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gennaio/febbraio 2015 - anno 4 n. 1 - distribuzione gratuita

La Voce gentile

portalecittadino.it|Cultura&Società

E sona mo’... ...e sona ancora.

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L’editoriale di Vladimiro D’Acunto

Un 2015 nato nel sangue: tavole, fogli, pagine, insomma una redazione cosparsa di sangue invece che di inchiostro. Lo scorso 7 gennaio di quest’anno al civico 10 di Rue NicolasAppert, XI Arrondissement di Parigi, 12 persone (a cui il 9 gennaio si sono aggiunte altre 5) sono state trucidate a colpi di Kalashnikov ad opera di assassini. Se si sia parlato di questo episodio troppo poco o fin troppo non sta a noi giudicare, ma una cosa è sicura: il fatto avvenuto resta - indelebile – nella storia, nel ricordo, nell’anima. Oggi, a mente lucida, mi vengono in mente alcune lezioni universitarie del mio Professore di Letteratura greca che ci spiegava cosa fosse la parresìa. Un termine nato in Grecia composto da una prima parte “pan(r)” che vuol dire “tutto” e “rhèsis” cioè “parola”, ovvero “parlare di tutto”. Spesso liquidata in maniera più semplicistica come “libertà di parola”, in realtà la parresìa è una specie di virtù, possibilità, diritto/dovere del cittadino (specie se individuo pubblico) di dire tutto, senza inserire eventuali “filtri”, interpretazioni, giudizi tra il proprio pensiero e la parola da dire. Questo processo consiste, in pratica, nell’affrontare qualsiasi argomento, esprimendosi in piena e totale libertà. Nell’antica Atene, ad esempio, la parresìa esisteva perché in città regnavano tolleranza, senso dell’humour e piena libertà di parola. Pilastri, in pratica, su cui si fondava e prosperava la satira. Intelligente, serena e vera è una persona capace di coltivare l’ironia e l’autoironia. Colui che non è in grado di ridere, di gustarsi la satira o la beffa scherzosa e ricorre alla censura, all’ipocrita limitazione del “va bene, però…” o in alcuni casi anche ai mitra, non fa sicuramente parte di quel mondo libero che richiede coraggio, forza e virtù. Costui sarà schiavo delle falsità, dell’etichetta, dell’ignavia, della ragion di Stato o dei dogmi religiosi. “Parlare di tutto” richiede dei costi (in voti, in amicizie, in tempo, in denaro), ma è una scelta. Una scelta da cui potrebbe dipendere la libertà… individuale e collettiva.

sommario 4 > Vai mo’. Un saluto a Pino Daniele sociale

6 > Ri-dammi un feedback 7 > Le pillole della felicità 8 > Gog, Magog e i pugni nello stomaco psicologia

9 > Morta perché donna CULTURA

10 > Lupercalia. Un S. Valentino di quasi 3000 anni fa storia

11 > L’arte nella memoria 12 > I contrasti a Mecca e l’emigrazione a Medina musica

13 > The War on Drugs cinema

14 > Corsa agli Oscar enogastronomia

15 > Whisky Sour

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"Il mondo non ci è stato lasciato in eredità dai nostri padri, ma ci è stato dato in prestito dai nostri figli"

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Cittadino News - anno 4 n. 1 - distribuzione gratuita - Supplemento a: «OZZZIUM - Pillole di buon umore» Reg. Trib. di Salerno - Registro Stampa Periodica al n° 1121/2003 - Editore: SILVER STAR s.a.s. Redazione, Grafica e Stampa: IMAGE SERVICE di Cicatelli A. Direttore Responsabile: De Rosa Giancarlo Vice Direttore: Vladimiro D’Acunto Art Director: Danilo D’Acunto, Tony Cicatelli Redazione: Emiliano Abhinav Boccia Orizzonte, Michele Carucci, Alfonso Cesarano, Ivan Cibele, Alfonsina Citro, Carmine Cuomo, Giulio D’Ambrosio, Chiara De Rosa, Armando Falcone, Rosa Fenza, Lazzaro Immediata, Grazia Imparato, Fausto Mauro, Roberta Mordanini, Antonella Viola, Pierluigi Zaccaria. Indirizzo: C.so Vittorio Emanuele, 384 - Montecorvino Rovella (SA) tel 338 9092107 - cittadinonews@gmail.com

Le immagini raffiguranti i loghi e i marchi delle aziende appartengono ai rispettivi proprietari. Parte delle foto presenti sono state prese da internet, quindi valutate di pubblico dominio. La collaborazione al periodico “CittadinoNews” è a titolo completamente gratuito. L’Editore è proprietario di tutti gli articoli ricevuti anche se non pubblicati.


VAI MO’ musica UN SALUTO A PINO DANIELE

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musica di Danilo D’Acunto

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hi scrive vive a Napoli, precisamente a largo Ecce Homo, una piccola piazza dove è nato e ha vissuto la sua infanzia Pino Daniele. La stessa piazza che all’indomani della sua morte gli ha dedicato un graffito (anche abbastanza brutto – foto 1) che ha subito suscitato – giustamente – polemiche perché realizzato su un palazzo storico dell’800 (foto 2). Forse è da questa Napoli un po’ cialtrona e abbastanza immatura che Pino Daniele era andato via nell’ultima fase della sua vita, chi lo sa. “Sud, scavame ‘a fossa / voglio muri’ cu' te / pe' me dint' all'ossa / solo sud”: così cantava negli anni ’80, ma seppure il Sud lo aveva davvero sempre avuto nel cuore, alla fine ha cercato un rifugio altrove. Viene da ricordare il personaggio di Troisi nel suo “Ricomincio da tre”, un napoletano fuori città indicato da tutti come “emigrante”, e per quanto lui rifiuti questo concetto, alla fine si rende conto che sì, quello che sta facendo è andare via da una terra che non gli offre lavoro, opportunità, entusiasmo e che ormai gli sta stretta. Pino che aveva cantato Napoli meglio di chiunque altro, non solo nella canzone omonima, ma in tante altre melodie e l’ha spezzettata in versi in modo da poterne cogliere le sfaccettature più vere, lontane dalle noiose e rutilanti cartoline patinate a cui sono abituati la maggior parte delle persone. Una città fatta di anime belle e strapazzate dalla vita (imparentate con altre di De André) come quella di Annare’ che “votta ‘ncuorpo / pecchè nun se po’ fa / e curre curre forte / pe’ nun te fà piglià” e anime sporche e dannate come quelle dei “pazz' futtut' / so' tutti mafius' / 'ncopp'o sang' d'a povera gente / nun guardano 'nfaccia a niente” (“Faccia gialla”). Perché Napoli è così, sporca e pura, santa e puttana. E rantola, e chiede aiuto ma poi se ne frega; sta zitta, si carica di cose oppure se le scrolla di dosso. Ma soprattutto è la Napoli porto di mare, dove la gente

