Feste, Madonne e Santi

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ANTROPOLOGIA CULTURALE ED ETNOLOGIA

TESI DI LAUREA IN ANTROPOLOGIA SOCIALE

Feste, Madonne e Santi Analisi antropologica della festa patronale di Vibo Marina

Relatore: Prof. Pier Paolo Viazzo Candidata: Maria Giovanna De Natale

Anno Accademico 2009-2010


Premessa

Capitolo primo

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INDICE

p. 4

LA FESTA: UNO SGUARDO D’INSIEME

L’inconoscibilità e la descrivibilità della festa La rifunzionalizzazione della festa La festa come produzione e consumo La festa: folklore, fakelore e tradizione popolare Storie locali o ricerca planetaria? Una riflessione sul folklore nel Sud Italia Conclusioni

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1. 2. 3. 4. 5.

Capitolo secondo

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LE TRADIZIONI “POPOLAR-RELIGIOSE”

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1. La cultura popolare tra sospetto e pregiudizio 2. La cultura popolare tra sacro e profano 3. Alcuni aspetti della religiosità popolare 4. Le feste religiose Conclusioni

39 45 53 57 61

Capitolo terzo

LO SCENARIO FESTIVO 1. Il teatro festivo 2. I giochi di luce: tra luminarie e artifici del fuoco 3. Al centro della scena l’immagine sacra 4. Le immagini sacre in Calabria 5. Maria al centro della scena Conclusioni

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INDICE

Capitolo quarto

LA FESTA DELLA MADONNA DEL S.S. ROSARIO DI POMPEI A VIBO MARINA

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1. Da Porto Santa Venere a Vibo Marina 2. Santa Venere: da Vibo Marina ad Acireale 3. La Festa del Mare 4. Giochi tradizionali 5. I giganti Conclusioni

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BibliograďŹ a

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PREMESSA

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Le tradizioni popolari sono da sempre oggetto di una forte ed articolata discussione. Se da un lato tendono ad essere considerate come forme culturali subalter-

ne, dall’altro sono catalogate come segno della presenza di costumi incontaminati, cristallizzati, congelati nel tempo e nello spazio.

Tuttavia, come sottolinea Luigi Maria Lombardi Satriani, si tratta di due posizioni che non possono essere considerate accettabili. Questo genere di realtà deve essere compresa nelle sue articolazioni, nei suoi processi di evoluzione e di trasformazione inevitabile nel corso del tempo1.

Riconoscere il cambiamento, analizzare il contenuto di queste realtà, capire le funzioni che ha svolto in passato e quelle che potrebbe svolgere nel presen-

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te, sono tutti elementi attraverso i quali ognuno di noi ha la possibilità di ricercare o rafforzare la propria soggettività, la propria personale appartenenza ad una specifica realtà.

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Questo genere di affermazioni mi ha portato a riflettere sul mio passato che

mi ha vista protagonista ed osservatrice di una di queste particolari realtà per quindici anni della mia vita. Subito dopo la mia nascita, avvenuta a Torino, il 10

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giugno del 1984, andai a vivere con i miei genitori a Vibo Marina, un piccolo paese della Calabria. Vibo Marina è una comunità costiera della provincia di Vibo

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Valentia situata sul Mar Tirreno nel golfo di Sant’Eufemia e con una popolazione di circa dieci mila abitanti. È sede di una delle principali aree industriali del Vibonese, importante anche per il suo porto, specializzato nella distribuzione di petroli e del cemento, nel commercio di prodotti ittici e nel turismo per via dei collegamenti che detiene da e per le Isole Eolie. È anche sede di una delle Capitane-

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Dall’introduzione curata da Luigi Maria Lombardi Satriani al testo di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido dal titolo La Calabria. Antologia di rivista e di letteratura popolare La Calabria, Rende, Città del Sole, 2009.

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PREMESSA

rie di Porto e Guardia Costiera più grandi d’Italia, oltre che del Comando Provinciale della Guardia di Finanza. Questi brevi cenni autobiografici sono necessari per dare al lettore un’idea del luogo in cui si è svolta la mia modesta ricerca etnografica. Ciò di cui mi occuperò nelle pagine seguenti riguarda, infatti, la festa patronale di questa piccola comunità nella quale ho vissuto, dedicata a Maria S.S. del Rosario di Pompei. La festa ha in sé origini recenti. Nel 1930 fu costruita e benedetta la prima

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chiesa della frazione di Vibo Marina. Per via dell’incremento di insediamenti nel

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borgo marino, il primo ottobre del 1933 monsignor Paolo Albera trasferì a Vibo Marina la sede parrocchiale che fino ad allora era stata affidata alla parrocchia di

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San Pietro di Bivona. Nel 1946 la comunità vibonese divenne parrocchia autono-

ma col titolo di Maria S.S. del Rosario di Pompei. L’immagine della statua collocata nella prima chiesa diede il titolo alla parrocchia.

In precedenza la statua apparteneva alla famiglia Catenacci ed era stata acquistata per adempiere ad un voto fatto e per il quale era stata ottenuta una grazia per intercessione della Vergine. La grazia, richiesta dalla madre di Maria Catenacci per la figlia, fu esaudita ed il voto sciolto. La statua, una volta terminata, venne posta in una cappella votiva già esistente all’entrata del paese. Conclusa l’edificazione della prima chiesa, il primo parroco, monsignor Domenico Costa, la chiese in dono alla famiglia Catenacci al fine di esporla alla venerazione di tutti i fedeli.

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La statua rappresenta la Vergine Maria, seduta in trono sulle nuvole e recante sulle ginocchia Gesù Bambino. In ginocchio, ai suoi piedi, San Domenico da Guzman e Santa Caterina da Siena che ricevono dalla Madonna e da Gesù la corona

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del Santo Rosario.

Il culto della Madonna di Pompei si diffonde nell’Italia Meridionale grazie

all’impegno dell’apostolo del Rosario, il beato Bartolo Longo, fondatore del San-

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tuario di Pompei. Vissuto nella seconda metà del XIX secolo, amministratore dei beni della contessa De Fusco nella valle di Pompei, ebbe una vera e propria con-

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versione al cristianesimo. Una mia informatrice mi ha scritto che il suo richiamo a diffondere la devozione del Rosario e a promuovere come segno della Divina Provvidenza opere di solidarietà e carità per i più poveri era molto forte. Fu proprio grazie al suo costante impegno che ebbe la possibilità di trasformare il borgo napoletano nel quale operava in centro di diffusione della recita del Rosario nel mondo. Le condizioni di povertà spirituale ed economica che il beato Bartolo Longo constatò nel suo borgo napoletano, monsignor Domenico Costa le ritrovò nella popolazione di Vibo Marina, precedentemente chiamata Porto Santa Venere.

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PREMESSA

Nello stesso periodo in cui venne costruita la parrocchia si attuò anche l’ingrandimento del porto navale. Ciò incrementò di molto lo sviluppo della zona che diventò così uno dei centri più consistenti della diocesi, oltre che di Vibo Marina. I pescatori del luogo e i lavoratori portuali si affezionarono a tal punto alla figura della Vergine del Rosario da sentirla come protettrice del porto e della gente di mare. Per questo, a partire dal 1948, si decise di istituire una serie di festeggiamenti e giochi nella domenica successiva dopo ferragosto che accompagnassero il

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programma religioso.

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Oggi è ormai una tradizione consolidata quella che vede come protagonisti

gli abitanti di Vibo Marina e della provincia impegnati a partecipare a questa festa

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patronale. È strabiliante osservare come la passeggiata del lungomare ed il porto

si gremiscano di gente che vuole assistere e partecipare a suo modo alla “processione” di barche sul mare. Sul sito dedicato alle comunità del Vibonese un abitante del luogo commenta: “La processione della Madonna sul Mare per noi abitanti di Vibo Marina riveste un’importanza particolare e facciamo carte false per esserci il giorno della festa, per poterne gustare l’atmosfera ed ammirare estasiati i fuochi d’artificio che chiudono la giornata”2.

La posizione che mi ha accompagnata nel corso di tutta la ricerca è abbastanza particolare. Come ho avuto occasione di dire in precedenza, questa festa mi ha vista protagonista in quanto abitante del luogo che l’ha realizzata. Da sempre

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mi sono sentita parte di questa comunità e, sin da bambina, mi rendevo conto di quanto questo tipo di manifestazione fosse importante per il mio paese. Confesso che questo mio coinvolgimento personale ha creato non pochi ti-

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mori in me, non solo nel periodo di ricerca ma anche durante la stesura di questo mio elaborato. Il sentimento che mi lega a questo luogo è molto forte e si riaccende in modo sempre più vivo ogni qual volta vi ritorno. Tuttavia, penso anche

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che il mio sguardo, in quanto insider, mi permetta di fornire una maggiore dovizia di dettagli a questa ricerca. La mia osservazione, infatti, potrà fornire un pun-

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to di vista interno che non è quello di un semplice turista ma quello di una persona che ha vissuto l’esperienza come protagonista diretto prima e come studioso critico poi. Devo riconoscere che l’essere un’insider ha reso più semplice la ricerca di

materiale che spesso mi è stato fornito spontaneamente dagli abitanti del paese.

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http://www.vibomarina.eu/index.php/tradizioni-e-cultura/446-la-festa-della-madonnaa-vibo-marina.

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PREMESSA

Foto, informazioni storiche e pratiche mi erano più facilmente concesse perché di quella realtà ne facevamo parte io e la mia famiglia. Ciò ha permesso di instaurare un rapporto di immediata fiducia con gli abitanti del posto, alcuni dei quali hanno concesso la loro collaborazione proprio perché hanno vissuto l’esperienza di questa festa insieme a me e soprattutto a mio padre. Tuttavia non nascondo di aver avuto qualche difficoltà dovuta probabilmente al fatto che si tratta della mia prima esperienza se pur su un campo che già ave-

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vo avuto possibilità di esplorare più volte ma con approcci totalmente diversi.

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L’idea di raccontare la festa e questo genere di tradizione popolare costituisce per

me una sfida importante. Ricostruire e mettere insieme una realtà che mi appar-

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tiene profondamente mi infonde un forte senso di responsabilità soprattutto nei confronti di tutti gli abitanti di Vibo Marina, fieri della mia scelta di portare avanti questo mio progetto di ricerca. Questo grande entusiasmo nei miei confronti ha

rappresentato un forte stimolo nella realizzazione del progetto e per questo spero di non tradire la fiducia che hanno riposto in me tutti gli abitanti di questo piccolo borgo marinaro.

Nella prima parte dell’elaborato tenterò di fornire un quadro generale sul significato antropologico della festa. In particolare mi soffermerò sulla capacità di definire un evento festivo che poggia su un sistema organizzativo preciso e riconosciuto come fondante dai partecipanti della festa. Il riconoscere la presenza di

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questa forza organizzativa, vale a dire dell’ethos festivo, permette di gettar luce su alcuni punti oscuri riguardanti il festivo. Oggi il panorama festivo è stato fortemente rivalutato. Si è compreso che, attraverso la festa, una comunità ha la possi-

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bilità di rinnovarsi e di trovare una propria collocazione rispetto ad altre società. La festa, dunque, non permette solo una ricostituzione della memoria storica ma permette di ristabilire la propria identità distinguendola dalle altre.

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Tuttavia, bisogna riconoscere che la rifunzionalizzazione della festa è oggi ac-

compagnata anche da una serie di processi di produzione e di consumo. Essa di-

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viene spesso oggetto di promozione turistica e dunque economica ma ridurla ad un semplice sistema di guadagno sarebbe assolutamente sbagliato. Ogni regione, ogni paese, ogni villaggio è accompagnato da un proprio ventaglio di festività i cui significati simbolici sono condivisi dalla comunità che le ha istituite. Il secondo capitolo tenterà invece di illustrare alcune caratteristiche della cultura popolare in cui la festa si inserisce. Già a partire dalla sua definizione la tradizione popolare produce non pochi problemi. I pregiudizi nei confronti di questo ambito culturale, specialmente in passato, sono stati molto forti in particolare da parte della Chiesa. La tradizione popolare, infatti, era giudicata come una

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PREMESSA

pratica inquietante, legata ad aspetti magico-rituali di carattere profano che andavano a cozzare con i principi ed i valori della religione dominante. Si procederà quindi ad analizzare alcuni aspetti della religiosità popolare e quindi delle feste religiose. Il terzo capitolo sarà dedicato ad illustrare alcuni aspetti importanti che appartengono al mondo di diverse feste e che è possibile ritrovare anche all’interno della festa che andrò ad analizzare nell’ultima parte dell’elaborato. A partire da

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questo momento mi avvicinerò sempre di più all’analisi di oggetti, gesti e carattela Madonna del S.S. Rosario di Pompei.

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ri che hanno fatto parte e continuano a costituire parte integrante della festa del-

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Prima di entrare nel vivo della mia ricerca dedicherò una parte di questo mio

lavoro ad una presentazione di carattere storico. Andrò infatti a descrivere il passaggio del borgo marinaro da Porta Santa Venere a Vibo Marina, cambiamento che ha segnato una svolta anche per quanto riguarda l’ethos festivo che caratterizzava questo luogo ed i suoi abitanti. Tale mia precisazione è legata anche ad un’altra motivazione. Il mio obbiettivo è infatti quello di confutare la convinzione di molti per i quali la vita comunitaria e la nascita di questo borgo hanno avuto luogo con la posa della prima pietra dell’impianto portuale di Vibo Marina. Come è possibile leggere nel testo di Antonio Montesanti dal titolo Tra mare e terra, a causa di questa convinzione sia l’edilizia privata che gli strumenti urbanistici e pro-

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duttivi hanno trascurato, trasformato e consentito la distruzione di molte testimonianze antiche esistenti, alimentando il senso di appartenenza ad una comunità priva di storia3.

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Questo genere di premessa mi tornerà utile al fine di presentare il legame

esistente tra la cittadina di Vibo Marina e quella di Acireale. Il paese calabrese e quello siciliano risultano legati ad una particolare figura che è quella della martire

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Santa Venera. Di recente, infatti, è avvenuta una grande scoperta che rappresenterebbe la tesi secondo la quale, prima del culto mariano, la comunità vibonese sa-

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rebbe stata legata alla figura di questa martire. Qualche tempo fa si è svolta a Tropea una mostra su Lorenzo Albino, pittore novecentesco nato e morto a Tropea, allestita presso il Palazzo Vescovile, sede del Museo Diocesano, nel cuore del centro storico. Tra le tante opere è possibile ammirare un busto reliquiario la cui realizzazione è attribuita ad un ignoto scultore meridionale. Il busto rappresenta una

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Antonio Montesanti, Tra mare e terra. Il ruolo dei traffici marini nella storia del terristorio costiero vibonese, Roma, Edizioni Fegica, 1999, p. 12.

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PREMESSA

martire dei primi anni del cristianesimo, sapientemente intagliato nel legno ed in seguito dipinto e poi dorato. Sul petto è posta una nicchia a tutto tondo, scavata nel legno che racchiudeva in passato le reliquie della Santa e che poteva essere aperta o chiusa all’occorrenza grazie ad uno sportello posto sul retro. La didascalia dei curatori della mostra fa risalire l’opera al XVII secolo. La martire stringe tra le mani una palma e la Bibbia, segni classici dei primi martiri del cristianesimo. Si è sicuri del fatto che si tratti di una martire perché la base li-

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gnea della scultura pone la seguente scritta: “CAPVT VNIS EX XI MILLIBUS

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VIRGINUM”, vale a dire questo è “Il capo di una delle undicimila vergini”4.

Il busto della martire proviene dall’ex Collegio dei Gesuiti di Tropea. Pro-

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prio perché è stato ritrovato in una città così vicina a Vibo Marina, non si può escludere la possibilità che il culto delle martiri sia appartenuto in passato alla costa vibonese e che, in particolare a Vibo Marina, sia stato soppiantato da quello attuale per ragioni ignote ancora oggi.

Per quanto riguarda Acireale, invece, mi è stato possibile constatare ancora oggi una forte devozione nei confronti di questa martire da parte di tutta la popolazione. Ogni anno la città di Acireale ricorda il 14 novembre la traslazione delle reliquie della sua Patrona, Santa Venera appunto, mentre la festa esterna è celebrata ogni anno il 26 di luglio.

In un opuscolo realizzato dagli esponenti del Circolo Santa Venera di Aci-

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reale si sostiene che gli agiografi che, nel corso del tempo, si sono occupati della Santa, abbiano potuto identificare la stessa martire con nomi diversi. Parasceve, Venere, Venera o Veneranda stanno ad identificare tutti la stessa donna, nata da

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Agatone e da Poliza o Ippolita, che alla morte dei genitori decise di donare tutto ciò che possedeva alla Chiesa, dedicando la sua vita alla predicazione del Vangelo in diverse regioni.

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Alle scoperte più recenti è necessario aggiungere anche altri elementi che col-

legano i due paesi. In passato, infatti, questo borgo marino era conosciuto con il

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nome di Porto Santa Venere e, ancora oggi, è possibile osservare sul lungomare del paese un rudere risalente al II-III secolo d.C. attribuito dalla cultura popolare proprio alla stessa martire. Nella parte finale di questo mio elaborato mi concentrerò invece sulla parti-

colare festa dedicata alla Madonna del S.S. Rosario di Pompei. Cercherò di porre

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http://comuneportosantavenere.blogspot.com/2009/08/capvt-vnis-ex-xi-millibus-virginum.html.

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PREMESSA

in evidenza alcuni elementi ed aspetti che permetteranno di capire come tale tradizione sia andata modificandosi nel corso del tempo. In passato, ad esempio, alla celebrazione religiosa ed alla tradizionale processione via mare si aggiungevano una serie di giochi, di manifestazioni, organizzate tutte all’interno del porto della città. Oggi questo aspetto è andato totalmente perduto. Ancora particolarmente attuale è invece la danza dei giganti. I giganti ricordano un po’ i pupi siciliani ma, a differenza di questi ultimi, sono molto più gran-

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di. Si tratta, infatti, di pupazzi in cartapesta, rivestiti di stoffe variopinte, posti sul-

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le spalle di alcuni ragazzi del paese. Nei giorni precedenti la processione delle bar-

che in mare, i giganti si esibiscono in una danza che ripropongono nelle diverse

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parti del borgo marinaro, allietando così grandi e piccini. Questi imponenti colossi rappresentano e ricordano allegoricamente la conquista della libertà del popolo calabrese dai predoni Saraceni e Turchi che per secoli hanno devastato la regione. Il loro arrivo durante la festa è preceduto da un gran frastuono e dal ritmo frenetico e pressante di un tamburo e di una grancassa, segni inequivocabili della loro

presenza. La danza realizzata da questi fantocci si caratterizza di vorticose giravolte, l’uno intorno all’altro, un po’ come se la loro fosse una danza magica ed ancestrale che riesce a catturare l’attenzione e la fantasia di quanti vi assistono. In alcune zone della Calabria essi prendono il nome di Mata e Grifone. La danza che si svolge nel corso della festa rievoca la storia d’amore che si raccon-

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ta a proposito di questi due personaggi. Le giravolte compiute durante questo rituale diventano sempre più strette, fino a che le due figure non arrivano a sfiorarsi, poi ad abbracciarsi ed infine a lasciarsi andare in un lungo bacio mentre il rit-

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mo pressante dei tamburi ne sottolinea la frenesia e l’entusiasmo. Oggi uno dei divertimenti che segue tale spettacolo consiste nello sfiorare e farsi sfiorare da queste possenti figure, quasi a voler esorcizzare e superare le paure collettive, legate

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ad un passato burrascoso. Questi aspetti, qui brevemente accennati, sono solo delle piccole ma concre-

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te dimostrazioni di come una comunità abbia la capacità di rinnovarsi periodicamente, di riunirsi e riconoscersi come comunità unita, solida, compatta. In tal senso, la festa patronale diventa un mezzo per condividere alcuni aspetti di una cultura, comunicare la propria identità. Questa breve ricerca vuole essere un modo attraverso il quale sia possibile dimostrare come il patrimonio popolare possa venire riscoperto continuamente. Ogni qual volta si ha la possibilità di partecipare a manifestazioni di questo genere si rivivono e ripropongono le origini e le ragioni di precisi comportamenti e abitudini.

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PREMESSA

Si è cercato di definire le origini di una realtà particolare, il momento celebrativo della Madonna del Rosario di Pompei, che si va ad intrecciare con un passato, una storia che esiste e non può essere cancellata. Spesso si è accavallata con quella dei borghi vicini, ma non per questo è legittimo pensare ad una comunità priva di un proprio passato. Come è possibile leggere in diversi opuscoli messi a disposizione dalla Pro Loco del paese, la storia del tratto costiero vibonese è legata a quella dei suoi por-

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ti, della pesca, dei traffici marittimi nel Mediterraneo. Già nel III sec. esisteva un

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porto romano che Agatocle di Siracusa fece costruire per accogliere la grande

flotta siracusana. L’impianto portuale si estendeva da Bivona fino alla zona alta di

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Vibo Marina dove è stata ritrovata una villa romana con annessa una necropoli ed una fabbrica di lavorazione del pesce.

Il porto di cui oggi possiamo beneficiare è stato ricavato nella baia naturale di Santa Venera nel 1862. Il nuovo porto divenne un approdo sicuro da cui salparono bastimenti carichi di olio, vino, agrumi e legname proveniente dalle Serre. Qui giunsero i soccorsi per la Calabria a seguito del terremoto del 1905 e sempre qui sbarcarono gli anglo-americani nel 1943. Secondo la leggenda i primi abitanti del luogo, per la gran parte pescatori, ritrovarono sulla spiaggia la statua di una donna che venne identificata con la martire Santa Venere. Fu così che il borgo marino prese il nome di Porto Santa Venere, mantenuto fino al 1928, anno in

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cui si mutò in Vibo Marina.

Attraverso una manifestazione della cultura locale, quale un evento festivo, si ha dunque la possibilità di scoprire una serie di fattori e di elementi sempre di-

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versi che caratterizzano una regione, un paese o un villaggio. La realtà di un luogo e la vita dei suoi abitanti cambiano, si trasformano e questi loro mutamenti possono essere ricostruiti attraverso l’analisi dei loro usi, dei loro costumi e dei ri-

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tuali che mettono in pratica. La festa è un evento culturale che partecipa a questi cambiamenti, si modifica e si adatta ai tempi. Tuttavia, ciò non vuol dire che

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essa sia scomparsa, andata perduta o morta. Ciò significa semplicemente che si è riplasmata in funzione dei suoi soggetti, dei suoi attori. Questo è quanto è accaduto anche nel caso della mia festa, la festa di una comunità che porterò sempre nel cuore. Questo mio elaborato è stato reso possibile dalla disponibilità e dalla generosità di tutti gli abitanti di Vibo Marina. Ringrazio in particolare un’amica di vecchia data, Antonietta Messina, per le sue informazioni puntuali e per il suo sostegno e Rosario Messina. Antonio Montesanti che mi ha aiutata a muovere i primi pas-

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PREMESSA

si sul campo e la Pro Loco di Vibo Marina. Un ringraziamento doveroso va alle bibliotecarie ed ai bibliotecari dell’Istituto della Biblioteca Calabrese che, nonostante il caldo e l’odore d’estate che riempiva le sale, hanno avuto la capacità di sopportarmi e supportarmi. Un grazie anche alle bibliotecarie del Dipartimento di Scienze Antropologiche di Torino, sempre molto disponibili nei miei confronti. Ringrazio anche il Professor Luigi Maria Lombardi Satriani per i suoi suggerimenti e la sua disponibilità, Renata che si è sempre attivata in prima linea per la

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sottoscritta. Grazie anche a mia sorella, Roberta De Natale, ed a Tommaso Dele-

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onardo, grazie ai quali è stato possibile realizzare un apparato iconografico mol-

to fitto. Un ringraziamento speciale va al Professor Pier Paolo Viazzo che, sin

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dall’inizio, mi ha sempre sostenuta e che, con grande ed indubbia professionalità,

ma soprattutto pazienza ed umanità, ha seguito le diverse fasi del lavoro e ha reso possibile il risultato finale. Ringrazio gli amici e le amiche che mi hanno consolato nei momenti di sconforto che mi hanno accompagnata nel periodo di stesura del testo. Francesca Cattina e le mie compagne di avventura, nonché di corso, grazie per il vostro supporto. Un ringraziamento doveroso va ai miei parenti, alla mia famiglia senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile. Grazie a mia madre che ha sempre cercato di spronarmi nel corso della ricerca ed a mio padre, com-

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pagno insostituibile, nonché antropologo nascente.

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Capitolo primo

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1. L’inconoscibilità e la descrivibilità della festa

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LA FESTA: UNO SGUARDO D’INSIEME

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La festa è sempre stato un argomento capace di suscitare un forte interesse nell’ambito delle scienze umane. Tale tematica permette di compiere una serie di riflessioni riguardanti argomenti di ordine generale che suscitano una serie di problemi concettuali e di definizione. Francesco Faeta parla, ad esempio, di misconoscimennto e sterilità della festa. Egli sottolinea come l’attenzione data al tema della festa è molto elevata e che, dunque, la sua inconoscibilità non può derivare dalla mancata attenzione al tema specifico o dallo scarso rilievo degli studi prodotti in tale campo. Misconoscimento e sterilità, per Faeta, dipendono dal particolare taglio che si è attribuito ai differenti studi realizzati in proposito e che, spesso, non sembra particolarmente adatto a chiarire meccanismi sociali propri della festa. È necessario osservare ed analizzare il sistema festivo nel suo complesso, non focalizzandosi solo sull’analisi del momento topico della festa ma andandola ad esplorare in toto. Faeta scrive in un suo saggio:

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Certe volte le communitates rituali o festive (per ricordare Victor Turner) sono viste esclusivamente nel momento parossistico (per ricordare Claude Lévi-Strauss) della loro azione e l’indagine sull’universo festivo si risolve in un’indagine sulla forma festiva, quale appare nell’attimo epifanico dell’incontro con lo studioso1.

Egli tende a sottolineare come l’elemento che in genere manca all’interno degli studi svolti in tale ambito e sul quale occorre soffermarsi è la dimensione comuni-

1

F. Faeta La festa religiosa nell’Europa meridionale contemporanea. Qualche riflessione per la definizione del suo statuto teorico, in L. Bonato (a cura di), Festa viva, volume 1, Torino, Omega Edizioni, 2006, p. 24.

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CAPITOLO PRIMO

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taria. Secondo lo studioso, l’antropologia italiana che si rifonda nel secondo Dopoguerra non conosce la comunità e non pratica degli studi su di essa. Separati dalla dimensione comunitaria, l’osservazione e lo studio della festa si inseriscono in un quadro particolare. La festa diventa un fenomeno eminentemente culturale subendo così derive teoriche sul piano ideologico e normativo. In questo modo da un lato ci si può interrogare su cosa sia la festa, tuttavia il concetto di festa, così inteso, non permette di approdare a realtà antropologiche differenti, dall’altro emergono varie idee di festa come quella di festa pre-cristiana, di festa agraria, di festa mediterranea, di festa tradizionale ed inventata, di festa turistica. Analizzare la festa in relazione alla comunità permetterebbe sia di individuare l’eterogeneità fenomenologica e strutturale della festa, sia la complessità sociale del paese o della città nella quale la festa stessa si inserisce. Il termine comunità ha però provocato una serie di perplessità e non pochi fraintendimenti, soprattutto nello studio delle feste del Mezzogiorno italiano. Per questa ragione sarebbe opportuno sostituire il termine comunità con quello di località. La comunità, infatti, fa riferimento ad una lettura auto-referenziale dei luoghi che i luoghi non possiedono. La località è data da un lungo processo di costruzione, alimentato da una necessità di aggregazione in opposizione alla complessa estraneità del mondo. La realtà locale è culturalmente e socialmente composita e ospita anche, ma non solo, quelle formazioni che si è soliti definire popolari e contadine. Tale argomento è stato poco indagato nel nostro paese, tuttavia riveste un’importanza particolare per comprendere le differenze nazionali in un sistema costituito da un debole senso dello Stato dove le città, i paesi e i villaggi sono state le vere patrie2.

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Mentre il centro è sempre amministrato, la località è decentrata e può essere amministrata da quei gruppi che sono in grado di esprimere un legame di organicità con il centro. Ciò non vuol dire che i processi culturali siano realizzati esclusivamente da gruppi dominati da un’egemonia popolare. Faeta riconosce la complessità delle realtà sociali. In particolare, egli si riferisce alle piccole realtà periferiche del sud che appaiono si profondamente legate al mondo contadino ma comunque proiettate altrettanto fortemente verso la modernizzazione. La festa, in particolare la festa religiosa, si colloca all’interno del contesto locale. Senza contesto locale, spaziale e sociale la festa diventa effettivamente un campo inconoscibile, riducendosi ad un semplice esercizio classificatorio, privo dei profondi significati di cui invece è portatrice. Anche quando si considerano fe-

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Ivi, 26-27.

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CAPITOLO PRIMO

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stività nazionali, civili o legate all’universo religioso, occorre localizzarle per comprendere e apprezzare dinamiche e processi. È necessario dunque non limitarsi all’analisi del fenomeno religioso ma ricostruire il contesto nel quale è immerso, indagare le dinamiche di potere e le strutture politiche che vi sono coinvolte. Come ogni fenomeno umano, la festa è a rischio storico e culturale ogni qual volta è messa in opera. Tenere conto della sua fragilità, come della fragilità di ogni produzione culturale, è importante perché ci aiuta a comprendere ciò che rende una festa tale. Paolo Apolito, in un testo del 1993 dal titolo Il tramonto del totem, afferma che la festa si trova inscritta all’interno del calendario di una comunità, ma che proprio tale inscrizione deriva dalle logiche del potere sociale adottate dagli attori che compongono quella particolare società. Il calendario festivo è dunque uno strumento del potere sociale, in genere accolto anno dopo anno e, che per tale ragione, è – e deve essere – realizzato. Quando i simboli tradizionali di una festa non sono accettati si svela il suo aspetto convenzionale. In particolare emerge come la festa poggi sull’accettazione di un frame, vale a dire, sulla condivisione dei suoi confini piuttosto che sulla sua struttura3. Il nesso festa-calen-

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dario è molto forte ed è espressione delle realizzazioni degli attori e delle logiche di potere. Tuttavia il calendario non rappresenta un elemento costitutivo della festa. In tal senso la centralità della festa è affidata agli attori e spesso si appoggia a nuovi oggetti che ne permettono la realizzazzione come i media, la pubblicità, l’industria, la televisione. Ciò a dire che, non considerando il tempo festivo come centrale nella dimensione festiva, si ha la possibilità di comprendere che l’essenza della festa non è legata alla sua temporalità ma alla possibilità del singolo di raggiungere spazialmente il luogo della festa e di parteciparvi. Il calendario festivo non è espressione della festa ma è un elemento che appartiene ad essa. Esso non è un segno della festa ma ne rappresenta un oggetto di indagine che ruota attorno ad un punto focale che è rappresentato dagli attori che “fanno festa”. La temporalità del festivo ha acquisito nel corso del tempo dimensioni multiple che hanno permesso di affiancare al calendario comune un calendario individuale. Il singolo, infatti, può decidere di aderire tanto alle feste stabilite del calendario locale quanto a quelle proposte all’esterno, ad esempio, dai media. La festa dunque non deve essere definita tale solo in virtù di un calendario che la confermi.

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P. Apolito, Il tramonto del totem. Osservazioni per una etnografia delle feste, Milano, Franco Angeli, 1993, p. 68.

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CAPITOLO PRIMO

Questa visione della festa pone però in essere un rischio importante. Così come non sono indispensabili un tempo festivo e una comunità festiva, allo stesso modo potrebbe non essere indispensabile la presenza di un frame comune. Citando lo stesso Apolito:

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potremmo essere costretti a dire non solo che la festa è scomparsa, ma, parafrasando Jesi, che se anche ci fosse non saremmo in grado di descriverla4.

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Se definire cosa sia o non sia una festa è un ambito soggetto a differenti interpretazioni, allo stesso modo, il ricercatore sul campo che, a seguito della sua osservazione, non considererà festa ciò che per gli attori che la producono ha una tale valenza, la descriverà comunque come una non-festa. Si viene a delineare così un conflitto tra descrizione etica e descrizione emica della festa5. Il ricercatore che deciderà di affrontare una descrizione emica della festa sarà immediatamente bloccato dall’opposizione delle varie interpretazioni dei soggetti coinvolti. Per risolvere questo tipo di conflittualità Apolito si rivolge al concetto di ethos che Bateson aveva impiegato per i suoi studi tra gli Iatmul della Nuova Guinea6. L’ethos è un sistema di organizzazione standardizzata degli istinti e delle emozioni degli individui. Allo stesso modo, l’ethos festivo è un sistema standardizzato

Ivi, p. 71.

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Apolito in questo ambito definisce come etica una descrizione basata sulle teorie forti dell’autore. La descrizione emica della festa segue l’orientamento di senso posto in essere dagli attori che partecipano alla festa.

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Il rituale in questione è il Naven, rito di travestimonto che coinvolge tutto il clan ogni qual volta un giovane compie un atto di particolare importanza. In principio Bateson condivideva l’approccio struttural-funzionalista proposto da Radcliffe Brown di cui era stato allievo. Proprio i suoi studi tra gli Iatmul gli mostrano i limiti di tale prospettiva. Tali limiti erano percepibili soprattutto a livello emotivo. L’emotivo è considerata dallo studioso come causa della cultura. Ogni cultura tende a standardizzare il contesto in cui si produce in modo da uniformare l’affettività degli individui. L’atteggiamento di questi ultimi è uniformato dalla loro cultura in modo da poter essere affettivamente compatibile con quello dei singoli. La funzione emotiva del rito è quella di individuare le relazioni tra i soggetti coinvolti stabilendo il contesto in cui l’atto rituale si svolge. Ogni cultura realizza un carattere comune, risultato delle relazioni che si sviluppano tra gli individui di una stessa comunità. Il carattere individuale è dato dall’interazione di strutture bipolari (per esempio assistenza-dipendenza, autorità-sottomissione). Se l’individuo mostra apertamente una di queste due polarità, ciò implica che quella non espressa palesemente è comunque presente nella sua personalità. A questo punto Bateson introduce il concetto di ethos che definisce il comportamento che la società prescrive durante il processo di socializzazione e che organizza gli istinti e le emozioni degli individui. Nel Naven, in particolare, gli individui si immedesimano nell’ethos dell’altro sesso.

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e appropriato di emozioni, riconosciuto dai partecipanti come caratteristico della festa. La festa dipende sempre dal carattere emotivo dei suoi partecipanti. Forse proprio questo elemento la rende sfuggente e difficilmente definibile una volta per tutte7. Prendere in considerazione l’ethos festivo permette di risolvere alcuni punti problematici riguardo all’argomento. La festa, spogliata del suo tempo, della sua identità collettiva, sembra scomparire come evento sociale. In realtà l’ethos permette di individuare gli elementi base che rendono una festa tale e che fanno della festa stessa un processo collettivamente vincolato e non controllato dal singolo. L’ethos non può essere modificato o organizzato dal singolo. Esso rappresenta una condizione necessaria e “porsi fuori da esso è una gaffe insopportabile; dalla festa si può solo fuggire”8. È dunque sbagliato affermare che una tal festa si è dissolta, è scomparsa o non esiste più. Ciò che scompare non è la festa ma le condizioni alle quali la festa stessa è erroneamente assimilata. È il tempo festivo che si dissolve, la comunità che scompare, ma la festa rimane, è sempre presente. Una precisazione condivisibile con Paolo Apolito è legata alla necessità di riconoscere il ruolo degli attori nel processo festivo. Sono questi ultimi a stabilire se ciò che stanno vivendo è assimilabile ad una festa. L’ethos si rivela essere un vincolo per il singolo ma una scelta per il il gruppo. Tale scelta è certamente teorica. Così come accade per la festa, anche l’ethos festivo si istituzionalizza e diventa specchio di un particolare ordine sociale. Tuttavia un particolare ethos può essere sostituito da altri ethos nel momento in cui non è più riconosciuto come mezzo espressivo dalla comunità che l’aveva prodotto. Queste considerazioni sono valide anche per situazioni festive di carattere provvisorio (si pensi ad esempio all’esultanza dei tifosi di una squadra vincente in una partita di calcio). Il secondo elemento che secondo Apolito è necessario considerare per parlare di descrivibilità della festa è il modo simbolico. Esso rappresenta l’elemento linguistico privilegiato di espressione di significati. Anche il modo simbolico comporta delle dif-

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Apolito sottolinea la difficoltà a definire il fenomeno festivo rispetto ad altri fenomeni quali ad esempio il rito. Il rito è un percorso non influenzato dall’emotività dei suoi attori, “per il quale non occorre che vi sia una determinata organizzazione delle emozioni e dei sentimenti di quelli che lo praticano” (Apolito, Il tramonto del totem, p. 72). La festa, pur circondando spesso il rito, esiste solo se il vissuto dei partecipanti è coinvolto in un ethos riconosciuto.

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Ivi, p. 75.

