Squatriti La cana promo

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Un adolescente tedesco cresciuto nel credo nazista e mandato in Italia a fare la guerra, la sua diserzione, l’educazione alla mancanza di ogni regola morale, un’etica aberrante dalla quale è difficile liberarsi, una villetta ai margini del bosco, una idea maniacale di ordine, eliminare le piante più deboli, ridisegnare la natura razionalmente, una collezione di stampe antiche, l’icona della Madre, la donna italiana che lo aiuta a fuggire, il suo struggente ricordo, il ritorno a casa tra nascondigli e paura, l’impatto con la patria distrutta, il riscatto della cultura, la difficoltà di rapporti amorosi durevoli, ricusare le proprie radici, il freddo dentro all’anima, l’incendio doloso, il delitto, infine l’amore totalizzante per una femmina di cane di razza, ‘Cana’, come Siegfried la chiama nel suo stentato italiano, la tenerezza per la prima volta provata, la gelosia, il riemergere di concetti criminali imparati in gioventù, sono gli ingredienti di questo romanzo psicologico che traccia il filo conduttore tra le azioni di un uomo e la sua psiche, rompendo e ricomponendo continuamente il puzzle di una vita spezzata dall’inizio, marcata dalla disperazione senza dramma di chi è condotto dalla consapevolezza a ricusare la propria storia, quella della famiglia, del proprio paese, approdando per eliminazione alla solitudine, fino all’aridità, riscattata dal compianto su un delitto minore.

Fausta Squatriti

Fausta Squatriti è artista visiva, poeta, narratrice. Tra il 1966 e il 1986 è attiva anche come editore di edizioni numerate entrando nel mondo artistico internazionale. Ha esposto all’estero con Iolas, René, Fesel, in Italia con Marconi, Mudima, Weber&Weber e altri. Docente all’Accademia di Brera, visiting professor alla University at Manoa, Honolulu, ha tenuto seminari e conferenze in Italia e all’estero, ha esposto in Germania in alcuni musei; in Russia il Moscow Museum of Modern Art le ha dedicato una personale nel 2009; ha esposto a Parigi al Centre Pompidou, nella mostra Elles nel 2011. Nel 1985 è stata curatrice della sezione “Arte e scienza: colore” alla Biennale di Venezia. Pubblica saggi e poesia in riviste tra cui Alfabeta, L’immaginazione, Meta, Il Verri, La Mosca di Milano e Testuale. Con Vanni Scheiwiller nel 1988 pubblica La natura del desiderio e nel 1994 Della discordia e del suo credo; ha diretto, con Gaetano Delli Santi, la rivista Kiliagono tra il 1993 e il 1995. Male al Male è pubblicato da Manni, 2001. Nel 1985 vince il Premio Montale per l’inedito. Tra gli altri titoli: Carnazzeria (Testuale 2004), Gesto azzurro alla tua sinistra (Book 2004), Filo a piombo (Tracce 2010, Premio “Scrivere Donna”), Vietato entrare (La vita Felice 2013). Sue poesie tradotte in inglese sono state pubblicate sulla rivista internazionale Incontri (Amsterdam 2012). Ha pubblicato inoltre il romanzo Crampi (Abramo editore 2006).

