Simboli

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I Simboli nella pittura medievale

La pittura medievale delle Alpi meridionali fa appello ad un’iconografia religiosa. Seppur in ritardo(tra la metà del XV e l’inizio del XVI secolo), essa si inserisce all’interno del movimento del «Gotico Internazionale ». Essa fa uso di « chiavi », vale a dire immagini, colori, oggetti che possono sembrare anodini o piuttosto ordinari (ad esempio: un gatto assopito sulla sedia della propria padrona …), ma che tuttavia detengono un significato nascosto, e qualche volta più di un significato, in relazione al tema generale della scena, o ad uno dei personaggi sacri in essa raffigurati. È spesso operazione delicata, o addirittura difficile, decriptare questi simboli e trovarne la « chiave ». Nell’Europa occidentale, verso la fine del Medioevo, le arti figurative fanno uso di un vocabolario perfezionato incessantemente, costituito da elementi simbolici, e che consente di esprimere pensieri profondi, complessi, di evocare i grandi testi sacri, di illustrare i principi e le strutture su cui si fonda la società feudale. Un simile linguaggio continua ad essere impiegato nel XVI secolo e agli inizi del XVII. Esso è in grado di raggiungere un autentico parossismo, sia nei paesi germanici (es. : Hieronymus Bosch) che in Italia (es. : Vittore Carpaccio). Purtroppo, essendo concepito da teologi e da umanisti esperti di testi antichi e di opere di predicazione, questo linguaggio va incontro ad una fase di declino. In effetti, l’« uomo onesto » del XVII secolo non è più in grado di comprenderlo. Cambiano le preoccupazioni, si modificano i modi di pensare e la logica scientifica conosce una nuova evoluzione. Tale linguaggio diventa rapidamente inintelligibile. Già durante il XVIII e il XIX secolo, si cerca di darne una spiegazione attraverso alcuni trattati. Spesso, però, queste ricerche, condotte senza alcun criterio, inducono ad errori che hanno ancor più contribuito a consolidare l’apparente oscurità delle immagini. Nell’arco degli ultimi quarant’anni, alcuni studi a volte molto accurati sui colori, sugli emblemi, … (es. : Michel Pastoureau, Une histoire symbolique du Moyen Âge occidental), hanno permesso di scoprire in parte il significato delle immagini, grazie ad un paziente e prudente « ritorno alle fonti ». Risulta abbastanza evidente che non si ha l’ambizione di fornire in questa sede una panoramica esaustiva dei possibili significati relativi alla pittura medievale della Contea di Nizza e della Liguria occidentale. Ci limiteremo al trattamento degli esempi più frequentemente utilizzati dai nizzardi, liguri e piemontesi « primitivi », artisti che lavorarono in queste regioni.

Aspetti generali: dal corvo al pappagallo e dal giallo al rosso … In primo luogo il corvo. Attualmente il corvo evoca l’idea della morte; è comunemente detto che «sia l’uccello del malaugurio ». Nel XV secolo esso simboleggia la speranza, poiché in latino il suo verso: « cras », vuol dire « domani ». Contrariamente, nell’iconografia di S. Espedito (di


cui si ritroveranno alcune statue in tutte le chiese della Vecchia Nizza), il santo brandisce una croce recante l’iscrizione « hodie » (= oggi) pur calpestando un corvo che, mediante un filatterio tenuto col becco, esprime un ultimo « cras ». Nell’antica Grecia il corvo è un messaggero degli dei, così come l’aquila e il cigno. Tutti e tre rivestono delle funzioni profetiche. Nell’occidente cristiano, il corvo è il messaggero divino. Simbolo di perspicacia nella Genesi, esso verificherà che dopo il diluvio la terra incominci a prosciugarsi: « … Trascorsi quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatta nell’arca e fece uscire un corvo per vedere se le acque si fossero ritirate. Esso uscì andando e tornando finché si prosciugarono le acque sulla terra » (Ge, 8, 7). Il corvo è ancora il simbolo della solitudine, dell’isolamento volontario di chi vuole vivere ad un livello superiore. Si tratta di un corvo che, giorno per giorno, porta a San Paolo e a Sant’Antonio, due eremiti che si sono ritirati nel deserto del Sinai, un pezzo di pane che divide e dona in parti eguali a ciascuno di loro (Clans, cappella di St. Antoine, affreschi anonimi, fine XV sec.). A partire dalla seconda metà del XVII sec. si verifica un lieve cambiamento. Nelle fiabe di La Fontaine il corvo ha spesso un ruolo infame. Successivamente, durante il XIX sec., i romantici ne hanno fatto l’uccello nero che, planando sopra i campi di battaglia, si nutre della carne dei cadaveri. Nel Medioevo, il linguaggio visivo faceva riferimento a due idiomi ben distinti, l’uno per i soggetti religiosi e l’altro per i temi profani. Ciascuno di essi derivava da testi e da usi differenti: scritture cattoliche (Bibbia, Vangeli, Apocalisse) per quanto concerne i primi, e i grandi romanzi cortesi, precisamente i romanzi del ciclo Arturiano, per quanto concerne i secondi. Conseguentemente, uno stesso simbolo poteva avere un diverso significato. Il pappagallo, ad esempio, nell’iconografia religiosa evoca l’Immacolata Concezione; nelle scene galanti di carattere profano, esso allude alla fornicazione. Dal canto suo, il leone, simbolo della forza, del coraggio, della giustizia, della prudenza, della clemenza è pertanto uno dei mobili araldici più diffusi, già a partire dalle armi di Venere; in quanto personificazione di Apollo e del sole, il leone è il compagno dell’evangelista Marco e del cardinale Geronimo (spesso rappresentati nella pittura nizzarda). Nella “cavalcade des vices” (a Clans, La Tour, Roubion,…) l’orgoglio cavalca un leone; esso simboleggia inoltre la collera e la crudeltà. Analizziamo il caso dei colori. Nell’antica Grecia il giallo è il colore di Apollo. Colore dell’eternità, così come lʹoro è il metallo dell’eternità, il giallo costituisce la base del rituale cristiano. Simboleggia quindi la vita eterna, ma anche la fede cieca di chi crede senza porsi domande; è il caso di San Pietro in contrapposizione a San Paolo. Pertanto, il primo papa sarà sempre avvolto da un mantello giallo (es. : pannello di « San Pietro e Paolo » attribuito alla bottega di Ludovico Brea, presso Lucéram). Tuttavia, il giallo è anche il colore dello zolfo luciferino, l’immagine dell’orgoglio, dell’invidia e della presunzione. Lo si associa all’adulterio. Nel 1215 il concilio Laterano