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ficoltà non indifferenti. Il suo impiego, infatti, comporta il moltiplicarsi delle chiavi di lettura possibili di una festa. Per questo il suo impiego richiede anche la presenta di una auctoritas che possa legittimare un significato piuttosto che un altro. Tuttavia questa condizione non impedisce che, nel corso di una festa, si possano produrre nuove e diverse interpretazioni9. Il frame festivo è reso proprio dall’impiego del modo simbolico, elemento necessario perché la festa si realizzi, e dall’impossibilità che esso si regga su una sola auctoritas. La sostituzione o l’interruzione del frame non è una scelta fatta da coloro che partecipano alla festa, ma può essere messa in atto anche da una parte del gruppo di partecipanti. Il contesto festivo appare dunque come un contesto conflittuale e tutt’altro che pacifico a causa della fragilità dell’auctoritas che lo accompagna. Il conflitto di cui si parla non comporta necessariamente una distinzione tra centro e periferia perché in genere ogni istanza auto-elegge un centro. La festa, dunque, può essere definita come la produzione di metafore sociali che vogliono dire qualcosa sulla società e sul mondo che può aggiungersi o sostituirsi a ciò che su di essi si è già detto. Essa non comporta solo una moltiplicazione di significati, ma anche la migrazione dei significati stessi. Una festa non è mai solamente tradizione e non è mai stata tale. La festa racchiude in sé elementi che, come scrive Faeta, potremmo definire consuetudinari, ed elementi che trascendono la tradizione. La festa è un luogo di continuo scambio, d’interazione e di lotta tra interpretazioni diverse. La festa è multifocale, ha diversi obbiettivi, vari significati simbolici, più significanti e molte funzioni. È probabile che proprio questo carattere multivalente contribuisca ad alimentare la convinzione che la festa “vera” sia scomparsa. In realtà non esistono dei parametri che permettano di farci capire cosa sia puro, incontaminato o autentico in tal senso. Tuttavia, seguendo la linea di pensiero di Laura Bonato, l’inautenticità è connessa con l’innovazione, la commer-

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ciabilità, il perseguimento di scopi eminentemente turistici. Tutti questi elementi fanno sì che gli stili e i contenuti della festa siano avvertiti come di cattivo gusto e inadeguati10. La descrivibilità di una festa contemporanea risulta quindi mol-

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La distinzione tra rito e festa è resa da Apolito molto più netta in questo modo. Anche il rito può fare riferimento ad un ethos comune ma il modo simbolico è determinato da un’unica auctoritas le cui interpretazioni non sono assolutamente messe in discussione. Nella festa, invece, l’auctoritas non è mai unica. La festa è un luogo in cui si svolgono azioni rituali e non, orientate verso il modo simbolico che può però essere soggetto a cambiamenti interpretativi.

10 L. Bonato, Tutti in festa. Antropologia della cerimonialità, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 133-134.

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to problematica. Personalmente ritengo che una via da seguire sia quella proposta dalla stessa Bonato secondo la quale occorre analizzare la festa nell’ambito del panorama sociale nel quale si realizza, individuare i suoi protagonisti e promotori, il momento in cui diventa patrimonio di una società, i rapporti con i centri di potere. Spesso, sottolinea Bonato, è accaduto che demologi ed antropologi abbiano additato come inautentiche delle manifestazioni festive per il semplice fatto di essere di formazione troppo recente. Questa convinzione nasce da una opposizione dicotomica, quella tra cultura popolare e cultura di massa. La prima, infatti, è spesso percepita come espressione di una autentica manifestazione di classe e portatrice di tradizioni autentiche, a differenza della seconda. In realtà, tutte le feste, nuove o datate che siano, presentano delle caratteristiche comuni che vanno dalla presenza di un calendario, alla molteplicità dei significati, alla ritualizzazione dei comportamenti dei partecipanti. A ciò si aggiunga, come già detto in precedenza, che la festa è un terreno in continua trasformazione, che riafferma o rigenera continuamente le culture. Analizzando la festa in questo senso è possibile giungere alla conclusione che tutte le feste sono vere. La festa è il mondo della creatività non consentita nei momenti di vita contemporanea. È una creatività ludica ed estetica che ha delle ripercussioni anche nei momenti di vita non festivi. Essa interagisce col quotidiano. Non lo modifica ma, proprio per via della sua creatività nel sistema delle relazioni simboliche, può fornire spunti per nuovi orizzonti di vita.

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2. La rifunzionalizzazione della festa

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Negli ultimi anni le feste hanno riacquistato una forte vitalità. Ciò riguarda soprattutto le feste popolari che sembrano paradossalmente essere rivitalizzate dai processi di globalizzazione e urbanizzazione, dalla diffusione delle tecnologia e dai media11. Ogni festa è ristrutturata, reinventata, rifunzionalizzata in virtù dei cambiamenti legati alla modernità. Tanto in Italia, quanto in Europa, le feste assumono fisionomie particolari che le rendono diverse e diversemente proposte sulla scena rispetto al passato. Il più delle volte accade che le tracce tradizionali di tali feste risultino svuotate del proprio significato originario. Per comprendere meglio credo possano essere chiarificatrici le parole di Ambrogio Artoni che cita, a

11 Ivi, p. 33.

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tal proposito, le danze saltate in Provenza, le trippettes di Barjol. In questo caso, spiega Artoni, ormai nessuno pensa che tali danze abbiano come obbiettivo quello di promuovere la fertilità e, anche se qualcuno conoscesse i significati simbolici di tali manifestazioni, difficilmente questi stessi elementi acquisirebbero “il residuo valore semantico a livello di autentiche credenze”12.

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La reinvenzione della festa non nasce dal desiderio di recuperare una sua qualche memoria storica. In questo senso trovo che il punto di vista di Artoni sia assolutamente condivisibile. Non sono i “vinti” coloro che desiderano recuperare la tradizione passata, i protagonisti della festa, ma coloro che hanno spezzato ogni legame con il mondo sociale contadino. La nuova festa non ha più un valore rappresentativo ma è il luogo dell’azione e, come tale, può essere vista e vissuta come un gioco che si realizza a livello espressivo e che produce effetti autentici nella realtà in cui prende piede13. Nell’Italia Nord-occidentale, così come in diverse zone del Sud, la rivisitazione, l’integrazione di elementi rituali caduti in disuso, l’invenzione di nuovi elementi sono presenti in modo persistente nel panorama festivo. Le motivazioni e gli input che spingono alla rinascita del festivo sono diversi e tutti molto interessanti. Come spiega Laura Bonato, la festa è, innanzitutto, il luogo del particolarismo e del localismo. Essa rappresenta una possibilità di cambiamento in ogni ambito: comporta la riorganizzazione degli spazi pubblici, la rottura della routine quotidiana, l’incremento repentino e temporaneo della popolazione sul territorio14. La comunità si trasforma, non è più dispersa, ma è ricompattata intorno al fenomeno festivo. La festa contemporanea può essere considerata un ibrido che si muove tra tradizione e modernità che attribuisce nuovi significati a gesti, simboli ed azioni. Ogni anno nascono e fioriscono feste nuove che racchiudono elementi riconducibili spesso ad altri ambiti festivi e cerimoniali. Non posso che condividere la prospettiva di Bonato ed affermare che quest’eterogeneità, queste rivisitazioni e adattamenti sono tipici anche delle feste più radicate e tradizionali quali, ad esempio, le feste patronali. Tuttavia occorre precisare che tali cambiamenti avvengono in modo graduale e spesso risultano difficili da individuare. Se, da un lato, la festa resiste al tem-

12 A. Artoni, Azione vs rappresentazione. Per un’antropologia delle performance, in L. Bonato (a cura di), Festa viva. Tradizione, territorio, turismo, volume 2, Torino, Omega Edizioni, 2006, p. 42. 13 L. Bonato, Tutti in festa, p. 44. 14 Ivi, p. 34.

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la presenza di un’esperienza interpersonale; la presenza di un apparato simbolico-rituale e ludico-cerimoniale; la periodicità; l’emozionalità; l’eccezionalità; una funzione socio-culturale.

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po, dall’altro, essa muta nei significati, nei valori, abbandonando o sovrapponendo quelli passati a quelli presenti. Si tratta di cambiamenti necessari affinché la festa possa essere assunta e vestita dalle nuove generazioni che la porranno in essere. I protagonisti della festa, come spiega la teoria di Gian Luigi Bravo15, non sono necessariamente i componenti più anziani della comunità. Spesso si tratta di intellettuali, insegnanti, studenti che si pongono l’obbiettivo di recuperare quei tratti della comunità a cui appartengono e che sono ancora vivi nella loro memoria. Sono coloro i quali traducono queste conoscenze in performances e scenografie che a loro volta insegneranno a tutti coloro che parteciperanno all’evento festivo. È lecito quindi parlare di una teatralità della festa, anche se non nel senso eminentemente spettacolare del termine, volta non tanto alla rappresentazione quanto all’azione. Ciò vale per la festa nel presente come anche nel passato. La festa si riproduce al di là di ogni simbolo grazie al suo valore performativo. Per questo, afferma Artoni, non è possibile avvicinarsi alla festa, comprenderne la natura più profonda, se non si fa festa, se non si partecipa attivamente ad essa, anche come spettatori. Nonostante la festa possa essere considerata come un terreno sempre diverso, mai uguale a se stesso, pur entrando a far parte di un calendario stabilito, è possibile individuare delle sue costanti. Artori si rifà ad un sistema classificatorio in precedenza presentato da Arnaldo Nesti. Secondo tale schema16, ogni festa presupporrebbe al suo interno:

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Tuttavia, pur individuando delle costanti, realizzare un sistema classificatorio per le feste non è assolutamente conveniente. Ogni festa, infatti, risulta essere un mélange di fattori differenti, provenienti da sistemi festivi diversi e che spesso sono il risultato di processi selettivi difficili da individuare.

15 G.L. Bravo, Festa contadina e società complessa, Milano, Franco Angeli, 1984. 16 Questo schema è ripreso dal saggio di Ambrogio Artoni contenuto in Festa viva, vol. 2, p. 49.

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3. La festa come produzione e consumo

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La rifunzionalizzazzione e la reinvenzione della festa possono anche essere fattori legati a motivi di carattere strettamente economico e quindi volti anche alla promozione dei prodotti locali e alla pubblicità finalizzata al turismo. La festa, dunque, è anche un luogo di promozione economica, di mercato e, cosa molto importante, fornisce e promuove lavoro. Molte cerimonie, infatti, sono accompagnate dall’animazione di artisti locali o “forestieri”, contattati per l’occasione. Alcune di queste compagnie elaborano progetti su commissione e ripropongono spettacoli in cui si rievocano vicende storiche e leggende locali17. Ai processi relativi alla rifunzionalizzazione della festa si affiancano, dunque, percorsi di spettacolarizzazione della stessa. Si potrebbe pensare ad un tentativo, da parte di questi gruppi, estranei alla comunità, di appropriarsi di elementi appartenenti alla comunità locale che ne rimarrebbe priva. In realtà, grazie alla loro attività, la comunità prende coscienza del proprio apparato cerimoniale, anche se non vi partecipa in modo attivo18. Si viene a creare un gioco di relazioni e corrispondenze tra ciò che

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appartiene alla tradizione e ciò che fa parte delle trasformazioni attuate nel presente. La festa, così come ogni altra manifestazione popolare, si affianca al potere economico locale. È come se diventasse una sorta di “nuova vetrina per il consumo dell’identità”19. Nella conservazione, reinvenzione e promozione della festa, un ruolo importante è affidato alle associazioni Pro loco, nate nel XIX secolo con il nome di Società di abbellimento o Comitati di cura. La loro diffusione fu più capillare in Italia rispetto al resto d’Europa. Oggi le Pro loco riconosciute nel nostro paese sono circa sei mila ed il loro intervento abbraccia diversi rami, da quello turistico, a quello culturale, sociale e sportivo. Si tratta di associazioni apolitiche rette dall’impegno di volontari del luogo e che sono soprattutto impegnate nell’organizzione di feste patronali, sagre, fiere, mostre e iniziative di recupero e promozione del patrimonio storico e culturale del loro paese. Come si è già detto nei paragrafi precedenti, la festa è un organismo in continuo cambiamento e si costruisce attraverso l’interazione con l’esterno. Con la pro-

17 L. Bonato, Tutti in festa, p. 139. 18 L. Bonato (a cura di), Portatori di cultura e costruttori di memorie, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009. 19 L. Bonato, Portatori e imprenditori di cultura per una lettura “a memoria” del territorio, in L. Bonato (a cura di), Portatori di cultura e costruttori di memorie, p. 4.

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mozione dei prodotti locali e di un turismo culturale, la comunità tenta di trovare una sua collocazione e di conquistare una certa visibilità all’esterno20. Il rischio che questa scelta comporta è che la festa stessa potrebbe essere omologata ad altri fenomeni che già hanno trovato una loro posizione all’esterno. Tale visione ci avvicina a ciò che Vittorio Lanternari scriveva una trentina di anni fa. Nonostante si tratti di affermazioni appartenenti, potremmo dire, ad un’altra epoca, si possono considerare ancora particolarmente attuali. L’ostentazione, la competizione, lo spreco, sono stati importati nella quotidianità e imposti come dominanti in società ridotte al consumismo. L’ideologia consumista, che è andata via via diffondendosi, si basa su una improbabile utopia, vale a dire, quella di vivere continuamente, senza interruzioni in festa. È un po’ come se ci si trovasse catapultati all’interno del “mito d’una nuova età dell’oro generalizzata”21. In tal senso, lo spreco, la competizione, l’ostentazione, non emergono più come momenti eccezionali, tipicamente legati al momento festivo, ma entrano a far parte di una quotidianità all’interno della quale esso si estende continuamente ed in ogni momento22. La festa, infatti, è propriamente un tempo che si distingue da quello lavorativo. È un momento di non-lavoro da dedicare al consumo gioioso e al godimento. Potrebbe essere un momento dedicato a rigenerarsi, a stare con gli altri e confrontarsi. Tuttavia, in genere, si trasforma in un momento di vacanza, di cedimento al turismo di massa. In questo senso la festa diventa sinonimo di tempo libero da dedicare al proprio benessere andando così ad incrementare i profitti di chi del tempo libero fa il proprio sistema di guadagno. Sicuramente l’aspetto commerciale della festa è oggi molto presente ma non rappresenta l’unico elemento che la caratterizza. A coloro che sfruttano la festa come momento di guadagno, si affiancano anche gli abitanti del posto che fanno della festa un momento che esula dal quotidiano e che permette di raggiungere una dimensione nuova, giocosa e vitale che trascende dalla realtà giornaliera. La festa è un processo in continua trasformazione, un organismo che si evolve costantemente e che ogni anno muta costantemente pelle. Indubbiamente essa è oggi, più di ieri, sottoposta alle logiche del potere economico e politico, ma si tratta di un fattore comune a molti fenomeni culturali “contaminati” dai processi di globalizzazione e dalla modernità. Le feste sopravvivono reclutando ogni anno nuovi attori e impegnando sempre nuove energie. Nella festa possono emergere delle azioni mirate e dotate di

20 L. Bonato, Tutti in festa, p. 44. 21 V. Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, Palermo, Sellerio Editore, 1983, pp. 78-79. 22 Ibidem, p. 79.

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senso (per esempio la promozione turistica dei prodotti locali e delle bellezze artistiche per promuovere l’economia del luogo), ma queste non producono necessariamente un risultato finale. La somma dei significati specifici degli attori non produce un significato unitario del momento festivo. È dunque possibile notare come riemerga costantemente il valore eterogeneo della festa. Essa assume più significati, è legata a più simboli, a più obbiettivi, a più funzioni. Per comprendere meglio, credo che le parole di Lello Mazzacane possano essere d’aiuto. Nel descrivere, nel 1982, la festa settennale dei “vattienti” di Guardia Sanframondi Mazzacane scrive:

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Ora non v’è dubbio che a Guardia quest’anno la festa assume più volti secondo da dove la si guardava. Dall’“interno” aveva ancora la sua logica, dall’interno che poi vuol dire da parte dei guardioli, ma anche dentro i piccoli spazi del paese, dove la gente di fuori non riusciva ad arrivare, dove il rapporto tra flagellanti e coro era ancora simbiotico, senza distinzione tra flagellante e flagellato. C’è una ritualità, una religiosità, una catarsi che necessita delle sua atmosfere, dei suoi numeri magici. Dove gli spazi improvvisamente si slargano invece, subito fuori dal tessuto antico del paese e lungo l’asse della strada provinciale, la festa è un’altra cosa. Qui il grande protagonista finisce per essere il pubblico, come sempre e dovunque questo sia pubblico-massa. L’attenzione qui si disperde… la dimensione intima del rapporto col quadro processionale, incluso l’aspetto penitenziale, (superata la curiosità iniziale) non può raggiungere lo stomaco dello spettatore massificato. Allora la festa cambia segno, diventa cronaca di un avvenimento, ciascuno se ne porta a casa un pezzo senza ricomporne l’insieme23.

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Ogni attore, ogni spettatore, alla fine della festa, porterà con sé una lettura diversa dell’esperienza festiva. Ogni interpretazione ed ogni chiave di lettura avranno una loro validità e il ricercatore dovrà vagliare e considerare tutte le possibilità proiettandosi all’interno del fenomeno festivo e entrando in contatto con tutti coloro che ne sono coinvolti. In altre parole, così come Bronislaw Malinowski praticò l’osservazione partecipante tra i suoi trobriandesi, allo stesso modo, il ricercatore di oggi, anche per quanto riguarda l’analisi del festivo, deve tentare di stabilire un certo dialogo, una certa empatia con gli attori della festa al fine di presentare il loro punto di vista. Adoperandosi in questo senso, potrà comprendere il valore effettivo di quel particolare fenomeno culturale senza rischiare di esaltarlo o svalutarlo troppo.

23 L. Mazzacane, La festa rivelatrice. Cultura locale e modalità di massa in una comunità meridionale in “La Ricerca Folklorica”, 7, 1983, pp 97-112.

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4. La festa: folklore, fakelore e tradizione popolare

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Paola De Sanctis Ricciardone, in un saggio incluso nel primo volume di Festa viva, curato da Laura Bonato, tocca un punto molto importante che coinvolge il panorama festivo. La studiosa esordisce con un’osservazione legata a come le valutazioni date dal singolo non rendano giustizia all’ampio panorama festivo. De Sanctis Ricciardone si riferisce all’edizione 2000 della Guida Touring, Artigianato, sapori e tradizioni d’Italia all’interno della quale è presentato il calendario festivo di ogni regione. All’interno di tale guida non sono ovviamente menzionate tutte le feste ma solo quelle più “antiche e documentate della regione”24. La strategia con cui la selezione avviene non è casuale ma si riferisce alla stessa selezione che inizialmente era compiuta dagli studi demologici. Tale distinzione avveniva considerando l’oggetto di studio sulla base di un sistema di dicotomie particolarmente forte al fine di legittimare i vari campi di indagine. Si tratta di forme dicotomiche del tipo: folklore/folklorismo, tradizioni genuine/spurie, folklore autentico/falso. Trovo sia legittimo andare a definire questo sistema dicotomico e fare riferimento al saggio di Paola De Sanctis Ricciardone prima di toccare altri campi d’indagine legati al panorama festivo ma che appartengono a ciò che comunemente è definita cultura popolare. In primo luogo è necessario dare una definizione dei due termini qui messi in discussione. Il termine folklore25 è impiegato per indicare tutte quelle espressioni cultura-

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li che generalmente sono identificate con le tradizioni popolari. Esso racchiude in sé le tradizioni antiche del passato, legate ad un particolare territorio e ad un particolare popolo. Tuttavia nel folklore rientrano anche l’insieme di riti, credenze e feste di formazione più recente e non necessariamente accompagnate da una solida base storica. Il termine fakelore è attribuito a Richard Dorson, uno studioso di tradizioni popolari. Dorson definisce il fakelore come la presentazione di scritti sinteti-

24 P. De Sanctis Ricciardone, La festa tra folklore e fakelore, in L. Bonato (a cura di), Festa viva, volume 1, Torino, Omega Edizioni, 2006, p. 37. 25 Il termine deriva dal sassone folk, vale a dire popolo, e lore cioè sapere. Fu impiegato per la prima volta dall’archeologo William Thoms nel 1846. Il termine inglese ha trovato forti resistenze soprattutto in paesi con un forte senso della nazionalità e della purezza della lingua. In Germania, sin dai primi anni dell’Ottocento, si usa, ad esempio, il termine Volkskunde. In Italia, per un certo periodo, si impiegava il termine demopsicologia, poi sostituito con demologia. Nel nostro caso il termine internazionale folklore è in genere assimilato a quello di tradizione popolare ed è ancora particolarmente impiegato.

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ci e spuri che hanno la pretesa di essere folklore genuino. Si tratta di produzioni che non derivano da una raccolta sul campo ma sono reinscritte da una letteratura precedente e da fonti giornalistiche. Spesso si tratta di produzioni interamente fabbricate come nel caso di molti eroi popolari26. L’esempio lampante che ci viene fornito nel saggio è quello del mitico Braccio di Ferro, creato nel 1929 da Elzie Segar. Grazie alla popolarità e alle simpatie riscosse dal suo personaggio il consumo e la produzione di spinaci in scatola aumentò notevolmente. Il fakelore, insomma, a volte sembra funzionare bene e meglio del folklore. Dundes, in un testo del 1989 dal titolo La terra in piazza. Antropologia del Palio, cerca di provare l’inadeguatezza del fakelore, affermando che, in fin dei conti, gli studiosi hanno da sempre avuto a che fare con tradizioni spurie. Tuttavia Dundes non decostruisce la definizione realizzata da Dorson. Il continuo spartiacque tra puro e spurio, autentico e falso, ha da sempre accompagnato la crescita ed il destino di questo ambito della conoscenza. L’antropologia è andata da sempre alla ricerca dell’autentico folklorico che si è nutrito per decenni di una ricca metodologia su basi filologiche. In particolare, gli antropologi delle ultime generazioni tendono a connettere l’autentico con la questione dell’autenticazione. Quest’ultima può essere definita come il luogo appropriato per una riflessione approfondita anche da un punto di vista storico. L’autenticità è invece una definizione in continua trasformazione. Ciò vuol dire che quello che in passato poteva risultare come inautentico, spurio, falso, può subire una ridefinizione e diventare un’autenticità emergente. De Sanctis Ricciardone fa l’esempio del souvenir. In passato tali oggetti venivano classificati come inaccettabili ai fini dello studio di un particolare fenomeno perché la loro autenticità era messa costantemente in dubbio. Oggi possono anche arrivare ad essere catalogati nei musei e godono di nuovi statuti di definizione e interpretazione27. Ciò significa che la conoscenza demologica è uscita dal terreno della comunità scientifica ed ha iniziato ad interessare anche il sociale. In questo modo i suoi modelli si sono trasformati in azione impedendo così agli studiosi di poter esercitare qualsiasi controllo su di essi. Anche se in Italia non si è ancora affermato quel settore che, negli Stati Uniti, prende il nome di Public Folklore, antropologi e demologi sono assorbiti dalla mole di lavoro riguardante lo studio, la conservazione e la catalogazione delle tradizioni popolari.

26 Ivi, p. 39. 27 Ivi, p. 42.

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Seguendo la distinzione fatta da Goffman, ogni festa ha le sue scene e i suoi retroscena. Ogni festa mette in scena diverse e spesso contraddittorie forme di autenticità. Tuttavia anche la non-autenticità diventa portatrice di un suo significato. È ciò che De Sanctis Ricciardone definisce come imperfetto folklorico28. Oggi è evidente il tentativo di recupero del valore del popolo nel suo momento di festa, luogo di riflessione e di confronto culturale. La festa è espressione di maturità di una particolare attività nella quale tutta la località è chiamata a partecipare. Tale partecipazione deve essere accompagnata da una certa consapevolezza di sé e di ciò che si sta facendo al fine di non ridurre il momento festivo in un semplice momento di svago. La festa non è un semplice momento di riposo ma è un mezzo attraverso il quale recuperare la propria dimensione comunitaria, il senso di essere popolo festivo unito in un particolare ambito cerimoniale. La festa, come già si è fatto presente, è sì recupero della memoria popolare ma è anche condivisione del presente. È una materia duttile, facile da lavorare, alla quale in ogni tempo ed in ogni luogo è data la forma che meglio si ritiene possa mantenerla viva e far vivere chi vi partecipa. È dunque inappropriato parlare della tradizione popolare come di qualcosa che non esiste più e che andato scomparendo nel tempo. La festa è un evento sociale vitale ed eclettico, capace di adattarsi ai mutamenti sociali, storici ed economici che accompagnano una particolare comunità. Nonostante il suo senso sia connesso alla ripetizione, la festa cresce, si trasforma, si lascia contaminare ma rimane comunque viva e attiva29. La festa si alimenta di tradizione e le comunità che inventano o ripropongono una festa “tradizionale” trovano in essa uno strumento attraverso il quale fornire un’immagine di se all’esterno e rendere visibile la propria esistenza. Tuttavia la festa si appoggia all’apparente fissità della tradizione per giustificare la sua ciclicità. In realtà il concetto di tradizione è molto complesso, mutevole ed i suoi confini dipendono dal modo in cui decidiamo di impiegarlo. La tradizione non è definibile come un insieme di informazioni che ci sono fornite dal passato e che è possibile conservare ripetendole puntualmente. Essa può essere intesa come un modo d’interpretare e valutare il passato, come un punto di vista preciso e puntuale che si decide di adottare in una particolare realtà sociale30. Alla tradizione si pensa di affidare un messaggio importante che va ad agire sulla cultura e dotato di una particolare forza che permette di riprodurlo ciclicamente attraverso la

28 Ivi, p. 44. 29 L. Bonato, Tutti in festa, p. 136. 30 Ibidem.

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sua “messa in scena”. La tradizione è spesso intesa come sinonimo di conservazione, dà l’idea di qualcosa di immutabile nel tempo e nello spazio. Tuttavia, la tradizione non è da assimilare a tutto ciò che proviene dal passato. Anch’essa è sottoposta ad un processo selettivo per cui è il presente a scegliere gli elementi che meglio potrebbero rappresentare il passato. Tale processo selettivo è realizzato sulla base di pregiudizi e di interessi condivisi dalla comunità che si adopera per la realizzazione di una qualsiasi festa. La selezione, infatti, è connessa ai meccanismi di produzione dell’identità sociale e permette di porre in essere quei tratti distintivi che consentono di distinguere noi dagli altri e di trovare la nostra collocazione al di fuori del nostro mondo sociale e culturale. In tal senso è corretto parlare della tradizione come prodotto del presente. Come sostiene Bonato, la tradizione è legata al passato in quanto suo costruttore ma è nel presente che è prodotta, certamente influenzata e sottoposta alle esigenze sociali, economiche e di mercato della società in cui si sviluppa. “La tradizione è, insomma, il linguaggio con il quale il presente ci parla di sé. È il linguaggio con il quale le comunità che affermano di garantirla si presentano all’esterno e si promuovono31”. In questo senso tradizione e modernità non sono in contrasto tra loro ma sono due fattori complementari. Non possono essere collocate ai margini opposti del quadro comunitario in quanto entrambe sono ibride, contaminate e spurie perché provenienti da culture che sono accompagnate dalle stesse caratteristiche.

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5. Storie locali o ricerca planetaria? Una riflessione sul folklore nel Sud Italia

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Ha senso parlare di ricerca antropologica in una realtà circoscritta come quella regionale? Credo che la risposta a questa domanda non possa che essere positiva. Personalmente ritengo che ricerche di questo tipo permettano di cogliere alcuni tratti distintivi delle realtà che caratterizzano il nostro paese. Una volta individuate e studiate, tali realtà, daranno la possibilità di essere comprese anche da chi non le vive direttamente. Potranno essere conosciute anche da chi, pur vivendo nello stesso paese, le ignorava o magari non ne capiva il senso. Alexander Fenton, nel suo saggio The scope of regional ethnology, spiega che l’etnologia regionale permette di studiare, interpretare e identificare alcuni aspetti della cultura regionale. Quest’ultima è data dall’integrazione e dall’interazione di tutte le sue componen-

31 Ivi, p. 138.

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ti, qualunque sia la loro natura32. Attraverso l’etnologia regionale è dunque possibile andare a studiare alcuni aspetti di una cultura locale che, per quanto specifici, potrebbero rivelarsi un utile contributo per le attività di corpi internazionali quali l’Ethnologia Europaea group, l’European Ethnological Atlas Commission, la Société International d’Ethnologie et Folklore33. Ma cosa spinge un ricercatore a compiere indagini antropologiche a livello locale? Luigi Maria Lombardi Satriani fornisce una risposta a riguardo. Secondo l’antropologo calabrese, due sono le motivazioni principali che spingono un ricercatore a rivolgersi agli studi folklorici nella propria terra. Tali motivazioni sono alimentate da un forte senso del dovere storiografico e dalla volontà di manifestare l’amore per il proprio paese. Il primo è descritto come carità di patria, dichiarata o sottintesa, che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, anima diversi ricercatori e li spinge a vivere momenti legati alla tradizione locale come fenomeni della cultura popolare che vorrebbero rendere fruibili a tutti coloro che possono esserne interessati. La seconda motivazione è di carattere storico. Il ricercatore deve raccogliere e conservare, e in tal senso avrà la possibilità di confrontare il passato col presente, di individuare i cambiamenti, le contaminazioni di una particolare realtà popolare. “Quando inizia quella lenta agonia della cultura contadina che si sta consumando sino ai nostri giorni, è «dovere storico» – oltre che «carità di patria» – il raccogliere e conservare”34. Satriani parla sì di agonia della cultura contadina ma credo che debba essere intesa come la sofferenza di un fenomeno radicato nel folklore che precede la sua capacità di reazione e di adattamento al cambiamento. Lo stesso Satriani più avanti commenta:

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Ma ricerca demo-antropologica non è soltanto rivolgersi al passato, è anche rivolgersi al presente; né ricerca demo-antropologica, ovviamente, è soltanto quella che si è svolta nel passato, lo è anche quella che si svolge nel presente35.

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In particolare, lo studio delle realtà locali assume un certo valore nel caso si riferiscano al mondo popolare del Sud Italia. Il Mezzogiorno è stato sovente presenta-

32 A. Fenton, The scope of regional ethnology, in A. Dundes, Folklore. Critical concepts in literary and cultural studies, New York, Routledge, 2006, p. 27. 33 Ibidem. 34 L.M. Lombardi Satriani, Lo sguardo dell’angelo. Linee di una riflessione antropologica sulla società calabrese, Rende, Università degli Studi della Calabria, 1992, p. 110. 35 Ibidem, p. 111.

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to come una realtà complessa, arida, secca, crudele, dunque un mondo che si oppone al paradisiaco esotismo delle cosiddette “culture lontane”. Il più delle volte, tale immagine, deriva dalle condizioni economico-sociali in cui la popolazione vive e dalle vicende storiche che l’hanno attraversata. Marginalità e dominazione esterna sono le caratteristiche che, con troppa facilità, sono attribuite al Mezzogiorno. Come afferma Maria Minicuci in un saggio dal titolo Antropologi e Mezzogiorno, tale immagine del Sud è data da un certo tipo di ricerca antropologica, quella volta ad indagare il meridione dei contadini e dei villaggi, soprattutto tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso36. In campo antropologico il Sud comincia a scomparire, non tanto come luogo, quanto come punto di riferimento a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Quando si parla di Mezzogiorno, afferma Minicuci, in genere ci si riferisce ad un filone di studi particolare, quello del meridionalismo e di stampo demartiniano37. De Martino, in Sud e magia, fa una precisazione in tal senso. Egli afferma che il termine “sud” non è solo una semplice connotazione geografica ma anche politica e sociale. Il Mezzogiorno, così come il Nord o il Centro, ha delle caratteristiche culturali proprie che si sono delineate a seguito di situazioni storiche e politiche particolari. Citando lo stesso De Martino:

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in questo senso si può legittimamente parlare di una storia religiosa del sud come storia religiosa del Regno di Napoli, cioè di una formazione socialmente e politicamente definita, geograficamente limitata fra l’acqua benedetta e l’acqua salata, fra lo Stato della Chiesa e il mare: una formazione che anche in senso religioso comporta determinate specificazioni, onde per es. il cattolicesimo meridionale, con le sue note di vistosità e di esteriorità e con le particolari sue accentuazioni cerimoniali e ritualistiche, ha formato un ricorrente oggetto di osservazione ed ha costituito uno dei bersagli elettivi nella polemica anticattolica degli scrittori protestanti38.

Lo studio delle realtà locali non riguarda solo ed esclusivamente ricercatori per

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così dire “indigeni”. Molti studiosi stranieri sono stati rapiti dalla bellezza e dalla complessità culturale che domina le nostre regioni meridionali. Tuttavia anche in

36 M. Minicucci, Antropologi e Mezzogiorno, p. 140, in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 47-48, 2003. 37 Ivi, 141. 38 E. De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 8.

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questo caso ci si trova di fronte ad un grande problema di definizione. Accade, infatti, che tali studiosi preferiscano sostituire il termine Mezzogiorno con quello di Sud Italia, affidando a tale espressione accezioni sempre diverse. Per alcuni “Sud Italia” è semplicemente un’espressione impiegata per collocare geograficamente una particolare area del nostro paese. Per altri diventa difficile capire quali regioni siano comprese in tale termine in quanto il suo impiego, senza nessuna specificazione, sembra fare riferimento ad alcune zone accomunate da caratteri quali la

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povertà, l’arretratezza e i rapporti di produzione. Altre volte il riferimento al Sud

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resta sullo sfondo perché l’attenzione si concentra su determinati aspetti della co-

munità, mettendo da parte diversi elementi di carattere storico e politico. Mini-

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cuci parla di una tendenza molto comune ad uniformare tutte le province del Sud

Italia. La studiosa cita ad esempio Maraspini che in un suo libro del 1968 faceva notare come, in genere, i cittadini del Nord siano distinti in piemontesi, lombardi e via dicendo, mentre tutti gli abitanti del Sud siano fagocitati, senza distinzione, nel termine Mezzogiorno39.

Spesso, dunque, l’immagine che emerge dagli studi italiani e stranieri è quella di un Sud statico, sempre uguale a se stesso e radicato profondamente al passato. Tuttavia, non tutti hanno voluto appoggiare questo genere di rappresentazione. Minicuci cita, ad esempio, Alberto Mario Cirese che ha rifiutato la concezione per la quale il Sud doveva essere collocato al di fuori della storia della nazione,

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quasi a rappresentare un mondo autonomo ed indipendente dal resto della penisola. Il Mezzogiorno non è omogeneo ma ogni regione, ogni paese, ogni villaggio è stato attraversato da una storia differente ed unica. In tal senso sarebbe più cor-

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retto parlare di più di un Sud, in quanto ogni paese ha una realtà particolare da vivere e condividere.

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Questo atteggiamento di omologazione viene, in egual modo, rigettato da Er-

nesto De Martino. Egli si scaglia contro i folkloristi che considerano la vita culturale del mondo popolare come fondata su elementi antichi ed isolati. Lo studioso

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si lamenta soprattutto di come l’attenzione per il Mezzogiorno si concentri spesso su punti quali l’analfabetismo o l’arretratezza economica. Tematiche più legate alla cultura quali il paganesimo, la superstizione, il carattere magico del cattolicesimo popolare, hanno da sempre fatto gola in vari ambiti delle scienze umane ma

39 M. Minicuci, Antropologia e Mezzogiorno, pp. 141-142; il riferimento è A.L. Maraspini, The study of an Italian village, Paris, Mouton, 1968.

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difficilmente sono state approfondite come oggetto di ricerca. Il mondo popolare dei cittadini del Sud tende a rimanere in sospeso fra il pittoresco, il divertente ed il deplorevole40. Il rifiuto di un atteggiamento di omologazione non è presente solo tra gli italiani ma anche tra gli studiosi stranieri vige questo senso di repulsione nei confronti dell’immobilismo meridionale. Minicuci ricorda Galt41 a Pantelleria, Pitikin42 a Sermoneta, un paesino della Basilicata, Davis43 che compì delle ricerche di carattere socio-antropologico nella stessa regione. Minicuci spiega come

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cio all’oggetto studiato. La studiosa scrive:

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tra antropologi italiani e stranieri vi sia però una differenza sostanziale di approc-

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mentre gli italiani assumono il Sud e dentro di esso studiano il mondo contadino, gli stranieri sembrano procedere in senso inverso: partono dal mondo contadino per riconoscere il Sud44.

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Il Mezzogiorno, dunque, è legato a due tipi di rappresentazioni. Quella che potremmo definire nostrana e quella straniera. Questo costituirebbe un fattore positivo se tra le due parti esistesse un dialogo aperto, un confronto di posizioni. In realtà, difficilmente italiani e stranieri hanno instaurato un dialogo tra loro. Raramente, in occasione di un dibattito nelle maggiori riviste straniere su ricerche riguardanti il Sud e realizzate da studiosi stranieri, gli antropologi italiani hanno partecipato45. Allo stesso modo, anche gli italiani fanno poco riferimento a ricerche di studiosi stranieri. A ciò occorre aggiungere che, il più delle volte, gli studiosi di rife-

40 E. De Martino, Furore, Simbolo, Valore, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 9-10.

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41 Anthony Galt arrivò a Pantelleria il 29 ottobre 1968. La sua tesi di dottorato fu uno studio della contrada di Khamma come ente sociale. All’epoca fortemente influenzato dalle teorie funzionaliste, Galt, nella sua tesi, tentò di fornire un quadro preciso di Khamma come sistema sociale. Si concentrò in particolar modo sullo studio dei sistemi di parentela e sui ruoli sociali che la stessa comprendeva. Nella parte finale del suo elaborato esaminò anche il ruolo del carnevale pantesco nel sistema sociale. 42 Donald Pitkin compì questa ricerca nei prima anni cinquanta del secolo scorso. Il suo obbiettivo era quello di analizzare le basi strutturali e la vita quotidiana di Sermoneta, all’epoca ancora fortemente legate a forma tradizionali di convivenza sociale. Tuttavia, nel quadro antropologico fornito dall’autore, è evidente che cambiamenti di carattere politico, economico e sociale iniziano a prendere piede portando a segnare gli aspetti della vita associata nel paese. 43 Davis compì la sua ricerca nei primi anni sessanta a Pisticci, in Basilicata. 44 M. Minicuci, Antropologi e Mezzogiorno, p. 144. 45 Ivi, p. 145.

