DARE VOCE ALLE EMOZIONI DEI BAMBINI IN AFFIDO Tentativi imperfetti di operatori e famiglie affidatarie
A cura di
Cinzia Bettinaglio Cooperativa Sociale “Il Cantiere” Silvio Marchetti Cooperativa “C.A.F.” Giovanna Fidone Settore Istruzione Formazione Lavoro e Politiche Sociali Provincia di Bergamo
Indice
PREMESSA Perché dar voce ai bambini?
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DAI RUOLI AI BISOGNI Il ruolo del servizio e dei suoi operatori (Assistente Sociale, Educatore e Psicologo) Il ruolo della famiglia affidataria Il ruolo della famiglia di origine Dai ruoli ai bisogni Perché DAR VOCE AI BAMBINI … LA PAROLA A MIRKO 1 - Il racconto di Mirko (raccolto e interpretato): un bambino in affido 2 - Riflessione sui bisogni di Mirko e tentativo di analisi 3 - I ruoli nella parola: chi dice cosa al bambino in affido circa i suoi bisogni 4 - Alcuni esempi per provare a rispondere alle domande nascoste o espresse da Mirko PAROLE D’ACQUA: i bisogni dei bambini in affido, raccontati dalle famiglie affidatarie 1- Perché scrivere un diario? 2- La parola ai diari Prefazione al diario: da famiglia a famiglia Il diario del pesciolino Nemo Il diario di Biancaneve Diario di un ragazzo preso in prestito Diario di un bimbo confuso e felice Diario di due genitori sinceri ORA PARLO IO: laboratorio di scrittura adolescenti in affido 2014-15 della Cooperativa AEPER CONCLUSIONI STRUMENTI CLINICI E PEDAGOGICI PER DARE VOCE AI BAMBINI: scheda tecnica BIBLIOGRAFIA
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STRUMENTI CLINICI E PEDAGOGICI PER DARE VOCE AI BAMBINI: scheda tecnica
DARE VOCE ALLE EMOZIONI DEI BAMBINI IN AFFIDO.
Troverete, infine, storie che sono la viva voce dei ragazzi in affido; storie raccontate davvero in prima persona, che narrano in modo metaforico l’esperienza dell’affido, dei sentimenti di fiducia, di estraneità, di fatica e di speranza che suscita. Il laboratorio di scrittura, promosso dagli operatori della Cooperativa AEPER è uno
dei luoghi dove la parola è incoraggiata, dove trova spazio, suono e presenza. In questo piccolo documento non poteva mancare questo contributo, che forse è la parte più viva, lucente e palpitante del nostro imperfetto tentativo.
TENTATIVI IMPERFETTI DI OPERATORI E FAMIGLIE AFFIDATARIE Perché DAR VOCE AI BAMBINI… PREMESSA Nel corso della nostra vita professionale, spesa a prenderci cura di bambini in situazione di grave disagio, spesso ci siamo detti: “Per noi è indispensabile proteggere i bambini da situazioni di alto pregiudizio, ma comprenderanno davvero che cerchiamo per loro il posto adeguato dove stare meglio e poter imparare ad avere di nuovo fiducia nel mondo e negli adulti?”; oppure: “Sarà almeno possibile per i ragazzi esprimere le emozioni che scaturiscono dal distacco dalla loro famiglia naturale?”; e ancora: “Noi operatori siamo in grado di comunicare adeguatamente cosa sta succedendo ai ragazzi e ai loro famigliari in questo momento della loro vita?”. Anche le famiglie accoglienti si sono spesso ritrovate a domandarsi: “Saremo mai capaci di dare voce ai sentimenti e ai pensieri che abitano nei bambini che accogliamo in affido? Riusciremo a insegnare loro come si gestisce il dolore del distacco e il piacere di costruire nuovi legami di attaccamento affettivo?”. Queste domande di senso ci stanno accompagnando da diversi anni, almeno dieci, da quando, come operatori e famiglie, abbiamo intrapreso la strada del confronto reciproco, certi che sarebbe stato di grande utilità per noi, per i ragazzi accolti e per le loro famiglie naturali. In quest’ultimo anno ci siamo sentiti pronti per provare ad attraversare questo tema così delicato e complesso. Riteniamo fondamentale riuscire a dare un significato e un senso ai cambiamenti che attraversiamo nella nostra vita, professionale e personale, perché sappiamo che questo può aiutarci a gestire meglio le tante emozioni che viviamo e a orientare gli investimenti affettivi in modo positivo e propositivo. Per questo stare vicino ai bambini e ai ragazzi in modo più competente, più empatico, diventa anche per noi un modo di continuare ad apprendere, rendendoci capaci di rispondere ai loro bisogni, nella speranza che diventi un insegnamento. Certi che il nostro tentativo sarebbe stato imperfetto, abbiamo comunque provato a metterci nei panni dei tanti bambini che abbiamo incontrato: abbiamo tentato di ascoltare le loro paure e le loro emozioni, per trasformarle in parole di senso, udibili nonostante le nostre resistenze inconsce, che fanno fatica a sostenere il dolore della separazione di un bambino dalla sua famiglia. Come operatori abbiamo provato a confrontarci e a dare voce alle emozioni e timidamente abbiamo condiviso alcuni racconti esplicitati direttamente dai bambini e altri che abbiamo provato a interpretare dai loro silenzi e dai loro comportamenti. Mentre ci addentravamo in questa esplorazione ci siamo accorti di arrivare sempre più vicino al loro dolore, e al nostro, che ancora oggi
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stiamo imparando a riconoscere e a gestire, per cercare di evitare che rimanga un non-detto che si trasformi in agiti incauti e in parole che possono ferire. Dando nome e voce al protagonista, abbiamo provato a raccontare in “prima persona”, immedesimandoci in uno dei nostri bambini/ ragazzi, che rappresenta però il condensato di tante storie e vite incontrate. Certamente non tutti i ragazzi o bambini attraversano le emozioni che abbiamo descritto, ma supponiamo di non essere troppo distanti dai mille sentimenti che prova un ragazzo allontanato dalla sua famiglia. Certi anche che voi ne sapreste aggiungere molti altri, vi invitiamo a farlo, in un esercizio di immaginazione e immedesimazione che risulterà faticoso, ma sorprendente. La narrazione che proviamo a offrirvi porta in sé molti limiti: non vuole essere l’interpretazione univoca del mondo emozionale di un bambino in affido, né il dizionario delle cose da dirgli. Ci piace pensare che possa essere di qualche utilità per conoscere un tipo di “musica” sulla quale scrivere le nostre e vostre note emotive perché possano magari diventare parole da scambiare con i bambini che accogliamo, modulando adeguatamente il linguaggio a seconda dell’età e delle loro competenze, delle capacità affettive, cognitive ed emotive. Mirko è il nome dell’ipotetico bambino in affido. Ce lo siamo immaginato frequentante la scuola dell’obbligo, ma anche un po’ più piccolo o un po’ più grande. Siamo certi che la vostra intuizione vi potrà sostenere nell’adattamento delle “parole” e della “musica”. Al tal fine lanciamo anche a voi la sfida di provare a scrivere un vostro dialogo con i bambini che state accogliendo, o di cui vi state occupando, per ritrovarvi pronti un giorno quando arriverà il momento, a rivelare quelle “parole che non ti ho mai detto”, ma che spesso sono state pensate e hanno abitato nel cuore. Il lavoro è stato elaborato dagli operatori del “Gruppo Reti Famigliari e servizio affidi” promosso nel lontano 2002 dalla Provincia di Bergamo e sostenuto fino a oggi. La seconda parte del documento, realizzata dalle famiglie affidatarie rappresentanti dei gruppi di famiglie dei vari servizi affido e delle reti famigliari, è stata condotta dalla dott.ssa Cinzia Bettinaglio, che ha sostenuto il protagonismo delle famiglie in tutti questi anni, offrendo tempo, impegno e preparazione, negli spazi e nei tempi delle famiglie. Anche le famiglie hanno provato a mettersi nei panni dei bambini accolti e a raccontare, dal loro punto di vista, alcuni pezzi della loro storia con le famiglie accoglienti: il momento dell’incontro, alcuni dei pensieri che possono attraversare l’esperienza di “cambiare famiglia”, di incontrare nuovi affetti ma anche nuove fatiche.
Ci sono domande che “stanno a monte” e che riguardano cosa dire, chi lo deve dire, per quale finalità, per sostenere quali bisogni.. Siamo partiti quindi a interrogarci sulle comunicazioni, che sono i modi per raccontare la vita, una sua versione (o, ancora meglio, più versioni) e quindi per provare a spiegare ai bambini cosa sta succedendo a loro e alla loro famiglia, perché sta succedendo e quale prefigurazione di futuro è possibile tratteggiare. Un allontanamento parla di identità, porta a chiedersi: “Di chi sono?” e anche: “Perché mi sta succedendo questo? Ho fatto qualcosa di male?”. “Se io non faccio più parte della mia famiglia, chi sono io?”. Le prime domande dei bambini, per la maggior parte inespresse, sono piene di spavento e di spaesamento: per questo è fondamentale che il bambino veda nell’operatore una persona che faccia da “advocacy”, cioè che sia vissuta come qualcuno che fa il suo interesse, che si occupa di lui e del suo star bene e, per usare le parole di una delle bambine che hanno attraversato l’esperienza dell’affido, riconoscendo che: “l’assistente sociale è un po’ come l’angelo custode”. Nella realtà questa funzione così importante è ancora imperfetta, a volte sacrificata nei tempi di un lavoro che ha spesso altre urgenze, segnato da carichi di lavoro che non sempre permettono ai volti dei bambini e delle bambine di essere stabilmente presenti nella mente degli operatori. Eppure noi crediamo che, oltre che una questione di “possibilità o impossibilità”, sia anche una sensibilità dell’operatore, un metodo di lavoro che può spingere in questa
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direzione, valutando, di volta in volta, quali possano essere gli “angeli custodi”: l’assistente sociale, l’educatore, lo psicologo … Quali possono essere i bisogni dei bambini in affido? Tra le domande che “stanno a monte” questa è certamente ineludibile. Appare così evidente che forse corriamo il rischio di darla per scontata, di pensare che stia sullo sfondo di ogni azione, di ogni pensiero che facciamo quando parliamo di bambini in affido. Eppure vogliamo tornare a interrogarla, perché questa sua centralità, questo suo essere scenario e sfondo, paradossalmente, rischia di farla scomparire, come accade ai quadri che abbiamo appeso in casa da tanto tempo e che “non vediamo più”. Attorno al bambino ci sono poi operatori sociali e famiglie affidatarie, ognuno con il suo ruolo e le sue competenze: rispetto ai bisogni dei bambini, abbiamo sempre chiaro quali possano essere presi in considerazione dalle famiglie affidatarie e quali dagli operatori? I confini a volte si fanno labili, si sovrappongono, si intersecano, ed è importante pensare a degli interventi dove forse non sia necessario, neppure possibile, dividersi tra chi si occupa di una cosa e chi di un’altra. Di fronte ai bambini, ogni professionalità deve partire dalla propria posizione e dalle proprie competenze per trovare delle risposte o riformulare altre domande, forti di quell’incertezza che da limite diventa risorsa, rendendo l’impegno sociale sempre migliorabile, sempre in cammino.
DAI RUOLI AI BISOGNI Il ruolo del servizio e dei suoi operatori (Assistente Sociale, Psicologo e Educatore) In fase di avvio e per tutta la durata del progetto, il Servizio sociale con i suoi operatori ha un ruolo fondamentale, perché deve essere il riferimento che accompagnerà per un tempo significativo i cambiamenti dei rapporti tra il bambino e la sua famiglia: spetta ad esso la regia della comunicazione del decreto del Tribunale per i Minori e dei cambiamenti che seguiranno. Il Servizio ha la responsabilità di spiegare al minore il perché di quello che gli sta accadendo, il senso che porta, anche attraverso un supporto educativo e psicologico, che lo aiuti a cogliere e a rielaborare ciò che succede, utilizzando comunicazioni chiare e veritiere, calibrandole però all’età del minore. È fondamentale che quest’ultimo riceva dagli operatori una spiegazione comprensibile del suo progetto e di quello che possa coinvolgere eventuali suoi fratelli. È necessaria, inoltre, una continua narrazione dei cambiamenti in itinere che comprenda il bisogno di spiegargli il ruolo dei professionisti coinvolti nella situazione. Gli operatori del Servizio sociale, inoltre, hanno il compito fondamentale di accompagnare e sostenere la famiglia d’origine nel recupero delle capacità genitoriali, aiutandoli a trovare il modo di trasmettere ai figli il loro volergli bene.
