maggio/giugno 2015 - anno 4 n. 3 - distribuzione gratuita
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La "Giovinezza" di Sorrentino" “Il regista italiano del momento non è una grande star: è un comune quarantacinquenne, nato a Napoli, orfano da quando aveva 17 anni, impacciato con l'inglese, figlio come noi del grande cinema italiano. Conosciamo meglio la sua carriera nell'articolo a pag. 9” Chiara De Rosa
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A
2015
PARTE PRIMA*
EDIZIONE
con il patrocinio
MOSTRA
Comune di Montecorvino Rovella
COSTUMISTICA PITTORICA FOTOGRAFICA
PIAZZA BELVEDERE
27/28 GIUGNO
MONTECORVINO ROVELLA (SA)
20.30
Academydance direzione artistica:
A.I.C.S.
ORE
Michele M. Melillo
sponsor ufficiale
info: 333 2225818
INGRESSO LIBERO
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L’editoriale di Danilo D’Acunto
sommario sociale
4 > Informazionie, acquisti e libertà spiritualità
Chiacchieratissimo Paolo Sorrentino. “There is only one thing in life worse than being talked about, and that is not being talked about” direbbe Wilde, e cioè (tradotto liberamente) “c’è solo una cosa nella vita peggio dell’essere oggetto di chiacchiera, ed è il non essere oggetto di chiacchiera”. Due anni fa, vincendo l’Oscar con “La grande bellezza” spaccava le opinioni di pubblico e critica, e tramutava (non per sua scelta) profani in esperti del settore. Quest’anno invece esce con “Youth” che ha destato interesse a Cannes ma non ha rimediato premi e più di qualcuno si è chiesto se alla fine sia stato meglio così, perché il non essere sotto i riflettori dei trofei conduce un film al destino che normalmente dovrebbe avere, e cioè consumarsi nel buio di una sala e non sulle pagine bianche dei social. In un curioso parallelo, in questo numero del CittadinoNews c’è un altro argomento che è nato nel chiacchiericcio (ai limiti del pettegolezzo) e poi al momento meno opportuno si è spento. L’argomento è il virus Ebola, che qualche mese fa ci ha fatto tremare quando i media ce lo agitavano davanti come uno spauracchio, e il momento inopportuno in cui non si è saputo più niente è stato quando il focolaio è stato domato e posto sotto controllo da medici di Emergency con tanto di fegato e spina dorsale. Anzi, no, un momento in cui è sembrato tornare agli onori della cronaca parrucchiera c’è stato: quando il sistema sanitario italiano ha speso le dovute cifre per curare uno dei medici senza stipendio che s’era beccato il virus. Italiani, popolo di critici. Tutti gratuiti.
5 > Cammino di crescita. What is this? CULTURA
6 > L’amore che vinse l’inferno, sovrana l’arte 7 > Pompei capitale europea 8 > Intervista a Roberto Recchioni 9 > Paolo Sorrentino. Da “L’uomo in più” a “La giovinezza” e oltre storia
10 > Dall’arrivo a Medina alla morte di Maometto. (Parte III) 11> Cos’è l’Estremo Oriente? (Parte II) EU GATE
12 > Erasmus Plus musica
13 > La notte anche di giorno. La coscienza di Zeno (Parte II) 14 > Mumford & Sons salute
15 > Più forti dell’Ebola enogastronomia
16 > Blu Margarita
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foto in copertina www.lascansione.net
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"Il mondo non ci è stato lasciato in eredità dai nostri padri, ma ci è stato dato in prestito dai nostri figli"
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Cittadino News - anno 4 n. 3 - distribuzione gratuita - Supplemento a: «OZZZIUM - Pillole di buon umore» Reg. Trib. di Salerno - Registro Stampa Periodica al n° 1121/2003 - Editore: SILVER STAR s.a.s. Redazione, Grafica e Stampa: IMAGE SERVICE di Cicatelli A. Direttore Responsabile: De Rosa Giancarlo Vice Direttore: Vladimiro D’Acunto Art Director: Danilo D’Acunto, Tony Cicatelli Redazione: Emiliano Abhinav Boccia Orizzonte, Michele Carucci, Alfonso Cesarano, Ivan Cibele, Giulio D’Ambrosio, Chiara De Rosa, Rosa Fenza, Lazzaro Immediata, Grazia Imparato, Fausto Mauro, Antonella Viola. Indirizzo: C.so Vittorio Emanuele, 384 - Montecorvino Rovella (SA) tel 338 9092107 - cittadinonews@gmail.com
Le immagini raffiguranti i loghi e i marchi delle aziende appartengono ai rispettivi proprietari. Parte delle foto presenti sono state prese da internet, quindi valutate di pubblico dominio. La collaborazione al periodico “CittadinoNews” è a titolo completamente gratuito. L’Editore è proprietario di tutti gli articoli ricevuti anche se non pubblicati.
INFORMAZIONE, ACQUISTI E LIBERTÀ sociale
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on questo articolo si chiude la “trilogia” cominciata qualche mese fa in tema di acquisti e marketing in versione web 2.0. Come al solito, parto da un veloce riassunto delle puntate precedenti. Ho parlato del trend che accomuna un po’ tutti: la ricerca ossessiva di recensioni pre (e post) acquisti; ho cercato di spiegare chi sono e cosa fanno gli opinion leader, i guru del web e quanto siamo condizionati dai loro feedback. Cerchiamo di “scansare” i messaggi diretti e subliminali che ci vengono dalla pubblicità “tradizionale” e tentiamo di informarci liberamente su cosa è meglio (o peggio) per noi. In quest’ultima “puntata” tenterò di spiegare cosa vuol dire “libertà” di informazione in fatto di acquisti e conoscenza. Oggi spero siano nettamente diminuite le donne che credono di “valere” solo perché comprano un chimico shampoo pubblicizzato in tv. Sappiamo bene che quelle chiome fluenti che ci dicono “io valgo” sono il risultato di un bravo hair stylist che si chiama Photoshop. Fino a pochi anni fa nessuno aveva mai fatto caso, ad esempio, agli INCI (ovvero la lista degli ingredienti ) dei prodotti per l’ igiene personale, la bellezza o la cura della casa. Oggi invece siamo più consapevoli del danno provocato da siliconi e petrolati. Idem per il cibo. Il vegano o il bio hanno origine da quella che è una maggiore conoscenza da parte del consumatore delle filiere produttive e della potenziale dannosità di alcuni componenti (parabeni ad esempio) e alimenti. Ripenso agli anni ’80, quelli del boom del consumismo, in cui l’unico fattore che guidava le scelte era “la marca”. Le merendine erano solo “Mulino
Bianco” ma a nessuno veniva in mente di controllare se nel “Tegolino” ci fosse l’olio di palma, un olio vegetale che negli ultimi tempi è oggetto di un boicottaggio feroce poiché (si dice) cancerogeno (l’olio di palma è, per capirci, il secondo ingrediente nella lista della Nutella, ossia viene – in sequenza – dopo lo zucchero e prima di nocciole e cacao). Oggi il consumatore è invece in grado di leggere una etichetta e di andare oltre un marchio. La fortuna dei discount non è solo conseguenza della “crisi economica” ma trae origine dalla acquista consapevolezza che un prodotto può essere affidabile anche se non ne fanno lo spot in tv. Il consumatore sa cosa siano le private labels ossia i prodotti che i grandi distributori si fanno realizzare a proprio marchio (ad es. i prodotti “primo prezzo”come quelli a marchio Conad, le marche “esclusive” di una catena, le marche insegne, ecc.). Il web è quindi, se ben utilizzato, fonte di preziose informazioni in quanto aiuta il consumatore a guardare in modo differente un prodotto, in ottica anche di maggior risparmio. Il web aiuta a condividere le informazioni e contribuisce a rafforzare le nostre conoscenze; quella terminologia che fino a pochi anni fa era prerogativa esclusiva degli addetti ai lavori oggi è di dominio pubblico nella sua versione “semplificata”. Non c’è bisogno di essere chimici per capire cosa siano gli ormoni e i petrolati o per saper leggere una etichetta. Questo è lo strabiliante positivo potere della libera circolazione delle informazioni.
