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EDITORIALE
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Roma dʼestate sembra un gigantesco barbecue inscatolato e sigillato. Ma non preoccupatevi, Taxi Drivers non va in vacanza. Anzi. Già durante la realizzazione della copia che avete ora tra le vostre mani abbiamo cominciato a lavorare per proporvi nel numero 15 unʼulteriore sfida. A luglio, quindi, per rispondere alla crisi, ma anche alla canicola estiva, usciremo con un fresco formato pdf, consultabile direttamente sul nostro sito www.taxidrivers.it. Sarà il primo vero numero speciale della rivista, dedicato esclusivamente a Charles Band e alla sua produzione. Lʼobiettivo è come sempre di specializzarci anche nellʼambito dei sottogeneri del cinema ʻindieʼ con approfondimenti su autori dimenticati e da riscoprire: tutti argomenti su cui la critica sempre più spesso sceglie di sorvolare. Primo step, dunque, in attesa di un nuovo sito che possa accoglierli al meglio garantendo semplicità e continuità. Speranze che ci auguriamo vogliate condividere con noi. Nel frattempo buone vacanze a tutti. (Giacomo Ioannisci)
TAXI DRIVERS
Direttore: Vincenzo Patanè Garsia (vincenzo@taxidrivers.it) Caporedattore: Giacomo Ioannisci (info@taxidrivers.it) Concept designer: DolceQ (info@dolceq.com) Ufficio stampa: Giorgiana Sabatini (press@taxidrivers.it) Editor testi e immagini: G. M. Ireneo Alessi (ireneoalessi@gmail.com) Web developer: Fabio Ottaviani (webmaster@gruppoperigeo.it) Grafico pubblicità: Rosario Capuano (info@rosariocapuano.it) Account: Stefania Conversano (taxidriversmagazine@gmail.com) Direttore responsabile: Alberto Castelli Pubblicità, abbonamenti, arretrati: taxidriversroma@gmail.com Hanno collaborato a questo numero: Rita Andreetti, Iacopo Bevilacqua, Damiano Biondi, Luca Biscontini, Elisabetta Colla, Lucilla Colonna, Piero Ferraro, Roberto Fontana, Gianmarco Fumasoli, Simone Giongrandi, Salvatore Insana, Francesco Lomuscio, Laura Novak, Fabio Sajeva, Alessandra Sciamanna, Daniele ʻDannoʼ Silipo, Vito Sugameli, Michele Traversa, Alex Visani. Corrispondente da Londra: Ant-Bi Contatti redazionali Telefono: 3939213376; 3384234159; 3884790113 Skype: taxidrivers1 Sito: www.taxidrivers.it Myspace: www.myspace.com/taxidriversmagazine Facebook: Taxi Drivers In copertina: Che - Lʼargentino Si ringrazia la Bim per la gentile concessione In allegato: Fino allʼultimo respiro
Errata corrige Taxi Drivers n.13 In copertina nel numero precedente abbiamo erroneamente scritto David Ftincher, ma la forma corretta è David Fincher. Autorizzazione n.2 del Tribunale di Velletri, 30 Gennaio 2007 Rivista registrata al R.O.C. 16238 JOLANDA EDIZIONI p.iva 09349131004
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DVD ALLEGATO: FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
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FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
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(À BOUT DE SOUFFLE) di Luca Biscontini
Che cosʼè un capolavoro? È unʼopera in cui la rappresentazione della realtà è sottoposta ad una torsione tale da provocare un rovesciamento delle prospettive e delle forme usuali, con unʼimmediatezza e un vigore che confondono, e al tempo stesso estasiano, coloro che ne fruiscono. “Fino allʼultimo respiro” (1960) scuote lo spettatore con un sonoro ceffone, destandolo dal torpore in cui era immerso, per poi deliziarlo con trovate visive impareggiabili, spazzando via, in un sol colpo, tutte le sedimentazioni accumulate nello scaffale dellʼimmaginario. Il film manifesto della Nouvelle Vague realizzava quanto i nuovi registi francesi (Truffaut, Chabrol, Rohmer, Rivette) avevano fortemente sostenuto nella rivista di critica cinematografica “Cahiers du cinèma”, ossia la volontà di sbarazzarsi del cinema classico francese (Carnè, Duvivier) per confrontarsi, attraverso nuove modalità, con i grandi autori americani (Hitchcock, Ray, Hawks). La storia messa in scena è tratta da un breve soggetto che Françoise Truffaut aveva scritto ispirandosi ad un fatto di cronaca verificatosi in Francia alla fine degli anni Cinquanta: un banditello, dopo aver rubato unʼauto e ucciso un poliziotto, intraprende una scapestrata fuga con la sua amante verso lʼItalia, prima di essere braccato e ucciso dalla polizia. Jean-Luc Godard non ne ricavò neanche una sceneggiatura, limitandosi a compilare quotidianamente un piccolo registro di riferimento, che disattendeva sistematicamente durante le riprese. La rivoluzione sintattica che stava mettendo in atto avrebbe scardinato irreversibilmente le regole acquisite, portando una ventata dʼaria nuova sulla stantia “macchina” cinematografica. La frantumazione dinamica delle scene eseguita con i celeberrimi “jump-cut” (salto nel montaggio) opera una decisa sintesi narrativa, oltre a restituire la frenesia psicologica dei personaggi, mentre i vari piani-sequenza possiedono una forza espressiva tale da attestare inequivocabilmente lʼemancipazione semantica dellʼimma-
gine rispetto al “testo a monte”. Ma lʼanticonvenzionalità di “À bout de souffle”, a differenza di altre pellicole dʼavanguardia, riesce a non assumere quel tono accademico che ne avrebbe fatto il feticcio dei soliti cinefili. La leggerezza che trapela tra le pieghe della drammaticità del racconto dona unʼatmosfera picaresca che desacralizza le innovazioni stilistiche apportate. Le innumerevoli trovate del film - prima fra tutte il leggendario movimento del pollice con cui Michel Poiccard (Belmondo) si sfiora le labbra - sono divenute archetipi dellʼiconografia contemporanea. Tra le tante sequenze degne di nota, si distingue particolarmente lʼultima in cui il nostro anti-eroe, colpito mortalmente alle spalle, cade a terra e, anziché pronunciare le frasi di rito prima di spirare, ripropone goliardicamente le varie smorfie della faccia mimate durante lʼintero arco del film. Dopo il decesso, Patricia (Seberg), la fidanzata, non si scompone, il suo volto imperturbabile guarda in camera, mentre ripete, con automatismo inquietante, il celeberrimo gesto del pollice. Si potrebbe ironicamente pensare che la ragazza abbia istantaneamente introiettato il defunto, compiendo quella narcisizzazione dellʼestinto che caratterizza lʼelaborazione freudiana del lutto, ma questo psicologismo pret-a-portè può far giusto sorridere. In realtà è il carattere anti-narrativo del film che ci spiazza, sbeffeggiandoci. Jean-Luc Godard ha percorso un itinerario cinematografico molto complesso e diversificato, praticando una sperimentazione forsennata che spesso ha frastornato un pubblico non ancora del tutto pronto alle acrobazie stilistiche proposte. Chi conosce e ama Godard sa perfettamente che la condizione preliminare da cui è stato sempre ispirato risiede in quel famoso adagio contenuto nella parte conclusiva del saggio di Walter Benjamin sul cinema, quando lapidariamente si afferma: “Il fascismo persegue lʼestetizzazione della politica. Il comunismo gli risponde politicizzando lʼarte”.
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TAXI DRIVERS con “FINO ALL'ULTIMO RESPIRO”
Qui a 6 euro!!! ROMA
Edicole Via Magliana, 132 / 186
Fusolab Via Pitacco, 29 (Prenestino)
Edicola Piazza Walter Rossi (Balduina)
distribuzione by Jolanda edizioni
Edicola Piazza Risorgimento (Centro) Edicola Campo de fiori (Centro)
Edicola Torre Argentina, 14 (Centro) Edicola Via Arenula 12b (Centro)
Edicola Piazza di San Cosimato, 55 ( Centro) Edicola Piazza Vittorio, 85 (Termini)
Edicola Termini (prima entrando da via Giolitti)
Edicola Termini (prima entrando da via Marsala) Edicola Piazza Esedra (di fronte Feltrinelli) Edicola Via Cavour 257
Edicola Piazza Venezia (dentro il bar Castellino) Edicola Via Merulana, 139 (San Giovanni) Edicola Via Vittorio Veneto
Edicola Piazza Cola di rienzo, 68 (Prati) Edicola Piazza Cola di rienzo, 75 (Prati)
Edicola Piazza Cola di rienzo, 110 (Prati) Edicola Viale Giulio Cesare, 101
Edicola Viale Pinturicchio, 75 (Flaminio) Edicola Via Chiana, 61A (Salario)
Edicola Via Giovanni Pacini, 26 (Salario) Edicola Piazza Isonzo (Corso Trieste)
Edicola Viale Trastevere/Morosini (Trastevere) Edicola Largo Beltramelli (Tiburtino) Edicola Piazza Bologna
Edicola Via Albalonga (Piazza Re di Roma) Edicola Via Ostiense 151 (Piramide)
Edicola Stazione Roma lido (Piramide)
Edicola Via Tiburtina 111 (San Lorenzo) Edicola Verano (San Lorenzo) Edicola Stazione Trastevere Edicola Stazione Tiburtina
Edicola Piazzale Aldo Moro
(di fronte università La Sapienza)
Edicola Via Tormarancia, 40 (Tormarancia) Edicola Piazza dei Geografi (Pigneto) Edicola Via Grimaldi (Marconi)
Edicola Via Lenin (Trullo)
Edicola Via R. Rossetti (Piazzale Clodio) Edicola Via Ubaldo degli Ubaldi (Boccea) Edicole di Via Boccea
Edicola Piazza Irnerio (Boccea) Edicola Via Cornelia (Boccea)
Edicola Via Angelo Emo (Medaglie dʼoro) Edicola Piazza Mazzini (Prati)
Edicola Viale Giulio Cesare (Lepanto) Edicola Piazzale degli Eroi Edicola Piazzale Clodio
Edicola Viale Angelico/Viale Mazzini (Prati) Edicola Via Pacini (Salario)
Edicola Circonvallazione Clodia
Edicola Circonvallazione Trionfale
Edicola Piazza Santa Maria Liberatrice (Testaccio) Edicola Stazione (Nettuno)
Edicola Via Ennio Visca (Nettuno) Edicola Stazione (Anzio)
Edicola Via Gramsci (Anzio)
Edicola Via Nettunense (Villa Claudia- Anzio) Libreria Casa del cinema Largo Mastroianni (Villa borghese)
Libreria Rgb46 Piazza Santa Maria Liberatrice, 46 (Testaccio)
Libreria del Cinema Via dei Fienaroli, 31D (Trastevere) Libreria Eternata Via Gentile da Mogliano, 184 (Pigneto)
Sounds Factory Via Crescenzio, 41 (Prati) Videoteca Effetto notte Via Galvani (Testaccio)
Videoteca Videobuco Via degli Equi (San lorenzo)
Videoteca Filmania Via Stamina, 2 (Piazza Bologna) Videoteca Blow up Via dei Fabbri, 22 (Anzio) Cinema Detour (Monti)
Cinema Nuovo Sacher (Trastevere) Cinema Alcazar (Trastevere)
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Cinema Alphaville (Pigneto) Cineclub Grauco (Pigneto)
FIRENZE
distribuzione by Hulot www.hulot.it
Edicola Piazza delle Cure
Edicola Via degli Alfani 99
(Zona universitaria Brunelleschi)
Edicola Via dell'Oriuolo (Piazza Duomo) Edicola Arco di San Pierino
(Arco di San Pierino zona S. Ambrogio) Edicola Piazza della Libertà Edicola Via dei Vecchietti,
zona Piazza della Repubblica
Libreria TuttoLibri, Viale De Amicis
BOLOGNA
distribuzione by Cronosfilm www.cronosfilm.com Via Rizzoli, 9
Via Zamboni, 24
Via Mascarella 24/b (libreria modo infoshop)
FERRARA
distribuzione by Cronosfilm www.cronosfilm.com
Via Savonarola (Zona universitaria)
PESCARA
Distribuzione by Jolanda Edizioni www.taxidrivers.it
Videoteca Visioni Maxistore Viale Guglielmo Marconi, 25
CHIETI
Distribuzione by Jolanda Edizioni www.taxidrivers.it
Libreria Universitaria Via dei Vestini, 116 Libreria De Luca Via Materdomini, 23
EDICOLE DISTRIBUZIONE TAXI DRIVERS + FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
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TAXI DRIVERS
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PERIODICO DI CINEMA E CULTURA METROPOLITANA
INTERVISTE 11...........................................JOHNNY PALOMBA 25........................................... PETER MARCIAS 28............................................GIACOMO AGNETTI E DAVIDE BAZZALI 28............................................GIUSEPPE PIZZO
RUBRICHE
7................................................................COVER: CHE – LʼARGENTINO 8................................................................COVER: STEVEN SODERBERGH 9................................................................NEWS 10.............................................................WEB TRAILERS 43.............................................................CINEMA E PSICHE: GIANCARLO SIANI 47.............................................................LOND-ON: NICOLAS ROEG
FOCUS ON
15....................................................I LOVE RADIO ROCK 16....................................................LA PAURA RIFÀ 80: DA “THE FOG” A “MY BLOODY VALENTINE 3D” 17................................CASSEL IN FUGA DA MESRINE - NEMICO PUBBLICO N.1: LʼORA DELLA FUGA 18...................................................PERSEVERARE DIABOLICUM - CHUCK PALAHNIUK 19...................................................X-MAN LE ORIGINI - WOLVERINE
FESTIVAL
21...................................................TEK (Taxi drivers media partner) 22...................................................MARTELIVE (Taxi drivers media partner) 23...................................................EST FILM FESTIVAL, TUSCIA FILM FEST, VIDEOCORTO
RECENSIONI
26 ................................................INDIE 29 ...............................................CORTOMETRAGGI 33................................................MOVIE OUT RIGHT NOW 36................................................CINEMA SOMMERSO
FINAL CUT
49............................................................ARTURO DI CORINTO: OPEN YOUR “SOFTWARE” 50............................................................VALÉRIE (DIARIO DI UNA NINFOMANE)
DVD ALLEGATO
(solo in edicola)
4.......................................FINO ALL'ULTIMO RESPIRO
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COVER
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CHE L’ARGENTINO di Fabio Sajeva
Intravediamo un anfibio logoro e poi una tuta mimetica, per passare ad una mano che tiene un sigaro. Dettagli di una vita e poi il volto di Benicio Del Toro, barba identica allʼeroe della guerriglia cubana, sguardo sicuro di sé, impegnato in unʼintervista con una giornalista. Steven Soderbergh deve avere pensato mille volte a come aprire questo film ed ha deciso che lʼinafferabilità della vita di un uomo ci porta a cercare di comprenderne sempre più dettagli, sempre più aneddoti, soprattutto quando quellʼuomo è il “Che”, al secolo Ernesto Guevara, dottore di origine argentina, che ha dedicato la sua vita alla conquista di un mondo nel quale tutti potessero avere gli stessi diritti. «Lʼimpresa non sarà facile», dichiara palesemente il regista allʼorigine del progetto, con incerti movimenti della macchina a mano che cercano tra i dettagli una verità possibile su questʼuomo straordinario. Il film inizia a Città del Messico nel luglio 1955 in un appartamento nel quale lʼargentino, esiliato dal Guatemala dopo la sua prima attività politica, incontra Raul Castro, fratello del futuro Generale Fidel. Dopo aver appreso la situazione seguita al colpo di Stato del 1952 ad opera del Generale Fulgencio Batista, Guevara decide di unirsi al gruppo di ottanta ribelli capitanati da Fidel Castro che partirà il 26 novembre 1956. Il passaggio immediato dallʼatmosfera casalinga di Città del Messico a quella avventurosa della savana di Cuba rende concreto allo spettatore il peso delle rinunce alle quali quegli uomini si sottoposero. La macchina da presa è ferma e segue i personaggi passo dopo passo, mettendo in evidenza la crudeltà della guerriglia ed al tempo stesso la dimensione di quotidianità nella quale si muovono questi uomini. Il “Che” era sempre stato soggetto ad una grave forma di asma e Soderbergh dichiara con la sua insistenza nellʼinquadrare il Co-
mandante sofferente, che arranca tra gli arbusti, appoggiandosi agli alberi, che il nostro eroe è prima di tutto un uomo. Ispirato al “Diario della rivoluzione cubana” dello stesso Guevara, il film è farcito di citazioni, arrivando fino ad appesantire il racconto con interi stralci della dichiarazione del “Che” presso lʼAssemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1964. Soderbegh affronta per la prima volta nella sua carriera il genere biografico e passa attraverso una durissima selezione di materiali (comprendenti sette anni di ricerche) che lo portano a privilegiare tutto ciò che non è apologetico, forse proprio per andare in senso contrario a quella politica radical-chic che vede giovani di ogni età e ceto sociale indossare magliette con la serigrafia di un volto noto. “Che - Lʼargentino” è un film sulla coerenza di un uomo più che sul suo successo ed a confermare questo atteggiamento da parte del regista ci sono diverse citazioni inserite allʼinterno del film. La più toccante è quella tratta dalla stessa intervista che apre il film e che a tratti rientra nella narrazione. La giornalista chiede al “Che”: «Quali devono essere le qualità più importanti per un rivoluzionario?». Il Comandante risponde secco: «Lʼamore per lʼumanità, la giustizia e la verità». Mirabile è la ricostruzione della battaglia di Santa Clara, vero sprone per i ribelli che subito dopo compresero la reale possibilità di vittoria. Il film si conclude con lʼarrivo allʼHavana. Si esce dalla sala in uno stato di malessere che inizialmente avevamo attribuito al film, ma che presto ci rendiamo conto essere legato al fatto che nella realtà che ci attende fuori non ci sono più speranze come quelle che muovevano un uomo straordinario come il “Che”. Di quei valori è rimasto solamente il merchandising.
