Dal Paesaggio al Territorio: l'arte interpreta i luoghi

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DAL PAESAGGIO AL TERRITORIO L’ARTE INTERPRETA I LUOGHI Opere del Novecento dalle collezioni Intesa Sanpaolo

ORGANIZZAZIONE

Museo di Santa Chiara - Gorizia 17 dicembre 2011 – 26 febbraio 2012

Antonio Devetag Assessore alla Cultura

Comune di Gorizia

Patrizia Artico Responsabile dell’Ufficio Stampa Ettore Romoli Sindaco di Gorizia

Settore Servizi alla Persona Servizio Parco culturale e Promozione turistica Manuela Salvadei Dirigente

Enzo Cainero Commissario Straordinario Azienda Speciale Villa Manin

Emanuela Uccello Funzionario d’Area Culturale

In collaborazione con:

Settore dei Servizi tecnici per lo sviluppo del territorio

Giovanni Bazoli Presidente del Consiglio di Sorveglianza Andrea Beltratti Presidente del Consiglio di Gestione Enrico Tommaso Cucchiani Consigliere Delegato e Chief Executive Officer Paolo M. Grandi Responsabile Segreteria Generale del Consiglio di Sorveglianza Andrea M. Massari Responsabile Beni archeologici e storico-artistici

Maria Antonietta Genovese Dirigente Monica Kogoj Funzionario Edilizia pubblica Azienda speciale Villa Manin Amministrazione e gestione eventi Gruppo di lavoro Giorgio Pulvirenti Luca Moretuzzo Simona Cossu Mostra e catalogo a cura di Francesco Tedeschi Allestimento

Renzo Tondo Presidente

Realizzazione IdeaEffe srl, Majano (Udine)

Elio De Anna Assessore regionale alla Cultura, Sport, Relazioni Internazionali e Comunitarie

Impianti elettrici Monticolo Sergio srl, Trieste

con il contributo di:

Progettazione allestimento grafico e immagine coordinata della mostra Punktone, Gorizia Conditional reports Laboratorio di Restauro Nuova Alleanza, Ponzano (Treviso) Trasporti Crown Worldwide - Fine Arts, Treviso Assicurazioni Assicurazioni Generali Agenzia di Udine Ufficio Stampa Studio Volpe&Sain Comunicazione, Trieste Visite guidate Musaeus - Servizi per i Beni Culturali, Gorizia

la collaborazione di:

Catalogo Progetto grafico Punktone, Gorizia Referenze fotografiche Intesa Sanpaolo, Archivio Beni archeologici e storico-artistici PhotoLaboratorio di Carlo Sclauzero, Gorizia Stampa Tipografia Poligrafiche San Marco, Cormons (Gorizia) Un ringraziamento a tutto il personale del Comune di Gorizia che ha contribuito all’inaugurazione del Museo di Santa Chiara e alla realizzazione della mostra, e allo staff Beni archeologici e storico-artistici di Intesa Sanpaolo.

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a cura di Francesco Tedeschi

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REGIONE AUTONOMA FRIULI VENEZIA GIULIA

Una parte della storia di Gorizia torna a servizio della città e della sua vocazione ad essere punto di riferimento anche nel campo culturale.

Renzo Tondo Presidente

La riqualificazione del complesso conventuale delle Clarisse che ora diventa “Museo di Santa Chiara” ha il pregio di conservare la memoria di una storia secolare e di rendere attuale la potenzialità di servizio che questo rinnovato edificio esprime. Gorizia ha voluto con tenacia questo recupero ed ora apre la nuova stagione di questo storico contenitore con la significativa mostra dei maggiori artisti italiani del Novecento dedicata al Paesaggio. Sono certo che una grande sinergia tra gli Enti pubblici e privati del capoluogo isontino potrà fare del Museo di Santa Chiara un luogo di incontro delle testimonianze della storia e dell’arte e della cultura di una comunità caratterizzata da grande apertura e da collaborazioni ‘senza confini’.

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REGIONE AUTONOMA FRIULI VENEZIA GIULIA

La mostra Dal paesaggio al territorio. L’arte interpreta i luoghi – Opere dalle collezioni del Novecento di Intesa Sanpaolo riveste un grande significato per più motivi.

Elio De Anna Assessore alla Cultura, Sport, Relazioni Internazionali e Comunitarie

Innanzitutto va sottolineato il fatto che con questa mostra viene inaugurato un nuovo spazio espositivo a Gorizia, nel prestigioso complesso di Santa Chiara: un segnale dell’importanza che viene data alla cultura e ai suoi contenitori anche in un momento difficile come quello che stiamo vivendo e che ci fa capire che quella in cultura non è una spesa superflua, bensì un investimento nel futuro di tutti noi, soprattutto dei giovani. In secondo luogo va messo in evidenza che questa mostra – sulla cui valenza artistica non mi soffermo, ma che è evidente già solo scorrendo i nomi degli artisti presenti con le loro opere – nasce dalla collaborazione con un soggetto privato quale Banca Intesa Sanpaolo: un rapporto di partnership quanto mai necessario oggi, che vede le risorse pubbliche sempre più carenti. Infine vorrei ricordare che questa iniziativa culturale trova l’apporto del “Servizio integrazione europea, rapporti internazionali e gestione finanziaria” della Regione: ciò perché anche la mostra contribuisce alla promozione internazionale dell’immagine del Friuli Venezia Giulia, tenendo conto che proprio la città di Gorizia ospiterà l’international desk per l’ internazionalizzazione della regione non solo in campo economico ma anche culturale. Ringraziando gli organizzatori per il loro impegno, auguro alla mostra e ai nuovi spazi espositivi goriziani il successo più vivo.

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COMUNE DI GORIZIA Ettore Romoli Sindaco di Gorizia

L’edificio seicentesco che ospitò il Convento di Santa Chiara, di recente ristrutturato a cura dell’Amministrazione comunale in occasione del Millenario della città, rappresenta, senza dubbio alcuno, una delle “perle” più preziose di Gorizia. Esso si compone di tre corpi, la cui rara bellezza è stata preservata in quanto, a seguito degli interventi di restauro, si è voluto, per quanto possibile, mantenere inalterate le caratteristiche architettoniche della struttura: lo splendido chiostro, disposto secondo la classica forma del quadrilatero (dove erano insediate le funzioni del monastero), è stato concesso all’Università degli Studi di Udine che ne ha fatto una delle sue sedi cittadine; la chiesa, che ospita l’attuale Museo Santa Chiara; il “cortile delle educande” e il “cortile del pollame”, i cui edifici circostanti appartengono ad altre proprietà. Restituire alla città il Museo Santa Chiara rappresenta un’occasione particolarmente importante e densa di significato. Per questo motivo abbiamo atteso a lungo prima di inaugurare ufficialmente tale struttura: perché volevamo organizzare un evento eccezionale, di grande prestigio, che rendesse il giusto tributo ad uno spazio nuovo, dedicato all’arte e alla cultura. E Dal paesaggio al territorio. L’arte interpreta i luoghi è tutto questo: è una mostra di fine bellezza e rilievo artistico, realizzata grazie alla fondamentale disponibilità di Intesa Sanpaolo (che con entusiasmo ha creduto in questo progetto, mettendoci a disposizione ben 69 splendide opere di grandi autori del Novecento italiano, appartenenti alla sua collezione), alla preziosa collaborazione assicurataci dall’Azienda Speciale Villa Manin e al rilevante contributo finanziario della Fondazione CARIGO, della Fondazione CRUP e della Cassa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia. Sono pertanto particolarmente orgoglioso che l’inaugurazione del Museo Santa Chiara coincida con l’esposizione di alcuni dei più bei capolavori del nostro Novecento: perché l’estasi dei paesaggi dipinti, fondendosi e confondendosi con l’originale e avvolgente fascino delle sale del Museo Santa Chiara, scatenerà inevitabilmente un vortice di emozioni intense e multiformi che, non ho dubbio alcuno, saprà catturare tutti i sensi dei visitatoti, rendendo questa rassegna davvero unica e indimenticabile.

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INTESA SANPAOLO Giovanni Bazoli Presidente del Consiglio di Sorveglianza

Con l’elaborazione e la recente presentazione del “Progetto Cultura”, articolato programma pluriennale di interventi in ambito culturale, Intesa Sanpaolo intende confermare una lunga tradizione di impegno, improntato alla coerenza di metodo e di contenuti. Le iniziative previste mirano, da un lato, alla salvaguardia del patrimonio culturale nazionale e alla valorizzazione dei beni artistici e architettonici di proprietà del Gruppo, che si vogliono condividere con la collettività; dall’altro, a sostenere e promuovere le attività di istituzioni culturali e scientifiche, in un rapporto di proficua collaborazione. Con il “Progetto Cultura” Intesa Sanpaolo partecipa quindi in modo attivo e concreto alla vita del Paese, assicurando un dialogo costante con le realtà territoriali in cui opera. L’intento è quello di concorrere allo sviluppo complessivo – non solo economico, ma anche culturale e civile – delle aree di riferimento e dell’intera nazione. La mostra intitolata “Dal paesaggio al territorio. L’arte interpreta i luoghi”, promossa e organizzata dal Comune di Gorizia presso il nuovo Museo di Santa Chiara, in collaborazione con l’Azienda Speciale “Villa Manin” di Passariano, è un’iniziativa che esprime pienamente i valori e le linee guida che hanno ispirato il “Progetto Cultura”. L’esposizione – che gode del sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, della Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone e della Cassa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia, “banca del territorio” appartenente al Gruppo Intesa Sanpaolo e fortemente radicata nella regione – è il risultato di una feconda cooperazione interistituzionale. La mostra propone un nucleo di circa settanta opere, provenienti dalla nostra ricchissima collezione d’arte del Novecento, di importanti maestri quali Sironi, Carrà, Soffici, Mafai, Baj, Corpora, Tancredi, Santomaso, Birolli, Morlotti, Afro, Guttuso, Schifano. Queste opere, che interpretano il paesaggio con le tecniche più diverse, testimoniano come la ricchezza del nostro Paese risieda nel felice connubio tra un patrimonio d’arte d’inestimabile valore e un patrimonio naturale di bellezza incomparabile. Il desiderio, sentito come un dovere, di rendere fruibili al pubblico i propri tesori d’arte è uno dei principi che hanno ispirato il “Progetto Cultura”, portando all’ideazione delle Gallerie d’Italia. Palazzi storici sedi della Banca in diverse città italiane si sono trasformati in spazi museali che ospitano le preziose raccolte di Intesa Sanpaolo: dalle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari a Vicenza alla Galleria di Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli, già operative da alcuni anni, alle Gallerie di Piazza Scala a Milano, appena inaugurate. Qui sono esposte le collezioni dell’Ottocento dell’Istituto e della Fondazione Cariplo, che nella primavera del 2012 si arricchiranno di un’ulteriore sezione dedicata alle opere del XX secolo, di cui la mostra di Gorizia offre una sintetica ed emblematica anteprima. Nuove sedi espositive saranno aperte in futuro in altre città, secondo un disegno unitario che, pur sviluppandosi in ambito locale, riveste un evidente significato nazionale, poiché porterà alla creazione di una rete di poli museali, distribuiti su tutto il territorio, dove riscoprire i tesori d’arte e i valori della cultura fondamento dell’identità del nostro Paese.

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AZIENDA SPECIALE VILLA MANIN Enzo Cainero Il Commissario Straordinario

L’Azienda Speciale Villa Manin è particolarmente lieta di essere parte attiva di un’iniziativa di alto livello culturale allestita per l’inaugurazione del Museo di Santa Chiara di Gorizia con la presentazione di parte delle grandi opere del Novecento costituenti la Collezione Intesa Sanpaolo. La rassegna di Gorizia è il frutto di una concreta, rapida collaborazione originata dall’incontro di un grande Istituto Bancario, Intesa Sanpaolo, attraverso il responsabile dei Beni Culturali ed Artistici dott. Andrea Massari e dott.ssa Laura Feliciotti, con l’Azienda Speciale Villa Manin ed il Comune di Gorizia, con il determinante supporto artistico del prof. Tedeschi e delle Fondazioni CARIGO di Gorizia, Fondazione CRUP di Udine e Cassa di Risparmio FVG. E’ stato un lavoro concertato ove l’Azienda Speciale Villa Manin, riferimento di promozione e di coordinamento operativo, si è posta quale momento di promozione culturale finalizzato al coinvolgimento diretto dell’intero territorio regionale collaborando fattivamente con il Comune di Gorizia cui va riconosciuto il grande impegno delle proprie risorse umane per concretizzare in breve tempo una Mostra di così alto livello. Il 2011 si conclude così con la rinnovata presenza attiva dell’Azienda Speciale Villa Manin con quelle strutture del territorio che hanno inteso porsi a loro volta sinergicamente in un’azione di concreto contributo. La Mostra, di seguito ampiamente illustrata attraverso le opere a catalogo, esprime un alto livello artistico per la presenza di pregevoli lavori dei massimi Maestri del ‘900 Italiano e sta a significare che la sperimentazione positiva sinergica tra Enti ed Istituzioni che credono nell’ampio valore della cultura può portare a rilevanti risultati. Un sincero, sentito grazie ad Intesa Sanpaolo ed alle collegate strutture regionali, bancarie e Fondazioni, per aver creduto nella proposizione dell’iniziativa e per la fiducia posta nei confronti di chi ha operato per questo evento di grande spessore.

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SOMMARIO

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PAESAGGIO E TERRITORIO: DUE TERMINI COMPLEMENTARI

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UN VIAGGIO FRA LUOGHI E IDEE

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1. SGUARDI SUL PAESAGGIO

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SCHEDE DELLE OPERE

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2. CONFRONTO CON LA NATURA

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SCHEDE DELLE OPERE

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3. NUOVE RELAZIONI CON IL TERRITORIO

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SCHEDE DELLE OPERE

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ANTOLOGIA CRITICA

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INDICE DELLE OPERE

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Testi originali di Francesco Tedeschi. Schede delle opere e Antologia critica a cura di Francesco Tedeschi e Federica Boràgina

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PAESAGGIO E TERRITORIO: DUE TERMINI COMPLEMENTARI Francesco Tedeschi

I caratteri e l’identità del paesaggio italiano, per come sono stati interpretati nel corso del Novecento da molti artisti, costituiscono l’argomento centrale del percorso espositivo di cui questo catalogo è testimonianza. Un percorso che non può essere univoco, perché né i fattori storici, né quelli geografici, e nemmeno quelli specificamente stilistici, possono valere a creare una delimitazione o una cornice all’interno della quale inquadrare i singoli episodi considerati. Esso è necessariamente plurale, e lo si potrebbe considerare corale, come insieme di voci e di sguardi rivolti a singoli frammenti di territorio, per darne una visione, per quanto parziale, utile a produrre accostamenti e rimandi interni, in grado di far emergere valutazioni che travalicano la qualità estetica del singolo oggetto. Un’ipotesi a partire dalla quale praticare un’osservazione multiforme, a più focali, dove i valori pittorici e formali, che restano in primo piano e sono ineludibili quando consideriamo un’opera d’arte nella sua peculiarità, possono partecipare di una riflessione tematica aperta, che le opere e quanto esse ci dicono di un tempo e di un luogo determinati contribuiscono ad alimentare. Al centro della riflessione viene posto il dialogo tra le definizioni di “paesaggio” e di “territorio”, considerate essenzialmente all’interno delle categorie ermeneutiche della storia dell’arte. In vario modo i due aspetti della questione emergono nelle opere qui presentate, tutte appartenenti alle collezioni Intesa Sanpaolo, scelte ad esemplificare modi particolari di rapportarsi con i luoghi. Parlando di “paesaggio” e di “territorio” abbiamo a che fare con una questione terminologica che riguarda tanto l’atteggiamento di partenza del singolo autore, quanto il contesto in cui egli agisce. Con “paesaggio” si definisce nell’arte un genere rappresentativo, ma in senso più ampio esso identifica la condizione in cui si presenta, sotto il profilo prioritariamente visivo, un determinato ambiente, con qualità particolari1. Nel termine, e nella sua accezione 1

Non si vuole, con questa, proporre una definizione valida secondo le diverse prospettive disciplinari interessate, in quanto occorre tenere presente il concorrere di molteplici aree d’interesse attorno a una materia che non si può ridurre a un’unica linea di lettura. Lo dimostra anche uno dei saggi più pertinenti a parte della materia di questa mostra, quello elaborato da Pier Carlo Santini oltre quarant’anni fa, che inquadra il tema della pittura di paesaggio in un’attenzione per la complessità delle direzioni interpretative della sua forma, alla luce, soprattutto del concorrere della dimensione geografica e di quella storica nella sua qualificazione, in quanto “il ‘paesaggio storico’ devesi guardare ed intendere, in quanto opera dell’uomo, come documento e testimonianza della sua storia”, P. C. Santini, Il paesaggio nella pittura contemporanea, Electa, Milano, 1971, p. 6.

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PAESAGGIO E TERRITORIO: DUE TERMINI COMPLEMENTARI

“oggettiva”, o visiva, si rivela però anche un modo di intendere il rapporto con uno spazio determinato, in una connotazione con forti componenti “soggettive”. Nella definizione di paesaggio, non solo quando lo intendiamo come genere pittorico, rientra infatti una dimensione “contemplativa”, secondo la quale esso può essere mezzo di esplorazione e di conoscenza, che appare comunque mediato dallo sguardo di chi osserva e interpreta il luogo, spesso facendosene incantare o eleggendolo a modello di un’attenzione particolare, individuale, anche se non necessariamente emotiva. Paesaggio è comunque termine dalle molteplici sfumature, che si pongono all’incrocio di diverse discipline, che vanno dalla storia dell’arte alla geografia, dall’architettura (o design) del paesaggio, alla pianificazione e alla legislazione dei beni culturali2. Il paesaggio è una realtà venata, almeno nella sua dimensione storico-artistica, da influssi romantici, derivati da una estetica in cui il rapporto fra lo spirito di ricerca interiore e l’osservazione del mondo circostante portava a congiungere intenzioni poetiche e scientifiche. E anche nella prospettiva a noi più vicina il concetto di paesaggio induce a riconoscere la necessaria compresenza da una parte di una “oggettività” della visione e della registrazione dei dati visibili, e dall’altra della “soggettività” interpretativa di quei dati, in relazione ai criteri dell’osservazione, producendo un terreno di apparente “ambiguità”3. Una diversa connotazione assume il termine “territorio”, sempre a partire dal suo uso in ambito storico-artistico, in quanto la proposta di un’arte applicata al territorio indica un orizzonte più marcatamente indirizzato a sottolineare gli aspetti sociali, politici e critici che qualificano l’ambiente, in una stretta relazione fra gli elementi fisici e quelli culturali. Termine più astratto, che fa pensare in modo diretto alla sua trasposizione in sede di analisi geografica e alla strutturazione che l’uomo nel tempo attribuisce all’ambiente, esso non può ridursi al dato visivo, ma comporta una maggiore complessità di forme di analisi4. Anche nel ricorso al termine “territorio” ci troviamo di fronte a incertezze terminologiche, però, in quanto, sebbene esso abbia conosciuto negli ultimi decenni una connotazione sempre più politica, non si può riconoscervi un’accezione esclusivamente materiale e “tecnica”, 2

Cfr. C. Blanc Panard, J. P. Ranson, Paesaggio, voce in Enciclopedia Einaudi, vol. X, Einaudi, Torino, 1980, pp. 320340. Per quanto riguarda gli aspetti legislativi, che introducono specificamente l’attenzione per il “paesaggio” quale oggetto di tutela nella legislazione dello stato italiano, il punto di partenza è oggi il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, introdotto con D. L. 22 gennaio 2004, e modifiche successive, che intende riprendere il dettato costituzionale della stretta relazione fra beni culturali e paesaggio – art. 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” – e nella parte terza è interamente dedicato alla definizione dei “Beni paesaggistici”, ai fini della loro “tutela e valorizzazione”. Per la complessa evoluzione di tali preoccupazioni legislative, e per le loro conseguenze nella vita del Paese, cfr. S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi, Torino, 2011. 3

“… proprio in forza della sua connaturata e calcolata ambiguità, il paesaggio resta l’unica immagine del mondo in grado di restituirci qualcosa della strutturale opacità del reale…”, F. Farinelli, L’arguzia del paesaggio, “Casabella”, n. 575-576, gennaio-febbraio 1991, p. 12. Cfr. anche F. Farinelli, Storia del concetto geografico di paesaggio, in Paesaggio: Immagine e Realtà, a cura di T. Maldonado, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna, 1981 (Electa, Milano, 1981), pp. 151-158. 4

“L’individuo, più che percepire il territorio, lo assimila e lo crea mediante pratiche e credenze di natura sociale”, M. R. (Roncayolo), Territorio, Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Einaudi, Torino, 1981, p. 225.

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PAESAGGIO E TERRITORIO: DUE TERMINI COMPLEMENTARI

adottata dagli addetti ai lavori che ne fanno frequente uso (politici, urbanisti, sociologi)5. Nell’ambito di una “territorialità” intesa come forma di comprensione dell’uso dello spazio, fondata sulla sua interpretazione in senso sociale, i caratteri scientifici prevalenti si integrano necessariamente con forme di lettura teorico-critica che la stessa arte oggi mette in atto, nell’evocare la necessità di un linguaggio che non si sviluppa tradizionalmente in senso poetico e contemplativo, ma conserva una dimensione estetica, pur producendo operazioni di natura non strettamente rappresentativa. L’approccio prevalentemente “territoriale” dell’arte che pone l’ambiente come oggetto di indagine, non limitandosi alla sua immediata rappresentazione, che agisce nello spazio reale, ne indaga i caratteri - anche reinterpretando i modelli illustrativi del passato - compie un’azione forse più sottile e sfuggente, ma che può essere in sintonia con un tempo in cui l’ambiente richiede attenzioni non solo di natura contemplativa. “Paesaggio” e “territorio” non sono perciò termini contrapposti, come momento originario e conclusivo di un approccio allo spazio geografico e al modo di rappresentarlo, ma elementi dialettici di uno scambio fra i caratteri oggettivi, visivi, ancorché interpretati in una chiave eminentemente individuale, e le prerogative scientifiche di uno sguardo sul reale che ne comprende la natura temporanea e parziale, fortemente connotata. Questa dialettica costituisce, nondimeno, un possibile modello interpretativo di uno sviluppo che è esemplificato dalle opere qui scelte a interpretarlo, con la prioritaria preoccupazione di riconoscerne comunque le peculiarità, di singoli oggetti appartenenti a una collezione all’interno della quale si inseguono tanti percorsi possibili, per la ricchezza dei materiali presenti e per la pluralità dei modi di considerarli, specificamente e come parte di un flusso storico e di un contesto dai contorni aperti a molteplici suggestioni. La dialettica che si instaura fra le nozioni di paesaggio e territorio può muovere inoltre da riflessioni avanzate negli ultimi decenni nel corso di indagini sul tema della pittura e dell’arte di paesaggio del Novecento, dove sono entrate in gioco componenti che hanno allargato le prospettive di un’estetica strettamente legata alla natura dell’opera e alle qualità dell’autore nel contesto in cui si è trovato a operare, per allargarsi verso le scienze umane. Si potrebbe, a questo scopo, accennare alla riflessione sul confronto o sul conflitto tra “immagine” e “realtà”, presenti nel titolo e nello spirito della mostra curata da Tomas Maldonado a Bologna nel 1981,

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“A dispetto quindi di un modo di pensare superato, ma ancora diffuso, ‘territorio’ non indica una realtà naturale, né puramente materiale, oggetto d’intervento puramente tecnico. Eppure ‘territorio’ indica anche sempre una realtà materiale e come tale oggetto di operazioni tecniche. Ma ciò significa soltanto che i processi di socializzazione necessitano di mezzi e di supporti materiali. La Terra diventa territorio quando è tramite di comunicazioni, quando è mezzo e oggetto di lavoro, di produzioni, di scambi, di cooperazione…”, G. Dematteis, Le metafore della Terra. La geografia umana tra mito e scienza, Feltrinelli, Milano, 1994 (I ed. 1985), p. 74.

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tentativo interdisciplinare di affrontare il significato contemporaneo dell’idea di paesaggio quale oggetto naturale e come soggetto di percezione6. O a quello tra una concezione più concreta, scientifica, della qualità descrittiva del paesaggio e una consapevole “finzione”, che si instaura quando vengono portate in primo piano le caratteristiche poetiche e letterarie: “l’alternativa a prima vista inconciliabile fra il paesaggio come concetto labirintico e ricco di infinite suggestioni da una parte e il paesaggio come strumento analitico, categoria euristica, dall’altra”7. Tra le varie posizioni che in tempi recenti hanno cercato di riunire le diverse forme di attenzione per un tema che ha natura intrinsecamente complessa, si può segnalare come un geografo, Denis Cosgrove, dedicando profonda attenzione all’ambito artistico, abbia considerato il modo in cui le funzioni assunte nel tempo dalla pittura di paesaggio hanno potuto trasmettere importanti informazioni alla disciplina geografica. Egli muove dalla constatazione che non vi può essere separazione fra la dimensione oggettiva, di pertinenza di una ricerca scientifica, come quella che si occupa del territorio e della sua caratterizzazione e comprensione, e quella soggettiva, di chi osserva il paesaggio a fini estetici. In particolare, nella sua prospettiva, ha centralità il confronto fra la figura dell’insider, colui che vive dentro uno spazio geografico, facendone un uso quasi passivo, e dell’outsider, colui che osserva dall’esterno un ambiente, considerandolo per i suoi caratteri oggettivi, sempre e comunque determinati da una parzialità che non è solo del punto di vista, ma anche delle connotazioni sociali e simboliche alle quali ogni forma di osservazione è soggetta. Può valere, per questo, per ogni epoca, anche contemporanea, la considerazione che “Il paesaggio non è semplicemente il mondo che vediamo, esso è una costruzione, una composizione di quel mondo. Il paesaggio è un modo di vedere il mondo”8. La variabilità alla quale esso è soggetto, per effetto dell’intervento umano e degli agenti naturali, può rispecchiare, con le dovute differenze interpretative, il mutamento che l’arte e la cultura apportano nella rappresentazione dei fenomeni che vi si producono, di modo che a volte l’intuizione degli artisti può servire quale modello per definizioni che travalicano l’ambito della creazione artistica, per riguardare il modo di comprendere i caratteri del territorio9.

6 Cfr. T. Maldonado (a cura di), Paesaggio. Immagine e realtà, cit., 1981. Da allora, si sono succedute numerose mostre sul tema del paesaggio nell’arte del Novecento, alcune delle quali di grande interesse, quasi tutte rivolte a scandagliare lo sviluppo della pittura di paesaggio fino agli anni Cinquanta-Sessanta, dove le operazioni più strettamente legate a un rapporto diretto con lo spazio fisico raramente sono state prese in considerazione. 7

M. Quaini, Il paesaggio: labirinto enciclopedico o strumento analitico?, in Il paesaggio tra fattualità e finzione, a cura di M. Quaini, Cacucci editore, Bari, 1994, p. 5. 8 9

D. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico, Unicopli, Milano, 1990 (ed. orig. 1984), p. 33.

“… il concetto geografico di paesaggio può essere considerato come la formalizzazione di una visione del mondo – sviluppata inizialmente nella pittura e nelle arti – in un corpus sistematico di conoscenza rivendicante la validità generale di una scienza”, idem, p. 44.

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La separazione intervenuta nell’Ottocento fra il modello estetico e quello scientifico, nella rappresentazione del territorio, può essere oggi messa nuovamente in discussione, da una parte per la convinzione che lo stesso sapere scientifico non può fare a meno di caratteri “simbolici”, come dimostra il dibattito sul tema del paesaggio, da Cosgrove considerato in relazione ai geografi americani che ad esso si dedicano, dall’altra per una apparente vocazione “scientifica” delle forme di arte che non si soffermano sui toni poetici della rappresentazione, ma propongono processi di analisi della realtà10. Parallelamente, interventi sul territorio, introdotti dalle proposte di arte ambientale e concettuale, e proseguiti nell’ambito di ipotesi elaborate dagli artisti che hanno inteso svolgere forme di indagine della realtà socio-culturale anche in relazione a studi sulla percezione dell’ambiente, hanno recuperato modelli operativi di apparente affinità linguistica e pratica con l’ambito scientifico. In questo senso, si possono verificare nuove modalità di rapporto e nuove coincidenze, utili ai fini di una evoluzione dalla rappresentazione del paesaggio a una sua comprensione critica, che in senso teorico può essere giustificata dalla prospettiva geografica. In questa, nelle sue molteplici sfaccettature, si può individuare il terreno comune di uno sguardo sullo spazio ambientale che tenga conto della dimensione contemplativa, di quella esplorativa, e delle necessità di gestione del territorio. Un rapporto che ha sviluppato in questa direzione un altro studioso americano, Edward S. Casey, in due suoi volumi. Il primo è rivolto a considerare l’apporto offerto dalla pittura di paesaggio a una conoscenza geografica del territorio, che transita dal piano rappresentativo a quello della sua strutturazione topografica, attraverso mediazioni semantiche, per quanto tutti siano consapevoli del grado di opacità di ogni forma di rappresentazione11. Il secondo è invece indirizzato a cogliere l’azione direttamente assimilabile al processo di analisi attuato da artisti che hanno lavorato nel territorio e con il territorio, mediante interventi assimilabili a modelli di rilevazione geografica fondati sul rapporto diretto con lo spazio fisico. Il mapping, l’azione del mappare, dell’attivare forme di confronto con lo spazio geografico, è stato applicato da artisti che hanno agito alla stregua di ricercatori, sovrapponendo l’intento teorico a quello pratico, operativo, attraverso il quale hanno sperimentato la coincidenza fra il territorio e la sua rappresentazione, a partire dal modo di agire dell’artista americano Robert Smithson,

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Come dice ancora Cosgrove, accennando ad altri studiosi dell’argomento: “Tutti i paesaggi sono simbolici, essi esprimono ‘un desiderio persistente di rifare la terra a immagine di qualche eden’ e subiscono un mutamento dal momento che sono espressioni della società, e che essi stessi producono storia nel tempo…”, D. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico, cit., 1990, p. 11

“A painting that represents something at once stands for and stands in for that which it represents. As standing for, it serves as a sign of its represented content or subject matter: in this regard, it is a semiological entity. As standing in for, it is a perceived object, a material object in its own right that has taken the place of something else material (even, at the limit, a landscape as an embracing detotalized totality). As a sign, a painting participates in a nonphysical relationship of signification; as a perceived object, it is undeniably physical and is prized as such…”, E. S. Casey, Representing Place. Landscape Painting and Maps, University of Minnesota Press, Minneapolis/London, 2002, p. 17.

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che più di altri ha fuso l’azione concreta con le riflessioni attorno ad essa, generando opere che sono tanto mappe quanto territori12. Gli interventi ambientali, anche quelli di maggiori dimensioni attuati alla fine degli anni Sessanta da autori americani nei deserti del Sud-Ovest degli Stati Uniti, infatti, si fondano sulla consapevolezza della loro transitorietà e non si pongono quale tentativo prometeico di modificazione della natura. Sono piuttosto situazioni che vogliono inserirsi in essa. Con azioni diverse, meno invasive, si sono aperti da allora spiragli per una lettura del territorio, sia nella sua qualità considerata naturale, sia in direzione della sua applicazione all’ambiente urbano, nell’indagine sulla prossimità e sullo spazio di relazioni, che hanno condotto le operazioni artistiche attuate in diversi ambiti a partecipare di un confronto implicito con le dinamiche di conoscenza, descrizione e rappresentazione della realtà antropizzata. L’elemento umano è sempre più consapevolmente inserito nell’osservazione e nell’interpretazione dell’ambiente osservato e documentato, offrendo importanti spunti per altre forme di analisi critica della gestione del territorio, dove il paesaggio è spesso vittima di disattenzioni, incurie, offese e incomprensioni. Senza che si possa parlare di un’attenzione di genere partecipato, rivolta a denunciare lo stato delle cose o a sollecitare interventi di altra natura rispetto a quelli che l’arte può compiere, le realizzazioni artistiche possono dimostrare l’evoluzione della sensibilità per i caratteri e le sorti del “bel paese” che non consistono più nella poetica interpretazione di luoghi d’incanto o nella loro trasposizione nella dimensione onirica ed evocativa del simbolo o dello stato d’animo, ma anche nelle proposte di un’attenzione per il “micropaesaggio” o il “post-paesaggio”13, le varie forme in cui la percezione mediata e immediata degli spazi della quotidianità e della trasformazione qualificano il territorio nella sua complessità.