LA CANA

Fausta Squatriti

La Cana Prosa e Narrativa

€ 18,00 CollezioneLetteraria


CollezioneLetteraria Prosa e Narrativa


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ISBN 978-88-98224-30-2


Fausta Squatriti

La Cana

CollezioneLetteraria



La villetta collocata nel pianoro liscio come una chiazza di petrolio, ai margini del bosco, sia con il suo volume sia con il bianco dell’intonaco, ferisce la spianata di terra bruna che è ragionevole supporre come un futuro delizioso praticello. Frutto insano del desiderio di qualche abitatore della città di farsi largo nell’intrico di alberi e arbusti che in larga parte ancora ammanta il terreno collinare da quelle parti, una regione dove il progressivo abbandono delle umili mansioni che danno a chi le pratica un sia pur modesto vantaggio, come la raccolta dei legni secchi dentro il bosco, è un fatto scontato ormai da anni, con il risultato che il disordine predomina sull’ordine, anche per quanto riguarda la natura. La villetta si configura come espressione delle esigenze degli antichi proprietari in modo fin troppo palese, e lo straniero che l’acquista per pochi soldi, dopo lo spaventoso incendio che la devasta, con tutta la particella di bosco a lei sottostante, una volta in grado di soppesarla con calma visitandola nelle sue vuote stanze, mentalmente percorre la vita della famiglia precedente, la cameretta dei bambini, la cucina aperta sulla sala, l’unico bagno, come è d’uso negli anni ’50, già un lusso per i vacanzieri, che una volta giunti nella villetta dismettono le abitudini di città per abbandonarsi a pratiche barbare, fuoco all’aperto, carni arrostite e spesso carbonizzate, giochi sguaiati. Sulla grande terrazza che circonda buona parte della costruzione, ancora penzola dal gancio saldamente infisso nel muro granuloso di intonaco finto grezzo, al riparo dalle intemperie in virtù del terrazzo sito al primo piano e che le fa 5


da tettuccio, la minuscola casetta di legno intesa per facilitare la nidificazione di eventuali uccelli, che non si capisce perché, avendo a disposizione un grande bosco, quasi sconfinato, dovrebbero scegliere quel luogo chiassoso e denso di pericoli, per attuare il loro naturale progetto di pianificazione familiare. Sarà utile per dare spazio dalla villetta, lo spiazzo né grande né piccolo a lei prospiciente, ma potrebbe anche essersi formato in un tempo a lei di molto anteriore, anche se una zona liscia di alberi che si fa largo, parrebbe all’improvviso, nel bel mezzo di un arruffatissimo bosco, lascia presumere che si tratti di un previo disboscamento limitato ad una piccola parte dell’intero bosco, che riprende la sua vocazione al disordine non appena lasciato libero di farlo, oltre la zona di rispetto che lo separa dalla villetta, costruzione modesta già in partenza, oltre che malinconica, come tutte le cose brutte, a causa dallo stato di abbandono in cui versa, a giudicare dalle tracce nere che lambiscono le pareti intaccando le persiane, ma una volta messa a posto potrebbe anche diventare invidiabile, visto che il bosco è protetto per legge e nessuna villetta, grande o piccola che sia, presumibilmente potrà più essere costruita, e gli abitanti del luogo, pur domandandosi come avessero fatto i vecchi proprietari ad ottenere il permesso di costruzione, a cose fatte, consapevoli che nessuno avrebbe mai ordinato la demolizione dell’intrusa costruzione, solitaria e inaspettata al punto da sorprendere i pochi che si trovano a passare da quelle parti a piedi, cercando funghi o selvaggina, non se ne occupano, e molte domande si presentano inevitabilmente a chi la vede abbandonata, e più recentemente danneggiata dall’incendio, anche se difficilmente chi la guarda, con lieve imbarazzo, percepisce dentro di sé la ragione del disagio, che non condivide con la persona, o le persone, con le quali si accompagna, pensa a una propria personale bizzarria, le cui ragioni non meritano di essere esaltate.

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Alle prime luci dell’alba la gente che popola le colline dei dintorni, più in basso del luogo in cui sorge la villetta, guardando alle proprie spalle verso la barriera che il fitto del bosco dipinge come un’immensa macchia bruna, percepisce il bagliore delle fiamme e il pensiero va al bosco, il cui incendio rimane da sempre un timore incombente, in particolare da quando, una volta disabitata, la villetta attira ogni sorta di balordi che si accomodano al suo interno, rompono i vetri a sassate, strappano le piante per pura cattiveria, non si fanno scrupolo dall’accendere fuochi per scaldarsi, o per cucinare vivande all’esterno, nella buona stagione, certi che pur disapprovando, nessuno si prenderà la briga di scacciarli. Un bene negletto, diventa risorsa di tutti. La nomea di casa dall’aura negativa, se non proprio maledetta, si rafforza, anche se nessuno osa dirlo chiaramente, teme di mostrarsi pavido, o ridicolo. Il danno del fuoco si concentra sui fragili muri, su legni, ferri, vernici, ceramiche, tessuti, plastiche, ogni materia con una sua specifica reazione chimica al calore. I proprietari accorsi dalla città dopo l’incendio, non sembrano addolorati, sono i figli di coloro i quali vogliono, in anni lontani, per farli giocare all’aria aperta, la villetta isolata ai margini del bosco ma in lui ancora immersa, fatto salvo per quel minuscolo spiazzo di terra che la contorna. Di vendere la villetta dei genitori, gli ex bambini, sembrano sollevati, ne hanno una gran fretta, e si aspettano, probabilmente, di ricavarne una discreta sommetta. Percezione narrata a bassa voce da chi assiste all’incontro preliminare, svoltosi al bar della frazione cui fa capo il minuscolo mazzo di abitanti della zona, tra i giovani proprietari e lo straniero che con il suo italiano dal forte accento tedesco da tempo si fa notare giù in paese, inevitabilmente, anche a causa dell’amico che ben presto lo raggiunge, alloggiato anch’egli presso la famiglia dove l’uomo, anziano ma ben portante, ha una stanza in affitto, l’amico su una brandina di 7


