Players 01 (Free Edition)

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PROGETTO EDITORIALE Andrea Chirichelli, Tommaso De Benetti

COPERTINA Black Swan

PROGETTO GRAFICO Federico Rescaldani (sezione media) Gianluca Girelli (sezione ludica)

EDITING TESTI Alessandro Franchini, Michele Siface, Andrea Maderna

AREA WEB Andrea Brunato, Luca Tenneriello, Matteo Ferrara

REDAZIONE Andrea Chirichelli, Gianluca Girelli, Tommaso De Benetti, Giovanni Donda, Emilio Bellu, Pietro Recchi, Enrico Pasotti, Valentina Paggiarin, Giacomo Talamini, Andrea Maderna, Federico Rescaldani, Giuseppe Saso, Alberto Li Vigni, Paolo Savio, Matteo Ferrara, Antonio Lanzaro, Simone Tagliaferri

HANNO COLLABORATO Piero Ciccioli, Antonio Pizzo, Francesco Sili, Lorenzo Antonelli, Matteo Dal Bo, Danilo di Russo

SITO WEB www.playersmagazine.it

INFO info@playersmagazine.it

Pubblicità mediarelations@playersmagazine.it

COPYLEFT 2010/2011 Players Magazine

LICENZA Players è rilasciato sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0 Unported. Per leggere una copia della licenza visita il sito web www.creativecommons.org/licenses/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA. E’ un medicinale, leggere attentamente il foglio illustrativo. Non somministrare sotto i 30 anni.

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GO

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i nt e r v i sta di Andrea Chirichelli

A TTARDO Shout, shout, ALESSANDRO let it all out...

lessandro “Shout” Gottardo è uno degli illustratori italiani più famosi nel mondo. E allora perché da noi è poco noto? Semplice, perché se fosse dipeso dalle case editrici nostrane avebbe fatto la fame. All’estero, senza pedigree, senza raccomandazioni, con la sola forza del talento e delle idee è diventato qualcuno. L’elenco delle testate e delle aziende per le quali ha lavorato il nostro giovane amico? American Express, United Airlines, Barclays, ENI, Volkswagen, Lloyds TSB, The New York Times, The Washington Post, The Wall Street Journal, TIME, Esquire, Newsweek, National Geographic, The New Yorker, Fortune, Asset International, Le Monde, The Economist, Guardian, Random House, Penguin Books. Ha appena vinto la Gold Medal della Society of Publication designers “Best SPOTS of the year”. L’anno scorso ha ricevuto il primo premio alla Society Of Illustrators di New York, due anni prima l’Usher Memorial Award e una moltitudine di altri riconoscimenti. In ogni caso vive a Milano, quindi non è emigrato.

Non del tutto, almeno. Se la sua vi sembra una storia atipica, allora significa che siete milionari oppure che siete nati all’estero o ci vivete da molti anni.... Ciao Alessandro e grazie per avere concesso un’intervista all’unica testata che invece di darti visibilità, contribuirà a levartela. Come si diventa Alessandro Gottardo? Ho iniziato come studente all’Istituto Europeo di Design. Dopo tre anni di corso non avevo ancora capito cosa facesse esattamente un illustratore, anche perché avevo come professori persone che facevano gli insegnanti e nient’altro, non erano sul mercato, vuoi per mancanza di committenza, vuoi perché loro stessi non credevano molto nella professione che insegnavano. Indirettamente (beh, qualche volta anche direttamente) finivano per sconsigliare ai propri alunni di intraprendere quella strada. L’unica eccezione, che ha fatto scattare in me qualcosa di particolare, è stato Paolo d’Altan, il primo docente a mostrarmi che con il digitale si potevano raggiungere PLAYERS 01 PAGINA 09


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gli stessi risultati qualitativi che si ottengono con olii e tela, ma con una velocità di esecuzione incredibilmente superiore. Il secondo “click” è stato internet. Nel 2000 si navigava ancora con i 56k ed era poco diffuso, ma si percepiva che stava per iniziare qualcosa di grosso. Nel giro di tre o quattro anni, mi dissi, potrò arrivare ovunque. E infatti... Come si è evoluta la tua carriera? La cosa più difficile è stato capire come realizzare un prodotto e a chi venderlo. Nel 2001 mi creai un portfolio “crudo”, d’altra parte avevo appena finito la scuola e cominciai a far vedere i miei lavori in Italia. Lavorai per il Corriere, Panorama, Tv Sorrisi e Canzoni. Il problema era la continuità delle commissioni e i ritardi dei pagamenti. Passavo più tempo al telefono per cercare di farmi pagare (come lo capisco... ndr) che a lavorare. Così tramite Internet ho cercato e trovato un agente canadese che mi ha rappresentato in America e Inghilterra (agenzie simili in Italia praticamente non esistono a parte la Piccioli, che peraltro lavora PLAYERS 01 PAGINA 10

sempre con gli stessi, storici, artisti). Così ho capito come lavorare con gli stranieri. Grazie a loro ho trovato diverse commissioni e mi sono mantenuto; intanto, mano a mano che il tempo passava, affinavo le mie capacità e perfezionavo il mio linguaggio. Dopo qualche anno ho deciso di mettermi a cercare clienti da solo. Così mi sono trovato uno pseudonimo (Shout) e ho passato sei mesi a identificare quali potessero essere le testate e le persone al loro interno cui mandare i miei lavori sotto questa nuova identità. Ho avuto immediatamente un feedback molto positivo e questo mi dato grande fiducia. Oggi lavoro con un’agenzia chiamata Dutch Uncle in Inghilterra (sono gli editori del libro “Mono” che ho pubblicato da poco e che raccoglie i miei lavori migliori), mentre in America sono “libero”. A tuo parere le scuole di design in Italia permettono a chi le frequenta di essere pronti ad affrontare il mercato e vivere di questa professione? No, non servono. È una situazione che ricorda quella del cane che si


morde la coda. Se si è professionisti a tempo pieno, il tempo di insegnare non c’è. Quand’anche un professionista lo facesse però, non guadagnerebbe abbastanza per compensare le commissioni perse. Io insegnai per un paio di mesi allo IED e il compenso totale non corrispondeva nemmeno a una singola commissione offertami da un giornale americano. E di soldi ne hanno. O lo fai come “missione” o altrimenti non riesci a viverci. È un peccato, perché quelli della mia generazione hanno una visione del mercato più realistica e sono molto aggiornati. Coinvolgerci sarebbe un buon investimento per scuole e studenti, perché il mio know how potrei trasmetterlo con facilità: sono stato studente e so cosa avrei voluto che mi insegnassero. Oggi i docenti sono poco aggiornati, conoscono poco del mercato americano (il maggiore, quello che può farti cambiare la vita) e ancor meno di internet. Meglio farsi un corso serale e non spendere tutti quei soldi. In ogni caso la cosa più importante è sempre osservare il lavoro degli altri per ricevere spunti e idee. Noi

illustratori siamo come gli scrittori che, teoricamente (molto teoricamente di questi tempi), prima di mettersi a scrivere devono leggere e tanto. In Italia c’è una cultura dell’illustrazione? Quali sono le testate che investono i budget maggiori? Le testate al mondo che investono di più sono americane. Quella col budget maggiore è Time Magazine: per una singola immagine sborsano cifre che altri non possono permettersi. Quanto a quantità e qualità la parte del leone la fanno testate finanziarie che sono molto meno note. Alcune però sono interamente realizzate con illustrazioni e quindi molto ambite. Poi ci sono riviste come Wired che puntano molto sull’immagine. In Italia, oltre a non esserci una vera cultura in questo senso, le cifre che girano sono molto più basse. Per una full page si viene pagati 250 euro lordi, circa 180 euro netti, mentre in America una spot illustration (le cui dimensioni sono di 5cm x 5cm) viene pagata 750 dollari. Inoltre da noi c’è scarsa competenza da parte dei comPLAYERS 01 PAGINA 11


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mittenti. In America chi te lo affida conosce il tuo lavoro, sa chi sei e ti rispetta, da noi ognuno si sente libero di dire la sua. Detto questo, sono comunque molto felice di collaborare con Internazionale e Minimum Fax, sodalizi che durano da più di cinque anni e durante i quali ho sempre ricevuto carta bianca. Come nasce un’illustrazione? Di solito parto da un articolo che deve essere commentato graficamente e cerco di individuare quale immagine possa sintetizzarlo. A volte il testo originale è molto lungo e complesso, ricco di significati e molto difficile da ridurre e commentare con una sola immagine. L’opera viene creata in qualche ora, partendo dagli schizzi che sottopongo all’approvazione dell’art director di riferimento. Questa è la parte più delicata. Disegno numerosi schizzi prima di sottoporli all’approvazione e a volte può capitare che l’idea che considero migliore venga scartata perché ricorda troppo un’altra immagine pubblicata da

poco o già presente nel giornale. Per ogni articolo disegno almeno un decina di schizzi, puntando sempre sulla semplicità che è diventata il mio tratto distintivo. Il mio linguaggio ha trovato terreno fertile proprio perché è di facile comprensione. Ci sono molti illustratori che, per esaltare il proprio lato artistico, non realizzano immagini chiare, le rendono troppo criptiche e di difficile comprensione. In realtà l’immediatezza paga sempre. Chiudiamo la chiacchierata con una parentesi ludica, visto che noi siamo tutti smanettoni. Giochi? Poco, ma sono possessore di un Xbox 360, anche se le uniche saghe che seguo con interesse sono quelle di Halo e Splinter Cell. Ho provato anche altri titoli, ma non mi hanno preso.

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Boardwalk Empire

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Black Swan

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Monsters

Tron Legacy

26 CINEMA E TV triangle panique au village secret of kells another year a serbian film easy a satoshi kon: l’uomo dei sogni misfits unsteady cam

62 FUMETTI y the last man

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Winter’s Bone MUSICA ianva: intervista a mercy kayne west: my beautiful dark twisted fantasy enos: chapter 1 areknames: in case of loss

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LETTERATURA appetite for self destruction una cura per la terra vanquish: official guide


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104 Donkey Kong Country Returns

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Gran Turismo 5

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COD Black Ops

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VIDEOGIOCHI kinect parafernalia cinesi unlocked fable iii fotns: ken’s rage hokuto no ken nei media assassin’s creed brotherood donkey kong country returns need for speed hot pursuit gran turismo 5 kirby epic yarn call of duty black ops deadly premonitions nba 2k11

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TECNOLOGIA

Ianva

Deadly Premonitions

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ARTE alessandro gottardo

a volte 16 ritornano s t o r ie s

a face in the crowd PLAYERS 01 PAGINA 15


stor ies

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a volte

rito rna no

s a l p li

e e ce me d i m o it I mt o , c aom o, cv - b s a di d a re v r r r i c on o p eo m e oa so ro, c otut v ee r o p a r e b torn

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stor ies

di Giovanni Donda

...al futuro, passato e presente gerundio

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ove stavano andando, ben venticinque anni fa, non avevano bisogno di strade. Senza sale cinematografiche, però, nel 1985 Doc e Marty non sarebbero usciti neanche dal garage con la DeLorean, figurarsi raggiungere ottantotto miglia all’ora di esaltazione geek. Così, per celebrare un quarto di secolo dalla sua prima proiezione in sala, l’ottobre scorso Ritorno al futuro di Robert Zemeckis e Bob Gale ha fatto ciò che il titolo aveva del resto annunciato da sempre, è tornato al futuro. Lo ha fatto

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negli ultra tecnologici cinema 3D-ready di mezzo mondo e in Italia, dove è stato trasmesso per una notte sola. Non sia mai che si vada a togliere sale al cinepanettone di turno. Per una volta, però, gli occhiali 3D sono rimasti nella cesta. Il primo capitolo della trilogia è tornato a farsi apprezzare come babbo lo ha fatto, senza fronzoli in computer grafica aggiunti in ogni centimetro libero di fotogramma e con delle armi da fuoco lì dove c’erano delle armi da fuoco e non delle ri-

cetrasmittenti. Ben lontani dal sentirsi poco a loro agio con simili tecnologie – tutto l’opposto, tra l’altro – Zemeckis & Co. non optano per un remake, un re-boot, un re-imagining o un altro improbabile sinonimo di “stupro intellettuale”. Piuttosto, imboccano la vecchia strada di una re-release, un re-master, un re-run o un altro improbabile sinonimo di re-plica. Peccando di cinismo, verrebbe da pensare che quando non c’è più posto negli infernali sgabuzzini dei cinematografi, le vecchie pellicole


tornino a girare nel buon vecchio proiettore. In realtà, più che una replica, il Ritorno al futuro riproposto è un restauro. Questo per la precisione, volendo il cinismo di cui sopra resta ben riposto: simili riesumazioni sono frutto di operazioni a fini di lucro atte a ottimizzare il più possibile le vendite delle successive versioni in blu-ray. Al di là dell’avere scomodato l’inventore dell’acqua calda, c’è un “ma” non trascurabile. La differenza fra questa operazione e quelle di George Lucas o Ste-

ven Spielberg (rispettivamente Guerre Stellari e E.T. L’extraterrestre), sta nel come vengono rivisitati mostri sacri del patrimonio cinematografico, non nel perché. Ritorno al futuro viene riproposto senza alcun rimpianto e la storia del cinema ne può solo trarre giovamento. Ben vengano simili restauri, senza le revisioni di autori che oggi possono, ma oggi più che mai non dovrebbero. Una genuina testimonianza di come si facesse cinema negli anni ‘80, un’era passata e non per questo mi-

gliore o peggiore, ma perfettamente intatta ai nostri occhi e – ben più importante – agli occhi di chi quegli anni non li ha mai vissuti. Poco importa se Robert Zemeckis lo abbia fatto per mancanza di fondi, pigrizia o perché lui stesso sostenitore dell’importanza di preservare per non dimenticare. L’importante, casomai, è non lasciare a Ridley Scott la possibilità di cambiare il finale di Blade Runner, così, per conformarsi meglio con un’era che non gli appartiene. Ah no, aspetta...

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stor ies

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e z n e u r G incon

di Andrea chirichelli

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a Haran Banjo organizzava threesome notturni con Reika e Beauty? O preferiva una sola delle due? La bionda svampita e apparentemente licenziosa o la brunetta intellettuale e fintamente freddina? Magari preferiva i Meganoidi. Koros, in effetti, aveva un certo fascino. In ogni caso, in quel cartone animato c’è sempre stato qualcosa che non quadrava. E non solo in quello. Oggi non ci faccio più caso, ma ai tempi erano numerosi i dubbi e le incongruenze che riscontravo nei fedeli compagni di tanti pomeriggi trascorsi davanti alla televisione tra un tegolino e un compito da svolgere per l’indomani. Voglio dire: se ogni robottone aveva un

super-mega-ultra attacco devastante, capace di distruggere in un colpo solo l’avversario, perché non lo utilizzava subito? Perché perdere tempo in leziosi lanci di missili, rischiare di perdere preziosi componenti del proprio corpo e mandare a puttane anni di investimenti pagati dai contribuenti? E guardate, non sto parlando dei campi di calcio di Holly e Benji, la cui estensione, calcolata scientificamente, avrebbe dovuto coprire chilometri e chilometri di superficie, visto che era possibile percepire la curvatura terrestre, né dell’assurda giravolta che faceva il sedile su cui era poggiato il culo di Actarus quando il robot entrava nell’astronaveguscio che lo conteneva. Quelle

erano palesi cazzate o, se vogliamo, licenze poetiche, stratagemmi per mantenere attiva la sospensione dell’incredulità. Quello che mi chiedevo era: come fa uno a vivere con una campana dentro al cuore? Di bronzo, poi. Perché i cattivi ridevano PRIMA di aver ottenuto la vittoria? Perché, nonostante una evidente superiorità militare ed un tasso di belligeranza storicamente superiore alla media, l’esercito americano non veniva mai coinvolto nei conflitti e toccava sempre ai giapponesi salvare la Terra, proprio loro che erano usciti malconci dall’ultimo conflitto su scala globale? Troppe, davvero troppe incongruenze.

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D e homer ricordi di un cAsuALga m di Alberto Li Vigni

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a piccolo non ho mai vissuto pienamente il periodo d’oro del home computer. Intendiamoci, ho cominciato anche io con un glorioso Amstrad CPC 464, ma a parte che non poteva avere il fascino di un Amiga o di un Commodore 64, eravamo già nel 1989, quando ormai i titoli presenti in quel cassone antidiluviano non potevano competere con quelli disponibili per master system o megadrive, le prime due console che mi furono regalate poco tempo dopo Adesso, a vent’anni di distanza, mi ritrovo nuovamente di fronte a quel monitor a fosfori verdi e alla tastiera con i bottoni colorati. Non oso neanche accenderlo, ammesso che funzioni ancora. Non saprei come affrontarlo emotivamente. È una vera memoria perché è comunque una delle primissime esperienze che ricordo bene? Oppure si tratta semplicemente di una mitologia imposta dalla valanga di retro pensiero a cui siamo continuamente soggetti nell’era dell’iPad? Vediamo il primo punto. Avevo sei anni. La mia idea di computer era a metà tra il sogno ipertecnologico trasmesso dalla cultura popolare e le pubblicità dei giochini elettronici. La mia felicità durò veramente poco, perché nella schermata iniziale mi apparve la scritta “microcomputer”. Non era un buon punto di partenza, ma nel giro di qualche mese capii cosa fosse realmente avere un HC: attendere dieci minuti per caricare un gioco, imparare il basic, copiarsi i listati dal manuale, far rimanere a bocca aperta un ignaro parente con qualche timida sequenza animata. Secondo punto. A distanza di anni, tramite fonti passate e presenti, scoprii cosa facesse realmente lo home user cazzuto. Si scriveva i programmi da solo e li diffondeva tramite fanzine. Fondava software house e innovava il mercato con videogames tanto umili quanto preveggenti. Ma io tutto questo non l’ho vissuto. E adoro l’iPad. L’unica conclusione può essere solo lasciare spento quel computer. In fondo devo ancora finire quel titolo del 2010, Super Meat Boy. E poi io non vivo nel passato...


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lf è un sopravvissuto. Il suo pianeta è esploso e, per quanto ne sappia lui, tutti i suoi amici potrebbero essere morti. Si schianta sul nostro pianeta, sul garage di quella che potrebbe essere la perfetta immagine della tipica famiglia americana all’inizio degli anni ’80. I Tanner: pacifici, onesti e semplici. È vivo, e sa che sarà lontano da casa per sempre. Non è contento. Ma a differenza di ET, si sa adattare. I Tanner decidono di adottarlo, e la tipica sit-com casalinga si trasforma, i drammi e le gioie quotidiane vengono messi in prospettiva dall’alieno. Si accende la televisione per le risate, la si tiene accesa per ricordarsi che vale la pena di sfor-

zarsi per convivere con l’alieno. Rivedendo oggi Alf, ci sono pochi dubbi sul fatto che Jeff Bridges si sia ispirato all’alieno arancione nel dare vita a The Dude in The Big Lebowski. Qualunque cosa succeda attorno a lui, a prescindere dai disastri che ha vissuto, è sempre tranquillo. È una versione più pelosa di Fonzie. E più malinconica. C’è una tristezza di fondo nel personaggio di Alf (un diverso, recluso per essere difeso da un mondo in cui non si potrà mai integrare, come dimostrato dall’inquietante finale della serie), il suo senso dell’umorismo sembra sempre una reazione che dimostra grande forza vitale, paragonabile a quella

del suo cibo preferito, i gatti. Alterna momenti di genio e follia a una dedizione eroica a uno stile di vita dominato da indolenza e pigrizia. Il suo non è uno show così diverso da I Griffin o Futurama. È dissacrante in maniera meno esplicita, limitato dalle convenzioni del tempo in cui è stato trasmesso, ma spesso altrettanto efficace. E il fatto che sia girato dal vivo, con attori in carne ed ossa, amplifica la magia. Vedere i movimenti del pupazzo oggi è quasi più incredibile che negli anni ’80, è come Blade Runner: è uno dei migliori lavori di effetti speciali mai visti. Siamo molto oltre Gollum o gli alieni di Avatar: Alf esiste.

Alf’ s Bl ues

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ALABAiraDlAe ! spaz di enrico Pasotti

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gni tanto, di rado certo, mi capita di riordinare gli armadi di casa [o gli scatoloni in garage (o le casse in soffitta)]. È una cosa che procrastino quanto più possibile dato che, inevitabile, è un’operazione che mi prende ore e ore. Non perché io sia fatalmente pigro, non solo almeno, ma perché, fra le cose, le memorie sono in agguato. E sfogliando/ascoltando/guardando le cose che furono, ricordo un passato che, tipico dell’uomo, sapevo aureo. C’erano la giovinezza, il fare spensierato, la certezza incrollabile che no, io non avrei mai perso tempo con il telegiornale e che sì, il futuro sarebbe stato mio, con i suoi robottoni alti trenta metri.

Ora la cosa più grande che vedo in giro è il pacco di Beckham, gigantografato sulla facciata di un palazzo. In quegli anni giovani, presi uno scapaccione da mia nonna perché dal parrucchiere tirai fuori un ritaglio di giornale. C’era un fotogramma tratto da Rocky Joe. Pretendevo quel taglio di capelli. Cose belle. E allora infili la testa nell’armadio e scopri che tanta roba è diventata fango, che i dialoghi spesso non stavano né in cielo né in terra e che il senso di continuità logica non era un principio universalmente valido, in quei mondi di fantasia. Le strade del passato saranno sì lastricate d’oro, ma pure lì si faceva lo slalom fra le cacche di cane.

Eppure, c’è ancora tanta emozione in quel passato. E qualità. E non è che ti devi sforzare tanto quanto avresti creduto, per farla affiorare. Devilman è tutt’ora una lettura fulminante e quelle tavole sgraziate, il segno impreciso e il folle procedere della storia continuano a dipingere uno dei più oscuri ritratti dell’animo umano. Ti guardi indietro e pensi che sì, i bei tempi sono passati ma poi ti guardi intorno e vedi che anche adesso te la passi un gran bene. E ringrazi il giorno in cui decidesti che sarebbe stata una buona idea non lanciarsi dal balcone, in attesa dei componenti. Perché di quella Miwa non ci si può fidare...


febbre

di Antonio Lanzaro

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i raggomitolo sotto le coperte. La temperatura è salita nella notte, sento la testa che pulsa sul cuscino ormai caldissimo. Che bello, mi dico, oggi niente scuola! Con le poche forze che ho mi alzo e raggiungo il bagno. - Quanto hai? - chiede mia madre intercettandomi nel corridoio. Il mio sguardo assonnato le basta per capire che non l’ho ancora misurata, ma che la febbre è ancora lì. Mi aspetta una mattinata di tv sotto le coperte. Gordian sta per cominciare, devo sbrigarmi. Canticchiando “Ogni pugno è una roccia che taglia, ogni colpo tremendo va giù” me ne torno al calduccio. La maratona comincia. A Gordian seguono Jeeg Robot D’Ac-

ciaio e God Sigma, i miei cartoni preferiti. Sono felice come un bambino. D’altra parte lo sono. Mi raggomitolo sotto le coperte. La temperatura è salita nella notte, sento la testa che pulsa sul cuscino ormai caldissimo. Mi alzo controvoglia e chiamo in ufficio. Accendo la tv, provo a dribblare i salotti del nulla cosmico ma mi accorgo che infestano ogni canale. Mi aggrappo alla tv satellitare e mi imbatto in un canale che sta trasmettendo Gordian, il mio Gordian! Che ricordi, che nostalgia! Ma che dolore scoprire che tutto sia invecchiato malissimo. Decido di farmi male e guardarlo lo stesso, e proprio quando alla fine stavo per cambiare parte la sigla, quella sigla

che cantavo sempre da piccino e che scopro di ricordare a memoria, parola per parola. La commozione è totale quando, come uno scherzo del destino, dopo Gordian comincia Jeeg Robot D’Acciaio. “Corri ragazzo laggiù, vola tra lampi di blu”. E poi God Sigma, “combatti tra le stelle con gli Eldiani”. Le sigle sono ancora bellissime, il resto sembra invecchiato troppo e male. O forse la differenza sta tutta negli occhi di chi guarda. Una parte di me continuerà a pensare che sia stato fortunato ad avere avuto un’infanzia coi robot al posto dei Pokemon, ma la certezza di un tempo sembra oggi un po’ più presuntuosa. Sulle sigle, però, davvero non c’è partita.

