ENRICO BRAMBILLA AROSIO, LE PAROLE MIGRANTI

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Un po’ di tutto, trine e vecchi merletti, veleni e delitti, una spruzzata di profumo e spezie, operette, mestieri antichi, lontani rimbombi di guerra e terremoti quali colonna sonora d’una Babele di parole frante e dirute, se non migranti, sulle strade di una Europa frenata da preconcetti e zavorre campanilistiche.

Enrico Brambilla Arosio

Enrico Brambilla Arosio è nato nel 1949 in Brianza e vive al di là dell’Adda, dove si cimenta con la pittura e la narrativa. Nel 1995 pubblica La scatola di cartone (Baroni) e nel 2003 Diletti delitti (Mobydick). Presso Pequod ha pubblicato Un paese ci vuole (2000), vincitore del Premio Assisi nella sezione romanzi inediti e Il rettile più veloce del mondo (2005). Suoi racconti sono pubblicati in varie riviste e antologie.

LE PAROLE MIGRANTI

Enrico Brambilla Arosio

Le parole migranti Prosa e Narrativa

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ISBN 978-88-98224-77-7


Enrico Brambilla Arosio

Le parole migranti

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PREFAZIONE

Parole migranti, parole che vivono e migrano, viaggiano, più vitali e umane degli umani stessi: come dire un iter storico-linguistico, attraverso le vicende della lingua, con alle spalle una nobile musicalità formale e metrica, ereditata dalla classicità, che si avvia ad un presente sempre più piatto, degradato e disarticolato, condizionato com’è da involgarimenti e contaminazioni, sulla scena di una Babele di popoli e di voci, sotto il segno e la spinta di una irreversibile “globalizzazione” dagli esiti culturali e sociali tutt’altro che prevedibili. Questo, a conferma che la storia degli uomini è anche (e forse soprattutto) una storia della lingua, l’una e l’altra reciprocamente contagiandosi e influenzandosi, come in un infinito gioco enigmistico da dipanare con pazienza e accortezza, fermo restando che in essa a vincerla e a farla da padrone è il caso, l’anomalia. La vicenda, se tale può chiamarsi, prende l’abbrivo dalla caduta dell’impero d’Oriente, dal 1453 della conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi Ottomani, per dipanarsi, come una irridente parabola lunga mezzo millennio, attraverso otto quadri fino ai nostri giorni, ambientati in una desolata plaga italica, sul filo di oscure trame e accadimenti (tradimenti, miracoli, reliquie, lasciti, delitti e relitti). Quadri condotti e raccordati tra loro per via di oltranze plurilinguistiche, spesso dall’eccentrica caricaturalità espressiva, fatta di eclettici materiali (preziosismi letterari e forme vernacole insieme), con panoplia di invenzioni e risorse tecniche, che si collocano sull’asse di una precisa li5


nea “espressionistica” e “colorata” (da Imbriani, a Faldella, a Gadda, Pizzuto, D’Arrigo e soprattutto Consolo): quadri dai titoli a tratti parodisticamente irriverenti, frustate di satira sociale, di volta in volta alternativamente assumendo e svestendo panni dei più svariati generi letterari, dal fantastico allo pseudostorico, all’epico-cavalleresco della chanson de geste, sul modello di certa narrativa popolare, capace di contaminare in irriguardosi pastiches il gotico e l’erotico, il lirico e il giocoso, il noir e il giallo, quasi a squadernare agli occhi dell’ammirato lettore un compiaciuto campionario degli effetti speciali della vita. Ed è appunto nel segno di quest’ultimo genere, il giallo inteso come ricerca infinita di causa–effetto, sotteso alle pagine di tutto il libro, che la narrazione pare acquistare i suoi tratti più intriganti e suggestivi, assumendo un carattere che va ben al di là della fabula, soprattutto in quel termine “migranti” carico com’è di ambigua e drammatica attualità. In questa chiave, ciò che Enrico Brambilla Arosio, già aduso ad altri consimili messeinscena romanzesche (penso allo straordinario Il rettile più veloce del mondo del 2005), esplicitamente persegue non è tanto una soluzione sic et simpliciter d’un caso specifico, quanto piuttosto la costruzione di una grande allegoria della umana peripezia in cui il caso specifico si rivela come un pretesto che offre, per via linguistica, il ventaglio di una molteplicità di soluzioni (da quella misterica, a quella fenomenologica, a quella propriamente poliziesca) così tanto da comporre infine un organismo narrativo dai tratti grottescamente compositi, arcimboldeschi. Vincenzo Guarracino

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Dalla Historia civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone (1676-1748)

