CNEL
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro Commissione dell’Informazione (III)
RAPPORTO SUL MERCATO DEL LAVORO 2006
18 Luglio 2007
Questo rapporto è stato realizzato da un gruppo di lavoro coordinato dal Prof. Carlo Dell’Aringa. Il lavoro è stato svolto da Fedele De Novellis e Valentina Ferraris. Giovanna Barbera ha curato il Paragrafo 2.4, Michele Simone i Riquadri 4.2 e 4.4. Editing e grafici: Dalia Imperatori
Indice
Indice Premessa............................................................................................I Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006................................. 1 1.1 Demografia e partecipazione in sintesi............................................1 1.2 Le tendenze degli ultimi anni.........................................................3 Riquadro 1.1 - Dinamiche della popolazione in età lavorativa: un confronto internazionale...................................................................... 7 Riquadro 1.2 - Proiezioni demografiche e prospettive per l’offerta di lavoro................................................................................................ 9 Riquadro 1.3 - Dinamiche della forza lavoro: un confronto internazionale.......................................................................................15 Riquadro 1.4 - L’evoluzione della partecipazione tra generazioni..................18
1.3 I risultati del 2006..................................................................... 23 Riquadro 1.5 - Cosa spiega la bassa offerta di lavoro da parte delle donne italiane?..............................................................................28
1.4 Gli immigrati............................................................................. 36 Riquadro 1.6 - Tentativi di stima della popolazione straniera in Italia............40
Capitolo 2. L’occupazione................................................................. 49 2.1 L’occupazione in sintesi............................................................... 49 2.2 L’andamento dell’occupazione...................................................... 51 Riquadro 2.1 - La crescita dell’occupazione nei maggiori paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni e la posizione dell’Italia.................75 Riquadro 2.2 - L’andamento della produttività del lavoro nei maggiori paesi industrializzati e la posizione dell’Italia................................67
2.3 Gli andamenti settoriali............................................................... 74 Riquadro 2.3 - Il trend di caduta dell’occupazione nel settore agricolo: un confronto fra l’Italia e gli altri maggiori paesi industrializzati...................78 Riquadro 2.4 - Il peso della caduta dell’occupazione nel settore tessile: un confronto fra l’Italia e gli altri maggiori paesi industrializzati........86
2.4 Gli andamenti territoriali............................................................. 93 2.5 Le caratteristiche della nuova occupazione.................................. 100
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 2.5 - Le dimensioni del lavoro atipico........................................ 126
Capitolo 3. La disoccupazione......................................................... 135 3.1 In sintesi................................................................................ 135 3.2 La disoccupazione nel 2006....................................................... 136 Riquadro 3.1 - L’andamento della disoccupazione nei maggiori paesi industrializzati e la posizione relativa dell’Italia................................ 140 Riquadro 3.2 - Una curva di Beveridge per l’Italia.................................... 145 Riquadro 3.3 - Evoluzioni recenti della disoccupazione nei paesi europei: un’analisi sulla base dei risultati delle inchieste congiunturali presso le famiglie............................................................. 167 Riquadro 3.4 - L’indennità di disoccupazione: un confronto tra Paesi.......... 170
Capitolo 4. Le tendenze del 2007 sulla base dei primi indicatori congiunturali e del mercato del lavoro........................................... 175 4.1 In sintesi................................................................................ 175 4.2 Il ciclo dell’economia italiana nel 2007........................................ 176 4.3 Gli indicatori del mercato del lavoro............................................ 182 Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro.. 195 5.1 In sintesi................................................................................ 195 5.2 Transizioni e nuove forme contrattuali......................................... 197 Riquadro 5.1 - Gli interventi della Legge Finanziaria per il 2007................. 199 Riquadro 5.2 - I risultati dell’indagine Confindustria................................. 201
5.3 Le politiche per le pari opportunità............................................. 219 Riquadro 5.3 - La partecipazione femminile dall’indagine Isfol-PLUS........... 223 Riquadro 5.4 - Le novità della Finanziaria 2007 per le politiche family-friendly.................................................................................... 232
Bibliografia..................................................................................... 237
ii
Premessa
PREMESSA 1. La Commissione per l’Informazione presenta, con questo Rapporto, la tradizionale analisi del mercato del lavoro in Italia nel 2006, le sue caratteristiche, le sue dinamiche, i suoi aspetti problematici, anche perseguendo un tentativo di analisi comparata a livello internazionale.
2. Il Rapporto del 2006 – curato per il secondo anno dal prof. Carlo Dell’Aringa, che ha coordinato un gruppo di ricercatori dell’Università Cattolica e del centro studi REF - si presenta fortemente rinnovato nella sua veste editoriale, sia al fine di offrire una più agevole e chiara lettura dei fatti del mercato del lavoro sia per meglio suddividere la parte di analisi da quella relativa alle politiche. In questa ottica i tre capitoli analitici sono dedicati alla offerta di lavoro; alla occupazione; alla disoccupazione. Il capitolo sulle politiche del lavoro affronta, in questa annualità, gli effetti delle riforme normative sulle transizioni –riprendendo un filone di analisi iniziato lo scorso anno- e il tema del lavoro femminile. Ogni capitolo, inoltre, contiene al suo interno dei riquadri di approfondimento che offrono dei breve flash su fenomeni del mercato del lavoro italiano ritenuti di particolare interesse, spesso effettuando un confronto con quello che avviene a livello internazionale.
3. Infine, il Rapporto presenta - ed è questa una novità - anche una analisi del mercato del lavoro nel 2007, alla luce delle informazioni disponibili nel primo trimestre. Questa parte, proprio perché è basata solo sui dati del 1° trimestre 2007, che non consentono di trarre valutazioni conclusive sull’anno in corso, deve essere valutata con grande cautela. Nelle intenzioni della Commissione, tuttavia, essa rappresenta un tentativo di fornire un contributo di carattere congiunturale sulle dinamiche del mercato del lavoro. 4. Il Rapporto sottolinea che il 2006 è stato un anno positivo per l’occupazione, continuando la tendenza di crescita che si sta verificando da diversi anni. In un contesto di progressiva ripresa economica - dopo un quinquennio di stagnazione - si è registrata la massima crescita di occupazione nel nostro Paese. E’ importante notare che è rimasta elevata l’elasticità della domanda di lavoro al ciclo, con andamenti sul PIL dell’occupazione che hanno proceduto di pari passo, ma soprattutto appare migliorata la velocità di reazione del mercato del lavoro alla
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
crescita economica: i dati mostrerebbero, infatti, che sono ormai quasi spariti i ritardi di adeguamento che prima caratterizzavano l’economia italiana.
5. L’analisi congiunturale del 2006 e dei primi mesi del 2007, evidenzia, tuttavia, come il risultato significativamente positivo in termini di creazione di posti di lavoro, sia dovuto alla prima parte del 2006 mentre dal terzo trimestre è in atto una fase di progressivo rallentamento nel processo di espansione dell’occupazione. Questa fase di assestamento del mercato del lavoro in Italia appare piuttosto una fase di consolidamento che può preludere ad un rapporto più tradizionale tra crescita dell’occupazione e crescita del PIL. Gli andamenti settoriali confermerebbero che ci troviamo in una situazione del mercato del lavoro coerente con la fase di crescita dell’economia italiana. Nondimeno, appare chiaro che il minore dinamismo della occupazione - dovuto probabilmente anche alla fine della spinta proveniente dalla componente di immigrazione – deve essere attentamente valutato nella definizione delle politiche del lavoro, il cui obiettivo rimane quello di accrescere il tasso di occupazione in Italia, ancora troppo distante da quello medio europeo e dall’obiettivo previsto dalla Strategia di Lisbona.
6. Il risultato quantitativo, inoltre, non deve velare alcune caratteristiche qualitative che possono rappresentare un problema per una “sana” evoluzione del mercato del lavoro italiano. La parte del Rapporto dedicata agli effetti delle forme contrattuali sulle transizioni, rileva alcuni di questi tratti che impongono una approfondita riflessione e che possono essere così sintetizzati: a) la congiuntura più favorevole ha aumentato le probabilità di prima occupazione, sebbene non siano aumentate le posizioni a tempo indeterminato; b) si è registrata una riduzione della disoccupazione, in larga parte attraverso lo strumento del contratto a termine, ma anche con un aumento della percentuale di quanti escono dalla disoccupazione con un contratto a tempo indeterminato; c) rimane più elevata la probabilità di divenire disoccupato per chi ha contratti atipici rispetto ai contratti a tempo indeterminato; d) un rafforzamento della tendenza a reiterare l’occupazione con contratti atipici; e) l’allargarsi della platea di coloro che sono assunti con contratti a termine, assumendo questo un ruolo rilevante per l’entrata nel mercato del lavoro; f) la situazione complessivamente sfavorevole
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Premessa
dell’occupazione femminile; g) il fatto che il lavoro temporaneo interessi non solo i giovani ma sia largamente presente anche nelle fasce di popolazione sopra i 35 anni, per le quali aumenta la persistenza in questa tipologia contrattuale; h) una maggiore incidenza del contratto a termine nel Mezzogiorno, quale soluzione in un’area dove è più difficile avere un rapporto di lavoro regolare; dove continuano ad essere scarse le probabilità di conversione verso il contratto a tempo indeterminato; dove, infine, è più frequente il passaggio verso l’inattività. Questi risultati non sono certamente conclusivi rispetto alle dinamiche del mercato del lavoro ma indicano alcune importanti tendenze, in particolare l’incidenza che sta assumendo il contratto a termine nelle attuali condizioni di mercato del lavoro e di ciclo economico, su cui sono necessari ulteriori approfondimenti e verifiche più dettagliate. La Commissione per l’Informazione sottolinea così, ancora una volta, quanto sia importante migliorare le informazioni statistiche alla base dell’analisi delle transizioni, che si dimostra essere uno strumento importante per comprendere le evoluzioni del mercato del lavoro.
7. Rimangono, inoltre, alcune debolezze strutturali del sistema economico italiano, su cui il Rapporto produce una analisi approfondita e utile per il dibattito scientifico e delle forze sociali. Il tema della scarsa crescita della produttività del lavoro, alla base della riduzione del tasso di sviluppo della economia italiana, è qui nuovamente sottolineato. Il problema è reso ancora più grave dal fatto che nel corso degli ultimi dieci anni a livello internazionale la produttività del lavoro non è diminuita, anzi in alcuni Paesi ha conosciuto importanti tassi di crescita. Il risultato finale è dunque un tasso di crescita meno significativo e un effetto di penalizzazione della competitività delle nostre imprese e delle dinamiche salariali.
8. Nell’esame delle dinamiche occupazionali, nonostante tassi di crescita dell’occupazione positivi e sostenuti, in linea (e a volte superiori) con quelli dei maggiori paesi industrializzati - che hanno però a volte tassi di occupazione assi superiori a quelli italiani-, l’Italia non riesce a raggiungere i tassi di occupazione previsti dalla Strategia di Lisbona. In questo quadro, il Rapporto analizza i) gli andamenti per settori, dove si riscontra una ripresa nell’industria e il permanere di una forte dinamica espansiva nei servizi; ii) gli andamenti territoriali, che vedono
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
una convergenza delle dinamiche tra le differenti aree e una ripresa dell’occupazione nel Mezzogiorno – dato messo però nuovamente in dubbio dalle evidenze empiriche dei primi mesi del 2007, che hanno registrato un nuovo aprirsi della forbice, a danno del Mezzogiorno; iii) gli andamenti per tipologia, caratterizzati da una timida ripresa dell’occupazione indipendente, che resta però ancora lontana dai livelli di alcuni anni fa - effetto questo dovuto alla normativa introdotta in materia di rapporti di lavoro, oltre che ad un impatto statistico attribuibile alla nuova rilevazione sulle forze di lavoro Istat e che comunque necessita di un più attento esame, anche nell’ambito delle prossime attività del Cnel, delle cause che hanno determinato questa contrazione occupazionale.
9. L’innalzamento del tasso di occupazione in Italia non può prescindere da un recupero della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. In questo, come è noto, l’Italia sconta un pesante ritardo con tutti i maggiori Paesi industrializzati. Pure in presenza di una crescita significativa dell’occupazione femminile nel 2006 - per la quale si assiste ad una crescita significativa rispetto all’occupazione maschile nei contratti atipici sia in termini assoluti sia in termini relativi-, tuttavia, ciò non può nascondere quanto ampia sia ancora la distanza che ci separa dal dato medio europeo – circa 10 punti percentuali - e quanto lontani sia l’Italia dall’obiettivo della Strategia di Lisbona -46,3 per cento a fronte del 60 per cento. Il Rapporto dedica numerosi approfondimenti sia nella parte analitica sia in quella delle politiche al tema dell’occupazione femminile, ricordando come questi dati assai insoddisfacenti siano da attribuire sia alla scarsa domanda di lavoro femminile –il che determina un effetto scoraggiamento significativo soprattutto nel Mezzogiorno- sia alla modesta partecipazione delle donne al mercato del lavoro – da attribuire anche alla scarsità di servizi di welfare (p.es. i servizi per l’infanzia e per la vecchiaia), a strumenti di incentivazione e di sostegno al lavoro femminile che, per quanto si siano evoluti in questi anni, non sono ancora al livello di molti paesi europei, alla mancanza di servizi di assistenza per le famiglie. Queste considerazioni ci portano alle politiche necessarie ad aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro: aumento dei servizi per conciliare vita lavorativa e vita familiare; maggiore flessibilità nelle opportunità di impiego – e qui l’utilizzo del part time può contribuire in maniera determinante all’innalzamento del tasso di occupazione delle donne; politiche di congedi per maternità
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Premessa
che tengano conto delle opportunità di occupazione; interventi fiscali a favore delle donne. Su questi temi l’attuale Consiliatura del CNEL ha avuto modo di esprimersi in più occasioni. In particolare, sulle politiche a sostegno della famiglia e sulla necessità di disporre di un sistema di livelli essenziali delle prestazioni sociali, il CNEL ha rivolto precise proposte con l’obiettivo di costruire un sistema di welfare moderno e responsabile, attento alle esigenze di una realtà sociale quale quella italiana che si sta profondamente modificando e che ha bisogno di nuovi modelli di protezione sociale, fortemente legati al territorio ma sorretti da una logica di solidarietà nazionale. Interventi di politica fiscale, servizi per le famiglie – a sostegno della natalità ma anche della cura degli anziani non autosufficienti -, misure per conciliare vita lavorativa e vita familiare, sono questi i cardini delle azioni che il CNEL ha richiamato nelle sue proposte al Parlamento e al Governo.
10. Il Rapporto non manca di evidenziare la caduta, che appare strutturale, del tasso di disoccupazione, la diminuzione della disoccupazione di lunga durata e la positiva correlazione tra qualificazione e riduzione del rischio disoccupazione. E’evidente che questi fenomeni segnalano una modifica progressiva degli equilibri del mercato del lavoro italiano. Ed è altrettanto chiaro che ciò è in parte dovuto alla crescita dell’occupazione, soprattutto nelle aree settentrionali. Altrettanto evidente è però anche il fatto che questa significativa caduta del tasso di disoccupazione può nascondere anche alcuni problemi. Infatti, nelle aree del Mezzogiorno questa caduta appare accompagnarsi ad un incremento delle uscite dalle forze di lavoro, il cosiddetto effetto scoraggiamento, fenomeno che si registra soprattutto tra le donne. Ugualmente importante è il dato registrato dalle analisi congiunturali presso le famiglie, che mostra come la caduta della disoccupazione ha migliorato la percezione delle condizioni del mercato del lavoro ma ancora solo in maniera parziale: un sentimento di preoccupazione sulla situazione occupazionale continua ad essere diffuso nelle famiglie italiane.
11. Sullo sfondo di queste caratteristiche del mercato del lavoro in Italia si agita la questione demografica. Non è un fatto nuovo che la sfida demografica sia la sfida più importante che l’Italia si trova a dovere affrontare nei prossimi decenni. La capacità di vincere questa sfida determinerà il tasso di sviluppo o di declino dell’Italia ed è
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
dunque essenziale che su questa materia il Parlamento, il Governo e le parti sociali assumano decisioni efficaci, con il più largo consenso possibile. L’invecchiamento della popolazione unito alla scarsa natalità determinano un abbassamento progressivo della popolazione in età lavorativa. E’ incoraggiante, in questo quadro, che nel 2006 la crescita dell’offerta di lavoro delle coorti più anziane si sia accelerata. Ne deriva l’importanza strategica di allargare la partecipazione al mercato del lavoro a donne e giovani, che presentano ancora bassi tassi di attività, di favorire politiche di invecchiamento attivo, di gestire politiche attive per l’immigrazione capaci di bilanciare, sia pure in maniera graduale e tenendo conto delle capacità di assorbimento sociale, la diminuzione della popolazione attiva. Alla situazione del lavoro della popolazione immigrata, alle sue caratteristiche, il Rapporto dedica una ampia parte analitica, coerentemente con tutta l’attività che caratterizza questa Consiliatura in materia. L’analisi qui condotta verrà integrata con un approfondimento specifico dedicato alle politiche del lavoro per l’immigrazione, che rappresenterà il contributo del CNEL in vista della prossima Conferenza Nazionale Governo-ANCI dedicata all’immigrazione e che verrà presentato nel prossimo mese di settembre.
12. Il Rapporto non sfugge il tema degli effetti delle riforme del mercato del lavoro. Diversi approfondimenti possono essere segnalati al riguardo – tra cui una interessante esplorazione della curva di Beveridge, che dimostrerebbe come sia migliorato nel tempo il funzionamento del mercato del lavoro in Italia. D’altra parte, oggi il mercato del lavoro è più flessibile e più in grado di adattarsi ai mutamenti del mondo produttivo. Le riforme introdotte – la legge Treu prima, la legge Biagi poi – hanno consegnato, dopo un decennio, una condizione normativa più simile a quella dei maggiori Paesi europei. Ora occorre però che la legislazione si orienti in direzione di un sistema di sostegni al reddito del lavoratore/lavoratrice nella fasi di disoccupazione, di aiuto al giovane che è in cerca di prima occupazione, di contrasto a forme di esclusione sociale e di precarietà. In sostanza, il Rapporto sottolinea come occorra attentamente valutare le evidenze empiriche affinché si possa intervenire con politiche efficaci, e non di ostacolo, al corretto funzionamento del mercato del lavoro, quale strumento per l’innalzamento del tasso di occupazione e il contrasto all’esclusione sociale. E, d’altra parte il dibattito si sta sviluppando intensamente e con differenti valutazioni
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sia nelle istituzioni sia tra le parti sociali sulla base del Libro Verde della Commissione Europea sulla modernizzazione del diritto del lavoro e della recente Comunicazione sul tema della flexicurity.
13. La ricchezza del Rapporto 2006 risiede nelle numerose implicazioni e ulteriori indicazioni di analisi che contiene. Il CNEL su molti di questi temi –come già detto- ha intenzione di condurre direttamente ulteriori studi e ricerche; ma spetta anche alle parti sociali, al Parlamento e al Governo sviluppare queste linee di analisi. Non vi è dubbio che il lavoro in Italia è significativamente cambiato. Mutate sono le condizioni produttive e mutate sono anche le condizioni di lavoro. I dati ci dicono che l’Italia ha sperimentato una importante crescita occupazionale e che la disoccupazione è diminuita. Ma questo non è ancora sufficiente per guarire il mercato del lavoro da squilibri strutturali significativi (donne, Mezzogiorno, giovani, lavoro nero) che ne impediscono una evoluzione moderna, in direzione di una società attiva e inclusiva. Il Rapporto del CNEL 2006 evidenzia che questa è la sfida che deve essere intrapresa e vinta nei prossimi anni e che dobbiamo adottare ulteriori politiche del lavoro per realizzare una società dinamica, in piena occupazione, con una forte qualità nel lavoro, con un sempre più basso livello di esclusione sociale e di povertà, cioè per raggiungere entro il 2010 gli obiettivi della Strategia di Lisbona.
La Commissione dell’Informazione
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Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
1.1 Demografia e partecipazione in sintesi Nel 2006 le forze lavoro sono cresciute complessivamente dello 0.9 per cento. A tale incremento hanno contribuito sia la componente femminile che quella maschile: in particolare, l’apporto maggiore è stato dato dalle donne, che pur pesando meno (nel 2006 hanno rappresentato il 40 per cento delle forze lavoro totali), hanno registrato una crescita non trascurabile: +1.1 per cento. Per i maschi, invece, l’incremento è stato dello 0.7 per cento. L’evoluzione del mercato del lavoro è determinata da due fattori: la demografia e la propensione a partecipare al mercato del lavoro, espressa dal tasso di attività. Per le donne la crescita delle forze lavoro osservata nel 2006 è stata determinata da entrambe le componenti, mentre per gli uomini è soprattutto la componente demografica a dominare. Nell’ultimo decennio, la demografia è stata complessivamente sfavorevole: uno degli effetti del fenomeno dell’invecchiamento è rappresentato dalla riduzione della popolazione in età lavorativa. Nel 2003 si è osservata un’inversione di tendenza, per effetto della regolarizzazione dei cittadini stranieri promossa con la legge Bossi-Fini. Nel 2006, però, gli effetti erano già pressoché assorbiti, e la crescita della popolazione in età lavorativa, pur restando positiva, ha registrato una decelerazione. Gli immigrati rappresentano ormai il 4.5 per cento della popolazione, con una struttura demografica concentrata nella fascia d’età tra i 18 e i 39 anni. È però notevolmente cresciuta negli ultimi anni la presenza di minorenni sul totale degli stranieri. La popolazione straniera è caratterizzata, inoltre, da livelli elevati dei tassi di attività (87 per cento); il suo impatto sulla forza lavoro non è quindi trascurabile. Negli ultimi anni la contrazione della popolazione in età lavorativa non ha impedito l’aumento delle forze lavoro, anche grazie all’incremento della partecipazione al mercato, permessa in particolare dalla crescita del tasso di attività femminile. Nonostante la partecipazione femminile resti su livelli bassi, se confrontati con altre economie, l’incremento è
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
stato importante, favorito dalla crescita della scolarizzazione femminile e dalla terziarizzazione dell’economia. Nel 2006 le tendenze di mediolungo periodo riguardanti la partecipazione sono state confermate: è proseguito l’incremento del tasso di attività femminile, pur con qualche eccezione. Ha accelerato la crescita dell’offerta di lavoro delle coorti più anziane, sia di uomini che di donne, grazie non solo alla maggior consistenza delle coorti, ma anche a tassi di attività più elevati. Anche nel caso dell’incremento dei tassi di attività per le coorti più anziane si tratta di una conferma di un fenomeno in atto già da qualche anno. L’offerta di lavoro giovanile, invece, continua a contrarsi, per effetto non solo di una demografia poco favorevole, ma anche di una riduzione del tasso di attività. La minore partecipazione che caratterizza le classi più giovani è da ricondurre soprattutto al fenomeno dell’incremento della scolarità, favorito anche dalle misure di innalzamento dell’obbligo scolastico degli ultimi anni. A ciò però si somma anche un effetto scoraggiamento, che sembra interessare soprattutto le coorti meridionali e che spinge alcuni giovani fuori dal mercato del lavoro. In generale, i risultati del 2006 appaiono positivi, ma non scevri di alcune ombre, soprattutto per quanto riguarda il Sud.
Popolazione e forze lavoro Forze lavoro
Popolazione 15-64 anni (sc. dx.)
25 000
39 600
24 500
39 200
24 000 38 800 23 500 38 400
23 000 22 500
38 000 1992
1994
1996
1998
2000
2002
Migliaia - Fonte ISTAT
2004
2006
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
1.2 Le tendenze degli ultimi anni L’evoluzione demografica: rallenta la crescita della popolazione in età lavorativa.
La popolazione in età lavorativa, ovvero di età compresa tra i 15 e i 64 anni, nel 2006 ammontava, sulla base della stima rapida dell’Istat, a 38.9 milioni di persone. Rispetto al 2005, tale popolazione è cresciuta dello 0.1 per cento. Come si può vedere dal grafico allegato, la sua ampiezza era andata riducendosi per un decennio, registrando tassi di variazione negativi; dal 2003, tale tendenza si è invertita, per effetto principalmente della regolarizzazione dei cittadini stranieri promossa con le leggi 189/02 e 222/02 (leggi Bossi-Fini), in seguito alle quali sono stati concessi circa 650mila permessi di soggiorno in un anno, e i cui effetti sulla popolazione residente si sono spalmati su un triennio circa, a causa dei ritardi nelle iscrizioni in anagrafe. Data peraltro la peculiare struttura demografica della popolazione immigrata, concentrata nelle età attive, l’impatto delle regolarizzazioni avviene soprattutto sulla popolazione in età lavorativa, che infatti nel 2005 era più alta di quasi 600mila unità rispetto al 2002, con un incremento cumulato dell’1.6 per cento. Gli effetti della sanatoria sono andati gradualmente affievolendosi, e già nel 2006 erano pressoché assorbiti; la crescita della popolazione ha registrato quindi una netta decelerazione (pur restando positiva). La contrazione della popolazione in età lavorativa dai primi anni novanta è riconducibile alla progressiva diminuzione della numerosità delle coorti giovani in ingresso, a sostituzione di coorti anziane in uscita
L'evoluzione della struttura della popolazione italiana 15-64 (sc. dx)
<15
>65
22%
70%
20%
69% 68%
18%
67% 16% 66% 14%
65%
12%
64%
10%
63% 1982 1985 1988 1991 1994 1997 2000 2003 2006 Pesi % sul totale popolazione - Fonte ISTAT
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
di ampiezza crescente (ovvero, dai nati a ridosso della seconda guerra mondiale, e quindi meno colpiti dagli effetti negativi del conflitto). Il 1992 è l’anno in cui cominciò la fase di assottigliamento della popolazione in età lavorativa, ma anche quello in cui il peso della popolazione anziana (oltre i 65 anni) risultò pari al peso dei giovani (sotto i 15 anni). È stato l’anno in cui tendenze che già avevano cominciato a manifestarsi nel corso degli anni ottanta, ovvero il graduale invecchiamento della popolazione, diventarono evidenti. L’indice di invecchiamento , che fino ad allora era rimasto al di sotto dell’unità, nel 1992 risultò pari ad uno. Da allora tale rapporto è andato aumentando: nel 2006 per ogni giovane c’erano 1.4 anziani. Come noto, il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è determinato da due fattori principali; la caduta della fecondità (ovvero, del numero medio di figli per donna in età fertile), e il progresso in termini di longevità. Il primo, combinandosi con una struttura della popolazione sbilanciata verso le coorti più anziane (e quindi una minor ampiezza delle coorti fertili), comporta un tasso di natalità contenuto. Nel 2006 il tasso di fecondità ha registrato un piccolo incremento, salendo a 1.35 figli per donna (da 1.32 del 2005); si tratta del livello più alto toccato in Italia dal 1990. Il minimo storico è stato toccato nel 1995 (1.19 figli per donna); da allora si è osservato un trend crescente, sebbene i livelli siano ancora distanti da quelli medi europei (1.52 figli per donna nel 2005). Il tasso di natalità è stato pari al 9.5 per mille. L’aumento della longevità è invece mostrato dalle stime di speranza di vita alla nascita, che nel 2006 superano, per la prima volta, i 78 anni per gli uomini (78.3), mentre per le donne sale a 84 anni. È mutata così la struttura demografica, a favore delle classi di età più anziane. Sono cambiati i pesi delle coorti all’interno della popolazione: le classi più giovani hanno perso peso, per circa sette punti tra il 1982 ed il 2000, a favore della popolazione in età lavorativa (almeno fino all’inizio degli anni novanta, perché poi anche questa classe ha visto ridurre il proprio peso di circa tre punti) e soprattutto degli anziani. Gli ultra sessantacinquenni, che rappresentavano il 13 per cento della popolazione italiana ad inizio degli anni ottanta, in vent’anni hanno visto crescere il proprio peso fino al 19.8 per cento nel 2006. E se all’inizio Calcolato come rapporto tra la popolazione anziana (con almeno 65 anni) e quella giovane (con meno di 15 anni).
Rapporto tra il numero dei nati vivi nell’anno e la popolazione media residente.
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Italia - struttura della popolazione - 1992 101 91
Maschi
Femmine
81 71 61 51 41 31 21 11 1
600 000
400 000
200 000
200 000
400 000
600 000
Fonte ISTAT
Italia - struttura della popolazione - 2006 101 91
Maschi
Femmine
81 71 61 51 41 31 21 11 1 600 000
400 000
200 000
200 000
400 000
600 000
Fonte ISTAT
degli anni ottanta l’età media della popolazione italiana era di circa 36 anni, nel 2006 è stata di 42.1. All’interno della popolazione in età lavorativa, le coorti più giovani hanno registrato nel 2006 una contrazione nella loro numerosità, con l’eccezione della classe di giovanissimi (15-19 anni); la riduzione più netta si osserva per la classe 25-29 anni, una di quelle dove si concentrano le persone che entrano nel mercato del lavoro. Le coorti
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
centrali, invece, sono cresciute: in particolare quelle tra i 40 e i 49 anni. La crescita della classe di persone di età prossima al pensionamento è dovuta soprattutto all’incremento della numerosità di quelli di età compresa tra i 55 e i 59 anni (in cui ci sono i baby boomers).
Popolazione in età lavorativa - Variazioni 4 3 2 1 0 -1 -2 -3 -4 -5 15-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 Var. % a/a 2006, coorti; Fonte ISTAT
Capitolo 2. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Riquadro 1.1 - Dinamiche della popolazione in età lavorativa: un confronto internazionale La crescita della popolazione è uno dei fattori di sviluppo di un sistema economico. Fattori legati all’inversione della demografia paiono avere concorso negli ultimi anni a determinare l’abbassamento del trend di sviluppo del sistema. In particolare, la crescita potenziale di un sistema è legata alla dinamica dell’occupazione che a sua volta riflette quella della popolazione in età lavorativa. In realtà, tale affermazione non è del tutto corretta, in parte perché l’andamento naturale della popolazione può costituire un esito di fattori di natura economica, può essere cioè endogeno al processo di sviluppo. Ciò che conta sempre di più è il fatto che nel corso degli ultimi decenni si è accresciuta l’offerta di lavoro potenziale legata ai flussi migratori e questo ha profondamente attenuatola rilevanza della demografia come variabile esogena del processo di sviluppo. Economie che necessitano di forza lavoro da immettere nel processo produttivo possono facilmente attrarre immigrati e, viceversa, economie a bassa domanda di lavoro, possono indurre i lavoratori a emigrare verso l’estero. La relazione diretta crescita economica-crescita della popolazione può quindi acquisire un significato duplice: oltre al legame che va dall’offerta di lavoro alla crescita potenziale dell’economia vi è quello, di segno contrario, fra performance dell’economia e crescita della popolazione. E’ interessante quindi proporre una contestualizzazione della posizione dell’Italia all’interno del quadro internazionale. I dati di base sui quali è stata costruita la tavola sono di fonte Ocse, e riportano le dinamiche per i paesi aderenti, su periodi di ampiezza pari a cinque anni. Pur considerando che le statistiche possono essere state condizionate dalla regolarizzazione avvenuta in Italia per gli immigrati, e tenendo conto che quelle riportate per il 2006 sono delle stime, il quadro proposto presenta diversi spunti di interesse. In generale, il percorso di decelerazione della crescita della popolazione è condiviso dai vari paesi, e questo non sorprende, in virtù del fatto che l’evoluzione dei tassi di fertilità è un fenomeno generalmente condiviso. Ciò non di meno, tale evoluzione non è uniforme. Innanzitutto, i paesi anglosassoni sembrano abbastanza immuni dal fenomeno: Usa, Canada, Australia, Regno Unito e Irlanda condividono il fatto che i flussi migratori sono difatti riusciti a compensare l’evoluzione dei saldi naturali. La popolazione in età lavorativa è quindi aumentata nella prima parte del decennio in corso a tassi non dissimili da quelli della seconda parte degli anni ottanta. All’interno del gruppo si segnala l’esperienza irlandese, dove sino ai primi anni ottanta i deflussi demografici erano significativi, mentre la tendenza si è decisamente invertita negli
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
ultimi quindici anni facendone un paese con saldo migratorio netto positivo e, addirittura, significativi flussi di immigrazione di ritorno. Fuori dall’Europa si segnala l’evoluzione declinante della popolazione in età lavorativa del Giappone, dove la variazione media del periodo 2001-2006 è stata pari al -0.4 per cento. I paesi dell’Europa continentale generalmente condividono un quadro di stagnazione, condiviso dall’Italia. Risalta, in questo contesto, la posizione della Spagna, che ha realizzato negli ultimi quindici anni una fase di sviluppo economico robusta, assecondata dall’attrazione nel paese di un rilevante flusso migratorio, da cui è conseguita una accelerazione della crescita della popolazione in età lavorativa.
Popolazione in età lavorativa (15-64 anni) Var. % medie annue Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera
1 6-1 0
1 1-1
1 6-2000
2001-2006
1.2 0.9 0.5 0.3 0.1 1.0 1.8 0.3 0.1 0.4 0.1 0.7 -0.4 1.3 0.2 2.1 0.8 0.7 0.6 0.4 0.3 1.0 0.4 0.7
1.0 0.2 0.1 0.3 0.1 0.1 1.1 1.1 0.6 0.1 0.4 0.3 0.9 0.3 0.9 1.5 1.4 0.5 1.3 0.5 0.6 0.5 0.6 0.5 0.8
1.4 -0.1 0.0 0.3 -0.3 0.4 1.1 1.3 0.3 0.1 0.3 0.2 0.3 0.4 -0.1 1.3 1.9 1.1 2.2 0.4 1.1 0.7 0.5 0.4 0.7 0.3 0.3
1.2 -0.4 -0.3 0.6 0.2 0.8 1.3 1.3 0.6 0.4 0.3 0.1 0.2 0.2 -0.1 1.8 2.2 0.6 2.0 0.5 1.5 0.9 0.5 0.5 1.7 0.7 0.9
Fonte: elaborazioni REF su dati Ocse; per l'Italia, dati Istat
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Riquadro 1.2 - Proiezioni demografiche e prospettive per l’offerta di lavoro Nell’ultimo decennio, la crescita dell’offerta di lavoro si è realizzata solo grazie ai guadagni in termini d’attività in un contesto di contrazione della popolazione in età lavorativa (con l’eccezione degli anni 20042006, sui quali ha influito il fenomeno di regolarizzazione dei cittadini immigrati). In prospettiva, quanto osservato finora potrebbe essere destinato ad intensificarsi; le proiezioni demografiche elaborate da Eurostat ci mostrano infatti una popolazione in età attiva, la base potenziale su cui calcolare l’offerta di lavoro, in decisa contrazione. Le proiezioni di Eurostat (nello scenario base ) danno come risultato una popolazione in età lavorativa (ovvero, tra i 15 e i 64 anni) più esigua rispetto al livello iniziale. Tra il 2005 e il 2051 la contrazione complessiva è di 10.5 milioni di persone. La riduzione interessa in egual misura gli uomini e le donne ed è il risultato non solo delle evoluzioni demografiche, ma anche dei progressivi cambiamenti nella struttura d’età a favore delle età più anziane. Infatti, la contrazione complessiva della popolazione italiana nel periodo considerato è di minore entità quando calcolata sul totale: 5.8 milioni di persone in meno nel 2051 rispetto ad inizio secolo. Il peso della popolazione in età attiva sul totale è previsto ridursi ulteriormente, passando dal 66 per cento del 2006 al 53.5 del 2051. Gli scenari alternativi (quello “alto” e quello “basso”) costruiti da Eurostat si differenziano per i valori assoluti raggiunti dalla popolazione in età lavorativa a fine simulazione nel 2051 (rispettivamente, 32.2 milioni e 25 milioni di persone contro i 28 milioni di persone dello scenario base). Non vi sono invece differenze rilevanti in termini di peso percentuale sul totale della popolazione italiana. In questo scenario di assottigliamento della popolazione in età lavorativa (e quindi dell’offerta potenziale di lavoro), è essenziale una crescita del tasso di attività totale, garantita dai guadagni in termini di partecipazione femminile e dei più anziani, al fine di avere un incremento dell’offerta di lavoro, almeno nella prima parte del periodo. Quando le Eurostat (2006) Long term population projection at national level, Statistics in focus, No. 3/2006
Le ipotesi su cui sono basate le proiezioni sono: • fecondità in ripresa nel primo ventennio (da 1.31 figli per donna a 1.4 nel 2020) per poi rimanere stabile; • speranza di vita alla nascita in incremento lungo tutto il periodo (con un guadagno cumulato di 5.3 anni per gli uomini e di 4.5 per le donne). In parte tali guadagni derivano da una minore mortalità nelle età avanzate (e difatti la speranza di vita a 65 anni è ipotizzata crescere di 3.5 anni in media, per uomini e donne); • flussi migratori netti di 150mila persone all’anno, ovvero una immigrazione cumulata di quasi 7 milioni di persone per tutto il periodo. Probabilmente, le ipotesi in termini di flussi migratori netti risultano eccessivamente caute, visti gli andamenti degli ultimi anni (seppur distorti dai risultati delle regolarizzazioni).
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
La popolazione in età attiva (15-64 anni) M
F
40 35 30 25 20 15 10 5 0 2005
2010
2015
2020
2025
2030
2035
2040
2045
2050
Milioni - Fonte: elaborazioni sulla base delle proiezioni Eurostat
forze di lavoro cominciano a contrarsi, l’occupazione non può che ridursi, con effetti negativi sulla crescita dell’economia. Le
proiezioni
effettuate
dall’Ageing
Working
Group
europeo
assumono che il tasso di partecipazione (tra i 15 ed i 64 anni) cresca
Offerta potenziale ed effettiva di lavoro popolazione in età attiva (15-64 anni) forze lavoro (scala dx) 27
40
36 23 32 19 28
15
24 2005 2010 2015 2020 2025 2030 2035 2040 2045 2050 Milioni - Fonte: elaborazioni sulle proiezioni Eurostat
Economic Policy Committee (2005): The 2005 EPC projections of agerelated expenditure (2004-2050) for the EU-25 member states: underlying assumptions and projection methodologies. European Economy, Special report No. 4/2005.
10
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
complessivamente di 7.3 punti percentuali nel periodo in esame, con un incremento più forte nei primi due decenni di previsione, fino a superare il 70 per cento nel 2050. In particolare, si ipotizza un deciso incremento del tasso di attività per i lavoratori più anziani (quelli tra i 55 ed i 64 anni) che passa dal 33 per cento del 2006 ad oltre il 55 per cento a fine periodo, sia per effetto delle riforme previdenziali (che comportano un posticipo dell’età di pensionamento) che delle politiche per l’invecchiamento attivo. Inoltre, Eurostat ipotizza anche un aumento (modesto di entità ma dall’effetto non trascurabile, vista l’ampiezza della popolazione su cui va ad incidere) del tasso di attività delle persone tra i 65 e i 70 anni. Il risultato di queste assunzioni è una forza lavoro che risulta crescente fino al 2020 (seppur con ritmi via via più lenti) e che va poi contraendosi nei trent’anni successivi, ma in misura inferiore rispetto all’assottigliamento della popolazione in età attiva. Va da sé che nel caso di evoluzioni meno favorevoli dell’attività, gli esiti in termini di offerta di lavoro (e quindi, in seconda istanza, di occupazione), sono negativi. È quindi necessario incentivare una crescita della partecipazione, viste le prospettive demografiche anche a breve.
11
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Il tasso di attività: in aumento per donne e anziani.
Nell’ultimo quindicennio l’incremento del tasso di attività spiega la crescita dell’offerta di lavoro in presenza di una popolazione in età lavorativa in calo. In particolare, l’incremento della partecipazione al mercato del lavoro ha interessato la componente femminile, che d’altra parte partiva da livelli molto bassi. Dalla seconda metà degli anni novanta e fino al 2003 l’incremento medio del tasso di attività femminile è stato di circa due punti all’anno. Nel 2004 e nel 2005 si è registrata una correzione al ribasso, e nel 2006 il tasso di attività femminile è tornato a crescere. In Italia la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è ancora molto bassa, soprattutto se ci confronta con la media europea; i dati Eurostat segnalano come il nostro Paese abbia un differenziale di oltre dieci punti percentuali in termini di tasso di attività femminile con l’area euro (e un po’ più alto con l’Unione europea a 25). Negli anni, nonostante il tasso di partecipazione sia aumentato di 8 punti percentuali rispetto ai livelli del 1995, il differenziale con l’area euro si è mantenuto sostanzialmente invariato. D’altra parte, l’aumento della partecipazione femminile registrato in Italia è modesto rispetto a quello osservato in altri paesi che pur partivano da livelli altrettanto bassi, come la Spagna. La crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro ha diverse motivazioni, di ordine culturale, sociale ed economico. Innanzi tutto l’incremento della scolarizzazione femminile, ha incentivato una maggiore partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne. Sia perché quanto più è elevato il livello di formazione tanto più sono alti i La partecipazione al mercato del lavoro 15-64 anni
totale (>15 anni)
65 60 55 50 45 40 35 30 1985
1990
1995
2000
2005
Tassi di attività (%) - Fonte Eurostat
12
2006
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
La partecipazione femminile al mercato del lavoro 15-64 anni
totale (>15 anni)
55 50 45 40 35 30 1985
1990
1995
2000
2005
2006
Tassi di attività (%) - Fonte Eurostat
La partecipazione degli anziani al mercato del lavoro 55-59 anni
60-64 anni
50 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 1985
1990
1995
2000
2005
2006
Tassi di attività (%) - Fonte Eurostat
tassi di attività (perché si hanno maggiori opportunità e perché una volta investito in capitale umano si è più propensi ad utilizzarlo), sia perché contestualmente si è verificato un cambiamento, graduale, dal punto di vista culturale. Sono poi aumentate le opportunità d’occupazione femminile, data la crescente terziarizzazione dell’economia. Se la crescita del tasso di attività per il complesso della popolazione italiana è in buona parte spiegato dall’incremento della partecipazione della componente femminile, va altresì ricordato che un contributo positivo è stato dato, soprattutto nell’ultimo decennio, dalla maggiore partecipazione delle classi di età più anziane. Gli incrementi più rilevanti si sono osservati
13
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
per le classi di età compresa tra i 50 e i 59 anni, il cui tasso di attività è salito di circa nove punti percentuali in dieci anni, invertendo una tendenza decrescente che si era manifestata dalla seconda metà degli anni ottanta. Per le persone di età prossima al pensionamento (quelli tra i 55 e i 59 anni), l’incremento del tasso di attività è più contenuto, ma comunque non trascurabile; la maggior partecipazione di queste classi di età è anche effetto delle riforme previdenziali degli anni novanta che di fatto hanno aumentato l’età effettiva di pensionamento. I guadagni in termini di tasso di attività per le classi di età più anziane (quelle tra i 60 e i 64 anni) sono invece ancora pressoché nulli, ma almeno si è arrestata la tendenza al calo della partecipazione osservata almeno fino alla fine della prima metà degli anni novanta. Si è invece gradualmente ridotta la partecipazione dei giovani: se nel 1985 quasi la metà dei giovani tra i 15 e i 24 anni (il 47.6 per cento) partecipava al mercato del lavoro, vent’anni dopo è solo uno su tre a farlo. Il tasso di attività è particolarmente basso per i giovanissimi (tra i 15 e i 19 anni), e la riduzione è anche il risultato delle riforme del sistema scolastico che hanno allungato la durata dell’istruzione obbligatoria. Anche per la classe d’età tra i 20 e i 24 anni si è osservata negli anni una diminuzione del tasso di attività, effetto della crescente scolarizzazione. Queste
tendenze
di
medio-lungo
periodo
(la
crescita
della
partecipazione femminile e per le classi d’età più anziane e la riduzione dell’attività giovanile) sono state confermate dalle evoluzioni registrate nel 2006. La partecipazione dei giovani al mercato del lavoro 15-19 anni
20-24 anni
80 70 60 50 40 30 20 10 0 1985
1990
1995
2000
2005
Tassi di attività (%) - Fonte Eurostat
14
2006
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Riquadro 1.3 - Dinamiche della forza lavoro: un confronto internazionale La crescita dello stock di persone in età lavorativa approssima il concetto di offerta di lavoro potenziale, al netto però di una serie di elementi, anche di natura socio-culturale, che modificano la tendenza a entrare nel mercato del lavoro. Storicamente, il processo che ha determinato i maggiori cambiamenti nei tassi di partecipazione è costituito dall’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Questo è un fenomeno in corso oramai da alcuni decenni, ma che deve ancora completarsi, sia perché non in tutti i paesi i tassi di partecipazione dei due sessi si eguagliano, sia perché i tassi di partecipazione delle coorti più anziane sono l’esito di decisioni prese in epoche in cui la propensione delle donne a entrare nel mercato del lavoro era ancora bassa. Il progresso registrato per i tassi di partecipazione si traduce nel fatto che nei diversi paesi i ritmi di crescita della forza lavoro, sono mediamente più elevati di quelli della popolazione in età lavorativa.
Forze di lavoro Var. % medie annue Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera
1 6-1 0
1 1-1
1 6-2000
2001-2006
1.7 1.4 0.5 0.5 0.8 1.8 2.9 0.9 0.4 0.9 0.1 0.5 1.0 0.0 3.5 1.7 -0.2 0.7 1.1 2.0 0.9 2.6
1.0 0.9 0.5 -0.6 -0.5 0.6 1.3 0.4 0.7 -0.2 -0.8 1.0 1.2 1.8 2.4 1.5 1.6 0.4 0.7 0.9 -1.1 0.6
1.5 0.3 0.8 1.1 0.7 0.6 1.5 1.2 0.8 0.5 0.1 0.5 0.9 1.2 0.4 1.4 3.5 1.2 2.3 1.8 1.2 1.4 0.3 1.0 2.4 0.2 0.5
1.0 -0.3 0.2 0.5 0.7 0.9 1.8 1.8 0.3 0.9 0.2 0.2 0.3 0.7 0.4 1.5 3.1 1.3 1.7 0.7 2.3 0.6 -0.4 1.1 3.5 0.8 0.7
Fonte: elaborazioni REF su dati Ocse; per l'Italia, dati Istat
15
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Tale risultato è ancor più significativo se si considera che la tendenza è stata confermata anche nella prima parte del decennio in corso, fase generalmente sfavorevole sotto il profilo congiunturale e che, quindi, avrebbe dovuto incoraggiare poco la partecipazione al mercato del lavoro. I paesi in cui la distanza fra la dinamica della popolazione e quella delle forze di lavoro è più marcata sono nuovamente Irlanda e Spagna dove si è osservato un significativo aumento della partecipazione al mercato del lavoro. Tale andamento è stato in generale favorito dalla buona dinamica della domanda di lavoro in questi paesi. Tra i paesi anglosassoni, Regno Unito e Canada sono caratterizzati da un maggior dinamismo dell’offerta di lavoro rispetto alla popolazione (e quindi da un guadagno in termini di tasso di attività), con la sola eccezione della prima metà degli anni novanta. Negli Stati Uniti, invece, si è osservata un’inversione di tendenza con l’avvio del nuovo decennio, tradottasi in un calo del tasso di attività. L’offerta di lavoro è risultata stagnante in Giappone, a causa di una popolazione in età lavorativa in contrazione e di tassi di attività su livelli molto elevati (prossimi all’80 per cento).
Tassi di attività
Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera
1
1
2000
2006
64.8 72.3
66.6 76.5 73.0 66.6 57.6 75.3 75.7 75.2 77.6 64.7 72.6 72.5 61.9 57.2 86.6 64.4 65.3 0.0 72.4 65.0 77.7 66.9 72.8 59.7 78.2 -
67.1 78.1 75.8 69.3 59.9 75.7 77.2 75.1 79.7 66.1 71.6 74.5 64.0 58.5 87.4 69.7 65.7 0.0 77.3 65.4 80.7 66.2 75.1 64.9 77.8 -
66.1 78.7 78.0 68.7 62.7 76.4 79.4 77.3 78.4 68.3 71.3 74.9 66.2 60.3 86.1 73.6 68.8 0.0 78.2 68.4 79.7 62.8 78.0 72.4 78.4 -
65.8 58.8 74.8 74.8 70.6 75.8 61.9 76.6 62.0 86.9 64.1 58.3 0.0 65.7 67.0 77.5 69.1 56.3 82.6 -
Fonte: elaborazioni REF su dati Ocse; per l'Italia, dati Istat
16
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Le tavole si prestano anche a confrontare la posizione dei diversi paesi in termini strutturali. Si osserva subito come diversi paesi abbiano un tasso di partecipazione molto alto, al di sopra del 75 per cento. In particolare, questo vale per tutti i paesi del Nord Europa, dove l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro è avvenuto storicamente prima di altri paesi. La posizione dell’Italia da questo punto di vista è del tutto particolare in quanto fra i paesi industrializzati siamo decisamente all’ultimo posto e, all’interno dell’aggregato Ocse illustrato nella tavola, precediamo soltanto la Polonia e l’Ungheria, economie che hanno ancora una struttura produttiva relativamente arretrata.
17
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro
1.4
-
L’evoluzione
della
partecipazione
tra
generazioni Il tasso di attività italiano, nonostante gli incrementi registrati nell’ultimo decennio, è ancora su un livello non elevato rispetto alle altre economie avanzate; nel 2006 era inferiore al 63 per cento (contro un livello pari al 70 per cento per la media dell’area euro). In particolare, la differenza rispetto all’area euro è particolarmente ampia per la componente femminile, per la quale la partecipazione resta ancora mediamente su livelli modesti, nonostante i progressi notevoli registrati negli ultimi decenni. D’altra parte, i tassi di attività riassumono tendenze a livello di singole generazioni molto diverse. e costituiscono la sintesi di comportamenti diversi nelle diverse coorti . Essi sono di fatto una media dei tassi di attività delle diverse coorti, costruita secondo una struttura di ponderazione che riflette la consistenza numerica di ogni coorte. Riassumono quindi al loro interno scelte talvolta molto diverse tra le generazioni in termini di partecipazione al mercato del lavoro: la popolazione cui fanno riferimento è infatti estremamente eterogenea. Seguendo l’approccio di Afsa Essafi e Buffeteau , che hanno ricostruito l’evoluzione del tasso di attività femminile in Francia, abbiamo cercato di ricostruire i profili di attività per gli uomini e le donne italiani appartenenti a differenti generazioni. Afsa Essafi e Buffeteau avevano con il loro lavoro chiarito come, nel caso francese, la crescita osservata nel tasso di attività femminile fosse in parte riconducibile ad un “effetto generazione”:le generazioni recenti, più attive delle precedenti, sono proporzionalmente più numerose e spingono verso l’alto il tasso di attività medio. Inoltre, avevano evidenziato come i profili dei tassi di
Il tasso di attività (α) è calcolato come rapporto tra il numero degli
∑ attivi e la popolazione in età attiva: ovvero α = ∑
n i= j
n
i= j
Ai
,
Popi
(dove j è generalmente pari a 15 e n è posto uguale a 64);
∑ poiché A = α Pop , α = ∑ n
i
i
i
i= j
α i Popi
n i= j
;
Popi
il tasso di attività totale è pari alla media ponderata (con la popolazione delle singole coorti) dei diversi tassi di attività per età. Afsa Essafi C., Buffeteau S. (2006) Économie et statistique n. 398399, Insee
18
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
attività delle generazioni femminili francesi si assomigliassero molto, pressoché paralleli su livelli differenti. Per quanto riguarda l’analisi del caso italiano, si è fatto ricorso a dati Eurostat, più dettagliati per quanto riguarda i tassi di attività per classi di età. Purtroppo, il periodo storico coperto non è molto ampio (meno di venticinque anni). Questo comporta una ricostruzione incompleta dei profili dei tassi di attività; le coorti per le quali sono disponibili più dati sono, naturalmente, quelle centrali, ma per nessuna è possibile avere l’intero profilo . I profili così costruiti riportano, per ogni generazione (individuata dall’anno di nascita) l’andamento del tasso di attività in corrispondenza delle diverse età: si può quindi osservare l’evoluzione della partecipazione di differenti generazioni di uomini e donne italiane durante la loro vita attiva. Sovrapponendo i vari profili ottenuti si possono compiere alcune osservazioni circa i mutamenti intervenuti per le varie generazioni. Innanzi tutto, nel caso degli uomini non si notano cambiamenti di rilievo nel profilo, fatta eccezione per le due code. Le generazioni più giovani tendono difatti ad avere una partecipazione inferiore al mercato del lavoro prima dei 25 anni rispetto quelle che le hanno precedute; questo è un effetto della crescente scolarizzazione, che comporta una maggiore inattività dei giovani per motivi di studio. Anche sulla parte finale del profilo si è osservata una traslazione verso il basso: le generazioni più recenti hanno avuto, a partire dai 55 anni, una minore partecipazione di quella delle precedenti. Questo sembra essere un effetto delle misure che hanno permesso un più agevole pensionamento anticipato negli scorsi decenni. La tendenza sembra comunque essersi invertita con le generazioni nate nei primi anni cinquanta, che risentono dell’inasprimento dei criteri attuato con le riforme previdenziali. Per quanto riguarda le donne, invece, le differenze tra i profili generazionali sono molto più marcate: sovrapponendo i profili dei tassi di attività si osservano sia alcune oscillazioni nel picco dell’attività: per le generazioni più anziane, nate prima degli anni cinquanta, era in corrispondenza dei 40-45 anni; viene anticipato di un quinquennio per le coorti successive per poi tornare, per le generazioni nate dagli anni sessanta, ad essere in corrispondenza di età più avanzate. Al di là di queste oscillazioni, per le coorti più giovani si osserva comunque un andamento lievemente a M del profilo di attività: dopo un’iniziale fase di incremento del tasso di attività (successivamente alla fase di formazione), la partecipazione femminile si riduce in corrispondenza degli anni della maternità per poi riprendere ad aumentare fino al picco. Inoltre, nella parte finale del profilo si osserva, diversamente da
Abbiamo comunque stimato un profilo della partecipazione per età, come presentato negli ultimi due grafici. Tali stime permettono di ragionare sul tasso di attività medio di generazioni diverse.
19
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Tassi di attività per coorti - M 1935
1940
1945
1950
1955
1965
1970
1975
1980
1985
1960
100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 >65
60-64
55-59
50-54
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
0
quanto notato per la componente maschile, un incremento attraverso le generazioni dei tassi di attività in età anziana: le coorti più recenti si mostrano più attive di quelle che le hanno precedute. La sovrapposizione dei profili di partecipazione per età di differenti generazioni di donne mostra chiaramente tale evoluzione. Il tasso di partecipazione non ha superato il 45 per cento per la generazione nata nel 1945, ma per la generazione nata un decennio più tardi la partecipazione è stata superiore al 57 per cento al suo picco. E per le generazioni ancora più giovani si nota un ulteriore incremento.