ordina che gli ebrei applichino ai propri abiti una stella o una rotella gialla. Durante il XVI secolo si soleva dipingere in giallo la porta dei traditori. Tale colore denuncia l’errore e la furberia. Ragion per cui il giallo indica anche la « Synagogue ». Nel mondo islamico il giallo dorato o zafferano è simbolo della saggezza, mentre il giallo pallido è simbolo della lealtà e della fellonia. Il rosso è il colore imperiale; rimarrà tale fino alla fine dell’ Ancien Regime ancor più a partire dal XIII secolo, periodo in cui i regnanti di Francia adottano il blu. Al momento della loro incoronazione a Roma, gli imperatori indossavano un grande mantello di velluto rosso, come Carlo Magno. Si tratta del mantello, rosso del suo sangue, in cui apparve Cristo in qualità di « re dei giudei ». Se la Vergine, regina dei cieli, è generalmente avvolta da un mantello blu, simbolo del lutto e della quiete dopo il sacrificio, esso si apre sopra una veste rossa come segno della sua Passione, parallela alla passione del figlio. Ma il rosso è anche il colore del fuoco distruttore, specialmente il fuoco dell’inferno. Il diavolo è spesso rosso o rossiccio. Quest’ultima tinta è il colore delle donne di strada. Dal XIII secolo le prostitute erano costrette a tingersi i capelli di rosso, pena l’arresto. La peccatrice Maddalena ha, infatti, capelli rossicci e può persino essere interamente ricoperta da pelame di questo colore. Esiste pertanto un’ambivalenza nella maggior parte dei simboli adottati nella pittura medievale. Era diventato persino un gioco identificarli nelle composizioni molto complesse di Pieter Bruegel il Vecchio (ex. : « I proverbi fiamminghi », 1559, Berlino) e di Hieronymus Bosch (es. : trittico de « Il Giardino delle delizie », 1503/04, Prado, Madrid). Per quanto riguarda i colori, si può semplificare precisando che i colori schietti, densi, crudi rappresentano dei sentimenti positivi, mentre, i colori in « astro » (giallastro, rossastro, …) hanno una connotazione dispregiativa. Ancor più le righe denunciano le forme del male (cfr. Michel Pastoureau, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati).

I grandi temi. Il paesaggio e le sue componenti principali. Il paesaggio include un preciso numero di elementi fondamentali la cui importanza è posta in ordine gerarchico dal basso (la terra) verso l’alto (il cielo). Dapprima vi è l’acqua. La fonte alla quale si disseta il cristiano rappresenta il vangelo: « chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete … » (Vangelo di Giovanni, IV-14). L’acqua associata alla roccia detiene inoltre un forte significato simbolico: « Il Signore disse a Mosè: tu farai sgorgare per loro l’acqua dalla roccia … » (Numeri, XX-8). L’acqua ha dunque una duplice valenza simbolica: la vita eterna e la rigenerazione attraverso il battesimo che lava tutte le impurità, prima resurrezione. Nel pannello della « Deposizione del Cristo » di Antonio Aundi (1539, museo di Antibes), un devoto, inginocchiato ai piedi del calvario, beve l’acqua di una fonte che sgorga da una grotta.