approda e sbarca lasciando o portando via qualcosa: lo diceva già la Nuova Compagnia di Canto Popolare con la sua “Tammurriata nera” e Daniele, che ha ripreso quel filone popolare scegliendo però di discostarsi dalla tamorra e preferendo il blues, lo grida nello “Scarrafone”, in “Leave a message”, e graffia l’argomento cantando “e chi dice che Masaniello / poi negro non sia più bello?” in “Je so’ pazzo”. E del resto, è pur sempre il cantante che si sentiva “Nero a metà”. Si sentiva e lo suonava, con quei blues tutti

d’oltreoceano, che più che italoamericani erano “napoletanamericani”, così musicalmente intrisi di inglese e dialetto, quel bel dialetto che non è più cantuccio locale ma una lingua che scavalca se stessa e arriva a tutti. Difficilmente la cultura napoletana avrà un giorno qualcuno che le sappia dare tanto musicalmente come ha fatto lui, perché i tempi sono cambiati, il terreno partenopeo non è più fertile come una volta e seppure qualche valido artista spunta fuori, da lì a poco emigra in altri ambienti perché


musica la lezione napoletana, come l’arte, la si impara e la si mette da parte – senza rinnegarla ma pur sempre tenendosela alle spalle, avendo lo sguardo puntato altrove. Pino Daniele ha fatto questo e gli anni ’90 furono decisivi in questa sua svolta che andarono da i classici al sapore di cinema come “Quando” e “Che Dio ti benedica” fino agli approdi musicali – da molti considerati commerciali – di album come “Dimmi cosa succede sulla Terra” e “Come un gelato all’equatore”. In questi lavori il cantante sperimenta e ricerca; se prima aveva incontrato le contaminazioni orientali e africane con il sud Italia, adesso si spinge ancora più là e ne cerca l’origine ed ecco che le Annare’ e Donna Cuncetta di una volta diventano Sara e Mareluna nelle omonime canzoni, perché il mondo è ormai diverso e soprattutto vasto: non ci sono solo le scale di Sant’Antonio ai Monti di Napoli ma anche gli ascensori dei palazzi di Milano, non più solo le scogliere di Mergellina ma le spiagge di Patara in Turchia. E seppure questa ricerca porterà a una graduale scomparsa del dialetto (i napoletani di questi anni, offesi,

ripiegheranno sugli osceni cantanti neomelodici) nel 2007 ci sarà ancora lo spazio per una delle sue canzoni più minime, struggenti e intimiste che abbia mai realizzato: pochi versi quasi strozzati in gola che dicono soltanto “Tien’ a mente / Nun te scurdà / Do you remember / The time” (“Passo napoletano”). In queste poche parole forse c’è tutta l’amarezza ma anche la

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musica di Danilo D’Acunto

consolazione di una vita segnata dall’ombra lunga di una città e le sue musiche; è un pezzo che in pieno stile Daniele comunica per emozioni, frasi appese, battiti di tempo ritmato e corde pizzicate con la passione di chi ha avuto una chitarra in mano da tutta una vita. E dietro di questo rimarrà sempre quella rabbia pura e benefica, come se fosse un grido a metà tra esasperazione e liberazione del quale Pino Daniele era un maestro, la cui sintesi è data forse da quei quattro versi a me più cari di tutta la sua produzione discografica, perché con la vividezza di un’istantanea hanno fotografato un sentimento, un’urgenza, un bisogno di rivolta e di dignità: “A me me piace ‘o blues e tutt’e journe aggia cantà / pecché so stato zitto e mo è 'o mumento 'e me sfugà / sono volgare e so che nella vita suonerò / pe chi tene 'e complessi e nun 'e vò”.

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sociale

RI-DAMMI UN FEEDBACK

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sociale di Antonella Viola

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’articolo dello scorso numero si chiudeva con un “continua”: alcune domande sono rimaste senza risposta e in questo nuovo articolo proveremo a darle. Piccolo riassunto delle puntate precedenti per gli assenti (ingiustificati). Ho notato -a partire dalla mia esperienza personale- la crescita esponenziale di un fenomeno importante che sta cambiando i consumi: la ricerca ossessiva di recensioni. Ogni acquisto o esperienza di acquisto è preceduta dalla verifica in rete di feedback. In questo modo si cerca di evitare di incappare in “sole”: informarci preventivamente sulla bontà di un prodotto è un saggio atteggiamento, proprio di un consumatore attento e consapevole. Ma quando poi gli opinion leaders della rete diventano la nostra ossessione e non compriamo più uno spillo senza prima vedere quante “stelline” ha il suddetto on line, cosa accade? Semplicemente rischiamo di cadere in una nuova trappola anzi in più di una: comprare più del necessario. •Ho già 10 rossetti ma se la guru del make-up mi dice che c’è il nuovo rossetto della casa cosmetica Z e che è un color rossopomodoromaturo fantastico, imperdibile… come mi regolo? •Comprare cose nuove, probabilmente inutili. E’ sempre bello sperimentare… ma come mai fino a qualche anno fa vivevano tutti sani e forti senza assumere bacche che vengono dalla Papuasia, alghe dei mari del sud e cortecce da rosicchiare nei tempi morti? Le recensioni ci consentono di ampliare le conoscenze ma generano nuove mode, anche alimentari. •Comprare cose fondamentalmente non scelte da noi. Ebbene sì, affidiamo agli altri –solitamente a persone che non conosciamo– la scelta di cosa è meglio per noi in termini di prodotto ma anche di esperienze.

Insomma ci informiamo per evitare “la padella”- gli inganni delle pubblicità accattivanti, dei testimonial che ci ammaliano in tv e sulle riviste patinate- e finiamo “nella brace” ossia ci facciamo soggiogare da un’altra forma pubblicitaria, quella di blogger e guru. Questa forma è ambigua. Gli scenari possibili sono tanti e molto dipende da noi. Magari il blogger è onesto e ci dà un buon consiglio; ma sta a noi in non cadere nella dipendenza e correre a comprare ogni cosa che lui “sponsorizza”. Magari non è onesto e viene stipendiato da un’azienda che lo paga per parlare bene dei propri prodotti. E qui è ‘na gran bella fregatura… Molti blogger dichiarano apertamente quando parlano di prodotti che una tale azienda ha inviato loro omaggio per un test. E questa è una fattispecie interessante che conferma quando sia oggi importantissimo per le aziende “monitorare” questi fenomeni sul web e usarli per fare promozione. Ma chi riceve un prodotto ed è chiamato a testarlo…parlerà mai male di chi gli dà da vivere (pensiamo ai banner pubblicitari presenti sui siti dei blogger in questione, agli spot prima del video su Youtube)? Questo è l’amaro quesito. Alcuni youtubers famosi riescono a dare opinioni negative anche quando ricevono prodotti omaggio ed è un bene, ma si tratta di persone già abbastanza affermate come opinion leader. Quindi: attenzione!!!