12 Casey dimostra come l’attività del mappare non possa essere considerata un’operazione astratta, ma che nasce sempre da un approccio diretto: “… mapping […] is the very activity of moving over the land, literally lowlevel scanning, and not a separate activity of drawing as the very word cartography misleadingly suggests…”, E. S. Casey, Earth-Mapping. Artists Reshaping Landscape, University of Minnesota Press, Minneapolis/London, 2005, p. 14, e ancora, a proposito di una coincidenza con l’azione fisica del conoscere il luogo: “Body and motion constitute mapping in a place: they constitute a place as a map…”, idem, p. 24. Da cui, la dimostrazione non solo di un’unione inestricabile fra il territorio e la mappa, ma fra l’operazione artistica compiuta sul territorio e la sua qualità geografico-cartografica, all’insegna della variabilità delle forme e della temporaneità di ogni condizione data. 13

Definizioni, fra le altre, che sono state introdotte per evidenziare la crisi di modelli di rappresentazione legati alla delicata condizione della realtà ambientale e del modo di considerare il paesaggio in un’epoca in cui la sensibile “delocalizzazione” che gli strumenti più avanzati propongono si va a scontrare con il radicamento in localismi di varia natura.

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UN VIAGGIO FRA LUOGHI E IDEE

Il viaggio che la sequenza delle opere in mostra ci propone riguarda luoghi, personalità artistiche e temi storico-critici, che attraversano le vicende di un secolo. La suddivisione in tre momenti, che è risultata naturale nell’elaborare il progetto, permette di focalizzare l’attenzione su diversi aspetti dell’arte di questi decenni, all’interno di un dialogo stratificato fra le rappresentazioni del paesaggio e gli aspetti individuali interpretati dai singoli artisti, riproponendo ogni volta un nuovo dialogo fra soggetto e oggetto, mai rivolto in un’unica direzione. Lo sviluppo della pittura di paesaggio non si completa all’interno del tema della rappresentazione di luoghi, secondo modelli espressivi che si modificano nell’ambito del processo descrittivo e figurativo, ma si allarga a ricevere nuove formulazioni da essi, che possono arrivare a incidere sui modelli stilistici, quasi che si potesse sentire ancora operare un genius loci, in una qualificazione delle tradizioni artistiche che, se non possono identificarsi in scuole regionali, sono comunque in rapporto con lo spirito del luogo nei temi e nei modi. Altri parametri critici riguardano i modi in cui l’arte del secondo Novecento ha mantenuto, e in alcuni casi approfondito, il contatto diretto con la natura e l’ambiente urbano, per farne l’oggetto di operazioni che indagano i caratteri di una relazione che si fa più ravvicinata o che tende a incidere sullo spazio esterno, in un reciproco scambio. La mostra, pertanto, è scandita sostanzialmente in tre sezioni, con alcuni rimandi interni, derivanti dalla peculiarità delle opere presentate, e secondo queste direzioni può essere oggetto di un esame ravvicinato. Nelle tre sezioni possiamo riconoscere il carattere plurale degli “sguardi sul paesaggio” condotti dai pittori che nella prima metà del secolo si sono misurati con soggetti naturalistici tratti dall’osservazione dei luoghi; il “confronto” diretto con la natura esercitato da quegli autori che negli anni Cinquanta e Sessanta hanno operato, con la pittura e in qualche caso al di là di essa, un più diretto incontro con un ambiente vissuto in presa diretta, ma anche traslato in visione; e il rapporto con il territorio esercitato da ricerche di matrice antropologica, concettuale o semplicemente biografico-narrative scaturite da interventi diretti, da forme di misurazione, da elaborazioni fotografiche, rivolte a mostrare altri aspetti della realtà che percepiamo vivendola. 27


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La prima sequenza delle opere compie un excursus che per certi versi si potrebbe definire “tradizionale”, mediante exempla tratti dalla produzione di artisti che hanno guardato ai luoghi da loro direttamente frequentati e vissuti, per trarne spunti visivi di differente qualificazione, ma tutti svolti in un dialogo diretto con le pratiche dello sguardo. Vi si può riconoscere un filone che dal divisionismo giunge alle ricerche figurative di metà secolo, indirizzate a un rinnovamento del rapporto fra le suggestioni visive tratte dall’esterno e la reinvenzione dei luoghi, filtrati dal tratto linguistico e da ragioni espressive e ideali. La pittura di paesaggio non costituisce, è vero, un genere a sé nel Novecento, o una presenza determinante, e i principi su cui si è fondata nei primi decenni del secolo una trasformazione decisiva del linguaggio artistico sono andati spesso a contestare o mettere in discussione l’esistenza o la possibilità di un carattere specifico per quelle realizzazioni che ad esso si dedicavano. Basti pensare da una parte alle provocazioni dei futuristi, nel giudicare la pittura di paesaggio come una forma vetusta di rappresentazioni dilettantesche – “Finiamola, coi Ritrattisti, cogl’Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!... Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura”1 – e dall’altra alle critiche rivolte alla pittura che si sofferma sul paesaggio negli anni Venti e Trenta, da parte di voci indirizzate a più vigorosi aneliti a una tradizione di grande respiro: “la pittura di paesaggio è un ostacolo allo sviluppo della vera grande pittura di figura”, dirà Sironi2. Indipendentemente dalle espressioni di condanna radicale per il genere, il tema del paesaggio, oltre ad avere una presenza specifica nella pittura dei singoli autori, ha però mantenuto un vivo interesse, partecipando delle trasformazioni di quell’epoca. Protagonista di una parte considerevole dell’esplorazione degli adepti del Divisionismo, è metro di confronto anche per i segni della nuova epoca, come si deduce dalla duplice direzione con la quale, verso la fine del primo decennio, Umberto Boccioni a Milano sovrappone escursioni nella 1

U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla, G. Severini, Manifesto dei pittori futuristi, 11 febbraio 1910.

2 M. Sironi, [Contro il paesaggismo], 1930 circa, in Idem, Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca e C. Gianferrari, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 276.

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campagna lombarda, per la realizzazione di opere che cercavano di rinnovare dall’interno i modelli tardo-ottocenteschi, e l’attenzione per l’ambito della città dalla quale trae gli spunti decisivi per aderire al rinnovamento proposto dalla poetica del Futurismo. Si potrebbe già qui cogliere una separazione fra uno sguardo rivolto al carattere naturale di un paesaggio che si qualifica particolarmente nella natura e nello spazio aperto e l’ambiguo fascino della moderna città, sfondo indiscusso della prima fase del Futurismo, ma ripreso quasi sempre con sospetto nell’arte italiana della prima parte del Novecento, sia essa luogo congelato nei frammenti delle vedute dechirichiane o ambiente impervio, quando non ostile, nelle periferie sironiane. Nominando l’esempio del Sironi intorno al 1920 siamo però già oltre la prima guerra mondiale, quando il paesaggio va a costituire, come sarà nei due decenni successivi, uno snodo per diverse soluzioni, all’interno delle quali sarà da riconoscere anche quel confronto a distanza che le etichette di “strapaese” e “stracittà” incarneranno in una prospettiva differente, a volte quasi vernacolare. Numerosi sono gli esempi, in quei decenni, di attenzioni per i luoghi nei quali si riflettono le qualità di gruppi che si riconoscono nell’ambiente nel quale operano – i “sei di Torino”, ma anche la “torinesità” di Casorati; la “Scuola Romana”; un certo espressionismo lombardo, per accennare solo a episodi significativamente irrorati dalla luce e innervati dal temperamento locale. Il paesaggio italiano continua ad essere allora il luogo dei mille comuni, dei mille campanili, dove, nei confronti della problematicità del vivere in città, del confronto sociale, si difende l’ipotesi di un’isola felice nella quale ritrovare radici che vanno oltre il presente, dove non solo le istanze ideologiche o ideali, ma quasi anche i modi linguistici vanno a recuperare frammenti di tradizione all’interno della modernità. Predomina, qui, il paesaggio nella sua qualità esemplare, come luogo di attenzione privilegiata per la sua natura pittoresca, ma anche, spesso, dimessa, segno di un dialogo interiore con ambienti connaturati al linguaggio, fondati in un’intimità direttamente percepibile. Accanto, e oltre questo atteggiamento di empatie singolarmente recuperate, si situa la trasfigurazione del luogo in altro, residuo di un arcaico modello di immagini sovrapposte al presente, o evocazione di atmosfere in cui i luoghi sono filtrati dal velo della memoria, inserendosi in un’altra forma di immaterialità. Passando a considerare nello specifico le opere, l’avvio alla mostra lo danno due dipinti che diversamente indagano una tradizione recente del paesaggio, nella grande veduta panoramica che Ramponi, seguace di Segantini, imposta nel dialogo fra l’ampiezza della catena montuosa sullo sfondo, intrisa di luce a esaltare le componenti divisioniste, e l’alpeggio in primo piano, in penombra, dove riverbera il rapporto fra una dimensione intima e la tensione all’infinito. A contraltare di questa, un’altra opera di un autore nascosto fra le pieghe della storia dell’arte della prima parte del Novecento, Gino Parin, ci dà una visione trasfigurata dei festeggiamenti pubblici seguiti all’annessione di Trieste all’Italia, nei giorni della conclusione della prima guerra mondiale, fra le brume e le luci serali. In queste due immagini possiamo emblematicamente riconoscere due aspetti della pittura di paesaggio e della sua vicenda in Italia, nel dialogo fra il 30


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paesaggio naturale e la dimensione urbana, fra l’immobile successione di un tempo scandito dal ritmo delle ore e delle stagioni e le scosse della storia. Rispetto a questi primi esemplari di un’arte che, nella prima parte del Novecento, vive il conflitto fra le aspirazioni a un rinnovamento in senso modernista e la continuità di esperienze che si collegavano al mondo del simbolismo europeo, la sequenza di opere che segue mette al centro il confronto con un territorio addomesticato, dove la natura è spunto e fulcro di immagini in cui la campagna, la dimensione della provincia, e la città, come ambiente pacificato e borghese, nel quale i conflitti sono attutiti dal gusto della veduta, si aprono diversamente ad accogliere segni del paesaggio. Ne possiamo trarre accenti simili, pur in un linguaggio diverso, negli alberi da frutto di una campagna tradotta nelle nervose venature paraespressioniste di Moggioli o negli alberi autunnali pervasi da una luminosità mattutina - ottima palestra ancora per formulazioni divisioniste – del pittore toscano Ferruccio Manganelli, per riconoscere negli Orti a Burano di Semeghini il compimento di una integrazione fra l’antropizzazione del paesaggio, che ha la sua primigenia manifestazione nella strutturazione del territorio a fini agricoli, ma che va intesa in primo luogo nel particolare luminismo cromatico unitario del pittore che tanta attenzione ha dedicato alle rappresentazioni di paesaggi veneti - e non solo -, e la sua idealizzazione in uno spazio fuori dal tempo, intriso di luce e pittura. Possiamo poi, nei due dipinti eseguiti a distanza di oltre vent’anni, da due pittori torinesi, Felice Casorati e Francesco Menzio, riconoscere luoghi della città piemontese, che si concentrano nella consistenza di alberi dalla pastosità solida e densa, nel quadro di Casorati, e sfogliati nella più “impressionistica” visione dalla finestra dello studio di Menzio lungo il Po. Il confronto con modelli francesi, innegabile, ma non devozionale, si unisce ad altri palpiti, anche nella volontà di traguardare gli esempi prossimi di uno sguardo che potrebbe venarsi di provincialismo. Anche per questo, forse, tra coloro che meglio indagano la qualità della pittura di paesaggio negli anni fra le due guerre si colloca l’esempio di Arturo Tosi, interprete della lezione cézanniana intesa in chiave costruttiva, come sarà proprio di quel periodo, sulla falsariga di letture che riposizionano il pittore provenzale ben oltre le fragranze impressioniste. Non è solo Cézanne, sono anche altri rimandi, ma soprattutto la volontà di strutturare un’immagine che dialoga con luoghi scolpiti nelle luci meridiane e autunnali, a qualificare la nuova, personale, lezione di Tosi. Di altri protagonisti della stagione di Novecento sono qui presenti esemplari che si pongono oltre quel momento, pur conservandone l’aspirazione a una affermazione di una qualità visiva che si rapporta al passato attraverso il presente. Lo fa Anselmo Bucci nel lirico paesaggio eseguito nel 1940, dove il borgo collinare diventa emblema di una adesione a ritmi e tempi che riecheggiano nel presente, e Alberto Salietti, nel guardare al paesaggio ligure con chiare allusioni a una tradizione atmosferica e cromatica che rilegge spunti del moderno sentire. Come Salietti, anche Carrà e Soffici affrontano temi che proseguono, senza soluzione di continuità, la loro reciproca propensione, maturata nei decenni precedenti, per creare un paesaggio squadrato e immobile, nella Marina di Carrà, e attivando uno sguardo cosciente 31


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e attento alla natura dei luoghi toscani a lui cari, in Soffici. Sono opere, queste, eseguite nel secondo dopoguerra, ma che indicano la volontà di proseguire un discorso avviato tempo addietro, in cui far risaltare l’assoluto, più che il relativo. Un’atmosfericità più cangiante la si ritrova invece in Rosai, che pure rispecchia il rapporto con le modalità e le suggestioni parallelamente indicate da Soffici, in una parlata toscana che intende resistere alle mode e ai segnali di rinnovamento. In area romana e con qualità di luce diverse incontriamo lo sguardo oggettivo e nello stesso tempo introiettivo di Ziveri, che raccoglie memoria di un viaggio in terra francese in un’opera esposta alla Biennale di Venezia nel 1954 – molte delle opere qui esposte, del resto, hanno avuto qualche passaggio espositivo di importante rilievo, alle edizioni della Biennale o in altre occasioni -, e la ricostruzione, dipinta da Mafai, di un luogo caro allo spirito e al cuore di Roma, la Basilica di San Lorenzo, in fase di restauro dopo l’offesa ricevuta negli anni della guerra. Le “demolizioni” alle quali Mafai aveva dedicato attenzione nei primi anni Trenta rivelano affinità, in questo dipinto, con una fase di trasformazione in cui, più che il senso civico, risalta, con l’intensità del timbro cromatico, l’integrazione del passato nel presente. Diverso tono e atmosfere ritroviamo nel modo in cui Sironi guarda alle rovine o ai residui di altre epoche, in un Paesaggio arcaico dove, più che nostalgie o rimpianti, sono evidenti i segni di una quasi impossibile integrazione fra natura e cultura, fra un irraggiungibile passato e un presente malato. A contraltare, quasi, di questa visione, possiamo considerare un’altra suggestione tratta dal presente, nel Ponte di ferro alla Renault protagonista di una tela di Ernesto Treccani che segna come anche le atmosfere neorealiste, della Milano di Testori e di Visconti, si venano di connotati che non si arrestano alla descrizione, ma vivono di umori individuali, quasi, nuovamente, espressionisti. Se il dialogo tra la rappresentazione visiva e la trasmutazione fantastica può costituire un tratto caratterizzante di tutta una versione del lirismo metafisico ed ermetico che innerva buona parte della cultura italiana degli anni Venti-Trenta, i due dipinti di Zanini inseriti in questo percorso suggellano l’articolato sovrapporsi di intuizioni momentanee e di una temporalità distesa. Più che i dati dell’oggettività e dell’ideale, sono due condizioni temporali differenti che si giustappongono, nelle fantastiche composizioni di Zanini, aperte al contributo di uno sguardo che trascende la fisicità delle cose, per trasferirle in un’atmosfera altra, che non è fuori luogo definire onirica, sempre che non eliminiamo da tale definizione il contatto con la concretezza delle cose. L’immagine del paesaggio è stata a questo punto più volte, anche solo nella esemplarità di queste opere, messa in discussione, per cercare di andare al di là di essa, per considerare come nella pittura del Novecento essa sia servita a svolgere dialoghi interiori, che vanno oltre l’immediato. Ecco allora che negli ultimi protagonisti di questa prima sezione il senso del luogo quasi scompare, assorbito nella luce diafana di una Marina di Guidi, resa quasi invisibile, come accade non solo per effetto delle nebbie lagunari, ma per la sua assunzione in una realtà diversa, tutta intima, di piccolo gioiello contenuto in uno scrigno, o lasciato affiorare come 32


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forma già quasi astratta nell’altra visione scompartita in nascoste geometrie, della Chiesa di Antonio Calderara, tra le sue ultime prove di origine figurativa, per quanto il dialogo fra oggetto e invenzione si riproponga senza interruzioni nel suo cammino verso l’essenzialità della visione. E giungere quindi al paesaggio decisamente autunnale, ma fondato soprattutto su una forte sensazione memoriale, nel quadro di Music che chiude questa sezione, immagine fortemente lirica, ancora una volta, per come non aderisce a una realtà immediata, ma la prende a spunto per raccontare la naturale trasformazione del mondo dei ricordi, dove i luoghi sono pretesto, più che forma compiuta.

Le note critiche pubblicate a corredo delle singole opere sono state elaborate da Francesco Tedeschi con la collaborazione di Federica Boràgina. Sono tratte dalle schede storico-critiche che figureranno nel catalogo ragionato della collezione d’arte del Novecento di Intesa Sanpaolo, di prossima pubblicazione. Le schede storico-critiche relative alle opere in mostra sono state redatte da: Alessia Alberti, Beatrice Avanzi, Giovanni Bianchi, Paolo Bolpagni, Silvia Borghesi, Paolo Campiglio, Cristina Casero, Valentina Cisventi, Annalisa Cittera, Davide Colombo, Nicoletta Colombo, Marina Degl’Innocenti, Alessandro Del Puppo, Elena Di Raddo, Elena Fava, Sara Fontana, Isabella Galli, Anna Mazzanti, Leonardo Passarelli, Maria Chiara Periti, Clotilde Pinelli, Maria Grazia Schinetti, Francesco Tedeschi, MarcoTonelli, Marco Vianello, Giorgio Zanchetti.

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Seguace del divisionismo segantiniano, Ramponi è stato tra gli artisti della scuderia di Alberto Grubicy, che ha inserito sue opere in alcune delle esposizioni organizzate nella galleria parigina nei primi anni del Novecento, dedicandogli una retrospettiva a pochi anni dalla sua scomparsa, avvenuta in corso di un combattimento aereo, durante il primo conflitto mondiale. Come nelle ultime grandi opere di Segantini, il panorama alpino ne è il tema e contemporaneamente lo sfondo. L’ampia altura alpina, probabilmente ripresa da qualche località della Valtellina, dove, con base a Livigno, Ramponi ha dipinto la maggior parte dei suoi quadri di soggetto alpino, è coronata dalle cime, ancora innevate all’orizzonte ed esaltate dai bagliori della luce solare riflessa. Nella serena intonazione della calotta celeste e negli effetti luminosi sul biancore nivale si riconosce l’inizio del disgelo che nel primo piano rende umida la terra del pascolo alpino e crea rivoli d’acqua dove si nutrono i greggi. La poesia della montagna, la concentrazione e la pienezza sentimentale che vi abita, rimasero per tutta la breve carriera di quest’artista, stroncato da morte prematura, la sua fonte di ispirazione prediletta.

1. FERDINANDO RAMPONI (Les Abrets, Isère, 1884 - 1916) Montagne, 1905-1910 olio su tela, 100 x 200,5 cm

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Il dipinto ricorda i festeggiamenti che hanno animato la città di Trieste all’indomani della notizia della vittoria dell’esercito italiano sul fronte del Piave, quando il tricolore è stato per la prima volta issato sulla torre del Municipio. La folla scorre sul lungomare dinanzi alla Piazza Unità d’Italia pavesata con numerosi tricolori, con il Palazzo comunale sullo sfondo. Le luci elettriche della piazza, ancora allestita con gli alberi al centro (verranno poi sostituiti da un monumento celebrativo) si riflettono in primo piano sul selciato. L’artista, di origine ebraica, convertitosi al cattolicesimo, decide di adottare il nome italiano di Gino Parin nel 1900. La sua notorietà è legata soprattutto all’ambito della ritrattistica, anche se Piazza Grande di Trieste era stata da lui rappresentata in almeno due dipinti precedenti.

2. GINO PARIN (Federico Guglielmo Jehuda Pollack) (Trieste, 1876 - Bergen-Belsen, 1944) Trieste, Piazza Unità d’Italia, 1918 olio su tela, 132,1 x 141,6 cm

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L’opera si può considerare fra le prove migliori del primo divisionismo di Manganelli, che aderisce, come altri, a una versione avanzata del linguaggio diffusosi nell’ultimo decennio dell’Ottocento. L’esaltazione del rapporto luce-colore permette una valorizzazione del carattere naturalistico nella rappresentazione della campagna toscana. Il dipinto non è incluso nelle catalogazioni note dell’opera dell’artista di Colle Val d’Elsa, ma potrebbe essere tra quelli esposti alla Permanente di Milano del 1913, dove Manganelli presentava diversi dipinti di soggetto agreste, apprezzati da diversi critici, tra cui Ugo Ojetti. Nel 1911 Manganelli, insieme ad Antonio Salvetti e Vittorio Meoni, suoi concittadini e mentori, aveva esposto a Firenze e a Siena in mostre che presentavano la produzione recente dei pittori toscani, facendosi notare per la qualità delle sue opere, di soggetto paesaggistico.

3. FERRUCCIO MANGANELLI (Colle Val d’Elsa, Siena, 1883 - 1968) Campagna, 1911 olio su tela, 68 x 71 cm

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Il dipinto appartiene ad una serie di opere, che hanno per soggetto il paesaggio e la vita di campagna, eseguite nel 1916 quando, riformato dall’esercito a seguito di una grave malattia, Moggioli risiede a Cavaion Veronese, piccolo paese posto sulle sponde del lago di Garda. Trentino di nascita, Umberto Moggioli studia pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove ha come maestro Guglielmo Ciardi. Nel 1907 aveva esposto per la prima volta alla Biennale di Venezia, e dal 1909 è presente alle mostre di Ca’ Pesaro. In occasione della sua partecipazione alla mostra estiva di Ca’ Pesaro del 1909 il giovane artista espone numerosi paesaggi di piccolo formato, “studi e impressioni dal vero”. Anche in Campagna veronese, la natura, dipinta en plein air, è in primo piano con tutta la sua felice vitalità. I filari degli alberi rigogliosi, probabilmente ulivi, invitano lo sguardo a penetrare nel paesaggio naturale verso un casolare nascosto, mentre sullo sfondo a sinistra si scorge il lago di Garda, azzurro e luminoso. L’opera è resa con una pennellata scorrevole e corposa che conferisce una particolare plasticità alla composizione. Il colore, orchestrato su smaglianti tonalità verdi-azzurre in dialogo con tonalità brune, s’addensa e recupera pienezza, liberandosi dai segni marcati di contorno.

4. UMBERTO MOGGIOLI (Trento, 1886 - Roma, 1919) Campagna veronese, 1916 olio su tela, 70 x 90 cm

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L’opera, realizzata verso la fine del soggiorno lombardo di Semeghini, che nel 1942 si trasferirà a Verona, per rimanervi fino alla morte, avvenuta nel 1964, testimonia dell’ininterrotto dialogo dell’artista col paesaggio veneziano, chioggiotto e lagunare. Oltre al ricorrente motivo dei barconi e dei “bragozzi”, attraccati nel porto di Venezia o di Chioggia, è il tema degli orti lagunari, affrontato non solo nei dipinti ad olio ma anche in numerosi disegni, a riaffacciarsi in questi anni nella produzione semeghiniana come in quella di altri pittori della scuola “buranella”. Dell’opera esiste anche una versione in disegno, un piccolo d’après firmato e datato 1941, di collezione privata. Altri dipinti dedicati al medesimo soggetto risalgono alla precedente stagione veneziana dell’artista.

5. PIO SEMEGHINI (Quistello, Mantova, 1878 - Verona, 1964) Orto a Burano, 1939 olio su tavola, 46,8 x 60,8 cm

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Opera emblematica del linguaggio maturo di Francesco Menzio, conferma la sua attenzione per la pittura francese, e in particolare per i modelli matissiani, nel gioco cromatico che si concentra sulle tonalità dei verdi e dei gialli. Nato a Sassari da genitori piemontesi e cresciuto a Torino, dove frequenta l’Accademia Albertina e partecipa negli anni Venti del cosiddetto “Gruppo dei Sei di Torino” (con Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Enrico Paulucci), Menzio ben esprime l’orientamento moderno e antiretorico di un aggiornamento su modelli internazionali. In questa direzione si può considerare che si indirizzi l’attenzione per soggetti quotidiani e personali, con cui si accorda quest’opera. Il carattere intimo del quadro è accentuato dalla presenza della finestra, vera protagonista dell’opera, che pone automaticamente lo spettatore in un interno delimitandone il campo visivo. Il balcone, sapientemente sfruttato dall’artista come elemento decorativo, con le sue volute sinuose che disegnano un arabesco attraverso il quale cogliamo il paesaggio, sdrammatizza ulteriormente la composizione, sottraendo il paesaggio alla sua definizione classica di genere. Non datata, la tela venne presentata alla Biennale veneziana del 1948 insieme ad un’altra veduta (Ponte sul Po) molto simile e visibilmente eseguita dalla medesima finestra. Sul verso del quadro si trova un interessante Nudo disteso nel quale sono evidenti influssi della pittura francese e di quella di Modigliani.

6. FRANCESCO MENZIO (Tempio Pausania, Sassari, 1899 - Torino, 1979) Finestra sul Po, 1948 olio su tela, 105 x 73 cm

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L’olio appartiene al periodo in cui Casorati, superata ogni componente simbolista, elabora un nuovo senso spaziale attento ai valori plastici e naturalistici. Rappresenta lo scorcio di un giardino pubblico di Torino, in cui il figlio di Felice Casorati, Francesco, riconobbe il Valentino. Tra i vialetti solitari del parco non troviamo nessuna presenza umana, bensì un muto dialogo di luci e ombre, che creano un’atmosfera sospesa di malinconia assorta e liricità trattenuta. Un disegno dalle forti connotazioni strutturali, masse cromatiche calibrate con calcolo ed equilibrio perfetti, manifestano un’idea classica dell’immagine e della composizione, e un interesse totale per il dato tecnico-pittorico. Degna di rilievo, sempre sul retro del dipinto, è la presenza di un disegno a matita raffigurante un gruppo di personaggi in una stanza, tra cui una donna nuda in piedi davanti a uno specchio. L’opera fu esposta nel febbraio 1927 a Ginevra, al Museo Rath, nell’ambito di una collettiva di artisti italiani contemporanei.

7. FELICE CASORATI (Novara, 1883 - Torino, 1963) Alberi, 1926 olio su cartone, 48 x 37 cm

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Tosi amava frequentare a lungo, anche fisicamente, il medesimo soggetto, vagheggiando una conoscenza sempre più intima e profonda che traduceva poi in una perfetta identità di colore e sentimento. Nella natura, che diventa così espressione di sentimento e di stato d’animo, Tosi non inserisce mai (o quasi) figure d’uomini: l’uomo vi abita infatti in ogni dove, con la sua ragione e la sua emozione insieme, e nei segni del suo lavoro: una muraglia intonacata, un vialetto, le spallette di un ponticello, uno steccato, le case, una chiesa. Quest’opera, in ottimo stato di conservazione, presenta lo schema compositivo e i tagli tipici del Tosi “classico”; in particolare, la composizione è impostata a partire dalla curva della strada, che permette al pittore di distanziare la scena dal primo piano senza implicazioni prospettiche troppo laboriose, e di animare tutta quanta la scena.

8. ARTURO TOSI (Busto Arsizio, Varese, 1871 - Milano, 1956) Strada in collina, primi anni Quaranta del XX secolo olio su tela, 50 x 60 cm

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Protagonista del Novecento Italiano, Tosi sostiene, nella poetica della moderna classicità, la continuità con la tradizione pittorica dell’Ottocento lombardo, in cui il tema del paesaggio è al centro delle sue meditazioni. Pittura di paese concepita non in senso pittoricistico e superficiale, bensì secondo qualità strutturali e costruttive che traducono un’esigenza spirituale e non ottica, una volontà poetica raggiunta, secondo l’esempio di Cézanne, sua figura di riferimento, attraverso la pura sensibilità. Nei paesaggi dipinti a Rovetta nel bergamasco, dove Tosi teneva lo studio, e, a partire dal 1927, sulle sponde del Lago d’Iseo, come nel caso dell’opera in esame, le prospettive tosiane si articolano secondo uno studio che non viene impostato sul calcolo matematico o sulla geometria, come avveniva per molti novecentisti di ispirazione neoclassica, ma seguendo una declinazione postimpressionistica e aerea. Il taglio compositivo dell’opera rispecchia un modulo che Tosi ripete frequentemente nei motivi lacustri: una costruzione aggettata con l’ausilio di quinte laterali, generalmente rappresentate da alberi (spesso gli ulivi), il monte sul fondale a chiudere la fuga ottica, la distesa d’acqua nel centro, più o meno tagliata di sghembo. Una sorta di griglia calibrata attorno al “proprio” spazio, sicuramente reale ma insieme mentale, nel quale l’artista può concedersi di racchiudere la personale poetica dell’infinito.

9. ARTURO TOSI (Busto Arsizio, Varese, 1871 - Milano, 1956) Scorcio del Lago d’Iseo, 1944 ca olio su tela, 50 x 60 cm

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Bucci ha preso parte al gruppo originario di Novecento Italiano, che raccolse le proposte di un’arte che coniugava la tradizione con la modernità, sintesi che ha personalmente perseguito anche nella sua produzione personale. Il paesaggio protagonista di questo dipinto è presumibilmente da riconoscersi in uno scorcio dell’entroterra umbro-marchigiano, regione frequentata da Bucci all’inizio degli anni Quaranta, quando è soldato nell’Aviazione italiana. Per questo, si può considerare una visione recuperata in mezzo a una condizione, quella delle operazioni belliche in cui l’artista è impegnato, che segna l’anelito a un tempo e a una condizione pacificata. Il colore caldo ed avvolgente si presenta con una temperatura molto diversa da quello delle opere a tema mediterraneo risalenti a un quindicennio prima, infuocate da accensioni cromatiche più violente e sbozzate in blocchi squadrati e geometrizzati.

10. ANSELMO BUCCI (Fossombrone, Pesaro-Urbino, 1887 - Monza, 1955) L’Isola della pace, 1940 olio su compensato, 48 x 58 cm

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A partire dai primi anni Venti Carlo Carrà si dedica a molti dipinti di paesaggio, eleggendo fra i suoi soggetti preferiti luoghi delle colline piemontesi, della riviera ligure, della Versilia, dove soggiorna frequentemente dal 1926, e di altre località da lui intimamente conosciute. In queste vedute, egli evoca atmosfere sospese, in cui la sua stagione metafisica si riverbera attraverso quelle elaborazioni intrise di “realismo magico”, come si può riconoscere in Pino sul mare, da considerarsi il primo paesaggio di una nuova stagione, dipinto nel 1921. L’opera ben rappresenta la stagione matura dell’autore, nei suoi tipici caratteri, in cui pochi elementi creano una iconografia scarna, essenziale, costruita con pochi elementi posti nello spazio, scandito con chiarezza; un’atmosfera che traduce in una dimensione decantata il dato di realtà, il quale, attraverso l’evidenza corposa del colore, diventa fatto pittorico.

11. CARLO CARRÀ (Quargnento, Alessandria, 1881 - Milano, 1966) Marina, 1949 olio su tela, 40 x 50 cm

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Anche Alberto Salietti è stato tra i protagonisti di Novecento Italiano, partecipando dei modelli stilistici predominanti nella prima fase del movimento, attraverso il recupero di modelli classici, l’aspirazione alla sintesi, l’uso della linea pulita e conchiusa, il rigore coloristico. Mattino d’estate in Liguria rispecchia la fase dell’avanzata maturità di Salietti, nella quale è data piena concessione alla libertà espressiva, alla più aerea rappresentazione del cielo, degli scorci di mare, degli ulivi, degli smalti luminosi, delle piante e dei fiori, dei richiami atmosferici che il colore argentato insinua nelle visioni marine, così lontane dai congelamenti che avevano caratterizzato le “nonatmosfere” novecentiste lombarde. L’opera traduce il recupero naturalistico in un recupero atmosferico; nulla lascia pensare a una veduta da cartolina, ad una ricerca di descrittività, anzi, i particolari delle cose sono interrotti nello spostamento del fuoco visivo verso l’alto, verso l’aria, limitati come sono ormai a fare da cornice al vero protagonista del dipinto: il senso atmosferico, la vibrazione aerea.

