Breve storia dell'antifascismo canturino. Dalla copertura dei clandestini all'insurrezione armata

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Breve storia A dell’antifascismo canturino Dalla copertura dei clandestini all’insurrezione armata



BREVE STORIA DELL’ANTIFASCISMO CANTURINO Dalla copertura dei clandestini all’insurrezione armata

Realizzato dal Pollo Bastardo con il sostegno di ANPI Cantù-Mariano e del circolo Arci “Virginio Bianchi” nell’ambito delle iniziative per l’intitolazione del Campo Solare ai partigiani canturini



INDICE

Prefazione - Ai nostri posti c(h)i ritroverai(?) p. 4

1. Antefatto - 1.1 Ascesa e tracollo del regime fascista p.10 - 1.2 Repubblica di Salò tra adesioni e insubordinazioni p. 14

2. Resistenza - 2.1 Autunno ‘43: Nascita della Resistenza a Cantù p. 18 - 2.2 Inverno ‘43-‘44: Inasprimento delle politiche repressive p.23 - 2.3 Primavera-estate ‘44: Botte e risposte p. 27 - 2.4 Autunno ‘44: Il CLN verso la piena maturità p. 30 - 2.5 Inverno ‘44: Stringere i denti p. 35 - 2.6 Inizio ‘45: “Non si tratta con i criminali nazifascisti” p. 40

3. Insurrezione - 3.1 23-25 aprile ‘45: Liberazione di Vighizzolo p. 45 - 3.2 26-28 aprile ‘45: Liberazione di Cantù p. 50

Bibliografia e sitografia p. 58


Prefazione AI NOSTRI POSTI C(H)I RITROVERAI(?) In un notissimo monito indirizzato al camerata Kesserling, Piero Calamandrei sentenziava: Su queste strade se vorrai tornare/ ai nostri posti ci ritroverai morti e vivi collo stesso impegno/ popolo serrato intorno al monumento che si chiama/ ora e sempre/ RESISTENZA.

Questa appassionata dichiarazione perde un po’ di verve al constatare che, di quanti la Resistenza l’hanno fatta e vissuta, la maggior parte o non è più di questa terra, o con l’incedere dell’età si è ritirata nella rassegnazione (a parte qualche notevole eccezione, come il partigiano Stéphane Hessel che prima di andarsene ci ha regalato il bellissimo libro Indignatevi!). A settanta e rotti anni di distanza dalla Liberazione, le generazioni emergenti crescono senza avere nessuna testimonianza diretta delle vessazioni, della ribellione e della rinascita che contrassegnarono la prima metà del secolo scorso. Le rievocazioni in chiave celebrativa rendono la resistenza qualcosa che somiglia a una ghirlanda stinta, il fascismo poco più di un inciampo ai limiti del caricaturale. A coronare il disinteresse e la confusione imperanti ci pensa il pressappochismo di una certa classe politica, che in nome di vaghi riferimenti alla libertà di opinione si esime dal prendere posizione, disconoscendo i limiti che la tolleranza stessa dovrebbe porsi nei confronti di chi fa dell’intolleranza la propria bandiera. Le conseguenze del fallimento di questo compito – la trasmissione dell’antifascismo come principio fondativo della democrazia – sono evidenti: il nazionalismo più becero va riemergendo in tutta Europa, nell’indifferenza o con l’avallo dei più. Ovunque si innalzano barriere di filo spinato e si serrano i ranghi delle guerre di religione e di civiltà, mentre la nostra città ospita suo malgrado uno dei raduni neofascisti più imbarazzanti di cui si abbia notizia. 6


Sembra quasi di scorgerli, quei pochi partigiani rimasti, stringersi attorno alla timida domanda: ai nostri posti, chi ritroverai? Nell’aprile del 1975, l’allora sindaco di Cantù Carlo Camponovo introduceva il testo di Paola Mauri La Resistenza e la lotta di Liberazione a Cantù – di prossima ristampa grazie alla dedizione dell’ANPI – con siffatte parole: [La storia della Resistenza della città di Cantù] rappresenta un documento che dà la misura della crudeltà cui erano giunte le aberrazioni nazifasciste anche nel nostro territorio. Essa vuole ricordare ai giovani ed a tutta la cittadinanza la tragica realtà in cui si è mossa la dittatura fascista, perché, consapevoli di essa, si possa combattere con estrema decisione ogni tentativo di ritorno al passato, difendendo con ogni mezzo le libertà democratiche della Costituzione repubblicana così duramente conquistate trent’anni or sono.

La ricostruzione di ciò che è stato, qui voluta in modo organico e scorrevole, se da un lato permette di fare memoria della soppressione di ogni istanza di singolarità, dall’altro intende dare spessore ai luoghi che abitiamo, restituire carne e sangue agli angoli della città e alle insegne delle vie. Da qui la scelta di utilizzare uno stile narrativo, nei limiti consentiti dalle fonti a disposizione, ed un tempo come il presente storico, che potessero rendere quanto più vivide possibile le aspirazioni e le sofferenze di chi ha risposto al dramma dell’epoca con fermezza partigiana, ricordato con l’affetto del nome di battaglia. Paola Mauri precisava: La resistenza non era solo opposizione al nazifascismo, era anche richiesta e desiderio di nuovo, di democrazia, di progresso. Troppe volte, negli anni che seguirono, queste idee verranno calpestate. Troppo spesso i partigiani dovranno subire umiliazioni e processi. Troppo spesso la resistenza verrà dimenticata o trattata a livello folkloristico, retorico. Per evitare che tutto ciò debba ancora accadere è necessario fare della resistenza e degli avvenimenti che la animarono argomento di stimolo continuo e di meditazione, soprattutto per le giovani generazioni. 7


Nel raccogliere questo invito, interrogandoci a fondo su cosa significhi fare propri i valori dell’antifascismo, acquisire una prospettiva storica ci aiuta ad arginare certe tendenze e a rivalutare criticamente i termini in uso nel palcoscenico contemporaneo. Già nel sottotitolo di quest’opera ne compare uno che nell’arco dell’ultimo decennio ha subito un’imponente campagna di demonizzazione: “clandestino”. A volte si omette come la dittatura fascista avesse sancito la clandestinità e pertanto la perseguibilità di ogni oppositore politico, nonché di ebrei, renitenti alla leva, partigiani e chiunque altri avesse deciso di non sottostare alle imposizioni del regime totalitario. Questo perché un clandestino in sé non sussiste, ma è reso tale da un ordinamento giuridico – giusto o meno resta tutto da dimostrare – che si arroga l’autorità di decretare chi sia autorizzato ad esistere e chi no. Malauguratamente, nel perseguire i propri interessi particolari alcuni non si fanno scrupoli a soppiantare la cultura della solidarietà con quella della paura, riproducendo meccanismi che si sarebbero preferiti sepolti. In questa prefazione a molte voci, ci rimettiamo allora alle parole di un altro maestro, il Primo Levi di Se questo è un uomo: A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e non coordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano.

La concezione sussiste. Le conseguenze non solo ci minacciano, ma già si abbattono sui malcapitati di turno; che presto o tardi potremmo essere noi, senza stare qui a riportare per intero la celebre poesia di Brecht. Era il 1989 quando Félix Guattari, nel suo testamento politico e filosofico Le tre ecologie, ci metteva in guardia: Il nazismo e il fascismo non sono stati dei malanni passeggeri, degli “incidenti 8


della storia” ormai superati. Essi rappresentano delle potenzialità sempre presenti; continuano ad abitare i nostri universi di virtualità. [...] Sotto varie forme, un microfascismo prolifera nei pori delle nostre società, manifestandosi attraverso il razzismo, la xenofobia, la rimonta dei fondamentalismi religiosi, del militarismo, dell’oppressione delle donne.

Ma che cos’è questo microfascismo mai sopito, che pervade il nostro tempo? Uno spirito di prevaricazione e insofferenza, che scaturisce dall’arroccarci nelle piccole sicurezze delle nostre proprietà e delle nostre definizioni. Per parafrasare un indimenticabile Gaber: «non temo il fascismo in sé, temo il fascismo in me»; quella tentazione, sempre strisciante, che per Foucault valeva la chiusura della sua breve Introduzione alla vita non fascista con un saggio consiglio: non innamoratevi del potere! Nel suo appello a rifondare le pratiche sociali individuali e collettive, Guattari prosegue: All’interno di questo stato di cose, un punto di fuga dal senso è da rinvenire nell’impazienza che l’altro adotti il mio punto di vista, nell’indisposizione della realtà a piegarsi ai miei desideri. Quest’avversità devo non solo accettarla, ma amarla per quello che è. Devo ricercarla, dialogarci, buttarmici, approfondirla. È lei che mi farà uscire dal mio narcisismo, dal mio accecamento burocratico, che mi restituirà quel senso della finitudine che tutto l’impianto massmediatico infantilizzante si impegna ad occultare. Senza la promozione di questa soggettività della differenza, dell’atipico, dell’utopia, la nostra epoca non potrà che precipitare negli atroci conflitti dell’identità.

Questo passaggio delinea la grandezza della sfida che ci si presenta. Oggi, e paradossalmente con questo stesso libretto, desidereremmo compiere un primo passo per spingerci al di là delle retoriche della memoria, riprendere uno slancio che apparteneva a coloro che si sono opposti ai colpi di coda di un regime ventennale per riaffacciarsi, oltre le macerie, sul ciglio di un mondo nuovo. Vogliamo cioè darci da fare per passare da una lotta resistenziale, intesa come preservazione di antiche conquiste, a una lotta creatrice, capace 9


di riabilitare quel piano immaginativo che lo sbraitare, le distrazioni, il disfattismo ci stanno lentamente prosciugando. Inerpicandoci su questo impervio sentiero di montagna, la brezza ci accarezza il volto e dalla cortina di nubi alcuni raggi di sole tornano a rischiarare il nostro orizzonte. Così, il profilo di chi incontriamo lungo il nostro cammino si fa più nitido. È qualcuno al cui sentire queste parole brillano gli occhi. Qualcuno che ancora non si è stancato di rincorrere i propri sogni, che si prende il lusso di pensare e dissentire. Qualcuno che sa porsi le domande giuste, che non ha paura di stare sulle sue e di cimentarsi insieme. Qualcuno che sente l’ingiustizia vibrargli nel più profondo del corpo, e con la stessa intensità segue incantato il volo di un uccello. Fianco a fianco con questi compagni di viaggio, l’impegno per una lotta antifascista e rigenerante assume senso e pienezza. Arriva così, quasi inaspettato, il momento di chiudere gli occhi, inspirare a fondo e infine dire: su queste strade, se vorrai tornare, ai nostri posti ci ritroverai. Sempre vostro, P.B.

