In cammino con un saggio pellerossa

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Joseph M. Marshall III

IN CAMMINO CON UN SAGGIO PELLEROSSA LA CONOSCENZA DEGLI ANZIANI LAKOTA


Introduzione

La più grande tra le grandi virtù: trattato sulla saggezza Quando si getta un sasso in uno stagno, l’acqua forma dei cerchi sempre più grandi via via che ci si allontana dal centro. È una realtà naturale. Un tempo, negli accampamenti lakota, il tepee più grande e più alto si innalzava al centro del villaggio e lì si incontravano gli Anziani. Il consiglio degli Anziani era composto dagli uomini in età più avanzata del villaggio. Per esservi ammessi c’era un unico, scontato requisito fondamentale: bisognava essere anziani. Proviamo a immaginare quanti anni d’esperienza venivano incarnati dal consiglio del villaggio. A seconda della grandezza dell’accampamento, il numero poteva variare dalle centinaia alle migliaia di anni. Il consiglio non aveva nessuna autorità: in effetti, in lakota non c’è

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una parola per esprimere il concetto stesso di autorità. Come faceva allora il consiglio degli Anziani ad assolvere le proprie responsabilità? Era il potere che veniva dalla loro saggezza a permettere loro di svolgere il proprio compito. Al consiglio venivano presentate diverse questioni importanti, di interesse comune, che andavano dai problemi della vita quotidiana fino alla guerra; ciascuna questione veniva discussa a lungo, talvolta per giorni e notti. Alla fine gli Anziani non davano ordini o ultimatum, ma si limitavano a comunicare la propria opinione alla loro gente. Questa opinione costituiva la base per l’azione e ciò in virtù della profonda saggezza dei membri del consiglio. Tra i Lakota, le quattro maggiori virtù sono la fermezza, la generosità, il coraggio e la saggezza. Quando le si nomina o se ne discute, la saggezza è sempre l’ultima a esser menzionata. Questo fatto, intenzionale o meno, ha ben ragione di essere, perché non solo la saggezza è la più grande tra le grandi virtù, ma è anche la più difficile da conseguire. La saggezza inoltre va di pari passo con l’età avanzata e anche questo è pienamente comprensibile. La saggezza non si può infatti ottenere con una decina di lezioncine. Per ottenerla, bisogna vivere a lungo e chi alla fine ci riesce la vede come un dono da parte della vita. Molti si accorgono poi che tale dono non può esser tenuto soltanto per sé, ma va resti-

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tuito alla vita. Cos’è dunque la saggezza? Così come la conoscenza viene dal sapere, la saggezza inizia dalla conoscenza, cresce con l’esperienza e trae il proprio potere dal discernimento. D’altro canto, la saggezza è una di quelle realtà della vita che possiamo vedere attraverso i suoi effetti, proprio come succede con il vento. Il vento non si può vedere, ma ci accorgiamo della sua presenza quando l’erba sul pendio di una collina ondeggia tutta nella stessa direzione. Il vento non si può toccare, ma chiunque ne percepisca il soffio in una giornata torrida sa quale sollievo porti. Il vento non parla, ma può far sussurrare i rami del cedro rosso. È così che ci rendiamo conto che il vento esiste ed è così che ci rendiamo conto dell’esistenza della saggezza. Sappiamo che la saggezza è una virtù antica, però a volte è difficile vederne gli effetti nel nostro mondo e nella nostra società. Talvolta ne sembra più evidente l’assenza. È stato detto: “Dimenticare lo spirito del passato è la più grande arroganza del presente”. Chi fece quest’affermazione si rendeva evidentemente conto che noi uomini di oggi, specialmente nella società americana, riteniamo che sia solo il presente a contare. Ci dimentichiamo, o semplicemente ignoriamo, il modo in cui siamo diventati ciò che siamo oggi dal punto di vista intellettuale, filosofico e tecnologico. Viviamo in un mondo