Tassi di attività per coorti - F 1935
1940
1945
1950
1955
1965
1970
1975
1980
1985
1960
80 70 60 50 40 30 20 10
20
>65
60-64
55-59
50-54
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
0
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Tali osservazioni conducono a due conclusioni: la prima è che le nuove generazioni di donne, nate a partire dalla seconda metà degli anni settanta, tra i 25 e i 59 anni avranno in media un tasso di partecipazione attorno al 70 per cento, doppio rispetto a quello osservato per le generazioni nate quarant’anni prima. Lo stesso non si può dire per gli uomini, il cui tasso di attività medio tra i 25 e i 59 anni non mostra cambiamenti rilevanti (risultando superiore all’85 per cento). La seconda è che il cambiamento nei profili – soprattutto femminili
Tassi di attività ricostruiti per generazione Donne 1935
1955
1975
80 70 60 50 40 30 20 10 0 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 La linea tratteggiata indica la parte di profilo stimata Stime REF su dati Eurostat
Tassi di attività ricostruiti per generazione Uomini 1935
1955
1975
100 90 80 70 60 50 40 30 20 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 La linea tratteggiata indica la parte di profilo stimata Stime REF su dati Eurostat
21
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
- si rifletterà anche sul tasso di attività dell’intera popolazione, per due ordini di fattori. Innanzi tutto, dato che generazioni tendenzialmente più attive, seppur meno consistenti numericamente, entrano nello stock di persone in età lavorativa, mentre escono generazioni caratterizzate da una minore partecipazione, il tasso di attività medio sarà gradualmente innalzato. Inoltre, poiché le generazioni del baby-boom tendono ad essere più attive di quelle che le hanno precedute anche in corrispondenza delle età avanzate (sia per gli uomini che per le donne), e sono anche più numerose rispetto alle coorti nate prima e durante l’ultimo conflitto mondiale, già nei prossimi anni si dovrebbe vedere un incremento del tasso di attività totale, dopo il rallentamento osservato nell’ultimo triennio.
* I profili qui riportati sono stati stimati applicando, per le parti mancanti ad ogni coorte, le variazioni osservate sui tassi di attività tra età diverse per le coorti più vicine per le quali tali variazioni erano disponibili. Per le coorti più giovani di donne è stato assunto un comportamento simile a quello maschile nelle età anziane.
22
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
1.3 I risultati del 2006 Femmine tasso di attività
popolazione
Forze di lavoro
12 10 8 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 15-24
25-34
35-54
55-64
65 e +
Totale
Variazioni % 2005-06
Maschi tasso di attività
popolazione
Forze di lavoro
6 5 4 3 2 1 0 -1 -2 -3 15-24
25-34
35-54
55-64
65 e +
Totale
Variazioni % 2005-06
L’offerta di lavoro cresce nel 2006, ma non al Sud
Nel 2006 le forze lavoro sono complessivamente cresciute dello 0.9 per cento. Tale incremento non ha però interessato nella stessa misura le diverse ripartizioni. La variazione registrata dall’offerta di lavoro è stata difatti maggiore nel Nord-Est e nel Centro, dove è risultata pari all’1.8 e 1.7 per cento rispettivamente, ed è risultata invece negativa
23
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
nel Sud (-0.7 per cento). Nel Nord-Ovest l’incremento anno su anno delle forze lavoro è stato pari all’1.2 per cento, lievemente superiore alla media nazionale. In tutte le ripartizioni in cui si è registrata una crescita delle forze lavoro, questa è stata determinata (seppur con intensità diverse) da entrambe le componenti, l’evoluzione demografica e l’andamento del tasso di attività. Nel Sud, invece, la contrazione dell’offerta di lavoro è riconducibile all’evoluzione negativa del tasso di partecipazione, in un contesto demografico non sfavorevole. La riduzione dell’offerta nelle regioni meridionali ha interessato sia gli uomini che le donne, pur risultando più marcata per i primi. L’incremento del tasso di partecipazione osservato nelle altre ripartizioni, invece, ha interessato sia gli uomini che le donne: ma se al Centro l’aumento è stato più marcato per gli uomini (quasi il doppio di quello registrato per le donne), nel Nord (Est ma soprattutto Ovest) è il tasso di attività femminile ad essere aumentato in misura più decisa.
Italia tasso di attività
popolazione
Forze di lavoro
2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 -0.5 -1.0 -1.5 NordOvest
NordEst
Centro
Sud
Italia
Variazioni % 2005-06
Tassi di attività per sesso e ripartizione geografica (15-64 anni) - 2006
Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Italia Fonte: ISTAT
24
Maschi
valori Femmine
Totale
Maschi
77.6 78.8 76.3 69.3 74.6
59.0 60.2 56.0 37.3 50.8
68.3 69.6 66.0 53.2 62.7
0.5 1.0 1.6 -0.9 0.3
var. % a/a Femmine Totale 1.7 1.3 0.9 -0.4 0.9
1.0 1.1 1.3 -0.8 0.6
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Le donne: prosegue l’incremento del tasso di attività
Benché i livelli restino ancora contenuti rispetto alle altre economie, l’incremento del tasso di attività femminile spiega una quota non trascurabile della crescita dell’offerta di lavoro femminile nel 2006. Questa è stata pari a quasi 10 milioni di donne, con un incremento di 1.1 punti percentuali rispetto al 2005. Il tasso di attività femminile è salito al 38.8 per cento (per la media nazionale), con un incremento di 0.6 punti percentuali rispetto al 2005. Se invece del totale della popolazione femminile adulta (ovvero, con almeno 15 anni), si considera solo quella in età attiva (ovvero, tra i 15 e i 64 anni), il tasso di attività è un po’ più alto, pari al 50.8 per cento nel 2006 (data la partecipazione quasi nulla delle donne con più di 65 anni che pesano molto sulla media e di cui solo una su cento risulta attiva). Applicando la scomposizione della crescita dell’offerta femminile secondo
le
due
componenti
(demografia
e
partecipazione),
e
distinguendo l’analisi sulla base dell’età e della ripartizione geografica, si osservano impatti diversi delle due componenti per le differenti fasce di popolazione individuate. In generale, si evidenzia un impatto favorevole della demografia sull’andamento dell’offerta di lavoro per quanto riguarda le coorti centrali e soprattutto anziane, mentre per le coorti più giovani l’evoluzione demografica è sfavorevole. Questo naturalmente è un effetto del mutamento della struttura demografica in atto, per cui coorti numerose vengono via via sostituite da coorti di consistenza più esigua. Nella coorte più giovane (15-24 anni), il calo dell’offerta di lavoro nei confronti del 2005 è di entità notevole: -7 per cento. La contrazione è particolarmente marcata al Nord (-8.8 per cento) e in misura minore al Sud (-6.1 per cento). Nel Nord, però, è soprattutto il calo del tasso di attività per questa coorte ad avere determinato la diminuzione delle forze lavoro, mentre nel Sud ha un peso anche la demografia; probabilmente alla diminuzione della consistenza delle coorti in ingresso si aggiunge l’effetto delle migrazioni interne, verso altre regioni italiane, a fini di studio. Per le coorti tra i 25 e i 34 anni, quelle per le quali il tasso di attività è massimo, si osserva una riduzione dell’offerta di lavoro principalmente riconducibile al fattore demografico (ovvero, alla diminuzione della consistenza delle coorti). Una diminuzione marginale del tasso di attività si è osservato nel Nord (sintesi di una riduzione nel Nord Est
25
Rapporto sul mercato del lavoro 2006 Femmine - Nord tasso di attivitĂ
popolazione
Forze di lavoro
25 20 15 10 5 0 -5 -10 -15 15-24
25-34
35-54
55-64
65 e +
Totale
Variazioni % 2005-06
Femmine - Centro tasso di attivitĂ
popolazione
Forze di lavoro
4 2 0 -2 -4 -6 -8 -10 15-24
25-34
35-54
55-64
65 e +
Totale
variazioni % 2005-06
Femmine - Sud tasso di attivitĂ
popolazione
Forze di lavoro
8 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 15-24
25-34
35-54
55-64
Variazioni % 2005-06
26
65 e +
Totale
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
e di un incremento nel Nord Ovest), dove però i livelli restano elevati, prossimi all’80 per cento. Preoccupa di più la diminuzione del tasso di partecipazione registrata nel Sud, per la sua entità e perché interviene su un livello contenuto della partecipazione, inferiore al 50 per cento. Oltre alle difficoltà di conciliazione tra attività lavorativa e vita famigliare, più intense data la scarsa dotazione di servizi, sulle decisioni di non partecipare al mercato del lavoro da parte di queste classi di donne potrebbe anche aver influito il cosiddetto effetto del lavoratore scoraggiato; percependo come particolarmente difficile trovare lavoro, se il mercato non appare dinamico, possono decidere di smettere di cercare (o di non cominciare), uscendo dalle forze lavoro. Per le coorti più anziane, quelle tra i 35 e i 64 anni, si osserva in generale un incremento dell’offerta di lavoro, con la sola eccezione della coorte tra i 55 e i 64 anni nel Centro. Per quest’ultima il calo è determinato dalla diminuzione del tasso di attività, forse dovuto ad un maggior ricorso al pensionamento. Al di là di questo andamento peculiare, ciò che si nota è un generale incremento del tasso di partecipazione per queste coorti. Lo stesso vale per le coorti più anziane, con più di 65 anni. Per queste l’incremento in termini percentuali sia del tasso di partecipazione che dell’offerta di lavoro è notevole in tutte le ripartizioni (con l’eccezione del Centro). In questo caso, però, l’entità del tasso di crescita è grande perché su livelli molto contenuti.
27
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 1.5 - Cosa spiega la bassa offerta di lavoro da parte delle donne italiane? Nonostante i guadagni registrati negli ultimi anni, il nostro paese è caratterizzato di una partecipazione molto bassa delle donne al mercato del lavoro rispetto ai partner europei. In parte, sul confronto sfavorevole con gli altri paesi pesa la peculiare struttura demografica italiana, in cui le coorti più anziane - caratterizzate da livelli modesti di partecipazione - hanno un peso elevato, e influenzano molto la partecipazione media. Anche al netto della struttura demografica, il differenziale con la media europea rimane comunque notevole. Le ragioni della bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro sono molteplici. Tra queste, vi sono le motivazioni culturali, che si stanno comunque attenuando rispetto al passato (tant’è che la partecipazione delle nuove generazioni è più elevata di quella delle generazioni precedenti). Ma, soprattutto, vi sono evidenze di un impatto rilevante del contesto istituzionale e sociale. D’altra parte, confrontando l’andamento dei tassi di attività per età, ci si rende conto di come esistano differenze tra uomini e donne non solo in termini di livelli della partecipazione, ma anche di profilo durante la vita. Per gli uomini, il tasso di attività per età cresce all’aumentare degli anni, raggiungendo il suo massimo nelle età centrali (35-54 anni). Per le donne il massimo generalmente si tocca prima, nelle età tra i 25 ed i 34 anni. Si osserva poi un ridimensionamento dell’attività femminile, a causa anche del fatto che è in questa età che la maggioranza delle donne italiane si trova a dover fare i conti con un doppio ruolo, di lavoratrice e di madre. Negli anni si è osservato un mutamento delle modalità temporali scelte per avere figli: l’età media della madre alla nascita del primo figlio, da che si aggirava attorno ai 25 anni, è andata progressivamente aumentando con le generazioni nate nella seconda metà del secolo scorso. Attualmente ha raggiunto la soglia dei 29 anni. Come mostrato da Pacelli, Pasqua e Villosio , le donne che hanno un figlio hanno una probabilità di uscire dal mercato del lavoro del 46 per cento, oltre sei volte superiore a quella delle donne senza figli. E delle donne che escono, solo metà rientra nel mercato del lavoro dopo un certo periodo. Nell’indagine campionaria condotta dall’Istat presso le madri dopo qualche mese dalla nascita del figlio (tra i 18 e i 21 mesi), si rileva come il 18 per cento delle madri che risultavano occupate all’inizio della gravidanza non lavora più; la maggioranza di queste è uscita volontariamente dal
Per un’analisi più dettagliata si veda il Paragrafo 5.3
Pacelli, Pasqua e Villosio (2007) What does the stork bring to women’s working career?, mimeo
28
Istat (2007) Essere madri in Italia. Anno 2005
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
mercato del lavoro, soprattutto a causa dell’inconciliabilità del lavoro con le responsabilità famigliari. La conciliazione tra la maternità e l’attività lavorativa è particolarmente difficile per le donne con livelli d’istruzione bassi e per quelle residenti nelle regioni meridionali. Di queste ultime, una su quattro lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio (la percentuale al Nord è del 15 per cento). Le differenze geografiche si riducono per le donne che hanno titoli di studio elevati (laurea), che hanno un maggior costo opportunità dell’abbandono del lavoro. Anche se quella di uscire dal mercato del lavoro è spesso, almeno nelle intenzioni, una scelta momentanea (nelle interviste condotte dall’Istat, il 67 per cento delle donne che hanno lasciato il lavoro desiderano tornare a lavorare in futuro), l’interruzione comporta un rischio elevato di non reinserirsi nel mondo del lavoro, anche perché tra gli effetti c’è una perdita di capitale umano.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
I giovani: continua a ridursi la partecipazione
Nel 2006 le forze lavoro di età compresa tra i 15 e i 24 anni si sono ridotte del 3.8 per cento, diminuendo di circa 78mila persone. Naturalmente parte del fenomeno è da ricondurre alla componente demografica: in un contesto di graduale assottigliamento delle coorti più giovani, la consistenza degli entranti è inferiore a quella degli uscenti. La diminuzione della popolazione della classe d’età in esame rispetto al 2005 è stata di circa 54mila persone secondo la rilevazione sulle forze lavoro condotta da Istat. Ma a queste vanno aggiunti coloro che sono usciti dal mercato del lavoro (o, che a differenza dei giovani di età immediatamente precedente, hanno deciso di non entrarci). Gli inattivi tra i 15 e i 24 anni sono difatti aumentati di circa 24 mila persone nel 2006. Applicando la stessa metodologia finora seguita, per distinguere i contributi alla crescita forniti dalle due componenti in esame (demografia e partecipazione), si vede come la diminuzione delle forze lavoro giovani sia stata guidata in misura rilevante dalla caduta del tasso di attività. La diminuzione del tasso di attività per i giovani, che contribuisce alla riduzione dell’offerta di lavoro, è un fenomeno che sembra trasversale, che interessa sia gli uomini che, in misura maggiore, le donne. Ma andando a distinguere in base non solo al genere ma anche alle ripartizioni, ci si rende conto di come questo fenomeno sia generalizzato per le donne ma non per gli uomini. Ovvero, la riduzione del tasso di attività osservata per gli uomini a livello nazionale è la sintesi di una caduta netta a Sud, di stabilità nel Nord e di un incremento non trascurabile nel Centro. L'offerta di lavoro dei giovani (15-24 anni) tasso di attività
popolazione
Forze di lavoro
0 -1 -2 -3 -4 -5 -6 -7 -8 maschi
femmine Variazioni % 2005-06
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Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
La diminuzione del tasso di attività per i giovani è un fenomeno non nuovo, da ricondurre alla maggiore scolarità che interessa tali coorti rispetto a quelle precedenti. Il tasso di scolarità è salito di quasi venti punti, dal 74 per cento del 1993 al 92 per cento del 2005. In parte tale incremento riflette anche gli effetti dell’innalzamento dell’obbligo scolastico intervenuto con la legge 144/1999, che ha stabilito l’obbligo di frequenza di attività formative fino al diciottesimo anno di età e ribadito con il decreto legislativo 76/2005 che ha definito le norme regolanti il diritto-dovere all’istruzione. Dalle statistiche sui rapporti dei diplomati con il lavoro si evince come negli ultimi anni la partecipazione al mercato del lavoro si sia ridotta perché aumenta la percentuale di coloro che continuano a studiare dopo il diploma. Dei diplomati10 nel 1998, tre anni dopo il 72 per cento era attivo (il 55 per cento lavorava, il resto cercava un’occupazione), mentre la quota restante era inattiva (principalmente per motivi di studio). Nel 2004, invece, dei diplomati nel 2001 solo il 63 per cento era attivo, mentre il 37 per cento non partecipava al mercato del lavoro. Il mantenimento di queste tendenze contribuisce a spiegare il calo osservato nel tasso di attività giovanile. L’altro lato della medaglia, che invece può aiutare a spiegare la divergenza negli andamenti della partecipazione maschile tra Nord/ Centro e Sud, è il già nominato effetto scoraggiamento. Dove il mercato del lavoro appare più dinamico (come il Nord Est), e quindi maggiori sono le opportunità di trovare un impiego, una parte dei giovani è incentivata a cercare lavoro dopo la conclusione degli studi. Peraltro, il tasso di scolarizzazione tende ad essere più basso per gli uomini (in tutte le ripartizioni), e più basso al Nord, come anche il tasso di iscrizione11 all’università. Al contrario, dove le opportunità sono minori, come al Sud, i giovani, se scoraggiati, possono abbandonare la ricerca di un lavoro o non cominciarla, eventualmente proseguendo gli studi.
Il tasso di scolarità è definito come il rapporto percentuale tra il numero di iscritti (tra i 14 e i 18 anni) e la popolazione totale nella stessa classe d’età.
10 11
Istat, I diplomati e mercato del lavoro (2002) e I diplomati e il lavoro (2006). Iscritti all’università per 100 giovani di 19-25 anni.
31
Rapporto sul mercato del lavoro 2006 Maschi - Nord tasso di attivitĂ
popolazione
Forze di lavoro
7 6 5 4 3 2 1 0 -1 -2 -3 15-24
25-34
35-54
55-64
65 e +
Totale
Variazioni % 2005-06
Maschi - Centro tasso di attivitĂ
popolazione
Forze di lavoro
10 8 6 4 2 0 -2 -4 15-24
25-34
35-54
55-64
65 e +
Totale
variazioni % 2005-06
Maschi - Sud tasso di attivitĂ
popolazione
Forze di lavoro
3 2 1 0 -1 -2 -3 -4 -5 -6 15-24
25-34
35-54
55-64
Variazioni % 2005-06
32
65 e +
Totale
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Tasso di scolarità giovani 14-18 anni 85 84 83 82 81 80 79 78 2000/01
2001/02
2002/03
2003/04
2004/05
2005/06
rapporto percentuale tra numero di iscritti e popolazione totale nella stessa classe d’età
Anziani più attivi
Nel 2006 ha accelerato la crescita dell’offerta di lavoro da parte delle coorti anziane. L’aumento è stato particolarmente marcato per le donne, soprattutto per le ultrasessantacinquenni; l’incremento percentuale delle forze lavoro per questa classe d’età è stato rilevante (+10.5 per cento), ma è anche dovuto all’esiguo numero di donne anziane facenti parte delle forze lavoro (80mila nel 2006), per cui piccole variazioni in termini assoluti (8mila donne in più rispetto al 2005) hanno impatti talvolta notevoli in termini percentuali. Al di là di queste considerazioni, valide peraltro anche per gli ultrasessantacinquenni maschi, è interessante capire da cosa deriva la crescita osservata nel 2006. Utilizzando la metodologia di scomposizione della crescita già applicata, si osserva come, sia per gli uomini che per le donne, l’incremento delle forze lavoro per la classe d’età tra i 55 e i 64 anni è stato guidato dall’aumento della partecipazione in un contesto demografico favorevole (all’interno di questa classe ci sono le coorti nate negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, le prime interessate dal baby boom). L’incremento del tasso di attività per queste coorti, prossime all’età del pensionamento o che già l’hanno superata, è un elemento importante. Il livello dei tassi di partecipazione per queste coorti, come noto, è molto basso, soprattutto per le donne (al 22 per cento rispetto al 45 per cento degli uomini). Nel passato
33
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
la partecipazione di questa corte si era ridotta, anche per effetto dalle misure che avevano incentivato il pensionamento anticipato: la tendenza si è invertita con il nuovo decennio, grazie alle riforme che hanno innalzato l’età effettiva di pensionamento. Il fenomeno di recupero della partecipazione è proseguito anche nel 2006, nonostante nello stesso anno si sia rilevato un incremento notevole delle richieste di pensioni di anzianità (secondo le prime stime, la crescita è stata di circa il 49 per cento). Probabilmente questo è dovuto anche al fatto che stanno gradualmente entrando nella classe d’età coorti caratterizzate da tassi di attività più elevati (soprattutto per quanto riguarda le donne) rispetto alle coorti che le hanno precedute, innalzando così il tasso di attività medio della classe. Per i maschi ultrasessantacinquenni, la crescita dell’offerta di lavoro è stata determinata sia dalla componente demografica favorevole (la coorte ha aumentato il peso sulla popolazione complessiva anche nel 2006), sia dal miglioramento del tasso di attività. Anche per questa variabile, l’elevato incremento osservato in termini percentuali è riconducibile al basso livello di partenza dei tassi di attività in discussione (6.1 per cento per gli uomini e 1.2 per le donne nel 2006, cresciuti entrambi, in valore assoluto, di 0.1 punti rispetto al livello del 2005).
L'offerta di lavoro degli anziani tasso di attività
popolazione
Forze di lavoro
12 10 8 6 4 2 0 55-64 M
65 e + M
55-64 F
Variazioni % 2005-06
34
65 e + F
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Anche nel 2006 si è osservato un maggior incremento dell’offerta di lavoro da parte dei lavoratori con titoli di studio elevati. Le forze lavoro con un diploma di scuola secondaria di durata almeno quadriennale sono cresciute del 2.8 per cento (con un differenziale di due punti rispetto alle forze lavoro complessive); gli attivi con laurea o un titolo post-laurea sono cresciuti del 5.4 per cento. Nel 2004 gli attivi (tra i 15 e i 64 anni) con un diploma quadriennale, una laurea o un post-laurea rappresentavano il 49 per cento della forza lavoro, mentre nel 2006 il loro peso ha raggiunto il 53 per cento.
Forze lavoro (15-64 anni) per titoli di studio Italia 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 -10 In complesso
Nessun titolo, lic. elementare
Lic. media
Diploma 23 anni
Diploma 45 anni
-12 Laurea e post laurea
Cresce l’offerta di lavoro con titoli di studio elevati
Variazioni % 2005-06
Una tendenza opposta, si è naturalmente osservata per i titoli di studio inferiori: si è difatti ridotto il peso degli attivi senza titolo di studio, o con solo la licenza elementare o media. Rispetto al 2005, inoltre, si è invertita la tendenza per quanto riguarda i lavoratori con diploma triennale di scuola superiore, la cui offerta di lavoro dal 2006 ha cominciato a contrarsi. In parte, il cambiamento della composizione per titoli di studio della forza lavoro riflette i mutamenti in termini di livello di istruzione della popolazione italiana. Distinguendo per età si osserva come le classi giovani (25-34 anni, quelle in cui si concentra l’ingresso nel mercato del lavoro) siano caratterizzate da un incremento marcato dell’offerta di lavoro con laurea o titoli post-laurea, mentre si riduce notevolmente
35
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
l’offerta poco qualificata. Tra le classi mature (35-64 anni), invece, la riduzione che si osserva nelle forze lavoro senza titoli di studio potrebbe essere in parte riconducibile anche all’uscita dal mercato da parte delle coorti più anziane: i lavoratori meno qualificati, che spesso svolgono anche lavori più usuranti, tendono infatti a pensionarsi prima.
Forze lavoro per titoli di studio - Italia 25-34
35-64
6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 In complesso
Nessun titolo, lic. elementare
Lic. media
Diploma 23 anni
Diploma 45 anni
Laurea e post laurea
-10
Variazioni % 2005-06
1.4 Gli immigrati Gli stranieri nei principali paesi europei
L’Italia risulta fra i paesi europei dove la presenza straniera ha in assoluto dimensioni significative, con un numero di immigrati che a fine 2005 ha approssimato i 3 milioni di persone. In percentuale della popolazione il valore risulta però decisamente basso, anche perché da noi il fenomeno è più recente. Fin dal secondo dopoguerra è alla Germania che spetta il primato delle presenze straniere. A inizio anni novanta il paese contava circa 5 milioni di immigrati12, pari a poco più del 6 per cento della popolazione totale, mentre in Francia, la popolazione straniera presente sul territorio era di circa 3.5 milioni di persone, con un’incidenza sulla popolazione complessiva del 6.3 per cento. 12
36
Fonte: Eurostat
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
La Gran Bretagna contava circa 2.5 milioni di immigrati, pari a circa il 4 per cento della popolazione. L’Italia ha invece storicamente avuto un ruolo più marginale, spesso luogo di passaggio per gli immigrati in viaggio verso l’Europa continentale, attirati da migliori prospettive di redditi e occupazione. Di ciò è testimonianza il divario di presenze rispetto ai maggiori partner europei. Queste a inizio anni novanta raggiungevano un numero di circa 350 mila, con un’incidenza di circa lo 0.5 per cento sulla popolazione totale. Secondo i dati diffusi dall’Onu13 il numero di immigrati in Germania nel 2005 sarebbe superiore ai 10 milioni di persone, in Francia la presenza di immigrati avrebbe raggiunto i 6.5 milioni e in Gran Bretagna i 5.4, con incidenze sul totale della popolazione nel 2005 rispettivamente di oltre il 12 per cento in Germania, il 10 in Francia, il 9 in Gran Bretagna. In Italia il fenomeno dell’immigrazione ha risentito nel corso degli ultimi anni di forti cambiamenti tanto da risultare oggi tra i paesi (insieme alla Spagna) che registrano un tasso di crescita e di incidenza della popolazione straniera rispetto a quella complessiva in rapida crescita.
Popolazione straniera principali paesi europei (2005) 12
Milioni di persone
10 8 6 4 2 0 Germania
Francia
Gran Bretagna
Spagna
Italia
Fonte: UN Migration database
13
Fonte: UN Migration database
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Gli stranieri in Italia: struttura demografica e mete privilegiate
Secondo le rilevazioni Istat sulla popolazione straniera residente in Italia, a fine 2005 gli stranieri presenti risultavano 2milioni 671mila, pari al 4.5 per cento della popolazione residente. L’incremento rispetto al 2004 è stato dell’11 per cento. Rispetto ai due anni precedenti il ritmo di crescita risulta meno elevato dal momento che si è andato esaurendo l’effetto delle iscrizioni anagrafiche successive alle regolarizzazioni (nel 2003 la crescita era stata di circa il 30 per cento e nel 2004 del 20 per cento). Alla crescita di oltre 268mila immigrati nel corso del 2005 ha contribuito in parte il saldo migratorio con l’estero (differenza tra iscritti dall’estero e cancellati per l’estero e pari a 267mila individui), il più rilevante, e in parte il saldo naturale (differenza tra nuovi nati e decessi), pari a quasi 49mila stranieri. Rispetto all’anno precedente il saldo migratorio è diminuito mentre quello naturale è aumentato. L’analisi della piramide demografica della popolazione straniera mette in luce come negli ultimi anni sia fortemente cresciuta la presenza di minorenni sul totale degli stranieri. I minori di 18 anni risultavano poco più di 100mila a fine 1995 e a distanza di 10 anni il numero di individui si è portato a 585mila, con una crescita di quasi il 500 per cento per lo più avutasi nel corso dell’ultimo quinquennio. Tra il 2000 e il 2005 la crescita media annua di questa coorte è stata all’incirca del 20 per cento. Dei 500mila minori aggiuntivi tra il 1995 e il 2005 quasi 300mila sono i nati in Italia da genitori stranieri (che la legge italiana considera immigrati), mentre la quota restante è legata ai rincongiungimenti familiari. L’incidenza dei minori è salita dal 13 per cento del 1995 al 21.2 per cento del 2005. Oltre 50mila sono i nuovi nati da genitori stranieri del 2005 che, rispetto al totale delle nascite in Italia, rappresentano quasi il 10 per cento. Nel complesso la popolazione straniera residente risulta più giovane rispetto a quella italiana. Con riferimento alla popolazione straniera residente a fine 2005, oltre la metà degli stranieri aveva un’età compresa tra i 18 e i 39 anni, il 24.4 per cento un’età compresa tra 40 e 65 anni, mentre solo il 2.1 per cento era ultra 65enne. La popolazione residente complessiva evidenzia invece una distribuzione per classi di età spostata progressivamente verso le età più mature con un’incidenza del 19.5 per cento degli ultra 65enni e 33 per cento della fascia compresa tra i 40 e 64 anni).
38
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Piramide demografica - Stranieri regolari 2005 Maschi
Femmine
65 e più 60-64 55-59 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 18-24
2500
2000
1500
migliaia di unità
1000
500
0
500
1000
1500
2000
2500
Fino a 17
Per quanto riguarda le distribuzione territoriale, i dati sui permessi di soggiorno evidenziano una maggior concentrazione di immigrati nelle aree centro settentrionale con una prevalenza del Nord-ovest dove si riscontra una presenza del 34 per cento degli immigrati con permesso di soggiorno e del Nord-est, con una presenza pari al 28 per cento. Al centro gli immigrati risultanti dai permessi sono il 25 per cento, mentre la restante quota soggiorna al Sud e isole. La tendenza alla divaricazione di presenze tra circoscrizioni territoriali sembra sia andata ampliandosi negli ultimi anni, tra il 2003 e il 2005, quando la crescita complessiva dei soggiornati è stata del 2.6 per cento. In particolare l’area del Nord-est è quella che ha attirato il maggior numero di stranieri, con una crescita di oltre il 16 per cento dei soggiornati, a fronte di contrazioni di circa il 14 per cento al Sud e isole e del 5 per cento al Centro. La presenza straniera è cresciuta infine anche nel Nord-ovest, ma in maniera meno intensa rispetto al Nord-est, con un aumento del 5.6 per cento.
39
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 1.6 - Tentativi di stima della popolazione straniera in Italia Il conteggio della popolazione residente differisce da quello delle persone straniere regolarmente presenti sul territorio italiano. La popolazione legalmente presente sul territorio nazionale risulta superiore a quella residente e questo perché le presenze regolari sono quelle legate al possesso di un regolare permesso di soggiorno, quest’ultimo precondizione per poter richiedere l’iscrizione all’anagrafe del comune dove si risiede. I due differenti status degli stranieri “regolare” e “residente” non sempre coincide e le statistiche ufficiali in materia non hanno ancora raggiunto un sufficiente grado di coordinamento e omogeneizzazione. Succede infatti che le fonti statistiche sull’immigrazione siano piuttosto numerose e che anche il loro utilizzo congiunto, sebbene auspicabile per ottenere una maggiore completezza del set informativo, richieda particolare cautela per problemi di completezza e aggiornamento. Nella sostanza, ai dati di fonte Istat elaborati a partire dalle anagrafi comunali è utile affiancare i dati sui permessi di soggiorno risultanti al Ministero dell’Interno14. In ogni caso, i dati di entrambi gli archivi sono registrati dopo un certo lasso temporale. Il numero dei soggiornati registrati dalla questure è diverso da quello dei residenti perché i primi includono anche i permessi di breve durata (inferiore ai 6 mesi). Inoltre il numero dei permessi di soggiorno va corretto per tenere conto dei ritardi nelle registrazioni e per la presenza dei minori (che, al contrario vengono iscritti in anagrafe singolarmente e dall’incrocio con le anagrafi è possibile ottenere una stima attendibile della presenza di minori stranieri). I dati del Ministero dell’Interno sui permessi di soggiorno registrati dalle questure e raccolti a livello centrale dal Ministero. Nei permessi vengono registrate le informazioni sul paese di provenienza, il motivo di soggiorno, la provincia di insediamento, il sesso, la classe di età e lo stato civile. Tale banca dati è aggiornata durante tutto l’arco dell’anno, ma sempre con qualche ritardo. In questo archivio sono inclusi anche i cittadini comunitari. L’elemento di maggior criticità nell’utilizzo di questo datatset è legato al fatto che i minori di 14 anni vengono registrati nei permessi di soggiorni dei genitori, salvo casi di adozione, custodia, e minori non accompagnati e per questo motivo viene generalmente stimato un fattore di correzione che tenga conto delle modalità amministrative di conteggio dei minori. L’archivio Istat è invece un prodotto delle elaborazioni delle iscrizioni anagrafiche. Gli stranieri che arrivano in Italia, se titolari di un permesso di soggiorno della durata superiore ai sei mesi, sono tenuti alla registrazione all’anagrafe del comune dove scelgono di risiedere. L’iscrizione all’anagrafe è un requisito per ottenere il documento di identità così come per avere accesso a molti servizi (ad esempio per aprire un conto corrente bancario). In questo caso le informazioni registrate per ogni individuo sono il paese di provenienza, il sesso e la suddivisione tra adulti e minori (di cui però non sono disponibili le nazionalità). 14
40
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
A questo andrebbe aggiunto un ulteriore elemento, che completa il quadro relativo agli stranieri presenti sul territorio italiano, quello dei clandestini, che riflette la presenza di immigrati senza alcun permesso di soggiorno, anche scaduto, e evidentemente ne’ le statistiche sui permessi di soggiorno né quelle sulle residenze possono rilevare. Al primo gennaio 2006 i soli permessi di soggiorno risultanti erano in totale 2milioni 286mila che integrati con la stima ottenuta dalla somma dei minorenni stranieri iscritti in anagrafe restituiscono un numero di stranieri regolarmente presenti pari 2 milioni 768mila. Tuttavia, per ottenere una stima completa delle presenze questi numeri andrebbero ulteriormente intergrati con le presenze regolari che possono aver subito ritardi nella registrazione e con quelle irregolari. Secondo autorevoli stime15 il numero complessivo di immigrati a fine 2005 potrebbe aver raggiunto poco meno di quattro milioni di presenze.
I numeri dell'immigrazione Anno
2002
200
200
200
Stranieri regolari
1503286
2227567
2320000
2286024
Stima degli stranieri regolari corretta per il numero di minori Popolazione residente
1800000 1549373
2570000 1990159
2740000 2402157
2767964 2670514
Fonte: Istat
Anche nel 2006 è stato regolarizzato un certo numero di stranieri con la modalità dei “decreti flussi” che nella sostanza hanno avuto la stessa funzione delle regolarizzazioni di massa16. Il decreto del 15 febbraio 2006, che ha previsto l’ingresso di 170 mila lavoratori (di cui 120 mila non stagionali), ha in realtà raccolto 520mila domande. Emerge così un ulteriore elemento a testimonianza delle presenze irregolari nel 2006. Il processo di accrescimento della popolazione straniera non è avvenuto in maniera lineare. La dinamica temporale delle presenze è soggetta a salti che riflettono gli interventi di natura amministrativa succedutisi negli anni. Le variazioni più significative dello stock di stranieri regolarmente presenti sono dovute ai provvedimenti di regolarizzazione (che si sono ripetuti a intervalli più o meno regolari dalla fine degli anni ottanta) che accelerano fortemente le dinamica demografica dell’immigrazione negli 15
ISMU, Dodicesimo Rapporto sulle Migrazioni 2006
16
ISMU, Dodicesimo Rapporto sulle Migrazioni 2006
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
anni cui i provvedimenti legislativi vengono introdotti. Tra la metà degli anni novanta e il 2000 il numero dei permessi di soggiorno è raddoppiato e nel corso degli anni più recenti, tra il 2001 e il 2005 i permessi di soggiorno sono aumentati di circa 1milione e 200mila, contando per una variazione cumulata nel periodo di quasi il 75%. Su questo dato ha avuto grande influenza il processo di regolarizzazione attuato con Leggi 198/02 e 222/02 il quale ha inciso per circa 650mila provvedimenti su un totale di 724mila permessi rilasciati nel 2004. A fine 2003 i permessi di soggiorno coglievano l’effetto della regolarizzazione con una forte crescita registrata nell’anno, pari al 48.2 per cento rispetto al precedente. Diversamente, l’effetto della regolarizzazione nelle statistiche sulla popolazione straniera residente è emerso più lentamente, nell’arco di due anni, il 2003 e il 2004.
Le vecchie e le nuove provenienze Dall’analisi delle richieste di soggiorno presentate a seguito della regolarizzazione, emerge il cambiamento dei flussi migratori verso il nostro paese avvenuto nel corso degli ultimi anni. Gli irregolari che hanno presentato domanda sono per la stragrande maggioranza provenienti dall’Europa orientale, quasi il 60 per cento dei regolarizzati. Il 20 per cento delle richieste è stato fatto da rumeni (circa 135mila permessi), quasi il 16 da ucraini (circa 102mila), il 7.5 da albanesi (circa 50mila permessi), poco meno del 5 per cento da polacchi e moldavi. Dal Nord Africa sono stati i marocchini a richiedere il maggior numero di permessi, circa 50mila. Le altre due provenienze che hanno registrato forti aumenti sono Perù e in misura minore Ecuador (rispettivamente 34 e 16 mila permessi). In questo modo sono emersi i cambiamenti nei flussi fra i paesi a forte pressione migratoria. Agli individui provenienti da paesi di più antica immigrazione (Filippine, Senegal, Tunisia, Marocco e Perù), presenti in Italia da oltre 10 anni, si sono affiancati durante lo scorso decennio altre nuove provenienze fra cui Cina, Albania e Serbia (questi ultimi in fuga dalla guerra nei Balcani). Le nuove presenze, emerse con l’ultima regolarizzazione, sono invece quelle dall’Ucraina, Moldavia e Ecuador. Dalle risultanze dei permessi legati all’ultima regolarizzazione è altresì possibile individuare i settori di occupazione dei nuovi regolarizzati. A differenza delle precedenti sanatorie quelle del 2002 hanno vincolato il permesso di soggiorno allo svolgimento di un’attività lavorativa: la Legge 189/02 ha coinvolto l’emersione del lavoro irregolare prestato
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Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
da cittadini extracomunitari presso le famiglie (per un totale di 316mila immigrati) mentre la legge 222/02 ha coinvolto i lavoratori irregolari presso le imprese (330mila). Fra i primi è emersa la prevalenza di ucraini, rumeni, polacchi, moldavi e ecuadoregni e in maggioranza donne. Per le imprese l’emersione del lavoro irregolare ha mostrato come le principali provenienze siano rumeni, marocchini e albanesi e in prevalenza uomini. A fine 2005 i permessi di soggiorno complessivi sono 2milioni 286mila, con una crescita di circa 40 mila permessi rispetto al 2004. Rumeni, albanesi e marocchini sono nel complesso i più numerosi (oltre 200mila presenza rispettivamente).
Stranieri regolari per nazionalità a fine 2005 Maschi e femmine, prime 10 proveninze
migliaia di unità
300 250 200 150 100 50 India
Serbia e M.
Tunisia
Polonia
Filippine
Cina,Rep.Pop.
Ucraina
Marocco
Albania
Romania
0
Stranieri regolari per nazionalità a fine 2005 Maschi, prime 10 provenienze
150
100
50
Bangladesh
Serbia e Montenegro
India
Egitto
Senegal
Tunisia
Cina,Rep.Pop.
Romania
Albania
0 Marocco
migliaia di unità
200
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Stranieri regolari per nazionalità a fine 2005 Femmine, prime 10 provenienze 160 migliaia di unità
140 120 100 80 60 40 20 Ecuador
Moldova
Peru'
Filippine
Cina,Rep.Pop.
Polonia
Marocco
Ucraina
Albania
Romania
0
Se si considera la sola popolazione femminile si rileva che le donne rumene sono le più numerose, seguite dalle albanesi e dalle ucraine con presenze intorno alle 100mila unità mentre le marocchine sono solo quarte. Fra gli uomini invece la comunità più numerosa è quella marocchina, seguita da quella albanese e rumena. Va rilevato che il quadro dei permessi di soggiorno rispetto a quello della popolazione residente presenta degli elementi di differenziazione soprattutto per quanta riguarda le provenienze degli stranieri. A fine 2005 sono gli albanesi a rappresentare la comunità residente più numerosa, seguita da quella marocchina, rumena e cinese. Le differenze riflettono in parte il fatto che i minori sono conteggiati nei permessi dei genitori, per cui può risultare un certa prevalenza di minori soprattutto per le provenienze di più antica immigrazione. Il motivo principale per cui viene richiesto il permesso di soggiorno è il lavoro anche se sono in aumento le richieste di ricongiungimento familiare, fenomeno tipicamente successivo ai provvedimenti da sanatoria. A inizio 2006 i permessi richiesti per lavoro rappresentano il 62.1 per cento del totale, mentre quello per il ricongiungimento circa il 30 per cento, con una netta prevalenza della componente femminile, in forte aumento negli ultimi anni.
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Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
Secondo l’indagine campionaria realizzata da Istat al fine di rilevare le forze di lavoro straniere, la popolazione straniera ha raggiunto nel quarto trimestre del 2006 il livello di 1milione 92mila unità17. Rispetto all’anno precedente la popolazione di età superiore ai 15 anni è aumentata di circa il 13 per cento, crescita che riflette l’ingresso nel mercato del lavoro di nuovi lavoratori che hanno ottenuto il permesso di soggiorno nel 2005 e 2006 grazie ai cosiddetti “decreti flussi” (che nel complesso è possibile stimare in circa 300mila stranieri). Come per le regolarizzazioni precedenti, si tratta per la maggior parte non di nuovi ingressi, bensì di emersione di lavoratori irregolari18. La popolazione straniera residente di età superiore ai 15 anni
Forza lavoro straniera 15-64 anni - Tasso di crescita medio annuo nel 2006 15
14
%
La forza lavoro straniera
13
12
11 Nord
Centro
Sud
Italia
nel 2006 risulta distribuita in maniera piuttosto uniforme tra individui di sesso maschile e femminile, è composta infatti per il 49.5 per cento da uomini e per il 50.5 per cento da donne. Le percentuali non mutano se si considera solo la popolazione in età L’indagine è condotta a partire da dati campionari relativi alla popolazione straniera residente che vengono riportati all’universo tenendo conto della distribuzione territoriale, dell’età, del sesso e della cittadinanza della popolazione di riferimento, informazioni queste ultime di fonte anagrafica. La popolazione rilevata è quella con età superiore a 15 anni, età a partire dalla quale si esegue il conteggio sulla popolazione attiva dal punto di vista lavorativo (compresa nell’intervallo tra i 15 e i 64 anni). 17
Ovviamente, poiché le registrazioni alle anagrafi comunali avvengono in un tempo successivo a quello del rilascio dei permessi, solo una parte della popolazione e dei nuovi lavoratori sono conteggiati. 18
45
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
lavorativa. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale si rileva un persistente divario tra il nord e il sud del paese. La presenza degli immigrati è più concentrata infatti nelle regioni del nord, fatto legato anche alla forte mobilità territoriale della popolazione straniera, per cui le regioni meridionali costituiscono solo la prima tappa del percorso migratorio diretto verso il centro nord19. Il 63 per cento della popolazione straniera con età superiore ai 15 anni risiede nel nord, con un’incidenza degli individui di sesso maschile superiore alla media territoriale e pari al 65 per cento dei residenti. Al centro risiede il 24 per cento della popolazione che, a differenza delle regioni del nord, è costituita in prevalenza da donne, con una percentuale pari al 26 per cento. Il centro è inoltre la circoscrizione dove nel 2006 è cresciuta maggiormente la popolazione, con un incremento superiore alla media nazionale e pari al 13.4 per cento. In linea con la media nazionale si è mostrato l’aumento dei residenti al nord, mentre nelle regioni del sud è stata dell’8.5 per cento. E’ interessante notare come tra le non forze di lavoro di età
Forza lavoro straniera 15-64 anni per sesso e ripartizione geografica nel 2006 Femmine
Maschi
Totale
1.0
milioni di persone
0.8 0.6 0.4 0.2 0.0 Nord
19
46
Istat 2006
Centro
Sud
Capitolo 1. L’offerta di lavoro in Italia nel 2006
superiore ai 15 anni la grande maggioranza sia costituita da donne (per il 78 per cento circa). La forza lavoro straniera, tra i 15 e i 64 anni, nel quarto trimestre del 2006 ha raggiunto un livello pari a 1milione 508mila unità, con un incremento medio nel 2006 rispetto allo scorso anno pari al 13.4 per cento. Sempre in termini di crescita sono le donne ad aumentare maggiormente, con un ritmo nel 2006 del 15.7 per cento mentre per gli uomini l’incremento è stato dell’11.8 per cento. Si tenga conto tuttavia che la popolazione attiva maschile è nettamente prevalente, con una percentuale pari al 60 per cento. Nel Nord è maggiore rispetto alle altre aree del paese l’incidenza degli uomini sul totale della forza lavoro, pari al 62 per cento, mentre la più bassa si riscontra nel centro (56 per cento). Nonostante la percentuale delle donne attive rispetto a quella degli uomini sia più bassa al nord, è però in quest’area che - dato il maggior numero di stranieri qui residenti - si concentra la quota maggiore di popolazione attiva femminile, rappresentante il 60 per cento del totale nazionale. L’analisi dei tassi di attività per sesso e ripartizione territoriale conferma quanto detto: a fronte di un tasso di attività medio degli stranieri riscontrato nel 2006 dell’87 per cento, quello maschile risulta pari all’88.9 per cento mentre quello femminile al 58.7 per cento. Si rileva come tali tassi di attività risultino elevati e ciò proprio in virtù del fatto che la principale motivazione sottostante la richiesta dei permessi
Tasso di attività Popolazione straniera 15-64 anni per sesso e ripartizione geografica nel 2006 Maschi
Femmine
Totale
100 90 80 %
70 60 50 40 30 Nord
Centro
Sud
Italia
47
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
di soggiorno sia quella del lavoro e che esso sia nella maggior parte dei casi anche il requisito necessario al rinnovo del permesso. Da questo deriva anche una forte disponibilità di adattamento alla domanda di lavoro, quand’anche questa sia inferiore rispetto agli skill individuali. Ne risulta un divario significativo rispetto ai tassi di attività della popolazione complessiva. Le differenze nascono in ogni caso anche dalle diverse caratteristiche demografiche della popolazione italiana (all’interno della quale pesa molto anche la popolazione più matura e per la quale si può verificare il calo del tasso di partecipazione dato dai pensionamenti e quindi dall’uscita dal mercato del lavoro) e anche alle differenti scelte dei percorsi scolastici (che vedono un’elevata incidenza di popolazione giovanile che frequenta scuole e università). I tassi di attività risultano infine mediamente più elevati per gli uomini stranieri residenti al nord (pari all’89.7 per cento), mentre per le donne risulta più elevato al centro (61.3 per cento).
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Capitolo 2. L’occupazione
Capitolo 2. L’occupazione 2.1 L’occupazione in sintesi Nel 2006 l’occupazione italiana è tornata ad aumentare a tassi elevati. La svolta della domanda di lavoro ha mostrato una sostanziale consonanza con il ciclo della produzione, reagendo senza ritardi alla ripresa dell’attività economica. Tale andamento mette bene in luce come la stabilità dei livelli occupazionali avvenuta nel corso della fase di recessione, fatto del tutto inusuale in una prospettiva storica, non avesse generato livelli di occupazione eccedenti i fabbisogni reali delle imprese. È quindi bastato che l’economia cominciasse a riprendersi per attivare una domanda di lavoro aggiuntiva. La dimensione elevata degli incrementi occupazionali del 2006 sorprende poi ancora una volta se considerata contestualmente alla contenuta entità dei recuperi sul versante della produzione. È quindi risultato ancora molto elevato il contenuto di occupazione sottostante la crescita del prodotto. Da questo punto di vista, il 2006 si pone in linea di continuità con l’esperienza degli anni precedenti, avendo mostrato una elevata elasticità della domanda di lavoro rispetto alla crescita, e in particolare nei settori industriali. Le caratteristiche del processo di sviluppo paiono quindi contrassegnate tuttora da scarsi recuperi di produttività, secondo una tendenza estesa a tutti i maggiori settori dell’economia mentre, al contempo, la crescita della domanda di lavoro trova sostegno anche nel prevalere di condizioni di contenuta dinamica delle retribuzioni reali. Dal punto di vista del mix settoriale che ha caratterizzato la crescita dell’occupazione, si osserva come i settori industriali abbiano recuperato posizioni proseguendo una tendenza che, al netto delle perdite della filiera del tessile abbigliamento, è in corso da tempo. Decelera invece, dopo la lunga corsa degli ultimi anni, la creazione occupazionale nell’edilizia, secondo una tendenza trasversale a tutte le aree del paese. Tra i servizi, le anomalie riguardano soprattutto i non vendibili, visto che un discreto aumento occupazionale viene registrato all’interno dell’aggregato residuale degli “altri servizi”. Anche grazie al particolare mix settoriale che ha guidato i recuperi occupazionali, e in particolare per effetto del rimbalzo dell’agricoltura, il 2006 è stato l’anno del ricongiungimento delle dinamiche occupazionali del Mezzogiorno con quelle del resto del paese. La parte del leone la
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
giocano però, al Sud come al Centro i servizi vendibili, mentre è al Nord che si concentra il forte e anomalo rialzo dei servizi non vendibili, anche per effetto della creazione di occupazione nei servizi presso le famiglie e nella sanità privata. Nel complesso, le evidenze territoriali ci dicono che ancora una volta il treno della ripresa industriale è stato agganciato nel Nord est dove l’occupazione industriale ha ripreso ad aumentare a tassi significativi, mentre non recuperano i livelli dell’occupazione industriale nelle regioni del Centro, dopo la contrazione del 2005 legata alle perdite della filiera del tessile e dell’industria conciaria. La crescita occupazionale ha interessato soprattutto le donne, il cui incremento è stato superiore a quello registrato per gli occupati uomini anche in valore assoluto (benché l’occupazione femminile costituisca ancora oggi molto meno della metà dell’occupazione totale, pesando solo il 39 per cento). Tale andamento è stato favorito oltre che dalla coniugazione settoriale della crescita occupazionale, visti i buoni risultati nei servizi (settore dove le donne hanno un peso non trascurabile), anche dalla crescente diffusione del part-time. L’aumento degli occupati a tempo parziale ha contribuito in misura notevole all’incremento dell’occupazione femminile. Un altro elemento che nel 2006 ha acquistato ulteriore peso è quello del lavoro atipico: l’occupazione dipendente a termine ha registrato una crescita vivace, e questa forma contrattuale è stata usata non a fini di screening e di prova, ma per rispondere all’accresciuto fabbisogno di manodopera in alcuni settori, data la fase favorevole del ciclo. È aumentato anche il numero di collaboratori e prestatori d’opera: i lavoratori temporanei (ovvero, i co.co.co, i prestatori d’opera e i dipendenti a termine) hanno raggiunto i 2.7 milioni di persone, e rappresentano oramai una quota non trascurabile dell’occupazione totale, alla cui crescita nel 2006 hanno peraltro dato un contributo fondamentale.
50
Capitolo 2. L’occupazione
2.2 L’andamento dell’occupazione Boom dell’occupazione nel 2006
Il 2006 è risultato dal punto di vista congiunturale un anno decisamente favorevole per l’economia italiana. Dopo ben cinque anni di stagnazione, l’economia è tornata a crescere realizzando, nella media dell’anno, un incremento del Prodotto interno lordo pari all’1.9 per cento. L’inversione del ciclo è stata guidata da un iniziale recupero delle esportazioni, che sono tornate ad aumentare dopo tre anni di stagnazione. Il ciclo dell’export ha anche attivato una contenuta crescita degli investimenti, aumentati del 2.3 per cento per la componente degli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto. Gli investimenti in costruzioni sono aumentati del 2.1 per cento, realizzando l’ottavo anno consecutivo di sviluppo. Circa i consumi, la variazione media dell’anno (1 per cento) rappresenta la sintesi di una discreta accelerazione della spesa delle famiglie aumentata dell’1.5 per cento e di una contrazione della spesa della Pubblica Amministrazione (-0.3 per cento). Su questa seconda variabile ha inciso sfavorevolmente l’azione di contenimento della spesa pubblica, volta a ridimensionare il livello del deficit. Sui consumi delle famiglie ha inciso positivamente la crescita della massa salariale; a fronte di una perdurante debolezza dei salari reali, l’andamento di questa variabile è stato guidato dalla crescita degli occupati. Difatti, il tasso di crescita del 2006 certamente non è eccezionale in una prospettiva storica, ma è bastato per segnare l’inversione della fase ciclica avversa e attivare una domanda di lavoro aggiuntiva di dimensioni significative. L’input di lavoro nella definizione delle unità di lavoro totali da contabilità nazionale è difatti cresciuto nel corso dell’anno dell’1.6 per cento. L’incremento è pari a 396mila unità di lavoro secondo la contabilità. Soltanto lievemente superiore risulta quello degli occupati secondo la rilevazione sulle forze di lavoro, che registra la ragguardevole creazione di 425mila posti di lavoro aggiuntivi. La scomposizione dell’aumento delle unità di lavoro evidenzia che la variazione complessiva è l’esito di una crescita di 348mila unità di lavoro per i dipendenti e di 48mila per gli indipendenti corrispondenti, rispettivamente, a tassi di crescita del 2 e dello 0.7 per cento. Tale risultato è in linea con gli andamenti emersi dalla metà degli anni novanta, con una dinamica occupazionale mediamente più sostenuta per i dipendenti rispetto agli autonomi.
51
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
ITALIA - QUADRO MACROECONOMICO Variazioni percentuali salvo diversa indicazione 2002 2003 Prodotto interno lordo 0.3 0.0
2004 1.2
2005 0.1
2006 1.9
Importazioni
-0.5
0.8
2.7
0.5
4.3
Domanda finale nazionale
1.4
0.6
1.1
0.6
1.3
Consumi finali nazionali - spesa delle famiglie residenti - spesa della PA e ISP
0.7 0.2 2.2
1.2 1.0 2.1
0.9 0.7 1.6
0.8 0.6 1.5
1.0 1.5 -0.3
Investimenti fissi lordi - macchine, mezzi trasporto - costruzioni
4.0 3.3 4.8
-1.7 -4.2 1.4
1.6 1.6 1.5
-0.5 -1.0 0.3
2.3 2.6 2.1
Scorte (contributo) Domanda nazionale totale Esportazioni
0.0 1.4 -4.0
0.2 0.8 -2.4
-0.1 1.0 3.3
-0.2 0.4 -0.5
0.3 1.6 5.3
Prezzi al consumo
2.5
2.7
2.2
1.9
2.1
Unità di lavoro totali
1.3
0.6
0.4
-0.2
1.6
Unità di lavoro industria in senso stretto
0.7
0.0
-1.0
-2.2
1.3
Dati in % del Pil Saldo partite correnti
-0.8
-1.3
-0.9
-1.5
-2.4
Indebitamento netto
-2.9
-3.4
-3.4
-4.1
-4.4
Indebitamento al netto della spesa per interessi
2.7
1.7
1.3
0.4
0.2
105.0
104.0
103.7
106.2
106.8
Debito P.A. definizione Ue Fonte: elaborazioni su dati Istat
I risultati conseguiti nella media dell’intero 2006 sono l’esito di una evoluzione differente nel corso dell’anno. Difatti, l’incremento dei livelli occupazionali è stato concentrato nel corso della prima parte dell’anno, cui ha fatto seguito una decelerazione nel secondo semestre. Facendo riferimento alle unità di lavoro da contabilità emerge il forte rialzo dei primi due trimestri (+1.3 e +0.7 per cento rispettivamente nei due trimestri le unità di lavoro destagionalizzate) cui ha fatto seguito un arretramento nel terzo trimestre (-0.5 per cento) e una stagnazione del quarto. A livello qualitativo, tale tipo di andamento è confermato dal profilo degli occupati sulla base dell’indagine sulle forze di lavoro. Da tale profilo discende poi che il trascinamento statistico trasmesso dal 2006 al 2007 è molto basso, e questo potrebbe tendere a contenere la crescita occupazionale nel dato medio del 2007.