fortuna. I due, che pur girando in coppia non sembrano amici, sono visti più volte avviarsi a piedi verso la villetta anche prima dell’incendio, e il tratto di strada non è breve, con la sua salita. Parrebbe però, e il paese lo sa dalle indiscrezioni di chi assiste alla trattativa, che non si mettano d’accordo sul prezzo. Lo straniero, che indossa pesanti scarpe da lavoro anche in paese, perlustra la terra scura, allo stato attuale simile a un campo di battaglia, con le sue orme indefinite e qualche rimasuglio bruciacchiato di pianta ornamentale, nel suo vaso di cemento. Sul retro di casa, uno stretto camminamento consente di portare senza bisogno di sporcare scarpe, scarponi o zoccoli, i rifiuti di cucina lontano, e metterli dentro il vascone di cemento attorno al quale negli anni una densa muffa si appropria di ogni fessura livellandola e rendendola vellutata, al punto da fare dimenticare che al suo interno si consuma ininterrottamente la disgregazione spontanea delle sostanze organiche che in tale modo ritornano nel ciclo vitale di terra, vermi, spore, mentre matura la rinascita, dal più invisibile organismo fino al più ingombrante, è solo questione di tempo. L’acquirente solleva il coperchio, due assi unite tra loro da chiodi, trova il cassone quasi pieno di materia organica decomposta, e si dice che la userà per concimare le rose, come vede fare alla madre, anche nello chalet tedesco c’è la vasca di cemento per raccogliere i rifiuti, lontano da casa, ma accessibile facilmente. Piastrelle bianche e lucide salgono lungo le pareti della cucina fino a metà altezza, partono dal pavimento di graniglia nera spruzzata di bianco, fino all’interruzione della fascia azzurra orizzontale che delimita la fine del muro oltre il quale i baffi del fumo affiorano attraverso la sommaria imbiancatura operata d’urgenza, non appena lo straniero conclude l’affare, con l’intenzione di trasferirvisi al più pre8


sto con il manovale tedesco, per risparmiare il costo della stanza a valle. Capillari impazziti che se ne corrono da un confine all’altro dei piccoli quadrati di ceramica, interrompono il tracciato di nero sangue morto al terminare di uno, per riprendere all’inizio del prossimo, la sottilissima rete di screpolature. L’odore di bruciato si installa in tutti i materiali, e solo con il passare del tempo perderà intensità, pur conservando quel sottile sentore di affumicato che il nuovo proprietario prevede lo accompagnerà, forse per sempre. Alle spalle della proprietà, in un terreno privo di alberi, adagiata sulla collina là dove essa sembra terminare per congiungersi allo spazio del cielo, alta, o bassa che dir si voglia, quanto basta per non costituire una brutale frattura nel paesaggio solenne, linea di demarcazione tra terra e aria, la cascina esiste ancora. Apparentemente vuota di umane presenze, proprio come allora. Proporzionata nell’alternanza tra pieni e vuoti, ha ancora il grande portone le cui ante, ora spalancate, il giovanissimo e spaventato Siegfried trova chiuse, in quei lontani giorni per lui determinanti. Lo straniero, alla guida dell’utilitaria tedesca, si tiene a distanza, nella stradina di terra battuta che conduce al casolare, non tanto distante da non riuscire a percepire interessanti dettagli, da ricongiungere alla sua memoria, andando indietro nel tempo senza per questo perdere la precisione di quanto ricordato ossessivamente in tutti gli anni trascorsi, nella sua misera vita di adulto. Riesce a scorgere, da dove si trova e senza scendere dall’automobile, la spianata dell’aia, sulla quale spicca un solo albero che, gigantesco, occulta dietro le proprie fronde, un pezzo di muro pieno e parte della finestra successiva, che però potrebbe anche essere una porta, per separare il fuori dal dentro e regolare la vita degli abitanti. Una fitta lo colpisce alla testa, un saettare di lucine attraversa il suo campo visivo per un tempo da lui giudicato lun9