12. ALBERTO SALIETTI (Ravenna, 1892 - Chiavari, Genova, 1961) Mattino d’estate in Liguria, 1952 olio su tela, 77 x 90 cm

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Il soggetto del dipinto è una veduta del paesaggio dei dintorni di Poggio a Caiano, oggetto di molteplici varianti nella lunga stagione creativa di Soffici, che nella cittadina toscana torna a vivere a partire dal 1924. I luoghi familiari vengono più volte rivisitati nella sua pittura, in un confronto con la realtà che mostra il rapporto simbiotico tra l’artista e i pochi elementi naturali, tra cui spiccano spesso, come in questo caso, i cipressi posti al centro della veduta, con il loro alto valore simbolico. Ancora si può riconoscere nell’opera, eseguita alla fine degli anni Quaranta ed esposta in una mostra dell’artista nella Galleria San Fedele di Milano nel 1952, l’incidenza della lezione di Cézanne, pur assorbita e fatta propria in una sensibile notazione del rapporto tra la natura e la sua rilettura in chiave compositiva. Il colore è assoluto protagonista, in uno spazio omogeneo, fondato sulla continuità di carattere più che su contrasti di luminosità.

13. ARDENGO SOFFICI (Rignano sull’Arno, Firenze, 1879 - Poggio a Caiano, Firenze, 1964) Veduta (Vista) dal Poggio, 1949 olio su tela, 55 x 45 cm

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L’interesse per il paesaggio è una costante nel lavoro di Rosai, fino dagli inizi degli anni Venti. Il suo pennello dà forma sintetica a luoghi del paesaggio toscano, cercando un rigoroso equilibrio fra l’ambiente astratto e la sua percezione come luogo vitale. Paese con cipressi, accanto ad altre composizioni dell’artista presenti nelle collezioni di Intesa Sanpaolo, appartiene alla piena maturità dell’artista, periodo particolarmente fecondo della sua produzione. Rispetto alle opere che Rosai dagli anni Venti dedica a questi soggetti, ora le case, originariamente rappresentate quali elementi allusivi alla presenza dell’uomo, diventano forme autonome, insieme agli altri elementi della composizione. In questo caso la struttura della scena appare semplice ed essenziale, sfilando in una specie di quinta orizzontale.

14. OTTONE ROSAI (Firenze, 1895 - Ivrea, Torino, 1957) Paese con cipressi (Paesaggio toscano), 1953 olio su cartone telato, 49,5 x 60 cm

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L’opera, esposta alla Biennale di Venezia del 1954, vi è stata particolarmente apprezzata da Roberto Longhi. Protagonista del realismo di metà secolo, Ziveri prende le distanze sia dal taglio ideologico di certa pittura del periodo, sia dall’espressionismo proprio della Scuola romana. Il paesaggio rappresentato scaturisce da un ricordo del viaggio compiuto da Ziveri in Europa e in Francia nel 1938, quando, secondo quanto dichiara l’artista stesso, si andava aprendo a modelli europei della storia dell’arte e del passato recente. Il luogo rappresentato riemerge dal ricordo, vivido, ma con una certa atemporalità. Tutto appare essenziale e rarefatto, in una immobilità che ha spinto ad avvicinare Ziveri al realismo americano. Pur non giungendo alle sintesi dei paesaggi di Hopper, simile è l’atmosfera sospesa e rarefatta, dove sulla descrizione prevale la definizione quasi astratta dell’atmosfera.

15. ALBERTO ZIVERI (Roma, 1908 - 1990) “Campagna francese” n. 1, 1953 olio su tela, 50 x 60 cm

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In Basilica di San Lorenzo Mafai ritrae ancora una volta uno scorcio di Roma, che tante volte è stata per lui fonte ispiratrice di vedute e scorci suggestivi. Rispetto alle opere degli anni Trenta, quando l’artista, protagonista della Scuola Romana, rappresenta con partecipazione una Roma in disfacimento, con forti tratti metaforici, nelle sue Demolizioni, qui si coglie un accento più “costruttivo”. Quest’opera, dell’immediato dopoguerra, riprende uno dei più bei monumenti paleocristiani della capitale, la Basilica di San Lorenzo, attorno alla quale si predispone il cantiere per riparare i danni di guerra. L’immagine assume il valore di testimonianza storica e di interpretazione artistica di uno stato d’animo collettivo, espresso attraverso un’atmosfera silenziosa, scandita dalla luce e dal colore, che rivelano le note positive di uno sguardo portato sul reale, per leggervi i segni del tempo.

16. MARIO MAFAI (Roma, 1902 - 1965) Basilica di San Lorenzo, 1949 olio su tavola di compensato, 56 x 75 cm

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Il dipinto è stato realizzato negli anni in cui Sironi è impegnato soprattutto sul versante della pittura murale e si avvicina ai caratteri che l’artista attribuisce alle sue realizzazioni maggiori. Anche qui si sovrappongono immagini di un passato mitico e richiami a una realtà naturale evocata da poche forme statuarie. Lo spazio è diviso in due zone, contraddistinte dalla massa pesante del muro di pietra, nella parte superiore, e dall’apertura su un paesaggio freddo e desolato, senza luogo e senza tempo, in quella inferiore. Il riferimento al passato in questo paesaggio, inoltre, è da leggere in modo diverso rispetto al classicismo degli anni Venti. Qui, infatti, nel senso materico della natura, nella solidità della pietra, che richiama le mura perimetrali di una città fortificata, nella atemporalità degli alberi pietrificati, possiamo leggere la vicinanza di Sironi a una ripresa del mito, filtrato anche dalle teorie del “primordialismo”, esposta in modo diverso da Massimo Bontempelli, da Corrado Cagli, e da Franco Ciliberti, che nel 1938, anno di esecuzione del dipinto, ospitò Sironi sulle pagine della sua rivista “Valori Primordiali”.

17. MARIO SIRONI (Sassari, 1885 - Milano, 1961) Paesaggio arcaico, 1938 olio su carta intelata, 70 x 80 cm

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Con Il ponte di ferro alla Renault Treccani porta il suo sguardo sulla città – Milano – delle periferie industriali e di un paesaggio urbano ripreso con toni esistenziali. Gli spazi appaiono stirati e dilatati, il cielo ingrandito, la luce incupita nei colori plumbei di una Milano soffocata dalla caligine, nella quale l’elemento umano è del tutto assente, così da insinuare il senso dominante di solitudine, il vuoto incombente che suscita una sorta di trepidazione e di struggente malinconia. La luce, livida e materica, assume un valore fondamentale nella stratificazione dell’immagine, che appare composta dalla combinazione di due toni contrastanti: il blu abbassato e sporco e il color biacca, abbacinante e liquefatto in una doratura appena accennata, antinomia che scarica dall’opera verso chi osserva un forte timbro emozionale in grado di conferire al paesaggio industriale un insospettato spessore poetico. L’opera è tra le più significative eseguite dall’artista in quegli anni ed è stata esposta alla Biennale di Venezia del 1956.

18. ERNESTO TRECCANI (Milano, 1920 - 2009) Il ponte di ferro alla Renault, 1956 ca olio su tela, 60 x 100,5 cm

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L’opera, eseguita nel 1933, interpreta il carattere tipico di molte vedute dell’artista (a partire dal Grande paesaggio del 1922), dove al paesaggio naturale si affiancano numerosi elementi architettonici. Gli edifici, come sempre accade nella pittura di Zanini, sono semplici costruzioni dai volumi nitidi, che richiamano l’esperienza architettonica dello stesso artista. Il palazzo giallo che domina la veduta, in particolare, richiama la struttura del celebre palazzo Civita di Piazza Duse, che Zanini porta a compimento proprio in questi anni, tra il 1933 e il 1934. La presenza umana, come in molti altri dipinti di Zanini, è ridotta ad un’unica figura sulla barca, nella piccola insenatura del porto, ad accentuare il senso di assorta solitudine della scena. L’insieme riecheggia la tipica situazione di sospesa evocazione di luoghi e momenti filtrati da una dimensione narrativa indipendente dal reale, quasi di natura teatrale.

19. GIGIOTTI ZANINI (Vigo di Fassa, Trento, 1893 - Gargnano, Brescia, 1962) Il porto, 1933 olio su tavola, 102 x 76 cm

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Nell’ordine e nell’aspra grafia, Paese toscano mostra affinità con la tradizione classico-primitiva della pittura italiana del TreQuattrocento, generando il tipico sovrapporsi di una nitida visione fondata sul reale e di un lontanarsi magico nel tempo e nello spazio, che genera la particolare magia della pittura di Gigiotti Zanini. Il paesaggio si ispira a qualche località del Chianti, dove l’artista ha soggiornato negli anni della Seconda Guerra Mondiale, cogliendo motivi di semplicità nelle forme delle colline e degli alberi, inseriti in una essenzialità d’insieme, in cui l’intensa luminosità fa palpitare ogni cosa. Come scrisse Savinio nel 1947, parlando della pittura di Zanini a pochi anni dall’epoca in cui ha realizzato quest’opera: “Gli spettacoli rappresentati da Zanini non sono spettacoli naturalistici ma idealistici. Perché il paesaggio italiano, questo paradigma di civiltà rurale, per quanto lavorato e ordinato da tre millenni di sapienza e di saggezza agricola, è una ben rozza terra ancora in comparazione all’ordine e al civismo che di questo paesaggio davano i pittori veramente italiani come Mantegna e come Perugino, e oggi continua a dare Gigiotti Zanini…” (A. Savinio, Gigiotti Zanini, Hoepli, Milano, 1947, p. 13)

20. GIGIOTTI ZANINI (Vigo di Fassa, Trento, 1893 - Gargnano, Brescia, 1962) Paese toscano, 1941 olio su tela, 58 x 73 cm

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Figura singolare dell’arte del Novecento, Guidi è passato dal confronto con l’arte del passato al dialogo con il presente, partecipando con curiosità e autonomia degli sviluppi delle tendenze più avanzate. Nel secondo dopoguerra, stabilitosi a Venezia, nella sua pittura affronta i soggetti più tipici dell’immaginario veneziano, con una pittura dai caratteri rarefatti, in cui la luce diviene unica protagonista. Marina del 1966 conserva un residuo iconografico, ma fondata su labili apparizioni, e ben rappresenta i toni liquidi della pittura di Guidi. La composizione rivela un’essenzialità portata all’estremo, in cui la terra si confonde con l’acqua e solo una più marcata insistenza della luce le distingue. Nessun rilievo plastico rimane evidente, e ogni dato fenomenico è sublimato in una luce e in un ordine fortemente mentale.

21. VIRGILIO GUIDI (Roma, 1891 - Venezia, 1984) Marina, 1966 olio su tela, 40 x 50 cm

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La Chiesa è un dipinto eseguito nel 1958, quando Calderara effettua una decisiva svolta verso l’abbandono della rappresentazione figurativa, con il passaggio a una costruzione per piani bidimensionali, che saranno presto tradotti in forma compiutamente astratta. All’interno di un processo di dissoluzione delle forme curvilinee, quali impronte del movimento, l’opera propone ancora una visione di paesaggio, evocata attraverso il velo di toni soffusi e ribassati, che trasformano l’immagine in “un ricordo di paesaggio ordinato in linee orizzontali che si incontrano ortogonalmente”, come disse l’artista a proposito delle sue delicate realizzazioni di questo momento. Il carattere cromatico, o meglio il colore che diventa luce in una tonalità unitaria, è in fondo il vero protagonista della sua pittura che, una volta “liberatasi” dal tema iconografico, fa assurgere ad assoluto protagonista del dipinto quello “spazio luce” di cui parla lo stesso Calderara.

22.

ANTONIO CALDERARA (Abbiategrasso, Milano, 1903 - Ameno di Vacciago, Novara, 1978) La Chiesa, 1958 olio su tavola, 26,6 x 35,2 cm

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L’opera offre un paesaggio di carattere interiore, quale richiamo di un’immagine evocata dalla memoria, più che dall’osservazione della natura, momento di sospensione rispetto all’iconografia drammatica prevalente nella pittura di Zoran Music, improntata dal ricordo dei lager della sua contemporanea produzione pittorica. Anche l’indagine sul paesaggio, cui Music si era dimostrato interessato fin dagli esordi della sua carriera, sembra subire negli anni Settanta una decisa virata, rispetto ai toni rigorosi, ma sospesi e lievi, caratteristici dell’artista, in direzione d’una più sofferta espressione, nelle tele dedicate a paesaggi delle foreste della Francia meridionale. Qui l’immagine sembra dissolversi in una dimensione coloristica sfuggente, ma non impressionistica, acquisendo qualità simbolica in un senso panico di trasformazione delle cose.

23. ANTON ZORAN MUSIC (Gorizia, 1909 - Venezia, 2005) Changement de saison, 1973 acrilico su tela, 92 x 65,7 cm

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Una spiccata omogeneità si può cogliere nel nucleo principale delle opere raccolte nel secondo momento del percorso qui presentato. Non tanto e non solo perché l’arco temporale di questo gruppo sia più circoscritto, fra i primi anni Cinquanta e la metà del decennio successivo, quanto per l’affinità delle proposte critiche di quegli anni, con autori che partecipano di un medesimo clima e si pongono simili problemi espressivi. Il cambiamento di prospettiva che si può registrare, a proposito dell’osservazione e della ripresa del paesaggio nella pittura degli anni Cinquanta, andrebbe allargato ad altre figure, oltre a quelle qui considerate, che si potrebbero dire di cerniera fra i modi rappresentativi del paesaggio di visione e altre forme che in vario modo pongono il problema di un superamento della ripresa diretta di un luogo definito e riconoscibile. Tra coloro che partecipano di un tale sviluppo non possono non essere citati anche autori che in vario modo preludono a un dissolvimento del paesaggio all’interno di tavolozze ridotte e tocchi di pennello sfumati, come avviene nei paesaggi dipinti da Morandi nei primi anni Quaranta, o nelle estreme visioni di un orizzonte aperto sul nulla, nei quadri dell’ultima fase di De Pisis. Occorrerebbe inoltre considerare la particolare configurazione delle composizioni che vanno a costituire paesaggi a sé stanti, nelle narrazioni sprofondate nel vuoto di Osvaldo Licini, per accennare ad alcuni maestri isolati. Strade diverse e quasi opposte, che però contribuiscono, in un momento decisivo, accanto e forse più delle contrapposizioni formali e ideologiche, rappresentate dal conflitto fra realismo e astrazione, almeno per quanto riguarda la questione del rapporto con la percezione o la sensazione del paesaggio, a fornire possibili spunti per andare verso una nuova dimensione visiva, una “figurabilità” del paesaggio, come ha osservato Fabrizio D’Amico, secondo ipotesi che scavalcano la sua possibilità di essere immagine, per andare alla sua intuizione originaria1. 1

“Da schermo che era, da luogo accertato e stabile di mediazione, il paesaggio diviene così bilico slittante e ambiguo che raccoglie precariamente non un’intenzione di mimesi di forme naturali più o meno trasfigurate dall’individualità stilistica, ma la volontà caparbia di rapportarsi con l’idea stessa di paesaggio, con la ‘figura’ archetipica del paesaggio”, F. D’Amico, Un’altra natura, in L’invenzione del paesaggio. La pittura italiana da Morandi a Schifano, a cura di F. D’Amico e W. Guadagnini, catalogo della mostra, Palazzina dei Giardini, Modena, 1 ottobre 1995 – 7 gennaio 1996 (Mazzotta, Milano, 1995), p. 21.

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La ricerca di una dimensione ulteriore e quasi originale, archetipica, del paesaggio, sarà al massimo grado propria della situazione che verso la metà degli anni Cinquanta si potrà riconoscere nella proposta critica di Francesco Arcangeli, di un “ultimo naturalismo” che va a sovrapporsi a parte delle direzioni individuate dagli artisti operanti in un ambito “informale”2. Altre vie per un superamento della qualificazione d’immagine si possono riconoscere tra Spazialismo e Arte Nucleare, dove i “paesaggi” sono condizioni sospese, ancestrali o posteriori alla configurazione di natura. Due appunti di questo genere, nelle rispettive e diverse caratteristiche, possono essere individuati nel dipinto di Enrico Baj, con cui si apre questa sezione, dove le macchie di un leggero e aereo tachisme fluttuano su una scansione liquida di orizzonte sidereo, e nella tempera di Tancredi, apertura baluginante del suo colorespazio, di ascendenza, come egli stesso dichiara, naturalistica. La natura è e sarà il paradigma attorno al quale si spenderanno, in questi anni, le energie rivolte a recuperare un legame con una ipotesi di paesaggio non più separata dalla forma espressiva e dalla dimensione autobiografica, per quanto Arcangeli insista, nel parlare dell’“ultimo naturalismo”, sul passaggio dall’“uno” al “due”, dalla sclerosi del soggetto che rappresenta se stesso, all’apertura all’altro, nelle nuove forme di naturalismo, o di attenzione per l’oggetto. La fusione con l’ambiente naturale, che ha una sua indiscutibile presenza, viene attuata attraverso le vie della fisicità, ma anche per quelle del ricordo, dell’introiezione dei luoghi nella propria esperienza. Su questa via, innanzitutto, possiamo riconoscere le proposte di Corpora, Santomaso, e forse anche di Birolli. Le tre opere di questi autori qui avvicinate sono state esposte in tre edizioni successive della Biennale di Venezia – 1952, quella di Corpora; 1954, quella di Santomaso; 1960, quella di Birolli. Il motivo e la sua rielaborazione per vie autonome, quasi sotterranee o sottotraccia, può accomunare il modo in cui i tre artisti, riuniti nella formazione degli “Otto pittori italiani”, sostenuta dalla pubblicazione di una monografia introdotta da Lionello Venturi in occasione della Biennale del 1952, dialogano con figure e paesaggi originari, assorbiti e quasi dissolti nelle ipotesi formali in cui si sente ancora all’opera la disgregazione della ventata neocubista che coinvolse molti artisti, non solo italiani, nell’immediato dopoguerra. In quell’equilibrio fra “astratto” e “concreto” indicato da Venturi in un suo noto articolo del 19503, natura e astrazione si combinano nelle loro opere, tanto nel soggetto marino di Corpora, quanto nel “ricordo” che sottintende la libera configurazione di Santomaso, nel deciso sovrapporsi di verticali - nei segni decisi del primo piano - e orizzontali - nelle cromie di fondo, ma anche nell’intenso tessuto cromatico che contraddistingue l’Incendio alle 2

Il critico bolognese è il più strenuo sostenitore di un’ipotesi “naturalistica” che si afferma in stretta corrispondenza con alcuni degli sviluppi internazionali dell’arte di quel periodo, fra la definizione di un’“art autre”, operata da Michel Tapié e le istanze di un “impressionismo astratto” formulate dalla critica americana della metà del decennio, espressamente ricordati nei suoi testi esplicitamente dedicati all’argomento. Cfr. in particolare F. Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, “Paragone”, n. 59, Firenze, novembre 1954, pp. 29-43 e F. Arcangeli, Una situazione non improbabile, “Paragone”, n. 85, Firenze, gennaio 1957, pp. 3-45. 3

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Cfr. L. Venturi, Astratto e concreto, “Biennale”, n. 1, luglio 1950, p. II.


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Cinque Terre di Birolli, nella sua violenza frenata, dove si riconosce l’accordo fra la condizione naturale evocata e la partecipazione emotiva al ritmo naturale, al vibrare degli elementi. In tutte e tre queste tele la struttura d’immagine ha un carattere oggettivante, nel senso che va a costituire una realtà formale compiuta, in equilibrio fra la dimensione originaria, il dato naturale, e la sua trasposizione in una nuova e indipendente realtà pittorica. Rispetto a queste, una condizione di natura ancor più ravvicinata e fisicamente vissuta, tale da divenire motivo preponderante e quasi occlusivo per la visione, lo possiamo riconoscere nell’esempio del naturalismo di Morlotti, emanazione, più che registrazione, di energie derivate dall’incontro immediato con una natura colta nel cespuglio, nel fiore, nella zolla di terra, dove non è possibile oggettivazione, ma trasfigurazione in forma e forza universale. Sul versante di una possibile persistenza descrittiva, pur nell’aderire alle tecniche e ai modi espressivi del periodo, si può situare piuttosto il Verziere di Mandelli, tra gli autori, insieme a Morlotti, esplicitamente apprezzati da Arcangeli, per quel suo stare in bilico fra rappresentazione ed emozione, che trae esplicite ragioni dal motivo osservato. Di sola energia si compone la raffigurazione di un luogo decomposto in unitarietà di stesura, pur nelle accensioni di lampi di luce, nella Cava di Moreni, anch’egli al crocevia fra le diverse esperienze di quel momento, e sicuramente più vicino al mondo di un “espressionismo astratto” che non rinuncia alla presenza dell’immagine, non fosse altro che nella forma dello spunto originario o della sua capacità di essere indicazione di percorso. Con la sua, e per altre vie con l’opera di Afro, di qualche anno posteriore e per questo ancora più rivolta, nella vicenda pittorica dell’artista friulano, a un confronto con taluni aspetti delle elaborazioni più spiccatamente gestuali della contemporanea arte americana, in particolare di de Kooning, possiamo constatare come dentro le versioni anche più virulente, di una azione che va quasi a cancellare, con la forma, ogni possibile riferimento diretto alla realtà visiva, non si annulli però la presenza di un “soggetto”. Proprio in questa direzione, della difesa della presenza di una tematica espressiva che poteva ancora coincidere con un referente esterno, anche naturalistico, andavano le indicazioni esposte da de Kooning nei suoi interventi e soprattutto nelle libere elaborazioni dei suoi dipinti, che passavano da temi urbani a nuove formulazioni della figura, attraverso forme che transitavano per una creazione spontanea della stessa immagine. Da tale matrice scaturisce, in buona parte, la versione di un “impressionismo astratto”, come ripresa della rielaborazione del motivo, ma in un modo di agire innervato dalla nuova “tradizione” del moderno, affrontata nei linguaggi internazionali del secondo dopoguerra, tipologia che caratterizza molti autori americani della metà del decennio. Per altre vie, non dissimili in alcuni esiti, anche l’informel francese e le versioni europee di una pittura di qualità fortemente espressiva, preponderante in quel momento, mantengono vivo il dialogo fra matrice naturalistica ed esito formale autonomo del quadro. Si tratta di un nodo storico-critico di particolare significato, che a loro modo Moreni e Afro interpretano con rimandi a un naturalismo che si innerva di ricordi emotivi e sensazioni legati a luoghi e “paesaggi”, riletti attraverso un personale connubio di azione e memoria. 83


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La sequenza di opere che seguono può essere considerata la conferma di una sensibilità per un argomento di interesse non solo critico, in quanto le declinazioni di una pittura che pare chiudersi nella strutturazione di colore, attraverso esplorazioni di segni dinamici, espansioni cromatiche, colpi di spatola, tracce e incisioni di superficie, che in vario modo costituiscono il linguaggio della seconda metà del decennio, ne formulano una specie di esperanto, all’interno del quale i luoghi sono evocati o raccontati da umori interni al fare pittorico. I colori che sostanziano le composizioni di Umberto Milani e di Alfredo Chighine, autori che non fanno mistero della loro adesione a un confronto con la natura, prendono vita in un paesaggio lombardo da loro interpretato in una simbiosi fra l’origine naturalistica e la sua proiezione in un viluppo o in muro quasi impenetrabile. Più dichiaratamente vicino a esprimere sensazioni naturalistiche appare Lavagnino, nelle sue composizioni più dirette a tradurre le condizioni di un paesaggio vibrante di emozioni sempre più destinate alla scomposizione visiva, in vista di una loro ricostruzione in immagine interiore. Anche Ruggeri e Saroni, esponenti dell’area piemontese di un’ipotesi di connessione fra le diverse esperienze del momento che Arcangeli traccia, oltre che negli articoli su “Paragone”, in una strategia di esposizioni che collegano l’ambiente bolognese, quello milanese e quello torinese, in rapporto anche con le posizioni sostenute da un altro critico attento alla tradizione di un naturalismo fondato nell’esperienza moderna, Luigi Carluccio, traducono in direzione di una accentuazione espressiva del dato di natura i soggetti da loro trattati. Con loro, anche Spazzapan rappresenta la forza espressiva di una situazione particolarmente attiva nella Torino che verso la fine del decennio troverà ulteriori ragioni di confronto internazionale attraverso l’azione critica e organizzativa di Michel Tapié. Con Boille e con Spinosa si completa la presentazione di diverse situazioni connotate dal legame con un territorio che è espressivo e geografico al tempo stesso, dove il carattere universale delle posizioni espresse da una pittura prevalentemente orientata a valorizzare segni e gesti indipendenti trova dimensioni locali, nelle atmosfere mediterranee esplicitamente indicate da Spinosa, o nel segreto e sommesso richiudersi in una ripresa di tracce del mondo esterno, del friulano Boille. L’esplorazione del fenomeno del naturalismo attivo all’interno della complessità del panorama dell’informale italiano, nelle sue diverse versioni e personalità, potrebbe essere oggetto di ulteriore approfondimento all’interno del ricco e capillare materiale di alto livello presente nelle medesime collezioni, che ha nelle vicende dell’arte degli anni Cinquanta uno dei momenti di più estesa e qualificata attenzione. A conclusione di una sezione in cui sono raccolte opere riguardanti le esperienze di una trasformazione del rapporto con il paesaggio in forme di naturalismo diversamente sviluppate fra gli anni Cinquanta e primi Sessanta si deve poi considerare un diverso genere di esplorazioni, dove l’immagine, anche se in modi sommari, torna a essere protagonista, come nel bel dipinto di Novelli, un paesaggio marino ricreato mediante un tratto quasi infantile, che bene si connette, nella sua originalità, alla sua tipica narrazione per figure. Il paesaggio 84


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sta diventando, del resto, un modello non solo di confronti diretti, in quanto sempre più l’incontro con esso risulta mediato da altre modalità di immagine, come riconoscono le poetiche indirizzate a riconoscere le componenti meccaniche e artificiali della cultura visiva, di cui un autore come Schifano, anche nel momento in cui elabora opere come Ultimo autunno, tra le prime valide a testimoniare un interesse diversamente da lui amplificato in seguito, si fa singolare interprete, pur preservando la matrice naturalistica di cui indaga l’essenza. Il nuovo modo di vivere e sentire il paesaggio, in questa direzione, può essere riconosciuto all’interno del confronto fra naturale e artificiale, che innerva molte forme di un rinnovato sguardo alla realtà delle cose. Lo può dimostrare la scultura di Alik Cavaliere, valida esemplificazione di come egli abbia saputo rileggere e combinare gli impulsi all’oggettivazione e al racconto, riportando istanze neodadaiste in una chiave che, nel ricorso alla tecnica scultorea più tradizionale, della fusione in bronzo, restituisce forma e vitalità a una visione metaforica dell’ambiente, considerato come frammento di realtà addomesticata dalla volontà di dominio dell’uomo. Accanto ai termini dialettici di paesaggio e territorio si va affiancando, da allora, anche nel linguaggio comune, il riferimento all’ambiente, inteso tanto come termine neutrale e quasi sovrapponibile allo spazio geografico, quanto nella sua accezione più incline a valorizzare la necessità di una difesa dell’elemento naturale, nei confronti dell’azione dell’uomo, per cui, come è stato osservato, tale declinazione porta a modificare il tipo di relazione che si instaura con la realtà circostante, rischiando però di provocare confusioni di ruoli e di competenze4. Nel campo dell’arte, in particolare, la qualificazione ambientale si rivolgerà in due direzioni, da una parte partecipando all’estensione del genere di operazioni artistiche al di là della cornice non solo del quadro – e per estensione della scultura – ma anche dello spazio in cui l’arte viene accolta e presentata, e dall’altra spingendo verso una accentuata attenzione nei confronti di azioni e dimostrazioni che possono indirizzarsi verso contenuti ideologici. Segno del passaggio da una visione ancora fondata in una dimensione rappresentativa verso altre ipotesi di intervento può essere data dall’accostamento, che qui si vuol proporre, fra un dipinto di Guttuso, dei primi anni Sessanta, che sposta l’attenzione dal soggetto più tipicamente realista e narrativo a un particolare paesaggistico, nella visione ravvicinata e quasi monumentale di una pianta di Fichi d’India, nel quale si identifica un territorio, e un frammento di “natura” di Piero Gilardi, realizzato in poliuretano espanso, con un grado di trompe l’oeil che specifica, sul piano dell’immagine appunto, l’incontro tra il massimo avvicinamento al luogo, quasi trasferito in una specie di mappa 1:1, e lo slittamento nel campo dell’artificialità. Due opere che si rispecchiano, pur divergendo per modi espressivi e ragioni di fondo, ma che si possono benissimo incontrare, nella comune volontà di rapportare l’idea delle cose alla loro realtà concreta. 4

Cfr. S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, cit., 2011, cap. VI.

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Il dipinto, da considerarsi fra i primi compiuti esperimenti di arte “nucleare” di Enrico Baj, richiama uno dei motivi ricorrenti nell’immaginario del secondo dopoguerra. Il “paesaggio” nucleare o post-atomico non è però solo raffigurazione inquietante di una drammatica condizione di morte o desolazione; segni e colori possono essere gli spunti di un nuovo inizio, di una visione sospesa ed aperta, dove la trasformazione rigenera le cose. Le tracce vanno comunque intese all’interno dell’esito pittorico, ottenuto con una tecnica che unisce olio, smalti e acqua, da cui scaturisce una miscela liquida che si definisce sul supporto, secondo tipologie che possono essere ben dette di pittura informale. L’opera proviene dalla galleria di Arturo Schwarz, che ha sostenuto con passione l’arte di Baj e del Movimento Nucleare.

24. ENRICO BAJ (Milano, 1924 - Vergiate, Varese, 2003) Nuclear Landscape, 1951 olio e smalto su cartone, 29 x 52,3 cm

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Tancredi svolge nella sua pittura della prima metà degli anni Cinquanta una sperimentazione di tecniche pittoriche nelle quali riduce il segno espressivo fino al più piccolo e semplice punto di colore, elemento che considera primario nella definizione e costruzione dello spazio. Rinunciando così alla composizione formale svolta attraverso figure o geometrie predefinite, la libera disposizione di colori che si accordano per successive stratificazioni produce immagini germinali, che verranno da lui presto considerate come esplosioni o espansioni “primaverili”. Non solo per questo, Tancredi riconosce affinità con condizioni e sensazioni naturalistiche, intrinseche al senso dinamico di tracce orientate in una direzione di crescita e al tono dominante di intensa luminosità in cui la composizione si dispiega, quasi ouverture musicale.

25. TANCREDI (Tancredi Parmeggiani) (Feltre, Belluno, 1927 - Roma, 1964) Senza titolo, 1952-1955 tecnica mista e tempera su carta Fabriano, 70 x 100 cm

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Alla Biennale del 1952 Corpora è presente con nove opere, tra cui Barca in costruzione, una delle opere a cui sembra riferirsi direttamente Lionello Venturi nel testo di presentazione degli Otto pittori italiani, raggruppamento nel quale lo stesso Corpora è inserito. Venturi, infatti, per specificare il loro essere indifferenti all’alternativa realismo/astrattismo accenna ad un esempio: “Se nel loro arabesco l’immagine di una barca o di qualsiasi altro oggetto della realtà può essere inclusa, non si privano dell’arricchimento che quell’oggetto può dare alla loro espressione” (Otto pittori italiani, Roma, De Luca, 1952, pp. 7-8). Il problema del motivo, di un tema originario per una composizione che si dipana poi con assoluta coerenza interna, è centrale per un’arte che recupera la dimensione del ricordo o di un frammento di immagine, vivo non solo nel titolo. Spesso è proprio la sensazione di un luogo, di una situazione che si connette a uno spazio, a determinare almeno il punto di partenza di una strutturazione determinata poi dal libero accordo tra colore di fondo, qui fondato nei blu e verdi di intonazione marina, e del segno, ancora parzialmente geometrizzante in questa tela. Per queste caratteristiche l’opera si segnala come un soggetto esemplare di un momento di particolare significato nella transizione verso la successiva stagione di Corpora, improntata al lirismo del colore quale forma unica del dipingere.

