Il vino a Monza e in Brianza

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PROVINCIA MONZA BRIANZA

Il vino a Monza e in Brianza

fra storia e geografia



Il vino a Monza e in Brianza fra storia e geografia Percorso storico e scientifico per riportare la coltura della vite alle porte della cittĂ di Teodolinda


a cura di: Luca Albertini Romano Baraggia Giorgio Federico Brambilla Vittorio Farchi, Fulvio Ferrario Maurizio Leoni Salvatore Longu Gianni Magni Valeria Magni Fedele Molteni Giuseppe Ildefonso Motta Franco Peli Pio Rossi Elisa Sironi Associazione Amici della Storia della Brianza ricerca scientifica - pedologia e climatologia AGER s.c.- Agricoltura e Ricerca Veste editoriale e grafica Fabio Lopez Nunes

Promosso dalla Provincia di Monza e della Brianza Settore Agricoltura Coordinato dalla Scuola Agraria del Parco di Monza

Monza, 2014


Parlare di vino nella antropizzata ed industriale Brianza potrebbe sembrare uno scherzo ma così non è! A conferma dell'incredibile potenzialità della nostra terra si tratta, infatti, di una realtà storica e scientifica – come questo volume ci conferma - che speriamo possa presto concretizzarsi. Sin da subito, nel 2009, abbiamo cominciato ad occuparci seriamente di Agricoltura partendo dallo studio del passato e riscoprendo così la grande vocazione agricola e vitivinicola della Brianza fino al 1850, quando l'arrivo della filossera (principale insetto nemico delle viti) distrusse tutto. Da allora, anche per la rivoluzione industriale, la Brianza cambiò la propria conformazione. Ebbene sì, in Brianza si faceva del buon vino rosso. Così buono e famoso, si narra, da interessare - come dimostrano diversi documenti ritrovati perfino Napoleone Bonaparte. Ci è sembrato naturale, quindi, partire proprio da quella storia per valutare se in questa fase di grandi cambiamenti si riuscisse ad accompagnare il comparto agricolo verso una nuova produzione di vino. Gli agricoltori, che qui vogliamo pubblicamente ringraziare, si sono resi subito interessati e disponibili ma le maglie della burocrazia, spesso davvero inconcepibili, non ci sono state di aiuto: oltre al latte, infatti, anche la produzione del vino dipende dall'Europa e i vincoli esistenti non ci hanno permesso di avviare il progetto. Abbiamo deciso, così, di dare vita a questo volume, per lasciare a chi verrà dopo di noi una traccia ed una testimonianza di un lavoro già compiuto nella speranza che qualcuno prima o poi riesca a portare a termine questa interessante “missione”. Infine un ringraziamento sincero vada a quanti hanno contribuito alla realizzazione di questo libro, alla Scuola di Agraria del Parco di Monza ed ai tecnici del Settore Agricoltura della Provincia. Siamo certi che il nostro impegno non risulterà vano, l'auspicio è che si possa festeggiare presto il ritorno del vino in Brianza stappando, dopo oltre un secolo e mezzo, la prima bottiglia!

Il Presidente della Provincia di Monza e della Brianza Dario Allevi


Il progetto di ricerca, promosso dalla Provincia di Monza e della Brianza e coordinato dalla Scuola Agraria del Parco di Monza, ha permesso di realizzare un’ indagine storica sulla presenza della vite nei secoli passati in tutti i comuni del territorio provinciale. La ricerca ha riguardato la raccolta di cospicuo materiale bibliografico e testimonianze tramite la consultazione di documenti storici presso archivi, centri di documentazione e biblioteche, nonché interviste a storici e studiosi del territorio. La stesura del testo è stata possibile grazie al lavoro volontario di Vittorio Farchi, ricercatore di Vedano al Lambro che con abnegazione e grande professionalità ha convertito i dati raccolti in piacevoli articoli a taglio giornalistico, riportanti gustosi aneddoti, proverbi, curiosità storiche e vicende che in modo piacevole ci offrono uno spaccato delle tradizioni contadine di vari secoli di storia dei 55 comuni della Brianza. Alcuni testi relativi ai comuni della Brianza est sono stati curati dai soci dell’Associazione Amici della Storia della Brianza coordinati da Giorgio Federico Brambilla. La raccolta di buona parte del materiale bibliografico e fotografico ha visto il coinvolgimento di diversi volontari della Scuola Agraria del Parco di Monza e dei responsabili del Museo Civico “Carlo Verri” di Biassono. Senza di loro la ricerca non si sarebbe potuta concretizzare e ad essi va la nostra gratitudine e ringraziamento per l’impegno disinteressato e appassionato che hanno manifestato. La ricerca rappresenta la base di riferimento per un progetto di reintroduzione della vite sul territorio provinciale, progetto che ha previsto anche una ricerca geo-vegetazionale delle aree maggiormente vocate alla viticoltura, di cui si riporta una breve sintesi in appendice.

Il Direttore della scuola Agraria del Parco di Monza Antonella Pacilli

Il coordinatore del progetto Pio Rossi


L’evoluzione storica del paesaggio rurale della Brianza Giorgio Federico Brambilla * (1) Tale sistema di coltivazione veniva definito anche rumpotinum, che significa “albero maritato alla vite” o rumpotinetum, “piantata di alberi vitati” E. Sereni, op. cit, p.41.

La piantana di alberi vitati e la pigiatura dell'uva in una miniatura del Theatrum sanitatis, un breviario di medicina Medioevale. (2) Iugero: antica unità di misura romana che equivale a 2523,3408 mq, che corrisponde ad un appezzamento arabile da un uomo con i buoi in una giornata di lavoro; 1 ettaro è uguale a 10.000 mq, dunque due iugeri corrispondono all'incirca a mezzo ettaro. * Presidente Associazione Amici della Storia della Brianza 2007-12, autore libro «Paesaggio rurale, cascine e case a corte del Parco Molgora e della Brianza Vimercatese»

A partire dal 600 a.C in poi si diffusero nella Pianura Padana, provenienti dal sud, gli Etruschi. Il ruolo che questa popolazione ebbe nella caratterizzazione del paesaggio agrario delle nostre terre fu notevole. Essi diffusero un sistema di allevamento della vite a “tralcio lungo” (rumpus)1 fatta correre su lunghi festoni, alti sul terreno, appoggiati a pioppi, aceri, olmi; un sistema totalmente differente da quello ad alberello basso o a “palo secco” praticato dai colonizzatori greci. Il sistema etrusco aveva il vantaggio di permettere una coltura promiscua: spesso nello stesso campo, insieme alla vite, erano coltivati i cereali. Quando agli Etruschi subentrarono i Celti, una popolazione di eccellenti agricoltori, tale sistema caratterizzava ormai i fertili territori della Pianura Padana insieme alle colture di grano, panico, miglio e ghiande tanto che in età romana, dopo che la regione fu domata e attratta nella sfera d'influenza latina, dapprima con la trasformazione dei principali insediamenti gallici in colonie, poi con il progressivo passaggio dallo statuto di coloniae a quello di municipia, l'allevamento alto della vite su “sostegno vivo” era chiamato arbustum gallicum, ovvero “piantata all'uso gallico” in quanto molto diffusa nella Gallia Cisalpina, cioè in Valpadana. In Brianza, così come in buona parte della Lombardia prima della conquista romana, non tutte le terre erano sfruttate dall'agricoltura, ma solo quelle più prossime agli insediamenti umani, tanto che la maggior parte del territorio era incolto, boschivo o paludoso. Con i romani iniziarono grandi opere di dissodamento e bonifica delle terre e la loro regolamentazione attraverso la centuriazione, cioè la suddivisione del territorio secondo una trama regolare e ortogonale che individuava grandi comparti di terreno di forma quadrata, della dimesione di circa cinquanta ettari che venivano suddivisi in cento appezzamenti di forma quadrata ciascuno di circa mezzo ettaro (ovvero circa cinquemila metri quadri pari a 2 iugeri 2. Nell'Alta Pianura Asciutta l'agricoltura praticata era assai povera, di sussistenza, date la basse rese e la morfologia del terreno: l'alimentazione contadina, fino all'introduzione del mais a seguito della scoperta dell'America, si basava essenzialmente sui cereali cosiddetti minori, ossia miglio, sorgo, segale e orzo, sulle verdure, in genere coltivate nell'orto adiacente alla casa a corte e sui frutti degli alberi, normalmente messi a dimora nei pressi dei cascinotti per il solo consumo familiare. La coltivazione di alberi da frutto si accompagnava a quella della vite, secondo l'antica tradizione etrusca degli alberi vitati: la vite ricadeva a festoni tra un albero e l'altro, diversamente dalla tradizione greca, che coltivava la vite bassa, a terra, per proteggerla dai forti venti. La piantata vitata rappresentava un'immagine assai consueta del paesaggio agrario dei nostri luoghi e integrava una alimentazione 5


(3) M.G. Sala Zamparini, T. Vismara, Agrate Brianza 1989; AA. VV. Storia Milano vol. XI, Milano 1953.

contadina altrimenti assai povera: da una statistica si apprende che nel 1545 la vite costituisce il 92,7 % del totale degli alberi da frutto 3. I registri catastali illustrano chiaramente come alla metà del Cinquecento la diffusione della coltura della vite fosse importante per il territorio dell'antica pieve di Vimercate, costituito da 178.600 pertiche milanesi delle quali ben il 50,1 % era adibito ad “aratorio vitato” e il 4,2% a vigna (v. tabella). La viticoltura si era quindi consolidata nel nostro territorio fin dall'epoca romana diventando di gran lunga la coltura non cerealicola predominante. Galvano Fiamma, storico del XIII secolo, affermava che nel contado di Milano si producevano 600.000 carra di vino l'anno, di cui 24.000 nella sola Pieve di Vimercate. A titolo di esempio, ad Agrate e Omate nel 1690 si produssero circa 1000 brente di vino, pari a 750 ettolitri 4. La viticoltura nel settecento e nell'ottocento

(4) Dati tratti da M.G. Sala Zampanini, M.T. Vismara, op. cit. p.74. Inoltre Carlo Porta, nel suo Brindes de Meneghin a l'Ostaria del 1815, elenca il nome dei più famosi vini di Brianza tra cui «quell magnifegh de Omaa, de Buragh…».

La grande importanza delle vigne è testimoniata dai censimenti delle terre coltivate riportate nei cabrei dell'epoca (una sorta di inventari dei beni immobili e fondiari, appartenenti a famiglie nobili, che era consuetudine stilare alla morte del capofamiglia, per predisporre la successione ereditaria). L'aumento della coltivazione della vite, unitamente a quella di altre coltivazioni, testimonia la ripresa dell'economia avvenuta tra il XVIII e il XIX secolo, quando la quota aggiuntiva di produzione venne incentivata da una richiesta di mercato non più solo legata all'autoconsumo. Il Catasto Lombardo Veneto ci fornisce un resoconto sulla situazione colturale della prima metà del XIX secolo; dai registri catastali risulta che l'aratorio vitato era il tipo di appezzamento più frequente, in questi terreni si coltivavano sia i cereali che la vite. L'aumento della coltivazione della vite, unitamente a quella di altre coltivazioni, testimonia la ripresa dell'economia avvenuta tra il XVIII e il XIX secolo, quando la quota aggiuntiva di produzione venne incentivata da una richiesta di mercato non più solo legata all'autoconsumo. Il prodotto delle viti veniva diviso in parti uguali tra proprietario e contadino, ma solitamente era il proprietario a possedere tutto il necessario per la vendemmia e la vinificazione.

La piantata padana costituita da filari di alberi vitati, in cui la vite ha come "sostegno vivo" un'altra pianta dal fusto più robusto, ha una tradizione millenaria ed era già conosciuta dai Romani che vedendola diffusa nella Gallia Cisalpina, cioè in Valpadana, la denominarono arbustum gallicum , cioè "piantata all'uso gallico". La vite quindi veniva allevata alta, "maritata" sovente al pioppo, all'acero o all'olmo, e si disponeva in lunghi festoni ai lati dei campi coltivati a cereali. Oppure era coltivata su "palo secco" ed allo scopo nell'Ottocento sembra fosse usuale l'uso di pali di castagno. In figura un dipinto di Aldo Borgonzoni, tratto da E. Sereni op. cit. p. 453.


La crisi della viticoltura a causa della fillossera

(5) Cfr. A. De Battista, Cittadini dell'Alta Brianza, Oggiono (Lc), 2000, pp. 38-39.

Nell'Ottocento la vite era ancora un'attività molto redditizia per la Brianza, quando si diffuse la fillossera che distrussero la gran parte dei vigneti: il Comizio Agrario monzese in un bollettino del 1875 annunciò l'imminente arrivo della fillossera in Italia. Il nome di questo insetto deriva dal greco e significa “che secca le foglie”: attacca le foglie e le radici della pianta distruggendo interi vigneti. L'origine sembra essere americana, appartiene alla famiglia degli afidi; giunse in Gran Bretagna e da lì si propagò in tutta Europa: nel 1865 infestò la Francia meridionale, nel 1866 si spostò nella regione del Rodano, nel 1868 comparve a Montpellier, nel 1874 a Ginevra e vi è testimonianza scritta che nel 1879 arrivò anche nelle campagna del monzese e del lecchese 5. Dapprima l'insetto, sotto forma di larva, si diffonde nel terreno dove passa l'inverno, poi attacca le radici della vite per trarne nutrimento; le ferite cominciano a marcire e dopo poco tempo la pianta si ammala, a questo punto l'insetto è in grado di volare e si sposta su nuovi vitigni. Come rimedio si proposero le soluzioni più disparate come di spalmare le viti con calce, cenere e solfato di ammoniaca oppure di innaffiarle con orina o acqua; qualcuno pensò di diffondere nel terreno dei gas come il gas d'ammoniaca o l'idrogeno fosforato; un ultimo tentativo fu quello di allagare i terreni, ma anche questo non servì a nulla. In quel periodo tutto il nord Italia, ma non solo, fu colpito dall'invasione della fillossera, con una conseguente drastica diminuzione della coltivazione della vite che causò ingenti danni ai coltivatori. In Brianza solo una piccola parte dei vigneti devastati dalla fillossera furono pio ricostituiti con viti americane, più resistenti al parassita. Ma mentre in altre regioni la vite europea sopravvisse all’innesto su vite americana, in Brianza si preferì sviluppare la coltivazione del gelso per l’allevamento del baco da seta. Il Novecento e la meccanizzazione agricola L'introduzione della meccanizzazione agricola nella prima metà del Novecento portò una radicale trasformazione nell'agricoltura, modificando regole di produzione che si tramandavano da generazioni. Rapidamente la meccanizzazione alterò le forme del paesaggio rurale e mutò un ordine sociale che era valso per secoli: i terreni che un tempo erano coltivati da intere famiglie potevano essere lavorati da pochi contadini con l'aiuto delle nuove macchine per l'aratura, la semina e la trebbiatura. Il paesaggio agricolo, una volta punteggiato dalle diverse colture, si uniformò sempre più a favore della monocoltura, nel tentativo di rendere la produzione locale più competitiva sul mercato. Iniziava così un lento ma inesorabile processo di sparizione dei gelsi e dei filari lungo campi e stradine, considerati ormai privi di interesse economico e di intralcio all'agevole passaggio dei mezzi meccanici. I tipi di colture maggiormente praticate presto diventarono quelle cerealicole, scomparse ormai del tutto la viticoltura e la gelsibachicoltura.

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1. Tabella tratta da S. Zaninelli, Vita economica e sociale, in AA.VV “Storia di Monza e della Brianza”, volume III, Milano, 1969, Tabella VI, (Fonti: Registri catastali, 1558, in “A.S.C.M, Fondo località foresi”, cc. I, 16,17,44,52).

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In questo disegno è raffigurato uno dei tanti tentativi falliti di salvare i vigneti dalla fillossera nell’autunno del 1879. Il sistema raffigurato è quello dell’allagamento completo del vigneto del marchese Gioachino D’Adda ad Agrate Brianza, mediante l’utilizzo delle acque della vicina roggia del Sabato (un ramo secondario della roggia Ghiringhella), mediante una pompa azionata da una locomobile a vapore.

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La Brianza nel 1888

levata IGM

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I catasti storici provano la grande diffusione della vite in Brianza *

* di Giorgio Federico Brambilla con Elisa Sironi e Valeria Magni (per i paesi di Vimercate, Agrate, Omate, Burago, Caponago e Cavenago) e con Luca Albertini (per Oreno)

L'attività di ricerca a scala territoriale, svolta a partire dai documenti catastali storici custoditi all'Archivio di Stato di Milano, è stata redatta con lo scopo di un'analisi conoscitiva della storia delle colture agricole nei territori della Pieve di Vimercate e in particolare nei paesi di Vimercate, Agrate, Omate, Burago, Caponago e Cavenago. La successiva rielaborazione grafica dei risultati della suddetta ricerca mostra come questi luoghi siano stati in passato caratterizzati da un'ingente quantità di terreni coltivati a vite, nell'arco temporale che va dalla metà del secolo XVIII fino agli ultimi decenni del secolo XIX. Dall'analisi dei registri del Catasto Teresiano della prima metà del Settecento che interessano i comuni appartenenti alla Pieve di Vimercate, emerge che, oltre alle aree destinate alla coltura dei prodotti che ancora oggi fanno parte della produzione agricola locale, tra cui grano e granturco, era assai diffusa anche la coltura dei gelsi per l'allevamento del baco da seta e la coltura della vite, che era largamente praticata e che ad oggi risulta scomparsa nelle zone studiate. Nelle campagne brianzole il gelso, appare censito sia nei registri del Catasto Teresiano in cui si sono tenute in considerazione le catalogazioni del Nuovo Estimo (anni 1750) sia in quelli del successivo Catasto Lombardo Veneto (1866). Il terreno coltivato a gelso in abbinamento ad altre colture prende il nome di “aratorio con moroni”. Questo tipo di coltivazione, detta gelsibachicoltura, a partire dalla sua introduzione a cura di Lodovico il Moro nella seconda metà del Quattrocento, aveva avuto una progressiva diffusione fino a raggiungere le sue punte massime nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento. La viticoltura invece si era stabilita nel territorio in questione in epoca romana, diventando di gran lunga la coltura non cerealicola dominante. Nei registri catastali settecenteschi riguardanti i paesi oggetto della ricerca appare che la maggior parte dei terreni agricoli sono registrati come “aratori vitati” o “aratori vitati con moroni”, da cui si comprende la particolare importanza che tale produzione aveva per questo territorio. Dai Registri del Catasto Lombardo Veneto, realizzato a partire dal 1854, risulta che il “coltivo da vanga vitato”, dove si coltivavano promiscuamente i cereali e la vite, era il tipo di appezzamento più frequente. Tuttavia nella seconda metà dell'Ottocento quando la coltura della vite era ancora un'attività molto redditizia per questo territorio, si diffusero la crittògama (un fungo) e successivamente la filòssera (un insetto), che portò inevitabilmente alla distruzione di gran parte dei vigneti, con una conseguente drastica e irreversibile diminuzione della coltivazione della vite nonostante essa avesse una tradizione millenaria. Il motivo dominante della sospensione pressoché definitiva della coltivazione delle viti distrutte dalla

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L'attività di ricerca a scala territoriale, svolta a partire dai documenti catastali storici custoditi all'Archivio di Stato di Milano, è stata redatta con lo scopo di un'analisi conoscitiva della storia delle colture agricole nei territori della Pieve di Vimercate e in particolare nei paesi di Vimercate, Agrate, Omate, Burago, Caponago e Cavenago. La successiva rielaborazione grafica dei risultati della suddetta ricerca mostra come questi luoghi siano stati in passato caratterizzati da un'ingente quantità di terreni coltivati a vite, nell'arco temporale che va dalla metà del secolo XVIII fino agli ultimi decenni del secolo XIX. Dall'analisi dei registri del Catasto Teresiano della prima metà del Settecento che interessano i comuni appartenenti alla Pieve di Vimercate, emerge che, oltre alle aree destinate alla coltura dei prodotti che ancora oggi fanno parte della produzione agricola locale, tra cui grano e granturco, era assai diffusa anche la coltura dei gelsi per l'allevamento del baco da seta e la coltura della vite, che era largamente praticata e che ad oggi risulta scomparsa nelle zone studiate. Nelle campagne brianzole il gelso, appare censito sia nei Nella tabella sono illustrate le percentuali dei terreni vitati rispetto alla superficie coltivata complessiva. La presenza della vite era nella stragrande maggioranza dei casi promiscua con altre colture di cereali (che richiedevano aratura e vangatura) e spesso abbinato a quello del gelso.

Comune di Agrate: tavola del nuovo estimo (stima ordinata nel 1751, approvata 1755)

nella pagina seguente, Comune di Agrate: tavola del catasto lombardo veneto anno 1866

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Catasto Teresiano 1755 Coltivo da vanga vitato (vitato da Moroni)

Catasto Lombardo Veneto - 1866 Coltivo da vanga vitato

Vimercate

25,3 + 68,9 = 94,2 %

95 %

Agrate

18,5 + 50,6 = 69,1%

77 %

Omate

15,6 + 64,4

72 %

Burago

8,5 + 85,1

58 %

Caponago

10,2 + 61,4

88 %

Cavenago

8,2 + 44,6

89 %


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La rappresentazione del paesaggio agricolo nei catasti storici *

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Maria Teresa d'Asburgo (1717 – 1780) : imperatrice dal 1740, figlia di Carlo VI, svolse una vasta opera di riforma sia politica che sociale ispirandosi ai principi dell'Illuminismo.

* di Giorgio Federico Brambilla

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Per elaborare un'immagine del territorio alle diverse soglie storiche è utile avvalersi dello strumento del catasto. I vantaggi legati a tale approccio sono essenzialmente due: da un lato quello di permettere una visione complessiva del territorio, evidenziandone le proprietà fondiarie, immobiliari, l'estensione e la qualità delle colture, nonché la consistenza dei nuclei insediati; dall'altro garantisce omogeneità del rilevamento per ciascuna soglia storica. Il catasto, il cui uso è oggi consolidato, è uno strumento relativamente giovane; in Lombardia il primo tentativo di catalogazione delle proprietà risale al 1549 sotto il regno di Carlo V che ordinò un censimento delle persone e dei rispettivi possedimenti. Nel 1718 si avviarono i lavori per la compilazione del nuovo censimento e per la redazione delle mappe del Catasto Teresiano, nel 1854 iniziarono i lavori per la redazione del Nuovo Catasto Austriaco, più conosciuto come Catasto Lombardo Veneto, seguito dal cosiddetto Cessato Catasto nel 1886 del 1897-1902 e dall'odierno Nuovo Catasto del 1939. Il censimento dell'intero Stato di Milano, iniziato da Carlo VI del 1718, si protrasse fino al 1757, sotto il governo di Maria 1 Teresa d'Austria , da cui prende il nome. Fu questo un catasto innovativo rispetto al precedente censimento di Carlo V, basato sulle dichiarazioni dei proprietari stessi e non su un rilievo in luogo: venne infatti introdotto l'uso della cartografia, di nuovi strumenti di misura e un nuovo sistema tributario, basato appunto sul “catasto geometrico particellare”. Le operazioni di rilievo avvennero dal 1721 al 1723 e si svolsero dapprima con


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Nei comuni interessati della nostra ricerca i rilievi tecnici vennero redatti tutti nel 1721. Per orientarsi nella ricerca dei documenti catastali sul vimercatese: cfr. G.Liva, Le fonti catastali della Pieve del Vimercatese conservate all'archivio di Stato di Milano, in AA.VV., Mirabilia Vicomercati.Itinerario in un patrimonio d'arte:l'età moderna”, a cura di P.Venturelli e G.A.Vergani, Venezia, 1998, pp.221-236. 3

L'acquarello è un genere di pittura con colori trasparenti diluiti in acqua mescolata a gomma. A differenza dela pittura “a guazzo” già nota fin dall'antichità, la pittura all'acquarello, che sorge nel XVII secolo, distende i colori in velature fluidissime e si giova per il bianco del bianco stesso della carta.

la stesura delle mappe originali di campagna in scala 1:2000, le cosiddette “mappe arrotolate” tuttora conservate presso l'Archivio di Stato di Milano.2 Successivamente i dati venivano trasferiti nelle “mappe in copia” che sono l'esatta copia in fogli componibili delle mappe originali eseguite in campagna; esse riportavano gli immobili, i terreni, il tipo di colture praticate e la loro estensione. Caratteristica particolare di queste mappe catastali settecentesche è la cura con cui venivano riportati i dati rilevati: esse erano infatti finemente acquerellate3 ed a ogni coltura era assegnato un simbolo grafico accurato. Il termine catasto è spesso stato sostituito o confuso con il termine censimento, in quanto il catasto settecentesco era denominato, nella sua fase preliminare, censimento. Attualmente per censimento si intende uno strumento atto a determinare la situazione demografica e non la rilevazione e la stima dei beni: il Catasto Teresiano ha in effetti contribuito a creare l'equivoco essendo corredato anche di informazioni di tipo demografico. Il catasto viene definito particellare perché per la stima dei lotti fu introdotta la particella tipo che corrispondeva all'unità minima di colture artificiali, ordinata secondo classi di bontà e qualità di coltura, in base alla quale si effettuava il paragone con le particelle reali. La motivazione addotta per l'utilizzo di questo metodo fu la necessità di imparzialità, ma la ragione principale era chiaramente l'impossibilità pratica di analizzare la rendita effettiva, appezzamento per appezzamento, di tutte le proprietà. Il catasto settecentesco non fu istituito con lo scopo di aumentare gli introiti delle casse del governo, ma di sbloccare una situazione patrimoniale di tipo feudale e innescare così un meccanismo di progresso e di sviluppo dell'economia. L'intento fu quindi di ridistribuire il peso delle riscossioni fiscali, rendendolo più equo e proporzionale alle possibilità dei proprietari; uno strumento dunque che andava a discapito del clero e della nobiltà, ma anche delle classi più povere, favorendo, invece, la classe dei proprietari e degli affittuari borghesi. La pretesa di imparzialità e l'intenzione di promuovere l'uguaglianza dei ceti sociali davanti alla legge mediante l'applicazione della valutazione catastale non produsse certo risultati rivoluzionari, essa fu comunque un efficace strumento innovativo dell'economia in quanto costituì un mezzo di opposizione a quelle logiche feudali che immobilizzavano le rendite e l'agricoltura. La borghesia aveva già una mentalità di tipo capitalistico, tesa

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Tavoletta pretoriana: tipo di goniografo, cioè di strumento topografico per la misura grafica degli angoli, inventato intorno al 1600 dal norimberghese Giovanni Pretorius, costituito da un'assicella fornita di diottra e traguardi, con cui si fa direttamente il rilievo del terreno. Incisione della metà del Settecento, raffigurante un agrimensore al lavoro per la stesura di una mappa in campagna. Gli Asburgo incaricarono per i rilievi catastali anche agrimensori olandesi, che per loro avevano svolto un analogo lavoro nelle Provincie Unite (i Paesi Bassi), dove tale metodo di censimento era già stato sperimentato. Lo strumento topografico usato dagli agrimensori era la tavoletta pretoriana, un'assicella fornita di diottra e traguardi inventata nel Seicento da Giovanni Pretorius.

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ad un sempre più alto margine di resa della proprietà, quindi ne uscì avvantaggiata, perché le imposte conseguenti al calcolo della rendita media di una proprietà non colpivano le maggiori quote di produzione ricavate da questa con una migliore organizzazione del lavoro; ovviamente venne penalizzata la nobiltà perché l'imposta infieriva sulla rendita di proprietà, in quanto questa produceva solo ricchezza personale e non dava nuovi impulsi allo sviluppo. La prima conseguenza di questa politica fu che le terre della pianura Padana furono protagoniste di un rapido incremento della proprietà borghese e di un'agricoltura di tipo capitalistico. Tra tutte le esperienze italiane, il catasto milanese fu senza dubbio quello più completo ed organico e diede inoltre origine ai metodi di stima più innovativi. Le misurazioni dei lotti venne fatta in trabucchi milanesi, pari a 2,61 m, e pertiche milanesi, pari a 654 mq con il metodo 4 geometrico della tavoletta pretoriana proposto dal matematico Marinoni; i beni da stimare vennero distinti in beni di prima stazione e in beni di seconda stazione, cioè si differenziarono i terreni dai fabbricati e, infine, per la vera e propria stima delle proprietà, si introdussero le classi di bontà, le categorie di coltura e le squadre.


Maria Teresa d'Austria, durante il suo regno, fece portare a termine il censimento delle proprietà immobiliari dell'intero stato di Milano iniziato dal padre Carlo VI nel 1718

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Rendita dominicale: la rendita catastale in una proprietà terriera è ancora oggi suddivisa in rendita dominicale, cioè relativa alla proprietà in sé (dal latino dominus, signore) e rendita agraria, relativa al tipo di coltura praticata sul lotto coltivato.

Il primo organo deputato alla stesura del catasto fu la Giunta presieduta da De Miro; l'operazione prevedeva tre fasi: la “fedele ed esatta” notificazione dei beni; la misura universale delle terre, comprese le proprietà ecclesiastiche; la valutazione. La Giunta incontrò notevoli difficoltà, non solo da parte del clero, ma anche dal patriziato milanese, da chi cioè non intendeva rinunciare ai propri privilegi. Unitamente alle rilevazioni sul luogo si procedeva alla stesura delle mappe in scala 1:2000, alla compilazione dei sommarioni e alla stima della rendita: i lavori proseguirono fino al 1733, anno in cui il programma censuario fu interrotto a causa della guerra e della relativa occupazione franco-sabauda che durò fino al 1736. Nel 1750 si creò una seconda Giunta che ebbe come presidente Neri, il quale aprì i lavori con una relazione riassuntiva dell'operato della Giunta precedente e in cui venivano individuati gli obiettivi raggiunti e quelli ancora da perseguire. La Giunta De Miro, ad esempio, non era riuscita a trovare una soluzione al problema delle esenzioni fiscali, sia laiche che ecclesiastiche; fu questo il punto di partenza della Giunta Neri che ricercò l'entità delle proprietà soggette a esenzione e scoprì che corrispondevano a circa la quarta parte del valore capitale dello Stato. A questo proposito la nuova Giunta incontrò le stesse difficoltà che aveva dovuto affrontare la Giunta De Miro e da questo conflitto di interessi ne uscì in parte sconfitta, con la stipulazione del Concordato del 1757, che esentava i beni ecclesiastici acquistati prima del 1575 per l'intera parte dominicale5, mentre i coloni di tali proprietà avrebbero dovuto pagare imposte per un valore pari ad un terzo rispetto a quelle dei coloni laici (questo Concordato rimase in vigore fino al 1784, quando venne abolito da Giuseppe II). Nel 1753 vennero pubblicate le Tavole d'Estimo che specificavano tutti i dati inerenti alle varie proprietà e ne stabilivano il valore capitale e finalmente nel 1760 il Catasto entrò in vigore. L'imposta fondiaria era dunque basata sul valore proporzionale dei fondi e dei fabbricati, calcolato sulla rendita dominicale netta più le cosiddette tre tasse: imposta personale, imposta mercimoniale, abitazioni forensi ad uso del proprietario. Il valore fisso che assunse in questo modo la rendita spinse i proprietari a far fruttare al massimo i propri terreni, sicuri di non dover versare al governo una tassa maggiore a causa dell'aumento della rendita reale. Le mappe del Catasto teresiano, che ebbero vigore fino alla metà del XIX secolo, venivano aggiornate periodicamente per registrare gli aggiornamenti riguardanti le proprietà e la nuove colture. Nel 1854 furono ufficialmente ordinati, anche se in realtà essi

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iniziarono con alcuni anni di sfasatura a seconda delle singole comunità, i lavori di rilevazione del catasto particellare, detto anche Catasto Lombardo-Veneto, promossi nuovamente dal governo austriaco. Le nuove mappe furono approntate tra il 1855 ed il 1856, ma i lavori di stima si protassero per alcuni anni e soltanto nel 1873 entrò in attivazione il nuovo catasto per la parte alta della provincia di Milano, tra cui il Vimercatese. Le tecniche di rilevazione furono le stesse del precedente catasto, ma si adottò il metro come unità di misura lineare e la pertica metrica come unità di superficie, pari a 1000 mq. Una notevole differenza si può notare anche nella modalità di rappresentazione delle mappe catastali: le qualità descrittive, quasi pittoriche, del teresiano scompaiono a favore di una maggiore semplificazione grafica. Le mappe sono infatti ancora acquerellate, ma sono evidenziati solamente gli edifici, i corsi d'acqua e le strade, mentre le colture sono rappresentate con simboli grafici semplificati. Tra il 1897 e il 1902 furono approntate le nuove mappe del cosiddetto Cessato Catasto, con l'intento di unificare i diversi catasti di cui si erano dotati gli ex Stati Italiani, taluni descrittivi, ossia privi di restituzione grafica, altri geometrici, come quello Lombardo-Veneto, redatti inoltre secondo le unità di misura vigenti in ciascuno Stato. Infine il Nuovo Catasto del 1939, si ha l'introduzione della scala 1:1000, in sostituzione di quella 1:2000, e si arriva a semplificare notevolmente la restituzione grafica delle particelle censite eliminando l'uso dei Tabella della ripartizione colori e degli abbellimenti di contorno che caratterizzavano le amministrativa secondo mappe catastali precedenti. il Catasto Teresiano (1757)

1. 3. 5.

Agrate Arcore con cassina del Bruno Bernareggio

7. Burago 9. Caponago 11. Carugate

8. 10. 12.

13. Cavenago

14.

15. 17. 19. 21. 23. 25.

16. 18. 20. 22. 24. 26.

Lesmo con Peregallo, Zerno e Pegorino Omate Ornago con Rossino Ruginello con Oldaniga Sulbiate Inferiore con Brentana Velate con Brugorella ( e dal 1842 Bernate) 27. Vimercate

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2. 4. 6.

Aicurzio con Castel Negrino Bellusco con Camuzzago Bernate (aggregato a Velate per decreto del 22 gennaio 1842) Camparada Carnate con Passirano Cassina Baraggia con porzione di Brugherio Sant’Ambrogio Concorezzo con Sant’Albino e Taverna della Costa Mezzago Oreno con Velasca Ronco Sulbiate Superiore Usmate con cassina Corrada Villanova


Esempi di frontespizi con i quadri d'unione delle tavole del Catasto Teresiano e del Cessato Catasto

Documenti redati alla metà dell'Ottocento come “atti preparatori” del Catasto Lombardo-Veneto, in cui si evidenzia la suddivisione del suolo in particelle, ciascuna identificata da un numero di mappa. Per ciascun terreno agricolo, viene precisata la qualità della coltura, la classe di bontà del suolo, il numero di gelsi e la superficie.

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Il vino nei Comuni della Brianza Nelle pagine seguenti sono state analizzate le situazioni della viticoltura per ciascun Comune brianteo. Il lavoro è stato eseguito da più mani, per cui è stato sempre riportato l’autore dei testi. Il livello di approfondimento di ciascun capitolo è corrispondente al materiale che si è potuto reperire e ordinare. I Comuni del Seveso sono stati radunati in un solo capitolo. Grazie ad una ricerca universitaria si è potuto integrare talune indagini storiche anche con una ricognizione scientifica delle superfici vitate, come illustrato nelle pagine precedenti.

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Il vino di Agrate e di Omate* Una cosa è certa: nei secoli passati il vino di queste località era abbondante ed apprezzato. Ne abbiamo conferma dalla lettura dalle note che seguono, quasi tutte tratte dai pregevoli scritti delle signore Maria Grazia Sala Zamparini e Maria Teresa Vismara riportati nel volume “Agrate Brianza tra memoria e futuro”. Tratteremo separatamente le notizie relative ad Agrate ed Omate in quanto unite in un unico comune nel 1968 ma separate per tutti i secoli precedenti.

Agrate

* di Vittorio Farchi e Giorgio Federico Brambilla 1

un brenta corrisponde a 75 litri. 2

Una pertica è pari a 645 mq 3

Per parlare di vino, cominciamo citando un personaggio molto importante nella storia di Agrate, vissuto nel primo 700: si tratta del longobardo Rottoperto, che abitava ad Agrate e che possedeva vasti terreni in molte località lombarde. Nel 748 lasciò un lunghissimo testamento che stabiliva le diverse destinazioni dei copiosi lasciti tra i quali molte terre 'avitate', dimostrandosi molto attento alla loro cura “Ogni anno per sistemare le viti prendano i pali dalle mie terre e dai boschi ereditati da mio fratello”. Quanta attenzione perchè le sue vigne venissero ben conservate anche nel futuro! Facciamo un salto di 900 anni e arriviamo al periodo del governo spagnolo in cui i terreni della Lombardia venivano ceduti dal governo centrale a dei feudatari. Il 22 giugno 1690 si svolge a Milano in piazza Mercanti un'asta nella quale Agrate viene venduta a Gio Paolo Arbona. L'infeudamento vale per il titolare, per i figli, solo se maschi legittimi e naturali, e per i discendenti “in infinito”. Nella cerimonia di insediamento il rappresentante del paese, “console” Bernardo Parisi, che abita ad Agrate e fa il contadino, ma anche lo“zavataro” (calzolaio), ha il compito di fornire al feudatario tutte le informazioni sul paese. Dal verbale delle sue dichiarazioni prendiamo qualche brano: “Questa terra, ossia questo commune si forma dalli habitanti in esso, e sua giurisdizione e vi saranno per quello sappiamo centotré o centoquattro capi di casa, compreso il sig. Curato, due cappellani e alcune poche donne vedove”. Veniamo a quello che più ci interessa e che riguarda il vino: “In questo terreno si raccoglierà un anno con l'altro moggia 250 circa di frumento, circa 1000 brente di vino, e di minuto circa 300 moggi e questo non basta per il mantenimento delli homini e persone di questa comunità” 1

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Per 'avitato' si intende un Inoltre “Il nostro territorio sarà circa 12Mila pertiche , cioè pert. campo a grano 2Mila campi, pert.3 500 boschi, pert. 1000 prati tutti adacquatorij et il con filari di viti. rimanente avitato ”

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Fatti i conti, due terzi dei terreni di Agrate erano “avitati” e quindi la produzione del vino era molto abbondante. Nel proseguio della lettura del libro da cui traiamo le notizie, troviamo una nota interessante riferita all'inizio del 1700: “Ad Agrate si coltivavano frumento, segale, legumi, miglio, vite, granoturco, frumento e vino vanno al padrone, il resto rimane al contadino per suo uso”. Può essere curioso farsi un'idea di chi erano i proprietari terrieri dell'epoca: dai dati catastali del 1757 rileviamo che un quarto di Agrate apparteneva al feudatario Arbona (3.128 pertiche); tra i nobili il Marchese Recalcati, il Conte Sangiuliani, il Conte Scotti, il Conte Stampa e il Principe Trivulzio; tra le istituzioni religiose citiamo: Fabbrica di San Giovanni Battista di Monza, Monache di Santa Caterina della Chiesa di Milano, Monache di S. Marta di Monza, Oratorio di Santa Maria e Elisabetta di Agrate, Padri del Carmelo di Milano, Padri Rocchettari dell'Ospedale Maggiore di Milano, Scuole del Santissimo di Agrate, Scuole del Santissimo di Omate.

Agrate, Catasto Teresiano* Tavola del Nuovo Estimo 1755

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Agrate, * Catasto Lombardo Veneto 1866

* Tavola e grafico elaborati da Giorgio Federico Brambilla con Valeria Magni ed Elisa Sironi sulla base delle tavole catastali originali

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Omate

Nella storia di Omate si ritrovano molti episodi interessanti che, ovviamente, qui non trattiamo. Uno però vale la pena ricordare perché è indirettamente protagonista nella nostra storia sul vino. Nel 1475 il Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, ha necessità di denaro e lo chiede a Gio Pietro Homate. Il 6 maggio Gio Pietro versa alla Tesoreria ducale 2.788 lire. In cambio ottiene l'esenzione dalle tasse su tutti i suoi beni presenti e futuri situati nelle pievi di Nerviano e Vimercate “per sé hac filii et discendentibus sui”. Esenzione che si estende a “fittavoli, molinari, massari, braccianti, pigionati redittuari” ed anche su “ imbotaturi di vino e biada”. Nonostante tutti i tentativi di Spagnoli, Francesi e Austriaci, questo privilegio rimane valido per 300 anni. Si può capire come questa esenzione potrà essere d'aiuto allo sviluppo economico di Omate e alle sue produzioni agricole. Ad un certo punto Gio Pietro Homate sposa una Trivulzio, che fa parte di una famiglia di proprietari terrieri di Omate fin dal 1300. La famosa esenzione passa così ai successori della famiglia Trivulzio. Da un documento di fine '500 rileviamo chi erano i proprietari dei terreni di Omate: Barbara Trivulzio 3.233 pertiche Gio Battista Cassano 925 pertiche Bernardo Ceruti 541 pertiche _______________________________________________ TOTALE 4.700 pertiche In tutti i successivi carteggi relativi a contestazioni o liti sui terreni, la voce 'vigne' è quasi sempre presente a conferma di quanto queste culture fossero importanti. Facciamo un salto di 200 anni e dal Catasto Teresiano del 1757 rileviamo che su un totale di 4.797 pertiche i proprietari sono: Principe Trivulzio 3.332 pertiche Monsignor Conte Archinto 1.276 pertiche Il resto suddiviso tra piccoli proprietari.

Proverbio brianzolo: «A chi mescia l'acqua al vin, fagh bev l'acqua giò nel tin»

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Sappiamo che i terreni “avitati” erano in maggioranza ma non abbiamo trovato una esatta suddivisione. Ci può però aiutare il fatto che nella Pieve di Vimercate della quale Omate faceva parte, i terreni “avitati” occupavano una superficie di 80.618 pertiche, pari al 50.1% del totale. Per quanto riguarda la qualità il famoso poeta milanese Carlo Porta ci aiuta glorificando il vino definendolo “quell magnifegh de Omaa…”


Copertina del cabreo del 1886 del principe Gian Giacomo Trivulzio, omonimo dell'ultimo discendente che nel Dopoguerra vendette tutte le proprietà omatesi. Il cabreo Trivulzio è un documento di eccezionale interesse che consente di comprendere la struttura agraria dell'epoca grazie alla puntuale descrizione dei campi coltivati dati in affitto alle singole famiglie contadine.

Tavola riassuntiva del cabreo in cui sono evidenziate tutte le proprietà del principe Trivulzio ad Omate (che rimase comune autonomo fino al 1868, quando fu aggregato ad Agrate Brianza), in cui è particolarmente evidente come buona parte del centro storico e del territorio comunale fosse di proprietà della nobile famiglia.

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La tavola II del cabreo riguarda “Due pezzi di terra denominati Il Roncato Inferiore e La Vigna Don Michele, con caseggiati colonici, rustici e corti annessi”, come illustrato nell'allegato alla tavola stessa, dove la proprietà viene descritta in dettaglio precisando anche nome e cognome dei singoli capo famiglia ( o regiù) cui erano assegnati i campi coltivabili. L'elenco redatto nel 1886 è aggiornato al precedente rinnovo dei contratti d'affitto annuali, quindi al “San Martino 1885”.

