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a colloquio con camillo bianchi architetto

DL. La sua formazione sembra aver rappresentato un momento cruciale per la definizione del suo futuro percorso. Prima la laurea in Ingegneria Civile-Edile a Padova (1959-‘60) con un relatore come Virgilio Vallot che tanto aveva progettato a Venezia, e successivamente la laurea in Architettura allo IUAV (1968-‘69) con due straordinari docenti-progettisti quali Ignazio Gardella e Costantino Dardi, sembrano permetterle di compiere fin dalle primissime opere scelte molto consapevoli e mature.

CB. Sono stato educato ai canoni rigidi del razionalismo, all’ideologia internazionalista del Bauhaus e del Movimento Moderno, al rispetto, etico ed esclusivo del rapporto forma/funzione, ai dettami ideologici del primo Le Corbusier, della Maison Domino, delle finestre a nastro e del tetto piano, ai materiali forti, al calcestruzzo di cemento armato lasciato a “faccia vista”. Centrale è stata l’assunzione critica, nei miei percorsi progettuali, delle ”sette invarianti” dell’architettura di Bruno Zevi, con la repulsione al monumentalismo e agli assi di simmetria, alla realizzazione delle forature dei prospetti secondo le diverse funzioni e i differenti orientamenti, alla composizione architettonica dettata dalla “pianta libera”, pedissequa rispetto ad ogni cambiamento funzionale interno all’edificio e, corrispondentemente, anche alla diversificazione volumetrica, negli alzati e nei prospetti, così da denunciare i mutamenti della vita contenuta in essi.

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CB. Infatti solo le certezze in negativo erano chiaramente costanti: il rifiuto di qualsiasi riferimento al passato, allo storicismo e alle tradizioni, ad ogni riferimento neoclassico, all’ornamento in ogni sua espressione (“Parole nel vuoto” e “Ornamenti e delitto” di Adolf Loos), alle simmetrie tipiche del monumentalismo e financo del cosiddetto “genius loci” nella memoria degli edifici. Li univa, peraltro, l’accettazione dei nuovi materiali: il “cemento” a vista, l’acciaio (erede delle costruzioni in ghisa), il vetro, derivati dalla rivoluzione industriale. I grandi maestri iscritti dalla storia dell’architettura in questa “rivoluzione” compositiva: il Wright dei capolavori, il Gropius del Bauhaus, il primo Le Corbusier, razionalista ortodosso, il Mies Van der Rhoe delle putrelle in acciaio e del vetro, così come Aalto, Kahn, Saarinen, Tange, esperimentano ciascuno architetture molto personali.

DL. Se penso alle relazioni tra il progetto del Monastero delle Clarisse e al progetto della scuola Bambini del Vajont a Longarone del 1964-’66, sembrano evidenti i punti di contatto con le riflessioni di Costantino Dardi che in quegli anni stava scrivendo il suo “Gioco sa-

DL. I dettami ideologici del Movimento Moderno non hanno mai trovato una loro sistematicità in uno “stile” unico e riconoscibile. Dai diversi interpreti del razionalismo, del funzionalismo, del brutalismo era condiviso solo il rifiuto di alcuni approcci.

piente - tendenze della nuova architettura”. Che ruolo hanno avuto gli insegnamenti dei grandi maestri quali Albini, Zevi, Gardella, Samonà, Calabi; e poi Scarpa, Tafuri, Zevi, Aymonino, De Carlo, De Luigi, e le tante figure di spicco del dibattito italiano che hanno gravitato nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia?

CB. Il progetto del monastero delle Clarisse, a San Donà di Piave (1968-’69), firmato con Antonio Zambusi, è proprio la risposta alle loro sollecitazioni e istanze, realizzato dopo la laurea in ingegneria mentre frequentavo le lezioni allo IUAV. Il progetto è improntato alla cultura della “pianta libera” e al rispetto assoluto del rapporto forma/funzione. Dall’esame delle piante e dei prospetti, si evince come ogni funzione, dalle più rilevanti, quale la bocca d’apertura verso l’alto del presbiterio, sopra l’altare, il volume del Santissimo, il coro per le suore, il coretto per le novizie, la serie delle celle quasi sospese strutturalmente al 1° piano; alle più semplici, come il confessionale segnato da un’apposita bocca di lupo, o il singolo posto a tavola scandito modularmene nel refettorio, o la distribuzione in pianta di ogni momento vitale all’interno delle celle (il letto, il lavabo, il tavolo di studio o l’inginocchiatoio, posto in corrispondenza alla profonda scanalatura inclinata verso il finestrino posto in alto: “quasi una rampa di lancio per le preghiere”), ognuna di queste funzioni trovano sia in pianta che negli alzati una specifica evidenziazione. Inoltre questo manufatto (in gran parte realizzato, allora, e poi purtroppo in