“... Essi (i Turchi) a gran passi s’ingegnarono sempre di camminare alla monarchia del mondo; e resi padroni di tante e sì sterminate provincie, altro ad essi non restava di sottoporre alla loro dominazione, che Costantinopoli capo dell’imperio, e così estinguere affatto i Greci, che insino a’ tempi del re Alfonso avevano seduto in quella sede. Furono perciò rivolti tutti i loro pensieri a quest’impresa, la quale finalmente fu riserbata a Maometto X re de’ Turchi e della famiglia ottomana, di quel nome II, il quale essendo succeduto nel 1451 a’ regni paterni, pose ogni studio di venire a capo dell’impresa. Con formidabili eserciti e stupende armate cinse finalmente nel 1453 per mare e per terra la città di Costantinopoli. Costantino Paleologo che n’era imperatore, non potendo resistere a tante forze, erasi per difendere la sua persona chiuso nella città. Invano si cercavano aiuti da’ principi cristiani, li quali fra di loro guerreggiando, poca cura prendeansi della ruina dell’imperio d’Oriente, non ostante che i pontefici romani gl’incoraggiassero e scongiurassero a prenderne la difesa. Solo il nostro re Alfonso ed i Genovesi offerirono soccorsi, perché quella città sede dell’imperio non cadesse in mano d’Infedeli; ma mentre Alfonso s’affanna e gli affretta, ecco che Maometto a’ 29 maggio di quell’anno 1453 espugna la città, prende a far morire in quella l’imperador Costantino e tutta la nobiltà, ed in un istante si rende signore non meno della città, che dell’imperio di Costantinopoli. Così finì l’imperio greco ch’era durato 1123 anni...” 7


Di cinque petali il fiore che coltivo, Lauretta, Federica, Francesca, Emma, Maria...


Capitolo Primo Come fue che lo dimonio passò a le italiche terre

– E così fue – disceso dalla sella per discacciare con gran manate il formicolio dalla gamba, diceva con accenti desolati il monaco greco rinnovellando della caduta di Costantinopoli – che la maggior nobiltà di quelle terre, incalzata dal Gran Turco, dovè ricovrare a questi luoghi sulle orme degli stessi basiliani che, anzitempo discacciati dalla tracotanza di Maometto, quivi si portarono ben accolti aprendo lauree, cenobi e calive, grange di fervente lavoro e romitori d’ascetiche preghiere. – Mala tempora currunt! – sospirò il comite dello askitìs annuendo pensoso. – Tempi di scismi, eresie, tempi in cui lo dimonio, conquistato l’Impero d’Oriente, trapassò a queste terre – indicava con ampio gesto i luoghi d’attorno – preparando forse la venuta dell’Anticristo. In tal guisa che la Santa Inquisizione, seppur purifichi con la toca o la garrucha o il potro o l’arsione stessa nei roghi, nulla puote contro la cancrena del così detto “libero pensiero” – con l’indice grifagno puntava la fronte, dipoi proseguiva indicando l’orecchio. – E voci ci giunsero, in virtù d’una ragione offuscata dal maligno, di delitti orrendi, di stregonerie volte a confondere la purezza del sangue e i diritti dei notabili, di riti immondi in cui innocenti, infanti sottratti con dolo e scaltrezza alle legittime madri come al tempo della romana stria Canidia citata da Orazio nelle Satire, vengono sacrificati ai pravi voleri di Satana. Nullo ormai il timor di Dio, s’assiste a un ritorno del paganesimo e, più della religione, vale l’alchimia, l’astrologia, la magia. – 9


Capitolo Secondo Cuore matto

Finì di scrivere la lettera all’amico e confidente don Pietro “Tricchetracche” e s’avviò alla toilette, il beautycase con i boccetti delle medicine sotto braccio. Qualcosa le frullava in mente, un sospetto, il dubbio che tutti cospirassero contro di lei, in particolar modo il marito e, stufa di quell’ansia che la struggeva, se tempo era della fine del suo tempo, ebbene avrebbe fatto in modo che a qualcun altro ugualmente non restasse tempo. Dunque, quella strana pozione... Parola della cugina Mercuria l’omeopata, affe’ dei santi Cosma e Damiano medici illustri e della antica sapienza egizia di Kufù, capostipite dei faraoni, nonché della strega di Endor che, pare, dal profeta Samuele stesso avesse ricevuta, oltre a quella di rendere fertile una femmina sterile e vecchia come mammà Anna, la formula di tale pozione. Ovvero quattro boccetti colmi d’un liquido lattiginoso che Teresa in quel momento, chiusa nel bagno del villino, contemplava contro la luce filtrante dalle stecche di midollino della stuoia calata sul vano della finestrella. S’era appena sciolta in bocca la pastiglietta sublinguale prescritta dal medico e, non avvertendo beneficio ma anzi ulteriori strette al cuore, stava indecisa se fidarsi della parola di donna Mercurina e sorseggiare quindi, un sorsino appena a mo’ di cordiale, una lacrima di quel liquido garantitole come miracoloso. Dubitava ancora e, non rammentando precisa la posologia, donna Teresa, fiatava come un pesce in asfissia seduta sulla tazza del cesso, richiamava a mente le parole dell’omeopata... ta. 27