52
Capitolo 2. L’occupazione
Pil e unità di lavoro Pil
Unità di lavoro
4 3 2 1 0 -1 1995
1997
1999
2001
2003
2005
Var. % tendenziali - Elaborazioni REF su dati Istat
La crescita occupazionale registrata nel corso del 2006 è eccezionale sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, sotto il profilo puramente quantitativo, perché si tratta della crescita massima dell’occupazione registrata nel nostro paese. Conta però ancor di più il fatto che tale variazione sia stata realizzata nel corso di una fase di ripresa a ritmi comunque non eccezionali. Il primo aspetto che pare dunque confermato dai dati è l’elevata elasticità della domanda di lavoro al ciclo, secondo una tendenza in atto oramai da diversi anni. La produttività apparente del lavoro sarebbe di fatto rimasta sostanzialmente stagnante anche nel 2006. L’esperienza del 2006, oltre a caratterizzarsi per l’attivazione di quantità elevate dell’input di lavoro, risulta significativa rispetto alla velocità con la quale la domanda di lavoro ha reagito all’inversione del ciclo economico. Difatti, come si osserva dal grafico, vi è una sostanziale coincidenza temporale fra l’accelerazione nella crescita del prodotto e quella delle unità di lavoro. Non si è cioè verificato il classico ritardo temporale che tradizionalmente separa l’inversione del ciclo della produzione da quello della domanda di lavoro. Questa circostanza è importante perché segnala come alla fine della fase avversa del ciclo le imprese italiane non fossero gravate da uno stock di occupati in eccesso. Il tema della coincidenza fra il ciclo della domanda di lavoro e quello della produzione costituisce dunque un elemento di interesse, in quanto segnalerebbe come le imprese sin dall’inizio della ripresa abbiano manifestato l’esigenza di ampliare gli organici. Questa circostanza, comprensibile al termine di una fase di forte espulsione di manodopera,
53
Rapporto sul mercato del lavoro 2006 Pil e unità di lavoro Pil
Ult
5 4 3 2 1 0 -1 1982
1983
1984
1985
Var. % tendenziali - Elaborazioni REF su dati Istat
Pil e unità di lavoro Pil
Ult
4
2
0
-2
-4 1992
1993
1994
1995
Var. % tendenziali - Elaborazioni REF su dati Istat
Pil e unità di lavoro Pil
Ult
4 3 2 1 0 -1 2003
2004
2005
2006
Var. % tendenziali - Elaborazioni REF su dati Istat
54
Capitolo 2. L’occupazione
risulta più sorprendente al temine di una fase recessiva, come quella attuale, dove le perdite occupazionali sono risultate davvero modeste. Nel set di grafici allegato si mostra l’andamento del Pil e delle unità di lavoro in Italia nel corso di tre periodi di ripresa economica. La fase attuale viene confrontata con la ripresa dei primi anni ottanta e con quella dei primi anni novanta. Si nota come la svolta del ciclo dell’occupazione nell’ultima fase non evidenzi un ritardo rispetto alla dinamica della produzione. La fase attuale è in parte assimilabile a quella dei primi anni ottanta. La risposta occupazionale alla svolta del ciclo fu anche in quel caso abbastanza rapida, anche grazie al fatto che la domanda di lavoro fu sostenuta dall’impulso offerto dalla robusta accelerazione del ciclo.
55
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 2.1 - La crescita dell’occupazione nei maggiori paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni e la posizione dell’Italia L’aspetto di maggiore rilievo fra gli elementi che hanno caratterizzato il mercato del lavoro italiano negli ultimi anni, è costituito dalla elevata creazione di posti di lavoro all’interno di un quadro economico nel complesso abbastanza deludente. Tale valutazione positiva tende comunque a ridimensionarsi se la si pone a confronto con i risultati occupazionali emersi nel corso degli ultimi anni nei maggiori paesi industrializzati. In generale, si rileva un trend comune ai diversi paesi, rappresentato dal fatto che, nonostante la fase ciclica avversa della prima parte del decennio, quasi nessun paese ha presentato flessioni occupazionali. All’interno di un contesto generalmente favorevole alla creazione di nuova occupazione, si confermano però le differenze fra il gruppo dei paesi anglosassoni e i paesi dell’area dell’euro. Tra i primi, si segnala il caso degli Stati Uniti, dove la crescita degli occupati avrebbe decelerato negli ultimi anni rispetto al decennio passato. Dinamiche occupazionali intorno al 2 per cento all’anno si sono registrate in Canada, Australia, Nuova Zelanda. Il Regno Unito ha presentato una crescita dell’occupazione intorno all’1 per cento. Nell’area dell’euro risalta, oltre al caso irlandese, anche quello della Spagna, dove l’occupazione cresce a tassi sopra il 4 per cento. In generale, tutti i paesi dell’area euro hanno risentito della decelerazione dell’attività economica ad inizio decennio. In ogni caso, anche economie che avevano registrato una forte creazione di occupazione durante lo scorso decennio, hanno mostrato una stagnazione dei livelli occupazionali nel corso della fase più recente. È questo, ad esempio, il caso di Olanda, Belgio, Austria e Finlandia. È comunque utile segnalare come in nessun paese dell’area la recessione di inizio decennio abbia portato a registrare negli scorsi cinque anni perdite occupazionali di rilievo. Questa è una differenza importante rispetto a quanto accaduto nel corso della recessione dei primi anni novanta, e testimonia come in generale il mercato del lavoro abbia mostrato una sostanziale solidità in pressoché tutte le economie dell’area euro. All’interno dell’eurozona l’anello debole è costituito dalla Francia e, soprattutto, dalla Germania. Va comunque segnalato come l’economia tedesca sia stata interessata nel corso degli ultimi anni da processi di riforma del mercato del lavoro che hanno recentemente prodotto i primi risultati positivi in termini di maggiore creazione occupazionale. È quindi possibile che l’economia tedesca registri una accelerazione dell’occupazione nei prossimi anni. La posizione dell’Italia è in questo contesto abbastanza positiva in termini relativi, nel senso che la crescita occupazionale degli ultimi dieci
56
Capitolo 2. L’occupazione
anni è decisamente migliore di quella delle fasi precedenti. Si tratta d’altro canto di una performance non particolarmente brillante se invece la si valuta in assoluto. Difatti, la dinamica occupazionale dell’Italia è di fatto in linea con quella mediamente osservata presso l’aggregato dei paesi considerati nel corso degli ultimi dieci anni. In conclusione, l’Italia è una delle economie che hanno mostrato, fra i paesi Ocse, le maggiori discontinuità in termini di creazione di posti di lavoro, anche se in misura inferiore rispetto a quanto emerso nei casi più eclatanti, come Spagna e Irlanda.
Naturalmente resta
vero che la creazione occupazionale osservata in Italia acquisisce un significato particolare soprattutto alla luce della fase di bassa crescita del prodotto.
OCCUPAZIONE Var. % medie annue 1986-1990 1991-1995 1996-2000 2001-2006 Stati Uniti 2.1 1.0 1.9 0.9 Giappone 1.5 0.7 0.0 -0.2 Germania 1.9 -0.7 0.8 0.0 Francia 0.8 -0.1 1.6 0.5 Italia 0.4 -1.1 1.0 1.4 Regno Unito 1.8 -0.8 1.3 0.9 Canada 2.4 0.3 2.1 1.8 Australia 3.2 0.9 1.6 2.0 Austria 0.9 0.2 1.0 0.2 Belgio 1.2 0.0 1.1 0.6 Rep. Ceca -1.0 0.5 Danimarca 0.8 -0.1 1.0 0.3 Finlandia 0.2 -3.5 2.5 0.7 Grecia 0.7 0.5 0.6 1.1 Ungheria 1.3 0.2 Islanda 0.8 0.7 1.9 1.5 Irlanda 0.9 2.0 5.4 3.1 Corea 3.9 2.5 0.7 1.5 Messico 3.0 1.5 Olanda 2.4 1.3 2.6 0.3 Nuova Zelanda -1.1 1.9 1.3 2.7 Norvegia 0.2 0.5 1.8 0.6 Polonia -0.4 0.0 Portogallo 2.0 0.2 1.7 0.5 Spagna 3.3 -0.7 4.4 4.0 Svezia 1.1 -2.3 0.8 0.6 Svizzera 2.6 0.0 0.7 0.5 * Per i dati sulla Germania sono riportate sino al '90 le dinamiche relative ai soli Laender occidentali. Fonte: elaborazioni REF su dati Ocse
57
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Tre recessioni a confronto
La relazione crescita-occupazione si presta ad un confronto con altre esperienze non soltanto in relazione alla tempistica della risposta occupazionale. È anche utile una valutazione della relazione nel corso dell’intero ciclo economico. Le specificità della fase più recente possono essere ancora illustrate proponendo una comparazione delle tendenze emerse nel corso dell’ultimo ciclo con quanto accaduto nel corso delle ultime due recessioni: quella dei primi anni ottanta e quella dei primi anni novanta. Nei tre set di grafici si illustra l’andamento di tre variabili, il valore aggiunto, le unità di lavoro e la produttività del lavoro, con riferimento all’intera economia nel complesso, alla sola industria in senso stretto e ai servizi. Le variabili sono espresse sotto forma di numeri indice, fatto pari a 100 il valore iniziale, corrispondente agli anni 1980, 1990 e 2000. Si ottiene in questo modo una rappresentazione, per le variabili in questione, che corrisponde a fasi cicliche abbastanza comparabili: l’anno iniziale corrisponde al punto di massimo della fase espansiva del ciclo precedente, e gli anni successivi corrispondono alla recessione e alla successiva fase di ripresa del ciclo. Le dinamiche rappresentate nei primi tre grafici per il totale dell’economia consentono di caratterizzare la fase attuale come la peggiore in termini di crescita, ma anche la migliore in termini di occupazione. Questa seconda caratteristica è qualificata dal fatto che le unità di lavoro hanno continuato a crescere anche negli anni di debolezza congiunturale. Si tratta di un percorso decisamente diverso rispetto a quello osservato nel corso dei primi anni novanta quando non solo le perdite occupazionali furono ampie durante la recessione, ma anche i guadagni furono modesti nella fase successiva di ripresa. Dagli
andamenti
rappresentati
consegue
anche
un
percorso
particolarmente debole della produttività del lavoro negli ultimi anni. Come si evince dal grafico, questa variabile nel dato medio del 2006 non aveva ancora recuperato i livelli del precedente massimo ciclico, mentre nelle stesse fasi dei due precedenti decenni la produttività aveva cumulato un incremento nell’ordine del 10 per cento. Se il primo set di grafici evidenzia le peculiarità che hanno caratterizzato la prima fase del nuovo decennio, elementi di interesse emergono anche soffermando l’attenzione sui principali aggregati
58
Capitolo 2. L’occupazione
settoriali. L’aspetto più interessante che si coglie dai dati sull’industria è il fatto che in entrambi i precedenti episodi di recessione dell’economia, le basi della successiva ripresa fossero state gettate attraverso un forte sforzo di ristrutturazione da parte del sistema industriale, cui erano corrisposte importanti perdite occupazionali. Fra i fattori che avevano spiegato la ristrutturazione sta in entrambi i decenni l’assorbimento da parte dell’industria italiana di due successive ondate di innovazione tecnologica che avevano anche guidato il cambiamento della struttura produttiva. Questo non è stato il caso della fase più recente anche perché i cambiamenti nelle produttività sono stati guidati nel corso degli ultimi dieci anni soprattutto dai segmenti delle tecnologie dell’informazione il che, a livello di settori industriali, corrisponde a guadagni di produttività nei settori che producono i computer, il cui peso è praticamente irrilevante nel caso italiano. Spunti di interesse si colgono del resto osservando come nel corso degli anni ottanta la profonda recessione industriale fosse stata compensata da guadagni cospicui, in termini sia di valore aggiunto che di occupazione, da parte dei settori dei servizi, cosa che non avvenne, viceversa, nei primi anni novanta, quando l’occupazione dei servizi mantenne un andamento stagnante. Uno dei fattori che spiegano la differenza fra i due periodi è anche il diverso andamento dell’occupazione nel pubblico impiego, che negli anni ottanta manteneva ancora un profilo crescente. Dai primi anni novanta questi settori hanno stabilizzato i livelli occupazionali grazie a politiche di controllo del turn over dei livelli che si sono protratte sino agli anni più recenti. In generale, per i servizi l’esperienza del decennio attuale, pur mantenendo elementi di specificità, non pare deviare dai percorsi seguiti nel corso dei decenni precedenti, così come evidenziato nel caso dell’industria. Anche nel caso della produttività del lavoro, la crescita nulla degli ultimi sei anni è analoga a quella che si era osservata nei primi anni novanta, mentre si registra un differenziale cumulato negativo di circa sette punti rispetto agli andamenti degli anni ottanta. Si tratta di divergenze molto meno marcate di quelle osservate per l’industria. Una prima conclusione quindi è costituita dal fatto che, dal punto di vista del contenuto di occupazione alla base della crescita, l’anno 2006 si pone in linea di continuità con l’esperienza degli anni precedenti, manifestando una elevata elasticità della domanda di lavoro rispetto alla crescita, e in particolare nei settori industriali.
59
Rapporto sul mercato del lavoro 2006 Valore aggiunto, intera economia '80-'86
'90-'96
2000-'06
115 110 105 100 95 1
2
3
4
5
6
7
anni Al costo dei fattori, a prezzi concatenati Indice pari a 100 nell'anno iniziale
UnitĂ di lavoro, intera economia '80-'86
'90-'96
2000-'06
110
105
100
95 1
2
3
4
5
6
7
anni Indice pari a 100 nell'anno iniziale
ProduttivitĂ del lavoro, intera economia '80-'86
'90-'96
2000-'06
115
110
105
100
95 1
2
3
4
5
anni Indice pari a 100 nell'anno iniziale
60
6
7
Capitolo 2. Lâ&#x20AC;&#x2122;occupazione Valore aggiunto, industria in s.s. '80-'86
'90-'96
2000-'06
110
105
100
95
90 1
2
3
4
5
6
7
anni Al costo dei fattori, a prezzi concatenati Indice pari a 100 nell'anno iniziale
UnitĂ di lavoro, industria in s.s. '80-'86
'90-'96
2000-'06
105 100 95 90 85 1
2
3
4
5
6
7
anni Indice pari a 100 nell'anno iniziale
ProduttivitĂ del lavoro, industria in s.s. '80-'86
'90-'96
2000-'06
125 120 115 110 105 100 95 1
2
3
4
5
6
7
anni Indice pari a 100 nell'anno iniziale
61
Rapporto sul mercato del lavoro 2006 Valore aggiunto, servizi '80-'86
'90-'96
2000-'06
120 115 110 105 100 1
2
3
4
5
6
7
anni Al costo dei fattori, a prezzi concatenati Indice pari a 100 nell'anno iniziale
UnitĂ di lavoro, servizi '80-'86
'90-'96
2000-'06
125 120 115 110 105 100 95 1
2
3
4
5
6
7
anni Indice pari a 100 nell'anno iniziale
ProduttivitĂ del lavoro, servizi '80-'86
'90-'96
2000-'06
110
105
100
95 1
2
3
4
5
anni Indice pari a 100 nell'anno iniziale
62
6
7
Capitolo 2. L’occupazione
Una scomposizione secondo la contabilità della crescita
La conferma anche nei dati per il 2006 della scarsa crescita della produttività del lavoro rende utile un approfondimento del tema del contenuto di occupazione alla base della crescita o, secondo un’espressione
oramai
di
uso
diffuso,
dell’aumentata
elasticità
dell’occupazione alla crescita del prodotto. Una possibilità è quella di partire dalla spiegazione contabile dell’abbassamento del trend di crescita dell’economia italiana . Questo tipo di esercizio evidenzia come, a fronte di una buona crescita nell’utilizzo dei fattori produttivi, l’economia italiana nel corso degli ultimi anni sia stata caratterizzata da un abbassamento del ritmo di crescita della produttività (la cosiddetta produttività totale dei fattori, Tfp) che spiega interamente la riduzione del tasso di sviluppo del sistema. L’apporto dello stock di capitale allo sviluppo del Pil è stato, difatti, solo leggermente inferiore agli anni ottanta. Il contributo dell’input di lavoro alla crescita del prodotto interno è risultato poi significativo, in linea con quello degli anni ottanta. A flettere drasticamente è il contributo della Tfp alla crescita del valore aggiunto. Questa variabile avrebbe addirittura tenuto una dinamica media di segno negativo nella prima pare del decennio attuale quando alla debolezza del trend di fondo si sono presumibilmente sovrapposti elementi di natura ciclica. Pur essendo la stima di tale variabile soggetta
Contributi alla crescita del valore aggiunto Totale economia Capitale
Lavoro
Tfp
Valore aggiunto, var %
4.0 3.0 2.0 1.0 0.0 -1.0 1981-85
1986-90
1991-95
1996-00
2001-05
Contributo degli input alla variazione media annua del v.a. a p costanti In questo caso l’analisi si ferma al 2005 data l’assenza dei dati per il 2006 relativi allo stock di capitale per i settori.
63
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
a diversi caveat di natura metodologica che suggeriscono di guardare con molta cautela all’indicazione di una contrazione della Tfp, il messaggio fornito dai dati è comunque sufficientemente eloquente da andare oltre il valore puntuale da noi stimato. Tale chiave di lettura delle caratteristiche del rallentamento dell’economia italiana è confermata peraltro da diversi studi, anche quelli che partono da stime più sofisticate, cercando di tenere conto del cambiamento nel capitale umano o del diverso grado di utilizzo dello stock di capitale nel corso del ciclo economico. La disaggregazione sulla base dei maggiori aggregati settoriali mostra anche come la fase di stagnazione della produttività sia condivisa dai diversi settori. In particolare, nel corso della seconda metà degli anni novanta nei settori dell’industria italiana si registra una rottura del trend di sviluppo della Tfp che sino ad allora era cresciuta a tassi significativi. L’incremento medio del periodo 1996-2000 è praticamente nullo, mentre quello della prima parte del nuovo decennio è addirittura di segno lievemente negativo. Per confronto, si consideri che la produttività totale dei fattori nell’industria in senso stretto era aumentata fra il 1980 e il 1995 ad un tasso medio superiore al 2 per cento. A tale variazione
LA CONTABILITA' DELLA CRESCITA: TOTALE ECONOMIA Variazione % medie annue Valore aggiunto*
Stock di Input di capitale* lavoro** * *
Rapporto capitale lavoro
Contributi alla crescita del valore aggiunto Produttività del lavoro
Input Stock di di capitale lavoro
1981-85 1.7 2.8 0.5 2.3 1.2 0.8 0.4 1986-90 3.1 2.6 0.8 1.8 2.4 0.8 0.5 1991-95 1.3 1.8 -0.9 2.7 2.2 0.8 -0.6 1996-00 1.6 1.7 0.8 0.8 0.8 0.7 0.5 2001-05 0.7 1.8 0.7 1.1 0.0 0.5 0.4 Variabili espesse a prezzi costanti; anno di riferimento 2000. * Al costo dei fattori. **Capitale netto per branca proprietaria; *** Input di lavoro **** Residui di Solow secondo Hicks
Produttività totale dei fattori**** 0.6 1.8 1.1 0.4 -0.3
LA CONTABILITA' DELLA CRESCITA: INDUSTRIA IN SENSO STRETTO Variazione % medie annue Valore aggiunto* 1981-85 1986-90 1991-95 1996-00 2001-05
64
0.7 3.8 1.5 0.5 -1.0
Stock di Input di capitale* lavoro** * * 2.4 2.7 1.6 1.7 1.3
-2.7 0.7 -2.0 -0.3 -0.6
Contributi alla crescita del valore aggiunto
Rapporto capitale lavoro
Produttività del lavoro
5.3 2.0 3.7 2.0 1.9
3.5 3.1 3.6 0.8 -0.5
Input Stock di di capitale lavoro 0.8 0.8 0.8 0.7 0.1
-1.8 0.4 -1.2 -0.1 -0.6
Produttività totale dei fattori**** 1.8 2.5 2.0 0.0 -0.5
Capitolo 2. L’occupazione
era corrisposto anche un aumento dello stock di capitale fisico. Si ricorderà difatti come tutti gli anni ottanta fossero stati caratterizzati per una profonda ristrutturazione che aveva comportato un cambiamento delle tecniche di produzione nell’industria e lo spostamento verso una combinazione della produzione più capital intensive. L’aumento della Tfp conosciuto in quegli anni può quindi essere letto alla stregua di un progresso tecnologico incorporato nelle macchine. Altro aspetto da sottolineare degli anni più recenti è la caduta del contributo dello stock di capitale alla crescita; tale rallentamento potrebbe anche essere legata al fatto che diversi settori hanno operato con un basso grado di utilizzo degli impianti e riflettere quindi fattori di natura ciclica. Per gli altri settori dell’economia la rottura rispetto ai trend storici è meno marcata, ma più che altro perché si tratta di settori che storicamente non avevano mai avuto grandi dinamiche della produttività. Anche per questi settori, comunque, la circostanza di una variazione della Tfp di segno negativo rappresenta un fatto stilizzato di rilievo. A livello dei maggiori aggregati settoriali, va sottolineata anche la forte crescita del settore delle costruzioni, conseguita essenzialmente grazie ad una sostenuta crescita degli input utilizzati nel processo produttivo, a fronte di una variazione della Tfp addirittura di segno persistentemente negativo. La bassa crescita di questa variabile peraltro non è un fatto recente per questo settore, tradizionalmente caratterizzato da un forte utilizzo di fattori produttivi, lavoro in particolare. Si noterà comunque come gli ultimi anni abbiano portato il settore a realizzare un intenso processo di investimento, con una dinamica dello stock di capitale posizionatasi su valori prossimi al 5 per cento. L’incremento dell’input di capitale spiega contabilmente una crescita del 2 per cento all’anno del valore aggiunto delle costruzioni e all’incirca altrettanto deriva dal maggiore impiego del fattore lavoro. Infine, guardando ai servizi privati, si scorge il forte abbassamento della crescita dell’output legata nel caso dei settori del “commercio, alberghi e pubblici esercizi” principalmente alla caduta del contributo della
produttività
totale
dei
fattori.
Nel
caso
del
settore
del
“credito, assicurazioni, attività immobiliari e imprenditoriali” risulta anche
significativo
l’effetto
della
decelerazione
del
processo
di
accumulazione.
65
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
LA CONTABILITA' DELLA CRESCITA: COSTRUZIONI Variazione % medie annue Valore aggiunto* 1981-85 1986-90 1991-95 1996-00 2001-05
-0.2 1.6 -1.8 0.8 3.3
Stock di Input di capitale* lavoro** * * 2.3 0.7 0.1 4.2 5.1
-1.3 -0.4 -0.4 1.0 3.0
Contributi alla crescita del valore aggiunto
Rapporto capitale lavoro
Produttività del lavoro
3.6 1.1 0.5 3.1 2.0
1.1 2.0 -1.3 -0.2 0.3
Input Stock di di capitale lavoro 0.8 0.1 -0.1 1.1 1.9
-0.8 -0.3 -0.4 0.7 2.1
Produttività totale dei fattori**** -0.3 1.8 -1.3 -0.9 -0.7
LA CONTABILITA' DELLA CRESCITA: COMMERCIO, ALBERGHI. TRASPORTI E COMUNICAZIONI Variazione % medie annue Valore aggiunto* 1981-85 1986-90 1991-95 1996-00 2001-05
1.7 3.3 2.4 2.5 0.7
Stock di Input di capitale* lavoro** * * 3.7 4.8 3.2 3.5 4.3
2.6 0.6 -1.0 1.2 1.0
Contributi alla crescita del valore aggiunto
Rapporto capitale lavoro
Produttività del lavoro
1.1 4.2 4.2 2.3 3.3
-0.8 2.7 3.4 1.3 -0.3
Input Stock di di capitale lavoro 0.8 1.4 1.5 1.3 1.1
2.0 0.3 -0.9 0.8 0.8
Produttività totale dei fattori**** -1.0 1.6 1.7 0.4 -1.1
LA CONTABILITA' DELLA CRESCITA: CREDITO, ASSICURAZIONI, ATTIVITA' IMMOBILIARI E IMPRENDITORIALI Variazione % medie annue Valore aggiunto* 1981-85 1986-90 1991-95 1996-00 2001-05
3.9 3.7 1.1 1.9 1.2
Stock di Input di capitale* lavoro** * * 2.6 2.1 1.9 1.2 1.3
8.8 5.2 1.1 4.6 2.9
Contributi alla crescita del valore aggiunto
Rapporto capitale lavoro
Produttività del lavoro
-5.7 -3.0 0.7 -3.2 -1.5
-4.5 -1.4 0.0 -2.5 -1.6
Input Stock di di capitale lavoro 1.4 1.1 1.2 0.7 0.8
3.8 2.4 0.2 1.8 1.0
Produttività totale dei fattori**** -1.3 0.2 -0.2 -0.6 -0.6
LA CONTABILITA' DELLA CRESCITA: ISTRUZIONE, SANITA', ALTRI SERVIZI PUBBLICI E PRIVATI Variazione % medie annue Valore aggiunto* 1981-85 1986-90 1991-95 1996-00 2001-05
66
2.4 2.3 0.6 1.6 1.1
Stock di Input di capitale* lavoro** * * 3.5 3.2 1.5 1.6 1.7
2.8 1.7 0.3 0.6 0.4
Contributi alla crescita del valore aggiunto
Rapporto capitale lavoro
Produttività del lavoro
0.7 1.5 1.2 0.9 1.3
-0.4 0.6 0.2 0.9 0.7
Input Stock di di capitale lavoro 0.4 0.5 0.3 0.2 0.2
-0.1 -0.3 -0.3 0.1 0.2
Produttività totale dei fattori**** -0.5 0.4 0.0 0.8 0.5
Capitolo 2. L’occupazione
Riquadro 2.2 - L’andamento della produttività del lavoro nei maggiori paesi industrializzati e la posizione dell’Italia L’andamento della produttività in Italia nel corso degli ultimi anni è del tutto particolare se valutato in una prospettiva storica. Risulta pertanto utile tentare un confronto delle evidenze cross-country per valutare in che misura il rallentamento delle produttività italiana costituisca un aspetto peculiare dell’esperienza del nostro paese. Al proposito, al fine di mantenere una comparazione con un set di paesi ampio, è più utile mantenere il confronto sulla dinamica della produttività del lavoro. Anche per questa variabile abbiamo utilizzato i dati dell’Ocse. I dati della tavola allegata che fanno riferimento all’aggregato del settore privato evidenziano come l’esperienza di un andamento della produttività di segno negativo sia del tutto peculiare al caso italiano. Tale peculiarità acquisisce un significato particolare se poi si considera che in generale l’ultimo decennio non è stato caratterizzato a livello internazionale da una decelerazione della produttività del lavoro. Anzi in alcuni casi, di cui il più emblematico è quello degli Stati Uniti, la produttività ha accelerato significativamente. La tendenza alla crescita della produttività è del resto confermata dai risultati conseguiti nel corso degli anni più recenti; tale risultato è tanto più significativo se si considera che esso corrisponde ad una fase ciclica avversa. Difatti, nelle fasi di decelerazione del ciclo si osserva solitamente una decelerazione della produttività del lavoro. Nei paesi dell’area dell’euro la crescita della produttività del lavoro non è stata comunque eccezionale, mantenendosi intorno all’1 per cento in Francia e Germania. Va comunque ricordato che nel caso tedesco il profilo degli anni più recenti ha mostrato una accelerazione, soprattutto nei settori manifatturieri. Tra i paesi dell’area dell’euro, il caso più interessante è però certamente quello spagnolo, anche perché presenta importanti elementi di analogia con l’esperienza italiana. Nel caso della Spagna, la crescita del prodotto è stata particolarmente sostenuta nell’ultimo decennio nonostante la crescita della produttività sia risultata molto bassa. A spiegare contabilmente la crescita spagnola sono quindi soprattutto gli incrementi occupazionali. Il caso spagnolo quindi presenta un mix “più occupazione-meno produttività” che, almeno a livello qualitativo, assomiglia molto a quello italiano. Del resto un’altra analogia fra i due paesi è costituita dal fatto che in Spagna, ancor più che in Italia, è aumentata fortemente l’incidenza dei contratti cosiddetti “flessibili”. In entrambi i paesi il productivity slowdown potrebbe riflettere l’introduzione di lavoratori marginali nel processo produttivo, nonché l’aumento dell’incidenza dei lavoratori unskilled nella struttura dell’offerta di lavoro.
67
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
PRODUTTIVITA' DEL LAVORO Settore privato Var. % medie annue 1986-90 1991-95 Stati Uniti 1.1 1.4 Giappone 3.4 0.9 Germania 1.7 -0.1 Francia 2.3 1.7 Italia 2.3 2.3 Regno Unito 1.6 2.6 Canada 0.6 1.7 Australia 0.1 2.0 Austria 2.7 2.4 Belgio 2.0 1.4 Rep. Ceca Danimarca 1.3 3.2 Finlandia 3.5 3.7 Grecia 1.3 0.8 Ungheria Islanda 2.9 -0.6 Irlanda 4.8 3.1 Corea 6.3 5.7 Messico Olanda -0.2 0.9 Nuova Zelanda 1.8 0.8 Norvegia 0.6 3.2 Polonia Portogallo 4.2 1.7 Spagna 1.0 2.1 Svezia 1.8 3.6 Svizzera 0.3 0.1 Fonte: elaborazioni REF su dati Ocse
68
1996-00 2.3 1.2 1.2 1.5 1.0 1.9 2.1 2.7 2.4 1.5 2.2 2.2 2.6 3.0 3.9 3.6 4.0 3.9 2.3 0.4 1.4 2.3 6.4 2.7 0.3 2.6 1.4
2001-05 2.5 1.6 0.9 1.2 -0.6 1.6 1.0 1.1 1.7 1.0 3.5 1.5 1.5 3.7 2.7 2.4 3.4 0.6 0.6 1.4 2.3 3.3 0.4 0.4 2.2 0.7
Capitolo 2. L’occupazione
Dinamiche della produttività: cambiamento tecnologico e mutamento istituzionale
Il dibattito sui fattori che potrebbero avere concorso a generare la decelerazione della produttività è ancora in corso senza che vi sia un consenso su un fattore dominante nella spiegazione. Contano certamente diversi elementi, fra i quali il mix settoriale alla base della crescita Altri elementi, legati alle caratteristiche del progresso tecnico o ai cambiamenti di tipo istituzionale legati all’aumento della flessibilità nel mercato del lavoro, hanno certamente concorso ad accrescere i livelli dell’occupazione. Infine, un cenno al noto fenomeno della cosiddetta “emersione” intendendo con ciò un vizio di costruzione delle statistiche per cui parte del maggior numero di occupati registrato nelle statistiche ufficiali deriverebbe dalla registrazione nello stock di occupati di lavoratori che di fatto erano già occupati in precedenza. Uno degli aspetti posti in luce dalle analisi sulla dinamica della produttività a livello internazionale è rappresentato dal fatto che le innovazioni degli anni novanta sono avvenute principalmente in settori produttori e utilizzatori delle tecnologie dell’Ict (Information and Communication Technology). Fermo restando che la specializzazione produttiva dell’Italia ci ha precluso di godere dei guadagni di produttività dei settori manifatturieri produttori di Ict (di fatto i produttori di computer) in virtù della nostra sostanziale assenza da questi settori, resta chiaro come anche noi avremmo potuto beneficiare dei guadagni di produttività nei settori Ict users, come la distribuzione commerciale, la finanza, o i trasporti. Una delle tesi avanzate per il caso dell’Italia sottolinea la minore esposizione di questi settori in Italia alla concorrenza, il che li renderebbe meno reattivi al cambiamento strutturale indotto dalla trasformazione tecnologica. La chiave di lettura che sottolinea la difficoltà che sistemi economici meno concorrenziali avrebbero nello sfruttare pienamente e rapidamente le potenzialità delle nuove tecnologie si applica in genere trasversalmente ai paesi dell’Europa continentale e viene sovente contrapposta a quanto avvenuto nei paesi anglosassoni. La maggiore chiusura dei mercati europei e la maggiore rigidità dei mercati del lavoro potrebbe essere la caratteristica, comune ai grandi paesi europei, che spiega la scarsa crescita della produttività nei settori, come i servizi finanziari o il commercio, maggiormente utilizzatori di Ict. È solo nei settori delle telecomunicazioni che l’Europa starebbe sperimentando dinamiche della produttività confrontabili con quanto verificatosi nei paesi anglosassoni.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
A questa chiave di lettura, che si basa sulle caratteristiche del cambiamento tecnologico degli ultimi anni, se ne accosta una seconda, per così dire “interna” al mercato del lavoro, che pone l’enfasi sulla lettura delle statistiche relativa al mercato in virtù dei cambiamenti di natura strutturale intervenuti nel corso dell’ultimo decennio. In particolare, l’impressione che si trae dai dati a disposizione è che le nuove forme contrattuali, tema su cui ci soffermiamo nelle pagine successive, abbiano in una certa misura favorito l’ingresso nel mercato di lavoratori cosiddetti “marginali”, a produttività molto bassa, grazie alla flessione del loro costo. Uno dei problemi su questo aspetto è rappresentato dal fatto che parte dell’abbassamento del costo del lavoro non è misurabile. In effetti, un contratto flessibile, a parità di esborso monetario per l’impresa, è meno oneroso per l’azienda di un contratto permanente, essendo meno rischioso. Allo stesso modo esso risulta spesso per il lavoratore, meno gratificante, pur a parità di reddito, data la minore certezza sulla continuità del guadagno. Dati certi che permettano di verificare questa ipotesi non sono purtroppo a disposizione. In ogni caso, il dibattito mette in evidenza il carattere duale del mercato del lavoro, connesso alle nuove tipologie contrattuali. Riassumendo il precedente ragionamento, possiamo dire che la flessibilità rappresenta a tutti gli effetti una riduzione del costo del lavoro, da cui segue una maggiore domanda di lavoro che viene soddisfatta grazie all’occupazione di lavoratori marginali, a produttività bassa. Vi è poi un ulteriore aspetto che merita un cenno, relativo al fatto che, come vedremo ancora nel seguito, la creazione occupazionale si è in taluni casi concentrata in alcuni settori, specie dei servizi privati, caratterizzati da un basso livello del valore aggiunto per addetto. L’effetto di composizione settoriale è facilmente comprensibile se si considerano alcuni casi estremi, come gli occupati dell’edilizia o il forte afflusso di lavoratori nei servizi domestici, dove oggettivamente i livelli del valore aggiunto per addetto sono bassi e con scarse prospettive di crescita. Allo stesso modo, l’effetto settoriale è importante per i settori manifatturieri se si considera ad esempio che negli Stati Uniti alla crescita della produttività hanno contribuito quasi completamente i settori produttori di Ict, che in Italia sostanzialmente non esistono. È come se negli ultimi anni il processo di sviluppo avesse insistito su un segmento di produzioni dove tipicamente vi è poco spazio per la crescita della produttività. Si tratterebbe peraltro di settori dove è meno
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Capitolo 2. L’occupazione
importante la dotazione di capitale umano. Vi è un apparente paradosso nel dibattito italiano, dove ci si sofferma con insistenza sulla questione dei più bassi livelli di scolarità della nostra forza lavoro, mentre nel contempo la domanda di lavoro per i laureati resta relativamente bassa. Su questo paradosso possono incidere anche fattori dal lato dell’offerta, come una preparazione scolastica (per qualità e tipologia di studi) non adeguata ai fabbisogni potenziali espressi dalle imprese.
Costo del lavoro e utilizzo dei fattori produttivi
La scomposizione rappresentata nelle precedenti tavole mette anche in risalto come, rispetto agli anni ottanta si sia decisamente ridimensionato il ritmo di crescita del rapporto capitale-lavoro. Tra i fattori che avrebbero portato il sistema verso una combinazione maggiormente labour intensive, vi sono anche probabilmente elementi legati alla contrattazione. Senza entrare direttamente nel merito di questa tematica, in questo paragrafo mettiamo in luce alcuni fatti stilizzati relativi all’evoluzione del costo del lavoro. In condizioni di sostenuta crescita dell’occupazione ci si dovrebbe attendere una accelerazione del costo del lavoro; questo a meno che la maggiore occupazione non derivi da spostamenti nell’offerta, piuttosto che della domanda di lavoro. È vero che nel corso degli ultimi anni diversi elementi sono intervenuti nel modificare strutturalmente il ramo dell’offerta di lavoro, per effetto dei cambiamenti istituzionali che hanno reso il mercato più flessibile. Si può però anche affermare che in diverse fasi vi è stata una esplicita politica di moderazione salariale, che potrebbe quindi avere favorito la crescita dell’occupazione. Limitandosi a segnalare alcuni fatti stilizzati di qualche rilievo, si può segnalare all’attenzione l’andamento di due variabili che rappresentano l’evoluzione delle spinte salariali da due punti di vista: quello delle imprese e quello dei lavoratori. La prima variabile, rappresentata nel successivo grafico, è il costo reale del lavoro . Tale variabile deflaziona il costo del lavoro con il deflatore del valore aggiunto e rappresenta la proxy più immediata del concetto di costo del lavoro reale, variabile che tipicamente entra come esogena all’interno della specificazione di una funzione di domanda di lavoro. Si osserva subito come la dinamica di questa variabile abbia Nella costruzione della variabile il dato del 1998 è stato depurato per tenere conto degli effetti dell’introduzione dell’Irap
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
decelerato fortemente nel corso degli ultimi anni. Il punto di minimo si colloca all’inizio del decennio. Poi vi è stata una ripresa che ha portato una dinamica del costo del lavoro in Italia su valori più elevati di quelli dei partner europei.. Tale evoluzione del costo del lavoro pare avere agito nella direzione di sostenere l’andamento della domanda di lavoro, contrastando l’effetto avverso legato alla stagnazione della produttività: alla riduzione della produttività del lavoro si è quindi sovrapposta una decelerazione tendenziale del suo costo reale. Negli ultimi anni emergono comunque segnali di ripresa. La seconda variabile, il rapporto fra i salari reali e la produttività, qualifica tale ragionamento. Essa modifica leggermente le variabili del rapporto di cui al grafico precedente guardando tipicamente alla “domanda salariale” dal punto di vista del lavoratore. Utilizza quindi le retribuzioni, piuttosto che il costo del lavoro, e le deflaziona con il deflatore dei consumi invece che con quello del valore aggiunto. Ma, soprattutto, divide tale rapporto con l’andamento della produttività del lavoro. In tal modo, l’indicatore cresce se i salari reali aumentano più della produttività e, viceversa, si riduce quando i salari aumentano meno della produttività. L’andamento nel medio termine di questa variabile può essere letto alla stregua di un indicatore di coerenza delle domande salariali rispetto ai trend della produttività del sistema. Come si osserva, tale indicatore, che era costantemente aumentato nel corso degli anni
Costo del lavoro reale 3.0 2.5 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 -0.5 1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
Redditi da lavoro per unità di lavoro dipendente, deflazionate con il deflatore del valore aggiunto al costo dei fattori. Var. % medie annue su medie mobili centrate di 5 anni Elaborazioni REF su dati Istat
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Capitolo 2. L’occupazione
settanta sino ai primi anni ottanta ha poi subito un andamento flettente, con una brusca correzione nei primi anni novanta, quando la politica del salario impose condizioni di estrema moderazione. Dalla metà degli anni novanta in avanti questo indicatore è stabile. Questo vuol dire che le richieste salariali sono coerenti con l’evoluzione della produttività anche se, la scarsa crescita di questa si traduce in una altrettanto contenuta dinamica dei salari reali. Riassumendo quindi il significato delle tendenze riportate nei due grafici, possiamo dire che la dinamica salariale degli ultimi quindici anni riflette due fenomeni: le condizioni meno favorevoli dal lato della produttività, che hanno limitato le possibilità di crescita del potere d’acquisto del salario, ma anche probabilmente una diminuzione, soprattutto nei primi anni novanta, delle domande salariali. È quel fenomeno cui solitamente ci si riferisce nei termini di un cambiamento nella “funzione del salario”. Come discusso nel capitolo 3, tale andamento è illustrato dall’abbassamento del Nairu, il tasso di disoccupazione cui corrisponde la stabilizzazione della dinamica salariale.
Rapporto salari reali/produttività 115 110 105 100 95 90 85 1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
Retribuzioni di fatto da contabilità per unità di lavoro dipendente reali, deflazionate con il deflatore dei consumi delle famiglie, rapportate alla produttività del lavoro. Indice 1990 = 100
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
2.3 Gli andamenti settoriali Nel 2006 tengono i livelli anche nell’agricoltura e nel pubblico
Nel precedente paragrafo abbiamo posto l’attenzione sui fattori che possono avere inciso sugli andamenti dell’occupazione nel complesso, sottolineando fattori esplicativi che agiscono per lo più trasversalmente ai diversi settori dell’economia. Utile però porre l’accento anche sulle specificità settoriali secondo le quali si articola l’andamento dell’occupazione in aggregato. In generale, uno degli aspetti che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’occupazione nel 2006 è il fatto che il buon risultato che emerge dall’evoluzione dell’occupazione per il complesso dell’economia è condiviso dai maggiori settori dell’economia. Difatti, la variazione avvenuta nel corso dell’anno ha tratto giovamento anche dal fatto che settori caratterizzati solitamente da perdite occupazionali hanno invece evidenziato una tenuta dei livelli. Facendo ancora riferimento alle unità di lavoro da contabilità, si osserva come nella media del 2006 non si siano verificate contrazioni occupazionali nell’agricoltura, settore invece caratterizzato nel corso dell’ultimo decennio da una diminuzione mediamente nell’ordine delle 30mila unità all’anno. A prescindere dal dato puntuale registrato nel corso dell’anno, i dati mostrano chiaramente come l’occupazione agricola abbia storicamente mostrato flessioni di entità decrescente con il passare del tempo. Tale tipo di andamento è coerente con il fatto che il nostro settore agricolo era ancora sovradimensionato all’inizio degli anni ottanta. L’espulsione di manodopera da questo settore si è attenuata parallelamente alla perdita di peso del settore sul totale dell’economia. In ogni caso, come illustrato nel successivo Riquadro 3.3, il peso che il settore agricolo ha sul totale dell’occupazione risulta in Italia ancora molto elevato rispetto agli altri maggiori paesi industrializzati. Questa specificità pare suggerire che la dinamica occupazionale del settore sia destinata a restare su un percorso decrescente anche nei prossimi anni. La tenuta dei livelli occupazionali nel settore agricolo si accompagna anche ad una tenuta dell’occupazione nei settori del pubblico impiego. Le unità di lavoro dell’aggregato delle attività “non market”, secondo la dizione utilizzata nei conti trimestrali dell’Istat, sono rimaste anch’esse stabili, protraendo la tendenza degli ultimi anni dopo che tutti gli anni novanta si erano caratterizzati per una leggera flessione dell’occupazione del settore. In ogni caso resta vero che per i settori del pubblico impiego ci manteniamo lungo un sentiero completamente diverso da quello percorso durante gli anni ottanta, quando in un decennio in questi settori si registrò un incremento pari a circa mezzo milione di unità di lavoro.
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Capitolo 2. L’occupazione
Escludendo i due settori precedentemente discussi, si può calcolare l’evoluzione dell’occupazione nell’aggregato del settore privato non agricolo. Per questo aggregato la dinamica nel 2006 delle unità di lavoro ha sfiorato le 400mila unità aggiuntive, poco meno del massimo toccato nel 2000. Guardando alla tendenza media degli ultimi anni, si scorge subito come per le unità di lavoro del settore la prima parte del decennio in corso costituisca un periodo di espansione più robusto di quello realizzato nella seconda parte degli anni novanta e degli anni ottanta. Considerando la fase ciclica avversa che ha caratterizzato il periodo in esame rispetto agli altri due, si trae ulteriore conferma della eccezionalità della creazione occupazionale degli ultimi anni.
Unità di lavoro - Agricoltura 3.0
2.5
2.0
1.5
1.0 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
Unità di lavoro - Agricoltura 0
-50
-100 80-85
85-90
90-95
95-'00
00-'06
Variazioni medie, migliaia di unità
75
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Unità di lavoro - Attività "non market" 3.9 3.8 3.7 3.6 3.5 3.4 3.3 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
Unità di lavoro - Attività "non market" 75
50
25
0
-25 80-85
85-90
90-95
95-'00
Variazioni medie, migliaia di unità
76
00-'06
Capitolo 2. L’occupazione
Unità di lavoro - Settore privato non agricolo 20
19
18
17
16
15 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
Unità di lavoro - Settore privato non agricolo 300
200
100
0
-100
-200 80-85
85-90
90-95
95-'00
00-'06
Variazioni medie, migliaia di unità
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 2.3 - Il trend di caduta dell’occupazione nel settore agricolo: un confronto fra l’Italia e gli altri maggiori paesi industrializzati Alcuni settori tendono a presentare andamenti comuni nei diversi paesi, sebbene i percorsi siano non necessariamente coincidenti dal punto di vista temporale. Tra i diversi andamenti settoriali che emergono dall’analisi del mercato del lavoro italiano, la riduzione del peso dell’occupazione nel settore agricolo sembra replicare con uno sfasamento temporale andamenti osservati in altri paesi Allo scopo di descrivere tale tendenza utilizzeremo due tipi di grafico. La medesima rappresentazione grafica verrà poi utilizzata nell’analisi del successivo Riquadro 3.4 . Nel primo grafico si confrontano il peso che il settore ha sull’occupazione di ciascun paese all’inizio e alla fine del periodo considerato. Questo grafico è utile per mettere in luce il diverso grado di incidenza del settore sull’occupazione del paese. Il confronto del peso all’inizio degli anni novanta e all’inizio del nuovo decennio è utile al fine di verificare l’insistenza o meno di un paese su una data specializzazione. Nel secondo grafico, il peso che il settore aveva sull’occupazione di ciascun paese all’inizio degli anni ottanta verrà confrontato con la
Variazione della quota fra il 1980 e il 2001
La variazione del peso dell'occupazione agricola rispetto al valore iniziale 0.0 -2.0 -4.0 -6.0 ITA
-8.0 -10.0 -12.0 -2.0
3.0
8.0
13.0
18.0
Quota del settore nel 1980 Quota dell'occupazione agricola in % del totale L’analisi si basa sulle statistiche del database STAN dell’Ocse. Sono stati considerati tredici paesi: sette dell’area euro (Francia, Italia, Spagna, Olanda, Belgio e Austria); tre paesi europei non aderenti all’euro (Regno Unito, Svezia e Danimarca); tre paesi non europei (Stati Uniti, Canada e Giappone) per il periodo storico 1981-2001.
78
Capitolo 2. L’occupazione
Il peso dell'occupazione agricola 7.0
Licello nel 2001
6.0
ITA
5.0 4.0 3.0 2.0 1.0 0.0 0.0
5.0
10.0
15.0
20.0
Livello nel 1980 Quota dell'occupazione agricola in % del totale
variazione di tale quota avvenuta nei due successivi decenni. Si tratta di un semplice modo per testare l’ipotesi di convergenza o meno della struttura settoriale del mercato del lavoro: l’ipotesi di convergenza è soddisfatta in questo caso se si riduce il peso relativo di un settore nei paesi dove la quota di questo settore è più elevata. Nel caso opposto, se cioè la quota aumenta dove è già più alta, vale l’ipotesi di approfondimento del grado di specializzazione. Dai due grafici allegati si coglie subito come l’evoluzione del peso del settore agricolo sul totale dell’occupazione italiana risulti abbastanza differenziata da quella delle altre maggiori economie, dato che il processo di espulsione di manodopera dall’agricoltura da noi è avvenuto con un ritardo storico rispetto alle economie più avanzate. L’economia italiana presentava ancora all’inizio degli anni ottanta livelli dell’occupazione agricola molto elevati rispetto agli altri paesi industrializzati, specie nelle regioni del Mezzogiorno. L’occupazione agricola nel 1980 pesava difatti per il 13.3 per cento del totale degli occupati. Un livello decisamente superiore a quello degli altri paesi industrializzati che per lo più si erano già portati su un peso dell’occupazione agricola intorno 5 per cento. All’interno del gruppo di paesi presi in considerazione, solamente la Spagna aveva un peso dell’occupazione agricola superiore a quello dell’Italia, con una quota del 17 per cento, mentre il Giappone era poco distante (13 per cento). Tra i paesi con una quota dell’occupazione agricola molto bassa già nel 1980 vi era il Regno Unito (con un peso del 2.3 per cento e gli Stati Uniti (3.4 per cento). Naturalmente da quest’ordine di differenze è conseguito che la perdita di occupazione agricola avvenuta negli ultimi due decenni è stata più intensa per i paesi
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
come l’Italia che avevano ancora un eccesso di occupazione agricola da smaltire. Dai grafici si osserva come per questo settore sia in corso un chiaro processo di convergenza: difatti, i paesi dove l’agricoltura ha un peso maggiore sono anche quelli dove il peso dell’agricoltura sul totale si è ridotto maggiormente. Per i paesi dove l’agricoltura contava già poco all’inizio degli anni ottanta, la riduzione avvenuta è marginale. Poiché l’Italia resta fra i paesi con una maggiore incidenza dell’agricoltura sul totale dell’occupazione, si può presumere che ancora nei prossimi anni assisteremo ad una significativa espulsione netta di manodopera, sebbene a tassi via via decrescenti, man mano che il nostro livello converge verso la media delle altre maggiori economie.
Torna a crescere la domanda di lavoro nell’industria
Determinante, per segnare il recupero dei livelli delle unità di lavoro, è risultata poi l’industria, che ha registrato un aumento di ben 63mila unità rispetto all’anno precedente quando, viceversa, si era assistito ad una contrazione di 109mila unità. Il recupero del 2006 pare dunque costituire un rimbalzo legato anche alla forte contrazione dell’anno precedente. Si tratterebbe quindi di una oscillazione della domanda di lavoro in linea con l’evoluzione del ciclo, di cui peraltro non vi è traccia nei dati dell’indagine sulle forze di lavoro, che segnalano una sostanziale stabilità del numero degli occupati tanto nel 2005, quanto nel 2006.
Ore lavorate, Industria in s.s. 101.0
100.0
99.0
98.0
97.0 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Indice 2000 = 100; imprese con oltre 500 addetti Elaborazioni REF su dati Istat
80
Capitolo 2. L’occupazione
Industria: equivalenti addetti in Cig 110 100 90 80 70 60 50 1997
1999
2001
2003
2005
2007
Anno mobile - migliaia di unità Elaborazioni REF su dati Istat
Le oscillazioni indicate dai dati di contabilità potrebbero quindi essere almeno parzialmente ascritte alle fluttuazioni dello straordinario nel corso del biennio, e anche questo sarebbe abbastanza coerente con l’evoluzione del ciclo dell’industria. Difatti, sulla base dell’indagine Istat presso le grandi imprese si osserva come nel 2006 sia aumentata l’incidenza delle ore di straordinario, con un rialzo di entità analoga a quello osservato nel corso del 1997 e del 2000, anni anch’essi caratterizzati da un rafforzamento del ciclo industriale. Un altro aspetto da ricordare è che nel 2006 ha ripreso a ridursi il ricorso alla Cassa integrazione. Per l’industria nella media dell’anno tale riduzione corrisponde a circa 5mila equivalenti addetti. Si noti che per la Cig la flessione si è verificata dopo un quadriennio di aumenti. Anche questo indicatore pare dunque confermare come la svolta nella domanda di lavoro nell’industria abbia trovato un riscontro pressoché immediato nell’evoluzione degli indicatori di domanda di lavoro. Infine, un ultimo indicatore del ciclo della domanda di lavoro da parte dell’industria può essere tratto dall’evoluzione delle aspettative delle imprese riguardo all’evoluzione della manodopera desunte dalle inchieste condotte dall’Isae. Anche da questo indicatore si trae evidenza del mutamento di intonazione della domanda avvenuto all’inizio del 2006. All’interno delle tendenze sopra rappresentate per l’industria
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Imprese manifatturiere Attese sull'occupazione 15 10 5 0 -5 -10 -15 -20 1996
1998
2000
2002
2004
2006
Saldi Isae delle risposte di aumento-diminuzione
nel complesso, non mancano importanti divergenze con riferimento ad alcuni settori nello specifico. Sempre ragionando sulla base delle unità di lavoro da contabilità, emerge subito l’intensa creazione occupazionale da parte dei settori della metalmeccanica che sono poi anche quelli dove il recupero dei livelli produttivi è stato più intenso, trainato dal ciclo della domanda internazionale di beni di investimento, e dal ciclo degli intermedi innescato in Europa dal rafforzamento dell’industria tedesca. Sul dato medio dell’anno ha influito positivamente anche la crescita, dopo una prolungata fase di contrazione, nel settore dei mezzi di trasporto, che ha tratto beneficio dal recupero di competitività della Fiat. Di fatto, fra i settori dell’industria, perdite occupazionali di rilievo hanno continuato a caratterizzare solamente la filiera del tessile-abbigliamento, dove comunque l’intensità della caduta si è ridimensionata rispetto a quanto osservato nel corso del biennio precedente. Estendendo le considerazioni precedenti ad un orizzonte temporale più lungo, l’aspetto che sembra di dovere sottolineare è che la domanda di lavoro dell’industria italiana ha fluttuato nel corso degli ultimi anni senza registrare nel complesso una precisa direzione. I trend sono però decisamente più nitidi andando a guardare ai dettagli settoriali: ad alcuni settori che confermano di fluttuare intorno a valori stabili se ne accostano altri che mostrano trend chiaramente crescenti.
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Capitolo 2. L’occupazione
Unità di lavoro - Industria in s.s. 6.4
6.0
5.6
5.2
4.8 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
Unità di lavoro - Industria in s.s. 50
0
-50
-100
-150
-200 80-85
85-90
90-95
95-'00
00-'06
Variazioni medie, migliaia di unità
Le perdite occupazionali sono difatti concentrate nella filiera del tessile abbigliamento e in quella dell’industria conciaria. Per rendere conto della rilevanza di tale divaricazione nelle performance a livello settoriale si consideri che rispetto al 2000 l’industria italiana ha registrato nel complesso una perdita pari a 94mila unità di lavoro che riflette una caduta netta di 137mila unità in questi due settori, e un guadagno netto
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Unità di lavoro Industria alimentare
Unità di lavoro Industria tessile e delle pelli
0.6
1.400 0.6 1.200 0.5 1.000 0.5 0.800 0.4 1980
1990
2000
0.600 1980
Unità di lavoro Industrie del legno, carta e gomma
1990
2000
Unità di lavoro Chimica 0.350
1.100
0.300
1.050
0.250
1.000
0.200
0.950
0.900 1980
0.150 1990
2000
1980
1990
2000
di 43mila unità in tutti gli altri. In sostanza, al netto del processo di contrazione dei livelli occupazionali di questi settori, che come illustrato nel Riquadro 3.4 pare costituire un percorso di aggiustamento di tipo strutturale, l’industria italiana ha aumentato la domanda di lavoro anche nel corso dell’ultima fase di recessione.