Il fiume della vita, puro come il cristallo, mostra le sue falde risplendenti e forma un corso d’acqua vasto e cheto: « …Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo » (Apocalisse, XXII-1). È il Giordano, primo battistero, tappa purificatrice. Come il Tigri e l’Eufrate, esso rappresenta inoltre l’intelligenza e la saggezza, grazie alla fertilità che apporta irrigando e deponendo il limo. Il fiume sfocia in un mare altrettanto immobile, scintillante, e dunque rassicurante. In esso si vedono spesso uno o più porti. Secondo quanto scrive il mistico domenicano Henri Suso : «L’uomo è un viaggiatore che, seduto su di un lido, attende il vascello che deve condurlo in un paese dal quale non tornerà ». Il mare, inoltre, evoca la fonte della vita, la purificazione, la Vergine. Esso protegge la città di pietra, spesso molto simile al quadrato, raffigurante la stabilità, la terra, il corpo. Ma rappresenta innanzi tutto la Gerusalemme celeste; per questa ragione è tanto luminosa da apparire irreale, così come nella « Deposizione » attribuita a Ludovico Brea, (1515/20 ca, Cimiez). Questa città è protetta da mura ampie ed elevate, costruite su dodici pietre principali e preziose, e traforate da dodici porte: « … (l’angelo) mi mostrò la città santa, Gerusalemme, (…) il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima (…). La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e i nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele… » (Apocalisse, XXI-10/11/12). Questa città, cinta da bastioni, ospita numerose chiese, tra le quali una in particolare con la sua cupola monumentale domina il paesaggio urbano. Essa è in grado di evocare il tempio sacro del Santo Sepolcro presso Gerusalemme, simbolo d’immortalità e redenzione, così come nella « Crocifissione » terminata nel 1512 da Ludovico Brea per i monaci francescani. O ancor più la basilica di San Pietro a Roma, simbolo stesso della Chiesa. Questi due edifici sono raffigurati l’uno di fronte all’altro nella predella dell’« Incoronazione della Vergine » di Enguerrand Quarton (1454, Villeneuve-lès-Avignon). Tutti questi elementi del paesaggio raffigurati in basso sono sovrastati dalle montagne e dalle rocce scoscese. La roccia simboleggia Cristo. Costituisce pertanto le fondamenta, ma anche il sito elevato sul quale la divinità acconsente a scendere e manifestarsi: la collina sacra tra la terra e il cielo, porta di accesso al Paradiso: « Signore, mia rupe e mio redentore » (Salmi, 19-15). Sovente queste rocce, che rievocano il redentore, sono presenti nelle opere di Brea « Crocifissione» -1512 di Ludovico, trittico di « N.-D. de Philerme » 1550 circa di Francesco, ecc… Un castello si erge sulla roccia; esso è il simbolo della dimora suprema, ultimo rifugio, inespugnabile, che perdura dopo la sconfitta della città, che esso stesso domina. Il castello ospita alcune cappelle, una di queste si trova nel punto più alto del torrione. Quest’ultima è al contempo più protetta e più vicina al cielo, come le cappelle St. Michel del Palais des Papes e St. Croix di Karlstjen (Boemia, nei pressi di Praga): « Il Signore è la mia roccia, la mia fortezza, il mio liberatore… » (Samuele II, XXII-2). La saracinesca che chiude l’accesso è sollevata e sta ad indicare che questo castello rimane aperto. Nell’iconografia mariana, specialmente l’iconografia della « Misericordia » e della


« Pietà » che raffigurano la redenzione, la Vergine rappresenta questa « Porta Coeli ». In qualità di intercessore privilegiato; la Vergine è l’intermediaria sempre disponibile, o meglio « una porta sempre aperta » e indispensabile per ottenere la misericordia divina, l’accesso alla grazia, il paradiso. Ma se la saracinesca sollevata dà prova che la porta principale è aperta, essa è aperta solo per metà e, pertanto, risulta inaccessibile a chi sia a cavallo. In effetti, la porta della trascendenza è bassa, bisogna curvarsi per oltrepassarla e sta ad indicare la difficoltà del passaggio da un mondo ad un altro: « la porta stretta » dell’ingresso al regno dei cieli. È possibile ritrovare quest’immagine nella « Misericordia » che Giovanni Baleison ha dipinto sulla facciata di St. Sébastien a St. Etienne-de-Tinée e nella « Pietà » di Ludovico Brea (1475, Cimiez). Il ponte. Già per i popoli pagani il viaggio infernale, ovvero il rituale del passaggio, era disseminato di insidie. La più frequente è il passaggio su un ponte strettissimo, a volte sottile quanto un capello, al di sopra di un baratro, in fondo al quale precipitano tutti coloro che non sono stati iniziati. Cosicché la sorte di coloro i quali non superano gli ostacoli incontrati durante il cammino rimanga incerta. Questo simbolo sarà recuperato dal cristianesimo che conferirà ad esso un valore estremamente profondo. Valore che sarà costantemente mantenuto e rinnovato almeno fino al XVI secolo, attraverso i racconti dei visionari. Tra queste visioni, quelle del monaco Sinniulf riportate da Gregorio di Tours nella seconda metà del VI secolo, dell’anglosassone San Bonifacio durante il secolo successivo, della leggenda irlandese di San Brandano verso la fine del IX, … tutti descrivono un ponte che attraversa una fornace o un fiume incandescente. Anche agli inizi del VII secolo con Gregorio il Grande, numerose visioni mettono in scena il ponte gettato su un fiume nero e fetido o scarlatto e brulicante di demoni. Pertanto, due elementi si rivelano essenziali: la simbologia del passaggio e il carattere assolutamente pericoloso di questa traversata, che costituiscono gli elementi tipici di qualsiasi viaggio iniziatico. Nell’iconografia cristiana, spesso, il ponte dà accesso al Paradiso. Lo si trova negli affreschi di La Tour-sur-Tinée (dei nizzardi Nadal e Brevesi, 1491) a Ste Elisabeth de Vence (del torinese Giacomo de Canavesis, 1491), a St. André di Mônetier-les-Bains (di un anonimo piemontese, intorno al 1480). In ciascun affresco è raffigurato l’ingresso nella Gerusalemme celeste, in relazione all’evocazione del « Giudizio Universale ». È importante sottolineare che il titolo di « Pontefice », titolo che appartenne all’imperatore romano e che rimane il titolo del papa, vuol dire « edificatore di ponti ». Il pontefice è contemporaneamente l’ « edificatore » e il ponte stesso in quanto mediatore tra i mortali e il cielo. O meglio, egli incarna il « cammino », il « passaggio spirituale». Il Pontefice è colui che traccia (o insegna) il sentiero che unisce il mondo degli uomini con la città di Dio. Secondo il pensiero medievale, un viaggiatore consacra la propria vita per camminare verso Dio, a maggior ragione se si tratta di un pellegrino. Il ponte agevola il suo spostamento e lo aiuta ad avvicinarsi alla salvezza; fa in modo che il pellegrino eviti di annegare, di morire senza


