Valerio Poltrini
Progetto per l’ampliamento del complesso della Pilotta a Parma
Il Novecento alla Pilotta
Il Novecento alla Pilotta Progetto per l’ampliamento del complesso della Pilotta a Parma
Valerio Poltrini Candidato
Prof. Massimo Ferrari Relatore
Prof.ssa Claudia Tinazzi Correlatore
Politecnico di Milano Scuola di architettura urbanistica ingegneria delle costruzioni Corso di laurea in architettura e disegno urbano A.a. 2020–2021
In copertina: R. Gaibazzi, Diacronia, 1968, in CSAC, Remo Gaibazzi. Quello sguardo sulla città, Electa, Milano 1996, catalogo della mostra allestita nelle scuderie della Pilotta dal 15 dicembre 1996 al 15 febbraio 1997
Tutte le epoche hanno lasciato una traccia nel tessuto urbano di Parma, costruendolo a immagine e somiglianza dei propri valori, tuttavia vediamo nell’attuale Piazzale della Pace un’accettazione passiva delle distruzioni che l’hanno interessato a partire dal Settecento fino alla seconda guerra mondiale. Vogliamo immaginare una nuova evoluzione del complesso della Pilotta, avvalendoci del prezioso patrimonio archivistico raccolto negli anni dal Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’università di Parma. La ricerca affronta il progetto di un museo del Novecento nel Piazzale della Pace, a partire da uno studio sul paesaggio culturale emiliano e da un’indagine storico-urbana sulla città di Parma. All epochs have left their mark on the urban fabric of Parma, building it in the image and likeness of their own values, yet we see in the current Piazzale della Pace a passive acceptance the destruction that affected it from the 18th century until the Second World War. We want to imagine a new evolution of the Pilotta complex, making use of the precious archival heritage collected over the years by the Centro Studi e Archivio della Comunicazione of the university of Parma. The research deals with the project of a museum of the 20th century in the Piazzale della Pace, starting from a study of the cultural landscape of Emilia and a urban and historical investigation on the city of Parma.
Indice
Premessa con Giacomo Santunione Ragioni della ricerca Metodo della ricerca
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Emilia con Giacomo Santunione Una definizione Geologia, orografia e idrografia La costruzione del territorio Il paesaggio culturale Il sistema dei musei d’arte
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Parma Parma preromana Parma romana Parma altomedievale. 476–1022 Parma comunale. 1022–1346 Parma rinascimentale. 1346–1545 Parma farnesiana. 1545–1731 Parma moderna. 1731–1860 Parma contemporanea Una città, due anime
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Pilotta Prima della Pilotta Il corridore. 1588–1611 I cortili. 1611–1766 I guasti. 1766–1829 La restaurazione. 1829–1871 La modernizzazione. 1871–1944 Il dopoguerra La Pilotta e il tempo
61 63 65 71 75 77 79 87
CSAC Arturo Carlo Quintavalle Cenni storici Un archivio di archivi
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Progetto Tema Programma Giacitura L’ipogeo L’archivio visitabile Il teatro
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Tavole di progetto
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Bibliografia
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Ringraziamenti
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Premessa Con Giacomo Santunione
Tanto grande è il loro potere, la loro dignità, la loro maestà, e, infine, la loro santità che, se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi degli uomini, ne cancellerebbe anche la memoria.1
A sinistra: A. Dürer, San Girolamo nel suo studio, 1514 1. Bessarione, Lettera al doge Cristoforo Moro, 31 maggio 1468
Riteniamo importante dichiarare fin da subito la necessità di scrivere. La forma del libro è quanto meno di formale esista, ed è educata, silenziosa, ma eloquente, e si presta, in questo caso specifico, ad accompagnare un progetto di architettura con un ruolo di sostegno teorico e intellettuale. Il senso sta nel non ritenere definitivo il progetto e l’immagine che ne potrebbe scaturire, ma di tenere sempre accesa la luce sul pensare, oltre che sul fare, per far sì che una forma sia sempre figlia di un contenuto, e che un disegno sia prodotto inevitabilmente da un ragionamento.
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Ragioni della ricerca
La ricerca trattata nelle pagine seguenti è stata svolta parallelamente, nei tempi e nei metodi, alla tesi di Giacomo Santunione sul museo Morandi a Bologna. Questi due scritti sono il racconto di un percorso lungo un anno e mezzo, il quale trova una sua concretizzazione in un progetto di architettura. Lo si può definire, e non siamo i primi a farlo, percorso di conoscenza. Le ragioni che fin dall’inizio ci hanno guidato provengono, infatti, da una condivisa necessità di conoscere un pensiero teorico, un punto di vista, un territorio, una città e, infine, noi stessi. Conoscere attraverso l’architettura. Quello che viene scritto, quindi, non si può definire una semplice relazione di progetto, che solitamente ha lo scopo di descrivere una serie di scelte operative fatte per assolvere a un esercizio pratico, ma sarà da intendersi come una narrazione di tutto ciò che ha portato a un risultato non solo formale, ma anche culturale. Il progetto di architettura, così inteso, rappresenta l’ultima delle tappe di un viaggio, ma non ambisce a esserne il fine. Così come nessun progetto o nessuna architettura pretende di essere qualcosa di definitivo, quanto piuttosto parte di un racconto universale che riguarda non solo le forme ma anche la vita dell’uomo.
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Alla conclusione di un comune percorso accademico abbiamo scelto di svolgere due ricerche parallele ma con diversi oggetti. Esse partono da un ragionamento sull’Emilia, territorio da cui proveniamo anagraficamente e culturalmente, per poter tornare a casa dopo anni di studi e di vita a Mantova e Milano. Crediamo che sia utile e doveroso, anche verso la nostra formazione, conoscere ciò che abita la nostra memoria e farne occasione di un approfondimento più maturo e consapevole, traducendosi poi in un progetto di architettura. Bernardo sosteneva che noi siamo come nani sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere un maggior numero di cose e più lontano di loro, tuttavia non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo più in alto e ci eleviamo proprio grazie alla grandezza dei giganti.2
2. Giovanni di Salisbury, Metalogicon, 1159, 3 4
Questa è la nostra condizione intellettuale, data da un senso di responsabilità verso una conoscenza il più possibile approfondita della nostra disciplina e delle altre da cui essa può attingere. Rientrare in una categoria di studiosi che rivolgono la propria cura non solo alla realtà dell’architettura, ma in generale alla realtà dell’uomo. Secondo noi questo ruolo civile dell’architetto non è innato, ma occorre ritrovarlo e costruirlo durante un continuo percorso di conoscenza.
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Metodo della ricerca
Il lavoro di tesi è stato svolto parallelamente, con un costante confronto sui temi e affidandoci alla reciproca conoscenza e alla condivisione di un certo mondo di riferimenti. Iniziando insieme da un approfondimento sul tema dell’Emilia, a livello geografico e antropico, abbiamo poi compreso quanto non fosse secondario il fine culturale di quello che andavamo ad indagare. Solo dopo aver conosciuto in questi termini il nostro territorio, abbiamo potuto operare una scelta, o quanto meno confermarla, riguardo al tema del lavoro di tesi: il museo. Da una parte il nuovo museo Morandi, dall’altra il CSAC. Essi fanno riferimento a due declinazioni diverse dello stesso tema, uno al museo monografico d’artista, l’altro alla musealizzazione di un archivio. E diverse sono le città a cui appartengono, Bologna e Parma, ma connesse geograficamente e culturalmente da quell’identità emiliana da cui siamo partiti. Lo studio delle città è ciò da cui il progetto di architettura non potrà prescindere, e quindi l’elemento fondante di entrambe le tesi. La loro storia, la cultura e l’architettura che abbiamo conosciuto è qui rielaborata graficamente in ordine cronologico per comprendere l’evoluzione morfologica del costruito e del paesaggio urbano. Questo lavoro non
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è fine a sé stesso ma vuole essere un vero strumento di progetto. Parallelamente alla conoscenza del luogo, è stato fondamentale intraprendere quella del tema specifico, o meglio, dell’oggetto della ricerca. Da una parte uno degli archivi d’arte del Novecento più consistenti d’Italia, il CSAC, dall’altra la figura di Giorgio Morandi. Ognuno di noi ha potuto approfondire il suo argomento con una vasta bibliografia e condividendo con l’altro le proprie conoscenze, con l’obiettivo ulteriore di produrre due tesi figlie di uno stesso metodo. L’ultimo livello di ricerca, prima del progetto di architettura, è quello della definizione e studio dell’area di progetto. Nel caso di Parma si è operato all’interno del complesso della Pilotta, per proporne un ampliamento museale; nel caso di Bologna è stata scelta via Fondazza, dove si trova la casa-studio dell’artista. Il progetto, quindi, si pone alla conclusione di un lungo percorso di conoscenza, e rappresenta il precipitato di una serie di studi, di letture, di sopralluoghi, in sintesi, di un metodo.
3. E. N. Rogers, Il senso della storia, Unicopli, Milano 1999, p. 16
Acquistare il senso della storia darà significato a noi e alle nostre opere, sapremo capir meglio i motivi per i quali dobbiamo essere diversi, per i quali dobbiamo essere ciascuno noi stessi.3
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Emilia Con Giacomo Santunione
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Una definizione
Sono momenti sparsi collegati da un reticolo di analogie, in una trama che non è riassumibile, perché data dall’intreccio di vari fili narrativi. Un tempo la parola «trama» indicava proprio questo tipo d’intreccio di diversi fili narrativi, come ad esempio in Ariosto.1
Nella pagina precedente: Tabula peutingeriana, xiii sec., dettaglio A sinistra: La costruzione di un percorso, montaggio su carta fisica dell’Emilia 1. L. Ghirri, Il profilo delle nuvole, Feltrinelli, Milano 1989
Oggi, parlando comunemente di Emilia, si intenderebbe un’area geografica definita da confini amministrativi istituiti a livello provinciale poco prima dell’unità d’Italia, nel 1859, e a livello regionale in occasione dell’entrata in vigore della costituzione della repubblica nel 1948. Quindi se si facesse riferimento alla parola Emilia, spontaneamente si penserebbe anche alla Romagna, con cui fa parte delle venti regioni italiane. Questa chiara e sterile definizione politica ha però alla sua origine una profonda e complessa memoria culturale. Ed è questa memoria che oggi, in diverso modo e secondo diversi punti di vista, può essere reinterpretata. La nostra, infatti, è una delle tante interpretazioni possibili. Da studenti di architettura, lo sforzo intellettuale che intendiamo affrontare è quello di guardare all’Emilia come a un paesaggio culturale, e non come ad una serie di immagini, parole, sapori, distinti e incollati ad una cartolina. Non si tratta di rievocare quegli
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stereotipi per cui un esterno riconoscerebbe la sua idea caricaturale di una regione, ma di ritrovare in tutto ciò che appartiene a questo paesaggio uno spirito comune. Dalla sua morfologia fisica, alla sua antropizzazione, dalla sua unità gastronomica, alla sua divisione dialettale, fino a quel filo rosso che riesce a far rintracciare un’identità condivisa in tutto ciò che può essere ascritto a una cultura emiliana.
A sinistra: P. Strand, La famiglia Lusetti, 1953 in P. Strand, C. Zavattini, Un paese, Einaudi, Torino 1955
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Geologia, orografia e idrografia
A sinistra: Geologia, orografia e idrografia dell’Emilia. In marrone chiaro i depositi alluvionali, in marrone scuro le formazioni ofiolitiche
Una prima lente attraverso cui studiare questo territorio può essere quella della geografia fisica. L’Emilia appare delimitata da due confini evidenti: a sud l’Appennino, a nord il fiume Po. L’orografia è organizzata su tre fasce che l’attraversano in tutta la sua lunghezza: una montana, a ridosso della dorsale appenninica e solcata da numerose valli fluviali che scendono perpendicolarmente verso nord; una pedemontana, formata dalle colline e dall’alta pianura; infine, una del tutto pianeggiante che arriva al Po. Così come sono stati elencati, lo stesso ordine cronologico riguarda la loro formazione. La pianura, infatti, risulta essere il prodotto della sedimentazione di quei materiali rocciosi prima erosi dalle montagne, poi trasportati dai fiumi verso valle, colmando così quel grande golfo marittimo che un tempo occupava la pianura padana. La roccia che costituisce le montagne dell’appennino è principalmente l’arenaria, che una volta sedimentata sul fondale marino venne riportata in superficie con l’innalzamento della dorsale. Un caso isolato è quello delle ofioliti, roccia magmatica più dura che generalmente compone le croste oceaniche, risollevatasi insieme al resto dei materiali sedimentari e ora riscontrabile nell’appennino piacentino e parmense.
