Atelier 9.
La geografia dei rischi e gli effetti ambientali dei piani Coordina: Maurizio Tira Discussant: Michele Zazzi
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Crediti
Comitato scientifico della XV Conferenza Nazionale SIU: Alessandro Balducci (Segretario SIU), Massimo Angrilli (Responsabile), Alberto Clementi, Roberto Bobbio, Daniela De Leo, Luca Gaeta (Tesoriere), Elena Marchigiani, Daniela Poli, Michelangelo Russo, Maurizio Tira Segreteria organizzativa della XV Conferenza Nazionale SIU: Massimo Angrilli (Coordinamento), Cesare Corfone, Antonella de Candia, Claudia Di Girolamo, Federico Di Lallo, Fabio Mancini, Mario Morrica, Patriza Toscano, Ester Zazzero (Mostra Piani di ricostruzione), Luciano Di Falco (Assistenza tecnica) La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è il risultato di tutti i papers accettati alla conferenza. Solo gli autori regolarmente iscritti alla conferenza sono stati inseriti nella presente pubblicazione. La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è stata curata dalla redazione di Planum. The Journal of Urbanism: Giulia Fini e Salvatore Caschetto con Marina Reissner Progetto grafico: Roberto Ricci Segreteria tecnica SIU: Giulia Amadasi, DiAP - Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano L’immagine della copertina della pubblicazione e delle copertine dei singoli Atelier sono tratte da opere di Francesco Millo ©. Francesco Camillo Giorgino in arte Millo nasce a Mesagne (BR) nel 1979. Consegue la Laurea in Architettura e parallelamente porta avanti una personale ricerca estetica nel campo della pittura, spaziando dalla micro alla macroscala “rivelando la labilità dell’esistenza umana, sospesa a metà tra ciò che conosciamo e ciò che si nasconde dentro di noi” (Ziguline). Riceve diversi premi e riconoscimenti in ambito nazionale, fra cui il prestigioso “Premio Celeste” nel 2011.
Abstract Una delle questioni aperte nell’agire urbanistico è l’effetto ambientale dei piani, che si valuta attraverso procedure definite, ma ancora povere di riferimenti condivisi: per molte componenti ambientali non sono stabiliti target, né tipologie di misura, né reali modalità di monitoraggio. Un particolare momento di verifica degli effetti sull’ambiente sono i rischi naturali, occasione di confronto con l’eccezionalità di una situazione che ricorda la necessità di un approccio diverso alla conoscenza e al progetto. Si impone dunque la riflessione non solo sulle modalità per rendere efficace la valutazione ambientale dei piani e dei programmi, ma anche su tematiche di più ampia portata. In particolare è importante ridefinire: • il rapporto tra invarianti territoriali, bene comune e interessi privati; • il rapporto tra conoscenza e progetto nel piano; • il rapporto tra valutazione e percezione del rischio; • il confine tra determinismo delle scelte e scenari di trasformazione. Sullo sfondo vi è anche la riflessione sulla spazialità del rischio, sia in termini di ambiti di influenza dei piani, che di nuovi territori definiti in base alle componenti fisiche dello spazio.
Indice
Atelier 9.
La geografia dei rischi e gli effetti ambientali dei piani Coordina: Maurizio Tira Discussant: Michele Zazzi
Conoscenza, rischio, valutazione e progetto Pianificare la città dei frammenti. Metodi e strumenti di conoscenza per la riqualificazione sostenibile Emanuela Abis, Valeria Saiu Il ruolo delle verifiche ex post a supporto della VAS: trattamento dei dati ambientali per la simulazione degli scenari di piano Giuseppe Bonavita Conoscenza e progetto. Il ruolo dei Sistemi della Conoscenza per il progetto urbano Donato Di Ludovico La valutazione ambientale strategica Effectiveness of Strategic Environmental Assessment of urban and regional planning in Northern Italy: limitation of risks and impact of land consumption Aldo Treville La partecipazione co-valutata Romina Raulli Pianificazione del territorio e delle infrastrutture e difesa del suolo La vulnerabilità del territorio nella pianificazione di bacino Luca Gullì, Michele Zazzi Drenaggio urbano sostenibile e pianificazione urbanistica Antonio Acierno Ecological Airport Urbanism. Aeroporti e paesaggi a Nordest Laura Cipriani Il monitoraggio del Sustainable Energy Action Plan: interrogativi e proposte Ilaria Delponte Rischi naturali e sostenibilità territoriale. L’esperienza dell’alluvione di Genova Francesca Pirlone
Pianificare la città dei frammenti. Metodi e strumenti di conoscenza per la riqualificazione sostenibile
Pianificare la città dei frammenti. Metodi e strumenti di conoscenza per la riqualificazione sostenibile Emanuela Abis Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura di Cagliari Email: emabis@unica.it Tel. 070.6755372 Valeria Saiu Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura di Cagliari Email: v.saiu@unica.it Tel. 070.6755376
Abstract Il governo dei processi di trasformazione e la definizione di regole in grado di limitare le criticità e i rischi appare particolarmente difficile nella città dei frammenti e nel territorio della diffusione insediativa che utilizzano modelli d’uso del suolo insostenibili per gli impatti negativi che generano sull’ambiente e per gli alti costi collettivi connessi all’urbanizzazione e alla gestione del territorio. Attualmente gli interventi di riqualificazione sembrano concentrarsi prevalentemente su "casi emblematici" a discapito dell'elaborazione di strumenti in grado di incidere sul “tessuto comune", necessari per promuovere il passaggio dall’intervento straordinario a una logica dell’ordinario. L'Atlante delle periferie della Sardegna propone una metodologia analitica per la costruzione della conoscenza e la valutazione della qualità del tessuto insediativo delle periferie regionali, basata su uno strumento di sensibilizzazione e di supporto all'attività decisionale, utile per orientare il progetto di riqualificazione e per la definizione delle strategie di piano.
Strumenti per la riqualificazione della periferia contemporanea “C’è un nuovo spazio di riflessione che si apre per gli interventi nella periferia. (…) E’ quello di progettare la qualità della periferia seguendo criteri sperimentati in altri tempi per i centri storici. Nuovi modi di riqualificazione del patrimonio edificato che vanno da un semplice piano del colore (sempre pensato per il centro storico ma forse più importante per la periferia) a nuovi manuali e regolamenti edilizi per la periferia basati su nuovi principi tipologici, estetici, ambientali. Un difficile lavoro quello dei nuovi manuali ma proprio di questo oggi si sente una grande necessità. Mappe per l’orientamento per una città bella”. (Ingersoll, 2001, p.70) A differenza del centro storico della città, il cui valore e significato appaiono ormai condivisi, la periferia rappresenta un luogo quasi astratto, dai limiti imprecisi e dai caratteri eterogenei. Un territorio a geometria variabile in cui si contrappongono grandi spazi aperti e aree urbanizzate, residui di campagna e frammenti urbani costruiti secondo logiche insediative differenti, espressione dei molteplici modelli abitativi della contemporaneità. Il complesso di edifici in linea, il sistema di case a torre, la lottizzazione di villette isolate nel lotto, per citare alcuni dei tipi prevalenti, mostrano caratteri tipo-morfologici, costruttivi e molto spesso anche sociali che con combinazioni sempre diverse si ripetono in tutte le periferie. La programmazione dello sviluppo per zone omogenee, infatti, insieme all’importazione di modelli urbani “moderni”, ha contribuito alla creazione dell’immagine delle periferie “tutte uguali”. Ricostruire il processo di formazione e trasformazione di questo grande palinsesto urbano è operazione necessaria per comprendere il significato che nel tempo ciascun elemento ha assunto all'interno del contesto in cui si colloca. Occorre mettere insieme letture attente alle identità specifiche, senza abbandonare l’approccio storicamente utilizzato per l’analisi della città consolidata (Pavia, 1996), arrivando a disegnare nuove “mappe Emanuela Abis, Valeria Saiu
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della consapevolezza” (Gregotti, 2006), contrastando la tendenza della pianificazione urbanistica a “gestire il territorio informale secondo concetti innestati dall’alto, come se questi spazi non ospitassero nulla di significativo e non si costituissero già in un sistema di rapporti sociali e di iscrizioni culturali” (Albanese, 2009, p.8). Secondo questo punto di vista la ricerca dell'identità specifica di ogni luogo rappresenta il punto di partenza per l’elaborazione di strategie di riqualificazione efficaci. In questo quadro la metodologia analitica sperimentata nell'Atlante delle periferie 1 individua, come presupposto fondamentale per la costruzione della conoscenza, la ricostruzione dell'evoluzione storica e l'analisi tipo morfologica diacronica dei tessuti insediativi, partendo dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. E' da questo momento in poi, infatti, che prende avvio il processo di crescita delle periferie che costituiscono oggi la parte più consistente dell'edificato delle nostre città, un dato particolarmente significativo in Sardegna dove la media italiana del 68.52% viene nettamente superata, arrivando all’80,57% (Istat) (Figura 1).
Figura 1. Sviluppo della periferia della città di Quartu Sant'Elena nel periodo compreso tra il 1954 e il 2006. In questo imponente fenomeno di sviluppo la formazione delle nuove aree urbane appare guidata da dinamiche di tipo "globale”, comuni alla maggior parte delle città che, interagendo con i caratteri locali del territorio regionale, hanno prodotto modelli originali che pongono all'attenzione importanti temi progettuali. Alla lettura del territorio urbanizzato come grande palinsesto, necessaria per comprendere il complesso sistema di relazioni che nel tempo si sono create e interrotte tra le diverse parti della città, si affianca la necessità di uno studio specifico delle singole parti per definire un metodo di analisi e di rappresentazione in grado di offrire una visione spaziale simultanea e sintetica delle principali questioni utili per affrontare il progetto. Per questo l'Atlante delle periferie propone l'elaborazione di schede per la valutazione della sostenibilità dei “frammenti” della periferia, isolando di volta in volta temi di analisi specifici in maniera tale da poterli valutare 1
L'elaborazione della metodologia per la redazione dell'Atlante è stata avviata dall'Ing. PhD Valeria Saiu nell'ambito della ricerca "La riqualificazione sostenibile delle “periferie” della Sardegna. Impostazione di una metodologia per il recupero", finanziata dalla Regione Sardegna per il biennio 2010-2012 e coordinata dal prof. Antonello Sanna con la collaborazione della prof. Emanuela Abis all'interno del Dipartimento di Architettura di Cagliari.
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singolarmente. Una procedura che, implementata in un sistema informativo geografico, permetterebbe di costruire mappe della sostenibilità in grado di restituire “una chiara visione del livello di qualità dell’abitare in città e di come questo sia diversamente ripartito tra le varie parti della città e tra i vari ceti sociali”. (Socco, 2003) A partire da queste letture è possibile, infatti, definire un sistema equo di regole basato su principi chiari e condivisi che derivino dalla valutazione dei temi ritenuti fondamentali per il raggiungimento della qualità. I metodi di analisi a punteggio, infatti, stanno trovando riscontro anche nelle strategie di pianificazione delle città come validi strumenti per disciplinare le trasformazioni del territorio secondo criteri di compatibilità ambientale e di eco-efficienza energetica. Spesso si tratta dell’evoluzione di modelli nati per la valutazione alla scala edilizia e in seguito definiti alla scala urbana. Tra i più importanti il sistema francese HQE2R “Sustainable renovation of buildings for sustainable neughbourhoods”, il britannico “BREEAM Communities” e l’americano “LEED for Neighbourhood Development Rating System”. In Italia il Protocollo Itaca del 2011 costituisce un avanzamento in questa direzione: oltre alla valutazione dell’efficienza degli edifici vengono introdotti, infatti, indicatori relativi alla qualità del sito e ai carichi ambientali. La valutazione assegnata sulla base di indicatori (quantitativi e qualitativi) rappresenta un riferimento oggettivo per la promozione di un opportuno sistema di incentivi (sconti sugli oneri di urbanizzazione, premi volumetrici, finanziamenti) volto a favorire strategie e tipologie particolari di intervento. Le schede analitiche proposte dall’Atlante rielaborano questi modelli, sintetizzando le questioni e semplificando le procedure di valutazione, in maniera da produrre uno strumento agevole, di facile e immediata comprensione anche per utenti non esperti, facilmente integrabile nel processo di pianificazione della città alle diverse scale.
La periferia di Quartu Sant'Elena La possibilità di testare la metodologia in un contesto specifico, verificando la validità operativa dell’Atlante, è stata offerta dalla collaborazione tra il Dipartimento di Architettura di Cagliari e il Comune di Quartu Sant’Elena, avviata in occasione dell'adeguamento del Piano Urbanistico Comunale al Piano Paesaggistico Regionale. Quartu, terza città della regione per numero di abitanti, con il 92% del patrimonio costruito (censito) situato nella periferia, rappresenta un caso particolarmente significativo per la complessità, e dunque la ricchezza, che i suoi tessuti periferici esprimono. Nel grande “catalogo urbano” della periferia quartese è possibile riassumere buona parte delle vicende insediative che a partire dal secondo dopoguerra sono state comuni a molti centri dell’isola. Nel primo decennio del Novecento Quartu si configurava come borgo bracciantile e agricolo, di consistenza demografica non corrispondente alla grande estensione territoriale, con il centro storico di case a corte in terra cruda tra i più grandi in Europa e un territorio caratterizzato da una straordinaria varietà di paesaggi: il sistema delle aree umide, lo stagno del Molentargius, le saline e il litorale del Poetto, il territorio agricolo pianeggiante e sub-collinare delle colture storiche dell’uliveto, del vigneto e del mandorleto, il litorale che comprende i primi venti chilometri di costa ad est di Cagliari fino ai rilievi del Monte dei Sette Fratelli. Un territorio, in particolare quello della campagna, che ha sempre avuto uno stretto rapporto con il centro urbano, documentato dalla presenza di alcuni importanti assi viari di collegamento territoriale, alcuni dei quali tuttora esistenti. Questa configurazione è rimasta pressoché invariata fino agli anni settanta quando la città subisce un troppo rapido processo di crescita, divenendo serbatoio di manodopera per l’edilizia e filtro per la prima immigrazione dalla campagna e dal capoluogo. In trent’anni la popolazione aumenta del 600%, passando da 3.000 abitanti nel 1951 a 7.000 nel 1968, fino ad arrivare a 17.000 nel 1981 (Istat).
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Figura 2. La città pianificata: in rosso i P.di L., in giallo i PEEP e in arancio i PRU L’imponente urbanizzazione degli anni settanta e ottanta determina la progressiva occupazione delle fasce periurbane e delle aree agricole e costiere. Se la costruzione delle prime periferie appare legata all’offerta di abitazioni che soddisfa le esigenze dei lavoratori dell’hinterland cagliaritano che non riescono ad accedere al bene casa nel capoluogo a causa degli alti costi delle costruzioni, l’edificazione nella costa appare invece prevalentemente legata all’opportunità di possedere un alloggio per le vacanze al mare, una seconda casa, considerata anche un investimento sicuro. Questo processo è stato governato dal Programma di Fabbricazione che ha rappresentato dal 1969 fino alla redazione del Piano Urbanistico Comunale nel 1993, il principale strumento per la pianificazione dei nuovi interventi di edilizia residenziale della città. L'urbanizzazione è proceduta attraverso la costruzione di lottizzazioni autonome, delimitate sulla base di criteri prevalentemente legati alla proprietà fondiaria, in assenza di un quadro ordinatore complessivo (Figura 2). Spesso fisicamente sconnessi con il tessuto della città consolidata, i Piani di Lottizzazione hanno prodotto una periferia costituita da frammenti, la cui configurazione è il risultato del massimo sfruttamento degli indici urbanistici, che spesso denuncia un controverso rapporto tra aree residenziali e spazio pubblico, quest'ultimo in posizione marginale e il più delle volte rimasto inattuato. Gli standard urbanistici stabiliti dai Piani hanno inciso nella definizione del disegno urbano non solo delle aree di margine ma anche del territorio agricolo e della fascia costiera, condizionando lo sviluppo successivo dell’urbanizzazione. Attraverso le percentuali di superficie da destinare alla residenza, al verde, ai servizi, alla viabilità e alla sosta, stabilite dalle prescrizioni di zona, si sono generati disegni di piano che hanno veicolato modelli di città spesso estranei alla cultura insediativa locale, espressioni di una modernità d’oltremare trasferita nelle periferie dell’isola (Figura 3).
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Figura 3. Piani di lottizzazione degli anni settanta per la periferia di Quartu Sant'Elena: Is Meris Fois nella zona turistica collinare e Pitz'e Serra nella zona di espansione residenziale. E’ così accaduto che all’interno delle vaste porzioni di territorio individuate come dal piano come “zone omogenee” si siano costruiti tessuti caratterizzati da morfologie urbane e tipologie edilizie omogenee. Un fenomeno tipico delle zone turistiche costiere e collinari in cui si ritrovano molteplici combinazioni di tessuti estensivi, costruiti a partire dalla tipologia edilizia della casa isolata nel lotto, giocati sulle diverse densità abitative previste dalle sottozone di piano e sulle quantità di verde, strade e servizi. Nelle zone di espansione residenziale, invece, è stata sperimentata un’ampia varietà di modelli urbani intensivi ed estensivi, dalla casa a torre alla casa in linea, fino alla rivisitazione del tessuto di case a corte caratteristico del centro storico, organizzato secondo un impianto planimetrico che spesso tradisce l’ambiguità e le distorsioni operate al modello originale. Più recentemente fra gli interstizi delle lottizzazioni e nelle aree più interne, in maniera quasi imprevedibile, l’infrastrutturazione del territorio per usi agricoli ha silenziosamente costruito le trame del nuovo tessuto residenziale: condotte idriche, linee elettriche e reti viarie di penetrazione agraria servono oggi la fitta rete di case abusive che punteggia la campagna, definendo un sistema di relazioni ormai consolidato. Il consumo di importanti porzioni di territorio ha danneggiato la produttività dei suoli e compromesso in maniera pressocché Emanuela Abis, Valeria Saiu
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irreversibile vaste parti dell’agro e dell’ambito costiero. Alle problematiche ambientali si somma la difficoltà di riqualificare e gestire la “città senza piano” per la quale dagli anni novanta l’amministrazione si è impegnata a definire numerosi piani di recupero urbano. Tuttavia, le indicazioni dei PRU sono state applicate in casi eccezionali sia per gli alti costi degli interventi proposti, e per la mancanza di un sufficiente sistema di incentivi, che per la difficoltà di percepire da parte della popolazione i vantaggi che tali trasformazioni potrebbero produrre. Queste due questioni appaiono particolarmente significative perché il piano si riveli efficace. In primo luogo occorre passare da un’ottica dell’intervento straordinario a una logica dell’ordinario. Non è sufficiente individuare aree in evidente stato di criticità per le quali promuovere progetti speciali di recupero, ma occorre avviare un ragionamento complessivo sull’intero patrimonio della periferia, interessando il “tessuto comune” della città che rappresenta la parte più consistente della periferia. Occorre elaborare, inoltre, strumenti agevoli che possano sintetizzare il complesso sistema della conoscenza costruito dai piani e definire l’interfaccia per la comunicazione tra l’amministrazione e la cittadinanza, tra il sapere tecnico e il sapere comune. A partire da queste necessità l’Atlante definisce una procedura analitica che integra le tecniche di analisi urbana di tipo tradizionale con i recenti metodi di valutazione a punteggio, con l’obiettivo di colmare il salto di scala esistente tra gli strumenti di governo del territorio e gli indirizzi operativi alla scala edilizia, e fornire indicazioni tecniche per la ricerca della qualità all’interno del processo di pianificazione. La metodologia sperimentata sintetizza le principali questioni che concorrono alla definizione della sostenibilità in tre grandi settori di analisi: ambientale, urbano e edilizio (Tabella I). Il progetto di riqualificazione dovrà individuare priorità strategiche, temi chiave e obiettivi da raggiungere per il conseguimento di ciascuno dei tre livelli di qualità. Tabella I. Matrice di valutazione della sostenibilità Ambito di valutazione Priorità strategiche 1.Qualità ambientale 1.1 Migliorare la qualità del paesaggio ...
Tema / obiettivi 1.1.1 Paesaggio ambientale e identitario ...
2.Qualità urbana
2.1. Favorire la diversità e l'integrazione ...
2.1.1 Mixitè sociale 2.1.2 Mixitè funzionale 2.1.3 Offerta abitativa ...
3.Qualità edilizia
3.1 Ridurre i consumi energetici ...
3.1.1 Efficienza dell’involucro ...
Parametri di valutazione > Reti ecologiche e biodiversità > Beni storico-culturali, insediamenti, tracciati e colture storiche ... > Occupazione, istruzione, classi d’età > Percentuale di residenze, servizi e luoghi di lavoro > Alloggi sociali, alloggi in affitto e di proprietà ... > Rapporto di forma (S/V) > Trasmittanza dell'involucro > percentuale di superfici finestrate ...
Per il conseguimento della qualità ambientale, valutata sulla base dell’analisi del sito, sono state individuate tre priorità strategiche: conservare e valorizzare le risorse, innalzare la qualità del paesaggio, ambientale e culturale, migliorare la qualità della vita. La qualità urbana, valutata alla scala dell’isolato, viene definita attraverso quattro priorità strategiche: favorire l’integrazione, la diversità sociale e funzionale, potenziare la mobilità sostenibile, migliorare la qualità dell’ambiente urbano.
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Figura 4. Scheda di valutazione di un frammento-tipo della periferia di Quartu Sant'Elena La qualità edilizia, valutata alla scala del singolo edificio, introduce questioni di maggiore dettaglio e individua tre priorità strategiche: migliorare la qualità architettonica, ridurre i consumi energetici, migliorare la qualità costruttiva. La valutazione, ottenuta attraverso l’indagine, permette l’individuazione oggettiva di criticità e potenzialità degli ambiti urbani studiati, definendo il punto di partenza per la l'elaborazione delle strategie progettuali (Figura 4). Per l’elaborazione dei temi chiave, degli obiettivi e dei relativi parametri di valutazione, la metodologia fa riferimento alla struttura del database multiprecisione della Regione Sardegna che rappresenta il principale riferimento informativo per le rilevazioni da parte degli enti locali. La ricerca di indicatori definiti sulla base di una banca dati comune è un presupposto fondamentale per la realizzazione di una metodologia che possa essere Emanuela Abis, Valeria Saiu
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applicata con semplicità ad altri contesti regionali. Inoltre, il riferimento alla struttura dei tre ambiti del Piano Paesaggistico regionale (ambientale, insediativo, storico-culturale) appare una scelta obbligata per la definizione di uno strumento che possa dialogare con gli strumenti normativi attualmente in uso. L'integrazione dei temi della sostenibilità ambientale e paesaggistica negli attuali strumenti di governo del territorio è concepita quindi come operazione necessaria non soltanto per l'adeguamento del Piano Urbanistico Comunale alle indicazioni del Piano Paesaggistico Regionale, ma per il raggiungimento di obiettivi di qualità urbana.
Bibliografia AA.VV. (2002), Costruire sostenibile l’Europa, Alinea, Firenze. Deakin M., Mitchell G., Nijkamp P., Vreeker R. (2007), Sustainable Urban Development: The Environmental Assessment Methods, Routledge, New York. Ferrarotti F., Macioti M. I., prefazione di Albanese F. (2009), Periferie. Da problema a risorsa, Sandro Teti Editore, Roma. Gregotti V. (2006), L’architettura nell’epoca dell’incessante, Laterza, Bari. Ingersoll R. (2001), Periferia italiana, Meltemi, Roma. Lanzani A., Pasqui G. (2011), L’Italia al futuro. Città e paesaggi, economie e società, FrancoAngeli, Milano. Pavia R. (1996), “Figure e luoghi della città diffusa”, in Mosè Ricci (a cura di), Figure della trasformazione, Ed’A, Modena.
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Il ruolo delle verifiche ex post a supporto della VAS: trattamento dei dati ambientali per la simulazione degli scenari di piano.
Il ruolo delle verifiche ex post a supporto della VAS: trattamento dei dati ambientali per la simulazione degli scenari di piano. Giuseppe Bonavita Università della Calabria Dipartimento di Pianificazione Territoriale Email: giuseppe.bonavita@unical.it Tel. 328.7714809
Abstract Il trattamento dell’informazione ambientale mediante analisi descrittive e tecniche di spazializzazione degli indicatori di contesto, mira a prolungare la validità temporale delle valutazioni effettuate. Analisi multicriteri e multivariate propongono, a tal fine, due approcci radicalmente diversi alla simulazione, ex post, degli effetti. Entrambi i procedimenti dimostrano come, un utile strumento di supporto alle scelte di piano possa giungere dalla costruzione di cartografie numeriche “isovocazionali” degli usi del suolo che non distinguano soltanto tra aree insediabili e non insediabili ma individuino, nello spazio discreto, alcune classi di trasformabilità dei suoli in funzione della sostenibilità e del rischio ambientale, utili a valutare in modo puntuale la misura di sostenibilità delle scelte localizzative comunali, determinando una più chiara comprensione delle qualità del territorio per amministratori ed operatori.