26. ANTONIO CORPORA (Tunisi, 1909 - Roma, 2004) Barca in costruzione, 1952 olio su tela, 81,5 x 100 cm

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Si tratta di una delle opere più note e di maggior caratterizzazione realizzate dall’artista veneziano nei primi anni Cinquanta, quando la sua via di uscita dal neocubismo e dalle contrapposizioni fra astrazione e realismo degli anni dell’immediato dopoguerra è tra le più caratterizzanti di una posizione mediana, interpretata criticamente dalla poetica del cosiddetto “astratto-concreto”, teorizzato da Lionello Venturi e promosso attraverso “il gruppo degli Otto”, che dal 1952 annovera Santomaso fra i suoi protagonisti. In esso il motivo non viene cancellato, ma assorbito in una dimensione compiutamente autonoma. Protagonista del dipinto può essere considerato un arabesco di linee nere ascensionali e incurvate, di differente spessore e profilo, che si muovono sopra un fondo omogeneo, caratterizzato dalla predominante tonalità verde acqua. Senza voler attribuire specifici significati figurali, vi possiamo riconoscere un’atmosfera e tonalità “veneziane”, che giustificano la sua qualificazione di frammento memoriale. L’opera, dalla ricca storia espositiva e bibliografica, è stata esposta alla Biennale di Venezia del 1954 e apparteneva alla prestigiosa collezione di Guglielmo Achille Cavellini, che sostenne da vicino, in quegli anni, la produzione artistica di un nucleo considerevole degli autori che si andavano affermando in un contesto internazionale.

27. GIUSEPPE SANTOMASO (Venezia, 1907 - 1990) Ricordo verde, 1953 olio su tela, 120,2 x 150 cm

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Incendio alle cinque terre è un “incendio” di colori, capaci di evocare forme della natura, alla quale Birolli non rinuncia mai completamente, in una sorta di non figurativismo organico. I colori squillanti diventano manifestazione della forza della natura e sono emblema degli stati d’animo che essa suscita nell’artista. Il tema, ricorrente nella produzione di Birolli della seconda metà degli anni Cinquanta, quando l’artista soggiorna a lungo in quella regione, è trasposto, attraverso le suggestioni ricevute dall’ambiente, in una struttura aperta di colore modulato secondo accordi e contrasti. Il rapporto con il luogo è sentito e profondo, come afferma Birolli nei suoi diari, ed è per lui uno stimolo a lavorare in accordo con il paesaggio: “Pare un sogno poter parlare ancora della natura”, scrive in Quattordici quadri d’estate nel 1954 (R. Birolli, Taccuini 19361959, Torino, 1960, p. 293). Gli incendi che scoppiano d’estate nel paesaggio, in particolare, risvegliano l’immaginazione dell’artista, da sempre sostenitore dell’importanza del colore nella composizione che lui intende come “architettura di emozioni”. L’opera, che ha poi conosciuto numerose occasioni espositive, è stata presente alla Biennale di Venezia del 1960.

28. RENATO BIROLLI (Verona, 1905 - Milano, 1959) Incendio alle Cinque Terre, 1955 olio su tela, 114 x 122 cm

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Morlotti è tra coloro che più fortemente sentono l’esigenza di un confronto con la natura, nella sua produzione che va oltre i problemi formali e ideologici posti dal neocubismo degli anni Quaranta e dal dibattito sul realismo. La sua pittura vive dentro le materie cromatiche, ma queste sono intrise del sentimento della terra, del suo rigenerarsi, della vita che su di essa si svolge. I colori, sviluppo di una riduzione della tavolozza di matrice cézanniana, ma aperta ad accogliere note dissonanti o acute, come in questo caso nel violetto che richiama i fiori del titolo, sono corposi e intensi e vanno a costituire una parete occlusiva, come ingrandimento di un particolare o insieme di sensazioni visive sovrapposte, in cui i modelli operativi della pittura informale, nelle sue varie forme, trova una dimensione rappresentativa.

29. ENNIO MORLOTTI (Lecco, 1910 - Milano, 1992) Calendole, 1955 olio su tela, 61 x 85 cm

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Nella pittura di Pompilio Mandelli la natura è il punto di partenza per sperimentazioni e metamorfosi connesse alla sua sensibilità, al sentimento vissuto intimamente, conducendolo verso le istanze della libertà dei procedimenti dell’informale. Ne Il verziere, esposto alla Galleria Il Milione nel 1956 ed entrato in seguito nella Collezione Pomini, il sentimento del paesaggio è vissuto interiormente. Vi si avverte la lezione cézanniana mediata dalla forza di una personalità autonoma. Nell’opera le tonalità dei blu e dei verdi si fondono con l’accensione dell’arancio, con le sottili pennellate bianche e quelle più sommesse dei grigi, quasi a testimoniare, nella varietà cromatica, un paesaggio colto nella sua più profonda essenza. Questi caratteri, che ben rappresentano la sua pittura alla metà degli anni Cinquanta, fanno della sua maniera, strettamente legata a quel paesaggio padano da lui esplorato, un perfetto campione dell’“ultimo naturalismo” sostenuto criticamente da Francesco Arcangeli come situazione allargata a un gruppo di autori attivi tra Piemonte, EmiliaRomagna e Lombardia, ma con risonanze di respiro universale.

30. POMPILIO MANDELLI (Luzzara, Reggio Emilia, 1912 - Bologna, 2006) Il verziere, 1955 olio su tela, 85,5 x 100,5 cm

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L’opera, realizzata nel 1955, poco prima del trasferimento di Moreni a Parigi, partecipa di un clima nel quale il distacco dai modelli contrappositivi fra realismo e astrazione si libera in una nuova formulazione compiutamente ed esclusivamente pittorica, che non rinuncia però al riferimento a un soggetto ad essa esterno. La cava evoca la ripresa di un luogo non chiaramente definito, ma di cui l’artista vuole ricordare la sostanza o la memoria intima, suggestiva o emotiva. Liberatosi dalla rappresentazione delle forme, nell’allontanamento dalla forma geometrica o organica, ciò che egli lascia in evidenza è l’estrema libertà, che si manifesta nella stesura del colore, stirato e a chiazze di diversa luminosità intrinseca. L’opera manifesta complessivamente una forte tensione, secondo un progressivo emergere di qualità espressioniste, che caratterizzeranno l’opera di Moreni, riflettendo una poetica fondata in una risposta decisa, quasi aggressiva, alle condizioni ambientali.

31. MATTIA MORENI (Pavia, 1920 - Brisighella, Ravenna, 1999) La cava, 1955 olio su tela, 150,5 x 150,5 cm

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L’opera testimonia bene uno dei momenti di maggior peso della carriera artistica di Afro. Esposta nella sala personale dedicata all’artista friulano nella Biennale di Venezia del 1960, è uno degli esemplari più avanzati sulla strada di una liberazione dalla costruzione della forma, nel personale e raffinato dialogo istituito da Afro con le poetiche dell’informale. Rispetto ad altre presentate in quella stessa occasione, dove il richiamo alla dimensione della memoria di luoghi, particolarmente del paesaggio friulano, sono esplicitamente dichiarati, in questa sembra prevalere il deciso abbandono di una memoria di immagine o di presenza formale aggregante, per lasciare spazio a gesti che “sporcano” le stesure cromatiche sottostanti e a momenti disgregativi, distribuiti nel formato più squadrato. Ciò nonostante, alle origini di molta produzione di Afro, anche del periodo più spiccatamente confrontabile con la pittura americana dell’espressionismo astratto, sempre si può ritrovare un segno, una struttura di forma, di immagine, quasi di luogo, che si ricompone attraverso le negazioni, nell’aggregarsi riconoscibile delle forme-colore all’interno della fluidità di uno sviluppo, generalmente orientato a privilegiare la forma orizzontale, distesa e quasi narrativa. Con delicatezza e in un dialogo che non genera contrasti, la sua pittura sente la prossimità di de Kooning e di altri autori dell’arte prioritariamente americana per risolvere gestualità e aggressività di quelli in una composizione sempre strutturante e compiuta.

32. AFRO (Afro Basaldella) (Udine, 1912 - Zurigo, 1976) Senza nome, 1959 tecnica mista su tela, 104 x 130 cm

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Soprattutto nella scultura, che costituisce il linguaggio espressivo maggiormente e più tipicamente praticato da Umberto Milani, il referente naturalistico risulta costante, nelle aggregazioni di forme realizzate da matrici in cui gli elementi di ascendenza vegetale e organica sono chiaramente presenti. Anche tali motivi, però, sono acquisiti all’interno di una esplorazione di modelli informali, che scaturiscono da una libertà di aggregazione dei materiali. Più specificamente questo si nota nelle realizzazioni pittoriche, dove le strutture sono assorbite nei procedimenti affini al dripping e ad altre stesure di colore, che si va a confondere in un insieme magmatico. Il grigio, l’azzurro e il rosa, richiamato nel titolo, diventano i temi sottostanti una forma compatta, unitaria, che va a coincidere con la superficie. All’interno di un principio prevalentemente di pittura “d’azione”, comunque, si ritrova una energia che a Milani deriva dalla partecipazione a un clima in cui il naturalismo va a coincidere con il divenire delle forme.

33. UMBERTO MILANI (Milano, 1912 - 1969) Grigio, rosa e blu, 1961 olio su tela, 100 x 100 cm

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L’opera di Chighine, esposta nella Galleria del Milione nel 1956, in occasione di una sua mostra personale, presentata da Guido Ballo, che ne rappresenta il carattere specifico fino a quella data, è tra i segni di un progressivo superamento del riferimento naturalistico, fortemente sentito nelle composizioni della prima metà degli anni Cinquanta dall’artista, come la critica del tempo riconobbe. Il carattere “naturalistico” delle sue composizioni, per cui è stato partecipe di quel clima che vedeva convergere, in ambito informale, autori lombardi, piemontesi ed emiliani, aveva nella galleria del Milione uno dei luoghi di coltivazione. Qui i colori predominanti portano verso una forma di contrasto, così come le modalità nella stesura del colore, che giocano su gamme differenziate, ma pur sempre si può individuare, attraverso una disposizione che genera un equilibrio momentaneo, una ispirazione di carattere naturalistico, ripresa in chiave interiore, come serbatoio di emozioni.

34. ALFREDO CHIGHINE (Milano, 1914 - Pisa, 1974) Composizione arancio su fondo blu, 1956 olio su tela, 116,5 x 81 cm

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Autunno n. 2 è tra le opere con cui Lavagnino va acquisendo un proprio linguaggio, all’interno della situazione della seconda metà degli anni Cinquanta. Anch’egli partecipa delle procedure di una pittura informale, divenuta linguaggio diffuso, con accenti differenziati, ma in un chiaro rimando a un naturalismo di tono quasi “impressionistico”. Sono impressioni, le sue, desunte dal paesaggio ligure, intrise di umori esistenziali, di una visione introiettata della realtà, tradotta in unità di sensazione. Attento alla riscoperta di Monet e di Cézanne in una chiave aggiornata, la sintesi cromatica che sembra chiudersi in uno spazio onnicomprensivo viene da lui intesa come modo di sensibilizzare colore e superficie, con una trama di pennellate che si diffondono ovunque, rompendo ogni centralità, ma mantenendo un carattere di profondità. Più che osservare un luogo, un ambiente naturale, Lavagnino se ne fa investire, lo respira e lo traduce in tema complessivo.

35. PIERLUIGI LAVAGNINO (Chiavari, Genova, 1933 - Milano, 1999) Autunno n. 2, 1958 olio su tela, 70 x 60 cm

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Amore tra i fiori (o Figura tra i fiori, come potrebbe essere stata originariamente denominata l’opera, all’epoca della sua presentazione al Premio San Fedele del 1957) partecipa del momento di più diretta affinità, nell’opera di Ruggeri, con il carattere composito della pittura d’azione della seconda metà degli anni Cinquanta, nella sua versione italiana. Non ci mostra però un muro di materia, in quanto la parte centrale della composizione risulta aperta, quasi squarciata, e le tracce di segni, come i due gangli che fanno pensare a globi oculari spesso così rappresentati nelle “figure” di Ruggeri di questi anni, trovano una loro fisicità. Il motivo naturalistico, indicato nel titolo, conferma la vicinanza della sua pittura di quel momento con una versione “naturalistica” delle possibilità dell’informale, secondo la concezione critica formulata da Arcangeli, che nell’articolo del 1954 sugli “ultimi naturalisti” accennava anche all’opera dell’allora giovanissimo pittore torinese. Il grado di partecipazione a un tale gusto di fusione fra le istanze espressive del clima informale e le radici di un legame con la tradizione naturalistica è un aspetto importante, per quanto non unico, della pittura di Ruggeri, che anche in seguito ritornerà spesso a una libera espansione cromatica ispirata al confronto con luoghi delle campagne e delle colline piemontesi, ma anche alla forza imponente delle vette, per creare composizioni di grande forza cromatica e gestuale.

36. PIERO RUGGERI (Torino, 1930 - Avigliana, Torino, 2009) Amore tra i fiori, 1957 olio su tela, 85 x 110 cm

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Autore inserito fra gli “ultimi naturalisti” citati da Arcangeli, Saroni in Paesaggio propone una pittura evidentemente informale, di matrice francese, con tracce cromatiche violente, sia nella tonalità che nella pennellata, larga, corposa. Tracce rosse, arancioni, nere, illuminate da interventi chiari, guidano l’occhio dell’osservatore in un punto centrale leggermente rialzato e spostato a destra, punto di raccordo dell’energia che pervade la materia pittorica. La natura non è proposta nel suo codice figurativo riconoscibile, ma filtrata dall’interiorità dell’artista: il paesaggio è il paesaggio interiore evocato dai sensi e dalla memoria.

37. SERGIO SARONI (Torino, 1934 - 1991) Paesaggio, 1956 tecnica mista su carta intelata, 56 x 88 cm

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La superficie pittorica è invasa dalla stesura di un colore liquido e coprente, la cui densità lascia spiragli per tracce di colore, infiltrazioni luminose rosse e gialle in un campo blu. Le pennellate disegnano una sorta di cornice, imponendosi sulla carta con un andamento contorto, nervoso, fortemente irregolare, pur richiamando l’individuazione di una struttura architettonica dei piani compositivi, sicuramente meno chiara di opere precedenti. L’opera in questione, infatti, risale alla fase conclusiva della produzione dell’artista, in cui domina l’impeto quasi gestuale, espressionista, rispetto a una tradizione figurativa, ma aperta alla trasfigurazione del soggetto, nella quale era divenuto un punto di riferimento alternativo per le giovani generazioni attive in ambito torinese.

38. LUIGI SPAZZAPAN (Gradisca d’Isonzo, Gorizia, 1889 - Torino, 1958) Infiltrazioni luminose (Composizione astratta C), 1957 tecnica mista su carta, 44 x 76,5 cm

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Il dipinto risale alla fase matura della carriera dell’artista e testimonia l’appropriazione personale del linguaggio informale. Il titolo Alberi e sole rimanda a un referente figurativo non immediatamente rappresentato nell’opera, dominata dalla materia pittorica spessa, densa, in tonalità calde, arancioni, rosse, pervase di luce mediterranea. La componente materica nella pittura di Spinosa non è un espediente stilistico, ma è la realtà stessa divenuta pittura, carica di poesia e di emozione.

39. DOMENICO SPINOSA (Napoli, 1916 - 2007) Alberi e sole, 1959 olio su tavola, 97 x 80 cm

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Memore delle suggestioni dell’informale francese, Luigi Boille propone una pittura tonale, con tinte delicate interrotte da segni forti, profondi, divaricazioni visive, purificate però dalla componente tragica e drammatica di altri modelli di quel periodo. Quella che Boille propone in questo dipinto è una riflessione che evoca paesaggi interiori, addomesticati in una forma elegante e non violentemente gridata. La luce pervade il colore e anima la superficie pittorica.

40. LUIGI BOILLE (Pordenone, 1926) Senza titolo, 1955 tecnica mista su tavola, 36 x 52 cm

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L’opera, di formato verticale, come è proprio dell’artista, accenna a un soggetto narrativo, che si configura in un’immagine: nella parte inferiore il mare con onde ampie e ritmate e, nella parte superiore, una forma distesa, simile a una lingua di terra, con corpi triangolari liberi nel cielo. Ogni elemento potrebbe essere estratto dalla visione d’insieme, dal ruolo che l’occhio di chi osserva gli attribuisce nella definizione del paesaggio, in funzione di una visione puramente astratta, guidata dalle tonalità cromatiche che ricoprono una vasta gamma, dai grigi agli azzurri, dai blu a differenti tonalità di verde. La duplicità che abita il dipinto, la componente astratta e quella figurativa-narrativa, il disegno e il colore, il simbolismo e la descrizione rendono pienamente la complessità della ricerca artistica di Novelli e, nello specifico, della sua percezione della natura. Ogni forma, ogni colore ha un significato simbolico, che rimanda a una sfera ulteriore all’immagine naturale, lontana dalle dinamiche di appropriazione della natura da parte dell’uomo, quasi di matrice orientale, per cui l’uomo e la natura sono un tutt’uno.

41. GASTONE NOVELLI (Vienna, 1925 - Milano, 1968) Mare, 1967 tecnica mista su carta, 101 x 80 cm

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La tela è divisa in due sezioni verticali: da un lato compare il disegno di un albero con le sue foglie, dall’altra l’impronta dell’albero stesso su una scala cromatica dal verde al bianco, disposta in righe orizzontali, dipinte con pennellate disordinare e irregolari. Il disegno e i colori rimangono molto ariosi e vivaci. Sia il titolo, Ultimo autunno, che parte della composizione, fanno esplicito riferimento alla natura autunnale: l’artista non rifugge dall’espediente figurativo, ma lo carica di una forte matrice concettuale, che rende il dipinto particolarmente interessante e originale nel contesto linguistico in cui è stato realizzato, nei primi anni Sessanta. L’albero, nella poetica di Schifano, è carico di un significativo potenziale simbolico, come organismo portatore di una vita interiore. Il rapporto con la natura è profondo, ma anche astratto, mentale, e non per questo in antitesi con la sua forma riconoscibile.

42. MARIO SCHIFANO (Homs, 1934 - Roma, 1998) Ultimo autunno, 1963 olio su tela, 179 x 140 cm

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L’opera è una gabbia in bronzo, rialzata su alti sostegni, “abitata” da tuberi dalle forme irregolari e piccoli frutti atrofizzati mediante un calco. Questa “natura morta ingabbiata” rientra nelle frequenti rappresentazioni che Alik Cavaliere realizza dagli anni Sessanta in poi, nella fase della sua produzione artistica in cui il rapporto fra l’uomo e la natura è motivo ricorrente. L’artista propone calchi di vegetali ed elementi naturali, quali fiori, frutti, foglie, in dimensione ambientale, ispirandosi alle descrizioni del De rerum natura di Lucrezio, disponendoli, talvolta in maniera confusa, talaltra con un ordine più preciso, fino a formare delle nature morte, cariche di valori simbolici, più che rappresentazioni descrittive dell’oggetto, in chiave pop. Il titolo, Racconto, richiama la componente narrativa e fantastica, cara alla poetica di Cavaliere.

43. ALIK CAVALIERE (Roma, 1926 - Milano, 1998) Racconto, 1966 bronzo, 120 x 45 x 40 cm

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L’opera è un esempio dell’insieme di dipinti che Guttuso dedica al tema della natura, parallelamente alle opere con tematiche sociali e politiche. Tutta la superficie pittorica è occupata dal soggetto, le piante di cactus con i loro frutti ne rappresentano una visione ravvicinata, senza lasciare spazio a nessuna ambientazione, né alla terra, né al cielo. A livello stilistico il dipinto si caratterizza per una pennellata corposa, densa, quasi con accenni informali, soprattutto nella parte a sinistra, in cui il colore è libero e abbandona la forma. Gli elementi compositivi, proprio per la visione particolarmente ravvicinata, non si distinguono con chiarezza, creando un ingorgo visivo scandito dai colori. La scelta cromatica è vivace, gialli e verdi chiari abbinati a tonalità più scure per le foglie e interventi marroni e arancioni. I cromatismi e lo stile pittorico ricalcano la vitalità già suggerita dalla scelta del soggetto: l’artista ricorda le sue radici siciliane attraverso la pianta più rappresentativa della sua terra nativa, rendendo con efficacia la forza e l’energia della natura.

44. RENATO GUTTUSO (Bagheria, Palermo, 1912 - Roma, 1987) Fichidindia, 1962 olio su tela, 115 x 146 cm

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NUOVE RELAZIONI CON IL TERRITORIO Sul finire degli anni Sessanta una parte degli artisti che vanno svolgendo azioni in cui in primo piano sono i materiali e le condizioni stesse del fare, oltre che le intenzioni di un incontro diretto con lo spazio esterno, compiono il decisivo salto dalla concezione dell’opera come forma di rappresentazione o di espressione, all’intervento nel territorio stesso. Germano Celant, tra coloro che più da vicino seguono gli sviluppi dell’arte del momento, definendo la poetica dell’Arte Povera ne valorizza anche la componente ambientale. Questa non scaturisce da una scelta di campo di matrice ideologica, ma esistenziale e operativa: “Come un organismo a struttura semplice, l’artista si confonde con l’ambiente, si mimetizza con esso, allarga la sua soglia di percezione; apre un rapporto nuovo con il mondo delle cose”1. In quel periodo, ciò si rende evidente in una serie di manifestazioni nelle quali l’aspetto “processuale” dell’opera, che non può ritenersi compiuta nel momento in cui l’artista la progetta, diventa un fattore costitutivo, si potrebbe dire, della sua forma e della sua funzione. L’opera appare così un momento estrapolato da un fluire di cui l’artista è artefice insieme alle cose, alla natura, nella quale i suoi gesti si inseriscono, ai processi fisici e biologici indipendenti dalla sua volontà. Oltre ad essere, però, momento di una temporalità e frammento di un luogo definito, gli oggetti, le immagini e le operazioni che scaturiscono da un atteggiamento che è tanto di osservazione quanto di partecipazione, per quanto tali termini possano apparire in contraddizione, sono tracce di percorsi complessi. L’osservazione non è più di genere contemplativo, perché dei luoghi fisici, dell’ambiente e del territorio si riporta una realtà concreta, più che una rappresentazione. La partecipazione dell’autore, per questo, risulta di natura fisica, sia egli l’attivatore di processi inediti o colui che ne osserva possibilità ed esiti, quasi indossando le vesti del ricercatore, agendo quindi alla stregua di un antropologo, di un etnografo, o di un geografo, che rileva e studia i caratteri, non solo fisici, dell’ambiente, nella 1

G. Celant, Arte povera, Mazzotta, Milano, 1969 (ora in G. Celant, Arte povera. Storia e storie, Electa, Milano, 2011, p. 118). La parte introduttiva del saggio che apre il volume monografico tendente a dimostrare la qualificazione internazionale del gruppo di artisti italiano viene ripresa da Celant in un articolo che ha per titolo L’adottarci del nostro territorio, dove il critico, facendo riferimento alle recenti esposizioni Op Losse Schoeven e When Attitudes Become Form, che hanno avuto luogo quell’anno ad Amsterdam e a Berna, focalizza ulteriormente in questa direzione alcune osservazioni sull’apertura in senso ambientale dell’arte del momento.

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sua realtà materiale ed antropica. Il livello del coinvolgimento può anche essere quello della registrazione, del ricorso a modelli operativi presi a prestito dalle scienze umane, secondo forme di analisi del territorio che si avvalgono dell’esperienza diretta, oltre che di una trasposizione in ambito mentale, attraverso modalità di presentazione dei materiali che risentono delle riflessioni introdotte da un’arte con spiccate propensioni concettuali. La continuità fra proposte estetiche avanzate negli anni Sessanta e Settanta ed elaborazioni svolte in seguito, altrettanto complesse dal punto di vista del carattere linguistico, e orientate a sovrapposizioni fra le immagini prodotte e le ragioni dalle quali scaturiscono, consiglia di accostare le opere dell’ultima sezione secondo ragioni non strettamente cronologiche, organizzandole per le affinità fra nuclei di esse. Per questo, dopo l’immagine di una natura “artificializzata” nella fossilizzazione del presente attuata da Gilardi, un esempio del modo di raccontare l’impulso naturalistico proprio del momento di affermazione dell’Arte Povera si può ritrovare nel lavoro di Giuseppe Penone, Scrive legge ricorda, che riporta le tracce di uno dei suoi interventi nel bosco di Garessio. Come altri da lui operati inserendo segni nella vita delle piante, esso vale a dimostrare come l’artista, assimilandosi all’uomo che modifica il territorio, con un’azione gratuita e che vuole rivelare le condizioni con cui la natura assorbe le aggressioni che subisce, più che addomesticare la realtà esteriore, ne resti addomesticato. Anche Fabro ha manifestato attenzione per le condizioni in cui integrare i suoi lavori, spesso ispirati alla storia dell’arte, nello spazio naturale. I due dipinti asciutti ed eleganti che creano un dialogo fra l’osservazione ravvicinata e distante, utili spunti, oggi autonomi, di un processo dialettico in cui l’autore mette a confronto la pittura di veduta e il contatto diretto con l’ambiente, sono una parte di un suo intervento più complesso, l’installazione Habitat delle erbe, da lui presentata nella galleria Christian Stein di Torino nel 1980, costituita da un ambiente in cui diciotto dipinti raffiguranti fili d’erba ingranditi a livello del terreno e diciotto paesaggi sinteticamente ripresi da poche linee destinate a inquadrare un orizzonte curvilineo, creavano un unico progetto, al cui interno l’osservatore veniva investito da una controllata vertigine visiva. Uno snodo a sé, che simbolicamente introduce a una nuova concezione del rapporto con lo spazio, è da riconoscere nell’opera di Claudio Parmiggiani, Verso Bisanzio. Come in altre opere dell’artista, una concezione del mondo o del cosmo si concentra in una dimensione personale, privata, interiore. Il mondo è dentro la nostra testa, nel modo in cui lo registriamo, lo conosciamo, lo immaginiamo, si potrebbe dire, o, leggendo in altro modo il rapporto che l’opera istituisce, il calco antico ci ricorda come nel mito gli uomini abbiano sempre cercato la spiegazione delle cose, della realtà, nelle narrazioni ideate dalla fantasia, ponendo spesso al centro del racconto la forma o la figura della Terra. Così, in molte operazioni artistiche recenti, il rapporto con il territorio è un modo di interrogare e interpretare le dinamiche di relazioni che si instaurano con l’altro, con gli altri, o con la storia e la memoria, andando al di 130


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là della descrizione, con letture di secondo grado, che richiedono un contatto mentale oltre che visivo. Il carattere riflessivo nei confronti del tema del paesaggio può diventare fattore essenzialmente linguistico, all’interno di opere che indagano i processi della rappresentazione, più che quelli della realtà concreta di luoghi incontrati. In questo senso vanno le riprese di figure pittoriche che nascono dall’omaggio alle forme del paesaggio che le radici della modernità propongono, a cominciare dalla rilettura in chiave surrealista e concettuale che Guido Biasi svolge nei confronti di due frammenti ispirati a dipinti olandesi, dove la tradizione della veduta come genere autonomo conosce la sua origine. Il movimento delle nuvole e delle onde è da lui posto al centro di un confronto sull’origine di un genere e sulla sua applicazione, come motore di emozioni. Simile per impostazione, ma teso a ulteriori possibilità interpretative, in senso quasi didattico, è il doppio confronto che Aldo Mondino propone attorno alla sagoma della Montaigne Sainte-Victoire, emblema di una pittura che necessita di un motivo visivo e formale per sviluppare una riflessione sul linguaggio, secondo l’esempio che da Cézanne conduce alle immagini pop. Immagine di un’immagine, la pittura si fa interprete di una strada che nasce dal suo interno, ma che non può prescindere dal guardare alla sua matrice, di cui resta poco più che un’impronta, magari congelata in una consistenza schematica, utile a dimostrare la traduzione pittorica e critica dei percorsi della visione. Alcuni anni dopo, in un diverso contesto, anche alcuni autori di area milanese, che nei primi anni Novanta tendono a recuperare legami con diverse possibilità di costruzione di un processo insieme visivo e mentale, fanno ricorso a tracce di paesaggi di secondo grado, come nell’operazione attuata da Arienti, tra i primi momenti di un suo progetto di correlazione fra l’immagine colta e la sua trasposizione popolare, che lo ha spinto a sovrapporre della plastilina colorata in coincidenza delle macchie colorate - che ora potremmo chiamare “pixel” - di un manifesto raffigurante un dipinto della serie delle Ninfee di Monet, quasi ironica trascrizione della moda della pittura impressionista e della sua declinazione in senso comunicativo. Anche l’opera di Amedeo Martegani, che nasce nello stesso contesto, si può considerare “immagine di un’immagine”, essendo un dipinto che riprende le modalità di una fotografia sfocata di un luogo colto nella sua dimensione attuale e turistica, l’isola di Patmos, più che nella sua ragione romantica o simbolica. Questo nucleo di opere si potrebbe raccogliere all’insegna di una esplorazione nel territorio della pittura, più che essere considerato un modo di raccontare i paesaggi che singolarmente appaiono nelle immagini, secondo una prospettiva indiretta. Aspetti più specificamente geografico-antropologici2 sono al centro delle preoccupazioni di altri autori, che negli anni Settanta, in particolare, hanno effettuato esplorazioni in cui il viaggio 2

Il tema dell’apertura delle sperimentazioni artistiche verso il settore delle scienze umane è ancora oggi di grande attualità, e vi convergono diverse letture storico-critiche. Per la presenza di un’arte “antropologica” nel panorama italiano degli anni Settanta, cfr. S. Fontana, Ricerche antropologiche e utopie ecologiste nel segno/sogno di alcuni artisti italiani, in Anni ’70: l’arte dell’impegno. I nuovi orizzonti culturali, ideologici e sociali nell’arte italiana, a cura di C. Casero e E. Di Raddo, Silvana editoriale, Milano, 2009, pp. 113-132.