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La costruzione del territorio
Questo noi lo abbiamo in comune non solo con gli uomini, ma anche con le città e gli stessi villaggi. Infatti lasciandoti alle spalle Claterna, attraversavi Bologna, Modena, Reggio, a destra c’era Brescello e di fronte ti veniva incontro Piacenza, ancora risonante nel nome della sua antica nobiltà, e sulla sinistra avevi avuto pietà per gli incolti Appennini e consideravi i castelli di popolazioni un tempo fiorentissime e li numeravi con dolorosi sentimenti. Tanti cadaveri di città semidistrutte e nello stesso tempo la funerea parvenza di tanti villaggi non ti ammoniscono che più facile deve essere consolarsi per la morte di una sola per quanto santa e ammirevole donna? Tanto più che queste sono prostrate e distrutte per sempre e quella, strappata a noi nel tempo, consegue una vita migliore.2
A sinistra: Il paesaggio antropico dell’Emilia. In nero la via Emilia, le strade principali, gli insediamenti e le tracce della centuriazione romana 2. Aurelio Ambrogio, Epistole, 16 39 1099
Al processo geologico e orografico corrisponde un conseguente processo di popolamento. I primi insediamenti noti in Emilia risalgono all’età della pietra, all’alto neolitico, quando apparvero villaggi sparsi per il territorio collinare e dell’alta pianura. Le aree più basse invece risultavano meno popolate in quanto la presenza di ampie zone paludose impediva un vero e proprio popolamento. Con l’affermarsi poi delle popolazioni terramaricole anche la pianura venne occupata e
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di conseguenza bonificata, ma il vero sistema antropico organizzato lo si può far risalire agli etruschi, che per primi tracciarono quella rete di relazioni e scambi commerciali ancora oggi indelebili. La successiva occupazione romana dell’Emilia fu caratterizzata da una continuità rispetto a quanto già esisteva. I romani, infatti, costruirono e consolidarono ciò che trovarono al loro arrivo, con un metodo razionale e altamente strategico. La prima città di fondazione fu Ariminum, costruita nel 268 a.C. sulla strettoia adriatica come roccaforte per mantenere un diretto controllo sui territori appena conquistati. Con l’imminente arrivo di Annibale fu poi necessaria la costruzione di un nuovo castrum, posizionato all’incrocio dei due confini difensivi rappresentati dall’appennino e dal fiume Po: questa seconda colonia fu Placentia, fondata nel 218 a.C. Una volta definite così le due estremità di questa compagine territoriale, pianeggiante e favorevole all’insediamento, venne costruita una strada che le univa linearmente: la via Emilia. Questo asse ripercorreva in parte una fascia viaria, con direzione est–ovest, che già compariva su questo territorio, ma che necessitava di un rafforzamento. Su questa linea, non più immaginaria, i romani posizionarono le diverse colonie avanzando da Piacenza fino a Rimini. Bononia, così chiamata per essere nata con la definitiva cacciata dei galli Boi, fu fondata come colonia latina nel 189 a.C. Nel 183 a.C., invece, nacquero Mutina e Parma,
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le prime colonie di diritto romano sulla via Emilia, entrambe costituite da 2000 capifamiglia a cui vennero assegnati cinque iugeri di terra nella prima e otto nella seconda. Dopo pochi anni, sorse anche Regium Lepidi a metà strada tra le due. Eodem anno Mutina et Parma coloniae civium Romanorum sunt deductae. Bina milia hominum in agro qui proxime Boiorum, ante Tuscorum fuerat, octora iugera Parmae, quina Mutinae acceperunt. Deduxerunt triumviri M. Aemilius Lepidus, T. Aebutius Parrus, L. Quinctius Crispinus.3
3. Tito Livio, Storia di Roma, 39 55 7–8
L’innovazione apportata dai romani su questo territorio riguarda la centuriazione, ovvero quel sistema di organizzazione del paesaggio agricolo e produttivo che doveva servire come traccia di uno sviluppo nel tempo. Ad una misura corrispondeva infatti una determinata popolazione e una conseguente capacità economica. Ma la cosa più interessante è che la centuriazione dava un orientamento e un disegno razionale al paesaggio antropizzato. Le strade, i canali e i campi agricoli seguivano questa regola, e ancora oggi ci sono segni di un chiaro riferimento ad essa, sia per quanto riguarda i castra delle città, sia per il disegno della campagna. Il sistema nel suo complesso appare policentrico e organizzato su una rete di infrastrutture e vie di comunicazione. I centri maggiori, oggi capoluoghi di provincia,
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si collocano sulla via Emilia, in corrispondenza dell’incrocio con essa delle maggiori vie d’acqua. Attorno a queste città si dispongono numerosi insediamenti minori instaurando con esse un rapporto economico e culturale. Semplificando si potrebbe dire allora che il sistema è composto da due componenti: gli insediamenti, intesi come centralità singole e autonome, e le infrastrutture che permettono a questi di mettersi in relazione. Questo assetto policentrico ha da sempre caratterizzato il paesaggio emiliano, accentuandosi sempre più a partire dal dopoguerra. Negli ultimi decenni, infatti, l’urbanizzazione sta saturando gli spazi interstiziali tra i centri abitati, precedentemente destinati all’agricoltura, muovendosi verso un’ideale megalopoli.
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Il paesaggio culturale
Il fatto che l’assetto degli insediamenti urbani ambisca ad un’idea di grande città, una città che abita la campagna e che da essa trae parte del suo sostentamento, è quell’identità che da sempre appartiene all’Emilia. Ogni città è sempre stata indipendente economicamente e culturalmente dalle altre, prima come colonie romane, poi come comuni nel medioevo, poi come ducati signorili, ma l’unità che oggi è più che mai riconoscibile nasce dagli scambi intensi di ricchezza e cultura, da uno spirito comune. Il duomo di Modena e quello di Parma, il cosiddetto romanico emiliano, le specializzate tecniche agricole, gli scultori della terracotta, la produzione gastronomica, il dialetto emiliano fortemente riconoscibile, il carattere geologico che produceva i medesimi frutti. Il paesaggio culturale dell’Emilia, quindi, seppur policentrico, era fortemente unitario, perché prodotto delle stesse influenze: le tradizioni più arcaiche dell’Appenino, la vicinanza a Milano e all’Europa continentale, ma allo stesso tempo la connessione stradale e fluviale con la Romagna, quindi l’Adriatico, e Roma. Tutto ciò che appartiene alla storia di questo territorio risiede nella memoria collettiva di chi ci vive, e tutt’ora riesce a identificarsi come Emilia.
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A sinistra: G. Chiaramonte, Senza titolo, 2004, in G. Chiaramonte, Attraverso la pianura, Marietti, Torino 2005
Ancora oggi, secondo noi, è possibile costruire un percorso ideale di riferimenti culturali che affondano le radici nel passato ma che si manifestano fino alla contemporaneità. Tra i grandi del Novecento possiamo citare gli artisti Giorgio Morandi, Antonio Ligabue, Vasco Bendini, i fotografi Luigi Ghirri, Franco Fontana, Olivio Barbieri, gli scrittori Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Gianni Celati. Per il cinema Bernardo Bertolucci, Pupi Avati, Michelangelo Antonioni, per la musica Ottorino Respighi, Claudio Abbado, Luciano Pavarotti, ma anche Lucio Dalla, i CCCP, Francesco Guccini. Questi nomi abitano la nostra memoria e tornare a scoprirli è per noi un’occasione di un approfondimento sulla nostra identità e una conferma di appartenere ad una certa «famiglia spirituale».4 E questo mondo di immagini è contaminato inevitabilmente dalla nostra autobiografia e dal nostro percorso di studi. Vi è un filo rosso, il quale può trovare una sua rappresentazione con la via Emilia, che ordina e identifica anche quegli elementi esterni che di diritto entrano a far parte di questo paesaggio culturale, creando così un percorso che ora è solo all’inizio e che può soltanto arricchirsi.
4. H. Focillon, Vita delle forme, Einaudi, Torino, 2002
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Il sistema dei musei d’arte
A sinistra: Il sistema dei musei d’arte in Emilia, classificati per località e tema della collezione
Nessuna carta, guida o lista è in grado di esprimere in tutta la sua vastità e dettaglio l’articolazione dei luoghi della cultura dell’Emilia, nemmeno in modo compilativo, a causa della loro quantità e indefinitezza. Quello che era iniziato coi propositi di un censimento si è trasformato in un’istantanea, necessariamente parziale, di un organismo complesso e ineffabile, un museo diffuso a scala regionale, i cui confini sono in costante evoluzione. La mappatura da noi realizzata si è svolta in due momenti. In un primo abbiamo prodotto un elenco dei musei d’arte oggi presenti in Emilia, individuandone ben 76, per poi schedarne caratteristiche quali anno di fondazione, tipologia e tema della collezione. In seguito abbiamo rielaborato questa lista in forma grafica, ottenendo l’immagine di una fitta costellazione di realtà interconnesse da relazioni culturali a corto e lungo raggio, come nodi di una rete impalpabile che irrora il territorio. L’Emilia si conferma come una regione attiva, custode di una tradizione millenaria ma allo stesso tempo in grado di recepire e fornire una propria personale interpretazione alle questioni che vengono poste dall’arte contemporanea e dalle culture più lontane, geograficamente e cronologicamente.
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Ciò che è emerge è un fiorente sistema di musei, fondazioni, gallerie, parchi artistici e istituzioni dedicate alla divulgazione dell’arte dall’antichità al Novecento, ma anche di collezioni private, raccolte e archivi che attualmente sono fruibili solo dagli addetti ai lavori o che non sono dotate di una sede espositiva adeguata. Occasioni quindi per immaginare possibili sviluppi futuri di questo sistema, che sempre più deve ambire a essere un patrimonio veramente collettivo. Non dunque un mero inventario, quanto piuttosto una personale cartografia grazie alla quale abbiamo potuto orientarci nel museo diffuso della cultura emiliana, individuando gli ambiti più adatti a essere approfonditi nella nostra ricerca progettuale.
A sinistra: Abbazia di Valserena, Parma, fotografia dell’autore, 2020
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Parma
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Parma preromana
Nella pagina precedente: P. Monti, Veduta di Parma dalla Steccata, 1976, dettaglio A sinistra: Parma in epoca preromana, ricostruzione dell’autore
I primi insediamenti documentati nel territorio di Parma risalgono al neolitico antico, tra il 5600 e il 5000 a.C. È nota l’esistenza di un piccolo villaggio a sudovest dell’attuale città, al quale dopo il 5000 a.C si aggregano nuovi insediamenti. A partire dal 1600 a.C. si assiste alla diffusione delle terramare, palafitte tipiche dell’età del bronzo padana, delle quali si sono rinvenute tracce anche in corrispondenza dell’odierno centro storico. Questi insediamenti vengono improvvisamente abbandonati intorno al 1200 a.C., probabilmente per un concorso di eventi storici e climatici, lasciando il territorio di Parma disabitato per circa 500 anni. Per un ripopolamento si deve attendere l’arrivo degli etruschi, che abitano la regione a partire dal 700 a.C. ricevendo influenze culturali sia lombarde che liguri. Questa situazione permane fino al iv secolo a.C., quando l’Emilia viene invasa dai galli boi causando l’allontanamento degli etruschi. Più a sud, nel frattempo, i romani si sono fatti strada nell’Italia centrale espandendosi fino alle attuali Toscana e Marche. Con la sconfitta dei galli senoni, stanziati in Romagna, nel 283 a.C. inizia la conquista della pianura padana, che si concretizza nella fondazione di Ariminum (268 a.C.), Placentia (218 a.C.) e Bononia (189 a.C.) ma soprattutto nella costruzione della via Emilia che le collega, completata tra il 189 e il 187 a.C. Proprio al suo tracciamento risale il primo
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ponte sul torrente Parma, che precede la città, con fondazioni in pietra e impalcatura lignea. È interessante notare che il punto scelto per l’attraversamento non è casuale ma, come tutta la via Emilia, si attesta su un percorsi precedenti. Ciò è dimostrato dal rinvenimento di una stipe votiva sotto piazza Ghiaia, dove era usanza fare un’offerta agli dei per garantire un guado sicuro.
