Solo la crisi ci può salvare

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Paolo Ermani e Andrea Strozzi

Solo la crisi ci può salvare Basta con la follia della crescita!

Siamo noi i principali artefici del nostro destino, oppure le scelte che ci riguardano dovranno sempre essere delegate ad altri?

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Paolo Ermani e Andrea Strozzi Solo la crisi ci può salvare Copyright © 2016 Edizioni Il Punto d’Incontro Prima edizione pubblicata nel maggio 2016 da Edizioni Il Punto d’Incontro, via Zamenhof 685, 36100 Vicenza, tel. 0444239189, fax 0444239266, www.edizionilpuntodincontro.it Finito di stampare nel maggio 2016 presso LegoDigit, Lavis (TN) Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di quest’opera può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta dell’editore, a eccezione di brevi citazioni destinate alle recensioni ISBN 978-88-6820-306-1 4


Indice Prefazione............................................................................................................................9 PARTE PRIMA: IL TRAMONTO DI QUESTO MONDO.........................................................15 1. Una storia inusuale dell’economia (e, forse, della religione)............................. 17 2. Il dio Denaro e il dogma del PIL................................................................................25 3. Per fortuna, “quella” Crescita non tornerà..........................................................35 4. Perché non è la Crisi del 1929..................................................................................43 5. Il guinzaglio corto: lavorare come cani.................................................................55 6. Due terzi schiavo.........................................................................................................67 7. Il culto dell’immagine e l’americanizzazione del mondo.................................... 77 8. L’incredibile e inumano laboratorio della Cina.....................................................81 9. Germania: l’altra faccia degli Stati Uniti................................................................85 10. Consigli per gli acquisti in tempi di Crisi: una contraddizione in termini....97 11. I soldi sono davvero il problema? Siamo davvero alla fame?....................... 103 12. La burocrazia, il mito del posto fisso e lo Stato..................................................111 13. La società digitalizzata..............................................................................................117 14. Un emblema della decadenza: la dittatura del cellulare..................................121 15. Gli improbabili palliativi alla disperazione dilagante........................................125 16. Il mondo al crepuscolo............................................................................................ 133

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PARTE SECONDA: L’ALBA DEL NUOVO MONDO............................................................143 17. Il mondo che sta sorgendo......................................................................................145 18. La nuova economia: l’alleanza fra agricoltura, ambiente, imprenditoria e finanza etica............................................................................... 155 19. La Crisi è una benedizione: l’economia dei beni non monetari..................... 165 20. Un’imprenditoria che non si lamenta...................................................................181 21. Democrazia diretta o Responsabilità diretta?.................................................. 185 22. Chi sono oggi i talebani, gli estremisti, gli integralisti?................................ 193 23. Disoccupazione: il lavoro di ieri, di oggi e di domani......................................197 24. Da noi si può fare!..................................................................................................203 25. Dall’egocentrismo al sociocentrismo...............................................................209 26. Dagli ideali ai valori.................................................................................................215 Bibliografia essenziale................................................................................................. 233 Siti internet di riferimento.......................................................................................... 235 Ringraziamenti................................................................................................................237 Nota sugli autori............................................................................................................ 239

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A mia figlia. A chi vive basso e pensa alto. Andrea

A tutti/e coloro che non vivono per il denaro e per il proprio ego. Alla memoria di Jiddu Krishnamurti e Paride Allegri. Paolo

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Prefazione

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uesti decenni così importanti hanno fatto emergere nella mente delle persone l’idea di una rivoluzione radicale. La “crisi” è una crisi delle coscienze. Una crisi che non può permettere che vengano ulteriormente accettate le vecchie norme, i vecchi modelli, le antiche tradizioni. E, nonostante quello che è diventato oggi il mondo – con tutta la sua miseria, i suoi conflitti, la sua sconcertante brutalità e le aggressioni – l’Uomo è ancora quello che è sempre stato. È rimasto brutale, violento, aggressivo, avido, competitivo. E ha costruito una società basata su queste caratteristiche. Quello che stiamo cercando di dire, con tutti questi dibattiti e discorsi, è capire se noi possiamo radicalmente portare a una trasformazione della mente. Per non accettare le cose per quello che sono. Ma per capirle, penetrarle ed esaminarle a fondo. Devi dare il tuo cuore e la tua anima per scoprire tutto quello che c’è da scoprire. Uno stile di vita diverso. Che dipenda da te e non dagli altri. Perché qui non ci sono insegnanti. E non ci sono allievi. Non c’è alcun leader. Né alcun guru. Non ci sono padroni, non un Messia. Sei tu stesso l’insegnante, l’allievo, il padrone, il guru e il leader... ...tu sei tutto. ——Jiddu Krishnamurti

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l vocabolo “crisi” indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire “scelta” o “punto di svolta”, ora sta a significare: “Guidatore, dacci dentro!”. Ma “crisi” non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di “scelta”, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero. ——Ivan Illich