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o la ricerca sul territorio nella sua dimensione paesaggistica e urbana ha portato a singolari esiti, in cui le condizioni oggettive e narrative si sovrappongono, in una identificazione di nuovo genere fra spunti autobiografici e sperimentazioni sul luogo. L’esempio di Vaccari, che ripete un viaggio a piedi compiuto da Lodovico Ariosto “per distrazione”, facendolo divenire occasione di un confronto fra una rappresentazione convenzionale del paesaggio, compiuta attraverso le cartoline, e il contatto personale con gli stessi luoghi, per mezzo di sommarie riproduzioni scattate con una polaroid, che conservano le tracce immediate del percorso e i segni del proprio cammino, può essere un punto di partenza singolare, per il modo stesso in cui l’artista opera nell’elevare a dignità estetica la fotografia documentaria. Anche Patella necessita di immagini fotografiche o filmate, per riprendere le misurazioni di un terreno privo di una specifica identità, a mostrare come l’azione di segnare un territorio può trasformare uno spazio in luogo. Ancora, Ugo La Pietra, che dedica in quegli anni molte attenzioni al modo in cui la città può nascondere e rivelare il legame tra il pubblico e il privato, ribalta l’interno in esterno, compiendo azioni domestiche nella cornice urbana. Il messaggio che vuole trasmettere è quello di aprire il concetto dell’“abitare”, implicando la relazione con la città intera, rompendo ogni forma di separazione. Alle proposte avanzate in quegli anni si ricollegano in un certo senso altre forme di contatto fra il processo di identificazione di un luogo e le sue potenzialità contemporaneamente descrittive e narrative, come quelle messe in atto da Luca Vitone, che negli anni Novanta ha frequentemente adottato la carta topografica per mostrare la sovrapposizione fra un luogo e la sua rappresentazione in forma analitica e scientifica, che non rinuncia però al racconto. Le piante delle gallerie d’arte e delle zone in cui esse sono ubicate valgono a collegare una dimensione chiusa e privata con quella del territorio. Anche il progetto di Cesare Pietroiusti per un intervento alla Galleria Vivita di Firenze tocca il tema del ribaltamento fra l’ambiente chiuso all’interno delle mura di una galleria d’arte e il suo legame con l’esterno, dove la finestra diventa il punto di convergenza del rapporto fra lo spazio chiuso e la sua collocazione, fra la dimensione intima e segreta delle stanze di un appartamento e la percezione del “territorio” esterno. Rispetto a queste elaborazioni, utili a esemplificare un atteggiamento diffuso nell’ambito di un’arte che si interroga sulla possibilità di agire sulla realtà mediante forme di interpretazione delle sue strutture visive e di comportamento, altre preoccupazioni di ordine visivo, che riguardano i modi e i temi della percezione del paesaggio, sottolineando alcuni dei momenti in cui ne facciamo esperienza, hanno a che fare con il linguaggio fotografico. Da sempre indirizzato a documentare e interpretare l’ambiente, sia in chiave pittoresca, sia in una direzione che include la presenza modificante delle azioni umane, il mondo della fotografia, divenuto area interna al sistema dell’arte visiva con il sempre più frequente ricorso ai mezzi fotografici da parte di autori che non si definiscono come fotografi in senso lato, professionale o professionista. La fotografia, che ha sempre più caratterizzato l’arte degli ultimi anni del Novecento, ha contribuito a una rilettura del paesaggio, di un paesaggio che può scaturire 132


NUOVE RELAZIONI CON IL TERRITORIO

dall’osservazione diretta, ravvicinata della realtà, come nella serie di Marina Ballo Charmet “Con la coda dell’occhio”, rivolta a presentare, con ingrandimenti e punti di vista particolari, ciò che solitamente sfugge all’attenzione cosciente, costituendo comunque parte del nostro orizzonte visivo. La condizione del paesaggio fotografico, attorno al quale si sono spesi progetti e committenze, destinate a fornire un’immagine del territorio che non sia solo quello apparentemente “definitivo” dei servizi di mappatura a disposizione di tutti nei motori di ricerca informatici (come Google Maps o altre forme di documentazione del territorio fondate su riprese satellitari), lascia aperte altre prospettive. Il grado di stupore che può derivare dall’osservazione diretta di luoghi in cui l’orizzonte torna a essere il segno determinante nel tracciare il confine naturale di spazi desertici, è il fulcro della serie di immagini omogenee di Sarah Ciracì. Il grado di artificialità che la riproduzione fotografica comunque comporta, ancor più quando essa concorre a creare rappresentazioni fantastiche, si ritrova nei paesaggi che nascono da forme in cui materiali plastici di rifiuto possono apparire quali grotte naturali, nelle composizioni di Martino Coppes. Ancora una volta, mentre ricorriamo alla fotografia per comprendere qualcosa di una sfuggente oggettività del reale, la dimensione della rappresentazione e dell’invenzione di luoghi diventa indispensabile per apprezzare l’incidenza dell’ambiente esterno quale spunto di creazione, dove la storia e il presente si ritrovano. Il dipinto di Salvatore Garau, contemporaneo alle creazioni fotografiche sopra considerate, può valere come segno di una incancellabile necessità di guardare al paesaggio nella sua combinazione di forme naturali e di strutture artificiali. Se le opere di autori contemporanei, particolarmente dell’ultima sezione, paiono distaccarsi decisamente dalle forme di contemplazione e di adesione ai meccanismi naturali con cui, in un romantico desiderio di fermare il tempo, si visitano e si apprezzano quei luoghi che generano la sensazione più compiuta della qualità estetica del paesaggio, esse contribuiscono a porci interrogativi sul modo in cui la gestione del territorio e le relazioni che si istituiscono nel vivere lo spazio comune debba fondarsi su una reale e profonda comprensione di quanto la storia e la cultura dei luoghi sia parte integrante dell’essere cittadini, del bisogno di partecipare a una loro qualificazione che non sia solo estetica, né tantomeno finalizzata all’interesse di pochi. Senza illudersi che l’arte possa dare risposte che spettano a chi ha altre competenze, si può forse avanzare l’ipotesi che, nella chiave di lettura dell’oggi e all’interno dei problemi che riguardano il rapporto con la realtà in cui siamo immersi, l’attenzione per gli sviluppi di una forma di rappresentazione, quale quella del paesaggio, in direzione di altri e ulteriori approcci alla conoscenza del territorio, possa essere un segno del contributo che essa, nelle più svariate forme, di incanto, ma anche di allarme, di interpretazione, e nello stesso tempo di documentazione, di fantasia, oltre che di denuncia, può offrire, all’interno di quella che forse non è esagerato definire una funzione civica dell’arte, secondo le sensibilità di ciascun autore e nei modi in cui ciascuna delle diverse opere qui raccolte agisce. 133


Piero Gilardi, protagonista dell’Arte Povera, fra il 1966 e il 1968 ha realizzato il ciclo dei “Tappeti-Natura”. Esposti per la prima volta alla Galleria Sperone di Torino nel 1966, rappresentano il risultato più originale e significativo raggiunto dall’artista in questa fase della sua carriera. Particolarmente interessante è l’uso del poliuretano espanso, materiale fino ad allora estraneo alle pratiche artistiche, scelto dall’artista per la morbidezza e legato al desiderio latente di natura nonché a ricordi d’infanzia. Tali tappeti intendono essere “frammenti di natura” da abitare, da vivere. La realizzazione di queste nature “innaturali” in quanto artificiali, suggeriscono riflessioni sull’ambiguità fra immagine e funzione, realtà e artificio nonché fra la concezione dell’opera d’arte da “piedistallo” e la “fruibilità condivisa” suggerita dall’artista. I cocomeri, rappresentati come frutti spezzati e con larghe foglie, evocano suggestioni fiabesche e surreali.

45. PIERO GILARDI (Torino, 1942) Cocomeri, 1966 poliuretano espanso, 70 x 100 x 15 cm

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L’opera Scrive legge ricorda, risalente alla prima fase dell’attività artistica di Giuseppe Penone, documenta attraverso tre fotografie a colori e un cuneo di metallo un intervento compiuto dall’artista nel 1969 su un albero di un bosco di Garessio. La prima fotografia ritrae l’artista mentre pianta con un martello il cuneo di metallo, con inscritti i numeri dallo zero al nove, nel tronco dell’albero; le altre due immagini, invece, documentano ciò che resta ad azione conclusa, ovvero l’albero nel cui tronco è conficcato il cono. Sul fronte del cuneo che accompagna le tre stampe si leggono il nome dell’artista e la data di realizzazione del multiplo, scritti al contrario, da destra a sinistra; sul retro è invece indicata la tiratura. L’artista riflette sulla diversità della categoria temporale che interessa l’uomo e l’albero, considerato in questo lavoro e in altri come un organismo in continua evoluzione. Ogni elemento, comprese le pietre e le montagne, è destinato a subire una metamorfosi: l’unica variabile è la quantità di tempo in cui ciò accade. La presenza di lettere e numeri nel tronco dell’albero indica il tentativo di lettura della materia, azione compiuta dall’artista anche, o soprattutto, attraverso l’attività scultorea.

46. GIUSEPPE PENONE (Garessio, Cuneo, 1947) Scrive legge ricorda, 1972 fotografie a colori e ferro, 35 x 70,5 cm

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Il 22 ottobre 1980 Luciano Fabro ha realizzato un muro all’interno della Galleria Stein di Torino, creando un ambiente chiuso ed evitando l’accesso alle altre stanze. Habitat delle erbe (A) e (B) è un dittico che è stato appeso dall’artista nell’ambiente, insieme ad altri trentaquattro disegni a china colorata. Nella fila superiore sono raffigurati dei paesaggi schematici con alberi sulle colline; quella inferiore, a venti centimetri dal pavimento, è costituita da fogli su cui sono dipinti fili d’erba di dimensioni più grandi rispetto a quelle reali. Il punto di fuga dei disegni è messo in serie e dissolve la prospettiva per lo spettatore che si trova al centro della stanza. In questo modo Fabro indaga lo spazio e la percezione, concetti cardine della sua ricerca: l’opera e l’ambiente in cui essa è esposta sono strettamente legati poiché da esso dipende la percezione dell’opera stessa. Non a caso, l’artista gioca sull’ambiguità fra pittura e decorazione, spazio reale e illusioni ottiche, generando straniamento nell’osservatore attraverso un trompe l’oeil disegnato sulla cornice interna della porta di ingresso, costituito da una serie di linee continue, anche queste a china, una delle quali prosegue sul perimetro inferiore della stanza, ripetendo la figura della cornice già creata dai disegni sulle pareti.

47A. LUCIANO FABRO (Torino, 1936 - Milano, 2007) Habitat delle erbe (A), 1980 inchiostro di china su carta intelata, 60,5 x 80,5 cm

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47B. LUCIANO FABRO (Torino, 1936 - Milano, 2007) Habitat delle erbe (B), 1980 acquerello e matita su carta, 101 x 68,5 cm

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Verso Bisanzio è un calco in gesso di una scultura antica, privata della parte superiore della testa, riempita di mappe geografiche accartocciate. Entrambi gli elementi, il calco della scultura classica e la mappa geografica, richiamano la dimensione del viaggio: il primo è il viaggio metaforico nel passato, nella Storia e, al contempo, verso le radici della propria individualità; il secondo è il viaggio fisico, che si avvale delle mappe geografiche per trovare la strada. Questi due elementi uniti suggeriscono una riflessione antropologica verso la matrice classica della cultura occidentale, dalla quale è dipeso il viaggio compiuto dall’uomo. Qual è la posizione dell’uomo nel mondo? Il mondo è una mappa geografica nel quale l’uomo è soggetto attivo che compie un percorso, ma, al contempo ne è inconsapevolmente parte.

48. CLAUDIO PARMIGGIANI (Luzzara, Reggio Emilia, 1943) Verso Bisanzio, 1985 gesso e carte geografiche a colori, 38,5 x 35 x 33 cm

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In Comparison l’artista propone quattro frammenti di due paesaggi prelevati dalla storia dell’arte, riportando solo le iniziali dei rispettivi autori, B. van J. e H. de H., quasi invitando l’osservatore a riconoscerli. I frammenti citati sono simili: il cielo con le nuvole nella parte superiore e il mare in tempesta in quella inferiore della tela. Attraverso queste “citazioni” e “prelievi” cólti, di matrice concettuale, l’artista indaga il procedimento di appropriazione delle immagini operato dall’uomo, il quale, tramite tali immagini, si appropria del mondo stesso. Guido Biasi ha incominciato la sua carriera artistica a metà degli anni Settanta, in corrispondenza con la cosiddetta “crisi della pittura” e, continuando a utilizzare questa stessa tecnica, ne ha proposto una nuova lettura.

49. GUIDO BIASI (Napoli, 1933 - Parigi, 1982) Comparaison, 1977 olio su tela, 81 x 100 cm

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Le riconoscibili Quadrettature di Mondino, risalenti al 1963-64, sono ben rappresentate in Rencontres, opera nella quale ricorrono il doppio riquadro e la quadrettatura su doppio registro. Solitamente, il riquadro inferiore ha l’immagine colorata e definita in modo schematico, ma completo, mentre quello superiore è vuoto, o porta solo il disegno da colorare, o la stessa immagine del registro inferiore, ma tracciata in modo sommario e più materico, secondo una duplicità di stile. In questo, Mondino attua un confronto con modelli della storia dell’arte e specificamente, nel soggetto, tra Cézanne e tecniche pop. In Rencontres nel riquadro superiore l’immagine è stata dipinta, secondo le stesse linee costruttive e le medesime tonalità del modello sottostante, ma con colore molto diluito e sgocciolante, tanto che alcune grosse gocce sono colate sul riquadro inferiore.

50. ALDO MONDINO (Torino, 1938 - 2005) Rencontres, 1968 acrilico su tela, con interventi a matita e pennarello nero, 115,5 x 89,5 cm

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Stefano Arienti, artista attento alle sperimentazioni tecniche, come dimostrano le “turbine”, i “traforati” e i “puzzle”, dal 1989 introduce nel suo modus operandi i “pongo”. L’artista sceglie poster di quadri noti, come in questo caso le Ninfee di Monet, e sovrappone la cera di pongo lavorata a mano. La natura, in quanto tale, e la “natura artistica” dell’opera subiscono uno sdoppiamento su più piani: da un lato il naturale è reso con l’artificiale, dall’altro l’opera d’arte è doppiamente riprodotta, prima nella stampa del poster e poi con il pongo. Arienti pratica così una deviazione rispetto alla facilità di comunicazione dello strumento-manifesto e della immagine divenuta popolare.

51. STEFANO ARIENTI (Asola, Mantova, 1961) Ninfee, 1990 pongo su poster montato su pannello Leger, 90 x 121 cm

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Come dichiara l’artista stesso, Patmos è la trasposizione pittorica di una fotografia scattata durante una vacanza trascorsa nell’isola greca. La pennellata ampia e veloce è stesa per sovrapposizioni orizzontali, simulando l’effetto di movimento, proprio come se si scrutasse il paesaggio dal finestrino di un’auto in corsa. Martegani, artista protagonista del gruppo milanese di via Lazzaro Palazzi, si avvale di media differenti rifuggendo da categoriche classificazioni.

52. AMEDEO MARTEGANI (Milano, 1963) Patmos, 1991 olio su tela, 71 x 80 cm

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Nel 1974 Franco Vaccari ha partecipato alla mostra Omaggio all’Ariosto, a Palazzo Diamanti a Ferrara, in occasione della quale ha percorso lo stesso cammino, che le cronache raccontano essere stato compiuto distrattamente dall’Ariosto stesso. Durante il percorso, l’artista ha scattato una serie di Polaroid poi incollate sulle cartoline dei paesi percorsi durante il cammino e inviate alla Galleria. Le opere documentano i differenti esiti di tale esperienza performativa. I media scelti dall’artista, la Polaroid e la cartolina postale, si caratterizzano per il loro carattere quotidiano, immediato, lontano dall’universo colto e sofisticato della poesia dell’Ariosto e sono perfettamente funzionali all’obiettivo dell’artista, ossia intervenire a livello artistico in contesti reali, in cui le cose accadono davvero e si registra una differenza fra “prima” e “dopo” l’intervento artistico, differenza che, talvolta, può essere nulla. Le grandi stampe fotografiche su carta, tela o metallo, qui raccolte, sono delle riprese, realizzate a posteriori, dei materiali di progetto, fotografici e postali, originali che costituivano l’operazione realizzata «in tempo reale» e presentata a Palazzo dei Diamanti a Ferrara.

53. FRANCO VACCARI (Modena, 1936) Esposizione in tempo reale n. 8: Omaggio all’Ariosto, 1974 stampa fotografica su alluminio, 59 x 395 cm

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Luca Patella, artista affezionato alla sperimentazione interdisciplinare e multimediale, dal 1964 si è dedicato della dimensione concettuale dell’arte come condizione necessaria affinché essa divenisse senza peso. Tale «alleggerimento» materiale è stato raggiunto dall’artista attraverso processi di documentazione filmica e fotografica di luoghi misurati attraverso “personaggi umani indicativi”. Nei lavori sul territorio Patella documenta con la fotografia e il film (Luca Patella, Terra animata, 1967, film muto 16 mm, colore e bianco e nero, 5’ 33”) la delimitazione di porzioni di terreno arato con lunghi nastri bianchi, focalizzandosi sull’affinità fra la parola “geometrico” e “geografico”. La terra, origine generatrice, necessita dell’intervento dell’uomo, ossia della presenza di personaggi «indicativi», che costituiscono appunto gli indicatori semantici del territorio e del paesaggio.

54. LUCA PATELLA (Roma, 1938) Terra animata, 1967 stampa fotografica su tela, 70,3 x 100 cm

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La massima Abitare è essere ovunque a casa propria sigla diverse opere di La Pietra prodotte a partire dal 1977 e realizzate attraverso montaggi fotografici, disegno e parola scritta, con l’intento di procedere verso interventi progettuali volti a introdurre elementi tipici dello spazio privato nello spazio pubblico, considerando un diritto dell’uomo l’appropriazione dell’ambiente urbano. Nel caso dell’opera in questione la riappropriazione avviene con una vera azione dimostrativa: nella fotografia superiore vediamo uno striscione stradale, collocato dall’artista nella via principale della città di Linz, con la scritta “Wohnen Heisst: Überall zu Hause Sein” (Abitare è essere ovunque a casa propria), mentre nella foto in basso lo osserviamo ritratto seduto a una scrivania collocata nella stessa via mentre compie l’atto di farsi la barba, azione solitamente svolta fra le mura di casa.

55. UGO LA PIETRA (Bussi, Pescara, 1938) Abitare è essere ovunque a casa propria (Linz 1979), 1979 collage di fotografie, disegno e scrittura a penna su carta, 72,5 x 51 cm

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L’opera rappresenta la volontà di Ugo La Pietra di trovare un punto di coincidenza fra la dimensione abitativa degli interni e l’esterno. L’artista ha letteralmente portato all’esterno del piccolo edificio di mattoni, che la scultura rappresenta, due elementi di arredo quali la poltrona, che ingrandita diventa anche la struttura portante del balcone di una facciata, e il drappeggio di una tenda che va a sovrapporsi, con la sua nuova consistenza solida e non più leggera e morbida, su quello che sembra essere il prospetto principale dell’edificio. Questa soluzione, al di là dell’occasione della scultura, indica il chiaro intento progettuale di superamento dell’antinomia tra interno ed esterno, tra spazio privato e spazio pubblico, nella speranza di fare dell’uno l’estensione dell’altro. La scultura richiama alla mente la polemica mossa dal movimento di architettura radicale, in particolare la messa in discussione dei principi dello stile internazionale che animava il dibattito architettonico degli anni Settanta.

56. UGO LA PIETRA (Bussi, Pescara, 1938) Interno esterno, 1977 ceramica policroma con base in legno, 40 x 40 x 40 cm

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L’opera è una serigrafia su tela, realizzata nel 1991, e appartiene alla serie di lavori intitolati Identificazione del luogo, compiuti dal 1989. Nella prima fase del progetto l’artista ha realizzato fotocopie di particolari da mappe catastali del luogo esistente al di là delle finestre sulle quali venivano appese, negando, con la loro stessa presenza, la possibilità di vedere realmente il luogo. Dal 1991, Vitone abbandona le fotocopie montate su pannelli di plexiglas preferendo come supporto la tela, più adatta all’installazione dei lavori sulle finestre. In particolare, il titolo dell’opera - Identificazione del luogo: Galleria Franz Paludetto (particolare) - rimanda all’esposizione allestita dall’artista presso la galleria torinese nel 1991, e nello specifico propone un particolare della localizzazione topografica dei dintorni della galleria di via Solferino. Ricorre nel lavoro di Vitone il concetto di luogo, indagabile attraverso mappe e, al contempo, luogo “perduto”. In Identificazione del luogo il territorio è identificato attraverso la sua mappatura, ma, al tempo stesso, ne è negata la visione. La trascrizione topografica del luogo, la sua identificazione, diventa allo stesso tempo registrazione della “perdita” del luogo stesso.

57. LUCA VITONE (Genova, 1964) Identificazione del luogo: Galleria Franz Paludetto, 1991 serigrafia su tela, 225 x 161 cm

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Progetto finestre... presenta fotografie di nuove finestre che l’artista avrebbe voluto realizzare in una galleria fiorentina (Vivita 1) nel gennaio 1990, in occasione di una sua mostra personale. Le fotografie sono state appese alle pareti mostrando esattamente quello che sarebbe stato possibile vedere al di là del muro, proprio da quel punto. Il titolo della mostra era Firenze – Vivita 1, 17 e 29 novembre 1989, e le date si riferivano ai giorni in cui furono presi gli scatti da cui sono poi stati realizzati gli ingrandimenti. L’opera appartiene alla serie di studi compiuti per l’installazione che occupava le circa dieci stanze della galleria, ma non è stata fisicamente esposta a Vivita 1. Il pubblico ha l’impressione di introdursi illegalmente in spazi privati, diventa un voyeur ed è parte attiva dell’opera, come sempre accade nel lavoro di Pietroiusti. La fotografia viene utilizzata per documentare, disturbare o alterare determinati eventi e analizzare il modo in cui si forma nella comunità dei fruitori un pensiero, attribuendo un ruolo determinante allo sguardo dell’osservatore per la definizione dell’opera stessa.

58. CESARE PIETROIUSTI (Roma, 1955) Progetto finestre – Vivita 1, 17 e 29 novembre 1989, 1990 fotomontaggio su lastra metallica, 55 x 75 cm

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L’opera è una fotografia ravvicinata di un marciapiede, luogo degli accadimenti quotidiani. L’immagine fa parte del ciclo denominato “Con la coda dell’occhio” composto da una serie di dettagliate riproduzioni fotografiche di particolari di strade della città ripresi ad altezza del suolo, eseguite dall’artista fra il 1993 e il 1994 e presentate in occasione delle sue personali del 1995 a Bolzano, nella Galleria Museo, e alla Fondazione Mudima di Milano nel 1996. La poetica dell’artista è volta a focalizzare l’attenzione su frammenti del nostro percorso visivo quotidiano, percepiti, per l’appunto, con la coda dell’occhio, particolari che rimangono ai margini della percezione cosciente. Le fotografie ritraggono raramente figure umane e prediligono tracce dell’intervento e della presenza dell’uomo nel paesaggio. Solo la zona centrale della fotografia è a fuoco, lasciando sfumati gli estremi: lo sguardo corre lungo il marciapiede e può solo immaginare cosa ci possa essere oltre.

59. MARINA BALLO CHARMET (Milano, 1952) Senza titolo (dalla serie “Con la coda dell’occhio”), 1993 stampa fotografica in bianco e nero su supporto in metallo, 102 x 153 cm

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Le immagini delle fotografie su alluminio Distesa, Deserto di sassi, Ghiacciaio, Deserto giallo, Deserto rosso, Deserto di sabbia e Manto nevoso appartengono al primo periodo della produzione artistica di Sarah Ciracì, durante la quale l’artista ha proposto un immaginario privo di punti di riferimento, non abitato e caratterizzato da un’atmosfera rarefatta. A partire da immagini reali, rielaborate al computer, l’artista costruisce dei paesaggi desertici o acquatici che sembrano appartenere ad un altro pianeta; universi artificiali che adempiono al gusto estetico dell’artista. Questi luoghi “surreali” hanno una forte carica psicologica, suscitano inquietudine, sono luoghi astratti che infondono nel riguardante quel senso di calma desolazione che segue una catastrofe annientante: vogliono comunicare perciò il fascino dell’azzeramento.

60. SARAH CIRACÌ (Grottaglie, Taranto, 1972) Distesa, 1995 fotografia su alluminio, 22 x 39,5 cm

Deserto di sassi, 1995 fotografia su alluminio, 22 x 39,5 cm

Ghiacciaio, 1995 fotografia su alluminio, 22 x 39,5 cm

Manto nevoso, 1995 fotografia su alluminio, 22 x 39,5 cm

Deserto rosso, 1995 fotografia su alluminio, 22 x 39,5 cm

Deserto giallo, 1995 fotografia su alluminio, 22 x 39,5 cm

Deserto di sabbia, 1995 fotografia su alluminio, 22 x 39,5 cm

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Martino Coppes è un artista-escursionista e compie le sue escursioni negli spazi dell’immaginazione e della memoria, tessendo trame nell’ambiguità dei luoghi esplorati. I paesaggi non sono solo panorami per reportage, ma tracce e racconti riguardanti il senso delle cose. La luce illumina nuovi mondi, insospettabili, ancestrali. Esplorazione fa parte di una serie di 12 fotografie (che hanno per soggetto alcune figure di personaggi che percorrono un viaggio in un paesaggio immaginario, sproporzionatamente grande rispetto a loro) che l’artista esegue fra il 1992 e il 1994.

61. MARTINO COPPES (Como, 1965) Esplorazione, 1992 stampa fotografica su carta, 69 x 102 cm

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Salvatore Garau si avvale di differenti media, dalla pittura con un’accentuazione scultorea, come in Scultura che lancia-lucciolesegnali di pioggia, al video e agli audiovisivi. Nell’opera presa in considerazione la tela, dipinta con una pennellata informale, è illuminata da colpi di biacca a sua volta coperta da grumi neri e fiocchi azzurrati e l’accento scultoreo è reso in corrispondenza dell’orizzonte, nel punto di incontro fra terra e cielo; mentre le lucciole-luce intervengono come elemento complementare all’acqua, o meglio alla pioggia, intesa come il suo stadio superiore o celeste. Questi elementi creano un “paesaggio” non connotato né identificabile, ma come “luogo sospeso”, privo di coordinate spazio-temporali e simile ai luoghi immaginari ottenuti nei montaggi cinematografici. Le scelte estetiche realizzate con le tecniche sperimentate da Garau si compenetrano e rimandano l’una all’altra, la spazialità della pittura richiamando quella dell’immagine videofilmata.

62. SALVATORE GARAU (Santa Giusta, Oristano, 1953) Scultura che lancia-lucciole-segnali di pioggia, 1992 tecnica mista su tela, 105 x 105 cm

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ANTOLOGIA CRITICA a cura di Francesco Tedeschi con la collaborazione di Federica Boràgina

Per la natura dei molteplici filoni di interesse riguardanti le opere raccolte nella mostra, in una prospettiva articolata in varie direzioni, si riporta una scelta di brani ripresi da dichiarazioni di artisti, testi critici, interpretazioni storico-artistiche e riflessioni problematiche sulle sorti del paesaggio e sulla sua tutela. Tali testi costituiscono una parte delle basi per le riflessioni svolte nel saggio di apertura del volume e nell’analisi delle opere, e si vogliono proporre quali spunti per una lettura che dalle opere e dalla loro collocazione nell’ambito dell’arte del Novecento si possa allargare a considerazioni che riguardano la realtà quotidiana di un paese e di un territorio di cui l’arte può contribuire a mostrare, comprendere e interrogare la fisionomia, non solo nella sua dimensione esteriormente estetica e piacevole, ma anche nei suoi problemi concreti.

IL PAESAGGIO DEI SIMBOLI E IL DESIDERIO DI RINNOVAMENTO Giovanni Segantini

Giovanni Segantini La vita, 1896-1899 olio su tela, 190 x 322 cm Deposito della Fondazione Gottifried Keller, Berna, Museo Segantini, St. Moritz

Il primo quadro La Natura, è un effetto d’autunno, col sole che tramonta dietro ai monti che chiudono l’alta Engadina. La lunetta soprastante è il villaggio di St. Moritz in una notte d’inverno, protetto dai raggi della luna. Nel medaglione di destra una figura simboleggia il rododendro, la primavera alpina; in quello di sinistra una figura simboleggia l’edelweiss, l’estate alpina. Così facendo intesi di raggruppare e sintetizzare la natura alpestre e le sue stagioni. Il quadro di mezzo, La Vita, rappresenta la vita di tutte le cose che hanno radice nella terra madre. Le montagne del fondo sono illuminate dal sole che tramonta. Nella lunetta soprastante, il vento soffia sulla terra i due elementi di vita e di morte, l’acqua e il fuoco. Nei medaglioni a destra e a sinistra sono due figure simboliche. Il terzo quadro, La Morte, rappresenta la morte di tutte le cose. È d’inverno, la Natura è sepolta sotto la neve, le montagne del fondo sono illuminate dal sole nascente. In un casolare alpino una fanciulla è morta; mentre s’attende al funerale, nella soprastante lunetta, gli angeli trasportano l’anima nella vita eterna. I medaglioni di fianco contengono altre due figure simboliche. G. Segantini, lettera senza data [1898], in L’opera completa di Segantini, Rizzoli, Milano 1973, p. 123 e in A. M. Damigella, La pittura simbolista in Italia. 1885-1900, Einaudi, Torino 1981, p. 137, nota

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ANTOLOGIA CRITICA

Umberto Boccioni 14 marzo 1907 Sono stato in campagna per lavorare e non ho trova­to nulla. Le solite linee mi stancano, mi nauseano sono stufo di campi e di casette. E pensare che appena arri­vato a Padova ne ero entusiasta e speravo. Bisogna che mi confessi che cerco, cerco, cerco, e non trovo. Troverò? Ieri ero stanco della gran città, og­gi la desidero ardentemente. Domani cosa vorrò? Sento che voglio dipingere il nuovo, il frutto del nostro tem­po industriale. Sono nauseato di vecchi muri, di vecchi palazzi, di vecchi motivi di reminiscenze: voglio avere sott’occhio la vita di oggi. I campi, la quiete, le casette, il bosco, i visi rossi e forti, le membra dei lavoratori, i cavalli stanchi ecc. tutto questo emporio di sentimenta­lismo moderno mi hanno stancato. Anzi, tutta l’arte moderna mi pare vecchia. Voglio del nuovo, dell’e­spressivo, del formidabile! Vorrei cancellare tutti i va­lori che conoscevo che conosco e che sto perdendo di vista, per rifare, ricostruire su nuove basi! Tutto il pas­sato, meravigliosamente grande, m’opprime io voglio del nuovo! E mi mancano gli elementi per concepire a che punto si è, e di cosa si ha bisogno. Con che cosa far questo? Col colore? O col disegno? Con la pittura? Con tendenze veriste che non mi soddi­sfano più, con tendenze simboliste che mi piacciono in pochi e che non ho mai tentato? Con un idealismo che mi attrae e che non so concretare? U. Boccioni, Diari, a cura di G. Di Milia, Abscondita/Carte d’Artisti, Milano 2003, pp. 14-15

IL MODELLO DI CÉZANNE

Umberto Boccioni Campagna con alberi e ruscello (Rio), 1908 olio su tela, 40 x 22,3 cm Gallerie d’Italia - Piazza Scala, Milano Collezione Intesa Sanpaolo

Ardengo Soffici Cézanne, che ha contemplato spesso i contadini che mie­tono e ha condensato in sé i diversi aspetti di questo spet­tacolo, è arrivato a formarsi un’immagine interna, dove le verdure degli alberi, la distesa del grano, gli uomini, la collina, le case e il cielo non si liquefanno in un’intensa vibrazione luminosa, ma appaiono distinti, ciascuno col pro­prio carattere spiccato, personale, semplice. Quando dunque vorrà rappresentare l’opera dei mietitori, subordinerà la verità esterna alla verità della sua visione interiore, e marcando con un segno imperioso i fantasmi del suo sogno, metterà in uguale evidenza alberi, uomini, mèssi, poggio e cielo, non preoccupandosi se le proporzioni naturali verranno sfor­zate per obbedire al suo spirito; e imprimendo così alla sua opera quell’aspetto di vastità reale e ideale, che fa assurgere il fatto più volgare alla dignità di simbolo perpetuo di vita. Delle scoperte impressionistiche s’è servito quel tanto che era necessario per riassumere con tocchi risentiti di pennello la pesantezza delle nuvole bianche, l’aridezza delle spighe granite, l’afa del meriggio e la frescura delle ombre dove ci si sdraia per dormire accanto all’asino che medita. È in questo modo che il nostro artista ha rivelato, al­l’anima nostra l’anima dei paesi, come nel Villaggio; l’anima degli uomini e delle donne, come nei Ritratti; dei giuocatori plebei, dei lavoratori dei campi; l’anima del mare e del cielo; o, come nelle nature morte, l’anima delle frutte, dei fiori, e perfino dei più umili strumenti domestici. A. Soffici, Paul Cézanne, «Vita d’Arte» (giugno 1908), poi in Idem, Opere, Vallecchi, Firenze 1959, pp. 232-233

Ugo Ojetti Ma è difficile parlare di quadri senza porre i quadri sott’occhio. Non sono di Cézanne i patetici paesi sui quali gli scrittori o, come si chiamano oggi, i poeti possono scrivere il loro frammento

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lirico o il loro componimento sco­lastico; e per questo i letterati non amano Cé­zanne. La casta nudità delle opere di questo costruttore o di questo reazionario non permette le «variazioni sul tema». Si osservino a Venezia nella saletta di Cézanne due paesi, la Svolta del 1882, e Gardane del 1885. Si ri­cordi, ripeto, quel che era in Italia e in Francia la pittura d’allora; e poi si consideri come sono veduti, interpretati, dipinti questi due paesaggi; come e perché il pittore si sia prima appoggiato sulle ombre e da quelle, pian piano, grado a grado, sfumatura per sfumatura, sia uscito ai chiari e alle luci; come e perché egli abbia continuato a dipingere con quella insi­stente pennellata da destra a sinistra che ricorda le pennellate delle antiche tempere e delle rifi­niture a tempera degli antichi affreschi e che, sotto la varietà dei colori, vuoi quasi dare una unità di costruzione a tutte le masse perché una a una, alberi, case, rocce, argille, pesino e stiano. U. Ojetti, Raffaello e altre leggi, Fratelli Treves, Milano 1921, pp. 21-22

Giorgio de Chirico Paul Cézanne Le Cabanon de Jourdan, 1906 olio su tela, 65 x 81 cm Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma

Quando si parla di pittura contemporanea tra intellettuali è legge costante parlare di Cézanne. Se si piglia a quattr’oc­chi uno fra i tanti e, messolo con le spalle al muro e guardan­dolo bene in faccia, gli si chiede a bruciapelo: «Ma mi dite un po’ voi che vi piace veramente Cézanne? E perché vi piace Cézanne?». L’interpellato allora fa una faccia brutta; lì per lì non sa cosa rispondere; cerca affannosamente nella memoria qual­cuna di quelle classiche banalità che fanno il giro del mondo ormai da parecchi anni, parla confusamente di costruzione, di clima, di angoscia, d’inquietudine e d’altre fesserie della stessa risma, e finalmente per cavarsela dichiara che «Cézan­ne è stata una reazione necessaria» al disfacimento della pit­tura, nato dall’impressionismo; dichiara ancora che mentre gli impressionisti cercavano la luce ed il colore, il maestro d’Aix cercava il volume e la forma (ma guarda un po’ dove vanno a ficcarsi il volume e la forma); insomma sciorina una delle tante frasi lette e rilette, e con tutto ciò non si riesce a sapere se il maestro d’Aix gli piaccia veramente e, se gli pia­ce, perché gli piace. La verità è che in fondo non gli piace, ma non sa come confessarlo e specialmente ha una paura matta di esser preso per qualcuno che non capisce. La gran­de ammirazione tributata a Cézanne è dovuta al fatto che è più facile imitare Cézanne che imitare un qualsiasi altro pit­tore venuto prima di lui. Col pretesto di seguire la grande lezione di Cézanne si mi­ra a scansare difficoltà. Il paesaggio italiano così ricco e fio­rente è diventato arido e triste come un funerale di terza clas­se. Ai paesaggi lirici ed altamente suggestivi dei seicentisti e dei settecentisti, ed a quelli forse non più tanto suggestivi e lirici, ma ancora sopportabili, di alcuni ottocentisti, son succeduti dei casolari sbilenchi, lugubri e senza finestre, a volte affiancati ad un covone magro e dipinto alla carlona. G. de Chirico, L’eterna questione (1938), in G. de Chirico e I. Far, La commedia dell’arte moderna, a cura di J. de Sanna, Abscondita/Carte d’artisti, Milano 2002, pp. 110-115

SITUAZIONE DEL PAESAGGIO IN ITALIA NEL PRIMO NOVECENTO Ardengo Soffici Paesaggio Toscano Viottola, 1925 olio su cartone applicato su tela, 62, 3 x 47,1 cm

Rezio Buscaroli Il paesaggio del secolo che viviamo s’è annunziato e rimane, in essenza, antimpressionistico, liberandosi così da un grave peso tradizio­nale. Oggi si va sempre più orientando verso una essenza antideformativa, togliendosi da un non meno grave pregiudizio – l’elemento più dannoso di equivoco del “Novecento” – che la deformazione voluta come stile rappresenti il dominio della personalità, e il possesso pieno della realtà contemplata: quando è proprio tutta la tradizione nordica che parla appunto di codesta forma esasperatamente romantica della interpretazione del vero e tutta la tradizione del paesaggio italiano parla invece di una identità raggiunta fra realtà e trasfigurazione artistica; parla di quella placida e sana forza spirituale che pienamente si placa in una sintesi reale-ideale.