confessarsi, terrore dei devoti nel Medioevo. Intorno al 1540, i trittici di Francesco Brea di Nizza - St. Barthélemy e di Sospel - cattedrale, raffigurano perfettamente il seguente proposito: un pellegrino, che ascende un calvario, dopo aver attraversato un ponte, sale lungo un sentiero sinuoso verso una roccia scoscesa che porta ad un castello. Il ponte è quindi solitamente associato ad una cappella che è stata probabilmente retta da una confraternita o da un eremita. Il ponte, luogo di passaggio obbligato, assiste a incessanti visite alla cappella: si raccomanda la propria anima lasciando un’offerta e ottenendo in cambio un’indulgenza. Situate generalmente a ciascuna entrata, in particolare a ciascuna estremità, queste cappelle possono ergersi sul ponte stesso, così come le cappelle di SS. Nicolas e Bénezet ad Avignone, o di S. Lucia a Badalucco vicino San Remo. Più che una semplice strada, il ponte costituisce un rito di passaggio. L’uomo che cammina verso Dio sa perfettamente che deve attraversarlo in un’unica direzione e che ogni volta si tratterà di un tentativo rischioso. L’uomo che si trova su questo percorso s’interroga sulla solidità del ponte, sulla possibilità di potervi ritornare più tardi e di oltrepassarlo nuovamente. La cappella è lì proprio per rassicurarlo. L’iconografia religiosa non trascura di evocare questi simboli ,attraverso la presenza di ponti, sia nella meditazione di una « Sacra Conversazione» (Vittore Carpaccio, 1500, Petit Palais, Avignone), che nella preghiera alla « Madonna del cancelliere Rolin » (Jan Van Eyck, 1430-32, Louvre, Parigi), o nella « Fuga in Egitto » (Paul Bril, fine XVI sec., Rotterdam). L’arco in cielo sul quale è seduto il Cristo del «Giudizio Universale» (La Tour-sur-Tinée, I Penitenti Bianchi, affreschi, 1491) e la Via Lattea erano considerati dei ponti tra i diversi livelli dell’esistenza. Si tratta di un passaggio ad una nuova vita, l’ingresso in uno spazio fondamentale, come la porta. Per possedere un valore concreto, questa funzione particolare esige che vengano compiuti i rituali specifici. Il ponte pone il cristiano su una strada stretta in cui egli si trova di fronte ad un’ineluttabile scelta obbligata. Ora, senza che il cristiano possa esserne anticipatamente sicuro, questa scelta lo condannerà oppure gli aprirà le porte del cielo. I fiori. In Grecia, Zefiro, dalla fronte coperta di violette e di primule, concesse a Chloris per amore di regnare sui fiori dei giardini e dei campi coltivati. A Roma, Flora, simbolo della primavera, fa germogliare gli alberi. Aprile è il suo mese e il 28 si celebra la sua festa, i « Floralia ». Flora offrì un giglio a Giunone che, attraverso questo semplice contatto, mise al mondo Marzo, che è anche il nome del primo mese della stagione primaverile. È la stagione di Venere che presiede la vegetazione ed i giardini. Nell’ « Allegoria della Primavera » (Sandro Botticelli, 1478 ca, Uffizi, Firenze) i capelli, il collo e la veste di Flora sono ricoperti di margheritine. Nella tradizione pagana, la margheritina è il simbolo del rinnovamento: essa fiorisce a Pasqua, momento dell’effettivo ingresso della primavera. La si trova dunque sui prati del « Jardin de Paradis » in cui, insieme a questo rinnovamento, evoca la semplicità e la modestia; il suo nome deriva da « pasquis – pasquier » e in francese antico fa riferimento ai