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1. Antefatto 1.1 ASCESA E TRACOLLO DEL REGIME FASCISTA

La prima guerra mondiale aveva lasciato la provincia di Como fortemente provata dal punto di vista economico, in parte per la crisi che si era abbattuta sulla tradizionale industria del tessile, in parte per le ripercussioni che i costi umani del conflitto avevano avuto sull’agricoltura e sull’artigianato. La scena politica era animata dal Partito Liberale, che rappresentava la voce delle classi più benestanti, mentre la difesa degli interessi della classe lavoratrice era contesa tra il Partito Socialista e il neonato Partito Popolare, di matrice cattolica. Per quanto ci si abituerà a considerare la provincia di simpatie prevalentemente “bianche”, a Como come a Cantù le amministrative del 1919-1920 vengono vinte dai socialisti. All’insediamento della giunta, in municipio viene esposta la bandiera rossa. Le classiche schermaglie tra le diverse fazioni democratiche vengono scosse dall’insorgere di una nuova forza politica, che si costituisce attorno alla carismatica e controversa figura di Benito Mussolini. Partito da un messaggio massimalista e rivoluzionario, Mussolini diventa un convinto socialista nazionalista, con l’ambizione di raccogliere sotto un unico fascio gente di ogni estrazione (per lo più classi medie) in nome della rottura con lo status quo e della salvezza della patria. Ettore Brambilla, che aveva assistito a Milano in piazza San Sepolcro alla fondazione del primo fascio di combattimento, porta a Cantù la nuova realtà politica. I primi iscritti, per lo più possidenti, impiegati e operai, si ritrovano nella sala del fascio situata nell’albergo “Italia” di piazza Garibaldi. Dalla parte opposta della piazza, l’albergo “Garibaldi” era il ritrovo abituale del socialisti. La differenza tra le precedenti formazioni partitiche e le camicie nere non tarda a farsi lampante, alla luce dei modi adoperati da queste ultime per affermarsi sulla scena pubblica. 12


Nel gennaio del 1921, alcuni fascisti di ritorno da un comizio svoltosi al teatro comunale di Cantù, all’altezza di Albate, vengono fischiati da un gruppo di socialisti. Scesi dal tram, scatta un parapiglia in cui partono alcuni spari: un operaio col garofano rosso all’occhiello, Giuseppe Lissi, è ferito mortalmente. È solo il primo atto di una lunga serie di intimidazioni: il 20 marzo 1921 fascisti comaschi interrompono la seduta del consiglio comunale di Cantù, espongono la bandiera tricolore e cercano invano di impossessarsi di quella rossa. I consiglieri Boghi e don Viganò riescono con fatica a sedare il tumulto. Poco dopo Antonio Gramsci è a Como, incoraggia i militanti comunisti ed esprime la sua vicinanza nei riguardi di quanti hanno subito attacchi squadristi. Nel 1922 i fascisti irrompono nei locali della Camera del Lavoro di Como e devastano il caffè “Carducci”, da loro considerato il covo dei “sovversivi rossi”. Lo stesso anno una banda fascista di Meda assalta e 13


devasta i locali del Circolo Proletario di Mariano. Dopo la marcia su Roma, la violenza antidemocratica del Partito Nazionale Fascista non ha più bisogno di trovare giustificazioni: re Vittorio Emanuele III, da garante della patria, invece di porle freno le dà piena legittimità incaricando Mussolini di formare un nuovo governo. Dalla rappresaglia si passa così all’azione violenta pianificata. Il giorno di Santo Stefano del ‘22 quaranta fascisti entrano nel circolo socialista di Albate, lo mettono a soqquadro, malmenano i presenti e sottraggono i soldi della cassa. Le brutalità non si abbattono unicamente su socialisti e comunisti: attorno alla mezzanotte del 9 agosto 1923, una quindicina di squadristi si introduce nella redazione dello storico giornale cattolico comasco “L’Ordine” e la fa a pezzi. Molti esponenti politici vengono derisi e percossi pubblicamente: don Moiana, fondatore della sezione comasca del Partito Popolare, viene aggredito per strada e sfregiato con del vetriolo. Caldeggiate dal segretario del fascio di Cantù Gino Marelli, squadre fasciste invadono il circolo proletario di Cucciago e strappano dalle pareti i quadri di Lenin e Marx. Dopo l’omicidio di Matteotti, il deputato socialista che aveva denunciato i brogli e la corruzione del partito fascista, nel giro di pochi anni l’assetto democratico dell’Italia è stravolto: di provvedimento in provvedimento, il duce finisce per assumere su di sé tutti i poteri dell’esecutivo e del legislativo, e l’opposizione passa alla clandestinità; vengono sciolti i partiti e i sindacati, i sindaci vengono sostituiti da podestà nominati dal re (nei fatti dal governo Mussolini), la Camera dei Deputati viene soppiantata dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, viene creato il tribunale speciale contro gli oppositori e ripristinata una serie di misure punitive, tra cui il confino e la pena di morte. Il capillare controllo esercitato dalle forze di polizia sulla vita dei cittadini, unitamente all’estrema arbitrarietà nell’esercizio della “giustizia” e alla repressione di ogni forma di dissenso, mostrano appieno il volto totalitario del fascismo. Nei confronti dei singoli si mette in atto un inquadramento forzato all’interno delle strutture educative, paramilitari, culturali e corporative di partito. Il monopolio dei mezzi di comunicazione di massa, l’abolizione della libertà di stampa e la 14


censura preventiva su ogni prodotto informativo o culturale portano a compimento la transizione dell’Italia democratica alla dittatura fascista. Tra giunte dimissionarie e giunte deposte, ormai tutti i comuni del circondario sono passati sotto il controllo diretto del regime. A parte i sostenitori della prima ora, l’adesione da parte dei canturini al fascismo è di circostanza e non eccessivamente convinta. Intanto la ripresa di una politica spregiudicata di espansionismo coloniale e l’appoggio a Franco dopo il colpo di Stato in Spagna allontana l’Italia di Mussolini dall’area d’influenza di Francia e Regno Unito, avvicinandola inesorabilmente alla Germania nazista. Nel 1938 vengono promulgate le prime leggi razziali antisemite, avallate dal celebre manifesto in difesa della razza. L’anno seguente i legami tra le due nazioni sono coronati dal Patto d’Acciaio, che sancisce la nascita di un’alleanza vincolante italo-tedesca. Sempre nel 1939 l’Italia fascista occupa l’Albania, mentre Hitler ordina l’invasione della Polonia portando così allo scoppio della seconda guerra mondiale. Dopo un iniziale tentennamento, fiutando un’imminente vittoria, Mussolini scende in guerra al fianco della Germania contro Francia e Inghilterra. Il conflitto si protrae più del previsto e l’impreparazione dell’esercito italiano porta a una sequenza di clamorosi (e drammatici) fallimenti: la disastrosa campagna di Grecia, la progressiva perdita dell’Africa Orientale Italiana, la ritirata di Russia e la sconfitta in Libia e Tunisia. Persa ogni credibilità, il 25 luglio 1943 con un famoso ordine del giorno il Gran Consiglio del Fascismo rimette il potere nelle mani del re e depone Mussolini, che viene tratto in arresto.

L’armata italiana si ritira dalla Russia

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1.2 REPUBBLICA DI SALÒ TRA ADESIONI E INSUBORDINAZIONI Finanche “La Provincia”, unico quotidiano locale sopravvissuto in quanto tradizionalmente allineato al regime, non può fare a meno di riportare le manifestazioni di giubilo che fanno seguito alla notizia della caduta di Mussolini. A Cantù la popolazione si riversa nelle strade e scalpella le effigi fasciste. L’8 settembre viene resa nota la firma dell’armistizio con gli alleati. Il sollievo per la tanto sospirata fine della guerra lascia presto il passo allo sgomento per la totale instabilità in cui cade il Paese. La famiglia reale, il generale Badoglio e i loro fedelissimi fuggono al sud. L’esercito italiano è allo sbando, i tedeschi mettono in atto il piano da tempo predisposto di occupazione del suolo italiano. Saranno circa 23.000 i militari comaschi che verranno portati nei lager tedeschi e impiegati come lavoratori “volontari” in qualità di Internati Militari Italiani. In molti non cedono alle lusinghe del trattamento di favore e del rimpatrio immediato riservato ai collaborazionisti e, pur di non sottomettersi all’autorità nazifascista, sopporteranno i lavori in miniera, i razionamenti e talvolta la morte. Tra i 2.000 e i 3.000 comaschi si uniscono invece alle formazioni partigiane italiane ed estere. Il capitano Ugo Ricci, un ufficiale di stanza a Cantù al momento dell’armistizio, sceglie subito da che parte stare: caricati di armi tre autocarri, si sposta assieme ai suoi uomini in Val d’Intelvi, diventando uno dei più instancabili registi della Resistenza lariana. Il 9 settembre Pier Amato Perretta, giudice del tribunale di Como deposto dall’incarico a causa della sua insubordinazione al fascismo, si cimenta in un coraggioso comizio di piazza, al termine del quale con oltre 300 persone si presenta in prefettura chiedendo a gran voce di armare il popolo per lottare contro l’invasore. Le invocazioni non trovano ascolto: il podestà aveva rassegnato le dimissioni, la consulta si era sciolta. L’indomani, i tedeschi occupano Como. In quei giorni un primo nucleo di SS germaniche prende possesso dell’ex filanda Matteoli di Vighizzolo, in via General Cantore. Un distaccamento della Feldpost, addetta al controllo del servizio postale 16


militare, si stanzia invece a CantÚ-Asnago per monitorare la linea Como-Milano. I nazifascisti stavano ristabilendo con successo il loro dominio sull’Italia centro-settentrionale.

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Il 12 settembre i paracadutisti tedeschi liberano Mussolini dalla rocca sul Gran Sasso, in cui era rinchiuso, per metterlo alla guida di un rifondato stato fascista a protezione tedesca: la Repubblica Sociale Italiana. Il 27 settembre si riunisce per la prima volta il governo della cosiddetta Repubblica di Salò. Chiaromonte, il nuovo prefetto di Como, aderisce senza remora ed il giorno stesso emette un bando in cui intima ai soldati italiani sbandati di presentarsi al più vicino comando germanico. Il tono del proclama oscilla tra rassicurazioni, appelli al dovere e minacce di gravi ritorsioni per chiunque non lo rispetti. La presenza fascista sul territorio, fino ad allora limitata più che altro all’adempimento di oneri amministrativi, si fa sempre più tangibile ed opprimente. A Cantù, la neo-istituita GNR (Guardia Nazionale Repubblicana, una milizia con “compiti di polizia interna e militare”) si stabilisce nella casa del fascio in via Corbetta, in via Cimarosa e in località Montecastello per il monitoraggio della tratta ferroviaria Como-Lecco. I fascisti delle SS italiane occupano invece le scuole elementari di Piazza Parini, il collegio delle Sacramentine e la località di Volo a Vela.

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I bandi di chiamata alle armi spingono molte persone a riparare nella vicina Svizzera, tanto che il 21 settembre un’ordinanza prefettizia dispone la chiusura della frontiera. “La Provincia” riporta: Il valico di frontiera chiuso a Ponte Chiasso. Occupata la frontiera da ieri l’altro da doganieri e da agenti di polizia tedeschi. I passaporti e le tessere non sono più validi. Il traffico ferroviario dei passeggeri è completamente sospeso.

