester Zazzero (Mostra Piani di ricostruzione), Luciano Di Falco (Assistenza tecnica) La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è il risultato di tutti i papers accettati alla conferenza. Solo gli autori regolarmente iscritti alla conferenza sono stati inseriti nella presente pubblicazione. La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è stata curata dalla redazione di Planum. The Journal of Urbanism: Giulia Fini e Salvatore Caschetto con Marina Reissner Progetto grafico: Roberto Ricci Segreteria tecnica SIU: Giulia Amadasi, DiAP - Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano L’immagine della copertina della pubblicazione e delle copertine dei singoli Atelier sono tratte da opere di Francesco Millo ©. Francesco Camillo Giorgino in arte Millo nasce a Mesagne (BR) nel 1979. Consegue la Laurea in Architettura e parallelamente porta avanti una personale ricerca estetica nel campo della pittura, spaziando dalla micro alla macroscala “rivelando la labilità dell’esistenza umana, sospesa a metà tra ciò che conosciamo e ciò che si nasconde dentro di noi” (Ziguline). Riceve diversi premi e riconoscimenti in ambito nazionale, fra cui il prestigioso “Premio Celeste” nel 2011.
Abstract Gli assetti fisici del territorio corrono il forte rischio di essere tuttora il prodotto di logiche settoriali che stentano a passare nei fatti dalla regolazione degli usi del suolo (monosettoriale e monodisciplinare) al governo del bene comune territorio (intersettoriale e transdisciplinare). Il territorio, inteso come costrutto sociale ad alta complessità , deve essere invece oggetto di una nuova forma di progettualità e di una nuova governance solidaristica e cooperativistica in grado di mobilitare risorse endogene per impostare uno sviluppo locale, effettivo e durevole, capace di creare valore aggiunto territoriale. L’Atelier intende discutere attorno a questa tematica, con l’illustrazione di ricerche e casi studio nazionali e internazionali.
Indice
Atelier 7.
Patrimonio e progetto di territorio Coordina: Daniela Poli, David Fanfani Discussant: Anna Marson
Patrimonio fra identità e trasformazione Referenzialità e continuità nel piano Elvira Petroncelli Tra innovazione e permanenza. Pratiche di pianificazione nel rispetto delle regole insediative di lunga durata Elisa Butelli, Matteo Massarelli Conservazione e diritto alla città Marialessandra Secchi Opportunità e limiti nella dimensione fisica della città flessibile Roberto De Lotto, Cecilia Morelli di Popolo Patrimonio per il progetto del territorio aperto e delle risorse agro-ambientale Prime mosse per una nuova sinergia fra agricoltura e paesaggio della Brianza orientale Anna Moro, Christian Novak Progetto di parco fluviale. Volano di riqualificazione e ricucitura territoriale Tullia Valeria di Giacomo L’integrazione della mobilità per la fruizione del patrimonio Antonio Taccone La “pluralità” del paesaggio nel “progetto” del patrimonio territoriale Mauro Francini, Annunziata Palermo Aree protette e ambiti rurali, livelli di pianificazione e gestione divergenti tra territori omologhi e confinanti. Un caso di studio: il parco del Pollino. Antonio Scarpino Patrimonio come riuso e messa in valore delle dotazioni territoriali Centralità del territorio e sviluppo: ripensare la rete locale dei luoghi a partire dalle differenze Leonardo Lutzoni Per un censimento italiano dei paesi abbandonati tra valore identitario e possibili scenari di rivitalizzazione Luca Di Figlia Nuovi paradigmi per un governo eco-sostenibile del territorio Domenico Passarelli, Maria Sapone Indirizzi e metodi di ricomposizione paesaggistica: la governance per il patrimonio Fabio Converti Il paesaggio energetico-culturale per il futuro dei territori marginali: i paesaggi potenziali delle Valli del Leno, Trentino, Italia. Marco Malossini Patrimonio come bene comune per la costruzione di visioni condivise La costruzione sociale del patrimonio e il ruolo della pianificazione territoriale e urbanistica Alberto Budoni Nuove geografie dell’auto-organizzazione Cecilia Scoppetta La Carta dei valori, metodo e possibilità. Il caso Carnia Paola Pellegrini
Il progetto di territorio negli strumenti di attuazione della programmazione 2007-2013 della Regione Molise Mario Morrica Patrimonio e rigenerazione urbana Gli strumenti del rinnovamento urbano di Trapani Alessandra Badami Rigenerazione urbana del centro storico di Barcellona Mauro Francini, Myriam Ferrari La decostruzione dello spazio urbano verde: i community garden nella esperienza italiana Giorgia Lubisco, Pierangela Loconte Il “contratto di fiume� per la pianificazione del sistema insediativo della Val d’Ofanto: tra approcci bioregionali, animazione territoriale e azioni concorrenti Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
Referenzialità e continuità nel piano
Referenzialità e continuità nel piano Elvira Petroncelli Università di Napoli Federico II Dipartimento di Pianificazione e Scienza del Territorio Email: elvira.petroncelli@unina.it Tel. 081.7682313 / fax 081.7682309
Abstract Le grandi trasformazioni epocali che viviamo inducono spaesamento, soprattutto quando ci confrontiamo con un’idea di futuro. Se i materiali e strumenti sofisticati che ci circondano sembrano dare un senso e una direzione alla nostra esistenza, nella realtà ci chiudono alla visione del passato e del futuro, come se esistesse solo il presente. La conoscenza del passato è funzionale al nostro insopprimibile bisogno di memoria, identità, nonché futuro, e forme di coesistenza e declinazioni integrate e/o complementari rappresentano un imperativo categorico sul quale portare l'attenzione. Non si tratta di definire nuovi strumenti di cui potersi giovare, ma di individuare i fattori cui guardare. Mutamento e trasformazione richiedono continui processi di revisione e adeguamento, ma non per questo riferimenti cangianti. Occorre flessibilità nel definire azioni e livelli di prestazione, esaltare l'esigenza di referenzialità e continuità. Identità/patrimonio diviene un binomio da riscoprire per le sue ricche e multiformi valenze che potrebbero essere recepite come drive force del piano.
Premessa Oggi sempre più siamo fagocitati e circondati da materiali e strumenti sofisticati che pervadono la nostra esistenza e sembrano darle un senso e una direzione, mentre nella realtà ci chiudono alla visione del passato e del futuro, come se esistesse solo il presente. Se le società umane hanno sempre ritrovato il proprio fondamento identitario nel rapporto con il passato, oggi sembra che questo sia utile solo quando può diventare “presente”, quando se ne possono usare frammenti, magari decontestualizzati. Il presente, dunque, non appare più come l'esito del lento evolversi del passato, ma sovente si impone come un fatto compiuto la cui comparsa fa svanire sia il ricordo del passato che l'immaginazione dell’avvenire; sembra qualcosa di completamente nuovo: ragioniamo in termini di rottura con il passato. Eppure il rapporto con il passato può portare a dare risposta al bisogno futuro e forma al mondo di domani. Pur se la maggior parte di noi non ha una chiara idea di come sarà il mondo tra qualche anno, come urbanisti e pianificatori abbiamo il compito di guardare in avanti e di definire adeguate forme di governo delle trasformazioni territoriali e di protezione dell’ambiente. Come orientarsi in un contesto così mutevole e complesso? Fin dalle origini la nozione di città e quella di territorio sono state investite da una duplice corrente di richieste e di “desideri”: consideriamo la città e il territorio come “grembo” e nello stesso tempo come “macchina”. Li vogliamo come un luogo nel quale ritrovarci, riconoscerci come comunità, un luogo accogliente dove sostare ed essere in pace, ma al contempo li consideriamo una macchina, una funzione, uno strumento che ci permetta con il minimo impedimento di svolgere i nostri negotia, i nostri affari e impegni. Da un lato dunque guardiamo allo spazio come luogo di otium, di scambio umano, sicuramente fattivo, attivo, intelligente, una dimora, dall'altro come luogo dove poter sviluppare nel modo più efficiente i nostri nec-otia. Allo spazio continuiamo a chiedere dunque due cose differenti e quando la città diventa solo “negozio” cominciamo le fughe da essa; quando questa assume davvero le caratteristiche di un luogo d'incontro ricco dal punto di vista simbolico e comunicativo distruggiamo immediatamente tale tipo di luogo perché contrasta con la funzionalità della città come macchina e come mezzo.
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Viviamo condizioni dense di conflitti e certo non è retorico il domandarsi: cosa chiediamo allo spazio in cui viviamo? Chiediamo di essere uno spazio nel quale ogni forma di ostacolo al movimento, alla mobilitazione universale, allo scambio, sia ridotto ai minimi termini, o chiediamo di essere uno spazio in cui ci siano luoghi di comunicazione, luoghi pregnanti dal punto di vista simbolico, luoghi dove vi sia un'attenzione all'otium? Fino a che guardiamo a tali interrogativi in termini contraddittori credo sia impossibile trovare ad essi risposte concrete. Forse, piuttosto, abbiamo bisogno di superare il dilemma e di dare forma alla città ed al territorio valorizzandoli in quanto tali, facendoli esplodere nella loro ricchezza di valori.
Spunti per la riflessione Occorre superare le contraddittorietà e fare progetti che consentano di declinare mutamento della città contemporanea e delle componenti del territorio. Un primo suggerimento può venirci dalla definizione di “paesaggio” come formulata nella Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) del 2000 la quale aiuta a guardare con interesse a una sorta di simbiosi tra componenti di tipo diverso. Luoghi e soggetti appaiono in stretto rapporto e risulta fondamentale coniugarli insieme, così come in tempi recenti si vanno sempre più declinando insieme, ad esempio, risorse e patrimonio culturale. Le risorse culturali hanno nella popolazione, e nei prodotti della sua azione, testimonianze forti da riconsiderare sotto diversi profili. Le immagini, idee e formule che ci vengono dal passato non sono da guardare e conservare in modo statico, ma da considerare nel processo dinamico di trasmissione, reinterpretazione e trasformazione. Esse devono rimandarci a meccanismi di rilettura e di riconsiderazione all’interno di un orizzonte di permanenze, forte deve essere il senso di continuità. La conoscenza del passato è funzionale al nostro insopprimibile bisogno di memoria, identità e futuro. Forme di coesistenza e declinazioni integrate e/o complementari devono rappresentare per noi un imperativo categorico e portarci a riflettere su possibili strategie capaci di far leva su sistemi di relazione. La crescente attenzione che oggi sembra manifestarsi intorno al patrimonio culturale, non ultimo in ragione di sue intraviste valenze economiche, non ha certo avuto origine da un omaggio alla tradizione, ma da un forte bisogno di riferimenti, ed in un certo senso di radici e di specificità, che ha innescato un lento processo di riappropriazione. Questo, nel recuperare l'influenza del “patrimonio” sulla nostra cultura, ha portato gradualmente a ripensare le ragioni ed i metodi che ne hanno permesso l'affermazione. La cultura, d’altra parte, non è l'espressione di forze e scopi stabili nel tempo, ma ha una natura dinamica, fluida e mutevole. Oggi ad esempio, che la globalizzazione ci avvolge, ci troviamo sempre più spesso a parlare di identità. Riconsiderare con più attenzione alcuni termini ormai entrati nel lessico comune potrebbe aiutarci a riflettere su potenzialità e valori che si celano nelle diverse “risorse” e ad individuare elementi referenziali per i nostri processi di sviluppo. Non si tratta di mettere a punto protocolli, nel tentativo anche di disporre di dispositivi che offrano soluzioni in tempo reale, ma di mettere in campo processi di riconsiderazione e ricerca di reali valori cui riteniamo voler aspirare. In quest'ottica è possibile ad esempio cogliere come l’identità, che fa riferimento ad elementi tangibili o intangibili e si configura in ragione di quanto l’uomo nel tempo ha contribuito più o meno consciamente a configurare, non ha un valore intrinseco e richiede l’esistenza di una comunità o di individui che la percepiscono come carattere fondamentale che consente l’identificazione. Le identità si costruiscono e si consolidano attraverso la stratificazione degli usi e dei significati che si sedimentano nei luoghi in stretta sintonia con l’evolversi dei modi di vita della comunità e non si possono creare artificialmente, riproducendo semplicemente manufatti e quanto altro: nel suo processo di definizione l’identità richiede un comportamento attivo della componente sociale. Pur se il senso di appartenenza di una popolazione ad un contesto viene espresso attraverso la sua cultura, le attività e le tradizioni, nonché le tipologie edilizie, i colori ed i materiali che esso utilizza, l’identità è espressione di caratteri non necessariamente relazionati ad un luogo. Il termine genius loci (spirito del luogo), di contro, fa leva proprio sulla accezione antropica del termine “luogo” ed è utilizzato per indicare tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di avere un’identità e di essere relazionali e storici; in tal senso è espressione dell'interazione luogo/identità. Come ha scritto Norberg-Schultz “Un luogo è un fenomeno 'totale' qualitativo, che non può essere ridotto a nessuna delle sue singole caratteristiche...”. Il genius loci racchiude e permette di leggere e di interpretare la “memoria” del territorio, la sua sapienza ambientale, le sue leggi di crescita ed il suo sistema di relazioni e di governo. Di pari è forse interessante sottolineare come la nozione di centro storico non rinvia semplicemente ad un contesto fisico, ma ad una molteplicità di componenti e di valenze, nonché ad una serie di valori intangibili. Al di là di quella che può essere la consistenza del patrimonio architettonico, nei centri storici sono celate innumerevoli ricchezze legate alla storia, all’economia, all’organizzazione sociale, alla distribuzione dei poteri, alla geografia stessa del territorio in cui ricadono ed al quale in qualche modo risultano indissolubilmente connessi. Quanto maturato in relazione alla CEP 2000 ha aiutato a comprendere infine come il paesaggio è il prodotto dell’interazione di un insieme di elementi materiali ed immateriali che ne caratterizzano l’aspetto e la valenza e che in tal senso esso è espressione di culture e di identità profonde dei singoli territori, legate alle popolazioni Elvira Petroncelli
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che in essi vivono ed operano: nel concetto di paesaggio si fondono l’analisi dei luoghi con la configurazione delle identità.
Patrimonio e progetto di territorio La qualità della vita e la coesione sociale dipendono dalla capacità di trasformare le idee in modelli di comportamento e le lezioni della storia appaiono oggi più che mai necessarie e fondanti, se ricomposte in un nuovo progetto. Il patrimonio è un secolare testimone di molteplici tradizioni, scambi, incroci di culture, identità in costante cambiamento. Riflettere su eventi e documenti per conoscere e comprendere le diverse culture costituisce un buon punto di partenza. La cultura tradizionale ha sempre considerato fondamentale per l’apprendimento: la gradualità del processo cognitivo, che impone priorità e prerequisiti nell’acquisizione delle conoscenze; la gerarchia, che suggerisce scale di valori e di importanza delle conoscenze; l’autorità, grazie alla quale si impara ascoltando quanto hanno da dirci le persone più colte di noi. I nuovi media sembrano per alcuni versi voler ignorare tutto ciò ed essere, anzi, in forte dissonanza. La notevole prevalenza di immagini e la difficoltà di concentrazione sembrano ridurre il senso critico. Le scarse possibilità di approfondimento causano un apprendimento orizzontale, ovvero esteso a svariati soggetti, ed impediscono apprendimenti verticali che portano il pensiero a penetrare gradualmente la complessità di un argomento o di un problema. Non si tratta solo di differenze di attitudini e di metodi sul piano meramente quantitativo, ma anche qualitativo. Immagini, musica, gossip, informazioni, occupano tanto spazio nella vita e nella mente delle persone da renderle incapaci di assimilare nozioni più complesse. La “rete” ha completamente modificato le nostre coordinate spazio-temporali, ha creato comunità virtuali e consentito libero accesso alle informazioni che non sempre finiscono con l’essere colte nella giusta dimensione: “libertà di accesso” non significa di per sé conoscenza. In tale contesto le risorse patrimoniali possono essere considerate un mezzo utile per lo sviluppo, anche in presenza di difficoltà economiche, proprio perché non esiste una stretta correlazione tra disponibilità di risorse patrimoniali e economiche. I valori del patrimonio sono estetici, spirituali, sociali, storici, simbolici e relativi all'autenticità e richiedono, ad esempio, scale diverse di valutazione economica inerenti: • questioni finanziarie ed economiche, • risorse disponibili (fondi e incentivi finanziari ed economici), • benefici economici della conservazione (creazione posti lavoro, crescita del valore, flussi turistici, forme di rivitalizzazione, processi economici, …). Lo sviluppo economico locale trova nel territorio e nel suo patrimonio di risorse l'elemento chiave per stimolare la crescita e favorire il miglioramento delle condizioni di vita. In certe zone rurali o piccole città storiche il patrimonio storico, culturale e paesaggistico, materiale e immateriale, può divenire drive force (per promuovere turismo e sviluppo socio-economico) e vettore di rivitalizzazione della base economica. Il patrimonio, oltre che fattore per l’innesco di sviluppo, può contribuire a sostenerlo e ad accelerarlo. Per quanto la disciplina dell'economia della conservazione del patrimonio sia ai suoi primi passi e le metodologie e gli indicatori che si vanno costruendo abbiano ancora bisogno di alcune precisazioni per riuscire a definire un approccio sistematico, la disciplina economica tradizionale offre già alcuni indicatori utili per riuscire a misurare e valutare l'impatto dei diversi tipi di intervento (ad esempio: numero posti di lavoro creati, entrate fiscali generate, PIL,..) o altri elementi ritenuti possibile espressione della qualità della vita, dell’attaccamento dei cittadini, delle pratiche e di quanto altro legato all'economia del comportamento. Approcci derivati dal quadro ambientale, infine, permettono di stimare il valore dei beni per i quali non esiste un mercato, così come di quelli del contesto patrimoniale. A ben guardare, dunque, il quadro appare ricco di multiformi valenze, delle quali ancora molte sono da esplorare. Sorge allora spontanea la domanda: fino a che punto oggi il Piano dà realmente spazio alle molteplici risorse che possono essere messe in campo, permettendo adeguate prospettive alla loro multiforme consistenza e fungibilità? Non credo che la soluzione all’attuale situazione di crisi risieda nell'individuazione di nuovi strumenti da mettere a punto, quanto, al di là di possibili loro riformulazioni, nella riconsiderazione e rilettura di componenti e nella revisione delle logiche e decisioni da assumere con il Piano, nella buona gestione di quanto si possiede. Il vero rischio credo oggi risieda nel non considerare adeguatamente le componenti che entrano in gioco, con la loro valenza e portata, nel non gestirle in modo opportuno. Non ci si pongono precisi interrogativi su: • perché prendere in considerazione certe componenti? (finalità e obiettivi) • in che modo guardare ad esse? (criteri da adottare) • su quali occorre intervenire? (componenti da focalizzare) • come, dove, quando, in che modo intervenire? (principi cui fare riferimento). Credo cioè che forse oggi uno dei rilevanti problemi da affrontare non sia legato alla definizione di nuovi strumenti di cui potersi giovare, ma all’individuazione di “modelli” cui guardare e di fattori da considerare. Gli strumenti devono poter essere testati e adeguatamente flessibili. Questo è ormai evidente. È l’idea cui rapportarsi Elvira Petroncelli
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che manca. L’aver chiari finalità e obiettivi è fondamentale, così come l’essere coerenti nella scelta delle azioni da implementare. Come sempre, non sono le cose buone o cattive, valide o non valide, ma è l’uso che se ne fa di esse che rende buoni o cattivi gli esiti degli utilizzi. Forse un’utile lezione la potremmo desumere da quanto iniziative in organi internazionali hanno messo in atto per meglio ottemperare agli obiettivi che si erano dati. Quando nel 1977 fu decisa l’istituzione di un Comitato intergovernativo del Patrimonio Mondiale, con potere decisionale circa le questioni relative a quella ormai molto nota Lista del Patrimonio Mondiale (WHL) furono definiti, al di là dei criteri per accedere all’iscrizione, una serie di elementi a supporto e garanzia, quasi, della futura salvaguardia e valorizzazione (esistenza di forme di protezione giuridica, di strumenti urbanistici, …). Gradualmente però ci si è resi conto che, soprattutto nel caso di aree urbane, caratterizzate cioè gioco forza dall’esistenza di processi dinamici, forte diveniva l’esigenza, da un lato, di dare spazio nel tempo a nuove formulazioni dei piani, dall’altro, di definire efficaci modelli di gestione delle risorse a carattere storico, artistico e ambientale, in modo da orientare meglio le modalità di attuazione del processo di tutela e di sviluppo del “bene” e, indirettamente, le scelte di pianificazione urbanistica ed economica dell’area. Per quanto esuli dalle possibilità del Comitato intervenire nella definizione vera e propria dei piani urbanistici, o comunque formulare richieste al di fuori di quanto la legislazione locale prescrive, è pur vero che appare ormai ineludibile la formulazione di un cosiddetto Management Plan che, nell’identificare nello specifico le problematiche che devono trovare risposta, mira a selezionare le possibili modalità di intervento nel quadro di una politica di sviluppo locale sostenibile, delineando dal punto di vista strategico ed operativo i risultati perseguibili. Si tratta per alcuni versi cioè, sulla base del valore rivestito dal bene (in relazione alla motivazione dell’inserimento nella WHL) e delle potenzialità e problematiche che la situazione specifica presenta, di individuare e di attivare soggetti promotori, nonché di favorire accordi tra soggetti istituzionalmente competenti e portatori di interesse. Più che di un piano, lo si potrebbe vedere come un articolato elaborato tecnico utile per rendere operativo un processo di tutela e sviluppo, condiviso da più soggetti e formalizzato attraverso un accordo tra diverse categorie di attori. Indubbiamente esso è il frutto di differenti tipi di attività: da quelle di analisi (tese ad un migliore riconoscimento e identificazione del valore del patrimonio e dell’insieme), a quelle di stesura organica, sistematica e coordinata dei diversi obiettivi, strategie e programmi di intervento connessi sia con la tutela e la conservazione del patrimonio culturale e ambientale, che con la stessa valorizzazione di tale patrimonio (nel tentativo tra l’altro di eliminare o mitigare elementi di disturbo), a quelle volte a definire forme di sviluppo socio-economico (fondato sulla conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale del territorio) o di coinvolgimento delle comunità e degli attori locali, ecc.. Il notevole cammino percorso, che ha portato organismi diversi (UNESCO, ICOMOS, ICCROM, …) a dare il loro contributo alla messa a punto di “Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention” in progress, credo possa offrire molteplici spunti per la riflessione. Allorché nel corso degli anni vicende diverse hanno reso necessario, ad esempio, la redazione di nuovi strumenti urbanistici, quanto connesso all’esistenza della nomination ed all’inserimento nella WHL ha rappresentato un riferimento importante ed indiscusso. I “vincoli” da esso generati, se così li si vogliono chiamare, per quanto abbiano potuto determinare momenti di grandi difficoltà per le stesse Amministrazioni locali o per gli attori in generale, sono venuti quasi a rafforzare dei valori, a farli divenire volani di sviluppo, oltre che di forme associative le quali hanno avuto il merito di stimolare i legami socio-culturali e le identità. Si potrebbe dunque rilevare che, senza dover introdurre nuove gamme di strumenti di pianificazione, si è riusciti a favorire la salvaguardia e la valorizzazione dei beni, nonché a sortire positivi risultati nei confronti della qualità della vita e di tutto quanto ruota attorno a ciò (non ultimo il sistema economico sociale) facendo leva sulla riconsiderazione del patrimonio di risorse che l’azione dell’uomo ha configurato nel tempo. Purtroppo molto spesso oggi le comunità non sono indotte a cogliere il valore ed il potenziale che il loro patrimonio racchiude e ancor meno riescono a percepirlo come parte importante del loro esistere. Presi cioè dal presente non si considera adeguatamente il ricco patrimonio di risorse di cui disponiamo, non se ne riescono così a declinare i valori.
Conclusioni Spesso non è chiaro i piani, e le norme in essi contenute, quali assetti tendano a configurare, quali modelli inseguano. Il sempre maggiore senso di precarietà e di incapacità a configurare possibili e reali scenari futuri rende drammatico il lavoro. Mutamento e trasformazione richiedono continui processi di revisione e adeguamento di strumenti e mezzi, ma non per questo riferimenti cangianti. Individuare elementi e valori capaci di assurgere a riferimenti porta a richiedere flessibilità nel definire azioni e livelli di prestazione, ad esaltare l'esigenza di una chiara referenzialità e continuità, a trovare forme di gestione e controllo. Identità/patrimonio può divenire un binomio da riscoprire per le sue ricche e multiformi valenze che potrebbero essere recepite come drive force del piano, ma anche per gli insegnamenti che possono offrire.
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Tra innovazione e permanenza. Pratiche di pianificazione nel rispetto delle regole insediative di lunga durata.
Tra innovazione e permanenza. Pratiche di pianificazione nel rispetto delle regole insediative di lunga durata. Elisa Butelli Università degli studi di Firenze Dipartimento di Urbanistica e pianificazione del territorio Email: elisa.butelli@gmail.com Matteo Massarelli Università degli studi di Firenze Dipartimento di Urbanistica e pianificazione del territorio Email: matteteus@libero.it
Abstract La pianificazione urbanistica è chiamata ad affrontare una situazione contraddittoria: da un lato gli approcci diffusi fino agli anni Sessanta - Settanta del Novecento, ancora ben impiantati nella pratica pianificatoria, sono volti a favorire un certo tipo di crescita economica (basata soprattutto sul Pil) che considera il territorio come un ‘foglio bianco’ (Magnaghi 2001, p. 15) su cui stendere in modo indifferenziato le colorate quadrettature delle zonizzazioni monofunzionali, con conseguente uniformità paesaggistica, indifferenza ai luoghi, effetti negativi su ambiente naturale e qualità della vita umana; dall’altro, si stanno affermando ormai da anni approcci volti a osservare i contesti, i loro abitanti, l’interazione uomo - territorio, e a proporre una pianificazione attenta alle specificità locali. Possiamo dire che un approccio del secondo tipo sia oggi relativamente diffuso, almeno a livello normativo e legislativo, tanto che molti piani di recente approvazione sono improntati su questi principi. Ma gli effetti della precedente prassi urbanistica continuano ad ostacolare una piena operatività ed efficacia dei piani ‘di nuova generazione’.
Il cambiamento di approccio e i suoi presupposti teorici. I paradigmi dell’urbanistica moderna, basati su un’idea di ‘crescita illimitata’, entrano in crisi negli anni Settanta del Novecento: in Italia, il cambiamento di rotta sarà sancito dalla legge 431 del 1985, 1 che si poneva essenzialmente obiettivi di protezione e salvaguardia dell’ambiente naturale. Proprio la coscienza degli effetti negativi su ambiente naturale, salute umana e qualità della vita, determinati dai modelli di crescita imposti dalla rivoluzione industriale e radicalizzatisi nel secondo dopoguerra, ha indirizzato verso un nuovo approccio non solo gli esperti e i tecnici, ma anche gran parte della popolazione. Gli aspetti legati a ecologia e rispetto di natura e ambienti ‘naturali’ ha quindi comportato un certo superamento concettuale della pianificazione moderna, come codificata a partire dalla carta di Atene del 1931 ma in essere già da ben prima. Nelle nuova fase è prevalsa, inizialmente, un’attenzione alle tematiche ambientali e al riconoscimento e alla tutela delle aree storiche e di particolare pregio artistico, in modo da proteggere certi elementi reputati di particolare valore e rilevanza. Così, nel 1986, il Piano paesistico dell’Emilia Romagna 2 ha introdotto il concetto di ‘invariante’: con questo termine si individuavano parti di territorio che dovevano essere tutelate e protette. Nel piano redatto da Bottino si legge: “Lo scopo del piano è indagare e localizzare quei beni che costituiscono delle “invarianti” del sistema territoriale - ambientale, […] la cui tutela e valorizzazione costituiscono condizioni necessarie per le scelte di sviluppo” (Bottino 1987). Da un lato si rileva l’enfasi, tipica del periodo, sugli aspetti ambientali, ecologici, naturalistici, dall’altro un tentativo, particolarmente importante per gli sviluppi successivi, 1 2
Si tratta della cosiddetta ‘Legge Galasso’, dal nome dell’allora Ministro per i Beni culturali e ambientali. Il Piano paesistico dell’Emilia Romagna è stato redatto da Felicia Bottino: significativa la data di redazione (1986), esattamente un anno dopo l’emanazione della Legge Galasso.
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Tra innovazione e permanenza. Pratiche di pianificazione nel rispetto delle regole insediative di lunga durata.
di inserire le parti tutelate anche nei processi economici: gli elementi di valore sono percepiti come ‘vivi’ e devono inserirsi nelle dinamiche della contemporaneità anziché essere da questa astratti come documenti e testimonianze di realtà altre. Già nel piano emiliano-romagnolo, quindi, si ha un primo tentativo di superare l’idea di tutela di elementi puntualmente definiti, assimilabili al concetto di ‘monumento storico’ o ‘ambientale’, memoria di tempi andati o di ecosistemi precedenti la civilizzazione contemporanea e dunque da tutelare per il loro valore di documento. Per quanto la tutela museificante di ambiti specifici abbia indubbiamente svolto un ruolo storicamente importante (Choay 1995), è noto come proteggere e preservare ambiti spaziali limitati e circoscritti, lasciando il resto del territorio libero da vincoli e limitazioni, non aiuta a cambiare i trend negativi in atto per quanto riguarda aspetti ecologici, salute umana, qualità della vita, ecc. Da questa constatazione deriva il tentativo di allargare la dimensione degli oggetti da tutelare, fino a giungere a un approccio che tenta di osservare i palinsesti di lunga durata originatisi dall’interazione secolare tra uomo e ambiente naturale (Corboz 1983), facendoli interagire con la società contemporanea. Gli elementi di lunga durata infatti sono il risultato di un’interazione diretta e costante tra uomo e ambiente naturale: ogni civilizzazione aggiungeva e toglieva qualcosa: si prendevano dal passato gli elementi utili, mentre altri erano cambiati, ma sempre mantenendo elementi e principi essenziali della relazione intima e continuativa tra uomo e luogo specifico, i quali formavano una struttura resistente ai cambiamenti. Con la rivoluzione industriale si sono imposte visioni totalmente differenti, culminate nella globalizzazione contemporanea che tende ad appiattire ogni differenza e peculiarità dei luoghi, valutati solo per le opportunità economiche che possono offrire. In questo modo, le modalità di auto-riproduzione delle risorse locali che le popolazioni ben conoscevano ed erano in grado di adattare a differenti esigenze di civiltà e cultura, sono state progressivamente erose fino quasi ad essere annullate in molte aree, spesso con gravi conseguenze su ambiente, ecosistemi, paesaggi, qualità di vita delle persone, identità sociale. Si è così sempre più affermata una critica alla pianificazione moderna e industriale, con conseguente elaborazione di visioni alternative. I concetti di invariante (strutturale), di lunga durata, di palinsesto territoriale sono così entrati al centro del dibattito, ponendo il problema di una revisione anche radicale dei presupposti della disciplina urbanistica e delle pratiche di pianificazione territoriale, partendo proprio da ciò che nella lunga durata è riuscito a sopravvivere alle diverse epoche storiche (Marson 2008, p. 11). L’invariante strutturale può avere molte definizioni ed essere interpretata in modi diversi: si oscilla tra posizioni volte alla conservazione (per Cervellati si può parlare solo di restauro dell’esistente) e posizioni orientate alla tutela attiva, rifuggendo da un’idea museificata del territorio o parti di esso. Nella definizione di invariante è sempre comunque assai rilevante il rilievo dato alla conoscenza, il più possibile profonda, accurata, esaustiva, interdisciplinare, delle identità locali basata su conoscenza storica e consapevolezza ambientale e paesaggistica contestuale, tenendo conto delle “particolarità dei valori ambientali ed in special modo dei rapporti indissolubili che esistono tra i singoli beni e il relativo contesto” (Gambino 1997, p. 58). Le invarianti sono dunque un complesso sistema di elementi, relazioni e relativi assetti formali che, ereditato dalle precedenti civilizzazioni, deve essere recuperato e innestato nella contemporaneità. Le invarianti strutturali, dunque, “sono [...] elementi (beni, tipi territoriali, relazioni tra sistemi territoriali e ambientali) strutturanti il territorio e sono la sua identità, la sua salute, la sua qualità, il suo paesaggio, il suo potenziale come risorsa patrimoniale durevole” (Regione Toscana 1999, cit. in Magnaghi 2001, p. 43). I caratteri identitari dei luoghi sono individuabili nei processi di lunga durata che hanno articolato ogni territorio in forme caratteristiche: tali caratteri possono allora indicare "direttive, prescrizioni, azioni per la tutela e la valorizzazione secondo obiettivi prestazionali riferiti alla sostenibilità dello sviluppo, dal momento che è la permanenza e la durevolezza di tali caratteri a costituire l’indicatore principale della sostenibilità" (Regione Toscana 1999, cit. in Magnaghi 2001, pp. 43-44). Ma questa applicazione alla realtà contemporanea dei caratteri identitari di lunga durata non dovrebbe avvenire in un’ottica meramente conservativa che immobilizzi le parti storiche o ‘naturali’ del territorio. Al contrario è opportuno agire in una prospettiva di ricostruzione territoriale, in cui gli elementi che hanno da sempre caratterizzato i luoghi possano evolversi insieme al sempre mutevole ambiente esterno, mantenendo riconoscibili le matrici di appartenenza che rappresentano il “valore di un luogo” e la struttura del territorio, e sulla cui tutela si devono basare le azioni per la sua trasformazione e valorizzazione. La dinamicità è allora caratteristica sostanziale dell’invariante, la cui permanenza deriva dalla sua capacità di durare nel lungo periodo, adattandosi e rispondendo in modo adeguato ai cambiamenti e alle mutate esigenze delle società insediate, in una evoluzione continua. 3 Ecco che gli approcci recenti al patrimonio di lunga durata, individuato dalle regole invarianti, non vogliono limitarsi a immobilizzare con norme e vincoli gli elementi storici presenti sul territorio, ma richiamano l’idea di evoluzione e mutamento, mantenendo però la riconoscibilità delle matrici identitarie, sulla cui tutela si vanno a basare le azioni di trasformazione e valorizzazione del territorio. Una dinamicità che interessa sia gli oggetti da conservare, sia le modalità di produzione e riproduzione di questi, e dunque diviene importante non la tutela dei processi ‘in grado di mantenere libelli di equilibrio che garantiscano la conservazione delle risorse’ (Gibelli 2010, p. 4). 3
L’inviariante strutturale, infatti, non è stata introdotta nell’ambito dell’urbanistica, ma in quello delle discipline biologiche, dove indica quei caratteri dei sistemi viventi che, non mutando nel tempo, “garantiscono la conservazione del sistema e il suo adattamento a perturbazioni esterne” (Regione Toscana 1999, cit. in Magnaghi 2001, p. 43).
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La strada verso nuovi modelli di pianificazione territoriale sembrerebbe spianata. Ma il problema risiede nella difficile applicabilità concreta delle leggi stesse, anche quando supportate da intenti e approcci teorici ormai consolidati e strutturati, con la conseguenza che gli obiettivi di una pianificazione volta al rispetto effettivo delle invarianti ne risulta sostanzialmente compromessa. Ad esempio, nonostante in Italia vi sia una normativa per il paesaggio tra le più avanzate in Europa, ancora non è facile governare adeguatamente il paesaggio: si passa da “zone santuario” della natura, della storia e dell’espressione artistica, dove niente è permesso, a zone della trasformazione anche brutale. La Convenzione Europea per il Paesaggio (Firenze 2000) potrebbe in una certa misura essere d’aiuto a superare l’impasse: la Convenzione, infatti, invita a superare soluzioni di congelamento delle forme ereditate e a considerare il mutamento come un valore, poiché pone l’accento sulle politiche, le azioni, gli attori e le risorse adatte a preservare, mantenere e riqualificare i paesaggi esistenti soprattutto tramite forme di gestione attiva che coinvolgano, motivino e responsabilizzino i molteplici soggetti che possono agire nella costruzione di paesaggio (Clementi, 2004).
Il caso della Regione Toscana Dopo l’esperienza della regione Emilia Romagna (1986), in cui le invarianti fanno la loro prima comparsa ufficiale negli atti di un piano urbanistico, si ha una nuova versione del concetto, stavolta più articolata, nella L.R. 5 / 1995 della Toscana, all’interno del art. 5, Norme per la tutela e l’uso del territorio, dove si legge che tutti i livelli di piano previsti dalla legge devono individuare le invarianti strutturali da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile. 4 Le invarianti strutturali così definite sono state oggetto di dibattiti e discussioni e, nella pratica, le amministrazioni ne hanno dato differenti interpretazioni, tutte coerenti con la legge ma talvolta in conflitto con il concetto stesso di invariante, così come codificato teoricamente e come promosso nelle intenzioni della legge, forse anche a causa della non stringente definizione del termine stesso. Si dovrà attendere la successiva legge regionale sull’argomento, la n. 1 del 2005, per una definizione più precisa delle invarianti: nell'art. 4, Invarianti strutturali, si legge che “le risorse, i beni e le regole relative all’uso, individuati nello statuto, nonché i livelli di qualità e le relative prestazioni minime rappresentano le invarianti strutturali del territorio da sottoporre a tutela al fine di garantire lo sviluppo sostenibile”. Nella nuova legge è lo Statuto ad assumere le invarianti strutturali come “elementi cardine dell’identità dei luoghi”, tramite l’individuazione di regole insediative e di trasformazione del territorio, la cui tutela garantisca, nei processi evolutivi, lo sviluppo sostenibile. 5 È chiaro che l’approccio della legge regionale toscana tenta di unificare le esigenze di tutela ambientale, con la conformazione di un’idea di piano che tenga conto di istanze sociali, condivise dalla popolazione (di nuovo la Convezione europea del paesaggio), e rispetti le invarianti di lunga durata. Proprio le invarianti, infatti, sono particolarmente enfatizzate in quanto caratterizzanti le identità locali, riconosciute dalla popolazione, al contempo adeguate a rispettare gli equilibri ecologici a livello locale poiché emanazione di una costante interazione con il luogo e le sue intrinseche qualità (Figura 1).
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Nella legge è considerato sostenibile “lo sviluppo volto ad assicurare uguali potenzialità di crescita del benessere dei cittadini e a salvaguardare i diritti delle generazioni presenti e future a fruire delle risorse del territorio” che sono (art. 2 della stessa legge): a) aria, acqua, suolo e ecosistemi della fauna e della flora; b) città e sistemi degli insediamenti; c) paesaggio e documenti della cultura; d) sistemi infrastrutturali e tecnologici. 5 Marco Gamberini, architetto responsabile della legge, definisce le invarianti strutturali come "le regole e le prestazioni non negoziabili riferite alle risorse essenziali del territorio interessato per assicurare i livelli ottimali di qualità stabiliti negli statuti stessi [...] L’invariante dunque non è solo un manufatto o un bene ma può essere sia una regola sia anche un livello prestazionale al di sotto del quale non è possibile scendere al fine di non compromettere lo sviluppo sostenibile” (tratto dal seminario “Innovazioni della legge Toscana per il governo del territorio” di Marco Gamberini). Butelli, Massarelli
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Figura 1. Legenda della “Carta delle Invarianti” del Piano Strutturale del Comune di Cinigiano; interessante notare come gli elementi di invarianza vengano investigati da più punti di vista: paesistico-ambientale, storico-insediativa, culturalesociale.
La legge 1 del 2005 stabilisce che ogni ente è tenuto a redigere un piano urbanistico, partendo dal livello regionale (Piano di Indirizzo Territoriale), passando a quello provinciale (Piano Territoriale di Coordinamento) e infine a quello comunale (Piano Strutturale). Al Comune spetta anche la redazione degli Atti di governo del territorio (Regolamento urbanistico, Piani particolareggiati, Piani di settore). Ogni livello di pianificazione (regionale, provinciale e comunale) deve individuare la sua invariante strutturale. Nel Piano di Indirizzo Territoriale regionale (PIT) l’invariante è intesa come funzione e come prestazione associata alle risorse del territorio (insediamenti, territorio rurale, infrastrutture). Nel relativo Statuto sono identificati i sistemi territoriali e funzionali, compresa una serie di invarianti relative sia all’ambito paesaggistico, sia al ruolo dei sistemi insediativi, dei sistemi locali, dei distretti produttivi, delle aree ad elevata mobilità, delle aree di rilievo sovraprovinciale (art. 48, c. 3). Nel PTC provinciale sono individuati i sistemi territoriali e funzionali che definiscono la struttura territoriale e gli ambiti paesaggistici a livello provinciale. Il Comune deve redigere il Piano strutturale (PS), chiamato ad individuare e definire “le risorse che costituiscono la struttura identitaria del territorio comunale definita attraverso l’individuazione dei sistemi e dei sub-sistemi territoriali e funzionali” (art.53). Pur non essendo individuabile una procedura comune per il riconoscimento formale delle invarianti strutturali ai vari livelli della pianificazione, si nota uno sforzo di definizione dei valori prestazionali e funzionali del territorio, adatti a garantire gli obiettivi prioritari di ‘sviluppo sostenibile’ posti alla base della legge. Si tenta dunque esplicitamente di identificare idonee scale spazio - temporali per l’azione pianificatoria, individuando priorità e precedenze nell’elaborazione dei piani stessi: alla scala più vasta si cercano infatti strutture e processi capaci di influenzare le scelte alla scala locale, ma d’altronde, in un processo di feedback reciproco, le scelte ai livelli ‘inferiori’ possono condizionare la scala vasta, in un tentativo di coordinamento e scambio di informazioni fra i differenti livelli dell’amministrazione e le rispettive scale di pianificazione. Il quadro conoscitivo generale è fornito dal livello regionale, le cui linee guida sono valide anche per i livelli provinciale e comunale: la Regione è dunque l’ente di formazione delle strategie generali di pianificazione e sviluppo. I vari livelli di governo, corrispondenti ai tre differenti livelli amministrativi, sono chiamati a indirizzare le politiche territoriali, in una potenziale coerenza e consequenzialità delle azioni. Il PIT regionale, quindi, è lo strumento della pianificazione territoriale che costituisce riferimento per gli strumenti pianificatori degli altri enti amministrativi territoriali. Il primo PIT fu emesso nel 2000, come applicazione della LR 1 del 1995, mentre, a seguito dell’emanazione della legge 1 del 2005, è giunto un nuovo PIT nel 2007. Quest’ultimo PIT si lega strettamente agli strumenti della pianificazione economica (Piano Regionale di Sviluppo), così da creare una sinergia strategica che contempli anche la disciplina paesaggistica, la cui responsabilità spetta alla Regione a seguito dell’emanazione del Codice sui beni culturali e del paesaggio (Dlgs 42/2004). La sinergia PIT - PRS ha permesso al piano territoriale di non avere un ruolo subordinato e consequenziale a quello economico, ma ha posto i due strumenti allo stesso livello: le prescrizioni di natura territoriale del PRS devono dunque essere inserite nel PIT per essere efficaci. Infine, il valore di piano paesaggistico attribuito al PIT (art. 48, c. 2) rispetta la Convenzione europea sul paesaggio, che suggerisce di integrare i piani paesaggistici nelle politiche di pianificazione urbanistica proprio perché ogni Butelli, Massarelli
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azione sul territorio ha ovviamente effetti diretti sul paesaggio e non sarebbe auspicabile una pianificazione paesistica separata da quella integrata su tutto il territorio. In realtà, pare che siano proprio le forme di tutela del paesaggio, normate sia a livello europeo sia soprattutto dal Codice, a garantire una maggior potenzialità di concretezza alle scelte dei vari livelli di pianificazione, laddove il legame tra pianificazione territoriale ed economica sembra far prevalere la seconda, che in certi casi richiede un sacrificio di scelte coerenti con una corretta valorizzazione del patrimonio territoriale e delle invarianti strutturali in cui si declina. Al di là di vertenze specifiche, la concreta applicazione dei principi alla base di un rispetto effettivo delle regole insediative di lunga durata, apprezzabili sia per la loro condivisibilità sociale (che le leggi specifiche sulla partecipazione pongono in effetti alla base delle scelte di pianificazione, v. LR 69 / 2007), sia per il rispetto delle specificità locali, sia per gli obiettivi dello sviluppo sostenibile dai punti di vista ambientale ed ecologico, sociale, ecc., sembra ancora funzionare nella misura in cui sono posti vincoli e divieti espliciti. Mentre in caso contrario emerge la scarsa comprensione e condivisione, da parte di alcune amministrazioni e di vari operatori economici, dell’importanza del rispetto delle invarianti strutturali, cui quindi andrebbe in futuro dedicata una più precisa definizione. Resta indubbiamente molto importante tutta la serie di grandi innovazioni che la Regione Toscana ha portato avanti sin dalla LR 5 / 1995, a partire dal principio di sostenibilità, dal mettere in rilievo le risorse territoriali, dall’assunzione di responsabilità per tutti gli enti territoriali tramite l’auto-approvazione degli strumenti della pianificazione e degli atti di governo del territorio, in un’ottica di decentramento dei poteri), dal principio di concertazione interistituzionale con il coinvolgimento attivo delle popolazioni.
Tutela attiva del territorio attraverso la pianificazione paesaggistica Le forme di tutela del paesaggio, normative sia a livello europeo sia soprattutto dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, sono necessarie a garantire una maggior potenzialità di concretezza alle scelte dei vari livelli di pianificazione, laddove il legame tra pianificazione territoriale ed economica sembra far spesso prevalere la seconda, sacrificando scelte coerenti con una corretta valorizzazione del patrimonio territoriale e delle invarianti strutturali in cui si declina. La pianificazione paesaggistica si inserisce in un contesto normativo innovativo ma ad oggi ancora contraddistinto da una certa mutabilità e incertezza, che riguarda soprattutto i contenuti del Codice e delle ulteriori varianti. Il campo d’attenzione del Codice va infatti in una doppia direzione: quella dei “beni paesaggistici” (art. 134), già tutelati per legge, e quella che fa riferimento agli “ambiti di paesaggio” (art. 135) in cui il territorio regionale deve essere ripartito in base alle caratteristiche fisiche e storiche, a ciascuno dei quali devono essere conferiti opportuni obiettivi di qualità paesaggistica. Questa duplice posizione riflette le diverse visioni di politica del paesaggio: da un lato si tutela “l’oggetto fisico” (un manufatto storico, una particolare bene ambientale), dall’altro si prospetta la ricerca di un insieme di caratteristiche fisiche e antropiche che si compenetrano e danno origine all’unicità dei diversi paesaggi, al fine di mettere a punto strategie progettuali sostenibili. In quest’ottica dunque il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale si caratterizza da tre aspetti fondamentali che sono quello conoscitivo, normativo e strategico Dal punto di vista conoscitivo si dovrebbe porre il problema di integrare i quadri esclusivamente ambientali (difesa del suolo, aree protette, rischio idrogeologico, gestione delle acque ecc), con i temi del patrimonio storico-culturale e della strutturazione storica del territorio per arrivare ad una lettura e interpretazione paesaggistica. Dal punto di vista normativo il piano paesaggistico si dovrebbe opportunamente porre come strumento fondamentale atto alla disposizione di linee guida per la trasformazione dell’ambiente e del paesaggio, che possano costituire all’interno dell’intera pianificazione territoriale la parte meno flessibile, attraverso anche l’individuazione delle regole invarianti, nodali per qualunque intervento progettuale. Dato che non è sufficiente la sola tutela vincolistica al fine della valorizzazione del paesaggio, ma sono anzi necessarie politiche di tutela attiva, il piano inoltre racchiude in se una forte componente strategica, attraverso la quale adottare strategie lungimiranti e spazialmente estese. E’ necessario precisare che tali strategie non possono avere contenuti esclusivamente “paesaggistici” o “ambientali”, ma abbracciare molteplici fattori, tra i quali di notevole importanza quelli storico-culturali ed economici. Sono quindi strategie che dipendono prevalentemente da accordi e condivisioni che coinvolgono una vasta serie di decisori, sollecitando una molteplicità di stakeholder. Sarebbe quindi opportuno quindi che il PPTR non fosse semplicemente un complemento del Piano territoriale, ma uno strumento con una propria autonoma e un proprio compito, integrato nel processo di pianificazione territoriale a tutti i livelli.
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Il caso della Regione Puglia Il concetto di invarianza, collegato a quello di valore patrimoniale dei beni territoriali, risulta centrale nel piano Paesaggistico Territoriale Regionale della Puglia, che lo assume come presupposto basilare per una pianificazione del paesaggio volta al benessere ambientale, socioculturale ed economico dell’intero territorio. Questo piano, redatto nel corso del 2007, in conformità con le disposizioni del Codice Urbani, offre l’esempio di come il paesaggio debba essere considerato a tutti gli effetti un bene patrimoniale importante e non negoziabile. Il paesaggio deve essere non solo conservato e valorizzato, ma costantemente riprodotto attraverso azioni di riqualificazione che devono avere come base progettuale, al fine di usi e trasformazioni compatibili con le peculiarità locali, gli elementi di invarianza riconosciuti per ciascuna parte di territorio. Per tale ragione il tipo di analisi che è stata realizzata per la comprensione e successiva elaborazione sintetica delle peculiarità territoriali è complessa e di tipo integrato, inglobando non solo analisi di tipo fisico-morfologico ma anche socioculturali ed economiche. In questo piano il paesaggio storico non viene inteso e analizzato solo come un insieme di eccellenze ma come fonte preziosa di saperi e di culture d’uso del territorio. In quest’ottica dunque l’interazione, nella lunga durata, tra il territorio e i suoi abitanti sono stati posti alla base per la realizzazione di un futuro sostenibile per la regione non solo dal punto di vista ambientale e territoriale, ma anche socioeconomico. Tale piano si pone così come strumento capace di riconoscere i principali valori e caratteristiche del territorio della Regione, di definirne le regole d’uso e di statuire le condizioni normative e progettuali per la sua trasformazione e costruzione, al fine di mantenerne e svilupparne l’identità. All’interno del PPTR, in coerenza con il Codice dei beni culturali e del paesaggio (comma 2 art 135 del Codice), il territorio regionale è stato suddiviso in ambiti, ovvero in sistemi territoriali e paesaggistici individuati alla scala subregionale e caratterizzati da particolari relazioni tra le componenti fisico-ambientali e storicoinsediative e culturali; questi si presentano quindi come sistemi complessi che rappresentano le identità di lunga durata del territorio. Gli ambiti sono individuati attraverso una lettura integrata di varie analisi finalizzate alla messa in evidenza delle caratteristiche predominanti del territorio in modo da individuarne le specifiche identità paesaggistiche.; per definire gli ambiti è stata quindi considerata la dominanza dei fattori che caratterizzano fortemente le peculiarità territoriali e che rendono “unico”ogni ambito. La regione è stata in questo modo articolata in undici ambiti territoriali paesistici (Figura 2.) individuati attraverso la valutazione e l’integrazione di numerosi fattori relativi a caratteristiche naturali e storiche che hanno comportato analisi di tipo morfotipologico (analisi ambientali ed ecosistemiche, idrogeomorfologiche ecc) e di tipo storico-strutturale, nonché sulle identità percettive dei paesaggi.
Figura 2. Particolare raffigurante l’ambito di paesaggio del Tavoliere, estratto dalla “Carta del patrimonio territoriale e dei paesaggi della Puglia”, (PPTR della regione Puglia); l’ambito è composto da sei figure territoriali paesaggistiche.
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Tra innovazione e permanenza. Pratiche di pianificazione nel rispetto delle regole insediative di lunga durata.
Nello specifico, l’analisi morfotipologica, impostata attraverso l’interpretazione di tutte le analisi riguardanti il territorio fisico ha portato all’individuazione degli ambiti intesi come “aggregazione di unità minime”, a partire dal riconoscimento di figure territoriali-paesaggistiche 6; tale analisi si integra con lo studio e la rappresentazione cartografica dei paesaggi storici della Puglia, che ha portato alla definizione delle relazioni fra insediamento umano e ambiente nelle diverse fasi storiche, individuandone le regole dominanti. Attraverso la comparazione delle caratteristiche morfologiche, sociali e culturali il piano ha portato quindi a un collegamento fra regioni storiche, ambiti di paesaggio e figure territoriali. Ogni ambito di paesaggio è dunque articolato in figure territoriali e paesaggistiche che rappresentano le unità minime in cui il territorio della Regione può essere scomposto, dal punto di vista analitico e progettuale. Per ogni figura individuata, all’interno del piano ne vengono descritti e rappresentati i caratteri identitari, la struttura e funzionamento nella lunga durata nonché gli elementi patrimoniali (ambientali, rurali, insediativi, infrastrutturali), la cui sintesi confluisce nella rappresentazione del paesaggio della figura stessa. Al termine di questo percorso analitico e conoscitivo è possibile quindi arrivare alla definizione delle “invarianti strutturali”, determinate dalla descrizione dei caratteri morfotipologici e delle regole costitutive, di manutenzione e trasformazione delle varie figure. Un interessante spunto progettuale è fornito dal livello di integrità (e criticità) delle singole figure territoriali, che permette così di definire il grado di conservazione dei caratteri invarianti della figura e le regole per la loro riproduzione.
Bibliografia Bottino F. (1987), “Dal vincolo al piano”, Urbanistica, n. 87. Choay F. (1995), L’allegoria del patrimonio, Officina, Roma. Clementi A. (2004), Paesaggio, territorio e Codice Urbani, www.ibc.regione.emilia-romagna.it, Bologna Corboz, A. (1993), “Le territoire comme palimpseste”, Diogene, n. 121, pp. 14-35. Gambino R. (1997), Conservare innovare. Paesaggio ambiente terrritorio, Utet, Torino. Gibelli, G. (2010), Convenzione europea e piani paesaggistici [Online]. Disponibile su: http://www.wwf.it/UserFiles/File/Ecomediterraneo/MATTM-WWF/contributo%20Gibelli.pdf Magnaghi A. (2000), Una metodologia analitica per la progettazione identitaria del territorio, in Magnaghi. Magnaghi A. (a cura, 2001), Rappresentare i luoghi. Metodi e tecniche, Alinea, Firenze. Magnaghi A. (2001), Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino. Marson A. (2008), Archetipi di territorio, Alinea, Firenze.
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Nel piano, per la descrizione delle caratteristiche paesaggistiche dei vari ambiti, è stato utilizzato un metodo analitico che definisce per ogni ambito le varie tipologie paesaggistiche, ovvero “figure territoriali”. Vengono così definite quelle porzioni di territorio identificabili e ben distinguibili da altre, per la specificità dei caratteri morfotipologici che si ripetono nel lungo periodo e nei di diversi cicli di territorializzazione.
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Conservazione e diritto alla città, Una riflessione sulla metropoli cinese in costruzione
Conservazione e diritto alla città Marialessandra Secchi Politecnico di Milano Email: marialessandra.secchi@polimi.it Tel. 02.23995602
Abstract Il paper presenta una ricerca esito di una cooperazione tra il Politecnico di Milano e la Provincia del Guangdong; essa è l'occasione per una riflessione sul ruolo che il progetto di conservazione può assumere nella costruzione della città cinese “ordinaria”. Il progetto di conservazione è qui indagato come strumento di riappropriazione dello spazio della città. La sua dimensione “d'insieme” legata ai sistemi territoriali più che ai singoli manufatti, rispondendo alla distruzione “dal basso” del territorio agricolo cinese e alla forte disparità sociale che ne consegue, propone una rinnovata riflessione sui modi nei quali l'ordine del progetto è visto procedere nella città, Una riconsiderazione del conflitto sviluppo-conservazione riguarda da vicino alcuni delicati processi interni al territorio europeo nei quali le istanze di manutenzione del territorio come bene comune e la costruzione di infrastrutture e servizi collettivi sono poste in diretto contrasto. Il progetto di conservazione può riscattare l'idea di welfare dalla posizione di difesa nella quale si è richiuso negli ultimi decenni ad un ruolo più attivo nell'impostazione dell'agenda urbanistica e politica.
Introduzione Il progetto che intendo discutere nasce da una occasione di collaborazione e cooperazione internazionale tra il Politecnico di Milano ed il comune di Huizou nella provincia del Guandong. 1 Oggetto della collaborazione è la predisposizione di un piano del turismo per il territorio di Huyang, all'interno di un'area metropolitana in costruzione che conta oggi circa quattro milioni di abitanti ma che si sta attrezzando a divenire molto più vasta. L'elaborazione del piano del turismo, in un contesto di rapidissima crescita, ha come proprio obiettivo la protezione del paesaggio e dei villaggi agricoli: un patrimonio diffuso costruito nel corso dei secoli dalle popolazioni di etnia Hakka 2. Il progetto è l'occasione per una riflessione sui caratteri emergenti del tema della conservazione nella costruzione di una metropoli cinese “ordinaria”. La tesi proposta è che il conflitto fra sviluppo e conservazione, fortemente evidente nella costruzione della città cinese, possa essere affrontato attraverso la riconsiderazione di due temi fra loro legati e tuttavia indipendenti che hanno lungamente informato la teoria del progetto dell'urbanistica italiana.
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Il programma di cooperazione intitolato: Programma per la qualità urbana nella Provincia del Guangdong. Progetto di restauro, riqualificazione e sviluppo urbano sostenibile degli insediamenti Hakka nel territorio della città di Huizhou, distretto di Huiyang, è stato sviluppato da un folto gruppo di docenti e dottorandi del Dipartimento di Progettazione dell'Architettura tra il 2009 e il 2010. La pubblicazione degli esiti in un'unica monografia è ancora in corso. Questo saggio fa riferimento ad una parte del lavoro: un'ipotesi progettuale per il territorio di Huiyang, sviluppata dall'autrice insieme a Chiara Nifosì, Emanuela Bertolini e Cesare Macchi Cassia (coordinatore), con la collaborazione di Matteo Arnaboldi, Federico Feraco and Maryam Moayernya. Le popolazioni Hakka (hakka in mandarino significa “ospite”) non sono un vera minoranza etnica, infatti una serie di studi hanno confermato la loro appartenenza alla maggioranza Han del paese; tuttavia poiché essi sono immigrati dalle regioni del nord, sia pure in un tempo ormai molto lontano, hanno mantenuto un linguaggio e abitudini differenti che li rendono distinti dalla restante popolazione. A ciò si deve il regime minoranza protetta che hanno ottenuto.
Marialessandra Secchi
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Conservazione e diritto alla città, Una riflessione sulla metropoli cinese in costruzione
In primo luogo si propone una riconsiderazione del concetto di identità e del ruolo che esso svolge nell'esasperazione dei conflitti e dei fenomeni di esclusione. L'ipotesi suggerita è che il progetto di conservazione del territorio debba affrancarsi da una discussione sull'identità intesa in senso stretto come essenza reificata di un passato condiviso, pena non soltanto la falsificazione del passato ma anche e soprattutto la costruzione di nuove disparità e conflitti. Secondariamente il tema della conservazione è qui considerato nella prospettiva del progetto sulla città e nel contesto di una ricerca che vede nello spazio urbano un bene comune. La necessità di riformulare una idea di welfare state a partire dall'affermazione del diritto alla città, inteso come accesso allo spazio urbano e alla sua trasformazione (Lefebvre, 1968; Harvey, 2003) e dall'allargamento dell'idea di cittadinanza, è qui fortemente connotata dalla velocità delle trasformazioni e legata al progetto di conservazione del territorio agricolo. La radicalità della situazione urbana offerta dalla costruzione della città cinese ben illustra il ruolo di mediazione culturale che l'urbanistica può svolgere tra le necessità dello sviluppo e la conservazione del territorio riproponendo in forme diverse e in differenti contesti alcune delle istanze etiche proprie della cultura architettonica del secolo appena passato.
Figura 1. La cancellazione dei manufatti e del paesaggio nella città che cresce.
Tra permanenza e conservazione. Huyang si trova nella provincia del Guandong, subito al di fuori della zona economica speciale di Shenzhen: appartiene alla medesima area geografica ed economica, nel delta del fiume delle Perle, ma si trova in una posizione più periferica. E' una città in profonda e velocissima trasformazione. Nell'osservare la costruzione della città colpisce il contrasto tra due differenti processi di costruzione della città che sembrano inseguire due immagini profondamente distanti. Da un lato la città asiatica di successo, caratterizzata da una contemporaneità aggressiva fatta di maglie stradali larghe e ben curate, costeggiate da grattacieli che racchiudono grandi isolati all'interno dei quali si trovano gli interventi residenziali più esclusivi o destinati alla futura middle class. Una città fatta di spazi pubblici magniloquenti e caratterizzata da una abbondante dotazione di infrastrutture (ferrovia ad alta velocità, cinque linee di metropolitana, un'abbondante rete autostradale in continua espansione). Per contro la città esistente che si è costruita di recente, è composta di edifici fatiscenti addossati su una scarna maglia di strade urbane; ma ancora di più è fatta di insediamenti industriali costruiti in modo improvvisato ma sistematico nei terreni dei villaggi agricoli abbandonati che si trovano ormai in un ambiente quasi urbano. A fare le spese di questo modo di costruire la città è senza dubbio il territorio agricolo e la sua struttura. E' lungo i canali o lungo gli assi visivi del feng shui che il conflitto tra i differenti modelli di città si fa più evidente. I villaggi agricoli sono al contempo artefici e vittime di questa forma di “urbanizzazione dal basso”, dove i lavoratori delle industrie, in gran parte giovani contadine provenienti dalle campagne del nord, vivono nei dormitori annessi alle fabbriche. Villaggi le cui comunità si sono disperse, i cui responsabili vivono altrove, avendo ceduto in lease i diritti edificatori agli imprenditori. E' l'uso che viene fatto dei terreni delle comunità a distruggere non solo i villaggi ed il loro intorno ma anche la possibilità di ricostruire il senso del sistema territoriale cui appartenevano. Per contro il progetto territoriale di scala vasta portato avanti dal nuovo piano regolatore ignora completamente l'esistenza delle preesistenze ambientali (Rogers, 2010). Di fronte a questo scenario la domanda per un piano del turismo che sia in grado di affrontare il tema della conservazione del territorio agricolo e dei suoi villaggi appare quasi paradossale. Per chi costruire un piano del turismo, cosa conservare, quale senso dare a ciò che si conserva? L'interesse di questo caso studio sta forse proprio nella radicalità con cui vengono chiamate in causa le responsabilità dell'architettura e dell'urbanistica nel dare risposta alla esperienza della modernità (Berman, 1995) Marialessandra Secchi
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Conservazione e diritto alla città, Una riflessione sulla metropoli cinese in costruzione
nel dare cioè risposta a quella tensione che deriva dal nostro bisogno di radicamento, da un lato, e dal desiderio di crescita dall'altro e che si risolve in una tensione che non sembra essere stata resa obsoleta dall'emergenza dei fenomeni di globalizzazione ma sembra piuttosto essersi radicalizzata. La necessità di intendere il progetto di conservazione come progetto di costruzione della nuova città si confronta qui con la velocità dei processi in atto, ma anche con le forti disparità tra la città esistente e quella progettata. Si confronta anche con la radicalità con cui il passato viene quotidianamente cancellato; non solo i manufatti, la case, i canali, le piantagioni, ma anche gli stessi connotati geomorfologici: le colline tagliate e spianate dalle numerose infrastrutture e dai nuovi insediamenti residenziali. Scampoli di paesaggio agrario restano come testimonianze di una società passata completamente differente. Ma a chi parlano questi resti? Siamo abituati a costruire un'associazione immediata tra il passato che condividiamo, che si rende visibile attraverso i manufatti, attraverso l'artificializzazione del territorio, da una parte, e la individuazione di una specifica identità dall'altra. La protezione del passato, la conservazione delle diverse riscritture del territorio, la conservazione del sistema di spazi generati da logiche insediative di cui si rischia di perdere il senso, diviene tout court la protezione dell'identità di un luogo, e per estensione l'affermazione dell'identità della sua popolazione. Ma quale valore può avere questa identità per coloro che non condividono il medesimo passato e che contemporaneamente non lo guardano da fuori come potrebbe fare chi è completamente estraneo? Per coloro cioè che vivono la città in crescita senza appartenerle. Posta in questi termini la questione identitaria sembra condurre ad un vicolo cieco. Quanto più la ricerca e la affermazione d'“identità” corrisponde alla rivendicazione del passato che condividiamo, tanto più la tensione per la modernità diviene conflittuale (Berman, 1995). Questa tensione deve mettere a confronto la costruzione della nuova città con l'affermazione di una “essenza” immutabile, condivisa solo da alcuni abitanti, che esclude tutti gli altri e che può divenire un'immagine accettabile per tutti soltanto nel momento in cui diviene icona, svuotata di senso, attraverso l'opera banalizzante del turismo internazionale. (Koolhaas, 1995; Urry, 1995). Posta in questi termini la questione identitaria diviene una trappola. La trappola consiste nella netta opposizione tra le necessità della conservazione e la costruzione del presente. Per contro la città che si è liberata dall'identità, la “città generica” (Koolhaas, 1995), è in corso di realizzazione ad Huyang: che sia veramente interessata solo ai bisogni ed alle capacità del presente è forse possibile, ma è veramente “grande abbastanza per tutti, facile, multirazziale e multiculturale”? E' insomma un modo per costruire una società più giusta? La città cinese che si costruisce “dal basso” nei territori dei villaggi sembra suggerire una risposta negativa 3. Le nuove popolazioni, i giovani migranti che abitano la nuova città, non appartengono a questi luoghi, questi templi non sono quelli dei loro antenati, non parlano la stessa lingua perché sono appena arrivati dalle provincie del nord e del centro della Cina, non sono radicati, non possono riconoscere la propria identità nei vecchi villaggi agricoli. Ma in cosa possono riconoscersi, come possono evitare di essere una indistinta “moltitudine” offerta come mero strumento alla crescente produzione industriale?