Parma romana
A sinistra: Parma in epoca romana, ricostruzione dell’autore
All’arrivo dei romani l’area di Parma si presenta scarsamente urbanizzata, fatta eccezione per la via Emilia primitiva e per le strade che la intersecavano perpendicolarmente congiungendo il Po alle valli appenniniche. Ci sono pervenute anche le tracce di un impianto ortogonale sulla riva sinistra del torrente, con orientamento nord–sud e quindi ruotato rispetto alla via Emilia, ancora leggibile nel tessuto urbano attuale. Più interessante è l’orografia e l’idrografia del luogo, che determinerà la giacitura del castrum. A est della Parma infatti sono presenti due rilievi adiacenti, di altezza modesta ma sufficiente a proteggerli dal rischio di inondazione posto sia dalla Parma che dal torrente Cinghio che anticamente li attraversava. Questo fatto era già noto da millenni, come attestano i ritrovamenti di terramare proprio sulle sommità dei due rilievi. Nel 183 a.C., pochi anni dopo la sconfitta definitiva dei galli boi (191 a.C.), Roma delibera la fondazione di due colonie gemelle per consolidare il nuovo confine della repubblica.
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Prendono il nome di Mutina e Parma, e per la prima volta in Emilia si tratta di colonie di diritto romano. Come ci informa Tito Livio1 entrambe sono costituite da 2000 famiglie, a ciascuna delle quali sono assegnati cinque iugeri di terra nella prima e otto nella seconda. Come anticipato, Parma viene costruita sul più occidentale dei due rilievi presenti, quello adiacente al torrente, per prevenire le inondazioni. Il castrum, probabilmente organizzato secondo una maglia quadrata di 8×11 isolati con un forum di 1×2 al centro, si attesta sulla via Emilia prendendone la giacitura. Da essa, così come dalle porte secondarie della città, si diramano arterie dirette verso (in senso orario) Piacenza, Cremona, il guado del Po, Brescello, Modena, Lucca, la valle della Parma, Luni e la valle del Taro, tutte strade percorribili ancora oggi. All’esterno delle mura sorgono il teatro a sud e l’anfiteatro a est, nonché ovviamente il vasto paesaggio agricolo organizzato secondo le regole della centuriazione, il cui orientamento nel caso di Parma è coincidente sia a quello della via Emilia che della città.
A sinistra: Pavimentazione romana a mosaico rinvenuta in piazza Garibaldi nel 1948 1. Tito Livio, Storia di Roma, 39 55 7–8
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Parma altomedievale 476–1022
A sinistra: Parma intorno all’anno 800, ricostruzione dell’autore
Il iv e il v secolo d.C. costituiscono un periodo di crisi per l’impero e di conseguenza per Parma, che attraversa drammatiche devastazioni e instabilità politica. Lo testimonia Sant’Ambrogio, governatore di Aemilia et Liguria, che in una lettera del 387 all’amico Faustino definisce le città emiliane «semirutarum urbium cadavera».2 Il più grave saccheggio ai danni di Parma è perpetrato da Attila nel 452, che costringe addirittura gli abitanti a rifugiarsi nell’Appennino. Nel 476 la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augusto sancisce la fine dell’impero romano d’occidente, rendendo Odoacre padrone de facto dell’Italia fino al 493, anno in cui viene costituito il regno ostrogoto. La dominazione barbarica lascia Parma pressoché inalterata, eccetto per l’anfiteatro che viene demolito e per il ponte che viene ricostruito in pietra da Teodorico. Il seguente periodo di governo bizantino (dal 539 al 568) segna una breve rifioritura della città, che ospita anche l’erario imperiale. All’impero bizantino subentrano i longobardi, e successivamente nel 773 Carlo Magno, che occupa Parma durante la sua discesa verso Roma trasformandola in una contea carolingia. Quando diventa re d’Italia nell’877, Carlomanno di Baviera dona al vescovo Guibodo la corte di Parma, dando origine alla commistione tra potere spirituale e temporale che caratterizza l’alto medioevo.
2. Aurelio Ambrogio, Epistole, 16 39 1099
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Parma comunale 1022–1346
A sinistra: Parma intorno all’anno 1169, ricostruzione dell’autore
Parma è governata da una lunga serie di vescovi fino al 1022, anno in cui si autoproclama libero comune. All’inizio del secondo millennio la città risulta essersi notevolmente espansa rispetto ai limiti delle mura antiche. Si osserva per esempio la formazione dei borghi, aggregati spontanei di abitazioni che si dispongono a raggiera in corrispondenza delle porte urbane, luogo dello scambio commerciale. Inoltre Parma viene gravemente danneggiata dall’incendio del 1058, che distrugge anche la cattedrale fondata da Guibodo. Il neonato governo comunale deve far fronte alle esigenze di una città in rapida espansione ma soprattutto di una società completamente nuova, che vuole veder rappresentati i propri valori nell’architettura. Nel 1074 viene portata a termine la ricostruzione della cattedrale, originariamente posta nel «prato regio» a nord delle mura, un vasto appezzamento sottratto all’agricoltura per ospitare manifestazioni sia di carattere sacro che profano. Agli anni tra il 1158 e il 1162 risale il palazzo imperiale, voluto da Federico Barbarossa sulle rovine dell’anfiteatro romano. Tra il 1196 e il 1270 viene eretto a lato del duomo il battistero di San Giovanni, alla cui decorazione contribuisce Benedetto Antelami. Al 1287 risale invece la torre civica, che si stagliava a fianco del palazzo del capitano del popolo con un’altezza stimata tra i 110 e i 130 metri. Nel 1177 un evento naturale straordinario trasforma irrimediabilmente la forma della
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città. Un’alluvione causa lo straripamento del torrente Parma, i detriti trasportati dalla corrente si accumulano deviando il letto di un centinaio di metri verso ovest e creando due nuovi spazi nel centro della città denominati «ghiaia piccola» e «ghiaia grande». L’antico ponte romano diventa inutilizzabile richiedendo la costruzione di nuovo ponte detto di Mezzo, sempre sul tracciato della via Emilia. Durante l’età comunale la cinta muraria viene ampliata ripetutamente per assecondare la sempre crescente dimensione della città: nel 1169 vengono inclusi il duomo, il palazzo vescovile e i vari borghi sorti a nord e a est; nel 1212 il borgo Capo di Ponte sulla sponda ovest della Parma; nel 1230 l’odierno parco ducale, nel 1261 la zona a sud del Capo di Ponte fino all’attuale via dei Mille.
Parma rinascimentale 1346–1545
A sinistra: Parma intorno all’anno 1261, ricostruzione dell’autore
Le origini del rinascimento a Parma sono da rintracciare nella fine del primato del vescovo e nell’affermarsi di signorie stabili, nella fattispecie viscontea e sforzesca. Dopo decenni di sanguinose lotte tre le casate parmensi Pallavicino, Sanvitale, da Correggio e Rossi, nel 1341 i Visconti arrivano da Milano approfittando dell’assenza di una signoria cittadina e iniziano ad annettere i territori parmensi, fino a imporsi ufficialmente come signori di Parma nel 1346. Per difendersi dal risentimento dei feudatari conquistati, nel 1347 il co-signore (insieme al fratello Giovanni) di Milano Luchino
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A sinistra: Parma intorno all’anno 1370, ricostruzione dell’autore
Visconti fa erigere una fortificazione quadrata detta «Sta in pace». Si tratta di una cinta muraria interna alla città, in corrispondenza dell’odierna piazza Garibaldi, contenente le istituzioni civili. Nello Sta in pace è possibile scorgere una prefigurazione, seppure con forme diverse, dello stesso rapporto distaccato che la Pilotta intratterrà col tessuto urbano circostante. In entrambi i casi questo distacco è spiegato dalla diffidenza di un signore straniero nei confronti della nobiltà locale. Lo Sta in pace si rivela però inutile nel proteggere il co-signore Matteo II Visconti dalla sua stessa famiglia. Il 29 settembre 1355 muore avvelenato probabilmente dai suoi fratelli Galeazzo II e Bernabò, anch’essi co-signori, che si spartiscono il suo dominio. In particolare Parma viene acquisita da Bernabò. Nel 1447, alla morte dell’ultimo duca visconteo di Milano Filippo Maria, Parma dichiara la propria indipendenza. Indipendenza che ha vita breve, già il 14 febbraio 1448 Parma si arrende infatti al condottiero Francesco Sforza, nuovo signore del ducato di Milano. Dopo mezzo secolo di signoria sforzesca, nel 1500 i francesi sconfiggono Ludovico il Moro prendendo il controllo Parma. Tra il 29 agosto e l’1 settembre 1521 una coalizione degli eserciti pontificio e spagnolo scaccia con un assedio i francesi da Parma, che diventa proprietà della Chiesa. Il capolavoro dell’architettura di questi anni è forse Santa Maria della Steccata, progettata dalla famiglia Zaccagni e consacrata
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il 24 febbraio 1539. Tra le opere del rinascimento è opportuno citare anche le fortificazioni alla moderna, rilevate tra gli altri da Antonio da Sangallo il Giovane nel 1526.
Parma farnesiana 1545–1731
A sinistra: Parma intorno all’anno 1545, ricostruzione dell’autore
Nel 1545 Papa Paolo III istituisce il ducato di Parma e Piacenza, destinandolo al figlio Pier Luigi Farnese. Piacenza è inizialmente la capitale designata, tuttavia il 10 settembre 1547 una congiura dei nobili piacentini, organizzata dal governatore di Milano Ferrante I Gonzaga con la complicità di Carlo V, porta alla defenestrazione del duca Pier Luigi. Dopo lunghe negoziazioni tra chiesa e impero, che si concludono solo nel 1559 col trattato di trattato di Cateau-Cambrésis, gli succede il figlio Ottavio che sposta la capitale a Parma, decretandone la fortuna per i secoli a venire a discapito di Piacenza. Nel 1564 il duca si insedia in un complesso di edifici affacciati sull’attuale via Garibaldi, acquisiti da privati e trasformati in palazzo ducale. Le architetture commissionate da Ottavio e dai suoi discendenti, nei secoli che vanno dal Cinquecento al Settecento, sono contraddistinte dall’essere oltremodo sfarzose, talvolta addirittura fuori scala rispetto alla città. Si tratta infatti di opere autocelebrative, non destinate alla fruizione da parte della popolazione bensì col chiaro intento di permettere ai Farnese di misurarsi con le altri corti europee. L’esempio più evidente è il palazzo della Pilotta, e specialmente il suo teatro: grandioso all’interno ma completamente invisibile
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dall’esterno, inaugurato con una spettacolare opera di Monteverdi ma utilizzato solo altre sette volte durante la dinastia Farnese. Ricordiamo anche il parco ducale col palazzo di Jacopo Barozzi da Vignola (1561) e la cittadella di Giovanni Antonio Stirpio de’ Brunelli, Genesio Bresciani e Smeraldo Smeraldi (1591–1599). Il Seicento è segnato invece da due eventi tragici. Il 27 gennaio 1606 la torre civica medievale crolla improvvisamente causando la morte di 26 persone, e nel 1630 un’epidemia di peste dimezza la popolazione di Parma, che si stima passare da 30 000 a 15 000.
Parma moderna 1731–1860
A sinistra: Parma intorno all’anno 1748, ricostruzione dell’autore
Il 20 gennaio 1731 il duca Antonio Farnese muore senza eredi estinguendo dopo due secoli il ducato farnesiano, che passa in mano a Carlo Sebastiano di Borbone, il futuro re Carlo III di Spagna. Durante la guerra di secessione polacca (1734–1735) il duca Carlo I Borbone attacca l’austriaca Napoli, lasciando però sguarnita Parma che viene occupata dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Questo scambio di città sarà ufficializzato col trattato di Vienna del 18 novembre 1738. Il 18 ottobre 1748 il trattato di Aquisgrana, che conclude la guerra di secessione austriaca, restituisce il ducato di Parma e Piacenza ai Borbone, nella persona di Filippo I. Il nuovo duca trasferisce immediatamente Guillaume du Tillot da Parigi a Parma come suo consigliere, e questi a sua volta convoca Ennemond Alexandre Petitot come architetto
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A sinistra: Maria Luigia (con probabili aiuti), Veduta di Parma, 1816
di corte nel 1753. Petitot è incaricato di rinnovare drasticamente la Pilotta trasformandola in un grande palazzo reale degno delle maggiori corti europee, compito che purtroppo non verrà mai portato a termine portando alla nascita della cosiddetta piazza dei guasti. Il governo di du Tillot, che nel 1759 è nominato primo ministro del ducato, è di carattere spiccatamente laico e illuminista. Ciò è causa di notevoli attriti tra i Borbone e lo stato pontificio, portando il duca Ferdinando, figlio di Filippo, a osteggiare aspramente il ministro che nel 1771 si vede costretto a fuggire in Spagna. Il 21 marzo 1801, nel pieno delle guerre della seconda coalizione antinapoleonica, il trattato di Aranjuez cede il ducato di Parma dai Borbone alla Francia in cambio del granducato di Toscana e del principato di Piombino. La conseguenza più significativa del breve periodo napoleonico sarà la soppressione delle istituzioni ecclesiastiche decretata il 13 settembre 1810, che porterà alla demolizione di complessi monastici come quello di San Pietro Martire. Il congresso di Vienna dell’11 aprile 1814 segna l’inizio della restaurazione politica in Europa, e parallelamente di una restaurazione architettonica di Parma dopo le demolizioni dei decenni precedenti. La nuova duchessa Maria Luigia, che abbandona Napoleone per fedeltà alla famiglia Asburgo, intraprende infatti una campagna di lavori per ripristinare il decoro di una città sconvolta dagli
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eventi storici, uniformando stilisticamente i principali edifici pubblici e pianificandone di nuovi. Il progettista di queste opere è per la gran parte l’architetto di corte Nicolò Bettoli, che realizza i nuovi interni della Pilotta, l’attuale teatro regio e le beccherie di piazza Ghiaia. Opera dell’ingegnere Giuseppe Cocconcelli è invece il cimitero della Villetta, a sudest di Parma. Con la morte di Maria Luigia, il 17 dicembre 1847, come prestabilito del congresso di Vienna il ducato di Parma e Piacenza torna in mano ai Borbone. Quest’ultima fase precedente all’unità d’Italia nasce coi giorni contati, il duca minorenne Roberto I Borbone sarà infatti deposto già il 15 settembre 1859. Il principale contributo di questi anni è l’inaugurazione della linea ferroviaria Piacenza–Bologna, e con essa della stazione dei treni di Parma.