go e inquietante. E la fuga. La vita nel casolare sarà tornata senza drammi, senza cambiamenti, se non si considerano come tali le nascite relative al ritorno a casa di maschi in età fertile, scampati a quella morte ad altri inflitta dalla guerra. Siegfried sa che da ora in poi le occasioni della fortuna di cui si è assai di rado, e solo relativamente al suo trasferimento in Italia, potuto sentire destinatario, si ridurranno a zero. Una fortuna non del tutto spontanea, non casuale, fortemente da lui voluta, ma pur sempre fortuna, sebbene la situazione gli sia lamentevolmente scappata di mano, i muri della villetta danneggiati dal fuoco si sgretolano in larghi tratti, e i vetri delle tante finestre, con il calore si sono infranti. Scoccianti danni collaterali. Abbassa il sedile fino a sdraiarsi, fissa il soffitto dell’esiguo abitacolo, pensa alle stelle del cielo tedesco, immaginate diverse da quelle altre del pianeta. Il peggio è passato, eppure sente freddo, sul labile confine tra mente e cuore. Lontano da casa, per sempre. Spalanca la portiera di destra, percepisce l’aria benefica aleggiare attorno alla sua disperazione per farle vento e rinfrescarla, come quando si soffia sul fuoco, per averlo più gagliardo. Avrebbe voluto morire molto tempo prima, ma l’occasione gli è mancata. Una presenza improvvisa lo fa trasalire. Sul sedile a lui accanto, sempre vuoto ad esclusione del manovale tedesco convocato per compiere quel lavoretto di fiducia, ma la cui presenza nella vita di Siegfried è da considerarsi del tutto transitoria, ora cerca di sistemarsi, scivolando su quella superficie innaturale, la plastica con la quale la casa automobilistica protegge le stoffe bicolori dei sedili, un bellissimo cane da caccia. L’intruso fissa l’umano, che gli attribuisce una simpatica aria imbarazzata, il cuore già trafitto dalla sua bellezza. Il bibliotecario in pensione vede nell’incontro una nuova vita, vita di proprietario di una campionessa femmina, come 10


deduce da una rapida occhiata tra le gambe posteriori, perduta seguendo chissà quali tracce olfattive, oppure abbandonata volontariamente dal suo padrone cacciatore che la ritiene poco adatta allo scopo e se ne frega del dispiacere che darà ai bambini, con i quali quel bellissimo esemplare di Bracco si dimostra di sicuro sempre di una pazienza incredibile, senza mai ribellarsi ai loro tirannici giochi. Parrebbe un tozzetto di ramo diviso in due parti l’una più sottile dell’altra, collegate da uno snodo capace d’influenzare andatura e velocità, piegamenti o estensioni, parimenti al suo simmetrico a lui in tutto simile, e occorrerà contarne altri due più spessi che se ne stanno dietro, dall’altra parte del volume, o blocco centrale che dir si voglia, massiccio quanto basta per fare da tronco. Iniziando da sinistra, vale a dire da quella specie di ramo con il suo bravo nodo e relativo ingrossamento, ragionevolmente contato come punto dal quale partire per l’inventario, e denominato come Uno. Si farà poi transitare lo sguardo nel vuoto, per passare al suo simmetrico che assume il numero Due, per arrivare solo in seguito, con altri salti, a potere contare come Tre e Quattro i due rami posteriori, o zampe, al tronco principale Uno, attaccati da mirabili snodi che Siegfried finge di non vedere, avendo scelto come criterio di conta il raggruppamento degli elementi simili tra loro da poter enumerare l’uno in fila all’altro. In questo caso Uno, Due, Tre, Quattro, Cinque, e solo dopo passare alle restanti parti del corpo centrale che, bello grosso com’è, potrebbe riempire una scatola, una cassa, una fossa, ma nessuno si sogna, salvo casi rari di malvagità o incidente, di smembrare l’insieme mirabile coronato dal numero Sei, prominente e nobile, mirabilmente attaccato al centro del corpo fremente del bellissimo cane, già numerato come Uno, di misura proporzionata al contesto da cui si erge. Dopo le cose si complicano se per proseguire non s’intende passare due volte dalla parte numero Uno e dalla Cinque si dovrà percorrere la via bassa, per spuntare, come dall’uscita da un tunnel, alla parte Sei, portatrice a sua volta di molte altre parti da numerare, orecchie, naso, occhi, narici, 11