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rimento non sono antropologi. Si pensi, ad esempio, a Banfield46, Friedmann47 o Lopreato48. Ancora fino ai primi anni settanta, sono pochi gli autori stranieri citati in testi nostrani ma ancora minore è il numero di autori italiani citati da studiosi stranieri. Minicuci sostiene che questo atteggiamento di chiusura si estenderà per tutti gli anni settanta del secolo scorso ed oltre. La motivazione che la studiosa fornisce in merito a questo genere di atteggiamento è che l’antropologia italiana non veniva considerata all’altezza di quella anglosassone. Tuttavia gli approcci degli studiosi italiani non erano diversi da quelli impiegati in Francia, in Inghilterra o in America. A ciò occorre aggiungere invece che gli stranieri tendono a citarsi molto fra loro e l’immagine del Sud Italia che emerge dalle loro opere è basata sulla combinazione di sguardi esterni. Per quanto riguarda gli autori di casa nostra lo sguardo emergente era quello costruito dall’interno, almeno fino agli anni settanta49. La conseguenza di questo atteggiamento era, inevitabilmente, l’incapacità di cogliere e di raccogliere gli eventuali e potenziali stimoli che potevano giungere dall’una o dall’altra parte e quindi giungere ad una riflessione costruttiva e critica sull’argomento affrontato50. Le considerazioni di esponenti di altre discipline sul lavoro degli antropologi nel Mezzogiorno hanno ulteriormente marcato le

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46 E.C. Banfield fu professore di “governement” alla Harvard University ed è uno degli scienziati sociali più noti negli Stati Uniti. Nei primi anni cinquanta raggiunse un paese del Sud, Chiaromonte (PZ). A Montegrano, questo è il nome con cui Banfield cita Chiaromonte nel suo testo, compie la sua indagine sociologica. Da questa sua ricerca sul campo nacque poi The Moral Basis of a Backward Society, del 1958 (trad. it. Le basi morali di una società arretrata, a cura di D. De Masi, il Mulino, Bologna 1976).

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47 F.G. Friedmann era un filosofo. Nacque ad Augusta, in Baviera da una famiglia ebrea. Per via dell’antisemisemitismo, sempre più opprimente in Germania, nel 1933 si trasferì in Italia. Qui terminò gli studi ma, per via delle leggi mussoliniane fu costretto ad abbandonare il nostro paese. Tuttavia riuscì a tornatvi per quattro volte quando gli fu assegnata la cattedra di filosofia alla University of Arkansas di Fayetteville. Nel 1950, grazie al Programma Fulbright, ricevette una borsa di studio di un anno per effettuare nel Sud Italia una ricerca empirica sulla “filosofia di vita dei contadini meridionali”, in particolare nelle zone della Lucania e della Calabria. Il risultato della ricerca fu pubblicato nel 1952 in italiano ed in tedesco. Nel 1953 fu pubblicato nell’originale inglese dal titolo The world of “la miseria”. Il testo fu poi incluso in un libro di Friedmann dal titolo Miseria e dignità. Il Mezzogiorno nei primi anni Cinquanta, edito da Cultura della pace.

48 J. Lopreato è nato in Italia e diventato un importante sociologo e scrittore negli Stati Uniti. Ha insegnato in varie università non solo in America ma anche in Europa. Tra i suoi scritti, si ricordano, in questa sede, Paesants no more. Social Class and Social Change in a Undervelopped Society (trad. it. Mai più contadini. Classi sociali e cambiamento nel Mezzogiorno, Edizioni Scientifiche italiane, collana Mezzogiorno rivisitato, 1990). 49 Ivi p. 148. 50 Ibidem.

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differenze esistenti tra l’antropologia italiana e quella straniera. Inoltre sono state evidenziate in modo ancor più marcato le distanze presenti nel nostro paese tra gli etnologi, che si concentravano sullo studio delle società lontane, e gli antropologi di area folklorica. Sulle tematiche riguardanti il Sud Italia il problema più grande, dunque, è la mancanza di dialogo, in particolare, per quanto riguarda le categorie impiegate per leggerlo. Proprio questo atteggiamento ostile e di chiusura ha provocato l’insediarsi di visioni ormai consolidate da tempo e che hanno portato ad allontanarsi dall’indagine di altri aspetti della stessa realtà. Il Mezzogiorno è stato classificato come il mondo delle piccole comunità contadine, isolate e marginali. Minicuci esprime chiaramente la conseguenza di questo atteggiamento: l’attribuzione di questo stereotipo a questo tipo di lavori, che si vanno differenziando quanto ad approcci e a tematiche nel corso degli anni, ha impedito un dialogo interdisciplinare proficuo, in particolare con gli storici e ha fatto dimenticare altre ricerche «anomale»51.

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A partire dagli anni cinquanta gli italiani si occupano del Mezzogiorno e focalizzano la loro attenzione sulla cultura popolare e sul mondo contadino andando a rintracciare forme culturali arcaiche, incamerate negli studi di folklore. Gli antropologi americani, invece, si concentrano maggiormente sullo studio dei cambiamenti apportati dalla modernità al Sud. Il Mezzogiorno era dunque diviso tra due fuochi. Da un lato era tribalizzato e, dall’altro, era eletto a luogo privilegiato del popolare52. Minicuci individua, infine, un’altra importante differenza tra l’approccio italiano e quello straniero. Per gli italiani che si occupano di folklore la ricerca sul campo non deve necessariamente seguire il modello malinowskiano, basato sulla permanenza di lunga durata. Spesso gli studiosi italiani si concentrano su ricognizioni e ricostruzioni di singoli eventi o situazioni. Proprio a questo tipo di approccio è stato in genere attribuito il ritardo dello sviluppo della disciplina rispetto ad altre. Quando si parla di folklorismo e di studi meridionali non si può non pensare alla figura ed al lavoro di Ernesto De Martino. Come ricorda Minicuci, Ernesto De Martino fu una figura poco amata anche dai suoi colleghi folkloristi, etnologi e storici delle religioni. Anche il suo rapporto con gli antropologi non fu molto

51 Ivi, p. 150. 52 Ivi, p. 152.

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semplice. Questi ultimi iniziarono ad apprezzarlo e a rivalutare le sue teorie solo in un secondo tempo. Clara Gallini, curatrice dell’opera demartiniana dal titolo L’opera a cui lavoro, spiega come anche l’antropologo napoletano sia stato oggetto di un processo di stereotipizzazione. Spesso infatti, sostiene Gallini, De Martino è riconosciuto come meridionalista che si è occupato della cultura magico-religiosa del Sud quando, in realtà, egli è stato anche, e non solo, un meridionalista. Le tesi da lui elaborate non devono essere considerate valide solo ed esclusivamente per il Mezzogiorno italiano ma potrebbero essere applicate anche ad altre realtà. L’aspetto centrale del suo impianto teorico riguarda la sua concezione del rapporto tra crisi della presenza e reintegrazione culturale operata dal simbolismo mitico-rituale53. Tale opinione trova dei dissensi da parte di altri studiosi. Tra questi Minicuci ricorda Luigi Maria Lombardi Satriani. Nell’introduzione al testo demartiniano Furore, Simbolo, Valore, Lombardi Satriani contesta la posizione di Clara Gallini:

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L’interscambiabilità – almeno potenziale – delle aree di ricerca mi sembra o affermazione totalmente ovvia – a livello generalissimo chiunque può fare, “almeno in potenza”, qualsiasi cosa – o posizione difficilmente sostenibile per chiunque svolga ricerche demo-antropologiche, a ciò motivato (ma potrebbe essere diversamente?) anche dalla propria vicenda esistenziale e culturale. Tutto ciò è ancora più vero per lo studioso che ha fatto del concetto di patria culturale e dell’insopprimibile esigenza di attuarre la domesticità del mondo alcune assi portanti della sua impalcatura teorica54.

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Per Lombardi Satriani, Ernesto De Martino meridionalista non rappresenta una possibilità ma una condizione necessaria. Citando lo stesso Lombardi Satriani:

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De Martino meridionalista non è, quindi, uno dei tanti sviluppi possibili dello studioso, ma sbocco “necessario”55.

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Col passare del tempo, l’incontro e lo scontro di punti di vista differenti, come quelli sopracitati, porterà all’emergere di un’antropologia italiana con caratteristiche proprie, aperta al dibattito culturale e alla definizione dello specifico folklorico. Tali prospettive porteranno a descrivere il Mezzogiorno come una realtà fatta

53 Ivi, p. 169-170. 54 E. De Martino, Furore, Simbolo, Valore, p. 44. 55 Ivi, p. 45.

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non solo di resistenze culturali o di forme di chiusura verso il cambiamento, ma come un mondo che ha tra le sue mani una particolare varietà di

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manifestazioni culturali specifiche, particolarmente visibili nell’ambito della religiosità come in quello della magia e proprie modalità di gestire la demartiniana crisi della presenza di fronte alla morte e ad altri eventi minacciosi, che ha propri codici di comportamento tanto nelle relazioni interpersonali quanto di fronte allo Stato56.

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Pensare al Mezzogiorno come esclusiva espressione del mondo contadino è un’immagine assolutamente sbagliata. Il Sud è anche il mondo delle classi subalterne e della realtà rurale. Molte altre possono essere la sfaccettature che lo caratterizzano. Tra queste possiamo ricordare il clientelismo, i giovani, la politica meridionale, la famiglia, le strutture della parentela, il ruolo della donna, lo spazio urbano e via discorrendo57. Analizzando la realtà meridionale in questo senso, è possibile notare come essa non sia solo arcaicità o espressione di faticosa capacità di adattarsi al cambiamento, non è un luogo tribalizzato, né centrato su se stesso. A partire dagli anni novanta, gli studi sul mezzogiorno italiano mutano pelle, non tanto per i temi trattati, quanto per i differenti approcci impiegati. La relazione con i processi di globalizzazione, i fenomeni di massa, le relazioni e le transazioni interculturali iniziano a prendere sempre più piede in questo nuovo modo di fare etnografia. Il problema centrale, spiega Maria Minicuci, rimane l’individuare come il Sud Italia si sia costruito a partire da contesti storici e politici ben precisi. L’obbiettivo, dunque, non è dimostrare la sua omogeneità ma decostruirlo, destrutturarlo, per imparare a conoscerlo meglio58.

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Conclusioni

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Nel nostro paese i fenomeni di rifunzionalizzazione, reinvenzione e riproposta di elementi che appartengono alla tradizione popolare fanno capo ad una serie di attori sociali consapevoli della ricchezza e dell’unicità del proprio apparato folklorico. La festa, così come qualsiasi altro momento di cerimonialità tradizionale, non

56 M. Minicuci, Antropologi e Mezzogiorno, p. 171. 57 Ivi, p. 173. 58 Ivi, p. 174.

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è solo un segno ed un fattore di riconoscimento del proprio passato. Essa è anche una necessità attuale dell’individuo attraverso la quale esplicitare la propria identità. Come è stato illustrato più volte in questo capitolo, presente e passato si incontrano ciclicamente e, insieme, trasformano un particolare processo festivo. La festa, in tal senso può essere intesa come contenitore della memoria di una comunità. La memoria e la festa che la contiene non sono però elementi cristallizzati nel passato. Entrambe sono costantemente rielaborate sulla base dei cambiamenti da cui sono influenzate e che si verificano nel tempo. La festa è espressione della comunità locale, è un fatto culturale in cui le identità locali sono assunte al fine di riconoscere quelle individuali. In tal senso la festa diventa una necessità per l’individuo, la necessità di rimettere in scena elementi che appartengono al teatro popolare locale. I promotori delle feste sono coloro che entrano ed escono dal proprio paese e che hanno acquisito esperienze esterne59. La pendolarità è qui intesa non come semplice spostamento sul territorio ma come alternanza dell’individuo tra le diverse formazioni sociali. Piercarlo Grimaldi parla di un gioco di appaesamento di aspetti tradizionali nei quali la comunità ed il singolo si riconoscono. In tale gioco si assiste al riemergere di figure che si pensavano scomparse come l’intellettuale locale, il pensionato, il pendolare, che ritornano al paese d’origine o reinventato quando non riescono più a riconoscersi in quello delle radici. Il soggetto in questione dunque è impegnato a ricostruire la storia della comunità, a raccogliere le tradizioni locali prima che sia troppo tardi60. Il lavoro di tutte queste figure emblematiche permette una ricostruzione della località e delle sue tradizioni, lo studio delle sue trasformazioni e delle sue capacità di adattamento alla modernità. In tal senso, lo studio delle specificità regionali, può essere considerato come una risposta reattiva ai processi di globalizzazione e omologazione. La festa diventa così un elemento di alterità, attraverso il quale il singolo può costruire le propria identità. Essa diventa come una sorta di carta d’identità della località alla quale l’individuo si sente legato e nella quale si riconosce. La festa è insieme tradizione e innovazione, è il rinnovarsi nel presente senza dimenticare il passato attraverso il quale il presente stesso si è costruito. Lo studio antropologico permette di sintetizzare tutti questi saperi e fatti culturali all’interno di un approccio scientifico. Lo studio della festa e di altri aspetti

59 Laura Bonato, Tutti in festa. Antropologia della cerimonialità, p. 13. 60 Jean Cousenier, Manuale di tradizioni popolari, Roma, Meltemi, 2009, p. 10.

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del folklore popolare sono fondamentali non solo per costruire la propria identità ma anche per realizzare qualsiasi progetto che voglia valorizzare il territorio tenendo conto anche delle trasformazioni sociali ed economiche che riguardano la comunità stessa. Le tradizioni popolari e quindi anche la festa, presentano alcune caratteristiche particolari che ci permettono di comprendere meglio il comportamento degli individui nella società complessa. Nel prossimo capitolo mi soffermerò quindi su alcuni aspetti che riguardano le tradizioni popolari che sono collegati al tema centrale di questo mio elaborato, il panorama festivo in un piccolo borgo marino della Calabria. In particolare mi concentrerò su alcuni elementi di carattere generale riguardanti le tradizioni popolari in riferimento al legame sotteso tra queste ultime ed il mondo della religiosità che, specie in passato, ha fortemente condizionato l’agire di uomini e donne.

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Capitolo secondo

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1. La cultura popolare tra sospetto e pregiudizio

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LE TRADIZIONI “POPOLAR-RELIGIOSE”

Il termine tradizione deriva dal verbo latino tradere e significa trasmettere. Inizialmente il termine fu impiegato dai romani in senso materiale. Essi, infatti, utilizzavano il termine tradere per indicare il passare, il consegnare un oggetto che si aveva in custodia in precedenza o nel momento in cui si dava la propria figlia in sposa a qualcuno. La parola traditio ricorre frequentemente nei testi sacri e, col tempo, è stata saldamente impiegata nel pensiero cristiano per indicare l’insegnamento delle verità cristiane di carattere orale1.

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In seguito si è anche intensificata la necessità di distinguere l’insegnamento religioso reale dalle tradizioni diffuse al di fuori di tale ambito. Questo tipo di analisi ha portato alla nascita di un forte pregiudizio da parte della Chiesa accompagnata poi da una schiera di filosofi e letterati della portata di Montaigne o Cartesio. Questi uomini, infatti, consideravano le tradizioni popolari come superstizioni nate dai pregiudizi del popolo. Tuttavia, anche se per combatterle, era necessario conoscere tali “pratiche superstiziose”, osservarle ed analizzarle, prima di poterle condannare2. All’inizio, dunque, ciò che apparteneva alla cultura popolare non era giudicato positivamente ma spesso si pensava ad essa come a un insieme di pratiche e di credenze bizzarre, sicuramente curiose e talvolta inquietanti. Agli inizi dell’Ottocento il parere di scienziati e filosofi nei confronti della cultura popolare inizia a modificarsi. Si pensi, ad esempio, alla fondazione dell’Accademia celtica di Fran-

1

J. Couisenier, Manuale delle tradizioni popolari, Roma, Meltemi, 2009, p. 20 (edizione originale La tradition populaire, Presses Universitaire de France, 1995).

2

Ivi, p. 22.

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cia (1805-1812), luogo in cui si comincia a comprendere l’importanza e la portata di tali pratiche. Le tradizioni popolari cominciano ad essere concepite come fondamento dell’identità nazionale che, nel caso dell’Accademia celtica, va a giustificare degli studi così fortemente appasionati. Se da un lato questi studi poggiavano su un’ideologia nazionalista, in Francia, così come nel resto d’Europa, si sarebbe parlato, da allora in avanti, di arti e tradizioni popolari, tenendo sempre presente le ambiguità di cui il termine “popolo” è portatore. Si è già accennato, nel capitolo precedente, al problema legato alla definizione di popolo e ad i molteplici significati ad esso collegati. Secondo Bruno Pianta, quando si parla di tradizione o cultura popolare ci si riferisce a due ambiti in particolare. In primo luogo si fa riferimento a tutto ciò che rientra nella grande diffusione di massa. Si pensi, ad esempio, al calcio, al cinema, ad un particolare tipo di musica. “Popolare” è cioè tutto quello che non è elitario ma che ha, come aspetto predominante, il fatto di essere comune. In seconda istanza, Pianta affianca il termine “popolare” a ciò che si riferisce a comportamenti culturali che riguardano gli strati più bassi della popolazione. Inoltre, “popolare” può riferirsi ad usi, abitudini, oggetti, canti che appartengono al passato e non sono più considerati attuali3. Per chiarire ulteriormente il confine esistente tra questi due ambiti, Pian-

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ta fa ricorso alla lingua inglese. In inglese tutto ciò che è percepito come diffuso e comune si definisce col termine popular. Tutto ciò che invece è culturalmente collegato agli strati più bassi di una comunità e che si oppone a ciò che è colto è definito col termine folk4. Secondo Cousenier, l’espressione “tradizione popolare” assume diversi significati in base al contesto e alla storia cultuale del paese che la impiega. In Germania, ad esempio, dopo il Discorso alla nazione di Fichte (1807), per “tradizioni popolari” si usa il termine Volkskunde. Tale termine serve ad identificare tutti i tedeschi in quanto nazione dispersa fra i vari Stati. Ancora oggi il riferimento al popolo in Germania è un discorso di nazionalità. Tuttavia la tradizione popolare, intesa come tradizione di un popolo originale che nella tradizione ritrova se stesso e la propria identità, non appartiene solo alla cultura tedesca. Questa accezione domina anche l’Europa Centrale e del Nord, i Balcani e, dal XVI secolo, anche l’Italia, l’Inghilterra e la Francia5. Italia, Inghilterra e

3

B. Pianta, Cultura popolare, Milano, Garzanti Editore, 1982, pp. 13-14.

4

Ibidem, p. 13.

5

J. Couisenier, Manuale di tradizioni popolari, pp. 24-25.

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Francia, occupando una posizione periferica rispetto agli altri dovevano sia tentare di raggiungere i livelli di sviluppo dell’Europa Occidentale, sia confermare costantemente la propria individualità, facendo spesso riferimento ai simboli dell’identità nazionale. In base alla posizione geografica e al grado di sviluppo storico si vengono così a formare movimenti nazionali, ognuno con caratteristiche differenti. In Ungheria, tali movimenti, furono di origine aristocratica, così come in Polonia e Lituania. In Boemia, Moravia e Slovacchia furono di origine borghese e nei paesi baltici la spinta fu di origine contadina. Per quanto riguarda le Americhe il concetto di popolo riferito alla cultura popolare assume caratteristiche più complesse. A partire dal XIX secolo, infatti, nel sistema della tradizione orale, degli usi e della cultura popolare, si distinguono cinque folk o popolamenti differenti: quello degli inglesi, degli abitanti degli Stati meridionali, delle tribù indiane dell’America Settentrionale, dei canadesi-francesi e dei messicani. Tale distinzione, afferma Couisenier, dipende dal fatto che gli usi e le pratiche popolari di queste culture stanno scomparendo, facendo soprattutto riferimento agli strati più bassi della popolazione6.

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In tal senso unificare il significato del termine “tradizione popolare” non è possibile in quanto le sue peculiarità non possono trascendere la località cui si riferisce. È dunque necessario accettare la nozione di cultura popolare con tutte le sfaccettature che l’accompagnano ed i tratti distintivi che la determinano in ogni parte del mondo e non solo in Europa. In Italia, quando si fa riferimento alla cultura popolare, si intendono un insieme di usi, abitudini, elaborati linguistici, artistici che variano nel tempo e nello spazio. Come sottolinea Pianta, nel nostro paese non è corretto parlare di una cultura popolare ma di culture popolari. L’Italia, infatti, fa riferimento a realtà regionali particolari. Citando lo stesso Pianta:

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Per cui, se i pastori bergamaschi esprimono una cultura diversa dai contadini bergamaschi, la esprimono diversa anche dai pastori sardi; se la realtà operaia delle grandi città del nord esprimeva una specifica cultura fino agli anni Cinquanta, oggi la massiccia immigrazione ha portato un’altra cultura, quella degli operai di origine meridionale; le due culture si influenzano a vicenda, si modificano reciprocamente e, probabilmente, assisteremo tra qualche decina d’anni a una loro completa compenetrazione per la formazione di una nuova cultura popolare7.

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Ivi, 27.

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B. Pianta, Cultura popolare, pp. 24-25.

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Ciò a dire che le culture popolari sono soggette a mutazioni come ogni altro fatto culturale, sono soggette ai cambiamenti sociali, politici, economici della località alla quale appartengono. Due sono gli elementi che, secondo lo studioso, vanno ad unificare le varie culture popolari e a distinguerle da quella “uffuciale”8: il localismo e l’oralità. Spesso il localismo della cultura popolare è sottovalutato in quanto si presume, erroneamente, che la situazione culturale di una particolare realtà sociale sia statica e sempre uguale a se stessa. Tuttavia sappiamo che così non è per via delle continue trasformazioni che coinvolgono anche le realtà locali e le influenzano in ogni loro ambito. Per quanto riguarda il secondo aspetto, fatta eccezione per la classe operaia, l’oralità è la forma privilegiata delle culture popolari. Tuttavia queste ultime non disdegnano la comunicazione scritta. Si potrebbe dire che “la cultura popolare è «orale» anche se non ignora, e spesso usa, la scrittura, mentre la cultura egemone è «scritta» anche se non ignora e usa l’oralità”9. A tal proposito, Couisenier compie una distinzione più puntuale. Egli distingue tre tipologie di società in riferimento alle tradizioni popolari: le società senza scrittura, le società in cui oralità e scrittura convivono e quelle in cui prevalgono la scrittura e le forme contemporanee della comunicazione. Cuisenier compie un’ulteriore precisazione a riguardo. Nel caso delle società senza scrittura è necessario sottolineare come oggi sia difficile trovare comunità intere completamente estranee a questo sistema comunicativo. Si può, infatti, affermare, come già in precedenza si è scritto, che si tratta di comunità in cui l’oralità prevale sulla scrittura. Cuisenier analizza ad esempio il caso degli aborigeni australiani o le popolazioni amerinde della costa nord-occidentale dell’America Settentrionale. Nel caso degli aborigeni l’insieme delle conoscenze, degli usi e dei costumi è stata trasmessa di generazione in generazione per via orale. L’interesse che queste comunità ha suscitato è testimoniata dalle opere di diversi studiosi quali Durkheim, LéviStrauss e Freud. La loro tradizione è fortemente legata al territorio ed alla sua natura, considerati le tracce della presenza di esseri ancestrali. Tali entità vivono nel “tempo del sogno”, il dreamtime10. Nel “tempo del sogno” il mondo era abitato

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Pianta definisce la cultura “ufficiale” del nostro paese anche come cultura “egemone”. Le culture popolari sono quelle rimaste escluse dalla partecipazione della cultura egemone. In tal senso, le culture popolari o subalterne sono considerate dallo studioso come culture “altre”, non riconosciute dalla cultura “ufficiale”.

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Ivi, p. 34.

10 Il dreamtime è, da un lato, lo strumento di unificazione delle differenti tradizioni aborigene e, dall’altro giustificazione delle differenze esistenti a livello mitologico tra una

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da esseri ancestrali che hanno lasciato tracce della loro presenza prima dell’arrivo dell’uomo. Ogni elemento della natura è segno tangibile del loro passaggio, dalla montagna alla roccia, dal letto di un ruscello ad una pozza d’acqua. Ogni luogo è, per questo, legato a particolari racconti che occorre narrare ed a riti che bisogna eseguire11. Alcune comunità amerinde dell’America Settentrionale sono particolarmente stratificate a differenza di quelle aborigene. Cuisenier fa l’esempio dei Kwakiutl. In questo caso, infatti, ogni individuo può essere assimilato ad un particolare grado di nobiltà. La distinzione tra un grado e l’altro è espressa attraverso una serie di titoli quali, ad esempio, il diritto esclusivo di portare gli stemmi decorati, il possesso di maschere, la conoscenza dei canti e così via12. L’insieme di queste conoscenze e di questi titoli non è distribuito in modo omogeneo. Tale sapere è infatti acquisito solo dopo che un individuo diventa membro di una confraternita. Il contenuto di questo sapere è poi reso pubblico attraverso la messa in pratica di cerimonie che celebrano particolari racconti mitici. In questo modo gli officianti trasmettono il loro messaggio ma senza esplicitarlo. Citando Cuisenier:

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A voler essere ancora più rigorosi, in questo tipo di società stratificata, ma senza scrittura e senza classi sociali, la tradizione vivente non è dunque né “popolare” né “elitaria”. Essa è condivisa da tutto il “popolo”, perché tutto il popolo all’interno del gruppo tribale a cui appartiene, vi ha accesso. E tuttavia è trasmessa, suddivisa e diffusa da alcune élites, dal momento che non tutti, ma solo alcuni, sono autorizzati a detenerla, quindi a farla evolvere; si tratta di individui che ricoprono un ruolo particolare derivante dal sesso, dall’età, dal rango e dalla ricchezza13.

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Per valutare come scrittura ed oralità interagiscono sulla tradizione popolare, Cuisenier sottolinea come debbano essere tenuti in considerazione due fattori: il numero delle persone che sa leggere e scrivere da una parte ed il valore che la scrittura assume nell’organizzazione della società e nella modalità di conoscenza che porterà poi alla produzione di tradizioni scritte oltre che orali. In questo senso oralità e scrittura interagiscono. Anche se in una comunità la maggior parte della popolazione non sa leggere e scrivere, conoscerà comunque la tradizione scrit-

comunità aborigena e l’altra. Questo “tempo del sogno” può essere considerata una vera e propria dimensione altra che gli individui possono raggiungere attraverso il sogno. 11 J. Couisenier, Manuale di tradizioni popolari, pp. 34-36. 12 Ivi, p. 37. 13 Ivi, p. 40.

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ta alla quale parteciperà indirettamente. L’esempio citato è quello dell’India, dove una tradizione religiosa scritta era presente in tutte le caste, indipendentemente dal fatto che gli individui sapessero leggere e scrivere14. Nelle società in cui la scrittura prevale ci si trova di fronte a due tipi di produzioni: testi classici provenienti dalla tradizione popolare o, al contrario, composizioni popolari derivanti da testi classici. Distinguere i due tipi di composizione è fondamentale ma spesso insufficiente perché l’interazione tra oralità e scrittura maschera la presenza di un racconto. Cuisenier propone, a tal proposito, due esempi. Il primo analizza il rapporto tra tradizione popolare e tradizione colta in riferimento alle favole di Charles Perrault raccolte dall’autore nei Contes de ma Mère l’Oye. Marc Soriano ha dedicato particolare attenzione all’analisi di questi racconti giungendo ad importanti conclusioni. Egli nota come tali racconti siano in realtà “testi senza testo” in quanto soggetti a molteplici ed infinite alterazioni da parte degli editori francesi nel corso del tempo. Il loro obbiettivo era quello di attualizzare e modernizzare le favole in funzione del giovane pubblico che ne andava ad usufruire. Inoltre si tratta di un testo senza autore in quanto anche quando Perrault era ancora in vita nessuna delle edizioni pubblicate è stata autografata. A queste favole è stata riconosciuta anche l’aspirazione a modelli colti di scrittura quali, ad esempio, quella del Pentamerone di Basile. Il fratello di Charles, Pierre Perrault, conosceva bene l’italiano ed era in grado di tradurre diversi testi italiani in lingua francese. Come afferma lo stesso Cuisenier, Basile era un uomo colto, capace di sedurre Perrault con i sui testi. Tuttavia l’opera dello scrittore francese non deve essere considerata come un semplice adattamento ad un modello italiano in quanto si tratta di un’opera assolutamente originale. La Bella addormentata nel bosco, Cappuccetto rosso, Il gatto con gli stivali, sviluppano tematiche legate alla tradizione popolare che sono state elaborate dalla letteratura colta anche prima di Perrault ed è quindi difficile attribuirle in maniera certa ad una letteratura popolare. Tuttavia, nel momento in cui i racconti hanno delle fonti popolari certe è possibile individuare segni di elaborazione colta. Cuisenier si riferisce, per esempio, alla favola di Cappuccetto rosso in cui il vocabolario di riferimento è volutamente arcaico. Ognuna di queste favole mostra l’intrecciarsi di elementi colti con elementi delle tradizione popolare pur conservando l’obbiettivo di proporsi ad un pubblico elegante e raffinato15.

14 Ivi, p. 41. 15 Ivi, pp. 47-50.

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Il secondo esempio proposto dallo studioso prende in analisi una ballata popolare appartenente alla cultura rumena, Miorista16. Cuisenier prende in esempio

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quest’opera per dimostrare come, in società alfabettizzate, saperi colti e popolari erano fortemente condivisi più che in altre zone dell’Europa Occidentale. Raccolta e pubblicata da Alecsandri nel 1855, circolava in forma orale e continuò a circolare nelle diverse varianti per lungo tempo. Cuisenier afferma che quest’opera sarebbe stata conosciuta solo dai letterati locali se non fosse stato per intellettuali quali il filosofo Lucian Balga il quale aveva riconosciuto in Miorista la rappresentazione della storia del popolo rumeno. Quest’ultimo, così come il pastore moldavo, avrebbe vissuto in pace e armonia se non fosse stato sopraffatto dalla violenza dei suoi vicini. A questa visione si oppone però quella di sociologi ed etnografi per i quali la ballata faceva riferimento ad un contesto rituale ben preciso: la celebrazione della morte-sposalizio. Attraverso una propria documentazione etnografica, questa schiera di studiosi sostiene che il poema non vuole esprimere nessun tipo di rinuncia o esaltare l’ebbrezza della morte ma vuole imprimere nella memoria un gesto di difesa della vita. La questione principale che Cuisenier pone in essere, a seguito di ciò, è che un racconto tradizionale come Miorista, inizialmente trasmesso in forma orale, è stato poi messo per iscritto, analizzato in modo approfondito ed infine inserito come lettura nelle scuole. In questo modo, scrive Cuisenier, “Miorista si trasforma da opera della tradizione popolare viva e si realizza in un nuovo destino, quello dentro cui le culture della scrittura raccolgono le opere di valore emblematico, trasformandole, appunto, in brani di antologia destinati a un utilizzo scolastico17”.

2. La cultura popolare tra sacro e profano

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Sacro e profano sono due termini spesso impiegati in coppia da studiosi di vari ambiti. Si pensi, ad esempio, agli studiosi di scienze delle religioni e di antropologia religiosa. Carsten Colpe, curatore della voce “sacro e profano” nell’Enciclope-

16 La ballata narra dell’uccisione di un giovane pastore moldavo da parte dei suoi compagni rispettivamente di Vrnacea e della Transilvania. Il pastore moldavo è il più ricco dei tre e, per questo, provoca la gelosia degli altri pastori che decidono di ucciderlo. Avendo il presentimento della propria morte, decide di lasciare le sue ultime volontà alla sua pecorella, Miorista appunto. In particolare, egli chiede alla sua amata pecorella di non raccontare di essere stato ucciso ma di dire a chiunque che si era sposato con “la figlia del re della terra” e che tutta la natura, dagli alberi agli uccelli, aveva partecipato alle sue nozze. 17 Ivi, pp. 50-52.

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dia delle Religioni, diretta da Mircea Eliade, chiarisce come gli studiosi moderni impieghino questi termini compiendo una distinzione proveniente dalla lingua latina, anche se entrambi trovano dei loro corrispettivi nella propria tradizione linguistica. Con sacrum, gli antichi romani indicavano ciò che apparteneva alle divinità o era in loro potere. Non si aveva l’obbligo o la necessità di citare il nome della divinità ma si era consapevoli del fatto che ci si riferiva ad un rito cultuale o alla sua sede. Profanum, in principio, era impiegato per indicare qualcosa che stava di fronte al recinto del tempio. I due termini erano dunque utilizzati per designare degli spazi ben definiti. L’accezione spaziale è una delle caratteristiche che ancora oggi accompagna questi due vocaboli. Ma la definizione di sacro e profano come luoghi è solo uno degli aspetti che li caratterizza. Colpe asserisce che, se si considera il sacro come una particolare categoria della religione, diventa ciò che dà origine alla religione stessa. Se si stabilisce che una singola peculiarità è sufficiente per descrivere la religione nella sua totalità, allora il sacro può essere stabilito in questi termini. Tuttavia, se andiamo a ricercare delle caratteristiche che permettano di connettere la religione con realtà del tutto diverse, l’attributo della sacralità, così intesa, non è più soddisfacente18.

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Un ruolo importante nella definizione del sacro e del profano è quello assunto da Émile Durkheim. In Le forme elementari della vita religiosa (1912), il sociologo francese sostiene che tutte le fedi religiose possiedono delle caratteristiche comuni. Il sacro, per Durkheim, è il criterio essenziale attraverso il quale è possibile definire la religione, il mezzo attraverso cui definire al meglio il mondo delle cose sacre, separandolo, in modo chiaro, dal mondo delle realtà profane19. La società produce continuamente delle cose sacre. Quando un’idea risulta essere condivisa da tutta la comunità non può essere negata né discussa. Questo genere di proibizione ci fa comprendere che ci troviamo di fronte a qualcosa di sacro. Attraverso questo sistema di proibizioni l’uomo scinde gli elementi che appartengono al mondo sacro da quelli che fanno parte del mondo profano. Quando avviene questo genere di separazione ecco che nasce la religione. Il rito si presenta come un insieme di regole che descrivono il modo in cui l’uomo si deve accostare al sacro e le forme in cui può verificarsi una comunicazione. Da un punto di vista più strettamente antropologico, si può dire che, il più

18 C. Colpe, “Sacro e profano” in M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle religioni. Vol. 1, Oggetto e modalità della credenza religiosa, Milano, Editoriale Jaca Book, 1993, p. 491. 19 G. Filoramo (a cura di), Dizionario delle religioni, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1993, p. 663.

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delle volte, l’uomo si trova di fronte a situazioni eccezionali differenti da quelle ordinarie. Queste ultime costituiscono una sintesi dei comportamenti consueti che stanno alla base di ogni comparazione. Mauss, allievo di Durkheim, compì, a tale proposito, un’analisi sul significato e le funzioni della magia. Egli individuò la definizione di una particolare forza e potenza che si rivelava molto simile a quella del sacro. La forza in questione è identificata con il termine melanesiano di mana. Tale concetto appariva a Mauss come appartenente allo stesso ordine della nozione di sacro. Il concetto di mana è più generale rispetto a quello di sacro e si configurava come principio elementare di manifestazioni magiche e religiose. Esso suggeriva la possibilità di giungere all’origine stessa del concetto di sacro. I sociologi francesi ricollegavano tale concetto alla sfera di sentimenti che la società ispira ai suoi membri20. Un’interpretazione innovativa del concetto di sacro viene fornita da Rudolf Otto. Otto riprende alcune idee di Schleirmecher e interpreta la religione come un sentimento che rappresenta un aspetto autonomo e irriducibile dello spirito umano. Il sacro è qualcosa di irriducibile ad altro e ogni tentativo, in questo senso, risulta assolutamente vano. Nel sacro prende forma l’esperienza di un’alterità che va al di là del quotidiano. L’alterità a cui Otto si riferisce agisce sull’uomo in due modi. Può afferrarlo e condurlo, dunque, ad un’esperienza fascinosa, oppure distruggerlo. A partire da Otto, il sacro, come categoria interpretativa, inizia a confondersi come l’oggetto stesso della conoscenza religiosa e ad assumere un valore di carattere universale, applicabile ad ogni fenomeno magico o religioso, conservando la sua originaria ambiguità21. Caillois approfondisce il discorso sull’ambiguità del sacro, affermando che il mondo del sacro si oppone a quello del profano così come un mondo di energie si oppone ad un mondo di sostanze. Tale opposizione tra il mondo delle forze e quello delle energie conduce ad un’importante conseguenza nella definizione dell’ambiguità del sacro in relazione ad un’altra coppia di opposizioni: il puro e l’impuro22. Questi due termini giocano nel mondo del sacro lo stesso ruolo che le nozioni di bene e male hanno nel dominio del profano. Si tratta di un sistema oppositivo assolutamente dinamico, interscambiabile, mobile. Se una cosa, per definizione, possiede una natura fissa, una forza può ap-

20 E. Comba, “Sacro/profano” in U. Fabietti, F. Remotti (a cura di), Dizionario di antropologia, Bologna, Zanichelli, 1997, p. 646. 21 Ivi, p. 647. 22 R. Caillois, L’homme et le sacré, Paris, Gallimard, 1950, p. 37.

