D.LONGHI, Progetti per la città: Camillo Bianchi

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progetti per la città camillo bianchi davide longhi

progetti per la città camillo bianchi di Davide Longhi campagna fotografica Stefano Aiti Urban Press www.urbanpress.it coordinamento editoriale Riccardo Rampazzo impaginazione Denis Bordignon Elena Spolaore Francesco Zampiero stampa Grafiche Scarpis, Conegliano prima edizione 2012 © 2012 Urban Press ISBN 978-88-905973-6-7

progetti per la città davide longhi

camillo bianchi

indice
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forme della materia
a colloquio con camillo bianchi architetto
edifici residenziali
edifici commerciali-industriali
edifici pubblici e per il culto
profilo biografico

forme della materia

Ho conosciuto Camillo Bianchi tanti anni fa. Ero stato nel suo dipartimento di progettazione a Padova, dove ancora studente, ebbi la possi bilità di accedere a una parte dei suoi interessantissimi progetti. Dopo venti anni da quel fortuito incontro, durante una vernice di una mostra di gioielli contemporanei a Padova, lo incontro di nuovo. Stavo già realizzando il censimento dell’architettura contemporanea nel Veneto e averlo ritrovato proprio in quel momento mi ha spinto a chiedergli di rimostrami i progetti di allora con rinnovata curiosità. Le sue prime opere sono brutali, sincere, dirette. Non si pongono mai come risultato di mediazione né di compromesso. Da studente aveva frequentato Carlo Scarpa presso la sua casa di Asolo, possibilità che gli ha permesso di conoscere direttamente il maestro e da lui apprendere la dimensione di ricerca e innovazione, il contrappunto nell’uso dei materiali, la conoscenza del cantiere e delle sue problematiche. Sono interessanti esempi del suo lavoro in particolar modo i progetti per le residenze unifamiliari dove le bucature sono sempre occasione non solo di dialogo con l’esterno, ma un modo per conferire plasticità ai semplici volumi impiegati nella composizione. Camillo Bianchi è conosciuto principalmente come docente dell’Università degli Studi di Padova ma in realtà, forse, è in primo luogo un progettista che ha lasciato numerose traccie della sua rigorosa riflessione disciplinare soprattutto tra le pieghe della città di Padova, sui Colli Euganei, San Donà di Piave, Liguria e Trentino.

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Il bisogno forte di legare la riflessione accademica ad una verifica diretta sul campo di principi e teorie, lo ha spinto ad insegnare a “tempo definito” così da potersi confrontare direttamente con progetti reali, legati alle questioni dell’abitare, dell’edificio pubblico e di quello commerciale.

La freschezza della composizione, l’uso consapevole e critico dei materiali, la raffinatezza del dettaglio, la forza e la brutalità del calcestruzzo hanno fatto di Camillo Bianchi un interessantissimo interprete dell’architettura veneta dagli anni ‘70 ad oggi. Il suo lavoro è una voce, colta e chiara, del dibattito che investe il Movimento Moderno, in un territorio, quale quello Veneto, dove tali valori avevano trovato pochi interpreti.

Si mette alla ricerca di un punto di incontro tra razionalismo, funzionalismo, brutalismo che servisse a superare la monolitica espressione modernista. Ha avuto occasione di incontrare Frank Lloyd Wright, Le Corbusier (sia a Venezia che a Parigi), Louis Khan e, con Gabriele Sci memi, è stato ospite nella casa di Walter Gropius ad Harvard (1963). Da questi grandi maestri internazionali trae spunti di riflessione che ne influenzano profondamente le scelte progettuali e didattiche di tutto il suo inizio di carriera. Il suo persorso progettuale, che per anni si è intrecciato profondamente a quello di Antonio Zambusi, lo ha reso particolarmente legato al suo collega con il quale ancora ingegnere, ha iniziato il suo persorso