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TV | inedito Registi Tom Green, Tom Harper Soggetto Howard Overman Sceneggiatori Vince Pope Produttori Kate Crowe, Petra Fried, Murray Ferguson Attori ROBERT SHEEHAN, IWAN REHON, LAUREN SOCHA, NATHAN STEWARTJARRETT, ANTONIA THOMAS Provenienza UK Versione Originale

s t i f s i M PUNK: ATTITUDE

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I

di Enrico Pasotti

l primo impatto con i disadattati di Misfits è scomodo, come la poltrona del cinema dopo le prime due ore di Avatar in 3D. Si percepisce da subito qualcosa che non va, qualcosa, non di sbagliato ma di fuori posto. E poi si capisce qual è il problema: le facce. Si vedono le facce dei protagonisti e nessuna ci sembra opportuna, rassicurante, giusta. Poi quelle facce iniziano a cambiare, ad aderire ai personaggi in un modo che non ci è familiare. Si arriva a capire che siamo noi il problema, così avvezzi ai canoni statunitensi, ai protagonisti statuari, alle chiome fluenti, alle mandibole rocciose, ai bicipiti prominenti. I protagonisti di Misfits sono ragazzetti molli, debosciati, perdenti a modo loro, ma ben lontani dallo stereotipo del loser americano, lo sconfitto che si redime o che cova risentimento per il mondo esterno. No, i Misfits sono perdenti quotidiani, piccoli personaggi fatti di piccole cose, persone verosimili, che conducono esistenze invisibili ai più, come le vite di tutti noi. Questo fino all’innesco

narrativo. Seguendo una logica videoludica, l’abbrivio della serie è pretestuoso e sbrigativo. I protagonisti, cinque delinquentelli affidati ai lavori sociali, ricevono in dono altrettanti poteri. Non è il come succede a interessarci, l’importante è che sia successo e che le vite dei nostri siano ora inevitabilmente stravolte da un susseguirsi di eventi che, per quanto straordinari, non permettono loro di dimenticarsi della vita di tutti i giorni, dei propri genitori, dell’affitto da pagare, delle rate della macchina e di tutto il resto. Misfits rimescola le carte evitando di attribuire un’importanza eccessiva all’eccezionale, preferendo concentrarsi su un quintetto di personaggi atipici fin da subito. Il taglio inglese si vede presto, non solo nel casting, ma anche nei dialoghi che non lesinano il turpiloquio senza però scadere nell’ipertrofico tarantiniano. Il sesso è esplicito, con tette e chiappe in bella vista, ma senza quella carica voyeristica o, peggio, con la pretesa di fare bel cinema comune altrove. L’umorismo è contemporaneo e

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TV | inedito

tagliente, la situazione drammatica volge in momento ilare senza imbarazzi di sorta e più in generale non si sa mai cosa aspettarsi perchè il canovaccio classico è bandito e niente è scontato. I sei episodi della prima stagione svolgono il ruolo di lungo pilot che presenta i personaggi e i loro inusuali poteri, ma nonostante la brevità, tutto ha un senso compiuto. Poco importa di indagare l’evento ‘cosmico’ che dona poteri ai nostri protagionisti (e ai loro antagonisti), mentre ci interessa vedere come essi reagiscono al cambiamento, come si rapportano gli uni agli altri, costretti a fare gruppo dagli eventi in corso. Parallelamente ai comics supereroistici inglesi, la storia non esplo-de subito nella necessità del conflitto totale, della catostrofe imminente, di quel mondo in pericolo che invece fa subito capolino nell’americano Heroes. No, qui lo sconvolgimento è privato, quasi in-

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timo e solo nell’ultimo episodio viene presentato un villain degno d’esser considerato tale, un villain davvero ispirato, inusuale e ‘british’ che si pone come il nemico naturale dell’attitudine punk che muove i nostri Misfits e la serie tutta. Impossibile parlarne senza rovinare quello che è l’acme e il manifesto programmatico della serie: il discorso roboante tenuto dall’irriverente Nathan sul tetto d’un edificio. Già l’inizio della seconda serie (altri sei episodi) mette in mostra il coraggio di cambiare le regole, non fossilizzandosi sul noto, ma muovendo passi in avanti, partendo dallo scombussolamento dei poteri, già di per loro inusuali. Con una terza serie non ufficialmente annunciata ma pronta ai blocchi di partenza, Misfits si candida ad essere una delle serie più frizzanti e valide degli ultimi anni, in barba a tutte quelle infinite e infinibili (finché il pubblico non si stanca) d’oltreoceano.


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TV | INEDITO

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boardwalk

empire

uando venne approvato il Volstead Act, gli anni venti avevano appena iniziato a fare capolino su un mondo ancora occupato a leccarsi le ferite della Grande Guerra. Iniziava l’era del proibizionismo. “When alcohol was outlawed, outlaws became kings” recita la tagline della serie. Atlantic City, però, aveva il suo re da tempo: Enoch “Nucky” Thompson, personaggio basato sul realmente esistito Enoch L. Johnson, boss e marionettista della macchina politica Repubblicana che controllava tutta la contea. Il serial ci fa immergere all’improvviso nell’impero di Nucky, partendo proprio dal cuore di Atlantic City, il “boardwalk”, la passeggiata in legno che accarezza l’oceano Atlantico e che si rivela teatro di numerosi avvenimenti chiave nel corso della serie. Appena si inizia a prendere confidenza con l’ambiente e con i personaggi che lo popolano, è impossibile fare a meno di accostare Boardwalk Empire a Mad Men, serie creata da Matthew Weiner e ambientata all’inizio degli anni sessanta. Quando poi ci si ricorda che Terence Winter, la mente dietro Boardwalk Empire, è stato assieme al già PLAYERS 01 PAGINA 30

Creata da Terence Winter Registi Timothy Van Patten, Allen Coulter Sceneggiatori Terence Winter, Nelson Johnson, Meg Jackson Produttori Martin ScorSese, Terence Winter, Gene Kelly, Timothy Van Patten Attori Steve Buscemi, Michael Pitt, Kelly Macdonald, Michael Stuhlbarg, Stephen Graham, Vincent Piazza Provenienza USA Versione originale

Never let the truth get iN the way of a good story di MATTEO FERRARA


citato Weiner uno dei due pupilli di David Chase durante la produzione delle ultime stagioni de I soprano, il puzzle che si stava cercando di risolvere si completa improvvisamente da solo. E sicapisce che Chase ha l’occhio notevolmente allenato a scovare scrittori talentuosi, oppure un’invidiabile calamita per il talento. Perché Winter ce l’ha mostrata così bene, in tutte le sue sfaccettature, che a ogni puntata che passa Atlantic City la si sente sempre più vera, sempre più viva e pulsante, perché ogni personaggio, non solo quello più importante, è così profondamente caratterizzato che sembra possa esistere davvero. Gli sguardi, i silenzi e i gesti, quelli di Nucky (Steve Buscemi) e Jimmy (Micheal Pitt) sopra tutti, dicono tantissimo. E ci ricordano anche di quanta attenzione ai dettagli sia colma la serie, e quanto sia qualitativamente elevata la produzione intera. Boardwalk Empire, però, è senza dubbio un prodotto classico, e sono contento che lo sia. Perché è la dimostrazione di quanto una serie con un’impostazione di questo tipo possa essere eccellente senza dovere abusare di cliffhanger vari, senza doverti lasciare ogni volta ad attendere con bramosia

l’episodio successivo, voglioso di sapere “cosa c’è dopo”. C’è anche questo, certo, ma il motivo principale per cui guarderesti continuamente una serie come questa è l’irresistibile fascino del reale ma fittizio, del personaggio particolarissimo ma credibile, così forte e determinato ma incapace di nascondere completamente le sue debolezze, le sue paure, le sue certezze a metà. Rinnovata per una seconda stagione subito dopo la messa in onda del pilot, Boardwalk Empire si dimostra una delle migliori serie di quest’anno. Da vedere anche solo per potere annusare l’aria di Atlantic City negli anni venti, un misto di salsedine dell’Atlantico, alcool illegale dei bar e olezzo dei bordelli. PLAYERS 01 PAGINA 31


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CINEMA | retros pettiva

l’Uomo dei Sogni Lo scorso 24 agosto Satoshi Kon ha smesso di sognare. Lui che per tutta la vita ha raccontato sogni, facendo dei suoi film delle esperienze meravigliosamente intrise di assurdo e ironia, di scenari improbabili e seducenti... ha smesso di sognare, l’uomo dei sogni, che attraverso le trame oniriche delle sue opere raccontava la realtà, l’uomo, i rapporti sociali, e nel sogno sapeva mantenere una lucidità sorprendente e implacabile. Ha smesso di sognare e i suoi sogni già ci mancano. Satoshi Kon non era solo un regista giapponese di anime, un autore di “storie fantastiche”. Era uno dei pochi autori del Sol Levante a piegare e plasmare la materia stessa dei cartoni animati affinché si rendesse tramite di analisi sociali, psicoanalitiche e umane, ma senza mai rinnegare le basi dell’animazione giapponese. Dove i lavori di Mamoru Oshii sfociano nel didascalico e nella pesantezza “filosofica” propria di un film forzato ad essere trattato, le opere di Kon splendono di irresistibile ironia, gioioso tripudio visivo, inarrestabile verve narrativa. Dove tematiche e stilemi fin troppo ortodossi segnano di qualche acciacco le ultime produzioni targate Studio Ghibli, i film di Kon ancora stupiscono per freschezza, per originalità e padronanza di stile. A qualche mese dalla scomparsa, Players dedica a Satoshi Kon una breve retrospettiva, tanto per celebrarne il ricordo quanto per farlo conoscere a chi, disgraziatamente, ancora non ne ha visto le opere. Con sentimenti di profonda gratitudine per ciò che ha fatto, lo salutiamo. Consapevoli che continueremo a seguirlo, sempre e comunque, sino alle stelle e oltre... PLAYERS 01 PAGINA 32


in memoria di

SATOSHI KON

di andrea chirichelli e federico rescaldani

L'

eccezionale esordio di Satoshi Kon che adatta per il grande schermo il complesso romanzo di Yoshikazu Takeuchi, modificandolo radicalmente ma donandogli quel tratto distintivo che caratterizzerĂ tutte le opere del regista fino alla sua prematura fine. Le vicende di Mima, ex esponente di un gruppo di idol passata ad una nuova carriera e per questo terrorizzata da un misterioso stalker, vengono declinate seguendo il verbo del thriller psicologico, palpitante e ricco di colpi di scena. I tratti di fondali e personaggi

sono dettagliati, i colori vividi e pulsanti, l'atmosfera rarefatta e inquietante, la suspance costante e l'aura di Alfred Hitchcock tangibile. Efficace da punto di vista drammaturgico, Perfect Blue si lascia ricordare per una colonna sonora giustamente al di sopra della media, per l'intelligenza con la quale vengono presentati i valori e disvalori del mondo dello spettacolo e per l'astuzia con la quale lo script gioca con lo spettatore, estasiato dalla quantitĂ di idee nuove e fresche che l'ex allievo di Otomo porta al mondo dell'animazione giapponese. E' nata una stella.

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CINEMA | s peci ale

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orse il più immediato tra i film di Satoshi Kon ma non per questo meno riuscito. Nonostante il background (la notte di Natale) e i protagonisti (l'improbabile terzetto compostato da Gin, un ex ciclista alcolizzato, Hana, un travestito, e Miyuki, una ragazza scappata di casa alle prese con un neonato abbandonato) non brillino per originalità, la storia coinvolge e il tratto del regista è oramai maturo e capace di donare spessore ai personaggi. Lo script cammina come un

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equilibrista sul filo del melodramma, ma, nonostante qualche folata di banalità, riesce a superare indenne il baratro. Il dogma della famiglia viene ribaltato, le differenze sociali, sessuali, religose appianate dalla necessità fatta virtù, l'emarginazione irrisa e sconfitta dalla forza dell'amore e della vita. Il più atipico e onirico dei racconti di Natale, musicato da un Sukuki Keiichi in stato di grazia, capace di fondere sonorità elettroniche ad arie classiche: una partitura indimenticabile, proprio come il film che accompagna.

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nception prima di Inception. Non è nemmeno il caso di chiedersi se Christopher Nolan abbia visto questo film prima di dedicarsi alla sua ultima fatica, tante e tali sono le similitudini. Nonostante la sua complessità, che a volte sfocia nell'incomprensibilità, Paprika è forse il manifesto stilistico di Satoshi Kon, che qui dà il meglio di sé, ideando e realizzando sequenze di incredibile impatto visivo. Trasposto assai liberamente da un romanzo di Yasutaka Tsutsui (maestro della letteratura fantascientifica giapponese), Papirka è uno e tutto: in

esso si fondono thriller e commedia, reale e irreale, sogno e realtà. Amabilmente metereferenziale, con continui rimandi alle sue opere precedenti, Il regista gioca con Freud e stordisce lo spettatore a colpi di colori, parate, robot e matrioske. Un film imperfetto e difficile, ma sempre appagante. Se l'opera merita di assurgere a visione imprescindibile è gran parte merito della sensazionale colonna sonora composta da Susumu Hirasawa, che traduce in note le visioni di Kon dando vita ad uno dei più felici matrimoni della storia della cinematografia moderna.


MILLENIUM ACTRESS

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illenium Actress è il film più bello di Satoshi Kon. La sua opera più riuscita, il suo capolavoro indiscusso. Per quanto Paprika abbia fatto palpitare i cuori ed eccitato le menti, per quanto Perfect Blue ci abbia folgorato, per quanto Paranoia Agent (alla pagina seguente) resti a tutt’oggi un lavoro enorme… nonostante ciò, Millenium Actress è sempre lì, in cima ad una carriera eccezionale, tristemente e prematuramente interrotta. Millenium Actress è lì, tra le stelle, forse un po’ più avanti. Esattamente dove si trova Chiyoko Fujiwara, l’attrice millenaria cui Kon rende omaggio. Intervistata da un giornalista ammiratore, segretamente innamo-

rato di lei da anni, Chiyoko ripercorre la sua intera vita a partire dal momento in cui, ragazzina, per caso divenne attrice e diva. Gli eventi della sua vita reale si legano indissolubilmente ai set e ai copioni dei suoi innumerevoli film, fino al punto da diventare una cosa sola, come realtà e sogno in Paprika. A differenza di quest’ultimo, però, non v’è mai confusione su quanto stia accadendo. La sceneggiatura di Millenium Actress è miracolosa. Ma quel che conta di più, sono l’amore e la delicatezza con cui Kon racconta il suo personaggio: così umano e fragile, ma così forte e determinato, lanciato all’inseguimento di un sogno mai raggiungibile, di un amore forse impossibile, ma che dà senso alla vita, vis-

suta costantemente nei panni di qualcun altro e mai in quelli di se stessa. L’esilio volontario, dove troviamo Chiyoko – ormai settant’enne – all’inizio del film, è solo una momentanea pausa prima che i ricordi tornino, prima che l’inseguimento ricominci… Millenium Actress è la bellezza di un ritratto luminoso tra le macerie di un bombardamento, la malinconia di una chiave perduta e ritrovata, il calore improvviso di un incontro inatteso e troppo breve. È un film che tocca le corde più profonde dell’anima, ma senza mai, MAI, rinunciare ad una vitale e irresistibile ironia. Se il destino è beffardo, tanto vale ridere, anche mentre si piange come una fontana.

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aranoia Agent è un racconto allucinato e allucinante. Satoshi Kon aveva la dote inspiegabile di saltare da un registro stilistico all’altro, da una forma narrativa all’altra, da una dimensione emotiva all’altra senza rispetto per il suo spettatore, per le sue aspettative e la sua sanità mentale, ma senza che l’impianto narrativo delle sue opere tradisse la minima indecisione. Con estrema e in apparenza casuale disinvoltura, ma in realtà con pianificazione certosina, Paranoia Agent intreccia il poliziesco con l’introspezione psicologica, il grottesco e il comico con un’asprissima critica sociale, la

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parodia e il senso del ridicolo con attimi di profonda drammaticità. Paranoia Agent è tutto fuorché un terreno stabile. È tutto fuorché un mondo narrativo assodato, ortodosso, familiare. È invece un continuo sorprenderti, un continuo levarti il tappeto da sotto ai piedi, un continuo percuotere le tue corde emotive con alterne violenza e dolcezza. Un agente di paranoia, appunto, così narrativamente inclassificabile – ma così stilisticamente immenso – da confonderti le idee perfino sulle tue stesse emozioni. PA sviluppa in mille direzioni ognuna delle forme narrative sperimentate in Perfect Blue e Millenium Actress, e definitiva-

mente conquistate con Paprika. L’affascinante commistione di realtà e sogno, le tinte oniriche di una realtà parallela che interseca il corso di quella cui siamo assuefatti; eventi in apparenza innocui che si rivelano gravidi di conseguenze, azioni che paiono dare un senso preciso alla trama ma che finiscono per rimescolare ulteriormente le carte… tutto questo è strumento, sia chiaro, è veicolo per una sottile e sistematica critica alla società giapponese, da intendere, vista l’assenza di appigli a specificità troppo nipponiche, come metonimia della società umana mondiale. La società del mass market, dei ritmi sociali che alterano la


PARANOIA AGENT

comune percezione della vita e che richiedono nuovi sfoghi, decisamente deviati, per le frustrazioni e le difficoltà cui non si ha voglia di tener testa. Non è la confusione tra sogno e realtà, l’incapacità di distinguere il reale dall’immaginario, ad essere un male in sé, è piuttosto la fuga dalla realtà voluta per indolenza, meschinità, viltà. Fin dal prologo – cui si ricollega direttamente l’epilogo, in un’esplicita rappresentazione della ciclicità del tempo – Paranoia Agent parla di rifiuto delle responsabilità, di ignavia, e di tutta l’energia distruttiva che i peggiori sentimenti umani

generano in una società segnata da uno sviluppo umanamente insostenibile. Il finale apocalittico non va inteso in senso puramente letterale, seppure non rifugga questa interpretazione, com’è consuetudine nei lavori più immaginifici di Kon. Ma al di là della storia nel suo complesso, così come si configura, multisfaccettata e gravida di possibili interpretazioni “laterali”, è la trattazione dei singoli personaggi a sorprendere, il modo in cui si raccontano le loro peculiari vicissitudini e se ne indaga la psicologia, spesso in maniera chirurgica. A tal proposito, il terzo episodio – che racconta

la doppia vita di Harumi Chono – è forse quello più riuscito e bello. Satoshi Kon racconta la realtà, attraverso le immagini sfolgoranti di un mondo parallelo, rivelandone le trame più nascoste come forse nessun altro regista di anime è mai stato in grado di fare. Questa sua opera volutamente sbilenca, apparentemente confusionaria, inevitabilmente imperfetta (di un paio di episodi si poteva fare a meno), è in verità magnifica, visivamente potente, emotivamente devastante.

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Winte r’s Bone |

CINEMA | inedito

un inve rno fre ddo fre ddo

di francesco sili

REGISTA DEBRA GRANIK SCENEGGIATORE DEBRA GRANIK & ANNE ROSELLINI PRODUTTORE ALIX MADIGAN, ANNE ROSELLINI ATTORI JENNIFER LAWRENCE, JOHN HAWKES AND GARRET DILLAHUNT PROVENIENZA USA VERSIONE ORIGINALE

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ee Dolly è una diciassettenne dal volto angelico e gli occhi gelidi come i venti del Missouri, dove vive assieme a una madre mentalmente disturbata e due fratellini, Sonny e Ashley. Suo padre, Jessup, è un fabbricante e spacciatore di stupefacenti, appena uscito dalla galera grazie ad una cauzione pagata ipotecando la casa e il terreno di famiglia, ma ora è sparito e se non verrà trovato in tempo per l’udienza Ree e gli altri perderanno tutto. Per Ree, l’unico sostegno morale e materiale del nucleo famigliare, non resta che intraprendere un doloroso percorso alla ricerca del padre e di una verità strenuamente difesa da una comunità omertosa e violenta. Vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival, il film di Debra Granik, riadattamento dell’omonimo romanzo di Daniel Woodrell, è un lancinante viaggio negli angoli bui della più remota provincia americana, dove tutti sanno tutto ma nessuno deve dire niente. Il film scorre fluido, in-

corniciato dagli splendidi paesaggi dell’altopiano dell’Ozark, lucido e algido sfondo alle ben più plumbee vicende narrate, ed è graziato da una regia di mestiere votata a spiare con occhio furtivo, più che narrare didascalicamente, il degrado morale e materiale di una comunità dove cortesia e appoggio reciproco nascondono sempre un secondo fine più malizioso. A Winter’s Bone propone con grande efficacia il tema dell’omertà e del conflitto del singolo contro il comune senso di appartenenza a uno stile di vita fondato sul patriarcato violento e oppressivo, dove le donne compaiono come mere esecutrici della volontà schiacciante dei loro mariti, i quali vengono dipinti con i tratti grotteschi e naive degli animali su cui si fonda la loro sussistenza. Sullo sfondo c’è una natura immota e antica, anch’essa donna nella sua incapacità di opporre resistenza alla violenza a cui assiste e di cui è fatta essa stessa vittima e nella sua assolutamente muta testimonianza, splendidamente ritratta da una fotografia lucida e attenta a

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CINEMA | inedito

a restituirne i colori invernali in tutto il loro spietato algore, e da una regia lenta e assorta, fatta di steady shot tagliati col bisturi e di lunghe carrellate che carezzano i paesaggi scovandone i dettagli più significativi di degrado umano e splendore naturale. All’interno di questo scenario si muovono le vicende di Ree, unico elemento femminile capace di mostrare la forza necessaria alla ribellione, mossa dal coraggio della disperazione e dall’amore per i propri fratellini, ancora non corrotti dal tocco velenoso di una comunità brutta, sporca e cattiva, per citare un’altra pellicola nostrana, a questa simpateticamente legata. Jennifer Lawrence, supportata da un ottimo John Hawkes nella parte dello zio Teardrop, tiene da sola le fila di un costrutto narrativo abile e coerente nel suo disvelare con le sole mute immagini i segreti reconditi della campagna americana; una prova intensa e

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partecipe che ha proprio nella misuratezza del timbro recitativo il suo punto di forza, mentre il cast comprimario svolge un lavoro egregio grazie anche alla sola accuratezza descrittiva data dalla mera presenza scenica, con protagonisti assoluti i cani randagi di ogni tipo, raccolti dalle strade e resi parte integrante della famiglia, che con la loro magrezza, lordura e il continuo ululare scandiscono il tempo scenico della narrazione e assieme incarnano il mostro affamato ma a modo suo affettuoso contro cui la protagonista deve, invano, lottare. Pellicola capace di entrare fin nelle ossa dello spettatore col freddo gelido della sua narrativa asciutta e compassata, A Winter’s Bone è un lavoro che non fa dell’audacia a tutti i costi il suo marchio di fabbrica, ma che riesce con genuino mestiere a coniugare intensità e meditazione in un prodotto dai connotati piacevolmente Nord Europei.


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Jennifer Lawrence, supportata da un ottimo John Hawkes nella parte dello zio Teardrop, tiene da sola le fila di un costrutto narrativo abile e coerente

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CINEMA | NELLE SALE

BELLO SENZ’ANIMA di ANDREA CHIRICHELLI Regista Joseph Kosinski Sceneggiatori Edward Kitsis, Adam Horowitz Produttori Sean Bailey, Steven Lisberger, Jeffrey Silver Attori Jeff Bridges, Garrett Hedlund, Olivia Wilde Provenienza USA Versione Italiana

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ron è tornato. Se ne sentiva davvero la mancanza? Nel 1982, l’impatto del film sulle menti degli allora neonati appassionati di videogiochi fu devastante. La sequenza delle moto ridefinì gli standard della computer grafica e permise la definitiva promozione del videogioco da fenomeno di nicchia per übernerd a moda di massa. Tron Legacy portava quindi un doppio fardello sulle spalle: da un lato il compito di dimostrarsi ancora all’avanguardia sotto il profilo tecnico, dall’altro quello di riuscire ad eguagliare lo status di cult, faticosamente raggiunto dal suo predecessore più in virtù del progressivo invecchiamento dei fan originali che delle sue qualità intrinseche. A ben vedere, infatti, e ben diversamente da altri classici usciti in quel periodo, Blade Runner su tutti, Tron non solo è invecchiato male ma non è che fosse questo gran capolavoro nemmeno allora. Le immagini e la computer grafica sopperivano alle lacune di una sceneggiatura spesso priva di ritmo e inutil-

mente complicata. È quindi curioso constatare come, a distanza di 27 anni, Tron Legacy soffra degli stessi identici difetti. Lo script, realizzato dagli sceneggiatori di Lost Kitsis e Hotowitz, parte bene, alimentando le attese del pubblico e proponendo un tema, quello del software libero e open source, che, così come molti altri, verrà purtroppo rapidamente abbandonato nel corso della pellicola. Nel vano tentativo di dare sostanza ad una trama identica a quella raccontata nel primo episodio, gli autori buttano a casaccio nel calderone temi “too big to fail”, dall’intelligenza artificiale alla nascita delle dittature, dal ruolo delle macchine alla pervasività del web, senza però riuscire a svilupparne compiutamente nemmeno uno. Meglio concentrarsi sull’azione: qui Tron Legacy non delude. Le versioni 2.0 delle battaglie coi dischi e con le moto sono degne evoluzioni di quelle originali. Dal punto di vista prettamente visivo, il film colpisce positivamente per il suo stile, una eccelsa rilettura di quello originale. Ecco

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CINEMA | NELLE SALE

però un’ altra clamorosa occasione mancata: nonostante la Rete brulichi di programmi, non c’è il benché minimo tentativo di quell’ analisi sociologica che era presente, seppur appena accennata, nell’originale. Perché i programmi si recano al bar? Come fanno ad avere rapporti sentimentali? Che differenze ci sono tra di loro? Nessuna risposta, tutto resta lettera morta, accennato, suggerito, lasciato all’immaginazione del pubblico. L’assoluta mancanza di autoironia e l’insostenbile citazionismo completano un quadro a tinte fosche. A contribuire alla scarsa riuscita del progetto concorrono poi due fattori: la pessima prova di quello che dovrebbe essere il protagonista principale, Garrett Hedlund, teen spocchioso e antipatico, e lo spreco del carisma di Jeff Bridges, sempre efficace, ma al quale gli sceneggiatori riempiono la bocca di atroci banalità. Glissando per umana pietà sull’infe-

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lice cameo di Michael Sheen, c’è da da sottolineare la bella prova dell’ affascinante Olivia Wilde, l’unica vera sorpresa nel cast e, a ben vedere, dell’intero film. Tecnicamente Tron Legacy è un bel vedere, il 3D è convincente anche se resta lontano dai vertici Cameroniani. L’attesa soundtrack dei Daft Punk si presta ad una duplice valutazione: come partitura di accompagnamento è valida, anche se gli echi Zimmeriani si sprecano e alcune tracce sono pesantemente ispirate alla colonna sonora di Inception, come opera da ascoltare separatamente molto meno. Non siamo di fronte a un fallimento completo, ma la sensazione che un’occasione d’oro, l’ennesima, sia stata buttata al vento c’ è tutta. Proprio in tempi in cui il web è diventato parte integrante della vita di quasi ogni essere umano, una riflessione sul tema, anche se affidata ad un blockbuster disneyiano, era doverosa. Peccato.