84
Capitolo 2. L’occupazione
Unità di lavoro Metalli e prodotti in metallo
Unità di lavoro Prod. Lav. minerali non metalliferi 1.000
0.350
0.950 0.900
0.300
0.850 0.250
0.800 0.750
0.200 1980
1990
2000
0.700 1980
1990
2000
Unità di lavoro Mezzi di trasporto
Unità di lavoro Industria meccanica 1.200
0.500
1.150
0.450 0.400
1.100
0.350 1.050 0.300 1.000
0.250
0.950
0.200 1980
0.900 1980
1990
2000
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
85
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 2.4 - Il peso dalla caduta dell’occupazione nel settore tessile: un confronto fra l’Italia e gli altri maggiori paesi industrializzati La peculiarità della caduta della domanda di lavoro nei settori della filiera del tessile abbigliamento e in quella dell’industria conciaria giustifica un approfondimento delle tendenze del settore. In particolare, la medesima rappresentazione grafica utilizzata nel precedente Riquadro 3.3, cui si rinvia anche per la nota metodologica, può essere riproposta anche per questi settori. Gli spunti di interesse sono diversi e possono essere illustrati sinteticamente. Innanzitutto, il settore tessile è un settore di specializzazione dell’economia italiana. Come posto chiaramente in evidenza dai grafici allegati, l’Italia all’inizio degli anni ottanta impiegava ancora nell’industria del tessile-abbigliamento il 6.3 per cento della propria occupazione complessiva, un valore decisamente superiore a quello di tutti gli altri paesi. Basti considerare che nei due paesi a maggiore peso del tessile sull’occupazione dopo l’Italia (Spagna e Giappone) questa quota nel 1980 era pari al 4.6 e al 3.7 per cento rispettivamente. In effetti, la dimensione della quota del tessile all’inizio degli anni ottanta definisce quello che per certi versi era un ritardo storico della nostra economia. Già dagli anni settanta, difatti, molti paesi avevano dato inizio al processo di smantellamento del settore. In generale, questi settori hanno mostrato nel corso degli ultimi venti anni una drastica riduzione dei livelli occupazionali tant’è che il loro peso relativo sul totale dell’occupazione si è decisamente ridotto in tutti i paesi. Anche in Italia la riduzione è stata pesante. All’inizio del nuovo decennio si è passati al 4 per cento sul totale, il 2.5 per cento in meno rispetto a venti anni prima. Ciò non di meno, pare utile porre in evidenza come l’abbassamento del peso relativo di questi settori avvenuto in Italia negli anni ottanta e novanta non sia affatto eccezionale. Molti altri paesi hanno registrato una caduta della quota di entità analoga a quella occorsa in Italia, nonostante il punto di partenza fosse decisamente più basso. Tant’è che nell’ordinamento decrescente dei diversi paesi illustrato dal grafico, la posizione dell’Italia si presenta chiaramente come un outlier. Alla luce della peculiarità della posizione italiana nel panorama internazionale, si può affermare che non è motivo di sorpresa il fatto che le perdite occupazionali del tessile-abbigliamento si siano aggravate nel corso degli ultimi anni, anche in virtù dell’ampliamento della platea dei concorrenti internazionali legato all’ascesa dei paesi asiatici nel commercio mondiale. L’ordinamento decrescente fra il peso iniziale del settore sul totale
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Capitolo 2. L’occupazione
dell’occupazione e la variazione della quota stessa nei successivi venti anni rende conto di una sorta di processo di convergenza o, si potrebbe dire diversamente, di “despecializzazione”. È questo quanto avvenuto presumibilmente a favore dei paesi emergenti.
Il peso dell'occupazione nell'industria tessile 4.5 4.0
ITA
Licello nel 2001
3.5 3.0 2.5 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 0.0
1.0
2.0
3.0
4.0
5.0
6.0
7.0
Livello nel 1980 Quota dell'occupazione del settore in % del totale
Variazione della quota fra il 1980 e il 2001
La variazione del peso dell'occupazione dell'industria tessile rispetto al valore iniziale 0.0 -0.5 -1.0 -1.5 -2.0 ITA
-2.5 -3.0 0.0
2.0
4.0
6.0
8.0
Quota del settore nel 1980 Quota dell'occupazione del tessile del settore in % del totale
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Frena l’edilizia
In controtendenza rispetto al resto dell’economia è invece risultato l’andamento dell’occupazione nelle costruzioni. Difatti nel 2006 si è osservata una decelerazione dopo sei anni consecutivi di crescita occupazionale a tassi eccezionalmente elevati. Il settore dell’edilizia ha difatti evidenziato un ciclo del tutto sfasato da quello dell’economia nel complesso cumulando fra il 2000 e il 2006 l’espansione più forte dal secondo dopoguerra. Se a questo si aggiunge che con tutta probabilità si tratta di uno dei settori che potrebbero avere risentito più di altri dei cosiddetti fenomeni di emersione, se ne trae la conclusione che il rallentamento del 2006 fosse tutto sommato un fatto fisiologico. In generale, il tema dell’occupazione nel settore delle costruzioni è oggi al Centro dell’attenzione in tutti i paesi industrializzati. Nella maggior parte di essi, difatti, l’attività dell’edilizia ha conosciuto un boom che non ha precedenti storici. Gli investimenti in costruzioni hanno raggiunto in tutti i paesi i massimi storici e, con essi, anche i livelli occupazionali. L’entrata in crisi del settore in alcuni paesi, fra i quali quello degli Stati Uniti è il più emblematico, crea naturalmente apprensione, proprio perché si tratta di uno dei settori in cui la crescita è tradizionalmente caratterizzata da un maggiore contenuto di occupazione. I numeri per l’Italia suggeriscono che anche da noi il ciclo delle costruzioni ha avuto un forte impatto sulla domanda di lavoro; basti considerare che l’aumento cumulato rispetto al minimo del 1998 è pari a circa 400mila
Unità di lavoro - Costruzioni 2.0 1.9 1.8 1.7 1.6 1.5 1.4 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
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Capitolo 2. L’occupazione
unità di lavoro. La maggiore occupazione all’interno del settore è però soltanto una parte della creazione occupazionale complessiva connessa al boom dell’immobiliare. Diversi settori ne hanno beneficiato. In alcuni casi si tratta di settori a monte dove il boom della domanda interna è se non altro servito per attenuare una tendenza cedente: il caso più emblematico è quello dei prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi, oltre alla lavorazione di legname per l’edilizia. Non vanno poi dimenticati i settori dei servizi, solitamente collocati a valle della filiera di produzione (gli studi di progettazione, le agenzie immobiliari, i notai, le banche) che hanno direttamente beneficiato del boom del settore. Unità di lavoro - Costruzioni 50
25
0
-25 80-85
85-90
90-95
95-'00
00-'06
Variazioni medie, migliaia di unità
La creazione occupazionale resta concentrata nei servizi
Naturalmente, la parte quantitativamente più rilevante della crescita occupazionale è stata anche nel 2006 concentrata nei settori dei servizi. L’incremento è stato di 313mila unità di lavoro, pari all’1.9 per cento. In termini di teste, la crescita degli occupati da indagine sulle forze di lavoro è stata più intensa: sono stati creati ben 405mila posti con un incremento pari al 2.8 per cento. In questo caso, la tendenza è stata
ancora
dominata
dall’aumentata
diffusione
del
part-time.
Mentre nell’industria il numero dei lavoratori part-time è rimasto sostanzialmente invariato nella media del 2006, nei servizi si registra un aumento di 80mila lavoratori a part-time, con un incremento della quota dei lavoratori a tempo parziale del settore, passata al 6.9 per cento dal 6.5 del 2005.
89
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Un aspetto messo in luce dai conti economici nazionali è costituito dal fatto che il rialzo della domanda di lavoro è stato abbastanza diffuso nei diversi settori dei servizi. All’interno del privato l’unico settore caratterizzato ancora da perdite occupazionali è quello del commercio al dettaglio, dove le unità di lavoro hanno mostrato una significativa riduzione per il terzo anno consecutivo. Sulla domanda di lavoro hanno continuato a pesare le trasformazioni interne al settore, oltre all’eredità del debole ciclo dei consumi degli anni precedenti che potrebbe avere reso più caute le imprese del settore. Tassi di crescita della domanda di lavoro elevati hanno caratterizzato
Unità di lavoro Commercio, alb., pubbl. esercizi 7.0
6.5
6.0
5.5
5.0 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
Unità di lavoro Commercio, alb., pubbl. esercizi 150 100 50 0 -50 -100 80-85
85-90
90-95
95-'00
Variazioni medie, migliaia di unità
90
00-'06
Capitolo 2. L’occupazione
invece i segmenti dei servizi alle imprese e quello dell’intermediazione finanziaria. L’impressione che si desume anche dagli andamenti dei settori dei servizi privati nel corso degli ultimi anni è che anche in questo caso l’indebolimento del ciclo economico abbia sortito scarsi effetti sull’evoluzione della domanda di lavoro, consentendo una dinamica della domanda di lavoro nel complesso solo lievemente più bassa di quella osservata nel corso dell’ultima fase di espansione del ciclo. Il settore che ha presentato le maggiori discontinuità rispetto agli anni passati è comunque l’ultimo dei tre grandi aggregati in cui la contabilità nazionale ripartisce i servizi. Si tratta dell’aggregato dell’”istruzione,
Unità di lavoro Credito, assicurazioni, attiv. Immob. 3.5 3.0 2.5 2.0 1.5 1.0 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
Unità di lavoro Credito, assicurazioni, attiv. Immob. 140 120 100 80 60 40 20 0 80-85
85-90
90-95
95-'00
00-'06
Variazioni medie, migliaia di unità
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
sanità, pubblica amministrazione, altri servizi pubblici e privati”. Questo grosso settore, le cui unità di lavoro ammontano a oltre sei milioni, comprende di fatto tutti gli addetti del settore pubblico – circa tre milioni e mezzo di cui abbiamo discusso all’inizio di questo paragrafo. Il punto è che questo settore nel 2006 ha registrato ampi incrementi dell’occupazione: ben 120mila unità di lavoro aggiuntive, corrispondenti alla massima variazione del settore dal 1991, quando del resto ben più dinamica era la domanda di lavoro aggiuntiva da parte del settore pubblico.
Unità di lavoro, P.A., Istruzione, sanità, altri pubb e privati 6.5
6.0
5.5
5.0
4.5 1980
1990
2000
Unità di lavoro standard da contabilità; milioni
Unità di lavoro, P.A., Istruzione, sanità, altri pubb e privati 160 140 120 100 80 60 40 20 0 80-85
85-90
90-95
95-'00
Variazioni medie, migliaia di unità
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00-'06
Capitolo 2. L’occupazione
Secondo la contabilità nazionale gli incrementi avrebbero interessato in parte l’istruzione, con circa 20mila unità di lavoro aggiuntive, ma dopo due anni di flessione. Altre 17mila unità riguardano la “sanità e assistenza sociale”, e in questo caso potrebbe risultare determinante la creazione di occupazione nelle strutture private del settore. Un terzo segmento è quello delle “attività svolte da famiglie e convivenze” che include le badanti; in questo caso l’aumento risulta pari a 13mila unità, in decelerazione rispetto ai due anni precedenti, sui quali potrebbe avere inciso la regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari. Resta comunque da segnalare che i conti nazionali hanno evidenziato una crescita anomala nell’aggregato degli “altri servizi pubblici, sociali e personali”, con una variazione di circa 60mila unità. Il carattere parzialmente residuale di questo aggregato non consente però di qualificare meglio il fenomeno in atto.
2.4 Gli andamenti territoriali Finalmente l’occupazione torna a crescere anche nel Mezzogiorno
La trasversalità dei recuperi occupazionali emersa al livello degli andamenti settoriali è di per sé una delle spiegazioni della sostanziale convergenza della dinamica occupazionale anche a livello territoriale. Nel 2006 si sono difatti attenuati gli effetti di caduta dell’occupazione in alcuni settori, come il tessile e il conciario, che, essendo fortemente localizzati, avevano in passato penalizzato le aree dove si concentrava la loro presenza. Il dato del 2006 va comunque oltre l’aspetto della semplice specializzazione settoriale delle diverse aree. I risultati ottenuti nel corso dell’anno sono difatti riusciti a interrompere lo sfasamento nelle dinamiche occupazionali prodottosi nel corso del triennio 20032005, e che ha ampliato il divario fra il Mezzogiorno e le altre aree del paese. Difatti, fra il 1995 e il 2002 l’occupazione nel Mezzogiorno aveva mostrato una crescita in linea con quella osservata nelle regioni del Centro-Nord, cumulando un incremento del 7.5 per cento, a fronte dell’8.5 osservato nel resto del paese. Nel successivo triennio 20032005 le due aree si sono invece a disallineate nuovamente. Mentre nel Centro-Nord si è verificata una crescita dell’occupazione pari al 4.7 per cento in tre anni, nelle regioni del Sud si è registrato un lieve arretramento (-0.7 per cento). Sebbene le accidentalità dei fattori che hanno influenzato i dati del triennio, e in particolare gli effetti sulle statistiche della regolarizzazione degli immigrati, suggeriscano di
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
evitare confronti puntuali, gli ordini di grandezza sono relativamente eloquenti. Alla luce di tali tendenze, il recupero dell’occupazione osservato nelle regioni meridionali nel corso del 2006 rappresenta un importante elemento di discontinuità. Nel 2006 la domanda di lavoro nelle regioni meridionali ha registrato una variazione dell’1.4 per cento, cui corrisponde un incremento di 87mila occupati. Si tratta di un tasso di crescita ancora inferiore a quello registrato nelle regioni del Centro (1.9 per cento) e al Nord (2 per cento), ma sufficiente a rappresentare una rottura rispetto alla leggera flessione del triennio precedente. Naturalmente, data anche la diversa dimensione del mercato, l’incremento in valore assoluto resta concentrato nelle regioni settentrionali, con una creazione netta di 227mila posti, mentre al Centro l’aumento è pari a 85mila posti di lavoro.
Occupazione Centro Nord
Mezzogiorno
120 115 110 105 100 95 1995
1997
1999
2001
2003
2005
Indice 1995 = 100 - Elaborazioni REF su dati Istat
Dinamiche settoriali territoriali
Declinando settorialmente le evidenze per le singole macroaree, e facendo riferimento agli occupati da indagine sulle forze di lavoro, si possono porre in evidenza alcuni dei tratti della fase di recupero in corso. In particolare, oltre ai dati di sintesi riportati nella tavola seguente, il riferimento è all’evidenza mostrata nei grafici a pagina 94 dove si osserva, con riferimento ai dati del 2005 e del 2006, il contributo
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Capitolo 2. L’occupazione
OCCUPATI PER SETTORE DI ATTIVITA' ECONOMICA E RIPARTIZIONE GEOGRAFICA Variazioni % medie annue 2005 Nord ovest Nord est Centro Agricoltura 2.3 -8.6 -4.8 Industria in s.s. 0.7 1.4 -3.7 Costruzioni 4.8 4.3 10.0 Tot Industria 1.6 2.0 -0.1 Commercio 0.0 0.6 -1.7 Alberghi e ristoranti 6.5 -1.9 8.4 Trasporti -5.0 6.9 2.2 Comunicazioni 6.3 2.2 -2.2 Credito e assicurazioni 2.5 5.6 -6.9 Sevizi alle imprese 0.7 3.4 1.2 Pubblica Amministrazione -4.8 -4.6 0.6 Istruz, sanità e al.serv. soc. e pubb. 1.2 2.1 1.1 Altri servizi personali 10.0 -2.6 12.3 Totale Servizi 1.2 1.3 1.4 TOTALE 1.3 1.1 0.8
Agricoltura Industria in s.s. Costruzioni Tot Industria Commercio Alberghi e ristoranti Trasporti Comunicazioni Credito e assicurazioni Sevizi alle imprese Pubblica Amministrazione Istruz, sanità e al.serv. soc. e pubb. Altri servizi personali Totale Servizi TOTALE Fonte: ISTAT
Mezzogiorno -4.4 -0.7 1.2 0.1 -0.9 -2.0 -0.9 -8.2 -3.3 4.3 1.0 -1.3 5.6 0.0 -0.3
Nord ovest -1.6 -1.2 -1.2 -1.2 1.1 4.8 -0.2 8.9 6.5 2.1 1.5
2006 Nord est 0.2 1.1 0.8 1.1 6.5 0.2 -11.7 1.1 -1.2 1.6 2.9
Centro 12.2 0.1 1.8 0.6 4.9 7.8 -0.6 -9.1 7.2 5.5 -4.4
Mezzogiorno 4.5 0.5 -2.4 -0.7 1.5 7.6 3.9 -0.6 9.3 0.7 1.0
5.5 10.6 3.7 1.8
6.0 6.2 3.0 2.2
-0.4 3.2 2.2 2.1
1.7 2.9 2.1 1.6
dei diversi settori alla crescita dell’occupazione nelle quattro grandi ripartizioni territoriali. La menzionata stabilizzazione dei livelli dell’occupazione agricola ha evidentemente aiutato le regioni del Mezzogiorno che tradizionalmente sono più sensibili rispetto all’andamento della domanda di lavoro del settore, anche per il suo diverso peso relativo sul totale dell’occupazione dell’area (l’agricoltura pesa per il 7 per cento del totale degli occupati al Sud, a fronte del 3 per cento del resto del paese). In particolare l’Istat segnala un incremento dell’occupazione agricola al Sud pari al 4.5 per cento. Si tratta di una variazione della stessa entità di quella osservata, con segno opposto, l’anno prima. Dato il peso dell’occupazione agricola
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
nel Sud si calcola un contribuito dell’agricoltura alla creazione totale di occupazione pari al +0.3 per cento nel 2006 rispetto al –0.3 per cento del 2005. Si coglie subito come questo settore da solo abbia determinato una buona parte nelle differenze di andamento osservate in aggregato nel corso dei due anni nel Mezzogiorno. Una situazione analoga a quella osservata nelle regioni del Centro dove l’alternanza di segno nelle dinamiche occupazionali è stata ancor più marcata (+12 per cento nel 2006, dopo il –4.8 per cento del 2005) anche se il contributo alla crescita dell’occupazione complessiva nel 2006 non è stato molto diverso dal Sud, dato il peso inferiore. Infine, è cambiato anche il contributo dell’agricoltura alla dinamica dell’occupazione nel NordEst dove l’anno prima il contributo del settore alla variazione totale dell’occupazione era stato del –0.35 per cento, in virtù di una caduta dell’8.6 per cento. Circa l’industria, la stabilità del numero degli occupati osservata nel corso dell’ultimo biennio riflette una ripresa robusta delle dinamiche occupazionali del Nord-Est, dove l’occupazione è aumentata per il secondo anno consecutivo, a fronte di risultati di segno alterno nelle altre ripartizioni territoriali, compreso il Nord ovest, dove l’occupazione industriale è diminuita. Ristagnano i livelli occupazionali dell’industria nelle regioni del Centro, mentre al Sud la lieve ripresa del 2006 recupera appena la flessione dell’anno precedente. In generale, l’impressione che si desume dai dati sull’industria è che ancora una volta sia stato il Nord est ad agganciare più rapidamente il treno della ripresa europea per effetto della più elevata propensione ad esportare di queste regioni. Gli effetti sulla dinamica occupazionale dell’area sono stati evidentemente rilevanti anche in considerazione del più elevato peso dell’industria sull’occupazione del territorio. Basti rammentare che nelle regioni settentrionali ben il 28 per cento degli occupati lavora nell’industria, a fronte dei valori decisamente più contenuti delle altre ripartizioni (19 per cento al Centro, 14 per cento nel Mezzogiorno). La differenza nel contributo del settore industriale alla crescita dell’occupazione nelle diverse aree del paese viene chiaramente colta cumulando il contributo che il settore ha fornito nel corso dei due anni generando un incremento dell’occupazione totale dello 0.7 per cento nel Nord est (+0.4 per cento nel 2005 e +0.3 per cento nel 2006) mentre in tutte le altre aree la somma dei due anni genera una variazione di segno comunque negativo: nel Nord ovest il segno della
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Capitolo 2. L’occupazione
variazione è poi addirittura invertito, con perdite occupazionali nel 2006 che più che compensano il guadagno dell’anno precedente. Al Centro e al Sud, invece, l’aumento del 2006 è insufficiente a compensare le perdite dell’anno prima. Tale andamento è particolarmente evidente nelle regioni del Centro, dove la flessione dell’occupazione industriale nel 2005 era stata particolarmente marcata, anche in virtù della forte presenza del tessile in alcune regioni dell’area.
I contributi settoriali alla crescita dell'occupazione nel 2005 agric
Ind s.s.
Costruz
Serv non vendibili
Serv vendibili
2.5 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 -0.5 -1.0 -1.5 NO
NE
C
S
Contributo di ciascun settore alla variazione % complessiva dell'occupazione in ciascuna area del paese Elaborazioni REF su dati Istat
I contributi settoriali alla crescita dell'occupazione nel 2006 agric
Ind s.s.
Costruz
Serv non vendibili
Serv vendibili
2.5 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 -0.5 -1.0 NO
NE
C
S
Contributo di ciascun settore alla variazione % complessiva dell'occupazione in ciascuna area del paese Elaborazioni REF su dati Istat
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Meno differenziato risulta il peso dell’edilizia sull’occupazione delle diverse aree del paese. Il peso sull’occupazione totale nelle quattro ripartizioni territoriali si aggira difatti intorno all’8 per cento con una punta del 9.5 per cento al Sud. A prescindere quindi dalla diversa intensità delle variazioni, la decelerazione del ciclo dell’edilizia è stata condivisa sull’intero territorio nazionale. Il contributo del settore alla crescita occupazionale complessiva, che nel 2005 era stato positivo in tutte le circoscrizioni con valori significativi (fra lo 0.1 per cento al Sud e lo 0.8 per cento al Centro) tende ad azzerarsi nel 2006 assumendo un valore marginalmente negativo nel Nord ovest e nel Mezzogiorno. Guardando ai settori dei servizi, il loro peso relativo è in generale abbastanza uniforme lungo il territorio. Ciò non di meno sono presenti alcune differenze di struttura che poi contano in termini di dinamica dell’occupazione nel complesso. Uno dei trend caratteristici degli ultimi quindici anni è costituito, ad esempio, dalla assenza di creazione di occupazione nei settori del pubblico impiego. I settori dei servizi non vendibili sono in genere sovrarappresentati all’interno della struttura occupazionale delle regioni del Mezzogiorno e del Centro. Utilizzando la classificazione dell’indagine sulle forze di lavoro si osserva subito, ad esempio, come l’occupazione nei settori della Pubblica amministrazione conti per il 9 per cento sul totale degli occupati nel Mezzogiorno, per l’8 per cento al Centro, e per il 4 per cento nelle regioni settentrionali. La scarsa creazione di posti in questo settore tende quindi contabilmente a pesare di più sulla performance occupazionale complessiva delle regioni meridionali. Se si guarda poi all’aggregato dell’”istruzione, sanità, altri servizi” che include al proprio interno attività sia pubbliche che private, si ritrova comunque il medesimo ordinamento, con un peso del 18 per cento nelle regioni meridionali, del 15 per cento nelle regioni centrali, e del 14 per cento nelle regioni settentrionali. Questo è però uno dei settori in cui le differenze territoriali nella crescita dell’occupazione sono molto marcate: basti considerare che nelle regioni settentrionali nel corso dell’intero biennio 2005-2006 è stato cumulato un aumento di quasi l’8 per cento che, dato il peso del settore, corrisponde ad un aumento degli occupati totali dell’1 per cento solo grazie all’occupazione aggiuntiva di questo comparto. Viceversa, nel corso del biennio l’occupazione
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Capitolo 2. L’occupazione
ha oscillato al Centro e al Sud, determinando una scarsa creazione occupazionale nel complesso. Pur in assenza di informazioni puntuali su questo aspetto, l’impressione è che le divergenze nelle performance territoriali per questo settore siano da ascrivere in parte alle attività svolte dal privato incluse in questo settore, specie per i posti creati nel settore della sanità. Se poi si guarda all’ultimo dei tre settori che compongono l’aggregato dei servizi non vendibili, quello degli “altri servizi personali” se ne rileva subito la forte creazione occupazionale, il che riflette in parte la natura residuale del comparto, oltre al fatto che vi è stato effettivamente un incremento significativo degli addetti, legato in buona misura al noto fenomeno delle badanti. In questo segmento emergono ampie divergenze territoriali, con punte intorno al 10 per cento all’anno nelle regioni del Nord ovest e più contenute nelle altre ripartizioni. Nel complesso, l’accelerazione dei servizi non vendibili ha svolto un ruolo decisivo nel determinare la crescita dell’occupazione in aggregato soprattutto nelle regioni del Nord mentre questi settori hanno avuto scarso peso al Sud e al Centro. Nel complesso comunque, è da osservare come la svolta occupazione del 2006 abbia avuto luogo nelle regioni del Nord grazie al contributo determinante di questi settori dei servizi; i tre aggregati dei servizi non vendibili giungono difatti a spiegare un incremento di oltre un punto percentuale dell’occupazione totale nel corso dell’anno. Nei settori dei servizi destinabili alla vendita si osserva viceversa una crescita occupazionale più intensa nelle regioni del Centro e al Sud. A livello settoriale i principali scostamenti hanno interessato la dinamica nel commercio (dove gli addetti crescono addirittura del 6.5 per cento nel Nord est e del 4.9 per cento al Centro, generando un contributo alla crescita dell’occupazione totale pari rispettivamente all’1 e allo 0.7 per cento). Un altro elemento di divergenza è rappresentato dalla contrazione degli occupati nel settore dei trasporti nel Nord est, mentre in positivo risalta l’ampia creazione di occupazione nel settore dei servizi alle imprese nelle regioni del Centro.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
2.5 Le caratteristiche della nuova occupazione Riprende a crescere l’occupazione autonoma
Dopo la forte contrazione (-4.1 per cento) registrata nel 2005, l’occupazione autonoma ha ricominciato a crescere. Nel 2006 i nuovi occupati indipendenti sono stati 44mila, pari ad un incremento percentuale dello 0.7 per cento, comunque insufficiente a recuperare la diminuzione dell’anno precedente. Mancano difatti ancora 214mila occupati indipendenti per tornare ai livelli registrati in media nel 2004. Alcuni commentatori hanno osservato come il calo del 2005, di entità senza precedenti nell’ultimo trentennio, si sia concentrato quasi interamente tra i coadiuvanti nelle imprese familiari, i soci di cooperativa, i collaboratori coordinati e i prestatori d’opera occasionali. Rispetto al 2004 un quinto di questi occupati era uscito dal mercato del lavoro, mentre quasi un altro quinto aveva trovato un impiego (permanente o temporaneo). Lo spostamento di una parte di queste figure verso l’occupazione dipendente è stato attribuito all’utilizzo delle nuove forme contrattuali introdotte con la legge Biagi (Lg.30/2003), ma anche all’affinamento da parte della Rilevazione Istat della capacità di individuare con precisione la posizione professionale dei lavoratori. Probabilmente, gli andamenti meno estremi registrati nel 2006 riflettono una normalizzazione di questo tipo di fenomeni, perlomeno per quanto riguarda l’entrata a regime della nuova rilevazione. L’incremento, pur di entità contenuta, osservato nel 2006, è stato determinato principalmente dall’aumento dei lavoratori in proprio e dei collaboratori (co.co.co.) che, insieme ai coadiuvanti familiari e ai prestatori d’opera occasionali, hanno più che compensato i contributi negativi apportati alla crescita dell’occupazione autonoma dai soci di cooperative, dai liberi professionisti e soprattutto dagli imprenditori. Questi ultimi nel 2006 hanno registrato una contrazione di 9.7 punti percentuali: la diminuzione nel numero di imprenditori è stata generalizzata tra le ripartizioni geografiche, ma particolarmente intensa nel Nord-Ovest (-19.6 per cento, che segue un’altra contrazione di quasi 10 punti percentuali registrata nel 2005).
100
Banca d’Italia (2006) Relazione del Governatore sull’esercizio 2005
Capitolo 2. L’occupazione
Tale contrazione è stata tale da determinare una diminuzione dell’occupazione indipendente in questa ripartizione. Ancora vivace, invece, la crescita dell’occupazione dipendente, pur con una marginale decelerazione rispetto ai ritmi registrati nel 2005 (l’incremento passa da 2.6 a 2.3 per cento). In controtendenza va il Sud, che nel 2006 è stato caratterizzato da un profilo in accelerazione dell’occupazione dipendente. L’incremento dell’occupazione dipendente in Italia nel 2006 è stato sostenuto dalla crescita registrata degli impiegati, in accelerazione rispetto al 2005; si riducono, pur restando importanti, gli apporti forniti dalla componente operaia dell’occupazione (la cui crescita decelera) e dai quadri. Recupera l’occupazione dei dirigenti (+3.7 per cento rispetto al 2005, quando si era registrata una contrazione di 14 punti percentuali), così come quella degli apprendisti (+2.6 per cento). Rispetto al 2004, la composizione dell’occupazione dipendente risulta marginalmente cambiata a favore delle posizioni impiegatizie e dei quadri, con invece una riduzione del peso delle posizioni dirigenziali e degli operai.
101
102 0.1 -3.5 4.2 -3.0 -0.4
Quadri
-19.6 -7.0 -6.8 -2.1 -9.7
Dirigenti
Impiegati
0.9 2.4 -0.4 1.9 1.3
Operai
-3.4 -3.1 7.9 4.5 1.0
Coadiuvanti familiari
-6.9 7.9 13.8 -1.8 2.6
Apprendisti
-20.5 -7.7 -36.2 31.2 -9.2
Soci di cooperative
Nord-Ovest 1.2 3.0 4.7 0.9 Nord-Est 20.2 6.3 2.9 1.1 Centro -4.2 -0.2 2.6 3.3 Sud 2.0 5.6 2.6 0.1 Italia 3.7 3.6 3.3 1.2 Fonte: elaborazioni REF su dati Rilevazione Continua sulle Forze Lavoro ISTAT
Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Italia
OCCUPAZIONE PER POSIZIONE NELLA PROFESSIONE Var. % a/a (2005/2006) Imprenditori Liberi Lavoratori professionisti in proprio
Lavoratori a domicilio -64.9 207.5 -12.4 92.3 -1.1
10.4 1.7 -0.1 18.9 7.2
Co.co.co
Totale Dipendenti 2.5 2.8 2.6 1.5 2.3
15.9 26.0 15.7 6.7 15.5
Prest. d'opera
Totale Occupati 1.8 2.2 2.1 1.6 1.9
-0.2 0.5 0.7 2.0 0.7
Totale Indipendenti
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Capitolo 2. L’occupazione
Cresce l’occupazione nelle PMI
Dall’analisi dell’andamento degli occupati (al netto di collaboratori e prestatori d’opera) sulla base della dimensione dell’impresa in cui svolgono il proprio lavoro, si osserva come nel 2006 la crescita occupazionale si sia concentrata nelle cosiddette PMI, le piccole-medie imprese. Per questa tipologia di imprese, caratterizzate da una taglia limitata (in termini di addetti e di volume d’affari), gli occupati sono aumentati nel 2006 del 2.6 per cento rispetto all’anno precedente. All’interno, però, si osserva una non trascurabile varianza di risultati. Mentre le piccole imprese, quelle aventi almeno 10 addetti ma non più di 50, che complessivamente impiegano circa un quarto degli occupati italiani, hanno registrato un incremento notevole, le micro e le medie imprese (ovvero i due estremi) hanno avuto performance più deludenti. Il numero di occupati nelle piccole imprese è cresciuto in media dell’11 per cento (con incrementi anche più vivaci per le imprese più piccole, fino a 15 dipendenti, e per quelle di dimensioni prossime a quelle delle medie imprese, con più di 20 dipendenti), mentre l’occupazione nelle medie imprese (quelle aventi almeno 50 addetti, ma non più di 250) è risultata stagnante, con una variazione rispetto al 2005 di modesta entità e negativa (-0.4 per cento). Nel caso invece delle microimprese (quelle con non più di dieci addetti) l’occupazione nel 2006 si è invece contratta. Considerando anche il numero di autonomi non aventi dipendenti, l’occupazione in queste imprese di piccolissime dimensioni si è ridotta complessivamente di 0.8 punti percentuali. Tali evoluzioni potrebbero essere tra i risultati del processo di ristrutturazione delle imprese italiane che, soprattutto nell’industria, sta premiando le taglie medie, con maggiori capacità ed opportunità competitive. Infine, si contrae l’occupazione nelle grandi imprese (che impiegano l’11 per cento degli occupati), proseguendo così una tendenza in atto da qualche anno, soprattutto nell’industria. I dati qui discussi sono il risultato di elaborazioni sulla base dei dati elementari della Rilevazione Continua Istat sulle forze di lavoro e di stime per riassegnare alle differenti classi dimensionali le risposte di coloro che non sanno il numero esatto di addetti impiegati nell’impresa in cui lavorano (in numero non trascurabile, seppur in forte diminuzione rispetto al 2005).
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
OCCUPAZIONE PER CLASSI DIMENSIONALI DELLE IMPRESE Var. % Autonomi senza dipendenti -0.3 fino a 10 -1.1 da 11 a 15 15.0 da 16 a 19 5.9 da 20 a 49 21.3 da 50 a 249 -0.4 250 e oltre -4.4 Fonte: elaborazioni e stime su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
A crescere di più l’occupazione femminile
v.a. (migliaia) 2005 2006 3 486 3 476 6 667 6 594 1 836 2 112 2 844 3 012 736 892 3 981 3 964 2 556 2 442
Distinguendo per genere le evoluzioni occupazionali, si nota come la creazione di nuova occupazione sia stata particolarmente vivace per le donne. Se nel 2005 era stata soprattutto l’occupazione maschile a crescere (+0.9 per cento rispetto all’anno precedente) mentre le occupate erano aumentate solo dello 0.5 per cento, nel 2006 la situazione si è ribaltata. L’accelerazione della crescita dell’occupazione femminile è stata infatti ben più marcata di quella che si è registrata per gli uomini, risultando pari al 2.5 per cento. Per i maschi, invece, l’incremento anno su anno è stato dell’1.5 per cento. In termini assoluti, i nuovi posti di lavoro sono risultati 224mila per le donne (contro i 202mila per gli uomini). Il maggiore dinamismo dell’occupazione femminile nel 2006 si può ricondurre alle performance occupazionali nei diversi settori. È noto che l’occupazione femminile, rappresentante il 39 per cento dell’occupazione totale, risulti maggiormente presente nei settori del terziario, dove costituisce quasi metà (il 48 per cento) dell’occupazione totale, mentre è sottorappresentata nell’industria ed in particolare nell’edilizia (dove la sua incidenza è rispettivamente del 28 e del 5 per cento). Ne discende che la sensibilità dell’occupazione femminile alle performance occupazionali nei servizi è maggiore e, viceversa, è ridotta per quanto riguarda gli andamenti nell’industria. Come si è sottolineato in precedenza, la crescita occupazionale si è concentrata nei servizi e nell’agricoltura, mentre nell’industria, ed in particolare nell’edilizia, la creazione di nuovi posti di lavoro è stata negativa. Nell’industria in senso stretto il numero di occupati è rimasto sugli stessi livelli del 2005, anche se poi tale dato è la sintesi di evoluzioni molto diverse dei singoli settori industriali. La crescita occupazionale nei
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servizi
ha
contribuito
interamente
all’incremento
osservato
Capitolo 2. L’occupazione
nell’occupazione femminile nel 2006. Un marginale apporto positivo è stato dato anche dall’occupazione agricola, più che compensata però dalla caduta dell’occupazione femminile nell’industria (in particolare nell’industria in senso stretto, data la scarsa rilevanza nell’edilizia). Diversi gli sviluppi osservati per gli uomini: il contributo fornito dai servizi alla crescita è positivo, ma di entità inferiore a quanto registrato per le donne. L’edilizia, dato lo scarso dinamismo dell’occupazione, apporta un contributo sostanzialmente nullo, mentre l’industria in senso stretto fornisce un contributo positivo, per quanto esiguo. La diversa performance per genere dell’occupazione nell’industria in senso stretto può essere ricondotta alla diversa presenza nei singoli settori: in particolare, la caduta dell’occupazione femminile (-1 per cento nel 2006, che segue la contrazione del 2005) può essere ricondotta alla sua maggior presenza nei settori che hanno sperimentato delle difficoltà, come il tessile, che anche nel 2006 ha visto contrarsi il numero di occupati. Un altro fattore che ha influito positivamente sulla performance dell’occupazione femminile è l’andamento del part-time. Gli occupati a tempo parziale sono cresciuti del 5.4 per cento nel 2006, ad un ritmo quasi triplo di quanto osservato per il complesso dell’occupazione. L’incidenza dell’occupazione a tempo parziale è aumentata (dal 12.8 al 13.3 per cento) e in particolare per le donne. L’incidenza del part-time è più alta nel settore dei servizi, sia per le caratteristiche organizzative del settore che ne rendono più facile l’attuazione, sia perché è un settore a maggiore femminilizzazione, e quindi è più alto il numero di richiedenti . In ogni caso, l’incremento dell’incidenza del part-time femminile è aumentata per tutti i settori. La maggior vivacità della crescita occupazionale femminile è stata comune a tutte le ripartizioni territoriali, con la sola eccezione del Centro dove, in controtendenza rispetto agli andamenti generali, l’occupazione femminile nel 2006 ha registrato una decelerazione della crescita, passata dall’1.8 per cento del 2005 all’1.2. Nel Nord è proseguito l’incremento dell’occupazione femminile, pari a 127mila nuove occupate, mentre nel Sud, dopo un 2005 sfavorevole, l’evoluzione è tornata ad essere positiva, con un incremento del 3.5 per cento in grado di più che compensare le perdite dell’anno precedente. Come mostrato nella tavola il part-time volontario è più frequente tra le donne di quanto sia per gli uomini (per i quali nel 57 per cento dei casi il lavoro a tempo parziale è un ripiego, dato che non si è trovato un lavoro a tempo pieno).
105
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
L'INCIDENZA SETTORIALE DELL'OCCUPAZIONE FEMMINILE (Valori %) Agricoltura
Industria in Costruzioni Totale Servizi TOTALE s.s. industria 2004 31.1 29.1 5.8 22.9 47.5 39.2 2005 30.4 28.5 5.6 22.2 47.7 39.1 2006 30.8 28.2 5.1 21.9 48.0 39.4 Fonte: elaborazioni REF su dati Rilevazione Continua sulle Forze Lavoro ISTAT
I tassi di occupazione femminile, dopo un 2005 deludente, sono risultati in aumento ovunque (con l’eccezione delle giovani donne residenti al Nord). Per queste ultime, però, il calo osservato può essere ricondotto anche alla diminuzione del tasso di attività, dovuto alla crescente scolarizzazione
che,
congiuntamente
alla
riduzione
demografica
dell’ampiezza della classe, ha determinato una contrazione della platea di possibili occupate. Nel 2005, per la classe d’età 15-24 anni si era osservato un calo del tasso di occupazione femminile più marcato di quello registrato per il tasso di attività; questo parrebbe segnalare che a dominare siano state le difficoltà della domanda, incapace di assorbire interamente la pur calante offerta di lavoro giovanile. Nel 2006 la situazione si è invertita.
L'occupazione totale per genere e settori Maschi
Femmine
6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 -10 agricoltura
ind.ss
costruz
servizi
Var. % a/a (2005/06)
106
totale
Capitolo 2. L’occupazione
L'occupazione femminile per ripartizioni 2004/05
2005/06
Nord-Est
Centro
4 3 2 1 0 -1 -2 -3 Nord-Ovest
Sud
Var. % a/a
In aumento gli occupati di mezza età
Nel 2006 l’occupazione è cresciuta per tutte le classi di età, con l’eccezione di quelle più giovani; difatti, gli occupati con meno di 35 anni si sono complessivamente ridotti dello 0.8 per cento rispetto al 2005 (pari a 56mila persone), dopo aver registrato una contrazione di circa 222mila persone nel solo 2005. Gli occupati con più di 35 anni sono invece complessivamente aumentati di 482mila persone, con un incremento anno su anno del 3.2 per cento. Va però sottolineato che sull’evoluzione dell’occupazione per età influiscono in misura non trascurabile i cambiamenti demografici in atto. Le classi di età più giovani, quelle per cui si osserva una diminuzione del numero di occupati, sono anche quelle che vedono una contrazione dell’ampiezza della popolazione per effetto del restringimento delle coorti osservato negli ultimi anni. Per valutare quindi le evoluzioni dell’occupazione al netto degli effetti demografici (che, pur rilevanti, possono dare immagini fuorvianti) si osservano gli andamenti dei tassi di occupazione, che sintetizzano le performance dell’offerta e della domanda di lavoro. I tassi di occupazione risultano in aumento per tutte le classi di età, ad eccezione di quella più giovane (15-24 anni), per la quale sono costanti sui livelli del 2005. D’altra parte questa è la classe d’età dove si sta osservando una diminuzione dei tassi di attività (per effetto della crescente scolarizzazione) e quindi una riduzione della platea di partecipanti al mercato del lavoro e potenziali occupati.
107
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Se nella media italiana, i tassi di occupazione della classe più giovane sono rimasti invariati, si colgono alcune differenze negli andamenti distinguendo per genere e per residenza: i tassi di occupazione difatti risultano in diminuzione per le donne, per le quali peraltro sono su livelli molto bassi (attorno al 20 per cento), mentre aumentano per gli uomini, superando quota 30 per cento. Per quanto riguarda le ripartizioni geografiche, si osserva una sorta di movimento di convergenza nei tassi di occupazione per la classe 15-24 anni, che sono scesi dove sono più elevati (nel Nord Italia) e invece sono aumentati seppur lievemente dove sono bassi (nel Centro-Sud). Nella classe 25-34 anni i tassi di occupazione sono cresciuti nonostante non si siano registrati miglioramenti nei tassi di partecipazione: la crescita nei tassi di occupazione è quindi interamente riconducibile ad una più favorevole domanda di lavoro per la classe d’età in questione. In particolare, gli incrementi maggiori si osservano per i lavoratori meno avvantaggiati, ovvero le donne e quelli residenti nel Centro-Sud.
Tassi di occupazione per classi d'età 2004/05
2005/06
1.5 1.0 0.5 0.0 -0.5 -1.0 -1.5 -2.0 15-24
25-34
35-54
55-64
Variazioni assolute a/a
Il miglioramento della domanda, che rende possibile l’entrata anche di chi era rimasto ai margini del mercato del lavoro, si vede anche nell’andamento dei tassi di occupazione per la classe d’età centrale (35-
108
Capitolo 2. L’occupazione
54 anni), dove si è registrato un incremento dei tassi generalizzato ma in particolar modo per le donne (caratterizzate da livelli dei tassi d’occupazione ancora bassi: il differenziale con quelli maschili è di oltre 30 punti percentuali, e supera i 40 punti percentuali nel Sud). Infine, si sono registrati incrementi anche consistenti (di oltre 3 punti percentuali, che arrivano a quasi 6 punti percentuali nel Nord) dei tassi di occupazione dei lavoratori più maturi (55-64 anni). Questo è sicuramente un buon risultato, perché riflette non solo una maggior partecipazione al mercato del lavoro di queste classi di età (quelle interessate dalle scelte di pensionamento più o meno anticipato), ma anche un andamento favorevole della domanda, in grado di assorbire questa particolare offerta.
Gli orari di lavoro: cresce l’incidenza del part time...
Il lavoro a tempo parziale è cresciuto anche nel 2006: gli occupati con un contratto part-time sono aumentati del 5.4 per cento. Se nel 2005 l’incremento dell’occupazione a tempo parziale aveva interessato esclusivamente la componente femminile, nel 2006, invece, ha coinvolto anche gli uomini, sebbene con un’intensità minore. Se le occupate parttime sono cresciute del 5.8 per cento, per gli uomini l’incremento è stato solo del 4 per cento. D’altra parte, l’occupazione a tempo parziale è molto più diffusa tra le donne che tra gli uomini: se per la media italiana l’incidenza del part-time sull’occupazione totale è del 13.3 per cento nel 2006, tra le donne più di un’occupata su quattro (il 26.5 per cento) è a tempo parziale. L’occupazione a tempo parziale, grazie alla sua vivace performance, ha dato un contributo rilevante, pari a 0.7 punti percentuali, alla crescita dell’occupazione nel suo complesso. Ciononostante, l’apporto dato dal part-time all’aumento dell’occupazione complessiva non è dominante (pesa per poco più di un terzo dell’incremento totale osservato), sebbene sulla crescita dell’occupazione femminile, il part-time abbia pesato molto, spiegando con la sua crescita la maggior parte dell’aumento del numero di occupate sia nel 2005 che nel 2006. Restringendo l’analisi alla sola occupazione dipendente, si osserva come la crescita del parttime sia stata ancora più vivace (+6.4 per cento di incremento anno su anno), ed in particolare per gli uomini, diversamente da quanto si era osservato per il totale. In effetti, distinguendo l’esame per i singoli settori, si nota come
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
in alcuni (agricoltura e industria in senso stretto), sia cresciuto di più il part-time maschile, pur con incidenze sull’occupazione dipendente totale molto modeste se confrontate con quelle femminili. I contratti di lavoro part-time potrebbero quindi rispondere ad esigenze del datore di lavoro di una maggiore flessibilità dell’input di lavoro in un momento di ciclo in ripresa. In effetti, in molti casi il part-time è introdotto per rispondere ad esigenze dell’impresa più che del lavoratore: la quota di part-time involontario (ovvero, la percentuale di lavoratori che dichiarano di lavorare a tempo parziale perché non hanno trovato un impiego a tempo pieno) non è trascurabile. Nel 2006 si attesta infatti al 39.6 per cento, anche se in riduzione rispetto a quanto rilevato nel 2005 (quando risultava pari al 41.2 per cento). La percentuale è più alta per gli uomini (57.3 per cento); mentre più della metà delle donne lavora part-time perché non desidera un lavoro a tempo pieno, per gli uomini il tempo parziale è più frequentemente, per oltre metà di essi, una condizione subita. I motivi principali che hanno determinata la scelta volontaria di un impiego part-time sono piuttosto diversi tra i due generi. Se infatti per gli uomini la scelta di avere un’occupazione a tempo parziale è stata compiuta più frequentemente per avere più tempo libero o per esigenze di formazione, per le donne invece il motivo principale che spinge a scegliere il part-time è la necessità di conciliare la vita professionale con quella famigliare: quasi una donna su sette ha optato per il tempo parziale per motivi legati alla famiglia (essenzialmente per potersi prendere cura di figli, di bambini o di altre persone non autosufficienti, ma anche per altri motivi famigliari).
Contributi alla crescita occupazione totale 2006 part-time
full-time
crescita occ.totale
3 2.5 2 1.5 1 0.5 0 Maschi
Femmine Va.r % a/a
110
Totale
Capitolo 2. Lâ&#x20AC;&#x2122;occupazione
VOLONTARIETA'/INVOLONTARIETA' DEL LAVORO PART-TIME PER GENERE Non vuole un lavoro a tempo pieno Non ha trovato un lavoro a tempo pieno
Maschi
2005 Femmine
Totale
Maschi
2006 Femmine
Totale
25.9
52.1
47.6
30.3
53.2
49.3
57.3 12.0 0.5 100.0
36.0 10.6 0.2 100.0
39.6 10.9 0.2 100.0
391.6 1897.9 di lavoro, 2006)
2289.6
61.6 36.9 41.2 Altri motivi 10.9 10.0 10.1 Non sa 1.6 1.0 1.1 Totale % 100.0 100.0 100.0 Totale val.assoluto (in migliaia) 368 1785 2152.0 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze
MOTIVI DEL LAVORO PART-TIME "VOLONTARIO" PER GENERE (2006) Maschi
Femmine
Totale
Studia o segue corsi di formazione professionale 26.8 6.0 12.4 3.1 Malattia, problemi di salute personale Per prendersi cura dei figli, di bambini e/o di altre persone non 5.0 56.6 autosufficienti 9.6 1.7 Svolge un secondo lavoro Altri motivi familiari (esclusa cura dei figli o di altre persone) 7.3 13.0 26.9 16.4 Avere a disposizione piĂš tempo libero 12.1 3.3 Altri motivi 100.0 100.0 Totale % 165.6 1210.8 Totale val.assoluto (in migliaia) Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
8.5 4.2 50.4 2.6 12.3 17.7 4.3 100.0 1376.4
LAVORO A TEMPO PARZIALE. INCIDENZA SULL'OCCUPAZIONE DIPENDENTE Per settore e ripartizione geografica (2006) 2006
2005
Agricoltura Industria Servizi
v.a. 39 327 1924
incidenza % 8.2 6.0 17.5
v.a. 33 327 1793
Nord Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud e Isole Totale Fonte: elaborazioni su microdati Istat
1248 14.3 1173 693 13.7 654 555 15.2 519 505 14.9 470 537 11.2 509 2290 13.5 2152 (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
incidenza % 7.5 6.0 16.9
13.8 13.2 14.6 14.2 10.8 13.0
111
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
.. si riduce la frequenza di lavoro in orari disagiati
Le stime Istat sull’ammontare di ore effettivamente lavorate (retribuite o no, purché finalizzate alla produzione di reddito) evidenziano come il monte ore nell’ultimo decennio si sia mosso lungo un trend crescente. Il monte ore è determinato dalla composizione delle posizioni lavorative (ovvero, dalla distribuzione tra posizioni lavorative full-time e posizioni part-time), ma anche dall’incidenza degli straordinari e delle assenze dal lavoro. Naturalmente dipende dal numero di posizioni lavorative ma anche dall’orario pro-capite implicito, ovvero le ore lavorate in media per posizione lavorativa. Le posizioni lavorative (proxy delle unità di lavoro) hanno avuto una tendenza crescente, seppur a ritmi contenuti. L’orario pro-capite implicito è invece in contrazione dal 2000 (con la sola eccezione del 2004); nel 2006 il numero medio annuo di ore lavorate per posizione lavorativa è rimasto invariato rispetto all’anno precedente. In particolare, è risultato in crescita l’orario pro-capite implicito per le posizioni lavorative dipendenti (+0.4 per cento), mentre si è contratto quello per le posizioni indipendenti (-0.8 per cento), caratterizzate comunque da un numero di ore lavorate pro-capite più elevato. Al di là di questi risultati, la rilevazione sulle forze di lavoro segnala comunque un lieve calo dell’incidenza del lavoro in orari disagiati rispetto al 2005. Come indicato nella tabella allegata, nel 2006 un occupato su cinque ha dichiarato di aver lavorato di sera (tra le 20 e le 23) almeno una volta alla settimana; tale percentuale era pari al 21.4 per cento nel 2005. Il lavoro serale risulta più frequente per gli uomini, così come il lavoro notturno, svolto almeno una volta alla settimana, dall’11.3 per
Monte ore totali 114 112 110 108 106 104 102 100 98 1980
1985
1990
1995
2000
Base 1980=100, Fonte: dati Istat
112
2005
Capitolo 2. L’occupazione
cento degli occupati (ma dal 13.8 per cento degli occupati maschi). Quasi metà degli occupati (il 47.3 per cento) lavora di sabato almeno una volta in quattro settimane; anche in questo caso si è osservata una lieve riduzione della frequenza rispetto al 2005. Si evidenziano inoltre contenute differenze di genere: la diffusione del lavoro di sabato è del 49.8 per cento per gli uomini e del 43.7 per le donne. È invece stabile la percentuale di lavoratori che svolge, almeno una volta in quattro settimane, il proprio lavoro di domenica: quasi uno su cinque (il 18.4 per cento). Complessivamente si nota come il lavoro disagiato sia marginalmente più frequente per gli uomini. Per il 22.1 per cento degli occupati nel 2006 era prevista l’organizzazione del lavoro a turni: per gli uomini in particolare la percentuale sale al 23 per cento. Rispetto al 2005, l’organizzazione del
LAVORO IN ORARI DISAGIATI PER GENERE (2006) Maschi
Femmine
Totale
Lavoro di sera (dalle 20 alle 23) Sì, 2 o più volte alla settimana Sì, meno di due volte alla settimana No Non sa Totale %
16.8 6.3 76.6 0.2 100.0
11.4 3.9 84.7 0.1 100.0
14.7 5.4 79.8 0.1 100.0
Lavoro di notte (dopo le 23) Sì, 2 o più volte alla settimana Sì, meno di due volte alla settimana No Non sa Totale %
10.0 3.8 86.0 0.2 100.0
5.4 2.1 92.4 0.2 100.0
8.2 3.1 88.5 0.2 100.0
38.2
36.8
37.6
11.6 50.0 0.2 100.0
6.9 56.2 0.1 100.0
9.7 52.5 0.2 100.0
13.4
11.9
12.8
6.1 80.3 0.2 100.0
4.9 83.1 0.1 100.0
5.6 81.4 0.2 100.0
Lavoro di sabato Sì, 2 o più volte alla settimana (nelle 4 settimane) Sì, meno di due volte alla settimana (nelle 4 settimane) No Non sa Totale % Lavoro di domenica Sì, 2 o più volte alla settimana (nelle 4 settimane) Sì, meno di due volte alla settimana (nelle 4 settimane) No Non sa Totale %
Totale occupati (in migliaia) 13939 9049 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
22988
113
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
lavoro per turni appare leggermente più frequente (era prevista per il 21.3 per cento degli occupati dipendenti). Ciononostante, ad aver svolto turni di lavoro sono stati solo il 17.8 per cento dei dipendenti; tale tipo di lavoro appare ancora più frequente per gli uomini, anche se rispetto al 2005 la diffusione è in calo (era pari al 18.3 per cento per il totale degli occupati dipendenti).
PREVISIONI DELL'ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO A TURNI E SVOLGIMENTO DI TURNI IN GENERE (2006) Maschi
Femmine
Totale
Organizzazione del lavoro a turni Sì No Non sa Totale %
23.0 76.8 0.2 100.0
20.9 79.0 0.1 100.0
22.1 77.7 0.2 100.0
Turni di lavoro Sì No Non sa Totale %
18.7 81.2 0.0 100.0
16.6 83.4 0.0 100.0
17.8 82.2 0.0 100.0
9717
7198
16915
Totale val.assoluto (in migliaia)
Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
Aumentano gli occupati skilled
Il livello medio di istruzione dell’occupazione italiana è basso, quando confrontato con i partner europei. Confrontando la composizione per titoli di studio dell’occupazione italiana con quella dell’area euro nel suo complesso si osserva come in Italia gli occupati unskilled, quelli aventi al massimo la vecchia scuola dell’obbligo (ovvero, la licenza media o addirittura solo quella elementare) rappresentano ancora nel 2006 poco meno del 40 per cento dell’occupazione totale, un peso superiore di circa dieci punti percentuali rispetto quello riscontrabile per l’area euro. Invece, gli occupati con istruzione superiore (laurea e post laurea) rappresentano ancora oggi solo il 15 per cento dell’occupazione totale, mentre nell’area euro pesano per quasi il 26 per cento. Rispetto ad una decina di anni fa lo scarto tra i pesi dei lavoratori unskilled in Italia rispetto all’area euro si è dimezzato: ma non si sono registrati miglioramenti invece nella parte alta della struttura (i lavoratori con titoli universitari). Sebbene questi pesino oggi sull’occupazione il 60 per cento in più di quanto pesassero nel 1995, il gap con l’area euro si è marginalmente
114
Capitolo 2. L’occupazione
ampliato. La composizione dell’occupazione italiana appare dunque ancora molto sbilanciata verso i lavoratori unskilled, al contrario di quanto si osserva per l’occupazione dell’area euro nel complesso, nonostante negli anni si sia verificato uno spostamento a favore dei titoli più elevati. La maggior incidenza dell’occupazione poco qualificata in Italia incide negativamente sul tasso di occupazione complessivo; i lavoratori poco istruiti sono difatti caratterizzati da tassi di occupazione molto bassi (31 per cento per quelli con la sola licenza elementare, che pesano ancora per il 7 per cento sull’occupazione complessiva, e 52 per cento per quelli con la licenza media). Il basso tasso di occupazione di questi lavoratori è dovuto ad una serie di fattori: c’è un problema di domanda, perché sono sempre meno richiesti dal sistema produttivo; c’è un problema di offerta: sono scarsamente incentivati a partecipare al mercato del lavoro (in particolare, le donne), non potendo ottenere retribuzioni soddisfacenti. Sono destinati a diventare più obsoleti e ad uscire prima dal mercato del lavoro, dato che sono confinati in lavori dequalificati e gravosi. Inoltre, poiché hanno minori informazioni rispetto ai lavoratori più qualificati, hanno anche modalità di ricerca dell’impiego meno efficaci. Il 2006 non ha rappresentato del resto un momento di rottura rispetto alle tendenze registrate in precedenza: la crescita occupazionale si è difatti concentrata sui titoli di studio più elevati, mentre per i lavoratori con titoli di studio inferiori l’occupazione ha continuato a ridursi. L’incremento dell’occupazione nel suo complesso è stato trainato dai titoli di studio più elevati (soprattutto diplomi di scuola secondaria superiore e lauree), mentre le posizioni non qualificate hanno dato un contributo negativo alla crescita. Le tendenze riflettono anche dei mutamenti generazionali: le coorti più giovani - che progressivamente vanno a sostituire, seppur parzialmente, quelle più anziane - sono caratterizzate da una scolarizzazione più elevata e quindi da titoli di studio mediamente più alti. Distinguendo l’evoluzione dell’occupazione per due classi di età (i “giovani”, tra i 25 e i 34 anni, e i “maturi”, tra i 35 e i 64), si nota come nel caso dei giovani siano cresciuti unicamente (seppur di molto) gli occupati laureati (+7.8 per cento), mentre gli occupati diplomati sono rimasti stabili. Per i “maturi”, invece, l’occupazione è cresciuta in corrispondenza di tutti i titoli di studio, ed in particolare per i diplomi, con l’eccezione dei titoli più bassi (licenze elementari).