Già!... Per lei, donna semplice che il pane chiamava “pane” e l’acqua “acqua”, donna Mercurina era cugina carnale, cosa che faticava ad accettare ma nulla si poteva contro le discendenze del sangue, ed “omeopatata” era la cugina, cosa che accettava obtorto collo ma nulla aveva a recriminare per certi medicamenti omeopatatici pure loro assunti in passato e dimostratisi davvero un toccasana. E che razza di parolona, l’omeo... cosa!... E che, c’era bisogno?!... Tempi moderni, sempre quella menata dei tempi nuovi e che bisognava aggiornarsi!... Aggiornarsi pure nei nomi, nelle identificazioni dei mestieri!... Ma non era meglio come prima? Non era meglio, e tutti comprendevano, “Mercurina, la magàra”?! Omeopatata o magara che fosse, comunque donna Teresa non ne ricordava i consigli ma, voce arcana nel cervello, ne rammentava, per l’enfasi e gli occhiacci che cacciava la cugina, la filastrocca dei componenti la pozione, una panacea per le debolezze di cuore, a suo dire. Se la ripetè in quel mentre, donna Teresa, il fiato che faticava ad uscire dalla strozza: – Acqua tofana, come insegna Mitridate re del Ponto, ché tanticchia rinforza il muscolo cardiaco ed assuefà. Poi estratto d’erba aralda, scilla, strofanto e ditale porporino sana il cuore per la grazia della Madonna col Bambino e... – aveva aggiunto subito la magara senza rimeggiare e cupa – ...però, sorore mia cara, andateci piano ché, come ogni medicina, l’abuso ne fa veleno, tossico, bile fetente. Dunque, la dovete pigliare così... – Così come?... Questo era il problema, con quella memoria corta che si ritrovava! Due gocce a mattino, a digiuno? O due gocce prima dei pasti? O dopo? O più gocce più volte al giorno? Bah! Soprassedé, donna Teresa e, levatasi a fatica, spalancò la bocca e si pompò in gola dal vaporizzatore l’essenza di pino, altro palliativo dell’omeopata, che almeno le rinfrescava il respiro. Rifiatò, infatti, e strascicando le pianelle rientrò in camera lagnando, glielo avrebbe fatto presente al ritorno se sarebbe ritornata, la superficialità della magara, 28


capace di prescrivere paroloni per darsi tono di medichessa ma incapace di precisare come si sarebbe premurato un vero speziale con tanto di concoletta e bilancino. * Lisciò il cornetto peperino che pencolava dalla catenina a mezzo il petto, la camicia aperta fino al terzo bottone e di pieghe morbide come un bouquet d’organze sul ciuffetto di peli ricci che intricavano pettorali e gorgozzule. Pigliò delicato tra indice e pollice il carapace del lumacone marino e, come sempre fin da piccirillo, incantò al lucore di madreperla e a quella coclea marezzata da cui, forse memoria di fiaba antica, credeva sarebbe un giorno levitata la voce più melodiosa del mondo, il canto magari d’una sirenetta incantatora di scaglie azzurrine. Lo sguardo, a giro della camera, depose su ripiani e consolle fitti di pettinesse e specchietti col manico d’osso, boccette e cristalli colorati, ninnoli, carillons portacipria, poupées en biscuit che lo rimiravano attonite da sotto le lunghe ciglia. Gli pareva sempre d’essere spiato da quegli occhi di porcellana ed era pronto a giurare che la bionda “Steiner” e la bruna “Jumeau” di lui, dei suoi movimenti nella stanza, riferissero alla moglie. Ciccillo, piuttosto stranito in verità, distolse lo sguardo e cercò il beneficio del vaporizzatore aromatico. La moglie, come sempre, lo sequestrava per solo proprio sollievo ponendolo nei posti più impensati, pure tra le sete delle bambole, comunque celato frammezzo tutto quel bric-à-brac dal quale, un baule apposta ogni volta che si spostavano, la donna non si separava manco per lo weekend fuori porta. Niente, nessuna traccia della pompetta per cui Ciccillo, fatte smorfie scasimi e linguacce alle bamboline che di rimando arrossirono vergognose sui pomelli traslucidi, raschiò la gola, scatarrò rumoroso dalla finestra centrando il calice aperto d’una dionea, “Tie’! Abbottati la panza co’ ‘sto moscone!...” pensò volgare, e accostato quindi l’opercolo del Nautilus alla bocca, come in un microfono comin29


Capitolo Quinto Virgo silens

Don Pedro Junio Guarno, prima di morire tra le cosce della giovane e procace Mariella, redimè ogni peccato commesso dilettandosi non già di venere vaga o d’opre pie, com’era uso ne’ nobilotti vedovi libertini o votati a tardiva castità dall’insegnamento di Madre Chiesa ma più dai burrascosi trascorsi con consorti inacidite, ma dicandosi tutto alla perpetuazione del seme. Spirò quindi felice, diciotto tra figli e figliole, certo di ricevere in guiderdone il Paradiso ché giammai il Signore avrebbe benedetta così abbondantemente la sua congiunzione se, nella sua suprema benevolenza, non l’avesse perdonato d’ogni angheria, sopruso o delitto perpetrato. Pertanto, in punto di morte, sistemò ogni cosa a puntino, fece ordine nelle carte, nelle disposizioni testamentarie, s’interessò dei poveri, delle opere di bene e, per sommo scrupolo di coscienza, tenne conto anche d’un certo impegno di fedecommesso ereditato dal padre che, così dispose, il figliolo primogenito a sua volta avrebbe dovuto rispettare tramandandolo al proprio erede con obbligo d’ugual rinnovo di generazione in generazione. Sopravvenuto quindi in lui più sereno giudizio, l’anima pacificata, ebbe a riconoscere la madre dei suoi figli ed essi stessi sebbene malelingue novellassero, per pravo ispirito di calunnia, che i giovani rampolli fossero semenza d’un suo fido bargello troppo spesso frequentante e con fare sospetto le muliebri stanze. In verità la voce che correva era ben più ignominiosa, pare che addirittura processioni di valenti 117