Parma contemporanea
A sinistra: G. Carmignani, Il giardino ducale alla metà del secolo, 1880 ca.
Il 12 marzo 1860 il ducato di Parma e Piacenza viene annesso tramite plebiscito al regno di Sardegna e conseguentemente al regno d’Italia. Il periodo della storia di Parma a cavallo tra Ottocento e Novecento è segnato dall’operato dell’archeologo Giovanni Mariotti, che viene eletto sindaco nel 1889 rimanendo in carica per un totale di quattro mandati. Il 18 gennaio 1894 Mariotti traccia un piano in dieci punti di «opere pubbliche straordinarie» con l’obiettivo di ammodernare l’assetto urbanistico di Parma, che gli varrà l’epiteto di «sindaco picconatore». Tra queste
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A sinistra: Parma intorno all’anno 1937, ricostruzione dell’autore
figurano il nuovo acquedotto, la sostituzione del Ponte Verde in legno con l’attuale ponte Giuseppe Verdi, il completamento del lungoparma e l’abbattimento delle antiche mura. Nonostante i problemi finanziari e le conseguenti battute d’arresto, i lavori pianificati da Mariotti vengono finalmente completati nel 1913, un anno prima della fine del suo ultimo mandato. In modo non dissimile dal suo predecessore il podestà Mario Mantovani rimane in carica dal 1927 al 1939, completando le ultime fasi del processo di modernizzazione di Parma durante gli anni del fascismo. Negli anni immediatamente successivi la seconda guerra mondiale lascerà ferite profonde sulla città. In particolare, tra il 23 aprile e il 13 maggio 1944, Parma viene devastata da quattro bombardamenti alleati. Tra i monumenti danneggiati figurano anche la Pilotta e il suo prezioso contenuto, il teatro Paganini, il palazzo ducale, nonché il monumento a Giuseppe Verdi. Il 26 aprile 1945 l’esercito del regno d’Italia, insieme agli alleati e ai partigiani, fa ingresso a Parma dopo la ritirata fascista. Esattamente un anno dopo, l’avvocato Primo Savani diventa il primo sindaco dell’Italia repubblicana. A partire dal secondo dopoguerra le trasformazioni architettoniche di Parma, salvo alcune eccezioni, hanno luogo fuori dal perimetro del centro storico. Il territorio del comune viene saturato a un ritmo senza
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precedenti da quartieri residenziali e produttivi per accomodare la crescente popolazione e il rapido progresso economico, non sempre con un’adeguata pianificazione. Tra le tante opere possiamo citare l’edificio per uffici ina di Franco Albini (1950– 1954), il Centro Torri di Aldo Rossi (1985– 1988), l’auditorium Paganini di Renzo Piano (1999–2001), il tempio di cremazione di Paolo Zermani (2006–2009), la stazione dei treni di Oriol Bohigas (2007–2014), nonché gli innumerevoli progetti per il palazzo della Pilotta, realizzati e non, di cui si tratterà nelle pagine seguenti.
A sinistra: Aspetto attuale di Parma, disegno dell’autore
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Una città, due anime
È possibile leggere nella storia urbana di Parma l’avvicendarsi di due regole insediative: una in cui la città «è irrorata dai transiti», l’altra in cui «si mette a capo del territorio».3 Una dicotomia già messa in luce da Acuto, che viene evidenziata anche nei successivi scritti di Rizzi4 e Giordani,5 oltre a trasparire da molteplici opere letterarie e artistiche e ovviamente dall’architettura stessa della città. […] suggerivo la metafora delle strade, da una parte quelle dell’Occidente, le vie che vengono di Francia e dal nord, dall’altra quelle che vengono dall’Oriente, dalla cultura della diaspora dopo la fine dell’impero latino di oriente.6 A sinistra: Sovrapposizione delle soglie storiche di Parma 3. A. Acuto, Mobilità e struttura urbana. Il caso di Parma, 1995 4. R. Rizzi, Parma inattesa, MUP Editore, Parma 2013 5. P. M. Giordani, Parma. Terra di passo e di monumenti solitari, LetteraVentidue, Siracusa 2019 6. A. C. Quintavalle, Battistero di Parma. Il cielo e la terra, Università di Parma, Parma 1989, p. 17
Il primo dei due modi con cui Parma si costruisce, che potremmo definire semplicemente «aperto», interessa in prevalenza il periodo preromano, quello medievale e quello moderno. Politicamente è contraddistinto, e forse anche spiegato, da un’instabilità che si traduce in un costante susseguirsi di dominazioni diverse. Parma si apre alle influenze culturali ed economiche provenienti dall’Europa e oltre, senza limitarsi alle proprie mura ma adottando un modello urbano policentrico e diffuso nel territorio. Simbolo di questo spirito è il bassorilievo antelamico
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raffigurante Barlaam e Iosafat, protagonisti una leggenda orientale, ma anche i lotti gotici che traggono nutrimento dalla strada e i luoghi del potere che nascono fuori dalle mura, come il palazzo imperiale e il duomo col suo prato regio. Il palazzo incombe sui cittadini come la città sul contado: la gerarchia signorile assume ovunque funzione dominante.7
A sinistra: Il sistema delle piazze di Parma 7. A. C. Quintavalle, Teoria e forma del territorio nell’Emilia occidentale, in La regione culturale. Ipotesi di un modello insediativo per l’università di Parma, Etas Kompass, Parma 1973
Il secondo modello, che chiameremo «chiuso», descrive invece meglio l’epoca romana e quella farnesiana, caratterizzate da una forte continuità politica. La stabilità del potere corrisponde a un’autarchia culturale e si traduce in un disegno idealista della città i cui monumenti sono votati alla celebrazione dello stato. In queste fasi Parma si sviluppa prevalentemente all’interno dei suoi confini, e i flussi commerciali si dirigono dalla città verso la campagna circostante e viceversa. La Parma «chiusa» si manifesta nella precisione del castrum, nelle fortificazioni alla moderna, negli introversi isolati romani e a corte, nello Sta in pace e nella Pilotta, ma in particolar modo col teatro Farnese, un vero e proprio mondo interno. Queste due anime si alternano, parallelamente all’avvicendarsi delle stagioni politiche e culturali, talvolta sovrapponendosi senza però entrare mai in contraddizione, anzi concorrendo a costruire il carattere unico di Parma.
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Pilotta
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Prima della Pilotta
Nella pagina precedente: Il teatro Farnese nel secondo dopoguerra A sinistra: P. Ponzoni, La nobilissima città di Parma, 1572, dettaglio
Il luogo in cui, a partire dal xvi secolo, si sviluppa il complesso della Pilotta giace poco a nord del vertice settentrionale del castrum romano, e pertanto sarà interessato dall’urbanizzazione di Parma solo dopo la fine dell’età tardoantica. La prima architettura in quest’area di cui si ha notizia è la chiesa di Sant’Alessandro, fondata nell’835 sull’odierna strada Garibaldi insieme all’annesso monastero benedettino, il cui giardino si estende a ovest e a nord fino al limite della città. La nascita della Pilotta è legata in particolar modo a due eventi: la catastrofica esondazione della Parma e la defenestrazione di Pier Luigi Farnese, dei quali si è già trattato nel capitolo precedente. In particolare il primo dei due, nel 1177, costruisce materialmente le fondamenta sulle quali sorgerà il palazzo, ovvero piazza Ghiaia, estendendo l’argine di un centinaio di metri verso ovest. Negli stessi anni viene adattata la cinta muraria e probabilmente costruito il ponte in legno detto di Galeria. Nel 1244 l’ordine domenicano si trasferisce in una nuova chiesa presso il capo orientale del ponte, che verrà successivamente intitolata a San Pietro Martire. Dieci anni dopo essa viene ampliata da Ugo Sanvitale con una cappella che prende il nome di oratorio dell’Inquisizione. L’altare maggiore risale invece al 1320. Nel 1276 un nuovo straripamento della Parma danneggia il ponte di Galeria, insieme a quello di Donna Egidia, che saranno
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ricostruiti in pietra e mattoni tra il 1283 e il 1284. Il bellicoso periodo signorile segna una progressiva fortificazione dei ponti da parte dei condottieri che si avvicendano al controllo di Parma. Nel 1340 Mastino II della Scala inizia la costruzione di torri con saracinesca alle loro estremità, opera proseguita nel 1356 da Bernabò Visconti con due rocchette a protezione del ponte di Galeria. La rocchetta orientale viene ulteriormente rinforzata tra il 1471 e il 1748 sotto gli Sforza, su progetto di Donato Maineri. Successivamente all’annessione allo stato pontificio viene eretta Santa Maria della Steccata, tra il 4 aprile 1521 e il 24 febbraio 1539 sempre su strada Garibaldi. Contemporaneamente lo stesso architetto, Bernardino Zaccagni, ricostruisce anche la chiesa di Sant’Alessandro.
Il corridore 1588–1611
A sinistra: Il palazzo della Pilotta tra il 1588 e il 1611, ricostruzione dell’autore
Quando Ottavio Farnese sposta la capitale del ducato a Parma, dopo l’uccisione del padre nel 1547 e le seguenti negoziazioni tra chiesa e impero che lo confermano duca solo nel 1559, si pone il problema di dove insediare la corte, data l’assenza di un edificio apposito. Nel 1561 Ottavio incarica Jacopo Barozzi da Vignola di costruire un palazzo con giardino annesso nell’area dell’oltretorrente. Il palazzo del giardino sarà la prima sede delle residenze ducali. Quando si rendono necessari nuovi spazi per la corte, la scelta ricade su un nucleo di edifici privati affacciato sull’attuale strada Garibaldi, nei pressi della
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chiesa di San Pietro Martire e della rocchetta viscontea. L’isolato viene acquisito nel 1564 e ristrutturato internamente, prendendo il nome prima di palazzo ducale e poi di palazzo del governo. Tra il 1580 e il 1588 per rendere più rapidi e sicuri gli spostamenti dei Farnese tra il palazzo del giardino e il palazzo ducale, Ottavio commissiona un corridore sopraelevato di collegamento tra la rocchetta e le residenze. Costruito da Giovanni Boscoli probabilmente su progetto di Francesco Paciotto, è il primo elemento del futuro cortile di San Pietro Martire. Nella pianta di Parma dello Smeraldi1 risulta articolato in due gallerie parallele, ma la più settentrionale non ci è pervenuta, forse demolita negli anni immediatamente successivi o rimasta sulla carta.