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CINEMA | INEDITO

DI VALENTINA PAGGIARIN

BLACK SWAN

L’ALIE NAZIONE DELLA RICERCA

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Regista Darren Aronofsky Sceneggiatore Mark Heyman, Andres Heinz, John McLaughlin Produttore Jon Avnet Attori Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis Provenienza Stati Uniti Versione originale


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resentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2010 e accolto con uno scetticismo e una freddezza (da parte della critica) simili a quelli che avevano colpito un altro film di Aronofsky, The Fountain, Black Swan è il proseguire del regista sulla strada di una ricerca tutta personale, della speculazione sul senso dell’esistenza, sull’ineluttabilità della passione e sull’impossibilità di cambiare la propria natura. Nina (Natalie Portman) è disciplinata, dotata ed eterea, l’archetipo della ballerina. Lily è una sua

collega, spregiudicata e passionale, inferiore nella tecnica e tutta dedita all’istinto. È intorno a questo binomio di personaggi apollinei e dionisiaci che si svolge la vicenda: un demiurgico Vincent Cassel, nei panni di Thomas Leroy, il direttore del New York Ballet al lavoro sul Lago dei Cigni, cerca di trasformare Nina nella sua nuova prima ballerina per assegnarle, nel prestigioso balletto, sia la parte del Cigno Bianco che quella del Cigno Nero. Il film è stato tacciato di prevedibilità: accusa capitale per una pellicola spesso classificata come

“thriller”. I personaggi sembrano rispondere ai canoni dei loro ruoli, la vicenda si dipana con molta inquietudine ma con pochi veri colpi di scena, il mondo del balletto viene tratteggiato senza particolare originalità, piuttosto con spietata crudezza. In realtà, l’intenzione del regista non era quella di realizzare l’ennesimo film ricco di colpi di scena e tutta questa prevedibilità è uno strumento per aiutare lo spettatore a concentrarsi sugli elementi davvero importanti, come la profonda psicologia di Nina e la disperata ricerca di significato per la sua esistenza. PLAYERS 01 PAGINA 47


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CINEMA | INEDITO

BLACKSWAN Mentre seguiamo Nina nel suo degenerare, nell’auto-mutilazione fisica, attraverso le terribili visioni di un destino incompiuto, veniamo accompagnati per mano da Aronofsky nell’esplorazione di una figura sinceramente tridimensionale, che va interpretata e giudicata in modo diverso rispetto alla sua apparenza, alla sua origine, alla sua occupazione: Nina è un personaggio immaturo rispetto ai protagonisti degli altri titoli di Aronofsky, ancora “sulla soglia”, che si dibatte in una lotta dolorosa per l’auto-affermazione. Come sarà chiaro nel finale, Nina non è affatto quello che sembra, lo sa e sta cercando di completarsi, di completare il proprio percorso. I personaggi che affiancano Nina rivestono ruoli “inappropriati” e la loro funzione non è quella che ci si aspetta: è proprio grazie a loro che il percorso di consapevolezza della protagonista diventa ancora più frastagliato. La vera antagonista di Nina non è Lily, come si potrebbe intuire a un primo livello di lettura, né Nina stessa, che

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con i propri istinti di auto-distruzione sembra mettere a repentaglio la propria brillante carriera (e, a tratti, anche la propria vita): la vera antagonista è la madre iperprotettiva, che ha riversato tutte le proprie frustrate ambizioni giovanili su una figlia chiaramente più dotata di lei. Questo personaggio confonde e distrae Nina e rallenta il suo processo di presa di coscienza sulla strada giusta da imboccare. Thomas Leroy è invece il cattivo maestro che sembra condurre Nina verso la perdizione, che – come da cliché – pare richiedere favori sessuali in cambio di un ruolo prestigioso, ma che forse ha intravisto la vera natura di Nina e cerca di aiutarla a lasciarla fiorire. Nina è un personaggio alienato e, per questo, pensiamo fin da subito che sia pazza: che la sua ossessione per il successo nella danza la stia obnubilando, che l’oppressione da parte di sua madre le stia tarpando le ali, che l’arrivismo di Leroy le stia rovinando la vita. In realtà, Nina non è alienata perché sta cercando di ottenere il mas-


simo nel campo del balletto, ma perché sta cercando di dare un senso alla propria vita che, lentamente e inconsapevolmente, sembra farsi più chiaro ed ineluttabile. Nina, il Cigno Bianco, sta imparando che cosa significa essere davvero un Cigno Nero e, in questo processo tutto interiore, la rivalità con Lily è una mera oggettivizzazione del percorso mentale della protagonista, che arranca a tentoni, cercando di capire quale sia la sua scelta giusta, quale sarebbe la svolta decisiva della sua vita. Aronofsky segue Nina con uno sguardo irrequieto, un montaggio serrato e inquadrature claustrofobiche, accentuate da una musica ossessiva e invadente, che, abbinata alle immagini di un corpo tanto fragile e decadente come quello della protagonista, rafforzano la sensazione di squilibrio totale. Squilibrio che però non è pazzia, ma disperata ricerca di un equilibrio. D’altra parte, non è la prima volta che i personaggi di Aronofsky si dibattono sulla pellicola per riuscire a prendere la

decisione migliore. Tutto The Fountain è una tensione costante del protagonista verso un gesto di rassegnazione e accettazione davanti alla morte, per scoprire la vera vita eterna. The Wrestler, allo stesso modo, è la battaglia di un lottatore che cerca di sopravvivere, ma che si accorge che la semplice esistenza non gli basta. Con una metafora forse prevedibile, in Black Swan osserviamo Nina mentre attraversa a passi di danza il palcoscenico della propria vita, alla disperata ricerca della chiave di volta della sua esistenza. La sua danza, le sue movenze, la sua storia, così come la sua ricerca implicita, sono l’opposto dell’immagine canonica del balletto, fatto non di leggiadria, spensieratezza ed evanescenza, ma di turbamento, violenza fisica, dramma. Nina è l’ennesima ipostasi del senso della vita secondo Aronofsky: una vita che deve trovare la propria compiutezza e il proprio significato a qualunque costo.

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CINEMA | inedito

A SERBIAN FILM A SERBIAN RAPE-SODY DI DANILO DI RUSSO Regista Srdjan Spasojevic Sceneggiatore Aleksandar Radivojevic, Srdjan Spasojevic Produttore Srdjan Spasojevic Attori Srdjan Todorovic, Sergej Trifunovic, Jelena Gavrilovic Provenienza Serbia Versione originale

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isogna dargliene atto, Srdjan Spasojevic deve saperne una più del diavolo. Perché, al di là di demeriti o furberie, non è certo cosa da tutti sapere suscitare ancora oggi un tale polverone mediatico in un mondo, quello cinematografico, che sembra(va) aver scandagliato ogni declinazione possibile della violenza e lordura umana, al punto da risultare oramai assuefatto, saturo o quasi di ulteriori tabù da violare e impermeabile alla possibilità di spingere oltre gli invalicabili limiti del consentito e del

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‘filmabile’. Questo prima che il giovane regista decidesse di mettersi l’abito buono e lasciare il suo paese, annaspante fra crisi economiche e di identità, per presentare A Serbian Film nei più importanti festival cinematografici del 2010. La vera impresa è stata riuscire a fare terra bruciata attorno a sé, grazie anche a una manciata di scene altamente scioccanti che, come da copione, hanno funto da efficace Cavallo di Troia al passaparola di critica, pubblico e web, assestando reazioni che vanno dal rigetto più

indignato alle accuse di compiaciuto sadismo infiocchettato da pretenziose velleità metaforiche ma studiato a tavolino per shockare. E dire che questo thriller dai toni morbosi non avrebbe certo bisogno di tali escamotage per farsi apprezzare, forte com’è di contenuti e valori produttivi importanti. Il comparto tecnico è di tutto rispetto: regia solida e una fotografia ottima, un cast ovviamente sconosciuto ai più ma di assoluto valore, senza dimenticare l’eccellente comparto sonoro, fatto di oscuri tappeti


elettronici che deragliano in pulsanti sferzate industrial/noise nei momenti più cruenti. Il tutto a supporto di una sceneggiatura che non brilla per estro e originalità, ma non va mai sopra le righe e, anzi, sa giocare al citazionismo coi canovacci di una serie di titoli che hanno già affrontato i binari scomodi delle cineproduzioni al confine con la legalità come “snuff” e il porno più estremo (si pensi a 8mm di Schumacher, o a Tesis di Amenábar). Lo fa però entrando in punta di piedi, quasi di soppiatto, nell’intimità di una relativamente

normale famiglia serba, per poi infettarsi poco a poco fino a spingerci nell’abisso. Milos, dotato stallone locale ritiratosi dalle scene per mettere su famiglia, conduce una vita sentimentalmente appagante ma di stenti economici che a volte, carburati da un malinconico retrogusto alcolico, gli fanno riemergere dei dubbi sull’opportunità delle sue scelte; gravita nella sua vita anche un fratello sbirro dai tratti però alquanto morbosi. Per il tramite di un’ex collega, Milos accetta il corteggiamento di Vukmir, visionario regista con

enormi somme da investire per girare una pornografia inedita e di classe che si erga oltre la squallida serialità degli standard vigenti, un prodotto che possa dare a una selezionata clientela, oltre che la solita precoce sborrata, una scintilla di Arte e Verità attraverso una sessualità istintuale totalmente vissuta, epurata da ogni compromesso e schermo morale. Ma più di questo Milos non sa, non deve sapere, postilla di un contratto altresì irrinunciabile. Qualora la condotta gerarchica e le tenute para-militari della PLAYERS 01 PAGINA 51


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CINEMA | inedito

troupe non fossero già sufficienti a instillare dubbi sull’integrità del progetto, non mancheranno fin dai primi ciak ulteriori conferme, tra inopportune e allusive location, violenza cruda, un porno-script delirante che agiografizza incestuosi eroi di guerra (che si evochino plotoni di Milosevic o tigri di Arkan, il richiamo agli orrori filmati a Srebenica che circolarono sotto forma di macabro tape trading nel grande falò dei Balcani è evidente) e, soprattutto, un alone di pervasiva pedofilia imbevuta nel lolitismo più ammiccante che promana dalla giovane Jeca, miccia posta per incanalare e fare detonare, col proprio candore e la sua onnipresenza, l’istintiva eccitazione di Milos, specchio denudante attraverso cui fare i conti con ciò che davvero egli stesso non avrebbe mai voluto vedere. E che, di converso, chiama in causa anche lo spettatore come complice indifeso del gioco voyeuristico che Vukmir/Spasojevic ha imbastito; e chissà, l’esito potrebbe non piacergli affatto. Quando una giovane Alice/Jeca ammicca in soggettiva prossima a passare all’azione, ci si sente sporchi e trascinati nel fango prima ancora di imbastire qualsivoglia difesa. Le ambigue teorie di Vukmir mal celano la sua farneticante natura deviata: d’altronde il suo manifesto artistico come ricetta per la sopravvivenza del paese si è già spinto oltre la patologia più bieca al grido di “newborn porn!”, e a quel punto l’empatia con il diniego morale di

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Milos è totale. L’anima torbida dell’opera si disvela nella seconda parte in un crescendo di atrocità senza freno, un allestimento quasi presepiale delle bassezze di cui l’uomo è capace e che va a braccetto con l’urgenza narrativa di ricomporre a ritroso le ultime ore di Milos, stranito e spinto dai rigurgiti di memorie confuse alla ricerca della sua famiglia fra le strade di una Belgrado viziosa e squallida. Ed è una via crucis fatta di stazioni dolorose e strazianti, tra splatter, rigor mortis, stupri e una “riunione di famiglia” dalla ludicità malata che nel suo simbolismo erode alle basi le fondamenta della tradizione, e a seguito della quale si cerca un barlume di luce che dia un qualche appiglio, una parvenza di umanità anelata come fosse la sola boccata d’ossigeno che può tenerci ancora in vita. E quando l’epifanica apnea di tensione e orrore sembra trovare respiro in un quadretto di dolore ma di bellezza assoluti, ecco che Spasojevic ci rifotte in gola pure la catarsi con un twist di puro sadismo. A Serbian Film è un’opera potente, così radicale nel lavorarci ai fianchi con immagini terribili quanto furba nel saperci ricamare sopra cornici allegoriche ben contestualizzate, per quanto a volte anche solo abbozzate. La nazione/asilo nido come genitore deresponsabilizzato che scarica i propri figli e li abbandona alla deriva di tutto, la vendibilità delle vittime a uso e consumo di un occidente borghese e pantofolaio disposto a pagare,


per una stilla di vita vera, talmente bene che produzioni di questo genere potrebbero costituire da sole il traino economico di una nazione. Zone d’ombra del grande mercato globale che chi è disposto a sporcarsi le mani può coprire al prezzo di qualche sacrificio, guadagnandosi così un invito, pur se dalla porta di servizio, al gran convito dell’Economia che conta. Tutti spunti che pongono più di un interrogativo etico, e trovano corrispondenza in un mercato reale – e non solo pornografico - che forza sempre oltre i paletti del consentito fino alle più parossistiche derive, pur di soddisfare una clientela sempre più esigente e assuefatta a tutto (arduo non trarre dalla nebulosa permanenza nipponica di Vukmir un’allusione anche solo velata al paese che è riuscito a costruire un mercato erotico di massa anche su giovanissime ragazzine in età preadolescenziale che, in colorate tenute kawaii, riempiono alla luce del sole gli scaffali dvd degli store di tutto il paese per allietare il sollazzo onanistico del sarariman di turno). Sul sipario di un’umanità cadente che nella sua totalità esce completamente annichilita, si stagliano umori e accuse di forte valenza politica, che denunciano lo stato di una Serbia comatosa, una patria/madre ormai prostituita per il solo appagamento del proprio vizio e non per la sofferta ma pur sempre nobile necessità di accudire i suoi figli, che anzi vende al migliore offerente come carne

da macello per tentare di aggrapparsi in corsa all’ultimo treno di un’economia altresì inafferrabile. Figli che comunque, nella migliore delle ipotesi, ha già ‘fottuto’ per il solo fatto di avere dato loro i natali, essendo talmente corrotta in ogni suo interstizio che anche un porno attore, figura che di solito non gode di alta considerazione sociale, può rilucere di una sua positività, specie rispetto a speculari figure fraterne che riflettono un’autorità laida, che non protegge la comunità né ha i meriti per assurgere a modello di riferimento forte per essa, ma anzi si insinua dall’interno fino a tradire il proprio stesso sangue, come d’altronde a un livello superiore la polveriera balcanica ha drammaticamente dimostrato negli anni di scontro etnico. Con la sua rassicurante confezione sembra fruibile da ogni tipo di pubblico, ma presto A Serbian Film getta la maschera e chiede allo spettatore di partecipare a un gioco davvero estremo, e di farlo con le proprie regole. Una volta tanto è l’opera a selezionarsi gli interlocutori, scremando con la sua malsana fama l’utenza smaliziata e ardita dai pavidi e starnazzanti ben prima che questi possano ergere le solite barricate; ma di carne al fuoco, per chi saprà accettare la sfida e leggere fra le righe del mero allestimento macabro, ve n’è tanta, in un’esperienza filmica piena che sa stare sulle proprie gambe e ha tutto per farsi apprezzare ben oltre la mattanza, e il cui valore, magari

i pur ridimensionato, si farà ricordare anche quando la noiosa scalata al primato delle crudezze più spinte farà apparire le oggi irritanti deflorazioni neonatali poco più che uno scandaletto da bollino arancione. Valutare l’impatto di un film potenzialmente deflagrante, ma destinato fin dal concepimento al feticcio di pochi, non è meno facile che provare a ipotizzare se Spasojevic seguiterà continuando a plasmare la sua carriera sulla stessa matrice maledetta cui tale opera lo inchioda, o se tenterà di divincolarsene per rifarsi una verginità. A me basta immaginarlo sornione per averla fatta grossa ma, come una sorta di ammansito Vukmir, lieto di avere virato un bel po’ di attenzioni momentanee su un potenziale neo-underground serbo che però di kusturicano questa volta sembra aver assai poco, ma potrebbe dare il la a cose interessanti.

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cinema | INEDITO

regista Mike Leigh sceneggiatore Mike Leigh produttore Georgina Lowe attori Jim Broadbent, Ruth Sheen, Lesley Manville provenienza USA versione Originale

ANOTHER YEAR

quattro stagioni di quieto e triste vivere

di Andrea Maderna

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isto l’apprezzamento di buona parte della critica dopo la proiezione a Cannes, Another Year può forse essere considerato il grande sconfitto del festival francese in edizione 2010: i premi importanti sono andati altrove e Mike Leigh s’è dovuto accontentare della menzione della giuria ecumenica. Sarà per questo che la distribuzione in Italia ha tardato, nonostante il film fosse stato annunciato nel listino Bim a maggio 2010? Quale che sia il motivo, è un gran peccato, perché Another Year non sarà forse il capolavoro di Leigh, ma è comunque un film solido, divertentissimo e commovente, nel quale il regista inglese sfodera ancora una volta i

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suoi pregi migliori e mostra di essere sempre in gran forma, molto più dei personaggi che racconta. Another Year illustra il susseguirsi di quattro stagioni con lo sguardo incollato sul muso di persone che si rincorrono davanti alla macchina da presa. Mette a nudo le loro debolezze, la fatica del sopravvivere nelle braccia dell’autocommiserazione, la triste consapevolezza di anni che trascorrono in preda all’inutilità. Tom e Gerri sono la coppia perfetta di signorotti che si amano e amano il prossimo, del quale si circondano volentieri. Ma attorno alla coppia si raccolgono miserabili parassiti che cercano di abbeverarsi dal loro buon cuore per illudersi di vivere una gioia e una

spensieratezza fittizie. E così, attorno alle tazze di tè e a festicciole in cui tutti si sforzano di divertirsi ma nessuno riesce a nascondere davvero l’amarezza dietro un sorriso di cartone, dodici mesi trascorrono inutilmente. Mike Leigh racconta la bassa umanità brit pop con uno stile asciutto e drammatico, mescolando dramma, risate e malinconica rassegnazione in un equilibrio perfetto che stordisce e non lascia scampo. Maestro nella direzione degli attori, spreme da un cast di soliti noti performance d’eccezione e regala due candide ore di atroce divertimento. L’ha sempre fatto e sempre continuerà a farlo.


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cinema | INEDITO

Regista Gareth Edwards Sceneggiatore Gareth Edwards Produttore Allan Niblo, James Richardson, Jim Spencer Attori Scoot McNairy, Whitney Able, Kevon Kane Provenienza UK Versione Originale

MONSTERS

l’opera da tre soldi

di Andrea Chir ichelli

È

un buon periodo per la fantascienza a basso budget. Titoli come Cloverfield, District 9, Moon e, perchè no, il nostrano Metal Gear Philanthropy hanno dimostrato che si possono realizzare pellicole sci-fi convincenti anche senza spendere l’indecorosa quantità di quattrini che gli Emmerich di turno sprecano in idiozie quali 2012. Monsters, nonostante alcune pecche, allunga questo “trend positivo”. Scritto, diretto e fotografato dall’inglese Gareth Edwards, che ha curato personalmente anche i (pochi) effetti speciali presenti nel film, Monsters si basa su un presupposto tanto elementare quanto efficace. In un futuro molto prossimo, una sonda della

Nasa rientrata da una missione spaziale precipita in Messico liberando creature aliene che iniziano a seminare il panico nella zona. Lo spettatore non assiste al disastro e ha ben poche occasioni di ammirare i mostri perché la sua attenzione è carpita dalla vera storia raccontata dal film, che si svolge sei anni dopo il fattaccio, ovvero quella di Kaulder, un fotoreporter che lavora nella zona infetta, impegnato a scortare sana e salva fuori dal Messico la figlia del suo capo, Sam. Costretti a una vicinanza e promiscuità forzata, i due, giorno dopo giorno, inizieranno a conoscersi, a parlarsi, a capirsi e, fatalmente, a innamorarsi. Dramma romantico in salsa sci-

fi? Edwards fa di necessità virtù e non potendo realizzare sequenze di grande impatto visivo trasforma il film in un road movie, puntando tutto sull’alchimia tra i protagonisti. L’obiettivo in questo senso è perfettamente centrato, visto che i bravi Scoot McNairy e Whitney Able (marito e moglie anche nella realtà) fanno scintille. Peccato che la scelta di mettere in secondo piano l’elemento sci-fi non giovi alla storia, che si trasforma troppo repentinamente in una love story atipica, non permettendo così di valorizzare altri spunti meritevoli, primo fra tutti l’interessante sottotesto politico, legato al tema dell’immigrazione.

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cinema | INEDITO

Regista Tomm Moore, Nora Twomey Sceneggiatore Tomm Moore, Fabrice Ziolkowski Produttore James Flynn, Ivan Rouvreure Attori Evan McGuire, Brendan Gleeson, Mick Lally Provenienza Francia, Belgio, Irlanda Versione Originale

THE SECRET OF KELLS

storia di un amanuense

di Andrea Chir ichelli

N

on di solo Miyazaki e Pixar vive il cultore di cinema di animazione. The Secret of Kells era apparso come oggetto misterioso nella cinquina di candidati all’Oscar come miglior film di animazione del 2010 e vedendolo si capisce il perché della sua inclusione. Non c’è momento, durante i 75 minuti di durata del film, in cui l’occhio non sia appagato da immagini dense, ricche di particolari, graziate da un’impeccabile scelta coloristica e capaci di infondere genuine emozioni nell’animo dello spettatore. Tecnicamente impeccabile, The Secret of Kells convince anche sotto il profilo narrativo: Brendan è un giovane monaco che vive a

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Kells, un’abbazia irlandese circondata da alte mura che dovrebbero, nelle intenzioni del severo zio Cellach, difendere cittadina e pargolo dalle invasioni barbariche. L’arrivo nella comunità di Aidan, un monaco fuggito da una città distrutta e che porta con sé un manoscritto sacro ma incompleto, segnerà l’inizio della maturazione di Brendan che per salvare sé stesso, il libro e i suoi compagni sarà costretto a scoprire il mondo esterno, crescere e utilizzare la forza della fede. Alla base del film c’è un curioso sincretismo che mescola folklore e storia, religione e paganesimo, senza però risultare mai complesso o criptico; la parola scritta diventa mezzo salvifico e

via per trovare la speranza. Il miracolo compiuto da Tomm Moore e Nora Twomey, i registi, sta nell’essere riusciti a trasportare sulla pellicola lo spirito che promana dal vero Libro di Kells, un manoscritto miniato realizzato da monaci irlandesi intorno all’800 che contiene la traduzione latina dei quattro Vangeli, senza cadere in banalità o fondamentalismi. Geniale in questo senso la caratterizzazione della misteriosa Aisling, fata protettrice della foresta che circonda l’abbazia e deus ex machina pagana capace di aiutare Brendan nel momento del bisogno. Un’opera di rara intensità, portatrice di un messaggio semplice ma profondo: mai avere paura del diverso.


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cinema | INEDITO

Regista Christopher Smith Sceneggiatore Christopher Smith Produttore Julie Baines, Chris Brown Attori Melissa George, Joshua McIvor and Jack Taylor Provenienza UK, Australia Versione Originale

TRIANGLE

il triangolo no

di Andrea Chir ichelli

N

o, il Triangle del titolo non è quello delle Bermuda, come forse sarebbe lecito immaginare, ma quello della barca a vela su cui viaggia una comitiva di amici (tutti attorno alla trentina, per fortuna) che si imbatte in una tempesta molto atipica che cambierà le loro vite per sempre. Sarebbe assolutamente delittuoso rivelare maggiori dettagli della trama di questo thriller psicologico, inedito nel nostro Paese, che vede come protagonista assoluta la procace Melissa George, oramai abbonata allo scomodo ruolo di “attrice più nota di un film horror nel quale tutti gli altri personaggi sono interpretrati da illustri sconosciuti”.