La valutazione nel processo decisionale L'intero iter di formazione, approvazione e monitoraggio, strumentale alla formazione della Valutazione Ambientale Strategica è finalizzato al conseguimento di una integrazione, quanto più sinergica e compatibile, tra gli obiettivi della pianificazione multilivello e la protezione del sistema ambientale, operando attraverso una procedura di consultazione, controllo e revisione formulata in modo da "contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e dell'adozione di piani e programmi, al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile" 1. Il quadro strategico scaturito dall'intersezione tra gli obiettivi di piano e gli obiettivi di sostenibilità demanda al processo di Valutazione l'onere di considerare, nell'ottica di una concreta fattibilità delle azioni proposte a margine del modello PSR (risposte in merito alle pressioni rilevate), scelte congruenti con la sostenibilità economica e sociale degli obiettivi specifici previsti, la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico e culturale, e la successiva verifica, ex post, delle soluzioni adottate. L'attribuzione di tali scelte, come specificato dall' Art.5 del D.lgs. n.4 del 16 gennaio 2008, è affidata, in funzione delle diverse fasi valutative, ai soggetti competenti in materia ambientale: le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici che, per le loro specifiche competenze o responsabilità, possono essere interessate agli impatti sull'ambiente dovuti all'attuazione dei piani, programmi o progetti. Sulla base di tali indicazioni, vista la natura delle competenze dei soggetti incaricati, i momenti decisionali contribuiscono, a più riprese, alla formazione dell'impianto multidisciplinare della Vas, formalizzando di volta in volta giudizi in merito alla sostenibilità o alla compatibilità tra obiettivi programmatici e ripercussioni su ciascuno dei sistemi considerati: biotico, abiotico, socio-economico e paesaggio, come individuati nello schema di redazione del Rapporto Ambientale e sulle relative Componenti. Rispetto ad un'attenta e ormai standardizzata articolazione procedurale di elaborazione della Vas, la sintesi delle molteplici fasi di giudizio presenti sia nello scoping che nella fase di elaborazione vera è propria, sebbene sia subordinata ad esplicite indicazioni rituali di consultazione e partecipazione, non può concludersi, non essendo 1
Art.1, Direttiva n.42/2001 CE
Giuseppe Bonavita
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Il ruolo delle verifiche ex post a supporto della VAS: trattamento dei dati ambientali per la simulazione degli scenari di piano.
ad oggi previsto nel regolamento, attraverso il supporto di un protocollo preferenziale di tecniche decisionali atte a garantire uniformità di gestione e di trattamento del dato ambientale. Il quadro normativo, fatta eccezione per alcune regioni come la Lombardia, il Piemonte e la Toscana, non fornisce indicazioni in merito a quale debba essere il sistema di validazione delle decisioni né tanto meno specifica quale debba essere la tipologia o lo standard minimo di indicatori comuni da utilizzare nell'ottica di una valutazione oggettiva, confrontabile e sovrapponibile con altri contesti, ma rimanda la facoltà di operare in tal senso, nel corso dei singoli procedimenti di VAS, rendendo di fatto impossibile un confronto tra esperienze di valutazione differenti. Il regolamento nazionale si limita, come ben specificato dall' Art.5 del suddetto Decreto, a definire competenze e soggetti, i quali a loro volta, in base all'ambito disciplinare di afferenza dispongono di dati e misurazioni in grado di spiegare l'andamento del fenomeno esaminato per effetto di programmi di ricerca comunitari o nazionali, non specificamente formulati per l'utilizzo in VAS, svolti da agenzie di ricerca e protezione ambientale quali ISPRA, ARPA, CNR, per lo più su tematiche di ordine ecologico. Quest'ultimo aspetto introduce ad una dimensione del problema che si evidenzia attraverso la frammentarietà e l'insufficiente livello di aggregazione del dato ambientale, ma che in realtà, non fa altro che riproporre l'annosa questione della necessità di predisporre indicatori, misurabili e consistenti, in grado di assimilare basi dati esistenti, con la finalità di attribuire un ordine di grandezza misurabile a quei fenomeni complessi, di natura antropica, che si pongono all'origine del peggioramento dei livelli di inquinamento, della qualità dell'ambiente, della sicurezza e del consumo di risorse. In queste condizioni, l'analisi dello stato ambientale iniziale, strutturata per evidenziare quelle che sono le problematiche rilevate nella sezione di territorio interessata dagli effetti del piano, non approfondisce in modo oggettivamente rilevante la relazione tra le variabili esaminate e le criticità riscontrate, limitandosi ad individuare e a descrivere la sussistenza di problematiche evidenti senza ricostruirne un quadro cronologico di sviluppo o di causa - effetto basato su grandezze stimabili per intensità o diffusione spaziale. Non sussistendo tali presupposti, il processo di valutazione risulta ancora troppo dipendente, in tutte le sue fasi, da indicatori di tipo qualitativo, riferibili alla descrizione di caratteristiche o di proprietà rappresentative di uno stato “comunemente” considerato rilevante, in virtù degli esiti della consultazione dei soggetti coinvolti. La medesima procedura di consultazione, strutturata su un processo decisionale di tipo multicriteriale, basato su "pareri competenti", è chiamata ad attribuire un giudizio di compatibilità tra le azioni di piano e gli obiettivi di sostenibilità, in assenza, anche in questo caso, di un limite normativo minimo al contributo di prove sperimentali a sostegno delle decisioni. La fragile quanto controversa consistenza di tali conclusioni, pur stabilendo che le informazioni disponibili e le considerazioni effettuate sono fornite al meglio delle possibilità, delle tecnologie disponibili, "nei limiti in cui possono essere ragionevolmente richieste, tenuto conto del livello delle conoscenze e dei metodi di valutazione correnti, dei contenuti e del livello di dettaglio del piano o del programma" 2, è confermata dall' iter stesso di svolgimento della Valutazione Ambientale, sottoposta ad un continuo processo di monitoraggio e aggiornamento. Il giudizio di valutazione nel merito del Rapporto Ambientale e delle "ragionevoli alternative" (Art.4 D.lgs. n. 128 del 2010), connesso alla proposizione di scenari probabili e suscettibili di continue e a volte radicali correzioni, conseguenti alle successive fasi di screening, può potenzialmente innescare una condizione di persistente rivalutazione delle scelte di piano. I correttivi introdotti dal D.lgs.128 del 2010, relativi alla introduzione della definizione di "parere motivato" come provvedimento obbligatorio, potrebbero agire in modo da subordinare i giudizi di valutazione e le modifiche di piano al manifestarsi di specifiche condizioni descritte in sede di Rapporto Ambientale. Tuttavia resta auspicabile, sebbene per alcune ragioni ancora prematura, una regolamentazione che possa definire uno standard procedurale e qualitativo in merito ai meccanismi decisionali e di gestione delle incertezze. E’ invece necessario procedere alla istituzione di banche dati omogenee ed indicatori condivisi, appositamente sviluppati ed aggregati sul dettaglio sub comunale.
Tecniche di analisi a supporto del processo decisionale Parallelamente ad uno sforzo culturale e ad un investimento economico finalizzato a rafforzare le reti di monitoraggio ambientale esistenti ma soprattutto ad integrarle in osservatori di livello provinciale indipendenti dall’ente locale, in cui siano organicamente trattati anche gli aspetti socioeconomici e morfologico-funzionali che caratterizzano la maggior parte dei piani, l’istituzione di osservatori, direttamente coordinati dalla UE e non dagli enti coinvolti, potrebbero avviare un processo di riorganizzazione delle statistiche e dei database a livello europeo, costituendo, vista la mole di dati confrontabili, un sostegno scientificamente e statisticamente significativo a supporto delle pratiche valutative.
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D.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, a norma dell’articolo 12 della legge 18 giugno 2009, n. 69. Art. 13. Redazione del rapporto ambientale, comma 4.
Giuseppe Bonavita
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Il ruolo delle verifiche ex post a supporto della VAS: trattamento dei dati ambientali per la simulazione degli scenari di piano.
Si potrebbero in tal modo ridurre i rischi di autoreferenzialità rispetto alle dinamiche relazionali tra autorità proponente e autorità procedente, si limiterebbe l’appiattimento su indicatori provenienti da politiche locali o di settore che portano a trascurare quelli legati a modelli interpretativi dello specifico contesto territoriale. La disponibilità di una banca dati omogenea eventualmente spazializzata, come dimostra l’efficacia di progetti come CORINE land cover e Murbandy – Moland, può rivelarsi decisiva nell’ottica di una condivisione dei risultati dei processi di monitoraggio degli effetti dei piani e con la finalità esplicita di riconoscere, come pretende la Direttiva europea n.42 del 2001 3, le interdipendenze esistenti tra le variabili ambientali e urbane, e gli indicatori di contesto. Entrambe queste condizioni sono necessarie affinché si possa inquadrare il problema dell’interpretazione del dato ambientale come un sistema complesso di variabili, interconnesse, il cui comportamento può essere valutato e descritto solo in funzione del monitoraggio delle variabili esplicative. La mappatura della variabilità dei parametri considerati, afferenti ai singoli fattori ambientali, sia essa di ordine temporale o funzionale a contesti differenti, consente mediante l’applicazione di tecniche di regressione multipla per la stima della correlazione e della varianza tra i parametri connessi (Geographically Weighted Regression) 4, di superare i processi decisionali multicriteri, fin qui utilizzati, a favore di modelli di stima inferenziale strutturati su tecniche di analisi multivariata. Questo cambiamento procedurale, certamente più oneroso e complesso, oltre ad indicare, utilizzando una metodologia oggettiva, replicabile e aggiornabile, i probabili sviluppi di uno scenario, si rivela estremamente utile per quantificare il grado di incertezza dell’analisi condotta, per tale motivo è possibile, qualora il modello di variazione descritto non risulti particolarmente “robusto”, procedere ad ulteriori ricerche ed integrazioni di dati esplicativi. Il trattamento dell’informazione ambientale, mediante analisi multivariate e successiva spazializzazione degli indicatori di contesto, mira a prolungare la validità temporale delle valutazioni effettuate. Soprattutto, fattore decisivo per il processo di valutazione, è il frazionamento dello spazio analizzato, precedentemente discretizzato in ambiente GIS, in aree isovocazionali, dove oltre alle classi di trasformabilità o intervenibilità (Paolillo 2006), stabilite in funzione della compatibilità provata delle azioni di piano, è possibile stimare il grado di attendibilità ed il range di variazione del dato per una determinata porzione di spazio. Analisi multicriteri e multivariate presuppongono quindi, due approcci radicalmente diversi, a cominciare dalla elaborazione del Rapporto Ambientale Preliminare e dal monitoraggio ex ante. Rispetto all’individuazione delle criticità ambientali o di problematiche riscontrate in ordine ai sistemi considerati: biotico, abiotico, socio economico etc., l’approccio multivariato approfondisce, avvalendosi di dati temporali o estrapolati in situazioni similari, da altri contesti di VAS, una tipologia di Quadro Ambientale Preliminare incentrato sulla modellazione del comportamento e del contributo che ogni indicatore fornisce alla determinazione del fattore gerarchicamente sopraordinato: potendo stimare, ad esempio, l’incidenza rispettiva della frammentazione insediativa, e della morfologia del suolo, nell’infrastrutturazione del territorio.
Dalla valutazione degli effetti alla stima degli impatti Dall’analisi dello stato ambientale iniziale (parte del processo di Scoping) si arriva alla definizione delle tabelle del Quadro Ambientale: • Sistemi: biotico; abiotico; socio-economico e paesaggio; caratterizzazioni fisiche; • Componenti; • Fattori; • Indicatori. Spostando il fulcro del processo decisionale dalla gerarchizzazione dei fattori (Analitic Hyerarchy Process) 5, caratteristica dell’analisi multicriteri, alla formulazione di modelli teorici di tipo predittivo costruiti sulla osservazione dei trend di variabili dipendenti scelte in funzione dell'incidenza dei fenomeni verso cui manifestano una correlazione, si giunge all’elaborazione di uno scenario probabile, dove ogni giudizio di valutazione ha una spiegazione statistica provata e rilevabile. Il valore degli indicatori all’interno delle regressioni multiple stabilisce il grado percentuale di incidenza, per cui la presenza di una qualsiasi azione di piano configurata come Pressione, ad esempio, l’aumento del carico insediativo può produrre impatti stimabili sulle variabili ambientali correlate: emissioni di Co2, consumo di suolo, produzione di Rsu etc. Benché non sia questo l’obiettivo specifico della VAS, che ricordo per opportunità, si conclude con un rapporto (Rapporto Ambientale) di facile comprensione e scritto in un linguaggio non tecnico, un “parere motivato” maturato non solo sulla base di proprie competenze, ma su evidenze tangibili, acquista sicuramente una validità più duratura e un valore legale giuridicamente più solido. 3
Richiama, nell’Allegato I, la necessità di considerare tutte insieme le componenti dell’informazione ambientale: biodiversità, popolazione, salute umana, flora e fauna, suolo, acqua, aria, fattori climatici, beni materiali, patrimonio culturale architettonico e archeologico, paesaggio. 4 Stewart Fotheringham, Chris Brunsdon, Martin Charlton, (2003). The Analysis of Spatially Varying Relationships, London. John Wiley & Sons. 5 Thomas L. Saaty, (1980). The Analitic Hyerarchy Process for Decision in a Complex World, Pittsburg. Giuseppe Bonavita
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Il ruolo delle verifiche ex post a supporto della VAS: trattamento dei dati ambientali per la simulazione degli scenari di piano.
La stima degli impatti, risultante dal trattamento dei dati ambientali, in conseguenza dell’esecuzione delle azioni di piano, va ad integrare il modello territoriale “teorico” descritto nel corso dalla fase di screening, ex ante, per cui il ruolo delle verifiche ex post diviene fondamentale per validare o in caso contrario modificare il modello territoriale di partenza. Un' eventuale discordanza tra il tra il quadro relazionale rilevato per le variabili in fase di monitoraggio, iniziale e finale, configurandosi come “modifica sostanziale” (D.lgs.128 del 2010) metterebbe in discussione l’intero processo di VAS. La verifica di coerenza tra gli obiettivi del piano e gli obiettivi di sostenibilità, insieme alle criticità/opportunità individuate nel quadro ambientale ed esplicitate in fase di scoping, può comunque presentare dei margini più o meno ampi di incertezza. La rispondenza tra azioni ed obiettivi può essere valutata solo considerando le relazioni documentate che intercorrono tra le variabili e le azioni. Per limitare le probabilità di tale eventualità, è opportuno procedere con un approccio per scenari di tipo backcasting (Robinson, 1990), di recente tornato attuale con alcune modifiche metodologiche. Anziché partire dallo stato presente per modellare dei trend di sviluppo, l’approccio backcasting ipotizza la modellazione di uno scenario futuro sufficientemente rappresentativo dello stato finale al raggiungimento completo degli obiettivi di piano. In base ai dati a disposizione ed al quadro relazionale delle variabili potenzialmente suscettibili alle modifiche apportate dalle azioni previste sul sistema ambientale, si può ottenere, con sufficiente significatività statistica, una stima degli impatti considerati. La finalità del procedimento illustrato consiste nel restituire un set di indicatori di performance, elaborati in conseguenza delle valutazioni risultanti dalla Verifica di compatibilità, sufficientemente descrittivi dello scostamento di un determinato scenario in funzione degli obiettivi assunti; si tratta cioè di quantificare la capacità di una politica/azione di avvicinarsi ad un target fissato, ovvero di quantificare lo “scostamento” da tale target. Questa impostazione metodologica, replicata su uno o più possibili scenari alternativi, compresa “l’alternativa 0”, costituisce un efficiente modello di verifica della compatibilità ambientale degli obiettivi di piano ed un' utile piattaforma di confronto con scenari esterni al processo di Vas in esame. La fase di monitoraggio ex post, in un quadro metodologico incentrato sulle tecniche di analisi multivariate, avallerà ed implementerà, le azioni di piano, secondo margini di errore tanto decrescenti quanto più il campione su cui è stato costruito il modello territoriale teorico (ex ante) diverrà statisticamente consistente. Rispetto allo stato attuale dello svolgimento delle valutazioni, la piena applicazione delle tecniche multivariate, sebbene ampiamente sperimentata, non trova largo uso, più che per la mancanza di una base dati idonea, per una difficoltà politica a gestire l'esito di tali valutazioni, vincolanti e difficilmente orientabili. Portare l'indagine da fattore accessorio o comunque di supporto, a elemento centrale della costruzione del piano è il passaggio che può costituire un’innovazione sostanziale per la sostenibilità. I sistemi computerizzati offrono già gli strumenti per sostenere, integrare, ed implementare le attuali piattaforme informative: per ora i modelli di interpolazione spaziale, implementati in ambiente GIS, lavorando su modelli "polinomiale" della superficie territoriale, simulano su basi "teoriche" ma comunque fondate, una distribuzione sufficientemente omogenea dei dati ambientali. Occorre considerare inoltre che il miglioramento delle loro prestazioni nell' accessibilità e facilità d'uso nonché la pervasività nella vita quotidiana rappresentano una tendenza di crescita irreversibile. Anche le metodiche di valutazione potrebbero acquistare un ruolo diverso diventando uno strumento di autovalutazione delle decisioni e di uso corrente in ogni aspetto del governo del territorio. La VAS della direttiva comunitaria in questo modo si porrebbe come l'esito di un percorso precedente alla costruzione del piano.
Bibliografia Libri Fotheringham S., Brunsdon C., Charlton M. (2003), The Analysis of Spatially Varying Relationships, John Wiley & Sons, London. Saaty T. L. (1980), The Analitic Hyerarchy Process for Decision in a Complex World, Pittsburg.
Giuseppe Bonavita
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CONOSCENZA E PROGETTO. Il ruolo dei Sistemi della Conoscenza per il progetto urbano.
CONOSCENZA E PROGETTO Il ruolo dei Sistemi della Conoscenza per il progetto urbano Donato Di Ludovico Università de L’Aquila Facoltà di Ingegneria Email: donato.diludovico@gmail.com
Abstract I Sistemi della Conoscenza, definiti dalle Leggi Regionali per il Governo del Territorio più innovative, si possono distinguere, in linea generale, in Sistemi della Conoscenza che si definiscono unicamente all’interno del processo di Piano ed in quelli che si definiscono all’esterno del Piano e vengono perfezionati con gli apporti utilitaristi del Piano medesimo. In tale contesto la seconda famiglia permette di riguardare in una nuova prospettiva il senso del Piano e del Progetto. Si tratta di strumenti dinamici che consentono di tarare le trasformazioni territoriali e di sviluppare un nuovo modello di Governo del territorio basato sulla conoscenza (compatibilità e sostenibilità ambientale) e sulla responsabilità, che rileggono la nozione di piano razionalcomprensivo basato sulla zonizzazione nella direzione di una geometria variabile delle trasformazioni stesse, verificate e monitorate in continuo.
1. La Conoscenza ed il Piano/Progetto Il tema della Conoscenza è una costante del dibattito disciplinare nel campo della pianificazione e progettazione urbana e territoriale e, negli ultimi anni, della Valutazione ambientale. Il suo rapporto con il Piano ed il Progetto essenzialmente non è cambiato, sebbene si possano riconoscere approcci diversi, di matrice astenghiana ad esempio, a base razionalista e giustificazionista, o di matrice muratoriana a base storicista e determinista o di matrice ambientale/tecnologica, legata alle esperienze con i Sistemi Informativi Geografici ed a base scientista e riduzionista. Non sono mancate molteplici esplorazioni in tale contesto anche con posizioni molto divaricate 1 circa l’autonomia della tradizione delle analisi in un orizzonte progettuale, la loro specificità in un ambito pluridisciplinare come quello della pianificazione, la loro oggettivazione, la complementarietà rispetto alle pratiche progettuali e la loro funzione metadisciplinare. Il rapporto Conoscenza (ma anche Analisi)/Piano-Progetto, ha subito una significativa svolta negli ultimi decenni, quando i sistemi geografici e la cartografia digitale sono entrati prepotentemente all’interno del processo di pianificazione e progettazione urbanistica. Il modello informativo, e con esso l’informazione, si è evoluto rapidamente; così è successo che tecnologia e tecnica sono andati a confondersi (ad esempio si confonde il GIS con il Piano), mentre le scelte sono diventate l’essenza di processi deterministici, oggettivi, sottovalutando la fluidità e la provvisorietà dell’informazione. Oggi, i Sistemi della Conoscenza hanno assunto carattere processuale e sono stati formalizzati all’interno dei corpi legislativi delle Leggi regionali per il governo del territorio più recenti; hanno un ruolo centrale nel procedimento di pianificazione e spesso sono integrati (con riflessi anche sul quadro legislativo) ai grandi data base regionali. Essi si possono classificare secondo molteplici chiavi di lettura. Quella che sembra avere un riflesso più significativo li differenzia in relazione alla loro funzione nel processo di costruzione del Piano, distinguendo così, in linea generale, Sistemi della Conoscenza per il Piano/Progetto e Sistemi della Conoscenza 1
Si veda l’articolo “Conoscenza, piano, comunicazione, Appunti sui Sit” di L. Seassaro che riassume sinteticamente le posizioni e le figure del dibattito disciplinare proiettandolo all’interno dei primi confronti sull’utilità e l’utilizzo dei sistemi GIS.
Ing. Donato Di Ludovico
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CONOSCENZA E PROGETTO. Il ruolo dei Sistemi della Conoscenza per il progetto urbano.
nel Piano/Progetto. E’ necessario notare, che queste due famiglie non riguardano solo l’ambito del P/P ma interessano anche i processi di Valutazione e Verifica ambientale istituzionali (VInca, VIA, VAS e Verifica di Compatibilità Ambientale), diventando così il trait d’union tra la Valutazione ed il P/P.
1.1 Famiglie di Sistemi della Conoscenza Nell’attuale panorama, nel quale sono in primo piano i Quadri conoscitivi e gli Atlanti dei nuovi Piani Paesaggistici, si possono dunque riconoscere almeno due famiglie di Sistemi della Conoscenza. La prima colloca la loro costruzione all’interno del processo di piano e con esso si aggiornano, divenendo in taluni casi attestato di invarianti strutturali/ambientali declinate come vincoli, Sistemi della Conoscenza stabili e immutabili; si possono denominare Sistemi della Conoscenza nel Piano, e sono ad esempio lo Statuto del Territorio previsto dalla LUR Toscana, lo stesso Statuto del Territorio del nuovo Piano Paesaggistico Territoriale della Regione Puglia, la Descrizione Fondativa della Liguria, etc. La seconda famiglia si riferisce ad alcune sperimentazioni che riconoscono un ruolo “terzo” ai Sistemi della Conoscenza, nel senso che vengono predisposti all’esterno del processo di Piano da un soggetto non interessato, condivisi integrati con la Valutazione Ambientale ed a supporto della verifica preliminare di Sostenibilità e/o Compatibilità ambientale di tutti i progetti di sviluppo. In questo caso si tratta di una conoscenza dinamica, aggiornabile, stabile in minor misura degli Statuti; si possono denominare Sistemi della Conoscenza per il Piano, e sono ad esempio la Carta Regionale dei Suoli prevista dalla LUR Basilicata, la Carta dei Luoghi e dei Paesaggi prodotta e pubblicata nell’ambito del nuovo Piano Paesaggistico della Regione Abruzzo, ma anche la Carta dei Valori della regione FVG, etc. Le questioni aperte sul ruolo della Conoscenza e P/P sono molteplici. Quello assunto dalla seconda famiglia (Carta Regionale dei Suoli - CRS, Carta dei Luoghi e dei Paesaggi - CLeP, Carta dei Valori, etc.), benché stenti a decollare, sembra offrire maggiore garanzia di sostenibilità e compatibilità delle trasformazioni urbane e territoriali, perché supera la dimensione puramente giustificativa del P/P e l’aspetto vincolistico. Un Sistema siffatto richiede una continua gestione e perfezionamento, un ufficio stabile ed “ordinario” appositamente creato, ma anche procedure di aggiornamento “ordinarie”, magari stabilite attraverso regolamenti, integrate in quelle pianificatorie: i processi e le procedure di costruzione dei Sistemi delle Conoscenze modificano così i processi e le procedure di P/P; all’integrazione Conoscenza – P/P corrisponde un nuovo ruolo di entrambi, più “influente” per la Conoscenza, più “flessibile” per i P/P. I vantaggi non secondari di avere a disposizione un simile strumento, nel quale la lettura del territorio, dell’ambiente e del paesaggio, ottenuta attraverso percorsi di riconoscimento delle identità locali e territoriali e degli elementi che le caratterizzano, sia condivisa dalla comunità e dal mondo tecnico e scientifico, sono connessi all’integrazione tra Piano, Progetto e Valutazione di sostenibilità e compatibilità ambientale, ma anche ad un maggior grado di oggettivazione delle informazioni contenute nei Sistemi della Conoscenza ed allo snellimento/semplificazione delle procedure di pianificazione e progettazione: il Piano ed il Progetto possono diventare così un fatto continuo 2. Tra l’altro, tali strumenti sono spesso legati a Sistemi Informativi Territoriali che consentono, nella gestione ordinaria, un rapido aggiornamento dei Sistemi della Conoscenza, qualità che spesso viene eclissata dai lunghi tempi di aggiornamento o approvazione di Piani e Progetti urbani, e dalle modalità ed i tempi di monitoraggio dei medesimi.
2. Un nuovo ruolo dei Sistemi della Conoscenza Alla Conoscenza deve essere pertanto riconosciuta una funzione più significativa ed interna al processo di Piano ed anche un ruolo nella fase di aggiornamento dello stesso. Le timide proposte delle legislazioni regionali per il governo del territorio, di Sistemi della Conoscenza autonomi e integrati nel processo di Piano, e di strumenti di aggiornamento o perfezionamento della Conoscenza nella fase di gestione o revisione del Piano medesimo (in Conferenze di pianificazione e, ad esempio, conseguenti ad approfondimenti di Progetto), ancora non esprimono significativamente i loro effetti. Uno dei maggiori timori che tali Sistemi suscitano è legato all’autonomia del processo di Piano o di Progetto rispetto a presumibili vincoli “esterni” imposti da una struttura conoscitiva apparentemente stabile. L’uso che si prevede di tali Sistemi della Conoscenza “terza” all’interno del processo di P/P possono essere visti dal progettista, ma anche dal decisore, come un’ingerenza e quindi assumere un’accezione negativa, eclissandone così il ruolo valutativo a garanzia delle trasformazioni. In realtà la fase progettuale deve essere sfruttata proprio per il loro perfezionamento; la Conoscenza di progetto, attraverso procedure codificate come le Conferenze di Pianificazione, integra quella locale-identitaria e quella istituzionale: il Piano o il Progetto costruiscono un proprio apparato conoscitivo che va ad aggiornare il Sistema della Conoscenza di base. 2
Si veda il concetto di Piano “flessibile” e Piano “Circolare” espresso da Properzi e Di Ludovico nell’articolo “Piano e Progetto di Paesaggio. Dall'Area Vasta al Locale”
Ing. Donato Di Ludovico
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CONOSCENZA E PROGETTO. Il ruolo dei Sistemi della Conoscenza per il progetto urbano.
I fattori costitutivi del territorio (oggettivi) descritti e rappresentati in questo modello di Sistema Conoscitivo, quali ad esempio i Valori, i Rischi, il Degrado, l’Abbandono, i Vincoli e l’Armatura Urbana e Territoriale, ma anche peculiarità distintive che si riferiscono alla percezione, alla sensibilità ed alla rappresentazione, quali le identità territoriali, consentono di valutare, a livello preliminare ed in qualunque momento, la trasformabilità di un territorio, definendone anche i livelli. Questo comporta un alto livello di responsabilità da parte di chi produce e gestisce tale Sistema Conoscitivo, e di conseguenza di tutte le trasformazioni territoriali. Valutare la trasformabilità di un contesto o di uno spazio, secondo logiche territoriali, ambientali e paesaggistiche, significa mettere in discussione le scelte introdotte da Piani e Progetti urbani e territoriali esistenti, ma significa anche introdurre un elemento di verifica in-itinere di tutti quei processi di trasformazione non “pianificati” derivati dalla programmazione complessa, dalla deregolazione e dall’urbanistica contrattata dei progetti urbani, ma anche da esigenze contingenti ed emergenziali o dalle strategie ed obiettivi dei cosiddetti Progetti di Territorio (Clementi A. 2002). Ci si riferisce a tutte quelle circostanze trasformative sempre più frequenti e connesse ai nuovi modi di pianificare e progettare il territorio, che interessano settori agricoli e naturalistici di valore, anche identitario. Un esempio di questo tipo di Sistema della Conoscenza è la Carta dei Luoghi e dei Paesaggi (CLeP). Posta a base del nuovo Piano Paesaggistico della Regione Abruzzo (nPPR) e recentemente pubblicata 3, è composta da cinque livelli informativi, i Valori, i Rischi, il Degrado-Abbandono-Fratture, i Vincoli e l’Armatura Urbana e Territoriale. Essa rappresenta da un lato la sintesi condivisa della conoscenza istituzionale, identitaria e intenzionale, ruolo proprio dei Quadri Conoscitivi, ma assume anche il ruolo di carta di Valutazione interscalare (Verifica “preliminare” di Compatibilità Ambientale e Valutazione Ambientale e Paesaggistica) di tutti i Piani, Progetti e Strategie che interessano il territorio, e la base informativa per l’implementazione di indicatori. La CLeP, che riconosce Valori e Criticità del territorio, dell’ambiente e del paesaggio, supera la dimensione puramente giustificativa del Piano, ponendosi sia come Sistema articolato della Conoscenza, cioè interno al Piano medesimo, e sia come strumento di garanzia delle trasformazioni territoriali, cioè esterno al Piano. Alla sua formazione partecipano tutti i soggetti convolti ai diversi livelli ed a diverso titolo, attraverso momenti di partecipazione e concertazione; la sua natura è dinamica poiché implementabile in continuo, ed è quindi adatta ad essere posta come base ordinaria sia per gli atti di valutazione e verifica di P/P (ex-ante, in-itinere ed ex-post), sia per l’espletamento degli obiettivi specifici del piano: Tutela e Valorizzazione. L’attuale livello della CLeP della Regione Abruzzo si può definire territoriale, nel senso che si tratta di una Carta che mette assieme informazioni di carattere istituzionale o prodotta ad hoc per il Piano Paesaggistico, di scala di area vasta, sottoposte ad una prima fase di condivisione con i Comuni, ma che certamente deve essere perfezionata e integrata con informazioni di carattere locale, intenzionale-di progetto ed identitario.
2.1 La CLeP per la valutazione preliminare. L’esempio del progetto C.A.S.E. e dei M.A.P. Un esempio di applicazione ex-post della Carta dei Luoghi e dei Paesaggi del nuovo PPR della Regione Abruzzo, può essere quello della Valutazione degli impatti ambientali e paesaggistici del progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) e dei M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori) costruiti a seguito del Sisma Abruzzo del 06 aprile 2009. Nella figura successiva è riportato un complesso M.A.P. costruito a L’Aquila, nella frazione Colle di Roio ed individuato con un cerchio rosso.