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portare del bene o del male in relazione alle circostanze particolari delle sue manifestazioni successive. Una cosa è buona o cattiva non per sua natura ma in base all’orientamento che segue o all’impostazione che vogliamo fargli seguire. I significati e le attribuzioni variano in base al verificarsi di aspetti positivi o negativi, benefici o malefici23. Nella cultura contemporanea, inizia una discussione sul sacro come su qualcosa che ha un proprio ambito di azione ed un proprio statuto. Secondo Marcello Massenzio, professore di storia delle religioni all’Università di Tor Vergata, a Roma, al riconoscimento di un proprio statuto del sacro hanno contribuito la storia delle religioni, l’etnologia religiosa, la nuova consapevolezza dell’importanza del religioso attraverso il contatto e la conoscenza di culture “altre”24. Un ampliamento del nostro orizzonte culturale e delle nostre conoscenze in tal senso, ci permette di raggiungere un maggiore grado di consapevolezza riguardo alla religione. A pensarci bene, infatti, il concetto di religione che noi possediamo è strettamente legato alla nostra cultura ed alla nostra tradizione, particolarmente vicina al mondo cristiano. In tal senso, il concetto di religione a cui siamo legati, non può essere applicato allo stesso modo in un altro contesto culturale25. Due figure che si sono fortemente impegnate al fine di realizzare un concetto di religione in chiave universalistica sono Raffaele Pettazzoni ed Ernesto De Martino. Pettazzoni può essere considerato il fondatore di una scienza delle religioni in Italia. Egli, infatti, fu l’ideatore di un nuovo metodo storico-comparativo che contribuì all’apertura degli studi demologici italiani verso il folklore religioso e promosse il superamento della tradizione filologico-letteraria fino a quel momento fortemente radicata in Italia26. Pettazzoni partiva da una concezione laica della religione, accompagnata dalla consapevolezza dell’importanza delle religioni nelle culture e nella storia delle comunità umane. Massenzio compie una precisazione a tal proposito affermando che Pettazzoni fu l’inventore di un metodono nuovo il cui elemento chiave è la mediazione. Un metodo comparativo, infatti, era già stato introdotto in antropologia dalla scuola britannica. Massenzio si riferisce, in

23 Ivi, p. 38. 24 M. Massenzio, Il sacro, tratto dall’intervista: “Il sacro fra storia e fenomenologia”, Roma, DEAR, 10 febbraio 1997, in http://www.emsf.rai.it/tv_tematica/trasmissioni.asp?d=378, p. 1. 25 Ibidem. 26 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa. Forme religiose nella cultura popolare, Bari, Edizioni Dedalo, 1988, p. 48.

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particolare a Frazer. In Il ramo d’oro, Frazer studia i fatti mettendoli a confronto. Tuttavia, è proprio nel confronto che Pettazzoni si distingue da Frazer. Se in quest’ultimo la comparazione avviene senza seguire alcun tipo di criterio, per Pettazzoni è necessario che la comparazione sia guidata da un certo rigore storico27. Secondo Pettazzoni la difficoltà della ricerca non sta nel reperimenento dei dati o nella catalogazione degli stessi ma nel penetrare nel senso di un’antica usanza, di una leggenda o di una superstizione, rintracciarne l’origine e le modalità di svolgimento. Attraverso l’impiego del metodo comparativo tutte queste fasi della ricerca possono essere raggiunte e sviluppate in modo esaustivo. Nonostante Pettazzoni fosse principalmente uno storico delle religioni, fu sempre particolarmente affascinato dall’antropologia tanto da arricchire le sue ricerche con elementi che reperiva dall’etnologia e dal metodo comparativo. L’obiettivo, afferma Rivera, è porre l’accento sulla ricostruzione di modelli desunti dalle religioni antiche, individuando le tracce presenti nelle culture subalterne, più che compiere delle speculazioni di carattere antropologico sulla costante presenza di certe credenze, rituali o di determinate feste:

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Insomma, presa in esame una data festa o un dato rituale, relativamente ad un’area geografica specifica, se ne ripercorre a ritroso la «storia interna» per ricercarne il modello comparativo o archetipale presso religioni primitive o precristiane28.

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Massenzio individua un punto di forte opposizione tra Eliade e Pettazzoni. Il primo compie una sorta di assolutizzazione del sacro. Per Eliade, infatti, tutto il senso della vita è nel sacro, ragion per cui la quotidianità, vale a dire il momento del profano, è totalmente svalutata. Il sacro, dunque, illumina la vita dell’uomo. La festa è il momento in cui è possibile scorgere alcuni elementi che appartenevano all’esperienza originaria in cui la sacralità rappresentava il centro di ogni cosa. Per Eliade, dunque, il rapporto sacro-profano è fondato su uno slancio forte e decisivo verso il sacro, mentre il mondo del profano, e quindi la vita quotidiana, è completamente svalutato. Per Pettazzoni, invece il sacro ed il profano assumono la stessa importanza. Sacro e profano hanno una loro funzione, un loro ruolo e sono entrambi reali. Appartengono entrambi alla stessa realtà e sono prodotti storici di essa. Pettazzoni, dunque, pone il sacro a servizio dell’uomo e lo pone sullo stesso

27 M. Massenzio, Il sacro, in http://www.emsf.rai.it/tv_tematica/trasmissioni.asp?d=378, p. 2. 28 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, 1988, p. 49.

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piano del mondo profano. La sua visione è molto più equilibrata rispetto a quella di Eliade, che tende invece a porre l’esperienza del sacro su di un altro livello, un livello straordinario e quindi lontano dalla quotidianità e dal profano29. Ernesto De Martino, come già è stato detto in precedenza, è un altro importante studioso che ha dato il suo contributo sull’argomento concentrando la propria attenzione soprattutto sulle forme del cattolicesimo popolare e sul sincretismo pagano-cristiano nel Sud Italia. De Martino condivide l’idea dell’alterità del sacro formulata, in precedenza, da Rudolf Otto. L’antropologo napoletano però reinterpreterà il tema facendolo suo. Nel 1948, De Martino pubblica Il mondo magico, un’opera attraverso la quale pone le basi di un metodo di analisi etnologica di stampo storico. In questo testo, il magismo è presentato come un’esperienza diversa, straordinaria rispetto al quotidiano, oltre che come mezzo impiegato dall’uomo per superare un momento di crisi30. Annamaria Rivera spiega come il pensiero demartiniano sia fortemente influenzato dall’esistenzialismo heideggeriano. Nel momento in cui, nelle culture “altre”, si verificano fenomeni e comportamenti che non possono essere codificati dalla scienza sperimentale moderna è perché la scienza della natura si è fondata su un ideale di natura purificata da tutte le proiezioni psichiche della magia. In tal senso, i fenomeni paranormali o straordinari rispetto alla quotidianità sono rigettati dalla scienza, in quanto il paranormale è psichicità che torna alla natura, o ancora, natura che si carica di psichicità. La centralità del mondo magico non sta nel realizzare forme particolari del mondo spirituale ma, come scrive De Martino, consiste nella conquista di un posto nel mondo, dell’esserci o meglio della “presenza della persona”31. L’antropologo napoletano terrà fede a questo suo concetto anche quando si occuperà di forme magico-religiose popolari nel Sud della nostra penisola. Il concetto di “presenza della persona” trova il suo punto focale nella “crisi della presenza”. Quest’ultima dipende fortemente da fattori di carattere storico-sociale ed è una minaccia costante per l’equilibrio ed il benessere di tutti i componenti della comunità. Nel momento in cui la comunità si trova ad essere minacciata da eventi o situazioni particolari impiega come arma di difesa i mezzi culturali di cui dispone:

29 M. Massenzio, Il sacro, in http://www.emsf.rai.it/tv_tematica/trasmissioni.asp?d=378, p. 3. 30 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, 1988, p. 56. 31 Ivi, pp. 56-57.

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Interviene allora il momento rituale che opera, attraverso quel dispositivo culturale iterativo che consente la «destorificazione del negativo», ad esorcizzare e superare il rischio dell’angoscia esistenziale e la minaccia dell’assenza, per restituire l’individuo e la comunità alla normalità del quotidiano32.

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Rivera tende a precisare come questo genere di pensiero sia particolarmente vicino al mondo della psicoanalisi ed ha così intensamente influenzato gli studi italiani da diventare una sorta di dogma, assunto una volta per tutte e mai messo in discussione. Questo è quanto accadeva fino a qualche tempo fa. In anni più recenti tale concetto è stato messo in discussione da vari intellettuali. Tra questi Rivera ricorda Cesare Cases e Pietro Clemente che hanno riconsiderato il concetto di “crisi della presenza”, valutandolo come una specie di proiezione dello studioso e della sua conoscenza sull’oggetto in analisi33. Attraverso il concetto di “crisi della presenza”, De Martino è stato in grado di porre in essere e di storicizzare fenomeni quali il lamento funebre, il tarantismo, la magia lucana, diventati oggi dei classici esempi di ricerca antropologica. Inoltre bisogna riconoscere a De Martino il merito di essere stato colui che ha svincolato il materiale “folklorico-religioso” da una sorte di nube scura. Tale oscurità derivava dall’assunzione di due sensi storici differenti in riferimento al folklorico, “con i suoi sottintesi romantici o con l’esaltazione del «popolo» specchio di verità, di virtù e di poesia”34. De Martino sosteneva che il materiale folklorico religio-

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so poteva assumere in questo modo due forme differenti. Da un lato poteva diventare un documento storico in quanto avrebbe potuto permettere una ricostruzione storica dell’epoca o della civiltà religiosa in cui prendeva piede. Esso, dunque, non era materiale di scarto o da rottamare ma un organo assolutamente attivo e funzionante. D’altro canto, poteva essere inteso come documento storico di una civiltà religiosa che, in quel momento, lo percepiva come inutile e quindi ne segnava l’arresto produttivo oltre che la crescita. Citando De Martino:

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In entrambi i casi il relitto folklorico-religioso identificato dall’indagine etnografica diventa documento di un’unica storia: di quella della civiltà religiosa di cui è relitto, o di quella della civiltà religiosa in cui sopravvive o subisce più o meno profonde riplasmazioni, ma non mai di una storia religiosa

32 Ivi, p. 57. 33 Ivi, p. 59. 34 E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud tra religione e magia, Milano, Edizioni Net, 2002, p. 25.

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«popolare» contrapposta, parallela e concorrente a quella delle élites sociali e culturali35.

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Tuttavia, Rivera riconosce che proprio in questo passo di De Martino è possibile scorgere i limiti del suo approccio alla religione popolare. Il “relitto folklorico” e il magico, infatti, sono connotati negativamente, come fenomeni-limite che segnalano la debolezza e l’incapacità di espansione della cultura alta e non si sofferma, invece, a ragionare su tutta la cultura delle classi subalterne e sulle aspettative e i caratteri di cui essa è portatrice. A ciò occorre aggiungere il fatto che De Martino va ad analizzare un aspetto particolare della cultura religiosa popolare, l’aspetto pagano-cristiano appunto e dunque non può cogliere in modo complesso la religione popolare stessa36. L’analisi storica che ne deriva riguarda più una ricostruzione a ritroso di alcuni fenomeni quali il tarantismo, il lamento funebre o la pratica magico-cerimoniale, che non una ricerca dei rapporti con le strutture culturali ed il sistema socio-economico. Aver privilegiato questo genere di riscostruzione storica ha portato l’antropologo napoletano a trattare la religione come un sistema di persistenze arcaiche legate ad una condizione psicologica alquanto precaria. Questo è il pensiero di alcuni studiosi quali Carlo Prandi. Secondo Prandi solo abbandonando questi aspetti residuali ed arcaici le classi subalterne potranno entrare a far parte della storia come soggetti consapevoli37.

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Il problema dell’indagine del folklorico sarà ancora molto attuale in buona parte degli studi post-demartiniani. A ciò occorre aggiungere anche il fatto che il mondo popolare abbraccia in modi sempre diversi lo spazio religioso. Spesso ciò ha portato ad un’indagine del materiale folklorico come “testimonianza della resistenza attiva o passiva opposta dalle classi subalterne all’attività di espansione e di egemonizzazione del cristianesimo ufficiale ed alla sua opera di disarticolazione degli studi religiosi preesistenti”38. Al di là delle critiche e dei limiti che possono essere riconosciuti a quest’importante figura dell’antropologia italiana, è fuori dubbio l’attualità e la ricchezza delle sue elaborazioni. Tuttavia, al di là del suo pensiero, lo studio del mondo “popolar-religioso”, il problema della leadership culturale da parte della religione uf-

35 Ibidem, 25-26. 36 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, 1988, p. 60. 37 C. Prandi, Religione e classi subalterne, Roma, Coines, 1977, citato in A.M. Rivera, p. 61. 38 Ivi, p. 62.

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fuciale, l’egemonia reale della stessa, rimarranno sempre dei punti critici irrisolti, non solo nelle sue opere ma anche negli studi folklorici post-demartiniani.

3. Alcuni aspetti della religiosità popolare

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Se De Martino aveva individuato l’autonomia e la capacità di cambiamento dello cosiddette “sopravvivenze” in relazione alla situazione socio-culturale del Sud, dopo il suo lavoro si è scatenato un vero e proprio scontro di posizioni in ambito scientifico che andava a rivalutare la storia culturale e religiosa di ogni area del mondo contadino italiano. Il pregiudizio che stigmatizzava il Nord come il mondo della ragione laica e della religione ufficiale ed il Sud come quello della magia e del folklore va ad affievolirsi sempre più. Il forte interesse che si sviluppa nei confronti della religiosità popolare e del folklore ha portato alla nascita e allo sviluppo di iniziative locali che hanno contribuito alla realizzazione di musei di cultura rurale, centri di raccolta di documenti sulla cultura tradizionale del luogo ed il rilancio di rituali e di feste tradizionali. Tuttavia, questa sorta di revival del folklore non riguarda solo le piccole realtà locali del Sud ma interessa tutta la nostra penisola. Dal Nord, al Centro, al Sud, in particolare a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, pubblicazioni riguardanti manifestazioni popolari di ogni genere diventano la tematica prediletta in diversi convegni di antropologia visuale e cinematografica39. Lanternari afferma però che, nonostante la crescente fioritura di materiali in questo ambito di ricerca, poco si è fatto sul piano delle sintesi al fine di realizzare dei lavori che potessero essere catalogati come veri e propri atlanti folklorici nazionali o validi contributi per la ricostruzione di una storia globale della religiosità tradizionale in Italia40. Tale mancanza dipende, probabilmente, da un fattore che non può assolutamente essere sottovalutato e che deriva dalla definizione stessa di religione popolare o di tradizione “popolar-religiosa”, come è stata definita personalmente in questo capitolo. È corretto parlare di religione popolare? Una religione popolare esiste o si tratta solo di folklore? Come afferma Annamaria Rivera, la domanda non risulta retorica se si vanno a considerare come religiosi quegli aspetti che si estendono ol-

39 Ivi, p. 10. 40 Ibidem.

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tre le religioni storiche ed istituzionalizzate. La studiosa si riferisce all’insieme di credenze magico-rituali che, in genere, sono catalogate come pratiche superstiziose perché non appartengono alle liturgie ufficiali della religione dominante41. L’osservatore comune, se pur non credente, rimarrà comunque influenzato dall’ideologia della religione dominante. Di conseguenza, di fronte a manifestazioni sacre in cui prevalgono elementi mitici o legate a rituali pagani, tale osservatore anche se capace di coglierne l’aspetto contraddittorio con la religione ufficiale, tenderà a riferirsi alla categoria del folklore.

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Probabilmente neppure sarà sfiorato dall’idea che il rito magico di cui ha sentito parlare, i falò accesi in occasione di una festa religiosa, il culto di possessione che va sotto il nome di tarantismo, partecipino della stessa «natura», appartengano alla stessa categoria di ciò che abitualmente egli chiama religione. Se è così avvertito oppure così partecipe e consapevole della liturgia ufficiale da cogliere l’aspetto ad essa «estraneo» di miti e riti incapsulati dentro la religione dominante, probabilmente si scandalizzerà dei detriti superstiziosi che si trascina dietro il cattolicesimo così com’è praticato a livello popolare42.

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Definire la religione popolare diventa dunque particolarmente difficile. Lanternari afferma che una prima osservazione da fare, a tal proposito, è che la stessa espressione assume senso nel momento in cui si rinuncia ad attribuirle un significato autonomo che la collochi al di là ed in opposizione della “religione ufficiale”. Ovviamente lo sviluppo di un processo dicotomico tra religione ufficiale e religione popolare non avviene, per regola, in tutte le civiltà religiose43. Il presentarsi di un processo di diversificazione, può fare riferimento a quel mutamento che Weber individua nel passaggio da una fase “carismatica” alla fase di burocratizzazione e istituzionalizzazione. In genere, nelle religioni antiche, il momento popolare coincide con la fase arcaica ed agraria che precede gli sviluppi ed i cambiamenti che portano alla formazione di classi sacerdotali ed élites aristocratiche, espressioni, quest’ultime, della religione ufficiale44. A queste forme dicotomiche si oppongono, poi,

41 Ivi, p. 15. 42 Ivi, p. 16. 43 V. Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, Palermo, Sellerio Editore, 1983, p. 86. 44 Lanternari si riferisce alle religioni misteriche della civiltà greca, a carattere salvifico e iniziatico. I culti di tali religioni sono dotati di un’intensa carica emozionale ed erano tipicamente abbracciati dalle classi popolari. A questi culti si opponevano implicitamente quelli della religione olimpica delle classi aristocratica e sacerdotale.

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i casi di religioni di società tradizionali in cui, in principio, non erano presenti contrapposizioni interne di questo tipo. Si pensi a popolazioni, oggetto d’indagine etnologica, quali quelle pre-letterate africane, oceaniane, asiatiche o americane. Prima dell’avvento del Cristianesimo, le loro tradizioni mitico-rituali non percepivano un sentimento oppositivo tra religione ufficiale e popolare. Tra le società di derivazione afro-asiatica a maggioranza islamica, nelle aree a predominanza induista, buddhista o tao-confuciana, ci si trova di fronte ad una situazione ancora diversa. L’Islam, afferma Lanternari, ha la capacità di inglobare in sé ogni forma di religiosità etnica, tribale e nativa pre-esistente, senza suscitare clamorose opposizioni. Tuttavia, è possibile affermare che la tendenza esclusivista è una caratteristica tipica della tradizione giudaico-cristiana e tende a creare una rottura tra livelli di religiosità popolare e dominante45. Il Cristianesimo, in particolare nelle culture afro-americane e oceaniane, rappresenta la religione dominante in quanto costituisce il modello imposto ideologicamente da vari esponenti delle comunità europee nel periodo coloniale. Di conseguenza, i sistemi mitico-rituali delle tradizioni indigene sono etichettati come religioni popolari il cui compito è quello di custodire la tradizione locale, resistendo alle spinte minacciose dovute ai processi di cristianizzazione e colonialismo. Tuttavia, come precisa Lanternari, questo atteggiamento di protezione nei confronti della visione del mondo locale non implica un rifiuto delle influenze proveniente dalle religioni ufficiali. Spesso, infatti, accade che elementi mitico-rituali, simboli e valori dei modelli “dominanti” siano inseriti, spesso in modo originale, nei modelli tradizionali in base ai bisogni della comunità. A ciò occorre aggiungere che, spesso, lo stesso Cristianesimo è costretto dalla resistenza religiosa popolare ad accettare degli adattamenti e ad assimilare tratti delle istanze popolari. A questo punto è sbagliato pretendere di interpretare la religiosità popolare isolandola dal contesto in cui si sviluppa e dai rapporti che detiene con la religione dominante46. In Italia Gramsci fu il primo ad occuparsi dei rapporti tra religione ufficiale e popolare su basi storico-religiose e sociali. Gramsci oppone il “cattolicesimo popolare” o “folklore religioso” alla “religione della chiesa” o “religione egemonica”. Così come il folklore è inteso come riflesso della concezione della vita e del mondo delle classi subalterne, la religione popolare, espressione del folklo-

45 Ivi, p. 88. 46 Ivi, p. 89.

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re, deve essere distinta da quella dominante, o come scrive lo stesso Gramsci, da quella degli intellettuali47. Lanternari afferma che il pensiero gramsciano è dunque rivolto al cattolicesimo popolare italiano delle classi rurali con i suoi devozionalismi, il culto dei santi e le feste mariane, in relazione a elementi magici ed al legame tra paganesimo e cristianesimo48. Ogni religione racchiude in sé una molteplicità di religioni diverse e spesso in contraddizione tra loro, che variano non solo in base all’appartenenza di classe ma anche in base al genere. Nonostante ciò “le religioni restano prevalentemente le concezioni del mondo delle classi subalterne. In quanto tali esse, e ciò vale in particolare per le religioni popolari, sono parti essenziali del folklore e di quello che Gramsci chiama «senso comune»”49. Rivera riconosce a Gramsci la capacità di distinguere il giudizio filosofico sulla religione dal vissuto religioso. Analizzare il mondo storico-religioso per Gramsci era importante anche da un punto di vista politico. Per la costruzione di un blocco storico anticapitalistico era necessario incontrarsi e scontrarsi con il mondo contadino. Era indispensabile tener presente sia l’influenza del Vaticano in Italia, sia l’eterogeneità del cattolicesimo. Tuttavia, nonostante la forte influenza della religione ufficiale sulle classi subalterne, l’azione “purificatrice” della Chiesa verso le forme di religiosità pagana incontrò sempre una forte resistenza da parte del popolo. Tale resistenza è giustificata da Gramsci sulla base del fatto che la Chiesa condivideva la distinzione religiosa che vigeva tra ceti urbani e rurali. Questi ultimi vivevano in una condizione di isolamento culturale rispetto a coloro che appartenevano alle classi sociali più abbienti. Per questo, i contadini elaborarono un sistema caotico ma funzionale di comportamenti che risulta essere un mélange di elementi pagani e cristiani. In questo modo, la religione popolare che ne derivava, andava a sistemare una serie di esigenze che la religione ufficiale non riusciva a risolvere50. Se in Italia la religiosità popolare tende a persistere nelle zone meridionali, in altre parti del mondo, queste sono tendenze tutt’oggi attive nei grandi centri urbani. Lanternari cita, a tal proposito, la Spagna, il Messico e l’America Latina.

47 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, in Quaderni del carcere, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1954, p. 216. 48 V. Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, 1983, p. 90. 49 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, 1988, p. 52. 50 Ivi, p. 55.

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Si ricorda, in questo contesto, il culto penitenziale della Virgen de Guadalupe a Città del Messico – con ripetizione, fino ad oggi, di fenomeni di collettivo parossismo autolesionistico –, o il pellegrinaggio di San Gaetano a Buenos Aires, che annualmente attira un milione di devoti: manifestazioni di pietà popolare che indicano il persistere, su scala amplissima, di comportamenti religiosi propri di mondi arcaici, in cui la ricerca di protezione, di rassicurazione da ogni forma di negatività è delegata alle potenze ultramondane secondo rituali impetrativi, purificatori e penitenziali che implicano una stretta continuità e interpretazione tra le categorie del magico e del religioso51.

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4. Le feste religiose

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La festa, come più volte è stato ripetuto nelle pagine precedenti, rappresenta un momento che esula dall’ordinario e che porta ad una sorta di cesura, d’interruzione della quotidianità. In virtù della sua ciclica ripetitività, dovuta alla connessione che le religioni tradizionali conservano con la natura ed al potere rigenerativo del sacro, si impone all’ordinario, al tempo lavorativo, al profano. Per tentare di comprendere gli aspetti ed i mutevoli significati della festa è indispensabile andare ad analizzare il contesto nel quale si colloca. Il processo di secolarizzazione ha fortemente condizionato il processo festivo e il nostro modo d’interpretarlo, spesso inducendo diversi studiosi a non riuscire ad individuare i confini tra il mondo del sacro e quello del profano52. A ciò occorre aggiungere che proprio questa influenza ha portato oggi ha chiederci se sia giusto e doveroso distinguere una festa religiosa da una profana, o, come detto prima, a riconoscere l’esistenza di una religione popolare distinguendola da una religione ufficiale. Il sacro non è scomparso con la modernità ma ha subito un cambiamento. Oggi tale trasformazione ha portato alla nascita ed al diffondersi di nuove feste “secolari” in cui le dimensioni predominanti sono spesso quelle del divertimento e dell’intrattenimento. Tale moltiplicazione “ha il suo limite iperbolico – potentemente ricercato nell’industria pubblicitaria – in una rappresentazione della stessa quotidianità come festa continua, innervata dal culto del benessere e dei riti di consumo53.

51 V. Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, 1983, pp. 95-96. 52 Introduzione di L. Trombetta, S. Scotti (a cura di), L’albero della vita: feste religiose e ritualità profane nel mondo globalizzato, Firenze, Firenze University Press, 2007, p. 11. 53 Ivi, p. 12.

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Come è già stato detto nel capitolo precedente, la festa è diventata oggi anche innesto di una serie di politiche economiche di carattere commerciale volte all’intensificazione della produzione ed all’incremento del turismo locale. Si pensi alle feste tradizionali come il Natale, la Pasqua o a feste di più recente introduzione come Halloween o San Valentino. La ricerca di una base identitaria è un altro elemento che accomuna la proliferazione festiva e che è accentuata dai processi di globalizzazione.

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Si possono ad essa attribuire la ritrovata centralità delle religioni nella sfera pubblica, in quanto agenzie che, meglio di qualsiasi altra, si prestano a rispondere ai bisogni di senso e appartenenza. Assistiamo così all’entusiastica partecipazione di massa alle feste tradizionali e all’invenzione – o “riscoperta” – di tutti quegli eventi “religiosi” che siano in grado di attribuire connotati identitari54.

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Durkheim in Le forme elementari della vita religiosa, sottolinea come le feste comunitarie abbiano il potere di infondere nei membri della società un sentimento di appartenenza al gruppo sociale, alla tribù o al clan, in particolare in quelle culture che sono per noi “lontane”. È durante questo genere di festeggiamenti che gli individui sviluppano il senso del “noi” come base della loro esistenza sociale. Il gruppo che si viene a formare sviluppa un senso interno del “noi” che incentiva la comunione identitaria, ed un senso esterno del “noi” che porta alla distinzione del gruppo stesso da altri gruppi. Citando Peter Antes dal testo a cura di Trombetta e Scotti:

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Il festeggiare comune crea il gruppo al quale tutti i suoi membri si sentono legati. L’io, per conseguenza, si riconosce prima di tutto come membro del “noi” che garantisce la sua esistenza tramite i riti di riconoscimento dando all’individuo il suo nome e facendone così un membro della comunità. Al contrario, tutte le comunità antiche, ma anche quelle dei tempi più recenti nell’Africa sub-sahariana, sono basate sulla convinzione che l’“io” verrà creato dal “noi” perché senza un “noi” non ci sarebbe alcun “io”55.

La capacità della festa di sviluppare un senso comunitario e di rintracciare un’identità comune è una caratteristica tipica anche delle feste europee. Basti pensare, ad

54 Ibidem. 55 P. Antes, La festa nella storia delle religioni, in L. Trombetta, S. Scotti (a cura di), L’albero della vita: feste religiose e ritualità profane nel mondo globalizzato, Firenze, Firenze University Press, 2007, p. 24.

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esempio, che ai tempi delle rivoluzione francese del 1789 i rivoluzionari esitavano a sostituire le proprie feste a quelle religiose. Tale titubanza era frutto della paura che la gente ritornasse alle vecchie abitudini solo perché le nuove feste avrebbero potuto non possedere la capacità di fornire la stessa identità collettiva di quelle precedenti56. Abbiamo sottolineato come la festa sia anche un mezzo per marcare l’identità religiosa di un gruppo rispetto ad un altro. Antes fornisce, a tal proposito, l’esempio del mondo ebraico, confrontandolo poi con quello cristiano. In particolare, lo studioso analizza la festa della Pasqua che affonda le sue origini in una festa cananea legata alla raccolta del frumento. Gli ebrei hanno conservato tale festa, trasformandola in una celebrazione per ricordare l’intervento divino che portò alla liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto. Il momento fondamentale di tale celebrazione è la sera del Seder57 durante la quale il cibo corrisponde alle celebrazioni cananee del raccolto del grano58. Ciò dimostra che anche il calendario ebreo si ispira ad un altro calendario, pre-esistente, quello cananeo appunto, mentre l’azione divina è ricondotta a fatto storico estrapolato dalla Bibbia. Nel mondo cristiano, invece, la Pasqua è il momento attraverso il quale si celebra la morte e la resurrezione di Cristo e “costituisce allo stesso momento l’identità cristiana di fronte a quella ebrea”59. Il sistema liturgico, in questo caso, è costruito in parallelo tra la rinascita della natura in primavera e la resurrezione. Tuttavia, in certi casi, questo tipo di associazione genera una serie di problematiche. Si pensi, ad esempio, alla celebrazione della Pasqua in quei paesi dell’emisfero australe in cui il periodo in questione coincide con l’autunno e non con la stagione

56 Ivi, p. 25.

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57 È una cena particolare che si consuma seguendo un particolare ordine rituale durante la Pasqua ebraica. La parte centrale della cena è un piatto chiamato piatto del Seder. Si tratta di un piatto in genere decorato con una serie di dipinti che illustrano i principali simboli della Pasqua ebraica. In ricordo della fuga dall’Egitto, al centro di questo piatto sono poste tre matzot (più comunemente conosciuto come pane azzimo). Al centro del piatto sono in genere posti: il karpas, vale a dire, un gambo di sedano che ricorda la corrispondenza della festa della Pasqua con la primavera e la mietitura, anch’essa accompagnata da festeggiamenti in passato, un piatto di erbe amare (maror) come simbolo della durezza della schiavitù, una zampa arrostita di capretto (zeru’a) simbolo dell’offerta dell’agnello nel Tempio di Gerusalemme, un uovo sodo (beitza) in ricordo del lutto per la distruzione del Tempio e l’haroset, una sorta di confettura prerata con vino, frutta secca e noccioline, simbolo della malta che gli ebrei impiegarono durante la schiavitù per la costruzione delle città di Pit’om e Ramses. 58 Ibidem. 59 Ibidem.

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primaverile. Ci si trova di fronte ad un grande problema di carattere simbolico. L’autunno, infatti, coincide con un momento opposto rispetto a quello della rinascita. Dunque a livello di senso ci si trova di fronte ad una serie di incongruenze. Così come è possibile trovare un parallelo tra le feste cristiane e quelle ebree, se pur con significati differenti, è possibile rintracciare un’altro parallelismo tra celebrazioni cristiane e pagane. Antes cita tre esempi in tal senso: l’Epifania, il Natale e la festa di San Giuseppe. La notte del 6 gennaio, ad Alessandria, nell’Impero Romano, si celebrava la nascita del dio Aion. I seguaci del dio lo celebravano con la frase “la luce apparse, in questa notte la vergine gli ha dato la vita”. In greco, la prima parte dell’acclamazione si traduce con il termine epefane, da qui, epifania60. I cristiani alessandrini si appropriarono del simbolismo di questa festa e la fecero propria, inserendo, nella loro liturgia, il vangelo della nascita di Cristo secondo Matteo61. In questo modo, la festa pagana è potuta sopravvivere nei secoli se pur con qualche aggiustamento. Questo caso, osserva Antes, “conferma il fatto, riscontrato in molte culture, che spesso le feste sopravvivono a lungo, anche dopo che le religioni al cui interno erano nate, sono scomparse62.

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La festa di Natale fu introdotta nel quarto secolo a Roma, in concomitanza con la festa del Sole Invitto e della nascita del dio orientale Mitra. Le due feste erano celebrate nella notte fra il 24 ed il 25 dicembre, in corrispondenza dell’avvento di un salvatore da parte dei romani. Tale divinità sarebbe risorta e avrebbe salvato gli uomini fecendoli rinascere in eterno. Questo tipo di salvezza era la promessa di molte religioni orientali. A questi culti occorre poi aggiungere quello dell’imparatore, venerato come un Dio. Quando alla fine del quarto secolo la religione cristiana divenne religione di Stato dovette scontrarsi con le altre religioni presenti sul territorio. Per scongiurare uno scontro con queste ultime si introdusse la festa della Nascita di Cristo tra il 24 ed il 25 di dicembre. Il testo liturgico di riferimento per la nascita di Cristo fu il vangelo secondo Luca63.

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La festa di Natale stabilì così l’identità cristiana di fronte alle alternative dell’epoca. Per evitare poi che i cristiani dell’Impero Romano occidentale avesse-

60 Ivi, p. 27. 61 Nel vangelo secondo Matteo si fa riferimento all’arrivo dei re magi, giunti in adorazione a Betlemme. Essi rappresentano i primi pagani o non ebrei accostatisi a Cristo. 62 Ibidem. 63 Nel vangelo secondo Luca l’angelo si rivolge ai pastori annunciando l’avvento del Messia, del Signore.

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ro due feste della nascita di Cristo, la festa dell’epifania fu trasformata nella festa dei re magi. Così sono rimaste entrambe fino ad ora64. Il terzo esempio fornito dallo studioso riguarda la festa di San Giuseppe Artigiano, o festa del lavoro, indetta da Papa Pio XII nel 1955. Il Pontefice rifondò religiosamente la festa, sottraendola ai comunisti. Parallelismi di questo tipo possono essere individuati anche in altre religioni. Si pensi ad esempio al Buddhismo, con la festa che celebra la nascita del Buddha, quella della sua illuminazione e quella riguardante il raggiungimento del Nirvana. È possibile citare anche il Taoismo, il Sikismo, l’Induismo e tante altre. Ciò a dire che ogni comunità religiosa fa riferimento alla propria storia per costruire o ri-costruire la propria identità. Ogni elemento legato ad un particolare culto religioso, ad un rito, ad una festa, imprime alla comunità religiosa che lo mette in pratica un carattere puntuale e distintivo. La festa, dunque, è un momento fondamentale per una comunità. In particolare, se tale celebrazione ha un legame con l’apparato religioso della comunità che la esprime ha il potere di suscitare nei fedeli un senso di solidarietà e di appartenenza ancora più forte. È in questi momenti che si viene a costruire quel “noi” in cui il gruppo si identifica. Lo stesso concetto di “noi” permette di distinguere coloro che appartengono allo stesso gruppo da chi, invece, non vi appartiene o, più semplicemente, non vi si riconosce. Le parole di Antes sono molto chiare a riguardo:

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Le feste regolari durante l’anno, se da un lato forniscono il quadro necessario per sviluppare il senso del “noi”, dall’altro lato aprono nuovi orizzonti ricordando gli eventi importanti della propria storia religiosa”65.

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Conclusioni

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Le manifestazioni popolari costituiscono una parte integrante della civiltà nella quale prendono corpo e convivono con la religione ufficiale. Esistono diverse espressioni “popolar-religiose” all’interno di una stessa comunità in relazione alle vicende storiche, sociali ed economiche che una particolare collettività vive o è portata a vivere. La religione popolare è dunque un fenomeno particolarmente

64 Ivi, p. 28. 65 Ivi, p. 31.

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complesso e dinamico. In tal senso non può essere letto come categoria autonoma ma assume senso in relazione a tutte le componenti della cultura. La religiosità popolare deve essere considerata come una componente della cultura in tutte le sue manifestazioni. Essa si serve di riti, costumi ed usi per consolidare i legami sociali. Riprendendo un’affermazione di Cuisenier:

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Riti, costumi e usi presentano quindi un interesse particolare per la comprensione delle tradizioni popolari poiché offrono tre diverse modalità di regolamentazione delle transazioni sociali e una gradazione della formalizzazione dalla più esplicita alla più implicita66.

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Il mondo delle tradizioni “popolar-religiose” è dunque particolarmente complesso. La complessità di cui si parla non riguarda solo la molteplicità di fenomeni di cui la tradizione popolare si costituisce quali la magia, la superstizione o il devozionalismo. La complessità in questione riguarda anche i modelli e le funzioni di una particolare espressione religioso-popolare. La figura della Madonna, ad esempio, specie nella religione contadina, non è unica ma si divide in una ricchissima miriade di madonne locali, ognuna portatrice di propri significati e legata a funzioni precise che la contraddistinguono dalle altre67. Il carattere multifocale della religiosità popolare ha portato alcuni studiosi a rifiutare l’espressione di “religiosità popolare” sostituendola con una definizione più generica, quella di “religioni delle classi popolari”. Personalmente credo che la definizione di tradizioni “popolar-religiose” possa essere una soluzione accettabile. In tal senso infatti si riconoscerebbe la pluralità di manifestazioni popolari religiose e si abbandonerebbe la tendenza a valutare e classificare i contesti religiosi secondo un sistema gerarchico di classi. Parlare di una demarcazione netta, in termini di struttura, tra manifestazioni di religiosità popolare, e quindi rozza, e manifestazioni di una religiosità ufficiale, e quindi raffinata, non è una situazione ammissibile.

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In realtà nello sviluppo delle varie civiltà religiose si danno fasi nelle quali la religiosità popolare condensa ed esprime tendenze conservative, arcaicizzanti, protese ad assicurarsi, mediante un sistema mitico-rituale e simbolico, un adeguato strumento psicologico-culturale di difesa contro il male

66 J. Cuisenier, Manuale di tradizioni popolari, 1999, p. 77. 67 A.M. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri, 1976, p. 17.

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del mondo. È il momento magico, sincretico, folklorico: legato ai bisogni individuali immediati. Ma v’è anche la fase in cui la religiosità popolare si assume il privilegio storico di creare e fondare valori durevoli, capaci di ampliare l’orizzonte culturale verso prospettive di un umanesimo innovatore, liberatorio e universalista. È il caso del cristianesimo nel suo momento d’origine68.

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La religiosità popolare non è dunque un fatto di classe ma è il prodotto di un sistema di credenze e simboli condivisi da una collettività, indipendentemente che questa sia contadina o borghese. Come afferma Annamaria Rivera, sottolineare questo aspetto non è pura retorica, “considerato che questa tradizione filosofica, pur vecchia e ormai superata grazie all’apporto fondamentale dell’antropologia, ha lasciato consistenti tracce anche negli studi attuali sulla religione popolare”69.

68 V. Lanternari, Festa, carisma, apocalisse, 1983, p. 108. 69 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, 1988, p. 38.