stalloni si recassero in visita alla mai sazia e lussuriosa Mariella, ma questa furbamente s’ebbe rispetto perpetuo e soprattutto l’omertà del silenzio dispensando a destra e manca zannette e carlini. Degli stessi denari e pezzi d’oro, d’altronde, ed in gran copia, l’ormai invecchiata Mariella e pur essa giunta all’estremo soglio della vita, memore del portento di cui era stata protagonista in gioventù, fece donazione per un erigendo oratorio sopra il serrone in cui era precipitata e da cui, fanciullina, era stata tratta in salvamento da un’ima potenza occulta. Celeste o infera che fosse, tale potenza mostrò ancora a seguire il suo potere taumaturgico e, verificandosi guarigioni impossibili, i sanati presero a contribuire con altri lasciti, in denari e terreni, alla fondazione dell’erigendo oratorio i cui controllori furono, nel corso degli anni, dapprima i figli di Mariella, poi i loro figli ed i figli ancora. Quindi la fabbrica principiò lentamente, con lo stesso passo delle stagioni che si susseguivano, e quasi completata, pur senza assurgere alla dignità di luogo di culto dicato a questo o quel santo, per la frequenza di devoti ivi convenuti divenne frequentato romitorio che, tuttavia, mai ottenne un qual riconoscimento di luogo monastico da parte delle autorità ecclesiastiche. Autorità ecclesiastiche che, di contro, nell’espletamento delle loro funzioni, quali rogazioni e benedizioni dei raccolti, non disdegnavano di soffermarsi al ristoro del luogo in cui pie donne solerti accudivano con l’offerta dell’ospitalità e dei sani cibi da loro stesse prodotti. Scoppiato, in un’estate afosa in cui finanche le pietre sudavano e crepavano come bubboni, un contagio di peste, varie persone toccate dal male ivi rifugiarono e, mondati da una certa fanghiglia salata che i romiti pescavano dal fondo tenebroso d’un pozzo, venendone guariti immantinente disposero copiosi lasciti al fine di portare a compimento l’erezione dell’edificio sacro. I lavori ripresero senza indugio e, succedutisi architetti e capomastri fatti venire all’uopo anche da regioni lontane di 118


Francia e Spagna, il tempio s’elevò fino alla copertura. Ma, venuti meno i fondi in verità scialacquati da una poco accorta amministrazione e sorte diatribe presso la Curia Vescovile sulla dicazione, chi pretendeva la depositio delle reliquie d’un martire con l’aspersione d’acqua gregoriana e chi d’altro santo di cui era devoto, non sovvenendo accordo il progetto rimase incompiuto ma non deserto ché romiti continuarono a lì risiedere dicati alla contemplazione del dio ignoto. “Dio ignoto”, dunque, così invalse l’uso di chiamare il luogo di culto e “recarsi al tempio del dio ignoto” diceva la popolazione, a questa terminologia condotta dal disaccordo dei notabili. Un tale discorde oprare, e d’intenti e di fabbricerie, fece sì che mastri di muratura di svariati disegni e progetti, ciascun succeduto aggiungesse all’opra dell’altro decaduto i propri conoscimenti e calcoli in termini di costruzioni. Architettonicamente, quindi, il tempio sorse racchiudendo in sé i più svariati stili, dall’accostamento d’archi acuti a volte a vele o a botte, da pinnacoli gotici svettanti su più tozzi e squadrati contrafforti romanici, da barocchi rivestimenti e vezzi rococò a severi rilievi di stile classicheggiante. Al punto che, infine ma non ancora del tutto a tetto, il casamento dal lontano del mare pareva una bizzarra tartana arenata o una costruzione di fanciulli sulla rena, sbizzarritisi ciascuno a suo modo con materiali di risulta. S’elevava quindi un campanile con tanto di tamburo e cipolla, serpeggiava un porticato di colonnine snelle che non introduceva in alcun luogo, rampe senza poggiuoli finivano nella volta cieca d’una mozza torretta corsarola, pezzi di azulejos e specchietti rotti incastonati per ogni dove, assorbendola e riflettendola, chiamavano e spandevano luce. Ma in tutto questo disordine, la costruzione stava pur in piedi nonostante muri concavi e convessi e colonne oblique come torte dalla mano d’un gigante. La materia sembrava piegarsi, ondularsi, avvolgersi in spirali per celare all’interno, come in un utero materno, il pulsare di chiaro119