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Si veda http://www.regione.abruzzo.it/xAmbiente/PPR/#IDARMATURA_URBANA_E_TERRITORIALE-
Ing. Donato Di Ludovico
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CONOSCENZA E PROGETTO. Il ruolo dei Sistemi della Conoscenza per il progetto urbano.
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Figura 1. Esempio di Valutazione Ambientale ex-ante con la CLeP di un M.A.P. nel comune dell’Aquila; A – Ortofoto con indicazione del complesso M.A.P. e di due possibili localizzazioni alternative, B – Carta dei Valori della CLeP, C – Carta dell’Armatura Urbana e Territoriale della CLeP, D – Carta dei Rischi della CLeP. Come si può vedere il complesso M.A.P. è stato realizzato in corrispondenza di un’area di Valore naturalisticoAmbientale medio (B), fuori dal perimetro urbano, e quindi con un nuovo consumo di suolo non previsto dal PRG ’75 (C), ed al limite di un rischio di natura idrogeologica (D). Se la CLeP fosse stata utilizzata per una Valutazione ambientale preliminare ex-ante, si sarebbe potuto evitare nuovo consumo di suolo (area esterna all’urbano nella Figura 1-C), evitare di interessare aree con valore naturalistico-ambientale medio (in verde medio nella Figura. 1-B) ed aree coinvolte da rischio idrogeologico (in rosa nella Figura 1-D). L’alternativa alla localizzazione potevano essere le zone 1 e 2, perimetrate nella Fig. 1-A, già previste dal PRG come residenziali e vicine ai Servizi di prossimità (in particolare la zona 1), a differenza di quella realizzata. Nella figura successiva è riportata un verifica ex-post del progetto C.A.S.E., in relazione alla funzionalità della loro localizzazione. E’ stata infatti prodotta una sovrapposizione di queste con la Carta dell’Armatura Urbana e Territoriale che riporta la viabilità e classifica il PRG Vigente dell’Aquila in base alle categorie di Residenza, Produzione, Servizi, Attrezzature e Verde, differenziate in attuato (Suoli Urbanizzati) e non attuato (Suoli Urbanizzati e Programmati). Si potrà facilmente notare che la maggior parte dei Complessi (nella figura con perimetro rosso) è localizzata in zone non pianificate, esterne cioè al perimetro urbano, in aree non urbanizzate, con aggravio ulteriore di consumo di suolo rispetto a quello già previsto dal PRG ’75. Si aggiunga inoltre, che alcune di queste localizzazioni hanno interessato zone alle quali si riconoscono particolari valori naturalistici a seguito di studi scientifici specifici, o che sono interessate da corridoi di continuità ambientale 4. Anche in questo caso, come per il M.A.P., sarebbe stato possibile produrre una Valutazione ambientale ed urbanistica preliminare ex-ante, per determinare la migliore localizzazione rispetto al tessuto urbano esistente, con un criterio economico adeguato non solo legato al costo degli espropri ma certamente anche al danno ambientale, e con l’obiettivo della tutela delle qualità naturalistiche e paesaggistiche dell’area aquilana. Oggi invece, ciò che ha rappresentato un’importante e positiva azione emergenziale, si è trasformata in una questione ambientale, paesaggistica, ma principalmente urbana.
Figura 2. Il Progetto C.A.S.E. (perimetro rosso) sull’Armatura Urbana e Territoriale
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Si vedano le presentazioni dei Workshop ed i successivi lavori degli Atelier prodotti nell’ambito delle attività del Laboratorio LAURAq di INU-ANCSA tra il 2010 ed il 2011 (vedi la bibliografia).
Ing. Donato Di Ludovico
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CONOSCENZA E PROGETTO. Il ruolo dei Sistemi della Conoscenza per il progetto urbano.
Questo metodo di Valutazione che abbiamo definito “preliminare”, può essere esteso alla Progettazione Urbana ed in particolare, come si è già detto, a tutti quei processi di trasformazione che non derivano da una pianificazione generale ma dalla programmazione complessa, dalla deregolazione e dall’urbanistica contrattata.
3. Le prospettive Il campo entro cui si collocano questi nuovi strumenti della Conoscenza per il Piano, presenta però alcune lacune ed anomalie, delle quali è necessario approfondirne diversi aspetti: • la funzione dei Sistemi della Conoscenza nella Valutazione (Ambientale, Paesaggistica, e Territoriale/Urbana) degli interventi di trasformazione del territorio che prendono forma all’esterno delle aree della pianificazione generale, derivate ad esempio dall’urbanistica contrattata o da esigenze emergenziali; • il ruolo degli stessi nelle procedure di pianificazione – verifica/aggiornamento (si tratta di strumenti a diverse “velocità” poichè i Sistemi della Conoscenza sono certamente più dinamici dei P/P); • la formalizzazione dei processi di condivisione delle informazioni; • la loro separazione dal processo di Piano e/o di Progetto, ma anche la loro integrazione con la conoscenza di identitaria o intenzionale; • la loro “flessibilità”. Sistemi della Conoscenza siffatti sono patti con la comunità, e permettono di riguardare in una nuova prospettiva il senso del Piano e del Progetto. Sono strumenti dinamici che consentono di tarare le trasformazioni territoriali e di sviluppare un nuovo modello di Governo del territorio basato sulla conoscenza (compatibilità e sostenibilità ambientale) e sulla responsabilità, che rileggono la nozione di piano razional-comprensivo basato sulla zonizzazione nella direzione di una geometria variabile delle trasformazioni stesse, verificate e monitorate in continuo. Sotto questa ottica, il Piano ed il Progetto Urbano devono assumere un nuovo ruolo nel processo delle scelte di trasformazione: diventano strumenti “flessibili”, congeniati per lasciare spazi di decisione ai livelli istituzionali adeguati secondo il principio di sussidiarietà; sono il riferimento di nuove modalità pianificatorie e nuovi modelli di gestione degli stessi, modelli dinamici, “circolari”, che possono basarsi, ad esempio, su sistemi di valutazione preliminari derivati da basi conoscitive condivise dalle società locali, basati sulla promozione di processi innovativi di governance in grado di superare le gerarchie e di puntare verso un esame costruttivo del Progetto di trasformazione di un territorio e di un paesaggio.
Bibliografia A.A.V.V. (2010), “Dio salvi L'Aquila, una ricostruzione difficile”, a cura di Pierluigi Properzi, in Urbanistica Dossier vol. 123-124, Roma, INU Edizioni, , ISSN: 1128-8019 A.A.V.V. (2011), I materiali del Lauraq online - Spazi urbani strategici per la ricostruzione, vol. 1, pp. 2-3, Roma, INU Edizioni, ISBN: 9788876030550. CLEMENTI A. (2002), Il progetto di Territorio, in “Progetti di Territorio e Contesti dello Sviluppo”, Dicoter – Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, a cura di F. Zampa, M. Ricci, E. Nigris, Roma 2002. PROPERZI P., DI LUDOVICO D. (2012), Piano e Progetto di Paesaggio. Dall'Area Vasta al Locale, Paysage Topscape 9/2012, Atti del XVI Convegno internazionale interdisciplinare IPSAPA “Il mosaico paesistico culturale in transizione: dinamiche, disincanti, dissolvenze”, Udine 22-23 settembre 2011. SEASSARO L. (1995), “Conoscenza, piano, comunicazione, Appunti sui Sit, Urbanistica 105/95, INU Edizioni, Roma, pp. 32-39, ISSN: 0042-1022.
Ing. Donato Di Ludovico
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Effectiveness of Strategic Environmental Assessment of urban and regional planning in Northern Italy: limitation of risks and impact of land consumption
Effectiveness of Strategic Environmental Assessment of urban and regional planning in Northern Italy: limitation of risks and impact of land consumption Aldo Treville Polytechnic University of Milan Department of Architecture and Planning (DiAP) Email: aldo.treville@gmail.com Tel. 328.8738673
Abstract In Italian SEA of urban and regional planning, there is low awareness of the natural risks and impact of land consumption, reflecting the misconception of soil degradation impact on water, human health, climate change, nature, biodiversity, protection, and food safety. Recently enhanced planning practices account for land protection objectives, but they are still not properly justified, assessed, and compared to different alternatives; and consequently not respected due to lack of adequate monitoring. The paper focuses on exploring the potential of SEA as an effective tool for improving urban and regional planning processes, in respect to natural risks, such as land consumption, soil degradation and urban sprawl. Some SEA of Italian and foreign cases are presented, underlining how they were able to create more awareness of soil as a common good and as a resource, and how this new awareness can lead to the integration of often neglected environmental and risks considerations into the planning process.
Natural risk and impact of land consumption Soil has a generally underestimated value in land use planning, and it should be considered as important as other resources in the pursuit of sustainable development. Studies from the last 50 years have provided lots of references to the soil/land value as a “common”, and its intrinsic fragility, bringing up the issue of a consequent need for protection. Hardin's article is an example (Hardin, 1968): herders sharing a common parcel of land, with interest to put the next cows, even if the quality of the common is damaged through overgrazing, and the common is depleted or even destroyed, to the detriment of all. Diamond wrote about how societies collapse because of the disregard for increasing environmental issues (Diamond, 2005), providing several examples of the contribution of environmental components, such as soil problems (erosion, salinization, and soil fertility losses). In order to avoid “tragedy” or “collapse”, soil should be acknowledged among the other commons to have a tremendous value for the community. It is a direct consequence the need of governing the commons, in order to save them and manage their use for the community; “governing the commons” in the sense as Ostrom masterfully presented on her book (Ostrom, 2006). Soil clearly has a strong social and cultural value, but also from an environmental point of view it has demonstrated a fundamental contribution to several functions: climate change/CO2 sequestration, ecology system and biodiversity, groundwater recharge, food and agriculture, landscape. Despite its value, soil and landscape have been poorly taken into consideration in Italian planning in recent decades, and more specifically by Italian citizens. In fact, as underlined by Settis, in the last decades “mountains,
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countryside, coasts, are being less and less taken into consideration as a treasure of the citizens, instead they are seen as an easy hunting reserve for who is cynically destroying the commons for their interest” (Settis, 2010). As currently defined 1, soil is “the top layer of the earth’s crust, formed by mineral particles, organic matter, water, air and living organisms. It is the interface between earth, air and water and hosts most of the biosphere”; for the purpose of this paper, soil can be referred to the rural land, not yet urbanized, and its intrinsic value. Land, somehow confused with soil, instead is generally defined 2 as “the part of the earth's surface that is not covered by water”; for the purpose of this paper, land includes territorial and spatial dimensions, and it is considered as the object of land use planning. Furthermore in this paper, soil consumption refers to the concept of “land take”, also known as "urbanization", "increase of artificial surfaces" and represents an increase of settlement areas (or artificial surfaces) over time, usually at the expense of rural areas; this process results in an increase of scattered settlements in rural regions or in an expansion of urban areas around an urban nucleus (urban sprawl). Soil consumption has negative effects and impact on environmental, social, economic resources. Soil is in fact an extremely complex, variable and living medium; the interface between the earth, the air and the water, soil is a non-renewable resource which performs many vital functions: food and other biomass production, storage, filtration and transformation of many substances including water, carbon, nitrogen. Soil has a role as a habitat and gene pool, serves as a platform for human activities, landscape and heritage and acts as a provider of raw materials (European Commission, 2006; EAA 2006; European JRC, 2008). Soil should be seen as a public service, a public right, like other resources such as water and air. Land use planning effects all soil threats and its impact need to be taken into account when planning the sustainable use of the land, such as impact on: soil sealing, soil erosion, decline in Soil Organic Matter (SOM), soil contamination, soil compaction, decline in soil biodiversity, soil salinization, landslides, desertification. Many studies show that European soil degradation is accelerating, with a variety of negative effects on human health, natural ecosystems and climate change, as well as on the economy; individual ecosystem services that are affected by land use transition also include the production of food, regulation of energy and matter flows, water supply, supply of recreational space, biodiversity or natural aesthetic values (Nuissl H, Haase D, Lanzendorf M, Wittmer H., 2009).
The objective of soil protection and SEA Different European policies are contributing to soil protection (for instance on water, waste, chemicals, industrial pollution prevention, nature protection, pesticides, agriculture) but there is a lack of an integrated strategic policy. As these policies have other aims and scopes of action, they might not be sufficient to ensure an adequate level of protection for all soil in Europe. Given the complexity of the soil consumption impact, an integrated policy and planning tool is needed to cope with soil protection issues. Strategic Environmental Assessment (SEA) refers to a range of "analytical and participatory approaches that aim to integrate environmental considerations into policies, plans and programmes and evaluate the inter-linkages with economic and social considerations" 3. According to SEA Directive 4, competent planning authorities are obliged to accomplish a systematic assessment of all significant environmental impacts of regional land use plans (Art. 3 para. 2 SEA Directive). The procedure of SEA suits the purpose of an integrated assessment of land use issues, and it can be effective being inextricably linked to decision-making. SEA, by law (SEA Directive): • evaluates the likely significant effects on the environment, including issues such as soil, water, air, landscape; • integrates environmental considerations and evaluates the inter-linkage with economic and social considerations (soil as a ‘common’); • includes monitoring (i.e. on land consumption) Additionally, the SEA report, being a decision-support instrument aimed at providing as detailed a picture as possible of the environmental impact related to the implementation of a land use plan, must contain sufficient information to assess the acceptability of the impact of soil consumption, and consequently to propose suitable modifications and mitigations. 1
ENVASSO Project: ENVironmental ASsessment of Soil for monitoring (www.envasso.com) Oxford dictionary, Oxford University Press, 2011 3 OECD DAC SEA Guidance, 2006 4 SEA Directive, 2001/42/EC 2
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Land consumption in Italian SEA In the last few decades in Italy, there has been massive urbanization disproportionate to the demographic increase, and mostly in the Po Valley (area including Regions Lombardy, Emilia Romagna, Veneto, Piedmont), where each day 200.000 m2 are urbanized, “about 30 soccer fields” (Legambiente Report, 2011) Italy, unlike most European countries, does not have a national spatial development plan, nor a definition of soil sealing limits and targets (like in Germany, UK, Austria). Regional Territorial Plans are the planning tools that rule land use in Italy and therefore they have the most important role in limiting land consumption. Emilia –Romagna and Lombardy, the two Regions that cover the main part of the Po Valley, recently approved their Territorial Plans. Regional Territorial Plan of Emilia Romagna (Italy), limitation of land consumption The new Regional Territorial Plan (2010) of Emilia – Romagna i, includes an evident objective on the limitation of land consumption. Starting from the analysis of the soil “artificialization” of the region territory (land consumption due to new urbanized areas, commercial areas, industrial areas, infrastructures, mining areas, landfills increased by 74% compared to thirty years ago, especially in the timeframe between 1994 and 2003), the Plan and its SEA explicitly reject the past developing model, and its consequent negative effects, such as the urban sprawl generated, that caused an exponential increase of public costs for infrastructures and management of the services needed. One of the clear objectives of the Plan addresses the limitation of land consumption: “it is possible to consume new land only if there is no alternative deriving from the substitution of existing urbanized texture, or from its re-organization, re-zoning or regeneration”. However, no target is fixed, due also to the fact that Italy, unlike most European countries, does not have a higher level spatial plan, such as a national spatial development plan, that would influence or govern the regional plans for a defined period 5. SEA includes information about the monitoring plan, that has the aim to control the Plan application and effectiveness. Regarding the limitation of the land consumption objective, the monitoring plan includes indicators like: • land fragmentation because of “artificialized” surface; • land use, change in soil consumption, soil sealing. The case study is interesting for its explicit acknowledgment of the problem of land take, and for the objective determined, but its SEA shows a lack of justification, assessment, and comparison of different alternatives, even if monitoring can help further action. At a local level (Provinces and Municipalities) land consumption and its impact have been taken into consideration in all the recent spatial planning 6; SEA of territorial plans like the PTCP ii, and their sectorial part (Water, PTA; Quarries, PIAE; Energy, etc.) include evaluation of land consumption, and propose its limitation through several compulsory regulations, such as: • maximum amount of urbanization of new areas, while promoting urban renewal, brownfield redevelopment, etc.; • further limitation (targets and threshold values) for new urbanization in “groundwater protection zones” (introduction of the “sealing balance”, etc.); • limitation of new quarry sites while allowing only existing sites extension; • limitation on setting new photovoltaic power plant on ground, while promoting roof systems. Those examples show the importance of the integration of different sectorial policies in a common spatial plan (PTCP); SEA was the common field where different aims converged in a unique view that evaluated and consequently promoted the objective of limitation of land consumption. Monitoring will show the effectiveness of the planning process. Regional Territorial Plan of Lombardy (Italy), SEA and land use planning: lessons learned The present scenario in Lombardy shows the strong reduction of open spaces and spread of urban areas increasing the ecological fragmentation and the habitat erosion. More tools and coordinated policies to discipline the urban growth are needed to limit land consumption. Even more urgent tools are needed to increase the awareness of policy makers and planners (Pileri, 2010). 5
In fact, in Italy soil sealing limits and targets, where existing, are usually defined at the municipality level, unlike in other EU countries (Germany, UK, Austria, etc.). See EC, 2011. 6 See PTCP Reggio Emilia, PTCP Piacenza, PTCP Modena, PTCP Bolognaii Name of author
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SEA of the Regional Territorial Plan of Lombardy iii (2010) neglects some contributions given by the consultation phase (such as the need for a specific study on land consumption, and a proposal about ecological compensation) while a general objective of “land consumption reduction and promotion of brownfields regeneration” is included. More interesting cases of the effectiveness of SEA and soil protection in Lombardy can be found at a local level: some recent municipal plans have included assessment of land consumption, and their SEA have foreseen mitigations and compensation (i.e. Cernusco sul Naviglio iv 2010, etc.). From the experience of SEA application in Emilia – Romagna (2000-2011) and Lombardy Region (2005-2011) some limits of its application in land use planning can be underlined: • SEA process is not always taken into serious consideration by decision makers, and often SEA analysis, recommendations and information are neglected; • some themes, such as land consumption, should be governed, evaluated and analyzed by external bodies removed from the municipal level (often closer to local interest instead of global environmental matters); • land use change, and land take in particular, has many side effects that should be estimated and evaluated, as they involve several issues (sealing, erosion, etc.); • in Lombardy, SEA in not required for “Piano delle Regole”, which is the component of a Municipality Plan that includes quantitative limitations and constraints (such as land consumption limitations); • existing plans are often neglected, and their old decisions are hardly questioned and changed in a more sustainable point of view in the new plan
Land consumption in foreign SEA International case studies showed the same positive results for SEA as a tool for limiting land consumption. Different case studies demonstrate interesting results on: • Victoria, Australia: evidence of effectiveness of using SEA in land use planning, as importance of an independent SEA body; the SEA approach adopted is considered to be a systemic, transparent and longlasting example of SEA, useful in managing land use conflict and promoting more ecologically sustainable land use (Coffey B. Fitzsimonsb J. A., Gormlyc R., 2011); • Chengnan New District of Jintan County, Jiangsu Province (China): proposal of reinforcing integration of SEA and “ecological” planning; the effectiveness of this process demonstrated that rather than separate ecological planning and land use planning, common objectives can merge into an integrated process (He J., Bao C., Shu T., Yun X., Jiang D., Brwon L., 2010); • Brazil land use change for sugarcane ethanol: need for the use of SEA in land use change in order to adequately address global, synergistic, indirect and cumulative impacts on biodiversity, with implications encompassing economic, social and environmental impact (Figueiro G. A. L. C., Bond A., 2011). • Germany regional land use planning: several studies presented examples of indicators for SEA in regional land use planning, like LUCCA project, elaborating indicators such as “land consumption” (soil abstraction, soil sealing, soil degradation/excavation) and “land use change” (change of function of the area without soil removal or sealing: e.g. afforestation, recreation: (Helbron H., Schmidta M., Glassonb J., Downesa N., 2011).
SEA as a tool for limiting land consumptions Sustainable development has been highlighted as an essential principle in spatial planning, with increasing recognition that uncontrollable urbanization and land consumption give rise to various issues such as overexploitation of natural resources, ecosystem destruction, environmental pollution and large-scale climate change. Case studies highlight some good results obtained from SEA methodology as a tool for improving urban and regional planning processes, in respect to land consumption, soil degradation and urban sprawl. At the same time, especially within an Italian context, there is big space to improve the effectiveness of this tool, from different points of view: Soil as a common SEA and spatial planning have to consider land consumption as use of a common good, like water, air and forests, with consequent responsibility for protecting it. Soil is one of the non-renewable resources, and it needs to be saved and protected for the global sustainability of planning processes. It has to be seen as a fundamental common, that affects social, economic and environmental issues for the community. Better awareness of soil value In public participation and consultation of SEA processes, a better awareness of soil value must be carried out. Knowledge regarding the crucial role of soil in the ecosystem and its vulnerability is a prerequisite for responsible soil management. Objective of land consumption limitation Name of author
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The soil fulfills vital functions in the ecosystem. For this reason, only sustainable, careful and sparing use – in terms of surface area, quantity and quality – is permissible. Soil protection and limitation on land consumption must be included in all planning processes and consequently in every SEA reports, with an effort in fixing specific targets. Soil as the main resource, need of policy integration SEA reports instead of studying plan effects on different separate sector (typically: air, water, waste, energy, biodiversity, etc.), should consider soil as the main resource and evaluate the effect of its transformation. Land use change should always be estimated and assessed with its effect on several sectorial activities, like agriculture, forestry, etc. There is a need of a convergence of different interests, and SEA should support the integration, cooperation and coherence of different policies involved. SEA and assessment of land use change SEA reports should include an assessment of land use change, its effect and impact in an environmental/ecological, social and economic point of view. For this purpose, spatial GIS tools need to be an essential part of SEA report, because of their ability to encompass several multilayer information and for their capacity of considering the cumulative and synergistic impact of different land use change in a plan. SEA and alternative land use options SEA report, by law, includes assessment of different alternatives. Considering land consumption, SEA should encompass an assessment on different steps: • evaluation of different land use options, and the soil loss; alternatives with less land consumption must be always taken into consideration, besides the “business as usual” option, making an estimate of the value of preserving soil from urbanization (or other land transformation); • impact prediction of the preferred option in alternative future scenarios (pessimist scenario, optimistic scenario, etc.); In comparing alternatives, the consequent impact of the planned transformation can be assessed, in order to support the decision makers avoid a bias which usually undervalues soil concerns. SEA and mitigation measures/compensation Once impacts are assessed, SEA should be the proper place where technical measures to mitigate soil sealing should to be discussed and defined (in terms of best practice, legal requirements and incentives, etc.). Moreover, in SEA processes, forms of compensation, if necessary, should be discussed and defined (such as compensation payments, compensation measures, trading systems, etc.). Link between theoretical and practical land use planning While at a more general formal level, land consumption concept has spread around academics, decision makers and planners, at a more practical level it seems to be neglected. This is reflected in the usually missing link between regional and urban planning: while recent territorial plans and their SEA all include objective of land consumption limitation, at a local scale they are hardly put in practice. There is a need of a stronger link between the two planning level, and a deeper awareness of soil value at the urban scale. Need of better quality SEA Poor SEA usually reflects poor planning processes and vice versa; increased effectiveness of SEA is showed when it is transparent and it serves the community objectives. Detailed SEA report better helps decision makers, and when it is overseen by an external, third-party entity, this clearly increases its success. Monitoring As specified in the next paragraph, effective soil protection requires coordinated and to some extent long- term observation and monitoring of the soil. Appropriate indicators should be selected in SEA reports in order to monitor land change and calculate the matrix of transitions.
Monitoring land consumption in SEA The availability of data on soil/land consumption is the starting point for any further consideration and assessment on land use policy. While land consumption is on the agenda of various European governments and integrated data is available, in Italy there is neither a national framework nor a database on land use despite the high number of territorial IT systems (Pileri, 2009). The only data available is from the project Corine Land Cover (1990 and 2000). SEA can help planning processes if data is available to evaluate the status quo on land consumption and make proposals for future development. An integrated system of information and data is necessary to understand the themes addressed by the territorial planning; land consumption data must be included, in order to reach a comprehensive evaluation of the strengths, weaknesses, opportunities and threats (the so called SWOT) involved in land use planning.
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A methodological approach that should be used for the purpose mentioned above, is the collection of data on land use/land cover and the compiling of the table called “the transition matrix” (Pontius, R. G. Jr., Shusas E., McEachern M, 2004). The matrix is based on flows in change in land use/land cover that a certain area had over a specific amount of time (from t 0 to t 1 ), bearing in mind the “triangle of transformation” (Pileri, 2009). The transition matrix makes it possible to organize data so that it produces an interpretation for evaluating the environmental effects as well as the planning strategies; some transformations have a different environmental impact than others. The SEA Environmental Report, part of the Plan official documents, must include the “monitoring plan” (Article 10, SEA Directive 7). In order to have control on the potential effects of the Plan, including land consumption, evaluation indicators are needed. Among the others, the evaluation of the land use/cover transition can be represented by indicators that measure: land use at different times (i.e. every year), change of land use (different timeframe), land take, rapidity of the transformation, the incidence of the transformation compared to the original land cover stock.
Conclusion Land consumption is one of the most important issue of the environmental impact of plans. Soil has to be perceived as a common by the society and by the planners and decision makers. It can be stated that SEA has the potential to be an effective tool for limiting risks and preserving land consumption; it is a fertile field that integrates different policies and the right place to deal with social, economic and environmental issues. From this perspective, SEA can strengthen soil protection objectives thereby improving the sustainability of land use planning. A future investigation in order to improve SEA effectiveness on planning process in the pursuit of soil protection could be the introduction of simplified methodology of estimating and assessing land use alternatives and their impact, together with the definition of a few appropriate indicators suitable for the monitoring plan. Even if there are positive conclusions, what if these changes would not be enough? Do we maybe need new practical tools in spatial planning? Or perhaps, do we need a new institutional framework, reforms in the legislative structure and change in land use regulations, with major importance to land consumption? Would the introduction of legal standards ensure soil integrity? And finally, is it possible to think at a next step SEA of land use planning, with soil perceived as the main nonrenewable resource?
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“Member States shall monitor the significant environmental effects of the implementation of plans and programmes in order, inter alia, to identify at an early stage unforeseen adverse effects, and to be able to undertake appropriate remedial action”.
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La pianificazione co-valutata
La pianificazione co-valutata Romina Raulli Email: raulli@proteoassociati.it Tel. 086.2401965 / fax: 086.21960472
Abstract Dopo dieci anni dall’emanazione della direttiva comunitaria in materia di VAS, le esperienze seguono talvolta aspetti secondari non contemplati dalla normativa europea, dimenticando il principio di integrazione tra valutazione ambientale e pianificazione. Tale principio, pur essendo ben presente in letteratura, è ancora poco applicato, in quanto le procedure di valutazione ambientale incidono con fatica sui processi decisionali della pianificazione e della gestione del territorio, a causa di una scarsa e non corretta applicazione delle forme partecipative. Essendo il processo decisionale di un piano fluido e continuo, il percorso di valutazione per essere realmente efficace e influente deve intervenire nelle diverse fasi caratterizzanti il piano, con modalità differenti opportunamente concordate. A riguardo si presenta l’esperienza valutativa del Piano Regolatore Generale del Comune di Pietracamela (TE).
Premessa In tale contributo si vuole illustrare una esperienza di applicazione della procedura di valutazione ambientale strategica (VAS) nel processo di pianificazione a livello locale. L’importanza di tale esperienza risiede nell’incidenza che il processo di valutazione ambientale è riuscito ad imprimere sui processi decisionali della pianificazione attraverso l’applicazione attiva dei processi partecipativi. L’assunto di partenza è che l’applicazione attiva della valutazione ambientale nel processo di pianificazione orienta verso la sostenibilità.