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SE L’INDIPENDENTE SI FA ACCALAPPIARE
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STEVEN SODERBERGH: DAGLI “OCEAN’S” AL “CHE” di Rita Andreetti
Dopo averci stupito per la rapidità di movimento con la quale è sgusciato da una parte allʼaltra dellʼHollywood System facendosi amare e invidiare da tutti, Steven Soderbergh ritorna al film impegnato. Comparve sul finire degli anni Ottanta, per chi se lo ricorda, con una pellicola che guadagnò più di quanto tutti si aspettavano e si acciuffò pure la Palma dʼoro: era il “Sesso, bugie e videotape” (1989) di questo giovanotto della Georgia, che ha fatto parlare di sé molto di più nel momento in cui la sua duttilità produttiva ha incontrato la gallina dalle uova dʼoro (George Clooney) in “Out of sight” (1998), e poi un pezzo ben più pregiato, la travolgente Julia Roberts (con lui nel 2000 in “Erin Brockovich - Forte come la verità”). Qua e là tra azione e sguardo politico-civile, tra successi di botteghino e successi di critica, e la scintilla scocca. Tuttavia, la vera potenza di Soderbergh sta nel non aver mai perduto il contatto col panorama indipendente americano: qualcosa di diverso dalla penombra sdrucita delle sale di seconda visione, un classico fino a qualche decennio fa per gli esclusi dal mainstream. Lʼindipendente con cui Soderbergh va a braccetto è il piglio sociale di cui sempre più spesso avvertiamo la mancanza: seppure si sia in fretta abituato ai corpulenti budget hollywoodiani, rimane in lui un sottofondo di tematiche concrete, talvolta scomode, e mecenatismo produttivo furbetto. Perciò: si gira prima tutta la serie di “Ocean” undicidodicitredici, poi produce il Clooney del graffiante “Good night and good luck” (2005); sbanca gli Academy con “Traffic” (2000) e si permette finezze come “A scanner Darkly” (2006); co-dirige nel 2004 con artistoni tipo Antonioni e Kar-Wai (“Eros”), poi ripiega nel 2006 sul vintage dai sapori noir (“Intrigo a Berlino”). Pare quasi che abbia trovato il dosaggio più equilibrato tra la busta paga delle Major e prodotti che stimolano addirittura una riflessione europea-dʼessai-
impegnata. Regista umano e attento ad ammiccare al pubblico, quindi, che destreggia i moti dellʼanimo e sa appassionare per le cause che i suoi protagonisti difendono; un attento selezionatore, nonché accorto direttore alla fotografia. Scelte strategiche e veri e propri investimenti artistici, coronati dalla sua firma puntuale, che rimangono appesi il più possibile allʼidea di cinema indipendente e libero di parlare. Con questi concreti presupposti nasce “Che - Lʼargentino” e “Che Guerriglia”, dove ribadisce il connubio professionale già vincente con il caliente Benicio Del Toro. Il binomio di film è chiaramente uno scontro di petto contro lo storico e lʼimmaginario mitizzato fino allʼesaltazione, e poco importa che lʼombra della potenza americana abbia impedito le riprese nella vera Cuba. In quei suoi duecentosessantatre minuti il Che si racconta in tutta lʼemozione dei suoi viaggi e delle sue battaglie, per restituire lʼalito di quella energica speranza che fino allʼultimo rantolo aveva sostenuto. La storia si allontana dalla politica schietta, via dai rimorsi intercorsi tra Guevara e Castro, via dalle posizioni americane di rifiuto, via dallʼostilità degli stessi partiti comunisti boliviani: se la cava così Soderbergh, trascinatore di pubblici, affrescando un idolo umanizzato ed educato, senza contestare la sua sacrosanta immortalità. Se la cava così, con tutto il rispetto per la passione, ma senza parlare delle questioni scottanti e proponendo un film-fiume difficile da presentare: un grande mito sullo schermo, con la sua grande lezione di vita, ma non abbastanza grande da vincere la sfida di rendere diffusamente digeribili quattro ore di cinematografia moderna. Ancora una volta il Che rimarrà a quei pochi intimi che se la sentiranno di ascoltare: per tutti gli altri cʼè lʼicona della magliettina.
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A BOLOGNA NASCE LA CRONOS FILM di Giacomo Ioannisci
A Bologna è stata fondata la prima agenzia di distribuzione cinematografica per autori indipendente. Il nome del progetto è CINECIRCUITO ed è promosso dallʼAssociazione di Produzione video-cinematografica CRONOS FILM (www.cronosfilm.com). Con lʼobiettivo primario di dare respiro alla realtà indipendente, non solo dellʼEmilia Romagna ma su tutto il territorio nazionale, CRONOS FILM si impegna, nella produzione cinematografica, a garantire il rispetto dellʼidentità artistica degli autori tramite lʼesperienza maturata e le attrezzature a sua disposizione. Tra queste si distingue un acquisto di ultima generazione, la Red One Camera, nuova entrata del mercato italiano: una cine-camera che apre finalmente le frontiere dellʼalta definizione anche al cinema indipendente e low-budget. Ideatori del progetto sono tre giovani videomaker di Bologna e Ferrara, attivi nel panorama indipendente già da diversi anni: Christian Battiferro, regista e sceneggiatore, già collaboratore del MEI - Meeting delle Etichette Indipendenti - per il quale dal 2006 ha curato lʼorganizzazione del PIVI Premio Italiano Videoclip Indipendente - e ideatore di VideoCoop, la rete di festival collegata al PIVI; Mirco Sgarzi, pluripremiato direttore alla fotografia, con alle spalle oltre una trentina di opere; Rita Andreetti, già assistente alla regia di Liliana Cavani, premiata regista indipendente e sceneggiatrice. Tutte new entry anche del nostro magazine Taxi Drivers, perché lʼindipendenza cinematografica ha bisogno di referenti del settore per poter crescere. E anche la nostra realtà editoriale ha bisogno sempre di più punti di visti e delle osservazioni di chi il cinema indie lo vive, lo
CARD CINEMAMENO BY MOVIEPLAYER.IT
Movieplayer.it (il nuovo sito dedicato a cinema, tv, homevideo, eventi e personaggi ndr) offre gratuitamente un servizio molto utile per tutti coloro che amano andare al cinema: la Card Cinemameno. Vi spieghiamo cos'è e come funziona, bastano pochi click. Seguiteci! Con la Card Cinemameno potrete andare al cinema ad un prezzo esclusivo, mai superiore a cinque euro, sempre sette giorni su sette ed in qualsiasi fascia oraria (sul sito troverete i cinema convenzionati allʼiniziativa presenti ad oggi in ogni regione e provincia italiana). Ottenerla è semplicissimo: basta essere registrati a Movieplayer.it (lʼiscrizione è assolutamente gratuita e non implica nulla di diverso da una semplice registrazione ad un sito online) ed avere effettuato il login, visitare la pagina dedicata alla Card www.movieplayer.it/cinemameno ed infine cliccare su stampa (devi avere una stampante collegata al pc). Una volta ottenuta la vostra Card potrete presentarla alla cassa dei cinema convenzionati ed avere così diritto allo sconto previsto dal servizio.
crea, lo nutre. Nello specifico, CINECIRCUITO (www.cinecircuito.com) è un progetto di sostegno degli autori indipendenti nella distribuzione via festival delle proprie opere, ovvero la prima agenzia di distribuzione per autori indipendenti che accompagna lʼautore disorientato dallʼaffollato e caotico ambiente dei festival, nella selezione dei concorsi più congegnali, nella spedizione delle opere, nella promozione delle stesse sulla rete e nei mercati adibiti alla distribuzione cinematografica. I primi risultati sono già presenti allʼinterno di questo numero nella rubrica cortometraggi, ma gli ideatori ci assicurano che per il futuro ce ne saranno delle belle: lungometraggi, corti, documentari e videoclip musicali. Per maggiori informazioni è possibile consultare i siti già segnalati o contattare direttamente la CRONOS FILM allʼindirizzo e-mail: info@cronosfilm.com
L'utilizzo della Card è illimitato anche se viene ritirata alla cassa del cinema. Dal momento in cui viene generata ha validità una settimana fino al suo utilizzo, poi sarà necessario stamparne una nuova. L'iniziativa di Movieplayer.it, sicuramente utile, nasce dalla volontà di offrire un servizio che sia unico in tutta Italia e che permetta a tutti di poter incrementare la visione di film al cinema usufruendo sempre di una tariffa agevolata e bloccata per evitare gli aumenti di prezzo o il lievitare delle tariffe nei weekend. Tutte le info utili su: www.movieplayer.it/cinemameno
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WEB TRAILERS
WEBTRAILERS
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ALIEN RAIDERS Regia di Ben Rock (USA, 2008) Sito: www.youtube.com
Lʼesordiente regista americano Ben Rock rispolvera la minaccia aliena, gettando lo spettatore a caccia dellʼinvasore allʼinterno di un supermarket e regalandoci una discreta regia, forse unico aspetto veramente convincente di tutto il lungometraggio. Ennesima dura prova quindi per gli alieni che tentano in tutti i modi di conquistare la Terra ma vengono sempre interrotti da qualcuno. Per lʼoccasione, infatti, Rock manda una vera e propria squadra speciale a caccia del malcapitato omino verde. Il compito dei “buoni” è quello di fare in modo che lʼospite non lasci il negozio e possa quindi contaminare il pianeta. Uno scuro e tetro ritorno allʼhorror del passato, ma senza arte ne parte dove niente è ciò che sembra e tutto potrebbe rappresentare una minaccia. Ma cosa vogliono gli alieni? Perché provare di nuovo a conquistare la Terra? E poi scusatemi, ma qualcuno potrebbe dirmi perché partire da un supermarket? Ah sì certo, il 3X2…
BEFORE THE FALL Regia di F. Javier Gutierrez (Spagna, 2008) Sito: www.beforethefallthefilm.com
Se qualcuno avesse pensato di essersi ormai salvato dai terribili meteoriti assassini che dal grande schermo giungono per distruggere il pianeta, F. Javier Gutierrez è pronto a smentirlo. Tanto per ricordarci che la catastrofe è sempre dietro lʼangolo, il prode regista spagnolo rispolvera il cataclismatico protagonista di “Armageddon” e “Deep impact”, gettando nuovamente la popolazione mondiale nel panico. Grazie di tutto Javier. Cosa fareste se il mondo finisse nelle prossime settantadue ore? Vi chiudereste in casa per ubriacarvi o vi sparereste un colpo in testa con un fucile? Sta di fatto, comunque, che gli abitanti di Laguna, una piccola cittadina nel Sud della Spagna, la pensano in modo diverso e, spinti al limite dalla notizia dellʼannientamento imminente, daranno vita ad una serie di situazioni che vanno al di là delle convenzioni che hanno accompagnato la loro esistenza fino a quel momento. Ma… un momento… e il meteorite? Bruce Willis aiutaci tu!
a cura di Gianmarco Fumasoli
PESTICIDE Regia di Pat Cerrato (USA, 2009) Sito: http://robojapan.blogspot.com
Possono i pesticidi usati in maniera indiscriminata dar vita a giganteschi insetti carnivori che seminano il panico per la città di New York? Sembrerebbe di sì, soprattutto se a fuggire troviamo casalinghe pensionate che urlano anziché darsela a gambe. Certo che se a contrastare la terribile minaccia mutante cʼè un poliziotto con la pancia che con lo stesso tono con cui avverte i cittadini del pericolo imminente, potrebbe ordinare un hamburger da McDonaldʼs allora il quadro è completo… Dʼaltronde oggi nel contesto cinematografico mondiale una commedia ambientalista ci voleva, qualcosa che facesse sorridere e nello stesso tempo fosse capace di puntare il dito. Ma è solo una proposta? Oppure è già una pellicola che rischia di approdare qui da noi? “Pesticide” di Pat Cerrato certo ha tutte le carte in tavola per divenire un ottimo film comico. Ma non era un horror?
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SPLINTER Regia di Toby Wilkins (USA, 2008) Sito: www.splinterfilm.com
Un film horror che colpisce nel segno e garantisce allo spettatore continue scariche adrenaliniche, grazie al regista Toby Wilkins che passa dietro la macchina da presa dopo essersi occupato di montaggio ed effetti speciali. E sono proprio gli effetti visivi agghiaccianti, infatti, assieme ad una prorompente colonna sonora, che rendono questo viaggio allucinante una perla rara per chi, alla ricerca continua di forti emozioni, spesso si ritrova con un pugno di mosche in mano. La pellicola in sé certamente non brilla per la recitazione se fatta eccezione per il vero protagonista dellʼopera: un virus che si nutre dei corpi, li infetta divorandoli dallʼinterno per poi trasformare lʼignaro ospite in un enorme istrice ricoperto di aculei. Un classico b-movie claustrofobico anni Ottanta riproposto in chiave moderna, che probabilmente purtroppo non approderà mai nel Belpaese.