L’ Omate dei Trivulzio

Nella storia di Omate si ritrovano molti episodi interessanti che, ovviamente, qui non trattiamo. Uno però vale la pena ricordare perché è indirettamente protagonista nella nostra storia sul vino. Nel 1475 il Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, ha necessità di denaro e lo chiede a Gio Pietro Homate. Il 6 maggio Gio Pietro versa alla Tesoreria ducale 2.788 lire. In cambio ottiene l'esenzione dalle tasse su tutti i suoi beni presenti e futuri situati nelle pievi di Nerviano e Vimercate “per sé hac filii et discendentibus sui”. Esenzione che si estende a “fittavoli, molinari, massari, braccianti, pigionati redittuari” ed anche su “ imbotaturi di vino e biada”. Nonostante tutti i tentativi di Spagnoli, Francesi e Austriaci, questo privilegio rimane valido per 300 anni. Si può capire come questa esenzione potrà essere d'aiuto allo sviluppo economico di Omate e alle sue produzioni agricole. Ad un certo punto Gio Pietro Homate sposa una Trivulzio, che fa parte di una famiglia di proprietari terrieri di Omate fin dal 1300. La famosa esenzione passa così ai successori della famiglia Trivulzio. Da un documento di fine '500 rileviamo chi erano i proprietari dei terreni di Omate: Barbara Trivulzio 3.233 pertiche Gio Battista Cassano 925 pertiche Bernardo Ceruti 541 pertiche _______________________________________________ TOTALE 4.700 pertiche

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In tutti i successivi carteggi relativi a contestazioni o liti sui terreni, la voce 'vigne' è quasi sempre presente a conferma di quanto queste culture fossero importanti. Facciamo un salto di 200 anni e dal Catasto Teresiano del 1757 rileviamo che su un totale di 4.797 pertiche i proprietari sono: Principe Trivulzio 3.332 pertiche Monsignor Conte Archinto 1.276 pertiche Il resto suddiviso tra piccoli proprietari. Sappiamo che i terreni “avitati” erano in maggioranza ma non abbiamo trovato una esatta suddivisione. Ci può però aiutare il fatto che nella Pieve di Vimercate della quale Omate faceva parte, i terreni “avitati” occupavano una superficie di 80.618 pertiche, pari al 50.1% del totale.

Vista aerea del centro storico di Omate e dei suoi dintorni in una foto del 1936. Come si vede le vigne illustrate cinquant'anni prima nel cabreo Trivulzio del 1886 sono scomparse a seguito della fillossera e sono state sostituite da aratori moronati.

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Omate, Catasto Teresiano * Tavola del Nuovo Estimo 1755

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Omate, * Catasto Lombardo Veneto 1866

* Tavola e grafico elaborati da Giorgio Federico Brambilla con Valeria Magni ed Elisa Sironi sulla base delle tavole catastali originali

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Il vino ad Aicurzio*

* di Romano Baraggia

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

La presenza sul territorio di uve da vino per il consumo locale sono di lunga data e se ne trova traccia nei documenti custoditi presso l'archivio della nobile famiglia dei Conti Parravicini (acquisito dal Comune nell'anno 1976) che descrivono le coltivazioni praticate nei singoli appezzamenti sparsi sul territorio e in altri comuni. Altre fonti che confermano tale presenza sono i lasciti beneficiari, le notizie tramandate oralmente e infine la presenza di cantine di antica data nelle case padronali e nelle cascine. Tradizionalmente i vigneti più importanti erano all'interno di varie tenute: in zona cascina dè Restelli (dove esiste una cantina che risale al XIII secolo ed un'altra, più grande, del XVII secolo) si trova la vigna delle Santogne pervenuta come lascito beneficiario di Sant'Antonio Abate, la vigna di Castel Negrino che comprende la zona dei Ronchetti di fronte a Castel Negrino, la Gera e la Gera Granda, nonchè le Vignole della Commenda. Queste proprietà sono col tempo passate in mano a dei privati che hanno mantenuto a lungo l'impostazione di tali vigneti creando così una produzione di limitata quantità destinata prevalentemente al consumo locale. Ci furono poi altre piccole vigne legate alle famiglie Moroni, Malacrida e Aceti probabilmente localizzate verso Sulbiate inferiore e cascina Cà, territori vicini al convento di Sant'Ambrogio e alla cascina San Nazzaro di Bellusco. L'organizzazione agricola locale che prevedeva la coltivazione di tanti piccoli appezzamenti non favorì la produzione su grande scala, ma solo di piccoli quantitativi ad uso personale di cui l'eventuale eccedenza veniva venduta. Dopo l'arrivo della filossera alla fine dell'Ottocento vennero estirpati i vigneti antichi e la coltivazione della vite venne relegata a una pergola fuori di casa a ridosso delle porzioni di porticato assegnate alle singole famiglie. Invece negli appezzamenti di terreno sparsi nelle campagne la coltivazione della vite sopravvisse a ridosso dei cascinotti, sul lato sud soleggiato e protetto dai venti del nord. “Il Comune di Aicurzio – già dell'ex Circondario di Monza, Mandamento di Vimercate – è situato in quella parte della Brianza che dalle alture dell'Orobia (Prealpi orobiche) degrada alla grande pianura lombarda. Esso si trova precisamente, nella pianura dalla configurazione montana, parte su altipiano e parte sul declivio a valle, fra la Molgora e l'Adda, in territorio fertile di gelsi, frumento e granoturco. Vi si esercita la bachicoltura e la viticoltura.”

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Proverbio brianzolo: «Vendembia temporida de spess la và fallida»

Nei pressi dei cascinotti, costruiti spesso con mattoni di terra e tetto di paglia, erano normalmente presenti anche altre piante di frutta come il fico e il ciliegio o, più di rado, il pero, il pesco e il melo nonchè, un piccolo appezzamento destinato alla coltura degli ortaggi, sempre destinati al consumo famigliare. Nelle pergole delle case a corte e nei pressi dei cascinotti venivano coltivate prevalentemente queste tre varietà d'uva : il clinto (uga grinta) che aveva un grappolo di circa 15 cm, con acini piccoli e spessi, l'uva fragola o americana, classica da tavola giunta tardi nel nostro territorio, l'uva bianca non ben definita nella varietà, con un bel grappolo lungo 20/25 centimetri, con acini piccoli di color verde trasparente. Non sappiamo se fosse un pinot o altro, qui comunque veniva chiamato moscato, malvasia, Sant'Anna. Poichè il terreno era argilloso nell'impiantare la vite a ridosso della casa spesso era necessario creare un fondo di sassi per consentire il drenaggio dell'acqua piovana. Si sceglieva poi se coltivare a spalliera o a pergola. Per l'impianto della vite in aperta campagna si procedeva invece in due modi a seconda delle qualità del terreno : se questo era ghiaioso (gere) era sufficiente effettuare delle arature creando dei solchi in cui s'impiantava la pianta; se invece il terreno era argilloso con un cattivo drenaggio, veniva fatto un solco profondo in cui si

Anni ‘60 in Brianza, la rinascita. Fotografia di Mario De Biasi tratta da un volume sulla Brianza edito nel 1966 dall’Automobile Club d’Italia

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Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

poneva del letame, poi delle fascine di legna e sopra di esse della terra mista ghiaia e infine s'impiantava la vite.La vinificazione avveniva verso la fine di agosto e a settembre. A volte si lasciava passire l'uva sulla pianta. La raccolta era eseguita con una mondatura eliminando le parti guaste, l'uva raccolta veniva ulteriormente lasciata passire su dei graticci. I vini prodotti erano chiamati Cruel o Crodello, e il Pincianel, un vino leggero di breve durata, che oggi si potrebbe definire un novello. In merito alla qualità e al gusto di questi vini si hanno pareri molto discordanti, in quanto la mancanza di una procedura stabile di lavorazione non consentiva il controllo delle varie fasi di lavorazione. Ad Aicurzio si sta cercando di censire le ultime piante di clinto e di uva bianca ancora presenti sul territorio, nonchè le cantine antiche ancora esistenti, fra le quail ne sono state identificate almeno diverse che risalgono a prima del XVIII secolo, come quelle presenti nelle propietà dè Restelli, Pasqualini, Moroni, Parravicini, Malacrida di Castel Negrino e della Scuola di Santa Maria dei Poveri.

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Il vino ad Albiate * “Albiate si trova sulla destra del Lambro nell'ex circondario di Monza. Il territorio produce granaglia, bozzoli e foraggi”. Così lo presenta la pubblicazione “Storia dei Comuni della Provincia di Milano” del 1934. Nessun riferimento alla coltivazione dell'uva e questo ci dispiace. “Albiate (anticamente Albiatum) “, dal nome romano ALBIUS o dal termine latino ALVEOLUS, 'alveo o conca', con chiaro riferimento al vicino fiume Lambro, “fin dall'anno 1000 si trovava nella Marca Longobarda, nella Contrada di Milano, nella Pieve di Agliate, nel sottovassallaggio “citra lambrum”, di qua dal Lambro e costituiva un Feudo con un piccolo feudatario”. Così ci dice il volume “Albiate “ del parroco Don Felice Milanese, edito nel 1962. Il fatto che Albiate facesse parte della Pieve di Agliate ci consola perché nel 1558 l'aratorio vitato di questa Pieve si estendeva su una superficie di 29.922 pertiche pari al 22,2% dei terreni coltivati. Quindi anche ad Albiate la vigna era diffusa in una percentuale simile.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano Dalla consultazione di ben quattro pubblicazioni che parlano di questo paese, non abbiamo trovato notizie specifiche riguardo l'agricoltura. Sulla vite è interessante riportare i dati dell'elenco dei beni della Chiesa di S. Giovanni Evangelista stilato alla fine del 1500 che recita:

* di Vittorio Farchi

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Dal testo è interessante evidenziare la presenza di: · Un terreno avidette, presumibilmente con viti; · Un ronchero, terreno terrazzato con le viti ai bordi e le granaglie al centro; · Una peza de vigna. A titolo di cronaca possiamo citare che la popolazione di Albiate era costituita nel 1578 da 55 fuochi (unità familiari) con 350 “anime” e nel 1776 di 116 fuochi con circa 700 persone.

Tra le costruzioni storiche troviamo interessante citare l'antico ponte di Albiate, ricordato perché nel 1324 fu teatro di una cruenta battaglia tra i Visconti e i Torriani, della quale troverete menzione nell'articolo dedicato a Triuggio.

Proverbio brianzolo: Per fà fiurè l'ustaria ghe vöeur la dona bela ul vin bon, e l'omm un pò cujon

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La coltivazione della vite nella zona Arcorese della Brianza *

“La vite si coltiva nel mezzo dei fondi aratorj, occupandone la ventesima parte, giacché anche i ronchi o i vigneti, ove la vite è la principale coltivazione, sono pure essi coltivati a grano nella rimanente parte”. Questo è scritto nel punto 16 dell'inchiesta, eseguita tra il 1835 e il 1839 dal boemo Karl Czoenrnig, a lui commissionata dal Governo Lombardo-Veneto. La citazione era compresa tra le risposte a 52 quesiti riguardanti la situazione dell'agricoltura di tutto il territorio dominato dall'Impero Austriaco. La risposa summenzionata è relativa al Distretto di Vimercate, con particolare riferimento al Comune di Arcore.

* di Fulvio Ferrario dell'Associazione degli amici della storia della Brianza

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Ma la coltivazione della vite nella zona ha richiami più remoti. Lo storico Strambone (primo secolo dopo Cristo) scrisse: “Di avere visto i Galli cisalpini bere con eccezionale piacere vino da botti grosse come case”. I longobardi, al loro arrivo (settimo secolo dopo Cristo) imposero la soppressione della coltivazione della vite per sostituirla con la “cervogia”, materia prima per la produzione della birra. La regina Teodolinda, pare su suggerimento di Gregorio Magno, forse preoccupato di non trovare vino per la Messa, fece ripristinare i vigneti e la ripresa della produzione del vino. Sembra anche che le sue nozze con Agilulfo siano state incoraggiate da questa bevanda. Ma questa è una supposizione piuttosto ironica. Il vino è stato per molto tempo una ricchezza per la Brianza e i contadini si sfogavano a berlo in piccola parte appena spremuto dai tini prima di consegnarlo alle cantine del padrone dei terreni. Questi inserivano nei contratti di locazione fra i cosi detti “Appendizi”, (che consistevano in corresponsioni gratuite dovute dal colono ai proprietari dei terreni) anche un certo quantitativo di uva. Questo sino alla fine dell'Ottocento, successivamente tale onere venne estinto. Rimasero però altri gravami a carico dei coloni in sostituzione di tale obbligo. In particolare dovevano sottostare a maggiori prestazioni di manodopera gratuita. In Arcore la vite era coltivata su tutto il territorio, ma prevalentemente sulle terrazze a nord-est del paese. Il vino, estratto prevalentemente da uve nere, era chiamato, “Picianeel o Pigianeel”: termine dialettale di “Pigiato”. Infatti l'uva veniva messa in tini e qui si entrava, a piedi nudi, per schiacciarla. Venivano incaricati prevalentemente i ragazzini; i quali sguazzano in quei recipienti di legno avvicendandosi con estrema allegria, ciò avveniva fino alla metà del secolo scorso. Chi scrive queste note ha potuto vivere questa esperienza e assicura che la piacevole sensazione che si prova nel vedere emergere il mosto dai grappoli schiacciati è indescrivibile.


Grandi elogi venivano espressi da diversi scrittori ai vini brianzoli: da tale Ortensio Lando nel 1548 a Basilio Bertucci con il suo “Bacco in Brianza” nel 1711. Celebri sono poi le lodi che il poeta dialettale milanese Carlo Porta fa del vino con i due ditirambi scatenati. “Brindes de Meneghin a l'0staria”: il primo nel 1810 in occasione del matrimonio di Napoleone con Teresa d'Austria, ed il secondo nel 1815 per l'entrata in Milano di Francesco I. In particolare cita le località dove si producevano i più celebri vini della Brianza: La Santa, Gernetto di Lesmo, Oreno e Arcore. Infine la positiva descrizione del vino, della medesima zona, scritta dal medico e poeta milanese Giovanni Raiberti nel 1851 con la sua opera: “L'arte del convitare spiegata al popolo”. Purtroppo questa pubblicazione con la quale elogiava le qualità curative del vino brianzolo fu una delle ultime note positive sulla bevanda e sulla coltivazione della vite. Infatti nel 1879 il flagello della fillossera, che ha colpito pressoché tutta la Brianza, ha provocato la fine della allora fiorente viticoltura e costrinse i coltivatori a prendere due soluzioni: la prima fu quella di cambiare l'utilizzo dei terreni privilegiando la semina dei cereali; la seconda di intensificare la coltura del gelso onde incrementare la produzione del baco da seta, essendo questa abbastanza remunerativa, anche se le piante dei gelsi ostacolavano in parte la coltivazione cerealicola. Superata la crisi provocata dalla fillossera, i contadini ripresero la coltivazione della vite con un diverso tipo barbatelle che davano però minore quantità di uva e, soprattutto, inferiore qualità di vini. Non vennero ripiantati i vecchi vigneti ma vennero occupati gli spazi filari tra un gelso e l'altro. Anche nei cortili od in ogni spazio possibile, anche piccolo o vicino ai muri o pilastri, veniva utilizzato per piantare alberelli di vite. Ma quest'uva veniva prevalentemente mangiata come frutta e solo in parte destinata a vino. Se la prima, chiamata “Americana”, dai grappoli copiosi e dai chicchi grossi, era saporitissima e dolce; la seconda, detta “Clinta”, era aspra e dava un vino piuttosto brusco. Con la progressiva urbanizzazione dei terreni la vite è pressoché scomparsa. solo qualche appassionato coltiva tuttora qualche pianta nel proprio giardino di casa.

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Il Castello di Bellusco negli anni ‘60 in una foto di Mario De Biasi (opera citata)

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Il vino a Bellusco *

Bellusco è un paese di antica origine del quale esistono documentazioni risalenti già al secolo X. Faceva parte della Pieve di Vimercate che, secondo gli studi fatti, disponeva nel suo territorio nel 1500 di una presenza di 'aratori vitati' pari al 50% delle zone coltivate. Per meglio documentare la presenza delle viti, ci viene in aiuto il bel volume di Angelo Arlati sulla storia del Comune di Brellusco edito dall'Amministrazione del Comune stesso nel 1985. Per quanto riguarda il periodo del Governo Spagnolo riportiamo dal libro citato il seguente brano: «Una delle colture predominanti nella nostra zona era la vite, di cui ve n'erano di diversi tipi: viti 'a foppa', cioè a fossatelle; viti 'a ghirlanda', cioè due viti piantate a poca distanza fra loro e sostenute da pali a formare una specie di ghirlanda; e viti 'a pelgora' o a pergolato. Nel 1612 dalla possessione detta il Tarasso di 340 pertiche "tutta in un pezzo e avidata" si ricavavano 50 brente di vino (hl45~30) all'anno; dalla possessione della Bellana di circa 240 pertiche si ricavavano solo 20 brente (hl l 5, 10).» Riguardo il periodo Austriaco fa testo il seguente brano che conferma la notevole estensione delle zone in cui era presente l'uva: ECONOMIA E POPOLAZIONE

* di Vittorio Farchi

Nel XVIII sec. i grandi mali, come la fame e la peste, che avevano afflitto i secoli precedenti si possono considerare ormai debellati. Tuttavia alcuni fattori, come le guerre e le occupazioni militari che caratterizzarono la prima metà del secolo, rendevano ancora insicura l'esistenza, creando un clima di instabilità che si ripercuoteva negativamente sull'attività agricola e commerciale. A rendere difficili le condizioni di vita contribuirono le avverse condizioni atmosferiche e le calamità naturali. Nell'aprile del 1702 il gelo e la brina seccarono la campagna, danneggiando "le gemme de' moroni giù spuntate per pascere li bigatti". Nel 1714 vi fu una siccità così ostinata che non si aveva l'acqua per abbeverare il bestiame. Nel 1721, proveniente da Marsiglia, si diffuse in tutta la Brianza la peste bovina che provocò danni incalcolabili all'economia agricola (14). La popolazione era tutta dedita all'agricoltura, e non era raro il caso di artigiani che lavoravano la terra. Nel «Ruolo Mercimoniale» del 1769 compaiono il fabbro Brambilla Bernardo che «'lavora, per vivere, pert. 30 di terra», il calzolaio Carlo Fumagalli con 50 pertiche e il sarto Carlo Carozzi con 25

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pertiche. Solo l’oste e postaro Erasmo Tresoldi e il falegname Giuseppe Crippa vivevano del loro esclusivo lavoro. l contadini erano vincolati dal contratto misto che consisteva nel canone d'affitto in grano e ne1la mezzadria dell'arboreo (vite e gelso). Nel 1795 Ambrogio Dozio, massaro del parroco, per 73 pertiche di terra versava un canone di 9 moggia e l staio di grano; Giovanni Magni per 24 pertiche versava 3 moggia e 3 staia di grano. Dalla mappa del 1721 si ricava che il territorio coltivabile era costituito da aratorio avitato (pert. 4166), aratorio (pert. 1224), prato avitato (pert. 32), prato (pert. 1 5), vigna (pert. 12) e brolo (pert. 2). Tra le colture predominavano, quindi, i cereali e la vite. Ancora limitata la diffusione dei gelsi, ma in continuo aumento: nel 1725 i "moroni in essere" erano 520, nel 1730 erano 654. Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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La vite e il vino nel Comune di Bernareggio* “Questo Comune dell'ex Circondario di Monza, Mandamento di Vimercate, posto sulla strada provinciale d'Imbersago a breve distanza dalla strada Nazionale per Lecco, pare abbia desunto il proprio nome dalla ricca famiglia dei Bernareggi, che vi abitò per lungo ordine di anni, dando all'esercito e alla patria guerrieri valenti e insigni giureconsulti. Sono ricordati tra questi ultimi Corrado e Lorenzo, i quali per incarico dell'arcivescovo Visconti ebbero a redigere gli ordinamenti statutari di Milano, pubblicati nel 1351. Il territorio è coltivato a cereali e gelsi, con produzione di bozzoli.”

* di Pio Rossi (Tratto da “La storia di Bernareggio” di Giovanni Balconi, Ed. Amministrazione Comunale di Bernareggio, 1980)

Secondo i dati del 21 settembre 1530 i terreni erano destinati a campo, a vigneti e a bosco. Una nota del curato Lodovico Clerici del 1574 ci permette di ricostruire la situazione economica. “La terra di Bernareggio, scrive, è habitata si può dir tutta da Massari e Pigionanti poveri et per la maggior parte miserabili et gli gentiluomini padroni del territorio vivono tutti nella città. La mala qualità dei tempi nelli anni passati ha ridotto questa terra ad estrema miseria”. Su una popolazione di 310 abitanti, 27 erano massari, 42 miserabili pigionanti, 2 ferrari-marescalchi, 1 sarto, 2 postari di sale, olio, lardo, piatti di terracotta, sapone e riso, 1 ciabattino, 1 oste, 1 tessitore di seta, 1 legnamaro, 1 fornaro, alcuni cavalanti e 12 contadini proprietari. Il vino non correva molto, funzionandovi soltanto un'osteria (un “bettolino”). Un quadro più preciso risulta dai catasti della seconda metà del secolo XVI e dell'inizio del XVII. Il 57,75% (del terreno) veniva adibito alla coltivazione dell'uva, il 12,46% dei cereali, il 18,91% a coltura mista, il 6,23% a boscaglia, il 4,63% a prato e a brughiera. Attorno alla casa colonica ogni massaro poi disponeva di un orticello. Il terreno rendeva naturalmente secondo la diversa qualità. Normalmente si raccoglievano tre staia di frumento e una minima di vino a pertica.

Mappe tratte dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano 41


Il vino di Besana in Brianza * La città di Besana in Branza è di recente costituzione in quanto nata nel 1869 dalla fusione di sette paesi fino ad allora indipendenti: Besana, Valle Guidino, Cazzano, Montesiro, Calò, Villa Raverio e Vergo. Per le nostre ricerche sul vino dobbiamo tener presente che a fine '800 anche a Besana la viticoltura era praticamente cessata e quindi dobbiamo cercare notizie sui singoli paesi protagonisti della fusione. Ci aiuta il volume “Besana in Brianza 1869/1989” edito nel 1990 dall'Amministrazione Comunale. Riportiamo qualche notizia per ogni località affiancando ai nomi il numero di abitanti presenti al momento dell'unificazione. Besana (nel 1869, 1.291 abitanti) Le prime notizie storiche risalgono al nono secolo. In un documento del 17 maggio 880 viene infatti ricordato un Ariberto da Besana che prese possesso del paese costruendovi anche un proprio castello. Nel 1400 Besana risultava divisa tra Inferiore e Superiore. Nel 1537 Besana Inferiore contava 21 “fuochi” con 94 “bocche” mentre la Superiore contava 17 “fuochi” e 99 “bocche”. Alle fine del '500 quando le due frazioni furono riunite il paese contava 940 abitanti. Naturalmente gran parte della popolazione era dedita all'agricoltura e in particolare alla bachicoltura. Le viti non mancavano soprattutto nelle zone collinari. Valle Guidino (nel 1869, 473 abitanti) Nel 1530 Valle contava 13 “fuochi” e il suo territorio era suddiviso in Antiche costruzioni che 330 pertiche di terreno lavorato, 210 a vigne, 61 a prato e 200 di fecero parte del castello collina; ad esse si aggiungevano le 150 pertiche del bosco di Guidino. dei “da Besana” Montesiro (nel 1869, 947 abitanti) Le origini della comunità di Monte, divenuto Montesiro solo nel 1862, risalgono ai primi del 1000. Nel 1500 la famiglia Casati possedeva vaste zone di Montesiro che in quell'epoca contava 105 abitanti per 36 famiglie dedite prevalentemente al lavoro nei campi. Nel 1759 gli * di Vittorio Farchi abitanti erano diventati 851.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano 42


Provebio brianzolo: «Quond vun l'è ciòcch, tucc ghe don de bev.»

Cazzano (nel 1869, 617 abitanti) Secondo uno storico, nel 1142 Cazzano era chiamato “Cassanello” e la sua origine potrebbe essere di epoca romana. Cazzano era un paese eminentemente agricolo e contava parecchie cascine sparse su un territorio molto vasto. Nel 1537, su 13 famiglie cazzanesi ben 11 erano dedite all'agricoltura. Nel 1530 la comunità lavorava circa 1.500 pertiche di terreno e 2.226 nel 1700. Villa Raverio (nel 1869, 618 abitanti) La comunità di VillaRaverio ebbe le sue origini nel Medio Evo e il suo nome deriverebbe da “vicus” che significa piccolo centro, mentre Raverio deriverebbe dalla parola “ravè”, piantagione di rape. Nel 1530 il paese contava 17 “fuochi” per un totale di 123 “bocche”. Era diffuso l'allevamento bovino e si coltivava la terra a cereali e a vigneto. Nel 1770 la popolazione si era attestata sulle 400 persone. Calò (nel 1869, 529 abitanti) La comunità si formò anch'essa subito dopo il 1000. Il suo territorio era molto vasto e a tratti impervio cosicché i nuclei abitati erano sparsi e poco collegati tra loro. Nel 1537 gli abitanti erano solo 42, distribuiti su 10 famiglie e quasi tutti dediti al lavoro nei campi. Vergo Zoccorino (nel 1869, 614 abitanti) Dopo il 1000, quando si formarono le comunità, i centri abitati erano divisi in tre nuclei: Santa Caterina, nucleo formatosi intorno alla chiesa omonima; Vergo, il centro più importante, il cui nome si pensa derivi dalla divinità celtica “Vergana” oppure dal latino “Virgu”; Zoccorino, localmente chiamato anche Zuccorino dal diminutivo di “zocco” che significa poggio. La maggiore attività del paese fu l'agricoltura. Nel 1568 si contavano 28 famiglie con 277 abitanti. Nonostante le ricerche, non abbiamo trovato indicazioni precise sulla quantità dei terreni coltivati a vigna. E' però evidente che gli abitanti erano in massima parte dediti all'agricoltura e che i terreni collinari si prestavano alla viticoltura. E' fondamentale però ricordare che le località facevano parte della Pieve di Agliate, nella quale, secondo il censimento del 1550 gli “aratori vitati” coprivano una superficie di 20.922 pertiche pari al 22,2% del totale dei terreni coltivati.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano 43


Il vino a Biassono * Per certificare la presenza e l'importanza del vino a Biassono, traiamo notizie e testimonianze dal volume “Storia di Biassono” di Pietro Viganò. Biassono, come tutti i paesi vicini, faceva parte della Pieve di Desio e quindi di un territorio dove la vite era molto diffusa. Nel 1558, secondo la rilevazione catastale dell'epoca, la presenza degli “aratori vitati” nella Pieve era pari al 30,8% dei terreni coltivati, e quindi anche a Biassono la percentuale era simile. Spigolando nel volume citato, troviamo notizie che parlano del vino e dei terreni in cui erano coltivate le vigne. Ad esempio, in un rogito del 18 ottobre 1512 si parla di un “ronco”, terreno terrazzato con ai bordi le viti e all'interno i cereali. “Investitura livellata fatta da Francesco Oggiono in Giovanni Piazza, Donna Biassonese nel di un pezzo di terra di pertiche 12 detta il ronco della Folla, posta nel suo antico costume luogo di Biassono per l'anno corrente di lire 5”.

* di Vittorio Farchi

Nel periodo del Governo Spagnolo, erano di moda le “grida”e ne trascriviamo due che, con intendimento protezionistico, regolano il commercio del vino: 8 ottobre 1604: “gli osti non comprino che 15 miglia lungi da Milano” (primo esempio del messaggio ecologico 'chilometro zero'!); 19 luglio 1610: “… né si porti vino fuori di Stato senza consenso del Governatore”. A titolo di cronaca ricordiamo che nel 1675, a Biassono, erano presenti 98 “fuochi” per un totale di 588 abitanti. Per parlare più dettagliatamente della presenza delle viti, facciamo presente che il territorio di Biassono era molto più esteso di quello attuale in quanto comprendeva una grande zona ora inserita nel Parco di Monza. Nella mappa del Catasto Teresiano del 1722 qui riprodotta, è segnato in rosso il confine a sud con Vedano e in nero la cinta muraria del parco di Monza. I colori indicano il tipo di coltivazione: in giallo gli “aratori semplici” a cereali, in bruno gli “aratori vitati” con viti e gelsi. Ulteriori dettagli ci vengono forniti dalla seconda pianta che indica i vigneti con i loto toponimi, tratta dal volume “Vite e vino in Brianza, dai Celti al DOC” edito dal Museo Civico Carlo Verri.

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Lo spoglio di centinaia di documenti ha portato la scoperta di molti terreni coltivati a vite, a testimonianza della grande diffusione di questa coltura in Biassono. La maggior parte di queste vigne sono contraddistinte da un micro toponimo. Toponimi di vigne in Biassono tra il XVI e il XVIII secolo 1 La Misericordia (ai confini con Lissone e Vedano, non in mappa) 2 Il San Cassiano 3 Il Guasto 4 Il Guastone 5 Il Vignolo 6 Alla Cassina del Guido 7 La Vignola 8 Al Ronchetto 9 Monte Albano 10 Volpe 11 Mirasole 12 La Ferrera 13 La Sorpiana 14 La Solpiana 15 La Piana del Ferè 16 Al Gaserbato 17 Vignolo nelli Gaserbati 18 La Picheta 19 La Ghiaja 20 Il Vivero in fine delle 21 L'Andreotta - Alla strada Farina al piano della Ciavattera 22 La Sciavatera 23 Il Vignolo allo spiazzo delle Sciavatere 24 Il Gerone, al ponte di

30 Il Geronzello

45 Il Grignolo

31 Il Cantone

46 Il Ronchetto

32 La Folianova

47 Vigna Croce

33 La Giera

48 La Vigna del Sala

34 Il Ronchetto

49 Vigna del Ciovetto

35 Il Ronchetto

50 La Vigna vecchia del

Peragallo, campo

36 La Vigna del Grigo

dell'Appiano, campo al

37 Il Ronchetto

Molino del medico

38 Il chioso di Sant'Andrea

52 Il Gieronzello

(da cabreo) 39 Le vigne (da cabreo)

53 La Marianna 54 La vigna della Marianna

40 La Medeghetta

55 La Giana

25 La fugina 26 Al Lambro, già bosco del Pirogallo

Vergani 51 Il Gerrone

27 Vignolo il Filo

41 Il Poncione

56 La Giara

28 La Zoppina al Lambro

42 Il Prato

57 La Sgrafignana

29 Le Vignazze già Vignola

43 Il trenta pertiche 44 La Vignazza

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Proverbio brianzolo: “D'una sét trascurada se poeu murì rabiaa”

A questo proposito va ricordata la figura dell'illustre agronomo Carlo Verri (1743-1823) che con i suoi studi concluse che viti e gelsi, tradizionalmente ritenuti inadatti ai terreni di Biassono, quando opportunamente curati attecchivano benissimo e fornivano prodotti di alta qualità. La bontà del vino di Biassono fu anche riconosciuta nel 1815 da Carlo Porta che dice: “Quij cordial De Canonega e Oren. Quij mostos Nett e s'cett e salaa De Suigh, de Biasson, de Casaa” Quanto fin qui esposto trova completamento nelle interessanti note curate dal sig. Leopoldo Pozzi, membro del direttivo del Museo Civico “Carlo Verri” di Biassono. La più antica vigna di Biassono Tra le più antiche vigne brianzole sono quelle in Biassono citate in un testamento dell'arcivescovo di Milano Ansperto da Biassono, redatto nell'879. In esso l'arcivescovo dispone di molti fondi, situati in luoghi diversi, in favore di Ariprando diacono e di altri suoi nipoti. “Ego Anspertus archiepiscopus sancte mediolanensis ecclesia et filius bone memorie Albucii de Blassono qui vixit lege langobardorum presente presentibus dixi. …….. Et abeat ipse Ariprandus diaconus post meum obitum …… petia una de vites in eodem fundo de Blassono locus ubi nominatur Cenacello da parte mane juxta vinea ipsius Ariprandi diaconi tantum per mensura juxta juge legittima una Relicum quod ex ipsa vinea remanserit in jam dictum senedochium meum persistat sicut et illis rebus meis . inibi a me concessis….”

Dipinto settecentesco raffigurante l'arcivescovo Ansperto da Biassono, con iscrizione “878 Anspertvs sive Arbutio de Confaloner. Archiepis.Mediol.”, Oratorio della Rovella in Agliate di Carate Brianza, costruito da Luigia Verri, figlia del conte Pietro, vedova di Giuseppe Confalonieri discendente dalla famiglia di Ansperto da Biassono.

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“Io Ansperto, arcivescovo della santa chiesa milanese, figlio di Albuzio da Biassono di buona memoria che visse sotto la legge longobarda, alla presenza dei testimoni dissi: ….. e alla mia morte andrà allo stesso diacono Ariprando … un appezzamento con viti nello stesso fondo di Biassono nel luogo che si chiama Cenacello vicino alla vigna dello stesso diacono … etc.” La vigna di Cenacello è dunque il nome più antico finora conosciuto di una vigna biassonese. Che tipo di vino avrà bevuto Ansperto? Il Rosso di Cenacello? Quale possibile etimologia si nasconde in questo nome che ci viene dal passato? Simpaticamente si potrebbe accostare a cena e cenaculum: un vino perfetto per la cena del padrone o per i riti del culto cristiano.


La cura della vigna nella Brianza del XVII secolo Negli archivi sia pubblici che privati sono conservati moltissimi contratti di affitto per poderi agricoli. Sono documenti stilati con precisione che elencano con pignoleria sia la natura dei beni che le cure che dovevano essere garantite per la loro conservazione. Quasi sempre in questi contratti vengono descritte le vigne a dimostrazione che la loro diffusione era capillare. La vite era presente nella vigna, cioè in un appezzamento piccolo o grande interamente occupato dai filari, ma anche in campi con la presenza di filari isolati che erano semplicemente descritti come terreni “avitatiâ€?. A titolo di esempio è interessante il contratto qui riportato:

Un vigneto a Biassono 20 marzo 1665 Istromento d'investitura de Beni nel Comune di Biassono Pieve di Desio ducato di Milano fatta dal Venerand.o Monistero di S. Martino di Monza in Carlo, e Giuseppe fratelli Erba rogato da Ottavio Agugiaro notaro di Milano. (ASMi, Religione, 2665) Omissis - Che detti condutori siano obligati ogni anno della presente investitura dare a M.R.R. Locatrici, e loro Monastiero una Brenta e mezza di vino del suo proprio al racolto del vino, ‌ - Che detti condutori siano obligati del suo proprio mantenere tutti li pali tiradori che farano bisogno per tenere le viti, che sono, et sarano sopra detta possione havendo havuto riguardo dette parti, che cio' si fa in riguardo che li boschi si lascino a detti condutori da godere senza alcun fitto, quale vitti detti condutori siano obligati reconsignarle a d. R.R. M. Locatrici impalate et intagiate. - Che detti condutori siano obligati tutto del suo proprio ingrassare tutte le vitti che sono, et sarano s.a detti beni una volta ogni duoi anni, - Che d.i condut.i siano obligati tenir ben refilato tutti li filli delle viti che si trovano s.a d.a possione e mancandone per l'avenire sempre siano tenuti repiantarle, e mantener li filli delle vitti ben refilati come sopra sotto la reff.e del danno. - Che d.i condut.i no possino seminare alcuna biada grossa sotto li fili delle viti, che sono et sarano s.a detta possione, ma solo cose da zappa sotto reff.e del danno.

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Il “Crodello” - vino principe in Brianza Scorrendo documenti antichi e i tanti scritti di carattere etnografico pubblicati in Brianza, dal Vimercatese al Monte di Brianza, notiamo che ricorre la denominazione di “Crodello” per indicare il primo vino, il migliore, quello che veniva spillato dal tino dopo la prima fermentazione. Nel tino, dopo la pigiatura, il mosto entrava in fermentazione tumultuosa, con le vinacce che andavano follate cioè sommerse continuamente. Alla fine sul fondo si addensavano le impurità, le fecce, mentre alla superficie si addensavano le vinacce, la parte centrale era costituita dal mosto migliore che veniva spillato attraverso un foro posto lateralmente. Nel Vimercatese a Oreno questo vino era detto Crüdé, a Biassono troviamo in un documento del 1650 vino Crevello rosso1, a Montevecchia è il Crüel simile al Cruèl di Galbiate. Il nome non indica una qualità di vino ma il vino migliore, quello che veniva cavato dal tino, senza mischiarlo alle fecce o al torchiato, con qualsiasi uva esso fosse prodotto. Le qualità dei vitigni utilizzati erano molte e non tutte adatte al clima della Brianza. Tra le diverse pubblicazioni citiamo la “Relazione intorno all'operato della commissione ordinatrice dell'esposizione di uve” tenuta il 2 e 3 ottobre 1876 presso il Collegio Alessandro Manzoni di Merate, stampata a cura del Consorzio Agrario Brianteo2. Questa commissione fece le analisi sulle uve determinando il contenuto di glucosio e l'acidità, giungendo a indicare le uve migliori da impiegare in Brianza. I vitigni coltivati erano molti: ananas nera, barbasina, barbera nera, barzamino nera, bonarda nera, bordeaux, borgogna o borgognino nera, botascera o marcellana, bressana nera, bressanina, brugnola, cagna nera, casca, caschetta, chasselas, corbera, corberone, cornetta, greco, grignolò detta uva del prete o anche moncucco, guarnazza, inzaga, inzaghetta, lambrusca, malvasia, mensile, merera, mornera, moscato, moscato di Cipro, nebbiola, negrera, pezzè, pignola, pinot, piona, rosa, rossera, spagna, teinturier, tokai, trebbiano, uvatico, uvetta o vespolina, uvone, vernaccia e zibettone. La commissione in base ai risultati delle analisi concluse consigliando di abbandonare la maggior parte dei vitigni sino allora utilizzati, che davano scarsi risultati, e incrementare la propagazione di alcune varietà quali la cornetta, la barbera, l'uvetta, la malvasia e la barbasina. Non conosciamo i risultati di queste raccomandazioni, ma sappiamo che pochi decenni, dopo l'aggressione della fillossera, tutti questi sforzi tesi a migliorare la qualità delle uve e dei vini in Brianza furono vanificati e resi inutili.

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Il vino a Bovisio Masciago * Bovisio Masciago è un paese nato dalla fusione di due antichi borghi che erano vissuti per molti secoli indipendenti ma che furono uniti definitivamente nel 1928. E' curioso notare che all'inizio dell'800, sotto il governo austriaco, era già avvenuta una fusione ma che nel 1858 i due paesi erano di nuovo divisi. La carta geografica qui riprodotta, è tratta dalla levata 1888 dell’Istituto Geografico Militare, dimostra la vicinanza tra i due paesi e può spiegare il perché di questa alternanza tra unificazione e separazione.

* di Vittorio Farchi

Riportiamo le seguenti informazioni trovate in internet nel sito www.boviso.com: Sul finire del secolo XIV troviamo il ricordo di una Maddalena da Bovisio, damigella di Lucia, figlia di Bernabò Visconti. Nel 1476, Galeazzo Maria Sforza assegna alla sua favorita, Lucia Marliani, i feudi di Desio e Mariano, che vengono dunque staccati dalla giurisdizione di Milano. La Pieve di Desio comprendeva allora una quarantina di terre o paesi, tra i quali Bovisio e Masciago. 49


Proverbio brianzolo:

«Ul vin al fà bon song, l'acqua la fa tremà i gomb.»

Nei secoli successivi il feudo di Desio passa di mano tra vari signorotti con conseguente scorporo di porzioni di territorio. Così nel 1676 Varedo con Masciago vengono venduti ai Conti Crivelli, mentre Bovisio rimane nel feudo di Desio e conta in quegli anno ben 66 fuochi ( famiglie ). Quattro secoli fa, dunque, il nostro paese non era che un piccolo villaggio. Ne testimoniano in tal senso le visite pastorali dei vescovi milanesi nella parrocchia che già era composta da Bovisio, Masciago e Mombello. Così S. Carlo Borromeo certifica il 24 Luglio 1579 di avervi trovato “focolaria 90” con un totale di 666 fedeli. Nelle visite che il Card. Borromeo fece alla nostra parrocchia nel 1604 e nel 1608, si dice che “i capifamiglia sono circa cento”.Dati più precisi li abbiamo solo dal secolo successivo. Nel 1791 gli abitanti assommano a 1190 unità così ripartiti: “Sono in Bovisio comunità num. 666; in Masciago comunità num. 384; nelle Cassine, cioè: Bertacciola n. 28, Mombellino n.34, Mombello n.17, Cassina Nova n.61”. Riportiamo ancora, sempre dalla stessa fonte, alcune ulteriori notizie relative a Masciago: Il piccolo villaggio sperduto nella boscaglia delle Groane, lega da sempre le sue vicende storiche a quelle di Bovisio. Privo di date storiche, Masciago, il cui nome deriva da Macciagus, nome gentilizio dell'epoca, appartenne sempre alla Parrocchia di Bovisio, anche se ebbe vita amministrativa autonoma fino al 1928. Il territorio di Varedo con Masciago venne scorporato dalla Pieve di Desio nel 1676 allorchè il Marchese Giovanni Manriquez, che circa un secolo prima aveva acquistato l'intera pieve, lo cedette al Marchese Flaminio Crivelli: contava allora cento fuochi o famiglie e costò 13.700 lire. Dai dati fino a qui esposti non risulta nulla che possa aiutare a conoscere la diffusione delle viticolture nei secoli passati. Ci aiuta però il fatto che i due borghi facevano parte della Pieve di Desio nella quale la diffusione dell'”aratorio vitato” era nel 1558 pari al 30,8% del territorio coltivato. Inoltre, per un lungo periodo, Masciago era unita alla vicina Varedo che, come riportato nel capitolo dedicato a quella località, era ricco di viti . E' quindi probabile che le valutazioni statistiche siano di conseguenza comuni per i due borghi.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano 50


Il vino a Briosco * “E' un comune posto alle falde degli iniziali colli della Brianza, sulla sinistra del Lambro, in territorio ubertosissimo ricco di gelsi e, un tempo, anche di viti. Il comune è composto, dal 1867 di tre grosse frazioni: Briosco, Capriano e Fornaci”. Così lo presenta la “Storia dei Comuni della provincia di Milano” del 1934. Citiamo qualche fatto storico: “Una tradizione narra che Briosco aveva 735 anime quando nel 1160, fu devastato dal Barbarossa, proprio al tempo delle messi”; “A Briosco si rifugiarono, narra la stessa tradizione, i montanari di Val Taleggio e altre valli vicine espulsi dal Veneto perché partitanti per il Duca di Milano”. “Briosco prese parte alla lotta fra Gian Giacomo Medici marchese di Marignano (Melegnano) detto il “Medeghino”, e lo Sforza (Battaglia di Carate)”. Passando a Capriano la tradizione vuole che sia stata colonia romana. Il nome di Capriano (Cauriano o Cavriano) appare citato fin dall'inizio dell'anno 1005. Nelle “Vicende della Brianza” di Ignazio Cantù si dice appunto che “in quell'anno Adalberto, Arciprete di Monza, permutò con Ajmò, Giudice della città di Milano, un'ancella (serva) della sua corte di Bulciago, ricevendo in cambio alcuni tratti di terreno nel luogo di Cauriano, oggi forse Capriano, in Pieve di Besana”. I primi registri parrocchiali esistenti in Capriano portano la data del 1564. La Chiesa, che fu rifatta in tempi molto posteriori, circa un centinaio di anni or sono, appartenne alla Pieve di Agliate fino al 1838 quando si costituì la Pieve di Besana Brianza dalla quale ora dipende. Dal “Dizionario Feudale” del Casanova si ricava che di Capriano fu fatta vendita nel 1692 ad Antonio Medici da Seregno e che vi erano 50 fuochi, venduti a L.48 cadauno. Quanto alla frazione Fornaci la storia è molto breve perché fondata solo 150 anni fa. Veniamo finalmente al tema del vino, oggetto del nostro interesse ed arriviamo al 1530, anno in cui il Governo spagnolo ordinò il censimento generale dello Stato di Milano.