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in cui ci si muove a velocità supersonica, si brama soltanto il piacere immediato e ci si bea della tecnologia; di conseguenza, siamo così abbagliati dalla versione attuale di noi stessi da non accorgerci del contributo dato dai nostri avi alla nostra essenza, alle nostre azioni e al nostro pensiero. Magari qualcuno di noi, mentre è alla guida di una berlina o di un SUV, potrà ricordarsi in modo vago che le automobili sono state inventate circa centoventi anni fa, ma saranno ben pochi a rendersi conto del fatto che la ruota è stata inventata centinaia di anni prima dell’automobile. Ancora meno saranno quelli a cui verrà in mente che è stata la ruota a permettere l’invenzione di carri, carrozze, calessi e di tutti gli altri veicoli precursori delle nostre automobili. È sorprendente come si tenda a pensare che la tecnologia del passato fosse rozza e approssimativa. Chi ancora la pensa così, si stupirà nell’apprendere come i moderni topografi si siano dovuti render conto di quanto erroneo fosse questo atteggiamento mentale. Qualche anno fa, alcuni topografi hanno controllato alcune coordinate geografiche fissate ai tempi di George Washington usando dei rilevatori satellitari e hanno constatato, con loro grande stupore, che i topografi di metà Settecento si erano sbagliati nel determinare le misure (quando si erano sbagliati) di non più di quindici centimetri. Tendiamo inoltre a guardare dall’alto in basso an-

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che le credenze e la filosofia dei nostri antenati, che definiamo “bizzarre” o “arcaiche”, proprio come facciamo con le loro capacità manuali e tecnologiche. La visione spirituale di alcune tribù delle Pianure settentrionali secondo cui dalla morte nasce la vita è un esempio calzante a riguardo. In molte culture primitive di tutto il mondo si crede che al momento della morte lo spirito (o anima) si separi dal corpo e che spirito e corpo siano poi destinati a scopi differenti. In molte società indigene dell’America del Nord si celebrava una cerimonia speciale per liberare lo spirito di un defunto, affinché potesse incamminarsi verso la successiva esistenza. Contemporaneamente, le pratiche della sepoltura permettevano al corpo di ritornare alla Terra in senso materiale. Tra le tribù delle Pianure settentrionali, il defunto veniva avvolto in una pelle conciata e posizionato su un’impalcatura di legno (una piattaforma sorretta da pali) o, talvolta, su un grosso albero. Dopo diversi anni, quando era ormai certo che il corpo si fosse decomposto fino a ritirarsi dentro la pelle che lo rivestiva, lo si tirava giù e lo si seppelliva nel terreno. Il processo di decomposizione era quindi completo e i resti divenivano parte della Terra. Adesso le nostre conoscenze biologiche ci dicono che, con la decomposizione, la materia organica si riduce alle sue componenti fondamentali come il carbonio e che tali componenti diventano

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nutrimento per nuove vite vegetali. La “bizzarra” e “arcaica” credenza secondo cui dalla morte nasce la vita è realtà. La moderna tecnologia e i congegni in grado di fare cose strabilianti ci hanno di fatto resi ciechi di fronte all’intelligenza dei nostri avi. Siamo diventati una società e una nazione arrogante. Quando poi si considera con disprezzo un singolo aspetto del passato, si rafforza la tendenza a presumere che ai nostri avi mancassero davvero delle conoscenze più basilari. Iniziamo allora a descrivere tutto ciò che è legato al passato come “bizzarro” e “arcaico”, dimenticandoci del valore e del potere della saggezza. Questo è probabilmente il peggiore di tutti gli errori che si possano commettere. Se c’è qualcosa che nella nostra società dovrebbe essere inequivocabilmente sinonimo di saggezza è la leadership. A questo proposito, l’intelligenza del passato ci offre di nuovo alcuni spunti di riflessione e forse anche alcune lezioni, a seconda del nostro grado di arroganza ed egocentrismo. Fino al periodo delle riserve, nella società Lakota la saggezza era una componente intrinseca della leadership. La saggezza era più importante dell’autorità. L’autorità era di fatto assente. In effetti, mancava il concetto stesso di autorità. Il pensiero euro-americano costringe chi non è Indiano a dare per scontato che una società non si possa

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governare senza “legge e ordine”. In contraddizione con questo presupposto, le società dei Nativi nordamericani si autogovernavano anche senza leggi scritte, codici o regolamenti. In queste società c’erano regole e aspettative comportamentali, ma, cosa altrettanto importante, si faceva riferimento alla saggezza dei propri Anziani. In molte tribù, alcune più strutturate di altre, veniva usato un procedimento che si dimostrò valido per diverse generazioni. Ad esempio, tra i Cheyenne c’era (e c’è ancora oggi) il Consiglio dei Quarantaquattro. Tuttavia, nella maggior parte delle tribù la gerarchia governativa era informale e il suo nucleo in termini di influenza era di solito costituito da un consiglio di Anziani. In Lakota questo gruppo veniva definito wica omniciyapi, il “consiglio degli uomini (completi)”. Per “uomini completi” si intendevano quegli uomini che avevano vissuto varie esperienze e portato a termine diversi compiti, uomini altruisti, umili e saggi. Un altro termine con cui ci si riferiva ad essi era woglaka wicasa ossia “gli uomini che parlano (per il popolo)”. Quest’ultima definizione non era tanto una descrizione del loro compito quanto una loro descrizione, poiché il benessere del popolo era la loro preoccupazione principale e tale questione veniva messa prima e al di sopra di tutto nei loro discorsi e nelle loro parole. Il consiglio degli Anziani non approvava alcuna leg-