Nonostante ciò, in soli 10 giorni più di 14.000 persone tra uomini, donne, bambini, militari sbandati, prigionieri di guerra, perseguitati per motivi politici o razziali oltrepassano in qualche modo il confine. Altri invece, che non se l’erano sentita di espatriare, rimangono sul territorio. Un documento del 1° ottobre del ‘43, inoltrato dal comando germanico alle autorità locali, attesta la copertura e l’assistenza fornita loro dalla popolazione comasca: È a conoscenza del comando militare germanico che dal campo di concentramento di Grumello al Piano sono fuggiti circa 2.500 prigionieri di guerra, che presumibilmente si trovano tuttora in parte anche nella provincia di Como, e che vengono sostenuti e aiutati dalla popolazione. Si porti subito a conoscenza della popolazione che ogni cittadino ha l’obbligo di trattenere, a disposizione dell’arma dei Carabinieri e della Milizia, i prigionieri che cadono nelle proprie mani, di avvertire i corpi suddetti se i prigionieri si trovano nelle vicinanze. È bene avvertire la cittadinanza che l’inosservanza di questo ordine o anche il ritardo nell’esecuzione del medesimo comporta gravi sanzioni da parte del tribunale militare germanico. Per la cattura di ogni prigioniero di guerra verrà corrisposto un premio di L. 1.800 oppure di 20 sterline.

Intanto in quel di Cantù i carabinieri, guidati dall’implacabile maresciallo Pepe, iniziano a girare di casa in casa in cerca di renitenti alla leva. Sotto la spinta dell’attività fascista, sono in molti a sentire con impellenza la necessità di organizzarsi, armarsi e resistere. 19


2. Resistenza 2.1 Autunno ‘43 NASCITA DELLA RESISTENZA A CANTÙ Va considerato innanzitutto che le caratteristiche geografiche della zona non la rendono particolarmente adatta allo sviluppo di un’attività partigiana su vasta scala: la mancanza di rilievi complica la fuga delle bande ai rastrellamenti, motivo per cui la lotta di città e di pianura si rivela ben più pericolosa e logorante di quella di montagna. Inoltre, diversamente del lecchese dove la forte industria metalmeccanica aveva favorito lo sviluppo di una solida coscienza operaia, in grado di esprimersi tanto a livello militare quanto a livello politico-ideologico, Cantù rimane una città artigiana che non brilla né per solidarietà di classe né per senso di organizzazione collettiva. Ne consegue che in un primo momento le formazioni partigiane canturine raccolgano un numero di aderenti piuttosto circoscritto e che il loro operato si limiti allo svolgimento di azioni di disturbo e disarmo. In ogni caso, fin da settembre a Cantù si discuteva della possibilità di costituire un nucleo locale del Comitato di Liberazione Nazionale, l’organizzazione nata a Roma allo scopo di opporsi al fascismo e all’occupazione tedesca. Il progetto si realizza formalmente il 26 di novembre in un incontro in Pianella, nello studio di Vittorio Boghi. Oltre allo stesso Boghi, referente del Partito Liberale, i principali promotori sono Luciano Vettore e Luciano Inganni (Partito Comunista), affiancati da Giannino Ferrari (Partito Socialista) ed Enrico Merlotti (Democrazia Cristiana). Nel suo piccolo, l’avvenimento è estremamente significativo: si tratta infatti della prima organizzazione politica democratica dopo anni di dittatura fascista. Da subito si stabiliscono i compiti a cui il CLN locale dovrà dedicarsi: propaganda in favore della lotta contro l’occupante tedesco e i collaborazionisti, inquadramento militare dei giovani da inviare in supporto in montagna, sovvenzionamento delle formazioni partigiane. Come vedremo, a seguito di queste attività clandestine molti dei suoi membri saranno costretti ad abbandonare la città. 20


A novembre i poli industriali sono attraversati da una serie di scioperi e di agitazioni. Il tentativo fascista di eliminare ogni margine di autoorganizzazione operaia tramite l’istituzione di apposite commissioni interne è efficacemente sventato dall’opera del PCI. L’impegno profuso da Luciano Vettore, Riccardo Bottagisi e Luigi Longoni porterà alla nascita e alla diffusione di Squadre di Azione Patriottica anche nei maggiori stabilimenti del circondario: Aeronautica Bonomi, OMI, De Baggis, Taglietti e a un livello particolarmente avanzato nella Vergani, nella Salmoiraghi e nella Ferriera Orsenigo di Figino Serenza. Le SAP si ponevano obiettivi da un lato di contro-informazione e diffusione di stampa politica nazionale e provinciale, dall’altro di sabotaggio della produzione per evitare la consegna di manufatti all’invasore tedesco. Servivano inoltre ad estendere la base di appoggio del movimento antifascista, per dare copertura e supporto militare a quanti sceglievano di dedicarsi interamente alla lotta armata impegnandosi nei GAP (Gruppi di Azione Patriottica). A Cantù se ne costituiscono spontaneamente due: uno a Cascina Amata e uno a Cascina Cavanna, organizzati rispettivamente attorno alla figure di Luigi Mauri (“Vittorio”) e Adelino Borghi (Lino). Lì per lì questi gruppi non presentano un preciso indirizzo politico: sono composti tendenzialmente da sbandati e renitenti alla leva, che si erano fermamente rifiutati di sottomettersi alla Repubblica di Salò. 21


Nascosti in cascine della zona con la complicità della popolazione, nei mesi invernali iniziano a recuperare qualche arma ed effettuare le prime azioni di disturbo, come attacchi alle linee ferroviarie e ai “guardafili” (gli uomini che proteggevano i cavi dell’alta tensione).

Il gruppo partigiano guidato da Lino (Adelino Borghi), futuro distaccamento “Toppi”

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2.2 Inverno ‘43-‘44 INASPRIMENTO DELLE POLITICHE REPRESSIVE

Nei primi mesi invernali atti di resistenza e insofferenza all’occupante tedesco e alle autorità repubblichine vanno diffondendosi in tutta la provincia. Il prefetto di Como dirama un comunicato in cui, dopo essersi scagliato contro quei delitti dettati da “evidente odio politico”, si prodiga in demagogiche esortazioni alla concordia, prontamente abbinate a dure minacce di ritorsione per chiunque non si attenga alle indicazioni fornite. L’8 dicembre il comandante SS della filanda, lamentando le “frequenti sparatorie notturne” e l’inadeguatezza delle forze dell’ordine locali, informa il commissario prefettizio Alberto Cossi di Cantù dell’istituzione di un servizio speciale di ronde durante le ore di coprifuoco, che si riservano la facoltà di intervenire “molto severamente” e di fare “uso delle armi” in caso di mancato rispetto delle regole. Agli inizi del ‘44, il fallimento della politica di socializzazione perpetrata dalla Repubblica Sociale Italiana si fa evidente: l’esigenza di un rafforzamento militare e organizzativo per far fronte assieme ai tedeschi alla guerra contro partigiani ed alleati inaspriscono la politica fascista e rendono brutale la repressione. Su istigazione nazista, riprende su larga scala la campagna antisemita. Mussolini intima per decreto l’assunzione di ulteriori provvedimenti ai danni degli ebrei, quali denunce, permuta dei sequestri in confische permanenti e intensificazione delle deportazioni. In quella difficile circostanza, il CLN canturino decide di coordinare attraverso il gruppo di Cucciago le operazioni di espatrio nella vicina Svizzera dei numerosi ebrei presenti sul territorio, fino a quel momento coperti clandestinamente dalla popolazione. Le pratiche di antifascismo passivo messe in atto dai civili, per quanto meno appariscenti rispetto alla resistenza armata, rimangono un contributo essenziale alla lotta di liberazione. 25


L’odio contro il regime va crescendo con il proseguire delle confische di appartamenti da destinare ai militari della SS italiana e della GNR. Le confische colpiscono famiglie già fortemente provate dall’economia di guerra, che spesso e volentieri danno alloggio ai tanti sfollati giunti dal milanese (si calcola che all’epoca la provincia di Como ne accogliesse circa 300.000). A marzo invece scatta la richiesta di 4.000 uomini da inviare come salariati agricoli in Germania e di oltre 1.500 per la Valtellina; poco dopo si aggiunge la richiesta di donne. Si tratta di una politica impopolare e miope rispetto alle condizioni specifiche del canturino, dove la maggior parte della gente è impiegata nell’artigianato e le attività agricole hanno un carattere per lo più sussidiario. Il venir meno di una fetta consistente di forza lavoro compromette irrimediabilmente l’economia artigianale, basata sulle competenze personali più che su capitali o risorse naturali. Il 18 marzo alcuni delegati e fiduciari convocati dal commissario prefettizio esprimono un parere totalmente negativo nei riguardi del provvedimento. Dal mese seguente prende avvio la requisizione di animali da traino, fondamentali tanto per i contadini quanto per i commercianti: l’esserne privati vuol dire nella maggior parte dei casi trovarsi nell’impossibilità fisica di continuare a lavorare. Anche in questo caso le rimostranze sono parecchie. Come se non bastasse, mentre i salari ristagnano, l’economia di guerra determina un generale peggioramento dei prezzi. Aumentano i casi di accaparramento, di borsa nera... ma, soprattutto, ad aumentare è il malcontento popolare nei confronti dell’occupazione.

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L’insostenibilità delle condizioni di vita fa sì che per la prima settimana di marzo venga proclamato un grande sciopero nelle città industriali del Nord. Nel canturino, spronati dalle SAP, incrociano le braccia i lavoratori della Vergani, dell’Aeronautica e della Salmoiraghi. Stando ai notiziari della GNR di Como, nella filotecnica Salmoiraghi di 600 operai se ne presentano al lavoro 200 circa, che abbandonano anch’essi lo stabilimento intorno alle 10.30. Anche la Ferriera Orsenigo e la Taglietti di Figino si uniscono alla protesta, mentre più turbolenta è la manifestazione della Vergani di Cantù. Le operaie, messe in ferie per evitare che scioperino, si riuniscono ugualmente e si recano in massa davanti al Municipio, chiedendo a gran voce pane, latte e grassi per sé e i loro bambini. Il commissario prefettizio non perde tempo a chiamare le autorità tedesche per sgomberare la piazza. Da gennaio alla primavera del ‘44 si susseguono i bandi di chiamata alle armi, con toni sempre più perentori ed allargati anche alle classi più giovani (19-20-21 anni). Viene inoltre disposto l’ordine di giuramento per tutti gli impiegati statali. La ferma opposizione da parte del CLN, che nel frattempo a seguito della progressiva liberazione della parte centro-meridionale del Paese si è costituito in CLN Alta Italia, contribuirà all’insuccesso della campagna, che comunque non mancherà di dare adito a epurazioni e ritorsioni. A Cantù alcuni giovani carabinieri rifiutano di giurare e fuggono nei boschi di Fecchio, dove grazie al supporto attivo del CLN e soprattutto di Boghi riescono a scampare ai rastrellamenti. Contemporaneamente, sul piano nazionale si scatena un’offensiva delle forze nazifasciste diretta a stroncare la sempre più incisiva attività partigiana. Luciano Vettore, che nei mesi precedenti si era esposto troppo, è costretto a spostarsi nel Varesotto, dove proseguirà la sua attività antifascista. Di lì a poco, la stessa sorte tocca a Luciano Inganni. La fuga dei due lascia un grande vuoto politico nelle fila del CLN e del PCI locali.

