PABLO ATCHUGARRY ED I PRINCIPALI MOVIMENTI ARTISTICI ITALIANI DEL XX° SECOLO
12 Settembre - 4 Ottobre 2019 Ex Chiesa della SS. Trinitò - Cuorgnè (TO)
PABLO ATCHUGARRY ED I PRINCIPALI MOVIMENTI ARTISTICI ITALIANI DEL XX° SECOLO 12 Settembre - 4 Ottobre 2019 Ex Chiesa della SS. Trinitò - Cuorgnè (TO) Organizzato da:
FR Art Collection Via 3 Settembre n° 89 47891 Dogana Repubblica di San Marino
Con il patrocinio di:
Città di Cuorgnè
Con il sostegno di:
Presenta la serata inaugurale: Alessandro Gea
PREFAZIONE 4
ARTE NAIF Antonio Ligabue
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ROTARY INTERNATIONAL
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IL PROGETTO Ex Chiesa della S.S. Trinità
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ARTE POVERA Piero Gilardi
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GIUSEPPE PEZZETTO, Sindaco della Città di Cuorgné GIACOMO GIACOMA ROSA, Ass. Politiche Sociali e Cultura
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ARTE CINETICA Alberto Biasi
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FR ISTITUTO D’ARTE CONTEMPORANEA
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NOUVEAU RÉALISME Mimmo Rotella
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FONDAZIONE PABLO ATCHUGARRY
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PABLO ATCHUGARRY
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SPAZIALISMO 77 Roberto Crippa 79 Gianni Dova 80
FUTURISMO 23 Giacomo Balla 25
POP ART Mario Schifano
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NOVECENTO 27 Giorgio de Chirico 29 Filippo De Pisis 33 Mario Sironi 35
ELEMENTARISMO-CONCRETISMO E M.A.C. Piero D’Orazio
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CHIARISMO 38 Umberto Lilloni 39
ANACRONISMO 90 Salvo 91 MAGICO PRIMARIO Marcello Jori
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MOVIMENTO CORRENTE Aligi Sassu Ennio Morlotti
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TRA IMPRESSIONISMO E SIMBOLISMO Michele Cascella
FRONTE NUOVO DELLE ARTI Renato Guttuso
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IL MAESTRO DELLE ESTROFLESSIONI Agostino Bonalumi
GRUPPO DEGLI OTTO Giuglio Turcato
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TRANSAVANGUARDIA 103 Nicola De Maria 105
ARTE INFORMALE 57 Alberto Burri 59
TRA SURREALISMO E METAFISICA Antonio Nunziante
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PREFAZIONE
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“L’Arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni” P. Picasso Il Rotary Club Cuorgné e Canavese si fa promotore di un evento culturale a livello internazionale portando nel nostro territorio una mostra con le opere di alcuni Maestri della pittura italiana del ‘900 e del famoso Pablo Atchugarry, importante scultore uruguaiano. Il Rotary Club Cuorgné e Canavese dal 1985, anno della sua fondazione, si impegna in attività sia di carattere sociale che educativo-culturali. Negli anni abbiamo seguito con partecipazione attiva il motto del Rotary tramandato dal suo fondatore Paul Harris “servire al di sopra di ogni interesse personale”. Lo scorso anno rotariano è stato dedicato alla “cultura del bello” e a quelle attività volte a creare opere a cui si riconosce un valore estetico, per mezzo di forme , colori , parole e suoni. In quest’ottica nasce il desiderio di portare nel Canavese una mostra importante restituendo al territorio, che fa da indiscutibile cornice, la sensibilità artistica di Pablo Atchugarry scultore di fama internazionale. L’iniziativa prosegue questo percorso di sensibilizzazione alla “cultura del bello”, di cui l’Arte è il principale esponente, iniziato con il Presidente 2018-2019 e proseguito dal Presidente 2019-2020 a testimonianza che il nostro simbolo, “la ruota”, rappresenta comunione e continuazione di intenti. Un ringraziamento particolare va a tutti coloro che hanno reso possibile questa manifestazione: a Pablo Atchugarry per il sostegno e la disponibilità, all’Istituto d’Arte F. R., a CEFI Srl, ai Collezionisti che hanno voluto condividere le opere esposte , alla Città di Cuorgnè nella persona del Sindaco Beppe Pezzetto e dell’Assessore Giacomo Giacoma Rosa, per aver creduto in questo progetto e per averlo sostenuto, al Socio Gianni Sella per l’entusiasmo e l’impegno profuso. Ci auguriamo che la visita a questa mostra e gli eventi che le faranno da corollario possano essere per i visitatori, soprattutto per i più giovani, un momento di stimolo e di accrescimento culturale, con la soddisfazione da parte nostra di aver realizzato la “mission” del Rotary. Roberto Romagnoli Presidente 2018-2019
Alberto Prono Presidente 2019-2020
ROTARY INTERNATIONAL
Il Rotary è la più antica Associazione di servizio: fu fondato il 23 febbraio 1905 a Chicago da Paul Harris e tre suoi amici. Vanta oltre 1.200.000 Soci sparsi su tutti i continenti. Governato da un Presidente del Rotary International, affiancato da un Board di diciassette membri; rimane in carica solo un anno dal 1° luglio al 30 giugno dell’anno successivo. Mark Maloney è il Presidente del Rotary International per l’anno 2019-20; il suo motto è: ”Il Rotary connette il mondo”. Il Rotary è una filosofia di vita che si propone di risolvere l’eterna lotta tra il desiderio dell’individuo di affermarsi e il dovere e l’impulso di servire gli altri: è la filosofia del “Servire al di sopra di ogni interesse personale”. Per servire occorre agire: la filosofia rotariana deve essere tradotta in azione da tutti i Soci. L’Organizzazione finanziaria del Rotary è la Fondazione Rotary, il cui motto è “Fare del bene nel mondo” e la cui missione è di consentire ai Rotariani di realizzare progetti nelle sei aree fondamentali: • Pace e prevenzione/risoluzione dei conflitti; • Prevenzione e cura delle malattie; • Acqua e strutture igienico-sanitarie; • Salute materna e infantile; • Alfabetizzazione ed educazione di base; • Sviluppo economico e comunitario. Il progetto più importante del Rotary è “End Polio Now“, per la eradicazione della poliomielite nel mondo: la campagna di vaccinazione preventiva ha già salvato alcune centinaia di migliaia di persone. Il Rotary ha adottato cinque valori come proprio fondamento: Amicizia, Integrità, Diversità, Servizio e Leadership. Lo scopo del Rotary è di diffondere il valore del servizio, come motore e propulsore ideale di ogni attività. In particolare il Rotary si propone di: • Promuovere e sviluppare relazioni amichevoli fra i propri Soci, per renderli meglio atti a servire l’interesse generale. • Informare ai principi della più alta rettitudine l’attività professionale ed imprenditoriale, riconoscendo la dignità di ogni occupazione utile e facendo sì che venga esercitata nella maniera più nobile, quale mezzo per servire la collettività. • Orientare l’attività privata, professionale e pubblica di ogni Socio secondo l’ideale del servizio. • Propagare la comprensione reciproca, la cooperazione e la pace a livello internazionale, mediante il diffondersi nel mondo di relazioni amichevoli fra persone esercitanti diverse attività economiche e professionali, unite nel comune proposito e nella volontà di servire. Rientra in questo ambito anche l’aiuto del Rotary nella diffusione della conoscenza e dell’amore per la cultura e L’arte, oggetto della mostra organizzata dal RC Cuorgné e Canavese, da CEFI Srl, dalla Fondazione Pablo Atchugarry e dall’Istituto d’Arte Moderna e Contemporanea F.R., con il patrocino della Città di Cuorgnè, della Città metropolitana di Torino e della Regione Piemonte.
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IL PROGETTO
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L’idea all’origine di questo progetto, semplice ma ambiziosa e, pertanto, complessa nella sua costruzione e nella sua implementazione, si è strutturata con l’obiettivo di promuovere la conoscenza delle specifiche e poliedriche forme dell’arte contemporanea all’interno del proprio territorio. Ne è originato l’allestimento di una mostra temporanea in una sede scelta per prestigio del suo profilo storico e artistico nonché dotata degli spazi idonei ad accogliere oltre ad alcune opere rappresentative del più importante Novecento storico italiano anche importanti installazioni scultoree. In linea con gli obiettivi insiti nella progettazione della Mostra ci si propone, dunque, di evidenziare con un percorso coerente, logico e formativo come si sia evoluta l’A rte nel Novecento storico italiano fornendo attraverso essa uno spaccato dei principali Movimenti Artistici Italiani di quel periodo ben rappresentati dalla grande capacità artistica di alcuni tra i suoi più determinanti rappresentanti. Il Progetto consiste nell’allestimento di una mostra di opere di arte moderna e contemporanea, la cui Sede sarà la Chiesa della S.S. Trinità in Cuorgnè, edificio che, per le sue peculiari caratteristiche storiche ed architettoniche, si qualifica come sede ottimale per ospitare l’evento. Un altro importante Obiettivo quindi, soprattutto del Comune che si propone come Ente Organizzatore, è quello mirato alla conservazione del patrimonio artistico cittadino ed, attraverso esso, alla promozione e diffusione dell’arte tramite l’allestimento di esposizioni artistiche come quella in oggetto. Questa particolare ed innovativa forma di espressione artistica è protagonista di eventi di rilievo internazionale, quali la Biennale di Venezia e la triennale di Milano e gode di ampi e qualificati spazi espositivi permanenti presso strutture museali dedicate all’arte moderna e di avanguardia. Cuorgnè sino ad ora, ha dedicato poca attenzione a questa innovativa forma di espressione artistica. Per questo motivo riteniamo importante creare un’occasione d’incontro tra l’arte moderna-contemporanea e la città, con lo scopo di offrire ai cittadini l’opportunità di arricchire la propria competenza artistica e la conoscenza di quali siano le tematiche affrontate dall’arte e le molteplici metodologie e tecniche narrative utilizzate da artisti che hanno fatto grande l’A rte Italiana non solo in Italia ma in tutto il mondo. L’obiettivo è quello di creare per il visitatore un percorso non solo espositivo ma anche narrativo, integrato nel contesto architettonico dello storico edificio. La mostra verrà inaugurata il 12 Settembre 2019 e resterà aperta al pubblico sino al 4 Ottobre 2019.
EX CHIESA DELLA SS. TRINITÀ Cuorgnè (Torino)
Il 1° giugno 1582 Bernardino Bossetto, rettore della Confraternita della SS. Trinità firmava una convenzione con il maestro Giovanni Cernese da Lugano, residente a Valperga, per l’erezione della chiesa della Confraternita, al centro di Cuorgnè. In realtà pare si trattasse piuttosto di un ampliamento, con apertura al pubblico di un oratorio preesistente, con annesso ospizio per i pellegrini, costruito a partire dal 1510 dai frati minori francescani. Questi nel 1581 l’avevano ceduto alla Confraternita, istituita a Cuorgnè nel 1535 “a fine di poter meglio ottenere congruo soccorso ai poveri pellegrini”. Nel 2005 il prestigioso Altare Maggiore è stato oggetto di un intervento di restauro e conservazione.
“Siamo onorati come Città e come territorio tutto, di poter ospitare un così intenso momento d’arte. Apriremo questa finestra di cultura sul mondo grazie alla lungimiranza del Rotary Club Cuorgnè e Canavese, di alcuni collezionisti e alla disponibilità di un artista eccezionale. Siamo certi che saranno molti coloro che verranno ad ammirare questa rara opportunità offerta a tutti.” Giuseppe Pezzetto Sindaco della Città di Cuorgnè.
“Con immensa gioia e soddisfazione il mio Assessorato vede concretizzarsi un progetto artistico nato un anno fa dalla collaborazione con appassionati collezionisti d’arte e con il Rotary Club Cuorgnè e Canavese. Si tratta di una mostra d’arte moderna e contemporanea di portata internazionale, con la presenza di sculture di Pablo Atchugarry, le cui opere sono esposte nei centri più prestigiosi di tutto il mondo. L’umanità e la disponibilità di questo grande artista hanno permesso di dare vita a una parentesi di alto livello culturale per la nostra piccola comunità cuorgnatese. Saranno inoltre esposti dipinti di grandi pittori del ‘900 italiano.” Giacomo Giacoma Rosa Assessore alle Politiche Sociali e alla Cultura
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FR ISTITUTO D’ARTE CONTEMPORANEA
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Presentazione Il nostro Istituto nasce nel 2005 frutto dell’amore per l’arte visiva nella sua più alta espressione e definizione e dalla fusione delle esperienze professionali maturate in questo settore da parte di qualificati manager e professionisti. La stessa scelta della sede principale è stata valutata in funzione della centralità dello stato di San Marino rispetto al territorio nazionale italiano, oltre che della riconosciuta attenzione verso qualsiasi forma di creatività e tutela della genialità che in passato hanno visto questa terra essere la casa di artisti ed illustri inventori/costruttori. La nostra storia Quest’anno ricorre il quindicesimo anniversario dalla costituzione della nostra società, quindici anni costellati da importanti successi sia professionali che economici. Con gli anni e l’esperienza abbiamo affinato la conoscenza del nostro mercato di riferimento creando partenership importanti ed organizzando eventi su tutto il territorio che ci hanno permesso di diventare un serio ed affidabile punto di riferimento per tutti i nostri Collezionisti nel settore dell’Arte Moderna-Contemporanea e Novecento Storico Italiano. Mostre Rappresentative 1) Dodici grandi artisti del novecento storico presentano: “al di la della forma- mostra sul novecento storico italiano”. Location : Palazzo Graneri della Roccia - Torino. 2) La fine dell’avanguardia da De Chirico a Guttuso- Mostra a cura di Vittorio Sgarbi. Location: Palazzo Arzilli - San marino. 3) Pablo Atchugarry c/o Waterfront Costa Smeralda - Porto Cervo. Evento organizzato da FR Art Collection (San marino). FR Art Collection ed FR Arte TV Nel 2018 prende vita (dopo circa 3 anni di sviluppo del progetto) il Brand FR Art Collection, attraverso questo nuovo Brand il nostro Istituto d’Arte decide di intraprendere una nuova sfida comunicazionale presentando in TV (e coinvolgendo anche le nuove forme di divulgazione come: i social media FB - Istagram - Youtube - lo Streaming) il proprio Catalogo d’Arte. Attraverso FR ArteTv (trasmettendo direttamente dai propri studi televisivi) ed in partnership con Canale Italia è presente da circa due anni con due trasmissioni ed in diretta televisiva (sabato dalle 17 alle 20 e la domenica dalle 10 alle 13) sui canali DT 125 e SKY 861.