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l cambiamento necessario a ripristinare un sano equilibrio in questi difficili tempi sarà verticale, cioè gerarchico, accentrato e imposto dall’alto, oppure orizzontale, cioè comunitario, parcellizzato e proposto dal basso? È in questa irrisolta ambivalenza delle pulsioni umane che da sempre si giocano i destini dell’umanità. In altre parole: siamo noi i principali artefici del nostro destino, oppure le scelte che ci riguardano dovranno sempre essere delegate ad altri? Nei secoli, la progressiva divaricazione fra queste due opposte propensioni alla gestione della propria vita ha generato il dualismo fra controllori e controllati: da un lato ci sono coloro che ambiscono al comando, dall’altro lato la stragrande maggioranza di coloro che accordano ai primi la facoltà di stabilire 10


il proprio futuro. Solitamente, è proprio nei momenti di massima sollecitazione delle convenzioni sociali, economiche, religiose e culturali, che la distinzione fra questi due ruoli – i controllori e i controllati – rischia di farsi lacerante. Nei momenti di crisi molte delle regole prestabilite possono saltare. Nei momenti di crisi è possibile udire i vagiti di uno scenario diverso. Nei momenti di crisi si nasconde cioè, sotto le vesti di un autentico Cambiamento, la possibile salvezza. Questo libro mette al centro la persona. Ogni persona, con i moti del suo cuore e del suo cervello, è infatti l’agente primario del radicale cambiamento degli stili di vita che coinvolgeranno comunità più ampie. Il vero cambiamento sarà sempre e soltanto quello che sorge dall’interno delle nostre coscienze e che, mediante la passione e la conoscenza, si propaga fino a rendere possibile una trasformazione della realtà. Da una scrupolosa diagnosi della genesi di questa Crisi, condotta attraverso un rapido excursus del pensiero economico occidentale (cap. 1), verrà illustrata con irriverente ironia la nuova, paradossale “santissima trinità” del terzo millennio: la religione della Crescita, il dio Denaro e il dogma del PIL (cap. 2). Verranno descritti i presupposti concettuali per cui una stagione della Crescita infinita non è ormai più pensabile, neanche dai più ortodossi sostenitori dello sviluppo economico (cap. 3) e, tramite un meticoloso confronto con l’altra grande Crisi dell’epoca moderna – quella del ’29 – cercheremo di capire come mai questa volta siamo di fronte a un cambiamento completamente diverso (cap. 4). Le nevrosi della società capitalistica contemporanea saranno sviscerate una a una, attraverso le alienanti contraddizioni 11


dell’attuale mondo del lavoro (cap. 5) e una spietata analisi di come esso ci rubi il nostro tempo (cap. 6) tramite l’assoggettamento dei nostri comportamenti quotidiani all’assurdo dominio della civiltà dell’immagine imposta dal modello americano (cap. 7), per arrivare al fenomeno del neoschiavismo di massa che si registra in Cina (cap. 8) e al consumismo compulsivo osservabile nella pur “avanzatissima” Germania (cap. 9). Nei tre capitoli successivi viene “esploso” il micidiale circolo vizioso del Lavoro > Guadagno > Consumo, mediante l’analisi del paranoico bombardamento mediatico pubblicitario che tiene in vita un consumismo sempre più degenerativo (cap. 10), la valutazione critica della presunta scarsità di denaro per finanziare attività “utili” (cap. 11) e la propensione ancestrale, e tutta italiana, a rifugiarsi nel mitico “posto fisso” (cap. 12). Il dito viene quindi puntato contro gli effetti collaterali di una società sempre più digitalizzata e spersonalizzante (cap. 13) e, inevitabilmente, contro uno dei simboli di questa alienazione collettiva: il telefono cellulare (cap. 14). Lo sguardo si posa infine sulla nutrita schiera di sedicenti esperti e professionisti che, in una forma di insopportabile neo­ sciacallaggio dell’anima, tentano in ogni modo di lucrare sulla disperazione che affligge le frange più deboli e manipolabili della popolazione (cap. 15). Nel capitolo conclusivo della prima parte (cap. 16) la rassegna delle anomalie sociali fin qui analizzata viene reinterpretata come il provvidenziale tramonto degli attuali stili di vita, per lasciare il posto a un nuovo modo di concepire l’esistenza e le relazioni. Dopo la spietata diagnosi della situazione attuale, la seconda parte del libro è invece interamente dedicata alle proposte concrete per individuare una via d’uscita, sia individuale che collettiva. Dopo l’inquadramento in ottica bioeconomica delle nuove 12