* di Vittorio Farchi

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Grazie alle tabelle riprodotte dal volume “Alla ricerca delle radici perdute” di Domenico Flavio Ronzoni, edito dall' Amministrazione Comunale di Briosco nel 1985, abbiamo tutte le notizie. Si evidenzia la notevole dimensione dei terreni di vigne e di ronco (zone a terrazze con le viti ai bordi e i cereali al centro).

A questo punto è interessante inserire un articolo ( in parte già riprodotto nel capitolo relativo a Biassono) tratto dal volume “Vite e vino in Brianza, dai Celti al DOC” edito dal Museo Civico Carlo Verri, questa volta inerente ad un Vigneto di Capriano : La cura della vigna nella Brianza del XVII secolo Negli archivi sia pubblici che privati sono conservati moltissimi contratti di affitto per poderi agricoli. Sono documenti stilati con precisione che elencano con pignoleria sia la natura dei beni che le cure che dovevano essere garantite per la loro conservazione. Quasi sempre in questi contratti vengono descritte le vigne a dimostrazione che la loro diffusione era capillare. La vite era presente nella vigna, cioè in un appezzamento piccolo o grande interamente occupato dai filari, ma anche in campi con la presenza di filari isolati che erano semplicemente descritti come terreni “avitati”. È solo il caso dt rilevare che il territorio di Capriano si stendeva su circa 4.400 pertiche! quindi circa 1.000 pertiche in meno rispetto a Briosco. Inoltre a Capriano le pertiche di terreno lavorato e coltivato (''aratorio"') sono meno di quelle brioschesi, mentre sono leggermente superiori le peniche di bosco e il totale delle pertiche '"'avìtate". cioè coltivate anche a vite. A proposito di quest’ultima coltura, notiamo infine che mentre a Briosco non abbiamo trovato nessuna indicazione circa l’esistenza di una coltivazione esclusiva della vite, a Capriano, invece esisteva una vigna propriamente detta di 32 pertiche.

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Un vigneto a Capriano 16 agosto 1678 La signora Teresa Monti Secco, fu Dionigi e vedova di Barnaba Secco, di Milano, p.n. p.S. Bartolomeo, investe Battista Ghezzi fu Cristoforo e i suoi figli Paolo e Giuseppe, abitanti a Briosco nella cascina del Simonte, Notaio Fabrizio Tuoni (ASMi, Notarile 33252) Omissis


Proverbio brianzolo: «Col ch'a fa ma l'è l'ultim bicér».

- Patto che detti conduttori siano tenuti dare et consignare ogni anno la metà del vino che si racoglierà dalli suddetti beni alla detta signora locatrice nelle sue canepe in detto luogho di Briosco e de più darli anche la metà di tutti li frutti da bocca a suoi tempi debiti. - Che siano tennuti detti conduttori zappare, regolzare et rifrescare tutte le viti a suoi tempi debiti et almeno due volte l'anno et a quelle siano tennuti essa signora locatrice et detti conduttori, ciascheduno per metà, mettervi il rudo per ingrassarle et quando li suddetti conduttori non ne metteranno la sua metà possa la suddetta signora locatrice farle lei ingrassare a spese delli suddetti conduttori. Idem s'intende ancora viceversa a favore delli conduttori, perché così. - Che non possino li suddetti conduttori seminar li fili delle viti, salvo che de legumi e robba da zappa, con che nel piede delle viti non vi possino seminar cos'alcuna nepure da zappa perché così. - Che abbino a pigliar detti conduttori in consegna tutte le viti, gabbe et altre piante e quelle poi riconsignare in fine della presente locatione alla suddetta signora locatrice perché così. - Che nel piantar le viti e refilando li fili non possano detti conduttori sterpar le gabbe se la sudetta signora locatrice non le vederà e se saranno dannose o di poca cavata siano delli conduttori perché così. - Che li sudetti conduttori siano tenuti refilare li fili delle viti a sue proprie spese e s'intenda refilare quando in un filo mancheranno otto o dieci piedi de viti e non più perché così. - Che siano obligati per metà la detta signora locatrice e per l'altra metà li sudetti conduttori mettere li pali che faranno de bisogno per la detta possessione, con che però sia tennuta la sudetta signora locatrice mettere li pali tutti del suo per li fili novi per la prima volta solamente perché così”. Passiamo ora al periodo austriaco durante il quale, nel 1720, ebbe luogo un nuovo censimento che dette origine al Catasto Teresiano. La presenza dei terreni a vigna (aratorio avitato, aratorio avitato con moroni, ronco avitato) è sempre notevole anche se percentualmente ridotto rispetto ai terreni dediti alle culture tradizionali.

L’abitato di Briosco e le immediate vicinanze nel Catasto Teresiano del 1721 - Archivio di Stato di Milano

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Il vino a Brugherio * Il territorio di Brugherio nei tempi passati era suddiviso in più comuni o frazioni facenti parte alcuni della Corte di Monza, altri della Pieve di Vimercate. Attraverso il prezioso lavoro di Luciana Tribuzio Zotti, autrice del volume “Brugherio nei documenti” edito nel 1986 dal Circolo Culturale Paolo Grassi, è stata ricostruita la storia dei singoli territori e condensata in modo da fornire un quadro d'insieme dell'attuale comune : “Con la Pace di Cambrai, nel 1529, si concludevano le guerre tra la Francia e la Spagna per il predominio in Italia: l'imperatore Carlo V diventava re d'Italia e cominciava ad esercitare la sua influenza sul Ducato di Milano, retto da Francesco II Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Il 6 febbraio1531 la Corte di Monza veniva infeudata dall'ultimo Sforza ad Antonio de' Leyva, luogotenente di Carlo V, nonché governatore di Milano, ed alla sua discendenza che la tenne fino al 1648, quando venne venduta ai fratelli Durini. La cessione del feudo non riguardava solo il borgo di Monza ma anche tutte le località e le cascine che da essa dipendevano. Le infeudazioni impoverivano la Camera ducale per cui seguivano subito aumenti fiscali o venivano imposte altre tasse oltre a quelle già esistenti come il censo del sale e quello dei cavalli che venivano, in genere, riservate al sovrano”. La tasse però non bastavano ed erano difficilmente esigibili, da qui l'idea di introdurre una “patrimoniale”, vale a dire un censimento di tutte le proprietà terriere e l'imposizione delle tasse sulle stesse. In censimento consentiva di rilevare per ogni appezzamento il nome del proprietario, le dimensioni del fondo e la natura del prodotto coltivato. Molto interessante è la tabella qui riprodotta dalla quale emerge che nel 1530 la vigna occupava il 44,22% del terreno coltivato.

A titolo informativo è anche interessante conoscere quanti erano gli abitanti: nel 1541 su 75 ben 55, cioè il 73,33% ,dei “capi fuoco” erano dedicati all'attività agricola: 30 erano i braccianti e 25 i massari che * di Vittorio Farchi lavoravano la terra ma non ne erano i proprietari.

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Passiamo ora al periodo austriaco iniziato nel 1720 al termine della guerra di successione spagnola con la cessione dei possedimenti spagnoli all'Austria. L'imperatore Carlo VI ordinò un nuovo censimento delle proprietà terriere nel 1721 e le mappe catastali conseguenti sono fondamentali per capire la realtà del territorio. Riportiamo i dati sulla presenza della vite per le diverse località.In alcuni casi è riportata la presenza degli “aratori vitati” su tutto il territorio coltivato, ove questo tipo di aratorio dovrebbe essere tutto a vigne o almeno in gran parte : Moncucco 3.758 pertiche 54,22% Brugherio di Monza 1.651 pertiche 62,15% Occhiate 80 pertiche 23,41% Per le altre località si riportano i dati di “aratori avitati” che riguardano campi in cui le viti coesistevano con i cereali: Bareggia 1.558 pertiche 69,36% Brugherio S. Ambrogio 1.388 pertiche 42,49 % S. Damiano 1.796 pertiche 94,82% Increa 398 pertiche 56,65% Per concludere l'argomento, riportiamo questa ultima tabella che espone i dati complessivi di tutto il territorio facente parte dell'attuale comune di Brugherio:

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Proverbio brianzolo:

El vin l'è la teta di vecc.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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Il vino a Burago di Molgora* Per descrivere questo territorio è qui riprodotto un ampio estratto del testo di Eugenio Cazzani “Burago di Molgora. Vicende civiche ed ecclesiastiche” pubblicato nel 1987. Gli abitanti di Burago nei tempi andati erano quasi tutti dediti all'agricoltura. Più di un secolo fa, chi volle designare i prodotti del nostro territorio scrisse:"... è coltivato in generale a cereali, gelsi e viti, che danno prelibati vini. Vi si coltivano anche i bachi da seta da cui si traggono considerevoli prodotti." I vigneti sopprarricordati, che coprivano i pendii degradanti dei colli briantei, ora sono completamente scomparsi. È certo che essi davano uva dalla quale i nostri avi sapevano trarre un vino discreto. Carlo Porta, il celebre poeta dialettale milanese, nel 1812 cantò in un bellissimo brindisi il matrimonio di Napoleone Bonaparte con Maria Luisa d'Austria, nel quale ricordó i vini delle colline solcate dall'Olona e dal Lambro, spingendo il suo verso a celebrare anche quelli della nostra contrada: El san ben Buragh, Tradaa, Monteveggia, Oren, Magenta, Canegraa, Busser, Masaa, Pilastrell, Siron, Groppell.....1

*A cura dell'Associazione Amici della Storia della Brianza con Franco Peli.

Erano vini " scialôs e baffiôs", brillanti ed eccellenti da leccarsi i baffi, anche se un po' leggeri, tratte dalle uve raccolte nei ronchi, aperti al sole, o dai filari di viti snodantosi fra i gelsi delle nostre campagne. Ciò si mantiene fino alla metà dell'Ottocento, quando apparve la filossera, il terribile parassita delle viti che, portato dall'America con vitigni dopo il 1860, arrecó immenso danni ai vigneti. Nella Brianza e nel Varesotto essa imperversò nel 1879-1880 devastando intere piantagioni di viti e, in alcune zone, facendole completamente morire. La filossera e la concorrenza dei vini piemontesi e meridionali fecero abbandonare dai nostri contadini la coltura della vite per intensificare la coltivazione del grano e del baco da seta. Quali fossero i prodotti della terra lo sappiamo da una testimonianza dei primi decenni del Seicento. Nel 1612 terribili grandinate, cadute l'8 e il 29 agosto, avevano devastato non poche terre della Brianza, e fra queste Verano, Giussano, Robbiano e San Giovanni in Baraggia. Il Magistrato Ordinario mandó un delegato, al quale se ne uní un altro dei Sindaci del Ducato, per un sopralluogo. I due incaricati interrogarono per i quattro suddetti Comuni testimoni degni di fede, i quali risposero che:" l'entrata et cavata delli territorij essere in vino, biade, castagne, et frutti cioè noci, pomi, persici et brugne, per essere detti territorij parte in vigne, parte in campi, parte in selve, me il nervo dell'entrata consiste in vino, perché quanto alla biada grossa ne

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fanno solo per vivere sei mesi ". Per biada grossa si intendeva il frumento e la segale , mentre nella parola generica biade si intendevano anche i grani minuti, quali il miglio e il panico 2. I cereali minuti o inferiori costituivano il vitto ordinario dei nostri contadini: il miglio (pan de mei) il panico, le castagne, legumi, la frutta. Il pane di frumento (la mica) lo si mangiava a Natale e in qualche altra solennità religiosa, oppure quando si cadeva ammalati; il frumento del resto era quasi tutto di spettanza padronale. Mancava la patata, importata in Europa all'inizio del Cinquecento, ma diffusa presso di noi sul finire del Settecento. Anche il melgone o formentone (grano turco), portato nel vecchio mondo dopo la scoperta dell'America, si cominció a coltivarlo dai nostri contadini soltanto nella seconda metà del Seicento3. Le castagne, la cui pianta era largamente diffusa, entravano a far parte della loro alimentazione. Esse, con i grani minuti, "erano il sostegno dei poveri" 4. Già Bonvesin de la Riva, che scrisse verso la fine del Duecento, avvertiva:"abbiamo poi le castagne, quelle comuni e quelle nobili, dette marroni, a disposizione dei cittadini e dei forestieri durante tutto l'anno in quantità immensamente abbondante"5. Nella seconda metà del Settecento, coll'entrata in vigore del nuovo catasto di Maria Teresa (a.1760), l'agricoltura prese a svilupparsi: si intensificarono la piantagione dei gelsi e la coltura del baco da seta; si migliorarono le viti e i prati, si aumentó l'allevamento del bestiame, si introdussero dall'estero nuove piante e nuove colture quali la robinia, il platano e la già ricordata patata. "Fu allora soltanto che sopite le lotte secolari, non più travolta dall'onda di tanti uomini in guerra, rassettate o riaperte più comode strade, compiuto il naviglio di Paderno, costruiti ed incanalati i torrenti, ridotte a pascolo vaste brughiere, coltivati i poggi boscosi,col rifiorire dell'agricoltura e dell'industria, cominció la Brianza a godere quel benessere onde il suo vero nome parve poi sempre sinonimo, mentre tra fresche colline numerose ville patrizie già potevano offrire asilo tranquillo agli ozi dei più miti feudatari, i quali, abbandonati gli elmi, le picche, le cotte ferree, per le parrucche, gli spadini e le gale variopinte, non facendo più echeggiare le poetiche solitudini d'aspre voci di guerra e di saccheggi, indugiavano invece tra i boschetti arcadici a mormorar sonetti e madrigali galanti. Ai quali sull'inizio del Settecento già poteva fare eco, in un suo carme-cantilena, il Bacco in Brianza, con la pretesa di imitare il brioso ditirambo di Redi, Basilio Bertucci, prodigando a piene mani lodi ai deliziosi soggiorni briantei, allo stuolo di nobili cittadini che li onoravano di lor presenza, al moscatello di Galbiate, ai sapidi vinelli di Missaglia, di Montevecchia, Merate, Lesmo, bevanda portentosa ambrosia armoniosa ... e via di questo passo 6.

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È un pezzo di prosa ben ornata, che traduce la realtà settecentesca dei nobili e dei ricchi, viventi in quell'atmosfera pregna di cicisbei, rivissuta e bollata nella satira di un brianzolo autentico, Giuseppe Parini. Per i contadini, massari e salariati, in tutto quel secolo e nel seguente la vita miglioro', ma fu sempre piena di stenti fino a tutto l'Ottocento, a causa dei contratti agrari che li legavano al signor-padrone, al quale erano obbligati a versare una parte del prodotto, gli appendizi e talvolta a prestare servizi che stabilivano un legame non solo economico, ma anche di dipendenza e sudditanza. Gli appendizi, o regalie in pollame, nella prima metà dell'Ottocento raddoppiano, le prestazioni personali si fanno più pesanti, il contratto a mezzadria impone al colono oneri insopportabili: questi riceveva dal padrone la casa e il fondo a coltura e fornito di piantagioni di gelsi e viti, che dovevano essere lavorati e mantenuti efficienti; la ripartizione del raccolto era divisa a metà, lasciando all'affittuario le fatiche del lavoro e le spese relative alla conduzione del fondo. Era una situazione che favoriva i proprietari e lasciava i conduttori in uno stato di permanente povertà. Nella seconda metà dell'Ottocento i moti agrari per il contratto misto di mezzadria apriranno gli occhi ai padroni e prepareranno la strada ai contadini verso mete di progrediente benessere. 1

C. Porta, Poesie milanesi, vol. I, Milano (Ed. Ceschina) 1944, p.131. R. Beretta, Robbiano Brianza, Monza 1968, pp. 55-56. 3 S. Zaninelli, Vita economica e sociale, in “Storia di Monza e della Brianza”, vol II, Milano 1969, pp. 64-66. 4 R. Beretta, op.cit., p. 59. 5 Bonvesin de la Riva, Grandezze di Milano (a cura di A. Paredi), Milano 1967, p.70. 6 U. Nebbia, La Brianza, Bergamo 1912, 24-25. 2

foto di Mario De Biasi opera citata

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Il vino a Burago * Catasto Teresiano Tavola del Nuovo Estimo 1755

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Burago, * Catasto Lombardo Veneto 1866

* Tavola e grafico elaborati da Giorgio Federico Brambilla con Valeria Magni ed Elisa Sironi sulla base delle tavole catastali originali

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il vino a Busnago* Busnago è un paese di antica formazione, posto in un'ampia ed urbertosa pianura tra l'Adda e il Molgora. Faceva parte dell'ex circondario di Milano, Mandamento di Gorgonzola. Il territorio produce cereali e, a suo tempo, era ricco di gelsi e parzialmente di viti. Come per tutti i paesi vicino al Molgora, il vino veniva prodotto ma, come vedremo nel proseguio dell'articolo, in quantità non elevate. Per conoscere meglio la situazione ci viene in aiuto il bel volume “Busnago tra l'Adda e il Molgora” di Sergio Passani e Giovanni Liva, edito dal Comune nel 1997 e dal quale, in seguito, riportiamo alcuni brani. Nel 1721 il Governo Austriaco, per poter disporre di un efficace strumento di riscossione fiscale, iniziò a realizzare il Catasto Teresiano. Naturalmente anche a Busnago, come in tutta la Lombardia, vennero effettuate le rilevazioni Catastali. “I risultati di queste operazioni (registri, mappe e relazioni attinenti) fondamentali, come si è visto, sotto il profilo fiscale, hanno anche un'enorme importanza in relazione alla storia dell'agricoltura delle varie comunità. Questi documenti forniscono infatti una chiave di lettura di straordinaria rilevanza per conoscere la qualità delle colture, la fertilità dei terreni e la ripartizione delle proprietà, così come si presentavano nel Settecento e nell'Ottocento; in sostanza sintetizzano, dal momento che l'agricoltura in Lombardia era l'attività a cui si dedicava circa l'80% della popolazione, lo stato dell'economia di ogni comune. Nel “Processus Communitatisi Bucinaghi Plebis Pontiroli”, sorta di inchiesta preparatoria al catasto che il Cesareo Commissario Delegato Giovanni Battista Puteo condusse nel 1721, vennero intervistati il Console, che era l'amministratore della comunità eletto dal popolo, il Sindaco e alcuni abitanti di Busnago. Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

* di Vittorio Farchi

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Proverbio brianzolo: «El ben del patron l'è come el vin del peston che alla mattina l'è bon e alla sera l'è guast».

Il primo che fu ascoltato, il Console Giovanni Palazino di 30 anni, dichiarò di avere in affitto a grano dai signori Schiffinati 18 pertiche di terreno e precisò che “quando mi avanza tempo dal impiego del mio poco terreno vado giornaliero a servire chi mi dimanda”. L'affitto consisteva in tre quartari di frumento per pertica, in sette libbre di gallette, cioè i bozzoli del baco da seta, oltre ad una quota per casa. Terminata la descrizione della situazione che lo riguardava personalmente, il Console analizzava poi in generale quella della comunità sotto il profilo della diffusione delle colture. Dopo avere premesso che non conosceva l'esatta misura dell'estensione territoriale di Busnago, né la ripartizione del perticato in civile e rurale, cioè, rispettivamente, di proprietà di non residenti, o di residenti della comunità, egli precisava che la maggior parte del territorio di Busnago era costituito da aratorio semplice, bosco da taglio e brughiera, mentre pochi erano i prati e gli aratori con viti. Il Console proseguiva la sua testimonianza riferendo che la resa era di tre stara di frumento per pertica, purchè non si fossero verificati imprevisti, e aggiungeva : di “segale e milio non ne posso dar ragguaglio, perché non se ne semina che pochissimo; il frumentone (mais)poi darà frutto (per) ogni pertica ben coltivata e di buona qualità cinque stara e stentatamente sei…; il terreno avidato veramente non so cosa dirli perché sono anni che non si è fatta raccolta per cagione delle tempeste, brine e certi animali che a nuvoli copron le viti, adimandati in nostra lingua carugole, che divorano e folie e frutto delle viti”. Quanto alla situazione del comune il Sindaco risulta che fosse più informato del Console poiché precisava che erano circa ottomila le pertiche del territorio di Busnago di cui “la più parte sono aratori semplici, una portione d'avidato, alcuna pocca parte de prati, molte brughiere, e assai più pertiche di bosco da taglio”. Tutte le testimonianze riportate mettono in evidenza la scarsità di rendimento dei terreni e in particolare la bassa presenza di 'aratori vitati'. “Il terreno cretoso rendeva altresì difficoltosa la già diffusa coltivazione delle viti, falcidiate spesso da grandini ed insetti, tanto che, addirittura, i ricorrenti dichiaravano che “rende molto meno il terreno (aratorio) con viti dell'altro nudo”, anche perché prima di ottenere la produzione di frutti della vite, sarebbero dovuti passare quasi dieci anni”. Gli autori della pubblicazione concludono il discorso con quest'ultima considerazione: “Cerchiamo ora di analizzare quanto è emerso dalle fonti in modo da definire, in maniera il più possibile esaustiva, gli aspetti principali dell'agricoltura del nostro comune. Busnago, com'è noto, si trova nella zona dell'altopiano asciutto, principalmente allora dominato dalla coltivazione del frumento e del mais e dove, a partire dalla seconda metà del '700, ma soprattutto con i primi dell'800, si sarebbe diffusa sempre più la gelsicoltura ed, in misura assai minore, la viticoltura. Quanto alla qualità del terreno, risulta che fra le 8.691 pertiche costituenti il territorio della comunità, più di 5mila erano aratori semplici, mentre solamente 700 circa erano le pertiche di aratori con viti”.

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Il vino a Camparada * Camparada si autodefinisce un “Piccolo Comune Antico” e così si intitola la pubblicazione di Tarcisio Beretta, edito nel 2001 dalla Amministrazione Comunale e della quale riportiamo alcuni brani e mappe geografiche che ci aiutano a riscoprire la presenza del vino nei secoli passati. Le notizie storiche che interessano la nostra ricerca cominciano nel 1600. Riportiamo qui il capitolo sulle Attività Produttive di quell'epoca, nella parte finale del quale è ricordata la presenza delle viticolture, molto importante almeno per i nobili che possedevano i campi. “Allora, tutte le famiglie erano dedite all'agricoltura, unica fonte di sostentamento per la sopravvivenza. Le famiglie, a quei tempi, potevano contare su molte braccia, i lavori agresti erano tanti, dal dissodamento delle zone aride ed incolte, alla trasformazione in terreni coltivi, dalla conduzione di molte pertiche di terra, all'allevamento del baco da seta ed ancora, al governo del bestiame. Ciascun familiare, grande o piccolo che fosse, doveva contribuire prestando la propria opera, secondo l'antica sentenza 'occorre guadagnarsi il proprio tozzo di pane '. Nel seicento e primi settecento, i Saccoborella – Trotti, proprietari di tutti i fondi agricoli di Camparada, si accordavano con i contadini del luogo, per lo sfruttamento di determinate pertiche di terreno, obbligandoli a delle cessioni in natura e alla partecipazione per alcuni prodotti della terra. Allora, i contadini preferivano coltivare frumento nero, segale, orzo, miglio, panico e avena, curavano le semine di vari ortaggi, le piantagioni di gelsi per l'allevamento dei bachi da seta, di alberi da frutta, ed un particolare interesse per la vite. Al termine di ogni stagione di raccolti, il proprietario del fondo, esigeva la quota sostanziosa dei prodotti coltivati, frumento e vino, lasciando ai contadini rimanenze scarse ed inadeguate ai bisogni delle proprie famiglie.”

* di Vittorio Farchi

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Nel Catasto Teresiano del 1721, si trova una chiara e propria descrizione della mappa territoriale della comunità di Camparada, quale componente della Pieve di Vimercate. Pieve che nel 1558 vantava sul proprio territorio una presenza di “aratorio vitato” di 80.618 pertiche, pari al 59,1% dei campi coltivati.


Proverbio brianzolo: «Ul vin al fa dì quel che se duvariss minga dì».

Sulla mappa Teresiana di Camparada qui riprodotta sono indicati in giallo gli “aratori semplici” a cereali, in marrone gli “aratori vitati” dove le vigne sono allineate all'interno del terreno, ben definite su tracciati lineari. Viene qui riportata anche la Mappa geografica del 1855 nella quale in colore più scuro sono evidenziati i campi a vite. Nello stesso periodo una grave carestia afflisse gran parte della Brianza, la siccità soffocò i raccolti e la fillossera devastò le viti, segnando il declino della viticoltura.

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Il vino a Caponago * Caponago ha origini antichissime che risalgono all'epoca romana. Nei secoli passati faceva parte, insieme ad altri 26 comuni limitrofi, della Pieve di Vimercate. Nella Pieve, la presenza della vite era molto superiore a quella delle zone facenti parte dell'altopiano nord-orientale della Lombardia. Gli “aratori vitati” della Pieve di Vimercate occupavano, nel 1558, il 50,1% dei territori coltivati contro il 22,2% di Agliate, il 30,8% di Desio e il 5,2% di Seveso. Con “aratorio vitato” si intendeva indicare i campi nei quali i filari di vite erano disposti in modo tale da consentire la contemporanea presenza della coltura dei cereali. Questi campi erano circondati dai gelsi, essenziali per l'allevamento dei bachi da seta e che venivano usati anche come supporto ai filari di vite. Per documentare l'importanza della presenza dell'uva a Caponago, ci viene in aiuto lo studio di Chiara Canesi riportato nel volume “Segni della terra” edito dal Comune di Caponago nel Novembre 2003, del quale riportiamo integralmente alcune pagine: La struttura fondiaria della terra di Caponago tra XVIII e XIX secolo La superficie destinata ad uso coltura nel comune di Caponago corrispondeva nel l 755, come si riscontra nella "Tavola del nuovo

* di Vittorio Farchi

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estimo" compilata dal visitatore e estimatore Pietro Luigi De Vecchi, a 7239 pertiche milanesi (4738 pertiche metriche) pari al 98,6% della superficie complessiva che risultava edificata quindi per il solo l ,4%. Questa ripartizione si ritrova anche nel secolo successivo nel ''Catasto dei terreni e fabbricati" risalente al 1873 in cui viene riportata una superficie coltivabile di 4761,38 pertiche metriche, pari a circa il 99% dell'intera superficie a catasto . I terreni sotto a Caponago sono tutti asciutti vi è aratorio semplice, dell'aratorio avitato che sono la maggior parte dei prati che vi erano li hanno squarciati ed a presente sono aratorij semplici e vi sono anche ... de boschi. Così vengono descritte le terre di Caponago nei "Processi verbali" del 1721, un'inchiesta preparatoria delle operazioni catastali in cui viene illustrata con esattezza la realtà fondiaria in quanto i relativi risultati dovevano servire poi alla formazione di stime per la valutazione dei beni immobìli. Per quanto riguarda l'Ottocento nella "Tavola di classamento dei terreni" compilata nel l 858 dall'ingegnere Angelo Fraschini, che aveva rilevato sul posto tutti i fondi esistenti in Caponago a quell'epoca, è possibile reperire alcune informazioni di rilievo sui terreni, sulle colture presenti e sul loro uso. Spesso gli stessi fondi erano indicati per l'immediata identificazione a partire dalla denominazione locale con cui venivano segnalati tra cui si trovano: il Chioso, il Cigolerio, la Vignola, il Campello, il Quadro della Fornace, il Bosco dei lacci, il Terreno dell'Oste, il Bosco delle Gere, il Quadro del pero, il Gippone, il Bosco genestrino, il Bosco del Gallo, la Vigna/etto, il Bosco dei pini, lo Sfriso, lo Spinello, il Quattro pertiche, la Gerano, il Bosco della Bregosa, il Quadro lungo, il San Giorgio, la Molgoretta, al Ponte, ...

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Proverbio brianzolo: «Ul vin al fa sanc, l'acqua l'è bona per lavas i pee».

Nel XVIII secolo la terra di Caponago era coltivata per la maggior parte ad aratorio vitato esteso per circa il 70,4% (5080 pertiche milanesi) del perticato totale destinato a coltura senza una predominante concentrazione in una determinata area del territorio. Questa preziosa tipologia colturale, prevalentemente classificata nella documentazione catastale di prima (circa il 58,6%) e seconda squadra (circa il 31,6%), valutate rispettivamente otto e sei scudi per ogni pertica, era di elevato rendimento produttivo in quanto si trovavano affiancate in essa le colture arboree della vite e del gelso, prodotti di notevole resa per il fondo. Nel XIX secolo il coltivo da vanga vitato come viene definito l'aratorio vitato nei "Prospetti di classificazione" del l858 - da cui si ricavavano frumento e granoturco oltre ai prodotti delle colture arboree aumentava del 18,3% andando ad occupare 4222,2 pertiche metriche pari all’88,7% del perticato complessivo destinato a coltura, raggiungendo quindi una estensione territoriale pressoché totale sul territorio. Questi terreni formano la qualità permanente di Comune e si trovano sparsi sul territorio anche se le terre di prima classe di aratorio vitato (pari al 20,8%) vengono localizzate in particolare nelle vicinannze del paese, alla Cascina Cascinazza e alla Cescina Turro. La natura dei terreni coltivati a aratorio vitato buoni per tutti i cereali ma in particolare per granoturco e meno per il frumento era: argilloso calcorea con buon terriccio e profondo strato di coltura per la prima classe; argilloso siliceo o ladino con minor terriccio e uno strato a coltura meno profondo per la seconda e ghiaioso misto a ciotoli in parte e una parte marcione con poco strato di coltura per la terza classe. Da queste letture è quanto mai evidente quanto sia stata importante la produzione del vino in questa località, anch'essa però cancellata prima dalla fillossera poi dalla peronospora, che colpirono tutta l'Europa nella seconda metà dell' 800.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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Catasto Teresiano * Tavola del Nuovo Estimo 1755

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Caponago, * Catasto Lombardo Veneto 1866

* Tavola e grafico elaborati da Giorgio Federico Brambilla con Valeria Magni ed Elisa Sironi sulla base delle tavole catastali originali

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Il vino di Carate e Agliate * Carate, posto all'inizio delle prime colline della Brianza, in un territorio particolarmente fertile, era un tempo ricco di viti. Qualcuno sostiene che la regina Teodolinda, venuta in Italia nel 580 e stabilitasi a Monza, passasse qualche periodo di villeggiatura a Carate; per altri studiosi questa è una favola che rende però interessante la storia del paese. Si dice anche che nel 1160 questa località fu distrutta dal Barbarossa anche se questo è un vanto di altri paesi vicini. Nel XII secolo Carate era un borgo importante, cinto da una fossa e difeso da mura. Dai documenti dell'epoca risulta che nel 1270 Carate faceva parte della Pieve di Agliate. Va ricordato che in quei tempi la giurisdizione territoriale era basata su quella ecclesiastica. Nel 1275 Carate fu luogo di un sanguinosissimo combattimento tra le milizie dei Torriani e quelle dei Visconti che si contendevano la Signoria di Milano. Sappiamo che nel 1537 nel borgo erano presenti 69 “fuochi” (unità familiari) i cui capifamiglia svolgevano le seguenti attività: 19 braccianti, 2 ciabattini, 1 falegname, 2 osti, 10 massari, 5 molinari, 2 prestinai, 2 piglioranti (sorveglianti), 1 tessitore, 25 probabilmente contadini. Per riportare qualche notizia sulle vigne ci vengono in aiuto gli “umiliati”:

* di Vittorio Farchi

Agli inizi del 1200 risale la presenza del Terzo Ordine degli Umiliati, che a Carate ebbero due comunità. Dediti all'agricoltura e alla filatura della lana, divennero in seguito una potenza economica e imprenditoriale, proprietari di vaste estensioni fondiarie. Agli Umiliati si ascrive la costruzione dell'abbazia di S. Maria della Purificazione (sull'area dell'attuale Clinica Zucchi), chiesa sussidiaria caratese sino all'edificazione della prepositurale: dell'edificio, adibito a funzioni parrocchiali dal 1793 al 1805 e demolito nei primi anni del secolo scorso da Vitaliano Confalonieri per ampliare i propri giardini, si ha descrizione nel verbale di visita pastorale del cardinale Carlo Borromeo nel 1578. Un esteso possedimento fondiario con vigneti e boschi, la “grangia” degli Umiliati in località Riverio, conserva tuttora la denominazione “La Prevostura”. (Brano tratto da INVITO IN BRIANZA di Alessandro Minozzi – Alzani Editori – 1999)

Proverbio brianzolo: «El vin a bon mercaa el mena l'omm a l'ospedaa».

Si parla di vigneti anche della località Riverio, ora assorbita da Carate. Di Riverio si sa che nel 1537 si contavano 10 “fuochi”, 54 “bocche”, 11 bovini, 416 pertiche a vigna, 326 pertiche a campo, 264 pertiche di bosco: l'uva era preponderante!

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Naturalmente non ci si deve dimenticare della frazione di Agliate ove sorge la basilica dei SS Pietro e Paolo del IX secolo. Sempre dal censimento del 1537 risultano per Agliate: 13 “fuochi”, 43 “bocche”, 4 bovini, 246 pertiche di terreno lavorato, 230 pertiche a vigna, 311 pertiche di campo, 150 pertiche di ronco, 180 pertiche di bosco. Anche se non abbiamo trovato uno specifico riferimento alle colture dell'antico borgo, ci sembra che i dati riportati siano significativi per una conferma che anche a Carate il vino era diffuso e importante. La basilica romanica di Agliate in uno scatto degli anni ‘60 di Mario de Biasi (opera citata). Si osserva ai piedi dell’abside la vigna.

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Il vino a Carnate e Passirano* Plinio e Strabone celebrarono le ricchezze agricole del territorio lombardo, abbondante di miglio, frutteti (ivi compresi la vite) e boschi di querce che fornivano notevoli quantità di ghiande per l'allevamento dei maiali. Varrone celebra il vino come maggior prodotto locale e Plinio ricorda che le rape sono "dopo il vino e il frumento il terzo frutto della Transpadana”. Plinio fu uno dei grandi proprietari terrieri della zona e a lui dobbiamo la testimonianza di quanto alloro produceva la terra briantea; così infatti scrive all'amico Calvisio: «Le terre sono fertili, grasse, acquose: sono costituite da campi, vigne, selve, che offrono prodotti e redditi modici ma sicuri». Giovanni Dozio, studioso di cose vimercatesi presenta così il suo paese: “Vimercate posto ai piedi delle colline della Brianza, stà sotto un bel cielo, d'aria mite e salubre alla vita, in terreno aperto e fertile di cereali, in gelsi e in vini pregiati”. Ancora sulla “Storia di Vimercate”di Eugenio Cazzani a pagina 703 è riportato quanto segue. “Poco più di un secolo fa, Massimo Fabi scrisse: “In generale il territorio [di Vimercate] è coltivato a cereali, viti e gelsi, e Galvano Fiamma affermava, nel secolo XIII, che il contado di Milano produceva 600 mila carri di vino l'anno, di cui 24 mila la sola pieve di Vimercate”. Che il vino sia stata una bevanda molto diffusa lo si desume anche dall'infeudazione di Vimercate e della sua pieve, nel 1475, realizzata dal duca di Milano Galeazzo Maria Sforza Visconti che scrive agli Egregi Borella de Secchi…”. Con la rendita de Ducati quattrocento d'oro annui, da ricavarsi sopra Dazij di pane,vino, carne et imbotature del detto luogo di Vimercate e terre sodette….” La coltura della vite, e di conseguenza la produzione vinicola in Brianza e nel vimercatese, era nota fin da epoche remote e costituiva un cespite sicuro a cui attingere risorse. Il territorio del comune di Carnate era simile, per caratteristiche organiche e paesaggistiche, al comune di Vimercate con esso confinante, ed entrambi potevano. contare sulla fertilità dei loro suoli.

*di Salvatore Longu Associazione Amici della Storia della Brianza

Nei terreni del Vimercatese è presente la componente dominante dell'argilla che si presenta associata a materie calcaree, a ghiaie e ciottolate, talvolta mischiata a sostanze silicee. In queste zone si possono distinguere tre categorie di terreni: le terre “forti” o “tenaci”, definite anche “marcioni” e giudicate le migliori in fatto di fertilità, sia per cereali che per viti e gelsi; le terre “leggere” che sono considerate molto meno fertili, e le terre “ladine” la cui leggerezza è ancora più rimarchevole e che, per questo motivo, sono soggette alla siccità.

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In questa situazione composita, i terreni di Carnate e di Passirano appartengono prevalentemente alla prima categoria (al pari di Bernareggio, Aicurzio, Ronco, Subiate Villanova, Ruginello, Velate ed altri ancora), anche se si nota qua e là la presenza del “ferretto” come fattore limitante di fertilità. La premessa, è necessaria per inquadrare il territorio comunale come particolarmente votato alle colture di cereali e vite. Trattandosi di piccola comunità, non è stato possibile reperire dati statistici relativi al volume di vino prodotto, consumato o venduto. Sappiamo che la comunità di Carnate, nel 1686 contava 339 abitanti, nel 1756, 352; con l'inglobamento di Passirano nel 1782, 451, mentre sei anni dopo, 465; nel 1792, 488 e finalmente nel 1806, 504. La popolazione era prevalentemente dedita ai lavori agricoli nei terreni di proprietà di pochissime famiglie: in questi anni, per lo più, appartenevano al marchese Fornari. Il sistema agricolo era finalizzato ad una produzione indirizzata alla vendita, dalla quale il contadino era escluso. La dinamica dei rapporti contrattuali scritti o verbali e le consuetudini definivano gli spazi entro i quali la popolazione agricola di Carnate e più in generale del Vimercatese si trovava a risolvere i propri problemi di esistenza: si trattava di spazi ristretti, per il limitato potere contrattuale dei contadini, le richieste dei quali si esaurivano praticamente nella mera sopravvivenza. Si trattava sostanzialmente di una continua lotta contro lo stato di cronica povertà. Il fatto poi che il contadino, pur non possedendo la terra, non si allontanasse da essa e vi si insediasse stabilmente, non toglie nulla alla precarietà della sua condizione di vita. Talvolta l'indebitamento, come conseguenza di un faticoso adeguarsi ai contratti d'affitto, costituì una minaccia continua e tale da produrre effetti disgreganti della personalità del colono, il quale davanti al proprietario era senza alcuna difesa, pronto a pagare prezzi sempre più elevati in fatica e in asservimento. Qualcuno soffocato dai debiti, fuggiva. Erano persone disposte a tutto, l'importante era non essere privati della terra, da cui potevano ricavare un sia pur misero sostentamento. Non vi erano d'altronde alternative, a cominciare dall'uso dell'abitazione. Era una condizione di totale dipendenza dal proprietario, rappresentato localmente da persone di fiducia che assicuravano gli interessi del medesimo. I prodotti della terra venivano consumati solo in minima parte, mentre la maggior quantità veniva venduta nei vari mercati attraverso canali di intermediari. Sono numerose le fonti documentali che attestano come, nel medioevo, la coltivazione della vite fosse molto diffusa nella nostra zona. Nell'Ottocento a Passirano e a Carnate, le terre vitate o avitate e moronate erano la prevalenza, poi poco alla volta le viti vennero estirpate e i terreni furono destinati alle coltivazioni di cereali, principalmente frumento e granoturco, e a pochi altri prodotti. La maggior parte dei contadini, quando veniva loro concesso dal

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proprietario, produceva una piccola quantità di vino soltanto per il fabbisogno familiare. La qualità non doveva essere eccezionale, ma era sufficiente ad inebriare i contadini la sera, al ritorno in famiglia dopo una faticosa giornata di lavoro. Il nettare di bacco veniva bevuto esclusivamente dagli uomini, e coloro che eccedevano nel consumo erano subito oggetto di comune riprovazione, mentre alle donne una norma mai scritta di buona creanza consigliava, almeno in pubblico, di non bere vino. Si è saputo però, attraverso notizie verbali, che anche loro, all'interno delle mura domestiche, non disdegnavano di berne un bicchiere. Nell'Ottocento e fino alla metà del secolo scorso, con la parcellizzazione della piccola proprietà fondiaria, quasi tutte le famiglie contadine di Carnate e Passirano, disponevano di una parte di terreno nella quale erano piantumati filari di viti fra le piante di gelso. Davanti alla casa e intorno ai cascinotti vi erano poi le pergole di uva che in autunno fornivano il cosiddetto pincianèll, cioè il vino nostranello della Brianza; la produzione era dell'ordine di poche damigiane, quasi sempre insufficiente per il fabbisogno delle famiglie, specialmente per quelle numerose. Nei primi anni del Novecento, con la costituzione delle cooperative Santi Cornelio e Cipriano a Carnate e Santa Croce a Passirano, i gestori dei due circoli familiari acquistavano il prezioso liquido dal maggiore commerciante di vini con deposito a Vimercate, la ditta “Alisenda”. A Vimercate, (lo ricorda anche il suo nome, vicus mercato, il luogo dove si teneva il mercato) non è mai mancato il commercio di vini: lì si approvvigionavano le osterie e le bettole dei paesi del circondario. Negli anni dell'immediato dopoguerra l'attività della ditta Alisenda fu rilevata dalla famiglia Pescali, originaria di Viareggio, che a Vimercate divenne ricca proprietaria terriera con molteplici attività in campo agricolo. Questi signori Pescali possedevano le prime trebbie ed eseguivano lavori agricoli anche per conto terzi. Un membro di quella famiglia, Michele Pescali, forse, nel passato dipendente dell'Alisenda, ne aveva poi rilevato l'attività commerciale ed il relativo pacchetto clienti. Il passaggio di proprietà non compromise però l'attività della ditta stessa. La ditta Pescali aveva magazzino con deposito a Vimercate in via Vittorio Emanuele al numero 12. Sull'area del magazzino ( dismesso una ventina di anni fa ), è stata da poco costruita una palazzina ad uso abitazione e sul fronte strada l'attività commerciale ed espositiva di un restauratore. Sulle pareti del cortile erano ancora murati gli anelli in ferro ai quali venivano legate le briglie dei cavalli. Nel magazzino vi erano un'antica bilancia perfettamente funzionante ed uno scivolo con piano inclinato sul quale venivano fatte scivolare le botti. Le persone anziane ricordano ancora i carri attrezzati sui quali venivano adagiate le botti che possenti pariglie di cavalli trasportavano ai vari clienti della zona. Il Circolo familiare di Passirano acquistava per il fabbisogno della comunità un quantitativo oscillante fra i settanta e i cento quintali di vino all'anno. Si racconta anche che vi fosse qualche famiglia che, all'insaputa della cooperativa e in collaborazione con altri (spesso al di fuori del paese),

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(1) Per molti anni svolse la funzione di cantiniere Angelo Sala fu Antonio di Passirano di Carnate, classe 1888. Era iscritto al numero sette del libro storico dei soci fondatori del 1921. A suo nome la Cooperativa di Consumo stipulò nel 1936 una polizza popolare di assicurazione avente la rendita del 5% , per la durata di anni 16 e mesi quattro, alla scadenza era stata calcolata una rendita in ragione di lire 3.000 di capitale in titoli, subordinata al pagamento di un premio di lire 15 mensili. Il vino giungeva in grosse botti che venivano scaricate a mano con perizia, mediante rotolamento fino alla cantina posta in un vano sotto il piano strada. Il prezioso liquido veniva travasato in damigiane e in fiaschi che allora avevano la capacità di un litro e ottocento decilitri. Un lavoro che impegnava un gruppo di persone che a titolo gratuito forniva la propria prestazione. Per molte persone di Passirano un giorno di festa, perché a lavoro ultimato oltre a proseguire nella degustazione si faceva un pasto comunitario a base di pane e salame offerto dalla cooperativa.

acquistasse in proprio qualche piccola damigiana da dividere con altri per le necessità personali, nel tentativo di risparmiare le poche lire di ricarico della cooperativa. La ditta di Vimercate passò poi al figlio Franco che ha proseguito l'attività sino a pochi anni fa. Il vino distribuito in queste zone, proveniente abitualmente dal meridione, veniva tagliato con altri vini a minor gradazione alcolica. A Passirano i pochi anziani ricordano che negli anni del dopo guerra le botti venivano scaricate (fatte rotolare) in magazzino, in cui il cantiniere provvedeva al travaso in bottiglioni. Successivamente al Pescali il mercato di Carnate e Passirano fu acquisito dal commerciante Maino di Carnate. Il vino consumato in luogo, incontrava il gradimento degli uomini che principalmente nei mesi invernali e alla domenica ne consumavano in abbondante quantità, senza peraltro mai eccedere. Nelle case , il vino non poteva mai mancare, poiché accompagnava i poveri pasti e dava un senso allo stare a tavola. Nei verbali della cooperativa Santa Croce di Passirano fin dagli anni Trenta e Quaranta si legge: il consiglio segnala l'opportunità di acquistare un “buon quantitativo di vino”. Il problema dell'approvvigionamento del prezioso nettare è oggetto di discussione anche il 3 dicembre 1944: in un documento il presidente Sala fa rilevare “la necessità di acquistare una buona quantità di vino in quanto l'arretrato è torbido e in prossimità della sagra, si avranno certamente delle lamentele sulla qualità”. Il 4 febbraio 1950, il presidente Piero Vincenzo Arrigoni fa presente che le giacenze di vino in cantina vanno esaurendosi e invita i consiglieri a provvedere all'acquisto di una partita presso il negoziante Maino. Nel marzo del 1954 si lamenta ancora una volta che la scorta di vino in cantina è insufficiente ai bisogni e si sollecita il dispensiere a provvedere all'approvvigionamento presso il fornitore Maino. Il 15 dicembre del 1954, in occasione della riunione per l'inventario, il presidente fa presente che le giacenze di vino sono pressoché ultimate e invita i presenti all'acquisto di una solida partita. Nonostante le continue raccomandazioni, anche nel novembre del 1955 si segnala la necessità di provvedere all'acquisto di una nuova partita di vino. Attualmente gli abitanti di Carnate e di Vimercate acquistano il vino presso il consorzio Agrario di Vimercate, oppure presso i vari supermercati, presenti in quantità intorno ai nostri paesi.

