camillo bianchi
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forme della materia
a colloquio con camillo bianchi architetto
edifici residenziali
edifici commerciali-industriali
edifici pubblici e per il culto
profilo biografico
forme della materia
Ho conosciuto Camillo Bianchi tanti anni fa. Ero stato nel suo dipartimento di progettazione a Padova, dove ancora studente, ebbi la possi bilità di accedere a una parte dei suoi interessantissimi progetti. Dopo venti anni da quel fortuito incontro, durante una vernice di una mostra di gioielli contemporanei a Padova, lo incontro di nuovo. Stavo già realizzando il censimento dell’architettura contemporanea nel Veneto e averlo ritrovato proprio in quel momento mi ha spinto a chiedergli di rimostrami i progetti di allora con rinnovata curiosità. Le sue prime opere sono brutali, sincere, dirette. Non si pongono mai come risultato di mediazione né di compromesso. Da studente aveva frequentato Carlo Scarpa presso la sua casa di Asolo, possibilità che gli ha permesso di conoscere direttamente il maestro e da lui apprendere la dimensione di ricerca e innovazione, il contrappunto nell’uso dei materiali, la conoscenza del cantiere e delle sue problematiche. Sono interessanti esempi del suo lavoro in particolar modo i progetti per le residenze unifamiliari dove le bucature sono sempre occasione non solo di dialogo con l’esterno, ma un modo per conferire plasticità ai semplici volumi impiegati nella composizione. Camillo Bianchi è conosciuto principalmente come docente dell’Università degli Studi di Padova ma in realtà, forse, è in primo luogo un progettista che ha lasciato numerose traccie della sua rigorosa riflessione disciplinare soprattutto tra le pieghe della città di Padova, sui Colli Euganei, San Donà di Piave, Liguria e Trentino.
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Il bisogno forte di legare la riflessione accademica ad una verifica diretta sul campo di principi e teorie, lo ha spinto ad insegnare a “tempo definito” così da potersi confrontare direttamente con progetti reali, legati alle questioni dell’abitare, dell’edificio pubblico e di quello commerciale.
La freschezza della composizione, l’uso consapevole e critico dei materiali, la raffinatezza del dettaglio, la forza e la brutalità del calcestruzzo hanno fatto di Camillo Bianchi un interessantissimo interprete dell’architettura veneta dagli anni ‘70 ad oggi. Il suo lavoro è una voce, colta e chiara, del dibattito che investe il Movimento Moderno, in un territorio, quale quello Veneto, dove tali valori avevano trovato pochi interpreti.
Si mette alla ricerca di un punto di incontro tra razionalismo, funzionalismo, brutalismo che servisse a superare la monolitica espressione modernista. Ha avuto occasione di incontrare Frank Lloyd Wright, Le Corbusier (sia a Venezia che a Parigi), Louis Khan e, con Gabriele Sci memi, è stato ospite nella casa di Walter Gropius ad Harvard (1963). Da questi grandi maestri internazionali trae spunti di riflessione che ne influenzano profondamente le scelte progettuali e didattiche di tutto il suo inizio di carriera. Il suo persorso progettuale, che per anni si è intrecciato profondamente a quello di Antonio Zambusi, lo ha reso particolarmente legato al suo collega con il quale ancora ingegnere, ha iniziato il suo persorso
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di progettista. A cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, con una lucida contemporaneità dell’approccio al progetto si confronta con nuove tematiche e rinnovati approcci al progetto. Il brutalismo lascia spazio all’uso delle pelli della contemporaneità: superfici metalliche e vetro. Oltre alle esperienze su edifici commerciali, Camillo Bianchi, realizza una serie di progetti per l’Università di Padova prima a fianco di Giulio Brunetta, firmando il volume in calcestruzzo sulle mura veneziane dell’ospedale, le lavanderie e gli stabulari, poi il Collegio Gregorianum. Succesivamente realizza il Piano di sviluppo sul Piovego di Elettrotec nica, Elettronica e Costruzioni marittime, la passerella sul Piovego, e dopo il restauro delle facciate del Bo, il nuovo Museo della Medicina. Interessante rimane l’esperienza della progettazione della nuova sede del dipartimento di Neuroscienze. Il monolitico complesso addensa, in una autera pianta rettangolare con due cortili interni, spazi per la ricerca e per la didattica rinunciando alla dichiarazione in facciata della struttura distributiva interna. La raffinata facciata scura in zinco-titanio è un pretesto per sperimentare nuove geometrie e traspare quasi il bisogno di una austera semplicità dichiarata dalla fusione tra copertura e facciate.