Un altro quesito lanciato in sospeso è: “Questa mania è una evoluzione del leggendario p a s s a p a r o l a ” ? L a risposta è sì. Il passaparola è da sempre il più efficace nonché economico spot. E anche oggi si conferma il suo primato incontrastato grazie alle diverse modalità con cui si alimenta: canali social (Instagram, Google+, Facebook, Twitter, Youtube) siti e blog (sia di carattere generale – ad esempio “Ciao” sia specializzati per le varie categorie: moda, cibo e cucina, viaggi, cinema, salute e benessere, esperienze, ristoranti, bellezza, ecc.). Ancora mi (e vi) chiedevo “Quanto ci condizionano le recensioni positive e negative?” e “Quanto è lontano il tempo in cui si andava a cena fuori senza prima vedere “le stelle” su TripAdvisor?“. Le recensioni positive ci inducono alla prova e all’acquisto: testiamo il ristorante “stellato” (no Michelin!) e non ci resta che validare o respingere il giudizio letto in precedenza. Ma di fronte ad una recensione negativa cosa facciamo? C i fidiamo e lasciamo perdere dirottandoci su altro o concediamo una chance? Quanto ci fidiamo del giudizio degli altri? Ci fidiamo più di quello degli altri o del nostro? Esiste un “giudizio insindacabile”? Tr o p p e d o m a n d e s o r g o n o spontanee, come diceva molto tempo fa un giornalista in tv. Ci penso, semmai la risposta al prossimo numero, ancora.


LE PILLOLE DELLA FELICITÀ sociale

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sociale di Emiliano Abhinav Boccia Orizzonte

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ado velocemente al dunque. Il consumo di psicofarmaci nell'anno 2014, confermando un trend che, di anno in anno, attira sempre più consumatori, è salito (in Italia) quasi a 11 milioni di persone che, in un modo o nell'altro, hanno “beneficiato” di ansiolitici, antidepressivi e neurolettici. Fin qui niente di male, assumere un rimedio che, in un particolare momento della nostra vita, possa aiutarci a fare i conti con insonnia, paure inspiegabili o stati d'animo non proprio felici, potrebbe anche essere un fatto positivo. Quel che invece, certamente, non è positivo è il “come” ci si avvicina a questi farmaci. Desidero approfondire questo “come” dando un'occhiata più da vicino a questo malessere psicologico e da un punto di vista che tenga in debito conto della complessità della mente e dell'anima. Per questo mi occuperò, nelle prossime righe, di quella “malattia” sempre più diffusa, che ai più è conosciuta come depressione e per i medici sindrome depressiva. Capita, durante la nostra esistenza, che l'equilibrio che ci permette di condurre una vita normale, e per normale intendo che ci permetta di essere fisicamente sani, di avere delle relazioni sociali sane, di essere capaci di vivere il presente progettando un futuro, capita che questo equilibrio si rompa, si incrini. Non si è più in grado di gestire relazioni sociali efficaci, perdiamo la progettualità del futuro e cadiamo in depressione. Cadere in depressione (almeno così si usa dire) è il riflesso di una perdita, quella perdita di qualcosa che ha rotto l'equilibrio della nostra vita. Si può trattare della perdita di una persona cara, della perdita di una posizione sociale, di un affetto, una perdita di un bene materiale, si potrebbe trattare anche della perdita di un sentimento interiore come la sicurezza, la dignità, l'autostima, più raramente può capitare per la perdita di valori politici, sociali, ideologici, su cui avevamo puntato speranze e possibilità. A volte non siamo neanche consapevoli cosa

abbia potuto ferirci talmente da farci ammalare di depressione. Certo, come se a saperlo, la vita non sarebbe più la stessa e allora è meglio abbandonarsi ad un movimento dell'inconscio, che porta all'oblio e a nascondere i fatti reali e dolorosi. Per questo la depressione, il più delle volte, è la forma di difesa più semplice che la nostra mente, alleata con la nostra anima, possa mettere in atto e permetterci di continuare a sopravvivere (non vivere) rimuovendo il dante causa del dolore. A ben vedere, da questo punto di vista, considerare la depressione una malattia, come l'ipertensione o l'epatite virale o il morbillo (solo per fare degli esempi) e cercare di guarire la persona facendogli assumere pasticche e gocce è il riflesso di una logica che non tiene affatto in conto la naturale immateriale della psiche umana, né delle dinamiche del dolore e tanto meno dei sentimenti che un essere umano è in grado di provare, considerando la mente un semplice (semplice!?) organo come un altro. La depressione, come tutte le malattie, è un momento di trasformazione dell'animo, un momento doloroso ma necessario affinché il processo di crescita interiore, quello che Carl Rogers (psicoterapeuta padre del counseling e della terapia centrata sul cliente) definisce tendenza attualizzante, possa riprendere con più vigore di prima. E sì perché la depressione è solo un inverno dell'anima, un ritirarsi momentaneamente dallo stridore della vita, dai rumori inutili, dalle

faccende stressanti, da quella vita insulsa e banale che sembra sia pregna solo di insoddisfazioni, di bisogni deviati, di desideri repressi, un 'inverno a cui seguirà una primavera come mai ce la si aspettava, fresca e profumata. Ma per cogliere i fiori della stagione della rinascita ci vuole coraggio. E' necessario, per il proprio bene, attraversare quel tunnel, quel ponte che ci sembra pericolante e affidarsi ad una compagnia diversa da un flaconcino di gocce o uno scatola di colorate pasticche. La terapia della parola è sicuramente la più efficace per scoprire quale parte di noi è stata bloccata, offesa, oltraggiata, dimenticata, affogata. Se si pensa agli aspetti sociali dell'assunzione di psicofarmaci ci si rende conto della gravità di tale comportamento e della pericolosità latente che si cela tra le controindicazioni (la dipendenza è tra tutte la meno grave) e da qui a considerare che 1 mio concittadino su 5 assume psicofarmaci e che questo potrebbe essere l'autista del bus che mi sta portando al lavoro o sta portando a scuola i miei figli, o il giudice che deve pronunciare una sentenza, o un medico che sta recandosi in sala operatoria, una guardia notturna armata che sta vigilando sulla sicurezza del mio ufficio, o il comandante di una nave da crociera, allora mi viene la pelle d'oca. La depressione arriva quando si perde il coraggio di vivere è questo non possiamo ritrovarlo nel prozac ma solo guardandoci dentro. Oppure allo specchio.