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[…] II paesaggio è divenuto sempre maggiormente materia di lirica: lirica pittorica, naturalmente, nella quale, ad esprimere le personali emozioni interne non tanto serve l’amenità o mestizia o terribilità di un sito, coi ricordi e i sogni che può suggerire, quanto il complesso dei colori, delle linee, delle masse che lo compongono, e l’aura poetica che l’avvolge. È quanto dire che gli elementi puramente pittorici del paesaggio hanno acquistato sempre maggiore importanza nello spirito dell’artista che vuole rispecchiarvisi; di modo che il colore, la struttura delle cose che lo costituiscono, specialmente lo spazio e la luce che ne formano la profondità e l’unità ideale, sono divenuti elementi del linguaggio e sostanza delle immagini particolari al modo di esprimersi dell’anima creatrice in codesto genere di figurazioni. Tutti sanno che lo sviluppo all’estremo di tale tendenza lirica e simbolica, il quale comportava il pericolo di cadere nell’ermetismo, nel­l’astrattezza e nella indebita preponderanza del fatto tecnico, a questi inconvenienti ed errori ha infatti condotto la pittura di paesaggio negli ultimi trent’anni: a forza di esagerazioni, il cromatismo puro, il mero costruttivismo per piani e volumi, la deformazione esasperata hanno trascinato pittori eccellentemente dotati lontano dal contatto col reale visibile verso il semplice arabesco, e finalmente verso il decorativismo e l’ornamentazione. Resta tuttavia che i migliori, portando il paese sul primo piano dell’arte e facendone un simbolo visibile e comprensibile della propria rinnovata spiritualità, senza incappar negli errori sud­detti – di natura in fondo sistematica e accademica – hanno dato al mondo capolavori degni delle epoche più favorite, se non per la loro grandiosità evocativa e, in certo senso, etica, almeno per la loro intensità e profondità emotiva ed evocativa, cioè lirica. […] Resta tuttavia che quell’approfondimento dell’uso della natura visibile, che quel processo di interiorizzazione del fenomeno, operato con la creazione e mediante lo sviluppo autonomo del paesaggio, non potranno andar perduti, in ogni caso; e quando la pittura –come già comincia ad avvenire – riprenderà il suo grande ufficio nella civiltà che s’inizia, il paesaggio non si troverà riabbassato alla sua umile funzione di scenario o d’indicazione topografìca a tutto vantaggio della figura; ma contribuirà con questa, e alla pari, alla magnificenza pit­torica, poetica, intellettuale e, in sostanza, civile, delle opere future. Un dipinto dove l’uomo e la natura siano indispensabili comple­mentari, dove figura e paese formino una profonda unità spirituale e poetica: ecco la meta cui si è tanto teso e si tende, ed alla quale allora si arriverà. R. Buscaroli, Il superamento dell’Ottocento e il momento attuale del gusto paesistico, in Idem, La pittura di paesaggio in Italia, Soc. Tip. Mareggiani, Bologna 1935, pp. 520-523

Lionello Venturi Uno dei propositi più espliciti del gusto prevalente negli ultimi anni è stato quello di segnare una differenza di dignità tra la pittura di figura e la pittura di paese. Si è detto e ripetuto che ogni vero grande artista considera il paesaggio più come uno sfondo che come un soggetto per sé, che la pittura di paese è stata il rifugio di coloro che non sapevano disegnare una figura umana, che la tradizione italiana è stata la tradizione della figura umana e che il paesaggio è stato per noi un genere d’importazione. Ma gli artisti che pure hanno studiato disegno e figura umana, rilievo e volume, non hanno tralasciato di dipingere paesaggi. Anzi si può constatare nella Mostra del novecento che alcuni fra i risultati più persuasivi sono proprio paesaggi, piccoli di dimensioni, modesti di assunto, perfettamente equilibrati tra effetto e proposito. Non voglio dire che la propaganda formale non abbia giovato anche ai pittori di paesaggio: tutt’altro! Certi effetti di profondità, certe composizioni bene equilibrate erano ignote agli impressionisti del primo decennio di questo secolo. Ma quel che interessa di più è di comprendere come mai il gusto del paesaggio cacciato dalla opera sia rientrato dalla finestra, per opera di molti artisti, alcuni dei quali avevano anch’essi contribuito a cacciarlo. È un tiro birbone, come vedete, giocato dalla realtà a un pregiudizio, o meglio all’errore di aver confuso la definizione d’un programma con la definizione dell’arte. E se la realtà è stata più forte di qualunque sia pur lodevole intenzione, si deve al modo di sentire

Achille Funi La Terra, 1921 olio su tela, 99 x 90 cm Collezione privata

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odierno da parte di tutti e non soltanto da parte degli artisti. C’è infatti un rapporto fra la nostra concezione spirituale del mondo e il gusto del paesaggio. […] Perché Dio ricevesse valore spirituale e carattere d’infinito, era necessario il cristianesimo. E il cristianesimo non si è accontentato più di ritrovare Dio nelle membra scelte del proprio simile, ma lo ha ricercato nella foglia caduta d’autunno o nel focolare semispento d’una casa di contadini. L’origine dell’arte del paesaggio si deve dunque rintracciare semplicemente nel sentimento cristiano, nella necessità cristiana d’intendere il valore infinito di Dio. E a chi obiettasse che, quando la pittura di paese si è diffusa, il cristianesimo esisteva da molto tempo ed era anzi invecchiato, risponderei che tale innegabile contingenza non impedisce che la prima meravigliosa e perfetta pagina paesistica risalga al secolo VI; e se non ci credete, andate a vederla in Sant’Apollinare in Classe presso Ravenna. Proprio perché la sua origine è nel sentimento cristiano, la pittura di paese ci è necessaria: essa ci permette di raccogliere nel tetto di una casa distrutta, in un tronco spellato, in un ammasso foglioso, in uno specchio d’acqua, in un cielo terso, il nostro desiderio di abbandono, di amore, di disinteresse, di aspirazione a tutto ciò che è fuori di noi, ma che comprende anche noi, perché è il cosmo, l’universo, che si nomina a bassa voce per buona educazione, e pure ci domina. È più facile oggi giungere a un risultato artistico con un quadretto di paese che con una composizione di figure. E non si spiega davvero il fenomeno ricorrendo alle consuete lamentele del «non saper disegnare». È ridicolo parlare dell’inabilità tecnica disegnativa: non so se l’abilità in alcuni sia oggi eccessiva, certo è almeno sufficiente per dipingere una o più figure, in stasi o in movimento, nude o vestite. Mi sembra, invece, generalmente parlando, che nei quadri di figura manchi la simpatia. L. Venturi, Il paesaggio. Un problema della mostra del Novecento, «Il Secolo» (2 maggio 1926), poi in Idem, Pretesti di critica, Hoepli, Milano 1929, pp. 191-196

I PRO E I CONTRO DELLA PITTURA DI PAESAGGIO Mario Sironi La pittura di paesaggio è un ostacolo allo sviluppo della vera grande pittura di figura. La pittura di paesaggio è femmina e le sue conseguenze sono il rammollimento del gusto, l’esigenza e la smania delle soluzioni ambigue che solleticano il senso, il piacere, il capriccio, la fantasia, e in ultimo lo spirito, la malinconia e la baldoria e in genere tutti i romanticismi, la lontananza dalle soluzioni rigidamente logiche e necessarie. In conclusione l’amore di tutte le inutilità che trasportano la mente senza sorreggerla né guidarla nelle aspre avventure dello spirito. M. Sironi, Contro il paesaggio (1930 ca), in Idem, Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca e C. Gian Ferrari, Feltrinelli, Milano 1980, p. 276

Mi è stato rimproverato di non occuparmi di campi coltivati, pittoresco da giardino, da valle, da collina, casette sul mare e simili stupidaggini – ma di vedere soltanto rocce deserte altitudini desolate dove l’uomo si misura con la vastità dello spirito. Ebbene molti vengono a Cortina e dovrebbero aver visto una notte di luna piena e serena sull’immensa vallata dove come troni d’ar­gento e di vetro le vette nevose ascoltano la voce di Dio nell’immenso spazio. Hanno visto e non hanno capito. La casetta e un quartuccio di mare del pittore di telette sono qui rapportati alle vette della Croda Nera del Sorapis e dell’Antelao sulla piattaforma della Terra.

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M. Sironi, Lo spirito del paesaggio (1945-1950 ca), in Idem, Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca e C. Gian Ferrari, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 333-334

Carlo Carrà Ho detto che a questo punto il mio spirito si sentiva più pacificato e, ripeto, non mi conturbavano più quelle tetre disperazioni dell’immediato dopo guerra, non più quelle desolate sofferenze che seguirono la mia uscita da Brera. Avevo ormai acquistato una pacata fiducia nelle mie possibilità pittoriche, e ciò mi faceva rassomigliare ad un viaggiatore il quale dopo lungo cammino prova l’ineffabile piacere di sentirsi prossimo alla meta. Avevo trascorso l’estate a Moneglia e mi ero messo a contatto con il mare, con le rupi solitarie e con i vasti cieli della Liguria. L’anno dopo dipinsi alcuni paesaggi a Belgirate con un entusiasmo intento a riscattare le impressioni provate nelle mie quotidiane scorribande sui monti circostanti e sulle rive del lago, e dopo averle selezionate in un silenzioso raccoglimento cercavo di sconvolgerle conferendo alle immagini di quelle sublimi realtà naturali un’aura di viva poesia. […] Ritornato in me l’amore per la natura, si trattava di prendere esatta coscienza del valore chiarificatore che poteva avere per le mie idee artistiche la pittura di paese. Principio fondamentale delle mie ricerche era di fermare la commozione suscitata nel mio animo dalla contemplazione del paesaggio, ma occorreva stabilire il rapporto fra i miei sentimenti e il mondo esterno, onde sorgevano continuamente dei problemi di interpretazione e di espressione che dovevano essere affrontati e risolti via via che procedeva il lavoro. Prescindere da questi problemi era impossibile, poiché soltanto con la loro risoluzione potevo riconoscere e giustifi­care il primo termine di correlazione che mi aveva mosso ad operare. La natura veniva pertanto da me considerata come suscitatrice di rapporti pittorici, che per la loro coerenza stessa andavano determinati in ritmi di forma, colore e luce in una costruzione armonica coi valori spaziali e architettonici dei motivi scelti, tenendo altresì conto di certe esigenze stilisti­che e compositive che io giudicavo essenziali alla vitalità del quadro. Ed eccomi a Forte dei Marmi che dal 1926 in avanti sarà la mia estiva dimora abituale. Al primo approccio con questo nuovo paesaggio nuove difficoltà mi si fecero innanzi, sì che dovetti spendere molti giorni per orientarmi. Incominciai le mie prove con delle analisi minute che sfociarono più tardi in qualche piccola tela raffigurante capanni sulla riva del mare. Anche il Cinquale mi occupò a lungo e riuscii alfine a realiz­zare i primi esempi suggeritimi da questo fiume. C. Carrà, La mia vita, a cura di M. Carrà, Abscondita/Carte d’artisti, Milano 2002, pp. 222-223

Filippo de Pisis

Carlo Carrà La foce del Cinquale, 1928 olio su tela, 63 x 85,5 cm Museo del Novecento, Milano

Sono andato a dipingere in un bel prato: una grande ombra rimpiazzava il para­sole di tela bianca di manetiana memoria, luce delicata, cielo pieno di «belle nubi erranti» in una linea caratteristica di questo paese bellissimo, e insieme non ba­nale, una brezza gentile, ma che non disturba, vale a dire non porta via la tela, un leggero dolor di capo, ma che scomparirà nella gioia del lavoro; tutto promet­te bene. In fondo, contro una siepe rigogliosa di un bel verde giorgionesco, delle vacche pezzate pascolano. Sebbene avessi pensato a una tela un po’ nuda e semplicissima, sono tentato dai bianchi di ricotta, dai neri profondi che fan così bene sul verde del primo piano e disegno le vacche con macchie sapienti (quante volte le ò rincorse munito di un album pour croquis!) In un grande furore, versando abbondantemente il blanc de neige del barattolo di cui si serve chi vuol dipingere porte e finestre in economia, nel coperchio della cassettina, impastando con oltremare finissimo, nero d’avorio, lacca carminata, verde veronese, un’ombra di vermiglione, etc. etc., in un grande ardore commosso ò dipinto il cielo (la tela assorbente è un po’ rosa!) che è venuto benissimo. La mia povera umanità è scomparsa, quasi direi che è scomparso il mio orribile ventre che a stento, nonostante i mattinali esercizi di culture physique, posso far star

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Filippo De Pisis Paesaggio di Cortina, 1927 olio su tela, 63 x 48 cm Collezione privata

dentro al bel costume di velluto rigato così chic se portato bene. Potrei credere di essere un angelo, un cherubino (“più non sfiorano i piedi la terra – più non pesa il corpo nell’aria”, Ada Negri). Il mio cuore, che à tanto amato (pardon!), à quel ritmo benedetto che forse sarebbe udito dalla stratosfera se in essa abitassero gli spiriti gentili, il ritmo della creazione. Ad un tratto, guardandomi d’attorno, mi accorgo di essere circondato dalle vacche, bianche e nere, mansuete e gentili. Il primo impulso è di gioia. Care! Sono venute a vedere: chi è ce drôle, cet imbecile, cette tête de pipe che è venuto a piantarsi così nel loro bel prato senza domandare il permesso. – Tò bella, tò, tò, santa del Signore –. Stanno tutte attorno, la testa levata come ascoltassero la predica, mi par di essere un poco San Francesco. Ma una più ardita, i begli occhioni castani fissi nei miei, che la guardano con interrogazione, la bella testa di velluto ritagliata sul verde, si avanza fino a urtare con le corna l’esile cavalletto, fino a lambire con “la narice umida e nera” la tela (penso a una grassa signora che guardi con l’occhialino: – Vous ne m’avez faite trop vieile au moins?). Allora mi preoccupo un po’ e quasi un vago terrore, quello che dovevan provare i popoli primitivi all’appressarsi delle mandre furiose, m’investe, faccio un gesto, un urlo, la bestia si allontana un po’, ma un’altra pezzata viene ad annusare la tavolozza posata per terra (la sfiora senza toccarla) e con la lingua lecca e rilecca il legno del cavallettino come fosse di marzapane. Un vitello dalle cornette ardite mi guarda con sfida e à l’aria di volermi investire di tutta carica. Allora scelgo fra il mazzo dei pennelli il più grosso (ma non ne ò perché ò orrore della pittura a strati sordi e stracchi) e lo batto con tutta forza sulle natiche di questa o di quella: prendono una piccola carriera come per burla. – Avanti, adesso avete visto abbastanza, andate via, siate buone, lasciate in pace un povero artiste-peintre che deve guadagnarsi il pane con il sudore della sua fronte (una gran sghignazzata di un picchio in un albero vicino). In quel mentre arriva un canetto giallo che sa farsi rispettare più di me. – Tò mòro, tò, para là… Ma mòro vuol farmi delle gentilezze… – Tò mòro, tò, para là… Un’altra viene col muso sulla palette. – Ma no, non è buono, un critico à parlato per i miei colori di cioccolatini, ma son storie… Miseria, la pittura, miseria i colori, val ben meglio il tuo latte… E Luigino, il roseo, il biondo Luigino dove è? A lui le bestie ubbidiscono come al loro re, alla sua voce di angelo. Luigino mi fa cenno di lontano: – Signor professore, c’al prenda la scuria! – Frusta in lingua nota. Château d’Argenteuil (Gers). F. de Pisis, Pittura en plein air, «L’Italia letteraria» (18 agosto 1934), poi in Idem, Confessioni dell’artista, a cura di B. de Pisis e S. Zanotto, L’inchiostroblu, Bologna 1983, pp. 58-59

UN NUOVO RINNOVAMENTO DEL SENSO DEL PAESAGGIO Cesare Brandi Si giunge così ai Paesaggi dell’estate di quest’anno, che sembrano ri­prendere le ricerche del ‘40 al punto preciso in cui le lasciava la fine del­la villeggiatura. Esattamente, in quelli del ‘40, la visione pareva sor­presa al momento in cui, regolando un binocolo, l’immagine, prima an­ nebbiata, emerge con una chiarezza spoglia, che non ha mai ad occhio nudo: dove, però, il trapasso dall’indistinto al perspicuo, era ricostru­zione affettiva; e dalla nebbia della coscienza si risollevava il paese nella luce aurorale del ricordo. Nei Paesaggi attuali, un fiato leggero più decisamente viene a sten­dersi sulle lenti, o piuttosto sono lievi cortine d’ombre, quinte translu­cide, che, come le acque ferme quando fanno la ragia, arrestano lo sguar­do ad un cristallo appena smerigliato: si creano densità improvvise, dif­fusioni trattenute, sospensioni; e lentamente l’equilibrio delle masse si sposta da quello

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veridico del motivo naturale, alla proprietà che l’aria assume di far corpo, nell’ombra, con l’albero o il pezzo di terra, e la lu­ce agglutina foglie, tralci, facciate; con un leggero tremito, come quando i piatti della bilancia si assestano, queste masse, che non sono più d’al­beri o di Cielo, ma quantità ricostituite e bilanciate nel controllo della luce, si riportano ad uno stesso livello. Rispetto, perciò, ai Paesaggi più intercisi dell’anno scorso, gli attuali ne arrestano il cammino, se fosse parso a istanti che riconducessero ad una pittura di ripresa diretta, e stabiliscono con un elemento, se non nuovo, più decisamente assunto e sviluppato dall’ombra, la trasparenza, l’unità di luce e colore come base all’equipollenza del vuoto al pieno: sostanza, non accidentale conformazione, della forma pittorica. A que­sto fatto, che è figurativo e non ottico, siamo voluti giungere partendo dalle analogie apparenti con i dati sensibili, appunto per dare ragione che le perentorie e imprecise forme degli alberi e delle case di Morandi non costituiscono un parallelo della sostantivazione, di conio pura­mente ottico-analogico, con la quale i Macchiaioli semplificavano i sog­getti paesistici. Si sa che un oggetto, percepito nell’infusione della massa d’aria, come vibrazione luminosa, perde i contorni precisi, e si manifesta sfrangiato e duttile, sotteso d’ombra; e nell’ombra stagna una luce in­tima, riprodotta. Questo istante sta alla base – non n’è certo l’essenza dell’Impressio­nismo: con una trascrizione abborracciata, rappresenta la speditiva e istintiva appezzatura dei Macchiaioli. All’inizio Morandi suggerisce gli elementi per una ricomposizione diversa: poiché non è certo la visio­ne unica e istantanea dell’aria libera che Morandi vuol proporre, ma la creazione d’immagine si fissa in questi nuovi aggregati simultanei di lu­ce, e d’aria, d’ombra e di colore, nei quali l’emozione si condensa, e per­ciò l’integrità, la corrispondenza oggettiva delle forme a quelle della percezione è superata, si confessa un primo grado: un’estrazione grezza di minerale, di come resta quanto fa materia, a cui è imposto quel che non possedeva, la forma. Sono trent’anni che Morandi ripercorre il solito chilometro quadrato di Grizzana e pare veramente che ogni anno porti alla speculazione di così modesti motivi una radicale scoperta: da uno dei luoghi meno ameno è nato all’Italia forse il suo più rigoroso paesaggio. Non sembri perciò inutile riaffermare come naturale conclusione che formalmente né per la luce, né per il colore, né per la costruzione spaziale connessa, vi è divergenza ora da quel nodo fondamentale che si è già indicato. Dove la luce non è mezzo descrittivo ma costituisce valenza originaria, e questa si accolla la determinazione dei rapporti spa­ziali, il colore non è più colore locale, riferito ad una forma che la luce può illuminare o adombrare: non è trascritto, investito successivamente alle funzioni armoniche: è strumentazione diretta, pensamento indiviso. Per analogia musicale dovremmo ancora dire che nasce il timbro, quale realizzazione del colore degli accordi prodotti in una determinata tonalità. E come il timbro, se unigenito con l’armonia, è inscindibile da questa, in­serendosi su una data tonalità, e realizza la forma auditiva dell’accordo così, nella pittura di Morandi, la luce incorporata al colore produce la forma figurativa dell’oggetto.

Giorgio Morandi Paesaggio, 1941 olio su tela, 41,5 x 52,7 cm Collezione privata

C. Brandi, Cammino di Morandi (1939-1941), poi in Idem, Scritti sull’arte contemporanea, Einaudi, Torino 1976, pp. 9-28

[…] quel che doveva imbarazzare Morandi a tu per tu con una figu­ra umana, era il fatto di non potere spogliarla così facilmente di con­notazioni come riusciva a fare per le bottiglie o per il paesaggio. Le bottiglie vuote, polverose, o magari in parte colorate, quindi già collocate a mezza strada del cammino della fantasia, perdevano qualsiasi connotazione, restavano come un relitto affidato solo a quello che an­cora denota. Il paesaggio poi, che amava Morandi, era quello più ina­meno, più banale che fosse possibile recuperare: strade polverose, case d’affitto, pioppi spelacchiati. Un paesaggio che si presentasse come dise­redato, di fronte al quale non fosse possibile né un moto di allegrezza né un modo di orrore: da passare del tutto inosservato, e cioè il meno pos­sibile «connotato» dallo spettatore. Talvolta, come apertamente mi dis­se a Grizzana, Morandi si serviva del binocolo, perché il motivo lo sceglieva così lontano da doverselo riavvicinare quel tanto che consentisse un minimo di arricchimento circostanziato. E in questo scegliere un motivo, così oggettivamente remoto, c’era proprio il desiderio di avvicinarlo in un modo puramente speculare, senza aggiungervi connotazioni di sorta. Ora un simile atteggiamento, che è ad un tempo di distacco assoluto ma anche di potere as-

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soluto sull’oggetto, era impossibile ad ottenersi di fronte alla figura umana; e per un’umanità repressa come quella di Morandi. In questo senso le inevitabili connotazioni che svegliava la figura umana in Morandi, dovevano sembrargli un ostacolo ad operare quel drastico chiarimento che egli esigeva nell’oggetto. Gli pareva che entro l’immagine, che trasferiva sulla tela, ci restasse qualcosa di più di quello che il suo rigore consentiva: e che proprio questo qualcosa di più impedisse la decantazione pura dell’oggetto in immagine. Aveva un bel velare la sua faccia, negli Autoritratti; ci restava sempre più di quel che toglieva. E allora tagliò netto con la figura. Quindi non è che la strut­tura, che si era data, e il codice, con cui si esprimeva, fossero inadatti a questo particolare contenuto che era la figura umana: ma era la figura umana che egli non riusciva a purgare di quelle connotazioni per cui se n’inceppava il trapasso in immagine. C. Brandi, Morandi a poca distanza (1966), poi in Idem, Scritti sull’arte contemporanea, Einaudi, Torino 1976, pp. 48-59

Lionello Venturi […] ogni opera d’arte è insieme concreta ed astratta, e [che] è altrettanto impensabile una pittura “tutta natura” quanto un’altra “tutta calcolo”. Si potrà aggiun­gere che da quando la teoria dell’arte come imitazione della natura non appartiene più al mondo della cultura, il con­creto che si considera come esigenza indispensabile del­l’opera d’arte è il modo di sentire dell’artista. In altri ter­mini l’estetica moderna ha trasportato all’interno del sog­getto creatore quella natura che prima era considerata empi­ricamente come case, fiumi e montagne.

Afro Stagione nell’Ovest, 1956 olio su tela, 115 x 148 cm Collezione privata, Milano

Ma poiché nemmeno lo stato d’animo o il sentimento che sia, nemmeno la “natura” dell’uomo è sufficiente a creare l’opera d’arte, è necessario ammettere un atto di astrazione compiuto dalla fantasia che impronti in quella natura lo stile dell’artista, e che porti l’opera dal livello di natura a quello di arte. Un modo divenuto popolare per distinguere questi due aspetti dell’opera d’arte è quello di chiamare illustrazione, ciò che in una pittura è rappresentazione del mondo este­riore (fiumi, case, montagne) e del mondo interiore (soggetti, passioni, miti) e di chiamare invece decorazione tutto ciò che si riferisce a linee, forme e colori. Ed a ragione si è detto che la decorazione non esiste in arte senza illustrazione. Ma si è concepita questa necessità di consistenza in un modo affatto erroneo, e cioè­ si è preteso che un’opera contenga valori decorativi e valori illustrativi. Ora nessuna opera d’arte autentica salta fuori da una miscela chimica ove si metta un pizzico di illustrazione e uno di decorazione. Quel che è necessario perché una pittura sia un’opera d’arte è che i suoi valori «decorativi» contengano in sé stessi i valori «illustrativi», o meglio che nelle sue linee, nelle sue forme e nei suoi colori il pittore abbia impresso la sua personalità di artista, le sue passioni e i suoi sogni. L. Venturi, Astratto e concreto, «La Biennale di Venezia», 1 luglio 1950, p. 11

Francesco Arcangeli Paesaggio, nel senso vero e profondo della parola, è già il senso del ‘due’: un limite astratto, oscuro e presente. Il paesaggio è stato diroccato, ormai, come termine di confronto analitico, come cronaca, come verità letterale. Pochi di questi pittori, del resto, lavorano in “plein air”, e sul vero; ma già la natura li assedia nella memoria, nell’eco di sé che va a frugare le loro stanze, già li sta riassorbendo nel suo grande grembo infinito. Quello che non torna, che forse non tornerà in loro, è quel senso solennemente o deliziosamente locale, quel senso come di sublime contingenza, dei grandi naturalisti dell’Ottocento. […] L’‘uno’ della mente umana ha già prodotto troppi orgogli rivelatisi vani, gli equilibri sembrano ormai impossibili. I nuovi pittori sentono, cercano il ‘due’: il limite delle nostre possibilità, la religione naturale. Il loro – che in confronto alla misura della grande generazione precedente

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è squilibrio – non lo è però al modo degli espressionisti: i quali sono sempre in monologo, e sudano orgoglio stravolto in angoscia solitaria. Essi ‘squilibrano’, ma frenati e animati da un rapporto: la natura. Per l’uomo moderno, mito, verità, Dio, chi può dirlo ormai? Una estate a Imbersago, una primavera a San Lazzaro di Savena, la volontà di ritrovare qualche cosa a Brisighella, il profondo delle foreste rievocate in una stanza di Bologna, e in un’altra marine e volti come in sogno; qualche ombra di figura, ‘solo se ombra…’, larve umane che si cercano brancolando cieche e amorose nel magma dorato dei colori: tutto questo accade nella natura, di cui ho nominato qui, forse per indiscrezione, qualche luogo contingente. Ma su queste tele non ne resta che l’ombra profonda, la matrice, il folto boschivo, lo scontro, il brivido, il sogno. La visione naturale non è più, ora, una sensazione da adeguare nell’opera, da trasfigurare con gli strumenti più splendidi e perfetti (come è accaduto sostanzialmente dagli impressionisti a Morandi), ma è un’impressione che subito l’emozione stravince. Natura è la cosa immensa che non vi dà tregua, perché la sentite vivere tremando fuori, entro di voi: strato profondo di passione e di sensi, felicità, tormento. In un tale rapporto si include tutto ciò che si sta svelando, di pauroso per chi ancora ama il tempo lento e umano del vecchio mondo naturale, dell’universo. Un paesaggio si capta, come per ipotesi enorme, dal volo d’un automobile, la notte; dall’inclinazione d’un aereo; durante la pausa insostenibile di un bombardamento. Il nostro occhio è inquietato dalle dimensioni moltiplicate, dalle ipotesi nucleari; è inquietato mentre guarda, mentre sogna, mentre ricorda. F. Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, «Paragone», n. 59, novembre 1954, pp. 29-43

Renato Birolli (1958) Estate. La luce solare sfalda la struttura geologica del paese di mare. Ne ha bisogno il paese e bisogno ne hanno le genti aspre e prive d’immaginazione. Così tutto pare sciogliersi nel sole e questa è l’estate. Ricorderò che avvenne che fosse un giorno d’estate la distruzione fenomenica di un golfo e di tre promontori, divenuti papillari e polline di luce. Senza canto di cicale, senza vento, con luoghi disposti al volo e alla sparizione. Una stagione che sarà stata in un mattino e durerà lunga, ricca di metamorfosi, nella memoria. Ho chiamato Lassa – alta sul Tibet – Corniglia, difesa sul secondo promontorio; ho potuto comparare lo sconosciuto a ciò che conosco, perché vera non è la cosa ripetuta, ma quando esce dai suoi confini per prolungarsi in noi. E nomi conosciuti, i loro stessi nomi, ho dato ai paesi che sfuggivano alla vista. Solo così l’estate avrà avuto il suo muro muschiato color giallo indiano e d’ombre celesti e grigie, grigia la pietra solare, ma palpitante. Materia nel fenomeno, materia oltre la sua immobilità: che non si riconosca più la figura originaria, fatta di pietra, fogliette, muschio e calcinaccio e che tutto rechi un significato traslato, d’invasione dell’animo. Anche a queste cose note, daremo nuovi nomi di cose ignote e forse la loro figura finale sarà quanto resta di vero e durevole.