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sociale di Antonella Viola
Anche in questo, però, caso c’è un rovescio della medaglia. L’utente deve stare attento alla qualità – in termini di affidabilità scientifica - delle fonti che consulta altrimenti c’è il rischio che si faccia disinformazione e via libera, quindi, a leggende metropolitane virali. E’ una catena di Sant’Antonio: la cattiva informazione genera allarmismi e dà origine a fenomeni estremi, complottasti e tendenze falsamente salutiste. Eliminiamo dalla nostra dieta un alimento se ne siamo allergici e non perché un’invasata su Youtube ci ha detto che mangiare tofu fa vivere più a lungo. Come fare quindi? Come dicevano i latini: in medio stat virtus. Sicuramente attenzione, consapevolezza e buon senso sono gli unici ingredienti da non dover boicottare mai, quando si naviga in rete o si fa la spesa.
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CAMMINO DI CRESCITA. spiritualità What is this?
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iprendo con questo articolo la rubrica Spiritualità offrendo un nuovo punto di inizio. Il momento è fertile anche per via di una nuova rubrica che trovasi alla linea di partenza: medicina. Il mio desiderio di trascendere l'aspetto spirituale della nostra esistenza nei fatti di tutti i giorni è ciò che mi porta ad occuparmi di questo argomento. È evidente che una parte di noi non è riconoscibile nel corpo (la materia), i pensieri che abitano la nostra mente non sono, come pure la scienza asserisce, rintracciabili nell'encefalo. Una parte di noi è immateriale, senza forma e ne colore, non la si può sfiorare con le mani, non è percepibile ai sensi e tuttavia è sempre con noi. E' il nostro spirito, la psiche, la mente, l'anima, chiamatela come volete e fate pure differenze concettuali su queste ultime parole, le vostre idee non ne cambieranno la natura. Essa è sovrana, eminente eccelsa entità della nostra vita. Eppure a volte ci capita di vivere come se questa entità non ci appartenesse. Sono questi i momenti o stadi della vita, in cui pensiamo con il cervello, ragioniamo, usiamo la logica, ci sforziamo di conoscere, di apprendere cosa fare, come farlo, leggiamo, ci informiamo eppure, eppure, la nostra vita non ci soddisfa, il lavoro non ci dà soddisfazione, gli amici neanche. Niente riesce a darci quella serenità che cerchiamo. Queste fasi della vita sono il segnale che abbiamo dimenticato di avere un'anima, uno spirito e viviamo una vita in bianco e nero. Una frase di Carl Gustav Jung riassume in pieno il focus delle mie parole: Non dobbiamo pretendere di capire il mondo solo con l'intelligenza: lo conosciamo, nella stessa misura, attraverso il sentimento. Quindi il giudizio dell'intelligenza è, nel migliore dei casi, soltanto metà della verità. Jung parla di pretendere e di intelligenza ma a cosa si sta riferendo? Sta parlando dell'inclinazione umana a “cercare di capire il mondo” usando la
logica e la razionalità. In termini di psicologia umanistica-esistenziale potremmo dire che l'entità dell'ego (Io sono, Io faccio, Io voglio...io, io, io...) ha preso il sopravvento sull'entità del Sè. E il Sè (scritto con la maiuscola) è un’altra parolina per rivolgerci all'anima, alla psiche, ecc. Ma a cosa serve sto Sé? Perché è così importante? Rogers affermava: In ogni organismo, uomo compreso, c’è un flusso costante teso alla realizzazione costruttiva delle sue possibilità intrinseche, una tendenza naturale alla crescita. La parola importante di questa frase, nel presente contesto, è crescita. Ma cosa accade se questa tendenza naturale alla crescita viene inibita? Accade che non c’è più la realizzazione costruttiva e di conseguenza, la nostra vita è bloccata. Può sembrare un discorso filosofico ma non è forse vero che quando non riusciamo a realizzare i nostri desideri, quando non riusciamo a concretizzare le aspirazioni per le quali ci sentiamo portati, quando ci viene impedito di “realizzare” pienamente la nostra vita, iniziamo a vivere una vita grigia e sofferente? Ecco, questo è il segnale che è necessario “fare” qualcosa di diverso, qualcosa a cui non avevamo ancora “pensato”, qualcosa che ci era “sfuggito”. È il segnale che è giunto il momento di riattivare quel processo di crescita che ha subito una battuta d'arresto (come sottintende Rogers) e che possiamo iniziare a prendere in considerazione che il “capire” ci mostra solo metà della realtà (come dice Jung) e “capire” non ci basta più. Questo è il senso di avviarsi a compiere il cammino di crescita menzionato nel titolo. L'immagine inserita in questo articolo, oltre che ad accontentare l'ego di chi vuole capire,
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spiritualità di Emiliano Abhinav Boccia Orizzonte
suggerisce che le teorie di Jung, Rogers, così come quelle di altri pensatori, hanno avuto riscontri scientifici: anche nel DNA è scritto che l'essere umano è un organismo programmato per crescere, per evolversi. Perciò quando non cresciamo più iniziamo a stare male, perciò quando stiamo male e perché non cresciamo più. Bisogna essere onesti con se stessi, abbiamo bisogno di riconoscere quella parte adulta di noi che ci dice: sono stato bambino, sono andato a scuola, ho fatto le mie esperienze, ho imparato a ragionare con la mia testa, adesso sono adulto, sono cresciuto. Ecco qui la grande illusione: sono cresciuto, so bene
così, non ho bisogno più di imparare. In effetti, è proprio da adulti che inizia il cammino più importante: quello della consapevolezza. E di questo ne parleremo nel prossimo articolo.