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2.3 Primavera-estate ‘44 BOTTE E RISPOSTE Il 25 maggio scade il termine ultimo per presentarsi ai comandi militari fascisti: gli schieramenti hanno ormai assunto una fisionomia precisa. Al contempo la costituzione di un governo unitario dà più respiro alle formazioni partigiane: il CLNAI inizia a svolgere non solo compiti militari ma anche organizzativi, mentre con il riconoscimento sia da parte degli alleati sia del governo Badoglio si forma il Corpo Volontari della Libertà. Il suo compito è radunare sotto un unico comando tutte le forze antifasciste combattenti dell’Italia settentrionale. Verso la fine della primavera, una ventina di uomini delle SAP canturine si ritrovano in un’osteria in via Giovanni da Cermenate. Dopo aver concordato sull’improrogabilità della lotta armata, nominano come proprio responsabile militare Nello Frigerio. Fra di loro figura Natale Mauri, successivamente al comando di un distaccamento della 52ª brigata Garibaldi, operante in zona Como; arrestato in seguito a delazione, morirà nel campo di concentramento di Dachau. Il gruppo si impegna nel recupero di armi, riflette sul ruolo delle SAP all’interno della Resistenza, stringe contatti con le strutture del CLN e con i nuclei di Cascina Amata e Cascina Cavanna grazie al lavoro di collegamento svolto da Bottagisi. I diversi gruppi partigiani attivi nel canturino dimostrano una notevole elasticità: la propensione alla collaborazione reciproca fa sì che in più di un’occasione si scambino informazioni e uomini per le azioni di disturbo.

Distintivo del Corpo Volontari della Libertà A sinistra: gli operai di Sesto San Giovanni in sciopero, marzo ‘43

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In aprile era arrivato per loro il momento di cimentarsi con la prima azione di guerriglia: durante un imponente rastrellamento fascista nei boschi di Fecchio, che si sapeva dare riparo a numerosi ribelli, i GAP canturini portano a termine con successo un’operazione di scontro e sganciamento, tipica della guerra per bande. Dopo essersi dispersi si ritrovano indenni chi a Cascina Amata, chi a Cascina Cavanna. I partigiani canturini iniziano quindi a concentrare i loro sforzi sull’impedire la confisca del grano perpetrata da fascisti e tedeschi, che persi i territori dell’est hanno un impellente bisogno di procurarsi viveri per l’inverno. A tale scopo vengono messe a segno diverse azioni di sabotaggio alle trebbiatrici. Parallelamente il CLN emana una serie di comunicati, per la prima volta rivolti ai contadini, in cui esorta a non consegnare i prodotti agli occupanti e a sostenere le formazioni partigiane. Lo stato d’animo della popolazione nella primavera del ‘44 è ben riassunto dai laconici notiziari giornalieri trasmessi dalla GNR di Como sotto la dicitura “riservato a Mussolini”: 8 aprile - La partecipazione della manodopera femminile per il servizio del lavoro in Germania provoca vivo malcontento. I commenti che si fanno nelle fabbriche ove lavorano maestranze femminili sono violenti: si parla addirittura di schiavismo, di gente asservita alla Germania 14 aprile – L’avanzata dei bolscevichi in territorio romeno comincia a destare preoccupazioni. Superfluo che molti guardano con compiacimento a questa avanzata nella speranza che porti a qualche fatto conclusivo 24 aprile – Prevalente apatia generale, originata dallo scetticismo sulle possibilità di resistenza della Germania di fronte alla pressione russa ed alla materiale preponderanza degli alleati 11 maggio – La popolazione continua a mantenersi apatica e desiderosa di pace; poco sensibile alla nostra propaganda

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Distintivo della Xª Mas

A giugno, tra Alzate Brianza e il laghetto di Montorfano, i gappisti prendono d’assalto un camioncino della Xª Mas. La Xª Mas era un corpo militare indipendente che operava in coordinazione con i tedeschi per contrastare l’avanzata degli alleati, con metodi estremamente violenti e sanguinari, specie nella lotta antipartigiana. Durante il furioso scontro a fuoco ingaggiato con i militi fascisti perde la vita il partigiano Guido Brighi. Le rappresaglie non si fanno attendere e assumono toni sempre più truci. La sera del 18 luglio la polizia speciale fascista si presenta a Cucciago, di fronte alla casa dove si sospettava risiedesse Bruno Battocchio, attivo organizzatore delle formazioni militari e del GAP di Casnate, in seguito intitolato a Elio Zampiero. Spalancata la porta, senza neppure entrare, gettano all’interno delle bombe a mano. Nelle esplosioni muoiono Giovanni, fratello di Bruno, Maria Borghi e Giuseppe Meroni. Ad agosto, il giro di vite repressivo costringe a spostarsi in zone più sicure anche Giannino Ferrari. Nel frattempo a livello provinciale Luigi Clerici, responsabile dell’agguerritissimo GAP di Guanzate, viene sorpreso con l’amico diciassettenne Elio Zampiero intento a predisporre un trasferimento di armi da Lora agli uomini di montagna. Arrestati, portati nelle carceri di San Donnino e brutalmente torturati, i due vengono ricondotti a Guanzate e fucilati davanti al cimitero. La caduta dei primi combattenti antifascisti, lungi dall’indebolire le formazioni partigiane, dà ad esse nuovo slancio e motivazione. 31


2.4 Autunno ‘44 IL CLN NAZIONALE E CANTURINO VERSO LA PIENA MATURITÀ

Nell’estate del ‘44 troviamo le forze antifasciste organizzate e pronte alla lotta, aiutate da una struttura provinciale del CLN ben rodata e funzionante. Le adesioni fra i giovani e le simpatie da parte della popolazione sono in crescita ed è forte l’illusione di una vittoria imminente. Il 25 agosto il CLN riceve il riconoscimento ufficiale da parte del governo italiano. Accanto all’intensa azione legislativa, politica, amministrativa, si sperimentano forme di autogoverno nelle prime zone liberate dai nazifascisti. Vengono date indicazioni dettagliate sulle modalità di scelta dei membri dei Comitati di Liberazione e di coinvolgimento della popolazione nella lotta di liberazione, attraverso la creazione di strutture parallele volte a favorire una maggiore partecipazione popolare alla gestione politica e amministrativa della cosa pubblica. Andava creandosi così quella che sarebbe dovuta diventare l’ossatura della nuova Italia democratica, che si voleva radicalmente diversa dal modello liberale in vigore nell’epoca pre-fascista. Da un lato sul piano tecnico-militare si inizia a ragionare seriamente sulla consistenza delle forze in vista dell’insurrezione, dall’altro grazie all’apporto di Riccardo Bottagisi e Luigi Longoni anche a Cantù guadagna importanza la dimensione politica della lotta. Così recita un memorandum diramato da Longoni nei nuclei di fabbrica e tra i quadri di partito: La fabbrica è la base dell’organizzazione di partito e i comitati di fabbrica, di villaggio, di rione, di caserma sono gli organi direttivi delle cellule di partito, base nelle masse. 1) I comitati di fabbrica e i comitati di cellula (…) hanno l’effettiva responsabilità della difesa degli interessi della classe lavoratrice nello stabilimento. 32


2) Quello militare ha il compito di creare lo spirito bellico e l’interessamento delle masse verso le azioni partigiane e per reclutare e formare squadre di difesa e invio di uomini tra i partigiani, raccogliere le armi, vettovagliamento per i partigiani, soldi e informazioni. Agitazione di massa: i comitati di rione e di villaggio hanno le stesse caratteristiche verso le questioni del rione e del villaggio per i grassi, per le tasse, per gli affitti, ecc.

In quel periodo si uniscono alle fila del CLN locale Egidio Colombo (DC), Attilio Cariboni (Partito Repubblicano), Giorgio Bertola (Partito Socialista di Unità Proletaria), il tenente Ezio Molteni (che si occuperà dell’organizzazione dei gruppi armati) e Maria Veronica Zamboni, una sfollata milanese che già da tempo svolgeva un ruolo di primo piano nell’assistenza agli sbandati. Quest’ultima si renderà protagonista della costituzione di un nucleo canturino dei Gruppi di Difesa della Donna, una formazione d’avanguardia che mediante il coinvolgimento attivo delle masse femminili aspirava a un superamento del ruolo subalterno riservato alla donna dalla dottrina fascista. In un comunicato provinciale diffuso in quei mesi si legge: Lo scopo per il quale i Gruppi di Difesa della Donna sono sorti è quello di realizzare la partecipazione sul terreno attivo immediato della lotta per la liberazione del suolo italiano dal giogo nazifascista e per la conquista dei propri diritti, di tutta la massa femminile italiana. […] La donna deve conquistarsi la libertà politica, l’indipendenza economica, la parità di diritto con l’uomo mediante la lotta al fianco di tutto il popolo italiano.

Il Gruppo di Difesa delle Donne di Baggio

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All’inizio di settembre, gli alleati pubblicizzano e lanciano un’offensiva tesa alla conquista della Pianura Padana prima dell’inverno. La notizia infonde coraggio tanto alle formazioni partigiane di pianura quanto a quelle di montagna. A Lenno, la notte tra il 2 e il 3 ottobre il capitano Ugo Ricci – che in precedenza aveva attaccato con successo il presidio della Xª Mas al collegio maschile di Porlezza – si cimenta nel coraggioso tentativo di sequestrare il ministro degli interni della Repubblica di Salò, Guido Buffarini Guidi. L’impresa è finalizzata da un lato ad ottenere uno scambio di prigionieri, dall’altro a dissuadere altri gerarchi dall’insediarsi sul lago di Como. Erano molti infatti quelli che, per stare lontani dai punti caldi e nei pressi del confine svizzero, avevano preso possesso delle splendide ville del centro lago. Probabilmente per colpa della soffiata di una talpa, l’azione non va a buon fine e il capitano Ricci cade combattendo, assieme ad alcuni inseparabili compagni.