115
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Composizione dell'occupazione per titoli di studio - 2006 area euro
Italia
50 40 30 20 10 0 elementari e medie
diploma di scuola secondaria
laurea e post laurea
Valori %
I contributi all'occupazione per titoli di studio Laurea e post -laurea Diploma 2-3 anni Nessun titolo, lic. elementare
Diploma 4-5 anni Lic. media
5 4 3 2 1 0 -1 -2 25-34
116
35-64
15-64
Capitolo 2. L’occupazione
Le nuove forme contrattuali: aumenta ancora l’incidenza del lavoro a termine...
Come sottolineato in precedenza, la crescita dell’occupazione è stata particolarmente vivace per la componente dipendente, che da sola ha contribuito per la quasi totalità della crescita complessiva del numero di occupati registrata nel 2006. Parte di questa nuova occupazione è costituita da lavoratori a termine, che insieme ai co.co.co rappresentano i cosiddetti “atipici”, o lavoratori temporanei. L’occupazione a termine sta acquistando un peso crescente sull’occupazione dipendente: se nel 2004 (il primo anno per il quale la nuova rilevazione continua sulle forze di lavoro è disponibile) i dipendenti con un contratto a tempo determinato erano 1.9 milioni, nel 2006 sono risultati in media 2.2 milioni, e l’incidenza sull’occupazione dipendente totale è passata dall’11.8 per cento del 2004 al 13.1 per cento. L’incremento rispetto al 2005 è stato del 9.7 per cento, pari a 196mila nuovi occupati a termine. La crescente importanza dell’occupazione a termine sul totale e la sua vivacità (superiore a quella dell’occupazione permanente) fanno sì che i contributi alla crescita dell’occupazione dipendente nel suo complesso siano rilevanti. Nel 2006, infatti, più della metà della crescita dell’occupazione dipendente è stata determinata dalla componente a termine (che ha dato un contributo dell’1.2 per cento). L’incremento
dell’occupazione
dipendente
a
termine
è
stata
particolarmente vivace nel Nord-Ovest, dove è stato dell’11.2 per cento, e soprattutto nel Centro (+13.2 per cento anno su anno). La
declinazione
settoriale
dell’occupazione
a
termine
ha
sostanzialmente seguito quella dell’occupazione dipendente nel suo complesso, pur con alcune importanti differenze. Innanzi tutto, se nell’industria in senso stretto l’occupazione dipendente è risultata lievemente in contrazione (-0.2 per cento rispetto al 2005), la riduzione si è interamente concentrata sulla componente permanente; gli occupati a tempo determinato sono difatti aumentati del 12.9 per cento anno su anno, con un contributo ampiamente positivo alla crescita dell’occupazione dipendente totale, seppur non sufficiente a controbilanciare l’apporto negativo dei permanenti. Specularmente, nel settore delle costruzioni l’occupazione dipendente è risultata ancora lievemente in aumento (+0.2 per cento), e solo grazie alla componente permanente, perché i dipendenti a tempo determinato si sono ridotti di oltre tre punti percentuali rispetto al 2005.
117
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Il lavoro a termine risulta particolarmente diffuso tra le donne e tra i giovani. Elaborazioni compiute sulla base dei dati elementari provenienti dalle rilevazioni dell’Istat sulle forze lavoro evidenziano come i lavoratori dipendenti a termine, che costituiscono oramai il 9.7 per cento dell’occupazione totale, siano più frequentemente lavoratori giovani e/o donne. Tra i giovani al di sotto dei 30 anni, quasi un occupato su quatto (il 23.9 per cento) ha un contratto a tempo determinato, mentre per i lavoratori più maturi la frequenza di questo tipo di contratti tende a ridursi con l’età. E se per il complesso degli uomini, i dipendenti a termine rappresentano il 7.8 per cento degli occupati, per le donne il peso è decisamente maggiore (12.5 per cento). Nel 2006, del resto, la crescita dell’occupazione a termine è risultata più vivace per le donne, mentre per quanto riguarda le età, l’evoluzione nel corso del 2006 è stata piuttosto uniforme, non ampliando così ulteriormente le differenze in termini di incidenza di tale forma contrattuale. L’unico caso in cui si è osservato un andamento piuttosto differenziato, distinguendo per le classi di età, è quello dell’industria in senso stretto: il netto incremento dell’occupazione a termine si è concentrato infatti nelle classi di età più mature (con 35 anni o più). Ciò suggerisce che in questo settore tale forma contrattuale sia stata usata soprattutto per rispondere all’accresciuto fabbisogno di manodopera, dato il ciclo favorevole, e solo in misura minore per effettuare uno screening ed una prova dei nuovi assunti. In generale, il lavoro a termine è usato dalle imprese per una molteplicità di fini. Tra i principali, il lavoro occasionale e la sostituzione di lavoratori assenti, il lavoro stagionale (in particolare in quei settori dove tale fattore pesa molto, come il settore agricolo o quello turistico) e la formazione o apprendistato dei nuovi lavoratori. Naturalmente, l’utilizzo del lavoro a termine per formazione/apprendistato o come prova è più diffuso tra i lavoratori giovani, per i quali rappresenta una forma di ingresso nel mercato del lavoro, mentre per i lavoratori appartenenti alle classi di età centrali è più fequente l’utilizzo di tale forma contrattuale per il lavoro stagionale o per quello occasionale, comprese le sostituzioni. Tra i lavoratori anziani, con più di 65 anni, i pochi dipendenti a termine svolgono soprattutto un lavoro a progetto o stagionale. Si osservano inoltre anche differenze di genere nella finalità del lavoro a termine: per gli uomini l’occupazione a termine appare più legata alla
118
Capitolo 2. L’occupazione
fase di ingresso nel mercato del lavoro (il 30 per cento ha come motivo di tale contratto la formazione/apprendistato o la prova), mentre per le donne l’occupazione a termine è più frequentemente per lo svolgimento di lavoro occasionale, come le sostituzioni, o per occupare posti vacanti, apparendo così, almeno parzialmente, come una condizione subita in mancanza di alternative valide. Relativamente ai lavoratori a termine aventi un contratto a regolare il rapporto di lavoro, si osserva come il più diffuso sia il contratto di lavoro individuale a termine, sottoscritto dal 69 per cento dei lavoratori in esame, senza grosse differenze tra uomini e donne. L’altra tipologia contrattuale più frequente è il contratto di apprendistato. Si è inoltre ridotto il numero di lavoratori a termine per i quali non è stato esplicitamente siglato un vero e proprio contratto di lavoro (e quindi, in posizione di elevata instabilità) che dai 222mila del 2005 sono passati a 202mila nel 2006.
MOTIVI DEL LAVORO A TERMINE PER CLASSE D'ETA' (2006) Periodo di formazione, apprendistato Periodo di prova Lavoro stagionale Lavoro occasionale (comprese supplenze nella scuola o sostituzione di un lavoratore assente compresa l'assenza di maternità)
15-24
25-34
35-44
45-54
55-64
47.4 9.6 11.1
14.3 10.4 15.7
2.0 7.7 23.1
1.4 4.7 33.1
0.4 3.5 39.1
65-74
26.2
75 e oltre
30.6
12.4 19.3 20.6 20.3 21.1 15.8 Lavoro per la realizzazione di 5.0 12.7 11.9 10.1 12.1 28.4 16.2 un progetto Occupare un posto vacante (incarico a termine nella 3.9 11.9 17.1 13.0 8.0 4.8 scuola, nella sanità, ecc.) 7.7 12.3 14.0 14.7 12.4 19.8 53.1 Altro 2.9 3.2 3.6 2.8 3.3 5.0 Non sa 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 Totale % 539 754 543 286 91 9 0 Totale val.assoluto (in Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
totale
17.0 8.5 19.7
18.1 10.3
11.2 11.9 3.2 100.0 2222
119
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
MOTIVI DEL LAVORO A TERMINE PER GENERE (2006) Maschi Femmine Periodo di formazione, apprendistato 20.1 14.0 Periodo di prova 10.2 6.9 Lavoro stagionale 19.9 19.4 Lavoro occasionale (comprese supplenze nella scuola o sostituzione di un lavoratore assente compresa l'assenza di maternità) 16.2 20.0 Lavoro per la realizzazione di un progetto 10.9 9.8 Occupare un posto vacante (incarico a termine nella scuola, nella sanità, ecc.) 6.2 16.0 Altro 12.9 11.0 Non sa 3.5 2.9 Totale % 100.0 100.0 Totale val.assoluto (in migliaia) 1088 1134 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
Totale 17.0 8.5 19.7
18.1 10.3 11.2 11.9 3.2 100.0 2222
TIPO DI CONTRATTO A TERMINE PER GENERE (2006) Contratti di formazione lavoro (inquadrati in un CCNL)
Maschi
Femmine
Totale
6.0
4.1
5.0
Contratti di apprendistato (inquadrati in un CCNL)
14.0
9.5
11.6
Contratti individuali di lavoro a termine (inquadrati in un CCNL)
64.6
73.0
69.0
Contratti individuali di lavoro interinale o di somministrazione lavoro (inquadrati in un CCNL) 3.2 2.9 Altro tipo di contratto 9.6 8.9 Non sa 2.6 1.6 Totale % 100.0 100.0 Totale val.assoluto (in migliaia) 969 1051 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
...e temporaneo
3.0 9.2 2.1 100.0 2020
Allargando l’analisi dagli occupati a termine all’intera categoria dell’occupazione temporanea, che oltre ai dipendenti con contratto a tempo determinato include anche i collaboratori e i prestatori d’opera, si osserva come questo tipo di occupazione interessi particolarmente i giovani: nella classe 15-29 anni, più del 28 per cento degli occupati nel 2006 era temporaneo. Tale dato ovviamente non sorprende, dato che le figure contrattuali meno regolamentate sono state introdotte proprio al fine di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro dei soggetti giovani: i contratti cosiddetti temporanei possono essere così considerati uno step iniziale, di entrata. Un po’ più sorprendente (e magari preoccupante) è l’incidenza ancora su un livello non trascurabile, pari all’11 per cento, del lavoro temporaneo per le coorti non più giovanissime (30-39 anni)
120
Capitolo 2. L’occupazione
che si suppone siano nel mercato del lavoro da qualche tempo; potrebbe essere un indicatore di cronicizzazione della situazione di incertezza lavorativa. I dati Istat evidenziano come i lavoratori con oltre 30 anni rappresentino complessivamente quasi il 60 per cento dei temporanei. L’occupazione temporanea non interessa solo i lavoratori marginali, caratterizzati da bassi livelli di istruzione e che sono più deboli sul mercato del lavoro: tale tipo di contratto ha infatti un’incidenza più elevata presso i lavoratori con i titoli di studio superiori (laurea o postlaurea). Quasi un quinto degli occupati con un titolo post-laurea è infatti temporaneo: in parte tale risultato può essere spiegato con l’incremento delle posizioni lavorative temporanee registrato negli ultimi anni dal comparto dell’Università e degli Enti di Ricerca. Può essere un segnale di difficoltà di valorizzazione del capitale umano oppure, al contrario, di carenza dell’offerta formativa. In ogni caso, l’occupazione temporanea ha dato un contributo non trascurabile, pari ad un punto percentuale, alla crescita dell’occupazione totale osservata nel 2006 (1.9 per cento). Più di metà dell’incremento occupazionale del 2006 è stata così realizzata da forme contrattuali non-standard.
121
122 14 693
238 3 894 186 3 708 1 032 9 528 1 738 534 924 587 1 130 1 299 2 426 891
SETTORE DI ATTIVITA' Agricoltura, caccia e pesca Industria in senso stretto Industria dell energia, estrazione materiali energetici Industria della trasformazione Industria delle costruzioni Altre attività Commercio Alberghi e ristoranti Trasporti e comunicazioni Intermediazione monetaria e finanziaria, attività immobiliari Servizi alle imprese e altre attività professionali e imprenditoriali Pubblica amministrazione, difesa, assicurazioni sociali obbligatorie Istruzione, sanità ed altri servizi sociali Altri servizi pubblici, sociali e alle persone
Permanenti
Totale
(migliaia di unità)
237 374 13 361 156 1 455 259 188 92 40 170 129 426 152
2 222
A termine
9 58 1 57 12 418 47 13 20 18 124 28 98 70
Collaboratori e prestatori d'opera(*) 497
246 432 14 417 168 1 874 306 201 111 58 294 157 523 223
2 719
Temporanei
498 701 4 696 700 3 678 1 478 379 189 165 875 0 218 374
5 577
Autonomi
Totale
982 5 026 205 4 822 1 900 15 080 3 522 1 114 1 224 810 2 299 1 456 3 167 1 488
22 988
OCCUPATI PER CARATTERE DELL'OCCUPAZIONE, SETTORE DI ATTIVITA', RIPARTIZIONE GEOGRAFICA, SESSO, CLASSE CLASSE DI ETA' E TITOLO DI STUDIO - 2006
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
8 629 6 064
2 4 4 3
SESSO Maschi Femmine
CLASSE DI ETA' 15-29 anni 30-39 anni 40-49 anni 50 anni e più
953 628 423 217
1 088 1 134
920 491 429 447 855
A termine
174 159 79 85
212 285
257 160 97 134 106
Collaboratori e prestatori d'opera(*)
1 127 787 502 302
1 300 1 419
1 177 651 526 581 961
Temporanei
560 1 639 1 665 1 713
4 010 1 566
2 809 1 583 1 226 1 135 1 633
Autonomi
3 7 6 5
985 097 686 219
13 939 9 049
11 802 6 817 4 986 4 669 6 516
Totale
TITOLO DI STUDIO Obbligo 5 688 880 97 977 2 573 9 238 Superiori 6 911 959 228 1 187 2 132 10 230 Laurea 1 982 362 157 519 820 3 320 Post-laurea 112 22 13 36 52 200 (*) L'aggregato comprende i lavoratori dipendenti con contratto a termine, i lavoratori autonomi con contratto di collaborazione o di prestazione occasionale Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
298 671 519 204
7 817 4 583 3 234 2 954 3 922
Permanenti
RIPARTIZIONE GEOGRAFICA Nord Nord-ovest Nord-est Centro Mezzogiorno
(migliaia di unità)
OCCUPATI PER CARATTERE DELL'OCCUPAZIONE, SETTORE DI ATTIVITA', RIPARTIZIONE GEOGRAFICA, SESSO, CLASSE CLASSE DI ETA' E TITOLO DI STUDIO - 2006 - Segue
Capitolo 2. L’occupazione
123
124 63.9
9.7
2.2
Permanenti A termine Collaboratori e prestatori d'opera(*)
11.8
Temporanei
SETTORE DI ATTIVITA' Agricoltura, caccia e pesca 24.3 24.1 0.9 25.0 Industria in senso stretto 77.5 7.4 1.2 8.6 Industria dell energia, estrazione materiali energetici 91.0 6.2 0.7 6.9 Industria della trasformazione 76.9 7.5 1.2 8.7 Industria delle costruzioni 54.3 8.2 0.6 8.8 Altre attività 63.2 9.6 2.8 12.4 Commercio 49.4 7.4 1.3 8.7 Alberghi e ristoranti 47.9 16.9 1.2 18.1 Trasporti e comunicazioni 75.5 7.5 1.6 9.1 Intermediazione monetaria e finanziaria, attività immobiliari 72.5 4.9 2.3 7.2 Servizi alle imprese e altre attività professionali e imprenditoriali 49.1 7.4 5.4 12.8 Pubblica amministrazione, difesa, assicurazioni sociali obbligatorie 89.2 8.8 2.0 10.8 Istruzione, sanità ed altri servizi sociali 76.6 13.4 3.1 16.5 Altri servizi pubblici, sociali e alle persone 59.9 10.2 4.7 15.0 (*) L'aggregato comprende i lavoratori dipendenti con contratto a termine, i lavoratori autonomi con contratto di collaborazione o di prestazione occasionale
Totale
(valori percentuali)
50.7 13.9 2.1 14.4 36.8 24.4 42.0 34.0 15.5 20.3 38.1 0.0 6.9 25.2
24.3
Autonomi
OCCUPATI PER CARATTERE DELL'OCCUPAZIONE, SETTORE DI ATTIVITA', RIPARTIZIONE GEOGRAFICA, SESSO, CLASSE DI ETA' E TITOLO DI STUDIO - 2006
100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0
100.0
Totale
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
61.9 67.0
57.7 65.8 67.6 61.4
SESSO Maschi Femmine
CLASSE DI ETA' 15-29 anni 30-39 anni 40-49 anni 50 anni e più 23.9 8.9 6.3 4.2
7.8 12.5
7.8 7.2 8.6 9.6 13.1
A termine
4.4 2.2 1.2 1.6
1.5 3.1
2.2 2.3 2.0 2.9 1.6
Collaboratori e prestatori d'opera(*)
28.3 11.1 7.5 5.8
9.3 15.7
10.0 9.6 10.5 12.4 14.7
Temporanei
TITOLO DI STUDIO Obbligo 61.6 9.5 1.1 10.6 Superiori 67.6 9.4 2.2 11.6 Laurea 59.7 10.9 4.7 15.6 Post-laurea 56.0 11.2 6.8 17.9 (*) L'aggregato comprende i lavoratori dipendenti con contratto a termine, i lavoratori autonomi con contratto di collaborazione o di prestazione occasionale Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
66.2 67.2 64.9 63.3 60.2
Permanenti
RIPARTIZIONE GEOGRAFICA Nord Nord-ovest Nord-est Centro Mezzogiorno
(valori percentuali)
27.8 20.8 24.7 26.0
14.0 23.1 24.9 32.8
28.8 17.3
23.8 23.2 24.6 24.3 25.1
Autonomi
OCCUPATI PER CARATTERE DELL'OCCUPAZIONE, SETTORE DI ATTIVITA', RIPARTIZIONE GEOGRAFICA, SESSO, CLASSE DI ETA' E TITOLO DI STUDIO - 2006
100.0 100.0 100.0 100.0
100.0 100.0 100.0 100.0
100.0 100.0
100.0 100.0 100.0 100.0 100.0
Totale
Capitolo 2. L’occupazione
125
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 2.5 - Le dimensioni del lavoro atipico La tendenza alla deregolamentazione del mercato del lavoro, emersa in molti paesi europei nel corso degli anni novanta come reazione alla persistenza di tassi di disoccupazione elevati, ha interessato anche l’Italia. Nel nostro paese il processo di deregolamentazione è stato parziale e con forme selettive: ha riguardato in particolare l’accesso al mercato del lavoro, introducendo nuove figure contrattuali caratterizzate da minori protezioni normative e coperture da parte del sistema di welfare. Questo per contenere il costo di tali forme contrattuali nuove, facilitando l’accesso al mercato del lavoro per quei lavoratori marginali (giovani e donne principalmente), caratterizzati da elevati tassi di esclusione. Le
forme
contrattuali
standard,
invece,
hanno
mantenuto
sostanzialmente inalterata la propria regolazione. C’è un crescente interesse nel determinare le dimensioni del lavoro atipico in Italia (sia in termini assoluti che rispetto ad altri paesi europei) e nel misurarne la distribuzione tra fasce diverse di popolazione attiva. La quantificazione del fenomeno del lavoro atipico dipende ovviamente dalla definizione che si sceglie per lo stesso. Eurostat opta per una definizione diretta e definisce come temporanei quegli impieghi che hanno una durata contrattualmente determinata (una data o il completamento di un incarico assegnato), restringendo l’analisi alla sola occupazione dipendente. Sulla base di tale definizione, gli occupati temporanei in Italia (pari a poco più di 2 milioni nel 2005) pesavano sul totale dei dipendenti per il 12.3 per cento; la quota sui dipendenti risultava così ad un livello più che doppio di quello registrato ad inizio degli anni novanta. Come si può vedere nel grafico allegato il nostro paese è quello che tra il 1990 ed il 2005 ha registrato l’incremento più marcato dell’incidenza dei lavori temporanei sull’occupazione dipendente. In termini di livelli, però, l’Italia presenta ancora incidenze del lavoro a termine (come definito da Eurostat) non molto diverse, pur lievemente più basse, da quelle della media dell’area euro. Francia e Germania si attestavano, rispettivamente, al 14.3 e 13.3 per cento nel 2005. La Spagna costituisce invece un caso degno di nota: nel 2005 un lavoratore dipendente su tre aveva un contratto temporaneo. L’elevata incidenza del lavoro temporaneo è il risultato di scelte precise di policy: per recuperare sul gap di sviluppo con la media europea, l’economia spagnola ha puntato soprattutto sulla crescita dell’occupazione, utilizzando forme contrattuali a termine e liberalizzando il mercato del lavoro. Un’altra maniera di definire il lavoro atipico è quella residuale, per negazione: rientrano nel lavoro atipico tutte quelle forme di impiego differenti dal tradizionale rapporto di lavoro (dipendente, a tempo pieno ed indeterminato). Con tale definizione, però, in Italia la quota di lavoratori “atipici” risulta elevata anche in periodi precedenti alla
126
Capitolo 2. L’occupazione
deregolamentazione degli anni novanta . Infatti, non solo nel nostro paese è tradizionalmente più elevata la quota di occupazione indipendente (rispetto ad altri paesi europei), ma anche nell’organizzazione dei tempi di lavoro sono pochi i lavoratori che svolgono prestazioni lavorative con orari tradizionali. Si preferisce quindi definire come “atipici” quegli impieghi che offrono garanzie limitate, in termini di accesso alla copertura previdenziale, di ammortizzatori sociali, di durata del rapporto lavorativo. Sono quindi lavoratori atipici i dipendenti a tempo determinato, gli interinali, i lavoratori con contratti a chiamata, ma anche i lavoratori parasubordinati (i co.co.co). Istat diffonde dati sui lavoratori dipendenti temporanei, che includono non solo i lavoratori con contratti a tempo determinato, ma anche gli interinali, i lavoratori a chiamata, quelli con contratti di formazione lavoro, di stage, di inserimento lavoro, di tirocinio. Nel 2006, i lavoratori dipendenti temporanei sono stati 2.2 milioni. A questi vanno sommati i lavoratori parasubordinati: i cosiddetti co.co. co, ma anche i prestatori d’opera occasionale e i lavoratori autonomi con partite Iva ma in condizione di subordinazione. L’Istat, nella sua rilevazione, registra il numero di persone che al momento dell’indagine sono impiegate come collaboratori; nel 2006 il numero di collaboratori e prestatori d’opera rilevati dall’Istat è di circa 500mila persone (497mila).
Il lavoro temporaneo in Europa Area euro
Germania
Spagna
Francia
Italia
UK
40 35 30 25 20 15 10 5 0 1990
1995
2000
2001
2002
2003
2004
2005
Incidenza % sul totale occupati dipendenti (15-64 anni) Fonte: Eurostat
Stime di Barbieri e Scherer indicano che già nel 1970 circa il 40 per cento degli occupati era non standard (o “atipico” secondo tale definizione).
127
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Lo stesso numero era stato rilevato per il 2004, anno per il quale sono disponibili anche le informazioni fornite dall’Inps sul numero di collaboratori iscritti alla Gestione separata: nel 2004 i collaboratori per i quali erano ravvisabili indizi di parasubordinazione, ovvero con un un’unica committenza, che svolgevano l’attività di collaborazione a titolo esclusivo e la cui attività era attività “atipica”, ovvero non citata nel Tuir , erano circa 750mila. Nella banca dati Inps sono però registrati tutti coloro che nell’anno hanno contribuito alla Gestione separata, e quindi tende a sovrastimare il numero di collaboratori (dato che chi cambia status nel corso dell’anno, evenienza rilevata dall’Inps, lascerà una traccia negli archivi Inps, andando ad ingrossare le fila dei collaboratori). Sommando a dati Istat sui temporanei (dipendenti a termine, collaboratori e prestatori d’opera) le stime della rilevazione Plus dell’Isfol per i lavoratori con partita Iva in condizione di subordinazione (circa 360mila), si ottiene che il lavoro atipico, come sopra definito, accomuna nel 2006 poco più di 3 milioni degli occupati, il 13.3 per cento dell’occupazione totale.
Il lavoro temporaneo giovanile in Europa Area euro
Germania
Spagna
2002
2003
Francia
Italia
70.0 60.0 50.0 40.0 30.0 20.0 10.0 0.0 2000
2001
2004
2005
Incidenza % sul totale occupati (15-24 anni) Fonte: Eurostat
Testo Unico delle imposte sui redditi. Cita le seguenti attività (considerate quindi “tipiche”): amministratore, sindaco, revisore di società, collaborazione ai giornale, partecipazione a collegi e commissioni.
128
Capitolo 2. L’occupazione
Lavoro atipico: più diffuso tra i giovani ma non più che nel resto d’Europa I dati Eurostat evidenziano come anche in Italia l’impiego temporaneo sia particolarmente diffuso tra i più giovani: nella classe 15-24 anni quasi un occupato su tre è classificabile come dipendente temporaneo e l’incidenza è cresciuta molto nel biennio 2004-2005 (aumentando di oltre dieci punti percentuali). Ciononostante, nel nostro paese il livello dell’incidenza dell’impiego dipendente temporaneo sull’occupazione giovanile è ancora contenuto se confrontato con gli altri principali paesi dell’area euro (in Germania è poco sopra al 56 per cento, in Francia al 48 e in Spagna supera il 60 per cento). Per quanto riguarda le coorti successive (quelle comprese tra i 25 ed i 39 anni), nel nostro paese la situazione non appare dai dati Eurostat peggiore di quella di altri paesi. L’incidenza dell’occupazione temporanea rimane attorno al 10 per cento, un livello non distante da quello che si registra in Germania e Francia e pari ad un terzo al caso particolare spagnolo.
Il lavoro temporaneo per i meno giovani in Europa Area euro
Germania
Spagna
Francia
Italia
35.0 30.0 25.0 20.0 15.0 10.0 5.0 0.0 2000
2001
2002
2003
2004
2005
Incidenza % sul totale occupati (25-39 anni) Fonte Eurostat
La quantificazione del lavoro atipico in Italia anno 2006 - v.a. (migliaia) Occupati dipendenti a termine* Collaboratori coordinati e continuativi* Prestatori d'opera occasionali* Autonomi con partita IVA**
2222 404 93 365
Occupati atipici
3084
129
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Continua a crescere l’occupazione straniera
Secondo le rilevazioni dell’indagine sulle forze di lavoro, gli occupati di origine straniera hanno raggiunto nel quarto trimestre del 2006 un livello di a circa un milione e 400mila. In media d’anno sono aumentati del 15.3 per cento rispetto al 2005. Gli occupati stranieri sono composti in prevalenza da uomini, con un’incidenza del 62 per cento rispetto al totale. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, il mercato del lavoro del Nord è quello che impiega il maggior numero di immigrati, pari a 864 mila, che rappresentano il 64 per cento dei lavoratori stranieri. Il Nord è allo stesso tempo la circoscrizione che occupa il maggior numero di lavoratori stranieri di sesso maschile (554mila persone), pari al 66 per cento del totale. Lo stesso vale anche la componente femminile presente in quest’area che, sebbene conti per il 36 per cento dei lavoratori del Nord, rappresenta il 61 per cento delle occupate totali. La restante parte dei lavoratori immigrati è distribuita per il 24 per cento al Centro e per l’11 per cento al Sud. La componente maschile risulta sempre quella prevalente tra gli occupati, anche se l’incidenza risulta inferiore rispetto a quella che caratterizza il Nord, ed è pari al 58 per cento. Per quanto riguarda le provenienze, come osserva l’Istat , circa il 90 per cento dei lavoratori stranieri ha cittadinanza extracomunitaria e la distribuzione per provenienza tende naturalmente a riflettere quella osservata nel precedente capitolo per la popolazione straniera. Si tratta infatti in prevalenza di rumeni e albanesi, che lavorano per lo più al Centro-Nord. La composizione per genere varia invece in relazione al paese di provenienza. Le donne rappresentano la maggioranza dell’occupazione proveniente dai nuovi paesi dell’Unione Europea. Prevalente è l’occupazione maschile tra albanesi e rumeni e tra gli africani, mentre quella di ucraini, filippini e sudamericani è costituita in maggioranza da donne. Il tasso di occupazione complessivo della popolazione straniera è stato nel 2006 pari al 66.1 per cento, con un divario consistente tra uomini e donne. Per la popolazione di sesso maschile il tasso di occupazione è infatti pari all’83 per cento, un tasso molto elevato, e per quella femminile è pari al 49.8 per cento.
130
Istat, Rapporto annuale 2006
Capitolo 2. L’occupazione
Al Nord il tasso di occupazione è più elevato rispetto alla media nazionale e pari al 67.4 per cento. Tale dato riflette un tasso dell’84.2 per cento per gli uomini e del 50 per cento per le donne. Il quadro per quanto riguarda le situazione del Centro non è molto dissimile, mentre al Sud i tassi di occupazione sono inferiori: quello degli occupati complessivamente è di poco inferiore al 60 per cento con una distinzione al 74.9 per cento per gli uomini e al 46.2 per cento delle donne. Con riferimento al titolo di studio, la maggior parte degli stranieri presenti sul territorio nel 2006 sono in possesso di un diploma (circa il 40 per cento) o della licenza media (35 per cento). Mentre coloro che hanno una laurea sono una frazione inferiore, circa il 12 per cento e coloro che sono in possesso della licenza elementare e di nessun titolo di studio sono il 13 per cento. Al Nord tende ad essere superiore rispetto alla media nazionale l’incidenza dei titoli di studio più elevati, viceversa al Sud è più elevata l’incidenza di immigrati con licenza di scuola media e elementare o senza titolo di studio. Il quadro finora emerso è in linea con le caratteristiche che negli ultimi anni hanno qualificato le tendenze dei flussi migratori in Italia. Il nostro paese si è infatti contraddistinto per un’immigrazione guidata in prevalenza da motivi di lavoro, il che si riflette nel fatto che gli stranieri si trovino nelle aree del paese dove la domanda di lavoro è maggiore e dove il tasso di disoccupazione complessivo è inferiore. La domanda di lavoro più sostenuta attrae i lavoratori con i titoli di studio più elevati e potenzialmente più qualificati anche se poi, come si vedrà, essi sono occupati in settori dove il livello della qualifica è piuttosto basso. Per quanto riguarda i settori di attività, circa il 4 per cento degli stranieri è occupato in agricoltura, con una prevalenza di uomini, circa l’80 per cento. Il 41 per cento dei lavoratori stranieri nel 2006 sono addetti nell’industria, suddivisi in un 24 per cento nell’industria in senso stretto e in un 17 per cento nelle costruzioni. Nelle costruzioni, praticamente il 100 per cento degli occupati è di sesso maschile ed è concentrato per il 62 per cento al Nord. Per l’industria, l’incidenza degli uomini si abbassa all’80 per cento.
131
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Lâ&#x20AC;&#x2122;80 per cento degli immigrati che lavorano nellâ&#x20AC;&#x2122;industria si trova al Nord. Infine, nei servizi sono occupati il 55.2 per cento degli stranieri, in prevalenza donne (circa il 57 per cento degli occupati), concentrate in prevalenza al Nord (per il 59 per cento). Sebbene inferiore a quella delle donne, anche la presenza degli uomini nel settore dei servizi è superiore al Nord.
Occupati stranieri per sesso e settore - 2006 Agricoltura
Totale industria
Totale servizi
800 700 600 500 400 300 200 100 0 Maschi
Femmine
Totale
Occupati stranieri per sesso e circoscrizione 2006 Maschi
Femmine
Totale
1430 1230 1030 830 630 430 230 30 Nord
132
Centro
Sud
Italia
Capitolo 2. L’occupazione
Come rileva l’Istat , la presenza straniera rimane marginale in alcuni settori, come informatica, ricerca e sviluppo, servizi alle imprese, dove vi è un prevalenza di lavoratori italiani, ed è invece molto estesa in altri comparti dove gli italiani sono poco presenti. Ciò emerge in particolare nei servizi alle famiglie, con la collaborazione domestica e l’assistenza agli anziani dove sono occupati il 34 per cento degli stranieri che operano nel terziario, con una fortissima presenza femminile. Le quote rimanenti sono impiegate nel settore del commercio e degli alberghi e ristoranti. In relazione alle qualifiche, circa un terzo degli stranieri occupati è artigiano, operaio specializzato o agricoltore e per il 29 per cento è non specializzato. Il 13 per cento di essi si occupa di conduzione di impianti, mentre in percentuali marginali sono dirigenti i titolari di impresa, si occupano di professioni intellettuali o tecniche o sono impiegati.
Istat, Rapporto annuale 2006
133
Capitolo 3. La disoccupazione
Capitolo 3 - La disoccupazione 3.1 In sintesi Anche nel 2006 il tasso di disoccupazione italiano si è ridotto, portandosi sui minimi dai primi anni ottanta. La discesa della disoccupazione, in corso oramai da diversi anni, si conferma un fatto di natura strutturale. La caduta del tasso di disoccupazione rappresenta dal punto di vista puramente algebrico l’esito di un insieme di fattori che hanno caratterizzato l’offerta e la domanda di lavoro, e di cui ci siamo già occupati nei due precedenti capitoli. Vi sono però alcuni aspetti relativi alla caduta della disoccupazione che di per sé costituiscono una evidenza sulla quale vale la pena di costruire alcune riflessioni. Dei diversi aspetti, due sono oggetto di discussione nei Riquadri allegati. Nel Riquadro 3.1 si mette in luce come l’evoluzione della disoccupazione italiana presenti elementi di peculiarità nel confronto internazionale. Tali elementi acquisiscono particolare valore una volta considerata la particolare congiunzione rappresentata da una fase di stagnazione economica con disoccupazione in flessione. Nel Riquadro 3.3 si pone invece in evidenza come della caduta della disoccupazione non vi sia piena evidenza nelle indagini congiunturali presso le famiglie. I timori di disoccupazione delle famiglie italiane si sono in effetti ridotti negli ultimi anni, ma non quanto sarebbe stato giustificato dall’intensità della caduta del tasso di disoccupazione. Tra i diversi elementi che possono contribuire a spiegare tale andamento c’è anche la crescente diffusione di nuove forme contrattuali, che tende a generare una percezione di insicurezza del posto di lavoro per cui i timori di disoccupazione non rientrano rapidamente quando invece la disoccupazione reale scende. La riduzione della disoccupazione registrata nel 2006 è stata tale da intaccare anche lo stock di disoccupati di lunga durata, anche nel Sud dove questi rappresentano uno zoccolo duro della disoccupazione totale. A livello territoriale, si è osservata una flessione che ha interessato anche quelle aree più toccate da livelli elevati di disoccupazione; ma i fattori all’origine del calo generalizzato del numero di disoccupati sono differenziati territorialmente. Nelle regioni del Nord, come anche del Centro, si è concentrata la crescita della domanda di lavoro: la vivacità dell’incremento del numero di occupati è stata tale da più che assorbire
135
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
gli aumenti nell’offerta. Occorre invece sottolineare che la diminuzione nel numero di persone in cerca di occupazione nelle regioni meridionali è legata prevalentemente ad una sostanziale stagnazione dell’offerta di lavoro. È bastato un incremento di entità contenuta (rispetto a quelli registrati nelle altre aree del paese) dell’occupazione nel Sud per generare, data la flessione dell’offerta di lavoro, una riduzione dello stock di disoccupati. In parte, però, alcuni disoccupati sono passati tra gli inattivi: questo fenomeno sembra aver interessato in particolare le donne. Parte della stagnazione dell’offerta di lavoro nel Sud è anche riconducibile alla presenza di flussi migratori interni al paese. I differenziali di genere si sono ridotti solo marginalmente: le donne risultano ancora sovrarappresentate (rispetto al loro peso sulle forze lavoro) tra i disoccupati e i loro tassi di disoccupazione restano ancora più alti rispetto a quelli maschili. Si riduce la disoccupazione giovanile, in parte a causa delle contrazioni demografiche in atto, in parte grazie ad evoluzioni più favorevoli della domanda di lavoro.
3.2 La disoccupazione nel 2006 La discesa della disoccupazione nel 2006
Alla luce delle tendenze riepilogate nei due precedenti capitoli, si coglie come il 2006 sia stato un anno caratterizzato da una forte accelerazione della domanda di lavoro non assecondata da una altrettanto rapida ripresa dell’offerta. Pertanto, la dinamica degli occupati ha decisamente sopravanzato quella delle forze di lavoro e questo ha portato ad una caduta dello stock di disoccupati. Secondo l’indagine Istat sulle forze di lavoro, nella media dell’anno si è registrata una flessione dello stock di disoccupati pari a 215 mila, che corrisponde ad una diminuzione dell’11.4 per cento. La contrazione in termini assoluti risulta seconda soltanto a quella osservata nel 2001, quando lo stock registrò un decremento di 224mila disoccupati. La variazione percentuale è invece la più intensa visto che la menzionata variazione assoluta si applica ad uno stock di disoccupati più basso. La contrazione del 2006 ha portato il numero di disoccupati in Italia a un milione e 673mila. In Italia vi è un milione di disoccupati in meno rispetto al precedente massimo di 2milioni e 630mila toccato nel 1998. Il dato del 2006 è anche interessante perché ha scalfito lo stock di
136
Capitolo 3. La disoccupazione
disoccupati di lunga durata. In Italia i disoccupati da oltre dodici mesi sono quasi il 50 per cento del totale. Se nel 2005 però la flessione della disoccupazione aveva interessato in misura maggiore i disoccupati di breve termine (-4.7 per cento) rispetto a quelli di lunga durata (-2.5 per cento), nel 2006 la flessione è risultata di intensità analoga nei due gruppi (11.7 contro 11.1 per cento). L’andamento
della
disoccupazione
può
essere
ulteriormente
qualificato distinguendo i disoccupati fra coloro che hanno già avuto precedenti esperienze professionali e quanti sono alla ricerca di primo impiego. In generale, la flessione dello stock di disoccupati ha inciso in misura maggiore sullo stock dei disoccupati in senso stretto, che hanno registrato una flessione pari al 12 per cento, che segue la contrazione del 5.5 per cento osservata l’anno precedente. I disoccupati senza precedenti esperienze lavorative hanno invece registrato una diminuzione del 10.5 per cento che segue alla stabilità osservata nel corso dell’anno precedente. Le informazioni riferite alle due caratteristiche sopra menzionante, sono incrociate nella tabella allegata. Come si osserva dalla parte in basso della tavola allegata, fra il 2004 e il 2006 la struttura della disoccupazione italiana si è modificata soprattutto perché si è contratta la quota dei disoccupati di breve periodo con precedenti esperienze lavorative, il che ci segnala come la ripresa della domanda di lavoro abbia interessato in misura più intensa coloro che avevano già delle esperienze professionali e non avevano alle spalle un lungo periodo di disoccupazione. Notiamo subito anche come la categoria del disoccupato classico, qui individuata nel disoccupato da oltre dodici mesi con precedenti esperienze professionali, abbia registrato una contrazione molto marcata dello stock, con una flessione del 12 per cento nel 2006, che fa seguito alla diminuzione del 3.7 per cento osservata nel corso dell’anno precedente. Infine, la ripresa della domanda di lavoro ha interessato anche la parte più marginale del mercato, rappresentata dai disoccupati di lungo periodo senza esperienze precedenti. In ogni caso per questo segmento i guadagni sono stati più contenuti, tant’è che la relativa quota sul totale dei disoccupati è aumentata di un punto pieno. La contrazione del numero di disoccupati ha anche comportato
137
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
una flessione di quasi un punto pieno nel tasso di disoccupazione, sceso al 6.8 per cento nella media del 2006 dal 7.7 per cento dell’anno precedente. Il profilo della disoccupazione in corso d’anno è stato caratterizzato da una costante discesa. Difatti, guardando ai dati destagionalizzati, tutti e quattro i trimestri hanno presentato delle contrazioni nella disoccupazione. Il profilo decrescente osservato in corso d’anno ha quindi portato a concludere il 2006 con un valore destagionalizzato del tasso di disoccupazione del 6.5 per cento, inferiore al dato medio annuo. Data anche la positiva intonazione congiunturale osservata nella prima parte dell’anno in corso, ne risulta che è altamente probabile una nuova flessione del tasso di disoccupazione italiano anche nel 2007.
CARATTERISTICHE DELLA DISOCCUPAZIONE IN ITALIA livelli
ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 551 775 384 250 935
1 025
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 466 640 344 223 811
863
Totale 1 326 635 1 960
Totale 1 106 567 1 673
Composizione % ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
138
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 28.1 39.5 19.6 12.8 47.7
52.3
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 27.9 38.2 20.6 13.3 48.4
51.6
Totale 67.6 32.4 100.0
Totale 66.1 33.9 100.0
Capitolo 3. La disoccupazione
Cercando di collocare il risultato del 2006 in una prospettiva di medio termine, si coglie innanzitutto come la flessione della disoccupazione sperimentata lo scorso anno risulti soltanto l’ultima di una lunga serie di risultati positivi che hanno portato il tasso di disoccupazione italiano a ridursi per otto anni consecutivi rispetto al punto di massimo, pari all’11.3 per cento, toccato nel biennio 1997-98. Per ritrovare in Italia un tasso di disoccupazione così basso occorre ritornare al 1982. L’andamento, illustrato nel grafico allegato, risulta di estremo interesse in quanto, come già segnalato nel precedente capitolo, l’incremento della domanda di lavoro si è verificato durante una fase non favorevole dal punto di vista congiunturale. Va considerato anche che la riduzione della disoccupazione non ha dato luogo a importanti spinte salariali. Si comprende, pertanto, come vi sia un certo consenso sulla tesi secondo la quale l’abbassamento della disoccupazione occorso negli ultimi anni rappresenta un fatto di natura strutturale legato alle modifiche del ramo dell’offerta avvenute a partire dalla riforme succedutesi dalla metà degli anni novanta e nuovamente all’inizio del nuovo decennio. Si coglie l’importanza dei fenomeni in atto considerando che è la prima volta che nella recente storia d’Italia si osserva un significativo abbassamento dei livelli della disoccupazione. Si tratta di una svolta importante innanzitutto sul piano sociale, anche se in questa sede ci limiteremo ad analizzarne le implicazioni di natura economica.
Italia - Tasso di disoccupazione 12 10 8 6 4 2 0 1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
In % delle forze di lavoro. Fonte: elaborazioni REF su dati Istat e Ocse
139
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 3.1 – L’andamento della disoccupazione nei maggiori paesi industrializzati e la posizione relativa dell’Italia La fase ciclica espansiva che stiamo attraversando sta decretando la fine del fenomeno una volta noto come “isteresi della disoccupazione europea”, espressione con la quale ci si riferiva ad un fatto stilizzato peculiare dei cicli economici verificatisi dai primi anni settanta sino agli anni novanta: in particolare ci si riferiva all’inerzia del tasso di disoccupazione nelle fasi di ripresa economica per cui l’abbassamento della disoccupazione nella fase di espansione del ciclo non era sufficiente a compensare l’incremento intervenuto nel corso della fase di recessione. La lettura di tale andamento era sviluppata secondo diverse classi di modelli accomunati dall’idea che fattori istituzionali avessero ridimensionato l’effetto delle variazioni della disoccupazione sulla dinamica dei salari. Si era quindi assistito ad un generalizzato incremento del Nairu, il valore cioè della disoccupazione al quale si presume corrisponda una stabilizzazione della dinamica salariale. Naturalmente, essendo il Nairu legato ai fattori di contesto, soprattutto istituzionali, che ne determinano il valore, esso può variare nel tempo. Questo ne limita in parte il significato dal punto di vista dell’utilizzo ai fini di policy, ma ne sostanzia certamente la valenza ai fini interpretativi. In effetti, uno degli elementi più interessanti delle tendenze degli ultimi anni è che la disoccupazione si sta riducendo, esibendo un comportamento nel corso del ciclo che va in direzione opposta a quella della tesi dell’isteresi. Difatti, la disoccupazione non solo non è aumentata nel corso della fase di debolezza del ciclo, ma è già scesa al di sotto dei minimi toccati alla fine della fase di espansione del precedente ciclo degli anni novanta. In corrispondenza di ciò, si presume si stia verificando un abbassamento del Nairu. Tale ipotesi vale non solo per l’Italia, ma anche per diversi altri paesi europei. E’ ragionevole attribuire tale risultato ai cambiamenti di tipo istituzionale intervenuti in molti paesi, ma non va anche trascurato il peso che può avere avuto l’avvio dell’euro, che ha certamente modificato i meccanismi di formazione delle aspettative d’inflazione, e contribuito a generare condizioni di generalizzata moderazione salariale. Questo aspetto è certamente molto importante in relazione La difficoltà nella quantificazione ex-ante del livello del Nairu nelle fasi di cambiamento strutturale fa sì che esso in alcune fasi storiche non si presti ad essere utilizzato agevolmente al fine di anticipare i cambiamenti di intonazione nelle dinamiche salariali. Questo ne limita l’utilizzo ai fini della conduzione della politica monetaria. Non è un caso che le regole di politica monetaria del tipo della regola di Taylor siano basate sul concetto di output gap, legato direttamente da un punto di vista teorico a quello di deviazione della disoccupazione dal Nairu, ma caratterizzato da problemi di misura comunque inferiori.
140
Capitolo 3. La disoccupazione
alle prospettive economiche dei prossimi anni. La flessione della disoccupazione europea ha avuto inizio dai primi mesi del 2005. Ove segnali di accelerazione salariale dovessero sovrapporsi a questa riduzione della disoccupazione, si creerebbero condizioni tali da innescare la reazione delle autorità di politica monetaria europee. Nel corso degli ultimi trimestri però, l’abbassamento della disoccupazione europea non sembra essersi accompagnato a significative tensioni dal lato dei salari. Allo scopo di sintetizzare le tendenze in corso, può essere utile uno sguardo ai dati riportati nella tavola allegata che illustra i tassi di disoccupazione nei maggiori paesi Ocse. La misura è quella del “tasso di disoccupazione standardizzato” attraverso la quale l’Ocse cerca di omogeneizzare le definizioni di disoccupato dei diversi paesi e questo spiega le eventuali differenze rispetto ai dati nazionali, anche per l’Italia. La riclassificazione Ocse risulta comunque utile in quanto agevola la comparazione del livello della disoccupazione nei diversi paesi. Gli stessi dati della tavola sono poi stati utilizzati per fornire la rappresentazione del grafico, dove si confrontano i livelli del tasso di disoccupazione nel 1995 e nel 2006, escludendo i quattro paesi per i quali manca il dato al 1995. Il confronto è fra due date abbastanza distanti per potere cogliere un cambiamento di natura strutturale. Si tratta però di un confronto influenzato dalla periodizzazione scelta che può risentire di fattori ciclici. In genere, comunque, nel periodo
TASSO DI DISOCCUPAZIONE Valore standardizzato Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Irlanda Corea Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera Fonte: elaborazioni REF su dati Ocse
1985 7.0 2.8 9.7 8.5 11.2 10.2 7.8 10.0 5.6 5.8 17.0 7.8 9.3 17.8 2.8 -
1995 5.6 3.4 8.2 11.3 11.1 8.2 9.4 7.9 4.2 9.9 6.7 15.5 12.1 2.0 6.3 6.2 5.1 7.3 18.1 9.1 3.5
2000 3.9 4.8 7.2 8.6 9.7 5.0 6.8 6.3 3.4 6.7 8.3 4.1 9.4 10.7 6.1 3.9 4.3 2.7 5.6 3.6 16.6 3.9 10.6 5.0 2.5
2006 4.5 4.1 7.8 9.0 6.5 5.4 6.1 4.6 4.5 7.7 6.5 3.5 7.3 8.6 7.8 4.3 3.3 3.6 3.7 2.8 12.2 7.9 8.4 6.6 4.0
141
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Tasso di disoccupazione nei paesi Ocse 20.0 18.0 16.0
2006
14.0 12.0 10.0 8.0 6.0 4.0 2.0 0.0 0.0
5.0
10.0
15.0
20.0
1995 Fonte: elaborazioni su dati Ocse
considerato la maggior parte delle economie hanno condiviso la fase espansiva del ciclo della seconda parte degli anni novanta, e la fase recessiva verificatasi all’inizio del nuovo decennio. Diverso invece il timing dell’ultima ripresa: alcuni paesi nel 2006 erano ancora nelle fasi iniziali, mentre altri si situavano già in una fase avanzata del ciclo economico. A partire dai dati riportati nella tabella, e sulla base degli andamenti messi in luce nel grafico, possiamo mettere in luce i seguenti aspetti. Generalizzata
riduzione
della
disoccupazione
nel
corso
dell’ultimo decennio Una prima evidenza è rappresentata dal fatto che nel corso dell’ultimo decennio quasi tutti i paesi hanno diminuito il tasso di disoccupazione. Difatti nel grafico la maggior parte dei paesi si colloca su un punto al di sotto della bisettrice, e questo implica un tasso di disoccupazione nel 2006 inferiore a quello del 1995. I paesi che si collocano al di sopra della bisettrice sono pochissimi e per lo più caratterizzati da tassi di disoccupazione comunque molto bassi. La media non ponderata dei tassi di disoccupazione dei paesi inclusi nel grafico è passata dall’8.2 al 5.5 per cento. La mediana, che consente di non tenere conto di comportamenti anomali di economie posizionate nelle code della distribuzione, scende dal 7.9 al 4.6 per cento. Fra i paesi che hanno ridotto il tasso di disoccupazione drasticamente vi sono, nell’ordine, Spagna, Finlandia e Irlanda. L’Italia è il paese che, dopo questi tre, ha maggiormente ridotto il tasso di disoccupazione. Minore dispersione nei tassi di disoccupazione L’abbassamento della disoccupazione è stato più marcato nei
142
Capitolo 3. La disoccupazione
paesi a disoccupazione più elevata. Pertanto, si è decisamente ridotta l’eterogeneità nei tassi di disoccupazione. Basti pensare che nel 2006, utilizzando la misura del tasso di disoccupazione standardizzato, nessuno dei paesi inclusi nel grafico supera la soglia del 10 per cento. In una prospettiva storica si può affermare quindi che la riduzione della disoccupazione si è verificata principalmente grazie ad una convergenza dei paesi a disoccupazione elevata verso livelli più contenuti. Reattività della disoccupazione al ciclo Un altro elemento d’interesse consiste nel valutare la reattività dell’evoluzione nel corso del ciclo economico, al fine di cogliere la rottura dei meccanismi cosiddetti di isteresi. In questo caso possiamo confrontare il dato del 2000 che per la maggior parte dei paesi rappresenta il massimo del ciclo, con il 2006. Il confronto del dato medio del 2006 con il livello del 2000 mette subito in luce come in molti dei paesi esaminati la disoccupazione si sia collocata lo scorso anno su valori inferiori o analoghi a quelli toccati nel precedente punto di massimo ciclico. Non sono però pochi i paesi dove il precedente punto di minimo della disoccupazione non era stato ancora raggiunto. Tra i paesi che nel 2006 avevano un tasso di disoccupazione più alto rispetto al 2000 si annoverano alcune economie che alla fine del precedente ciclo avevano conseguito tassi di disoccupazione eccezionalmente bassi. In questo gruppo rientrano i paesi anglosassoni come il Regno Unito e gli Stati Uniti, dove il tasso di disoccupazione si era portato nel 2000 su valori eccezionalmente contenuti. In ogni caso le distanze dal valore del 2000 sono esigue anche perché in entrambi i casi la fase avversa del ciclo d’inizio decennio ha determinato un incremento del tasso di disoccupazione inferiore a quello osservato nel corso delle precedenti fasi di inversione del ciclo economico. L’espulsione di manodopera avvenuta durante la recessione è stata quindi di intensità modesta. Vi sono anche paesi dove il tasso di disoccupazione si collocava nel 2006 su valori superiori a quelli del 2000 per ragioni relative alla lentezza del processo di sviluppo degli ultimi anni. Il caso più importante è quello delle due maggiori economie dell’area dell’euro, Germania e Francia. La disoccupazione tedesca ha continuato in realtà ad aumentare sino al 2004, registrando però negli ultimi due anni una discesa molto rapida. In Francia, invece, il tasso di disoccupazione è rimasto stabile sino al 2005 e ha preso a scendere gradualmente dal 2006. Il gruppo più ampio è però rappresentato da quei paesi che hanno già condotto la disoccupazione su un valore inferiore al precedente minimo ciclico. La flessione è significativa in molti paesi dove la crescita è stata robusta. La posizione dell’Italia in questo contesto è però davvero peculiare. Difatti l’Italia è l’unico paese ad avere sperimentato una riduzione marcata del tasso di disoccupazione senza avere sperimentato una crescita elevata.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Crescita e disoccupazione La circostanza sopra evidenziata suggerisce immediatamente di confrontare la variazione della disoccupazione con il tasso di crescita mediamente sperimentato da ciascun paese negli ultimi anni. Nel grafico allegato si mette in relazione il tasso di crescita del Pil e la variazione della disoccupazione intervenuta fra il 2000 e il 2006 nello stesso gruppo di paesi Ocse cui si è già fatto riferimento nel grafico precedente. La peculiarità della posizione italiana risalta nitidamente. Difatti la maggior parte dei paesi presenta un ordinamento decrescente nella relazione fra tasso di crescita del Pil e variazione della disoccupazione intervenuta nel periodo esaminato. Nel grafico è stata anche tracciata una retta di regressione per la maggior parte dei paesi escludendo quelli che paiono deviare rispetto al comportamento medio dell’aggregato. I paesi esclusi sono quelli la cui dinamica del prodotto potenziale è decisamente disallineata dagli altri – Repubblica Ceca, Ungheria, Grecia, Irlanda e Corea. Anche l’Italia si posiziona come un outlier, ma in direzione opposta, essendo il paese che ha ridotto maggiormente il tasso di disoccupazione (meglio di noi ha fatto solo la Polonia, ma con una crescita del Pil ben superiore) pur essendo quello a minore crescita (peggio di noi ha fatto solo il Portogallo, ma con un forte incremento della disoccupazione).