Hanno anche una funzione di “cuscinetto”, mediando, quando serve, fra la famiglia affidataria e quella d’origine, prendendosi la responsabilità delle decisioni onde evitare che le due famiglie entrino in contrapposizione o in competizione. Lavorare in équipe significa pertanto condividere la progettualità con tutti i soggetti e le agenzie educative coinvolte. Con la scuola, ad esempio, gli operatori del Servizio sociale devono dare spiegazioni agli insegnanti rispetto al progetto relativo al minore, fornendo indicazioni in merito al funzionamento dell’affido e decidendo con gli insegnanti quanto e come coinvolgere gli affidatari e i genitori rispetto ai temi e ai comportamenti che riguardano il contesto scolastico. In caso di chiusura dell’affido e rientro del minore in famiglia di origine, il Servizio ha il compito di curare questa fase, condividendo le informazioni e la progettualità con il minore stesso. In prossimità della sua maggiore età, gli operatori devono lavorare per aiutarlo a chiarirsi le idee rispetto al futuro e a riconoscere ciò di cui ha più bisogno e, se necessario, curare l’invio a eventuali servizi per adulti presenti sul territorio. È utile, infine, che il Servizio supporti gli affidatari e i genitori nell’accogliere la decisione del ragazzo.
Il ruolo della famiglia di origine È molto importante che la famiglia di origine collabori attivamente con il Servizio, sia nel progetto proposto di recupero delle capacità genitoriali, sia nella buona riuscita dell’affido. In tal senso è utile che essa partecipi con gli operatori nel processo comunicativo al figlio, senza dare rimandi negativi, ma fornendo risposte congrue a quelle del Servizio. È necessario che siano onesti con i figli rispetto alle loro condizioni di vita e che sappiano renderli partecipi delle verità sostenibili rispetto alla sua storia, aiutati dalle competenze presenti nel servizio sociale.
È necessario che sappiano essere alleati della famiglia affidataria o almeno non la screditino agli occhi del minore. Infine, è importante che siano capaci di accettare la decisione del figlio, nel caso in cui, maggiorenne, decida di continuare a vivere presso la famiglia affidataria se gli viene offerta questa possibilità, anche facendosi aiutare dagli operatori di riferimento.
Dai ruoli ai bisogni
Il ruolo della famiglia affidataria La famiglia affidataria può aiutare il bambino a comunicare, giorno per giorno, con gesti o con parole, la sua confusione, il suo dolore, i suoi sentimenti in generale, offrendo spazi di ascolto senza intrusività. La famiglia affidataria gestisce nella quotidianità gli effetti delle comunicazioni fatte dal Servizio sociale al minore; è importante che sappia dare risposte che non siano in contraddizione e congruenti a queste ultime, così come è importante che sappia accogliere e “reggere” le domande difficili del minore, le sue riflessioni, i suoi dubbi, le sue paure, sapendoli rimandare e porgere agli operatori psico-sociali. Gli affidatari rischiano ogni tanto di misurare l’efficacia dell’affetto e delle attenzioni che mettono a disposizione del bambino o ragazzo, con i cambiamenti, i successi relazionali e scolastici; è importante, invece, che l’attenzione sia più focalizzata sulla relazione del minore con loro, sapendo che la scuola e altri contesti sociali sono a volte i luoghi dove maggiormente si riversano le fatiche e il disagio dei bambini.
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È molto importante che la famiglia affidataria sappia rinforzare quando possibile le competenze e le caratteristiche positive dei genitori agli occhi dei bambini o almeno non screditarli, svalutandoli o nominandoli come incapaci. Diventa perciò importante, anche per le famiglie affidatarie stesse, lavorare su questo tema con gli operatori del Servizio sociale e nel gruppo di auto mutuo aiuto rivolto agli affidatari, perché sia possibile una maggiore “ricomposizione” per i bambini e sia più facile la doppia appartenenza a due famiglie. Nel caso in cui il ragazzo rientri in famiglia, è importante che la famiglia affidataria offra la possibilità di mantenere un legame, rispettando tempi e modalità del minore. In caso di maggiore età prossima, se possibile, si può cercare di esplicitare al ragazzo che può rimanere nella famiglia affidataria anche ai 18 anni e non caricarlo delle proprie preoccupazioni rispetto ad un rientro nella famiglia d’origine, se il suo desiderio e la sua decisione vanno in quella direzione e se la famiglia affidataria è disponibile.
Intanto, riflettendo in modo allargato e certamente non sistematizzato, ci sembra di poter indicare delle tracce che cominciano a nominare dei bisogni /diritti importanti dei bambini in affido. I bambini hanno bisogno di: - non vivere in modo conflittuale rispetto a sé il rapporto con le due famiglie; - non sentire giudizi negativi sulla propria famiglia d’origine da parte della famiglia affidataria; - costruire gradualmente degli elementi di realtà rispetto a sé, alla propria condizione e a quella della propria famiglia; - sentirsi legittimati anche a sentire ed esprimere pensieri ed emozioni difficili ma reali (frustrazioni, paure, rabbie…); - avere a disposizione un supporto psicologico avvertito come “dalla propria parte”; - avere accanto persone che sanno nominare la loro storia e contribuire alla costruzione del racconto di sé in relazione con il passato e con le relazioni familiari; - avere vicino operatori capaci di inscrivere gli avvenimenti e le circostanze dentro una cornice di riferimento comprensibile, che nomini il perché dell’affido, i suoi tempi, il percorso dei propri genitori; - essere accompagnati da operatori e famiglie capaci di nominare le difficoltà, i punti di forza, le risorse e le ragioni delle inadeguatezze della propria famiglia;
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- essere affiancati in un percorso di riflessione, consapevolezza e apprendimento che rispetti i loro tempi; - avere operatori capaci di curare il contatto e la relazione tra le due famiglie, attraverso modalità adeguate e pensate volta per volta; - avere opportunità di “luoghi di parola”, informali o specializzati.
che costruiamo di questi ultimi. Per questo esiste una “verità narrativa”, diversa dalla verità storica, che viene a costruirsi nel mondo relazionale che si crea tra il narratore e l’ascoltatore. Per questo famiglie e operatori possono aiutare il bambino a costruire
Perché DAR VOCE AI BAMBINI … la parola a Mirko L’ascolto come diritto del bambino è stato introdotto dalla Convenzione dei Diritti del Fanciullo del 1989, che all’art.12 chiede agli Stati di garantire al fanciullo capace di discernimento di poter esprimere liberamente le sue opinioni e di essere ascoltato nelle procedure che lo riguardano. Questo è solo il primo importante segnale che introduce, anche legislativamente un diritto all’ascolto, che fino a quel momento non era stato tenuto in considerazione. Anche le leggi del nostro Paese hanno successivamente recepito questo diritto dai testi internazionali e successivamente lo hanno disciplinato in modo formale in alcuni procedimenti: ad esempio la legge 28 marzo 2001 n.149 ha definito una regolamentazione specifica dell’ascolto nei procedimenti di affidamento e adozione regolati dalla legge 4 maggio 1983 n.184. Il quadro giuridico si è poi ulteriormente arricchito e articolato. Definire l’ascolto come un diritto, ha significato introdurre uno sguardo nuovo nella cultura dell’infanzia e ha contribuito a definirlo un bisogno a cui gli adulti devono fare attenzione, praticandolo nei vari ambiti che concorrono all’educazione dei bambini, tanto più nelle professioni d’aiuto che si affiancano ai piccoli nelle situazioni in cui hanno bisogno di accompagnamento. Cosa significa, quindi, ascoltare? Come ci suggerisce Foti, a partire dalla radice etimologica, “aus”- “as” forma indoeuropea per orecchio, e “colere” dal latino, che indica un movimento circolare che può riportare a interesse, coltivazione e protezione, ascoltare può essere traducibile in “coltivare mentalmente ciò che si registra con l’orecchio” (Foti, 1993). L’ascolto non può, quindi, che essere partecipe, ha bisogno di empatia, ha bisogno del cuore, ha bisogno del “sentire” oltre che del “pensare”. Si deve dimostrare al bambino che ciò che dice è importante (Fadiga, 2006) e deve essere un impegno quotidiano di ogni adulto che debba educare, crescere, proteggere e curare un minore. Da un punto di vista psicologico e pedagogico, l’ascolto permette al bambino di essere “guardato”, fisicamente ed emotivamente e lo fa sentire “visto” dalle figure che sono per lui di riferimento. Gli adulti hanno perciò il dovere di ascoltare i bambini, tanto più se sono sofferenti, se sono feriti, confusi, se la loro vita è fatta di linee interrotte, che hanno comportato “un’interruzione degli sguardi”. L’ascolto da parte delle diverse figure che si occupano di lui, possono permettere la “ricomposizione degli sguardi, e quindi della sua storia e della sua identità, nei diversi ambienti in cui vive: in famiglia, naturale o affidataria, o in comunità, a scuola, o nei servizi, nei percorsi sociali di tutela”. Come ci dice Luigina Mortari una “buona pratica dell’aver cura” richiede un’elevata quota di pensiero, la capacità di coniugare le riflessioni razionali con la sfera dei sentimenti, “un pensare emotivamente denso” o, in altre parole, un sentire intelligente. Avvicinandoci a bambini e bambine in situazioni difficili è perciò imprescindibile sviluppare la nostra capacità empatica, che
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comprende in sé una capacità di ascolto paziente e raffinata. Questa non nasce da sola e improvvisamente, ma va coltivata imparando a dedicare all’altro “un’intensa attenzione” che diventa sensibile, che non ritiene mai banali le cose che sono dette, che si sforza di fare in modo che quel che sta succedendo ai bambini, non vada perduto e sia sempre risignificato, richiamato e accolto. In particolare per genitori e bambini protagonisti di storie difficili e sentimenti che fanno dolere, l’ascolto ha la capacità “terapeutica” di stemperare il male: Quello di essere ascoltati è un bisogno di tutti. Sentirsi ascoltati aiuta a elaborare la propria esperienza e, nei momenti difficili, rende più sopportabile il dolore. Quando pensi in solitudine concettualizzi il dolore, gli dai un profilo, ma resta lì con tutta sua pesantezza e tu con lui, e spesso accade che non si riesca a trovare la forza per azioni che non siamo altro che di sopravvivenza, di resistenza passiva. Il sentirsi ascoltati da altri, invece, anche se non ha il potere di cancellare o ridurre il dolore, aiuta a renderlo più sopportabile. (Luigina Mortari, 2006). Ascoltare i bambini significa essere capaci di una presenza che non invade mai il loro “movimento d’essere”. Vuol dire avere la pazienza di stare in silenzio, perché loro possano dire, senza subito interpretare, spiegare, suggerire. Bisogna imparare una vicinanza fatta anche di attesa, che non è passiva, ma è tensione verso la parola segreta e intima dei bambini. Significa riconoscere e avere la capacità di sostenere l’impatto emotivo che l’ascolto e la vicinanza possono provocare. Sentimenti di noia, di rabbia, di frustrazione, di irritazione, fastidio, impazienza, scoraggiamento, rabbia, non mancano mai nell’incontro: le cose che i bambini hanno da dire, non sono sempre facili da ascoltare, non sempre ci suscitano emozioni che siamo pronti ad accogliere. Ma dare loro possibilità di racconto, significa offrire anche la possibilità che questo racconto sia trasformato, che non sia la narrazione di persone che si sentono solo vittime, perseguitate, sfortunate, inadeguate, incapaci o incomprese. Anche Ricoeur (1998) ci indica che la nostra personalità si costruisce attraverso un’identità narrativa, realizzata attraverso il significato che attribuiamo ai nostri racconti considerando che “noi identifichiamo la vita alla storia o alle storie che noi raccontiamo a suo proposito”. In questa direzione Cyrulnik trova un’altra immagine suggerendo che ognuno presenta il racconto della propria storia come se fosse: Un cinema di se stessi, che condiziona la visione del mondo e le nostre relazioni sentimentali: “Con quello che mi è capitato, come volete che possa essere amato?”, oppure: ”Non vale nemmeno la pena di provarci, non ci riuscirò mai!” (Boris Cyrulnik, 2009). Anche per i bambini, il racconto di ciò che è loro accaduto assume la forma che gli conferisce la memoria: ma i nostri ricordi, la memoria di noi stessi, è costituita, più che dai fatti, dalla rappresentazione
un’immagine di sé diversa: “Mi sono accadute tante cose difficili, ma sono stato amato”, oppure: “Posso provarci, perché a volte le cose mi riescono”.