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cultura
L’AMORE CHE VINSE L’INFERNO, SOVRANA L’ARTE
CittadinoNews|6
cultura di Michele Carucci
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mnia vincit amor. Tutto vince l’Amore. Un Amore immenso e carico di valori. Un Amore eterno, oltre Regni, oltre Inferni. Cari lettori, in attesa del caldo estivo vi condurrò in quello infernale per assaporare l’eternità di un sentimento, proprio quello che tentò e suggellò gli animi di Paolo e Francesca. Un sentimento che torna nell’Arte, elevandosi all’ennesima potenza, senza mai spolverarsi dal mito medievale. Quegli animi vaganti si librano negli scritti più moderni, si confondono tra le Poesie più ricercate. In un eterno errare non sfuggiranno a chi vorrà immortalarli nelle Pitture e nelle Sculture di tutti i tempi. Animi che si stringono forte a un sogno mai svanito, cullato dalle note più emozionanti dei libretti Musicali degli ultimi due secoli. Il Teatro raccoglie i loro sospiri e i loro lamenti. Poi ci si affida alle nostre letture che rammentano i loro tormenti. Amanti, ombre, ma sempre in luce nella memoria. Insomma, Paolo e Francesca non lasciano le loro tracce solo nelle pagine dantesche della Divina Commedia. Loro, che pur non liberandosi mai dai condizionamenti imposti dal padre letterario, seppero diffondersi e seguire i destini delle singole evoluzioni artistiche. Noti pittori come Füssli, Ingres, Koch e Gustave Doré, recuperano i miti dalla Letteratura conferendogli nuova linfa vitale nell’Arte Visiva. La passione, la morte, la dannazione e la pietà si condensavano in un’immagine. Pennelli e scalpelli che non esaltarono solamente i rossori, le lacrime e i lievi sfioramenti, bensì la tanta viva seduzione e gli accenni d’erotismo. Al mondo pittorico e a quello
letterario, ora alternandosi, ora intrecciandosi, si affianca quello della Scultura: chi se non Rodin poteva restar affascinato dalla lettura della Divina Commedia? L’artista addensò le sue passioni nei colpi di scena che completano la Porta d e l l ’ I n f e r n o : Pa o l o e Francesca sono vere figure gesticolanti, risucchiate nell’abisso, ombre divorate dalla passione e travolte nella bufera che non si placa mai. Il doloroso passo si afferma come leit motiv anche nelle Arti performative. Il primo a far calcare le scene dei teatri alle figure dantesche fu Silvio Pellico. La tragedia fu uno dei maggiori successi teatrali dell’Ottocento. Attrici come Carlotta Marchionni, Adelaide Ristori, Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse. A ciò si aggiunsero le oltre venti opere e i diversi libretti nella storia della Musica e del melodramma italiano. Deliziose penne, in Poesia, scrissero di loro: tra i tanti che leggono Dante e ne riconoscono la furia devastante della lettura, Borges: “… Paolo e Francesca non due amici che
dividono il sapore di una favola …”. Versi dal sapore infinito: la lettura, come i sogni, induce in tentazione coloro che sono consapevoli di essere uniti per l’eternità, di non ritenersi amanti. L e conseguenze del passo dantesco t o r n a n o costantemente ad abbagliare i nostri giorni. E tornano ogni volta che foto, disegni, versi cercano di raccontare la vita di due amanti, suggellando un sentimento eterno. Questi amanti, seppur colpevoli, fanno parte di noi, della nostra natura, della nostra società e … della nostra Arte. Sono gli eroi dell’Amore umano e terreno, liberatisi dal tormento divino imposto ai lussuriosi. Amanti in quanto dell'amore sensuale e sentimentale hanno fatto la loro unica religione, contro tutti e contro ogni legge. Loro che hanno trasformato l’Inferno in Paradiso.
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cultura
POMPEI CAPITALE EUROPEA
La mostra al Museo Archeologico di Napoli
F
inalmente al M u s e o Archeologico Nazionale di Napoli si allestisce una mostra degna del contenitore che la ospita: era ora infatti che uno dei musei archeologici più importanti al mondo (per mole e valore delle sue collezioni) ospitasse un evento ben organizzato e meritevole di essere visto, vale a dire “Pompei e l’Europa. 1748-1943”, iniziato il 26 maggio e che continuerà fino al 2 novembre. Il titolo descrive il ruolo che la città archeologica per eccellenza ha avuto nei confronti del mondo intellettuale e artistico in un determinato lasso di tempo segnato da due date molto significative: la prima testimonia l’inizio degli scavi da parte dei Borboni che hanno portato alla luce il sito archeologico più visitato in Italia dopo il Colosseo (dati Mibact 2015), la seconda il bombardamento che ha distrutto parte del suo patrimonio. 195 anni durante i quali la città campana ha regalato migliaia di reperti artistici e non solo: ha donato storia, architettura, letteratura, religione. Pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone, strada dopo strada, la città si è spalancata agli occhi di chissà quante persone, tappa obbligata per il Grand Tour (così si chiamava il viaggio che gli intellettuali e artisti europei facevano almeno una volta nella vita e che aveva come meta finale l’Italia, in particolare la Campania, in modo da poterne ammirare l’arte e impararne i segreti). La mostra mette in rilievo soprattutto questo, e cioè come l’arte classica si sia travasata nelle parole e nelle pitture di artisti moderni e contemporanei che hanno attinto da Pompei come se fosse una fonte di cultura in continuo scorrere e rinnovamento. La città vesuviana era sepolta ma non è mai morta, ha
continuato – una volta venuta alla luce – a muoversi e brulicare di vita, a emozionare gli animi e riempire gli occhi di passione. Ed ecco che Goethe ebbe a dire che mai nella Storia una sciagura così grande avrebbe dato tanta gioia all’umanità, mentre Leopardi guardava, fantasticando, le case romane emergere dall’oblio del passato. E se poeti e scrittori hanno fatto la loro parte, i pittori non sono stati da meno: la mostra gode infatti di un dialogo aperto con i quadri degli artisti che ispirandosi a P o m p e i (soprattutto dopo averla vista) hanno e t e r n a t o ulteriormente la sua fortuna culturale. La Sala della Meridiana (l’ampio salone che ospita la mostra) dunque oltre a riempirsi di reperti archeologi si abbellisce di ulteriori tele in aggiunta a quelle che normalmente già ospita, con risultati decisamente affascinanti, perché non capita tutti i giorni vedere un’opera di De Chirico circondata da antichi elmi e schinieri dei gladiatori, oppure le “Bagnanti” di Picasso fare da pendant ai letti (originali) sulle quali le professioniste del lupanare svolgevano il loro mestiere. E ancora George Braques, Paul Klee, Giacinto Gigante e altri ancora che trasformano in bellezza pittorica la bellezza degli scavi. Ma il discorso non si limita soltanto all’arte, perché tra i nomi illustri che sono stati ispirati da Pompei c’è anche quello di Le
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cultura di Danilo D’Acunto
Corbusier, l’architetto che forse più di tutti ha segnato lo zeitgeist (ovvero lo spirito) del Novecento. Vedere come l’eccezionale architettura classica riesca a nutrire quella contemporanea non fa altro che aggiungere valore al ruolo e l’importanza di un sito straordinario quale è Pompei, e la mostra mette bene in evidenza tutto ciò estendendo il paradigma ad altri campi dello scibile umano. L’unica vera pecca dell’evento è la relativa limitatezza, volendo intendere che la ricchezza di materiali che il Museo di Napoli possiede potrebbe ampliare ancora di più la superfice espositiva (non riesco a fare a meno di pensare – e soffrirne – alle centinaia e centinaia di statue e reperti che giacciono nel chiuso dei magazzini dato che il materiale esposto all’interno di tutto il museo corrisponde a circa un terzo di quanto realmente possiede). Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia. V i s i t a consigliatissima e quasi obbligatoria, quindi, soprattutto per noi campani che in maggior numero ci trasciniamo la colpa gravissima di non aver mai visto né Pompei né il Museo stesso, la qual cosa diventa ancora più imperdonabile se si pensa che nel 1787 – un’epoca in cui non esistevano aerei, treni, macchine o biciclette – dalla lontana Weimer (Germania), Goethe intraprese un viaggio di circa 1500 km per arrivare a vedere i resti più vivi e spettacolari che l’antichità ci abbia mai lasciato. E forse questo constatare che Pompei (e quindi l’arte, la cultura, il turismo) fu all’epoca faro ed epicentro da cui si è irradiata la fortuna dell’Italia dovrebbe farci pensare che forse ancora oggi può e deve continuare a essere una formula politica, economica, sociale e culturale dalla quale non possiamo e non dobbiamo mai prescindere.