Vasco Bendini Immagine (Tracce), 1957 olio e tecnica mista su tela, 110 x 90 cm Collezione Intesa Sanpaolo

R. Birolli, Taccuni 1936-1959, a cura di E. Emanuelli, Einaudi, Torino 1960, pp. 305-306

Roberto Tassi Ritengo Ennio Morlotti l’inventore di un rapporto tra natura e pittura, che non era mai stato tentato nella storia dell’arte prima di lui, e che, per quanto non vi appaiano più le caratteristiche del paesaggio com’era finora inteso, può rappresentare ugualmente, e può darsi, il paesaggio moderno, il paesaggio della nostra modernità. […] Difficile questione se dovesse ancora chiamarsi paesaggio; poiché sulle tele di Morlotti e degli altri artisti nominati, del paesaggio secondo l’accezione ottocentesca era rimasto ben poco; non molto anche di come il paesaggio si era mostrato en­tro la prima metà del secolo. Può dirsi paesaggio una parete che si alza a preclu­derci l’orizzonte e pure a contenerlo al suo interno come se avesse assorbito la lontananza? Una così risoluta alterazione dello spazio naturale? E infine una così violenta cancellazione della individualità fenomenica e fisica di un luogo natura­

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le, per sostituirvi una individualità di tono, di poesia, di essenza, per dare del fenomeno e del corpo lo spirito profondo che mentre lo fissa nel tempo lo sot­trae al tempo, mentre ne coglie la momentaneità lo immette nella durata, e lo fa fuggitivo ed eterno, unico e generale, il luogo in sé e il luogo in assoluto? Conviene dirlo ancora paesaggio, coscienti di aver indicato grosso modo, entro questi interrogativi, cosa si intenda per paesaggio moderno e come deve essere considerato il paesaggio di Morlotti. Sta in questo infatti la sua novità, la sua trasgressione e la sua grandezza. E all’origine di questo il rapporto in lui tra na­tura e pittura. Forse per la prima volta in quegli anni di mezzo del nostro secolo, dopo che la modernità aveva sperimentato ogni sorta di rotture, di fantasie, di invenzioni linguistiche, un artista sente che il suo destino si compie nel rapporto con la natura; solo se l’emozione fortissima da lui provata di fronte alla natura potrà risolversi in espressione si avrà poesia; niente altro potrà succedere; nes­sun altro processo formarsi. Non so cosa abbiano provato di fronte alla natura Soutine, Permeke e Morandi, i grandi pittori di paesaggi nella prima metà del secolo; ma non credo che sia stata la stessa cosa. Ora, con Morlotti, si compie un evento nuovo: prima per quel senso del destino; poi per il modo come l’emo­zione è trasformata in pittura. R. Tassi, Il paesaggio di Morlotti, catalogo della mostra (Locarno, 1987), Mazzotta, Milano 1987, pp. 11-20

IL PAESAGGIO MODERNO COME PROBLEMA STORICO-CRITICO Pier Carlo Santini Il paesaggio, come lo abbiamo finora verificato, è qualche cosa che fa parte della vita dell’uomo che in esso si svolge, e si presenta quindi connesso ampiamente e profondamente con i molti problemi, attività, aspirazioni che la caratterizzano. Nell’ultima parte di questo saggio cercheremo di control­lare come, per quanto concerne i meri valori visivi, le nostre capacità e modi di intendimento siano stati fortemente affinati e acuiti da quegli spiriti d’eccezione che sono gli artisti. E non solo in quanto hanno talvolta riflesso in modo inconfondibile e cioè nuovo le fattezze sensibili dei mille luoghi del mondo, ma in quanto ci hanno fornito mediante la varietà dei termini e la individualità del linguaggio, dei parametri, delle chiavi, degli stimoli talvolta preziosissimi per la lettura e per l’interpretazione. O diremo anche magari, più semplicemente, per il piacere di un contatto non soltanto fisico. Ma c’è di più. L’architetto e urbanista inglese G. A. Jellicoe nei suoi «Studies in Landscape Design», discorrendo attorno al quadrato (e cioè alla forma-simbolo per eccellenza della ragione, che ha affa­scinato architetti di ogni tendenza, e può considerarsi «una forma di grande significato per l’archi­tettura paesaggistica», ricorda che per sei anni Maleviç lavorò attorno al quadrato e al suo rappor­to con altri oggetti, dipingendo infine il famoso Bianco su bianco del Museum of Modern Art di New York. Il Jellicoe rileva che «il significato del dipinto è duplice; esso mette in evidenza l’attrazione suprema e atemporale che il quadrato esercita sull’intelletto umano; e dimostra che il quadrato non è più una forma assoluta ed autonoma. Deve essere osservato nella sua influenza su altre forme e nell’influenza che viceversa queste forme esercitano su di esso. Ciò significa che nessuna opera ar­chitettonica è compiuta in sé, ma che dipende dal rapporto con l’ambiente. Si tratta certamente del massimo atto di ribellione contro la nostra storia più recente, che fa ricadere sulle spalle dell’archi­tetto paesaggista o del suo collega, l’architetto urbanista, un peso finora sconosciuto». […] Nel discorso del Jellicoe il quadrato diviene dunque alla fine un simbolo delle «esplorazioni nello spazio dell’immaginazione, che si sono svolte a partire all’inizio del secolo». Gli esempi sono quasi ovvi. «Mondrian risolutamente escluse le forme organiche dei suoi studi di disegno spaziale ed è rigorosamente geometrico. I costruttivisti, guidati da Gabo e Schöffer, crearono disegni astratti che si ispiravano a costruzioni in spazi urbani immensi. Kandinsky si ispirò ai monumenti e agli spazi celesti; Mirò in gioventù fu affascinato da forme strane e selvagge in rapporto con la geometria, e amò evidentemente il serpente. Il pittore inglese Graham Suther-

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land è penetrato profondamente nella forma organica. Uno dei più grandi pittori paesaggisti, Mordechai Ardon, sa imprimere qualità visuali allo scenario d’Israele e in realtà dovrebbe ispirare gli architetti paesaggisti del suo paese ad elevarne le realizzazioni tecniche a livello del sublime». Proprio l’esempio di Mordechai Ardon por­ta il Jellicoe a concludere che «obiettivo universale di tutti gli artisti [è] come esplorare e sfruttare il mondo astratto senza perdere il contatto con il mondo naturale. Questo è anche l’obiettivo fonda­mentale di tutti gli architetti paesaggisti». Ho citato per esteso il testo del Jellicoe – a cui si debbono stimolantissimi capitoli su una qualità di temi relativi al paesaggio e ai modi di costruirlo, di vederlo e di intenderlo propri delle varie età e personalità artistiche – perché introduce assai bene il discorso sull’arte non figurale che si è svi­luppata nel nostro secolo con le molte eccezioni e flessioni anche antitetiche che le conosciamo. Se gli artisti hanno ritenuto di poter prescindere dalla realtà esterna, di potersi allontanare dalle forme naturali, sembrerebbe di doverne inferire che anche il paesaggio rimane estraneo ai loro interessi e alle loro attenzioni. Da una parte si collocherebbe l’arte figurativa e dall’altra l’arte astratta, accor­dando così alla natura capacità e potere di distinzione. Ma, come anche le recenti esperienze ed i re­centi sviluppi artistici hanno mostrato (ma era già chiaro del resto da tempo) v’è stata una circolarità di esperienze che hanno ben presto valicato quei deboli confini, riverberandosi beneficamente dall’uno all’altro indirizzo. Ragghianti ha mostrato come in uno stesso artista, Mondrian, si conservino operanti principi e fondamenti compositivi omogenei al di là delle trasformazioni radicali dei riferi­menti figurali. Quale che sia il diverso grado di richiamo, di suggerimento, di aggancio con la real­tà, v’è, a distinguere il comporre mondrianesco una misura, un equilibrio, e delle «regole» costanti, che mostrano fra l’altro come certi retaggi dell’educazione giovanile e certe scelte di cultura conser­vino la loro efficacia. V’è tuttavia, nelle molte esperienze compiute dagli artisti non figurali, o si potrebbe dire più sempli­cemente nell’astrattismo, una grande lezione capace di agire molto al di là del limite tecnico del «ge­nere» pittura. Una lezione che ha profondamente inciso sull’aspetto del mondo, al punto da condur­re la gente ad un tipico errore popolare quale è quello di distinguere tra «antico» e «moderno»: sinonimo di bellezza, di gradevolezza, di grazia, di eleganza il primo; equivalente di nudezza, di approssimazione, di bruttezza e tutt’al più di banale praticità il secondo. Una lezione che ha svolto un ruolo determinante nel facilitare un nuovo tipo di lettura non naturalistica di tutte le apparenze sensibili, compreso dunque il paesaggio. Si è trattato di un processo generale, diffuso e connesso che ha toccato l’intero mondo e l’intera vicenda delle arti della visione, in tutte le loro manifesta­zioni e applicazioni. Un processo che ha addirittura ribaltato l’abito a ricondurre tutto alla natura come a qualche cosa di valido e di totalmente comprensibile, in quello di recuperare tutto alla forma quale assieme e rapporto di valori assoluti ed autonomi. Spieghiamoci meglio con un esempio. Chi si trovi oggi a percorrere via San Leonardo a Firenze, che è fra tutte le vie collinari fiorentine, quella cui forse la coralità di lontane e recenti generazioni ha dato maggiore ricchezza di temi pla­stici e maggiore unità di sviluppo, non può non ricondursi con la memoria ai celebri capolavori di Ottone Rosai che ne raccolse e ne fissò l’immagine in termini di chiara, fondata architettonicità, pur non rinunciando a cogliere quelle tenerezze di colore e di luce che rendono quella via tanto mutevole e diversa da un tempo a un altro. Rosai vi torna quasi ossessivamente, trascegliendone porzioni varie, ma soprattutto mirando a raccoglierne quello spirito inconfondibile d’unità di cui si diceva. Ora, nessuno ci vieta di godere il silenzio, e il profumo dolcissimo che viene col vento leggero di primavera dai glicini che debordano dai muri continui. C’era spesso perfino, un tempo, di sera, il tocco delicato di un pianoforte che si diffondeva sommessamente nella via attraverso le inferriate di una villa. E poi c’era il pallore degli olivi, c’erano le lame di luce che penetravano dai varchi rara­mente aperti nella «parete» di questo percorso che offriva una insondabile reviviscenza di episodi uguali, o almeno equivalenti, ma sempre diversi. Tutto, insomma, il repertorio classico dei motivi e dei miti, delle sollecitazioni e delle blandizie che a intere generazioni di visitatori era apparso così affascinante e irresistibile. Ma non c’è dubbio che vi sia un altro modo di percorrere e di «sentire» via San Leonardo: nella sua misura umana, nel calibrato respiro del suo spazio fluente or più dilatato or più compresso, nella lentissima variazione dei campi visivi che impone, direi, una certa lentezza del passo; nella gradualità dei trapassi che non sono mai improvvisi; nella chiarezza delle emergenze edilizie di straordinaria so­brietà, senza un pleonasmo o una sbavatura; nella calda uniformità dei toni di base su cui scattano rapide

Ottone Rosai Paesaggio, 1956 ca olio su tela, 195,5 x 70 cm Collezione Intesa Sanpaolo

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macchie di colore; nella architettonicità dei cipressi fermi sul mobile frondeggiar degli olivi; nella texture stupenda e mutevole del lastricato, e nella grana degli intonaci delicatamente graffiti. Si ricorda Rosai e si vede anche attraverso di lui. Ma non solo attraverso di lui. Entro di noi sco­priamo, sedimentate nel profondo e parte ormai di noi stessi, certe attitudini al vedere che ci con­sentono di minimizzare la fisicità di quella partecipazione, e di cogliere identità, rapporti, armonie esteticamente significanti. Sono stati gli artisti del nostro tempo a sottolineare in modo netto e in­controvertibile l’esistenza di valori da riconoscere nelle forme, ma non coincidenti con la loro fisica realizzazione, quando hanno di proposito alterato o rifiutato le apparenze della realtà. P. C. Santini, Il paesaggio nella pittura contemporanea, Electa, Milano 1970, pp. 45-47

Denis Cosgrove È un cliché della storia dell’arte che l’arte provenga dall’arte, cioè che i sogget­ti, le tecniche, l’iconografia e il disegno di un’opera d’arte o una scuola possano essere comprese al meglio cercandone le origini nelle ‘influenze’ e nelle tradizioni all’interno dell’area artistica versò cui era ricettivo il loro creatore. Tali influenze e tradizioni vengono apprese, incorporate e forse quindi estese, distorte, combattu­te e finalmente rovesciate in qualcosa di nuovo. È una caratteristica della produ­zione culturale europea sin dal Rinascimento che tali tradizioni vengano rovescia­te e che il ritmo di tale mutamento acceleri quanto più ci si avvicina ai giorni nostri, in netto contrasto con molte culture originali europee, con le culture popolari e con quelle culture lontane dall’influenza europea. J. M. W. Turner, nelle prime opere, accettò le convenzioni pittoriche sviluppatesi in Inghilterra verso la fine del diciottesimo secolo, riconobbe l’autorità degli accademici e impiegò molte delle tecniche e dei temi di paesaggio di Claude Lorrain. Nel tempo egli trasformò ed estese sia le tecniche che il soggetto del paesaggio, producendo esperimenti rivoluzionari di luce e colore. Alternativamente le sue idee e tecniche influenzarono gli impressionisti della fine del diciannovesimo secolo, i quali le estesero nei loro paesaggi. Ovviamente, collocare tutta la nostra discussione sulla produzione culturale all’interno di questi temi significa presenta­re una storia ridotta, e non considerare il fatto che tutti gli artisti vivono in un mondo materiale cangiante e attivo verso cui sono sensibili. Restringere la storia culturale all’interno dei confini del suo discorso specifico mistifica apertamente la produzione culturale, ma sarebbe sciocco non considerare del tutto tali problemi, negare l’importanza delle convenzioni ed esser ciechi verso i conflitti interni e le ricerche in un campo determinato dell’attività umana. Sarebbe parimenti sciocco ignorare le influenze specifiche come la topografia locale, la vegetazione e il clima su di un artista di paesaggio. John Berger (1980) ha dimostrato l’importanza per i paesaggi di Gustave Courbet della vita trascorsa dal pittore nel Giura; la stessa cosa si potrebbe dire nel caso di Tiziano per le colline delle Alpi. […] Il terzo aspetto dell’idea di paesaggio che sfida in qualche misura il trattamen­to a grana grossa della sua storia durante la transizione capitalistica si riferisce a quelle esperienze irriducibilmente umane della nostra vita organica e del mondo esterno. Le configurazioni cicliche della natura: il tempo atmosferico stagionale, il ricorrere nelle piante e nella vita animale della nascita, della morte e della rinascita, sono duraturi. Sono una dimensione dell’esperienza vitale di ogni indivi­duo umano e di ogni società umana. Non è difficile valutare come vengano letti i processi della vita umana in quelli del mondo naturale, poiché essi sono in larga misura i medesimi ed offrono un mezzo per esprimere un rapporto non alienato con l’ambiente fisico. A questo livello delle relazioni tra gli esseri umani e la terra possono sopravvivere alterazioni fondamentali dell’organizzazione produttiva, sebbene le forme particolari della loro espressione risulteranno indubbiamente influenzate da tali alterazioni. In formazioni sufficientemente distinte questo ani­mismo viene trasportato nella vita sociale collettiva e nel suo significato. Ne è un esempio la struttura dello sviluppo poetico di Virgilio, nelle Ecloghe, nelle Georgiche e nell’Eneide, in generale considerate scritte in quest’ordine. Virgilio venne considerato dai letterati europei, dall’epoca di Chaucer fino al diciannovesimo secolo, come il modello del classico scrittore di paesaggi. La sua opera fornì la struttura ideale, i temi, il linguaggio alla pastorale all’elegia

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europea e in tal modo divenne anche una fonte di ispirazione per i pittori (Olwig, 1986). Le tre opere virgiliane rappresentano una progressione dalla Pastorale che pone un rapporto “naturaIe” tra gli esseri umani e il loro ambiente fisico al momento della nascita e dell’infanzia della società, attraverso la società di agricol­tori individuali delle Georgiche che interviene sulla natura, rendendola sensibile con maggiore certezza ai ritmi e alle necessità della vita umana, ma non di meno, rapportando gli uomini ad essa come congiunti più che come sfruttatori; fino alla società urbana dell’Eneide dove Virgilio celebra la nascita di Roma, sostenuta inizialmente dal lavoro dei campi, ma che nel tempo introduce il commercio, la concorrenza e la guerra. Il passaggio da natura a cultura è il passaggio dall’innocenza all’esperienza, dalla condivisione spontanea all’acquisizione individuale, dal vomere alla spada, che sta a significare infine la morte della società e il ritorno al deserto della natura selvaggia. Ogni fase porta con sé il seme della distruzione e della sostituzione da parte della fase successiva in un ciclo che ricorre senza fine e che proietta sulla natura le esperienze della vita umana individuale. D. Cosgrove, Tensioni specifiche e caratteristiche durevoli nel paesaggio e nella cultura, in Idem, Realtà sociali e paesaggio simbolico, a cura di C. Copeta, Unicopli, Milano 1990, pp. 76-78

Claudio Cerritelli Una prospettiva d’indagine capace di leggere l’identità del concetto di paesaggio nella pittura contemporanea non sembra ancora avviata con risultati apprezzabili; e nello stesso tempo si dubita, giustamente, della necessità di tracciare una linea sistematica intorno all’intreccio linguistico che accoglie le inedite possibilità di “paesaggio” inventate dall’artista contemporaneo. […] Da opposti contesti ideologici e per opposte ragioni pittoriche vediamo gli artisti riflettere sull’attualità, sulle regole visive che governano la sua presenza, dove “passato” e “futuribilità” non sono altro che concetti di appoggio per sostenere l’ingombro conoscitivo del nuovo tessuto ambientale: di fronte ad esso l’immagine del paesaggio non può che sgretolarsi, perdere identità, riconoscibilità e valore autonomo, diventare pretesto per costruire un discorso sulla qualità dinamica del reale o sulla possibilità di bloccare ideologicamente o simbolicamente quella medesima condizione, senza comunque fuggirla. In questa ritrovata e rafforzata funzione conoscitiva la critica del concetto di “natura” trova nuovi stimoli e procedimenti: è ormai perduta l’illusione atmosferica del paesaggio, quell’orizzonte quasi mitologico in cui l’artista aveva allestito le tecniche di attivazione di un “vedere contemplativo”, la cui dinamica rimaneva presa e costretta nel blocco rassicurante della rappresentazione. Ora la sicurezza del linguaggio è frantumata e si vanno moltiplicando i piani di racconto intorno al gioco della visione, ai suoi nuovi oggetti di scorrimento. […] Nella pittura di De Pisis troviamo un diverso modo di agganciare il meccanismo delle apparizioni, il volto sfuggevole della natura. De Pisis fa del paesaggio un assemblage di oggetti giocati singolarmente nello spazio obliquo della sensibilità e delle metamorfosi immaginative. Si tratta di “esprimere un nuovo stato d’animo, sia pure illimitato e imperfetto di fronte alla realtà indistruttibile, ma più vergine e più nuovo e attuale, per così dire”1. È uno spazio vuoto in cui bastano poche tracce, dove l’artista sa trovare un paesaggio nel frammento del paesaggio stesso, “nella bottiglia di vetro verde, limpida come una caramella di menta, abbandonata sull’argine del canale”. Nell’invenzione di questi spiragli, attraverso il rafforzamento di simili soglie immaginative, si vengono definendo le nuove possibilità espressive del paesaggio e si esercitano i meccanismi con cui l’immagine della natura entra nell’artificio dell’arte e vi trova libera posizione. Dunque, paradossalmente, per fare un paesaggio ci vogliono più quadri e all’interno di un quadro vi 1

F. De Pisis, Telegrafo senza fili, 12 giugno 1920, in L’opera pittorica e grafica di De Pisis, catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, M. Malabotta e S. Zanotto, Mondadori, Verona 1969, pp. 70 e segg.

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sono molteplici paesaggi, molte chiavi di lettura, quanti sono i segni o i segnali disposti a lavorare fuori da una banale identificazione con il reale. Lo sguardo, l’occhio, la mente fluttuano da un oggetto all’altro senza necessità prospettiche, con continue rotture semantiche. Nelle brevi strategie di queste ragioni pittoriche cresce lo sperimentalismo di segni e colori e la nozione di paesaggio è una possibilità oggettiva consegnata ai mutamenti delle esperienze dell’arte. È una fisionomia mobile che sposta la sua immagine nelle contrapposte attitudini linguistiche ed ideologiche, un’ipotesi del linguaggio, dunque, che trova lo stile direttamente nel suo statuto grammaticale. Le indicazioni della realtà sono sempre più attutite: prevale una concezione analitica dell’arte, della sua dimensione costitutiva. Diventano protagonista le leggi della visione, il modo di studiarle, conoscerle, comporle, quindi, la necessità di cambiarle e spostarle continuamente. L’idea di paesaggio non può che risentire, lo ripetiamo, del fatto che l’arte del Novecento stacca i rapporti figurativi dall’estetica tradizionale per riassorbire la fenomenologia del mondo nell’esercizio delle proprie facoltà formatrici.

Filippo De Pisis Natura morta con la penna, 1953 olio su tela, 40 x 64 cm Pinacoteca di Brera, Milano (dono di Emilio e Maria Jesi)

C. Cerritelli, La conoscenza del paesaggio tra avanguardia e non-avanguardia, in Paesaggio: immagine e realtà, a cura di T. Maldonado, catalogo della mostra (Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, 11 novembre 1981 - 31 gennaio 1982), Electa, Milano 1981, pp. 32-36

Fabrizio D’Amico Vi è un punto, nella vicenda secolare del paesaggio, di brusca frattura; un punto in cui il paesaggio perde la sua connotazione di “genere” autonomo e diventa altro. “Genere”, quasi quattro secoli or sono, l’aveva reso fondamentalmente una consapevolezza; che vi fosse per la pittura un luogo in cui, come su uno schermo, s’incontrassero le opposte ragioni della natura da un canto, della soggettività dall’altro. Un luogo che si presunse equidistante dai due estremi che lo determinavano; che in seguito si trovò oggettivamente tirato, di volta in volta, da una parte o dall’altra; ma che comunque continuò ad essere percepito, attraverso il susseguirsi delle poetiche diverse, come luogo d’incontro infine pacificato fra le due istanze che il “genere”, appunto, coniugava: fra natura e coscienza. Quel punto di brusca frattura coincide in prima istanza, ovviamente, con le avanguardie storiche: che, rimuovendo di fatto il referente esistenziale dell’opera, si trovarono di conseguenza, come ovvio e fin banale corollario, ad aver rimosso, assieme a quel referente, la possibilità stessa del paesaggio. Che si trovò allora sospeso dalla storia; ma non da essa definitivamente espunto, se è vero che proprio dall’alveo stesso dell’avanguardia partirono per tempo (già, con il Derain primitivo, in anticipo sulla prima guerra mondiale; poi con Matisse e con lo stesso Picasso) gli avvisi di un “ritorno” che è davvero troppo riduttivo intendere come regresso a misure d’ordine meramente “classico” e comunque purista; un “ritorno”, comunque, che nuovamente autorizzò – tra l’altro – il paesaggio come modo privilegiato di reintegrazione della natura nel dominio della forma. Lo strappo delle avanguardie aveva lasciato, naturalmente, un segno indelebile su di esso. Così che la nuova assunzione dello schermo del paesaggio poteva avvenire ormai soltanto in termini assai più problematici. […] Alla natura come elemento distante, separato dalla coscienza e determinante nella costituzione d’oggetto che esiterà in immagine, si sostituisce allora la sua figurabilità come banco di prova della sua tenuta nel linguaggio. Da schermo che era, da luogo accertato e stabile di mediazione, il paesaggio diviene così bilico slittante e ambiguo che raccoglie precariamente non un’intenzione di mimesi di forme naturali più o meno trasfigurate dall’individualità stilistica, ma la volontà caparbia di rapportarsi con l’idea stessa di paesaggio, con la “figura” archetipica e germinale del paesaggio. F. D’Amico, Un’altra natura, in L’invenzione del paesaggio. La pittura italiana da Morandi a Schifano, a cura di F. D’Amico e W. Guadagnini, catalogo della mostra (Modena, Palazzina dei Giardini, 1 ottobre 1995 - 7 gennaio 1996), Mazzotta, Milano 1986, pp. 19-30

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Vittorio Sgarbi Niente si oppone alla natura più dell’arte, per ragioni costituzionali. L’arte infatti tende a istituire un universo proprio e chiuso in se stesso, con sue interne leggi che mirano a determinare una seconda natura. Nelle sue espressioni più alte l’arte punta all’annullamento della natura, a sostituirsi ad essa o a riprodurla a un tal grado di perfezione da farla dimenticare. Di fronte a un paesaggio di Claude Lor­rain, di Corot, di Cézanne o di Morandi non sentiamo nessuna nostalgia e nes­sun desiderio di conoscere i luoghi reali che li hanno ispirati. L’arte finisce in se stessa e non rimanda a nessuna realtà esterna, anche se apparentemente evo­cata. Così di fronte agli stessi luoghi che vediamo dipinti proviamo ben diverse emozioni. E, di più, molto spesso chi resta incantato di fronte ai fenomeni naturali e ammira in estasi tramonti infuocati non ha nessuna reazione e nessuna sensibi­lità per gli stessi rappresentati in un dipinto; per converso chi sente, conosce e ama con educata sottigliezza le opere d’arte è spesso indifferente davanti alla natura. […] Possiamo dunque affermare che la nozione di paesaggio si oppone, nella so­stanza formale, a quella di territorio. Il luogo dipinto appartiene totalmente alla poetica dell’artista e il suo rapporto fenomenico con la realtà ha un’incidenza pu­ramente esterna. In questo senso è perfettamente legittimo affrontare, anche per la pittura nel no­stro secolo, il tema del paesaggio come un genere separato. In molte sue espres­sioni l’arte contemporanea ha abbattuto la frontiera dei generi, puntando a un’e­sperienza totale, oscillante fra caratteri simbolici e caratteri esistenziali. Il culmine toccato dall’informale che, negando ogni riferimento alla realtà visibile, non soltanto abolisce distinzioni come “paesaggio” e “natura morta”, ma impedisce perfino il riconoscimento interno-esterno, nel duplice significato di spazio esteriore e di spazio interiore. V. Sgarbi, Note per una storia della pittura di paesaggio nel Novecento italiano, in Paesaggio senza territorio, a cura di V. Sgarbi, catalogo della mostra (Mesola, Castello Estense, 20 luglio - 30 settembre 1986), Mazzotta, Milano 1986, pp. 11-21

DAL PAESAGGIO ALLA TERRITORIALITÀ Germano Celant L’artista-alchimista organizza le cose viven­ti e vegetali in fatti magici, lavora alla scoperta del nocciolo delle cose, si avvicina al regno della natura, da lungo tempo svalutato, per riscoprirlo ed esaltarlo. Il suo lavoro non mira però a servirsi dei più semplici mate­riali (terra, rame, zinco, cavalli, piombo, fuoco, acqua, uranio, fiu­me, erba, aria, arbusti, pietra, elettricità, cielo, ecc.) naturali per una descrizione o rappresentazione della natura, quello che lo interes­sa è invece la scoperta, la presentazione, l’insurrezione del va­lore magico e fantastico dei fatti naturali. Come un organismo semplice si confonde con l’ambiente, si mimetizza con esso, allar­ga la sua soglia di percezione e apre un rapporto nuovo con il mondo delle cose. Quello con cui entra in rapporto però non lo rielabora, con esso non esprime giudizio, non cerca di scientificizzarlo o ambientarlo, lo lascia scoperto ed appariscente, attinge ­senza intervenire che in maniera minima alla sostanza dell’evento naturale, quale la crescita di una pianta, la reazione chimica di due minerali, il comportamento ecologico dei fiumi, della neve e dell’erba si immedesima con essi per vivere la meravigliante organizzazione delle cose viventi. Tra le cose viventi, scopre anche se stesso, il suo corpo, la sua mente, i suoi gesti, tutto ciò che direttamente vive. Scelto direttamente il vissuto, non più rappresentato, aspira a vivere, non a vedere, si immerge nell’individualità, perché sente necessità di lasciare valere l’esistenza delle cose, delle piante, degli animali, vuole partecipare alla singolarità di ogni evento per possedere al massimo la autonomia sia della propria identità sia dell’individualità delle cose, vuole sentire il vitalismo per

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non sen­tirsi minacciato come individuo vitale. Tutto il suo lavoro è teso di conseguenza solamente alla dilata­zione della sfera del sensibile, non può più offrirsi come afferma­zione, come indicazione di valori e modelli di comportamento, ma come prova di esistenza contingente e precaria. La sua vita, come gli eventi che la compongono, risulta così un tempo di ap­prensione, non si presenta più come un oggetto, ma si offre come soggetto che si trova a far parte, in un momento determinato e determinante, del mondo. Un mondo in cui gli animali, le piante, i minerali e gli uomini si muovono, vivendo anche loro in un mondo proprio. […] Anche se apparentemente il panorama, che ne risulta, si offre in categorie tematiche, gli artisti che lavorano con la natura, con il corpo, con la materia, con la geografia, l’attitudine ed il comportamento individuale risultano totalmente affini, l’interesse non è mai descrittivo o iconografico, gli artisti non essendo tanto interes­sati alla cosa od al materiale scelto, quanto al come la cosa, il materiale o l’evento vengono a manifestarsi. Così le varie defini­zioni critiche preposte alle varie attitudini al formare, in Ameri­ca “antiform”, “conceptual art”, “earth works”, “process art” e “raw materialist”, in Europa “arte microemotiva” e “arte po­vera” sembrano indicare una impossibilità a definire schematicamente un lavoro in continua mutazione, che vive sull’evento e non sulla definizione di esso. G. Celant, L’adottarci del nostro territorio, «Qui arte contemporanea», n. 6, settembre 1969, pp. 18-21

Pino Pascali Scoglio, 1966 legno e tela dipinta, 35 x 133 x 39 cm Collezione Intesa Sanpaolo

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Ugo La Pietra Interno/esterno (1977-1980) Tra i vari discorsi e opere che gli storici hanno catalogato nella corrente denominata “architettura radicale” alcuni progetti realizzati verso la fine degli anni ‘70 tentavano di mettere in crisi il cosiddetto stile internazionale e ripetitivo riproponendo un’architettura in grado di “comunicare”. Caricare l’oggetto architettonico di elementi legati alla nostra contemporaneità, senza prendere in prestito elementi formali dalla memoria colta (postmoderno) è una pratica progettuale che ho voluto indagare con una semplice operazione: portare elementi formali dall’interno verso l’esterno. La facciata si connota così di luci, decorazioni, oggetti quotidiani in cui ci riconosciamo, elementi ingranditi, ripetuti, realizzati con materiali diversi possono diventare un catalogo inesauribile di manipolazione. L’interno verso l’esterno diventa così, oltre che uno slogan a cui rimandare sinteticamente tutte le mie ricerche tese al superamento della barriera, che ancora esiste tra spazio privato e spazio pubblico, anche un metodo progettuale per la buona salute di un’architettura che sembra cercare con risultati scarsi nuovi modelli a cui fare affidamento. Riallacciandomi al concetto per cui abitare non è una pratica riferibile solo allo spazio privato, ma anche allo spazio pubblico (fin dagli anni sessanta ho usato lo slogan internazionalista “Abitare è essere ovunque a casa propria”), mi sono convinto che si possa pensare che come l’individuo, da solo o nel gruppo familiare, è riuscito a organizzare il proprio spazio privato arredandolo e attrezzandolo, garantendosi spesso la possibilità di intervento e modificazione, così può essere possibile trasferire molte di queste esperienze progettuali e d’uso, sviluppate nel privato, nel cosiddetto spazio pubblico. Concettualità e spettacolarità sono componenti che troviamo continuamente presenti nello spazio privato, dove affetti, memorie, passioni sono emozioni quotidiane che governano il nostro spazio mentale e dove tutti gli oggetti domestici assurgono a sistema, grazie alla continua ricerca dell’individuo o del gruppo alla ricostruzione di un proprio mondo. Ogni oggetto (come disse nel lontano 1962 Baudrillard) ha due funzioni: “la prima essere pratico, la seconda essere posseduto”. Ed è proprio in questa direzione che vanno orientati gli sforzi progettuali: consentire all’individuo urbanizzato, oltre che ad usare spazi e strumenti, anche di possederli, e per possedere mentalmente e psicologicamente qualcosa, questo qualcosa deve essere fonte di soddisfazione.