Identità e diritto alla città. La questione identitaria può forse essere impostata con una prospettiva ribaltata, che ci permetta, non solo in Cina, di uscire da questa trappola. Se osserviamo la presenza dei giovani migranti nelle città possiamo facilmente cogliere l'aspirazione ad una maggiore presenza sulla scena della città che permetta a questi nuovi abitanti di Huyang di riconoscersi e di essere riconosciuti come popolazione della nuova città. L'identità, tuttavia, è un costrutto sociale che lega insieme una comunità già forte, mentre ciò che qui è maggiormente in discussione è la possibilità di un riconoscimento di gruppo. A questo proposito Francesco Remotti ha recentemente sostenuto, sviluppando una tesi di Ricour riguardo la relazione tra richiesta di “riconoscimento”e “identità”, che non tutte le richieste di riconoscimento debbano essere interpretate nel senso di una affermazione di identità e pertanto nel senso della costruzione di gruppi esclusivi e conflittuali. La richiesta di riconoscimento identitaria si presenta come ”questo è ciò che siamo”, laddove una richiesta di riconoscimento non identitaria si esprime come ”anche noi siamo qui” ed è dunque molto differente in quanto non mette in campo essenze immutabili ed esclusive, piuttosto “ i soggetti chiedono che vengano riconosciuti la loro esistenza (non la loro identità) le loro caratteristiche, i loro diritti, i loro obiettivi, i loro progetti.” (Remotti, 2010, p.XIII) 3
E ciò non riguarda in realtà solo le forti disparità, evidenti nella frammentazione dello spazio della città cinese. Anche nella città generica americana è stato rilevato (Vicino, Hanlon, Short, 2007) nonostante la maggiore presenza di gruppi etnicamente differenti e le numerose iniziative legislative volte ad allargare i diritti individuali, gli indici dei segregazione razziale restano paragonabili a quelli degli anni '60.
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L'ipotesi sviluppata nella proposta progettuale è che l'accesso al turismo fuori porta, la riscoperta del patrimonio agricolo, la gita della domenica, le attività del tempo “libero” possano svolgere in questo senso un ruolo attivo nell'affermare nuove necessità di riconoscimento e con esse un nuovi principi di cittadinanza. La presenza del passato può fornire un supporto ready-made, con un proprio valore semantico che sopravvive a pratiche e stili di vita obsoleti, il cui uso e la cui scoperta connette e crea nuovi gruppi di cittadini da una moltitudine di migranti. La conservazione del territorio agricolo e dei suoi manufatti, cosi come il loro riuso sono visti in questo contesto come la possibilità di predisporre un sistema di luoghi centrali e di attività di servizio alla vita di tutti i giorni. Sul loro valore d'insieme, si articola una nuova struttura spaziale, che resta sottotraccia nella costruzione della nuova città e che articola i rapporti tra l'individuo, cittadino di prima generazione, e la città. Le strade sterrate e informali che il piano sostituisce con bei viali ben curati sono attualmente il luogo del passeggio serale e dominicale. La loro cancellazione segue senza dubbio il desiderio di allontanare la povertà che le caratterizza, aderendo ad un modello che in qualche modo appare positivo, e tuttavia dove è finito il luogo del passeggio fuori dai dormitori dove il suicidio è divenuto luogo comune? Il progetto di connessione dei villaggi nelle aree industriali propone una nuova rete di spazi aperti: piccoli giardini che isolano i singoli villaggi dagli edifici circostanti e sentieri che li connettono tra di loro. La struttura spaziale che ne risulta da un lato mantiene vivo il rapporto tra i singoli villaggi, rendendo visibili logiche insediative obsolete, dall'altro, sfruttandone il valore semantico legato alla presenza dei templi degli antenati, crea una nuova forma urbana in grado di condizionare la futura ristrutturazione dell'intera area, mano a mano che i capannoni e i dormitori lasceranno il passo a nuove strutture edilizie. In questo senso abbiamo interpretato il progetto di conservazione ed ancora di più il progetto del tempo libero come la possibilità di stratificare nello spazio della nuova città una grammatica più complessa di spazi, che offra maggiori possibilità alle differenti popolazioni di riconoscersi cittadini. La proposta progettuale per un piano del turismo del territorio di Huyang diviene dunque l'opportunità per sollevare alcune questioni che appaiono cruciali nel rapporto tra conservazione del paesaggio e costruzione del territorio. Una prima questione riguarda appunto la possibilità di separare il discorso sulla conservazione da una discussione dei caratteri identitari del territorio. Ove l'identità sia intesa in senso troppo stretto. La ricerca di “identità” nelle tracce del passato e nei modi di vita che al passato appartengono può dare luogo ad una concezione dell'identità fortemente legata alla affermazione di “essenze” che possano essere “reificate” e dunque preservate, supportando un processo di musealizzazione che alla fine, come è stato frequentemente notato, conduce alla falsificazione. L'enfasi eccessiva sul solo tema dell'identità nel progetto di conservazione agisce spesso come fattore di esclusione e comporta una difficoltà nella riappropriazione del deposito del passato rendendolo indisponibile. Si ha così non solo l'esclusione degli individui dalla condivisione dell'identità, come ad esempio l'esclusione dei migranti dall'appartenenza alla società urbana; ma anche l'esclusione di alcuni territori e manufatti da un processo di trasformazione che non si risolva nella cancellazione del passato o nella rovina. Esiti opposti di un tale atteggiamento possono essere considerati tanto lo sfruttamento dei “monumenti” come icone svuotate di senso offerte al turismo internazionale, quanto la rapida scomparsa delle tracce e dei manufatti di un passato del quale nessuno è in grado di riappropriarsi, la cancellazione di un paesaggio privato di qualunque valore.
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Figura 2. Il progetto di conservazione dei villaggi agricoli nella sua dimensione d'insieme.
Conservazione come progetto di città Ciò che appare necessario in questo contesto non è una revisione delle idee di monumento o di patrimonio che le renda più inclusive, ma piuttosto un diverso atteggiamento del progetto di conservazione. La diffusa concettualizzazione del paesaggio, e più in particolare del paesaggio agricolo , come “patrimonio”, ad esempio, sposta semplicemente l'obiettivo della conservazione, ma non modifica realmente i termini delle questioni citate: la falsificazione e l'esclusione. Anche nel caso del paesaggio infatti la tendenza ad identificare un territorio con un unico paesaggio storicamente dato, come fosse una essenza fissa ed immutabile, conduce ad una serie rilevante di problemi di conservazione laddove fallisce nel comprendere i fenomeni che Corboz ha chiamato di “doppia esposizione”. (Corboz, 1985) Diversi gruppi sovrappongono in momenti differenti valori semantici anche opposti sul medesimo territorio producendo paesaggi legati a popolazioni storicamente ma anche socialmente distanti. Nell'impossibilità di conservare diversi paesaggi tra loro conflittuali sul medesimo territorio (Corbin, 2001) il progetto di conservazione tende a selezionare e fissare nell'immaginario collettivo i valori dominanti, i valori cioè che corrispondono all'identità delle popolazioni dominanti, quali unici paesaggi “autentici”. Ciò significa che la questione deve forse essere rivista spostando l'accento dal “cosa” è opportuno conservare al “per chi” conservare. O ancora meglio si potrebbe dire quale è “l'utilità” e quale il ruolo di ciò che si conserva nella costruzione della città e del territorio contemporaneo a confronto con i valori e con le azioni del presente. E' chiaro che mentre tutto ciò può essere considerato come una valutazione implicita nella maggior parte dei processi di trasformazione del territorio agricolo, prodotti nel passato in una situazione di scarsità di mezzi tecnologici, diviene oggi una questione di responsabilità progettuale, in un contesto ove la sproporzione dei mezzi messi in campo da usi ed attori differenti può produrre la cancellazione molto rapida di ampi paesaggi, precludendone l'uso e la riappropriazione da parte di molti. E' in questo senso che, ad esempio può essere compresa la tutela di molti paesaggi agricoli in territori fortemente urbanizzati. La forte frammentazione del territorio che i processi di sviluppo “dal basso” della città cinese stanno producendo alle spese del territorio agricolo possono essere considerati complementari alla pianificazione “dall'alto”, della metropoli che si costruisce alla scala regionale secondo una griglia territoriale a maglie larghe. Le immagini che guidano tali processi mi sembra ben rappresentino un fenomeno di “doppia esposizione” che fatica a trattare la trasformazione del territorio come un progetto coerente. E tuttavia ciò che va osservato è che i processi di costruzione “dal basso”, in questo contesto, non sembrano produrre nessuna maggiore opportunità di affrontare il diritto alla città dei suoi abitanti, né nel senso di una maggiore possibilità di accesso allo spazio Marialessandra Secchi
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urbano né nel senso di una maggiore capacità degli abitanti di trasformare i propri spazi di vita. Piuttosto questi processi appaiono articolare una grana più fine, più pervasiva, ma non per questo meno reale di ingiustizia spaziale. Una struttura polverizzata di imprenditori produce uno spazio urbano caotico ma nondimeno ampiamente ingiusto. Mentre nel contesto europeo la presenza di processi di urbanizzazione “dal basso” è stata frequentemente considerata come segno di una società che si avvia ad una maggiore democrazia, ove desideri e aspirazioni individuali sono forse sovraiterpretati, qui l'attenzione è più facilmente ricondotta alle nuove e crescenti disparità che azioni individuali producono alle spese della appropriazione collettiva del paesaggio, consumando rapidamente un bene comune: il territorio, la sua struttura ed il suo valore semantico. Il progetto di conservazione può offrire l'opportunità di una riappropriazione dello spazio collettivo della città; ma produrrà effetti rilevanti solo se sarà inteso come uno spazio dotato di un forma coerente, un progetto i cui effetti siano pervasivi nella trasformazione dei singoli luoghi e tuttavia leggibile alla scala vasta. I manufatti e le tracce, considerati non tanto come oggetti depositati sul suolo ma come insediamenti complessi, sono sempre più lo sfondo sul quale articolare un discorso che riguarda la forma d'insieme della città. Il progetto di conservazione può essere visto come una sfida a recuperare un'immagine d'insieme per la città contemporanea che non sia appiattita sulla sola dimensione infrastrutturale.
Conseravazione e welfare state Infine il progetto di conservazione proposto è stato pensato nella prospettiva di una discussione sullo spazio della città come bene comune. Questo è un tema che appare con forza nella città cinese dove la questione di chi disponga realmente dei terreni delle collettività ha dato luogo negli anni recenti alle uniche azioni significative di protesta collettiva 4 E tuttavia mi sembra di poter affermare che in toni meno esasperati ma non per questo meno reali la questione sia divenuta rilevante negli anni recenti anche nel territorio europeo dove la consapevolezza che il suolo agricolo sia divenuto risorsa scarsa e frammentaria è sempre più diffusa. Nella città europea nel corso degli ultimi decenni la costruzione del welfare state si è progressivamente ritratta in una posizione di difesa, dove soltanto gli edifici pubblici ed i servizi collettivi sono oggetto di un discorso specifico sul welfare in relazione allo spazio della città. Nell'urbanistica italiana questa ritirata ha comportato una riduzione del discorso sul welfare alla sola difesa degli “standard urbanistici”. Gli standard corrispondono ad una interpretazione del welfare esito della forte e disordinata urbanizzazione degli anni '60, dove il settore privato aveva potuto sfruttare ampiamente le infrastrutture esistenti e previste senza restituire molto alla collettività. E tuttavia nel corso del tempo il sistema degli “standard” sembra aver prodotto una serie di distorsioni: quanti più diritti edificatori un comune “vende”, tante più risorse avrà per pagare i servizi sempre più onerosi che si trova a dover affrontare con una struttura della popolazione spesso radicalmente mutata. Risorse ricavate dalla monetizzazione di standard che corrispondono a opere non realizzate. Paradossalmente la possibilità di affrontare attraverso il tema degli standard una discussione sulla città in quanto bene comune è sempre meno evidente. Tuttavia a fronte di una pressione per lo smantellamento di tale sistema non sembra essersi contemporaneamente prodotta, nelle discipline del progetto, una nuova stagione di riflessione sul modo nel quale una differente idea di welfare può articolarsi nello spazio della città, come possa cioè tradursi in richieste che riguardino lo spazio fisico della città (Mascino, 2006) e non solo in una serie di politiche di sostegno ai soggetti. In questo scenario l'interesse delle comunità in termini di servizi collettivi si viene a trovare frequentemente in opposizione ad un più generale interesse collettivo relativo alla conservazione e manutenzione del territorio e del paesaggio. Ciò avviene per esempio in molti episodi di previsione di attrezzature di grande impatto (areoporti ma anche ospedali) in aree il cui valore ambientale e d'uso viene messo fortemente a repentaglio. In questi casi gli interessi della conservazione sono opposti non tanto ad un generico sviluppo ma a bisogni molto specifici, ad esempio al rafforzamento del patrimonio di housing sociale o di strutture sanitarie. Come esempio di ciò possiamo considerare la localizzazione del Centro ospedaliero CERBA nel parco sud di Milano, ma molti altri esempi potrebbero essere fatti in tutta Europa. Questi esempi non possono essere compresi semplicemente come casi peculiari della sindrome NIMBY, piuttosto sono indici di una crescente opposizione tra i bisogni della conservazione e uno modo di intendere il welfare ancorato alla sola predisposizione di servizi, che fallisce nel cogliere la frammentazione del territorio, ed in particolare del territorio agricolo urbano e protetto, come un modo di smantellare lo spazio della città come bene comune. In opposizione ad un tale restringimento di campo il progetto di conservazione può offrire uno strumento per incominciare a ripensare la costruzione del welfare attraverso il continuo lavoro di riscrittura degli spazi e dei paesaggi contesi della città. 4
La questione riguardo la proprietà dei terreni dei villaggi è ambigua, fonte di incertezze e conflitti cfr 'China's farmland. This land is my land', the Economist, Feb 14th 2008 < http://www.economist.com/node/10696084 >[accessed 11/10/2011]
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Figura 3. I vecchi villaggi come “caposaldi” della nuova struttura dello spazio collettivo
Bibliografia Marshall Berman (1985), L'esperienza della modernità, Il mulino, Bologna. Corboz A. (1985), “Il territorio come palinsesto”, Casabella, n. 516, pp. 22-27. Harvey D. (2003), “The right to the city”, International Journal of Urban and Regional Research, n. 27, pp. 939–941. Koolhaas R. (1995), “The Generic City”, in S,M,L,XL, 010 Publisher, p. 1248. Lefebvre H. (1970), Il diritto alla città, Marsilio, Padova. Mascino L. (2006), Spazi abitabili: declinazione in spazi e misure delle idee di bisogno e benessere, tesi di dottorato, non pubblicato. Remotti F. (2010), L'ossessione identitaria, Laterza, Bari. E.N. Rogers (2010), Architettura, misura e grandezza dell'uomo, (a cura di S. Maffioletti), il Poligrafo, Padova. Urry J. (1995), Lo sguardo del turista : il tempo libero e il viaggio nella società contemporanee, Formello SEAM. Vicino T.J., Hanlon B., Short J.R. (2007), “Megalopolis 50 years on: the transformation of a City Region”, International Journal of Urban and Regional Research, vol 31.2, pp 344-367
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Opportunità e limiti nella dimensione fisica della città flessibile
Opportunità e limiti nella dimensione fisica della città flessibile Roberto De Lotto Email: roberto.delotto@unipv.it Tel/fax 0382/985792 Cecilia Morelli di Popolo Email: cecilia.morellidipopol01@ateneopv.it Tel/fax 0382/985743 Università degli Studi di Pavia DICAR - Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura
Abstract Data la crescente difficoltà nel prefigurare le condizioni di contorno al fenomeno urbano, alla città ed agli attori che la animano (nei diversi ruoli) è richiesta una notevole capacità di adattamento continuo alle situazioni contingenti. Un processo adattivo che coinvolge tutte le dimensioni della città e dell’urbanistica e che si può sintetizzare con il termine flessibilità; tale termine è qui inteso come sviluppo dell’approccio organicoadattivo-evoluzionista allo studio della città. Si sostiene che la flessibilità abbia acquisito un tale valore nelle pratiche urbanistiche e di governo del territorio da assumere un ruolo paradigmatico. Con riferimento alla città fisica, il contributo analizza alcune implicazioni sottese alla legittimazione del principio di flessibilità anche attraverso il riferimento ad alcuni sistemi valoriali riconoscibili nella città europea.
1. Introduzione L’urbanistica moderna ha fondato la sua legittimazione nell’efficacia degli strumenti teorici e tecnici a costruire previsioni. Senza entrare nel merito della critica all’approccio tecnicista in urbanistica, è oggi evidente che la volatilità della struttura socioeconomica mondiale non garantisce di fatto la credibilità di previsioni certe. Lo scenario possibile, o l’insieme di scenari possibili e delle metodologie per attuarli, sono attualmente l’oggetto prevalente della disciplina. La domanda che qui ci si pone è: quale struttura urbana è capace di sostenere/sopportare scenari tra loro differenti? È necessario che tale struttura urbana si possa adattare a diverse condizioni esterne (il contesto socioeconomico) ed interne (lo scenario progettuale). Come viene esposto poco oltre, l’adattabilità ha stretti legami con la flessibilità, se non ne è addirittura sinonimo. Tra le diverse dimensioni in cui essa si esplicita, si riconosce la flessibilità dei sistemi relazionali (città a geometria variabile 1), dei sistemi di governo (Poli, H.J.Gans), del sistema ambientale ed ecologico territoriale (legata al concetto di resilienza 2), della capacità previsionale dello sviluppo urbano 3, dei sistemi fisici (funzionalizzazione e de-funzionalizzazione, struttura delle reti).
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Per approfondimenti, tra i vari autori si segnalano Camagni, Gibelli, Lombardo Per approfondimenti, tra i vari autori si segnalano Applegath, Beatley e Boyer, Burgin, Colucci, Newman 3 Per approfondimenti, tra i vari autori si segnalano Batty, Bertuglia, Rabino, Staricco 2
Roberto De Lotto, Cecilia Morelli di Popolo
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2. Evoluzione e adattamento L’adattamento, come noto, è l’elemento che sta alla base di tutta la teoria dell’evoluzione naturale, da JeanBaptiste de Lamarck a Charles Darwin, secondo cui l’evoluzione degli esseri viventi avviene tramite graduali cambiamenti di condizioni ambientali e di favorevoli adattamenti delle specie viventi a questi ambienti. Tra i principi fondamentali della teoria evoluzionista vi è il principio dell’adattamento. Un aspetto interessante nell’adattamento è la sua intrinseca imperfezione: risulta essere un compromesso tra le esigenze adattive delle diverse caratteristiche di un organismo. Popper, nella sua analisi dell’Evoluzionismo darwiniano, scrive: “Il ruolo di guida nell’evoluzione è svolto dal comportamento; la guida nel comportamento è data da nuovi obiettivi e successivamente da nuove capacità, e solo in un terzo momento sopravviene un mutamento anatomico” (citato da Albanese, Fraioli, De Pisi, 2002). È proprio perché gli organismi sono veramente attivi che l’ambiente diventa imprevedibile. Per Popper l’ambiente ideale allo studio dei fenomeni evolutivi è quello direttamente controllato dall’uomo: la città. Nello studio della città è opportuno notare come essa possa essere considerata “individuo/organismo” se per “ambiente” si intende il contesto socioeconomico, oppure possa essere considerata l’ambiente se l’individuo è il cittadino. Inoltre, nell’applicazione dei principi evoluzionisti ai sistemi urbani è opportuno evidenziare la relazione biunivoca tra uomo e città (che non è sempre presente nella relazione organismo-ambiente): l’uomo si adatta alla città ed essa viene creata e modificata dall’uomo.
2.1 L’approccio organicista Astengo sottolinea come l’urbanistica è di per se una scienza sociale, che interpreta la città come un organismo, vivente di vita propria (Poëte, 1908). La dinamicità del complesso studio della città, era già dichiarato da Gedde e l’approccio organicista è un tema caro ad esempio a Cerdà, Geddes, Poëte, e, in Italia, a Piccinato. Geddes fonda i suoi studi sul tema dell’organicismo e del rapporto organismo – funzione – ambiente, considerando quindi la città attraverso i suoi stati evolutivi ed analizzando di conseguenza gli aspetti dinamici che in essa trovano spazio. Geddes identifica la città come un organo specifico, unico luogo attraverso cui l’umo è in grado di evolvere, e nel quale è in grado di riporre tutte le conoscenze venute come eredità dal passato ed evolverle in una città futura, proprio come l’evoluzione Darwiniana spiega l’evoluzione degli organismi (Volker M.Welter, Iain Boyd White, (2002). Piccinato dichiara di non ritenere “più possibile impostare un qualunque discorso, una qualsiasi azione urbanistica, senza dar per scontato, anzi ponendo alla base del discorso, o dell’azione, l’assioma che la città è un organismo… poiché questa è veramente la grande conquista del moderno pensiero urbanistico”. (Merlini in Di Biagi, Gabellini, 1992). La visione organicista della città porta a modificare la metodologia che sta alla base della pianificazione, dovendo creare un piano “dotato di margini di flessibilità” (Merlini, in Di Biagi, Gabellini, 1992), e dedicato specificatamente alla società che andrà a vivere nelle città progettate. Come per l’approccio evoluzionista l’approccio organicista non tende a dare una soluzione assoluta alle problematiche urbane, ma costruisce un sistema di sviluppo tendente alla ricerca dell’equilibrio, di un compromesso tra le diverse problematiche sociali riscontrabili nella città, e già Piccinato aveva concepito: “un piano che deve essere aperto per garantire all’organismo la possibilità di far fronte a successive emergenze e ad ulteriori trasformazioni; dato che ‘piano aperto non significa affatto rinunzia al piano: ma, all’opposto, significa organismo capace di evoluzione nelle sue dimensioni pur restando sempre un piano, ossia un programma”. (Merlini in Di Biagi, Gabellini, 1992). In questa luce si possono interpretare alcune innovazioni normative relativamente recenti, tra cui la Legge Regionale 11 marzo 2005, n.°12 della Regione Lombardia che, nell’art.1, Oggetti e criteri ispiratori, c.2, viene riportato: ”La presente legge si ispira ai criteri di sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione, sostenibilità, partecipazione, collaborazione, flessibilità, compensazione ed efficienza”.
3. Flessibilità e adattamento nel sistema urbano La flessibilità della città fisica si manifesta alle diverse scale, in base all’adattamento che può essere sia della funzione all’oggetto che dell’oggetto alla funzione. Nella città storica europea il processo adattivo si è manifestato maggiormente da parte dell’uomo (e delle sue
Roberto De Lotto, Cecilia Morelli di Popolo
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attività) allo spazio e all’edificio più che il viceversa 4. Ciò si lega al concetto della costruzione (della città, dell’edificio) come azione il cui risultato deve durare un lungo periodo, se non per sempre. Se la costruzione stessa della città, come dice la Choay, è un fatto antropogenetico, la città si definisce nella relazione permanente tra urbs e civitas (e polis), dove però all’urbs si possono associare forme e tipologie di luoghi che evolvono nel tempo. L’uomo europeo ha sviluppato un’elevata capacità di adattamento (di se stesso e/o delle sue attività) ai contenitori: i centri storici hanno ospitato e ospitano diverse attività in stessi edifici nati per diversi scopi e gli stessi spazi collettivi hanno assunto molteplici caratteri funzionali nel tempo (il foro romano rossiano, ad esempio). Proprio la permanenza del significato collettivo di un luogo al mutare delle condizioni urbane e socioeconomiche ne traduce il valore antropologico che tanto è caro (a buona ragione) alla cultura europea. Da Augè a Baumann si attinge ad una esaustiva descrizione dei luoghi (o non luoghi o superluoghi) della contemporaneità: quanto questi siano considerabili a tutti gli effetti luoghi antropologici è ancora tema di dibattito. Si può affermare un concetto di base: il luogo antropologico è frutto di una stratificazione storica di eventi più o meno razionali, più o meno pianificati, più o meno traumatici. Oggi la velocità alla quale le modificazioni delle condizioni socioeconomiche stanno avvenendo porta ad una accelerazione di tali eventi, che non trovano il tempo della stratificazione, inteso come periodo necessario perché la civitas possa appropriarsi dello spazio. L’opportunità che la flessibilità mette in campo è prevalentemente legata all’adattamento alle condizioni sociali ed economiche, e quindi alla capacità della città di essere efficiente in tempi rapidi in base alle sollecitazioni del contesto. Tra le diverse forze motrici, si riconosce ad esempio la richiesta competitività della città (molto di moda oggigiorno) per perseguire la quale la città deve, come un automa cellulare, modificarsi in base allo stato dell’elemento adiacente 5. Per quanto esposto, appare evidente come il limite principale della città flessibile consista nella sua (limitata o dubbia) capacità di generare (o mantenere) i suoi luoghi antropologici. È opportuna una breve riflessione sulle tre componenti fondamentali della città: urbs, civitas e polis 6. Nella città europea, quando le condizioni economiche lo hanno permesso, l’urbs si è adattata al volere della civitas e della polis. Questa relazione, valida tuttora, è cambiata nelle tempistiche di adattamento del sistema urbano alla volontà della civitas e della polis. Civitas e polis cambiano rapidamente e devono adattarsi ad una urbs che non può (per sua natura) rispondere in tempo reale alle richieste di funzionalità. Se storicamente la civitas e la polis potevano identificarsi pienamente in luoghi ben definiti (e spesso fortemente voluti per ragioni di autorappresentatività come sottolinea, per gli aspetti estetici, Marco Romano), è del tutto evidente come oggi l’abaco degli spazi collettivi o pubblici sia completamente mutato e in continua mutazione.
3.1 Flessibilità e temporaneità La flessibilità della città implica il concetto di temporaneità. Vi sono interessanti sperimentazioni progettuali che hanno immaginato una città flessibile e di forma mutevole; ad esempio i progetti futuristici del gruppo Archigram, in particolare la Instant city (1968), che prevedeva una serie di strutture, trasportate da mongolfiere, contenenti al loro interno tutte le attrezzature necessarie ad un evento, per poi poterle spostare altrove, o la PlugIn-City (1964). Già alla fine degli anni sessanta la temporaneità degli elementi rispetto allo sviluppo delle tecnologie di comunicazione e trasporto era tema di discussione. Da un lato sembra emergere la necessità di pensare la città come ambiente flessibile, in grado quindi di adattarsi alle esigenze della civitas e della polis, e di dare forma alle nuove caratteristiche della società moderna. Dall’altro si evince il rischio della perdita di identità ed in generale di riferimenti valoriali. Rem Koolhaas, in Junckspace, descrive in maniera originale ed efficace questo evidente contrasto: “La Città Generica è la città liberata dalla schiavitù del centro, dalla camicia di forza dell’identità. La Città Generica spezza quel circolo vizioso di dipendenza: è soltanto una riflessione sui bisogni di oggi e sulle capacità di oggi. È la città senza storia. È abbastanza grande per tutti. È comoda. Non richiede manutenzione. Se diventa troppo piccola non fa che espandersi. Se invecchia non fa che autodistruggersi e rinnovarsi”. (Koolhaas R., 2001) “La Città Generica è frattale ripetizione infinita del medesimo, semplice modello strutturale; è possibile ricostruirla dal suo elemento più piccolo, da un personal computer, forse addirittura da un dischetto”. (Koolhaas R., 2001)
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Ciò è verificabile in Europa, mentre nella città nordamericana, ad esempio, o nelle nuove conurbazioni dei paesi BRICS la componente fisica è pensate per durare limitatamente alla utilità della funzione che devono ospitare (in Cina, a titolo esemplificativo, gli edifici sono collaudati per non più di 50 anni). 5 Il termine adiacente viene qui utilizzato per indicare una relazione prossima e non semplicemente una vicinanza fisica. 6 La famosa tripartizione è cara alla Choay, alla quale si fa spesso riferimento, ed stata è anche recentemente ripresa da Salzano in un ragionamento sull’idea di città e su prospettive future. Roberto De Lotto, Cecilia Morelli di Popolo
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Opportunità e limiti nella dimensione fisica della città flessibile
Per Koolhaas, il tema della flessibilità sta alla base per una gamma infinita di possibilità per realizzare le quali è necessario negare l’identità della città. Esistono, ovviamente, posizioni meno nette e ciniche. Bruzzese, nel saggio “Progetti flessibili. Pratiche progettuali al servizio dell’adattabilità” (Bruzzese, in Bossi, Moroni, Poli, 2010), parte da una considerazione su come, a fronte di continui cambiamenti della vita contemporanea, la flessibilità diventi elemento a favore della possibilità di espressione individuale della civitas che può liberamente modificare l’ambiente. Citando Loos scrive: “L’invito ad assumere la flessibilità come tema di progetto significa, …, operare una sorta di ritrazione del progetto, sulla scorta della critica loosiana all’iperdeterminazione nei progetti in cui gli ambienti sono disegnati dagli architetti fino all’ultimo dettaglio con il rischio di imprigionare la creatività degli abitanti (Loos, 1972), e piuttosto immaginare il progetto come un supporto su cui si intrecciano differenti visioni, prospettive, usi. In definitiva come uno strumento flessibile, nell’accezione positiva del termine”.
3.2 Cinque principi per la città flessibile Per quanto fin qui detto, la città flessibile deve essere costituita di oggetti fissi ed elementi variabili. La città a cui si fa riferimento è una struttura che, pur nella modificazione del suo assetto funzionale, deve poter definire e mantenere i propri luoghi antropologici. Si propongono cinque principi nodali, che definiscono più un approccio mentale che uno schema progettuale: 1. Dimensione temporale: la flessibilità ha senso solo se inscritta in ambiti temporali di breve, medio e lungo termine, a cui corrispondono permanenze più o meno significative in senso antropologico. Il significato stesso della previsione, insito nella disciplina urbanistica, si declina nella costruzione di scenari probabili; 2. Geografia variabile: l’urbs della città flessibile è mutevole nelle sue dimensioni e nella sua forma. Permane la dimensione strutturale. La forma è esito dell’adattamento alla geografia variabile, intesa come insieme dei cambiamenti della civitas e della polis. Inoltre è risultante dal progetto dei luoghi antropologici; 3. Reversibilità: come si prevede che la città possa espandersi, altrettanto si deve prevedere una fase di contrazione. In ottica di sostenibilità, la contrazione (o la dismissione) deve permettere la rinaturalizzazione degli ambiti e delle aree urbanizzate. Ciò significa considerare il “life cycle assesment” dell’intera città e non solo dei singoli edifici; 4. Indifferenziazione funzionale: la città deve poter adeguare localmente le sue funzioni e aumentare o ridurre il carico urbanistico in base alle esigenze, senza che ciò infici il funzionamento del sistema infrastrutturale e della struttura generale della città. Il cambiamento funzionale deve sempre considerare le modificazioni potenziali ai significati antropologici; 5. Strutturazione su layer: la terza dimensione è fondamentale per ipotizzare livelli funzionali a cui attribuire differente durabilità e adattabilità. Uno dei temi centrali, nell’ipotesi di una città che modifica funzioni e densità nel tempo, risiede nella programmazione e pianificazione delle reti infrastrutturali, intese in senso estensivo (infrastrutture di trasporto e sottoservizi, infrastrutture telematiche e di comunicazione, infrastrutture verdi e ambientali); ovvero lo scheletro attorno al quale l’organismo urbano si sviluppa e che deve essere capace di sopportare diversi carichi urbanistici senza perdere la propria efficienza. Sempre citando Rem Koolhaas: “Le ville potrebbero essere costruite o demolite, e altre strutture potrebbero sostituirle, ma ciò non avrebbe alcun effetto sulla struttura principale. In termini urbanistici, questa indeterminatezza implica che a un luogo particolare non potrà più essere associate alcuna funzione predeterminata.”. (Koolhaas R., 2006).
3.3 Una riflessione sui sistemi relazionali I sistemi relazionali sono uno degli ambiti in cui si esplicita in maniera evidente il tema della flessibilità. Come già anticipato nell’accenno all’approccio organicista allo studio della città, l’interazione tra i gruppi sociali, è ciò che porta alla definizione di uno spazio urbano. Lo spazio urbano è il luogo di scambio di quella che è l’eredità storica, culturale, l’identità della città e la memoria legata allo spazio urbano, come scritto e definito da Geddes (e come invece viene negato nella Città Generica). Lo spazio urbano ha bisogno dell’interazione umana per essere significativo. Interazioni e scambi, però, non sono necessariamente legati ad un luogo fisico. La città a geometria variabile vede una smaterializzazione dei confini fisici della città a favore della rete relazionale. Un approccio, questo, già affrontato dalla corrente dei Bolidisti di Castelvetro negli anni ottanta. Secondo Gans:
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“Gli scienziati sociali e i programmatori razionali non si sentono legati né dalla tradizione del piano regolatore nè dal determinismo fisico. Sulla scorta dei risultati di ricerche che indicano come gli elementi dell’ambiente fisico, oggetto tradizionale del trattamento degli urbanisti, non hanno un impatto significativo sul comportamento della gente; e attraverso studi sull’organizzazione e il mutamento sociali, che dimostrano che le strutture economiche e sociali hanno un potere di determinazione maggiore che non le strutture spaziali, i programmatori razionali rivolgono la loro attenzione alle istituzioni e al loro mutamento, piuttosto che alle trasformazioni ambientali” (Gans, 1993) La componente materiale della città viene fortemente limitata nel suo significato e nel suo ruolo (o quantomeno: vi è una indifferenza alla forma fisica rispetto ad attività e funzioni che sono determinate). In conclusione, se pure le connessioni possono avvenire in forma smaterializzata, si sottolinea come un approccio di tipo organicista, che pensa alla città come oggetto flessibile e capace di adattarsi alla civitas e alla polis (oltre che all’ambiente socioeconomico) sia conforme alle esigenze territorialiste che vedono nell’appartenenza al luogo un bisogno primario dell’uomo.
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Prime mosse per una nuova sinergia fra agricoltura e paesaggio della Brianza orientale
Prime mosse per una nuova sinergia fra agricoltura e paesaggio della Brianza orientale Anna Moro Email: anna.moro@polimi.it Tel. 02.37648402 Christian Novak Email: christian.novak@polimi.it Tel. 02.23995539 Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione
Abstract Il paesaggio della Brianza orientale poggia su due principali invarianti territoriali che configurano la struttura naturale ed antropica del territorio: i corridoi fluviali e vallivi e la fitta trama di percorsi agricoli, che innervano le piane agricole con un passo regolare dettato dalla partizione agraria tradizionale. Questi elementi divengono il supporto di una nuova ‘geratio’ fondata su infrastrutture fruitive ed ecologiche che attribuiscono al territorio agricolo un ruolo sociale, di spazio multifunzionale della produzione agricola, ma anche del tempo libero. Il testo elabora una strategia di medio termine per una riforma che poggia su due gambe: una orienta le politiche ad una riarticolazione degli spazi e del paesaggio, l’altra pone le basi per una sostenibilità economica delle imprese agricole. Strategie entrambe praticabili nel contesto sociale e politico del Vimercatese, dove sono presenti sperimentazioni in ambito agricolo, dove le politiche dei parchi locali e di alcune amministrazioni comunali danno alcuni dei frutti sperati e dove la presa identitaria del mondo dell’agricoltura è ancora forte.
Introduzione La dissoluzione dello spazio aperto nella città diffusa a nord di Milano, pone un tema rilevante per la pianificazione, il progetto, le politiche 1. Il tema del rischio, del disequilibrio, della precarietà dello “spazio bianco” dell’urbanistica, della scomparsa del paesaggio come elemento connettivo 2, come spazio dell’identità 1
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La ricerca “Dopo la crescita. La riforma degli spazi aperti e delle aree produttive della provincia di Monza e Brianza” (2011, resp: A. Lanzani, DiAP, Politecnico di Milano) parte da queste considerazioni per porre alcune prime ipotesi di orientamento delle politiche territoriali per Brianza centrale e orientale (Vimercatese), con due accenti diversi. Sottolineando la crisi dello spazio aperto nella Brianza centrale e individuando alcune strategie attive di difesa delle ultime “radure” in un territorio quasi totalmente urbanizzato; costruendo un’articolata visione di rigenerazione del territorio nel Vimercatese, dove la forza della matrice del paesaggio agrario offre ancora, ma per pochi anni, la possibilità di ristabilire un nuovo equilibrio. Gli elementi di criticità che emergono in modo preponderante sono più debolmente connessi all’occupazione del suolo, mentre sono più spesso derivati da una loro cesura. Ad esempio: il complesso sistema di varianti tangenziali recentemente realizzate o in fase di realizzazione, o ancor più il sistema della viabilità complementare di Autostrada Pedemontana, in particolare per quanto attiene alla TRM 14 a Roncello e Bernareggio e la TRM 17 ad est di Arcore. Il disegno di alcune di queste viabilità complementari e piccole tangenziali (in particolare quella di Cornate d’Adda, di Roncello, di Sulbiate, di Vimercate e di Busnago) tende a mettere in crisi il rapporto fra centro urbano e il territorio agricolo, frammentando e recidendo i tradizionali percorsi agricoli, che hanno in molti casi guidato anche il disegno delle espansioni urbane. Altri elementi di criticità sono costituiti da alcuni grandi complessi produttivi e commerciali (aree industriali lungo il Molgora e il rio Vallone, centro commerciale “Il Globo” di Busnago, la florovivaistica Antologia), che si sono sviluppati
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del mondo agricolo e delle sue forme di produzione, definisco i contorni di una crisi che non può che coinvolgere la stessa qualità della vita nella frammentata area metropolitana lombarda. L’approccio al progetto qui proposto deriva da un’ibridazione tra due diversi atteggiamenti: la conoscenza approfondita del contesto che fa emergere dei segni di cui esiste qualche traccia e l’introduzione di un segno nuovo, progettuale, che ha le sue ragioni nel senso che contribuisce a costruire.
La trama pubblica e la reinvenzione dell’agricoltura Il paesaggio della Brianza orientale poggia su due principali invarianti territoriali che configurano la struttura naturale ed antropica del territorio: i corridoi fluviali e vallivi, che segnano il territorio in direzione nord-sud e la fitta trama di percorsi agricoli, che innervano le piane agricole in direzione est-ovest, con un passo regolare dettato dalla partizione agraria tradizionale. Questi elementi divengono il supporto di un potenziale spazio pubblico reticolare, dilatato e diffuso, fatto di percorsi, di ambiti naturali, di servizi e di una riforma del rapporto fra città e campagna. Ciò che qui si propone è dunque la costruzione di un’alleanza tra spazio urbano, dell’abitare e spazio agricolo, del produrre. L’idea è quella che solo attraverso un progetto comune, dando “valore al vuoto assumendolo come elemento strutturante del territorio, come parte integrante del tessuto urbano” (P. Donadieu, Campagne Urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli, Roma, 2006), è possibile immaginare una nuova forma di ruralità urbana. La continuità dello spazio aperto, la gestione delle relazioni tra lo spazio privato, pubblico, di prossimità e agricolo costituiscono un primo terreno entro cui una strategia di medio termine per la riforma del paesaggio e delle imprese agricole del Vimercatese si deve misurare. Una riforma che non può che poggiare su due gambe: una che orienta le politiche ad una riforma degli spazi e del paesaggio, una seconda che pone le basi per una sostenibilità economica delle imprese agricole. Strategie entrambe praticabili in un contesto sociale e politico dove la presa identitaria del mondo dell’agricoltura è ancora forte. “L’alleanza fra l’urbanista, il paesaggista, l’agricoltore”, come sostiene Donadieu, e l’amministratore (aggiungiamo noi), per la costruzione di una nuova forma di “campagna urbana” è forse possibile qui più che altrove.
Figura 1. Immagini del territorio della Brianza orientale
L’immagine al futuro L’alleanza tra città e campagna si declina entro un’immagine che reinterpreta il territorio della Brianza orientale riorganizzando lo spazio aperto attraverso una trama di percorsi e di spazi naturali capaci di generare una maggiore leggibilità del paesaggio, scandire il ritmo delle partizioni agricole, infrastrutturare il territorio attraverso la selezione e il potenziamento di tracciati percorribili dalla valenza ecologico-ambientale.
in ambiti sensibili dal punto di vista ambientale (a fianco a torrenti, all’interno di paleo alvei o nel mezzo di piane agricole), realizzando delle “isole” che non dialogano con i territori circostanti e che in alcuni casi costituiscono un fattore di rischio ambientale. Anna Moro, Christian Novak
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L’immagine reticolare lavora su due piani. In primo luogo il progetto costruisce una relazione con la città, ovvero con lo spazio dell’abitare (e con lo spazio pubblico), con le pratiche che in questi prendono forma. La trama costruisce uno spazio pubblico fruibile dagli abitanti nella forma di un parco lineare in cui al semplice percorso ciclo pedonale si affiancano una serie di spazi verdi. Il parco lineare è costellato di recapiti, punti rossi, che accendono lungo i percorsi piccole centralità: i servizi esistenti, i servizi in progetto, i campi sportivi, le ville e i parchi storici, le cascine, i parchi pubblici posti alla periferia dei nuclei urbani. I servizi e i luoghi di valore, messi a sistema e non più marginali rispetto ai centri urbani, traggono beneficio della nuova collocazione entro una rete ugualmente distribuita. La condivisione tra comuni confinanti di strutture di servizio trova nella rete un supporto fisico e di senso. Le dimensioni della maglia, commisurate sia alla struttura agraria sia al taglio dei nuclei urbani, assicura una sufficiente distribuzione dei punti di accesso ai servizi (Figura 2). In secondo luogo gli stessi elementi rafforzano l’idea di una dimensione ecologica, ricostruiscono e potenziano il valore dello spazio aperto, nelle sue molteplici declinazioni. La relazione tra la trama e lo spazio naturale, rappresentato in particolare dai corridoi fluviali e vallivi, fa da contraltare al rapporto instaurato con lo spazio urbano. L’ispessimento dei corridoi ecologici nord-sud, spesso ridotti a pochi metri di fascia ripariale, e la loro dilatazione a comprendere parchi urbani e storici, ambiti boschivi, ambiti agricoli adiacenti, costituisce un elemento centrale della continuità ecologica e della tutela del paesaggio. La messa in rete degli spazi aperti
naturali restituisce un ruolo più significativo ai singoli elementi, oggi slegati ed indipendenti, contribuendo a ricucire un sistema ecologico diffuso. Figura 2. La trama pubblica
Il progetto: quattro elementi La trama ecologica e fruitiva La trama dei percorsi fruibili (pubblici o a servitù pubblica) si costituisce nella forma di un percorso ciclopedonale attrezzato con spazi a prato per la sosta, protetto da filari e fasce boscate, che predispone il territorio a pratiche di vita all’aperto e permette di godere della vista e di un contatto (mediato) con lo spazio agricolo, ora curato e riqualificato. La trama si compone di tracciati est-ovest e nord-sud che si differenziano per il carattere e il ruolo all’interno della trama generale. I tracciati est-ovest sono in generale elementi esistenti: percorsi, carrarecce, linee di partizioni dei suoli agricoli, in alcuni casi già fruibili perché caratterizzati da qualità e continuità del percorso, in altri casi da ricostituire e
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riammagliare. La trama così disegnata rappresenta in parte una selezione tra i segni di una trama minuta, molto densa che è ancora oggi strutturante 3. Il progetto della trama nord-sud poggia sui percorsi che si snodano lungo i rami fluviali (di norma inseriti nei parchi fluviali), mette a sistema elementi paesistici quali gli assi prospettici di accesso alle cascine, i percorsi posti sulle dorsali intermedie delle piane agricole e ridisegna, su tracce esistenti, nuovi percorsi all’interno o ai margini dei paleo-alvei. In altri casi va a costituire, a connessione di due linee est-ovest, porzioni di aste che accompagnano il disegno di nuovi margini urbani e infrastrutturali. Gli assi nord-sud, che costituiscono originariamente la partizione e la misura dello spazio agricolo, concorrono così alla enfatizzazione di una successione tra i pieni (città, bosco, ecc.) e i vuoti (prato fruibile, campagna, ecc.) rispetto al quale è già in parte organizzato il paesaggio.
I corridoi vallivi e fluviali Ai corridoi naturali esistenti, costituiti dagli alvei dei quattro corsi d’acqua – Molgora, Rio Vallone, Vareggio e Adda – si aggiungono i paleoalvei, vere e proprie infrastrutture verdi di dimensione territoriale in grado di garantire la continuità ecologico-ambientale di scala maggiore. I corridoi sono definiti da confini di carattere morfologico e geologico: il tipo di terreno, la presenza dell’acqua, l’infossamento rispetto al piano di campagna, la presenza sul margine di filamenti o fasce boscate. Questi ambiti di naturalità sono ampliati in relazione a ciò che sta al loro margine, andando a comprendere ed agganciare sistemi naturali vallivi boschi, parchi storici, porzioni di aree abbandonate (ad esempio ex cave) la cui sistemazione naturalistica potesse creare una forte sinergia con l’ambito naturalistico degli alvei. Il limite degli ambiti naturalistici si avvicina poi ai nuclei storici che si affacciano verso agli alvei, ai margini del nuovo edificato, ai principali impianti di servizi per lo sport ed il tempo libero, per costruire sinergie fra percorsi, ambiti naturali e i caposaldi della città pubblica. Il potenziamento e l’ispessimento di questi elementi ne conferma e completa la natura, andando a costruire la scansione principale dell’intera figura territoriale: un ritmo che nel determinare la misura delle piane agricole impedisce la saldature dei sistemi insediativi, costruisce sfondi e quinte che permettono di misurare e conoscere il paesaggio. Il carattere naturale di alvei e paleoalvei riconnette tutta la trama di progetto, già caratterizzata dall’accostamento di filari o fasce boscate, entro una dimensione ecologica di ordine superiore.
I margini tra urbanizzato e paesaggio agricolo La perimetrazione di ambiti di relazione privilegiata tra urbanizzato e spazio aperto agricolo completa il disegno della struttura reticolare. I margini rappresentano ambiti per i quali si dichiara la necessità di un progetto puntuale 4. I limiti di questi ambiti, margini di un ampiezza spesso significativa, sono stati individuati a partire dalla conformazione fisica della trama agraria e dell’urbanizzato di margine. La loro delimitazione è stata curata in modo tale da includere le aree di espansione previste al margine dell’edificato o in fase di realizzazione, le aree aperte, agricole o a servizi (aree sportive o scuole), le numerose nuove infrastrutture tangenziali o sovralocali. Si tratta in generale di elementi che possono intrattenere con gli spazi aperti una relazione più fertile di quella attuale attraverso una riforma degli accessi o delle recinzioni, di porzioni di aree edificate, dei tracciati delle infrastrutture realizzate di recente o in programmazione, per le quali è auspicabile una integrazione con il paesaggio del margine ed un maggiore livello di permeabilità trasversale. Il confine verso la campagna è stato definito in relazione al disegno della maglia agraria al fine di contemperare il disegno dell’infrastruttura, spesso sinuoso o in contraddizione con la regolarità della partitura dei campi, con il paesaggio agrario.
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Si possono citare alcune tipologie di tracciati e le relative azioni di progetto sviluppate: l’utilizzo di tracciati esistenti caratterizzati da continuità territoriale dei tracciati e della loro permanenza (tracciati di estensione notevole che contribuiscono ancora a segnare ed organizzare il territorio agricolo); la ridefinizione di percorsi che rendono fruibili paesaggi ed elementi di valore presenti nel contesto (tracciati di qualità paesistica che attraversano ambiti agricoli di qualità, nuclei cascinali o borghi di interesse storico, o che rendono più visibili minuti elementi del paesaggio agrario storico, cappelle votive, alberi monumentali, residui di piantate di gelsi, sequenze di “cascinotti", santuari); la connessione di servizi esistenti e di progetto (nuovi tracciati che mettono in relazione servizi urbani, di carattere sportivo e culturale, orientati al tempo libero, che si dispongono come interfaccia sullo spazio agricolo, introducendo un nuovo elemento che intercetta una potenziale utenza dei percorsi, e contribuisce a disegnare il margine tra spazio aperto e costruito). 4 L’esigenza dell’individuazione di tali ambiti di progetto si dà generalmente quando un percorso della trama è tangente ai nuclei urbani; quando sul limite tra città e campagna sono previste espansioni generalmente non ancora realizzate; quando la presenza di una infrastruttura tangente ai centri urbani (recente o di progetto) definisce spazi di risulta e si sovraimpone al disegno dello spazio aperto annullando la relazione tra città e campagna; infine, quando il rapporto tra pieni e vuoti appare irrisolto o generativo di spazi in attesa, poco accoglienti e poco armoniosi rispetto al paesaggio circostante.
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L’attenzione per i contesti sopracitati nasce dall’esigenza di contenere l’espansione urbana e lavorare entro un fascia intermedia di contatto tra urbanizzato e spazio aperto agricolo. In queste aree è centrale la costruzione di una relazione chiara tra le parti. Essa si realizza ad esempio attraverso la costruzione di un bordo netto che connette, ma contemporaneamente distingue, l’urbanizzato dalla campagna, una sorta di diaframma costituito di spazi fruibili, un percorso, prati, siepi, filari alberati. Questo diaframma si realizza attraverso il disegno della compenetrazione tra le parti, inserendo all’interno dell’urbanizzato stanze agricole di dimensioni sufficientemente ampie da preservarne la funzionalità e la continuità con l’ambiente agricolo circostante, producendo “incursioni” della campagna in città attraverso filari, orti e della città verso la campagna attraverso percorsi di fruizione e connessioni traversali. Uno spazio anche di potenziale collaborazione fra chi si occupa di città – dal punto di vista progettuale, amministrativo ed economico – e chi si occupa della campagna.
I tasselli agricoli Tra le maglie della trama pubblica si riorganizza lo spazio agricolo. La scansione dei percorsi definisce il taglio, la dimensione per un sistema di nuove imprese agricole. I “tasselli” possono infatti ospitare una variegata gamma di imprese agricole. Dal lato della sostenibilità economica si rende necessaria, infatti, una visione al futuro della loro possibile riorganizzazione, spaziale e colturale, a partire dalla diversificata struttura aziendale attuale. Accanto alle aziende classiche, quelle realizzate attorno ad un nucleo cascinale con un conduttore ed una contiguità dei campi, si sono sviluppate altre forme di impresa agricola con maggior grado di disaggregazione ed un minor grado di identificazione fra conduttore, proprietario e unità di paesaggio: l’impresa “frammentata”, dove si è persa la continuità dei campi, ma è ancora presente un centro, la cascina; l’impresa “destrutturata” dove il centro dell’impresa è debole, la cascina è ancora residenza del conduttore, ma non è più il luogo dell’impresa agricola; l’impresa “despazializzata”, dove non è più possibile alcuna associazione fra un luogo e l’impresa, la cascina è assente, trasformata in residenza o abbandonata e i campi sparsi su territori distanti fra loro e curati da contoterzisti che hanno sede in altri luoghi. Entro questa complessità è utile provare a configurare possibili evoluzioni spaziali e gestionali. Mentre per le imprese classiche si pone essenzialmente un problema dimensionale – sono oggi troppo piccole per permettersi una diversificazione delle colture – per le altre diviene strategico il riorientarsi verso più complesse forme colturali con maggiore valore aggiunto, verso l’allevamento, agricoltura multidimensionale, o divenire, ad esempio, imprese orticole a servizio delle mense scolastiche, entro un sistema di convenzioni pubblico privato, o ancora aziende avicole, lattiero casearie o agrituristiche e didattiche. Maggiore è il grado di disaggregazione delle unità di campo più è difficile orientare le colture verso maggiore produttività, per una difficoltà insita di controllo, di continuità delle cure, di gestione. Le imprese con un altro grado di frammentazione sul territorio sono vincolate quindi al mantenimento di colture a basso livello di cura (cerealicolo) o a produzioni energetiche e della filiera del legno, che garantirebbero anche variabilità e qualità paesaggistica all’interno di un paesaggio agricolo impoverito.
Figura 3. I quattro elementi dell’immagine di progetto: la trama (1), i corridoi vallivi e fluviali (2), i margini (3), i tasselli (4) Anna Moro, Christian Novak
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Dall’esplorazione al processo A chiusura di una ricerca progettuale su un territorio estremamente impoverito, in bilico fra un passato agricolo in crisi, un presente di forte espansione residenziale e di progressivo ampliamento delle aree produttive, sempre più caratterizzate da dismissione precoce e da invenduto, da un incipiente processo di conurbazione, già marcato ad ovest, e dal proliferare di nuove e pesanti infrastrutture viabilistiche 5, è necessario cercare di tracciare quali siano le traiettorie di evoluzione già registrabili sul territorio, quali i processi in corso, quali le possibili prime mosse per innescare un processo di trasformazione e salvaguardia degli spazi aperti economicamente, socialmente e ecologicamente fondato. Sono principalmente quattro le direzioni della trasformazione percepibili dalle iniziative delle amministrazioni locali, delle associazioni, dei coltivatori diretti: verso la costruzione di un parco agricolo; verso forme di agricoltura economicamente sostenibili; verso una riscoperta della tradizione agricola e del prodotto di qualità; verso la riscoperta del territorio dietro casa. Uno degli esiti indiretti di questo lavoro, e soprattutto del contributo che la ricerca ha dato alla redazione del PTCP della Provincia di Monza e Brianza, unitamente alla definizione nello stesso strumento delle “aree agricole strategiche”, è stata la riattivazione del processo di discussione attorno alla costruzione di un Parco agricolo del Vimercatese 6. Ancora non è definita la forma istituzionale del parco, ne sono definiti i suoi confini, ma è in via di definizione la sua missione e la sua natura attraverso l’iniziativa delle associazioni e di alcuni comuni capofila di realizzare un processo partecipato di “fondazione” del parco, una sorta di manifesto di quello che il parco dovrà essere, facendo tesoro delle proposte elaborate nel presente lavoro. Ad oggi sono presenti nel vimercatese tre PLIS (Parchi Locali di Interesse Sovracomunale), il PLIS della Cavallera, il PLIS del Molgora e il PLIS del rio Vallone, mentre un’ampia porzione del territorio agricolo centrale della piana e una fascia ad est sono scoperti da ogni forma di tutela e di coordinamento delle politiche degli spazi aperti. I PLIS, orientati nord sud, non comunicano fra loro, ne hanno la forza economica ed organizzativa di produrre politiche di scala più ampia. Una prima ipotesi allo studio è quella della confederazione fra PLIS, forma istituzionale però non esistente nel panorama legislativo lombardo, mentre una ipotesi più avanzata, ma anche di più difficile attuazione, è quella della costituzione di un Parco Regionale. 7 Un secondo processo è legato ai processi di riforma delle aziende agricole, che sono ormai consce della necessità di una diversa organizzazione produttiva, di dover provvedere ad una riunificazione dei fondi sotto una maggiore unità di conduzione, di dover costruire insieme alle amministrazioni locali e provinciali politiche di ricostruzione della domanda di generi alimentari, locali e biologici, in particolare attraverso il sistema dei bandi della ristorazione collettiva (mense scolastiche, ospedali, mense aziendali, ecc.). Ad oggi sono pochi e non coordinati i casi di incontro fra domanda collettiva ed offerta promossi da amministrazioni particolarmente attente che sono stati in grado di modificare anche il profilo della offerta e, quindi, l’organizzazione della filiera agroalimentare. Esperienze ormai consolidate in questo senso, come ad esempio quelle promosse dalla Provincia di Piacenza8, sono state in grado di produrre una riorganizzazione estesa della produzione agricola locale, offrendo sicurezza delle forniture, che ha permesso, a sua volta, gli investimenti necessari ad una riorganizzazione della produzione agricola locale, una sua qualificazione ed un diverso orientamento. Un terzo processo è quello di riscoperta e/o d’invenzione di alcune produzioni tipiche locali e la capacità di gruppi di persone, non solo imprenditori agricoli, di valorizzarle, di farle conoscere, di costruire mercati locali. Attorno alle produzioni locali e alla loro riscoperta si sviluppa un complesso mondo, non privo di retoriche, che si può riassumere in tre concetti chiave: chilometro zero, ossia produzione e consumo locale, produzione di qualità, ossia prodotti biologici, De.Co. (denominazione di origine comunale), forme sociali di produzione e di acquisto, GAS, ma anche orti urbani, mercati biologici, vendita diretta, farm market, ecc.
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Prima di tutto l’Autostrada Pedemontana Lombarda e le sue viabilità complementari, ma anche le numerose tangenziali recentemente realizzate, in costruzioni o previste, che intersecano direttamente il tema della ridefinizione del margine urbano e dei possibili rapporti con lo spazio aperto, spesso non affrontando progettualmente il tema della continuità dei percorsi agricoli, della percezione del paesaggio dalla strada, dell’impatto visivo del tracciato, dell’inserimento paesaggistico. 6 Una idea che ha già radici profonde nelle attività delle associazioni ambientaliste locali, in particolare dell’”Associazione dei Parchi del Vimercatese”, ma che per difficoltà amministrative e per la ritrosia di alcune amministrazioni comunali, non aveva prodotto significativi passi avanti. 7 Molte amministrazioni non vedono però di buon grado la sottrazione al loro controllo diretto di ampie porzioni di territorio comunale. Mentre i PLIS sono parchi riconosciuti dalla Provincia il cui presidente e consiglio di amministrazione è definito direttamente dai comuni promotori, i parchi regionali sono invece degli Enti di diritto pubblico, la cui nomina del presidente è fortemente orientata dalla regione, che mantiene nel consiglio di amministrazione un proprio rappresentante. Il rischio che alcune amministrazioni locali vedono è quello di una sorta di esproprio di competenze e il mettere a rischio sperimentazioni attuate localmente con grande fatica ed investimento. 8 Grazie alla legge 29 dell’Emilia Romagna nel 2003 si è permesso di avviare un importante progetto di fornitura di prodotti biologici locali nelle mense scolastiche del territorio piacentino, ad oggi il Consorzio Biopiace rifornisce tutto il Comune di Piacenza e 23 Comuni della Provincia. Anna Moro, Christian Novak
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Prime mosse per una nuova sinergia fra agricoltura e paesaggio della Brianza orientale
Sono tutte variamente forme di “resistenza” che cercano di mantenere e ricostruire un rapporto più diretto e più umano fra città e cibo, di ricostruire, entro piccoli mondi, quella naturale spontaneità, ormai perduta, che legava un popolo alla propria terra. Un ultimo processo è, infine, è quello di riscoperta del territorio agricolo e naturalistico vicino attraverso le frequenti iniziative di associazioni ambientaliste e sportive che organizzano corse, escursioni in bicicletta, visite, proponendo il territorio vicino come uno spazio di scoperta, di svago, di cultura. Dopo decenni di allontanamento dai propri territori, di tempo libero legato ad una scoperta dell’altrove, questo tipo di iniziative unite al lavoro dei parchi locali e alla costruzione di una prima rete di percorsi, ha messo in moto la riscoperta di uno spazio aperto che aveva assunto in passato sempre più il termine di distanza fra un paese e l’altro. Resta cruciale dunque l’intersezione tra uno scenario articolato, che tuttavia ha fornito alcuni principi chiave e un disegno via via precisabile nel tempo, e i processi e le iniziative in corso, per orientare le trasformazioni e le politiche verso la produzione di una territorio di qualità, dove l’impresa agraria è in grado di innovarsi e crescere, scoprire nuove forme di collaborazione e di utilità pubblica, in cui si ricostruisce il rapporto fra agricoltura, difesa del suolo, costruzione del paesaggio e del margine fra città e campagna, in cui sia centrale la fruizione pubblica dello spazio aperto, l’accessibilità ai servizi e il diritto di percezione/condivisione del patrimonio paesistico.
Bibliografia Branzi A. (2006), Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira, Milano. Clément G. (2005), Manifesto del terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet; ed. or. (2004), Manifeste du tiers paysage, Sujet/Objet, Paris. Donadieu P. (2006), Campagne Urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Roma, Donzelli; ed. or. (1998), Campagnes urbaines, Arles-Versailles Actes Sud. Lanzani A. & Pasqui A.,(2011), L’Italia al futuro, Franco Angeli, Milano. Lanzani A.(2012), “Spazi aperti preiurbani e nuove agricolture in Brianza”, Territorio, n. 60, pp. 85-91. Moro A., Novak C. (2012), “Forme e strategie per la campagna urbana: spunti a partire dal Vimercatese”, Territorio, n. 60, pp. 97-101.
Anna Moro, Christian Novak
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Progetto di parco fluviale. Volano di riqualificazione e ricucitura territoriale
Progetto di parco fluviale. Volano di riqualificazione e ricucitura territoriale Tullia Valeria Di Giacomo Sapienza Università di Roma Email: tulliadigiacomo@tiscali.it Tel. 349.0730370
Abstract Il Progetto di parco fluviale si concentra sulla mitigazione del rischio esondazione, il recupero della qualità ecologica e la valorizzazione delle aree urbane, periurbane e rurali prossime al corso del fiume Aniene. L’Aniene, oggetto di frequenti esondazioni, sta attraversando una fase di estensiva urbanizzazione e dequalificazione delle sue fasce pertinenziali. La valle dell’Aniene (un milione di abitanti) contiene, ciò nonostante, potenzialità archeologiche, storiche e naturali come le ville degli imperatori romani e le sorgenti che costituiscono l'approvvigionamento idrico della città di Roma. Lo scopo è creare un parco lineare che permetta una nuova vivibilità del fiume coniugando la sicurezza rispetto gli eventi naturali con la possibilità di fruizione della risorsa acqua da parte degli abitanti. La salvaguardia del corridoio fluviale e la riqualificazione degli spazi residuali tra gli interventi pianificati e spontanei possono permettere la creazione di una sequenza di spazi urbani e rurali, naturali ed artificiali in grado di innervare il territorio creando o ricreando relazioni e spazi vivibili.
Premessa Il tema della riqualificazione fluviale è ormai un leitmotiv ricorrente in gran parte delle dichiarazioni strategiche che stanno alla base di piani e progetti di trasformazioni urbane degli ultimi anni. Troppo spesso però tali politiche si traducono in interventi che si limitano a ridisegnare il margine tra città e fiume, anche con elementi significativi, senza però intervenire sulla struttura urbana e tanto meno sull’ecosistema fluviale. La stretta relazione stabilitasi nel corso del tempo tra insediamenti e fiumi è un aspetto peculiare del territorio che si rispecchia nella centralità che essi hanno avuto nella definizione dei caratteri urbani e nella costruzione di un paesaggio; “Un po’ d’acqua e tutto intorno si anima” scriveva lo storico francese Fernand Braudel. In Europa questo legame è evidente nell’identificazione fra molte città europee ed i loro fiumi: Parigi e la Senna, Londra e il Tamigi, o ancora Budapest e il Danubio e ovviamente Roma e il Tevere. In fondo il fiume rappresenta l’espressione del rapporto tra natura, sito e costruzione umana. Percorrendo il fiume si coglie spesso il suo essere espressione di una comune identità storica, culturale, architettonica e paesaggistica. Al tema fiume/paesaggio fluviale è possibile attribuire una diversità di significati tra i quali troviamo quelli: • come segno di difesa/rischio: il fiume come “difesa” di castelli, città, territori; ma anche come “rischio” da cui difendersi imbrigliandolo, canalizzandolo, per evitare alluvioni; poi attualmente realtà da difendere da cementificazioni, prelievi, inquinamenti che ne minacciano la sopravvivenza; • come elemento di confluenza/separazione: nel territorio il fiume è per lunga tradizione è elemento di separazione come frontiera o limite amministrativo tra stati, regioni, comunità , proprietà, ma anche, soprattutto fino al XIX secolo, luogo di incontro, scambio, affaccio di edifici, orti , giardini e convergenza di percorsi e attività.