Tasso di disoccupazione var ass. 2006-2000
Crescita del Pil e variazione della disoccupazione nei paesi Ocse: 2001-2006 5.0
2.5
0.0 -2.5
ITA
-5.0 0.0
1.0
2.0
3.0
4.0
5.0
6.0
Pil. Var. % medie annue 2001-2006. I pallini bianchi si riferiscono al gruppo di paesi ad alta crescita non inclusi nella stima della retta di regressione
L’equazione della retta di regressione stimata sui valori medi annui è ∆disocc = 0.6 - 0.3gdp. Risolvendola si ottiene che la crescita del Pil coerente con l’invarianza del tasso di disoccupazione è pari al 2 per cento. Ad un aumento del tasso di disoccupazione dell’1 per cento corrisponde poi una perdita di output del 3 per cento. Si noti che tale elasticità rientra nei range predetti dalla tradizionale “legge di Okun”.
144
Capitolo 3. La disoccupazione
Riquadro 3.2 - Una curva di Beveridge per l’Italia Come funziona la curva di Beveridge? Uno strumento utilizzato nell’ambito dell’analisi del mercato del lavoro è la relazione tra posti di lavoro vacanti e disoccupazione, nota come curva di Beveridge. Essa può fornire in particolare alcune indicazioni sui cambiamenti, derivanti da fattori ciclici o fattori strutturali, nel funzionamento del processo di incontro tra disoccupati e impieghi disponibili. In generale la disoccupazione e i posti vacanti sono correlati negativamente: infatti quanto più sarà elevato il numero di posti di lavoro liberi, tanto più sarà facile, per chi è in cerca di lavoro, trovare un impiego e tanto più bassa sarà la disoccupazione (e viceversa). La curva ha quindi normalmente una pendenza negativa. Da un punto di vista dinamico, i movimenti lungo la curva, nei quali le due variabili si muovono in direzioni opposte, riflettono oscillazioni cicliche dell’attività economica. Invece, uno spostamento della curva verso l’origine degli assi (o verso l’esterno) può indicare un miglioramento (peggioramento) del funzionamento del mercato del lavoro in termini di un più rapido incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Infatti, a parità di tasso di disoccupazione, un numero più basso di posti di lavoro vacanti può indicare un processo di incontro tra domanda ed offerta di lavoro più efficiente e veloce. Abbiamo provato a svolgere una descrizione del mercato del lavoro italiano dalla metà degli anni ottanta ai giorni nostri utilizzando tale strumento interpretativo. Un problema al riguardo è rappresentato dal fatto che in Italia non si dispone di statistiche riguardanti il tasso di posti disponibili sul totale della forza lavoro. L’indicatore quantitativo più idoneo è il job vacancy rate che, però, per l’Italia è disponibile solo dal 2003. In questo lavoro, come anche in quello di Destefanis e Fonseca e in quelli della BCE , abbiamo utilizzato una proxy qualitativa pari alla percentuale di imprese manifatturiere che individuano - all’interno delle inchieste condotte dall’Isae - nella scarsità di manodopera il maggiore vincolo all’espansione di capacità produttiva. Tale indicatore qualitativo è disponibile dal primo trimestre del 1986.
Destefanis S., Fonseca R. 2006
In particolare i bollettini mensili del dicembre 2002 e del gennaio 2007
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Un’interpretazione della curva di Beveridge per l’Italia: le fluttuazioni cicliche e i miglioramenti strutturali Utilizzando gli indicatori sopra descritti, si è ottenuta una curva di Beveridge per l’Italia. L’andamento dal 1987 al 1993 è in linea con le previsioni teoriche circa l’influenza dei fattori ciclici sulle due variabili considerate: si evidenzia infatti un movimento circolare antiorario che descrive shock ciclici all’attività economica aggregata. Il periodo di espansione più marcata (1987 - 1990) si è tradotto in una leggera diminuzione del tasso di disoccupazione e in un aumento della scarsità di manodopera, dato che nella fase espansiva del ciclo risulta più difficile per le imprese trovare nuovi lavoratori per soddisfare la domanda crescente. Il periodo di crisi (1991 1993) ha visto un sensibile incremento della disoccupazione mentre la scarsità di manodopera è diminuita. Nel biennio 1994-1995 si è registrato un aumento sia della disoccupazione sia della scarsità di manodopera: in questo modo è venuta meno la relazione negativa tra le due variabili osservata in precedenza. Una possibile interpretazione consiste nel considerare il ruolo della svalutazione della lira italiana rispetto al marco tedesco avvenuta in quegli anni: essa, presumibilmente, ha provocato un aumento repentino delle esportazioni e quindi un aumento dell’attività produttiva nel settore manifatturiero, alimentando la percezione di una maggiore scarsità di manodopera denunciata dalle stesse imprese e registrata dal nostro indicatore qualitativo; d’altra parte La curva di Beveridge per l'Italia
Scarsità manodopera
25 20
20 20 15 20
10
19
19
19
20 5
20
6
19
19
20
0
7
8
9
10
11
Disoccupazione Fonte: elaborazioni REF su dati Istat e Isae
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12
Capitolo 3. La disoccupazione
l’aumento di quasi un punto percentuale del tasso di disoccupazione in un singolo anno (dal 9.7 per cento del 1993 a 10.6 del 1994) rispecchia sia il proseguimento della fase di ristrutturazione dell’intera economia italiana sia la persistenza di molte rigidità del mercato del lavoro presenti agli inizi degli anni novanta e che accentuavano il ritardo tra il ciclo dell’occupazione e il ciclo della produzione. La ripresa fra il 1995 e il 2000 si riflette nell’andamento della curva con un deciso aumento della disponibilità di posti e una leggera diminuzione della disoccupazione (dall’11.2 al 10.1 per cento). Ciò che è interessante notare è che il periodo di forte rallentamento dell’economia italiana dal 2001 al 2005 ha visto una diminuzione sia della scarsità di manodopera sia della disoccupazione. Questo spostamento verso l’interno può riflettere gli effetti di alcuni cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro. In particolare l’attenzione si è concentrata sulle due riforme del lavoro (Legge Treu 1997 e Legge Biagi 2003) che hanno reso il mercato più flessibile variando l’efficacia del processo di incontro tra impieghi e lavoratori. Il miglioramento nei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro viene confermato nel 2006 e, secondo le tendenze in corso, anche nel 2007.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Gli andamenti territoriali
La tendenza alla riduzione della disoccupazione diviene poi ancor più significativa se si considera che da alcuni anni la flessione ha cominciato ad interessare anche le aree del paese tradizionalmente più afflitte da condizioni croniche di disoccupazione elevata. Questo andamento, sebbene apparentemente scontato dal punto di vista algebrico, visto che è nel Mezzogiorno che si concentra lo stock più ampio di disoccupati, non lo è affatto dal punto di vista sostanziale, visto che dal punto di vista temporale la flessione della disoccupazione al Sud si è proposta soltanto con notevole ritardo rispetto all’inizio della fase di caduta osservata nelle regioni del Centro-Nord. Inoltre, la flessione del tasso di disoccupazione costituisce soprattutto al Sud l’esito di andamenti relativamente contraddittori dei flussi di offerta, rispetto ai quali pare opportuna una riflessione. Difatti, se in termini di creazione occupazionale, gli aumenti degli ultimi anni sono stati concentrati nelle regioni del Nord, è al Sud che si concentra la maggiore flessione della disoccupazione nel corso degli ultimi anni. Gli effetti legati all’andamento territoriale della domanda di lavoro hanno quindi dominato l’evoluzione del numero degli occupati lungo il territorio nazionale. Dall’articolazione territoriale della domanda derivano forse anche in parte spostamenti dell’offerta, legati alla crescita dei flussi migratori interni, secondo una tendenza comunque non semplice da documentare. L’articolazione territoriale dell’evoluzione dell’offerta di lavoro presenta comunque spiccate peculiarità relative alla differenza di genere, sulle quali ci soffermiamo nel paragrafo successivo. Una rappresentazione sintetica dell’articolazione territoriale delle variabili che hanno concorso a generare la caduta della disoccupazione nel 2006 è fornita nei grafici allegati. Da essi si coglie come la crescita dell’occupazione osservata nelle regioni settentrionali nel corso degli ultimi anni sia stata prevalentemente soddisfatta attraverso l’incremento della forza lavoro. Il numero di disoccupati al Nord è sceso nel corso del 2006 dopo due anni in cui l’offerta di lavoro era cresciuta più della domanda. Nella media del 2006 lo stock dei disoccupati si è ridotto del 9 per cento raggiungendo un livello di 463mila persone senza lavoro. Tale valore corrisponde ad un tasso di disoccupazione del 3.8 per cento, valore che risulta estremamente basso anche in una prospettiva storica.
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Capitolo 3. La disoccupazione
Nord - Occupati e disoccupati 13500 13000 12500
Forze di lavoro
12000 11500 11000 10500
Disoccupati Occupati
10000 9500 9000 1994
1996
1998
2000
2002
2004
2006
migliaia
Nord - Tasso di disoccupazione 8.0 7.0 6.0 5.0 4.0 3.0 1994
1999
2004
Disoccupati in % delle forze di lavoro
Un’evoluzione simile caratterizza le regioni dell’Italia centrale dove la disoccupazione ha continuato a ridursi in presenza di una dinamica degli occupati risultata leggermente superiore a quella dell’offerta di lavoro. Nella media del 2006 nelle regioni del Centro Italia si sono registrati 300mila disoccupati, cui corrisponde un tasso di disoccupazione del 6.1 per cento, che anche in questo caso rappresenta un punto di minimo storico. La peculiarità dell’andamento della disoccupazione nelle regioni meridionali è invece legata al fatto che anche nel 2006, come del
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Centro - Occupati e disoccupati 5600 5250 Forze di lavoro 4900 4550 4200
Disoccupati Occupati
3850 3500 1994
1996
1998
2000
2002
2004
2006
migliaia
Centro - Tasso di disoccupazione 10.0 9.0 8.0 7.0 6.0 5.0 4.0 1994
1999
2004
Disoccupati in % delle forze di lavoro
resto da diverso tempo la disoccupazione flette, e con essa il tasso di disoccupazione, ma prevalentemente in ragione di una sostanziale stabilizzazione del livello dellâ&#x20AC;&#x2122;offerta. Si pensi che, come del resto si coglie immediatamente dal grafico, le forze di lavoro al Sud sono oggi sullo stesso livello su cui si posizionavano allâ&#x20AC;&#x2122;inizio degli anni novanta, quando nello stesso arco temporale sono aumentate del 10 per cento al Nord e del 16 per cento nelle regioni del Centro Italia. Il dato del Mezzogiorno del 2006 si presenta quindi dal punto di vista
150
Capitolo 3. La disoccupazione
Mezzogiorno - Occupati e disoccupati 8000
Forze di lavoro
7500 Disoccupati 7000 6500 6000 Occupati 5500 5000 1994
1996
1998
2000
2002
2004
2006
migliaia
Mezzogiorno - Tasso di disoccupazione 20.0 18.0 16.0 14.0 12.0 10.0 1994
1999
2004
Disoccupati in % delle forze di lavoro
dell’offerta di lavoro in sostanziale continuità con i trend affermatisi oramai da diversi anni. Dal punto di vista invece dell’andamento degli occupati il rialzo avvenuto nel 2006 rappresenta effettivamente un momento di discontinuità. E’ bastato così un timido aumento dell’occupazione per generare, data la perdurante flessione dell’offerta, un forte restringimento dello stock di persone disoccupate. Nella media del 2006 il numero di disoccupati si è difatti ridotto di quasi 160mila persone, portandosi per la prima volta sotto la soglia del milione. I 909mila disoccupati del 2006 corrispondono ad un tasso di disoccupazione del 12.2 per cento, valore
151
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
decisamente inferiore rispetto al massimo del 19.6 per cento raggiunto nel 1999. Indicazioni
coerenti
provengono
dall’analisi
per
ripartizione
territoriale dei tassi di inoccupazione , che includono oltre ai disoccupati
anche gli inattivi disponibili al lavoro e quelli che hanno compiuto una qualche attività di ricerca. Per l’Italia il tasso di inoccupazione nel 2006 è risultato pari al 41.2 per cento, in riduzione rispetto al 2005 (quand’era pari al 42.1 per cento). A determinarne il calo è stata la diminuzione, relativamente all’ampiezza della popolazione in età lavorativa, del numero di disoccupati e di inattivi che si dichiarano non disponibili al lavoro. Tra le ripartizioni gli andamenti sono generalmente omogenei, ma il Mezzogiorno rappresenta un’eccezione. La diminuzione del tasso di inoccupazione registrata a Sud è stata determinata dal calo dei disoccupati, perché invece gli inoccupati (disponibili e non disponibili al lavoro) hanno visto aumentare il proprio peso sul totale della popolazione. Si riduce l’incidenza degli inoccupati involontari, ma cresce quella degli inoccupati volontari, segno che parte del calo dei disoccupati a Sud si è tradotto in un passaggio agli inattivi, ovvero in un cambiamento di status (i disoccupati hanno smesso di cercare). TASSI DI INOCCUPAZIONE PER RIPARTIZIONE TERRITORIALE (2005 e 2006) Nord-Est 2.7 2.1 28.7 33.6 4.9
2005 Centro 4.2 4.2 30.2 38.6 8.4
Mezzogiorno 7.7 10.7 35.5 53.9 18.4
Totale 4.8 5.6 31.7 42.1 10.5
2006 Nord-Ovest Nord-Est Centro Mezzogiorno Disoccupati 2.7 2.5 4.0 6.5 Inattivi disponibili al lavoro 2.4 2.3 4.2 10.8 Inattivi non disponibili al lavoro 28.9 27.8 29.4 35.8 Totale inoccupati 34.0 32.6 37.6 53.1 Inoccupati involontari 5.1 4.8 8.2 17.3 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
Totale 4.3 5.7 31.2 41.2 10.0
Disoccupati Inattivi disponibili al lavoro Inattivi non disponibili al lavoro Totale inoccupati Inoccupati involontari
Nord-Ovest 3.0 2.3 29.7 35.0 5.3
Il tasso di inoccupazione è calcolato rapportando il numero di inoccupati (disoccupati ed inattivi in età lavorativa) con la popolazione in età lavorativa.
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Capitolo 3. La disoccupazione
La mobilità interna
Sottostanti la caduta della disoccupazione nelle regioni meridionali vi sono quindi in buona misura fattori d’offerta, di cui abbiamo già discusso nel capitolo 1. Uno degli aspetti importanti in chiave prospettica è relativo alla probabilità che possiamo attribuire ad un aumento dell’elasticità dell’offerta di lavoro rispetto alla discesa della disoccupazione. In termini più semplici, questo equivale a chiedersi se nei prossimi anni la flessione del tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno, determinando una maggiore probabilità di trovare un impiego per chi lo cerca, riuscirà ad attrarre nel mercato nuovi lavoratori la cui offerta potenziale oggi non si manifesta per il prevalere dei cosiddetti effetti di scoraggiamento. Su questo punto entrano in gioco diversi fattori, anche di natura culturale. Uno di questi è relativo ai flussi migratori interni. In effetti, parte della scarsa crescita dell’offerta di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno rispetto alle regioni del Nord è dovuta alla presenza di flussi migratori interni al paese, e che per l’appunto tendono a concentrarsi nel flusso dalle regioni meridionali verso quelle settentrionali. E’ molto difficile disporre di una misura che consenta una lettura puntuale del fenomeno anche per l’oggettiva difficoltà di misurazione che lo caratterizza. In ogni caso, i dati a nostra disposizione mostrano che i movimenti migratori interni a lungo raggio avevano ripreso a crescere nel corso della seconda metà degli anni novanta raggiungendo un apice nel 2000. Successivamente si è osservata una riduzione sino al 2004, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati di base. L’andamento dei flussi migratori interni è risultato in linea con il ciclo della domanda di lavoro. Si può quindi presumere che nel corso del 2005 e del 2006 l’aumento della domanda di lavoro al Nord possa avere incentivato la ripresa dei flussi migratori interni. Si consideri che la dimensione di questi flussi non è modesta. Nel dato del 2004, più contenuto di quello degli anni precedenti, il deflusso dalle regioni del Mezzogiorno è stato pari a 56mila unità. Non disponendo di dati sul tasso di attività di queste persone non è possibile quantificarne puntualmente l’impatto sull’offerta di lavoro. Si può comunque provare a fornire un ordine di grandezza della rilevanza di questo deflusso se si considera che esso equivale a circa lo 0.8 per cento delle forze di lavoro nel Mezzogiorno in una fase storica in cui, prendendo a riferimento il periodo 2003-2006, le forze di lavoro si sono ridotte, mediamente, dell’1 per cento all’anno. A conferma di questi dati sono anche le indicazioni provenienti dalla
Si veda al proposito Istat, Rapporto annuale 2006, Capitolo 3.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
rilevazione sulle forze di lavoro. Sebbene nel 2006, la maggior parte degli occupati segnalasse di non essersi spostato per lo svolgimento del lavoro attuale, dell’1.9 per cento degli occupati che invece aveva dovuto trasferirsi da un’altra regione, più della metà (il 56 per cento) proveniva da una regione del Mezzogiorno.
TRASFERIMENTO PER L'ATTUALE LAVORO (2006) % v.a. (migliaia) Sì da altro comune della stessa provincia 1.5 338 Sì da altra provincia della stessa regione 0.9 215 Sì da altra regione 1.9 430 Sì dall'estero 1.0 226 No 94.4 21705 Sì ma poi è tornato nella provincia di residenza 0.3 70 Non sa 0.0 4 Totale % 100.0 22988 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
Ripartizione in cui abitava prima di trasferirsi per l'attuale lavoro (2006) - % Maschi
Femmine
Totale
70 58
60
56 51
50 40 30 20
17
22
19 10
13 11
14 15 14
10 0 Nord-Ovest
Nord-Est Centro Mezzogiorno Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
Sulla base di queste considerazioni, il quadro per i prossimi anni resterà con tutta probabilità caratterizzato dalla presenza di una certa mobilità all’interno del paese, e questo tenderà a ridurre la dinamica dell’offerta di lavoro al Sud, agevolando la caduta del tasso di disoccupazione.
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Capitolo 3. La disoccupazione
Le caratteristiche della disoccupazione
Ad agire in direzione opposta sulla propensione ad entrare nel mercato del lavoro, aumentando cioè la partecipazione nel Mezzogiorno, potrebbe intervenire invece l’aumento della probabilità di trovare un lavoro per i nuovi entranti nel mercato. Si tratta per l’appunto del cosiddetto effetto di riduzione dello scoraggiamento che si verifica in presenza di un aumento della domanda. Al proposito, risulta di interesse osservare come sono cambiate a livello territoriale le caratteristiche della disoccupazione. Allo scopo replichiamo, a livello delle principali ripartizioni territoriali, la tavola, già presentata con riferimento al totale nazionale dove si distinguono le caratteristiche dei disoccupati sulla base della durata della disoccupazione e l’esperienza professionale del disoccupato. Dalle tavole si evince subito come la disoccupazione di lunga durata incida in misura maggiore nel Mezzogiorno, dove il 56 per cento dei disoccupati lo è da oltre 12 mesi, rispetto alle regioni del centro (46 per cento) e a quelle del Nord (36 per cento). L’incidenza della disoccupazione di lunga durata sul totale è però aumentata in tutte le ripartizioni territoriali negli ultimi due anni. In ogni caso la ripresa della domanda di lavoro è riuscita a scalfire questo zoccolo duro della disoccupazione anche al Sud: la tipologia del disoccupato meridionale di lunga durata che raccoglieva 622mila persone nel 2004 è scesa a 507mila nel dato medio del 2006. Naturalmente, questa flessione in termini percentuali (-18.5 per cento in due anni) è decisamente superiore a quella osservata nelle altre ripartizioni (-5 per cento al Nord, nulla al Centro) perché lo stock è esiguo e probabilmente attestato su valori fisiologici (il 62 per cento dei disoccupati di lunga durata si trova al Sud). La seconda caratteristica è relativa al fatto che il disoccupato sia in cerca di un primo impiego o abbia già avuto una precedente esperienza professionale. Al Sud prevale la tipologia del disoccupato senza esperienza, che incide per il 42 per cento sul totale dei disoccupati dell’area, rispetto al 28 per cento del Centro e al 22 per cento del Nord. L’incrocio fra le due caratteristiche, porta a individuare quattro tipologie di lavoratori, dove quella più problematica – il lavoratore di lunga durata e senza esperienza professionale – resta prevalente nel Mezzogiorno (250mila persone ricadono in questa tipologia rispetto alle 40mila del Nord e 46mila del Centro). Va segnalato come comunque
155
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
CARATTERISTICHE DELLA DISOCCUPAZIONE NEL NORD ITALIA livelli
ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 136 267 39 66 175
333
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 126 235 40 63 166
297
Totale 403 105 508
Totale 361 102 463
Composizione % ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 26.7 52.5 7.7 13.0 34.5
65.5
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 27.2 50.7 8.6 13.5 35.8
64.2
Totale 79.3 20.7 100.0
Totale 77.9 22.1 100.0
l’ultimo biennio abbia visto una decisa contrazione dell’entità di questo gruppo di disoccupati, scesi del 15 per cento rispetto al valore del 2004. Si tratta di un segnale importante per il futuro in quanto è proprio la diminuzione di questo fenomeno che potrebbe preludere al reingresso nel mercato dei lavoratori scoraggiati.
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Capitolo 3. La disoccupazione
CARATTERISTICHE DELLA DISOCCUPAZIONE NELL'ITALIA CENTRALE livelli
ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 96 141 43 38 138
179
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 91 125 46 39 138
164
Totale 236 80 317
Totale 216 85 301
Composizione % ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 30.2 44.5 13.4 11.9 43.6
56.4
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 30.3 41.5 15.4 12.8 45.7
54.3
Totale 74.7 25.3 100.0
Totale 71.8 28.2 100.0
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
CARATTERISTICHE DELLA DISOCCUPAZIONE NELL'ITALIA MERIDIONALE livelli
ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 319 367 303 146 622
513
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 249 280 258 122 507
402
Totale 686 449 1 135
Totale 529 380 909
Composizione % ANNO 2004
Con esperienza Senza esperienza Totale ANNO 2006
Con esperienza Senza esperienza Totale
In diminuzione la durata della ricerca del lavoro
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 28.1 32.3 26.6 12.9 54.8
45.2
durata della disoccupazione da oltre 12 m da meno di 12 m 27.4 30.8 28.4 13.4 55.8
44.2
Totale 60.5 39.5 100.0
Totale 58.2 41.8 100.0
I dati sulla durata della ricerca del lavoro segnalano che il 35.9 per cento dei disoccupati nel 2006 è stato in cerca di un’occupazione per non più di sei mesi: tale percentuale è cresciuta rispetto all’anno precedente, quando si attestava al 34.7 per cento. Si è invece ridotta la quota di disoccupati di lunghissima durata, ovvero che stanno cercando un’occupazione da oltre 24 mesi. Si può dire così che in media la durata della ricerca di un impiego è diminuita, anche se probabilmente in misura modesta, visto che sono aumentate anche le percentuali di chi cerca lavoro da almeno 7 mesi e da non più di 24. Gli uomini sono caratterizzati da una durata media della ricerca del lavoro inferiore a quella delle donne: è più alta difatti la percentuale di uomini che hanno cercato lavoro per non più di sei mesi, mentre per le donne è relativamente più alta la quota di coloro che cercano lavoro
158
Capitolo 3. La disoccupazione
da più di sei mesi (ma da meno di 12). Simile il peso dei disoccupati di lunga durata: il 38 per cento di uomini e donne cerca lavoro da oltre un anno. Tra le ripartizioni, si osserva un andamento sostanzialmente omogeneo, con l’eccezione del Centro, dove aumenta rispetto al 2005 la percentuale di chi cerca lavoro da più di 24 mesi, mentre si riduce la quota di coloro la cui ricerca è in atto da non più di 6. Al di là delle variazioni, il Sud resta caratterizzato da uno sbilanciamento della distribuzione verso la durata più lunga: rispetto alla media italiana infatti risulta più bassa la percentuale di persone che dichiarano di essere alla ricerca di un’occupazione da meno di un anno, mentre è più alta per chi sta cercando da più tempo (ed in particolare, è molto più elevata la quota di chi cerca da oltre 24 mesi), segno di una peculiare difficoltà nel trovare un impiego in quest’area del paese, che ha come effetto un certo scoraggiamento, in particolare per i lavoratori marginali. DURATA DELLA RICERCA DEL LAVORO PER GENERE (2006) Maschi Femmine Fino a 6 mesi 36.7 35.2 Da 7 a 12 mesi 19.8 22.5 Da 13 a 24 mesi 16.6 16.3 Oltre 24 mesi 21.4 21.7 Non sa 5.5 4.4 Totale % 100.0 100.0 Totale v.a. (migliaia) 801 873 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
Totale 35.9 21.2 16.5 21.5 4.9 100.0 1673
DURATA DELLA RICERCA DEL LAVORO PER RIPARTIZIONE GEOGRAFICA (2005 e 2006) Fino a 6 mesi Da 7 a 12 mesi Da 13 a 24 mesi Oltre 24 mesi Non sa Totale %
Nord 49.3 23.2 12.7 11.8 3.0 100.0
Centro 39.5 21.8 16.5 16.6 5.6 100.0
2005 Mezzogiorno 26.3 18.6 17.0 29.2 8.9 100.0
2006 Nord Centro Mezzogiorno Fino a 6 mesi 49.4 38.8 28.0 Da 7 a 12 mesi 23.1 22.5 19.8 Da 13 a 24 mesi 12.9 16.2 18.3 Oltre 24 mesi 11.6 18.2 27.7 Non sa 2.9 4.3 6.1 Totale % 100.0 100.0 100.0 Fonte: elaborazioni su microdati Istat (rilevazione continua sulle forze di lavoro, 2006)
Totale 34.7 20.4 15.7 22.4 6.8 100.0
Totale 35.9 21.2 16.5 21.6 4.9 100.0
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
I differenziali di genere si riducono solo marginalmente
La riduzione del numero di persone in cerca di occupazione nel 2006 è stata lievemente più marcata per le donne: -11.5 per cento la diminuzione nei confronti dell’anno precedente (a fronte di un calo di 11.3 punti percentuali dei disoccupati uomini). Ciononostante le donne, pur essendo sottorappresentate nella forza lavoro (dove pesano per il 40 per cento), costituivano ancora oltre la metà (il 52 per cento) delle persone in cerca di occupazione. In altre parole, l’incidenza della disoccupazione è (e resta) più alta presso le donne. Rispetto al 2005, l’incidenza femminile sul numero di disoccupati è rimasta pressoché stabile, anche se a livello di singole ripartizioni territoriali si sono osservate evoluzioni piuttosto differenziate. Nel NordOvest e nel Mezzogiorno l’incidenza è calata (di 3 e 1 punto percentuale rispettivamente), mentre nel Nord-Est e al Centro si è osservato un incremento. A spiegare tali andamenti sono però evoluzioni molto diverse: nel Nord-Ovest la riduzione dell’incidenza femminile sulla disoccupazione è riconducibile al calo più marcato nel numero di persone in cerca d’occupazione osservato tra le donne (-14.7 per cento) rispetto a quanto registrato tra gli uomini (-4.7 per cento). Nel Sud, invece, la riduzione è spiegata dal combinarsi di due fattori: da una parte il calo più marcato del numero di disoccupate rispetto agli uomini (con variazioni, rispettivamente, di -16.2 punti percentuali e di –13.6). Dall’altra si osserva una diminuzione dell’offerta di lavoro femminile che riduce ulteriormente la platea di donne potenzialmente in cerca di un’occupazione (già bassa rispetto alle altre ripartizioni) e che quindi si traduce in una minore incidenza femminile sul totale. Se nel Nord-Est l’incremento dell’incidenza delle donne sulla disoccupazione è spiegato dal calo nettamente più marcato del numero di disoccupati maschi - grazie ad una crescita dell’occupazione maschile in valore assoluto più ampia in grado di più che assorbire la crescita non trascurabile dell’offerta - nel Centro si è verificata una divergenza nelle evoluzioni per genere della disoccupazione, che spiega l’aumento dell’incidenza femminile. Infatti, mentre per gli uomini si è osservata una diminuzione del numero di disoccupati (-7.9 per cento), per le donne invece si è registrato un lieve incremento nel numero di persone in cerca di occupazione (+0.3 per cento). Anche se minore in termini percentuali, data la maggior dimensione della base di riferimento.
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Capitolo 3. La disoccupazione
Il tasso di disoccupazione femminile complessivo è sceso di 1.3 punti percentuali; il calo è stato comune per tutte le ripartizioni geografiche, seppur con entità molto diverse. Nel Nord-Est e nel Centro la diminuzione è stata difatti modesta. Anche se come si è osservato, nel Centro il numero di disoccupate è aumentato, tale incremento è stato marginale, mentre l’offerta di lavoro (il denominatore nel calcolo del tasso di disoccupazione) è cresciuta in misura non trascurabile, con un effetto finale di riduzione del tasso. Nel Nord-Ovest la diminuzione del tasso
Tassi di disoccupazione per genere - 2005 femmine
maschi
20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Italia
Tassi di disoccupazione per genere - 2006 femmine
maschi
20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Italia
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
di disoccupazione è stata trainata dalla forte crescita occupazionale, in grado di assorbire non solo la nuova offerta di lavoro (anch’essa aumentata notevolmente) ma anche una fetta non trascurabile di persone in cerca di occupazione. Nel Sud invece il calo del numero di disoccupate è solo in parte spiegato dal recupero dell’occupazione; in un caso su otto, la diminuzione della disoccupazione è riconducibile ad un passaggio all’inattività, con un mutamento di status (da persona in cerca di lavoro, ma ancora dentro al mercato, a persona fuori dalle forze di lavoro). Infatti nel 2006, come è stato già ricordato, le attive nelle regioni meridionali si sono ridotte. Questo fenomeno ha interessato in particolar modo le donne tra i 25 e i 34 anni. I differenziali di genere, riassunti dal rapporto tra i tassi di disoccupazione femminili e quelli maschili, si sono ridotti solo in misura marginale: se nel 2004 il rapporto era di 1.66 (ovvero, per la media italiana il tasso di disoccupazione femminile era più alto del 66 per cento di quello maschile), dopo un biennio è sceso a 1.62.
In calo la disoccupazione giovanile
Il calo del numero di persone in cerca di occupazione osservato nel 2006 ha interessato trasversalmente tutte le classi di età. In termini percentuali, le diminuzioni più vistose si sono registrate per le età estreme della popolazione, ovvero per i più giovani (con meno di 25 anni) e per i più maturi (sopra i 55 anni). Non si deve dimenticare, però, che le evoluzioni nelle classi più giovani risentono in misura non marginale degli andamenti demografici sottostanti: in un contesto di corti in assottigliamento, la riduzione del numero di disoccupati potrebbe essere meramente il riflesso della contrazione della popolazione. Per le classi d’età più giovani (15-34 anni), il numero di disoccupati è diminuito complessivamente di 148mila persone; in parte tale diminuzione riflette la riduzione della numerosità delle coorti in esame, ma vi sono anche altri fattori da considerare. Se si confrontano le evoluzioni del numero dei disoccupati con quella degli occupati per le due classi di età più giovani si osserva come l’occupazione si sia ridotta meno (in valore assoluto e in termini percentuali) della disoccupazione, ovvero che al netto della demografia ci sono delle evoluzioni favorevoli del mercato del lavoro, in particolar modo per la classe 25-34 anni.
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Capitolo 3. La disoccupazione
Del resto, nonostante una diminuzione dell’offerta di lavoro, il tasso di disoccupazione per queste classi di età si è ridotto per effetto di un calo del numero di persone in cerca d’occupazione in grado di più che bilanciare il restringimento del denominatore. Ciononostante, i livelli dei tassi di disoccupazione restano elevati, in particolar modo per i più giovani (15-24 anni): 21.6 per cento. Per questa classe d’età il tasso di disoccupazione tocca i suoi livelli massimi (nonostante un calo generalizzato) nel Sud, dove è ancora superiore al 34 per cento, e per le donne, per le quali supera il 25 per cento.
Tassi di disoccupazione per età - 2005 Nord
Centro
Sud
40 35 30 25 20 15 10 5 0 15-24
25-34
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55-64
Tassi di disoccupazione per età - 2006 Nord
Centro
Sud
40 35 30 25 20 15 10 5 0 15-24
25-34
35-54
55-64
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Livelli più bassi vengono invece toccati per la classe più matura (25-34 anni): nella media nazionale il tasso di disoccupazione scende finalmente sotto al 10 per cento (9.2 nel 2006), e anche se nel Mezzogiorno è ancora al 17.5 per cento (ma era al 20 lo scorso anno), nelle ripartizioni settentrionali è sceso a quota 4.4 per cento. Per le classi di età centrali e mature, invece, la demografia è favorevole; il calo osservato nel numero di disoccupati è interamente riconducibile alla crescita vivace dell’occupazione, in grado di più che assorbire l’aumento dell’offerta di lavoro. I tassi di disoccupazione scendono (grazie alla riduzione del numero di disoccupati e all’ampliamento della platea di partecipanti al mercato del lavoro), raggiungendo quota 4.3 per cento in corrispondenza della classe centrale (35-54 anni) e al 2.9 per cento per la classe d’età più matura (55-64 anni). Quest’ultima è caratterizzata da un basso livello del tasso di disoccupazione - al di là delle performance favorevoli dell’ultimo periodo - perché in genere le persone di età più avanzata, prossime al pensionamento, tendono ad anticipare l’andata in pensione se incontrano difficoltà a ritrovare un impiego, uscendo quindi dal mercato del lavoro.
Disoccupazione più alta per i lavoratori non qualificati
I lavoratori unskilled, quelli con nessun titolo di studio o con titoli molto bassi (licenza elementare o licenza media) sono caratterizzati da tassi di disoccupazione più alti rispetto ai lavoratori maggiormente qualificati, in corrispondenza di tutte le classi di età. I lavoratori con bassa istruzione sono intrappolati in impieghi poco qualificati e qualificanti, sono più facilmente sostituibili e sono meno richiesti sul mercato. Inoltre, rispetto ai lavoratori più qualificati, possono avere informazioni più limitate e tecniche di ricerca di lavoro relativamente meno efficaci.
Il 2006 è stato caratterizzato da una riduzione generalizzata dei tassi di disoccupazione per tutti i sottogruppi (classi di età con differenti titoli di studio); i cali più vistosi si sono registrati per i giovani laureati (25-34 anni), che nel 2005 avevano invece sperimentato un incremento non trascurabile della disoccupazione, e per i lavoratori con diploma professionale e qualche anno di esperienza.
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Capitolo 3. La disoccupazione
I laureati maturi (ovvero, appartenenti alla classe d’età 35-64 anni) sono caratterizzati dai tassi di disoccupazione minimi (1.8 per cento), un livello praticamente di piena occupazione. Qualche problema in più invece caratterizza i giovani laureati (quelli tra i 25 e i 34 anni), il cui tasso di disoccupazione è invece all’11.2 per cento, in discesa dal 13.8 per cento del 2005, ed è più elevato di quello dei lavoratori coetanei aventi solo un diploma di scuola superiore secondaria. Probabilmente questo è dovuto al fatto che i giovani laureati hanno concluso relativamente da poco il loro percorso di studi e quindi sono nella delicata fase di ingresso nel mercato del lavoro, mentre i coetanei diplomati sono entrati prima (non avendo proseguito gli studi). Le variazioni rispetto al 2005 del numero di persone in cerca di occupazione, generalmente negative, hanno origini diverse a seconda dell’età e del livello di istruzione. La riduzione del numero di disoccupati laureati è interamente riconducibile alla forza dell’occupazione, in grado di più che assorbire la nuova offerta. Questo caratterizza anche i giovani, per i quali sia l’offerta di lavoro che l’occupazione risultano crescenti. Non è così per i giovani diplomati: nonostante si registrino aumenti del tasso di attività, a causa delle tendenze demografiche sottostanti la loro offerta di lavoro è in calo (molto più dell’occupazione), fattore che spiega la diminuzione nel numero di persone in cerca di un Tassi di disoccupazione per titoli di studio (15-64 anni) - % 2005
2006
10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 Laurea e Diploma 4-5 Diploma 2-3 post-laurea anni anni
Lic. media
Nessun titolo, lic. elementare
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
impiego. Andamenti simili si riscontrano anche per i giovani con bassi livelli di istruzione, per i quali alle tendenze demografiche sfavorevoli si uniscono evoluzioni negative dei tassi di partecipazione. Se per i giovani laureati la demografia non sembra ancora essere sfavorevole è solo perché, sottointesi, ci sono degli effetti di composizione della popolazione più giovane che sempre di più tende ad avere livelli di istruzione più elevati: il numero di giovani laureati così continua a crescere, mentre il numero di giovani con titoli di studio molto bassi si riduce molto di più della popolazione giovane nel suo complesso. Per i lavoratori più maturi, invece, è la crescita dell’occupazione all’origine del calo del numero di persone disoccupate, con l’eccezione delle persone con nessun titolo di studio, per le quali il numero di occupati diminuisce, ma ancora di più si riduce l’offerta di lavoro, a causa soprattutto di una minore propensione alla partecipazione.
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Capitolo 3. La disoccupazione
Riquadro 3.3 – Evoluzioni recenti della disoccupazione nei paesi europei: un’analisi sulla base dei risultati delle inchieste congiunturali presso le famiglie Il tasso di disoccupazione è una misura delle condizioni del mercato del lavoro che nel breve periodo può non descrivere perfettamente il cambiamento delle condizioni occupazionali. In particolare, la misura può risentire della risposta dell’offerta al ciclo della domanda per cui nelle fasi di miglioramento del mercato, la disoccupazione potrebbe non ridursi rapidamente se l’offerta reagisce prontamente al mutamento di intonazione della domanda. Inoltre, tutte le misure che si basano su una quantificazione dello stock di occupati non considerano che a parità di numero di disoccupati le condizioni del mercato del lavoro possono essere molto diverse, ad esempio perché cambiano altri fattori che influenzano la probabilità di trovare o perdere un impiego, si pensi ai cambiamenti nelle tipologie contrattuali. Un modo per cercare di qualificare le condizioni sottostanti una data quantificazione del tasso di disoccupazione può essere quello di guardare ai giudizi espressi dalle famiglie nell’ambito delle inchieste congiunturali. In particolare, l’Eurostat presenta i risultati delle indagini presso le famiglie omogeneizzando la rappresentazione dei risultati delle indagini condotte dagli istituti nazionali. Nel caso dell’Italia l’istituto che conduce la survey è l’Isae. Tra i diversi indicatori secondo i quali si articolano i risultati dell’indagine, quello che meglio si presta a fornire una rappresentazione delle condizioni del mercato del lavoro sono i timori di disoccupazione espressi dalle famiglie o, meglio, secondo l’indicazione Eurostat, “i giudizi delle famiglie sull’andamento della disoccupazione nei prossimi dodici mesi”. I risultati della survey sono espressi come saldi delle risposte di “aumento/diminuzione” e si prestano ad essere letti come un indicatore di percezione delle condizioni del mercato del lavoro da parte delle famiglie: ad un valore alto corrispondono timori di aumento della disoccupazione e viceversa per valori contenuti. Il carattere qualitativo delle variabili, e il fatto che l’Eurostat aggreghi i risultati di indagini differenti condotte in Europa da istituti diversi, non consente comunque un confronto del livello della variabile fra i vari paesi. Fatte queste precisazioni, il primo elemento stilizzato che emerge immediatamente dall’analisi dei dati è rappresentato dal fatto che a partire dalla fine del 2005 e per tutto il 2006 le famiglie europee hanno percepito nitidamente il miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro. Difatti, i timori di disoccupazione si sono fortemente ridimensionati sino a riportarsi rapidamente a inizio 2007 in prossimità del punto di minimo raggiunto nel 2000. Si noti che la correlazione con
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
il tasso di disoccupazione è molto stretta, ma non puntuale. Difatti, nonostante il tasso di disoccupazione europeo si sia oramai portato su valori inferiori al precedente punto di minimo, i timori delle famiglie non hanno ancora raggiunto il punto di minimo. Spunti di interesse si colgono al proposito dalla disaggregazione della tendenza generale secondo le evidenze espresse nei singoli paesi. Nei quattro grafici successivi emerge come le condizioni del mercato del lavoro siano decisamente migliorate nella percezione delle famiglie tedesche. La caduta dei timori di disoccupazione, andata in Germania al di là delle più rosee aspettative, conferma che l’ampia flessione della disoccupazione tedesca è percepita dalle famiglie tedesche. Analoghi indicatori riferiti ad altre economie europee confermano la tendenza al miglioramento delle attese delle famiglie, ma in misura meno marcata rispetto a quanto avvenuto in Germania. Da questo punto di vista va segnalata la posizione delle famiglie italiane. L’Italia è difatti il paese che, insieme alla Germania, ha registrato la maggiore flessione della disoccupazione nel corso del 2006. Ciò nonostante nella percezione delle famiglie italiane il miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro è decisamente più contenuto. Il recupero avvenuto nel corso del 2006 e all’inizio del 2007 per questo indicatore è difatti decisamente più timido rispetto alla flessione avvenuta nel 2000. Questo vuol dire che i timori di disoccupazione percepiti dalle famiglie non paiono avere incorporato pienamente la flessione della disoccupazione avvenuta lo scorso anno. Tra i diversi elementi che concorrono a spiegare tale andamento potrebbe esservi anche il fatto che la diffusione crescente delle nuove forme contrattuali tende a generare una percezione di insicurezza del
Area euro: attese delle famiglie sulla disoccupazione 60 50 40 30 20 10 0 -10 -20 85
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Capitolo 3. La disoccupazione
posto di lavoro per cui i timori di disoccupazione non tendono a rientrare rapidamente quando la disoccupazione scende. In effetti non vi è dubbio che parte della discesa della disoccupazione che abbiamo osservato in Italia sia dovuta al fatto che l’uscita dalla disoccupazione è avvenuta attraverso l’accesso ad un segmento del mercato del lavoro caratterizzato dalla prevalenza di tipologie contrattuali non ritenute del tutto soddisfacenti dai lavoratori. L’area dei cosiddetti contratti flessibili rappresenterebbe quindi un luogo del mercato del lavoro che, almeno nella percezione dei lavoratori, potrebbe risultare
Germania: attese delle famiglie sulla disoccupazione
Francia: attese delle famiglie sulla disoccupazione
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Italia: attese delle famiglie sulla disoccupazione
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Spagna: attese delle famiglie sulla disoccupazione
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
maggiormente confinante con quella della disoccupazione rispetto a quanto non lo sia l’area del lavoro a tempo indeterminato. E’ anche chiaro che nel contesto sopra richiamato i disoccupati di una volta esistono sempre meno, e vengono sostituiti da una serie di figure che oscillano fra un contratto a termine e l’altro, talvolta intervallati da periodi di disoccupazione. Questo aspetto non è secondario anche ai fini del consolidamento della fase di espansione del ciclo economico. Difatti un aspetto messo in luce dalla letteratura è il fatto che un abbassamento della disoccupazione, se percepito come un fatto strutturale, tende ad aumentare la propensione al consumo nella misura in cui si riduce la quota del risparmio cautelativo legata al rischio di restare disoccupati. Se però la caduta della disoccupazione incide solo parzialmente sulla percezione del rischio di disoccupazione la propensione al consumo può anche ridursi. In questo caso occorre che passi del tempo prima che i lavoratori percepiscano l’abbassamento della disoccupazione, e del rischio di perdita del reddito da lavoro ad essa connesso, come un fatto permanente.
Riquadro 3.4 - L’indennità di disoccupazione: un confronto tra Paesi Il tema degli ammortizzatori sociali e della necessità di una loro riforma è al centro del dibattito politico italiano da almeno un decennio. Anche se non si è ancora giunti ad una conclusione condivisa, la spesa complessiva per le politiche del lavoro è giudicata da molti indadeguata, sia in termini di entità (in Italia è pari all’1.3 per cento del Pil rispetto ad una media UE del 2.0 per cento ), sia in relazione alle modalità di utilizzo. Pur nella difficoltà di reperimento dei dati necessari, abbiamo tentato di svolgere un’analisi comparativa tra la situazione del nostro Paese e quella degli altri stati europei con particolare riferimento allo strumento dell’indennità di disoccupazione. Analizzando la letteratura economica sull’argomento, si registra in generale un ampio consenso tra gli economisti e i giuslavoristi nel ritenere che tali indennità provocano un indubbio beneficio dal punto di
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Stime Eurostat per l’anno 2005.
Capitolo 3. La disoccupazione
vista della tutela sociale e in termini di equità , in quanto operano come stabilizzatori macroeconomici nei momenti di congiuntura economica negativa e perché consentono ai lavoratori disoccupati di cercare un posto di lavoro con relativa tranquillità. D’altro lato, però, possono esercitare un effetto negativo sul mercato del lavoro, innalzando il livello minimo di retribuzione attesa dal lavoratore per accettare una nuova occupazione e allungando così i tempi di rientro nel mondo del lavoro . In questo modo la diffusione di generosi ammortizzatori sociali tende ad aumentare, a parità di altre condizioni, il livello di equilibrio del tasso di disoccupazione . I principali fattori che caratterizzano l’indennità di disoccupazione sono la sua durata e la sua entità: in base a queste due dimensioni si può operare una classificazione dei diversi ordinamenti europei. La durata dell’erogazione dipende dalla combinazione di condizioni diverse: generalmente, l’età del beneficiario e la sua anzianità contributiva. Ma quanto più si prolunga l’erogazione, tanto più si indebolisce la motivazione verso la ricerca di un lavoro, quindi si allunga il periodo di disoccupazione. In quasi tutti i paesi europei l’entità della prestazione è definita in percentuale delle retribuzioni percepite dal lavoratore (in un periodo di tempo definito): la retribuzione è così il fattore principale nella determinazione della prestazione. Anche l’ammontare dell’indennità di disoccupazione, sebbene in misura minore rispetto alla durata dell’erogazione della prestazione stessa, incide negativamente sul livello di disoccupazione e in particolare sulla sua durata media. Per elevati tassi di sostituzione – cioè un’indennità di disoccupazione elevata rispetto alla retribuzione di riferimento – si può verificare una situazione denominata “trappola della disoccupazione”: il lavoratore disoccupato, percependo un’indennità di disoccupazione superiore al reddito da lavoro che prevede di conseguire in caso di occupazione, non è incentivato nella ricerca di un posto di lavoro. Per ovviare a questo problema gli stati europei hanno preferito agire sui criteri di accesso a questi strumenti di tutela sociale aumentando la severità dei requisiti richiesti ai beneficiari delle indennità e incentivandoli verso la ricerca attiva di una occupazione. Dall’analisi dei dati disponibili dal database MISSOC è possibile raggruppare e classificare il comportamento degli stati europei riguardo all’erogazione dell’indennità di disoccupazione: • Nei paesi anglosassoni (Regno Unito e Irlanda) l’erogazione è indipendente dal livello di retribuzione precedentemente percepita ma dipende dall’età del lavoratore e dai carichi familiari e la durata della Per quanto riguarda l’Italia, tra i principali: Frontini e Tabellini (1999), Mancini (2000), Sestito (2006), e Tiraboschi (2002 e 2006).
Tatsiramos (2006) e ancora Tiraboschi (2006).
Tra gli altri, Bertola (2002) e Bassanini e Duval (2006).
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
prestazione è contenuta. In entrambi i paesi sono ritenute fondamentali le politiche volte ad aiutare il disoccupato a ricercare una nuova occupazione attraverso i frequenti colloqui ed incontri del lavoratore con i dipendenti degli enti di collocamento. • Il modello scandinavo (Danimarca, Svezia, Norvegia ed anche Olanda) è caratterizzato da alti tassi di sostituzione (pari al 90 per cento in Danimarca, all’80 per cento in Svezia e al 70 per cento in Olanda) e lunga durata dell’erogazione del sussidio. Nei primi due paesi l’assicurazione contro la disoccupazione è volontaria ma vi possono aderire anche i lavoratori autonomi. La spesa pubblica per il sostegno al reddito dei lavoratori disoccupati è elevata: in questi paesi infatti, accanto alle indennità di disoccupazione esiste un sistema di sussidi sociali di carattere assistenziale e non assicurativo, finanziato dalla fiscalità generale. • Il sistema continentale (Francia, Austria, Belgio e Germania) presenta caratteristiche intermedie lungo entrambe le dimensioni. In Germania il tasso di sostituzione è pari al 60 per cento (o 67 per cento con figli a carico), mentre in Francia le percentuali vengono applicate in base a scaglioni di reddito. I tratti comuni tra questi paesi evidenziano prestazioni legate alla condizione lavorativa del disoccupato, come i paesi del sud Europa, ma con maggiore generosità. • I paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) condividono un ridotto livello di spesa per le prestazioni sociali e una durata del sussidio medio-bassa. Per contro, paiono poco restrittive le condizioni da rispettare per avere il diritto all’erogazione del sussidio di disoccupazione. Se si considera l’evoluzione temporale di questi ordinamenti nei diversi paesi europei, non si registra una convergenza nelle caratteristiche principali né delle due dimensioni fin qui analizzate . La situazione in Italia Considerando la situazione italiana, la maggioranza degli esperti del mercato del lavoro giudica non soddisfacente l’ordinamento vigente in materia di sussidi ai disoccupati : a titolo di esempio, basti citare il tasso di sostituzione, pari al 40 per cento della retribuzione percepita nei tre mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro . Rispetto alla media europea, è limitata anche la durata dell’indennità, pari a sei mesi per i lavoratori under 50 e a nove mesi per gli over 50, sebbene in via sperimentale dal 2005 a tutto il 2007 tale durata sia stata aumentata di un mese in entrambi i casi.
OECD employment outlook (2006)
Sestito (2006) e Tiraboschi (2006)
L’importo è stato innalzato progressivamente nell’ultimo decennio, prima al 20, poi al 30 e dal 2001 al 40 per cento della retribuzione lorda precedente.
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Capitolo 3. La disoccupazione
Dalle successive osservazioni si potrà vedere come il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è estremamente differenziato al suo interno. Innanzitutto vi sono aspetti normativi che, regolando l’accesso dei lavoratori disoccupati all’erogazione del sussidio, lo rendono molto restrittivo: da ciò discende l’esiguità dello stock di disoccupati beneficiari rispetto al livello totale di disoccupazione registrato in Italia. Sulla base dei dati Inps, a fine 2005, escludendo il settore agricolo, i beneficiari di indennità di disoccupazione ordinaria sono stati circa 137mila unità su un milione e 888mila disoccupati totali. Infatti il sussidio viene riconosciuto solo a chi, titolare di un contratto a tempo indeterminato, viene licenziato; peraltro l’evento del licenziamento per questa tipologia di contratti è molto raro a causa dell’articolo 18 nello Statuto dei lavoratori. Non possono invece accedere a questa forma di tutela sociale tutti i titolari di un contratto flessibile anche se, attraverso i contributi sociali, lo finanziano. La prestazione erogata ai lavoratori disoccupati non dipende solo, come negli altri sistemi, dai contributi versati e dall’età del lavoratore, ma anche da altre variabili, quali il settore economico di appartenenza, la dimensione dell’impresa e la causa della perdita del lavoro. In questo senso si possono notare notevoli differenze di trattamento tra industria e servizi e tra grande e piccola impresa. Per i lavoratori delle imprese industriali oltre una certa soglia dimensionale – l’area a forte sindacalizzazione del mercato del lavoro – si può individuare un modello standard di funzionamento dei sussidi piuttosto generoso (soprattutto nella durata). Per i lavoratori delle imprese del settore industriale, in caso di sospensione temporanea dell’attività lavorativa, esiste l’integrazione salariale prevista dalla Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIG) la quale garantisce ai lavoratori interessati un’integrazione salariale pari all’80 per cento della retribuzione per un periodo massimo di 3 mesi consecutivi. La Cassa d’Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) copre i lavoratori di imprese che abbiano più di 15 dipendenti, nel settore industriale oppure più di 50 nel commercio. I lavoratori coinvolti in licenziamenti collettivi possono poi fruire del trattamento di mobilità, un’indennità pari a quella garantita dalla CIGS per i primi 12 mesi, e pari all’80 per cento della CIGS nei mesi successivi. Risulta quindi evidente che la differenza più rilevante tra il sistema italiano e quelli degli altri paesi europei sta nel fatto che il primo si pone come obiettivo non tanto il sostegno al reddito in caso di disoccupazione, ma piuttosto la conservazione del posto di lavoro. Ciò è confermato dal fatto che l’incidenza della spesa sul PIL per politiche passive è superiore a quella per le politiche attive: inoltre la prima mostra un trend crescente passando dallo 0.6 per cento del 2000 all’0.8 per cento del 2005. La seconda invece è sostanzialmente stabile e aveva un’incidenza dello 0.5 per cento sul PIL nel 2000 allo 0,4 per cento nel 2005.
173
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Spesso gli strumenti come la cassa integrazione sono volti a gestire gli esuberi di lavoratori e ad aiutare le imprese ad affrontare processi di ristrutturazione con elevati costi sociali. Inoltre a livello generale le spese per ammortizzatori sociali in Italia, risultando ben poco reattive al ciclo, non svolgono un’importante funzione macroeconomica di stabilizzatore automatico del ciclo economico . Le deroghe ripetute ed abituali che rappresentano una peculiarità del sistema italiano sono un segnale della frammentazione del sistema appena descritto e dell’assenza di una logica assicurativa: molto tenue è il legame tra contribuzioni e prestazioni sia a livello individuale sia a livello macroeconomico. Manca infine un collegamento tra i sussidi di disoccupazione e le misure di politica attiva volte al reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro; l’obiettivo primario dovrebbe infatti rimanere la riduzione della permanenza del disoccupato lavoratore all’interno del sistema di assicurazione contro la disoccupazione attraverso il suo reinserimento del lavoratore nel mercato del lavoro nel più breve tempo possibile.
LE CARATTERISTICHE DEGLI ORDINAMENTI IN MATERIA DI SUSSIDI DI DISOCCUPAZIONE NEI PAESI EUROPE
ITALIA
DURATA INDENNITA' (in mesi) min max 7
BELGIO DANIMARCA GERMANIA
no limite 48 12 36
GRECIA
5
12
SPAGNA
4
12
FRANCIA IRLANDA LUSSEMBURGO OLANDA
7
AUSTRIA PORTOGALLO FINLANDIA SVEZIA REGNO UNITO NORVEGIA
42 13 12
6
60
5 12
12 30 16.7 10 circa 6 26
TASSO SOSTITUZIONE (in % su retribuzione media precedente) min max 50% 40% over 50 under 50 60% 90% 60% 67% senza figli a caric con figli a carico 40% 50% operai impiegati 70% 60% primi 3 mesi dopo tre mesi 40.40% assistenza e sussidi per affitto 80% 70% del minimo salariale 55% 80% 65% nd 80% espresso in GBP 62.40% in media
Database MISSOC
L’unico strumento che sembra correlato col ciclo economico è quello della CIG ordinaria (stime di Sestito, 2006). Addirittura in alcuni casi la CIG ordinaria è considerata, da un punto di vista statistico, un buon indicatore congiunturale.