NEL RECINTO DER PALOMBA
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Intervista al recensore Johnny
di G. M. Ireneo Alessi
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INTERVISTA
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Allʼultima edizione del Cortoons cʼera anche Johnny Palomba, un insolito e stravagante personaggio, a metà strada tra un poeta vernacolare dʼaltri tempi, un reporter ed un supereroe. La sua è una storia rocambolesca, con un passato tra luci e ombre, ed un presente da direttore artistico della Fandango Web. Di lui sappiamo pochissimo: colombiano di nascita ma romano dʼadozione, dopo aver svolto innumerevoli attività, comincia a scrivere recensioni cinematografiche, o meglio “recinzioni” - come ama lui stesso definirle -, comiche e concise, in seguito pubblicate da Fandango Libri. Il suo stile, decisamente ʻsui generisʼ, può essere racchiuso da tre “capisardi”: lʼocchiello, la trama e la morale, che più spesso assomiglia ad una vera freddura, attraverso i quali coglie lʼessenza di un film, inchiodandone i suoi pregi e difetti. Fra gli scritti ricordiamo “Cotica della ragion pura” e “Tuttopalomba”, il meglio del peggio, entrambi editi da Fandango Libri. Durante il reading letterario Johnny afferma che il dialetto romano è la lingua perfetta per il giornalismo, per via della sua sintesi fulminea e per la sua osmotica capacità di coinvolgere il pubblico. Tra i film dʼanimazione declamati nel corso della performance live ritroviamo: “Shrek”, lʼormai famoso orco di casa DreamWorks, “Lʼera glaciale”, “Alla ricerca di Nemo”, “Wall-E”, “Ponyo” ed anche “Persepolis”, o meglio, “Prezzemolis” - secondo la ridefinizione palombiana - “la vita sofferta de ʻna persiana aperta”. Sebbene attivo dal 2001, Johnny confessa di non aver ʻrecintatoʼ molti film di animazione, ma avverte un comun denominatore, vale a dire, che sovente questi prodotti sono realizzati meglio di tanti altri film tradizionali. Pertanto, manifesta la propria disposizione nei confronti di tale genere nonché verso il festival stesso. Divertiti dalla sua loquacità e dal suo velato sfottò che non risparmia nemmeno i colleghi giornalisti, riusciamo, in ultimo, a rivolgergli un paio di brevi domande. Johnny, data la tua singolare esperienza, che cosa significa parlare, o meglio, scrivere di cinema nel 2009? Secondo me vuol dire trovare linguaggi nuovi ed è proprio ciò che ho cercato di fare, con molta semplicità, cioè parlare seriamente di cinema con un effetto che, poi, non lo è affatto, uscendo, insomma, dagli schemi della critica convenzionale. Non a caso, a volte, alcuni colleghi mi dichiarano che avrebbero voluto asserire riguardo quel dato film le stesse cose che ho detto io. Allora mi domando perché non lo fanno? Forse perché evidentemente certe cose non si possono dire, o perché manca il coraggio. Ma il mio non è coraggio. Ho pure una maschera. Io ho trovato un linguaggio che per forza deve dire delle cose, che ti obbliga…
molto complicato. Grazie al digitale chiunque potrà cimentarsi nella realizzazione di un film fatto in casa, ad esempio attraverso programmi molto semplici come Final Cut. E ciò vale soprattutto per lʼanimazione perché parla con immediatezza e per i cortometraggi. Purtroppo, però, il cinema vero rimane una macchina che mette in moto una troupe di un minimo di trenta persone al giorno, cosa che costa tantissimo. Ed anche se cʼè la voglia di fare qualcosa di nuovo, di diverso, ci sʼillude che questa si possa fare con poco. Io non credo che si facciano film con ventimila euro, a costo zero o cose di questo tipo. Il cinema per me resta un qualcosa di artigianale che coinvolge il lavoro di diverse persone.
Tornando a te, di cosa ti occupi oltre a scrivere recensioni? Se non sbaglio, dirigi un programma radio sul web, giusto? Anche noi abbiamo da poco lanciato Radio Taxi Drivers, una trasmissione che va in onda tutti i sabati sera al Fusolab. Ci hai mai ascoltato? Qualche consiglio da dare? Io sono direttore artistico di Fandango Web Radio, dove conduco il programma che va in onda tutte le mattine dalle 9.30 alle 10.30 e, poi, dalle 16 alle 18 insieme a Nicola Roumeliotis. Non ho avuto modo di farlo e non vorrei dire una balla, ma vi ascolterò. Ti dirò, la bellezza delle web radio è che puoi dire quello che cacchio te pare. Puoi fare veramente quello che vuoi. Come mettere dieci volte un brano o passare di seguito due pezzi dello stesso autore, cose folli che normalmente in radio non si possono fare e che sfuggono alle regole imposte, da non so chi. Si può parlare per dieci minuti di fila, scordandosi di alternare quei quattro minuti fra parlato e musica, ecc. Tutte stronzate. Cʼè una grandissima libertà, insomma. Certo, poi, magari fai cento ascoltatori al massimo, «machissenefrega...». Link utili: http://johnnypalomba.wordpress.com http://www.radiofandango.it
Cosa ne pensi invece del cinema indipendente? Ultimamente se ne parla molto anche in Italia, non trovi? Beh, di cinema indipendente in Italia ce nʼè tantissimo, anche se, poi, tecnicamente la distribuzione non è tale. Io, ad esempio, vengo da una casa di produzione, la Fandango, che per anni ha fatto un certo tipo di cinema che possiamo definire indipendente, per lo meno dal punto di vista delle idee. Anche se non esattamente autoprodotto, ma nemmeno quel genere di cinema che deve seguire le regole di mercato. Il problema lo sanno tutti che è la distribuzione. In Italia noi abbiamo due realtà, la Rai e Medusa. Una appartiene allo Stato e lʼaltra pure, quindi non cʼè sbocco, non cʼè possibilità.
Credi che si tratti solo di una questione di possibilità? Come vedi i giovani filmaker dei nostri giorni? Il punto principale è la visibilità. Tuttavia, anche se adesso ci sono mille canali come internet o festival come questo, che agevolano, in un certo senso, la diffusione dei video, il cinema è e rimane - 12 -
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I LOVE RADIO ROCK 11-05-2009
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FOCUS ON
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di G. M. Ireneo Alessi
“Mai sentito parlare di nave pirata?” - Verso la fine degli anni Sessanta alcuni trasgressivi deejay trasmettevano il ʻrockʼ a bordo di imbarcazioni ancorate appena fuori dai confini territoriali di Sua Maestà. Nessun orribile “Jolly Roger”, dunque, né tanto meno lʼesotico Mar dei Caraibi, ma solo le frigide acque del Mare del Nord, da dove provenivano e provengono, tuttora, i vividi ricordi di Richard Curtis, lʼuomo che si cela dietro ai maggiori successi britannici degli ultimi tempi come “Quattro matrimoni e un funerale”, “Il diario di Bridget Jones”, “Notting Hill” e “Love actually”, nonché capitano di un viaggio privilegiato fra la musica degli anni Sessanta e i DJ della radio più folle di tutti i tempi, dove il rock and roll è lʼunica medicina contro il mal di mare. Sono questi gli anni in cui i polverosi corridoi del potere si adoperano per reprimere qualsiasi esuberanza giovanile (suona un poʼ familiare), di unʼepoca densa, fatta di radio nascoste sotto al cuscino e di un sottile fascino per lʼillegalità. La sceneggiatura di “The boat that rocked” (questo, il titolo originale) si presenta come una sfida non facile per il regista poiché, oltre al retaggio storico-musicale di quegli anni, egli vuole rappresentare la crescita di Carl, un diciottenne introverso, espulso dalla scuola e mandato a vivere dal padrino. La storia è naturalmente vista dietro le sottili lenti della comicità e della leggerezza tipiche di Curtis. Ma come combinare insieme lʼamore per la musica, la commedia ed il sentimento, portando sul grande schermo una tale concezione? La risposta risiede in quella sinfonia vintage che va dai Kinks agli Who, passando per i Rolling Stones, Jimi Hendrix, The Supremes e molti altri, la quale ricrea una magia che con-
quista al primo ʻincontroʼ, proprio come un colpo di fulmine o, meglio ancora, come il giovane Carl letteralmente rapito dalla “fringe” della dolce Desiree. La musica non è solo il fine, ma il pretesto ed il metodo per raggiungere un simile obiettivo. Richard stesso racconta di aver lavorato continuamente alla sceneggiatura, riadattandola e cucendola intorno agli attori che si era prefigurato. Per farli entrare nel vivo dellʼatmosfera, poi, ha dato loro degli iPod carichi del migliore sound anni Sessanta e fatto registrare un lungo training in radio perché “è difficile imparare ad essere un deejay”. Iniziate nel marzo del 2008, infatti, le riprese si sono protratte per un totale di quattordici settimane, un iter decisamente fuori dal comune. La trovata migliore rimane, comunque, quella di aver mandato lʼintero cast “in campeggio sulla barca”, a vivere e familiarizzare provando tutto il giorno. Lo spirito anarchi-comico ha fatto il resto, regalando unʼinterpretazione molto naturale, in sintonia con il taglio informale delle inquadrature e gli angusti spazi. La storia di “I love Radio Rock” non presenta solo gli otto vivaci personaggi che trasmettendo 24 ore su 24 da una nave arrugginita e i loro fugaci amori, ma anche i fanatici del governo che tentano in tutti i modi di combatterli. La controparte a terra è Sir Dormandy, ʻsorridente cattivoʼ interpretato da Kenneth Branagh che ritorna in scena dopo aver indossato i panni di Henning von Tresckow in “Operazione Valchiria”. Il suo personaggio concorre a chiudere il quadro di unʼepoca fatta di passioni e contraddizioni che ancora oggi proietta un certo magnetismo su di noi. Chissà poi perché? A noi X Factor, Amici ed i suoi emuli, agli altri la “Storia” della musica. Buon viaggio!
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LA PAURA RIFÀ '80:
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FOCUS ON
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DA “THE FOG” A “MY BLOODY VALENTINE 3-D” di Francesco Lomuscio
È ormai chiaro che, al di là di rarissime eccezioni quali “Jeepers creepers - Il canto del diavolo” (2001) di Victor Salva e “Identità” (2003) di James Mangold, il cinema della paura a stelle e strisce del nuovo millennio sia sempre più incapace di sfornare soggetti originali, preferendo la strada della scopiazzatura del classico o del cult di turno, quando non propende per quella ancor più banale del remake. Ma, se in un primo momento il decennio più gettonato sembrava essere quello degli anni Settanta con i rifacimenti di “Non aprite quella porta”, “Amityville horror” e “Le colline hanno gli occhi”, recenti titoli come “The fog”, “The hitcher” e “Venerdì 13” lasciano tranquillamente intuire uno spostamento di sguardo da parte dei produttori hollywoodiani verso il periodo in cui spopolò Freddy Krueger, del quale, tra lʼaltro, è stata ultimamente annunciata una rilettura finanziata dalla solita Platinum dunes di Michael Bay. Un aspetto dellʼodierno panorama cinematografico americano è che da un lato si avverte la mancanza dʼidee innovative, dallʼaltro si attesta come da sempre, nella maggior parte dei casi, gli autori più interessanti e coraggiosi siano quelli che popolano lʼuniverso delle cosiddette produzioni minori e dei b-movie. Inizialmente bistrattati dalla luccicante e patinata Hollywood, sovente vengono rivisitati dopo averne intuito le indubbie potenzialità commerciali. Quindi, la storia si ripete, in quanto, se negli anni Ottanta la mecca del cinema decise di assorbire talenti quali David Cronenberg e John Carpenter, precedentemente autori di veri e propri classici dellʼhorror realizzati con piccoli budget poi rivelatisi inversamente proporzionali alla qualità delle operazioni, oggi che sembra di nuovo aver bisogno di attingere dal cinema bis, mostra una certa tendenza nel rifarne i titoli che lo popolarono allʼepoca. Infatti, al di là dei possibili remake di “Hellraiser” di Clive Barker e de “La casa” di Sam Raimi, gli spettatori più attenti avranno sicuramente fatto caso allʼuscita di film come “Che la fine abbia inizio” di Nelson McCormick e “Scherzo letale” di Mitchell Altieri e Phil Flores. Il primo, distribuito dalle nostre parti nellʼestate del 2008, prende le mosse dal brutto “Non entrate in quella casa”, interpretato nel 1980 dallʼallora scream queen Jamie Lee Curtis sotto la regia di Paul Lynch, ma, al di là dello stesso titolo originale (“Prom night”), sembra esservi legato soltanto a causa dellʼidea di partenza che prevede una festa da ballo con sterminio di teen-ager; il secondo, invece, lanciato in Italia direttamente in dvd, si rifà al poco celebrato “Pesce dʼAprile” che, firmato nel 1986 dal sottovalutato Fred Walton, raccontava di una sanguinosa festa consumata il primo Aprile. Due slasher-movie, quindi, cui si aggiunge ora “My bloody Valentine
3-D” di Patrick Lussier (già regista dei tre “Draculaʼs legacy” e di “White noise 2: The light”), che la Medusa ha lanciato nelle sale lʼ8 Maggio con il rivoluzionario sistema 3D. Il punto di partenza è questa volta “Il giorno di San Valentino” di George Mihalka, uno dei titoli meno noti del filone, datato 1981 e circolato poco, oltre che tagliato, nel paese degli spaghetti fino allʼedizione in dvd Paramount (comunque censurata). Come il titolo stesso lascia intuire, lʼobiettivo principale del lungometraggio è quello di rivisitare attraverso il sistema di visione tridimensionale la non disprezzabile vicenda del serial killer che, camuffato sotto il travestimento da minatore, massacra giovani coppie appartate nel giorno della festa degli innamorati in una miniera, teatro anni prima di unʼaccidentale strage. Con Jensen Ackles, Jaime King e Kerr Smith nel cast, aspettiamoci picconate e schizzi di sangue in arrivo verso i nostri occhi. In attesa dellʼuscita di “The stepfather” di McCormick, remake dellʼomonimo thriller diretto nel 1987 da Joseph Ruben.
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CASSEL IN FUGA DA MESRINE NEMICO PUBBLICO N.1 L’ORA DELLA FUGA di Vito Sugameli
«Come si immagina da vecchio?» - chiede la giornalista del periodico francese Match. «Non vivrò così a lungo da diventare vecchio» - risponde Mesrine. Per lui, considerato il pericolo pubblico numero uno, la vita è un gioco; la strada, il suo teatro. “L'ora della fuga”, parte seconda della biografia dedicata al più pericoloso criminale della storia francese, è un racconto spietato e meschino. Richet ne sviluppa il mito in un'escalation di azioni sempre più drammatiche e insensate; una diapositiva più reale e meno appariscente della precedente, attenta soprattutto a descrivere le condizioni sociali dell'epoca - importanti sono i rimandi alla situazione politica estera con chiari riferimenti alla banda Baader Meinhof in Germania e all'omicidio di Aldo Moro in Italia. Al centro della narrazione c'è però la crescente perdita di contatto con la realtà di Vincent Cassel, qui in fuga dal suo stesso personaggio e vittima delle sue semplicistiche riflessioni. Il cambio di direzione è evidenziato da una fotografia tendente al seppia (molto anni Settanta), dalla colonna sonora - qui più melodrammatica - e da una sceneggiatura che perde talvolta di chiarezza tanto è densa. Scampato alla cattura centinaia di volte ed evaso di prigione per ben due, Mesrine non si da pace e continua la sua ricerca della felicità, nonostante ne abbia ormai perso il senso; perché a questo punto della storia non sono i soldi a governare le sue scelte quanto una confusa percezione dell'esistenza. Finisce addirittura per essere arrestato in una camera d'albergo, ma non smette di
sembrare sarcastico e spaccone brindando ammanettato con il commissario Broussard (Oliver Gourmet) - colui il quale firmerà la sua morte. Il mito è talmente vivo nell'immaginario collettivo che in prigione non si preoccupa della sua condizione di salute quanto della sua popolarità. Insoddisfatto della crescente perdita di interesse da parte dei media, decide di scrivere un romanzo autobiografico. Quel romanzo è proprio “L'instinct de mort” da cui Jean-François Richet - spalleggiato da Abdel Raouf Dafri - ha steso lo script definitivo. Il regista francese non ha solo spezzato la storia in due segmenti, li ha resi indipendenti e diametralmente opposti: se ne “L'istinto di morte” si prende parte al suo apprendistato, ne “L'ora della fuga” se ne raccoglie il chiassoso e futile senso. Colui che credeva di agire per dei saldi ideali; il ladro gentiluomo che si credeva un invincibile anarchico, deve infine fare i conti col suo ego e scontrarsi con la macchina della verità. La tragedia non colpisce soltanto il Mesrine-criminale, quanto l'uomo e il suo sentimento di solitudine, poiché nonostante i molti avvisi, non è riuscito a frenare i suoi assurdi e vanagloriosi deliri di onnipotenza. Per Cassel sarà difficile svestire i panni del gangster tarchiato e barbuto e dimenticare quanto i suoi mille travestimenti lʼabbiano migliorato. E noi spettatori difficilmente dimenticheremo la sua straordinaria interpretazione.