Di Giacomo Tullia Valeria
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Progetto di parco fluviale. Volano di riqualificazione e ricucitura territoriale
• come luogo di attività produttive, di svago e tempo libero: il fiume come linea di comunicazione e commerci, in seguito abbandonato con la crisi dell’industrializzazione ed attualmente in via di riscoperta dal punto di vista ricreativo. Spesso si tratta di aree e spazi dequalificati, con problemi di bonifica ambientale o lasciti di interventi di infrastrutturazione che hanno prodotto ulteriore frammentazione urbana. In altri casi si tratta di relitti di campagna rimasti inedificati o di luoghi monumentali un tempo isolati ed in seguito inglobati dall’espansione urbana. I corsi d’acqua rappresentano un’importante componente di questo patrimonio di aree che li ha resi, negli ultimi anni, contesti privilegiati delle politiche di riqualificazione urbana ed ambientale, in grado di supportare una serie di interventi che vanno dalla creazione di nuovi spazi pubblici urbani, alla creazione o al potenziamento di parchi urbani o territoriali raccordati a interventi di difesa del suolo.
Caso di studio Il caso di studio prende in esame il territorio di area vasta della valle del Fiume Aniene dalle sorgenti alla confluenza con il Tevere e propone un progetto di parco fluviale che comporti una riqualificazione ambientale diffusa abbinando interventi di difesa del suolo alla valorizzazione dei luoghi attraversati con lo scopo di incentivare la fruizione della risorsa fiume. L’Aniene, l’ultimo grande affluente del Tevere al quale contribuisce con un portata del 31% riceve lungo il suo corso numerosi affluenti tra cui i principali sono il Simbrivio e il Licenza in riva destra e il Torrente Fiumicino in riva sinistra. Il fiume Aniene, che nasce sui Monti Simbruini ad un quota altimetrica di circa 1600m sul livello del mare, attraversa, infatti, lungo il suo corso, paesaggi di natura differente andando da territori pressoché incontaminati delle origini a situazioni urbanizzate e fortemente antropicizzate della confluenza con il Tevere dentro la città di Roma.
Obiettivi Il progetto si pone il problema della valorizzazione territoriale, ecologica e culturale del fiume riconoscendogli progettualmente il valore di “corridoio”, con una estensione e una ampiezza variabile, in grado comunque di mettere a contatto differenti situazioni, affrontando le varie problematiche riscontrate senza perdere di vista il quadro complessivo delle interrelazioni che da esso possono scaturire. Concettualmente non si tratta di considerare il fiume semplicemente come un’area da proteggere attraverso strumenti vincolistici, né di intervenire settorialmente ed esclusivamente dal punto di vista della difesa idraulica. Questi aspetti rappresentano certamente una parte del problema, ma vanno ricondotti all’interno di un’idea di progetto territoriale che può prefigurare nuovi paesaggi in grado di armonizzare le diverse esigenze secondo logiche di interazione territoriale e amministrativa e intersettoriale dalla scala vasta alla scala di dettaglio. Obiettivo del progetto è la realizzazione di un Parco Fluviale lungo il corso del fiume Aniene che comporti una riqualificazione ambientale diffusa che offra una migliore qualità della vita. La stretta relazione tra dinamiche insediative e andamento del corso d’acqua evidenzia in maniera forte la centralità dell’elemento acqueo nei processi di costruzione di un territorio e la possibilità progettuale di riconnettere ambiti territoriali disaggregati e spazi di risulta conseguenti ovvero gli spazi cosiddetti SLOAP Space Left Over After Planning tramite un elemento comune: l’asse del parco lineare del fiume Aniene. Gli aspetti ritenuti prioritari nel progetto al fine di recuperare il fiume sono: • il recupero delle situazioni di degrado delle fasce fluviali e degli ecosistemi ripariali e la realizzazione/conservazione delle reti ecologiche longitudinali e trasversali al corso del fiume; • la riconnessione dell’urbano e del periurbano tramite la capacità del parco fluviale di intessere legami con i territori attraversati; • la gestione delle fasce di esondazione e la salvaguardia delle zone a rischio idraulico; • la tutela della qualità della risorsa idrica e delle sue pertinenze; • la ricostruzione della figurabilità antica del territorio con la riconnessione della rete dei percorsi storici e il miglioramento dell’accessibilità tramite la realizzazione di percorsi di mobilità dolce all’interno del parco di collegamento tra le aree insediative e le risorse; • la conservazione e valorizzazione dei valori ambientali e storico-archeologici delle preesistenze nelle fasce fluviali e nei territori limitrofi attraverso la realizzazione di nuovi percorsi/strutture di fruizione o il recupero degli esistenti;
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la realizzazione di attrezzature nuove o il recupero delle esistenti nella fascia di esondazione secondo la logica di compatibilità con il deflusso delle piene per l’incentivazione della fruizione del corso del fiume, tramite attività sportive, escursioni naturalistiche o attività di educazione ambientale; l’utilizzo di materiali a basso impatto (ingegneria naturalistica) in grado di mantenere la funzionalità fluviale e incentivazione delle attività ecocompatibili (orti urbani); l’armonizzazione degli strumenti pianificatori, ovvero quelli urbanistici e quelli di assetto idrogeologico e di conservazione ambientale; il presidio del territorio e il rafforzamento delle identità dei luoghi attraversati.
In tal senso il Progetto agisce nell'ambito della ricerca dello sviluppo sostenibile del territorio che non compromette la possibilità delle future generazioni di perdurare nello sviluppo stesso, preservando la qualità e la quantità del patrimonio e delle riserve naturali. Questa forma di sviluppo della società si articola secondo vari aspetti (ambientale, estetico, funzionale, economico e sociale), che devono essere messi a sistema. Le finalità dell’intervento, nell’ottica dello sviluppo sostenibile si articolano quindi nei seguenti punti esplicitati anche dagli strumenti urbanistici attualmente legiferanti e confluiti nelle azioni strategiche da attuare tramite il parco fluviale: • Efficienza funzionale: riguarda l'adeguatezza qualitativa e quantitativa delle reti infrastrutturali e delle attrezzature; • Efficienza economica: riguarda l'adeguatezza delle offerte localizzative rispetto alla domanda dei soggetti economici e delle imprese; • Equità: riguarda l'equidistribuzione tra gli abitanti dell'uso dei beni territoriali e l'equiripartizione tra gli stessi dei benefici e dei costi delle azioni previste; • Bellezza e identità: riguarda due aspetti correlati: la percezione estetica della morfologia dei luoghi e la conservazione del patrimonio storico in quanto depositario di identità culturale; • Benessere ed equilibrio ambientale: riguarda due esigenze complementari: la prima, riguardante la popolazione, che si esprime in termini di vivibilità, igiene, sicurezza e protezione dai rischi ambientali; la seconda, che ha per oggetto l'ambiente in sé, che si esprime in termini di protezione, conservazione e ripristino dei beni e delle risorse naturali, ivi comprese le forme di vita diverse dall'uomo.
Metodo Il metodo adottato ha previsto diverse fasi che possono essere generalmente inquadrate come fase di analisi e fase di progetto. La prima fase di analisi ha comportato lo studio della valle secondo i 3 macrosistemi ambientale, relazionale ed insediativo. Quindi un'altra fase di analisi necessaria per la conoscenza del territorio è stata lo studio dei principali strumenti urbanistici legiferanti. Successivamente l’area di studio è stata divisa in 5 sequenze territoriali omogenee all’interno di ciascuna delle quali si è individuato un transetto ovvero una porzione di territorio trasversale al fiume nel quale analizzare con un dettaglio maggiore lo stato di fatto per il quale proporre azioni strategiche di riqualificazione e valorizzazione da attuare tramite il parco fluviale. Parallelamente a questa fase si è proceduto mettendo in evidenza pur nella specificità di ogni tratto il carattere ricorrente e interventi analoghi che sono necessari. In ciascuna sequenza si è individuate un “Transetto” distintivo (Figura 1 e 2) e il parco fluviale viene a configurarsi come l’elemento ordinatore dei vari progetti di riqualificazione sia in zone urbane che non urbane.
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Figura 1. Sequenze territoriali omogenee e transetti. L’individuazione dei brani di territorio denominati Transetti permette di sviluppare il progetto secondo un maggior dettaglio secondo 3 specifiche prioritarie: • evidenziazione delle criticità e delle risorse; • verifica dei limiti del parco fluviale; • evidenziazione degli interventi di difesa del suolo necessari. La localizzazione dei transetti avviene in punti particolarmente significativi all’interno di ciascuna sequenza che offrono la possibilità di proporre interventi che valorizzino l’intera sequenza e fungano da riferimento alla scala territoriale. La disposizione dei transetti si è posta trasversalmente rispetto al corso del fiume poiché si ricerca la connessione dell’alveo fluviale e delle sue pertinenze con i territori attraversati. Le dimensioni dei transetti sono definite in 6kmX1,5km e si mantengono costanti lungo i diversi territori attraversati. Queste dimensioni permettono di riuscire a caratterizzare le varie parti di territorio interessate dal corso fluviale.
Figura 2. Localizzazione, disposizione e dimensione dei Transetti In ogni sequenza si è individuato un transetto caratterizzante e il parco fluviale risulta in questo modo l’elemento ordinatore dei vari interventi di riqualificazione delle aree urbane e non. Ogni transetto ha perciò, una specificità per la quale si individua un obiettivo prioritario e una conseguente azione progettuale. Le esigenze riscontrate vanno dalla necessità di preservare e rinaturalizzare, a quella di attirare e mitigare, a quella di salvaguardare e restaurare a quella di connettere e catalizzare per arrivare alla necessità di presidiare e ricucire il territorio. In particolare si sono scelti i transetti delle sequenze delle sorgenti e urbana per l’applicazione di interventi di dettaglio e nello specifico si è evidenziato il lavoro svolto per la porzione di territorio individuata dalla sequenza urbana. Per cui oltre agli interventi di fruizione tramite il recupero della percorribilità fluviale e la valorizzazione e il recupero dei ponti esistenti e dei punti belvedere tra cui la confluenza degli affluenti del Fiume Aniene, la creazione di aree attrezzate e di punti di accesso al fiume, si prevedono interventi di rinaturalizzazione e di difesa idraulica.
Analisi L’analisi del sistema ambientale così determinata, ha evidenziato come questa porzione della Regione Lazio sia estremamente ricca di aree di particolare pregio. Numerose sono, infatti, le ANP - Aree Naturali Protette, istituite dalla Legge Quadro n. 394 del 1991, presenti, diverse delle quali gravitano in prossimità del fiume; diversi sono anche i SIC - cioè i Siti di Interesse Comunitario secondo la direttiva HABITAT della Comunità Europea. L’ambiente del corridoio fluviale secondo l’analisi della qualità biologica ad opera della Regione Lazio rimane non alterato o leggermente inquinato soprattutto nell’alta valle cioè a monte di Subiaco mentre si degrada e altera anche sensibilmente nella bassa valle e dentro la città di Roma dove risente della vicinanza di insediamenti produttivi (Figura 3).
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Figura 3. Andamento della qualità biologica del fiume Aniene secondo la Carta della qualità biologica dei corsi d'acqua della Regione Lazio I principali strumenti urbanistici legiferanti nel territorio sono alla scala vasta il Piano Stralcio Funzionale V facente parte del Piano di Bacino del Fiume Tevere (approvato nel 2009) nel quale ricade anche il Bacino dell’Aniene, che prevede tra i suoi obiettivi principali la salvaguardia idraulica di Roma e il recupero dei caratteri ambientali del fiume. Le Norme Tecniche di Attuazione del Piano distinguono delle fasce idrauliche in base alle aree soggette ad esondazione: fascia A con tempi di ritorno di 50 anni; fascia B con tempi di ritorno di 200 anni. All’interno di queste aree vengono quindi evidenziate le zone a rischio R4 o R3 cioè le zone sede di insediamenti per le quali è necessaria la realizzazione di opere di difesa idraulica. Il fiume si pone pertanto come elemento di raccordo sia tra le varie pianificazioni che tra i diversi ambiti tematici e i diversi tipi di paesaggi che attraversa. I paesaggi attraversati dal fiume ne caratterizzano le pertinenze e di conseguenza l’entità del corridoio fluviale viene ad essere caratterizzata da un certo “spessore” variabile. Questo comporta la problematica dell’individuazione dell’ipotetico perimetro del parco fluviale che si riscontra anche negli strumenti di piano e nelle direttive vincolistiche della Legge Galasso, la n. 431 del 1985, che prevede un vincolo paesaggistico per una fascia di 150m dalla sponda del fiume. La prima ipotesi di area del parco fluviale è stata quindi l’inviluppo delle differenti proposte. La definitiva proposta di perimetrazione del parco è stata individuata scendendo di scala e verificando effettivamente con maggior accuratezza quali potessero essere le aree di pertinenza fluviale da poter considerare all’interno del parco. Con un approccio di livello sovracomunale e pertanto evitando che il confine del parco fosse costretto dai limiti amministrativi come è invece il caso della proposta del Piano Regolatore di Roma si è delineata quindi un un’entità che tenesse conto delle vocazioni locali, ricercasse delle relazioni antiche o nuove con l’intorno introducesse delle connessioni longitudinali e trasversali al fiume.
Progetto Il progetto mira alla valorizzazione delle potenzialità di parco urbano, all’ampliamento dell’attuale Riserva della Valle dell’Aniene e alla connessione con gli altri nodi della rete ecologica della città che sono il Parco Naturale Regionale di Aguzzano a nord in riva destra e la zona umida della Cervelletta a sud in riva sinistra. I quartieri coinvolti dal transetto sono prevalentemente quelli del V municipio cioè Colli Aniene in riva sinistra e Ponte Mammolo in riva destra. Le azioni strategiche prevedono la riqualificazione dell’ansa fluviale con il restauro e la valorizzazione di Ponte Mammolo antico connessa alla realizzazione di un intervento di difesa idraulica di tipo passivo del Casale De “La Vannina” o Casale di Rebibbia, attualmente in zona a rischio R4 (Figura 4).
Figura 4. Ponte Mammolo antico in primo piano in un’incisione di Giuseppe Vasi (1710-1782) con il Casale de La Vannina sullo sfondo a destra e in una foto attuale. L’intervento della realizzazione dell’arginatura in terra si affianca alla riqualificazione di quest’area abbandonata e degradata con la disposizione di nuove attrezzature e nuovi percorsi. La disposizione del rilevato arginale non “in froldo” cioè a diretto contatto con il flusso idrico ma “in golena”, risponde all’esigenza di minimizzare la riduzione della superfici di laminazione disponibile per l’esondazione del fiume. Di conseguenza, tale disposizione garantisce la durabilità dell’intervento poiché si evita l’erosione del piede dell’argine a diretto contatto con il flusso idrico e permette di ricucire la trama dei percorsi verso l’antico ponte Mammolo rendendo l’intervento sostenibile e con il minor impatto auspicabile (Figura 5).
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Figura 5. La localizzazione dell’argine risponde all’esigenza di minimizzare la riduzione della superficie di laminazione a disposizione della piena del fiume e all’esigenza di assicurare la durabilità dell’intervento. Lo schema a destra mostra la ricucitura della trama dei percorsi verso l'antico Ponte Mammolo ricalcalcando i tracciati viari originari. Dal punto di vista territoriale è importante sottolineare la questione fondamentale della combinazione di protezione dalle esondazioni con misure di laminazione per le esondazioni flood protection versus flood tolerance. Come rappresentato in Figura 5 la localizzazione del rilevato arginale è studiata per garantire le ottimali dimensioni della golena. La tutela delle superfici di laminazione permette il naturale ma controllato deflusso dell’acqua della piena necessario per prevenire danni a valle. La configurazione dell’argine crea pertanto una partizione tra la parte immune dall’esondazione fruibile anche durante l’evento di piena dove sono continuamente garantite alcuni servizi e attrezzature come un teatro all’aperto, una pista da skateboard, un’area giochi per bambini e la parte libera per la laminazione dell’esondazione con un campo di baseball e orti che possono facilmente essere inondabili (Figura 6).
Figura 6. Il progetto di parco lineare all’interno della sequenza urbana. L’argine è studiato per realizzare un’area sicura dalle esondazioni anche durante l’evento di piena. La disposizione delle alberature risente della necessità di garantire la stabilità dell’argine. Infatti si pongono ad una distanza di 4 metri dal piede del rilevato in modo tale da impedire che le radici inneschino dei percorsi preferenziali di filtrazione inficiando la resistenza del rilevato in terra. Le alberature adottate, adeguate al clima e alle caratteristiche del sito, rafforzano la trama dei percorsi: il Pioppo Tremolo viene utilizzato per marcare i percorsi principali mentre il Pioppo Bianco quelli secondari. Il Salice Piangente invece viene utilizzato per la sua capacità di creare intorno a se una certa spazialità come riferimento dei nodi principali del parco, come l’argine, gli accessi o il ponte. La bellezza del parco è determinata tramite la realizzazione di sette categorie di luoghi: il luogo dello stare, il luogo del passeggio, il luogo della natura, il luogo della storia, il luogo del panorama, il luogo delle attrezzature e il luogo del tempo libero. Questi luoghi, difatti, rispondono alle seguenti esigenze da soddisfare per una buona qualità del progetto: Di Giacomo Tullia Valeria
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accoglienza (presidio del territorio); urbanità (servizi); socialità (attrezzature, conformazione degli spazi); estetica (Colarossi e Latini, 2009).
Fa parte del nuovo intervento anche l’individuazione di alcune aree destinate all’agricoltura urbana e agli orti didattici e degli orti terapeutici (Figura 7). Tali aree sono studiate per essere fruite dai vicini istituti scolastici, e per il recupero di categorie più deboli della popolazione come anziani, disabili o carcerati del vicino Carcere di Rebibbia.
Figura 7. La sezione A-A’ del rilevato arginale che mostra le gradinate del teatro all’aperto, i percorsi e gli orti didattici.
Conclusioni Si ritiene che questo intervento e gli altri disposti lungo il corso del fiume, opportunamente realizzati e mantenuti nei vari aspetti architettonici, urbanistici ed ingegneristici, possano permettere la riqualificazione del corridoio fluviale. Il progetto contribuisce, rispettando la specificità di ogni luogo, al raggiungimento di un buon livello di sostenibilità dei territori coinvolti. E fondamentale saper sfruttare le opportunità del sito per valorizzare la realtà di fatto e favorire i collegamenti con i territori locali. consentire un approccio maggiormente integrato permette di tenere conto delle diverse scale spaziali e temporali. Il paesaggio contemporaneo è complesso e abbiamo bisogno di un approccio multidisciplinare molto più ampio per studiare i sistemi per offrire soluzioni integrate in modo da promuovere comunità più sostenibili. Le soluzioni integrate necessitano della cooperazione di una squadra di specialisti che possano mettere in comune expertises provenienti da differenti discipline come la sociologia, l’architettura, l’urbanistica, la biologia, l’economia, la politica e l’ingegneria idraulica. Il tentativo di preservare i corsi d’acqua nella loro configurazione originaria proibendo un uno insostenibile del territorio permette il mantenimento della biodiversità inquadrata in termini di uso compatibile della risorsa. La conservazione assicura, inoltre, il mantenimento del buffer libero per l’esondazione inteso in termini di riduzione del rischio idrico per la popolazione. L’aumento di vulnerabilità ai disastri alluvionali delle città deriva, infatti, prevalentemente dai seguenti fattori (Gladwell e Sim, 1993): degrado degli ecosistemi naturali, aumento della migrazione urbana, occupazione spontanea non controllata né autorizzata o programmata, pianificazione e pratiche edilizie insostenibili. La riscoperta delle potenzialità nascoste di ogni tipo di paesaggio è il presupposto del progetto per la realizzazione una città più sostenibile e per una ritrovata cura dell'ambiente e del benessere umano.
Bibliografia Arcà G., Mancini L. (2000), Carta della qualità biologica dei corsi d’acqua della Regione Lazio, Istituto Superiore di Sanità – Laboratorio di igiene ambientale e Regione Lazio – Dipartimento Ambiente e Protezione Civile, Roma. Ashley R., Garvin S., Pasche E., Vassilopoulos A., Zevenbergen C. (2007), Advances in urban flood management, Taylor & Francis Group, London. Colarossi P., Latini A. P. (2009), “La città del buon abitare e la progettazione urbana”, Urbanistica 140, p. 44. Di Giacomo Tullia Valeria
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Ercolini M. (2006), Dalle esigenze alle opportunità. La difesa idraulica fluviale occasione per un progetto di “paesaggio terzo”, Firenze University Press, Firenze. Ercolini M. (2005), Fiume, territorio e paesaggio: l’opportunità di un approccio integrato, in Quaderni della RiVista - Ricerche per la progettazione del paesaggio - Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica – Università di Firenze, Quaderno n. 2 – volume 2 – maggio-agosto, Firenze University Press, Firenze; Farinella R. (2005), I fiumi come infrastrutture culturali - Rivers as cultural infrastructures, Editrice Compositori, Bologna; Gladwell J.S. and Sim L.K. (1993), Tropical cities: Managing their water. IHP Humid tropics Programme Series no. 4, IHP-UNESCO.
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L'integrazione della mobilità per la fruizione del patrimonio
L'integrazione della mobilità per la fruizione del patrimonio Antonio Taccone Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria Dipartimento di Architettura e Analisi della Città Mediterranea Email: ataccone@unirc.it Tel. 096.53222205
Abstract La proposta di un progetto di mobilità sostenibile per la fruizione del patrimonio richiede valutazioni in merito agli equilibri che regolano il territorio e le sue funzioni che necessariamente comportano l'introduzione del concetto di qualità. L'efficienza dei trasporti pubblici e dei servizi collettivi, il centro storico ben tenuto, i quartieri periferici integrati e connessi con l'intera città, una spiccata identità morfologica e culturale dell'insediamento, sono, nel complesso, gli esiti che un attento progetto del territorio dovrebbe poter conseguire. Il contributo intende illustrare i primi esiti di una ricerca in corso di svolgimento che affronta il tema della mobilità pubblica e dell'accessibilità in un’ottica di sviluppo territoriale legato alla fruizione del patrimonio dell'area urbana di Reggio Calabria.
L'integrazione della mobilità per la fruizione del patrimonio Oggi, in un quadro di forte competizione internazionale ed in seguito ad un nuovo orientamento della domanda, il patrimonio presente nelle aree urbane diventa sempre di più un volano per lo sviluppo economico e culturale locale in una presa di coscienza in cui si aggregano e si integrano risorse e servizi all’interno di aree connotate da identità territoriali forti e riconoscibili, nel superamento dell’ottica della frammentazione dell’offerta. In questo quadro, nel territorio di Reggio Calabria 1 così come nelle altre città europee, nella programmazione degli incentivi offerti dalle politiche dell’UE verso lo sviluppo mirato alla valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, si sta sempre più diffondendo l’utilizzo di nuove strategie di sviluppo locale per integrare il settore culturale e quelli ad esso connessi come il turismo, perseguite attraverso una specializzazione territoriale e politiche urbane dove parti di città connesse tra loro con sistemi innovativi di mobilità sostenibile e soft, diventano il luogo privilegiato per l’insediamento di strutture culturali o logistiche. Questo nasce dalla necessità di mettere in rete l’elevata concentrazione di risorse culturali e ambientali di pregio con la qualità e la concentrazione dei servizi culturali e turistici, rivolti all’utenza. Tuttavia, i primi progetti, tranne il caso esemplare di Bologna di diffusione della cultura della mobilità sostenibile, ancora non creano una vera e propria integrazione nelle politiche di sviluppo locale e riguardano, in genere, interventi mirati alla riduzione dell’inquinamento o alla regolamentazione degli accessi al centro cittadino per ridurre le problematiche di traffico. Si tratta di interventi diversi tra di loro e difficilmente collegati in un’ottica di rete, ma col pregio di aver contribuito alla sensibilizzazione verso queste forme di organizzazione del territorio, richiamando notevole interesse ed attenzione da parte delle istituzioni economiche, sociali e territoriali verso le prospettive di una possibile e significativa capacità di auto organizzazione dei contesti locali. Oggi, sotto la spinta di strumenti di governo del territorio innovativi e grazie ad un differente approccio culturale, ci troviamo nelle condizioni in cui è possibile il recupero e il restauro del territorio attraverso 1
Il Paper proposto rappresenta un primo risultato della ricerca “La valorizzazione del patrimonio urbanistico attraverso modelli innovativi di mobilità urbana sostenibile - CITYMOB” selezionata e finanziata dalla regione Calabria nell’ ambito dell’Avviso Pubblico “per il finanziamento di progetti di ricerca in materia di scienze umane, economiche e sociali” (L.R. 22 settembre 1998, n. 10, art. 37-quarter). Responsabile scientifico Prof. Concetta Fallanca
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l’individuazione di strategie e progetti che riescano ad introdurre qualità dello spazio connettivo e servizi di tipo culturale basati soprattutto nel favorire le connessioni e la fruizione di questo patrimonio. Gli indirizzi regionali (Accordo di Programma Quadro Emergenze Urbane e Territoriali, Programma di intervento del Dipartimento Urbanistica e Governo del Territorio della Regione Calabria) chiedono di abbandonare i modelli di intervento "insostenibili" e sostituirli con "misure idonee alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio di risorse e valori paesaggistici ancora integri lungo le coste calabresi, che necessitano di un piano articolato di interventi di ricomposizione e riqualificazione e di riordino della fisionomia del sistema costiero nel suo insieme, in grado di comprenderne la continuità della naturalità, il recupero ed il riordino degli insediamenti". L’importanza del tema è anche testimoniata da numerose iniziative di promozione della mobilità sostenibile legata al patrimonio urbano come il recente progetto MUSA, coordinato da Isfort e sviluppato insieme a Cittalia, Cles e Anci ComuniCare promosso nell’ambito del PON Governance e Azioni di Sistema (FSE Ob. Convergenza 2007-2013 Asse E Capacità Istituzionale Ob. Specifico 5.1) dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Funzione Pubblica (DPF) – Ufficio Formazione del Personale della PA (UFPPA). Reggio Calabria è una delle otto Amministrazioni pilota del progetto diretto alle Amministrazioni comunali sul tema “Mobilità Urbana Sostenibile e Attrattori culturali” con l’intento di favorire lo sviluppo di politiche e interventi innovativi in chiave di sostenibilità economica, sociale e ambientale nelle aree urbane dell’Obiettivo Convergenza. Obiettivo principale è quello di fornire gli strumenti idonei a rafforzare la propria capacità di governare i problemi della mobilità urbana, in una prospettiva di maggiore sostenibilità ed individuare e sperimentare modelli e strumenti innovativi per la pianificazione di interventi territoriali sostenibili. Inoltre il MUSA si propone di rafforzare la capacity building della Pubblica Amministrazione in tema di mobilità urbana e di attrattori culturali e avviare una costruzione “partecipata” degli strumenti di riferimento attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori locali coinvolti (amministratori, referenti istituzionali, stakeholder). Gli sviluppi di questo progetto potrebbero assumere un’importanza strategica per il nostro territorio vista l’opportunità che viene offerta di sperimentare una metodologia innovativa, in grado di coinvolgere direttamente le forze locali per affrontare il tema degli attrattori culturali rapportati alla mobilità sostenibile. Una strategia per la fruizione del patrimonio basata su una mobilità efficiente, che coniughi bene sviluppo del territorio, risorse culturali e la tutela dell’ambiente, diventa necessaria per mettere a punto un diverso modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità degli interventi e sulla salvaguardia del patrimonio puntando sulla crescita culturale. L’obiettivo primario da perseguire è quello di innescare processi strategici di trasformazione dei paesaggi “culturali” caratterizzati dalla più rigorosa salvaguardia delle risorse primarie, da una accurata tutela degli ambienti, specie quelli costieri, ancora integri e da una corretta riprogettazione dell’esistente, soprattutto nelle parti gravemente compromesse, nella convinzione che il territorio reggino, per la sua assoluta peculiarità di paesaggio -caratterizzato da una commistione tra una fascia litoranea di notevolissima estensione e un patrimonio insediativo la cui sedimentazione storica e culturale testimonia una convivenza millenaria tra uomo e mare- e il suo portato di cultura, merita un progetto ambizioso. Una gestione integrata del patrimonio è fondamentale per l’armonizzazione degli obiettivi di sviluppo a breve e a lungo termine. Strumenti come i piani d’area vasta possono in questo caso venire utilizzati per perseguire azioni coordinate fra i diversi livelli di governo. Nel particolare, il territorio calabrese è geograficamente ben definito e particolarmente denso di emergenze che singolarmente costituiscono degli elementi di valore ma che nel loro insieme, se pensate come sistema, possono esprimere, attraverso una progettazione integrata, potenzialità di eccellenza per lo sviluppo culturale, identitario ed economico. È costituito da un sistema insediativo che si incardina sui centri costieri e si sviluppa nelle relazioni con i centri pedemontani e che presenta un insieme articolato di luoghi cospicui quali: i luoghi della memoria, rappresentati dal sistema delle fortificazioni delle torri costiere e dei castelli nonché dalle aree archeologiche; i luoghi della produzione che costituiscono una rete unica nei rapporti col territorio ed hanno instaurato nel tempo con l’ambiente un sistema equilibrato nell’uso delle risorse che oggi non deve andare disperso, ma che ha bisogno di interventi mirati a conseguire forme di sviluppo sostenibile; i luoghi del turismo, che interessano l’intero ambito; il sistema delle risorse ambientali e paesaggistiche articolato in un insieme di luoghi cospicui quali il sistema costiero roccioso, l’ecosistema marino e il sistema delle spiagge. La provincia di Reggio Calabria ha vissuto negli anni ’70 un periodo di sviluppo dovuto ad una crescita economica che ha portato ad un utilizzo improprio delle risorse, dove la domanda pressante di edificazione ha trovato il suo campo di applicazione sia nelle zone urbane che in quelle fino allora non edificate. Ne viene fuori un quadro che alla piccola scala individua ambienti ormai compromessi e tratti di costa che conservano ancora peculiarità e paesaggi ben visibili e di pregio, mentre la grande scala ha comunque mantenuto la caratteristica di unicità di paesaggio anche se spesso interrotta da caratteri episodici. Si tratta di elaborare strategie a grande scala che possano innalzare la qualità delle componenti del patrimonio presenti, come le coltivazioni di pregio e le particolari morfologie del territorio tese alla salvaguardia -si pensi ad esempio ai terrazzamenti della Costa Viola, al sistema dei calanchi e agli oliveti di Gioia Tauro-, ma anche interventi alla scala urbana quali la riqualificazione dei centri urbani storici presenti lungo la costa, interventi diretti alla mobilità principalmente pubblica con percorsi e itinerari per il tempo libero, passeggiate e percorsi ciclabili, piani del verde, del colore ecc. Abbiamo visto come alcuni interventi, già realizzati e considerati di successo come il lungomare del Antono Taccone
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capoluogo reggino, hanno permesso la riqualificazione dello spazio pubblico e la costruzione di un senso identitario oltre che di centralità urbana. Alla scala urbana, un possibile elemento capace di connettere e far funzionare spazi altrimenti sconnessi può essere rappresentato dalla promenade urbana, basata sul modello storico delle promenade, il parco-passeggiata che si sviluppa lungo uno spazio lineare, dove risulta privilegiato ed enfatizzato il tema del percorso e dell’andare. La scelta della distribuzione delle sequenze spaziali e delle modalità di movimento del fruitore può costituire il principale indirizzo progettuale. Questo apre a prefigurazioni di trasformazioni più o meno radicali operate attraverso la costruzione di nuovi spazi o collegamenti indirizzati verso una mobilità soft (percorsi e itinerari per il tempo libero, con passeggiate e percorsi ciclabili) che diventano elementi di connessione tra le parti urbane. Si tende ad attribuire o restituire condizioni più elevate di qualità urbana, nel rispetto dei principi della sostenibilità ambientale; incidere profondamente oltre che sugli equilibri e sulla dislocazione spaziale delle funzioni, anche sui processi di creazione di nuovi luoghi, nuovi spazi pubblici che possano trasmettere significati di appartenenza e formare una identità collettiva. Questo è perfettamente in linea con le numerose esperienze internazionali di integrazione tra il settore culturale e i settori ad esso connessi, soprattutto nei centri dell’Europa continentale (Rotterdam o Bilbao), perseguite attraverso una specializzazione territoriale dove parti del territorio diventano il luogo privilegiato per l’insediamento di strutture culturali come musei, spazi espositivi, teatri. Tutte queste esperienze hanno fatto si che nascesse una politica integrata basata sulle risorse culturali come strategia di sviluppo locale. Questi nuovi spazi devono essere in linea con la nuova coscienza culturale espressa dal territorio e volti alla valorizzazione culturale attraverso la realizzazione di ecomusei, di percorsi naturali, di aree sperimentali didattiche, di cantieri scuola con possibilità di esperienze di ricostruzione dei muretti a secco, ecc…, che potrebbero consentire la realizzazione di strategie di manutenzione e promozione del patrimonio, nell’ottica di un processo generale di sviluppo, in un equilibrio tra competitività economica e compatibilità ambientale, in cui il legame degli abitanti con le loro risorse culturali ricopre un ruolo fondamentale. La promenade può considerarsi una vera strategia unitaria del territorio sulla tematica dello sviluppo del patrimonio (culturale, servizio e turistico) finalizzato a garantire la connessione tra i centri urbani, il sistema delle spiagge e gli spazi pubblici, anche perché la promenade così intesa collega fisicamente oltre che visivamente i segni territoriali preesistenti e mette in rete le presenze storiche culturali con tutte le altre attività umane presenti. Per tali motivi, la promozione del patrimonio attraverso la connessione di nuovi e antichi spazi pubblici dedicati appare di grande interesse per la crescita economica del territorio, sia per le sue caratteristiche socio-economiche che storicamente creano una bassa intensità di capitale ed un’alta componente di attività intellettuale, sia per i suoi forti contenuti simbolici e di identità regionale che connotano i suoi aspetti sociali. Da non sottovalutare anche le ricadute su tutti gli altri settori dell’economia a partire dalle varie forme di turismo (culturale, ricreativo, dei sapori, delle produzioni locali, ecc.), ma anche i positivi impatti della comunicazione museale e della produzione specializzata o dell’artigianato. Questa particolare politica di intervento sul patrimonio culturale scaturisce da due ordini di considerazioni che tengono conto delle tensioni progettuali che storicamente contraddistinguono questa area. La prima è fondata sulla ricchezza di valenze di eccellenza presenti e ad oggi poco valorizzate, nonché dalla prossimità con altri elementi di richiamo come i Parchi e le Riserve e con le quali ad oggi non esistono relazioni tali che possano far parlare di un vero e proprio sistema di servizi. La seconda nasce dalle difficoltà di attuare una progettazione unitaria che riesca a definire quest’ambito come sistema di unità, antropica e ambientale superando il clima di episodicità. Infatti, alle politiche di mobilità vengono riconosciute tra le funzioni più importanti quella della comunicazione dell’identità locale attraverso la capacità di mettere in rete nel territorio le sue valenze culturali e ambientali. Al tema della valorizzazione si aggiunge la dimensione strategica delle politiche di rete, attraverso l’individuazione, nel territorio regionale, di “sistemi culturali locali” e della loro capacità di costituire dei veri e propri distretti culturali. Queste strategie progettuali richiedono anche una strategia di gestione, una capacità di incidere sul sistema turistico e una capacità di promuovere lo sviluppo. La prima deve tenere conto della presenza dei diversi attori del territorio come i rappresentanti del sistema istituzionale, le forze politiche, le forze sociali ed imprenditoriali in un iter dove, insieme al decisore tecnico, interviene il decisore politico che definisce gli obiettivi più generali di questo processo. Questo insieme di decisioni origina un sistema complesso che, nella costituzione di un intervento che sia in grado di sorreggere l'economia locale, presuppone che vi sia un forte consenso e un coinvolgimento dei soggetti più attivi nelle fasi di progettazione e di gestione. La seconda è la capacità di incidere sul sistema turistico e sull’incremento dei flussi, attualmente concentrati nella stagione estiva e comunque di breve permanenza, rispetto alle effettive potenzialità dell’ambito. L’obiettivo è quello di poter prolungare la permanenza dei turisti, grazie alla promozione di nuove opportunità legate alle diverse forme di turismo e ai soggiorni legati alla fruizione integrata di specifiche categorie di beni. Infine, l’attuazione di politiche integrate potrà incidere in maniera sostanziale sulle filiere produttive direttamente o indirettamente connesse ai paesaggi culturali, creando un attrattore nel territorio come punto di riferimento per gli operatori turistici e culturali attraverso la produzione di materiale di ricerca ed informativo Antono Taccone
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che potrà costituire una fondamentale cassa di risonanza per le filiere produttive. La proposta di un progetto di integrazione della mobilità sostenibile per la fruizione del patrimonio presente nel territorio reggino richiede valutazioni in merito agli equilibri che regolano la città e le sue funzioni che necessariamente comportano l'introduzione del concetto di qualità. Aree di interscambio, l'efficienza dei trasporti pubblici e dei servizi collettivi, il centro storico ben tenuto, i quartieri periferici integrati e connessi con l'intera città, una spiccata identità morfologica e culturale dell'insediamento, sono, nel complesso, gli esiti che un piano attento a questi temi dovrebbe poter conseguire. Allora, il nostro agire nella città e nel territorio deve utilizzare approcci spazio-temporali in grado di garantire un uso più intelligente e razionale delle limitate risorse a nostra disposizione, ma anche di creare spazi e tempi capaci di definire nuove qualità formali della mobilità, del vivere e dello spazio urbano. Città come sistema e, di conseguenza, una progettazione attenta degli aspetti di mobilità non più solo per funzioni ma per cicli -come in questo caso il ciclo della fruizione del patrimonio-, pare rappresentare una possibile traduzione operativa agli studi delle caratteristiche qualitative del territorio. In quest’ottica, la tradizionale concezione delle città, o meglio, dei sistemi urbani, prevalentemente orientata verso i soli aspetti funzionali e formali dell’ambiente fisico e socio-culturale dovrebbe arricchirsi fino a comprendere anche la dimensione di tutti gli aspetti dai quali dipendono i sistemi sociali ed economici. Sono ormai maturi i tempi per orientare ogni energia verso la riqualificazione di ogni parte della città e del territorio, soprattutto quelle di maggior degrado, dotandole in primo luogo dei necessari requisiti funzionali, ambientali e sociali. Si potrebbe dunque partire dalla valorizzazione di parti “emergenti” per ottenere una riattribuzione di identità degli ambiti che non presentano caratteristiche riconoscibili. La cultura dei luoghi e la qualità urbana dovrebbero essere intesi come il riferimento “chiave” per ogni attività umana, per essere assunti come le linee guida in grado di coniugare tutte le evoluzioni delle “grandi scelte” per il territorio.
Bibliografia Balzani M. (2008), I progetti nelle città della costa, Maggioli Editore, Dogana (Repubblica San Marino). Belli A. (2004), “Urbanistica e mobilità. Trasporti, tempi, costi e riorganizzazione della città”, Il Sole-24 ore. Farnè E. (a cura di, 2008), Nuovi paesaggi costieri. Dal progetto del lungomare alla gestione integrata delle coste, strategie per le città balneari, Centro Stampa Regione Emilia Romagna, Bologna. Forte E. (2008), Trasporti, logistica, economia, Cedam, Verona. Galderisi A. (2007), Città, mobilità e ambiente nelle strategie e nei progetti di ricerca dell’Unione Europea, Te.M.A. Trimestrale del Laboratorio Territorio Mobilità e Ambiente, vol. 0, 0. Gehl J. (2003), Life Between buildings, The Danish Architectural Press. Ministry of Transport (1963) Traffic in Towns. A study, of the long term problems of traffic in urban areas, Reports of the Steering group and working group appointed by the Minister of Transport, HMSO, London Soriani S. (a cura di, 2002), Porti, città e territorio costiero: le dinamiche della sostenibilità, Arti Grafiche Editoriali, Urbino. Zagari F. (2003), “Un disegno ambizioso per i paesaggi di costa”, in Fallanca C. (a cura di) Progettazione del paesaggio costiero in ambiente mediterraneo, Iiriti Editore, Reggio Calabria.
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La “pluralità” del paesaggio nel “progetto” del patrimonio territoriale
La “pluralità” del paesaggio nel “progetto” del patrimonio territoriale Mauro Francini Dipartimento di Pianificazione Territoriale Università della Calabria, e mail francini@unical.it Tel 0984.496766/fax 0984.496759 Annunziata Palermo 1 Dipartimento di Pianificazione Territoriale Università della Calabria, e mail annunziata.palermo@unical.it Tel 0984.496758/fax 0984.496759
Abstract Facendo riferimento a quanto indicato nella Convenzione Europea, il “Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Tale definizione, pur con riconosciuti limiti e ambiguità, permette di cogliere alcuni importanti aspetti inerenti la pluralità delle tematiche connesse al paesaggio, alimentando il confronto tra diverse discipline, sia in riferimento a percorsi di ricerca che a percorsi applicativi di definizione e “progettazione” del patrimonio territoriale: la differenza concettuale tra paesaggio e territorio; la presenza di una componente immateriale nel paesaggio, rappresentata dai valori e dai significati attribuiti dalla popolazione; la compresenza di elementi naturali e umani nella costruzione del paesaggio.
Riferimenti normativi di base Il Codice dei Beni Culturali, nella parte terza, definisce il paesaggio come “parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana e dalle reciproche interrelazioni” (art. 131) e sottolinea il ruolo imprescindibile della cooperazione tra le amministrazioni pubbliche al fine di pervenire ad “una definizione congiunta degli indirizzi e criteri riguardanti le attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio e di gestione dei relativi interventi” (art. 132). A tal proposito si rammenta che con l’Accordo del 19 aprile 2001 attraverso la Conferenza permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano sono state delineate, al fine di conformare altresì i contenuti della Convenzione Europea sul Paesaggio, le modalità di raccordo tra le attività del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e quelle delle Regioni in materia di paesaggio. Molte Regioni, dunque, nell’elaborare piani a valenza paesaggistica hanno orientato gli indirizzi pianificatori utilizzando come presupposti di base i seguenti criteri generali: attuare forme di tutela e riqualificazione compatibili con il mantenimento delle caratteristiche costitutive dei luoghi, diversificandole in funzione della rilevanza dei valori paesistici e prendendo in considerazione anche gli ambiti degradati la cui qualificazione può diventare occasione per la creazione di nuovi valori paesistici; individuare misure di incentivazione e di sostegno; favorire la concertazione e la partecipazione nei processi di pianificazione. Per quanto riguarda il rilascio delle autorizzazioni paesistiche e la verifica di compatibilità degli interventi proposti, inoltre, i riferimenti di base si sostanziano in: individuare “la congruità dell’intervento proposto con i
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Il contributo è da assegnare in parti uguali ad entrambi gli autori.
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valori riconosciuti dal vincolo”; verificare “la coerenza dell’intervento proposto con gli obiettivi di qualità paesistica”; verificare “la conformità dell’intervento proposto con le prescrizioni contenute nei piani”.
La pluralità delle tematiche connesse al paesaggio La pluralità del paesaggio, in relazione alla differenza concettuale emergente tra paesaggio e territorio, ha prodotto in molti percorsi teorico-applicativi la definizione di diverse tipologie di paesaggio prevalente connesse alle caratterizzazioni territoriali, a cui sono altresì associati specifici riferimenti e contenuti normativi, nonché strategie di intervento da sostanziare caso per caso. Di seguito vengono riportate alcune differenzazioni tipologiche e linee strategiche riscontrabili in linea generale nelle impostazione dei differenti strumenti di pianificazione paesaggistica, realizzati in ambito nazionale. Tra le tipologie di paesaggio prevalenti le più diffuse possono essere così rappresentate: paesaggio montano, patrimonio forestale boschivo, aree coperte da foreste e boschi e loro intorno; paesaggio rurale, aree agricole produttive ed ex-produttive e di pregio; paesaggi costieri, aree di costa tutelate; paesaggi d’acqua, fiumi, torrenti, corsi d’acqua e laghi; paesaggi insediativi a rilevante identità storico-culturale ed etnoantropologica, contrassegnate dalla presenza di beni storico-culturali in forma anche sparsa o isolata, nuclei e centri storici; paesaggi urbanizzati; paesaggi del dissesto, aree a rischio idrogeologico attuale o potenziale. Le categorie di intervento caratterizzanti le linee strategiche, invece, possono essere così sintetizzate: • Identificazione dei profili identitari In base alle conoscenze elaborate ogni paesaggio viene individuato con delimitazione cartografica e con una descrizione delle specifiche qualità identitarie, con la attribuzione dei valori riconosciuti e, infine, con la previsione dei rischi, con specifico riferimento alle dinamiche di trasformazione in atto. • Obiettivi di qualità paesaggistica Gli obiettivi da assumere nel governo delle trasformazioni vengono individuati con riferimento alle qualità già accertate da conservare, a quelle che è possibile trasformare in modo sostenibile e alle qualità da ricreare dove le originarie appaiono significativamente compromesse. • Azioni di intervento In considerazione degli obiettivi da raggiungere e dei rischi da contrastare, vengono impostate le diverse strategie di azione che occorre attuare all’interno dei paesaggi prevalenti, mostrando particolare riguardo nei confronti dell’individuazione di interventi di recupero e di riqualificazione di aree significativamente compromesse, nonché di interventi di valorizzazione. • Misure per il corretto inserimento dei nuovi interventi Vengono specificate le regole mirate ad indirizzare le trasformazioni del territorio in armonia con gli obiettivi prefigurati per il contesto paesaggistico di riferimento, nonché vengono definiti i criteri di valutazione della sostenibilità paesaggistica. Tra gli elementi che caratterizzano la pluralità del paesaggio, sia in merito ai valori e ai significati attribuiti allo stesso dalla popolazione “che percepisce”, sia in riferimento alla compresenza di agenti naturali e umani che richiamano il suo valore come bene ambientale e bene culturale insieme, invece, risiede l’interconnessione che lo stesso assume in relazione a processi e tematiche intersettoriali quali, ad esempio, l’approccio strategico e il turismo sostenibile. In riferimento a tale interconnessione, ad esempio, si vogliono riproporre alcuni dei contenuti della Carta Europea per il Turismo Sostenibile. Questa Carta appartiene alla Federazione EUROPARC, organizzazione paneuropea delle aree protette e affronta direttamente i principi delle “Linee guida per il Turismo Sostenibile Internazionale” della Convenzione sulla Diversità Biologica, al fine di fornire uno strumento pratico per la loro implementazione nelle aree protette a livello locale. Gli scopi fondamentali della Carta Europea per il Turismo Sostenibile sono: aumentare la conoscenza e il sostegno per le aree protette europee come parte fondamentale del nostro patrimonio paesaggistico da preservare per la fruizione delle generazioni attuali e quelle a venire; migliorare lo sviluppo sostenibile e la gestione del turismo nelle aree protette, rispettando i bisogni dell’ambiente, dei residenti, delle imprese locali e dei visitatori. In conseguenza di tali assunti le strategie proposte si sostanziano in: definizione dell’area influenzata dalla strategia, che può estendersi oltre il confine dell’area protetta; valutazione del patrimonio naturale storico e culturale, delle strutture turistiche e delle circostanze socio-economiche, tenendo conto della capacità di carico, dei bisogni e delle potenzialità; analisi dei visitatori attuali e dei mercati futuri possibili; definizione di obiettivi strategici per lo sviluppo e la gestione del turismo comprendenti conservazione e valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio naturale e culturale; sviluppo socio-economico; mantenimento e miglioramento della qualità della vita dei residenti; gestione dei visitatori e valorizzazione della qualità dell’offerta turistica; indicazione dell’allocazione delle risorse e dell’individuazione dei partner per la messa in opera della strategia, suddivisione dei compiti e ordine delle priorità; proposte per il monitoraggio della strategia (metodi e indicatori).
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Il paesaggio rurale come nuovo campo di sperimentazione delle politiche integrate di sviluppo locale Partendo da quanto sopra sintetizzato e considerando la pianificazione come una varietà di modelli di governo del territorio che implicano l’utilizzo di approcci differenti di programmazione, progettazione, valutazione, gestione e monitoraggio delle trasformazioni e delle forme di regolazione dei processi fisici e socio-economici, delineata le preliminare forma emergente del territorio (paesaggio prevalente), altresì connessa alle richieste della società contemporanea, occorre definire i criteri strategici utili a perseguire adeguate azioni di sviluppo locale mettendo in relazione tematiche ormai complementari alla pianificazione territoriale. Nello specifico si vuole analizzare il caso in cui il paesaggio prevalente è caratterizzato dalla vocazione rurale, in riferimento a cui le politiche di sviluppo sono la risultante della graduale integrazione di tre principali politiche: agricole strutturali; di sviluppo regionale; agro-ambientali. Nel 1988 la Commissione Europea ha presentato la comunicazione “Il futuro della società rurale” e dal 1989 il Commissario Europeo all’Agricoltura ha la responsabilità anche dello sviluppo rurale. Ciò ha contribuito a gettare le basi per le iniziative successive, riconoscendo lo sviluppo rurale come importante politica della Comunità. In particolare, facendo riferimento a quanto definito in Oréade-Brèche (2005; pp.4-5), il legame tra misure agroambientali e paesaggio può essere così differenziato: debole, medio, forte. Il legame debole con il paesaggio si riferisce a misure volte a: ridurre l’apporto di fattori produttivi; limitare le superfici irrigate e gli apporti idrici; mantenere le qualità chimiche e fisiche del suolo. Il legame medio si riferisce a: riduzione del trasferimento di fattori inquinanti nelle acque; limitazione di drenaggi e/o qualificazione di pratiche di gestione quantitativa delle acque; riconversione di aree bonificate; miglioramento della gestione dell’erosione del suolo; conservazione di specie animali e vegetali; attivazione di misure connesse alla qualità dell’aria, all’energia, alla protezione degli incendi boschivi e al patrimonio territoriale di pregio generalmente inteso (naturale e antropico). Il legame forte, invece, è rappresentato da misure volte a: creare e mantenere infrastrutture ecologiche o aree non coltivate; conservare gli habitat delle specie minacciate nelle zone coltivate; garantire la diversificazione mediante rotazione; mantenere le culture in zone di abbandono agricolo, quali zone marginali e montane; definire programmi a carattere trasversale di agricoltura biologica. L’interconnessione del paesaggio con i diversi aspetti caratterizzanti le aree a vocazione rurale viene altresì enfatizzata dai Programmi di Sviluppo Rurale 2007-2013, in riferimento a cui occorre ricordare l’assoggettabilità degli stessi alla Direttiva 2001/42/CE sulla Valutazione Ambientale Strategica (VAS), che in base alla stessa direttiva (art. 11) può essere coordinata con le altre procedure valutative previste dal programma, nel dettaglio, con la valutazione ex-ante stabilita dallo stesso regolamento 1698/2005. Nella fase precedente di programmazione la VAS non era richiesta, in questa nuova fase della programmazione dello sviluppo rurale comunitario, invece, si è ulteriormente consolidata la cultura della valutazione definendo il cosiddetto Community Monitoring Evaluation Framework (CMEF), Quadro comune di Monitoraggio e Valutazione (QCMV). Si tratta di un approccio sistemico e articolato tra programmazione e valutazione che parte da un approccio strategico allo sviluppo rurale centrato sugli orientamenti strategici e gli obiettivi per lo sviluppo rurale, superando modelli di intervento dei cicli precedenti di programmazione, che erano molto più orientati alle misure. Gli orientamenti e gli obiettivi di seguito sintetizzati permettono di comprendere meglio l’integrazione delle tematiche volte allo sviluppo locale del paesaggio rurale. Gli orientamenti possono essere così sintetizzati: migliorare la competitività dei settori agricolo e forestale; migliorare l’ambiente e le zone di campagna; migliorare la qualità della vita nelle zone rurali e promuovere la diversificazione dell’economia rurale; costruire la capacità locale di occupazione e diversificazione; assicurare la coerenza della programmazione; garantire la complementarità tra strumenti comunitari. Gli obiettivi, invece, in linea generale si sostanziano nella necessità di: accrescere la competitività del settore agricolo e forestale, sostenendo la ristrutturazione, lo sviluppo e l’innovazione; valorizzare l’ambiente e lo spazio naturale sostenendo la gestione del territorio; migliorare la qualità di vita nelle zone rurali e promuovere la diversificazione delle attività economiche.
Un caso di studio: il paesaggio rurale delle Valli del Crati e dell’Esaro L’area di studio coincide con il territorio delle Valli del Crati e dell’Esaro della Calabria, che si caratterizza prevalentemente come paesaggio rurale. In termini di quadro generale emerge come il paesaggio rurale costituisce una componente superficiale rilevante del territorio regionale, per tal motivo il paesaggio rurale costituisce, nelle politiche territoriali della Calabria, un elemento di rilevante importanza, non tanto per la singolarità dei settori produttivi, quanto per la necessità di attivare forti interrelazioni tra gli stessi, anche al fine di rafforzare le azioni di sviluppo tra cui quelle volte a migliorare la tipologia di turismo prevalente, ovvero connessa alla visitazione del patrimonio naturalistico, in primo luogo, nonché storico-culturale. Mauro Francini & Annunziata Palermo
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La “pluralità” del paesaggio nel “progetto” del patrimonio territoriale
Più nel dettaglio la morfologia valliva dell’area in esame è uno degli elementi che ha maggiormente modificato l’assetto paesaggistico della stessa. La distribuzione dei centri abitati di origine più antica sulle fasce collinari è stata, infatti, fortemente condizionata dalle necessità connesse a condizioni di vita assai semplici, ancorate alla possibilità di sfruttamento delle risorse agricole e silvo-pastorali, alla presenza dell’acqua, a ragioni di sicurezza e igieniche. Le quote più elevate erano, in passato, meno soggette a calamità e/o malattie, mentre il fondovalle insalubre solo nell’ultimo secolo è diventato l’asse strutturante della valle, con il passaggio della ferrovia e dell’autostrada. Gli insediamenti, dunque, non si dispongono a caso sul territorio, ma seguono precise sollecitazioni o vocazioni che sono prima di tutto ambientali poi economiche e quindi storiche. Le fasce altimetriche di media collina prescelte per gli insediamenti costituivano, infatti, una posizione “strategica” e nello stesso tempo un limite verso l’alto tra le colture promiscue degradanti lungo il fondovalle e l’addensarsi dei boschi; l’economia rurale era fondata su un’organizzazione di tipo familiare, alla quale questa ubicazione era funzionale in quanto consentiva di alternare, con relativa comodità, il lavoro nei campi, nei boschi e nei pascoli, a seconda delle esigenze e dei ritmi stagionali. La ridotta densità di popolazione ha contribuito a mantenere il patrimonio naturale in buono stato di conservazione, con numerosi siti e habitat protetti e di grande valore ecologico, tra cui occorre ricordare quelli rientranti all’interno del Parco Nazionale del Pollino. Anche il patrimonio di risorse culturali appare notevolmente ricco, tra cui si segnalano testimonianze dell’identità Arbereshe, che persistono in molti comuni dell’area nei quali sono radicate comunità albanesi che da secoli mantengono intatte le specificità linguistiche e culturali, nonché nuclei storici che conservano un prezioso patrimonio architettonico e artistico. L’agricoltura, nonostante i forti vincoli legati alla difficile accessibilità e alla scarsità di approvvigionamento idrico, è comunque tra i settori trainanti dell’economia locale, in riferimento a cui si sottolinea la presenza di un distretto agroalimentare, composto da numerose aziende agricole e di trasformazione dei prodotti. Partendo dal suddetto quadro delle conoscenze sono stati definiti alcuni assiomi strategici, sintesi di quanto esposto in precedenza, nonché generiche azioni di intervento volte a qualificare il paesaggio rurale considerando lo stesso come un nuovo campo di sperimentazione delle politiche integrate di sviluppo locale. Gli assiomi strategici si sostanziano in: conoscere e condividere; scoprire e valorizzare; ripensare e salvaguardare; valutare e monitorare. Le consequenziali azioni di intervento, invece, partono dalla considerazione secondo cui tutti i Comuni oggetto di analisi hanno dimensioni territoriali e demografiche contenute, per cui appaiono oggettivamente poco praticabili iniziative autonome di un qualche rilievo, individuano delle componenti fondamentali su cui costruire una proposta di sviluppo sia di natura turistica, legate alla valenza culturale e ambientale del territorio, che di natura produttiva, legate alla vocazione fortemente rurale del territorio. Tali azioni, dunque, mirano a generare uno sviluppo dell’area legato all’integrazione di tali componenti attraverso tre direttrici principali (Figura 1) - a valenza ambientale, culturale e produttiva - che si incardinano su una matrice di fondo di natura infrastrutturale. Tale matrice si muove su un doppio livello di mobilità dell’area. Il primo livello, riconducibile a una mobilità veloce, si configura come la porta di accesso al sistema territoriale. Il secondo livello fa riferimento a una mobilità lenta, che occorre realizzare puntando alla creazione di un sistema integrato di interventi il cui scopo sia quello di consentire a residenti e turisti una più ampia fruizione delle risorse del territorio.
Mauro Francini & Annunziata Palermo
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La “pluralità” del paesaggio nel “progetto” del patrimonio territoriale
Figura 1. Principali direttici di correlazione. Fonte: Francini, Colucci, Palermo, Viapiana, 2011; p.399. Da un punto di vista attuativo, la strategia generale si inserisce all’interno di quanto previsto dalla programmazione regionale – in particolare dal Piano di Sviluppo Rurale – che, come già detto in precedenza, affianca all’attenzione verso l’aspetto economico anche una maggiore sensibilità verso la salvaguardia e la sostenibilità ambientale, ovvero mette in atto una serie di misure volte a diversificare l’economia, a incentivare l’attività turistica e a creare e potenziare l’offerta di servizi, preservando i valori funzionali dei territori rurali, anche mediante la responsabilizzazione diretta degli operatori locali, a cui demandare direttamente il ruolo di gestori del territorio secondo una visione di sostenibilità.
Bibliografia Libri Francini M., Colucci M., Palermo A., Viapiana M.F. (2011), « L’integrazione dei valori funzionali del paesaggio rurale », Francini M. (a cura di), Modelli di sviluppo per i paesaggi rurali di pregio ambientale, Franco Angeli, Milano, 5, pp.391-400. Articoli De Marchi M. (2007), “Sostenibilità, valutazione e paesaggio nello sviluppo regionale tra il 2007 e il 2013”. Paesaggio, Sostenibilità, Valutazione. Quaderni del Dipartimento di Geografia, Università di Padova, 24, pp.118. Siti web Oréade-Brèche, (2005). Évaluation des mesures agroenvironnementales, Auzeville, France. Disponibile su: http://ec.europa.eu/agriculture/
Mauro Francini & Annunziata Palermo
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Aree protette e ambiti rurali, livelli di pianificazione e gestione divergenti tra territori omologhi e confinati. Un caso di studio: il parco del Pollino
Aree protette e ambiti rurali, livelli di pianificazione e gestione divergenti tra territori omologhi e confinanti. Un caso di studio: il parco del Pollino. Antonio Scarpino Università della Calabria Dipartimento di Pianificazione Territoriale Facoltà di Ingegneria Email: ascarpino@unical.it
Abstract Il tema dei parchi nazionali e del loro intorno assume un’ importanza fondamentale per definire la futura storia della protezione della natura. In tempi di crisi che coinvolge drammaticamente anche le aree protette, nell’impossibilità pratica dell’istituzione di nuovi parchi, con il costante attacco politico a quelli esistenti, torna in auge il rapporto tra aree protette e le aree rurali. I parchi infatti hanno spesso la medesima qualità ambientale del loro intorno ma si limitano a gestire solo quello che ricade nella frontiera, senza prodursi in azioni che vadano oltre i loro confini convenzionali. Il tema quindi della pianificazione di tali aree intermedie, in tempi in cui le conurbazioni cittadine lambiscono porzioni di territorio integro, può fornire validi strumenti nella programmazione di un vivere sostenibile, che intrecci le varie potenzialità locali in un sistema integrato tra città e territorio vincolato, tra parchi antropizzati e territori urbanizzati. Il Pollino, grande parco Nazionale interregionale, unisce in sé tutte le tipologie di interscambio col territorio circostante, e fa emergere con forza il tema dello stanziamento di frontiera tra urbanizzato e aree vincolate, che non è più demandabile ai convenzionali strumenti di governo del territorio.
Il tema dei parchi in Calabria riveste un’importanza strategica per quelle che sono le prospettive di sviluppo della regione intera. Il complesso dei parchi nazionali Calabresi è conseguenza di una storia centenaria, non sempre virtuosa di slanci protezionistici e blocchi sistemici al processo di formazione delle aree protette. Uno slancio non sempre concreto cui spesso l’indisponibilità di mezzi e la cronica assenza dello stato nelle vicende della regione ne hanno di fatto rallentato il concreto compimento. Il sistema naturalistico calabrese gode ad oggi di indiscussi primati che gli derivano più o meno direttamente dalla sua posizione geografica, dalla sua orografia e dalla sua storia, che ha condizionato non poco il permanere ad oggi di altissimi livelli di protezione della biodiversità. Negli ultimi due secoli infatti, in seguito alle depredazioni post-unitarie di capitali e imprese da parte dello stato sabaudo che hanno strozzato le velleità industriali regionali favorendo il permanere di una società rurale, sullo sfondo di un entroterra Calabro dirompentemente alternato tra il mare e le alte vette, tutto ciò ha permesso che il wilderness regionale rimanesse per larga parte integro. Quanto riferito però ad un certo punto è sembrato non bastare; il mutare dei tempi e della società hanno avuto conseguenze anche in Calabria nel rapporto uomo-natura, e allo stesso modo è sembrato cambiare anche il livello di auto-perpetuamento delle risorse naturalistiche, tanto che è emersa con forza l’esigenza di instaurare per queste una diversa e marcata forma di tutela. Ad oggi la situazione, almeno dal punto di vista della qualità ambientale, non è cambiata di molto. La Calabria si caratterizza per l’estrema variegata biodiversità delle sue alture e del sistema dei parchi, ma a guardar bene non solo di questi. Quasi il 50% della sua superficie è coperta da boschi che di fatto divengono l’enorme area di sedime dell’urbanizzato, e nelle sue aree protette, tutte di rilevanza e a carattere nazionale 1, 1
La Calabria è la terza regione in Italia dopo Abruzzo a Campania per percentuale di suolo destinato a parchi nazionali, e la seconda in termini di superficie assoluta destinata alla medesima conformazione di area protetta ( fonte CED PNN Politecnico di Torino).