INTERVISTA A ROBERTO RECCHIONI cultura
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. D. “Dylan Dog” ha subito un cambiamento, un’evoluzione: in qualche modo è andato avanti adeguandosi ai tempi, adottando la strategia di case editrici come la Marvel, che tende ad aggiornare i supereroi proprio per non distaccare troppo la realtà del fumetto da quella dell’attualità. Questo processo ti ha fatto temere di snaturare il personaggio oppure lo hai vissuto come un fenomeno del tutto normale? R. R. No, io non credo che abbiamo ripreso gli stilemi Marvel. La Marvel azzera i personaggi, li fa ricominciare perché di solito il personaggio ha un calo di vendite. Dylan Dog è sempre stato un personaggio che sin dalla sua origine è stato nel mondo presente: andava al cinema e vedeva i film che c’erano in quel momento preciso. Succedeva nell’86 e poi è andato avanti fino al 2000; poi a poco a poco si è un po’ adagiato in un “non mondo” e quello che abbiamo fatto è stato riportarlo all’idea originale, c i o è u n personaggio che vive nell’epoca presente ma è un’operazione radicalmente diversa da quella Marvel, non vuole essere in nessuna misura uno stravolgimento, anzi, è un ritorno alla formula originale. D. D. Buona parte del successo di Dylan Dog è stato anche dovuto al fatto che gli anni ’80 – il periodo in cui è nata la testata – sono stati un po’ gli anni in cui l’orrore e la paura hanno avuto tanta linfa e tanto seguito. Oggi i registri narrativi della paura sono inevitabilmente diversi e forse proprio i fumetti sono il media in
cui attecchiscono di meno, soppiantati da altri media più immediati e “reali” come il film o il videogioco. Secondo te oggi come oggi il fumetto è ancora capace di trasmettere il senso della paura?
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cultura di Danilo D’Acunto
un serial televisivo n.d.a.) in parte ambientata qui a Napoli: la città è stata scelta per un m o t i v o particolare o semplicemente per il fascino che può avere in sé? R. R. Io amo molto Napoli. Ho esordito con le p a g i n e dell’Eura (casa editrice, n.d.a.) venti anni fa con una serie che si chiamava “Napoli ground zero” e che era una serie di fantascienza a cui “Ringo” (la seconda stagione di “Orfani”) si ispira. La storia doveva partire dal Sud verso il Nord, quindi Napoli mi è sembrata la città perfetta. E poi Napoli è già quasi una città del futuro, ma di quel futuro alla “blade runner”.
R. R. Ma io non penso che Dylan sia legato soltanto all’orrore e alla paura perché se così fosse sarebbe sparito insieme a tutte le testate analoghe che nacquero negli anni ’80 sull’onda della moda e dello splatter. Invece Dylan è rimasto, segno che il suo successo dipendeva da qualcos’altro, dipendeva dalla scrittura di Tiziano (Sclavi, creatore di Dylan Dog, n.d.a.), dipendeva dalla bontà del personaggio, dal fatto che all’interno del D. D Un po’ un limbo del fumetto futuro… c’erano mille registri R. R. Sì, esatto, un limbo del diversi. In futuro dove convivono mille q u a n t o tendenze, mille culture, mille all’orrore, è società che si mescolano con l’alto e declinabile il bassissimo. E’ già una sempre, rappresentazione di un certo tipo di quest’epoca futuro. è perfetta per l a declinazione dell’orrore. Il fumetto è un linguaggio come un altro, la bontà del Roberto Recchioni è nato a Roma fumetto nel raccontare il 13 gennaio 1974. Sceneggiatore e l’orrore e la paura disegnatore di fumetti, ha lavorato con dipende solo dalla bontà Rizzoli, Magic Press, Panini, Disney e dei suoi sceneggiatori. Bonelli, per la quale attualmente sta
curando la gestione di “Dylan Dog” e
D. D In ultimo, “Orfani”, serie da lui ideata assieme al passiamo a “Orfani” il disegnatore Emiliano Mammucari. lancio editoriale di cui sei autore. Abbiamo visto che c’è una seconda stagione (il fumetto è diviso in stagioni, come
cultura PAOLO SORRENTINO
DA “L'UOMO IN PIÙ” A “LA GIOVINEZZA” E OLTRE
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cultura/cinema di Chiara De Rosa
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Paolo è uno dei più grandi registi al mondo”, ha proclamato Sir Michael Caine alla conferenza stampa di Youth a Cannes lo scorso 20 maggio, in contemporanea con l’uscita del film nelle nostre sale. Niente di nuovo. Che Paolo Sorrentino, 45enne nato nel quartiere del Vomero, sia un nome di spicco nella cinematografia internazionale è ormai sotto gli occhi di tutti. Anzi, dopo la consacrazione dell’Academy con l’Oscar per il miglior film straniero a La grande bellezza (recensito su queste pagine), anche i più scettici hanno dovuto ricredersi. Gli enormi incassi di Youth – La giovinezza, ultima fatica del regista, si spiegano soprattutto così in un Paese che ha conosciuto Paolo soltanto al suo terzo lungometraggio. Il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani lo aveva, infatti, già consacrato col Nastro d ’Argento al miglior regista emergente nel 2001, quando Toni Servillo aveva interpretato il protagonista del suo primo lungometraggio, L’uomo in più. Ma il cosiddetto grande pubblico si è accorto di lui soltanto nel 2008, quando Il divo, presentato alla kermesse francese e interpretato ancora una volta da Servillo, ha suscitato l’interesse di tutti, perfino dell’impassibile Giulio Andreotti. “Divo” era proprio uno dei suoi soprannomi, ed è di lui che si parla, del suo misterioso essere sempre, in qualche modo, coinvolto negli incredibili eventi che l’Italia ha visto accadere (e un po’ subito) in quei lunghi anni. Premiato dalla critica di Cannes, Il divo rappresenta dunque la consacrazione internazionale di Sorrentino. Non solo: è in questa occasione che Sean Penn, presente nelle vesti di presidente di giuria, si è dichiarato intenzionato a lavorare con il regista italiano. Ed è sempre qui che verrà presentato, nel 2011, il frutto di questa collaborazione: This must be the place. È il primo film in inglese di Pa o l o , c h e p e r l ’ o c c a s i o n e , diversamente dal solito, non ha scritto
la sceneggiatura da solo, ma si è fatto aiutare da Umberto Contarello. Il risultato è un insieme eterogeneo di frammenti, di fili, che a mano a mano si ricompongono nella figura di Cheyenne/Sean Penn. La pellicola delinea molto bene le caratteristiche dello stile “sorrentiniano”. Anzitutto i grandi attori, sfruttati al meglio nelle loro doti e nella loro immagine, in modo che apportino un valore tutto personale all’opera. In secondo luogo le musiche, che sono scelte con cura maniacale dai più vari repertori e vengono riproposte in modo che il loro volume non copra i silenzi (che sono di grande importanza narrativa), ma arricchisca soltanto le immagini. Queste ultime sono proprio il segno più evidente dell’evoluzione del regista nella sua già lunga carriera: il loro punto d’arrivo, fino a ieri residente nella città eterna de La grande bellezza, oggi si è spostato un po’ più avanti, nell’albergo svizzero in cui il direttore d’orchestra ultraottantenne Fred Ballinger (il già citato Michael Caine) trova La giovinezza. Il settimo passo cinematografico di Paolo è quasi un peccato di gola per gli occhi, un (altro)
saggio di estetica, che come sempre affronta i temi cari al napoletano: gli artisti, la loro visione di sé, la storia, il camminare, Napoli stessa, onnipresente nella sua produzione (il caffè solo citato da Cheyenne e Maradona in Svizzera sono solo due esempi). E poi il tempo. Se a noi può sembrare strano che un artista di mezza età si ponga già fortemente il problema della vecchiaia e dello scorrere del tempo (presenza ingombrante anche nel precedente lavoro), per Sorrentino questo è “l’unico soggetto possibile, l’unica c o s a c h e veramente ci interessa: quanto passa il tempo e quanto ce ne rimane”. Tuttavia, ha proseguito il regista durante la stessa conferenza stampa, “a qualsiasi età, se si r i e s c e a mantenere uno sguardo sul futuro, si può essere giovani”. Il suo futuro più prossimo è una serie tv con Jude Law, “Il papa giovane” (appunto!), ma noi restiamo sempre in attesa di un altro suo capolavoro da gustare sul grande schermo.