FONDAZIONE PABLO ATCHUGARRY
“L’arte è una espressione interiore profonda in cui passato e futuro si fondono creando una piattaforma per il volo delle nuove generazioni...” Pablo Atchugarry La Fondazione Pablo Atchugarry è un’istituzione senza fini di lucro, opera dello scultore Pablo Atchugarry ed inaugurata nell’anno 2007. È stata creata con lo spirito di promozionare tutte le arti plastiche, la letteratura, la musica, la danza ed altre manifestazioni creative dell’uomo. Questo progetto sociale e culturale è costruito costantemente e dinamicamente, consolidandosi attraverso il lavoro e l’esperienza del suo fondatore. La Fondazione cerca di essere uno spazio ideale per l’unione tra natura e arte, dove il canto degli uccelli accompagna lo spettatore in un paesaggio ondulato in cui “germogliano” fra laghi sculture e altre manifestazioni artistiche. Nelle serate estive, canzoni, violini, chitarre, pianoforti e voci, dalla lirica alla canzone popolare, convergono nel festival “Musica tra natura e arte”. In autunno, inverno e primavera, bambini, giovani e giovani di spirito visitano la Fondazione, provenienti da scuole elementari, scuole superiori e università della terza età di tutto il paese. La sua proiezione, come luogo di incontro per tutte le discipline dell’arte, consente sia ai maestri rinomati che ai giovani che iniziano la loro carriera nell’arte, di esporre il proprio lavoro. La struttura dell’edificio è composta dal laboratorio dello scultore, un edificio con tre sale espositive, un auditorium (destinato a concerti, proiezioni e conferenze), uno spazio all’aperto per lo spettacolo, un ristorante, una sala didattica (in cui vengono organizzati corsi di scultura, pittura, disegno e ceramica) ed un ultimo spazio che ospita la collezione permanente e il lavoro del fondatore. L’obiettivo didattico è fondamentale per la Fondazione, motivo per cui ogni due anni viene organizzata la Biennale Nazionale dei Giovani Creatori. Anche durante tutto l’anno viene realizzato un programma didattico focalizzato in linea di principio sulle scuole rurali del dipartimento di Maldonado, con la prospettiva di estenderlo ad altri dipartimenti in futuro. Tutti gli eventi organizzati sono gratuiti e di entrata libera. Complessivamente la Fondazione in Uruguay accoglie in media 128000 persone all’anno. Il nuovo progetto della Fondazione, il Museo di Arte Latinoamericano creato dall’architetto Carlos Ott, aprirà le sue porte nel 2021 portando nuove attività nella Fondazione Nel dicembre 2018, la Fondazione ha aperto la sua seconda sede a Miami, in uno spazio di 3000 mq adiacente alla Galleria Piero Atchugarry (a Little Haiti). Insieme formano l’Atchugarry Art Center.
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PABLO ATCHUGARRY
Pablo Atchugarry è nato a Montevideo, Uruguay, il 23 agosto 1954. Fin da piccolo, Pablo è fortemente incoraggiato a cimentarsi nel disegno dalla madre María Cristina Bonomi e dal padre Pedro, grande appassionato d’arte e allievo del Maestro Joaquín Torres García. Percependo l’attitudine del figlio, i genitori lo stimolano a intraprendere questo percorso fin dall’infanzia. Nel 1965, all’età di 11 anni, prende parte a una mostra collettiva a Montevideo, esponendo per la prima volta due opere pittoriche. Sperimenta poi diversi materiali come l’argilla, il cemento, il ferro e il legno e nel 1971 realizza la prima scultura in cemento intitolata Caballo. Seguiranno altri lavori in ferro e cemento, quali Escritura Simbólica, Estructura Cósmica, Metamorfosis Prehistórica, Maternidad e Metamorfosis Femenina, tutti datati 1974. Nel 1972 realizza la prima personale di disegni e dipinti presso il Centro de Exposiciones SUBTE di Montevideo; seguiranno diverse mostre sia nel 1974 (Galería Lirolay di Buenos Aires e XV Salón Internacional Paris-Sud) sia nel 1976 (Porto Alegre, San Pablo, Brasilia e Rio de Janeiro – durante la quale conosce l’artista Iberê Camargo). Nel 1977 inizia i suoi soggiorni europei visitando diversi Paesi quali Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Spagna, Svizzera e Italia. Nel 1978 tiene la prima mostra personale di pittura in Italia, presso la Galleria Visconti di Lecco. Lo stesso anno espone anche presso la Galleria Nuova Sfera di Milano e la Galleria La Colonna di Como, dove presenta per la prima volta al pubblico i propri disegni a china e acquarello. In questa occasione, Mario Radice scrive un articolo per il quotidiano comasco “La Provincia” intitolato Alla Colonna, ottime chine del pittore scultore uruguaiano Atchugarry. Nel 1979 Atchugarry ottiene la prima mostra personale a Parigi, presso la Maison de l’Amérique Latine e, successivamente, a Coira e Stoccolma. Durante il suo soggiorno parigino, realizza il disegno preparatorio di La Lumière, la prima scultura che realizza in marmo e per la cui creazione si sposta a Carrara e a Brescia. Nel 1987 le sue opere sono esposte nella Cripta del Bramantino e nel complesso della Basilica di San Nazaro in Brolo a Milano, con la presentazione critica di Raffaelle De Grada. A partire dal 1989, comincia a manifestarsi la tendenza di Atchugarry a lavorare con opere di dimensioni monumentali, che attualmente fanno parte di collezioni pubbliche e private in tutto il mondo. Nel 1996 scolpisce Semilla de la esperanza, destinata al parco di scultura del Palacio del Gobierno di Montevideo; mentre nel 1997 espone a Caracas, dove conosce Jesús Soto e altri artisti. Nel 1998 la Fondazione Veranneman, in Belgio, organizza una mostra personale delle sue opere scultoree, accompagnata da un saggio critico del professor Willem Elias. Il 25 settembre 1999 viene inaugurato il Museo Pablo Atchugarry a Lecco, dove sono esposte in maniera permanente diverse opere che rappresentano il percorso artistico di Atchugarry, dai primi dipinti alle sculture più recenti, così come l’archivio della sua produzione. Nel 2001 la città di Milano organizza, nella sede di Palazzo Isimbardi, la retrospettiva dal titolo Le infinite evoluzioni del marmo e nello stesso anno ottiene la prima mostra personale a Londra, presso la Albemarle Gallery dove crea l’imponente scultura in marmo di 6 metri Obelisco del Terzo Millennio, per la città di Manzano (Udine). Vince anche il concorso nazionale per la realizzazione del Monumento alla Civiltà e Cultura del Lavoro Lecchese, che viene inaugurato a Lecco nel maggio del 2002. Anche in questo caso, l’opera presentata da Atchugarry è una scultura in marmo di Carrara di 6 metri d’altezza, realizzata a partire da un unico blocco di 33 tonnellate. Come riconoscimento alla sua carriera artistica, nel luglio del 2002 viene insignito del premio “Michelangelo”, a Carrara. In questo periodo Atchugarry lavora a diversi progetti, tra i quali la scultura Ideales, un omaggio per celebrare il 50° anniversario dell’incoronazione del Principe Ranieri di Monaco, attualmente collocata nella Avenue Princesse Grace di Montecarlo. Nel 2003 Atchugarry partecipa alla 50ª Biennale di Venezia con l’opera Sognando la Pace, un’installazione composta da otto sculture di grandi dimensioni in marmo di Carrara e marmo grigio Bardiglio della Garfagnana. Lo stesso anno espone per la seconda volta presso la Fondazione Veranneman in Belgio e realizza per la Fondazione Fran Daurel a Barcellona l’opera intitolata Ascensión.
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PABLO ATCHUGARRY, FREEDOM STAR, 2017 Marmo statuario di Carrara, 93,5 x 24 x 17 cm
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PABLO ATCHUGARRY, SENZA TITOLO, 2007 Acciaio Inox, 73 x 16 x 16 cm
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Nel 2004, a distanza di venticinque anni dalla sua ultima mostra in Uruguay, la Galleria Tejería Loppacher organizza la sua prima personale di scultura a Punta del Este, seguita da un’altra importante rassegna personale tenutasi l’anno successivo presso il Museo Nazionale di Belle Arti di Buenos Aires. Il Groeninge Museum di Bruges dedica nel 2006 una grande retrospettiva ad Atchugarry, con opere provenienti da collezioni private di tutto il mondo. Quattro anni più tardi, il museo acquisisce una scultura per la propria collezione, che viene poi esposta in maniera permanente nel parco. Lo stesso anno, la collezione João Berardo in Portogallo acquisisce l’opera Camino Vital (1999), una scultura di 4,83 metri di altezza destinata al Centro Culturale di Belém, a Lisbona. Nel 2007 si costituisce la Fondazione Pablo Atchuggarry a Manantiales (Uruguay), con l’obbiettivo di creare un luogo di incontro per artisti di tutte le discipline, uno spazio di unione ideale tra natura ed arte. Lo stesso anno Atchugarry porta a compimento la sua prima scultura di 8 metri intitolata Nel cammino della Luce, scolpita da un unico blocco di marmo di Carrara di 48 tonnellate e destinata alla Collezione Fontanta, in Italia. Tra il 2007 e il 2008 viene organizzata in Brasile una grande retrospettiva dal titolo El espacio plástico de la luz, accompagnata da un testo critico di Luca Massimo Barbero. Si tratta di una mostra itinerante, tenutasi prima presso il Centro Cultural Banco do Brasil di Brasilia, e in seguito al MUBE (Centro Brasiliano di Scultura) di San Paolo e nel Museo Oscar Niemeyer di Curitiba. Nel 2008 il Museo Nazionale di Arti Visive di Montevideo gli dedica una mostra personale che raccoglie gli ultimi quindici anni della sua produzione artistica. Nel 2009 Atchugarry conclude un’altra opera monumentale, la scultura Luz y energía de Punta del Este realizzata in marmo di Carrara e con un’altezza di 5 metri, che viene inaugurata a Punta del Este in occasione del centenario della città. Dopo sette anni di intenso lavoro, nel 2011 l’artista termina l’opera Abbraccio Cosmico, scolpita da un blocco di 56 tonnellate di peso e di 8,5 metri di altezza. Nel novembre dello stesso anno si tiene la prima mostra personale a New York, a cura di Hollis Taggart Galleries e con testo critico di Jonathan Goodman. La Galleria Sur, in Uruguay, presenta i suoi lavori ad Art Basel Miami e, successivamente, alla Tefaf Art Fair di Maastricht, nei Paesi Bassi. Nel marzo del 2012, la Times Square Alliance seleziona l’opera Dreaming New York per essere esposta a Times Square durante la diciottesima edizione dell’Armony Show di New York. Nel mese di luglio dello stesso anno, nell’ambito del programma City of Sculpture organizzato dal Westminster City Council, due sculture di acciaio inossidabile vengono esposte ai St. James Square Gardens di Londra. Queste due opere, intitolate Espíritu Olímpico I e Espíritu Olímpico II, sono state create specificamente per l’occasione e misurano rispettivamente 5,9 e 5,85 metri d’altezza. Alla fine del 2013, la casa editoriale Mondadori Electa di Milano pubblica due volumi del Catalogo Generale della scultura di Pablo Atchugarry, a cura del professor Carlo Pirovano. Il terzo volume uscirà nel 2019. Nel 2015-2016 il Museo dei Fori Imperiali – Mercati di Traiano di Roma ha ospitato la mostra Pablo Atchugarry. Città Eterna, eterni marmi, un’importante retrospettiva che ha presentato il lavoro dell’artista attraverso una rassegna di quaranta opere. Il Museu Brasileiro da Escultura a San Paolo organizza, durante il 2017, la più grande retrospettiva delle sue opere intitolata Un viaggio attraverso la Materia. Nel 2018 si inaugura l’Atchugarry Art Center a Miami. Atchugarry riceve nel 2019 l’onorificenza, da parte del Presidente della Repubblica Italiana, di Ufficiale della Stella d’Italia. A maggio dello stesso anno, la Galleria d’Arte Contini inaugura The Movement of Light, mostra personale dedicata all’artista presso la sede di Venezia in Calle Larga XXII Marzo, San Marco 2288. Segue dal mese di giugno la mostra The Evolution of a Dream, organizzata dal Comune di Pietrasanta, in collaborazione con la Galleria d’Arte Contini di Venezia, con la Fondazione Versiliana e START, che presenta in Piazza del Duomo e nella chiesa e chiostro di Sant’Agostino una selezione di sculture monumentali di Atchugarry, in marmo e bronzo.
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PABLO ATCHUGARRY, CORONA DI LUCE, 2015 Marmo statuario di Carrara, 183 x 27 x 27 cm
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PABLO ATCHUGARRY, OMAGGIO A BRANCUSI, 1998 Marmo rosa del Portogallo, 78 x 15 x 8 cm
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PABLO ATCHUGARRY, AMOR A PRIMERA VISTA, 2019 Marmo nero del Belgio, 81 x 26 x 14 cm
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Mostre dedicate al lavoro di Pablo Atchugarry sono state realizzate a livello internazionale in diverse città, tra le quali Londra, New York, Miami, Montevideo, Buenos Aires, Parigi, San Paolo, Curitiba Brasilia, Panama, New Orleans, San Francisco, Madrid, Colonia, Francoforte, Maastricht, Amsterdam, Bruges, Bruxelles, Gand, Zurigo, Basilea, Abu Dhabi, Stoccolma, Hong Kong, Singapore, Seul, Milano, Torino e Venezia. Le opere di Pablo Atchugarry sono presenti in musei di tutto il mondo: ricordiamo il Museo Nazionale di Arti Visive di Montevideo, il Chrysler Museum di Norfolk, in Virginia, il Groeninge Museum a Bruges, la Collezione Berardo in Portogallo, il Museo Lercaro a Bologna, il Museo del Parco di Portofino, il Perez Art Museum e il Phillip & Patricia Frost Art Museum di Miami. L’artista oggi vive e lavora tra Lecco e Manantiales (Uruguay), dove si occupa dello sviluppo della Fondazione Pablo Atchugarry e del parco di scultura internazionale, così come delle aree espositive finalizzate all’insegnamento e alla diffusione dell’arte, che ogni anno ricevono la visita di migliaia di studenti. Pablo Atchugarry rappresenta una delle realtà più interessanti e dinamiche dell’arte e della scultura mondiale, tenendo conto dell’internazionalità delle sue attività, che generano una grande quantità di scambi con altri artisti di tutte le nazionalità, facilitando la costruzione di un ponte di comunicazione tra l’arte europea e quella americana.