GOG, MAGOG E I PUGNI NELLO STOMACO sociale OVVERO QUANDO L'OCCIDENTE FA I CONTI CON L'ORIENTE

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opo la strage n e l l a redazione del settimanale “Charlie Hebdo” avvenuta il 7 gennaio, l’Occidente ritrova un nemico che credeva sopito se non del tutto sconfitto. Questo nemico è l’Oriente. Ne avevamo scoperto l’esistenza all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle e da allora abbiamo iniziato a nominarlo con sospetto (nella maggior parte dei casi senza neanche sapere che per “Oriente” si intendono anche porzioni geografiche che con l’Islam e i musulmani non hanno niente a che vedere). Con il caso della rivista satirica francese si riaccendono ora paure e odi; molte e variegate sono le reazioni: si va da quelle più destrorse che identificano il terrorismo con tutto l’Islam, fino a quelle più radical chic e noiosamente buoniste (nonché superficiali) che si affrettano a porre la religione - qualsiasi essa sia - come strumento di fratellanza, in un universale ed ecumenico abbraccio d’amore, e chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Menzione d’onore a Oriana Fallaci, rediviva e ripescata per l’occasione, che si pone magicamente nel mezzo di questi due fuochi, e ora la sua visione abbastanza oscena dell’Islam (all’epoca condannata da più parti) diventa una grande profezia. Il punto è che tutte queste reazioni sono accomunate da un dettaglio; tutte – chi più chi meno – tirano in ballo la religione, quando poi la realtà dei fatti dovrebbe essere abbastanza evidente ed è una sola: la religione non c’entra niente. Non c’entra né nella giustificazione che i terroristi danno ai loro attentati e non c’entra nelle reazioni agli stessi; dietro la violenza di azioni del genere c’è e ci sarà sempre e solo la mano dell’uomo.

A tal proposito vengono in mente alcuni passi delle Bibbia (Genesi di Ezechiele e Apocalisse di Giovanni) che parlano delle “genti di Gog e Magog”, identificate nel libro sacro come uomini o nazioni caratterizzate da estrema brutalità che guideranno la venuta dell’Anticristo. Storicamente, queste nazioni sono identificate in vario modo, ma tutte provenienti dall’Est: come vedete, l’Oriente ha fatto paura da sempre all’Occidente, che si è basato sul paradigma “non ti conosco, sei diverso da me, dunque sei il male”. Tuttavia, la cosa curiosa – e illuminante – è che questo paradigma non è valido solo per la Bibbia perché se si va a indagare la religione islamica (e qui – sorpresa – scopriamo che Islam e cristianesimo hanno forti punti di contatto tra loro, a partire dallo stesso Gesù Cristo, figura venerata da entrambe le religioni anche se a livelli diversi) ritroviamo queste fantomatiche popolazioni di Gog e Magog, menzionate nel Corano stesso come genti feroci dalle quali stare in guardia. E ugualmente, come nella tradizione biblica, Gog e Magog giungeranno alla fine dei tempi portando morte e distruzione. Nella lettura coranica l’identificazione dei popoli viene letta variamente come Mongoli, Russi, Cinesi o comunque etnie che si trovavano ancora più a oriente rispetto ai musulmani. Come a dire che il male trova sempre uno

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sociale di Danilo D’Acunto

spazio più a Est nel quale risiedere (è il paradigma del Nord Italia che a sua volta diventa il Sud dell’Europa). Tutto ciò sta a dimostrare che non in una religione, ma in tutte le religioni c’è sempre un nemico da combattere. Ma si badi bene: non perché sia la religione a chiedere di farlo, ma perché sono gli uomini a volerlo. Sono loro – di qualsiasi popolazione siano – a voler combattere l’altro, il diverso, l’estraneo usando la religione come strumento di propaganda, come giustificazione. La verità in questi fatti è – come si diceva – nell’uomo. Questi attentati sono causati da parametri del tutto ed esclusivamente umani. Se determinati Paesi hanno determinati interessi nei territori di altri determinati Paesi, è normale che avremo un’azione e una reazione, dove quest’ultima è generalmente di pura violenza. E la violenza non è un qualcosa che ha una bandiera, un’ideologia, una nazione né tantomeno un dio dietro; la violenza è un affare umano che avrà come risposta solo ulteriore violenza da parte dell’Occidente (il quale probabilmente la giustificherà tirando in ballo democrazia e civiltà invece che profeti, ma si tratterà pur sempre di una guerra a suo modo santa). Le stragi del terrorismo e la reazione a queste non sono schiaffi morali, ma pugni nello stomaco. E’ come un passante per strada che cammina e all’improvviso riceve un colpo da un altro passante; il malcapitato reagisce al gesto colpendo a sua volta l’altro e scatenando uno scontro. Ecco, gli attentati e le loro reazioni non sono né più né meno che questo: risse da strada. E come in tutte le risse da strada, dio è altrove.


MORTA PERCHÉ DONNA PSICOLOGIA

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psicologia di Grazia Imparato

157 donne sono state uccise nel 2012, 179 nel 2013, dal 2014 a oggi gli omicidi “in nome dell’amore” sono in forte crescita, l’ultima due giorni fa. Il numero delle vittime di violenza supera ogni quattro anni quello delle vittime dell’olocausto, dati sicuramente agghiaccianti ma necessari per comprendere il fenomeno. L’uccisione di una donna, a prescindere dal motivo o dallo stato dell’autore, è definita femminicidio e non riguarda solo il delitto privato ma tutte le forme di discriminazione e violenza di genere in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà, non solo fisica ma anche psicologica e sociale. Tra tutti i flagelli mondiali questo tipo di violenza è il più equamente ripartito, lo si ritrova in tutti i paesi, in tutti i continenti e presso tutti i gruppi sociali, economici, religiosi e culturali. E’ quindi un fenomeno che riguarda tutti. Morta perché donna. La colpa è quella d’aver trasgredito al ruolo ideale imposto dalla tradizione (la donna obbediente, la brava madre, la donna sessualmente disponibile) e di aver deciso di scegliere cosa fare della propria vita, sottraendosi al potere e al controllo del proprio padre, uomo, compagno, amante, partner. Perché? Diverse sono le prospettive che cercano di delineare le probabili cause del fenomeno. La prima, la prospettiva sociale, associa il fenomeno alla tendenza maschile a non considerare le donne come individui indipendenti e con il diritto di autodeterminarsi, ma come cosa propria. Sembra che l’attuale mutamento dell’identità femminile, che va verso l’emancipazione e la libertà, sia vissuta dagli uomini come una minaccia alla propria vita e al proprio diritto al dominio, quindi in alcuni casi, l’unico modo per sentirsi autoritari, virili e capaci è alzare le mani, urlare, picchiare. Alla prospettiva sociale si associa quella psicologica con una conclusione ancora più allarmante.