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Capitolo terzo

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1. Il teatro festivo

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LO SCENARIO FESTIVO

È stato più volte sottolineato il carattere mutante della festa in quanto fenomeno culturale appartenente a quell’ambito di studi che, nel capitolo precedente, ho definito “popolar-religiosi”. La festa è anche un momento assolutamente performante e performativo. La performance in generale, e più in particolare la performance del festivo, consiste nel ritualizzare gesti e suoni. I rituali religiosi sono tanti quante sono le religioni che li praticano. Oltre a quelle che Schechner definisce “worlds religions” esistono anche delle forme di religiosità locale e regionale che possono presentare delle variazioni rispetto alle religioni ufficiali1. Schechner fa un esempio che

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permette di comprendere meglio ciò che intende. Oggi un devoto cristiano che reca con sé un portafortuna o che magari consulti regolarmente il suo oroscopo non suscita alcun tipo di stupore2. Partendo da questi presupposti è possibile individuare due tipologie di rituali, quelli sacri e quelli secolari. I rituali sacri sono quelli associati a credenze religiose che impiegano mezzi quali la preghiera, e che permettono di entrare in contatto con entità soprannaturali. Queste forze possono risiedere o essere simboleggiate da divinità o altri esseri sovraumani. I rituali secolari sono invece associati al quotidiano o ad attività che non possiedono delle caratteristiche religiose. Questo tipo di distinzione, come è stato già detto nel capitolo precedente, non deve essere considerata netta e data una volta per tutte. A volte possiamo trovarci di fronte a cerimonie che possiedono delle qualità o delle caratteristiche tipiche di un rituale religioso. È vero anche che, spesso, rituali religiosi fanno riferimento ad una serie di pratiche e comportamenti che vanno al di là del trascendentale quali il ma-

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R. Schechner, Performance Studies. An introduction, Routledge, New York, 2006, p. 45.

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Ibidem.

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scherarsi, il giocare o il bere. Si pensi, ad esempio, alla cerimonia del matrimonio. In diverse parti del mondo, così come anche a casa nostra, la cerimonia nuziale può essere catalogata come una performance che sta a metà tra il sacro ed il secolare. Si pensi al taglio della torta, al lancio del bouquet o al primo ballo con la sposa. In certi casi, la performance religiosa, accompagnata da preghiere e rituali sacri compiuti da una figura investita a ricoprire un certo ruolo cerimoniale, può essere sostituita da un rituale di stato, svolto da un giudice o da una qualsiasi altra autorità. Il più delle volte accade che i due tipi di cerimonia avvengano per una stessa coppia ma in luoghi e giorni separati. La performance religiosa avviene nella chiesa di riferimento, quella secolare in qualsiasi altro luogo3. Il sistema rituale, dunque, sia di carattere sacrale, sia di tipo secolare, va a scandire ogni momento dell’esistenza. Ciò vale non solo per il singolo ma anche per i diversi nuclei sociali che compongono una comunità. L’individuo non è mai lasciato solo a se stesso ma la società intera partecipa alla costruzione del suo destino “con un controllo collettivo che si fa tanto più penetrante quanto più viene regolato attraverso quell’esperienza di fondazione di senso che è l’evento rituale. Questo evento ha molto spesso le caratteristiche di un vero comportamento teatrale”4. Il continuo divenire della natura nel corso dell’anno è strettamente cor-

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relato con il divenire della cultura. Questo continuo processo di cambiamento ed evoluzione dà senso ai vissuti del singolo ponendoli in relazione con il resto della comunità attraverso il simbolismo della festa, del rito e del teatro. Facendo riferimento a Victor Turner si può introdurre a questo proposito il concetto di liminalità. Il liminale rappresenta una sorta di zona di confine in cui potrebbero sorgere nuovi modelli o paradigmi. Tale soglia è attivata in una comunità nel momento in cui si verifica un dramma sociale. Il dramma in questione può essere dovuto ad una rottura delle regole che controllano il vivere comune o alla possibilità di una svolta rispetto alla struttura tradizionale e che porta all’affiorare dell’antistruttura. Nelle società moderne, tale momento si verifica quando si determina un passaggio da una fase culturale ad un’altra, quando i codici che controllano la vita di una comunità non sono più ritenuti validi e si sente il bisogno di crearne dei nuovi. Chiarito ciò, la fase liminale permette di risanare le fratture che si realizzano nell’ordine sociale, sia a livello individuale, sia a livello collettivo. In seconda

3

Ivi, p. 47.

4

S. Dalla Palma, Il teatro e gli orizzonti del sacro, in La città e lo spettacolo, Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 72.

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CAPITOLO TERZO

istanza, la liminalità assume una posizione importante nel panorama festivo. Essa, infatti, ritrova una sua posizione all’interno del sintagma festivo.

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L’altro versante della liminalità viene esperito non più come esperienza estemporanea, ma come un momento ricollocato nella sintagmatica festiva in modo che il processo rituale riprende nel divenire dell’assetto calendariale tutto quello che deve essere modellato in termini di liturgia e di drammaturgia, per rendere trasparenti nello spazio del rito e del teatro gli assunti di base sottesi ai vissuti collettivi. Il sistema festivo dà senso, riconoscibilità e soluzioni trasformative a questi assunti, nella misura in cui scandisce nell’ordine del tempo vissuto collettivamente le posizioni che la crescita del soggetto in fasi successive ma ritualmente elaborate nella consecutio calendariale5.

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La festa, secondo Sisto Dalla Palma, rappresenta un momento di pausa dalla quotidianità ed introduce una differenza di senso e di comportamenti nello svolgersi del tempo. La festa, intesa come rottura della quotidianità, rappresenta solo una delle sue caratteristiche. Oggi, come ieri, la festa è un momento comunitario e spesso strettamente legato al panorama religioso. È un tempo condiviso da tutta la comunità che segna il passaggio da una situazione ad un’altra. Pubblica o privata che sia, la festa è un momento focale tra il tempo che precede e quello che la segue. I riti che sono compiuti durante il periodo festivo, infatti, tendono ad eliminare ogni elemento negativo o nefasto del periodo precedente e preparano la via a momenti nuovi ed a nuove opportunità. Il momento festivo non rappresenta solo un allontanamento temporaneo dalla quotidianità ma stabilisce una profonda relazione tra eventi diversi, legati a significati differenti. Tali sensi possono essere esplicitati attraverso una serie di condotte rituali definite mediante comportamenti che sviluppano un forte senso di appartenenza e di identità collettiva6. La festa, così come i momenti precedenti e successivi atti alla sua realizzazione, è una realtà instabile ed eterogenea. Turner, facendo riferimento al suo lavoro sul campo, ha scritto, in riferimento ad un campo di ricerca o ad un sistema sociale: Sono arrivato piuttosto a considerare un «campo» o un sistema sociale come una serie di processi liberamente integrati, con alcuni aspetti che seguono i modelli dati, alcune costanti formali, ma controllato da principi di azione contrastanti espressi in regole di costume che sono spesso situazionalmente

5

Ivi, p. 81.

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Ivi, p. 22.

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incompatibili. Questa concezione deriva dal metodo di descrizione e analisi che ho chiamato «analisi del dramma sociale»7.

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Schechner sostiene che, per analizzare tali “drammi”, Turner faccia riferimento ad una terminologia teatrale che in realtà serve a descrivere situazioni disarmoniche o critiche. Questi momenti di rottura racchiudono in sé le fasi liminali di cui si è parlato. La festa, in tal senso, può essere intesa come un momento di rottura, una fase liminale fortemente ritualizzata che va ad assumere forme, caratteristiche e significati sempre diversi in funzione delle necessità degli attori che la propongono “in scena” e degli spettatori che sono coinvolti. Agire attraverso questo genere di gioco permette al singolo di sperimentare liberamente e di scomporre e ricomporre elementi culturali differenti combinandoli in vario modo a seconda delle proprie esigenze8. Il gioco, infatti, è un modo liminale o liminoide, vale a dire una fase intermedia. Esso si esprime al congiuntivo, rappresenta cioè la possibilità. Il suo dominio è quello dell’opportunità, del “come se” e si oppone al “come è” che appartiene invece all’indicativo, vale a dire, al tempo della certezza. La realtà culturale del gioco è influenzata dall’attività lavorativa. Lavoro e gioco interagiscono, sono compresenti e si influenzano vicendevolmente. Gioco e lavoro sono due elementi importanti di una performance culturale come quella festiva. Attraverso lo svago si sviluppa un forte senso di solidarietà ma la festa non è solo questo. Essa è anche un momento di indagine ed esplorazione. Come spiega Turner, nel momento in cui ciò che è messo in scena non ha più solo il compito di divertire ecco che diventa un metacommento, cioè una storia che un gruppo racconta a se stesso su se stesso. Nel momento festivo ogni individuo fa della propria vita una perfomance. Il mondo della possibilità, del congiuntivo, domina dunque anche il panorama festivo e rappresenta un motivo in più per non parlare di feste morte o scomparse. La festa muta le sue caratteristiche performative, i suoi attori, i suoi spettatori per pura necessità e per spirito di adattamento al cambiamento. Il copione che la caratterizza è mutevole. Segue delle linee guida ma il suo contenuto, i suoi significati e gli intrerpreti sulla scena possono sempre cambiare. La festa può essere intesa anche come un momento in cui si assiste alla drammatizzazione dei conflitti e ha la funzione di liberare la comunità da qualsiasi malessere che l’ha accompagnata fino a quel momento. In questo senso processo ri-

7

V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, il Mulino, 1993, p. 147.

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V. Turner, Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1986, capitolo 1, p. 49-115.

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tuale, in particolare festivo, e teatro sono legati tra loro. L’unica differenza che può essere individuata tra le parti è che il rito ingloba i conflitti e li esplicita attraverso i simboli per poi mascherarli in sé. Il teatro esplicita tali conflitti e svela il malessere sociale9. Il teatro, dunque, parte dal sociale e si scontra con il sociale da cui è prodotto. Per Turner, le radici del teatro sono da ricercarsi nel dramma sociale. Egli considera il dramma sociale la matrice dalla quale si originano le principali tipologie di performance culturali. Questa convinzione dell’antropologo inglese è dettata dal fatto che il teatro è qualcosa di vivo, di mutevole, che prende forma e si muove davanti ai nostri occhi. Ogni luogo può diventare teatro di una perfomance culturale. Dalla piazza, all’aia, al parco sotto casa. Per quanto riguarda la mia personale ricerca, persino un porto marinaro può diventare palcoscenico di una performance culturale che racchiude momenti di svago e di costruzione e ricostruzione collettiva. È innegabile che la potenza di una performance come quella che mi accingerò a descrivere nel capitolo successivo assorbe la sua forza dalle persone che vi partecipano, sia come spettatori che come attori mobili su una scena mutevole. La variabile che ne determina la potenza non dipende dalle conoscenze che i partecipanti possiedono ma dalla loro profondità umana. Durante la performance si può vedere ciò che accade sul “palcoscenico” rituale, percepire il senso e l’importanza di un gesto, di una preghiera, di un canto e, ad essi, associare un proprio significato che sarà personale ed unico. Il teatro festivo, e più in generale quello rituale, riflette il sociale. Attraverso di esso è come se lo specchio in cui si rispecchia si infrangesse e desse a tutti la possibilità di raccoglierne un pezzetto. In questo modo tutti diventano protagonisti e attori del loro agire10.

2. I giochi di luce: tra luminarie e artifici del fuoco

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Il teatro festivo fa spesso uso di una serie di “effetti speciali” che in genere vanno a chiudere lo spettacolo proposto da una comunità. Tra questi si pensi, ad esempio, all’accensione dei falò, a danze particolari, alle corse di fercoli recanti statue o reliquie di santi o, ancora, a musiche, canti, questue e via discorrendo.

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Ivi, p. 10.

10 Ivi, p. 18.

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Questo tipo di artifici sono ancora oggi particolarmente impiegati nel nostro paese. Si tratta di artifici che si pensava fossero andati scomparendo ma che appartengono ancora alla nostra realtà e, in genere, accompagnano diverse festività. Si pensi alle luminarie con cui sono addobbate le vie delle città durante il Natale o alle luci distribuite in varie zone del paese durante le feste patronali. In questo paragrafo mi soffermerò soprattutto su un particolare genere di artifici spettacolari che, non solo nel caso della mia ricerca, ma in ogni località del nostro paese, sono spesso impiegati in diverse occasioni festive. Gli artici in questione sono i fuochi festivi. In genere quando si fa riferimento a questa tematica si pensa immediatamente alle feste del fuoco. Frazer, a tal proposito, in Il ramo d’oro, ritiene che “le feste del fuoco”, abbiano delle caratteristiche comuni indipendentemente che esse si svolgano in diversi periodi dell’anno e in paesi differenti d’Europa:

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Pare che sia stato pressappoco universale in tutt’Europa l’uso di accendere dei grandi falò, saltarvi sopra e spingervi attraverso o intorno il bestiame; lo stesso può dirsi delle processioni, delle corse con torce accese intorno ai campi, ai frutteti, ai pascoli o alle stalle. Meno diffusi erano i costumi di gettare dei dischi accesi in aria e di far ruzzolare una ruota accesa dalle colline. La cerimonia del ceppo di Natale si distingue per il suo carattere domestico e intimo dalle cerimonie delle altre feste del fuoco: ma questa distinzione può essere dovuta semplicemente al tempo cattivo dell’inverno che non solo rende assai spiacevole un’assemblea pubblica all’aperto, ma può, da un momento all’altro, impedire che si raggiunga lo scopo dell’adunanza spegnendo l’indispensabile fuoco sotto un rovescio di pioggia o una nevicata. A parte queste differenze locali o climatiche la somiglianza generale fra le feste del fuoco in ogni stagione dell’anno e in tutti i paesi è abbastanza stretta11.

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Annamaria Rivera considera l’atteggiamento di Frazer alquanto statico e indifferrenziato nonostante ad esso si debba una ricchissima documentazione attorno a queste argomentazioni12. Frazer, infatti, va a sottolineare il carattere pagano delle feste del fuoco, attribuendo a tutte uno stesso significato protettivo, purificatorio e propiziatorio. Sia che si tratti di una festività quale il Natale, l’Epifania, la Pasqua o San Giovanni, tale teoria del fuoco come strumento purificatore è applicata allo stesso modo ad ognuna delle diverse festività.

11 J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Boringhieri, Torino, 2007, p. 747. 12 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, p. 178.

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L’antropologo e filosofo finlandese Edward Westermarck fu il primo a formulare la teoria secondo cui il fuoco avrebbe la funzione di eliminare tutto ciò che andrebbe ad influenzare negativamente la vita dell’uomo e della natura. Frazer definisce tale teoria come la “teoria solare”:

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Da una parte si è ritenuto che fossero incantesimi del sole o cerimonie magiche che per il principio della magia imitativa dovevano assicurare la provvista necessaria di luce solare agli uomini, agli animali e alle piante accendendo dei fuochi che imitassero in terra la grande sorgente di luce e di calore nel cielo13.

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La teoria di Westermarck si contrappone a quella di Wilhelm Mannhardt. Secondo l’etnologo tedesco, i riti del fuoco, avevano, soprattutto nelle culture lontane nel tempo, lo scopo di rafforzare l’attività del sole attraverso la magia simpatica. Tale teoria è identificata da Frazer come “teoria della purificazione”:

D’altra parte si sostiene che le cerimonie del fuoco non hanno necessariamente relazione col sole, ma hanno soltanto un’intenzione purificatrice, essendo intese a bruciare e distruggere tutte le influenze dannose tanto concepite in forme personali come streghe, demoni e mostri, quanto in forme impersonali come infezione o corruzione diffusa nell’aria14.

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Frazer prende in esempio la festa di San Giovanni e quella di Natale. Non a caso, entrambe le festività, sarebbero un indizio che andrebbe a sostenere la teoria di Mannhardt, in quanto queste due importanti feste del fuoco andrebbero a coinci-

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dere con il solstizio invernale e quello estivo15. Tuttavia Frazer non è l’unico a sostenere la tesi della purificazione. In studi più recenti, anche Vittorio Lanternari

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ha appoggiato tale posizione, pur riconoscendo ad entrambe una certa validità16. In realtà anche Frazer ammette la possibilità che i fuochi possano assumere valen-

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ze rituali differenti che si andrebbero però ad affiancare a quella primaria, quella

13 J.G. Frazer, Il ramo d’oro, p. 748. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 749. 16 I fuochi hanno il potere di proteggere i campi, liberare gli uomini, gli animali e la natura tutta da influenze nefaste in genere attribuite all’azione di streghe, demoni o spiriti maligni. Questo genere di funzionalità, secondo Lanternari, andrebbe a vantaggio e a sostegno della teoria frazeriana.

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purificatrice appunto17. In Italia, l’impiego di fuochi durante le feste è una caratteristica abbastanza comune in tutto il paese.

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Ruote e falò s’accendono […] nella notte di San Giovanni, questa ancor oggi carica di «sacralità pagana», intendendo con tale espressione il fatto che consapevole è ancora in certi casi la funzione magica, protettiva e propiziatoria, rispetto alla fecondità e fertilità della natura e degli uomini, che i protagonisti del rito gli attribuiscono18.

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Nel caso di festività liturgiche, secondo Rivera, è sbagliato parlare di sopravvivenze pagane ma più corretto è parlare di reciproche contaminazioni. “Il fuoco nelle processioni del Venerdì Santo lo ritroviamo […] nel Gargano, ma anche nel Piacentino”19. Col tempo, l’intenzione che vedeva l’impiego del fuoco come strumento attraverso cui allontanare ogni forma di negatività è andata persa proprio per via di questo processo di contaminazione reciproca. La funzione purificatoria del fuoco è ancora riconosciuta in certi casi, come durante le celebrazioni di San Giovanni, totalmente ignorata nel caso di altre festività. Quando si parla di fuochi festivi occorre compiere una precisazione. I fuochi festivi non sono solo quelli dei falò. Anche i fuochi pirotecnici rientrano in tale categoria. Sono presenti in moltissime feste popolar-religiose in quanto rappresentano una componente fondamentale del sistema spazio-tempo festivo. Le loro esplosioni, infatti, scandiscono e qualificano episodi rituali differenti, marcano i momenti topici della festa, sono indicatori dei limiti spaziali e temporali. La realizzazione di fuochi pirotecnici richiede un impegno intenso da parte di tutta la comunità non solo da un punto di vista economico ma anche per quanto riguarda la loro realizzazione in un tempo ed in uno spazio preciso. Ignazio Buttitta, nel suo libro La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, scrive, in riferimento alle feste siciliane:

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La festa è riuscita bene, il santo è stato dovutamente onorato solo se i fuochi hanno superato quelli dell’anno precedente per quantità e qualità. V’è da segnalare come l’uso degli artifici pirotecnici si inserisca all’interno delle rivalità tra le diverse fazioni di fedeli di questo o quel santo. Nel corso della

17 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, p. 180. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 182.

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stessa festa, come accade a Calamonaci per san Vincenzo Ferrer o a Viagrande per san Mauro, ovvero dopo lo svolgimento delle due distinte feste, come per i fedeli di San Paolo e di San Sebastiano a Palazzo Acreide. Fare i fuochi migliori significa prevalere sugli avversari, affermare il proprio prestigio e quello del proprio santo a danno degli sconfitti20.

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I fuochi pirotecnici e lo spettacolo che ne deriva sono dunque diventati decisivi in diverse festività, non solo in Sicilia ma in tutta Italia. In particolare al Sud lo spettacolo dei fuochi d’artificio spesso è considerato un momento decisivo della festa. Oltre a voler purificare ed allontanare le influenze nefaste, questo genere di fuochi aggiungono un elemento non indifferente, vale a dire il suono. I fuochi pirotecnici, infatti, non sono solo giochi di luce che illuminano il cielo, in genere, notturno. Essi sono anche rumore. Fuoco e rumore appartengono ad un rituale di purificazione che determina l’instaurarsi di un tempo rinnovato. L’esplosione racchiude in sé valori di carattere apotropaico. I fuochi d’artificio scandiscono diversi momenti festivi. Dall’uscita del simulacro dalla chiesa, al suo rientro, alla processione per le vie del paese. Può accadere che i due generi di fuoco festivo21 siano compresenti all’interno di una stessa comunità. Buttitta riporta l’esempio di Calamonaci:

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In alcuni casi i fuochi pirotecnici sono preceduti dall’accensione di una o più cataste di legna dedicate al santo celebrato; per esempio per la festa di Sant’Antonio Abate a Santo Stefano Medio e per quella di San Sebastiano a Santa Margherita, due centri limitrofi del Messinese22.

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Tuttavia, i fuochi d’artificio non segnano semplicemente i confini spazio-temporali del rituale. Spesso possono ricoprire valori simbolici molto puntuali. Buttitta si riferisce, ad esempio, al significato simbolico rivestito dagli spari di arma da fuoco, allo scoppio di petardi e di altri artifici pirotecnici. Anche in questo caso, questo genere di esplosioni hanno una funzione propiziatrice e purificatrice23. Talvolta, i fuochi pirotecnici ed il fragore da essi provocato, accompagnano tutto un apparato festivo. Addirittura accade che il tempo cerimoniale sia pre-

20 E.I. Buttitta, La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, Meltemi, Roma, 2002 p. 166. 21 Buttitta definisce “arcaico” il fuoco del falò mentre i fuochi d’artificio sono considerati la forma moderna dei fuochi festivi. 22 Ivi, p. 170. 23 Ivi, p. 171.

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ventivamente annunciato dall’accensione di una serie di luminarie disseminate in tutto il paese. Il frastuono degli artifici pirotecnici rappresenta anche un’amplificazione delle sonorità tradizionali. Si pensi, ad esempio, ai tamburi, alle raganelle e simili. Oltre all’aspetto rituale occorre considerare anche quello spettacolare ed artistico di queste esplosioni. Ciò vale anche per le luminarie che, di anno in anno, variano per forme e colori e che sono un ulteriore segno visivo del paese in festa. Buttitta fa anche una precisazione storica riguardo ai fuochi festivi che ritengo interessante esplicitare in questo contesto. I fuochi pirotecnici compaiono in Europa nel XIV secolo. Grazie al contributo tecnologico proveniente dalla Cina si diffondono negli usi festivi fino ad oggi. Più precisamente, spesso, questi artifici spettacolari vanno oggi a sostituire proprio un elemento centrale negli usi festivi, vale a dire il fuoco. La loro produzione e legata a sistemi di lavorazione assolutamente manuali. I mezzi che sono impiegati per la loro realizzazione sono appunto gli occhi e le mani degli uomini. Dal taglio delle carte, alla fabbricazione degli involucri, alla preparazione delle miscele24. I fuochi artificiali si distinguono in tre categorie: i fuochi di terra, i fuochi aerei e quelli di mare25. Per “fuochi di terra” si intendono bengala, batterie di carta26, fiaccolate27, fontane28 e girandole29. Si tratta di artifici che vengono sempre più impiegati in quelle zone in cui i fuochi aerei sono in genere vietati30. I fuochi aerei possono essere diurni31 o notturni. Si tratta di esplosioni in cui prevale l’effetto sonoro. All’occhio appaiono come fontane bianche o colorate. Il colore è dovuto all’aggiunta di un ossidante e di un sale alla miscela che, reagendo insieme, colorano la fiamma del fuoco. Per quanto riguarda i fuochi acquatici, essi richiedono l’impiego di materiali impermeabili e tecniche di fabbricazione particolari. Una volta lanciati dal mor-

24 Ivi, p. 174.

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25 Questi ultimi sono di formazione più recente. 26 Si tratta di colpi collegati tra loro in rapida successione. Più precisamente i colpi sono piccoli cilindri di carta contenenti una leggera quantità di prodotto esplosivo. 27 Consistono nel far bruciare un certo numero di fiaccole contemporaneamente. 28 Le fontane sono sempre meno richieste e la loro preparazione necessita di una certa abilità e la conoscenza di tecniche particolari. 29 Sono ruote a quattro raggi realizzate in canna. 30 Ivi, p. 178. 31 Rientrano nella classe dei fuochi diurni anche le “riprese” ed i “fischi”. Entrambi possono rientrare anche nella categoria di fuochi di terra.

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taio devono ricadere sulla superficie dell’acqua prima di accendersi. Due sono le tipologie di fuochi acquatici: Possono essere [i fuochi acquatici] di due tipi: o una volta accesa, la bomba lancia “i colori” a mo’ di fontana, ovvero (e questa è operazione assai più complessa), essa lascia partire un’altra bomba32.

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Come afferma Buttitta, la ricerca riguardante i fuochi festivi è in continua evolu-

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zione. Tuttavia, il mondo della pirotecnia rimane ancora un ambito chiuso e difficilmente accessibile. Ciò è dovuto alla forte competitività tra le varie ditte, alle

restrizioni normative, ai continui incidenti che vanno a colpire gli artificieri, oltre

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alle innovazioni per realizzare spettacoli sempre nuovi e strabilianti33.

Il mondo della pirotecnia appare come un terreno ancora tutto da esplorare. Si tratta di una realtà che spesso è trascurata per quanto riguarda la sua storia ed i suoi significati. La bellezza ed il fascino di questi spettacoli sembra infatti porre in ombra altri fattori determinanti e che possono essere considerati una conseguenza di chi a questo mondo vi appartiene. Non bisogna trascurare, ad esempio, il fatto che la marginalità territoriale a cui spesso sono soggette le fabbriche produttrici di questi fuochi sembra tradursi anche in marginalità sociale:

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Ai pirotecnici sembra riservato analogo destino che agli operatori del fuoco, fabbri, vasai, carbonai, ecc., nelle società tradizionali. Del resto sono sempre stati signori del limite: ogni giorno percorrono il sottile confine tra la vita e la morte34.

Il pirotecnico, dunque, potrebbe essere associato un po’ ad un sacerdote, che, du-

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rante il rito festivo, si adopera per alimentare e tutelare il fuoco, in qualunque forma questo possa essere presentato, in favore del proprio popolo o di chiunque

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partecipi a quel particolare momento.

32 Ivi, p. 179. 33 Ivi, p. 185. 34 Ivi, p. 185-186.

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3. Al centro della scena l’immagine sacra

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Gli appartenenti ad una comunità tendono a riconoscersi e a ritrovare se stessi attraverso le proprie divinità. Ciò accade da tempi immemori e continua ad essere anche oggi un fenomeno ricorrente. Gli stessi simulacri di un dio o di un’entità sacra erano e sono percepite come incarnazione della stessa divinità. La sensazione che ne deriva è che la statua sia una realtà viva oltre che presente nella vita dell’individuo35. In riferimento alle divinità della Mesopotamia, Buttitta scrive: Il simulacro è riverito e curato come se fosse lo stesso dio. In Mesopotamia, come del resto in Egitto, viene svegliato al mattino, lavato, purificato o unto, vestito. Alle ore stabilite gli si servono i pasti e riceve le suppliche dei fedeli. Nei giorni festivi viene portato processionalmente per l’abitato o in visita ai templi di altri dei di cui si celebrano le festività. La raffigurazione del dio ha più che un valore referenziale. Senza di essa non sarebbe possibile prestare al dio alcun culto36. Il simulacro, dunque, così come il tempio in cui è custodito, rappresentano i mezzi attraverso i quali è posta in essere la comunicazione tra la divinità e l’uomo, tra la terra ed il cielo. La sacralità di questi oggetti è da un lato espressione della duplicazione, l’immagine viva dell’entità ultra-terrena. Dall’altra è segno del luogo in cui avviene la comunicazione tra le parti37.

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Indipendentemente da quale sia il grado di identificazione antropomorfica dell’immagine essa è espressione del sacro. In tal senso è necessario distinguere l’immagine religiosa dall’idolo. L’idolo, infatti, si impone come totalità. In tal modo il culto rimane limitato e inglobato nell’oggetto. La relazione tra l’idolo e il soggetto rimane racchiusa in uno spazio preciso senza alcun fattore trascendentale che possa influenzarla38. Si pensi, ad esempio, al mondo greco-romano o a quello egiziano. Si tratta di realtà pagane in cui le rappresentazioni divine ed umane erano molto presenti e l’immagine si prestava facilmente ad essere adorata. Dalla statua dell’imperatore a quella del faraone, dal simulacro di Apollo e di Demetra a quello di Anubi e Horus, le religioni politeiste fanno ampio uso delle loro immagini che sono adorate di per sé, diventando appunto degli idoli.

35 Ivi, p. 17. 36 Ivi, p. 19. 37 Ibidem. 38 Ibidem.

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Tuttavia, spiega Buttitta, anche i cristiani devono confrontarsi con le loro immagini sacre. Il libro dell’Esodo recita: Non ti fare nessuna scultura, né immagine delle cose che splendono su nel cielo, o sono sulla terra, o nelle acque sotto la terra. Non adorare tali cose, né servir loro, perché io, il Signore Iddio tuo, sono un Dio geloso…39.

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La produzione di immagini nel mondo cristiano si evolve lentamente e non con poche difficoltà. Già a partire dal III secolo si fa riferimento ad una serie di simulacri. Tuttavia il repertorio in questione è ancora molto esiguo in questo periodo. L’opposizione da parte di alcuni esponenti del mondo ecclesiastico fu comunque molto forte40. Altri ancora mostrano una certa diffidenza nei loro confronti ma non le condannano. Sant’Agostino, ad esempio, mostra la sua perplessità nel rappresentare l’immagine di Dio in quanto l’immagine, pur conferendo una certa tranquillità, induceva l’uomo a peccare. Posizione nettamente riluttante era quella di Eusebio di Cesarea. Il Secondo Concilio di Nicea del 787 segnerà una svolta a tal proposito. Pur riconoscendo il culto esclusivo di Dio, si identificava come legittimo rendere ossequio anche alle immagini nel momento in cui tali onori erano implicitamente o esplicitamente diretti a ciò che l’immagine rappresentava. Era giusto, dunque, rendere omaggio all’immagine di Cristo, non perché personificazione della divinità ma in quanto mezzo attraverso il quale far giungere quell’onore a Cristo. L’immagine non doveva essere adorata come oggetto sacro ma doveva fungere da richiamo alla memoria e diventare strumento attraverso il quale giungere al santo o alla divinità venerata41. Il simulacro diventa quindi un ponte di congiunzione tra l’invisibile ed il visibile, l’aldilà e l’aldiquà. Le modalità in cui ciò avviene ed il ruolo svolto da queste rappresentazioni sacre varia da cultura a cultura, da popolo a popolo. Tuttavia, non necessariamente si può individuare una corrispondenza tra quello che una tradizione ascrive a tale venerazione e quello che realmente il singolo compie in tal senso42. Questo contrasto tra ciò che è scritto e come si agisce è vissuto in modi differenti nell’ambito della tradizione popolare: “la funzione sociale attri-

39 Esodo, 20, 4-5. 40 Buttitta si riferisce a personaggi quali Clemente Alessandrino, Origene, Tertulliano che rigettano questo genere di rappresentazioni grafiche. 41 I.E. Buttitta, La memoria lunga, pp. 22-24. 42 Ivi, p. 26.

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buita ai santi di modelli di comportamento cristiano da seguire e imitare, è, di fatto, vissuta in modi e forme propri alla tradizione folklorica”43. Nella percezione del credente, l’immagine è vissuta e sentita come viva ed è considerata come espressione della potenza del santo che rappresenta. Si pensi alle immagini custodite in casa, nel portafogli o incastonate in collane e altri gioielli. Esse rappresentano un mezzo attraverso il quale il sacro accompagna la vita dell’individuo in ogni momento ed in ogni circostanza. In particolare, spiega Buttitta:

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L’immagine sacra, custodita in casa, si configura come mezzo attraverso il quale rendere il sacro costantemente presente, e rispondere all’esigenza di materializzare l’oggetto di culto, al quale poter fiduciosamente affidare le ansie, i più reconditi desideri… Le immagini dei santi vengono appese in un luogo particolare della casa, sulla porta, al capezzale per proteggersi dalle forze maligne e da nemici dotati di poteri magici e mettere la famiglia sotto la protezione del santo raffigurato propiziandone i favori44.

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Per via di questo loro potere protettivo e propiziatorio le immagini sacre sono anche impiegate sulle imbarcazioni, nelle botteghe degli artigiani, sui cruscotti delle auto e dei camion. Non solo, ad esse è riconosciuta anche una funzione terapeutica. In situazioni collettive come nel caso di processioni realizzate in occasione di feste, ad esempio quelle patronali, i simulacri hanno anche il compito di proteggere e di sacralizzare gli spazi della vita sociale. Come afferma Buttitta, è proprio nel momento festivo che il duplice statuto di cui l’immagine gode assume la massima visibilità. È in questi momenti che sono posti in luce una serie di elementi culturali che, diversamente, rimarrebbero nascosti. Attraverso il momento di festa si ha la possibilità di intensificare e rinnovare il rapporto tra uomo e santo per mezzo dell’immagine sacra45. Si pensi alle feste realizzate ogni anno in onore del santo patrono. Il simulacro, nel tempo di festa, è visitato da una processione di fedeli che, attraverso l’immagine, affidano le proprie preghiere, le proprie afflizioni, chiedono la grazia, offrendo in dono gioielli, denaro o ciò che ritengono in loro possesso di maggior valore. Ciò accade anche nel resto dell’anno ma il momento della festa è percepito

43 Ibidem. 44 Ivi, p. 27. 45 Ivi, p. 29.

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come quello in cui la statua, l’immagine sacra è viva, animata. In Perché le feste, Lello Mazzacane e Luigi Maria Lombardi Satriani scrivono:

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La festa per il santo patrono, come pure quella in onore della Madonna è, nella cultura popolare, le vera festa, la Festa per definizione. Più specificatamente, a misura del borgo, del paese, o del rione dove si svolge, la festa patronale risponde ad esigenze essenziali dei ceti poveri, rurali ed urbani: siano essi artigiani o contadini, proletari o sotto-proletari. Rispondere alle esigenze minime significa fornire soluzioni, e la festa le fornisce nella misura in cui è nell’economia contadina il momento e il luogo della trattativa commerciale, è, a livello del sociale, il luogo e il modo di incontrarsi, è, a livello psicologico, il modo e il tempo per sentirsi protetti e rassicurati. Ma quando la festa è finita, torna l’angoscia del quotidiano, torna la lotta per l’esistenza. Saper leggere nelle feste significa cogliere la misura di questa angoscia, ipotizzare nuovi sbocchi per questa lotta46.

Tali significati e tali valori sono racchiusi nella statua, nel quadro, nell’immagine sacra a cui non solo il singolo ma tutta la comunità è devota. L’immagine sacra non è più solo un’immagine del santo ma è manifestazione della presenza viva e attiva del santo stesso. È possibile inoltre notare che in diverse feste della tradizione popolare riti antichi, rivolti un tempo a divinità differenti, rivivono nelle feste dedicate a santi e madonne.

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Come un tempo il pantheon pagano, anche quello cristiano si fa oggi presente nella religiosità popolare come elemento di riscatto dai mali che affliggono sia l’anima che il corpo. Il santo protettore è più che mediatore tra gli uomini e un Dio onnipotente ma troppo lontano. È ordinatore e taumaturgo, garante della comunità e suo più immediato e diretto referente47.

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L’immagine sacra è nello stesso tempo rappresentazione e realtà. Essa è espressione della sua esistenza, la divinità prende forma attraverso di essa. L’immagine diventa cioè espressione tangibile della presenza del divino, o meglio, del sacro. Il simulacro è la chiave attraverso cui è possibile aprire la porta che congiunge il mondo terreno con quello trascendente. Attraverso l’immagine sacra l’uomo entra in contatto fisico con il sacro, lo percepisce più vicino a sé e in esso trova sollievo. In tal senso l’immagine diventa una necessità. Essa è infatti necessaria per

46 L. Mazzacane, L.M. Lombardi Satriani, feste patronali, in Perché le feste, Roma, Giulio Savelli Editore, 1974. 47 I.E. Buttitta, La memoria lunga, p. 31.

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comunicare con ciò che appartiene ad un mondo altro in cui l’uomo si rifugia specialmente nei momenti di difficoltà.

4. Le immagini sacre in Calabria

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Il mondo popolare è una realtà instabile e soggetta a trasformazioni. Questo genere di caratteristiche si riflettono anche nel mondo della religiosità popolare ed in particolare nella percezione dell’immagine sacra. Francesco Faeta va ad indagare in tale ambito quella che lui stesso definisce “inquietudine delle figure”48. In particolare, Faeta, in Il santo e l’aquilone, dedica particolare attenzione allo studio dell’inquietudine delle figure nel mondo popolare calabrese. Lo studioso scrive: Inquiete le figure popolari calabresi sono infatti, come vedremo da vicino, perché parte di una cultura che non ha del tutto razionalizzato il loro rapporto con il referente, ma anche perché, in quanto specchio del mondo, mantengono una loro identità ambigua, una loro polivalenza e polifunzionalità significative. L’inquietudine, che avevo percepito inizialmente soltanto come segnale, o riflesso, di una concezione magica dei processi di rappresentazione, mi appariva anche connessa all’indefinitezza comunicativa e simbolica dell’oggetto e alla sua magmatica e sfuggente complessità sociale49.

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L’inquietudine, dunque, nasce dal fatto che l’immagine non è statica, ma si anima, non è rappresentazione di realtà ma è essa stessa realtà. La figura, la statua, il quadro, tradiscono la loro condizione di oggetti inanimati suscitando così nell’individuo angoscia, inquietudine e terrore. A volte le immagini piangono, trasudano sangue, cambiano, parlano. Altre volte appaiono in stato di veglia o nel sonno. L’ipotesi da cui Faeta è partito è legata ad un rapporto particolare che si viene a creare tra visione, ideologie e prassi delle immagini nel mondo colto e popolare. Tuttavia, come è stato detto in precedenza, parlare di una opposizione netta tra mondo colto e popolare non sarebbe corretto. Alcuni aspetti dell’immaginario popolare, infatti, sono stati condivisi, in diversi momenti storici, anche dal mondo colto e dalle classi egemoni. Sicuramente periodi come quelli legati alla lotta contro le immagini sacre come, ad esempio, la Controriforma e il Barocco, hanno in-

48 F. Faeta, Il santo e l’aquilone. Per un’antropologia dell’immaginario popolare nel secolo XX, Sellerio Editore, Palermo, 2000, p. 17. 49 Ivi, p. 19.

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fluito in maniera diversa sul mondo calabrese egemone e subalterno. Come è stato detto nel paragrafo precedente, il Secondo Concilio di Nicea, insieme a quello di Trento, hanno sancito un momento importante in tale campo. A ciò, occorre aggiungere altre forze che influenzarono il mondo calabrese quali le influenze greco-ortodosse e quelle islamiche. Questi fattori determinarono, in una realtà frammentata come la Calabria, una serie di compromessi tra mondo colto e popolare in riferimento a concezioni magiche e metafisiche50. Oggi è necessario sottolineare il carattere responsabile che le immagini possiedono. Esse sono soggette ad un dualismo molto forte. Se da un lato l’immagine è percepita come cosa, inevitabilmente, dall’altro, tende a perdere il suo carattere materiale e ad essere ricondotta ad un certo grado di responsabilità. Per strati molto ampi di popolazione il concetto di immagine è ricondotto a quello di anima.