PABLO ATCHUGARRY, CREAZIONE DELL’UNIVERSO, 2017 Marmo statuario di Carrara, 96,5 x 51 x 33,5 cm
PABLO ATCHUGARRY, SENZA TITOLO, 2010 Marmo statuario di Carrara, 122,5 x 30 x 16,5 cm
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PABLO ATCHUGARRY, SENZA TITOLO, 2018 - Ed. PA Bronzo smaltato, 73 x 22 x 17 cm
PABLO ATCHUGARRY, SENZA TITOLO, 2018 - Ed. 6/8 Bronzo smaltato, 44,5 x 18,5 x 10 cm
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PABLO ATCHUGARRY, SENZA TITOLO, 2019 Marmo statuario di Carrara, 59 x 20 x 17 cm
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“La pittura futurista non è accademica, non è schiava dei preconcetti artistici a misure stabilite. Il grosso pubblico finora indifferente od ostile, dovrà convincersi della sincerità della nostra arte, la più moderna fra tutte. Gli attuali primitivi copiano i primitivi, i neo-classici intendono di rifare i classici, i naturalisti pretendono di copiare la natura. Nessuno di questi gruppi ha raggiunto ancora la modernità e l’originalità del futurismo, ma restano di gran lunga inferiori al futurismo che trionfa in tutte le sue manifestazioni.“ Pippo Rizzo
FUTURISMO
Il futurismo è il primo movimento d’avanguardia nato in Italia, destinato a rompere l’isolamento provinciale della nostra cultura e a riaprire un dialogo tra Italia e Europa. Nasce ufficialmente nel 1909 con la pubblicazione del Manifesto del movimento sul giornale parigino “Le Figaro”. Il manifesto esprime un programma teorico, una posizione ideologica che spesso precede la pratica, ma la prima regola applicata dai futuristi sarà l’abolizione, nell’immagine, della prospettiva tradizionale, per un moltiplicarsi di punti di vista che esprimano, con intensa emozionalità, il suo dinamico interagire con lo spazio circostante. All’inizio del ‘900, tutto il mondo dell’arte e della cultura è in evoluzione, spinto dai cambiamenti politici, per le guerre e per la veloce trasformazione della società. Il telegrafo senza fili e la radio annullano le distanze. Il dirigibile e poi l’aeroplano avvicinano i continenti. I tubi al neon illuminano le città e le automobili aumentano ogni giorno, grazie all’invenzione della catena di montaggio. Nel 1909 il poeta ed editore Filippo Tommaso Marinetti, incomincia a pubblicare una serie di Manifesti (notevolmente deliranti ed ai quali il Fascismo si ispirerà), che propugnano l’avvento del Futurismo in letteratura, nella pittura e nelle arti in genere, compresa l’architettura. A Milano i pittori divisionisti Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo, firmano il Manifesto Tecnico della pittura futurista, che ne stabilisce le regole: abolizione nell’immagine della prospettiva tradizionale, a favore di una visione da più punti di vista per esprimere il dinamismo degli oggetti. Nella primavera del 1910 Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Luigi Russolo, espongono le prime opere futuriste a Milano, alla “Mostra d’arte libera” nella fabbrica Ricordi. Dopo il Manifesto generale del movimento, nel 1910, uscirà un primo manifesto dei pittori futuristi. Il manifesto futurista del 1910 sottolinea: “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro zampe, ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari “. Il punto più importante di questo manifesto è dunque quello di opporre all’antica pittura statica, una nuova pittura “dinamica”, capace di rendere l’idea del movimento, della velocità, di “porre lo spettatore al centro del quadro”. I Pittori Futuristi derivano, chi più chi meno, dall’esperienza del Divisionismo ed interpretano il nuovo verbo in modo molto personale. Umberto Boccioni, non dimentico della lezione cubista, lo traduce in forme cariche di emotività espressionistica legate nelle linee-forza. Giacomo Balla scompone quasi scientificamente il movimento, Gino Severini frantuma l’immagine in una molteplicità di piani-luce dal tenue e raffinato cromatismo che gli deriva da Georges Seraut. Russolo si esprime attraverso immagini a cui dà corpo con un’accesa e contrastante cromia, Carlo Carrà, rispetta il non-figurativismo futurista, pur dipingendo forme che non rinunciano mai totalmente ai valori plastici e pittorici che gli sono congeniali. Il manifesto Futurista recita: “Noi (Futuristi) proclamiamo.... che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica... che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi.” Giacomo Balla, firmatario del primo Manifesto Futurista, applica il dinamismo e la simultaneità, concetti chiave del futurismo, in molte opere, dove il soggetto “uomo” non è raffigurato, come in passato, nella sua forma fisica, ma come una successione di movimenti rappresentati con una pluralità d’immagini, secondo una metodologia analitica e sperimentale che ne evidenzia la struttura sequenziale. Quando Umberto Boccioni muore improvvisamente, nel 1916, Carrà e Severini sono in una fase di evoluzione verso la Pittura Cubista, quindi il gruppo milanese si scioglie ed il cuore del movimento futurista diventa Roma, con la conseguente nascita del Secondo Futurismo. La prima fase del Secondo Futurismo, dal 1918 al 1928, è caratterizzata dallo scioglimento del gruppo di Futuristi milanesi che si ricompattano a Roma attorno a Marinetti. In questa fase i pittori Futuristi sono impegnati nel superamento del divisionismo evolvendosi in forme astratto-geometriche, mediate dalla conoscenza del cubismo, delle prime intuizioni post-cubiste e costruttiviste. Nel 1929 i Futuristi entrarono nella seconda fase del Secondo Futurismo (1929-38) e firmarono il Manifesto della Aeropittura, che proponeva uno stile pittorica capace di dare al pubblico sensazioni collegate al volo con il risultato di avvicinare gli artisti alle idee suggerite dal surrealismo. Alla terza fase del Futurismo fanno parte Luigi Colombo Fillia, Nicolay Diulgheroff, fino a Mario Sironi, Ardengo Soffici e Ottone Rosai. Anche altri pittori, in epoche successive, manterranno nella loro arte uno o più elementi dichiarati dai Manifesti futuristi amalgamati ad altri stili pittorici prevalenti. Per ciò che riguarda l’architettura futurista, se si tralasciano alcuni passi e spunti di Umberto Boccioni e alcune ricerche di Balla, il problema è circoscritto alla figura di Antonio Sant’Elia, la cui valutazione peraltro è limitata a disegni e bozzetti prospettici, senza alcuna indagine degli spazi interni e della distribuzione planimetrica. L’immagine di una “città nuova” dai caratteri spiccatamente futuristi, in cui il dinamismo e la velocità erano fattori essenziali, viene perseguita da alcuni architetti, da Chiattone, Marchi, Gropius a Le Corbusier, stimolando il formarsi dell’ideologia dell’urbanistica di avanguardia.
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GIACOMO BALLA, LINEE ANDAMENTALI, 1925 Olio su masonite, 21,5 x 44 cm
GIACOMO BALLA Torino, 1871 - Roma, 1958
Giacomo Balla è nato a Torino il 18 luglio 1871. Figlio di un appassionato fotografo dilettante, Giacomo Balla fin da piccolo è attratto dall’arte, ama disegnare e studia violino. Al termine degli studi lavora in uno studio di litografia, mentre segue un corso serale di disegno e frequenta per alcuni mesi l’Accademia Albertina. Fondamentalmente autodidatta, nella ricerca del suo stile artistico, si lascia influenzare dagli Artisti Divisionisti che frequenta, ed i suoi primi lavori accomunano il divisionista allo spirito positivista. I temi che Balla affronta sono umanitari, ma nel contempo sono occasioni di sperimentazione sugli effetti della luce sia naturale che artificiale. Il soggetto del lavoro ritorna di frequente nella sua arte, acquistando talvolta sottintesi reverenziali, come nel trittico “La giornata dell’operaio”. Trasferitosi a Roma nel 1895, al seguito del pedagogista Alessandro Marcucci, fratello della futura moglie Elisa, frequenta il gruppo di intellettuali dediti alla costituzione delle scuole per i contadini dell’agro romano. Nel settembre 1900 Balla si reca a Parigi per visitare l’Exposition universelle e vi rimase sette mesi lavorando per l’illustratore Sergio Macchiati. Tra il 1902 e il 1905 Giacomo Balla realizza le quattro tele (inizialmente dovevano essere quindici) del ciclo dei “viventi”: “Il mendicante” (1902, “Il contadino (l’ortolano)” (1903), “I malati” (1903) e “La pazza” (1905), dove il divisionismo si abbina ad una forte carica umanitaria che mostra la profonda attenzione che Giacomo Balla dedica agli emarginati e agli oppressi. In questi anni Umberto Boccioni, Gino Severini, Mario Sironi ed altri giovani pittori frequentano assiduamente il suo studio e si possono considerare suoi allievi. Intanto Giacomo Balla incomincia ad interessarsi al movimento, inizia serie ricerche sul dinamismo e, nel 1910, è tra i firmatari del Manifesto dei pittori futuristi e del Manifesto tecnico della pittura futurista. I nuovi interessi stilistici di Ballano si concretizzano nei dipinti “Bambina che corre sul balcone” (1912), “Dinamismo di un cane al guinzaglio” (1912) e “Le mani del violinista” (1912). L’analisi del movimento lo spinge a focalizzare l’attenzione sul moto delle automobili cercando di conferire la sensazione della velocità del veicolo in corsa, attraverso triangoli di luci ed ombre, linee curve e linee diagonali che creano una particolare prospettiva. Questa nuova tecnica, che porta un certo interesse fra i critici, dà vita a “Profondità dinamiche” (1912), “Velocità astratta” (1913) e “Velocità d’automobile” (1913). Tra il 1912 e il 1914 Balla è a Dusseldorf per la decorazione di casa Lowenstein. In questo periodo il pittore produce “Compenetrazioni iridescenti” nel quale riduce gli effetti della luce e della velocità all’ermetica purezza delle forme geometriche ed opere che costituiscono i primi esempi di arte astratta italiana. Tornato in Italia, nel 1915 insieme a Fortunato Depero redige il manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo” che estende la poetica futurista a svariati campi della vita, insieme produssero una serie di costruzioni, assolutamente non figurative, o “complessi plastici”, di cartone, lamiera, seta e altri materiali di uso corrente. “…Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente...”; i due pittori propongono di reinventare l’ambiente umano soprattutto inserendo l’a rte nel mondo della moda, dell’a rredo e del teatro. A livello teatrale è veramente innovativa la scenografia che Giacomo Balla realizza nel 1917 per il balletto “Feu d’artifice” con musica di Igor Stravinskij, in cui la presenza umana viene sostituita dall’alternarsi ritmico delle luci. Nella “Exposition Internationale d’Arts Décoratifs” di Parigi (1925), a cui partecipa insieme a Fortunato Depero ed Enrico Prampolini, i suoi arazzi vengono premiati. Per un breve periodo Giacomo Balla, aderisce al secondo futurismo di Filippo Tommaso Marinetti ed è tra i firmatari del manifesto “L’aeropittura. Manifesto futurista” del 1931 e prende parte alla I° mostra di Aeropittura Futurista L’esposizione è l’ultima partecipazione a mostre futuriste perché oramai l’a rtista di Torino sta volgendo la propria attenzione alla Pittura Figurativa. Durante i primi anni Trenta Giacomo Balla, abbandona progressivamente il futurismo per tornare ad un certo Realismo naturalistico, convinto che l’arte pura debba esprimere un realismo assoluto, senza il quale si cadrebbe in forme ornamentali e decorative. Nonostante un breve periodo negli anni Cinquanta, in cui le sue opere futuriste furono apprezzate dalla generazione più giovane di pittori astratti, il gruppo “Origine” che allestì una mostra dei suoi dipinti nel 1951, Giacomo Balla rimase un pittore figurativo fino alla morte avvenuta a Roma l’1 marzo 1958.
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“Dovete aver notato che da qualche tempo c’è qualcosa di cambiato nelle arti; non parliamo di neoclassicismo, di ritorno, ecc...; vi sono degli uomini, dei quali probabilmente anche voi fate parte, che, arrivati a un limite della loro arte, si sono domandati: dove andiamo? Hanno sentito il bisogno di una base più solida; non hanno rinnegato nulla... Ma un problema mi tormenta da circa tre anni, il problema del mestiere: è per questo che mi sono messo a copiare nei musei.” Giorgio De Chirico
NOVECENTO
Ripristino dei legami di continuità con la tradizione classica, ritorno all’ordine ed all’armonia compositiva rinascimentale per reazione allo sconvolgimento operato dalle avanguardie europee. Novecento è un movimento artistico degli anni ‘20 che esordisce a Milano grazie all’attività del “Gruppo dei Sette”, Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Mario Sironi, organizzati da Margherita Sarfatti, critica d’arte, animatrice di uno dei salotti intellettuali più esclusivi della città, teorica del movimento ed organizzatrice della prima mostra ufficiale, nel 1926, al Palazzo della Permanente (presenti anche i futuristi Balla, Depero, Prampolini e Russo). Fanno seguito, l’anno dopo, a Roma, la mostra “Dieci artisti del Novecento italiano” e poi, tra il 1926 e il ‘32, varie altre mostre in tutta Europa. L’intento di Novecento è quello di ripristinare legami di continuità con il classicismo della tradizione europea, in chiave moderna, anche con la riproposizione di temi classici quali il ritratto, la natura morta ed il paesaggio, un ritorno all’ordine che aspira a recuperare quegli ideali di armonia e compostezza formale che i più trasgressivi movimenti avanguardisti hanno spazzato via senza sostituirli con alternative valide e costruttive. In particolare, come racconta la stessa Sarfatti in un suo libro “Storia della pittura moderna“, gli artisti del Novecento sono affascinati dal “... carattere inconfondibile (come oggi si dice) dell’arte plastica italiana nei secoli: nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento..... “ . Sulla base di un progetto che ambisce a ristabilire il “primato” dell’arte italiana, accompagnato dal miraggio o dall’illusione di un’Italia nuova, la poetica di Novecento si lega al Rinascimento ed alla precedente, composta e solida pittura di Giotto, cercando di darsi un’identità attraverso il legame con le radici culturali nostrane, nel nome di una italianità che il regime fascista strumentalizzerà da lì a poco a fini propagandistici determinando attorno al movimento implicazioni ideologiche che in seguito lo penalizzeranno ingiustamente, legandolo ad un concetto di nazionalismo deteriore. Nel nome dei ricorsi storici che punteggiano l’avanzare della modernità, il concetto di classicismo come sinonimo di armonia compositiva ed equilibrio formale, di linguaggio colto e raffinato, un po’ cerebrale ed intellettualistico, era già stato teorizzato dalla rivista ‘Valori Plastici’, edita a Roma dal 1918, con la collaborazione di De Chirico, del fratello Savinio, di Carrà, Ardengo Soffici e Giorgio Morandi, che getta le basi della pittura metafisica. Nella sostanziale incertezza teorica con qualche risvolto revisionista, in polemica con le avanguardie europee, questi movimenti, tutti animati da una sorta di tensione visionaria, si riallacciano alla cultura figurativa del Trecento e del Quattrocento italiano, considerata da un punto di vista esclusivamente e talvolta vuotamente formale. La maggioranza degli artisti italiani dell’epoca aderirono al “Novecento”, benché fossero di distinte tendenze; tra i più significativi si trovavano Arturo Tosi, Mino Maccari, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Filippo de Pisis, Felice Casorati, Massimo Campigli, Osvaldo Licini, Giorgio Morandi e Gino Severini. Tuttavia alcuni si separarono, successivamente, scegliendo la pittura astratta, come Osvaldo Licini, Atanasio Soldati ed Alberto Magnelli, mentre altri, come Scipione (Gino Bonichi), Renato Guttuso e Renato Birolli preferirono l’espressionismo, a causa delle loro idee antifasciste. Sia per divergenze interne sia per ripetuti attacchi del regime fascista attraverso la persona di Farinacci nei confronti della Sarfatti, ebrea, che dovette poi riparare in Argentina per sottrarsi alle leggi antisemite, il gruppo di Novecento finì per sciogliersi e parecchi dei suoi componenti furono costretti ad una lunga emarginazione. Mario Sironi, ad esempio, è stato rivalutato solo recentemente, dopo aver trascorso un ventennio dolente e sofferto, quello del ‘40-60, un periodo delicato della storia d’Italia, in cui alla convinta fiducia nelle possibilità di progresso socio-economico per il paese si sostituiscono dapprima gli orrori della guerra, poi le miserie del dopoguerra. Ciò determina nella coscienza collettiva e nell’animo dell’artista una delusione profonda ed una dolorosa lacerazione tra passato e presente, tra ideali eroici e crisi esistenziale, devastanti in un uomo che aveva aderito al fascismo in assoluta buona fede e con una certa ingenuità politica perché ne condivideva i principi, pur conservando autonomia di pensiero e di espressione. Sironi va fra l’altro ricordato come autore di un Manifesto della pittura murale, pubblicato nel dicembre 1933 e sottoscritto da Carrà, Campigli, Funi, condiviso da Cagli, nel quale viene lanciato un nuovo stile “antico e allo stesso tempo nuovissimo” che, agli occhi dei contemporanei, legherà indelebilmente il suo nome a quello del fascismo, con pesanti conseguenze alla fine del regime. Fu una solitaria vecchiaia, quella di Sironi, (morto nel ‘61) isolato dalla critica e dal mondo intellettuale con una ingiusta congiura del silenzio: è solo degli anni ‘50 l’inizio di un’analisi critica più rigorosa ed obiettiva sulla sua opera e la sua definitiva riabilitazione che scinde giustamente la vicenda politica da quella artistica, addivenendo ad una valutazione complessiva ed equanime della sua produzione in questo periodo, densa di complessi significati, frutto di una sofferta ricerca introspettiva, ricca di novità dei contenuti nelle grandi composizioni che gli sono tipiche, percorse da inedite sfumature liriche.