La costruzione del piano L’esperienza proposta è quella del Piano Regolatore Generale del Comune di Pietracamela (TE) in cui la valutazione ambientale, intesa come strumento di supporto al processo decisionale, è stata introdotta fin dalle prime fasi del processo di pianificazione, ponendo l’accento sul processo piuttosto che sul prodotto. Per esaminare il carattere complesso e non lineare della realtà, l’approccio adottato è stato quello di far interagire diverse figure professionali, ciascuna delle quali per propria competenza ha contribuito - attraverso la ricostruzione del quadro delle conoscenze, l’individuazione dei tematismi rilevanti, la rilevazione degli ambiti di influenza, la definizione delle criticità e opportunità - alla costruzione delle strategie prima e degli obiettivi del piano poi. La multidisciplinarietà è sicuramente uno dei fattori qualificanti di tale esperienza, contribuendo, attraverso il confronto e la sovrapposizione delle conoscenze, a ridurre gli elementi di conflittualità che normalmente si presentano nel processo conoscitivo e propositivo a supporto di quello decisionale. L’assunzione di una concezione interattiva dei processi decisionali/valutativi presuppone, infatti, che le scelte e gli indirizzi di pianificazione non siano soltanto l’esito di una previsione basata su certezze - siano esse scientifiche o politiche quanto piuttosto il risultato di una negoziazione che investe sia gli aspetti conoscitivi sia quelli decisionali. Ciò ha permesso di innestare un processo dinamico, nel rispetto dei vincoli amministrativi e delle strutture istituzionali esistenti, dove definire l’identità territoriale ha significato rapportarsi con gli attori presenti sul territorio, in un quadro di insieme ampio e complesso, rispettando le competenze di ciascuno, evitando le sovrapposizioni e amplificando la complementarietà.
Romina Raulli
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La pianificazione co-valutata
La condivisione nella elaborazione del piano non è avvenuta solo rispetto al gruppo di lavoro incaricato della redazione dello strumento urbanistico, ma ha visto la partecipazione attiva dei soggetti istituzioni coinvolti nel governo del territorio comunale e, in maniera non subordinata, dei cittadini e dei portatori di interesse. In questo contesto operativo la valutazione ambientale è stata intesa come strumento di co-formulazione del piano e non come procedura o elaborato tecnico autonomo. La redazione del Rapporto Ambientale ha rappresentato di fatto la testimonianza del percorso di VAS che si è applicato dalle primissime fasi di elaborazione del piano fino alla adozione dello strumento, restituendo una procedura trasparente e ripercorribile. L’attenzione pertanto si è spostata dalla ricerca della metodologia coerente alla definizione e comprensione del percorso decisionale, per ottenere risultati che - come la stessa norma richiede - siano innanzitutto efficaci. L’essenza della VAS, infatti, è quella di orientare il proponente verso una pianificazione ambientalmente più opportuna (valutare gli effetti ambientali degli interventi di sviluppo) e socialmente condivisa (attivare delle forme partecipative che rendano il processo condiviso, trasparente e democratico). Il primo contributo è stato quello di orientare la pianificazione verso pratiche negoziali in risposta ai vecchi sistemi di comando-controllo. Nella costruzione del piano si è cercato di fare leva sui bisogni degli stakeholders, al fine di favorire atteggiamenti collaborativi negoziali. L’applicazione dei principi di co-pianificazione e responsabilità ha permesso poi di orientare il processo di pianificazione non più solo verso la conformità con gli strumenti sovraordinati ma anche verso la coerenza e compatibilità. La conformità ha infatti permesso di verificare che gli obiettivi generali del PRG siano coerenti con gli obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale, territoriale ed economica che derivano dai vari livelli di programmazione e dalle norme e direttive comunitarie, nazionali e regionali; la coerenza e compatibilità invece hanno permesso di verificare l’efficienza degli obiettivi e delle relative azioni non solo in termini economici ma anche e soprattutto in termini ambientali e sociali. Tale approccio ha portato alla individuazione di differenti forme e tempi della partecipazione. Rispetto alle forme messe in campo esse possono essere sintetizzate in: Comunicazione/Informazione, verso tutti i soggetti portatori di interesse (cittadini, albergatori, associazioni ambientaliste, ecc); Consultazione delle Autorità con Competenza Ambientale (ACA);Concertazione/Negoziazione con i soggetti competenti per la pianificazione e la gestione del territorio (Provincia di Teramo e Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga). Rispetto ai tempi delle forme partecipative questi non hanno avuto una scaletta predefinita ma sono stati fissati in merito alle esigenze del momento (limite della struttura del processo partecipativo). Attraverso l’attivazione di tali forme partecipative si è cercato di costruire un processo partecipato finalizzato alla risoluzione dei problemi individuati. Ciò ha permesso di costruire una base di conoscenza derivante non solo dall’indagine scientifica, ma anche dall’esperienza di tutti i soggetti coinvolti. Questa attività è stata trasversale rispetto al processo di elaborazione del piano: individuazione delle problematiche esistenti, successiva analisi, formulazione di ipotesi di soluzione, applicazione della soluzione migliore e controllo della sua validità. Importante, a riguardo, è stato gestire l’inevitabile frammentazione del sapere disciplinare. Infatti, la compresenza di più figure specializzate se da una parte ha permesso di affrontare alcune questioni nel dettaglio e con specifica competenza tecnica, dall’altra ha rallentato la comprensione unitaria del sistema territorio nel suo complesso, di fatto producendo una grande collezione di informazioni, che hanno rischiato di far perdere la capacità di valutazione complessiva e di visione delle questioni importanti. Al fine di superare tale problema si è deciso di selezionare le informazioni a cui dare rilevanza, applicando di fatto una valutazione sulle questioni di interesse. Le previsioni, le analisi di scenario ambientale, la costruzione di alternative di sviluppo, e le altre analisi sugli eventi futuri, sono state fondamentali per prendere decisioni consapevoli in materia di sviluppo sostenibile. Il contesto ambientale, da semplice supporto territoriale per gli interventi umani, è diventato il sistema in cui coesistono elementi antropici e componenti fisico-naturali da armonizzare. Ogni scelta, però, ha implicato dei giudizi di valore e la presenza di diverse opzioni a disposizione ha comportato una decisione e di conseguenza il controllo degli effetti della decisione. Le opzioni di scelta principali sono state le alternative di sviluppo proposte. I valutatori hanno individuato e stimato gli effetti ambientali delle possibili alternative, i decisori hanno selezionato l’alternativa migliore. Il concetto di valore, però, è relativo. Si può affermare che i valori dipendono dalle motivazioni degli individui, cioè dall’insieme dei fattori dinamici che li spingono verso determinati obiettivi personali. Esistono valori causati da diverse motivazioni: ecologiche, sociali, economiche, territoriali, politiche. Nonostante questo, il valore ha anche una dimensione selettiva poiché influenza la scelta e l’orientamento dell’individuo. Poiché i valori, le motivazioni e i criteri decisionali variano tra decisori e valutatori, la soggettività delle scelte è una componente ineliminabile che è stata gestita nel rispetto del diritto di partecipazione proprio della procedura di VAS. È solo attraverso la partecipazione che è possibile superare i problemi legati alla conflittualità degli obiettivi e alla soggettività delle scelte sulle varie alternative. Le alternative proposte sono derivate dalla costruzione di scenari, intesi come visione plausibile di un contesto complesso descritto attraverso l’esplorazione di possibili assetti futuri in funzione dello stato di alcune variabili chiave, ed è servito ad orientare le scelte rispetto agli eventi e per identificare obiettivi verso cui dirigersi. Poiché lo scenario è inteso come rappresentazione del contesto e inquadramento di una specifica alternativa, ne Romina Raulli
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consegue che le alternative proponibili non dipendono esclusivamente dalle scelte dei decisori, cui spetta, come già detto, il compito della scelta finale. Proprio in considerazione di quanto finora riportato, si è cercato di delineare degli scenari per il territorio del Comune di Pietracamela la cui possibilità di verifica è stata costruita sulle indagini di settore e sull’andamento storico di sviluppo del Comune. Tale scelta è stata dettata dalla necessità di costruire scenari plausibili e finalizzati (poiché devono supportare il processo decisionale). Concretamente questi sono scaturiti dalle analisi di contesto e di settore (che hanno contribuito alla costruzione della conoscenza condivisa) e dalle analisi cartografiche che, attraverso l’utilizzo di metodi di valutazione integrata (quali la overlay mapping, l’analisi swot e le matrici), hanno fornito una chiave di lettura per l’identificazione e valutazione delle relazioni di impatto dei fattori fisici, sociali ed economici che condizionano il sistema ambientale.
Figura 1. Esempio di carta di sintesi.
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Figura 2. Carta interpretativa. Tramite le tecniche valutative e conoscitive utilizzate è stato possibile individuare le potenzialità e le attitudini dell’ambiente, determinarne i vincoli e i fattori limitanti allo sviluppo sia in relazione alle caratteristiche che allo stato delle risorse. Il metodo di sovrapposizione delle carte tematiche di analisi e le successive valutazioni (carte di sintesi – Figura 1. – e carte interpretative – Figura 2.) hanno fatto emergere le informazioni di interesse. La restituzione su mappe sintetiche dei fattori suscettibili di impatti ha consentito di determinare la distribuzione spaziale e i livelli di intensità dei fattori di pressione, oltre a valutare il grado di compatibilità dello sviluppo proposto con lo stato di conservazione delle risorse, la loro sensibilità e vulnerabilità, gli usi attuali e potenziali, ovvero l’attitudine dell’ambiente ai diversi usi.
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Figura 3. Carta degli scenari. A seguito della costruzione degli scenari e scelta della alternativa migliore (Figura 3.) si è passati alla definizione dei principi e obiettivi generali seguiti dagli obiettivi e azioni specifiche (Orientamento dato dalla valutazione per la costruzione del piano). Si precisa che tale percorso ha visto continui rimandi alle fasi di lavoro precedenti al fine di migliorare il prodotto finale.
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Tabella I. Principi-Obiettivi-Azioni
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Nella redazione della proposta di piano la scommessa è stata quella di cercare il giusto equilibrio tra territorio e società (intesi nella loro accezione più ampia). Nello specifico, in controtendenza rispetto alla prassi operativa ma coerentemente ai nuovi indirizzi di pianificazione, si è anteposto il territorio alla società, dimostrando che l’attenzione al territorio determina degli effetti positivi sulla società non solo in termini economici. L’obiettivo prioritario è stato il corretto uso del territorio, partendo dal presupposto che esso è un patrimonio comune. Dal momento che l’intero territorio comunale è compreso nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, inserito nella Rete Natura 2000 e ben l’85% dell’intero territorio è anche compreso in un Sito di Importanza Comunitaria, la pianificazione adottata ha visto il prevalere del principio di conservazione e trasformazione condizionata del territorio rispetto a quello di trasformazione ordinaria. Operativamente si è partiti da un’attenta analisi del territorio (attraverso lo studio oggettivo delle componenti ambientali, paesaggistiche e storico-culturali), in base alla quale si è ritenuto opportuno non classificare il territorio in merito alle funzioni e alle categorie di intervento, ma in relazione al valore, che ha portato a definire quale doveva essere il grado di conservazione dei luoghi ritenuti di eccellenza e quale il livello di trasformabilità compatibile. Successivamente si è passati ad osservare quali erano le problematiche da affrontare, cercando di proporre azioni ritenute risolutive ed effettivamente applicabili. Tale approccio conoscitivo, che potremmo definire logico, ha permesso di delineare un quadro progettuale attivo aderente alla qualità e al valore dei luoghi, e di delineare le possibili trasformazioni come elementi per il recupero e la valorizzazione degli ambiti costruiti. Dopo aver definito i principi di sostenibilità, (scaturiti dall’indagine conoscitiva di dettaglio delle componenti ambientali e dalla consultazione di tutti i soggetti istituzionali coinvolti nella gestione del territorio in esame e dei portatori di interesse), sono stati verificati gli obiettivi generali che il piano propone di perseguire; successivamente, attraverso l’esame della coerenza esterna degli obiettivi generali e la verifica della fattibilità rispetto alle componenti ambientali esaminate, sono stati definiti gli obiettivi specifici; infine, in risposta agli obiettivi specifici configurati, sono state proposte le azioni specifiche. Il passaggio successivo è stato quello di contestualizzare e normare le azioni previste (Tabella I). Nel fare questa operazione si è tenuto conto degli esiti delle valutazioni da una parte e della conformità della pianificazione sovraordinata dall’altra, riscontrando di fatto, rispetto ai luoghi e non agli obiettivi generali, incoerenze tra i vari piani sovraordinati. A questo punto il compito della valutazione, supportata dagli esiti della valutazione di incidenza (rispetto alla quale sono scaturite le prescrizioni), è stato quello di verificare, rispetto ai luoghi, quali erano le pressioni generate dalle azioni previste e di conseguenza definire gli impatti per determinare le necessarie misure di compensazione e mitigazione. Partendo dal presupposto di non prevedere nuovi ambiti destinati alla trasformazione e, per ottenere ciò, di non prevedere nuove infrastrutture viarie, gli interventi proposti sono stati localizzati per la maggioranza in corrispondenza di tre ambiti (anello viario dei Prati di Tivo - 90,7% -, Pietracamela - 6,9% - e Intermesoli 2,4%). La scelta dei tre ambiti è stata pressoché obbligata visto il contesto di riferimento, inoltre gli interventi previsti hanno, rispetto alle previsioni del Programma di Fabbricazione vigente, un tasso di decremento di consumo di suolo pari al 70%, con una superficie realmente interessata dagli interventi di piano (superficie urbanizzata prevista) pari allo 0,51% della superficie territoriale, mentre la superficie edificabile rispetto alle aree zonizzate è pari allo 0,08% della superficie territoriale.
Le proposte per la fase attuativa Per la fase gestionale del piano 1, è prevista una attività di monitoraggio che si prospetta particolarmente difficile poiché per essa entrano in gioco componenti non gestite dal valutatore ma dipendenti dalla efficacia della Pubblica Amministrazione e dalla sua capacità di reperire annualmente risorse finanziarie. Prima componente irrinunciabile è la finanziabilità dell’attività. Per programmare in maniera coerente una attività di monitoraggio, infatti, sarebbe opportuno sapere quanto si ha a disposizione per svolgere tale attività, in modo tale da calibrare le scelte e le spese. Tale aspetto dovrà necessariamente guidare il valutatore nel definire ambiti di indagine e tematiche ritenute basilari rispetto all’intero quadro della sostenibilità, secondo un nuovo Quadro delle Priorità Ambientali (QPA). Altro aspetto importante è la disponibilità dei dati, la loro informatizzazione ed omogeneizzazione. La prima problematica da affrontare nella attività di monitoraggio sarà l’utilizzo degli indicatori che dovranno soddisfare alcune proprietà, ovvero che tutti gli obiettivi di piano siano rappresentati da un indicatore e da almeno un’azione in grado di perseguirli, che tutti gli effetti significativi dovuti alle azioni abbiano almeno un indicatore che li valuti e che tali indicatori siano riconducibili a quelli che misurano gli obiettivi specifici. In verità questa 1
Attualmente siamo nella fase di approvazione del piano.
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attività è la carenza del lavoro fatto in fase redazionale dove è mancata la verifica tra obiettivi e indicatori proposti. La strada da percorrere potrebbe essere quella che, partendo dagli indicatori descrittivi, attraverso la verifica di quelli prestazionali, si possa misurare il livello di raggiungimento degli obiettivi, sia in termini di efficacia che di efficienza. Tali indicatori possono essere calcolati rispetto agli obiettivi di piano, oppure rispetto alle migliori prestazioni registrate in situazioni e realtà analoghe (benchmarking). Purtroppo però le esperienze italiane non ci sono di grande aiuto. Altro problema è la raccolta coordinata dei dati finalizzata alla costruzione di un sistema informativo che renda coerenti e compatibili le informazioni alle diverse scale. A riguardo il Comune vuole promuovere attività congiunte (con regione, provincia, parco) al fine di costruire, anche in maniera sperimentale, un sistema informativo efficace che permetta di ricostruire in modo integrato l’informazione ambientale relativa al territorio di Pietracamela, semplificando la procedura di accesso ai dati.
Considerazioni conclusive L’importanza nella pianificazione della procedura di VAS risiede nel fatto che essa permette di ridurre la conflittualità sugli obiettivi e la soggettività nella valutazione, grazie alla costruzione di una conoscenza condivisa e alla individuazione delle criticità e potenzialità. Purtroppo questa attività è molto difficile da applicare. Negli enti c’è l’attitudine ad arroccarsi alle funzioni di controllo e autorizzative, piuttosto che a quelle più complesse della proposizione; nei cittadini c’è la convinzione che essa sia semplice evidenziazione pubblica del processo pianificatorio finalizzata al consenso. È pertanto un problema prima di tutto culturale. Bisogna ricostruire la fiducia ed educare alla partecipazione attiva e propositiva. È questa la scommessa per una pianificazione e gestione del territorio sostenibile, ed è quanto si è cercato di fare, con risultati più o meno soddisfacenti, a Pietracamela.
Bibliografia Articoli Pompilio M. (a cura di, 2011), “Integrare valutazione e pianificazione”, in Valutazione Ambientale n. 19. Bagnati T. (2005), “Partecipazione e comunicazione ambientale”, in Valutazione Ambientale n. 7.
Fonti Medori L., (2011), Il Piano Regolatore Generale del Comune di Pietracamela (TE). Raulli R., (2011), Il Rapporto Ambientale del PRG del Comune di Pietracamela (TE).
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La vulnerabilità del territorio nella pianificazione di bacino
La vulnerabilità del territorio nella pianificazione di bacino Luca Gullì Università di Bologna Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale Email: luca.gulli3@unibo.it Tel. 051.2093163 Michele Zazzi Università degli Studi di Parma Dipartimento di Ingegneria Civile, dell’Ambiente, del Territorio e Architettura Email: michele.zazzi@unipr.it Tel. 052.1905942
Abstract L’integrazione programmatico-operativa che attiene alle previsioni pianificatorie in tema di protezione dal rischio idrogeologico, pone il problema di riuscire ad individuare temi, criteri, strumenti e parametri capaci di garantire una continuità nel passaggio dai contenuti dei piani di bacino alle decisioni attuative recepite nei più generali strumenti di pianificazione del territorio. L’indagine sulla vulnerabilità del sistema territoriale, nel suo complesso come nei suoi singoli elementi componenti, può costituire argomento guida in tal senso, capace di mettere in adeguato risalto sia le dinamiche di assetto sia la valutazione delle capacità e delle caratteristiche di suscettibilità dei singoli manufatti, coprendo in tal modo lo scarto tra definizione spaziale delle scale di intervento, tempi di attuazione e ripartizione di competenze che da sempre compromette la reale efficacia della pianificazione di bacino. 1
1. Sul difficile rapporto tra pianificazione generale e pianificazione di settore in tema di sicurezza del territorio Il trattamento dei fattori che attengono alla sicurezza territoriale, a fronte del verificarsi di fenomeni calamitosi, rappresenta un nodo critico per la pianificazione urbanistica, soprattutto in riferimento all’efficacia espressa dagli strumenti tecnici e dai loro apparati normativi. Per propria natura, infatti, il rischio da eventi catastrofici trova il proprio inquadramento all’interno di elaborati specialistici, di natura tecnocratica, la cui titolarità e competenza è attribuita a soggetti della pubblica amministrazione che non fanno riferimento ad alcun meccanismo (se non indiretto) di rappresentanza della comunità insediata (Urbani, 2001, pp. 210-211). Eppure, nonostante il profilo strettamente settoriale che caratterizza ogni documento di piano attinente alla sicurezza ambientale, questa disciplina speciale investe tutte le scelte d’uso e regolamentazione del cosiddetto capitale fisso socio-territoriale (Giannini, 1971, p. 1134; Coleman, 2005, p. 707 e ss.), introducendo la necessità di una completa riconsiderazione del complesso di fenomeni e dinamiche che incidono su un intero ambiente insediativo o naturale. Questo si può ritenere riferibile sia ad una circostanza fattuale, che impone a questi strumenti di tutela speciale di inseguire i fenomeni calamitosi fino a dove questi possono verificarsi, prescindendo così da qualunque perimetrazione amministrativa, sia ad una esigenza di tipo sociale, cioè al fatto che il verificarsi di tali eventi obbliga ad operare un’attenta valutazione dei beni materiali e dei valori culturali e identitari espressi dalla comunità insediata.
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Luca Gullì ha scritto i paragrafi 1 e 2. Michele Zazzi ha scritto i paragrafi 3 e 4.
Luca Gullì e Michele Zazzi
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La vulnerabilità del territorio nella pianificazione di bacino
La portata così generale dei fenomeni che danno luogo al rischio territoriale è data dalle modalità, estese ma spesso aleatorie, con le quali tali fenomeni incidono su di un sistema ambientale, in quanto entità vulnerabile, e in tutte le sue componenti, sollecitandone le reazioni sui molti e diversificati livelli dell’azione tecnica e della decisione politica (Menoni, 1997, p. 55). In quanto disciplina di regolazione di fenomeni che investono il complesso degli elementi componenti di un territorio, la difesa del suolo e la tutela ambientale troverebbero, quindi, la loro più adeguata trattazione entro gli strumenti dell’azione pubblica degli enti rappresentativi e della pianificazione generale, prima ancora che in quella di settore. Un significativo dibattito in tal senso ha accompagnato, del resto, la nascita della L. 183/1989 sul riordino della difesa del suolo in Italia (ad es. Cutrera, 1990). Ancor oggi, trascorsi più di vent’anni, si pone, tuttavia, un problema di coordinamento tra i diversi livelli di pianificazione o, meglio ancora, tra gli irriducibili interessi concorrenti. I piani territoriali sono più titolati a decidere e a valutare in modo bilanciato gli usi del territorio e le relative decisioni di trasformazione; essi, però, in quanto strumenti tecnico-regolativi essenzialmente statici, faticano ad assicurare che le proprie previsioni e i propri strumenti di intervento siano adatti a governare fenomeni dinamici, incerti, estesi e variabili, quali sono quelli che attengono al verificarsi delle catastrofi naturali (Tira, 1997, p. 54). Dato questo sistema pianificatorio fortemente disarticolato, i contenuti dei piani per la difesa del suolo e dei piani territoriali raramente hanno mostrato reali capacità di integrazione, risolvendo i rapporti reciproci prevalentemente con il soddisfacimento degli adempimenti procedurali, dati dai requisiti di conformità e recepimento passivo delle prescrizioni tecniche (Urbani, 2001, p. 207). I piani di settore sono a volte troppo parziali e scissi dai processi decisionali di scala locale, mentre i piani urbanistici sono spesso, per converso, troppo rigidi e faticano ad accumulare tutti gli strumenti conoscitivi che interessano la difesa del suolo in modo mirato e puntuale, per poterli tradurre in specificazioni operative e normative. Questa discrasia ha generato un doppio regime normativo e un’attività amministrativa che producono discipline separate in base all’interesse differenziato che devono tutelare, moltiplicando le fonti di autorità e vanificando quell’obiettivo di unitarietà e integrazione che è alla base di una pianificazione attenta ai temi ambientali. Si tratta, in definitiva, di ricostituire una razionalità complessiva della disciplina di intervento in tema di difesa del suolo, mettendo a fuoco i fattori di legame e coerenza tra i diversi apparati di produzione normativa e di azione amministrativa. A tali fattori si richiede di assicurare una cornice di convergenza, politica e tecnica al contempo, così da garantire efficacia e piena corrispondenza alle previsioni contenute nei piani territoriali e nei programmi speciali (Stella Richter, 2000, pp. 245 e 247). Quanto precedentemente affermato è coerente con un’impostazione metodologica che gli studiosi di geofisica hanno elaborato e maturato in modo chiaro da tempo: l’individuazione di possibili elementi di integrazione nella difesa ambientale deve preliminarmente poggiare, più che sulla unificazione procedurale o sulla valorizzazione di pur rilevanti meccanismi di partecipazione, dialogo e ascolto sociale, sull’individuazione di temi che hanno diretto riscontro nel riconoscimento di vincolanti condizioni di fatto presenti sul territorio e nella effettiva prassi di intervento (Grandori Guagenti, Brambilla, 1986, pp. 24-26).
2. Intervenire sulla vulnerabilità. Importanza della manutenzione del territorio Il concetto di vulnerabilità territoriale ha rilevanza fattuale e normativa assieme; esso presenta aspetti che hanno una valenza di tipo conoscitivo sia sullo stato di fatto del complesso ambientale sia sulla scelta delle strategie di intervento. Il trattamento della vulnerabilità richiede, quindi, la messa a punto di strumenti operativi e di apparati che abbiano prerogative adatte a dialogare con un fenomeno così articolato. La vulnerabilità dei sistemi ambientali, inoltre, è caratterizzata da una inesauribile diversificazione spaziale e, nel medesimo tempo, da una costitutiva variabilità temporale dei propri caratteri, in conformità con il rapporto strettissimo che la lega agli usi del suolo e alle dinamiche ambientali di trasformazione. La complessa natura del fenomeno della vulnerabilità, per l’estensione dell’oggetto trattato (dagli aggregati ai singoli elementi) e per l’eterogeneità delle modalità operative (previsionali, programmatiche, progettuali) dovrebbe potere trovare adeguata corrispondenza in una disciplina di intervento che sia capace di porsi alla base di una politica integrata per il territorio e l’ambiente nel suo complesso. Una tale disciplina di intervento potrebbe trovare una sua efficace realizzazione principalmente tramite la predisposizione di un mirato programma di manutenzione territoriale. L’attività manutentiva presenta al contempo la capacità di articolare la propria disciplina in base alle specificità dei contesti e dei manufatti, ma con contenuti di generalità tali da permettere una ricomposizione dei singoli provvedimenti specialistici entro un’unica politica pubblica per il territorio (Crosetti, 2003, pp. 524-525; La Barbera, 1990, p. 99). L’assunzione della vulnerabilità territoriale come base per le politiche pubbliche di riabilitazione degli insediamenti e dell’ambiente, per tali motivazioni, non può che essere affiancata da una altrettanto estesa strategia di intervento manutentivo programmato, sulla totalità del sistema ambientale. Tale attività di manutenzione ambientale è intesa non soltanto come mantenimento in efficienza dei sistemi territoriali, ma come Luca Gullì e Michele Zazzi
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riabilitazione e innalzamento prestazionale del patrimonio territoriale e ambientale nel suo complesso (Ferracuti, 1990, p. 54). Tale salto metodologico, spostando l’attenzione dalla tecnologia applicata al manufatto verso la gestione integrata dell’ambiente, può favorire una convergenza piena tra operazioni manutentive (programmi delle opere pubbliche), piani per la difesa ambientale e strumenti urbanistici ordinari. Una politica di manutenzione programmata del territorio deve allora farsi carico delle dinamiche d’uso, dei rapporti contrattuali e di mercato, nonché delle forme organizzative e dell’azione istituzionale (Molinari, 2004, p. 43), operando una convergenza dei molti attori sul territorio verso una comune contabilità e gestione delle risorse erogate a tal fine e inaugurando, così, una operativa sussidiarietà tra i soggetti pubblici interessati (Gavioli, 2002, p. 13). Dal punto di vista più direttamente strumentale, infine, il tema della riabilitazione manutentiva applicata alla vulnerabilità del territorio fa emergere in modo esplicito i caratteri inter-scalari che un tale approccio implica. Una politica di manutenzione del territorio e di miglioramento delle sue condizioni di esposizione al rischio, infatti, richiede una indagine sulla vulnerabilità degli aggregati ambientali alla generale scala di bacino, alla scala dei sistemi insediativi (micro-unità esposte), alla scala dei singoli manufatti edilizi (esistenti o di nuova realizzazione), per finire con le opere di difesa. Questo insieme di operazioni deve essere individuato e valutato in relazione alle attività presenti nell’area e in coerenza con un sistema di ricognizione, monitoraggio e sorveglianza (in riferimento alla vulnerabilità idrogeologica, Autorità di Bacino del fiume Po, 2002, pp. 147151). Infine, la mitigazione della vulnerabilità ambientale richiede il rilevamento delle complesse condizioni in essere di un intero contesto territoriale. Il trattamento di una tale varietà di fattori richiama pertanto la necessità di una altrettanto eclettica strumentazione di intervento, che alle operazioni fisiche di manutenzione programmata del patrimonio alle diverse scale, potrà opportunamente affiancare altri meccanismi di salvaguardia e di mitigazione del rischio. Interpretare la politica manutentiva come una grande opera pubblica di gestione e valorizzazione del territorio, si traduce, quindi, in una strategia differenziata e complessa di attività, capace di guidare e coordinare, entro un quadro coerente di azioni inter-istituzionali, le molte attribuzioni, competenze, domande sociali e soluzioni tecniche che incidono sul governo dei bacini idrografici.