scuri, luci ed ombre che parevano implodere ed esplodere da un invisibile suolo fesso. Curiosamente, aldilà del mero valore architettonico, comunque, la costruzione finì presto per rispecchiare non già la confusione o valentia degli artigiani che l’avevano eretta ma bensì lo stile dei tempi storici, quelli sì confusi, che trascorrevano tra guerre, invasioni, dominazioni più o meno durature, successioni di censo più o meno consacrato, stravolgimenti di popolazioni e diaspore e molteplici incroci di sangue. Vennero pertanto a quel luogo di confugio, relitti di mare in cerca di porto o fuggiaschi d’altre terre inseguendo la chimera della quiete, soldati di ventura feriti più nella mente che nel fisico dalla tragedia delle guerre. Vennero prostitute consunte dalle malattie che presero a lavorare il merletto ricamando con la purezza del lino la trama delle loro trascorse lussurie. S’arenarono arabi dei sette mari costretti dall’infermità ad un definitivo approdo che piantarono l’arancio amaro e il bergamotto da cui distillare il profumo nostalgico dell’Oriente perduto. Rifugiarono figli senza padri o ripudiati, figlie senza censo con l’unica dote della miseria; vennero ebrei fugati dalle città per l’ignominia della crocifissione di Cristo che chiesero perdono alla terra per il sangue del Giusto versato coltivando il sorriso della melagrana, il rimmon, e lo splendore del cedro, l’etrog. Rifugiarono ivi Greci che nessuno più accoglieva quali depositari di scienze perché l’unica scienza ben accolta era quella del commercio e del denaro. Convennero zingari che presero a sbalzare negli strumenti di rame le vicende del loro atavico peregrinare in vana ricerca della terra promessa. Venne tutto un popolo, insomma, di miserabili disilluso dalla durezza della vita e dalla diffusa misantropia quando, idee di eguaglianza, umanità, diritto, sovranità popolare, progresso, cultura illuministica, parevano annunciare tempi nuovi in cui la Ragione avrebbe infine trionfato. Utopie che, sul filo delle baionette, versarono sangue a fiumi col beneplacito di nobili opportunisti e col consenso finanche 120


dei santi in cielo se, pervenuto ad esempio nel regno di Napoli il generale bonapartista Championnet, lo stesso san Gennaro ebbe a mostrare il suo beneplacito sciogliendo in duomo l’ampolla del proprio sangue. Dicevano infatti i “lazzaroni” alla manifestazione del miracolo: – Pure san Gennaro è diventato giacobbbino! – e s’acquietavano, s’adattavano momentaneamente ai tempi nuovi quasi dimenticando i pavidi fuggitivi regnanti Ferdinando di Borbone e Maria Carolina. Poi il cardinal Ruffo, Nelson, il Papato ed altre potenze scrissero un’altra storia ancora con l’inchiostro del sangue e sempre il povero popolo fu a pagare, a patire miserie, a cercare di ribellarsi alle angherie nascondendo nella macchia e cercando col brigantaggio di recuperare la perduta o forse mai avuta dignità. Fu così il tempo dei Francesi occupatori e dei briganti, il tempo di Michele Pezza detto “Fra’ Diavolo” e del suo compare Mammone che beveva nei teschi dei nemici uccisi. Fu il tempo di Vincenza Sangiuvannara e della “Virgo Silens”... * La prima volta, e fu un’acuto potente di pianto dirotto, fu quando posando nuda nella morbidezza di guanciali con i genitori che strabiliavano per cotanta bellezza, “Ogni scarafone è bello a mamma sua” diceva l’adagio popolare, spaventò al lampo del fulminato e alla nuvola di fumo che il fotografo incappucciato destò con un sortilegio da stregone. La seconda anni dopo, quando se n’uscì seria seria con una vocetta di cardillo che faceva: – Ricorda che se per denunciare una colpa punti il dito contro qualcuno, contro di te sono rivolte tre dita della tua stessa mano e l’altro, il dito più grosso, si piega su d’esse oberato dal rimorso... – Queste l’uniche parole, in sostanza, dopo lallazioni e sbrodolii tipici degli infanti, che la Virgo Silens disse nette intorno ai cinque anni quando nel gioco la sua copina Vincenzina, vera colpevole e scapestrata femminella figlia 121


Capitolo Sesto La comoda e la rondine

Era sprofondato in quel torpore che la spossatezza, forse più ancora lo scarto della tradotta sul passo dei binari, favoriva a poco a poco diradando lo strepito di ferraglia e il vociare stanco degli altri viaggiatori, sopravvissuti e reduci come lui da un campo di prigionia in qualche desolata landa di Polonia o Bielorussia. Destò di soprassalto, non era passato che un istante, fugando con la mano portata alla fronte quel principio di sogno ricorrente, larva del recente passato, che con spavento lo precipitava al suolo tra fiamme e fumi d’un Savoia-Marchetti abbattuto dalla contraerea. “La rondine”, chiamava l’aereo, rondine che non avrebbe mai più volato, ferita in volo all’ala da un colpo preciso sparato subito dopo il tracciante. Niente più rollii sulle piste, dunque, niente più decolli e raids studiati sulle carte con l’incoscienza di giovanotti che la guerra avevano intesa come un gioco d’arditi cui neanche la morte, per incoscienza, faceva paura. Invece ne aveva avuta paura lui, e molta, intanto che la rondine, picchiando, vibrava tutta e bruciava come un fragile velivolo di cartavelina. Un bruciore nel pugno, lo schiuse piano temendo che la piccola rondine d’argento racchiusa nel palmo, teneva a quel fregio unico cimelio salvatosi dal disastro, prendesse fuoco anch’essa, per simpatia magari con il grande uccello mortalmente ferito di cui era stata simbolo e emblema di compagnia. Niente fuoco ma una stilla minuscola di sangue nella pelle trafitta da un’ala grossa come uno spillo. Scacciò i ricordi, calmò i nervi, schiuse le dita piano spe181