Antonio Scarpino
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Aree protette e ambiti rurali, livelli di pianificazione e gestione divergenti tra territori omologhi e confinati. Un caso di studio: il parco del Pollino sono presenti specie di flora e fauna altrove scomparse, fortemente a rischio su tutto il territorio nazionale se non addirittura estinte. Recentemente è stato verificato che in alcuni parchi Calabresi i livelli di purezza dell’aria erano così elevati tanto da esser annoverati tra i più puri d’Europa e da esser presi come parametri di purezza assoluti maggiori anche delle sperdute isole Norvegesi prossime al polo Nord. Quindi si può asserire che in termini di qualità ambientale, se si escludono le zone costiere ove divengono assai incipienti i fenomeni insediativi o più finemente edilizio-speculativi, ovunque sia presente un bosco a sud del pollino ivi si delineino livelli di salvaguardia ambientale non strutturata, elevati. Una matrice verde su cui si innestano di fatto centri abitati e tutto il frammentato novero delle comunalità, prossime o immerse in questa continuità verde. In tale situazione però risalta ancor di più un problema sistemico dei parchi nazionali ovunque ubicati che è la loro strutturazione ad isola. Una gestione amministrativa che esclude tutto quanto resti al di fuori della frontiera del territorio vincolato, anche e nonostante la legge quadro in qualche modo incentivi la collaborazione tra i parchi e gli enti contermini. Un territorio nei fatti omogeneo che però nonostante tutto, non riesce ad innescare il rapporto concertativo tra i differenti livelli di pianificazione a cavallo della frontiera dell’area protetta. L’assillo mai sopito delle perimetrazioni e l’iter pachidermico di approvazione dei piani del parco non agevola questo interscambio relazionale tra gli enti 2, e per quanto le problematiche appaiano antiche anche le soluzioni proposte non spiccano per innovatività. In tali ragionamenti infatti è ricorsivo il rilievo che si da alle buffer zone, specie nei confronti con l’estero, constatato che ove queste mancano, l’incidenza dell’area protetta sul suo intorno è minima sia a livello floro-fanunistico che a livello di programmazione 3. In Calabria per esempio, questo enorme patrimonio verde non sempre è stato in grado di assolvere alla mille funzioni che ormai da anni 4, ai parchi vengono convenzionalmente demandate. È un assunto condiviso il fatto che le aree protette proprio in virtù della speciale relazione che hanno con il contesto, nella duplice ottica di garantire la natura e il sociale che a questa sottende, non possono solo esser relegate alle operazioni di tutela ambientale, ma devono essere partecipi fautrici dei processi di sviluppo. Ma come sempre e quasi per un gioco di contrappesi, vi sono tendenze che rimarcano sempre più spiccatamente, la necessità del ritorno alla funzione primitiva dei parchi, senza che questi diventino agenzie di promozione territoriale incentivanti filiere, consorzi e marchi che poco hanno a che vedere con la protezione della biodiversità. Un dualismo nuovo, derivante dall’intraprendenza di alcuni parchi naturali che si sono spinti più di altri nell’alveo di quel progetto integrato di territorio che le aree protette dovrebbero rappresentare. Una querelle forse alimentata dall’estrema eterogeneità dei parchi che con livelli di pregio, vulnerabilità e riconoscibilità bio-geografica assai eterogenee, sfuggono alle generalizzazioni. Ma in tutti i Parchi mediterranei, Italiani in particolari, rimane fondante l’altissimo livello di antropizzazione, che qualifica il sistema delle aree protette che si caratterizzano come un ambito territoriale allargato da proteggere ma al contempo da gestire. In queste aree antropizzate tra le quali spicca senza dubbio il Pollino 5, nonostante livelli insediativi così marcati, il territorio è un unicum in continuità fortemente relazionato e in costante osmosi faunistica 6, dentro e fuori la frontiera protetta. Permangono evidentemente delle differenze tra i due fronti e nell’enunciarle, non ci si può soffermare solo ai divergenti e spesso antitetici livelli di pianificazione, ma le differenze più incidenti riguardano la dimensione dell’ordinamento protezionistico-paesistico e quello strategicogestionale. Un’area parco è prima di tutto un sistema territoriale il cui piano è, per azioni ed elementi coinvolti, uno strumento integrato. Una somma di relazioni biologiche, socio-rurali nonché economiche nell’ambito dei settori più disparati che un ente a così marcata complessità contiene, che non possono essere governate isolatamente. Serve a poco citare come i parchi abbiano perso nel tempo uno strumento, nelle intenzioni del 2
E’ noto che l’iter di approvazione dei piani dei parchi risenta di alcune lentezze strutturali oggetto di revisione nell’attuale proposta di modifica alla legge quadro in discussione al senato. 3 “La proposta di estendere la potestà regolamentare dei parchi anche alle aree contigue è quanto mai opportuna. Infatti, tali aree, peraltro poco utilizzate, oggi sfuggono completamente alla programmazione dei parchi che, nel testo vigente, possono soltanto dare degli indirizzi. Tale emendamento conferirebbe a questi settori quella funzione di buffer zone, largamente utilizzata in campo internazionale ma ben poco in Italia, con una programmazione coerente con quella dell'area protetta e, soprattutto, in carico allo stesso soggetto gestore”. Dalle proposte alla commissione del senato per la modifiche alla legge quadro nel documento sottoscritto da svariate associazioni di settore nonché da FederparchiEuroparc Italia. 4 Valerio Giacomini e Valerio Romani, “Uomini e parchi” sesta edizione 1982-2002 Franco Angeli Milano. La conferenza di Stoccolma 1972 ha sancito che non si ha politica dell’ambiente senza soluzione dei problemi sociali….nasce così l’affermazione dell’uso multiplo dei parchi che a pochi mesi di distanza da Stoccolma viene sancito nella seconda conferenza mondiale sui parchi nazionali tenutasi a Yellowstone. 5 Il parco più antropizzato d’Italia, che attesta la popolazione stanziata in 170.000 abitanti che vivono negli oltre 56 comuni che compongono la comunità del parco di cui 32 Calabresi e 24 Lucani.Con i suoi 193 mila ettari è il Parco Nazionale più grande d'Italia. 6 Con il decreto legislativo n. 281, del 28/08/1997, veniva infatti soppresso il Comitato per le aree naturali protette e le relative competenze attribuite alla Conferenza Stato-Regioni. Con il successivo decreto legislativo n. 281, del 31/03/1998, veniva soppresso il Programma Triennale per le aree naturali protette. 6 Note in tal senso sono le frequenti migrazioni dei lupi che in Calabria evidenziano la loro presenza lontano dai luoghi a loro spesso deputati e ben fuori dalle aree protette. Anche questo indice della profonda continuità territoriale destinata a bosco presente nella regione.
Antonio Scarpino
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Aree protette e ambiti rurali, livelli di pianificazione e gestione divergenti tra territori omologhi e confinati. Un caso di studio: il parco del Pollino normatore potentissimo, quale il programma triennale per le aree naturali protette, un documento di programmazione finanziaria che oggi manca, e che sulla carta avrebbe dovuto essere il campo di confronto e concertazione stato-regioni-enti locali per le politiche di conservazione ambientale. Il depauperamento della legge quadro ha portato negli anni anche alla perdita della componente paesaggistica della stessa, seppur tuttavia richiamata nella convenzione europea del paesaggio di Firenze nel 2000. Il continuo svilimento del testo, ha fatto perdere elementi difficilmente riproponibili specie in tempi d’austerity forzate, nella quali non da oggi e senza il fardello della crisi incombente è stata fatta abortire la terza conferenza nazionale sui parchi. Viviamo fasi in cui ministerialmente si legittima l’idea di una “privatizzazione mite” delle aree protette, segno di un disimpegno statale crescente rispetto alle politiche dei parchi e trovare gli strumenti perché in contesti ad elevata ed omogenea qualità ambientale si creino relazioni oltre-frontiera, non è certo di immediato riscontro. Il problema pone molte problematiche, quali tra tutte la difficoltà di integrare strumenti e procedure tra le aree parco e tutto quanto vi è collocato intorno. L’approccio che si propone per il superamento di tale impasse, sta nella formulazione di un area intermedia che sia il frutto di un connubio di procedure sul substrato delle reti ecologiche, confrontato con l’apparato concettuale della Bio-regione 7. Uno strato intermedio di relazioni non solo tra “isole verdi”, ma con tutte le entità con cui i contenitori di eccellenze naturalistiche vengono in contatto. Correntemente nella ripartizione in cui si suddividono le reti ecologiche; core areas, buffer zones, e stepping stones, queste in una necessaria analogia potrebbero venire relazionate all’uomo e al contesto e non solo alle migrazioni faunistiche. Se le zone cuscinetto non esistono nella legislazione Italiana, ma esistono alcune regioni quali la Calabria interna dove un perdurare di naturalità diffusa risponde alle esigenze della mobilità della fauna tra più core areas in sequenza, le zone cuscinetto potrebbero venire fittiziamente garantite dalle produzioni del primario e dai marchi o codici di qualità ambientale. La politica dei marchi infatti ha dato validi sviluppi al settore primario dei parchi, con una certificazione di qualità che di fatto è l’emblema del prodotto della bioregione. Cioè un prodotto per il quale posto l’elevato e certificato livello di purezza del sub-strato, il reperimento delle materie prime autoctone connesse alla qualità imposta dei processi di produzione, il relativo marchio divenga garanzia di purezza e autenticità, associata all’attestazione di provenienza. Il parco quindi non diventerebbe solo sponsor di brands che a più titoli si fregiano dell’attribuzione di qualità, ma diverrebbe ente certificatore di tutte le fasi 8 della produzione del prodotto marchiato. Garante quindi non solo di quanto si produce nel parco naturale, ma anche di quanto, anche qui per continuità fisica nella qualità ambientale, viene prodotto nell’immediato intorno. Non sarà quindi una convenzionale apposizione di un confine protetto, frutto di mille compromessi tra biologi e politici a definire il limite della Bio-regione entro la quale si vanno a collocare tali politiche, ma sarà piuttosto il continuum naturalistico. Per quanto detto, insistere sul primario di qualità applicando vincoli e restrizioni dei marchi del parco, investendo in quelli che sono i localismi agricoli ed enogastronomici, può generare politiche virtuose di integrazione della attività presenti dentro e fuori dall’area protetta. Il parco del Pollino è emblematico di questa opportunità di produzioni territoriali in contiguità, perché l’estensione e l’articolazione delle realtà ivi presenti possono generare un indotto che non sia volto solo all’incremento quantitativo ma alla qualificazione allargata delle produzioni. All’interno di quest’ultimo fuori dalle riserve, sono presenti tutta una serie di attività agricole e di pastorizia che mantengono spesso inalterate da secoli le loro usuali metodologie produttive. Nell’immediato esterno del parco, sulle colline e nelle valli, una nuova stagione dei cambi di coltura indotti 9 ha generato micro-imprese e filiere di prodotti in agricoltura che aspettano solo il collocamento su segmenti di mercato adeguati. Tutto ciò, oltre alle incombenze di controllo, è il ruolo innovativo dell’ente parco: la valorizzazione della certificazione di qualità della quale l’ente si fa garante e per la quale elevati devono essere gli standard di accreditamento, conseguimento e mantenimento. Il tema dei marchi chiaramente non si esaurisce solo con la produzione nell’ambito agricolo, ma investe molti campi dell’imprenditoria e della ricettività dentro e fuori l’area vincolata, con lo scopo manifesto di definire codici di attestazione della qualità territoriale. Il salto che sarebbe opportuno elaborare dovrebbe evolversi rispetto ai convenzionali protocolli di procedure e prestazioni, all’interno del quale si innestano parametri da rispettare barattati con loghi e insegne, né sarebbe gratificante la mera associazione di livelli di premialità graduali in base alla maggiore o minore aderenza ai codici imposti. Nell’ottica di essere più onnicomprensivi possibili questi 7
La bio-regione è un'unità territoriale, dalle caratteristiche fisiche ed ecologiche omogenee e volendo elaborare il concetto secondo le parole di T. Rebb. Il bioregionalismo è quella "forma di organizzazione umana decentrata che, proponendosi di mantenere l'integrità dei processi biologici, delle formazioni di vita e delle formazioni geografiche specifiche della bioregione, aiuta lo sviluppo materiale e spirituale delle comunità umane che la abitano" (Thomas. Rebb). Dal lato economico l’obiettivo sarebbe quello di ridurre la dipendenza della produzione agricola dai fattori esogeni che incidono su di essa e adottando criteri che vanno nella direzione dell’auto-sostenibilità dell’agricoltura e della riappropriazione dei suoi valori storicamente determinati di cura e coltura del territorio. 8 Materie prime -Provenienza, percorso di confezionamento-filiera corta, 9 Nelle aree della piana di Sibari e in tutto i borghi collinari della valle del Crati tramite grazie ai finanziamenti europei si è attivata una serie di conversioni colturali che ha portato in pochi anni al cambio radicale delle produzioni e in qualche caso allo svilupparsi degli stabilimenti di trasformazione. Lo stesso dicasi per l’impatto che hanno avuto i finanziamenti sugli uliveti nelle colture collinari, che hanno ridato vita ai frantoi e incentivato un minino di economia nel comparto. (fonte banca-dati G.A.L. valle del Crati).
Antonio Scarpino
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Aree protette e ambiti rurali, livelli di pianificazione e gestione divergenti tra territori omologhi e confinati. Un caso di studio: il parco del Pollino potrebbero comprendere ambiti come: il codice di qualità paesaggistica, il codice di qualità nella ricettività, il codice qualità delle produzioni tipiche, il codice della qualità stanziale 10, quest’ultimo particolarmente importante perché proprio nelle buffer zone, ove è possibile la costruzione di abitazioni, strutture e anche infrastrutture compatibili, le stesse verrebbero addirittura incentivate, se erette nell’alveo del codice di appartenenza e nell’intento di assurgere al relativo marchio di qualità. Il termine del percorso logico potrebbe essere, proprio in analogia alle reti ecologiche, il livello delle infrastrutture verdi che si potrebbero creare non tra core-areas bensì tra area protetta, zona cuscinetto e territorio urbanizzato. Nel parco del Pollino ove per quel che concerne il versante calabro la frontiera del parco più distante dalle aree a maggiore densità edilizia e abitativa sulle coste ioniche non supera i 35 km, e ove sul versante tirrenico lo stesso parco termina sulla catena costiera poco sopra i centri abitati a forte caratterizzazione turistico-balneare, un sistema infrastrutturale compatibile di accesso fisico al parco potrebbe essere l’incentivo e l’innesco di tutti i fenomeni citati. Esempi in tal senso ne esistono diversi ma è esemplare citarne uno, ancora in itinere, ma che per il successo dell’iniziativa in termini di adesioni e per il novero delle idee proposte si appresta a diventare un esempio da riproporre per tutte le contiguità area protetta-urbanizzato. Il Comune di Barcellona ha istruito infatti la prima fase delle gare del progetto "16 porte di Collserola" promosso dal Dipartimento di Habitat Urbano, con il fine manifesto di ripensare i collegamenti trasversali del parco con la città. Scopo del progetto è quello di elaborare percorsi tra la città e il Parco attraverso sedici corridoi e strutture verdi. Il successo della manifestazione è stato tale che si sono registrate 3.348 proposte progettuali, con quasi il 50% dei team concorrenti composto da competenze multidisciplinari quali architetti, ingegneri, ambientalisti, biologi e giuristi. L’ente sovraordinato, si è preso il lusso di decidere sulla frontiera del parco allocandovi 16 nuove accessi, infrastrutture verdi che penetrano la metropoli, anche in zone ad alta marginalità che si innestano nella maglia urbana portando il parco in città. Si potrebbe obiettare che la natura di quella specifica area protetta non abbia un’elevata rispondenza in termini di biodiversità, e che l’unanime livello pianificatorio all’interno del Plan General Metropolitano, faciliti gli ambiti applicativi, ma allo stesso modo Collserola, che nonostante l’estensione e la caratterizzazione non è un Central Park e nemmeno un “parco urbano”, si configura come un ente che si sforza, o che è forzato, ad avere rapporti con l’intorno, ribaltando le pressioni metropolitane sulla frontiera con una immersione nel tessuto urbano. Un esempio lungimirante di progettazione integrata questa volta tra territori non omologhi ma contermini. Al termine della trattazione, l’attribuzione di tutte queste responsabilità di attivismo e programmazione ad un parco naturale potrebbe sembrare eccedentemente forzata, ma relazionato alle regioni a più basso reddito medio come la Calabria, nella casistica di comuni che sono del tutto o parzialmente all’interno delle aree parco, con la pianificazione urbana ordinaria manchevole o spesso impantanata nella cronica incapacità di istruire piani strutturali associati e non, in cui la componente strutturale è spesso manchevole di quella operativa 11, e avendo il solo piano del parco come piano sovraordinato, a chi se non al parco spettano le politiche di sviluppo di questi territori? Dato quindi per rintracciato l’ente preposto, come superare la frontiera e rendere queste politiche valevoli per un intorno che differisce solo per convenzione cartografica? Le proposte esposte potrebbero andare in tale direzione.
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Gerundo R. , Eboli C. , Fasolino I. , Iovine A. , Scarpino A., Ferrari M. , Siniscalco A. , " Progetto LINFA. Laboratorio per l'Ingegneria Finalizzato all'Ambiente". In " Modelli di sviluppo di paesaggi rurali di pregio ambientale", Milano: Franco Angeli,. 2011, pp. 402-422. 11 In Calabria i Piani Operativo Temporali (P.O.T.) non sono stati resi obbligatori, bensì facoltativi da parte dei comuni, ad eccezione dei “Comuni che eventualmente saranno indicati in specifico elenco nel QTR”.
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Centralità del territorio e sviluppo: ripensare la rete locale dei luoghi a partire dalle differenze
Centralità del territorio e sviluppo: ripensare la rete locale dei luoghi a partire dalle differenze Leonardo Lutzoni Università “La Sapienza” di Roma Facoltà di Ingegneria, DICEA - Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale Email: leonardolutzoni@gmail.com Tel. 329.3172060
Abstract La città contemporanea, così come il suo territorio circostante, sono stati articolati in parti monofunzionali, dilatati in una miriade di spazi anonimi non facilmente riconoscibili anche dalle persone che li abitano, con la finalità di soddisfare le esigenze del mercato, dei gruppi economici dominanti e dei processi di globalizzazione. Queste trasformazioni impongono oggi di osservare e interpretare questi fenomeni ricercando un ripensamento e una riorganizzazione delle scale territoriali locali, considerando come chiave interpretativa di una possibile nuova forma di sviluppo locale, la centralità del territorio in tutta la sua molteplicità e complessità delle sue dimensioni (culturale, storica, economica, sociale, produttiva, politica, ambientale). In questo quadro, il territorio è riportato al centro di nuovi possibili processi di sviluppo basati sul riconoscimento e un’attenzione rivolta alle specificità, alle differenze, alle diversità, agli indizi, alle potenzialità latenti che caratterizzano i singoli luoghi, al coinvolgimento delle persone e degli attori locali.
Geografia di un territorio vuoto e silenzioso Il mutamento della città contemporanea, scandito dai processi in atto di globalizzazione e dal venir meno delle forme di controllo e di pianificazione, ormai incapaci di registrare e comprendere gli elementi della resistenza, diversità territoriali, anomalie e deviazioni, sta fortemente riportando al centro dell’attenzione il peso dei territori marginali e dei sistemi locali. Paradossalmente mentre i territori e gli spazi appaiono caratterizzati da forme generiche, diffuse e omogenee, le qualità e le specificità dei contesti costituiscono nella nostra contemporaneità un elemento di forte attrazione e riconoscibilità. In tempi di riflettori e di luci abbaglianti, esistono territori che se guardati attraverso le carte di analisi finora prodotte, vengono rappresentati come sostanzialmente “vuoti”, mancanti di un significativo carattere urbano, ma anche di grandi emergenze ambientali e sociali (Lancerini, 2005; p. 10). Sono le città e le metropoli dense a rappresentare il focus e il territorio d’indagine degli urbanisti. Però in diverse aree del nostro paese, in particolare lì, dove la rete dei flussi e delle infrastrutture, del mercato e dell’economia globale, che alterano la fisionomia locale della città e del territorio si dirada, che si nascondono dei territori meno illuminati, spazi aperti, di rallentamento, di silenzio, di penombra, di sopravvivenza di natura e agricoltura, di resistenza alla crescita lineare e senza senso dell’urbanizzazione (Lanzani, 2011; p. 20). Il territorio dell’Alta Gallura, localizzato nell’interno della Sardegna nord-occidentale, è uno di questi territori, “vuoto”, apparentemente muto e silenzioso (Figura 1), che nel tempo della storia ha subito diversi mutamenti, che ne hanno modificato e trasformato il paesaggio insediativo e ambientale.
Leonardo Lutzoni
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Centralità del territorio e sviluppo: ripensare la rete locale dei luoghi a partire dalle differenze
Figura 1. Luras, Territorio interno dell’Alta Gallura: un vuoto apparente, foto di Leonardo Lutzoni, 2011 Il territorio di questa regione, fino alla fine degli anni 50’, appariva “vuoto” verso la costa e vissuto verso l’interno, dove il perno di questa imponente struttura territoriale era il massiccio del Monte Limbara, attorno al quale si articolava una fitta rete di piccoli nuclei abitati collegati da una rete di strade. Il territorio esterno ai piccoli villaggi era caratterizzato dalla presenza degli stazzi, forma insediativa e architettonica tipica della regione, connessi da una viabilità minuta e capillare. Gli stazzi dialogavano con la dimensione ambientale, dando origine ad un modello abitativo e produttivo diffuso nel territorio, con un’economia di sussistenza basata sulle relazioni di vicinato sull’autoproduzione. L’urbano e la campagna rappresentavano due forme articolate di vivere e abitare lo spazio. A partire dagli anni 60’, questo territorio, così come la maggior parte del territorio sardo, ha conosciuto la nascita e lo sviluppo del modello turistico, a cui sono seguiti processi di riforma dei sistemi economico, sociale e ambientale. Gli studi preparatori del Piano di Rinascita (1962) avevano delimitato i comprensori pesisticoturistici considerando unitariamente l’interno dell’Isola e le fasce costiere. Ma si può affermare però che mentre sulla carta il Piano cercò di prospettare una collocazione razionale delle attività turistiche nel quadro di un ordinato sviluppo economico e sociale, nei fatti la crescita del turismo è avvenuta per tendenza spontanea più che per una reale azione pianificatrice (Berlinguer & Mattone, 1998; p. 864). Si è affermata quindi una dicotomia precisa: lo spopolamento e l’abbandono delle aree interne, caratterizzate fino a qual momento da una grande dinamicità nei modi di vita e di utilizzo dello spazio, provocando una frattura, un’interruzione delle relazioni tra i territori costieri ed i territori interni dei quali vennero sconvolti gli assetti e i sistemi territoriali. Ha avuto inizio una colonizzazione del territorio costiero, di tutta l’Isola, ma in particolare del territorio gallurese, una città costiera lineare e continua, “piena” distinta da una forte autoreferenzialità, da un costante consumo di suolo e delle risorse ambientali, dall’indifferenza nei confronti del luogo. A proposito è interessante la descrizione che B. Bandinu esprime nei confronti di questa realtà: la Costa Smeralda ha creato un mondo di oggetti che preservano la vacanza da ogni maleficio e garantiscono al turista un “perfetto Paradiso” (Bandinu, 1980; p. 16). È quindi con il processo di costruzione della città della vacanza che il fenomeno del distacco tra spazi costieri e spazi interni ha avuto inizio, generando un “vuoto”. Ma siamo anche alla definizione crescente di un’immagine diversa, che non è solo condizionata dal solo ribollire delle coste; l’apparente “svuotamento” nasconde in realtà una profonda trasformazione in atto, ed è forse da quel mare interno di insularità che possono scaturire le diverse scintille di innovazione. (Carta 2007; p. 41). È dal “vuoto” e dall’individualità di questo territorio che bisogna partire, poiché costituiscono una risorsa preziosa da giocare con attenzione. In questo senso il processo di globalizzazione può rappresentare per certi versi, oltreché un pericolo anche una nuova possibilità per il progetto di uno sviluppo diverso.
Ri-orientare lo sviluppo: differenze e centralità del territorio, una ripartenza possibile? Il problema dello sviluppo di un contesto, in una fase di cambiamenti ed eventi estremi (Perna, 2011; p. 140), come quella che stiamo vivendo, non può prescindere dalla specificità di un territorio, infatti, il ritorno ai luoghi potrebbe costituire un valido antidoto alla smemoratezza della città contemporanea (Scandurra, 2007; p. 106). Non esiste un modello da applicare astrattamente in qualsiasi contesto ma, per ottenere dei reali vantaggi competitivi, occorre riuscire a fare della propria differenzialità e diversità il volano del proprio sviluppo. Come afferma G. Dematteis, progettare il territorio significa quindi innanzi tutto rappresentare delle diversità, in
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termini di possibili risposte locali a mutamenti globali e significa forzare i limiti dei linguaggi universali in modo da renderli capaci di accogliere (comprendere) e veicolare ragioni e valori locali (Dematteis 1995, p. 42). È necessario essere consapevoli che un processo di sviluppo delle aree interne dell’Alta Gallura non si avvia attraverso la norma imposta dagli strumenti urbanistici e dalle politiche tradizionali, né tantomeno può essere imposto, ma può solo emergere da un nuovo rapporto instaurato fra uomini e territorio, tra passato e presente per ripensare il futuro. Come afferma A. Lanzani, negli spazi aperti apparentemente disabitati si ritrova, innanzitutto e principalmente, una possibilità già in essere, e potenzialmente ulteriormente valorizzabile, di silenzio, di rallentamento, di penombra, di sconnessione (in uno spazio iper-rumoroso, veloce, illuminato e connesso), una possibilità di sperimentare una temporalità “altra” legata ai ritmi della natura e del corpo (Lanzani, 2011; p. 31). La lentezza evoca per questi contesti non un ritardo, l’arretratezza, il sottosviluppo, ma un diverso movimento, una diversa progettualità. Lo sviluppo possibile può solo essere l'esito ed il prodotto della scoperta, dell'invenzione, dell’indagine, del processo, di un'intelligenza collettiva (Lévy, 1996, p. 34) che parte dal basso e che sappia tenere insieme e selezionare le differenze di un territorio per una idea nuova di progetto. Occorre cominciare ad affrontare i temi dello sviluppo e dell'innovazione secondo altre direzioni: lavorare, più che per inventare, per avviare una riconversione (Viale, 2011, p. 17), per costruire piuttosto contesti in cui i cambiamenti possano essere resi possibili; costruire dispositivi, opportunità progettuali per invertire la rotta rispetto alle tendenze attuali e offrire a questi territori e alle persone che li abitano e li vivono, la possibilità di ripensare, e perché no, inventare un proprio percorso autonomo di sviluppo. Non si tratta di fare una ricerca sugli elementi mancanti, quelli che di solito sono i servizi reali e finanziari offerti dalle agenzie di sviluppo: capitali, formazione imprenditoriale, assistenza all'organizzazione, agevolazioni sui fattori di localizzazione (Persico, 2011; p. 35), si tratta in generale, di leggere la forza e la debolezza dei luoghi guardando al potenziale di reti corte, minute e locali, si tratta di rompere i modelli disciplinari classici cercando di ri-orientare e ri-costruire, allargando il contributo alle altre discipline e alla sperimentazione di nuove pratiche, forme nuove di fare pianificazione, capaci di inventare e innescare nuove occasioni. Come afferma E. Scandurra “occorre rielaborare un concetto di modernità all’altezza della complessità delle sfide impegnative di questa nuova epoca. Un concetto di modernità non organizzato sulle convenienze anguste dell’individuo, ma su un’azione collettiva che renda ciascuno protagonista del processo di riappropriazione della vita, che poi significa armonia con la natura, partecipazione diretta, rispetto delle differenze, difesa dei beni comuni, diritto reale e concreto a tutte le forme di vita sociale. Per farlo è necessario ri-partire dai luoghi dove si manifestano profondamente i luoghi vitali, il vivere quotidiano singole in carne ed ossa che hanno ancora qualcosa in comune” (Scandurra 2007, p. 40). Il vuoto diventa, anche per noi, quindi, motore del desiderio, energia della ricerca, possibilità per il progetto (Persico, 2011; p. 30). Come afferma L. Decandia, all’idea che il futuro sia staccato dal presente e che il progetto vada pensato come regno di un possibile statico e già costituito, a cui – come a un utopico modello – manca soltanto l’esistenza per essere, dobbiamo dunque, sostituire l’idea di un progetto inteso come vita, che si sviluppa a partire da (e dentro) un territorio che non è una tabula rasa, priva di qualsiasi contenuto (Decandia, 2008; p. 166). Ma in che modo avviare un processo di ripartenza possibile, di sviluppo alternativo? L’economista Albert O. Hirschman, afferma che il percorso di uno sviluppo possibile, è un processo graduale, in movimento; è difficile, infatti, che in un contesto arretrato, marginale, debole, possano valere contemporaneamente tutta una serie di requisiti: la disponibilità di risorse naturali, fondamentali, la dotazione di capitale finanziario, la capacità imprenditoriale e amministrativa, l’innovazione tecnologica, ma anche le credenze, i modi di pensare, i sistemi di valori, cioè in senso lato la cultura locale. Lo sviluppo dipende non tanto dal trovare le combinazioni ottime delle risorse e dei fattori produttivi dati, quanto nel suscitare e nell’apprestare per lo sviluppo risorse e capacità nascoste, disperse, o malamente utilizzate (Hirschman, 1968; p. 6). Non si tratta di un problema di allocazione delle risorse. Diventano decisivi gli aspetti dinamici e strategici essenziali del processo. Si tratta di individuare impulsi e meccanismi capaci di generare sviluppo, scoprire opportunità, differenze, indizi, attraverso un delicato, attento e raffinato percorso di indagine, critica se necessaria, fare rete, mappare, sviluppare la propria idea-forza di sviluppo (De Rita & Bonomi, 1998; p. 45), mettere in relazione e coinvolgere in maniera attiva e condivisa i diversi attori locali a qualsiasi livello, dal cittadino, all’associazione, agli amministratoti, ai professionisti, che abitano e vivono il territorio, per lavorare nella definizione di un sistema di sviluppo che possa promuovere, inoltre, una conoscenza condivisa dei luoghi, suscitare “effetti di ritorno (feedback effects)” (Hirschman, 1968; p. 8). Questo per innescare idee progettuali nuove, che partono dalle necessità delle persone, del territorio, descritto da A. Magnaghi come il prodotto che si forma attraverso un dialogo, una relazione fra entità viventi, l’uomo stesso e la natura, nel tempo lungo la storia. È un’opera corale, coevolutiva, che cresce nel tempo. Il territorio è un atto d’amore (inclusivo degli atteggiamenti estremi della sottomissione o del dominio), seguito dalla cura dell’altro da sé. Il territorio quindi non è più considerato, come in passato, una tabula rasa da modellare con azioni autoritative e piramidali, ma piuttosto come un elemento attivo, un organismo vivente, nel quale trovare le specificità locali su cui i soggetti possono far leva per sviluppare e valorizzare il territorio stesso (Magnaghi, 2010, p. 17). È a partire da queste premesse, che si è
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avviato un processo di sperimentazione di didattica-ricerca-azione 1, a Calangianus, piccolo paese localizzato ai piedi del massiccio del monte Limbara, dove sono stati messi in azione alcuni di quelli che A. Hirschman chiama “dispositivi di trascinamento (pacing devices)” (Hirschman, 1968; p. 8), con i quali, con una forte intenzionalità progettuale e un forte coinvolgimento delle persone (Decandia 2011; p. 399, in Maciocco 2011) si è voluto iniziare un percorso con l’intento di innescare scintille ed idee, che anche in maniera embrionale potrebbero avviare un processo di ri-orientamento dello sviluppo, in questo territorio apparentemente vuoto e debole rispetto al pieno delle città e dei territori densi.
Osservare e interpretare un territorio che forse non è vuoto: l’utilizzo dei dispositivi di trascinamento Immaginando di osservare il territorio vuoto dell’Alta Gallura con una lente, significa come afferma L. Decandia saper di non avere a che fare con una tavola bianca, su cui riprodurre o inventare delle forme, ma semmai con uno spazio altamente diversificato e in continuo movimento, a più strati e più livelli, in cui sottotraccia spingono forze ed energie che non si vedono, ma che lavorano continuamente per produrre un incessante cambiamento (Decandia, 2008; p. 151). Significa guardare con altri occhi, con altri metodi e con altri strumenti questi territori silenti, deboli e marginali all’apparenza, diversi, ma pronti ad entrare a far parte della rete globale facendo leva sulla propria singolarità culturale, economica, paesaggistica, ambientale, storica, sociale e antropologica. Si tratta di un processo di profonda modificazione estetica, che consentirà di vedere il mondo con altri occhi e di riconoscere nella qualità differenziale dei territori l’ambiguità positiva del margine, l’altra soggettività territoriale, che richiama un’esperienza continua dell’alterità in quanto costitutiva del progetto della città (Maciocco, 1999; p. 143). È stato quindi importante avviare e sperimentare sul territorio due dispositivi di trascinamento (DT01 – DT02) per capirne e interpretarne il vuoto, la marginalità, la differenze dal quale si dovrà partire per il progetto futuro.
DT01 - Il seminario itinerante “La strada che parla” Il primo dispositivo di trascinamento attivato sul territorio è stato il Seminario itinerante “La strada che parla”, svoltosi a Calangianus il 25-26 giugno 2010 (Figura 2). Il pretesto della sperimentazione è stato fornito dal vecchio tracciato della ferrovia a scartamento ridotto, linea Monti-Tempio, che solo da qualche anno, dopo la sua dismissione alla fine degli anni 50’, è stato recuperato come percorso ciclabile-pedonale ed è stato trasformato dalla comunità locale in un vero e proprio spazio pubblico. Inizialmente, all’interno delle aule universitarie, è stato impostato il percorso conoscitivo di interpretazione storica, della struttura ambientale, del paesaggio, della dimensione insediativa, di interpretazione delle relazioni tra gli uomini e il paesaggio-ambiente del territorio di Calangianus, un processo di scoperta e di indagine delle differenze. Contemporaneamente si è attivata una rete di contatti con le persone del luogo per preparare e rendere possibile l’evento. Infatti, dopo lo studio delle conoscenze, alla fine del mese di giugno, insieme agli studenti e alle carte da loro prodotte, abbiamo incontrato e coinvolto sul territorio più di trenta persone, il giornalista/storico locale, un cultore locale della storia delle ferrovie, cacciatori, il progettista del progetto di riqualificazione del percorso ferroviario, allevatori, insegnanti con una classe di bambini delle scuole medie, anziani, professionisti locali. In questa fase iniziale, nonostante i buoni propositi, è stato difficile coinvolgere gli amministratori locali. Il coinvolgimento attivo di queste persone, ci ha permesso di arricchire il lavoro sulle carte, di scoprire aneddoti, indizi di progetto, impressioni di chi realmente ha vissuto negli stazzi nella campagna e lungo il percorso della ferrovia, di capire come funzionava e come era organizzata la dimensione insediativa e lavorativa nella campagna; di capire tradizioni, differenze, indizi che difficilmente è possibile scoprire dal solo studio delle cartografie e delle fonti bibliografiche. Un arricchimento reciproco e comune, un incontro tra sapere esperto e sapere locale, reso possibile da un rapporto di fiducia costruito passo dopo passo.
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Il percorso e le sperimentazioni di questi processi di didattica-ricerca-azione, sono stati sviluppati all’interno di MATRICA, Laboratorio di fermentazione urbana, della Facoltà di Architettura di Alghero (Università di Sassari), coordinato e diretto dalla Professoressa Lidia Decandia, all’interno del blocco didattico Progetto nel Contesto Sociale, I anno, corso di Laurea in Urbanistica. Le sperimentazioni, con il coordinamento scientifico della Professoressa Lidia Decandia, il mio contributo e quello dell’Architetto Anna Uttaro, sono l’esito di due anni di studio e ricerca ancora in corso. Nella prima sperimentazione, il Seminario itinerante “la Strada che parla”, le riprese audio-video sono state possibile grazie alla collaborazione di un operatore di Studio Azzurro. Cfr. al sito per approfondimenti: http://lastradacheparla.weebly.com/.
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DT02 - La Mostra “La strada che parla” Il secondo dispositivo di trascinamento attivato sul territorio è stato La Mostra 2 “La strada che parla”, inaugurata a Calangianus il 25 febbraio 2012 (figura 3). Con questa mostra multimediale, è stato restituito il lavoro del Seminario Itinerante e il lavoro didattico di due anni di ricerca svolto all’interno del blocco Progettare nel contesto sociale. Sono state esposte le cartografie prodotte dagli studenti sullo studio del territorio di Calangianus, arricchite grazie al contributo e al sapere delle persone della comunità locale, sono stati proiettati i video delle persone che due anni prima avevano preso parte al Seminario Itinerante, sono stati esposti gli elaborati fotografici prodotti nel Workshop fotografico “Visioni di Paesaggi” 3. Il giorno dell’inaugurazione il percorso espositivo è stato attivato con una visita guidata per le numerose persone presenti e si è conclusa con una discussione collettiva dal titolo “Quali futuri per le aree interne?”, partendo dalle tematiche esposte, dalle difficoltà nell’attivare un processo alternativo di sviluppo. Alla discussione hanno partecipato docenti, urbanisti, artisti, persone comuni e soprattutto amministratori, locali e provinciali, ed insieme hanno ragionato su quali sono oggi le problematiche che caratterizzano questo territorio, quali sono le possibilità per uno sviluppo futuro. Entrambi gli esperimenti sono stati un pretesto per costruire uno spazio interattivo di discussione pubblica sul territorio, per avviare un processo di intelligenza collettiva per la scoperta di indizi e potenzialità latenti, per iniziare e ripensare il progetto di sviluppo futuro di questo territorio ricco di differenze e diversità partendo dal luogo e dal territorio.
Figura 2. Calangianus, Seminario Itinerante “La strada che parla”, foto di Leonardo Lutzoni, 2010
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Il concept della mostra è stato ideato da Anna Uttaro; la mostra è stata realizzata e curata, con il coordinamento scientifico della Professoressa Lidia Decandia, da Leonardo Lutzoni e Anna Uttaro. Visioni di Paesaggi, è un workshop fotografico che ha voluto sensibilizzare gli abitanti dei Comuni che circondano la montagna del Limbara, ad osservare e far osservare il proprio paesaggio ed è nato con lo stimolo ricevuto dal bando della Regione Sardegna “Premio del Paesaggio”, quinta edizione, sessione fotografie. Il workshop è stato ideato e curato da Anna Uttaro con la collaborazione Alessandro Graffi, un fotografo professionista di Calangianus.
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Figura 3. Calangianus, Inaugurazione Mostra “La strada che parla”, foto di Maddalena Demuro, 2012
Bibliografia Amoroso B. (2009), Per il bene comune. Dallo stato del benessere alla società del benessere, Diabasis, Reggio Emilia. Bandinu B. (1980), Costa Smeralda. Come nasce una favola turistica, Rizzoli, Milano. Berlinguer L., Mattone A. (a cura di, 1998), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Giulio Einaudi Editore, Torino. Becattini G. (2000), Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di una idea, Bollati Boringhieri, Torino. Carta M. (2007), La sottile linea blu, Cuec, Cagliari. Decandia L. (2004), Anime di luoghi, Franco Angeli, Milano. Decandia L. (2008), Polifonie urbane. Oltre i confini della visone prospettica, Meltemi, Roma. Decandia L. (2011), L’apprendimento come esperienza estetica. Una comunità di pratiche in azione, Franco Angeli, Milano. Dematteis G. (1995), Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Franco Angeli, Milano. De Rita G., Bonomi A. (1998), Manifesto per lo sviluppo locale. Dall'azione di comunità ai Patti Territoriali, Bollati Boringhieri, Torino. Ferraro G. (1998), Rieducare alla speranza. Patrick Geddes Planner in India, 1914-1924, Jaca Book, Milano. Hirschman O. A. (1963), The strategy of economic development, Yale University Press, New Haven and London, trad. it. La strategia dello sviluppo economico, La Nuova Italia, Firenze (1968). Lancerini E. (2005), “Territori Lenti: contributi per una nuova geografia dei paesaggi abitati italiani”, Territorio, 34, pp. 9-15. Lanzani A. (2011), In cammino nel paesaggio. Questioni di geografia e urbanistica, Carocci editore, Roma. Lefebvre H. (1968), Le droit à la ville, Éditions Anthropos, Paris, trad. it. Il diritto alla città, Marsilio, Padova (1970). Lévy P. (1994), L’ intelligence collective: pour une anthropologie du cyberspace, La Decouvert, Paris, trad. It L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano (1996). Maciocco G. (1999), “Il progetto ambientale dei territori esterni: prospettive per la pianificazione provinciale, Urbanistica, 112, pp. 143-155.
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Maciocco G., Sanna Gianfranco, Serreli Silvia (2011), The Urban Potential of External Territories, Franco Angeli, Milano. Magnaghi A. (2010), Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino. Perna T. (2011), Eventi estremi. Come salvare il pianeta e noi stessi dalle tempeste climatiche e finanziarie, Altraeconomia Edizioni, Milano. Persico P. (2011), Dalla Città del Parco ai Laboratori della Città del Quarto Paesaggio. Rossi U., Vanolo A. (2010), Geografia politica urbana, Laterza, Bari. Scandurra E. (2007), Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperte, Troina (En). Viale G. (2011), La conversione ecologica. There is no alternative, NdA Press, Cerasolo Ausa di Coriano (Rimini).
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Per un censimento italiano dei paesi abbandonati tra valore identitario e possibili scenari di rivitalizzazione
Per un censimento italiano dei paesi abbandonati tra valore identitario e possibili scenari di rivitalizzazione Luca Di Figlia Università degli Studi di Firenze Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio (DUPT) Email: ldifiglia@unifi.it Tel. 338.1502926
Abstract I paesi disabitati, data la loro generale condizione di degrado e di abbandono, possono essere considerati sia come uno scarto della società consumistica moderna, che erroneamente non riconosce in essi alcuna utilità pratica, sia come ricchezza territoriale, reinterpretati in una prospettiva qualificante, che non si ferma a osservare unicamente lo stato attuale di decadimento, ma che prende consapevolezza delle qualità esistenziali e del valore identitario di quei luoghi. Il paese disabitato trasforma, poco prima, durante e dopo l’abbandono il suo valore e il suo ruolo nel territorio, acquisendo una nuova identità; ciò avvalorato dal fatto che: “I luoghi rispondono con generosità al legame che con essi decidiamo di intrattenere”(Teti, 2004; p.IX). Le riflessioni proposte, sulla base di un percorso di ricerca tuttora in svolgimento, cercano di indagare il senso di queste realtà per prospettare possibili scenari di rivitalizzazione.
Introduzione Il tema dei paesi abbandonati suscita interesse e curiosità, poiché nell’immaginario comune sono di frequente considerati “casi antropologici” rari e peculiari, evocazione di luoghi intrisi di storie e radicati nella memoria e nel passato di un territorio. Questo è stato l’input per sviluppo della ricerca 1, che è stata focalizzata sulla totalità del territorio italiano e temporalmente circoscritta a quegli insediamenti abbandonati nel corso del Ventesimo e del Ventunesimo secolo. L’approfondimento della tematica ha portato innanzitutto alla consapevolezza della sua complessità e del suo essere caratterizzata sia da elementi comuni sia dalla peculiarità dei singoli casi e alla presa di coscienza che la realtà dei villaggi abbandonati in Italia è da valutare come un vero e proprio fenomeno. È da sottolineare, difatti, che lo studio pone le sue basi su eventi di natura umana antropologica ed il fenomeno va, quindi, interpretato in un’ottica di successione di eventi legati alla vita dell’uomo, risultando, quindi, strettamente connesso a fattori culturali, economici, rappresentativi di una sensibilità individuale e collettiva, propri dell’inscindibile legame tra l’uomo e il luogo. Il fenomeno è stato valutato nella sua interezza in base a due chiavi di lettura distinte e, tuttavia, correlate tra loro: l’analisi è stata compiuta sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo. È opportuno rendere esplicito, inoltre, che il lavoro presentato in questo scritto è la sintesi di una ricerca più articolata ed ampia; i dati, le informazioni e le riflessioni esposte sono da considerarsi quelle che a giudizio dell’autore risultano di maggior rilevanza ed interesse.
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La ricerca è stata, ulteriormente, sollecitata dal fatto che, ad oggi, non sono state intraprese indagini approfondite su questo tema ad eccezione di alcune analisi su singoli casi o su aree ben definite e limitate.
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Analisi quantitativa: per un censimento dei paesi abbandonati in Italia L’analisi quantitativa ha portato all’individuazione delle località abbandonate, alla stesura di una classificazione, al confronto ponderato dei dati ottenuti; è stato possibile apprezzare, quindi, sia la reale portata del fenomeno sia le sue dinamiche comuni e ricorrenti. Sono stati individuati centodieci centri urbani (Figura 1), su cui, a seguito di specifici approfondimenti, è stato appurato lo stato di abbandono, cioè di luogo urbanizzato in cui, al momento attuale, non sono riscontrabili la presenza di abitanti stanziali o le condizioni costituenti le forme consuete dell’abitare un insediamento in modo permanente e continuativo 2. Nonostante il numero considerevole di paesi completamente abbandonati reperiti, non si esclude e, anzi, si presuppone che, ve ne siano altri 3 o che quelli individuati possano essere stati – nel periodo di stesura ed elaborazione della ricerca – ripopolati o riqualificati.
Figura 1. Mappa dei paesi abbandonati.
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In tal senso sono stati esclusi dall’indagine quei luoghi abitati anche solamente da una singola persona e quelle realtà in cui seppur oggetto di interventi di recupero legati ad eventi temporanei (come sagre, attività culturali e commerciali, etc.) non sono riscontrabili situazioni di natura prettamente residenziale. 3 I centodieci paesi abbandonati oggetto di confronto e valutazione sono il risultato di una selezione relativa a una casistica più ampia, in cui l’esclusione di alcuni casi è stata indotta, più che dalla constatazione della presenza di abitanti stanziali, dalla difficoltà nel reperimento d’informazioni verificabili e dai limiti della ricerca riconducibili alla vastità dell’area in analisi. Alla luce di ciò si può dichiarare con fondatezza la presenza di un numero maggiore di realtà disabitate rispetto a quello riportato; il lavoro presentato, difatti, si inquadra in un percorso di ricerca tuttora in aggiornamento ed evoluzione. Luca Di Figlia
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La ricerca ha fornito una visione d’insieme esaustiva del fenomeno, del quale si può apprezzare le fondamentali e principali caratteristiche, mediante il confronto comparativo delle seguenti categorie: Localizzazione geografica (regione d’appartenenza; Figura 2); Localizzazione territoriale (crinale, controcrinale, fondovalle, pianura e area costiera); Tipologia urbana (nucleo abitato, borgo e paese); Impianto urbano (struttura del tessuto urbano: lineare, parallelo, centrale/radiale, arroccato); Modalità di connessione (accessibilità al sito: carrabile o pedonale); Periodo di abbandono (Figura 3); Causa dell’abbandono (l’evento che ha scaturito l’abbandono del paese, distinto tra eventi naturali: terremoto, alluvione, frana ed eventi non naturali: costruzione d’opere di pubblica utilità, emigrazione, dichiarazione d’inagibilità, eventi bellici; Figura 3).
Figura 2. L’istogramma riporta il numero dei paesi abbandonati presenti in ciascuna regione d’Italia. Dai dati emersi si evince che, nel quadro generalizzato del territorio nazionale, vi sono delle aree e delle regioni maggiormente colpite dal fenomeno dello spopolamento: • •
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il territorio calabrese dell’Aspromonte, che è stato soggetto ad un significativo fenomeno di abbandono, dovuto all’instabilità geologica del suolo, a fenomeni naturali catastrofici ed alla difficoltà e alle problematiche legate a una situazione di povertà ed isolamento; le aree montane sono state soggette ad intensi fenomeni di emigrazione, che hanno determinato l’abbandono di intere località, tra queste, seppur geograficamente distinte e lontane, si annoverano le aree dell’Appennino tosco-emiliano, dell’entroterra ligure e dell’entroterra abruzzese. In queste zone progressivamente dagli anni Cinquanta e fino agli anni Ottanta le persone che vivevano in piccoli villaggi montani, hanno lasciato il proprio luogo nativo per raggiungere aree industrializzate nella speranza di ottenere maggiori sicurezze economiche; i paesi della Valle del Belice, il cui abbandono e la successiva ricostruzione è stata causata dal terremoto del 1968; i villaggi agricoli della Sicilia, che costruiti a partire dagli anni Trenta per favorire lo sviluppo agricolo furano abitati per poche decine di anni; i villaggi minerari della Sardegna, che, fondati in funzione della produzione estrattiva, al cessare dell’attività mineraria (in mancanza di una fonte economica alternativa) sono stati progressivamente spopolati.
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Figura 3. I diagrammi mostrano il periodo e la causa dell’abbandono. In riferimento alla causa, è possibile rileggere il fenomeno mediante un punto di vista meno analitico e più percettivo in relazione alle dinamiche sociali ed antropologiche che hanno spinto all’abbandono di una determinata località. Secondo tale interpretazione possono essere distinte due categorie: abbandono per cause interne alla comunità e abbandono per cause esterne alla comunità. Possono essere inseriti nella prima, tutti quei processi di spopolamento – soprattutto quelli afferenti alle aree montane – le cui dinamiche sociali ed economiche interne al singolo contesto urbano, che, seppur correlate a condizioni riferibili ad un quadro territoriale più vasto, sono vincolate alla volontà delle singole comunità. La popolazione, a causa di condizioni estremamente disagevoli del vivere quotidiano, si trasferisce in altre aree. Tale atto è conseguenza del sistema economico e sociale su cui si regge la vita comunitaria che (o perché troppo debole o perché troppo piccolo) non riesce ad evolversi, ad adattarsi ed a far fronte alle continue problematiche contingenti. In questi casi uno degli elementi fondamentali che determina i processi migratori, non è una situazione oggettiva di povertà o di isolamento, ma la sua percezione a livello collettivo ed il prospettarsi, in altri luoghi, di una possibilità di cambiamento che assicura potenzialmente nuove prospettive individuali o familiari di miglioramento delle condizioni di vita. A questa casistica si riferiscono i paesi abbandonati a causa dell’emigrazione, ma anche alcuni casi di paesi abbandonati per causa naturale. L’evento naturale distruttivo, infatti, non determina, talvolta, uno stato oggettivo d’inagibilità (e quindi direttamente la scelta da parte della popolazione di abbandonare il centro urbano), ma accelera drasticamente un processo già avviato di spopolamento, evidenziando la debolezza del sistema insediativo. L’evento catastrofico diventa il pretesto e la giustificazione morale che spinge la comunità all’atto concreto e definitivo di abbandono. Nella seconda categoria, invece, possono essere inseriti tutti quei paesi in cui un evento esterno di forte impatto fisico e sociale o una decisione politica esterna alle dinamiche di vita della popolazione, ha obbligato forzatamente all’abbandono dell’abitato, portando con sé un’unica possibilità di scelta o una situazione
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oggettivamente irrimediabile. L’abbandono è, così, percepito da parte della comunità – o almeno da gran parte di essa – come un’imposizione esterna autoritaria e, quindi, accettata con molta difficoltà, o non accettata affatto. In molti di questi casi all’abbandono segue un processo di trasferimento e ricostruzione del centro urbano, indotto da un’oggettiva impraticabilità delle strutture abitative, da una volontà istituzionale e da un parere tecnico, strettamente connesso a molteplici dinamiche in cui giocano un ruolo fondamentale gli attori esterni. La rifondazione comporta il sorgere di nuove opportunità di sviluppo e di investimento e di interessi di carattere economico, legati allo stanziamento straordinario di finanziamenti pubblici, conseguente alla dichiarazione dello stato di emergenza. Il passaggio dal vecchio al nuovo insediamento comporta, tuttavia, se analizzato strettamente dal punto di vista della comunità insediata, dei processi di adattamento difficili, dovuti alla mancanza di relazioni ed identità che caratterizza il nuovo centro, costruito ex-novo e privo di storia. A questa tipologia si riferiscono i paesi abbandonati per causa di costruzione di opere di pubblica utilità, eventi bellici e dichiarazione di inagibilità e la gran parte dei paesi abbandonati per cause naturali. In tutti i casi, infine, emerge un elemento comune: l’atto dell’abbandono è da considerarsi una scelta “estrema”, conseguente ad eventi straordinari ed a significativi cambiamenti sociali, che hanno indotto gli abitanti ad allontanarsi definitivamente dai propri luoghi ed a segnare, così, una profonda cesura nella storia dell’antropizzazione di un territorio.
Analisi qualitativa: il senso dei luoghi Il paese, una volta disabitato, perde la sua fondamentale ragione d’essere, cioè quella di luogo atto allo svolgimento delle attività umane, viene svuotato del suo principale significato, diventa un involucro senza contenuto ed è privato del valore funzionale per cui è stato concepito. Tuttavia, in base alle testimonianze ed ai documenti raccolti, si può con decisione affermare che al momento in cui l’insediamento perde tale significato, ne acquisisce uno nuovo: il paese disabitato muta – poco prima, durante e dopo l’abbandono – l’immagine e la valenza che fino ad allora gli erano state attribuite, intraprendendo un processo di rinnovamento e di mutazione di senso. I borghi disabitati possono essere reinterpretati mediante nuove chiavi di lettura, essi acquistano: •
un significato identitario legato alla memoria del luogo: ogni centro abitato è il frutto formale della stratificazione dei processi umani, delle conseguenti trasformazioni urbanistiche e degli accadimenti storici, che in esso si sono susseguiti nel corso del tempo. Essendo uno spazio vissuto, su di esso vengono proiettate qualità e significati di natura emotiva ed affettiva. Ne scaturisce un processo che lega radicalmente una comunità al proprio luogo. Tale legame permane anche nei paesi abbandonati pur non essendovi più un rapporto fisico diretto tra l’uomo e luogo. Anzi, l’appartenenza mentale al luogo abbandonato diviene ancora più intensa e più forte, in quanto ad esso vanno conferendosi significati simbolici e sentimenti nostalgici, che lo proiettano verso un’interpretazione figurativa, soggetta a mitizzazioni ed enfatizzazioni, di un passato che, oramai, non può più tornare. Il paese disabitato, fermo ed immutabile nel tempo, diventa la trasposizione di un ricordo materico della sua stessa storia 4; un significato legato ad un modello di vita passato: i paesi fantasma raccontano di un tempo non lontano, ancora presente nella memoria collettiva. Questi non hanno subito alcun sviluppo o cambiamento urbano dal momento dell’abbandono, sono rimasti immobili ed immutati nel tempo. Essi rappresentano insediamenti non coinvolti nel processo di modernizzazione, industrializzazione e di urbanizzazione massiccia, a cui sono stati soggetti gran parte dei centri urbani italiani nel XX secolo. Sono luoghi che rispecchiano, nell’immaginario collettivo popolare, la vita di un tempo passato, legata al rispetto della natura ed a ritmi di vita meno frenetici. Simbolicamente possono essere posti in antitesi al modello della città moderna; il fascino delle rovine: gli edifici ed il tessuto viario del paese abbandonato – lasciato all’incuria, allo scorrere del tempo ed all’oblio– si presentano in uno stato di rovina e di evidente degrado. L’atmosfera rarefatta che si viene a creare in questi luoghi racchiude una sorta di sacralità legata al tempo che si è fermato, al richiamo evocativo tipico delle rovine, all’incompiutezza e alla fugacità dell’attività umana.
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In definitiva, i paesi disabitati hanno perso la loro funzione del vivere, sono abbandonati, ma non sono dimenticati; trovano nel passato il loro presente e non ricordano il domani, divenendo, così, dei luoghi nella memoria.
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Ciò è evidente nei paesi abbandonati e rifondati, in cui la comunità percepisce il nuovo centro urbano come anonimo e non rappresentativo, mentre si sente legata al vecchio centro, ricco di storia, di tradizione e di memoria.
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Possibili scenari di rivitalizzazione Il paese abbandonato, oltre a rappresentare un luogo di interesse emotivo e culturale, costituisce anche una concreta risorsa nel territorio. I borghi disabitati presentano un tessuto urbano tipico dei centri medievali, della città storica e “multistratificata”, cioè di quei complessi urbani dove è facilmente riconoscibile lo sviluppo organico dell’edificato privo della congestione spaziale indotta dall’espansione urbanistica degli anni Sessanta. Gli edifici stessi possono essere considerati di pregio storico ed architettonico, in quanto sono rimasti invariati rispetto alla condizione originaria, in conformità con la tradizione costruttiva locale. Altro elemento di peculiarità e ricchezza, che caratterizza gran parte delle località spopolate, è il fatto di essere localizzate in scenari naturali e paesaggistici in gran parte incontaminati. La presenza della componente naturale diviene un valore aggiunto nel considerare tali luoghi una risorsa territoriale. E’ interessante considerare, che gran parte delle caratteristiche – come l’isolamento e la lontananza da centri industriali, il decentramento rispetto a sistemi economici industrializzati, etc.– che sono state un tempo tra i fattori determinanti che hanno portato all’abbandono di queste località, adesso possono essere valutati come elementi qualificanti per il recupero delle stesse. Questo fatto evidenzia come, nell’arco di pochi anni, si sia verificato un cambiamento di mentalità, un’evoluzione culturale che ha portato a una maggiore attenzione alle problematiche ambientali, culturali ed alla riscoperta delle tradizioni. E’ proprio su tale processo evolutivo che si deve fondare un progetto di rivalorizzazione culturale ed in seguito anche materiale dei paesi fantasma. La rivalorizzazione può essere intrapresa mediante due percorsi: •
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valorizzazione culturale: instaurando un interesse oggettivo sul singolo paese abbandonato ed organizzandovi delle iniziative culturali, in modo da coinvolgere nel contesto territoriale i possibili attori interessati a tale processo – attraverso una rete di contatti e di relazioni – come le amministrazioni locali, i gruppi associativi e quelle persone legate direttamente o indirettamente al paese abbandonato (i vecchi abitanti o i loro discendenti). Possono essere programmate una serie di attività – in base alle risorse umane presenti nel territorio – da svolgere nel paese disabitato, utilizzato come scenografia e luogo d’incontro per spettacoli teatrali, conferenze, laboratori, sagre, manifestazioni, visite guidate e percorsi turistici. Tutto questo per incentivare il maggior numero di persone a rapportarsi ed a riscoprire il singolo centro abbandonato, innescando quindi una serie di processi sociali e culturali atti alla divulgazione ed alla sensibilizzazione; valorizzazione amministrativa: definendo, sotto il profilo amministrativo, nell’attività legislativa comunale, provinciale e regionale – soprattutto in quei territori in cui la presenza di località disabitate è maggiore – il concetto di “paese abbandonato” ed attribuendo a tale soggetto una specifica identità giuridica; reperendo delle linee guida di interventi atti alla tutela ed al recupero nei piani di programmazione territoriale e paesistica; stimolando l’attenzione da parte della Soprintendenza ai Beni Storici, Artistici e Paesaggistici, affinché lo specifico paese abbandonato possa essere sottoposto ai relativi vincoli, in modo da potergli attribuire lo status di “bene di interesse pubblico”.
Il processo di recupero del singolo paese abbandonato, implica variabili e fattori più complessi, ma, comunque deve tener conto del valore architettonico, urbano e collettivo che questo rappresenta. E’ fondamentale, quindi, che qualsiasi progetto di riqualificazione possa essere realizzato ma nel rispetto del contesto dato e dell’ambiente naturale, perseguendo i principi di sostenibilità e conservazione architettonica, in conformità al valore culturale e alla normativa vigente. In riferimento ai possibili interventi ed a esperienze già messe in essere, possono essere individuati due potenziali scenari, distinti sulla base degli attori coinvolti nell’attuazione del progetto di rivitalizzazione: •
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progetto privato: quando il processo di recupero è attuato da singoli privati o singole gruppi; in tal caso questo esula da un coinvolgimento attivo da parte della comunità locale o dei precedenti abitanti. Il paese abbandonato viene acquistato e gestito da un singolo attore, che ne diventa unico proprietario. Questa condizione si riferisce ai casi in cui il centro abbandonato viene convertito in una struttura di case per vacanze, in un agriturismo, in un paese albergo o in un ecovillaggio; progetto condiviso: quando il processo di recupero convoglia attorno a sé diversi attori: enti pubblici, comunità locale, privati, aziende private e precedenti abitanti. In questo caso il processo è più complesso e prevede la rinascita del borgo attraverso dinamiche partecipative, che creino attraverso la condivisione di temi comuni un progetto che garantisca il soddisfacimento sia delle esigenze della comunità locale sia di interessi privati. È fondamentale in tal caso la vicinanza – sia fisica sia culturale – del paese abbandonato ad un centro abitato e la possibilità di recepire nel territorio la presenza di risorse umane, realtà associative e private favorevoli alla condivisione di tale progetto. Questo è il caso in cui il centro urbano può essere convertito in un parco-museo o in un albergo diffuso. La rinascita del borgo si basa sulla possibilità di attuare uno sviluppo turistico nel territorio e per realizzare questo scopo il progetto deve essere inserito in un
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quadro di crescita più ampio, non limitato alla singola realtà locale, a tal fine può essere preso come modello di riferimento quello dell’urbsturismo 5. Il processo dovrà prevedere, dopo gli opportuni lavori di recupero delle strutture e gli edifici, l’attivazione di una nuova antropizzazione e di un percorso che porti all’inserimento nel centro urbano di attività – artigianali, turistiche, alberghiere, di ristoro – in linea con un possibile modello che persegua le linee guida dei principi dell’ospitalità diffusa, in modo da sviluppare le economie locali e da valorizzare le ricchezze del territorio. Il recupero di un insediamento disabitato determina un’inversione di tendenza culturale pari a quella stessa che ne ha determinato l’abbandono. In ogni caso, al di là di qualsiasi virtuosa prospettiva di riqualificazione, è significativo sottolineare l’importanza che risiede nell’attribuzione a queste realtà di un nuovo il senso, che significa dar valore alla memoria, alla storia ed alla cultura di tali luoghi e corrisponde a riconoscere dignità alla vita delle persone che un tempo vi abitavano e di chi, adesso, rimane ancora inscindibilmente legato ad essi. Solo attraverso l’attribuzione di un nuovo significato, i paesi abbandonati possono acquisire una nuova funzione, un nuovo utilizzo nel territorio e per il territorio.
Bibliografia Assunto R. (1984), La città di Anfione e la città di Prometeo: Idea e poetiche della città, Jaca book, Milano. Augè M. (2000), Le forme dell’oblio, Il saggiatore, Milano. Camassi R. (2004), I paesi abbandonati, in: Parametro. Rivista Internazionale di Architettura e Urbanistica, n. 34. Cassi L., Meini M. (a cura di, 2003), “L'immigrazione in carte. Per un'analisi a scala regionale dell'Italia”, in Geotema, n.16. Colonna A., Lavecchia M., Marino F. (2000), Rete Recupero Urbsturismo, F. Angeli Editore, Milano. Dall’Ara G., Esposto M. (a cura di, 2005), Il fenomeno degli alberghi diffusi in Italia, Palladino, Campobasso. Oddo M. (2003), Gibellina la nuova: attraverso la città di transizione, Testo&Immagine, Torino. Teti V. (2004), Il senso dei luoghi: paesi abbandonati di Calabria, Donzelli Editore, Roma.
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Tendendo a esaltare le caratteristiche locali l’urbsturismo propone un recupero del patrimonio territoriale ed architettonico attraverso l’innovazione tecnologica, in un quadro di sviluppo sostenibile che ha come fulcro il turismo, facendo propri i principi di recupero dell’esistente, l’ecologia, l’energia sostenibile, la cultura del benessere ed i cui risultati sono programmaticamente attesi nel lungo periodo. Il modello urbsturistico è strutturato su tre componenti chiave – da cui prende il nome il progetto di ricerca redatto, con fondi europei, dal Dipartimento Cultura e Formazione e dall’Università della Basilicata – Rete, Recupero e Urbsturismo, che diventano al tempo stesso concetti e strumenti per instaurare un piano di sviluppo turistico. La sua peculiarità è di coinvolgere realtà minori che sul mercato singolarmente risulterebbero a livello concorrenziale deboli ed inadeguate.
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Nuovi paradigmi per un governo eco-sostenibile del territorio
Nuovi paradigmi per un governo eco-sostenibile del territorio Maria Sapone Email: maria.sapone@unirc.it Domenico Passarelli Email: domenico.passarelli@unirc.it Università Mediterranea di Reggio Calabria Dipartimento PAU Tel/fax 096.5809536
Abstract Negli ultimi anni si parla sempre più delle criticità che affliggono la città, determinate anche da una politica basata sullo sfruttamento delle risorse non rinnovabili. Oggi c’è la necessità di rispondere a nuove esigenze attraverso il rinnovamento dei modelli di gestione e governo del territorio, attribuendo alla dimensione ambientale, socio- economica e culturale quella trasversalità rispetto alle scelte della pianificazione, che può esser considerata come lo strumento che permette l'approccio integrato tra trasformazioni territoriali e livelli di qualità ambientale. Quindi, per poter parlare di rigenerazione ecologica, bisogna articolare il piano urbanistico sul concetto di sviluppo sostenibile, costituendo un unico strumento di assetto territoriale che sia “sommatoria” di tutte le valenze settoriali. Questo determina l'approfondimento del concetto di potenziale ambientale, quale indicatore fondamentale degli impatti reali e potenziali sulla città, analizzando le diverse sfere che costituiscono la complessità dell’organismo, individuando le regole e le modalità per recuperare gli squilibri potenziali.