parte demolito) è stato costruito in calcestruzzo di cemento a “faccia a vista”, gettato in casseri di tavole di legno, in ossequio ad un “brutalismo” derivato da tante realizzazioni di Le Corbusier (Unité d’habitation, la Tourette, Chandigarh), di Kenzo Tange ed altri autori di quel tempo. Non è un caso che il tema della tesi di laurea, con relatori Ignazio Gardella e Costantino Dardi, venne scelta nell’intento di confrontarci in ambito universitario con un nostro progetto reale: la rielaborazione critica del progetto del Monastero delle Clarisse, la cui costruzione era da poco terminata. Allora le proposte rielaborate del progetto del monastero, alle quali giunge la tesi di laurea, semplificano grandemente il disegno dell’edificio, sia in pianta che nei prospetti. In sei diverse soluzioni si risolve il problema della clausura separando gli spazi a servizio da quelli serviti (secondo una delle regole di Louis Kahn). Un muro dal semplice tracciato quadrato, o rettangolare, o triangolare, a servizio del monastero, impedisce lo sguardo dalle finestre del convento. Le forme delle nuove proposte sono semplici e chiaramente leggibili, liberate dall’assillo della pianta libera e del mero rapporto forma/funzione, rispondendo a composizioni logiche e a geometrie elementari.

DL. Oltre al Monastero delle Clarisse, altri suoi progetti sono rapportabili al funzionalismo e alla pianta libera, quali la Cappella al Passo della Mendola (1965) o la casa Chiffi-Napolitani (1966), sempre progettate con Antonio Zambusi. Nel 1968, era uscito il numero 139 monografico di Architecture d’Au-

jourd’hui: “Tendences”, e Siegfried Giedion scrive il saggio “Jorn Utzon and the third generation”, in Zodiac n. 14 (aprile 1965), dedicato alla

terza generazione degli architetti moderni. Giedion riassumeva in otto punti tali nuove tendenze. Tra questi viene sottolineato un più forte legame col passato, un rapporto più libero tra lo spazio interno ed esterno e, soprattutto, il diritto dell’espressione al di sopra della pura funzione. Anche questi elementi sembrano essere particolarmente presenti nel suo lavoro di progettista.

CB. Il retroterra ideologico e morfologico del Movimento Moderno ormai si era modificato e con questo anche le nostre sperimentazioni progettuali. Si respirava una nuova stagione e il dibattito internazionale su riviste e saggi era a noi molto presente. Nikolaus Pevsner aveva tentato di difendere ancora l’ortodossia e definisce anti-pioneers i protagonisti della terza generazione: Stirling e Gowan per il loro neo-espressionismo, Denys Lasdun per il culto della propria personalità, Paul Rudolph perché prevarica le funzioni nella scuola di Yale, Eero Saarinen e Philip Johnson per il loro sofisticato eclettismo; Le Corbusier per il suo stile ultimo sempre più individuale: “Ronchamp significa finestre messe a caso e forme scultoree, non più rappresentative di Le Corbusier architetto”. Non riuscendo, Pevsner, a comprendere la forza liberatoria dalla rigidità del puro razionalismo, dirompente, creatrice di un capolavoro assoluto quale la Cappella di Ronchamp.

La Nuova Architettura adottava una mistica plastica innovatrice: viene esaltato lo sbalzo e la cascata dei volumi, la parete a gradoni, la volta, la cupola, la piramide vengono riscoperti, i solidi platonici alludono ad un neo monumentalismo, non tollerato prima. Costantino Dardi scriveva in quegli anni: ”La Nuova Architettura compie un’opera di desemantizzazione sul materiale linguistico dell’architettura moderna: la correlazione segno-significato, come il rapporto forma-funzione, elementi linguistici profondamente caratterizzanti il Movimento Moderno, le finestre a nastro, subiscono ora una profonda modificazione: un progressivo allentamento delle condizioni di necessarietà” Il “diritto dell’espressione al di sopra della pura funzione” comportava una composizione di oggetti e di architetture che riscoprono forme compatte, con una logica geometrica a volte elementare da cui deriva una chiara leggibilità dell’opera, alle volte anticipatrice del risultato finale, che la cultura funzionalista e della pianta libera non ammetteva.

DL. In quali altri progetti possiamo cogliere questa sua ricerca attenta e incuriosita di nuove geometrie compositive nello sviluppo del progetto?