rando che il piccolo oggetto sfrecciasse via in un volo libero sotto la cupola di legno del vagone restituendogli d’un colpo tutta la baldanza d’un tempo lontano quando, sognando ad occhi aperti, si vedeva emulo d’un Francesco Baracca, d’un Von Richtofen o d’uno degli Atlantici di Balbo. Deluso richiuse la mano, riadattò la nuca al poggiatesta, volse al fuori il viso assetato di luce, gli occhi e la bocca spalancati a bere lo spiraglio di sole che, tagliato un cielo di cera, filtrava dal finestrino appannato di vapore su cui slabbravano parole scritte da un incerto dito amoroso. Forse il giovane smunto che lo fissava con sguardo da pazzo dal sedile di fronte o chi, prima di lui, aveva occupato il suo posto e, avanti di scendere ad una precedente fermata, aveva così detto addio per sempre alla passione lontana, una Jolka di Potsdam che il treno si portava via in un rivolare di sillabe dissolte dal tepore dei fiati. – Anche tu prigioniero? – Il giovane pazzo, nell’iridi aveva come un rialzo di febbre lo scintillio sbieco della luce, aveva parlato senza muovere le labbra, una voce fonda di morta marionetta immobile che un ventriloquo tentasse inutilmente ridestare prestando parole di spento accento, suggerite come un borborigma dalla bocca dello stomaco. Felice Guarno annuì, più la testa forzata al basso dallo scarto su uno scambio, e per confermare quel comune destino di derelitti, disse piano: – Abbattuto dai Russi, dalle parti di Stettino. – Ah... – fece il compagno. – Aviazione... – e, drizzata la bustina che teneva larga e di sbieco in testa come il copricapo di carta d’un muratore, parlò ancora, stavolta appena schiudendo i denti in un accenno di sorriso che parve più un ghigno di sofferenza: – Bell’arma, l’aviazione! Non la nostra, dico... – il sorriso volgeva a scherno, uno sconforto di commilitone pure lui abbattuto senza neppure levarsi un palmo da terra, anzi più palmi sotto terra d’una trincea ch’era stata prova di più profonda sepoltura. – Non la nostra, quella dei Tedeschi sì, quella dei Russi anche, gli Americani... Comunque, sei stato fortunato, siamo stati... – ave182


va concluso di botto serrandosi nel mutismo come se quella situazione di reduci, scampati alla guerra ed alla prigionia, fosse vergogna da nascondere, viltà di disertori sottrattisi con la fuga ad un comune destino di così tanta morte. Da qualche parte in fondo al vagone, dove un assembramento da bivacco di soldati nelle divise lacere fumava dei vapori dei corpi addossati, un pizzicare di mandolino provò un accordo, due, un motivetto allegro che stridè nel silenzio di quell’alba che s’annunciava, là fuori dove le terre trascorrevano veloci ed alberi in fuga scarmigliavano per un attimo i rami, strepitosa di luce. La luce nell’azzurro del mattino che cresceva ancora non fugava l’abitudine dei giorni di prigionia quando nel sonno, che fosse in una branda o come i cavalli in piedi appoggiati ad un sostegno qualsiasi, i prigionieri cancellavano le nebbie del campo di concentramento per un attimo sbirciando paesaggi dimenticati, le terre natie assolate che s’erano adagiate, come un carbone acceso calato a piombo sfrigolando nel fondo tenebroso d’una conca d’acqua, nel buio della memoria. Reduci tutti senza voglia di svegliarsi, in fondo, disincantati che quel miraggio inseguito per giorni, mesi, infine non fosse che un’illusione, non fosse l’agognato ritorno a casa, se c’era ancora una casa da qualche parte, ma niente altro che uno spostamento di routine da un campo di prigionia all’altro. Eppure la guerra era finita, non più gli ordini secchi degli aguzzini, non più tentativi di fuga regolarmente finiti contro un plotone d’esecuzione, non più l’ultimo anelito d’un compagno fermato nell’assalto dal bacio sanguigno d’una pallottola in fronte, finita quella guerra di bombe e scoppi ma muta, dolorosa, forse più crudele, continuava quest’altra guerra col rimorso degli anni giovanili dilapidati inseguendo chimere di gloria. E tutto per cosa? si chiedeva Felice, lo sguardo come una carezza amara sul volto del giovane di fronte, sugli altri viaggiatori in pose disarticolate sui sedili di legno. Tutto per un farnetico da pazzi con in premio un braccio amputato, una gamba portata via dalla mitraglia... La vita andata in fumo... 183