I cortili 1611–1766
A sinistra: Il palazzo della Pilotta tra il 1611 e il 1766, ricostruzione dell’autore 1. S. Smeraldi, Pianta della città di Parma, 1589–1592
Nei primi anni del Seicento si manifesta l’esigenza di nuovi spazi a servizio delle residenze ducali. Ranuccio I, nipote di Ottavio Farnese e quarto duca di Parma, amplia il nucleo originale della Pilotta con un vasto complesso architettonico organizzato intorno a due cortili, quello di San Pietro Martire e quello del Guazzatoio. Il progetto, diretto da Smeraldo Smeraldi, Simone Moschino e Genesio Bressani tra il 1602 e il 1611, contiene funzioni di servizio, tra cui una sala d’armi, delle scuderie, una cavallerizza e una legnaia. Le residenze continuano a essere ospitate nell’isolato più
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A sinistra: A. Romagnesi, Interno della chiesa di S. Pietro Martire, 1762, dettaglio
meridionale, al quale i nuovi fabbricati si addossano. A seguito di quest’ampliamento la chiesa di San Pietro Martire viene circondata dal cortile della Pilotta. Nonostante la volontà di demolirla, i Farnese non riusciranno mai a imporsi sull’ordine domenicano, e la chiesa col suo chiostro rimarrà fino all’Ottocento una scomoda presenza all’interno del palazzo. Nel 1604 a nord della Pilotta viene fondata anche la chiesa di Santa Teresa del Bambin Gesù. Durante il loro ducato bicentenario, i Farnese si dedicano alla costruzione di numerosi architetture dal carattere monumentale e autocelebrativo, destinate alla fruizione da parte dell’aristocrazia piuttosto che dei cittadini. Alcune di queste architetture sono troppo fastose anche per i nobili stessi, come nel caso del teatro Farnese che rimarrà abbandonato per gli eccessivi costi di manutenzione. Allestito tra il 1617 e il 1618 nella sala d’armi su progetto di Giovan Battista Aleotti, vuole dimostrare la ricchezza dei Farnese al granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici che avrebbe dovuto sostare a Parma nel suo pellegrinaggio verso Milano. Cosimo II, a causa di una malattia, si vede costretto ad annullare il viaggio, e il teatro rimane inutilizzato per dieci anni. Per l’inaugurazione del teatro Farnese si deve attendere il 21 dicembre 1628 quando, in occasione delle nozze tra Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici, si rappresenta al suo interno l’opera Mercurio e Marte di Claudio Monteverdi. Il grandioso
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spettacolo è arricchito da un torneo tra cavalieri che ricorda la precedente funzione della sala e da una naumachia che richiede l’installazione di serbatoi sotto il palco.2 Si tratta anche di una delle prime apparizioni in assoluto dell’arco scenico, del golfo mistico e delle scene mobili. Tuttavia questa complessa macchina teatrale si rivela troppo onerosa, e sarà utilizzata sol0 altre otto volte durante il ducato farnesiano (1652, 1660, 1664, 1668, 1690, 1714, 1728, 1732), per poi cadere definitivamente in rovina nell’Ottocento.
A sinistra: Disegno di macchine sceniche, xvii sec. 2. «Ma annerato ora tutto il cielo, e fatto lago e pieno d’acqua il teatro ch’era sin allora stato passeggio a’ cavalieri» A. Pozzo, La difesa della bellezza, 1618 3. C. Dickens, Impressioni italiane, 1846
[…] centodieci anni sono trascorsi senza che alcuno spettacolo vi sia stato dato; il cielo appare attraverso buchi nel tetto, i palchi sono cadenti e solo abitati da topi; i colori sono affievoliti, macchiati e svaniti e formano disegni spettrali sui pannelli; miserabili stracci penzolano là dove un tempo furono gai festoni sul proscenio. Il palcoscenico è rotto, così che una stretta passerella di legno vi è gettata attraverso, altrimenti si dovrebbe affondare sotto i gradini, e il visitatore sarebbe seppellito in un tetro abisso. La desolazione e la decadenza sono impresse ovunque; l’aria ha odore di polvere e sapore di terra; alcuni sperduti rumori esterni, che vagano con uno smarrito raggio di sole, sono velati e tristi, e i vermi, i tarli e la putrefazione del legno ne hanno cambiato la superficie, come una mano già liscia, piena di cicatrici, divenuta ruvida; se mai gli spiriti recitano commedie, essi recitano le loro in questo palcoscenico da fantasmi.3
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A prendere il posto del Farnese saranno due nuove sale, commissionate a partire dal 1687 da Ranuccio II e progettate da Stefano Lolli. Il primo è il teatro ducale, un teatro pubblico ricavato all’interno del palazzo di riserva, l’isolato di fronte al palazzo ducale acquisito dal duca nel 1673. Segue a breve distanza il teatrino di corte, che occupa le stanze del primo piano immediatamente a ovest della sala d’armi, completato nel 169o.
I guasti 1766–1829
A sinistra: E. A. Petitot, Progetto per il palazzo reale, 1766
Tra il 1734 e il 1736 Carlo Borbone, nuovo padrone di Parma dopo la morte dell’ultimo duca Antonio, trasferisce la quasi totalità della collezione farnesiana a Napoli. Un inestimabile patrimonio di libri e opere d’arte che non farà mai ritorno a Parma costringendo il fratello di Carlo, Filippo I, a ricomporre da zero la collezione quando gli succede come secondo duca Borbone. Questo progetto ha inizio nel 1752, quando Filippo istituisce l’accademia di belle arti e la sua quadreria, composta delle opere rimaste e da nuove che si aggiungeranno attraverso acquisti e concorsi. Nel 1753, Ennemonde Alexandre Petitot viene chiamato a Parma dal consigliere Guillaume du Tillot come architetto di corte. Attuerà il progetto del palazzo dei ministeri o dell’intendenza di finanza tra il 1760 e il 1769, e quello per la biblioteca palatina all’interno del corridore nel 1761. Il primo bibliotecario nominato dal duca Filippo Borbone è Paolo
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Maria Paciaudi, a cui si deve la raccolta del nucleo originario della nuova collezione. Nel 1768 il duca convoca a Parma anche il tipografo Giambattista Bodoni, che vivrà e lavorerà per il resto della vita alla Pilotta. Il progetto più ambizioso di Petitot è però quello per il palazzo reale, una monumentale ricostruzione in forme neoclassiche di tutta la porzione orientale del complesso della Pilotta. Nel 1766 si demoliscono le residenze ducali per fare spazio al nuovo palazzo, insieme all’oratorio dell’Inquisizione adiacente a San Pietro Martire. Problemi economici porteranno al fallimento del progetto, che si limiterà alla ristrutturazione interna del palazzo esistente, lasciando però dietro di sé un grande vuoto urbano che prende il nome di piazza dei guasti. Il 13 settembre 1810, nel periodo in cui Parma è sotto il controllo dall’esercito napoleonico, un decreto sopprime tutte le istituzioni ecclesiastiche. Tra queste il convento di San Pietro Martire, che sarà successivamente abbattuto nel 1813 aprendo uno squarcio nel cortile della Pilotta.
A sinistra: Il palazzo della Pilotta tra il 1766 e il 1829, ricostruzione dell’autore
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La restaurazione 1829–1871
L’11 aprile 1814 Maria Luisa d’Austria diventa la nuova duchessa di Parma e Piacenza. Per far fronte alla rovinosa condizione della piazza dei guasti, si avvale dell’architetto di corte Nicolò Bettoli, e a partire dal 1821 fino alla sua morte nel 1847 intraprende una serie di opere pubbliche per riorganizzare il complesso della Pilotta e gli isolati adiacenti. Tra il 1821 e il 1825 il vecchio teatrino di corte è sostituito con una galleria espositiva per l’accademia di belle arti, illuminata da lucernari. Nel 1821 il convento di Sant’Alessandro viene abbattuto risparmiando solo la chiesa, per fare spazio al nuovo teatro ducale, oggi noto come regio, che viene completato nel 1829. Prenderà il posto del vecchio teatro ducale nel palazzo di riserva, caduto in disuso come già prima di esso il Farnese. Nel 1833 le facciate del palazzo ducale sono uniformate in stile neoclassico, mentre nella metà settentrionale dei guasti viene messo a dimora un bosco di platani che prende il nome di piazza delle piante. Nicolò Bettoli progetta anche il salone Maria Luigia della biblioteca palatina (1830– 1834), contenente 26 000 volumi, il palazzo del corpo di guardia sul vecchio muro di confine del convento (1833–1841), e le beccherie di piazza Ghiaia (1836–1838).
A sinistra: Il palazzo della Pilotta tra il 1829 e il 1871, ricostruzione dell’autore
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La modernizzazione 1871–1944
A sinistra: Il palazzo della Pilotta tra il 1871 e il 1944, ricostruzione dell’autore
Tra il 1867 e il 1871 viene costruito su progetto di Pancrazio Soncini il teatro Reinach, sul sedime della scomparsa chiesa di San Pietro Martire. Durante gli anni del fascismo sarà rinominato teatro Paganini. Il Reinach si arricchisce nel 1877 con un teatrino all’aperto, allestito da Girolamo Magnani nel giardino adiacente, da utilizzarsi nella stagione estiva. Altre opere che interessano il piazzale della pace sono la sistemazione a giardino del 1883, per ospitare il monumento a Vittorio Emanuele II, e il collocamento davanti al teatro Reinach della fontana del Trianon nel 1889, originariamente nella reggia di Colorno, che sarà nuovamente spostata al parco ducale nel 1920. Al 1896 risale il primo catalogo stampato a descrivere la collezione della Pilotta, prodotto dallo storico Corrado Ricci che riordina anche la galleria. Nel 1904 il «sindaco picconatore» Giovanni Mariotti demolisce il ponte Verde, l’antico ponte di Galeria, per fare spazio al ponte Giuseppe Verdi. Tra il 1906 e il 1908, nello spazio del palazzo di riserva precedentemente occupato dal teatro ducale, viene realizzato il palazzo delle poste e dei telegrafi. Nel 1913, in occasione del centenario della nascita di Giuseppe Verdi, un intervento di ristrutturazione dell’ingegnere Alessandro Fontana altera fortemente gli interni originali del teatro Reinach. Il prospetto della Pilotta rivolto al torrente viene modificato nel 1922 con l’aggiunta delle nuove ali per l’istituto d’arte Paolo Toschi e il museo di
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antichità, mentre nel 1928 il podestà Mario Mantovani abbatte le beccherie del Bettoli per completare il tratto mancante del lungoparma. Tra il 1938 e il 1939 il soprintendente Armando Ottaviano Quintavalle riorganizza la galleria nazionale ordinando le opere per scuole e per epoca e producendo un catalogo aggiornato.