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di progettista. A cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, con una lucida contemporaneità dell’approccio al progetto si confronta con nuove tematiche e rinnovati approcci al progetto. Il brutalismo lascia spazio all’uso delle pelli della contemporaneità: superfici metalliche e vetro. Oltre alle esperienze su edifici commerciali, Camillo Bianchi, realizza una serie di progetti per l’Università di Padova prima a fianco di Giulio Brunetta, firmando il volume in calcestruzzo sulle mura veneziane dell’ospedale, le lavanderie e gli stabulari, poi il Collegio Gregorianum. Succesivamente realizza il Piano di sviluppo sul Piovego di Elettrotec nica, Elettronica e Costruzioni marittime, la passerella sul Piovego, e dopo il restauro delle facciate del Bo, il nuovo Museo della Medicina. Interessante rimane l’esperienza della progettazione della nuova sede del dipartimento di Neuroscienze. Il monolitico complesso addensa, in una autera pianta rettangolare con due cortili interni, spazi per la ricerca e per la didattica rinunciando alla dichiarazione in facciata della struttura distributiva interna. La raffinata facciata scura in zinco-titanio è un pretesto per sperimentare nuove geometrie e traspare quasi il bisogno di una austera semplicità dichiarata dalla fusione tra copertura e facciate.

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a colloquio con camillo bianchi architetto

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DL. La sua formazione sembra aver rappresentato un momento cruciale per la definizione del suo futuro percorso. Prima la laurea in In gegneria Civile-Edile a Padova (1959-‘60) con un relatore come Virgilio Vallot che tanto aveva progettato a Venezia, e successivamente la laurea in Architettura allo IUAV (1968-‘69) con due straordinari docenti-progettisti quali Ignazio Gardella e Costantino Dardi, sembrano permetterle di compiere fin dalle primissime opere scelte molto consapevoli e mature.

CB. Sono stato educato ai canoni rigidi del razionalismo, all’ideologia internazionalista del Bauhaus e del Movimento Moderno, al rispetto, etico ed esclusivo del rapporto forma/funzione, ai dettami ideologici del primo Le Corbusier, della Maison Domino, delle finestre a nastro e del tetto piano, ai materiali forti, al calcestruzzo di cemento armato lasciato a “faccia vista”. Centrale è stata l’assunzione critica, nei miei percorsi progettuali, delle ”sette invarianti” dell’architettura di Bruno Zevi, con la repulsione al monumen talismo e agli assi di simmetria, alla realizzazione delle forature dei prospetti secondo le diverse funzioni e i differenti orientamenti, alla composizione architettonica dettata dalla “pianta libera”, pedissequa rispetto ad ogni cambiamento funzionale interno all’edificio e, corrispondentemente, anche alla diversificazione volumetrica, negli alzati e nei prospetti, così da denunciare i mutamenti della vita contenuta in essi.

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DL. I dettami ideologici del Movimento Moderno non hanno mai trovato una loro sistematicità in uno “stile” unico e riconoscibile. Dai diversi interpreti del razionalismo, del funzionalismo, del brutalismo era condiviso solo il rifiuto di alcuni approcci.

CB. Infatti solo le certezze in negativo erano chiaramente costanti: il rifiuto di qualsiasi riferimento al passato, allo storicismo e alle tradizioni, ad ogni riferimento neoclassico, all’ornamento in ogni sua espressione (“Parole nel vuoto” e “Ornamenti e delitto” di Adolf Loos), alle simmetrie tipiche del monumentalismo e financo del cosiddetto “genius loci” nella memoria degli edifici. Li univa, peraltro, l’accettazione dei nuovi materiali: il “cemento” a vista, l’acciaio (erede delle costruzioni in ghisa), il vetro, derivati dalla rivoluzione industriale.

I grandi maestri iscritti dalla storia dell’architettura in questa “rivoluzione” compositiva: il Wright dei capolavori, il Gropius del Bauhaus, il primo Le Corbusier, razionalista ortodosso, il Mies Van der Rhoe delle putrelle in acciaio e del vetro, così come Aalto, Kahn, Saarinen, Tange, esperimentano ciascuno architetture molto personali.

DL. Se penso alle relazioni tra il progetto del Monastero delle Clarisse e al progetto della scuola Bambini del Vajont a Longarone del 1964-’66, sembrano evidenti i punti di contatto con le riflessioni di Costantino Dardi che in quegli anni stava scrivendo il suo “Gioco sa

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piente - tendenze della nuova architettura”. Che ruolo hanno avuto gli insegnamenti dei grandi maestri quali Albini, Zevi, Gardella, Samonà, Calabi; e poi Scarpa, Tafuri, Zevi, Aymonino, De Carlo, De Luigi, e le tante figure di spicco del dibattito italiano che hanno gravitato nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia?