pascoli. Il tema del « Jardin de Paradis» è uno dei primi simboli floreali dell’arte cristiana. Lo si trova raffigurato già nei mosaici paleocristiani di Roma e di Ravenna. In questo luogo di delizie i fiori si moltiplicano. Certamente fino agli inizi del secondo millennio, l’uso del fiore nelle opere d’arte rimane discreto, il XIII secolo moltiplicherà il numero delle specie floreali. Nel XV sec., all’interno del contesto de « L’Autunno del Medioevo » (titolo della celebre opera di Johan Huizinga, 1919, tradotta in francese nel 1932, ripubblicata da Payot nel 1975 e nel 1995), inizio di un declino, ma delirio delle tavolozze, il fiore detiene un posto d’eccezione. Gli studi botanici affrontano un periodo di forte slancio entusiastico; il fiore è descritto con dovizia di particolari nei manoscritti prodotti nell’Italia del nord. In quest’epoca fa ingresso il tema derivato dal « Jardin de Paradis », dall’ « Hortus conclusus », luogo di bellezza e benessere, dove dimora Maria circondata da quattro vergini capitali (Margherita, Caterina, Barbara, Dorotea). Questo giardino chiuso è il simbolo della sua castità; lo circonda un muretto ricoperto da un roseto; vi si riconoscono i fiori che fungeranno da attributi nelle scene liturgiche e per i loro personaggi più importanti. Così, il giglio bianco rappresenta il simbolo della purezza; l’aquilegia o colombina, azzurro tenue, simboleggia la malinconia e l’innocenza come personificazione dello Spirito Santo; il garofano, color porpora o carminio, è il simbolo della carità e della verginità. Il narciso è la pianta del paradiso per eccellenza e la violetta lo è della modestia e dell’umiltà. Quest’ultima si associa alle margheritine e ai mughetti sul terreno erboso delle « Madonne dell’Umiltà », invenzione di ispirazione francescana nella seconda metà del XV sec. in tutta l’Europa. Tutti questi fiori si ritrovano, come un tappeto, ai piedi della « Madonna di Fileremo » (Francesco Brea, 1530/40 ca, Nizza - St. Barthélémy), così come ai piedi del « Rosario » (Ludovico Brea, 1512/13, convento domenicano, Taggia), tema nuovo della fine del secolo XV. Ai fiori precedenti si aggiunge la rosa, dal destino particolare. Nei suoi colori bianco, rosso, giallo (ovvero oro), la rosa si unisce ai simboli della Vergine e di Cristo: simboleggia le gioie dell’infanzia, i dolori della Passione e della morte, i trionfi della Resurrezione che costituisce una rinascita, e della loro incoronazione nei cieli. Sul modello del capolavoro realizzato da un orafo nel 1404, il « Petit cheval d’Altoetling », offerto a Carlo VI da parte di Isabella di Baviera, il « Jardin de Paradis » e « Hortus conclusus » cedono il posto a un decoro di rose che avvolge la Vergine. Gli storici dell’arte si sono adoprati per trovare dei titoli che potessero distinguere una moltitudine di opere similari: « Vergine nel giardinetto, boschetto, cespuglio, aiuole di rose », « …nel pergolato, siepe, pergolato di rose ». Il « Cantico dei Cantici » (2,1), in cui la Sulammita viene paragonata ad una rosa, ne rappresenta la fonte. Su invito dei monaci domenicani, la rosa contribuirà al successo prestigioso del culto del « Rosario», vale a dire della recita del rosario. La « Vergine con la rosa » diventa un luogo comune dell’iconografia. Questo fiore sfugge alla Vergine per fare riferimento, designare e simboleggiare alcuni personaggi sacri, principalmente santi, e contribuisce ad esaltare i meravigliosi miracoli da essi compiuti. Il « Miracolo del grembiule di rose » diventa un grande classico dell’agiografia. Prima del Concilio di Trento (1545-1563), seguendo una stessa trama, tutti gli ordini religiosi


si adoprano ad immaginare una simile peripezia soprannaturale per uno dei propri santi e proporne ai fedeli le rappresentazioni. Uno smoderato sentimento caritatevole induce questi santi a portare quotidianamente del cibo ad alcuni miserabili che si affollano sempre più numerosi ai cancelli del castello, del monastero, della cucina… Il padre, il marito, il superiore, la badessa… finiscono col proibire questa usanza. Il santo passa oltre e sorpreso nell’atto di trasportare del pane sotto le pieghe del grembiule, del saio e dell’abito, si vede intimare l’ordine di lasciare i lembi: in quel momento una cascata di rose si sparge al suolo! Questa leggenda rientra nell’iconografia della certosa Rosellina di Villeneuve, l’agostiniana Rosalia di Palermo, la francescana Rosa di Viterbo, la domenicana Rosa di Lima, tutte profondamente onorate in terra nizzarda e non solo, come il francescano (San Diego d’Alcalà ?) in un dipinto ligure del Palais Carnolès presso Menton. Il giglio è un altro fiore mariano che compare nell’arte cristiana solo alla fine del XII secolo, sebbene sia ampiamente citato nel « Cantico dei Cantici » : « …io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli… ». Tuttavia, nell’iconografia simbolica esso è preceduto dal ramoscello d’ulivo, simbolo dell’Immacolata Concezione. Maria è a volte paragonata ad un ulivo dalle radici amare. Persino i pittori senesi, cui ripugnava celebrare pomposamente il giglio in quanto simbolo della rivale fiorentina, prediligono l’ulivo nelle loro raffigurazioni dell’ «Annunciazione ». Questa festa della Primavera (il 25 marzo) ci ricorda che Marzo è nato da Giunone sfiorata da un giglio. Quest’ultimo è l’emblema della purezza fisica, ma ancor più di quella spirituale. Esso indica che il personaggio ha raggiunto un tale grado di purezza intellettuale che gli consente di dialogare direttamente con Dio. Per questo motivo, il giglio diventa l’emblema dei mistici. E, come nel caso della rosa, i principali ordini religiosi ne fanno l’emblema dei loro grandi visionari: per i francescani i santi Giuseppe, Chiara d’Assisi, Antonio da Padova; per i domenicani i santi Domenico (cfr. il « Rosario » di L. Brea a Taggia, op.cit.), Caterina da Siena, Tommaso d’Aquino, Antonio da Firenze, ...; per i carmelitani i santi Simone Stock, Alberto il Grande, Giovanni della Croce,… ; per gli agostiniani San Nicola da Tolentino, tutti personaggi familiari nei dipinti eseguiti dai nostri pittori nizzardi. Quanto a San Filippo Benizzi, il giglio costituisce un duplice emblema, poiché Benizzi, membro dell’ordine dei serviti, è uno dei patroni di Firenze. San Giuseppe, al quale i francescani consacrano un giglio, avrebbe tagliato il suo bastone da un ramo di lauro. In Toscana il lauro rosa è chiamato « bastone di San Giuseppe », tuttavia, i pittori lo dotano piuttosto di un lauro bianco per sottolinearne la purezza. Il garofano evoca l’amore puro e quindi la verginità; esso è pertanto associato ai ritratti di giovani fidanzati o ai quadri raffiguranti il matrimonio. Il garofano è anche il fiore dell’amore consacrato, l’amore che Dio non cessa mai di riversare sugli uomini. Se è rosso, traduce l’amore divino, lo Spririto Santo, il fuoco dei sacrifici offerti al Signore, la vittoria. È questo il significato della « Madonna della Vittoria » dipinta da Mantegna (1495/96, Louvre, Parigi) per Francesco Gonzaga, il quale voleva celebrare, con questo dipinto, la vittoria