prospettive di consapevolezza (cap. 17), la proposta muove dalla descrizione di un nuovo modello sociale destinato ad affermarsi nei prossimi anni: l’alleanza fra il settore agricolo, la società civile, la microimprenditorialità locale e la finanza etica (cap. 18), per giungere all’affermazione di una realtà socioeconomica fondata sui beni non monetari (cap. 19). Le proposte fin qui elencate trovano un’applicazione reale, concreta e sperimentabile in uno degli esempi più virtuosi di lungimiranza imprenditoriale, quello del Parco dell’Energia Rinnovabile, una realtà microcomunitaria situata sulle colline umbre, che sta testimoniando alla Penisola come un nuovo modello di civiltà sia attuabile (cap. 20). I nuovi approcci individuali necessari a testimoniare e a sostenere il cambiamento degli stili di vita vengono riproposti nella puntuale destrutturazione del principio di “democrazia diretta” a favore di quello, a esso funzionale, di “responsabilità diretta” (cap. 21), dimostrando come l’intransigenza sui valori fondamentali del nuovo mondo sia una forma di integrità e non, come viene spesso fatto credere, di integralismo (cap. 22). Il fenomeno della disoccupazione viene affrontato con un occhio saldamente rivolto alle nuove professioni di cui ci sarà presto bisogno (cap. 23) e verrà ironicamente smontato il comodo “teorema” che da noi, in questa malconcia penisola, certi cambiamenti non si possano fare (cap. 24), come se non dipendesse soltanto, ancora una volta, dal nostro senso di responsabilità sociale. Nei capitoli conclusivi vengono delineati i nuovi assetti valoriali che adotteranno i testimoni attivi del cambiamento, i quali dovranno anteporre gli interessi collettivi a quelli individuali – che dai primi inevitabilmente derivano – preferendo cioè un approccio sociocentrico a uno egocentrico (cap. 25). Infine, uno a uno, saranno passati in rassegna i Valori fondan13


ti del nuovo mondo che saranno emersi dalla Crisi, indicando per ciascuno di essi come e perchĂŠ potrĂ effettivamente imprimere una svolta sostanziale al nostro avvenire (cap. 26).

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1. Una storia inusuale dell’economia (e, forse, della religione) Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa andare bene come sei. Quindi: vivi come credi. Fai cosa ti dice il cuore… ciò che vuoi… Una vita è un’opera di teatro che non ha prove iniziali. Quindi: canta, ridi, balla, ama… e vivi intensamente ogni momento della tua vita… prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi.

——Charlie Chaplin

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a Grande Recessione iniziata nel 2007 può forse rappresentare la soluzione ai tanti e radicali problemi che affliggono il nostro tempo. Per comprendere il significato di questa affermazione apparentemente provocatoria, che in un certo senso “sorregge” tutto il volume, può essere utile ricordare il celebre monito di Albert Einstein, in base al quale un problema non può essere risolto dallo stesso livello di conoscenza che lo ha generato. Soprattutto, è necessario osservare il corso degli eventi da una prospettiva storica che si svincoli dalla breve durata della nostra vita. Essa infatti – per la sua inevitabile limitatezza – non ci consente di abbracciare in un unico sguardo sia le cause che le conseguenze delle attuali discontinuità sistemiche. Per semplicità, ricordiamo infatti come il termine “economia” 17


derivi dalle due parole greche oikòs (casa, affari domiciliari) e nomos (amministrazione): nel suo significato originario, dunque, l’economia si riferisce alla gestione delle attività domestiche. Oggi invece con la parola “economia” siamo soliti riferirci, con impressionante disinvoltura, alle transazioni finanziarie di miliardi di dollari o a interventi militari che possono decretare, suggellandole con un clic del mouse, la fortuna o la disfatta di intere aree del pianeta e, con esse, la vita o la morte di milioni di persone. Che cosa c’entra, tutto questo, con l’amministrazione dei beni domestici? Per capire a quale stadio degenerativo siano giunte le cose su un piano sia storico che economico, sarà nel nostro caso sufficiente cominciare a osservarle dal 9 marzo del 1776, il giorno di pubblicazione di La ricchezza delle nazioni di Adam Smith,1 l’opera che avrebbe significativamente cambiato il corso degli eventi. Universalmente considerato come il padre delle filosofie liberali e del liberismo economico, con questo volume l’economista scozzese scrive di fatto per la prima volta le regole della modernità, stabilendo come il libero mercato rappresenti il perfetto ed equo regolatore delle vicende umane, per lo meno in termini di distribuzione del “benessere”. Famosissima è la sua metafora della “mano invisibile” che, con un’immagine tanto suggestiva quanto illusoria, rimanda alle proprietà regolatrici del regime di libera concorrenza e del suo compito di ridistribuire risorse e ricchezze tra chi ne possiede in eccesso e chi non ne possiede a suffi1.  Poiché il titolo originale dell’opera è The Wealth of Nations, la cui traduzione esatta sarebbe stata “Il benessere delle nazioni”, non è infrequente trovare ancora oggi convinti sostenitori del messaggio di Smith, che – proprio appellandosi all’intenzione dell’autore di focalizzarsi sul “benessere” anziché sulla “ricchezza” – ne rivendicano la bontà delle teorie. A parere di chi scrive, tuttavia, questa disquisizione sulla corretta traduzione del titolo del libro che ha radicalmente cambiato la concezione dell’economia non è sufficiente per distogliere l’attenzione dal contributo che il suo autore ha dato alla legittimazione teoretica dell’avidità umana, che – come sappiamo – nei secoli successivi avrebbe sprigionato tutto il suo nefasto potenziale.