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GIORGIO DE CHIRICO, CAVALLI E CAVALIERI CON PAESAGGIO, 1960 Olio su tela, 50 x 62 cm
GIORGIO DE CHIRICO Volo (Grecia), 1888 – Roma, 1978
Giuseppe Maria Alberto Giorgio de Chirico nasce a Volo, Grecia, il 10 luglio 1888, da genitori italiani. Il padre, Evaristo, di nobile famiglia d’origini siciliane, è un ingegnere impegnato nella costruzione della ferrovia della Tessaglia. La madre, Gemma Cervetto, è di famiglia di origini genovesi. Nel 1891 muore Adelaide, la sorella maggiore. Ad agosto nasce, ad Atene, il fratello Andrea (che prenderà il nome di Alberto Savinio dal 1914). Nel 1896 i de Chirico rientrano a Volo dove risiederanno fino al 1899 e dove Giorgio prende le prime lezioni di disegno. La famiglia si ristabilisce ad Atene dove Giorgio frequenta il Politecnico dal 1903 al 1906. Nel maggio del 1905, all’età di 62 anni, muore il padre, malato già da alcuni anni. Nel settembre del 1906 la madre decide di lasciare la Grecia con i due figli. Dopo brevi soste a Venezia e a Milano la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera dove Giorgio frequenta l’Accademia di Belle Arti mentre Andrea studia musica. De Chirico si dedica allo studio di Arnold Böcklin e Max Klinger, legge con grande interesse Nietzsche, Schopenhauer e Weininger. Ritorna a Milano, raggiungendo la madre e il fratello nel giugno del 1909. In questo periodo dipinge quadri di influenza böckliniana. Soffre di forti disturbi intestinali come conseguenza della morte del padre. Nel marzo del 1910 la famiglia si trasferisce a Firenze dove vivono una zia e uno zio (sorella e fratello del padre). De Chirico scriverà più tardi nelle sue Memorie: “A Firenze la mia salute peggiorò; dipingevo qualche volta quadri di piccole dimensioni; il periodo böckliniano era passato ed avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d’a utunno, di pomeriggio, nelle città italiane”. Nasce così il suo primo quadro metafisico: L’énigme d‘un après-midi d’a utomne ispirato da una visione avuta in Piazza Santa Croce. L’opera è preceduta da L’énigme de l’oracle e seguita, sempre nel 1910 a Firenze, da L’énigme de l’heure e dal famoso autoritratto Portrait de l’a rtiste par lui-même con la lapidaria epigrafe nietzschiana “Et quid amabo nisi quod aenigma est?” (“E cosa amerò se non ciò che è enigma?”). Il 14 luglio 1911 arriva a Parigi dove svilupperà il tema della Piazza d’Italia. Partecipa per la prima volta a una mostra, al Salon d’Automne del 1912. Nel marzo 1913 espone al Salon des Indépendants. È notato da Picasso e da Apollinaire che, entusiasta delle sue opere recensisce la mostra che l’a rtista realizza nel suo studio ad ottobre nel «L’Intransigeant». Il poeta lo definisce: “il pittore più sorprendente della giovane generazione” e, a gennaio del 1914, iniziano a collaborare insieme come si evince dalle lettere scritte dall’a rtista all’epoca. De Chirico presenta Savinio ad Apollinaire a fine gennaio e, insieme, frequentano gli incontri delle «Les Soirées de Paris». Conosce Paul Guillaume, suo primo mercante. In quell’ambito, incontra Ardengo Soffici, Constantin Brancusi, Max Jacob e André Derain. Dipinge il famoso Portrait de Guillaume Apollinaire; il poeta gli dedicherà l’anno successivo il poema Océan de Terre. Inizia il ciclo iconografico dei Manichini. Nel maggio del 1915 de Chirico e Savinio rientrano in Italia per presentarsi alle autorità militari di Firenze e, in seguito, sono trasferiti a Ferrara, dove Giorgio viene assunto come scritturale. Comincia a dipingere i primi Interni metafisici. Nello stesso periodo realizza anche Il grande metafisico, Ettore e Andromaca, Il trovatore e Le muse inquietanti. Nel 1916 conosce Filippo de Pisis, appena ventenne. Nel 1917 trascorre qualche mese presso l’ospedale militare Villa del Seminario per malattie nervose, dove si trova anche Carlo Carrà. Entra in contatto con l’ambiente Dada di Tristan Tzara e della rivista «Dada 2». Continua a tenersi in contatto con l’ambiente parigino e a inviare le sue opere a Paul Guillaume che il 3 novembre 1918 tiene una mostra insolita presentando i quadri dell’a rtista, con un testo introduttivo di Savinio, sulla scena del Théâtre du Vieux-Colombier. Apollinaire muore il 9 novembre 1918. Nel primo numero di «Valori Plastici» pubblica il testo Zeusi l’esploratore in cui proclama: “Bisogna scoprire il demone in ogni cosa. […] Bisogna scoprire l’occhio in ogni cosa. […] Siamo esploratori pronti per altre partenze”, dedicando il saggio a Mario Broglio, il fondatore della rivista. Si trasferisce a Roma il 1 gennaio 1919. Un fitto carteggio riporta il progetto di matrimonio con la fidanzata Antonia Bolognesi, conosciuta a Ferrara nell’a utunno del 1917. La loro relazione finisce nel dicembre 1919. A febbraio, ha luogo a Roma la sua prima mostra personale alla Casa d’A rte Bragaglia. In quell’occasione pubblica lo scritto Noi metafisici su «Cronache d’attualità», nel quale scrive: “Schopenhauer e Nietzsche per primi insegnarono il profondo significato del non-senso della vita e come tale non-senso potesse venir tramutato in arte […]. I buoni artefici nuovi sono dei filosofi che hanno superato la filosofia”. In quel periodo de Chirico riscopre l’a rte dei grandi artisti nei musei e inizia a fare copie dai maestri italiani del Rinascimento. A Firenze studia la tecnica della tempera e della pittura su tavola. Nel 1921 si tiene una mostra personale alla Galleria Arte di Milano. Lo stesso anno entra in rapporto epistolare con André Breton. Scrive su varie riviste ove pubblica saggi su Raffaello, Böcklin, Klinger, Previati, Renoir, Gauguin e
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Morandi. Nel 1922 viene inaugurata un’importante personale alla Galerie Paul Guillaume di Parigi in cui sono esposte cinquantacinque opere. André Breton ne firma la presentazione. Nel 1923, in occasione della II Biennale romana, Paul e Gala Éluard si recano a Roma e acquistano diverse sue opere. Partecipa alla XIV Biennale di Venezia. Nel 1924, a Roma, conosce la ballerina russa e futura archeologa Raissa Gourevitch Krol che diventerà sua moglie. Verso la fine dell’anno è a Parigi dove, al Théâtre des Champs Elysées, realizza scene e costumi per La Giara di Pirandello messa in scena dai Balletti Svedesi con musiche di Alfredo Casella. Collabora al primo numero de «La Révolution Surréaliste» pubblicando il suo scritto Rêve ed è immortalato da Man Ray nella celebre foto di gruppo. Si stabilisce nella capitale francese nel 1925. Inizia in questi anni la ricerca sulla Metafisica della luce e del mito mediterraneo, dando origine a temi come gli Archeologi, i Cavalli in riva al mare, i Trofei, i Paesaggi nella stanza, i Mobili nella valle e i Gladiatori. In occasione di una sua personale alla Galerie Léonce Rosenberg i surrealisti criticano duramente le più recenti opere dell’artista. La frattura con i surrealisti è ormai totale e destinata ad aggravarsi negli anni successivi. Fa la conoscenza del mecenate Albert C. Barnes che diventa un suo grande collezionista e sostenitore. Nel 1928 escono, a Parigi, la monografia di Jean Cocteau: Le Mystère Laïc – Essai d’étude indirecte, con litografie dell’artista e, a Milano, il Piccolo Trattato di Tecnica Pittorica da Libri Scheiwiller. Nel 1929 l’Éditions du Carrefour di Pierre Lévy pubblica Hebdomeros, le peintre et son génie chez l’écrivain. Prepara le scene e i costumi per il balletto Le Bal, prodotto dai Balletti Russi di Serge Diaghilev (Montecarlo, Parigi e Londra). Espone in Italia e all’estero a Parigi, Berlino, Amburgo, Amsterdam, Bruxelles, Londra e New York. In questi anni dipinge vite silenti, ritratti e nudi femminili di un naturalismo luminoso. Gallimard pubblica Calligrammes di Apollinaire, illustrato da sessantasei litografie dell’a rtista in cui compare per la prima volta il tema del Sole sul cavalletto. Il 3 febbraio 1930 sposa Raissa, quando la relazione è già compromessa. Nell’a utunno conosce Isabella Pakszwer (poi Isabella Far) che diventerà la sua seconda moglie e gli resterà vicina fino alla morte. Alla fine del 1931 la rottura con Raissa è definitiva. Espone alla XVIII Biennale di Venezia nella sala dedicata agli artisti italiani di Parigi. De Chirico e Isabella si trasferiscono per un anno a Firenze. Nel 1933 partecipa alla V Triennale di Milano per la quale esegue il monumentale affresco La cultura italiana. Continua l’attività per il teatro: esegue scene e costumi per I Puritani di Bellini, per il Maggio Musicale Fiorentino (1933), le scenografie per La figlia di Jorio di D’Annunzio, con regia di Pirandello al Teatro Argentina di Roma. Nel 1934 esegue dieci litografie sul tema dei Bagni misteriosi per Mythologie di Jean Cocteau. Partecipa alla II Quadriennale di Roma nel febbraio del 1935 con quarantacinque opere, tra cui sette dipinti sul nuovo tema dei Bagni misteriosi. Nell’agosto del 1936 parte per New York. Espone alla Julien Levy Gallery le sue opere recenti, molte delle quali acquistate dal collezionista Albert C. Barnes per il suo museo e da vari collezionisti. De Chirico collabora alle riviste «Vogue» e «Harper’s Bazaar» ed esegue per la sartoria Scheiner di New York un pannello murale intitolato Petronio e l’Adone moderno in frack. Decora una parete dell’istituto di bellezza Helena Rubinstein; realizza, in un’iniziativa che coinvolge anche Picasso e Matisse, una sala da pranzo alla Decorators Picture Gallery. Nel giugno 1937 riceve dal fratello la notizia della morte della madre. Nel gennaio del 1938 rientra in Italia e si stabilisce a Milano, per poi trasferirsi a Parigi, disgustato dai decreti per “la difesa della razza”. Espone alla III Quadriennale d’A rte Nazionale di Roma. A Firenze, durante gli anni della guerra, è ospitato dall’amico antiquario Luigi Bellini, insieme a Isabella, ebrea russa nata a Varsavia. Inizia la creazione di alcune sculture in terracotta: Gli Archeologi, Ettore e Andromaca, Ippolito e il suo cavallo e Pietà. Pubblica Il Signor Dudron in «Prospettive» e il testo sulla scultura Brevis Pro Plastica Oratio su «Aria d’Italia». Nel 1941 esce The Early Chirico di James Thrall Soby. Ebdòmero é pubblicato in italiano nel 1942. Scrive numerosi articoli teorici su vari periodici poi riuniti in Commedia dell’a rte moderna (Roma 1945), insieme a saggi del periodo di «Valori Plastici» dei primi anni Venti. Nel 1944 si stabilisce definitivamente a Roma. Il fotografo Irving Penn lo ritrae tra il celebrativo e l’ironico con la corona d’alloro. Nel 1945 pubblica i testi autobiografici: Memorie della mia vita e 1918-1925 – Ricordi di Roma. Intensifica la sua ricerca sui maestri antichi, eseguendo d’a près da Tiziano, Rubens, Delacroix, Watteau, Fragonard e Courbet. Scatena una dura lotta contro le falsificazioni delle sue opere, fenomeno che data dalla metà degli anni Venti. Il 18 maggio 1946 sposa Isabella Pakszwer. Nel giugno del 1946 si tiene alla Galerie Allard di Parigi, con l’a pprovazione di Breton, una personale dell’a rtista nella quale vengono esposte venti opere metafisiche false eseguite dal pittore surrealista Oscar Dominguez. Nel corso del 1947 trasferisce lo studio e, l’anno successivo, anche l’abitazione, in Piazza di Spagna 31 dove risiederà per il resto della sua vita. Alla fine del 1948 viene nominato membro della Royal Society of British Artists e nel 1949 allestisce una personale in questa prestigiosa sede. Nel 1950, in polemica con la Biennale – che due anni prima aveva esposto un “formidabile falso” e aveva assegnato il premio per la Metafisica a Giorgio Morandi – de Chirico organizza nella sede della Società Canottieri
Bucintoro di Venezia una “Antibiennale” in cui espone con i pittori “antimoderni”; seguiranno simili personali, nella stessa sede, nel 1952 e nel 1954. Il 5 maggio 1952 muore Alberto Savinio a Roma. Illustra I Promessi Sposi nel 1965 e l’Iliade tradotta da Quasimodo nel 1968. Verso la fine degli anni Sessanta inizia la tiratura di alcune sculture in bronzo. In seguito a un periodo che lo trova impegnato con alcuni contratti di committenza, l’ottantenne artista riacquista una tranquillità lavorativa e inizia un nuovo periodo di ricerca conosciuto come la Neometafisica, durante il quale dipinge opere sulla meditazione e la rielaborazione di soggetti della sua pittura e arte grafica degli anni Dieci, Venti e Trenta. Soggetti come il Manichino, il Trovatore, gli Archeologi, i Gladiatori, i Bagni misteriosi e il Sole sul cavalletto sono reinterpretati sotto una nuova luce, con colori accesi e atmosfere più serene rispetto a quelle severe e cupe della prima Metafisica, pervase da una strana sensazione d’inquietudine. È con grande poesia che imposta nuove combinazioni dei soggetti all’interno delle sue più famose innovazioni spaziali come la Piazza d’Italia e gli Interni Metafisici, abitate nuovamente dai personaggi mitologici come Minerva e Mercurio. Nel 1970 a Palazzo Reale di Milano, si svolge un’importante antologica dell’artista. Nel 1971 Claudio Bruni Sakraischik inizia a pubblicare il Catalogo Generale di Giorgio de Chirico. L’anno successivo ha luogo la mostra De Chirico by de Chirico al New York Cultural Center con 182 opere della collezione del Maestro, tra dipinti, disegni, sculture e litografie. De Chirico si reca a New York per l’occasione. Nel 1973 realizza la Fontana dei Bagni misteriosi per la XV Triennale di Milano nel parco Sempione. Lo stesso anno fa un viaggio in Grecia durante il quale viene realizzato il documentario Il mistero dell’infinito per la RAI. Nel novembre del 1974, viene insignito del titolo di Accademico di Francia. Il 20 novembre 1978 Giorgio de Chirico si spegne a Roma all’età di 90 anni e dal 1992 le sue spoglie riposano presso la chiesa di San Francesco a Ripa in Trastevere.