storia
DALL’ARRIVO A MEDINA ALLA MORTE DI MAOMETTO. BREVE STORIA DELLA NASCITA DELL’ISLAM (PARTE 3)
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ue uscite fa ci eravamo lasciati con l’arrivo degli Emigrati guidati da Maometto a Medina, il 24 settembre del 622 (CittadinoNews anno 4 n.1). Ad ospitarli furono i medinesi, chiamati “Ausiliari”, i quali gli daranno riparo e sostegno, tanto da essere considerati dal Profeta come dei fratelli, uniti sotto il segno della fede. Gli Emigrati però dovettero ben presto trovare un modo per sostenersi autonomamente e decisero di tendere imboscate alle numerose carovane di commercianti che attraversavano la penisola arabica. Tra queste vi erano molti meccani e non fu un caso che proprio contro quest’ultimi si rivolsero i raids degli Emigrati. Inizia così una nuova fase del primo Islam, più guerrafondaia. Questo passaggio è possibile comprenderlo anche nei versi del Corano, tant’è che alcuni studiosi sono riusciti a distinguere i passi scritti a Mecca da quelli di Medina proprio sulla base dei contenuti. E così, per esempio, sono detti perlopiù medinesi le “Sure” in cui vengono trattati argomenti di materia amministrativa, giuridica o bellica perché i fedeli, una volta giunti a Medina, cominciarono ad acquisire una propria identità dandosi delle regole sociali ben precise e una migliore organizzazione “militare”. Fu in questo periodo che furono introdotte le prime norme che hanno portato l’Islam a differenziarsi dalle altre religioni: la direzione della preghiera, verso Mecca e non più Gerusalemme, e l’introduzione del mese di digiuno del “ramadan”. Al termine del primo mese di “ramadan”, i seguaci di Maometto
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storia di Fausto Mauro
(fig.1: nome scritto in calligrafia araba) sconfissero presso Badr un nutrito gruppo di meccani. Soltanto un anno dopo, però, i credenti subirono la risposta dei meccani, sul monte Uhud, dove lo stesso Profeta fu ferito. I musulmani però non si diedero per vinti e potenziarono le difese della città di Medina. In questo modo quando nel 627 (5° anno dell’egira), la città fu presa d’assedio da un esercito di quasi 10000 meccani, i medinesi resistettero barricandosi all’interno delle mura e sfiancando l’avversario che, dopo venti giorni, fu costretto alla resa. I musulmani acquistarono così sempre più potere e Maometto ne approfittò per delineare meglio l’Islam introducendo nuove regole, quali l’elemosina e la preghiera. Per l’ultimo tassello, il pellegrinaggio a Mecca, c’erano da superare le ostilità dei clan locali che ora avevano ben chiaro quanto potente stesse diventando la comunità di credenti.I seguaci di M a o m e t t o poterono compiere il rito intorno alla Ka’ba di Mecca (fig. 2) nel 629 grazie a un accordo raggiunto con i meccani che stabiliva una tregua tra i due schieramenti. Il patto però non fu rispettato e il giorno 10 del “ramadan” dell’ottavo anno dell’egira (1 gennaio 630) Maometto guidò 10000 uomini a Mecca dove i clan locali non opposero resistenza decidendo di convertirsi all’Islam. In
quest’occasione, il Profeta distrusse gli idoli presenti nella Ka’ba e nei santuari vicini. Nei mesi che seguirono, i musulmani sottomisero altre città della penisola arabica riscuotendo numerosi sostegni in Arabia, Yemen e Oman. Nel momento in cui Maometto lasciò questo mondo, l’8 giugno del 632, i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam erano già stati eretti: l’esistenza di un solo Dio e del suo Messaggero, i cinque momenti della preghiera nell’arco di una giornata, il digiuno nel mese di “ramadan”, il pellegrinaggio a Mecca e l’elemosina. Secondo le fonti, l’amico del Profeta, Abu Bakr, rassicurò i credenti rimasti senza pastore rivolgendo loro le seguenti parole: “Chi adorava Maometto, sappia che è morto ma chi adora Dio sappia che Egli è il Vivente e non morirà mai!” Termina così questo breve percorso che spero sia stato fonte di conoscenza e di riflessione su una religione che spesso vediamo così lontana e diversa da noi ma che, invece, è più vicina di quanto pensiamo.