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ge e non emanava decreti. Il suo scopo principale era quello di discutere a lungo di ogni questione o problema. Dopo la discussione, il consiglio formulava un’opinione sulla questione o il problema in oggetto e quest’opinione veniva in seguito rivelata al popolo, che l’accettava come un consiglio piuttosto che come un ordine o una direttiva. Tuttavia il popolo era consapevole del fatto che l’opinione del consiglio aveva il peso di varie centinaia d’anni di esperienza e quello della saggezza dei suoi membri, presi in modo collettivo e individuale. Per questo, nella maggior parte dei casi, il parere del consiglio veniva accettato. Il wica omniciyapi era un organo governativo generale, ma c’erano anche capi che potremmo genericamente classificare come civili o militari; in entrambi i casi i singoli individui selezionati come leader venivano scelti per il loro buon senso, i loro successi, le loro sagge decisioni e la loro compassione. Di tanto in tanto anche uomini che si erano distinti come condottieri sul campo di battaglia venivano invitati ad assumere il ruolo di leader civili. Certo, c’era anche chi aspirava al rango di capo soprattutto per il prestigio che comportava, ma molti assumevano quel ruolo perché avevano sinceramente a cuore il benessere del loro popolo. Si dovevano sempre anteporre i bisogni della gente ai propri e prendere giuste decisioni per conservare la posizione di capo, ma non c’era un vero e proprio mandato in

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termini di tempo. Se un uomo svolgeva bene il proprio compito, il popolo continuava a seguirlo. Se era un capo mediocre, il popolo si limitava a non seguirlo più. Non era infrequente che un leader di scarsa capacità un bel mattino si svegliasse per scoprire che la sua gente lo aveva abbandonato durante la notte. Era una vera e propria democrazia - la volontà del popolo. Un capo spodestato non poteva lamentarsi di scorrettezze tecniche o errori nel processo di voto. In quelle terre poi non c’era una corte suprema che potesse ribaltare o interferire con tale voto. Toro Seduto, un Lakota Hunkpapa, fu un capo che godette della lealtà e della fiducia del suo popolo fino alla morte. Al culmine della sua influenza, convocò un raduno di tutti i gruppi Lakota, la cui popolazione totale si aggirava intorno alle ventimila persone. Questo raduno iniziò nel maggio di quello stesso anno e alla fine di giugno ottomila persone si erano raccolte per discutere questioni che interessavano l’intera nazione - soprattutto, l’invasione euro-americana dei territori Lakota e le sue spiacevoli conseguenze. Durante quel raduno, i guerrieri Lakota fermarono, o sconfissero sonoramente due unità distinte dell’esercito americano. Quell’anno era il 1876 e l’ultima delle due battaglie fu combattuta al Little Big Horn, contro il Settimo Cavalleria. Il valore di un leader si misura (o almeno, si dovrebbe misurare) dal grado di lealtà e rispetto che gli viene

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tributato dal suo popolo. Quanti leader, sia ora sia in passato, possono affermare senza timore di smentite che quasi metà della nazione abbia risposto a un loro appello? Una domanda ancora migliore è la seguente: perché? Perché in quell’estate del 1876, ottomila persone su ventimila risposero all’appello di Toro Seduto e si riunirono? Nel 1876 l’influenza che Toro Seduto esercitava come capo era al vertice. Egli possedeva tutte le qualità necessarie e lo aveva dimostrato. Aveva al suo attivo una notevole serie di successi militari. Come sciamano, era un esempio di altruismo e compassione ed era anche un politico scaltro e un abile oratore. Sarebbe stato facile per lui ammantarsi di arroganza e mettersi al di sopra della propria famiglia, della sua comunità e della sua nazione, ma sapeva che il vero valore di un uomo si misurava da ciò che aveva fatto per il suo popolo. Le azioni di Toro Seduto erano motivate principalmente dal suo interesse per il bene della sua nazione, della sua gente e non dal bisogno di tenersi il posto o dall’attenzione al proprio livello di popolarità. La gente sapeva che Toro Seduto era un uomo saggio non tanto perché si affidava alla propria saggezza, ma perché non esitava a domandarla ai suoi Anziani. Toro Seduto aveva la possibilità di unirsi agli altri Anziani al centro del villaggio. Oggi, dove sono i nostri Anziani? Li abbiamo messi al centro del villaggio per-