Capitolo Ottavo Il gatto con gli stivali

L’aveva visto al mezzodì, entrato come una furia nella saletta da pranzo, sparito come un ladro dopo essersi specchiato in due, tre cucchiaiate brodose di pasta rotta, patate e cozze. Al mezzo bicchiere di bianco tracannato, s’era alzato di scatto e, preso commiato, aveva bofonchiato: – Scusami, Saìddo, m’aspettano. Vado, sennò poi quelli... – quelli della Scientifica, della patologia forense, il magistrato ch’erano calati come cavallette al paese – ... si pigliano tutto il merito. Bella forza, in camice bianco e guanti di caucciù! Tu, intanto, goditi le vacanze e... statti accorto, pigliati il sole, divertiti insomma, riposati pure. – Poi via, Marano era schizzato per dove era venuto non prima, sostando a mezzo la bussola a vetri, di sussurrare sibillino con la faccia a meraviglie: – Ih, che cose brutte! Avvelenamenti, colli rotti e sparizioni, sissignore, sparizioni di povera gente che nessuno verrà mai a reclamare! Caporalato, Saìddo, sai cos’è il caporalato? No?... Beat’a te! Ti saluto! – e sparì oltre i vetri, un chewing-gum al mentolo ficcato in bocca a nettare la lingua della fatta collosa delle cozze. Beh, stava proprio bene dopo il riposino pomeridiano che solo una mosca aveva disturbato pretendendo far nido in una narice. Sayyd passeggiava, camicia candida aperta fino all’ombelico, in testa il petaso a fargli ombra, i calzoni rivoltati sopra le caviglie e i piedi nella sabbia bibula. La frescura piacevole della risacca, lambendolo, frizzicava tra le dita massaggiandogli le piante con spume briose e morbidi viluppi d’alghe morte. 203


Ah, che aria pulita! Che profumo di salso! Che... che malia di sirena, il canto veniva da un pugno di scogli levigati lì davanti, nell’orecchio già estasiato della musica dei cavalloni! Sayyd guardò alle spalle, nessuno a vista d’occhio e solo uno sberluccicare di silice che dava al litorale sembiante d’una spasa di pietre preziose. Guardò a lato manco dove ogliastri curvi parevano svellere radici e fuggirsene a monte incalzati da libeccio. Strizzò le palpebre e cercò negli spacchi degli scogli il biancheggiare d’un telo, d’una spugna che accogliesse il corpo, uomo o femmina che fosse, del delicato cantore che il mare incantava ad acuti e trilli. Sostò estasiato, davvero la voce ammaliava con una perizia di fine solista ma, quell’accompagnamento strumentale che ora, più vicino, sentiva e perdeva a tratti nella musica fragorosa dei cavalloni, gli dettero il sospetto che laggiù, tra le pietre, celasse tutto l’ensemble d’una provetta orchestra. Aspettò che una pausa, uno stallo a riprendere fiato nella cantata, gli desse l’ardire di riprendere il passo, così scioccamente fermo e intento all’ascolto come se, camminando, potesse in qual modo disturbare con scricchiolii o scalpiccio di piedi. Levò il panama dalla testa fermandolo stretto in petto e, con quell’atteggiamento rispettoso, risolse infine di montare in galleria dal retro della spiaggia dove gli scogli più alti sorgevano improvvisi, neri e secchi come ippopotami imbragati nella lota. Arrampicato che fu al sommo, una gavina prese il volo stridendo di protesta per l’intrusione, volse lo sguardo attorno e, gli pareva Marano l’uomo che dalla loggia della pensione, gli occhi schermati dalla mano, guardava nella sua direzione, finse interesse alla distesa del mare nervoso lì davanti. Sayyd scrutò la spiaggetta incastonata tra gli scogli e, più diretta dalla musica che dall’accappatoio rovescio su una pietra di spalle curve come quelle d’un anziano, la vista fu attratta da uno strumento elettronico. Risollevò lo 204