L’analisi dei casi ha permesso di affermare che il 75% degli uomini colpevoli d’omicidio non presenta nessuna caratteristica psicofisica alterata, sono praticamente insospettabili, la restante parte invece oscilla tra vari disturbi di personalità, i principali: il disturbo borderline e dipendente. In questo caso fondamentale importanza ha il nucleo familiare all’interno del quale è cresciuto chi si macchia di tale reato. La violenza intra-familiare, nel periodo adolescenziale, può essere una possibile causa dello sviluppo della psicopatologia che può portare all’omicidio in nome dell’amore. Numerose statistiche hanno confermato che se un bambino assiste a violenza domestica è più facile che utilizzi poi violenza in condizioni di stress, perché è l’unica risposta appresa durante lo sviluppo, per cui in casi estremi il raptus ha la meglio sulle ruminazioni. La psicologia della donna vittima di violenza è altrettanto complessa. Pensieri quali: “E colpa mia”, “Ho vergogna”, innescano inconsapevolmente meccanismi di negazione, scissione e rimozione utili per riuscire a gestire la quotidianità, salvare la propria famiglia, evitare chiacchiericci. Gli episodi di violenza sono negati o si decodifica l’atto violento in punizioni per errori commessi, la donna si divide in donna

emotiva e donna razionale, da una parte il dolore dall’altra i doveri di moglie e madre che la spingono a cancellare dalla percezione consapevole le violenze, non si può parlare, nessuno deve sapere. Il silenzio però è la peggiore risposta. E’ importante che la donna impari a riconoscere le situazioni rischiose, così com’è fondamentale che impari ad essere consapevoli che al di là del proprio amore, ogni atto violento va denunciato a chi di competenza: carabinieri, centri antiviolenza, consultori, pronto soccorso o chiamando il 1522. Tutto ciò che disturba fisicamente e psicologicamente, anche il più piccolo gesto, deve essere preso in considerazione e interpretato come messaggio prezioso. Urla improvvise, schiaffi, pugni, domande di troppo, gelosia morbosa, ossessioni, privazioni, offese, accuse, pedinamenti… Non sono amore. Nessun legame familiare ci costringe all’autodistruzione e nessun amore maledetto vale la vita, sopportare la violenza non è la soluzione ma solo il preludio della fine.

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cultura

CittadinoNews|10

LUPERCALIA

CULTURA

UN “SAN VALENTINO” DI QUASI 3000 ANNI FA

di Vladimiro D’Acunto

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n rituale strano e molto particolare quello dei Lupercalia (o Luperci), ma soprattutto remoto, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Luogo di nascita: Roma antica (ma davvero antica). Si trattava di festività romane in onore di Luperco Fauno, un dio risalente all’origine stessa di Roma e quindi ai due fratelli Romolo e Remo. L’etimologia del nome di questo dio poco conosciuto nella sfera religiosa romana sembra sia fatta risalire al termine lupus di ovvio significato associato a Fauno che deriverebbe dal verbo latino fàveo e cioè “favorire”, “propiziare”. Antica divinità pastorale italica (identificata con il suo corrispettivo greco Pan) figlio di Pico Marzio e nipote di Saturno, Luperco Fauno aveva il dono della profezia e il suo oracolo era a Tivoli. Da Fauna ebbe dei figli chiamati appunto Fauni e dalla ninfa Marica ebbe Latino, mitico re d’Italia che introdusse il culto degli Dei e dell’agricoltura. Connessi al culto di Luperco, protettore delle greggi dai lupi, erano proprio i Lupercalia, rituali dal marcato carattere apotropaico e propiziatorio. Lo storico Plutarco nelle Vite parallele (Vita di Romolo) ci tramanda 2 racconti che spiegherebbero il rituale. Una storia (riportata a sua volta da un certo Buta) narra che Romolo e Remo, dopo aver sconfitto Amulio, corsero trionfanti al luogo in cui la lupa li allevò da piccoli; in tal senso i Lupercalia si configurano come una sorta di memorial di quell’evento e il rito con cui si toccava la fronte dei protagonisti della cerimonia (i Luperci appunto) con la lama intrisa di sangue sacrificale si riferiva al rischio di morte corso dai gemelli, messi in salvo dal latte della lupa. L’altra leggenda (che fa capo a Gaio Acilio) spiega che, prima della fondazione di Roma, il gregge di Romolo e Remo sparì e, dopo aver

supplicato Fauno, si slanciarono nudi alla ricerca degli animali per non essere ostacolati dalle tuniche nell’affannosa ricerca. Il poeta Ovidio racconta un’altra leggenda. Successivamente al famoso “ratto delle Sabine”, le donne rapite diventarono sterili, così uomini e donne pregarono in un boschetto

supplicando Giunone che rispose loro risuonando tra le chiome degli alberi dicendo: Italicas matres, inquit, sacer hircus inito! Cioè “Sacro capro, penetra le madri italiche!” (Fasti, II, 425-452). Dopo un primo e generale sbalordimento, un indovino etrusco

sciolse e interpretò l’oscuro responso, sacrificando un capro e ricavando fèbrua, (da cui deriverebbe il nome Febbraio) cioè “strisce” dalla sua pelle in modo da sferzare le donne rapite sul dorso per vincere la sterilità. Da tempi immemorabili, quindi, nei giorni che vanno da 13 al 15 febbraio sul Palatino, presso la grotta detta Lupercalis dal nome della lupa, i sacerdoti del dio, i Luperci, correvano per le vie indossando solo una specie di perizoma in pelle di capra e in una mano il coltello insanguinato del sacrificio, nell’altra le sferze con cui percuotevano le donne che incontravano al fine di favorirne la fecondità. Nel corso di queste festività molte donne colpite da sterilità facevano a gara per farsi battere dalle sferze dei Luperci proprio per contrastare quella che consideravano una terribile sciagura.