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PERSEVERARE E´ DIABOLICUM CHUCK PALAHNIUK
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di Rita Andreetti
Lʼesperienza non è nuova. Perché la prima volta di Chucky P. è stato quel celeberrimo viaggio condotto da due veterani come Brad Pitt ed Edward Norton. E adesso lo sgomento narrativo e raccapricciante di Palahniuk ritorna, dopo Fincher ed il suo “Fight Club” (1999), con Clark Gregg e “Soffocare”. Una scelta davvero underground, ma del resto risulta complesso trovare qualcosa che non lo sia nellʼuniverso malato e ribelle di questo scrittore americano ormai famoso in ogni dove. Non è chiaro se la sua parlata così schietta e fuori da ogni schematismo perbenista, sia più affascinante perché ci racconta il lato dignitosamente malsano e comune dellʼessere umano, o perché esiste una sottile forma di sadismo nel sentire le sue storie folli ben descritte e ricche di particolari. Non che il suo narrare si addobbi di vezzi: la fotografia graffiante a cui Palahniuk fa riferimento, arde di reale fino allʼosso, a partire dal sentimento tenero fino alla peggiore schifezza. Ecco perché i suoi libri si prestano così logicamente ad essere messi in scena. E il suo, come si diceva, è stato davvero un esordio dʼonore: chi meglio di Fincher per descrivere lo sprezzo metabolizzato dei personaggi di “Fight Club”, che se le suonano di santa ragione e con un gusto quasi invitante? Ecco perché il Clark Gregg attore e obiettivamente poco esperto regista (questa è la sua opera prima) si cimenta in un terreno quanto mai ardimentoso, con alle spalle un precedente di lusso: i personaggi di Chucky P. hanno tutti un personale emisfero di normale malattia, perfettamente integrato con la narrazione in prima persona che descrive tutto il resto come malsano, mentre il pubblico non capisce più dovʼè la distorsione. Provocante questo autore, che si impunta su questa tolleranza al marcio comunemente sviluppata, e porta i propri protagonisti per esigenza ad essere assurdi e anarchici: cannibali, violenti, sadici, ce nʼè
per tutti. Ed è tutta brava gente a cui i vizietti sono solo un poʼ scappati di mano: eppure, nessuna condanna, perché nel Mondo Palahniuk non esistono cattivi, ma solo personaggi costretti ad esserlo. In “Soffocare” il protagonista è Victor Mancini, e la fobia di turno, in questo caso, è la sesso dipendenza. Ma cʼè dellʼaltro: Victor si guadagna da vivere come può. Perciò la sua attività più produttiva consiste nel conquistare il cuore della gente appagando il desiderio di eroismo dei comuni mortali: inscenando svariati soffocamenti da bolo mal ingoiato, Victor si lascia strappare alla morte, e giova della benevolenza dei suoi salvatori che poi lo mantengono a suon di regali. Un altro personaggio che si fa ammirare per lʼincredibile genialità, e contemporaneamente ci schifa perché ci rendiamo conto che ogni limite è superato: è lo stesso grottesco perfido del Jack-Brad Pitt che impiegava lʼabbondante grasso umano per farci del sapone. Più ecosostenibile di così… “Soffocare” è ancora qualcosa di diverso. Usciamo dalle atmosfere buie e marcite, per esplorare un mondo tutto colorato e abitato da fantocci stilizzati, così tremendamente familiari. Sarà stato il suo passato un poʼ tormentato, ma la fredda lucidità con cui Palahniuk scansiona la realtà sommersa da overload mediatici, è travolgente. Per questo si fa detestare ed è capace di conquistare allo stesso tempo. A Clark Gregg non resta che ritrasmettere in forma visiva una macchina perfetta, che prima ancora di cominciare ti ha già invitato a lasciar perdere (“Se stai per metterti a leggere, evita”): perché Palahniuk sa che lʼuomo è tristemente infido e persevera soltanto in ciò che è diabolico. Ecco perché siamo tutti suoi lettori. Quindi andiamo a vederci pure il film.
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LE ORIGINI WOLVERINE di Francesco Lomuscio
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«Quando ho cominciato a simulare il personaggio di Wolverine, buono ma non simpatico, spigoloso, lʼho visto un poʼ come lʼarchetipo dello schermo, un condensato di diversi eroi cinematografici. Con questo film si è un poʼ evoluto perché, mentre prima ignorava il proprio passato, ora abbiamo avuto modo di mettere i puntini sulle lacune». A parlare è il sex symbol del grande schermo Hugh Jackman, il quale, dopo aver vestito i panni del supereroe artigliato Logan alias Wolverine in “X-Men” (2000) diretto da Bryan Singer e tratto dallʼomonima serie a fumetti Marvel, è tornato poi a ricoprire lo stesso ruolo nei sequel “X-Men 2” (2003), sempre per la regia dellʼautore de “I soliti sospetti”, e “XMen-Conflitto finale” (2006), a firma di Brett “Rush hour” Ratner. Ora lo ritroviamo impegnato a far luce sulla genesi di questa affascinante macchina da guerra dalle incredibili doti taumaturgiche nel prequel “X-Men le origini - Wolverine”, diretto dal sudafricano Gavin Hood, interprete negli anni Novanta di diversi actionmovie a basso costo (lo possiamo vedere in “Senza esclusione di colpi 2” e “Kickboxer 5”) e autore nel 2005 della pellicola premiata agli Oscar “Il suo nome è Tsotsi”. E lo stesso regista ha dichiarato: «Quando Hugh mi ha avvicinato per la prima volta sono rimasto sorpreso, perché non avevo mai fatto un film del genere, poi, però, abbiamo parlato e riflettuto molto sulla tradizione cinematografica dellʼeroe solitario alla Clint Eastwood; quindi, mi sono andato a leggere i fumetti da cui è tratta la serie e ho scoperto molti elementi del personaggio di Wolverine, come il fatto che si dedichi allʼautoanalisi, tanto che la sua storia finisce per rappresentare un poʼ il punto di rottura con il citato eroe che non ha bisogno di nessuno». Come cʼera da aspettarsi, quindi, non siamo più nel futuro prossimo dei primi tre lungometraggi, ma in un passato non troppo distante, collocabile allʼincirca negli anni Settanta, con flashback che ci portano indietro anche di centocinquanta anni, mentre assistiamo alla tragica storia dʼamore
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tra Kayla Silverfox (Lynn Collins) e il protagonista, membro del Team X, gruppo di militari sotto copertura composto esclusivamente da mutanti quali il feroce Victor Creed/Sabretooth (Liev Schreiber), fratello di Wolverine, il mercenario specializzato in alta tecnologia Wade Wilson/Deadpool (Ryan Reynolds), lʼesperto segugio e cecchino letale Agente Zero (Daniel Henney), il fortissimo colosso obeso Fred J. Dukes/Blob (Kevin Durand), Wraith (Will i Am), in grado di teletrasportarsi, e Bradley (Dominic Monaghan), che può controllare lʼelettricità. Tutti sotto la direzione di William Stryker (Danny Huston), tra dialoghi e momenti dʼazione dosati con mestiere, senza dimenticare dʼintrodurre versioni giovani degli storici eroi della saga, da Emma Frost a Ciclope, di cui il regista spiega: «In questa serie, ciò che ho trovato interessante è il fatto che temi e idee siano diversi dagli altri film riguardanti i supereroi, perché qui non abbiamo solo il buono che combatte il male, ma una vicenda meno semplice e più complessa». Per quanto riguarda lʼeffetto speciale più difficile da realizzare, è sicuramente quello per la scena in cui Jackman, completamente nudo, precipita da una cascata di circa trecento metri; per realizzarla, infatti, è stato necessario scannerizzare il corpo dellʼattore al fine di ricrearlo digitalmente. Il protagonista di “Van Helsing”, cui non dispiacerebbe interpretare la saga giapponese di Wolverine e lavorare con il nostro Gabriele Muccino, non può fare a meno di dire la sua sullʼormai noto atto di pirateria che ha colpito il loro film ancor prima dellʼedizione definitiva destinata alle sale: «La notizia della copia pirata ci ha spezzato il cuore, perché tutti abbiamo lavorato sodo durante la lavorazione del film; ovviamente, si tratta di una copia vecchia, perché dopo la sua circolazione abbiamo lavorato per altri quattro mesi, ma ci ha rincuorati il grande sostegno che, soprattutto la comunità online, ci ha dato reagendo alla cosa».
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MARTELIVE
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I CORTICIRCUITI DEL di Elisabetta Colla
Grande attesa per CortiCircuiti, la rassegna/concorso dedicata a giovani autori di cortometraggi, nata in seno al Festival MArteLive, giunto questʼanno alla sua nona edizione ed ormai celebre per la capacità di portare avanti egregiamente una mission impossible: quella di coinvolgere e valorizzare discipline artistiche molto diverse fra loro, in un variopinto Festival annuale che dà voce e forma alla pluralità delle arti. Il progetto CortiCircuiti prende vita sei anni fa allʼinterno della sezione del Festival riservata allʼarte audiovisiva - che conferisce grande importanza allʼambito cinematografico - e si è consolidato nel tempo come luogo privilegiato per la scoperta di talenti emergenti della cinematografia nostrana. La rassegna si articola, concretamente, in diverse serate, la cui visibilità è garantita dal network dei LocaliFriendsMArteLive, con un appuntamento settimanale durante il quale vengono proiettati sei cortometraggi in presenza dei rispettivi registi, attori e tecnici. I premi della rassegna, per i registi vincitori, rappresentano in genere occasioni di visibilità e promozione su network nazionali e internazionali e trampolino di lancio per altri noti Festival del territorio italiano, nonché possibilità di studio/formazione presso scuole e accademie specializzate. Tra i tanti premi che saranno conferiti al corto vincitore dellʼedizione 2009 è prevista, infatti, la partecipazione allʼEst Film Festival di Monte Fiascone (VT) - alla presenza di Carlo Verdone e di altri ospiti illustri - insieme ad altri riconoscimenti di prestigio attribuiti dai partner del MArteLive. Fra questi è compresa unʼintervista al regista vincitore, con messa in onda del suo corto, allʼinterno del programma “Minimovie” sullʼemittente Eco TV. Altra novità 2009 da segnalare, è il premio
che sarà assegnato al lavoro più meritevole per scenografia, trucco e costumi, dalla Lewis Carrol Factory, una giovane agenzia di special FX: oltre ad una targa speciale verranno offerti consulenza ed aiuto pratico per il successivo progetto del regista vincitore. La rassegna CortiCircuiti, che ha lanciato registi come Matteo Rovere (vincitore dellʼedizione 2007 e poi regista di un lungometraggio in concorso allʼedizione 2008 del Festival del Cinema di Roma), vuole rappresentare soprattutto unʼoccasione di affermazione e rilancio di giovani autori del cinema italiano che, a causa dei costi di produzione troppo ingenti e degli scarsi circuiti di promozione, faticano ad emergere. Oltre alla selezione di corti italiani, il pubblico avrà la possibilità di assistere anche ad un cosiddetto “corto dʼautore”. Sono due le giurie che voteranno i lavori migliori ed eleggeranno il vincitore in base alla somma dei voti: quella composta dai registi dello staff di LocalifriendsMArteLive e da un gruppo di critici cinematografici, alla quale si affianca una giuria popolare, composta dal pubblico partecipante allʼevento. Nel corso degli anni hanno partecipato, alla giuria “di qualità”, alcuni dei nomi di punta del nostro cinema dʼautore, fra i quali ricordiamo quelli dei registi Matteo Garrone e Roberto Faenza e del produttore Gian Paolo Vallati, e alcune fra le migliori firme della stampa specializzata. Durante le varie edizioni sono state infine allacciate proficue mediapartnership con web-magazine di settore come 35mm, Sentieri Selvaggi, Taxi Drivers, Cinema del Silenzio e Superga Cinema. Per ulteriori informazioni sui cortometraggi di CortiCircuiti è possibile consultare il sito www.martelive.it ed entrare nel vivo della rassegna con le interviste realizzate su www.martemagazine.it.
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FESTIVAL
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“TEK”
FESTIVAL
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RICOMINCIO DA
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IL FESTIVAL DEL CINEMA INDIPENDENTE E SOCIALE DAL 7 AL 13 MAGGIO A ROMA E FRASCATI
di G. M. Ireneo Alessi
Torna il Tekfestival “Ai confini del mondo… dentro lʼOccidente” che celebrerà la sua ottava edizione. Istantanea della più recente produzione di cinema indipendente, questʼanno, oltre al Nuovo Cinema Aquila di Roma, il Tek dilagherà presso lʼattraente Spazio culturale “Zip” di Frascati il 12 e 13 maggio. Lʼintento del festival, come di consueto, si muove lungo quattro linee guida: offrire agli astanti una vetrina delle migliori produzioni internazionali; promuovere la trasmissione del documentario sociale italiano incoraggiandone, altresì, la presenza del pubblico mediante incontri con gli autori ma, soprattutto, dare un contributo tangibile per la diffusione del documentario realizzando puntualmente un output, ovvero, il DVD di unʼopera approdata al festival. Uno tsunami di mostre, feste ed ospiti accompagnerà le proiezioni nellʼarco dei sette giorni di programmazione dove spiccheranno in particolare i cinquanta titoli con il meglio della produzione italiana ed internazionale dei documentari e dei lungometraggi narrativi “indie”. Con una media di quattromila persone circa lʼanno, il Tek si è ormai affermato nel panorama della promozione cinematografica internazionale e può ribadire la sua natura composita, capace di unire generi e soggetti differenti, frutto di un lavoro sempre più apprezzato sia dal pubblico che dalla stessa critica, soprattutto per la ricerca a 360° che si svolge fra i più importanti festival internazionali ed istituti di cultura, nonché per i rapporti diretti con le case di produzione, gli autori ed i network di filmaker. Tra i temi portati sugli schermi dellʼedizione 2009 vi saranno: “Panorami”, la sezione curata dal collettivo del festival e dedicata ai temi di attualità; “Zoom.it”, ovvero, una ʻzoomataʼ sulla produzione della
nuova leva di documentaristi italiani; “Eventi Speciali”, sette pregiati titoli che saranno accompagnati in sala da registi e registe, fra cui lʼanteprima di acclamate opere premiate allʼestero. Il “Concorso doc italiano”, rappresenta, invece, la sezione competitiva del festival giunta ormai alla sesta edizione, che vedrà gareggiare i dieci titoli ammessi in concorso e selezionati tra gli oltre trecento pervenuti. Nel prosieguo vi sarà, poi, la “Rassegna di cinema delle donne”, la finestra dedicata allʼapprofondimento delle figure femminili che hanno lasciato unʼimpronta nella cinematografia contemporanea. Ospite dʼeccezione: Helke Sander, la pioniera del cinema femminista tedesco. Ed inoltre, in occasione della ventennale caduta del Muro di Berlino, si potrà apprezzare “1989-2009 - La memoria del presente è la visione”, un percorso cinematografico nellʼEuropa della cortina di ferro per non dimenticare le terribili esperienze di chi ha vissuto aldilà di quel ʻmuroʼ. “Agender” è, invece, lʼatteso appuntamento che lancia uno sguardo radicale sui concetti di identità ed orientamento sessuale. Di non meno interesse è anche “Banda larga”, unʼincursione tra i gusti, le difficoltà ed i sogni delle nuove generazioni nellʼera della globalizzazione e del precariato. Sempre molto attenti allʼattualità, i temi affrontati dal Tekfestival rappresentano una valida testimonianza delle memorie collettive e individuali, di quella speranza per le nuove genesi e la ricerca delle proprie radici, tra libertà e religione, guerra e ostinazione, che da sempre contraddistinguono lʼessere umano nella sua più intima quanto universale accezione. Vi consigliamo, pertanto, di prenotare un posto fin dʼora. Noi ci saremo, come al solito, e voi?