(2) Il problema del vino nella cooperativa di Passirano è molto sentito. La dimostrazione la si evince dal numero consistente dei documenti in cui si richiama il consiglio ad una più accurata azione di controllo. Si pretende dal dispensiere quantità abbondanti e qualità soddisfacenti. Non è indicato chiaramente ma si lascia sottintendere il sospetto che il dispensiere operi sul vino delle manipolazioni tali da alterarne le caratteristiche. (3) Per la prima volta viene citato il nome del fornitore del vino, si tratta del Maino di Carnate. In precedenza il vino veniva fornito dal grossista Pescali di Vimercate.

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Il vino a Cavenago Brianza* *di Pio Rossi Parlando di Cavenago, in un capitolo del volume “Storia dei Comuni lombardi della provincia di Milano” del 1934, si dice: “Cavenago è un comune dell'ex Circondario di Lodi, Mandamento di Lodi, posto in una bella fertile pianura bagnata dall'Adda, con coltivazioni di gelsi” e un tempo di viti.

Tratto dal sito del Comune Sulle origini del nome Cavanacum o Cavenagum (da cui tra origine quello del Comune) esistono varie ipotesi: una da Cà venationis, in riferimento alla ricca selvaggina presente nella boscaglia, un'altra a Cà vinationis, in riferimento ai numerosi vigneti un tempo presenti e citati anche da Carlo Porta.

Mappe tratte dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano Le viti “spesse”, nel loro significato di coltura specializzata ed esclusiva, che secondo un documento del 1635 avrebbero dovuto predominare in parecchi territori della zona, risultano in effetti relegate in poche vigne e broli. Nel 1730, la classificazione “Vigna” usata dal Catasto Teresiano appare per la comunità di Cavenago di pertiche milanesi 16. 77


Il vino a Cavenago * Catasto Teresiano Tavola del Nuovo Estimo 1755

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Cavenago, * Catasto Lombardo Veneto 1866

* Tavola e grafico elaborati da Giorgio Federico Brambilla con Valeria Magni ed Elisa Sironi sulla base delle tavole catastali originali

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Il vino a Concorezzo* Iniziamo con ricordare che Concorezzo faceva parte della Pieve di Vimercate e che questa tra le quattro pievi citate nel prospetto qui riprodotto era, nel 1558, quella che poteva vantare una presenza di “aratori vitati” pari al 50,1% del territorio coltivato.

Si può quindi già anticipare che a Concorezzo il vino non mancava. Per parlare direttamente del vino di questo paese cerchiamo le testimonianze nel volume “Storia di Concorezzo” di Floriano Pirola edito dal Centro Civico Culturale nel 1990. Una prima notizia risale all'anno 807 e ricorda il cittadino tedesco conte Dario che acquistava terreni in varie località lombarde, tra le quali Concorezzo, dove “le campagne sono ricche di viti, alberi da frutta, di boschi di querce, ma anche di selve, di brughiera e di terreni ricoperti di sassi”. Facciamo un bel salto nel tempo e arriviamo al 1530, quando il Governo Spagnolo organizzò il censimento dei beni terrieri della * di Vittorio Farchi Lombardia. 80


Da detto censimento, per Concorezzo si rileva che: · Il territorio disponibile è di circa 11.000 pertiche · Il terreno lavorato è di 2.584 pertiche · Di queste ultime circa 1/3 è a vigna · Il resto misto tra campi a cereali e vigna. Possiamo quindi affermare che la presenza delle viti era consistente e dello stesso ordine di grandezza della Pieve di Vimercate, della quale Concorezzo faceva parte. Per curiosità possiamo far notare che delle 11.000 pertiche disponibili, circa 4.200 appartenevano a proprietari milanesi e tra questi Istituzioni religiose come le Monache di Sant'Agnese, le Monache di San Vincenzo e le Monache del monastero Tertexio. Spostiamoci ancora nel tempo e arriviamo al 1696. Concorezzo, come tutti i comuni della Brianza, apparteneva a un feudatario il quale aveva comprato il territorio dal Governo Centrale e sul quale governava, incassava le tasse e agiva da vero padrone. Nel momento in cui cambiava il feudatario, era uso organizzare una cerimonia nella quale gli uomini del paese giuravano fedeltà al nuovo padrone. Nell'occasione il console di Concorezzo, Giovanni Vimercati, che rappresenta il paese, è tenuto ad esporre tutte le informazioni relative allo stesso. La cerimonia ha luogo il 20 novembre 1696. Il nuovo feudatario è il conte Giobatta de Capitani. Gli abitanti sono raggruppati in 136 “fuochi” per un totale di 732 persone. Dal verbale della seduta riportiamo alcuni brani: “ I maggiori estimo sono di: Conte G.B. De Capitani; conte Giacomo Zanatti; fratelli Mantelli; c.sa Rabia; Marchese Recalcati; Benedetto Pallavicino; Francesco Visconti; Giuseppe Rabia di Monza; Gio. Radaello; Fabbrica di s. G.B. di Monza; fratelli Cinquevie; monasteri; curato e cappellani”. Vi è un solo soldato: Gio. Secco, soldato della guardia di S. E. Gio. Cerruti, uomo d'arme: “tre soldati di milizia, ma vi sono e non vi sono secondo le contingenze e sono figli di famiglia” Per la milizia territoriale l'obbligo durava dai 18 ai 60 anni. Non vi sono conventi, né frati né monache. Non vi è alcuna fortezza o torre né prigioni, non recintato da muraglie e le case sono di buona fabbricazione. Il prestinaro di Carugate prende il pane a Concorezzo. Non vi è caccia riservata, ma ognuno avrà licenza dal signor Capitano della Caccia di Milano. Concorezzo è a dodici miglia da Milano, 2 da Monza e un miglio buono da Vimercate, da Oreno e da Agrate “come sempre ho sentito dire”. Si gode in questa bonanza aria perfetta.

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Proverbio brianzolo: «La vit in carozza la manda el padrun a pè».

La parte particolarmente interessante è la seguente: Il territorio della comunità misura circa 11.000 pertiche, tutte senza ragioni d'acqua. Vi sono vigne, campi e boschi. Campi: circa 1.000 pertiche; vigne circa 8.000 pertiche (1) e il rimanente bosco, compreso il sito delle case della nostra terra quale si paga parimenti in pertica. Poco discosto di questa terra passa la roggia Ghiringhella, che non serve però a Concorezzo ma solo ad Agrate. Il terreno è asciutto, niente terreni con riso o con acque, “niente mulini né terreni adaquatorij”. Il prezzo della terra è per pertiche. Molti i gelsi, ma da molti anio non si fa seta, si che la foglia non serve. Quando il raccolto va bene è sufficiente per una comunità ed anche per vendere e quando va bene la vendemmia si fanno 3 mila brente di vino. Il vino costa soldi 5 la brenta: “per ogni brenta di vino e torciadego (2) si riscuotono soldi cinque”. (sia che la brenta corrispondesse a litri 75 o a litri 47, la produzione del vino era sostenuta. Nel 1698 una brenta vale 12 lire).

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

Note : 1.

2.

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La cifra indicata di 8.000 pertiche di vigne è sicuramente errata, forse a causa della trascrizione dal verbale. Ragionevolmente le 8.000 pertiche sono relative a campi ove sono presenti sia i cereali che le viti. Torciadego in brianzolo “el torciadegh” indica il vino nuovo o il vino dolce


Il vino a Cornate d’Adda* C'è un intero capitolo sulla Storia dell'agricoltura locale a cura di Gaetano Forni in cui si parla anche della viticoltura. Peccato che per locale si intenda la fascia pedemontana padana; si parla di Catone di Plinio e di Giulio Cesare, ma non c'è nessuna notizia sulla viticoltura di Cornate. Anche le numerose fotografie non ritraggono mai vigne o agricoltori addetti ai lavori culturali. Si vede solo qualche pergolato attorno alle case o ai casot. (Informazioni tratte da: AA.VV. Vita Contadina CORNATE D'ADDA, Ezio Parma editore 1994).

Consultando il testo AA.VV. CORNATE D'ADDA Dai Longobardi ad oggi, Ezio Parma editore 1987, sono state reperite alcune interessanti informazioni. Non c'è una trattazione specifica e dettagliata dell'agricoltura a Cornate, ma solo riferimenti generici, però a pag. 53 si legge una notizia interessante: «Un'accurata documentazione del tipo di sfruttamento cui il territorio di Cornate era sottoposto nel XVII secolo è disponibile solo in rapporto ai beni della Chiesa: il 46% dei quali era destinato alla coltivazione cerealicola, l'8% alla piantagione delle viti, l'1% era lasciato a pascolo e il 45% occupato dai boschi. Accanto alle viti era diffusa la coltivazione degli alberi da frutto, prevalentemente noci, castani, ciliegi, nelle più diverse varietà.»

* a cura dell'Associazione Amici della Storia della Brianza e di Fedele Molteni

Altre notizie sono tratte dal testo di Edoardo Meani, CENNI STORICO STATISTICI SUL COMUNE DI CORNATE 1877. Meani (1845 – 1910) fu segretario comunale dal 1867 al 1909 al servizio di ben sette sindaci. Fu lui che ricevette il Regio Decreto con cui il 9 giugno 1870 vennero soppressi i comuni autonomi di Colnago e di Porto d'Adda e uniti a quello di Cornate (senza il “d'Adda” che venne aggiunto dopo, nel 1926. per non confonderlo con Carnate) e ne divenne il capoluogo. Ecco due significativi passi di questo interessante libretto. A pag 53 e seguente Meani scrive: «Il territorio che a memoria dei vecchi era coperto da vaste brughiere, le quali furon rese docili e feraci dall'opera diligente dell'uomo, ormai è tutto produttivo; è coltivato con la vanga e con la marra da sufficiente braccia ad un alto grado di perfezione, i prodotti rendono abbondantemente e sono particolarmente il gelso, che è quanto dire la seta, il frumento, che è delle migliori qualità, ed il grano-turco; poca è la coltivazione del gavettone, della segale e dell'avena. Il territorio boschivo e la vite si riducono a poca cosa.» A pag. 26, durante un'immaginaria passeggiata sul territorio comunale, quando arriva a Porto d'Adda l'autore cosi si esprime: «Di questo paesello l'accentrazione o agglomerazione più importante di case e di popolazione è Porto Inferiore, tutto di proprietà del Sig. Giovanni Battista Monzini, già sede municipale del Comune prima di essere fuso con questo di Cornate. Qui si riscontra adottata quell'agricoltura a disegno, che fa somigliare le campagne a giardini. Il vino prodotto sui ridenti vigneti

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a gradinate (ronch) che coprono quei clivi, non è inferiore ai migliori di Galbussera, di Mondonico e di Porchera per isquisitezza di sapore e virtù corroborante.» Nella pubblicazione di Rinaldo Beretta CORNATE D'ADDA, 1953, a pag. 39, parlando di Villa Paradiso dice: «Nelle ridenti terre della Brianza abduana, in quel di Cornate, sulla costa dell'Adda, spicca un grosso cascinale chiamato Villa Paradiso. Se da una parte sappiamo che il nome di Villa gli è rimasto per la villa edificata dai padri gesuiti del Collegio di Brera sul finire del secolo XVII, e non già del secolo XVI come asserì il Meani, per trascorrervi le vacanze autunnali, dall'altra nulla sappiamo del perché si chiami Paradiso. Si è scritto che i gesuiti stessi gli dessero tal nome. Risulta invece con certezza che, ancor prima che essi venissero a stabilirsi, vi sorgeva una casa da nobile con annessa casa da massaro per la coltivazione dei fondi, e che il luogo si chiamava Paradiso Nella seconda metà inoltrata del secolo XVI troviamo il luogo del Paradiso in proprietà di un Leon Santo di Trezzo, il quale vi teneva una casa da nobile, consistente in pochi e vecchi locali, con cantina, torchio per il vino, e pollaio. Appoggiata alla casa stendeva i suoi tralci una pergola di uva bianca moscatella.» In un documento notarile del 1500 («Giacomo Antonio Carcani, cart.10774, atto n.4263,1557 maggio 28 ) si è trovato un'interessante conferma di quanto scriveva il Beretta circa il nome di Paradiso e dell'esistenza in loco di una vigna di 11 pertiche. Questo è il documento: Il magnif. Marco Antonio Latuada acquista da Benedetto e G.Battista de Alamannia f. G. Ambrogio, porta Orientale, parr. S. Maria Passerella, che agiscono a nome della scuola di S. Giovanni Isolano,…. un edificio sito a Trezzo, pieve di Pontirolo, con stalla, cascina, corte, aia; una vigna di 11 pertiche nel territorio di Trezzo, “ubi dicitur ad Paradisum”, confinante con i beni della chiesa parrocchiale di Concesa.» Recentemente Pio Rossi, coordinatore del progetto, ha incontrato la Contessa Paola Rusca, proprietaria della Cascina di Porto Inferiore, a Cornate d'Adda. La cascina possiede terreni agricoli circostanti per circa 50 ettari di superficie, parte dei quali terrazzati, sui quali esistono testimonianze della coltivazione della vite nelle epoche passate. La Contessa ha pure mostrato che nei sotterranei erano presenti ampi vani adibiti alla pigiatura dell'uva e alla conservazione del vino in botti di rovere.

rilievo acquarellato del corso dell’Adda (XVIII secolo) - si vede il simbolo della vite. Archivio di Stato di Milano

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Il vino a Correzzana* * di Vittorio Farchi

Nel volume “Storia dei Comuni della provincia di Milano” edito nel 1934, Correzzana è così presentata: “E' un comune dell'ex circondario di Monza, Mandamento di Carate Brianza, posto in territorio di amene collinette a levante della valle detta Pegorino, con produzione di cereali, gelsi e bozzoli.” Grazie alla sua esposizione collinare Correzzana contava certamente, come i paesi vicini, su un gran numero di viti purtroppo scomparse alla fine dell'800 col flagello della fillossera e della peronospora. Cosa ci racconta ancora il nostro libro: Nel Liber Notitice Sanctorum (Goffredo da Bussero, secolo XIII) si legge che nella Pieve di Agliate, nel luogo di Corroziana vi era (come vi è tuttora) una chiesa, o oratorio, dedicata al martire S. Desiderio, vescovo di Vienne nel Delfinato: e che, in passato, fu oggetto di un culto speciale nella Diocesi Ambrosiana. Correzzana segue le vicende della Pieve di Agliate e in particolare della sezione al di là del Lambro (ultra Lambrum). Invece, ecclesiasticamente, l'Oratorio di Correzzana fu assoggettato alla giurisdizione parrocchiale di Lesmo nella Pieve di Vimercate: nonché da quella di Montesiro e di Casatenovo.

Come si evince da quanto sopra, Correzzana è un paese di antica origine che viene coinvolto, insieme ai paesi vicini, nelle tribolate vicende storiche della Lombardia.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

Nonostante le ricerche non abbiano trovato diretti riferimenti quantitativi sulla produzione del vino salvo che, secondo quanto riportato in un prospetto del censimento della Pieve di Agliate del 1530, a Correzzana erano coltivate a vigna 400 pertiche di territorio. Certamente i terreni a vite erano molti di più e lo confermano i dati relativi ai comuni circostanti come Camparada, tutti dotati di colline favorevoli a quel tipo di coltivazione quanto Correzzana.

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Il vino a Desio* Prima di entrare nel pieno del tema “vino” attraverso la puntuale testimonianza del prof. Massimo Brioschi, forniamo alcune notizie su Desio e la sua Pieve. Secondo il Dizionario Enciclopedico italiano, il nome Desio deriva da quello con cui era designata in epoca romana 'ad decimus' cioè a dieci miglia da Milano verso Como. L'ipotesi risulta molto improbabile e l'origine del nome sembra essere più vicina ad un “deus” originario da cui sarebbe derivato il “Deussio” attestato nelle pergamene medioevali. Nel basso medioevo Desio si trovò coinvolto in varie dispute tra i nobili che si contendevano il Ducato di Milano. Nella storia è rimasta celebre la battaglia di Desio del 21 gennaio 1277. Questa battaglia ha avuto l'onore di essere ricordata nella collezione delle figurine LIEBIG, ed è stata riportata nella pubblicazione del Comune, in occasione del XXII Palio degli Zoccoli. La battaglia di Desio fra i Visconti e i Torriani nelle figurine «Liebig»

* di Vittorio Farchi

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Nel Medioevo Desio fu un importante centro religioso che portò alla creazione della Pieve di Desio. Nella Pieve risiedevano molti sacerdoti che esercitavano il loro ufficio nei paesi circostanti che, pur disponendo di una piccola chiesa, di un piccolo chiosco, di un oratorio, non potevano, dato il ristretto numero di abitanti, ospitare un loro parroco. La Pieve di Desio si estendeva su un vasto territorio e degli attuali comuni ora in provincia di Monza e Brianza, facevano parte, oltre a Desio stessa, Seregno, Lissone, Vedano, Biassono, Macherio, Bovisio, Varedo, Muggiò, Nova. In tutte le carte topografiche, fino al '700, risulta la appartenenza di questi comuni alla Pieve di Desio. Per quanto riguarda i terreni coltivati nell'ambito della Pieve, gli stessi occupavano una superficie di 131.759 pertiche, delle quali 40.664 ad “aratorio avitato” pari al 30,8% del totale. Lasciamo ora la parola al prof. Massimo Brioschi con il suo interessante articolo: Lo sviluppo demografico ed edilizio degli ultimi decenni rende quasi impossibile pensare che fino a non molti anni fa il territorio desiano era un'area votata all'agricoltura. Ancora più “strana” potrebbe suonare la constatazione che fino ad Ottocento inoltrato la città brianzola era un'area di produzione vincola. Esempio imperituro e lampante di questo tipo di produzione rimane l'accenno al vino di Desio che compie Carlo Porta nel Brindisi di Meneghino. Per comprendere il peso di questo tipo di produzione sull'economia locale occorre però una premessa. L'area della bassa Brianza è sempre stata un territorio decisamente sovrappopolato; le risorse offerte dall'ambiente erano in passato nettamente inferiori alle necessità della popolazione rurale. Di conseguenza lo spazio disponibile, salvo la necessaria quota di boschi, doveva essere destinato alla produzione di cereali, base dell'alimentazione contadina. Ad un certo punto della vicenda storica, una discreta parte dei suoli risulta destinata alla coltivazione della vite. Questa iniziativa non sembra dover risalire alle intenzioni dei nostri lontani progenitori, ma ad un intervento “esterno” che decise di trasformare i suoli arativi in vigneti. Quando e soprattutto ed a opera di chi avvenne questo trapasso non ci è dato sapere con esattezza, ma le pergamene basso medioevali ci offrono qualche suggerimento per l'area di Desio. Nel corso del Trecento il Capitolo del Duomo di Milano effettuò una cospicua serie di acquisti e permute nel territorio desiano, fino a comprendere una superficie complessiva che si aggirava intorno alle quattrocento pertiche; dalla documentazione emerge chiaramente che molti di questi suoli furono trasformati in vigneti. Appare dunque chiaro che i canonici del Duomo intendevano investire nell'area brianzola per produrre un bene molto richiesto sul mercato cittadino; ci troveremmo dunque di fronte al passaggio da un'economia legata alla sopravvivenza ad un'economia di mercato che lega la coltivazione dei suoli al mercato cittadino, finalizzando non più la produzione all'autoconsumo, ma alla vendita ed alla trasformazione delle derrate agricole in capitali.

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Un ulteriore fattore che deve aver giocato a favore di questa tendenza fu nella seconda metà del Trecento lo scavo della Roggia di Desio, un canale artificiale che conduceva fino al borgo le acque del fiume Seveso. Come si rileva chiaramente dalle carte settecentesche, i fondi prospicienti il corso della roggia erano coltivati a vite; tale fatto è un chiaro segno che indica come i suoli migliori, quelli irrigui in una zona priva di risorse idriche, fossero destinati alla produzione di vino. Il territorio desiano era in gran parte di proprietà di enti ecclesiastici ( Duomo di Milano e capitolo della Basilica dei Santi Siro e Materno di Desio) oppure di enti di beneficienza ed assistenza (Scuola dei Poveri di Sant'Agata e Scuola dei Poveri Putti). Come emerge chiaramente dalla documentazione, tutti questi enti erano produttori di vino che vendevano sui mercati milanesi, oppure utilizzavano per il bisogno “interno”. Di tale uso rimane una simpatica e piccola testimonianza nell'uso di distribuire giornalmente ai muratori operanti nei diversi cantieri un boccale di vino prodotto nelle vigne dei committenti desiani. I documenti rimasti riguardanti l'attività economica del capitolo della chiesa di Desio confermano che l'interesse dei proprietari era puntato sulla produzione di vino. Già alla fine del XVI secolo i canonici desiani usavano modalità contrattuali pressoché simili al contratto misto del XIX secolo. Questi stratagemma permetteva di assicurarsi una percentuale maggiore sulla produzione totale di vino rispetto alla produzione cerealicola. Attenti alle minime spese, i canonici non lesinavano sulla coltivazione della vite; infatti, caso unico, curavano a proprie spese l'acquisto dei pali da vigna e l'ingrasso per le viti. La cura era notevole tantoché nel Settecento si giunse a citare in giudizio un potatore che, a detta dei canonici, con un intervento inappropriato aveva compromesso l'esito della produzione. Da un catasto fondiario realizzato per iniziativa del capitolo desiano nel 1515 risulta che la quota di suoli destinata alla coltivazione della vite non era estesissima. La vigna occupava il 6,7% della superficie censita e la coltura promiscua di cereali e vite costituiva l'8,2% del perticato cittadino. Poca cosa rispetto ad un quasi 80% destinato al'aratura, ma è sintomatico il fatto che quasi tutte le vigne erano di proprietà di enti assistenziali o ecclesiastici riferibili alla metropoli lombarda; Ospedale Maggiore, Domus Misericordiae di Milano e Chiesa di Santa Tecla erano proprietari di oltre duecento pertiche di vigna, collocate nelle aree più produttive perché legate, come visto, alla presenza dell'acqua. Informazioni più puntuali ci sono offerte da un interessante documento del 1817 che inventariava tutte le specie vegetali esistenti nelle proprietà dell'avvocato Giovanni Battista Traversi. Il testo ci permette di conoscere l'effettiva incidenza di questo tipo di coltivazione nell'economia rurale dell'epoca. 5.926 viti a ghirlanda 376 viti a pergola 124 viti tese sopra piante e frutti 27 viti a foppa 172 viti in spalliere

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Proverbio brianzolo: «Ul vin e i donn, a tiran scemu l'om».

Questa imponente massa di viti garantiva una cospicua produzione. Da un inventario della metà del XIX secolo sappiamo che le ampie cantine di Villa Traversi a Desio ospitavano una notevole serie di recipienti vinicoli (vaselli, botti, barili e zuffetti). Nelle cantine desiane erano alloggiati trentun contenitori che, eclusi quelli ritenuti “logori”e quelli da trasporto, avevano una capacità complessiva di duecento brente, pari ad oltre 150 ettolitri. La documentazione rimasta ci informa che il prodotto serviva per gli usi quotidiani nel palazzo milanese del Traversi; ignoriamo però se fosse destinato alla tavola dei proprietari o quella della servitù. In capo a pochi anni la fillossera avrebbe spazzato via anche il ricordo del “Bianco di Desio”.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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Il vino a Giussano* Chissà se ad Alberto da Giussano il vino piaceva? Speriamo di si in quanto, dopo la battaglia di Legnano, le occasioni per brindare non mancarono e le sue terre di vino ne offrivano in abbondanza. Lasciamo però le vicende storiche del Medioevo e partiamo dal periodo della dominazione spagnola in Lombardia (1525 – 1706). Ricaviamo le notizie dal pregevole volume “GIUSSANO – la storia e il presente “di Giorgio Giorgetti, editore Bellavite – 1990. Gli spagnoli avevano bisogno di soldi per finanziare le loro guerre contro la Francia ed organizzarono un censimento catastale che avrebbe permesso a loro un efficace prelievo fiscale e che consente a noi di avere qualche notizia sulla presenza del vino. Il primo cenno ci viene fornito in occasione di una calamità naturale: l'8 e il 20 agosto 1621 cadde una terribile grandinata che devastò molte terre della Brianza e tra queste Giussano, Robbiano e Baraggia. S'inoltrò supplica onde ottenere un sollievo dalle gravezze fiscali. Il Magistrato Ordinario mandò un delegato, al quale se ne unì un altro dei Sindaci del Ducato, per effettuare il sopralluogo. I due incaricati interrogarono per i quattro sopraddetti comuni parecchi testimoni degni di fede, i quali deposero che “l'entrata et cavata delli territorij parte in vigne, biade, castagne, et frutti, cioè noci, pomi, persici et brugne, per essere detti territorij parte in vigne, parte in campi, parte in selve, ma il nervo dell'entrata consistere nel vino, perché quanto alla biada grossa ne fanno solo per il vivere de sei mesi”. Non sappiamo come andò la supplica ma apprendiamo che le maggiori entrate provenivano dal vino. Tra le località colpite, oltre a Giussano e Baraggia, è citato Robbiano che era allora indipendente, ma nel 1870 venne integrata nel comune di Giussano. Come si vede il vino era allora il prodotto principale della Brianza: in buongustai milanesi apprezzavano soprattutto i vini di monte vecchia e di Porchera (Brivio), che tuttora godono di discreta fama: dopo il 1859, con l'unità d'Italia, la vite scomparve dalla Brianza, vinta dalla concorrenza dei vini del Piemonte e del Meridione. S'intensificò così la coltivazione del grano e del baco da seta. Anche dagli atti della visita del Cardinale Federico Borromeo si rileva che in quel tempo i nostri contadini coltivavano frumento, segale, miglio, panìco, fave, ceci, fagioli, piante da frutta e specialmente vite. Una delle decime più importanti della chiesa di Giussano era appunto il vino. Dal censimento del 1572 abbiamo qualche notizia sulla popolazione: Giussano fa fochi n. 113 in tuta: da i quali i nobili sono 13, rurali 100 * di Vittorio Farchi circa. Li detti conti (Balbiani) per la stessa convencione scadono lire

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Proverbio brianzolo:

«Ann e buccér da vin, sa cuntan no finna a la fin».

233. Hostaria, prestino, beccaria sono delli medesimi conti. Pagano lire 74 lano. Il sale che serve detta terra sono stara 90, et pagano aconto del mensualle censo canalaria come li altri di sopra pero e tuto alienato infrascritti etc. Il pertigatto in tuta sie pertiche 589, il resto e delli nobili: e questo e quanto abbiamo trovato facendo fine e se recomandiamo. Nella metà del '700 la situazione economica ebbe un notevole miglioramento: l'agricoltura si sviluppò, si dissodarono terreni incolti e si migliorarono le coltivazioni delle viti e la qualità del vino.

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Il vino a Lesmo* Nel dare notizie sui Comuni Lombardi, la provincia, nel 1934 così presentava Lesmo: “E' Comune dell'ex Circondario di Monza, Mandamento di Vimercate, situato sulla sinistra del Lambro, all'imboccatura dell'amena valle detta del Pegorino, in suolo collinoso che produceva un tempo anche viti ed ora gelsi, frumento, granoturco e bozzoli”. Dal volume «Lesmo, frammenti storici» di Tarcisio Beretta (Edizione Cassa Rurale e Artigiana di Lesmo, 1984) riportiamo: “Grazioso comune alle falde di un altipiano che forma la parte alta e si rompe a nord in colline dai dolcissimi pendii ridenti e solatii… Amenità di sito e territorio di prospera vegetazione … Sulle prime colline di accesso alla Brianza simili a balconi turgidi di fiori, laghetti cerulei incastonati nello smeraldo dei prati, selve dalle fulve chiome, veri baluardi contro le infiltrazioni nelle nebbie, osservatorio discreto, incomparabile gioiello …

Nel leggere l'opera di Tarcisio Beretta, si può rivivere alcuni scorci del duro lavoro del contadino e percepire la presenza della vite anche nel Comune di Lesmo. “Ai campi venivano riservati gli alberi da frutta destinati in modo esclusivo all'alimentazione. La preferenza era per la vigna; seguivano poi il fico, il ciliegio, il pesco, il susino, mentre negli orti privati troviamo il nespolo, il pero, il melo, il melocotogno, il noce e l'albicocco. L'albero più corteggiato, in certi periodi, dai contadini era il gelso perché da esso dipendeva la riuscita o meno della cosiddetta “campagna del baco da seta”. * di Pio Rossi Per tutto il periodo gennaio-aprile era un susseguirsi di operazioni 92


effettuate secondo un rituale consolidato ed ereditato dalla tradizione, come la vangatura (lavoro durissimo, da spezzare la schiena), la semina dell'avena, la piantagione del granoturco e delle patate, i primi tagli d'orzo e di segale per il bestiame. La stagione del raccolto era attesa trepidazione e non poche apprensioni in quanto era con essa che si rendevano fattibili i frutti delle fatiche e dei sacrifici di un anno: decideva del futuro esistenziale di tutta la famiglia. A furia di rinunce il contadino diventava, inconsapevolmente, un rinunciatario che si rifugiava nella rassegnazione. Gli era amica soltanto la fede che lo esortava a sperare nella provvidenza. I mesi di maggio, giugno, luglio erano considerati mesi epifanici grazie al taglio del fieno maggengo, alla mietitura e trebbiatura del grano, alla sfrondatura dei gelsi necessaria per alimentare quei formidabili mangiatori di foglie che sono i bachi da seta. In agosto, settembre e ottobre si procedeva al secondo taglio del fieno agostano ed al suo immagazzinamento nel fienile per la scorta invernale, alla raccolta delle patate e del granoturco con relativa spolatura, alla vendemmia e alla vangatura del terreno per la semina del frumento. Tutti i lavori agricoli all'aperto si dovevano completare in novembre per apprestarsi a trascorrere l'inverno nelle stalle, alle prese con la fabbricazione delle scope, le museruole per i vitelli e la manutenzione degli attrezzi (udesei) agricoli. Come detto all'inizio, il vino era prodotto in buona quantità ed anche di buona qualità, come ci conferma il famoso poeta milanese Carlo Porta che del vino prodotto nella frazione di Gernetto, nel suo brindisi in onore dell'Imperatore Francesco Primo d'Austria dice: «Ma ovej là! giust mò lu sur Perell, scià on bon fiaa de finett, ma de quell savorii, limped luster e s’cett che se catta suj roch del Gregnett.» Ma ohei là! Giusto adesso lei signor Perelli, qua un buon sorso di vinetto, ma di quello saporito, limpido, lustro e schietto che si coglie sulle colline del Gernetto. E definisce il vino prodotto nella frazione di Canonica “quij cordial – de Canonega …” Anche Basilio Bertucci in “Bacco in Monte di Brianza” nel lodare i vini della zona cita quello di Lesmo:

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Il vino a Lissone* * di Vittorio Farchi Lissone è un paese molto antico con una storia interessante ed ha

vissuto molti tristi eventi dovuti alle invasioni, occupazioni e distruzioni che si sono succedute nei secoli (eventi ben illustrati dal prezioso volume “ Lissonum” edito dal Comune di Lissone). Nei tempi remoti e fino alla fine dell'800, la principale attività economica era rappresentata dall'agricoltura e, come per quasi tutti i comuni della Brianza, la viticoltura era molto diffusa. Qualche curiosità storica: fin dall'inizio del 1200 in Lombardia si era diffuso l'Ordine degli Umiliati che, secondo alcuni storici, avevano in Lissone una particolare importanza e possedevano tre case. Nel 1298 due case scomparvero. La terza, secondo un documento del 1340, non era molto abitata “frates sex, sororem unam, famolus unum” . Pochi religiosi ma una buona proprietà terriera di 180 pertiche di “aratori e vigneti”. Il vino quindi non mancava. All'inizio del 1400 gli Sforza, duchi di Milano, avevano introdotto la “INVESTITURA DEI FEUDI” per cui certi territori del milanese venivano venduti a dei feudatari che diventavano padroni assoluti di quei territori. Gian Galeazzo Sforza si invaghisce di Luisa Magliani e, per amore e non per soldi, nel 1476 le dona un feudo che comprende alcune terre della Pieve di Desio, della quale Lissone faceva parte. Da un documento del 1580 si evince quali erano i diritti del feudatario su Lissone: Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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Proverbio brianzolo:

·

In tutto il territorio il dazio di pane, vino e carne che era affittato per tutto il feudo a scudi 200 oro. «El pan el ghe voeur, el · Per Lissone, Cassina G. Aliprandi ed altri luoghi il dazio vin el ghe muraria». dell'imbottato (tassa sul vino già in botte), che era affittato per tutti quei luoghi per una complessiva somma di L. 1200. · L. 50 pagata da tutta la Pieve per il prezzo di un bove da darsi ogni anno al feudatario. · Il dazio “della mesura delle biade della città di Como”, affittato a L. 1300. · Un'entrata di L. 208 riscossa dal Conte Feudatario sopra i censi del Comune di Desio. Da questo si deduce facilmente l'importanza del vino. Alla fine del 1600 la popolazione di Lissone e delle cascine dei dintorni ammontava a 1.128 persone appartenenti a 136 “fuochi” (unità familiare). Il territorio si estendeva per 13.631 pertiche milanesi (una pertica corrisponde a 654 mq.). Dei terreni non conosciamo le suddivisioni tra i diversi tipi di coltivazioni e quindi non possiamo dire esattamente quanti erano a vite. Ci può però aiutare il fatto che Lissone faceva parte della Pieve di Desio nella quale, nel 1558, i terreni ad “aratorio vitato” costituivano il 30,8% del totale ed è ragionevole quindi supporre che le vigne a Lissone occupassero una simile percentuale.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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Il vino a Macherio* Per parlare di Macherio e del suo vino estrapoliamo notizie dal bel volume “Storia di Macherio” edito dal Comune nel 1995 e partiamo da molto lontano, visto che si parla di un “ronco”: “Nel IX secolo, tra i maggiori proprietari della bassa Brianza compariva la famiglia degli Albuzi di Biassono, che possedeva, tra le altre, le terre di Vedano, Macherio e Sovico. Il componente certamente più noto di questa famiglia fu Ansperto, che nell'868 divenne arcivescovo di Milano. E' proprio nel secondo dei due atti testamentari di Ansperto, morto nell'881, che si ritrova per la prima volta citata un'area compresa nel territorio di Macherio. e dispongo che mio nipote Ariprando diacono abbia quel ronco di mia proprietà che è posto nello stesso territorio di Biassono, detto dell'Aldeprandi, e che si trova a Baragia, sotto la selva di Sovico”. Per le nostre ricerche è importante che il testamento indichi un “ronco” cioè un terreno terrazzato ove sul bordo venivano coltivate le viti. Facciamo un bel salto nei secoli e arriviamo al 1530, anno nel quale il Governo Spagnolo eseguì il primo censimento della Lombardia : a Macherio abitavano 36 “fuochi” (unità familiari) per un totale di 106 persone: 97 rurali e 9 possidenti. Sono da considerare anche 16 bovini. La capacità lavorativa della popolazione era tale che, su una superficie totale del territorio di 3.610 pertiche, solo 1.480 erano coltivabili.

* di Vittorio Farchi

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Proverbio brianzolo: «Chi sa ul latin loda l'acqua e bev ul vin».

Una rilevazione del 1546 dice invece che le coltivazioni erano sensibilmente aumentate fino ad occupare i quattro quinti del territorio e che su di essi crescevano cereali e viti. Viene anche evidenziato che, mentre nella Pieve di Desio (di cui Macherio faceva parte) si registrava il prevalere dell'aratorio semplice, a Macherio vi era un sostanziale equilibrio tra la coltura di soli cereali (aratorio semplice) e quella mista di cereali e viti (aratorio avitato). All'inizio del 700 la Lombardia fu governata dagli austriaci che introdussero un radicale riordino del sistema impositivo e la creazione di un minuzioso catasto. Come evidenziato nel riquadro riprodotto a fianco, si rileva che le aree a vite (alcune con moroni ai bordi) rappresentavano il 31,5% del totale. A titolo di curiosità riportiamo anche il prospetto che indica chi erano i proprietari terrieri dell'epoca. Si può notare che anche a Macherio, come in tutti gli altri paesi vicini, erano presenti istituzioni religiose di altre località. In questo periodo la popolazione di Macherio era costituita da 315 abitanti: 170 maschi e 145 femmine. A metà '800 la popolazione aveva superato i 1.200 abitanti ed anche in questo periodo il governo del Lombardo-Veneto aveva organizzato un censimento il cui schema è qui riportato: le colture a vigna sono significativamente diminuite a 17,7%, la bachicoltura ha sensibilmente soppiantato le viti e probabilmente già si risente del diffondersi della fillossera.

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Il vino di Mezzago* * di Vittorio Farchi

la torre dei sette ripiani

La “Storia dei Comuni della Provincia di Milano”, edito nel 1934, così dice di Mezzago: “E' Comune dell'ex circondario di Monza, Mandamento di Vimercate, situato nella parte orientale tra l'Adda e il torrente Molgora, in territorio fertile; produce frumento, granoturco, ortaggi, con coltivazione speciale degli asparagi”. Gli asparagi di Mezzago, tuttora famosi, sono il vanto del paese e vengono particolarmente apprezzati dagli intenditori. La citata pubblicazione ci ricorda che Mezzago ha antiche origini e che il nome deriva dal latino “Mezzagum”. Per altri il nome deriva da “in mezzo all'agro” (in mezzo ai campi). Dal libro riportiamo anche una curiosità storica che ha coinvolto Mezzago in una battaglia tra francesi e austriaci: Mezzago ebbe una parte nella battaglia di Verderio Superiore, combattuta il 28 aprile 1799 tra l’armata austriaca, comandata dal Generale, Barone Vukassovich, e l'armata francese, alla cui testa trovavasi il Generale Serrurier. Gli avversari si batterono su quattro punti, con un coraggio senza esempio. Le sorti della battaglia restarono per lungo tempo indecise; ma finalmente la fanteria austriaca obbligò la divisione francese a ritirarsi, ad abbandonare i trinceramenti e ad arrendersi al vincitore. Il giorno prima, i francesi avevano portato a Mezzago dell'acquavite e del sale; ma essendo sopraggiunti gli austriaci, si diedero alla fuga, lasciando in Mezzago quanto vi avevano portato. Allora i mezzaghesi si divisero allegramente fra loro ciò che i francesi avevano lasciato. Il mattino dello stesso giorno della battaglia, Serrurier, comandante francese, da Verderio minacciò l'incendio di Mezzago, qualora quei paesani non avessero trasportato al campo l'acquavite e il sale che le truppe francesi vi avevano lasciato. Nuove molestie vennero arrecate, in quell'occasione, a Mezzago, da parte della soldatesca russa alleata agli austriaci. Molti gli argomenti toccati ma di vino nessuna traccia.