1-Il racconto di Mirko (raccolto e interpretato): un bambino in affido Abbiamo provato a dare voce ad alcuni pensieri dei bambini, scrivendoli insieme alle frasi ascoltate direttamente da loro, dai loro educatori e operatori. Ciò a partire da un bisogno generale e “fondamentale”: Se fossi un bambino in affido vorrei tanto poter dare voce ai sentimenti che sto vivendo e trovare risposte che mi aiutassero a dare un senso alle tante domande che mi affollano la mente e il cuore. Le domande che presumibilmente si affastellano, suscitando pensieri, emozioni, reazioni … Prima dell’affido: - Cosa sta succedendo alla mia famiglia, a me, ai miei fratelli? Perché mi chiedete di andare in un’altra famiglia che non conosco? - Che cosa ho fatto per non abitare più insieme ai miei genitori? Non mi vogliono più? Durante l’affido: - Mi trovo in questa nuova casa e a volte mi trovo bene e a volte no. - Non sono mai certo se gli affidatari mi vogliono bene o no. - Vorrei tanto poter stare bene con i miei genitori. - Mi piacerebbe sapere: perché i miei genitori non mi hanno tenuto? Non mi amano abbastanza? Di chi è la colpa se non posso stare con loro? È colpa mia se sono stato separato dalla mia famiglia? Forse sono un bambino cattivo e ho rovinato la mia famiglia? - Da quando non sono più con i miei genitori, girano intorno sempre un sacco di persone: affidatari, parenti degli affidatari, assistenti sociali, psicologi, neuropsichiatri, il giudice, a volte lo psicomotricista. Il tutore, gli educatori … Sembrano tutti volere il mio bene, ma ognuno a modo suo. Vorrei tanto essere amato semplicemente dai miei genitori e basta. Ma qualcuno sta guarendo i miei genitori? Io potrò ritornare da loro? Potrò stare in pace con loro senza tutti i problemi che c’erano sempre in casa mia? - Quanto tempo dovrò ancora stare qui in affido? Mi hanno detto che sarei rimasto per poco e sta passando tanto tempo! Mi posso fidare di queste persone che non sanno dirmi per quanto tempo? Spesso li vedo incerti, con tanti silenzi o con risposte insicure. Vorrei stare con i miei fratelli, ma loro sono in altri posti, in comunità e in affido, uno
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è a casa con la mia mamma. Perché mio fratello è a casa con la mia mamma e io sono in affido? Forse sono io quello cattivo? - La mia testa è piena di tante cose che girano e vagano e a scuola non riesco tanto a imparare. Quando si avvicinano i colloqui e le pagelle ho sempre paura che la delusione sia così forte che nessuno mi voglia più.Gli insegnanti mi trattano o con poche aspettative o con tanta rabbia perché non imparo, qualcuno mi fa grossi sconti, altri non me ne fanno passare una. Perché non riesco a imparare come i miei compagni? Sono un incapace? Sono un lazzarone? - Quando i miei genitori incontrano gli affidatari, ho sempre paura di fare brutta figura, perché i miei non sono tanto capaci, sono un po’ malati, un po’ sfigati.A volte temo che finiscano per litigare. I miei genitori hanno sempre paura che mi affezioni troppo agli affidatari e che non voglia più tornare a casa. Gli affidatari hanno paura che io non mi affezioni a loro e che abbia preso tutto dai miei genitori, che sia incapace di imparare le cose che mi insegnano, vorrebbero che fossi a loro grato per l’ospitalità. Forse ogni tanto pensano che prima o poi tornerò a casa mia a fare la fine dei miei genitori. - Sono passati molti anni dal primo giorno di affido, i miei genitori hanno fatto quello che hanno potuto o saputo fare, per fortuna mi trovo ancora qui, in questa famiglia affidataria. Ho provato a trovare un po’ di pace, ma le tante leggi contraddittorie mi hanno detto che sarei dovuto stare al massimo quattro anni e invece ne sono passati otto. - Mancano sei mesi alla maggiore età, ormai la famiglia affidataria rappresenta il mio porto sicuro da cui partire ogni giorno e fare ritorno la sera: vorrei sapere per quale sensato motivo il Tribunale e lo Stato decide che a 18 anni e un giorno io la debba lasciare. Forse perché non sono abbastanza delinquente per avere il prosieguo amministrativo, forse perché il Comune non può più pagare l’affido? Forse immaginano che tra qualche mese magicamente tutto cambierà, la mia famiglia naturale si sarà trasformata in una famiglia adeguata, io sarò pronto a tornare a casa o avrò addirittura una mia vita autonoma sul piano economico, abitativo e lavorativo:ma quale film si fanno gli adulti sulla mia vita? - A volte ho pensieri anche molto belli, ma questi non sono utili per il lavoro che stanno facendo Federica, Irene, Elena, Anna e Silvio (gli
2- Riflessione sui bisogni di Mirko e tentativo di analisi In questo paragrafo abbiamo voluto provare a dare un nome ai bisogni e alle paure della narrazione precedente. Li abbiamo indicati con una frase e poi abbiamo provato a metterci nei panni e nei pensieri di Mirko provando ad esprimerli con la sua voce, se lo sapesse o lo potesse dire.
queste persone che non sanno dirmi per quanto tempo?”.
• Aiutare un bambino a dare un nome ai diversi stati emotivi che vive durante l’affido: “Vorrei tanto poter dare voce ai sentimenti che sto vivendo e trovare risposte che mi aiutassero a pacificare le tante domande che mi affollano la mente e il cuore”.
• Bisogno di comprendere le differenze circa le condizioni progettuali diversificate tra fratelli: “Vorrei stare con i miei fratelli, ma loro sono in altri posti, in comunità e in affido, uno è a casa con la mia mamma. Perché mio fratello è a casa con la mia mamma e io sono in affido? Forse sono io quello cattivo?”.
• Bisogno di avere adulti credibili, trasparenti, capaci di poter parlare anche di temi che mi fanno male: “Spesso li vedo incerti, con tanti silenzi o con risposte insicure”.
• Saper stare nell’ambivalenza: ”In questa casa a volte mi trovo bene e a volte male”.
• Bisogno di dare significato a quanto sta accadendo nella propria vita in modo da liberare energie utili alla crescita e all’apprendimento: “La mia testa è piena di tante cose che girano e vagano e a scuola non riesco tanto ad imparare”.
• Avere la sicurezza dell’amore gratuito degli affidatari: “Non sono mai certo se gli affidatari mi vogliono davvero bene o no”. • Bisogno primario di sentirsi amato dai propri genitori: “Vorrei tanto poter stare bene con i miei genitori”. • Bisogno di conoscere la propria storia e le cause della separazione dai propri genitori: “Mi piacerebbe sapere perché i miei genitori non mi hanno tenuto. Non mi amano abbastanza?”. • Bisogno di essere decolpevolizzato circa le cause dell’allontanamento e della crisi della propria famiglia: “Di chi è la colpa se i miei genitori non possono tenermi? È colpa mia? Forse sono un bambino cattivo e ho rovinato la mia famiglia?”.
• Bisogno di una legislazione adeguata e non contraddittoria sulla durata dell’affido e sulla maggiore età: “Sono passati molti anni dal primo giorno di affido, i miei genitori hanno fatto quello che hanno potuto o saputo fare, per fortuna mi trovo ancora qui, in questa famiglia affidataria. Ho provato a trovare un po’ di pace ma le tante leggi contraddittorie mi hanno detto che sarei dovuto stare al massimo quattro anni e invece ne sono passati otto”. • Bisogno di non sentirsi abbandonato a se stessi in prossimità della maggiore età: “Mancano sei mesi alla maggiore età, ormai la famiglia affidataria rappresenta il mio porto sicuro da cui partire ogni giorno e fare ritorno la sera: vorrei sapere per quale sensato motivo il Tribunale e lo Stato decide che a 18 anni e un giorno io la debba lasciare? Forse perché non sono abbastanza delinquente per avere il prosieguo amministrativo o forse perché il Comune non può più pagare l’affido?”.
• Bisogno di essere amato per ciò che si è e non per le proprie prestazioni: “Quando si avvicinano i colloqui e le pagelle ho sempre paura che la delusione sia così forte che nessuno mi voglia più” . • Bisogno di insegnanti che sappiano trattare adeguatamente e aiutino ad avere un’idea della propria adeguatezza nell’apprendimento e nella relazione: “Gli insegnanti mi trattano o con poche aspettative o con tanta rabbia perché non imparo, qualcuno mi fa grossi sconti, altri non me fanno passare una giusta. Perché non riesco a imparare come i miei compagni? Sono un incapace? Sono un lazzarone?”.
• Bisogno di avere riferimenti adulti stabili e non scissi o in contrapposizione tra loro: “Da quando non sono più con i miei genitori, girano intorno sempre un sacco di persone: affidatari, parenti degli affidatari, assistenti sociali, psicologi, neuropsichiatri, il giudice, a volte lo psicomotricista, gli educatori. Sembrano tutti volere il mio bene, ma ognuno a modo suo. Vorrei tanto essere amato semplicemente dai miei genitori e basta”.
• Bisogno di vedere che la famiglia d’origine sia sufficientemente dignitosa e di pensarsi un frutto buono di una pianta abbastanza buona: “Quando i miei genitori incontrano gli affidatari, ho sempre paura di fare brutta figura, perché i miei non sono tanto capaci, sono un po’ malati, un po’ sfigati”.
• Bisogno di sapere se qualcuno si sta occupando della salute dei propri genitori e se le cure funzionano per poter un giorno riavere il loro amore in un contesto affettivo sufficientemente buono: “Ma qualcuno sta guarendo i miei genitori? Io potrò ritornare da loro? Potrò stare in pace con loro senza tutti i problemi che c’erano sempre in casa mia?”.
• Bisogno di vedere che le due famiglie stanno lavorando insieme per la crescita e che non interpretino come tradimento l’amore si manifesta verso gli uni o verso gli altri: “A volte temo che finiscano per litigare. I miei genitori hanno sempre paura che mi affezioni troppo agli affidatari e che non voglia più tornare a casa”.
• Bisogno di avere chiarezza sui tempi dell’affido: “Quanto tempo dovrò ancora stare qui in affido? Mi hanno detto che sarei rimasto per poco e sta passando tanto tempo! Mi posso fidare di
• Paura di non corrispondere alle aspettative e il timore di meritare uno sguardo negativo da parte degli affidatari: “Gli affidatari hanno paura che io sia uguale ai miei genitori, che
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non sia capace di imparare le cose che mi insegnano e che prima o poi tornerò a casa mia a fare la fine dei miei genitori”.
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• Bisogno di trovare un senso al percorso fatto in famiglia ed essere accompagnato alla vita adulta: “Forse immaginano che tra qualche mese magicamente tutto cambierà, la mia famiglia naturale si sarà trasformata in una famiglia adeguata, io sarò pronto a tornare a casa o avrò addirittura una mia vita autonoma sul piano economico, abitativo e lavorativo: ma quale film si fanno gli adulti sulla mia vita?”.