L’integrazione della sostenibilità energetica nel piano urbanistico Dagli anni ’80 in poi stiamo assistendo a una profonda crisi della città. Questo fenomeno è dovuto principalmente alla perdita dei valori, e di conseguenza alle criticità che affliggono il sistema urbano-territoriale, mettendo in evidenza come, oggi più che mai, c’è la necessità di un rinnovamento dei contenuti legati alle esigenze sociali, culturali, dell’abitare e alle nuove condizioni ambientali. Di conseguenza ci si è resi conto che la disciplina urbanistica dovrebbe ricoprire un ruolo primario, affrontando le tante criticità della società, ponendosi come obiettivo quello del perseguimento della sostenibilità evitando il consumo delle risorse non riproducibili. Quanto detto ci porta a pensare come la forte dipendenza dei sistemi attuali dalle fonti fossili, quali fonti limitate nel tempo, oltre a rappresentare il primo fattore di impatto sui cambiamenti climatici e sull'ambiente, rappresenta un limite per lo sviluppo economico locale incidendo sulla qualità della vita. Ciò ha spinto negli anni i governi a cooperare per definire strategie di sviluppo energetico basate sulla produzione diffusa di energia da fonti rinnovabili al fine di ridurre le emissioni di gas climalteranti. A livello locale, il perseguimento e l'attuazione concreta dello sviluppo sostenibile ha richiesto sempre più la ridefinizione di percorsi di pianificazione mirati a sviluppare modelli sostenibili, funzionali alle reali esigenze dei territori ed in grado di trovare in questi le risorse disponibili per far fronte ai fabbisogni delle Comunità Locali. Per raggiungere tale obiettivo è importante che ci sia alla base un rinnovamento nei modelli di gestione e governo del territorio. Non basta trattare le diverse risorse solo a livello settoriale, ma bisogna che queste facciano parte integrante dello strumento urbanistico. Grazie a quest’ultimo si potranno individuare le potenzialità presenti sul territorio, incentrando lo sviluppo di un sistema ecosostenibile, dando degli indirizzi di
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utilizzazione di tali risorse per ciò che esiste già sul territorio e ciò che verrà realizzato attraverso le trasformazioni che l'organismo si presta ad accogliere. Perchè ciò avvenga bisogna strutturare il piano comunale secondo criteri di sostenibilità, con un approccio capace di accogliere e veicolare le proposte e i suggerimenti dei portatori di interesse, integrandoli nelle strategie di pianificazione locale e nelle azioni di sviluppo sostenibile. A seguito di ciò sarà necessario delineare un orizzonte di intervento che comprenda azioni per favorire lo sviluppo delle fonti rinnovabili, nonché per sensibilizzare gli utenti all’uso razionale dell’energia e adeguare il piano ai principi del consumo intelligente e sostenibile delle diverse risorse. Questo ci porta a pensare come la formazione di un nuovo strumento urbanistico non può prescindere dalla conoscenza dei principali sistemi che influenzano i processi di trasformazione dell'organismo città/territorio e che vengono rappresentati dal sistema ambientale, insediativo e ambientale. Considerata l'importanza della fase di raccolta dati, è evidente che l'indagine non deve esser limitata al solo aspetto del fabbisogno energetico del territorio, ma deve includere tutte le informazioni utili a delineare un quadro conoscitivo completo del territorio in esame. Inoltre è importante che le basi conoscitive su cui si vogliono configurare i contenuti dello strumento urbanistico, utile alla valutazione e all’indirizzo della pianificazione territoriale e urbana, siano relazionate con le criticità e le risorse presenti sul territorio e soggetti alla trasformazione. La conoscenza della realtà ci guida verso un’organica rappresentazione e valutazione dello stato del territorio e dei processi evolutivi che lo caratterizzano, rappresentando il riferimento necessario per la definizione degli obiettivi e dei contenuti del Piano, per la Valutazione e per il Monitoraggio della sua attuazione. La sostenibilità energetica, dunque, muovendosi su piani diversi, permea e si integra progressivamente alle azioni del piano. Gran parte delle scelte, per l'ambiente, i trasporti e la qualità diffusa, riflettono la fondamentale prospettiva di vedere realizzata la qualità urbana e territoriale dovendo trovare corretto riscontro anche negli strumenti di dettaglio e nelle procedure di regolamentazione urbanistica. Tutto ciò si concretizza nella riqualificazione del patrimonio edilizio esistente all'insegna del risparmio energetico, nella realizzazione di nuovi edifici caratterizzati da elevate prestazioni in termini di efficienza energetica e di benessere, nell'integrazione in ambito urbano di fonti energetiche rinnovabili e il ripensamento della mobilità in termini sostenibili, anche privilegiando il trasporto pubblico a fronte di quello privato. L’obiettivo è quello di integrare l'energia nelle linee guida del PSC, al fine di orientare i processi di trasformazione e riqualificazione urbana tesi alla riduzione dei consumi energetici e delle corrispondenti emissioni climalteranti. Il Piano dovrà creare l'opportunità di applicare le tecnologie per l'utilizzo delle energie rinnovabili, attraverso l’integrazione di strumenti normativi (a partire dal REU) per l’applicazione su larga scala delle fonti energetiche, introducendo indici prestazionali specifici per la promozione delle energie rinnovabili. Infatti, l’obiettivo che dovrebbe permeare il REU è rappresentato dal miglioramento della qualità diffusa, urbana e ambientale del territorio comunale; focalizzando l'attenzione sui principi che orientano la trasformazione dello spazio pubblico, attraverso scelte cardine su cui impostare nuove strategie di trasformazione urbana ed edilizia tra cui incentivazione degli interventi urbanistici ed edilizi che perseguono l'efficienza energetica, risparmio delle risorse idriche, permeabilità dei suoli e la cura del verde. L'aspetto fondamentale è che il REU non tratti la sostenibilità esclusivamente dal punto di vista del raggiungimento dell'efficienza energetica rapportato al settore edilizio, ma è importante che questo dia delle indicazioni ben precise su tutti i sistemi (mobilità, insediativo, ambientale, economico, ecc.) che costituiscono la realtà territoriale, consentendoci di raggiungere la sostenibilità energetica dell'intero organismo. Un passo fondamentale per implementare le fonti rinnovabili, e ancor più l’efficienza energetica, è l’utilizzo di materiali compatibili, disciplinando le trasformazioni secondo criteri di sostenibilità ambientale, eco-efficienza energetica, incentivando il risparmio e l’uso razionale delle risorse primarie, la riduzione dei consumi energetici e l’utilizzo di energie rinnovabili. Quanto detto, ci fa capire come le indicazioni politiche di carattere energetico ed ambientale dovrebbero convergere in una unica direzione al fine del territorio. La strada da percorrere per il raggiungimento di tali obiettivi è da ricercarsi in una corretta gestione del territorio che individui gli imput necessari per promuovere l’efficienza energetica e la sua conservazione. La possibilità di effettuare interventi agendo sui “flussi energetici” che interessano la città, modificandone ed adattandone la “sorgente” può rappresentare una opportunità in grado di consentire una riqualificazione ambientale della città. In tutto questo le caratteristiche dell'insediamento ricoprono un ruolo di fondamentale importanza, in quanto grazie ad alcuni aspetti, si possono diminuire tutti quei fattori che incidono sulla sostenibilità. Da studi effettuati 1 è stato dimostrato come i processi dell'insediamento disperso generino maggiori costi ambientali, sociali e finanziari rispetto alle tradizionali forme accentrate, rappresentando un limite allo sviluppo sostenibile del territorio. Gli effetti prodotti dalla dispersione insediativa possono tramutarsi in maggiori consumi energetici per l’ambiente urbano. Per esempio il sistema dei trasporti è strettamente collegato al fattore densità insediativa, rappresentando uno dei punti critici energetici legato alla dispersione urbana. Questo è dovuto al fatto che alle 1
Approfondimenti a tal senso sono stati curati nella dissertazione di Ricerca in Pianificazione Territoriale dal titolo “L’energia come paradigma della pianificazione integrata e sostenibile”.
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lunghe distanze, e all'utilizzo dell'automobile privata che caratterizzano i trasporti dell'insediamento disperso, corrispondono maggiori consumi rispetto a quelli dell'insediamento concentrato. Questo ci fa capire come l'utilizzo dell'automobile o dei mezzi pubblici sono determinati da fattori fisico-territoriali relativi all'uso del suolo e alle caratteristiche delle infrastrutture di trasporto. Un altro aspetto importante è rappresentato dal perseguimento del mix funzionale delle diverse aree urbane esistenti, sempre in un’ottica di riequilibrio, invertendo la tendenza alla specializzazione funzionale fino ad oggi perseguita, distinguendo tra densità abitativa relativa alle residenze e densità di altro tipo, orientando gli spostamenti verso l'utilizzo de mezzi pubblici e permettendo allo stesso tempo, le percorrenze alternative a piedi e in bicicletta. In quest'ottica, le diverse porzioni di territorio dovrebbero esser considerate delle "microcittà", per le quali il piano dovrebbe assumere un ingrediente strategico del progetto strutturale, andando a individuare interventi specifici, volti a migliorare l'abitabilità di questi luoghi, mettendo in evidenza come il piano dovrebbe esser in grado di corrispondere energeticamente alle esigenze e ai fabbisogni che la società locale esprime.
L’impronta ecologica per lo sviluppo del territorio montano La determinazione di azioni e progetti tesi a riqualificare le aree montane e i sistemi insediativi e naturalisticiambientali che le compongono, richiede l’identificazione delle principali problematiche relative a tali contesti e alle possibili direttrici di sviluppo eco-sostenibile già intraprese o ancora da intraprendere. Tali temi, soprattutto in questi ultimi anni, registrano una crescente attenzione ed un diverso grado d’approfondimento. Un’analisi critica degli effetti prodotti sugli elementi socio-economici e territoriali, che i principali strumenti messi in atto e le diverse modalità d’intervento attivate hanno determinato, riguardo alle aree montane ed ai contesti rurali, potrà fornire un quadro strategico operativo sul quale proiettare forme innovative d’intervento sui sistemi insediativi e naturalistico-ambientali che costituiscono i territori montani. Le considerazioni che seguono gerivano da una ricerca 2, avente come obiettivo la realizzazione di una rete di ecovillaggi nel territorio della Comunità montana Reventino Tiriolo Mancuso, in provincia di Catanzaro ed è stata condotta attraverso una metodologia flessibile, multidisciplinare ed integrata, e si avvale di diverse competenze specialistiche, per poter analizzare concretamente l’eventuale opportunità della creazione di una rete di ecovillaggi in un ambito territoriale ben preciso. Spesso si tratta di aree naturali che insistono su ambiti territoriali “marginali” rispetto alle dinamiche di sviluppo economico; nella maggior parte dei casi, tale marginalità ha contribuito a preservare la loro integrità rischiando, allo stesso tempo, di far “deperire” luoghi, culture locali e risorse. L’obiettivo prefissato riguarda l’individuazione di strategie di riqualificazione e di sviluppo del patrimonio naturale ed antropico in termini complessivi; tali relazioni assumono particolare rilievo nel caso di azioni svolte all’esterno delle aree naturali protette, ma in contesti ecologicamente sostenibili, le quali potrebbero alterare i delicati equilibri pertinenti l’ambiente naturale. Ovviamente focus della ricerca è la predisposizione di un modello territoriale, avente caratteristiche ben precise, che può essere implementato in qualsiasi contesto locale con determinate qualità ambientali, sociali ed economiche. Il principio su cui si basano gli ecovillaggi è quello dello sviluppo sostenibile dell’organismo territoriale, salvaguardando e allo stesso tempo valorizzando le risorse ambientali ed antropiche che caratterizzano il sistema, queste comunità si distinguono per delle caratteristiche base che possono essere sintetizzate attraverso le seguenti parole chiave (key-words): il principio del consenso; l’autosufficienza agricola e l’agricoltura biologica; la produzione agricola diversificata-la permacultura; il risparmio energetico; la biodiversità; la bioedilizia; lo sviluppo sostenibile; la crescita culturale; razionalizzazione del sistema di trasporti; economia sostenibile; Tali key-words sono molto importanti all’interno del territorio dell’eco-villaggio in quanto sono da considerarsi come le caratteristiche basilari per la creazione di nuove comunità ecologiche e perciò dovranno essere prese in seria considerazione, nelle loro specificità individuali, nella individuazione e perimetrazione di nuovi territori e comunità sostenibili. La localizzazione di una rete di eco-villaggi, data la loro natura, aumenterà la razionalizzazione dell’uso del suolo, attraverso un’agricoltura basata sulla naturale fertilità del terreno; limiterà gli sprechi di risorse e determinerà un innalzamento del risparmio energetico ed uno sviluppo dell’uso di fonti energetiche rinnovabili. Dagli studi effettuati si evince come i sempre maggiori deficit ecologici sono spesso legati a un aumento del consumo di energia da combustibili fossili e di conseguenza all’aumento di CO2 nell’atmosfera, a un esaurimento delle risorse non rinnovabili e a un aumento dei rischi ecologici. Questo comporta un incremento dell’Impronta ecologica totale del territorio. Per ovviare a questo problema si dovrebbe puntare su scelte
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Coordinatore scientifico Prof. Domenico Passarelli, Realizzazione di una rete di ecovillaggi per il territorio montano calabrese, Dipartimento DSAT, Regione Calabria 2007
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energetiche a lungo termine rappresentate dalle fonti energetiche rinnovabili presenti sul territorio. Per raggiungere tale obiettivo è importante adottare delle misure specifiche quali: • migliorare l’efficienza energetica in ogni stadio del ciclo di vita dell’energia dalla produzione al consumo del bene; • adottare tecnologie energetiche basate sull’impiego di biomasse, eolico, solare, ecc. per sostituire l’energia da combustibile fossile. Le argomentazioni esposte suggeriscono l’attivazione di nuove forme di co-pianificazione e partecipazione al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile in una visione integrata dello spazio territoriale sulla base di principi di sussidiarietà e coesione. In tal modo si rafforza la necessità di operare attraverso strumenti integrati, al fine di giungere all’individuazione del miglior uso potenziale del territorio, ricercando il coordinamento delle azioni necessarie da attuare per la valorizzazione e la tutela delle sue risorse, secondo la migliore e consolidata tradizione della pianificazione internazionale, basata prevalentemente su una “pianificazione ecologica” , fondata sull’organizzazione di attività, esigenze e risorse in relazione ai sistemi biofisici e socio-culturali di un ambito territoriale. Gli strumenti che possono integrare la costruzione di un piano, finalizzato alla realizzazione di una rete di eco villaggi, sono molteplici. Per poter analizzare l’impatto che le scelte operate determinano sull’ambiente, il sistema di ecogestione ed audit (EMAS), gli indicatori comuni europei 3, l’impronta ecologica, sono solo alcuni di essi e vanno, tutti, verso la direzione tracciata nella relazione sulle città europee sostenibili, che vede nella gestione e nella cooperazione urbana, la strategia da seguire per assicurare continuità alle politiche di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni, puntando su strategie di recupero e riqualificazione dell’ambiente costruito e, allo stesso tempo, promuovere lo sviluppo di forme di edilizia sostenibile per i nuovi interventi, incentivando le relative integrazioni nei Regolamenti edilizi ed urbanistici. In particolar modo, parte preponderante della ricerca ha interessato la valutazione ambientale delle azioni di progettazione e trasformazione del territorio, a tal fine si è ritenuto di utilizzare quale strumento valutativo quello dell’impronta ecologica che permette maggiormente anche ad un pubblico non esperto, a cui è anche rivolta la ricerca, la visualizzazione intuitiva dei risultati attesi e/o ottenibili. L’Impronta Ecologica è un indicatore sintetico di sostenibilità ambientale proposto da W.Rees e M.Wackernagel agli inizi degli anni novanta. Esso stima l’impatto che una data popolazione, attraverso i propri consumi, esercita su una certa area, quantificando la superficie totale di ecosistemi ecologicamente produttivi (terrestri ed acquatici) che è necessaria per fornire, in modo sostenibile, tutte le risorse utilizzate e per assorbire, sempre in modo sostenibile, tutte le emissioni prodotte. Per la sua caratteristica di integrazione e la sua capacità di creare consapevolezza questa tipologia di valutazione è stata inserita nel set degli Indicatori Comuni Europei come 11° indicatore, una sorta di “indicatore ad ombrello” a complemento dei dieci indicatori adottati. Il calcolo dell’Impronta Ecologica parte dai consumi medi di beni e servizi economici della popolazione, e ricava quanti servizi naturali sono stati utilizzati per la produzione di quel bene o servizio economico, calcolando l’estensione di territorio che garantisce il relativo apporto di risorse per il consumo e/o per l’assorbimento delle emissioni. Riprendendo la classificazione proposta dall’Unione Mondiale per la Conservazione, sono state distinte sei differenti categorie di territorio biologicamente produttivo in base all’utilizzo che ne viene fatto: terreno agricolo; pascoli; foreste; mare; superficie urbanizzata; territorio per l’energia. Alla base del calcolo dell’Impronta Ecologica c’è la conversione delle categorie di consumi che generano impatto in categorie di territorio ecologicamente produttivo che sono necessarie per fornire le risorse utilizzate, mettendo in evidenza come nei calcoli dell’impronta ecologica sia insito il concetto di sviluppo sostenibile che riguarda le diverse sfere che costituiscono la realtà territoriale. Per il calcolo della superficie agricola necessaria per il consumo di una categoria di consumo, ad esempio “pane, grissini e cracker” si è proceduto in questo modo: territorio agricolo = 2,3688 · consumo medio mensile pro-capite di pane, grissini e crackers Dove 2,3688 è il coefficiente di calcolo fornito da Wackernagel e rappresenta, in mq, l’impronta ecologica associabile al consumo di 1 kg di pane, grissini e crackers. Tale operazione è da effettuare per ognuna delle categorie di consumo, e per ognuna delle componenti dell’impronta ecologica. In conclusione l’obiettivo principale è quello di impostare un nuovo rapporto tra uomo e natura, mettendo in primo piano i valori dell’ambiente, del governo ecologico del territorio e quelli della qualità del paesaggio, a favore del superamento dell’antropocentrismo e di un ritrovato equilibrio tra mondo artificiale e mondo naturale.
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Gli indicatori comuni europei (ICE), forniscono una prospettiva che consente di attivare all’interno dei Piani forme di sensibilizzazione nei confronti delle principali tematiche ambientali. Le singole città possono adeguarli al proprio contesto e/o approfondirli, per renderli maggiormente aderenti e utili al processo di costruzione del piano.
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Nuovi paradigmi per un governo eco-sostenibile del territorio
Bibliografia Libri De Pascali P. (2008), Città ed energia, Franco Angeli. Girard L., Nijkamp P. (2005), Energia, bellezza, partecipazione: la sfida della sostenibiltà. Valutazioni integrate tra conservazione e sviluppo. Franco Angeli. Magnaghi A., Paloscia R. (1992), Per una trasformazione ecologica degli insediamenti. Franco Angeli. Passarelli D. Errigo M., Tucci N. (2007), La realizzazione di una rete di ecovillaggi per il territorio montano calabrese. Samperi. Articoli Cecchini D. (2010), “Esperienze di quartieri sostenibili in Europa”, Urbanistica, 141, pp.42-46. Prosperetti F. (2010), “Quartieri sostenibili e nuovi paesaggi urbani, una opportunità per la città italiana”, Urbanistica, n. 141, pp. 67-70. Palazzo A.L. (2007), “A proposito di sostenibilità e forma urbana, Urbanistica, n. 132, pp. 120-122.
Riconoscimenti Tale contributo viene impreziosito dalla collaborazione del Dottore di Ricerca Nicola Tucci che ha curato in particolar modo il calcolo dell’impronta ecologica.
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Indirizzi e Metodi di Ricomposizione Paesaggistica: La Governance per il Patrimonio
Indirizzi e Metodi di Ricomposizione Paesaggistica: La Governance per il Patrimonio Fabio Converti Seconda Università di Napoli Dipartimento di Cultura del Progetto Email: arch.converti@tin.it Tel. 081.8146433
Abstract Il dibattito europeo si sta aprendo ad un rinnovato interesse intorno alla issue rurale, alle sue dinamiche e implicazioni, questione che risulta sempre più intimamente collegata all’analisi delle caratteristiche del territorio deve oggi possedere per divenire motore di sviluppo endogeno in un contesto sempre più globalizzato, europeizzato e con crescenti esigenze di sostenibilità ambientale, in un’ ottica di sviluppo della multifunzionalità in agricoltura, che diviene particolarmente importante, con un’attenzione verso il turismo rurale ai fini dell’utilizzazione del territorio quale strumento capace di innescare fenomeni di crescita economico-sociale e di conoscenza dell’ambiente inteso quale risorsa storico-culturale.
Campo di ricerca Ripartire dal territorio e dall’analisi puntuale del legame indissolvibile tra le caratteristiche geo-morfologiche dei luoghi, dei modelli insediativi, dei sistemi delle relazioni, dalle specializzazioni produttive, sembra oggi il punto di partenza per rilanciare processi di sviluppo nei quali il “come” non risulti necessariamente sovraordinato al “dove”, ma che sia invece basato su un mix intrinseco di entrambi i concetti. Per sintetizzare una definizione univoca del termine “paesaggio” si potrebbe trovare una gran difficoltà. Il notevole successo del tema e gli sviluppi suggeriti dalle discipline affini nel campo umanistico come in quello scientifico, hanno favorito una proliferazione dei concetti e delle valenze semantiche, che difficilmente possono essere condensati in una sola nozione. Un contributo importante si deve agli studi di ambito geografico, che per loro natura tendono alla sistemazione e alla sintesi delle ricerche nel settore. Uno tra i protagonisti di questi indirizzi, è Lucio Gambi 1, che ha proposto una definizione in termini molto ampi: “con il termine paesaggio intendiamo l’insieme della realtà visibile, o meglio ancora della realtà sensibile, che riveste o compone uno spazio più o meno grande intorno a noi; una realtà materiale, concreta, che si sostanza in forme, o per meglio dire in fattezze sensibili riportabili a forme definite”. I processi sostenibili, in particolare sul patrimonio rurale, comportano momenti e luoghi della crescita e della decrescita, come accadimenti locali nello spazio e nel tempo in un quadro globale di regolazione ordinato alla loro riproducibilità nel futuro. Lo sviluppo sostenibile è dunque regolazione e controllo dei processi con le loro dinamiche evolutive, in un quadro di cambiamento. La crescita (dell’economia) è dunque interna allo sviluppo, al quale non impone i propri paradigmi: non regola ma è regolata dalle leggi e dalle compatibilità dello sviluppo sostenibile. La sostenibilità riguarda in primo luogo i processi produttivi, ma anche le modalità del consumo privato, specie nella sua dimensione di massa, e dei consumi pubblici. Nello sviluppo sostenibile il governo e l’autonomia dei territori vengono messi alla prova in quanto capaci di sostenibilità, anche in funzione di una nozione di competitività territoriale che, se indirizzata alla sostenibilità, capitalizza in primo luogo la qualità sociale ed istituzionale dei territori, i beni comuni e le risorse naturali, proprio perché sono essi i fattori invarianti 1
L. Gambi, “Paesaggio: è ancora Babele?”, in Urbanistica Informazione, XXIII, 136 (1994 p. 63)
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dello sviluppo, quelli che non possono essere ceduti o commerciati, consumati o scambiati per aumentare il l’attrattività del territorio per qualche anno. Non è possibile un buongoverno dei territori senza una loro adeguata conoscenza profonda. La sfida del buongoverno e della sostenibilità è in primo luogo una sfida cognitiva; non si può regolare senza conoscere e quindi discretizzare un ambito così complesso. L’idea di una pluralità di forme collocate in uno spazio è alla base di questa definizione. In effetti, in termini molto generali si registra una notevole convergenza sul principio che il paesaggio possa essere inteso come “forma del territorio”. Pur conservando sensibili differenze tra gli autori e gli orientamenti disciplinari, questa nozione sembra trovare un sostegno condiviso in campo urbanistico, estetico e giuridico. Il paesaggio, rappresentazione del territorio, non costituisce una vera categoria analitica che permette una lettura in termini strettamente scientifici. Esso è un contenitore di miti, sogni, emozioni, che permette di comprendere le contraddizioni e i problemi del nostro tempo. Proprio per queste sue qualità nel campo della rappresentazione del territorio, il paesaggio diventa una componente assolutamente imprescindibile per modificare e/o trasformare il territorio indagato. Anche considerando l’insufficiente considerazione di cui gode oggi nel pubblico la pianificazione urbanistica, è proprio avvalendosi della nozione di paesaggio che si potrebbe promuoverne una migliore immagine. Il geografo genovese Massimo Quaini, ci ricorda che possiamo ri-inventare il piano come “racconto identitario, basato non solo sulla valorizzazione dell’ascolto e della memoria storica dei destinatari, ma anche su nuovi processi di patrimonializzazione”. “La progettazione del territorio comporta, quindi, un approccio conoscitivo dei luoghi, la cui rappresentazione si riferisce a contesti che richiedono strumenti e modalità di rappresentazione adeguati, proprio perché è sempre più forte la volontà di radicare il progetto entro un contesto che è palinsesto, nell’intento di promuoverne la vocazione e l’intima essenza” (Valenti, 2008). Proprio per l'incontrovertibile emergere delle tematiche ecologico-ambientali, per le discipline della rappresentazione emergono importanti questioni, implicando la necessità di ripensare gli strumenti di descrizione e interpretazione dei contesti e di disegno e gestione delle modificazioni. Si nota che nella cartografia recente vi è un chiaro tentativo di come sia “necessario introdurre nei metodi e nella prassi operativa dell’urbanistica, elementi di rappresentazione della conoscenza e di aiuto alla decisione, mirati a descrivere e decodificare il senso delle geografie strutturali dei territori che sono stati modellati dalla storia degli uomini” (Deplano, 1998). Il rapporto tra la disciplina del disegno e l'architettura si è storicamente espresso su diversi piani, alcuni di questi, cristallizzatisi in alcuni specifici momenti della ricerca e del dibattito che ne è seguito, appaiono determinanti per comprendere le possibili innovazioni che costituiscono il portato dell'irrompere della questione ecologica nell'ambito della progettazione architettonica e urbana. Le tecniche di rappresentazione sono state, e ancora lo sono, il principale strumento a sostegno delle pratiche progettuali alle diverse scale di applicazione. Anche le mappe di comunità, sono di particolare interesse, determinando sistemi di narrazione delle relazioni tra persone e luoghi che generano ulteriore conoscenza, consentendo di lavorare in termini formativi ed educativi sul rapporto tra sapere depositato nella conoscenza e nello spazio vissuto dai soggetti della comunità locale e la conoscenza detenuta dai professionisti di varia estrazione che sono chiamati ad intervenire su un ambito territoriale. Ma se costruire una rappresentazione culturale del paesaggio locale significa provare a costruire in maniera partecipata la conoscenza del territorio la lettura e pianificazione di un territorio dovrebbe essere ripensato e riorganizzato attorno ad una multidisciplinarietà trasversale degli attori preposti alla sua interpretazione e ad un sistema partecipativo che trovi nel “capitale sociale” il vero impulso all’azione. La rappresentazione dell’insieme dei simboli e valori che caratterizzano il rapporto esistenziale con la natura, la società devono essere considerati nel loro insieme, in modo da creare una visione unica, integrata della cultura delle comunità che nel territorio insistono. La rappresentazione culturale del paesaggio locale attraverso le mappe di comunità è un processo utile a far emergere i patrimoni locali di un territorio ma rappresentano anche il raggiungimento di un primo grande obiettivo dato da una maggiore e condivisa conoscenza del patrimonio locale, dal lavorare assieme con uno scopo comune.
Metodologia L’identità di un luogo si ripristina con una sapiente opera di rappresentazione della conoscenza, ovvero di discretizzazione e di misura del valori materiali ed immateriali del territorio come tracce appartenenti alla geografia del passato comparate alla geografia del presente” (Gambardella, 2003). Per addivenire ad un metodo per indagare le aree rurali, si è andato a formare pur essendo piuttosto vasto ed articolato, un quadro metodologico, indirizzato all’analisi di due specifiche parti emergenti: il territorio, inteso come campo di ricerca concreto, formatosi attraverso una specifica alternanza di processi naturali e di Fabio Converti
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trasformazioni antropiche indotte dall’uomo, che hanno generato una struttura unitaria caratterizzata da notevoli fattori di complessità. Il paesaggio, inteso come insieme delle parti visibili del territorio, caratterizzato da manifestazioni naturali ed umane che generano un complesso sistema di relazioni tra le forme che lo costituiscono. La spiccata complessità e differenziazione metodologica dei processi di analisi paesaggistica hanno indotto poi alla diversificazione concettuale tra ambiente e paesaggio che, sinteticamente, può essere espressa tramite l’impiego delle seguenti definizioni: l’ambiente è l’insieme delle complesse condizioni economiche, sociali e culturali che caratterizzano un territorio. Il paesaggio è l’espressione più o meno percepibile della realtà spaziale generata dalle complesse condizioni economiche, sociali e culturali che caratterizzano un territorio. Questi approcci differenziati all’analisi paesaggistica, pur derivando da un dibattito disciplinare che non ha ancora prodotto un quadro metodologico di riferimento coerente ed unificato, lasciano tuttavia ampiamente intravedere in quale direzione devono essere indirizzate le analisi conoscitive del paesaggio, verso, cioè, l’utilizzazione interdisciplinare di tutte le conoscenze con il preciso scopo di raggiungere una rappresentazione organica dei complessi rapporti tra l’uomo, la natura e la cultura. Indagare verso questa direzione significa dotarsi concretamente di strumenti di lavoro, la cui acquisizione comporta, per forza di cose, il passare necessariamente attraverso fasi di ricerca e di sperimentazione metodologica. Configurare e articolare in maniera dettagliata cosa si deve intendere per paesaggio, è senz’altro corretto sostenere che tutti gli aspetti e gli elementi che caratterizzano un territorio: rilievi, idrografia, vegetazione, fauna, attività umane (intese come complesso delle manifestazioni culturali, economiche, sociali, ecc.), e le loro interferenze, concorrono alla costituzione delle diverse forme del paesaggio. In relazione a questa definizione, le elaborazioni e le analisi cognitive indirizzate alla descrizione del paesaggio ma soprattutto alla discretizzazione del paesaggio, devono essenzialmente partire tenendo in considerazione il comune denominatore costituito dal complesso insieme degli elementi che, visibilmente, possono essere percepiti nel territorio. Infatti, è in conformità a un attento studio di questi elementi che l’analisi paesaggistica può coerentemente spiegare l’origine e il significato dei “segni” che caratterizzano il territorio (in senso spaziale ed evolutivo), come espressione concreta, sia delle dinamiche naturali, sia dell’attività umana e dei suoi modi di rapportarsi e di fruire l’ambiente. Tali ragionamenti ci portano ad affermare con grande certezza e con crescente evidenza, che l’analisi paesaggistica, deve essere inevitabilmente considerata come punto di incontro delle diverse discipline con le quali normalmente sono affrontate le tematiche territoriali e ambientali. Il paesaggio, infatti, dovrà essere sempre di più studiato alla stregua di un’entità che sì, è principalmente recepita tramite la percezione visiva, ma che altresì è necessario considerare, attraverso i contributi disciplinari più diversi forniti da geografi, geologi, agronomi, urbanisti, storici, sociologi, economisti, ecc., come il risultato dell’in-terazione delle varie componenti fisiche, biologiche ed umane. La costituzione di una chiave di lettura ed interpretativa del paesaggio rappresenta, di conseguenza, la principale finalità del presente lavoro di ricerca, il quale si pone l’obiettivo di formare una metodologia operativa in grado di consentire il superamento delle difficoltà causate dalla varietà di aspetti e di condizioni caratterizzanti gli ambienti territoriali, determinata dalla diversa intensità e modalità di azione dei fattori geologici, climatici, morfologici, biologici e culturali. Appare dunque evidente, vista la complessità tematica posta dall’analisi paesaggistica, che il compito più arduo che spetta alle diverse discipline, consiste nel trasporre le informazioni elaborate all’interno di un “quadro conoscitivo” complessivo (in grado di agevolare sinteticamente la lettura dei diversi aspetti del paesaggio), che possa essere strumentalmente ed efficacemente utilizzato come strumento multidimensionale e multi scalare, per le complesse attività finalizzate al governo delle risorse paesaggistiche con specifici indirizzi e linee guida.
Sviluppi futuri Tale paesaggio viene pensato come l’insieme degli elementi di origine antropica e/o naturale, che interagiscono in un territorio, considerati non soltanto sotto l’aspetto funzionale e quantitativo, ma anche morfologico e qualitativo. Quindi la componente estetica e percettiva si affianca così alle componenti ambientali, fisiche, storiche, insediative, in un quadro complessivo di sintesi. In tale contesto semantico il territorio viene inteso semplicemente come porzione di superficie terrestre, che costituisce la base materiale del paesaggio: un medesimo territorio quindi può presentare paesaggi diversi nel corso della sua storia. Quindi il paesaggio si intende di fatto un paesaggio che unisce due valenze semantiche fondamentali: quella soggettiva, e quella oggettiva. Tale considerazione trova riscontro nelle discipline della rappresentazione, ove “ogni disegno è il concentrato di una molteplicità in rapporto di reciprocità che ne definisce l’esistenza e l’evoluzione in un nuovo disegno. Dalle rappresentazioni dei bisonti nelle grotte di Altamira ai murales delle nostre città, ogni segno diventa di-segno Fabio Converti
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quando il prefisso <di> assume il suo valore genealogico ovvero venire da lontano. Se i segni sull’asse temporale si integrano nel divenire storico e caratterizzano la forma del tempo, sarà compito dell’indagatore estrarre/astrarre i frammenti connotativi dell’ambiente costruito perché diventi patrimonio di conoscenza fondativo del destino dei luoghi” (Gambardella, 2007). Occorre, quindi, ricercare e proporre modelli originali per la fruizione del territorio rurale al fine di riscoprire il patrimonio diffuso. Azioni volte a collegare in rete i beni ambientali, che sono sicuramente da privilegiare poiché, vengono valorizzati quegli elementi capaci di costituire uno “strumento” di attrazione ed una “occasione” per la fruizione del territorio rurale valorizzandolo nel suo complesso. Per un attenta estetica del paesaggio, nell’intreccio di percezione, conoscenze, lavoro, rappresentazione e contemplazione, prevede l’interazione tra uomo e ambiente. Dal punto di vista progettuale ciò significa cogliere nei paesaggi, i transiti tra la memoria e la necessità del nuovo per un equilibrio tra passato e futuro, affermando un’ipotesi allo stesso tempo conservativa e inventiva se riusciamo a collegare le diverse funzioni e utilizzazioni del territorio. In fine sulla tema specifico che a noi interessa evidenziare, sulle discipline del disegno, credo che nuovi spunti di riflessione possano ancora venire dal diffondersi, nel ragionamento di elaborazione di piano, di una maggiore enfasi sulla doppia natura del piano – regolativa – prescrittiva e previsionale – strategica – e della sua formalizzazione in più atti, eventualmente diversi anche sotto il profilo giuridico, ma con una forte base scientifica nella produzione della cartografia. Di fatti le cartografie, consentendo la rappresentazione dell’iconografia storicizzata del territorio, che costituisce un quadro di riferimento, aggiornabile con l’impiego delle tecnologie informatiche. Essa diventa pertanto una guida ed un riferimento culturale imprescindibile per la pianificazione ambientale poiché consente l’attribuzione di senso ai luoghi e di riscoprire il sistema di significati che la città ancora conserva e che occorre tramandare. Quindi bisogna tramite le discipline del disegno, iniziare un’attività di ricostituzione dei fili interrotti della memoria locale e territoriale, che dovrà passare attraverso l’educazione, la trasmissione di consapevolezza e di saperi, la condivisione del valore fondativo dell’identità paesaggistica rispetto alla possibilità di una comunità stabile, esperta delle possibilità e dei limiti consentiti dal luogo, in grado di costruire sempre più finemente la sua identità culturale a partire dalla sua appartenenza al luogo condiviso che la ospita.
Bibliografia Gambardella C. (a cura di, 2007), “Misura e identità” , La Scuola di Pitagora, Napoli, Deplano G. (a cura di, 1998), “Pianificazione Ambientale e Gestione del Territorio”, Editrice Universitaria Udinese srl, Udine; Milani R., (2004), “L’Arte del Paesaggio e la sua Trasformazione”, in RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1, Firenze University Press, pp. 1-13. Quaini M., (2006), L’ombra del paesaggio, Reggio Emilia; Valenti R. (2008), “La geometria del luogo. La rappresentazione del dialogo tra luogo e progetto”, in G. Taibi (ed.), Le ragioni del progetto. Un laboratorio della rappresentazione, Lettera Ventidue, Siracusa, pp.47.
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Il paesaggio energetico-culturale per il futuro dei territori marginali: i paesaggi potenziali delle valli del Leno
Il paesaggio energetico-culturale per il futuro dei territori marginali: i paesaggi potenziali delle Valli del Leno, Trentino, Italia Marco Malossini Politecnico di Barcellona, Dipartimento di Urbanistica ed Ordinamento Territoriale, UPC/DUOT Università Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ambientale, UNITN/DICA Università di Trento Email: marco.malossini@ing.unitn.it Cell. 347.7509586
Abstract Oggi ci si trova di fronte all’intenzione di coniugare due rapporti e due punti di vista: il paesaggio culturalpatrimoniale (o antropico-culturale) da un lato e il paesaggio naturale dall’altro, e la Convenzione del Paesaggio Europea del 2001 ne è la più forte sostenitrice, soprattutto per il carattere antropizzato del territorio europeo. L’obiettivo della tesi dottorale è quello di porre l’accento sul potenziale che certi territori montani hanno per la capacità di essere riserve di risorse da infrastrutturare, aprendo anche ad abitabilità riformate, riformabili e oggi sottovalutate: veri e propri paesaggi potenziali emergenti. Alcuni descrittori di paesaggi nell’argomentare e spiegare il territorio si sono trasformati in parte di quei paesaggi potenziali che alimentano il rinnovamento dell’urbanistica verso una sostenibilità più condivisa e compresa da tutte le forze nel territorio. Ciò verrà esplicitato attraverso il caso delle Valli del Leno.
Introduzione: descrizione del processo Oggi si vede formarsi un’attenzione specifica alla sostenibilità, grazie ad un’urbanistica che si reinterpreta e trova sempre nuovi strumenti d’indagine da altre discipline. La tesi quindi ha l’obiettivo di compiere un accorpamento della visione sul paesaggio (naturale e culturale) con quella del paradigma della sostenibilità per il rinnovamento del progetto urbanistico territoriale. Comunemente quando si fa riferimento alla sostenibilità ambientale, si riflette sul rapporto che esiste tra energia e flussi dei materiali (produzione e scarto). La tesi vuole aggiungere che bisogna tener conto dei rapporti tra energia, flussi dei materiali ed eredità culturale. Per dare un primo significato a questi rapporti si è ipotizzata l’esistenza di un “paesaggio delle energie” che corrisponde all’idea dell’esistenza di filiere produttive primarie percepite dalla comunità, e che forniscono beni materiali come beni immateriali e informazione, quindi infine un paesaggio. Gli strumenti d’indagine del caso studio di montagna delle Valli del Leno per la definitiva saldatura tra paesaggio culturale e paesaggio energetico sono stati delineati attraverso alcune definizioni, quali areale e relazione (o paesaggi areali e relazionali), riconoscendo attraverso esse nuove potenzialità per il paesaggio strutturato delle risorse rinnovabili locali delle Valli del Leno
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Il paesaggio energetico-culturale per il futuro dei territori marginali: i paesaggi potenziali delle valli del Leno
Figura 1. Le unitĂ di paesaggio, la sintesi di un areale paesaggistico omogeneo e il diagramma delle trasformazione del paesaggio delle Valli del Leno
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Per alimentare questa chiave di lettura che usa il paesaggio in modo amplio e a-egemonico, si sono ascoltate le voci del territorio attraverso interviste, alimentando l’immaginario comune di una possibile partecipazione alla costruzione del paesaggio democratico e condiviso: il paesaggio partecipato delle valli del Leno.
Figura 2. Il paesaggio partecipato: una sintesi geografica delle interviste Per verificare la posizione di queste voci rispetto al sistema amministrativo, si sono raccontate, invece, alcune parentesi fondamentali per la pianificazione regionale alpina del Trentino, comprendendo la forza di nuovi strumenti e possibilità generate dalle recenti riforme locali: da questa riflessione nasce il paesaggio progressivo. Questo paesaggio è soggetto ad una tensione data da un importante rispetto per le eredità della pianificazione democratica del passato oggi spinto da una impellente necessità che la comunità si emancipi verso un paesaggio potenzialmente migliorabile (Patti territoriali, Comunità di Valle, Piano Urbanistico Provinciale 2008, ecc...). Marco Malossini
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Il paesaggio progressivo e il paesaggio partecipato alimentano e ridimensionano il paesaggio strutturato (degli areali, delle unità percettive di paesaggio o delle relazioni) obbligando verso un paesaggio realisticamente potenziabile. Tutti questi descrittori di paesaggi poco a poco si sono trasformati nel paesaggio potenziale che alimenta il rinnovamento urbanistico verso una sostenibilità più condivisa e compresa da tutte le forze tangibili e intangibili nel territorio. In particolar modo per le Valli del Leno, sistema legato alla Valle dell’Adige, nel mezzo delle Alpi italiane, apporteranno qualità nelle energie per l’abitabilità del Trentino, ma anche qualità per l’abitabilità stessa di una Valle sostanzialmente lentamente soggetta a spopolamento a partire dal 1884, data che mise in crisi l’economia del legno locale, alla quale poi si sovrappose la storia del fronte immobile della prima guerra mondiale. Dalla prima guerra mondiale fino ad oggi il territorio è stato relegato dal fondovalle come un territorio molto inclinato, aspro e poco interessante, quindi marginale; oggi invece sta assumendo un ruolo nuovo grazie alla promozione della memoria di culture passate, ma anche grazie alla ricerca di nuove potenzialità rispetto alle risorse rinnovabili, all’agricoltura di qualità o alla selvicoltura sostenibile.
Il paesaggio energetico tra risorse e tecniche Sono “paesaggio energetico” tutti quei territori che hanno un carattere riconosciuto per il valore di luoghi della produzione legata all’energia. Per esempio, l’industrializzazione ha letteralmente assaltato le Alpi per cercare salti e luoghi per le turbine idroelettriche. In generale le industrie del carbone e molte altre infrastrutture che davano lavoro e un qualche tipo di quotidianità nella relazione, anche ricreativa, generavano luoghi che poi hanno assunto nella memoria un valore. A volte il valore patrimoniale è intangibile ma conservato perché è legato alla memoria collettiva; a volte il valore patrimoniale diviene un luogo dell’insegnamento per le scolaresche tanto da essere espressione pratica di conoscenze teoriche o tecniche. I luoghi che si generano sono anche in molte occasioni luoghi di disastri e terrore e non serve citare Chernobyl per ricordarselo. Nonostante tutto sono i paesaggi della contemporaneità funzionale, paesaggi a noi vicini che fanno riflettere sulle questioni sociali-globali, si sollevano e si evidenziano ogni volta che aumenta la domanda energetica. Ormai tutti parzialmente hanno la coscienza che la domanda energetica non possa continuare a crescere, ma allo stesso tempo è noto che bisogna rispettare le volontà di crescita economica dei paesi emergenti per avere più equità a livello globale. Ciò ha portato la Comunità Europea a una riduzione di sprechi energetici senza rinunciare alla crescita economica attraverso un forte impulso delle proprie politiche di regolazione energetica (Direttiva europea 202020), ma tutto questo con l'attuale crisi europea non sembra portare ad uno sviluppo. Il “paesaggio delle energie” intreccia la tecnica con la percezione della comunità con il fine di riconoscere la corretta pratica per avere energia dal territorio, per un rinnovato sviluppo endogeno. Ovviamente si parla di un settore primario, percepito attraverso la filiera o brandelli della filiera, rappresentando la scala, gli eccessi, ma evidenziando progetti che hanno al loro interno delle positività che è ambizione della tesi riordinare e prefigurare come strumenti per la pianificazione del paesaggio. L’ipotesi dell’esistenza di un “paesaggio delle energie” apre la possibilità di catalogare infrastrutture che ormai hanno parecchi anni di vita anche come oggetti di relazioni positive, come nel caso delle Valli del Leno. Il “paesaggio delle energie” infine è sempre contemporaneo perché raccoglie le ultime esigenze nei rapporti con l’ambiente. Sono evidenti cose come il prolificare di turbine eoliche, come nuovi landmark del territorio, anche se a volte il cambio di scala con ciò che le circonda è forse stucchevole o esagerato. Il paesaggio delle energie è anche un paesaggio agricolo dedicato al mais o un campo di colza con le relative raffinerie dei bioetanoli. Lo sono pure le celle fotovoltaiche “piantate” al suolo come alberi, o lo sono i piccoli salti dei grandi sbarramenti fluviali, i piccoli salti delle nuove centraline microidroelettriche, e le celle fotovoltaiche di diversa tecnologia sulle coperture delle case, dei parcheggi delle autostrade o delle industrie, se non delle centraline geotermiche, dei termovalorizzatori e delle discariche per il riciclaggio. Tutti questi elementi di tipo infrastrutturale mettono in relazione la città e il territorio oltre che per la gestione dello spazio anche per la rete d’alta tensione, per le centraline o per il semplice accendersi delle luci urbane della città. L’energia elettrica possiede specificità tecniche, ma essa è cosa di tutti, della quale tutti siamo tenuti ad averne un minimo di conoscenza e di educazione per la nostra sicurezza. Quindi è materia della quale si ha estrema coscienza. È pertanto un concetto adimensionale e spesse volte può sembrare che paesaggio ed energia (in senso generico) siano due concetti estremamente legati alla dimensione quotidiana. Inoltre quando si pensa a un paesaggio energetico, ciò che s’immagina è che il paesaggio senza il continuo supporto dell’energia (anche delle persone!) non è in grado di facilitare l’abitabilità che viene ritenuta corretta o “ottima” per il territorio (Lynch'81). Ma in un ambito disciplinare che non si vuole indagare qui, l’energia delle persone è legata alla diversità di caratteri e la capacità di stabilire rapporti dinamici e vitalità formando personaggi storici di grande valore. La vitalità dei personaggi/paesaggi quindi rappresenta il contesto di riferimento ed un racconto sfumato tra le cose, e quindi è una premessa rilevante. Marco Malossini
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Figura 3. Energie potenziali nel territorio come carta qualitativa di sintesi della distribuzione di risorse.
Quale paesaggio, urbanistica e sostenibilità ne consegue La ricerca si costruisce come una riflessione che vuole contribuire alla costruzione di una rinnovata interdisciplinarietà nel stimolare la costruzione di punti di vista sul paesaggio: contribuendo alle politiche settoriali, in particolare riconoscendo l’agricoltura, il bosco, il vento e l’acqua come elementi patrimoniali fondativi per lo sviluppo delle realtà locali, quali le Valli del Leno. Così, si sono intraprese riflessioni che hanno costituito la struttura del lavoro. L’oggetto della ricerca applicata ha ragionato sul progetto di Paesaggio delle Valli del Leno, sull’urbanistica del Paesaggio (Landscape urbanism), sull’ecologia del paesaggio di montagna, sul paradigma della sostenibilità ambientale (studio del ciclo di vita dei materiali), sulla economia locale ed economia ecologica (risorsa energetica/filiera produttiva). Il paesaggio, come unione di un mondo materiale, di uno stato di coscienza e di uno stato di conoscenza (Claude Raffestein 2009), permette di aprire nuove prospettive e, dal punto di vista del progetto, è un costrutto derivato da tutto quello che è successo alla natura, supporto di un territorio in permanente stato di trasformazione, sia per il ciclo di vita naturale, come per l’azione umana. Il paesaggio è inoltre il risultato di una proiezione dell’azione dell’uomo, e quindi tutto è paesaggio progettato. Così si generano lineamenti per il progetto di territorio attraverso il paesaggio come medium (metafora aspaziale) di costituzione delle idee; ciò continua a fornire nuovi strumenti delineati in due paesaggi: il paesaggio areale ed il paesaggio relazionale. Marco Malossini
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Il paesaggio potenziale per l’equilibrio dinamico del territorio Si è a conoscenza che dall’inizio del secolo passato la popolazione del “mondo sviluppato” ha raddoppiato il consumo energetico ogni decade. La forsennata continua ricerca di risorse energetiche che ha generato grandi successi ma anche grandi disastri, rappresentati dagli innumerevoli cataclismi ambientali e dalle assurde guerre, mette in luce che con l’attuale sviluppo l’energia non è, dopotutto, qualcosa che possa essere accessibile in modo infinito o istantaneo rispetto alla volontà umana, e ciò richiede un progetto condiviso. Ma le scienze naturali spiegano che il flusso d’energia è il comune denominatore di tutti i sistemi naturali e quindi anche per gli uomini vale lo stesso. Nell’assenza di vita, l’energia scorre in tutto l’universo da più a meno, in accordo con il secondo principio della termodinamica. Nella terra si raccoglie solo una parte minima di questo flusso, in questo caso dal sole attraverso una serie di sequenze che trattengono solo provvisoriamente il passaggio dell’energia, proveniente dall’esterno e dall’interno della terra in sistemi molto complessi. Nei casi delle comunità naturali, una grande diversità di forme di vita cattura, conserva l’energia solare; nella definizione di climax, tanto la diversità di vita, come la cattura e la conservazione dell’energia, raggiungono la propria massima espressione. Poi, il sistema rilascia al cielo, giorno dopo giorno e stagione dopo stagione, la stessa quantità di energia che ha raccolto dal sole. L’uomo, in questa descrizione molto semplificata, appare per la prima volta nell’ordine naturale. In prima battuta la gestione del territorio, e la sua conseguente rappresentazione di un paesaggio che circonda l’uomo, avviene grazie alla capacità di conoscere e avere informazioni sulla natura dei fenomeni. Ciò permette di gestire un’area o una regione, usufruendo di quanta più energia umana possibile (input) e raccogliendo quante più lavoro e informazione possibile (output), diluite nel tempo e nel modo più efficace possibile. È noto anche che con la civilizzazione industriale degli ultimi due mila anni s’incomincia a “truccare” il bilancio energetico rispetto all’irraggiamento solare grazie alle conoscenze sui minerali. Così all’energia solare, rilasciata verso lo spazio nel tempo, stagionalmente gli si aggiunse un flusso di energia solare accumulata dai minerali e combustibili fossili, oggi molto dibattuti per le emissioni di gas serra che generano (Meadows 1 1972, Brundtland 2, 1987). Le diverse concezioni non meramente capitalistiche che riguardano il territorio, indagano le possibilità di un riequilibrio dinamico per il raggiungimento di una sostenibilità generale del sistema naturale e antropizzato (si veda il dibattito sulla nascita del paradigma della sostenibilità 3 che diviene scienza e già non solo convinzione culturale). Ma ciò appare anche nella definizione della “Convenzione Europea del Paesaggio” dove si definisce cosa s’intende con questa parola nelle logiche europeiste, rispetto alle possibilità per un riequilibrio anche energetico; da qui nacque l’ipotesi di unire “paesaggio” e “potenza”. Usare potenziale in modo metaforico, associandolo al paesaggio, significa considerare il “potenziale” rispetto alle forze del paesaggio, ossia la posizione rispetto alle forze di un sistema tutto da definire per dedurne il suo grado di “utilità” di un dispositivo rispetto al sistema, ossia rispetto a un aumento delle qualità e quindi, in sostanza, generatore di un potenziamento a volte non ancora considerato. Ecco allora che la concezione e la Convenzione Europea del Paesaggio definisce altri cinque punti che coordinano questi tre punti sopra citati, costruendo azioni e limitazioni così elencabili: • l’uomo ha degli obblighi politici in materia di paesaggio; • l’obiettivo dell’uomo è quello di mantenere la “qualità paesaggistica” per perpetuare la propria esistenza nel sistema; • per fare ciò deve saper distinguere e selezionare il paesaggio per saperlo “proteggere”; • l’uomo deve essere in grado di “ordinare e pianificare” l’uso di questo capitale; • l’uomo deve “saper gestire” o “creare” il paesaggio in cui è inserito. Proprio questo “saper gestire”, mette in luce come il paesaggio abbia all’interno dei valori d’utilità che sono da svelare nelle dinamiche della società e della cultura, come fanno per esempio Martinez Alier (1968) o Roy 1
Il rapporto sui limiti dello sviluppo (dal libro The Limits to Growth traduzione letterale Rapporto sui limiti della crescita), commissionato al MIT dal Club di Roma, fu pubblicato nel 1972. Donnis Meadows ne fu l’autore principale. Il rapporto, basato sulla simulazione al computer predice le conseguenze della continua crescita della popolazione sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana. Il titolo della traduzione italiana è improprio: avrebbe dovuto essere Rapporto sui limiti della crescita. 2 Il rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future) è un documento rilasciato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) in cui, per la prima volta, viene introdotto il concetto di sviluppo sostenibile. Il nome viene dato dalla coordinatrice Gro Harlem Brundtland che in quell’anno era presidente del WCED ed aveva commissionato il rapporto. La sua definizione era la seguente: « lo Sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni » (WCED,1987) 3 Sustainability science: The emerging research program William C. Clark* and Nancy M. Dickson John F. Kennedy School of Government, Harvard University, Cambridge, MA 02138 PNAS July 8, 2003 vol. 100 no. 14 8059–8061
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Il paesaggio energetico-culturale per il futuro dei territori marginali: i paesaggi potenziali delle valli del Leno
Rappaport nelle loro tesi, il primo sulla stabilità del latifondo andaluso, il secondo rispetto al popolo della Guinea, i Tsembega. Ci si avvicina al tema dell’utilità anche attraverso il carattere che si è dato alla concezione di paesaggio, ossia “potenziale”, definizione che vuole richiamare un mondo scientifico legato alla fisica. Infatti, il potenziale in questa disciplina rappresenta la capacità di compiere lavoro che un corpo possiede in virtù della sua posizione all’interno di un campo di forze conservative. L’utilità, coordinata e ordinata in economia, in sociologia, prefigura la riproduzione del modello locale o della soddisfazione che esso genera, sia essa un’utilità individuale o condivisa dal gruppo. Così l’utilità, in questa metafora del “paesaggio potenziale”, rappresenterebbe proprio quella forza potenziale del campo conservativo e quindi il paesaggio si modificherebbe solo se cambiano le forze del campo che lo circondano. Quindi in questo studio si approfondisce l’utilità nella sua purezza e valore osservando il potenziale degli elementi (clusters) del territorio che costruiscono il paesaggio, riconoscendo un profondo cambiamento della domanda sociale.
Figura 4. Dinamiche materiali e modifica degli areali omogenei nel tempo: a sinistra la discesa della materia legnosa verso il fiume, a destra l’inversione di tendenza dettata dalla costruzione della strada nel primo dopoguerra. Ciò dimostra che il paesaggio nei suoi tre elementi costitutivi (osservazione-forma-ambiente) possiede un’utilità cambiante, che dipende dalla gestione che un determinato gruppo adotta per il territorio. In questo senso si generano modificazioni che dipendono anche e soprattutto dalla dis-posizione di elementi fisici che forniscono il corretto funzionamento dei settori produttivi nel territorio. Ma il gruppo insiste su un determinato ambiente attraverso un complesso di strutture che costituiscono il supporto delle attività umane. Ordinare le forme nel territorio vuol dire spendere in lavoro per evitare l’entropia del sistema. Se la forma di un territorio, così come percepito, è uno degli elementi costitutivi del paesaggio allora il paesaggio ha come principale caratteristica il modello di gestione che meglio gli si conviene per evitare l’inutile dispendio di energie. Così nell’avanzare rispetto agli argomenti del territorio/laboratorio, bisogna definire le visioni del paesaggio rispetto ai potenziali consolidati e quelli da sviluppare.
Territorio e marginalità: potenzialità inespresse “Il concetto di limite e di dimensione è, senza dubbio, una componente elementare del modello organico. Gli argomenti a favore di una dimensione ottima si basa negli effetti che esso ha sull’interrelazione sociale o sulla gestione”. (Lynch 1981, Pag.25) In realtà il mercato ha dimostrato fino ad oggi di essere indipendente dalla dimensione, ma vi sono elementi che fanno pensare che la densità e l’accessibilità influenzeranno di nuovo il mercato e la città. Una posizione intermedia sarebbe affermare che sebbene non esista un’unica dimensione ottima, esiste invece un sistema preferibile d’insediamento, e quindi un limite in conformità a una serie di luoghi centrali (Christaller, 1933). Ciò è strettamente legato quindi alla dimensione rispetto alla regione, anche in termini di risorse, che influisce in modo rilevante sul luogo del risiedere e del lavorare. L’influenza sulla dimensione dipende anche dalle unità politiche. Esistono gruppi umani la cui dimensione è da studiare come unità politica ed è un aspetto culturale che amplia e o limita la dimensione della città o della regione. Oggi sempre più i margini delle regioni divengono di un certo spessore e da essi emergono voci eterogenee ma che formano particolari comunità di vicini. Ma d’altronde è fondamentale riconoscere le comunità di vicini, poiché il margine possiede questa doppia dimensione, quella areale del gruppo che condivide uno spazio, e quella relazionale del gruppo che condivide interessi.
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Esistono due metafore che solitamente vengono usate per comprendere il ruolo ed il fine della conservazione della città e degli equilibri con il suo territorio complementare quindi dei margini di una regione; una è quella della città come una macchina e l’altra è quella della città come un organismo vivo. La macchina è uno strumento per andare in un senso ma anche nel senso opposto, mentre un organismo invece o vive o perde di volume e muore. Entrambe le metafore potrebbero essere valide e rappresentano lo spettro d’azione che è legato alla conservazione del mondo naturale e alle categorie del buon vivere la città. Il deserto generato dall’uomo è la cosa che più spaventa l’uomo stesso. L’ecologia, come scienza in sviluppo durante l’industrializzazione americana, è servita per dissipare questo terrore e per lasciare chiaro le basi intellettuali che dimostrano l’interconnessione tra mondo vivo e perturbazioni esterne. Si può dire che la gestione corretta dell’habitat umano produce natura? Probabilmente si; e possiamo escludere la natura dalla gestione delle attività umane? Evidentemente no, proprio a partire dai margini. Ma per capire la gestione della natura dobbiamo incominciare dal riconoscere le marginalità: “Marginalità culturale: dipende da un grande numero di fattori poiché la cultura tocca molteplici questioni come la religione, l’etnia, la lingua, le abitudini alimentari, le pratiche sociali; tutto ciò è rappresentativo di una popolazione ed è da considerare come parte integrante della cultura di questo popolo. Marginalità ambientale o ecologica: si riferisce alla presenza della natura ed ai territori incontaminati. Come afferma W. Leimgruber 4, ciò che è centrale da un punto di vista umano è inevitabilmente periferico da un punto di vista naturale Marginalità sociale: come d’altronde anche le altre tipologie, è composta da molti elementi ricoprenti un vasto spettro e tende ad inglobare tutte le forme di marginalità che concernono direttamente l’uomo e la sua vita in società. Il termine sociale è relativo alla partecipazione dell’uomo ad una comunità concepita come un campo ordinato di rapporti in cui siano riconosciuti i diritti dei singoli. Marginalità economica: risulta essere spesso facilitato dall’esistenza di un grande numero di studi e analisi. La marginalità economica è definita dalla potenzialità produttiva, dall’accessibilità, dalle infrastrutture e dall’attrattività dello spazio economico senza dimenticare la forza e la capacità finanziaria. Marginalità politica: è la mancanza di peso nelle decisioni governative. La discriminazione politica porta ad avere uno scarso potere decisionale e quindi ad una debole influenza. Marginalità volontaria: esiste per gruppi molto particolari di comunità. Nonostante la marginalità e l’esclusione abbiano nella maggior parte dei casi una connotazione negativa, quindi da evitare, vi sono alcune persone o clan che per i più disparati motivi si auto-escludono dalla società moderna automarginalizzandosi.” (Patelli, 2009). Lavorare per alimentare le Valli del Leno vuol dire liberare la marginalità positiva e riassettare il potenziale energetico per fare emergere nuovi paesaggi potenziali per le valli del Leno
Bibliografia Libri Martínez Alier J. (1968), La estabilidad del latifundio, Ruedo Iberico, Barcelona. Martínez Alier J. (1998), La economía ecológica como ecología humana, Cesar Manrique, Lanzarote. Christaller W. (1933), Die zentralen Orte in Süddeutschland. Gustav Fischer, Jena trad.1966 Georgescu-Roegen N.(1998), Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino. Laureano P. (1995), La piramide rovesciata: il modello dell’oasi per il pianeta terra, Bollati Boringhieri, Torino. Lynch K. (1981), Good City Form, [trad.esp. La buena forma de la ciudad, Barcelona: GG. SA. Trad. ita. Progettare la città: la qualità della forma urbana,1985]. Raffestin C. (2005), Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Alinea, Milano. Turri E. (1974), Antroplogia del paesaggio, Ed. di Comunitá , Mlano. Zanini P. (1997), I Significati del confine, Ed, Bruno Mondadori,Milano. Zanin U. (1998), Il carbone bianco l’energia elettrica dell’Alto Garda: i primi cinquant’anni 1890/1940, Ed.sommalago, Verona. Shlorhaufer B. (a cura di, 2005), Cul zuffel e l’aura dado, Gion Caminada, ed. quart verlag, Lucerna. Roger A. (1997), Court traité du paysage, Gallimard, Paris. Trad. Breve Trattato sul Paesaggio (2009). Gios G. (a cura di, 1994), Le Valli del Leno, Cierre Edizioni, Verona. Claudio Pavese (2000), Energia e sviluppo il caso della municipalizzata di Rovereto, a cura di Mario Allegri in 4
Questo testo è estrapolato da un documento di Samuele Patelli, Le rappresentazioni della marginalità e la marginalità rappresentata: Il rapporto fra Ticino e la Nazione secondo le percezioni delle elites ticinesi, presentata alla Facoltà di Scienze dell’Università di Friborgo (Svizzera) per l’ottenimento del grado di Doctor rerum naturalium Université de Fribourg Département des Géosciences Unité de Géographie Il Direttore di tesi:Prof. Walter Leimgruber Tesi no° 1632 Edizioni Uniprint – Friborgo, 2009
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Il paesaggio energetico-culturale per il futuro dei territori marginali: i paesaggi potenziali delle valli del Leno
Rovereto e l’Italia, dall’irredentismo al fascismo 1890-1939, Accademia degli agiati, Rovereto, pp. 70-80. Claude Raffestin (2009) Paisatges construïts i territorialitats, In Llop C. (a cura di) Paisatge en transformaciò, Investigaciò i gestiò paesagistiques, DiBa Serie Territori nº6 pp. 15-20 Part.1 Sauer C. (1925), La morfologia del Paesaggio, University of California Publications in Geography. Vol. 2, No. 2, October 12, pp. 19-53. [Traduzione di Guillermo Castro. “La morfologia del paisatge”] Articoli Zanella G. (lug. 1995), La comunità elettrica del Terragnolo,in Quattro Vicariati e le zone limitrofe. A. 38, n. 75, p. 66-89: ill. Zanella, G. (lug. 1994), 35 anni della centrale di Ala, in Quattro Vicariati e le zone limitrofe. A. 35, n. 72, p. 2551: ill. Siti web Comunità di lavoro delle regioni alpine progetti di gestione delle alpi attraverso casi di buone pratiche. www.argealp.org Servizio energia e bandi vinti dal comune di Vallarsa per l'efficienza energetica. www.ape.provincia.tn.it Testo di riferimento per la riflessione sul tema del rapporto tra capitale e paesaggio: paesaggio come capitale. www.antoniocalafati.it/t_pdf/foedus.pdf Centro di ricerca dell'ecologia alpina con sede sul Monte Bondone, ambiti territoriali delle alpi e prealpi. www.cealp.it Cataloghi del paesaggio della regione Catalogna. www.catpaisatge.net Caso di riferimento sulla gestione delle risorse del vento e l'inserimento dell'infrastruttura nel paesaggio. www.fortorenergia.it Ente che promuove l'efficienza e la sostenibilità ambientale nella gestione dei boschi e del legname da commerciare in Trentino. www.legnotrentino.it Osservatorio alpino della regione francese. www.observatoire-montagnes.org Pagina di gestione del Patto territoriale delle Valli del Leno. www.vallidelleno.it Museo etnografico della Vallarsa. www.vallarsa.com (http://digilander.libero.it/vallarsa/) Atlante eolico italiano prodotto attraverso statistiche e approsimazioni. www.ricercadisistema.it Progetto di turbina eolica nel fondovalle della valle dell'Adige a nord di Trento www.eolicotrento.ing.unitn.it Progetto di turbine eoliche in altra quota nella Stiria, Austria www.tauernwind.at Innovazione tecnologicaper lo sviluppo della coscienza del paesaggio nella zona del gironese, Catalogna www.ticsipaisatge.cat Ricerca dell'ETH di Zurigo sulle trasformazione del paesaggio svizzero. www.studio-basel.com Samuele Petelli, (2009) le rappresentazioni della marginalità e la marginalità rappresentata: il rapporto fra Ticino e la nazione secondo le percezioni delle elites ticinesi www.ethesis.unifr.ch/theses/
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La costruzione sociale del patrimonio e il ruolo della pianificazione territoriale e urbanistica
La costruzione sociale del patrimonio e il ruolo della pianificazione territoriale e urbanistica Alberto Budoni Università degli Studi di Roma La Sapienza Dipartimento Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Email: alberto.budoni@uniroma1.it Tel. 349.5206405
Abstract I valori patrimoniali del territorio dovrebbero essere definiti all’interno del suo statuto, tuttavia un prodotto di questo tipo sottintende l’azione di una cittadinanza caratterizzata da virtù civica. In contesti problematici, tra cui interessante è il caso dell’Agro Pontino, la costruzione sociale dei valori patrimoniali del territorio diventa elemento necessario e strategico per i processi di piano, propedeutico ad un loro sviluppo efficace. Al di là degli specifici contesti, la pianificazione territoriale e urbanistica se vuole avere ancora un ruolo deve produrre più cultura del territorio, anche fuori dalle urgenze dei processi di piano. Due appaiono le direttrici di lavoro più promettenti: la costruzione inter e transdisciplinare delle invarianti strutturali; lo studio delle interazioni che gli attori intrattengono con le parti del territorio di cui dispongono attraverso titoli proprietari o di gestione, seguendo il percorso di Elinor Ostrom. La sintesi di questi due ambiti di ricerca fornisce la base informativa e interpretativa su cui principalmente l’Università pubblica può chiamare la società civile del territorio alla costruzione interattiva di carte dei valori patrimoniali.