3. Rilevanza del concetto di vulnerabilità nella pianificazione di bacino L’individuazione di fattori cruciali per assicurare efficacia all’azione pubblica, è tema che attiene al rischio territoriale in tutte le sue articolazioni. E assume particolare rilevanza per i fenomeni connessi al rischio idraulico e da frana. Infatti, gli strumenti che trattano questo specifico versante di tutele, a differenza di altri che sono più assimilabili a programmi di attività e opere, si sono configurati come compiuti piani di interesse territoriale con particolare complessità e varietà tematica. Questi strumenti, inoltre, incidono trasversalmente su gran parte delle opzioni di intervento che interessano il territorio (Gullì, Zazzi, 2006; Zazzi, 2010 passim), con una evidente sovrapposizione e avocazione di funzioni nei confronti dei piani degli enti locali (Stella Richter, 1998, p. 527). La valenza globale della pianificazione di bacino richiede a maggior ragione l’attenta ricognizione sul territorio di fattori determinanti per la sicurezza degli abitati. Tali fattori, a fronte delle sollecitazioni catastrofiche, devono potersi riscontrare in modo generalizzato ed al contempo caratterizzare in modo differenziato il comportamento dei sistemi ambientali. Anche soltanto nella preliminare distinzione in diretta, indiretta, sistemica, specifica (Latina, 1982, p. 15), la vulnerabilità insediativa riguarda e consente di esaminare i fenomeni territoriali in una prospettiva programmatica e operativa assieme: • la dimensione scalare, riferibile alla macro-scala degli aggregati e alla micro-scala dell’ambiente costruito (Giuffré, 1993, p. 10; Menoni (a cura di), 2006, p. 16); • la dimensione strutturale delle opere di difesa e la dimensione non strutturale dei princìpi organizzativi, procedurali e dei meccanismi previsionali (Grandori Guagenti, Brambilla, 1986, pp. 14-15); • la dimensione temporale ed evolutiva del sistema territoriale, per quelli che sono i suoi possibili comportamenti e trasformazioni al mutarne dell’assetto (Tira, 1997, p. 47). La vulnerabilità territoriale compendia allora congiuntamente fattori che attengono all’estensione spaziale e alla gestione di durata, predisponendo una disciplina adatta a farsi carico del complessivo bilancio e delle prospettive di danno dell’intero sistema ambientale, recuperando in definitiva la dimensione integrata dei fenomeni ambientali, con la capacità di individuare priorità e progetti da calare su contesti critici, nell’ambito di un più complesso bilancio territoriale (Grandori, 1987, p. 71). Nell’ambito della pianificazione di bacino, in Italia il tema della vulnerabilità del territorio ha assunto piena rilevanza con la stagione dei piani per l’assetto idrogeologico, avviata sull’emozione dei tragici eventi di Sarno e Soverato sul finire degli anni ’90. Tradizionalmente viene trattata a partire dall’equazione del rischio messa a punto da David J. Varnes e poi universalmente accettata dopo la pubblicazione del Rapporto dell’Unesco, Landslide hazard zonation: a review of principles and practices, a cura dello stesso autore e dell’International Association of Engineering Geology del 1984. La definizione del tutto generale di vulnerabilità che viene assunta è la seguente: grado di perdita atteso su un dato elemento o gruppi di elementi a rischio derivante da un Luca Gullì e Michele Zazzi
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potenziale fenomeno distruttivo di una data intensità. Nell’applicazione dell’equazione, se tutti i parametri fossero considerati in maniera quantitativa, la vulnerabilità si esprimerebbe con un numero compreso tra 0 (nessuna perdita) e 1 (perdita totale). Non è stato questo il caso delle esperienze italiane. La spinta ad ottenere una mappa del rischio idrogeologico in tempi brevi; la scarsità di risorse per le attività ricognitive; la difficoltà nel trovare metodologie “mature” e facilmente adattabili all’operatività del quadro italiano; l’indeterminazione complessiva nella messa a punto dell’equazione del rischio, hanno condizionato anche i modi secondo cui si è approfondita l’applicazione del parametro della vulnerabilità. Da qui l’enfasi posta sull’approfondimento di quei settori che potevano giustificare una maggiore solidità dei metodi applicati, quali la simulazione dei fenomeni mediante i modelli idrologici e idraulici e la definizione della probabilità di occorrenza degli eventi (la pericolosità). Più difficile, anche per una probabile discrasia nella selezione delle scale ottimali per l’analisi dei fenomeni, è stata la valutazione quantitativa dei fattori di vulnerabilità e degli elementi a rischio. Fattori che richiedono un approccio multidimensionale capace di integrare aspetti di natura socio-economica e che coinvolgono l‘insieme delle politiche territoriali. Nei contenuti dei piani per l’assetto idrogeologico delle autorità di bacino è generalmente dichiarato un procedimento teorico per determinare il grado di rischio connesso ad ogni evento critico che assume il seguente schema concettuale (Zazzi, 2004, pp. 115-116): • ricognizione e censimento degli elementi a rischio che insistono sulle aree di pericolosità perimetrale, al fine di definire una tipologia dei beni a rischio; • attribuzione di un valore ai beni esposti al rischio; • valutazione economica e sociale dei fenomeni accaduti ai fini della definizione del danno temuto in caso di evento calamitoso (danno potenziale); • associazione del relativo grado di vulnerabilità di ogni elemento, mediante la valutazione del livello di protezione delle strutture a rischio e della loro capacità di resistere alle sollecitazioni indotte dagli eventi; della dinamica dell’evento critico con particolare attenzione all’intensità e alla rapidità con la quale può evolversi; della disponibilità di un adeguato piano di emergenza che possa consentire l’evacuazione della popolazione a rischio. Nell’impossibilità di valutare significativamente in termini economici e sociali le tipologie di beni esposti, nonché la loro vulnerabilità, i piani hanno assunto dei criteri di semplificazione operativa basati sulla stima descrittiva dei parametri di classificazione dei fattori di valore e di vulnerabilità. Lo studio della vulnerabilità è consistito essenzialmente di due fasi complementari, trattate entrambe in maniera qualitativa: nella prima è compresa l’interazione tra il fenomeno potenzialmente distruttivo e gli elementi presenti negli ambiti di pericolosità in modo tale da definire una funzione, pur semplificata, del danno; nella seconda sono considerate le disfunzioni causate da tale danneggiamento, dirette o indirette oppure immediate o traslate nel tempo. Le funzioni di danneggiamento sono specificate per ogni tipologia di elemento (es. persone, abitazioni, infrastrutture), dipendendo evidentemente dal fenomeno in questione (tipo di frana, evento alluvionale, …). È indubbia la stretta dipendenza del concetto di vulnerabilità da una analisi di valore che richiede la conoscenza delle più rilevanti utilità specifiche dei beni esposti al rischio, non esclusivamente economiche o finanziarie. La difficoltà è aumentata dal fatto che queste utilità sono spesso difficilmente monetizzabili e in contraddizione tra di loro. Il rischio si ottiene, poi, dalla combinazione della probabilità di accadimento del prefissato evento calamitoso e del danno che possono subire gli elementi esposti all’evento stesso. Il passaggio successivo riguarda il recupero della classificazione del rischio proposto dal D.P.C.M. 29 settembre 1998, mediante l’attribuzione di una equivalenza funzionale. Si tratta, cioè, di porre a confronto un criterio di natura programmatoria, desunto dalla verifica delle destinazioni d’uso presenti negli ambiti di pericolosità, con l’individuazione a priori di categorie di beni a rischio sui quali si esplicano gli effetti attesi. Ne consegue che anche la definizione del rischio specifico e totale dipende da assunzioni ipotetiche e probabilistiche in conseguenza di giudizi di stima convenzionali formulati da esperti.
4. Interscalarità della vulnerabilità territoriale nei piani per l’assetto idrogeologico Ritornando alle questioni inerenti alla vulnerabilità, si può affermare che le esperienze promosse nell’ambito di una prima stagione della pianificazione di bacino abbiano “appiattito” il momento valutativo sulla definizione speditiva di un danno potenziale per i beni localizzati all’interno degli ambiti di pericolosità. Una prospettiva più fertile, seppur più difficile da perseguire, attribuisce al processo di valutazione della vulnerabilità territoriale, intesa come carattere che investe trasversalmente sistema naturale ed antropico alle diverse scale spaziali e in quanto fattore inscindibilmente connesso agli usi del suolo e al patrimonio edilizio, il ruolo di cornice di coerenza per ricondurre ad una minima integrazione le azioni per la difesa del suolo nel campo ampio delle
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politiche per il territorio. Inoltre, è sul tema della vulnerabilità territoriale che l’urbanista potrà esprimere appieno le proprie competenze più esclusive nell’ambito della pianificazione di bacino. Si è già detto della dipendenza della vulnerabilità (e del rischio) dalla scala spazio-temporale. Anche nei piani per l’assetto idrogeologico approntati nell’ultimo decennio, caratterizzati dalla sostanziale uniformità di comportamento dettata dalle linee guida ministeriali, è possibile riscontrare una qualche attenzione al problema di definire la vulnerabilità più opportuna in relazione alle caratteristiche – soprattutto dimensionali – dei bacini idrografici. Ad esempio, nel principale bacino italiano, l’Autorità di bacino del fiume Po introduce un procedimento di natura quali-quantitativa su base statistica per la definizione del rischio totale per i diversi tipi di dissesto idrogeologico nell’ambito di unità territoriali elementari che coincidono con i territori comunali. Oltre alla differenza di metodo è evidente il diverso presupposto concettuale rispetto alle procedure prima menzionate: si individuano categorie generali di rischio per ambito comunale che devono necessariamente essere specificate in stralci attuativi per i bacini componenti o negli strumenti di pianificazione ordinaria del territorio (in particolare i piani territoriali di coordinamento provinciale). Il diverso modus operandi prima menzionato suggerisce di articolare in più fasi il metodo di valutazione del rischio idrogeologico, specificando molteplici approcci nella definizione della vulnerabilità territoriale. Due i principali presupposti che giustificano questa scelta: i rinnovati obiettivi posti dalla normativa comunitaria, in particolare con le direttive 2000/60/CE (“Acque”) e 2070/60/CE (“Alluvioni”), che affidano ai nuovi piani direttori di bacino diversi livelli di attenzione: distretto idrografico, bacino idrografico, sottobacino, corpo idrico, regioni, province, comuni, consorzi speciali, …; l’enfasi posta dalle suddette direttive sui piani di gestione delle acque e delle alluvioni e quindi sull’esigenza di definire un livello di rischio accettabile – e non più il “rischio zero” – in termini sociali, economici e tecnici. In quest’ultimo caso è evidente il rinnovato ruolo attribuito agli interventi preventivi atti a diminuire la vulnerabilità già in essere. Una prima ricognizione dei criteri secondo cui definire le caratteristiche di ogni fase valutativa può avvenire mediante la selezione dei differenti parametri che rappresentano i fattori dell’equazione del rischio: • valutazione su base statistica (scala distrettuale, dei grandi bacini, regionale): si assegna una classe di rischio idraulico per un territorio convenzionalmente individuato (ad esempio un territorio amministrato come quello comunale) secondo una valutazione relativa delle criticità presenti a partire da una determinazione su base statistica dei fattori; • valutazione qualitativa (scala dei piccoli bacini, sub-regionale, provinciale e inter-comunale): si assegna una classe di rischio idraulico per singoli elementi, applicando l’equazione del rischio secondo combinazioni matriciali successive che implicano giudizi prevalentemente qualitativi secondo stime a punteggio. Ciò avviene sovrapponendo la carta delle aree inondabili, che individua la pericolosità idraulica presente nel territorio, alla carta degli insediamenti, delle attività antropiche e del patrimonio ambientale – gli elementi a rischio sono individuati secondo le possibili classi di danno. Si lavora soprattutto su processi di affinamento delle metodologie messe a punto nelle esperienze in corso; • valutazione quantitativa (scala locale): si vuole arrivare ad una valutazione diretta in termini quantitativi dei fattori che compongono l’equazione del rischio per ogni elemento presente, al fine di proporre soluzioni operative per i processi di mitigazione del rischio da recepire negli strumenti di pianificazione degli usi del suolo che regolano i rapporti pubblico-privati. L’approccio statistico del primo caso implica una misurazione della vulnerabilità che utilizza indicatori elaborati per ambiti territoriali di cui si dispongono basi di dati generalizzate. I dati ISTAT alla scala comunale costituiscono un utile riferimento. Limitandoci alla vulnerabilità del patrimonio edilizio, potrebbe essere individuato un indicatore di vulnerabilità in funzione del grado di utilizzazione e del grado di conservazione degli edifici, utilizzando come fattori correttivi l’epoca di costruzione e la presenza di piani interrati (riguardo alla misura del rischio idraulico). L’approccio qualitativo propone di attribuire direttamente ai beni esposti un livello di vulnerabilità al fine di determinare un danno potenziale di natura economica (estetico, funzionale, strutturale) e sociale. Nel primo caso il danno è funzione diretta della vulnerabilità specifica delle classi di beni e dell’intensità del fenomeno che genera pericolosità. Nel secondo occorre considerare l’effetto sulle persone e una probabilità di essere interessati dal fenomeno in rapporto al tempo di permanenza e di evacuazione nell’ambito di pericolosità. La considerazione di una vulnerabilità per classi di beni esposti non permette una valutazione quantitativa, assicurando solo una più dettagliata previsione della valutazione qualitativa già espressa in maniera ancor più aggregata su base statistica. L’approccio quantitativo obbliga a considerare il rischio in un dato ambito di pericolosità mediante la sommatoria di valori monetari esposti (o comunque riportando il dato ad una sola grandezza misurabile). In questo caso ancora si può operare con funzioni di riferimento che mettono in relazione alcuni parametri rilevanti atti a rappresentare la produzione del danno riconoscendo proprietà attribuibili ai singoli elementi esposti (ad esempio, sempre nel caso di inondazione, verificando il numero di luci di un edificio al di sotto del tirante idrico di una piena di riferimento). Più analiticamente, si può operare definendo i costi di ripristino per i differenti eventi probabilistici, utilmente confrontati con casi-campione di accadimenti reali avvenuti in passato.
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Tra gli sviluppi di una procedura siffatta, possiamo indicarne due, che sembrano, al momento attuale, configurare un campo di sperimentazione ancora poco esplorato nel nostro contesto nazionale e che richiedono una mirata attività di valutazione delle compensazioni economiche e del valore del capitale socio-territoriale presente: • la predisposizione di un meccanismo di perequazione territoriale generalizzata e orientata a favorire operazioni di riconversione e delocalizzazione di insediamenti in contesti particolarmente critici; • la messa a punto di un mirato sistema di difese assicurative dal rischio idraulico e da frana, con parametri calibrati per valutare danni fisici e sociali, alla scala locale o comunale, su beni pubblici o privati.
5. Conclusioni Nella tradizionale tripartizione della misura del rischio (pericolosità, valore esposto, vulnerabilità), la valutazione della vulnerabilità può svolgere un ruolo determinante nel collegare in maniera efficace le scelte di regolazione urbanistica e le misure di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio. Il recente riordinamento, in gran parte ancora in fieri, della pianificazione di bacino in pianificazione di distretto idrografico (D.Lgs. 152/2006 e s.m.i.) apre interessanti scenari di azione sul ruolo “interscalare” (spaziale e temporale) di tali valutazioni. Per l’urbanista appare allora di particolare interesse la verifica del ruolo che può svolgere il piano direttore di distretto nei confronti della pianificazione dei bacini locali ma ancor di più per la pianificazione territoriale provinciale e urbanistica comunale. L’indagine sulle previsioni di danno potenziale per il capitale socio-territoriale esposto diventa così una tappa ineludibile del processo che può portare alla trasformazione di tale pianificazione di settore verso una più matura assunzione dei problemi propri del governo dei bacini idrografici. In questo facilitando quella transizione, ancora solo abbozzata, che vede gli strumenti di pianificazione dei bacini idrografici oscillare tra le dimensioni conflittuali ed inconciliabili della “superiore” ragione tecnica e le esigenze di partecipazione alle decisioni finalizzate all’ottenimento del consenso sociale. L’assunzione del tema della vulnerabilità del sistema territoriale e del suo patrimonio fisico-sociale come uno dei criteri-guida nella messa a punto dei piani urbanistici, potrebbe dare continuità e coerenza applicativa a politiche, regole e programmi di intervento che nel passaggio dalle prescrizioni del sovraordinato piano settoriale hanno spesso visto perdere gran parte della propria efficacia.
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Drenaggio urbano sostenibile e pianificazione urbanistica
Drenaggio urbano sostenibile e pianificazione urbanistica Antonio Acierno Università degli Studi Federico II di Napoli Dipartimento di Conservazione dei Beni Architettonici ed Ambientali Facoltà di Architettura, Email: anaciern@unina.it Tel. 081.2538853
Abstract Di fronte ai danni provocati dalle recenti alluvioni, legate ai cambiamenti climatici, la pianificazione urbanistica e territoriale mostra ancora un debole ancoraggio alle pratiche innovative che trattano la risorsa acqua. La pianificazione urbanistica deve accelerare i processi di “internalizzazione” delle pratiche virtuose di resilienza urbana, inserendo le metodologie e le indicazioni del drenaggio urbano sostenibile, SuDS (Sustainable urban Drainage System), nella costruzione del piano, nelle normative e nella gestione. Il SuDS va coniugato alle molteplici istanze di progetto della città e del paesaggio, inserendolo nel più ampio contesto delle “infrastrutture verdi”, superando la frammentazione della pianificazione settoriale e il conflitto pianificazione locale/pianificazione comprensoriale. L’esperienza di ricerca sul caso studio della zona orientale di Napoli invita a riflettere sulla complessità del rischio idraulico connesso alla dismissione di attività industriale nelle aree urbane.
1. Cambiamenti climatici, rischio idraulico e drenaggio sostenibile Il territorio del nostro Paese è ripetutamente scenario di eventi calamitosi con conseguenze spesso tragiche per la perdita di vite umane oltre che per i danni materiali arrecati alle risorse e ai paesaggi naturali. Tra questi stanno assumendo particolare interesse, per la frequenza e periodicità, le concentrazioni di piogge nei primi mesi autunnali e talvolta in quelli precedenti l’estate. Si tratta di fenomeni dal carattere eccezionale che tendono a concentrarsi in brevi intervalli di tempo amplificando l’intensità degli effetti, mettendo in crisi i tradizionali sistemi di drenaggio delle aree urbane. La causa di queste anomalie è spesso riconosciuta nel cambiamento climatico in atto sul nostro pianeta, tuttavia l’interpretazione è controversa, in quanto gli esperti non sono tutti concordi nell’affermare che questo sia pienamente e scientificamente provabile (rapporto IPPC 2007). In particolare, guardando al territorio italiano e campano, non si può asserire che vi sia in atto una tropicalizzazione del clima, sebbene è indubbia la constatazione dell’intensificarsi di piogge concentrate in intervalli di tempo molto brevi negli ultimi venti anni. Dal confronto dei dati pluviometrici raccolti su periodi lunghi, di alcuni decenni, è possibile riscontrare che le quantità annuali restano pressoché invariate, mentre quello che sembra differire e il numero di fenomeni eccezionali 1. Causa di questa concentrazione di piogge è l’innalzamento della temperatura del pianeta che spesso trasforma le precipitazioni, che in altre condizioni avrebbero anche carattere nevoso attenuandone gli impatti, in alluvioni devastanti sul territorio; esiste pertanto un’evidenza empirica del cambiamento delle dinamiche climatiche in atto. Tali fenomeni associati alle evidenti fragilità della struttura urbana, derivate dall’inadeguato uso del suolo, pongono l’urgenza di definire e ricercare soluzioni che attengono non solo la sfera tecnica ma anche quella economica e sociale, connesse alla definizione di strumenti di piano e politiche di governo del territorio efficaci rispetto alla pressante domanda sociale di sicurezza.
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Da dati e rapporti dell’Osservatorio Meteorologico Federiciano - Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi Federico II di Napoli (www.meteo.unina.it)
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Su questa problematica si è concentrata l’attenzione internazionale e nazionale da diversi anni e i rapporti, le ricerche, le sperimentazioni stanno producendo un’ampia letteratura in merito 2 (TCPA 2008, Gambino 2009, CABE 2009, Davies C. et al. 2006, Mell 2008, Peraboni C. 2011). Dal punto di vista tecnico, è da ormai qualche anno che si reclama la necessità di adottare, in aggiunta ai sistemi tradizionali impiantistici, modalità di drenaggio sostenibile, per aumentare la resilienza degli spazi urbanizzati, e la pianificazione urbanistica e territoriale italiana si sta lentamente adeguando a questo principio, in maniera diversificata secondo le sensibilità e le innovazioni delle relative leggi urbanistiche regionali 3. A livello internazionale, la consapevolezza delle inefficienze dei sistemi di drenaggio tradizionale ha condotto a rivedere completamente il progetto dello smaltimento delle acque meteoriche, introducendo nelle aree urbanizzate invasi multifunzionali e sistemi di retrofitting urbano (vasche di ritenzione e infiltrazione, stagni, canali inerbiti, trincee e fossi di infiltrazione, pozzi perdenti, pavimentazioni permeabili, tetti verdi, ecc.). Le prime sperimentazioni sono state avviate negli USA, nel Regno Unito e in Olanda e vanno sotto la denominazione di SuDS (Sustainable urban Drainage System) o BMPs (Best Management Practices) con la redazione di manuali e linee guida 4. Le pratiche del SuDS/ BMPs sono inoltre state incorporate all’interno di un approccio alla pianificazione del territorio che tiene insieme questioni ambientali, ricucitura dei tessuti periurbani e progettazione degli spazi verdi in città che punta l’attenzione sulla progettazione delle “infrastrutture verdi”. Le green infrastructures, complementari alle tradizionali “infrastrutture grigie” (strade, ferrovie, fognature, acquedotti, reti energetiche e cablate), rappresentano una “rete di reti” diversificate, con funzioni ecologiche, fruitive, produttive agricole, di salvaguardia del patrimonio culturale. Sorte concettualmente alla metà degli anni ‘90 negli USA come evoluzione della rete ecologica, sono diventate una struttura più complessa, sulla consapevolezza delle difficoltà nel creare corridoi ecologici in prossimità e all’interno delle aree urbane. Pertanto, hanno assunto un carattere multifunzionale, soprattutto nella versione europea sviluppatasi in UK che ne costruire la rete ecologica e paesaggistica, esalta la produttività dei territori agricoli, integra gli insediamenti diffusi con attrezzature e spazi pubblici e difende i suoli dal rischio idraulico. L’approccio del “green infrastructure thinking”, è diventato in UK dalla seconda metà del decennio scorso, un tema strategico portante del planning, e si sta diffondendo con manuali e linee guida reclamando il suo inserimento in tutti i livelli della pianificazione.
2. Questioni tematiche e il caso studio dell’area orientale di Napoli Si propongono alcune riflessioni sulla tema, scegliendo di discuterne, considerata la limitatezza dello spazio a disposizione, facendo riferimento direttamente ad un caso studio in corso di sviluppo all’interno di un gruppo di ricerca presso l’Ateneo Federico II di Napoli 5, proponendo le questioni di carattere generali e descrivendo in parallelo i caratteri del caso studio, al fine di far emergere riflessioni utili al dibattito disciplinare. Il territorio oggetto della ricerca è costituito dall’area orientale di Napoli, attualmente parzialmente dismessa e caratterizzata dalla presenza di vasti capannoni industriali e depositi di carburante di proprietà della Q8 e della Esso. Si tratta di un’area di particolare complessità essendo un SIN (Sito di Interesse Nazionale) con priorità di bonifica di suoli e delle acque contaminate a causa delle attività industriali insediatesi a partire dal secondo dopoguerra, e soprattutto di raffinerie e depositi di idrocarburi. Attualmente l’area non è completamente dismessa e non può essere definita un “vuoto urbano” poiché le dismissioni interessano solo alcuni edifici ed è già in corso da qualche anno un processo di riconversione dei vecchi capannoni in nuove funzioni miste residenziale-terziario e/o ricettivo. Storicamente l’area ha sperimentato una radicale trasformazione con l’industrializzazione recente, che ne ha completamente convertito l’uso da agricolo a industriale e, in seguito, anche residenziale con la costruzione di 2
Si suggerisce, per sintesi, il lavoro di sistematizzazione delle principali iniziative intraprese dale istituzioni internazionali e nazionali nello “Studio conoscitivo sulla gestione della risorsa idrica nelle aree urbanizzate” svolto in collaborazione dall’Autorità di Bacino del Friuli Venezia Giulia e il Dipartimento di Ingegneria Civile dell’università degli studi di Udine. 3 In particolare la regione Veneto, per evidenti caratteristiche del proprio territorio interessato più di altre dai fenomeni di inondazione, ha introdotto strumenti e politiche innovativi, guardando anche alle migliori esperienze europee, come quella dell’Olanda (cfr. Spiazzi A.M., Zucconi G., 2004, La memoria dell’acqua, conoscenza e valorizzazione dei sistemi idrici nel paesaggio veneto). 4 Cfr. per esempio la Green Infrastructure Guidance redatta da Natural England (http://www.naturalengland.org.uk/). Si consultino, inoltre, i siti http://www.ciria.com/suds/; http://www.irishsuds.com/; http://geoservergisweb2.hrwallingford.co.uk/uksd/ ; http://www.nyc.gov/html/dep/html/stormwater/ 5 Il lavoro che si intende presentare fa parte della ricerca F.A.R.O. (Finanziamenti per l'Avvio di Ricerche Originali), denominata “Spazi aperti urbani resilienti alle acque meteoriche in regime di cambiamenti climatici” che vede impegnati un considerevole team multidisciplinare di ricercatori (urbanisti, architetti, progettisti urbani, tecnologi, geologi, ingegneri idraulici, agronomi). Tra gli obiettivi della ricerca, quello di individuare linee concrete di azione per migliorare le performance della pianificazione urbanistica, nella particolare prospettiva della resilienza degli spazi aperti urbani. Antonio Acierno
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vasti quartieri di edilizia economica e popolare. L’area è stata sempre occupata da zone paludose che hanno impedito fino agli inizi del Novecento lo sviluppo della città ad oriente, preservando i suoli in un delicato equilibrio con la risorsa acqua (Figura 1). A partire dagli anni ’90 si sono accentuati i fenomeni di allagamento di scantinati e delle linee ferrate sotterranee, problematiche che interessano anche altri comuni limitrofi compresi nell’ambito orientale del bacino idrografico dei Regi Lagni. Questa problematica si cumula con quelle già gravi della necessità della bonifica dell’ex area industriale e della forte densità abitativa delle aree circostanti, caratterizzate dalla presenza di vasti insediamenti edilizia residenziale popolare pubblica e di un fitta rete infrastrutturale di trasporto che frammenta il territorio. Quindi, i problemi da affrontare sull’area studio riguardano la bonifica ambientale, il riassetto infrastrutturale e insediativo, la prevenzione del rischio idraulico, il recupero delle acque e la dotazione di attrezzature, in particolare di spazi a verde. La ricerca, nell’ambito di competenza personale, è finalizzata ad individuare strategie e dispositivi per migliorare il rapporto tra urbanistica e rischio idraulico, e più in generale le performance della pianificazione urbanistica rispetto alla gestione delle acque meteoriche in un’ottica di resilienza urbana degli spazi aperti urbani. Nei paragrafi successivi si introdurranno alcune domande di partenza e i resoconti parziali della ricerca in corso circa tre questioni fondamentali: • rapporto pianificazione urbanistica e settoriale nella gestione di rischio idraulico/sviluppo urbano • le tecniche di drenaggio urbano sostenibile inserite nel più ampio tema delle infrastrutture verdi • la sovrapposizione del rischio idraulico, connesso al cambiamento climatico, alla dismissione di attività industriali nelle aree fortemente urbanizzate
Carta dei Dintorni di Napoli 1836-40
IGM 1907-13
Carta IGM 1957 CTR 2004 Figura 1. Evoluzione storica nella zona orientale di Napoli: il reticolo idrografico è stato cancellato dagli insediamenti prevalentemente industriali
3. Ruolo della pianificazione e la molteplicità/conflitto degli strumenti Antonio Acierno
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Di fronte alla tematica del rischio idraulico come si pongono la pianificazione e il governo del territorio? Il rischio idraulico è prevalentemente oggetto di attenzione dell’ente preposto alla difesa del suolo (Autorità di Bacino), che mediante appositi piani settoriali (P.A.I. e Piani di Bacino), redatti alla scala territoriale, indirizzano i piani urbanistici. A questi si aggiunge quello predisposto dalla Protezione Civile per le emergenze in caso di calamità naturale, unitamente ad una attività diffusa di prevenzione. Gli indirizzi di tali piani chiamano frequentemente in causa la pianificazione urbanistica quale strategia di prevenzione dei rischi al fine di predisporre usi del suolo compatibili mediante normative di riqualificazione urbana, inseriti in un più ampio quadro di sostenibilità delle trasformazioni, tuttavia nelle pratiche della pianificazione comunale si riscontra una scarsa adozione dei principi del drenaggio sostenibile. Si evidenzia, pertanto, una prima questione: il debole ancoraggio della pianificazione ordinaria alle indicazioni della pianificazione settoriale e delle pratiche tecniche innovative sulla gestione delle acque meteoriche. Inoltre, si associa un’altra questione direttamente collegata alla precedente, ovvero la proliferazione di strumenti pianificatori della risorsa acqua, che spesso si sovrappongono e talvolta confliggono determinando limitazioni al miglioramento delle condizioni di sostenibilità delle aree urbane. Sul caso studio sono stati presi in considerazione i piani urbanistici e quelli settoriali che s’interessano dell’acqua valutando per i primi l’attenzione rivolta al tema del rischio idraulico e alla sostenibilità delle risorsa nelle aree urbane, e per i secondi i rapporti delle prescrizioni e delle indicazioni contenute rispetto agli esiti sulla pianificazione del territorio. Relativamente ai piani urbanistici, territoriali e locali, sull’area esistono una serie di strumenti, approvati o in corso di approvazione, previsti dalla recente legge urbanistica regionale n. 16/2004, unitamente alla Variante al PRG vigente che è stata predisposta secondo la precedente LUR 14/82 molto prossima al vecchio dettato normativo della legge quadro nazionale 1150/42. In dettaglio, i piani alla scala vasta sono il PTR (Piano Territoriale Regionale) approvato nel 2009 e il PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento) adottato nel 2008 attualmente in fase di approvazione. Il PTR, dato il carattere programmatico strategico derivante dalla vastità del territorio, pur dedicando una parte significativa alle linee guida per il paesaggio, mostra un’attenzione rivolta più alle componenti culturali ed ambientali in una prospettiva percettiva da indirizzare verso politiche di sviluppo, e restano marginali le indicazioni e direttive per la difesa del suolo e delle acque. Il PTCP non mostra particolare attenzione alla gestione dei rischi, pur riconoscendone l’importanza per il territorio in cui sono presenti in maniera plurima (sismico, vulcanico, idrogeologico, industriale), rimandando in sostanza ai contenuti dei piani delle Autorità di Bacino, e non inserendo la mitigazione dei rischi tra i quattro assi strategici del piano. Ne derivano proposte strutturali per la creazione di una rete ecologica e di infrastrutture ambientali volte alla valorizzazione del paesaggio in chiave prevalentemente turistica.