174
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
Capitolo 4 - Le tendenze del 2007 sulla base dei primi indicatori congiunturali e del mercato del lavoro
4.1 In sintesi
Il quadro tratteggiato dai dati per il 2006 è stato nel complesso incoraggiante, data la sostenuta crescita della domanda di lavoro osservata nel corso dell’anno. Interessanti quesiti si affacciano adesso riguardo alle tendenze del 2007. In particolare, i dati dell’anno in corso ci potranno dire quanto del rimbalzo osservato nel 2006 costituisca un fatto occasionale, piuttosto che l’inizio di una nuova fase di accelerazione nella crescita dell’occupazione. Allo stesso modo il 2007 dovrebbe consentire di valutare meglio la risposta dell’intero set di variabili del mercato del lavoro all’inversione del ciclo economico. Allo scopo, vi sono due tipi di informazioni sulle quali conviene volgere l’attenzione. Da un canto quelle relative agli indicatori congiunturali, al fine di caratterizzare la recente evoluzione ciclica e le prospettive per l’anno in corso. Allo stato attuale le principali informazioni a nostra disposizione sono quelle derivanti dai conti nazionali per il primo trimestre dell’anno e dagli indicatori qualitativi per i mesi successivi. Dall’altro,
i
primi
dati
relativi
nello
specifico
all’andamento
dell’occupazione sono ancora una volta quelli contenuti nei conti economici per il primo trimestre e, sempre per lo stesso periodo dell’anno, quelli dell’indagine sulle forze di lavoro. Le informazioni a nostra disposizione segnalano da un canto la tenuta del quadro congiunturale. Pur senza particolari spunti di accelerazione, l’economia italiana dovrebbe mantenersi difatti nel corso del 2007 lungo un sentiero di crescita. D’altro canto, la domanda di lavoro sembra avere fortemente decelerato a cavallo fra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Entrando però nel dettaglio degli andamenti che si osservano a livello settoriale, si osserva che la frenata del primo trimestre è anche legata a comportamenti specifici di alcuni settori come l’agricoltura, l’edilizia e il pubblico. In generale, la domanda di lavoro presenta spunti di recupero
175
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
a inizio 2007 tanto nell’industria quanto nei servizi privati. Non abbiamo quindi elementi a sufficienza per affermare che siamo alla vigilia di una inversione del peculiare mix crescita-occupazione che ha caratterizzato l’economia italiana nel corso degli ultimi anni. I dati di inizio anno confermano anche, e anzi accentuano decisamente, la debole crescita dell’offerta di lavoro, soprattutto al Sud. Continua pertanto il paradosso di un tasso di disoccupazione che flette in misura più consistente proprio nelle aree del paese dove l’occupazione va peggio.
4.2 Il ciclo dell’economia italiana nel 2007
Poco export e molte scorte nella crescita italiana del primo trimestre
I dati di contabilità relativi al primo trimestre dell’anno hanno evidenziato in Italia una crescita del Pil pari allo 0.3 per cento. La decelerazione rispetto alla crescita del trimestre precedente (+1.1 per cento) è sostanziale, anche se probabilmente sulle fluttuazioni osservate hanno influito anche effetti statistici legati alla correzione dell’attività industriale nel mese di dicembre per tenere conto delle festività del mese. Si può quindi ragionevolmente presumere che si sia verificata una sovrastima del dato di produzione di dicembre e, conseguentemente, anche una sovrastima del Pil del quarto trimestre, cui ha fatto poi seguito una correzione dei livelli produttivi da gennaio, che ha influenzato, questa volta sfavorevolmente, il Pil del primo trimestre. Sarebbe pertanto scorretto avanzare una lettura del rallentamento del primo trimestre nei termini di un segnale di decelerazione del ciclo; è piuttosto da una lettura congiunta dei dati di fine 2006 e di inizio 2007 che si coglie la dimensione del percorso di sviluppo in corso, con una crescita media che procede ad un tasso annualizzato compreso fra il 2 e il 2.5 per cento. I dati di contabilità del primo trimestre sono di interesse non solo perché consentono di disporre di una quantificazione del ritmo di crescita dell’economia italiana più ragionevole di quello che si poteva presumere basandosi sui soli dati di fine 2006, ma anche perché da essi si trae una rappresentazione decisamente più realistica del mix di domanda alla base della crescita. Difatti,
176
la
decelerazione
dello
sviluppo
deriva
innanzitutto
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
Italia - Prodotto interno lordo 1.2 0.9 0.6 0.3 0.0 -0.3 -0.6 2003
2005
2007
Var. % sul trimestre precedente
Italia - Esportazioni 5.0 4.0 3.0 2.0 1.0 0.0 -1.0 -2.0 -3.0 2003
2005
2007
Var. % sul trimestre precedente
dallâ&#x20AC;&#x2122;andamento delle esportazioni la cui crescita sul trimestre precedente si arresta allo 0.4 per cento dopo il rimbalzo del trimestre precedente (+4.3 per cento). Considerando anche la contestuale flessione delle importazioni (-0.9 per cento nel primo trimestre dopo il +1.7 per cento di fine 2006) si ottiene un contributo del net export alla crescita del prodotto ancora di segno marginalmente positivo.
177
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Variazione delle scorte - In % del Pil 1.5 1.2 0.9 0.6 0.3 0.0 -0.3 2003
2005
2007
Variazione delle scorte - Contributo alla variazione % del Pil 1.5 1.0 0.5 0.0 -0.5 -1.0 2003
2005
2007
La sostanza del dato del trimestre è dunque rappresentata dal fatto che esso è sufficiente a ridimensionare gli auspici di quanti avevano ravvisato le premesse per un recupero più solido delle esportazioni. Vi è poi un aspetto di natura più tecnica sul quale conviene soffermare l’attenzione. Nel corso del trimestre si calcola che le scorte abbiano fornito un contributo alla variazione del prodotto di segno abbondantemente negativo (-0.6 per cento). In realtà, il contributo negativo deriva dal fatto che l’accumulo (pari allo 0.6 per cento del Pil) è stato comunque decisamente inferiore a quello osservato nel corso
178
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
del trimestre precedente. Pertanto, come si osserva confrontando i due grafici allegati, nonostante il contributo negativo alla variazione del prodotto, la crescita italiana nel corso degli ultimi trimestri pare essersi gravata di un accumulo di scorte che verrà presumibilmente pagato, in termini di minore crescita, nel corso dell’anno.
Primi segnali di recupero della domanda interna
Al netto dell’evoluzione di questi fattori di carattere accidentale, vi sono invece elementi di natura decisamente più sostanziale che stanno guidando l’evoluzione del ciclo in Italia. Il primo è rappresentato dall’andamento degli investimenti in costruzioni, che hanno mostrato un altro forte incremento nel trimestre (+1.5 per cento, dopo il +2.7 per cento di fine 2006) che porta la dinamica tendenziale al 5.2 per cento. Da questo punto di vista è del tutto evidente che il ciclo dell’edilizia non pare mostrare in Italia, almeno per ora, i segnali di rallentamento che si stanno osservando invece in altri paesi. A ulteriore commento dei dati sugli investimenti in costruzioni, occorre però anche segnalare che parte del rimbalzo di fine 2006 e inizio 2007 deriva anche da fattori climatici favorevoli che hanno di fatto aumentato il numero delle giornate lavorative rispetto agli standard stagionali. Non altrettanto vivace, invece, la componente degli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto, che ha evidenziato una variazione nulla nel trimestre, in linea con la stagnazione della seconda parte del 2006. Italia - Investimenti in costruzioni 3.0 2.0 1.0 0.0 -1.0 -2.0 2003
2005
2007
Var. % sul trimestre precedente
179
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
La lettura congiunta delle tendenze degli investimenti in costruzioni e dei consumi segnala un andamento più sostenuto delle attese della domanda delle famiglie italiane, sia nella componente dei consumi che in quella degli acquisti di immobili che sta poi alla base del ciclo delle costruzioni. Tale andamento è tanto più significativo se lo si contestualizza all’interno della fase attuale, caratterizzata da una stretta fiscale.
Italia - Consumi delle famiglie 1.0 0.8 0.5
0.3 0.0 -0.3 2003
2005
2007
Var. % sul trimestre precedente
Gli andamenti settoriali secondo la contabilità
Il fatto che la ripresa in corso rifletta principalmente il recupero della domanda interna, e decisamente meno quello della domanda estera ha anche risvolti interessanti rispetto al mix settoriale che traina la crescita. I dati di contabilità nazionale evidenziano difatti come le oscillazioni del prodotto interno siano dipese principalmente dalle fluttuazioni dell’attività dell’industria in senso stretto: al forte rialzo di fine 2006 (con una crescita del valore aggiunto industriale dell’1.9 per cento) è seguita la contrazione di inizio 2007 (-0.9 per cento). Gi altri settori hanno mostrato invece un andamento più stabile rispetto all’industria. Circa le costruzioni, l’attività del settore è rimasta esuberante, rispecchiando l’evoluzione già descritta della domanda.
180
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
I servizi hanno mostrato una variazione del valore aggiunto dello 0.5 per cento dopo l’aumento dello 0.8 per cento del trimestre precedente. Tale risultato è significativo se si considera la scarsa crescita che ha contestualmente caratterizzato i servizi non vendibili.
A prescindere
del resto dalle fluttuazioni di breve, l’attività di questi settori risulta in espansione da oltre un anno, suggerendo che il ciclo è entrato in una fase oramai matura. Inoltre, il fatto che lo sviluppo si stia consolidando nei settori dei servizi è un altro chiaro sintomo del fatto che la ripresa sta interessando soprattutto le componenti interne della domanda, a fronte di una perdurante difficoltà dell’industria ad avviare un ciclo delle esportazioni robusto.
Le prospettive
Alla luce delle tendenze sopra riepilogate, il quadro delle prospettive per l’economia italiana nel corso dell’anno dovrebbe confermare un tasso di crescita anche nel 2007, così come lo scorso anno, poco al di sopra del potenziale. Le stime dei maggiori istituiti di ricerca italiani collocano la variazione del Pil su valori marginalmente inferiori al 2 per cento. Le premesse per la tenuta dello sviluppo dell’economia italiana derivano dall’orientamento favorevole della congiuntura economica internazionale, il che consente di mantenere una crescita delle esportazioni su valori prossimi al 4 per cento. La crescita trova supporto in un orientamento più favorevole della domanda interna. I segnali di recupero dei consumi materializzatisi nei mesi scorsi, e l’accelerazione degli investimenti in macchinari, consentiranno di compensare la presumibile decelerazione degli investimenti in costruzioni, in linea con le tendenze che si stanno affermando fuori dall’Italia. Infine, l’inflazione resta moderata, sebbene in lieve accelerazione per effetto del tono positivo della domanda finale. Il quadro delle previsioni così sintetizzato evidenzia una prosecuzione della fase di crescita dell’economia italiana, sebbene non sembrino al momento materializzarsi le premesse per un innalzamento ulteriore dei ritmi di crescita. A frenare l’accelerazione concorre anche la fase di crescita dei tassi d’interesse da parte della Bce che porterà i tassi al 4.5 per cento entro fine anno. Il cambiamento delle condizioni monetarie influenzerà gli sviluppi della domanda interna. Nella fase attuale il canale di trasmissione attraverso il quale l’andamento dei tassi d’interesse
181
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
modifica l’evoluzione della domanda dipendono anche dall’impatto sulle scelte dei consumatori, dato il significativo innalzamento del livello del debito delle famiglie osservato nel corso degli ultimi anni.
CONTO ECONOMICO DELLE RISORSE E DEGLI IMPIEGHI Valori concatenati - anno di riferimento 2000 - Var. %
- Pil ai prezzi di mercato - Importazioni di beni e servizi
2006 1.9 4.3
Previsioni * 2007 2008 1.8 1.7 3.9 4.3
Consumi finali interni - delle famiglie - collettivi
1.0 1.5 -0.3
1.2 1.4 0.8
1.5 1.7 0.8
Investimenti fissi lordi - macch., attrezz., mezzi tras. - costruzioni
2.3 2.6 2.1
3.2 3.6 2.7
2.6 3.6 1.5
Domanda finale interna variazioni delle scorte (*)
1.3 0.3
1.7 0.1
1.7 0.1
5.3 4.1 3.8 Esportazione di beni e servizi * Previsioni di Consenso Cer - Prometeia - REF (*) Scorte e residuo dovuto alla non additività delle componenti I dati in percentuale misurano il contributo relativo alla crescita del Pil.
4.3 Gi indicatori del mercato del lavoro Rallenta la crescita dell’occupazione a inizio 2007, ma la disaggregazione settoriale mostra un quadro ancora positivo
Alla luce dei dati sopra sintetizzati, la prima parte del 2007, si configura come una fase di consolidamento del ciclo, ma non ancora di rafforzamento. Per valutare la risposta del mercato del lavoro rispetto alla tenuta del ciclo economico si può innanzitutto fare riferimento all’andamento messo in luce dai conti economici nazionali, dai quali si osserva come la tendenza di inizio anno per l’occupazione sia risultata relativamente debole, e tutto sommato in linea con il quadro che si era andato delineando nella parte finale del 2006. Difatti la domanda di lavoro, sulla base della misura delle unità di lavoro standard di contabilità, sarebbe risultata stagnante nel primo trimestre del 2007. Considerando anche che nel terzo trimestre del 2006 si era osservata una flessione che compensava quasi del tutto la crescita del trimestre precedente, il risultato che se ne conviene è che i
182
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
livelli occupazionali si sono di fatto appiattiti a partire dall’inizio del 2006. La variazione tendenziale delle unità di lavoro ha quindi fortemente decelerato, passando da valori intorno al 2 per cento a inizio 2006 sino a un tasso di crescita quasi nullo nel primo trimestre di quest’anno. Totale economia unità di lavoro
valore aggiunto
4.0
2.0
0.0
-2.0 2005
II
III
IV
2006
II
III
IV
2007
Var. % tendenziali
Andando a guardare il profilo che emerge dai dati dell’indagine Istat sulle forze di lavoro, si trae conferma di questo andamento. L’occupazione aumenterebbe soltanto dello 0.4 per cento su base tendenziale mantenendosi di fatto stabile negli ultimi trimestri se si considera il dato destagionalizzato. La frenata dell’occupazione avrebbe interessato nella fase più recente sia i dipendenti che gli autonomi, accomunati dalla stabilizzazione del livello degli occupati. L’evoluzione sopra descritta sembrerebbe quindi deporre a favore di una lettura molto cauta circa le prospettive dell’occupazione in Italia nel 2007. Di fatto, dopo il rimbalzo avvenuto a cavallo fra la fine del 2005 e la parte iniziale del 2006, si sarebbe esaurita la spinta alla crescita della domanda di lavoro. Tenuto anche conto della contestuale fase di crescita dell’economia si potrebbe quindi essere tentati di intravedere i presupposti per l’avvio di una fase di crescita supportata in misura maggiore dalla dinamica della produttività. Tale lettura non sarebbe però del tutto corretta. Facendo riferimento alle indicazioni della contabilità
183
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
nazionale si evince difatti come l’evoluzione della domanda di lavoro sia stata condizionata nel corso degli ultimi trimestri da andamenti settoriali specifici del tutto peculiari.
Agricoltura unità di lavoro
valore aggiunto
6.0 4.0 2.0 0.0 -2.0 -4.0 -6.0 -8.0 -10.0 2005
II
III
IV
2006
II
III
IV
2007
Var. % tendenziali
Innanzitutto l’agricoltura, che in termini di unità di lavoro ha pesato per circa due decimi sulla crescita occupazionale complessiva del trimestre (con una caduta di 39mila unità di lavoro standard di contabilità rispetto al quarto trimestre del 2006). Va ricordato che il cambiamento di regime in questo settore era del tutto fisiologico dopo un anno in cui i livelli occupazionali erano rimasti stabili in presenza di una caduta del valore aggiunto. In secondo luogo le costruzioni, dove pure i livelli occupazionali si sono appiattiti da più di un anno, e che nel primo trimestre del 2007 hanno tolto un altro decimo alla crescita occupazionale nel complesso (con una contrazione di 19mila unità rispetto al trimestre precedente). Il dato delle costruzioni è apparentemente meno giustificato se si considera la contestuale esuberanza del ciclo dell’edilizia che, a cavallo fra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, è stato interessato da una crescita molto marcata. In questo caso, la chiave di lettura che ci sembra più appropriata sottolinea però aspetti più che altro di natura tecnica relativi alla destagionalizzazione dei dati di occupazione. Difatti, il forte incremento dell’attività del settore conosciuto nei mesi invernali deriva
184
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
Costruzioni unità di lavoro
valore aggiunto
8.0 6.0 4.0 2.0 0.0 -2.0 2005
II
III
IV
2006
II
III
IV
2007
Var. % tendenziali
anche in buona misura dal clima particolarmente mite, che ha aumentato di fatto il numero di giornate lavorative per l’edilizia. In termini di persone occupate questo non dovrebbe influire molto. Dovrebbe invece risultare aumentato il numero di giornate effettivamente lavorate da ciascun occupato del settore. La contabilità dovrebbe quindi registrare una crescita delle unità di lavoro ben superiore a quella degli occupati. E’ invece abbastanza ragionevole che quest’ultima variabile non sia cresciuta nonostante l’aumento del valore aggiunto dell’edilizia. Le specificità di tipo settoriale potrebbero però non arrestarsi solamente a questi due settori. Un altro elemento di lettura non agevole che traspare dai conti economici per il primo trimestre è costituito dall’andamento della domanda di lavoro nei servizi. Al proposito, le prime stime di contabilità non rendono disponibile una disaggregazione molto dettagliata, ma indicano solamente i livelli per tre settori di più ampia dimensione. Il primo di questi è quello del “Commercio, pubblici esercizi, trasporti e comunicazioni”; in questo settore le unità di lavoro aumentano dello 0.5 per cento nel primo trimestre, mostrando congiunturalmente un profilo in nuova ripresa dopo la frenata della seconda metà del 2006. Su base tendenziale la decelerazione è più ampia e riporta la dinamica della produttività su valori di segno positivo. Allo stesso modo, guardando al settore del “Credito, assicurazioni, servizi alle imprese” si osserva un buon rialzo (+0.7 per cento) dopo un secondo semestre del 2006 sostanzialmente piatto. Su base tendenziale
185
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Commercio, pubblici esercizi, traporti e comunicazioni unità di lavoro
valore aggiunto
4.0
2.0
0.0
-2.0 2005
II
III
IV
2006
II
III
IV
2007
Var. % tendenziali
la crescita occupazionale resta ancora abbastanza sostenuta; ciò che cambia è la relazione crescita/occupazione, visto che la crescita del valore aggiunto di questo settore si è portata su valori intorno al 4 per cento. Dal quadro sopra presentato si desume quindi che la domanda di lavoro nei servizi privati è già ripartita a inizio 2007, anche se la crescita delle unità di lavoro risulta nel complesso più debole rispetto al rimbalzo di fine 2005 inizio 2006. Molto diverso è anche il contesto che dà origine
Credito, assicurazioni, servizi professionali unità di lavoro
valore aggiunto
6.0
4.0
2.0
0.0
-2.0 2005
II
III
IV
2006
II
Var. % tendenziali
186
III
IV
2007
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
a tale andamento dell’occupazione, dato che nei servizi la crescita dell’economia sembra essersi oramai ben consolidata. A penalizzare il risultato complessivo per i servizi a inizio 2007 è l’andamento del settore dell’”Istruzione, sanità e altri servizi non vendibili” la cui debolezza potrebbe anche essere legata ad una più contenuta domanda di lavoro da parte dei settori del pubblico impiego, in linea con le politiche di controllo della spesa. Tale andamento è in effetti coerente con la fase di stagnazione che secondo la contabilità ha caratterizzato i consumi collettivi a prezzi costanti negli ultimi trimestri.
Istruzione, sanità, servizi non vendibili unità di lavoro
valore aggiunto
3.0
2.0
1.0
0.0
-1.0 2005
II
III
IV
2006
II
III
IV
2007
Var. % tendenziali
Resta in ultimo l’industria, e anche in questo caso il risultato non è negativo, con una debole crescita a inizio 2007 (+0.5 per cento le unità di lavoro) che compensa la decelerazione di fine 2006 (-0.7 per cento). Anche dal confronto fra l’andamento del valore aggiunto e quello delle unità di lavoro si evince come per l’industria l’andamento dell’occupazione non sia particolarmente sfavorevole. In conclusione, il risultato che si desume dai dati più recenti è che la domanda di lavoro ha certamente perso smalto dalla parte finale del 2006. Guardando però agli andamenti per i diversi settori si coglie come le tendenze di fondo segnalino già un recupero ad inizio 2007.
187
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Trasformazione industriale unità di lavoro
valore aggiunto
6.0 4.0 2.0 0.0 -2.0 -4.0 2005
II
III
IV
2006
II
III
IV
2007
Var. % tendenziali
Guardando poi alle evoluzioni secondo le caratteristiche degli occupati, una prima distinzione, quella di genere, mostra che la maggiore decelerazione interessa l’occupazione femminile, anche perché era quella che più aveva accelerato all’inizio dello scorso anno. Ma le considerazioni più interessanti paiono riguardare la dimensione territoriale dei fenomeni visto che il Mezzogiorno pare distaccarsi nuovamente dalle tendenze del resto d’Italia, dopo la diminuzione del gap registrata lo scoro anno. Possibile che su questo esito abbia pesato anche la configurazione dei risultati a livello settoriale, in considerazione del fatto che agricoltura, costruzioni e pubblico impiego sono tre settori sovrappesati nella struttura occupazionale delle regioni meridionali. Dal punto di vista delle tipologie contrattuali, i dati mostrano che la decelerazione è stata più intensa per i temporanei, e questo è plausibilmente legato anche alla forte crescita che questi avevano registrato nel corso dell’ultimo anno.
188
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
La caduta delle forze di lavoro guida la discesa della disoccupazione a inizio d’anno
La decelerazione dell’occupazione si è accompagnata ad una tendenza analoga delle forze di lavoro. La consonanza di andamento fra le due variabili è un fatto normale, ma senz’altro stupisce il fatto che il tasso di crescita della forza lavoro si sia riportato su valori decisamente di segno negativo (-0.9 per cento la variazione tendenziale nel primo trimestre). Conta ancora una volta la distinzione di genere, con una caduta più pronunciata per le donne (-1.3 per cento rispetto al –0.6 per cento dei maschi). Ma sorprende soprattutto l’intensità del divario territoriale con un vero e proprio crollo al Sud (-3.6 per cento sempre su base tendenziale, rispetto al +0.5 per cento del Nord e al –0.2 per cento delle regioni del Centro). Incrociando le distinzioni di genere e territorio si ottiene una caduta più accentuata per le donne al Sud (-4.6 per cento), ma la declinazione territoriale del fenomeno domina le tendenze rispetto alle differenze di genere. Difatti al Sud cadono anche le forze di lavoro maschili (-3.1 per cento). La caduta della forza lavoro nelle regioni meridionali, e la sua connotazione di genere, sono sviluppi che non costituiscono a livello qualitativo una novità rispetto alle tendenze degli anni passati. La dimensione assunta da tali fenomeni a inizio 2007 è però oggettivamente impressionante. Desta difatti sorpresa il fatto di riscontrare che a inizio 2007, nonostante la decelerazione delle forze di lavoro, la disoccupazione sia ancora su un sentiero di discesa. Anche in questo caso alla direzione assunta dalla variabile si aggiunge l’intensità del cambiamento. Basterà segnalare che la variazione anno su anno del numero di persone in cerca di occupazione segna una caduta del 17 per cento, che diventa del 21.8 per cento guardando ai dati delle sole regioni meridionali: se ad inizio 2006 al Sud vi erano un milione e 50mila disoccupati, a inizio 2007 se ne registrano soltanto 820mila. In ragione di tale flessione, il tasso di disoccupazione sarebbe quindi sceso dal 7.6 per cento di inizio 2006 al 6.4 per cento nel primo trimestre del 2007. In termini destagionalizzati l’Istat indica un valore del 6.2 per cento.
189
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
La caduta è condivisa dalle diverse aree, anche se è più pronunciata nel Mezzogiorno.
Occupazione e forze di lavoro Totale economia Forza lavoro
Ocupati
3.00
2.00
1.00
0.00
-1.00 2005
2006
2007
Var. % tendenziali
Al Nord il primo trimestre registra un tasso di disoccupazione al 3.8 per cento dal 4.1 per cento di un anno prima. Al Centro la discesa è di un punto pieno, dal 6.5 al 5.5 per cento. Al Sud si passa in un anno addirittura dal 14.1 all’11.4 per cento. In termini destagionalizzati, il
Occupazione e forze di lavoro nel Mezzogiorno Forza lavoro
Ocupati
2.50 2.00 1.50 1.00 0.50 0.00 2005
2006 Var. % tendenziali
190
2007
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
tasso di disoccupazione si colloca al 3.6 per cento al Nord, al 5.7 al Centro e al 10.9 per cento nel Mezzogiorno. La discesa della disoccupazione al Sud costituisce, come ricordato, soprattutto un esito della caduta della partecipazione femminile, con una significativa divergenza di genere. In particolare, la pur cospicua discesa del tasso di disoccupazione maschile - circa due punti percentuali, dall’11.4 al 9.5 per cento in un anno – è inferiore al crollo che si osserva per la componente femminile – ben quattro punti, dal 18.9 al 15 per cento. E’ ovviamente paradossale che la caduta della disoccupazione per la specifica componente femminile (-123mila disoccupati donne al Sud) derivi dall’aumento netto di 2mila posti e da una riduzione delle forze di lavoro di 121mila persone. Senza entrare ulteriormente nel dettaglio delle informazioni fornite dai dati della rilevazione sulle forze di lavoro, ci limitiamo comunque a segnalare che il menzionato fenomeno di caduta della forza lavoro al Sud è trasversale alle diverse classi di età, e presenta una intensità più accentuata per le coorti più giovani. Questa informazione serve soprattutto per escludere, nella lettura degli ultimi dati, che l’uscita dal mercato del lavoro sia legata ad una accelerazione dei pensionamenti.
Occupazione e forze di lavoro femminili nel Mezzogiorno Forza lavoro
Ocupati
6.00
3.00
0.00
-3.00
-6.00 2005
2006
2007
Var. % tendenziali
191
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Le prospettive
Naturalmente, non è inopportuno, dinanzi a informazioni di questa portata, rammentare che le informazioni derivanti da una singola rilevazione trimestrale possono presentare elementi di erraticità, il che suggerisce estrema cautela nel trarre conseguenze affrettate dalle informazioni sopra riepilogate. Anche senza dare troppa enfasi ai dati di più recente diffusione, le prospettive paiono comunque indicare che l’intensità del rimbalzo nei livelli occupazionali emerso nel 2006 non troverà conferma nell’anno in corso. Questo in parte non sorprende, data l’eccezionalità della crescita osservata lo scorso anno. Vi potrebbe però essere qualcosa di più che un semplice effetto di accidentalità statistica e, in particolare, l’avvio di un percorso di sviluppo caratterizzato da un mix crescita-occupazione meno squilibrato. Purtroppo, le evidenze di cui disponiamo sono ancora insufficienti per desumerne che siamo alla vigilia di un cambiamento di natura non transitoria. E’ comunque ragionevole che il biennio 2007-2008 possa vedere emergere, se non altro per fattura di natura ciclica prima che strutturale, un iniziale recupero della produttività del lavoro. Non ci sono però elementi che inducano per ora a ritenere prossima una stagnazione della domanda di lavoro, tale da ribadire nel corso del biennio i risultati degli ultimi trimestri. Prendendo ancora una volta a riferimento il quadro economico di consenso elaborato per il Cnel da Cer, Prometeia e Ref., osserviamo subito l’indicazione di un abbassamento della domanda di lavoro che interessa tanto l’industria quanto i servizi. I ritmi d crescita, pur in decelerazione resterebbero però soddisfacenti, con una variazione poco inferiore all’1 per cento nella media tanto del 2007 che del 2008. Come si osserva dalla tavola allegata, si tratta di valori comunque coerenti con una discesa del tasso di disoccupazione al di sotto della soglia del 6 per cento, il che ci riporterebbe in una situazione non più sperimentata nel nostro paese dagli anni settanta. Anche i risultati dell’ultimo rapporto del Progetto Excelsior, a cura di Unioncamere hanno confermato la tendenza alla decelerazione nel ritmo di creazione di nuova occupazione. Uno dei fenomeni peculiari
192
Capitolo 4. Le tendenze del 2007
messi in luce dall’indagine è che la moderazione nella crescita dello stock di occupati riflette da un canto una accelerazione del flusso di nuove assunzioni e, dall’altro, una accelerazione del flusso in uscita. Tra le cause, si segnala la previsione di un aumento delle uscite per pensionamento
OCCUPAZIONE Unità di lavoro (var. %)
Agricoltura Industria Servizi Intera Economia di cui: dipendenti
2006 0.6 1.1 2.1 1.6 2.0
6.8 Tasso di disoccupazione * Previsioni di Consenso Cer - Prometeia - REF
Previsioni * 2007 2008 -0.6 -1.3 0.7 0.5 1.5 1.6 0.9 1.0
0.9 1.1
6.4
5.9
193
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Capitolo 5 - Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro 5.1 In sintesi Il mercato del lavoro negli ultimi quindici anni è stato uno dei versanti sui quali le politiche economiche sono intervenute con maggiore frequenza. Gli aspetti su cui si è agito sono diversi. In alcuni casi si tratta di politiche che hanno influenzato direttamente il mercato del lavoro, si pensi in primis alle modifiche delle tipologie contrattuali. In altri casi il legame è meno immediato, ma ugualmente importante; si pensi ad alcuni passaggi come le modifiche nelle politiche salariali, introdotte con l’avvio della fase di concertazione a partire dai protocolli della politica dei redditi; la stessa adesione dell’Italia all’euro ha cambiato il processo di formazione delle aspettative d’inflazione e indotto a modificare i meccanismi attraverso i quali si determinano le domande salariali. Si pensi ancora alle riforme del sistema pensionistico, che vanno comunque ad influenzare le decisioni di partecipazione dei lavoratori. E’ cambiata anche la fiscalità, e questo ha inciso sui prezzi dei fattori di produzione. Le politiche economiche hanno quindi assolto un ruolo importante, alle volte determinando i cambiamenti nei comportamenti degli attori del mercato del lavoro, altre volte cercando di adeguare la normativa ai cambiamenti stessi nei comportamenti degli attori economici. In questo capitolo abbiamo scelto di soffermare l’attenzione su un numero limitato di temi di policy, fra le tante questioni che restano ancora aperte. In particolare, i temi oggetto di analisi sono tre. Il primo è relativo alla questione della flessibilità. I cambiamenti nelle tipologie contrattuali nel nostro sistema sono ancora oggetto di discussione. Nel capitolo, oltre a sintetizzare alcune delle posizioni del dibattito corrente si illustrano alcuni dati di base utili per quantificare i fenomeni oggetto di analisi. Lo strumento è quello delle matrici delle transizioni, che evidenziano i cambiamenti intervenuti nella condizione professione di diverse tipologie di lavoratori fra il 2005 e il 2006. Se l’aumento della flessibilità è stato fra i fattori che hanno concorso a spiegare la maggiore crescita dell’occupazione degli ultimi anni in Italia, è anche vero che per i prossimi anni sembrano affacciarsi per
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
il nostro paese problemi di sviluppo legati anche alla bassa crescita dell’offerta di lavoro potenziale. In termini prospettici, considerando anche l’andamento della demografia, la crescita occupazionale in Italia potrà andare incontro nei prossimi anni a limiti legati alla dimensione delle coorti dei nuovi entranti nel mercato del lavoro. Per contrastare tale tendenza occorrono politiche che sappiano intervenire su più fronti. Fra queste, quelle legate alla dimensione dei flussi migratori possono contribuire a contrastare l’evoluzione avversa del saldo naturale della popolazione. E’ anche possibile agire su una seconda leva, quella del tasso di partecipazione. Questa variabile è ancora molto bassa in Italia, soprattutto per la componente femminile. E’ quindi comprensibile che le politiche adeguate per sostenere l’aumento della partecipazione femminile risultino al centro del dibattito. Il secondo tema sul quale concentriamo l’attenzione è quello della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Il livello in Italia è ancora modesto e le cause sono fondamentalmente riconducibili alle difficoltà nella conciliazione delle resposabilità di lavoro con quelle famigliari (il cui onere tocca principalmente le donne), anche se va sottolineata la rilevanza dell’effetto-scoraggiamento in alcune aree del paese. Nel Mezzogiorno, la scarsa domanda di lavoro femminile, e quindi le difficoltà nel trovare un impiego, si traducono infatti in abbandono del mercato. Le politiche devono quindi affrontare i due aspetti: favorire, con misure family-friendly, la conciliazione, mediante il tempo parziale, i congedi e soprattutto servizi adeguati (per quantità e flessibilità dell’offerta) di child-care, ma anche incentivare una maggiore domanda di lavoro femminile. Inoltre, nell’ambito della più generale discussione di riforma del sistema fiscale, ci sono alcune proposte di utilizzo dello strumento fiscale ai fini dell’incentivazione di una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro.
196
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
5.2 Transizioni e nuove forme contrattuali Un dibattito aperto
Le politiche del lavoro adottate in Italia nel corso degli ultimi dieci anni sono state incentrate sull’introduzione di nuove tipologie contrattuali, che hanno comportato un aumento della quota dei cosiddetti “atipici”. I cambiamenti più importanti sono derivati da tre passaggi: il cosiddetto “Pacchetto Treu” del 1997, la normativa dei contratti a tempo determinato del 2001, e la “legge Biagi” del 2003. Il dibattito attuale non è ancora giunto a considerazioni conclusive sul tema. Da parte di alcuni si sottolinea l’approfondimento del carattere fortemente dualistico che i nuovi assetti normativi determinano nel mercato del lavoro. I lavoratori “flessibili” tenderebbero a collocarsi in una posizione svantaggiata, realizzando percorsi professionali discontinui. Si determinerebbe in ultima analisi una sostanziale persistenza in posizioni ai margini del mercato del lavoro. Si tratterebbe di posizioni lavorative sfavorite anche dal fatto che le frequenti discontinuità dei percorsi professionali, nonché il più basso livello dei contributi, non consentirebbero al lavoratore di maturare diritti pensionistici sufficienti per affrontare la vecchiaia. Non mancano invece quanti guardano con favore ai nuovi assetti del mercato del lavoro. Da parte di questi si fa invece notare che la sostenuta creazione occupazionale e la conseguente riduzione della disoccupazione osservata in Italia negli ultimi anni costituiscano l’esito delle riforme e ne configurino quindi il successo. Secondo la tesi più ottimista i lavoratori posizionati nei segmenti marginali del mercato del lavoro vi resterebbero per un lasso temporale limitato. Le nuove forme contrattuali avrebbero quindi essenzialmente il ruolo di favorire l’incontro fra domanda e offerta. I lavoratori, grazie anche al più contenuto costo del contratto, avrebbero una minore probabilità di restare disoccupati e potrebbero più rapidamente costituire quello stock di capitale umano minimo da rivendere sul segmento primario del mercato. Due sarebbero quindi le funzioni dei contratti flessibili: da un canto quello di agevolare una rapida transizione dalla disoccupazione all’occupazione; dall’altro, quello di generare una sorta di buffer, utile anche per fronteggiare le fasi congiunturali avverse, riducendo il rischio di disoccupazione per il lavoratore.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
L’importanza del tema giustifica anche un’analisi dei dati volta a fornire una dimensione quantitativa ai fenomeni di cui si discute. In particolare, in questa sede ci occuperemo della questione della persistenza o meno nelle posizioni di lavoro atipiche, e dei flussi di entrata e uscita dalla disoccupazione a seconda delle diverse tipologie contrattuali.
Le transizioni
Al fine di esaminare le peculiarità dei fenomeni che stanno caratterizzando il mercato del lavoro italiano, e in particolare per cogliere gli aspetti che caratterizzano i destini professionali dei lavoratori con contratto di lavoro a termine o quelli con contratti di collaborazione, utilizzeremo la rappresentazione dei dati secondo le cosiddette matrici di transizione fornite dall’Istat. Il successivo Riquadro è invece dedicato al medesimo tipo di informazioni, secondo le quantificazioni fornite in una recente indagine delle Confindustria. Le matrici di transizione forniscono una rappresentazione della popolazione in età lavorativa secondo la diversa posizione in un dato anno e nell’anno successivo. In questo modo si può cercare di cogliere i movimenti da una determinata posizione all’altra. Il set di statistiche di base si articola secondo 11 tipologie. Due di queste sono riferite ai disoccupati, in senso stretto o in cerca di prima occupazione; quattro agli inattivi (secondo la motivazione: le casalinghe, gli studenti, i pensionati e “altro”). Vi sono, infine, cinque gruppi secondo i quali vengono classificati gli occupati: i dipendenti permanenti, i dipendenti a termine, gli autonomi con un contratto di collaborazione continuativa, gli autonomi collaboratori occasionali e, infine, gli autonomi nell’accezione tradizionale del termine. Lo studio dei flussi da una condizione all’altra ci permette dunque di fornire una quantificazione di alcuni fenomeni alla base di una serie di questioni. La prima si riferisce al passaggio dalla condizione di disoccupato o inattivo a quella di occupato. L’obiettivo è quello di capire con quale frequenza si transita dalla condizione di inoccupato a quella di occupato attraverso un contratto temporaneo o di collaborazione. La seconda è relativa ai passaggi di condizione: con riferimento all’ipotesi di persistenza o transitorietà della posizione di lavoratore “atipico”, alla diversa probabilità di disoccupazione che caratterizza questi
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Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Riquadro 5.1 - Gli interventi della Legge Finanziaria per il 2007 L’ipotesi di favorire fiscalmente la transizione dai contratti di lavoro atipici verso il contratto a tempo indeterminato è stata già in passato al centro delle politiche economiche. In particolare, si ricorda il più importante intervento legislativo sul tema, costituito dal credito d’imposta del 2001 per le assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Anche la Legge finanziaria per il 2007 ha dato un segnale in questa direzione con riferimento ai provvedimenti di riduzione del cuneo fiscale. Si stabilisce difatti una diminuzione della base imponibile Irap di 5mila euro l’anno (10mila per le regioni del Mezzogiorno) con riferimento ai lavoratori a tempo indeterminato. Si determina in questo modo una flessione mirata del costo del lavoro per i contratti a tempo indeterminato, riducendone lo svantaggio rispetto ai temporanei. La Finanziaria, inoltre, cerca di incentivare la crescita della quota del personale con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Difatti, per le imprese che incrementano l’occupazione a tempo indeterminato “in ciascuno dei tre periodi di imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2004”, si ha una riduzione del rispettivo costo ai fini della determinazione della base imponibile dell’Irap per un importo annuale non superiore ai 20mila euro per ogni nuovo dipendente.
lavoratori rispetto ai dipendenti permanenti e, infine, alla transizione verso la posizione di lavoratore autonomo. Ci si riferisce quindi alla frequenza del passaggio verso un contratto a tempo indeterminato rispetto alla possibilità che un lavoratore con un contratto atipico persista in quella data posizione; si va anche ad esplorare l’ipotesi che i lavoratori con contratto flessibile siano a maggiore rischio di perdita del posto di lavoro. Riguardo alla transizione dalla e verso la condizione di lavoratore autonomo, l’obiettivo è quello di considerare in che misura le nuove forme contrattuali più flessibili abbiano una certa permeabilità con il segmento degli autonomi, che di per sé costituisce un segmento del mercato del lavoro con un grado medio di flessibilità abbastanza elevato. Un altro insieme di quesiti riguarda la concentrazione delle forme contrattuali flessibili in alcuni segmenti del mercato; in particolare, volgiamo l’attenzione alla distribuzione di questi contratti secondo la dimensione di genere, le fasce d’età, e la dimensione territoriale.
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Alla ricerca del primo impiego
L’ingresso nel mercato del lavoro da parte di chi non ha mai lavorato può essere analizzato considerando innanzitutto un primo flusso, costituito da quanti erano inattivi nel 2005 e sono entrati nel mercato del lavoro nel corso del 2006. Per queste figure si può quindi parlare di lavoratori di primo ingresso nel mercato . Nel 2006 i nuovi entranti nel mercato del lavoro sono stati poco più di 2 milioni, un valore superiore a quello dell’anno precedente (circa un milione e 750mila), il che è coerente con la accelerazione della dinamica della forza lavoro descritta nei precedenti capitoli. La collocazione nel mercato dei nuovi entranti è risultata articolata come segue: il 15.6 per cento (circa 315mila persone) è rimasto ancora alla ricerca del primo impiego, mentre il 18.9 per cento (circa 380mila persone) ha avuto un’esperienza lavorativa conclusasi però nel corso dell’anno . La probabilità di restare disoccupati per i nuovi entranti si è quindi ridotta: difatti, nel 2005 il 39.5 per cento di coloro che erano entrati nel mercato del lavoro l’anno prima risultava disoccupato, contro il 34.5 per cento del 2006. Se la congiuntura più favorevole ha aumentato l’offerta e ridotto la probabilità di restare disoccupati, è interessante anche fornire una valutazione sulle tipologie contrattuali che hanno caratterizzato i lavoratori alle prime esperienze professionali. Il 65.5 per cento di quanti sono entrati nel mercato nel 2006 ha mantenuto un impiego nel corso dell’anno. La tipologia contrattuale prevalente è stata quella del lavoro dipendente permanente che in quota sul totale dei nuovi entranti nella forza lavoro è risultata prossima al dato dell’anno precedente (dal 23.6 al 23.4 per cento). E’ invece aumentata l’incidenza dei lavoratori dipendenti a termine, il cui peso è stato pari al 22.8 per cento rispetto al 19.7 per cento dell’anno prima. Allo stesso modo aumenta la quota di quanti sono entrati nel mercato del lavoro con un contratto di collaborazione continuativa (dal 3.2 al 3.7 per cento) o di collaborazione occasionale (dall’1 al 2.5 per cento) mentre resta relativamente stabile la quota degli occupati autonomi (dal 12.8 al 13.1 per cento). Naturalmente non è certo che questo sia il caso per tutti gli inattivi del 2005. In particolare, alcuni lavoratori inattivi nel 2005 potrebbero avere lavorato nel corso degli anni precedenti. E’ comunque chiaro che la platea di quanti sono alla ricerca del primo impiego rappresenta la quota più ampia in questo aggregato.
Si tratta cioè di soggetti che essendo inattivi nel corso del 2005 risultano rispettivamente collocati nel 2006 nelle classi di soggetti “in cerca di prima occupazione” e “in cerca di nuova occupazione”.
200
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Riquadro 5.2 – I risultati dell’indagine Confindustria Fra gli esercizi di monitoraggio del cambiamento del mercato del lavoro va senz’altro menzionato anche il lavoro della Confindustria (Confindustria, 2007) che ha svolto un’indagine presso i propri associati finalizzata a raccogliere informazioni sulle tipologie contrattuali che hanno caratterizzato le assunzioni e i flussi di uscita dalle aziende nell’anno 2005. L’indagine è stata estesa a imprese dei settori industriali e dei servizi ed ha coperto
le diverse classi dimensionali, coinvolgendo anche le
imprese di piccola dimensione. Il principale risultato emerso dall’analisi della Confindustria è che all’interno dello stock di lavoratori alle dipendenze, quelli con contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresentano una quota predominante, il 96 per cento sul totale, con un leggero differenziale di genere (94 per cento per le donne contro il 96.5 per cento per i maschi). Questo risultato parrebbe segnalare che la quota di lavoratori temporanei sullo stock è molto contenuta. La conclusione che si trae da questi dati è che evidentemente la dimensione dei flussi di ingresso nella platea degli atipici è di fatto controbilanciata da un flusso rilevante di uscita, evidentemente verso la tipologia del contratto di lavoro a tempo indeterminato. In termini di flussi, i dati segnalano che le assunzioni avvengono con contratti a tempo indeterminato nel 51 per cento dei casi, il contratto a tempo determinato caratterizza nel 45 per cento dei casi le assunzioni, i contratti di inserimento e di apprendistato hanno quote più piccole (3 per cento e 1.2 per cento rispettivamente). Guardando alla conversione dei contratti di lavoro, si ottiene una misura dei contratti atipici convertita in contratti di lavoro a tempo indeterminato del 36 per cento. Tale valore è poco più elevato di quello segnalato dai dati Istat sulle transizioni, di cui discutiamo nel dettaglio nel seguito, che indica una trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato nel 29 per cento dei casi. Anche nei dati sullo stock i risultati dell’indagine Confindustria sono leggermente più alti di quelli Istat, che indicano che la quota dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato sul totale dei lavoratori alle dipendenze è pari all’88 per cento, rispetto al 96 indicato dalla Confindustria. Gli ordini di grandezza non sono comunque molto diversi tenuto anche conto del fatto che le differenze possono essere spiegate dal fatto che i dati Istat si riferiscono all’intero universo dei lavoratori italiani. I dati presentati dall’indagine della Confindustria, declinati peraltro con un dettaglio decisamente più disaggregato rispetto alla sintesi qui presentata, propongono una chiave di lettura secondo la quale le
201
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
nuove tipologia contrattuali sarebbero state utilizzate dalle imprese principalmente come strumento per agevolare la fase d’ingresso nel mercato del lavoro, anche finalizzato a contenere i costi di selezione e di training dei nuovi entrati.
I dati ci consentono dunque di fornire una risposta ad un primo quesito: nel 2006 la più favorevole congiuntura della domanda di lavoro ha aiutato i nuovi entranti, che difatti sono con minore frequenza caduti nella condizione di disoccupato. Non è però aumentata la percentuale di quanti sono riusciti a trovare un impiego a tempo indeterminato (sebbene a parità di quota il loro numero sia più elevato). In generale, la maggiore domanda di lavoro si è manifestata attraverso un aumento dei neoassunti con contratti a termine o contratti di collaborazione.
APPARTENENTI ALLA FORZA LAVORO CHE RISULTAVANO INATTIVI L'ANNO PRECEDENTE PER CONDIZIONE PROFESSIONALE Composizione %
Disoccupati In cerca di prima occupazione In cerca di nuova occupazione Occupati Occupato dipendente permanente Occupato dipendente a termine Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro autonomo
202
Totale 2005 2006 39.5 34.5 19.9 15.6 19.6 18.9
Maschi 2005 2006 37.6 31.9 20.3 14.4 17.3 17.6
Femmine 2005 2006 41.1 36.2 19.6 16.4 21.5 19.9
60.5 23.6 19.7
65.5 23.4 22.8
62.4 24.4 21.3
68.1 24.7 24.6
58.9 23.1 18.3
63.8 22.6 21.4
3.2
3.7
2.9
3.4
3.5
4.0
1.1 12.8
2.5 13.1
0.5 13.3
2.0 13.4
1.5 12.4
2.9 12.9
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Dalla disoccupazione all’occupazione
Un altro segmento di cui è interessante valutare le opportunità di ingresso nel mercato del lavoro è quello di coloro che un anno prima erano già presenti nel mercato, ma in veste di disoccupati. Dato lo stock di disoccupati al 2005 (poco più di un milione e 800mila) circa un terzo risultava inattivo l’anno successivo, era cioè uscito dal mercato. Di quelli ancora presenti nel mercato del lavoro nel 2006 (un milione e 200mila) 520mila erano ancora disoccupati; vale a dire che il 43.5 per cento di quanti erano disoccupati nel 2005 (e al netto di quanti di questi sono usciti dal mercato del lavoro) lo erano ancora nel 2006. Il dato segnala un forte miglioramento del mercato del lavoro nel corso dell’anno. Difatti, tale quota era pari al 53.1 per cento nel 2005. L’aumento della probabilità di trovare un impiego da parte dei disoccupati ha fatto sì che aumentasse la quota di quanti riescono a trovare un lavoro con un contratto a tempo indeterminato. Dal 20.3 per cento del 2005, si passa al 21.2 per cento del 2006. Gli incrementi più rilevanti riguardano però la quota di quanti trovano un impiego a termine, dal 17.6 per cento del 2005 al 20.8 per cento del 2006. E’ anche aumentata molto la probabilità di passaggio verso le posizioni di lavoro autonomo. In conclusione, andando a guardare il gruppo di quanti erano disoccupati l’anno prima si scorge ancora una volta nitidamente l’effetto congiunturale di flessione della disoccupazione, ma ancora una volta non sembra che l’inversione della domanda abbia favorito una maggiore propensione a transitare verso i contratti a tempo indeterminato. Da questo tipo di dati si evince anche nitidamente il ruolo che il contratto a termine svolge come collegamento fra la disoccupazione e l’ingresso nel mondo del lavoro. L’uscita dalla disoccupazione è difatti sovente caratterizzata da un impiego a termine.
APPARTENENTI ALLA FORZA LAVORO CHE RISULTAVANO DISOCCUPATI L'ANNO PRECEDENTE PER CONDIZIONE PROFESSIONALE Composizione %
Disoccupati In cerca di prima occupazione In cerca di nuova occupazione Occupati Occupato dipendente permanente Occupato dipendente a termine Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro autonomo
Totale 2005 2006 53.1 43.5 17.8 14.7 35.3 28.8
Maschi 2005 2006 49.5 38.3 12.8 11.9 36.7 26.4
Femmine 2005 2006 57.3 49.4 23.6 17.7 33.7 31.7
46.9 20.3 17.6
56.5 21.2 20.8
50.5 20.5 19.1
61.7 22.1 20.1
42.7 19.8 16.0
50.6 20.2 21.6
1.9
3.4
1.2
3.5
2.6
3.4
0.9 6.3
0.6 10.4
0.6 9.0
0.9 15.1
1.2 3.1
0.2 5.2
203
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
La distinzione di genere
Le caratteristiche dell’ingresso nel mercato del lavoro possono anche essere declinate per genere. Dalle due tavole precedenti si osserva subito la minore probabilità di trovare un lavoro per le donne rispetto ai maschi. Questo avviene sia facendo riferimento a coloro che l’anno prima erano inattive, che a quante erano disoccupate. Se nel 2006 il 68 per cento dei maschi inattivi l’anno precedente aveva trovato un lavoro, per le donne questa quota scende al 64 per cento. Allo stesso modo il 62 per cento dei maschi disoccupati nel 2005 aveva trovato un lavoro nel 2006, mentre questa percentuale per le donne scende al 51 per cento. Considerando coloro che hanno trovato un impiego nel corso dell’anno, la frequenza delle diverse tipologie contrattuali non è però molto diversa fra uomini e donne. Nel segmento di coloro che erano inattivi l’anno prima si osserva però subito come per le donne alla maggiore quota delle disoccupate corrisponda una minore quota di occupate dipendenti, sia a tempo indeterminato che a termine, mentre maggiore è l’incidenza fra le donne dei contratti di collaborazione. Guardando a quanti l’anno precedente erano invece disoccupati, le divergenze sono ancora contenute, e in questo caso cade decisamente la quota delle donne che entrano nel mercato nella posizione di lavoratrice autonoma. Infine, per quanto riguarda il cambiamento intervenuto fra il 2005 e il 2006, i commenti dei paragrafi precedenti valgono sia per gli uomini che per le donne. Da segnalare comunque come soprattutto per le donne sia aumentata la quota di quante passano dallo stato di disoccupato a quello di occupato con un contratto a termine. In generale, dai dati si osserva come mentre l’effetto di genere è ben visibile guardando al rischio di disoccupazione, decisamente superiore nel caso delle donne rispetto ai maschi, lo stesso non si può dire facendo riferimento al tipo di contratto con cui avviene l’ingresso nell’occupazione. Le divergenze fra maschi e femmine da questo punto di vista sono decisamente contenute.
204
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Persistenza nelle posizioni degli “atipici”
Il secondo quesito che affrontiamo è rappresentato dalla valutazione della transitorietà o meno della posizione di lavoratore atipico . In particolar modo, è possibile soffermarsi sulla tendenza dei lavoratori che hanno contratti di lavoro a tempo non indeterminato a persistere nel tempo in questo tipo di forma contrattuale. I dati, riassunti nella tavola allegata, cercano di illustrare la frequenza con la quale un lavoratore con un contratto di lavoro temporaneo o con un contratto di collaborazione tende a avere una riconferma della medesima tipologia contrattuale. In particolare, i lavoratori a termine lo sono nel 61 per cento dei casi anche l’anno successivo e lo stesso dicasi per le collaborazioni continuative, per le quali i lavoratori confermano la medesima tipologia contrattuale nel 65 per cento dei casi. Gli occasionali tendono a cambiare tipo di contratto con maggiore frequenza, ma nel complesso resta scarsa la transizione verso i contratti a tempo indeterminato. La frequenza della persistenza nella medesima tipologia contrattuale è aumentata fra il 2005 e il 2006. In particolare, il 58 per cento dei lavoratori con contratto a termine nel 2004 aveva ancora un contratto a termini nel 2005. Tra il 2005 e il 2006 questa percentuale è salita al 61 per cento. Si noti come l’aumento di questa percentuale sia una buona notizia, visto che fra il 2005 e il 2006 ad esso corrisponde simmetricamente una flessione di quanti passano dal contratto a termine alla disoccupazione. La trasformazione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato è avvenuta nel 29 per cento dei casi, percentuale che scende al 12 per cento nel caso dei collaboratori. In valore assoluto questo equivale a dire che dei 2 milioni 560mila lavoratori con contratto a termine o in collaborazione del 2005 che erano ancora attivi nel 2006 590mila aveva modificato la propria posizione passando ad un contratto a tempo indeterminato, un milione e mezzo erano quelli che continuavano a lavorare mantenendo un impiego flessibile, mentre ben 135mila risultavano disoccupati nel 2006. In queste tavole esaminiamo le transizioni escludendo dal computo la possibilità di uscita verso l’inattività. Questo perché eventuali accelerazioni o decelerazioni nel tasso di turn over legate ai pensionamenti possono portare una distorsione dei risultati aggregati. Naturalmente anche la scelta da noi effettuata non è esente da problemi, visto che parte delle uscite verso l’inattività possono essere involontarie.
205
206
Occupato dipendente permanente Occupato dipendente a termine Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro
Condizione nel 2004
Occupato dipendente permanente Occupato dipendente a termine Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro
Condizione nel 2005
9.3
15.4 0.9
12.4
12.3 3.8
2.8 58.4
6.6
13.3 1.2
94.2 29.1
10.8
5.3 3.8
Dipendente a termine
61.2
28.8
Dipendente permanente
2.2
Dipendente a termine
95.2
Dipendente permanente
41.5 0.1
0.5
0.4
0.0
13.3 0.2
66.6
1.4
0.3
48.0 0.0
3.0
0.2
0.0
Condizione nel 2005 Autonomo Autonomo collaboratore collaboratore occasionale continuativo
6.2 0.2
64.6
1.3
0.2
Condizione nel 2006 Autonomo Autonomo collaboratore collaboratore occasionale continuativo
14.7 93.2
6.9
1.9
1.2
"altro autonomo"
16.9 93.8
7.1
2.5
1.2
"altro autonomo"
IL CAMBIAMENTO DELLA CONDIZIONE PROFESSIONALE DEI LAVORATORI
5.3 1.5
6.0
9.0
1.5
Disoccupato
7.7 1.2
6.1
5.8
1.3
Disoccupato
100.0 100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
100 100
100
100
100
Totale
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Come si accede al contratto a tempo indeterminato
Un altro modo per comprendere come le nuove forme contrattuali non siano sempre una fase di passaggio per accedere poi al contratto a tempo indeterminato è costituita dall’analisi della transizione verso questa forma contrattuale standard. Nel 2006 i neoassunti con contratto di lavoro alle dipendenze a tempo indeterminato sono stati circa un milione e mezzo. Di questi il 35 per cento aveva l’anno prima un contratto a termine, e un 3.5 per cento circa veniva dai contratti di collaborazione. Il 13 per cento circa dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato veniva poi dalle fila del lavoro autonomo. Nel complesso quasi la metà delle nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato è invece avvenuta per personale precedentemente inattivo o disoccupato.