mandibole, denti, un vero inferno se si intende essere veramente ligi alla regola del gioco, regola impossibile da seguire senza approssimazioni e piccole furbizie. Siegfried, giunto a casa con l’inaspettata compagna, si rassicura contando le assicelle del pavimento, così come usa fare con tutto quello che entra nel suo campo visivo, regoletta escogitata da bambino, per sfuggire all’eccessiva disciplina familiare, ma anche sociale, nella scuola di addestramento dove non sono pochi i bambini che preferiscono suicidarsi. Passatempo utilissimo nel periodo della fuga, quando deve rimanere nascosto a lungo in posti strani, e contare tutto quello che vede lo aiuta ad allontanare l’attenzione dal battito del proprio cuore terrorizzato, svagato nella difficile sfida, che richiede non poca concentrazione, non passare due volte dalla stessa superficie. Un conteggio a parte si dovrebbe fare per le macchie brune, a ricoprire a spaglio il corpo muscoloso, macchie sconcertanti se dall’una all’altra s’intende contarle raggruppandole per colore, e diventa impossibile non cadere in fallo, ripassando due volte o anche più dalla base scura del pelo, per arrivare alla macchia chiara sul muso, proprio sotto l’occhio destro, che tanto intenerisce il nuovo padrone dell’animale, che cerca di sedergli in grembo. L’uomo ride nell’osservare il muso contrito della trovatella che parrebbe non saper bene dove sistemarsi, intuitiva al punto di capire che non sarà scacciata, l’accarezza e così facendo stipula con lei il contratto di convivenza. Siegfried ride felice come da tempo, forse mai, ride così felice. Non c’è niente da ridere, urla il padre rivolto al figlio maggiore che lo vede per la prima volta indossare la divisa di riservista cui la madre ricuce sulla manica lo stemma del partito che si strappa impigliandosi in un ramo, quando il non più giovane aderente al partito si addestra volontariamente nel bosco attorno allo chalet, niente da ridere, non 12


c’è mai niente da ridere, neppure il partito vuole che la gente rida, non si ride. La trovatella sbadiglia, mostra, affondati nella carne rosea delle abbondanti gengive, tutte contornate da carne nera che fa da congiunzione alla diversa materia molle delle guance, il candore di pinnacoli dentro fauci morbidamente accasciate anche nell’inevitabile tensione dello sbadiglio. Pinnacoli in tutto simili alle rocce mitiche degli antenati, raffigurate in epoca romantica dagli artisti tedeschi, Shinkel, Carus, e su tutti, Caspar David Friedrich, che in quella prima metà dell’ottocento inventa il sublime, nella dolorosa certezza del dubbio, letto nel senso panico di una natura non più effigiata nella fissità rinascimentale e neppure nella ventosa allegoria barocca e ancor meno nell’approssimazione già fenomenica del settecento, ma nella sua valenza metaforica e di primo piano, modello di perfezione capace di arginare il tragico con il malinconico, per omaggiare l’Uomo, visto di spalle, mentre pericolosamente fronteggia la tremenda scogliera bianca nell’isola di Rugen, potenza divina espressa dalla natura. Mistero che si spiega gradualmente con la ricerca scientifica, e con essa inizia la sua perdita di popolarità, mentre ci vorrà un secolo e mezzo per arrivare alla laica oggettività formatasi sul tavolo anatomico della seconda guerra mondiale. Siegfried ringrazia il custode trovato con un pizzico di fortuna, accetta di mostrargli in pieno giorno il teatro rimasto all’est, lo apre apposta per lui, sorpreso dallo strano discorso di quell’insistente visitatore su come il teatro è stato prima, ma prima quando?, e visibilmente deluso quando lui, che custodisce il teatro, non sa nulla delle stalattiti bianche che gli sono mostrate nelle pagine di un vecchio libro in bianco e nero che il visitatore consulta scotendo il capo. – Poelzig, detto il barbaro, nel 1919 crea il massimo dell’effetto decorativo, nuovissimo per i tempi, un decoro severo, straniante, stalattiti in gesso sgocciolano dalla galleria 13