La poveretta si trova per un’ora e mezza alle prese con incubi ricorrenti, navi da crociera che sbucano fuori dal nulla, lunghi corridoi che non sfigurerebbero nell’Overlook Hotel e assassini in maschera. Che qualcosa non vada in Jess, la protagonista, una giovane single con un figlio autistico a carico, lo spettatore lo capisce subito, anche grazie all’inquietante incipit del film. Quello che è davvero inaspettato è il dipanarsi della storia, che si trasforma quasi subito in un ibrido tra Donnie Darko e Ore 10: calma piatta. Ricca di metafore e riferimenti colti, per una volta non citati a sproposito (il mito di Sisifo, il pensiero dell’eterno ritorno di Nietzsche), la sceneggia-

tura procede spedita, senza momenti di pausa e al termine dell’avventura, nonostante il caos accumulato, la vicenda si dipana con accettabile chiarezza, pur lasciando alcuni interrogativi irrisolti. Un bel passo avanti per il regista Christopher Smith, reduce dal non entusiasmante Severance, che stavolta firma un’opera dal ritmo serrato, incalzante, con alcune sequenze e immagini di buon impatto visivo. Su tutto e tutti svetta il talento della George, credibile sia nelle vesti di donna sull’orlo di una crisi di nervi che in quelle della madre lucida e disposta a tutto per difendere la vita del proprio pargolo.

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cinema | INEDITO

Regista Will Gluck Sceneggiatore Bert V.Royal Produttore Zanne Devine, Will Gluck Attori Emma Stone, Amanda Bynes, Penn Badgley Provenienza Usa Versione Originale

EASY A

’80 non più ‘80

di Andrea Chir ichelli

B

asta una sola bugia a rovinarti la vita. È quello che accade a Olive Penderghast, che vede la sua tranquilla e monotona esistenza di sfigatella liceale rivoluzionata da una balla relativa alla perdita della propria verginità. Additata da tutti come donna di facili costumi e come versione 2.0 di Hester Prynne, la protagonista de La Lettera Scarlatta, Olive decide di sfruttare l’equivoco a suo vantaggio, ma la situazione le sfugge di mano. Easy A è divertente e nel desolante panorama delle commedie americane, e già questa è una notizia. Il fatto che sia popolato da “teen” lo rende poi una vera mosca bianca. Ma c’è un elemento che rende quest’opera un

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po’ speciale: tutto il film è permeato dall’aura di John Hughes, non il miglior regista di tutti i tempi ma sicuramente quello più sottovalutato. Easy A, non sempre ma spesso, sembra un omaggio alla sua cinematografia, capace di descrivere il modo di pensare dei “giovani” come nessuno fino a oggi, con la sola eccezione di Greg Mottola e del suo Adventureland, è riuscito ad eguagliare. Il film non si avvicina nemmeno lontanamente ad esprimere la stessa grazia e perfezione di autentici capolavori quali Breakfast Club e Una pazza giornata di vacanza ma in esso si riscontrano tracce dell’umorismo sferzante, della critica sociale, della gag ridanciana seguita dal

momento introspettivo che erano tratti caratteristici dell’opera di Hughes. Limitare ad una sceneggiatura spesso brillante e ad un talvolta compiaciuto citazionismo i pregi del film rischierebbe però di mettere in ombra l’ottima perfomance di Emma Stone che, come la Molly Ringwald di trent’anni fa, pare abbonata al ruolo di eterna teenager. Parimenti valido è lo stuolo di comprimari di lusso: tra i tanti ci piace ricordare Thomas Hayden Church, cui è affidata la migliore battuta del film, che liquida in due parole il mito e i contenuti dei social network. Niente male insomma, ma purtroppo per tutti noi, di John Hugues ce n’era uno solo.


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cinema | INEDITO

Regista Stéphane Aubier, Vincent Patar Sceneggiatore Stéphane Aubier, Vincent Patar Produttore Vincent Tavier, Philippe Kaufmann Attori Jeanne Balibar, Benoît Poelvoorde, Bouli Lanners Provenienza Belgio, Francia, Lussemburgo Versione Originale

PANIQUE AU VILLAGE

c’è baruffa nell’aria

di Andrea Chir ichelli

I

n una fattoria fuori città vivono un indiano, un cowboy e un cavallo. Per festeggiare il compleanno di Cavallo, Indiano pensa di acquistare 50 mattoni via internet e costruirgli un barbecue, ma, a causa della sbadataggine di Cowboy, finisce per ordinarne 50 milioni. Non bastasse il caos derivante dall’errato acquisto, dal terreno sbucano nottetempo degli alieni che iniziano a rubare i mattoni per portarli nella loro base sotterranea. Al terzetto di protagonisti non resta che iniziare un avventuroso viaggio al centro della Terra... No, non abbiamo assunto crack. Non di recente, almeno. Panique au village è una serie animata con personaggi realizzati in

plastilina (in pieno stile Aardman, ma molto meno sofisticato) che va in onda dal 2002 su Canal +. L’anno scorso gli autori Stéphane Aubier e Vincent Patar hanno deciso di compiere il grande passo e portare i 5 minuti delle puntate flash ai 75 del lungometraggio: missione compiuta. Panique au village è un’opera talmente stravagante ed eccentrica da lasciare interdetti, almeno per i primi minuti. Poi è probabile che si trascorrano i restanti 70 piegati in due dal ridere, travolti dall’allegra follia e assoluto non sense delle situazioni che si vengono a creare. Più che al Toy Story di turno (o a Wallace & Gromit, visto il materiale utilizzato), Panique au village do-

vrebbe essere accostato ad Helzapoppin: un frenetico susseguirsi di sketch che contribuiscono a creare un’opera schizofrenica. Realizzato con una tecnica al tempo stesso spartana ma ricercata, il film procede felice sui binari della follia, tra cavalli senzienti e melomani, scienziati pazzi che girano per il Polo su un carro armato a forma di pinguino e altre amenità assortite che avevamo visto solo nei più demenziali cartoon giapponesi. Il bello è che, nonostante la palese idiozia che permea tutta la storia, il finale riesce a essere comunque foriero di un messaggio di fratellanza universale che dà senso a un film che di senso non ne ha.

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CINEMA | GUERRILLA FILMAKING

UN STE ADY CA M PLAYERS 00 PAGINA 60

O I FROMBOLIERI

FILOSOFIA E TECNICA DEL CINEMA A COSTO ZERO. ATTRAVERSO GLI OCCHI DI

HIVE DIVISION


HDSLR, L

DEL CINEMA

a Molotov, si sa, è un rudimentale ordigno costituito da un recipiente colmo di materia incendiaria, in cui viene immerso uno straccio a mo’ di miccia. Arma del militarmente incolto o dello squattrinato, ha comunque la sua efficacia su assembramenti di truppe e conserva nondimeno una certa carica romantica, capace un tempo di dischiudere le porte della sessualità socialista al liceale lesto di favella. Ah, le armi popolari. Un tempo non era così e i frombolieri, i soldati armati alla leggera che popolano le versioni di Tacito, erano carne da macello spinta in avanti a saggiar l’appetito del cane, armati con quelle loro cazzo di fionde. Ma ieri era ieri e oggi è un’altra storia, dove l’arma popolare ha fatto suo il campo di battaglia. Questo vale a maggior ragione nella cinematografia e non è un caso se si parla di guerrilla filmaking e se questi film “guerrilla” (in arrivo Monsters di Gareth Edwards) si stanno guadagnando un posto al sole. Questa rubrica parla di metallo, di strumenti pratici e, da questo punto di vista, per chi spera di dire la sua nel mondo del cinema indipendente, gli ultimi due anni sono stati un autentico paradiso. Lasciamo per un attimo da parte fattori come il crescere costante della potenza di elaborazione o le possibilità di networking sempre maggiori che internet mette a disposizione... ci arriveremo. Il vero punto di svolta è stato l’avvento delle HDSLR, ovvero le reflex capaci di registrare video in alta definizione. Ha iniziato la Nikon D90, ha preso la guida del gruppo la Canon 5D MKII senza più lasciarla. Alle sue spalle, il codazzo si è ingigantito fino a comprendere strumenti consumer come la Nikon P100: oggetti di 200 grammi che registrano video in FullHD. Attorno a questa nuova categoria di prodotti è cresciuta una giungla di soluzioni aftermarket: rig, supporti spallari, multicotteri remotati... un Big Bang del videomaking, quanto di più simile a una singolarità potesse avvenire nella creazione di contenuti video.

Questo evento ha spazzato via almeno due terribili limitazioni che fino all’altro ieri funestavano il fromboliere digitale: i sensori piccoli e le ottiche fisse. Per quanto gli anni precedenti ci avessero regalato il progressive scan e qualche assaggio di alta definizione, la situazione rimaneva grama: sensori da mezzo pollice, da un terzo di pollice, da un quarto di pollice giacevano come foruncoli dietro a delle ottiche sfocate, cromaticamente imprecise e buie come l’ignoranza. Il sensore piccolo, oltre a non appagare l’uomo volitivo che sempre esige dal suo corredo video congrue e coerenti dimensioni, impediva di girare in scarse condizioni di luce e aumentava la profondità di campo, nemica di tutti quanti cerchino una resa espressiva. I frombolieri, ivi compresa Hive Division, erano costretti ad aggirare il problema ricoprendo le proprie videocamere con del ciarpame steampunk che altra utilità non aveva se non poter agganciare davanti alla camera, dopo avergli sacrificato un altro bel paio di stop di luminosità, un peloso Canon FD del nonno, il tutto per cercare di avere uno sfocato accettabile senza dover sfondare il muro e filmare in 200mm dal giardino. Direttamente dal set di MGS: Philanthropy (FOTO) La situazione, per orrida che fosse, pareva più ineludibile della gravità e, se qualcuno mi avesse detto tre anni fa che per 3000 euro avrei potuto presto girare video usando ottiche decentrabili su un sensore più grande di un Super35, gli avrei strappato la pelle dal viso fino a raggiungere il pavimento e rassegnarmi di fronte al fatto che no, non si trattava di Peter Moore in maschera. E invece eccoci qui, a girare scene a lume di lanterna e a scegliere quale pelo della barba del nostro attore meriti di essere pienamente a fuoco e quale no. Frombolieri, il tempo è propizio perché voi impariate le arti della fotografia e vi compiacciate del fatto che, finalmente, tutto quanto state imparando è vero anche in videografia. Go out and shoot!

mo Tala di Giaco

mini

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L’ULTIMO UOMO

Com ics | review

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Sceneggiatore Brian K. Vaughn Disegnatori Pia Guerra, Goran Sudžuka, Paul Chadwick Inchiostratore Jose Marzan Jr. Provenienza USA


solo contro tutte di an drea maderna

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orick Brown è uno sfaccendato artista della fuga, innamorato pazzo della sua Beth e disperatamente impegnato nel tentativo di addestrare Ampersand, una scimmietta cappuccino. Ed è anche l’ultimo uomo sulla Terra. Così Brian K. Vaughn, sceneggiatore attivo su tutti i fronti del fumetto americano e capace di farsi strada anche in TV con Lost, apre la sua opera più famosa e celebrata: con un pianeta Terra ricoperto di sangue maschile e un improvviso balzo indietro, per raccontare in trenta pagine i minuti precedenti all’apocalisse del cromosoma Y e l’inizio della società matriarcale più estrema possibile. Il maschio è completamente scomparso, nel giro di pochi istanti, in ogni sua forma, dagli animali alle banche del seme, passando perfino per alcune piante. A parte Yorick. E Ampersand. E così ha inizio un’epopea raccolta in dieci volumi (undici per l’edizione italiana) che raccontano le vicende di questa improbabile ultima speranza della civiltà

umana. Yorick non è un eroe e non è neanche una persona particolarmente nobile o degna di nota. È solo uno sfigatello, egoista e arrogante, un nerdacchione costretto a rendersi conto piuttosto in fretta che vivere il sogno di tutti può diventare un incubo. Non gli interessa scoprire cosa sia accaduto, non gli interessa diventare il padre della nuova umanità, men che meno pensa a divertirsi con la marea di donne a sua disposizione: vuole solo ritrovare Beth, dispersa da qualche parte in Australia. Ovviamente la situazione si complica a mano a mano che sempre più donne vengono a sapere della sua esistenza, fino al punto in cui dei gruppi di potere, formatisi successivamente al disastro, cercheranno di mettere le mani sulla banca di sperma ambulante. L’odissea di Yorick e delle compagne di viaggio che nel tempo si uniscono a lui dura anni e si sviluppa in giro per il mondo, raccontando della crescita di un gruppo di personaggi, mettendo in scena avventure appassionanti, prendendosi il tempo per

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Com ics | review

I divertenti dialoghi di Vaughn, così ricchi di riferimenti pop, non sono semplici da adattare. Gli ultimi quattro volumi dell’edizione italiana sono curati da Planeta DeAgostini. Fate due più due e leggetevelo in inglese.

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riflettere sull’evoluzione della società umana e soffermandosi a ipotizzare quali disperate conseguenze potrebbero nascere da una tanto assurda apocalisse. Vaughn non realizza certo un trattato di sociologia, ma scrive un racconto maturo, crudo, intelligente, ricco di umorismo e capace di fare riflettere fra le pieghe di un’avventura emozionante e dai ritmi che non rallentano mai. Sessanta episodi con molti alti e pochissimi bassi, in cui la scena è dominata dalla bella evoluzione di una manciata di protagonisti ai quali si finisce inevitabilmente per affezionarsi, dalla voglia di svelare un mistero utilizzato come poco più che un semplice pretesto e dall’ansia di confrontarsi con un finale impossibile. Sbagliare il capitolo conclusivo era la più semplice delle imprese, ma Vaughn è riuscito a non deludere e dopo una girandola agghiacciante di colpi di scena chiude tutto con un episodio semplice, pacifico, poetico, che tira le fila dei suoi personaggi in maniera addirittura commovente e lascia il ricordo di una saga memorabile e che riletta in un’unica soluzione mozza davvero il fiato.



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mus ica | INTERV ISTA

FOTOGRAFIE DI

DANIEL NERVI

ianva INTERVISTA A

MERCY di Pietro Recchi

FoRti di una PRoPosta musicale squisitamente al di là dei temPi, i genovesi ianva RaPPResentano una delle gemme Più scintillanti dell’altRimenti oPaco PanoRama musicale italiano. al Fine di PResentaRe questo meRaviglioso PRogetto a chiunque ne Fosse ancoRa all’oscuRo, PlayeRs ha Raggiunto meRcy, cantante e mente dietRo a ianva. Buona lettuRa.

! O M A I D E B B O S DI PLAYERS 01 PAGINA 66


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mus ica | intervista

i

nnanzitutto grazie per la tua disponibilità, è per noi un piacere poter ospitare una proposta musicale come quella di ianva sulle nostre pagine. vuoi introdurre il progetto ianva ai lettori di Players? Il progetto nasce a Genova ed esiste dagli ultimi mesi del 2003, ma, curiosamente, ha ancora il lustro delle novità. Sarà forse perché i soliti notissimi “operatori” dei media col bollino blu hanno fatto per tutto questo tempo i pesci in barile com’è loro costumanza. Ma, così facendo, ci hanno dato tempo di crescere mediante il buon vecchio passaparola che ti mantiene lindo, scintillante e come nuovo. Abbiamo finora licenziato due mini e due full-length. Questi ultimi sono, sia pure per differenti modalità, dei concept album. Entrambi hanno fatto discutere (ma non è sorprendente dato che in questo paese si discute su tutto e si agisce su nulla), ed entrambi continuano a tutt’oggi il loro cammino, dentro e fuori i confini italiani. Per quanti non ci conoscessero, indico per comodità pregi e difetti di IANVA. I pregi: miscelando varie suggestioni musicali abbiamo creato un suono estremamente personale e riconoscibile. Manteniamo quanto promettiamo, nulla di più, nulla di meno. Siamo, in una fase storica in cui tutto crolla, compresi certi guappi di cartone dell’alternative nostrano, un progetto in costante crescita e questo vorrà ben dire qualcosa. I difetti: una certa bombasticità, almeno all’orecchio del fruitore medio del 2010. Riconosciamo come arbitri del nostro operato solo e unicamente noi stessi. Infine abbiamo uno scarso appeal “giovanilistico” il che, di que-

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sti tempi, può essere un limite. È trascorso ormai un lustro dalla pubblicazione del primo eP a firma ianva. dopo due album e altrettanti eP, quali obiettivi senti di aver raggiunto con ianva, come musicista e come persona, e quali ti prefiggi di raggiungere in un futuro prossimo? Guarda, gli obiettivi iniziali erano meno che modesti. Semplicemente sentivo il vivo desiderio di un certo suono. E siccome nessuno lo produceva ce lo siamo “fabbricato in casa”. Sentivo altresì il desiderio di esprimermi in lingua madre, sfruttandone delle potenzialità da tempo messe da parte a favore dell’assioma che associa la comunicatività al cosiddetto linguaggio della strada e che è, invece, un pidgin di ciarla televisiva e muffe cresciute sulle carcasse mummificate dei dialetti. Volevo poi allargare lo spettro tematico. Trovavo e trovo tutt’ora deprimente e, se mi permetti, offensivo per la mia ragione e per la mia stessa condizione di adulto, l’angustia e la limitatezza di temi sui quali è considerato, se non lecito, quantomeno opportuno scrivere. Solo amori nevrotici o, in alternativa, priapismi da due centesimi. Oppure sociologismi prêt-àporter da centrosocialino quindicenne in bocca a gente di quarant’anni, ecumenismi da supermercato spacciati per coscienza umanitaria. Monologhi dell’ormone nel casermone con il dizionario di trenta vocaboli gabellati per ghiotti spaccati del malessere urbano. Insomma, mi pareva che, malgrado mi spaventasse un po’ la prospettiva di tornare a fare musica, non ributtarmi nella mischia sarebbe equivalso a rassegnarsi a quell’an-

dazzo. Oggi, posso sentirmi ragionevolmente certo che questi obiettivi sono stati conseguiti. In relazione alla magrezza dei tempi, il riscontro ottenuto da un prodotto tanto atipico e, per certi versi, problematico, va oltre le più rosee aspettative della prima ora. Dovessi indicare, però, l’elemento del quale vado maggiormente orgoglioso non avrei dubbi. Io credo che IANVA sia riuscita a spezzare, almeno nel suo perimetro d’azione, la tirannia del tempo presente. Imperversa una sorta di ossessione dell’attualità che ci sta deprivando di tutto. È un riduttore applicato al linguaggio, al comune sentire, all’insieme dell’esperienza umana. Ha spazzato via dalla narrazione, dalle arti, dalla comunicazione, la Storia, il paesaggio, l’idea stessa di destino. È un dispositivo di controllo subdolo, ma molto potente. L’idea che, nel nostro piccolo, lavoriamo per sabotarlo non può che galvanizzarmi. È ovvio che le nostre attività future andranno in quella direzione e sono moderatamente ottimista a riguardo. hai aperto il recente concerto all’unwound di Padova con una declamazione piuttosto secca, per quanto carica di genuino entusiasmo: “Finalmente riusciamo a suonare in Italia - sul serio”. ora, senza entrare nel merito della polemica che si può leggere tra le righe, quante e quali difficoltà incontra un progetto come ianva ad esibirsi su palcoscenici italiani? esiste davvero una così marcata contrapposizione con la realtà estera? Dici bene: questo è un tema sul quale sarebbe bene evitare polemiche. Ma è anche vero che la tua do-


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mus ica | intervista

cenni di politiche del calibro di manda esige una risposta. A me quelle sopra descritte hanno propare che i problemi siano essengressivamente fatto striminzire il zialmente due. Primo: in Italia il pubblico interessato all’aspetto live settore. Pubblico, risonanza, significanza, indotti e spazi fisici sono che non riguardi i soliti tre o quatrimpiccioliti fino a diventare minutro nomi “ecumenici” è sempre più scoli. La nostra line-up è formata da scarso e gli organizzatori hanno una paura fottuta di rimetterci. Del nove membri attivi sul palco e un resto come dare loro torto? Qui un fonico personale, come si addice a un ensemble “poderoso” che suona metro quadrato di palco da montare costa tre volte tanto rispetto al in acustico quale il nostro. Per quanto di modestissime pretese resto d’Europa. Un service scalcieconomiche, il solo fatto di mettere nato costa più di uno ultra-professionale altrove. La SIAE ti massacra. in moto e alloggiare dieci persone terrorizza le tasche dei promoter. Le affissioni ti tolgono la pelle di Comprensibile, ma in fondo errato, dosso. Le questure rendono la vita dato che finora la nostra audience durissima. Basta si svegli una baè stata sempre parecchio nutrita e cucca a caso che affermi di essere stata disturbata dal rumore ed ecco affezionata, contrariamente a certi altri blasonati nomi stranieri trattati i vigili urbani che impongono la con tutti gli onori del caso. Alserrata istantanea. Non stupisca: l’elettorato italiano è, in larghissima l’estero la situazione è diversa per svariate ragioni: in primis esiste anparte, vecchio. Se lo accontenti in cora un pubblico di una qualche certi, innocui, miserabili capricci consistenza numerica. Le ingerenze che, oltretutto, non costano nulla, della politica, del fisco, il sistema sarà poi più facile farlo campare con pensioni da mendici e metterlo stesso delle regole che non sono fatte, come da noi, con la traspain coda per mesi alle ASL. Curiosarente intenzione di rendere imposmente, ciò non vale per le discotesibile la loro osservanza in modo di che dove, al contrario, tutto è permesso senza che nessuno possa poter poi applicare la sanzione, non sono così invalidanti. Non farci nulla. Ma qui vale un altro asescludo che grandi eventi, come sioma strapaesano: dove impera la per esempio il WGT, non vedano gnocca c’è tutto, laddove manca, non c’è niente. In generale, come ti sullo sfondo qualche capo-bastone della politica locale che, magari, ci muovi, a ogni passaggio si premette su le sue tre gocce di urina. senta qualcuno esigendo soldi. A Didascalia Lasi copertina del Ma lo spirito è differente. Certi meno che1: non accetti di pagare disco, un piccolo capolavoro per i eventi, là, sono visti dalle municipauna forma differente di pizzo metfeticisti del periodo. tendosidello sotto stile la protezione di qual- lità, dagli operatori turistici, dalla Immagine didascalia 1: Ma popolazione stessa come una riche organizzazione politica. http://electrovibe.net/wp-consorsa. Persino le aziende di traallora ci si dovrà anche dimostrare tent/uploads/2010/08/000-xcosporti si convenzionano con gli sensibili, anzi sensibilissimi, alla verBigFront.jpg eventi. Qui sono visti sempre e solo loro idea di programmazione. Agcome un problema e un disturbo. giungi a tutto questo che noi siamo un gruppo atipico anche dal Curiosamente, invece, dal mondo del calcio si tollera qualsiasi cosa. punto di vista della formazione. Ed Un esempio: Genova è angusta e eccoci di colpo proiettati nel progli anticipi di campionato sequeblema numero 2. Un paio di de-

strano letteralmente mezza città. Una volta sì e una no sono danni. Ma la gente non parla letteralmente d’altro che di calcio. Questo, naturalmente, alimenta la convinzione di molti promoter italiani che la musica sia, in fondo, una faccenda da quindicenni, disbrigabile con un personaggio da reality o talent show portato in piazza con denaro pubblico, mentre per gli adulti esistono già calcio, gossip e pornografia. Il fatto tragico è che la massa critica di Strapaese dà loro ragione a gran voce. italia, anno 2010. in alto, troviamo personaggi dal valore umano quantomeno discutibile, una decadenza morale inusitata e un dialogo politico ridotto ormai a un teatrino che non interessa, né emoziona, più nessuno. in basso, un popolo spettatore la cui completa assoluzione dalle colpe risulta però difficile. È davvero “l’ultimo atto” per l’italia oppure riesci a vedere una qualche possibilità di riscatto? se sì, da dove può partire questa rivalsa e qual è, ammesso che esista, il ruolo ricoperto dalla musica – e per estensione dall’arte - in questo processo? Ti dirò, per l’occasione mi va di essere più franco di quanto sia mai stato È curioso come, invecchiando, cogli in crescendo l’estrema complessità delle cose, ma, alla fin fine, giungi a realizzare che ciò che è davvero indispensabile capire è, in fondo, straordinariamente semplice. Nello specifico io credo che il punto a cui siamo giunti, in Occidente, ma in Italia in particolare, necessiti di una sola ricetta: la pura e semplice violenza. Esistono snodi della Storia dove