CB. Il progetto del monastero delle Clarisse, a San Donà di Piave (1968-’69), firmato con Antonio Zambusi, è proprio la risposta alle loro sollecitazioni e istanze, realizzato dopo la laurea in ingegneria mentre frequentavo le lezioni allo IUAV. Il progetto è improntato alla cultura della “pianta libera” e al rispetto assoluto del rapporto forma/funzione. Dall’esame delle piante e dei prospetti, si evince come ogni funzione, dalle più rilevanti, quale la bocca d’apertura verso l’alto del presbiterio, sopra l’altare, il volume del Santissimo, il coro per le suore, il coretto per le novizie, la serie delle celle quasi sospese strutturalmente al 1° piano; alle più semplici, come il confessionale segnato da un’apposita bocca di lupo, o il singolo posto a tavola scandito modularmene nel refettorio, o la distribuzione in pianta di ogni momento vitale all’interno delle celle (il letto, il lavabo, il tavolo di studio o l’inginocchiatoio, posto in corrispondenza alla profonda scanalatura inclinata verso il finestrino posto in alto: “quasi una rampa di lancio per le preghiere”), ognuna di queste funzioni trovano sia in pianta che negli alzati una specifica evidenziazione. Inoltre questo manufatto (in gran parte realizzato, allora, e poi purtroppo in

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parte demolito) è stato costruito in calcestruzzo di cemento a “faccia a vista”, gettato in casseri di tavole di legno, in ossequio ad un “brutalismo” derivato da tante realizzazioni di Le Corbusier (Unité d’habitation, la Tourette, Chandigarh), di Kenzo Tange ed altri autori di quel tempo. Non è un caso che il tema della tesi di laurea, con relatori Ignazio Gardella e Costantino Dardi, venne scelta nell’intento di confrontarci in ambito universitario con un nostro progetto reale: la rielaborazione critica del progetto del Monastero delle Clarisse, la cui costruzione era da poco terminata. Allora le proposte rielaborate del progetto del monastero, alle quali giunge la tesi di laurea, semplificano grandemente il disegno dell’edificio, sia in pianta che nei prospetti. In sei diverse soluzioni si risolve il problema della clausura separando gli spazi a servizio da quelli serviti (secondo una delle regole di Louis Kahn). Un muro dal semplice tracciato quadrato, o rettangolare, o triangolare, a servizio del monastero, impedisce lo sguardo dalle finestre del convento. Le forme delle nuove proposte sono semplici e chiaramente leggibili, liberate dall’assillo della pianta libera e del mero rapporto forma/funzione, rispondendo a composizioni logiche e a geometrie elementari.

DL. Oltre al Monastero delle Clarisse, altri suoi progetti sono rapportabili al funzionalismo e alla pianta libera, quali la Cappella al Passo della Mendola (1965) o la casa Chiffi-Napolitani (1966), sempre progettate con Antonio Zambusi. Nel 1968, era uscito il numero 139 monografico di Architecture d’Au

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jourd’hui: “Tendences”, e Siegfried Giedion scrive il saggio “Jorn Utzon and the third generation”, in Zodiac n. 14 (aprile 1965), dedicato alla terza generazione degli architetti moderni. Giedion riassumeva in otto punti tali nuove tendenze. Tra questi viene sottolineato un più forte legame col passato, un rapporto più libero tra lo spazio interno ed esterno e, soprattutto, il diritto dell’espressione al di sopra della pura funzione. Anche questi elementi sembrano essere particolarmente presenti nel suo lavoro di progettista.

CB. Il retroterra ideologico e morfologico del Movimento Moderno ormai si era modificato e con questo anche le nostre sperimentazioni progettuali. Si respirava una nuova stagione e il dibattito internazionale su riviste e saggi era a noi molto presente. Nikolaus Pevsner aveva tentato di difendere ancora l’ortodossia e definisce anti-pioneers i protagonisti della terza generazione: Stirling e Gowan per il loro neo-espressionismo, Denys Lasdun per il culto della propria personalità, Paul Rudolph perché prevarica le funzioni nella scuola di Yale, Eero Saarinen e Philip Johnson per il loro sofisticato eclettismo; Le Corbusier per il suo stile ultimo sempre più individuale: “Ronchamp significa finestre messe a caso e forme scultoree, non più rappresentative di Le Corbusier architetto”. Non riuscendo, Pevsner, a comprendere la forza liberatoria dalla rigidità del puro razionalismo, dirompente, creatrice di un capolavoro assoluto quale la Cappella di Ronchamp.