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MARI E MONTI DA FESTIVAL
CARMINE AMOROSO ITALO MOSCATI FRANCO VIVONA
TRE EVENTI DELLA BELLA STAGIONE DALLA VOCE DEI PROTAGONISTI:
di Lucilla Colonna
Nei mesi estivi molti partiranno per la Barcellona di Vicky e Cristina e alcuni si spingeranno fino in Australia sulle orme di Nicole Kidman, ma chi è deciso a non farsi tentare dal buon Woody o dai set di Baz Luhrmann può scegliere dietro lʼangolo vacanze con proiezioni gratuite al chiaro di luna. Per cominciare, dallʼalto di un colle che domina gran parte della Tuscia, lʼEst Film Festival richiama un pubblico amante del cinema, della musica e del buon vino (famoso, per lʼappunto, lʼEst! Est! Est!) nei giardini della Rocca di Montefiascone, dal 25 luglio al 2 agosto. «Un festival organizzato da giovani, non da persone con le mani in pasta nell'ambiente politico», spiega il regista Carmine Amoroso (“Cover Boy”), vincitore dello scorso anno e, secondo la tradizione della rassegna, attuale presidente di giuria. «I giovani sono molto agguerriti nella comunicazione, specialmente sul web: Dopo aver vinto lʼArco dʼoro, mi sono ritrovato dappertutto. Il festival diventa un circuito di distribuzione alternativo per le opere prime e seconde che si iscrivono al concorso, e questo per il cinema indipendente è fondamentale. Inoltre, invece di dare una semplice targa, gli organizzatori si sono battuti per solidi premi in denaro». Sarà Carlo Verdone ad inaugurare la terza edizione della manifestazione, cui ci si può iscrivere con film, corti e documentari fino al 31 maggio (per informazioni: www.estfilmfestival.it). Alla scoperta di altri suggestivi luoghi dellʼAlto Lazio, ci porta dal 26 giugno al 1 agosto il Tuscia Film Fest, di cui è direttore artistico lo scrittore e regista televisivo Italo Moscati. Innanzitutto Viterbo, dove ogni sera gli spettatori potranno fare una visita guidata al Museo Nazionale Etrusco, prima di assistere alle proiezioni nel cortile quattrocentesco della Rocca Albornoz. Poi, cominceranno i fine settimana cine-itineranti, che toccheranno la splendida Civita di Bagnoregio, Nepi con il suo castello Borgia e la sua acqua lievemente frizzante, e infine Castiglione in Teverina, al confine con lʼUmbria. «Fortemente radicato in
un territorio dove hanno lavorato molti registi, compreso Fellini de “I vitelloni”, il Tuscia Film Fest si pone lʼobiettivo di offrire un cinema di qualità», dice Moscati. «Noi andiamo a verificare lʼinteresse della gente e poi scegliamo opere capaci di raccontare tematiche personali e sociali senza trascurare lo spettacolo, opere in grado di emozionare. Le difficoltà non sono poche, soprattutto ora che la crisi riduce le risorse disponibili, ma vogliamo che la nostra ricerca sia il più possibile libera, per non cadere nel letargo di quei festival che si avvalgono di appoggi politici». La rassegna estiva prevede un concorso di cortometraggi, cui ci si può iscrivere fino al 17 maggio, ma le iniziative del TFF durano tutto lʼanno e sono coordinate da Mauro Morucci (per informazioni: www.viterbocinema.com). Dagli speroni rocciosi della Tuscia, scendiamo al livello del mare e arriviamo a Nettuno, dove dal 15 al 19 luglio, a pochi passi dallʼacqua, si svolge il Festival Nazionale del Videocorto, condotto da una coppia molto affiatata sul palco come nella vita: Elvio Calderoni e Giulia Bartoli. «La manifestazione conferma una grande solidità organizzativa ed artistica anno dopo anno, come dimostrano le richieste di partecipazione dallʼItalia e dallʼEstero, che crescono continuamente sia in quantità che in qualità», dice il critico teatrale e cinematografico Franco Vivona, componente della giuria. «La presenza del pubblico è molto numerosa sia durante le proiezioni serali in spiaggia presso la Pro Loco, sia in occasione del salotto pomeridiano in piazza, un appuntamento fisso che rappresenta il fiore allʼocchiello del festival, in quanto non accade di frequente che autori, registi, attori, attrici e spettatori possano confrontarsi in un dibattito pubblico molto aperto e sempre estremamente costruttivo, esponendo aspetti organizzativi, tecnici, artistici ed economici dei corti presentati in concorso». Per i filmaker che vogliono iscriversi alla 14a edizione cʼè tempo fino al 16 giugno (www.videocortonettuno.it). Buon viaggio!
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FESTIVAL
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LAVORARE DA INDIPENDENTE INTERVISTA AL REGISTA SARDO
PETER MARCIAS
di Laura Novak
Peter Marcias è un giovane regista italiano che da anni si occupa di cinema realizzando documentari e lungometraggi di fiction. Nato ad Oristano, ha studiato cinema tra Roma e Bologna pur conservando le radici della sua isola, presente in moltissime sue opere. Lʼabbiamo intervistato per conoscere anche il suo punto di vista sul cinema indipendente. Come vivi, in qualità di regista indipendente, lʼisolamento che spesso questo tipo di cinema subisce? In verità non sento questo isolamento perché lavoro tanto. Però sono due mondi separati il cinema indipendente e quello così detto commerciale. Lʼho provato in prima persona quando è uscito nei cinema il mio ultimo film “Un attimo sospesi” (2008), in cui gli esercenti discutevano di numeri e incassi, ed io invece mi ero solo preoccupato di finire bene il film e stavo a sentire lʼaudio se andava bene. Lavorare da ʻindipendenteʼ mi ha permesso di crescere e sperimentare, questo è importante.
Il tuo documentario “Ma la Spagna non era cattolica?” affronta il tema dei diritti per gli omosessuali in un parallelo, spesso imbarazzante, tra il nostro Paese e la Spagna. Secondo te quali possono essere stati i fattori che hanno condotto la Spagna ad una tale apertura sociale? Sto curando i contenuti speciali del cofanetto dvd + libro di “Ma la Spagna non era cattolica?” (2007) che uscirà entro lʼanno in tutte le librerie dʼItalia e mi sono soffermato ad ascoltare Zapatero per lʼennesima volta che parlava al Parlamento spagnolo della legge sulle unioni omosessuali. Un discorso che ti lascia senza fiato. Poi invece se si ascoltano i nostri politici italiani viene la pelle dʼoca! La Spagna è un paese moderno, guidato da un leader giovane che ascolta i problemi dei suoi cittadini. Il contrario dellʼItalia. Hai dovuto superare degli impedimenti o intromissioni importanti per la realizzazione del documentario, dato lʼargomento spinoso affrontato? Appena ho proposto il progetto scritto con Marco Porru nessuno ci ha creduto. Ho parlato con tanti produttori e distributori. Ma mi sono “armato” di coraggio e mi sono messo a lavorare. A Roma ho girato più di ottanta ore di discussioni per la strada. I politici non
mi hanno ricevuto a parte qualcuno gentile come Franco Grillini. Per non parlare dei sacerdoti e delle suore: neppure una parola. Però sono andato avanti, lʼho montato e grazie alle Giornate di Cinema Omosessuale di Venezia curate da Daniel Casagrande e al Festival GLBT 2007 di Torino, dove il film era in concorso, lʼho mandato in sala. Lʼabbiamo presentato in molti festival internazionali ed è stato venduto in tante tv nel mondo, con grande soddisfazione.
Qual è il tuo genere cinematografico di riferimento, se ne hai uno? Da quali registi, nazionali o internazionali, ti senti ispirato? Non ho un genere cinematografico di riferimento. Fin da piccolo guardavo tutti i tipi di film. Davvero. Dallʼetà di 13 anni ho frequentato la Cineteca di Cagliari dove cʼerano rassegne di ogni tipo, da Fellini, Ozu, Cassavettes, dalla Nouvelle Vague ai film a tematica queer e videoarte. In questi anni ho riscoperto tutto Robert Altman, adoro Peter Weir, Mike Leigh, Todd Solondz e James Gray. Tra gli italiani seguo con grande piacere Gianni Amelio, Carlo Mazzacurati, Mario Martone e trovo geniale Paolo Sorrentino. Ma vedo sempre tutto di tutti. Il cinema è una seconda casa, ogni due giorni ci entro! Credi che possano esistere in futuro nuove forme di distribuzione, magari interattive, che siano per il cinema indipendente strade alternative verso il pubblico? Ma già ci sono, il pubblico preferisce acquistare un dvd di un film indipendente, inedito o uscito in poche sale, così lo “gusta” meglio in casa. E si vede con piacere i contenuti extra e i backstage. La sala ormai è per pochi, per i film che comunque rispettano quegli incassi molto elevati. Il cinema indipendente ci sarà sempre, anzi è in crescita e lo dimostrano gli ultimi dati Anica 2008. Sono abbastanza positivo, purtroppo però cʼè una crisi generale e questo tocca tutti. Qual è il tuo prossimo progetto? Sto preparando il mio nuovo film che spero di girare entro lʼanno, e poi continuo a portare “in giro” per lʼItalia “Un attimo sospesi”, che è stata una delle “esperienze” più importanti e affascinanti della mia vita. Per ora.
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INTERVISTA INDIE
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MALA TEMPORA Regia: Stefano Amadio Genere: Drammatico Paese: Italia, 2008 Durata: 81ʼ Distribuzione: — Sito: www.malatempora.it
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Per il regista romano Stefano Amadio “Mala Tempora” è un western medievale, un noir in cui i personaggi hanno due anime o nessuna, un thriller con molti omicidi e senza sangue ambientato tra gli eremi e le montagne abruzzesi. Pur essendo una storia farcita con tante micro-trame, lʼunico filo conduttore è un oggetto misterioso che si pensa sia causa di disgrazia semplicemente guardandolo. Per risolvere il dilemma il monaco dellʼeremo di San Bartolomeo, Pietro Del Sirente (Saverino Saltarelli), viene incaricato dalla contessa Iacovella di Matessa (Maddalena Maggi) di consegnarlo al Papa, lʼunica persona in grado di togliere la maledizione. Ma lungo il cammino non tutto andrà come previsto. Il monaco Pietro dovrà vedersela con persone disposte a tutto per quellʼoggetto. Templari, eremiti, banditi... “Mala Tempora” è un film piuttosto complicato, anche se in fin dei conti il cinema indie in Italia lo è sempre stato. La trama è molto ingarbugliata, mentre il ritmo con lʼavanzare dei minuti si fa sempre più lento. Certo, ha unʼottima fotografia, che risalta alla perfezione gli splendidi paesaggi incontaminati dellʼAbruzzo, e anche dei volti interessanti, spigolosi e ben scavati dal tempo, da vero Medioevo. Ma non bastano alcuni dettagli e un paio di scene, come la discesa nelle dantesche terre della nebbia, a sorreggere un film troppo lungo e pesante. Irrisolto. Letteralmente il titolo in latino vuol dire “corrono brutti tempi”. (Iacopo Bevilacqua)
A BONATTI STORY Regia: John Snellinberg Genere: Commedia Paese: Italia, 2007 Durata: 63ʼ Distribuzione: — Sito: www.myspace.com/johnsnellinberg
Le società umane sono regolate da principi uguali per tutti, anche se, ogni individuo, è diverso da chiunque altro. Ma, a quanto pare, in questa miscela eterogenea cʼè qualcuno che cammina lungo la carreggiata senza bisogno di indicazioni stradali; un uomo che se ne fotte di interpretare le prescrizioni della genetica, e sputa in faccia alla natura che gli ha donato unʼabilità fisica notevole. Questʼuomo risponde al nome di Valter Bonatti e, la sua storia, ci viene raccontata dai suoi ex allenatori, dai compagni della squadra di calcetto in cui gioca e dai suoi compaesani. Bonatti, infatti, è un capocannoniere dal piede caldo che avrebbe sicuramente meritato un destino migliore… Il film, frutto di un anno di lavoro, è costato circa 140 euro. Firmato da tale John Snellinberg (pseudonimo dietro al quale si cela un collettivo di filmaker), “A Bonatty Story” è una sorta di documentario in bianco e nero - ambientato a Vaiano, in Toscana - con tanta voglia di divertirsi e divertire. La storia colpisce nel segno, la regia è sobria e la colonna sonora aggiunge un tocco ʻpulpʼ ad unʼatmosfera di periferia. Insomma, siamo di fronte ad una genuina espressione del cinema indipendente italiano che, ancora una volta, giunge a risultati sorprendenti con il minimo indispensabile e grazie ad un cast di attori in erba. Nel frattempo John Snellinberg è alle prese con un altro lungometraggio, che si prospetta più ricco (in tutti i sensi) rispetto ai progetti precedenti. Staremo a vedere… (Roberto Fontana)
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STRETTI AL VENTO Regista: Daniele Guarnera, Francesco Del Grosso Genere: Documentario Paese: Italia, 2008 Durata: 95ʼ Distribuzione: Audio Foto System Sito: www.strettialvento.com
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Personalità eminenti della vela italiana raccontano le loro esperienze nel mezzo dellʼOceano. “Stretti al Vento”, da poco proiettato con successo al RIFF 2009, potrebbe sembrare solo questo. E, invece, con uno stile assolutamente contemporaneo, asciutto, ma cromatico e visivo, i registi di questa piacevole avventura fra le onde, raccontano navigatori esperti, felicemente immersi, spesso da tutta una vita, in un viaggio nellʼinconscio, in un confronto quotidiano con se stessi, nellʼinebriante solitudine che accompagna il sogno dellʼOceano. In assoluta libertà di movimento e di pensiero, il viaggio è compiuto da uomini eclettici ed estrosi, nella completa sintonia con la natura. Le varie interviste hanno portato la mini troupe in giro per lo stivale, toccando alcuni dei porti e circoli nautici più belli e importanti dʼItalia come quelli di Rimini, Rapallo, Viareggio, Fiumicino e Riva di Traiano. La potenza espressiva del mare, il suo mistero affascinante e la sua imprevedibilità, sono elementi ben incastrati tra le parole e gli sguardi dei navigatori, commossi dallʼanimosità del vento e dalla profondità del mare. La vela esula quindi dalla sua possibile funzione di hobby o di lavoro. Per loro è uno stile di vita, tortuoso ed emotivo. Ognuno di loro in fondo, rimettendo in discussione la carriera, le relazioni personali ed i propri obiettivi, sceglie lʼincertezza delle onde contro lʼincertezza della staticità. Una scelta che, proprio come una meravigliosa ed altera barca a vela, ha lʼesigenza di essere condotta, tra pericoli e tempeste, fino alla quiete del porto (Laura Novak).