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cienza, proprio tramite i meccanismi equilibratori della domanda e dell’offerta di beni e servizi. Domanda e offerta che, grazie al sistema di aggiustamento dei prezzi, stabilirebbero le condizioni di equilibrio economico ottimale e, conseguentemente, creerebbero le condizioni per il benessere generalizzato. Senza scendere adesso nei meandri dell’economia politica – la disciplina che, nata proprio con Adam Smith, ha sviluppato quella vera e propria scuola di pensiero che avrebbe trovato nel capitalismo la sua massima espressione attuativa – sarà sufficiente ai nostri fini ricordare quello che di fatto è stato, ed è tutt’ora, il principio dogmatico di questa dottrina, cioè la proprietà equilibratrice del libero mercato. È curioso notare come stiano già emergendo vocaboli ed espressioni tipiche della terminologia religiosa (equità, dogma, dottrina...): vedremo fra poco come questo dettaglio non sia assolutamente casuale. L’applicazione scientifica, sistematica e sistemica di questi principi – che da liberali sono rapidamente diventati liberisti2 – nell’occidente “civilizzato” per tutto l’arco dell’Ottocento e del Novecento ha generato il mondo che conosciamo oggi. Ci piaccia oppure no, il principale responsabile concettuale di tutto questo è Adam Smith. Sta di fatto che, col passare dei decenni e dei secoli, le posizioni ideologiche e le prescrizioni sociali del padre del libero mercato hanno esercitato un profondo influsso sulle dinamiche socioeconomiche del proprio tempo più di qualsiasi altro pensatore 2.  Se da un punto di vista semantico, la distinzione tra “liberalismo” e “liberismo” è esclusivamente italiana, dal punto di vista della filosofia politica la distinzione fra i due concetti è riscontrabile in tutte le culture occidentali. Nella fattispecie, così come hanno sostenuto anche i due maggiori filosofi liberali del Novecento (Croce e Popper), mentre il liberismo attiene prettamente alla sfera economica (incarnato dalla logica del laissez-faire), la mentalità liberale – di più ampio respiro – si riferisce a tutte le libertà: etiche, politiche, culturali e religiose.

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prima e dopo di lui. La dottrina di Adam Smith, perfettamente sintetizzabile nella filosofia del laissez-faire,3 sarebbe infatti stata perfetta per i grandi sommovimenti culturali, industriali, energetici e politici dei due secoli a venire. Questo è un punto assolutamente centrale della questione, sul quale quasi nessuno si sofferma: se La ricchezza delle nazioni fosse stato scritto un secolo prima o un secolo dopo, oggi il mondo che conosciamo sarebbe con ogni probabilità profondamente diverso. La sua comparsa proprio alla vigilia del secolo – l’Ottocento – in cui sarebbero stati pienamente sprigionati gli effetti della Rivoluzione industriale, ha avuto per l’economia un ruolo strategico determinante. Nel preciso momento della Storia in cui l’umanità, grazie all’improvvisa disponibilità su larga scala delle fonti energetiche fossili, abbandonava l’agricoltura e l’artigianato per concedersi euforicamente alle seduzioni dell’industrializzazione, una dottrina socioeconomica perfettamente rispondente al nuovo contesto legittimava questa eccitazione collettiva, consacrandola come l’unico destino possibile e desiderabile. Dovrebbe a questo punto essere facile comprendere, quindi, come il passo per convertire questa filosofia politica ed economica in una categoria dello spirito fosse, in effetti, drasticamente breve, agevole e a portata di mano: il neoliberismo stava diventando la principale confessione religiosa dell’intero Occidente. Gli effetti empirici e misurabili di questo new-deal si sarebbero presto concretizzati in una serie innumerevole di nuovi prodotti commerciali, nuovi servizi per la popolazione, nuove seduzioni consumistiche che avrebbero progressivamente allontanato l’uomo dai suoi bisogni primordiali. La categoria del pensiero 3. È la concezione in base alla quale i soggetti economici, se lasciati liberi di esprimere pienamente le proprie pulsioni commerciali, avrebbero fisiologicamente contribuito al benessere della collettività, proprio grazie alle proprietà livellatrici del libero mercato.

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che si sarebbe diffusa in tutto l’Occidente come un’epidemia inarrestabile sarebbe dunque stata quella della Crescita.4 Nelle popolazioni che ne accettarono i comandamenti, la religione della Crescita avrebbe progressivamente fatto piazza pulita di tutte le altre confessioni religiose, sostituendo alla liturgia della fede spirituale quella dell’accrescimento materiale. Più precisamente, le religioni sarebbero rimaste, proprio come una foglia di fico, per mascherare alla propria e all’altrui coscienza la folle rincorsa verso l’accumulo sistemico. Come a dire: la nuova filosofia politica mi impone di correre e crescere sempre di più, io mi adeguo e lo faccio di buon grado, ma conservo pur sempre per la mia coscienza la fede religiosa, che mi educa spiritualmente. In parole ancora più povere: le mani protese alla materia, la testa invece allo spirito. In realtà, come sappiamo bene, anche la “testa” sarebbe stata pian piano sedotta e schiavizzata dalla “materia”. Le dimostrazioni di questa affermazione apparentemente scontata sono due, investono rispettivamente l’Ottocento e il Novecento e, soprattutto, sono entrambe di portata mondiale. Da un lato, come vedremo, la stessa “antitesi ideologica” alla deriva capitalistica in corso si sarebbe rivelata altrettanto succube della religione della Crescita quanto l’ideologia che l’ha partorita. Dall’altro lato, sempre in nome della Crescita, l’intero Occidente sarebbe infatti scivolato in due conflitti di proporzioni mondiali, a riprova di come la nuova “religione” stesse animando le teste delle persone, ma armando le loro mani.