Jazz y s ea k ea p S s v g in w S Electro

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solo l’azione è feconda e non c’è spazio per nient’altro. Ogni margine di riflessione è annullato, ogni ipotesi di contrattazione suona improbabile, deprimente o, ci aggiungo, ridicola. Questa è, in sintesi, la verità sul conto di noi umani. Chi afferma il contrario è un ingenuo o un ipocrita. Detto questo, però, occorre intendersi sul significato da attribuire ai termini che ho usato. A mio modo di vedere violenza e azione dovrebbero essere espressione di una volontà, se non collettiva, almeno di una minoranza nutrita e galvanizzata da idee nuove. Passibili di fallimento e di disillusione, certo, come altre che le hanno precedute, ma in grado, almeno, di arieggiare un po’ i locali e farci respirare una stagione di ossigeno. Una forma organizzata e ben indirizzata di azione ha il pregio di incanalare frustrazioni e disperazioni che lasciate marcire come sono oggi nel corpo sociale generano solo violenza insensata di tutti contro tutti. Mai come oggi la nostra civiltà è stata dominata da valori untuosi e mai come oggi la violenza si è consumata in strada, in famiglia, nelle relazioni tra i sessi, nelle identità fasulle e nei localismi coatti. Il problema è che il regime della comunicazione svuota l’azione di senso nel momento stesso in cui essa inizia a dispiegarsi. Chiunque lancerà il guanto della sfida dovrà avere ben chiaro che il suo agire dovrà essere trasversale e imprevedibile. Pena l’immediata fine dei giochi. Più complesso è il ruolo dell’artista. Personalmente non ho mai creduto nei musicisti arruffapopoli e negli intellettuali armati, a meno che non si chiamino D’Annunzio o Mishima. Credo, invece, che si dovrebbe lavorare sulle emozioni e

sui sentimenti. La gente è stata, negli ultimi decenni, talmente ingozzata di meschineria, da essersi come antropologicamente ristretta. Oggi per l’uomo medio coraggio significa fare a botte per una precedenza e passione ammazzare la donna che li ha lasciati. Per l’artista contemporaneo una bella sfida è quella di indicare, mettendo le mani nelle emozioni, che ogni uomo può avere una sua via per la “grandezza”. Ma quella vera: la grandezza d’animo. Così operando, oltretutto, farebbe anche un favore a sé stesso: in un’umanità definitivamente “ridotta”, il suo ruolo e l’Arte stessa perderebbero ogni ragione di essere. Se ti guardi bene attorno ti renderai conto che sta già accadendo. a grandi linee, strumenti musicali che non siano acustici vengono riassunti nei vostri libretti con il programmatico epiteto di “macchine”. al di là dell’evocatività e fascino del termine scelto, qual è il rapporto di ianva con le moderne tecnologie, sia in ambito musicale che in quello quotidiano? Beh, al di là della rievocazione dell’epos futurista o di quello degli albori della musica industriale, ci pare abbia quella tipica funzionalità che è, sovente, prerogativa delle cose semplici. Del resto la semplicità e la funzionalità delle nuove applicazioni mi affascinano, ma, sebbene mi piacerebbe fosse il contrario, è una qualità di fascino che è tipica degli osservatori esterni. Dev’essere una questione generazionale: sono nato e cresciuto in un mondo senza computer, quando la televisione trasmetteva in bianco e nero, e le

prime telefonate “private” le ho fatte con un telefono pubblico a gettoni. Cose del tutto impensabili per un ragazzo di oggi, ma anche per un trentenne. Non c’è nulla da fare: al cospetto di certe tecnologie, pur avendo imparato l’indispensabile, provo sempre la vaga impressione di vivere in un mondo che mi ha superato. Gli altri del gruppo, invece, essendo più giovani, hanno tutt’altro tipo di rapporto, con una confidenza e una naturalezza che non posso che invidiare. Ci sono anche un paio di esperti tra loro i quali si accollano il grosso del lavoro di registrazione, missaggio, editing, etc. Detto questo, trovo del tutto fuori luogo il dibattito interminabile che è in corso da anni nei piani “alti” per stabilire se l’avvento dell’informatica nella vita quotidiana determinerà alla lunga vantaggi o danni. A sentire le case discografiche, per esempio, parrebbe di essere al cospetto di un autentico flagello per via della questione del peer-to-peer. Musicisti blasonati lamentano che l’avvento dei software musicali ha saturato il mercato di robaccia. Cinema e musica dal vivo vanno deserti e così via. Mi pare un atteggiamento a dir poco strampalato. Da quanto tempo, infatti, le major ci sommergevano di robaccia e paccottiglia brutta e stupida al punto di essere offensiva? Le vendite erano in picchiata già prima dell’avvento dell’era del file sharing e, dunque, credo ci sia molta disonestà intellettuale nelle affermazioni di questi signori (i quali, tra l’altro, dovrebbero avere almeno la decenza di evitare di piangere miseria, viste le cifre che ancora si trovano a maneggiare per promuovere e immettere sul mercato pura spazzatura). E poi mi

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Poiché da qualche secolo il Male, per un verso o per l’altro, vince a man bassa, mi sa tanto che il giorno in cui scriveremo una storia di vincitori sarà frutto unicamente della nostra immaginazione


chiedo come possa un musicista rammaricarsi del fatto che siano comparse nuove tecnologie che consentono anche a suoi colleghi misconosciuti o squattrinati di emanciparsi dal ricatto di etichette ed etichettine. Entità che, per il solo fatto di detenere il supremo potere di disporre di un capitale da investire in studio, sovente si sentivano in diritto di agire da aguzzini nei confronti dei musicisti. Questa gente pare non rendersi conto che molte realtà musicali, senza l’avvento della tecnologia a buon mercato, non avrebbero mai visto la luce, semplicemente perché chi investe vuole andare sul “sicuro”. Il che, tradotto nella pratica dalla forma mentis degli investitori, significa null’altro che “sentito e strasentito”. Ritengo che lamentarsi da parte di major e grossi nomi del proliferare di proposte musicali senza la mediazione dell’industria sia, oltre che poco serio, anche, in qualche modo, ridicolmente moralistico. Se la qualità media è scadente non è colpa della tecnologia che, di per sé, sarebbe uno strumento docile, ma del fatto che, a monte, qualcuno o qualcosa si era già incaricato di mandare a puttane il gusto della gente. Avrebbe senso, piuttosto, chiedersi chi, come e perché. E sono persuaso che, anche in questo caso, sia implicata la comunicazione. Sempre lì, infatti, andrebbe ricercata l’origine di quell’idea diffusa che, purtroppo, sta rendendo certe risorse sempre più fonte di nuovi problemi. Ossia che ogni libertà è pienamente tale solo se se ne abusa. L’idea stessa del “limite” o della regola viene percepita come un attentato a questa libertà. Anche quando certi limiti si chiamano educazione, buon senso, e quant’altro. Le generiche norme di convivenza, insomma, che dovrebbero rendere comprensibile a chiunque certe evidenze. Tipo che

se un gruppo si auto-produce, investe tempo, lavoro, denaro, speranze in un supporto fisico, in una produzione reale e non virtuale, non merita di vedersi subito spacchettato, clonato e ridotto all’insignificanza di un file viaggiante tra miliardi di altri. Da un lato ci si sforza e ci si svena per produrre un bene reale e dall’altro, con un paio di clic, si riduce tutto questo solo a ulteriore massa informativa dispersa nel rumore di fondo. Nonché, va detto, si scoraggiano eventuali, futuri investimenti. Poiché non credo nell’utilità dei divieti, l’ideale sarebbe che sorgessero nuove forme di educazione in grado di mediare queste nuove forme di libertà. Ma devo limitarmi a rilevare che, al contrario, sono andate rottamate anche le forme tradizionali. Ciò che resta è, dunque, questa idea del no-limit sposata alla tecnologia, ma senza che si scorgano ancora strumenti di civiltà in grado di prevederne e governarne gli esiti. a mio avviso, tanto Disobbedisco! quanto Italia: Ultimo Atto rappresentano, per quanto con diverso intento e dilatazione temporale, due epiche centrate sul medesimo protagonista, ovvero quell’heròs inutile incarnato prima dalla legione Fiumana e poi dalla silenziosa resistenza di un popolo dinanzi a settant’anni di declino italiano. in entrambi i casi, eroi “vinti” dalla storia e dagli eventi. ammesso che questa mia interpretazione sia valida, vedremo mai ianva liricamente alle prese con l’altra sponda della barricata, ovvero i vincitori? oppure è un punto di vista narrativo che ritenete di per sé meno interessante? Dovrei prima sapere cosa intendi esattamente per vincitori. Nel ristretto novero della guerra civile

esiste, almeno teoricamente, una parte che ha vinto. Solo che, dal sommo di Pavese all’infimo di certe band di neo-partigiani del saltello in levare, l’epopea resistenziale ha avuto più narratori da sola dell’intera somma di due millenni di Storia peninsulare. Non è che fosse poco interessante, solo che ci sembrava tempo di affrontare anche qualche angolazione differente. E non necessariamente quella dei vinti, così come li intende un Pansa, per esempio.Il mio punto di vista è abbastanza lineare: in un paese che ha perso una guerra mondiale e con essa la sovranità, che è stato ed è tuttora militarmente occupato, che non ha, secondo ogni evidenza, alcun margine di manovra per agire sullo scacchiere globale nell’interesse dei suoi cittadini, ma sempre e solo su mandato e nell’interesse dei padroni, è del tutto assurdo, sul piano filosofico e politico, ritenere che ci sia una quota di cittadinanza che ha vinto su un’altra. Il fatto che qui si persista con questa configurazione è, semmai, una prova ulteriore dell’anomalia italiana.Chiarito ciò, non è che io ami i perdenti in quanto tali. Ci sono state cause meritatamente sconfitte che non sento alcun bisogno di cantare. Altre che avrebbero meritato miglior fortuna, ma che ugualmente non mi ispirano quel quid di epicità che mi fa insorgere la tentazione di prestare loro voce. Ma poiché, da qualche secolo, il Male, per un verso o per l’altro, vince a man bassa, mi sa tanto che il giorno in cui scriveremo una storia di vincitori sarà frutto unicamente della nostra immaginazione. È tutto. vuoi congedarti dai nostri lettori con un messaggio in particolare? Solo un saluto a tutti e un grazie sentito a voi e a tutti coloro che ci seguono e ci supportano.

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di emilio Bellu

Rinascita con fuochi d’artificio KAYNE WEST -My Beautiful Dark Twisted FantasyROC-A-FELLA, DEF JAM

selezionati per voi: all of the lights, Runaway, lost in the city

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anye West ha passato un paio d’anni poco facili. Ha riempito le pagine del gossip, è stato definito “idiota” da Barack Obama, e la sua musica è passata in secondo piano. My Beautiful Dark Twisted Fantasy è il suo tentativo di risorgere, e non manca di ambizione: il disco è stato preceduto da un film di trenta minuti che simbolizza la nuova direzione dell’artista. È un album schizofrenico, un frullato di stili diversi e contrastanti. Le canzoni suonano pericolose e seducenti, sempre oneste, a momenti inquietanti. E per quanto West ci tenga a mostrarsi come il re dell’hip hop, questo album dimostra che l’artista sa che da soli

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non si regna. Tutti i brani si uniscono per creare un concept sul puntare troppo in alto, e West porta con sé molti tra loro che hanno toccato il cielo e ne sono stati bruciati: Jay-Z, Elton John, Chris Rock, Gil Scott-Heron, RZA, anche Rick James. La fantasia di West è un delirio psichedelico che celebra la musica nera tutta, da Hendrix ai Funkadelic passando per Prince e Michael Jackson. È la musica di chi non riesce mai a sentirsi integrato, nonostante il proprio successo, e fa musica rischiosa, fuori di testa. Si va dal delirio di una celebrità in calore, a un inno trascendentale al vivere per trovare la pace interiore, dal terreno, al sublime nel giro di

due canzoni. L’uscita dell’album è stata esplosiva. Seicentomila copie nel primo weekend, centomila solo in digital download. Senza nessun singolo passato per radio. Sono cifre mostruose nell’era dei torrent, dimostrazione che West ha capito come utilizzare la rete: da tempo pubblica una canzone inedita ogni venerdì, gratuitamente, e coinvolge continuamente i suoi ascoltatori, che possono verificare in prima persona che West è effettivamente un esaltato, ma in maniera abbastanza diversa rispetto a quella raccontata dalla stampa scandalistica. È un artista senza paura come ce ne sono pochi in giro, e questo è il suo capolavoro.


di antonio Pizzo

Italians do it better AREKNAMES

-In Case of Loss-Black Widow Records-

selezionati per voi: dateless diary, don’t move, the very last number

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erzo disco per gli Areknamés di Michele Epifani (polistrumentista con il pallino delle tastiere analogiche), una delle migliori realtà dell’underground progressive italiano. Se non siete fuggiti urlando alla parola “progressive”, sappiate che la musica degli Areknamés trae linfa dalle radici più dark e meno consolatorie del prog. Totalmente immersi in sonorità anni settanta, adattano la lezione dei maestri Van Der Graaf Generator alle inquietudini della modernità, filtrandola attraverso le influenze più disparate. Rispetto ai precedenti album, il primo omonimo e Love hate round trip, questo In case of loss... riduce di una tacca lo spirito più hard e in-

transigente del gruppo, riscoprendo un’indole più romantica ma non meno cangiante. L’apertura è lasciata al basso e alle tastiere pulsanti di Beached, ai quali ben presto si aggiunge un inconfondibile sintetizzatore, prelevato con la macchina del tempo dal 1971. C’è tempo per un finale vagamente jazzato prima di lasciare spazio ad Alone, che con il suo sax sghembo è la canzone più “vandergraafiana” del lotto. Dateless Diary si apre con tastiere sinistre, ed è solo l’inizio di un brano multiforme, che a chitarre dure oppone un intermezzo dilatato, in cui le voci si inseguono in un’atmosfera sognante. Don’t move ha ritmi rilassati, un andamento malinconico e

un finale che si concede un crescendo di archi da brivido. A new song inizia con l’incedere cullante di una ninna nanna, per poi esplodere in maniera dirompente, incalzando l’ascoltatore fino a un finale schizofrenico. Dopo le atmosfere horror di Where, resta ancora un brano, ma si tratta di una suite di ventuno minuti, The very last number. Molte band sembrano volersi cimentare in brani di questa portata solo per fare vedere che sono “davvero” prog, ma fortunatamente non è il caso degli Areknamés, che chiudono un disco bellissimo con un brano che riassume in toto i loro pregi: emozione, tecnica e atmosfera.

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el Bo di Matteo D di matteo del Bo

La scimmia nello spazio

La copertina del disco, un piccolo capolavoro per i feticisti dello stile del periodo.

ENOS

-Chapter I-

selezionati per voi: launch, Floating, Back to heart

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ercorrono strade già battute da altri, gli inglesi Enos, ma non senza una certa furbizia. Con Chapter I, l’album di debutto, ci offrono un viaggio low cost andata e ritorno nello spazio, scandito da un ventaglio di influenze ben congegnato e riconoscibile. Il disco è disponibile per il download gratuito e streaming su http://www.myspace.com/enosthechimpt e sin dall’inizio è facile intuire dove andranno a parare i nostri. La già citata furbizia sta nel saper utilizzare le diverse influenze e usarle per trasportare l’ascoltatore attraverso un concept che narra, come facilmente intuibile dal nome della band e

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dai titoli delle canzoni, del viaggio di Enos, uno scimpanzé lanciato dalla NASA nello spazio nel novembre del 1961. Così Launch ci introduce al viaggio: allacciate le cinture e scaldati i motori si viene travolti da grasse chitarre, di chiara derivazione Kyuss, che fanno accomodare l’ascoltatore facendolo sentire a casa subito e per tutta la durata dell’avventura cosmico-musicale. La forza della band sta nell’avere creato un album eterogeneo e organico e inoltre, nonostante la palese derivazione della musica, lo spettro è talmente ampio da sopperire all’originalità con un disco ispirato e di grande respiro. Per tutto il resto di Chapter I si

viene trascinati in un’enorme spirale musicale che parte dagli anni 70 con echi psichedelici e progressivi fino ad arrivare a contaminazioni metal e rock più moderne, entro le quali si possono sentire influenze di pesi massimi come Monster Magnet e Orange Goblin, oltre ai già citati Kyuss. Un lavoro quindi completo e ben confezionato che potrà facilmente fare breccia nel cuore dei molti appassionati di sonorità desertiche e spaziali. Sempre su MySpace si trovano i riferimenti per leggere il fumetto delle avventure di Enos, ovviamente disponibile in formato gratuito.



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Una Cura per la Terra Manifesto di un ecopragmatista Stewart Brand Codice Edizioni 2010 Prezzo di Copertina: 23,00€ Pagine: 350 Versione: Italiana

‘ LA CITTA VERDE

di En r i co Pa so tti

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uando una persona ha l’ardire di cambiare idea, e certo il buongusto di non essere impelagato in politica, è buona cosa stare a sentirlo. Specie quando la persona in questione è un ambientalista della prima ora che, in soldoni, prenderebbe a calci quelli dell’ultima. Stewart Brand non è neppure un tizio qualunque: è autore del Whole Earth Catalog che dal 1974 al 1986 (e fino al 2003, sotto forme distinte) ha raccolto articoli e recensito prodotti che aiutassero il lettore a migliorare la vita sua, dei suoi consimili e del pianeta. Le informazioni del Whole Earth Catalog venivano periodicamente revisionate

e integrate al punto che, nel 2005, Steve Jobs individua in esso un antesignano del web. Stewart Brand, soprattutto, è un uomo che misura gli anni a cinque cifre, non in quattro, perché la fondazione di cui è co-fondatore, The Long Now Foundation, si è impegnata nel costruire un monumentale orologio autoalimentantesi e che scandisca un tempo di 10.000 anni, nel tentativo di evidenziare che i nostri giorni sono tremendamente brevi, ma altrettanto significativi. Ed è proprio durante la ricerca del sito ideale per la costruzione del cronometro decamillenario, che Brand incontra un nuovo, tardivo, inaspettato amore: il nucleare.

Ne Una Cura per la Terra, Brand esce dagli schemi verdi arrivando ad una sintesi di pensiero forte: ‘le città sono verdi, il nucleare è verde, l’ingegneria genetica è verde’. Ed è un novero di sorprese quello che ci propone, infilando una ad una ragioni in apparenza inattaccabili e che di torto hanno il solo fatto di non essere politicamente corrette per un occidente vicino ad una psicosi ambientale che nuoce in primis all’ambiente stesso. Così, al trasognante ritorno alla campagna viene contrapposto il risparmio energetico e il ridotto impatto ambientale di un agglomerato urbano (debitamente costruito). Un percorso ampio che parte dall’analisi della città vista come generatrice della

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civiltà e non come sua risultante: la comunità aumenta il traffico di idee e riduce quello fisico (di merci, di servizi o di energia). E’ un humus urbano fertile, quello di Brand, che ricicla e reinventa in continuazione, evolvendosi e proiettandosi con dimestichezza al futuro. In barba alla preoccupazione, tutta occidentale, del digital divide (la discrepanza fra il livello informatico dei diversi paesi), ci accorgiamo che dove noi paghiamo molto una tecnologia che muove i primi passi, ‘loro’ pagheranno poco un’infrastruttura sviluppata ed estesa. Oltretutto, con lo stesso vantaggio che i giovani hanno rispetto agli anziani, il loro tasso d’apprendi-

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mento sarà rapido e il gap presto colmato. Basti vedere come è stato accolto e ‘riletto’ il telefono cellulare che diventa perno di transazioni e prestazioni d’opera ad ampio spettro e non, come da noi, un banale accrocchio per l’atrofizzazione del linguaggio scritto. E nel trionfo della città, la natura si riappropria dei terreni abbandonati, così come si è riappropriata della zona contaminata di Chernobyl. Dove l’uomo cade sconfitto, la natura trionfa. Una natura che non abbisogna d’aiuto, che può farcela senza di noi e che di certo lo farà. Quello che è bene fare, va fatto per il nostro primario interesse perché siamo noi la specie a rischio d’estinzione.

Brand snocciola numeri e situazioni e casi che a buona ragione ci ammoniscono sulla psicosi verde, sul pericolo di ragionare per ideologie e non per soluzioni. Brand infine biasima gli ambientalisti che ‘amano’ i problemi, simpatizza con gli scienziati che questi problemi li scoprono e li studiano e soprattutto plaude agli ingegneri, che i problemi li risolvono. O comunque ci provano, fra i paletti e le intromissioni di chi, mani alle orecchie, blatera di Sole e di Verde dimenticando che ‘nessun movimento era stato proprietario di un colore a livello globale dai tempi in cui i comunisti si presero il rosso. Oggi il rosso non significa più nulla. Per quanto ancora il verde vorrà dire qualcosa?’.



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fo to d i Da d e vo t i

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Appetite for Self-Destruction the Spectacular Crash of the Record Industry in the Digital Age Steve Knopper Simon & Schuser 2009 Prezzo di Copertina: £10,99 Pagine: 301 Versione: Inglese (UK)

SEMPRE UN PASSO INDIETRO di Tomm as o D e B e ne tti

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teve Knopper è uno che deve averne vista passare di acqua sotto i ponti. Editor di Rolling Stone, collaboratore di Wired, Esquire e Spin, con Appetite for Self Destruction Knopper offre al lettore una minuziosissima - anche troppo - cronistoria dell’industria musicale dal 1979 a oggi. Con un punto di partenza rappresentato da Steve Dahl, il DJ di Chicago che riuscì a trasformare una partita dei White Sox nel più grande rogo di LP di disco music al mondo, e arrivando fino ai giorni del P2P, Knopper racconta attraverso interviste e dichiarazioni degli stessi protagonisti un’industria musicale che da trent’anni a questa parte è

sempre stata gestita con pressapochismo, testardaggine e scarsissima capacità di anticipare sviluppi che i fan - cioè i clienti - rivelavano spesso di comprendere assai meglio. Knopper dedica paragrafi a tutti gli snodi cruciali della vicenda, in due modi. In primo luogo con una carrellata di casi umani di tutto rispetto, da Walter Yetnikoff, l’uomo dietro a Thriller di Michael Jackson, che imperversò in CBS per anni nonostante fosse un cane sciolto cocainomane, a John Fanning, zio di quel Shawn Fanning, padrone del 70% di Napster che, invece di siglare accordi per vendere un servizio che aveva già 20 milioni di utenti, preferiva lanciarsi in dichiarazioni tutt’altro che propizie agli

affari sulla linea di “distruggeremo l’industria discografica”. Ci sono poi una serie di aneddoti e retroscena che hanno dell’incredibile: discografici che non capivano il senso dei video e non erano quindi disposti a supportarne i costi, la lunga interdizione degli artisti neri da MTV, l’insensata opposizione al formato CD che successivamente sosterrà l’industria per oltre un decennio, le chance perse sul fronte della distribuzione digitale a causa di egoismi, inettitudini e piccole scaramucce. Un libro per capire dinamiche e trend di un mercato folle, in cui il prodotto musicale vero e proprio è sempre stato il fattore meno importante.

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Vanquish – The Official Guide Future Press Verlag und Marketing GmbH 2010 Prezzo di copertina: €15,89 Pagine: 324 Versione: inglese

SPEED KILLS... SO GO FASTER di Pi etr o R ec ch i

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noto come la diffusione della rete abbia relegato all’obsolescenza il concetto stesso di guida strategica in forma “fisica”: a prescindere dal gioco trattato, trovarci dentro un’informazione che non sia reperibile nelle sempre più professionali FAQ disponibili online è cosa più unica che rara. Non stupisce quindi come questi prodotti abbiano ormai il loro bacino di utenza principalmente nei collezionisti, interessati più a riporre le guide sui propri scaffali vicino alla limited edition del caso piuttosto che ai contenuti delle stesse. Esistono, però, alcune splendide eccezioni a questo trend, come la guida di Bayonetta pubblicata da Future

Press: composto dalla bellezza di oltre quattrocento pagine, il tomo non si limita a un banale walkthrough ma si spinge oltre, analizzando il combat system sotteso al gioco con una profondità senza precedenti e fornendo così al giocatore la chiave di volta per apprezzare a fondo il sopraffino gameplay del capolavoro Platinum. Poco sorprendentemente, considerati gli attori coinvolti, la guida redatta dalla stessa Future Press per lo straordinario shooter Vanquish ne segue pedissequamente le orme: accanto alla descrizione passo per passo delle missioni affrontate da Sam Gideon, il lettore troverà disquisizioni approfondite sul sottile meccanismo posto alla base del punteg-

gio, un’analisi maniacale del parco nemici e – proverbiale ciliegina sulla torta - un walkthrough addizionale studiato appositamente per spremere il titolo al 101% e goderlo nel migliore dei modi possibili, ovvero a 200 all’ora e relegando le coperture al ruolo che spetta loro: elementi d’arredo appartenenti ormai alla preistoria degli shooter in terza persona. In luce di questo, Vanquish – The Official Guide risulta un acquisto pressoché obbligato soprattutto per chi dovesse aver già completato il titolo diverse volte e necessiti di una sfida aggiuntiva, che vada di pari passo con l’affascinante scoperta di meccaniche di gioco tanto ricche e profonde.

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TECNOLOGI A | SOCI AL

A face in the crowd Flattr, un nuovo modo di dire tommaso de benetti

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lattr (http://www.flattr.com) è un servizio che permette di “lasciare mance virtuali” ai contenuti web che - a vostro parere - meritano supporto. Un budget fisso, a partire da 2€, viene suddiviso fra tutti i post, video, mp3 e pagine “flatterati” nel corso dei 30 giorni precedenti o, nel caso niente avesse incontrato i gusti dell’utente, redistribuito in beneficenza. Pla› yersdiscute con Linus Olsson, uno dei fondatori della compagnia svedese, sul perché internet nell’anno domini 2010 necessiti di un nuovo patto fra utenti e creatori di contenuti. Ciao Linus e benvenuto su Players. Questo magazine ha avuto origine come iniziativa interna di Parliamo di Videogiochi, ed è successivamente diventato qualcosa con una personalità e autonomia propria. Ad ogni modo, Parliamo di Videogiochi è stato, all’epoca (giugno 2010) uno dei primi siti web ad adottare Flattr in Italia. Vuoi spiegare cosa fate e perché lo fate?