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a colloquio con camillo bianchi architetto
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DL. La sua formazione sembra aver rappresentato un momento cruciale per la definizione del suo futuro percorso. Prima la laurea in In gegneria Civile-Edile a Padova (1959-‘60) con un relatore come Virgilio Vallot che tanto aveva progettato a Venezia, e successivamente la laurea in Architettura allo IUAV (1968-‘69) con due straordinari docenti-progettisti quali Ignazio Gardella e Costantino Dardi, sembrano permetterle di compiere fin dalle primissime opere scelte molto consapevoli e mature.
CB. Sono stato educato ai canoni rigidi del razionalismo, all’ideologia internazionalista del Bauhaus e del Movimento Moderno, al rispetto, etico ed esclusivo del rapporto forma/funzione, ai dettami ideologici del primo Le Corbusier, della Maison Domino, delle finestre a nastro e del tetto piano, ai materiali forti, al calcestruzzo di cemento armato lasciato a “faccia vista”. Centrale è stata l’assunzione critica, nei miei percorsi progettuali, delle ”sette invarianti” dell’architettura di Bruno Zevi, con la repulsione al monumen talismo e agli assi di simmetria, alla realizzazione delle forature dei prospetti secondo le diverse funzioni e i differenti orientamenti, alla composizione architettonica dettata dalla “pianta libera”, pedissequa rispetto ad ogni cambiamento funzionale interno all’edificio e, corrispondentemente, anche alla diversificazione volumetrica, negli alzati e nei prospetti, così da denunciare i mutamenti della vita contenuta in essi.
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DL. I dettami ideologici del Movimento Moderno non hanno mai trovato una loro sistematicità in uno “stile” unico e riconoscibile. Dai diversi interpreti del razionalismo, del funzionalismo, del brutalismo era condiviso solo il rifiuto di alcuni approcci.
CB. Infatti solo le certezze in negativo erano chiaramente costanti: il rifiuto di qualsiasi riferimento al passato, allo storicismo e alle tradizioni, ad ogni riferimento neoclassico, all’ornamento in ogni sua espressione (“Parole nel vuoto” e “Ornamenti e delitto” di Adolf Loos), alle simmetrie tipiche del monumentalismo e financo del cosiddetto “genius loci” nella memoria degli edifici. Li univa, peraltro, l’accettazione dei nuovi materiali: il “cemento” a vista, l’acciaio (erede delle costruzioni in ghisa), il vetro, derivati dalla rivoluzione industriale.
I grandi maestri iscritti dalla storia dell’architettura in questa “rivoluzione” compositiva: il Wright dei capolavori, il Gropius del Bauhaus, il primo Le Corbusier, razionalista ortodosso, il Mies Van der Rhoe delle putrelle in acciaio e del vetro, così come Aalto, Kahn, Saarinen, Tange, esperimentano ciascuno architetture molto personali.
DL. Se penso alle relazioni tra il progetto del Monastero delle Clarisse e al progetto della scuola Bambini del Vajont a Longarone del 1964-’66, sembrano evidenti i punti di contatto con le riflessioni di Costantino Dardi che in quegli anni stava scrivendo il suo “Gioco sa
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piente - tendenze della nuova architettura”. Che ruolo hanno avuto gli insegnamenti dei grandi maestri quali Albini, Zevi, Gardella, Samonà, Calabi; e poi Scarpa, Tafuri, Zevi, Aymonino, De Carlo, De Luigi, e le tante figure di spicco del dibattito italiano che hanno gravitato nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia?