Il dopoguerra
A sinistra: Il palazzo della Pilotta dopo i bombardamenti del 1944
L’ultimo dei quattro bombardamenti alleati su Parma include tra i suoi bersagli anche il complesso della Pilotta. Il 13 maggio 1944 vanno perduti il palazzo del governo, il teatro Reinach, l’ala della biblioteca palatina insieme a 21 000 volumi e il fragile teatro Farnese. Danni più lievi interessano Steccata e il monumento a Giuseppe Verdi poco più a nord, che sarà successivamente smantellato e riposizionato nel piazzale della Pace. Il 5 luglio 1946 un attentato, probabilmente di matrice anarchica, distrugge anche il monumento a Vittorio Emanuele II. Il piano di ricostruzione, compilato nel 1946 e approvato nel 1950, avvia una serie di iniziative che mirano a ripristinare il complesso della Pilotta. Nel 1946 l’ingegnere genovese Zambotti progetta un nuovo teatro Paganini da 2800 posti, con un palcoscenico tecnologicamente avanzato e una copertura apribile. Tra il 1946 e il 1947 l’ufficio tecnico provinciale redige un progetto per un nuovo palazzo della prefettura, da edificarsi sul lato meridionale del piazzale della Pace. Al 1952 risale l’ipotesi degli studi tecnici
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A sinistra: P. Monti, Palazzo della Pilotta, 1976
comunale e provinciale di un edificio unico che includa palazzo della prefettura e teatro. Nel frattempo sul sedime del distrutto Paganini viene eretto dalla proprietà dell’area il cosiddetto muro della vergogna, che sarà rimosso solo nel 1973. Tra il 1953 e il 1965, su indirizzo dell’allora soprintendente delle belle arti Armando Ottaviano Quintavalle, hanno luogo gli interventi di consolidamento strutturale e restauro filologico del palazzo. Nel 1957 viene riaperta la galleria Petitot, nel 1962 è completata la struttura lignea del teatro Farnese utilizzando il materiale originale. A queste opere urgenti seguono nuove aggiunte al complesso della Pilotta. Il 30 giugno 1956 viene inaugurato il monumento al partigiano di Guglielmo Lusignoli e Marino Mazzacurati, che prende il posto della vandalizzata statua di Vittorio Emanuele II. Rispettivamente nel 1961 e nel 1963 aprono anche i nuovi musei Glauco Lombardi, nel palazzo di riserva, e Giambattista Bodoni nell’ala della biblioteca, in occasione del 1500esimo anniversario della morte del tipografo. L’architetto Franco Carpanelli redige tra il 1961 e il 1969 un ulteriore progetto per il palazzo della prefettura, anch’esso rimasto irrealizzato. Nel 1964 viene bandito un concorso a inviti per la ricostruzione del teatro Paganini. Su consiglio di Ignazio Gardella e Bruno Zevi sono convocati Carlo Aymonino, Luigi Caccia Dominioni, Roberto Gabetti e Aimaro Isola, Vittorio Gandolfi, Luigi Pellegrin, Paolo
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Portoghesi e Aldo Rossi. Risulta vincitore il progetto di Luigi Pellegrin, che però non otterrà mai l’approvazione del ministero dei lavori pubblici. Il compito di ricostruire e allestire la galleria nazionale della Pilotta è affidato da Augusta Ghidiglia Quintavalle a Guido Canali. La prima parte dei lavori, realizzata tra il 1967 e il 1986, riguarda il recupero delle ali nord e ovest. Tra il 1986 e il 1991 saranno ripristinati gli ambienti ottocenteschi di Nicolò Bettoli. Nel 1968 inizia nell’ala dei contrafforti l’attività del Centro Studi e Archivio della Comunicazione, sotto la guida di Arturo Carlo Quintavalle. Qui mi trovavo veramente all’interno dì una piazza italiana e di un monumento eccezionale; il palazzo della Pilotta. La Pilotta racchiude forse il più bel teatro italiano: ma esso è tutto dentro l’edificio e questo resta immutato e immutabile con i suoi cortili e le sue facciate regolari e le parti non finite.4
A sinistra: La galleria nazionale riallestita da Guido Canali 4. A. Rossi, Teatro Paganini e piazza della Pilotta, in A. Ferlenga, Aldo Rossi. Architetture 1959–1987, Electa, Milano 1987
Facendo seguito alle indicazioni del nuovo piano regolatore del 1969, che rinuncia alle precedenti intenzioni di ricostruzione, nel 1973 il comune indice un concorso di idee per la sistemazione a giardino del piazzale della Pace. Vengono presentati 30 progetti, tra i tanti partecipanti figurano Vittoriano Viganò, Aurelio Cortesi, Marco Dezzi Bardeschi. Viene presentato anche un progetto fuori concorso elaborato da Guido Canali e
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A sinistra: Aspetto attuale del palazzo della Pilotta, disegno dell’autore
Arturo Carlo Quintavalle, forse il più rispettoso della complessa storia dell’area. Uno scandalo riguardante irregolarità in alcune procedure d’appalto travolgerà l’amministrazione comunale, e il concorso non porterà a nulla di concreto. Tra il 1975 e il 1979 Franco Carpanelli realizza l’ampliamento del palazzo dell’intendenza di finanza. Dopo il fallimento dei precedenti concorsi di idee, la nuova amministrazione conferisce a Giancarlo de Carlo l’incarico di riformare il piazzale della Pace, lasciandogli carta bianca. Il progetto, redatto tra il 1980 e il 1983, riceverà pesanti critiche portando de Carlo a farsi da parte e rifiutare un secondo incarico. Nel 1986 è Mario Botta a essere incaricato. Botta riconosce l’incompiutezza della Pilotta come parte del suo carattere, superando la dicotomia tra ricostruzione e sistemazione a giardino che aveva caratterizzato il dibattito architettonico dei decenni precedenti. Anche questo approccio viene aspramente criticato e la bocciatura del ministero dei beni culturali arresta il progetto. Nel 1993 un nuovo piano regolatore ribadisce la volontà dell’amministrazione di non costruire nuovi edifici nel piazzale della Pace. Nel 1996 Mario Botta riceve un secondo incarico con la precisa indicazione della sistemazione a giardino, che nel 2001 viene finalmente portato a termine.
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La Pilotta e il tempo
E i riti sono nel tempo ciò che la dimora è nello spazio. Perché è bene che il tempo che scorre non sembri consumarci e disperderci, come un pugno di sabbia, ma realizzarci. È bene che il tempo sia una costruzione. Così, cammino di festa in festa, e di anniversario in anniversario, di raccolto in raccolto, come camminavo, da bambino, dalla sala del consiglio alla sala del riposo, nello spessore del palazzo di mio padre, dove tutti i passi avevano un senso.5
A sinistra: Sovrapposizione delle soglie storiche della Pilotta 5. A. de Saint-Exupéry, Citadelle, Gallimard, Parigi 1948, 3
La Pilotta in cui possiamo camminare oggi è il precipitato di ambizioni, speranze, passioni, errori degli innumerevoli duchi, condottieri, artisti, architetti, soldati, monaci che l’hanno abitata nei secoli. L’immagine attuale del palazzo, per quanto appaia consolidata nei ricordi dei parmensi, non è che l’ultima e più sbiadita istantanea di una storia secolare. Una trama non meno complessa di quella della città, in cui si avvicendano senza sosta costruzioni e distruzioni, memoria e oblio. Non è possibile abbracciare con lo sguardo, con l’esperienza diretta, la profondità di questa stratificazione, che il tempus edax rerum ha reso inaccessibile. Ci è concesso solo di conoscerla indirettamente attraverso i documenti che ci sono pervenuti dal passato, e provare a immaginarla
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mettendone insieme i frammenti. Sebbene l’entità delle trasformazioni subite sia tale da rendere la Pilotta del xxi secolo irriconoscibile ai suoi costruttori, e viceversa quella del Cinquecento ignota ai cittadini di oggi, da esse emergono alcune invarianti. Il carattere più superficialmente evidente della Pilotta è quello di essere sempre stata un contenitore di cultura. Dalle collezioni farnesiane, gelosamente custodite ed esibite solo a pochi fortunati ospiti, alla politica illuminista di du Tillot, fino agli odierni musei pubblici, i modi e i luoghi in cui questa cultura è stata fruibile sono notevolmente cambiati nel tempo, conservando però la stessa vocazione. Il secondo fatto che possiamo evidenziare è lo strettissimo rapporto, anche se oggi difficilmente leggibile, che il palazzo intrattiene con tutto ciò che lo circonda. Si dice spesso che la Pilotta sia un fuori scala e un’imposizione su Parma: ciò è innegabile, ma fino al Settecento era sicuramente mitigato dalla presenza delle residenze ducali e della chiesa di San Pietro Martire, che coi loro corridori e coi loro stessi volumi fungevano da tramite tra la Pilotta e la città. Esistono infatti due modi con cui la Pilotta si collega concretamente al tessuto urbano: coi passaggi caldi in quota, utilizzati prevalentemente dalla corte e ormai scomparsi, e i passaggi freddi a terra, che prolungano le strade limitrofe scavando il volume del basamento, ancora esistenti.
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L’ultimo carattere a essere affiorato, e riconosciuto come tale, è la cronica incompiutezza del palazzo. Quello di Petitot è solo il primo di tanti sogni infranti, e la piazza dei guasti ha più cicatrici che architetture, ma è proprio la condizione di rovina a rendere unica la Pilotta. Questa complessità spaziale e temporale, in cui progetti realizzati e irrealizzati si sovrappongono e si confondono come i ricordi lontani nella nostra memoria, fanno della Pilotta una vera e propria «macchina del tempo»,6 «nella quale accanto all’ultima fase evolutiva continuano a sussistere anche tutte le precedenti».7
6. A. Rossi, Autobiografia scientifica, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 112 7. S. Freud, Il disagio nella civiltà, Einaudi, Torino 2010, p. 9
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CSAC La gente capisce il senso dell’arte solo quando smette di considerare la bellezza, cioè il piacere, come fine di questa attività.1
A sinistra: G. Amoretti, Inaugurazione della mostra su Bruno Munari al palazzo della Pilotta, 1979, dettaglio 1. L. Tolstoj, Che cosa è l’arte?, Mimesis, Milano 2011, p. 62
Il complesso della Pilotta contiene oggi una vasta collezione documentale e artistica, comprensiva della galleria nazionale, della biblioteca palatina, del museo archeologico e del museo bodoniano, senza dimenticare la collezione Glauco Lombardi nel palazzo di riserva e le opere di Barilli, Bocchi, Gaibazzi, Pizzinato e Spattini nel palazzo del corpo di guardia. Nonostante la grande quantità di materiale, il Novecento costituisce ancora una lacuna nel percorso espositivo, che nel caso della galleria nazionale si chiude con la pittura accademica dell’Ottocento. Per immaginare una logica continuazione dei musei della Pilotta la scelta è ricaduta sul Centro Studi e Archivio della Comunicazione, custode di quella che è forse la più vasta raccolta di materiali sulla cultura visiva e progettuale del Novecento in Italia, nato nel 1968 proprio alla Pilotta grazie all’attività di Arturo Carlo Quintavalle. Attualmente ospitato dall’abbazia di Valserena nella frazione di Paradigna, vive una condizione di isolamento dalla città in cui si è sviluppato, che preclude una sua piena partecipazione al mondo della cultura di Parma.
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Arturo Carlo Quintavalle
Arturo Carlo Quintavalle (Parma, 1936) è uno storico e critico d’arte, tra i maggiori studiosi dell’arte medievale, autore di importanti contributi su Wiligelmo e Antelami. Durante la sua carriera si è anche occupato dei vari aspetti della comunicazione visiva contemporanea: fotografia, fumetto, pubblicità, design e moda. Negli anni Settanta, in una situazione di isolamento tra le discipline, «ha rotto gli steccati e attraverso un atteggiamento eclettico […] ci ha fatto imparare a giudicare, senza paraocchi, la dimensione estetica contemporanea».2 Oltre ad aver curato numerose mostre e pubblicazioni, è il fondatore del Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’università di Parma, nella quale ha a lungo insegnato storia dell’arte. Ha inoltre collaborato per 30 anni al Corriere della Sera, e per 25 al settimanale Panorama sul quale teneva una rubrica d’arte. Arturo Carlo nasce a Parma nel 1936, da Armando Ottaviano Quintavalle e Augusta Ghidiglia, entrambi a loro volta storici dell’arte. Il padre, Armando Ottaviano (Napoli, 1894–Modena, 1967), è stato soprintendente per le province di Parma e Piacenza dal 1933 al 1959. Studioso del romanico campano, si dedica successivamente all’arte rinascimentale in Emilia, tra cui Correggio e Parmigianino. Durante la seconda guerra mondiale
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2. G. Dorfles, Gli ottant’anni di Quintavalle nel ritratto dell’amico Gillo Dorfles, in Corriere della Sera, 11 maggio 2016
3. C. L. Ragghianti, Collezioni americane. Il Museum of Modern Art di New York, in La Critica d’Arte, 3, 1949, pp. 253–259
salva dalle razzie tedesche 8000 dipinti, provenienti dalla galleria nazionale di Parma, Alberoni di Piacenza ed estense di Modena, nascondendole dentro un corridoio del castello di Torrechiara. La madre Augusta Ghidiglia (Roma, 1904– Casalmaggiore, 1988), è stata tra i principali studiosi di Correggio, Parmigianino e della pittura duecentesca, nonché autrice di fondamentali scoperte e restauri. Protagonista col marito dell’opera della soprintendenza, si è occupata di numerosi progetti per la valorizzazione dei beni culturali di Parma, come la serie di mostre Arte in Emilia dal 1960 al 1970 e l’incarico a Guido Canali di restaurare e riallestire la Pilotta. Arturo Carlo Quintavalle si forma all’università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore, dove è allievo di Carlo Ludovico Ragghianti (Lucca, 1910–Firenze, 1987), uno dei massimi storici, critici e teorici dell’arte italiani, nonché accademico e politico nel Partito d’Azione. Dopo un breve periodo all’università di Chicago, nel 1964 Quintavalle diventa professore di storia dell’arte a Parma. In questi anni viaggia frequentemente tra l’Italia e gli Stati Uniti, dove conosce in prima persona le raccolte d’arte universitarie, ma soprattuto il Museum of Modern Art di New York. Al suo ritorno a Parma nel 1968 sarà proprio il MoMA e la sua «sperimentalità come criterio per la formazione progressiva e cautamente valida della raccolta»3 a fornire un modello per il CSAC.