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GRAZIE

Stiamo cercando di cambiare il modo in cui la gente percepisce i pagamenti. Fino ad oggi pagare è sempre stato l’unico modo per ottenere qualcosa. Con tutto quello che é successo sul web negli ultimi 10 anni, però, quel modello è stato messo progressivamente in discussione. Oggi non è particolarmente difficile ottenere qualcosa di gratis sul web. Anche se non sei un pirata, puoi star tranquillo che la stessa news può essere ottenuta da qualche parte gratuitamente, il software

che usi - o un suo clone - può essere recuperato gratuitamente, ecc. Questo è il modo in cui internet funziona al momento. L’idea di costringere la gente a pagare, semplicemente non funziona più. Quello che devi fare è invece chiedere alla gente di contribuire se lo vogliono loro in primo luogo. Flattr è un sistema basato sul presupposto che la gente voglia pagare, a patto che esista un sistema semplice per farlo: quindi l’abbiamo fatto. Essendo un sistema che ha a che fare con il denaro deve essere tecnicamente ineccepibile, in modo che


gli utenti possano fidarsi quando spostano i soldi. Per questo motivo, Flattr trattiene il 10% delle transazioni: potrebbe sembrare una cifra elevata, ma abbiamo pensato che è meglio iniziare con un margine che ci mantenga operativi e abbassarlo nel tempo, piuttosto che fare il contrario. Il servizio ha avuto una certa pubblicità per il coinvolgimento di Peter Sunde, precedentemente una delle menti dietro a The Pirate Bay. Siete tutti ex pirati con i sensi di colpa? Che puoi dirci di te e degli altri membri di Flattr? Mi par di capire che tu sia co-fondatore assieme a Peter, appunto.

ché crediamo che tutto debba essere gratis (come in “birra gratis”). È sempre stata, più che altro, una questione di dare la possibilità di condividere cose fra le persone. Non voglio sentirmi dire cosa posso o non posso condividere con chi mi pare: questo concetto è fondamentale per il modo in cui internet funziona e nessuno dovrebbe avere l’autorità per cambiarlo. Quindi abbiamo bisogno di nuovi modi di pagare. Rendere possibile la

“condivisione di denaro” quindi è solo il passo logico da fare. Uno potrebbe aspettarsi la soluzione dalla gente che ha sempre voluto i suoi soldi, ma visto che si sono riposati sugli allori per gli ultimi 5 anni rilasciando dichiarazioni tipo “l’unico modo per ottener soldi è costringere la gente a pagare” invece di far qualcosa di costruttivo, ci pensiamo noi. Amiamo internet, Flattr è il nostro tentativo di renderlo ancora migliore.

Sensi di colpa? Nemmeno per sogno. È una cosa che continuano a chiederci, e ci diverte abbastanza. The Pirate Bay non è mai stato messo in piedi per far perdere soldi alle compagnie o agli artisti, o per-

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TECNOLOGI A | SOCI AL

A face in the crowd Flattr, un nuovo modo di dire

Personalmente credo che il vostro servizio sia un’idea grandiosa, ma utilizzandolo mi sono reso conto che non è facile comunicare alle persone cos’è Flattr e come funziona. Per PdV abbiamo dovuto creare una FAQ apposita da posizionare vicino ai bottoni di Flattr, per Players lo faremo al più presto. Quali sono i vostri piani per rendere l’intero processo il più semplice possibile da compren-

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GRAZIE

dere? Cliccare il pulsante non è la parte parte difficile. Mi fa piacere che abbiate implementato una FAQ, ovviamente noi cerchiamo soluzioni allo stesso problema. Dici bene, premere il bottone non è difficile: la parte complessa è fare in modo che la gente capisca il sistema. Stiamo lavorando sull’usabilità di Flattr proprio in questo momento, ogni input

è benvenuto (ndTommaso - la mia idea geniale, suggerita in privato, non va però molto d’accordo con i limiti tecnici degli iFrame). Flattr è uscito dalla beta in agosto 2010, quali sono i vostri piani di internazionalizzazione? Immagino stia guadagnando terreno in Scandinavia e su altri siti tecnologici in territorio europeo, ma avete un piano di invasione stile D-Day?


Abbiamo un piano: la fanteria sul fianco est cercherà di abbattere gli sniper con l’ausilio di BFG e...no, seriamente, abbiamo un piano. L’idea è di avere la localizzazione in diverse lingue al più presto. A dirla tutta la nostra user base maggiore è però in Germania, quindi le barriere linguistiche sono relative (ndTommaso - al momento Flattr è disponibile solo in inglese). Abbiamo deciso di pubblicare Players e organizzare una raccolta fondi per sostenere i costi delle operazioni, sia quelli di hosting che quelli per espandere la base d’utenza. Troviamo che non sia facile comunicare tutto il lavoro che viene compresso in questa o altre iniziative di cui ci occupiamo. Molta gente fatica a capire quante ore-uomo vengono spese nel discutere un layout grafico, nella strategia di pubblicazione o nel produrre dei contenuti che non facciano schifo. Vedete Flattr come un vero e proprio strumento di crowdfunding (“ragazzi, lo facciamo perché ci divertiamo ma senza il vostro aiuto non può durare a lungo”) oppure come un sistema di mance virtuali (“grazie per avermi offerto una birra”)?

Lo vediamo in tutti e due i modi. Abbiamo utenti tedeschi che riescono ad arrivare fino a 1000€ al mese, molti altri riescono a ripagarsi i costi di hosting, e ne sono molto soddisfatti. Ottenere qualche soldo dal vostro blog può fare tutta la differenza del mondo: cosa succederebbe se riusciste a raccogliere abbastanza soldi per poter lavorare un giorno, o addirittura due giorni in meno a settimana? Quando le cose iniziano ad ingranare, chi lo sa quando, e se, si fermeranno. Ho l’impressione che siate un manipolo di geek, lì negli uffici di Flattr. Ed è bellissimo! Tu hai anche un sito che vende t-shirt molto nerd, vero? [Ride]...potete trovare un po’ del mio humor da nerd a bytelove.com. Vi faccio una t-shirt di Players ? Se avessi solo 15 minuti da vivere, e avessi già detto addio a tutti i tuoi cari, quale sarebbe l’ultima cosa che scaricheresti da internet? [Ride], fammi pensare... 15 minuti... Spererei di averne almeno 20, in modo da potermi guardare l’ultimo episodio di The Big Bang Theory.

L’autore Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.

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videogiochi | s peci ale Antonio Lanzaro e Andrea Maderna

con i piedi, con le mani! ii ha segnato il mondo dei videogiochi così profondamente, che sia Sony che microsoft hanno sentito l’esigenza di aggiornare le loro console per dotarle di un sistema di controllo basato sul movimento. mentre playstation move è così vicino all’idea di nintendo da sfiorare il plagio, Kinect sembra proporsi come il passo successivo e promette un’altra rivoluzione. la tecnologia dietro Kinect pone le sue fondamenta su un sistema di telecamere capace di riconoscere il giocatore, la sua voce (per il momento non in italia, però), ma soprattutto i suoi movimenti. affinché tutto funzioni alla perfezione, il giocatore deve trovarsi nel cono visivo delle telecamere. per questo motivo è necessario avere a disposizione un po’ di spazio tra il televisore e l’area di gioco, possibilmente senza oggetti che impediscano il libero movimento. Questa è una condizione da rispettare assolutamente se si vuole godere di Kinect nel modo corretto, in quanto il suo utilizzo avviene prevalentemente stando in piedi e potendo usufruire di una certa libertà di movimento. Kinect, infatti, non solo rileva con precisione stupefacente i movimenti del corpo, ma anche i movimenti del giocatore nello spazio, in tutte le direzioni. potremo fare un passo a destra o a sinistra, verso il televisore, indietreggiare, o saltare: Kinect riesce sempre a rilevare la

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nostra corretta posizione e che tipo di movimento stiamo eseguendo. i giochi di lancio hanno tutti un’anima casual, palesemente ispirata dal catalogo Wii. le collezioni di minigiochi sono la formula ricorrente: Kinect Adventures incluso nella confezione, Kinectimals, i titoli sportivi come Kinect Sports sono un susseguirsi di giochi semplici e immediati che basano il loro fascino sulla novità dell’interazione senza controller. l’effetto sorpresa è garantito, perché se c’è una cosa che si può dire fin da subito è che Kinect funziona e funziona bene, conquistando persone di tutte le fasce d’età e anche dall’interesse per i vi-

deogiochi limitato se non nullo. Questo pone l’accento sull’immediatezza e la facilità di utilizzo della nuova periferica microsoft, e sullo stupore che sa suscitare, per certi versi simile a quanto accadde quando nintendo lanciò Wii sul mercato. Una differenza rispetto a Wii è che con Kinect non è più possibile solamente accennare i movimenti richiesti. Una delle conseguenze più ovvie è che si è costretti a muoversi di più e ci si stanca molto, specialmente se non si è in gran forma. ne guadagna però in maniera pazzesca il coinvolgimento, sotto tanti punti di vista. interagire con una creatura


Qualche tempo fa, su Neogaf, un utente lamentava di non riuscire a giocare bene a Dance Central a causa della protesi a sostituzione della gamba amputata. Può dunque Kinect essere una valida risposta alle necessità degli utenti affetti da disabilità?

a schermo “toccandola” e parlandole, giocare a pallavolo con tutto il proprio corpo osservando l’avatar che si muove esattamente come noi, aggiustare la propria posizione rispetto al tavolo da ping-pong semplicemente facendo un passo in salotto... sono cose che non hanno prezzo e che fanno dimenticare tutti i limiti di precisione, profondità e prontezza nella risposta ai comandi. limiti che saranno forse limati nel tempo, ma che ci sono, variano tantissimo a seconda del

software in uso e talvolta danno anche molto fastidio. ma quando Kinect funziona, la magia è tale da far dimenticare tutto. concetto, questo, abbracciato senza remore da peter molyneux, che nel suo discorso alla iVdc 2010 di Roma ha mostrato grande entusiasmo per le potenziali influenze della periferica sulla narrazione interattiva e sull’illusione di intelligenza artificiale. da quanto si è visto nelle prime settimane di prova, insomma, l’hardware di Kinect è da promuovere

senza riserve. i dubbi, piuttosto, sono tutti sul catalogo di giochi che microsoft saprà proporre. ad oggi, l’offerta è piuttosto monocorde e poco pensata per i giocatori più esperti. Resta da capire se e come gli sviluppatori “tradizionali”, da molyneux a Tetsuya mizuguchi, passando per i team capcom al lavoro sui nuovi Panzer Dragoon e Steel Battalion, saranno in grado di renderle giustizia.

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videogiochi | s peci ale

con i piedi, con le mani! sport e altro La simulazione sportiva è banco di prova fondamentale per il motion control. Kinect Sports vince e convince per precisione e pulizia di controllo, permette di guidare l’intero corpo dell’avatar coi propri movimenti, dà motivi d’interesse anche su discipline poco “adatte” come il tennis tavolo grazie alle possibilità di movimento e garantisce un solido multiplayer, che vanta gli unici server Xbox Live popolati della line up di lancio Kinect. Manca un po’ di profondità, ma è caratteristica del genere. Se non vi basta, date una chance a MotionSports, che ha qualche problema di funzionamento ma anche idee originali, una bella struttura a minigiochi e un paio di discipline molto riuscite. Completamente da buttare, per scelte di design e funzionamento pessimo, Sports Island Freedom. Menzione d’onore per Kinect Adventures, inserito nella confezione di Kinect. Una tech demo non entusiasmante ma che fa il suo dovere di showcase, proponendo una sorta di Giochi senza Frontiere interattivo.

kinectimals Dedicato a un pubblico di giovanissimi, e quindi penalizzato da un approccio molto guidato e una struttura che tende alla semplice ripetitività, Kinectimals è comunque uno fra i migliori giochi di lancio per la periferica Microsoft. La struttura, come detto, è piuttosto semplice e basa tutto sul senso di scoperta, di esplorazione e di accumulo dei vari oggetti e bonus tramite l’esecuzione di tanti minigiochi diversi che coinvolgono il giocatore e il suo felino virtuale. A fare la differenza è il coinvolgimento emotivo, capace di andare alle stelle grazie alla splendida realizzazione tecnica e caratterizzazione degli animali, ma soprattutto all’interazione tramite Kinect. Interagire col proprio animale “toccandolo”, lanciandogli oggetti, parlandogli (il riconoscimento vocale funziona solo se si gioca in lingua inglese) senza barriere di plastica è esperienza a tratti fenomenale e può far intuire quale enorme potenziale si nasconda dietro questa periferica. PLAYERS 01 PAGINA 92


dance central Vista la capacità di Kinect di rilevare i movimenti di qualsiasi parte del corpo, non sorprende trovare tra i titoli di lancio un gioco di ballo. Dance Central è la dimostrazione di quanto Kinect sia preciso nel rilevare i movimenti del giocatore, oltre ad essere un gioco divertente. Harmonix confeziona un prodotto curato fin dal menu principale, da cui potremo selezionare uno degli oltre 30 brani disponibili e cominciare a ballare sulle sue note. Lo scopo del gioco è eseguire correttamente una serie di passi, rispettando il ritmo e aiutandosi guardando il ballerino a schermo. Prima di provare il brano nella sua interezza è consigliabile utilizzare l’opzione “Scomponi”, che permette di imparare e memorizzare i vari passi da eseguire. Peccato per l’impossibilità di giocare in due contemporaneamente (ci si può solo alternare sul palcoscenico) e soprattutto per l’ingiustificata assenza di una modalità Carriera, che avrebbe dato al prodotto una forma più compiuta.

macchine e tavole Kinect Joyride dimostra perfettamente quanto poco si adatti Kinect ai giochi di guida tradizionali. Poco ispirato nel design, sufficientemente curato nel concept di modalità e opzioni, il gioco perde completamente d’interesse una volta che si esaurisce il fascino iniziale del controllo tramite Kinect. Impreciso, pieno di compromessi, troppo povero per andare oltre lo status di giochino divertente da mostrare a parenti e amici ubriachi. Discorso simile, per ragioni leggermente diverse, su Sonic Free Riders e Crossboard 7. I due simulatori di hoverboard/snowboard pagano la natura di sport poco adatti alla periferica e i problemi di Kinect nel rilevare a dovere giocatori posti di lato quando le condizioni ambientali non sono perfette. Il divertimento rischia quindi di sparire per i continui problemi di funzionamento. Fra i due, comunque, meglio il titolo Sega, meno banale e anzi coraggioso nel proporre forse l’unico gameplay davvero ricco e articolato di tutta la lineup Kinect attuale.

your shape fitness evolved Your Shape: Fitness Evolved è la versione per Kinect di un prodotto lanciato su Wii un anno fa e che includeva una videocamera che teneva traccia dei movimenti del corpo del giocatore. Da questo punto di vista il lancio di una edizione per Kinect è la logica conseguenza. Ubisoft confeziona un software che mette a disposizione un programma di fitness completo e specifico, in base agli obiettivi che si vogliono raggiungere (perdere peso, tonificare i muscoli e così via). Your Shape: Fitness Evolved non è un videogioco, ma appartiene a quella categoria di applicazioni che segue la scia del successo di Wii Fit. Visto dal corretto punto di vista è sicuramente un prodotto molto interessante, che funziona bene e che aiuta a tenersi in forma senza l’obbligo di andare in palestra. Il corpo del giocatore viene scannerizzato e mostrato a schermo assieme ai suoi movimenti in tempo reale, il che aiuta non poco a svolgere gli esercizi proposti nel modo corretto. PLAYERS 01 PAGINA 93


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RobeRto tuRRini

videogiochi | op in ion i

Parafernalia cinesi

independentware

ono settimane che Medal of Honor e Black Ops, da tempo installati sul mio pc, aspettano di perdere la verginità. Una volta non avrei avuto un attimo di esitazione, fosse stato anche solo per vederne il filmato introduttivo o lo scricchiolante frame rate sul vecchio assemblato da buttare. Oggi, al contrario, questi noiosissimi titoloni tripla A stanno lì a prendere polvere tra le partizioni dei miei dischi rigidi. Credo che il busillis risieda in una spinta innovativa esaurita col tempo e che non ha nemmeno lasciato spazio a derive espressioniste o artistiche, come se l’unico destino possibile per i videogiochi moderni fosse quello di farci cliccare il tasto destro del mouse in scenari stracolmi di architetture tridimensionali e scriptate. Senza volersi sempre accanire contro i soliti fps, ormai paragonabili alla non shoottabile Croce Rossa, quanto detto si potrebbe estendere a quasi tutti i titoli da scaffale. Le possibilità di scontrarsi con videogame capaci di veicolare un contenuto veramente originale sono sempre meno consistenti e le nostre serate videoludiche trascorrono tra uno sparatutto in terza persona mosso dall’Unreal Engine

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III e un action adventure con punti esperienza e crescita del personaggio in stile GdR. Bisogna dunque guardare con entusiasmo all’immobilismo dello sviluppo hardware innescato dalla protervia delle attuali console, visto che il ritardo nella loro estinzione ha creato i presupposti per quella che, a tutti gli effetti, potrebbe essere l’unica ancora di salvezza per il medium. Mi riferisco al continuo fiorire di studi di sviluppo indipendenti, con tanto di festival dedicati e articoli sui giornali, che per riuscire a distinguersi dall’anonimato ed essere acquistati dall’Activision di turno si profondono con ostinato impegno nel proporre qualcosa di fresco e non ancora banalizzato dal mass market. Molti gli esempi che si potrebbero citare per dimostrare quanto rilevante sia il contributo portato da questi prodotti al nostro settore. Playstation Store, Marketplace e Steam, nonostante impongano delle barriere all’ingresso tanto invalicabili quanto rigidamente controllate, offrono cataloghi di titoli indipendenti sufficientemente variegati da rappresentare una validissima alternativa a quelli mainstream. A mio avviso, poi, è anche del tutto insensato ragionare sul fatto che, per realizzare un

Space Invader, di Great Oharu

qualcosa come Flower, i thatgamecompany abbiano o meno ricevuto sovvenzioni da Sony. Nel senso, non vedo quale sia il motivo per cui la pratica dello sviluppo indie dovrebbe trasformarsi in lotta serrata al potere capitalista delle major! A conti fatti, se io avessi una buona idea e trovassi qualcuno disposto a darmi dei soldi, sarei davvero uno sciocco a erigere barricate in stile rivoluzione francese. Anzi, l’augurio è proprio quello che i grandi publisher destinino sempre più fondi agli studi di sviluppo indipendenti, fornendo così loro gli strumenti necessari per rinnovare il nostro settore che, nonostante la giovane età, sembra essersi già piegato alla logica fordista della catena di montaggio. L’autore Il fatto che la moglie abbia accettato di avere un marito con dei seri problemi di dipendenza da giochini elettronici la dice lunga sui compromessi ai quali è dovuto scendere pur di evitare che la sua collezione di cartucce finisse misteriosamente nel bidone della spazzatura. Il suo sogno è quello di arricchirsi facendo il critico videoludico per le riviste cartacee, anche se chi lo conosce sostiene che sarebbe disposto a diventare semplicemente ricco. Nel mentre, trascorre la domenica mattina facendo le pulizie di casa, ipotizzando cosa accadrebbe se alla sua porta bussassero Elena Fisher e Liara T'Soni, insieme.


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d i e c i l k c e fe

i L t a n U Sud d

o ni o nt iA

o Ar z n lA

’arrivo di Kinect, la periferica che permette di interagire con Xbox 360 direttamente col nostro corpo, è di sicuro la novità dell’ultima parte del 2010 in grado di suscitare maggiore curiosità. Nonostante i titoli di lancio non siano propriamente indirizzati ai giocatori hardcore, il fatto che abbiano degli obiettivi da sbloccare per un totale di 1000 punti, come tutti i titoli a prezzo pieno, li rende interessanti per chi voglia rimpinguare il proprio Gamerscore e allo stesso tempo perdere qualche chilo di troppo o fare degli esercizi fisici per tenersi in forma. Non avrei mai pensato di poter dimagrire sbloccando obiettivi. Per

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XBOX 360 con Kinect

chi, come me, è troppo pigro per andare in palestra ma avverte l’esigenza di muoversi un po’ dopo una giornata di lavoro sedentario in ufficio, Your Shape: Fitness Evolved di Ubisoft potrebbe essere una piacevole scoperta. Il gioco è molto curato e permette di stilare un programma personalizzato di fitness che il nostro allenatore virtuale ci aiuterà a seguire, mentre una barra sullo schermo terrà il conto di quante calorie stiamo bruciando. La cosa interessante è che ben 23 dei 33 obiettivi totali sono legati proprio al consumo calorico. Il primo obiettivo si sbloccherà dopo avere bruciato 100 calorie, il secondo dopo 200 e così via, fino all’ultimo che richiede di bruciarne ben 10000. A dire il vero, tutti i titoli di lancio per Kinect preten-

dono che il giocatore si muova molto, spesso coinvolgendo tutte le parti del corpo e chiamando in causa dei muscoli che neppure sapevamo di avere fino a un attimo prima ma che urleranno la propria esistenza quando tenteremo di alzarci dal letto il giorno dopo. Basterà dedicare anche solo mezz’ora al giorno a Kinect Sports, o a Kinect Adventures, o a Dance Central, o perfino al relativamente più tranquillo Kinectimals per ritrovarsi sudati e felici, se non per il divertimento intrinseco dei giochi, di sicuro per quella manciata di obiettivi sbloccati in più da sfoggiare in bacheca.

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Ecco il reale scopo ultimo del gioco: insegnare a fare degli ottimi investimenti, per diventare il berlusca di domani

“Fable III è più il fratello scemo del capitolo precedente piuttosto che un gioco nuovo”

Piattaforma: XBOX 360 Sviluppatore: Lionhead Studios Produttore: Microsfot Game Studios Versione: PAL Provenienza: UK

e vissero tutti gabbati e con le di Giuseppe Saso

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able III è un gioco autoironico che si chiede: “Se vestissi i panni di un leader, sarei in grado di mantenere le promesse ambiziose fatte alla gente? Oppure rischierei di deludere le masse?“. Facile notare un parallelismo con le vicende dell’amato/odiato Peter Molyneux. Le meccaniche del titolo restano quasi interamente invariate rispetto al predecessore: si viaggia da un angolo all’altro del regno di Albion per svolgere una serie di

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chiappe strette

compiti, più o meno rilevanti ai fini della storia principale, intervallandoli periodicamente con un’apparente possibilità di scelta, sempre polarizzata e legata alla crescita del personaggio, alla sua vita sociale e al suo regno. Sin dalle prime ore di gioco si assapora una sensazione di onnipotenza che, purtroppo, permea tutto il gioco inficiandone irrimediabilmente anche i combattimenti. Durante gli scontri con banditi, hobbe, piagati, balverini e

altre creature appartenenti al folklore della serie, il sistema di combattimento rivela la sua semplicità disarmante e si riduce esattamente al classico e frenetico “premi a caso i bottoni del pad per attivare armi bianche, da fuoco e magie”. La possibilità di usare pozioni curative in ogni momento rende il gioco ancora più superficiale e banale rispetto a quanto visto in precedenza: di difficile in Fable III non c’è davvero nulla. Anche il sistema di interazione


Il Santuario, l'innovativa interfaccia semplificata per accedere a tutte le informazioni del gioco... più macchinosa rispetto ai menu del capitolo precedente

sociale ha subito delle modifiche e non in meglio - che lo hanno reso semplicistico e meno immediato. In fondo, stando a Peter Molyneux, guadagnare proseliti si riduce a battere le mani al momento giusto o far sfoggio di meteorismo sui futuri sudditi: sarebbe bello, ma nella vita reale questo approccio non ha molto riscontro. Per coerenza, persino i bug di Fable II sono stati replicati, come ad esempio l’assenza, a volte, della scia luminosa che indica la meta successiva. L’unica innovazione è rappresentata dal Santuario, un’area completamente slegata dall’ambiente circostante, dove oltre a sentire blaterare senza sosta il fedele servo Jasper, ci sarà concesso di accedere a tutte le aree di interesse e controllare le missioni da svolgere mediante una riproduzione in scala del mondo esplorabile, interessante solo per coloro che desiderassero infliggersi il completamento del gioco al 100%. Per finire in bellezza, arrivati oltre i due terzi del gioco, il titolo si trasforma, votando il gameplay all’accumulo di ricchezze per contrastare l’imminente invasione. Si tratta della parte in teoria più promettente dell’intero prodotto, ma che ben presto si rivela approssimativa, corta e mal realizzata; le tanto famigerate scelte morali hanno due pesi e due misure: saranno premiate solamente alcune situazioni considerate arbitrariamente corrette dai game designer. Fable III è più il fratello scemo del capitolo precedente piuttosto che un gioco nuovo: se avete raschiato il fondo del barile di Fable II e siete ancora in crisi di astinenza, allora è la dose giusta, in caso contrario statene alla larga.