Da Smith a Marx Come sarebbe inevitabile per qualsiasi sistema valoriale che va a toccare tutte le sfere dell’azione e del pensiero umano, anche il 4.  Come tutte le religioni, la Crescita verrà indicata con la lettera maiuscola.

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liberismo economico, che si è concretamente realizzato nel capitalismo, avrebbe inevitabilmente prodotto la sua antitesi: parliamo ovviamente del comunismo. Ogni idea, ideale o ideologia – specialmente se davvero rivoluzionaria – produce infatti sempre una spinta concettuale uguale e contraria. Se il capitalismo fondava la sua ragion d’essere sullo sfruttamento intensivo di uno dei due fattori produttivi concepiti dal dogma neoliberista, il contrappeso storico, economico e ideologico che con Marx stava emergendo dalle polveri sollevate dall’impiego del Capitale (e dalle iniquità distributive che il suo utilizzo implicava) si chiamava Lavoro. Consapevole della condizione di schiavitù a cui il crescente dominio della tecnica avrebbe costretto le persone, Karl Marx oppose alla voracità del Capitale la dignità del Lavoro. Scusandoci per aver riassunto in così poco spazio questioni e istanze che hanno giustamente meritato fiumi di inchiostro e quintali di carta sugli scaffali delle biblioteche, la priorità che ci preme intanto accennare è come sia Smith che Marx, sebbene da pulpiti diversi e proponendo soluzioni antitetiche, obbedissero alla medesima religione della Crescita: che il processo economico venisse fondato prevalentemente sul Capitale oppure sul Lavoro, l’effetto sarebbe comunque stato quello di una deriva iperproduttivistica dell’attività umana, con esiti e prospettive che si sarebbero rivelate non sostenibili dal punto di vista sistemico. In altre parole, il neoliberismo selvaggio da un lato e il socialismo reale dall’altro, sebbene da presupposti ideologici completamente diversi, avrebbero verosimilmente condotto al medesimo risultato: lo sfruttamento intensivo delle risorse ambientali, per onorare il sacro dogma dell’accumulo di ricchezza. Una ricchezza distribuita diversamente, certo. E realizzata mediante forme partecipative con differenti gradi di eticità pubblica e privata, certo. Ma, in ogni caso, come stiamo scoprendo (in ritardo) oggi, ugualmente insostenibili. 22


Le guerre sante L’altro aspetto che consacra, glorificandola, la religione della Crescita ha polarizzato quasi interamente il secolo successivo, essendo rappresentato da due guerre mondiali in... salsa totalitaria. Conflitti globali che, in quanto condotti in nome della religione della Crescita, potremmo anche ribattezzare come guerre sante. Proprio in nome di quella propensione all’accumulo incondizionato, per tutto il Novecento la follia umana avrebbe infatti sprigionato un potenziale distruttivo senza precedenti,5 ridisegnando completamente gli assetti geopolitici mondiali e definendo nuovi equilibri socioeconomici. Tutto questo, a suon di bombe e di genocidi: altro che di “mani invisibili”, caro Adam Smith! Dunque, come abbiamo appena visto, né una forza sociale ed economica dai presupposti altrettanto dirompenti come quella che l’aveva partorita, né le devastazioni procurate da due conflitti planetari sono state in grado di scalfire anche minimamente lo strapotere della religione della Crescita. Di più: mentre da un lato gli equilibri sistemici indotti dall’applicazione scientifica delle dottrine neoliberiste hanno garantito all’Occidente oltre mezzo secolo di relativa quiete, insinuando nella popolazione che tale ricetta sia biblicamente ed eternamente salvifica, dall’altro lato ricordiamo come nel 1989 lo storico contrappeso ideologico di tale concezione dell’esistenza si sia letteralmente sbriciolato a Berlino, consentendo al capitalismo di “naturalizzarsi” definitivamente nella Storia6 e di assumere le me5.  A eccezione del genocidio compiuto tra il XVI e il XVIII secolo dall’uomo bianco (per analoghe ragioni espansionistiche e accrescitive) ai danni delle popolazioni native dell’America, in cui si stima che persero la vita circa ottanta milioni di individui. 6.  Si veda anche Minima mercatalia di D. Fusaro (Bompiani, 2012).

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tamorfiche sembianze di quel mostro che, dopo aver attraversato negli ultimi due secoli il suo stadio mercantile e in questi decenni il suo stadio finanziario, sta ora evolvendo nella sua ultima e più pericolosa fase, quella relazionale.7 Alla religione della Crescita occorreva fare breccia anche nel nostro spirito. E, per farlo, era necessario che si dotasse di un’altra prerogativa tipica delle religioni monoteiste: la presenza di un dio.

7.  Il tema degli stadi metamorfici del capitalismo è sviluppato in Vivere Basso, Pensare Alto …o sarà Crisi vera, di A. Strozzi (Terra Nuova Edizioni, 2015).