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Drenaggio urbano sostenibile e pianificazione urbanistica
Figura 2. Il Preliminare di PUA dell’Ambito 13 nella zona orientale di Napoli Alla scala comunale, lo strumento in vigore è fortemente ancorato al modello della pianificazione derivato dalla legge quadro nazionale del ’42, e pertanto utilizza il linguaggio delle zone ex D.I. 1444/68, con una valenza giuridico prescrittiva delle destinazioni di uso, e soprattutto confinato entro il limite amministrativo comunale che cancella qualsiasi approccio di rete, che risulta al contrario necessario e prioritario quando si trattano materie come l’ambiente e la risorsa acqua. L’area orientale nella Variante al PRG vigente è indicata come area di riqualificazione, e il piano prevede la realizzazione di un grande parco urbano centrale corredato di attrezzature e la nuova edificazione di insediamenti per beni e servizi e una modesta percentuale residenziale. Su una porzione significativamente vasta di essa è stato approvato un Preliminare di PUA 6 (Piano Urbanistico Attuativo) per l’Ambito 13 (figura 2) che traduce in dettagli progettuali le destinazioni dello strumento urbanistico comunale, e rappresenta una sperimentazione molto interessante di tecniche di riqualificazione ambientale in una ex area industriale dismessa, dedicando particolare attenzione al recupero e alla gestione delle acque meteoriche in un’ottica di sostenibilità. Passando in rassegna i piani settoriali interessanti le risorse suolo ed acqua, si constata la condizione di proliferazione prima accennata: Piano Stralcio di Assetto Idrogeologico aggiornato nel 2010 e il redigendo Piano di Tutela del suolo e delle acque stilati dall’Autorità di Bacino, il Piano di Tutela delle Acque della Regione Campania redatto in attuazione del D.lgs. 152/99 adottato nel 2007, il Piano dell’ATO (Ambito Territoriale Ottimale) n. 2 adottato nel 2002, il Piano del Consorzio di Bonifica delle paludi di Napoli e Volla. Senza entrare nei dettagli, nella ristrettezza dello spazio disponibile, si evidenzia come le azioni previste in ciascuno di questi piani, che s’interessano della stessa risorsa da punti di vista differenti e per scopi diversi, tengono in limitata considerazione i contenuti degli altri se non talora li ignorano del tutto. Se si analizza, poi, il coordinamento dei contenuti dei piani settoriali con quelli dei piani urbanistici, si constatano deboli richiami confinati entro retoriche programmatiche e di principio.
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Gli elaborati del piano sono scaricabili dai siti web del comune di Napoli e della Società Napoli Orientale (www.napoliorientale.it/)
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4. L’innalzamento della falda nell’area orientale di Napoli L’area di studio presenta un’ulteriore difficoltà che complica la ricerca di soluzioni ai problemi connessi al rischio idraulico derivanti dalle intense concentrazioni di piogge, dovute ai cambiamenti climatici, che, superato l’approccio esclusivamente ingegneristico delle reti di smaltimento (infrastrutture grigie), si sono rivolte a soluzioni integrate con l’ambiente (infrastrutture verdi). Nell’approccio di queste ultime si è andata consolidando l’adozione del concetto di permeabilità dei suoli, diffusamente applicato, che dovrebbe favorire il drenaggio naturale e ridurre le quantità di acqua di run off che scorre lungo le superfici impermeabili (asfalto, pavimentazioni, tetti, ecc.) trasformandosi in fiumi urbani che determinano l’innalzamento della pericolosità e provocano danni a beni e persone. Tuttavia, come dimostra il caso dell’area Est di Napoli, questo principio non è sempre applicabile e bisogna tener conto delle condizioni locali. Infatti, la zona è interessata da circa venti anni da un innalzamento della falda sotterranea che sta riaffiorando in numerose parti tanto da far ipotizzare quasi la riemersione del vecchio fiume Sebeto di Napoli (Brillante B., 2000). Nel corso degli anni ’90 nella zona orientale si sono registrati numerosi fenomeni di allagamento di scantinati e linee ferroviarie sotterranee, anche non in coincidenza di elevate precipitazioni, che hanno determinato seri problemi alla statica di alcuni fabbricati e hanno destato particolare preoccupazione negli uffici tecnici competenti del comune di Napoli. L’indagine approfondita sul problema è stato, quindi oggetto di una convenzione nel 2001 tra il Comune di Napoli e il C.U.G.Ri. (Consorzio inter-Universitario per la previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi) per interpretare scientificamente il fenomeno 7. Le analisi hanno riguardato l’evoluzione dei fattori naturali ed antropici nell’area, cercando di individuare le cause dell’accertato innalzamento della falda. Questa area pianeggiante del territorio napoletano fa parte della più estesa Piana di Volla che va dal tessuto di Lufrano fino al mare ed è delimitato ad est dal Vesuvio e dalle colline orientali ad ovest, ed è caratterizzata dalla presenza di un’unica falda freatica che sfocia a mare a livello profondi e non chiaramente noti. Il gruppo di ricerca ha comparato i valori delle quote piezometriche della falda in un arco temporale significativo che va dal 1921 al 2000 affinché i dati avessero un significato statistico attendibile cercando di ricostruire la dinamica di innalzamento o depressione della falda (Figura 3). In sintesi questi studi hanno permesso di identificare le cause dell’innalzamento della falda riconducibili alle attività antropiche, ed in particolare alla dismissione dei forti emungimenti attuati dal secondo dopoguerra con lo sviluppo industriale dell’area mentre sono state escluse cause naturali, poiché dall’analisi storica dei dati pluviometrici non si è riscontrato un aumento delle piogge che abbia potuto sovralimentare la falda. Né tantomeno la realizzazione di linee ferrate sotterranee e delle palificate a protezione delle fondazioni degli edifici, soprattutto nell’area del Centro Direzionale costruito a cavallo degli anni ‘80 e ’90, è stata considerata barriera al normale deflusso della falda tale da determinare innalzamenti localizzati. Quindi, la riduzione o l’arresto dei prelievi di molte attività industriali nell’area è stata la causa dell’innalzamento della falda a partire dagli anni ’90 fino a stabilizzarsi alla fine del decennio, raggiungendo i suoi limiti naturali, ovvero quelli dei primi decenni del secolo scorso prima dell’industrializzazione dell’area. L’innalzamento della falda nella zona orientale di Napoli dimostra come le questioni legate al rischio idraulico siano da affrontare con particolare attenzione e da valutare secondo i contesti storico-ambientali, senza fornire ricette precostituite in termini di regolazione di uso dello spazio e soprattutto di permeabilizzazione diffusa delle superfici. Si pone in evidenza come le problematiche connesse alla gestione del rischio idraulico amplificato dai fenomeni di piogge eccezionali, si complicano notevolmente nelle aree urbane, non solo per la difficoltà, operativa e finanziaria, a realizzare interventi di retrofitting urbano in chiave di drenaggio sostenibile, ma anche perché la dismissione di attività produttive con forti emungimenti dalle falde sta “rinaturalizzando” territori precedentemente occupati dalle acque le quali riaffiorano invadendo spazi occupati negli ultimi cinquant’anni da fondazioni, tunnel, metropolitane, ecc. Si rende pertanto necessario ripensare ad un nuovo rapporto di equilibrio tra acqua di superficie e falda in uno strato permeabile che è stato invaso negli anni dai manufatti ed attività antropiche.
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Da A. Corniello, D. Ducci, O. Catapano, G.M. Monti (2003), Variazioni piezometriche nella zona orientale della città di Napoli, Quaderni di Geologia Applicata, 10 - 2(2003)
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Piezometrica 1924
Piezometrica 1992
Il grafico mostra come dal 2000 ad oggi il sollevamento della falda sembra essersi arrestato, attestandosi pressapoco sui valori della falda preindustriali
Piezometrica 2001 Figura 3. Evoluzione della falda dal 1924 al 2001. La quota attuale, stabile dal 2001, ha ripristinato i valori precedenti all’industrializzazione dell’area.
5. Conclusioni Le domande poste alla base della ricerca, che hanno condotto ad un duplice canale di approfondimento, l’uno rivolto alla pianificazione urbanistica e settoriale presenti nell’area orientale di Napoli, e l’altro all’esplorazione di best practices internazionali (SuDS/BMPs e Green Infrastructures), evidenziano alcune debolezze del sistema pianificatorio urbanistico/settoriale italiano e campano, e suggeriscono l’internalizzazione dell’approccio drenaggio sostenibile/infrastrutture verdi nella pianificazione. Si sintetizzano le principali riflessioni, sottolineando: - lo scarso coordinamento tra le pianificazioni settoriali e la pianificazione urbanistica e territoriale, che si riduce a suggerimenti normativi ma non riesce a caratterizzare ambientalmente i piani locali - la persistenza di un conflitto tra pianificazione comunale, spesso ancorata ancora ai modelli prescrittivoregolativi conformativi dell’uso del suolo, e la pianificazione comprensoriale sovraordinata, soprattutto di quelle forme di pianificazione parallela di tutela (piani di bacino, piani dei parchi, piani paesaggistici) sorte Antonio Acierno
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tra la fine degli anni ’80 e ’90 che meglio si adattano alle nuove istanze ambientali e richiedono una visione più ampia fondata sulle reti la sperimentazione a livello attuativo di buone pratiche di progettazione sostenibile, come quella del Preliminare di PUA dell’Ambito 13, rischiano di essere vanificate se non inserite in un’ottica di rete le tecniche di drenaggio sostenibile per affrontare in maniera innovativa il rischio idraulico non possono essere adottate indistintamente sul territorio ma, come mostra il caso delle ex aree industriali dismesse in zone urbane, vanno calibrate rispetto alle specificità della storia insediativa dei siti il “green infrastructures thinking”, come si sta tentando in altri paesi, deve entrare quale principio guida nella pianificazione urbanistica e territoriale, con la consapevolezza dei costi e dei necessari investimenti pubblici, alla pari delle infrastrutture grigie
In sintesi, la pianificazione urbanistica deve accelerare i processi di “internalizzazione” delle pratiche virtuose di resilienza urbana, inserendo le metodologie e le indicazioni del drenaggio urbano sostenibile, nella costruzione del piano, nelle normative e nella gestione. Il SuDS, inoltre, va coniugato alle molteplici istanze di progetto della città e del paesaggio contemporanei, inserendolo nel più ampio contesto delle infrastrutture verdi.
Bibliografia Libri Bruno B. (2000), Sebeto. Storia e mito di un fiume, Massa Editore, Napoli. CABE – Commission for Architecture and the Built Environment (2010), Urban green nation: building the evidence case, CABE, London . Davies C., MacFarlane R., McGloin R., Roe M. (2006), Green Infrastructures. Planning Guide Project, English Nature, Northeast Community Forest. IPCC (2007), Climate Change 2007: Synthesis Report. Contribution of Working Groups I, II and III to the fourth assessment, IPCC, Geneva, Switzerland NEP – Natural England Planning (2009), Natural England’s Green Infrastructure, Natural England, Sheffield Peraboni C. (2011), Reti ecologiche e infrastrutture verdi, Maggioli Editore, Milano. Spiazzi A.M., Zucconi G. (2004), La memoria dell’acqua, conoscenza e valorizzazione dei sistemi idrici nel paesaggio veneto, Unipress, Padova. Town & Country Planning Assiciation (2008), The essential role of green infrastructures: eco-towns green infrastructures worksheet, TCPA, London. Turner T. (1996), City as a landscape, E&FN Spon, London. Articoli Corniello A., Ducci D., Catapano O., Monti G.M. (2003), “Variazioni piezometriche nella zona orientale della città di Napoli”, Quaderni di Geologia Applicata, 10 - 2(2003). Gambino R. (2009), “Parchi e paesaggi d’Europa. Un programma di ricerca territoriale”, Lectio Magistralis di apertura dell’a.a., 8 ottobre 2009, Politecnico di Torino. Mell Ian (2008), “Green Infrastructures; concept and planning”, FORUM Ejournal, 8 (june), pp. 69-90, Newcastle University.
Siti web http://www.ciria.com/suds/ http://www.irishsuds.com/ http://geoservergisweb2.hrwallingford.co.uk/uksd/ http://www.nyc.gov/html/dep/html/stormwater/ http://www.naturalengland.org.uk/ http://www.napoliorientale.it/
Riconoscimenti Si ringraziano i proff. Alfonso Corniello e Daniela Ducci per la documentazione fornitami circa gli studi sull’innalzamento della falda nella zona orientale di Napoli
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Towards an “Ecological Airport Urbanism”
Towards an “Ecological Airport Urbanism” Indagini e scenari per l’aeroporto di Venezia Laura Cipriani Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ambientale Università degli Studi di Trento Email: lauracipriani@post.harvard.edu Tel/fax +39.329.0926376
Abstract Gli aeroporti hanno un sempre più importante ruolo nello sviluppo del territorio. Le infrastrutture aeroportuali divengono un catalizzatore di crescita urbana non solo per le aree circostanti limitrofe, immediatamente coinvolte nel processo di trasformazione, ma spesso guidano espansioni territoriali future. Infrastrutture di tale portata sono opere pubbliche di utilità collettiva, ma che comportano effetti gravanti in particolar modo per le comunità direttamente coinvolte, modificando la struttura sociale, l’economia, e soprattutto, la qualità ambientale del luogo in cui sorgono. Questo intervento intende presentare i primi risultati di ricerca relativamente alle infrastrutture aeroportuali del Nordest d’Italia in relazione alle dinamiche di trasformazione del paesaggio. Particolare attenzione verrà rivolta allo studio dell’aeroporto di Venezia, individuando rischi ambientali e scenari indotti dai pressanti effetti del cambiamento climatico.
Ecological Airport Urbanism L’aeroporto solitamente per natura, uso, forma, dimensione, è spesso considerato uno spazio estraneo al paesaggio, difficilmente integrabile al contesto. Sebbene le infrastrutture aeroportuali abbiano un sempre più importante ruolo nello sviluppo del territorio, esse modificano sensibilmente non solo la fisionomia ma anche la struttura sociale, l’economia, la qualità ambientale del luogo in cui insistono. Se gli impatti acustici indotti dalla movimentazione aerea sono una delle problematiche ambientali predominanti e fonte spesso di grande conflittualità con le comunità locali, molti altri effetti si manifestano sul territorio. Inquinamento atmosferico, impermeabilità dei terreni, contaminazione idrica, riduzione della biodiversità, consumo di suolo legato ai fenomeni di urbanizzazione favoriti dalla presenza delle strutture aeroportuali, sono tutte questioni fondamentali del tempo presente che necessitano di essere affrontate al fine di valutare rischi e benefici, definendo strumenti operativi mirati alla gestione del territorio ed individuando alcune possibili strategie progettuali di intervento. Cosa si intende per “Ecological Airport Urbanism”? E’ possibile integrare paesaggio ed infrastrutture aeroportuali secondo criteri ecologici? Come inserire l’aeroporto al contesto in cui sorge? Quali dispositivi progettuali utilizzare? Come coniugare le necessità tecnologiche attuali con inaspettate nuove funzioni per il futuro? Il lavoro qui presentato deve intendersi come un primo tassello di ricerca sul sistema aeroportuale del Nordest d’Italia in relazione alle dinamiche di trasformazione del paesaggio attualmente in atto. Particolare attenzione verrà rivolta allo studio dell’aeroporto di Venezia, individuando rischi ambientali e scenari indotti dai pressanti effetti del cambiamento climatico. Documenti storici ed accurate cartografie tematiche evidenzieranno i conflitti emergenti attorno lo scalo e i possibili scenari futuri a breve, medio e lungo termine. L’intento del lavoro è sviluppare una metodologia che orienti la pianificazione e progettazione di un sistema aeroportuale “ecologico”, indicando infine possibili scenari alternativi di sviluppo nelle diverse scale di intervento.
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“Ecological Airport Urbanism” non intende descrivere una situazione presente (quali aeroporti, in realtà, possono essere definiti “ecologici”?), quanto piuttosto una condizione a cui è doveroso oggi tendere. L’aggettivo “ecological” include una serie di questioni irrisolte di come (e se) possiamo ripensare le infrastrutture aeroportuali da un punto di vista urbanistico ma soprattutto paesaggistico-ambientale. In un’epoca dominata dall’incertezza, le infrastrutture devono essere ripensate non solo per accomodare funzioni tecnologiche odierne o necessità contingenti, ma devono essere concepite per un eventuale ri-uso futuro, dando vita ad una vera e propria modalità di re-invenzione del paesaggio e divenendo così il terreno fertile dell’inaspettato.
A quale territorio e a quali confini corrisponde il Nordest aeroportuale? A quale territorio e a quali confini facciamo riferimento quando si parla del Nordest in relazione ai suoi aeroporti? Questo studio nasce dall’identificazione di due Nordest aeroportuali distinti: da un lato, il sistema di pianura dove gli aeroporti principali insistono lungo la direttrice dell’autostrada A4; dall’altro, il sistema alpino dove gli scali si dispiegano lungo l’asse autostradale A22, estendendosi oltre i confini nazionali (Fig. 1). Non ci si può riferire ad un confine prestabilito quanto piuttosto a “sistemi aeroportuali multipli” ben precisi (de Neufville & Odoni, 2003), ossia macro-regioni dove gli aeroporti serviti dal servizio di trasporto aereo dipendono dalla loro collocazione geografica piuttosto che da un controllo esclusivamente politicoamministrativo.
Figura 1. A cosa facciamo riferimento quando si parla del territorio Nordest in relazione ai suoi aeroporti? Questa immagine individua le due macro-regioni del Nordest a cui si è fatto riferimento nella ricerca. Elaborazione dell’autore. Questa partizione – sebbene sommaria – nasce dal riconoscimento che i rispettivi bacini attrattivi degli aeroporti principali sono in stretta relazione ai sistemi infrastrutturali carrabili e ferroviari. Inoltre, la conformazione fisica del territorio su cui insistono le infrastrutture aeroportuali, e da cui anche dipende l’operatività aerea, l’una in pianura e l’altra in ambito alpino, sono radicalmente differenti e come tali richiedono uno studio distinto. La ricerca, dopo aver illustrato le specificità che contraddistinguono la situazione aeroportuale italiana, ha inteso comporre una sorta di atlante ricognitivo degli aeroporti principali e secondari presenti nel territorio, definendo caratteristiche, problematicità e potenzialità delle strutture in esame, proponendo, infine, possibili scenari di trasformazione territoriale a scala locale e a scala interregionale di breve e lungo periodo. In questo territorio sussistono una molteplicità di strutture aeroportuali di diverso livello – dai poli principali di Venezia-Tessera e Verona, agli aeroporti di Treviso, Bolzano, Trento, Ronchi dei Legionari, fino alla miriade di aviosuperfici diffuse nella quasi totalità del territorio – ad oggi ancora non organizzate secondo un coerente piano nazionale prima, ed interregionale poi. Per molto tempo la mancanza di specifici piani per le infrastrutture aeroportuali non ha permesso, infatti, una visione strategica di lungo periodo, determinando uno stato di incertezza permanente non solo su aeroporti, società di gestione, compagnie aeree, autorità locali o finanziatori, ma anche, e soprattutto, sul territorio stesso, da un punto di vista urbanistico e paesaggistico-ambientale. L’assenza di una pianificazione a scala vasta ha alimentato, e tuttora di fatto alimenta, una rischiosa competizione aeroportuale che spesso si è tramutata in acceso antagonismo tra città e territori (Cipriani, 2012). Caratteristiche geografiche e socio-economiche, inadeguati assetti regolamentativi e frammentazione dell’offerta, sono solo alcuni degli elementi peculiari della realtà aeronautica italiana. Contrastante è l’azione dello Stato, da un lato latitante e incapace di fornire continuità ed uniformità normativa, dall’altro preponderante protagonista di un’azione pubblica pervasiva ma spesso inadeguata. La costituzione di una rete aeroportuale efficiente, sia in termini dell’utilizzo delle risorse scarse (territorio, spazio aereo, ecc.), sia della provvisione dei servizi (in modo che lo sviluppo di un aeroporto non danneggi quello di un altro), richiede la creazione di legami funzionali complementari piuttosto che competitivi. È indubbio come oggi gli aeroporti abbiano un sempre più importante ruolo nello sviluppo delle città e dei contesti metropolitani. Infrastrutture di tale portata sono opere pubbliche di utilità collettiva che generano nel
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territorio benefici sociali ed economici, ma che comportano considerevoli costi ambientali i cui effetti gravano in particolar modo per le comunità direttamente coinvolte. Secondo Eurocontrol, ad oggi, infatti, il 60% degli aeroporti europei ha impedimenti di tipo territoriale ed ambientale al proprio sviluppo. Questa percentuale è destinata a salire all’80% nei prossimi cinque anni dal momento che i movimenti aerei in Europa raggiungeranno la cifra di oltre 11 milioni entro il 2016 e di circa 1519 milioni nel 2025 (Eurocontrol, 2010). Dalle indagini effettuate, emerge con chiarezza come anche i principali aeroporti del Nordest si trovino tutti localizzati all’interno di un’urbanizzazione diffusa e spesso insistano in prossimità di sistemi ambientali delicati (Figura 2).
Figura 2. Principali strutture aeroportuali del Nordest in relazione alla città costruita. Elaborazione dell’autore. I fenomeni di urbanizzazione e le tematiche ambientali inerenti alle strutture aeroportuali sono questioni fondamentali del tempo presente che diverranno centrali nei prossimi anni e che pertanto necessitano urgentemente di essere affrontate al fine di definire strumenti operativi mirati alla gestione del territorio ed individuare alcune possibili strategie progettuali di intervento.
L’aeroporto di Venezia: indagini e scenari futuri L’aeroporto di Venezia-Tessera, come molti altri scali nel panorama italiano ed europeo, si trova al centro di un feroce dibattito. Da un lato, la richiesta di ampliamento dello scalo e lo sviluppo delle zone ad esso limitrofe; dall’altro la necessità di tutelare il delicato sistema ambientale su cui l’infrastruttura insiste. Costruito a metà degli anni ‘50 grazie ad un imbonimento nel bacino lagunare veneziano, lo scalo si trova ad operare nel prossimo futuro una scelta consapevole che coniughi la necessità di soddisfare l’attuale crescente domanda di trasporto aereo con le istanze ambientali, paesaggistiche ed urbane del breve, medio e lungo periodo. Posizionato lungo il Corridoio V – o Corridoio Mediterraneo secondo la nuova denominazione comunitaria – della rete transeuropea di trasporto (TEN-T) che collega Lisbona a Kiev, l’aeroporto si trova in una posizione privilegiata nel panorama infrastrutturale italiano: primo scalo nel Nordest e terzo in Italia per numero di passeggeri nel 2011 con 8,5 milioni, intende trasformarsi nei prossimi anni nel primo nodo nazionale intermodale di interscambio tra aria, ferro, acqua, gomma. Questo tipo di intervento, co-finanziato all’interno del Programma TEN-T dalla Commissione Europea, si inserisce consapevolmente nell’ottica comunitaria di avviare i principali aeroporti europei ad una piena e completa intermodalità. Lo scalo aeroportuale di Venezia dovrebbe assumere quindi, in quanto nodo infrastrutturale intermodale, un ruolo strategico nell’ambito della rete del
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Nordest ma anche nel contesto aeroportuale nazionale, come indicato dal non ancora approvato Piano Nazionale e, a livello comunitario e internazionale, nell’ambito della nuova rete transeuropea di trasporto. Gli emergenti conflitti con le comunità locali nascono dalla consapevolezza di come un’opera infrastrutturale di tale importanza, comprensiva di aeroporto e nodo intermodale, divenga il volano di una incontrollata crescita urbana in un contesto paesaggistico sfuggito all’urbanizzazione della città diffusa. Il territorio compreso tra l’aeroporto di Venezia-Tessera e il fiume Dese costituisce, infatti, una risorsa ambientale, storica e paesaggistica ancora intatta. Dalla lettura del paesaggio agricolo emerge ancora oggi il progressivo depositarsi di lente trasformazioni territoriali: dal tracciato romano della Via Annia ai lasciti archeologici di Altino, dai forti militari ottocenteschi ai manufatti di regimentazione idraulica di primo novecento, dal sinuoso percorso del fiume Dese alla campitura delle coltivazioni agricole odierne. Questo “pezzo” di campagna – un’area in prevalenza collocata sotto il livello del mare con diversi gradi di rischio idraulico – svolge un delicato ruolo nell’equilibrio idrologico del bacino scolante nella laguna veneta.