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Cenni storici
In alto a sinistra: Lucio Fontana, Il fiocinatore, gesso per una fontana, 1933–1934, gesso colorato, 183×82×76 cm In basso a sinistra: Man Ray, Ritratto di Joan Miró, 1934 ca., gelatina al bromuro d’argento, 298×220 mm
Nel 1968 una mostra sul pittore Concetto Pozzati organizzata da Arturo Carlo Quintavalle costituisce l’inizio simbolico dell’attività del CSAC, che non sarà ancora formalmente istituito con questo nome prima di alcuni anni. Le prime mostre si tengono nell’ala dei contrafforti e nelle antiche scuderie al piano terra della Pilotta, e consentono l’acquisizione a titolo gratuito di opere donate dagli artisti esposti, andando a costituire il primo nucleo della collezione. La sezione Fotografia inizia la sua attività nel 1970 con esposizioni sui fotografi americani in collaborazione col MoMA di New York. Nel 1975 nasce il Centro Studi e Museo della Fotografia, rinominato l’anno seguente come lo conosciamo ancora oggi: Centro Studi e Archivio della Comunicazione. La collezione cresce rapidamente grazie alle donazioni, e già nel 1977 la sezione Arte conta più di 200 opere di 107 artisti diversi. Negli anni Settanta il dibattito intorno al superamento dell’idea tradizionale di museo, in cui si inserisce anche il CSAC, porta a sperimentazioni come quella del Centre Pompidou di Parigi (1977), o in Italia alle nuovi direzioni intraprese dalla Biennale di Venezia, dalla Quadriennale di Roma e dalla Triennale di Milano tra il 1974 e il 1979. Le nuove istanze di superamento delle barriere
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In alto a sinistra: Walker Evans, Mount Pleasant, Pennsylvania, 1935, gelatina al bromuro d’argento, 253×203 mm In basso a sinistra: Mario Sironi, La giovinezza, cartone per il mosaico L’italia corporativa, 1936–1937, olio su carta, 316×317 cm
tra discipline artistiche, oltre alla crescente partecipazione del pubblico, conducono a modelli museografici più trasparenti e flessibili, nei quali l’istituzione può anche diventare operatore economico dedicandosi alla compravendita di opere. Al 1978 corrisponde la costituzione del comitato scientifico del CSAC, nel quale figurano, oltre a Quintavalle, nomi come Cesare Brandi, Maurizio Calvesi, Flavio Caroli, Enzo Mari, Achille Bonito Oliva. Nello stesso anno il CSAC diventa la prima istituzione universitaria italiana a dotarsi di ambienti climatizzati per la conservazione di materiali fotografici. Nel 1980 è inaugurata anche la sezione Progetto col suo primo nucleo di circa 50 000 pezzi. Nel 1986 la sede originale, nell’ala dei contrafforti della Pilotta, viene abbandonata per mancanza di spazio spostandosi al padiglione detto Nervi in via Palermo, a nord della ferrovia. Solo al 1987 risale il riconoscimento formale del Centro Studi e Archivio della Comunicazione come istituzione. Poco dopo, nel 1989, Gloria Bianchino sostituisce Arturo Carlo Quintavalle alla direzione. Nel 2007 un nuovo cambio di sede sposta l’archivio dal padiglione di via Palermo all’attuale abbazia di Valserena. La direzione di Gloria Bianchino si conclude nel 2014, quando si procede alla definizione di una nuova struttura organizzativa. Attualmente il Centro Studi è presieduto da Paolo Andrei, rettore dell’università di Parma, mentre il
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vicedirettore è Michele Guerra. Dal 23 maggio 2015, dopo lunghi interventi di restauro, è aperta anche la sezione museale dell’abbazia di Valserena, che fornisce ai visitatori uno scorcio sul materiale contenuto nell’archivio. Sin dalla sua fondazione il CSAC si impegna in un’incessante attività divulgativa, occupando nel tempo diversi spazi e collaborando con numerose altre istituzioni di Parma e del mondo. Le mostre nazionali e internazionali a cui il Centro Studi ha collaborato fino a oggi sono più di 300, alle quali si affiancano non meno cataloghi e pubblicazioni scientifiche.
In alto a sinistra: Marcello Nizzoli, Macchina per scrivere Olivetti Lettera 22, 1950, 9×32×32 cm In basso a sinistra: Armando Testa, Manifesto pubblicitario per il vermut Punt e Mes, 1960
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Un archivio di archivi
In alto a sinistra: Luciano Fabro, Lo spirato, 1968–1973, gesso, 32×197×80 cm In basso a sinistra: Ignazio Gardella, Modello per il progetto del nuovo teatro civico di Vicenza, 1968
La vasta raccolta di dipinti, disegni, fotografie, modelli e documenti è attualmente composta da 522 fondi monografici, ognuno corrispondente a un diverso autore, organizzati secondo cinque sezioni: Arte, Fotografia, Progetto, Media e Spettacolo. Al CSAC è rappresentato il panorama della cultura artistica italiana del secondo dopoguerra: il realismo con Renato Guttuso, l’astrazione con Carla Accardi, Nicola Carrino, Mario Radice, Emilio Scanavino, l’informale di Arnaldo Pomodoro, Giuseppe Santomaso, l’arte povera con Mario Ceroli, il concettuale di Alighiero Boetti, senza però dimenticare i maestri della prima metà del secolo come Lucio Fontana e Mario Sironi. Le costanti acquisizioni hanno portato la sezione Arte a ospitare 1700 dipinti, 300 sculture, 17 000 disegni, nonché la relativa bibliografia e documentazione, fondamentale per lo studio, la didattica e la ricerca. La sezione Fotografia inizia la sua attività nel 1970, con esposizioni su Lee Friedlander e sulla nuova fotografia americana. Quintavalle acquisisce oltre 3000 fotografie dalla Farm Security Administration, di Dorothea Lange, Walker Evans, Ben Shahn e molti altri. Nel 1973 si tiene la prima antologica di Ugo Mulas, nel 1977 di Nino Migliori, nel 1979 di Luigi Ghirri, nel 1980 di Mario Giacomelli.
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In alto a sinistra: Fausto Melotti, Il sentimento della rivoluzione, 1973, rame, ottone e acrilico su stoffa, 310×86×68 cm In basso a sinistra: Giorgio Armani, Disegno per la collezione autunno-inverno 1978-1979
Nel tempo la raccolta si arricchisce anche di importanti archivi come Stefani, Orlandini, Villani, Publifoto, Vasari. Attualmente ammonta a più di 300 fondi, contenenti 9 000 000 di immagini scattate dal 1840 a oggi, oltre a decine di apparecchi fotografici storici. Nel corso degli anni Settanta ha inizio la raccolta della sezione Progetto su architettura, design e moda. In occasione della presentazione dei primi 50 000 disegni ha luogo un importante convegno sul disegno dell’architettura, introdotto da Giulio Carlo Argan, cui prendono parte tra gli altri Bruno Zevi, Gillo Dorfles, Vittorio Gregotti e Giovanni Klaus Koenig. I fondi di architettura e design sono formati da ben 2 500 000 disegni e 800 modelli, tra i quali troviamo quelli di Gio Ponti, Ignazio Gardella, Giuseppe de Finetti, Pier Luigi Nervi, Figini e Pollini, Giuseppe Samonà e dei fratelli Castiglioni. Per quanto riguarda la moda il CSAC ospita 70 000 tra abiti, disegni, modelli e riviste originali, relativi a stilisti come Giorgio Armani, Emilio Schuberth, Gianfranco Ferrè, Walter Albini e Gianni Versace. La sezione Media raccoglie 2000 manifesti cinematografici e 7000 bozzetti di autori come Anselmo Ballester, Manfredo Acerbo, Angelo Cesselon, 3000 illustrazioni e 1000 disegni di satira e fumetto firmati Tullio Pericoli, Alfredo Chiappori, Vincino, Brunetta Mateldi. Notevoli sono anche gli archivi di Erberto Carboni, Giancarlo Iliprandi,
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Michele Provinciali e Severo Pozzati, che ammontano a circa 100 000 pezzi. Nella sezione Spettacolo, infine, sono conservate macchine da presa antiche e moderne, pellicole e materiali inerenti la progettazione filmica e scenografica. Figurano in particolare 778 pellicole cinematografiche formato 35 mm, 78 in formato 16 mm, 25 trailer in formato 35 mm e 5 pellicole cinematografiche formato Pathé Baby, per un totale di 175 titoli. Nel complesso il CSAC si presenta come un sempre crescente archivio di archivi della cultura visiva del Novecento, grazie al quale è possibile, come fanno spesso le sue mostre temporanee, leggere temi sociali trasversali attraverso i punti di vista singolari delle diverse arti.
In alto a sinistra: Mario Giacomelli, Presa di coscienza sulla natura, 1990 In basso a sinistra: Mimmo Paladino, Graticole, 1995, olio su 4 tavole, 282×107 cm ciascuna
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Progetto Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi. Non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio. Bisogna tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.1
A sinistra: L. Ghirri, Archivio al padiglione Nervi, 1991, montaggio con fotografia dell’autore 1. A. Tarkovskij, Nostalghia, 1983, monologo di Domenico
Vediamo nell’attuale situazione del piazzale della Pace un’accettazione passiva delle distruzioni avvenute a partire da du Tillot fino alla seconda guerra mondiale, una rassegnazione all’oblio del tempo. Vogliamo immaginare un futuro per il palazzo della Pilotta, una trasformazione che abbia un carattere affermativo, per dimostrare che anche la nostra società è in grado di fornire una risposta alle questioni poste dal passato. Dopo una ricerca di carattere storico abbiamo affrontato la progettazione di un ampliamento del complesso della Pilotta con un luogo espositivo per il Novecento e il contemporaneo, nella fattispecie la musealizzazione degli archivi del CSAC. Nelle prossime pagine è esposta la fotografia, scattata in un momento arbitrario, di un processo conoscitivo che sarebbe potuto continuare a oltranza. Il progetto non pretende di essere una soluzione, quanto piuttosto di sollevare ancora una volta la questione della Pilotta mostrandone una tra le innumerevoli possibilità.
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Tema
Io diffido dei musei, in primo luogo dei musei istituzionali, che tendono a raccogliere a catalogare «tutto». La biblioteca è pedante ma onesta. Non pretende di essere unica. Il museo esige di essere solitario, esemplare, irripetibile. È fatto di oggetti unici. Ogni esempio è una preda, comprata, catturata, deportata, scovata, scavata, rubata, corrotta, scambiata, trafugata. Un museo presuppone una passione non ignara di delitti, una cupa concentrazione, la mitologica fantasia di poter ritagliare uno spazio piatto e concluso, tolemaico, nel mondo sferico copernicano. Un museo nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode. Raccoglie quelle cose ambigue e un poco sinistre che sono i capolavori; colleziona opere d’arte, in nome della bellezza; infine protende di essere istruttivo. In ogni caso, i musei agiscono in modo riduttivo; l’opera chiusa nella teca del museo è catturata in un lager di squisitezze, viene dichiarata eterna perché rinuncia alla propria qualità magica, alla intrinseca violenza, perché accetti di essere «bella».2
A sinistra: J. Cage, Fontana mix, 1958 2. G. Manganelli, La favola pitagorica, Adelphi, Milano 2005, pp. 57–58
Se è possibile esporre l’arte fino all’Ottocento seguendo una narrazione lineare, troviamo difficile replicare lo stesso principio per il Novecento e il contemporaneo. La galleria nazionale, una volta varcato
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A sinistra: J. Soane, Banca d’Inghilterra, Londra, 1790–1827, disegno di Joseph Gandy
l’arco scenico del teatro Farnese, si compone di sette sezioni consecutive: la sala del trionfo (dedicata alla famiglia Farnese), dal medioevo a Leonardo, il rinascimento in Emilia, dal rinascimento al barocco, Seicento e Settecento, la rocchetta (con le opere di Correggio e Parmigianino), per finire con la galleria di Maria Luigia dedicata all’arte accademica dell’Ottocento. Trovandoci nella posizione di dover continuare questo percorso, il principio cronologico, già messo in dubbio con la parentesi delle sale della rocchetta, incontra un primo ostacolo proprio nell’archivio del CSAC. Se ordinassimo la sezione Arte essa inizierebbe con artisti come Mario Sironi, Lucio Fontana e Bruno Munari, mentre la collezione della Pilotta, a eccezione di qualche opera di Amedeo Bocchi, non dispone di sufficiente materiale per colmare l’abisso culturale che separa il Novecento dalla pittura accademica. Il problema è tuttavia più generale, se fino all’Ottocento infatti l’arte era riconducibile a filoni più o meno condivisi, con le avanguardie storiche si assiste a una sorta di balcanizzazione degli artisti, che percorrono innumerevoli strade diverse, talvolta tangenti e talvolta parallele tra loro. È evidente la difficolta nel tradurre tale complessità, per non dire disordine, in architettura. Per immaginare un museo del Novecento alla Pilotta il modello più adeguato ci è parso la narrazione paratattica.