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Simulacri vengono esposti ai raggi cocenti del sole affinché la potenza divina che è in essi, esausta, provochi la pioggia; icone tengono lontani gli spiriti dalla soglia dell’abitazione, proteggono carri agricoli, trattori, bestiame, guariscono gli ammalati, fondano conventi, castelli, paesi; fantocci personificano il male e la morte, consentono omicidi lustrali; fantocci personificano colui che è morto lontano e la cui spoglia è dispersa, schiudendo lutto e cordoglio; fantocci permettono di intrecciare alleanze sociali, matrimoniali e di comparatico o rappresentano i raccolti, raccomandandoli alla divina provvidenza; figure commestibili fanno acquisire i poteri soterici dei loro referenti, diretti e indiretti; figure d’oro, d’argento, di legno, di cera si pongono come pegno della vincolante alleanza con Dio; fotografie si presentano per dispiegare il melanconico colloquio con ogni assente51.

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L’immagine è dunque temuta ed amata nello stesso tempo, può creare gioia, infondere sicurezza o suscitare inquietudine ed ansia. Nonostante siano prodotte dall’uomo, le immagini conservano questo loro carattere vivo e animistico. Gli artefici di simulacri sacri ricoprono, a loro volta, un’importanza particolare. Sono gli evocatori della figura e “possono imprigionarvi l’essenza vitale senza che, quando vi è un referente reale, questo subisca soverchio danno”52. Questi personaggi non possono essere classificati come semplici artigiani. Sono infatti i mediatori tra l’uomo e il santo. La loro importanza emerge soprattutto a livello comuni-

50 Ivi, p. 22-23. 51 Ivi, p. 23. 52 Ivi, p. 24.

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tario. Attraverso il loro lavoro rendono compatibili i vari universi culturali, eliminando ogni distinzione legata all’appartenenza sociale. Faeta tende poi a precisare come l’immagine, nei contesti popolari calabresi, sia dotata di una polisemicità e una polifunzionalità che la rendono fluida, libera ed idonea a ricoprire significati e funzioni differenti. Lo studioso cita l’esempio di Serge Gruzinski53, il quale ha dimostrato come le immagini fossero sfruttate in ambito politico, sia tra gli Indiani d’America centrale e meridionale, sia in Spagna. È probabile che la possibilità di manipolare l’immagine sacra in tal modo potesse influire anche sulla percezione dell’immagine stessa54. Per certi versi la stessa cosa è accaduta in Calabria. Sede del monachesimo greco-bizantino prima, fu poi territorio ostile all’applicazione dei dettami del Concilio di Trento e quindi controriformato con forza. Tuttavia la riabilitazione delle immagini avvenuta nel XVI secolo non la colpì profondamente. A partire dal XVII secolo anche la Chiesa meridionale si rese conto della forza e della potenza che le immagini esercitavano o potevano esercitare sui fedeli. Per questo, sia i missionari sia i vescovi suggerivano caldamente l’impiego delle immagini55. Oggi, l’immagine sacra è prevalentemente percepita come un’entità misteriosa, legata a dinamiche di potere che da un lato hanno il compito di proteggere da situazioni nefaste, dall’altro hanno l’obbiettivo di favorire il dominio sociale56. Il simulacro, infatti, lancia una serie di messaggi e, se questi non sono raccolti, non è perché non si sono compresi ma è il divino che non vuole esplicitarli. È il mezzo attraverso cui l’entità divina è connessa al suo referente. La mente del devoto e il mondo del simbolismo esplicitato nel rito sono i mezzi attraverso cui l’essenza che il simulacro racchiude può essere diffusa nel mondo57. La festa ed i sistemi rituali che la caratterizzano permettono dunque di accrescere la percezione di senso legata all’immagine. Questo amplificarsi della percezione e del senso avviene in un momento che esula dal quotidiano:

53 Secondo lo storico ed americanista Gruzinski, la conquista spirituale dell’America latina fu incentrata sulla diffusione dell’immagine in ogni sua forma, dalle statuette alle figure a stampa. In tal senso il rapporto tra immagine, e quindi santo, e individuo si modifica (C. Bernard, S. Gruzinski, Dell’idolatria. Un’archeologia delle scienze religiose, Torino, Einaudi, 1995). 54 Ivi, p. 36. 55 Ivi, p. 37. 56 Ivi, p. 39. 57 Ivi, p. 41.

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Nel sogno, sull’altare al momento della preghiera ma, soprattutto, nella processione o durante il pellegrinaggio, negli ambiti festivi che al loro intorno dischiudono; in quei movimenti di svelamento, circoscritto a uno spazio e a un tempo, che fondano il potere delle immagini sacre. L’incontro con la divinità risponde sempre, in definitiva, anche nella meno impegnativa delle situazioni, alle categorie della visione58.

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Attraverso la festa è come se la potenza che il simulacro trasporta potesse essere liberata. Faeta scrive poco più avanti:

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Ognuno degli attori presenti nel teatro festivo, sia pur in quantità ineguali, per via della diversa posizione in esso ricoperta, riceve su di sé la potenza responsabile custodita nel simulacro e ne trae giovamento. Se, insomma, il simulacro divino, lungi dall’essere mero oggetto, è essenza, questa, attraverso la festa, viene elargita ai presenti59.

In Calabria, così come accade anche in altre parti del mondo, l’essenza liberata sulla folla porta ad un processo di rielaborazione delle immagini. Ciò, spiega Faeta, avviene attraverso il processo di imitazione della divinità. In tal senso l’immagine sacra diventa un mezzo attraverso il quale trasformare la realtà e non strumento attraverso cui riprodurre la stessa. L’imitazione nei confronti della divintà può essere considerato un fenomeno assolutamente popolare e, in via ipotetica, può essere considerato come un carattere peculiare dello stesso60.

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Ovviamente il potere imitativo, così come il potere di sprigionare la propria essenza non può essere inserito all’interno di una griglia valutativa generica

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e avente carattere universale. Esso appartiene ad una serie di elementi che hanno caratteristiche peculiari all’interno del panorama festivo e che variano da comunità a comunità, da popolo a popolo, da cultura a cultura.

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La statua, il quadro, la fotografia dell’immagine sacra, alimentano la memo-

ria dei soggetti che si rivolgono ad esse. Essa nutre l’universo della memoria ritua-

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le e quello della memoria collettiva in ogni sua parte61. L’immagine è legata al momento festivo e dunque ricordare l’una significa portare con sé anche l’altra e tutti i significati e i simboli di cui sono portatrici.

58 Ivi, 42-43. 59 Ivi, p. 43. 60 Ivi, p. 44. 61 Ivi, p. 58.

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La festa, i suoi rituali, le immagini sacre, sono rappresentazioni di un momento festivo specifico che non potrà essere cancellato dalla mente del referente. In realtà esso verrà riproposto, magari l’anno successivo, e segnerà nuovi sensi al fedele che vi partecipa. Quest’ultimo potrà rinnovare le sue paure e le sue inquietudini, ringraziare per quelle precedenti risolte o esternarne delle nuove.

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5. Maria al centro della scena

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Il rapporto che si è stabilito nel corso del tempo tra tradizione popolar-religiosa e figure mariane ha un certo fascino. Distinguere ciò che è tradizione popolare e ciò che, invece, appartiene al mondo religioso, inteso come potere devozionale, diventa particolarmente difficile. Il culto mariano fu intensamente favorito dalla figura di Papa Giovanni Paolo II. Attraverso l’esaltazione della figura della Vergine Maria, Papa Wojtyla voleva rilanciare un particolare modello di femminilità, quello fondato su valori quali la compostezza, la maternità e la sofferenza. In tal senso, l’impiego pedagogico della figura di Maria non rappresenta una novità. Già nel Seicento la chiesa cattolica impiegò la figura della Madonna in tal senso62. Uno dei modelli devozionali proposti fu quello di Louis-Marie Grignion De Monfort che, non a caso, si rivolgeva in particolare alle classi più povere. Monfort recita:

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Stabilire una solida devozione alla Vergine significa dunque stabilire più perfettamente il culto dovuto a Gesù Cristo; significa indicare un mezzo facile e sicuro per trovare il Salvatore. Se la devozione a Maria dovesse allontanare da Gesù Cristo bisognerebbe respingerla come un’illusione diabolica. Ma, come ho già detto e come dirò ancora, è vero tutto il contrario. La devozione alla Vergine è necessaria solo per trovare perfettamente Gesù Cristo, amarlo di tutto cuore e servirlo con fedeltà63.

Come afferma Rivera, tra Maria e le donne del popolo avviene una sorta di transfert64. La Vergine diventa un modello da seguire, in particolare per la donna del

62 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, p. 336-337. 63 Comunità di Bose (a cura di), Maria. Testi teologici e spirituali dal I al XX secolo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2000, p. 981. 64 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, p. 338.

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Seicento che, dunque, deve essere obbediente, silenziosa e sottomessa alla volontà altrui. La figura della Madonna è quindi sfruttata per favorire la sottomissione della donna. Lo sfruttamento delle figure mariane inizia ad essere particolarmente forte a partire dagli anni Cinquanta. Rivera fa l’esempio della Madonna piangente di Siracusa, una statuetta che nel 1959 cominciò a lacrimare diventando l’immagine sacra più famosa in Italia a quel tempo65. O ancora, in anni più recenti, si fa riferimento ad apparizioni miracolose quale quella avvenuta a Barletta nel 1985 o di Oliveto Citra del 198066. Le apparizioni miracolose o fenomeni quali il lacrimare o il sudare sangue sono delle caratteristiche costanti che accompagnano il culto mariano e che spesso appartengono al mito di fondazione di un santuario dedicato alla Vergine. Un legame altrettanto forte è quello che si realizza tra la figura di Maria ed il mondo agro-pastorale. In genere, tali leggende sono ambientate in luoghi quali colline, montagne, boschi e in tutti quegli spazi in precedenza dedicati a culti pagani o pre-cristiani consacrati a divinità femminili della fecondità e della fertilità a cui si è poi sovrapposto il culto mariano67. Le festività mariane, infatti, sono spesso il risultato della cristianizzazione di feste pagane che celebravano l’inizio della primavera. Da qui deriva anche la consacrazione del mese di maggio alla figura della Vergine68. Rivera prende in esempio il rito celebrato in onore della Madonna delle Galline a Pagani nel nocerino-sarnese, la prima domenica di Pasqua:

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Alla Madonna sono offerti dei volatili – galline, capponi, piccioni – che vengono lanciati dalle finestre e balconi al momento del passaggio in processione della statua della Vergine. Per un prodigio – come vuole la credenza popolare – in realtà per sottrarsi alla densissima folla di devoti, i volatili vanno a posarsi tutti ai piedi della statua. Il rito rievoca la leggenda secondo la quale furono le galline che, razzolando su un’aia, riportarono alla luce, in un anno imprecisato, una preziosa tavoletta, ricoperta d’oro zecchino, raffigurante la Madonna del Carmelo, che fu in seguito conservata in un santuario eretto per l’occasione69.

65 Ivi, p. 340. 66 Ibidem. 67 Ivi, p. 350-351. 68 Ivi, p. 353. 69 M.L. Straniero, Mira il tuo popolo, Roma, Lato Side Edizioni, 1982, citato in A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, p. 355.

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La Vergine Maria è spesso impiegata come protettrice delle partorienti, delle madri e delle nutrici70. La religione ufficiale e quella popolare, dunque, sfruttano la stessa figura ma in maniera differente. Se la Chiesa investe la figura della Vergine come incarnazione della maternità, della donna devota e immacolata, la tradizione popolar-religiosa tende ad esaltarne l’aspetto terapeutico e protettivo71. È dunque possibile distinguere una forma di culto mariano popolare da quella di un culto ufficiale della Vergine Maria. Se la religione ufficiale va a sfruttare la figura di Maria come madre e come donna ubbidiente, la religione popolare tende a venerare tale figura facendo leva sulla sua potenza divina. È la Madonna che protegge durante il parto, che si occupa che tutto vada bene, è lei che ha il potere di donare ciò che le si chiede. Maria, quindi, appare, nella tradizione popolar-religiosa, come una donna potente, forte e, in quanto donna immacolata, non è meno potente o meno divina di suo figlio o di qualsiasi altra immagine sacra. Tuttavia, la figura di Maria, in quanto immagine sacra venerata dal popolo, può infondere la stessa inquietudine che il fedele percepisce nelle altre figure sacre a cui è devoto. A ciò si può aggiungere che la Vergine non deve essere considerata come colei che tutto perdona e tutto concede. Vi sono, infatti, delle figure mariane che sono dipinte come vendicative e severe. Un esempio tan-

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gibile è quello della Madonna dell’Arco, la cui festa è molto sentita nel territorio campano. Riguardo a questa Vergine si possono individuare due miti di fon-

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dazione72, uno dei quali va a giustificare il carattere austero di tale figura. Tale

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70 Rivera ricorda a tal proposito la Madonna del Parto, la Vergine del Sangue, la Madonna della Febbre. Ciò vuol dire che la tendenza del mondo popolare è volta all’eterogeneità, a differenza di quella cattolica che ha la tendenza ad unire. Nella tradizione popolarreligiosa, infatti, le varie Madonne, possono essere percepite un po’ come delle sorelle, ognuna con delle proprie peculiarità protettive.

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71 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, p. 358. 72 Il primo mito, il mito di fondazione della Madonna dell’Arco, ha come protagonista un giovane che, preso da un momento d’ira, durante una partita a «pallamaglio», scagliò la palla su un quadro della Vergine posto all’ombra di un tiglio. Con stupore di tutti i presenti il quadro iniziò a sanguinare e la folla avrebbe linciato il giovane se non fosse stato per l’intervento del Conte di Sarno, Gran Giustiziere del Regno. Il Conte sottopose il giovane ad un processo sommario che portò alla sua condanna per impiccagione. Il luogo scelto fu l’albero di tiglio che fungeva da riparo al quadro della Madonna, ma quando il corpo del sacrilego tocco il ramo del tiglio questo seccò improvvisamente sotto gli occhi di tutti. Fu allora che venne costruita una cappella attorno al quadro, al fine, di proteggere l’immagine della Madonna.

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mito racconta della punizione che la Madonna in questione inflisse ad una certa Aurelia del Prete nel 1950. Questa donna era brutta e maligna e, avendo ricevuto dalla Madonna dell’Arco la grazia della guarigione di una ferita sul piede, promise in voto alla Vergine due piedi di cera. Purtroppo questi le caddero dalle mani spezzandosi e la donna, presa dall’ira, bestemmiò contro la Madonna. Nel 1959, l’orrenda donna accompagnò il marito alla chiesa di S. Anastasia per

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un voto che lo stesso avrebbe dovuto sciogliere. In questo caso, presa dall’ira per la paura di perdere un porcellino che avrebbe dovuto vendere alla fiera del

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paese, la donna bestemmiò di nuovo e strappò dalle mani del marito l’ex voto

calpestandolo. Un anno dopo i suddetti avvenimenti la donna perse entrambe

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i piedi. Le autorità religiose, venute a conoscenza dell’accaduto, disseppelliro-

no i piedi della donna e ritrovandoli integri li esposero sull’altare maggiore. Da questo momento in poi il culto della Madonna dell’Arco crebbe così come i miracoli ad esso legati. La devozione alla Vergine fu tale che, essendo la chiesa che ospitava la statua troppo piccola in proporzione al numero di fedeli che la visitavano, il 1° maggio 1953 il vescovo di Nola iniziò i lavori per la realizzazione dell’attuale santuario devozionale73.

Ancora oggi è possibile riconoscere un comportamento isterico tra coloro che si recano al santuario della Vergine. Rivera scrive a tal proposito:

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giunti al tempio di corsa e a piedi scalzi, spesso portando pesantissimi ceri, molto si gettano a terra di schianto, alcuni avanzano verso l’altare in ginocchio piangendo ed urlando, altri cadono in preda vere e proprie crisi fatte di grida, contorsioni e svenimenti74.

La chiesa ha tentato di regolamentare il comportamento dei fedeli attraverso una

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serie di norme e divieti al fine di scoraggiare i comportamenti “liturgici e più vistosamente «superstiziosi» della festa”75. Tuttavia il tentativo di eliminare dal si-

stema devozionale gli elementi di carattere più prettamente pagano ha sortito l’ef-

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fetto contrario. Il numero dei fedeli e dei devoti in pellegrinaggio è in continuo aumento e le varie associazioni sempre più determinate a difendere la forma originale della festa dedicata alla Vergine.

73 Ivi, p. 370. 74 Ibidem. 75 Ivi, p. 374.

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Conclusioni

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La festa della Madonna dell’Arco è solo una delle tante feste mariane presenti sul nostro territorio. Dal Nord al Sud, la figura di Maria appartiene a quell’apparato iconografico sacro per cui, attraverso la festa nella quale l’immagine è esposta e per mezzo della sua ostentazione, il simulacro permette la distribuzione e lo spargimento dell’essenza sacra su tutti coloro che partecipano alla festa stessa. A ciò si aggiunga anche il fatto che la festa, grazie al suo impianto sacrale, “si pone come immagine riassuntiva del corpo sociale che la anima e funge da catalizzatore per altre immagini e da elemento di loro organizzazione sistemica”76. Tra i modelli di santità che il mondo cristiano ci offre, probabilmente, la figura della Madonna ha svolto un’importante funzione pedagogica ed educativa nei confronti del popolo di credenti, specialmente per quanto riguarda gli strati più poveri e bisognosi. Ciò, spiega Rivera, è avvenuto proprio grazie alla capacità della figura mariana di soddisfare il bisogno di un rapporto con la divinità che fosse diretto e personale, emotivo e affettivo77. La Vergine, dunque, era sì percepita come sacra, tuttavia proprio questo suo continuo rapporto con il mondo umano, se pur inquietante nelle sue manifestazioni, è ciò che la rende più vicina ai fedeli e permette di essere recepita come madre di Cristo ma anche come madre di tutto il genere umano.

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Ogni società fa riferimento ad un proprio meta-commento attraverso il quale un gruppo racconta qualcosa a se stesso su se stesso. Attraverso di esso una comunità ha la possibilità di dare una lettura puntuale della propria esperienza e di fornire nuovi quadri interpretativi della stessa78. Attraverso performance rituali come la festa, un gruppo sociale può non solo ristabilire ciclicamente una certa identità comunitaria ma impiegare nuovi mezzi di esplorazione di conflitti e difficoltà. Il teatro, dunque, come afferma Victor Turner, “è forse più vicino alla vita della maggior parte delle performance”79.

76 F. Faeta, Il santo e l’aquilone, p. 43. 77 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, p. 358. 78 V. Turner, Dal rito al teatro, p. 185-186. 79 Ivi, p. 187.

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La festa, quindi, può essere vista come una dimensione meravigliosa, dove tutto può accadere e tutto è soggetto a mutamento. È un momento di gioia, di grandi celebrazioni e di divertimento ma è anche lo spazio della sofferenze, dell’inquietudine dell’individuo nei confronti del quotidiano. La festa testimonia la necessità dell’uomo di stare assieme ad altri uomini. In particolare, le feste religiose, permettono di alleggerire questo senso di inquietudine e di sofferenza dell’in-

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dividuo. L’uomo, attraverso la venerazione dell’immagine, entra in contatto con una dimensione diversa da quella quotidiana, realizzando il suo rapporto con il

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soprannaturale ma mantenendo sempre una certa distanza ed un certo timore re-

verenziale. Il contatto con il divino può tuttavia avvenire anche attraverso altri

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elementi:

Le preghiere per ottenere aiuto o benefici di qualche tipo solitamente presumono che stia avendo luogo qualche forma di comunicazione con il divino. Lo stesso vale, in linea generale, anche per gli atti di lode e per le offerte, siano queste semplici candele accese davanti a un’icona o un dono di fiori per adornare una statua del Buddha oppure animali vivi sacrificati all’immagine di un dio olimpico o la toletta completa quotidiana di una divinità induista o egiziana. In tutti questi casi, il sacro si ritrova in qualche modo incarnato nell’immagine stessa e la distanza tra questo e il profano è stata colmata80.

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Il soggetto connette se stesso all’immagine sacra e, attraverso questo contatto, assorbe l’essenza in essa perennemente racchiusa. La festa diventa così il mezzo, la chiave, attraverso la quale avviene questo trasferimento di forza e di potenza sa-

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cra. Si pensi, per l’appunto, ad un’immagine sacra per eccellenza nella tradizione popolare, quella del santo e, in particolare, quella del santo protettore:

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Se per la concezione teologica ufficiale il santo è solo un intercessore, un mediatore del rapporto con la divinità, la religione popolare tende invece a stabilire con lui una relazione diretta ed immediatamente redditizia81.

L’immagine sacra è dunque il ponte che porta ogni individuo verso un sentiero ancora poco conosciuto. È una rete attraverso la quale l’uomo raggiunge il

80 M. Eliade, Enciclopedia delle religioni, vol II, Il rito. Oggetti, atti e cerimonie, Editoriale Jaca Book, Milano, 1993, p. 284. 81 A. Rivera, Il mago, il santo, la morte e la festa, p. 278.

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CAPITOLO TERZO

cielo e alla quale spesso tende ad abbandonarsi. La festa per il santo patrono può rappresentare il momento in cui questo abbandono al divino diventa visibilmente tangibile. L’immagine sacra è uno strumento vivo di cui l’individuo si serve nel quotidiano e che, aldilà della quotidianità, impiega per affrontare le sue paure e le sue sofferenze. In tal senso, l’immagine, in particolare quella sacra, può essere contemplata come un prodotto culturale in quanto considerata

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“in relazione con le attività percettive e con la coscienza ordinatrice individuali, con i sistemi simbolico-rituali e le strategie comunicative del gruppo che le ela-

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bora e impiega”82.

82 F. Faeta, Il santo e l’aquilone, p. 27.

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1. Da Porto Santa Venere a Vibo Marina

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LA FESTA DELLA MADONNA DEL S.S. ROSARIO DI POMPEI A VIBO MARINA

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Molti abitanti del luogo ignorano l’importanza ricoperta da una statuetta in marmo oggi collocata in una piccola area verde del paese e che la Pro Loco ha reso visibile a tutti i passanti nella zona. Si tratta di un reperto databile tra la seconda metà del II ed il III secolo d.C. raffigurante una ninfa addormentata su un piccolo rilievo roccioso. Tale statuetta, come riporta l’epigrafe posta alla base, è la testimonianza di un percorso particolare che la tradizione popolar-religiosa ha segnato nella cittadina marinara.

Figura 1. Arianna addormentata: statua in marmo che secondo la tradizione popolare rappresenterebbe Santa Venere

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Come scrive Antonio Montesanti in Tra mare e terra si tratta di “un percorso iniziato con un uso cultuale pagano dell’area costiera ed a cui si sarebbe poi sovrapposto, probabilmente tra il XI ed il XV secolo, il culto alla martire cristiana Santa Venera o Parasceve”1. Entrambe i percorsi giustificherebbero comunque il perché in passato Vibo Marina prendesse il nome di Porto Santa Venere. Il precedente sistema cultuale pagano sarebbe da attribuire alla presenta, nel vicino porto romano di Vibona, di metà della flotta navale di Cesare, durante la guerra civile tra lui e Pompeo. Un momento topico in relazione al culto pagano fu, probabilmente, lo scontro che ebbe luogo davanti al porto vibonese tra le due flotte, durante il quale i fedeli combattenti dell’imperatore riuscirono ad avere la meglio a seguito di un attacco navale a sorpresa. La temerarietà che i soldati vibonesi dimostrarono fu superiore a quella degli altri soldati e fu anche grazie ai vibonesi che Cesare ebbe la possibilità di riconquistare il predominio marittimo sul Tirreno. Cesare, che da sempre si proclamava come discendente della dea Venere, attribuì l’esito positivo della battaglia contro Pompeo proprio alla protezione della sua dea. A seguito di un sacrificio notturno in onore di Venere, Cesare promise che, in caso di vittoria contro Pompeo, avrebbe eretto un nuovo tempio a Roma in onore della sua protettrice. In quel momento, una lingua di fuoco, formatasi improvvisamente, andò a spegnersi nelle postazioni di Pompeo facendo pensare a Cesare che questo fosse un segno di approvazione della dea. La fedeltà dei vibonesi all’imperatore romano avrebbe potuto spingere gli stessi ad inserire il culto della dea Venere nell’area costiera occupata dai veterani. Con questo gesto la comunità costiera avrebbe voluto dimostrare la propria fedeltà all’imperatore inserendo il culto della sua antenata.

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Dal culto pagano si sarebbe poi passati al culto greco-cristiano di Santa Pa-

rasceve, la vergine martire, particolarmente venerata al Sud, con i nomi di San-

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ta Venera, Veneria o Veneranda. Nata a Roma o a Locri all’epoca dell’imperatore Adriano in una ricca famiglia cristiana, a seguito della morte dei genitori vendette tutto ciò che possedeva distribuendo il ricavato ai poveri. Si ritirò in preghiera fino a quando non cominciò a predicare pubblicamente la dottrina cristiana. Ma Parasceve era una donna e la predicazione della dottrina da parte

1

A. Montesanti, Tra mare e Terra. Il ruolo dei traffici marittimi nella storia del territorio costiero vibonese, Edizioni Fegica, Roma, 1999, p. 151.

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di una donna non era contemplata dalla religione ufficiale e, per questo, fu denunciata dai giudei all’imperatore Antonino Pio2. Come punizione l’imperatore fece riscaldare sulla fiamma una sorta di elmo che, reso incandescente, venne posto sulla testa della donna ma, con sgomento di tutti, senza arrecarle alcun danno. Fu riportata in prigione dove un angelo la liberò dalle catene ma fu ricondotta dal sovrano che la fece appendere per i capelli e fu sottoposta ad una

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serie di torture corporali. Tra queste la santa fu immersa in una grande pentola con olio bollente e pece ma senza subire alcun tipo di conseguenza. Fu allo-

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ra che la martire spruzzò del liquido sugli occhi dell’imperatore Antonino che si convertì al cristianesimo quando la donna lo guarì battezzandolo3. Il martirio

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della donna spiegherebbe il perché una statuetta in marmo come quella presente in Vibo Marina, nonostante le sue nudità, possa essere considerata santa. La statua che appare priva di braccia e della testa sembra riassumere un po’ tutte le pene ed i patimenti della giovane martire. Prima della sua collocazione attuale era posta al di sopra di una fontana, non poco lontano dalla chiesetta dedicata al culto di Santa Venera.

Il 29 novembre 1889, Giovanbattista Marzano, in quel periodo Ispettore agli scavi di Monteleone, comunica la scoperta di un sepolcro romano durante gli scavi per i lavori ferroviari. Ovviamente, affinché i lavori potessero essere conclusi il prima possibile, i ritrovamenti furono sottostimati rispetto al loro re-

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ale valore. Tra il 1929 ed il 1930, nel luogo dell’imbocco della galleria ferroviaria tra Santa Venere e Pizzo, furono portati alla luce ulteriori resti di edifici risalenti all’epoca imperiale e sepolcri di età ellenistico-romana. Ciò a dire che, in epo-

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ca romana, il tratto costiero vibonese era un’importante insediamento, sfruttato per la produzione agricola, probabilmente per la pesca ed era anche un’impor-

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tante area di produzione di manufatti e anfore in ceramica4. Tuttavia, afferma Montesanti, è necessario riconoscere la mancanza di testimonianze riguardanti la vita della costa vibonese nel periodo compreso tra l’epoca post-romana e la prima metà del ’400. Ritrovamenti importanti risalgono invece al periodo compreso tra il 1444 ed il 1459. Fu proprio in questo periodo che il toponimo Santa Venera o Santa Venere fu impiegato per identifica-

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Ivi, p. 153.

3

Ibidem.

4

Ivi, p. 157.

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re anche l’area costiera del vibonese ed in precedenza riferito alla tonnara5 detta appunto Santa Venere. In quel periodo Alfonso d’Aragona, detto il Magnifico, confermò la concessione della tonnara di Santa Venere di Briatico a Zarletto Caracciolo di Napoli. Successivamente, la stessa tonnara, sarà affidata ad un altro esponente della famiglia Caracciolo, Berardo, signore di Oppido nel 1505. Notizie più precise si hanno a partire dal 1507, anno in cui Porto Santa Venere è presentato col toponimo di Feudo di S. Venera6. È allora che il Feudo, dapprima in possesso del Principe di Bisignano, passò poi nelle mani del Duca di Monteleone. Un documento della Corte Ducale di Monteleone del ’700 riassume perfettamente i processi di acquisizione del feudo:

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Nel 25 Novembre 1507 il suddetti Sig(no)r Principe di Bisignano fece instrumento di vendita del suddetto feudo a Fanello Mormile per mano di Notar Angelo Marziano di Napoli, e nel 26 Novembre al suddetto Sig(no) r Conte di Monteleone per mano del suddetto Notar Angelo Marziano di Napoli; nel 1524 à 20 Agosto per mano di Notar Gregorio Ruffo di Napoli si è fatto strumento di affrancazione col Regio assenso per Magn(ifi)co Gian de Gurnara al Magn(ifi)co Berardo Capece, Procuratore del Sig(no) r D(o)n Ettore Pignatello, di annue docati 200 per capitale di docati 2000 sopra detto fondo. Nell’anno 1547 per mano di Notar Afonso Biscia di Napoli, con special privileggio della Maestà di Carlo Quinto, ottenne detto Sig(no)r D(o)n Ettore Pignatello la reintegra et inventario, nella quale per detto feudo contene, di poter nella Marina di Bivona calare la Tonnara, con affittare lo Palo di essa candela accesa plus offerenti, e possa detta Tonnara uscire dentro il Mare canne Nouviciento, cioè canni cinquecento lo corpo della Tonnara sino a capoarraso, e canni quattrocento lo codardo; nell’anno 1562 detto Sig(no)r D(o)n Ettore Pignatello, ottenne assenso Regio di poter calare detta Tonnara qual Privileggi Reintegra inventario instrumento e Regio Assenso si conservano nel Ducal Archivio. Oggi la detta Ducal Corte affitta le rendite di detto feudo consistentino le terre di olivi, trappeto, Molino, Giardino di Agrume, fronda nera, Pergoli, Arbusti frutti et ogn’altra rendita che in esso si ottiene per ogni anno candela accensa plus offerente7.

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La tonnara è l’insieme di reti che sono impiegate per la pesca del tonno. In Italia il termine è utilizzato anche per indicare il luogo dove la tecnica di pesca è applicata. In particolare, a Vibo Marina, essa è conosciuta anche come “la camera della morte”, luogo dove i tonni erano spinti col cibo per essere catturati. Il nome è legato al fatto che una volta portati all’interno di questa “camera” i tonni cominciavano ad uccidersi tra loro a causa della carenza di spazio.

6

Ivi, p. 157-158.

7

Ivi, p. 158-159, op. cit. ASN, Archivio Pignatelli-Cortez, Notizie sul Feudo di S. Venere, Sc. 54, f. lo 1, n. 6.

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A partire dalla fine del ’600 appaiono vari proprietari del Feudo tra cui spicca la figura di Portulano Francia, discendente della potente famiglia Di Francia di Monteleone. Il Di Francia possedeva una vasta area di terreno nella marina di Monteleone che voleva essere annessa al Feudo di S. Venere dalla Corte Ducale. Nella seconda metà del ’700 la famiglia Pignatelli si trovò in forti difficoltà economiche e politiche, ragion per cui il Feudo non fu reintegrato. Fu in questo momento che nuovi e ricchi signori locali iniziarono ad espandere i propri possedimenti lungo il tratto costiero. Il nuovo insediamento dell’area costiera di S. Venera fu segnato dal definitivo abbandono del porto di Bivona, in quel periodo conosciuto dai marinai come Rada di Santa Venera, tra la Torre Regia di Bivona e la rupe chiamata Timpa Bianca (o Janca)8. Questo lembo di terra fu im-

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piegato, a partire dal ’700 in poi, dalle imbarcazioni che dovevano fare scalo a Pizzo come riparo in caso di cattivo tempo. Nel 1792, l’economista Giuseppe Maria Galanti fu mandato nell’area vibonese dal Sovrano per redigere una relazione sugli effetti del terremoto avvenuto nel 1783. In quest’occasione l’economista ebbe modo di scoprire che il duca di Monteleone continuava ad esigere le tasse di ancoraggio nonostante il porto antico di Bivona fosse diventato un semplice approdo e prese in considerazione la possibilità di costruirne uno nuovo. Per capire se la costruzione di un porto fosse effettivamente possibile richiese un’accurata relazione al generale Acton. Quest’ultimo apparve favorevole alla realizzazione di un nuovo porto nella zona sottolineando i vantaggi economici che tutta la regione avrebbe avuto con la presenza di un nuovo e sicuro scalo sulla costa tirrenica. Tuttavia, come afferma Montesanti, il commercio era già particolarmente attivo nell’area vibonese grazie alla presenza del porto di Pizzo. Dalla fine del ’700 fino alla realizzazione del porto di Santa Venere divenne la sede degli uffici Doganali Regi oltre a godere della presenza di un fornito corpo militare al fine di garantire la sicurezza ai bastimenti che vi approdavano9. Nonostante ciò è necessario riconoscere la difficile condizione in cui tutta la Calabria viveva, soprattutto nei primi anni dell’Ottocento, per via della supremazia della marina inglese su tutto il Mediterraneo. Citando lo stesso Montesanti: Era una navigazione che privilegiava un itinerario sottocosta, a stretto contatto con le postazioni di difesa costiera, ma che nonostante ciò, non

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Ivi, p. 167.

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Ivi, p. 170.

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riusciva a sottrarsi alla minaccia dei Brick inglesi e del Lancioni corsari, neanche quando la costa risulta ben difesa da torri, castelli e cannoni come quella compresa tra Pizzo e Briatico10.

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Durante il periodo napoleonico il porto di Pizzo divenne un’importante approdo intermedio per il commercio marittimo tra Napoli e la Sicilia, anche se, essendo costituito da una piccola spiaggia e poco riparato dai venti, in questi casi le imbarcazioni preferivano sostare lungo la rada di Santa Venere. La Rada di Santa Venere era quindi un porto sicuro in caso di cattivo tempo per i naviganti. Molti erano i bastimenti che fecero di tale luogo un rifugio per proteggersi dalle intemperie favorendo così la nascita di un piccolo villaggio di marinai e pescatori. Il 1840 è l’anno in cui il commendatore Domenico Cervati redige la stampa del progetto definitivo del porto. Tuttavia bisognerà aspettare fino al 1881 affinché si realizzino i primi lavori che hanno reso funzionale l’approdo. L’area nella quale sorgerà poi il porto, infatti, risultava sprovvista di collegamenti stradali ed anche i lavori per la realizzazione di reti ferroviarie iniziarono tardivamente. A ciò si aggiunga l’emanazione del Decreto Regio del 1885 che, classificando il porto di terza categoria, avrebbe portato a contribuire economicamente alla sua realizzazione anche i municipi locali11. La reazione del Consiglio Comunale di Monteleone non tardò ad arrivare anche se non ebbe altro effetto che quello di far escludere la città di Monteleone dall’assegnazione del Compartimento Marittimo legata alla gestione del porto. Il 7 agosto 1887 un altro Regio Decreto elevava la classificazione del porto alla seconda categoria. Una volta completata la rete ferroviaria EccellenteTropea-Rosarno (1885-1895) il porto cominciò a concedere risultati economici soddisfacenti. Il porto e la rete ferroviaria di Monteleone-Porto Santa Venere si rivelarono poi particolarmente importanti a seguito del violento terremoto che colpì la Calabria nel 190512. Porto Santa Venere divenne infatti il centro

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di smistamento degli aiuti che giungevano via terra, tramite la rete ferroviaria, e via mare, mediante l’impiego di navi a vapore, mentre la città di Monteleone

10 Ivi, p. 173. 11 Il 29 maggio 1863 viene promulagata la legge n. 1299 secondo cui il Porto di Santa Venere era attribuito alla quarta classe. Il 25 luglio 1864 in nuovo Regio Decreto stabiliva la ripartizione della spesa a metà tra lo Stato e le altre province calabresi. 12 Ivi, p. 196-197.

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fu scelta come base operativa dei soccorsi. A Porto Santa Venere sbarcò in quei giorni anche il piroscafo della Regina Marina “Garigliano”, partito dal porto di Napoli con un carico di 1000 metri cubi di legname per la costruzione di baracche, coperte, viveri, utensili e personale atto a contribuire all’opera di edificazione13. A partire dal 1910 in poi gli investimenti strutturali lungo l’arco costiero

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vibonese s’intensificarono sempre di più e presto ripresero anche i lavori della rete ferroviaria per la costruzione del tratto a scartamento ridotto delle Ferrovie Calabro Lucane che collegava il porto alle città di Pizzo, Monteleone e Mileto. Con la costruzione della rete ferroviaria l’assetto del territorio è notevolmente mutato costringendo alla regimentazione di torrenti che dalla collina arrivavano al mare e alla realizzazione di strade che andavano a collegare le stazioni al borgo di Santa Venere. Completata la costruzione del sistema ferroviario di stato e delle Calabro Lucane, il borgo costruito intorno a Porto Santa Venere iniziò ad acquisire l’aspetto di una vera e propria cittadina. L’attuale corso Michele Bianchi, costruito nel 1938 dal Provveditore alla Opere Pubbliche Lepore, con gli avanzi della costruzione del molo foraneo, divenne la via principale della cittadina costiera, ai cui lati si affacciavano i palazzi Condò, Cutullè, Tranquillo, nonché la tonnara di S. Venere di proprietà del Cav. Adragna. Tutti questi edifici furono costruiti alla fine dell’Ottocento, contemporaneamente alle casermette della dogana, del genio civile, della sede staccata del compartimento marittimo, dei magazzini portuali ed alla baracca, tipo chalez egiziano, di Don Vincenzo Cantafio. Nella stessa zona sorse anche l’Agenzia Marittima che tanta parte ebbe nello sviluppo dell’attività portuale della cittadina14. Il 1928 può essere considerato come l’anno della svolta. Fu proprio in questo momento infatti che il comune di Monteleone mutò il suo nome in Vibo Valentia e l’area portuale di Santa Venere divenne Vibo Valentia Marina. Da sempre si è erroneamente pensato che il cambiamento del nome della zona portuale fosse una conseguenza del mutamento di Monteleone in Vibo Valentia. In realtà con “Marina di Vibo Valentia”, in una delibera del Consiglio Comunale del 1927, si va ad identificare tutta l’area costiera che va da Porto Salvo a Porto Santa Venere15. Dunque non era necessario che il borgo marinaro mutasse il pro-

13 Ivi, p. 199. 14 Ivi, p. 206. 15 http://comuneportosantavenere.blogspot.com/search/label/SANTAVENERA

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prio nome ma probabilmente, all’epoca dei fatti, l’area portuale di Santa Venere si presentava ancora come un cantiere in costruzione e forse il mutamento del nome passò inosservato tra la gente del posto, considerandola “una logica conseguenza del continuo mutamento di cui erano protagonisti e testimoni”16.