riportata sui francesi a Fornovo il 6 luglio 1495. Sotto una veste religiosa, esso è perciò un’opera profana e politica. L’iris blu, colore mariano, può prendere posto anche in una « Annunciazione ». Questo fiore, che somiglia ad una lancia, prefigura i dolori cui andrà incontro Maria durante tutta la Passione. Più raramente, il pisello odoroso dal profumo delicato, simbolo della delicatezza delle giovani fanciulle, è anche il simbolo della fragilità e, in ambito profano, della partenza e del piacere duraturo. Dalla fine del XV secolo, il vaso di fiori diventa una natura morta, pur mantenendo i valori altamente simbolici delle essenze in esso contenute. Nel « Trittico Portinari », dipinto da Hugo van der Goes nel 1475 (data della « Pietà » di Ludovico Brea, Cimiez), in primo piano nel pannello centrale raffigurante l’ « Adorazione dei pastori », sono collocati due vasi pieni di fiori ai quali si aggiungono i fiori sparsi sul suolo e un fascio di grano. Il numero, il colore, la specie di ciascuno di questi fiori costituiscono un commento sul significato religioso della nascita, della vita e della morte di Cristo; sono tutti simboli della Vergine. È un ottimo esempio di ciò che ritroviamo nella pittura regionale. L’iris azzurro evoca il soprannaturale, l’eternità divina, l’immortalità umana: è un emblema divino, pagano e al contempo cristiano, laico e religioso. L’azzurro simboleggia la Vergine e la regalità di Cristo. L’iris bianco equivale al giglio bianco, simbolo mariano, inoltre, della purezza e dell’Immacolata Concezione. Il giglio rosso fa riferimento al sacrificio, al sangue della Passione. Esso è tuttavia anche l’elemento araldico di Firenze, ed è per una chiesa della stessa che era stato commissionato il trittico. Il giglio rosso è l’elemento araldico dei guelfi, partito di Firenze e dei Medici; mentre i ghibellini avevano scelto il giglio bianco. L’aquilegia rappresenta l’innocenza di Maria e lo Spirito Santo. I suoi fiori sono otto: le sette virtù dello Spirito Santo più la brevità e la fragilità della vita (Libro di Giobbe). In ambito profano, l’aquilea guarisce l’avarizia. Il garofano rosso traduce la carità della Vergine; qui i tre fiori sono l’immagine dei tre chiodi della Crocifissione. Il garofano si identifica con la verginità e con i fidanzamenti, la Vergine (vale a dire la Chiesa) è, infatti, la fidanzata di Cristo. Umile e modesta, la violetta è anche, per il suo colore, simbolo dell’afflizione e della penitenza: ve ne sono venti sparse al suolo. La viola bianca del pensiero rappresenta la meditazione e la riflessione dell’uomo, nonché la sua responsabile saggezza. Il fascio di grano, infine, costituisce il pane, vale a dire il corpo di Cristo; Betlemme, luogo della sua nascita e qui rappresentata, significa infatti « pane fatto di frumento ». La palma da datteri, ultimo esempio scelto in ambito botanico perché ricorre spesso nelle pitture medievali delle nostre regioni appare molto presto nella simbologia cristiana. Ad essa è paragonata la sposa del « Cantico dei Cantici » : « La tua statura rassomiglia a una palma (…) ho detto : Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri ». Greci e Romani celebravano i vittoriosi religiosi, politici o militari consegnando loro una palma. Allo stesso modo, l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme viene celebrato da alcuni che recano rami di palma, ciò prefigura la sua vittoria contro la morte. Il significato è identico per il martire il


cui emblema è la palma, che sottolinea l’immortalità della propria anima: « Il giusto fiorirà come palma… » è specificato nei Salmi (Salmi 92, 13). Nelle regioni mediterranee questa palma, simbolo della resurrezione, si erge al centro dei chiostri in sostituzione del pozzo, a quel tempo relegato in uno degli angoli: è il caso del convento domenicano di Taggia. Questo albero della vita, sostegno del mondo, funge da bastone al gigante cananeo Cristoforo. Paolo di Tebe o Onofrio, eremiti, rivestiti di palme intrecciate, vivono in ritiro in fondo al deserto, luogo propizio per una rigenerazione. La Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto trova rifugio sotto una palma di cui Giuseppe, o un angelo, raccoglie i datteri, nutrimento che prefigura la redenzione che Cristo dispenserà ai giusti « … che il giusto, fiorisca come la palma».