GIORGIO DE CHIRICO, INCONTRO DI CAVALIERI, Anni ‘40 Olio su cartone, 21,6 x 34,5 cm Pubblicazioni: “Arte Moderna e Contemporanea. Antologia scelta 2014”, Catalogo esposizione - Tornabuoni Arte, Firenze 2013, Pag. 98 “Reading De Chirico” - Tornabuoni Arte, Firenze 2017, pag. 138 - Edizione Forma Esposizioni: Ministero da Educaçao e Cultura, Brazil
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FILIPPO DE PISIS, VASO DI FIORI, 1931 Olio su tavola, 60 x 51 cm Pubblicazioni: Catalogo Generale Briganti Giuliano
FILIPPO DE PISIS Ferrara, 1896 – Milano, 1956
Luigi Filippo Tiburtelli, in arte Filippo De Pisis nasce a Ferrara l’11 maggio 1896. Come i suoi fratelli il futuro pittore non frequenta la scuola pubblica, ma studia a casa con un precettore e attorno al 1904, comincia a disegnare sotto la guida del professor Odoardo Domenichini e si interessa anche alla botanica, alla storia dell’arte ed alla letteratura; molte di queste esperienze, in particolare quella letteraria, riaffiorano e tornano utili nel suo lavoro pittorico. Chiamato a Venezia per la visita militare, esegue qualche schizzo dei compagni di camerata, viene riformato, ma durante il soggiorno studia Tiziano, Tintoretto e Tiepolo, mentre copia nei musei e in raccolte private, quadri antichi. In questo periodo si impegna in un esperimento di poesia futurista, Il bandone e, a Bologna dove si è trasferito per frequentare l’Università, frequenta l’ambiente culturale della città, si lega di amicizia col critico Giuseppe Raimondi, conosce Giovanni Cavicchioli, Umberto Saba, Giuseppe Ravegnani, Marino Moretti e Alfredo Panzini e tiene rapporti epistolari con Giorgio De Chirico, il fratello Alberto Savinio, Tristan Tzara, Ardengo Soffici. Laureatosi in lettere, insegna per qualche tempo, poi, nel 1920 si trasferisce a Roma dove si dedica alla pittura; frequenta l’ambiente di “Valori Plastici” e stringe rapporti di amicizia con il pittore Armando Spadini. In questo periodo lavora alla definizione di un proprio linguaggio figurativo, inizia ad elaborare le sue caratteristiche nature morte, accostando in forme evocative oggetti eterogenei tenuti insieme da una fattura leggera e sensuale, piena del silenzio sospeso della Pittura Metafisica. Esiti interessanti di quel periodo non mancano, ma è a Parigi, dove si trasferisce nel 1925, che, anche grazie allo studio dei grandi ottocentisti francesi e dei contemporanei, raggiunge la piena padronanza dei suoi mezzi, avviando uno dei più straordinari itinerari della pittura del Novecento e dove acquista una solida fama anche come poeta. Il suo pennello diventa una sorta di sismografo capace di registrare con inimitabile immediatezza ciò che accade nell’attimo dell’incontro-scontro tra la sensibilità dell’artista e l’emozione che gli procurano le cose, anche le più umili: una semplice penna d’oca a terra, nel mezzo di una strada, o una conchiglia abbandonata su una spiaggia. Tra il 1924 e il 1927 realizza le nature morte marine, “dove la lezione di Edouard Manet è visibile anche nella scelta della tavolozza, nell’uso delle lacche rosse, affondate nella dolcezza delle terre gialle o bruciate, degli accordi sui complementari giallo-oro e blu di Prussia e l’infinita scala dei verdi accordata coi rossi. Paesaggi, nature morte, frutti, fiori, animali e uomini sono tratteggiati, sulle sue tele, con pennellate lievi, vibranti, luminose, fragili in apparenza, ma dure in realtà come il fil di ferro. Agli inizi Filippo de Pisis interpreta a modo effervescente la pittura di De Chirico e di Carrà, in seguito la sua “vena pittorica” si riduce alle linee essenziali: “Sulla tela dalla lievissima imprimitura si espandono le pennellate a furia, larghe, non grasse di colore, intense nella materia, scorrevoli, asciutte e solo a tratti raggrumate in una sosta più densa, come i nodi in una canna di bambù” (Raimondi). Le sue opere, che erano state esposte in tutta Europa e accolte nelle più importanti Gallerie e Rassegne d’Arte, raggiunsero il massimo successo alla Biennale di Venezia del 1948 e a quella del 1954. De Pisis muore a Milano nel 1956, ma gli ultimi dieci anni della sua vita erano stati segnati da precarie condizioni di salute a causa di problemi nervosi. Il Museo d’arte Moderna e Contemporanea di Ferrara ha riservato un’ampia sezione all’opera di Filippo de Pisis: dalla giovinezza ferrarese al periodo romano, dal soggiorno parigino, segnato dalla personalissima rivisitazione della pittura metafisica e dalla successiva maturazione della “stenografia pittorica” con la quale il pittore traduce sulla tela l’emozione di un paesaggio o di un interno, fino alla sintassi figurativa ridotta all’essenziale.
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MARIO SIRONI, COMPOSIZIONE, 1950 Olio su tavola, 100 x 100 cm Esposizioni: Mostra Retrospettiva dedicata a cesare Tosi 1980, Provenienza Studio Guastalla Milano, Galleria Bergamini, Galleria Volos.
MARIO SIRONI Sassari 1885 – Milano 1961
Mario Sironi nasce a Sassari il 12 maggio 1885, secondo di sei figli: Cristina, Edoardo, Marta, Guido ed Enrico Ettore. I Sironi si trovano in Sardegna perché il padre Enrico, lombardo, ingegnere del Genio Civile, è impegnato nella realizzazione del Palazzo della Prefettura e della Provincia di Sassari. La madre Giulia, di origine toscana, era figlia di Ignazio Villa, poliedrica figura di architetto, astronomo, scultore e inventore, la cui personalità avrà una forte influenza sull’artista. Nel 1886 la famiglia Sironi lascia la Sardegna e si trasferisce a Roma, dove Mario compie gli studi. Nel 1898, mentre la madre è in attesa del sesto figlio, Ettore Enrico, il padre muore di polmonite. A quest’anno risalgono i primi disegni di Mario; uno dei suoi primi olii, datato 1899, è un Paesaggio. Si interessa agli scritti di Nietzsche e Schopenhauer, Heine e Leopardi, mentre in campo musicale nutre una particolare passione per Wagner, la cui “opera d’arte totale” influenzerà l’idea di sintesi delle arti concepita da Sironi negli anni trenta. Nel 1902, dopo il diploma all’Istituto Tecnico di via San Pietro in Vincoli, decide di iscriversi alla facoltà di Ingegneria che abbandonerà nel 1903, sofferente di disturbi nervosi, per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Incoraggiato dallo scultore Ettore Ximenes e dal pittore Antonio Discovolo, amici di famiglia, dipinge quadri di impostazione divisionista. Frequenta la Scuola Libera del Nudo di via di Ripetta, dove conosce Umberto Boccioni, Gino Severini e Giacomo Balla. Nel 1905 partecipa all’Esposizione della Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti a Roma con le opere Paesaggio e Senza luce. Nello stesso anno inizia la sua feconda attività di illustratore, eseguendo alcune tavole per la rivista “La Lettura” e tre copertine per il periodico “L’Avanti della Domenica”. In questi anni casa Sironi è frequentata da artisti e letterati, tra cui Cipriano Efisio Oppo, Vincenzo Costantini (che sposerà la sorella Marta), Filippo Tommaso Marinetti, Anton Giulio Bragaglia oltre a Boccioni, Balla e Severini. Grazie all’ospitalità e al sostegno del cugino medico Torquato Sironi, nel 1906 soggiorna a Milano. Frequenta Boccioni e si reca con lui a Parigi, dove approfondisce la conoscenza della pittura francese. L’esempio di Cézanne e del postimpressionismo, in particolare di Pisarro, influenza il modo di dipingere di Sironi tra il 1908 e il 1911; si tratta di una pittura divisionista simile a quella di Balla, ma più larga e densa, il cui esempio più emblematico può essere identificato nell’Autoritratto con paglietta. In questi anni si reca tre volte in Germania, a Erfurt; la seconda volta, nel 1910, fa visita allo scultore tedesco Tannenbaum, che aveva frequentato a Roma. Illustra la novella di Alfredo Panzini Il mantello di Socrate, pubblicata nel 1912 su “Noi e il Mondo”, rivista con cui collaborerà fino al 1914. Le opere di Sironi, tra il 1913 e il 1914, denunciano l’influsso di Boccioni e delle suggestioni cubiste, ma anche della grafica degli espressionisti tedeschi, conosciuti nei suoi soggiorni in Germania. Aderisce al movimento futurista e prende parte con sedici opere all’ “Esposizione libera futurista” presso la Galleria Sprovieri di Roma. Nel 1914 conosce Matilde Fabbrini, insegnante di francese e sua futura moglie. Tramite Marinetti, tornato da un viaggio in Russia, conosce il cubofuturismo russo. La pittura di Sironi pian piano comincia a discostarsi dal futurismo di Boccioni e dal cromatismo di Balla; predilige colori dai toni scuri, foschi, tutta la gamma delle terre e mantiene, nonostante la frammentazione dell’immagine, una grande solidità costruttiva. Opere fortemente scomposte plasticamente come Autoritratto (1913), Plastica di una testa (1913) e Camion (1914), ben rappresentano questo momento del percorso dell’artista. Sironi in questo stesso periodo esegue anche opere di matrice realistica, come il Ritratto del chimico inglese R. Klein, marito della sorella Cristina. In una lettera del 26 marzo 1915 Marinetti comunica a Severini che insieme a Carrà, Balla e Boccioni, ha deciso che Sironi entrerà a far parte del gruppo dirigente futurista. Sironi si trasferisce a Milano e inizia a collaborare come disegnatore alla rivista “Gli Avvenimenti”. Il 24 maggio l’Italia entra in guerra e l’artista si arruola volontario nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti e Automobilisti; l’anno successivo viene destinato a Torino, alla Scuola Allievi Ufficiali del Genio. Il 26 ottobre 1915 firma con Marinetti, Boccioni, Luigi Russolo e Antonio Sant’Elia il Manifesto interventista L’Orgoglio Italiano. Nel 1916 sulla rivista “Gli Avvenimenti” Boccioni loda l’opera di Sironi illustratore, di cui elogia la potenza plastica e lo spirito ironico, citando anche la sua opera pittorica. Durante una licenza, nel 1917, trascorre una vacanza a Villa Sarfatti al Soldo, vicino al Lago di Como, punto di ritrovo di artisti e intellettuali; in questa occasione incide diverse puntasecche che ritraggono Margherita Sarfatti e suo marito Cesare, oltre ad altri frequentatori della villa, come la poetessa Ada Negri, con cui manterrà un’affettuosa amicizia, e lo scrittore e commediografo Massimo Bontempelli. Nel 1918-1919 è mandato come ufficiale sul fronte orientale del Montello. Pur non avendo ancora concluso l’esperienza futurista, la sua pittura di questo periodo rivela una riflessione sulla Metafisica, spogliata dei suoi elementi onirici e letterari. Il 1919 è un anno denso di importanti avvenimenti per Sironi. A luglio sposa a Roma Matilde Fabbrini, dalla quale avrà due figlie, Aglae e Rossana. Ha la sua prima personale alla Casa d’Arte Bragaglia in via Condotti; sulla rivista “Valori Plastici” la mostra è aspramente criticata da Mario Broglio. Si trasferisce a Milano e partecipa alla “Grande Mostra Futurista” di Palazzo Cova con quattordici opere, molte delle quali ispirate alla recente esperienza bellica. La sua attività di illustratore diviene intensa: inizia a collaborare con la rivista “Ardita” e con il periodico “La Fiamma Verde”. L’11 gennaio 1920 firma, insieme a Leonardo Dudreville, Achille Funi e Russolo, il Manifesto Contro tutti i ritorni in pittura, in polemica con la rivista “Valori Plastici”, che può essere considerato il primo passo verso la genesi del Novecento Italiano; frequenta il “salotto” milanese della Sarfatti, futura animatrice del movimento. Nel marzo dello stesso anno insieme a Bucci, C arrà, Carpi, Dudreville, Funi, Gigiotti Zanini, Leto, Livi, Martini e Russolo (tra gli altri) espone a Milano alla Galleria Gli Ipogei; la prefazione al catalogo è della Sarfatti.