NARCISO Regia: Marcello e Dario Baldi Genere: Drammatico Paese: Italia, 2008 Durata: 95' Distribuzione: Nervous Pixels Sito: www.cisofilm.com
Testamento spirituale di Marcello Baldi, regista dalle forti radici cristiane morto a ottantacinque anni poco dopo la fine delle riprese tra i suoi monti trentini, “Narciso”, premiato come miglior lungometraggio italiano al RIFF 2009, è una storia di tolleranza e sacrificio, tentativo disperato di riconquista dʼun rapporto non conflittuale tra uomo e natura, di unʼarmonia fatta di gesti che hanno nella semplicità e nellʼessenzialità la loro forza. Affidandosi al volto ed al corpo di Roberto Herlitzka, monumentale nel suo essere scavato dagli anni così come le rocce, le gole e le terre dʼalta montagna, il film si fa apologo sulla possibilità di comprensione del diverso, che irrompe imprevisto ma non per questo pregiudizialmente visto come elemento dannoso allʼarmonia dʼuna vita che fino ad allora non era stata altro che comunione tra simili. Il diverso in tal caso viene dallʼIndia, è nella pelle nera e nella religione musulmana della madre e del nipote di Narciso, ex alpino orgoglioso del suo passato di combattente ed ora anziano e solitario produttore di formaggio. Tardo negli anni, ma non per questo arroccato nella difesa dʼuna identità rigida, egli capirà, nel susseguirsi dolce dei rituali dʼuna estate, come un abbraccio fatto di comprensione e solidarietà possa ridurre a zero le distanze anche tra Bombai e le valli trentine. Darà la vita per questo, colpito a morte dalla perfidia intollerante dei conterranei, quasi riproposizione dellʼesemplarità del gesto del Cristo in croce. (Salvatore Insana)
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INTERVISTE INDIE
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“ABOUT LOVE”
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INTERVISTA A GIACOMO AGNETTI di G. M. Ireneo Alessi
“Che cosʼè lʼamor?” – canta da qualche parte Capossela. Chiedetelo al “vento”, se ne avete voglia. Oppure, guardate un irriverente corto realizzato da due brillanti trentenni, Giacomo Agnetti e Davide Bazzali, vincitori, con il loro “About Love”, della sezione italiana di Cortoons 2009. Realizzato nel giro di una settimana con la tecnica dello stop-motion, lo short narra, in appena 4ʼ30, la storia dʼamore tra Adam e Jane mediante lʼutilizzo delle ʻcalamite da frigoʼ, come spunto per unʼimmaginifica ricerca di un gruppo di scienziati. Nonostante la profonda crisi che imperversa la nazione, sembra ci sia ancora qualcuno, armato di buona ʻcreativitàʼ, che voglia mettere a frutto il proprio talento. Quandʼè cominciata la tua avventura cinematografica? Hai sempre avuto le idee chiare? Raccontaci un poʼ la tua esperienza… Non ho mai avuto unʼidea precisa su cosa avrei fatto nella vita, ma ho sempre scritto e fatto un gran numero di fotografie, così un giorno mia madre mi ha consigliato: “beh, fondi le due cose e prova a far cinema!”. Sono andato a Milano, ho provato il test dʼingresso alla Scuola di Cinema Televisione e Nuovi Media ed è andata bene. Poi durante il corso ho pensato di lasciarmi andare e provare a realizzare qualcosa. Lʼanimazione è come una droga, ti prende pian piano fino a quando non riesci più a farne a meno. Era il mezzo più eco
“NERO APPARENTE”
nomico ed efficace per sperimentare da solo senza spendere un soldo. Il primo cortometraggio lʼho realizzato sul muro del mio bagno! “About Love” dimostra come a volte una buona idea possa essere di gran lunga vincente. Come nasce un cortometraggio nel mondo di ʻMagic Mind Corporationʼ? Come per molti autori, le idee nascono a cena, in macchina, dalla frase di un libro o da come cade il sole in camera tua alle cinque del pomeriggio! “About Love”, per esempio, è nato nella cucina del ristorante dei miei genitori. Lì i camerieri usano attaccare ai frigoriferi le ordinazioni con le calamite rotonde e alla fine di ogni servizio vengono usate per creare sorrisi, piccoli messaggi o... i personaggi di “About Love”, appunto. Bene Giacomo, progetti per il futuro? Dove ti vedi tra qualche anno? Senza andare troppo in là nel tempo, stiamo cercando di portare a termine un documentario animato su cui lavoro da diversi anni.
INTERVISTA A GIUSEPPE PIZZO di Michele Traversa
Giunto alla sua VIII edizione, il RIFF nella sezione cortometraggi questʼanno ha voluto premiare lo stile documentaristico di Giuseppe Pizzo per il suo corto-denuncia “Nero Apparente”. Noi lo abbiamo intervistato per conoscere meglio la genesi del suo lavoro e le motivazioni che lo hanno spinto ad una scelta coraggiosa come quella di rappresentare un fatto di cronaca realmente accaduto. Hai lavorato con Saviano e Garrone per “Gomorra”. Questa esperienza cosa ti ha lasciato? Ho fatto da consulente per la sceneggiatura. Lavoro in Polizia, sono di origine campana e quindi ho utilizzato tutta la mia esperienza e le mie conoscenze. Lavorare con dei professionisti come loro è stato molto bello. È raro trovare dei corti tratti da storie vere… Sì, è vero. Ho raccontato una breve storia, una piccola storia di cronaca avvenuta a Parma, basata su un pestaggio fatto ai danni di un ragazzo di colore che si accorge di unʼoperazione antidroga e semplicemente scappa per la paura, ed invece viene scambiato per il colpevole. Il solo fatto di avere la pelle nera ha determinato questo accadimento. Sono colpito dal fatto che i media demonizzino una razza intera. Da qui lʼidea di raccontare lʼaltro risvolto, quello dellʼinnocenza.
Quanto ti sei documentato sul caso realmente accaduto a Parma? In realtà mi sono documentato attraverso i vari speciali televisivi e giornalistici usciti in quel periodo, ma non sono arrivato alle carte processuali, se è questo che intendi. Sembra che tu abbia scelto uno stile preciso, quello documentaristico... Credo sia una modalità che mi rappresenti. Però non escludo che in futuro la cosa possa cambiare. Nel corto cʼè anche un altro messaggio, forse più nascosto, e cioè lʼimportanza del destino nella vita di tutti... Sì certo, in questo caso è il colore della tua pelle che determina il tuo destino. Progetti futuri? Ho scritto un giallo per la Margherita Film, si chiamerà “Taglio netto”. Poi girerò un altro cortometraggio che sʼintitolerà “Il vento gira”. Vedremo.
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CORTOMETRAGGI
CORTOMETRAGGI
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PERSONAL DISEASE
IL TEMPO DISSOLTO
COSA HAI VISTO?
J., seducente e ricco uomo dʼaffari, vive nel lusso in un futuro non ben precisato: acqua cristallina dalla piscina, cibo sublime e colorato, auto potenti e abiti raffinati. Ma la vita di J. è vuota. Neppure la realtà virtuale, che lo spinge sin dove la violenza è ammessa, sembra riuscire a sedare la sua routine addomesticata dove le macchine hanno preso il posto della compagnia umana. Neppure una voce si alza in questo clima asettico, raffreddato da luci scostanti e implacabili, dove il computer programma la vita. J. trova il suo motivo di ripresa nel “Personal disease”. Nel mondo futuro del tutto realizzato, anche la malattia si compra al supermercato e si consuma come caramelle. Da una parte la pillola per star male, dallʼaltra quella per star bene. In ripresa del miglior “Matrix” di tutti i tempi, col dolore arriva anche la comprensione, della vacuità del materiale e della fugacità della ricchezza. J. cammina per strada e adesso, soltanto adesso, capisce che ci sono suoni, odori, atmosfere che prima ignorava. Il citazionismo pittorico affiancato al montaggio ellittico e non violento, ci accompagnano in realtà difformi, incorniciate dalle sonorità alienate dei Carlomargot. Quale emblema del finale, J. rimane accasciato, come Marat lo fu per David, ad affrontare la sua sofferenza indotta, in una sorta di ammonimento-sfida terminale e senza scampo, diretto a chi rimane inerme a guardare. (Rita Andreetti)
In un luogo privo di riferimenti spazio-tempo un ʻuomo qualunqueʼ convive con la sua solitudine allʼnterno di un hangar. La sua quotidianità è scandita da infinite ripetizioni, azioni meccaniche e pensieri. Disteso sul prato, con le mani si tappa le orecchie... poi le allontana, cercando di scrutare le differenze tra il suo sentire e lʼascoltare ciò che lo circonda. Una notte, allarmato da un rumore, esce impugnando un fucile, ma a sorprenderlo è una donna, avvolta da una coperta e rannicchiata sulla vedetta del suo piccolo aeroporto. Un incontro inaspettato, che cambierà la vita di entrambi. E insieme, impareranno a volare.“The dissolved time” è un racconto-studio sulle forme espressive applicate al mezzo cinema. Girato in Mini-DV con ottiche da 35mm, si fregia di una fotografia esposta a particolari filtri che ne snaturano lʼimmagine tanto da ricreare una dimensione indefinita, intangibile. Zenone spezzetta il tempo in fotogrammi, sui quali concentra il suo focus emotivo lasciando che siano i personaggi ad esprimere se stessi e le loro relazioni, quasi privandosi della comunicazione verbale; adotta inoltre soluzioni visive molto spesso originali e incisive, valorizzate da accompagnamenti sonori vibranti, sempre da lui composti. Una storia che si muove allʼinterno di una dimensione di totale squilibrio, dove il tempo appare finito tanto quanto infinito risulta lʼamore di un uomo. (Vito Sugameli)
Fabio Padovan, nato a Moncalieri, è l'autore di questo corto intimista, dal soggetto abusato tanto quanto l'oggetto conteso, eppure diverso. Si divide in due segmenti, paralleli e contigui. Erika è una ragazza solare, piacevole. Una sera viene violentata da uno sconosciuto tra le rovine di un vecchio teatro abbandonato; palcoscenico di un orribile spettacolo che la ragazza tenderà a superare guardando al di là della violenza subita. A soccorrerla, un estraneo. Chiuso sipario. Eleonora si è appena svegliate grazie alle attenzioni affettuose del suo compagno Mauro ma ben presto scopre che sua sorella si è messa nei guai con un tipo sconosciuto. Ad avvisarla è una strana chiamata al cellulare. L'approccio semiotico riservato al doppio racconto rivitalizza in qualche modo un tema, quello dell'abuso, più volte ripreso e interpretato sul grande e piccolo schermo. Padovan sfrutta l'ambiente e l'espressività delle sue attrici per richiamare la maieutica dell'emozione, a tal punto che le immagini risultano l'estensione di un'anima dispersa nella comprensione, scissa in due da un evento che non ha potuto controllare. Girato in alta definizione con pochissimi fondi - ma con una padronanza dei tempi e del ritmo significativo - “Cosa hai visto?” lascia trapelare un'idea parzialmente originale sulla base di un'esperienza terribile. Non tanto una denuncia sul tema quanto una riflessione voyeurista. E giunti alla confessione finale, ci si chiede davvero la domanda del titolo. (Vito Sugameli)
Regista: Christian Battiferro Genere: Sci-Fi Paese: Italia, 2008 Durata: 15ʼ Sito: www.cronosfilm.com
Regia: Gianluca Zenone Genere: Cortometraggio Paese: Italia, 2007 Durata: 15ʼ Sito: www.cronosfilm.com
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Regia: Fabio Padovan Genere: Cortometraggio Paese: Italia, 2006 Durata: 18ʼ Sito: www.cronosfilm.com
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FUGA DAL CALL CENTER
IL PRIMO GIORNO DʼINVERNO
Il titolo del film dʼesordio di Federico Rizzo si presenta quale omaggio sia allʼopprimente carcere di “Fuga da Alcatraz” (1979) di Don Siegel che al particolare humour di “Fuga dalla scuola media” (1995) di Todd Solondz. Del resto, è proprio mantenendosi abilmente in bilico tra lʼamarezza e lʼironia che il regista inscena la vicenda del giovane precario Gianfranco Coldrin (Angelo Raffaele Pisani), laureato modello in “vulcanologia” declassato allʼultimo grado della scala professionale di un call center, mentre la fidanzata convivente Marzia (Isabella Tabarini), aspirante giornalista, si trova costretta a lavorare come centralinista per un telefono erotico. E, tenendo in considerazione lʼargomento trattato, sorge spontaneo effettuare un paragone con il contemporaneo “Tutta la vita davanti” (2008) di Paolo Virzì, anchʼesso incentrato sul triste universo del precariato tricolore dʼinizio millennio, principale “fornitore” di unʼinsicurezza capace di portare i giovani allʼimpossibilità di avere una famiglia e un poʼ di serenità. Eppure, con un cast in ottima forma comprendente anche nomi noti quali Luis Molteni e Natalino Balasso, lʼItalia dei contratti a progetto raccontata da Rizzo, tra reali interviste effettuate su tutto il territorio nazionale a operatori telefonici del settore e momenti surreali (si pensi al supereroe immaginario Callman), finisce per convincerci più di quella presente nel sopravvalutato film firmato dallʼautore di “Ovosodo”. Una commedia sincera e non invasa dei soliti volti famosi che ben poco hanno da condividere con quelli dei veri precari. (Francesco Lomuscio)
Mirko Locatelli con “Il primo giorno dʼinverno” punta direttamente allʼanima dello spettatore, alle sue debolezze, paure, insicurezze. Ma lo fa con un approccio intimo e minimalista in cui i corpi dei protagonisti sembrano errare in un purgatorio spettrale. Un cinema molto nordeuropeo, tra il francese “Douches Froides” (2005) di Antony Cordier, lʼestone “Klass” (2007) di Ilmar Raag ed “Elephant” (2003) di Gus Van Sant. Valerio (Mattia De Gasperis) ha una sorella di dieci anni, un vecchio motorino e un rapporto tormentato con due bulli della sua scuola, Daniele (Alberto Gerundo) e Matteo (Andrea Semeghini). Un giorno però gli si presenta una possibilità: finalmente può vendicarsi combattendo con le stesse armi del nemico. Prova addirittura a sfruttare la situazione utilizzando il suo silenzio come deterrente, perché le verità di cui è a conoscenza sono di quelle che tra ragazzi fanno davvero molto male. Ma ad attenderlo troverà solo dolore e disperazione. In poco più di ottanta minuti il regista milanese Mirko Locatelli ripercorre le ansie, i disagi, le intolleranze di una nuova generazione rubata dei sogni e delle speranze un tempo capaci di unificare i rapporti umani. I suoi personaggi sono giovani profondamente isolati da tutto, proiettati verso il nulla, nei quali la paura di essere ciò che realmente sono rende sterile qualsiasi forma di comunicazione: la paura di non essere accettati. Locatelli fotografa il tutto spingendosi oltre i già ottimi esordi nel mediometraggio con “Come prima” e “Crisalidi”. (Giacomo Ioannisci)
Regia: Federico Rizzo Genere: Commedia Paese: Italia, 2008 Durata: 95ʼ Distribuzione: Orda dʼoro distribution Uscita: 17/04/09
Regia: Mirko Locatelli Genere: Drammatico Paese: Italia, 2008 Durata: 84ʼ Distribuzione: Officina Film Uscita: 27/03/09
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NIENTʼALTRO CHE NOI
PRINCIPESSA
Pur dando atto a questo film di aver voluto affrontare e denunciare una tematica seria e poco “raccontata” al cinema, come quella del bullismo giovanil-scolastico, con risvolti sociali e familiari che vanno tenuti nel giusto conto, si rimane un poʼ perplessi per lʼeccessivo “didascalismo” dei personaggi: i bravi ragazzi, buoni e studiosi, sono quasi stucchevoli, così perfetti nonostante i loro problemi; i cattivi, teppisti e violenti, con famiglie disgraziate e poco presenti, appaiono francamente quasi più autentici e mediamente più simpatici. Marco, il protagonista della storia, arriva in un liceo del centro per frequentare lʼultimo anno: studente modello, sensibile e socievole, fa amicizia con un gruppetto di suoi simili: Elisa, Federico e Sara. Proprio al diario-blog di questʼultima è affidato il filo rosso del film. Come se non bastassero i problemi legati allʼetà/amori/amicizie ed ai rapporti familiari difficili (la madre e la sorella di Marco sono costantemente assenti), entra in scena Miki il bullo, un compagno di classe arrogante e spaccone, a sua volta oppresso da una disgregata situazione familiare. Non trovandosi efficaci modalità di contrasto, dopo aver lasciato correre una serie di odiose vessazioni ed angherie quotidiane, finalmente la vittima, quando il gioco si fa troppo duro per essere ignorato, decide di denunciare il bullo (anche lui a sua modo vittima, si lascia intendere). Tirando le somme: una prova filmica interessante ma ancora molto immatura nella gestione dei contenuti e nella realizzazione tecnica. (Elisabetta Colla)
Cenerentola non smetterà mai di esistere. E, anche se al cinema lʼabbiamo vista protagonista in tutti i generi, in tutte le possibili situazioni, continua ad essere una fonte dʼispirazione inesauribile. Lʼesordiente Giorgio Arcelli ne confeziona una discreta versione nostrana, molto vicina al modello patinato americano degli ultimi anni, ambientando la storia tra le vie della sua Piacenza, il castello della “Maggia” e le splendide vallate degli Appennini. Matilda (Morena Salvino) è una ragazza di provincia che vive ancora a casa dei genitori, tira avanti interpretando part-time il ruolo di principessa in rievocazioni storiche in costume e ha un ragazzo, Pietro (Michele Riondino), che non vuole assumersi alcuna responsabilità quando gli rivela di essere rimasta incinta. Sostenuta dallʼamica del cuore Anna (Vanessa Gravina), una pittrice alla moda, decide di interrompere la gravidanza. A cambiare i suoi piani ci pensa lʼincontro con Andrea (Riccardo Lupo), un marchese un poʼ impacciato ma gentile che, colto alla sprovvista in casa, presenta Matilda alla madre, la marchesa Elena Branciforte (Piera Degli Esposti), come la fantomatica duchessina Scotti Panfini. Matilda, divertita da questo gioco delle parti a cui il suo lavoro lʼha già abituata, si dimentica dei suoi problemi. La marchesa Elena, che non è per niente convinta delle sue nobili origini, per poter finalmente mettere la sventurata Matilda sotto torchio attende la partenza di Andrea per Londra. Il finale è un poʼ eccessivo. In tutti i casi niente di nuovo sul fronte occidentale. (Giacomo Ioannisci)