Il capitano Ugo Ricci

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Nello stesso periodo anche a Cantù l’attività di sabotaggio e di disturbo delle bande si fa più temeraria. Per ottobre i GAP pianificano un attacco all’Aeronautica Lombarda. I preparativi vengono interrotti solo nel momento in cui si appura che le mitragliatrici lì presenti, di cui ci si intendeva appropriare, erano utilizzabili solo sui mezzi aerei. Il 28 novembre, nel trasportare con mezzi di fortuna le poche armi in loro possesso da un deposito a un altro, alcuni gappisti si imbattono in una pattuglia fascista. Ha luogo uno scontro in cui viene colpito il partigiano Domenico Faldutti; trasportato in fin di vita all’ospedale di Cantù morirà di lì a poco, mentre i compagni riescono abilmente a sganciarsi. La determinazione è tanta ma le armi sono scarse: intere nottate vengono trascorse insonni a scrutare il cielo e ad ascoltare radio Londra nella speranza di intercettare i lanci alleati. Intanto ci si accattiva il favore della popolazione con azioni di sabotaggio contro i municipi, dove si distruggono gli elenchi degli animali da requisire e si prelevano macchine da scrivere per i comandi, carte annonarie e carte di identità utili per gli uomini alla macchia. Il CLN ormai non si presenta più come uno sparuto gruppo di avanguardie politicizzate, bensì come un organismo che gode di ampio consenso e capace di raccogliere attorno a sé un folto numero di sostenitori e collaboratori. Con le SAP si organizzano degli incontri per discutere la questione della difesa degli impianti: ritirandosi i nazifascisti fanno terra bruciata, e il problema della salvaguardia delle strutture produttive diventa fondamentale. I GAP di Cantù proseguono con dedizione la lotta e con spirito di solidarietà nelle ultime settimane d’autunno danno copertura ai partigiani di Guanzate e Cadorago, che riescono così a sottrarsi ai rastrellamenti in corso nelle loro zone per poi farvi ritorno sani, salvi e combattivi.

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2.5 Inverno ‘44 STRINGERE I DENTI

Con il prendere piede della lotta armata contro i nazifascisti, il CLNAI vanta ormai una posizione decisiva nell’ambito politico nazionale. Grazie al ruolo trainante delle sinistre, esprime le posizioni più avanzate e progressiste nell’immaginare il futuro assetto democratico dell’Italia liberata. I bollettini diffusi in provincia all’epoca lasciano trasparire questo slancio emotivo: I CLN prendono il potere non semplicemente per delegazione del governo democratico italiano o per riconoscimento delle autorità italiane, ma per volontà e per azione del popolo, e questo deve essere in primo luogo. [...] [Far sentire una pressione democratica dal basso] è, in questo campo di lavoro come in tutti campi, la condizione essenziale per la realizzazione di quella democrazia veramente popolare per la quale noi combattiamo.

L’avanzamento della componente comunista finisce per indurre le ali moderate e l’alto clero ad alcuni tentativi di freno sulle attività dei comitati, oltre che di mediazione con i fascisti. Gli alleati a loro volta non vedono di buon occhio le tendenze del CLNAI e temono che una sua ascesa si possa tradurre in una radicalizzazione politica del Nord Italia. Verso la metà di novembre, esaurita l’azione in Pianura Padana, allo scopo di scongiurare ogni possibile rafforzamento della posizione militare del CLNAI, il generale Alexander diffonde un proclama in cui invita le truppe partigiane a desistere da ogni tipo di operazione ed acquartierarsi per l’inverno. Dal canto loro, CLN e CVL rinunciano con decisione a qualunque opzione di attendismo e smobilitazione, per quanto la direttiva lasci intendere una perdita di supporto che sarebbe stata molto faticosa da sostenere. 37


In effetti, l’interruzione dell’offensiva alleata dà modo ai nazifascisti di riprendere fiato e dedicarsi integralmente a stanare le bande partigiane. Oltretutto, la rabbia per le sconfitte subite accentua ancor di più l’intervento repressivo. Il lavoro delle spie si intensifica, così come gli incentivi alle delazioni, il controllo dei molti oppositori al regime anche non direttamente impegnati nei gruppi partigiani, gli interrogatori e le deportazioni in Germania. Ha inizio il tragico inverno del ‘44. A novembre la polizia repubblichina irrompe nella trattoria della Reverzina, luogo di ritrovo abituale per alcuni partigiani canturini: vengono arrestati Giocondo Marelli e Angelo Camagni, poi deportato e ucciso nel campo di concentramento di Mathausen. Lo stesso giorno, in uno scontro a fuoco con militi fascisti, resta gravemente ferito Giovanni Tagliabue. La risposta dei partigiani è decisa: il gruppo di Cascina Amata, guidato da Vittorio e affiancato da altri uomini tra cui Angelo Longoni, elude la sorveglianza delle postazioni fasciste sulla linea Como-Lecco e all’altezza di Montecastello dà fuoco a ben otto vagoni di un convoglio ferroviario che trasportava materiale bellico belga-tedesco. Negli stessi giorni, su segnalazione di spie, gli uomini delle GNR vengono in possesso di alcuni stampati clandestini che si suppongono provenire dalla tipografia di via Muti (ora via Matteotti), gestita da Rosa Primi. Prelevato il figlio sedicenne di quest’ultima, lo interrogano brutalmente fino a ricavare un nome e un luogo: Riccardo Bottagisi, rione Sant’Antonio. Riccardo Bottagisi era un uomo chiave dello schieramento antifascista, dato che si occupava di tenere i contatti tra gli uomini di tutte le formazioni, il CLN, le SAP e i responsabili provinciali del PCI. Come si evince dal rapporto inviato alla Brigata Nera di Como, lo squadrista De Toma, radunati una decina di militi fascisti, si mette immediatamente in marcia verso la frazione di Sant’Antonio. Sono circa le nove di sera dell’11 novembre quando arriva al rione, fatto di pochi cascinali isolati. Per due ore il manipolo gira di casa in casa alla ricerca del sospettato, ma la gente sembra non saperne assolutamente niente. Tutto ciò che riescono a trovare è un giovane renitente alla leva nascosto sotto un letto, che provvedono a mettere agli arresti. 38


L’indomani De Toma, non contento, dopo alcuni controlli all’ufficio anagrafe torna sul posto, «nel cascinale rione ove gli abitanti, non escluse le bestie, sono dotati di assoluto riserbo poiché malgrado coinquilini di decenni dicono di non conoscersi fra di loro, contrariamente a ciò che è risultato e cioè che sono tutti imparentati». L’atteggiamento disinvolto degli abitanti non regge più. De Toma è in grado di individuare la madre di Bottagisi e da uno “stringente interrogatorio” ottiene due indirizzi a Bergamo dove questi si sarebbe potuto appoggiare. Perquisendo ogni anfratto della sua falegnameria gli squadristi rinvengono una lista di nominativi dei fascisti di Cantù, e in fondo a un cassetto di attrezzi un foglietto recante le indicazioni per riconoscere i segnali trasmessi dagli aerei alleati. Di Riccardo neanche l’ombra: appena saputo che gli squadristi erano sulle sue tracce non aveva perso tempo a dileguarsi in Valsassina. A Milano invece aveva trovato rifugio Pier Amato Perretta. Dopo varie peripezie in diverse regioni italiane, privato di tutto fuorché della sua libertà, si era messo a disposizione del comando generale delle Brigate Garibaldi, per il quale aveva assolto alcune missioni importanti e delicate. Il 13 novembre un gruppo di SS fa irruzione nel piccolo appartamento su viale Lombardia in cui il giudice alloggiava in clandestinità. Pier Amato cerca di sottrarsi all’arresto ma viene raggiunto da una mitragliata alle gambe mentre tenta la fuga. Portato al Niguarda, rifiuta di farsi curare per non cadere vivo in mano nemica. Spira all’alba del 15 novembre. Le ultime pagine di diario, scritte prima dell’arresto, sono di un’intensità toccante e rappresentano il coronamento di tutta una vita: Sono destinato alla solitudine. In un modo o nell’altro, per questa o per quella ragione, sono stato sempre costretto a rinchiudermi in un breve cerchio di rapporti immediati, che è servito da trampolino alla mia fantasia. Lo rammento, senza dolermene, convinto della necessità ricorrente, grato anzi a quel raggio di sole che pareva brillasse unicamente per me. Sole, sole! La stessa radice, nel mistero del linguaggio, associa le due sensazioni. Non mi togliere il sole – l’unica cosa che tu non mi puoi dare – rispose l’antico saggio al monarca. 39


Fanciullo, la morte di mia madre mi rese solitario nella mia stessa casa; giovanetto, guardando la testa bianca e severa di mio padre, dovetti concentrarmi negli studi, che allora mi apparivano soltanto un mezzo idoneo per un posticino meno scomodo in un mondo vasto, sì, ma affollato; uomo, la missione di giudice mi teneva lontano dalle compagnie troppo facili e mi ricacciava ogni giorno nel segreto della mia coscienza e nel tormento del mio lavoro. E poi venne la solitudine della guerra, solitudine di posti avanzati, di cime nevose, di trincee desolanti, in cui il corpo giaceva senza la compagnia dello spirito, riluttante ad un dovere brutalmente imposto e sopportato senza convinzione. Dopo la guerra, la canea degli interessi che pretendono di stringere nel loro pugno il mondo, mi ricacciò appartato nel mio dissenso, dal quale vidi la corsa pazza de’ mastini e de’ cuccioli verso gli abissi di un’altra guerra. Ed ora eccomi nuovamente solo, nel mio rifugio. Bisogna vivere a lungo così per avvertire cosa è un punto nel vuoto; aggirarsi solo in una camera per comprendere lo spazio e il limite; uscire la sera, errando senza meta per le vie sterminate d’una città immensa, per sentire il proprio destino collegato con le stelle vaganti nel firmamento.

Pier Amato Perretta

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Purtroppo l’elenco delle rappresaglie invernali non si esaurisce qui. Il 5 dicembre il partigiano marianese Luigi Toppi, catturato a fine novembre, viene fucilato al cimitero di Carimate. Barbaramente torturato, prima di essere ucciso viene portato «pesto e a piedi nudi» come monito in giro per Mariano e davanti alla casa della madre. In provincia invece vengono arrestati Marnini e Gorreri, personaggi di spicco del PCI e del CLN provinciale. È per ottenere la loro liberazione che il GAP di Como si impegna nella famosa azione “Petrovich”. La sera del 22 gennaio, all’uscita dal cinema Politeama, in un azione lampo Luigi Ballerini e l’ex carabiniere Enrico Cantaluppi sequestrano l’omonimo maggiore della GNR. A prelievo avvenuto, mentre si dirigono verso il luogo previsto per la detenzione del maggiore Petrovich, vengono sorpresi da una pattuglia della polizia speciale fascista. Il maggiore sbraita, la pattuglia apre il fuoco, i due vengono sopraffatti. Sottoposti a interrogatori e sevizie, vengono condannati a morte e fucilati il mattino del 24. Contemporaneamente i rastrellamenti in montagna portano alla cattura e all’uccisione di molti partigiani. In particolare il distaccamento “Tomasič”, sul Bisbino, subisce un grave attacco in cui trova la morte il partigiano canturino Luigi Corti. I contraccolpi invernali avevano seriamente rischiato di scardinare alla radice le bande partigiane. Nel comasco era ormai maturata la consapevolezza della necessità di progredire nel grado di strutturazione e coordinamento delle forze antifasciste, in vista di un’auspicata controoffensiva primaverile.