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La Nuova Architettura adottava una mistica plastica innovatrice: viene esaltato lo sbalzo e la cascata dei volumi, la parete a gradoni, la volta, la cupola, la piramide vengono riscoperti, i solidi platonici alludono ad un neo monumentalismo, non tollerato prima.

Costantino Dardi scriveva in quegli anni: ”La Nuova Architettura compie un’opera di desemantizzazione sul materiale linguistico dell’architettura moderna: la correlazione segno-significato, come il rapporto forma-funzione, elementi linguistici profondamente caratterizzanti il Movimento Moderno, le finestre a nastro, subiscono ora una profonda modificazione: un progressivo allentamento delle condizioni di necessarietà”

Il “diritto dell’espressione al di sopra della pura funzione” comportava una composizione di oggetti e di architetture che riscoprono forme compatte, con una logica geometrica a volte elementare da cui deriva una chiara leggibilità dell’opera, alle volte anticipatrice del risultato finale, che la cultura funzionalista e della pianta libera non ammetteva.

DL. In quali altri progetti possiamo cogliere questa sua ricerca attenta e incuriosita di nuove geometrie compositive nello sviluppo del progetto?

CB. A questi nuovi canoni di tendenza della “Nuova Architettura” si ispirano ad esempio i progetti della piccola casa nera di Teolo (1962), delle abitazioni gemelle Mattioli-Zampirollo (1972). La “perla nera”, cosiddetta, a Teolo è

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il risultato di una divertita composizione, piena di lineamenti geometrici, di assi cartesiani od obliqui, nonché di aggettivazioni particolari giustapposte al quadrato di base, o al trapezio dell’alzato. L’espressione del prospetto laterale, un semplice trapezio, che si alza dal terreno privo di ogni minimo sporto di copertura, a formare quindi un prisma puro ispirato a tante modeste costruzioni rurali venete, assume nel lato est una ludica espressione antropologica, con occhi, naso e ghigno del portico. Il tutto nero all’esterno e bianco all’interno, le porte laccate color ciclamino e le tubazioni del riscaldamento ad aria verde-mela, completano il gioco. La casa Mian (1972) è un chiaro risultato di due prismi trapezi che si intersecano nei prospetti laterali, quasi ciechi, con precise rigature strutturali dei getti di calcestruzzo in casseri di legno. Il prospetto sud-ovest si spalanca invece alla luce, con logge e portici finestrati.

DL. Questo momento di grande fervore innovatore dei primi anni ’60 (il saggio del Giedion su Zodiac è del 1965), presenta forti elementi di interesse poiché, pur partendo da presupposti simili a quelli del “postmodern” nel superamento dell’internazionalismo del Movimento Moderno, si giunge ad esiti morfologici che non ripropongono l’ennesimo resuscitare di stilemi classici, quali il timpano, il cornicione modanato, addirittura le colonne e i capitelli presenti nei modelli delle “via Novissima” (Biennale, Ve 1980) o nella Piazza d’Italia (1975-78) di Charles Moore o nella The Allen Memorial (1973-76) di Robert Venturi, se pur

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carichi di ironia, come nella finta chiesa, e finta morfologia monumentale di James Stirling a Berlino;

CB. Infatti era forte l’attenzione di noi tutti ai nuovi risultati, logici e compatti, dalle forme chiare e di alta leggibilità, quali la “sequenza stroboscopica delle volte dell’Opera House di Jorn Utzon a Sidney” o la euclidea perfezione della proposta di Ignazio Gardella per un nuovo teatro a Vicenza, o nel monumentale gioco di geometrie e di luce nel complesso di Kahn a Dacca, o, ancora, nella ormai lontana, ma attualissima riproposizione di un “novello Parteno ne”, nella forza sovrumana del “colonnato” formato da lastre plasticamente aggressive, del palazzo dell’assemblea di Le Corbusier a Chandigarh. Uno degli otto punti di Giedion recita: “un più forte rapporto col passato, espresso non in forma ma nel senso di un rapporto interiore e di un desiderio di continuità”. In questa nuova realtà operano i progetti della “Nuova Architettura”, senza bisogno di riproporre aggettivazioni neo classiche solo informate ad uno storicismo, quello del “post moderno” più ostentato, che casca facilmente nel vernacolo o addirittura nel falso. DL. Negli ultimi anni le sue opere hanno risentito del dibattito progettuale contemporaneo, che ritroviamo ad esempio nello strutturalismo tecnologico, nelle sedi della Superauto (1998 e 2002) progettate in metallo e vetro, o nella passerella sul Piovego (1996), o sembrano es-

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sere influenzate da una soluzione organica come nel caso della sede del dipartimento di Neuroscienze per l’Università di Padova (2010).