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storia
COS’È L’ESTREMO ORIENTE? (PARTE II)
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mportante oggigiorno per la produzione di tecnologia di consumo nonché per l’industria automobilistica e musicale – almeno per quanto riguarda la Corea del Sud – in passato l’area è sempre stata interessata da scismi interni, prima coi tre regni di Shilla, Paekche e Koguryo, poi con una relativa unità interrotta nuovamente da uno scisma, fino ad arrivare all’epoca moderna con la sempreverde dicotomia nord-sud. La Corea ha sempre sofferto, per così dire, della posizione geografica non particolarmente favorevole da un punto di vista geopolitico: ponte naturale tra due grandi potenze, quella cinese a Ovest e quella giapponese a Est, i bellissimi e variopinti paesaggi coreani sono spesso stati sotto assedio o addirittura conquistati ora dall’una ora dall’altra potenza che guerreggiavano proprio per assicurarsi il controllo della penisola. Il sentimento antigiapponese è ancora oggi molto sentito nelle due Coree, dovuto principalmente al periodo di colonizzazione spietata caratterizzata da internamenti, stupri, massacri e quant’altro da parte delle m i l i z i e giapponesi nei confronti della popolazione locale, in particolare q u e l l a femminile. Lo scisma interno che ha portato p o i a l l a creazione delle due Coree, quella del Nord e quella del Sud, è di più recente compimento. Quando il paese iniziò ad affacciarsi verso il mondo esterno cercando, talvolta in maniera poco felice, di
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storia di Alfonso Cesarano
introdursi sulla scena mondiale, le influenze in totale antitesi degli Statunitensi nel Sud e la Cina a Nord hanno portato ad una differenziazione tale di ideologie politiche ed economiche, che il dialogo tra le due Coree è ancora oggi lontano dal risultare pacifico. Parlare di Giappone, infine, significa quasi sempre parlare di “ipermodernità”, progresso economico e tecnologico irrefrenabile, ma anche di templi, riti, tradizioni e arti millenarie. Il Giappone è forse l’unico esempio al mondo di paese che è riuscito, nonostante il boom economico, a conservare gelosamente le tradizioni più antiche che spesso e volentieri affondano le proprie radici molti e molti secoli addietro. Sulla scena internazionale odierna, il Giappone è il primo produttore di tecnologie di consumo
soprattutto in ambito dell’elettronica e la robotica, ma conta anche importanti case automobilistiche in perenne crescita, e si è imposto a
partire dal secolo scorso nella cultura popolare soprattutto giovanile con l’industria dell’animazione e del fumetto manga. Come per la Cina e la Corea, anche il Giappone è un paese dalla storia tribolata caratterizzata da guerre e tentativi di conquista dei territori circostanti sia nel Nord-Est Asiatico che nel Sud-Est Asiatico insulare. Come per la Cina, sono state molte le dinastie a partire da quella Nara dell’VIII secolo fino all’ultima, quella Tokugawa, terminata nel 1868, a tenere le redini del paese. Ogni dinastia è ricordata per aver apportato importanti rinnovamenti e per aver sviluppato e preservato moltissime delle tradizioni che ancora oggi rendono il Giappone un paese ricco di fascino. Il periodo di modernizzazione economica è stato preceduto dal ritorno all’idea imperiale e molto importante è stato il ruolo del paese in molti dei conflitti di più grande eco del secolo scorso: la guerra Sino-russa, le due guerre mondiali e la Guerra Fredda. Si vuole cogliere qui l’occasione per ricordare che proprio in Giappone si è verificato, nel 2011, uno dei terremoti più catastrofici della storia che ha completamente destabilizzato l’area settentrionale del Paese che ce la sta mettendo tutta per riprendersi sfruttando l’efficienza che da sempre caratterizza il suo popolo.
Opportunità da non perdere… con
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Il progetto si rivolge a giovani neodiplomati campani entro un anno dall’acquisizione del Diploma Superiore (Istituti TecnicoProfessionali) ed è volto a favorire la realizzazione di tirocini professionalizzanti presso imprese ed enti. Dal punto di vista dei risultati attesi in riferimento allo sviluppo di competenze professionali, il progetto G.L.O.C.A.L., consentirà ai tirocinanti di sperimentare il mercato del lavoro europeo e di realizzare progetti formativi conformi ai fabbisogni del tessuto produttivo, offrendo quindi un importante valore aggiunto a coloro i quali si formano in virtù di tali esigenze. Con riferimento all’accrescimento delle competenze personali e culturali (compresa la preparazione linguistica), la realizzazione di un soggiorno all’estero di ben 120 giorni, consentirà ai tirocinanti di acquisire e sviluppare una conoscenza dello stile di vita del Paese ospitante, e fornirà l’occasione di venire anche a conoscenza delle “microlingue”, ovvero dei linguaggi specifici della gestione e direzione aziendale, nonché di slang locali ed espressioni tipiche. Per ulteriori informazioni sul progetto è possibile scrivere al seguente indirizzo mail: erasmusplus@glocalsrl.com oppure rivolgersi a: Glocal srl – Battipaglia (SA) – Via Serroni 46, - 84091; Tel/Fax: 0828 1994423; e-mail: info@glocalsrl.com; website: http://www.glocalsrl.com Per ulteriori informazioni sul progetto è possibile scrivere al seguente indirizzo mail: erasmusplus@glocalsrl.com oppure rivolgersi a: Glocal srl – Battipaglia (SA) – Via Serroni 46, - 84091; Tel/Fax: 0828 1994423; e-mail: info@glocalsrl.com; website: http://www.glocalsrl.com
musica
LA NOTTE ANCHE DI GIORNO LA COSCIENZA DI ZENO (PARTE II)
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Giovane Figlia” è liberamente ispirato e dedicato alla figura di Serena Z., ragazza che all’età di 29 anni si è tolta la vita. “Madre Antica” è dedicato invece alla scultrice e staffetta partigiana Bianca Orsi, ancora vivente. L’opera vuole essere uno omaggio a queste due figure femminili, “che hanno abbandonato lo stato del “pieno” per approdare a quello del vuoto, e che hanno esperito ed espiato la felicità e il dolore attorcigliandosi alla vita come due serpenti stretti intorno al proprio caduceo.” In 40 minuti si avvicendano episodi musicali controversi, leitmotiv che si rincorrono come in una danza atta a chiudere un cerchio, quello di una vita consumata dagli eventi. Le due suite godono di una chiralità intrinseca, lato A e lato B di un disco che pone l’ascoltatore di fronte a un bivio, due strade che confluiscono in una meta ignota che si fa chiara ascolto dopo ascolto. “Altalena vuota su cui dondoli, sospesa in aria come un aquilone senza filo” Il primo episodio di Giovane Figlia, “A ritroso”, si apre con questi versi, immerso in una atmosfera sognante, voce chitarre e violino dialogano su un tappeto di basso e batteria atti a donare vigore e luce a ricordi struggenti. Il tutto si interrompe bruscamente ne “Il giro del cappio”: la musica scatta una istantanea che fa ricordare Leone, di una vita in attesa della sua esecuzione f i n a l e . “ Pe r questo ora mi chiedo quale parte di te abbia acceso la miccia. E di voi tutte chi ha appeso il giro del cappio a cui lei si è concessa stringendolo a sé”. Si raggiunge un climax di musica e parole volto a raccontare il dolore e
l’oblio di una strada senza ritorno. “Libero pensatore” si apre con un tema bellico, la marcia fredda della vita, che esplode finalmente in un solo di chitarra a simboleggiare il caldo abbraccio della morte. Sopraggiunge un solare ricordo immediatamente stroncato dalle parole dettate dal senso comune: “Lei era strana come se stesse male, però in compagnia ci sapeva stare, era brillante se voleva quanti uomini stendeva la malalingua disse “è bella sì, ma per me non c’ha tutti i Venerdì”. L’episodio si chiude con uno strumentale in cui si alternano vuoti e pieni che preparano il terreno di “Quiete apparente”, traccia che riprende i versi dell’inizio della suite, in un minuto e trentotto secondi di un lancio musicale sempre più spedito. “Impromptu pour S.Z.” vede protagonisti il piano/violino in una scintilla musicale che ricorda Piazzolla, per poi dipingere un affollarsi di idee che disturbano e schiacciano il pensiero in “Lenta discesa all’averno” .Claustrofobia in musica, che nel momento più critico si rilassa su un letto di versi francesi, magicamente cantati dall’ospite Simona Angioloni, e di melodie celtiche messe in risalto da Melissa Del Lucchese (violoncello), Joanne Roan (flauto) e Domenico Ingenito (violino), in un viaggio volto alla fine e che chiude in fade out la prima suite. Madre Antica incombe con irruenza ne “Il paese ferito”, il violino trafigge il cielo con uno s q u a r c i o fulmineo. Contrappunti ostinati tra gli strumenti caratterizzano la prima fase del brano, come in una tempesta che si rasserena improvvisamente con l’entrata di Alessio Calandriello alla voce.