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Per raggiungere questi effetti, un primo passo potrebbe essere quello di garantire la presenza di tutti i sistemi: come nello spazio privato, in cui ambiente e oggetti sono definiti per sviluppare attività legate alla comunicazione, alle pratiche di sopravvivenza e d’igiene, ad attività ludiche e culturali, anche lo spazio pubblico dovrebbe contenere a pari merito tutte queste funzioni. Un ulteriore contributo alla progettazione di ciò che ho chiamato abitabilità urbana, è la capacità di usare con disinvoltura, sapendole integrare, le due sopra citate categorie, concettualità e spettacolarità. U. La Pietra, Dal minimo sperimentale simbolico alla nuova territorialità, 1962-2007, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Mudima, 10 gennaio - 8 febbraio 2008), Mudima, Milano 2008, pp. 144-145

LA SENSIBILITÀ CIVICA NEI CONFRONTI DELLA TUTELA DEL PAESAGGIO E DELLA CULTURA DEL TERRITORIO Giovanni Romano Le opere d’arte si costituiscono in prova storica indubitabile quando siamo in grado di liberarne l’immagine e il messaggio da un complesso di su­perfetazioni – strumentali, sociali, corporative, di convenzione accademica – immancabil­mente aggregate intorno al gesto creativo ed espressivo dell’artista. Già l’integrità materiale dei manufatti e la loro effettiva leggibilità, per danni, restauri e rimaneggiamenti, pongono barriere da superare in via preventiva, e seguono a ruota la scalatura cronologica (assoluta e relativa), la collocazione geografica e la ricostruzione del contesto professionale e culturale d’origine: insomma tutte quelle ragionevoli riflessioni sulle abitudi­ni di mestiere, quei pazienti confronti incrociati di modi stilistici e di iconografie che si tende a dar per scontati al momento di isolare l’immagine utile dal proprio assunto. Peraltro lo stesso isolamento di un’illustrazione di paesaggio “esemplare” è un’operazione a rischio, se non si ripercorre nella sua interezza la serie di appartenenza: la catena iconografi­ ca potrebbe essere stata determinata da consuetudini a prima vista non esplicite e magari ben lontane dalle nostre supposizioni; oppure la serie presunta non esiste e l’immagine creduta generalmente emblematica è in realtà un “unicum”, riconosciuto solo in un ambito socio­ culturale assai limitato. La scelta di un partito iconografico o di un’opzione stilistica compor­ta sempre una delicata compensazione tra pratiche di routine e sperimentalità che agisce co­me filtro privato o di gruppo, con vocazioni illustrative ottimali quanto censure preclusive. Messi così sull’avviso si può procedere meglio a definire un progetto di ricerca sull’utilizzo delle fonti figurative per precisare modificazioni storiche del paesaggio italiano, variazioni della sensibilità umana allo spettacolo naturale, caratteri sufficientemente costanti da poter diventare elementi fisiognomici di riconoscimento per distinte tipologie storiche o naturali del paesaggio stesso. Va detto che il compito sarà tanto più difficile e delicato perché ancora non riusciamo a concordare circa le sedi istituzionali coordinabili per un’efficiente didattica conoscitiva della realtà paesaggistica. Proviamo per il momento a elencare le fonti reperibili per la conoscenza storica del paesaggio, oltre all’ovvio elenco di dipinti, disegni, incisioni, cabrei, catasti, cartografie foto aeree, ecc.; vale a dire al di là del puro rilevamento dell’esistente, in modo più o meno fedele. Il primo passo potrebbe consistere nel capovolgimento del problema, mettendo a fuoco piut­tosto la progettazione delle modifiche che mano a mano sono state imposte al paesaggio na­turale. Infrastrutture varie – dalle strade ai porti, alle dighe, alle fortificazioni – comportano disegni di rilevamento e progetti che restano fondamentali per la conoscenza (prima e dopo) del nostro territorio come paesaggio, cioè come realtà naturale filtrata da uno sguardo progettuale. Tutto questo materiale documentario non approda nei musei, nelle biblioteche, raramente negli archivi pubblici di più facile accesso e i Ministeri dei Lavori Pubblici, della Difesa, della Marina

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Mercantile, dell’Agricoltura restano miniere per tanta parte inesplorate, così come gli archivi fotografici delle Soprintendenze per i Beni Ambientali, gli uffici tecnici delle Regioni e dei Comuni, gli archivi di grandi industrie con insediamenti diffusi, ecc. Una ricognizione a livello almeno regionale delle fonti iconografiche utili alla storia, al “riconoscimento” e al recupero del paesaggio italiano meriterebbe un progetto speciale dei tanti che oggi affollano l’orizzonte della tutela di Stato, e che sono spesso puramente di parata. Dal confronto tra la realtà attuale e questo sterminato repertorio per immagini di un pae­ saggio ormai perduto dovrebbero risaltare quegli dementi costitutivi del concetto di paesag­ gio storico di cui avvertiamo più dolorosamente la sottrazione oggi, per motivi che possono essere appunto storici, naturalistici, ecologici o altro ancora; sugli estremi di questa lacerazione del tessuto paesistico, databili al giorno, al mese, all’anno, riusciremmo forse a far crescere una serie di termini e di definizioni utili a stabilire un “codice del paesaggio” o una scheda paesistica, sul tipo di quelle in uso presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documenta­ zione del Ministero per i Beni Culturali. Un vocabolario unificato di caratteri storici e defini­zioni naturalistiche credo agevolerebbe il dialogo tra le varie competenze interessate al pro­blema e credo renderebbe meno utopistica l’idea di un eventuale restauro del paesaggio ita­liano, ove ancora possibile. G. Romano, Iconografia e riconoscibilità, «Casabella», n. 575-576, gennaio - febbraio 1991, pp. 25-28

Franco Farinelli […] in virtù dell’informazione dello spazio, della miniaturizzazione e del decentramento ogni rivolgimento nel campo di produrre e di vivere lascia oggi tracce sempre meno corpose e significanti, e resta al contrario sempre più nascosto a chi guardi la superficie delle cose. La miseria di ogni teoria della morte del paesaggio nasce proprio da qui: dal disporsi senza saperlo su di un piano che, essendo per natura quello della reificazione, conduce il pensiero (e proprio quello che si vorrebbe critico) alla stessa inconsapevole cecità che materialmente affligge chi ancora crede, al contrario, nella concreta esistenza del paesaggio stesso. Da ambedue le parti si ritiene, in fondo, che la validità del concetto di paesaggio dipenda da quella del rapporto tra descrizione del visibile e spiegazione del mondo: e ambedue le parti danno, al riguardo, un’opposta risposta. Ma l’abbiam visto: il paesaggio s’è mutato da modello estetico letterario in modello scientifico non per descrivere l’esistente, ma per rendere possibile il sussistente. Analogamente, l’informatizzazione dello spazio ne minaccia oggi l’esistenza non tanto perché comporta la crisi della visibilità, ma perché la diffusione dei computer tende a ridurre il mondo intero a sterminato campo della predicibilità2 – mentre la nascita del concetto di paesaggio obbedisce esattamente all’intento opposto, al bisogno di arnesi ideali in grado di promuovere l’inaspettato, di permettere il cambiamento, la rivoluzione. Quello di Humboldt restò un sogno ad occhi aperti (e si sa che per Freud tra i mezzi del lavoro arguto e quelli del lavoro onirico vi è ampia coincidenza). Ma proprio in forza della sua connaturata e calcolata ambiguità, il paesaggio resta l’unica immagine del mondo in grado di restituirci qualcosa della strutturale opacità del reale – dunque il più umano e fedele, anche se il meno scientifico, dei concetti. Per questo non può esservi crisi (né tantomeno morte) del paesaggio: perché esso è già stato esattamente pensato per descrivere la crisi, il vacillamento, il tremito del mondo. In fondo, l’astuzia di Humboldt (e l’arguzia del paesaggio) si reggono su di un solo e unico accorgimento: su di una parola – e il caso è davvero raro, se non unico, nella storia del sapere scientifico – che serve a designare la cosa e allo stesso tempo l’immagine della cosa. Vale a dire: una parola che esprime insieme il significato e il significante, e in maniera tale da non poter distinguere l’uno dall’altro. E non è, oggi, proprio la difficoltà, se non l’impossibilità di tale distinzione il segno più evidente della nostra crisi, cioè della crisi della nostra capacità di conoscenza? Chiedeva Wittgenstein, e la risposta ancora manca: “che cosa accade se, lontano 2

J. Browing, A question of communication, «The Economist», 16 giugno 1990, inserto speciale sulla tecnologia dell’informazione, p. 20.

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lontano, le immagini cominciano ad oscillare?”3 Se perciò la mimesi conserva un minimo del proprio valore gnoseologico, è proprio dal paesaggio che bisogna ripartire: dalla prima di quelle “parole-pipistrello” (sia uccello che topo, a seconda di come si consideri) in grado di mostrare, in indipendenza dal contesto, una faccia oppure l’altra e, così facendo, di cogliere meglio di altre l’innata bifaccialità del mondo, la sua ambigua doppiezza. Quel pipistrello che Baudelaire assimila alla Speranza, e che proprio contro il “fradicio soffitto”4 del linguaggio sbatte il capo – e al cui “incerto” ma soltanto perché quantico volo non resta che affidarsi. F. Farinelli, L’arguzia del paesaggio, «Casabella», n. 575-576, gennaio - febbraio 1991, pp. 10-13

Franco Purini (Il paese originario) L’intuizione dell’esistenza di un incessante trasformarsi dell’impronta orografica sotto l’azione dell’uomo non potrebbe darsi senza il riferimento a una condizione primaria dalla quale ha preso le mosse la catena della modificazioni. Il paesaggio è quindi la consapevolezza del rapporto tra l’aspetto iniziale di un intorno della terra e la configurazione che esso finisce con l’assumere in un certo tempo. Leggere un paesaggio comporta quindi l’intelligenza di una diacronia tra una forma primaria, una forma storica, di per sé al di fuori delle categorie della completezza e dell’organicità, e una forma derivata, risultante, costituzionalmente “non finita”. In quanto solo una tra le tante fasi precedenti e successive, e per di più proprio per questo casuale, qualsiasi scena paesistica è infatti processuale, sistema in fieri che riceva comunque dal suo poter essere isolata una considerevole autonomia. Tutta questa condizione primaria espressa nel paesaggio originario non coincide con l’intatto “paesaggio geologico” che ha preceduto la modificazione di un territorio né si identifica con quelle ricostruzioni di un ambiente naturale prima di un insediamento predisposte dall’archeologia. Si tratta piuttosto del risultato dell’idealizzazione della scena iniziale della creazione di un paesaggio nella quale gli elementi primari portano già i segni delle fasi avanzate della loro trasformazione. L’immagine cui tende una scena si inverte in una sorta di premonizione sovrimpressa alla sia configurazione originaria che si concede alla fantasia solo dopo una radicale e spesso concitata decostruzione virtuale degli strati edilizi disposti in un sito. Vera e propria immersione mediatica nell’inizio e nella fine di una evoluzione, tale regressione ad una mitica lontananza contraddittoriamente capace di incorporare illuminazioni su alternativi futuri, rivela nel paesaggio originario l’inconscio dell’architettura e della città. (tre alternative) La condizione del paesaggio italiano è talmente grave che non ha più molto senso provvedere alla sua conservazione. È necessario ed urgentissimo procedere invece al suo restauro. Un immenso, capillare restauro capace di restituire la sua integrità a quell’immagine che l’Italia non può ulteriormente far mancare all’Europa, che ha contribuito a creare e al modo che ne ha tratto essenziali ispirazioni. Una “renovatio” che impegnerà più decenni, paragonabili per intensità e profondità ad analoghe ricostruzioni del nostro paesaggio, quali il disegno della Toscana medicea, del Veneto palladiano. O, più indietro nel tempo, della Sicilia araba, della Padania romana. Ma non avrebbe neanche senso limitarsi al solo restauro dell’ambiente fisico e dei suoi luoghi eminenti, che anzi non sarebbe forse possibile, senza il ripristino di una cultura del paesaggio che muova dalla ricostituzione di una piena sensibilità per la sua immagine e da una capacità di intenderne i significati. Imparare fin dalla scuola elementare a leggere il paesaggio come scrittura è una condizione pregiudiziale; continuare nella scuola secondaria ad approfondirne i temi dal punto di vista letterario e figurativo è un passaggio obbligato per un’affermazione di 2 3

L. Wittgenstein, Osservazioni sopra fondamenti di matematica, Einaudi, Torino 1982, p. 173. C. Baudelaire, Les fleurs du mal, LXXVIII, Spleen.

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un’“ecologia della visione” che permettendo di isolare singole vedute come quadri riconduca all’unità del racconto della scena italiana. […] il restauro del paesaggio italiano va iniziato proprio a partire da quella rete di percorsi e di punti di osservazione gettata su tutto il territorio come una sensibile, vivente mappa di punti singolari, di scorci mediati, di avvicinamenti ritualizzati. Un restauro che dopo questa preliminare operazione si presenta sotto tre alternative possibili, tra le quali è urgente una scelta. La prima consiste in una vasta demolizione di quegli strati edilizi che si sono sovrapposti al paesaggio distruggendone in molti casi l’individualità e la stessa riconoscibilità, oltre alla dimensione estetica, alla poesia. Demolire per ricostruire in modi più civili, come a Napoli, a Roma. Demolire e non ricostruire, come nel caso di alcune coste sarde, la cui unicità è stata dispersa in una insensata privatizzazione che ne ha abolito la coerenza e la varietà trasformandola nella allucinata ripetizione dello stesso frammento. Demolire per ricavare dal continuum edilizio dei sistemi metropolitani grandi vuoti destinati a separare zone della città, di nuovo rese autonome come città esse stesse. Grandi vuoti come immensi “Campi di Marte” segnalati da elementi verticali visibili da lontano, segnali di un disegno della città pensato più a partire dal cielo che lo sovrasta che dal suolo sul quale poggia. Demolire per rendere nuovamente visibile il paesaggio originario. Questa prospettiva estrema, adombrata anni addietro dal Benevolo in uno studio su Roma e da chi scrive recentemente ripresa, anche se con un altro significato, ha lo svantaggio di presentarsi nel suo radicalismo utopistico e nella sua visionaria figuratività come una pura ipotesi concettuale. Pur non escludendo parziali verifiche essa si iscrive infatti nel dominio di quei modelli teorici ai quali è demandata non tanto la prefigurazione dei quadri operativi quanto la formalizzazione delle grandi linee di tendenza dei fenomeni urbani e territoriali. Nonostante questa sua astrattezza l’inclusione che questa ipotesi propone della “negatività” della distruzione degli strumenti del progetto la rende paradigmatica della dimensione del problema del restauro del paesaggio italiano oltre a delineare nel suo calcolato eccesso i limiti della intera disciplina dell’architettura, che è costretta a confrontarsi con il proprio contrario. La seconda alternativa consiste nell’abbandonare una prospettiva di intervento globale per concentrare le risorse solo sul costruito. Questa scelta, sulla quale s’è di fatto orientata la cultura della conservazione distinguendo il manufatto d’arte, centro storico o edificio dalla sua scena, opera una separazione di ambiti operativi e di proprietà che se spesso legittimata dall’emergenza non per questo cessa di rivelarsi causa di una perdita di quella residua tonalità che è ancora avvertibile in alcuni paesaggi particolarmente protetti. […] La terza alternativa si configura come una strategia puntiforme nello stesso tempo totale e parziale, estesa e concentrata, rarefatta e densa. Il paesaggio viene assunto nella sua unità ma questa non è genericamente intesa come pura continuità ma come relazione tra differenti scene, ciascuna delle quali è compresa nella sua identità, è rinviata alle sue fonti e ai linguaggi che l’hanno descritta. Entrando successivamente nella scena se ne ricompongono minutamente gli elementi risarcendo le parti mancanti e aggiungendo quelle che si rendono necessarie per ricostruirne l’integrità. Tale procedura non si configura comunque come il semplice rifacimento di qualcosa di preesistente, ma questo stesso riceve dai nuovi interventi un significato inedito e sorprendente, forte dell’evidenza inaspettata della verità. […] Se questa schematica articolazione possiede un qualche fondamento il progetto si compone nella prima alternativa come uno strumento destinato non più ad aggiungere ma a togliere, nella seconda a risanare, nella terza a rivelare un altro strato del testo. In questa sua ultima possibilità il progetto acquista una sua “totalità debole” nel senso che sa di nuovo attraversare i livelli intrecciati dell’ambiente in illuminate penetrazioni così come sa muoversi sull’orizzonte delle relazioni, sul piano del suolo, sulla pianta, di un andare che è un trasferimento del tema del viaggio nelle forme immobili dell’architettura. F. Purini, Un paese senza paesaggio, «Casabella», n. 575-576, gennaio - febbraio 1991, pp. 40-47

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Gianni Celati Cosa ci si aspetta, quando si chiede a qualcuno di descrivere un paesaggio? Per lo più ci si aspetta che quello descriva le cose che sappiamo già, che le metta bene in cornice per renderle riconoscibili, come una cartolina. Sì, abbiamo bisogno di carto­line, indubbiamente, ma si potrebbe anche pensare qualcos’altro. Si potrebbe anche pensare, ad esempio, che tutte queste rassicurazioni sul paesaggio che desideriamo avere, rassicurazioni per noi stessi e per la nostra stabilità mentale, a poco a poco soffochino i paesaggi. Che tutti i paesaggi siano diventati musei in cartolina, sempre più musei di cartoline, proprio mentre sta venendo il tempo in cui ogni paesaggio perde le proprie caratteristiche individuali. Paesaggio è una parola che viene da paese, il viso d’una contrada. Purtroppo si direbbe che la nostra epoca sia l’epoca della cancellazione dei visi, proprio perché tutti non fanno che guardarsi allo specchio, per aggiustarsi bene il viso che devono presentare agli altri. Come i visi delle nuove generazioni che non sanno cosa sia la morte, che l’hanno vista solo in televisione. Visi tutti uguali e senza dolore, visi senza i segni d’un destino individuale. Questa è la produzione di visi che avviene nella nostra epoca. Non va dimenticato che il viso, inteso come quella superficie che gli altri vedono, è anche il luogo della vanità massima per l’uomo. Ecco dunque le cartoline, il viso del paesaggio riconoscibile. Le cartoline rappresentano la vanità del luogo, il luogo che si guarda allo specchio, gli abitanti del luogo che si guardano in uno specchio, per ripetersi in modo rassicurante: “Ecco, noi siamo così.” […] In tutti questi paesaggi senza viso, col viso delle cartoline o del progetto finanziario, ormai tutti o quasi tutti diventeranno poco a poco, stranieri al luogo. Sempre più stranieri in circolazione dovunque. Di qui il prevedibile crescendo di fascismo e razzismo, nell’Europa unita con lo specchietto delle allodole finanziarie. Chi scrive, qui, crede di essere già uno straniero dovunque, perché sente di esserlo, anche se spesso gli altri tendono a rassicurarlo con le belle chiacchiere nella sua lin­gua. Sa che come europeo sarà sempre più straniero dovunque. Più straniero d’un tunisino in Italia, d’un turco in Germania, d’un filippino negli Stati Uniti, d’un antillese in Francia. Perché crede che dire “europeo”, o “occidenta­le” vorrà dire sempre più e soltanto questo: straniero dovunque. Questo è il suo modo di riconoscere i paesaggi, e le necessità che sente di guardarli bene per adat­tarsi ai luoghi. Non c’è più nessun luogo che per lui sia il “mio paese”, ogni luogo è “questo paese”, di cui può sapere pochissimo. Proprio perché lo straniero non ha più modo di sostenere in sé la vanità del viso, perché nessuno specchio locale gli rimanda l’illusione d’una identità, egli è costret­to a guardarsi attorno con calma e attenzione. Non può dare più nessun aspetto del mondo per scontato, come fa chi non si sente straniero ai luoghi. Essere stranieri vuol dire appunto abbandonare quella specifica vanità che ci porta a riconoscere i luoghi solo per dire: “Ecco, noi siamo così.” […] Lo straniero crede di capire che proprio questi giochi del parlare, per rassicurarsi con l’idea di conoscere davvero qualcosa, per trasformare tutte le sofferenze e i disadattamenti in neutra informazione, sono ciò che lo renderà sempre più straniero e sempre più inadatto ad abitare un luogo. Perché con questo insieme di chiacchiere si gioca a simulare una stabilità e una conoscibilità del mondo, proprio mentre la sua condizione è determinata da instabilità crescente e incapacità di capire cosa suc­cede nel mondo. Ad ogni istante, ogni giorno, nel paesaggio ci sono mutazioni, ma chi può coglierle? Non certo chi è predisposto a trasformare i mutamenti in neutra informazione, come se essi non producessero i loro effetti maggiori nella nostra anima inaccessibile. E come se si trattasse sempre di questioni finanziarie o politiche o scientifiche che non sono ancora state risolte. No: lo straniero sa che tutti questi mutamenti hanno il loro epicentro nella nostra anima, e che in essa il paesaggio prende i suoi colori e trova il suo senso. Solo chi sa di essere in balia delle mutazioni, affidato ad esse, senza più un luogo sicuro e stabile dove salvarsi, può percepire queste mutazioni verso un avvenire opaco, in ogni paesaggio, di giorno in giorno. G. Celati, Il paesaggio visto da uno straniero, in Nuovo paesaggio italiano, a cura di M. G. Torri, Lupetti, Milano 1999, pp. 17-18

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Salvatore Settis

Grazia Toderi Nontiscordardime, 1995 cibachrome su alluminio, 19,5 x 26,5 cm Collezione Intesa Sanpaolo

Il paesaggio è il protagonista di questo libro. È un pro­tagonista che cambia nome volentieri, si chiama talvolta ‘ambiente’, talvolta ‘territorio’: e sotto ogni avatar suscita cupidigia, innesca nuove norme, attrae altri barbari, provo­ca nuove aggressioni. E invece no. Protagonisti di questo libro siamo noi, i cittadini, che nel paesaggio/territorio/am­biente viviamo la nostra vita ogni giorno. Che respiriamo l’aria inquinata dai suoli martoriati, e assistiamo alla morte dell’agricoltura di qualità in favore di prodotti sempre più insapori. Noi, che vediamo spianare dune costiere, abbattere oliveti e pinete, ricoprire di cemento spiagge e prati montani, vediamo boschi che invadono valli già coltivate a vigneto, mentre altri boschi vengono selvaggiamente abbattuti. Noi, che dalle generazioni passate abbiamo avuto in dono un’Italia ricca di valori ambientali, e non sapremo fare altrettan­to con le generazioni future; che stiamo tradendo noi stessi e i nostri figli. Noi, che vediamo le nostre città dilagare e dissolversi in anonime periferie-sprawl, e sappiamo che in quell’ambiente senz’anima cresceranno milioni di cittadini nessuno dei quali saprà davvero che cosa è (meglio: che cosa fu) il paesaggio italiano fino a ieri celebrato. Siamo, ci sentiamo fuori luogo. Siamo spaesati, in senso sia metaforico che letterale. Non ci riconosciamo negli oriz­zonti (fisici e politici) che ci circondano. […] Siamo, ci sentiamo fuori luogo anche nelle nostre città, nel nostro paesaggio, ridotto a terreno di caccia per chi vo­glia farvi bottino. Come se non bastasse, ci troviamo istan­taneamente d’accordo quando il primo che passa ci spiega che manca in Italia un’architettura moderna, e che il terreno perduto va recuperato velocemente impiantando intorno a Roma, Milano, Torino altrettante cinture di grattacieli; cioè imitando nemmeno più Chicago o New York, ma Singapo­re o Dubai. I nostri centri storici, eredità preziosa ma fra­gile, tendono a perdersi entro le periferie che li assediano, capovolgendo ogni gerarchia: piazze medievali, cattedrali e palazzi comunali stanno per diventare una sorta di quartie­re dei giochi o di shopping center artificiale, più simile alle evocazioni di cartapesta di Las Vegas che alle città di Dan­te e di Palladio. Questo processo di disneyficazione era an­nunciato da molto tempo, ma ora è venuto a maturazione: parve strano a molti, nel 1981, un articolo nella rivista «Ur­banistica» secondo cui «la trasformazione di Venezia in una disneyland potrebbe segnare il passaggio a un modo di vivere più creativo, più allegro, più festoso», ma la nomina del suo autore a membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali (2009) indica che il trend è ormai vittorioso. Questi e mille altri disagi sono molto diffusi e condivisi. Eppure, ai più pare ancora fuori luogo esprimerli ad alta voce. Figli di una lunga stagione in cui ogni dissenso e ogni propo­sta doveva passare attraverso la voce dei partiti, stentiamo ad accorgerci che i partiti di oggi sono intenti a tutt’altro. Sopraffatti dalla complessità dei problemi, aspettiamo che qualcun altro se ne faccia carico, ma non vogliamo vedere che le vittime di questo rimando a ‘qualcun altro’ siamo noi stessi, troppo spesso ci chiudiamo in un imbarazzato silenzio. Ma è davvero fuori luogo prendere la parola, in quanto cittadini, quando intorno a noi «una minoranza senza prin­cipi distrugge un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno» (Theodore Roosevelt)? Siamo tanto smemorati ed estraniati dal nostro ambiente, ci sentiamo tanto fuori luogo da doverci rassegnare al silenzio degli ignavi? S. Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010, pp. 284-287

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INDICE DELLE OPERE Afro (Afro Basaldella), Senza nome, 1959, n. 32, pag. 102 Stefano Arienti, Ninfee, 1990, n. 51, pag. 148 Enrico Baj, Nuclear Landscape, 1951, n. 24, pag. 86 Marina Ballo Charmet, Senza titolo (dalla serie “Con la coda dell’occhio”), 1993, n. 59, pag. 164 Guido Biasi, Comparaison, 1977, n. 49, pag. 144 Renato Birolli, Incendio alle Cinque Terre, 1955, n. 28, pag. 94 Luigi Boille, Senza titolo, 1955, n. 40, pag. 118 Anselmo Bucci, L’Isola della pace, 1940, n. 10, pag. 52 Antonio Calderara, La chiesa, 1958, n. 22, pag. 76 Carlo Carrà, Marina, 1949, n. 11, pag. 54 Felice Casorati, Alberi, 1926, n. 7, pag. 46 Alik Cavaliere, Racconto, 1966, n. 43, pag. 124 Alfredo Chighine, Composizione arancio su fondo blu, 1956, n. 34, pag. 106 Sarah Ciracì Distesa, 1995, n. 60, pag. 166 Deserto di sassi, 1995 Ghiacciaio, 1995 Manto nevoso, 1995 Deserto rosso, 1995 Deserto giallo, 1995 Deserto di sabbia, 1995 Martino Coppes, Esplorazione, 1992, n. 61, pag. 168 Antonio Corpora, Barca in costruzione, 1952, n. 26, pag. 90 Luciano Fabro Habitat delle erbe (A), 1980, n. 47A, pag. 138 Habitat delle erbe (B), 1980, n. 47B, pag. 140 Salvatore Garau, Scultura che lancia-lucciole-segnali di pioggia, 1992, n. 62, pag. 170 Piero Gilardi, Cocomeri, 1966, n. 45, pag. 134 Virgilio Guidi, Marina, 1966, n. 21, pag. 74 Renato Guttuso, Fichidindia, 1962, n. 44, pag. 126 Ugo La Pietra Abitare è essere ovunque a casa propria (Linz 1979), 1979, n. 55, pag. 156 Interno esterno, 1977, n. 56, pag. 158 Pierluigi Lavagnino, Autunno n. 2, 1958, n. 35, pag. 108 Mario Mafai, Basilica di San Lorenzo, 1949, n. 16, pag. 64 Pompilio Mandelli, Il verziere, 1955, n. 30, pag. 98 Ferruccio Manganelli, Campagna, 1911, n. 3, pag. 38 Amedeo Martegani, Patmos, 1991, n. 52, pag. 150 Francesco Menzio, Finestra sul Po, 1948, n. 6, pag. 44 Umberto Milani, Grigio, rosa e blu, 1961, n. 33, pag. 104

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Umberto Moggioli, Campagna veronese, 1916, n. 4, pag. 40 Aldo Mondino, Rencontres, 1968, n. 50, pag. 146 Mattia Moreni, La cava, 1955, n. 31, pag. 100 Ennio Morlotti, Calendole, 1955, n. 29, pag. 96 Anton Zoran Music, Changement de saison, 1973, n. 23, pag. 78 Gastone Novelli, Mare, 1967, n. 41, pag. 120 Gino Parin (Federico Guglielmo Jehuda Pollack),Trieste, Piazza Unità d’Italia, 1918, n. 2, pag. 36 Claudio Parmiggiani,Verso Bisanzio, 1985, n. 48, pag. 142 Luca Patella, Terra animata, 1967, n. 54, pag. 154 Giuseppe Penone, Scrive legge ricorda, 1972, n. 46, pag. 136 Cesare Pietroiusti, Progetto finestre – Vivita 1, 17 e 29 novembre 1989, 1990, n. 58, pag. 162 Ferdinando Ramponi, Montagne, 1905-1910, n. 1, pag. 34 Ottone Rosai, Paesaggio toscano, 1953, n. 14, pag. 60 Piero Ruggeri, Amore tra i fiori, 1957, n. 36, pag. 110 Alberto Salietti, Mattino d’estate in Liguria, 1952, n. 12, pag. 56 Giuseppe Santomaso, Ricordo verde, 1953, n. 27, pag. 92 Sergio Saroni, Paesaggio, 1956, n. 37, pag. 112 Mario Schifano, Ultimo autunno, 1963, n. 42, pag. 122 Pio Semeghini, Orto a Burano, 1939, n. 5, pag. 42 Mario Sironi, Paesaggio arcaico, 1938, n. 17, pag. 66 Ardengo Soffici, Veduta (Vista) dal Poggio, 1949, n. 13, pag. 58 Luigi Spazzapan, Infiltrazioni luminose (Composizione astratta C), 1957, n. 38, pag. 114 Domenico Spinosa, Alberi e sole, 1959, n. 39, pag. 116 Tancredi (Tancredi Parmeggiani), Senza titolo, 1952-1955, n. 25, pag. 88 Arturo Tosi Strada in collina, primi anni Quaranta del XX secolo, n. 8, pag. 48 Scorcio del Lago d’Iseo, 1944 ca, n. 9, pag. 50 Ernesto Treccani, Il ponte di ferro alla Renault, 1956 ca, n. 18, pag. 68 Franco Vaccari, Esposizione in tempo reale n. 8: Omaggio all’Ariosto, 1974, n. 53, pag. 152 Luca Vitone, Identificazione del luogo: Galleria Franz Paludetto, (particolare), 1991, n. 57, pag. 160 Gigiotti Zanini Il porto, 1933, n. 19, pag. 70 Paese toscano, 1941, n. 20, pag. 72 Alberto Ziveri, “Campagna francese” n. 1, 1953, n. 15, pag. 62

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In copertina: Ennio Morlotti, Calendole, 1955 (part.)

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