CB. Il manufatto progettato per l’Università di Padova, tutto rivestito in zinco-titanio, contrappone chiaramente la testata didattica convessa, nera, e il corpo retrostante, grigio, degli studi e dei laboratori. In fondo è un erede lontano dei progetti modernisti dei miei primi anni di attività, ma conserva vivo il rigore e la libertà espressiva. La genesi di questo edificio, che ospita geologia e mineralogia è una metafo ra che mi ricorda i luoghi alpini ove tali discipline si esercitano. Il progetto d’architettura è spesso autobiografico; questo volume nero e ricurvo della testata rappresenta la montagna, scura e severa, di basalto, dei massicci occidentali ove mio padre, professore di Mineralogia, aveva effettuato molte delle sue ricerche e dei suoi rilevamenti, portando spesso moglie e figli, ancora bambini, a sostare alle soglie dei nevai mentre dall’alto delle rocce echeggiavano i colpi di martello del professore. Molto diverso è stato invece il lavoro di restauro del palazzo antico del Bo (1989), e poi del Museo della Medicina e della Salute (2012), nei quali la lettura dell’edificio, delle stratificazioni e dei materiali, delle spazialità e della morfologia è stato prioritario rispetto alla necessità di esprimere nuove istanze compositive e formali.

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edifci residenziali

Il tema della residenza unifamiliare è particolarmante significativo nell’opera di Ca millo Bianchi. Risulta particolarmente chiara l’intenzione di cercare un equlibrio volumetrico non ovvio. La struttura funzionale interna agisce spesso sull’involucro dichiarandone all’esterno la propria presenza. Le bucature sono un elemento centrale nella sua definizione volumetrica, utilizzate in contrappunto a volumi semplici, nella definizione di un rapporto dinamico tra l’interno e l’esterno della casa. Dal 1965 al 1972 l’intensa progettazione a due mani con Antonio Zambisi produce interessanti edifici. La casa Cresti, è il primo edificio sperimentale realizzato dai pro gettisti in calcestruzzo a “faccia vista” con un chiaro linguaggio modernista ricco di elementi compositi: finestre d’angolo, asimmetrie, articolazione volumetriche, bucature tonde e una canna fumaria a sezione circolare sulla facciata principale. Molto più elegante e sobria la composizione della casa Chiffi Napolitani del 1965, dove l’articolazione morfologica è ulteriormante accentuata dalle volumetrie scure e dagli infissi bianchi che la contrappuntano. Casa Bianchi-Bonaiti-Lucca del 1972, mutua alcuni caratteri dalla casa estiva di Aal to del 1953, ma invece di organizzarsi intorno ad un patio eccentrico si compatta realizzando un portico a sua volta eccentrico. Il grande volume scuro con tetto a monofalda risulta inserirsi nel contesto con grande violenza. Il paesaggio circostante

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è dichiaratamente altra cosa dal sempli ce volume e le bucature sembrano più punti di avvistamento che aperture verso il paesaggio.

Le case Mattioli-Bettini-Zampirollo raccontano altri percorsi più urbani. Il grande volume giorno interno a più altezze, è l’occasione per una introspezione continua a livelli diversi tra le diverse parti della casa.

Bianchi, limitato nella ricerca formale volumetrica, nella casa Santinello del 1976, sviluppa con grande eleganza il tema del recupero di un edificio storico. Il progettista spinge quindi la sua ricerca all’interno del fabbricato realizzando arredi, scalina te e partizioni di grande eleganza. Un maturo e consapevole uso dei materiali qui il cotto per il pavimento, il legno per gli arredi fissi e i carabottini della scala, il ferro per alcune strutture a vista e il calcestruzzo fanno di questo lavoro un riuscito esempio di reinterpretazione dello spazio abitativo.

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Rimane però particolaremnte significa tiva l’esperienza progettuale della casa Mian. Torresani del 1978. Il volume completamente in calcestruzzo rinuncia al tetto piano per imbattersi in una sequenza di falde contrapposte pro spetticamente. La composizione dei due volumi accostati, tramite il taglio dell’in gresso, sembra infrangersi facendo na scere una serie di volumi semplici. L’ele gante sequenza di bucature sembrano incidere chirurgicamente le superfici piane e lasciare poco spazio alla permeabilità. Le finestre a nastro dichiarano una intenzione grafica della composizione che diventa matrice dello spazio esterno senza confondersi con esso.