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Proverbio brianzolo: «Chi gh'ha la vigna sova in tra marz e april… la brova».

Va però ricordato che Mezzago faceva parte della Pieve di Vimercate che a metà del 1500 vantava la presenza degli “aratori vitati” nei quali l'uva era ben presente, pari al 50% dei terreni coltivati. Come per i Comuni vicini, ed in particolare per quelli che si affacciano sul Molgora, sicuramente Mezzago produceva buon vino anche nel '700 e nell' '800. Purtroppo la pubblicazione del Comune che parlerà della storia del paese, senza tralasciare l'agricoltura, è in fase di stampa, per cui non disponiamo di notizie più dettagliate sull'argomento. Siamo però sicuri che nella pubblicazione troveremo ampia conferma di quanto qui affermato.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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Il vino a Monza* La storia di Monza è piuttosto nota, per cui possiamo affrontare direttamente l'argomento 'vino' che qui ci interessa. E'di fondamentale aiuto la pubblicazione “VITA ECONOMICA E SOCIALE DI MONZA E BRIANZA” di Sergio Zaninelli (ed. Il Polifilo – 1969). Ne riportiamo molte informazioni e dati, ricavati dalle tabelle riassuntive. Iniziamo dalla prima metà del '500, all'epoca di Carlo V. Come evidenziato nella tabella qui riprodotta, a Monza l'”aratorio avitato” (una pertica milanese era molto esteso e pari al 65,59% del totale dei campi coltivati che corrisponde a 654 m2) occupavano una superficie di 40.267 pertiche. * di Vittorio Farchi

Nel '700 l'economia agricola si era notevolmente ampliata ed i terreni coltivati erano raddoppiati raggiungendo un totale di 87.010 pertiche. La vite manteneva il posto che già aveva assunto 200 anni prima e occupato una superficie di 54.898 pertiche, pari al 62,49% del totale.

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Va ricordato che nei campi coltivati a vite molto spesso ai bordi erano presenti i “moroni”, molto importanti vista la diffusione che aveva raggiunto all'epoca la bachicoltura. Un'altra sottolineatura meritano i “ronchi” (anche se non citati nella tabella) : terreni collinari suddivisi in terrazze con le viti collocate ai bordi e le zone centrali riservate ai cereali. Può essere interessante conoscere la distribuzione delle proprietà terriere per gruppi sociali di appartenenza dei titolari, sempre nel 1730: GRUPPO SOCIALE Nobili Enti religiosi Altri

TITOLARI 53 110 301

% 11,43 23,54 65,03

SUPERFICIE 21.130 36.092 30.580

% 24,29 41,48 34,24

Riguardo al tipo di vino prodotto ne viene fatta notare la scarsa qualità, dovuta all'incuria e all'incapacità di molti contadini. Riportiamo una nota in proposito:

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Proverbio brianzolo: «Pan vin e gnòcca sel vör fiucà chel fiòcca».

“Il nostro vino di Brianza per una gran parte non è abbondante di sostanze zuccherose, anzi sovrabbonda delle altre indicate sostanze, delle quali spogliato che sia, diventa medicamento. Ma bevuto ancora non ben purgato, ha una tendenza a produrre delle malattie infiammatorie, che sono appunto i mali dominanti in queste colline (C. De Capitani D'Hoe, Sull'agricoltura particolarmente nei paesi di collina cit., vol. II p. 150). Ciononostante, certi vini della collina briantea si erano fatti una certa fama: di essi dà un elenco lo stesso C. De Capitani D'Hoe, Memoria seconda sull'agricoltura del Monte di Brianza, in “Annali dell'agricoltura del Regno d'Italia” tomo IV (1809) p. 196.” Possiamo quindi concludere che a Monza il vino non mancava, anche se i nobili probabilmente si rifornivano, per il loro consumo, altrove. Del vino della zona di Monza parla bene e ne vanta le virtù terapeutiche Carlo Porta nel suo “Brindisi” in occasione della visita a Milano (1915) dell'Imperatore Francesco I con la moglie Maria Luisa. Egli sostiene che i vinelli monzesi avevano 'aggiustato lo stomaco' dell'imperatrice che da ragazza aveva vissuto in quelle terre: Car vinitt del Monsciasch savorii, Che gh'avii Giustaa el stomegh de tosa, Tornee adess A giustachel l'istess, conservenn la soa vitta preziosa!

sopra: la cosiddetta Tazza di Zaffiro, una coppa di vetro blu, rimontata nel XV secolo su un fusto in oro, identificata per tradizione con quella che Teodolinda avrebbe utilizzato per la cerimonia del fidanzamento con Agilulfo (Museo e tesoro del Duomo di Monza) di fianco: Franceschino Zavattari - il banchetto di nozze 1441/1446 Duomo di Monza

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Il vino a Muggiò* Proverbio brianzolo: «Bév un biccer de vin prima de la minestra, tegn el dottor foeura de la finestra».

Per introdurre il discorso sul vino di Muggiò, riportiamo un brano del bel volume MUGGIO' – storia, arte e cultura (ediz. Ezio Parma, 1994) che ci riporta in tempi antichi. Risalendo nei secoli sappiamo che gli Etruschi abitarono qui, e che ai tempi dei Liguri la zona era ricca di viti e di vino. Lo spiega il professor Antonio Sartori, che scrive: “Ha origine ligure anche la parola LAMBRUSCA con cui i romani indicavano la vite selvatica, la vite spontanea dei luoghi umidi o paludosi: un nome molto fortunato per longevità e che diventa molto familiare nell'altro modo in cui lo conoscevano i romani, LAMBRUSCA, proprio come il nostro più popolare vino padano d'oggi”. E come il Lambro, il fiume che evidentemente aveva le rive ricoperte dalla vite spontanea, appunto la LAMBRUSCA. Dunque la pianura padana era terra di viti e di vino,tanto che secondo la leggenda fu proprio offrendo del buon vino ai Galli che l'etrusco Arrunte li convinse ad attraversare le Alpi per conquistare quella terra che poteva produrre simile nettare e nello stesso tempo vendicare un affronto da loro subito: e fu così che inseguendo il vino, Galli e Celti invasero la Pianura Padana. Facciamo un bel salto nel tempo e ricordiamo che Muggiò, come altri paesi vicini, faceva parte della Pieve di Desio. Nel 1476 la Pieve di Desio passa come feudo alla favorita di Galeazzo Maria Sforza, la bella Luisa Marliani. Il vino rappresenta una importante fonte di reddito per i feudatari come possiamo ricavare dal brano sullo stesso argomento trattato per Lissone (anche lui facente parte della Pieve di Desio). Redditi che nel 1796 furono aboliti con l'arrivo di Napoleone. Un dato quantitativo ce lo fornisce il volume “Storia di Monza e Brianza – vita economica e sociale” (Sergio Zaninelli, ediz. Il Polifilo 1969). La superficie di cultura nel 1558 nel Feudo di Desio era di 131.750 pertiche, di cui 49.664 (30,8%) a vite. Le terre coltivate a Muggiò nel 1770 erano di 8.105 pertiche. E' lecito supporre che le vigne fossero presenti nella stessa percentuale. Una preziosa testimonianza alla nostra storia ci viene fornita nel 1830 dal CABREO della famiglia Casati. CABREO è una parola spagnola che indica un documento che riporta l'elenco dei beni appartenenti a grandi amministrazioni signorili.

I terreni di proprietà dei Casati erano molto vasti e si estendevano non solo in Muggiò, ma anche a Desio e a Lissone, come si evince dal frontespizio del documento separatamente riprodotto. Il totale dei terreni coltivati era di 1.778 pertiche di cui a Muggiò 1.658, a Desio 109, a Lissone 10. Dal totale 1.060 pertiche, quasi 60% era a vite. Separatamente si riporta l'elenco dei campi con l'indicazione del tipo di cultura, l'estensione e il valore capitale. In conclusione una * di Vittorio Farchi bella conferma che a Muggiò il vino non mancava. 103




Il vino a Nova Milanese* Nova è un paese di antica origine e faceva parte della Pieve di Desio. Nel 1530, su disposizione di Francesco II Sforza, nel milanese fu fatto un censimento nel quale le persone erano schematicamente suddivise tra “nobili” (che venivano censiti a parte) e “rurali”, più semplicemente chiamati “bocche”, come se lo scopo della loro esistenza non fosse altro che quello di mangiare. In tutto il paese di Nova, comprese le frazioni di Grugnotorto e Cascina Meda, erano presenti 165 persone la cui forza produttiva riusciva a lavorare 1.920 pertiche su una estensione di 5.819, pari al 33% del terreno disponibile. Con questa produzione il paese riusciva a sopravvivere e a pagare le tasse. Le 165 persone erano suddivise tra 9 nobili e 156 rurali facenti parte di 37 “fuochi” (unità familiari). Per il lavoro nei campi disponevano solo di 18 paia di buoi. Dalle rilevazioni del 1558 risulta che delle 1.920 pertiche coltivate il 30% è qualificato “aratorio vitato” e questo dimostra la consistente presenza della vite. Nel periodo spagnolo la presenza dei terreni a vigna aumenta: in base ad un censimento del 1627 l'estensione dei terreni coltivati è diventata di 8.256 pertiche, delle quali 4.535 di aratorio semplice e 3.097 di aratorio vitato. Nel 1718 ha inizio la compilazione del nuovo catasto che si concluderà dopo 40 anni sotto il regno di Maria Teresa ed in quella data la superficie di terreno coltivato ammontava a 8.476 pertiche. La distribuzione per tipo di colture è la seguente: ARATORIO CON MORONI ARATORIO VITATO CON MORONI ARATORIO SEMPLICE ARATORIO VITATO ORTO E GIARDINI BOSCO

* di Vittorio Farchi

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46% 31% 9% 8% 3% 3%


Proverbio brianzolo: «Di vòlt el vin dulz, el diventa asee rabiaa».

La tabella precedente evidenzia che, durante la prima metà del'700, la coltura della vite raggiunge il 40% del totale delle coltivazioni. L'uva prodotta è di discreta qualità e ce lo assicura Carlo Porta che cita il vino di Nova tra i migliori della Brianza: “… quei mostos, nett s'cett e salaa de Suigh, de Biasson, de Casaa de Bust piccol, Buscaa, Parabiagh de Mombell, de Cassan, de Noeuva e Des O oltra mila million de vin bon Che s'el riva a saggial el patron No'l ne bev mai più on gott forestee…”. Fonte: “STORIA DI NOVA “ di Massimo Banfi e Angelo Baldo (Gruppo Culturale San Carlo).

Nova nel 1721 - Archivio di Stato di Milano

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Il vino a Ornago* * di Pio Rossi Ornago è un Comune che faceva parte dell'ex Circondario di Monza,

Mandamento di Vimercate, posto a tre miglia e mezzo dalla riva sinistra della Molgora, in direzione sud-est. Fino a un centinaio di anni fa gli abitanti di Ornago furono esclusivamente agricoltori. Nel 1568 Don Stefano Gerosa dovette compilare l'elenco delle sue “spettanze”: 29 moggia tra segale e frumento, 3 some di avena, 1 staio di farro macinato, 1 staio di ceci, 1 di fave e di fagioli, 3 paia di capponi, uova di gallina, 60 libbre di carne di manzo salata, 50 brente di vino, legna, noci, castagne e ”altri frutti de broca”, frutti di ramo, di stagione: mele, pere, ecc. Più naturalmente prodotti dell'orto. Una testimonianza indiretta della presenza della vite anche nel territorio del Comune di Ornago, confermata dalla successiva carta catastale di Carlo VI riferita ad Ornago al 1721: numerosi erano gli appezzamenti censiti in zona in prevalenza coltivata a campi con vite (aratorio vitato), circa 1/3 dell'intera superficie del Comune, Mappa tratta dal corrispondente a 8454 pertiche milanesi. Catasto Teresiano Fonte: sito internet (Tratto dal libro di Leone Galbiati e Arnaldo Milani – “Ornago , il Archivio di Stato tempo di un paese”, Ediz. Parrocchia S. Agata). di Milano

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Il vino a Renate * * di Vittorio Farchi Renate faceva parte della Pieve di Agliate che copriva molti Comuni dell'attuale provincia di Monza e Brianza. La Pieve raggiungeva, in termini di territori coltivati, 93.720 pertiche delle quali 20.922, pari al 22,2%, erano a vigna (dati del 1588). La miglior presentazione del paese la troviamo nei versi di Ernesto Resnigo nell'ode “Pro Renate” del marzo 1922: “S'te ciappet el vapor che và a Molten, e dopo cinqu minutt passaa Besana, ecco Renaa: on paes dòe se sta ben per la gent per el vitto e l'aria sana”. A questa introduzione seguono dei versi che, in una visione panoramica, citano i paesi vicini e le frazioni di Renate e parlano di vino : “Gh'è Vedugg de vedè, gh'è Barzanò, Villa Ravee, Besana, el Vianò, Imbevera, Crimella con Cassagh, El Cantin, Odeusa e poeu 'l Tornagh. … Mi v'hoo cuntaa a la mej, senza la franza, come se viv e se stà ben a Renaa, vorii la salut? Andee in Brianza! E procuree de passà là l'estaa!” Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

Proverbio brianzolo: «Setember Setembrin, ùga per el vin».

Nel 1530 Renate era poco più di un villaggio con 91 abitanti e 20 capi di bestiame; possedeva 240 pertiche coltivate a vigna, 298 tra campi e prati e 230 di ronco. Per ronco si intende il terreno terrazzato ai cui bordi venivano piantate le viti e nel centro le colture tradizionali. Ai dati di Renate vanno aggiunti quelli di alcune frazioni circostanti: Tornago che nel 1530 ospitava una sola famiglia di 7 persone ed una mucca ma che possedeva 80 pertiche a vigna, 100 tra campo e prato e 40 di ronco; Vianò con 31 persone, 14 animali, 345 pertiche di terreno lavorato, 225 a vigna, 302 tra campi e prato e 175 a Ronco; Odosa con 91 abitanti, 3 capi di bestiame, 100 pertiche a coltura, 130 a vigna e 268 a campo e prato. Come appare evidente dai dati di metà del '500, le viti erano ben diffuse con una percentuale più elevata rispetto a quella della media della pieve. Fonte: “Renate attraverso i secoli” di Umberto Sironi – ed. Comune di Renate – 2002.

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Il vino a Roncello* * di Vittorio Farchi

Roncello è un antico Comune dell'ex circondario di Milano, Mandamento di Gorgonzola, situato a circa tre miglia dalla destra dell'Adda, in territorio fertile che produce cereali e a suo tempo gelsi e viti. Faceva parte della Pieve di Pontirolo. Per fornire notizie sulla presenza delle viticolture nei secoli passati ci affidiamo al volume “Storia di Roncello dalle origini al XX secolo” di Vincenzo Sala, edito dal Comune nel 2003 e dal quale riportiamo alcuni brani. Iniziamo la nostra relazione dal 1721 quando il Governo Austriaco inizia le rilevazioni per la creazione del Catasto Teresiano: «A Roncello, i funzionari incaricati di verificare la regolarità delle operazioni di misura compiute dai periti e di raccogliere e redigere i “processi” comparvero nell'ottobre del 1721, mese nel quale l'inchiesta venne completata appunto nei comuni settentrionali della Pieve di Pontirolo. L'agrimensore era giunto nel paese l'8 agosto, e aveva svolto il suo compito in soli quattro giorni, assistito da alcune figure rappresentative del comune e da persone informate dell'assetto fondiario locale: si chiamava Giovanni Adamo Loscher, e ad aiutarlo nei rilevamenti erano stati appunto cinque selezionati “portavoce” della comunità, cioè il console Pietro Staffano e poi il massaro dell'Abbazia di Brera, Pietro Magni, Carlo Biffi, Carlo Bonomi e Gerolamo Villa. Il prezioso risultato del suo lavoro (compiuto con l'ausilio della tavoletta di Praetorius) fu la mappa catastale in scala 1 a 2.000 del territorio di Roncello, suddivisa in nove fogli componibili e allegata agli atti del Censimento, prima descrizione cartografica del territorio redatta in modo scientifico e documento di valore inestimabile, che conserva fedelmente l'immagine di Roncello nel 1721. Nella mappa redatta dall'agrimensore Loscher il nucleo abitato, costituito da case coloniche a corte o “Stalli”, figura addensato al centro del territorio, al crocevia delle strade da Vimercate a Trezzo e da Busnago a Basiano. I casamenti che compongono l'aggregato sono in tutto 14; si notano tre soli edifici decentrati: il nucleo dalla Cascina del Gallo a ovest, e poi l'oratorio di Sant'Ambrogio e la cascina Cassinetta (allora di recente costruzione) a est del paese. Intorno agli immobili da abitazione o da lavoro si estendono i fondi coltivati o boscati; in ciascun appezzamento, di cui è resa con simboli grafici la destinazione colturale, oltre a un numero progressivo è inscritta la cifra del relativo perticato, espressa in pertiche e tavole. Il territorio

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comunale appare costituito per la maggior parte da terre aratorie con viti e moroni, mentre in prossimità del Rio Vallone e del confine di Ornago e, soprattutto, nella fascia occidentale e meridionale al confine di Basiano e Trezzano e fino alla riva destra del Vareggio (di cui si intuisce il percorso, pur non essendo stato descritto esplicitamente il solco fluviale) si estende il bosco.» Nei documenti redatti in occasione di questa rilevazione si trovano degli accenni alla presenza delle viti: “Li terreni di Roncello Pieve di Pontirolo Duc.o di Milano si affittano tutti a grano e per il vino e galette si dividono a metà […]. Il Carico si paga a metà, tra Padroni, e Paesani che lavorano il terreno […]. Questo territorio consiste per la più parte in Boschi, in alcuni Prati, Brughiere, Arat.i semplici, et Arat.i Avidati […]. In tutto il Commune si faranno annualmente galette c. 300[…]. Il terreno seminato a frumento produrrà stara due e mezzo il buono, e due l'inferiore, compresa la semenza. Il terreno seminato a frumentone stara quattro la perticha […]. Il prato darà libre 80 fieno la peticha all'anno [...]. Alle domande formulate dai commissari governativi il Console Staffani, che rappresentava la comunità, così rispondeva: “Io sono di pocco abitante in Roncello, e così propriamente non posso sapere il Perticato sicuro, ma per quanto ho sentito a dire saranno 4500 pertiche in circa, e di queste da 50 pertiche saranno prati asciutti, vi sono poi delli Boschi da Taglio in buona quantità quali servono per viti, e da fuoco, e ve ne sono delli altri che hanno dentro molti alberi da lavoro, ma ne prodotti si è mischiato del legname da far fuoco, vi è della Brughiera, et il rimanente levate alchune poche pertiche di zerbi, ch'è l'istesso che Brughiera, un po' più magro, sono arattorie semplici, e arattorie Avidate con alchuni Moroni […]”. Alla domanda relativa alla qualità delle produzioni il console dà alcune risposte che evidenziano delle preoccupazioni sia per la frequenza di avversi fattori metereologici che per la presenza di insetti chiamati volgarmente “carugole” che infestano prevalentemente le viti: “[…] il terreno avitato non so cosa dire, perché a miei giorni non ho mai avuta vindemia, sono bene si venute tutti li anni delle tempeste, brine, e poi le viti sono state di più mangiate dalle maledette Carugole, di galette poi in tutto il territorio si faranno 300 libbre pocco più pocco meno, del Boscho si può valutare soldi cinque la perticha, dalla Brughiera se si havesse d'affittare si potrebbe fare due soldi […]”. Si può quindi concludere che a Roncello il vino c'era ma che, per varie ragioni, la qualità e la quantità erano limitate. Ovviamente va tenuto presente che a Roncello, come per la vicina Busnago, il Console

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Proverbio brianzolo: tendeva ad enfatizzare i problemi che condizionavano la qualità dei prodotti nella speranza di ottenere imposizioni fiscali più basse possibile.

“S'el pioeuv a San March o a San Dalla tabella riportata a pagina seguente si possono ricavare Grigoeu l'uva la va informazioni su chi possedeva i fondi, sull'estensione degli stessi e del tutta in cavrioeu”. tipo di colture a cui erano dedicati.

Coltura della vite. Illustrazione tratta da D.Re «Terra e acqua» - Melzo, 2003

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Ronco Briantino: sui ronchi «bonum vinum»* Uno stretto rapporto evocato dal nome. Il territorio di Ronco Briantino appartiene a quell'area definita tipologicamente “altipiano asciutto” caratterizzata da suoli con scarsità di acque superficiali. La natura dei terreni ha indotto a colture rimaste per molto tempo immutate. Frumento e granoturco hanno storicamente accompagnato la coltura della vite, assieme alla presenza dei gelsi, introdotta solo nel cinquecento e intensificatasi per tutto l'Ottocento. Queste coltivazioni sono state rese possibili da un'intensa attività umana che ha faticosamente modellato la morfologia del territorio ronchese. Lo stesso toponimo di Ronco (dal latino Runcus e dal vulgaris Roncho), rimanda direttamente alla coltivazione dei ronchi e cioè a quei leggeri declivi a 'balza', tipici della configurazione geologica del territorio precollinare ronchese, che il lavoro dell'uomo ha saputo trasformare in coltivi terrazzati abilmente condotti e dedicati prevalentemente alla vite. Coltivazioni esercitate su difficili terreni argillosi e silicei che, orlate dalle brughiere, hanno connotato il paesaggio agrario del territorio di Ronco Briantino per lunghi secoli. Il legame storico di Ronco Briantino con la coltura della vite è quindi presente sin dal significato evocativo del nome d'origine medievale. Hanno infatti queste origini tutti quei nomi che alludono ad appezzamenti di terreno o a condizioni di coltura dei fondi. Mappa del territorio di Ronco Pieve di Vimercate, fatta dal Geometra Giusepe d'Acosta in occasione della misura per il nuovo censimento dello stato di Milano, principiata alli 9 o.bre, e terminata alli 27 d. 17…, coll'assistenza di Vincenzo Balzanelli, Carlo Comi Sindico, Paolo Boffi Console, Andrea Crippa, Antonio Garghentini, Francesco Prò, e copiata dal Dissegnatore Giacomo Landi con Alberto Butani in Fogli 9.

* di Giuseppe Ildefonso Motta

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La 'terra avvitata' degli Umiliati 'De Roncho’ I momenti più significativi dell'avviamento e attuazione di tali trasformazioni si possono far risalire principalmente al periodo della colonizzazione romana di cui anche a Ronco si sono individuate le tracce e, in seguito, allo stanziamento dell'insediamento monastico dei frati Umiliati. L'esistenza in epoca medievale di un'affermata viticoltura condotta sul territorio ronchese dalla domus humiliatorum De Roncho è confermata da alcuni documenti e cronache.

Miniatura medievale. Nel medioevo erano i monateri a coltivare vigneti e vi era un monaco addetto al controllo delle riserve.

(1) Archivio Parrocchiale Chiesa di Sant'Ambrogio Ad Nemus in Ronco Briantino (2) Giorgio Giulini “Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e campagna di Milano nei secoli bassi”, IV, p. 306.

(3) Prete Giovanni Dozio, “Notizie di Vimercate e sua Pieve”, 1853

Un documento conservato nell'Archivio Parrocchiale, senza data né firma del Parroco, testimonia l'esistenza di un'attività agricola basata sulla coltura della vite praticata dalla domus ronchese : “L'anno 1558 seguì una misura generale de beni in questa mia Chiesa v'era una cappella chiamata de humiliati e possedeva pertiche 100 di terra avidata, come da miei libri e questa pezza di terra non è più posseduta dalla Chiesa…” (1). Il documento conferma un'altra importante cronaca accennata dal Giulini e dal Tiraboschi relativa all'acquisto in Roncho di 113 pertiche di terra avvenuta da parte della domus milanese di 'Santa Maria Santissima' in Brera. “Nell'anno del Signore 1037 come io stesso vidi e lessi, fu mostrata una certa carta fatta da frate Goffredo di Creppa, che tratta di 113 pertiche di terra che si trova nel luogo di Roncho nella diocesi di Milano, tramandata attraverso Crisiberio di Guidone notaio il 5 gennaio dell'anno sopraddetto, la qual compera di terra fu certo fatta prima della morte del detto Giovanni Presbitero a 123 anni” (2). La carta citata dal Giulini fu da lui vista presso la biblioteca della famiglia Archinti (Giovanni Archinti, protonotario apostolico, era commendatario della prepositura di Brera), ma poiché la Biblioteca Archinti venne smembrata nel 1865, dell'importante documento oggi non esiste traccia. La cronaca risulta di particolare importanza oltre che per la controversa datazione che, come ebbe a dire il Dozio (3), farebbe della domus ronchese forse la prima fondata nella nostra regione, anche per le dimensioni dell'investimento agrario operato dalla casa milanese nel territorio di Ronco. Le oltre 100 pertiche di terra acquisite dagli umiliati vennero tutte rapidamente e sapientemente bonificate e avidate cioè coltivate a vite. La viticoltura venne estesa dall'opera di questa comunità monastica ben oltre i ristretti limiti dei ronchi. I censimenti eseguiti a inizio Settecento consentono infatti di quantificare una complessiva superficie di ronchi messi a coltura sull'intero territorio di Ronco Briantino pari a 73,20 pertiche. Il contributo degli Umiliati nell'intraprendere operazioni sistematiche di bonifica dei terreni introducendo, o perlomeno perfezionando, i metodi di sfruttamento del

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(4) Cf. anche Rosa Auletta Marrucci “Il territorio e il complesso di Viboldone” in “L'Abbazia di Viboldone”, Banca Agricola Milanese, 1990.

suolo, in particolare nel territorio a Sud di Milano, risulta del resto ampiamente documentato (4). L'importanza dell'opera degli umiliati è data in particolare dalla gestione di tipo imprenditoriale del territorio e dall'individuazione dei metodi più idonei per lo sfruttamento ottimale del suolo agricolo, per lo più recuperando e perfezionando antiche tecniche cadute in disuso. Un settore dell'agricoltura in cui i monaci eccelsero, fu sicuramente quello della viticoltura, con esperimenti spesso riusciti nella selezione dei vitigni e nel perfezionamento della vinificazione. La domus di Ronco venne quindi orientata prevalentemente alla coltivazione della vite. Questo indirizzo, sostanzialmente monoculturale, dei possedimenti ronchesi traeva probabilmente origine anche dall'esigenza di 'autarchia monastica' che assegnava agli umiliati risidenti in questa località il compito di rifornire la domus milanese di un prodotto primario, quale era ritenuto in periodo medievale il vino, senza escluderne però la commercializzazione. Il trasporto del vino nel medioevo, oltre che per l'insicurezza delle strade, prese di mira da predatori e briganti, era causa d'incertezza sulla qualità del “sangue di vite” sballottato a lungo sugli accidentati percorsi, da qui l'interesse per il trasporto via acqua. Non si può escludere che la relativa vicinanza di Ronco alla Via d'Acqua del fiume Adda costituisse un'opportunità per il trasporto dei prodotti vitivinicoli degli Umiliati locali.

Uno degli ultimi filari di vite su di un 'ronco' in località Cascina Lucchese a Ronco Briantino.

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Il motivo che spinse gli umiliati ad affrontare operazioni che talora si mostrarono indubbiamente onerose, fu probabilmente quella di promuovere lo spirito e l'operosità delle comunità di fratres et sorores e dei laici umiliati del terzo ordine sul territorio agricolo. Essi infatti non fondavano la loro sussistenza sul possesso di beni immobili, ma in primo luogo sul lavoro manuale dei propri aderenti. La domus di Ronco era infatti un “monastero misto” con presenza anche di terziari, aspetto che li avvicinava alla condizione dei 'cives' e li distingueva dallo stile di vita della nobiltà d'origine feudale. Per questa ragione, dovettero inserirsi con facilità nella realtà territoriale ed economica locale. L'insediamento dei frati umiliati su un territorio non si esauriva solo con la fondazione di abazie o badie, conventi e chiese ma, insediavano delle domus che ospitavano famiglie laiche appartenenti all'ordine a tutti gli effetti. Queste comunità, attraverso la bonifica e la progressiva acquisizione d'altri terreni circostanti, coinvolgevano una realtà molto più vasta, creando un insieme di condizioni favorevoli che determineranno la trasformazione e lo sviluppo del territorio agricolo anche nei suoi aspetti economici e sociali. Dalle 113 pertiche iniziali l'Abbazia di S. Maria di Brera arrivò ad acquisire e coltivare sul territorio di Ronco, prevalentemente a vite, 1.444 pertiche milanesi, come censito nel 1730 dal primo catasto di Maria Teresa. L'opera degli umiliati incise profondamente nel territorio e nella cultura di Ronco Briantino, influenza che proseguì ben oltre la soppressione dell'Ordine avvenuta nel 1571.


(5) cf. Don Rinaldo Beretta “Pagine di Storia Briantina”, Como, 1972

Miniatura medievale. Nel Medioevo, come oggi, la coltivazione della vite richiedeva grande perizia. Le viti dovevano essere tagliate e tenute con cura per ottenere una produzione di buona qualità.

(6) cf. D. Steward, “Lei Moines e le vin”, Paris, Pygmalion, 1982 (7) A. Bacci, “De naturali vinorum historia, de vinis Italiae et de convinsi antiquorum”, Libr. VII – 1596. (8) Don Rinaldo Beretta “Pagine di Storia Briantina”, Como, 1972, pag. 55.

Esaurito il periodo umiliate, i monaci dell'Abazia di Brera smisero ben presto di coltivare la terra divenendo solidi latifondisti capaci di far rendere bene i loro possedimenti. L'entrata principale dei fondi rimaneva il vino, e il prodotto nei contratti colonici per lo più si divideva a metà. (5) Un “Bonum Vinum” generoso, scintillante e gustoso L'investimento della domus milanese a Ronco Briantino, pur inserendosi come abbiamo visto in una strategia articolata d'affermazione dell'Ordine sul territorio, trova l'elemento motore nella cultura del vino e nel significato particolare che essa riveste nel mondo del monachesimo medievale. Non vi è dubbio che quella della Casa di Brera fu anche una scelta ponderata d'investimento con fondate ragioni economiche. Poiché la produzione e il commercio del vino apportavano ingenti guadagni ai monasteri, questi cercarono di aprire succursali nei territori ritenuti adatti alla coltivazione della vite. La Casa di Brera non si sottrasse alla tendenza generalmente manifestata dagli enti ecclesiastici di fondare nuove succursali nelle campagne. Grazie ai buoni guadagni ottenuti con la vendita del vino, gli Umiliati trasformarono l'area in cui si erano insediati in una fiorente azienda. Se è vero che “la viticoltura fu uno dei risultati più prodigiosi della grande impresa benedettina che la propagò dappertutto” (6) ; è pur vero che i maestri incontestati della viticoltura miravano alla produzione non di un vino qualunque ma di un “Bonum vinum”. Le tecniche di lavorazione non dovettero rimanere molto dissimili da quelle documentate ed ereditate dai trattatisti romani che già le introdussero in Lombardia con il processo di colonizzazione. I monaci le studiarono e svilupparono e non dovette sfuggire loro la natura geologica argillosa-silicea del terreno ronchese che ben si prestava al connubio col vino. Nelle cronache del Cinquecento mentre per i vini di Milano si dice che “…se non sono generosi né robusti, sono almeno copiosi e di varie qualità”, si celebrano invece i vini della Brianza come “…generosi, scintillanti, gustosi, che superano quasi il Lacrima, e se ne fa tanta abbondanza che se ne empiono tutti gli anni dei recipienti scavati a guisa di cisterne; e se spediscono poi in tutta la Lombardia, e fino al centro della Germania in otri di pelle sui carri”. (7) Anche sulle origini del nome 'Brianza' si riportano cronache o leggende che lo legano al vino: “…questa regione fu nominata “Brigantia” dai soldati di Federico Barbarossa, per averla trovata piena di ameni colli che producevano buoni vini a somiglianza dei colli che sorgevano intorno al lago di Brigantio (oggi detto Costanza)”.(8) Il lento declino della vite nel microcosmo ronchese Solo con il censimento 'Teresiano' del 1730 si riuscirà ad avere un quadro preciso della composizione proprietaria e della destinazione colturale dei terreni a Ronco Briantino. Si rileverà che, l'Abbazia di Santa Maria in Brera possedeva ben 1444,20 pertiche di terreno pari

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Torchio da uva in legno di castagno e noce nazionale fatto costruire dal Parroco Don Giuseppe Monzani (1831-1863) e utilizzato dalla Casa Parrocchiale di Ronco Briantino fino al 1968.

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al 39% del territorio comunale, risultando di gran lunga il principale possedimento agrario locale. In generale, delle 3.914,83 pertiche totali di terreno coltivato a Ronco, ben 1.988,50 pertiche (50%) risultavano ancora vitate. Solo 923,33 erano esclusivamente coltivate a seminativo, 63,00 pertiche a prato e il resto a bosco e brughiera. La coltura della vite rimane quindi per secoli una risorsa agricola basilare per Ronco. Già nella prima metà del Settecento però, la supremazia della vite inizia ad essere messa in discussione con l'introduzione nei vigneti di altre colture promiscue. In particolare è da rilevare come il censimento rilevi che il 71% dei vigneti sia terreno 'aratorio avidato con moroni'. La presenza dei gelsi legata all'affermarsi nelle campagne della gelsibachicoltura e delle coltivazioni a frumento e granoturco, tenderanno progressivamente ad erodere inesorabilmente la superficie vitata. Del resto la dipendenza dell'economia agricola locale prevalentemente dal 'vino cavato', la esponeva enormemente ai rischi di congiunture sfavorevoli e di cattivi raccolti. Bastava infatti una grandinata o un prolungato periodo di siccità per pregiudicare equilibri di sussistenza già precari. Gli Archivi parrocchiali riportano puntualmente le annate sfavorevoli che, quando si ripetevano, portavano le famiglie contadine al limite della sopravvivenza, come in questa cronaca del Parroco Ripamonti datata 1713: “… negli anni 1710 e 1711 non si è cavato vino, perché nel 1709 morsero tutte le viti e nell'anno 1710 venne una tempesta notabile per la quale non si fece vino, come pure l'anno 1711”. Fino alla prima metà dell'ottocento la vite mantiene comunque a Ronco un relativo equilibrio rispetto alle altre colture. A metà Ottocento però assistiamo al trionfo della gelsibachicoltura, fondata sull'affinamento di questa tecnica maturata nelle campagne di Brianza e spinta da una domanda eccezionale dei prodotti serici sui mercati europei, mentre nei contratti agrari si consolidano le proporzioni destinate alle colture cerealicole. Di contro, l'abbandono dei vitigni autoctoni ereditati dai monaci Umiliati, soppiantati dall'importazione d'altri vitigni (uva dell'oltrepò, uva americana, clinton) e la spesso scadente qualità degli innesti, furono fattori non estranei alla crisi della vite ronchese. Anche la promiscuità delle colture con una certa conseguente trascuratezza delle viti e l'imperfetto metodo di vinificazione sempre meno conforme alle regole della tradizione e ancor meno aggiornato alle nuove tecniche, concorsero allo scadimento del vino ronchese a prodotto qualitativamente di seconda classe. Le micidiali epidemie parassitarie che a metà Ottocento si abbatterono anche su Ronco come su tutta la Brianza, misero in ginocchio una coltura già in decadenza. Dalla crittògama della vite importata con i vitigni americani attorno al 1845, alla fillòssera e per finire la peronospora nel 1878, conferirono un colpo mortale alla cultura della vite e del vino a Ronco Briantino, cancellando l'antica memoria del generoso, scintillante, gustoso “bonum vinum” degli Umiliati.


Una difficile sopravvivenza Nell'Ottocento si assiste quindi ad una trasformazione sostanziale e decisiva nella conduzione dei terreni avvitati. Si è affermato che il “contadino reinventò la piantata vitata”, con “l'albero maritato alla vite”. Il sistema di coltivazione mista era del resto già in uso presso gli Etruschi e gli stessi Galli sperimentarono l'”arbustum gallicum” cioè la vite romana all'uso gallico. Fu così che, a seguito della perdita dei vigneti conseguente ai flagelli parassitari, si introdusse nella campagna ronchese la vite americana, alternandola tra filari di gelsi. Il tralcio veniva lasciato lungo, a festone, in modo che anche senza l'ausilio di tutori, potesse svilupparsi in simbiosi con il muròn e dare i suoi frutti. Il detto dialettale “i muròn fan l'uga”, ben sintetizza l'immagine di una viticoltura atipica e sempre più subordinata, che finiva paradossalmente per raccogliere l'uva sui gelsi. Se in altri contesti la lotta contro le epidemie parassitarie rappresentò un ulteriore stimolo al miglioramento dei vitigni e delle tecniche vitivinicole, a Ronco come in Brianza, si continuò comunque a produrre il vino in quantità più limitate con l'introduzione di nuove uve e con metodologie sempre più approssimative.

(9) A.P.R. “Registri Parroco Giovanni Mantovani” 1806-1817

La vite, che per secoli aveva caratterizzato il paesaggio agrario di Ronco Briantino, sul finire dell'ottocento scomparve quasi completamente modificando così anche i caratteri del paesaggio rurale. Continuò però a sopravvivere fino a metà Novecento una piccola produzione di “auto-consumo” familiare dove la vite, quasi poeticamente, si attaccò tenacemente alle pergole che orlavano i profili delle corti e delle cascine, antico residuo dell'ormai perduta civiltà contadina. Custode gelosa di questa cultura fu ancora una volta la componente religiosa locale. Fino al 1817 le “brente” di vino prodotte in eccedenza dai vigneti del Beneficio Parrocchiale venivano vendute all'asta costituendo una discreta entrata per i bilanci parrocchiali (9). Un Torchio da Uva in legno di castagno e noce costruito ai tempi di don Giuseppe Monzani, parroco di Ronco Briantino dal 1831 al 1863, documenta come la Casa Parrocchiale abbia conservato nel tempo la pratica di cavare vino dall'uva locale per gli usi liturgici e per l'autoconsumo. L'uva veniva vinificata nei locali dell'antica canonica di Via San Carlo, succeduta nello stesso sito dove gli Umiliati tenevano la loro Cappella. Nel 1934, con l'inaugurazione della nuova Chiesa, il torchio fu trasferito nella cantina della Casa Parrocchiale adiacente ad essa. La pratica fu tramandata fino alla morte del Parroco don Biagio Rossetti avvenuta nel 1968. Oggi solo qualche improvvisato cultore cava il cosidetto pincianel da qualche raro filare d'uva americana e uva clinton che resiste pervicacemente qua e là sul territorio ronchese, ultimi residui di quella che fu la civiltà della vite a Ronco Briantino.

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Il vino a Seregno* * di Vittorio Farchi

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Le notizie storiche su Seregno risalgono ai primi del 1000 con l'indicazione che la località faceva parte della Pieve di Desio. Tra le testimonianze dei tempi antichi ci sembra curioso citare la torre duecentesca detta del Barbarossa che si suppone sia in qualche modo collegata alla discesa in Lombardia dell'imperatore tedesco Federico Barbarossa, sconfitto dai comuni lombardi nella famosa Battaglia di Legnano del 29 maggio 1176. Va inoltre ricordato che i seregnesi furono protagonisti, a fianco dei Visconti, della battaglia di Desio del 20 gennaio 1277 citata nel capitolo dedicato a questa località. Per avere un'idea della dimensione del borgo ricordiamo che all'epoca Seregno contava circa 800 abitanti. Per avere qualche informazione utile alle nostre ricerche sul vino dobbiamo risalire alla metà del 1500. Con l'inizio della dominazione spagnola comincia in Lombardia un periodo di pace e tranquillità ed una conseguente espansione economica. Nella Pieve di Desio il terreno coltivato, che nel 1530 era di 83.145 pertiche, pari al 34% di quello disponibile, nel 1549, in base ai dati del censimento catastale voluto da Carlo V, sale a 131.763. Dalla documentazione del 1558 risulta che nella Pieve la distribuzione dei terreni per specie di coltura si suddivide tra l'aratorio libero, con il 58,8% , l'aratorio “vitato”, con il 30,8% ed il resto suddiviso tra bosco, brughiera e orto. Nelle frazioni attorno al borgo viene citata anche la presenza del “ronco”, terreno collinare terrazzato con le viti ai bordi e i cereali al centro. A Seregno le terre produttive erano coltivate a cereali e viti e coprivano il 70% del territorio. La popolazione impegnata nell'agricoltura si aggira tra il 60 e il 70% del totale degli abitanti. Non abbiamo indicazioni precise sulla quantità di vigne, ma l'ordine di grandezza era presumibilmente lo stesso della Pieve. La distribuzione delle proprietà per classi di superficie trovava predominante la media (26% dei proprietari con il 56% della superficie), seguiva la grande (con il 6,1% dei proprietari e il 33% della superficie) mentre la piccola veniva all'ultimo posto (68% con solo l'11% dei terreni). La proprietà ecclesiastica era molto estesa ed in essa frequente la presenza di vigne: S. Ambrogio 150 pertiche di cui 9 a vigna, S. Vittore 136 pertiche di aratorio e 4 di vigneti. Notevoli anche i beni posseduti nel territorio di Seregno da enti ecclesiastici esterni: 113 pertiche dell'arciprete di S. Giovanni di Monza, 70 ne possedeva S. Tecla di Milano, 380 pertiche dell'Oratorio di S. Salvatore di Carate, 235 della Confraternita di S. Rocco di Milano ed altri ancora di Lentate, Mariano, Cambiate, Agliate, Carate e Meda. Le proprietà ecclesiastiche comprendevano circa 5.300 pertiche quindi oltre un quarto delle proprietà del borgo. Passiamo ora al periodo del governo austriaco nel 1714: con l'arrivo dei nuovi conquistatori a Seregno cessò il feudo del marchese Francisco Manriquez de Mendosa per passare al marchese


Paolo Gerolamo Castelli il quale ricevette il giuramento di fedeltà degli uomini di Seregno il 24 maggio 1713. Con l'occasione si apprende che la popolazione era composta da 458 “fuochi” per un totale di circa 3.300 abitanti. Nel borgo c'erano solo due osterie e qualche piccola bottega di commestibili “ma non v'è né fiera né mercato e quando fa bisogno andare a Milano”. Non c'è medico. Nel 1720 viene effettuato il censimento ordinato da Carlo VI. Dal censimento vengono desunte stime di valore che vengono contestate dai rappresentanti del paese i quali sostengono: “Sono li terreni di Seregno certamente dei più inferiori anche di questo ducato e però debolissimi in sé, polverosi, ghiaiosi e di pessimo fondo; atti perciò a produrre con stento pochissimo frutto e di qualità inferiore”. Le lamentele sono lunghe e non è dato sapere se furono utili per ottenere risultati positivi. Purtroppo non siamo riusciti a disporre delle cifre relative al Catasto Teresiano ma non c'è motivo di ritenere che la presenza della vite sia stata diversa da quella della metà del '500. Di qualità del vino non abbiamo notizie ma risulta che, nel 1780, era presente a Seregno il circoscrizione plebana di sacerdote agronomo Paolo Mazza Carcani, il quale introdusse nuovi Desio, con indicazione metodi nella coltivazione della vite con notevoli miglioramenti della della distanza da Milano qualità del vino.