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STORIA

CittadinoNews|11

L’ARTE NELLA MEMORIA

U

na data cruciale. Forse meglio definirla famigerata. Una scrittura storica fatta con gli artigli, indelebile come la malvagità apportata, il sangue disseminato. Vergognosa, dolorosa, oltraggiosa. Atroce come i crimini architettati. Breve ma intensa. Da non Cancellare. Per non Dimenticare. Senza mai Obliare. Un gioco tra minuscole e maiuscole. Tra minuscoli carnefici capaci di queste azioni e maiuscole vittime pronte a patire solo per essere ebree dalla nascita. Anche se lontana nel tempo, la Shoah è stata una causa che ho sentito sempre mia, vicina per grado di sensibilità e forte umanità. Il mio studio è durato anni e, probabilmente, non è ancora iniziato. Infinita risulta la mole di libri da sfogliare, interviste da ascoltare, frasi di memorie e diari da evidenziare, film da criticare, pièces teatrali da analizzare. Ho cercato, però, di sintetizzare i messaggi, i concetti, le emozioni – anche quelle negative che turbano la nostra coscienza prendono questo nome – in poche, essenziali parole. E le ho offerte a loro, studenti francesi di giovane età, senza sfondare a calci le barriere storiche, senza spaventarli con discorsi pregni di terrore. Hanno recitato una piccola piéce teatrale che ho scritto per loro, dove tutti i colori scendono in scena cercando di accaparrarsi un posto da protagonista, mostrando odio e crudeltà nei confronti dei fratelli. Ma capiranno, ben presto, che un giovane ragazzo ha bisogno di tutti loro per colorare la bandiera della memoria per i crimini di guerra nei campi di concentramento. Per il resto, mi sono servito ancora dell’Arte e delle Sue immagini. Sì, quelle crude “immortalizzazioni” che parlano da sole, che si esprimono con un dizionario plurilingue e che sono capaci di lasciare un’impronta duratura nel tempo. Un segno in grassetto nella memoria. La pittura, la letteratura,

storia di Michele Carucci

il teatro, il cinema: ognuna a suo modo, ne parla ancora. È di queste parvenze che dobbiamo servirci. E così il drammaturgo spagnolo Juan Mayorga rivede l’evento più tragico del ‘900 da una prospettiva nuova e crudelmente paradossale: in Himmelweg rilegge il passato alla luce del presente. Lo spettatore diventa il coprotagonista dell’opera e alla sua immaginazione, alla sua scrupolosità affida il compito di riempire i vuoti di una scena minimale, scarna, dove l’arredo è solo il dolore di quei tempi. E così John Boyne scrisse il suo romanzo, tradotto in 32 paesi e pronto a ispirare l’omonimo film di Mark Herman Il bambino con il pigiama a righe. La storia parla del dramma attraverso gli occhi di Bruno, nove anni e un destino in agguato, quasi come punizione per un padre, crudele generale nazista, al servizio del Führer. Questa volta, il sorriso del

Monica Tartarotti - Shoah

Bambini nella camera a gas, Shimon Balicki

nostro amato Roberto Benigni che presentava al figlioletto la tragedia come un gioco a premi in una vita che tanto bella non era, non basterà a celare l’orrore che sta accadendo. E così il premio Nobel per la letteratura, di famiglia ebraica ma di origine i t a l i a n a , Pa t r i c k M o d i a n o , personificando la Memoria, le attribuisce valori di preziosità e al contempo di fragilità. Sarà la nostra perseveranza a renderla più forte dell’oblio: quel velo grigio e spietato sulle vite dei sommersi, che gli stessi nazisti cercarono di offuscare, spogliando gli ebrei delle loro identità, numerandoli come pezzi e ammassandoli come materiale organico. Insomma in questo mondo dove pensiamo troppo e sentiamo poco, la memoria livida e mai patetica della Shoah, possa farci comprendere razionalmente dove l’odio e la crudeltà conducono l’uomo, senza mai delegare un’unica giornata – il 27 gennaio – al ricordo dei soprusi perpetrati. Era quella, “gente senza anima, uomini macchina, con macchine al posto del cuore e del cervello”. Anche Charlie Chaplin, che di mestiere faceva il comico, fu moralmente severo e rigoroso!

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I CONTRASTI A MECCA E L’EMIGRAZIONE A MEDINA storia BREVE STORIA DELLA NASCITA DELL’ISLAM (Parte 2)

CittadinoNews|12

storia di Fausto Mauro

che ruotava intorno all’adorazione di più divinità con tutti i sacrifici e i pellegrinaggi connessi. Le difficoltà non finirono qui per Maometto che nel 619 ca. vide morire sua moglie Khadigia e suo zio Abu Talib, l’unico che gli garantiva protezione. Al suo posto prese il comando del clan un altro zio, Abu Lahab, che voltò la faccia al Profeta costringendolo ad allontanarsi da Mecca per un breve periodo.

“Per la luce del mattino, / per la notte quando si addensa: / il tuo Signore non ti ha abbandonato e non ti disprezza / e per te l'altra vita sarà migliore della precedente. / Il tuo Signore ti darà [in abbondanza] e ne sarai soddisfatto. / Non ti ha trovato orfano e ti ha dato rifugio? / Non ti ha trovato smarrito e ti ha dato la guida? / Non ti ha trovato povero e ti ha arricchito? / Dunque non opprimere l'orfano, / non respingere il mendicante, / e proclama la grazia del tuo Signore” (Sura 93, dalla traduzione interpretativa in italiano a cura di Hamza Piccardo con revisione e controllo dottrinale dell’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia, per i prossimi versetti citati sarà usata la stessa versione del Corano).

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u così che Maometto venne rassicurato dall’Arcangelo Gabriele (fig.1), il quale da tempo non si manifestava a lui, come spiegato alla fine del precedente articolo (CittadinoNews n.6 anno 3, reperibile anche on-line su portalecittadino.it). Il flusso di rivelazioni riprese ma nell’animo del Profeta alla gioia subentrò ben presto la delusione per non essere capito dalla gente. Lui aveva cominciato, infatti, a proclamare in pubblico le parole di Allah incontrando molte difficoltà anche all’interno della sua stessa famiglia. A contrastarlo furono i più

ricchi mentre i deboli e i poveri vedevano nei suoi discorsi una rassicurante fune a cui aggrapparsi. Non fu così anche per Gesù? Al di là dei paragoni, che qui non affronterò anche perché quello dello studio comparato delle religioni è una selva oscura in cui perdersi è facile quanto accedervi e – ahimè! – già in tanti vi accedono in modo indiscriminato, le classi agiate si vedevano in pericolo per le parole pronunciate da Maometto e quindi contenute nel Libro, c o m e quelle che si leggono ai versetti 1-4 della Sura 104: “Guai ad ogni diffamatore maldicente, / che accumula ricchezze e le conta; / pensa che la sua ricchezza lo renderà immortale? / No, sarà certamente gettato nella Voragine (ovvero l’Inferno, ndr)”. Inoltre, a ciò va aggiunto che il Profeta cercò di fare proselitismo di una religione monoteista in una società ancora politeista. Ne deriva una ancor più decisa opposizione dei ricchi, i quali traevano i loro guadagni anche da una, per così dire, economia della religione basata su un mercato