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23. Disoccupazione: il lavoro di ieri, di oggi e di domani Questo è ciò che sappiamo: siamo stressati, indebitati, esausti. Abbiamo meno tempo per le nostre famiglie di quanto dovremmo. Ricaviamo meno piacere dai nostri svaghi e dai nostri consumi di quanto ci aspettiamo di ottenere. Ci sentiamo meno collegati che mai alle nostre comunità. Sul luogo di lavoro ci sottoponiamo a prassi e a doveri che, al meglio, sembrano inutili e, al peggio, immorali e privi di etica. Ci sentiamo come cittadini vuoti, troppo affaticati per rispondere a qualsiasi appello politico se non con un’alzata di spalle. In breve, siamo dei lavoratori.

——Pat Kane

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uando si parla di occupazione o di disoccupazione, ben poco si riflette sul fatto che si punta su quei settori ormai saturi che tradizionalmente alimentano la crescita. Quindi, essendo la crescita in difficoltà, lo sono anche questi settori. Il grafico che segue evidenzia chiaramente la situazione, facendo capire che se abbandonassimo la visione unica della crescita, potremmo occupare persone in settori dove la manodopera riveste un ruolo realmente strategico.

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Figura 12. Segmentazione per settore dell’occupazione dall’Unità d’Italia a oggi.

Si potrebbe incentivare un settore fondamentale come quello agricolo, che ha un’incidenza occupazionale ormai ai minimi termini ed è costituito perlopiù da una agricoltura che fa largo uso di macchine agricole, concimi e pesticidi chimici che richiedono grandi quantità di combustibili fossili, avvelenando persone, piante, animali, terreni e falde acquifere. Un’agricoltura poi troppo spesso monocultura, che rappresenta il suicidio dell’agricoltura stessa. Incentivando invece un’agricoltura locale, biologica, diversificata, di qualità, di prodotti tipici, di varietà antiche, si otterrebbe un risanamento del territorio e, di conseguenza, un notevole aumento degli occupati. Altri settori dalle potenzialità vastissime sono le energie rinnovabili, il risparmio energetico, la depurazione acque e il risparmio idrico. Chiunque è in grado di capire che nel paese del 198


Sole gli occupati nelle rinnovabili potrebbero essere milioni, così come – stante la disastrosa situazione del comparto edile – altrettanti nel settore dell’efficienza energetica e nella riqualificazione degli edifici. Si pensi poi che, essendo oggi il 35% delle persone non collegate a un impianto di depurazione, si potrebbe intervenire con una moltitudine di impianti di fitodepurazione decentralizzati, che consentono anche il recupero delle acque reflue. Per fare tutto ciò ci sarebbero già soldi, conoscenze tecniche e capacità. Basterebbe solo agire, ma invece si continua a piangere, a lamentarsi e ad aspettare che tutto ritorni come prima, sperando di continuare a vendere paccottiglia hi-tech, automobili e a costruire edifici, cosa che ovviamente e fortunatamente non continuerà in eterno. A chi fosse scettico su questa evidenza, ricordiamo che in un lasso di tempo relativamente breve l’Italia si è massicciamente spostata da una vocazione agricola a quella dei servizi, che è proprio il settore a essere oggi irrimediabilmente in crisi, visto che abbiamo già comprato tutto quello che ci hanno detto che dovevamo comprare. Con l’ausilio di tecnologie appropriate e dell’attuale livello di conoscenze, il ritorno all’agricoltura sarebbe assai più veloce di quello che è stato lo spostamento nel settore dei servizi nel Dopoguerra. Oltre alle sopracitate opportunità, anche il settore turistico e quello culturale potrebbero beneficiare grandemente di una ritrovata vocazione agricola e localistica della popolazione, visto che darebbe fioritura alle ricche diversità di paesi e regioni. Paesi e regioni non sarebbero più in competizione fra loro per distruggere meglio e più in fretta l’ambiente, ma per meglio salvaguardarlo, producendo la maggior varietà agricola possibile, custodendo e presentando le proprie ricchezze artistiche e culturali. La competizione si sposterebbe sull’efficienza per la riduzione dei consumi e dei rifiuti, per la diffusione delle energie rinnovabili e l’autosufficienza alimentare, rendendo di fatto ogni territorio 199


come un giardino risplendente e facendo dell’Italia un faro internazionale per una rivoluzione che potrebbe contagiare il mondo. La nostra bellezza e la salvaguardia del nostro patrimonio ambientale e culturale dovrebbero occupare il primo posto nell’agenda dei nostri politici, convincendoci finalmente che è decisamente meglio investire e lavorare sulle nostre ricchezze naturali e sulla valorizzazione delle nostre qualità artistiche, piuttosto che martoriare interi territori e popolazioni con le grandi e inutili opere come la TAV in Val di Susa. Abbiamo uno dei più grandi e ricchi patrimoni artistici al mondo e lo lasciamo andare in rovina, oppure lo asfaltiamo. I turisti vengono in Italia anche se i servizi e l’organizzazione sono pessimi, si cerca sempre di fregarli e vengono trattati male: figuriamoci cosa succederebbe se puntassimo su una ricettività turistica fondata su una vera e genuina accoglienza, con un’offerta culturale e ambientale all’altezza. I vantaggi di un’azione a livello economico e occupazionale in questa direzione sarebbero duraturi e molteplici. Puntando con decisione a una maggiore autoproduzione energetica e alimentare, ridotti gli sprechi energetici e non, aumentato il welfare comunitario, si avrebbe una netta diminuzione delle spese pubbliche e private: questo consentirebbe alle persone di poter guadagnare di meno e, di conseguenza, di potere anche lavorare meno. Ritornerebbe finalmente in auge il famoso e sempre importante detto “lavorare meno, lavorare tutti”. Stranamente, infatti, il progresso che secondo Keynes, tutto sommato uno dei più grandi economisti del secolo scorso, avrebbe dovuto farci lavorare un paio di ore al giorno grazie al sempre maggiore contributo della tecnologia, non si è verificato. Anzi, è accaduto proprio il contrario: il progresso e la tecnologia ci hanno fatto lavorare di più, rendendoci sempre più schiavi, oltre che del lavoro, della stessa tecnologia. Basti pensare alle tecnologie 200