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2.6 Inizio ‘45 “NON SI TRATTA CON I CRIMINALI NAZIFASCISTI” Già nel tardo autunno del ‘44 si erano mossi i primi passi per riorganizzare lo sfaccettato mondo antifascista comasco: aveva visto così la luce la Brigata “Perretta”, ben lontana dalla provvisorietà ed eterogeneità dei gruppi iniziali e strutturata secondo lo schema organizzativo dei CVL: divisione, brigata, battaglione, distaccamento, squadra. La brigata “Perretta” si divide in 4 battaglioni, operanti nelle zone di Como, dell’olgiatese, dell’erbese e del canturino. Il battaglione “Nannetti” con l’ausilio di sei distaccamenti copre i comuni di Cantù, Figino Serenza, Lomazzo, Albate, Casnate e Cucciago. Al suo comando vengono designati Mario Tonghini (“Stefano”) e, in qualità di commissario politico, Dino Gaffuri (“Walter”). I gruppi più consistenti del canturino, quelli organizzati attorno a Vittorio, Lino e Nello, si costituiscono rispettivamente nei distaccamenti “Brighi”, “Toppi” e “Rini”, prendendo il nome dai compagni caduti nella lotta di Resistenza. In un secondo momento, su iniziativa di Giuseppe Cattaneo (“Amleto”), si forma il “Fani”.

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L’apertura del nuovo anno ridona la speranza alle forze antifasciste: da un lato lo sfondamento dell’Armata Rossa in Germania, dall’altro l’avanzata delle truppe anglo-americane, fanno sfumare per la Germania di Hitler ogni possibilità di salvezza. La prospettiva di un’imminente vittoria spinge le forze democratiche a predisporsi allo scontro decisivo e a interrogarsi sull’organizzazione militare e politica della Liberazione. Il CLN tira le somme dell’attività politica svolta fino ad allora: affinché la Liberazione non si debba a un ristretto numero di uomini armati, ma sia una conquista di tutti, occorre che tutta la popolazione affianchi l’attività partigiana. Con questo obiettivo viene rilanciata l’attività di propaganda e mobilitazione. Una circolare indirizzata dal PCI ai suoi militanti verso la fine di gennaio si muove in questa direzione: In questa situazione e con le prospettive che ci stanno di fronte, dobbiamo dare la massima attenzione all’organizzazione delle SAP nelle campagne e particolarmente nelle città. Esse devono costituire l’organizzazione militare di massa dell’insurrezione nazionale. Esse devono organizzarsi, attrezzarsi, prepararsi per questo grande compito. La guerriglia, l’azione armata delle masse deve essere preparata e accompagnata da una intensa azione di agitazione e propaganda che popolarizzi le possibilità della situazione, che chiami il popolo alla lotta e all’insurrezione. Scritte sui muri, brevi e efficaci, piccoli volantini di poche parole che dimostrino che il nemico è rantolante, che bisogna portargli il colpo di grazia, devono essere diffusi sistematicamente e ovunque. Comizi volanti, manifestazioni di strada, azioni di propaganda, devono essere organizzati al più presto e largamente. Deve essere ripresa e continuata con grande intensità la campagna di disgregazione delle forze fasciste: esercito repubblicano, polizie, brigate nere, ecc.

Frattanto si riescono ad intercettare dei lanci alleati a Senna Comasco e a Mandello del Lario, ed entrare così in possesso di efficienti fucili mitragliatori Sten. I gerarchi fascisti, messi alle strette, cercano il compromesso con le frange più accondiscendenti del movimento antifascista. A tal riguardo il comando operativo di zona, che si era formato con esponenti di tutte le diverse brigate sotto la guida di Oreste 43


Gementi (“Riccardo”), si dimostra irreprensibile. Il 1° marzo, a nome del Corpo Volontari della Libertà, il comandante Riccardo inoltra al battaglione “Nannetti” e ai distaccamenti tutti un’esortazione alla lotta senza mezze misure: I nazifascisti cercano di simpatizzare, cercano il compromesso nella speranza di salvarsi, ciò dimostra la loro viltà. Noi dobbiamo rendere loro ed in misura centuplicata tutte le sofferenze e le atrocità commesse ai danni del popolo italiano. I nostri martiri chiedono giustizia, e la giustizia dobbiamo farla noi. […] Dobbiamo dimostrare che sappiamo e vogliamo difenderci con tutti i mezzi a nostra disposizione, che sappiamo e vogliamo conquistarci la libertà. […] VOLONTARI DELLA LIBERTÀ è giunta la nostra ora, FACCIAMOCI ONORE.

Il 23 marzo un altro bollettino precisa e definisce i compiti dei comitati comunali: Ogni CLN locale deve rendersi conto dell’importanza cui viene delegato dall’attuale governo italiano quale suo rappresentante e rivestito di tutti i suoi pieni poteri affinché indirizzi ogni attività locale nel senso degli interessi della popolazione e contrapporsi così alle demagogiche leggi del sedicente governo fascista. Altro compito di rilevante importanza è la nomina delle varie cariche elettive che funzioneranno al momento e dopo il crollo nell’ambito di loro competenza territoriale. Inoltre si dovrà aver cura di provvedere tempestivamente alla tutela degli ammassi alimentari, alla difesa degli edifici pubblici e di tutti i beni di interesse collettivo. Infine, ove nel caso, si dovrà provvedere a far piantonare: casa del fascio, municipio, comandi militari, ecc. onde impedire eventuali opere di maliziose distruzioni per occultare responsabilità incontrate durante il periodo di dominio nazifascista.

Tutto era ormai pronto e puntualizzato per l’insurrezione. Il 27 marzo tuttavia l’intero comando militare di zona, che aveva compiuto l’errore di ritrovarsi nello stesso posto per due volte 44


consecutive, viene intercettato dalle spie fasciste e tratto in arresto. Oreste Gementi, trovato in possesso di un voluminoso pacco di stampa sovversiva, ha l’idea di spacciare il comando di zona per il CLN di Como. In questo modo riesce a evitare il peggio, tanto per sé quanto per il movimento resistenziale comasco... anche se ciò non significa che ne usciranno indenni. Racconta: Dopo una prima dose di pugni e calci fummo trasportati al “Beccaria” dove io venni interrogato per primo con la somministrazione di 30 nervate a dorso nudo, in quanto rappresentante del PCI e responsabile del pacco dianzi menzionato... Poi, a turno, gli altri, con un trattamento meno duro ma pur sempre pesante.

Rinchiuso infine a Milano nel carcere di San Vittore, ritroverà la libertà il giorno dell’insurrezione. Questo avvenimento lascia le formazioni partigiane totalmente scoperte dell’intero organo di comando e tagliate fuori dai rapporti con il CVL milanese. Intanto il sentore dell’imminente disfatta esaspera l’accanimento dei nazifascisti contro i partigiani prigionieri e i dissidenti. Alcuni ragazzi di Seregno, arruolati nelle SS per recuperare un grammofono che era stato loro requisito durante una festa clandestina, si erano sottratti al trasferimento in treno al fronte. Dopo aver venduto i loro armamenti avevano fatto ritorno dalle loro famiglie. I tedeschi, venutolo a sapere, li processano sommariamente ad Albate e li condannano come disertori. La mattina dell’8 aprile i ragazzi vengono portati a Cantù-Asnago. Secondo la testimonianza di uno dei presenti: In quella tragica alba di inizio primavera la luce era ancora più incerta nella valletta a lato della piccola stazione ferroviaria di Cantù-Cermenate e una nebbiolina persistente rendeva la scena ovattata rotta solo dalle urla dei condannati che, piangendo, si dimenavano e disperatamente invocavano la madre con tutta la loro voce.

È un attimo: le grida vengono sovrastate dal boato dei fucili. Poi, torna il silenzio. 45


Nonostante questi episodi il processo insurrezionale non si ferma, da un lato per il suo carattere popolare, dall’altro per la determinazione degli uomini della Resistenza, dall’altro ancora per l’eco che veniva dal resto d’Italia. Il 16 aprile il CLNAI diffonde le prime istruzioni precise per l’insurrezione. In una seduta di pochi giorni dopo intima ai nemici di arrendersi o perire. Il 21 aprile le forze alleate entrano a Bologna, il 25 aprile i partigiani liberano Milano. Le formazioni repubblichine e germaniche sono allo sbando, si ammassano disordinatamente in direzione del confine. Mussolini lascia Milano nel tentativo di raggiungere la Svizzera. La dittatura fascista esala i suoi ultimi respiri. La mattina del 25 aprile, all’alba dell’insurrezione, in piazza Garibaldi apparirà un volantino della 52ª brigata d’assalto “Luigi Clerici” che incita alla lotta senza quartiere e al rifiuto di ogni compromesso: Il terrore che i nazifascisti hanno della 52ª Brigata è tale che il prefetto di Como, tramite il podestà di Domaso, ha tentato di giungere a un compromesso con i garibaldini. A questo miserabile tentativo il Comando della 52ª Brigata ha risposto con un netto rifiuto: NON SI TRATTA CON I CRIMINALI NAZIFASCISTI!

Sarà proprio Cantù a dare il via al movimento insurrezionale del Basso Lario.

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3. Insurrezione 3.1 23-25 aprile ‘45 LIBERAZIONE DI VIGHIZZOLO È la sera del 23 aprile, un lunedì. Nello, comandante del distaccamento partigiano “Rini”, viene informato da un collaboratore che un ufficiale della SS italiana di stanza a Vighizzolo, se gli fosse stato consentito di rientrare incolume dalla famiglia, era disposto a consegnare loro un ghiotto bottino: un camioncino, una mitragliatrice, due mitra, undici fucili con munizioni e svariate bombe a mano. Avvisati i comandanti degli altri distaccamenti, Nello prende accordi per portare a termine lo scambio alle 19.30 del 25 aprile. I partigiani canturini, che dopo l’arresto del comando di zona hanno perso ogni contatto con le cellule milanesi, ignorano che per lo stesso giorno il CLNAI aveva già fissato la proclamazione dell’insurrezione generale. Caso vuole che la mattina del 25 a casa di Nello è in programma una riunione dei capicellula del PCI di Cantù, con la partecipazione del federale proveniente da Milano. È lui a recare la notizia dell’insurrezione in corso. La riunione politica viene annullata e si convocano d’urgenza i comandanti di tutti i distaccamenti partigiani. Sono circa le 15.30: all’appuntamento sono presenti Nello, Lino, Amleto e Stefano. Manca Vittorio, che non si era riusciti a contattare. Dopo una discussione concitata, la decisione è presa: quella sera si sarebbero recati all’appuntamento e una volta ritirate le armi promesse avrebbero dato il via all’insurrezione. Stefano descrive così quegli attimi: Erano le prime ore del pomeriggio del 25 aprile, e nella casa dove tenevamo le nostre riunioni avevo convocato d’urgenza i partigiani comandanti i distaccamenti del Battaglione “Nannetti” per organizzare l’azione insurrezionale. Avvertivamo tutti un magico momento che esaltava i nostri cuori e le nostre anime, rendendoci convinti e sicuri. Mamma Rosa, mentre preparava il resto dei resti di quello che con molta fantasia chiamavamo caffè, scivolava in mezzo a noi con apprensione 47


materna, ma attenta a seguire il nostro parlottare deciso e dai toni sempre più alti, solo per invitarci a moderare le voci. Quando decidemmo di dare il via all’insurrezione attaccando come primo obiettivo il presidio SS di Vighizzolo nella stessa serata, improvvisamente calò un silenzio che colpì tutti noi.