3- I ruoli nella parola Chi dice cosa al bambino in affido circa i suoi bisogni Per parlare al bambino nei termini indicati non è necessario essere psicologi o psicoterapeuti, si deve piuttosto avere: - capacità relazionali; - disponibilità emotiva; - una relazione significativa con il bambino; - la convinzione che informare e significare sia necessario. A seconda dell’età, ci sono modi e parole diverse per comunicare la storia che il bambino sta vivendo. Alcune cose è bene che le comunichino gli operatori del Servizio sociale e altre siano supportate e veicolate dalla famiglia. Spesso le famiglie affidatarie, sulla comunicazione, sulle parole, su cosa dire ai bambini, si chiedono: “Qual’è il nostro atteggiamento
nei confronti dello sguardo verso la famiglia d’origine: la “salviamo” sempre, diciamo la cruda realtà o sospendiamo il giudizio?”. Quando si parla al bambino è sempre importante mettersi nei suoi panni e cercare di comprendere le possibili conseguenze di ciò che gli diremo. Il nostro punto di vista parte dal presupposto che bisogna sempre interrogarsi sul contenuto della comunicazione provando a capire cosa dire e chi è meglio lo dica. L’ipotesi è quella che se gli adulti hanno condiviso cosa, come, chi dice cosa, potranno aiutare il bambino ad avere meno confusione nella testa e nel cuore circa l’esperienza dell’affido.
4-Alcuni esempi Per provare a rispondere alle domande nascoste o espresse da Mirko Tutte le parti in gioco devono avere buone domande e possibili risposte da formulare a un bambino. È importante definire insieme chi e che cosa comunicare, in quale momento e contesto, condividendo orientamenti e consigli su modi, tempi e contenuti della comunicazione. Il tentativo sarà anche quello di provare a dare un ordine temporale rispettoso delle fasi dell’affido. Riteniamo importante che ci sia una sintonia nella comunicazione
al bambino, tra gli adulti che si occupano della sua crescita o che curano i legami. Gli esempi che riportiamo non sono da prendere alla lettera e sono stati pensati come un orientamento, al fine di incoraggiare gli adulti a parlare con i bambini anche delle cose più difficili che possono chiedere o anche solo pensare.
Le domande di Mirko
Alcune risposte per Mirko
Non so cosa sta succedendo: perché devo andare in un’altra casa? Bisogno di avere informazioni corrette su cosa sta succedendo.
Ciao Mirko in questi giorni stanno accadendo tante cose intorno a te e ancora di più dentro di te, siamo qui insieme per poter provare a raccontare cosa sta accadendo alla tua famiglia e vorremmo trovare insieme le parole per dare voce a quello che accade fuori e dentro te e che riguarda il Giudice del tribunale, la tua famiglia e te. Come in tutte le famiglie ci sono momenti in cui si va molto d’accordo e momenti in cui si fa più fatica. Tu stai imparando a conoscere gli affidatari e loro stanno imparando a conoscere te. Ci sono cose che ti piacciono un po’ di più e altre che ti piacciono meno. A volte, nel voler bene agli affidatari ti sembrerà di toglier qualcosa ai tuoi genitori e viceversa. Devi sapere che il bene dei bambini trova sempre lo spazio giusto in tutti i cuori, forse siamo noi adulti che dobbiamo imparare ad accoglierlo ed essere contenti sempre, perché il cuore può diventare sempre più grande senza aver bisogno di dividersi tra gli adulti cui si vuole bene.
Come faccio a stare nella nuova famiglia e continuare a voler bene alla mia? Saper stare nella ambivalenza dell’amore tra la famiglia affidataria e quella d’origine.
Ma gli affidatari mi vogliono bene così come sono fatto? Avere sicurezza dell’amore gratuito degli affidatari.
Gli affidatari stanno imparando a conoscerti e ce la stanno mettendo tutta per volerti bene, piano piano anche tu imparerai a voler bene a loro. Ce la farete!
I miei genitori continueranno a volermi bene? Come faccio a non perdere il loro affetto? Bisogno primario di sentirsi amato dai propri genitori.
È bello che tu desideri essere amato dai tuoi genitori. Stanne certo, loro ti vogliono bene, a volte come possono e non come vorrebbero. La loro storia non li ha aiutati a imparare a voler bene come avrebbero desiderato o come un bambino ne avrebbe avuto bisogno.
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Le domande di Mirko
Alcune risposte per Mirko
Cosa è successo a me e alla mia famiglia? Perché non posso stare con i miei genitori? Bisogno di conoscere la propria storia e le cause della separazione dai propri genitori.
Tu oggi sei in una nuova famiglia, ma non è colpa tua. La storia dei tuoi genitori non è stata sempre facile. Ti hanno desiderato, ti hanno fatto nascere, ti hanno cresciuto, ti vogliono bene. A volte i genitori attraversano problemi e malattie che non consentono loro di occuparsi al meglio dei propri figli, per cui il Giudice ritiene necessario che altri adulti si possano occupare di loro per un po’ di tempo.
Ho paura che sia colpa mia. Perché devo andare via io? La mia famiglia sta male per colpa mia? Bisogno di essere decolpevolizzato circa le cause dell’allontanamento e della crisi della propria famiglia.
Tu sei un bambino buono, i bambini non hanno il compito di tenere uniti i propri genitori e la famiglia. Quando gli adulti non riescono a occuparsi dei figli, non è mai colpa dei figli. A volte gli adulti non riescono più ad andare d’accordo, i loro sentimenti cambiano e a volte non riescono ad affrontare alcuni problemi che attraversano la loro storia.
Se gli adulti che si occupano di me, non sono d’accordo tra loro, a me cosa succede? Bisogno di avere riferimenti adulti stabili e non scissi o in contrapposizione tra loro.
A volte gli adulti hanno opinioni diverse rispetto alle cose, o rispetto a come comportarsi con i figli. Può capitare al papà e alla mamma, ma può capitare anche agli affidatari. E può capitare anche che gli affidatari a volte non siano d’accordo con i tuoi genitori. Ricordati che non è colpa tua, sono loro che hanno semplicemente idee diverse e cercheranno, parlandosi e aiutati dai Servizi, di trovare un’idea comune.
Chi si sta occupando della mia mamma e del mio papà? Chi li aiuta? Riusciranno a imparare a fare meglio i genitori così che io possa tornare a casa? Bisogno di sapere se qualcuno si sta occupando della salute dei propri genitori e se le cure funzionano per poter un giorno riavere il loro amore in un contesto affettivo sufficientemente buono.
Caro Mirko, il papà e la mamma in questo periodo stanno facendo molta fatica a occuparsi di sé e di te, perché non stanno molto bene. I Servizi Sociali però li stanno aiutando a guarire, a migliorare, ad affrontare i loro problemi. La fatica dei genitori è, a volte, quella di riuscire a occuparsi sia dei propri problemi sia del bene necessario dei figli.
Quanto tempo dovrò stare con questa nuova famiglia? Bisogno di avere chiarezza sui tempi dell’affido.
Il Giudice per i bambini ha pensato che tu potessi stare in questa famiglia per un periodo utile alla ripresa dei tuoi genitori. Il tempo stabilito è per ora quello che lui ha indicato. Sarà il lavoro dei Servizi e quello della tua famiglia che potranno definire meglio i tempi. Sappiamo che non è la risposta che desideri, ma appena ce lo diranno tu sarai tra i primi a saperlo.
Ma io a chi dico le cose “difficili”? Chi mi ascolta e non si spaventa per tutti i pensieri che mi girano in testa? Bisogno di avere adulti credibili, trasparenti, capaci di poter parlare anche di temi che fanno male.
Caro Mirko, hai diritto di chiedere quello che vuoi, di esprimere quello che senti, di dire quello che non ti piace o ti fa soffrire. Magari gli adulti a cui chiederai non riusciranno a risponderti subito, perché avranno bisogno di un po’ di tempo per pensare e darti una buona risposta, ma tu chiedi di modo che si possa pensare al problema o al dubbio che hai.
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Le domande di Mirko
Alcune risposte per Mirko
Le domande di Mirko
Alcune risposte per Mirko
Ma perché io non sono più a casa e il mio fratellino si? Bisogno di comprendere le incongruenze circa le condizioni progettuali diversificate tra fratelli.
I bambini non sono mai cattivi, non è vero che è quello più buono ad esempio, che sta a casa con la mamma. È difficile rispondere a questa giusta domanda. Immagino che i Servizi e il Giudice stiano dando tempo alla tua mamma di riuscire ad occuparsi bene del tuo fratellino perché possa poi occuparsi anche di te.
Siamo sicuri che a casa mia va tutto bene e che posso tornare? Bisogno di essere rassicurato rispetto alle condizioni della sua famiglia d’origine in vista del rientro.
La mamma e il papà ora stanno meglio e possono tornare a occuparsi di te. Noi operatori continueremo ad aiutarvi e verremo a trovarvi per sapere come state.
Adesso che sono grande, sono solo? Bisogno di non sentirsi abbandonato dagli operatori e dagli affidatari al momento del compimento del 18 anni.
Le risposte sono molte diverse a seconda della presenza o assenza di interventi. a) Se realmente Mirko continua ad essere preso in carico: Mirko sappi che continueremo ancora per un po’ a seguirti come il Giudice ha indicato e questo ci sembra il periodo buono per imparare ad acquisire sempre maggiori autonomie, noi con te ce la metteremo tutta per utilizzare al meglio questa opportunità; b) Se Mirko deve essere indirizzato ai Servizi per gli adulti: caro Mirko, non preoccuparti, se hai bisogno di consigli e d’aiuto ci saranno altri operatori che potranno accompagnarti e darti una mano.
Adesso che ho 18 anni, deluderò sempre qualcuno, sia che decida di rientrare dai miei, sia che resti dagli affidatari. Bisogno di non sentirsi in colpa rispetto alla decisione presa al compimento dei 18 anni (rimanere con gli affidatari o rientrare in famiglia).
Non preoccuparti se ora senti il bisogno di tornare dalla tua famiglia. I figli a volte sentono anche il dovere di accontentare i loro genitori. Se avrai bisogno di qualcuno con cui parlare di quello che succede, noi ci saremo. I tuoi genitori saranno certo dispiaciuti perché preferisci non rientrare da loro. Forse potremmo provare a spiegargli insieme che vuoi loro sempre bene, ma che hai bisogno ancora di un po’ di tempo per diventare grande, perché maggiorenne non significa, da un giorno all’altro, essere già adulto.
Perché non riesco a pensare alla scuola? Non sono bravo a imparare? Bisogno di dare significato a quanto sta accadendo nella propria vita per liberare energie utili alla crescita e all’apprendimento.
Caro Mirko, a volte la tua testa è occupata da tanti pensieri e non sempre riesci a ordinarli per bene, quello che vorremmo è che il tempo che trascorrerai con noi possa aiutarti a sentirti bene, ad avere fiducia nel mondo e negli adulti. Ci piacerebbe vederti curioso nel cercare quali sono i tuoi talenti per poterli sviluppare al massimo e poterne fare dono agli altri.
Speriamo che la mia maestra mi aiuti, perché io non so se sono capace… Bisogno di insegnanti che sappiano trattare adeguatamente e aiutino ad avere un’idea della mia adeguatezza nell’apprendimento e nella relazione.
Anche gli insegnanti come tutti gli adulti hanno compiti specifici nel loro lavoro, il loro è quello di insegnare, formare ed educare. I pensieri che girano nella tua testa non sempre ti aiutano ad avere concentrazione a scuola, proveremo se vuoi a condividere con l’insegnante le fatiche che stai facendo, in modo che possa aiutarti a imparare al meglio sia nell’apprendimento che nelle relazioni. Da parte tua è importante che tu dica a loro, quali sono i tipi di fatiche che stai facendo e che tu voglia impegnarti a dare il meglio di te.
Ma la mia famiglia è brutta? Allora sono brutto anch’io? Bisogno di vedere che la propria famiglia è sufficientemente dignitosa e di essere un frutto buono di una pianta abbastanza buona.