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Figura 2. Corso Michele Bianchi17

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Il 1930 fu segnato da una violenta alluvione causata dallo straripamento dei torrenti Anna e Labadessa che provocò un crollo alla fragile economia portuale. Tra le varie costruzioni la comunità locale, composta da marinai, contadini, dipendenti portuali e ferroviari, portò avanti la costruzione di una chiesetta al fine di riunire una comunità che all’epoca era divisa tra la chiesa del borgo collinare di San Pietro, la cappella privata realizzata nel palazzo della famiglia Cutullè e la chiesetta all’interno della tonnara di Bivona18. La chiesa di Vibo Marina fu così terminata e nel 1933 pronta per ospitare il nuovo parroco, don Domenico Costa. L’edificio in questione fu fortemente voluto da monsignor Paolo

16 A. Montesanti, Tra mare e Terra, p. 206. 17 Fonte: http://www.vibomarina.eu 18 Ivi, p. 207.

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Albera, all’epoca vescovo di Mileto che, nel 1930, una volta terminata, la benedisse dedicandola al culto della Madonna del S.S. Rosario di Pompei. Don Domenico Costa riesce a riunire nella nuova chiesa la comunità locale che arricchisce il luogo sacro con piccoli doni. Tra questi Montesanti ricorda un quadro della Madonna del Rosario di Pompei, un baldacchino in seta, una serie completa della via crucis in ceramica, un mobile per la sacrestia, le sedie per i fedeli, un crocifisso in legno. Questi piccoli regali erano tutti il simbolo del forte affetto e della stima reciproca tra gli abitanti del luogo e don Costa19. Il 31 agosto 1934 suonarono per la prima volta le tre campane di Vibo Marina. Nella prima, la più grande è riprodotta l’immagine della Madonna del Rosario di Pompei e per questo fu chiamata proprio come la Vergine protettrice di quei luoghi, la seconda, la Santa Venera, porta in sé l’effigie della martire, la campana più piccola, invece, porta la figura ed il nome del crocifisso20. Nel 1942 fu inaugurata la casa canonica, situata affianco alla chiesa e gli eco della guerra iniziarono a farsi sentire anche all’interno del piccolo borgo marinaro. Durante la guerra, oltre ai militari della Capitaneria di Porto, nei pressi del porto, vi era un comando d’artiglieria militare italiana. La galleria ferroviaria Mondella fu impiegata come rifugio antiaereo non solo dai soldati ma anche dalla popolazione locale. I tedeschi erano invece accampati lungo la strada che porta a Longobardi. Vibo Marina non fu risparmiata da bombe e mitragliate che procurarono non pochi morti fra i civili. Tuttavia, a causa dei bombardamenti, molti abitanti lasciarono la zona portuale per stabilirsi in centri più sicuri come Maierato o Filadelfia. Lo stesso don Costa portò via dalla chiesa gli oggetti sacri di maggiore valore per custodirli al sicuro in una casa di Longobardi21. Il 7 settembre 1943 avvenne lo sbarco anglo-americano i cui soldati si stanziarono nei luoghi in precedenza occupati dai tedeschi. Alla loro partenza coloro che tornarono a Vibo Marina si trovarono privi di ogni cosa tanto che gli anni successivi furono dedicati alla ricostruzione del paese. Fu proprio in questo periodo che iniziò ad intensificarsi la produzione di cementi e derivati dello Stabilimento “Calcementi di Segni” che offrì lavoro a molte famiglie del posto. Nello stesso periodo anche le attività produttive legate alla pesca si intensificarono contribuendo ulteriormente a risollevare le sorti del paese. In particolare,

19 Ivi, p. 208. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 216.

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spiega Montesanti, “la pesca del tonno era affiancata dall’attività di diversi padroni di barca, che con i loro piccoli motopescherecci, contribuirono alla nascita di una vera e propria tradizione peschereccia22. Sin dalla sua nascita Porto Santa Venere non risultò mai un centro autonomo ma fortemente condizionato dalle scelte politiche ed amministrative di Monteleone che spesso poco considerava le necessità ed i bisogni della piccola comunità costiera, mentre andava in difesa degli interessi dei ricchi latifondisti delle terre situate lungo la costa23. Dopo la guerra il malcontento inizia ad essere sempre più forte tanto che il 18 giugno del 1948 si creò il primo Comitato di Agitazione Pro Autonomia Comunale “Porto Santa Venere”. Attraverso questo comitato l’obbiettivo era quello di ottenere l’autonomia amministrativa realizzando un unico comprensorio urbano che comprendesse Vibo Marina, Longobardi, S. Pietro di Bivona, Bivona, Portosalvo e le case vicine24. La proposta fu presentata in Parlamento dall’Onorevole Larussa, deputato democristiano per la Calabria, il 28 marzo 1950. Le condizioni in cui verteva la popolazione della zona costiera non erano delle migliori. Non solo gli uffici comunali e le incombenze burocratiche erano dislocati lontano dai centri costieri25, mancavano strade26 e anche le scuole erano praticamente inesistenti. Addirittura in paesi come Portosalvo la gente spesso non disponeva di acqua e per abbeverarsi sfruttava piccoli ruscelli, probabilmente causa di malattie come l’anchilostomiasi27. Nonostante ciò, la costa vibonese stava crescendo e le aziende sorte in quegli anni ne sono un esempio lampante28. Uno dei sostenitori più attivi per l’autonomia di Porto Santa Venere fu don Vincenzo Cantafio, un industriale della zona costiera vibonese che, sin dai primi anni del Novecento, trasferì nel porto la sua agenzia marittima ed i suoi magazzini generali. Montesanti racconta un episodio vissuto da Cantafio e dal suo grup-

22 Ivi, p. 217.

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23 Ivi, p. 219. 24 Ivi, p. 220.

25 La sede di tutti gli uffici era infatti Vibo Valentia Città. 26 In tutti i paesi sorgenti lungo la costa la viabilità era data solo da piccole strade naturali che, non consentendo il deflusso delle acque piovane, spesso d’inverno, si trasformavano in vere e proprie paludi. 27 Ivi, p. 221. 28 Si pensi al già citato stabilimento “Celcementi di Segni”, allo stabilimento “S.A. Gaslini” per l’estrazione d’elolio al solfuro, allo stabilimento della “S.C.I.A.” per conserve alimentari, al pastificio “Fratelli Gargiullo”, alla fabbrica di ghiaccio e pastificio “Callipo” e via discorrendo.

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po di amici che può essere significativo per spiegare l’insofferenza della popolazione locale nei confronti dell’amministrazione di Vibo Valentia. Cantafio spiega, in un’intervista al Giornale d’Italia, che ci fu un periodo in cui il paese rimase senza luce e solo un estate il Comune fece accendere i lumi a petrolio, l’estate in cui il sottoprefetto29 Rossi arrivò a Vibo Marina. Una notte Cantafio ed altri amici presero tutti questi lumi e li accesero nel terrazzo del sottoprefetto dato che erano stati resi funzionali solo per il suo arrivo30. Questo gesto è dunque espressione del sintomo di ingiustizia che la popolazione di Vibo Marina percepiva per via della sua appartenenza alla giurisdizione di Vibo Valentia. Ancora oggi è presente sul territorio di Vibo Marina un gruppo di uomini che si batte affinché il borgo marinaro possa acquisire una sua indipendenza a partire dal suo nome. Montesanti in un articolo presente sul sito della comunità locale scrive:

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Ridare alla città portuale dunque il suo antico nome di Porto Santa Venere, non rappresenta solo un fatto dall’enorme valore simbolico, che riannoda il legame tra la storia del territorio e la sua comunità (che tra l’altro ancora oggi si riconosce nel suo antico nome), è un necessario atto riparatorio rispetto ad un inspiegabile e grossolano errore amministrativo, ma ancorpiù è un atto che consentirà di rilanciare la città costiera nella sua unicità di vera città portuale, dotata di una delle infrastrutture marittime più importanti della regione ed un centro urbano che se valorizzato come borgo marittimo, si inserirebbe tra i gioielli turistici della Costa31 degli Dei32.

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2. Santa Venere: da Vibo Marina ad Acireale

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Prima di entrare nel vivo, è il caso di dirlo, della festa, credo sia utile comprendere quanto il culto di Santa Venere, probabilmente appartenuto alla zona costiera di Vibo Marina si è insediato anche in Sicilia con alcune corrispondenze

29 All’epoca dei fatti Vibo Valentia era una sottoprefettura. 30 Ivi, pp. 223-224. 31 La Costa degli Dei è conosciuta soprattutto grazie alla cittadina di Tropea. Essa conta circa 40 km di litorale, unico in Italia perché in questa zona è possibile trovare tutte le tipologie di costa presenti sul territotio italiano. Oltre a Tropea, a questa zona appartengono anche i paesi di Pizzo, Briatico, Zambrone, Parghelia, Santa Domenica, Capo Vaticano, Ricadi, Nicotera. 32 http://comuneportosantavenere.blogspot.com/search/label/SANTAVENERA.

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relative al piccolo borgo marinaro. Come è stato detto nel paragrafo precedente, Santa Venere fu una martire cristiana il cui culto a Vibo Marina si sostituì ad un culto pagano, probabilmente tra il secolo XI ed il XV. La leggenda racconta che i primi abitanti del borgo marinaro ritrovarono sugli arenelli una statua raffigurante una donna dormiente. La statua in questione fu identificata come un’effigie della martire cristiana e fu allora che il paese prese il nome di Porto Santa Venere. Ma chi era Santa Venera? E perché ci lega

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alla città di Acireale in Sicilia?

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Come già detto in precedenza, il culto di Santa Venera è un culto di derivazione greco-cristiana molto diffuso nel Sud Italia. Per gli abitanti di Vibo Mari-

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na Santa Venere sarebbe nata a Locri oppure a Roma. Tuttavia, secondo quanto

riportato su un opuscolo della martire ad Acireale, la sicilianità della Santa non è da mettere in discussione. In un passo di questo opuscolo si scrive:

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Sulla sicilianità della nostra Santa gli storici non hanno dubbi. La certezza è comprovata dal culto speciale che la Sicilia le ha professato. La sua memoria infatti è notata negli antichi calendari siciliani e nel martilogio di S. Nicolò l’Arena; è stata celebrata nei Lezionari, nei breviari di Palermo e di Catania, nel messale ad uso della Chiesa di Messina edito nel 1538 e nei breviari gallo-siculi. C’è una particolarità liturgica che ci permette di affermare l’antichità del culto ed è quella che nel breviario gallo-siculo al 26 luglio si trova segnato in primo luogo l’ufficio di Santa Venera e quello di Sant’Anna in secondo luogo e nell’antico breviario palermitano del 1445 esiste al 26 Luglio il solo ufficio di Santa Venera con Rito domenicale33.

Per quanto riguarda Vibo Marina la statua presente su Corso Michele Bianchi è attribuita dai locali alla martire Santa Venere e al suo ritrovamento la tradizio-

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ne fa risalire il toponimo precedente del borgo marinaro. In realtà la statua in questione risulterebbe di epoca romana e raffigurerebbe l’Arianna addormentata. Bisogna riconoscere però che il modo in cui l’effigie si presenta, consunta,

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senza braccia e priva di testa, richiama alla mente i supplizi patiti nel martirio. Nonostante ciò, anche a Vibo Marina è possibile recuperare tracce di un precedente culto della santa dato che sono stati ritrovati segni della presenza di una chiesa dedicata alla stessa. Di tale chiesa si parla in un documento dell’Archivio

33 Circolo Santa Venera Acireale, Litografia La Rocca, Giarre, anche testo in corsivo citato alle pagine 10-11.

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Collegiale Greco di Roma in relazione ad una visita pastorale avvenuta all’inizio

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del 1600 al Casale di Longobardi e di S. Pietro. All’epoca erano presenti due cappelle sul territorio, una delle quali nel Palazzo Ducale, dedicata appunto a Santa Venera34. La chiesa era posta nei pressi di una fontana (figura 3) che, probabilmente, si trovava all’altezza dell’attuale bivio per Vibo e Pizzo. La chiesa fu distrutta negli anni ’70 ed al suo posto fu costruita un’edicola.

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Figura 3. Locazione della Chiesa e fontana di Santa Venere in Vibo Marina35

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Oggi del culto di Santa Venere a Vibo Marina non rimane molto in quanto sia nella vecchia chiesa che in quella più recente non vi sono tracce della sua presenza. In realtà, grazie ad alcuni documenti redatti dal primo parroco di Vibo Marina, don Domenico Costa, è stato possibile apprendere che il 31 agosto 1934 furono benedette

34 http://www.comuneportosantavenere.org/documenti/Ma%20chi%20era%20San%20 Venera.pdf. 35 Fonte: http://www.comuneportosantavenere.org/documenti/Ma%20chi%20era%20Santa %20Venera.pdf

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le due campane presenti nella vecchia chiesa del paese. La più grande porta l’effigie della Madonna del S.S. Rosario di Pompei mentre la più piccola porta proprio l’effigie della martire Santa Venere. Questa scoperta va ad alimentare l’ipotesi che il borgo costiero fosse in precedenza rivolto al culto della martire e che quindi, lo stesso culto, non nascerebbe dalla mitologia o dalla tradizione locale pura e semplice ma costituirebbe una realtà che ha accompagnato i primi abitanti del luogo.

Figura 4. Chiesa di Santa Venere36

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Se a Vibo Marina il culto di Santa Venere è andato perduto, in diverse zone della Sicilia questo rimane oggi un momento importante per tutta la comunità. Durante il mio periodo di ricerca, infatti, mi è stato possibile recarmi ad Acireale, in provincia di Catania. Per la cittadina siciliana le celebrazioni dedicate a Santa Venera hanno la stessa importanza di quelle che la Madonna del S.S. Rosario di Pompei ha per i cittadini del borgo calabrese e che, probabilmente, hanno avuto quelle della martire in passato.

36 Fonte: http://www.comuneportosantavenere.org/documenti/Ma%20chi%20era%20Santa %20Venera.pdf.

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Figura 5. Santa Venera, Acireale (CT)

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Secondo la tradizione, Santa Venera nacque ad Aci Xifhonia il venerdì santo dell’anno 100 d.C. dai già citati Agatone ed Ippolita. A vent’anni rimane orfana dei genitori e decide così di donare tutto ciò che possiede ai poveri e iniziare un’intensa opera di apostolato. La santa fu martorizzata in vario modo dal prefetto Antonio e successivamente da un tiranno chiamato Temio, ma anche Teotimo o Tarasio che si dice abbia esposto la martire alle fiere, lasciandola alla mercé di un dragone. Infine, sotto l’impero di Antonino il Pio, fu tormentata dal prefetto delle Gallie, Asclepiade, che la immerse per la seconda volta37 in un pentolone d’olio bollente per poi reciderle il capo38.

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Santa Venera è patrona della città di Acireale ed è celebrata il 26 di Luglio, secondo un antico protocollo, simile a quello impiegato per la festa di Sant’Agata a Catania. Il simulacro della santa appare ricoperto da ex-voti, con il vangelo in una mano ed il crocifisso nell’altra. Alla base vi è una spada che è stata donata da Catania come simbolo per suggellare la pace tra le due città ed appianare

37 In precedenza, come già detto, l’imperatore Antonino la fece immergere in un pentolone di pece e olio bollente. 38 Circolo Santa Venera Acireale, Litografia La Rocca, Giarre, p. 10.

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le rivalità esistenti. Il giorno delle celebrazioni la statua è portata in processione per due giorni sul fercolo realizzato nel 1659, trainato da devoti vestiti di bianco. In processione la statua della martire è accompagnata da cinque candelore o ceri che rappresentano le corrispondenti corporazioni39.

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Figura 6. Fercolo del 1659

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Spettacolare è soprattutto l’entrata e l’uscita del fercolo dalla chiesa che avviene di corsa e che puntualmente elettrizza i presenti. Il tempo della festa è scandito da spettacoli pirotecnici che vanno a chiudere le celebrazioni in onore della santa. La festa vera e propria è preceduta da un’altra cerimonia che avviene ogni anno il 14 di novembre e che va a celebrare la memoria della traslazione delle reliquie della santa. In quest’occasione, dopo la messa, la statua della martire è trasferita dalla cappella laterale all’Altare Maggiore. Dopo le celebrazioni religiose, dal Palazzo di Città si avvia il corteo delle autorità civili e militari di Acireale e delle frazioni vicine che vi partecipano a rotazione a cui segue la messa pontificale. All’offertorio il sindaco del comune ospite ha il compito di offri-

39 Si tratta delle corporazioni dei cazolai, pescivendoli, panettieri, muratori e artigiani.

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re l’olio che alimenterà la lampada votiva che arde nella cappella della patrona. Alla fine della liturgia il simulacro è accompagnato in Piazza Duomo dai fedeli in processione e davanti alla sede comunale l’arciprete-parroco della cattedrale reciterà alla santa la preghiera per la città:

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Gloriosa Vergine e Martire S. Venera, in questo anno giubilare celebriamo con particolare fervore la festa della traslazione delle tue reliquie. Mentre volgiamo lo sguardo a Cristo, unico Salvatore del mondo ieri, oggi e sempre, faciamo memoria di te e dei santi martiri che, donando la vita per il Signore Gesù, siete divenuti “seme” di nuovi cristiani, e manifestate i prodigi della Grazia che dona agli inermi la forza del martirio. Tu che, secondo la tradizione, annunziasti il Vangelo della salvezza, ottieni dal Signore per l’intera nostra Comunità diocesana la forza di “ricominciare… dalla missione”, impegnandosi nella nuova evangelizzazione, vivendo coraggiosamente secondo il Vangelo e dandone sempre efficace testimonianza. Il tuo amore per i fratelli e le sorelle sofferenti spinga tutti noi a vincere ogni tentazione di stanchezza, apatia e disinteresse, affinché le nostre comunità cristiane siano realmente “una presenza per servire” nel più genuino stile cristiano. Ricordando la speciale protezione da te accordata alla nostra Città in occasione del bombardamento del 14 novembre 1941, che poteva avere conseguenze ben più gravi, rivolgo a te, nostra Patrona, come Vescovo di questa Diocesi, una fervente supplica perché Acireale viva con piena coscienza e solidale impegno il suo presente. Ti prego di ottenere ai cittadini chiamati prossimamente all’impegno del loro dovere civico di parteciparvi con scelte mature e responsabili dettate dal desiderio di contribuire al bene comune. Fa’ che dal compimento di questo gesto così carico di significato per l’avvenire di Acireale e delle sue frazioni, tutti impariamo a crescere nell’impegno di lasciarci coinvolgere sempre più nella vita pubblica e di accompagnare con intelligente vigilanza coloro che saranno preposti alla responsabilità amministrativa del Comune. La tua intercessione ottenga alla nostra Comunità di percorrere con fiducia la via che porta alla civiltà dell’amore, dove tutti opereremo, con un concorde e leale sforzo, per cercare di risolvere i tanti problemi che ci angustiano ed in particolare quelli della disoccupazione e della mancanza di attenzione verso i più deboli e i più sfortunati. E al termine del nostro pellegrinaggio terreno, ottienici la gioia di unirci a te per lodare eternamente la Trinità Santissima, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Amen40.

A ciò seguirà il rientro in cattedrale, la riposizione della statua e la benedizione con le reliquie.

40 Circolo Santa Venera Acireale, Litografia La Rocca, Giarre, pp. 4-6.

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In Sicilia, così come in diverse città del Sud Italia, la devozione ed il culto rivolto a questa martire è particolarmente sentito. Tracce evidenti della sua presenza sul territorio calabrese sono state recuperate nel corso del tempo e forse altre ne emergeranno in futuro. Tra queste è oggi possibile ricordare il busto reliquiario che è stato ritrovato presso l’ex Collegio dei Gesuiti di Tropea, raffigurante una martire che tiene tra le mani una palma ed una Bibbia. Questo può essere considerato un ulteriore segno di come Santa Venere fosse una figura sacra per gli abitanti della costa vibonese e, anche per questo, non dovrebbe essere dimenticata. Santa Venere appartiene al territorio, al porto ed ai suoi abitanti, o per lo meno appartiene alla loro storia, al loro passato e deve essere riconosciuta come tale, così come oggi vi appartiene il culto e la festa della Madonna del S.S. Rosario di Pompei.

3. La Festa del Mare

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Il Santuario della Madonna di Pompei è uno dei maggiori centri di devozione mariana in Italia. I lavori per la sua costruzione iniziarono l’8 maggio 1876 secondo il disegno di Antonio Cua, docente dell’Università di Napoli, e realizzato nel 1891. Dei lavori di ampliamento furono compiuti tra il 1933 ed il 1939. Sull’altare maggiore è esposta l’immagine della Madonna di Pompei, una tela del ’600 dipinta da un allievo della scuola di Luca Giordano. L’area dove sorge il santuario era un tempo caratterizzata da una serie di nuclei abitativi sparsi che si erano creati anche dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. La zona in questione fu prima feudo di Luigi Caracciolo, poi di Ferdinando d’Aragona e, infine, nel 1593, divenne proprietà di Alfonso Piccolomini. A partire dalla prima metà del ’600 fu abbandonata a se stessa ma, col tempo, riuscì a risorgere fino a quando, nel 1872, arrivò da Napoli Bartolo Longo, un avvocato che andava a curare gli affari della contessa De Fusco, sua futura moglie. Alberto Casale definisce Bartolo Longo “l’artefice del miracolo della preghiera pompeiana”41. Accettato l’incarico di amministrare i beni della contessa Marianna De Fusco, Bartolo Longo si trovò in una valle, quella di Pompei appunto, totalmente dominata dalla malavita e dal brigantaggio, dalla violenza e dall’ignoranza, soprattutto

41 M. Simonetti (a cura di), Feste e Tradizioni Popolari. Un Itinerario tra Calabria e Campania, Cuzzolin Editore, Napoli, 2003.

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in materia di fede. In questo luogo l’avvocato sentì la necessità di propagare il Rosario attraverso il cattolicesimo. Casale scrive a tal proposito:

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Egli restò colpito, nel periodo che soggiornò a Valle di Pompei, dalla totale ignoranza degli abitanti delle più elementari nozioni della religione, dalla rozzezza dei costumi e dei comportamenti, e, ciò che era più grave, dalla completa assenza di chi potesse istruire, civilizzare e, soprattutto, indirizzare queste genti verso la fede cristiana42.

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La sua fu un’opera di evangelizzazione porta a porta. Si recava infatti casa per casa, invitando gli abitanti ad andare in parrocchia e a radunarsi nella chiesetta del S.S. Salvatore, luogo in cui istituì la Confraternita del Santo Rosario. Lanciò anche una campagna denominata “un soldo al mese” al fine di costruire una chiesa da dedicare alla Madonna del Rosario. Il suo lavoro giunse fino alle autorità ecclesiastiche e il 12 novembre 1875 il Vescovo di Nola concesse il consenso per la realizzazione di una chiesa a Pompei. Il giorno seguente Bartolo si recò a Napoli per acquistare il quadro della Madonna che avrebbe esposto in chiesa e, incontrato il suo amico padre Redente, si recarono insieme presso una bottega per acquistare il quadro. Il denaro richiesto per l’opera era troppo così, il padre domenicano, suggerì all’avvocato di recarsi al Conservatorio del Rosario a Porta Medina e di chiedere di suor Maria Concetta De Litala alla quale Redente aveva donato un vecchio quadro del Rosario. Tuttavia il quadro necessitava di non pochi restauri oltre ad essere antistorico in quanto la Madonna porge il Rosario a Santa Rosa anziché a Santa Caterina da Siena, come in genere è rappresentato nella tradizione domenicana. Del restauro si occupò Guglielmo Galella, un pittore riproduttore di immagini dipinte negli scavi di Pompei. Seguirono poi ulteriori restauri nel corso del tempo, l’ultimo dei quali risale al 1965, al Pontificio Istituto dei Padri Benedettini di Roma. Nel 1883 papa Leone XIII rese pubblica la prima di quindici encicliche mariane e proclamò Bartolo Longo commentatore e propagatore del Santo Rosario. L’istituzione del Santuario della Madonna del S.S. Rosario di Pompei è dunque di recente costituzione così come recente è anche la sua presenza sul territorio vibonese. Tutto ebbe inizio nel 1930 quando fu costruita e benedetta la prima chiesa della frazione di Vibo Marina. Tale costruzione fu fortemente voluta da monsignor Paolo Albera, sicuro dell’incremento di insediamenti e

42 Ivi, La Supplica alla Regina del S.S. Rosario di Pompei.

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di persone nel piccolo borgo marinaro. Fu così che il 1°ottobre 1933, monsignor Albera trasferì la sede parrocchiale dall’allora parrocchia di San Pietro di Bivona a quella di Vibo Marina. Nel 1946 la comunità di Vibo Marina divenne parrocchia autonoma col titolo di parrocchia della Madonna del S.S. Rosario di Pompei, dovuto proprio all’immagine della statua della Madonna collocata nella prima chiesa. La statua era proprietà della famiglia Catenacci ed era stata acquistata per adempiere ad un voto fatto in seguito ad una grazia ricevuta per intercessione della Vergine. Una mia informatrice mi ha raccontato infatti che, a seguito del terremoto del 1908 che colpì la zona, gli abitanti del paese furono costretti a rifugiarsi in baracche provvisorie per via di edifici pericolanti e ad ulteriori scosse e tra questi, anche la famiglia Catenacci. Un giorno la signora Maria Catenacci, allora bambina, rimase gravemente ustionata essendosi avvicinata troppo ad un braciere. La madre di Maria, fortemente devota a Dio e alla Madonna del Rosario di Pompei, fece un voto alla Vergine, promettendole di realizzare una statua in suo onore se la figlia fosse uscita indenne da quell’incidente. La grazia fu concessa e la statua realizzata per tale occasione fu collocata in una cappella votiva già esistente all’entrata del paese. Una volta terminati i lavori della prima chiesa il parroco, monsignor Domenico Costa, la chiese in dono alla famiglia Catenacci con l’obbiettivo di renderla disponibile alla devozione di tutti i fedeli. La statua è una rappresentazione in cartapesta leccese del quadro della Madonna che si trova nel Santuario di Pompei. Rappresenta la Madonna sulle nuvole con Gesù bambino in grembo e ai suoi piedi, in ginocchio, San Domenico da Guzman e Santa Caterina da Siena che ricevono dalla Vergine e dal bambino la corona del Rosario. Come è stato già detto in precedenza, la devozione alla Madonna del Rosario di Pompei si diffuse, in particolare in Meridione, grazie all’opera di evangelizzazione del beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei. Così come Longo trovò una situazione di disagio e di violenza al suo arrivo nella Valle di Pompei, anche monsignor Domenico Costa trovò a Vibo Marina la stessa condizione di degrado. Con la costruzione della nuova chiesa e la presenza, al suo interno di un simulacro come quello della Vergine Maria, don Costa pensava di diffondere sul territorio la fede cristiana con particolare attenzione alla devozione mariana. Nello stesso periodo si stavano realizzando i lavori per l’ingrandimento del porto e gli abitanti del borgo costiero, prevalentemente pescatori, iniziarono a sentire un forte affetto e una grande devozione nei confronti della Madonna, tanto da iniziare a considerla protettrice del porto e dei naviganti. Fu così che, a partire dal 1948, si decise di istituire un periodo di festeggiamenti dedicati alla

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Madonna del S.S. Rosario di Pompei che divenne la patrona del paese. Sin da allora i festeggiamenti furono stabiliti per la domenica dopo il 15 di agosto, preceduta da una serie di celebrazioni in preparazione della festa finale. La festa può essere divisa in due parti, quella religiosa e quella civile. Il programma religioso scandisce due momenti fondamentali della giornata, la mattina ed il vespro. Il primo giorno, l’inizio della novena, comincia con la messa mattutina che si svolge nella nuova chiesa, meglio conosciuta come “chiesa grande”. Segue, nel tardo pomeriggio la recitazione del Rosario, le litanie cantate, i vespri e la messa, questa volta nella vecchia chiesa, diventata ormai un Santuario dedicato alla Madonna, chiamato Santuario Stella del Mare. Il secondo giorno sono celebrate tre cerimonie religiose.

Figura 7. Statua della Madonna del S.S. Rosario di Pompei, Vibo Marina

Al mattino, la prima Santa Messa è celebrata sempre nella nuova chiesa. La messa del tardo pomeriggio è preceduta da un’altra celebrazione religiosa che, come l’ultima della giornata, è svolta nel Santuario dedicato alla Vergine. La cerimonia religiosa che si svolge nei giorni precedenti la festa vera e propria è dun-

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Ave, o stella del mare, Madre gloriosa di Dio, Vergine sempre, Maria, porta felice del cielo. L’“Ave” del messo celeste reca l’annunzio di Dio muta la sorte di Eva, dona al mondo la pace. Spezza i legami agli oppressi, rendi la luce ai ciechi, scaccia da noi ogni male, chiedi per noi ogni bene. Mostrati madre per tutti, offri la nostra preghiera, Cristo l’accolga benigno, lui che si è fatto suo Figlio. Vergine santa fra tutte, dolce regina del cielo, rendi innocenti i tuoi figli, umili e puri di cuore. Donaci giorni di pace, veglia sul nostro cammino, fa che vediamo il tuo Figlio, pieni di gioia nel cielo. Lode all’altissimo Padre, gloria al Cristo Signore, salga allo Spirito Santo, l’inno di fede e d’amore.

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que caratterizzata dalla celebrazione di una consueta messa cristiana. Tuttavia è possibile distinguere una preghiera specifica, vale a dire un vespro mariano, che i fedeli recitano per la Madonna del Rosario, così come i cittadini di Acireale recitano la propria per Santa Venera. Tale preghiera è un inno alla Vergine, in genere recitato durante il vespro, nella cappella votiva:

L’ultimo giorno della festa in onore della Vergine è caratterizzato poi da una processione in fiaccolata per le vie della città che parte dalla cappella votiva per poi termi-

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nare sul piazzale della Capitaneria di Porto, di fronte al porto e alle miriade di fedeli e di turisti giunti per assistere allo spettacolo che da li a poco si presenterà davanti ai loro occhi, il tutto accompagnato dalla banda di suonatori del luogo. Un elemento interessante è che tutti i bambini che in quell’anno hanno ricevuto per la prima volta la comunione hanno la possibilità e l’onore di accompagnare la Vergine in prima fila, non solo durante la processione “via terra” ma anche in quella “via mare”.

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Figura 8. Processione della Madonna di Vibo Marina nell’ultimo giorno di festa

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Prima della processione in fiaccolata, la Madonna del Rosario, viene “preparata” per la sera della festa. Dopo la messa che in genere si svolge verso le ore 11: 00, la statua della Madonna è spostata dalla cappella laterale e vestita a festa. Le corone che, infatti, cingono il capo della Vergine e di Gesù sono sostituite. Quelle color argento sono rimosse e, al loro posto, sono poste delle corone color oro perché questo è un momento importante, il momento in cui si rinnova il legame tra il popolo e la Vergine protettrice di cui la statua è mediatrice (figure 9-10). La statua, dunque, si anima ed è avvolta da una luce particolare per tutti i fedeli. La forza della Madonna del Rosario di Pompei è manifesta dentro quest’immagine, è racchiusa in essa in modo molto forte ed è necessario che questa forza sia in qualche modo resa visibile anche all’esterno. L’atto della sostituzione delle corone che cingono i capi delle due figure sacre può essere un modo per esplicitare a tutti la

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presenza di questa forza in un giorno di festa così importante. Come è stato detto nel terzo capitolo, la comunità si riconosce e ritrova se stessa attraverso la propria divinità. Attraverso l’immagine della Madonna la comunità vibonese crea il suo rapporto con il sacro, apre quella porta che permette alla stessa di raggiungere quel mondo che crea gioia e inquietudine nello stesso tempo. Lo stesso atto di modificare, in qualche modo e per quanto possibile, il simulacro nella sua apparizione al pubblico è dunque espressione della preparazione materiale, oltre che spirituale di questo scambio tra l’uomo e la divinità attraverso la sua immagine. Il preparare la Madonna per la sua processione fa capire come il simulacro sia percepito come vivo e come espressione della potenza divina.

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Figura 9. Madonna di Vibo Marina durante la sostituzione delle corone

Ormai la Madonna è pronta a sfilare per le strade della città, accompagnata dalle flebili luci delle candele, dai canti dei suoi fedeli e dalla purezza dei suoi giovani adepti che, essendosi nutriti per la prima volta del corpo di Cristo, hanno rafforzato il loro legame con Dio e la Vergine. La lunga processione si muove per le vie di tutto il paese e la Madonna, al suo passaggio, raccoglie attorno sé, un numero sempre maggiore di fedeli. In particolare, al suo passaggio per via Emilia, gli abitanti della zona offrono, come segno di devozione ed in saluto alla Vergine, una serie di fuochi pirotecnici (figura 11).

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Come detto in precedenza, la processione avrà fine sul Piazzale della Capitaneria di Porto dove verrà celebrata la messa dal vescovo della diocesi di Mileto.

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Figura 10. Ultimazione della sostituzione delle corone per la festa

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Al termine della liturgia la statua della Madonna è portata sulla barca del pescatore che, per quell’anno, è stato scelto per ospitare il simulacro e una piccola schiera di fedeli tra cui i bambini che hanno ricevuto per la prima volta l’eucarestia nell’anno corrente (figura 12). Al momento dell’imbarco la Madonna è salutata da tutti i pescatori dal suono delle sirene43 delle imbarcazioni presenti nel porto, mentre la tranquillità del cielo notturno è squarciata dal fragore dei fuochi d’artificio. Quello che si prospetta all’osservatore da ora in avanti è un vero e proprio spettacolo caratterizzato dalle barche in processione, dietro la barca in cui si trova il simulacro, per tutto il porto di Vibo Marina.

43 Nel corso delle prime celebrazioni della Madonna le sirene non erano presenti perché ricordavano il triste periodo dei bombardamenti avvenuti nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

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Figura 11. Spettacolo pirotecnico offerto dagli abitanti di via Emilia alla Madonna

Figura 12. Imbarcazione della Madonna sul peschereccio prescelto

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È come se la Madonna, attraverso gli occhi della statua che la rappresenta, potesse salutare i suoi fedeli e distribuire i suoi poteri protettivi e propiziatori attraverso di essa, mentre i pescatori attirano la sua attenzione col suono delle sirene, quasi a volerle ricordare di non dimenticarsi di loro, oltre che per omaggiare la sua potenza e ringraziarla per la sua “presenza” in quel momento. Anche il porto ed il lungomare sono stati “vestiti a festa”. Per l’occasione, infatti, nelle acque del porto sono distribuiti dei lumini galleggianti che rendono ancor più suggestivo il momento della processione di barche (figure 13-14). Sul lungo mare, invece, è possibile ammirare le luminarie che segnalano la festa e rischiarano le vie principali del borgo (figura 15).

Figura 13. Momento della distribuzione dei lumini in acqua

Dal mare, dal cielo e dalla terra, la Madonna è totalmente circondata di luce che, in un certo senso potrebbe essere considerata come un elemento purificatore. Come è stato detto nel capitolo precedente, infatti, il fuoco era impiegato in diverse comunità come elemento purificatore. In tal caso il fuoco assumerebbe la forma delle luminarie, degli artifici aerei e di quelli marini, al fine di purificare tutti gli elementi con cui la statua della Vergine entra in contat-

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to (la terra, il mare) e, nello stesso tempo, di propiziare il rapporto con le divinità celesti44.

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Figura 14. Effetto dei lumini galleggianti sulla superficie del mare

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Ogni singolo abitante del luogo così come ogni turista che si trovi a visitare la cittadina costiera non può che rimanere rapito da questo spettacolo. Alla festa partecipano spesso anche gli abitanti delle cittadine vicine e coloro che ritornano “al paese” per le vacanze estive. Alla barca della Madonna, seguono poi una serie di piccole imbarcazioni che, dietro la nave ammiraglia, compiono tre giri del porto. In questo momento della cerimonia si può dire che il tempo festivo è scandito, almeno in parte, dai fuochi artificiali. Nel momento in cui la statua è posta sulla barca e posizionata sulla struttura alta del ponte di comando, il rumore dei fuochi artificiali sembra suggellare questo momento come ad indicare che la Madonna è pronta a distribuire la sua potenza ai presenti mediante la sua immagine e direttamente dal mare. Alla fine del secondo giro le bar-

44 Si pensi ai fuochi aerei.

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che, compresa quella che ospita la statua, in testa alla processione, sostano al centro del porto. In questo momento, un gruppo di fuochi illumina il cielo notturno di Vibo Marina. Si tratta, in questo caso, di fuochi artificiali offerti alla Madonna dagli armatori, vale a dire, i proprietari delle barche che sostano nel porto e che si costituisce di un vero e proprio comitato, il Comitato degli Armatori.