A quel punto si danno da fare per chiamare a raccolta il maggior numero di partigiani possibile, dandosi un primo appuntamento alle 18.30 in piazza Garibaldi. Nello inforca la bici e si dirige alla Ferriera di Figino, dove riesce a reclutare altri sette uomini. Un ragazzo scende velocemente per via Ariberto lanciando dei manifestini portati dal federale comunista che inneggiavano all’insurrezione, mentre in piazza viene affisso il grande manifesto invitante alla resa incondizionata. Stefano incontra fortuitamente Vittorio, in compagnia dell’amico Moro (Giuseppe Anglieri), e lo mette al corrente delle ultime novità, dicendogli di radunare i suoi uomini per ritrovarsi direttamente a Vighizzolo intorno alle 20. I due si precipitano al garage Volpi, all’incrocio tra via Ettore Brambilla e via 4 novembre, prendono una motocicletta e si allontanano sgommando in direzione di Fecchio. Per il gruppetto riunitosi in piazza Garibaldi è giunto il momento di mettersi in cammino alla volta di Vighizzolo. Nei pressi del macello comunale altri partigiani, che attendevano nascosti nei prati circostanti, si uniscono a loro. In tutto sono poco meno di venti uomini. Anche l’armamento è parecchio scarso: due parabellum, sei moschetti, pistole e qualche bomba a mano. Con l’animo assorto e imperturbabile di chi va incontro alla sorte che ha scelto, la compagnia avanza lungo via Fossano. Stefano racconta: Camminavamo in silenzio a non più di due e con prudente distanza. Sentivo un leggero tepore che mi invadeva tutto il corpo piacevolmente, e nell’aria avvertivo il profumo dei campi e tutto un insieme di colori che mi diceva... primavera. Ero rilassato e contemporaneamente assalito da una grande gioia, la gioia di vivere, che la mia giovinezza emergendo mi portava.

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Foto di Fabrizio Livio per il comitato Salviamo Santa Naga

Arrivati all’altezza dell’incrocio con via General Cantore, nei pressi della filanda, i partigiani si fermano in attesa dell’informatore che avrebbe dovuto metterli in contatto con l’ufficiale, ma di lui non c’è traccia. Il miraggio dello scambio va in fumo. Interdetti, si confrontano sul da farsi. Intanto gli uomini del “Brighi”, radunati e guidati da Vittorio e Moro, disarmano i soldati di guardia alla linea ferroviaria Como-Lecco, per poi spostarsi verso Vighizzolo. Nel tragitto catturano due militari delle SS italiane, i quali non esitano a raccontare che l’ottantina di uomini accasermati all’ex filanda, così come la ventina di stanza alle scuole elementari sulla strada per Mirabello, sono con il morale a terra e non aspettano altro che l’occasione per arrendersi. In quei giorni infatti gli alleati erano entrati a Norimberga, i russi si apprestavano a conquistare Berlino, le truppe anglo-americane avevano sfondato la Linea Gotica e avanzavano senza più ostacoli nella Pianura Padana. I partigiani approfittano immediatamente dell’informazione e fanno rotta verso le scuole elementari, che occupano con facilità. Venuti in possesso di un cospicuo numero di armi e munizioni, raggiungono infine i compagni al bivio tra via Italia e via General Cantore. Alle 20.30 tutti i distaccamenti partigiani di Cantù sono a Vighizzolo. Dopo essersi rapidamente consultati, prendono la decisione di provare 49


ugualmente a intimare la resa al comandante della filanda. Le truppe di Nello, ferme in attesa, avevano a loro volta disarmato e catturato un sergente maggiore SS. È insieme a lui che Nello entra nella filanda per un primo tentativo di trattare la resa. Il comandante SS, ricevuto il portavoce, domanda ed ottiene un’ora di tempo per dare una risposta. Prima di lasciare la caserma, Nello improvvisa un comizio davanti ai soldati repubblichini raccolti nel cortile: dice loro che i partigiani hanno circondato la caserma, che presto sarebbero stati raggiunti dai rinforzi in arrivo dalla montagna con mortai e armi pesanti e che per loro non ci sarebbe stato scampo. Conclude il bluff colossale promettendo a tutti coloro che si sarebbero arresi senza combattere dei salvacondotto per fare ritorno a casa. Nell’attesa, il battaglione “Nannetti” provvede a mettere sentinelle sulle strade per Cantù, Mirabello, Brenna e Mariano e ad arruolare una decina di volontari. Alle 22, quando l’ora di proroga era ormai scaduta da tempo, Vittorio torna a parlamentare con il capitano SS, che ne domanda un’altra. All’insaputa dei partigiani, che non si erano premurati di isolare l’edificio tagliando i fili del telefono, quel tempo stava venendo impiegato per chiedere informazioni e rinforzi ai superiori di stanza ad Alzate. Alle 23 la pazienza è finita: una delegazione partigiana, questa volta composta da tutti i comandanti dei gruppi canturini accompagnati da altri uomini, rientra nella filanda. Il tono delle condizioni della resa è perentorio. Lino sorprende un ufficiale al telefono e gli rompe la cornetta senza troppi complimenti. Nel frattempo i reparti partigiani occupano la caserma e silenziosamente iniziano a disarmare i soldati, senza incontrare la benché minima resistenza. Un partigiano entra nell’ufficio di compagnia, scassina la cassaforte e distribuisce i soldi contenuti ai militari, così da potersi comprare il biglietto per tornare a casa. Quando i soldi requisiti sono ormai finiti, a un militare che si lamenta di non avere nemmeno una lira Lino mette in mano una radio dicendogli: «Vendi questa!». A quel punto gli ufficiali SS, che stavano temporeggiando, dichiarano lapidariamente di respingere la proposta di resa e optare per la difesa ad oltranza. Usciti dall’ufficio dove si stavano svolgendo i negoziati si accorgono però di essere stati completamente abbandonati dai loro 50


uomini. Al comandante non resta che chiedere di sparare qualche colpo in aria, così da poter affermare di essersi arreso combattendo. All’una la filanda è stata debellata. Vighizzolo è libera. I lasciapassare, predisposti appositamente dalla tipografia Primi, vengono consegnati a tutti i militari, ufficiali compresi, fino a che non vanno esaurendosi. Stefano manda quindi a Cantù due giovani partigiani, Angelo Longoni e Lino Benzoni, con il compito di ritirarne di nuovi ed avvisare dell’insurrezione in corso. Lungo via Milano, all’altezza con l’attuale via Longoni, i due vengono sorpresi da una ronda di ufficiali della SS italiana. Angelo, 19 anni, viene colpito a morte, mentre Lino, gravemente ferito, riesce straordinariamente a seminare gli inseguitori e rientrare dai compagni per riferire l’accaduto. Recuperata una macchina, una Balilla messa a disposizione dalla Ferriera Orsenigo, viene accompagnato d’urgenza in ospedale. Un’infermiera li fa accedere da un ingresso laterale e i medici entrano ed escono dalla sala di ricovero in borghese, per non insospettire i fascisti che presidiavano la struttura. Cantù, in quel momento, era ancora occupata... e a Vighizzolo non se lo erano certo scordato.

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3.2 25-28 aprile 1945 LIBERAZIONE DI CANTÙ Tra i partigiani del “Nannetti” era spuntato un misterioso foglio a matita in cui a nome del CLN si ingiungeva di ripiegare su Varese. La disposizione viene giudicata inattendibile e di comune accordo si decide di marciare verso Cantù. Se l’azione non fosse andata a buon fine si sarebbero ritirati su Barlassina, l’unica altra zona che si sapeva per certo in insurrezione. Il varesotto era ancora saldamente controllato dai nazifascisti: per i partigiani ritrovarsi lì avrebbe significato andare incontro a morte certa. Vittorio riceve l’incarico di organizzare la difesa e dispone due posti di blocco, uno verso Cascina Amata, l’altro verso Cantù. Manda inoltre diversi uomini in perlustrazione, scelta che si rivelerà provvidenziale: le ripetute richieste di rinforzi inviate dalla filanda avevano dato infatti i loro frutti, benché tardivi. Intorno alle 7 di mattina del 26 aprile fa capolino un primo camion di nazifascisti proveniente dal comando di divisione di stanza ad Alzate. Tre partigiani avvistano il mezzo: mentre due di loro corrono a mettere in allerta il comando partigiano di Vighizzolo, il terzo, Gino Terraneo, imbracciato uno Sten fronteggia da solo l’automezzo. Spara all’impazzata, ma ha presto la peggio: ferito alla gamba e al fianco perde i sensi, viene creduto morto e lasciato a bordo strada. Il suo gesto permette agli altri partigiani di non farsi cogliere alla sprovvista. Armato di due mitragliatrici un camioncino requisito al salumificio Baldo, si apprestano ad affrontare a viso aperto il nemico. All’arrivo dei tedeschi in via General Cantore, di punto in bianco il camioncino si rifiuta di partire. A distanza di tiro iniziano ad esplodere gli spari: in breve tempo per gli antifascisti la situazione si mette male. Daniele Terraneo si porta allora davanti al radiatore e, incurante del fitto sibilare dei proiettili, rimette in moto il mezzo con l’avviamento a mano. La riaccensione del camioncino riporta in vantaggio i partigiani, che riescono a colpire l’autista avversario. I nazifascisti sono costretti quindi a ripiegare ed asserragliarsi in una casa poco distante, di cui prendono in ostaggio gli abitanti. 52


L’edificio è attorniato da prati scoperti che lo rendono facilmente difendibile dalle finestre del primo piano: in un primo tentativo di guidare la sua squadra all’assalto, il partigiano Moro viene freddato. Gli scontri si protraggono senza esclusione di colpi per diverse ore. Nella speranza di sbloccare la situazione, verso le 8.45 Vittorio chiede al parroco di Vighizzolo, don Vittorino Busnelli, di fare da mediatore per trattare la resa. Stando al rapporto stilato da Vittorio, a metà percorso il parroco si sottrae all’impresa, forse perché preso dal panico. Fortunatamente sempre più persone, mosse dall’indignazione per la presa in ostaggio dei compaesani, accorrono a dare man forte ai partigiani. Ad assediare l’abitazione sono ora una cinquantina di uomini. I nazifascisti si trovano in grande difficoltà e mandano una ragazza, tra quelle prese in ostaggio, a chiedere di parlamentare. A quel punto il sacerdote si risolve ad intervenire e riferisce che gli occupanti sono disposti ad arrendersi dietro promessa di libertà incondizionata. Le condizioni del cessate il fuoco vengono accettate, e intorno alle 10 i nazifascisti si arrendono. Il bilancio della battaglia è di un morto e tre feriti per i partigiani, cinque morti e sei feriti tra nazifascisti. Questi ultimi vengono addossati al muro di cinta della casa. Vittorio, scosso dalla morte dell’amico Moro, intende passarli per le armi. Le resistenze da parte di alcuni compagni e la frapposizione del prete lo convincono infine a condurli prigionieri al comando partigiano stabilitosi nelle scuole. Un’altra macchina parte alla volta dell’ospedale, con a bordo un milite ferito e Gino Terraneo, il partigiano che aveva rallentato l’arrivo dell’automezzo nemico. Confortato dalla leggera pioggia, Gino era riuscito a riprendersi e trascinarsi fino a una cascina nelle immediate vicinanze, dove una donna gli aveva bloccato l’emorragia alla gamba con un laccio e prestato i primi soccorsi. Ancora non si sono spenti gli echi della battaglia che da Brenna compare un secondo camion, questa volta di militari tedeschi. Viene ingaggiato un combattimento al bivio con la strada per Cascina Amata. Alcuni partigiani, tra cui Lino e Vittorio, strisciando nei campi si portano alle 53