I tuoi genitori hanno provato a costruire la miglior famiglia che potevano, in alcune cose sono stati molto bravi, in altre è stato per loro faticoso. Il bene che ti hanno voluto hanno fatto di te un bravo bambino, c’è molto di buono dei tuoi genitori nella tua vita e tu potrai, quando sarai grande, donarla ai tuoi figli.
Io posso voler bene a tutte e due le famiglie? Bisogno di vedere che le due famiglie stanno lavorando insieme per la mia crescita e che non leggano come tradimenti i legami che si costruiscono con gli uni o con gli altri.
I tuoi genitori e gli affidatari sono molto diversi, ma entrambi ti vogliono bene e ti stanno facendo crescere, seppur con modi e tempi a volte differenti. È giusto che tu voglia bene sia ai tuoi genitori sia agli affidatari ed è normale che tu, in alcune situazioni, preferisca come si comportano i genitori e in altre situazioni preferisca come si comportano gli affidatari. Il bene che tu vuoi ad entrambi è un bene buono, il bene che loro ti vogliono è anche quello un bene buono. A volte però i grandi hanno bisogno di gestire meglio le loro gelosie, perché il bene che si vuole a un bambino gli serve tutto quanto, da tutti gli adulti che si prendono cura di lui.
Ma sarò bravo abbastanza perché mi vogliano bene? Paura di non corrispondere alle aspettative degli affidatari e di meritare uno sguardo negativo da parte loro.
Gli adulti che ti stanno crescendo ti vogliono bene così come sei, con i tuoi pregi e i tuoi difetti. Non sempre ci riescono, ma ti assicuro che ce la mettono tutta.
Ma io potrò sempre contare sugli affidatari? Bisogno di non perdere il legame con la famiglia affidataria al momento del rientro presso i genitori.
Caro Mirko ora tornerai a vivere con la mamma e il papà. Sarai contento, ma allo stesso tempo probabilmente ti dispiacerà un poco salutare le persone con le quali hai vissuto in questi mesi/ anni. Non preoccuparti, se vi farà piacere ogni tanto potrete telefonarvi o vedervi. Gli affidatari sono e sono stati delle persone importanti per te ed è bello che tu non li perda.
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PAROLE D’ACQUA: i bisogni dei bambini in affido, raccontati dalle famiglie affidatarie 1-Perchè scrivere un diario? Guardandoti negli occhi ricordo soltanto d’aver già visto il tuo volto in sogno. (Tagore) Scrivere il diario o delle lettere non si usa quasi più. Nel tempo della comunicazione veloce, dei social network, degli sms e delle e-mail, perché ritornare a un artificio letterario “d’altri tempi”? Alcune famiglie, sedute attorno a un tavolo, cercano di comunicare le emozioni dei bambini che accolgono, i loro pensieri-bambini … Provano a dare voce a ciò di cui ogni giorno si prendono cura, alle fatiche che provano ad accompagnare, al dolore che vorrebbero lenire, ai sentimenti non sempre trasparenti, alle richieste “opache” che hanno bisogno di occhi grandi, di mani dischiuse, di un sentire coltivato giorno per giorno, con attenzione e mitezza. Per provare a trasformare l’esperienza quotidiana, quella che i bambini vivono quando si alzano al mattino o mentre sono seduti al tavolo per la cena, in un linguaggio che possa far comprendere, smuovere i pensieri e gli affetti, c’è bisogno di tempo. È un tempo che assomiglia a quello “antico” della scrittura sulla carta, fatto di foglio bianco e penna, su cui si posa lo spazio aperto del pensiero e il “viavai” delle riflessioni. È anche il tempo di chi legge, di un interlocutore muto e “segreto”, ma che si pensa vicino e familiare, che possa dedicare la stessa attenzione alla lettura di quella che, dalla stessa parte del foglio, qualcuno ha dedicato alla scrittura.
Non so se siamo riusciti nell’intento: da famiglia a famiglia abbiamo voluto provare a mettere al centro i bisogni dei bambini e dei ragazzi – delle bambine e delle ragazze – accolti nelle famiglie affidatarie, pensando a loro, alle loro domande sottese, alle cose che non dicono perché non possono/non vogliono/non sanno … interpretandole, provando a immedesimarci nei loro pensieri, nelle loro richieste, nei loro desideri, nei loro timori. Sei pagine di diario, diverse, parziali, incomplete, insufficienti. Eppure attraverso i molti non-detti che leggiamo tra le righe, nelle posture del corpo, nei comportamenti, nelle distanze e vicinanze che misuriamo nella relazione sentiamo la loro necessità di essere visti e il bisogno specifico dei preadolescenti di trovare un modo per comunicare con noi e il bisogno di imparare a esprimere le emozioni. Lo stesso tema visto da sguardi diversi: di qua dallo specchio i grandi, mamme, papà, adulti che hanno messo a disposizione la loro genitorialità; di là dallo specchio i bambini, i ragazzi, immaginati chini sulle stesse pagine di diario, dal loro punto di vista … È il tentativo di dare voce al bisogno di cura, di amore, alle fatiche, alle paure, all’estraneità di chi deve “affiliarsi” a persone sconosciute, imparando a fidarsi, a chiedere, col bisogno di sentirsi accolto, compreso e accompagnato a crescere.
2- La parola ai diari Sono autori dei testi scritti a più mani: Pier Manzoni, Matteo Colombi, Manuela Plebani, Claudio Bazzi, Sara Bacis, Sergio Pinotti, Alessandra Ravelli, Piero Gritti. PREFAZIONE AL DIARIO: DA FAMIGLIA A FAMIGLIA Cari papà e mamme in questa pagina condividiamo con voi l’avventura di essere genitori affidatari di un ragazzo adolescente... Ci direte che in generale questa età è un’impresa ardua... ma vi assicuriamo che nelle esperienze di affido il tutto diventa anche più complicato. C’è la grande fatica del capirsi, del mettersi in sintonia: tra noi, a volte, ci sono muri. Lui ha addosso energie che non riusciamo a orientare, che emergono in maniera confusa e che talvolta si trasformano in attacchi verso di noi apparentemente immotivati. Cresce, si avvicina alla maggiore età e noi abbiamo paura per il suo futuro: che prospettive potrà avere? Sentiamo che forse non ha risorse e possibilità sufficienti per affrontare gli oggettivi problemi esterni: siamo troppo apprensivi? Abbiamo poca fiducia in lui? Ma lui, realmente, oltre ad essere più fragile, o almeno a noi sembra così, è anche più solo. Ci
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“sfugge di mano”, rispetto a quando era piccolo, si sottrae di più a esperienze che noi proponiamo e che pensiamo possano essere utili e interessanti, ma ciò che pensiamo “buono per lui” non sembra interessarlo. In questa fase in cui diventa più grande e forse più consapevole, emerge maggiormente nelle sue reazioni, e nei suoi silenzi, il bisogno di essere fedele a due famiglie: la nostra e quella da cui viene; ha paura di tradire la sua famiglia ma al tempo stesso non vuole venir meno al legame con la nostra. Sembra che l’affido, in certi momenti, sia vissuto come un’accusa fatta da altri alla sua mamma e alla sua famiglia: “Se sono qui è perché qualcuno giudica la mia mamma e il mio papà come incapaci”: scatta allora la voglia di difenderli a tutti i costi. Sì, occorre mettere in gioco molta pazienza e la capacità di attendere i tempi “giusti”... i suoi tempi giusti. La richiesta di aiuto e di vicinanza a volte arriva in maniera strana e non subito identificabile. Spesso poi la ritira, per fare la parte del “duro”. Ha tanta voglia di crescere e di farlo in fretta: ma il suo modo di dimostrarlo è confuso e a volte ancora più “da piccolo”. Questa voglia
noi desideriamo valorizzarla e svilupparla, ma non sappiamo bene come fare; le spinte positive, anche quelle piccolissime, vorremmo riconoscerle e approfondirle, ma talvolta non riusciamo ad apprezzarle come vorremmo. Come già dicevamo, la nostra tensione alla protezione, al non volerlo “lasciare andare” talvolta è una razionale analisi delle reali opportunità esistenti e del fatto che quando non sarà più in carico ai servizi di Tutela minori, difficilmente i servizi sociali riusciranno poi
a offrire delle buone opportunità e ad accompagnarlo. Ci vorrebbe forse un buon “sostegno” anche per quando diventerà maggiorenne … una specie di “Amministratore di sostegno” che lo accompagni e lo orienti, che faccia da tramite tra lui e i servizi sociali, se noi non potremo essere più gli interlocutori. Vorremmo che non diventasse un “figlio di nessuno” solo perché la legge dice che a 18 anni i ragazzi sono adulti.
IL DIARIO DEL PESCIOLINO NEMO La prima cosa che vidi quando entrai in quella stanza furono quei sette nanetti con Biancaneve al centro che sembrava volerli abbracciare tutti. Dietro di loro c’era lei, la mia nuova mamma, anch’essa con le braccia aperte. Però non sembrava la mia vera mamma. Questa era più magra, più alta, e la maglietta che indossava era più … più pulita; sì, sembrava proprio Biancaneve. L’assistente sociale che mi teneva per mano mi invitò ad andare da lei, mi disse: “Su, dai, coraggio, va da Elisa. Sai, ora ti porta per un po’ di tempo nella sua casa, … lì ci troverai una bella stanzetta tutta per te, tanti giocattoli e due fratellini con cui giocare. Va, va da Elisa!”. Certo, desideravo tanto avere un lettino tutto mio, uno spazio solo per me, avere un armadio dove riporre i miei oggetti, i miei tesori, i miei ricordi, la mia storia, la foto con il volto di mia mamma che mi sorrideva e mi mordicchiava le manine, avrei voluto riporre e nascondere anche quei ricordi che mi toglievano il respiro ... che ancora oggi mi tolgono il sorriso. Io non ci volevo andare da Elisa. Mi ha lasciato la mia mamma, mi lascerai anche tu! Questo avrei voluto dirle, questo avrei voluto urlare a tutti! È stata lei a venire da me, mi ha preso le mani, le ha baciate e poi mi ha stretto a sé. Quando arrivammo a casa – quella che doveva essere la mia nuova casa – trovai ad aspettarmi Giorgio e Mara con il loro papà. Giorgio aveva 10 anni, Mara 8, erano entrambi più grandi di me. Mi accolsero come un ospite di riguardo e mi accompagnarono subito nella mia stanzetta. Gialla. A me non piace il colore giallo. Poi mi mostrarono la loro stanzetta, i giocattoli, il bagno e tutto il resto della casa. Elisa nel frattempo aveva disfatto la mia valigia e riposto il contenuto nei cassetti dell’armadio. Anche i miei tesori e senza chiedermi che cosa fossero. Il mio pupazzo nella cesta dei panni sporchi. Poi decisero che avrei dovuto farmi un bagno perché più tardi saremmo tutti andati in pizzeria. A me la pizza non piace. Perché non chiedono anche il mio parere e mi sbattono di qua e di là senza chiedermi nulla? Sono piccolo ma non sono stupido!
gigantesco con tanti pesci coloratissimi. Mi incollo al vetro. C’è anche Nemo! Sì, è proprio lui! Io l’ho visto in Tivù. È un po’ triste. Non vedo la sua mamma. Forse anche il suo papà è in prigione. Ma io lo so, lui vuole fuggire, vuole tornare dalla sua mamma … Sai, Nemo, anch’io sono un po’ triste, se vuoi, tu ed io … Elisa mi prende per mano e mi fa sedere a tavola. Giorgio e Mara scelgono la pizza con le patatine, il loro papà una frittura di pesce. Io non voglio nulla ma Elisa insiste e insiste; alla fine sceglie lei per me, la pizza Biancaneve. Non voglio fare quello che dici tu! Chi sei tu per obbligarmi? Io voglio parlare con Nemo, non voglio stare qui a tavola con voi! Voglio che mi lascino in pace. Questa famiglia mi è estranea. Ho voglia di piangere.