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Nelle opere esposte da Sironi in questa occasione (tra cui Camion, Il tram, Il cavaliere, Paesaggio urbano con vigile, Paesaggio urbano con donna) la figura umana viene costruita dall’artista architettonicamente e la luce è utilizzata per conferire drammaticità al contrasto tra spazio e figure. In questi anni Sironi inaugura nei suoi dipinti un nuovo tema, quello delle periferie e dei paesaggi urbani, immagini deserte e inquietanti della città moderna, dove raramente è presente, isolata, la figura umana. Nelle sue opere si avverte l’influenza degli espressionisti nordici, in particolare di Erich Heckel e di Constant Permeke ma anche di Derain, Matisse, Vlaminck. Tra il dicembre 1920 e il gennaio 1921 partecipa insieme ai futuristi alla “Exposition Internationale d’Art Moderne” di Ginevra con due composizioni plastiche, che saranno esposte anche alla Mostra dei Futuristi italiani a Parigi presso la Galerie Reinhardt. Prende parte insieme a Giorgio de Chirico, Ardengo Soffici e Boccioni, alla “Rassegna d’Arte Italiana” a Praga. Dal 1921 collabora come illustratore con il periodico “Domando la Parola!” poi diventato “I Lunedì del Popolo d’Italia”. Nel 1922 diviene disegnatore e grafico del quotidiano “Il Popolo d’Italia” e comincia la collaborazione con il periodico “Gerarchia”, che durerà fino al 1937. Nello stesso anno, sostenuto da Margherita Sarfatti e promosso dal gallerista milanese Lino Pesaro, nasce il gruppo de “I Sette Pittori del Novecento”, di cui Sironi fa parte con Bucci, Dudreville, Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi. Il gruppo propone un “ritorno all’ordine” e una ripresa della tradizione primitivista (Giotto, Masaccio) e rinascimentale in funzione della forma-volume, senza per questo rifiutare le esperienze delle avanguardie storiche. Il risultato di questa poetica è un realismo privo di fini sociali, una sorta di sublimazione del quotidiano. Il gruppo esordisce nel 1923 alla Galleria Pesaro, con una mostra organizzata dalla Sarfatti alla cui inaugurazione è presente Benito Mussolini. Nello stesso anno la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” chiama Sironi tra i suoi illustratori; anche questa collaborazione avrà lunga durata, terminerà infatti con la chiusura del periodico nel 1943. Nel 1924, alla XIV Biennale di Venezia, “I Sette Pittori del Novecento” ottengono un proprio spazio espositivo ma Oppi lascia il gruppo ed espone in una sala personale. In questa occasione Sironi presenta quattro opere fondamentali per comprendere la poetica del movimento, L’Architetto, L’Allieva, Figura e Venere, in cui protagonista è la figura nella sua ascendenza classicista. Nello stesso anno esordisce come scenografo per Marionette che passione! di Rosso di San Secondo al Teatro del Convegno di Milano e progetta scene e costumi per l’opera, che però non andrà in scena, I Cavalieri di Aristofane per il Teatro della Piccola Canobbiana. Inizia ad illustrare anche libri, La casa della nonna per le edizioni Vallecchi e Storia di un micio bigio per la Bemporad, attività che proseguirà nel corso degli anni (La rivoluzione che vince e Risorgimento dell’Italia nel 1934, Le piccole corna nel 1948, Crisaline nel 1949, Issione nel 1956.). Nel 1925 la Sarfatti identifica nel gruppo dei Pittori del Novecento un vero e proprio movimento artistico che battezza Novecento Italiano; il suo libro Segni, colori e luci tratta ampiamente dell’opera di Sironi. L’artista partecipa alla III Biennale romana con Il povero pescatore, un soggetto ricorrente nei suoi dipinti. Nel 1926 Sironi è presente con tre opere (Esopo, Il silenzioso e Solitudine che viene acquistata dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma) alla “Prima Mostra d’Arte del Novecento Italiano” al Palazzo della Permanente a Milano, di cui realizza il manifesto; partecipano centodieci artisti su centoquaranta invitati. Da questo momento parteciperà a tutte le mostre di Novecento all’estero: Parigi, Nizza, Ginevra, Budapest, Berlino, Zurigo, Berna, Basilea, Parigi, Helsinki, Stoccolma, Oslo, Amsterdam, Buenos Aires. Nel 1927 prende parte alla formazione del Sindacato Lombardo Fascista per le Belle Arti. Nello stesso anno espone alla mostra “Italienische Maler” al Kunsthaus di Zurigo (per cui realizza anche il manifesto) e all’“Exposition d’artistes italiens contemporains” che si tiene al Musée Rath di Ginevra; con caricature e illustrazioni create per “Il Popolo d’Italia” partecipa alla “III Mostra Internazionale di Arti Decorative” di Monza. Su “Il Popolo d’Italia” pubblica, alla fine dell’anno, il suo primo articolo di critica. Nel 1928 insieme a Bernasconi, Carrà, Funi, Marussig, Salietti e Tosi è presente alla mostra “Sette Pittori Moderni” presso la Galleria Milano. Partecipa alla XIV Biennale di Venezia con nove opere, due delle quali sono acquistate dalla Civica Galleria d’Arte Moderna di Venezia e dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Ancora nel 1928, in collaborazione con l’architetto Giovanni Muzio, cura l’allestimento del padiglione italiano in occasione della mostra “Pressa” a Colonia e, sempre con Muzio, il padiglione de “Il Popolo d’Italia” alla Fiera Campionaria di Milano. Nel 1929, con la partecipazione di centosedici artisti, si svolge la “Seconda Mostra del Novecento Italiano” al Palazzo della Permanente a Milano; Sironi vi espone due figure e una composizione. Nel maggio dello stesso anno inaugura l’Esposizione Internazionale di Barcellona, di cui Sironi cura l’allestimento per la Stampa italiana con Muzio, riprendendolo da quello di Colonia. Si lega sentimentalmente a Mimì (Maria Alessandra) Costa, conosciuta a Milano. Nel 1930 Sironi fa parte del direttorio della IV Triennale di Monza, per cui realizza l’allestimento della “Mostra delle Arti Grafiche”. Prende parte alla XVII Biennale veneziana con cinque opere (La pesca, L’uomo, Il pescatore, Paese e Pascolo). La casa editrice Hoepli pubblica la prima monografia dedicata a Sironi, scritta da Giovanni Scheiwiller. Ancora nel 1930 progetta le scene per il dramma-balletto L’Isola meravigliosa di Ugo Betti, rappresentato a Milano al Teatro Manzoni; da questo momento inizia una intensa attività di progettazione di scenografie, e in alcuni casi anche di costumi, per il teatro: Lucrezia Borgia di Donizetti (1933), Tosca di Puccini (1935), Madonna Imperia di Arturo Rossato e Franco Alfano (1936), Luisa Miller di Verdi (1937), Dottor Faust di Ferruccio Busoni
(1941), Tristano e Isotta di Wagner (1946), I Lombardi alla Prima Crociata di Verdi (1948), Medea e Il ciclope di Euripide (1949); nel 1950 il 13° Maggio Fiorentino mette in scena il Don Carlos di Verdi riproponendo in toto le scenografie sironiane dell’edizione del 1942. Nel 1950 ha una intensa stagione espositiva: la Galleria L’Annunciata di Milano gli dedica una personale, espone insieme a Ottone Rosai alla Galleria Il Naviglio di Milano e sue opere sono presenti in diverse collettive (“Art Moderne Italien” a Parigi, “Futurismo e Pittura Metafisica” a Zurigo, “Mostra Antologica di Disegni Italiani dal 1900 al 1950” ad Asti, “Art Italien Contemporain” a Bruxelles). Nel 1951 si tiene a Cortina d’Ampezzo la prima edizione del Premio Parigi, di cui è promotore insieme a Campigli e membro della giuria. Nello stesso anno partecipa alla IX Triennale di Milano con opere grafiche e bozzetti pubblicitari esposti nel Salone Arti Grafiche e Pubblicità; è presente alla “Mostra Nazionale di Scenografie Verdiane” a Parma e alla “II Biennale d’Arte Sacra” di Novara. Nel 1952 Marco Valsecchi invita Sironi a tenere una mostra personale alla Biennale di Venezia; l’artista inizialmente accetta ma poi decide di declinare l’invito. In corrispondenza della grande rassegna veneziana La Galleria del Cavallino di Venezia gli dedica una mostra con opere dal 1922 al 1935. Sironi non aveva autorizzato l’esposizione, e per questo sporgerà denuncia contro la Galleria, ma la mostra verrà interpretata come un atto di sfida alla Biennale. E’ presente in mostre, personali e collettive, in Italia e all’estero e diverse sue opere vengono acquistate da gallerie e musei italiani e stranieri: Autoritratto del 1913 e Composizione del 1951 dalla Civica Galleria d’Arte Moderna di Milano, Nudi femminili del 1950-1952 dalla Galleria d’Arte Moderna di Firenze, Il sifone del 1915 e Cinque figure del 1937-1938 dalla Tate Gallery di Londra, una Composizione del 1951 dal Museum Art di Toledo (Ohio) e un dipinto analogo dall’Albright Art Gallery di Buffalo. I dipinti di Sironi di questo periodo mostrano una minore attenzione alla figuratività e un interesse sempre maggiore per la materia, tanto che Michel Tapié lo inserisce nel suo testo Un art autre, prima ricognizione della pittura informale del dopoguerra. Alla II Biennale di San Paolo in Brasile del 1953 è presente con un gruppo di sette dipinti eseguiti tra il 1951 e il 1953; la presentazione in catalogo alla Sala italiana è di Giovanni Ponti, presidente della Biennale di Venezia. Espone anche a Oslo, Gallarate, Stoccolma, Roma, Genova, Firenze, Ostenda. Ancora nel 1953 la Galleria del Milione a Milano organizza una personale di Sironi itinerante nel nord America che tocca Boston, San Francisco, Colorado Springs, Wilmington, Manchester, Baltimora, Akron. Nel 1954 riceve dall’Accademia di San Luca il Premio Luigi Einaudi e la Medaglia d’Oro come “benemerito dell’istruzione, della cultura e delle arti” dal Ministero della Pubblica Istruzione. Nello stesso anno ha una personale alla Galleria del Milione a Milano con tempere dal 1952 al 1954; alla X Triennale di Milano espone i bozzetti per i manifesti della V e della VI Triennale, quello per il Diploma della VI Triennale, oltre a due dipinti degli anni quaranta, nel Salone d’Onore che celebra “I Trent’anni della Triennale 1923-1954”, ordinato da Agnoldomenico Pica. Ancora nel 1954 partecipa al 6° Premio Nazionale di Pittura Golfo di La Spezia; con Carrà, Rosai, Fazzini e Guttuso, Sironi è uno dei componenti della giuria del II Premio Marzotto. Nel 1955 partecipa a diverse mostre all’estero: con opere recenti alla Mostra d’Arte Italiana di Tokyo, con tre opere degli anni venti a “Documenta”, alla “Pittsburgh International Exhibition of Contemporary Art” organizzata dal Carnegie Institute, alla Kunsthalle di Berna insieme a opere di Campigli e di Modigliani. In Italia è presente con otto dipinti degli anni venti nella mostra “Pittura e scultura italiane dal 1910 al 1930”, curata da Giorgio Castelfranco e da Valsecchi in occasione della VII Quadriennale di Roma, ed espone alla “III Mostra Nazionale dell’Associazione Artisti d’Italia”, al Palazzo Reale di Milano. Nello stesso anno viene pubblicata la monografia Mario Sironi pittore di Pica, per la quale l’artista esegue la copertina. Nel 1956, in occasione della VII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, viene insignito della medaglia d’oro; viene eletto membro dell’Accademia di San Luca. Nel 1957 ha una personale alla Galleria Blu di Milano e alla Galleria dello Scudo di Verona; la Marlborough Fine Art Ltd di Londra ospita la mostra “Sironi and Campigli”, con quarantanove opere dell’ultima produzione dell’artista, tra cui diverse moltiplicazioni, composizioni ed evocazioni ritmiche. Nel corso del 1958 espone alla Galleria torinese La Bussola e all’esposizione di pittura contemporanea italiana “Opere scelte di recente e vecchia data” presso la Galleria Bergamini di Milano. Il Comune di Livorno nel 1959 organizza la mostra “Disegni di Mario Sironi” e sue opere figurano nelle rassegne “La Collezione minima di Zavattini” presso La Strozzina a Firenze e “Capolavori d’Arte Moderna nelle raccolte private”, a cura di Valsecchi, presso la Civica Galleria d’Arte Moderna di Torino. Nel 1960 in occasione della “Mostra Storica del Futurismo” vengono esposte otto opere di Sironi (Autoritratto, Cavaliere, Camion, Composizione con elica, La guerra, L’aeroplano, Atelier delle meraviglie) alla XXX Biennale di Venezia, dove l’artista mancava da ventotto anni. Nello stesso anno partecipa alla mostra sulla pittura italiana del Novecento presso la Galleria Edmondo Sacerdoti di Milano e alla mostra “Arte Italiana del XX secolo da Collezioni Americane” presso il Palazzo Reale di Milano; la Galleria Schwarz di Milano dedica una mostra a Sironi e Picasso. Inizia a dipingere la serie delle apocalissi. Esegue il cartone per un arazzo destinato al salone delle feste della turbonave Leonardo da Vinci. Nel maggio 1961 riceve dal Comune di Milano il Premio Città di Milano; il 6 agosto il Circolo artistico di Cortina d’Ampezzo lo omaggia in una mostra con più di cinquanta opere messe a disposizione da collezionisti di Cortina e Venezia. Il 13 agosto Sironi muore e, secondo la sua volontà, viene sepolto nel cimitero monumentale di Bergamo, accanto alla madre e alla figlia Rossana.
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CHIARISMO
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Movimento di matrice lombarda, ma espressivo di istanze nazionali avverse all’impostazione neoclassicista e monumentale di Novecento ed al generale clima restaurativo. Il Chiarismo, termine coniato dal critico Leonardo Borgese, è un movimento pittorico dell’area milanese ispirato dall’architetto Edoardo Persico, redattore di “Casabella” e “Domus”, critico d’arte e di architettura di idee anticonservatrici, agli inizi degli anni ‘30 e poi ufficialmente codificato nel 1936 da Guido Piovene. Persico individua le direttrici principali della pittura chiarista nella diffusa luminosità dei toni cromatici chiari, ricorrente, per la definizione volumetrica, non al chiaro-scuro, ma al tono su tono, nella forma costruita dalla luce e dal colore, nella soppressione del disegno e del segno, nella modernità della composizione anticlassica, spontanea e sciolta, apparentemente semplice, privata della profondità prospettica e privilegiante una soluzione di superficie: sono tutti elementi formali tipici di una pittura post-impressionista en plein air, che rende le ombre direttamente con il colore, alla maniera impressionista, che ricerca i più svariati effetti di luce e libera la gamma cromatica di una tavolozza ariosa e trasparente, in contrasto con l’impostazione neoclassicista e monumentale di Novecento. Gli influssi rintracciabili nel Chiarismo non sono solo quelli dell’impressionismo francese e della Scuola di Parigi, ma anche della grande pittura italiana del’300 e ‘400, del primitivismo di Rousseau e dell’opera di alcuni pittori italiani particolarmente cari a Persico, come Rosai, Martini e Birolli. Fra i temi prediletti del Chiarismo si trovano i paesaggi e la natura in generale, ed il ritratto, che perde ogni aulicità ottocentesca per divenire immediato e naturale, privo di significati simbolici. Umberto Lilloni, personalità leader del gruppo, Francesco De Rocchi, Adriano di Spilimbergo, Angelo Del Bon e Cristofaro De Amicis sono i nomi più noti degli aderenti a questo movimento, che recupera la matrice lombarda di una pittura limpida e genuina, sostanzialmente figurativa, con tocchi intimisti e semplicità di linguaggio. Tuttavia il Chiarismo non si può considerare riduttivamente un movimento strettamente lombardo, dato che, fuori dalla Lombardia, ha significative assonanze con la cosiddetta “scuola di Burano” che contava maestri del postimpressionismo come Pio Semeghini e De Pisis, oltre a validissimi pittori come Vellani, Marchi e Consadori, e più in generale esprime istanze di insoddisfazione nazionali, dirette contro la chiusura intellettuale e la ristrettezza di vedute delle contemporanee tendenze restaurative, sia in campo artistico che socio-politico.
“Dio in realtà non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l’elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse.” Pablo Picasso
UMBERTO LILLONI Milano, 1898 – Milano, 1980
Nel primo dopoguerra si iscrive all’Accademia di Brera sotto la guida di Tallone, diplomandosi nel 1922. Avverte il problema del superamento della pittura post-impressionista e, per una breve stagione, si avvicina alle idee e alle ricerche di “Novecento”, partecipando alla seconda mostra milanese del gruppo nel 1929 e alle mostre all’estero. S’avvede ben presto che la tendenza novecentesca è incongrua al suo temperamento. Riprende lo studio di Gola e della grande tradizione pittorica lombarda. Intorno al 1930 si accosta ai “Chiaristi” De Rocchi, Spilimbergo e Sassu: le prime esperienze di quella “pittura a fondo chiaro” che diventerà la sua inconfondibile caratteristica. Espone alla Biennale di Venezia dal 1928 al 1952, alle Quadriennali di Roma dal 1933 al 1969, alle mostre internazionali di Monaco di Baviera nel 1931, di Bruxelles nel 1935 e di Parigi nel 1937. Nella personale del 1939 a Milano espone le sue ’Venezie’. Soggetti prediletti sono boschi espressi da un cromatismo ricco di sfumature nelle gamme dei verdi azzurri e verdi grigi, nudi femminili, paesaggi, vedute marine e cittadine. Dal 1927 al 1941 insegna all’Accademia di Brera, e dal 1941 al 1962 è titolare di cattedra all’Accademia di Belle Arti di Parma. Non è mai stato un grande viaggiatore, tuttavia nel 1949, soggiorna per alcuni mesi a Stoccolma. Dal 1950 sino al 1980 una serie di personali nelle più prestigiose gallerie di Milano. Negli anni Settanta si trasferisce in Svizzera, dove trascorre molto tempo dei suoi ultimi anni di vita. Le sue opere sono conservate nei principali musei italiani e nel museo di Rio de Janeiro.
UMBERTO LILLONI, CAPPELLETTA VOTIVA, 1939 Olio su tela, 34 x 49 cm
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MOVIMENTO CORRENTE
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Movimento artistico-culturale formatosi a Milano nel 1939 attorno alla rivista Corrente di vita giovanile, fondata l’anno precedente da E. Treccani. Il movimento s’inserì come punta avanzata nel clima allora in espansione di polemica antinovecentista e, più generalmente, antifascista. Oltre a intellettuali appartenenti all’ambito filosofico, letterario, poetico, cinematografico, teatrale, aderirono a Corrente i pittori Birolli, Sassu, Migneco, Cassinari, Morlotti, gli scultori Manzù, Cherchi, Broggini, Fontana e altri. Alla retorica classicista del “Novecento” essi opposero un libero recupero della moderna tradizione artistica italiana, filtrata attraverso la lezione dell’impressionismo e del postimpressionismo francesi e percorsa da accenti polemici, anche se in chiave metaforica, nei confronti della situazione politica. Dopo la prima mostra (1939), d’orientamento naturalista, Corrente tenne nello stesso anno la seconda, cui parteciparono solo giovani artisti (Prampolini, Reggiani, Santomaso, Guttuso, Afro, Pirandello, Franchina, Fazzini, ecc...), che impressero al movimento un indirizzo cubista-picassiano. Soppressa la rivista nel giugno 1940, Corrente continuò le esposizioni e le pubblicazioni d’arte fino alla Liberazione.
“Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista.” San Francesco d’Assisi
ALIGI SASSU Milano, 1912 – Pollença (Spagna), 2000
Aligi Sassu nasce a Milano il 17 luglio 1912 da Lina Pedretti, originaria di Parma, e da Antonio Sassu, uno dei fondatori del partito socialista di Sassari. Nel 1921 la famiglia si trasferisce a Thiesi, in Sardegna, e vi rimane per tre anni, periodo breve ma fondamentale per le impressioni che permearono l’animo dell’artista. Avviene qui infatti l’incontro con i cavalli e con i colori forti del paesaggio mediterraneo. Tornato a Milano, si entusiasma nella lettura di riviste e testi futuristi, interesse infuso in lui dal padre, che lo portò a soli sette anni nel 1919 a visitare la prima collettiva dei futuristi al Cova. Non si tratta però del primo contatto con tale movimento, vista l’amicizia che legava il padre a Carlo Carrà. Proprio in questo periodo si cimenta per la prima volta con i colori. Nel 1925 è costretto dalle difficoltà economiche della famiglia ad abbandonare la scuola per lavorare come apprendista in un’officina litografica, la Pressa; l’anno dopo lavora come aiutante di un decoratore murale. Riesce però a concludere gli studi alle serali. Nel 1927 acquista “Pittura scultura futuriste (dinamismo plastico)” di Boccioni, artista di cui ha la possibilità di ammirare alcune opere presso Fedele Azari, che le aveva momentaneamente in custodia per un’ esposizione. Insieme a Bruno Munari viene a sapere che Filippo Tommaso Marinetti avrebbe incontrato giovani artisti all’Hotel Corso, si presenta così portando i disegni su Mafarka il futurista, opera di Marinetti stesso. La sera successiva, durante una manifestazione, Marinetti li indica come “ due giovani promesse dell’arte italiana” e nel 1928 invita Sassu a mandare due opere alla Biennale di Venezia: Nudo plastico e l’Uomo che si abbevera alla sorgente. Il 31 marzo dello stesso anno Sassu firma insieme a Munari il manifesto della pittura “Dinamismo e riforma muscolare”, rimasto inedito fino al 1977. Nel ‘29 si iscrive all’Accademia di Brera; qui conosce Lucio Fontana col quale lavorerà anni dopo ad Albissola. Dopo due anni è costretto ad abbandonare l’Accademia per motivi economici, frequenta così l’Accademia Libera istituita dal direttore della Galleria di Milano, Barbaroux, che permette a Sassu e ad altri artisti impossibilitati a mantenersi i corsi di Brera di disporre di cavalletti e modelle in cambio di un quadro al mese per la sua galleria. Ma questa accademia ha vita breve e Sassu continua la sua attività in uno studio affittato in piazza Susa insieme a Manzù. Nel 1929 espone in due mostre collettive a Milano. E’ il periodo in cui, in antitesi con Novecento, nascono i Ciclisti e gli Uomini rossi, conseguenza della passione del maestro per Masolino e Beato Angelico. Nel 1932 espone con altri artisti presso la Galleria del Milione e, grazie all’interesse suscitato da questa mostra, viene pubblicato da Sandro Bini il primo testo sul lavoro di Sassu. Nell’autunno del 1934 parte per Parigi e vi soggiorna per tre mesi. Qui visita una mostra di Matisse e studia presso i musei l’opera di grandi artisti quali Gericault, Cezanne, gli impressionisti ma soprattutto Delacroix, di cui legge i diari presso la biblioteca Sainte Geneviève. Questo primo viaggio a Parigi conferma in Sassu il suo grande amore per la pittura dell’Ottocento francese e gli lascia negli occhi la luce dei numerosi caffè che diverranno tema da lui spesso frequentato. I soggetti sono ora tratti dalla realtà nei suoi risvolti sociali e dal mito, spesso da leggere in chiave simbolica. Nel 1935 torna a Parigi. In questo secondo soggiorno, oltre all’amore per l’arte e per la cultura cresce il suo impegno politico. Manifesta infatti la sua posizione antifranchista con la Fucilazione delle Asturie. È proprio in questo periodo della guerra civile di Spagna che, insieme ad altri artisti, opera attivamente contro il fascismo. Tornato a Milano, partecipa ad azioni di disturbo antifascista e a diffusione di stampa clandestina. Insieme a De Grada aveva persino contatti con gruppi antifascisti all’estero. In occasione della sconfitta delle truppe di Mussolini nella battaglia di Guadalajara, prepara insieme a De Grada un manifesto che inneggia all’insurrezione, persuaso che si potesse sollevare anche in Italia. La mattina del 6 aprile 1937 la polizia dell’OVRA, che già lo controllava da tempo, perquisisce la casa e lo studio trovando la bozza del manifesto e la carta per stamparlo. Sassu, arrestato con l’accusa di complotto, viene rinchiuso nel carcere di San Vittore, e dopo sei mesi, in seguito all’interrogatorio, viene trasferito a Roma nel Regina Coeli con l’accusa di sovvertimento dell’ordine dello Stato e la condanna a dieci anni di reclusione. Sono mesi di grave crisi, dovuta soprattutto all’impossibilità di dedicarsi allo studio e alla pittura. Solo quando viene trasferito a Fossano, poco distante da Cuneo, nell’ottobre del 1937 gli viene concesso di scrivere e disegnare. Realizza così più di quattrocento disegni di cui non gliene viene sottratto nessuno, si tratta in gran parte di ritratti di detenuti e disegni mitologici. Intanto il padre sollecitava Marinetti e il dottor Veratti, entrambi benvoluti dal Duce, a intercedere per il figlio: il 27 luglio 1938 gli viene concessa la grazia regia. Rimane però sorvegliato speciale, condizione che non gli permette di frequentare luoghi pubblici e tanto meno di esporre le sue opere. Continua comunque a dipingere opere di opposizione come Spagna 1937 e La morte di Cesare, ideata già ai tempi del carcere. Nel periodo della sua reclusione, a Milano sorgeva Corrente. Sassu, essendo sorvegliato speciale, dovette aspettare il marzo del ‘41 per allestire una personale nella Bottega di Corrente. E’ qui che espone per la prima volta gli Uomini rossi.
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Verso la fine del ‘44 vive a Zorzino, sul lago d’Iseo e qui, dopo aver collaborato con i partigiani di Montagna, vive i primi giorni della liberazione nel 1945. Dopo tutti questi eventi che lo avevano tenuto lontano dai suoi, torna a Milano. Nel 1947 si trasferisce a Castel Cabiaglio, in provincia di Varese. Nonostante la grave crisi di quegli anni, lavora intensamente e sperimenta nuove tecniche. Dipinge soprattutto Caffè e quadri sacri. A Castel Cabiaglio Sassu si era recato con De Tullio per lavorare in un’antica fornace del luogo, nascono così un centinaio di ceramiche. Dopo poco tempo però è costretto ad abbandonare il luogo e decide di riprendere i contatti con Tullio Mazzotti che lo invita a lavorare da lui ad Albissola. Qui intesse amicizie con molti artisti che si trovano lì per il suo stesso motivo e fianco a fianco lavorano e provano nuovi modi di coniugare forma e colore. E’ il 1954 quando insieme a Mazzotti e a Fabbri si reca a Vallauris ed incontra per la prima volta Picasso, che in quel tempo lavorava lì. Lo incontra di nuovo dopo due anni a La Californie dove Picasso gli mostra le sue sculture che avrebbe poi esposto al Museo di Antibes. Nel 1964 inizia il periodo spagnolo, Sassu compra infatti una casa a Mallorca in Cala San Vicente. Si avvia così quella che Dino Buzzati ha chiamato la sua seconda giovinezza. Nascono le Tauromachie e i paesaggi dell’isola, altri soggetti, come la tematica mitologica, vengono rivisitati e approfonditi e l’artista conosce anche una nuova tecnica, quella dell’acrilico, che gli permette di creare colori più vivi e luminosi, come quelli tipici di Mallorca, vissuta dal maestro come una seconda Sardegna. Da quest’anno vive tra Mallorca e l’Italia dove nel 1967 si trasferisce a Monticello Brianza. Nel ‘73 si dedica a scene e costumi dei Vespri siciliani per la riapertura del Teatro Regio a Torino e gli viene dedicata una sala nella Galleria dell’A rte moderna del Vaticano. Nel 1976 realizza due mosaici per Sant’A ndrea a Pescara e nel ‘77 espone a Rotterdam, Toronto e a Mallorca dove lascia Cala San Vicente per trasferirsi poco lontano, a Pollença in Can Marimon. Nel 1981 si trasferisce da Monticello a Milano in via Brera. Nel 1982 gli viene attribuito il riconoscimento “ Gli uomini che hanno fatto grande Milano” e presenta i suoi cinquantotto acquerelli del 1943 ad illustrazione dei Promessi sposi. Nel 1984 viene allestita una sua mostra antologica in Palazzo dei Diamanti a Ferrara dove espone centoundici opere. La mostra viene poi trasferita a Roma in Castel Sant’Angelo. Lo stesso anno vede però anche un’altra grande antologica del maestro, quella allestita al Palazzo Reale a Milano con duecentosettantaquattro opere. Altre esposizioni avvengono in quel periodo a Siviglia e in Germania, l’anno dopo a Madrid e in Canada dove una mostra itinerante sui Promessi sposi viene presentata a Toronto, Montreal e Ottawa. Nel 1986 espone a Palma di Mallorca, alla XI Quadriennale di Roma, alla Triennale di Milano e alla Casa del Mantegna a Mantova. Completa le centotredici tavole sulla Divina commedia, tre delle quali vengono acquistate dal Museo Puskin di Mosca. A Monaco di Baviera, viene inoltre allestita una grande antologica con opere dal 1927 al 1985. Nel 1992, ottanta dipinti compongono una mostra itinerante in Sud America che viaggia tra San Paolo, Bogotà e Buenos Aires. Nel 1993 completa I Miti del Mediterraneo, murale in ceramica di 150 metri quadrati per la nuova sede del Parlamento europeo a Bruxelles. L’anno successivo presenta Manuscriptum, una cartella con incisioni destinata alla mostra itinerante in Svezia “I ponti di Leonardo”. Nel ‘95 espone alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo e viene nominato Cavaliere della Gran Croce dal Presidente della Repubblica. Il ‘96 vede la donazione alla città di Lugano di trecentosessantadue opere realizzate dal 1927 al 1996, nasce così la Fondazione Aligi Sassu che organizza nel 1999 una mostra dedicata al futurismo, nel 2000 al primitivismo, nel 2001 agli Uomini rossi fino ad arrivare a quella del 2003 dedicata al realismo di Sassu. Il 17 luglio 1999 per il suo ottantasettesimo compleanno si inaugura una grande antologica in Palazzo Strozzi a Firenze. Nel mese di giugno del 2000 viene presentata ufficialmente a Besana in Brianza (MI), l’Associazione Culturale onlus Amici dell’Arte di Aligi Sassu, la sera del 17 luglio 2000, Aligi Sassu muore nella sua casa di Can Marimon a Pollença. Il 14 dicembre del 2005 il Capo dello Stato, Prof. Carlo Azeglio Ciampi, ha conferito al Maestro il diploma di benemerenza di I classe (Medaglia d’oro) per la scuola, cultura ed arte per l’anno 2005. Tale conferimento è accordato a persone che abbiano acquistato titoli con opere di riconosciuto valore nel campo dell’Educazione, della Scuola, dell’Università e Ricerca e, più in generale, nella diffusione ed elevazione della cultura.
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ALIGI SASSU, CAVALLI BIANCHI, 1952 Olio su tela, 50 x 70 cm
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ENNIO MORLOTTI, GIRASOLI, 1959 Olio su tela, 90 x 70 cm Pubblicazioni: Catalogo Ragionato dei dipinti, Skira Editore - Tomo Primo, pag. 246 - cat 552
ENNIO MORLOTTI Lecco, 1910 – Milano, 1992
Ennio Morlotti, uno dei principali protagonisti della vicenda artistica italiana ed europea del secondo Novecento, è nato a Lecco, sul lago di Como, il 21 settembre 1910 in una famiglia in cui il padre era invalido di guerra e la madre faceva la maestra. Vissuta la prima infanzia scolare in collegio, dove per altro eccelleva nello studio, cominciò nel 1923 a lavorare come contabile in un oleificio, quindi fino al 1936 come impiegato in un colorificio e operaio in una fabbrica meccanica. Nonostante le dure condizioni di vita di quegli anni, si dedicava allo studio dell’arte antica nelle chiese e nei musei, interessandosi anche di arte contemporanea, sino a conseguire da privatista la maturità artistica a Brera. Licenziatosi dalla fabbrica, si trasferì a Firenze e si iscrisse all’Accademia, dove, seguito da Felice Carena, si diplomò con una tesi su Giotto, ottenendo il massimo dei voti. Nel 1937, grazie agli introiti giunti dalla vendita di tre quadri esposti in occasione di un concorso per il paesaggio lecchese, effettuò un viaggio a Parigi dove vide le opere originali degli amati Cézanne e Picasso. Nel 1940 entrò nel gruppo di Corrente che si ispirava alla rivista universitaria “Corrente di vita giovanile”, diretta da Ernesto Treccani, seguendone l’orientamento espressionistico francese, da Van Gogh fino ai Fauves. Nel 1945 si sposò con Anna e l’anno seguente si iscrisse al partito comunista al quale aderì per sei mesi ; fu questo un anno difficile sul piano economico ma proficuo sul piano culturale, poiché firmò il Manifesto del Realismo, aderì al Fronte Nuovo delle Arti ed effettuò la sua prima mostra personale alla galleria II Camino di Milano. In quell’anno, grazie alla borsa di studio fattagli avere da Lionello Venturi, avrebbe potuto risiedere a Parigi per due anni assieme a Renato Birolli, ma dopo due mesi rientrò a Milano poiché non riusciva a dipingere; nonostante ciò aveva conosciuto e visitato lo studio di Picasso, aveva incontrato Braque, Dominguez, De Stael, Sartre e Camus. E’ poi, subito dopo la XXIV Biennale di Venezia (1948), dove espose assieme a tutti gli artisti del Fronte Nuovo delle Arti, che si definì la posizione di Morlotti, il quale assieme a Birolli si staccò dai componenti “realisti” del gruppo. E’ proprio negli anni ‘50 che produsse alcune tra le opere capitali dell’arte informale, non solo italiana, ma anche europea, sicuramente collegate all’esperienza di autori quali Wols, Fautrier, De Stael, ma anche Pollock e De Kooning. La Biennale ospitò numerose volte le sue opere, nel 1950, nel 1952 assieme al Gruppo degli Otto, nel 1954 con una sala presentata da Giovanni Testori (distruggendo le opere esposte subito dopo), nel 1962 vincendo il premio (ex equo con Capogrossi) riservato ad un artista italiano, nel 1964 all’interno della sezione “Arte d’oggi nei musei”, nel 1972 con una sala personale, nel 1988 con un’altra personale nel padiglione dedicato all’Italia e nella sezione dedicata alla rassegna “Il Fronte nuovo delle Arti alla Biennale del 1948”. Nel 1986 e nel 1992 viene invitato alla Quadriennale Nazionale d’Arte a Roma. Le più importanti mostre complessive dell’ultimo decennio, sono quelle del 1987 a Locarno a Milano, e del 1994 a Ferrara, effettuata dopo la morte, avvenuta il 15 dicembre 1992 a Milano.