Figura 3. Principali elementi storici presenti nelle vicinanze dell’aeroporto di Venezia-Tessera. Elaborazione dell’autore. Il progetto del nodo intermodale, collocato in un ambiente ecologicamente sensibile e nelle vicinanze di centri abitati, non può pertanto prescindere dalla complessità degli aspetti urbanistici, paesaggistici ed ambientali che esso solleva. Rilievo delle curve isofone, coni di atterraggio-decollo, piano ostacoli, impatto volatili, permeabilità dei suoli, carta del rischio idraulico, sistema del verde, siti di interesse storico-archeologico, sistemi infrastrutturali e relativi bacini di utenza sono documenti fondamentali per comprendere il delicato rapporto che lega l’aeroporto al contesto locale e regionale, a cui si devono aggiungere una serie di scenari a breve e, soprattutto, a lungo termine. Necessaria è una seria riflessione sugli interventi da attuarsi e sui possibili ruoli che questi luoghi potranno assumere nel tempo lungo, una volta che avranno esaurito il ciclo di vita primario.
What if…? La ricerca ha inteso sviluppare una serie di scenari alternativi a breve termine (2030), a partire dagli studi e dalle proposte attualmente discusse e presentate dai diversi attori decisionali (amministrazioni, ente aeroportuale, cittadinanza), e a lungo termine (2100), sollecitando la riflessione sulle misure e scelte da attuarsi in previsione di severi effetti innescati dal cambiamento climatico.
Scenari 2030 Che cosa accade se l’aeroporto diviene un polo intermodale nel 2030? Cosa accade se il traffico aereo aumenta? Cosa accade se, al contrario, il traffico aereo diminuisce e quale funzione, in questo caso, può l’aeroporto accomodare nel paesaggio? Quali interventi possono/devono realizzarsi riguardo alla mitigazione sonora, al controllo idraulico o al sistema del verde? Si è deciso di proporre la metodologia degli scenari a breve termine (2030) attraverso l’elaborazione di una matrice. Con questo metodo, non si intende privilegiare l’una o l’altra ipotesi, né confermare la validità o meno
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delle decisioni che sono attualmente in discussione, quanto piuttosto si aspira a coadiuvare il processo partecipativo decisionale che dovrà coinvolgere in seguito le comunità locali. Lo scopo di una pianificazione attraverso scenari è quello di assistere processi decisionali inerenti a problematiche caratterizzate da un alto grado di incertezza. L’obiettivo non consiste nel selezionare il più probabile scenario o quello più confacente alle aspettative, quanto piuttosto permette di rispondere con flessibilità ad eventi rilevanti quando essi accadono, indipendentemente da quali essi siano. In questa fase si sono considerate una serie di alternative possibili che enti istituzionali e cittadinanza dovranno definire per lo sviluppo futuro da un punto di vista fisico, economico ed ambientale. Gli scenari di trasformazione paesaggistica e le strategie proposte devono essere considerati nel loro complesso indipendentemente dal fenomeno del trasporto aereo. Un piano strategico efficace relativo all’aeroporto e al suo territorio deve riflettere sulla complessità del paesaggio, dalle reti di mobilità ai sistemi delle acque, dagli spazi verdi alle reti ecologiche, dai siti industriali dismessi alle aree residenziali. Il metodo e la matrice di scenari proposta aiuta a definire una pianificazione del paesaggio secondo alternative future, guidando non solo le scelte che possono essere intraprese nel breve termine ma anche dotando la pianificazione di quel grado di flessibilità necessaria per adattarsi alle possibili trasformazioni del paesaggio. Una chiara, forte e informata pianificazione paesaggistica è la chiave per affrontare non solo l’imprevedibilità delle comunicazioni aeree ma anche per disegnare lo sviluppo ecologico dell’area e della regione stessa. Gli scenari 2030 proposti rispettano una serie di linee programmatiche, delle vere e proprie “costanti” progettuali. Le costanti hanno riguardato l’integrazione dell’aeroporto alle zone circostanti, l’accessibilità, il sistema delle acque, il sistema del verde, la presenza di dispositivi di mitigazione nei dintorni dell’aeroporto, la conservazione dei siti storici presenti, la tutela di flora e fauna, gli aspetti relativi alle operazioni di atterraggio/decollo degli aeromobili (Fig. 4).
Figura 4. Scenari 2030. Costanti progettuali per l’aeroporto di Venezia-Tessera. Elaborazione dell’autore per Regione del Veneto. Sulla base delle costanti progettuali si è definita, infine, una matrice di scenari a breve termine con una serie di variabili relativamente al sistema ferroviario, al sistema metropolitano ferroviario, al sistema aeroportuale, al sistema di viabilità acqueo, ai servizi all’aeroporto, agli insediamenti e al sistema delle acque (Fig. 5).
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Figura 5. Scenari 2030. Matrice di variabili per l’aeroporto di Venezia-Tessera. Elaborazione dell’autore per Regione del Veneto.
Scenari 2100 Gli scenari a breve termine devono essere accompagnati da una riflessione che rivolga lo sguardo oltre le problematiche del contingente. Lo studio ha pertanto inteso proiettare l’aeroporto di Venezia all’anno 2100, individuando possibili rischi ambientali e scenari indotti dai pressanti effetti del cambiamento climatico. Gli studiosi in materia concordano come il mutamento del clima stia già avvenendo con dinamiche ormai irreversibili. Secondo uno studio effettuato da Eurocontrol (Eurocontrol, 2010) molti sono gli effetti che avranno conseguenze sull’aviazione, sulla domanda dei trasporti aerei e sugli aeroporti stessi. Che cosa succede, ad esempio, se l’innalzamento dei mari causato da un aumento delle temperature interessa l’aeroporto di Venezia? Quali interventi di mitigazione ed adattamento possono essere effettuati? È importante ricordare come ad oggi 34 aeroporti europei siano localizzati lungo le coste o in pianure ad elevato rischio idraulico (Eurocontrol, 2010). Altre infrastrutture aeroportuali sono dotate di una pista costruita su terreno artificiale o su imbonimenti protesi lungo il mare. L’innalzamento del livello marino è solo uno dei principali effetti del cambiamento climatico e delle sue ripercussioni nel trasporto aereo e nella rete aeroportuale europea che dovranno essere considerati nel prossimo futuro.
Figura 6. Scenario di innalzamento dei mari a più 5 metri in relazione alle strutture aeroportuali principali e secondarie. Come si nota gli aeroporti di Venezia (Tessera e San Nicolò al Lido) sono a rischio idraulico. Plastico e foto dell’autore. Laura Cipriani
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Un incremento di eventi climatici estremi potrebbe avere anche ripercussioni nella capacità, nella puntualità e nella flessibilità della rete aeroportuale nel medio periodo. L’estremo innalzamento delle temperature in alcune località turistiche potrebbe raggiungere livelli elevati modificando la domanda stagionale e conseguentemente la configurazione dello spazio aeroportuale. L’aumento di temperatura potrebbe ripercuotersi anche nella diversa operatività degli aeromobili e sulle tipologie di piste necessarie al decollo/atterraggio degli aeromobili: il riscaldamento climatico potrebbe rendere necessario l’allungamento delle piste per consentire le operazioni di grandi velivoli od in alternativa potrebbe determinare una riduzione della dimensione degli aeromobili stessi che possono operare da una pista di una data lunghezza. I cambiamenti non interesseranno le singole infrastrutture ma anche il complesso sistema di rete. Eventi meteorologici estremi come tempeste invernali, turbolenza, vento-nebbia, ceneri dei vulcani potrebbero persino causare un cambiamento nella distribuzione reticolare degli aeroporti a favore, ad esempio, di una rete capillare diffusa piuttosto di una rete concentrata in grandi nodi di traffico. Quali cambiamenti nel sistema di rete del Nordest? Quali variazioni nella rete infrastrutturale di terra? Lungi dal proporre soluzioni, gli scenari 2100 vogliono porre l’attenzione su di una serie di domande che aiutino a riflettere sul futuro del trasporto aereo e del territorio stesso. Come si possono coniugare le necessità tecnologiche attuali con inaspettate nuove funzioni per il futuro? Cosa succede ad esempio se il mondo dell’aviazione nel 2100 subirà trasformazioni radicali e gli aeroporti non saranno più necessari o, piuttosto, non più capaci ad accomodare nuove esigenze tecnologiche? Cosa fare nel momento in cui il ciclo di vita della macchina aeroportuale sarà terminato? Quali tipologie di funzioni potrà accomodare l’aeroporto non più in uso? Come riutilizzare le piste? Si può progettare oggi una infrastruttura aeroportuale che abbia caratteri di estrema flessibilità? Quali cambiamenti intercorrono se l’aeroplano diviene un mezzo sia in termini dimensionali che di frequenza d’uso come l’automobile? Quali variazioni se la rete di trasporto minore dei piccoli aeroporti diviene la rete principale? E’ doveroso riflettere a priori sulla necessità degli interventi da attuarsi nel breve periodo ma anche sui possibili ruoli che questi luoghi potranno assumere nel tempo lungo, una volta che avranno esaurito il loro ciclo di vita. Le scelte da attuarsi per l’aeroporto di Venezia non possono prescindere dalla consapevolezza di come ogni azione sul territorio venga lasciata ai posteri. Una pianificazione flessibile, dinamica, stratiforme è l’unica via percorribile per ottenere uno sviluppo armonico del territorio al variare delle forze di mobilità aerea. I fenomeni non vanno demonizzati ma al contrario accompagnati consapevolmente all’interno di un chiaro quadro pianificatorio di scenari alternativi flessibili.
Bibliografia Cipriani L. (2007), “Airport Urbanism. Low cost Airports and New Landscapes”, The European tradition in urbanism – and its future, International Forum on Urbanism, Delft, IFoU-Papiroz, pp. 143-153. Cipriani L. (2011), Airport Urbanism. Low cost Airports and New Landscapes, Scuola di Dottorato IUAV, Venezia. Cipriani L. (2012), Ecological Airport Urbanism. Aeroporti e paesaggi a Nordest, Università degli Studi di Trento, Trento. De Neufville R., Odoni A. (2003), Airport Systems: Planning, Design and Management, McGraw-Hill, New York. European Organization for the Safety of Air Navigation (EUROCONTROL), Omega, Manchester Metropolitan University, MetOffice, (2010), “Challenges of Growth” Environmental Update Study. January 2009, EUROCONTROL. European Organization for the Safety of Air Navigation (EUROCONTROL), (2004). Challenges to growth. 2004 Report, EUROCONTROL. Regione del Veneto (2005), Quadro infrastrutturale del Veneto. Piano Regionale dei Trasporti del Veneto, Venezia, Regione del Veneto, pp. 391-403. Regione del Veneto, Assessorato alle politiche per il territorio, Segreteria Regionale Ambiente e Territorio, Direzione Pianificazione Territoriale e Parchi, 2007, Verso il nuovo PTRC. Relazione al documento preliminare, Venezia, Regione del Veneto. Regione del Veneto, Assessorato alle politiche per il territorio, Segreteria Regionale Ambiente e Territorio, Direzione Pianificazione Territoriale e Parchi, 2007, Verso il nuovo PTRC. Relazione ambientale, Venezia, Regione del Veneto. Resini D., (2008), Un aeroporto per Venezia: i cinquant'anni del Marco Polo, Marsilio, Venezia. Systematica Works, (2006). Venezia aeroporto Marco Polo: studi e idee per lo sviluppo, Marsilio, Venezia.
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Informazioni aggiuntive Copyright Il ricercatore beneficia del sostegno della Comunità Europea e della Provincia Autonoma di Trento nell'ambito di un'azione Marie Curie (co-funded by Marie Curie Actions). Il lavoro che ha portato a questa pubblicazione ha beneficiato di un finanziamento del Settimo programma quadro della Comunità Europea 7 PQ/2007-2013 e della Provincia Autonoma di Trento nell'ambito della convenzione di sovvenzione n. 226070 (bando “researcher postdoc 2010 Incoming CALL 1” - progetto “Trentino - PCOFUND-GA-2008-226070”).
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Il monitoraggio del Sustainable Energy Action Plan: interrogativi e proposte
Il monitoraggio del Sustainable Energy Action Plan: interrogativi e proposte Ilaria Delponte Università degli Studi di Genova Facoltà di Ingegneria Email: ilaria.delponte@unige.it Tel. 010.3532088 / 010.3532971
Abstract Concordemente ad un approccio bottom-up sostenuto in sede comunitaria, molte amministrazioni si sono dotate di recente di uno strumento di pianificazione strategica nel settore energia, sottoscrivendo il Patto dei Sindaci e pervenendo alla redazione di un Sustainable Energy Action Plan-SEAP. Il Comune di Genova è una di queste. Il paper fa riferimento ad un’attività in corso presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova, che vedrà entro l’estate di quest’anno la consegna, alla Commissione di Valutazione del Patto dei Sindaci, di uno dei primi Report di Attuazione sul Monitoraggio che saranno redatti in Europa. Tale esperienza presenta certamente caratteri di sperimentazione dovuti alla recente nascita dello strumento, ma la riflessione intorno ad essa intende inoltre proporre anche elementi innovativi in merito ad una sua collocazione nell’ambito dei sistemi di governance attuali.
Quando il piano è un’opportunità La crescente attenzione a livello comunitario e nazionale verso le tematiche energetiche (legate alla continua crescita della domanda di energia a livello mondiale, alla forte fluttuazione dei prezzi dei combustibili fossili e ai cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento globale) hanno portato l’Unione Europea a intraprendere , come noto, campagne di sensibilizzazione rivolte ai Paesi Membri. Esse sostengono un radicale cambiamento nelle modalità di utilizzo delle risorse naturali, andando a coinvolgere tutti i campi che con l’energia hanno un diretto rapporto sia dal punto di vista della produzione che del consumo. La campagna Energia Sostenibile per l’Europa (SEE), sostenuta dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, ha previsto, l’ideazione di un “Patto dei Sindaci”, quale azione prioritaria in tal senso: le amministrazioni locali, avendo la possibilità di agire in modo diretto e mirato su settori decisivi -come il comparto edilizio e i trasporti possono aderire al Patto assumendo un impegno volontario, indipendentemente dalla dimensione e dallo stato di attuazione delle politiche climatiche o energetiche regionali e nazionali. L’adesione vincola gli enti locali alla realizzazione di un Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile (SEAP) che delinei le misure e le politiche che verranno sviluppate per realizzare l’obiettivo finale di riduzione del 20 per cento sul totale del fabbisogno energetico e delle emissioni di CO2 entro il 2020. Le azioni riguardano sia il settore pubblico che quello privato, con iniziative relative all’ambiente urbano (compresi i nuovi edifici), alle infrastrutture urbane (teleriscaldamento, illuminazione pubblica, reti elettriche intelligenti, ecc.), alla pianificazione urbana e territoriale, alle fonti di energia rinnovabile, alle politiche per la mobilità urbana. Data la trasversalità delle tematiche affrontate, il piano si pone ad un livello strategico sovraordinato rispetto alla pianificazione di dettaglio e possiede in nuce l’opportunità di declinare su diversi settori una roadmap di transizione verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile che definisca ed attui una politica organica e coerente rispetto alle tematiche energetiche ed ambientali del territorio, con ricadute positive sulle attività industriali, del terziario ed in generale nel mondo del lavoro (smart city, green economy). Le norme Europee prevedono verifiche biennali sul raggiungimento degli obiettivi di cui sopra: chi non presenta per due volte il rapporto biennale è escluso formalmente dal Patto con nota del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio.
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Non ci si dilunga in questa sede sull’esplicitazione degli obiettivi e dei metodi istituiti dal Patto dei Sindaci né nell’approccio seguito dall’equipe 1 di Genova per la redazione del piano, del resto già oggetto di precedenti pubblicazioni a riguardo (Delponte, 2010 e 2011, Delponte e Tomasoni, 2010). Interessa ora focalizzare lo sguardo sulle ricadute dal punto di vista della governance che l’esperienza del SEAP ha comportato e la consapevolezza che essa ha fatto emergere. Il SEAP è allo stesso tempo un documento di attuazione a breve termine delle politiche energetiche ed uno strumento di comunicazione indirizzato agli stakeholder, ma è anche un atto condiviso a livello politico dalle varie parti all’interno dell’Amministrazione Comunale. Per assicurare la buona riuscita del Piano d’Azione occorre infatti garantire un forte supporto delle parti politiche, l’allocazione di adeguate risorse finanziarie ed umane ed il collegamento con altre iniziative ed interventi a livello comunale. Tali requisiti urgono un ulteriore step di avanzamento verso un autoefficientamento del sistema di governance. Ovvero si rende necessario un processo che metta a tema alcuni elementi cruciali delle organizzazioni –pubbliche o private che siano- che oggi giocano la partita in un quadro sempre più competitivo e multiforme. All’interno di essi, l’articolo ne prende in considerazione sinteticamente alcuni: la valutazione ed il monitoraggio delle azioni, la capacità di condivisione degli obiettivi con la società civile e la valorizzazione del capitale umano.
L’impostazione del monitoraggio Le attività di monitoraggio susseguenti l’approvazione ufficiale del SEAP hanno cercato di cogliere da subito due necessità. Da un lato l’esigenza di dare seguito a quanto inserito nel piano attraverso iniziative trasversali a garanzia dell’implementazione del piano stesso; dall’altro, l’impostazione rigorosa di un approccio che rispettasse le indicazioni del Patto ed al tempo stesso si sposasse con le modalità gestionali di verifica interne all’ente locale. L’intento è stato quindi non solo quello di ottemperare formalmente ad una richiesta –quella del report biennale di attuazione da sottoporre alla Commissione- ma anche di pervenire ad uno strumento, utile anche nell’ordinario, alla stessa Amministrazione, partendo da quanto già era stato fatto dai propri organi di controllo ed integrando le indicazioni presenti nel SEAP all’interno del framework preesistente. Le prime attività svolte secondo questo approccio sono state l’architettura di un “Database Energia” su tutto il territorio comunale, che fosse in grado di scendere al dettaglio dei consumi attribuibili a ciascuno interno dei civici e a ciascun impianto di pubblica illuminazione. Evidentemente l’intento è poter disporre di un banca dati da cui trarre direttamente le informazioni utili all’aggiornamento della baseline del SEAP ma anche quello, in prospettiva, di tenere monitorati i consumi e di individuare dove e quali possano essere i possibili risparmi, mediante iniziative di cui la municipalità potrà farsi promotrice (laddove non soggetto finanziatore o promotore). La verifica di metodi di riscaldamento/raffrescamento più adeguati al sito, la sostituzione di impianti vetusti, l’autosufficienza energetica per distretti di trasformazione urbana o nuclei insediativi isolati sono tra le iniziative attivabili che, ad oggi, possono derivare da una più attenta cognizione numerica dei fenomeni, soprattutto avendo l’opportunità di leggere i dati geograficamente riferiti e quindi sempre collegati ad una lettura territoriale del tema energetico. Dopo i primi mesi dall’approvazione, la Struttura Tecnica di Supporto del SEAP ha consultato le diverse direzioni interne e le società partecipate per ottenere i primi riscontri in merito alle schede d’azione inserite nel piano: ne è risultato un quadro esaustivo in merito a quanto già avviato, in corso, ultimate o in fase di ridefinizione (figura 1.), in occorrenza di vincoli o imprevisti succedutisi nel frattempo (basti pensare agli slittamenti temporali in conseguenza dell’evento alluvionali del Novembre scorso).
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Il Comune di Genova ha aderito al patto dei Sindaci nel Febbraio del 2009: per la redazione del SEAP ha attivato una Struttura Tecnica di Supporto per la regolamentazione delle competenze che si compone di un Gruppo Interdirezionale, coordinato dalla Direzione Ambiente Igiene Energia di cui fanno parte tutti i settori comunali coinvolti e le Aziende partecipate, affiancato, per la parte tecnico-scientifica, dall’Agenzia Regionale per l’Energia della Liguria (ARE) e dal Centro di Ricerca per l’Urbanistica, le Infrastrutture e l’Ecologia (CRUIE) dell’Università degli Studi di Genova. Le attività accademiche vedono attivi nel team di Pianificazione Territoriale e di Fisica Tecnica i proff. P. Ugolini (direttore CRUIE), G. Guglielmini, C. Schenone e gli ingg. I. Delponte, I. Pittaluga e L. Tomasoni. In seguito alla redazione e approvazione del SEAP in sede comunitaria, la Struttura è ora impegnata nell’impostazioni delle fasi di monitoraggio.
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Avvio delle azioni SEAP 10
in fase di definizione
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avviate
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in corso
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avanzate
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ultimate
2
rinviate
EDI – S02, EDI – S08, TRA – S01, TRA – S13, PEL – S05, PEL – S09, PEL – S10, PEL – S13 PIN – S02, PIN – S03 EDI – S03, EDI – S04, EDI – S06, TRA – S05, TRA – S08, TRA – S09, TRA – S14, PEL – S06, PEL – S08, PEL – S11, DIS – S01, DIS – S02, PT – S01, PT – S03, PRO – S01, PIN – S07 EDI – S07, EDI – S10, ILL – S01, TRA – S03, TRA – S10, TRA – S11, PEL – S01, PEL – S07, PEL – S12, PIN – S04, PIN – S06 EDI – S01, EDI – S5, TRA – S02, TRA – S04, TRA – S06, PT – S02, PT – S04, PT – S05 ILL – S02, TRA – S07, PEL – S02, PEL – S03, PEL – S04 ILL – S03, TRA – S12
Figura 1. Schemi provenienti dal Report che riassume e valuta le attività dall’Agosto 2009 a tutto il 2011 Una seconda fase -condotta in realtà in parallelo rispetto al lavoro svolto sul Database Energia e sulla ricognizione delle schede in avvio- ha riguardato la predisposizione di una metodologia operativa che abilitasse l’Amministrazione, nei modi e nei tempi ad essa perseguibili, ad espletare appieno l’impegno del monitoraggio. Di qui, il duplice approccio proposto: una sorta di “stato d’avanzamento lavori-SAL” che permettesse l’aggiornamento del computo delle riduzioni assegnate a ciascuna scheda; dall’altro l’allineamento del “Sistema degli Indicatori-SI”, già adottato dalla municipalità, con gli obiettivi del SEAP. Il primo aspetto risponde alla necessità di impiegare una tecnica univoca nel calcolo delle percentuali di riduzione di anidride carbonica e di fabbisogno energetico: in ciascuna scheda sono esplicitati plurimi interventi che contribuiscono al complessivo 100% di risultato, cui corrisponde una diminuzione percentuale sul totale delle emissioni comunali (da cui si perviene anche al valore di tonnellate di CO2 e MWh annue). Eseguiti tali interventi, la riduzione è attribuita per mezzo di una percentuale che quindi va a diminuire le emissioni inquinanti secondo quanto si è dimostrato, nel piano, possa avere incidenza nei confronti della produzione annua. Tale ragionamento può apparire semplicistico e quasi banale, ma la varietà delle azioni e di interferenze fra l’una e l’altra rendeva indispensabile l’individuazione di un criterio uniforme, applicabile in tutti i campi, quelli in cui la correlazione intervento-riduzione appariva diretta e quelli in cui tale legame era maggiormente soggetto alla variabilità di caso. All’interrogativo rispetto alla validità dell’approccio proposto si è però potuto rispondere cercando di soddisfare in prima battuta gli scopi precipui della sottoscrizione del Patto dei Sindaci: esso infatti è evidentemente finalizzato a facilitare una marcia di avvicinamento al settore energetico da parte degli enti locali mediante uno strumento innovativo sotto molti punti di vista, secondo un approccio chiaramente “bottom-up”. Eventuali precisazioni di metodo potranno semmai rendersi opportune nel seguito, ma nella necessità di salvaguardare il senso complessivo dell’iniziativa. Circa il Sistema degli Indicatori, esso è formato dall’insieme degli parametri di risultato assegnati a ciascuna direzione, attribuiti direttamente alla figura dei direttori: tale sistema si aggiorna periodicamente tramite l’attribuzione di percentuali di raggiungimento degli obiettivi ed indicatori di performance (con unità di misura o rapporti) per mezzo della revisione della Relazione Previsionale Programmatica (RPP), redatta semestralmente. Lo stesso avviene per quanto riguarda il Piano Esecutivo di Gestione (PEG), in cui è inserita la valutazione delle mansioni di dirigenti e funzionari rispetto all’obiettivo generale della direzione. Lo schema esistente è stato rivisto mediante l’inserimento di ulteriori indicatori maggiormente precisi in ordine al completamento delle azioni SEAP (matrice di correlazione, figura 2.): ma è stata avviata anche un’operazione di continua rivisitazione dei parametri selezionati al fine, non solo di attestare il grado di realizzazione degli interventi, ma anche di andarne a verificare l’efficacia ed efficienza sul lungo periodo. Tale attività, condotta maggiormente dalla parte universitaria della Struttura Tecnica per gli evidenti contenuti scientifici del lavoro, ha inteso andare ad individuare quegli indicatori che rendessero evidenti i miglioramenti (o scostamenti, se del caso) conseguenti all’avvio delle politiche energetiche su scala comunale. In tal modo, si vuole raggiungere lo scopo non solo di gestire il SEAP attuale, ma di impostare quelle attività di valutazione sistematica della programmazione dell’ente che consentono ulteriori avanzamenti, proposti nel quadro di uno strumento di pianificazione che ha già al suo interno un metodo di verifica.
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Impostazione monitoraggio
Scheda SEAP
+
Sistema Indicatori PEG
RPP
Figura 2. Matrice di correlazione fra obiettivi di RPP, PEG e SEAP
Le sfide attuali della governance. Riflessioni conclusive Le attività di monitoraggio di cui sopra sono state certamente interessanti come spunto di riflessione su svariati temi e osservatorio privilegiato sulle dinamiche interne agli enti di governo del territorio, specie per quanto riguarda le grandi zone urbane. Come noto, su di esse, si concentra l’attenzione delle politiche comunitarie che così facendo intendono vitalizzare anche il tessuto circostante e colpire il punto nevralgico dei grandi movimenti economici, soprattutto nel caso di città a vocazione internazionale. Inoltre è noto che le competenze maturate in virtù dei progetti di rigenerazione urbana promosse in sede comunitaria o dai singoli Stati Membri, l’apertura agli strumenti di concertazione pubblico-privata, la capacità di ottemperare a nuovi obblighi posti dall’Europa, giusto per citare alcuni aspetti, hanno favorito, principalmente nelle città di rango superiore, un background ad oggi maggiormente strutturato in seno alle competenze locali della pubblica amministrazione. Anche tenuto conto di questa evoluzione, la Comunità affida alle città il compito di farsi promotori di innovazione nel campo delle politiche territoriali, partendo quindi dal basso con un coinvolgimento attivo, a volte su base volontaria, come nel caso del SEAP. Anche nel campo dell’energia si registra, infatti, un ruolo decisivo dei grandi nuclei urbani (sebbene il loro compito sia comunque inserito in una logica di governance multilivello) e non solo perché essi rappresentano i comparti maggiormente energivori. Betsill e Bulkeley affermano che tale importanza è dovuta ad un molteplicità di fattori, quali la maggiore incidenza delle municipalità sui processi di regolamentazione degli usi di suolo e di organizzazione dei servizi di trasporto (che possiedono effettivamente ricadute sulle prestazioni energetiche del territorio), la responsabilità ad esse affidate nelle politiche “climate action”, la possibilità/capacità di fare lobby e quindi anche pressione sui governi nazionali, ma anche di vantare esperienze mirate nel campo della gestione della progettualità, dei conflitti e delle valutazioni ambientali. Evans afferma che solo le comunità locali che dispongono di un capitale sociale riescono a prendere iniziative efficaci per affrontare i problemi di sostenibilità ambientale e sociale delle proprie città; è necessario cioè che viva ed operi una rete di soggetti e di relazioni (enti, organismi, agenzie, università, associazioni,…). L’avventura del SEAP e le conseguenti attività svolte dall’agenzia regionale e dall’università sulle progettualità in ambito “smart city” (come da dicitura dei bandi comunitari, che fanno riferimento a finanziamenti assegnati a quelle comunità che propongono azioni nell’ambito della più moderna accezione di sostenibilità urbana) hanno, per certi versi insperabilmente, dato vita ad un circolo virtuoso tra soggetti istituzionali della sfera di governo, organismi con finalità pubblica e attori privati. Aziende medie e grandi sono coinvolte nel processo, così come i gestori delle reti energetiche su scala nazionale. Quali i fattori che è facile riscontrare: innanzitutto il punto fermo posto da uno strumento che ha in sé un meccanismo di valutazione del proprio operato come ipotesi di management amministrativo chiaro e coerente. A partire da esso, tutte le alternative perseguibili si inquadrano in un ambito che è in grado di definirle più o meno Ilaria Delponte
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compatibili e conformi. Ma questo non sarebbe possibile senza l’attivarsi di un protagonismo sociale che ha attraversato verticalmente e trasversalmente non solo le varie direzioni comunali, ma anche le categorie di stakeholders. L’emergere di una proposta, infatti, coagula attorno a sé soggetti e interessi, che uno studiato calcolo di meccanismi procedurali non avrebbe potuto produrre.