Pizzeria Sette Nani. All’ingresso, ad accoglierci, c’è un acquario
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Torniamo a casa e si va subito nella cameretta. Elisa mi mostra dove ha riposto le mie cose, prende il pigiamino e me lo mette. Finalmente mi chiede cosa c’è nella scatola azzurra. La apro e le mostro i miei sassi – anche a lei piace quello piatto -, le figurine, il tappo, il bullone, la matita, la mia foto in braccio a papà. Poi ripone tutto con cura nell’armadio e lo chiude. Certo, mi piacerebbe avere per sempre uno spazio mio, che racconti la mia storia, che tenga il filo del tempo, del passato e del presente. Spegne la luce. Perché mi abbraccia e mi stringe a sé? Io voglio la mia mamma lontana. Anche se lei non mi abbracciava mai. Così è cominciata la mia nuova vita in quella casa. A scuola sono abbastanza bravo tranne quando faccio la cacca nelle mutandine, succhio il pennarello della maestra o faccio le corse in classe e allora la maestra si arrabbia e mi sgrida tanto. Oppure quando i miei compagni scrivono tutti sul quaderno e non vogliono giocare con me e allora io strappo i loro fogli. Io faccio apposta a fare le cose che mi dicono di non fare, così si accorgono di me. Io sono bravo anche quando facciamo il teatrino e viene la Direttrice a vederci. E vengono anche i genitori. Un giorno c’era anche l’assistente sociale e così io sono stato bravo a fare il cavaliere, però non volevo stare sempre fermo e così ho fatto anche la Principessa, la guardia reale e il Re sul trono, con il mio amico Luca. E tutti i genitori ridevano ed erano felici. La maestra però è salita sul palco, mi ha fatto scendere dal trono perché non aveva un’altra corona per me. A me non interessava la corona, a me piaceva essere al centro della
scena così tutti mi vedevano. Quando torno da scuola io racconto sempre a mamma Elisa le cose belle che ho imparato e le mostro i miei lavoretti e anche i quaderni con i bei voti della maestra. Un giorno la maestra mi ha dato un “sole” e io l’ho mostrato alla mamma con molto orgoglio. Penso che se le racconto che sono bravo le piacerò di più e mi vorrà sempre bene. Le note preferisco nasconderle. Anche il papà di Giorgio e Mara un giorno si è molto arrabbiato con me, o meglio, prima si è arrabbiato con Giorgio e poi con me. Giorgio è salito sull’albero del giardino fino al terzo ramo ed è qui che è stato sorpreso dal papà e sgridato. Ma appena è ridisceso ci sono salito io, e fino al quarto ramo! Il papà di Giorgio mi ha dato anche una sculacciata ma a me non interessa: io mi metto in pericolo apposta o mi avvicino a una situazione pericolosa per vedere se mi proteggono.. È per questo che lui si arrabbia sempre con me. Perché non vuole che mi faccia male. Il papà di Giorgio e Mara quando parla con noi dice sempre: “Ehi, voi tre…!” oppure, quando rientra dal lavoro: “Dove sono i miei tre cuccioli?”. Un giorno ho sentito che diceva ad un suo amico: “I miei tre figli …”. Figlio? Come mi vedono qui dentro? Sono davvero parte della famiglia? IL DIARIO DI BIANCANEVE Caro diario, finalmente la nostra avventura di affido sembra concretizzarsi. Tutto è partito da un mio desiderio e insieme a mio marito e ai nostri due figli abbiamo deciso che l’accoglienza poteva essere un’esperienza a misura della nostra famiglia. Ieri, per la prima volta, abbiamo guardato negli occhi la piccola creatura che le operatrici hanno pensato di chiederci di ospitare a casa nostra, dopo averci incontrato, invitato a partecipare a incontri informativi e formativi e dopo aver approfondito la nostra conoscenza con una serie di domande legate anche al nostro vissuto. L’incontro con il bambino è stato breve, eravamo preoccupati di fare buona impressione e di trasmettergli che avremmo fatto il possibile per farlo stare bene, lui sembrava avesse già capito tanto di quello che stava per succedere pur avendo da poco compiuto 4 anni. Appena saliti in auto, dopo averlo salutato e dopo esserci dati appuntamento per una merenda a casa nostra il giorno seguente, io e mio marito ci siamo guardati negli occhi e un mare di dubbi e perplessità si è fatto avanti nella mente e nel cuore; una domanda su tutte: “Ce la faremo?”. Tornati a casa raccontiamo ai nostri figli, di 8 e 6 anni, che abbiamo incontrato il bambino che ha bisogno di vivere per qualche tempo nella nostra famiglia, perché i suoi genitori non possono prendersi cura di lui in questo momento e che domani verrà a casa nostra per la merenda così potranno conoscerlo. Loro sono molto eccitati, ci tempestano di domande, che
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La mamma Elisa, invece, non si arrabbia mai. Mi racconta le storie quando sono a letto e mi prepara il budino con un biscotto dentro. Mi dice anche che mi vuole bene, ma io non sono sicuro; la mia mamma lontana mi voleva bene! Allora io penso: vediamo se mi vuoi bene anche se faccio casino, se non ti soddisfo e mostro le mie parti brutte, vediamo se mi tratti come i tuoi figli. Allora io sporco nei pantaloni, coloro il cielo di nero, rompo le bambole di Mara e strappo i miei quaderni. Ma lei invece di sgridarmi mi abbraccia. Quando si avvicina il giorno in cui vado a trovare la mia mamma, nella mia vecchia casa, io non mi sento bene, non ho voglia di giocare e mi viene il mal di pancia. Però se corro nel corridoio della scuola mi passa. Anche la maestra lo sa che devo rivedere la mia mamma lontana e mi dice che non devo essere irrequieto. Io non lo sono, però in quei momenti mi ricordo che la mamma lontana mi chiede se voglio più bene a lei o ad Elisa e mi dice che Elisa non è la mia mamma e io non devo chiamarla mamma e … e poi mi viene il mal di pancia e devo correre. Anche in classe. Io vorrei dire alla mia mamma lontana che le voglio bene però voglio un po’ bene anche a mamma Elisa. Io vorrei dire alla mia mamma lontana di venire ad abitare nella nostra casa così potrebbe ascoltare anche lei le storie che mamma Elisa mi racconta prima di dormire e io potrei tenere sia la mano di mamma Elisa che quella della mia mamma lontana. sommate alle nostre iniziano a intimorirci: quello che fino a ieri era il pensiero astratto di un’esperienza d’amore, oggi si è trasformato in una realtà concreta con un nome, un volto e due enormi occhi. È arrivato per la merenda, gli corriamo incontro, lui sembra felice di vederci, ci sorride, lo invitiamo a entrare e nella mia mente un pensiero: che si senta da subito accolto. I nostri figli gli fanno vedere i loro giochi e quelli che hanno preparato per lui, sembra felice, che bello il suo sorriso, continua a ripetere che da noi è tutto bello. Forse questo stargli così addosso è eccessivo, forse lo stiamo forzando, ma il nostro tempo oggi è terminato, l’operatrice viene a riprenderlo e lui non sembra contento di andare via, poi si convince ci saluta dicendo: “Ci vediamo domani”. Sembra proprio che abbiamo fatto centro, ci dice che vuole tornare, allora gli piacciamo, forse tanto quanto lui piace a noi, la scintilla è scoccata. L’operatrice ci chiama dopo averlo riaccompagnato e ci dice che in macchina piangeva e diceva di non voler tornare a casa sua, ma di voler andare dalla “signora gentile”: mi piace come mi ha identificato. Oggi è stato con noi tutto il giorno, ero preoccupata per il pranzo, ma ha mangiato benissimo nonostante sia visibilmente sotto peso e sotto misura per la sua età, ha mangiato con gusto tutto quello che gli abbiamo offerto. Nel pomeriggio siamo andati al parco giochi, quante corse, quante energie e quante parole, anche se non molto chiare. Mentre lo spingo sull’altalena mi dice che sono gentile. Arriva nuovamente il momento di salutarci e lo vediamo cambiare
umore, diventa triste, con molto tatto gli viene detto dall’operatrice che l’indomani si potrà fermare anche a dormire e che potrà restare con noi per molto tempo. Il grande giorno è arrivato, ora, e a parte qualche breve parentesi per gli incontri con la sua famiglia, da oggi sarà con noi giorno e notte. La prima notte è fin troppo semplice: un bacio, un abbraccio, una coccola e la storia della buona notte e dopo cinque minuti dorme come un angioletto e dorme tutta la notte. Vorremmo fargli mille domande, ma il timore di ferirlo è grande, sappiamo e rispettiamo il fatto che dobbiamo riconoscere la parte buona della sua famiglia, ma vorremmo riuscire a compensare le sue carenze affettive. Siamo all’oscuro di molte delle vicende che lo hanno portato a noi, ma capiamo che i movimenti improvvisi lo terrorizzano, che l’acqua per lavarsi soprattutto sul viso lo spaventa e a volte le sue reazioni possono sembrare eccessive, ma intuiamo cosa nascondano. I suoi tempi per qualunque cosa sono infinitamente lunghi e ci rendiamo conto che nella quotidianità di una famiglia a volte sono un problema e non sempre riusciamo a rispettarli. Sappiamo di dover mantenere una sana fermezza, senza
compromettere la nostra relazione. Cerchiamo di educarlo come facciamo con i nostri figli ma non è facile fargli capire che le regole non le mettiamo per chiudergli degli spazi, ma sono ponti per farlo arrivare agli altri. Continua a metterci alla prova, anche se noi abbiamo capito che è il suo modo per misurare il nostro affetto, certo, i nostri figli naturali il nostro amore ce l’hanno nel “dna”, mentre lui sente questo bisogno di continue conferme. È trascorso poco tempo, ed è già uno di famiglia, ha conquistato tutti: nonni, zii, maestre, ha un sacco di amici e sta facendo una serie di esperienze che lo aprono al mondo. A volte, il suo bisogno verbale di comunicare qualsiasi cosa è faticoso per chi lo ascolta, tanto è vero che c’è chi simpaticamente lo ha soprannominato “radiolina”. Stiamo crescendo un po’ tutti dentro questa esperienza d’amore, tanto cerchiamo di dare e tanto sentiamo di ricevere. Ora continuiamo questo cammino che non sappiamo quanto durerà, ma siamo sicuri che anche se arriveranno i giorni tristi e duri faremo di tutto perché questo viaggio sia come un lungo abbraccio.
DIARIO DI UN RAGAZZO PRESO IN PRESTITO Volevo stupirvi, raccontarvi dell’esperienza emozionante dell’affido e della crescita con i miei genitori “presi in prestito”, raccontarvi del tratto di strada vissuto assieme, delle gioie e delle delusioni, del sogno di svegliarmi un mattino con una vita “bella nuova”, senza i ricordi tristi e le difficoltà di tutti i giorni. E invece, devo fare i conti con me stesso, cercare di scoprirmi come sono veramente, parlarvi di quello che mi passa per la mente, di ciò che mi capita di trattenere o negli eccessi che a volte sento di avere, nel manifestare le mie emozioni. Ero piccolo quando sono arrivato, ma non avevo chiesto a nessuno di catapultarmi in un mondo nuovo. Nella famiglia affidataria cercavano di proteggermi, di curarmi, di coccolarmi, dicevano di
volermi bene, ma io avevo già chi mi voleva bene, forse in modo diverso, ma erano i miei genitori. Sono cresciuto con questo vuoto, e lo sto portando con me anche adesso che sono più grande, e in qualche modo lo devo riempire. Esco e cerco gente nuova: amici con cui fare esperienze, diverse, forti, voglio provare le mie forze, fin dove posso arrivare. Mi sfogo, rischio, supero il limite è normale a quest’età, non sono il solo. Essere “duro” fa parte di me non ho altri modi per “sopravvivere”. Cosa mi può dare questa vita ….?! Al momento non ho risposte, vivo la giornata: alcune volte mi sento una merda, altre volte esisto solo io e il mio telefonino: il mondo attorno è pieno di contraddizioni, di egoismi di ingiustizie … È vero c’è anche qualche “coglione” che si “sbatte” per me, ma io mica gliel’ho chiesto!