Gli strumenti musicali. La pittura medievale delle nostre regioni presenta alcuni riferimenti musicali, dalle melodie angeliche alle cacofonie infernali. Le musiche laudative celebrano la maestosità di Dio o della Vergine: il Padre Eterno in un sole radioso, o Gesù benedicente dentro una mandorla. Ai loro piedi una coppia di angeli musicanti li glorifica, suonando l’arpa, il liuto o il timpano. L’ arpa fa riferimento alla gloria divina; essa è l’emblema del re David il quale, durante tutto il Medioevo, simboleggia la musica. Egli la suona per placare Saul. L’arpa è lo strumento nobiliare e regale per eccellenza. Ad essa corrisponde l’immagine del leone, cui deriva l’espressione « il leone di David ». Quest’ultimo è inoltre associato a giochi di campanelle, altro simbolo della dignità regale tradotta nell’iconografia con il « Re David campanaro ». Ancora agli inizi del XV secolo, il liuto è uno dei principali strumenti impiegati nella musica cortese e ancora cinquecento anni dopo conserva lo stesso prestigio tra le nostre regioni montuose. Esso è simbolo del bene e dei benefici divini, compreso il riscatto degli uomini con il sacrificio del Cristo. Non a caso, gli strumenti a corde tese su un supporto di legno, casistica nella quale non rientra l’arpa, evocano il corpo di Gesù inchiodato sulla Croce e teso oltre misura. Per estensione, la presenza di un liuto accanto ad una coppia mette in risalto il legame matrimoniale, consacrato dalla Chiesa, la famiglia e il lavoro necessario per sostenerla. L’accompagnamento delle « Madonne del Rosario » è identico: si tratta anche qui di una coppia di angeli dalle ali di farfalla che svolazzano accanto al volto di Maria, un angelo con un liuto e l’altro mentre suona la viela ad arco (Ludovico Brea, opere di Briançonnet 1505 ca, Taggia 1512/13). Gli stessi strumenti ricorrono nelle raffigurazioni dell’ «Assunzione » di L. Brea (1495/1500 ca, Petit Palais, Avignone) e a volte abbastanza tardive (N.-D. de la Garde, Antibes & collegiata, La Brigue, entrambe 1550/60 ca). Sempre lì, questi strumenti, pur celebrando la Vergine, prefigurano la Passione che dovrà sostenere dal momento della condanna fino alla morte del figlio. La viela ad arco è stata il primo strumento musicale ad accompagnare le monodie, o canti a una sola voce, dei trovatori francesi e italiani e dei menestrelli provenienti dai paesi germanici.


Questi strumenti a corda sono tutti « strumenti bassi » che si collocano in prossimità del sovrano o del personaggio sacro. Accade che persino questi ultimi suonino tali strumenti, come David dell’arpa. La dolcezza del loro suono, la loro debole risonanza spiegano questa vicinanza, questa intimità. Esattamente l’opposto si verifica con gli « strumenti alti », dal suono forte, possente, che vanno allontanati per paura che possano assordare ed infastidire il personaggio sacro. Pertanto, li si colloca nella parte superiore delle composizioni, così come li si trova sulle predelle all’interno delle sale, specialmente lasciati sul sagrato o sul portico degli edifici. L’organo occupa un posto particolare. Si tratta di un piccolo strumento portatile che il musicista porta sul braccio; esso è inizialmente incluso tra gli strumenti bassi. Acquisendo maggiore importanza e divenendo quindi più pesante, lo si poggia per terra o su un supporto; viene denominato organo positivo e inizialmente continua ad essere uno strumento poco rumoroso. Non è altro che lo strumento delle glorie divine e imperiali. Nel 757 l’imperatore di Bisanzio, Costantino V Isaurico, invia a Carlo Magno un organo, primo riferimento nel Medioevo a questo tipo di strumento. Esso rimane, tuttavia, escluso dalle chiese fino alla fine del XII secolo, e per potervi accedere deve essere accompagnato da un’autorizzazione papale. Il numero di strumenti impiegati per celebrare il trionfo divino si moltiplica. La tromba diritta è lo strumento prediletto per accompagnare la collera o la giustizia immanente di Dio: L. Brea ne raggruppa ben quattro per rappresentare un Cristo vendicatore al di sotto del quale si interpone una « Misericordia » ( 1483/88 ca, domenicani, Taggia), così come G. Canavesio per aprire il « Giudizio Universale » di Pigna, mentre La Brigue si accontenta di due trombe per raffigurare lo stesso soggetto. Giosuè aveva fatto uso di queste trombe per far cadere le mura di Gerico e per distruggere la città. Le trombe aprono il varco davanti all’imperatore. Insieme alle raffigurazioni del Paradiso e dell’« Incoronazione della Vergine » si spiega un autentico gruppo orchestrale tra la Trinità e le coorti di santi. Sempre L. Brea pone dodici musicisti tutt’intorno alla mandorla del suo « Ognisanti » (1513, S. Maria di Castello, Genova): sei cantanti, viela ad arco, timpano, salterio, successivamente in coppia, trombe diritte, «chalémies», zufoli e infine una ghironda. Arriviamo così a un punto cardine. Questi numerosi strumenti costituiscono da quel momento un insieme strumentale e ciascuno di essi occupa un ruolo al contempo simbolico ed organico. Se le corde tese mantengono il loro ruolo di dialogo con Dio e la Vergine, i coristi rimangono nettamente isolati, mentre i «chalémies» e i flauti sono raggruppati in basso, poiché, avendo una connotazione negativa, sono più lontani dal cielo e vicini alla terra. La ghironda, portata a Clans da un uomo cieco privo di gambe (anonimo piemontese, 1480 ca, cappella di St. Antoine) è lo strumento della musica popolare, tipica del saltimbanco. In tale contesto, la ghironda si avvicina alla famiglia delle cornamusa (cabrette, zampogna,