Bibliografia Libri Balducci A., Fedeli V., Pasqui G. (a cura di, 2011), Strategic Planning for contemporary urban regions. Ashgate Publishing Limited, Farnham, UK. Camagni R. (2010), Principi di economia urbana e territoriale, Carrocci Editore, Roma. Evans P. (a cura di, 2002), Livable cities? Urban struggles for livelihood and sustainability, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, California. Garrone P., Lauro C. (a cura di, 2012), Sussidiarietà e città abitabile- Rapporto sulla sussidiarietà 2011, Arti Grafiche Fiorin, Milano. Sassen S. (1991), The global city: New York, Londra, Tokio, Princeton University Press, Princeton NJ. Articoli Adger, W. N., Brown, K., Fairbrass, J., Jordan, A., Paavola, J., Rosendo, S., et al. (2003). “Governance for sustainability: towards a “thick” analysis of environmental decisionmaking”, Environment and Planning A, 35(6), pp. 1095-1110 Balducci A., (a cura di, 2004), “La produzione di beni pubblici urbani”, Urbanistica, n. 123, pp. 16-21, Roma, INU edizioni, 0042-1002. Betsill M.M. e Bulkeley H. (2006), “Cities and the multilevel governance of global climate change”. Global Governance, 12 (06). Delponte I. (2010), “Assetti urbani e pianificazione energetica: strumenti di possibile integrazione”, XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti “Città e crisi globale clima, sviluppo e convivenza”, Planum The Journal of Urbanism (www.planum.net). Delponte I., Tomasoni L. (2010), “Trasporti ed energia: strategie di pianificazione in ambito urbano”, TemaUrban Planning and Mobility, n.3/2010, Napoli. Delponte I. (2011), “Sostenibilita’ ambientale ed energetica e riqualificazione urbana: dalla pianificazione di livello comunale all’azione europea COST TU0602”, XIV Conferenza nazionale della Società Italiana degli Urbanisti: “Abitare l'Italia. Territori, economie, diseguaglianze, Planum The Journal of Urbanism (www.planum.net).
Siti web Municipality of Genoa, Sustainable Energy Action Plan (2010), Disponibile su: http://www.eumayors.eu/covenant_cities/city_492/seap_en.htm
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Rischi naturali e sostenibilità territoriale. L’esperienza dell’alluvione di Genova
Rischi naturali e sostenibilità territoriale. L’esperienza dell’alluvione di Genova Francesca Pirlone Università degli Studi di Genova Facoltà di Ingegneria Email: francesca.pirlone@unige.it Tel 010.3532826 / fax 010.3532971
Abstract La messa in sicurezza di un territorio nei confronti di eventi di tipo naturale contribuisce a rendere quel territorio sostenibile. Le attuali politiche e i piani vigenti dovrebbero considerare i rischi in maniera diversa. L’alluvione di Genova (novembre 2011) mette in luce strumenti che non stati capaci di fornire un quadro conoscitivo reale (sottovalutazione delle trasformazioni operate dall’uomo sull’ambiente) anche al fine di sensibilizzare la popolazione presente (percezione del rischio pressoché inesistente in un comune soggetto ad eventi idrogeologici). Nel paper si propone una forma di piano-progetto, dove i piani dialoghino con progetti integrati specifici per ogni rischio e al cui interno siano contenute simulazioni utili a definire azioni e/o interventi sostenibili alla messa in sicurezza, volti a contenere effetti ambientali che i possibili eventi potrebbero causare in un territorio.
Introduzione Mettere in sicurezza un territorio da eventi naturali contribuisce a rendere quel territorio sostenibile, ossia fruibile dalle generazioni future, assicurando in oggi una buona qualità della vita agli abitanti. Tale assioma dovrebbe diventare parte integrante di una cultura del rischio che ponga al centro la prevenzione visto il continuo verificarsi, a livello internazionale e italiano, di eventi disastrosi dovuti sia alla sconsideratezza dell’agire umano che ai cambiamenti climatici. E’ necessario, a tal fine, rivisitare politiche, normative e piani, capaci, a regime, di consentire una gestione sostenibile del territorio. Un piano urbanistico, ad esempio, necessita di conoscere il territorio sotto l’aspetto dei rischi naturali per fornire indirizzi ed effettuare scelte nel tempo di pace (ad es. nuovi insediamenti o modifiche rispetto all’esistente per esigenze di sicurezza) e nell’emergenza (ad es. destinazioni aree di ricovero per eventi differenti). Politiche e piani dovrebbero considerare i rischi in maniera diversa. Significativa, a riguardo, è la recente alluvione che si è verificata a Genova nel novembre 2011.
L’alluvione di Genova In Liguria, il fenomeno alluvionale costituisce la più frequente e grave calamità che colpisce il territorio regionale. A riguardo, il capoluogo ligure è stato sede dal 1945 ad oggi di fenomeni importanti come si evince dalla Tabella I. La città di Genova presenta un territorio che si sviluppa su una fascia costiera lunga quasi 30 km stretta tra il mare e i monti dai quali discendono numerosi corsi d’acqua naturali con pendenze molto significative e ridotte dimensioni delle valli. Tale orografia espone il territorio urbano a rischi naturali di origine idraulica rendendo la città particolarmente vulnerabile nei confronti non tanto dei fenomeni alluvionali classici (come quelli conseguenti a piogge persistenti lunghe nel tempo) bensì verso i fenomeni più violenti di piogge brevi e intense, i cui tempi di corrivazione delle acque meteoriche cadute a terra sono ridottissimi. Francesca Pirlone
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Rischi naturali e sostenibilità territoriale. L’esperienza dell’alluvione di Genova
Lo sviluppo incontrollato della città risalente al periodo post-bellico, condusse negli anni ad una edificazione che non tutelò i corsi d’acqua ma che li restrinse o li modificò, addirittura interrandone gli alvei 1. Tabella I. Principali eventi alluvionali verificatesi nella città di Genova date descrizione eventi e ricadute Intensa precipitazione di circa 200 mm in 4 ore, che fece seguito a una settimana piovosa, causò l’esondazione del torrente Bisagno nel tratto a monte della copertura 29/10/1945 del tratto terminale (sommersione del ponte di Sant’Agata, allagamenti in Piazza della Vittoria, Piazza Verdi, Corso Sardegna). La portata di piena fu stimata intorno a 450 m3/s e costò la vita a 5 persone. Intense piogge si concentrarono sul versante destro del medio e del basso bacino del Bisagno causando diffuse esondazioni. La copertura terminale del Bisagno andò in pressione e la conseguente esondazione interessò Borgo Incrociati, Corso Sardegna, Via San Vincenzo, Via XX Settembre e Corso Torino. Oltrepassata la ferrovia, le 19/09/1953 acque esondate o rigurgitate dalle fognature allagarono la zona delimitata a ponente dalle Vie Fiume, XX Settembre, Granello, Diaz e Brigate Partigiane sino alla Foce e a levante da Via Archimede, Corso Buenos Aires, Piazza Savonarola, Via Pisacane e Via della Libertà sino alla Foce. Il valore della portata di piena fu stimata tra 750 e 800 m3/s. Sul ponente genovese e sul centro cittadino si scatenò la più grande alluvione della storia della città; dalle 19 del giorno 7 alle ore 16 del giorno 8 caddero, a più riprese e con intensità diversa a seconda della zona, dai 550 ai 900 mm di pioggia, che sommersero ogni quartiere di Genova non in collina. Furono interrotti i servizi. La copertura del torrente Bisagno andò in pressione a causa di una portata di circa 950 m3/s. Le acque allagarono tutta la sua valle, distruggendo ponti (tra cui quello di Sant’Agata), invadendo il Cimitero Monumentale di Staglieno, allagando la Stazione 7/10/1970 Brignole e tutta l’ampia area antistante, andando poi a riversarsi sul quartiere della Foce (Corso Torino e via Casaregis), lasciandolo sommerso sotto una coltre di fango alta 5 m che devastò case e negozi. I piani terreni di decine di edifici storici, molti di epoca medioevale, furono allagati e lo rimasero per parecchie ore. I disagi furono legati al collasso del sistema fognario, che non resse alla fortissima pressione delle acque, con la conseguente fuoriuscita di acqua dai tombini sulle strade e alla scarsa manutenzione degli alvei. Circa 2100 mm di pioggia caduti rispetto a una media di 1500 mm. Il 20 marzo 1977 1977 un violento nubifragio uccide una commerciante nel centro storico. Tra il 6 e il 7 ottobre 1977 una nuova alluvione si abbatte sulla città. 24/08/1984
27/09/1992
1997
2002
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Si verificò uno dei più pericolosi temporali della storia di Genova, con pioggia violenta, fulmini e blackout: il totale della pioggia caduta fu di 250 mm all’aeroporto, ma molto probabilmente in alcune zone se ne verificò anche una quantità doppia. Si verificò una alluvione con circa 425 mm di pioggia caduti in poche ore che provocarono due diverse tipologie di fenomeni alluvionali: allagamenti, a causa di un evento idrometeorologico particolarmente intenso, ed esondazioni, dovute alla notevole portata dell’evento idrologico e idraulico. Per via dell’intensità dell’evento idrometeorologico le fognature bianche non furono in grado di smaltire l’intero deflusso superficiale urbano. Tale evento è stato soprattutto dannoso per il centro storico genovese, mettendo definitivamente alla luce le criticità intrinseche e il rischio a cui è soggetto il patrimonio storico-artistico della città. Anno record con circa 2380 mm pioggia caduti (la media centennale è circa 1500 mm di pioggia). Il 26 novembre caddero su Genova 270 mm di pioggia e il Bisagno rischiò l’esondazione.
Emblematica è la storia della gestione dell’alveo del Bisagno, protagonista principale delle alluvioni verificatesi: nonostante già all’inizio del secolo il Comune avesse individuato una portata massima di 1200 m3/s in caso di piena, negli anni’30 le esigenze dello sviluppo antropico portarono i progettisti della copertura finale del Bisagno (nella zona della Foce) a convogliare le acque in una luce di appena 48 m in larghezza e 3,5 m in altezza (pari ad una portata massima di 500 m3/s). Tali valutazioni vennero sconfessate dalla piena del 1970, durante la quale la portata delle acque arrivò a 950 m3/s (quasi il doppio del valore di progetto). Negli anni successivi al ‘70, nonostante le cause principali su cui andare ad intervenire fossero state individuate, le azioni si limitarono a piccoli interventi puntuali, non sistemici, mancanti di una visione globale.
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Rischi naturali e sostenibilità territoriale. L’esperienza dell’alluvione di Genova
Solamente nel 2001 viene approvato il Piano di Bacino del Bisagno, che ai sensi della L. 267/98 obbliga i comuni a rischio a redigere Piani stralcio per l’assetto idrogeologico. La vulnerabilità idraulica del territorio genovese inizia ad essere affrontata in modo sistemico, progettando opere di dimensioni ed efficacia significative. Attualmente è in corso d’opera lo scolmatore per il rifacimento della copertura del tratto finale del torrente che porterà, nel tratto finale, la massima portata smaltibile da 500 m3/s a 1350 m3/s (calcolata per un tempo di ritorno di 200 anni), lasciando inalterata la criticità presente dove il torrente defluisce sotto la ferrovia. A riguardo nel piano si legge che l’elevato rischio di esondazione per superamento della capacità di smaltimento comporta pericolosi effetti di rigurgito a monte. Tali effetti si ripercuotono fino alla confluenza del rio Fereggiano e sono amplificati dalla presenza di ulteriori manufatti di attraversamento e/o strutture interferenti con l’alveo. Conseguenza dell’attuale configurazione geometrica, assai lontana da quella naturale, è un’elevata suscettibilità al rischio di inondazione che, a causa dell’elevata densità del tessuto urbano circostante, delinea una situazione di vera e propria emergenza idraulica. Va rilevato, in proposito, come la possibilità che una consistente zona urbana, sede di importanti insediamenti residenziali, commerciali e di servizio, sia soggetta a inondazioni con frequenza poco più che ventennale rappresenta, sia a livello italiano che europeo, un caso limite di vulnerabilità alluvionale (Piano di bacino del T. Bisagno, fascicolo 3). E purtroppo nel novembre 2011 è proprio il rio Fereggiano ad esondare e a causare i maggiori danni a livello urbano. Le piogge eccezionali segnalate con Allerta 2 (già previste nei giorni antecedenti al 5 novembre, data dell’ultima alluvione) hanno provocato la caduta di 300 mm d’acqua, con il livello del Fereggiano cresciuto oltre i 4 m di altezza; arrivato al livello di guardia è iniziata l’evacuazione dei piani bassi di scuole e negozi. Successivamente è esondato il T. Bisagno allagando diverse zone della città (Brignole e Borgo Incrociati). Il bilancio di tale alluvione consiste in 6 morti, grande paura e attività commerciali rovinate; in quella stessa zona, nell’alluvione del 1970, persero la vita 44 persone. Sicuramente l’evento che si è verificato a Genova ha avuto una intensità non prevedibile; vero è però che la zona colpita è considerata (anche dal Piano di bacino stesso, come precedentemente citato) tra le più critiche a livello urbano. In tale contesto, il recente e disastroso evento alluvionale pone l’accento su due questioni fondamentali: il primo relativo agli strumenti urbanistici vigenti che dovrebbero garantire una pianificazione e gestione di una città sicura; la seconda riguardante le politiche volte a una gestione sostenibile del territorio e delle sue risorse. Nel primo caso è emerso che gli strumenti urbanistici, ed in particolare il Piano di Bacino del Bisagno non è stato capace di fornire un quadro conoscitivo reale, sottovalutando le trasformazioni operate dall’uomo sull’ambiente. Come tutti i piani di bacino si è concentrato in particolar modo sulla valutazione della pericolosità, piuttosto che sulla determinazione di vulnerabilità ed esposizione. Inoltre anche il piano urbanistico comunale non si è imposto con scelte forti volte a tutelare o mitigare una situazione in essere. Tra le proposte passate si ricordano progetti finalizzati a riportare a cielo aperto la parte centrale del corso d’acqua, migliorando in tal modo la gestione delle piene. A Genova, la recente alluvione ha messo in luce che gli interventi edilizi ed urbanistici realizzati nel corso degli anni non sono stati progettati secondo logiche sostenibili ed in oggi il territorio si sta riprendendo pian piano i propri spazi. Il secondo aspetto pone in evidenza che le attuali politiche, attuate attraverso diversi strumenti (urbanistici, di protezione civile,…), non sono state capaci di sensibilizzare la popolazione presente, facendo emergere una percezione del rischio pressoché inesistente in un comune soggetto ad eventi idraulici da anni. I decessi avuti nel novembre 2011 sono stati causati dalla non conoscenza di cosa fosse un’Allerta 2 (massima attenzione in regione Liguria) 2, del non sapere come comportarsi di fronte ad un evento alluvionale (ad es. non stare per strada, non uscire di casa, salire ai piani alti degli edifici, chiudere negozi e non prendere la macchina per nessun motivo,…) oltre alla mancanza di decisioni precise da parte della amministrazione pubblica (chiusura delle scuole nel giorno 2
Nel seguito si riportano alcuni estratti relativi alla sintesi delle azioni da attuare in Allerta 2, come da “Procedura operativa relativa ad eventi meteo-idrologici estremi” della Regione Liguria. L’evento meteorologico previsto determina uno scenario idrologico che congiura l’innalzamento dei livelli negli alvei dei torrenti in grado di provocare la fuoriuscita delle acque, rottura degli argini, sormonto dei ponti, inondazioni di aree circostanti e centri abitati… Al configurarsi di tale evento il Sindaco, come previsto dalla L.R. 9/2000 deve: comunicare, in tempo utile, alla popolazione la necessità di mettere in atto misure di autoprotezione e assicurarsi che tutti gli abitanti degli stabili siti in aree a rischio di inondazione siano al corrente della situazione; fornire adeguate informazioni alla cittadinanza sul grado di esposizione al rischio… La popolazione, informata della dichiarazione dello stato di allerta, deve: porre pratiche a protezione dei locali situati al piano strada, chiudere/bloccare le porte di cantine e seminterrati e salvaguardare i beni mobili collocati in locali allagabili; mettere al sicuro la propria autovettura in zone non raggiungibili dall’allagamento; per i residenti in aree riconosciute a rischio d’inondazione evitare di soggiornare e/o dormire ai livelli inondabili; … Qualora l’evento sia in corso, la popolazione deve: non soggiornare e/o dormire ai livelli inondabili; non sostare su passerelle e ponti e/o nei pressi di argini di fiumi o torrenti; rinunciare a mettere in salvo qualunque bene o materiale e trasferirsi subito in un ambiente sicuro; prima di abbandonare la zona di sicurezza accertarsi che sia dichiarato ufficialmente il cessato allerta.
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precedente all’allerta, evacuazione delle scuole preventiva all’onda di piena, trattenuta degli studenti a scuola durante l’esondazione,…). Come da analisi sociologiche ormai note, sapere di vivere in un territorio a rischio abbassa il valore dell’esposizione e pertanto il livello del rischio stesso; una buona percezione del rischio avrebbe pertanto potuto evitare le morti di cui sopra.
Proposta metodologica ed esperienze di ricerca Da quanto precedentemente esposto, necessaria risulta la rivisitazione delle politiche e degli strumenti urbanistici vigenti nei confronti degli eventi naturali. Gli attuali piani dovrebbero affrontare il tema della conoscenza e delle successive azioni da porre in atto in modo differente dal contesto odierno. Nel presente paper si propone una forma di piano-progetto, dove i piani possano dialogare con strumenti specifici per ogni tipologia di rischio. Ad esempio, un piano comunale dovrebbe considerare l’evento alluvionale, attraverso la realizzazione di un progetto strategico specifico per il rischio idraulico, che dovrebbe tener conto sia del piano di bacino (in oggi più legato alla determinazione della pericolosità e a relativi interventi strutturali) sia degli strumenti di protezione civile (che potrebbero essere considerati dei piani di settore ed in oggi finalizzati quasi esclusivamente alla fase di emergenza più che alla prevenzione). Ciò al fine di utilizzare piani più agevoli e strumenti (progetti) ad esso collegati più efficaci. In termini di confronto significativa è l’esperienza francese che prevede la realizzazione di PPR Plans de Prévention des Risques da allegare ai Piani urbanistici comunali (PLU Plan Local d’Urbanisme). Ogni PPR considera un evento specifico; determina un bacino di rischio in base all’avvenuto verificarsi di quell’evento durante gli anni precedenti nel comune considerato; indica le diverse tipologie di zone e i relativi regimi normativi ed infine prevede azioni di sensibilizzazione della popolazione che risiede in un’area soggetta a rischio (andando anche prevedere forme assicurative sulle abitazioni). Trattasi di veri e propri piani urbanistici che risultano molto pratici, in quanto realizzati con iter procedurali semplici e con contenuti dettagliati. La tesi sostenuta nel presente contributo è quella, a livello italiano, di introdurre non tanto nuovi piani urbanistici ma piuttosto progetti specifici per ogni rischio naturale 3, capaci di rendere un piano efficace e sempre aggiornato in termini di sicurezza. In tali strumenti dovrebbero essere contenute simulazioni volte ad individuare “bacini di rischio”, a seconda della tipologia di evento, e valutare il rischio attraverso la definizione delle singole componenti (pericolosità, vulnerabilità ed esposizione). A partire da tali simulazioni, sarà possibile definire azioni e/o interventi sostenibili di messa in sicurezza del territorio, al fine di contenere gli eventuali effetti ambientali che i possibili eventi potrebbero causare. Potranno a riguardo essere determinate azioni da porre in essere in tempo di pace, in fase di pre-allerta, emergenza o post emergenza 4. Nel merito si segnala un’esperienza di ricerca effettuata in passato (2005) 5 circa la zona genovese interessata dall’alluvione del novembre 2011, finalizzata allo studio del sistema scolastico in una situazione di emergenza dovuta al verificarsi di un evento alluvionale. Inizialmente è stato analizzato il sistema scolastico nelle sue diverse componenti (scuola materna, elementare,…) considerando i seguenti parametri: ubicazione, tirante d’acqua previsto in caso di alluvione in corrispondenza dei locali, tipologia costruttiva, grado di manutenzione, servizi usufruibili, numero ed età degli studenti. Tale analisi è stata svolta in un’area a forte rischio idraulico con un tempo di ritorno di 50 anni, comprendente la parte bassa dei quartieri di Marassi, San Fruttuoso e il quartiere Foce, tutte zone tristemente colpite dalla recente alluvione del 2011. Da evidenziare che in tale area di studio, il sistema scolastico è particolarmente significativo con le sue 27 strutture frequentate da 9000 studenti di età diverse; in Figura 1. si riporta una mappatura relativa alla localizzazione delle strutture scolastiche sovrapposte alle aree storicamente inondate da eventi con tempi di ritorno pari a 50, 200 e 500 anni. In una seconda fase, avendo determinato i servizi scolastici più a rischio (attraverso la valutazione della pericolosità, vulnerabilità ed esposizione) sono state effettuate alcune simulazioni relative alla fase di pre-allerta, volta a definire piani di evacuazione degli studenti con trasferimento degli stessi in strutture poste al di fuori dell’area a rischio. A riguardo sono stati effettuati: un’analisi specifica sul sistema viario della zona, visto che la Val Bisagno costituisce uno dei punti di maggiore importanza sia per la viabilità cittadina sia per l’attraversamento della città stessa, e uno studio sul sistema di protezione civile, ossia delle forze in gioco, nell’area. Nel merito sono stati 3
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Attualmente in Italia sono stati realizzati PTC della Provincia che gestiscono il territorio attraverso l’utilizzo di progetti integrati, alcuni dei quali specifici per i rischi naturali. Per la fase di prevenzione possono essere definiti interventi strutturali quali arginature (per la pericolosità), consolidamento di un edificio (per la vulnerabilità) o cambiamento di destinazioni d’uso di edifici (per l’esposizione) oppure interventi non strutturali quali campagne di informazione, sensibilizzazione e formazione. Per la pre-allerta (per gli eventi che possono avere un tempo di allerta) si potrebbero ipotizzare evacuazioni, chiusura di percorsi stradali con indirizzamento a percorsi alternativi...; per l’emergenza potrebbero essere determinate le forze in gioco e i percorsi per raggiungere persone in difficoltà...; per la post emergenza potrebbero essere definite azioni volte al ripristino della situazione originaria. Trattasi di una ricerca svolta nel 2005 dalla scrivente e da altri colleghi dall’equipe di pianificazione territoriale della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova.
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predisposti diversi scenari per l’evacuazione (vedere Figura 2), che considerano il trasporto degli studenti attraverso mezzi pubblici su percorsi diversi (in sede promiscua con il traffico privato, su corsie riservate e tratti in sede promiscua, scortati da pattuglie delle forze dell’ordine,...). L’ipotesi di spostare gli studenti delle scuole che si trovano nell’area campione verso strutture ubicate in zone più sicure risulta un’idea innovativa, da considerare all’interno di “progetti specifici sui rischi naturali” allegati a nuovi piani comunali urbanistici. Tale azione può essere attuata, tuttavia, solo se il sistema di protezione civile è in grado di dare una risposta rapida atta a garantire il termine delle operazioni di trasferimento prima del verificarsi dell’evento alluvionale, con congruo margine di sicurezza, conoscendo a priori il tempo di pre-allerta disponibile. Il tempo ritenuto utile nello studio effettuato considera che tutte le operazioni debbano concludersi entro un’ora.
Figura 1. Carta della localizzazione delle strutture scolastiche in aree storicamente inondate (T=50-200-500 anni)
Figura 2. Esempio di tabella tempi/scenari per l’evacuazione di una scuola ad alto rischio
Note conclusive I piani, proposti nel paragrafo precedente, potrebbero così realmente disporre di una conoscenza approfondita del territorio per diverse problematiche (nel caso trattato, la messa in sicurezza del territorio da eventi calamitosi) ed essere sempre attuali per le scelte da effettuare (banca progetti: previsti ed attuati secondo priorità di intervento e risorse disponibili). A livello nazionale, sarebbe interessante elaborare “atlanti di rischio naturale” capaci di fornire linee guida per la predisposizione di progetti specifici da inserire nei piani urbanistici alla diverse scale di riferimento (in particolare quella comunale). La Liguria, ad esempio, è una regione che manifesta una certa sensibilità rispetto ai rischi idraulico, franoso e da incendi boschivi, dovuti a caratteristiche del territorio e all’azione dell’uomo in termini di sfruttamento del suolo sia per un eccessivo inurbamento sia per azioni negative che si ripercuotono sul nostro clima. A riguardo, si sta consolidando una localizzazione precisa del rischio nella regione ligure così come in altri territori. Corretto sarebbe pertanto parlare di una nuova perimetrazione, non più amministrativa, riduttiva per la problematica in oggetto, ma relativa al bacino di rischio considerato. Tali atlanti dovrebbero pertanto essere predisposti a partire dalle conseguenze causate dagli ormai noti cambiamenti climatici che hanno o tuttora stanno consolidando la geografia dei rischi naturali non solo in Italia ma, come testimoniamo le recenti calamità occorse, nel più ampio panorama internazionale.
Francesca Pirlone
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Bibliografia Fabietti W. (1993), Progetti mirati e pianificazione strategica, Gangemi Editore, Roma. Menoni S. (1997), Pianificare e incertezza, Elementi per la valutazione e la gestione dei rischi territoriali, FrancoAngeli, Milano. Pirlone F. (2009), I rischi naturali nelle prassi ordinarie di pianificazione e gestione urbanistica. L’importanza della temporalità nella sicurezza del territorio, Alinea Editrice, Firenze. Tiboni M. (2002), La prospettiva dello sviluppo sostenibile. Pianificare per la sicurezza la città e il territorio, Sintesi Editrice, Brescia. Tira M. (1997), Pianificare la città sicura, Edizioni Librerie Dedalo, Roma.
Francesca Pirlone
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“Antropocene” Millo 2012 ®
Atti della XV Conferenza Nazionale SIU Società Italiana degli Urbanisti Pescara, 10-11 maggio 2012
L’Urbanistica che cambia. Rischi e valori
by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723-0993 | n. 25, vol. 2/2012