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Figura 15. Effetto delle luminarie in lontananza

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Non solo, in quell’istante i fuochi vanno ad avvertire la folla che si sta per compiere l’ultimo giro della Madonna nelle acque del porto, dopodiché la statua, nuovamente in processione ed accompagnata dalla banda musicale, sarà ricollocata nel Santuario Stella del Mare. A ciò occorre aggiungere che il Comitato Festa renderà omaggio e saluterà la Vergine con un secondo gruppo di fuochi pirotecnici. Nel caso di questi festeggiamenti, dunque, così come accade anche per altre feste patronali, gli artifici pirotecnici possono essere interpretati come omaggi offerti alla divinità al fine di ottenere da lei protezione e benevolenza. Non bisogna infatti dimenticare che, in questo caso, la Madonna del Rosario è proprio la santa protettrice di tutti gli abitanti del luogo. È possibile che

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questi aspetti paganeggianti siano la sopravvivenza del culto pagano di cui si parlava nel paragrafo precedente45 e che si siano mantenuti nel culto della martire cristiana Santa Venere prima ed in quello della Madonna del Rosario poi. Questi spettacoli pirotecnici possono dunque essere interpretati come delle sopravvivenze di culti precedenti che si sono mantenuti nel corso del tempo. È possibile che i significati simbolici di cui erano portatori in precedenza non sia-

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no più gli stessi di oggi e che, semplicemente siano stati ignorati e andati perduti. Per la maggior parte dei partecipanti i fuochi rimangono un puro e sem-

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plice spettacolo che rende omaggio alla presenza spirituale della Madonna nel

corso della sua festa. Il valore propiziatorio di questi artifici del fuoco è ancora

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molto vivo. Si tratta sì di un omaggio alla Vergine, tuttavia è un omaggio accom-

pagnato dalla speranza di poter essere protetti ed aiutati dalla propria patrona sempre, nel corso di tutto l’anno, per poi poter rinnovare questa speranza l’an-

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no successivo, nella festa futura.

Figura 16. Particolare delle barche in processione

45 Cfr. p. 91.

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Figura 17. Fuochi artificiali di Vibo Marina46

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La parte civile della festa si svolge in parallelo a quella religiosa ed è costellata di spettacoli di danza realizzati da associazioni locali, rappresentazioni teatrali, ospitate di personaggi famosi e sagre. Nel corso di tutta la settimana precedente l’ultimo giorno di festa, le vie principali del paese sono invase da commercianti locali che approfittano del momento festivo per promuovere oggetti di propria produzione. Tra questi è possibile ricordare i cosiddetti mostaccioli (in gergo “mastazzola”), un dolce molto diffuso nel Sud Italia47 ed in particolare in diverse zone della Calabria (figura 18). Si tratta di un biscotto le cui forme possono essere le più svariate, tipico soprattutto delle zone di Serra San Bruno e di Soriano Calabro. La leggenda fa risalire la sua ricetta ad un monaco sconosciuto che avrebbe portato questo dolce tra la povera popolazione contadina di Soriano. A livello storico, invece, i mostaccioli sono fatti risalire all’opera dei monaci certosini del centro di Santo Stefano in Bosco, vicino Serra San Bruno. Non solo durante la festa di Vibo Marina ma anche durante altre feste o nelle sagre dei paesi vicini è possibile osser-

46 Fonte: http://www.vibomarina.eu/album/displayimage.php?pid=31&fullsize=1 47 Questo tipo di biscotti si può trovare anche in diverse zone della Basilicata, Campania e Sicilia.

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vare queste leccornie che posso essere definite dei veri e propri capolavori artigianali. Una collezione delle forme classiche che sono date a questi biscotti è custodita presso il Museo di Palmi, in Calabria, e presso il Museo Nazionale delle arti e mestieri di Roma. La festa patronale di Vibo Marina diventa quindi anche uno strumento di produzione e di consumo, di formazione e di crescita non solo spirituale e culturale ma anche economico e commerciale. Si ritorna dunque a ciò che Laura Bonato afferma in un testo da lei curato nel 2009:

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Figura 18. Mostaccioli calabresi

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Proprio per questo nella società moderna, urbanizzata, industriale, mediatizzata, oggetto di un’omologazione planetaria a tutti i livelli (culturale, economica, dei consumi, dell’alimentazione) le differenze e le tradizioni locali sopravvivono. […] Ma ciò che viene riproposto non può essere semplicemente considerato una mera ripresa: la rivitalizzazione del tessuto folklorico tradizionale si muove su un terreno di imprenditorialità che si affianca a quello economico […] Ogni iniziativa sembra promuovere o vendere qualche cosa: prodotti tipici del luogo, artigianato, eventi di tipo gastronomico, visite nei musei e nei parchi, pacchetti alberghieri ecc. Ma non solo: promuove e mette in vendita l’immagine dei loro protagonisti, la loro manifesta appartenenza alla comunità e, soprattutto, l’irripetibilità, la singolarità della nuova cultura. Sostenendo la continuità, promuovendo la ripresa, inventando “tradizioni”, gli organizzatori e gli attori contribuiscono all’elaborazione e alla crescita del patrimonio culturale48.

48 L. Bonato (a cura di), Introduzione. Portatori e imprenditori di cultura per una lettura “a memoria” del territorio, in Portatori di cultura e costruttori di memorie, Alessandria, 2009, p. 4.

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La festa della Madonna, così come tutte le altre cerimonie festive, può essere considerata come un organismo in continuo mutamento e capace di adattarsi ad ogni trasformazione che la sua comunità le richiede, anche se spesso indirettamente, di apportare. Tuttavia anche nel caso della festa vibonese è possibile applicare lo schema presentato da Artoni49. La festa è, in primis, un’esperienza interpersonale, in quanto, già a partire dalla sua organizzazione mette in comunicazione tra loro persone differenti, fa riferimento ad un proprio apparato simbolico legato, come è stato detto, all’immagine della Madonna e all’impiego dei fuochi, è un’esperienza ciclica che è ripetuta una volta all’anno ma che emoziona sempre, perché si presenta sempre come un evento eccezionale nella sua ripetitività, ha una funzione sociale e culturale in quanto è un modo che la comunità impiega per rinnovare se stessa e la propria identità. Attraverso la festa della Madonna, dunque, la comunità di Vibo Marina rinnova il suo rapporto con il sacro, rinsalda i legami tra gli individui che condividono il momento e definisce i propri confini rispetto alle comunità vicine. L’ethos che caratterizza questa festa è quindi dominato da un forte senso di devozione e di reverenza nei confronti della Madonna del Rosario50. Devozione, reverenza e rispetto sono probabilmente le tre caratteristiche principali che appartengono all’ethos della Madonna di Vibo Marina. Tuttavia, come è stato spiegato nelle prime pagine di questo elaborato, non è detto che quest’insieme di emozioni e di istinti standardizzati non vadano a modificarsi nel corso del tempo. Ciò non comporterebbe comunque la scomparsa della Festa del Mare ma, probabilmente, com’è già successo in passato, modificherebbe le condizioni a cui la festa è oggi associata.

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4. Giochi tradizionali

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In riferimento all’ethos e al carattere mutante della festa, durante la mia ricerca sul campo è stato possibile constatare come tra la festa attuale e quella passata ci sia stato un grandissimo cambiamento che potrebbe più che altro essere definito come il dissolversi di un “tempo festivo nel festivo”. Mi riferisco ad una serie di giochi tradizionali di cui alcuni dei miei informatori mi hanno par-

49 Vedi Capitolo 1, p. 9. 50 Vedi Capitolo 1, pp. 4-5.

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lato e che avevano luogo proprio nel porto di Vibo Marina durante il periodo della festa della Madonna. Anche il gioco, così come altri momenti festivi, è uno strumento che la comunità può impiegare per rifondare la sua identità. Giuseppe Trebisacce, professore di Storia della Pedagogia all’Università della Calabria, spiega, in riferimento ai giochi appartenenti alla tradizione popolare, che il gioco è un momento importante per “conoscere ed interpretare i caratteri sociali di un’epoca e ricostruire i nessi di una cultura ludica planetaria che trova in alcune permanenze le forme e i modi per avvicinare epoche e mondi lontani”51. Attraverso l’attività ludica l’uomo ha la possibilità di costruire una dimensione parallella a quella reale in cui tutto è drammaturgia, finzione. Tuttavia, il gioco non è semplice e puro divertimento ma si configura come azione sociale attraverso la quale è possibile ricostruire ed arricchire “la memoria storica e la conoscenza dell’uomo e del suo vissuto, coniugando la storia locale con quella globale, la microstoria con la macrostoria”52. Gli studiosi si sono interessati tardivamente a questo ambito di studi e Trebisacce indica alcuni motivi che hanno portato a questo ritardo. Una prima ragione è legata al fatto che spesso il gioco, in quanto argomento di studio, è stato spesso sottovalutato e poco apprezzato ed è per questo che è solo poco più di un secolo fa che si è iniziato ad avvicinarsi al gioco nella ricerca e nel dibattito antropologico e psicologico53. In secondo luogo perché le testimonianze e gli oggetti che possono essere impiegati come reperti in tale ambito sono pochi e non fanno riferimento a basi solide. Trebisacce spiega che tale fragilità nasce da fattori quali il silenzio ed il carattere sommario delle fonti, la natura ibrida del gioco che è in parte un’attività puerile, in parte un’esperienza che coinvolge grandi e piccini, tutti elementi che rendono difficile una ricerca che si pone l’obbiettivo di ricostruire e di catalogare tale esperienza54. Fulvio Librandi, antropologo e ricercatore presso l’Università degli studi della Calabria, afferma che l’antropologia culturale, nel momento in cui si configura come disciplina autonoma, si è cimentata col tema del gioco. Edward Burnett Tylor pensava ai giochi come ad una sopravvivenza relativa ad un antico sa-

51 G. Trebisacce, introduzione al testo di Pietro Turano, Enciclopedia dei giochi tradizionali, Cosenza, Jonia Editrice, 2004, p. 13. 52 Ivi, p. 14. 53 Ibidem. 54 Ivi, p. 14-15.

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pere riguardante culti o istituzioni sociali di gruppi primitivi55. Sempre Tylor, verso la fine dell’Ottocento, cercava di capire se i giochi potessero avere un’origine comune o se fossero nati in luoghi differenti. In Italia Giuseppe Pitrè sosteneva che alcuni giochi, di base molto semplici, sarebbero sorti in luoghi diversi contemporaneamente, altri invece, dotati di un meccanismo più complesso, sarebbero nati in un luogo specifico e poi da lì si sarebbero diffusi in altri luoghi56. Nei primi anni del Novecento, il paradigma evoluzionista iniziò a perdere la sua efficacia e l’idea di leggi universali, valide per tutti gli uomini della terra, iniziò ad essere messa da parte:

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Se gli uomini erano diversi a seconda delle culture che li prevedevano, il gioco, non più studiato come il precipitato di un’antica sapienza, veniva ora analizzato per il ruolo che rivestiva in ogni singola società, per la funzione che svolgeva all’interno di un gruppo sociale determinato e in un preciso angolo del mondo. Le ricerche di Malinowski, di Fortes, di Firth, di Radcliffe-Brown, quindi di quegli antropologi che vengono annoverati tra i funzionalisti e gli struttural-funzionalisti, considerano il gioco, di volta in volta, come funzione fondamentale per la ricreazione umana con lo scopo di reintegrare le capacità lavorative dell’uomo; come necessità biologica che combinando svago e gioco ottempera ai bisogni dell’organismo; come azione economicamente improduttiva ma insostituibile nei legami sociali che si fondano sul principio di reciprocità57.

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Librandi ricorda anche i lavori di Jhoan Huizinga che è da considerarsi un punto di rottura rispetto agli autori precedenti con il suo testo Homo ludens, pubblicato nel 1938. Huizinga stravolge l’approccio classico al gioco sostenendo che ogni cultura nasce come forma ludica e che attraverso il gioco la comunità può esprimere sé stessa ed il suo mondo. Secondo lo studioso olandese il gioco rappresenta un’attività libera alla quale l’individuo può aderire per scelta trasportandolo in un mondo illusorio ed irreale. Roger Caillois si scontrerà sistematicamente con l’idea di gioco dello storico olandese. In I giochi e gli uomini del 1958, Caillois fornirà una lettura strutturalista del gioco che si costituirebbe di quattro categorie: la competizione, il caso, la mimica/simulacro, la verti-

55 F. Librandi, presentazione al testo di Pietro Turano, Enciclopedia dei giochi tradizionali, p. 19. 56 Ibidem. 57 Ibidem.

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gine58. Librandi puntualizza poi come sia necessario tenere presente due piani su cui si muovono tutti i giochi che sono la Paidia (la turbolenza) ed il Ludus (la regola). Facendo riferimento all’opera di Paola de Sanctis Ricciardone, Antropologia e gioco, Librandi spiega che Paidia e Ludus rappresentano due modi di giocare più che due categorie di gioco59. Tutti i giochi poggiano su regole ben precise che, soprattutto nel caso dei giochi per bambini, sfociano in chiasso e disordine, probabilmente “gli esiti più desiderati del giocare”60. In campo antropologico si possono ancora ricordare le posizioni di Claude Lévi-Strauss e di Victor Turner in relazione al rito. Il primo, spiega Librandi, afferma che la differenza tra gioco e rito sta nel fatto che il gioco è definito dalle sue regole e, proprio grazie ad esse, è possibile giocare un numero infinito di partite, mentre, nel caso del rito, questo sceglie tra le varie partite quella che permette di ristabilire un certo grado di parità tra i partecipanti61. Per Victor Turner, invece, il gioco è uno strumento indispensabile per organizzare i nuovi saperi che una comunità produce e permettere alla stessa un grado di socializzazione omogenea di questi saperi62. Il gioco è dunque una tematica molto interessante che è ancora particolare oggetto di studio in diversi ambiti, dall’antropologia, alla sociologia, alla pedagogia e ad esso fanno riferimento molti filoni di studio su cui non credo sia necessario dilungarmi ulteriormente. Tenendo presente la tematica del gioco e le considerazioni fatte in questa sede è ora possibile andare a ricostruire quei giochi che, più di cinquant’anni fa, facevano parte dei festeggiamenti in onore della Madonna del Rosario di Pompei a Vibo Marina. I giochi in questione si svolgevano in genere lungo le rive del porto e la partecipazione a questi momenti era massiccia sia tra i giovani che tra gli adulti. Il primo gioco di cui mi è stato riferito è abbastanza conosciuto in tutt’Italia ed è l’albero della cuccagna. Con quest’espressione nelle feste popolari si va ad indicare un palo, insaponato o unto, alla cui estremità superiore sono appesi una serie di regali. Nel borgo di Vibo Marina questo gioco assume delle varianti rispetto a quello tradizionale. Il palo, infatti, non era posto in verticale ma in orizzontale e fissato, per un lato, sulla banchina del porto con del fil di ferro e

58 Ivi, p. 20. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 61 Ibidem. 62 Ibidem.

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pezzi di catene, mentre l’altra estremità rimaneva sospesa sulle acque del mare. La struttura base dell’albero della cuccagna ricorda vagamente alcune scene dei film sui pirati, quando i prigionieri sono fatti saltare nell’oceaono sfilando prima su di una tavola in legno. L’albero della cuccagna, più comunemente chiamato “palo della cuccagna”, era reso più liscio e scivoloso da una grossa quantità di grasso, in genere grasso di maiale, distribuito sulla superficie. I concorrenti dovevano riuscire a raggiungere l’estremità del palo che rimaneva sospesa sull’acqua, recuperare una bandierina posta in punta e tornare indietro. Chi riusciva a portare a termine il gioco avrebbe vinto una piccola somma in denaro. Altro gioco che era praticato durante la festa era la classica corsa con i sacchi. Il sacco, posizionato intorno agli arti inferiori, arrivava fino all’altezza della cintura ed era sorretto con le mani dai partecipanti. Ovviamente la corsa era molto difficoltosa in quanto i movimenti dei concorrenti non erano liberi ma vincolati dal sacco. Procedendo a balzi in avanti ed evitando di ruzzolare per terra, i concorrenti dovevano raggiungere l’arrivo ed il primo che tagliava il traguardo avrebbe vinto. Anche in questo caso i premi erano, in genere, delle piccole somme in denaro. Molto usato era anche il gioco delle “pignate”, presente anche durante le sagre di diversi paesi. Un certo numero di pignate era appeso ad una fune ad un’altezza di circa tre metri da terra e ad una distanza di 60-70 cm l’una dall’altra63. Uno alla volta i partecipanti, muniti di un bastone di circa un metro e con gli occhi bendati, dovevano cercare di colpire e spaccare una pignata. Il contenuto della pignata rotta diventava di proprietà del concorrente. In genere si trattava di denaro oppure di un semplice biglietto recante la descrizione dell’oggetto vinto. Tuttavia, alcune volte, gli organizzatori potevano riempire le pignate con farina, acqua o coriandoli che avrebbero lasciato il giocatore a bocca asciutta. Credo di poter dire che il momento più atteso era quello delle gare di pallanuoto. Si trattava infatti di gare che si svolgevano proprio all’interno del porto e che vedevano come protagonisti i giovani del paese (figure 19-20-21). Il porto era dunque adibito a vero e proprio campo da gioco e la squadra vincente avrebbe vinto un simbolico trofeo oltre ad una piccola somma di denaro da dividere tra tutti i suoi componenti.

63 Ivi, p. 233.

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Figure 19-20-21. Squadra di pallanuoto

Come ho già spiegato all’inizio di questo paragrafo, tutti questi giochi oggi non sono più praticati. Un mio informatore mi ha confessato che probabilmente tali giochi furono sospesi perché col passare del tempo nessuno dei giovani del paese si adoperava più ad organizzarli. In realtà nessuno degli abitanti del luogo con cui ho avuto modo di parlare mi ha saputo spiegare il perché della loro estinzione. Alcuni di essi erano sicuramente pericolosi (si pensi ad esempio al

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5. I giganti

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“palo della cuccagna” che ho descritto in precedenza), tuttavia erano suggestivi e rappresentavano un momento comunitario che viene ricordato con particolare affetto ed un pizzico di malinconia. Questi giochi, quindi, erano espressione dell’identità che gli abitanti di Vibo Marina sentivano propria in quel particolare momento e che andavano ad esplicitare durante la festa patronale. Attraverso questo genere di giochi l’individuo interiorizzava un sapere socialmente condiviso che identificava la comunità locale come un gruppo legato al mare e a tutto ciò che da esso si può ricavare. Non bisogna dimenticare, infatti, che la comunità di Vibo Marina, prima Porto Santa Venere, nasce come una comunità di pescatori. Col passare del tempo sono nate le prime industrie, i primi stabilimenti e Vibo Marina si è adattata al cambiamento. Si può dire che oggi l’assenza di questi giochi è giustificata da un cambiamento dell’ethos festivo che può essere letto come una conseguenza dell’adattamento della comunità al mutare dei tempi. La festa patronale non è scomparsa ma si è semplicemente adattata alla modernità e l’assenza, oggi, di questi elementi ludici è solo un ulteriore esempio di come il tempo festivo e la comunità si possano dissolvere ma la festa rimane lì, sempre presente nella mente e nel cuore di chi vi partecipa.

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Ti svegliano di prima mattina con i loro tamburi. In principio si fanno solo sentire, da lontano, ti comunicano che sono arrivati e che oggi non è un giorno qualsiasi. Poi lentamente si avvicinano e si fanno anche vedere. Oggi è festa, e loro devono aprire il tempo speciale che solo la festa può dare. Sono i giganti, esseri enormi, fantocci grandi, colorati, simulacri arcani, speciali, proprio come il tempo che rappresentano e simboleggiano. Li senti quindi, li senti arrivare in un crescendo del rullare dei tamburi che li accompagnano con il loro ritmo inconfondibile. Arrivano prorompenti spezzando il silenzio della quotidianità e annunciando la festa. Enormi esseri con l’anima d’uomo, immortali nel loro eterno rituale di corteggiamento, sono i simboli dell’amore. Sono i giganti, antichi re dal viso scuro, e bellissime regine dalla carnagione rosea64.

Questa è la descrizione che Franco Vallone fa dei giganti calabresi, fantocci in carta pesta alti oltre tre metri e mezzo e che da tempi immemori incutono timo-

64 F. Vallone, I Giganti. Cammelli di fuoco, ciucci e cavallucci nella tradizione popolare calabrese, Adhoc Edizioni, 2009, pp. 13-14.

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re ai più piccini. I giganti processionali o da corteo sono molto diffusi in diverse feste popolari ed in tutta Europa. Già a partire dal XIV secolo in Spagna, ed in particolare in Catalogna, tali figure erano molto presenti durante le feste. Come scrive Franco Vallone, la gigantessa appare affianco al gigante maschio nel XVI secolo, formando la coppia che oggi è possibile conoscere65. Riprendendo le parole di Vallone, i giganti sono gelosamente custoditi al riparo dalla polvere e dalle intemperie fino al momento della festa. Quando il tempo festivo è alle porte ecco che i giganti riprendono vita quasi come se la festa fosse il loro nutrimento, il loro alito di vita.

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Come antichi regnanti fanno il giro del paese accompagnati da un ritmo ossessivo ed inconfondibile di tamburi e da un corteo festoso e impaurito di bambini che vogliono, ancora una volta, sfidare la paura66.

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Nella tradizione calabrese i giganti sono delle figure importanti perché il loro passaggio annuncia il tempo festivo e la loro presenza è molto sentita. A Vibo Marina, così come in altri paesi della Calabria, il loro arrivo è annunciato da un ritmo frenetico, scandito dal suono di un tamburo e di una grancassa. Oltre che per la festa patronale, nella Calabria meridionale, i giganti sono impiegati anche per feste non religiose e per diversi eventi popolari proprio per la loro capacità di segnare un tempo diverso da quello ordinario e dalla quotidianità. L’origine dei giganti calabresi è fatta risalire ad una storia che vede protagonisti due giovani. Si racconta che a Messina, in Sicilia, viveva una ragazza alta e bellissima fortemente legata alla sua fede cristiana. La ragazza in questione era Marta, in dialetto Matta o Mata, figlia del re Cosimo da Castelluccio. Intorno all’anno 910 d.C., un moro, un gigante di nome Hassan Ibn-Hammar sbarcò lungo le coste della Sicilia e, insieme ai suoi compagni, iniziò a saccheggiare l’isola. Durante una delle sue depredazioni vide la giovane Mata e se ne innamorò. Il moro la chiese in sposa ma, ovviamente, la mano della bella fanciulla non gli fu concessa. Il gigante infuriato ritornò a saccheggiare l’isola ancora più ferocemente di prima. I genitori nascosero la fanciulla ma invano perché il gigante la trovò e la rapì, sperando di poter vedere ricambiato il suo amore e poter convolare a nozze con la sua amata. Tuttavia Mata rifiutava il suo amore trovando

65 Ivi, p. 14-15. 66 Ivi, p. 15.

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forza nella preghiera. Il moro, per amore di lei, decise allora di convertirsi alla religione cristiana e mutò il suo nome in Grifo che, vista la sua imponente figura, diventò subito Grifone. Mata, commossa e ammirata dalla tanta devozione del giovane nei suoi confronti, se ne innamorò e acconsentì alle nozze. Vissero in serenità ed ebbero molti figli e a loro è attribuita la fondazione della città di Messina67.

Figura 22. I giganti di Vibo Marina

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Nonostante il mito di fondazione sia di origine siciliana, i giganti costituiscono una realtà vivida nella mente e nel cuore dei calabresi anche perché, come la vicina Sicilia, anche la Calabria fu preda di saccheggi e scorribande da parte dei saraceni che approdavano lungo le coste. Tuttavia, in Calabria, i giganti sono chiamati in diversi modi e non solo Mata e Grifone, come i protagonisti della

67 Ivi, pp. 43-44.

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storia. In genere sono identificati come ‘u giganti e ‘a gigantissa, a volte ‘u re e ‘a regina, in altri casi pulicinelle o purucineja, con evidente riferimento alla maschera napoletana, pur non avendo alcuna relazione diretta con quest’ultima68. Indipendentemente dal loro nome, ciò che conta, in realtà, è la coppia in quanto tale. Come scrive Vallone, riportando le parole di Luigi Maria Lombardi Satriani, all’interno del film documentario I Gigantari:

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Sono gli antenati e quindi è come se la comunità facesse un passo indietro, risalisse al momento della sua origine, della sua fondazione, in modo che la vita venisse poi ripotenziata, rivivificata da questo richiamo alle origini69.

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Il gigante maschio è in genere raffigurato con la carnagione scura, essendo appunto un arabo, e recante sul capo un cappellaccio, un elmo lucido o una corona piumata e con grandi baffi bianchi a manubrio. La gigantessa è invece un’indigena, dalla pelle rosea e dalle gote rosse, impreziosita da vistose collane, grossi orecchini e ornata da una miriade di frutta e fiori di plastica, fischietti, piume colorate e quant’altro. È un vero e proprio “ritorno del kitsch, il cattivo gusto estetico e dell’oggetto goliardico, valori formali negativi che si ribaltano continuamente divenendo sapienti contenitori della bellezza popolare”70. Il mondo dei giganti rimane sempre e comunque la festa, nel corso della quale sfilano per le strade del paese allietando gli spettatori e i passanti con la loro danza. Al loro passaggio la quotidianità sembra dissolversi per lasciare spazio al mito e nell’aria si sente il profumo di una magia particolare accompagnata da un forte sentimento di religiosità. Oltre ad allietare col loro frenetico movimento, Vallone spiega come, in particolare per i più piccoli, il divertimento sia accompagnato da una certa paura, soprattutto nel caso di piccoli spettatori. Tale paura è però esorcizzata dai bambini stessi che rincorrono le due maestose figure, ballano e cercano di avvicinarsi. I giganti, a loro volta, si chinano leggermente verso di loro e si lasciano toccare per poi riprendere la loro danza (figura 23). Il ballo dei giganti è probabilmente di origine aragonese ed il contatto con la tradizione catalana fece giungere in Calabria, così come in Sicilia, questa tra-

68 Ivi, p. 17. 69 E. Pugliese, I Gigantari. La Calabria tra il Quotidiano e il Mito, Landscape Film, 2008, cit. in F. Vallone, I Giganti. Cammelli di fuoco, ciucci e cavallucci nella tradizione popolare calabrese, La Mongolfiera, 2009, p. 18. 70 F. Vallone, I Giganti, p. 21.

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dizione, oggi ancora molto presente in Catalogna71 oltre che in tutta l’area mediterranea72. I tamburi di legno e pelle naturale sono stati sostituiti oggi da moderni rullanti73 e casse da banda in materiale sintetico, a cui, a volte, si aggiunge l’impiego di piatti ed il raddoppio dei rullanti al fine di amplificare ulteriormente il suono.

Figura 23. La gigantessa si lascia toccare da un bambino

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Il ballo rituale dei giganti è un vero e proprio trionfo dell’amore, ma anche della nostalgia, del silenzio e del ritmo. Quella dei giganti è una romantica storia ed è raccontata attraverso un vorticoso ballo di corteggiamento. La danza rituale si apre con una coreografia che comprende una serie di giravolte, di improvvisi piegamenti, di cerchi che si stringono sempre di più, fino ad avvicinare i due in un abbraccio e in un bacio infinito. Mentre avviene tutto questo i tamburi battono freneticamente, aumentando di ritmo in un crescendo, quasi ad incitare i due giganti ad avvicinarsi di più74.

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Se quindi, da un lato, i giganti incutono un certo terrore tra i più giovani, dall’altro, attraverso la loro danza e i passi di cui essa si compone, rivelano una certa dolcezza e una forte tenerezza. Ciò, come spiega Vallone, sembra quasi essere il senso di un messaggio che queste possenti figure vogliono trasmettere. Anche loro si innamorano e il mito di cui sono testimoni si avvicina al mondo de-

71 Ivi, p. 21. 72 Vallone spiega che l’impiego di giganti è ancora molto forte anche in Spagna, a Malta ed in Grecia. 73 Il rullante è un tipo di tamburo costituito da un fusto, di solito in legno o in metallo, e da due pelli, quella battente e quella risonante che possono essere naturali o sintetiche. Le pelli sono messe in tensione da due cerchi, in metallo o in legno, fissati al fusto. 74 Ivi, p. 23.

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gli uomini catapultando tra questi un po’ della loro magia75. La storia d’amore si rinnova ad ogni danza, ad ogni giravolta e ad ogni festa rinasce e si riattualizza. Il racconto si modella continuamente sulla storia e sul territorio, “cambiando di volta in volta ma mantenendo la struttura con il racconto base che è sempre simile”76. Oggi in tutta la Calabria sono sorte una serie di iniziative culturali, folkloristiche e ludiche dedicate ai giganti processionali o da corteo. Recuperi, rielaborazioni e restauri sono all’ordine del giorno e accompagnano le nuove produzioni locali. Nuove produzioni sono state realizzate a San Costantino e Potenzoni di Briatico e nella stessa Vibo Marina dove, nel 1989, è nato un Centro studi per la ricerca sulla danza e sulla musica popolare demoninato proprio Mata e Grifone e dovuto all’interesse di un gruppo di appassionati di folklore77. I nuovi giganti o “giganti appena nati”, come li definisce Vallone78, sono più piccoli rispetto a quelli originali ma non per questo meno importanti. Nella stessa Vibo Marina, Antonio Montesanti costruisce, da diverso tempo, dei piccoli giganti di circa 30 cm, una sorta di mianiature dei grandi fantocci, anch’essi in cartapesta e sgargianti stoffe colorate79. I giganti hanno avuto la capacità di adattarsi ai cambiamenti e alla modernità tanto che spesso sono pubblicizzati come qualsiasi altro prodotto commerciale. Se i gigantari80, in passato, utilizzavano la pelle del tamburo o della grancassa come spazio pubblicitario, oggi è possibile ritrovarli anche on-line. Molti gruppi di gigantari fanno stampare diversi gadget i cui soggetti sono proprio questi grandi fantocci. A Papaglionti, ad esempio, si stampano i calendari dei giganti, a Porto Salvo si stampano cappellini e magliette recanti il nome dei giganti, il numero di telefono dei gigantari ed il paese da cui gli stessi provengono, addirittura le automobili sono impiegate come mezzi pubblicitari81. A partire dal 1997, grazie all’opera di Saverio Ferrise, è possibile assistere ad un’importante iniziativa che prende il nome di Primo raduno invernale dei gi-

75 Ivi, p. 24. 76 Ivi, p. 28. 77 Ivi, p. 22. 78 Ivi, p. 53. 79 Ivi, p. 55. 80 I gigantari possono essere considerati i proprietari di questi imponenti fantocci in cartapesta. 81 Ivi, p. 64.

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Conclusioni

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ganti e tamburi della Calabria. Attraverso eventi come questo si è cercato di recuperare alcuni aspetti della cultura e della memoria popolare e storica della costa vibonese. A questo primo raduno ne sono seguiti altri, alcuni dei quali sono stati realizzati proprio a Vibo Marina82. Attraverso questo excursus storico-antropologico credo sia emersa l’importanza che queste figure di cartapesta hanno per gli abitanti di Vibo Marina e di tutta la costa vibonese. Giocare con loro, sfiorarli e farsi sfiorare non rappresenta per i locali solo un momento ludico che esula dal quotidiano, ma questo momento è anche una traccia del loro passato e attraverso di essi tentano di esorcizzare e superare paure individuali e collettive. I giganti, dunque, sono fortemente radicati nella tradizione popolare calabrese. I tamburi suonano, i giganti danzano e, con i loro balli, i loro abbracci ed infiniti corteggiamenti continuano a dare il via libera ai festeggiamenti e a preparare grandi e piccini alla festa.

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Ogni popolo, sin dal suo primo sorgere e costituirsi, ha un patrimonio di tradizioni, che passando da generazione in generazione, nel tempo, e da gruppo a gruppo, nello spazio, si modificano, in tutto o in parte, si alterano nella forma e nel contenuto, si mutano adattandosi ai progressi delle idee, dei sentimenti, dei costumi, nell’incessante cammino delle civiltà83.

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Queste sono le parole che Raffaele Lombardi Satriani impiega per la prefazione di un testo del 1951 riguardante le credenze popolari calabresi. Tuttavia, pur essendo passati più di cinquant’anni dalla pubblicazione di questo testo, le sue parole non potrebbero essere considerate più attuali. Attraverso questo mio elaborato, infatti, è stato possibile comprendere come diverse tradizioni appartenenti al mondo popolare di una comunità non siano date una volta per tutte ma siano costantemente e continuamente plasmate dal tempo e dalla storia della comunità stessa. Decontestualizzare un sapere come quello popolare non è assolutamente possibile se si vuole comprendere realmente il significato ed il senso che tale tradizione ha in un determinato luogo e per un particolare grup-

82 Ivi, p. 65. 83 R. Lombardi Satriani, Credenze popolari calabresi, Fratelli De Simone Editori, Napoli, 1951, p. 5.

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po. Eventi culturali, come la festa di Vibo Marina, non possono essere pensati al di fuori del loro contesto e del loro territorio. Inoltre, come ho tentato di illustrare nelle pagine precedenti, è indispensabile comprendere che proprio grazie alla contestualizzazione di un atto o di un evento, nel mio caso popolar-religioso, sia possibile capire le peculiarità di un gruppo ed i tratti distintivi su cui basa la propria unicità, dettata dalla volontà di distinguersi dagli altri al fine di far emergere la propria identità. Ciò è quello che accade in modo molto forte sul territorio vibonese. Vito Teti, docente di Etnologia e Letterature popolari presso l’Università della Calabria, scrive a tal proposito:

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Alle differenze geografiche, strutturali, sociali corrispondono particolari elaborazioni simboliche delle popolazioni che non possono essere confusamente ricondotte a un’astorica, generica e mitica «civiltà contadina». Si tratta di precisare, di volta in volta, il concreto e storico dispiegarsi di culture legate alla produzione agricola, pastorale, marinara. Esistevano notevoli differenze culturali tra gli abitanti dei paesi costieri, con un’economia legata al mare e al commercio (Pizzo, Bivona, Parghelia), i contadini dei paesi del Poro, che coltivano le terre dei «signori», i coltivatori delle «rasule» delle Serre, i pastori della vallata del Mesima, gli artigiani di Serra S. Bruno e Soriano Calabro84.

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Questo carattere così eterogeneo della cultura vibonese ha suscitato da sempre l’interesse demologico e, secondo Teti, spesso l’attenzione degli antropologi è risultata decisiva per la scomparsa o la permanenza di certi riti o per la formulazione di nuove ritualità85. Io credo che, indipendentemente dalla presenza dello sguardo antropologico sul campo, molti riti e molte feste si siano modificate nel corso del tempo per necessità. Tale necessità non è solo di carattere pratico, determinata, ad esempio, da fattori ambientali, economici o politici, ma credo anche che sia una necessità dettata dalla comunità stessa. Se un gruppo ha bisogno di cambiare la propria ritualità, forse tale bisogno nasce dall’impossibilità del gruppo di riconoscersi nella ritualità precedente. Potremmo dire che questo fa parte di ciò che Teti definisce “invenzione della tradizione” o “nuovo folklore religioso”86. La festa della Madonna del S.S. Rosario di Pompei rientra

84 V. Teti, Le forme e gli eventi della vita culturale nel Novecento, p. 268, in F. Mazza (a cura di), Vibo Valentia. Storia, cultura, economia, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 1995. 85 Ivi, p. 269. 86 Ivi, p. 273.

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in questo ambito e rappresenta una nuova tradizione popolar-religiosa. Al di là dei momenti rituali di cui la festa si costituisce e che abbiamo descritto in questo capitolo, questa festa rappresenta un momento d’incontro ma soprattutto di riconoscimento tra persone che sentono di appartenere ad una stessa comunità. Non solo, durante questa festa individui di comunità diverse e originarie di paesi differenti si incontrano e, nonostante le differenze, sviluppano un certo legame. Le tradizioni a cui fanno riferimento sono sì differenti, ma essi si rendono conto di appartenere ad un “analogo sostrato culturale”87.

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La processione segna, certo, il ritorno sul mare delle popolazioni dell’interno, dopo lunghi secoli di allontanamento. Collega vecchi e nuovi abitati, antiche e recenti tradizioni, paesi montani e collinari e località costiere, economie e culture differenti. Anche la nuova festa rivela ansie, insoddidfazioni, bisogni, delusioni delle popolazioni88.

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Non solo i locali ma tutti coloro che partecipano al momento festivo affidano alla Madonna le loro ansie, le loro delusioni e le angosce che tormentano il loro vivere quotidiano. Per intercessione della sua immagine chiedono una grazia, un favore, una vita migliore e per questo la celebrano con tanta devozione. Il culto e la festa della Madonna del Rosario di Vibo Marina appare dunque come una necessità per la popolazione. È come se attraverso questa festa le persone presenti potessero esporre al cospetto dell’immagine sacra tutti i loro bisogni. Sono sicuri che le loro preghiere riceveranno una risposta e questa loro convinzione alleggerisce le loro paure collettive ed individuali. Il momento della festa è dunque un momento di speranza che si rinnova ciclicamente, ogni anno da quando la festa è stata istituita e nonostante i cambiamenti a cui è stata soggetta nel corso del tempo. La tradizionale festa della Madonna del Rosario è fortemente connessa ai meccanismi di produzione dell’identità sociale dei suoi abitanti e permettere di far emergere quei tratti distintivi che consentono di distinguere il “noi” dagli altri. È una produzione legata ad un tempo passato, se pur molto vicino a noi, ma che si svolge nel presente e di cui la comunità è consapevole. Se pur recente, la festa in questione rispecchia la comunità che l’ha adottata e non per questo deve essere considerata come una sterile copia di culti precedenti.

87 Ibidem. 88 Ivi, p. 274.

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