CB. Il progetto del monastero delle Clarisse, a San Donà di Piave (1968-’69), firmato con Antonio Zambusi, è proprio la risposta alle loro sollecitazioni e istanze, realizzato dopo la laurea in ingegneria mentre frequentavo le lezioni allo IUAV. Il progetto è improntato alla cultura della “pianta libera” e al rispetto assoluto del rapporto forma/funzione. Dall’esame delle piante e dei prospetti, si evince come ogni funzione, dalle più rilevanti, quale la bocca d’apertura verso l’alto del presbiterio, sopra l’altare, il volume del Santissimo, il coro per le suore, il coretto per le novizie, la serie delle celle quasi sospese strutturalmente al 1° piano; alle più semplici, come il confessionale segnato da un’apposita bocca di lupo, o il singolo posto a tavola scandito modularmene nel refettorio, o la distribuzione in pianta di ogni momento vitale all’interno delle celle (il letto, il lavabo, il tavolo di studio o l’inginocchiatoio, posto in corrispondenza alla profonda scanalatura inclinata verso il finestrino posto in alto: “quasi una rampa di lancio per le preghiere”), ognuna di queste funzioni trovano sia in pianta che negli alzati una specifica evidenziazione. Inoltre questo manufatto (in gran parte realizzato, allora, e poi purtroppo in
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parte demolito) è stato costruito in calcestruzzo di cemento a “faccia a vista”, gettato in casseri di tavole di legno, in ossequio ad un “brutalismo” derivato da tante realizzazioni di Le Corbusier (Unité d’habitation, la Tourette, Chandigarh), di Kenzo Tange ed altri autori di quel tempo. Non è un caso che il tema della tesi di laurea, con relatori Ignazio Gardella e Costantino Dardi, venne scelta nell’intento di confrontarci in ambito universitario con un nostro progetto reale: la rielaborazione critica del progetto del Monastero delle Clarisse, la cui costruzione era da poco terminata. Allora le proposte rielaborate del progetto del monastero, alle quali giunge la tesi di laurea, semplificano grandemente il disegno dell’edificio, sia in pianta che nei prospetti. In sei diverse soluzioni si risolve il problema della clausura separando gli spazi a servizio da quelli serviti (secondo una delle regole di Louis Kahn). Un muro dal semplice tracciato quadrato, o rettangolare, o triangolare, a servizio del monastero, impedisce lo sguardo dalle finestre del convento. Le forme delle nuove proposte sono semplici e chiaramente leggibili, liberate dall’assillo della pianta libera e del mero rapporto forma/funzione, rispondendo a composizioni logiche e a geometrie elementari.
DL. Oltre al Monastero delle Clarisse, altri suoi progetti sono rapportabili al funzionalismo e alla pianta libera, quali la Cappella al Passo della Mendola (1965) o la casa Chiffi-Napolitani (1966), sempre progettate con Antonio Zambusi. Nel 1968, era uscito il numero 139 monografico di Architecture d’Au
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jourd’hui: “Tendences”, e Siegfried Giedion scrive il saggio “Jorn Utzon and the third generation”, in Zodiac n. 14 (aprile 1965), dedicato alla terza generazione degli architetti moderni. Giedion riassumeva in otto punti tali nuove tendenze. Tra questi viene sottolineato un più forte legame col passato, un rapporto più libero tra lo spazio interno ed esterno e, soprattutto, il diritto dell’espressione al di sopra della pura funzione. Anche questi elementi sembrano essere particolarmente presenti nel suo lavoro di progettista.
CB. Il retroterra ideologico e morfologico del Movimento Moderno ormai si era modificato e con questo anche le nostre sperimentazioni progettuali. Si respirava una nuova stagione e il dibattito internazionale su riviste e saggi era a noi molto presente. Nikolaus Pevsner aveva tentato di difendere ancora l’ortodossia e definisce anti-pioneers i protagonisti della terza generazione: Stirling e Gowan per il loro neo-espressionismo, Denys Lasdun per il culto della propria personalità, Paul Rudolph perché prevarica le funzioni nella scuola di Yale, Eero Saarinen e Philip Johnson per il loro sofisticato eclettismo; Le Corbusier per il suo stile ultimo sempre più individuale: “Ronchamp significa finestre messe a caso e forme scultoree, non più rappresentative di Le Corbusier architetto”. Non riuscendo, Pevsner, a comprendere la forza liberatoria dalla rigidità del puro razionalismo, dirompente, creatrice di un capolavoro assoluto quale la Cappella di Ronchamp.
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La Nuova Architettura adottava una mistica plastica innovatrice: viene esaltato lo sbalzo e la cascata dei volumi, la parete a gradoni, la volta, la cupola, la piramide vengono riscoperti, i solidi platonici alludono ad un neo monumentalismo, non tollerato prima.
Costantino Dardi scriveva in quegli anni: ”La Nuova Architettura compie un’opera di desemantizzazione sul materiale linguistico dell’architettura moderna: la correlazione segno-significato, come il rapporto forma-funzione, elementi linguistici profondamente caratterizzanti il Movimento Moderno, le finestre a nastro, subiscono ora una profonda modificazione: un progressivo allentamento delle condizioni di necessarietà”
Il “diritto dell’espressione al di sopra della pura funzione” comportava una composizione di oggetti e di architetture che riscoprono forme compatte, con una logica geometrica a volte elementare da cui deriva una chiara leggibilità dell’opera, alle volte anticipatrice del risultato finale, che la cultura funzionalista e della pianta libera non ammetteva.
DL. In quali altri progetti possiamo cogliere questa sua ricerca attenta e incuriosita di nuove geometrie compositive nello sviluppo del progetto?