Al suo ritorno, ospitato da un’altra famiglia, Maometto incontrò a Mecca una delegazione di musulmani da Yathrib che chiedeva il suo intervento in città per porre fine ai contrasti interni. Dopo altri incontri, il Profeta si convinse e partì insieme a una settantina di convertiti meccani, il 16 luglio del 622. Ebbe inizio così l’Emigrazione (ar. hi? ra), momento in cui i musulmani fanno cominciare la loro storia. Gli Emigrati raggiunsero Yathrib (fig.2), che noi oggi conosciamo con il nome di Medina dall’arabo Madînat an-Nabî cioè “Città del Profeta”, il 24 settembre dello stesso anno. Qui vennero accolti dai medinesi convertiti, chiamati “Ausiliari”, i quali daranno riparo e sostegno agli Emigrati, tanto da essere considerati da Maometto come dei fratelli perché uniti dalla stessa fede. Il Profeta, poi, sposò Aysha, figlia di Abu Bakr, suo migliore amico oltre che uno dei suoi primi seguaci. Le insidie per i credenti, però, non finirono una volta giunti a Medina. Si crearono nuovi contrasti con i meccani, sfociati anche in sanguinose battaglie come quelle di Badr e del monte Uhud. Ma di questo ne parleremo nel prossimo numero.

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THE WAR ON DRUGS musica

CittadinoNews|13

musica di Giulio D’Ambrosio

A

dam Granduciel, trasferitosi da Oakland a Philadelphia, conosce a una festa Kurt Vile, già attivo sulla scena musicale per la sua carriera solista. Gli affini gusti musicali riscontrati nella “chiacchierata alcolica”, incoraggiano i due a mettere su una band dal nome War on drugs nome ispirato dalle campagne proibizionistiche repubblicane. La formazione originale includerà anche Dave Hartley al basso, Kyle Lloyd alla batteria e Charlie Hall alla batteria e all'organo. Nel 2007 rilasciano il primo Ep autoprodotto e in free downloading Barrel Of Batteries. Un alt-folk che rimanda alla tradizione cantautorale americana di scuola Dylan/Springsteen, in sintesi con chitarre rock style Sonic Youth e armoniche distorte. Stesso suono e primo approccio a soluzioni synth per il loro primo album Wagonwheel Blues, rilasciato nel 2008 per la Secretly Canadian. L’album è diviso strategicamente in tre parti da due canzoni strumentali, come se volesse concedere alla musica l’illusine del riposo prima di ripartire. Il titolo introduce all'ascoltatore un lungo viaggio in autostrada; ma non sarà un viaggio intriso di retorica: certo, dagli scenari descritti nei testi, possiamo discernere a reminiscenze della grande depressione narrate nelle migrazioni di Furore o ai viaggi coast to coast della più vicina e stracitata beatgeneration, ma non bisogna attribuire ai War on drugs l'esser citazionisti o ripropositori. Uno spirito romantico,

razionale, ambientalista e a tratti anche politico, osserva, si interroga sulla bellezza di tramonti dipinti dall’uomo con fumi artificiali, muovendosi su strade urbane tossiche di inquinamento industriale. Il secondo album, Slave Ambiet (2011), vede la luce tormentato da continui cambi di formazioni e orfana del co-fondatore Kurt Vile, che si dedicherà a tempo pieno alla sua carriera solista. L'impronta compositiva di Vile, impressa dall’imperante esperienza guadagnata sulla scena musicale con la sua carriera solista, si affievolisce a una flebile fiammella e il reiterante work in progress incide sul sound delle dodici tracce. C'è l'impressione che il tema principale sia di ottenere sempre nuove città per iniziare da capo, ma il punto di partenza e la meta sono solo annotazioni puramente nominali. Granduciel conduce i testi in un introspettivo viaggio carico di

irrequietezza e disagio. La fuga del compositore abbatte le distanze, congiunge le ballate road music americane con un sound elettronico di stampo europeo e, Slave Ambiet sembrerebbe la prima stesura di un manifesto, ancora acerbo, di una nuova ondata new wave. Nel 2014, dopo innumerevoli cicli di registrazioni e un estenuante lavoro di stesura e riscrittura dei testi, i War On Drugs/Adam Granduciel rilasciano l'ambizioso Lost in Dreams. L’attuale, e a pieno titolo frontman, dissolve l'opaca ombra di Vile ancora presente nello stile del gruppo. L'audace Lost in Dreams travolge pubblico e critica. Non c’è niente di sedicente nel titolo, nessuna pretesa di vanagloria nella voce di Granduciel. La fuga cantata in Slave Ambient trova per meta perdersi nei sogni. I titoli onirici delle canzoni, il sovente ritmo motorik presente nell'intero album, gli intrecci compositivi di synth con pianoforti ambient e tremolanti chitarre, ricamano un'atmosfera sospesa nel tempo, errante in una distesa interminabile che va alla deriva nell'orizzonte. Lost in dreams è lo zenit compositivo dei War On Drugs/Adam Granduciel, in attesa che ci regali la sua venticinquesima ora.


cinema

CORSA AGLI OSCAR

CittadinoNews|14

cinema

COSA VEDREMO NELLA PROSSIMA EDIZIONE DEGLI ACADEMY AWARDS

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i siamo! Ogni febbraio la “stagione dei premi” si chiude con gli Academy Awards, meglio noti come Premi Oscar e quest’anno non sarà diverso. La rosa dei finalisti è, come di consueto, non molto copiosa: otto le pellicole candidate al premio più ambito, quello per il “miglior film”, per quanto almeno altri sette cercheranno di strappare qualche statuetta. Super favorito dei big, anche per il premio alla regia, è Boyhood, che racconta della crescita di due ragazzini. Richard Linklater ha aspettato dodici anni per poter concludere il film seguendo la reale crescita degli attori. L’intensità del film cresce con loro, il che lo rende davvero interessante da vedere, purtroppo solo in home video, perché dallo scorso novembre non è più nelle nostre sale. Stesso dicasi per The Grand Budapest Hotel l’ultima visione di Wes Anderson, sugli schermi italiani la scorsa primavera, che gareggia per ben nove riconoscimenti. Lo stesso numero di nomination (ma lontano dai record storici della gara) spetta poi a “Birdman”, nei nostri cinema dal 12 febbraio. La trama verte su un attore, che interpretava un famoso supereroe, alle prese con il tentativo di riafferrare i fili della sua vita con una commedia a Broadway. Le uniche speranze di vittoria de L’inaspettata virtù dell’ignoranza – questo il sottotitolo – sembrano, stando alle quotazioni, essere riposte in Michael Keaton per il suo ruolo da protagonista. Il che sarebbe un peccato per Eddie Redmayne, straordinario interprete di Stephen Hawking in La teoria del