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Programma
Il progetto si articola in tre parti distinte ma in stretto rapporto tra loro: un’aula a sud, una galleria a nord, e un ipogeo compreso tra le due. In esse sono affrontate due modalità espositive, ovvero l’archivio visitabile e la messa in scena, intese come superamento della concezione di percorso lineare a favore di uno libero. Il pubblico ha quindi una visione sintetica della collezione, e può interagire con essa secondo i modi e i tempi che ritiene opportuni, o che gli sono suggeriti da eventi e allestimenti estemporanei. La contraddizione di fondo della storiografia sulla fotografia, o almeno della sua gran parte, sta tutta qui, nella concezione idealistica che la vicenda fotografica sia costruita per punte, per vette, per figure chiave, per geni, e che il tessuto, il contesto sia da rimuovere, anzi che sia di fatto, rimosso.3
A sinistra: Spettacolo teatrale nella piazza del mercato di Leuven, 1594 3. A. C. Quintavalle, Tempo dell’archivio, archivio del tempo, in A. C. Quintavalle (a cura di), Studio Villani, Università di Parma, Parma 1980, p. 7
Ciò che contraddistingue l’attività del CSAC, e di conseguenza il suo archivio, è l’accumulo di materiali per il loro valore documentale prima ancora che artistico. L’idea stessa di archivio presuppone una raccolta inclusiva e non selettiva, una visione imparziale e non soggettiva dell’arte, che si contrappone al concetto di collezione. Per questo la modalità espositiva adottata, in particolare
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per quanto concerne la galleria nord, è quella dell’archivio visitabile, ossia un luogo sì museale, ma che deve mostrare la quantità di materiale depositato e spiegare l’archiviazione come processo continuo, come metodo di ricerca, e non solo come il suo risultato. Le opere qui esposte saranno semplici esempi, parti per il tutto, e potranno ciclicamente essere sostituite da altre. Diverso invece è il carattere dell’aula, un vero e proprio teatro in cui l’archivio è messo in scena, e la distanza che separa arti visive e performative viene annullata. La tipologia dell’aula, grazie alla sua generalità, è in grado di contenere tutte queste possibilità senza imporsi sul suo contenuto, generando un cortocircuito virtuoso tra le diverse opere ed eventi che può ospitare simultaneamente.
A sinistra: Vista notturna del piazzale della Pace
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Giacitura
La caratteristica di questi monumenti deriva dalla loro densità e dall’essere indipendenti nei confronti di una rete stradale definita; i monumenti di Parma potrebbero poggiare su una distesa erbosa al pari di quelli pisani.4
A sinistra: Vista del cortile di S. Pietro Martire dalla finestra del teatro Farnese 4. A. Rossi, Il centro Torri, in A. Ferlenga, Aldo Rossi. Architetture 1988–1992, Electa, Milano 1992
Le diverse parti del progetto, sebbene collegate al livello ipogeo, emergono dal piazzale come monumenti isolati, come frammenti della Pilotta abbandonati dal tempo. Questa logica compositiva appartiene al carattere di Parma, i cui monumenti pur nascendo dal tessuto urbano, ne sono indipendenti in virtù della forza della loro giacitura, che si organizza sempre lungo percorsi e assi visivi istituendo rapporti a lungo raggio. Il grande scavo occupa l’angolo nordorientale del cortile di San Pietro Martire, gerarchizzando la percorrenza dello spazio pubblico allo stesso modo della chiesa scomparsa. La galleria raddoppia idealmente la misura del cortile, estendendola verso via Garibaldi e costruendo un fondale per la piazza. Lo spazio a nord è destinato a giardino pubblico, in cui sono messi a dimora filari di platani come nella «piazza delle piante» di Maria Luigia. Infine, l’aula si pone al centro del sistema, costituendo l’ideale testa del corridore interrotto e intrattenendo un rapporto visivo col battistero attraverso vicolo Duomo.
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L’ipogeo
A volte percepivo che nelle fondamenta che penetravano in profondità nella terra, nei volumi delle mura e delle volte, la mia anima era una pietra fra le tante, murata nella massa anonima delle altre pietre.5
A sinistra: Beato Angelico, Giudizio universale, 1431 ca., dettaglio 5. D. Pikionis, Note autobiografiche, 1958, in A. Ferlenga, Dimitris Pikionis, Milano 1999, p. 32
Scavare sotto la Pilotta significa scavare nel tempo, nella stratificazione archeologica fatta di monumenti perduti o anche solo immaginati, nella storia stessa di Parma. Abbiamo identificato nel suolo il luogo della memoria, e per questo il più adatto a ospitare l’archivio di un museo, come una fossa scenica dalla quale è possibile estrarre ogni volta opere sempre diverse. L’ipogeo interessa una porzione del piazzale della Pace di dimensioni analoghe a quelle del cortile della Pilotta. Si manifesta in superficie attraverso una serie di aperture di diverse misure, in particolare con un grande scavo che riprende la giacitura della scomparsa chiesa di San Pietro Martire. I gradoni che occupano questo scavo permettono l’accesso alla sezione ipogea del museo, oltre a costituire un possibile spazio teatrale o espositivo, che può avvalersi anche del basamento posto in corrispondenza dell’antico altare. La superficie del piazzale della pace, che è anche la copertura dell’ipogeo, si costruisce in porzioni discrete con orientamento
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est–ovest, ordite su setti portanti con giacitura opposta. Questo sistema costruttivo permette al solaio di interrompersi in corrispondenza dell’incrocio coi setti generando lunghe fenditure che dichiarano la presenza dell’ipogeo dall’alto, permettendo allo stesso tempo l’illuminazione naturale degli spazi inferiori. L’ipogeo ha la funzione di ospitare la maggior parte dell’archivio, oltre ai servizi per il personale e quelli per i visitatori come la biglietteria, il foyer e il guardaroba. Gli spazi destinati al pubblico e quelli agli addetti ai lavori sono separati unicamente da una vetrata continua per tutta la loro lunghezza, in modo da rendere possibile una reciproca vista sulle attività che si svolgono. Il corridoio parallelo a questa vetrata costituisce anche l’asse distributivo del piano interrato, collegandosi a nord con la galleria espositiva, a ovest con lo scalone di accesso, a est con l’archivio e a sud con l’aula. Questo corridoio è illuminato lateralmente da un patio, in corrispondenza del foyer e della risalita.
A sinistra: Vista del corridoio centrale dell’ipogeo
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L’archivio visitabile
[…] per un pensatore, quindi, una visita a un museo presenterà vero interesse solo quando ne sarà sprizzata d’improvviso una di quelle idee che gli appaiono subito, ricche e capaci di generarne altre parimenti preziose.6
A sinistra: P. Rosselli, Montaggio delle griglie dei quadri nel padiglione Nervi, 1986– 1987 6. M. Proust, Pittori, Abscondita, Milano 2006, pp. 32–33
Il piazzale della Pace è chiuso a nord da un edificio in linea, un portico isolato senza capo né coda, come il frammento di un antico corridore il cui uso possiamo solo immaginare. Una rigida sequenza di setti emerge da un trincea nella piazza, scandendo il ritmo dei portici della Pilotta, o forse di uno scaffale fuori scala. Tra questi elementi murari sono ordite delle passerelle, dei camminamenti che corrispondono ad altrettante aperture nei setti e che ne permettono l’attraversamento in senso longitudinale. In questo edificio, che sembra essere stato estratto dall’ipogeo, è immagazzinata una seconda parte della collezione con l’intenzione di rivelarla, nel suo aspetto più informale, ai visitatori e alla città in generale. Si tratta di un archivio visitabile, non dissimile alla galleria Petitot della biblioteca palatina, con le sue librerie che rivestono per intero la lunghezza del corridore cinquecentesco. La vocazione di archivio visitabile è chiaramente espressa dalla sezione trasversale:
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sul prospetto nord una parete di cassettiere, accessibile al personale per mezzo di quattro ballatoi, attraversa tutti i piani mostrando anche il suo involucro metallico all’esterno. A sud si alternano verticalmente tre percorsi, due caldi e uno freddo, dedicati rispettivamente ai visitatori del museo e a chi passeggia nel piazzale, ma tutti dotati di un comune affaccio sulle opere sospese nella parte centrale della sezione, nonché sulle attività dell’archivio dietro il frangisole.
A sinistra: Sezione prospettica della galleria dell’archivio visitabile
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Il teatro
Anche l’aula si costruisce per frammenti di architetture e di memorie: in essa troviamo i resti del palazzo del governo devastato dai bombardamenti alleati, della chiesa di San Pietro Martire dipinta da Antonio Romagnesi, della breve vita del teatro Reinach, e specialmente del teatro provvisorio allestito da Francesco Guitti nel cortile della Pilotta. Illuminavano il theatro, proscenio, e scena, trecento, e più doppieri di cera bianca, oltre a mille altri minori lumi, i quali artificiosamente disposti in modo, che non si vedevano, sbandeggiavano da sì grande apparato le tenebre della notte.7
A sinistra: Giulio Camillo, Teatro della memoria, xvi sec., disegno di Athanasius Kircher 7. M. Buttigli, Descrittione dell’apparato fatto per honorare la prima e solenne entrata in Parma della serenissima principessa Margherita di Toscana, Seth & Erasmo Viotti, Parma 1629, pp. 148–155
Il suo valore risiedeva nell’essere l’anello di congiunzione tra il teatro medievale e quello cosiddetto all’italiana, rappresentando quindi una felice sintesi delle due anime di Parma (quella «chiusa» e quella «aperta») a cui si è accennato precedentemente, oltre che incarnare il carattere eternamente in divenire della stessa Pilotta. La narrazione paratattica, e quindi simultanea, propria del teatro medievale si presta facilmente a un’analogia con l’idea di museo. In entrambi i casi infatti è lo spettatore a spostarsi nella scena e non la scena a essere mobile. Il teatro medievale è inoltre lo spettacolo
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A sinistra: Sezione prospettica dell’aula per le mostre temporanee
pubblico per eccellenza, avendo esso luogo nelle piazze o all’interno delle cattedrali. Tutte queste immagini di cui il progetto si alimenta sono racchiuse in un fragile involucro ligneo, una sorta di inversione della logica del teatro Farnese. Non un mondo interno che rifiuta il rapporto con la piazza, bensì uno spazio trasparente in cui la città stessa si rappresenta, sfocando la dicotomia tra interno ed esterno, tra architettura e scenografia, tra realtà e rappresentazione. L’aula si organizza in due fasce, una più rigida a nord rivolta alla biblioteca palatina, una più libera a est verso il piazzale della Pace. La prima è articolata da una successione regolare di setti, che permette l’esposizione delle opere più piccole e sostiene il ballatoio superiore. La seconda fascia è completamente libera in pianta e in sezione, per allestire grandi opere e ospitare eventi temporanei come lezioni o concerti. In questo compito l’aula si avvale di solai mobili, come nei palcoscenici dei teatri, che consentono di scambiare, per esempio in momenti diversi della giornata, l’allestimento al livello della piazza con un secondo posto nell’ipogeo, mantenendoli però sempre accessibili a entrambe le quote. Un passaggio freddo attraversa lateralmente l’aula, ponendola in relazione coi portici della Pilotta e recuperando la memoria dell’antico asse che congiungeva il giardino al duomo, passando per la rocchetta, il corridore e il palazzo ducale.
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E così l’unione tra il passato e il futuro è nell’idea stessa della città che la percorre, come la memoria percorre la vita di una persona, e che sempre per concretarsi deve conformare ma anche conformarsi nella realtà. E questa conformazione permane nei suoi fatti unici, nei suoi monumenti, nella idea che di essi abbiamo. Questo spiega anche perché nell’antichità si poneva il mito a fondamento della città.
Aldo Rossi, L’architettura della città, 1966
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Voglio ringraziare il prof. Massimo Ferrari e la prof.ssa Claudia Tinazzi per avermi accompagnato nel mio percorso accademico e nello svolgimento di questa ricerca. Ringrazio anche Giacomo Santunione, che ha collaborato alla stesura del primo capitolo sull’Emilia, i miei genitori, i miei compagni di corso e tutti coloro che mi sono stati vicini durante questi anni a Milano.
E i riti sono nel tempo ciò che la dimora è nello spazio. Perché è bene che il tempo che scorre non sembri consumarci e disperderci, come un pugno di sabbia, ma realizzarci. È bene che il tempo sia una costruzione. Così, cammino di festa in festa, e di anniversario in anniversario, di raccolto in raccolto, come camminavo, da bambino, dalla sala del consiglio alla sala del riposo, nello spessore del palazzo di mio padre, dove tutti i passi avevano un senso.
Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella, 1948