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casa Bonaiti

1962

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casa Cresti

1965

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via Portogruaro 17, Padova con Antonio Zambusi foto Antonio Zambusi

casa Chiff

Napolitani

1966

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via Vicenza 10, Selvazzano Dentro (PD) con Antonio Zambusi foto Stefano Aiti
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casa

Bianchi Bonaiti Lucca

1972

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foto Camillo Bianchi e Stefano Aiti
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case

Mattioli Bettini Zampirollo

1972

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via Castelfranco 36, Padova con Antonio Zambusi foto Camillo Bianchi e Stefano Aiti

casa

Faelli

1974

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via Santa Sofia 81, Padova con Antonio Zambusi foto Stefano Aiti

casa

Santinello

1976

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casa Mian Torresani

1978

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foto Camillo Bianchi e Stefano Aiti

casa Pedrini

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via T. Vecellio 20, Camposampiero (PD) con Paolo Rigamo 2001 foto Stefano Aiti

edifci industriali e commerciali

I principali temi progettuali che questo capitolo affronta sono quelli degli edifici indu striali e di quelli commerciali. È evidente la distanza stilistica e la matrice compositiva tra i due diversi tipi di progetti forse per la profonda distanza temporale o forse per il fatto che negli edifici industriali Camillo Bianchi lavora in team nello studio di architettura Archstudio, costituito tra gli anni ‘70 e l’80, oltre che da lui anche da Marilena Boccato, Gian Nicola Gigante e Antonio Zambusi. Gli edifici industriali come le trafilerie-viterie Bonaiti di Mestrino del 1968, gli stessi ai quali Bianchi e Zambusi avevano progettato la residenza di campagna, risentono del brutalismo di quegli anni, che si rafforza ancor più quando il profilo lungo del fabbrica to si confronta con la superficie appena inclinata del terreno circostante. Calcestruzzo, finestre a nastro, portici racchiusi da setti, camini cilindrici e tetto piano sono elementi linguistici irrinunciabili per un progetto industriale. Molto duro e geometrico è invece lo sviluppo planimetrico del complesso delle industrie ceramiche Sicart, importante ditta dal ricercato design che produceva oggetti per la casa e l’ufficio. La Sicart ebbe una stretta collaborazione con Antonio Zambusi, che negli anni si distinguerà, nel panorama italiano, per l’enorme produzione di prodotti industriali. I volumi che lo scostituiscono sono due: uno più regolare, l’altro cubico, tagliato diagonalmente dal vano scala profondamente inciso dal taglio ed evidenziato dalle vetrate d’angolo.

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La struttura esterna, completamente in calcestruzzo, tradisce la matrice stilisti ca del gruppo di progettisti collocando l’opera tra i progetti brutalisti. Di grande valore formale è l’industria Gasparello di Casale sul Sile del 1980, un enorme complesso produttivo su tre livelli che tradisce espliciti legami con il Movimento Moderno. La grande struttu ra, pensata quale sede del mobilificio, è completamente in calcestruzzo a “faccia vista” con lunghe finestre a nastro e prismi tronco cilindrici posti sulla copertura per l’illuminazione del piano più altro.

I progetti di concessionarie automobilistiche nell’area patavina, sono un maturo esempio di progetto contemporaneo legato ad un uso consapevole dei materiali: il metallo e il vetro. Soprattutto nella progettazione della concessionaria Volkswagen il rivolgere al tracciato ferroviario la principale facciata è stata una scelta determinante. In virtù del fatto che la viabilità dell’area, legata alla dismissione di alcuni fabbricati non

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più produttivi, era particolarmente fram mentata, l’edificio comunica direttamen te con il passeggero in treno, valori quali la tecnologia e il design innovativo del fabbricato, e quindi del marchio.

La sua figura compositiva impiega ritmi di pieni e vuoti, ma soprattutto di rimandi a quei tagli brutalisti delle superfici, oggi ingentiliti dalla superfici riflettenti e opa che, che danno profondità e equilibrio alla composizione

La concessionaria di Mestrino, qualche anno dopo, recupera anche la semplicità volumetrica della composizione, articolando i volumi in due parti, uno opaco ma riflettente, tramite l’uso di rivestimenti metallici, l’altro trasparente e luminoso nelle ore notturne, tramite le superfici vetrate continue, coperte da imponeti frangisole per proteggerle dal soleggiamento durante il giorno.