piva) che i pastori delle « Natività » prediligono (es. : Villars-sur-Var, La Brigue e in diversi affreschi). Strumenti tipici delle feste campagnole, la loro condizione di inferiorità è dimostrata dal frequente uso che di esse ne fa il folle; è estremamente raro che vengano suonate dagli angeli. Tanto più che simboleggiano la fornicazione attraverso l’associazione di un otre, immagine di un ventre femmineo, con degli zufoli, simbolo del sesso maschile, che lo penetrano. L’accostamento risulta identico a partire dalla combinazione galoubet tambourin suonati insieme da un solo musicista. Le cacofonie infernali, assordanti, nasali, stridenti, nell’insieme sgradevoli, ci introducono nel contrappunto delle melodie sacre. Tamburi, clachette, caldaie circondano anch’essi le raffigurazioni del « Giudizio Universale » o le « Cavalcades des vices » che costituiscono un’opposizione fondamentale rispetto alle precedenti. Tamburi e ottoni simboleggiano la vendetta divina, il male e si trovano tra le mani del diavolo. Posti nella parte inferiore delle composizioni, sembrano estratti dalle viscere della terra: a Roubion (anonimo provenzale, 1513, cappella di St. Sébastien) uno scheletro suona una tromba diritta, un grifone, personificazione dell’Anticristo, batte su un tamburo…

Il diavolo. Il diavolo è un protagonista essenziale della psicomachia, lotta tra il bene e il male, conflitto interiore che segna il destino dell’anima del credente nell’aldilà. Le sue raffigurazioni si ispirano alle leggende pagane orientali e scandinave. Le sue ali a membrana, tipiche del drago, sono un attributo che deriverebbe dall’Estremo Oriente, dove già a partire dal X secolo le opere cinesi e giapponesi riportano dei diavoli agghindati con ridicole ali di pipistrello, animale delle grotte tenebrose. Ad essi si aggiungono corna, baffi, abbondante irsutismo, lunghi denti, artigli, estremità palmate, …Il diavolo è bruno o nero colore del peccato, della morte, della paura (nell’oscurità), o rosso, colore del sangue e del fuoco. Tuttavia, più frequentemente porta su di sé un pelame giallastro maculato o striato di nero, simbolo negativo per eccellenza (cfr. Michel Pastoureau, op. cit.). Il suo ideale è il Leviatano, citato nella Bibbia: « Il Signore punirà (…) il Leviatan serpente guizzante, serpente tortuoso… » (Isaia 27, 1). Non è altro che una deformazione del coccodrillo descritto nel Libro di Giobbe: « Dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici esce fumo (…) Il suo fiato incendia carboni e dalla sua bocca escono fiamme (…) Quando si alza, si spaventano i forti e per il terrore restano smarriti » (Giobbe 41, 11-17). Questo coccodrillo, re degli animali, esiste già nella mitologia fenicia ed è associato all’acqua di un lago o di una palude, alla cui sponda, l’uomo giusto, del quale San Giorgio rappresenta l’archetipo, giunge per combatterlo. Il drago è una trasformazione mostruosa del coccodrillo. Nell’Apocalisse, munito di sette teste, il drago rappresenta la personificazione dei sette peccati capitali. La mitologia assiro-babilonese descrive gli inferi difesi da sette cinte traforate da sette porte che sono oltrepassano mentre ci si denuda per poter accedere, nudi per l’eternità, alla « dimora delle tenebre ».


Ed è con questo numero sette che concludiamo questa rapida evocazione del simbolismo. Tale numero rappresenta l’uomo attraverso la somma di tre - il numero dell’anima e dello spirito - con il quattro - numero del corpo e della materia. Se l’uomo è benedetto da Dio, che è l’uno, egli perviene al numero otto che detiene il significato di Resurrezione, di rinascita mediante il battesimo. Questo simbolismo dei numeri era molto apprezzato durante il Medioevo. Pertanto, così come il dodici, il sette rientra continuamente nell’Apocalisse: i sette corni della bestia, segni della collera divina annunciata da sette trombe, i sette pianeti, con altrettanta plenitudine. È noto che il sette è anche il numero delle meraviglie del mondo, dei pilastri della saggezza, dei giorni della creazione, dei sacramenti. Esso caratterizza le sette virtù, le tre virtù teologali unite alle quattro virtù cardinali, alle quali si contrappongono i sette peccati capitali, che nell’Apocalisse sono assimilati al famoso drago dalle sette teste. Nell’iconografia medievale delle Alpi, esse sono rappresentate da una « Cavalcade des vices » a cavallo di animali diabolici ad essi corrispondenti e condotti da diavoli irsuti verso la bocca aperta del Leviatano. Ecco quindi alcune indicazioni che dimostrano come il simbolismo fosse onnipresente nell’iconografia medievale, come in filigrana. Alcuni grandi artisti, in particolare L. Brea, G. Canavesio, la conoscevano e sapevano utilizzarla nelle loro composizioni; altri artisti dovevano essere guidati dai loro committenti che, spesso nelle nostre regioni, erano degli eruditi eccelesiastici.

Luc Thevenon Conservatore Capo del Patrimonio (h) Nizza.


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