Mappe tratte dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

Proverbio brianzolo: « Broca curta, vendemia lunga».

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Il vino a Seveso (Pieve di)* * di Vittorio Farchi Diversamente rispetto ai capitoli relativi ad altri Comuni della Provincia di Monza e Brianza, qui riportiamo in un'unica relazione quanto reperito sulla presenza del vino nei 10 Comuni che facevano parte della Pieve di Seveso. Essi sono: Barlassina, Ceriano Laghetto, Cesano Maderno, Cogliate, Lazzate, Lentate sul Seveso, Limbiate, Meda, Misinto e Seveso. Chiariamo subito il perché li abbiamo trattati in un solo capitolo intitolato alla Pieve : alla fine del 1700 ogni Pieve in cui era suddivisa la Lombardia dall'XI secolo portava il nome della località che ospitava un' istituzione religiosa importante, in quanto formata da un elevato numero di sacerdoti che esercitavano la loro missione anche nei paesi vicini. Paesi che possedevano una piccola chiesa o un oratorio ma che, a causa del limitato numero di abitanti, non potevano giustificare la presenza di un proprio parroco. La suddivisione del territorio in termini ecclesiastici coincideva con quella civile. Come evidenziato nella tabella qui riportata e tratta dal volume “Vita economica e sociale” di Sergio Zaninelli – ed. IL POLIFILO – 1969, la presenza degli aratori vitati era, in base al censimento spagnolo del 1558 nella Pieve di Seveso, notevolmente inferiore a quella delle altre pievi : Seveso 5,2%, Agliate, 22,2%, Desio 30,8% e Vimercate 50,1%.

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I campi nelle zone che stiamo analizzando erano prevalentemente dedicati a mais, miglio, segale, frumento e legumi. Evidentemente i terreni non si prestavano molto alla cultura delle viti. Va inoltre evidenziato che una significativa parte del territorio era di “brughiera boschiva” (21,1%) e molte zone erano usate come terreno di caccia. Naturalmente, anche se il dato è scoraggiante, ci pare poco probabile che 10 Comuni distribuiti su una vasta area abbiano avuto riguardo le colture una situazione omogenea.

Mappa del XVII secolo conservata presso la Curia Arcivescovile di Milano. E’ uno fra i più antichi documenti che riportano il toponimo di «Gruvana» Groane.

Come evidenziato dalla carta topografica della Pieve di Seveso del 1600, tutti i comuni sono situati ai bordi di una zona che al centro della carta stessa porta la scritta “Gruana, ovvero Brughiers, terra sterile”. La pianta e le altre notizia sono ricavate dal volume “Storia di Misinto” di Celestino Longoni ed. Luigi Maria Monti 1978.

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Misinto Nelle ricerche sulle origini di Misinto e del suo nome gli studiosi hanno avuto occasione di esaminare un documento del 974 ove, a proposito della vendita di una vigna viene citato Misinto: “La stessa vigna si trova nella tenuta del medesimo villaggio di Lampugnano, alla quale è annesso un campo con queste coerenze: ad esti beni di S. Maria Podone, a sud un passaggio di Donato del luogo di Misinto, a ovest gli eredi del fu Emicone. La vigna misura dici pertiche di estensione mentre il campo annesso sopra citato ha l'estensione di un solo iugero e di pertiche…” In un elenco dei proprietari delle case e dei terreni di Misinto del 1691 troviamo un campo detto “le vigne” di Pietro Francesco Vimercato e due “ronchi”, uno dello stesso Vimercato e l'altro di Costanzo Solaro. A titolo di cronaca possiamo aggiungere che all'epoca gli abitanti erano 474. Su cinque fogli del Catasto Teresiano analizzati, nei quali sono evidenziati circa 200 campi, solamente 4 sono indicati come “aratori vitati”.

Ceriano Laghetto Come ben evidenziato dall'antica mappa sopra riportata, Ceriano Laghetto è posto al lato nord delle Groane, unitamente a Cogliate, Lisinto e Lazzate. Si trova su un terreno asciutto dotato però di un grande serbatoio artificiale che serve ad irrigare i campi e che dà il nome al paese. Come per gli altri paesi vicini anche a Ceriano non si trovano indicazioni significative sulla presenza di terreni coltivati a vite.

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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Cogliate In una pubblicazione del 1934, così si parla di Cogliate: “E' Comune dell'ex Circondario di Monza, Mandamento di Seveso, situato su lieve rialzo dal quale si domina la pianura saronnese, ai margini boschivi delle Groane, in clima salubre, nella vicinanza dell'antica strada postale che da Milano per Barlassina portava a Como, in terreno asciutto ma fertile di cereali e gelsi, ad ovest di Seveso. Vi si producono anche bachi da seta e vi si alleva bestiame”. La mappa catastale di Cogliate fu approntata all'inizio del 1722. Particolarmente interessanti sono i dati che emergono dal foglio VI ove si evidenzia una porzione di territorio, confinante con Cassina Ferrara, totalmente ad uso agricolo e denominato arativo e arativo coronato, intendendo con questo termine la presenza di file di gelsi finalizzati all'allevamento del baco da seta. Questi elementi confermano che, come in quasi tutta la Pieve, la coltivazione della vite non era diffusa.

Lazzate

Mappe tratte dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

E' Comune dell'ex Circondario di Monza, Mandamento di Seveso, posto a circa 15 miglia a nord di Milano, sull'altipiano delle Groane, che da nord a sud vanno da Copreno a Garbagnate, nella valle di Seveso. Una fonte del 1934 dice: “terreno ubertoso specie in cereali e con produzione di bozzoli”. Poche viti in questo paese, come ci conferma il Foglio del Catasto Teresiano, dove sono indicati gli aratori (alcuni con moroni), ma solo 4 vigne.

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Ci sembra curioso riportare un episodio che riguarda Alessandro Volta (1745-1827): Volta soggiornò per un periodo in questo paese e sulla casa dove abitò il municipio pose, nel 1889, la targa qui riprodotta. Si ricorda la sua invenzione della pila, ma viene anche chiamato “mago del tubero americano e gli si attribuisce il merito di aver fatto conoscere ed apprezzare la patata.

Spostiamoci ora nella parte inferiore della carta topografica della Pieve dove troviamo i paesi distribuiti sull'altro lato delle Groane.

Barlassina Antico comune posto in una amena posizione collinare sulla destra del fiume Seveso. Il suo territorio produce cereali, patate e un tempo anche ottimi vini. Dal volume “Vita sociale ed Economica” rileviamo che nel 1840 i vigneti e i ronchi si estendevano per 4.518 pertiche e gli aratori misti (cereali, gelsi e viti) occupavano 139.386 pertiche. Va ricordato che i ronchi sono terreni terrazzati con le viti ai bordi e i cereali al centro. Un altro dato interessante riguarda i raccolti del 1817: il vino prodotto è di 4.507 some. La “soma” è un'antica misura di capacità corrispondente al carico che può essere trasportato da un animale da soma e che nel milanese corrispondeva a 166,52 litri. Nel 1840 la quantità aumenta a 15.468 some. Il vino a Barlassina era in conclusione ben presente e quindi in una percentuale superiore a quella media della pieve.

Lentate sul Seveso Riguardo Lentate il volume “Storia dei comuni lombardi” dice: “è comune posto sulle rive del torrente Seveso, a 2 chilometri da Barlassina. Il suo territorio è coltivato in piccole valli con produzione di gelsi, biada, patate e viti.” Vista la grande vicinanza è più che plausibile che le considerazioni fatte per Barlassina valgano anche per Lentate oltre che per le frazioni di Cimnago, Camnago e di Cassina Mirabella, tutte e tre ricordate anche separatamente per la presenza delle viti.

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Carte delle Groane del Brenna - Civica raccolta di stampe Bertarelli di Milano

Limbiate Limbiate è una grossa cittadina appartenente alla Provincia di Monza e Brianza ed occupa una posizione centrale nella fascia delle Groane (è immersa nell´omonimo parco), in una zona nella quale le caratteristiche geologiche del suolo hanno determinato condizioni di scarsa produttività per l´agricoltura ma un terreno "fertile" per l´urbanizzazione. Il suo nome, in origine "Lemiate", significa "limite" ed indica proprio il lembo di terra che confina con le Groane. Gli altri due centri che, originariamente "autonomi", si unirono in epoche successive a formare la odierna cittadina sono Mombello (Monte Bello) e Pinzano (Plantianus o Planziano, della Gens Plantia). Riguardo la presenza di viti risulta che durante il periodo spagnolo fossero poco diffuse, mentre nel periodo austriaco, grazie alla maggiore attenzione delle autorità all'agricoltura, ne aumentò considerevolmente sia la quantità che la qualità. Utili a riguardo i due paragrafi qui riprodotti tratti dal volume “Limbiate, un comune – note di storia” di Mario Panizza edito dal comune nel 1951: Cereali. A Limbiate con Mombello, la misura di pertiche del terreno aratorio, quindi coltivato a cereali, nel 1864, cioè alla fine dei due secoli di crescita agricola, era di 4281 pertiche e 91 tavole; quella del terreno aratorio vitato, di pertiche 217 più 12 tavole. Si tratta di 4500 pertiche; quindi quasi tutto il terreno coltivabile era riservato ai cereali, poichè l'altra metà dell'estensione comunale, cioè 4156 pertiche, era occupata dai boschi e dalla brughiera. La stessa percentuale si può attribuire a Pinzano, osservando la mappa di quel Comune. 127


mappa del Brenna del 1836. Civica raccolta di stampe Bertarelli di Milano

Vite. La seconda coltura tradizionale nei nostri due Comuni era la vite. Questa formava anzitutto la parte arborea dei terreni che fondamentalmente erano aratori; la resa in tal caso veniva classificata come uva di seconda qualità. Di prima qualità invece, perché meglio maturata e più abbondante, era quella che si coglieva dai ronchi o declivi collinari al margine delle Groane. Le pertiche dei ronchi riservate alla vite, a Limbiate, erano solo quarantasei, più quarantadue tavole; ma, mentre ogni pertica di aratorio vitato produceva annualmente uva per “pesi 3.5”, ogni pertica di ronco dava un raccolto di “pesi 15” e di uva molto più pregiata.

Cesano Maderno Nel 2006 è stata svolta per conto del Comune di Cesano Maderno una ricerca riguardante gli antichi Catasti “Teresiano” (1755) e “Lombardo-Veneto” (1873). I dati catastali sono stati elaborati per Cesano e per le frazioni di Binzago e Cassina Savina. Dalla lettura della tavola qui riportata si rileva che nel 1755 l'aratorio vitato era presente per il 19% a Cesano, il 29% a Binzago ed il 20% a Cassina Savina. Nel 1873 gli aratori vitati scompaiono e la causa principale risiede nel diffondersi dell'insetto fillossera proveniente dal nord America. Altre cause sono da ricercarsi nella maggior diffusione in pianura di gelsi e cereali, mentre nelle groane sia la brughiera che i vigneti sui ronchi cedettero il posto alle pinete. Interessanti anche le tabelle che indicano nei due periodi i maggiori proprietari terrieri:

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Cesano Maderno

Binzago

Binzago Cassina Savina

Cesano Maderno

Cassina Savina

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Meda Il Comune di Meda è situato sul declivio di un colle in un territorio ricco di gelsi e, un tempo, di viti. Così lo presenta la “Storia dei Comuni della Provincia di Milano” del 1934. Dal volume si ricava ancora: “La storia di questo Comune quasi si identifica, per molti secoli, con quella dell'insigne monastero di S.Vittore, che, sotto la regola di San Benedetto, ebbe vita fiorente e doviziosa per circa un millennio, sull'estremo della morena protendentesi fra il Seveso e il Lambro, introno alla quale oggi si estende , per largo tratto della pianura all'interno, la borgata, sviluppatasi specialmente attraverso all'artigianato all'industria dei mobili…” In una pubblicazione dedicata proprio alla storia di questo monastero si legge che nel '700 il paesaggio di Meda era caratterizzato da “lunghi filari di viti”. Sappiamo che nel '700, grazie al governo austriaco, l'agricoltura ebbe un significativo sviluppo e un notevole miglioramento qualitativo, per cui abbiamo cercato qualche indicazione quantitativa su alcuni fogli del “Catasto Teresiano” iniziato nel 1722 e concluso nel 1750. Abbiamo preso visione di 7 mappe dell'epoca ove, a fianco dei disegni che rappresentano ogni singolo appezzamento di terreno, viene indicato il tipo di coltura, il nome del proprietario e l'estensione espressa in pertiche milanesi (una pertica corrisponde a 654 mq). Nelle mappe analizzate sono riportati i dati di 266 campi.

il monastero di San Vittore a Meda

Seveso “Seveso è sulla strada detta Comasina, confinante con estesi altipiani ridenti e ricoperti di pinete in clima salubre. Il terreno produce cereali e piantagioni di gelsi”. E' quanto ci dice il volume “Storia dei Comuni della Provincia di Milano”. Il testo indica quanti erano gli abitanti a metà del '500: “la popolazione, dedita quasi tutta all'agricoltura, era ancora poca. Nel 1537 si contavano a Seveso sedici fuochi o famiglie e sei a S:Pietro o Cascina di Bellino. Nel 1580 la popolazione di tutta la Parrocchia era di 500 persone; saliva a 656 nel 1688 e raggiungeva gli 850 nel 1736 quella della Parrocchia e 920 quella del Comune, così ripartite: 457 abitanti in Seveso, 214 a S.Pietro, 48 a Farga, 27 alla cascina Merè e 174 a Barriccana. Si noti che nel 1760 erano state soppresse le due comunità di Farga e di San Pietro.

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La pianta di Seveso nel Catasto Teresiano – 1721 – Cartografo Ferdinando Hilibert. Tratta dal volume “per una storia di Seveso” di Cristoforo Allievi – ed. amministrazione comunale di Seveso nel 1998.

Nel volume “La campana d'oro” di Letizia Maderna edito dal Comune di Seveso nel 1998, troviamo dei riferimenti riguardanti il vino: 1610- 15 – Nella preziosa mappa redatta tra il 1610 e il 1615 dall'Ufficio Cartografico di Federico Borromeo (-qualche ricercatore la vorrebbe invece anteporre al 1568 -) la chiesa di San Pietro Apostolo non è ovviamente segnata: è segnata invece quella di San Pietro Martire con il vicino convento dei Frati Domenicani che erano subentrati agli Umiliati verso la metà del 1300. Una Bolla Papale da Avignone, siamo al tempo della cattività papale avignonese, nel 1373 assegna ai Domenicani “in toto et parpetuo” il convento e la chiesa di San Pietro. Era Papa Gregorio XI. Negli stessi mappali i terreni posti in collina tra Cogliate, Appiano sono segnati a “Brughiera”. Quelli posti tra Cesano, Seveso, Limbiate, Meda sono elencati “avidati” cioè coltivati a vite.

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Una interessante testimonianza ci viene anche dalla seicentesca pianta qui riprodotta:

La presenza dei vigneti è confermata anche a metà del '700: 1750 – Anche lo storico Giorgio Giulini nella sua “Storia di Milano e del contado” annota sul nostro altopiano grandi vigneti di notevole estensione. Per secoli fu coltivata a vigneti la nostra buona terra a solatio sulle colline, sino a quando la peronospora importata dall'America non ne distrusse i vitigini e la nostra popolazione si diede prevalentemente alla lavorazione del legno. Non abbiamo trovato dati quantitativi ma, data la presenza di estese zone collinari, si può dedurre che la percentuale di “aratori vitati” a Seveso fosse superiore a quella media della Pieve, tesi confermata anche dalla presenza di ampie zone coltivate nella mappa riprodotta all'inizio del capitolo.

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Il vino a Sovico* * di Vittorio Farchi Nel 1760 Sovico era governato da un comitato di proprietari terrieri. Il 25 agosto di quell'anno il “console” Giuseppe Brugora, che rappresenta il paese, fornisce al comitato le seguenti informazioni: “Sono venti anni che faccio il console in Sovico e sono pigionato, lavoro terreni del sig. don Paolo Giovi. Il nostro Comune forma pertiche 4.000 e i fuochi sono 66; ivi non si fa mercato né fiere, né vi è Pretorio né Fanti.” Proverbio brianzolo: «A San Martin l'è faa tutt el vin».

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

Dopo questa premessa che ci informa su caratteristiche e dimensioni del paese in quell'epoca, passiamo alla produzione del vino: dal Catasto Teresiano si rileva che i campi coltivati erano 190 per una estensione totale di 4.754 pertiche (l'indicazione del console era per difetto). Dei 150 campi solo 21 erano “avitati” e i loro proprietari erano: · Marchese Alessandro Pallavicini · Conte Don Carlo Visconti · Don Ludovico Flaminio e Paolo Giovi · Prete Giovanni Battista Foschi · Reverendo Francesco Riva · Conte senatore Don Gabriele Verri · Don Cesare Gazero · Curia di Sovico · Don Giuseppe Cittadino.

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Alcuni di questi nobili facevano parte del comitato sopra citato. Rispetto ai dati di paesi vicini i campi 'avitati' erano pochi e di ridotta estensione : il terreno da essi occupato era di 505 pertiche quindi poco sopra il 10% dei campi coltivati. Non molto vino ma in compenso di buona qualità, come ci conferma Carlo Porta quando cita il vino di Suigh tra i migliori della Brianza : Vorrev mettegh lì tucc in spallera i nost scabbi, scialos e baffios, quell bell limped e sodo d'Angera, quell de Casten brillant e giusos, quij grazios – de la Santa e d'Osnagh quell magnifegh de Omaa, de Buragh, quell de Vaver posaa e sostanzios, quell sinzer e piccant de Casal, quij cordial – de Canonega e Oren, quij mostos – nett e s'cett e salaa de Suigh, de Biassonn, de Casaa, de Bust piccol, Buscaa, Parabiagh, de Mombell, de Cassan, Noeuva e Des, de Maggenta, de Arlaa, de Vares, e olter milla milion – de vin bon, che, s'el riva a saggiaj el Patron, nol ne bev mai pù on gott forestee; fors el loda, chi sa, el cantinee, e fors'anca el le ciamma e el ghe ordenna de inviaghen quaj bonza a Vienna.

Foto Mario DeBiasi opera citata

Fonti: · Storia di Sovico di Eugenio Cazzini, ed. “Lambro” – 1974 · Catasto Teresiano – analisi architetto Alessandro Vimercati · Poesie di Carlo Porta – ed. Feltrinelli 1964 134

Vorrei metterli lì tutti in spalliera i nostri vini, generosi e con i baffi, quello bello limpido e sodo di Angera, quello di Castano brillante e succoso, quelli graziosi della Santa e di Osnago, quello magnifico di Omate, di Burago, quello di Vaprio posato e sostanzioso, quello sincero e piccante di Casale, quelli cordiali – di Canonica e Oreno, quelli mostosi – netti e schietti e saporiti di Sovico, di Biassonno, di Casate, di Busto piccolo, Buscate, Parabiago, di Mombello, di Cassano, Nova e Desio, di Magenta, di Arlate, di Varese, e altri mille milioni – di vini buoni, che, se arriva ad assaggiarli il Padrone, non ne beve mai più un goccio forestiero; forse loda, chi sa, il cantiniere, e forse anche lo chiama e gli ordina di inviargliene qualche carro-botte a Vienna.


Il vino a Sulbiate* * di Maurizio Leoni

Possiamo ipotizzare che l'inizio della coltura della vite in Sulbiate coincida con la nascita del villaggio stesso. Il vino è un elemento essenziale nella nostra dieta ed il suo consumo è antico quanto l'umanità. La vite si incontrava un po' ovunque: oltre ai veri e propri vigneti, più o meno tutti i campi erano “vitati” o “uvidati”, ossia vi si coltivava qualche filare. La bontà dell'uva non era uniforme: una qualità abbastanza pregiata era prerogativa dei terreni ghiaiosi. Una seconda scelta, meno soddisfacente, era quella più diffusa, vale a dire quella dei “coltivi a vanga”. L'uva era complessivamente di discreta qualità e, sino agli anni cinquanta del Novecento, epoca in cui ancora qualche nostalgico contadino “pigiava” a livello puramente amatoriale, se ne ricavava un vinello da alcuni denominato “Pincianèll”. Sembra che il nome di Brentana, piccola entità territoriale autonoma documentata già nel X secolo (1), sede della chiesa parrocchiale, sia collegabile alla voce lombarda “brenta” (2), utilizzata per indicare un recipiente per il trasporto del vino oppure una misura di capacità per liquidi, equivalente a settantacinque litri circa. Antichi documenti accennano alla presenza della vite in territorio sulbiatese. A titolo di cronaca si riportano in questa sede alcuni estratti di quelli abbastanza significativi o curiosi. Il 31 luglio 1550, sulla piazza comunitaria di Sulbiate Inferiore, era trafitto a morte Giovanni Antonio Colleoni, cocchiere di casa Arcimboldi. Subito dopo essere stato colpito “...corse via […] sopra uno sentiero, et poi vedendosi mancare il spirito si tolse fuori dal sentiero, et se buttò sotto una vite et morse...”. Implicato nell'intricata vicenda delittuosa era il console Galeazzo Ferrario. Negli atti della causa, fra l'altro, viene definito un ladro di biade e uva: “...havea tante ughe ch'il potea fare tre brente di vino […] l'havea robbato questa ugha...” (3). Il 28 novembre 1564 il notaio Gerolamo Cattaneo stilava un inventario dei beni mobili ed immobili ereditati da Niccolò Figini, figlio di Giovanni Pietro Maria, ricco proprietario terriero in Sulbiate Superiore. In questa sede ricordiamo quanto scritto a proposito della cantina del palazzo nobiliare, provvista di sedici “vaselli” di tenuta variabile, da un minimo di 151 ad un massimo di 7550 litri circa. Complessivamente “la scorta” di vino consisteva in poco più di 13500 litri. (4)Il Cardinale Federico Borromeo, durante la Visita Pastorale del 1621, affidava l'amministrazione della piccola chiesa di S. Pietro di Sulbiate Superiore al parroco e con essa l'entrata di un modestissimo vigneto, di circa una pertica, detto “Il Giardino di S. Pietro”, che doveva bastare per la celebrazione della festa dell'omonimo Santo e per gli arredi sacri (5). Nel 1727, con la morte del marchese Guidantonio si estingueva la famiglia Arcimboldi, proprietaria, fra l'altro, del castello di Sulbiate Inferiore. Nel suo testamento, risalente al 17 novembre di quell'anno, il nobiluomo stabiliva una lunga serie di lasciti. Fra questi sottolineiamo quello al cameriere personale Giuseppe Tiramani: “...due o tre vascelli di tenuta fra tutti di circa brente sei pieni di vino novello del racolto in Subiate”(6). Dopo la morte del marchese veniva stilato l'inventario di 135


tutti i beni mobili ed immobili. Ricordiamo quanto trovato in castello “...nella cantina a sinistra. N. sei vascelli di tenuta brente 150 di vino crodello. Alla destra numero sette vascelli di tenuta brente 50 di vino crodello e bianco. Un vasselletto di tenuta circa brente 2 con poco aceto. Un tinotto di tenuta circa brente 10, vuoto. N. due scaletti da mano per vascelli. Una palotta grande per uva, di legno ...”. In una cantinetta “...vicino alla porta maggiore. N. tre vasselletti di tenuta brente 3, vuoti. N. cinque fiasche inliscate piene di vino bianco. N. tre vascelletti di tenuta brente 14 pieni di vino bianco crodello ...” Nella cantina della casa del fattore “...n. sei vascelli di tenuta brente cento di vino rosso crodello e caspio. N. nove vascelli di tenuta brente trenta, vuoti […] Nel torchio: n. diciannove tine di tenuta circa brente 400, posate sopra suoi galetoni pure di legno. Il torchio intiero di fresco restaurato con navello di cotto, e suoi finimenti […] N. tre navazze, delle quali due grandi e altra piccola...”(7). Frammenti di antica quotidianità, di una realtà completamente diversa dall'attuale. Non è comunque mai detta l'ultima parola. Forse un giorno potremo ancora ammirare un vigneto, assistere al rito della vendemmia, proprio qui, sulle terre dei nostri avi. Immobili demoliti della vecchia piazza castello. Sulla sinistra l'edificio a pianterreno che ospitava il torchio, citato nell'inventario del 1727. Note (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7)

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Dozio Giovanni, “Notizie di Vimercate e sua Pieve raccolte su vecchi documenti”, tip. Agnelli Milano 1863, p. 65. Boselli Piero, “Toponimi Lombardi”, Sugar edizioni, Milano 1977, p.53. A.S.Mi, Pio Albergo Trivulzio, fondo Arcimboldi, cart. 10. A.S.Mi, Fondo notarile, nr. 14454, Gerolamo Cattaneo. Archivio Parrocchiale di Brentana, Cartella riguardante gli Oratori della Parrocchia, promemoria del 1767, fasc. S. Pietro. A.S.Mi, Fondo notarile, nr. 39259, Giulio Tommaso Rossoni. A.S.Mi, Fondo notarile, nr. 39260, Giulio Tommaso Rossoni.


Il vino a Triuggio* * di Vittorio Farchi “Definito 'Comune-Giardino' per il patrimonio arboreo del Parco della Valle del Lambro, dove il fiume accoglie affluenti di sinistra i torrenti Brovada e Cantalupo. Vasta estensione del territorio agreste ricco di aree boschive, patrimonio paesaggistico cui vale l'auspicio di un'accorta preservazione.” Così è presentata Triuggio, insieme alle sue frazioni di Rancate, Ponte Albiate, Tregasio e Canonica, nel volume “Invito in Brianza” di Alessandro Minozzi (ed. Alzani, 1999). Triuggio, in epoca medioevale, fu pertinenza della Pieve di Agliate “Ultra Lambrum” e compreso nel Contado della Martesana. Uno dei fatti storici che riguardano il paese è di seguito riportato in quanto esso si trovò coinvolto nell'aspra contesa tra i ghibellini Visconti e i guelfi Della Torre : “L'8 giugno 1324 il condottiero Marco Visconti con 400 mercenari tedeschi, sorprese Passerino Della Torre a Ponte Albiate, in una mischia di cui fu teatro il letto del Lambro pressoché asciutto, sconfisse la formazione guelfa costringendo Passerino in fuga a riparare in Monza, allora caposaldo guelfo in lotta contro la Milano Viscontea. Lo scontro di Ponte Albiate rimane l'unico fatto d'arme che turbò le popolazioni della zona, dedite alle pacifiche occupazioni campestri”. Inquadrato il territorio e parte della sua storia, parliamo ora delle sue coltivazioni e delle viti in particolare: come scritto precedentemente, Triuggio faceva parte della Pieve di Agliate riguardo la quale è documentato che nel 1558, periodo della dominazione spagnola, ”'aratorio vitato” era pari al 22,2 % del territorio coltivabile. Dalla pubblicazione “Triuggio e le sue frazioni” di Fabio Boretti edito dalla Biblioteca Comunale nel 1986, ricaviamo delle interessanti informazioni che qui riportiamo : “La graduale sparizione di quelle grandi proprietà terriere che si erano costituite in Brianza durante il periodo Longobardo interessò anche il territorio di Triuggio. Capitali accumulati nelle città da mercanti, da esercenti attività manifatturiere e professionali, da istituzioni ecclesiastiche si volsero all'acquisto di terre e di cascine nelle campagne. Ebbe così inizio un frazionamento del territorio ed un intensificarsi della cultura dei cereali e della vite a scapito della meno redditizia pastorizia”. In un primo tempo furono coltivati i cereali minori, segale, miglio, biada, etc., sostituiti in seguito quasi totalmente da grano e granoturco. Nel sec. XVI si nota tuttavia in Triuggio una prevalenza di terreni boschivi nei confronti di quelli coltivati. 137


Una statistica del 1530 ci indica: Proverbio brianzolo: «Quond ul padron al voeur bev, l'asen al sifula».

Tregasio Triuggio Rancate Chignolo

Coltivo Vigna Coltivo vigna

p.m. 300 p.m. 453 p.m. 191 p.m. 40

Bosco Bosco Bosco Bosco

p.m. 500 p.m. 745 p.m. 200 p.m. 80

Anche se le informazioni sono parziali, abbiamo la significativa conferma che la coltivazione della vite era piuttosto diffusa. Con la pace di Rastatt del 1714 ebbe termine il dominio spagnolo con “l'assegnazione della Lombardia all'Austria”: i provvedimenti dettati dall'imperatrice Maria Teresa consentirono dei miglioramenti nelle condizioni economiche e civili in una fase di crescente benessere. La compilazione dei rilievi del Catasto Teresiano nel 1721 consentì la stesura della mappa catastale di Triuggio dalla quale avrebbe potuto essere ricavata la percentuale dei diversi tipi di coltura del territorio. Non abbiamo però trovato notizie su alcuna elaborazione statistica di tali informazioni. Il vino della frazione di Canonica è citato da Carlo Porta nel suo “ Brindisi “ in onore dell'Imperatore Francesco I d'Austria.

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Il vino a Usmate Velate* * di Gianni Magni

Un territorio vocato E' stata la conformazione stessa del territorio del Comune di Usmate Velate a determinarvi una precoce introduzione della coltura della vite. Usmate Velate poggia accoccolato sulle suggestive “balconate” delle ultime propaggini dei contrafforti morenici formati dalle fronti delle grandi glaciazioni dell'Era Quaternaria (classificate dagli studiosi coi nomi MINDEL, RISS e WURM) dalle quali si affaccia, curiosa e compiaciuta, sulla pianura dell' antica Modoetia e, più in là, della grande Mediolanum. E' così che, assieme all'antica roccaforte che, “velata” tra i boschi, controllava la vicinissima strada dello Spluga (ex SS.36), ben presto deve essersi formata una comunità, raccolta in un piccolo villaggio murato, attorno all'antica chiesetta di “Sancta Maria de Vellate”, e traente il proprio sostentamento dal lavoro agricolo, coltivazione della vite compresa, e dall'allevamento del bestiame. La conferma documentale La prima conferma del quadro sopra descritto ed in particolare della presenza della vite in questo territorio, la troviamo in un diploma di Berengario 1° che, nel 920, volle gratificare i 32 Canonici di San Giovanni Battista di Monza, che gli erano rimasti fedeli durante la dura lotta contro gli Imperatori del Sacro Romano Impero per la conquista del Regnum Italiae, donando loro in beneficio la “Curtis di Velate”. Ebbene, nel documento in lingua latina giunto sino a noi, leggiamo: “… corte di Velate con tutte le sue pertinenze e i possedimenti e gli affidamenti stessi assieme alle case, alle terre, alle vigne,… ai campi coltivati… “. Eravamo nel secolo X; successivamente lo stesso testo e la stessa donazione sarà confermata anche da altri Imperatori come Ottone 1° (961) e Lotario II (1136) e sempre si farà cenno alle “vigne”. Queste continueranno nei secoli a contraddistinguere il territorio, durante i secoli del Basso Medioevo fino all'Era Moderna e Contemporanea, come è possibile ricavare dai più numerosi documenti di cui il ricercatore può oggi disporre: dalle pergamene tardo medioevali (1280…1338…), ai documenti d'archivio dei secoli successivi, fino ai catasti di Carlo VI (prima metà del 1700) e del Lombardo Veneto (metà 1800). Distribuzione ed importanza della vite nel territorio usmatese e velatese Senza dilungarci in eccessivi dettagli, fermiamo l'attenzione sulla situazione rilevata dal Catasto Teresiano, lo stesso che abbiamo definito sopra di Carlo VI, padre dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria. Da esso risulta che nel 1730 il territorio di Usmate Velate si estendeva su una superficie di ben 13.358 pertiche milanesi, di cui 5.830 di Usmate con Cascina Corrada e 7.528 di Velate con Cascina Brugorella. Assai significativo è il dato ricavato dalle tabelle relative all'utilizzo della superficie agraria riportate nel testo Autori vari “TERRE DI BRIANZA, La comunità di Usmate Velate tra Medioevo 139


ed età contemporanea, edito dal Comune di Usmate Velate nel 2004. Secondo tale pubblicazione a Usmate era destinato ad “Aratorio vitato” ben il 57% del totale del territorio, per un totale di pertiche milanesi n° 3.300, contro il 25,5% per un totale di n° 1.911 pertiche milanesi nel territorio di Velate, dove la faceva da padrone ancora il bosco che ricopriva il 45% del territorio, distinto tra Bosco forte o ad alto fusto, con ben 2'105 pertiche, pari al 28% della superficie totale e Bosco castanile esteso per ben 1.284 p.m. corrispondenti al 17% del totale. Abbiamo parlato di “ Aratorio vitato”: ciò è motivato dalla modalità con cui la vite era coltivata: essa si estendeva a filari tra loro distanziati con regolarità lasciando spazio tra un filare e l'altro per la semina di cereali, grano, segale e granoturco. Questi si succedevano col sistema della rotazione triennale che garantiva, attraverso un'opportuna alternanza di cereali e leguminose, miglior fertilità e quindi resa. Questo avveniva sia sui campi pianeggianti sia sui ronchi, specie quelli della Cascina Imparì e Cazzullo di Usmate e della Cassinetta, del Dosso e della Montagnola di Velate. L'affaccio a mezzogiorno dei ronchi in generale e, a Velate, della citata Montagnola, che si elevava fino ai 300 metri s.l.m. garantiva un'esposizione solare migliore, ottimale per la qualità del prodotto rispetto a quello della campagna considerato assai più scadente. Tecniche di coltivazione e paesaggio conseguente Dapprima i filari delle viti erano supportati da pali portanti ricavati dai già ricordati boschi castanili, ma quando, nell'800, faranno la loro solenne ed imponente apparizione i gelsi per l'allevamento del baco da seta, allora saranno i “moroni” ( alberi delle more) stessi a fare da supporto alle viti e, contestualmente, anche il paesaggio cambierà aspetto, con un tipo di agricoltura che si chiamò “ a giardino”. Proprio da qui, da Velate, prese l'avvio, per merito del Conte Rinaldo Alberico, principe di Belgioioso d'Este, “sul cui lodevole esempio si rapportaron li possidenti di Lombardia”, come recita una bellissima epigrafe conservata nell'Oratorio San Felice del cimitero di Velate, tomba di famiglia del casato dei Giulini, proprietari della Villa San Martino di Arcore (MB), con cui la figlia del principe, Maria Beatrice, si era imparentata sposando, nel 1812, il conte Giorgio Giovanni (1784 – 1849), divenendo così contessa Giulini Della Porta. Sarebbe troppo lungo soffermarci, in questa sede, sui dettagli delle tecniche produttive relative all'impianto del filare e al materiale usato, quali, ad esempio, la struttura fatta di pali portanti di castagno e di pertiche, pure di castagno, orizzontali, legate con i polloni flessibili del salice da un palo all'altro e lungo le quali si allungavano i tralci della vite, oppure descrivere la delicata ed accurata operazione della messa a dimora delle piantine da vivaio; così come sarebbe interessante soffermarci sui vari lavori nella vigna: potatura tardo autunnale o tardo invernale, secondo l'esposizione solare, legatura dei tralci lasciati, zappatura della terra, irrorazione col verderame, la solforatura, la mondatura dai “racàsc”( butti improduttivi); e poi ancora la descrizione della vendemmia e della pigiatura, una vera festa sull'aia, ma anche la lavorazione del vino con la bollitura , la svinatura,

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la torchiatura, i travasi, la maturazione e… finalmente la degustazione: tutte azioni compiute con calma, professionalità, direi anche ieraticità, atteggiamenti propri di un rito patriarcale, su cui varrebbe la pena, magari in altra occasione, soffermarci. I coloni, la vite e il Signore proprietario del fondo Come è risaputo, il capitolo dei contratti agrari dei tempi della colonìa, come sono quelli di cui stiamo trattando, è abbastanza complesso, configurato com'era sul pagamento in natura, in prodotti agricoli, a volte quantificati a mezzadria, a volte in quantità inferiore, a seconda della produttività dei fondi, oppure in giornate di lavoro (corvées), distinte tra lunghe o corte, secondo le necessità delle attività delle varie stagioni, oppure ancora in “carreggi”, vale a dire in viaggi col carro a servizio del padrone e su fondi del padrone. Ci limitiamo ad esaminare come ci si comportava con la produzione dell'uva. Dalle carte consultate, l'uva era trattata come si faceva con le “gallette”, i bozzoli del baco da seta, cioè con la mezzadria: metà del prodotto era di competenza del Signore, feudatario o compadrone, proprietario del fondo e l'altra metà del colono produttore, ovviamente detratte tutte le spese e anticipazioni che “'l Sciur padrùnn”aveva anticipato, ad inizio stagione, per mettere in grado il suo colono di avviare la stagione (legname, piantine, salici, solfato di rame, zolfo, ceste…). Ciò che distingueva il Signore dai coloni era il possesso del torchio, col quale lavorava l'uva di propria competenza, proveniente direttamente dai suoi fondi o, anche, avendone la possibilità finanziaria, quella che faceva arrivare da varie parti d'Italia, prevalentemente Piemonte, Oltrepò pavese e Puglia, per “tagliare” la propria, aumentando così la qualità del vino prodotto, che consumava per se stesso e la sua famiglia, ma soprattutto che vendeva in città. Il colono si doveva accontentare dei suoi “potenti mezzi”, si fa per dire, e sperare in un'annata discreta del suo pincianèll, a volte detto anche “nustranèll”, spesso neppure sufficiente per l' autoconsumo della propria famiglia. I conti Casati di Velate e l'azienda vinicola C'è ancora una curiosità da aggiungere a questa nostra rapida carrellata sul vino e sulla coltivazione della vite. Le varie famiglie nobili che si sono succedute in Velate e, in parte, anche in Usmate, dopo che i Belgioioso, agli inizi dell'800, sono subentrati ai Marchesi Serponti, sono tra loro differenziate per una particolare dedizione all'una o all'altra delle attività esercitate nel nostro territorio. In breve. Se i principi di Belgioioso, padre e figlia, si sono prodigati nel risanamento del territorio, fatto ancora di “campi aspri e selvaggi” su cui le acque dilavavano incontrollate verso valle, distruggendo, inondando e provocando danni, nonché nel costruire e nel “ restaurar case”, se i conti Giulini introdussero in Velate ed in Usmate l'allevamento del baco da seta e la coltivazione del gelso, i conti Casati continuarono entrambe le attività precedenti, ma, soprattutto, potenziarono la coltivazione della vite e la produzione di vino, al punto da organizzare una vera e propria azienda vinicola assai produttiva, tanto da sviluppare un consistente commercio verso 141


clienti della Brianza, ma soprattutto di Monza e di Milano. Fu nell'ultimo ventennio dell'700 e nel primo ventennio del '800 che svilupparono la coltivazione della vite e la produzione di vino. Nella corte rustica, attigua al “principesco palazzo Belgioioso” dei loro antenati, esiste tuttora la grande cantina tutta interrata, in cui venivano allineate capaci botti per la conservazione e la maturazione del vino prodotto e commercializzato: sul fondo di tale cantina, oggi trasformata in Sala Pubblica Comunale, è ancora visibile dove avveniva la torchiatura, in corrispondenza col sito che in superficie veniva chiamato “ul torc”, che era un vero e proprio tratto di strada selciata con tanto di “risciàda” e paracarri in serizzo, lungo il quale cigolavano le ruote ferrate dei carri dei coloni carichi di uva da pigiare, che veniva a tale scopo versata nel torchio, per la spremitura e l'inizio del protocollo produttivo che trasformava l'uva “clinton”, ma non solo, in vino dall'inconfondibile sapore di fragola (uva americana). I documenti parlano di grosse quantità in centinaia di quintali d'uva acquistata e fatta arrivare, via ferrovia fermo Stazioni di Usmate (sic!) e di Arcore, trasportata Velate, dove veniva unita a quella locale e trasformata. Anche il paesaggio doveva essere suggestivo: tutta la collina della montagnola, fronte sud, rivolto verso il paese di Velate era un vigneto unico esteso e difficile da controllare: per questo nel centro dei filari, proprio in corrispondenza del punto più elevato, più spostato verso il pendio rispetto al cucuzzolo del Belvedere del Re, si ergeva una bella torretta ornata in mattoni a vista, sulla quale il sig. Riboldi Cesare, detto Bosinett, per due lunghi mesi, dal 15 agosto al 15 ottobre di ogni anno, quando cioè l'uva entrava in maturazione, vegliava tutta notte, percependo come compenso la modica cifra di It/£. 0,50, con la grossa responsabilità di controllare e vigilare contro i malintenzionati ladri di uva! E' un'immagine, forse un po' patetica, ma significativa ed eloquente per sottolineare quanto fosse importante per i Signori la produzione di uva e, al tempo stesso, per aprire uno squarcio sulla vera condizione economico-sociale dei coloni Velatesi e Usmatesi, a cavallo tra l'800 e il '900, poco prima cioè del salto di qualità che avverrà con l'avvento delle Cooperative Agricole, Bianche o Rosse che fossero, e col pagamento dell'affitto in contanti, attorno agli anni venti del XX secolo, quando il Colono divenne Coltivatore Diretto. Piace concludere questa rapida relazione sulla vite e la sua diffusione nella Brianza vimercatese, facendo riecheggiare nelle nostre orecchie la musicalità della parlata dialettale relativa al mondo dell'uva, un mondo tanto importante nel nostro passato quanto troppo velocemente dimenticato, al punto di riviverne il lessico come lontanissimo e ovattato nella notte dei tempi: grap, pinciroeu, gatàsc …racàsc, germèi, sàlas… fòrbiss, fil da bourdiùnn, fulcìnn… gèrlu, cavàgna, sgòrbia…mugnà, sgarzulà, catà l'üga… casètt, brènta, carètt… marnètt, mastèll, tìna… segiùnn, bóta,vaşèll… e finalmente eccoli ul cruèl, ul turciàdech, ul pincianèll… e Buona Degustazione! “sùta 'l vaşèll ch'el gùta”, come si cantava nella vecchia osteria di paese.