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trafilerie-viterie Bonaiti

1968

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foto Stefano Aiti
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industria ceramica Sicart

1968

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foto Stefano Aiti

industria Gasparello

1980

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via Nuova Trevigiana 112, Casale sul Sile (TV) Archstudio (C. Bianchi, M. Boccato, G.N. Gigante, A. Zambusi) foto Antonio Zambusi

concessionaria Audi Superauto

1995

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via N. Tommaseo 80, Padova con Enrico Pietrogrande e Ernesto Trapanese foto Stefano Aiti

concessionaria Superauto

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via Goldoni 12, Padova con Ernesto Trapanese 1998 foto Ernesto Trapanese, Davide Longhi e Stefano Aiti

concessionaria Skoda Superauto

1998

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via Ricci 4, Padova con Ernesto Trapanese foto Stefano Aiti

concessionaria Superauto

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via M. Polo 2, Mestrino (PD) con Ernesto Trapanese 2002 foto Stefano Aiti

edifci pubblici e per il culto

Il capitolo presenta alcuni lavori significativi della produzione di Bianchi nel quale è evidente la riflessione intorno al tema forma-funzione. Negli edifici per il culto notiamo una specifica attenzione alla essenzialità dei volumi e dell’uso dei materiali usati in contrappunto ad una evidente caratterizzazione spaziale, nella quale l’elemento mistico è interpretato dallo spazio e dalla luce che vi entra. Dopo il progetto di restauro delle chiese di San Francesco del Deserto, nella laguna di Venezia, il tema progettuale del mosastero delle Clarisse, è forse l’opera che più delle altre interpreta il rapporto spazio-funzione, all’interno dello sviluppo di una pian ta libera, con chiarissimi riferimenti progettuali legati all’esperienze del Movimento Moderno e in particolare alla Tourrette di Le Corbusier. L’opera, oggi parzialmente demolita, conserva ancora negli spazi superstiti, trasformati in Museo della Bonifica, l’idea dell’itinerario, delle tappe, in una brutalità “calda e avvolgente” che non aveva come obiettvo primario l’isolamento delle suore di clausura dal mondo. Sembra invece che all’interno del monastero si sia riscostruito un micromondo complesso, modellato in una articolata spazialita che utilizza con sapienza gli elementi percettivi. Anche nella cappella dei Frati Francescani della Mandola, del 1965, è evidente l’idea della complessità ma ciò che stupisce particolarmente è il rapporto della forte matericità esterna e della essenzialità dello spazio interno. Il rapporto con lo straordinario progetto della chiesa della Nostra Signora del Cadore, realizato da Edoardo Gellner

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con il contributo di Carlo Scarpa tra il 1956 e il 1961, è evidente. Un altro tema con il quale Bianchi ha avuto molte occasioni di confrontarsi è invece quello degli edifici pubblici. Evidente è la continuità tra i diversi progetti di edifici scolastici come la scuola materna di Cittadella del 1976 e la scuola media di Tombolo del 1978. Il brutalismo evidente accompagna una misurata composizione planimetrica mai banale. Dopo una serie di collaborazioni fruttuose con Giulio Brunetta nella realizzazione delle Lavanderie e Stabulari per l’Ospaedale di Padova e il Collegio Gregorianum, è nel rapporto stretto con l’Università di Padova che Bianchi riesce ad affrontare impegnativi temi di progetto quali: il restauro delle facciate del Palazzo del Bo del 1989, l’elegan-

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te passerella sul Piovego del 1996, mol ti piani urbanistici per lo sviluppo della “città universitaria patavina”, recuperi di spazi didattici, nuovi palazzi per la didatti ca, il Museo della Medicina e della Salute di via San Francesco. Proprio nella realizzazione dell’edificio di Neuroscienze lungo il fiume Piovego, si fa evidente la distanza tra i primi lavori dell’architetto.

Un volume completamente compatto, con due cortili all’interno e una facciata di metallo scuro, presentano come unico elemento di rottura della compattezza della composizione una sagoma addolcita verso il Piovego dall’intersezione della falda della copertura con gli angoli arrotondati del prospetto. Il risultato è particolarmente efficace e colloca l’edificio all’interno del dibattito sulla internazionalità del linguaggio contemporaneo.