sulla platea, la Repubblica di Weimar impone di risparmiare sui materiali, nella creazione fantastica del Grosses Schulspielhaus, non ne ha mai sentito parlare lei? – Non le piace il teatro com’è adesso? Siegfried osserva a lungo la cupola dipinta di verdino, ribassata, perforata da molte luci che, se accese tutte insieme, fanno l’effetto di un cielo stellato senza pathos, con quel neutro verdino da ospedale. – Seduta! Tu impara, seduta! Qua la zampa, brava! Ma allora lo sapevi già fare, brava! Siegfried la fissa ben oltre il breve momento dell’ordine del quale l’animale intuisce il valore. – Lili, ti piace Lili? Sì che ti piace, ricordi Lili Marlene? No che non la ricordi tu, basto io a ricordarla, ecco, tu da ora in avanti sei la Signora Cana Lili, adottata del figlio di cane Siegfried. L’animale lo guarda implorante. – Sì, brava Cana, vieni qui, bella, siamo amici. Gli butta le zampe al collo, lo annusa e lo lecca, il fiato caldo accanto al volto ghiacciato di imbarazzo, incapace di respingere la sua tenerezza. Si sdraia a terra, lascia cadere i libri che tiene tra le mani, il freddo lo lambisce partendo dallo stomaco, il sudore lo bagna, le mani tremano. Porta le ginocchia al mento, il battito del cuore rallenta. Vede le mille lucine saettanti che danno inizio all’emicrania. Lili gli è accanto, lui le accarezza lentamente il bel muso e lei si sdraia per offrire, inerme, il ventre, i minuscoli capezzoli rosei, le quattro zampe annaspanti nel vuoto, come un cavallo azzoppato che cerchi inutilmente di rialzarsi. L’adorato Caspar David lo disegnerebbe in veste agreste, seduto su di una rustica ma ben proporzionata sedia, il cane quieto al fianco, la roncola inerme sdraiata ai suoi piedi, lasciandogli il cappello da contadino e gli stivali che hanno preso la forma dei piedi, allargati dalle marce di chi è nato contadino e deve fare il soldato. 14


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Fausta Squatriti

Fausta Squatriti è artista visiva, poeta, narratrice. Tra il 1966 e il 1986 è attiva anche come editore di edizioni numerate entrando nel mondo artistico internazionale. Ha esposto all’estero con Iolas, René, Fesel, in Italia con Marconi, Mudima, Weber&Weber e altri. Docente all’Accademia di Brera, visiting professor alla University at Manoa, Honolulu, ha tenuto seminari e conferenze in Italia e all’estero, ha esposto in Germania in alcuni musei; in Russia il Moscow Museum of Modern Art le ha dedicato una personale nel 2009; ha esposto a Parigi al Centre Pompidou, nella mostra Elles nel 2011. Nel 1985 è stata curatrice della sezione “Arte e scienza: colore” alla Biennale di Venezia. Pubblica saggi e poesia in riviste tra cui Alfabeta, L’immaginazione, Meta, Il Verri, La Mosca di Milano e Testuale. Con Vanni Scheiwiller nel 1988 pubblica La natura del desiderio e nel 1994 Della discordia e del suo credo; ha diretto, con Gaetano Delli Santi, la rivista Kiliagono tra il 1993 e il 1995. Male al Male è pubblicato da Manni, 2001. Nel 1985 vince il Premio Montale per l’inedito. Tra gli altri titoli: Carnazzeria (Testuale 2004), Gesto azzurro alla tua sinistra (Book 2004), Filo a piombo (Tracce 2010, Premio “Scrivere Donna”), Vietato entrare (La vita Felice 2013). Sue poesie tradotte in inglese sono state pubblicate sulla rivista internazionale Incontri (Amsterdam 2012). Ha pubblicato inoltre il romanzo Crampi (Abramo editore 2006).

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