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Omae wa sude ni shindeiru!!

di Enrico Pasotti

Fist of the North Star: Ken’s Rage Piattaforma: Xbox360, PS3 Sviluppatore: Omega Force Produttore: Koei Versione: PAL Provenienza: Giappone

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iamo alla fine del ventesimo secolo, il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche. Sulla faccia della terra gli oceani erano scomparsi e le pianure avevano l’aspetto di desolati deserti. Immaginatevi che i game designers di Fist of the North Star: Ken’s Rage provengano da questo futuro e vi farete un’idea di cosa avete di fronte. Per quanti si ritengono hardcore gamer, studiosi del videogioco o anche solo appassionati del suddetto, Ken’s Rage appare presto per quello che è: una fallimentare operazione commerciale, scarsamente orchestrata da un team mediocre, basata su un personaggio dal nome ormai spento e solo di recente (e mala-

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mente) ravvivato da una serie di sfortunate incursioni al cinema e in video. Per queste persone non si possono trascurare la grettezza delle situazioni, la povertà delle animazioni e delle scenografie, la scarsità del combattimento e, più significativo, un gameplay autistico, ripetitivo, alienante. Questi sfortunati individui, che non sono nati sotto il segno dell’Orsa Maggiore, non hanno occhi per vedere e quindi, mestamente, passino oltre e non si curino di noi che, con indomita fede e incrollabile speranza, attendiamo da decenni un videogioco che possa mutare in interazione il nostro fedele ardore, che traduca in elegia digitale tutti gli ATATATATATA-UATTA’ che abbiamo ur-

lato al cielo durante la nostra adolescenza, in attesa che un cataclisma nucleare ci proiettasse in un mondo assolato, crudele e così tragicamente catartico. Ken’s Rage è in parte la risposta alle nostre speranze, al nostro bisogno di soffrire in attesa che le stelle del Salvatore risplendano ancora. Lo schema ludico su cui poggia questa benedizione binaria targata Koei è quello granitico e monotono reso celebre dalla serie Dynasty Warriors. Le interminabili ondate di nemici sono degne eredi dei punk post-atomici delle terra desolate di Hokuto no Ken i quali, incuranti della strapotenza del legittimo successore della scuola di Hokuto, si gettano fra le


Centinaia e centinaia le ondate di carne (inconsapevolmente) morta che si riversano sui pugni di Kenshiro durante il gioco. L’intelligenza non è certo il loro forte. Ma d’altra parte, sempre di punk si tratta.

Un’immagine che, da sola, vale ampiamente più del mare di battute impaginate qui intorno. Questa è l’intima essenza della millenaria scuola dell’Hokuto Shinken: corpi che esplodono!

Al limite del blasfemo il fatto che l’abito di Kenshiro si discosti da quello classico ricordando maggiormente i capi di vestiario barocchi e ricercati del Nuovo Testam... er, dell’Isola dei Demoni. Noi comunque preferiamo la versione ‘desnuda’.

nostre ipertrofiche braccia, smaniosi di farsi premere questo o quello tsubo e di deflagrare in una festante ghirlanda di intestini e sangue. Viaggiando parallelamente alla serie, dal primo storico scontro con Zeta a quello, struggente, con Raoh, le fiumane di reietti si infrangono sui nostri pugni. La lista delle mosse è ridotta al lumicino e ogni divagazione sul tema come viaggi in moto, massi da schivare, arrampicate e fasi platform (!) non è che un fraintendimento dei desideri del giocatore, il quale a nulla può anelare se non il fragore della battaglia. Ed è qui che Ken’s Rage porge il fianco a qualche critica, offrendo in definitiva un gameplay desolato e

vergognosamente ripetitivo. Ma la fede è cieca e come non perdonare un gioco che offre la possibilità di scatenare raffiche di pugni sui corpi insanguinati dei nemici? Benvenuta è la “mappa dei meridiani”, un’opzione che consente l’apprendimento di nuove tecniche letali e potenziamenti assortiti, mentre infastidisce la non totale aderenza al testo sacro (il manga) con personaggi omessi e situazioni vagamente reinterpretate o fraintese. Apprezzabile invece l’inclusione della lingua giapponese fra le opzioni del doppiaggio. Il progredire nel gioco consente poi la rilettura delle missioni precedenti con alcuni personaggi alternativi (Rei, Mamiya, Toki e altri), anche se sa-

rebbe stata preferibile un’opera genuinamente corale, che avesse riproposto tutti i momenti cardine dell’opera originale, rincorrendo una coerenza filologica che resta invece primato di quell’Hokuto no Ken: Seikimatsu Kyuseisyu Densetsu su piattaforma PSX. Diciamolo, ludicamente questo Ken’s Rage è un dolore, ma come esperienza rievocativa non ha paragone. Se fate parte della (benedetta) schiera dei discepoli di Hokuto, non potete esimervi da questo ritorno al tempio per offrire la vostra devozione. E se così non fosse, che la Stella della Morte brilli presto su di voi perchè, anche se ancora non lo sapete, siete già morti!

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L’importanza dell’Hokuto Shinken è tale che i primi videogiochi ispirati al manga non rinunciano a metterne in primo piano i contenuti graficamente più espliciti. Hokuto no Ken per Mark III (1986), l’omonima cartuccia per Mega Drive (1989) e i primi due titoli per Famicom (Hokuto no Ken I e II, datati 1986 e 1987, rispettivamente) introducono le grandguignolesche esplosioni dei nemici, rischiando d’incorrere nella censura, pur di non sottrarre sapidità all’estetica.

Tra i videogiochi ispirati a Hokuto no Ken proÈ proprio attraverso i videogiochi che il dotti durante gli anni Ottanta, i due titoli per brand Hokuto no Ken riesce a non scomparire le console Sega sono gli unici ad aver goduto dalla scena multimediale durante gli anni d’un porting occidentale, anche se i contenuti Novanta, dopo essere rimasto orfano di sono stati ampiamente edulcorati (Last Battle manga e anime. Cavalcando l’onda del sucper Genesis, 1989) o totalmente snaturati cesso di Street Fighter II di Capcom (1991), in(Black Belt per Master System, 1986). fatti, Toei produce due beat ‘em up a incontri one on one per Super Famicom, intitolati Hokuto no Ken 6 (1992) e 7 (1993).

H o k u to n o K e n :

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a quasi trent’anni a questa parte, Hokuto no Ken rappresenta una figura mitologica tra gli appassionati di fumetto giapponese e non, ma è al tempo stesso un personaggio semplice, figlio del modo d’impostare i manga shounen proprio degli anni Ottanta. Si tratta di un approccio principalmente devoto a delineare in maniera accattivante le peculiarità del protagonista, badando poi allo sviluppo della trama e all’approfondimento psicologico dei personaggi. È con questo spirito che, nel 1983, Yoshiyuki ‘Bronson’ Okamura (sceneggiatore) e Tetsuo Hara (disegnatore) danno alla luce il manga Hokuto no Ken, caratterizzandolo attraverso l’Ho-

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kuto Shinken, la parossistica arte marziale utilizzata dal protagonista, capace di far esplodere i corpi degli avversari. A questa trovata originale, fanno da stuzzicante contorno un’ambientazione ultraviolenta, che strizza l’occhio al futuro postatomico del Mad Max filmico, e il design di Ken, capace di sintetizzare efficacemente le caratteristiche principali del machismo anni Ottanta (muscolatura ipertrofica, giubbotto in pelle, qualche tratto di Sylvester Stallone nei lineamenti). Si viene a creare, così, una miscela esplosiva, che scatena il delirio di massa tra i lettori di Shounen Jump, il settimanale dove viene pubblicato il manga. Nonostante sia fregiato da una cura quasi ossessiva per il detta-

glio e per la riproduzione realistica dei soggetti umani, il tratto di Hara risulta troppo statico per esprimere appieno le potenzialità espressive dell’Hokuto Shinken. È attraverso la serie animata del 1984 che l’arte marziale di Ken acquista pregnante dinamismo, grazie a sequenze di combattimento con centinaia di pugni scagliati a raffica, sottolineati da urla di battaglia in cui riverberano echi di Bruce Lee. Così, l’Hokuto Shinken assurge allo status iconico. Dopo sedici anni d’assenza, Ken torna a calcare la scena anime nel 2004, con Shin Hokuto no Ken, una miniserie di tre OAV, che adatta Jubaku no Machi, un racconto autoconclusivo, scritto da Bronson e illustrato da Hara.


Nel 2001, il sodalizio tra Bronson e Hara si rinnova con Souten no Ken, una sorta di prequel dell’opera originale, ambientato nella Shanghai degli anni Trenta, con protagonista un omonimo antenato di Kenshirou, fumatore incallito e imparentato con la Triade. L’idea di fondo è affascinante, ma si concretizza in maniera incerta, a causa di personaggi poco carismatici, una trama lenta e pervasa di buonismo pacchiano. Il manga è stato trasposto in anime nel 2008.

Due dei lungometraggi d’animazione del ciclo Shin Kyuuseishu Densetsu hanno avuto il lusso d’essere proiettati nelle sale cinematografiche italiane, tra il 2008 e il 2009, grazie alla sinergia di Yamato Video, Dolmen Home Video e Mikado Film. Un trattamento forse troppo generoso per pellicole qualitativamente inferiori al film d’animazione Hokuto no Ken del 1986.

di Piero Ciccioli

il Mito di un Uomo Semplice L’opera cartacea non offre materiale a sufficienza per dar piena sostanza a tre mediometraggi di quasi un’ora, i quali, di conseguenza, presentano una trama piuttosto diluita. Essi, però, hanno il pregio di rendere le sequenze di combattimento in maniera assai spettacolare, indugiando sui dettagli più brutali, come le esplosioni dei crani dei nemici, disegnate e animate con genuino gusto splatter. In tal senso, l’Hokuto Shinken si riconferma essere il padrone della scena, prima ancora del tratteggio dei personaggi o della narrazione stessa. Tale filosofia viene stravolta nel 2005, attraverso i tre film d’animazione e i due OAV della serie Shin Kyuuseishu Densetsu. Pensati per rilanciare il franchise Hokuto no Ken, questi anime si risolvono in uno scomposto pastiche di ele-

menti presi di peso dalla sceneggiatura del manga originale e rivisitati sotto un’ottica edulcorante, che riduce al minimo il numero degli scontri e ne depotenzia radicalmente gli aspetti più cruenti. A tale operazione fa da desolante contrappunto l’introduzione di inedite digressioni dal sapore introspettivo, nate con l’intenzione di conferire maggior spessore ai personaggi, ma che finiscono solo per stridere con il contesto generale, senza aggiungere nulla. Spogliata degli aspetti più carismatici dell’Hokuto Shinken e snaturata da sterili velleità di approfondimento psicologico, l’efficace semplicità di Ken sfuma nella banalità. Non ottiene risultati migliori Raou Gaiden: Ten no Haou, serie anime del 2008, ispirata all’omonimo manga spin-off incentrato

sull’ascesa al potere di Raou, fratellastro e principale antagonista di Ken. L’opera cerca di ricondurre forzatamente l’universo Hokuto no Ken ai più recenti stilemi del genere shounen, caratterizzati da un design delicato, abbinato a sceneggiature imperniate sulle relazioni interpersonali tra i vari personaggi. L’esperimento ha esiti grotteschi, traducendosi in una sorta di dramma adolescenziale in salsa post-apocalittica, dove gli attori principali hanno improbabili lineamenti da teenager. Questa è forse la più piena espressione dell’impietoso cambiare dei tempi, capace di impedire al dominatore dei manga anni Ottanta di ricevere una felice incarnazione nel Terzo Millennio.

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Piattaforma: XBOX 360, PS3, PC Sviluppatore: Ubisoft Montreal Produttore: Ubisoft Versione: PAL Provenienza: Canada

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o ammetto. Le aspettative che nutrivo su Assassin’s Creed: Brotherhood erano molto basse, così come il mio entusiasmo quando l’ho cominciato. Pur avendo apprezzato i primi due capitoli, ho sempre pensato che l’azione fosse troppo diluita e non

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Brotherhood è ambientato quasi interamente a Roma, ricostruita in modo convincente e con tutti i suoi principali monumenti. Il Pantheon è da commozione

Quanto sei bella

roma

di Antonio Lanzaro

risultasse mai veramente divertente. Il problema, secondo me, non stava nelle idee sulle quali è basato il sistema di gioco, ma nel come queste idee venivano implementate. I combattimenti non avevano profondità, le straordinarie capacità motorie del protagonista non venivano quasi mai messe al servizio del gameplay, gli assassinii spesso si traducevano in una dinamica banale che solo raramente costringeva a dover pensare alla giusta strategia da adottare per avvicinarsi al bersaglio. Con tali premesse, ero convinto

che un seguito diretto di Assassin’s Creed 2 potesse essere, nella migliore delle ipotesi, godibile nelle prime ore di esplorazione della nuova città – Roma è stupenda per poi perdersi nella noia assoluta delle sue meccaniche. Mi sbagliavo. Brotherhood, prima ancora di aggiungere elementi, fa una cosa molto più importante: snellisce. Ubisoft ha deciso di lavorare di cesello, sfrondando il gioco del superfluo e concentrandosi sul cuore delle meccaniche, che mai erano risultate così ben messe a fuoco e divertenti. Questo risultato viene


ottenuto costringendo il giocatore a giocare bene, premiando la pianificazione e condannando senza appello l’improvvisazione. ad esempio, in alcune missioni non è permesso allertare le guardie, pena la condanna a ricominciare da capo. ogni missione presenta anche un obiettivo secondario che deve essere rispettato se si vuole la

giungere una componente multigiocatore a una serie storicamente single player poteva sembrare come una mera operazione commerciale, un piegarsi alle crude leggi del mercato. E invece la sezione multiplayer di Brotherhood non sembra messa lì a caso, anzi. ogni giocatore dovrà assassinare un avversario, le cui sembianze vengono rivelate in un

“Brotherhood, prima ancora di aggiungere elementi, fa una cosa molto più importante: snellisce” sincronizzazione del ricordo completa al 100%. anche questa idea si rivela vincente, perché spesso la condizione da rispettare non è banale da ottenere e costringe il giocatore a scegliere con cautela la strategia da adottare. Le poche novità introdotte si rivelano azzeccate, come la possibilità di potere reclutare e formare nuovi assassini, che potranno essere chiamati con un fischio alla pressione di un tasto e che uccideranno qualunque bersaglio verrà loro indicato . Gradevole il minigioco associato alla crescita delle abilità degli assassini assoldati. La storia principale, dalla durata non eccessiva, è ben raccontata, risultando coraggiosa nel mettere a nudo la corruzione che ai tempi coinvolgeva anche la Chiesa. Di contorno vi sono una miriade di missioni secondarie, oltre alle immancabili piume e bandiere da raccogliere e collezionare, con le relative mappe in vendita presso i numerosi mercanti d’arte. ma la sorpresa forse più inattesa viene dal multiplayer. ag-

riquadro in sovraimpressione. Un radar indica la distanza e la direzione in cui si trova l’obiettivo. Contemporaneamente, però, ogni giocatore è anche l’obiettivo da assassinare di altri giocatori. Questa doppia esigenza di rincorrere e fuggire allo stesso tempo fa nascere partite sempre divertenti, rese ancora più appassionanti da un sistema di punteggio che non premia solo il numero di uccisioni e di fughe, ma anche la loro qualità e spettacolarità. Vengono infatti assegnati punti bonus quando si eseguono uccisioni silenziose, o da un nascondiglio, o rispettando svariati altri parametri. Qualora individuasse il proprio potenziale assassino, la preda dovrà provare a seminarlo e nascondersi, mentre l’assassino dovrà portare a termine la propria uccisione prima che il suo obiettivo si dilegui nel nulla, pena la perdita dell’incarico. a conti fatti, il multiplayer si rivela ben più di una piccola aggiunta, rischiando di diventare per qualcuno la portata principale dell’offerta.

Roma è disseminata di torri dei Borgia, che potremo incendiare per eliminare l’influenza dei Borgia da quella zona

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P

er quanto oggi si stia occupando prevalentemente di interpretare movimenti bislacchi da parte di gente per lo più turbata, il gruppo di sviluppatori conosciuti come Rare gode ancora di quel glorioso alone di intoccabilità mistica attribuibile solo a chi ha scritto pezzi di storia del videogioco. Con tale pesante fardello i Retro Studios, graziati nel curriculum dal miracoloso ripescaggio metroidiano, hanno dovuto affrontare la realizzazione del nuovo Donkey Kong, l’ultimo platform prodotto da chi, tra i grandi nomi del panorama attuale, i platform li sa ancora fare. Ben distante dalla coraggiosa riproposizione che vide Samus guadagnare un’intera dimensione spaziale, Donkey Kong Country Returns si configura come un vero e proprio seguito in linea con la tri-

logia passata. Gli adeguamenti meccanici necessari a renderlo fruibile al giorno d’oggi sono prevedibilmente da ricercarsi nel sistema di salvataggio (ora automatico alla fine di ogni livello) e nella presenza di segreti che vanno al di là del seriale reperimento di vite extra.

L’immaginario estetico pennellato dai Retro non si discosta dagli standard della serie o dai canoni del genere: a un contesto per lo più tribale si va a sostituire ora il tempio antico, ora la miniera abbandonata, ora le assi scricchiolanti di un galeone o le profondità roventi di un vulcano. Per quanto

I pattern ripetitivi dei boss sono la parte più debole de gioco

Piattaforma: Wii Sviluppatore: Retro Studios Produttore: Nintendo Versione: PAL Provenienza: Giappone

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Retrogaming con

di Paolo Savio

banana


Una delle molte parti genuinamente esaltanti

L’azione si sviluppa anche su piani a differente profondità

alcune scenografie prestino il fianco a una ripetizione concettuale (dopo il setting “foresta” compare quello “giungla”), l’impressionante modellazione di ogni elemento in scena rimane solo un lodevole contorno alla splendida varietà di situazioni e acrobazie richieste per guadagnare il traguardo di ogni segmento. Il sapore amarcord dell’opera è garantito, oltre dalle eccellenti musiche remixate dai precedenti episodi, dal valore citazionistico di alcuni ritorni come Cranky, il rinoceronte Rambi, e le scorribande sui carrelli minerari. Per contro stupisce l’assenza di alcune caratteristiche tipiche della serie come i livelli con illuminazione dinamica, quelli subacquei o la possibilità di controllare personaggi aggiuntivi; sebbene Kong possa sin dai primi momenti contare sull’aiuto di Diddy sotto

“Nell’epoca del quicksave tornare ai checkpoint dilatati, al trial & error forsennato e a quel dannato contatore delle vite,[...]non è un’esperienza facilmente digeribile da chiunque” forma di energia aggiuntiva e comodo Jetpack, sarà solo con la presenza contemporanea di un secondo giocatore umano che il giovane scimmiotto diventerà giocabile a tutti gli effetti. La puntualità straordinaria di ogni singolo elemento messo in gioco risulta evidente affrontando un livello in modalità time attack, dove si potrà constatare il certosino posizionamento di ogni elemento per fare in modo che il giocatore sfrutti ogni rimbalzo sul nemico, salto millimetrico e rotolata per arrivare in fondo senza quasi mai arrestare la sua corsa. Una sfida completamente accessoria ma che garantisce ore di studio, impegno e divertimento aggiuntivo a chi voglia scavare a fondo nell’impegno profuso dai Retro Studios.

a tal proposito non si può non ritenere fallimentare la scelta di rendere obbligatorio l’utilizzo di input motori nel controllo del protagonista. Per quanto si lotti con le impostazioni, non si troverà nel menù una configurazione che permetta di eludere la necessità di agitare il wiimote per eseguire alcune elementari azioni (come la rotolata), a completo detrimento della precisione richiesta in alcuni millimetrici passaggi. In più, nell’epoca del quick-save tornare ai checkpoint dilatati, al trial & error forsennato e a quel dannato contatore delle vite, decrescente anche in misura di 10 o 15 per livello quale inesorabile manifesto della propria inadeguatezza, non è un’esperienza facilmente digeribile da chiunque. Ciò nonostante Donkey Kong Country Returns riesce nello straordinario intento di nascondere la sua peluria brizzolata sotto una cortina di eccellente qualità, diventando quindi un’ulteriore tacca nella lista di successi di Retro Studios, gruppo americano nelle origini, giapponese nel mestiere, e profondamente nintendo nel cuore.

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vesna va

veloce

di Andrea Chirichelli

Piattaforma: XBOX 360, PS3 Sviluppatore: Criterion Games Produttore: EA Versione: PAL Provenienza: USA

N

eed for Speed è un brand in giro da un po’. I videogiocatori over 30 potrebbero persino associarne la nascita al 3DO, quella console valida ma un po’ sfigata che aprì le porte della multimedialità, inciampando purtroppo sul primo gradino di una scala che venne percorsa a perdifiato da Sony con la sua PlayStation. Apparso nel 1994 per il costoso giocattolo di Trip Hawkins, il deus ex machina di EA e 3DO, il gioco rappresentava uno dei pochi motivi di reale invidia che potessero provare gli utenti di Snes e Megadrive nei confronti degli early adopters di quella console. Ritmo di gioco frenetico, repliche perfette di dreamcar reali, inseguimenti con le macchine della polizia: un arcade duro e puro ma capace anche di garantire un certo tasso di realismo. Fastforward al 2010. È passata quasi una generazione (di esseri

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umani, non di console) e Need for Speed è ancora qui, con il quindicesimo episodio della saga riverniciato ad opera di Criterion, i padri di Burnout. E sembra di essere tornati a 16 anni fa. Criterion spoglia il gioco di ogni orpello accumulato nel corso del tempo e propone due modalità di gioco: una in cui si insegue e una in cui si viene inseguiti, il che dà al titolo un certo spessore metaforico sul quale ci si potrebbe anche fermare a riflettere... se non si fosse travolti dall’adrenalina e dal senso di velocità che trovano in Hot Pur-

suit una piena e soddisfacente rappresentazione. Che si interpreti la guardia o il ladro, c’è di che divertirsi. 108 gare, divise in missioni da ricercato o poliziotto, che gratificano il giocatore elargendo onorificenze, permettendogli di sbloccare item da usare in gara, nuovi eventi e, ovviamente, altre macchine. Abbandonata la struttura aperta (affascinante, ma piuttosto dispersiva) di Burnout Paradise, Criterion erige dal nulla Seacrest County, dove si passa senza soluzione di continuità da


spiagge di Outrunniana memoria a fitte foreste e montagne innevate che richiamano alla memoria Alan Wake e Twin Peaks. La trovata geniale, il climax dell’esperienza ludica, la quadratura del cerchio, la punizione di Maradona all’incrocio dei pali, è però l’Autolog: un’intuizione tanto semplice quanto efficace che prende il meglio dal gioco online (il confronto con i propri amici) liberando l’utente dal fardello di essere presente in un certo giorno e a una data ora per confrontarsi dal vivo con gli altri. Nessuna chat o lobby, solo il gusto di confrontare i propri tempi con gli avversari e lanciare loro delle sfide all’ultimo centesimo. Per i meno misantropi, ovviamente, c’è l’online vero e

proprio, realizzato in modo eccelso. Dopo la pubblicazione del primo trailer del gioco, i forum ludici di mezzo mondo brulicavano di fan della saga sorpresi dall‘apparente assenza di curve e dalla eccessiva linearità dei tracciati proposti. Dubbi fugati: Seacrest County offre strade asfaltate, sterrate, scorciatoie, paraboliche, cunicoli in cui cercare di guadagnare quel mezzo secondo in più che può portare alla vittoria. “Varietà” pare essere la parola d’ordine suggerita da Criterion ai piloti: la vetture si differenziano per potenza e velocità, gli eventi spaziano da gare standard a prove cronometrate, gli item utilizzabili durante le missioni poli-

ziesche permettono un approccio strategico inusuale per un titolo corsistico e, cosa più importante fra tutte, il bilanciamento della difficoltà è impeccabile. Solo in rare occasioni avrete il desiderio di lanciare il pad contro il muro e, anche in quel caso, sotto sotto saprete che è stata colpa vostra. Siccome la perfezione non è di questo mondo, anche Hot Pursuit ha alcuni piccoli difetti. Nelle corse poliziesche, ad esempio, molto spesso le volanti si concentrano solo ed esclusivamente sul primo in classifica, ignorando bellamente chi sta dietro. E la soundtrack... beh, può non essere nelle corde di tutti. Dettagli, che non impediscono a Need for Speed: Hot Pursuit di reclamare il trono di migliore arcade racing di sempre.

“Need for Speed

è ancora qui, con il quindicesimo episodio della saga riverniciato ad opera da Criterion, i padri di Burnout. E sembra di essere tornati a 16 anni fa” PLAYERS 01 PAGINA 107


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u

n Gran Turismo 5 come si conviene costerebbe almeno seicento euro, a voler essere parsimoniosi. Solamente se si è disposti a spendere una cifra tanto considerevole per l’acquisto di gioco, volante+pedaliera e playseat anatomico (il minimo bundle indispensabile), infatti, la summa videoludica del Kaz(unori Yamauchi) muta nell’estasi suprema che è propria dell’idillio dell’automobile simulata. Accessoriato di gran carriera, così, Gran Turismo 5 si prostituisce totalmente al massaggio stimolante che corrobora lo spirito e tonifica i bicipiti del buon pilota virtuale, mentre questo è già aggrappato al pellame di un G27 che scalcia animato. Mosso dai chiaroscuri di Deep Forest, dalle ripide pendenze del Nürburgring Nordschleife o dall’inverosimile parabolica di Cape Ring, il ghigno beota che Gran Turismo 5 stampa in volto è esattamente quello di Jeremy Clarkson

Trial Mountain – fuori dall'uscita dalla lunga galleria c'è tutta madre natura che aspetta, per meravigliare il giocatore ancora una volta, come fosse la sua prima tornata.