Regia: Angelo Antonucci Genere: Commedia Paese: Italia, 2008 Durata: 90ʼ Distributore: Microcinema-Digima-EGI srl Uscita: 17/04/09
Regia: Giorgio Arcelli Genere: Commedia Paese: Italia, 2009 Durata: 90ʼ Distribuzione: LʼAltrofilm Uscita: 08/05/2009
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SBIRRI
QUESTIONE DI CUORE
Non è una novità vedere Raoul Bova nei panni del poliziotto per raccontare storie di crimine. Ma questa volta con un risultato e unʼintenzione diversi. Lʼidea di “Sbirri”, inizialmente pensato per la televisione, nasce in risposta al fenomeno dellʼallargamento del consumo di stupefacenti, ormai esteso a ogni età e categoria sociale, soprattutto nella metropoli milanese. Nellʼintento di documentare questa realtà nella forma più veritiera possibile, Raoul Bova ha convissuto per un mese con la Squadra Speciale Antidroga di Milano, partecipando da infiltrato - telecamera alla mano - a vere operazioni di polizia contro lo spaccio di droghe, con inseguimenti, perquisizioni ed arresti. Nel film confluiscono però due piani narrativi: al racconto reale si intreccia senza soluzione di continuità la fiction. Raoul Bova - mentre segue questi coraggiosi eroi moderni - interpreta un giornalista dʼinchiesta straziato dalla morte accidentale del figlio sedicenne dopo lʼassunzione di una pasticca di ecstasy. Il rapporto con la moglie (Simonetta Solder) nʼè compromesso, ma grazie agli amici (il poliziotto Angelo e lʼattore Luca Angeletti) e lʼarrivo di un nuovo figlio riescono a superare il dolore e il senso di colpa. Con un montaggio efficace e innovativo, una colonna sonora accattivante e dialoghi costruiti sullʼimprovvisazione (il copione non cʼè), si è trascinati nello schermo con la sensazione di prendere realmente parte alla storia. (Ilaria Mariotti)
Alberto (Antonio Albanese) è uno sceneggiatore che combatte con se stesso, la sua compagna, il suo egocentrismo ed un cuore che fa le bizze. Angelo (Kim Rossi Stuart) è un carrozziere con una gran voglia di vivere, una grave cardiopatia e una splendida famiglia per cui combattere. Entrambi si ritroveranno fianco a fianco in una corsia dʼospedale colpiti da infarto e conosceranno il lato coinvolgente e terapeutico dellʼamicizia e della complicità maschile. Una volta dimessi dallʼospedale, gli imperscrutabili giochi del destino contribuiranno a farli rincontrare rafforzando la loro amicizia in modo indissolubile e, quando Angelo capirà che il suo cuore sta per abbandonarlo definitivamente, architetterà un piano per affidare allʼamico la sua famiglia. La regista Francesca Archibugi adatta un romanzo di Umberto Contarello e lo rende suo dandogli unʼintrigante visione al femminile e scegliendo tra lʼaltro due attori fisicamente e caratterialmente opposti come Antonio e Kim. Lʼaffiatata coppia dʼattori nobilita tutta lʼoperazione regalandoci sprazzi dʼinfantile ilarità e struggente complicità, dove il connubio amicizia e paura della morte, riflesso nello specchio deformante della malattia, travolge il quotidiano dei due protagonisti, ma al contempo rivela lʼessenza e lo scopo di una vita vissuta ma non pienamente compresa. Lo sguardo appassionato della regista e la performance dei due protagonisti fanno passare in secondo piano qualche peccato veniale che inevitabilmente affligge la pellicola, come alcuni personaggi secondari privi del necessario spessore o qualche situazione al limite dellʼinverosimile. (Pietro Ferraro)
Regia: Roberto Burchielli Genere: Docu-fiction Paese: Italia, 2009 Durata: 100ʼ Distribuzione: Medusa Uscita: 10/04/09
Regia: Francesca Archibugi Genere: Commedia Paese: Italia, 2009 Durata: 104ʼ Distribuzione: 01 Distribution Uscita: 17/04/09
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CINEMA SOMMERSO
CINEMA SOMMERSO
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(VISTI AL CINECLUB DETOUR)
PRIMER
DEAD MANʼS SHOES
Realizzato da un versatile Shane Carruth e costato appena settemila dollari, “Primer” sʼimpone come il primo thriller-fantascientifico indipendente. Descriverne i tratti in modo chiaro è cosa assai improbabile, data la sua struttura estremamente complessa, non riconducibile ad altri film del genere. Partendo dal titolo, si potrebbe pensare che riguardi la genetica. In realtà, più che con questa, il film ha a che fare con la dilatazione del tempo e la possibilità di spostarsi tra passato e presente. Lʼoriginalità non sta tanto nel tema quanto nella modalità in cui viene affrontato. Una storia così intricata e atipica che catturerà lo spettatore fino allʼignara conclusione. Un team di quattro scienziati porta avanti nel tempo libero una ricerca, lavorando in garage su un dispositivo con elementi presi in prestito da laboratori e da comuni elettrodomestici. A causa di uno scontro di opinioni il gruppo si divide in due e ciascuna coppia sʼimpegna in un progetto diverso. Fra questi vi sono due giovani ingegneri, Aaron e Abe, che nel tentativo di costruire un superconduttore si ritrovano fra le mani una vera macchina del tempo. Sebbene lʼidea iniziale fosse di utilizzare tale congegno soltanto per investire del denaro in borsa, col tempo i due passano a modificare gli eventi personali creando così numerosi paradossi temporali dagli inaspettati effetti collaterali. Penalizzato forse da dialoghi troppo macchinosi e da una trama alienante, il film si distingue per lo stile realistico e per la drammaticità dei suoi personaggi che gli sono valsi nel 2004 il Gran Premio della giuria al Sundance Film Festival. (G. M. Ireneo Alessi)
“Dead manʼs shoes” è innanzitutto un film fuori moda. Vintage. Ma al tempo stesso è un film innovativo. È come se “Commando” o “RoboCop” venissero diretti da Park Chan-wook. Insomma, un revenge-movie che incolla allo schermo senza troppi fronzoli. Due fratelli, Richard (Paddy Considine) ed Anthony (Toby Kebbell), “ritornano” nella loro città natale lasciata anni prima. Richard è forte ed intraprendente, mentre Anthony a causa di un leggero ritardo mentale vive completamente all'ombra del fratello, molto protettivo nei suoi confronti. I due vanno a stabilirsi sulle colline non lontane dalla città, ma non sono tornati per rivivere il passato. Richard è tornato per vendicarsi. Conosce bene il luogo e i suoi abitanti, sa che la città, come otto anni prima, è nelle mani di una banda di delinquenti e spacciatori. Nel frattempo il ritorno di Richard scatena sospetti e paranoie. Perché è tornato? Cosa vuole fare? Cerca uno ad uno tutti i malviventi, li scova e riesce a metterli l'uno contro l'altro. Fino ad ucciderli dopo lʼultimo respiro. Un poʼ John Rambo, un poʼ Chuck Norris: ecco il protagonista di “Dead manʼs shoes”, soldato dellʼesercito di Sua Maestà tornato in città per fare piazza pulita. Ed è proprio il tema della vendetta la chiave di lettura, affrontata con una ferocia rarissima per unʼopera very low budget. Il film è stato girato nelle Midlands, le pianure fortemente urbanizzate che si trovano nella parte centrale dell'Inghilterra e comprendono, tra le altre, le città di Coventry, Nottingham e Birmingham. (Giacomo Ioannisci)
Regia: Shane Carruth Genere: Thriller/ Fantascienza Paese: USA, 2004 Durata: 78ʼ Distribuzione: —
Regia: Shane Meadows Genere: Drammatico Paese: Gran Bretagna, 2004 Durata: 86ʼ Distribuzione: —
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2001 MANIACS
KING OF THE ANTS
Firmato nel 1964 dallʼartigianale papà dello splatter Herschell Gordon Lewis e principalmente incentrato su una sequela di fantasiosi omicidi, “Two thousand maniacs!” vedeva sei turisti finire nelle sadiche mani degli abitanti-spettri di Pleasant Valley, cittadina rasa al suolo un secolo prima durante la Guerra di Secessione. Prodotto da Eli Roth e Scott Spiegel, rispettivamente regista e produttore esecutivo dei due “Hostel”, il primo lungometraggio di Tim Sullivan si basa proprio sul film di Lewis, accentuandone però la componente ʻslasherʼ tramite il coinvolgimento di giovinastri in vena di sesso e goliardia, la carne da macello prediletta del sottofilone rinverdito dalla saga di “Scream”. Con Peter Stormare nel breve ruolo di un professore e il mitico Robert “Freddy Krueger” Englund in quello del perfido sindaco Buckman, corredato di benda allʼocchio raffigurante la bandiera sudista, si consuma, infatti, il tuttʼaltro che noioso massacro dei protagonisti, il quale, tra impalamenti ed evirazioni a morsi, presenta nella pellicola originale lʼimpressionante uccisione di una vittima legata con i quattro arti ad altrettanti cavalli indirizzati in diverse direzioni. Con evidente metafora politica relativa ai contrasti tra Nord e Sud, aggiunta di tette al vento ed indispensabile spruzzata dʼironia, “2001 maniacs” è di sicuro un interessante remake, annunciato a suo tempo dalla Sharada, non sembra ancora aver goduto di una distribuzione dalle nostre parti, mentre sono già in pre-produzione “2001 maniacs: Beverly Hellbillys” e “2001 maniacs: The Hillbillys have eyes”. (Francesco Lomuscio)
Due anni dopo il manieristico “Dagon” (2001), Stuart Gordon ritorna alla regia con un film crudo e coraggioso, che riflette sulla natura “bestiale” dellʼessere umano. Protagonista della pellicola è il giovane Sean (interpretato in modo eccellente da Chris McKenna) un ragazzo, privo di ambizioni e senza lavoro, che si lascia coinvolgere in un affare sporco, attratto dallʼapparente guadagno facile. Ma la situazione sfugge di mano al ragazzo, per un terribile equivoco, e ci scappa il morto. I tipi che gli avevano commissionato il lavoro non vogliono più aver nulla a che fare con lui e lo abbandonano al suo destino, ma Sean decide di ricattarli ed innesca involontariamente una tremenda spirale di orrore e violenza. Lo stile di Gordon, solitamente piuttosto ordinato, per raccontare questa vicenda di morte e degrado diventa aggressivo e sporco, con un utilizzo insistente della camera a spalla. Funestato da una sceneggiatura incerta, che alterna soluzioni interessanti ad altre banali e frettolose, “King of the ants” è tuttavia un buon esempio di cinema che sputa acida critica e che si auto-purifica con catartica violenza. Ed è proprio nella violenza che il film ci regala le sue perle più disturbanti come, ad esempio, le agghiaccianti sequenze in cui il protagonista viene torturato ed umiliato. Distrutto nel fisico e nella psiche, Sean è tormentato incessantemente da incubi e rimorsi, che assumono forme mostruose. Peccato il finale di film sia, a dir poco, approssimativo e fuori luogo. Cult mancato. (Alex Visani))
Regia: Tim Sullivan Genere: Horror Paese: USA, 2005 Durata: 87ʼ Distribuzione: —
Regia: Stuart Gordon Genere: Horror Paese: Usa, 2003 Durata: 102ʼ Distribuzione: —
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THE GAY BED AND BREAKFAST OF TERROR
PRINCESS
“John Waters meets H. G. Lewis”. In questo rendez-vous si sintetizza, al meglio, il contenuto dellʼopera prima di Jaymes Thompson. Sebbene manchi la genialità del primo e lʼeccesso grandguignolesco del secondo, il film incarna alla perfezione lo spirito (made in USA) della macabra ironia sociale. Cinque coppie omosessuali giunte “last minute” per un grande raduno gay, trovano posto nellʼunica struttura disponibile: il “The Sahara Salvation Inn” di Helen e della figlia Luella. Varcata la soglia, i malcapitati si rendono subito conto di quanto lʼisolata struttura nasconda qualcosa di strano… Dopo quaranta minuti (troppi) spesi per la presentazione dei protagonisti e che sottolineano in maniera (superflua) come lʼomosessualità possa vantare estrazioni sociali altamente eterogenee, il film inizia a prendere quota. Gli elementi cardine del genere fanno capolino. Sangue e sesso non dispensano il loro contributo e la sferzante critica socio-politica (nel dna dei cineasti USA) corrode la (non troppo originale) sceneggiatura. Accade così che la puritana fede religiosa si tramuti in bieca follia omicida, che lʼottusa politica repubblicana generi (letteralmente) mostri, che il peccato venga punito dai peccatori stessi, che lʼamore (in fondo) sia solo uno sfocato miraggio sostituibile con tangibili surrogati. Lʼorgia di sangue finale, in cui carnefici e vittime si scambiano i ruoli così da trovare entrambi la “pace”, fa da degno epilogo ad unʼopera spensieratamente graffiante ed esteticamente molto tras(h)cendentale. Da segnalare il fantastico prologo canoro. (Simone Giongrandi)
Mescolando diverse tecniche di animazione con sequenze filmate in live action, “Princess” affronta tematiche per adulti come la pedofilia, lʼindustria del sesso e la violenza. È un film senza mezzi termini che porta le sue idee e i suoi intenti fino alle estreme (o quasi) conseguenze: nel bene e nel male “affonda”. Affonda nel senso che trapassa la superficie riuscendo a diventare incisivo quando necessario; ma affonda anche che cola a picco quando, inseguendo il suo epico furore cieco e castigatore, perde il senso e finisce per strafare. Mia è una bambina rimasta sola in seguito alla morte della madre, una pornostar nota come Princess. Viene accudita dallo zio, un ex missionario che vuole vendicare la morte della sorella e punire le violenze subite dalla nipote… Tutta la prima parte del film scorre via in maniera estremamente efficace: i momenti di violenza sono effettivamente forti, la vicenda della piccola Mia riesce a bucare lo schermo, la mescolanza di stili e le piccole esagerazioni di copione creano il giusto colore. Ma nel finale tutto inizia a perdere pezzi: si fatica a capire quanto sia chiara e sincera la posizione dellʼautore, si rimane straniati di fronte ad un racconto che si concede qualche proiettile di troppo, finendo per sparare un poʼ vuoto (con annesso finalino fuori tono, stranamente sopravvissuto a un “taglio” necessario). Eppure “Princess” possiede un indubbio fascino: partendo da una scintilla iniziale, film e vicende narrate cominciano a bruciare, generando un incendio ingestibile e dalle conseguenze un poʼ tragiche (in tutti i sensi). (Daniele ʻDannoʼ Silipo)
Regia: Jaymes Thompson Genere: Commedia/Horror Paese: USA, 2007 Durata: 110ʼ Distribuzione: —
Regia: Anders Morgenthaler Genere: Animazione Paese: Danimarca/Germania, 2006 Durata: 90ʼ Distribuzione: —
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GIANCARLO SIANI: PIU' CHE UN EROE, UNA MINACCIA PER LA COMUNITA'
di Damiano Biondi
Ogni comunità sociale dispone al suo interno di una complessa varietà di strumenti che hanno lo scopo di raccontare le vicende di quel particolare gruppo umano e allo stesso tempo di consolidarne il proprio nucleo identitario. Giornali, libri, poesie, televisione e cinema delineano lʼorizzonte socio-culturale al cui interno gli individui rafforzano il proprio senso di appartenenza alla comunità. Sebbene la famiglia dʼorigine rappresenti il vettore più potente di socializzazione e di appartenenza, cionondimeno i fattori sopra elencati contribuiscono non poco nel fornire agli individui di una data comunità il senso di un background condiviso. Questi elementi mass mediologici, pressoché assenti in epoche antiche, hanno vissuto una progressiva espansione soprattutto nel corso del XX° secolo. Ciò allora ci porta a ragionare su quale fosse la matrice collante dellʼidentità sociale in individui vissuti nei secoli passati. Unʼanalisi complessa delle variabili in gioco esula dagli obiettivi di questo scritto, ma senza dubbio in occidente miti e leggende possono essere annoverati tra le dimensioni più rilevanti nel processo di costruzione dellʼidentità, individuale e sociale, almeno fino allʼavvento del razionalismo scientifico. Rivolgendoci ora verso i miti delle epoche passate, possiamo individuare dei ʻtoposʼ, ossia delle invarianti strutturali che attraversano differenti culture e che, incarnandosi in archetipi, ne rappresentano, di fatto, la base immanente di ogni manifestazione mitica. Una di queste figure formali ricorrenti in molti miti, quella dellʼeroe, ci aiuta anche a comprendere in che modo questa antica forma di espressione umana sopravviva silenziosamente anche nel pensiero moderno governato dalla logica razionale. Lʼeroe, individuo coraggioso e senza macchia che si spinge fino al sacri-
ficio per salvare quella stessa comunità che spesso lo stigmatizza come diverso. Tra questi è sicuramente riconducibile Giancarlo Siani, giornalista del Mattino di Napoli e protagonista di “Fortapàsc” di Marco Risi. Siani trovò la morte nel 1985 per avere denunciato senza mezzi termini le profonde connivenze tra camorra e politica. Ma come nasce un eroe e soprattutto che funzione svolge nella propria comunità? A questo punto è utile considerare che ogni gruppo umano è un sistema complesso e che ogni sistema complesso punta a raggiungere un proprio equilibrio omeostatico e a mettere in atto dei meccanismi di compensazione per riparare ad eventuali rotture di questo equilibrio. Quando lʼeroe ha lo scopo di proteggere la comunità da un nemico esterno che ne minaccia lʼintegrità, come ad esempio fece Ettore, allora su di lui vengono proiettate qualità così positive da spingerlo verso una sfera esistenziale quasi divina. Ma quando lʼeroe combatte un nemico che è interno e nascosto nella stessa comunità, allora viene vissuto in maniera assai più ambivalente e in alcune occasioni lʼeroe stesso viene considerato una minaccia, perché con i suoi comportamenti colpisce le radici fondanti della comunità portandola ad un punto di rottura. Il lavoro di Siani, colpendo la camorra e la politica collusa con la camorra, chiedeva implicitamente ai suoi cittadini e ai suoi colleghi di reagire e di seguirlo in questa battaglia di verità e libertà. Ma per fare questo la comunità avrebbe dovuto rivoluzionare il suo equilibrio interno ed accettare il prezzo di morti e di dolore inevitabile in ogni rivoluzione. Lʼeroismo viene ricompensato a volte con la gloria, ma il prezzo da pagare è sempre la solitudine, con la quale lʼeroe sconta la sua eccezionale diversità rispetto alla comunità che lo circonda.