informatiche che ci rendono reperibili sempre e in ogni luogo, obbligandoci di fatto a non staccare mai la spina: non ci sono più sabati e domeniche, non ci sono più feste, riposo, vacanze. E visto che in Italia ormai il 70% della forza lavoro è occupata nel settore dei servizi, è chiaro che l’informatica è preponderante nelle loro attività. Quindi, la svolta in senso lavorativo è fattibile, realizzabile fin da subito e c’è chi senza proclami, senza roboanti promesse, si è avviato in questa direzione, che è inevitabile anche perché spazio per costruire case non ce ne è più, strade per fare circolare macchine le abbiamo finite e sarebbe ora di fermare questa folle corsa a deturpare l’ex “Bel Paese”, consentendogli finalmente di tornare a esserlo, bello. Visto che i soldi ci sarebbero eccome, ma che – a parte qualche briciola – non vengono mai massicciamente investiti in questa direzione da parte di quei governi asserviti a chi vuole la distruzione del territorio, non rimane che moltiplicare le piccole iniziative individuali, rafforzare la comunità e l’economia locale, creare mille luoghi di resistenza umana, energetica, culturale, per riaffermare i reali valori che non sono quelli economici ma sono quelli della vita e della relazione fra le persone in armonia e non in guerra con la natura. E, in questo modo, tante piccole iniziative formeranno una rete e un tessuto sociale che ricostruirà un sistema forte dalle fondamenta.

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25. Dall’egocentrismo al sociocentrismo I nuovi eroi sono persone ordinarie le cui azioni hanno un impatto sociale straordinario, che agiscono quando tutti gli altri restano inerti e che abbandonano l’egocentrismo in favore del sociocentrismo.

——Philip Zimbardo Una notte, un vecchio indiano raccontò a suo nipote una storia: “Figlio mio, la battaglia nel nostro cuore è combattuta da due lupi. Un lupo è maligno: è collera, gelosia, tristezza, rammarico, avidità, arroganza, autocommiserazione, colpa, risentimento, inferiorità, falso orgoglio, superiorità; è l’ego. L’altro lupo è buono: è gioia, pace, amore, speranza, serenità, umiltà, gentilezza, benevolenza, immedesimazione, generosità, verità, compassione e fede”. Il nipote, dopo averci pensato per qualche minuto, chiese al nonno: “Quale dei due lupi vince?”. Il vecchio rispose semplicemente: “Quello che tu nutri”.

——Racconto indiano

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oiché al significato etimologico del termine “crisi” vengono ormai dedicate anche le frasi che si trovano all’interno dei cioccolatini, eviteremo di ripeterci in questa sede. Molto spesso, infatti, le opportunità sprigionate da questo significato diventano, per molti loro “interpreti”, l’occasione per esasperare ulte209


riormente i comportamenti e le prassi che hanno alimentato lo stato di cose in cui ci troviamo. Assistiamo infatti quotidianamente a decine di esempi di veri e propri sciacalli della Crisi, capaci di cavalcare spregiudicatamente il diffuso senso di disagio, per veicolare subdolamente i propri interessi di parte. Così, per molte imprese di medie e grandi dimensioni la vera “opportunità” offerta dalla Crisi è diventata univocamente quella di dare una boccata d’ossigeno al proprio conto economico, giustificando licenziamenti e delocalizzazioni in massa, col pretesto di non essere altrimenti costretti a chiudere bottega. Più in generale, le lunghe file di disoccupati alle porte sono il pretesto ideale per insinuare minacciosamente, nella testa dei loro dipendenti, la legittima pretesa di carichi di lavoro sempre più insostenibili e di crescenti livelli di decentramento di responsabilità. Tutto questo, naturalmente, a parità di trattamento retributivo e, anzi, in un contesto di tutele progressivamente evanescenti.92 Per la classe politica, invece, la Crisi è stata l’imperdibile occasione per avviare una pressoché totale riverginazione di sé agli occhi dell’opinione pubblica, sostituendo alcuni parassiti e funzionari dello Stato piuttosto “stagionati”, con nuove e giovani leve, assai più scaltre nell’intercettare e capitalizzare la disaffezione dell’opinione pubblica, ma quasi sempre animate dalla medesima incapacità di incidere sostanzialmente sul senso civico dei cittadini, che è a nostro avviso l’unico elemento in grado di trasferire alla popolazione la diretta responsabilità del cambiamento necessario.93 In altri casi, la Crisi diventa l’insostituibile “opportunità” per speculare sulle disgrazie altrui, suggerendo soluzioni e terapie al dilagante stato di disagio preventivamente e abilmente indotto, 92. Si veda anche a questo proposito il capitolo 5 93. Si veda anche a questo proposito il capitolo 21.