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Il vino a Varedo* Le nostre ricerche sulla storia del vino nei diversi Comuni della Brianza hanno trovato un'utile fonte nella pubblicazione “Varedo dalle origini ai giorni nostri” di Mario Merati , ed. Gabriele Mazzotta – 2001 ed il capitolo “Storia di vigne e vini locali” è estremamente esauriente riguardo l'argomento di nostro interesse. Ci limitiamo quindi a trascriverne dei brani : Dire oggi quante vigne si coltivano e quanto vino si produceva a Varedo – peraltro come in tutta la Brianza – sembrerebbe incredibile. Eppure fin dai tempi antichi la cultura di questa pianta veniva estesamente praticata sui nostri campi. Infatti dai documenti di compravendita dei terreni, dai rilevamenti catastali e dalle vecchie mappe appaiono estesi vigneti su tutto il nostro territorio, ma specialmente concentrati attorno all'abitato per tener d'occhio l'uva nel periodo della maturazione contro le ruberie causate dall'insaziabile fame. Era quello della fame un male antico protrattosi fino a una cinquantina di anni addietro. Infatti, secondo le cronache piemontesi, alle coglitrici di uva veniva messa una museruola perché non piluccassero i grappoli, mentre nel Pavese, con padroni un po' più umani, per lo stesso motivo le donne venivano invitate a cantare. La prima notizia della presenza di vigne sui nostri campi l'apprendiamo da un censimento rilevato nel 1233 dal Monastero Maggiore di Milano sui possessi che aveva in Varedo. Sulle 465 pertiche di terreno di proprietà del Monastero 106 erano occupate da vigneti. Nel 1550, in base al censimento generale eseguito sul ducato di Milano, a Varedo risultavano 4650 pertiche di terreno coltivato, delle quali 1450 erano messe a vitigno. Ma il massimo della diffusione la rileviamo sulla Mappa catastale di Carlo VI d'Asburgo del 1721, la cui copia è visibile nella nostra Aula consiliare dove appaiono vigneti per 2376 pertiche. Delle rimanenti pertiche 4114 erano coltivate a granaglie, 286 erano boschi e 235 erano occupate da giardini, broli e orti. Tale diffusione di vigneti veniva giustificata dal maggiore rendimento economico. Dalla stessa Mappa catastale risulta che a Varedo esistevano tre torchi per la vinificazione con relative vinaie: uno stava alla Valera presso Casa Agnesi, un altro era posto nella Casa Crivelli in via Madonnina, in terzo nella Corte Lazzara per conto dei nobili Cotta. Fino al termine del XVII secolo, l'impianto delle vigne consisteva in una coltura promiscua; infatti inframmezzate alle viti si coltivavano pure granaglie, un sistema questo per sfruttare meglio il terreno, ma in seguito, per un miglior rendimento dell'uva non venne più praticato. * di Vittorio Farchi Purtroppo fino ad un certo periodo, non conoscendone di migliori,

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Proverbio brianzolo: «Al Cunvent de la Bernaga, o fioeu, hann fa cent brent de vin cui pinciroeu».

Mappa tratta dal Catasto Teresiano Fonte: sito internet Archivio di Stato di Milano

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venivano coltivate uve di scarso pregio, ad esempio il “Pignuolo”, un'uvetta un po' grama e acida usata per la produzione di vino rosso. Un'altra qualità coltivata non tanto migliore era la “Schiava bianca”, dalla quale si ricavava un prodotto piuttosto scadente con gradazione alcolica che si aggirava sui sette-otto gradi. Ma la gente allora si accontentava perché non erano disponibili altri vini, dal momento che non esisteva concorrenza. Difatti per favorire la produzione locale era in vigore una legge che vietava l'acquisto dei vini oltre un raggio di quindici miglia da ogni località. Alla fine del 1700 i soldati di Napoleone marciando sull'Italia portarono le radici del loro famoso vitigno 'Pinot' rosso e bianco della Borgogna, che da noi venne chiamato “Burgugnin”. Da allora si produsse un vino notevolmente migliore, grazie anche agli insegnamenti della tecnica di vinificazione francese. A quel tempo su ogni vendemmia si realizzavano tre vinificazioni: dalla prima torchiatura si ricavava quel vino schietto che a Varedo veniva detto 'Nostranello'; riservato quasi tutto ai padroni come affitto dei terreni: col mosto della prima torchiatura e relativa aggiunta d'acqua veniva fatto il “Crodello” che in parte si tentava di vendere per racimolare qualche contante e in parte lo si doveva al parroco quale contributo obbligatorio (la “decima”), mentre dalla terza spremitura, con una più abbondante aggiunta d'acqua si ricavava quel “Terzanello” che il contadino teneva per il proprio consumo.


Il vino a Vedano al Lambro* * di Vittorio Farchi Del vino di Vedano non si parla mai ed è comprensibile visto che non viene più prodotto da almeno 100 anni. A parlarne ed a fornirgli una patente di qualità ci aveva pensato il poeta milanese Carlo Porta nella sua ode” BRINDES DE MENEGHIN A L'OSTERIA” composta nel dicembre 1815 in occasione della visita a Milano dell'Imperatore d'Austria Francesco I e di sua moglie l'Imperatrice Maria Luisa. Nell'ode il poeta fa l'elogio del 'frisell', vinello bianco, fresco e frizzante prodotto su una collinetta di Vedano. Estraiamo dall'ode il brano che ci interessa:

Gh'hoo el petitt de impi el bottan con on fior de firisell che se fa in d'on cantonscell su la volta de Vedan. Ah che vin! Pader Abaa! Limped, viv e savorii! De quest chi in del vin de trii no ghe n'è proppi mai staa.

Ho la voglia di riempire il ventre con un fiore di vinello che si fa in un cantuccio sulla voltata di Vedano. Ah che vino! Padre Abate! Limpido, vivo e saporito! Di questo qui nel vino di tre non ce n'è proprio mai stato.

Se sto vin tal e qual l'è el podess deventà on omm, e mì anmì deventà on re, no vorrev de galantomm che sto scior vin de Veda nel me stass on brazz lontan…

Se questo vino tal e quale è potesse diventare un uomo, e io anch'io diventare un re, non vorrei da galantuomo che questo signor vino di Vedano mi stesse un braccio lontano…

Ma, eel fors lu…. Che denanz dagh el sacc el me cascia in del coeur el coracc de voltamm per brio bacco a descor col medemm noster Re e Imperator? Ah sì ben che l'è lu!...saldo…andemm…. Alto, spiret, sur Carla!...politto… Via ch'el parla – Moxtill!...spiret…citto!

Ma è forse lui….che innanzi (di) dargli l'assaggio mi caccia nel cuore il coraggio di voltarmi per brio bacco a discorrere col medesimo nostro Re e Imperatore? Ah sì bene che è lui!...saldo…andiamo… Orsù, animo, signor Carlo!...pulitamente … Via che parli – Calma!...animo…zitto!

Cont el fumm de sto vin Sacra Maistaa, come procurador del popol bass, ghe stampi in ciel pù mej che né sul sass el giurament de amor, de fedeltaa! Adess, Maistaa, mò el leggiarà addirittura sul volt de tucc la carta de procura.

Con il fumo di questo vino Sacra Maestà, come procuratore del popolo basso, le stampo in cielo più meglio che sul sasso il giuramento di amore, di fedeltà! Adesso, Maestà, leggerà addirittura sul volto di tutti la carta di procura. NOTA: “Vin de trii”: vino da tre soldi al boccale o vino fatto mescolando altri tre vini; vale comunque come 'vino scadente'. Il brano è tratto dal volume “Le poesie” ed. Feltrinelli 1964.

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Il luogo di produzione di questo vinello era situato sulla collinetta che sorge nel parco di Monza al confine con Vedano (ma che fino al 1928 faceva parte della vasta porzione di parco che apparteneva al territorio di Vedano). Una conferma di ciò la troviamo nella pubblicazione del dott. G.A. Mezzotti “Passeggiata nel Real Parco di Monza” del 1841 che racconta:

Il tempietto sul poggio; sullo sfondo la villa Mirabello, incisione di Carlo Sanquirico, 1850

“Arrivasi quindi cammin facendo alla collinetta di Vedano che presenta un graziosissimo poggio con un vigneto delle più gran bellezza; ivi sogliono recarsi i Principi a festeggiare la vendemmia. Sulla cima di quest'amena collina v'è un tempio di ferro che dà un'idea di simili grandiosi lavori fatti in Russia e in Inghilterra. La veduta di questo colle è assai variata. L'occhio stendesi a levante sopra un vasto orizzonte. Veggonsi sottoposte dal canto di Vedano alcune eleganti case di campagna, una delle quali appartiene già nello scorso secolo ai marchesi Scotti-Gallarati”.

Va sottolineato che la produzione del vino riguardava tutto il paese, il quale aveva una estensione quasi doppia rispetto a quella attuale ed arrivava fino alla riva del Lambro. Questo territorio, facente parte del Parco, nel 1928 passò sotto la giurisdizione di Monza. 146


Un primo utile riferimento storico lo troviamo nel verbale della cerimonia di giuramento di fedeltà degli uomini di Vedano al feudatario Giovanni Battista Gallarati Scotti che ebbe luogo domenica 15 aprile 1731. Il 'console' rappresentante della comunità vedanese, nel presentare le caratteristiche del paese dice: “Il territorio di questo luogo di Vedano sarà in c.a di pertiche 6000, parte avidato e prativo e boschi e si racoglie ogni sorte di grano, et il vino è mediocre e qui non vi sono risere per non esservi acque”. Quindi all'epoca si produceva parecchio vino ma solo per consumo domestico o da osteria. Si è parlato di qualità, vediamo ora la quantità: ci viene in aiuto l'allegata tabella che ci dà la storia delle diverse coltivazioni per il periodo che va dal 1558 al 1858. Le misurazioni sono in 'pertiche milanesi' per cui ad ogni pertica corrispondono 654 mq. E' interessante notare che la percentuale di terreni coltivati a vite è molto elevata, fino al 50,48% del totale nel 1722 per poi scendere al 3,18% nel 1858. Le ragioni di un così elevato crollo della produzione del vino sono più d'una, ma la più importante è quella della diffusione dell'allevamento dei bachi da seta: per i proprietari ed i contadini era più remunerativo dedicarsi a questa attività ed i vitigni vennero abbandonati a favore dei moroni (gelsi). Le coltivazioni nelle zone del Parco furono trasformate in territori di caccia per i Reali, probabilmente anche per le conseguenze dell'invasione della fillossera.

Proprietario

Co nte Giovanni Battista Gallarati Scotti Marchese Francesco Gerolamo Cravenna Co nte Gaspare Pò Co nte Zenati Don Gio vanni Vimercati Co llegio Elvetico di Milano Curia di Vedano Co nte Giuseppe Durini Fabbrica di San Giovan ni Battista di Monza

Numero aratori 13

Totale estensione in pertiche 963

9

432

8 10 9 6 4 3 3

357 305 238 235 92 74 68

In un successivo elenco scompaiono le proprietà del conte Zenati, passate in gran parte al Luogo Pio della Madonna di Loreto di Milano. In questo secondo elenco compaiono anche campi di proprietà del conte Gabriele Verri, del marchese Giovanni Serponti, del Monastero di San Paolo di Monza e del monastero del Cerchio di Milano, subentrati per compravendite o donazioni.

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Proverbio brianzolo: «Bianch e néger i fa star alégar».

Come si può vedere ben pochi vedanesi possedevano dei terreni e anche le case appartenevano ai proprietari dei campi ed erano abitate dai 'massari' che presidiavano al lavoro dei contadini. Di seguito è anche riportata la riproduzione della mappa catastale Teresiana del 1722. Facciamo notare che nella stessa viene indicato il tipo di coltivazione di ogni terreno: con i puntini gli aratori a vitigno, con le linee quelli a cereali e con i punti più grossi i moroni che, oltre a fornire alimento ai bachi da seta, servivano da sostegno ai filari di vite. Un ricordo della presenza del vino di Vedano lo troviamo nello stemma del Comune che contiene due tralci di vite. A conclusione di queste note, desideriamo porgere i più vivi ringraziamenti all'architetto Alessandro Vimercati per averci messo a disposizione le notizie catastali e l'elaborato delle stesse. FONTI: Catasto della Tassa sul Perticato Catasto della Tassa sul Perticato Catasto Teresiano Catasto Lombardo-Veneto Catasto dei Terreni e dei Fabbricati

1549-1558 1600-1700 1722-1752 1858 1871


Il vino a Veduggio con Colzano* * di Vittorio Farchi Per parlare del vino di Veduggio disponiamo di una preziosa fonte: il volume “Cronaca di Veduggio” di Aroldo Benini edito dal Comune di Veduggio con Colzano nel 1985. Nel libro sono trascritti, dai documenti originali, i fatti che interessano il paese dal 1000 ai giorni nostri. Oltre ad alcuni passi storici riportiamo qualche nota sulla presenza del vino : 1115 Nel “Contributo toponomastico alla teoria della continuità nel Medio Evo delle comunità rurali romane e pre-romane dell'Italia superiore”, si trova scritto con riferimento al 1115 “Colzannis” secondo l'Olivieri senza alcun dubbio Colzano. Deve trattarsi di zona boscosa, secondo l'etimologia suggerita dall'Olivieri, che fa derivare Brusco' da Brusca, ruscus aculeatus o ruscum, brusco, pungitopo (ruscus aculeatus); Colzano da Caltianus; Tremolada da tremula, populos, pioppo; Veduggio da abetunculus, piccolo abete, veddo, veddù. (Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, seconda edizione, Milano, 1961).

Va ricordato che nei tempi antichi il territorio era suddiviso in quattro comuni: Colzano, Tremolada, Bruscò e Veduggio. 1154 Intorno a quello che diverrà l'oratorio di Bruscò, ha luogo una scaramuccia, comunque uno scontro di soldati milanesi con uomini del Barbarossa perché, durante lavori di restauro dell'oratorio, vennero trovate molte ossa umane ed armi dell'epoca. (Cesare Cantù, illustrazioni)

1162 L'abate Algisio dell'abbazia di Civate, essendosi schierato dalla parte del Barbarossa, dopo la seconda resa di Milano ottiene in premio un diploma datato 27 aprile 1162, “post destructionem Mediolani”, col quale ottiene i beni e i possessi del monastero di Civate sottratti alla giurisdizione dell'arcivescovo di Milano, esenti da ogni peso e contribuzione. Fra le 36 località della Brianza, comprese ville, castelli e località, sono elencate Tremolandem (Tremolada), Rutenado (Renate), Menzonicum (la cascina Menzonigo di Besana), Marexium (Maresso di Missaglia). Nel diploma emanato a Pavia si aggiunge che l'abate Algisio sempre fedele all'imperatore “firmiter adhesit, immobilis perseveravit”. (Muratori, Magistretti, Giulini, Cappellini)

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Intorno alla metà dei 1500 troviamo una prima testimonianza sul numero dei “fuochi” e delle “anime” che popolavano i quattro comuni: 1568 La cappella o oratorio di S. Michele di Brusciò viene dotata con legato di Giacomo Mauro successivamente, nel 1584, con altro legato da Francesco Mauro. Nell'agosto il parroco Hieronimo Perego compila una nota dei beni mobili ed immobili “quali si ritrova hauere la chiesa di Sancto Martino”, e per quanto riguarda Veduggio scrive nove fuochi (famiglie, focolari) con 50 e 55 anime; per Colzano, undici fuochi con 72 e 44 anime; per Bruscho nove fuochi con 31 e 27 anime; per Tremolada una cassina con un fuoco e 13 anime di comunione. La prima cifra corrispondente alle anime riguarda gli adulti, in grado di prendere la comunione; la seconda le cosiddette anime “pichole”, cioè i bambini. Per Tremolada, come s'è visto, dei bambini non si fa menzione. (A.s. Curia, se. X, vol. 39, Cappellini). Dobbiamo arrivare al 1570 per avere notizie relative all'esistenza di una vigna : 1570 Nell'elenco dei beni immobili della Chiesa di S. Martino in Veduggio appaiono la casa annessa alla chiesa e il ronchetto dall'altra parte della strada, diversi ronchetti e ronchi indicati mediante i confini con le proprietà vicine, un pezzo di terra detto Baragiola, un campo, vigna e prato, un livello di lire otto sopra alcuni beni in Bruscò come da atto rogato in quell'anno dal notaio Bartholomeo Parpaglione (un precedente legato a favore della chiesa parrocchiale risale al 1481). A.S. curia, Milano, sez. X, vol. 24) E di nuovo nel 1604 : Nella “Notta dell'entrata cioè beni immobili et livelli dilla parrocchiale di S. Martino di Veduggio” sono elencati: un pezzo in terra, “La Baragiola”, in parte campo, vigna e prato, affittato a Lazaro Redaelli; un pezzo di ronco; un livello di L. 8 annue che è della chiesa In una nota del 1760 viene ricordato che: 1760 I quattro comuni di Veduggio, Brusco' con Selvetta, Colzano con Colombaio e Cascina Osio (di proprietà dei nobili Osio Cermelli) e Tremolada vengono riuniti in due soli Comuni: Veduggio con Bruscò e Colzano con Tremolada

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Proverbio brianzolo: «Utuber te se bell, se e'l fen l'è in cassina e'l vin in del vassell».

A questo punto però diamo spazio ai due documenti più interessanti per le nostre indagini : il primo riporta la mappa, la cui scala è in “trabucchi milanesi” (equivalenti a 2,611 metri) di Veduggio con Bruscò nella Pieve di Agliate. Il secondo è la “dichiarazione dei numeri” che riporta le tipologie dei terreni della mappa catastale. Sono evidenziati gli aratori avitati e i ronchi. Anche a Veduggio quindi nel '700 le vigne non mancavano.

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Il vino a Verano Brianza* * di Vittorio Farchi

Nei libri che parlano dei comuni lombardi Verano è indicato come un paese situato “sopra un ameno colle alla destra del fiume Lambro, con terreno fertile di cereali, e che fu coltivato con buon successo anche a gelsi, pascoli o viti”. Vige la tradizione che il paese sia stato saccheggiato dalle soldatesche di Federico Barbarossa e che alcuni ruderi, tuttora esistenti, siano appartenuti ad un castello distrutto dai Milanesi nel 1222. Nel 1478, Verano, colla parte della Pieve di Agliate al di qua del Lambro, passò in feudo al Conte Angelo Balbiani; e nel 1646 venne acquistato da Tiberio Crivelli, passando a costituire il vasto feudo dei Crivelli, il cui centro era Inverigo. Che ci si preoccupasse di una buona produzione di vino ce lo conferma una antica ordinanza: “Per garantire la produttività del terreno, qualche norma statutaria si preoccupava della concimazione: “non si possono utilizzare spazi tra i filari di viti con colture che ne diminuiscono la rendita, si devono tenere in ordine le siepi, non si devono tagliare alberi, si devono sostituire le piante di vite morte durante l'annata e le piante di noce e di castagno devono costituire un'importante riserva di legnami d'opera” Verano faceva parte della Pieve di Agliate della quale sappiamo che, in base alle misure catastali del 1558, gli “aratori vitati” si estendevano per 20.922 pertiche pari al 22,2% dei territori coltivati. Però Verano ci riserva una sorpresa: dalle rilevazioni dello stesso censimento in questa località l'aratorio avitato ricopriva il 65,57% del totale detenendo così la percentuale più alta di tutti i comuni della Pieve di Agliate.

Con l'avvento del periodo austriaco la vigna mantenne la sua importanza ma in percentuale calò significativamente rispetto alla predominanza del grano o del granoturco e dei gelsi utilizzati per l'allevamento del baco da seta. Reputiamo interessante sapere durante quel periodo chi erano i proprietari delle terre :

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Proverbio brianzolo: «Vendembia temporida de spess la va fallida».

I possessori dell'estimo del 1726 riscontrati né “La dichiarazione dè numeri dei possessori, qualità e quantità che si contengono nel territorio di Verano, Pieve d'Agliate, ducato di Milano, misurato dal geometra Giovan Giacomo Frast e copiato da Giacomo Rua e Giacomo Inossi disegnatori e scritto da Carlo Monti”, sono molti e possono dare un semplice scorcio su quelle che erano le possessioni in questo piccolo territorio. Il marchese Crivelli, il dott. Berlucho, la cura di Robbiano, la cura di Verano, Fabrizio Marino, Bistorcio Paolo, Rusca Francesco, il conte Marcellino Airoldi, la veneranda scuola di S. Ambrogino in Milano, i poveri di Verano, Felippo Besana, la prevostura d'Agliate, la cura di Paina, i reverendi Padri Certosini di Paina, i reverendi Padri Cappuccini di Verano, l'arcipretura d'Arona, Paolo da Seregno, l'ospedale di Carate e l'ospedale Maggiore di Milano, sono soltanto una parte di coloro che possedevano terreni e proprietà in questo territorio che senza alcun dubbio per la sua posizione ai piedi del fiume Lambro, molto era invidiato. Parlando di tali luoghi, è possibile individuare nel possessore Bistorcio Paolo, l'originario proprietario dell'omonimo molino, anche se il documento archivistico non ce ne dona conferma. Nel 1840 a Verano i terreni lavorati occupavano 86.252 pertiche. Di queste 935 erano vigneti o ronchi a conferma che la produzione del vino era significativamente diminuita. Per concludere un dato curioso : abbiamo preso visione di due tabelle che evidenziano le quantità di raccolto di diversi prodotti della terra in alcuni paesi della Brianza ed a Verano risultano prodotti, nel 1817, 2.074 “some” di vino che nel 1840 diventano 3.772. La “soma” è un'antica unità di capacità usata in Italia prima dell'adozione del sistema decimale, nel milanese corrisponde a 166,52 litri ovvero alla quantità che poteva essere portata sul dorso di un animale da soma.

Fonti: 'Verano Brianza una storia da raccontare' di M.P. Canegrati e R. Celotti 'Storia dei comuni della Provincia di Milano' (1934) 'Vita economica e Sociale' di S. Zaninelli

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Il vino a Villasanta* Proverbio brianzolo: «L'acqua dopo San Bartolomee l'è bonna de lavà i pee»

* di Vittorio Farchi

Villasanta è costituita con questo nome nel 1929 dall'unione dei due antichissimi villaggi di Villa San Fiorano e La Santa. Riportiamo qui di seguito il brano sulla costituzione del Comune tratto dal volume “Villasanta nei tempi” di Camillo Origo del 1958: “Villasanta è un Comune di formazione recentissima per quanto riguarda la superficie territoriale, risultando formato dall'ex-comune di Villa S. Fiorano, cui fu annessa quasi completamente la Santa, già frazione del Comune di Monza; addirittura ex-novo, invece, per quanto riguarda la denominazione. Quindi il Comune di Villasanta non è altro che la continuazione del Comune di Villa S. Fiorano, l'antico Villola, ampliato nella superficie territoriale, ma con nuovo nome. Gli atti costitutivi del nuovo Comune sono due: il R. Decreto 29 novembre 1928 n. 2933 che, mentre univa al Comune della città di Monza il territorio compreso entro la cinta del R. Parco, delimitava, aggiornandoli, i confini territoriali dei Comuni circostanti e il R.D. 2 luglio 1929 n. 1383 inerente la nuova denominazione. Secondo la moderna legislazione, il Comune, oltre che designare un ente autarchico, costituito da una collettività di persone residenti in una limitata parte del territorio nazionale, serve altresì a designare una determinata circoscrizione delle Amministrazione Statale.” Come si può rilevare dalla pianta del '700 in seguito riprodotta, ambedue le località erano proprietarie di una larga parte dell'attuale Parco di Monza che andava dalla riva sinistra del Lambro fino all'attuale cinta muraria eretta nel 1806 durante il periodo Napoleonico. Come risulterà più evidente nel capitolo riservato al parco di Monza, nei territori indicati la coltivazione dell'uva era diffusa. Da una rilevazione sulla superficie coltivata nella terra di Monza del 1539, in Villa San Fiorano viene indicata una zona coltivata di complessive 1.949 pertiche delle quali 679 a vigna. Nel 1929 tutti i terreni del parco di Monza che appartenevano ai Comuni di Biassono, Vedano e Villa San Fiorano furono assegnati al Comune di Monza. La Santa era già diventata nel frattempo una frazione di Monza. Come anticipato ci riserviamo di fornire qualche ulteriore dato numerico nel capitolo sul parco. Per quanto riguarda la qualità del vino prodotto citiamo Carlo Porta il quale, nel 1815, nel brindisi di benvenuto all'Imperatore d'Austria Francesco I, cita tra i vini più importanti della brianza “quii grazios de La Santa”.


Il vino a Vimercate e Oreno* Lo storico Mario Motta di Oreno ha svolto numerosi studi storici sulla presenza della vite nel Vimercatese e in particolare sul territorio della frazione di Oreno di Vimercate. Egli ha trovato testimonianza fin dal terzo secolo di dominazione romana, quando le rive del torrente Molgora erano via via state colonizzate con fertili campi e ubertose vigne, assieme a oliveti e ficaie. In particolare era particolarmente vocato alle vigne “quel rialto, che cinge come un grande anfiteatro, quella porzione di territorio di Oreno e Vimercate, che gode più beneficamente del calore solare …”. Di questi terreni si conservò l'antica denominazione di “Vineas”, accusativo plurale del latino “Vinea”, in quella affine denominata poi “Vignass”. Sulla coltivazione della vite il Motta ha raccolto testimonianze di atti registrati e compravendite in epoca medioevale (dal 1243 al 1378, ai tempi della famiglia Scotti) e successivamente in epoca rinascimentale in tutto il 1500, quindi dal 1607 al 1670. Tracce di questi documenti anche nel 1761. Nel 1559 veniva compilato un manoscritto cartaceo in occasione del censimento , o estimo generale della Stato di Milano, ordinato dall'Imperatore Carlo V. Questo manoscritto contiene le misurazioni del territorio del Comune di Vimercate, da cui risulta che la vite è molto coltivata. Vi si ricavano vini allora rinomati, dei quali ne tesse poeticamente l'elogio Basilio Bertucci nel suo libro “Bacco in Brianza”. Sempre lo storico Mario Motta cita vini di vecchia produzione a Oreno: il “Caspio” e il “Crodelo”. Dalla pubblicazione “Storia di Vimercate” di Eugenio Cazzani, Pagina del Catasto Teresiano in cui, unitamente agli aratori, è disegnato il giardino del Conte Scotti

* di Giorgio Federico Brambilla e Pio Rossi

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dicembre 1975, si trovano varie informazioni e testimonianze della presenza della vite nel territorio di Vimercate: ad esempio negli Atti della visita pastorale dell'arcivescovo Gabriele Sforza del 1455 (beneficio prepositurale di Vimercate) e nel citato “Mesura del teratorio de Vimercate fatta l'anno 1559”, ordinato dall'Imperatore Carlo V (Peza una de Vigna appellata il trisolzo, peza una de vigna appellata la Brera, peza una de vinìgna appellata el San Pedro, …….). In una nota circostanziata riguardante la “Rendita annuale della Prebenda prepositurale di Vimercate”, del tempo del prevosto Alessandro Banfi (1704-1763), si legge che la casa prepositurale con giardino possiede “pezze sedici terra aratoria avitata, le quali formano in tutto la somma di pertiche trecentotrentatrè e che si ricava vino brente 25”. Proprio per “riporre e conservare il vino che si raccoglie dà poderi della Chiesa comparrocchiale e antica Collegiata dell'insigne Borgo di Vimercate”, si legge in un'ordinazione capitolare che fu “ridotta già da tempo servibile la cantina nuovamente costrutta, (…) eseguitesi esattamente le condizioni apposte nel Decreto Governativo del 23 gennaio 1774”. Tracce della produzione di vino locale si trovano inoltre in documenti, nei vari secoli passati, relativi alle decime che i contadini dovevano pagare alla chiesa. Una conferma sul valore del vino di Oreno si ha da Carlo Porta, che nel suo “Brindes de Meneghin all'ostaria (Ditiramb per el matrimonni de S. M. l'Imperator Napoleon con Maria Luisa I. R. Arziduchessa d'Austria)” dice “ El san ben Buragh, Tradaa, Montaveggia, Oren, Maggenta,Canegraa, Busser,Masaa, Pilastell – Scioccon,Groppell, quanci lacrem, quanc sospir, quanci affan, quanci dolorm'hin costaa quij so bej fir, quij so toppi, quij vidor”. Sul piano documentale la coltivazione della vite nelle terre di Oreno è comprovata fin dal XIII secolo, al tempo feudale dei Da Oreno, da una serie di atti notarili che trattano di vendite e altre transazioni che Mario Motta e l'Archivio la Lodovica di Oreno hanno pazientemente trascritto e di cui si riportano i fatti salienti. Tra i documenti più antichi vi è quello dell' 11 agosto 1245 con il quale Federico della Torre di Oreno aveva corrisposto alle monache della Congregazione dell' Ordine di San Damiano “4 carra di vino … per fitti d'anni 2 della villa Gallarati Scotti Oreno

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vigna della Pergola di pertiche 8 sita in territorio di Oreno”, una vigna che due anni dopo lo stesso Federico venderà a Facio Cavazza “per il prezzo di 15 terzoli” (1). Nel 1283 un altro atto notarile tratta di una “vendita fatta da Petrazio Oreno e Agata figlia q.m Conrado Oreno d'una vigna di pert. 14 situata nel territorio d'Oreno, dove si dice in Strada nuova, con ragione di decima per il prezzo di n. 100 terzoli. E donazione d'essa vigna fatta dalla detta Agata al Monastero di S. Nazaro d'Oreno, in cui essa intende entrare a vivere” (2). Un altro pezzo di vigna vicino a questa viene acquistato dallo stesso monastero col medesimo sistema nel 1328, grazie alla cessione da parte di Giovannuolo Cernusco “per l'accettazione di esso Monastero di Floriana sua sorella” (3). I monasteri dell'epoca erano attivi nell'acquisizione delle vigne anche mediante la compravendita, come il Monastero di S. Apollinare di Milano che nel 1330 aveva acquistato “pertiche 49 t. 9, d'una vigna di pertiche 100 sita nel territorio di Oreno dove si dice alla Scola, con ragione di decime per il prezzo di 234 terzoli” (4). Sei anni dopo, nel 1336, negli archivi notarili viene registrata un'altra vendita “fatta da Ambrogio Cernusco d'Oreno e Franceschina Monza di lui moglie al Monastero di S. Apollinare di Milano d'un campo sito nel territorio di Oreno dove si dice il Rondone di pertiche 15 e due vigne site come sopra dove si dice al Trisolzo ed un'altra in Vimercate ed un'osteria sita nel luogo di Oreno per il prezzo di 1,259 terzole” (5). La produzione del vino era una risorsa importante per i proprietari terrieri dell'epoca e su di essa gravavano delle imposte daziarie a favore del Ducato di Milano, da cui raramente potevano essere esentati. Alcuni monasteri come quelli delle “poverelle di San Francesco” erano esentati, mentre altri istituti religiosi erano tenuti al pagamento del dazio sul vino come tutti gli altri produttori. Una vicenda interessante a questo proposito è quella dell'anno 1376 raccontata da Massimiliano Penati in un suo saggio (6), ove si vedono contrapposti gli interessi delle monache di Oreno alle pretese di Goffredino da Osca, uno zelante commissario del dazio, che si reca ad Oreno per esercitare i suoi poteri di controllo: Abbiamo visto anche come le Agostiniane, e le Benedettine, per il fatto che vivevano del loro, cioè erano economicamente autosufficienti, erano descritte nelle carte del Medio Evo come le signore monache: “Dominae moniales”. Questo titolo costava loro assai caro, perché non permetteva alle loro entrate di essere esentate dalla contribuzione che si doveva allo stato. L'esempio che queste pagavano il dazio anche sul vino lo troviamo in un istrumento del 1376, rogato a carico delle Agostiniane di Oreno. Fino all'anno 1369 le nostre Monache solvettero il dazio del vino, che ricavavano dai loro fondi,nella misura e nella tassa e colle stesse condizioni degli altri proprietari del paese. Venute a Milano nel seguente anno, quelle nostre signore, e stabilitesi

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nella pagina precedente: Estratti di documenti dell'archivio della Parrocchia di San Michele Arcangelo di Oreno in cui sono registrate le seguenti entrate: 1 - il 20 dicembre 1750: lire 40.20._ da Fran.co Casate per del Vino Caspio del 1748 e lire 495.26._ per 29.2.2 brente di Vino Crodello venduto all'oste della Casina de Pomi

nel Monastero di S. Apollinare a coabitare con le Francescane, cedettero di godere il beneficio dell'esenzione dal dazio sul vino per la porzione di quello da consumarsi nel Monastero, per uso proprio delle Monache, così come erano esentate le “poverelle di S. Francesco”. Ma certo Goffredino da Osca, ricevitore dei dazi per la Pieve di Vimercate, non riconobbe legalmente la fusione delle Agostiniane di Oreno con le Francescane di Milano, in quanto le prime si erano riservate ancora, per uso proprio, un appartamento del loro vecchio Monastero di Oreno. Per questo motivo il daziere notificò alle nostre Monache “di Milano” che sarebbe venuto con un pubblico Notaio nel Monastero di Oreno “pro inquirendo, circando, extimando et scribendo seu scribi faciendo” il loro vino che si fosse trovato in detto luogo. Ed eccone, in breve, il riassunto: - 1376.06 novembre, mercoledì – Goffredino da Osca, commissario di dazio, compare nel nostro villaggio pretendendo di riscuotere la tassaimposta sul vino che si trova nelle cantine del Monastero. Non vuole ascoltare ragioni da nessuno anche se aveva avuto l'assicurazione che le Monache, almeno la maggior parte, erano “emigrate” a Milano. Con il pubblico notaio Ambrogino, figlio del quondam signor Francesco de Zobio di Milano domiciliato a Porta S. Nazaro in Brolio, il console ed ufficiale del Comune Ambrogio della Molgora, il prete Antonio da Desio beneficiario della chiesa di S. Michele di Oreno, e i probi uomini di Oreno Giacomino de Usmate del quondam Arnoldi; Grado del Missaglia del quondam Marchiali; Giacomino Gata di Gaffioli; il custode e massaro del Monastero Martino da Rugginello, se ne vennero al Monastero e iniziarono la perquisizione per scoprire l'esistenza del vino da tassare. Davanti all'entrata del Monastero, con le chiavi degli appartamenti delle monache, frate Rainaldo da Lecco dell'Ordine dei Frati Minori di Milano, confessore e responsabile civile del Monastero (“nunzio o procuratore delle Monache di S. Apollinare di Milano”), attendeva il daziario Goffredino. Questi, e la sua corte, entrarono prima nella casa di Martino massaro chiedendogli di mostrare loro il vino. Martino li accompagnò in una sua camera che stava dietro la sua casa (a monta) e mostrò loro il vino nella misura di due “carra” dichiarando loro essere quello del vino torchiato: “in quibus carrariis dictus Martinus asserebant esse puscha”. In una altra camera, che era invece davanti alla sua camera (“a mezzodì”), Martino mostrò altre cinque “carra” di vino dicendo loro che con quello aveva mostrato tutto il suo vino. Allora Goffredino, e socio, immersero nelle singole botti o “carra” il loro bastone calcolatore che diede una somma totale di quindici “pibra” di vino, che il commissario considerò tutto della partita di Martino ma “contra voluntate dicti Martini dicentes non esse pibra undecim vini”. Inutilmente quel buon uomo protestava che la “puscha” non doveva essere confusa col vino, ma quel freddo incettatore di dazio non sentiva misericordia per nessuno, non gli credette e pretese di fare un

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nella pagina precedente: 2 - il 30 aprile 1756: lire 9._._ da Filippo Radaelo per del Vino Crodelo

controllo generale. Anzi pieno d'ira, il funzionario scrupoloso e diffidente minacciò di far imprigionare il custode e sporgere regolare denuncia ai suoi superiori. Allo scopo di agire nelle forme legali e frugare in tutti i luoghi del vecchio monastero, intimò all massaro Martino di dichiarare solennemente che in casa non avesse altro vino all'infuori del suo. Ottenuto il giuramento, Goffredino, con tutta quanta la comitiva, si avviò verso l'appartamento riservato ad uso della “signora abbadessa” e delle monache oltre che dei loro procuratori: “seu per carum nuntios”. Giunto davanti all'entrata, che poteva essere una porticina per mezzo della quale ci si immetteva in un corridoio che portava direttamente negli appartamenti del monastero, l'investigatore trovò “dominum ”frate Rainaldo, che teneva nelle sue mani le chiavi “per aprire e serrare” le camere di quell' appartamento, il quale cercò di calmare la furia del daziere, ma a nulla valsero le sue parole. Goffredino intimò a frate Rainaldo di aprire allo scopo di permettergli di vedere, stimare e descriver il vino che si trovava in quella camera. A questo punto frate Rainaldo, nella sua veste di “guardiano o nunzio delle signore abbadessa e monache del Monastero delle Francescane di S. Apollinare di Milano”, rispose a Goffredino dicendo che quella camera era riservata alle medesime “signore ed ai loro nunzi” e che per quanto riguardava il vino che avrebbe rinvenuto in essa era riservato per le monache. Esse intendevano in seguito farlo trasportare a Milano ad uso del Monastero stesso e del Convento. Frate Rainaldo dichiarò inoltre che le Religiose, per la loro altissima povertà, erano libere, immuni ed esentate dal pagare il dazio del vino, avendo ottenuto tale privilegio in seguito ad una loro supplica “a Magnifico et Excelso domino domino Barnabone Vicecomiti Mediolani et etcettera Imperialis Vicarii Generalis”. Goffredino rimane incredulo perché, secondo lui, questa unione delle Agostiniane di Oreno con le Francescane di Milano non è valida e perciò non vale l'esenzione concessa alle Francescane del Monastero di S. Apollinare di Milano. Frate Rainaldo allora provvede a cercare il documento comprovante la sua asserzione. Trovatolo lo mette sotto il naso di Goffredino. E' questo, il documento riguardante la supplica di suor Apollonia, abbadessa del Monastero di S. Apollinare di Milano, supplica fatta a nome di tutte le suore a Bernabò Visconti, Signore di Milano, il 17 gennaio dell'anno 1357, quando quelle monache erano molestate da Franceschiello di S. Donnino per lo stesso motivo che ora Goffredino molestava le monache di Oreno. A quella dichiarazione il Duca di Milano univa un suo diploma col quale esentava dal dazio le vettovaglie necessarie al Monastero: “Magnifici domini domini Barnabonis et etcettera volumis et mandavimus, quod praedictis Abbatissa et sorores dicti Monasteri occaxione datii victuallium necessarium per ipsis et monasterio carum, contra vel praeter solitum, non mollestentur, Ego Iohanolus Gairadus notarius praefacti infrascripti”.

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Questa disposizione era valida a tutti gli effetti anche per Goffredino da Osca. Questi allora, dopo aver controllato i sigilli e trovato autentico il diploma perché controfirmato dallo stesso Eccellentissimo Barnabò Visconti e dal suo Cancelliere personale, si rassegna davanti all'evidenza dei fatti, rimane mortificato e cerca di scusarsi davanti a tutti i presenti. Frate Rainaldo però non vuole lasciare mortificato il funzionario e ordina a Martino da Rugginello di sturare un buon fiasco di vino generoso e ne offre a tutti. Con il vino “non tassato” si ristabilisce la pace. Numerosi sono gli atti notarili dal XIV al XVII secolo che riguardano la famiglia Scotti e che possiamo qui elencare in modo sintetico allo scopo di conoscere i nomi dei luoghi e l'entità delle vigne esistenti all'epoca nel territorio di Oreno (7): 1341 … tre pezzi di terra a vigna posti nel territorio di Oreno il primo detto in Calmà di p. 15 t. 22 p. 8, il secondo di p. 4 t. 9 p.7, ed il terzo di p. 8 t. 13 detto il Camarane... 1375 … - pezzo di vigna detta al Ronco di p. 32 circa; - simile di vigna dove si dice a sostegno del Monastero di p. 25; - altro pezzo di vigna detto in Solina di p. 70; 1377 … Vigna posta in territorio di Oreno detto la Sortina di p. 18 … 1504 … di p.94 t. 17 p. 1 vigna, ed altro pezzo di vigna di p.19 circa dove si dice nel Sentero del Monte… 1511 … pezzo di vigna detto al Ronco di p. 63 t.8 … 1518 … vigna detta al Campo Grande di p. 120 … 1543 … un pezzo di vigna detta al Ronchetto di p. 4. T. 12 … e nello stesso anno un secondo pezzo di vigna detta al Ronchetto di p. 5 t. 14 p. 1.6 … 1552 … p. 11 d'una vigna di p. 65 circa detta al Quadro di sotto del Credaro … e nello stesso anno un altro pezzo di vigna posta nel territorio di Oreno detta alla Soltina di p. 6 t. 11 p. 6 … 1554 … un campo situato dove si dice alle vignazze di p. 3 t. 12 … 1586 … una vigna detta il Credarolo di p. 11 … un'altra vigna detta alla Camarola di p. 14 … 1587 … una vigna dove si dice al Campo Grande di p. 88 circa … e di p. 159 d'una vigna di maggior perticato … 1593 … una vigna … detta del Sentero del Monte di p. 31 t. 20 … altra detta la Monzaschina p. 6 t. 14.6 … una vigna detta il Prato di p.55 t. 20 … 1595 … parte di campagna chiamata della Vignazza … parte di vigna detta la Soltina … 1606 … una vigna detta del Ronchetto … di p. 14 t. 18.3.11 … pezzo di vigna e campo detti la Vignazza di p. 28 t. 7.9 … una vigna detta la Soltina di Sotto di p. 22 t. 21 … un pezzo di campo a vigna detto la

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Soltina … di p. 20 t. 18.1.8 … 1607 … vigna detta la Vigna nuova di p. 40 … 1620 … due pezzi ciascuno di p. 12 t. 9.6 vigna detta la Brera … 1622 … una pertica di vigna detta la Camarada e nello stesso anno una seconda pertica di vigna di maggior perticato detta al Camarada e successivamente un pezzo di vigna di p. 22 in circa situato nel territorio di Vimercate capo Pieve detta Cisolio … 1625 … di quelle restanti p. 14 della vigna detta alla casa de' Moroni di p. 44 in tutto … 1632 … pezzo di vigna detta alle Soltine di p. 2 in circa … 1663 … di una casa da nobile consistente in luoghi sei abbasso, ed altri sei superiori con stalla, cantina sottoterra, corte, torchietto e giardino; pezzo di vigna detto alla Costa … altro pezzo di vigna detta de' Briuj … 1664 … disusata vigna detta de' Burej per il prezzo di £ 71 per ogni pertica che sono in tutto £ 2840 … 1670 … una pezza di terra avitata detta la Camerata di p. 18 t. 2. Per quanto riguarda le denominazioni dei vini prodotti a Oreno è utile consultare gli archivi della parrocchia di S. Michele Arcangelo (8) in cui sono annotate le elemosine ricevute e così troviamo un “vino Caspio racolto di Elemosina nel Torchio di Casa Borromea l'anno 1712” e “B.te n.° 2 Vino Crodelo del Castelazo” nell'anno 1713 e ancora nel 1790 “ B. (brenta) 3 vino Caspio proveniente di Casa Scotti”. Dagli archivi parrocchiali possiamo anche prendere visione di un elenco dei possedimenti della chiesa locale, ove troviamo conferma di alcune delle denominazioni già riportate nelle descrizioni notarili viste sopra. Nel 1794 tra i possedimenti del Beneficio parrocchiale (9) sono citate le seguenti vigne date in affitto alle varie famiglie di coloni: - vigna delle Sottine, pert. 46 - vigna dell'erbagio, pert. 27,5 - vigna del Credero, pert. 27 - vigna Brumaschina (o Bregamaschina) a Vimercate, pert. 14 - vigna Campello, pert. 13 - vigna Trisolzo, pert. 15 - vigna alla casc. Bruno, pert. 16 - vigna Camarate (o della Camerata) che risulta essere la più grande suddivisa tra vari coloni in appezzamenti di 13,14,19 e 33 pertiche. Note: 1 Archivio privato del sig. Motta di Oreno 2 ibidem 3 ibidem 4 ibidem 5 ibidem 6 Massimiliano Penati, “Saggi storici tratti da alcuni paesi della Brianza ed altri atti notabili luoghi ossia l'antica chiesa di San Nazaro e il Monastero delle Agostiniane di Oreno”, Tip. Corbetta, Monza 1877 7 Archivio privato del sig. Motta di Oreno 8 ibidem 9 ibidem

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Il vino a Vimercate * Catasto Teresiano Tavola del Nuovo Estimo 1755

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Vimercate, * Catasto Lombardo Veneto 1866

* Tavola e grafico elaborati da Giorgio Federico Brambilla con Luca Albertini sulla base delle tavole catastali originali

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I pedopaesaggi della provincia di Monza e Brianza e la vocazionalità per la viticoltura AGER s.c. -Agricoltura e Ricerca

La Carta dei Pedopaesaggi della Lombardia in scala 1:25.000 (Brenna, D'Alessio, Rasio, 2001), che viene presa a spunto per l'illustrazione delle principali tipologie dei suoli provinciali, indica che nel territorio esaminato esistono 4 tipi fondamentali di pedopaesaggi, dei quali vengono fornite di seguito le più importanti caratteristiche (tabella modificata rispetto all'originale). Unità 1 Anfiteatri morenici recenti

Geomorfologia Depositi morenici recenti costituiti da sedimenti glaciali, fluvioglaciali e fluviolacustri, Diffusa presenza di pietrosità in superficie e di scheletro nei suoli.