DIARIO DI UN BIMBO CONFUSO E FELICE È ormai da alcuni mesi che vivo in questa famiglia e mi chiedo: “Ma dove sono capitato?”. Certo, ci sono tante attenzioni e questo mi fa piacere, ma sono anche molto confuso: a chi devo voler bene? Io voglio continuare a voler bene alla mia famiglia. Questi nuovi genitori, tutto sommato, si danno molto da fare per me: se chiedo di andare al parco, il papà trova il tempo per farlo e la nuova mamma mi prepara sempre da mangiare, mi tiene in ordine i vestiti e mi sta vicino quando ci sono da fare i compiti. Quello
spilungone di mio “fratello” rompe le scatole, ma è molto simpatico e ogni tanto giochiamo insieme. Però è una casa piena di regole e ci sono tante richieste: io non riesco a ricordarle tutte. D’altronde prima i miei veri genitori non facevano così e io mi arrangiavo come potevo e facevo anche come avevo voglia. Perché dovrei cambiare adesso? Preferisco non affezionarmi a questa nuova famiglia, perché non so se saranno sempre con me e se mi vorranno sempre bene come adesso …
DIARIO DI DUE GENITORI SINCERI Cari Paolo e Francesca, abbiamo saputo che anche voi state cominciando un’esperienza di affido. Come sapete anche noi da molti anni ospitiamo un bambino che ormai è diventato adolescente. Pensiamo che potrebbe esservi utile il racconto della nostra
esperienza e sentire alcune delle cose che abbiamo imparato osservando le reazioni e i comportamenti di nostro “figlio”. I bambini in affido portano dentro di loro una serie di domande e dubbi quasi sempre inespressi o che solo raramente riescono ad esternare. Una volta ci ha chiesto perché era in affido presso di noi e perché
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noi lo avevamo accolto in casa e gli dedicassimo tanto tempo nonostante non fosse nostro figlio. Con molta semplicità gli abbiamo risposto che la nostra casa è sempre stata aperta a chi chiedeva aiuto e che lui in questo momento aveva bisogno del nostro aiuto, del nostro amore e del nostro affetto, che avremmo cercato di essere per lui come un papà e una mamma. Non sappiamo se la nostra risposta è stata la più “giusta”, ma sicuramente è stata la più sincera. Nei primi anni, finché era bambino, tutto sembrava facile, aveva bisogno di qualcuno che semplicemente gli volesse bene. Crescendo, i problemi sono emersi e sempre più frequentemente ci
ha messo alla prova e in discussione. Più volte ci ha fatto capire con le sue reazioni, le sue ribellioni, la grossa difficoltà che provava nel riconoscerci come la “sua famiglia” e nel dimostrarci affetto, perché temeva di tradire la sua mamma e il suo papà. Come a voler dire che voler bene a noi, volesse dire ammettere che la sua famiglia era sbagliata. Accogliere è un percorso difficile e bello, pieno di domande, di sorprese, di cose che non ti aspetti, di difficoltà che ti “costringono” a pensare a che genitore sei, a come puoi fare … pieno anche di quel sentimento che completa la vita e la rende più piena.
ORA PARLO IO: laboratorio di scrittura adolescenti in affido 2014-15 della Cooperativa AEPER
PASSATO I ragazzi hanno raccontato in modo simbolico una parte della loro storia passata esprimendo le proprie emozioni e i loro vissuti. Nel regno di Far Far Away, c’erano un Re e una Regina, molto dolci e generosi con tutti, ai quali piaceva stare vicino al popolo che guidavano lungo il loro cammino. Durante la primavera, il Re e la Regina prepararono i cavalli e la carrozza per affrontare un lungo viaggio che li avrebbe portati nei quattro punti più remoti del regno, dove abitavano i loro parenti. I loro viaggi erano molto diversi: strade sterrate, montagne e dirupi vari. Una delle carrozze si ruppe, chiesero aiuto e arrivò un “tutto-fare”che aggiustò la carrozza così che poterono continuare il loro viaggio. Al ritorno rincontrarono il “tutto-fare” e lo assunsero come loro “aggiusta-tutto” di fiducia. Era un piccolo passero che si nascondeva da tutto, perché aveva paura di quello che lo aspettava fuori. Per lui il mondo era un obbrobrio, un buco nero dove non c’era una via d’uscita. Ma un bel giorno capì che doveva essere coraggioso e che affrontare i pericoli era l’unica via di salvezza, cosi volò via verso la libertà che aspettava da molto tempo. C’era una volta una famiglia di scarabei che andarono a fare un pic-nic. I cuccioli si allontanarono troppo dalla mamma per giocare sulla riva del fiume. Lo scarabeo maschio si allontanò dai suoi fratelli, camminò per molto tempo fino ad arrivare in un piccolo villaggio. Stanco della camminata si mise a dormire sotto un grosso albero. Ad un certo punto una famiglia di coleotteri passò di lì e videro lo scarabeo solo e indifeso. La famiglia gli chiese il suo nome e da dove veniva, egli rispose: ”Vengo da Ragusa, mi chiamo Ernesto e mi sono perso”. I coleotteri allora dissero: ”Ti va di rimanere con noi nel frattempo che cerchiamo i tuoi genitori?”. Lo scarabeo accettò. Passò dei mesi con la famiglia ma il piccolo non riuscì ad ambientarsi poiché si sentiva diverso. Nonostante questo con i coleotteri andò sempre d’accordo e dopo mesi incominciò a vedere quel luogo come se fosse casa sua. Di conseguenza limitò la sua ricerca e si dedicò a portare avanti e a migliorare le sue amicizie e il suo rapporto con i coleotteri. Lo scarabeo accettò di continuare a stare in questa nuova famiglia, nonostante dentro di sé sapesse che i suoi veri fratelli lo avrebbero sempre aspettato.
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Se andrai in una foresta troverai migliaia di alberi, se andrai in un deserto troverai miliardi e miliardi di granelli di sabbia, se andrai nell’oceano troverai infinite goccioline d’acqua e se andrai nello spazio ti troverai circondata da infinite stelle. Ma mai in una foresta nascerà un granello di sabbia e nel deserto una quercia o un abete. Nell’oceano mai nascerà una stella e nello spazio non troverai una gocciolina d’acqua. Potrà forse capitare che in una foresta troverai piccoli insignificanti granellini di sabbia e magari nel deserto una quercia, ma saranno lì solo perché qualcuno li ha portati, probabilmente perché costretti, per dovere o per necessità oppure solo per sfizio. Ma sappiate che per sempre quel granellino di sabbia che sta nella foresta cercherà di assomigliare ai granellini di terra ma mai si sentirà uguale a loro perché saprà che lui fa parte di un altro luogo: un mondo suo dove ha vissuto con i suo simili. C’era una volta in un regno lontano un piccolo pastorello. Il suo amico più caro era un cagnolino di nome Fratus, non era di razza ma aveva un cuore grande, era lui infatti che ascoltava il piccolo pastorello, quando triste scappava dalla sua casa perché si sentiva solo e non compreso. Un giorno il pastorello prese coraggio e con il suo amico decise di andare in un altro regno. In una strada di campagna, incontrò un’anziana signora che con fatica trasportava dei cesti pieni di frutta, nonostante lo sforzo la signora lo guardò sorridendo si fermò e disse al pastorello: ”Piccolo, cosa ci fai tutto solo così lontano? Sembri affamato … prendi questa mela!”. Il pastorello non era abituato alla gentilezza perciò guardò la signora con sospetto, ma vedendo solo buone intenzioni nei suoi occhi, decise di fidarsi e disse: “Grazie, sto cercando un nuovo luogo per me e il mio amico dove essere davvero felici”. La signora sorridendo rispose: ”Io conosco un posto dove tanti bambini cercano la felicità proprio come te”. Il pastorello incuriosito decise di seguirla e dopo qualche ora di cammino giunsero in una cascina grande come un castello e con un giardino immenso. Bambini come lui giocavano e ridevano e delle donne vegliavano sui bambini. La signora vedendo lo sguardo stupito del pastorello spiegò: ”Non sempre la felicità ci viene data lì dove siamo, a volte bisogna cercarla e con un po’ di aiuto la si può anche trovare. Noi vi vogliamo aiutare”. Il pastorello era stranito da quella nuova situazione, perché in quella nuova cascina era tutto diverso e per la prima volta si sentì importante. Ci volle del tempo e molto pazienza, ma pian piano riuscì a dire quello che pensava.
Fu allora che capì di avere un desiderio: voleva condividere la sua ricerca della felicità con qualcuno che potesse accompagnarlo durante il tragitto. La cascina era un posto di riferimento per molte famiglie che la domenica venivano a rallegrare la giornata. Fu proprio una domenica che una giovane signora, vedendo il pastorello solo in giardino si avvicinò e si sedette accanto a lui, sorrideva, ma non diceva nulla. Il pastorello pensava che non andava, ma dopo pochi minuti lei si rivolse a lui con un grande sorriso e disse:”TU MI PIACI! Che ne dici di conoscere me e la mia famiglia?”. Passarono alcune domeniche e senza che il pastorello se ne accorgesse nacque un forte legame con la signora, tanto che decise di restare con lei e la sua famiglia. L’anziana signora salutò il giovane con un sorriso: ”Ora hai capito quale è la strada per la felicità”.
Tra tutte le donne del regno una era diversa. Lei ai pasticcini preferiva le armi, alle chiacchiere preferiva le battaglie e agli abiti sfarzosi un’armatura lucente. Nel regno girava voce che il re fosse in cerca di un cavaliere da tenere al suo fianco nel duro compito di mantenere la pace. La fanciulla sapeva che non poteva presentarsi così com’era perché l’avrebbero cacciata subito, ebbe così l’idea di travestirsi da uomo. Tagliò i capelli, si attaccò una finta barba e rubò un’armatura, non senza fatica. Con sorpresa nessuno la riconobbe e riuscì ad affrontare le diverse prove: nemmeno gli uomini più forti riuscirono a superare la sua agilità. Nel momento della sua presentazione al re le chiesero di togliersi l’armatura. Lei tolse tutto e gli occhi di tutti si aprirono con stupore, nessuno si aspettava che una donna potesse avere uno spirito battagliero come quello dimostrato da questo cavaliere. Il re ammirato dalla forza di lei non ci pensò due volte e la nominò suo primo cavaliere.
FUTURO I ragazzi hanno esplicitato i loro desideri per il futuro.
• Nel mio futuro mi piacerebbe diventare un meccanico professionista, aprire una mia attività, girare il mondo … e il resto … béh si vedrà … (Bruno)
• Ho sempre avuto paura del futuro, del mio destino … Ma non ho mai perso la speranza che esso mi riservi grandi sorprese! (Barbara)
• Il mio futuro certamente non sarà facile e, magari, nulla di quello che spero si realizzerà, ma a questo sono già preparata. Nulla mi toglie però di poter continuare a sperare e desiderare ogni giorno qualcosa di più. Vorrei poter visitare Johannesburg e vedere la tomba di Nelson Mandela. Vorrei non sentirmi sola, diversa, inutile, vorrei potermi riscattare e per una volta vorrei veramente sentirmi tranquilla . Spero di riuscire a trovare le mille risposte alle più svariate domande che mi pongo ogni giorno e che non mi danno pace. (Rosa)
• Vorrei diventare un meccanico professionista, fare tante esperienze formative e viaggiare in tutta Europa. (Gerardo) • Per il futuro vorrei fare carriera nel campo della moda. (Lisa) • Mi piacerebbe trovare e mantenere un lavoro che mi piace. (Valentina) • Dal futuro mi aspetto di trovare un lavoro che mi faccia vivere in modo dignitoso, di avere una famiglia felice e di essere il top nel mio campo. (Sita)
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CONCLUSIONI
“Dio ci ha dato due orecchie, ma soltanto una bocca, proprio per ascoltare il doppio e parlare la metà”. Epitteto L’ascolto è dimostrazione d’amore ed è la chiave di volta perché i bambini imparino a dare una valutazione positiva di se stessi costruendo la propria identità. Esiste un’arte dell’ascolto, una capacità innata ma perfettibile di aprirsi all’altro. La famiglia è, o dovrebbe costituire, il luogo paradigmatico dell’ascolto inteso come dimensione interna alla relazione, spazio esperienziale di crescita tutelata e tutelante. Ma le storie non sempre sono lineari. A volta la famiglia si sdoppia, come nel caso degli affidi. La parola allora si può perdere nei cunicoli del cammino di crescita, nelle paure e nei dubbi che il percorso d’affido inevitabilmente porta con sé. In questi casi, lo strumento del diario diventa specchio delle proprie emozioni, spezzando il flusso dei pensieri carichi di ansia e negatività. Tenere un diario e soprattutto scriverlo a mano è un auto-terapia: dare un nome alle emozioni aiuta a definirne il contenuto diventando così più gestibile e meno doloroso. Il passo successivo sarà quello di modificare queste emozioni e sperimentarne di nuove, più positive per se stessi e per le relazioni che si stanno costruendo. Aiuterà non sempre a trovare risposte, ma a riformulare domande più corrette, liberando dai sensi di colpa che il cammino dell’affido a volte deve sostenere. Permetterà di dare voce al bambino, cercando di mettersi nei suoi panni, riuscendo a farlo anche con le famiglie affidatarie, in un ponte di rispetto continuo con la famiglia d’origine.