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musica di Domenico Ingenito
“Cose c’è dietro le spalle dell’arcobaleno?” A seguire una fuga che nasce con un ritmo grave che danza tra le corde del cello e porge la mano agli altri musicisti. La melodia dal gusto sinfonico è volutamente ridondante, sovraesposta, come a calcare una vita ripetitiva, dettata da episodi ricorrenti, interrotti da piccoli sprazzi di luce come il finale dell’episodio che apre la strada al secondo capitolo della suite “Cavanella”. Le linee vocali sembrano trasformarsi in linee strumentali, il tutto assume un tono classicheggiante, è il contrappunto a farla da padrone, gli strumenti sembrano rivaleggiare tra di loro, quando indifferente al duello vediamo scorrere la protagonista del brano, quella bambina che ora è cresciuta, che faceva “La Staffetta” correndo nel sole di Salsomaggiore. Torna di nuovo protagonista Scherani in un solo di piano che si presenta come una summa dell’opera, tutti i temi vengono rielaborati e argomentati con passione, chiudendo in un finale ricco di dissonanze che si placa e accarezza un tema jazzy atto ad aprire l’ultimo episodio dell’album. “Due donne nella storia per fissarle alla memoria, due modi di affrontare la paura ed il dolore”. Dopo un piccola parentesi musicale dallo sfondo orientale che ricorda l’Arabia, “Come statua di dolore” chiude La notte anche di giorno con un finale che sembra inevitabile, melanconico, una vita che si spegne lentamente, una dissolvenza verso l’ignoto che si rivela solo quando gli occhi sono ormai chiusi.
MUMFORD & SONS eventi
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MUSICA di Giulio D’Ambrosio
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poco più di un mese dalla pubblicazione di Wilder Mind, l’ultima fatica dei Mumford & Sons continua a dividere critica e opinione pubblica. La rinuncia al banjo e al contrabbasso, a favore di sonorità elettriche vicine al pop rock, è diventata una trincea di opinioni tra una fazione ortodossa - che storce il naso e grida all’apostasia - e l’altra eterodossa - entusiasta dello spirito innovativo e sperimentale del disco. Ma perché questo drastico cambiamento di rotta? Per discernere a ciò basta semplicemente accendere la radio: il folk revival, le sonorità country e l’indistinguibile “hippie yeah!” ha intasato le stazioni radiofoniche: dagli Avicii agli Image Dr a g on, p a s s a nd o p e r E r os Ramazotti, le composizioni sono diventate pacchiane babeli in stile nashvilliano. Ora, conveniamo tutti nel dire, che sarebbe bastato una sola nota di banjo suonata per trentasei battute a surclassare queste effimere copie. Ma basta perorare e partiamo dal principio. Già dai mesi antecedenti Wilder Mind, la band annunciava il cambiamento di rotta, e repentine anteprime di Wolf e Believe ne furono le prove empiriche. In più la foto di copertina - una veduta notturna della città - invitava a vedere le cose da un punto di vista diverso. Scorrendo le pagine dell’artwork si nota che la produzione è affidata nelle sapienti mani del produttore James Ford (Arctic Monkeys, HAIM, Florence + The Machine) e buona parte full-length è scritto e preregistrato a New York sotto l’attenta guida di Aaron Dresner dei The National. Proprio quest’ultimo darà all’album quel carattere urbano e malinconico cercato dalla band. L’album è un continuo rimando, qui ci sono i The National, li Bruce Springsteen; strutturalmente
ogni canzone è un crescente da sonorità quasi ambient a ritmiche corpose. Il lirismo è romantico, struggente un disperato rincorrersi in strade notturne. Da segnalare - oltre le energiche Wolf e Believe Tompikins Square Park il suo cadenzato ritmo di batteria, in chiare tinte National è un omaggio al parco newyorkese molto caro alla band di Dresner. In Snake Eyes lo stesso Dresner si unirà con la chitarra al gruppo. In Cold Arms riascoltiamo i vecchi Mumford, mentre Ditmas nel suo inizio drum machine è la prova migliore di questo album, un connubio tra i vecchi e i nuovi Mumford che esprime appieno quella ricercatezz a sonora che la band t a n t o desiderava. Non sarà un album da pieni voti, non genererà c u p i d i desideri come il precedente e acclamato Babel, ma niente da dire sull’impegno e la sincerità. Nessuna affettazione o voglia di stupire, i Mumford non hanno lasciato niente al caso, curando ogni aspetto, dalla produzione all’accoglienza dei fans. Sicuramente una prova ambiziosa, il cambiamento è sempre un terreno delicato che fa paura e divide. Basti ascoltare Bringing It All Back Home di
Bob Dyla: la sua svolta elettrica gli fece abbandonare momentaneamente il paco del Newport Folk Festival, generando una spaccatura con la scena folk del tempo. O, per allargare il tiro, No Code dei Pearl Jam, in principio snobbato dalla critica, rivalutato da quest’ultima e preso d’ispirazione da molti band. I Mumford & Sons nascono a Londra nel 2007. Il gruppo è formato da Marcus Mumford (voce, chitarra e batteria), Winston Marshall (voce, chitarra e banjo), Ben Lovett (voce, organo e tastiera) e Ted Dwane (voce e contrabbasso). Il debutto discografico nel 2009 con Sigh No More. Il titolo dell’album è tratto da un verso della commedia teatrale “Molto rumore per nulla” di William Shakespeare. Altri versi dell’opera ispireranno le liriche di Marcus. Un album semplice, naturale, dove bluegrass e ballate a stelle e strisce sono accompagnate da una voce rauca che si destreggia tra amori tormentati e citazioni di Steinbeck. Stessa formula per Babel (2012) grancassa, cavalcate di banjio e ponderose tastiere la fanno da padrone. In più c’è una ricercatezza compositiva che sfocia in cambi di tempo e di atmosfere, l’esperienza del lungo tour di Sigh No More e il confrontarsi, suonando spalla a spalla, con gli amici Avett Brothers e Dawes e un caposaldo del genere folk quale Bob Dylan.