spalle del nemico e aprono il fuoco. Vedendosi circondati, i tedeschi si danno disordinatamente alla fuga nei boschi vicini. In quei momenti concitati un altro autoblindo proveniente da Como, carico di soldati della GNR, si aggira per il canturino seminando il panico. Dopo aver appiccato il fuoco a una cascina all’incrocio di Mirabello, fa tappa al comando SS del collegio delle Sacramentine, dopodiché riparte in direzione di Como preso da delirio omicida. Luigia Sgaraboldi, in attesa della sorella alla fermata del tram, viene colpita da una mitragliata che le costerà l’amputazione di una gamba. Più avanti, all’altezza di Albate, tre donne scendono dal tram diretto a Cantù perché le notizie arrivate confusamente facevano ritenere più prudente non proseguire fino al capolinea. Al vederle, i soldati dell’autoblindo puntano i mitra e sparano. Nessuna delle tre sopravvive. Una di loro, Rina Bianchi, era un’attiva staffetta antifascista di Cantù. Negli stessi istanti transita da Figino Serenza una colonna SS di circa 200 uomini. Attraversando Mariano, la colonna aveva reagito al tentativo di fermo da parte della popolazione installando una mitragliatrice in piazza, che aveva mietuto sei vittime civili prima di essere messa fuori uso. Le SAP della Ferriera intervengono prontamente: bloccata la colonna, fanno prigionieri i fascisti e li ammassano nel cortile dello stabilimento. Nel primo pomeriggio del 26 aprile si dà il via al piano per la liberazione di Cantù. Le formazioni partigiane sono galvanizzate dall’abbondante numero di armi recuperate a Vighizzolo e dal massiccio afflusso di uomini dal paese e dalle SAP. Lasciato un distaccamento a Vighizzolo, a bordo di uno dei camion sottratti ai nazifascisti si dirigono verso Cantù, iniziando a concentrarsi al Torchio presso la segheria Ceriani. Squadre partigiane cominciano a circolare in avanscoperta per la città. In quegli istanti i rappresentanti del CLN cittadino, rientrati d’urgenza a Cantù, stavano trattando la resa con il colonnello SS Enzo Celebrano nel tentativo di evitare ulteriori spargimenti di sangue. Il colonnello tentenna e per farsi un’idea della situazione manda delle pattuglie in perlustrazione per le vie di Cantù. Tra via Brambilla e via 4 novembre tre ufficiali SS si imbattono in una banda di partigiani che apre il fuoco. Un proiettile colpisce una bomba a mano che uno degli ufficiali portava 54


addosso e i tre sventurati saltano letteralmente in aria. Ricevute le loro piastrine di riconoscimento, il colonnello si affretta a firmare la resa, che viene formalmente siglata nel collegio arcivescovile Cardinal Ferrari. Il pomeriggio del 26 aprile CantÚ è finalmente libera.

La dichiarazione di resa firmata dal colonnello Celebrano

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Il commissario prefettizio consegna l’amministrazione della città nelle mani del primo sindaco concordato dal CLN per il dopo Liberazione, Luciano Inganni. Walter, il responsabile politico del “Nannetti”, invia a Vittorio, che era rimasto a Vighizzolo, il comando di prendere possesso della caserma fascista di Cantù e di ristabilire l’ordine in città. Armi, uomini e materiale bellico sono talmente abbondanti che si predispone un posto di blocco in via Vergani, sulla strada per Como, piazzando un cannoncino anticarro che nessuno sapeva usare ma che faceva comunque la sua gran figura. La notizia dell’avvenuta Liberazione rimbalza di casa in casa. I renitenti alla leva si affacciano timidamente dai solai in cui stavano acquattati da tempo, i clandestini nascosti nelle cascine più sperdute si avviano con passo incredulo verso casa. I canturini scendono nelle strade esultando per la fine della guerra e dei soprusi. Molti non sono per niente inclini alla clemenza nei confronti dei fascisti, né tantomeno di chi con loro ha collaborato, come quanti si erano resi autori di delazioni che avevano portato ad arresti e lutti. I partigiani saccheggiano il bar del “gabbiotto”, il cui titolare era di riprovata fede fascista, e consegnano vino, liquori e dolci requisiti al ricovero di vecchiaia e all’ospedale. Quattro ausiliarie fasciste vengono trascinate in piazza dai cittadini e sottoposte all’umiliante cerimonia della rapatura, episodio che non mancherà di sollevare le critiche delle donne della Resistenza, prime fra tutte Rosa Primi e Maria, futura moglie di Inganni. Intanto nello stesso luogo si sprecano le manifestazioni di giubilo più scanzonate e liberatorie. Racconta Maria: Ad esempio, il povero Casati: era un vecchio socialista, e i fascisti l’avevano preso e portato in caserma dove gli hanno fatto bere due bicchieri di olio di ricino. Allora lui si è fatto un busto di gesso, a figura perfetta di Mussolini. Diceva: “Ce l’ho in camera, quando è il momento lo porto in piazza e gli faccio fare...” e così ha fatto. L’ha messo su un carrettino, ha portato una sedia e l’ha messo su, poi gli ha fatto la predica: “Adesso ti do tante legnate, tutte le legnate che hai potuto dare all’Italia”, e lì si è sfogato.

Il 27 aprile, le formazioni partigiane sfilano trionfalmente per la città, accolte dalle manifestazioni d’affetto della popolazione. 56


In apertura, su un carro di buoi, campeggia il busto del duce messo alla berlina, sormontato da un ritratto di Matteotti. Il lungo corteo rende omaggio alla camera ardente per i caduti partigiani, allestita nella via che presto prenderà proprio il nome del martire antifascista. Per rifornire i prestinai rimasti senza farina viene requisito il grano destinato alla semina immagazzinato dalle SS a Villa Foppa Pedretti. Dallo stabilimento Romanatti di Cantù-Asnago vengono invece prelevati dei quarti di carne destinati all’esercito, che prima di essere distribuiti alle macellerie vengono fatti sfilare per le vie del centro su carri trainati da cavalli. Gli americani arrivano a Cantù il 28 aprile, trovandola sotto la guida dei rappresentanti democratici del CLN. Il comandante delle truppe alleate assegna ufficialmente alle forze partigiane la responsabilità di mantenere l’ordine pubblico. Nelle settimane successive infatti non mancheranno episodi di regolamenti di conti e rappresaglie. I partigiani canturini smobiliteranno e consegneranno le armi il 6 di giugno, quando la città è ormai passata sotto la supervisione di un vicario in vista delle elezioni, i partiti si sono riaffacciati sulla scena pubblica e il futuro è ancora tutto da scrivere. I carri con la carne sfilano per la piazza prima di dirigersi verso le macellerie. In basso: il carro di testa del corteo, con il ritratto di Matteotti che sormonta il busto del duce. In basso a destra: alcuni esponenti del CLN canturino. Da sinistra: Colombo, Inganni, Bottagisi, Gerosa, Anselmi. Pagina seguente: i partigiani canturini marciano lungo via Ariberto

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I seguenti lavori sono stati indispensabili alla stesura di questo libro. A chi prima di noi si è impegnato nella ricostruzione della Resistenza cittadina e dei suoi protagonisti va la nostra più profonda riconoscenza. BIBLIOGRAFIA Paola Mauri, La Resistenza e la lotta di Liberazione a Cantù, [Comune di Cantù], Cantù 1975 Giancarlo Montorfano, I giorni del Belvedere. Incontro con Giusto Perretta, Comune di Cantù, Cantù 1995 Rosanna Moscatelli, Classe 3ª A, Oltre la memoria: storia dei canturini che nei campi di concentramento testimoniarono con la vita la loro resistenza al nazifascismo, Scuola media statale Francesco Anzani, Cantù 2002 Gianni Paini, I giorni della insurrezione. Cantù 25-26 aprile 1945, La Strada, Cantù 1993 Giusto Perretta, Un accenno con intelletto d’amore, Istituto Comasco per la Storia del Movimento di Liberazione Nazionale, Como 1990 Mario Tonghini, Quel caffè prima della battaglia, in “InsiemeCultura”, n. 5, dicembre 1984 SITOGRAFIA (ultima consultazione 15/04/2016) Luigi Clerici, 28 aprile 2014-28 aprile 1945. Cronache di guerra: antefatti politici. Disponibile all’indirizzo: https://luigiclerici.wordpress.com/2014/04/28/28-aprile-2014-28-aprile-1945cronache-di-guerra-antefatti-politici/ ANPI Cantù-Mariano, Dalla dittatura alla libertà, in “Bollettino dell’Associazione Nazionale Partigiani di Mariano Comense e Cantù”, n. 3, primavera 2012. Disponibile all’indirizzo: http://webstorage.mediaon.it/media/attach/2012/06/MARIANO_ANPI_ Bollettino_n3.pdf IIS Da Vinci-Ripamonti, Storie di resistenza comasca. In occasione del 70° della Liberazione. Disponibile all’indirizzo: http://www.davinciripamonti.gov.it/wp/wp-content/uploads/cittadinanza/ Opuscolo_2015.pdf 8 Aprile 1945: La fucilazione dei quattro ballerini. Disponibile all’indirizzo: http://viaottomarzo.altervista.org/I-4-Ballerini.html Sul retro di copertina: discorso ufficiale del comandante “Stefano” in piazza Garibaldi – 27 aprile 1945

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CC Quest’opera non è sottoposta a vincoli di copyright Licenza Creative Commons – Attribuzione CC BY Il sapere appartiene a tutte/i Finito di stampare nel mese di aprile 2016 presso Tommaso Tettamanti Tipo&Grafia, Cantù (Como) Progetto grafico: Enne Boi



Quando decidemmo di dare il via all’insurrezione attaccando come primo obiettivo il presidio SS di Vighizzolo nella stessa serata, improvvisamente calò un silenzio che colpì tutti noi. In quell’istante sfilavano davanti alla mia mente fotogrammi di ricordi che si sovrapponevano fra loro confusamente. La guerra partigiana vissuta fra i monti, la guerriglia di pianura vissuta con tutte le sue paure ed angosce, i visi dei compagni morti, catturati, feriti, fucilati. Un istante terribile mi prese: avrei avuto la forza ed il responsabile coraggio per comandare ancora una volta in questo ultimo vitale momento con il quale stavamo per raggiungere quella libertà sognata in tanti mesi, anni di lotta e sacrifici? Mario Tonghini comandante “Stefano” incaricato della Liberazione di Cantù


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