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restauro delle chiese e nuovo coro di S. Francesco del Deserto

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Isola di S. Francesco del deserto, Laguna Veneta (VE) con Francesco Ferrari 1964 foto Archivio S. Francesco del Deserto, Camillo Bianchi e Stefano Aiti
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monastero

Clarisse

1965

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viale Primavera 1, San Donà di Piave (VE) con Antonio Zambusi foto Antonio Zambusi e Stefano Aiti
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cappella casa Frati

Francescani

1965

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Passo della Mendola, Bolzano-Trento con Antonio Zambusi foto Antonio Zambusi

scuola Materna

1976

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foto Gian Nicola Gigante e Stefano Aiti

scuola Media

1978

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via F. Filzi Tombolo (PD) Archstudio (C. Bianchi, M. Boccato, G.N. Gigante, A. Zambusi) foto Antonio Zambusi e Stefano Aiti

restauro Facciate del Bo

1989

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via VIII Febbraio, Padova con Vittorio Dal Piaz foto Matteo Scialpi e Antonio Susani

passerella Balbino Del Nunzio

1996

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via Loredan, Padova con Giorgio Romaro e Ernesto Trapanese foto Licurgo Andrao e Stefano Aiti

banca di Credito Cooperativo

via Roma 15, Cartura (PD) con Ernesto Trapanese 1998-2000

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foto Ernesto Trapanese

istituti di Neuroscienze

2010

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foto Stefano Aiti

restauro del nuovo museo della Medicina e della salute

2006-2012

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Via S. Francesco 116, Padova con Gian Franco Privileggio, Andrea Ulandi e Andrea Zuin foto Studio Mas e Stefano Aiti
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profilo biografico

Camillo Vittorio Antonio Girolamo BIANCHI è nato a Padova il 22 settembre 1931. Laureato in Ingegneria Civile-Edile a Padova - A.A. 1959-‘60 - con tesi sull’Ospedale Civile di Cittadella - relatore Virgilio Vallot (103/110). Laureato in Architettura a Venezia (IUAV) - A.A. 1968-‘69 - con tesi sulla riproposizione critica del Progetto del Monastero di San Donà di Piave (prog. C. Bianchi - A. Zambusi) - relatori Ignazio Gardella e Costantino Dardi - tesi discussa con Giuseppe Samonà, Carlo Scarpa e G. Carlo De Carlo (110/110). Assistente e poi docente presso l’Istituto di Architettura e Urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova, sotto le stimolanti direzioni di Augusto Cavallari Murat e di Gino Levi Montalcini (anni 1960-’70). Libero docente in Architettura e composizione Architettonica (sessione 1969). Professore incaricato di Pianificazione Territoriale (A.A. 1968-’69) e di Tecnica Urbanistica (dal 1973 al 1979). Professore incaricato prima e poi associato di Architettura e Composizione Architettonica fino al collocamento in pensione. Ha diretto la Collana “Frammenti di Architetture venete” (ha edito libri su Daniele Calabi, Mansutti-Miozzo e Quirino De Giorgio). Autore di numerosissime pubblicazioni tra cui libri sull’ultimo giorno di guerra

del secondo conflitto mondiale e sulla rivoluzione ungherese.

Membro effettivo dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) dal 1970 e socio IN.ARCH (Istituto Nazionale di Architettura) volge spesso la sua attenzione oltre la dimensione urbana della progettazione architet tonica attraversando la soglia dell’urbanistica.

Ha partecipato alla conferenza di Christopher Alexander “Patterns language and partecipation” tenutasi nel 1976 a Parigi. Alcuni suoi progetti sono firmati singolarmente, altri in collaborazione. Ha lavorato a lungo con Antonio Zambusi traendone importanti influssi umani e compositivi - nei primi anni ’70 ha costituito l’”Archstudio” con Marilena Boccato, Gian Nicola Gigante e Antonio Zambusi. Più recentemente ha lavorato saltuariamente con Pierino Zanon, Gianfranco Privileggio, Vasco Camporese, Enrico Pietrogrande, Ernesto Trapanese, Paolo Rigamo, Giorgio Garau, Andrea Zuin e ora con la figlia Orsola Pederzini e con Lucia Cresti. Nel campo della ricerca storica con Vittorio Dal Piaz e Andrea Ulandi, per i progetti di strutture con Giorgio Romaro, Stefano Debiasi e Mario Gallinaro.

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