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CINEMA & PSICHE
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NICOLAS ROEG:
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THE MAGICIAN WITH A MOVIE CAMERA di Ant-Bi
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Uno dei più avventurosi e visionari tra i registi britannici è certamente Nicolas Roeg. Nato nel 1928, Roeg debutta alla regia nel 1970 dopo aver lavorato per numerosi anni come direttore della fotografia con brillanti registi tra cui Francois Truffaut e Richard Lester. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Roeg ha realizzato alcuni film che hanno influenzato e continuano ad influenzare nuove generazioni di registi. Per celebrare il cinema del mago della cinepresa, come lo chiamano oltre manica, la prestigiosa BAFTA – The British Academy of Film and Television Arts ha organizzato un evento in cui diversi registi hanno discusso lʼimpatto che il cinema di Roeg ha avuto sui loro la-
vori presentando alcuni dei momenti più interessanti del suo cinema. Kevin Macdonald (“La morte sospesa”, “Lʼultimo re di Scozia”) «Roeg è un regista senza paura ed un virtuoso della cinematografia. In “La morte sospesa” dovevo creare della tensione e mi sono ispirato molto ai suoi film in cui il tempo è sempre presente e cʼè una sorta di costante improbabilità. In “Walkabout” (1971) usa lo zoom per espandere la visione del panorama e gioca con la prospettiva spostandola: il risultato è un senso di disorientamento profondo».
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Guillermo del Toro (“Hellboy”, “Il labirinto del fauno”) «La tecnica di montaggio di Roeg crea una sorta di iper-realtà: la dimensione spazio-tempo è una giustapposizione di eventi e cose non relazionate. Nella scena finale di “A Venezia... un Dicembre rosso shocking” (1973) si vede bene che il protagonista sta per morire, cʼe una risonanza letteraria tradotta in quello che io chiamo puro cinema». James Marsh (“Man on wire”, “Wisconsin death trip”) Per il mio documentario “Man on wire” cercavo esempi per rappresentare un senso di vertigine e la scena in “A Venezia... un Dicembre rosso shocking” (1973), quando il protagonista cade dal ponteggio, comunica esattamente quella sensazione: è devastante e avvincente allo stesso tempo. La precisione della tecnica aiuta a raccontare meglio la storia. Mike Figgis (“Affari sporchi”, “Via da Las Vegas”) Roeg ha creato un nuovo linguaggio cinematografico grazie ad un sapiente uso del montaggio e ad un occhio fotografico eccellente. I suoi film sono spesso inquietanti, mai scontati. In una scena di “Lʼuomo che cadde sulla Terra” (1976) si vede un cavallo bianco che corre nel verde: è unʼimmagine molto evocativa, un poʼ alla Tarkovskij, ma senza presunzione. Paul Greengrass (“United 93”, “The Bourne Ultimatum”) Roeg ci insegna la forza del cinema liberato dal conservatorismo
culturale. Gioca molto con i generi ma è molto attento a non abbracciarne nessuno in particolare. In “Il lenzuolo viola” (1980) la scena in cui Theresa Russell urla «Fuck me! Fuck me!» è carica di ossessione, rabbia e frustrazione: un esempio di vero espressionismo cinematografico. Todd Haynes (Lontano dal paradiso”, “Io non sono qui”) Il cinema di Roeg è pieno di sottotesti: praticamente dietro ogni immagine cʼè una sofisticata psicologia. In “Sadismo” (1970) un androgino Mick Jagger anticipa lʼera del glamour rock. Nel film è espressa la natura mutabile della sessualità e dellʼidentità in generale. Bruto realismo e lessico stilistico sono comunicati nella stessa dimensione temporale grazie ad un montaggio che fa uso di immagini in opposizione. Chris Nolan (“Memento”, “Il cavaliere oscuro”) Per “Memento” mi sono ispirato molto allo stile di montaggio di Roeg. La linea di tempo è spezzata e spesso non cʼè struttura cronologica. Lo spettatore è così costretto a dover provare a trovare un senso mettendo insieme I pezzi. Danny Boyle (“Trainspotting”, “The millionaire”) Per me gli anni Ottanta erano gli anni della musica punk, della libertà, della rivolta, della violenza e… dei film di Nicolas Roeg! Lʼuso dello zoom in “Eureka” (1983) è formidabile… Roeg è come un alchimista: usa un sacco di ingredienti e trasforma la realtà.
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ARTURO DI CORINTO OPEN YOUR “SOFTWARE”
di G. M. Ireneo Alessi
Un illustre pensatore – Walter Benjamin –, il cui nome è scolpito nella mente dei più, scriveva che il moderno è “lʼepoca dellʼinferno” alludendo, forse, alla totalità dei tratti in cui esso si configura, tra nuovi e vecchi stimoli che ne popolano il presente. Saper individuare e seguire questi stimoli fa parte di quella odierna sfida del vivere. Noi, di recente, ne abbiamo colto uno fra gli appuntamenti dellʼultima edizione romana di Cortoons, vale a dire, unʼapologia del software libero, e vogliamo brevemente illustrarla. Lʼoccasione che trae spunto proprio dallʼintervento di uno degli ospiti, il professore Arturo Di Corinto, diviene un motivo per far eco allʼinteressante tematica dellʼopen source e per divulgarne al meglio i concetti che vi sono alla base. Lʼincontro si rivela “una scelta molto azzeccata”, come afferma lo stesso Arturo, giornalista, scrittore nonché psicologo cognitivo esperto in comunicazione mediata dal computer, il quale sottolinea, fra esempi concreti e storie calzanti (come quella del “brevetto protoplasto”), la schiavitù che ci lega indissolubilmente alle software house. Come è ormai noto, il software investe la vita in maniera crescente. Mediatore ʻnaturaleʼ tra noi e il computer, esso ci consente, infatti, di svolgere qualunque attività: dalle più semplici quali scrivere, praticare calcoli e, soprattutto, comunicare, ad operazioni più complesse come la realizzazione di un film dʼanimazione. In sostanza, il software ci riguarda molto da vicino poiché sostituisce ciò che la parola ha da sempre rappresentato, ossia, quel linguaggio che media tra il nostro pensiero e gli altri, per utilizzare unʼimmagine molto gradita dallo stesso Di Corinto. Ma un linguaggio proprio del ʻsistema operativoʼ della società, di unʼera votata allʼinformazione, alla diffusione della conoscenza e dei saperi può davvero essere così esclusivo? Si possono relegare quei diritti dʼinvenzioni tanto importanti paragonabili allʼuso del fuoco o della macchina a vapore? La ricerca di tale libertà non è né una momentanea voluttà né il frutto di una recente modernità. Fino a quarantʼanni fa, infatti, tutto il software era ʻfreeʼ, dopo però qualcuno decise che ci si poteva guadagnare sopra chiudendolo ed imponendovi un fortissimo copyright. In uno scenario del genere i liberi programmatori non avrebbero più potuto modificare il software per adattarlo ai propri bisogni. È solo mediante la Free Software Foundation e lʼoperato del suo creatore, Richard Stallman, che qualcosa inizia a mutare. Basandosi sullʼelaborazione di una licenza alternativa capace di eliminare le restrizioni sulla copia per poter adattare il ʻcodice sorgenteʼ alle proprie esigenze, Stallman concepisce il Copyleft, un concetto sulla libertà di scambio e condivisione
della conoscenza tipico delle comunità scientifiche. In questʼottica, lo scopo ultimo del progetto doveva essere altresì lo sviluppo di programmi liberi da inserire in un sistema coerente, il cosiddetto ʻGNUʼ, in grado di eliminare progressivamente il bisogno di software proprietario. I vantaggi si riscontrano su più livelli, a partire dai costi contenuti e dalla possibilità di ottenere risultati superiori rispetto alle software house grazie alle comunità di sviluppatori che cooperano costantemente per migliorarne le caratteristiche. Non utilizzarlo equivarrebbe ad essere più sterili e meno liberi perché schiavi di un padrone nascosto. Diffondere tale consapevolezza diviene, dunque, un obbligo. Il software è lʼalfabeto moderno. La democrazia risiede anche in ciò. Ergo, smettiamo di rubare software perché non ve nʼè bisogno, come afferma lo stesso Di Corinto. A tal proposito vale la pena elencare alcune interessanti iniziative romane nel rispetto della filosofia open source come quella di ʻninux.orgʼ, una community che si raduna presso il Fusolab (Zona Largo Preneste) il cui scopo è di realizzare una rete wireless libera, senza scopi di lucro; e il ʻGa.Teʼ, ossia GArbatella TElamatica, un luogo di formazione e fruizione di servizi gratuiti che ha deciso di puntare su tecnologie informatiche non proprietarie. Per info: www.dicorinto.it
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Valérie Tasso
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(Diario di una ninfomane)
di Luca Biscontini
Valérie Tasso è una donna colta, brillante, intelligente, che ha condotto una vita sessualmente “spericolata”, e che ha voluto raccontarsi senza veli, cercando di stupire i lettori e quanti hanno visionato il lungometraggio tratto dal suo ultimo romanzo. Il fatto è che questa operazione funziona solo parzialmente, in quanto lʼautrice, femminista “soave” - come lei stessa ama definirsi - muove la sua critica alla cultura dominante, ancora assai patriarcale, da una prospettiva troppo personale, non riuscendo ad emanciparsi da una dimensione psicologista che, seppur legittima, non è esauriente. La storia messa in scena vede la protagonista (Belen Fabra) confrontarsi, sin dalla prima adolescenza, con una sessualità molto vivace che ne costituirà il carattere specifico. Dopo una breve parentesi amorosa, in cui sospenderà momentaneamente i voraci appetiti, decide di lavorare in un bordello per sperimentare fino in fondo la comunicazione sessuale. Ma amore e prostituzione sono due facce della stessa medaglia, entrambe posizioni ove subire il potere degli altri. Alla fine Valérie troverà (almeno nel film) la giusta via per vivere la propria libertà. Alla Casa del Cinema, durante la conferenza stampa che ha visto anche la presenza dellʼattrice protagonista, la scrittrice spagnola ha subito chiarito ciò su cui le premeva porre lʼaccento, vale a dire i rapporti di potere vigenti tra il maschile e il femminile, a cominciare dalla dittatura linguistica imperante, visto che il termine “ninfomane” indica una patologia, un disturbo, che immediatamente stigmatizza una sessualità femminile intraprendente. Che linguaggio e potere siano tuttʼuno è un dato con cui non si può che concordare, ma alle buone premesse poste non seguono le conseguenze spe-
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rate. Avremmo voluto che il film desse almeno un poʼ di spazio al versante politico, indispensabile se ci si confronta con la questione del potere. Lʼesperienza da attivista femminista di Valérie Tasso, se messa in scena, avrebbe conferito più consistenza a questa pellicola che, non trascendendo mai la patinatura da camera da letto, rimane innocua e soprattutto finisce col colludere con quel potere che voleva contrastare. La nostra autrice attualmente tiene un corso di sessuologia e, proprio ciò che poteva costituire la piattaforma da cui muovere una crociata contro la cultura dominante diviene invece una trappola in cui si rimane facilmente impastoiati. Qualcuno scrisse che Freud era fascista e anche un poʼ cretino. Noi non osiamo tanto, ma certo non possiamo trascurare tutto il movimento dellʼantipsichiatria degli anni Settanta e, più in generale, la necessità di riformare delle categorie ormai consunte che non fanno altro che veicolare il pensiero unico. Valérie Tasso conosce benissimo tali questioni, che lei stessa ha mosso, quindi lʼunica spiegazione che possiamo darci, a proposito delle deficienze del film, è che lʼapparato produttivo cinematografico abbia fagocitato le articolazioni più complesse delle intenzioni dellʼautrice, impachettando un prodotto adatto ad un rapido consumo. Ciò che poteva costituire una buona occasione per rilanciare una rivoluzione culturale, sempre necessaria e mai esauribile, è miseramente scivolato nelle sabbie mobili della paccottiglia.Abbiamo comunque ragionevoli speranze nelle capacità di questa autrice coraggiosa e intraprendente, che potrebbe dare un valido contributo a tanta letteratura al femminile, militante e battagliera, con buona pace dei Miller, dei Celine, e chi più ne ha ne metta.