Piattaforma: PS3 Sviluppatore: Polyphony Digital Produttore: Sony Versione: PAL Provenienza: Giappone

di Lorenzo Antonelli

The Real Driving

STiMuLAToR PLAYERS 01 PAGINA 108


Accessoriato di gran carriera, così, Gran Turismo 5 si prostituisce totalmente al massaggio stimolante che corrobora lo spirito e tonifica i bicipiti del buon pilota virtuale

(Top Gear), compiendo con questo esorcismo mimico la simulazione stessa del concetto di grandissima figata. C‘è facilmente, in Gran Turismo 5, una perfezione e insieme l’essenza dell’origine, una vivida brillantezza e la trasformazione del virtuale in materia, di ciò che è digitale in autentica pulsazione cardiaca, di bit in chilogrammetri, di codici in supermescola, di astrusi calcoli computazionali in cavalli vapore, e, per dirla tutta, un rombo interiore che appartiene all’ordine del meraviglioso. Il titolo di Polyphony Digital è visibilmente esaltazione di trazione e aderenza, mentre il raffinato aspetto che ne definisce le forme ne è solo la base, il debito e necessario contesto corsaiolo. Sebbene non manchino imperdonabili magagne tecniche (intelligenza artificiale inebetita come sempre, fisica dei contatti à la Media Molecule, caricamenti da diventare vecchi e ingiustificabili obbrobri cosmetici per cinque lunghi anni di sviluppo), non serve certamente una recensione minuziosa per affermare a gran voce che Gran Turismo 5 va ac-

quistato a priori, per devozione o anche solo per entusiasmarsi in solitario contro il cronometro. Una sommaria pignoleria, in ogni caso, imporrebbe al recensore di questo titolo di segnalare quantomeno l’introduzione del nuovo tracciato di Monza (con o senza varianti) e Roma (con tanto di Colosseo), di Piazza del Campo sui kart, di una modalità fotografica in 3D, di un approssimativo editor di tracciati, di una ringalluzzita modalità B-Spec (variante manageriale del gioco), di tutta la scuderia del cavallino rampante al gran completo (inclusa la F458 Italia da 283.000 Cr.), delle migliori Lamborghini, delle nuove competizioni Nascar e Rally, della possibilità di gareggiare online fino a sedici partecipanti (non sarà certo pratico come il Live di Xbox, ma ci si accontenta, anzichenò), oltre che 1000 modelli di auto, 70 tracciati (quelli storici, creati appositamente da Polyphony nel 1997, si rinnovano oggi nello splendore) e persino la possibilità di sfruttare il PlayStation Eye per guardarsi attorno con tutta la naturalezza di un gesto.

L’imprescindibile monito da tenere a mente - e qui si ritorna al punto iniziale - è solo quello di non guidarlo mai col joypad, ma proprio mai. L’avvertimento è onesto e oltremodo serio, perché c’è più gusto nel controllare Pac-Man Championship Edition DX, piuttosto che guidare Gran Turismo 5 col joypad. Cedere alla tentazione della guida disimpegnata via stick analogico, sarebbe un po’ come mangiare gli spaghetti col cucchiaio o il sushi col martello: il gusto si annichilisce per l’insana scomodità dell’atto. Se però il coglione se ne frega, afferra con le mani e ingoia tanto per saziarsi, il pilota esigente sa bene che… un Gran Turismo 5 come si conviene costerebbe almeno seicento euro, a voler essere parsimoniosi. Allora sappia che per tanto denaro non si acquista solamente il miglior simulatore di guida per console, ma un orgasmo prolungato, illimitato, per godere come veri campioni. Appunto, The Real Driving Stimulator: guidatelo responsabilmente, altrimenti andate a giocare a pallone.

Quando il triplo terminale di scarico di una Ferrari 458 italia urla di piacere, quello non può non essere che un giorno perfetto!

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Una delle trasformazioni più letali di kirby: un carro armato che spara missili ai malcapitati nemici

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kIrby e la stoffa dell’eroe Piattaforma: Wii sviluppatore: Hal laboratory Produttore: Nintendo Versione: Usa Provenienza: Giappone

Yarns that

bind

di Alberto Li Vigni

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nche se probabilmente negli ultimi anni questo aspetto è stato evidenziato maggiormente, nintendo ha sempre cercato di accontentare grandi e piccini. non solo per quanto riguarda l’immediatezza del gameplay, che ha reso i propri titoli fruibili a qualsiasi utenza, ma anche per i suoi universi, situati a metà tra l’immaginario dell’infanzia e la nostalgia degli adulti. Kirby e la stoffa dell’eroe non fa eccezione, proponendoci una nuova avventura dove potremo esplorare un mondo di tessuto che sembra essere stato interamente cucito a mano. Tale artifizio visivo influenza anche il gameplay: stavolta Kirby dovrà affrontare i suoi nemici disfando i fili che li tengono insieme, nonché interagire con l’ambiente rimuovendo bottoni per svelare luoghi nascosti o muovere piatta-

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forme. Un’altra caratteristica inusuale è la necessita di dover cambiare piano di gioco per esplorare alcune delle locazioni presenti sullo sfondo. Tra un salto e l’altro potremo anche usare diversi veicoli, tra cui spicca un’astronave capace di risucchiare i nostri poveri avversari e un trenino a cui disegnare le rotaie con il wiimote. il pacchetto è completato da una modalità cooperaI boss sono molto spettacolari ma abbatterli è quasi sempre questione di pochi minuti

tiva, diversi mini-game e la possibilità di arredare la Kirby-cameretta raccogliendo mobilia varia nei livelli. Tutto qui, davvero. Kirby e la stoffa dell’eroe è un platform estremamente semplice nelle meccaniche, particolarmente indicato per il casual gamer, il quale apprezzerà certamente la simpatia della componente grafica, il basso livello di difficoltà e il multiplayer. Questo non vuol dire che non ci sia carne al fuoco anche per gli appassionati, visto l’impegno richiesto per sbloccare gli stage segreti e ottenere un punteggio soddisfacente. in ultima analisi, Kirby e la stoffa dell’eroe, pur non potendo vantare un gameplay particolarmente complesso o innovativo, costituisce un’ottima new entry in un genere già rappresentato su Wii da Super Mario Bros Wii, Donkey Kong Country Returns ed Epic Mickey.


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Poteva mancare il bungee jumping senza corda? Adolescenti a ogni costo!

cALL OF DUTy: BLAck OPS

La guerra che

Piattaforma: XBOX 360, PS3, Wii, DS Sviluppatore: Treyarch Produttore: Activision Versione: PAL Provenienza: USA

non c’e’ di Simone Tagliaferri

I

videogiochi non sanno raccontare la guerra. Appena abbandonano il terreno del fantasy o della fantascienza sembrano osare troppo, o non volere osare abbastanza, e scadono nella miseria scenografica più cupa. La guerra videoludica è, generalmente, uno scontro continuo contro goblin o alieni travestiti da soldati di diFidel e la sua puttana. Lui la tiene come ostaggio, ma quando viene colpito in testa, lei impugna la pistola per sparare al giocatore. Sarà la sindrome di Stoccolma...

verse fazioni (vedi anche l’ultimo, pessimo Medal of Honor). Call of Duty: Black Ops è la summa dell’incapacità di raccontare un contesto e di comunicare al giocatore il senso di ciò che sta facendo, al di là del piacere umorale di abbattere modelli poligonali antropomorfi in movimento. Durante il gioco s’interpretano i ruoli di vari soldati in situazioni di guerra differenti, ma a conti fatti non c’è alcuna distinzione tra il tentare di ammazzare Fidel castro o l’annientare i nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le differenze sono meramente superficiali e servono soltanto a regalare varietà visiva al prodotto, dando al giocatore quello che si aspetta in termini esclusivamente epidermici. Lì dove un’insurrezione con decine di morti diventa uno spettacolo barocco, utile per affermare la retorica della libertà da centro

commerciale, o lì dove una citazione da Il Cacciatore di Michel cimino viene violentata per fare vedere quanto gli americani siano eroici e sprezzanti della morte (e il nemico indistintamente crudele), diventa impossibile raccontare altro se non il ripiegarsi onanistico del fruitore sulla propria arma, la quale diventa lo specchio dei valori trasmessi dal suo agire, che volontariamente o involontariamente è costretto a condividere per potere andare avanti. In tutto questo la guerra scompare, quella stessa guerra che il cinema, la letteratura e le altre arti hanno provato e provano a raccontare nei suoi aspetti più cupi e drammatici, diventando la solita messa in scena bidimensionale dello scontro tra il bene e il male, narrato da una prospettiva solida e anacronistica.

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videogiochi | review L’agente dell’FBI Francis York Morgan è caratterizzato benissimo e più di una volta ci porterà alla mente l’agente Cooper di Twin Peaks

deadLY PreMoNITIoN

un capolavoro non

annunciato di Antonio Lanzaro

B

astano pochi secondi a Deadly Premonition per creare un’atmosfera densa e surreale. Due gemellini passeggiano col nonno nel parco di Greenvale, tra i boschi di abeti di Douglas, quando si imbattono nel cadavere di una giovane donna. Le musiche sottolineano il momento drammatico ed è chiaro fin da subito che saranno protagoniste. Il tema principale è struggente, con un cantato appena accennato che gela il sangue. Nei panni di uno stralunato agente federale saremo chiamati a fare luce sul delitto e sui misteri che circondano Greenvale e i suoi abitanti. È evidente che Twin Peaks abbia esercitato una pesante influenza su Access Games nella realizzazione di Deadly Premonition. Basti citare l’atmosfera surreale, la trama con risvolti mistici che si presta a più di un livello di lettura,

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il cast di personaggi malati e decadenti ma allo stesso tempo disperatamente buffi, proprio come accadeva nel capolavoro di Lynch. L’ispirazione, però, non scade mai nello scimmiottamento e il gioco riesce sempre a mantenere una propria personalità, forte e decisa, che riesce a incollare allo schermo fino all’illuminante finale. Sezioni di esplorazione si alternano a sezioni d’azione, dove talvolta dovremo confrontarci con l’assassino in persona. Questi incontri ravvicinati riescono magnificamente a trasmettere l’adrenalina e il pathos del momento, costringendoci a scappare e a cercare un nascondiglio. Lo schermo viene diviso in due parti distinte per inquadrare la scena dal punto di vista dell’agente e da quello dell’assassino, e la musica incalzante aggiunge tensione. Non sarà una rivoluzione nel ga-

Piattaforma: XBoX 360, PS3 Sviluppatore: access Games Produttore: rising Star Games Versione: PaL Provenienza: Giappone

meplay, ma funziona benissimo. Deadly Premonition è coraggioso e sfrontato, così sicuro di sé e di ciò che ha da dire da permettersi il lusso di proporsi al pubblico con una realizzazione tecnica mediocre, eppure risultando superiore a molti titoli più acclamati. Ad un gioco che sa coinvolgere così intensamente si perdona volentieri qualche marginale difetto. Nonostante la scadente realizzazione tecnica, la pioggia trasmette in modo convincente il senso di umido e bagnato


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NBA 2K11

Il ritorno

del re

di Emilio Bellu

Piattaforma: XBOX 360, PS3, PC Sviluppatore: 2K Sports Produttore: Take 2 Interactive Versione: PAL Provenienza: USA

L

’arte cerca sempre di riprodurre la storia. Cinema e letteratura hanno dato vita a innumerevoli opere dedicate a fare rivivere le pietre miliari del passato per dare una nuova prospettiva al presente. Ma spesso è impossibile dedicarsi a eventi recenti per questioni legali e proprio per questo motivo Michael Jordan è apparso in pochissimi videogiochi. Quando 2K Sports ha ottenuto l‘autorizzazione a utilizzare l’immagine del dio del canestro, ha deciso di fare il possibile per riproporre i momenti più salienti della sua carriera. Il risultato è la Jordan Challenge di NBA 2K11, una modalità che permette di giocare dieci delle partite più importanti del giocatore, e di conseguenza della storia dell’NBA. la qualità della ricostruzione delle performance di Jordan ha qualcosa di ossessivo. 2K Sports ha riprodotto tutte le mosse che l’hanno reso più famoso, i suoi manierismi, l’esatto movimento del suo tiro a canestro. Non è una ricerca del particolare fine a sé stessa: è il

riconoscimento della forza di quello che è considerato come l’atleta migliore di sempre, con la sua grazia e la sua determinazione. Il basket, soprattutto in televisione, è uno sport che si guarda da vicino, che esalta le capacità individuali. e nel mettere in scena con precisione lo stile di Jordan e di centinaia di suoi colleghi, NBA 2K11 ha catturato l’anima di questo gioco. e oltre la Jordan Challenge, la modalità principale di NBA 2K11 continua l’ottima tradizione della serie nel ricostruire il presente del campionato statunitense. Anche in questo caso l’attenzione al dettaglio nel riprodurre la realtà va a vantaggio dell’esperienza: ogni squadra ha uno stile di gioco completamente diverso e capire in che modo affrontare ogni avversario è come giocare un nuovo puzzle game. NBA 2K11 è la dimostrazione che realtà e gameplay possono contribuire a creare qualcosa di grandioso. In questo caso, il miglior videogioco mai realizzato sulla pallacanestro.

L’atmosfera degli stadi è ottima, aiutata dalla grande attenzione verso l’audio

La precisione delle animazioni stupisce anche dopo decine di partite

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MUSICA

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Vista l'entità dei costi da sostenere (parliamo, sul lungo periodo, di migliaia di euro), crediamo che chiedere un aiuto ai nostri fan sia il modo più sincero per stabilire una connessione con l'audience: tutto quello che riceveremo tornerà indietro – gratuitamente – in contenuti di qualità, e, si spera, anche in una forma tecnologicamente al passo con i tempi. La campagna è stata divisa in più parti per favorire il raggiungimento di obiettivi intermedi che ci permettano di monitorare la sostenibilità economica del progetto. Ogni donazione sopra i 10€ sarà ricompensata con la lista di bonus sottostanti. Donate e vi sarà dato!

PER € 1 O PIÙ + la nostra eterna stima e riconoscenza: ogni grande risultato si ottiene a piccoli passi!

PER € 10 O PIÙ + Download gratuito dei nuovi numeri in PDF 15 giorni in anteprima rispetto a tutti gli altri + copertina riservata ai donatori + badge "donatore" di livello 1 sul forum

PER € 20 O PIÙ + Download gratuito dei nuovi numeri in PDF 15 giorni in anteprima rispetto a tutti gli altri + copertina riservata ai donatori + donatori ringraziati su pagina interna della rivista a lettere cubitali + badge "donatore" di livello 2 sul forum

PER € 50 O PIÙ + Download gratuito dei nuovi nu-

meri in PDF 15 giorni in anteprima rispetto a tutti gli altri + copertina riservata ai donatori + donatori ringraziati su pagina interna della rivista a lettere cubitali + possibilità di richiedere un articolo scritto dalla Redazione su un'argomento di vostro interesse (max 4000 caratteri)* + badge "donatore" di livello 3 sul forum * Da concordare via mail con la Redazione. Consultare FAQ per esempi.

PER € 100 O PIÙ + Tutto quanto elencato in precedenza più: + l'articolo a richiesta può salire fino a 8000 caratteri* + ospitata esclusiva su uno dei podcast audio gestiti dalla redazione, come ad esempio RingCast, Outcast, Il Tentacolo e ArsLudicast (vedi FAQ)** + badge "donatore" di livello 4 sul forum * Da concordare via mail con la Redazione. Consultare FAQ per esempi. ** Da concordare con chi conduce il podcast


FAQ DONATORI Players è un magazine che punta a stabilire un rapporto speciale con la propria audience. La rivista sarà distribuita gratuitamente, ma chi deciderà di supportare economicamente la nostra iniziativa avrà diritto a numerosi bonus ed incentivi. Questa sezione si propone di rispondere alla domande più comuni e spiegare in dettaglio il funzionamento dei bonus. Nel caso non trovaste quello che state cercando, contattateci all'indirizzo info@playersmagazine.it. La nostra raccolta fondi è raggiungibile cLIccandO quI. come funziona il sistema di donazioni a Players? Il sistema di donazioni di Players funziona tramite una piattaforma chiamata Ulule, che ci consente di effettuare operazioni più complesse di un semplice bottone PayPal. Oltre ad avere una presentazione migliore e una chiara visualizzazione delle ricompense per i donatori, Ulule funziona con un sistema "a promessa". Quando voi offrite di donare, per esempio, 10€, quello che state facendo è in realtà una "promessa" che fa avanzare di un pochino la barretta verso il goal che ci siamo prefissati, chiaramente visibile sul sito. Affinché Players riceva le donazioni, è necessario che il goal venga raggiunto nel tempo stabilito (45 giorni). Se ciò non dovesse accadere, nessuno di voi pagherebbe una lira, in quanto i soldi vengono prelevati solo a goal raggiunto. questo significa che riceverò le ricompense solo a raccolta fondi conclusa? Dipende. Bonus come i badge speciali sul forum e la rivista in anteprima vi vengono consegnati nel giro di qualche ora. Incontri personali e altri bonus "fisici" solo al raggiungimento dell'obiettivo (non possiamo infatti investire fondi senza la certezza di avere un rientro). Nel caso il goal non venga raggiunto, manterremo le ricompense acquisite a quanti si impegneranno a mettere la stessa cifra nella raccolta successiva. come posso pagare con ulule? Ulule accetta PayPal, semplicemente i soldi che deciderete di donare non vi vengono scalati immediatamente ma a raccolta fondi conclusa. Per lasciare la tua donazione, segui questi semplici step: 1. Clicca sulla donazione che vuoi effettuare e confermala nella pagina successiva, eventualmente modificando l'importo in alto. Clicca Next Step. 2. Spunta i due box sul fondo della pagina, poi scegli "I already have a PayPal account and I confirm my support" se hai già un account PayPal, o il bottone di sinistra se non hai ancora un account. 3. Nella schermata successiva, ti verranno chiesti i dati PayPal. 4. Controlla i dati e clicca "Approva". 5. Nell'ultima pagina, potrai lasciare un commento che ci arriverà via email: gentilmente lasciaci tutti i dati relativi alla ricompensa che stai richiedendo (nick sul forum, richieste particolari ecc.). Trovi tutti i dettagli nel resto di questa FAQ.

lungo: facciamo del nostro meglio per mettere insieme i migliori giornalisti italiani e gli argomenti più interessanti. Nessuno dei collaboratori viene retribuito per i contenuti creati, e per partecipare sottrae tempo e risorse ad altri progetti. Nonostante la volontà di lavorare gratuitamente, è però evidente che non ce la sentiamo di gestire una rivista in perdita costante: un aiuto da parte vostra ci permetterà almeno di coprire le spese, diffondere il magazine e, sul lungo periodo, di avere una rivista a prova di futuro. Inoltre, a partire dalla donazione di 10€, i donatori potranno ricevere i numeri nuovi in PDF 15 giorni in anticipo rispetto al pubblico non pagante, con copertine esclusive (senza titoli, o diverse da quella standard) e, in futuro, anche con contenuti non disponibili nella versione standard. non ci sono bonus per una donazione inferiore ai 10€? No, se non la nostra eterna riconoscenza. L'idea è stimolarvi ad un minimo investimento in cambio di contenuti di qualità. Ogni contributo sarà comunque apprezzato, a seconda delle vostre possibilità. Posso effettuare più donazioni ed ottenere più ricompense? Sì, ma la procedura è più complessa. Seguite i punti successivi con attenzione: 1- Effettuate la prima donazione e procedete come descritto al paragrafo "Come posso pagare con Ulule?" 2- Per effettuare una seconda donazione, tornate su Ulule e selezionate il blocco "For 1€ or more". 3- Una volta all'interno, modificate l'importo di 1€ che vedete in alto nella cifra che volete donare e spuntate l'opzione "I do not want any reward" (fra poco capirete perché). Per questioni pratiche, è bene che queste integrazioni raggiungano almeno la ricompensa successiva a quella che già avete. Ad esempio, se la prima volta avete donato 20€, sarebbe ideale che "l'integrazione" raggiungesse la ricompensa successiva (fissata a 50€). Quindi, nel caso specificato, dovreste modificare l'importo in 30€ (50€-20€). Procedere per microdonazioni è possibile ma rende molto complesso tenere aggiornati i registri di chi ha contribuito cosa. 4- Una volta effettuato il pagamento, lasciate scritto nel campo note: chi siete, quale donazione avete fatto in precedenza, quale avete appena effettuato e il vostro nick sul forum. Se riceveremo tutti i dati correttamente provvederemo ad integrare la ricompensa precedente con quella nuova nel giro di qualche ora. In caso di difficoltà, scriveteci a info@playersmagazine.it.

Perché avete in mente diverse parti per la raccolta fondi? Perché ogni raccolta fondi ha un limite temporale massimo, o nessun soldo viene prelevato dai conti dei donatori. Vogliamo essere certi di poter raggiungere obiettivi intermedi realistici. Inoltre il feedback che ci date sulle ricompense ci permette di modificare le raccolte successive per venire più incontro ai vostri gusti.

come funziona il download dei PdF dei nuovi numeri in anteprima per i donatori? Il download del PDF avviene tramite la nostra homepage, cliccando sul pulsante "Anteprima PDF Donatori", oppure dall'Archivio PDF, accessibile cliccando sul pulsante "Scarica il PDF gratuito". I numeri in anteprima sono disponibili per 15 giorni esclusivamente ai donatori. Se sei un donatore, il tuo account sul forum di Players sarà associato con la possibilità di scaricare i PDF in anteprima. Se ancora non hai un account, è arrivato il momento di crearne uno! Lasciaci nelle note della donazione il nick con cui ti sei registrato al forum o comunicacelo a info@playersmagazine.it dopo aver effettuato la registrazione. Entro 24 ore verrai aggiunto ad un gruppo speciale con i permessi per scaricare i PDF dei nuovi numeri in anteprima.

Perché dovrei farvi una donazione se la rivista è distribuita gratuitamente? Per supportare un progetto che ti piace, in primo luogo. Se nessuno decidesse di supportarci, Players probabilmente non potrebbe continuare a

Perché i PdF in anteprima sono marchiati? Perché le copie in anteprima sono da intendersi come personali e non condivisibili con terzi. Nel caso avessimo evidenze che questa regola è stata infranta, ci riserviamo il diritto di ritirarvi l'accesso

in qualsiasi momento senza rimborsi di alcun tipo. come posso ottenere il badge sul forum dopo aver effettuato la donazione? Lascia nelle note il nick con cui sei registrato al forum o comunicacelo a info@playersmagazine.it. Se vengo ringraziato nella rivista, che nome sarà usato? Il nome che avete lasciato nelle note dopo il pagamento, o il nick Ulule (se esplicito). Se ve ne siete dimenticati, scriveteci a info@playersmagazine.it prima del numero successivo della rivista. Perché è scomparso il pezzo a richiesta con la donazione da 20€, e come mai alcune reward sono "limited edition"? La prima raccolta fondi ci ha insegnato che una buona fetta di supporter ha donato con il solo intento di supportare il progetto, senza curarsi molto delle reward e fidandosi delle nostre scelte editoriali per il futuro. Produrre un articolo a richiesta richiede tempo, spazio sulla rivista e notevoli sforzi: preferiamo assicurarvi una qualità elevata concentrando le nostre attenzioni su pochi pezzi, ben scritti, e su cui abbiamo avuto il tempo di documentarci. Da cui la quantità limitata. come richiedo un articolo alla redazione se dono 50€ o 100€? Contattaci a info@playersmagazine.it. L'articolo richiesto deve essere compatibile con la linea editoriale della rivista e possibilmente rientrare negli argomenti che sappiamo di poter trattare con competenza. Faremo del nostro meglio per scrivere un pezzo di vostro gradimento nel primo numero non ancora chiuso successivo alla donazione. Potete "conservare" la vostra facoltà di richiedere un articolo quanto vi pare, senza limiti temporali, ergo non sentitevi obbligati a farlo immediatamente. La donazione di 50€ vi dà il diritto di richiedere un articolo fino a 4000 caratteri. Questo genere di articoli sono in genere opinioni o approfondimenti. Esempi di articoli validi: . La vostra opinione sulla violenza nella saga di Fallout . Le serie TV sono il nuovo Cinema? La donazione da 100€ vi dà invece diritto a richiedere un articolo fino ad 8000 caratteri. Questi pezzi possono essere anche speciali di più ampio respiro, come ad esempio: . Il Cinema Nord Coreano . I romanzi più terrorizzanti dagli anni '80 ad oggi come posso contattarvi per partecipare ad uno dei podcast che gestite se dono 100€ o più? Contattaci a info@playersmagazine.it. I podcast disponibili per l'ospitata sono al momento RingCast, Arsludicast, Outcast e Il Tentacolo Viola. La puntata sarà pianificata a seconda delle disponibilità redazionali. Perché dovrei pagarvi per partecipare ad un podcast? non è come se stessi lavorando per voi? La donazione da 100€ non va fatta nell'ottica di partecipare ai podcast, ma per supportare il progetto editoriale Players. La partecipazione non è obbligatoria e va vista solo come una sorta di omaggio ai nostri sostenitori più generosi. Se non credi di poter aggiungere molto alle trasmissioni o se non te la senti puoi tranquillamente glissare: renderemo noto il tuo sostegno in ogni caso. Se hai intenzione di utilizzare il posto nel podcast per sabotare le trasmissioni, risparmiati pure i soldi della donazione. Non abbiamo bisogno del sostegno monetario di chi non è in grado di collaborare positivamente affinché il materiale che produciamo sia sempre su buoni livelli.



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PLAYERS

RINGRAZIA PER IL SOSTEGNO


JACOPO DE GASPARI MORGAN BENA PEPPEBI MIRKO PIOLTINI MARCO DI TIMOTEO VINCENZO LETTERA MONOPOLI FABIO LAZZARONI ENRICO MORETTI GIUSEPPE SASO ANDREA VIGOGNA



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