CB. A questi nuovi canoni di tendenza della “Nuova Architettura” si ispirano ad esempio i progetti della piccola casa nera di Teolo (1962), delle abitazioni gemelle Mattioli-Zampirollo (1972). La “perla nera”, cosiddetta, a Teolo è

il risultato di una divertita composizione, piena di lineamenti geometrici, di assi cartesiani od obliqui, nonché di aggettivazioni particolari giustapposte al quadrato di base, o al trapezio dell’alzato. L’espressione del prospetto laterale, un semplice trapezio, che si alza dal terreno privo di ogni minimo sporto di copertura, a formare quindi un prisma puro ispirato a tante modeste costruzioni rurali venete, assume nel lato est una ludica espressione antropologica, con occhi, naso e ghigno del portico. Il tutto nero all’esterno e bianco all’interno, le porte laccate color ciclamino e le tubazioni del riscaldamento ad aria verde-mela, completano il gioco. La casa Mian (1972) è un chiaro risultato di due prismi trapezi che si intersecano nei prospetti laterali, quasi ciechi, con precise rigature strutturali dei getti di calcestruzzo in casseri di legno. Il prospetto sud-ovest si spalanca invece alla luce, con logge e portici finestrati.

DL. Questo momento di grande fervore innovatore dei primi anni ’60 (il saggio del Giedion su Zodiac è del 1965), presenta forti elementi di interesse poiché, pur partendo da presupposti simili a quelli del “postmodern” nel superamento dell’internazionalismo del Movimento Moderno, si giunge ad esiti morfologici che non ripropongono l’ennesimo resuscitare di stilemi classici, quali il timpano, il cornicione modanato, addirittura le colonne e i capitelli presenti nei modelli delle “via Novissima” (Biennale, Ve 1980) o nella Piazza d’Italia (1975-78) di Charles Moore o nella The Allen Memorial (1973-76) di Robert Venturi, se pur

CB. Infatti era forte l’attenzione di noi tutti ai nuovi risultati, logici e compatti, dalle forme chiare e di alta leggibilità, quali la “sequenza stroboscopica delle volte dell’Opera House di Jorn Utzon a Sidney” o la euclidea perfezione della proposta di Ignazio Gardella per un nuovo teatro a Vicenza, o nel monumentale gioco di geometrie e di luce nel complesso di Kahn a Dacca, o, ancora, nella ormai lontana, ma attualissima riproposizione di un “novello Partenone”, nella forza sovrumana del “colonnato” formato da lastre plasticamente aggressive, del palazzo dell’assemblea di Le Corbusier a Chandigarh. Uno degli otto punti di Giedion recita: “un più forte rapporto col passato, espresso non in forma ma nel senso di un rapporto interiore e di un desiderio di continuità”. In questa nuova realtà operano i progetti della “Nuova Architettura”, senza bisogno di riproporre aggettivazioni neo classiche solo informate ad uno storicismo, quello del “post moderno” più ostentato, che casca facilmente nel vernacolo o addirittura nel falso.

DL. Negli ultimi anni le sue opere hanno risentito del dibattito progettuale contemporaneo, che ritroviamo ad esempio nello strutturalismo tecnologico, nelle sedi della Superauto (1998 e 2002) progettate in metallo e vetro, o nella passerella sul Piovego (1996), o sembrano es-

carichi di ironia, come nella finta chiesa, e finta morfologia monumentale di James Stirling a Berlino;

sere influenzate da una soluzione organica come nel caso della sede del dipartimento di Neuroscienze per l’Università di Padova (2010).

CB. Il manufatto progettato per l’Università di Padova, tutto rivestito in zinco-titanio, contrappone chiaramente la testata didattica convessa, nera, e il corpo retrostante, grigio, degli studi e dei laboratori. In fondo è un erede lontano dei progetti modernisti dei miei primi anni di attività, ma conserva vivo il rigore e la libertà espressiva. La genesi di questo edificio, che ospita geologia e mineralogia è una metafora che mi ricorda i luoghi alpini ove tali discipline si esercitano. Il progetto d’architettura è spesso autobiografico; questo volume nero e ricurvo della testata rappresenta la montagna, scura e severa, di basalto, dei massicci occidentali ove mio padre, professore di Mineralogia, aveva effettuato molte delle sue ricerche e dei suoi rilevamenti, portando spesso moglie e figli, ancora bambini, a sostare alle soglie dei nevai mentre dall’alto delle rocce echeggiavano i colpi di martello del professore. Molto diverso è stato invece il lavoro di restauro del palazzo antico del Bo (1989), e poi del Museo della Medicina e della Salute (2012), nei quali la lettura dell’edificio, delle stratificazioni e dei materiali, delle spazialità e della morfologia è stato prioritario rispetto alla necessità di esprimere nuove istanze compositive e formali.

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