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Indicare i ruoli, chiamare la famiglia d’origine e quella affidataria con il loro nome, non significa fissare un tracciato immobile ma flessibile ai bisogni. I ruoli diventano appunto bisogni perché strutturati sul minore che deve essere sempre l’unico protagonista di scelte mature e consapevoli. Anche gli operatori, da questa prospettiva, devono rinunciare all’inquadramento schematico e provare a lavorare sulle proprie fatiche nel mettersi nei panni del bambino, nel leggere tra le righe i suoi bisogni, la sua richiesta di aiuto. L’ascolto, in ogni sua forma, è l’unica strategia di rete emozionale che possa dare vita a vera empatia, creando una relazione con l’Altro salda e capace di resistere alle tempeste emotive che ci sono e ci saranno in tutti i cammini di crescita. Prima ancora di lavorare su cosa comunicare al bambino bisogna chiedersi come creare un ambiente nel quale il bambino possa dare voce alle cose che vive. Un bambino di 2 anni non potrà scrivere un diario, ma è già nella condizione di percepire cosa gli accade intorno e lo potrà comunicare verbalmente se gli sarà stato insegnato ad esprimere ciò che sta vivendo. La vera sfida è quella di riuscire a riconoscere le aspettative silenti che crescono nelle esperienze di affido. L’accoglienza, alla base di questa scelta, si misurerà proprio sul coraggio di aprirsi, di mettersi a nudo costruendo insieme quella fiducia che solo l’amore riesce a spiegare, dando senso a tutto. Si, l’affido è e rimane una scelta d’amore per tutti i coinvolti: le famiglie, gli operatori ma soprattutto per quei bambini, per quei ragazzi che saranno gli adulti di domani. Sereni e realizzati come meritano.
STRUMENTI CLINICI E PEDAGOGICI PER DARE VOCE AI BAMBINI: scheda tecnica
A modo esemplificativo proviamo a indicare alcuni tra gli strumenti professionali che sono utilizzati per dare voce ai bambini, al fine di aprire una piccola finestra su un panorama che sappiamo essere vasto e differenziato. I metodi si vanno diversificando e sempre più
spesso, e ci auguriamo in modo sempre più efficace, operatori di professionalità diverse, si mettono alla ricerca per affinare il loro ascolto, per non prescindere dai pensieri dai piccoli, dai loro bisogni e desideri.
1. FARE STORIE un’esperienza di psicoterapia di gruppo per bambini, ragazzi e adolescenti. Un metodo clinico Fare Storie è un metodo ideato da Ferruccio Marcoli, psicoterapeuta e socio analista, fondatore e direttore dell’Istituto Ricerche di Gruppo e di Psicologia Generativa di Lugano. Il modello è stato pensato per curare i disturbi del pensare causati da interferenze affettive. Il campo teorico del metodo trova radici nelle teorie psicoanalitiche e socio-analitiche di S. Freud, M. Klein, W. Bion, G. Jaques e R. Money-Kyrle. Marcoli intende fissare le fondamenta di una teoria generativa del pensiero che può servire sia in chiave preventiva, sia come tecnica d’intervento terapeutica per affrontare disturbi cognitivi-affettivi che si riscontrano in bambini, ragazzi e adolescenti. Alla base della psicologia generativa si trova l’idea che i pensieri e gli affetti siano in costante interazione tra loro e si collochino nel vivo della relazione e comunicazione interpersonale. La tecnica clinica “Fare Storie”, se opportunamente applicata e condotta, consente di accompagnare e sostenere il soggetto in fase evolutiva favorendo la crescita affettiva e cognitiva. Obiettivi L’applicazione del metodo “Fare Storie” permette di prendersi cura del bambino e ragazzo, di occuparsi delle eventuali difficoltà evolutive che manifesta, di offrire un campo relazionale nel quale può esprimersi, attraverso un legame significativo, con un adulto capace di trasformare quanto accade in pensieri pensabili. L’esperienza in gruppo rappresenta una palestra in cui ci si allena a
gestire le emozioni. Tale attività si presenta come un momento di vita sociale che permette la gestione dell’ansia, dell’aggressività e dei conflitti che inevitabilmente il vissuto personale nel gruppo porta con sé. Favorire la riscoperta del limite, inteso come confine necessario per il processo di crescita, è uno degli obiettivo di questa tecnica. I bambini e ragazzi possono coltivare durante la pratica esperienziale nel gruppo la possibilità di esprimersi in modo spontaneo e la capacità di regolare il personale funzionamento emotivo e cognitivo. Si tratta di un intervento terapeutico che offre al partecipante l’opportunità di compiere un’evoluzione relativa al proprio funzionamento mentale, per meglio affrontare i normali problemi e le difficoltà della vita. Proposta operativa L’intervento è rivolto a bambini, ragazzi e adolescenti che possono garantire la frequenza costante per un periodo corrispondente all’anno scolastico e si realizza secondo le seguenti modalità: - il gruppo è composto da tre- quattro partecipanti, suddivisi per fasce d’età e condotto da una psicoterapeuta; - gli incontri si svolgono a cadenza settimanale, per la durata di 45 minuti. - per ogni candidato/a all’esperienza del “Fare Storie” si prevedono tre incontri individuali precedenti l’inizio del lavoro per la valutazione psico-diagnostica e la preparazione all’inserimento nel gruppo.
2. FAMILY GROUP CONFERENCE Il processo di Family group conference è finalizzato a rafforzare i diritti di un minore/di una famiglia affinché divengano realtà. Non si tratta semplicemente di una riunione, non è solo un piano di intervento e neppure soltanto un metodo: ha a che fare con il diritto di essere aiutati a partecipare. La Family group conference presenta alcune specifiche caratteristiche che sfidano il lavoro sociale. Si tratta di caratteristiche nuove che potrebbero consolidare questo nuovo approccio e aprire la strada a una più ampia ricostruzione del
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lavoro sociale. Si configura come: • struttura di mediazione; • modello per invitare a partecipare la più ampia rete personale; • struttura di coordinamento per la collaborazione multi professionale; • trasparenza; • una struttura decisionale più democratica e aperta; • strutturazione del processo in fasi; • la Family group conference genera un processo - o più processi.
Gli elementi che contraddistinguono il metodo 1. Soggettività Ciascun partecipante viene incoraggiato ad elaborare il suo punto di vista, invece di tentare di rappresentare il quadro della situazione nel suo insieme. Il setting sottolinea il fatto che un’immagine complessiva della situazione finisce per comprimere le tante immagini soggettive. Si tratta di passare dai problemi oggettivi alle soggettive preoccupazioni di ciascuno. 2. Polifonia Si tratta di un metodo che si propone di dare spazio a tutte le voci sul tema. 3. Una prospettiva incentrata sul futuro Il futuro viene attivamente anticipato e si dà assai poca rilevanza al
passato. 4. Viviamo in una società del rischio e quindi anticipare le conseguenze costituisce un orientamento psicologico di base per le persone. Nella postmodernità, la competenza si basa sull’incertezza delle anticipazioni e sulla consapevolezza delle conseguenze intenzionali e non intenzionali che le azioni hanno. 5. Momenti separati per parlare e per ascoltare È un aspetto essenziale. Ciascun partecipante ha l’opportunità di intervenire e di ascoltare senza venire interrotto. Di solito, nelle discussioni, le persone non ascoltano un granché, piuttosto pensano a cosa diranno loro. L’ascolto è visto come un processo attivo che dà alla persona un’opportunità per riflettere sulle proprie idee.
3. GRUPPI DI PAROLA Percorso per bambini che vivono l’esperienza di affido Cos’è un Gruppo di Parola Un Gruppo di Parola è un luogo per lo scambio di esperienze e di sostegno tra figli (gruppi di ragazzi: dai 6 ai 12 anni, oppure dai 13 ai 17 anni) che per vari motivi stanno vivendo in famiglie affidatarie e non con i propri genitori. È un’esperienza che si ispira ai gruppi di parola per figli i cui genitori sono separati o divorziati. È uno spazio dove i ragazzi possono condividere le loro esperienze. il gruppo è una occasione per accedere ai sentimenti e dare nome alle difficoltà di tutti i giorni. Perché un gruppo di bambini o adolescenti I ragazzi in affido stanno vivendo una forte esperienza emotiva determinata dalla separazione dai loro genitori e dal vivere in un nuovo contesto che non è il proprio: non sanno bene come esprimere la rabbia, la tristezza, i dubbi, le speranze, le difficoltà che incontrano per la lontananza di papà e mamma. A volte non sanno con chi parlarne. Partecipare al Gruppo di Parola significa • esprimere ciò che si vive attraverso la parola, il disegno, i giochi di ruolo, la scrittura; • avere delle informazioni, porre delle domande; • mettere parola su sentimenti, inquietudini, paure; • uscire dall’isolamento e trovare una rete di scambio e di sostegno tra pari; • scoprire modi per dialogare con i genitori e per vivere le due esperienze familiari, in affido e nella famiglia d’origine; • affrontare tutto questo in un ambiente accogliente, per un tempo limitato, con il consenso degli adulti che si prendono cura di loro e con l’aiuto di professionisti esperti nell’ascolto di bambini che vivono in contesti fuori famiglia. Perché funziona Attraverso la parola, il gioco, il disegno, la scrittura, le storie, il gioco di ruolo i bambini possono confrontarsi, in un contesto sicuro e
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accogliente, sulle proprie paure e condividere le proprie strategie imparando poi ad attingere a questa esperienza nei momenti di bisogno. Nel gruppo, i ragazzi possono sentirsi liberi di parlare e di esprimersi, oppure di rimanere in silenzio, ascoltando le proprie emozioni e quelle degli altri, e ponendosi interrogativi importanti su di sé, sulla propria famiglia e su quella affidataria. Il gruppo protegge e rassicura i bambini, e permette di metter parola su temi “indicibili”, e di costruire una nuova fiducia e una nuova continuità nei legami. La ricerca ha dimostrato che partecipare ai Gruppi di Parola incrementa l’autostima e l’autoefficacia, libera dai sensi di colpa, contiene l’ansia e riduce il disagio dei bambini. A chi si rivolge Solitamente si rivolge a bambini dai 6 ai 12 anni; per un minimo di quattro ad un massimo di otto partecipanti per ogni ciclo di gruppo. Si rivolge anche a ragazzi adolescenti (dai 13 ai 17 anni) con lo stesso metodo e finalità. Com’è strutturato un Gruppo Il Percorso prevede 6/8 incontri: - il primo di presentazione rivolto ai genitori/ affidatari; - quattro incontri con i bambini/ragazzi; - l’ultimo è diviso in due momenti: la prima parte con i bambini, la seconda anche con gli affidatari per uno scambio tra adulti e ragazzi. La cadenza è preferibilmente settimanale.
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DARE VOCE ALLE EMOZIONI DEI BAMBINI IN AFFIDO