di Chiara De Rosa

tutto (uscito lo scorso 15 gennaio), che si è già conquistato un Golden Globe e che data la giovane età avrebbe di certo altre occasioni per dimostrarsi all’altezza di un Oscar. Noi, comunque, lo abbiamo conosciuto a Giffoni nel 2013 e non possiamo che augurargli grande fortuna. Sebbene Selma (Ava DuVernay) sia assolutamente imprescindibile dal punto di vista storico, tanto per noi quanto per il pubblico di black people che oggi gode di diritti civili grazie anche a Martin Luther King, è Whiplash, di Damien Chazelle, tra i due film in Italia dal 12 febbraio a potersi attendere qualcosa di più dalle sue candidature. Evidentemente, il “patriottismo” – leggi “autocelebrazione” – americano

tipico degli Oscar si è tutto concentrato nelle mani di Clint Eastwood, che ha diretto Bradley Cooper in American Sniper (6 nomination in tutto). Per ultimo veniamo a The Imitation Game, incentrato sulla figura di Alan Turing: Benedict Cumberbatch, apprezzatissimo dal popolo di Internet, farà la stessa fine dell’altro beniamino del web Di Caprio, eterno

sconfitto? Lo scopriremo soltanto nella notte del 22 febbraio prossimo, al Dolby Theatre della “città degli angeli”, con Neil Patrick Harris (da noi noto per il personaggio di Barney Stinson nella serie tv How I Met Your Mother) a fare da mattatore. Quella del quarantunenne attore, doppiatore, illusionista e chi-più-neha… [in foto] è la sfida forse più difficile da affrontare, data la grandissima riuscita di Ellen DeGeneres nella scorsa edizione; Harris, tuttavia, ha dalla sua una lunga esperienza di conduzione di cerimonie di premiazione di ogni tipo (oltre ad aver partecipato come vincitore) e si può star certi che non deluderà (tranne gli omofobi, forse, ma loro dovrebbero essere già delusi da tempo, specie dagli Oscar). Dunque scienza, musica, lotta al crimine, conoscenza e riscoperta di sé stessi, parodia e quasi critica del cinema all’interno del cinema stesso: c’è un po’ di tutto in questa summa del 2014 del grande schermo americano (e non solo). Neppure manca il dramma della malattia, al centro della memorabile interpretazione di Julianne Moore in Still Alice, per tutti favorita vincitrice tra le protagoniste. Più incerto il risultato per quanto riguarda la non-protagonista, per cui concorre anche l’instancabile Meryl Streep. Niente di nuovo, dunque, nell’87esima edizione dei premi più famosi del mondo… o forse sì? Non ci resta che scoprirlo fra qualche giorno a Los Angeles.

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enogastronomia

CittadinoNews|15

WHISKY SOUR

enogastronomia di Ivan Cibele

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a prima fonte storicamente certa sulla esistenza di questo cocktail è un racconto pubblicato su un giornale del Wisconsin nel 1870, nel quale uno dei personaggi ordina un Whisky Sour. Parliamo quindi di un cocktail dalla storia antichissima, di cui si racconta sia stato presumibilmente inventato alla fine dell'Ottocento da un cameriere inglese di servizio sulle navi: Elliot Stubb sbarcò sulle coste del Perù, nel porto di Iquique, e decise di fermarsi lì per aprire un'attività, un bar per l'appunto. Il signor Stubb era molto affascinato dai sapori locali e amava sperimentare nuove miscelazioni. Un giorno decise di aggiungere il limon de Pica (un varietà di limone peruviana) al whisky, aggiungendo dello zucchero e ne risultò un cocktail dal sapore delizioso, tanto che divenne la specialità della casa. Avendo creato un ottimo punto di contatto tra lo stile anglosassone e i sapori sudamericani, ottenne un cocktail il cui richiamo è arrivato sino ai giorni nostri. Si parla appunto del Whisky Sour dove il Bourbon unendosi al succo di limone ad un cucchiaino di zucchero ed al sapiente utilizzo dell'albume d'uovo (segreto per ottenere una ricca schiuma sulla superficie del drink) viene a creare un vero cult tra i cocktail nonché un apprezzato afterdinner. Il nome dà un'idea della leggera acidità del cocktail ( sour vuol dire aspro), data dal limone, che però si sposa bene col il gusto alcolico del

whisky e lo rende più amabile e adatto tipo cambieranno l'aroma e il sapore a ogni palato. della bevanda. Il cocktail si prepara Molte varianti del Whisky Sour miscelando in uno shaker il whisky si ottengono sostituendo il whisky con con il succo di limone, lo sciroppo di un altro liquore. zucchero e l’albume d’uovo ( Naturalmente cambiando il facoltativo) e versandone il contenuto distillato di partenza si ottiene un in una coppetta cocktail dalle caratteristiche diverse. ghiacciata o in Attualmente più gradito è il Vodka un bicchiere Sour, che ha un gusto decisamente old fashioned più pulito e quindi meno invadente, preventivamen solitamente si serve in coppetta te riempito con eventualmente decorando con una q u a l c h e ciliegina al maraschino. cubetto di Negli ultimissimi anni si è ghiaccio. Si diffusa la ricetta del Midori Sour che ha può decorare come base il Midori, un liquore con una fettina giapponese al sapore di melone. Il d’arancia sul Midori, essendo meno alcolico bordo del rispetto ai distillati di cui abbiamo midori sour bicchiere e una trattato finora ed anche decisamente ciliegina al più dolce, rende il Midori Sour più maraschino. Da molti anni si trova un leggero e morbido, quindi più p r e p a r a t o consono ai gusti chiamato sour mix attuali. Di prassi si che contiene serve in un premiscelati bicchiere old limone, zucchero e f a s h i o n e d albume d’uovo e guarnendo con una viene utilizzato per fetta di limone e una preparare questo ciliegina. Va genere di drink. menzionato anche Questo l’Amaretto Sour, cocktail può essere che avendo come realizzato anche in base l’Amaretto di versione long Saronno, un liquore drink: basta alla mandorla utilizzare un piuttosto dolciastro, vodka sour bicchiere high ball non prevede nella e, dopo aver sua ricetta l’utilizzo completato la preparazione, colmare dello zucchero. con la soda. A questo punto si può Inoltre bisogna ricordare guarnire il bicchiere. anche il Daiquiri, che pur avendo una Anche il Whisky Sour, come storia diversa può essere definito un molti altri, può essere preparato con Rum sour. diversi tipi di whisky; a seconda del

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