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che non hanno davvero nulla da invidiare a quelle televendite tanto di moda negli anni Ottanta e Novanta, in cui con vere e proprie forme di abuso di credulità popolare si propinavano miracolosi unguenti per sciogliere i tessuti adiposi.94 Quelli che abbiamo appena ripercorso sono solo i più evidenti esempi di come, in molti casi, sia stato possibile trasformare la Crisi non in opportunità, quanto piuttosto in opportunismo. Le opportunità realmente offerte dagli attuali cambiamenti storici, economici e sociali vanno ricercate in un diverso approccio individuale alla vita. Che, poco a poco, radicandosi e diffondendosi nella società civile come un vero e proprio contagio benefico, porti sempre più persone ad adottare stili di vita che, contrariamente alla cultura dominante, siano autentici, responsabili e conseguentemente funzionali a una ricostituzione “dal basso” del nostro tessuto connettivo comunitario. La Crisi dovrebbe cioè essere concepita come un’irripetibile occasione per una profonda rinascita interiore, per l’applicazione di nuove forme di responsabilizzazione sociale, per dare nuova linfa e nuovo vigore a quella prospettiva di compattezza civica che in Italia, purtroppo, emerge soltanto in concomitanza dei Mondiali di calcio. Come possiamo, dunque, tentare di responsabilizzarci socialmente non soltanto ogni quattro anni? Non è certo necessario indossare un mantello rosso e una tuta blu con una “S” ricamata sul petto, per diventare degli eroi nazionali. Né, soprattutto, riteniamo ce ne sia alcun bisogno. In psicologia e sociologia, il concetto di “sociocentrismo” è riferito alla posizione di una persona, di un gruppo o di una comunità, per cui il proprio status sociale e le proprie opinioni rappresentano il punto di vista rispetto al quale vengono valutati

94. Si veda anche a questo proposito il capitolo 15.

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gli individui appartenenti ad altri gruppi sociali.95 In altri termini, essere sociocentrici significa acquisire la consapevolezza di rappresentare per gli altri un termine di paragone, un modello comportamentale capace cioè di ispirare gli stili di vita e le opinioni altrui. In un intervento al TED del 2008,96 Philip Zimbardo97 introdusse una nuova definizione di “eroismo sociale”, la quale prevedeva sostanzialmente tre requisiti: compiere azioni caratterizzate da uno straordinario impatto sociale, attivarsi quando tutti gli altri restano fermi e, appunto, sostituire il sociocentrismo all’egocentrismo. L’eroismo del terzo millennio è quello che, non ricevendo necessariamente legittimazione da alcun circuito mainstream, si risolve nella propria sfera comunitaria di appartenenza e che, da essa, è capace di propagarsi all’esterno. In questo modo, adottare comportamenti virtuosi all’interno della propria famiglia, del proprio condominio, tra i propri amici, qualche volta tra i colleghi può diventare di per se stesso un atto eroico. L’eroismo più sano e duraturo è quello che si esprime nel proprio quotidiano, soprattutto quando – senza clamori e rivendicazioni – diventa un modello per il prossimo. Che, osservandone e apprezzandone le favorevoli ripercussioni su di noi, si lascerà 95. Fonte: Zanichelli PRO. 96. “The psychology of evil” (La psicologia del male). 97. Psicologo statunitense divenuto celebre grazie al cosiddetto “esperimento carcerario di Stanford” condotto nel 1971 con lo scopo di indagare la deindividuazione soggettiva di persone appartenenti a gruppi sociali particolarmente compatti, e le degenerazioni comportamentali indotte dall’esasperazione del proprio ruolo sociale: all’interno di un carcere simulato, 24 studenti universitari di sesso maschile (scelti tra 75 volontari) furono equamente e casualmente ripartiti fra “prigionieri” (soggetti a regole molto stringenti) e “guardie”, a cui fu concessa ampia discrezionalità nel garantire il rispetto delle regole. Dopo soli pochi giorni, gli esaminatori furono costretti a interrompere l’esperimento a causa dei crescenti episodi di violenza e sadismo con cui le “guardie” soggiogavano i “prigionieri”, umiliandoli e costringendoli a pratiche oscene, col solo scopo di esercitare la propria autorità.

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trasportare e, ispirandosi agli stessi valori e adottando i medesimi stili di vita, diventerà a sua volta un modello per altre persone. Oggigiorno, il vero eroismo non richiede che si compiano imprese sensazionalistiche, non prevede che ci si imbarchi su un razzo per spaccare l’asteroide che con la sua traiettoria minaccia la Terra. No, niente di tutto questo. Perché quell’asteroide, anche se a volte ci fa comodo crederlo, non si trova nello spazio interstellare, ma è ben custodito “dentro” ciascuno di noi. E, come tale, da ciascuno di noi può essere distrutto.

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