sguardo verso la pensione e, svanita la figura dell’uomo sulla loggia, s’interessò ancora dello strumento musicale. Nell’ombra d’una rientranza dove giaceva pure una capace borsa di paglia, il registratore emetteva in quel momento le note finali d’un arpeggio prolungato. Scese, quasi rotolò in basso scivolando su un pacciame d’alghe, s’afferrò ad un corno di roccia e con un saltello affondò nella sabbia su cui orme di piedi nudi seminavano tracce rivolte dritte al mare. Scrutò l’acqua, la superficie che un marezzare di spume imbiancava, parò la mano alla vista e, nessun bagnante fuori stagione mulinava le braccia in stile crawl né un santo si cimentava camminando sull’acqua, diresse allo strumento musicale che riprincipiava con un soffuso accordo d’archi. – Bello, vero? Ascanio in Alba, una cantata scritta da Mozart in occasione delle nozze dell’arciduca Ferdinando... Non è meravigliosa? – La voce lo fece voltare di colpo. Sayyd portò il panama a schermare il volto ché lì appresso, sdraiata tra due scogli addossati come spalliere d’un’alcova, una femmina giaceva poggiata sull’avambraccio, le lunghe cosce bianche arrossate da una lieve scottatura. Spiò dalla falda del cappello, Sayyd fece, un curioso tic all’occhio: – Me scusare, io non volere, io passare e... – E sentita la musica non ha resistito, vero? – replicava sorridendo la donna che, levatasi, con gesti aggraziati cercava di spolverare dal fondo schiena la sabbia appiccicata intanto che, allungato il collo, pareva voler scrutare oltre la sommità del riparo degli scogli. In lontananza, sulla loggia della pensioncina, notò anche lei l’uomo che scrutava la spiaggia, il mare verso cui rivolgeva forse le lenti d’un binocolo. Proprio una bella donna, pensava Sayyd, ma di quella bellezza piena che, spingendo seni e ventre nella stoffa elastica del costume d’un pezzo, dava immagine di floridezza, di carni opime malamente contenute e che, libere en plain air, avrebbero disegnato le linee sensuali d’una prosperosa 205


INDICE

PREFAZIONE

di Vincenzo Guarracino

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

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Dalla Historia civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone (1676-1748) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII

Come fue che lo dimonio passò a le italiche terre . . . . . . . 9 Cuore matto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 La cartiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 Arsenico e Vecchi Merletti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 Virgo silens . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Le fabbriche degli spiriti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139 La comoda e la rondine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181 Il gatto con gli stivali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203



puntoacapo CollezioneLetteraria POESIA - ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI 38. Luigi Balocchi, Atti di devozione, pp. 94, € 12. ISBN 978-88-98224-56-2 39. Vivetta Valacca, Tu sei la realtà e l’essenza tutto il resto è sogno inquieto, PREFAZIONE DI DIETER SCHLESAK, pp. 110, € 15. ISBN 978-88-98224-57-9 40. Gabriele Borgna, Artigianato sentimentale, PREFAZIONE DI GIUSEPPE CONTE, pp. 48, € 8. ISBN 978-88-98224-58-6 41. Emiliano D’Angelo, Trilogia delle ore, PREFAZIONE DI EMANUELE SPANO, pp. 60, € 12. ISBN 978-88-98224-59-3 42. Melania Milione, Come Edelweiss, pp. 48, € 8. ISBN 978-88-98224-63-0 43. Matteo Casale, Studi op. 6 2016 – 2017, POSTFAZIONE DI EMANUELE SPANO, pp. 114, € 15. ISBN 978-88-98224-64-7 44. Attilio Giannoni, Nella forma e nel respiro, pp. 72, POSTFAZIONE DI EMANUELE SPANO, € 12. ISBN 978-88-98224-65-4 45. Guido Furci, Per una galleria intatta, NOTA DI LETTURA DI PAOLO ARTALE, pp. 48, € 15. ISBN 978-88-98224-66-1 46. Vito Giuliana, Pioggia lava vento asciuga, PREFAZIONE DI GIO FERRI, pp. 116, € 15. ISBN 978-88-98224-67-8 47. Lorenzo Vespoli, Pianeti sotterranei, pp. 96, € 12. ISBN 978-88-98224-72-2 49. Andrea Testa, Sottovoce, POSTFAZIONE DI PAOLO ARTALE, pp. 112, € 15. ISBN 978-88-98224-75-6 PROSA E NARRATIVA 1. Fausta Squatriti, La Cana, pp. 192, € 18. ISBN 978-88-98224-30-2 2. Marina Wiesendanger, Ancora cinque minuti, pp. 160, € 15. ISBN 978-88-98224-32-6 3. Marina Corona, La complice, pp. 192, € 15. ISBN 978-88-98224-70-8 4. Francesco Candela, La luce dell’ombra, pp. 192, € 18. ISBN 978-88-98224-76-0


Ottobre 2018 Stampato per conto di CollezioneLetteraria di puntoacapo Editrice presso UNIVERSAL BOOK s.r.l. Via Botticelli 22, 87032 Rende


Un po’ di tutto, trine e vecchi merletti, veleni e delitti, una spruzzata di profumo e spezie, operette, mestieri antichi, lontani rimbombi di guerra e terremoti quali colonna sonora d’una Babele di parole frante e dirute, se non migranti, sulle strade di una Europa frenata da preconcetti e zavorre campanilistiche.

Enrico Brambilla Arosio

Enrico Brambilla Arosio è nato nel 1949 in Brianza e vive al di là dell’Adda, dove si cimenta con la pittura e la narrativa. Nel 1995 pubblica La scatola di cartone (Baroni) e nel 2003 Diletti delitti (Mobydick). Presso Pequod ha pubblicato Un paese ci vuole (2000), vincitore del Premio Assisi nella sezione romanzi inediti e Il rettile più veloce del mondo (2005). Suoi racconti sono pubblicati in varie riviste e antologie.

LE PAROLE MIGRANTI

Enrico Brambilla Arosio

Le parole migranti Prosa e Narrativa

€ 20,00 puntoacapo CollezioneLetteraria


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