PIÙ FORTI DELL’EBOLA salute
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ome molti disastri nella storia umana Ebola nasce dall’avidità, la colpa della diffusione di Ebola al genere umano è da imputare ai moderni schiavisti che lucrano sullo sfruttamento delle risorse e della povertà del popolo africano. Dovendo esportare tutto il petrolio queste persone si erano viste privare del carburante per le proprie macchina perciò decisero di deforestare alcune zone e di coltivare piante per fare bio-combustibile, così facendo hanno limitato sempre di più l’habitat del portatore sano di Ebola, il pipistrello della frutta. il salto di specie del virus Ebola è avvenuto quando i pipistrelli della frutta si sono trovati costretti a condividere l’habitat con altre specie come le scimmie, in Africa sia le scimmie che i pipistrelli sono piatti tipici e questo ha portato alla diffusione del virus all’uomo. In realtà il primo caso non è stato nel 1976 come l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha decretato ma un anno prima quando un gruppo di ragazzine di circa 13 anni morte misteriosamente di febbre emorragica non lontano da Yambuku, dove sarebbe avvenuto il primo caso ufficiale, essendo un piccolo villaggio isolato il caso fu dimenticato, probabilmente alle ragazze il virus fu trasmesso da un’insegnante di 44 anni, la prima vera paziente affetta da Ebola virus.
Come tutti ormai sanno Ebola si trasmette attraverso fluidi corporei, questo ha favorito la diffusione di Ebola tra i villaggi africani, soprattutto a causa dei riti funebri africani, in questo modo i familiari e gli amici del defunto affetto da Ebola venivano in contatto con il virus e lo trasmettevano nei villaggi in cui vivevano. I sintomi di solito iniziano tra i due giorni e le due settimane dopo il contatto con il virus, per le prime tre settimane i sintomi assomigliano a quelli di una banale influenza e sono vomito, dolori muscolari e mal di testa, ma in questo periodo si è comunque contagiosi. Si tratta di una convinzione errata che i pazienti abbiano la febbre, controllare la temperatura delle persone che arrivano negli aeroporti è straordinariamente inutile e serve solo ad americani ed europei per evitare che gli aeroporti vengano chiusi e preservare i propri interessi economici dando ai cittadini la sensazione di essere al sicuro. Dopo che le tre settimane di incubazione sono terminare arrivano i sintomi letali: vomito, diarrea, febbre ed eruzioni cutanee e insufficienza renale con conseguente morte del paziente. L’OMS ha notato Ebola solo nel 2013 e ha deciso di intervenire facendo istallare linee telefoniche dirette in un paese già libero da Ebola per raccogliere dati sul virus e dopo
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salute di Domenico Benvenuto
quasi quarant’anni che Ebola imperversava venne dichiarata una epidemia di interesse internazionale. Fin ora l’unica terapia possibile era iniettare il siero di persone guarite per dare al sistema immunitario del malato di avere la propria autonomia contro il virus, questo funzionava nel 50% dei casi ma ora tutto è cambiato, un gruppo di ricerca guidato da Ian MacLachlan e Thomas W. Geisbert aveva trovato una cura per l'Ebola, hanno messo a punto un cocktail di siRNA (piccole sequenze di RNA artificiali sintetizzate dagli scienziati che legano una sequenza corrispondente nel virus e ne inducono la distruzione) che ha avuto grandi risultati in un gruppo di scimmie infettate dal virus, tutte le scimmie hanno mostrato sintomi attenuati e sono sopravvissute all’inoculazione del virus. Un'altra terapia importante contro Ebola è il vaccino sviluppato da Riccardo Cortese, un biologo molecolare che fondò Okairos sette anni fa a Pomezia, che iniziò a lavorare proprio con il virus Ebola, uno dei più difficili da combattere. Il suo vaccino è approvato dall'OMS e acquistato dal GHK britannico e ora è alla seconda fase della sperimentazione, e sta avendo ottimi risultati. Questa sembra proprio essere la fine di Ebola.
MARGARITA PARTE II enogastronomia
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enogastronomia di Ivan Cibele
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ontinuiamo con l’elencare le storie che attribuiscono la creazione del margarita a diversi barman. Enrique Bastate Gutierrez, sosterrebbe di aver creato il "Margarita" nel 1940 in onore di Rita Hayworth, il cui vero nome era Margarita Carmen Cansino. La “Hussong's Cantina” è un piccolo ristorante a Ensenada fondato da Johan Hussong, un immigrato che ha lasciato la Germania con i suoi fratelli nel 1880. Fu il luogo dove il "Margerita" fu inventato; più precisamente nel mese di ottobre del 1941 dal barman Don Carlos Orozco. In Texas il barman Pancho Morales inventò il Margarita il 4 Luglio del 1942, in un bar a Juàrez, chiamato “Tommy’s Place”. Sembra che una donna avesse chiesto un Magnolia, ma Morales non era certo della ricetta, così improvvisò miscelando tequila, triple sec e lime, e la sua creazione divenne un successo. Il “Kentucky Club”, fondato nel 1920, è uno dei più antichi bar di Juarez. Leggenda vuole che il margarita si stato inventato qui nel 1946 da un barman di nome Lorenzo Garcia. Carlos “Danny” Herrera era barman del locale Rancho La Gloria (1947-1948). Aveva tra i suoi clienti una showgirl che si faceva chiamare Marjorie King, allergica ai liquori, tranne che alla tequila, ma non amava berla col sale e limone, così Herrera cominciò a sperimentare e creò un miscuglio fatto da tre parti di tequila, due parti di cointreau e una parte di succo di limone. Aggiunse ghiaccio tritato e shakerò, creando una miscela liscia e salata che chiamò Margarita in onore di Marjorie. Anche il Barman Lorenzo Hernandez del ristorante “La Plaza” situato alla Jolla in California sarebbe stato nel 1947 uno dei tanti probabili creatori.
Margaret Sames inventò il cocktail nella sua casa ad Acapulco in Texas nel Dicembre del 1948, per sostenere una sfida durante un party di Natale. La signora Sames usò una parte di cointreau, tre parti di tequila e una parte di succo di lime. Sapendo che molte persone bevevano la tequila dopo aver leccato del sale, decise di guarnire il suo cocktail con una crusta di sale. Secondo il volantino promozionale per il leggendario Balinese Room di Gavelston in Texas, il capo barman Santo Cruz ha creato il “Margerita” per la cantante Peggy (Margaret) Lee nel 1948. Il “Daily Review” riporta che fu un barman chiamato Red Hilton in Virginia City, che creò il cocktail nel 1973 dandole il nome della sua ragazza Margarita Mendes. Come già detto nel precedente articolo William Grimes, autore di “Straight Up or On the Rocks: The Story of the American Cocktail”, afferma che ci sono molte persone che ricordano di aver bevuto i “Margarita” negli anni 30, è così lecito ritenere che il “Margarita” non sia stato inventato dopo il 1940. È anche per questo che Daniel
Negrete, barman al Garci Crispo Hotel, sia considerato attendibilmente come colui che ha dato vita al nostro drink. Di sicuro entra nei 73 cocktails Iba nel 1987, con le proporzioni 1/10 di succo di limone, 3/10 di cointreau e 6/10 di tequila; che nel 1993 diverranno 2/10 di succo di limone o lime, 3/10 di triple sec e 5/10 di tequila. Il cocktail si prepara shakerando gli ingredienti e versandoli in una coppetta ghiacciata alla quale è stata precedentemente applicata una crusta di sale (si umidifica, utilizzando il limone, il bordo del bicchiere e lo si immerge nel sale). Tipicamente la coppetta utilizzata per il margarita ha la classica forma di un sombrero rovesciato. Una divertente variante del cocktail è il Blue Margarita che si ottiene sostituendo il blue curaçao al triple sec.
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