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ché la loro esperienza, il loro discernimento e la loro saggezza possano scorrere verso l’esterno? Guardatevi intorno e vedete da voi dove sono i nostri Anziani. Cosa succede a quelli di noi che non cercano la saggezza degli Anziani e non si curano di essa? *

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Molto, molto tempo fa un gruppo di Lakota era in viaggio nella prateria. Stavano camminando, perché a quei tempi non erano ancora giunti i cavalli. I beni familiari erano assicurati su pali trascinati da cani oppure in fagotti portati in spalla da giovani robusti e donne. Ai fianchi della colonna, i guerrieri formavano la prima linea di difesa; in testa c’erano l’anziano capo e un vecchio sciamano. Un guerriero della retroguardia lanciò un grido. Tutti si voltarono e dietro di sé videro fumo e fiamme. Nella prateria era divampato un incendio, una delle forze più devastanti e spaventose delle Pianure settentrionali e il fuoco si faceva sempre più vicino. La gente fu presa dal panico; le fiamme erano alte e si muovevano rapidamente. Istintivamente, tutti iniziarono a correre. Fu ben presto chiaro che le fiamme si muovevano troppo velocemente. La gente iniziò allora a cercare acqua, un torrente o uno stagno in cui gettarsi, ma lì vicino non c’era nulla. I fagotti vennero buttati via e i

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cani liberati dai loro fardelli perché potessero correre liberamente. Gli uomini e le donne più forti afferrarono i bimbi più piccoli e gli anziani più deboli. Non c’era altro da fare che scappare il più velocemente possibile. Tuttavia, dopo una corsa spossante, il calore delle fiamme che continuavano a crescere si fece intenso. Tutti si resero conto che il fuoco li avrebbe raggiunti. I bambini piangevano e tutti gridavano. A quel punto, si udì una voce calma in mezzo al frastuono e alla confusione: “Dobbiamo fuggire indietro, attraverso le fiamme”. A parlare era stata una vecchia. La gente era terrorizzata, tuttavia molti compresero all’istante la saggezza delle sue parole. Alcuni però non capirono, perché erano troppo spaventati. Gli Anziani di età più avanzata si raccolsero intorno agli altri e in fretta suggerirono a ognuno di bagnare i vestiti dei bambini con l’acqua delle loro borracce e così fu fatto, mentre le fiamme impetuose si facevano sempre più vicine e il fumo oscurava il sole. Il pensiero di correre attraverso le fiamme era davvero spaventoso, ma era la loro sola speranza. Alcuni tuttavia non la pensavano così e continuarono a scappare. La vecchia che aveva parlato per prima fu anche la prima a lanciarsi di corsa attraverso il fuoco. I padri e le madri strinsero a sé i loro bambini e molti di loro la seguirono nelle fauci della morte. Molti morirono: si trattava per lo più dei più anziani

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e dei più giovani i cui polmoni non erano riusciti a sopportare l’intensità del calore. Tra questi ci fu la vecchia che per prima si era gettata tra le fiamme. Tuttavia, molti di quelli che avevano sfidato il fuoco sopravvissero; sulle loro gambe e cosce rimasero però delle cicatrici. Per questo in seguito essi presero il nome di Sicangu Oyate, il Popolo delle Cosce Bruciate. Oggi siamo conosciuti come i Lakota Sicangu, una delle sette divisioni dei Lakota, meglio noti come i Sioux di Rosebud. Non dimenticheremo mai il coraggio dei nostri antenati e come ottennero questo nome che porteremo per sempre. E non dimenticheremo mai che fu la saggezza di un’anziana a salvare il suo popolo. Inutile dire che tutti coloro i quali non prestarono fede alle sue sagge parole morirono di una morte orribile. *

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Chiediamocelo di nuovo: dove sono oggi i nostri Anziani? Purtroppo, a esser sinceri, quello che sappiamo è dove non sono. Non sono al centro del villaggio. La loro saggezza non scorre verso l’esterno. Qualunque persona, società o nazione che ignori le lezioni del passato prima o poi dovrà affrontare le fiam-

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me delle sue stesse paure o della sua arroganza. Alcune potrebbero non sopravvivere. Non è dunque arrivato il momento di rimettere gli Anziani al centro del villaggio?

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