Valori patrimoniali e virtù civica Nel corso dei due ultimi decenni si è sempre più affermata nella pianificazione territoriale e urbanistica del nostro paese una visione ampia, interessata alle problematiche delle trasformazioni territoriali nel loro complesso piuttosto che alla compartimentazione specialistica. Di conseguenza l’interdisciplinarità appare sempre più un obiettivo implicito, o meglio un requisito insostituibile nelle pratiche di pianificazione dove una sensibilità diffusa anche non tecnica e culturalmente trasversale ha assunto come orizzonte il concetto di governo del territorio. In questo orizzonte l’integrazione è diventata una delle parole chiave per caratterizzare lo sforzo di costruire nuovi tipi di piano capaci di superare le tradizionali settorializzazioni provenienti dalla normativa e dai vari giochi professionali ed accademici. È significativo sottolineare che “Nelle esperienze più avanzate di questi approcci integrati, lo statuto del territorio tende a configurarsi come un atto costituzionale condiviso che definisce l’identità di una società locale regionale e che ha durata di elaborazione e di esistenza più lunga dei singoli piani. Se è prodotto socialmente, esso non è atto conservativo dell’identità storica, ma è un atto costituente dell’identità collettiva che definisce i valori patrimoniali del territorio come bene comune e che definisce i caratteri dinamici del proprio futuro”. (Magnaghi, 2011; p.9). Lo statuto del territorio, dunque, come prodotto di un’interazione tra abitanti, stakeholders, tecnici e decisori con una portata più ampia del piano in cui nasce e che individua e fissa i valori patrimoniali del territorio. Valori determinati non solo in quanto attributi di parti separate ma anche come espressione delle relazioni tra le stesse parti che fanno del territorio un sistema complesso. Proprio la consapevolezza di questa irriducibile complessità è condizione fondante per definirlo bene comune mentre del tutto opposta è l’idea di una possibile infinita scomposizione del territorio in entità separate gestibili attraverso un esercizio proprietario esclusivo. Insieme a questa visione scientifico-culturale, per giungere ad uno statuto del territorio davvero espressione Alberto Budoni
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dell’interazione tra gli attori, occorre che questi ultimi esprimano nello stesso tempo impegno politico e volontà di mettere in gioco le proprie risorse personali, in altre parole siano orientati ad un ideale di virtù civica. Esaminando le due condizioni, visione sistemica e virtù civica, si può senza dubbio affermare che la prima ha meno problemi della seconda a verificarsi. Dal punto di vista culturale esiste ormai una sufficiente acquisizione anche nel senso comune delle problematiche di interrelazione tra le risorse, semmai la questione più grave, come già detto, è l’integrazione dei diversi apparati disciplinari che aspirano ad assumere ruoli egemoni piuttosto che ad impegnarsi per l’integrazione. Invece la virtù civica può aversi in alcune situazioni ma non si può pensare di trovarla sempre o di poterla sollecitare con la certezza di ottenere dei risultati. In realtà nelle comunità locali convivono diversi modi di rapportarsi al territorio: “attorno alle questioni eco-territoriali oggi si confrontano due pratiche eterogenee e contrastanti della cittadinanza: una orientata a esercitare la libertà come qualcosa di simile alla ‘virtù civica’, l’altra tendente al perseguimento di interessi intesi come ‘titoli’ sufficienti a far valere dei diritti. Senza una forte legittimazione – sostanziale e formale, politica e giuridica – della prima idea di cittadinanza, senza il superamento della sua subordinazione allo schema del confronto fra interessi, sarà inevitabile, da un lato, che essa continui a risultare di fatto’abusiva’ o politicamente ‘incongrua’ dall’altro, che il territorio stesso continui a rappresentare la posta in gioco di una contesa più che un bene comune di cui prendersi cura”. (Marzocca, 2011; p.10). D’altra parte, nella contrapposizione all’egemonia etico-politica del liberalismo, e negli ultimi decenni del neoliberismo, suoi principali affossatori (Marzocca, 2011), la ‘virtù civica’ non si esprime con caratteristiche univoche. Esistono modi diversi di declinare le idee di cittadinanza e alcune di queste non possono essere definite virtuose nei confronti del territorio.
I territori “difficili” e il passaggio da partecipazione a interazione Il territorio Pontino, la parte settentrionale della Provincia di Latina caratterizzata dalla bonifica integrale del regime fascista, rappresenta un caso di studio interessante per evidenziare che insieme alle prevalenti dinamiche di trasformazione neo liberiste convivono forme di cittadinanza virtuose e non. Come noto, la cosiddetta “redenzione” dell’agro pontino (Folchi, 2000) ha rappresentato una tra le più significative realizzazioni del fascismo, esaltata dal regime come esempio di modernità ed efficienza ed ancora oggi evocata in questo senso dai nostalgici di quel periodo. Con la bonifica integrale si affermava una nuova concezione in cui le acquisizioni raggiunte in ambito scientifico e tecnologico soprattutto nei settori idraulico, agrario, sanitario (Jacobelli, Fasolino, 2003) si fondevano con l’idea di sviluppo del regime basata su ruralizzazione e controllo sociale coercitivo dei movimenti migratori che trovavano attuazione nell’antiurbanesimo e nella colonizzazione. L’assetto dell’Agro Pontino determinato dalla bonifica, con la sua regimazione idraulica, l’organizzazione poderale dell’Opera Nazionale Combattenti, le città di fondazione, ha costituito per alcuni un’utopia realizzata e per molti l’idea di una frontiera raggiunta dal progresso legato al dominio dell’uomo sulla natura, in particolare alla sconfitta della malaria. Al di là delle nostalgiche strumentalizzazioni politiche, il rapporto tra abitanti e territorio è fortemente caratterizzato dai tragici ideali di sviluppo del novecento e legato a strutture insediative che ormai storicizzate costituiscono dei riferimenti identitari. Così è molto facile far apprezzare come patrimonio storico i segni lasciati dalla bonifica ma molto difficile e motivo di conflitto far riflettere sull’importanza delle selve di Terracina e di Cisterna che costituivano un ecosistema ricchissimo di biodiversità unico in Europa e che la bonifica integrale ha distrutto lasciandoci solo il relitto della Foresta del Parco Nazionale del Circeo. Dunque un territorio problematico, emblematicamente rappresentato dal successo più che dal contenuto del romanzo di Pennacchi “Canale Mussolini” (Pennacchi 2010), ma certamente non appiattito sulle politiche neoliberiste nonostante siano orientate in questo senso la maggior parte delle più importanti amministrazioni locali 1. È significativo in questo senso che nella provincia di Latina non sia mai stato approvato un piano provinciale d’area vasta nonostante, o forse sarebbe meglio dire per la presenza di notevoli valori storico, paesaggistici, naturalistici e forti processi di trasformazione e diffusione insediativa che hanno profondamente alterato i già delicati equilibri idrogeologici introdotti dalla bonifica integrale. Del resto la provincia di Latina non brilla certo per dinamicità nemmeno a livello di piani comunali, soprattutto di quelli generali in cui si devono affrontare disegni di futuro troppo impegnativi per molti amministratori che preferiscono strumenti di livello attuativo più facili da gestire. Il risultato di queste politiche è l’affossamento della discussione pubblica sulle linee generali di assetto del territorio che, indipendentemente dall’efficacia dei piani, trova comunque un punto di riferimento nel loro succedersi e rinnovarsi. Tuttavia, in contesti problematici come quello del territorio Pontino a cui fanno 1
E’ bene ricordare che nel territorio Pontino si è sviluppato un radicato movimento di protesta contro Acqualatina, societa di gestione dell’A.T.O. provinciale, che ha contribuito in modo significativo al risultato del referendum sull’acqua pubblica.
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riscontro tante situazioni analoghe soprattutto nel mezzogiorno d’Italia 2, il rinnovamento dei piani, ammesso che si riesca ad avere, non rappresenta una strada sicura per fare del territorio qualcosa di diverso da una miniera di risorse da saccheggiare. L’urgenza nei tempi di implementazione dei piani, la forte conflittualità che caratterizza le questioni di trasformazione del territorio, la necessità di mantenere-acquisire consenso da parte di una classe politica che è sempre più espressione di apparati a cui occorrono risorse e quindi posti di gestione con connesso carrierismo personale, non favoriscono di certo processi di pianificazione coraggiosi. Coraggiosi significa centrati sul dibattito pubblico, cioè programmaticamente incerti negli esiti finali proprio perché realmente aperti all’interazione e non solo ad una partecipazione spesso molto sbandierata e in realtà uno strumento di facciata avvilente per chi vi collabora. Il coraggio che manca, soprattutto nello scombinare le carte delle relazioni tra gli attori che contano, è determinante per innescare processi di riscoperta del territorio da parte dei suoi abitanti e favorire forme di cura più concreta e sentita. Per questo motivo se la pianificazione territoriale e urbanistica vuole avere davvero un ruolo sui valori patrimoniali deve produrre più cultura del territorio, rinnovando le proprie direttrici di ricerca anche fuori dalle urgenze dei processi di piano, con un approccio di maggiore disincanto nel passaggio da partecipazione a interazione. Le possibilità della rete internet di poter offrire informazioni anche di tipo tecnico (basi di dati, cartografie ecc.) e di renderle disponibili per una loro manipolazione in rete adeguando appositamente gli strumenti tipici dei social network, costituisce ormai una realtà concreta che insieme alle tradizionali modalità di incontro e discussione consente di entrare in relazione con gli abitanti di un territorio in modo più esteso e nello stesso tempo più rispettoso delle differenze. Fuori da ogni illusoria e distorcente prospettiva palingenetica che tradizionalmente ha consentito l’ambiguo baratto tra crescita socio-culturale generata da un processo di pianificazione partecipato e strumentalità delle organizzazioni partitiche, l’informazione e l’interazione in rete sulle problematiche del territorio diventa prima di tutto uno strumento di empowerment, capace di concentrare l’attenzione sui valori patrimoniali prima che sul loro uso. In altre parole, si tratta di andare nella direzione opposta al marketing territoriale, evidenziando ciò che per il mercato, ma sarebbe meglio dire per le categorie economiche, può essere privo di senso. Due appaiono le direttrici di lavoro più promettenti.
Interdisciplinarità e transdisciplinarità La prima direttrice riguarda la costruzione inter e transdisciplinare delle invarianti strutturali. Superare i diversi steccati disciplinari, come si è detto, è una missione implicita nell’attività della pianificazione territoriale e urbanistica ma anche un problema non risolto. La spinta agli specialismi e alla settorializzazione di competenze e piani può essere vista come connaturata alla dinamica accademica e professionale indotta dalla supremazia della tecnoscienza del mondo occidentalizzato. Per far dialogare le diverse discipline occorre dunque uno specifico sforzo legato in genere ad una sensibilità-affinità etico politica dei dialoganti. Tuttavia il risultato di questo dialogo, che potremmo chiamare inter-disciplinare, è certamente di aiuto ma non sufficiente. È quanto si osserva nelle buone pratiche di pianificazione in cui si fa questo sforzo che nella maggior parte dei casi, pur offrendo spunti di interrelazione, rimane confinato nella giustapposizione di “contributi esperti”. Si formano così nei processi di pianificazione notevoli apparati analitici a cui corrisponde solo una scarsa integrazione e la definizione del patrimonio territoriale avviene soprattutto per somma di valori e non per una loro reinterpretazione condivisa. Si rende necessario andare oltre attraverso un approccio transdisciplinare che attraversi gli steccati e non si limiti ad un dialogo solo sulla loro superficie. Nella consapevolezza postmoderna dell’impossibilità di un metalinguaggio unificante e della necessità di una conoscenza dialogica e interpretativa, il modo di approfondire il confronto tra discipline che si occupano del territorio dovrebbe partire dagli oggetti del territorio e dalle loro connessioni. Come indicato da Bruno Latour (Latour 1995) andare nella direzione di un “Parlamento delle cose” può aiutare a superare le dicotomie della modernità che sono allo stesso tempo causa ed effetto della segmentazione del sapere e dell’incapacità di affrontare i problemi del rapporto tra sviluppo tecnologico e ambiente. Il pianificatore, nella sua veste di progettista territoriale, deve costruire occasioni di confronto proponendo contesti in cui l’esplorazione progettuale inneschi la discussione, facendo in modo che la ricerca in comune della soluzione dei problemi diventi il veicolo per l’esplicitazione dei fondamenti che stanno alla base della definizione dei valori e delle interpretazioni di ogni specifica disciplina coinvolta. Tra i diversi oggetti di studio, di notevole efficacia sono quelli a rete che innervano il territorio. In particolare i corsi d’acqua, le strade, le connessioni ecologiche, possono costituire i tre principali ambiti di lavoro con la loro capacità di riassumere e di intrecciare tra loro le questioni relative al sistema abiotico, a quello insediativo e paesaggistico, a quello naturalistico-ambientale.
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Il territorio della Cassa per il Mezzogiorno aveva inizio dal territorio Pontino di cui si può considerare parte integrante il comune di Pomezia.
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I sistemi di regole come patrimonio La seconda direttrice di lavoro concerne lo studio delle relazioni che gli attori intrattengono con le risorse e le parti del territorio di cui dispongono attraverso titoli proprietari o di gestione. Negli studi di Elinor Ostrom che partono dalla tragedia dei common goods (i beni non escludibili e rivali), si evidenzia che né lo stato né il mercato sono in grado di garantire sempre lo sfruttamento produttivo, nel lungo periodo, delle risorse naturali. Si individuano invece in diversi contesti nazionali l’esistenza di istituzioni non identificabili nella dicotomia statomercato che sono state in grado di amministrare a livello locale risorse naturali con successi significativi e per lungo tempo (Ostrom, 2009). In questi contesti locali di piccole dimensioni “gli individui comunicano e interagiscono ripetutamente tra loro. In questo modo, è possibile che essi sappiano di chi fidarsi, quali effetti avranno le loro azioni nei confronti gli uni degli altri e nei confronti della risorsa, e come organizzarsi per ottenere vantaggi ed evitare danni. Quando gli individui hanno vissuto in tali situazioni per un tempo significativo e hanno sviluppato norme e modelli di reciprocità essi posseggono un patrimonio di natura sociale, con il quale possono costruire strutture istituzionali per risolvere i dilemmi delle risorse collettive.” (Ostrom, 2009; p.271). I sistemi di regole, dunque, possono essere considerati come parte del patrimonio di un territorio, cioè dei beni pubblici che possono provenire dalla storia del territorio e possono essere ancora presenti, almeno per l’aspetto giuridico-formale dei suoli, negli usi civici. Tali usi, come noto, soprattutto con la legge Galasso sono stati riproposti all’attenzione ma considerandoli fondamentalmente come aree da salvaguardare piuttosto che come esempio di una fruizione del territorio basata su regole diverse da quelle legate alla proprietà privata. Si può dire che ha prevalso l’impostazione di matrice ottocentesca che vedeva “la indiscutibilità della proprietà individuale come istituto sociale, come non abdicabile punto d’arrivo del progresso storico, come valore assoluto sul piano etico-sociale; e, conseguentemente, una indisponibilità psicologica a concepire la possibilità di forme alternative o ad avviare almeno un ripensamento vigoroso del sistema delle forme di appropriazione dei beni.” (Grossi, 1977; p.10). La necessità di questo ripensamento, associandosi alla consapevolezza che le istituzioni sono di rado interamente private o interamente pubbliche, porta ad indagare sulle forme effettive di gestione del territorio, ovvero dei modi in cui i diversi attori concretizzano in comportamenti la configurazione di regole con cui hanno a che fare nell’uso di una risorsa e da cui possono scaturire senso di appartenenza ed eventuali forme di autorganizzazione. Anche in questo caso gli ambiti di lavoro più interessanti possono coincidere con quelli precedenti, soffermandosi in particolare per il sistema abiotico sull’uso della risorsa acqua, per il sistema insediativo sulle relazioni con lo spazio pubblico, per quello naturalistico ambientale sui rapporti tra proprietà-gestione dei suoli e permeabilità dei confini.
Conclusioni L’intersezione di queste due direttrici di lavoro genera una base informativa e interpretativa dei valori patrimoniali che può essere posta all’attenzione degli abitanti e degli attori del territorio attraverso l’uso di opportuni siti internet interattivi e la coordinata costruzione di eventi di incontro culturale. Attraverso l’interazione si potranno costruire successive versioni della carta dei valori patrimoniali del territorio, un prodotto che può assumere un ruolo di supporto ma anche di critica o di stimolo ai processi di pianificazione. È evidente che queste capacità saranno tanto più concrete ed efficaci quanto la carta sarà espressione della società civile e quindi fuori dal controllo dei decisori. L’Università pubblica è la candidata principale ad avere un ruolo centrale nella costruzione della carta e quindi nel riconoscimento dei valori del patrimonio territoriale; l’impegno in questa direzione contribuirebbe a rinnovare il ruolo della pianificazione territoriale e urbanistica e a non schiacciare la disciplina nell’asfissiante morsa della cosiddetta urbanistica riformista, l’urbanistica che non sa lavorare senza dipendere dai decisori.
Bibliografia Folchi A. (2000), Poderi e città nuove in Agro Pontino.Storia di un territorio, a cura del Consorzio di Bonifica dell’Agro Pontino, Latina. Grossi P. (1977), Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffré Editore, Milano. Alberto Budoni
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La costruzione sociale del patrimonio e il ruolo della pianificazione territoriale e urbanistica
Jacobelli P., Fasolino Isidoro (2003), “Agro pontino tra bonifica e pianificazione integrata”, in Area Vasta n. 6/7 anno 2003. Latour B. (1995), Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Elèuthera, Milano. Magnaghi A. (2011), Relazione introduttiva al Congresso fondativo della Società dei territorialisti e delle territorialiste Firenze 1 e 2 dicembre 2011. Disponibile su: http://www.societadeiterritorialisti.it/. Marzocca O. (2011), Democrazia locale, federalismo solidale, cittadinanza attiva, relazione al Congresso fondativo della Società dei territorialisti e delle territorialiste Firenze 1 e 2 dicembre 2011. Disponibile su: http://www.societadeiterritorialisti.it/. Ostrom E. (2009), Governare i beni collettivi, Marsilio Editori, Venezia. Pennacchi A. (2010), Canale Mussolini, Mondadori Editore, Milano.
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Nuove geografie dell’auto-organizzazione.
Nuove geografie dell’auto-organizzazione Cecilia Scoppetta Sapienza Università di Roma Dipartimento DATA Email: ceciliascoppetta@tiscali.it
Abstract Il radicamento della relazione patrimonio/conservazione ha troppo a lungo comportato approcci rivelatisi inefficaci e talvolta controproducenti. La restituzione del concetto di “patrimonio” alla dimensione locale, oltre a contribuire a “sgombrare il campo” dalla manipolazione di nozioni rilevanti, quali quelle di “sostenibilità” e “sviluppo”, può consentire inedite interpretazioni di alcune figure territoriali tradizionali ormai chiaramente superate, come, ad esempio, quella della marginalità, e favorire la costruzione di modelli di sviluppo alternativi rispetto a quelli dominanti mediante l’attivazione positiva del capitale sociale. Anche in relazione alla ridefinizione dell’attuale articolazione delle competenze amministrative nella prospettiva del federalismo, ne deriva la possibilità di delineare nuove geografie dell’autodeterminazione dei territori, sullo sfondo dei processi di rescaling in atto nello spazio europeo.
I paradossi del patrimonio Il termine “patrimonio” è stato a lungo associato a quello di “conservazione” a partire da un “tradimento” verificatosi agli inizi del ‘900 intorno alla definizione dei concetti di “valore storico” e «Alterswert», il “valore dell’antico”, esito della modernità. Infatti, secondo Riegl (1903), contrariamente al primo – che richiede una conoscenza approfondita dell’oggetto a cui si applica e che ne presuppone la conservazione inalterata nel tempo perché possa essere studiato e compreso dalle generazioni future – l’«Alterswert», manifestandosi come «apparenza non moderna», nella quale si evidenziano i segni impressi dallo scorrere del tempo e dalle tracce del mutamento, «lavora alla sua stessa distruzione». Quindi, la cristallizzazione della conservazione paradossalmen te produrrebbe una diminuzione di valore, che, invece, aumenterebbe di intensità con l’inevitabile degrado, fino all’annullamento, coincidente con la completa distruzione dell’oggetto. Quest’ultimo, inoltre, rimarrebbe soltanto un «sostrato percettibile e necessario per creare quello stato d’animo che nell’uomo moderno produce la sensazione del corso circolare del divenire e del trascorrere […]. Questo stato d’animo, non presupponendo alcuna esperienza scientifica (dato che […] si esterna subito come sentimento), crede di poter avanzare la pretesa di non riferirsi solo agli specialisti […], ma anche alle masse [corsivo dell’A.]». I motivi del “tradimento” dell’attribuzione di valore al divenire storico, proposta all’inizio del ‘900, possono essere ricondotti al processo selettivo di codificazione e riduzione (Secchi, 1988) disciplinare: ad affermarsi, infatti, sarà, piuttosto, la cristallizzazione del concetto di “patrimonio” nella forma statica (ma certamente più “trattabile” dal punto di vista normativo) del “monumento”, affidando la mediazione tra valori del passato e valori del presente all’istanza di conservazione (cioè: agli «specialisti»). Non si può non notare, tuttavia, come tale processo riduttivo, tutto interno alla disciplina, abbia comunque intrecciato il suo percorso con quello della costruzione di immagini e discorsi funzionali alla produzione/mantenimento/trasformazione di specifiche relazioni di potere (Faircluogh, 2001; Foucault, 1971). Ciò appare particolarmente evidente se nel “patrimonio” viene incluso il paesaggio, la cui natura polisemica e non intenzionale non costituisce soltanto un elemento rivelatore della difficoltà di ricondurne la complessità all’interno dei perimetri ristretti del concetto di “monumento”: i molteplici significati insiti nel suo essere esito di Cecilia Scoppetta
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una progettualità collettiva, comprensibile come «sentimento» anche dalle «masse», verranno, infatti, canalizzati in modo strumentale – anche grazie al “filtro” dello storicismo crociano che ne limiterà gli «eccessi» indesiderati – verso la definizione di una identità nazionale ancora fragile, della quale il “paesaggio patrio” finirà per costituire l’immagine visibile: «E fuvvi anche chi affermò, con profondo intuito, che anche il patriottismo nasce dalla secolare carezza del suolo agli occhi, ed altro non essere che la rappresentazione materiale e visibile della patria [corsivo dell’A.], coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e sono pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli» (Croce, 1921). Quella del “paesaggio patrio”, non a caso codificata nell’art. 9 della Costituzione repubblicana, è un’immagine il cui carattere di permanenza e radicamento nell’immaginario disciplinare è stato a lungo sottovalutato. Ne è derivata la sostanziale sottrazione del patrimonio – relegato a mero elenco dei beni da salvaguardare e da circoscrivere all’interno di perimetri – dal circuito dei valori contemporanei. Di conseguenza, le stesse «battaglie» contro i «vandali» (Cederna, 1956) hanno paradossalmente finito per essere funzionali alla costruzione di beni posizionali: «Il paesaggio agrario, misura del tempo, deposito delle immense quantità di “lavoro morto” di generazioni che hanno fatto la umile storia umana di una popolazione, del suo accumulare esperienze, saperi e tecniche, diviene “panorama” che si vuole conservare intatto entro i coni visuali spiccati da una terrazza o da una finestra. Tutto ciò è imbarazzante» (Secchi, 1989). Il paradosso più rilevante, tuttavia, sembra risiedere nel fatto che l’assunzione del tema del patrimonio all’interno delle retoriche connesse al progetto nazionalistico ne abbia consentito l’alienazione rispetto alla dimensione locale, cioè rispetto al luogo della sua produzione e, quindi, rispetto alla complessa stratificazione di significati, saperi e pratiche ed alla densità del sistema di relazioni condensate nel “prodotto”. Ad essere stata oscurata, in sostanza, è l’accezione di “patrimonio” come costruzione sociale (Ferraro, 2001), la cui natura processuale e non conclusa implica necessariamente l’idea di un divenire ben differente dalla staticità di una musealizzazione tendenzialmente elitaria. Analogamente, l’unicità delle modalità di tutela del “patrimonio pubblico” si è tradotta in una sistematica negazione delle differenze che impedito, infine, di immaginare approcci progettuali in grado di superare la contrapposizione, decisamente poco fertile, tra conservazione e trasformazione (e, più recentemente, tra conservazione/patrimonio e valorizzazione/risorsa).
Patrimonio territoriale e progetto locale. Proprio sul versante del paesaggio – dove, cioè, i limiti dell’approccio centralizzante e generalizzante erano apparsi con maggiore evidenza – si è assistito al necessario cambiamento di prospettiva: come è noto, il riallineamento dei concetti di “paesaggio” e “territorio”, operato dalla Convenzione Europea per il Paesaggio, sembrerebbe aver sgombrato il campo (se non altro dal punto di vista teorico: le pratiche, così come i poteri consolidati, sono ben altra cosa …) da approcci inattuali e, di fatto, del tutto inefficaci (quando non controproducenti). L’intero “territorio” (non soltanto il “paesaggio”) può, quindi, essere inteso come «prodotto storico dei processi di co-evoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente, natura e cultura, e quindi, come esito della trasformazione dell’ambiente ad opera di successivi e stratificati cicli di civilizzazione» (Magnaghi, 2010). Tuttavia, l’enfasi che, in Italia, ne ha accompagnato l’elaborazione appare abbastanza sospetta ed induce a domandarsi se se ne siano realmente comprese le implicazioni. Tra queste, la restituzione del “patrimonio” alla dimensione locale, che comporta una progettualità non astratta perché derivante dalla «coscienza di luogo» (Magnaghi, 2010), cioè dal riconoscimento dei valori territoriali e dall’assunzione di questi come “beni comuni”, attraverso la quale il concetto di “patrimonio” viene connesso non soltanto a quello, generico, di “qualità della vita” (secondo la formulazione della Convenzione Europea per il Paesaggio), ma anche e soprattutto ad una serie di questioni non irrilevanti, quali i diritti fondamentali, il contratto sociale, la cittadinanza, le forme di rappresentanza, la legittimità del potere, la democrazia. Il concetto di “patrimonio territoriale” riferito alla dimensione locale implica, in sostanza, la produzione sociale del progetto, che può anche comportare la proposta concreta di un modello di sviluppo differente. Ciò acquista maggiore rilevanza in relazione ai processi di rescaling in corso (Gualini & Woltjer, 2004), legati al fenomeno della globalizzazione. Infatti, la dimensione locale diviene cruciale non solo in quanto «place» (Castells, 1996) (eventualmente, ma non necessariamente) in grado di intercettare i «flussi» (delle informazioni, Cecilia Scoppetta
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dei capitali, della tecnologia) globali, configurandosi come nodo, ma soprattutto perché è il livello locale a rivelare con chiarezza quali siano le reali poste in gioco, cioè chi vince e chi perde, e quale valore – al di là delle retoriche e delle pratiche discorsive – sia sacrificato all’altro, consentendo di evidenziare, ad esempio, la «cooptazione» di discorsi ed immagini, come nel caso del concetto di “sostenibilità” (Leitner & Sheppard, 2002). Alla scala locale sembra possibile svelare e risolvere le contraddizioni – riassumibili nel concetto di “sviluppo equilibrato” – insite nella compresenza, nelle politiche europee, degli obiettivi di coesione e sostenibilità, enunciati nel Trattato di Maastricht, e degli imperativi di competitività dell’Agenda di Lisbona, laddove i primi sono presentati come strumentali rispetto ai secondi. Accanto alla monodimensionalità de-territorializzata di nodi e connessioni, che caratterizza la rete della competitività “globale”, il principio di sostenibilità introduce l’elemento “superficiale” (spaziale, territoriale) e, quindi, inevitabilmente locale. Non a caso, il modello di sostenibilità, scelto quale riferimento per le politiche europee è proprio quello territoriale, basato sul concetto di carrying capacity. Ne deriva il passaggio dal concetto di inter-dipendenza, che è alla base della metafora della rete, a quello di autonomia, legato alla necessità di allargamento della partecipazione alle scelte relative alla gestione delle risorse ed in grado di esprimere la complessità di (inter)relazioni propria dell’«arcipelago» (Scoppetta, 2009) in luogo di quella tecnocratica e meno inclusiva della rete, in cui l’autonomia del sistema economico dalla sfera sociale e dalla partecipazione politica inevitabilmente introduce la questione dell’effettiva possibilità di controllo democratico, effetto indesiderato di un’offerta di prodotti molto ampia e a basso prezzo. Al contrario, lo spostamento del baricentro del processo economico alla scala più vicina al livello in cui la partecipazione politica trova maggiore espressione può comportare l’assunzione di responsabilità riguardo a “come” e “cosa” può essere prodotto in un certo territorio. E’, quindi, alla scala locale che la sostenibilità sembra essere realisticamente raggiungibile, dal momento che la maggiore accessibilità alle informazioni implica un’effettiva possibilità di controllo dei processi produttivi così come dei fenomeni di progressiva esclusione prodotti dalla crescita (Rist, 1996). La dimensione locale si configura, quindi, come livello in cui esprimere e sviluppare pratiche di resistenza a modelli (e modalità discorsive) omologanti, attraverso la proposizione di strategie di sviluppo alternative che muovano dall’attivazione del capitale sociale incorporato nel patrimonio territoriale.
Progettualità dei territori e capitale sociale. L’accento posto sul capitale sociale non è certamente privo di ambiguità e questa va ricercata in quelle logiche quasi «hobbesiane» (Donolo, 2007), innegabilmente diffuse nel corpo sociale e nel sistema economico, che spesso sembrano guidare le pratiche territoriali, soprattutto in presenza di forme del tutto proceduralizzate della partecipazione ai processi decisionali. Gli effetti territoriali di alcuni processi di “sviluppo” basati su una “valorizzazione” (privatizzazione) di beni comuni, testimoniano delle oggettive difficoltà di radicamento di strategie di sostenibilità laddove la crescita di un benessere individuale sempre più tendente all’esclusione sembra essere proporzionale al livello di miserie pubbliche. Inevitabilmente, questa sorta di «dark side del capitale sociale» (Cremaschi, 2007) sembra spingere nella direzione dell’omologazione – che si somma agli impatti omologanti dei processi economici (si pensi alla cosiddetta “città diffusa”) – tanto più se la condizione di partenza è quella di una varietà territoriale vissuta come condizione limitante. In questo senso possono essere interpretate alcune “mode” che periodicamente tendono a connotate la scelta dei possibili elementi trainanti uno sviluppo che sembra impossibile immaginare come “differente”: dalla proliferazione di sedi universitarie, ai porti turistici, ai “contenitori”, agli “eventi” (e relative politiche “straordinarie”). La questione si pone con maggiore forza in quei territori che costituiscono l’habitat delle organizzazioni criminali (Sales & Ravveduto, 2006), in cui la stessa complessità – delle relazioni sociali, ma anche istituzionale – diviene fattore di «disordine» (Donolo, 2001; Bourdon, 1985) che viene «capitalizzato a scopo di rendita da reti sociali particolaristiche» (Cremaschi, 2007). Al contrario, il capitale sociale, a differenza delle altre forme di capitale, può essere inteso come bene pubblico costantemente utilizzato: infatti, il suo possibile deperimento non dipende dall’eccessivo utilizzo, ma dall’inutilizzo, perché proprio l’iterazione e la progressiva espansione delle relazioni sociali costituiscono il fattore fondamentale per la sua accumulazione. Tale iterazione è assicurata ed agevolata dalla fiducia: «trust lubrificates cooperation» (Putnam, 1993). Più in generale, è possibile distinguere tra capitale sociale «orizzontale» e «verticale» (Putnam, 1993): mentre il secondo riguarda «inequal agents in asimmetric relations of hierarchy and dependance», il primo è in grado di generare cooperazione e fiducia, rafforzando le norme di reciprocità e facilitando il flusso di informazioni relative alla credibilità di individui ed attori. Un’ulteriore distinzione è quella tra capitale sociale «bridging» e «bonding» (Putnam, 2000), quest’ultimo caratterizzato dalla tendenza a rinforzare identità esclusive e gruppi omogenei e basato essenzialmente su legami «forti» (strong ties) che costituiscono una risposta di natura tattica a Cecilia Scoppetta
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condizioni “ostili” – «strong networks seem to be linked both to economic insecurity and a lack of social services» (Granovetter, 1983) – contribuendo alla frammentazione della comunità insediata e perpetuandone la condizione di marginalità. In questo senso, si può parlare di capitale sociale come «social support» e non come «social leverage» (De Souza Briggs, 1998): il primo è inteso come un aiuto nell’affrontare le urgenze della vita quotidiana (che in condizioni di deprivazione economica si presentano come particolarmente acute); il secondo, invece, sostiene i soggetti in senso più ampio, favorendo l’accesso e il cambiamento delle strutture di opportunità. Un riferimento in questo senso è costituito dalla trasposizione del concetto di «capacitazione» (Sen, 2000) da un’accezione individuale a quella collettiva dei territori, pensati come in grado di acquisire la possibilità (libertà) di esprimere modelli differenti di sviluppo. Il concetto di “capacitazione” costituisce un arricchimento dell’approccio territorialista alla sostenibilità, basato sull’idea che conferire una dimensione territoriale alle politiche di sviluppo possa garantire la costruzione di processi multidimensionali, nei quali, cioè, non intervengono solo fattori economici, ma anche di natura sociale, ambientale, infrastrutturale, insediativa, storica e istituzionale. Ne consegue che l’autonomia dei territori non significa semplicemente poteri decentrati, ma capacità di auto-regolazione, cioè di sviluppare preferenze individuali e collettive nella direzione della sostenibilità attraverso strategie non paternalistiche esplicitamente volte a questo fine (rendendolo, cioè, concretamente desiderabile). Ne deriva che la progettualità fine a se stessa non possa essere considerata quale indice di sviluppo locale autosostenibile: a partire dalla concettualizzazione del capitale sociale come “capacitazione”, la progettualità locale si esplicita in termini di auto-costruzione di modalità “altre” di sviluppo, di attribuzione di potere agli “attori deboli”, di cooperazione, di costruzione di reti; può essere misurata, ad esempio, dalla maggiore o minore ricorrenza con cui un territorio costruisce (o partecipa a) iniziative di valorizzazione, intesa non in senso economicista, ma come capacità di costruire una propria strategia e identità attorno ai progetti stessi. La costruzione di un comune immaginario territoriale ne costituisce il presupposto, che consente il permanere di legami anche al di là dello stesso progetto ed il radicamento interiorizzato di valori e metodi. Ci si riferisce, in sostanza, ad una progettualità da intendersi più in termini immateriali e di processo che di esiti, e che, quindi, può essere definita “lenta”, nel senso che, privilegiando la dimensione cognitiva dell’auto-apprendimento collettivo – della co-evoluzione, cioè, di attori e contesto – richiede il tempo differente della sedimentazione dei valori territoriali prodotti. Questi ultimi possono essere intesi come “costrutti” e consistono, in sostanza, nella riproduzione di beni comuni, che costituisce il presupposto e l’elemento qualificante dello sviluppo: insieme ad una effettiva possibilità di accesso, proprio la riproduzione di beni comuni conferisce significato al concetto di “coesione sociale”, consentendone un accostamento non contraddittorio alla nozione di “sviluppo”. In questo senso, un interessante riferimento è dato dall’interpretazione di alcuni territori, tradizionalmente intesi come marginali, come «territori lenti» (Lancerini, 2005; Lanzani, 2007), in cui la “lentezza” non è sinonimo di “arretratezza”, ma indica la possibilità di forme di sviluppo differente, nelle quali i tempi lunghi, richiesti dalla costruzione culturale, costituiscono un valore aggiunto.
Nuove geografie dell’auto-organizzazione e processi di rescaling dei territori europei. Il protagonismo dei territori nel progettare forme di sviluppo “differenti” a partire dal riconoscimento del proprio “patrimonio” come bene comune comporta un rovesciamento di prospettiva che consente la riformulazione di alcuni concetti, come quello di “marginalità”, che a lungo – e soprattutto in Italia – hanno svolto un ruolo centrale nelle interpretazioni territoriali, al punto di poter essere considerati quali elementi di quel «senso comune» (Gramsci, 1952) che impedisce la libera scelta e la possibilità di cambiamento. Che, a partire dalla formazione dello stato nazionale, il concetto di marginalità abbia guidato le politiche pubbliche nelle regioni del sud d’Italia è, del resto, cosa nota, così come ben note sono le distorsioni prodotte da una rappresentazione della marginalità come “problema” e non come “risorsa” o come “opportunità”. Nonostante la rivoluzione tecnologica e la pervasività anche eccessiva delle retoriche inerenti la dimensione deterritorializzata del networking, la marginalità continua addirittura ad essere messa in relazione alla scarsa accessibilità e dotazione di infrastrutture (o, di recente, alla loro privatizzazione, per di più in nome di una spatial justice tutta da verificare), come se fosse possibile ignorare gli effetti devastanti in termini di spopolamento, di ulteriore marginalizzazione e di dipendenza prodotti – almeno fino all’inizio degli anni ’90, con i primi finanziamenti europei per programmi per lo sviluppo locale – da politiche infrastrutturali guidate dalla mera necessità di convogliare forza lavoro dalle regioni del sud verso quelle industrializzate del nord e, più in generale, da un’idea di sviluppo basata sulla riproduzione di un unico modello, a prescindere dalle specificità dei contesti. La progettualità dei territori intorno ai propri «giacimenti patrimoniali» (Magnaghi, 2005), la cui permanenza è stata salvaguardata proprio dalla condizione di marginalità, rende difficile la riduzione del concetto di
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marginalità entro i confini ristretti di una rappresentazione univoca, ma consente, invece, di disegnare nuove e più articolate geografie dello sviluppo. Infatti, la capacità di costruzione di reti più ampie costituisce un aspetto qualificante della progettualità dei territori, all’interno della quale acquista centralità una dimensione intercomunale che può non corrispondere a nessuna entità amministrativa precostituita, configurandosi piuttosto come risultato di azioni comuni nel tempo, cioè come condivisione, a scala intercomunale, di progettualità in corso o implementate. Un riferimento è costituito dall’esperienza francese dei Pays, cioè della nuova figura territoriale – non amministrativa ma funzionale a progetti, strategie, accordi e contratti per lo sviluppo territoriale – istituita nel 1999 (Santangelo, 2003), ma anche alle numerose Unioni di Comuni (Testa, 2010) sviluppatesi in Italia. Tali forme di intercomunalità spontanea definiscono quel «livello intermedio» (Dematteis & Governa, 2002) che implica una capacità di “fare rete” e di confrontarsi con reti più ampie, superando la frammentazione delle relazioni sociali, connesse all’idea novecentesca di territorio racchiuso all’interno di confini, che costituiscono una «griglia stabile ed immobile», un elemento «di fissità in un altrimenti mutevole paesaggio geografico» (Brenner, 2009). Area vasta e sviluppo locale, del resto, non sono in contraddizione, essendo la concezione del “locale” ormai dilatata entro un sistema di relazioni più ampio (Palermo, 1998). Alla multiscalarità e ai processi di rescaling (Brenner, 2001) è infatti riconosciuto un ruolo chiave nel formare strategie di sviluppo in un contesto, quale quello europeo, attraversato dai cambiamenti di ruolo e di funzione dello Stato-nazione, con il progressivo passaggio di poteri e competenze dagli stati nazionali a livelli sovranazionali (UE) e a livelli regionali e locali. Si assiste, cioè, allo sviluppo di nuove forme di riorganizzazione territoriale, peraltro sostenute dalla Comunità Europea, in cui i diversi livelli territoriali interagiscono e le scale geografiche assumono un nuovo ruolo, implicando anche la definizione di nuove scale di azione sociale: «scale is the actor’s own achievement» (Keil & Mahon, 2009), perché «we scale politics to our own purposes» (Magnusson, 2009). Infatti, i processi di rescaling in atto non comportano soltanto il passaggio di competenze da un livello ad un altro, ma implicano anche l’emergere di interazioni multiscalari e di un «governance environment characterized by multiple constellations and multiple coalitions for development that define a geography of governance that is flexible, often overlapping, and increasingly autonomous from given territorial jurisdictions» (Gualini & Woltjer, 2004). Si tratta, cioè, di un superamento del concetto tradizionale di rescaling (Brenner 2003; Salet, 2003). Infatti, se, da un lato, la logica è quella degli approcci precedenti (coordinamento, decentralizzazione, devoluzione, sussidiarietà), volti a rispondere alla rottura delle gerarchie e ad individuare la scala di governance più appropriata, dall’altro, l’evoluzione del termine riflette due aspetti del tutto nuovi: il primo riguarda il riconoscimento dell’inefficacia di burocrazie, strumenti di governo e di controllo gerarchici in un’economia globale flessibile e nel quadro di istituzioni democratiche. Il secondo riguarda la relazione tra governance e government. In questo senso, il carattere innovativo dei networks istituzionali multiscalari – che definiscono quelli che sono stati definiti come «soft spaces» (Waterhout, 2009; Faludi, 2010; Haughton et al., 2010) o «synaptic spaces» (Scoppetta, 2011) – risiederebbe nella loro learning dimension: tali nuove forme organizzative, in sostanza, evolverebbero ed apprenderebbero attraverso complessi processi differenti rispetto a quelli propri delle mere organizzazioni ed istituzioni tradizionali. L’arcipelago (Scoppetta, 2009) dei territori un tempo interpretati come marginali non costituisce, tuttavia, una sorta di geografia alternativa “lenta”, da contrapporre in modo grossolano a quella “veloce” dei territori “competitivi”: l’accento posto sul capitale sociale inteso come «autonomy» e non come «embeddedness» (Woolcock, 1998) non comporta, infatti, un’idea di chiusura, ma rimanda ad una fertile costruzione di legami con l’esterno che non implica l’annessione (assimilazione) dei territori marginali ai valori dominanti, ma la costruzione di una relazione critica tra territori marginali, con le loro specifiche risorse e valori, ed i territori “altri”, nell’ambito di una rappresentazione (finalmente) plurale dello sviluppo.
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Riconoscimenti Questo paper nasce da riflessioni sviluppate (o soltanto abbozzate) a partire dalla mia tesi di dottorato ed in seguito ulteriormente approfondite nell’ambito di differenti occasioni di ricerca. Tuttavia, credo di essere debitrice dello stimolante dibattito interdisciplinare che, nel corso del 2011, ha animato la costruzione della “Società dei Territorialisti e delle Territorialiste”, e, in particular modo, del punto di vista filosofico di Ottavio Marzocca. Ringrazio sinceramente anche il Prof. Andreas Faludi per gli indispensabili suggerimenti in merito alla prospettiva europea e per gli incoraggiamenti ricevuti.
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La Carta dei valori, metodo e possibilità. Il caso Carnia
La Carta dei valori, metodo e possibilità. Il caso Carnia Paola Pellegrini Università degli studi di Udine Dipartimento di Ingegneria civile ed Architettura Email: paola.pellegrini@gmail.com Tel. 04.321740345
Abstract Il riconoscimento in modo condiviso dei valori del territorio per costituire la base di un processo di pianificazione di area vasta è stato l’obiettivo della redazione della Carta dei valori della Carnia promosso per il progetto SUSplan, Interreg Italia Austria 2007-2013 dalla Comunità Montana della Carnia. Definire i contenuti e le operazioni di una Carta dei valori, intesa quale parte iniziale di percorso di piano secondo l’approccio territorialista, è stato l’occasione per discutere obiettivi, limiti e possibilità di questo approccio comprensivo e partecipativo in ambito montano. Il saggio descrive premesse, metodo, modo nel quale patrimonio e valori sono stati interpretati nel caso specifico della Carnia.
Valori. Premessa La discussione su cosa si debba intendere con “valore” parlando di interpretazione e progettazione del territorio è stata al centro della riflessione del lavoro “Carta dei valori della Carnia” condotto per la Comunità Montana della Carnia (Udine) fra il maggio e il novembre del 2011 1 all’interno dell’Interreg IV A 2007-2013 Austria-Italia, progetto SUSplan – Pianificazione sostenibile in aree montane, Workpackage 3: Strategie condivise e progetti pilota. Il progetto SUSplan, che dovrebbe concludersi nell’ottobre 2012, ha come partner la Carinzia, la Comunità Montana della Carnia, la Comunità Collinare del Friuli, la Direzione Urbanistica della Regione Veneto, territori che, secondo il progetto, costituiscono un'area montana periferica con una struttura territoriale e una situazione ambientale molto simile. Il riconoscimento in modo condiviso dell’identità peculiare del territorio ed il fare di questo la base della pianificazione a varie scale sembra essere una richiesta sempre più frequente negli ultimi anni, come frequente è l’uso dei termini “valori” e “comunità”. Ma come oggi, in una società disaggregata e multiculturale, è possibile individuare i valori di una comunità? Se il committente dell’incarico era convinto dell’opportunità di definire dei valori e della possibilità di tale definizione – intercettando, selezionando, stabilendo una gerarchia – il gruppo di lavoro incaricato si è chiesto dal momento della definizione dell’offerta tecnica presentata al bando di selezione come intendere la questione, dentro quale spettro di attività, con che possibilità di essere assertivi, cosa dovesse essere una “carta”. Questo saggio non entra nel merito della realtà del contesto territoriale per il quale il lavoro è stato svolto e dei risultati specifici (che saranno visibili in apposito WebGIS), ma del metodo e delle possibilità della Carta dei valori. 1
La Comunità Montana della Carnia è la parte Nord-Ovest della regione Friuli Venezia Giulia, si estende su una superficie di circa 1.200 kmq e conta una popolazione di circa 40.000 abitanti. La Carta dei valori della Carnia necessaria per l’azione pilota di pianificazione di area vasta prevista dal progetto “SUSplan: Pianificazione sostenibile in aree montane”, finanziato nell’ambito del Programma Interreg IV Italia Austria 2007-2013 è stata redatta dall’Associazione Temporanea di Professionisti (ATP) formata dagli archh. Silvia dalla Costa, Viviana Ferrario, Paola Pellegrini (capogruppo), Martina Pertoldi. Il contenuto del presente saggio è da considerare riflessione dell’autore, non necessariamente condiviso dagli altri componenti dell’ATP.
Paola Pellegrini
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L’importanza del committente nella scelta del metodo Il committente della Carta dei valori, l’ufficio Sistemi Informativi Territoriali della Comunità Montana della Carnia (CMC), è stato molto rilevante nella definizione di quanto è stato fatto; l’ing. Gridel e il dott. Zuliani, che conducono l’ufficio 2, hanno una grande esperienza nella elaborazione, organizzazione e gestione dei dati geografici e di GIS 3 e offrono supporto decisionale e tecnico operativo alle attività di pianificazione settoriale 4 dei 28 comuni che compongono la Comunità Montana e delle istituzioni che operano nel comprensorio. L’ing. Gridel ha conosciuto l’approccio territorialista allo sviluppo locale proposto da Magnaghi nel libro “Il progetto locale” 5 e ha inteso proporlo come traccia per le attività da svolgere in Carnia con i fondi del progetto SUSplan: una “azione pilota di pianificazione di area vasta”, cioè estesa a tutta la Carnia, articolata in Carta dei valori, Statuto dei Luoghi, Valutazione Ambientale Strategica e Scenari strategici secondo l’interpretazione dell’ufficio SIT di questo metodo di pianificazione 6. La prima fase di questa azione pilota ha chiesto ai progettisti incaricati di definire i contenuti e le operazioni di una Carta dei valori con un approccio comprensivo e partecipativo. Si trattava quindi di interpretare e coniugare il metodo territorialista nella realtà specifica della Carnia e in base alle aspettative del committente.
Questioni alla base dell’iniziativa Alla base dell’iniziativa “azione pilota” si possono individuare tre questioni rilevanti e fra loro connesse, alcune esplicitate dall’ufficio SIT, altre solo accennate, ma evidenti nella lettura del contesto: 1. la ricerca di nuove modalità d’impostazione del piano territoriale: i tecnici della CMC intendono sperimentare un modo “nuovo” di pianificare, nuovo in quanto diverso dall’attività convenzionale basata principalmente sulla zonizzazione; questa istanza è dovuta a • la percezione dell’urbanistica come pratica burocratica talvolta vessatoria e spesso estranea alle pratiche reali di costruzione e gestione del territorio montano, elemento che l’ufficio ha constatato nei tecnici delle amministrazioni locali e negli abitanti; • la radicale incertezza sul futuro (incertezza tecnico-previsiva), tratto oggi pervasivo fra operatori ed urbanisti, che sembra vanificare la possibilità della pianificazione poiché è deteriorata la relazione con il futuro; contemporaneamente la parte politica risulta indebolita, se non delegittimata, in particolare perché la CMC è stata commissariata dal 2009; • l’idea di generale depauperamento della comunità locale in Carnia, secondo un refrain ricorrente da molti anni nel comprensorio montano (quasi un luogo comune di impoverimento socio-economico e culturale); si pensa di poter contribuire a invertire tale indirizzo con una appropriata azione di pianificazione cha sappia cogliere e valorizzare le risorse esistenti; 2. la partecipazione al processo di pianificazione e l’idea di comunità estesa a tutta la Carnia: nelle intenzioni dei promotori del processo “i piani ed i progetti devono essere espressione della identità locale e di come la comunità vuole organizzare le sue risorse” 7; 3. il sistema della governance territoriale in Friuli e la “soppressione delle comunità montane e il riordino delle funzioni amministrative a esse attribuite al fine di perseguire obiettivi di accelerazione e contenimento della spesa pubblica” 8: nel momento della definizione del progetto SUSplan per la Carnia l’utilità dell’ente comunità montana - per il quale i tecnici lavorano - era stata messa in discussione dalla giunta regionale, in contrasto con la sempre maggiore richiesta alla CMC di supporto tecnico e servizi da parte dei Comuni della montagna, che spesso sono molto estesi ma senza risorse tecniche e finanziarie e strutture 9. Oggi sono state 2
L’ufficio SIT ha promosso e ideato l’iniziativa SUSplan in Carnia, che sta riscuotendo notevole interesse in regione e fra i partner. L’ingegnere civile Patrizia Gridel e il dottore di ricerca in agraria e scienze ambientali Michel Zuliani devono la loro formazione recente in materia urbanistica ad iniziative di approfondimento personali. 3 L’ufficio ha strutturato e pubblicato online (WMS, WFS, webgis) il Sistema Informativo Montano (www.simfvg.it), che lavora in ambiente totalmente open source e secondo gli standard imposti dalla direttiva INPIRE e dalla Infrastruttura Regionale Dati Ambientali e Territoriali del Friuli Venezia Giulia. 4 Come ad esempio piani di telefonia mobile, piani di classificazione acustica, carte tematiche in materia di edilizia sostenibile, aggiornamento del catasto delle piste forestali. 5 Alberto Magnaghi, (2000). Il progetto locale. Verso la coscienza del luogo, Bollati Boringhieri. In particolare il capitolo 7. Un processo di pianificazione per il progetto locale. 6 Con la promozione della Carta dei valori la CMC intendeva anche allinearsi ai contenuti del nuovo sistema di pianificazione indicati in modo sintetico per il territorio regionale nelle nuova LR 22/09 Procedure per l’avvio della riforma della pianificazione territoriale della Regione. 7 Espressione ufficiale della presentazione del Progetto SUSPLAN da parte della CMC. 8 Ai sensi della legge regionale (LR) 12 del 2009, art. 12 Sussidiarietà e devoluzione, commi 52-56. 9 In Friuli Venezia Giulia la disciplina di questi enti locali territoriali è dettata dalla LR 33/02 che ha istituito i comprensori montani, poi denominati comunità montane dalla LR 1/04. Le comunità montane sono state commissariate in attuazione Paola Pellegrini
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create le Unioni dei comuni montani e si sta redigendo il nuovo statuto che deve definirne nel dettaglio le funzioni e i compiti amministrativi. Con il progetto SUSplan la CMC, in un momento di radicale ripensamento del ruolo dell’ente e di ridefinizione della legge urbanistica regionale e quindi del metodo di pianificazione 10, si propone come amministrazione efficiente e testa la sua capacità di essere ente di indirizzo che fornisce le strategie per lo sviluppo futuro dell’intero comprensorio dei 28 Comuni, in reazione alla frammentazione dei piani comunali, ostacolo alla promozione di iniziative significative di promozione della Carnia, ma anche al carattere spesso adattivo e contingente dell’attività di pianificazione e la debolezza o occasionalità dei programmi. Così facendo, inoltre, afferma il ruolo dell’urbanistica per il governo sostenibile del territorio, in contrasto rispetto alla tendenza espressa negli ultimi anni dal governo regionale friulano. In considerazione di queste questioni di base l’iniziativa SUSplan in Carnia ha assunto un notevole significato e suscitato interesse.
Il metodo per la Carta dei valori La Carta dei valori, secondo l’approccio territorialista, deve riconoscere il patrimonio di lunga durata, esito di accumulazione selettiva, e le risorse disponibili del territorio, intese come interpretazione del patrimonio per il suo uso e riuso e da amministrare nell’interesse dei cittadini; patrimonio ed interpretazione del patrimonio sono stati intesi come i valori del territorio della Carnia. Il patrimonio è un concetto dinamico: la società locale interpreta secondo i propri modelli culturali il patrimonio ai fini del proprio progetto di sviluppo, conservandolo e trasformandolo; l’individuazione dei valori implica quindi l’espressione di un giudizio su cosa siano l’identità locale ed il patrimonio e rappresenta il riferimento necessario per la definizione degli obiettivi e della sostenibilità del piano di area vasta (l’azione pilota del progetto SUSplan). La Carta dei valori della Carnia, quale processo di riconoscimento del patrimonio e delle risorse, costituisce il quadro conoscitivo che descrive e valuta lo stato attuale del territorio e i processi e le tendenze evolutive che lo caratterizzano; questo processo di riconoscimento si basa su due momenti di lavoro articolati: • ricognizione, acquisizione, interpretazione dei documenti, studi, opere letterarie… e dei dati geografici esistenti, con l’elaborazione e lettura incrociata di alcuni set di nuovi dati che sono stati riconosciuti importanti per la definizione del patrimonio; • un processo partecipativo per coinvolgere la comunità locale nella costruzione e validazione dei contenuti della Carta. La ricognizione ha portato alla rappresentazione di: • il patrimonio riconosciuto in modo ufficiale, chiamato “Carta zero”, cioè riconosciuto dalla normativa vigente attraverso l’obbligo alla tutela e conservazione, ma comunque suscettibile di modifiche in funzione di sensibilità, opportunità, risorse economiche della contingenza storica; • le evoluzioni - recenti e nel tempo lungo - delle componenti del territorio, evidenziando cosa si è “perso” e le forze endogene ed esogene che incidono sul mantenimento/trasformazione dei sistemi (trasformazioni dell’uso del suolo, evoluzione della popolazione, macro-fenomeni quali l’estinzione delle produzioni tradizionali, la chiusura delle scuole, la riduzione dei tracciati stradali…, la progettualità espressa negli anni da enti ed istituzioni locali, indizi e spie di recente trasformazione); la ricerca della “perdita”, esplicitamente richiesta dal committente, cioè di un processo di costruzione del territorio che comporta la diminuzione del patrimonio, fa parte dell’idea di depauperamento di cui al paragrafo precedente; • gli ambiti territoriali/paesaggi con identità riconoscibili, facendo riferimento alle elaborazioni ufficiali sul paesaggio esistenti in regione: • i sistemi locali, cioè la selezione dei principali patrimoni del territorio ed il modo in cui questi vengono utilizzati, mettendo in relazione gli elementi che li compongono; i sistemi individuati – sistema agro-silvodella LR 12/09 e riformate dalla LR 14/11 “Razionalizzazione e semplificazione dell'ordinamento locale in territorio montano. Istituzione delle Unioni dei Comuni montani”. Le comunità montane sono quindi in fase di transizione verso un nuovo assetto istituzionale degli enti sovra-comunali della montagna. L’Unione montana della Carnia corrisponde per estensione alla soppressa CMC e eserciterà “le funzioni di valenza sovra-comunale relative alla programmazione territoriale, definizione e realizzazione delle politiche energetiche, fatte salve le competenze di altri soggetti” (LR 14/11 art.4, comma 2 punto c). La dimensione provinciale di piano in Friuli è sostanzialmente inesistente. 10 Le vicende della pianificazione in regione Friuli – e della sua gestione - sono molto complesse dagli anni ’90: nonostante alcuni tentativi ancora non è stato sostituito con un nuovo strumento il piano urbanistico regionale del 1978 e non è stata aggiornata la legge urbanistica del 1992. Nell’organigramma della amministrazione regionale la pianificazione territoriale è passata da “Direzione” a “Servizio”. Lo sforzo della CMC può anche essere letto contro l’irrilevanza o marginalizzazione dei tecnici della pianificazione. Paola Pellegrini
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pastorale, della natura, dell’acqua, delle energie rinnovabili, della memoria, dell’accessibilità, dell’abitabilità, dell’ospitalità, delle attività produttive – articolati in sub-carte tematiche 11 [Figure 1, 2, 3], sono intesi e proposti come i principali valori (patrimonio e risorse specifici del contesto e imprescindibili nella costruzione del progetto) del territorio della Carnia. Ad esempio la rete idrica e la produzione di energia idroelettrica, la produzione potenziale di biomassa retraibile dalla biomassa forestale, gli elementi che hanno costruito la storia e la civiltà del territorio e dei suoi abitanti, il sistema di valori economici, sociali e ambientali rappresentati dalle attività agricole e dell’allevamento, le dotazioni e attrezzature che sostengono le reti sociali, il sistema della naturalità… Il parere sul valore rappresentato da quest’ultimo è, però, controverso: dalla natura ci si deve difendere e deve continuare ad essere utilizzata come in passato senza estetismi e moralismi. Il processo partecipativo è stato attivato con lo scopo di raccogliere informazioni altrimenti non disponibili, comunicare il processo di pianificazione in corso e sollecitare interpretazioni, attivare relazioni non gerarchiche, potenziare le capacità espressive locali per comprendere quali valori siano percepiti e condivisi dalla comunità locale. Nello sforzo di produrre pianificazione “sostenibile” un’intensa attività di partecipazione è stata considerata essenziale ed è stata composta da tre momenti diversi nei modi di coinvolgimento: • interviste a testimoni privilegiati, cioè a coloro che hanno saputo contribuire alla costruzione del territorio (imprenditori, politici, medici, volontari…) o alla sua comprensione storico – culturale – antropologica (studiosi, musicisti, poeti, giornalisti…); i racconti dei 26 intervistati selezionati dagli autori sono stati un’eccezionale apertura sul mondo della Carnia, che è risultato un territorio di contraddizioni (genuinità – arretratezza, naturalità – sfruttamento, diritto di cittadinanza – disinvestimento…); • Atlante delle segnalazioni dei valori territoriali della Carnia, sito on-line dove chiunque può indicare quali siano a suo parere gli elementi importanti nel determinare il valore del territorio 12; il sito, che ha preso come riferimento esperienze simili effettuate in Italia (in particolar modo l’Atlante delle segnalazioni della regione Puglia e le mappe dei cittadini della Provincia di Prato) continuerà ad esistere oltre la conclusione del progetto SUSplan per raccogliere sapere non esperto; • tavoli di vallata 13 rivolti a una selezione di attori locali (pro loco, amministratori, rappresentanti di associazioni, operatori di servizi pubblici… al massimo 20 persone per ottenere un buon livello di coinvolgimento) per discutere con taglio tecnico-scientifico e validare il processo in corso ed i suoi risultati provvisori, cercando di riconoscere le auto-rappresentazioni delle comunità, cioè le immagini del territorio espressione delle aspettative e dei problemi di chi ci vive e opera. La Carta dei valori della Carnia non è, quindi, un prodotto cartografico, quanto piuttosto un processo complesso articolato in varie fasi, con diversi risultati 14: 1. le figure di sfondo per la riflessione sui valori del comprensorio montano derivate dalle interviste ai testimoni privilegiati; 2. il repertorio di tutti i dati indagati, esistenti ed elaborati ex novo nel corso del lavoro (un centinaio di dataset geografici organizzati), confluiti nella "Carta dei patrimoni" insieme alla “Carta zero” dei valori ufficiali; 3. l’Atlante delle segnalazioni che potranno in futuro confluire nei dati disponibili, sempre implementabili; 4. un Atlante identitario a livello comprensoriale composto dalle carte interpretative relative a "evoluzioni/perdite", "paesaggio", "sistemi” (33 carte tematiche configurate con i dataset “vestiti”), che sono il frutto del lavoro degli esperti, della rielaborazione delle indicazioni provenienti dai testimoni privilegiati e della validazione/discussione dei tavoli di vallata, che nel loro insieme descrivono i principali valori (patrimonio e risorsa) della Carnia; 5. i tavoli di vallata; 6. la pubblicazione come Webgis nel Sistema Informativo Montano della Carnia 15 di tutto il materiale prodotto per esprimere e veicolare informazioni, interpretazioni, risultati.
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Per ciascun sistema è stata specificata l’importanza nella costruzione del territorio, la potenzialità come risorsa, i dati geografici che lo compongono e la relazione fra questi, sono state avanzate considerazioni per il successivo step “lo statuto dei luoghi” e suggerimenti per la prosecuzione del lavoro di raccolta dati. 12 L'Atlante è stato strutturato in “tipi” di patrimoni con lo scopo di ordinare secondo un criterio semplice le segnalazioni. 13 Gli incontri sono stati organizzati nelle 3 valli principali del comprensorio e nella conca del capoluogo. 14 Da p.13 della Relazione finale di: Silvia Dalla Costa, Viviana Ferrario, Paola Pellegrini, Martina Pertoldi, (2011). “Servizi di elaborazione della Carta dei valori della Carnia necessaria per l’azione pilota di pianificazione di Area Vasta prevista dal progetto “SUSPLAN: Pianificazione sostenibile in aree montane”, finanziato nell’ambito del Programma Interreg IV Italia Austria 2007-2013”. 15 http://www.simfvg.it/index.php?id=20, in corso di pubblicazione. Paola Pellegrini
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Il patrimonio, i sistemi, i valori 16 Il concetto “patrimonio” è stato inteso come tutto ciò che le generazioni hanno lasciato perché venga trasmesso alle generazioni successive. Questa accezione di patrimonio riguarda quindi tutto quello a cui la comunità, in modo esplicito o implicito, ha attribuito nel tempo un valore, manifestato attraverso la manutenzione e la conservazione, attraverso l’opposizione alla sua perdita e deterioramento o attraverso azioni di valorizzazione e innovazione. Il patrimonio è un concetto dinamico 17 perché il giudizio espresso su cosa sia patrimonio è profondamente marcato dalla cultura; la nostra epoca “patrimonializza” 18, cioè tende ad estendere il concetto di monumento, bene culturale, eredità sociale e tutto diventa patrimonio. Il patrimonio è un concetto dinamico anche perché è “il risultato sempre attuale di una lunga serie di prove ed errori costitutive del processo co-evolutivo e co-adattivo delle società locali con il loro ambiente” 19. Il patrimonio è un concetto dinamico anche perché viene interpretato ai fini del progetto di sviluppo della società locale, progetto non compreso nell’incarico della Carta. Senza progetto di sviluppo, quindi, è difficile definire cosa effettivamente componga il patrimonio e abbia un valore. L’indagine e lo sforzo progettuale, inoltre, aiuta a capire meglio lo stato di fatto, sottoponendolo a richieste e test. Il patrimonio, quindi, non ha senso e significato in sé, ma quando diventa risorsa per garantire il futuro della comunità locale - la prosecuzione del processo di riproduzione sociale, il proseguimento e lo sviluppo, cioè, delle attività produttive e delle pratiche sociali - ed ammette la trasformazione: il patrimonio potrà crescere o decrescere in futuro. Nel processo di partecipazione condotto la necessaria relazione con il progetto è risultata evidente: le interviste come anche i tavoli di vallata hanno evidenziato come la definizione di cosa ha valore sia difficilmente scindibile da istanze rivolte al futuro. Da un lato quindi il patrimonio è tutto quello che abbiamo ereditato, “heritage” e “risorsa” (patrimonio attivoattivabile per il futuro) – la partecipazione ha evidenziato come nel caso della Carnia ogni possibile risorsa vada tenuta in considerazione come sempre successo nella sua storia di territorio montano con un atteggiamento inclusivo: nessuna anima produttiva deve essere trascurata per costruire il presente ed futuro - dall’altro lato esso non è dato una volta per tutte. La “Carta del patrimonio” è quindi la somma di tre “strati” informativi: la Carta zero, le segnalazioni dell'Atlante, il “listone”, cioè l’insieme di tutti i dati che descrivono il territorio, catalogo costantemente arricchibile per raggiungere un quadro il più completo possibile del “patrimonio” territoriale che la Carnia ha. L’operazione di individuazione dei valori condotta dalla Carta differisce, però, dalla costruzione di un inventario per il fatto che una valutazione di priorità è espressa dai 9 sistemi locali individuati, che evidenziano i principali patrimoni del territorio, le relazioni reciproche, il modo in cui questi vengono utilizzati, cioè come diventano risorsa o come potrebbero diventare risorsa. I sistemi organizzano concetti spesso già espressi precedentemente, ma in ordine sparso, senza dimostrazione in un quadro completo con dati puntuali, spiegati e condivisi come fatto dalla Carta. Alcuni valori contenuti nei sistemi possono sembrare ovvi, ma alla prova dei fatti non lo sono, visto che non sono perseguite azioni per la loro conservazione, adeguato sfruttamento o potenziamento. I sistemi, in sintesi, non presentano nuovi contenuti, ma cercano di rendere evidente come sia necessaria una loro nuova interpretazione. Sono temi connotanti il territorio e condivisi a grandi linee dalla “comunità” - sintetizzata nei tavoli di vallata - che indicano le priorità sulle quali basare il programma di intervento dell’azione pilota, che sta proseguendo con la redazione dello Statuto dei Luoghi e degli scenari strategici. Alla fine del percorso sarà necessario riconsiderare i valori e la loro efficacia come interpretazione delle condizioni ambientali, economiche, culturali e dell’abitare in Carnia. Sullo sfondo del processo restano la questione della comunità e della definizione del bene collettivo, apparsi parziali e talvolta controversi, come anche i risultati della partecipazione condotta; comunità e bene collettivo, tuttavia, sono elementi necessari per l’individuazione di valori condivisi e quindi delle azioni di progettazione territoriale secondo l’aspirazione dell’ufficio committente, che però non ha accolto una discussione radicale di tali premesse. La ricerca del sentire comune, reciproco e associativo si può rivelare vana o non efficace – come è stato nel caso della Carta 20 - se l’obiettivo è individuare questioni di dettaglio e priorità esplicite, come nell’intento dell’ufficio committente, perché si è espresso, quando è stato espresso, in merito a livelli generali e comprensivi dei valori locali: il territorio come sistema locale nella sua interezza (considerare la Carnia tutta intera), la somma dei patrimoni come elemento fondamentale, la conservazione delle strutture che permettono la riproduzione sociale. Inoltre nell’attuale situazione instabile e composta da molti attori diversi è difficile che emerga una finalità 16
Da p.77 della Relazione finale, ibidem. A. Corboz, (2001). Le territoire comme palimpseste et autres essays, Besançon, Editions de l'Imprimeur. 18 B. Pedretti, (1997). La democrazia estetica, in AAVV, Il progetto del passato, a cura di B. Pedretti, Bruno Mondadori. 19 Dematteis G., (2010). Citta’ delle Alpi: distinte e connesse. Economia Trentina, 2/3, 56-62. 20 A fronte di un progetto ambizioso, inoltre, i tempi richiesti per l’esecuzione della Carta erano troppo esigui per condurre un processo di partecipazione esaustivo. 17
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comune, o un insieme di finalità comuni, per la quale poter indirizzare nel tempo le condotte individuali e sia possibile immaginare indirizzi strategici 21.