CB. A questi nuovi canoni di tendenza della “Nuova Architettura” si ispirano ad esempio i progetti della piccola casa nera di Teolo (1962), delle abitazioni gemelle Mattioli-Zampirollo (1972). La “perla nera”, cosiddetta, a Teolo è
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il risultato di una divertita composizione, piena di lineamenti geometrici, di assi cartesiani od obliqui, nonché di aggettivazioni particolari giustapposte al quadrato di base, o al trapezio dell’alzato. L’espressione del prospetto laterale, un semplice trapezio, che si alza dal terreno privo di ogni minimo sporto di copertura, a formare quindi un prisma puro ispirato a tante modeste costruzioni rurali venete, assume nel lato est una ludica espressione antropologica, con occhi, naso e ghigno del portico. Il tutto nero all’esterno e bianco all’interno, le porte laccate color ciclamino e le tubazioni del riscaldamento ad aria verde-mela, completano il gioco. La casa Mian (1972) è un chiaro risultato di due prismi trapezi che si intersecano nei prospetti laterali, quasi ciechi, con precise rigature strutturali dei getti di calcestruzzo in casseri di legno. Il prospetto sud-ovest si spalanca invece alla luce, con logge e portici finestrati.
DL. Questo momento di grande fervore innovatore dei primi anni ’60 (il saggio del Giedion su Zodiac è del 1965), presenta forti elementi di interesse poiché, pur partendo da presupposti simili a quelli del “postmodern” nel superamento dell’internazionalismo del Movimento Moderno, si giunge ad esiti morfologici che non ripropongono l’ennesimo resuscitare di stilemi classici, quali il timpano, il cornicione modanato, addirittura le colonne e i capitelli presenti nei modelli delle “via Novissima” (Biennale, Ve 1980) o nella Piazza d’Italia (1975-78) di Charles Moore o nella The Allen Memorial (1973-76) di Robert Venturi, se pur
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carichi di ironia, come nella finta chiesa, e finta morfologia monumentale di James Stirling a Berlino;
CB. Infatti era forte l’attenzione di noi tutti ai nuovi risultati, logici e compatti, dalle forme chiare e di alta leggibilità, quali la “sequenza stroboscopica delle volte dell’Opera House di Jorn Utzon a Sidney” o la euclidea perfezione della proposta di Ignazio Gardella per un nuovo teatro a Vicenza, o nel monumentale gioco di geometrie e di luce nel complesso di Kahn a Dacca, o, ancora, nella ormai lontana, ma attualissima riproposizione di un “novello Parteno ne”, nella forza sovrumana del “colonnato” formato da lastre plasticamente aggressive, del palazzo dell’assemblea di Le Corbusier a Chandigarh. Uno degli otto punti di Giedion recita: “un più forte rapporto col passato, espresso non in forma ma nel senso di un rapporto interiore e di un desiderio di continuità”. In questa nuova realtà operano i progetti della “Nuova Architettura”, senza bisogno di riproporre aggettivazioni neo classiche solo informate ad uno storicismo, quello del “post moderno” più ostentato, che casca facilmente nel vernacolo o addirittura nel falso. DL. Negli ultimi anni le sue opere hanno risentito del dibattito progettuale contemporaneo, che ritroviamo ad esempio nello strutturalismo tecnologico, nelle sedi della Superauto (1998 e 2002) progettate in metallo e vetro, o nella passerella sul Piovego (1996), o sembrano es-
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sere influenzate da una soluzione organica come nel caso della sede del dipartimento di Neuroscienze per l’Università di Padova (2010).
CB. Il manufatto progettato per l’Università di Padova, tutto rivestito in zinco-titanio, contrappone chiaramente la testata didattica convessa, nera, e il corpo retrostante, grigio, degli studi e dei laboratori. In fondo è un erede lontano dei progetti modernisti dei miei primi anni di attività, ma conserva vivo il rigore e la libertà espressiva. La genesi di questo edificio, che ospita geologia e mineralogia è una metafo ra che mi ricorda i luoghi alpini ove tali discipline si esercitano. Il progetto d’architettura è spesso autobiografico; questo volume nero e ricurvo della testata rappresenta la montagna, scura e severa, di basalto, dei massicci occidentali ove mio padre, professore di Mineralogia, aveva effettuato molte delle sue ricerche e dei suoi rilevamenti, portando spesso moglie e figli, ancora bambini, a sostare alle soglie dei nevai mentre dall’alto delle rocce echeggiavano i colpi di martello del professore. Molto diverso è stato invece il lavoro di restauro del palazzo antico del Bo (1989), e poi del Museo della Medicina e della Salute (2012), nei quali la lettura dell’edificio, delle stratificazioni e dei materiali, delle spazialità e della morfologia è stato prioritario rispetto alla necessità di esprimere nuove istanze compositive e formali.
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