I NUOVI ASSUNTI CON CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO SECONDO LA CONDIZIONE DELL'ANNO PRECEDENTE livello in migliaia composizione % 2005 2006 2005 2006 Disoccupato 249 254 18.0 16.7 Inattivo 416 475 30.0 31.3 Occupato dipendente a termine 486 537 35.0 35.3 Occupato autonomo collaboratore 36 47 2.6 3.1 continuativo Occupato autonomo collaboratore 4 8 0.3 0.5 occasionale Occupato altro autonomo 196 199 14.1 13.1 Totale 1387 1520 100 100
Maggiore rischio di disoccupazione per chi non ha un contratto a tempo indeterminato
Una differenza importante fra i lavoratori con contratti a tempo indeterminato e gli altri lavoratori è rappresentata dal fatto che questi ultimi hanno una probabilità maggiore di cadere in una situazione di disoccupazione. Difatti, nel 2006 risultava disoccupato soltanto l’1.3 per cento di coloro che avevano un contratto a tempo indeterminato l’anno prima, mentre tale percentuale sale al 5.8 per cento per i contratti a termine, al 6 per cento per le collaborazioni continuative e al 7.7 per cento per gli occasionali. Un aspetto da segnalare è che fra il 2005 e il 2006, in corrispondenza del miglioramento del ciclo economico, non si è osservato un aumento del tasso di conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, mentre si è contratta la percentuale di coloro che dalla condizione di atipico cadono in quella di disoccupato.
207
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Propensione maggiore dei temporanei a diventare dipendenti
Un ultimo aspetto su cui soffermare l’attenzione è costituito dal fatto che i lavoratori a termine tendono anche con una bassa frequenza a diventare lavoratori autonomi. Nel 2006 la percentuale di lavoratori a termine che sono diventati lavoratori autonomi è stata pari al 2.5 per cento, rispetto al 29 per cento che si sono trasformati in dipendenti permanenti. Il rapporto, di oltre uno a dieci, è decisamente più elevato del rapporto fra autonomi e dipendenti (quasi uno a quattro). Lo stesso non può dirsi per le collaborazioni, che tendono a trasformarsi con maggiore frequenza in autonomi a tutti gli effetti.
Il lavoro temporaneo non è soltanto prerogativa dei giovani
Naturalmente, poiché il lavoro fuori dai contratti a tempo indeterminato è prerogativa delle posizioni di ingresso nel mercato del lavoro, o delle transizioni dalla disoccupazione verso l’impiego, è naturale attendersi come l’incidenza di questo tipo di contratti sia più elevata nei segmenti della forza lavoro in età più giovane. E’ possibile quindi replicare la matrice di transizione di quanti erano occupati nel 2005 per verificarne la condizione professionale nel 2006 andando a guardare all’articolazione secondo le diverse fasce d’età. Le matrici che descrivono l’articolazione dei flussi secondo le classi di età sono analoghe a quelle viste in precedenza. E’ stata anche aggiunta un’ultima colonna che fornisce la quantificazione del livello assoluto per il totale. Dalle tavole si coglie subito come sebbene i contratti a termine e le collaborazioni riguardino maggiormente i lavoratori giovani, tale risultato non va enfatizzato troppo. I contratti a termine sono difatti molto presenti anche nelle fasce della popolazione sopra i 35 anni. I dati segnalano anzi che un quarto dei lavoratori con contratto a temine rientra nella fascia d’età compresa fra i 35 e i 44 anni e il 12 per cento nella fascia 45-54. Naturalmente, la transizione è diversa a seconda delle fasce d’età. Senza entrare nel dettaglio di tutti i flussi, possiamo guardare alla conversione dei contratti a termine e di quelli di collaborazione in contratti a tempo indeterminato. Quello che i dati segnalano è un tasso di conversione dei contratti a termine del 33 per cento e del 14 per cento per i co.co.co, nel caso dei lavoratori di età compresa fra i 25 e i
208
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
34 anni. Tali percentuali scendono al 26 e al 13 per cento guardando alla fascia d’età compresa fra 35 e 44 anni, e si riducono ulteriormente (al 23 e ancora 13 per cento) per la fascia d’età fra 45 e 54 anni. In generale, se ne desume che il fenomeno del contratto a temine vissuto come transizione verso il contratto a tempo indeterminato è più frequente nel caso dei giovani mentre, viceversa, la persistenza nei contratti a termine aumenta per le coorti più anziane.
Maggiore incidenza del lavoro temporaneo nel Mezzogiorno
La rappresentazione sopra utilizzata per le fasce d’età può essere riproposta con riferimento all’articolazione territoriale dei fenomeni in esame. E’ da questa distinzione che emergono i risultati più importanti. Se le differenze sulla base del genere o delle classi d’età risultano difatti tutto sommato abbastanza contenute, le divaricazioni territoriali sono più accentuate. A parte la dimensione dello stock dei lavoratori a termine che nel Sud è al 13 per cento mentre nel resto del paese è pari all’8 per cento, tutte le forme di transizione sono più sfavorevoli al Sud. Innanzitutto vi è una minore probabilità di transizione dal contratto a termine verso il tempo indeterminato. Questo coefficiente è massimo nel Nord ovest, dove raggiunge il 39.3 per cento, e si riduce al 26 per cento al Sud. Va però segnalato che il valore di questa statistica è ancor più basso al centro (23.4 per cento). La minore probabilità di trasformazione di un contratto alle dipendenze da contratto a termine a contratto a tempo indeterminato che caratterizza le regioni del Sud e quelle del Centro è associata ad una maggiore probabilità di persistenza nella posizione di lavoratore a termine. Infine, un altro aspetto da notare è anche la diversa probabilità di transizione in senso contrario. Se si guarda ai lavoratori che nel 2005 avevano un contratto di lavoro permanente, si osserva come una percentuale contenuta, il 2 per cento avesse un contratto a termine nel 2006; tale percentuale sale al 3 per cento se si guarda al caso del Mezzogiorno. Inoltre è da segnalare come al Sud sia anche maggiore la probabilità di perdita del posto di lavoro per quanti hanno un contratto a tempo indeterminato. Tale percentuale risulta difatti pari al 2.5 per cento rispetto ad un valore inferiore all’1 per cento nel resto d’Italia.
209
210
LAVORATORI DI ETA' COMPRESA FRA I 25 E I 34 ANNI Condizione nel 2006 Condizione nel 2005 Dipendente Dipendente a Autonomo Autonomo permanente collaboratore termine collaboratore occasionale continuativo Occupato dipendente 93.9 2.4 0.2 0.0 permanente Occupato dipendente a 33.3 57.2 2.1 0.3 termine Occupato autonomo collaboratore 14.0 7.0 58.6 0.0 continuativo Occupato autonomo collaboratore 17.4 26.1 8.7 21.7 occasionale Occupato altro 6.3 1.7 0.5 0.0 autonomo
LAVORATORI DI ETA' COMPRESA FRA I 15 E I 24 ANNI Condizione nel 2006 Autonomo Dipendente Dipendente a Autonomo Condizione nel 2005 collaboratore permanente termine collaboratore occasionale continuativo Occupato dipendente 83.5 9.4 0.4 0.0 permanente Occupato dipendente a 29.5 59.3 1.1 0.0 termine Occupato autonomo collaboratore 10.0 26.7 53.3 0.0 continuativo Occupato autonomo collaboratore 0.0 22.2 22.2 44.4 occasionale Occupato altro 9.0 1.3 0.0 0.6 autonomo
5.2
11.5
13.0 1.5
8.9
13.0 90.0
5.2
83.9
1.8
11.1
0.0
1.4
1.7
8.3
2.1
6.1
3.9
Disoccupato
5.2
1.6
"altro autonomo"
Disoccupato
"altro autonomo"
IL CAMBIAMENTO DELLA CONDIZIONE PROFESSIONALE DEI LAVORATORI PER FASCE D'ETA'
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
1 216
27
166
719
3 917
Totale migliaia
176
15
65
507
901
Totale migliaia
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
LAVORATORI DI ETA' COMPRESA FRA I 45 E I 54 ANNI Condizione nel 2006 Condizione nel 2005 Dipendente Dipendente a Autonomo Autonomo permanente collaboratore termine collaboratore occasionale continuativo Occupato dipendente 97.7 1.1 0.0 0.0 permanente Occupato dipendente a 22.2 68.4 0.0 1.7 termine Occupato autonomo collaboratore 13.0 2.2 78.3 0.0 continuativo Occupato autonomo collaboratore 18.2 9.1 0.0 63.6 occasionale Occupato altro 2.7 0.9 0.1 0.1 autonomo
LAVORATORI DI ETA' COMPRESA FRA I 35 E I 44 ANNI Condizione nel 2006 Autonomo Condizione nel 2005 Dipendente Dipendente a Autonomo collaboratore permanente termine collaboratore occasionale continuativo Occupato dipendente 95.7 1.8 0.3 0.0 permanente Occupato dipendente a 26.3 63.9 0.8 0.4 termine Occupato autonomo collaboratore 13.3 6.0 71.1 1.2 continuativo Occupato autonomo collaboratore 6.3 6.3 0.0 56.3 occasionale Occupato altro 3.2 0.6 0.1 0.1 autonomo
4.7
2.2
0.0 0.9
4.8
25.0 94.8
1.2
94.8
1.3
6.3
25.0
0.6
3.6
4.8
1.1
7.3
1.3
Disoccupato
1.1
1.1
"altro autonomo"
Disoccupato
"altro autonomo"
IL CAMBIAMENTO DELLA CONDIZIONE PROFESSIONALE DEI LAVORATORI PER FASCE D'ETA'
99.5
115.9
100.5
98.3
100.7
Totale
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
1 426
11
48
257
3 912
Totale migliaia
1 918
17
88
518
4 965
Totale migliaia
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
211
212
LAVORATORI DI ETA' COMPRESA FRA I 55 E I 64 ANNI Condizione nel 2006 Autonomo Condizione nel 2005 Dipendente Dipendente a Autonomo collaboratore permanente termine collaboratore occasionale continuativo Occupato dipendente 97.2 1.7 0.1 0.0 permanente Occupato dipendente a 21. 66. 0.0 0.0 termine Occupato autonomo collaboratore 6.7 3.3 83.3 0.0 continuativo Occupato autonomo collaboratore 16.7 16.7 0.0 33.3 occasionale Occupato altro 2.0 0.1 0.3 0.3 autonomo
Disoccupato
0.4 5.0
0.0
0.0 0.5
"altro autonomo" 0.6 6.
6.7
33.3 96.7
IL CAMBIAMENTO DELLA CONDIZIONE PROFESSIONALE DEI LAVORATORI PER FASCE D'ETA'
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
850
10
37
9
1 175
Totale migliaia
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
3.8
16.7 1.1
16.7 3.6
62.4
2.1
20.3
27.0
Occupato dipendente a termine
Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro autonomo
95.6
Dipendente a termine
0.9
3.3
Dipendente permanente
9.5
9.5
Occupato dipendente permanente
Condizione nel 2005
NORD EST
7.6
8.4
1.8 51.7
Occupato dipendente permanente
Dipendente a termine
39.3
96.3
Condizione nel 2005
Occupato dipendente a termine Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro autonomo
Dipendente permanente
NORD OVEST
0.0
47.6
0.0
0.2
0.0
0.3
0.0
65.8
0.0
0.3
0.3
33.3
0.0
1.7
0.0
Condizione nel 2006 Autonomo Autonomo collaboratore collaboratore occasionale continuativo
0.1
9.5
73.1
1.8
0.1
Condizione nel 2006 Autonomo Autonomo collaboratore collaboratore occasionale continuativo
94.4
33.3
7.6
2.5
1.4
"altro autonomo"
94.7
14.3
5.9
2.1
0.9
"altro autonomo"
IL CAMBIAMENTO DELLA CONDIZIONE PROFESSIONALE DEI LAVORATORI PER AREA TERRITORIALE
0.3
0.0
2.5
6.5
0.6
Disoccupato
1.0
9.5
5.0
4.8
0.8
Disoccupato
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
1 237
13
85
393
3 250
Totale migliaia
1 595
25
124
467
4 657
Totale migliaia
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
213
214
Occupato dipendente a termine Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro autonomo
Occupato dipendente permanente
Condizione nel 2005
MEZZOGIORNO
Occupato dipendente a termine Occupato autonomo collaboratore continuativo Occupato autonomo collaboratore occasionale Occupato altro autonomo
Occupato dipendente permanente
Condizione nel 2005
CENTRO
23.5 0.3
11.8 3.9
63.7
17.6
18.8 1.1
11.8
12.5 4.3
3.0
26.2
92.7
Dipendente a termine
9.9
10.8
Dipendente permanente
66.9
1.9
Dipendente a termine
23.4
96.2
Dipendente permanente
0.0
23.5
0.0
0.0
0.0
0.2
0.0
52.9
1.4
0.1
0.2
56.3
1.5
0.0
0.1
Condizione nel 2006 Autonomo Autonomo collaboratore collaboratore occasionale continuativo
0.3
11.8
63.1
1.3
0.2
Condizione nel 2006 Autonomo Autonomo collaboratore collaboratore occasionale continuativo
91.9
0.0
7.4
2.7
1.7
"altro autonomo"
94.5
23.5
8.1
2.4
0.8
"altro autonomo"
IL CAMBIAMENTO DELLA CONDIZIONE PROFESSIONALE DEI LAVORATORI PER AREA TERRITORIALE
2.3
12.5
8.8
6.0
2.5
Disoccupato
1.0
5.9
8.1
5.9
0.9
Disoccupato
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Totale
1 631
19
74
818
3 977
Totale migliaia
1 124
23
121
402
2 986
Totale migliaia
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Maggiore probabilità di scoraggiamento per chi perde un lavoro al Sud
Un fenomeno che invece va in direzione apparentemente contraria rispetto a quello che si potrebbe presumere è costituito dal fatto che la probabilità di passare da un lavoro a termine verso la disoccupazione non ha presentato grosse divergenze territoriali nel 2006. Inoltre l’uniformità di questo valore lungo il territorio nazionale è stata una peculiarità del 2006. L’anno prima, difatti, la percentuale di contratti a termine risoltisi in uno stato di disoccupazione era risultato molto più alto al Nord e al Centro. La trasformazione del contratto a termine in uno stato di disoccupazione è avvenuta nel 6 per cento dei casi circa. Tale risultato va però qualificato considerando anche i flussi di uscita dal mercato del lavoro, guardando cioè alla transizione dal contratto a termine verso l’inattività. In particolare, risulta molto più frequente nel Mezzogiorno il caso di lavoratori che alla fine del contratto a termine escono direttamente dal mercato. Tali lavoratori non sono rappresentati nel precedente set di tavole, che si riferisce alle trasformazioni “interne” al mercato del lavoro e non tiene conto dei flussi in uscita, che possono dipendere anche dai normali flussi di pensionamento. Per illustrare l’incidenza di questo tipo di flussi, si può fare riferimento all’evidenza riportata nei due grafici allegati che mostrano, per i lavoratori temporanei, la quota di quanti, avendo un contratto a termine nel 2005, risultavano disoccupati nel 2006, e la quota di quanti risultavano inattivi, sempre nel 2006 . In questo modo si ottiene anche una indicazione del fatto che la posizione di temporaneo caratterizza al Sud soprattutto i lavoratori che si trovano ai “margini” del mercato e che possono più facilmente cadere in condizioni di scoraggiamento a seguito del mancato rinnovo di un contratto a termine. Allo scopo di evidenziare come questo tipo di fenomeni incida in misura maggiore per i temporanei, lo stesso tipo di rappresentazione è fornita anche con riferimento a coloro che nel 2005 avevano un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Quello che emerge è una maggiore propensione di chi perde un lavoro da una posizione contrattuale più forte, come quella del contratto a tempo indeterminato, a restare nel mercato. E’ soprattutto nel Mezzogiorno che i contratti a termine evolvono più frequentemente verso una situazione In sostanza, rispetto ai numeri riportati nelle tavole cambia il valore del denominatore, che include anche quanti passano alla condizione di inattivo, non considerati invece nelle tavole precedenti.
215
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
di inattività. Si nota anche l’effetto della congiuntura più favorevole, che ha di fatto abbassato per tutte le aree, ad eccezione del Mezzogiorno, la probabilità di disoccupazione.
Dal contratto a termine alla disoccupazione 2004-2005
2005-2006
10 9 8 6 5 4 3 2 1 0 Nord ovest
Nord est
Centro
Mezzogiorno
Quota % di quanti, tra coloro che avevano un contratto a termine l'anno precedente, risultavano disoccupati l'anno successivo
Dal contratto a termine all'inattività 2004-2005
2005-2006
16 14 12 10 8 6 4 2 0 Nord ovest
Nord est
Centro
Mezzogiorno
Quota % di quanti, tra coloro che avevano un contratto a termine l'anno precedente, risultavano inattivi l'anno successivo
216
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Dal contratto a tempo indeterminato alla disoccupazione 2004-2005
2005-2006
3.0 2.5 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 Nord ovest
Nord est
Centro
Mezzogiorno
Quota % di quanti, tra coloro che avevano un contratto a tempo indeterminato l'anno precedente, risultavano disoccupati l'anno successivo
Dal contratto a tempo indeterminato all'inattività 2004-2005
2005-2006
6 5 4 3 2 1 0 Nord ovest
Nord est
Centro
Mezzogiorno
Quota % di quanti, tra coloro che avevano un contratto a tempo indeterminato l'anno precedente, risultavano inattivi l'anno successivo
Alcune conclusioni
E’ naturalmente difficile trarre considerazioni di natura conclusiva dalla lettura delle statistiche sopra presentata. Va ricordato che la realtà del mercato del lavoro è molto differenziata al proprio interno e le molteplici posizioni che definiscono le caratteristiche dei cambiamenti vanno oltre la semplice articolazione secondo le tipologie contrattuali. In diversi casi, inoltre, lo stesso tipo di condizione professionale maschera realtà molto diverse. Basti considerare i casi dei lavoratori autonomi che lavorano per pochi committenti, se non per uno solo. O quello dei lavoratori dipendenti di aziende molto piccole dove di fatto
217
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
l’inquadramento da dipendente cela comportamenti assimilabili del tutto a quello del lavoratore autonomo. Ciò nondimeno, l’analisi delle matrici di transizione rende possibile una risposta parziale a diversi quesiti, se non altro perché fornisce una dimensione quantitativa ai fenomeni in esame. Possiamo riassumere quindi i principali risultati ottenuti come segue. Circa l’ingresso degli inattivi nel mercato del lavoro, l’aumento della domanda di lavoro del 2006 ha ridotto la probabilità di restare disoccupati. L’aumento della domanda è stato concentrato nei contratti temporanei. Anche guardando il gruppo di quanti erano disoccupati l’anno prima, ancora una volta non sembra che l’inversione della domanda abbia favorito una maggiore propensione a transitare verso i contratti a tempo indeterminato. Dal punto di vista della transitorietà della posizione di lavoratore con contratto diverso dal tempo indeterminato, i risultati non sono però incoraggianti. Dei 2 milioni 560mila lavoratori con contratto a termine o in collaborazione del 2005, nel 2006 soltanto 590mila avevano modificato la propria posizione passando ad un contratto a tempo indeterminato, un milione e mezzo erano quelli che continuavano a lavorare mantenendo un impiego flessibile, mentre ben 135mila risultavano disoccupati nel 2006. Molti lavoratori non accedono quindi al contratto a tempo indeterminato e rimangono per più di un anno nelle nuove tipologie contrattuali. Peraltro, la conversione da contratti temporanei a permanenti è più frequente per i giovani che per i lavoratori in età matura. Anche fra questi ultimi i contratti a termine e le collaborazioni sono però molto frequenti. Pertanto, la persistenza nei contratti a termine aumenta per le coorti più anziane. L’evidenza che si coglie dall’analisi dei dati per fasce d’età conferma quindi la tesi per cui i contratti a termine non sono soltanto un passaggio transitorio. A rafforzare tale risultato sta il fatto che la maggiore diffusione dei lavori a termine sia nelle regioni meridionali, dove è anche inferiore la probabilità di transizione verso il contratto a tempo indeterminato. Inoltre, è maggiore la probabilità al Sud che i lavoratori con contratto a termine nel caso di mancato rinnovo tendano ad uscire dal mercato, abbandonando la ricerca.
218
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
In conclusione, la dimensione dello stock di temporanei in Italia risulta tutto sommato contenuta, anche rispetto all’esperienza degli altri paesi. I dati paiono anche segnalare che nel corso della fase di ripresa dell’occupazione osservata nel corso del 2006, i lavoratori con questo tipo di contratti hanno visto diminuire, sia pur di poco, la probabilità di transitare verso un lavoro permanente.
5.3 Le politiche per le pari opportunità L’occupazione femminile in Italia è ancora lontana dagli obiettivi di Lisbona
L’incremento dell’occupazione femminile è uno degli obiettivi espliciti dell’Agenda di Lisbona, che prescrive il raggiungimento della soglia del 60 per cento per il tasso di occupazione entro il 2010. Come si è visto nel capitolo 3 di questo rapporto, nel nostro paese il tasso di occupazione femminile è ancora molto basso rispetto ai partner europei. Nel 2006, sulla base dei dati Eurostat, il tasso di occupazione (calcolato per la popolazione femminile tra i 15 e i 64 anni) era pari al 46.3 per cento, un livello dieci punti percentuali inferiore a quello medio dell’area euro.
Tassi di occupazione femminili Italia
Spagna
Francia
Germania
area Euro
0 60 50 40 30 20 10 1995
2000
2006
15-64 anni. Fonte Eurostat
219
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Benché nell’ultimo decennio si sia registrato un incremento di quasi undici punti percentuali, il differenziale con l’area euro si è ridotto solo marginalmente, dato anche il contestuale incremento osservato in altri paesi. In particolare, colpisce il fatto che la Spagna, che a metà anni novanta era caratterizzata da una minore occupazione femminile rispetto al nostro paese, nell’ultimo decennio ha compiuto un progresso notevole, riducendo il proprio differenziale con la media dell’area euro da quindici punti percentuali a tre. Anche distinguendo per fasce d’età, l’Italia mantiene in tutte le coorti il proprio primato negativo in termini di tassi di occupazione femminili, che si rivelano bassi sia in valore assoluto che relativi nei confronti della media europea.
Tassi di occupazione femminili - Giovani Italia
Spagna
Francia
Germania
area Euro
50 45 40 35 30 25 20 15 10 1995
2000
2006
15-24 anni. Fonte Eurostat
Rispetto agli altri paesi dell’area euro il confronto appare più sfavorevole che nel recente passato: in effetti, anche se a metà degli anni novanta l’Italia aveva già tassi di occupazione femminile più bassi della media, rispetto ad alcuni paesi - come la Spagna – il confronto non era completamente negativo (per quanto riguarda le fasce d’età più giovani, tra i 15 e i 24 anni, e quelle centrali, tra i 25 e i 54 anni).
220
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Nel 2006, invece, il nostro paese si distingue per avere i tassi d’occupazione femminile più bassi in corrispondenza di ciascuna fascia d’età.
Tassi di occupazione femminili - Età centrali Italia
Spagna
Francia
Germania
area Euro
80 0 60 50 40 30 20 10 1995
2000
2006
25-54 anni. Fonte Eurostat
Tassi di occupazione femminili - Anziane Italia
Spagna
Francia
Germania
area Euro
45 40 35 30 25 20 15 10 1995
2000
2006
55-64 anni. Fonte Eurostat
221
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
I motivi: scarsa offerta ma anche domanda limitata
Il basso livello del tasso di occupazione femminile italiano è riconducibile sia ad una carenza di offerta, sia a scarsa domanda. Come si è mostrato nel capitolo 2, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è modesta, e questo limita la platea di potenziali occupate. Ma anche la domanda di lavoro femminile è poco favorevole: l’incidenza della disoccupazione tra le donne è elevata, in rapporto alla loro presenza sul mercato del lavoro, e si mantengono ampi i differenziali di genere in termini di tasso di disoccupazione (nel 2006, quello femminile è risultato più alto del 62 per cento di quello maschile, come mostrato nel capitolo 4). Naturalmente, i due fattori che influenzano il livello dell’occupazione non sono indipendenti tra loro: la scarsità di domanda soprattutto in alcune aree del paese, e quindi la disoccupazione elevata, ha come effetto lo scoraggiamento delle persone che, dopo aver vanamente cercato a lungo un impiego, possono decidere di abbandonare il mercato del lavoro, smettendo di cercare e passando tra gli inattivi. L’effettoscoraggiamento sta interessando in particolare le donne meridionali (che magari decidono di seguire qualche corso di formazione nel tentativo di avere maggiori chances, oppure provano a trovare un lavoro in nero, ma sempre più spesso decidono di restare a casa). Tale effetto può incidere nella fase di ingresso nel mercato, ma anche successivamente, nelle fasi di rientro dopo una pausa prolungata (ad esempio, per maternità). Ma anche dove la domanda di lavoro femminile è più favorevole, come nelle regioni settentrionali, l’offerta resta contenuta. Nel 2006 il tasso di partecipazione femminile (per la popolazione tra i 15 ed i 64 anni) nel Nord Italia è risultato difatti pari al 59.5 per cento, valore che, sebbene più alto di quasi nove punti percentuali rispetto alla media italiana, mantiene un differenziale negativo di quasi tre punti percentuali rispetto all’area euro (e di quasi nove punti rispetto a paesi come la Germania).
Le politiche familyfriendly e il loro effetto sull’offerta di lavoro femminile
I profili per età dei tassi di attività suggeriscono che alla nascita dei figli le donne italiane riducono la propria partecipazione. A pesare sulle decisioni di partecipazione attiva nel mercato del lavoro vi è soprattutto la carenza di servizi in grado di favorire la conciliazione tra le responsabilità professionali e quelle famigliari, che pesano soprattutto
222
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Riquadro 5.3 - La partecipazione femminile dall’indagine Isfol-PLUS L’indagine Isfol-PLUS condotta nel 2005 ha messo in luce come la problematica della cura familiare sia centrale nell’analisi dell’inattività femminile. Delle donne che non lavorano al Nord e nelle regioni centrali, la maggioranza lo fa perché deve prendersi cura dei figli o, in caso di donne in età matura (superati i 50 anni) per altri impedimenti famigliari come la cura di parenti o persone non autosufficienti. Nel Sud, invece, le esigenze di cura sono solo al secondo posto nella graduatoria delle cause di inattività femminile, indicate nel 38.2 per cento dei casi: la maggioranza delle donne inattive meridionali (38.4 per cento) denuncia difatti l’assenza di opportunità di lavoro e quindi lo scoraggiamento. Considerando invece i motivi all’origine della decisione di abbandonare, temporaneamente o definitivamente, l’occupazione, si osserva come la ragione principale sia la necessità di prendersi cura dei figli (in quasi un terzo dei casi), seguita dalla fine di un lavoro stagionale o temporaneo (15 per cento), dalla chiusura della ditta (9.3 per cento). Nonostante la graduatoria dei motivi resti immutata distinguendo l’analisi per area geografica, si nota anche in questo caso come nel Sud la non occupazione sia maggiormente legata a fattori esterni connessi con la debolezza del mercato del lavoro (fine di un lavoro temporaneo, chiusura della ditta, termine di un contratto; complessivamente indicati da quasi il 37 per cento delle risposte). Ma oltre alle difficoltà specifiche, legate alla carenza di domanda di lavoro femminile, nel complesso un fattore rilevante che spiega la non occupazione (ovvero, il crollo della partecipazione) è la necessità di prendersi cura dei figli, riconducibile all’inadeguatezza degli strumenti di conciliazione, come il lavoro part-time o i servizi di child-care. Alla domanda rivolta alle donne inattive circa la disponibilità a lavorare nell’ipotesi si verificassero determinate condizioni, i presupposti per entrare nel mercato maggiormente indicati sono la possibilità di ottenere impieghi a tempo parziale e di avere servizi di child-care adeguati, ovvero una maggiore disponibilità di posti nei nidi e negli asili, con costi più contenuti e orari di permanenza più lunghi.
223
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Non ci sono opportunità di lavoro (sono scoraggiata) Per impedimenti familiari (cura di parenti o persone non autosufficienti) Per prendermi cura dei figli Non ho necessità di lavorare attualmente Motivi di salute (propria) Il mio coniuge\ convivente non voleva Non ho le professionalità richieste Istruzione o formazione Altro motivo Fonte: Isfol PLUS 2005
21.1 11.4 27.6 38.4 45.7 33.0 26.2 54.9 34.8
7.3
6.1
7.5
6.5
5.2
6.2
7.9
12.8
L'azienda si è trasferita Mancanza di
6.0 1.8
4.8 0.4
8.2 3.2
5.9 2.2
7.7 0.8
5.4 1.9
5.5 3.3
1.8 9.2
6.1 2.2
0.7
0.9
0.9
2.0
0.7
1.3
3.2
-
1.7
1.2 9.4 0.0
1.2 5.5 0.0
1.2 20.5 -
1.0 2.9 0.2
1.8 0.5 0.1
-
1.3 7.2 0.1
2.1 1.8 16.9 14.5 0.0 1.1
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
15-29 anni
30-39 anni
40-49 anni
50-64 anni
TOTALE
0.7
0.5
1.1
1.1
1.7
0.3
0.0
1.0
38.8 40.1 34.0 25.6 10.7 44.8 41.6 15.2 32.2 5.4
7.5
6.6
4.2
17.1
1.2
0.4
0.1
5.4
2.6 10.4
3.7 8.0
3.3 9.8
4.4 9.0
1.5 4.1
2.9 10.4
6.7 9.9
2.0 25.4
3.7 9.3
2.2 3.5 4.5 3.0
1.7 3.9 4.4 2.2
2.2 3.8 5.2 2.9
2.7 3.2 5.9 2.7
0.8 2.0 4.2 1.4
1.8 1.8 5.6 3.4
3.0 5.6 5.5 3.4
9.1 7.9 7.0 2.0
2.4 3.5 5.2 2.7
8.0
7.5
8.2
9.2
11.4
8.1
6.5
8.6
8.5
1.1
0.7
0.4
0.8
0.5
0.4
1.2
1.6
0.8
0.4
2.7
soddisfazione al lavoro 2.7 1.5 2.6 3.2 4.0 Era un lavoro stagionale\ temporaneo 10.7 12.4 13.1 18.7 30.0 Motivi personali 2.1 3.9 3.5 3.6 4.1
3.5
1.4
9.3 1.5
8.0 4.1
Condizioni di lavoro insoddisfacenti Altro motivo
3.8 0.1
2.4 0.1
Fonte: Isfol PLUS 2005
224
1.3
3.4 0.3
6.7
44.2 60.2 41.0 38.2 18.2 48.2 51.6 21.4 39.9
MOTIVI PRINCIPALI PER CUI LA DONNA ABBANDONA O PERDE L'OCCUPAZIONE (%)
Per avere maggior tempo per sé Per prendersi cura dei figli Per riprendere gli studi Non c'è necessità di un altro reddito La ditta ha chiuso Cura dei parenti o di persone non autosufficienti Motivi di salute E' stata licenziata Si è trasferita E' terminato un contratto
TOTALE
50-64 anni
40-49 anni
30-39 anni
15-29 anni
Sud
Centro
Nord-Est
Nord-Ovest
MOTIVI PRINCIPALI PER CUI LA DONNA NON LAVORA (%)
1.9 -
3.6 0.0
5.5 0.2
6.8 0.4
13.0 15.0 4.2 3.3 3.4 0.1
4.2 0.2
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
sulla componente femminile. Le donne si trovano a dover far fronte a compiti di cura dei figli prima e dei parenti non autosufficienti poi, che non riescono a delegare. La relazione tra fecondità e attività femminile nei paesi Ocse è stata lungamente negativa: al crescere della partecipazione delle donne al mercato del lavoro a partire dagli anni settanta si era osservato un declino della fecondità. Dagli anni ottanta, la correlazione negativa è venuta meno in molti paesi: a fronte di continui guadagni in termini di partecipazione femminile, si è osservata una decelerazione nel declino della fecondità, se non addirittura un’inversione di tendenza. Tale fenomeno è stato ricondotto ai cambiamenti osservati nei vincoli affrontati dalle donne nelle loro scelte, grazie all’introduzione di politiche family-friendly che hanno ridotto le incompatibilità tra lavoro e cura dei figli. L’Italia, come più in generale l’Europa mediterranea, rappresenta un’eccezione. Un fattore che agisce come freno alla partecipazione femminile è la scarsa flessibilità nelle opportunità di impiego disponibili: in Italia, come nei paesi del Sud Europa, la diffusione del lavoro a tempo parziale, benché sviluppatasi in misura non trascurabile, è ancora modesta rispetto ai partner europei. La scarsa disponibilità di lavori con orari part-time comporta una maggior difficoltà per le donne madri nel conciliare la vita lavorativa con quella familiare e dunque ha un impatto sulla scelta da parte di alcune di queste di uscire dal mercato del lavoro. Alcuni lavori empirici basati su analisi cross-country mostrano come esista un legame positivo tra l’accessibilità ad impieghi a tempo parziale e partecipazione femminile. L’effetto positivo della disponibilità di impieghi part-time (misurato come quota di occupati a tempo parziale sull’occupazione totale) sulla probabilità di partecipazione al mercato del lavoro delle donne sposate è peraltro confermato da uno studio abbastanza recente di Del Boca sul nostro paese. Utilizzando i dati distinti per regione dell’inchiesta della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie ed osservando i cambiamenti di status lavorativo (in termini di partecipazione/non partecipazione al mercato del lavoro) di un campione di donne sposate in età feconda durante il periodo in cui sono state condotte le tre inchieste analizzate (1991, 1993 e 1995), si è evidenziato un coefficiente stimato del part-time sulla partecipazione positivo e significativo. Del Boca (2002) The effect of Child Care and Part Time Opportunities on Participation and Fertility Decisions in Italy, IZA DP N.427
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
La possibilità di usufruire di congedi di maternità è ritenuta un altro fattore in grado di incidere positivamente sulla partecipazione femminile , dato che non obbliga le donne ad uscire dal mercato del lavoro dopo la nascita del bambino per prendersene cura. È però ambiguo l’effetto della durata del congedo sull’occupazione: quanto più a lungo le donne non lavorano, tanto più elevata è la perdita in termini di deterioramento del capitale umano e opportunità di formazione. Inoltre, dai confronti sugli effetti delle normative riguardanti i congedi in Europa, una lunga durata del congedo obbligatorio sembra avere un impatto negativo sulla probabilità delle donne di trovare lavoro (dato che probabilmente aumenta il costo di assumere donne). Al contrario, la durata del congedo facoltativo non ha questo effetto negativo. Un altro fattore molto rilevante è la presenza di strutture per la cura e la vigilanza dei bambini. Sull’offerta di lavoro femminile non solo influiscono i costi di tali servizi (quanto più sono alti tanto più è elevato il salario di riserva, ovvero quel salario al di sotto del quale la donna non ha convenienza a lavorare invece di curare direttamente i figli), ma anche la dotazione di posti. Quando i servizi di cura dei bambini sono razionati, perché il numero di posti disponibili è molto limitato o non accessibile o ancora l’offerta in termini di orario è molto rigida, per le famiglie escluse è come se il costo dei servizi fosse infinito, con un effetto negativo sulle decisioni di partecipare al mercato del lavoro delle madri. I dati del panel europeo (Echp) evidenziano come l’opportunità di usufruire di asili anche sul posto di lavoro aumenti la probabilità di continuare a lavorare dopo la nascita dei figli. Simulazioni di Del Boca mostrano come, per le donne per le quali l’accesso ai servizi di cura dei bambini non è razionato, un sussidio parziale (al 50 per cento) del costo di tali servizi comporta un incremento del tasso di occupazione di oltre dieci punti percentuali, mentre l’ampliamento della disponibilità dei posti negli asili nido, dall’attuale 7 per cento al 33 per cento comporterebbero un aumento della partecipazione femminile di circa sette punti percentuali.
Gornick JC, Meyers MK, Ross KE (1997) “Supporting the Employment of Mothers: Policy Variation Across Fourteen Welfare States”, Journal of European Social Policy, vol.7, p.45-70
Del Boca (2006) The Mismatch between Employment and Child Care in Italy: the Impact of Rationing, working paper ChilD n.08/2006
226
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Le politiche familyfriendly in Italia
Come mostrato anche dall’evidenza empirica, l’attuazione di misure family-friendly, che facilitano la conciliazione delle responsabilità familiari con quelle lavorative, consente una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro. In Italia questo tipo di politiche, però, appare ancora scarsamente adeguato alle esigenze, nonostante siano state introdotte alcune novità negli ultimi anni. Rispetto ai partner europei, il part-time in Italia ha ancora una diffusione modesta, come dimostrano i dati Eurostat: nel 2006 i lavoratori a tempo parziale rappresentavano il 13 per cento dell’occupazione totale, un livello inferiore di oltre sei punti percentuali rispetto alla media dell’area euro. Restringendo l’analisi alle sole donne, si osserva come tra queste il part-time sia più frequente (una su quattro ha un contratto part-time), ma la differenza in termini di diffusione con la media europea è ancora più ampia: nell’area euro oltre il 35 per cento delle occupate è a tempo parziale (e in alcuni paesi, come la Germania, la diffusione è al 46 per cento). Peggio di noi fa solo la Spagna.
Occupazione a tempo parziale totale
donne
50 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 ea
de
es
fr
it
se
uk
Lavoratori part-time in % dell'occupazione totale, 2006. Fonte Eurostat
Il decreto legislativo 276/2003, in adempimento della legge delega 30/2003 (la legge Biagi), ha apportato delle modifiche alla disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale, al fine di favorire il ricorso a tale tipologia contrattuale. Secondo la nuova normativa, il tempo parziale è ora definito come quel contratto con orario inferiore a quello normale
227
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
(fissato in 40 ore settimanali, a meno che i contratti collettivi stabiliscano orari inferiori, oppure definiscano l’orario normale con riferimento alla durata media delle prestazioni nell’arco di un periodo non superiore all’anno). Il lavoro a tempo parziale è stato reso più flessibile nella definizione delle condizioni e delle modalità delle prestazioni lavorative, che ora possono essere stabilite non solo dai contratti collettivi nazionali e territoriali ma anche da contratti collettivi aziendali. Il lavoro reso oltre l’orario concordato è supplementare e la nuova normativa non predetermina limiti massimi o causali di tipo oggettivo che vincolino il ricorso a questo tipo di lavoro, lasciandone l’individuazione alla contrattazione collettiva (consentendo così una maggiore flessibilità). Sono possibili anche clausole flessibili (per permettere modifiche della collocazione della prestazione lavorativa rispetto a quella stabilita contrattualmente) ed elastiche (per aumentare il numero di ore concordato, possibilità proibita nella normativa precedente). Inoltre, è stato abolito il diritto legale di precedenza per la trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno in caso di nuove assunzioni a tempo pieno per mansioni equivalenti. Rispetto al 2000 l’incidenza del part-time è cresciuta di quasi 5 punti percentuali sull’occupazione totale (e di 10 per le donne). Per quanto riguarda il congedo di maternità, in Europa mediamente il congedo obbligatorio dura 16 settimane, ma in molti casi la durata garantita è più lunga, come avviene nei paesi scandinavi, in quelli anglosassoni (in Irlanda e Regno Unito la durata è di 18 settimane) e nel nostro paese (dove la durata è di cinque mesi, suddivisibili in maniera abbastanza flessibile tra prima e dopo la data prevista per il parto). In Italia la prestazione garantita alle madri durante il congedo obbligatorio non è elevata rispetto ai partner europei: l’indennità è pari all’80 per cento della retribuzione media percepita nell’ultimo mese prima dell’interruzione, mentre in molti paesi l’indennità è pari al 100 per cento della retribuzione. Indennità più basse che in Italia vengono percepite in Belgio (dopo il primo mese dall’82 per cento scendono al 75 per cento della retribuzione), in Irlanda (pari al 70 per cento) e in Spagna (75 per cento). Il congedo parentale, introdotto nel 2000 in Italia in ottemperanza ad una direttiva europea, può essere preso da entrambi i genitori (se lavoratori dipendenti) entro i primi otto anni del bambino e per una durata non superiore ai dieci mesi complessivi (elevabili a 11 qualora il padre fruisca di almeno tre mesi di congedo).
228
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Indicatore dei congedi (settimane equivalenti) maternità
paternità
parentale
UK
Svezia
Spagna
Portogallo
Paesi bassi
Lussemburgo
Italia
Irlanda
Grecia
Germania
Francia
Finlandia
Danimarca
Belgio
Austria
45 40 35 30 25 20 15 10 5 0
L'indicatore combina la durata con la copertura dell'indennità (% dell'ultima retribuzione) Fonte:elaborazioni su dati Ocse
La durata del congedo fruibile da ognuno dei genitori non può superare i sei mesi (elevabili a sette nel caso dei padri se ne prendono almeno tre), continuativi o frazionati. Una novità importante è la possibilità di fruire del congedo in contemporanea da parte dei genitori. L’indennità è contenuta, pari al 30 per cento della retribuzione. Il livello modesto dell’indennità limita di fatto la fruizione del congedo, soprattutto da parte dei padri (che avendo, in genere, livelli retributivi più alti fronteggiano una perdita maggiore in caso di congedo). Nei paesi del Nord Europa, in particolare, la situazione è diversa. Innanzi tutto è previsto un congedo di paternità, al fine di garantire una parità e la condivisione del lavoro famigliare di cura. In Svezia, ad esempio, c’è un lungo congedo parentale, indennizzato all’80 per cento, usufruibile da entrambi i genitori. In Danimarca il congedo parentale (fruibile da entrambi i genitori o da uno solo e che si va ad aggiungere al congedo di maternità e a quello di paternità) è indennizzato al 100 per cento per un primo periodo e al 60 per cento per quello successivo. Anche in Finlandia il congedo parentale si aggiunge a quelli di maternità e di paternità. Per quanto riguarda i servizi di child-care, l’Italia ha un’offerta ancora modesta soprattutto per i bambini più piccoli. Il numero di posti negli asili nido è fra i più bassi in Europa: come si può vedere nel grafico allegato, la percentuale di bambini con meno di tre anni iscritti ad un asilo nido è estremamente bassa, relegando il nostro paese
229
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
agli ultimi posti della graduatoria. Sebbene il numero di asili nido sia cresciuto notevolmente negli ultimi anni (da 3000 nidi registrati nel 2000, includendo anche i privati, si è passati a quasi 4900, con un incremento di quasi due punti percentuali della copertura, che secondo le ultime stime nel 2006 è risultata poco al di sotto del 10 per cento), le disparità territoriali sono rimaste ampie. In effetti, in molte regioni del Sud la copertura è ancora su livelli estremamente bassi, mentre in regioni dove l’offerta è migliore (come l’Emilia Romagna o il Veneto) la copertura può essere anche dieci volte più alta. Anche l’offerta di asili nido “aziendali” è molto più bassa in Italia rispetto agli altri paesi europei. Iscrizione a servizi di day-care Bambini sotto i 3 anni (%) 0 60 50 40 30 20 10 Danimarca
Svezia
Belgio
Finlandia
Paesi Bassi
Francia
UK
Portogallo
Spagna
Irlanda
Lussemburgo
Germania
Grecia
Ungheria
Italia
Austria
0
Fonte Ocse - dati 2004
Decisamente migliori, anche rispetto ai partner europei, i risultati per i bambini in età prescolare, per i quali il tasso di iscrizione alla scuola materna è prossimo al 100 per cento. Resta però spesso inadeguata l’offerta quando si valuta anche la flessibilità del servizio. Gli orari (degli asili nido e delle scuole materne) sono piuttosto rigidi ed inadatti alle esigenze delle madri occupate a tempo pieno. Per avere una maggiore flessibilità di orari è necessario fare ricorso agli asili privati, che però sono molto più costosi (e a volte rendono non conveniente il ritorno al lavoro piuttosto che prendersi cura direttamente dei propri figli). Altrimenti, molte famiglie sono costrette ad affidarsi al sostegno informale fornito dai parenti, generalmente dai nonni.
230
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
Iscrizione a servizi di day-care Bambini 3-5 anni (%) 100 80 60 40 20
Francia
Belgio
Italia
Spagna
Danimarca
Ungheria
Svezia
Germania
UK
Portogallo
Austria
Lussemburgo
Grecia
Paesi Bassi
Irlanda
Finlandia
0
Fonte: elaborazioni su dati Ocse - dati 2004
La fiscalità come strumento per le pari opportunità
Nel dibattito circa il disegno di politiche efficaci per promuovere le pari opportunità si sono inserite di recente anche alcune proposte volte a modificare il sistema fiscale con l’obiettivo di utilizzare tale strumento per incentivare una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro. Alesina ed Ichino hanno avanzato la proposta di introdurre una tassazione
differenziata
per
genere,
applicando
alle
donne
un’aliquota inferiore a quella vigente per gli uomini, a parità di reddito percepito. Alla base di tale proposta c’è l’assunzione che l’elasticità dell’offerta di lavoro femminile al reddito sia molto più alta di quella degli uomini, e quindi più reattiva ad incrementi del reddito netto. La tassazione differenziata per genere aumenta l’efficienza del sistema, incentivando una maggiore partecipazione femminile (ed anche una maggiore occupazione, dato che i costi del lavoro relativi, legati alle retribuzioni lorde, potrebbero muoversi a favore delle donne, rendendo più conveniente la loro assunzione e combattendo così la discriminazione nei loro confronti). Cambierebbe anche la distribuzione tra ore lavorate a casa e ore lavorate sul mercato; nel caso delle donne si osserverebbe un calo delle prime a favore delle seconde, mentre gli uomini potrebbero marginalmente riallocare parte delle proprie ore verso il lavoro domestico. Riducendo le aliquote applicate alle donne e aumentando (in misura minore) quelle per gli uomini (che avendo un’offerta meno elastica,
Alesina A., Ichino A. (2007) Gender based taxation, mimeo
231
Rapporto sul mercato del lavoro 2006
Riquadro 5.4 - Le novità della Finanziaria 2007 per le politiche family-friendly La Finanziaria approvata alla fine dello scorso anno ha introdotto qualche novità in termini di politiche family-friendly. È stato approvato un piano straordinario per i servizi socio-educativi nella prima infanzia, con una dotazione di 100 milioni di euro all’anno per il triennio 20072009. Lo scopo è quello di incentivare lo sviluppo di un sistema integrato di asili nido e di nuovi servizi territoriali (anche sui luoghi di lavoro). Una Conferenza unificata per il riparto delle somme destinate a tale scopo deve stabilire i livelli essenziali delle prestazioni e i criteri e le modalità che le Regioni devono seguire nell’attuazione del piano straordinario di sviluppo. L’obiettivo è quello di aumentare i posti disponibili negli asili nido, al fine di raggiungere la copertura del 33 per cento entro il 2010 come stabilito dall’Agenda di Lisbona. È stato inoltre rifinanziato l’art.9 della legge 53/2000 che promuove ed incentiva azioni volte a conciliare tempi di vita e tempi di lavoro; il Fondo delle politiche per la famiglia eroga difatti dei contributi di cui almeno il 50 per cento è destinato a imprese con meno di cinquanta dipendenti che realizzino forme di conciliazione dei tempi. I progetti promossi dal Fondo possono essere ora presentati anche da aziende pubbliche e da Enti locali che applichino accordi contrattuali che prevedono azioni positive per consentire ai lavoratori genitori di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e di organizzazione del lavoro (come il part-time, il telelavoro, flessibiltà sui turni, il lavoro a domicilio). È stata estesa l’età dei bambini che danno ai genitori la priorità di usufruire dei benefici, da 8 a 12 anni (e da 12 a 15 in caso di adozione). È stata inoltre inserita una priorità per figli disabili a carico.
232
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
modificherebbero solo marginalmente le proprie decisioni di lavoro), si abbasserebbe la pressione fiscale media ma con un effetto neutrale sulle entrate complessive. Gli autori suggeriscono un’aliquota media per le donne non superiore al 67 per cento di quella degli uomini. Le critiche che sono state avanzate a tale proposta riguardano l’assunto di base e le conseguenze in termini di equità. Il differenziale di elasticità dell’offerta di lavoro al reddito tra i generi secondo alcuni commentatori non è costante per i livelli di reddito e comunque la differenza di elasticità tra i generi può essere inferiore a quella riscontrabile all’interno di ciascun genere. L’elasticità al reddito dell’offerta di lavoro delle donne single (con figli o senza) è simile a quella degli uomini, mentre per gli uomini in età avanzata, che possono scegliere di andare in pensione o di prolungare l’attività lavorativa, l’offerta di lavoro può al contrario essere molto elastica. L’introduzione di una tassazione differenziata per genere non produrrebbe allora quei guadagni di efficienza ipotizzati. In aggiunta, ci sono critiche riguardo all’equità della proposta, sia orizzontale che verticale. Più che detassazione dell’offerta, qualcuno10 propone di introdurre invece incentivi fiscali a sostegno della domanda di lavoro femminile, visto che, come si è osservato, in molte aree è proprio la carenza di domanda a disincentivare l’offerta. In parte in questa direzione ci sono già state delle misure: nella Finanziaria 2007, nell’ambito dell’intervento a riduzione del cuneo fiscale via deduzione degli oneri sociali dalla base imponibile Irap, si è prevista una riduzione ulteriore per le imprese che assumono donne nel Mezzogiorno. In tale caso lo sgravio può essere anche sette volte quello di base. Nel dibattito sulla riforma del sistema fiscale si è inserita anche la proposta di introdurre in Italia la tassazione in base al quoziente familiare. Tale misura è proposta per favorire le famiglie, in particolare quelle monoreddito e numerose, e non certo con finalità riconducibili all’aumento dell’occupazione femminile. Ne discutiamo qui, però, perché uno degli effetti di tale misura sarebbe lo scoraggiamento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, quindi un esito assolutamente in contraddizione con le finalità delle misure di policy finora illustrate. Il quoziente familiare è un criterio di tassazione per
Boeri T, Del Boca D. (2007) Chi lavora in famiglia?, www.lavoce.info
De Vincenti C, Paladini R (2007) Utile il fisco più leggero per il lavoro femminile, Il Sole 24 ore, 10 aprile 2007 10
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Rapporto sul mercato del lavoro 2006
parti: la base imponibile, a cui applicare poi la scala delle aliquote, verrebbe ottenuta sommando i redditi di tutti i componenti della famiglia, e dividendo il risultato per un quoziente dato dalla somma dei coefficienti assegnati ad ogni componente. Il quoziente è un numero rappresentativo della numerosità della famiglia, anche se i componenti hanno pesi diversi (così come avviene nel calcolo delle scale di equivalenza). Ad esempio, nel quoziente alla francese, le prime due persone a carico pesano 0.5 ciascuna, mentre per il terzo figlio il peso torna ad essere 1. Così, per fare un esempio, se la famiglia è composta da un solo genitore e da due figli a carico, il quoziente Q sarà pari a 2. Il quoziente familiare consentirebbe di parificare il trattamento delle famiglie monoreddito a quelle bireddito: se il reddito complessivo è uguale, le aliquote saranno uguali (mentre con la tassazione individuale all’unico reddito della famiglia monoreddito vengono applicate aliquote più alte di quelle che si applicano ai due redditi distinti, singolarmente più bassi, della famiglia bireddito); vi sarebbero così dei vantaggi in termini di equità orizzontale. D’altro canto, però, l’introduzione del quoziente familiare ridurrebbe l’equità verticale del sistema fiscale. Simulazioni diverse11
12
hanno mostrato come il vantaggio fiscale proveniente dall’applicazione del quoziente familiare cresca all’aumentare del reddito. I vantaggi si concentrano nei decili superiori e a guadagnare sono soprattutto i contribuenti con redditi elevati e coniuge privo di reddito. La riduzione d’imposta è infatti tanto più consistente quanto più ampia è la differenza tra i redditi dei due coniugi, perché l’aliquota marginale applicata al reddito più alto sarà molto più bassa. Ma soprattutto le simulazioni hanno mostrato come vi sia un effetto negativo da considerare: il disincentivo all’offerta di lavoro del secondo coniuge (normalmente la donna), dal reddito più basso, al quale verrà applicata un’aliquota marginale più alta di quella che avrebbe nel caso di tassazione individuale. Di recente, è stata avanzata un’ulteriore proposta nell’ambito degli strumenti fiscali: l’introduzione di un’imposta negativa13; riconoscendo un credito d’imposta per i famigliari a carico, percepibile anche come De Vincenti C, Paladini R (2007) Quel singolare quoziente di famiglia, www.lavoce. info 11
Cavalli M, Fiorio C.V. (2006) Individual vs family taxation: an analysis using TABEITA04, Econpubblica working paper n.118 12
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Boeri T, Del Boca D. (2007) Chi lavora in famiglia?, www.lavoce.info
Capitolo 5. Alcuni elementi del dibattito sulle politiche del lavoro
assegno, a chi ha un totale di detrazioni maggiore dell’imposta a carico. L’imposta negativa essendo percepibile anche come assegno avrebbe il vantaggio, rispetto alle detrazioni oggi esistenti, di interessare anche i cosiddetti incapienti, ovvero coloro che hanno redditi al di sotto della soglia d’imposizione (e che sono quindi esclusi dai benefici delle detrazioni). Il sistema così proposto ricalcherebbe il Working Tax Credit (Wtc) e il Child Tax Credit (Ctc) introdotti nel Regno Unito dal 2003. Il Wtc viene riconosciuto alle famiglie a basso reddito che lavorano un minimo di ore a settimana (16 ore se con figli a carico, 30 senza). Il Ctc è riconosciuto ai genitori o a chi ha responsabilità di un bambino; entrambi i crediti sono attribuiti in base al reddito della famiglia e consistono in assegni e in rimborsi delle spese documentate per la cura dei figli. Nella proposta in esame il credito di imposta per i famigliari a carico andrebbe concesso direttamente alle donne a condizione che entrambi i componenti (nel caso di una coppia) lavorino, anche part-time, e che il reddito complessivo sia al di sotto di una determinata soglia. In tal modo si vuol dare incentivo alla partecipazione femminile, imponendo che l’onere della cura dei familiari non ricada interamente su un unico membro (generalmente la donna) e spingendo le famiglie ad uscire dalla trappola della povertà. Il credito d’imposta potrebbe coprire una quota rilevante delle spese sostenute (e documentate) per la cura dei figli, fino ad un limite massimo. Oltre a vantaggi in termini di efficienza e di equità verticale, la proposta, contenendo la richiesta di documentare le spese per poter ottenere i rimborsi, consentirebbe anche l’emersione di lavoro di cura oggi sommerso. Ne discenderebbe un ampliamento della base contributiva, che potrebbe finanziare almeno in parte la misura.
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