Figura 1. Sistema dell’acqua, derivazioni per la produzione di energia idroelettrica
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M. Cremaschi nella presentazione del panel sulle politiche per le città al convegno AISRE, settembre 2012, a Roma.
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Figura 2. Sistema delle energie rinnovabili, energia da biomassa forestale accessibile
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Figura 3. Sistema della memoria
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Il progetto di territorio negli strumenti di attuazione della programmazione 2007-2013 della Regione Molise
Il progetto di territorio negli strumenti di attuazione della programmazione 2007-2013 della Regione Molise Mario Morrica Unione dei Comuni del Medio Sannio Email: mario.morrica@gmail.com Tel/fax 0875.539008
Abstract Gli strumenti operativi della programmazione 2007-2013 della Regione Molise, definiti nelle “linee guida per la progettazione territoriale”, vedono un affermarsi dei processi partecipativi degli interi corpi comunitari nella costruzione di scenari di sviluppo territoriale. In un progetto comune di territorio le sinergie partono da una consapevolezza tra le singole comunità dello stato delle risorse condivise, per l’individuazione di spazi di trasformazione che risanino il divario tra insediamento umano e ambiente, capaci poi di confrontarsi con altre realtà territoriali. Attraverso il caso di studio (PAI del Medio Sannio ed Alto Biferno) si vuole evidenziare come il coinvolgimento attivo delle comunità locali nel disegno di territorio debba avvenire secondo procedure contestualizzate alle realtà locali. Ai saperi esperti spessa stimolare e arricchire la sensibilità delle comunità per le risorse endogene, verso una rigenerata cultura del territorio propedeutica alla formazione di progetti di crescita fondati sulle aspirazioni della collettività.
Sviluppo territoriale e ruolo delle comunità locali Il riconoscimento delle potenzialità e vulnerabilità dei territori e la gestione delle risorse naturali (resourceefficiency) sono divenute le variabili decisionali nelle previsioni di crescita socioeconomica. La resilienza ecologica ha di fatto imposto una crescente consapevolezza, evoluta in etica ambientale, sulle scelte di sviluppo e come queste assumono un’incidenza non solo nell’ambito di definizione ma, associate alle altre di scala analoga, si ripercuotono nel sistema più ampio e complesso di trasformazioni. La cultura del territorio posseduta dalla sua comunità implica la cognizione delle fragilità ambientali, territoriali e della scarsità delle risorse naturali, ciò comporta nelle fasi propositive l’assunzione di scelte sostenibili per lo sviluppo durevole delle aree. Il legame rigenerato tra società locale e luogo delle relazioni e dei processi, attraverso l’attribuzione di significato, di valore, mediante la riscoperta, la riappropriazione delle pratiche ripetute, consolidate, strutturanti lo spazio, porta la comunità a possedere piena consapevolezza del potenziale territoriale nella faticosa dualità locale/globale, particolarismi/universalismo. E’ il senso di appartenenza ad una comunità che crea un rapporto tra spazio delle relazioni e individui, innescando scelte di tutela del patrimonio identitario e di autonomia progettuale. Le auspicate politiche di sviluppo autosostenibili si basano sulla cultura locale rispettosa del bene comune territorio, ovvero orientamento endogeno del valore attribuito al sistema, superando le forme di localismo e aprendosi alla transcalarità delle dinamiche di sviluppo.
Progetto di territorio negli strumenti operativi della programmazione regionale: il PAI del Medio Sannio e Alto Biferno Le politiche territoriali dell’Unione Europea si muovono secondo i principi dello sviluppo sostenibile, della competitività economica, della coesione sociale e benessere complessivo seguendo una visione spaziale unica di continente. L’obiettivo generale è la coesione territoriale definito come uno sviluppo armonioso e sostenibile di Mario Morrica
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tutti i territori attraverso l’utilizzazione consapevole delle risorse e delle loro caratteristiche (Commissione Europea, 2009). Lo sviluppo territoriale dei paesi membri e delle loro regioni si raggiunge mediante politiche volte a una migliore destinazione del capitale territoriale (Commissione Europea 2005). Coerentemente in Italia nella programmazione regionale a valere su fondi comunitari vi è lo studio delle relative tipicità e criticità territoriali, e l’approccio strategico dei previsti processi attuativi presume la capacità dei diversi attori (istituzionali e non) di mettere in moto meccanismi rigenerativi e di competitività partendo proprio dal potenziale topico emerso. Nella Regione Molise i principali documenti del nuovo ciclo di programmazione evidenziano, secondo gli orientamenti strategici comunitari in materia di coesione, l’esigenza di migliorare la sostenibilità del processo di sviluppo regionale concentrando risorse e politiche di sviluppo su base settoriale e territoriale. Gli strumenti attuativi hanno avviato attraverso una strategia di sviluppo locale (Linee guida per la progettazione territoriale 2007-2013, D.G.R. 1257/08) processi partecipativi delle comunità locali nella fase di rappresentazione del territorio e nella definizione di scenari di sviluppo. Tra le progettualità in essere, previste per macroaree conformi per vocazione, potenzialità, punti di forza e di debolezza nel documento di indirizzo regionale, il PAI (Progetti per Aree Interne) del Medio Sannio ed Alto Biferno si è strutturato come piano strategico plurisettoriale per più aree omogenee (Figura 1). L’ambito territoriale di riferimento, con una morfologia prevalentemente montuosa e di alta collina (da 511 a 918 mt s.l.m.), si colloca interamente nella provincia di Campobasso e comprende dieci piccoli comuni (da 186 a 1619 abitanti).
Figura 1. Politiche e strumenti per lo sviluppo e la coesione territoriale Il PAI vuole rendere efficiente il sistema socio-economico dell'area, condurlo gradualmente all'autosufficienza durevole attraverso la preventiva individuazione di necessità e unicità delle comunità e sviluppando le polarità rilevate inserendole in un progetto complessivo di territorio. Il raggiungimento delle condizioni di competitività del contesto economico si fonda sulla valorizzazione delle risorse patrimoniali locali, che contribuirà a contrastare le diseconomie proprie del sistema macroeconomico regionale. La rilevazione e rappresentazione del contesto identitario e delle sue peculiarità, fondative per la crescita sostenibile, sono avvenute attraverso un ampio riconoscimento progettuale e tecnico degli attori del territorio, sia istituzionali che economico-sociali. Il partenariato territoriale svolge un ruolo trasversale per l’intero ciclo di progettazione territoriale in quanto definire le problematiche, i potenziali e le soluzioni, azioni, interventi, verificando gli impatti attesi in fase attuativa. Figure specialistiche hanno registrato, moderano e indirizzato coerentemente l’evoluzione del processo di definizione del piano strategico preliminare, approvato dagli enti locali e dal partenariato coinvolto. La rappresentazione delle vocazioni, aspettative e fragilità è stata affinata costantemente nell’evoluzione del processo partecipativo, nella gradualità della sedimentazione delle conoscenze, ed è matura verso una visione di sviluppo unica e condivisa. I soggetti operanti sul territorio hanno trovano nel processo di coinvolgimento (ambienti fisici di confronto, conferenze di servizi) luoghi di immediato dibattito tra aspettative e interessi, determinando una comune consapevolezza della fragilità e del potenziale del
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supporto tecnico (Magnaghi, 2012) territoriale. L’attivazione di un valido partenariato che sappia valorizzare l’unicità socio-economiche e culturale del territorio è alla base per un progetto unitario e durevole di sviluppo. L'Accordo di Programma sottoscritto successivamente da tutti gli attori coinvolti nella prima fase e dall’Ente Regionale diviene il momento di verifica alla coerenza tra le risorse finanziarie da impiegare e le politiche di coesione regionale. Un coordinamento ed una connessione fra le opere strategiche (materiali e non) regionali e quelle di interesse locale, permetterà di realizzare adeguati livelli di fruizione del territorio, di qualità dei servizi e della vita. Emerge il confronto tra due scale spaziali: quella locale oggetto di immediate soluzioni e risposte e quella più vasta, in cui il luogo si inscrive, che esercita influenze e vincoli non privi di effetti sul gioco delle relazioni dei sistemi locali. Il modello di sviluppo socioeconomico delineato punta alla valorizzazione delle peculiarità patrimoniali locali, dei sistemi urbani e degli spazi aperti, producendo valore aggiunto territoriale, ambientale e paesaggistico. Il progetto organico di interventi vede l’individuazione di polarità specifiche per ogni singola realtà municipale, messe in rete attraverso le diverse componenti territoriali naturali e antropiche (sistema ambientale, sistema infrastrutturale, sistema insediativo). I centri minori, con il loro tessuto urbano sviluppato intorno al nucleo storico, hanno una forte rilevanza sulla rigenerazione complessiva dell’intera macro area di progetto. I piccoli centri non sono l’eredità ingombrante di una passata vitalità, o reperto urbano territoriale (Magnaghi, 2012) di valore storico-architettonico, ma sono la condensazione fisica di una comunità, di un stanziamento più vasto nel territorio comprendente il borgo antico, i borghi rurali minori e l’intero sistema comprese le attività esistenti che lo tengono in vita. Il territorio viene definito nella sulla complessità di materiali visibili strutturanti e di relazioni antropiche e naturali. La ridefinizione del rapporto di complementarietà tra urbano e spazio aperto avviene riattivando usi del territorio che hanno una forte valenza paesaggistica, non solo estetica ma anche dei significati riconosciuti dalla comuntà. Gli spazi aperti (spazi agricoli, aree boschive, zone umide, aree sorgive, tratturi, aree golenali, etc.) opportunamente riqualificati, risanati e riconnessi con le diffuse realtà urbane formano l’immagine di territorio unitario, con nuovi equilibri funzionali ed ecosistemici (Figura 2).
Figura 2. Piano Strategico Preliminare, MasterPlan di Progetto Mario Morrica
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Ogni centro organizzerà e svilupperà la sua polarità prevalente (polarità culturali, di servizi, di prodotto) unitamente alle tematiche, gestionali, funzionali e logistiche della filiera produttiva, facendo sistema con gli altri comuni dell'Unione creando così un percorso di valorizzazione, integrazione e promozione a supporto dell'intero territorio in stretta sintonia con la vocazione dei luoghi. La crescita di lungo periodo dell'economia locale si raggiunge con la propensione all'investimento delle risorse interne, che riduce il grado di dipendenza dall'economia regionale e aumentando l'esportazione della struttura produttiva. Operando in aree interne marginali, fortemente svantaggiate, il piano vuole eliminare le penalità localizzative mediante un sistema di opportunità, promuovendo la competitività dell'area attraverso la valorizzazione di tutte le risorse ed il potenziamento del sistema di servizi. Un disegno di sviluppo condiviso, fondato sulla sostenibilità economica, ambientale, sociale e culturale raggiunta attraverso una rigenerata cultura di territorio capace di aumentare la convenienza nella produzione di valore aggiunto territoriale. In un progetto comune di territorio le sinergie partono dalla consapevolezza tra le singole comunità delle risorse condivise disponibili, per l’individuazione di spazi di trasformazione che risanino il divario tra insediamento umano e ambientale, capaci poi di confrontarsi con altre realtà territoriali. La visione strategica del piano non rimanda semplicemente a risposte (azioni) rapide per contingenze socio-economiche interne rapportate alle trasformazioni esogene, ma all’attitudine della comunità nel rappresentazione le proprie aspettative durevoli di sviluppo, che si muovono dalla singolare identità culturale e territoriale. Anche in strumenti non canonici di governo del territorio, il ruolo efficace della comunità nella restituzione dell’immagine di territorio, e nel successivo progetto di territorio, passa nel riconoscimento di un senso comune allo spazio di vita, nel riattivare relazioni virtuose (Poli, 2011) tra abitanti e contesti. Il senso di appartenenza ad un complesso sociale ovvero il riconoscimento dell’identità locale deriva dal possesso di una visione univoca, da una cultura endemica intesa come cognizione dell’insieme delle pratiche e azioni ripetute, consolidate, che hanno plasmato, disegnato lo spazio di vita nel tempo. Il legame tra gli abitanti e gli attori delle trasformazioni viene rinforzato attraverso il possesso di queste conoscenze che crea un’attenzione al territorio e alle scelte che in esso si concretizzano, orientandole ai principi conservativi e rigenerativi delle risorse locali. La società locale deve definirsi e dotarsi di tratti e di caratteristiche uniche, deve riprodurre ciò che la distingue e particolarizza nelle scelte di sfruttamento delle risorse, nel suo grado di sensibilità verso il patrimonio ambientale. Il riconoscere l’identità locale non esprime una volontà di chiusura autoreferenziale, ma evidenzia la particolarità, il singolare in funzione di una visone universale più ampia e complessa di relazioni. La cultura locale contiene i segni dell’evoluzione di un luogo, una visione critica del passato verso la complessità delle trasformazioni delle pratiche, ciò presuppone anche un approccio dinamico verso il futuro che parta dalle invarianti uniche e consolidate; la sua ricchezza proviene dalle combinazioni che si possono produrre con le molteplici eredità. Le scelte conservative, evolutive si definiscono in funzione del valore, del senso attribuito a questa identità, all’immagine condivisa e partecipata di luogo, all’apertura verso relazioni costruttive con l’esterno che arricchiscono la cultura, attraverso la continua ricerca di equilibri e mediazioni. Le culture come grado civiltà, specifica stratificazione delle tecniche di adattamento in uno spazio, si sono costruite nella capacità di confronto ad altre visioni, ad altri stili di vita. Non è l’isolamento ma l’intensificazione degli scambi a essere la riaffermazione identitaria (Laplantine, 2011), l’attribuzione della propria unicità culturale spinge la comunità a riconoscere il pluralismo di singolarità locali, verso rapporti con l’esterno. La percezione delle pratiche in atto su territori differenti comporta l’estensione delle conoscenze, il consolidamento della proprie specificità, per la definizione di nuove pratiche autosostenibili. Lo sviluppo locale durevole pensato sulle patrimonio identitario inteso nella sua specificità sociale e culturale non può essere svincolato da una visione più ampia che lega la realtà locale con dinamiche esterne di sviluppo economico. L’applicazione di buone pratiche di crescita ha in sé una visione di spazio non recintato, un corpo permeabile di pratiche ricorrenti, consolidate su cui porre delle scelte di crescita. Il luogo come insieme di elementi coesistenti che rimandano ad un ordine, ad una articolazione all’interno di uno spazio non segnato (Marc Augè, 2009).
Progetto di territorio e progetto di luogo Il progetto di territorio, impostato coerentemente sul contesto locale in cui le risorse materiali ed immateriali risultano essere uniche e vulnerabili, costituisce un’opportunità di implementazione dei valori topici preservandoli da pratiche che possano degradarli. La ricognizione e il riconoscimento del territorio di riferimento deve abbracciare tutti gli aspetti fisici, naturali, insediativi e antropici nella sua matrice socio-economica, in modo da assumere una sensibilità progettuale capace di costruire uno scenario compatibile e sostenibile volto al benessere della comunità. La qualità dello stile di vita di una compagine sociale non è intesa solo nella capacità di approvvigionamento di beni materiali o all’accessibilità di servizi e attrezzature, ma risiede nel dominio della cultura di territorio. Il regime di pratiche condivise, la tecnologia sociale (La Cecla, 2011 ) in atto nello spazio fisico per facilitare relazioni e attività, stabiliscono un miglioramento della qualità della vita e dell’ambiente. La Mario Morrica
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mente locale (La Cecla, 2011), espressione di un sapere collettivo dinamico nel tempo, consiste nella capacità di adattamento e orientamento allo spazio di vita, in una costante definizione di attività aderenti alle peculiarità del supporto territoriale. L’identificazione di una comunità determina le attitudini, le specialità di un luogo, così da stabilire spazi privi di recinti ma carichi di un valore, di un senso comune, di esclusività forte. Da questo riviene la capacità individuale e poi collettiva di preservare il patrimonio comune, la visione critica sulle scelte di governo delle trasformazioni, la crescente partecipazione nei processi decisionali. Territorio come luogo in cui avvengono scambi e cooperazione tra gli individui, l’insieme delle azioni volte a soddisfare esigenze di benessere della società, è il materiale di scelte, di trasformazioni. La riscoperta dell’identità dei territori comporta una progettualità al futuro dei propri stili di vita, delle proprie specificità, quindi immagini di sviluppo aderenti alle aspettative locali. La comunità locale in quanto principale attore delle trasformazioni deve possedere una cultura territoriale sensibile, forte delle sue potenzialità inespresse e, attraverso processi di iterazione, volgere verso soluzioni condivise; da forme di governo di territorio a nuove forme di autogoverno. Il progetto di territorio diviene attraverso una società locale autodeterminata progetto di luogo. La rigenerazione delle identità territoriali, la qualità sensibile del paesaggio culturale e del contesto naturale giocano un ruolo strategico ( Bonesio, 2011 ) nella relazione con il territorio, concorrono ad assumere pratiche virtuose volte alla sostenibilità ambientale e culturale. Non vi può essere sviluppo locale senza il coinvolgimento della società locale che dal riconoscimento dei valori patrimoniali, la riscoperta dai saperi, dei tratti identitari metta in atto un progetto di territorio coerente con la filosofia del luogo. Bisogna rianimare il processo culturale che lega mutuamente spazio di vita e comunità perché il progetto di territorio sia anche progetto di luogo.
Processi partecipativi e rappresentazione dei luoghi La capacità di vedere la complessità delle condizioni che strutturano un territorio e determinano il materiale del progetto delle trasformazioni, è il requisito indispensabile per la validità ed efficacia delle scelte. Nessun osservatore mediatore esterno può decifrare, leggere uno contesto locale se non considera le categorie spaziali indigene, la sintassi delle pratiche sociali; deve acquisire la visione, la cognizione della realtà di quel preciso gruppo sociale, carpire le aspirazioni. Solo il coinvolgimento attivo delle comunità nel disegno di territorio porta a scelte efficaci e durevoli perché fondate su una nozione prevalente dello spazio e della sua domanda di trasformazione. Questa attitudine alla rappresentazione e progettazione del società locale necessita la definizione di scale e regole specifiche di rapporto, contestualizzate alle realtà di studio. Figure specialistiche devono moderare la dinamica partecipativa nella definizione degli strumenti di governo del territorio, stimolando nel processo la capacità locale all’elevazione del benessere e della qualità della vita. Bisogna risanare la perdita di senso dello spazio di vita (forma urbana, territoriale) come spazio identitario, carico dei gesti consolidati, riconoscibili e per questo capaci di infondere una serenità attraverso il senso di appartenenza, alla cultura locale. La necessità di comporre, di rigenerare la capacità della collettività nella definizione delle scelte di sviluppo, presuppone l’estensione del senso di identità, di appartenenza, una maggiore etica territoriale. Riproporre il valore collettivo del territorio (Salzano, 2011) rispetto a politiche di crescita quantitativa che hanno consumano il supporto territoriale. Scelte distanti dalla collettività e dal territorio come deposito di ricchezze, determino pratiche d’uso e di vita che logorano le risorse topiche, amplificando le fragilità ambientali e sociali. Restituire la realtà territoriale attraverso i suoi attori significa sia definire la dimensione fisica, oggettiva, immediatamente riconoscibile per i suoi aspetti irripetibili, sia definire lo spazio d’uso, le mappe locali delle pratiche di vita, cogliere gli orientamenti, le tracce. Nel rappresentare i luoghi si delinea la tipicità e le caratteristiche dell’ identità locale, si restituisce un’immagine attraverso un linguaggio prevalente, ed è proprio lo strumento utilizzato che direziona la visione della realtà e gli scenari futuri. I processi partecipativi per essere efficaci devono istaurarsi già nella fase di origine (quadri conoscitivi) degli strumenti di governo del territorio, a partire dell’autoriconoscimento dei valori patrimoniali (Magnaghi, 2005). L’identità rinvierebbe dunque alla rappresentazione (Laplatine, 2011) valida a produrre azioni socialmente prodotte di governo delle dinamiche evolutive, nella consapevolezza del bene comune territorio.
Mario Morrica
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Mario Morrica
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Gli strumenti del rinnovamento urbano di Trapani
Gli strumenti del rinnovamento urbano di Trapani Alessandra Badami Università di Palermo Dipartimento di Architettura Email: alessandra.badami@unipa.it Tel. 091.60790001 / fax 091.60790113
Abstract Trapani ha avviato un processo di profondo rinnovamento che in un breve arco di tempo ha visto la riqualificazione del porto, del centro storico e della città, riverberandosi anche sul suo territorio. Il processo ha preso avvio in occasione dello svolgimento nel porto di Trapani delle regate dell’America’s Cup nel 2005/06, per proseguire e radicarsi nel territorio grazie ad una programmazione integrata tra più soggetti della pubblica amministrazione, alla capacità di attrarre investimenti esogeni e al coinvolgimento dei privati e della popolazione locale. Trama portante delle politiche messe in atto è stata l’identità di Trapani come città portuale: gli interventi di trasformazione ne hanno valorizzato il patrimonio, rigenerato i caratteri e potenziato l’attrattività.
1. Trapani città portuale La topografia che accoglie la città di Trapani ne ha da sempre condizionato le caratteristiche dello sviluppo. Stretto tra due mari, il lembo di terra che si allunga dall’occidente siciliano con forma di falce (Drepanum, dal greco falce, è il toponimo originario della città) è stato storicamente utilizzato come sede portuale: originariamente fondato come porto della città elima di Erice in un territorio abitato precedentemente dai Sicani, l’insediamento sarà trasformato in città dai Fenici. Il tessuto urbano più antico è caratterizzato dalla permanenza, nella toponomastica e negli usi, di numerosi riferimenti al mare e alle attività legate alla pesca (corallai, bottai, pescatori, etc.). Il sistema è completato e si caratterizza anche per la continuità di un sistema difensivo marino che dalla torre della Colombaia si articola verso la torre di Ligny e verso le mura di Tramontana, delimitando la città cinquecentesca. Aderente al limite storico della città, costituito dalle sue mura, e senza soluzione di continuità, lo sviluppo della città ottocentesca ha rapidamente conquistato il territorio da ovest verso est lungo la retta direttrice della Via Fardella, saldando l’insediamento urbano con l’antico borgo dell’Annunziata e con le pendici del monte Erice. A sud, invece, l’abitato confina ancora con le saline che rappresentano una delle più forti espressioni della relazione storica, identitaria e produttiva tra la città di Trapani e il suo territorio (Figure 1 e 2). L’espansione della città contemporanea, confermando la direttrice d’espansione ottocentesca, ha spostato il nuovo centro verso est, contribuendo fortemente al progressivo isolamento del centro storico che, raggiungibile soltanto da est, è divenuto meta finale di un percorso via via più lungo e remoto da raggiungere; inoltre il fascio ferroviario che attraversa a raso parti centrali della città rappresenta un’ulteriore causa di cesura nel tessuto. Nel corso del secolo scorso il centro più antico, a causa della perdita di centralità, dell’obsolescenza dei servizi e delle infrastrutture, dell’avanzamento del degrado sia degli edifici privati che degli spazi pubblici, del decadimento dell’area portuale, si è andato progressivamente deteriorando e spopolando (Figura 3).
Alessandra Badami
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Figure 1, 2 (da sinistra). Vista dall’alto della città di Trapani e del monte Erice. Le saline.
Figura 3. Il waterfront di Trapani. Lungo la linea di costa si possono distinguere diversi contesti che possono essere identificati con i seguenti cinque ambiti: 1 – Drepanum, il porto antico sulla Falce; 2 – Il centro storico tra i due mari; 3 – La costa nord con la polarità urbana della sede del consorzio universitario; 4 – La città ottocentesca attestata sull’asse di Via Fascella con la polarità del complesso monumentale dell’Annunziata e del Museo regionale A. Pepoli; 5 – Le saline con i percorsi pedonali e ciclabili e i mulini a vento. Fonte: carta tematica estratta da Badami A., Ronsivalle D., (2008). Oggi il porto di Trapani, classificato come scalo commerciale di interesse nazionale (2a categoria – 1a classe), ha un bacino portuale articolato in due zone: l’ una com presa tra il m olo foraneo della C olom baia,l’ isolotto della Colombaia, il Lazzaretto, la banchina Settentrionale, il Pontile Sanità e la scogliera del Ronciglio; l’ altra, costituente il vero e proprio bacino operativo, si estende dal pontile Sanità fino alle banchine dell’Isolella. Lo scalo dispone complessivamente di circa 1.650 m di banchine per l’accosto di navi Ro/Ro, Lo/Lo e Multipurpose per operazioni commerciali di carattere nazionale/internazionale e per collegamenti con le Isole minori, i porti del nord Africa e per le navi da crociera (Figura 4). Ben riparato da tutti i venti, è da sempre considerato come uno degli scali più sicuri del sud Italia; la sua collocazione baricentrica nel Mediterraneo ne fa un potenziale punto di snodo sia per lo sviluppo dello short sea shipping che per i traffici commerciali di general cargo. Ciò che conferisce al porto di Trapani un valore aggiunto di eccezionale qualità è il peculiare rapporto con il centro storico: il suo specchio d’acqua di 921.000 mq è a diretto contatto con ampie porzioni del tessuto urbano storico rendendo il waterfront della città particolarmente esteso e ben visibile dal mare e, viceversa, il mare è visibile, presente e accessibile da numerose parti della città, sia storica che contemporanea. Grazie alla compresenza di tali infrastrutture portuali, di favorevoli condizioni climatiche e di ventosità, di un’ampia visuale dalla città verso il mare, ma soprattutto per la prossimità e permeabilità del porto rispetto al Alessandra Badami
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centro storico, Trapani è stata individuata nel 2005 per ospitare l’evento internazionale delle Louis Vuitton Cup act 8 & 9 della 32esima America’s Cup, individuando nel patrimonio urbanistico, storico, culturale e ambientale della città e del suo territorio l’elemento attrattore. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.
Pontile Sanità ovest Pontile Sanità est Banchina Garibaldi Banchina Dogana Banchina Marinella Banchina Sommergibile Banchina Isolella nord Banchina Isolella ovest Banchina Isolella sud Banchina Ronciglio Sporgente Ronciglio est Sporgente Ronciglio ovest Banchina di Ponente Porto Peschereccio Approdi turistici Molo Colombaia
Figura 4. Porto di Trapani. Articolazione delle banchine
2. Il processo di rinnovamento Il processo che ha portato Trapani ad acquisire le caratteristiche necessarie per accogliere l’ambìto evento sportivo è il frutto della convergenza di volontà politiche multilivello attuate attraverso un sistema coerente di strumenti di pianificazione e programmazione, unitamente al concorso di attori pubblici e privati. Per produrre valore aggiunto e valorizzare la risorsa territorio sono state sollecitate nuove forme di progettualità e cooperazione, con l’impiego di risorse endogene e la partecipazione di soggetti locali interessati ad uno sviluppo durevole e radicato. Le azioni sono state progressivamente programmate attraverso piani regolativi che hanno individuato i valori connotanti non negoziabili da consolidare e le aree-risorsa da potenziare e/o recuperare, dispositivi per l’intercettazione e la connessione con politiche e strategie a scala vasta, strumenti attuativi in grado di coinvolgere e attrarre capitali esogeni e soggetti privati, dando vita ad un processo complesso in cui al centro è stato posto il patrimonio da regolare, interconnettere e trasformare.
2.1 Patrimonio da regolare Per fronteggiare le numerose emergenze presenti nel territorio, e in particolare per invertire la tendenza all’abbandono del centro storico che risultava ormai quasi completamente spopolato e degradato, alla fine degli anni ’90 l’amministrazione comunale 1 aveva già individuato nella rielaborazione, seppur parziale, del nuovo Piano Regolatore Generale lo strumento indispensabile per una corretta gestione del territorio che individuasse le invarianti territoriali da tutelare e gli scenari delle trasformazioni possibili. Con continuità d’intenti, l’attuale amministrazione comunale 2 ha avviato un progetto di rinnovamento urbano da attuare sia attraverso la redazione di un nuovo PRG, sia tramite l’elaborazione di uno studio strategico globale di riqualificazione e trasformazione del territorio (il piano strategico Città di Trapani) capace di individuare e definire gli obiettivi di valorizzazione e sviluppo, tenendo conto delle invarianti, delle peculiarità dei singoli territori e delle potenzialità del patrimonio, e di definire le linee guida per la piena utilizzazione degli strumenti di programmazione e degli strumenti negoziali, favorendo tutte le forme di sinergia tra attore pubblico e soggetti privati. Il percorso di recupero è partito dalla definizione del piano particolareggiato di recupero del centro storico, al fine di restituire alla zona più antica la sua qualità di centro d’eccellenza culturale, per estendersi successivamente ai quartieri della città contemporanea e alle frazioni extraurbane attraverso operazioni di riqualificazione e potenziamento degli spazi pubblici, dei servizi e delle infrastrutture. Nel centro storico sono state attuate azioni di sviluppo sostenibile sia attraverso il potenziamento del ruolo del porto – in chiave commerciale implementando le attività portuali, il porto pescherecci e il nuovo mercato ittico; in chiave turistica riqualificando gli approdi diportistici e potenziando la ricettività delle attività crocieristiche – sia attraverso l’insediamento di attività commerciali coerenti con il contesto ambientale, ricorrendo ove possibile al project 1 2
1998-2001 sindaco A. Laudicina. 2001-2012 sindaco G. Fazio.
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financing per fronteggiare gli elevati costi di riqualificazione e rinfunzionalizzazione. All’interno dell’area portuale le azioni di recupero e potenziamento del porto sono state guidate dal nuovo Piano Regolatore Portuale 3 redatto dall’Autorità Portuale 4 (Figura 5) con la piena collaborazione dell’amministrazione comunale per le opere di sua competenza (recupero del Bastione dell’Impossibile – fig. 6, riqualificazione del fronte a mare, incentivazione di insediamenti di carattere commerciale, realizzazione degli impianti fognari).
Figura 5. Porto di Trapani. Previsione di ampliamento del Piano Regolatore Portuale
2.2 Patrimonio da interconnettere e strategie da negoziare Dal livello provinciale a partire dal 2005 5 sono partite le attività relative all’attuazione dell’Accordo di Programma Quadro Sviluppo Integrato delle attività della Nautica e del Turismo localizzato nel contesto territoriale trapanese 6, in attuazione della deliberazione CIPE n. 3 del 22 marzo 2006 7. L’obiettivo prioritario dell’accordo è stato l’avviamento e lo stanziamento di investimenti per la Louis Vuitton Cup acts 8 & 9 (Figura 7) attorno al quale sono stati imbastiti i seguenti obiettivi: creazione di opportunità di impiego, attivazione di piccole e medie imprese e promozione di forme di sviluppo turistico coerenti con il contesto economico e sociale; valorizzazione delle risorse naturali, culturali e produttive e dell’immagine del territorio del trapanese; innovazione e ampliamento di forme di coordinamento al fine di sviluppare iniziative complementari e integrate. Al livello comunale, sempre nel 2005, è stato avviato il Progetto di Distretto Le Rotte dello Sviluppo per definire, attraverso un approccio strategico, un piano di interventi orientati alla promozione del turismo sportivo e dello sviluppo ecosostenibile. Il programma, oltre alla realizzazione di importanti opere infrastrutturali, ha puntato alla 3
Opere di potenziamento previste dal Piano Regolatore Portuale: opere foranee a difesa degli specchi acquei interni;prolungamento in direzione sud del molo foraneo della Colombaia;costruzione di un nuovo molo di sottoflutto, radicato a circa 500 m a sud dell’esistente molo del Ronciglio, per una lunghezza di 550 m.; opere interne;costruzione banchine in fondali -12 m sia nella zona del Ronciglio, da adibire a traffici commerciali, sia a levante del Canale di Mezzo a servizio della Zona Industriale;formazione di ampi piazzali retrostanti alle banchine;costruzione di due manufatti per strade e ferrovie sul Canale di Mezzo per assicurare l’accesso alla banchine del Ronciglio;completamento delle banchine interne;costruzione di edifici a servizio delle attività portuali;escavazione fino a -12 m del bacino interno per l’evoluzione e l’accosto del naviglio alle nuove banchine del Ronciglio. Altre opere pertinenti direttamente a quelle del piano regolatore e di interesse portuale, riguardano la previsione di una zona industriale di circa 300.000 mq ubicata al confine meridionale della città tra la strada SS. 115 e lo Sporgente dell’Isolella e la realizzazione del villaggio del pescatore nella zona sita ad est della banchina orientale dello scalo peschereccio.In aggiunta è stata approvata una proposta di adeguamento tecnico funzionale del vigente P.R.G. riguardante una nuova darsena a ponente dello sporgente Ronciglio mediante tratti di banchina raccordati con l’esistente sporgente e con la radice del molo di sottoflutto, con giaciture tali da ottimizzare gli attracchi, compreso un piazzale con notevole miglioramento della fruibilità delle strutture portuali. 4 Il PRP è stato redatto dall’Autorità Portuale, istituita a Trapani nel 2003 e poi soppressa quattro anni dopo. 5 Presidente della Provincia di Trapani in quegli anni è stato il senatore D’Alì, fautore della presenza a Trapani degli Act's della Vuitton Cup (preliminari della 32esima America's Cup). 6 Accordo di Programma Quadro, siglato dal Presidente in data 26 luglio 2006 tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze, la Regione siciliana, Assessorato regionale Turismo, Comunicazioni e Trasporti e questa Provincia regionale di Trapani. 7 Per l’attuazione del suddetto accordo sono state stanziate le seguenti risorse: € 3.000.000,00 riferiti alla quota B.3.5. di cui alla Delibera CIPE n. 3/2006; € 1.200.000,00 riferiti alla quota C.2.3. di cui alla Delibera CIPE n. 35/2005. Le risorse complessive di euro 4.200.000,00 supportano: un’Azione di sistema, da avviare in vista della nuova programmazione 2007-2013, di importo pari ad euro 3.000.000,00 relativa all’individuazione di un percorso strategico di esplorazione, accompagnamento e supporto alla progettazione di interventi ed iniziative da realizzarsi nel territorio trapanese; un Programma di iniziative ed eventi di promozione territoriale nel settore della nautica di importo pari ad € 1.200.000,00 denominato “Attività di promozione e supporto a “Le rotte dello Sviluppo”, che include attività e manifestazioni velistiche di rilevanza internazionale.
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crescita del territorio con l'obiettivo di internazionalizzare la città a partire dalla valorizzazione dell'identità locale. Il progetto ha consentito alla città di ritrovare e stabilire un rinnovato rapporto con il mare e con la propria vocazione storica di città portuale, di stabilire rapporti con l'Europa ed i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo per attivare forme di coesione socio-economica e di ripensare in chiave ecosostenibile il rapporto tra le azioni di trasformazione e l'ambiente. Sul fronte del recupero urbano, l’amministrazione comunale è ricorsa al Piano Strategico Città di Trapani, facendo riferimento ai programmi complessi (Urban, PIT, PIAU) per l’attuazione delle politiche di promozione economica e sociale dirette ad incrementare la qualità della vita e l’attrazione di investimenti; ha raggiunto risultati concreti che mostrano il successo di una strategia impostata a partire dalla valorizzazione delle potenzialità, espresse e latenti, della città e del territorio. A fondamento della strategia adottata è stato posto l’obiettivo far convergere una migliorata e più competitiva offerta territoriale (patrimonio culturale, servizi pubblici, componenti materiali ed immateriali del territorio) con una domanda non solo esogena ma anche locale (fabbisogni di servizi e infrastrutture da parte di residenti, imprese interne, investitori esterni, turisti) e che punta su un governo cooperativistico per la tutela e la valorizzazione del patrimonio.
Figure 6, 7 (da sinistra). Recupero del Bastione dell’Impossibile. Il porto di Trapani durante le gare delle Louis Vuitton Cup.
2.3 Patrimonio da trasformare La recente esperienza attuativa di politiche di riqualificazione urbana e territoriale nella città di Trapani è caratterizzata dalla sperimentazione di numerosi programmi complessi 8. La sfida vinta nell’attuazione degli strumenti di programmazione messi in atto, e in particolare del Programma Urban Limen, del PIT n. 14 e del PIAU (strumenti coordinati dal Piano Strategico Città di Trapani), è stata quella di migliorare in maniera significativa la vivibilità della città e del territorio e la qualità della vita dei suoi abitanti. Il programma complesso Urban Limen 9 è stato impostato su due obiettivi globali e tre obiettivi strategici. Il primo obiettivo globale è stato il risanamento del tessuto socio-economico del centro storico per favorirne il ripopolamento e la rivitalizzazione; l’obiettivo è stato raggiunto attraverso interventi di riqualificazione urbana per migliorare le condizioni ambientali per i cittadini, con ricadute sulla riqualificazione del patrimonio edilizio, e la concessione di contributi a privati per l’insediamento di attività artigianali e commerciali. Il secondo obiettivo è stato il risanamento delle infrastrutture del porto e delle aree limitrofe che ha puntato, in particolare, sulla permeabilità tra porto e città per migliorarne la fruibilità da parte di cittadini, turisti e addetti. Gli obiettivi strategici hanno riguardato, rispettivamente, il primo la razionalizzazione dell’accessibilità al porto e al centro storico; il secondo il recupero di edifici storici e dei percorsi; il terzo la riqualificazione diffusa della città del XX secolo. Il primo obiettivo è stato raggiunto attraverso la riqualificazione del porto vecchio, litoranea sud, con la realizzazione di un nuovo impianto fognario per le acque nere che dal centro storico confluivano direttamente dentro il bacino portuale, rendendo la permanenza nel porto insostenibile soprattutto per le imbarcazioni da diporto; il completamento del parcheggio scambiatore di piazzale Ilio che ottimizza l’utilizzo dei mezzi pubblici (elettrici) per l’accesso al centro storico; l’acquisto di mezzi pubblici elettrici per l’abbattimento dell’inquinamento in aree urbane. Il secondo obiettivo è stato raggiunto attraverso il recupero dell’importante 8
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Programmi complessi attivati: Progetti Pilota Urbani ex art. 10 dei FESR (periodo ’89-’93 e ’97-’99), Contratti di Quartiere 1 (1997) e 2 (2003), Patto Territoriale “Trapani Nord”, “Patto Territoriale per l’Agricoltura e la Pesca della provincia di Trapani”, Progetto Integrato Territoriale (PIT) n. 14 “Sistema Turistico Integrato della Costa Centro-Settentrionale”, Progetto Integrato Regionale “Reti per lo sviluppo Locale”, Programmi Urban 1 (1994) e Urban 2 (2000), programma Urban Limen (2002), Programma Innovativo in Ambito Urbano della Città di Trapani. Urban Limen Trapani prende avvio a seguito del decreto 27 maggio 2002 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che ha finanziato i 20 programmi già ammessi e valutati nell’ambito del P.I.C. Urban II, ma che per carenza di risorse erano rimasti esclusi dal finanziamento europeo.
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contenitore dell’Ex Convento dei Cappuccini e con la sua rifunzionalizzazione a casa albergo per studenti, funzionale alla recente offerta formativa universitaria proposta dalla città; il recupero di un altro grande contenitore in centro storico costituito dall’ex Carcere di Via San Francesco; la concessione di agevolazioni finanziarie e di accesso al credito per la promozione di attività commerciali in centro storico; la realizzazione di strutture destinate al commercio ambulante per regolarizzarne e qualificarne la pratica; il ricorso ad una nuova segnaletica turistica bilingue per rispondere ad una nuova domanda turistica internazionale; la riqualificazione di alcuni percorsi e la realizzazione di un nuovo sistema di illuminazione pubblica nel centro storico. Il terzo obiettivo è stato raggiunto attraverso la realizzazione e il completamento di opere di urbanizzazione primaria del Rione Villa Rosina, ambito urbano caratterizzato da uno sviluppo abusivo, ed il completamento della realizzazione del Giardino d’inverno, una attrezzatura di significativo impatto sociale. Con il PIT n. 14, Sistema Turistico Integrato della Costa Centro-Settentrionale, promosso da una coalizione di enti locali costituita dalla Provincia Regionale di Trapani e dai Comuni di Trapani (capofila), Erice, Favignana, Pantelleria e Valderice, sono state portate avanti progettualità coerenti e complementari alle azioni già intraprese con Urban Limen. Tra gli interventi, finalizzati al rilancio turistico del territorio sono stati realizzati la riqualificazione della litoranea nord di Trapani (Figura 8) con il recupero delle Mura di Tramontana (Figura 9) e dell’antico percorso che connette la piazza del Mercato del Pesce (Figura 10) con il Bastione Conca (Figura 11), necessaria precondizione per stimolare l’avvio di iniziative private sulla cortina edilizia soprastante le mura, tra cui il ripristino delle cromie originarie delle facciate come da piano particolareggiato e la localizzazione di nuove strutture turistico-ricettive; con questo intervento è stata recuperata in pieno la fruizione diretta del mare, reso balneabile grazie alla realizzazione degli impianti fognari e accessibile sia dal centro storico che lungo la litoranea nord dove sono state realizzate strutture di supporto alla balneazione. Altri interventi realizzati sono stati la dragatura del Canale Ronciglio (Figura 12) che ha consentito di riequilibrare il naturale flusso di acqua salmastra entrante all’interno dei canali delle saline e di riportare il canale alla sua funzione originale di ingresso principale alle saline dalla via del mare, offerto anche come itinerario di visita per la fruizione delle saline; la realizzazione dei percorsi informativi “Saline” e “Colombaia” (Figura 13) all’interno degli spazi dell’ex Lazzaretto dove due percorsi informativi ed espositivi descrivono la cultura e la coltura del sale e la flora e la fauna tipiche della riserva delle Saline; la realizzazione di un centro servizi per la mobilità presso il parcheggio scambiatore di Piazzale Ilio (Figura 14); la riqualificazione dell’asse viario storico di Via Fardella (Figura 15) attraverso una progettazione integrata riguardante il verde pubblico, l’arredo urbano e l’illuminazione a carattere monumentale a basso consumo energetico, che contribuirà anche alla razionalizzazione del sistema pedonale e dei parcheggi; la riqualificazione infrastrutturale di alcuni percorsi in centro storico completata dalla sistemazione delle reti idriche e fognarie e dal cablaggio e reti di servizi, tra cui l’asse centrale del Corso Vittorio Emanuele (Figura 16) ed alcune sue traverse, come componente del più ampio progetto di recupero dell’identità della città antica; il sostegno ai soggetti a rischio emarginazione, destinata alle fasce giovani della popolazione a svantaggio sociale.
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Figure 8-16 (da sinistra dall’alto). Riqualificazione della litoranea nord. Riqualificazione delle Mura di Tramontana. Restauro e rifunzionalizzazione della Piazza Mercato del Pesce. Restauro del Bastione Conca. Il canale Ronciglio, ingresso dal mare alla riserva delle Saline. Il castello della Colombaia, recuperato e destinato a funzioni culturali. Il centro servizi per la mobilità a Piazzale Ilio, in corso di costruzione. Riqualificazione dell’asse viario di Via Fardella della città del XX secolo. Riqualificazione del Corso Vittorio Emanuele in centro storico. Infine, gli interventi del Programma innovativo in ambito urbano (PIAU), sostenuti dai finanziamenti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e definiti anche in relazione al Programma Urban Limen e al PIT in collaborazione con il Genio Civile Opere marittime della Regione Siciliana e l’Autorità Portuale di Trapani, hanno consentito la realizzazione di tre interventi di significativa rilevanza per la città: la riqualificazione della strada di accesso al porto e il recupero del Bastione dell’Impossibile, il collegamento stradale di Piazzale Ilio e lo studio di fattibilità per lo spostamento della stazione ferroviaria. Il quadro delle opere strategiche si completa con un sistema di altri numerosi interventi considerati prioritari per il raggiungimento degli obiettivi di riqualificazione e rivitalizzazione del tessuto urbano. Tra questi il recupero dell’antico mercato ittico, il recupero del complesso monumentale San Domenico, il restauro e la messa a norma della Biblioteca Fardelliana, l’antica biblioteca comunale. L’insieme degli interventi di trasformazione, guidati dalla regia condotta dai soggetti pubblici, ha considerevolmente innalzato la qualità complessiva del porto, del centro storico e della città, consentendo ai cittadini, come destinatari prioritari delle politiche, di tornare a vivere in un ambiente urbano salubre e tecnologicamente avanzato, e restituendo alla città la sua bellezza.
Considerazioni La città di Trapani, nata da un porto e su di esso cresciuta, possiede una atavica e autentica vocazione “genetica” alla dimensione portuale ed al rapporto con il mare. Nonostante i fattori di degrado, che si sono accumulati in particolare nell’area portuale e nella parte più antica della città e che hanno avviato processi di abbandono del centro storico e di fatiscenza del porto, le numerose declinazioni progettuali che per la città e per il suo territorio sono state elaborate a diversi livelli dagli anni ’90 del secolo scorso, stimolate dall’evento sportivo velico internazionale dell’America’s Cup, sono state in forme e contenuti sottese implicitamente dalla potenza catalizzatrice del mare. Il carattere “genetico” di Trapani è stato da più parti riscoperto come talento, come fattore capace di generare processi virtuosi di rigenerazione, di attrarre interessi, flussi ed economie, di essere quel capitale di territorio in Alessandra Badami
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grado di moltiplicare gli investimenti in termini di qualità dell’ambiente urbano, di rigenerazione economica e sociale, di riequilibrio ambientale, di innalzamento della qualità della vita, di attrattività turistica e culturale. Il successo dell’evento delle regate della Louis Vuitton Cup è stato non solo l’entusiasmante spettacolo mediatico trasmesso in tutto il mondo; per Trapani si è tradotto nell’avvio di un processo virtuoso di recupero, riqualificazione e sviluppo che si è irradiato dal porto e dal centro storico al territorio, che si è radicato nel corso degli anni a prescindere dall’occasione dei grandi eventi, che ha convinto ed attratto investimenti esterni e che ha coinvolto consapevolmente operatori locali e residenti. Ne sono testimoni tangibili i dati relativi all’incremento turistico con il potenziamento di tutti i diversi settori (strutture alberghiere ed extralberghiere, agriturismo, case vacanza e soprattutto bed & breakfast aperti in centro storico); l’incremento produttivo di piccole e medie imprese collegate alla nautica lungo le coste del territorio trapanese; l’incremento delle attività portuali con il potenziamento strutturale anche per il transito degli yacht e dei superyacth; l’offerta diffusa di sport acquatici (vela, surf, ecc.); la nascita di scuole di vela e di circoli nautici. Il processo ha fondato correttamente la sua virtuosità nell’essere stato concepito a partire dalle vocazioni e dai caratteri peculiari del territorio: questo ha fatto sì che gli interventi di trasformazione non snaturassero i luoghi, bensì ne potenziassero i caratteri. Il talento, che in forma latente ricorreva nei progetti e nelle operazioni di trasformazione, emerge palese come destino della città di Trapani, come matrice di rigenerazione territoriale, come direttrice storica e futura di sviluppo compatibile con il genius loci del territorio.
Bibliografia Avarello P., Ricci M. (a cura di 2000), Politiche urbane. Dai programmi complessi alle politiche integrate di sviluppo, Inu Edizioni, Roma Badami A., Ronsivalle D. (a cura di 2008), Città d’acqua. Risorse culturali e sviluppo urbano nei waterfront, Aracne, Roma. Carta M., Ronsivalle D., (2009), L’evoluzione del paesaggio culturale come progetto per lo sviluppo locale: i Rilievi del Trapanese, In Carta M. (2009), Governare l’evoluzione, Franco Angeli, Milano. Regione Siciliana, Centro Regionale per la Progettazione e il restauro, (2008). La Carta del Rischio del Patrimonio Culturale Siciliano. I waterfront urbani di Catania, Messina, Palermo, Siracusa e Trapani. Palermo. Regione Siciliana, Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Trapani, (2009), Piano territoriale paesaggistico dell’abito 1. Area dei rilievi del trapanese, Eurografica, Palermo. Valentino P.A., (2003), Le trame del territorio. Politiche di sviluppo dei sistemi territoriali e distretti culturali, Sperling & Kupfer, Milano. Siti web Comune di Trapani, Ufficio Europa (s,d.). Urban Limen. Il programma dei lavori che ha riqualificato Trapani [Online]. Disponibile su: http://www.comune.trapani.it/europa/ Comune di Trapani, Ufficio Europa (s,d.). Piano Strategico della Città di Trapani [Online]. Disponibile su: http://www.comune.trapani.it/europa/ Comune di Trapani, Ufficio Europa (s,d.). P.I.T. n. 14. Sistema turistico integrato della costa centrosettentrionale [Online]. Disponibile su: http://www.comune.trapani.it/europa/ Comune di Trapani, Ufficio Europa (s,d.). P.I.A.U. Programma innovativo in ambito urbano [Online]. Disponibile su: http://www.comune.trapani.it/europa/
Riconoscimenti Si ringraziano i sindaci dei comuni di Trapani (dott. Girolamo Fazio) ed Erice (dott. Giacomo Tranchida), l’Assessore Regionale ai Beni Culturali della Regione Sicilia (dott. Sebastiano Missineo), il Dirigente Generale dell’Assessorato Regionale al Turismo della Regione Siciliana (dott. Marco Salerno), il Soprintendente ai Beni Culturali della Provincia di Trapani (dott. Sebastiano Tusa), la Direttrice del Museo Regionale Interdisciplinare Agostino Pepoli di Trapani (dott.ssa Valeria Li Vigni), il Presidente della Sezione Trasporti e Logistica della Confindustria Trapani (dott. Marco Dalla Vecchia).
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Rigenerazione urbana del centro storico di Barcellona
Rigenerazione urbana del centro storico di Barcellona Mauro Francini Università della Calabria Dipartimento di Pianificazione Territoriale Email: francini@unical.it Tel. 098.4496766 Myriam Ferrari Università della Calabria Dipartimento di Pianificazione Territoriale Email: myriam.ferrari@unical.it Tel. 098.4496777
Abstract Il presente contributo vuole esplicitare il processo di rigenerazione urbana attuato nel centro storico di Barcellona ed evidenziare come in situazioni urbane di necessità, l’esigenza di soluzioni esecutive riescono a mobilitare quelle risorse endogene caratterizzanti i contesti metropolitani ed allo stesso tempo innescare una coscienza sociale in grado di incidere in maniera significativa sulle trasformazioni del territorio. Il presente contributo vuole illustrare la ricerca svolta sulle trasformazioni avviate nel centro storico di Barcellona (Ciutat Vella), alfine di poter riflettere su alcune complessità e problematiche presenti nel territorio e sulle strategie adottate per la loro risoluzione. Il presente contributo vuole riflettere su alcuni punti centrali della politica adottata nella città di Barcellona, sull’efficacia degli strumenti urbanistici attuati e sugli effetti prodotti sul territorio. In modo particolare, vuole esplodere il ruolo della società all’interno dei processi di trasformazione e le strategie adottate per valorizzare alcune delle risorse endogene più significative.
Rigenerazione urbana nel centro storico di Barcellona 1. Perché Barcellona come caso di rigenerazione urbana? Il presente contributo vuole provare a riflettere sui processi di rigenerazione urbana attuati nel panorama europeo, intesi prima di tutto come occasione di recupero dei valori sociali della collettività e di conseguenza come azione di trasformazione sulle città moderne. In tal senso, l’efficace metodologia d’intervento di alcune città europee all’interno dei processi di rigenerazione urbana, ha determinato delle priorità nei criteri d’intervento, focalizzando prima di tutto l’attenzione sulle emergenze sociali denunciate dai cittadini e associando la strutturazione di strumenti urbanistici ad hoc per la risoluzione delle problematiche preesistenti. Il presente contributo vuole illustrare la ricerca svolta nella città di Barcellona ed in modo particolare vuole esplicare il processo di rigenerazione urbana attuato nel centro storico della città, poiché ritenuto un interessante caso di studio, prima di tutto, per il ruolo svolto dalla componente sociale e poi per il decisivo input che ha dato all’avvio delle trasformazioni urbane. E’ necessario, dunque, prima di riflettere su alcuni passaggi importanti, sottolineare il fatto che la città sia stata fino al 1975 sotto la pesante dittatura di Francisco Franco e dunque comprendere come il successivo governo democratico sia stato il promotore di grandi stravolgimenti urbani. Partendo dunque da tali concetti, l’esigenza di studiare il processo di rigenerazione urbana attuato all’interno del centro storico di Barcellona, ha portato a svolgere uno studio diretto all’interno della città, senza il quale non sarebbe stato possibile comprendere alcune dinamiche sociali e urbane che hanno fortemente influenzato l’andamento delle scelte e delle decisioni sul territorio. Il motivo per cui Barcellona risulta essere un caso Mauro Francini, Myriam Ferrari
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interessante non risiede solo nella lungimirante pianificazione strategica attuata, ma soprattutto negli effetti provocati sulle componenti sociali, culturali ed economiche, le quali hanno determinato un’inversione nel pensiero comune ed hanno infranto una serie di pregiudizi sociali all’interno di alcune aree marginali. Gli interventi attuati sono in linea con l’anima multiculturale che ha storicamente caratterizzato la città ed è dunque doveroso, prima di giungere ad una serie di riflessioni, partire da alcune nozioni descrittive che inquadrano l’area di studio del presente lavoro, per poi effettuare una serie di passaggi storici che hanno influenzato la ricostruzione di alcune aree depresse della città. E’ necessario dunque esplicare alcuni confini geografici della morfologia della città che risulta essere divisa in 10 distretti. Il nome amministrativo “ Ciutat Vella ” identifica il distretto del centro storico di Barcellona ed è suddiviso nei quartieri : Raval, Gotic, Sant - Pere/Santa Caterina / Ribera e Barceloneta. I dati statistici pubblicati dal Comune di Barcellona stimano che nel distretto di Ciutat Vella il numero degli abitanti è pari a 109.897 e che la sua superficie risulta essere di 436,8 ha (Fig.1). In esso, risiedono diverse culture europee (italiani, francesi, inglesi etc.), ma anche popolazioni asiatiche (Pakistani, Filippini, Bangla Desh, Cinesi etc.), africane (Marocchini, Algerini, Senegalesi etc.) e americane (Stati Uniti, Brasile etc.). Il dato sensibile, che merita di essere citato, è il profondo cambiamento del distretto in 20 anni di governo democratico, in cui i valori della società hanno coinciso con gli ideali delle amministrazioni politiche e con l’ambizione di alcuni imprenditori privati. Inoltre, è necessario sottolineare il passaggio di un megaevento come le Olimpiadi, poiché in esso è identificabile il senso di alcuni interventi sulla città e di come questi vengano poi con il passare del tempo, conservati come un’eredità o convertiti in nuove funzioni più adatte alle tendenze moderne.
RAVAL GOTICO
SANT PERE SANTA CATERINARIBERA
BARCELONETA
Figura 1. Inquadramento del Distretto di Ciutat Vella con i suoi quartieri: Raval, Gotico, Sant Pere - Santa Caterina e Ribera, Barceloneta.
2. L’influenza delle Olimpiadi sullo sviluppo della città La città di Barcellona già dagli anni ‘80, sente l’esigenza di rinnovare la sua immagine urbana e quindi di ricollocarsi nel circuito europeo come meta culturale e internazionale. Tale occasione si presentò con il mega evento delle Olimpiadi del ‘92, che determinò, mediante una programmazione di interventi urbani, il recupero di alcune aree degradate destinate alla costruzione di impianti sportivi, residenze per gli atleti e strutture polivalenti. La Programmazione ‘92 così com’era stata definita la strutturazione dell’intervento, prevedeva un idea di riqualificazione unitaria all’interno di un progetto coerente e ambizioso. L’obiettivo era quello di riconnettere le aree da riqualificare con i quartieri circostanti dotandoli principalmente di infrastrutture che spaziavano dalla passeggiata pedonale all’autostrada urbana. Le aree trasformate furono quelle della Valle Hebròn, della Diagonal, della Villa Olimpica e dell’ Anello Olimpico. L’area della Diagonal venne potenziata con strutture sportive di eccellenza tra cui il campo di calcio del Barcelona Football Club (Camp Nou) che ospita annualmente competizioni internazionali. Tale area si inserisce nel contesto della città come area in espansione, in cui sono concentrate sedi bancarie, direzionali e strutture ricettive. Nell’area della Valle d’Hebron, invece, vennero realizzate delle strutture sportive successivamente potenziate con la creazione di parchi pubblici. Nell’area dell’Anella Olimpica vennero realizzati una serie di impianti sportivi come lo Stadio Olimpico ( già costruito nel Mauro Francini, Myriam Ferrari
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1929 e ristrutturato da V. Gregotti) e il Palau Sant Jordi, opera del giapponese Arata Isozaki. Quest’ultimo è un padiglione sportivo multifunzionale della capienza di 12.000/15.000 persone adibito all’uso di manifestazioni sportive, musicali etc. Infine, nella Villa Olimpica venne attuato un progetto molto complesso che prevedeva la riqualificazione di un’ area fortemente degradata attraverso lo smantellamento di vecchie fabbriche e l’istallazione di strutture sportive. L’arteria fondamentale di Villa Olimpica fu la Via Icaria. Ma il Programma ‘92 era finalizzato al raggiungimento di obiettivi molto più grandi tra cui: lo smantellamento delle vecchie ferrovie mantenendo il sistema regionale e ferroviario, la depurazione delle acque, la generazione di nuove spiagge, la nascita di nuovi accessi viari e trasporti pubblici. Dopo le Olimpiadi del ‘92, il settore dei servizi venne fortemente potenziato dalla nascita di attività alberghiere, di attività commerciali e di attività culturali. Tale offerta diversificata suscitò l’interesse di molti turisti stranieri che cominciarono ad essere attratti dalla città anche dopo il passaggio dei Giochi Olimpici del ‘92. Il concetto di base è che cominciò, con lo sviluppo del settore dei servizi, un’internazionalizzazione della città supportata anche dal forte impulso creato da una serie di cambiamenti tra cui la rigenerazione urbana di alcuni quartieri, il trasporto pubblico fortemente potenziato, la crescente offerta commerciale e culturale, la sponsorizzazione strategica dei brand. Il binomio Barcellona - Olimpiadi rappresenta una duplice valenza per la città, da una parte l’interesse sociale internazionale e dall’altra l’adeguata valorizzazione dei contesti urbani. Tutto ciò nella consapevolezza che le risorse del luogo, a lungo mortificate da un congelamento di ideali, dovevano essere valorizzate restituendo più vivibilità, più qualità e più armonia con i contesti circostanti. Dunque, le Olimpiadi hanno rappresentato per la città un momento di condivisione e coesione sociale in cui la partecipazione e la cooperazione tra le amministrazioni e la cittadinanza hanno rappresentato una preziosa chiave di lettura per il consolidamento degli effetti futuri.
3. L’attuazione dei P.E.R.I. L’attuazione dello strumento urbanistico denominato P.E.R.I. (Planes Especial de Reforma Interior) all’interno del centro storico di Barcellona, rappresenta l’avvio concreto della trasformazione urbana in un contesto problematico e difficile. Il ruolo della società all’interno dell’attuazione di tali strumenti urbanistici, è stato determinante, poiché dalle denunce della popolazione ( rappresentata davanti alle amministrazioni dai comitati di quartiere) è stata riconosciuta l’esigenza di sopperire ad una serie di situazioni di degrado che portavano la popolazione di Ciutat Vella a vivere in condizioni di estremo disagio. La difficoltà nel gestire tali condizioni di degrado sociale e urbano hanno portato ad attuare dei Piani specifici che dovevano risolvere una serie di problematiche esistenti puntando prima di tutto su quella inerente la carenza di residenze. La rigenerazione urbana ha coinvolto tutti i quartieri del centro storico il Raval, il Gotico, Sant Pere - Santa Caterina e la Ribera e la Barceloneta. In principio ogni quartiere nasceva con un’identità ben precisa, che in alcuni casi è stata preservata, mentre in altri è stata completamente ripensata dando vita a nuove funzioni. In modo particolare, il Raval era un quartiere a vocazione prevalentemente industriale, dove persistevano grandi sedi metallurgiche e tessili. Oggi il quartiere del Raval è diventato una realtà urbana viva, in cui prevale una mixitè di elementi commerciali, culturali e sociali. Successivamente, con l’insorgere del degrado sociale ed urbano, divenne un quartiere dedito alla prostituzione e alla droga, alla delinquenza e alla criminalità. Il quartiere di Barceloneta nasceva invece, per la sua posizione costiera, come quartiere destinato prevalentemente alle attività marinare e pescherecce. Con la riqualificazione urbana attuata dai P.E.R.I. si è trasformato in un centro balneare dove si articolano lunghi percorsi pedonali, attività turistiche, ricettive e commerciali. Nel quartiere della Barceloneta la vocazione principale non è stata conservata, ma vi è stata una riconversione funzionale destinata prevalentemente ad attività di tipo turistico. Il quartiere Gotico rappresentava il cuore della città medievale dove risiedevano edifici religiosi ed istituzionali. Ancora oggi conserva questa identità, ma viene arricchita di elementi moderni tra cui locali alla moda e attività commerciali di tendenza. In ultimo, i quartieri di Sant Pere, Santa Caterina e la Ribera erano caratterizzati da attività istituzionali, commerciali e religiose ed ancora oggi conservano tale impostazione. I P.E.R.I di Ciutat Vella si sono ispirati all’esempio di pianificazione urbana attuata negli anni ‘60 a Bologna e nello specifico, al Piano adottato nel 1969 come Variante al P.R.G. Più tardi, nel 1973 a Bologna viene redatto il PEEP, ossia il Piano di Edilizia Economica Popolare, come meccanismo di controllo del centro storico. Esso prevedeva l’eliminazione dei redditi differenziati con l’attuazione di alloggi economici e popolari evitando l’espulsione della popolazione. L’idea di base è stata quella dell’adozione di una politica di conservazione vincolando il recupero dell’esistente all’edilizia economica popolare. Sotto l’ispirazione dei piani attuati a Bologna, i P.E.R.I nacquero come risposta alle seguenti condizioni abitative: • il 70% degli alloggi era stato costruito prima del ‘900; • la superficie media degli alloggi era di 60 mq; • 7000 locali erano senza bagno privato e solo il 10% dotato di ascensore ( circostanza fondamentale se si considera l’alto numero di residenti); • solo il 60% degli alloggi disponeva di gas e luce. Mauro Francini, Myriam Ferrari
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Nel 1987 Ciutat Vella venne proclamata Area di Riabilitazione Integrata. Le A.R.I. rappresentano una selezione delle attuazione dei P.E.R.I e si propongono l’obiettivo di integrare l’attività residenziale a quella economica e culturale. Tale politica era finalizzata ad evitare la fuga della popolazione residente e ad attivare un meccanismo di rinascita sociale, economica e culturale. Per il raggiungimento di questi obiettivi gli investimenti furono cospicui, le cifre parlano di circa 86.000 milioni di pesetas. In sintesi, sono stati realizzati i seguenti interventi: • la nascita di nuove complessità urbane; • il mantenimento dei vecchi residenti e la ricollocazione nel centro storico di 1300 famiglie; • la creazione di alloggi su iniziativa pubblica e privata; • la conservazione del patrimonio architettonico; • la generazione di nuovo spazio pubblico, di parchi, di zone a verde; • la trasformazione del fronte marittimo. Gli effetti di queste azioni avevano lo scopo di: • migliorare le condizioni di salubrità degli alloggi degradati e degli spazi pubblici; • rivitalizzare le attività economiche; • dotare il distretto di un’offerta culturale; • promuovere la mobilità a piedi, della bicicletta e l’uso dei trasporti pubblici. Creare delle condizioni avvantaggiate per la mobilità dei residenti; • creare strade con una forte componente pedonale; • regolare l’accesso dei veicoli all’interno del centro storico; • promuovere più sicurezza sociale. La realizzazione di tali interventi portò ad una serie di miglioramenti urbani di considerevole valore per Ciutat Vella: • la creazione di 25.000 mq di spazi pubblici in accordo con i P.E.R.I.; • il miglioramento degli accessi viari, dell’illuminazione e della pavimentazione stradale; • la riabilitazione di 400 alloggi e la costruzione di 1300 alloggi nuovi; • la creazione di due parchi e 26 piazze; • la piantumazione di 4.000 alberi; • la costruzione di centri di comunità, di centri per anziani, di centri sportivi.