2 Terrazzi e anfiteatri morenici antichi e recenti

Terrazzi subpianeggianti, rilevati rispetto Ghiaie, sabbie, al livello fondamentale della pianura, limo costituenti antiche superfici risparmiate dall’erosione e comprendenti la maggior parte dei rilievi isolati della pianura.

3 Alta pianura 4 Media Pianura

Piana fluvioglaciale e fluviale costituente il livello fondamentale della pianura (L.F.d.P.), formatasi per colmamento alluvionale durante l'ultima glaciazione

Geologia-litologica Ghiaie - sabbie

Ghiaie Ghiaie

Area caratterizzata da ampi conoidi ghiaiosi a morfologia subpianeggiante, costituite da materiali fluvioglaciali grossolani non alterati.

Il territorio del Consorzio Agricola Brianza è costituito da 53 comuni a nord di Monza distribuiti tra Lazzate ad Ovest e il fiume Adda ad Est sul territorio di Cornate d'Adda. Il territorio si estende per circa 39.300 ha. L'orografia è pressochè pianeggiante con un incremento graduale dell'altitudine da 167 s.l.m di Monza-Agrate a 292 s.l.m nel comune di Besana Brianza. (fig.1 – carta altimetrica) Il 44% del territorio non è agronomicamente utilizzabile (edificato, cave,…) (fig.2 – carta uso del suolo) mentre il restante 57% è agricolo identificato per il 94% come seminativo e per il 6% Bosco di latifoglie - ceduo. Da indagini storiche la coltivazione della vite è stata riscontrata in 33 168


comuni (fig.2 - areale storicamente vitato). Ad oggi il consorzio pone l'attenzione per una reintroduzione della vite sulle potenzialità viticole dell'area est costituita da 32 comuni (fig.2 - territorio agricolo). In questo areale il 28% del territorio non è agronomicamente utilizzabile (edificata, cave,…) mentre il restante 72% è agricolo. L'areale di studio è suddivisio principalmente in 3 macro provincie pedologiche: Alta pianura (47%), Terrazzi e anfiteatri morenici antichi e intermedi (45%) e Anfiteatri morenici recenti (8%). L'alta pianura è formata da piana fluvioglaciale e fluviale formatasi per colamento alluvionale durante l'ultima glaciazione. L'area è prevalentemente costituita da ampi conoidi ghiaiosi a morfologia subpianeggiante, costituite da materiali fluvioglaciali grossolani non alterati, comprese fra le superfici rilevate (rilievi montuosi, apparati morenici e terrazzi antichi) ed il limite superiore della fascia delle risorgive ("alta pianura ghiaiosa"). ¨ I terrazzi e anfiteatri morenici antichi e intermedi sono terrazzi subpianeggianti, rilevati rispetto al livello fondamentale della pianura, costituenti antiche superfici risparmiate dall'erosione e comprendenti la maggior parte dei rilievi isolati della pianura. Sono costituiti da materiali fluvioglaciali grossolani generalmente ricoperti da sedimenti eolici e/o colluviali. ¨ Gli Anfiteatri morenici recenti sono depositi morenici recenti costituiti da sedimenti glaciali e subordinatamente Fluvioglaciali e fluvio-lacustri, generalmente poco alterati, con diffusa presenza di pietrosità in superficie e di scheletro nei suoli. ¨

Fig.1 Carta altimetrica (quote in m s.l.m.)

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spazio urbanizzato Parco di Monza boschi frutteti seminativi incolti e altri usi

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Tipologie pedologiche principali I suoli della provincia di Monza Brianza hanno livelli di evoluzione piuttosto difformi: si va da suoli discretamente antichi, evoluti e acidi a suoli giovani stratificati presenti nelle valli fluviali del Seveso, Lambro e Molgora. Viene utilizzata la tassonomia del World Reference Base for Soil Resources (FAO, 1998). Il territorio è così costituito: Tipologia di suolo Luvisols Cambisols Umbrisols Fluvisols Regosols

Superficie (ha) 16216 2779 1694 581 30

Percentuale (%) 73 15 10 2 0

Vengono qui presentate, a grandi linee, le tipologie di suolo principali. Luvisols Si tratta di suoli, conosciuti anche come “Suoli Lisciviati”, piuttosto antichi, che si sono evoluti su superfici stabili, e nei quali si sono verificate traslocazioni di materiali (soprattutto di argilla) dalle parti alte a quelle basse del profilo. In profondità sono in genere piuttosto arrossati. Li si rinviene in buona parte del territorio, sia sui terrazzi e anfiteatri morenici antichi e intermedi sia nell'alta pianura. Nella gran parte dei casi sono piuttosto acidi e desaturati in basi di scambio. 171


Cambisols Sono suoli, conosciuti anche come “Suoli Bruni”, con un discreto grado di evoluzione, che possiedono di solito un certo spessore e che hanno una struttura pedogenetica ben espressa, visibile anche in profondità; gli orizzonti profondi hanno un colore bruno, talora un po' arrossato. Sono diffusi sul territorio, ma soprattutto nelle parti settentrionali presso gli anfiteatri morenici recenti. In molti casi sono molto profondi con una limitata presenza di elementi grossolani (scheletro). Tessitura media, neutri-subacidi e con un buon drenaggio. Umbrisols Si tratta di suoli abbastanza simili ai Cambisols, che tuttavia si differenziano per la presenza di un orizzonte di superficie ricco di sostanza organica e scuro, piuttosto acido. Sono suoli diffusi nel territorio di Alta pianura. Sono legati a certi substrati (per lo più di tipo glaciale), al clima umido, a certa vegetazione (boschi, ma soprattutto prati permanente). Possiedono abbondante scheletro e un buon drenaggio. Fluvisols Suoli giovani, legati alle dinamiche fluviali, presentano in genere stratificazioni interne con granulometrie differenziate; talvolta mostrano orizzonti ricchi di sostanza organica sepolti in profondità. Si rinvengono solo nelle valli fluviali e sono in genere piuttosto desaturati in basi di scambio. Regosols Sono suoli decisamente meno evoluti dei precedenti, a granulometria abbastanza sciolta e con uno spessore che non è mai troppo limitato. Si rinvengono in situazioni poco stabili, ad esempio su versanti acclivi, e sono spesso ringiovaniti da eventi di erosione o deposizione, anche di tipo fluviale. Spesso sono scarsi di scheletro; nella maggior parte dei casi sono piuttosto acidi.

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Caratteristiche dei suoli Vengono presentate qui, in estrema sintesi, le principali caratteristiche dei suoli della provincia di Monza Brianza. Ricorrendo ai dati bibliografici disponibili e alle conoscenze pedologiche sull'area sono state prodotte carte tematiche relative a ciascun parametro; trattandosi di mappe schematiche, le caratteristiche dei suoli sono state riportate in modo mediato. Spessore Gran parte dei suoli della provincia hanno spessore consistente: >100 cm. Tessitura La tessitura del suolo, riferita al primo metro a partire dalla superficie, va da grossolana a moderatamente fine; mancano soltanto le tessiture fini, fortemente argillose. Le tessiture più grossolane si rinvengono nell'area centrale del territorio mentre gran parte della zona orientale possiede tessitura media (medio impasto). I terreni più pesanti si riscontrano nei comuni di Triuggio, Lesmo, Usmate, Camparada e Correzzana. Anche la tessitura è importante ai fini della valutazione attitudinale, in quanto influenza fortemente, tra le altre cose, capacità di campo e punto di appassimento del terreno.Reazione Il pH dei suoli, riferito al primo metro, è in media moderatamente subacido (5,6-6,6); questa situazione è legata sia alla litologia del materiale parentale, sia agli aspetti climatici (in particolare alle elevate precipitazioni, che impoveriscono il terreno di basi di scambio e lo acidificano progressivamente). Nella parte orientale del territorio nell'area dei comuni di Cornate e Mezzago oppure nell'area a nord (Besana Brianza) predominano i valori di reazione neutra (6,7–7,3). Viceversa, localmente si possono presentare suoli anche decisamente acidi (pH <5,5), che potrebbero essere limitanti per la viticoltura, soprattutto nel primo periodo dopo il nuovo impianto. AWC (Riserva idrica disponibile) Ogni suolo dispone di una propria capacità di trattenere acqua utilizzabile dalle piante. Tale capacità dipende dalla porosità: l'acqua può essere trattenuta soltanto dai micropori, ma quelli di minori dimensioni la trattengono tanto fortemente da non renderla disponibile per le radici delle piante. In caso di strati densi, orizzonti non olrepassabili da parte delle radici, la quantità d'acqua disponibile per le piante è nulla. I valori di AWC dovrebbero essere zero per gli orizzonti densi dai quali le radici sono escluse e zero per tutti per tutti gli strati di suolo sotto di essi. In caso di frammenti rocciosi l'AWC si riduce in misura dipendente dalla loro abbondanza e porosità. Frammenti non porosi riducono l'AWC in proporzione al volume da loro occupato. Arenarie porose non riducono l'AWC di molto, a causa del contributo in acqua capillare. In provincia di Monza e Brianza, nell'area a maggior sviluppo agricolo, i valori di AWC si possono considerare alti (150200 mm/m). L'area centrale risulta possedere una minor riserva disponibile (50-100 mm/m). Dei valori di AWC bisogna tenere conto nel calcolo del bilancio idrico dei suoli, che può fortemente condizionare l'attitudine del territorio provinciale alla coltivazione della vite. Drenaggio Il drenaggio dei suoli e mediamente buono. Solo nelle aree con tessitura più fine è rallentato.

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Spessore del suolo: Suoli sottili = 25-50 cm, Suoli profondi = 100-150 cm, Suoli molto profondi = >150 cm Scheletro relativo al primo metro: Scarso = < 5%, Comune = 5-15%, Frequente = 15-35%, Abbondante = 3570%, Molto abbondante = 70-100%

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Tessitura relativa al primo metro: Moderatamente grossolana = S, SF, FS, Media = F, FL, L, Moderatamente fine = FSA, FLA, FA

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Reazione (pH in H2O) relativa al primo metro: Subalcalino = pH 7,4 – 8,2; Neutro = pH 6,7-7,3; Subacido = pH 5,5-6,6; Acidi = pH 4,5 – 5,5.

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Drenaggio AWC (Riserva idrica disponibile) - mm/m di suolo Bassa = 50 -100; Moderata = 100 – 150; Alta = 150 -200.

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La vocazionalità territoriale alla viticoltura deriva dalla combinazione tra le risorse pedologiche, quelle climatiche, gli assortimenti varietali, le tecniche di coltivazione adottate e il modello enologico in atto. La plasticità del sistema vitivinicolo rende vocati zone tra loro molto diverse, quali ad esempio la Champagne e le isole dell'Egeo, che nulla hanno in comune relativamente al clima o ai suoli, ma che grazie alla opportuna scelta varietale, tecnica di coltivazione della vite e stile di vino prodotto possono entrambi considerarsi di grande vocazionalità viti-enologica. Sulla base di numerosi studi di zonazione operati dal nostro gruppo di lavoro in collaboraizone con l'Università di Milano – DiProVe si applica un modello di vocazionalità per la provincia di Monza e Brianza che tiene conto delle caratteristiche climatiche e pedologiche più importanti.

germoglio di asparago a Mezzago

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Il clima di Monza e del suo circondario nei suoi aspetti legati alla viticoltura AGER s.c. -Agricoltura e Ricerca

1. Inquadramento generale La meteorologia e la climatologia sono essenziali chiavi di lettura di un paesaggio e lo studio del clima consente di dividere il territorio in zone omogenee dal punto di vista della vocazionalità viticola (Mariani e Failla, 2007). Il clima di Monza e dei comuni del suo circondario è generato da una vasta gamma di fattori operanti alle diverse scale, fra i quali si ricordano in particolare: 1. la localizzazione alle medie latitudini che implica sia (i) la vicinanza di “regioni sorgenti” di masse d'aria con caratteri peculiari (la fredda aria artica, l'umida e mite aria atlantica da cui discende l'abbondante piovosità estiva, l'aria russo – siberiana molto fredda in inverno, l'aria subtropicale torrida) sia (ii) la presenza di una circolazione atmosferica vivace e in grado di portare le masse d'aria sopraelencate a contatto con il territorio in esame; 2. l'appartenenza alla regione padano-alpina, grande bacino delimitato dalle catene alpina ed appenninica e con un'apertura principale verso est, che ad esempio favorisce l'ingresso di aria fredda siberiana in inverno; 3. la localizzazione nell'alta pianura che rende meno intense e persistenti le inversioni termiche proprie del bacino padano. In particolare rispetto alla pianura medio-bassa, l'alta pianura presenta un clima più asciutto, con minore frequenza di nebbie e una buona ventilazione garantita da attive circolazioni di brezza Si spiegano così le caratteristiche dei microclimi dell'area indagata, i quali afferiscono al mesoclima padano che presenta caratteri di transizione fra macroclima mediterraneo e macroclima alpino (Mariani, 2002). Il mesoclima padano è definibile come temperato subcontinentale se si applica il sistema di classificazione climatica di Mario Pinna (1978) mentre applicando il sistema di Koeppen (Koeppen e Geiger, 1936) si desume la classificazione seguente: famiglia C - clima mesotermo (clima con temperatura media del mese più freddo inferiore a 18°C ma superiore a –3°C; almeno un mese con temperatura media maggiore di 10°C; presenza di stagione estiva e stagione invernale ben definite); tipo f – clima temperato caldo senza stagione secca (le precipitazioni risultano adeguate in tutti i mesi dell'anno); subtipo b – clima con estate molto calda (temperatura media del mese più caldo maggiore di 22°C). 179


2. Analisi delle risorse climatiche per la viticoltura L'indagine condotta ha mirato a caratterizzare il clima in termini di risorse climatiche per la coltura della vite (radiazione solare, temperatura, precipitazione). Per fare ciò si è fatto ricorso a: - serie storiche di dati meteorologici di durata almeno trentennale provenienti dalle reti di misura presenti sul territorio d'indagine e nelle aree limitrofe - un modello digitale del terreno (DTM) con celle elementari di 20x20 m (Fig. 1). A tale livello di dettaglio sono state riferite tutte le analisi territoriali condotte nel presente studio. La distribuzione della radiazione solare rappresenta un elemento chiave della vocazione alla viticoltura in quanto da tale variabile dipende il processo di fotosintesi che è alla base delle sintesi degli zuccheri e del multiforme complesso di molecole responsabili della quantità e qualità del prodotto (Failla et al., 2004). Con l'ausilio del DTM sopra descritto il territorio in esame è stato sottoposto ad analisi radiativa in modo tale da evidenziare i valori annui di radiazione globale potenziale (MJ m-2), ove il termine potenziale indica il fatto che i dati sono stimati ipotizzandol'assenza di copertura nuvolosa (Fig. 2). In linea di massima si possono considerare vocati gli areali con radiazione solare globale potenziale di oltre 6000 MJ m-2 che corrispondono a valori di radiazione fotosinteticamente attiva potenziale di oltre 3000 MJ m-2. L'area indagata presenta valori medi di 6400 – 6600 MJ, mentre valori sensibilmente più elevati (fino a 7500 MJ) o più bassi (fino a 4400 MJ) sono raggiunti in ambiti molto ristretti, in coincidenza ad esempio con i solchi vallivi di Lambro e Adda, in virtù di caratteristici effetti di esposizione. L'analisi della temperatura dell'aria permette di evidenziare la durata della stagione vegetativa (periodo con temperatura media superiore a 10°C) che nell'area in esame si protrae dalla terza decade di marzo alla terza decade di ottobre. La temperatura media annua dell'area (Fig. 3 e 4) risulta per lo più fra i 12 e i 13°C, con un guadagno termico delle esposizioni sud rispetto a quelle nord di circa 1.3°C per le massime e di circa 1°C per le minime. Il mese più freddo è gennaio, con una media di 1 / 2°C, una media delle minime lievemente inferiore a 0°C e minime assolute 1951- 2006 comprese fra -8 e -12°C. Il mese più caldo è luglio con temperatura media di 21 / 22°C. L'analisi delle risorse termiche per la coltura della vite si basa sull'analisi delle mappe dell'indice di Winkler W (Fig. 5) e dell'indice di Huglin HI (Fig. 6) per l'area. L'indice di Winkler dell'area in esame è analogo a quello che si riscontra in alcune rinomate aree di produzione europee ed italiane (Tab. 1). La distribuzione delle precipitazioni (pioggia e neve) sul territorio in esame è frutto di singoli fenomeni assai variabili nello spazio e nel tempo e la cui quantità e distribuzione risente degli effetti del rilievo

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(intensificazione orografica) e della localizzazione geografica, cui é connessa la frequenza e la persistenza delle strutture circolatorie favorevoli alle precipitazioni (perturbazioni atlantiche, depressioni mediterranee - minimi di Genova, depressioni tirreniche e depressioni africane - irruzioni in quota di aria artica e polare marittima foriere di situazioni temporalesche nel periodo estivo). Nell'areale indagato si osserva un tipico gradiente da Sud verso Nord con valori inferiori ai 1000 mm all'estremo meridionale e valori superiori ai 1200 mm all'estremo settentrionale (Fig. 7). Il regime pluviometrico dell'area (Fig. 8) si caratterizza per due massimi (primaverile e autunnale), per uno spiccato minimo invernale (centrato su gennaio) e per un assai poco marcato minimo estivo. La Fig. 9 illustra la percentuale delle precipitazioni che cadono nel semestre estivo (aprile – settembre); i valori Si noti compresi fra il 49 e il 53% caratteristici dell'area indagata attestano la buona piovosità estiva. Il contenuto idrico del terreno è un importante fattore di vocazionalità viticola essendo da temere sia la carenza idrica nel periodo che precede l'invaiatura sia l'eccesso idrico nel periodo compreso fra invaiatura e raccolta. Per indagare il comportamento delle risorse idriche nell'anno medio è stato utilizzato un modello di bilancio idrico territoriale a passo mensile (Mariani, 2002) che si fonda sull'equazione di conservazione della massa applicata ad un serbatoio unico con riserva totale (compresa fra capacità di campo e punto di appassimento) ricavata dall'analisi della relativa cartografia pedologica e riserva facilmente utilizzabile massima (RFUmax) per lo strato esplorato dalle radici considerata pari al 65 della riserva totale. Rispetto al serbatoio vengono computate le entrate (pioggia utile, al netto da evaporazione superficiale, ruscellamento e infiltrazione) e le uscite costituite dal consumo idrico della coltura (evapotraspirazione). Per la stima dell'evapotraspirazione si è partiti dal computo dell'evapotraspirazione da coltura di riferimento (ET0), che è stata calcolatacon l'equazione di Penman - Monteith nella versione indicata nel quaderno FAO n. 56 (Allen et al,1998) adottando le seguenti ipotesi di lavoro: ·

velocità del vento crescente in funzione della quota secondo una legge empirica riferita all'area padana

·

umidità relativa media stimata a partire dai dati medi mensili di temperatura massima e minima radiazione solare globale stimata con il metodo di Hargreaves (Allen, 1998) a partire dai dati medi di temperatura massima e minima (Allen et al., 1998)

·

valore totale mensile di ET0 stimato moltiplicando il valore di ET0 medio giornaliero del mese per il numero di giorni del mese stesso.

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Il passaggio dai valori di ET0 a quelli di evapotraspirazione massima per la vite (ETM) è stato ottenuto applicando i coefficienti colturali riportati in tabella 2. Il valore di ETM presentato in figura 10 mostra il comportamento relativamente omogeneo dell'area indagata, con consumi evapotraspirativi della vite nell'anno medio che sono generalmente compresi fra 690 e 760 mm/anno. La data di primo svuotamento della riserva facilmente utilizzabile è riportata infine in Fig. 11. Si noti che lo svuotamento ha luogo mediamente fra il 10 ed il 31 luglio mentre svuotamenti più precoci (1 luglio) e più tardivi (30 agosto) si verificano in ambiti limitati, interessati da più intensi fenomeni di ruscellamento. Si tenga conto che il bilancio idrico è stato redatto nell'ipotesi di vigneto soggetto a inerbimento controllato; ciò consente di governare in modo ottimale la risorsa idrica sia nelle annate più siccitose, nelle quali si può intervenire con lo sfalcio per ridurre il consumo idrico da parte dell'erba sia nelle annate più piovose nelle quali l'erba attingendo alla riserva consente di evitare gli effetti negativi sulla qualità della produzione legati all'eccesso idrico nel suolo. 3. Sintesi finale L'analisi preliminare condotta ha permesso di descrivere in termini quantitativi il clima del territorio di Monza. I risultati ottenuti indicano il sussistere di areali che per risorse radiative, termiche, e pluviometriche sono vocati ad una viticoltura di qualità. Dette risorse manifestano valori del tutto analoghi a quelli riscontrati nelle migliori aree viticole italiane e mondiali. Onde suffragare tale valutazione preliminare si suggerisce lo svolgimento di un'indagine di rischio riferita ai principali fattori climatici limitanti (temperature estreme, eccesso e carenza idrica). Si suggerisce infine di attivare negli areali vitati attività sistematiche di rilevamento agrometeorologico e fenologico.

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Figura 1 – Modello digitale del terreno utilizzato per lo studio.

Figura 2 – Radiazione solare globale potenziale annua (MJ m-2). L'area indagata presenta valori medi di 6400 – 6600 MJ, mentre valori sensibilmente più alti (fino a 7500 MJ) o più bassi (fino a 4400 MJ) sono raggiunti in ambiti ristretti, in coincidenza ad esempio con i solchi vallivi di Lambro e Adda, in virtù di caratteristici effetti di esposizione.

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Figura 3 – Temperatura media annua dell'area indagata. Si noti la relativa omogeneitĂ con valori in gran parte compresi fra 12 e 13°C. Fanno eccezione alcuni limitati areali soggetti a caratteristici effetti di esposizione.

Figura 4 – Diagramma che illustra l'andamento mensile delle temperature medie delle massime (barre arancio) e delle minime (barre gialle) della stazione di Monza per il periodo 1951-2004. La minima assoluta viene raggiunta in gennaio e la massima assoluta in luglio.

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Figura 5 – Mappa delle risorse termiche per la viticoltura espresse come indice di Winkler. Gran parte dell'area indagata si colloca su valori di 1700-1800 °C, con valori superiori (fino a 2100) o inferiori (fino a 700) per le esposizioni più favorevoli o sfavorevoli.

Figura 6 – Mappa delle risorse termiche per la viticoltura espresse come indice di Huglin. Gran parte dell'area indagata si colloca su valori di 2100-2300, con valori superiori (fina a 2400) o inferiori fino a 1800 per le esposizioni più favorevoli o sfavorevoli.

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Figura 7 – Mappa delle precipitazioni medie annue. Si noti il gradiente da sud verso nord con valori inferiori ai 1000 mm all'estremo meridionale e valori superiori ai 1200 mm all'estremo settentrionale.

Figura 8 – Diagramma che illustra l'andamento della precipitazione media mensile nella stazione di Monza per il periodo 1951-2004. Il regime è di tipo equinoziale con massimi e minimi non molto accentuati. I mesi meno piovosi sono quelli invernali, i due massimi primaverili ed autunnali sono raggiunti rispettivamente a maggio (109 mm) e ottobre (127 mm) ed il minimo estivo, assai poco evidente, viene raggiunto a luglio (93 mm).

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Figura 9 – Mappa della percentuale delle precipitazioni che cadono nel semestre estivo (aprile – settembre). L'area indagata presenta valori compresi fra il 49 e il 53%, il che attesta la buona piovosità estiva.

Figura 10 – Mappa dei consumi evapotraspirativi della vite espressi come evapotraspirazione massima (ETM). L'area presenta valori compresi fra 690 e 760 mm /anno.

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Figura 11 – Giorno medio dell'anno in cui si registra lo svuotamento della riserva facilmente utilizzabile nell'area indagata, nell'ipotesi di vigneto soggetto a inerbimento controllato. Si noti che lo svuotamento ha luogo mediamente fra il 10 ed il 31 luglio mentre svuotamenti piÚ precoci (1 luglio) e piÚ tardivi (30 agosto) si verificano in ambiti limitati. In bianco sono riportate le zone in cui lo svuotamento della riserva facilmente utilizzabile non ha mai luogo.

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Tabella 1 Indice di Winkler per alcune rinomate aree di produzione europee ed italiane

Stazione Reims Angers Tours Dijon Cognac Toulouse Bordeaux Montpellier Verona (Vr) Piemonte – DOCG Barolo Bari (Ba) Castagneto Carducci (Li) Chianti Classico senese Montalcino (Si) Barcelona Cadiz Cordoba Athenes Kecskemet Odessa

stato Fr Fr Fr Fr Fr Fr Fr Fr It It It It It It E E E Gr H Ucr.

Lat 49 N 48 N 47 N 47 N 46 N 44 N 45 N 43 N 45 N 45 N 41 N 44 N 43 N 43 N 41 N 36 N 38 N 38 N 47 N 46 N

Indice di Winkler 958 1069 1126 1133 1282 1377 1480 1798 1697 1750 2021 1747 1639 2257 1975 2119 2466 2329 1412 1401

Tabella 2 – Coefficienti colturali mensili della vite adottati per il bilancio idrico. Si è considerato un vigneto soggetto a inerbimento controllato.

Gen 0.2

Feb 0.2

Mar 0.2

Apr 0.6

Mag 0.8

Giu 0.95

Lug 0.95

Ago 0.95

Set 0.95

Ott 0.95

Nov 0.38

Dic 0.2

BIBLIOGRAFIA Failla O., Mariani L., Brancadoro L., Minelli R., Scienza A., Murada G., Mancini S., 2004. Spatial distribution of solar radiation and its effects on vine phenology and grape ripening in an alpine environment, Am.J.Enol.Vitic. 55:2 (2004), 128-139. Koeppen W. and Geiger R., 1936. Handbuch der Klimatologie, Berlin, Verlag von Gebruder Borntraeger, 556 pp. Mariani L., 2002. Agrometeorologia, Clesav, Milano, 292 pp. Mariani L., Failla O., 2007. Le grandezze meteoclimatiche come variabili guida per gli ecosistemi agricoli e forestali, Italian Journal of Agronomy, n.2 / 2007. Pinna M., 1978. L'atmosfera e il clima. Utet, collana Il nostro universo, 478 pp.

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La vocazionalità viticola della Provincia di Monza e Brianza AGER s.c. -Agricoltura e Ricerca La vocazionalità territoriale alla viticoltura deriva dalla combinazione tra le risorse pedologiche, quelle climatiche, gli assortimenti varietali, le tecniche di coltivazione adottate e il modello enologico in atto. La plasticità del sistema vitivinicolo rende vocati zone tra loro molto diverse, quali ad esempio la Champagne e le isole dell'Egeo, che nulla hanno in comune relativamente al clima o ai suoli, ma che grazie alla opportuna scelta varietale, tecnica di coltivazione della vite e stile di vino prodotto possono entrambi considerarsi di grande vocazionalità viti-enologica. Sulla base di numerosi studi di zonazione operati dal nostro gruppo di lavoro si è elaborato un modello di vocazionalità per la provincia di Monza-Brianza che tiene conto delle caratteristiche climatiche e pedologiche più importanti. Criteri di vocazionalità alla coltura della vite per la Provincia di Monza e Brianza Sono proposte, in accordo alle metodologie FAO, le seguenti 4 classi di vocazionalità: Ÿ classe S1= a vocazionalità ottima classe S2= a vocazionalità buona Ÿ classe S3= a vocazionalità discreta classe N=non vocata.

Tali classi sono state individuate in virtù dei seguenti criteri di vocazionalità: Ÿ Ÿ Ÿ Ÿ Ÿ

Criterio radiativo Profondità della falda Bilancio idrico Criterio termico Criterio pedologico – pH

Criterio radiativo A causa del rilevante influsso della radiazione solare sulle caratteristiche quali-quantitative della produzione viene adottato come criterio vocazionale il totale annuo della radiazione fotosinteticamente attiva potenziale (PPAR)1 espresso in MJ m-2.

Classe vocazionale S1 S2 S3 N

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PPAR >2600 2200-2600 2000-2200 <2000


Profondità della falda Viste le ripercussioni negative sulla produzione viticola che derivano dalla presenza di situazioni con falda alta si ritiene di considerare come criterio vocazionale il drenaggio, che è fortemente legato, nelle situazioni provinciali, alla presenza e alla profondità della falda.

Classe vocazionale S1 S2 S3 N

Drenaggio Rapido Buono Mediocre Lento

Bilancio idrico In ragione dell'effetto negativo dell'eccesso idrico nei suoli che si manifesta come conseguenza dell'elevata piovosità dell'area nel periodo vegetativo della vite, si ritengono vocate le aree che per caratteristiche climatiche e pedologiche manifestano un inizio anticipato dello svuotamento della Riserva Facilmente Utilizzabile (RFU). Per individuare tali aree sono stati redatti appositi bilanci idrici territoriali con riferimento a tipologie di suolo caratteristiche per le quali la dimensione del serbatoio è stata ricavata con riferimento ai primi 100 cm di profondità.

Classe vocazionale S1 S2 N

Primo giorno giuliano con riserva vuota 182 – 196 (1-15/lug) 197 – 212 (15 -31/lug) Mai

Criterio termico In virtù della rilevanza delle risorse termiche per le caratteristiche quali-quantitative della produzione si sono utilizzati i cumuli delle temperature attive (gradi Winkler). Classe vocazionale

Gradi Winkler

S1 S2 S3 N

>1700 1500-1700 1400-1500 <1400

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Presenza di pH anomalo (terreni acidi) Anche se la presenza di pH anomalo non pregiudica la coltura della vite si ritiene necessario evidenziare le zone con pH anomalo (< 4.5) per le conseguenti indicazioni agronomiche. Classe vocazionale

pH

S1 N

5,5 -8,3 < 5,5

Carta della vocazionalità Da tale prima analisi è emerso che il principale fattore di limitazione alla vocazionalità è costituito dall'eccessiva piovosità nella stagione vegetativa, con conseguenti problemi di eccesso idrico, drenaggi lenti o mediocri e pH eccessivamente acidi. Sulla scorta dei risultati ottenuti è stato possibile suddividere l'area in quattro zone, come di seguito descritte. Zona 1 (rosso) = parte centro meridionale della provincia con vocazionalità meritevole. In tale zona si suggerisce comunque di praticare una viticoltura con scelte appropriate di combinazioni varietà/portinnesto per limitare il vigore. La superficie è circa il 26% della superficie agricola. L'area si caratterizza per un elevato regime termico e insolazione, drenaggio buono/rapido e un precoce svuotamento della riserva. Zona 2 (rosa) = zona vocata in cui la viticoltura può essere praticata con successo. Tale fascia comprende la parte centrale della provincia. La superficie è circa il 48% della superficie agricola. L'area si caratterizza per un buon regime termico e insolazione, drenaggio buono e un tardivo svuotamento della riserva. Zona 3 (verde) = zona generalmente discretamente vocata in cui la viticoltura può essere praticata con profitto provvedendo ad attuare idonee pratiche agronomiche. L'area comprende la fascia nord orientale della provincia. La superficie è circa il 12% della superficie agricola e si caratterizza per un sufficiente regime termico e insolazione, drenaggio mediocre e un tardivo svuotamento della riserva. Zona 4 (blu) = aree non idonee alla coltivazione della vite a causa di fattori limitanti che possono pregiudicare il livello qualitativo. La superficie è circa il 14% della superficie agricola e si caratterizza per drenaggio mediocre, un tardivo svuotamento della riserva e pH estremi.

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Carta di attitudine viticola

Fiumi Aree urbanizzate Zona 1 Zona 2 Zona 3 Zona 4 In merito alla distribuzione delle aree di attitudine viticola si riporta la seguente tabella: Zona 1 2 3 4

Superfice Tot (ha) 10674 20226 4195 4228 39323

% 27,1 51,4 10,7 10,8

Superfice Superfice Superfice Superfice Urbanizzata agricola (ha) Urbanizzata agricola (%) URB (ha) (%) (%) 4860 9668 797 1667 16992

5813 10558 3398 2562 22331

46 48 19 39

54 52 81 61

29 57 5 10

AGR (%) 26 47 15 11

La superficie complessiva della provincia Monza – Brianza si estende per circa 39.323 di cui più della metà (57%) ha una destinazione agricola. L'urbanizzazione ha avuto sviluppo prevalentemente nelle aree più vocate: rispettivamente l'area 2 (57%) e l'area 1 (29%) mentre l'agricoltura è prevalentemente praticata sull'area 2 (47%). Le aree meno vocate alla viticoltura di qualità sono destinate ad un uso agricolo.

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Considerazioni di sintesi sulla potenzialità vitienologica Alla luce di quanto esposto nei capitoli lungo i quali è stata articolata la presente istanza, possiamo concludere che sia stata ampiamente documentata la vocazionalità dell'area della provincia di Monza Brianza, per la quale si richiede il riconoscimento dell'IGT. L'istanza analizza prima le fonti storiche, che ben documentano la diffusione della viticoltura nel corso della storia. La viticoltura non solo era ampiamente diffusa, ma godeva di buona reputazione sui mercati regionali. Si dispone inoltre di un'accurata massa informazioni circa i modelli viticoli e la base ampelografica in essere fino alla fine del XIX secolo. Su tali basi è stata confermata l'omologia della viticoltura brianzola con quello delle province limitrofe lombarde che attualmente risultano zone vitivinicole vitali. Lo studio quindi ha affrontato le risorse ambientali locali e la loro idoneità per una viticoltura di qualità. Il clima, di tipo temperato subcontinentale, è risultato idoneo per la gran parte della provincia, in relazione alle risorse radiative e termiche. Le risorse pluviometriche e l'andamento delle temperature non appaiono limitare la possibilità di una viticoltura di qualità. I suoli sono stati valutati in relazione alle proprietà funzionali che più interessano la loro potenzialità vitivinicola quali: spessore, tessitura, presenza di scheletro, reazione e capacità per l'acqua. Dall'analisi congiunta delle risorse pedologiche e climatiche, secondo un modello di stima della vocazionalità viticola, è risultato come buona parte dei territori agricoli comunali della provincia (73%) possa considerarsi potenzialmente vocato. Per validare scientificamente il giudizio di vocazionalità si consiglia di procedere ad uno studio approfondito e di dettaglio della durata triennale (Zonazione) nel quale esaminare i vigneti/vitigni più adatti della zona, al fine di valutarne il reale stato vegeto-produttivo e il livello produttivo delle uve e del vino.

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Bibliografia Luisa Dodi - “La Storia di Arcore- fra amene ville , signorili giardini, vita contadina e mondo dell'industria” - Ed Comune di Arcore Giovanni Balconi - “La storia di Bernareggio”, Ed. Amministrazione Comunale di Bernareggio, 1980) AA.VV. - “Besana nella pieve di Agliate oltre il Lambro”, Ed. GR Besanan Brianza, 1978 AA.VV. - “Vite e Vino in Brianza, dai Celti al DOC” Ed Museo civico Carlo Verri di Biassono Tarcisio Beretta - “Camparada – Un piccolo Comune Antico”, Ed Amministrazione Comunale di Camparada Floriano Pirola - “Storia di Concorezzo”, edito a cura del Centro Civico Culturale – Biblioteca, 1978. AA.VV. - ”Vita Contadina - Cornate d'Adda”, Ezio Parma editore, 1994 AA.VV. - ”Cornate d'Adda. Dai Longobardi ad oggi”, Ezio Parma editore, 1987 Edoardo Meani - “Cenni storico statistici sul comune di Cornate”, 1877 Rinaldo Beretta - “Cornate d'Adda”, 1953 Giacomo Antonio Carcani - “Cart.10774, atto n.4263”, 1557 Tarcisio Beretta - “Lesmo, frammenti storici” - Ed Cassa Rurale e Artigiana di Lesmo, 1989 AA.VV. - “ Lissonum” edito dal Comune di Lissone AA.VV. - “Storia di Macherio” edito dal Comune nel 1995 Sergio Zaninelli - “Vita economica e sociale di Monza e Brianza” - Ed. Il Polifilo – 1969 AA.VV. - “Muggio' - storia, arte e cultura” Ediz. Ezio Parma, 1994 Sergio Zaninelli - “Storia di Monza e Brianza – vita economica e sociale”, ediz. Il Polifilo 1969 Massimo Banfi e Angelo Baldo - “STORIA DI NOVA “ - Gruppo Culturale San Carlo Leone Galbiati e Arnaldo Milani - “Ornago , il tempo di un paese”, Ediz. Parrocchia S. Agata Umberto Sironi - “Renate attraverso i secoli” - ed. Comune di Renate, 2002 AA.VV. - “Ronco Briantino” Ed. Grafica di Sovico – 1985 Eugenio Cazzini - “Storia di Sovico”, ed. Lambro – 1974 Catasto Teresiano - analisi dell'architetto Alessandro Vimercati Michele Pilotti - “I borghi agricoli di Usmate e di Velate tra Settecento e Ottocento” Michele Pilotti - “Terre di Brianza- Le comunità di Usmate Velate tra medioevo ed età contemporanea” edito da Comune di Usmate Velate Mario Merati - “Varedo dalle origini ai nostri giorni” , ed. Gabriele Mazzotta – 2001 Carlo Porta - “Le poesie” ed. Feltrinelli 1964 G.A. Mezzotti “Passeggiata nel Real Parco di Monza” del 1841 Camillo Origo - “Villasanta nei tempi”, 1958 Eugenio Cazzani - “Storia di Vimercate”, dicembre 1975 Catasto della Tassa sul Perticato Catasto della Tassa sul Perticato Catasto Teresiano Catasto Lombardo-Veneto Catasto dei Terreni e dei Fabbricati Catasto Agrario

1549-1558 1600-1700 1722-1752 1858 1871

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Indice Presentazione ................................................................................................................................. L’evoluzione storica del paesaggio rurale della Brianza ............................................................... I catasti storici provano la grande diffusione della vite in Brianza ............................................... La rappresentazione del paesaggio agricolo nei catasti storici ..................................................... Il vino nei Comuni della Brianza .................................................................................................. Il vino ad Agrate Brianza e Omate ................................................................................................ Il vino ad Aicurzio ......................................................................................................................... Il vino ad Albiate ........................................................................................................................... La coltivazione della vite nella zona Arcorese della Brianza ........................................................ Il vino a Bellusco ........................................................................................................................... La vite e il vino nel Comune di Bernareggio ................................................................................ Il vino a Besana in Brianza ............................................................................................................ Il vino a Biassono .......................................................................................................................... Il vino a Bovisio Masciago ............................................................................................................ Il vino a Briosco ............................................................................................................................ Il vino a Brugherio ........................................................................................................................ Il vino a Burago di Molgora .......................................................................................................... Il vino a Busnago ........................................................................................................................... Il vino a Camparada ...................................................................................................................... Il vino a Caponago ........................................................................................................................ Il vino a Carate e Agliate ............................................................................................................... Il vino a Carnate e Passirano ......................................................................................................... Il vino a Cavenago Brianza ........................................................................................................... Il vino a Concorezzo ...................................................................................................................... Il vino a Cornate d’Adda ............................................................................................................... Il vino a Correzzana ...................................................................................................................... Il vino a Desio ............................................................................................................................... Il vino a Giussano .......................................................................................................................... Il vino a Lesmo .............................................................................................................................. Il vino a Lissone ............................................................................................................................ Il vino a Macherio ......................................................................................................................... Il vino a Mezzago .......................................................................................................................... Il vino a Monza .............................................................................................................................. Il vino a Muggiò ............................................................................................................................ Il vino a Nova Milanese ................................................................................................................ Il vino a Ornago ............................................................................................................................. Il vino a Renate .............................................................................................................................. Il vino a Roncello .......................................................................................................................... Il vino a Ronco Briantino: sui ronchi «bonum vinum» ................................................................. Il vino a Seregno ............................................................................................................................ Il vino a Seveso (Pieve di) ............................................................................................................. Misinto, Ceriano Laghetto, Cogliate, Lazzate, Barlassina, Lentate sul Seveso, Limbiate, Cesano Maderno, Meda, Seveso Il vino a Sovico .............................................................................................................................. Il vino a Sulbiate ............................................................................................................................ Il vino a Triuggio ........................................................................................................................... Il vino a Usmate Velate .................................................................................................................. Il vino a Varedo .............................................................................................................................

1 5 11 14 20 21 31 34 36 39 41 42 44 49 51 54 57 62 64 66 71 73 77 80 83 85 86 90 92 94 96 98 100 103 106 108 109 110 114 120 122 133 135 137 139 143


Il vino a Vedano al Lambro .......................................................................................................... Il vino a Veduggio con Colzano ................................................................................................... Il vino a Verano Brianza ............................................................................................................... Il vino a Villasanta ........................................................................................................................ Il vino a Vimercate ed Oreno ........................................................................................................ I pedopaesaggi della Provincia di Monza e Brianza e la vocazionalitĂ per la viticoltura ............ Il clima di Monza e del suo circondario nei suoi aspetti legati alla viticoltura ............................ La vocazionalitĂ vitivinicola della Provincia di Monza e Brianza ............................................... Considerazioni di sintesi sulla potenzialitĂ vitienologica ............................................................ Bibliografia ...................................................................................................................................

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