4. Gli effetti: analisi sociale, urbanistica, culturale, economica Gli effetti della rigenerazione urbana all’interno del centro storico di Barcellona sono stati molteplici ed hanno rimesso in gioco molte delle potenzialità fino ad ora lasciate in stand - by o comunque non contemplate come strategiche, per lo sviluppo della città. Il ruolo della società all’interno del processo di rigenerazione urbana nel centro storico, ha svolto, secondo la presente ricerca, il ruolo più importante, non solo perché essa si è fatta parte partecipativa delle trasformazioni in corso, ma soprattutto perché vi è stato un recepimento di valori che ha portato i residenti del centro storico a rimanere in esso e non a spostarsi in altre aree. Ciò a portato solo ad una parziale gentrification che in realtà è stata volontaria, poiché una parte della popolazione residente in Ciutat Vella, è stata indennizzata per vivere in altre zone della città. La rigenerazione urbana, dunque, è stata prima di tutto una rigenerazione sociale che ha portato ad un annullamento di tutti i pregiudizi che albergavano all’interno del centro storico e che influenzavano gli imprenditori a non investire all’interno di esso. Le riqualificazione urbane attuate dai P.E.R.I. hanno riportato l’attenzione degli amministratori e dei privati a rivalutare l’area e soprattutto la componente residenziale. Dunque, il lavoro svolto dagli attori pubblici e privati ha perseguito due obiettivi: il primo quello di adeguare le residenze esistenti potenziando i servizi e le funzioni, il secondo quello di riconvertire gli edifici storici in sedi istituzionali recuperandoli e riattribuendo loro nuove funzioni. Contestualmente il ridisegno urbano delle arterie principali come ad esempio la Rambla o la Rambla del Raval etc., rappresenta un significativo esempio di recupero delle passeggiate pedonali che hanno ridato senso alla fruizione all’interno del centro storico diminuendo il traffico urbano e potenziando altri sistemi di trasporto. La riqualificazione delle arterie urbane mediante la creazione di grandi percorsi perdonali funge anche da portatore di qualità, di riequilibro del tessuto urbano e di recupero di una dimensione più sicura all’interno di quartieri da sempre ritenuti a rischio. Così la creazione di grandi piazze è stata necessaria non solo per creare relazioni e scambi, ma anche per delineare punti di riferimento per i sistemi di trasporto che vengono costantemente monitorati e potenziati. E’ necessario inoltre evidenziare altre due arterie fondamentali all’interno di Ciutat Vella, ossia la via Laietana e l’arteria Paral-lel che assorbono molto del traffico urbano giornaliero. La via Laietana è stata realizzata mediante l’abbattimento di circa 2000 case. Tale azione venne promossa per avvantaggiare anche la costruzione della metropolitana. Così come la riattivazione dell’arteria del parallelo avrà certamente effetti positivi anche sul distretto di Ciutat Vella. Un dato certo è che il sistema dei trasporti che si riversa in Ciutat Vella passa attraverso Plaça Catalunya, centro nevralgico dei passaggi di quasi l’80% del Mauro Francini, Myriam Ferrari
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traffico giornaliero della città. Un nodo di collegamento essenziale che coniuga tutta la versatilità dei sistemi di trasporto di superficie e sotterranei della città. Un altro ruolo strategico per il centro storico è senza dubbio correlato al settore del commercio che è diventato un punto di forza per tutta l’economia e viene costantemente potenziato per offrire al cittadino ed al turista una serie di servizi di qualità. In particolare, l’economia della città gravita intono alle innumerevoli attività di servizi che interessano il settore della ristorazione e il settore alberghiero favorito anche dal patrimonio architettonico della città. Il commercio a Barcellona è prima di tutto fondato su una politica dell’accoglienza e sulla multiculturalità, due fattori sociali molto importanti che si inseriscono come azioni di forte marketing strategico. Dunque, negli ultimi venti anni, nel distretto di Ciutat Vella, si è assistito alla nascita di servizi nuovi, che hanno potenziato la debole e oramai lontana economia degli anni ‘70. Tale consolidamento rappresenta un punto centrale per lo sviluppo dell’economia del distretto e si adegua alla grande varietà di turismo presente nella città in tutti i mesi dell’anno. Una riflessione è necessaria per quanto concerne l’attività alberghiera che in Ciutat Vella era costituita fino agli anni ‘80 solo da pensioni a basso costo. Oggi il centro storico vanta non solo ostelli, appartamenti e residenze universitarie, ma anche molti alberghi classificati a 3-4-5 stelle. In modo particolare, con la nascita di una domanda concentrata su target qualitativamente alti, il centro storico ha risposto con un’offerta di strutture ricettive moderne dotate di tutti i comfort. Dunque, l’integrazione di strutture ricettive di qualità ha creato una differenziazione di turismo che spazia da un turismo adatto ai giovani, (che tendenzialmente usano fittare appartamenti a settimana), fino ad un turismo d’èlite adatto a soddisfare ogni esigenza. Il commercio all’interno del centro storico diventa dunque un attrattore sociale, che si è inserito gradualmente con la rivalutazione dell’area ed ha impresso il suo carattere multiculturale e tradizionale (preservando ad esempio i mercati storici), ma anche innovativo, osando nella costruzione di strutture o di attività nuove che si distaccano completamente con la storia dell’area. E’ necessario a questo punto, comprendere mediante alcuni dati significativi l’entità della componente turistica all’interno della città. I dati ufficiali dimostrano che nel 1990 i turisti registrati all’interno delle strutture ricettive erano 1.732.902, nel 2010 i turisti ammontano a 7.133.524. Le principali motivazioni per cui viene visitata la città spaziano dai motivi di vacanza ( 3.573.896 visitatori) ai motivi professionali (2.996.080 visitatori), oppure altre motivazioni (563.548 visitatori). Un altro dato rilevante riguarda il numero di turisti negli aeroporti che contano per l’anno 2010 - 29.209.595 di passeggeri. Tale cifra giustifica lo sviluppo della componente turistica all’interno della città e conferma il suo ruolo attrattivo internazionale. All’interno del distretto di Ciutat Vella, riveste un ruolo fondamentale anche la componente culturale, che è stata innestata potenziando il basso grado di cultura che da sempre ha caratterizzato il centro storico. Sono stati realizzati molteplici strutture museali che hanno creato dei percorsi culturali in rete, concentrati all’interno del centro storico, facilmente visitabili mediante la forte promozione da parte delle amministrazioni. Spiccano tra le numerose strutture il MACBA (Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona), il CCCB (Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona), il Museo di Storia della Catalunya, il Museo Picasso, il Museo Marittimo etc. Oltre alle strutture museali, l’importanza dell’architettura di Gaudì e la consacrazione di alcune sue opere come Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, confermano un’attenzione culturale internazionale in grado di generare un’economia secondaria. E dunque, sotto l’impulso della volontà sociale e mediante il recepimento di alcuni valori, nel centro storico di Barcellona è stato possibile osservare una reazione a catena che ha coinvolto in maniera esponenziale tutte le componenti che caratterizzano un contesto urbano complesso. E’ da sottolineare che tale fenomeno è in costante evoluzione e si allinea in maniera naturale alle esigenze della città.
Bibliografia Libri Busquets J. (2004), La construcciòn urbanistica de una ciudad compacta, Ediciones de SErbal, Barcelona. Pere Cabrera I Massanès (2007), Ciutat Vella de Barcelona, Ara Libres, SL, Badalona. Bohigas O. (1986), Reconstrucction de Barcelona, MOPU, Madrid. Busquets J., et alt., La ciutat vella de Barcelona, Ajuntament de Barcelona. Promociò de la ciutat vella, SA (1991). Revitalizaciò social, urbana i economica, Barcelona 2-4 Decembre Martorell V. et alt. (1970), Historia del Urbanismo en Barcelona, Barcelona, Del Plà Cerdà al Area Metropolitana. Duran I Sanpere, Augustì et al., (1975), Historia de Barcelona, Vol I, Barcelona, Manzoni, U. (2010), Barcelona a travès del tiempo, Ediciones Amberley, Madrid. Siti web www.bcn.es www.upc.edu
Mauro Francini, Myriam Ferrari
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Rigenerazione urbana del centro storico di Barcellona
Informazioni aggiuntive Copyright La Foto 1 è stata dal sito del Comune di Barcellona www.bcn.es.
Mauro Francini, Myriam Ferrari
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La decostruzione dello spazio urbano verde: i community garden nella esperienza italiana
La decostruzione dello spazio urbano verde: i community garden nella esperienza italiana Giorgia Lubisco Politecnico di Bari Email: giorgialubisco@hotmail.com Tel. 347.6563027 Pierangela Loconte Email: p.loconte@poliba.it Politecnico di Bari Tel. 320.8156418
Abstract Il presente lavoro traccia una linea di congiunzione tra le pratiche di pianificazione istituzionali e le pratiche spontanee di costruzione partecipata del verde urbano: community garden, orti urbani, azioni di guerrilla gardening. Il lavoro parte con una disamina della dinamica pianificazione - costruzione partecipata del verde nei contesti americani. Lo sguardo indaga su come questo rapporto di fatto ambivalente abbia comunque trovato legami, temporanei determinati da momenti storici precisi (crisi economiche, guerre). Successivamente analizza il sistema italiano sia sotto la prospettiva della pianificazione tradizionale che quella delle pratiche spontanee di community gardening. Il fine è quello di individuare nella nuova urbanistica sia possibile strumenti effettivi di costruzione urbana.
Introduzione La città è il luogo di aggregazione spontanea della specie umana, il riparo dalla natura aggressiva e imprevedibile che circondava le prima comunità. Nel tempo, tuttavia, questo spazio di salvaguardia, di incentivazione del sé e delle potenzialità di espressione si è diluito in molteplici figure legate alla normativizzazione, alla definizione standardizzata e alla esclusione sociale. La dimensione dello spazio pubblico ha nel tempo determinato una prevalenza di sistemi di vuoti architettonici piuttosto che di pieni di vita: il sistema degli spazi pubblici verdi ha visto una graduale evoluzione nella concezione e nella dimensione di uso degli stessi. Il passaggio dalla decostruzione alla ricostruzione diventa un processo quasi inevitabile laddove il sistema città ha lasciato dei vuoti (fisici e sociali) nei quali l’attitudine all’abitare ha espresso in modo autonomo il suo essere. Gli spazi verdi urbani stanno concentrando una nuova attenzione dovuta non soltanto alla loro capacità di essere spazio pubblico nel senso fisico del termine ma anche di essere spazio di comunità sociale . La pratica del community gardening storicamente non appartenente al contesto italiano, recentemente si sta sviluppando raccogliendo attenzione e generando riflessioni. Si tratta in pratica una decostruzione dello spazio pianificato e nello stesso tempo di una ri-significazione attribuendo alle aree interessate una nuova prospettiva urbana e sociale. Si tratta di un significato inconscio (M. Pasquali, 2004), non ascrivibile nella standardizzazione di piano che, tuttavia, segna un'importante direzione da considerare nelle politiche e nelle scelte di sviluppo future dell’area urbana e periurbana. Il presente lavoro parte dall’analisi dei processi dei community garden così come si configurano in quei contesti nei quali si sono evoluti, concretizzati e in qualche modo istituzionalizzati. Giorgia Lubisco, Pierangela Loconte
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La decostruzione dello spazio urbano verde: i community garden nella esperienza italiana
L’analisi vuole evidenziare le matrici storiche, culturali e istituzionali che sono a fondamento del processo, per delineare modelli urbani e sociali di riferimento tali da poter essere oggetto di comparazione con la realtà locale. Successivamente, traccia un'analisi della evoluzione della pianificazione in Italia sottolineando gli elementi determinanti nella insorgenza delle realtà dei community garden. Individuare un percorso tra i sistemi di pianificazione del territorio e le pratiche urbane vuole provare a rileggere il fenomeno in relazione alle matrici precedentemente definite tentando di capire se e in che modo possono essere delineate affinità o distanze, e cosa queste determinano. Il fine è quello di estrarre la pratica della gestione comunitaria degli spazi verdi urbani dalla semplificazione della estemporaneità, inquadrandola all’interno delle matrici sociali e urbanistiche locali, per delineare nuove strategie di costruzione urbana.
1. Pianificazione e pratiche spontanee di costruzione dello spazio urbano 1.1 L’esperienza americana “I community garden sono un esercizio al comunismo” con queste parole nel 1999 il sindaco di New York, Rudolph Giuliani sottolineò la natura sociale degli spazi pubblici in contrapposizione alla natura del mercato immobiliare e della dimensione economica e speculativa dello spazio urbano. I community garden hanno, rispetto agli spazi consolidati della città, due caratteristiche che ne determinano la loro relazione ambivalente con la pratica della pianificazione. Si tratta di processi effimeri, relegati ad un arco di tempo spesso definito e fortemente localizzati circoscritti a zone di margine o residuali delle città. La dimensione sociale del fenomeno è spesso collegata a dinamiche di esclusione sociale o razziale. Temporaneità e dimensione locale hanno fatto si che i community garden non fossero mai investiti della dimensione urbanistica di piano e progetto ma siano rimasti relegati a iniziative più o meno coordinate dalle istituzioni e prevalentemente dai cittadini (Lawson, 2004). Nonostante queste premesse, la pratica del community garden si sviluppa negli Stati Uniti a partire dal 1860 fino ai giorni nostri. Benché la macchina urbanistica americana sia sempre stata molto attenta alla dimensione sociale e autonoma dei movimenti e delle minoranze, i community garden non sono mai stati interpretati come pratiche attuative di costruzione della città. La loro diffusione ha apportato sostanziale miglioramento della qualità urbana e sociale dei quartieri; tuttavia questa rivitalizzazione ha risvegliato interessi immobiliari, tali da determinare la loro chiusura e cambio di destinazione. L’assunto generale è che i community garden sono fenomeni dal basso che nascono dall’operato attivisti locali o comitati popolari, tuttavia nella storia è possibile individuare programmi promozionati e gestiti dal governo, dai comuni e da gruppi non connessi con i contesti locali. Durante il primo novecento, la pianificazione centralizzata ha indirizzato direttamente o tangenzialmente le attività di community gardening. Con l’avvento dell’advocacy planning nel 1970 i pianificatori hanno riconosciuto l’importanza dei community garden come attività partecipative senza indirizzare necessariamente le implicazioni che queste pratiche determinavano sulla destinazione d’uso del suolo e sulla determinazione della priorità degli stessi. Nel processo di pianificazione, i community garden hanno iniziato a rappresentare un modello di uso autonomo dello spazio pubblico senza porre attenzione alle loro potenzialità a lungo termine. E’ possibile cogliere sei fasi principali nello sviluppo delle pratiche autogestite del verde urbano e la pianificazione. Ognuna di queste evidenzia come in contesti di crisi sociali ed economiche il fenomeno dei community garden riesca a svilupparsi in raccordo con le pratiche di pianificazione. Nel 1893-1897 la grande depressione negli stati uniti favorì l’insorgenza di pratiche di community gardening. Il sindaco di Detroit, Hazen Pingree 1propose la coltivazione degli spazi urbani come pratica alternativa alla carità per i lavoratori disoccupati e le loro famiglie. Nel 1895 New York, Boston e altre città aderirono al programma affidando la terra alle famiglie oppure a cooperative agricole. Il programma era visto come una forma temporanea 2 di reazione alla dimensione della crisi economica e lavorativa. I terreni concessi furono successivamente restituiti e reintegrati nella pianificazione ordinaria. La seconda fase si concentrò sulle potenzialità educative della coltivazione condivisa degli spazi. Nel 1891 fu fondata a boston la Putnam School. Lo stimolo iniziale venne dato dai movimenti pubblici che vedevano la natura come strumenti di conoscenza: l’azione coma pratica conoscitiva ed educativa. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, il governo incentivò la pratica dei community garden per supplire alla produzione di cibo. La terza fase vide lo spirito patriottico come leva per incentivare persone a coltivare 1
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Il programma partì concedendo temporaneamente 430 acri di terra, le famiglie ricevettero un quarto di acro e delle istruzioni scritte in tre lingue. Il cibo prodotto doveva servire a sostentare le necessità delle famiglie; il surplus prodotto poteva essere venduto ad un prezzo maggiorato rispetto quello del mercato. Escluso il Philadelphia Vacant Lot Cultivation Association che è sorto nel 1893 ed ha continuato la sua attività fino al 1927 trasformandosi in un piano per facilitare l’inclusione e l’inserimenti di immigrati e disoccupati.
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La decostruzione dello spazio urbano verde: i community garden nella esperienza italiana
cortili privati, aree residuali, terre pubbliche, per creare giardini per produrre cibo. Agenzie e organizzazioni nazionali supportarono i giardini che vennero nuovamente riassorbiti dal sistema di controllo del territorio alla fine della guerra La grande depressione del 1920 riportò la necessità del governo ad incentivare i community garden per la produzione di cibo: in questa quarta fase furono organizzate tre tipologie di programmi: uno pubblico e filantropico orientato alla dimensione del lavoro, uno sussistenziale e uno industriale attraverso il quale le industrie fornivano materiale e spazi da coltivare ai lavoratori licenziati. Nel 1934 si registrano 2,3 milioni di famiglie impegnate capaci di produrre cibo per un introito economico di 36 milioni di dollari. Diversamente dal 1890 fu vietata al vendita personale del surplus. La seconda guerra mondiale segna la quinta fase nella storia dei community garden: mentre durante la prima guerra mondiale la scarsità del cibo era stato il motivo per spingere i governo ad incentivare l’autoproduzione del cibo, durante questo periodo il miglioramento tecnologico, e l’implementazione dei trasporti suggerirono agli esperti che il gardening sarebbe stato uno sforzo inefficiente con poco impatto sulla produzione nazionale di cibo. Tuttavia il gardening offriva alla popolazione altri benefici connessi con la capacità di incentivare l’esercizio fisico, regolare le abitudini alimentari, fornire spazi per la ricreazione . In questo periodo nacquero i Victory Garden. Dopo un periodo di scarso interesse (durante gli anni 50 ), i community garden ritornarono nelle città durante gli anni ‘70, dove gruppi di volontari coltivavano spazi residuali per riqualificare zone abbandonate nei quartieri periferici (Staeheli et al. 2002). Nel 1973 fu fondato il New York City Green Guerrillas e nel 1977 il Boston Urban Gardeners. Queste organizzazioni composte da professionisti e attivisti spesso ricevevano fondi dalle istruzioni locali o dallo stato. Nel 1976, il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti fondò l’Urban Gardening Program, nel 1978 fu fondata la American Community Gardening Association che a livello nazionale forniva informazioni e supporto per i cittadini, le organizzazioni locali e le scuole. La ricorrenza dell’insorgenza delle pratiche di community garden durante i periodi di crisi (economici e politici) sottolinea la capacità della costruzione condivisa dello spazio pubblico di incanalare necessità sociali e urbane emergenti difficilmente organizzabili dalla pianificazione strutturata. I community garden offrono la possibilità di rivitalizzare risorse inutilizzate. Tuttavia sono rimasti nella storia come spazi non legittimizzati a risorsa pubblica.
1.2 Nuova urbanistica italiana e spazio pubblico In Italia non è possibile definire con precisione il momento in cui il fenomeno dei community garden ha iniziato a svilupparsi. Orientativamente è possibile dire che ha iniziato a diffondersi e a farsi conoscere nell'ultimo decennio. Interessante è, però, interrogarsi sulle ragioni che lo hanno fatto nascere anche nel nostro paese considerato che ci si trova di fronte a contesti culturali, sociali ed economici assolutamente differenti da quelli fino ad ora trattati. Come sempre in questi casi, il fenomeno nasce, probabilmente, dalla presa di coscienza di una mancanza o carenza: negli ultimi cinquant'anni la pianificazione di tipo tradizionale, strutturata sui Piani Regolatori Generali e sui piani attuativi, è stata in grado di rispondere alla domanda abitativa dell'Italia della ricostruzione e dello sviluppo ma non alla domanda di spazi pubblici. I piani, troppo spesso, non sono stati capaci di cogliere le specificità dei contesti e le relazioni esistenti con il resto dell'ambito urbano: è emersa fortemente l'incapacità della progettazione di conoscere le peculiarità dei luoghi e di individuare scelte progettuali in grado di dare risposte ai bisogni specifici dei residenti. Inoltre, la mancanza di coerenza tra indicazioni del piano e la sua attuazione ha condotto alla crescita delle città in maniera spesso confusa e incoerente. Il risultato che emerge è quello di una città frammentata, le cui parti hanno forte difficoltà a relazionarsi tra loro e con il contesto territoriale, all'interno delle quali lo spazio pubblico è spesso inesistente o possiede scarso valore ambientale e funzionale. A questo si aggiunge la scarsa sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali, della tutela delle risorse e del valore intrinseco dei luoghi. La proposta di riforma del piano effettuata dall'Istituto Nazionale di Urbanistica nel 1995, mai approvata, rappresenta, sicuramente, il momento di presa di coscienza dei limiti del vecchio piano e la volontà di trovare risposte nuove alle dinamiche di sviluppo e crescita urbana e territoriale. In gran parte delle regioni italiane si sono susseguite, dal 1995 ad oggi, le riforme urbanistiche che hanno adeguato le normative regionali allo spirito della riforma, prevedendo la suddivisione del piano in più parti in grado di rispondere, in maniera differente ma sinergica, alle esigenze di ciascun contesto. La nuova forma di piano porta elementi innovativi della pianificazione comunale, cercando di superare i limiti della pianificazione tradizionale. Il nuovo modello di pianificazione, nelle sue parti strutturale e operativa, cerca di superare la rigidità previsionale del PRG basato sulla zonizzazione e pone "l'attenzione agli aspetti ambientali della pianificazione che diventano nel piano strutturale gli unici elementi non negoziabili da identificare come invarianti strutturali" (F. Rotondo, F. Selicato, 2008). Giorgia Lubisco, Pierangela Loconte
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Accanto a questo, emerge che "la notevole flessibilità della parte operativa del piano richiede forme di partecipazione pubblica e copianificazione tra Enti e soggetti pubblici e privati che concorrono alla formazione dello strumento urbanistico" (F. Rotondo, F. Selicato, 2008). Inoltre, l'introduzione dei comparti perequativi ha consentito differenti modalità organizzative degli ambiti insediativi, maggiore flessibilità al loro interno per quanto riguarda gli usi e le funzioni dello spazio al fine di rispondere in maniera adeguata alle esigenze dei cittadini e di individuare il giusto equilibrio tra gli spazi pubblici e quelli privati, con particolare attenzione alla progettazione delle aree verdi. Il nuovo piano, quindi, si configura come opportunità nel processo di costruzione della città a cui ciascun cittadino, in forma privata o associativa, è chiamato a collaborare. La sussidiarietà, l'efficienza e la celerità dell'azione amministrativa, la trasparenza delle scelte con la più ampia partecipazione e la perequazione 3 sono proprio i principi cardine su cui viene strutturata la Legge Urbanistica della Regione Puglia (L.R: 20/2001) che discende dalla proposta di riforma INU. La norma, declinazione della proposta nazionale, si pone gli "obiettivi della tutela dei valori ambientali, storici e culturali espressi dal territorio, nonché della sua riqualificazione, finalizzati allo sviluppo sostenibile della comunità regionale" 4. La legge introduce nuovi strumenti che, a scale differenti, da quella regionale a quella comunale, siano in grado di orientare la pianificazione fino all'individuazione delle azioni da mettere in capo per il loro conseguimento. La Regione Puglia, negli ultimi anni, ha visto tradursi quanto previsto dalla norma in strumenti concreti in grado di essere operativi sul territorio regionale. In particolare ci si riferisce alla redazione del DRAG - Documento Regionale di Assetto Generale che " definisce le linee generali dell'assetto del territorio, nonché gli obiettivi da perseguire mediante i livelli di pianificazione provinciale e comunale. 5 " Lo strumento è stato declinato in due documenti, uno contenente " indirizzi, i criteri e gli orientamenti per la formazione, il dimensionamento e il contenuto dei Piani Urbanistici Generali (PUG)" 6, l'altro contente i "Criteri per la formazione e la localizzazione dei Piani Urbanistici Esecutivi (PUE)" 7. Entrambi, uno a livello generale l'altro a livello esecutivo, guardano alla città da una nuova prospettiva e la ripensano come sistema all'interno del quale tutte le parti siano in grado di relazionarsi tra loro. All'interno di questa nuova vision emerge la definizione del ruolo e della struttura dello spazio pubblico e delle attrezzature e particolare attenzione alla dotazione di verde urbano. La Carta delle previsioni programmatiche (PUG/P), infatti, partendo dalle indicazioni presenti all'interno della Carta delle previsioni strutturali (PUG/S), individua tali aree e prevede la modalità di gestione dell'esistente e le previsioni di trasformazione tramite la definizione di Piani Urbanistici Esecutivi 8. Il nuovo Piano Urbanistico Generale, strutturato nell'ottica della copianificazione e della partecipazione alla definizione degli obiettivi strategici di sviluppo e delle azioni da mettere in campo per il loro conseguimento, guarda alla città nella sua unitarietà lasciando ai Piani Urbanistici Esecutivi il compito di entrare nel dettaglio delle scelte progettuali, orientandole nell'ottica dello sviluppo sostenibile ed ecocompatibile. In particolare nel PUG, a differenza di quanto accaduto in passato nei PRG, alle aree destinate a verde pubblico viene riconosciuto il compito di aumentare la qualità del contesto urbano contribuendo da una parte a migliorare la percezione dello spazio con funzione estetica ad architettonica, dall'altra a fornire servizi di carattere sociale e ricreativo, culturale e didattico. Le indicazioni che nel PUG localizzano le aree e che hanno il compito di pensare al nuovo disegno di città e alla rigenerazione ambientale degli insediamenti urbani, divengono concreti spunti e indirizzi progettuali nell'ambito della stesura dei PUE. La progettazione del comfort, il contributo della vegetazione nella definizione di tali spazi, il riconoscimento delle funzioni del verde urbano per il controllo ambientale e nella mitigazione del microclima assumono un ruolo centrale nel progetto di città, cambiando completamente l'ottica del passato che vedeva gli spazi verdi come "residuo" di quelli destinati alle funzioni residenziali. In questa ottica, la responsabilità nella realizzazione del verde pubblico non ricade più unicamente sulle pubbliche amministrazioni che acquisiscono le aree ma diviene responsabilità comune e condivisa. Il verde, come elemento essenziale all'interno del disegno di città, si riappropria della sua identità e "le differenze di bisogni, i comportamenti che influenzano il modo di usare e gestire uno spazio urbano devono essere l’oggetto del progetto" 9.
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art. 2 - Principi - L.R. 20/2001 - Regione Puglia art. 1 - Finalità - L.R. 20/2001 - Regione Puglia 5 art. 4 - Documento regionale di assetto generale - L.R. 20/2001 - Regione Puglia 6 DGR n. 1328 pubblicata sul BURP n.120/2007 7 DGR n. 2753, pubblicata sul BURP n. 7/2011 8 a titolo esemplificativo si vedano il Piano Urbanistico Generale e il Piano Urbanistico Esecutivo dei contesti urbani residenziali integrati di nuovo impianto del Comune di Monopoli - http://62.149.225.97/monopoli/urbanistica/strumentiurbanistici 9 Criteri per la formazione e la localizzazione dei piani urbanistici esecutivi (PUE) - DGR n. 2753, pubblicata sul BURP n. 7/2011 4
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Quanto detto mostra chiaramente il cambiamento di prospettiva della pianificazione e ridà centralità al sistema del verde, sia all'interno dei contesti urbani esistenti (Parti da conservare, recuperare riqualificare e rigenerare), sia nei contesti di nuovo impianto.
2. Pratiche Italiane: esperienze in atto Il terzo stato 10che si muove nelle pratiche spontanee di coltivazione del verde urbano sottolinea la necessità per l’urbanistica contemporanea di rivedere questi processi come strumenti di costruzione urbana. La contemporaneità contraddistinta dalla globalizzazione, dall’assenza di tempo e spazio, ha favorito la rinascita di necessità fondative delle dimensione urbana: la costruzione di una comunità legata da interessi e finalità comuni per le quali lavorare in armonia con l’ambiente circostante. La crisi economica e l’attenzione alla conservazione e alla riproducibilità delle risorse hanno riportato in auge movimenti di tipo locale che perseguono attività legate alla decrescita e alla qualità degli alimenti. Le esperienze di coltivazione autonoma degli spazi verdi si stanno diffondendo nelle diverse realtà italiane, dai piccoli centri e alle grandi metropoli: la nuova agricoltura urbana mira a creare nuove forme di socialità condivisa favorendo l’aggregazione, a recuperare il rapporto con la terra e a riscoprire le tecniche agricole tradizionali. Si distinguono tre diverse tipologie di azioni di coltivazione degli spazi urbani: • le azioni di guerrilla gardening • gli orti urbani spontanei • le adozioni di aree verdi con conseguente coltivazione a orto o a giardino Le azioni di guerrilla gardening sono coordinate da gruppi e comitati attivi sul territorio 11. Interessano suoli di tipo pubblico e spesso si tratta di interventi mirati a sensibilizzare la consapevolezza civica piuttosto che attivare una attività duratura nel tempo. Gli orti urbani spontanei nascono per azione di gruppi locali. 12La proprietà del suolo è spesso pubblica. Si tratta di azioni che sono riassorbite dai comuni e integrate nelle pratiche di adozione. In alternativa, si tratta di suoli privati (chiese, scuole) la cui occupazione e coltivazione è coordinata tra i gruppi e i proprietari. 13 Si tratta di interventi che grazie al lavoro del gruppo promotore riescono ad avere una continuità temporale. Le adozioni di aree verdi regolamentate dai comuni si concretizzano in orti o giardini ornamentali concessi in gestione a singoli o associazioni. Le coltivazioni non hanno scopo di lucro e forniscono prodotti destinati al consumo familiare. Molte amministrazioni comunali 14 si sono dotate di strumenti regolatori dedicati. In Puglia il movimento all'autocostruzione del verde si è mosso principalmente sulla scorta di azioni di politiche di incentivazione al lavoro giovanile: i programmi principi attivi e bollenti spiriti 15 hanno finanziato progetti giovanili capaci di interessare aree urbane e contesti sociali (Mininni et al. 2011) Sono emersi gruppi organizzati caratterizzati dalla presenza di sapere esperto e sapere locale che hanno assunto una funzione trasversale tra processi istituzionalizzati (regione e comune) e pratiche sociali (partecipazione). 16 I casi italiani così come si stanno configurando necessitano di una visione integrata nella dimensione urbanistica, in modo da far confluire attività ed energia in una programmazione futura.
3. Conclusioni e prospettive future Il presente lavoro prova a tracciare, seppur in maniera introduttiva una possibile strada da percorrere per rinsaldare tra loro le pratiche spontanee di costruzione urbana e la pianificazione istituzionale. Risulta chiaro che si tratta di una prospettiva insorgente che necessita di approfondimenti che guardino alla determinazione dei legami tra proprietà pubblica e privata, uso del suolo (vuoti e pieni) e destinazione d'uso in concertazione con la dimensione sociale.
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Terzo paesaggio rinvia a terzo stato (e non a Terzo Mondo). Uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere.Fa riferimento al pamphlet di Seyes del 1789: “ cosa è il terzo stato? . Tutto. Cosa ha fatto fin ora) –Niente. Cosa aspira a diventare?-Qualcosa”. Gilles Clément, (2005), Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata. 11 Badili Badola (Torino): www.badilibadola.wordpress.com; Guerrilla Gardening www.guerrillagardening.it 12 http://ortodiffuso.noblogs.org/(Milano) 13 http://ortocircuito.blogspot.it/ (Bari) 14 gAlba (Cn), Bologna, Firenze, Genova, Livorno, Milano, Buccinasco (Mi), Bresso (Mi), Cinisello Balsamo (Mi), Napoli, Padova, Palermo, Pesaro, Pisa, Rimini, Roma, Savona, Torino, Chieri (To), Chivasso (To), Grugliasco (To), Orbassano (To), Rivoli (To), Saronno (Va), Settimo Torinese (To),Treviso,Eboli (Pa), Ferrara, Bari,per citarne alcune. 15 www.bollentispiriti.regione.puglia.it 16 www.gardenfaber.org, www.xscape.org, www.floraetlabora.it, questi solo alcuni. Per ulteriori informazioni consultare il sito www.bollentispiriti.regione.puglia.it. Giorgia Lubisco, Pierangela Loconte
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La decostruzione dello spazio urbano verde: i community garden nella esperienza italiana
In questa ottica appare evidente la necessità di individuare un disegno unitario all'interno del quale il pubblico e il privato possano collaborare, dove la visione strategica della città si incontri con le istanze e i bisogni dei singoli e delle associazioni. La pratica del community garden, quindi, può assumere un significato importante all'interno del contesto urbano ma necessita di concertazione e coordinamento con l'azione pubblica, al fine di perseguire azioni efficaci. Come visto, i piani di nuova generazione hanno un potenziale enorme sia in termini di qualità del progetto che di condivisione delle scelte e delle strategie di sviluppo. La partecipazione attiva alla redazione del piano può rappresentare il momento in cui far convergere le esigenze e progettare in maniera unitaria lo spazio urbano, al fine di realizzare un disegno organico di città dove spazi verdi e insediato trovino un equilibrio. In questa ottica il piano deve essere "tassello significativo della costruzione del futuro della comunità e dello sviluppo locale"17. Inoltre, all'interno della nuova stagione urbanistica, va assumendo sempre più importanza e significato la redazione del Piano dei Servizi. Obbligatorio in alcune regioni italiane, facoltativo in altre, si configura come nuovo strumento in grado di orientare in maniera unitaria e coerente la progettazione del sistema dei servizi, degli spazi pubblici e del verde urbano con riferimento ai requisiti di qualità e sostenibilità. Il piano, che presuppone notevole capacità di programmazione da parte delle pubbliche amministrazioni, può diventare il momento in cui far emergere fortemente "azioni di miglioramento ecologico e ambientale, una sorta di tavola delle azioni di compensazione, difesa e valorizzazione del territorio" (E. Marini, 2011) e "un'occasione per un dialogo più serrato con la cittadinanza sui bisogni, le necessità e le forme della città pubblica" (E. Marini, 2011). Di certo esiste la necessità di riorganizzazione dei servizi esistenti e, allo stesso tempo, di disegno della città: lo sforzo di applicare la visione dei processi spontanei ad uno strumento come il piano dei servizi può rappresentare il momento in cui la pianificazione dall'alto si incontra con quella dal basso, convergendo verso una visione unitaria di città, in grado di rispondere in maniera efficace al bisogni dei cittadini.
Bibliografia Libri Rotondo F., Selicato F. (2008), La nuova forma del piano comunale: l'interpretazione in Puglia, in Carmelo M. Torre, Alessandra Angiuli. Reti e percorsi di cooperazione nella pianificazione, Cacucci, Bari. Clement G. (2005), Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata. Pasquali M. (2006), I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens, Bollati Boringhieri Editore, Torino. Articoli: Lawson L. (2004), The Planner in the Garden: A Historical View into the Relationship between Planning and Community Gardens, Journal of Planning History, n. 3, pp. 151-176. Marini E. (2011), Il piano dei servizi: uno strumento in cerca di contenuti, Urbanistica Informazioni, n. 236, pp. 32-34. Mininni M.V., Cera M., Marocco F., Lubisco G. (2011), L’invenzione del perturbano, Conferenza SIU 2011. Staeheli L.A., Mitchell D., Gibson K (2002), Conflicting rights to the city in New York’s Community Gardens, GeoJournal, n. 58, pp. 197-205.
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DRAG indirizzi, criteri e orientamenti per la formazione, il dimensionamento e il contenuto dei Piani Urbanistici Generali (PUG)
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Il “contratto di fiume” per la pianificazione del sistema insediativo della Val d’Ofanto: tra approcci bioregionali, animazione territoriale e azioni concorrenti
Il “contratto di fiume” per la pianificazione del sistema insediativo della Val d’Ofanto: tra approcci bioregionali, animazione territoriale e azioni concorrenti Mauro Iacoviello Provincia Barletta Andria Trani, Settore Urbanistica, Assetto del Territorio, PTCP, Paesaggio, Genio Civile, Difesa del Suolo, Responsabile del Servizio Assetto del Territorio, Coordinamento strutture tecniche PTCP Email: m.iacoviello@provincia.bt.it Tel. 328.6147619 Maria Laura Scaduto Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Architettura Email: l.scaduto@libero.it Tel. 339.6454439
Abstract Molti anni dopo la stagione degli interventi di trasformazione definiti dalla riforma fondiaria e dalla Cassa del Mezzogiorno, la Valle dell’Ofanto è oggetto di interessi e strategie che sono il frutto della contingenza e comunque agganciate a una geografia amministrativa in cui il fiume Ofanto è per lo più luogo di confine. Tale condizione, connessa all’assenza di una comunità di valle, viene esasperata dalla coesistenza di piani e programmi di scala locale, regionale e di area vasta privi di visione unitaria. A partire da tali problematiche il contributo presenta i risultati della recente applicazione dello strumento contratto di fiume alla Valle dell’Ofanto, soffermandosi sulle problematiche emergenti, sui contenuti, sui soggetti e in particolare sulle relazioni interscalari tra approccio bioregionale e locale. In tal senso vengono esposti i risultati del Programma Integrato di Rigenerazione Urbana Intercomunale quale strumento di scala locale che, attraverso interventi di recupero dell’edificato storico, mira al riconoscimento dell’intero sistema ambientale dell’Ofanto.
La Val d’Ofanto: contesto territoriale e problematiche emergenti Il fiume Ofanto, chiamato dagli antichi Aufidus (Russo, 1998), si sviluppa lungo 170 km circa di corso. Il suo bacino idrografico di 2.670 km2 costituisce uno dei più estesi del Mezzogiorno d’Italia, interessando il territorio di tre regioni, Campania, Basilicata e Puglia, e di 51 comuni, con una popolazione complessiva di circa 420.000 abitanti. In virtù delle eterogenee caratteristiche ambientali e delle problematiche connesse, si tratta di una realtà territoriale estremamente complessa. Essa rappresenta un’area di crisi ambientale del sud Italia caratterizzata da risorse idriche limitate quale risultato del rapido sviluppo economico, della pressione delle attività agricole in seguito all’abbandono di quelle tradizionali, dell’incontrollata estrazione delle acque sotterranee, ma anche di una gestione delle risorse idriche esclusivamente dominata dal paradigma idraulico (Barbanente, 2000; Scognamiglio, 2004; Barbanente, Monno, 2005, 2007; Iacoviello, 2011). Nello specifico la bassa valle dell’Ofanto, pianura alluvionale con versanti molto estesi, interessata tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso da interventi di messa in sicurezza idraulica operati dalla Cassa del Mezzogiorno, si caratterizza per aree golenali occupate abusivamente da un’agricoltura molto parcellizzata, intensiva e idroesigente. Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
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Si tratta di un ambito in cui il sistema produttivo è fortemente legato alle peculiarità del territorio, alle sue potenzialità agricole e alle sue caratteristiche di sistema di piccole e medie imprese manifatturiere di estrazione locale. Esso si caratterizza per la presenza di una delle più grandi aree industrializzate del Mezzogiorno, che ha avuto un significativo impulso in seguito alla ricostruzione dopo il terremoto del 1980 e al cui interno si localizzano uno tra i principali stabilimenti produttivi della FIAT e uno fra i più importanti distretti italiani della moda, con aziende e marchi affermati a livello nazionale e internazionale. Caratteristiche queste ultime che si pongono alla base delle criticità legate alle pressioni antropiche e alle dinamiche di sviluppo, molto frammentate e prive di una visione strategica unitaria. Tale frammentarietà ha avuto ricadute sulle azioni di tutela e salvaguardia del fiume, che hanno seguito un approccio legato esclusivamente alle competenze amministrative territoriali degli organismi di intervento. In sintesi le principali problematiche della Valle dell’Ofanto, governata dall’Autorità di Bacino della Puglia e soggetta alle norme di tutela previste dal parco regionale di recente istituzione, riguardano: il radicale e irreversibile cambiamento delle condizioni idrogeomorfologiche del fiume, l’alterazione degli equilibri ecologici e dei regimi idrici naturali per i ripetuti interventi di captazione, la pressione antropica di tipo agricola, industriale, estrattiva che determina l’inquinamento delle acque del fiume e l’aumento del rischio di desertificazione nella piana costiera (AA.VV., 2008). Per cercare di risolvere le diverse problematiche del bacino idrografico dell’Ofanto, a partire dalla consapevolezza dei limiti derivanti dalla mancanza di strategie condivise e dall’applicazione di un approccio eccessivamente frammentato, sono state avviate già a partire dal 2002 diverse iniziative ed esperienze di pianificazione (figura 1.). L’incipit di tale processo coincide con la candidatura nel 2002 al programma Life Natura per la riqualificazione ecologica del corridoio del Fiume Ofanto e con l’avvio nello stesso anno del progetto Evolution, progetto finalizzato a sostenere lo sviluppo territoriale dell’area “Nord-Barese-Ofantina”. Queste, e le iniziative che seguono, rivalutando i rapporti pubblico/privato, propongono attraverso forme di conoscenza e rappresentazioni strategiche condivise, una diversa e nuova immagine del fiume, del suo bacino e dei rapporti tra attori locali e ambiente, in un’ottica di integrazione di conoscenze, visioni e pratiche interpretate in una prospettiva multiculturale (Barbanente, Monno, 2007).
Il Patto Val d’Ofanto e le relazioni interscalari: dalla scala bioregionale alla scala locale Il Patto Val d’Ofanto rappresenta l’unico contratto di fiume italiano applicato all’intero bacino interregionale, considerato come sistema ambientale omogeneo in cui attuare un approccio integrato e interdisciplinare tramite la costruzione di relazioni tra i soggetti della pianificazione di settore sovraordinata, locale, regionale e di area vasta. Esso viene inteso quale scenario strategico di riferimento unitario rispetto al quale orientare impegni ed azioni dei soggetti pubblici e privati, così da verificare le sovrapposizioni e le opportunità dei diversi strumenti di pianificazione e programmazione portate avanti nell’Alto, Medio e Basso Ofanto e quindi al fine di porsi in antitesi allo “scenario di sviluppo frammentato” che da sempre ha caratterizzato la valle. Nato come strumento da applicare al territorio proposto per l’istituzione del parco regionale, il Patto Val d’Ofanto ha mostrato una forte dinamicità ed è diventato nel giro di pochi anni un’iniziativa che si rivolge ad un ampio territorio caratterizzato da realtà differenti in termini ambientali e sociali e con problemi e criticità estremamente diversi. L’avvio delle riflessioni sul contratto di fiume dell’Ofanto si inserisce infatti nel complesso processo di interazione tra gli agricoltori, gli amministratori comunali e la Regione Puglia per l’istituzione dell’area naturale protetta “Fiume Ofanto” i cui confini ricadono in toto nella parte pugliese del bacino idrografico 1 . Obiettivo principale è quello di avviare uno sviluppo locale equilibrato tra le esigenze ecologiche e quelle economiche del parco tramite il coinvolgimento diretto dei soggetti non istituzionali, delle associazioni e soprattutto degli agricoltori 2. 1
L’istituzione del Parco ha incontrato numerose opposizioni soprattutto da parte degli agricoltori e solo dopo un anno circa di tensioni il confronto tra gli stakeholders ha portato alla sottoscrizione del Protocollo di intesa per azioni, eventi e progetti sperimentali che accompagnano la formazione del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, da parte della Regione Puglia, del Comune di Canosa di Puglia, dell’Agenzia Territoriale per l’Ambiente e del Patto per l’Occupazione nord barese ofantino. Successivamente, con il Patto della Val d’Ofanto (27 aprile 2009) è entrato a far parte del progetto anche il territorio campano e quello lucano dell’Ofanto. 2 Nel caso del Patto Val d’Ofanto la riflessione sui soggetti non può non partire dal considerare l’elevato numero di portatori di interesse pubblici e privati che vi operano tra cui: l’Autorità di Bacino, le province, i comuni, i consorzi di bonifica, le associazioni, gli agricoltori, etc…Un ruolo di primo piano assume l’Agenzia per l’Ambiente, istituita nel 2004 nell’ambito del Patto Territoriale Nord Barese/Ofantino, quale società di promozione, assistenza e supporto tecnico nel settore ambientale. L’Agenzia svolge un ruolo di facilitatore nella gestione dei possibili conflitti ambientali ed è rappresentativa del partenariato pubblico/privato presente sul territorio e le sue azioni sono indirizzate al variegato panorama del partenariato locale (enti locali, imprese, istituzioni scolastiche, associazioni, ecc.) del territorio nord barese/ofantino. Inoltre, considerato che l’avvio del contratto di fiume dell’Ofanto si inserisce nelle riflessioni avviate per Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
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Alla base si collocano anche le riflessioni maturate in occasione di altre iniziative. In primis il processo di Agenda 21 Locale realizzato nel 2003 nell’ambio del Patto Territoriale per l’Occupazione Nord-Barese Ofantino (PTO/NBO) che conduce all’adozione da parte dei comuni aderenti del Piano di Azione Ambientale. Quest’ultimo definisce delle priorità di intervento legate all’impiego delle reti ecologiche urbane, della rete ecologica del PTO/NBO e all’attivazione della stazione sperimentale per il Fiume Ofanto. Il 15 dicembre 2008 viene firmato a Lucera, in occasione della III Conferenza d’area per la presentazione dell’avanzamento del nuovo Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR) della Regione Puglia, un protocollo di intesa fra questa, il comune di Canosa di Puglia e l’Agenzia PTO/NBO. Tale protocollo riguarda azioni, eventi e progetti sperimentali che accompagnano la formazione del PPTR al fine di avviare interventi materiali e immateriali per lo start-up del parco regionale del Fiume Ofanto, attraverso la sottoscrizione del contratto di fiume e la realizzazione delle porte di accesso all’area protetta.
l’istituzione del Parco regionale fiume Ofanto, un ruolo degno di nota è svolto anche dal Comitato per il Parco del fiume Ofanto e dagli agricoltori. Rispetto a questi ultimi, le uniche azioni concrete sono state avviate dall’Agenzia nell’ambito di “partenariati pionieri” che raggruppano un numero limitato di agricoltori per piccoli interventi finalizzati alla diffusione di buone pratiche agricole. Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
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Figura 1. Schema delle fasi salienti del processo che ha condotto alla definizione del Patto Val d'Ofanto Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
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A tale iniziativa segue la presentazione a San Ferdinando di Puglia, il 16 febbraio 2009, dell’Atlante Cartografico Ambientale del Parco Naturale Regionale del Fiume Ofanto (2008) che, elaborato nell’ambito del programma Interreg Grecia-Italia 2000-2006, presenta un’analisi sistematica del fiume nel suo tratto pugliese e individua “nuovi valori” per il piano di gestione. In tale contesto il Patto Val d’Ofanto, presentato a Melfi il 27 aprile 2009, si traduce in un accordo di Programma Quadro Interregionale che assume i valori e le caratteristiche di un contratto di fiume. Esso si pone in linea con le riflessioni condotte nell’ambito di uno dei primi progetti interregionali ideati dal partenariato per l’integrazione dei Corridoi Europei I e VIII, avviato nel 2005 per il riconoscimento dell’approccio interregionale nella stesura dei Documenti strategici per la programmazione regionale 2007/2013. Obiettivo principale è quello di promuovere uno sviluppo integrato della Valle dell’Ofanto, nell’ottica del bioregionalismo e dell’integrazione tra sistema antropico ed economico all’interno dell’intero bacino idrografico del fiume Ofanto. Concretizzandosi in un accordo interregionale tra le tre regioni (Basilicata, Campania, Puglia), le province di Avellino, Barletta-Andria-Trani, Foggia, Potenza e le 51 amministrazioni comunali interessate, il Patto vuole affrontare le diverse problematiche con un’ottica intersettoriale e interregionale Tale orientamento è stato evidenziato in occasione del Seminario di Melfi (27 aprile 2009) che, con la partecipazione di soggetti pubblici e privati, ha visto l’avvio della fase concertativa del Patto Val d’Ofanto e la formulazione del Manifesto. Quest’ultimo, inteso quale documento sintetico non tecnico, punta a valorizzare l’identità della valle e ad aumentare la consapevolezza dell’intera comunità ad intraprendere un percorso comune di sviluppo. Si tratta di uno “scenario strategico condiviso” che riconosce il bacino idrografico come sistema territoriale di riferimento complesso cui guardare per lo sviluppo endogeno del territorio, tramite azioni alla scala del bacino idrografico e locale. In quanto sistema complesso esso si caratterizza per i valori del bioregionalismo, per la sua capacità dinamica di sviluppo e per la messa in relazione dei soggetti pubblici e privati. Nello specifico il patto si concretizza con una serie di protocolli firmati dai diversi soggetti e relativi ad azioni specifiche che ad oggi sono: - il Protocollo per la costituzione dell’Associazione per il “Marchio Bioregionale Val d’Ofanto” e il riconoscimento della Rete Ecologica Multifunzionale (REM) quale fattore di premialità nella programmazione negoziata del PO FESR e PSR 2007/2013, firmato tra i sei Gruppi di Azione Locale (GAL) e un gruppo di privati che operano nei 51 comuni della Val d’Ofanto; - il Protocollo di Intesa tra le 11 amministrazioni comunali ricadenti nell’area del Parco dell’Ofanto e aggregati in partenariati per la realizzazione del progetto delle “porte del parco regionale” e il riconoscimento della REM nella pianificazione locale; - il Protocollo tra i soggetti pubblici sovra locali per azioni da definire (Autorità di Bacino, Province di Avellino, Potenza Foggia, BAT, ATO, Consorzi di Bonifica). L’Associazione per il Marchio bioregionale Val d’Ofanto, sostenuta dall’Agenzia per l’Ambiente Nord Barese Ofantino e dai 6 GAL, punta alla promozione della Val d’Ofanto tramite uno sviluppo sostenibile nei diversi settori: agricolo, turistico, culturale, etc… In questo caso all’intervento immateriale relativo alla costituzione dell’Associazione si aggiungono due azioni specifiche inserite nell’ambito della REM. Si tratta dell’elaborazione di uno schema di Rete Ecologica a scala di bacino idrografico attraverso l’omogeneizzazione delle reti ecologiche definite nell’ambito degli strumenti di pianificazione provinciale di Avellino, Bari, Foggia e Potenza e della creazione di un osservatorio sulla gestione della rete ecologica finalizzato tra le altre cose a validarne lo schema e monitorare le attività previste negli strumenti di pianificazione a scala provinciale e comunale. Di notevole rilievo è inoltre il Protocollo di Intesa per la costituzione del Sistema Turistico Locale “Puglia Imperiale” firmato il 5 ottobre 2009 ad Andria che definisce una visione strategica e condivisa dello sviluppo turistico locale tramite la salvaguardia e la valorizzazione delle identità e dei valori locali. Queste iniziative consentono di iniziare a riflettere sulla Valle dell’Ofanto attraverso un approccio sistemico che richiede la costruzione e il consolidamento delle relazioni e delle sinergie tra i soggetti della pianificazione di area vasta, regionale e locale.
Il Programma Integrato di Rigenerazione Urbana Intercomunale: evoluzione, risultati e nodi critici Rispetto al quadro propositivo “teorico” esposto, il Patto Val d’Ofanto si è concretizzato solo con interventi relativi alla scala locale. E’ questo il caso delle azioni inserite nell’ambito del Programma Integrato di Rigenerazione Urbana Intercomunale per la competitività e l’attrattività del sistema urbano policentrico della Val d’Ofanto. Esso ha guardato all’equilibrio dell’ecosistema fluviale a partire da quello insediativo della valle e ha consentito la Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
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realizzazione di interventi di connessione materiale e immateriale tra cinque centri urbani di antica fondazione posti lungo la direttrice parallela al fiume Ofanto e al torrente Locone (Canosa di Puglia, Margherita di Savoia, Minervino Murge, San Ferdinando di Puglia e Trinitapoli) e l’intero sistema ambientale del fiume Ofanto (figura 2). In linea con gli indirizzi del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale della Regione Puglia e in particolare in continuità con quanto previsto nell’ambito della figura territoriale e paesaggistica n.4 “Valle dell’Ofanto”, il Programma Integrato di Rigenerazione Urbana Intercomunale mira a porre in equilibrio il sistema urbano e quello ambientale. Esso si integra perfettamente con gli obiettivi generali della legge regionale 21/2008 “Norme per la rigenerazione urbana” e del Patto città campagna del PPTR e in tal senso interpreta il fiume come un parco urbano/territoriale, capace di legare il fiume alle città.
Figura 2. 1) Trinitapoli, 2) San Ferdinando di Puglia, 3) Canosa di Puglia, 4) Minervino Murge, 5)Invaso Locone, 6) Altopiano Murgiano, 7) Lago Salso – Saline di Margherita di Savoia, 7.1) Margherita di Savoia, 8) Tratturo Regio, 9) Via Traiana, 10) Derivativo Ofantino, 11) Via Ofanto. Oggi, le indicazioni del Programma Integrato di Rigenerazione Urbana Intercomunale sono confluite direttamente nel Piano Integrato di Sviluppo Territoriale (PIST) per la Competitività e l’attrattività del sistema urbano policentrico della Val d’Ofanto, definito tale dall’azione 7.2 delle PPA dell’Asse VII PO FESR 2007/2013. Nello specifico il PIST, elaborato e approvato, coinvolge i cinque centri urbani di antica fondazione e declina gli obiettivi generali del Patto Val d’Ofanto all’interno del sotto-ambito città-fiume, Obiettivo princeps è la sostenibilità ambientale del bacino idrografico e il maggiore riconoscimento del sistema ambientale del versante ofantino attraverso interventi di recupero e di rigenerazione dell’edificato storico e dei fronti urbani orientati verso il fiume Ofanto. In linea con esso la rigenerazione del tessuto storico dei centri Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
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prossimi al contesto fluviale previsti dal Programma fa riferimento alla realizzazione di interventi materiali e immateriali relativi a due obiettivi generali: uno riconducibile al sistema della mobilità, della residenza, dei servizi e delle attività produttive e l’altro riferito al sistema ambientale del fiume Ofanto (vedi tabella I). Tabella I. Obiettivi del Piano Integrato di Sviluppo Territoriale (PIST) per la rigenerazione urbana intercomunale A) Sistema della mobilità, residenza, servizi ed attività produttive A1) il recupero, la ristrutturazione edilizia e la ristrutturazione urbanistica di immobili destinati o da destinare alla residenza, con particolare riguardo all’edilizia residenziale sociale, garantendo la tutela del patrimonio storico-culturale, paesaggistico, ambientale e l’uso di materiali e tecniche della tradizione dei “ristretti” prospicienti l parco regionale del fiume Ofanto ed interagenti direttamente o indirettamente con il ciclo delle acque aventi come recapito finale il fiume Ofanto; A2) la realizzazione, manutenzione o adeguamento delle urbanizzazioni primarie e secondarie; A3) l’eliminazione delle barriere architettoniche e altri interventi atti a garantire la fruibilità di edifici e spazi pubblici da parte di tutti gli abitanti, con particolare riguardo ai diversamente abili, ai bambini e agli anziani; A4) il miglioramento della dotazione, accessibilità e funzionalità dei servizi socio-assistenziali in coerenza con la programmazione dei piani sociali di zona152 di Canosa di Puglia, Minervino, San Ferdinando di Puglia, Trinitapoli; A5) il sostegno dell’istruzione, della formazione professionale e dell’occupazione; A6) la rigenerazione ecologica degli insediamenti finalizzata al risparmio delle risorse, con particolare riferimento a suolo, acqua ed energia, alla riduzione delle diverse forme di inquinamento urbano, al miglioramento della dotazione di infrastrutture ecologiche e alla diffusione della mobilità sostenibile; A7) la conservazione, restauro, recupero e valorizzazione di beni culturali e paesaggistici per migliorare la qualità insediativa e la fruibilità degli spazi pubblici; A8) il recupero e riuso del patrimonio edilizio esistente per favorire l'insediamento di attività turistico-ricettive, culturali, commerciali e artigianali nei contesti urbani interessati da degrado edilizio e disagio sociale. B) Sistema ambientale del fiume Ofanto B1) affrontare i conflitti legati alle problematiche differenziate e spesso contrapposte che interessano il fiume (ambiente, rischio idraulico, turismo/fruizione, gestione della risorsa idrica, obiettivi socio-economici) e ad individuare soluzioni che permettano di trovare un compromesso accettabile tra i diversi obiettivi; portare, nel lungo termine, il fiume Ofanto ad una condizione di più elevato valore ambientale, in cui siano maggiormente garantiti processi e dinamiche che caratterizzano un ambiente naturale. B1.1) realizzare un piano d'azione condiviso e partecipato per la riqualificazione dell’Ofanto che tenga conto degli studi ed esperienze pregresse e delle istanze di tutti gli attori in gioco, ma allo stesso tempo fornisca a tutti gli stakeholders gli strumenti che permettano di portare avanti nel tempo un processo di pianificazione e gestione del territorio partecipato e condiviso; B1.2) avviare, nell'ambito delle tipologie d’intervento previste dal piano, azioni pilota con valore divulgativo e sperimentale, con lo scopo di ottenere, già nell'ambito di questo progetto, importanti informazioni sulla realizzabilità degli interventi nel contesto specifico, sulla loro accettabilità da parte degli attori locali e dati preliminari sul loro effetto, almeno a scala locale; B1.3) incrementare la condivisione di dati e informazioni ambientali relativamente a sistema bioregionale interprovinciale del fiume Ofanto, migliorando l'attuale situazione di parcellizzazione e inaccessibilità di molte basi dati, incompatibile con una pianificazione e gestione territoriale veramente partecipata. Al di là di questa concreta applicazione del Patto Val d’Ofanto un grado di attività decrescente si registra passando dalla scala locale a quella bioregionale. In quest’ultimo caso si ritiene che tale debolezza sia da ricondurre all’altrettanto debole livello di integrazione tra i soggetti e gli strumenti in cui il contratto di fiume si trova ad operare. Basti pensare all’elevato numero di attori istituzionali che operano sul territorio (Autorità di bacino, regioni, province, comuni, etc..) e al contempo all’assenza di un soggetto istituzionale forte, che assuma il ruolo di struttura di coordinamento e di concertazione di livello interregionale, che favorisca la formulazione e l’applicazione di adeguate politiche di sviluppo e che, facendosi portavoce della “coscienza di bacino”, conduca le autorità regionali, provinciali e comunali a riflettere intorno allo stesso tavolo, non soltanto sugli aspetti idraulici, ma sul futuro del fiume e della sua valle. Tale complessità istituzionale è strettamente legata all’articolato quadro degli strumenti settoriali di pianificazione e gestione delle acque. In esso si assiste, da un lato, all’accorpamento di 14 diversi bacini idrografici all’interno di un unico distretto, con i conseguenti problemi di integrazione tra le 13 autorità di bacino interregionali e regionali e di carenze nel livello di dettaglio delle informazioni, dall’altro, a piani come i PAI e i PTA che, applicandosi al territorio regionale, perdono di vista l’unitarietà idrografica del bacino. Per tale ragione si ritiene necessario riconoscere un ruolo fondamentale di coordinamento e gestione all’Autorità di Bacino Interregionale. Quest’ultima dovrebbe individuare istituzioni e organismi più vicini al territorio in cui Mauro Iacoviello, Maria Laura Scaduto
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possano interagire i soggetti che operano alla scala locale come ad esempio l’Agenzia Territoriale per l'Ambiente dell'area nord barese/ofantina. Solo in tal modo il Patto Val d’Ofanto può diventare parte integrante del Piano di Distretto Idrografico e riuscire a mettere a sistema e in sinergia tutte le azioni attualmente gestite in modo eccessivamente autonomo.
Bibliografia Libri AA.VV. (2008), Atlante Cartografico Ambientale del Parco Regionale del Fiume Ofanto, Programma INTERREG Grecia-Italia 2000-2006, Asse prioritario III. Russo R. (1998), Ofanto, fiume di Puglia. L’idrografia, la storia, l’ambiente, Editrice Rotas, Barletta. Articoli Barbanente A. (2000), “Una regione in transizione. La Puglia, in 1950 2000”, in Indovina F., Fregolent L. e Savino M., L'Italia è cambiata, Franco Angeli, Milano. Barbanente A. & Monno V. (2005), “Changing Discourses, Practices and Spaces of Coexistence: Perspectives for the Environmental Regeneration of the Ofanto River Basin”, Planning Theory & Practice, 6 (2), pp. 171-190. Barbanente A. & Monno V. (2007), “Conoscenze ambientali e nuovi scenari futuri per la bassa valle dell'Ofanto”, Aménagement du territoire: confrontation d'expériences, pp. 152-170. Iacoviello M. (2011), “Dal Patto Val d’Ofanto ad Apulia Fluminun. Programmazione e pianificazione, alla ricerca di una convergenza possibile tra bioregionalismo, interscalarità, irrequietezza e complessità” in Bastiani M. (a cura di), Contratti di Fiume. Pianificazione strategica e partecipata dei bacini idrografici. Approcci, esperienze, casi studio, Dario Flaccovio Editore, pp. 461-487, Palermo.
Riconoscimenti Il contributo presentato fa tesoro delle riflessioni presenti all’interno del volume di Iacoviello M., Barone M., Buonadonna A., 2011. La rete ecologica nella pianificazione territoriale delle valli interne e piane costiere. Il caso studio Nord Barese - Ofantino. Rapporti 152/2011, ISPRA, Roma e della tesi di dottorato di Scaduto M. L., (2012). Governare i territori fluviali. Il contratto di fiume, strumento per una gestione integrata a scala di bacino. Tesi in cotutela con l’Università degli Studi di Palermo – Dottorato in Pianificazione urbana e territoriale e l’Université Lumière Lyon 2 – Dottorato in Géographie, aménagement et urbanisme.
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“Antropocene” Millo 2012 ®
Atti della XV Conferenza Nazionale SIU Società Italiana degli Urbanisti Pescara, 10-11 maggio 2012
L’Urbanistica che cambia. Rischi e valori
by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723-0993 | n. 25, vol. 2/2012