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“Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole.� Pablo Picasso
FRONTE NUOVO DELLE ARTI
Negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, la situazione artistica vede due città, Roma e Milano, brulicare di un fervido clima culturale caratterizzato da una forte spinta emotiva e unite dall’impegno ideologico e dall’entusiasmo creativo venutosi a concretizzare a seguito della liberazione dal regime e della fine del conflitto. Le vicende socio-politiche sono segnate dalla lotta politica tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, quest’ultimo divenuto più forte dopo il patto del ‘47 con il Partito Socialista. Sono soprattutto gli artisti che avevano partecipato all’esperienza di Corrente a chiedere un rinnovamento radicale e a manifestare la necessità di una nuova arte, capace di essere espressione di un sentire contemporaneo e di rappresentare nelle proprie opere il deflagrante momento storico che si stava vivendo. Nel 1946 viene redatto il Manifesto del Realismo di pittori e scultori, conosciuto come Oltre Guernica, che decreta la Guernica di Picasso l’unico valido riferimento culturale, sia artistico che politico, il cui linguaggio neocubista diviene spunto di confronto e di crescita per molti artisti italiani. In questo ambito politico-culturale si costituisce a Venezia, il 1 ottobre 1946, la Nuova Secessione Artistica Italiana. L’obiettivo è quello di far proprie, finalmente anche nell’arte italiana, le ultime esperienze europee, per cercare di andare oltre le posizioni dominanti della cultura nazionale, tra cui quelle espresse dal movimento di Novecento. L’elemento comune è il postcubismo picassiano, riconosciuto come unico lessico in grado di contrastare l’estetica delle forme propria dell’accademismo del regime fascista. I firmatari del manifesto sono undici: Renato Birolli, Bruno Cassinari, Renato Guttuso, Carlo Levi, Leoncillo, Ennio Morlotti, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Emilio Vedova, Alberto Viani. Negli intenti programmatici del gruppo c’è l’intenzione di organizzare una serie di mostre, in Italia, in Europa e in America, presentate da cataloghi redatti da autorevoli personaggi della cultura artistica, sia italiani che stranieri: ogni artista godrebbe infatti di una presentazione dedicata scritta da un critico differente. La prima mostra si tiene alla Galleria della Spiga di Milano nel luglio del 1947 e raccoglie a sé gli artisti più significativi del periodo successivo a Novecento. In quest’occasione, su richiesta di Renato Guttuso, la Nuova Secessione adotta la denominazione di Fronte Nuovo delle Arti. Lo stesso Guttuso propone l’entrata di Mafai, di Consagra ed altri della sua generazione. Il manifesto del movimento viene redatto per questo evento, su suggerimento di Renato Birolli, dal critico Giuseppe Marchiori, proposta che viene subito raccolta da Giuseppe Santomaso, da Emilio Vedova e da Armando Pizzinato. Il testo recepisce appieno le tematiche che si stavano affrontando a Milano e a Roma. Si rivendica qui il riconoscimento dell’eterogeneità tecnica e poetica dei componenti del gruppo: l’intenzione primaria era quella di cercare un’unità di intenti, indipendentemente dalle scelte espressive e il potenziamento dell’azione singola degli artisti. È impossibile parlare di stile unitario, anche per via della configurazione stessa del movimento che non propone particolari codici estetici, bensì una comunanza generazionale dei suoi componenti. Durante lo svolgimento dell’evento milanese però, forse anche a causa dell’inconsistenza programmatica, si scatenano forti conflitti personali tra i partecipanti che, anche per rivalità personali, vedono l’uscita di Bruno Cassinari e l’ampliarsi del fronte romano con artisti del calibro di Antonio Corpora e di Giulio Turcato. La Nuova Secessione si divide dopo il 1948 nei due fronti opposti: quello dei Realisti e quello degli Astratto concreti. Nel 1948 gli artisti del Fronte, eccetto Fazzini, presentati in catalogo da Marchiori, partecipano alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra. In occasione della Prima Mostra Nazionale di Arte Contemporanea dell’ottobre 1948 a Bologna, divengono sempre più evidenti le distinzioni delle strade che si erano aperte per merito dell’eredità postcubista, ancora più marcatamente di quanto visto alla Biennale appena conclusa. Nell’ultima giornata della mostra, Guttuso prende parte al dibattito sulle prospettive astrattiste e realiste dell’arte italiana, schierandosi apertamente dalla parte di un realismo che si vuole conformare alle posizioni sovietiche, con rappresentazioni a favore della figurazione, in contrasto netto e aperto con il formalismo astrattista e alla sua deformazione. Prima Pizzinato, quindi Guttuso rinnegano l’astrattismo e annunciano l’abbandono del Fronte, che si scioglie ufficialmente il 3 marzo 1950, laddove era cominciato, a Venezia. Alla successiva Biennale, quella del 1950, gli artisti provenienti dal Fronte partecipano distinti in due gruppi, quello dei realisti, aderenti all’ortodossia estetica del Partito Comunista Italiano, e quello degli astrattisti. Questi ultimi rivendicano il primato della libertà delle scelte degli artisti su ogni condizionamento ideologico e di partito. Da questo secondo gruppo nascerà nel 1952 il Gruppo degli Otto di Lionello Venturi, i cui componenti provengono appunto, per la maggior parte, dall’esperienza del Fronte nuovo delle arti.
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RENATO GUTTUSO, RIANO FLAMINIO, 1952 Olio su tela, 72 x 92 cm Pubblicazioni: Catalogo generale I Vol N 51:13
RENATO GUTTUSO Bagheria, 1911 – Roma, 1987
Renato Guttuso nasce il 26 Dicembre 1911 a Bagheria. Il padre Gioacchino, agrimensore di professione ma acquarellista per diletto e la madre Giuseppina d’A mico, preferiscono denunciarlo a Palermo il 2 Gennaio 1912, in seguito a un contrasto con la città a causa delle loro idee liberali. La città natale è molto importante nella formazione del pittore, perché lì, giovanissimo, entrò in contatto con il mondo della pittura, come racconta lui stesso: “tra gli acquarelli di mio padre, lo studio di Domenico Quattrociocchi, e la bottega del pittore di carri Emilio Murdolo prendeva forma la mia strada avevo sei, sette, dieci anni...”. Ma Bagheria è importante anche perché continuerà a fornirgli per tutta la vita uno straordinario repertorio di immagini e colori. Già dal 1924, appena tredicenne, comincia a firmare e datare i propri quadri. Sono piccole tavolette dove per lo più copia i paesaggisti siciliani dell’ottocento. Tra queste vanno ricordate Golfo di Palermo (1925), dove usa le venature del legno per raccontare le onde del mare. I suoi modelli sono comunque più vari, i francesi come nel caso dell’A ngelus di Millet (1926), realizzata su una tavolozza che mantiene ancora la forma originale, e i pittori contemporanei di cui poteva procurarsi le illustrazioni., come Carrà nel Pino marittimo (1929). In questi anni dipinge anche dei ritratti come quello di Graziella e il Ritratto del padre, il Cavalier Gioacchino Guttuso Fasulo (1930). Negli anni seguenti comincia a frequentare l’atelier del pittore futurista Pippo Rizzo e l’ambiente artistico palermitano. Nel 1928 partecipa a Palermo alla sua prima mostra collettiva. Nel 1931 partecipa con due quadri alla Quadriennale Nazionale d’A rte Italiana a Roma e ha occasione di vedere dal vivo le opere dei più grandi artisti italiani che lo impressionano profondamente. Una mostra di Guttuso e di altri pittori siciliani, alla Galleria del Milione nel 1932, suscita grande interesse nella società artistica milanese. Per vivere a Roma esegue alcuni lavori di restauro alla Pinacoteca di Perugia e alla Galleria Borghese di Roma. In questo periodo ha modo di legarsi ad artisti come Mario Mafai, Francesco Trombadori, Corrado Cagli, Pericle Fazzini, Mirko e Afro. Dal 1929 collabora con giornali e riviste e già dalla scelta dei suoi primi soggetti critici si delineano le sue scelte in favore di una pittura impegnata. Il suo primo articolo su Picasso, scritto nel 1933, causa l’intervento della censura fascista e la sospensione della collaborazione con il giornale l’Ora di Palermo. Espone per la seconda volta a Milano, alla galleria del Milione con il “Gruppo dei 4” che aveva fondato a Palermo con Giovanni Barbera, Nino Franchina e Lia Pasqualino Noto in aperta polemica con il primitivismo di “Novecento”, allora dominante. La mostra viene recensita da Carrà, in quel momento il pittore più autorevole che ci fosse in Italia. A causa del servizio militare trascorre il 1935 a Milano, dove ha occasione di stringere grandi amicizie con artisti come Birolli, Sassu, Manzù, Fontana con cui dividerà lo studio, ed intellettuali come il poeta Salvatore Quasimodo, Raffaele de Grada, Elio Vittorini, il filosofo Antonio Banfi, Raffaele Carrieri, Edoardo Persico. Malgrado queste amicizie, che saranno fondamentali per l’esperienza politica e culturale di Corrente, il periodo milanese è contrassegnato da una profonda depressione testimoniata dalle poesie scritte in quegli anni, causata probabilmente anche dalle durissime condizioni economiche che lo opprimono nel capoluogo lombardo. Sono anni tra i più importanti della sua vita. Si trasferisce definitivamente a Roma, i suoi studi, a cominciare da quello in piazza Melozzo da Forlì, saranno spesso al centro di sue composizioni pittoriche e diverranno uno dei centri intellettuali più vivaci ed interessanti della vita culturale della capitale. In questi anni nasceranno le amicizie con Alberto Moravia, Antonello Trombadori e Mario Alicata che avranno un ruolo determinante nella sua adesione al partito comunista, nel quale si iscriverà nel 1940. La sua prima personale a Roma viene presentata dallo scrittore Nino Savarese. Sono gli anni delle straordinarie nature morte, della Fucilazione in campagna (dedicata a Federico Garcia Lorca), della Fuga dall’Etna, che riceverà il premio Bergamo, in quel momento il più importante premio di pittura in Italia. Nella stesso anno conosce Mimise Dotti che sarà sua compagna per tutta la vita. Collabora come critico a Le Arti, Primato e Il Selvaggio, diretto da Mino Maccari che dedica un intero numero ai suoi disegni (1939), proseguendo con impegno e vigore l’attività di critico che durerà tutta la vita. Continua la straordinaria produzione artistica dipingendo nudi, paesaggi, nature morte e realizza la Crocefissione (1940-41), la sua opera più famosa ed uno dei quadri più significativi del Novecento. Lui stesso chiarisce il significato dell’opera: “questo è un tempo di guerra. Voglio dipingere questo supplizio del Cristo come scena d’oggi. … come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee”. Il quadro, presentato al premio Bergamo nell’autunno del 1942, dove riceverà il secondo premio, suscita un grande
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scandalo e il Vaticano proibisce ai religiosi di guardare l’opera. Nel 1940 al Teatro delle Arti di Roma, diretto da Anton Giulio Bragaglia, Renato Guttuso fa il suo esordio nella scenografia musicale, firmando scene e costumi per l’Histoire du Soldat. Nel 1943 lascia Roma per motivi politici e partecipa attivamente alla resistenza antifascista. Della lotta partigiana ha lasciato una struggente testimonianza artistica nella serie di disegni realizzati con inchiostri delle tipografie clandestine intitolati Gott mitt Uns. A Parigi con Pablo Picasso stringe una amicizia che durerà tutta la vita. In Italia assieme ad alcuni artisti ed amici tra i quali Birolli, Vedova, Marchiori, il gallerista Cairola fonda il movimento Fronte Nuovo delle Arti, un raggruppamento di artisti molto impegnato politicamente con l’obbiettivo di recuperare le esperienze artistiche europee che a causa del fascismo erano poco conosciute in Italia. Nella sua pittura sono presenti temi sociali e di vita quotidiana: picconieri della pietra dell’A spra, zolfatari, cucitrici, manifestazioni di contadini per l’occupazione delle terre incolte. Nel ’47 trasferisce il suo studio a Villa Massimo. Nello stesso anno a Venezia con le scene e i costumi per Lady Macbeth di Sostakovic, in prima assoluta per l’Italia, prosegue la collaborazione con l’opera e con il coreografo Aurele Millos. Nel 1950 ottiene a Varsavia il premio del Consiglio Mondiale per la Pace, nello stesso anno tiene la sua prima personale a Londra. A Roma al Teatro dei Satiri curerà le scenografie e i costumi per “Madre Coraggio e i suoi figli” di Bertolt Brecht, in prima assoluta per l’Italia. E’ sempre presente alle Biennali di Venezia con grandi quadri, nel ’52 con la Battaglia di Ponte dell’A mmiraglio, nel ’54 con Boogie Woogie, nel ’56 con la Spiaggia suscitando discussioni e dibattiti. Sposa Mimise; Pablo Neruda, che gli ha dedicato una sentita poesia, sarà testimone delle loro nozze. Collabora alle più importanti riviste italiane e internazionali con scritti di teoria e critica d’arte, prendendo posizione nel dibattito sul realismo. Dipinge La Discussione che verrà acquistato dalla Tate Gallery di Londra. Lavora all’illustrazione della Divina Commedia che sarà pubblicata nel ’61 da Mondadori. Elio Vittorini scrive un’importante monografia sul pittore mentre l’amico Pasolini scriverà un’introduzione per un suo libro di disegni. A New York, la Aca-Heller Gallery gli dedica un’importante mostra. Il Museo Puskin di Mosca gli dedica un’importante retrospettiva nel ’61. Il Museo Stedelick di Amsterdam gli dedica un’antologica di grande successo che sarà poi ospitata anche al Palais de Beaux Arts di Charleroi mentre nel ’63 si apre a Parma una sua ampia mostra antologica, presentata da Roberto Longhi. Sempre a Parma, nello stesso anno, curerà scene e costumi per il Macbeth di Verdi. Nel ’65 elabora il tema del lettore di giornale e quello dell’Edicola che lo porterà a realizzare la sua unica grande scultura. Si trasferisce a Palazzo del Grillo dove continuerà ad abitare e lavorare fino alla morte. Nel ’66 realizza il grande ciclo dell’A utobiografia, una serie di dipinti che costituiranno il nucleo di importanti antologiche ospitate in vari musei europei. A questo ciclo Werner Haftmann dedicherà un’importante monografia. Tra i quadri più belli e significativi Gioacchino Guttuso Agrimensore (1966), omaggio al padre ritratto nell’erba dietro il teodolite. Collabora alla realizzazione delle scene teatrali per il Contratto di Eduardo de Filippo, suo grande amico. Nel ’71 riceve dall’Università di Palermo, la laurea Honoris Causa e gli sono dedicate due importanti antologiche: una a Palermo al Palazzo dei Normanni con testi di Leonardo Sciascia, Franco Grasso e una al Musee d’A rt Moderne de la Ville di Parigi. Nel 1972 riceve il premio Lenin e gli viene dedicata una grande mostra all’Accademia delle arti di Mosca. Una grande mostra retrospettiva percorre l’Europa orientale toccando Praga, Bucarest, Bratislava, Budapest. Dipinge il grande quadro la Vucciria (1974) che affida all’università di Palermo e nel ’76 dipinge il Caffè Greco (ora Collezione Ludwig di Colonia.) Illustra i Malavoglia di Verga nel 1978 e l’Eneide di Virgilio nel 1980. Viene eletto Senatore, nelle liste del PCI, nel collegio di Sciacca. Nel 1973 Guttuso sceglie un importante nucleo di opere, sue e di altri artisti, che costituiranno la base per istituire a Bagheria la Galleria civica. Giuliano Briganti scrive la presentazione per la sua mostra a Roma sul ciclo delle Allegorie, della Malinconia e della Visita della sera. Il centro di cultura di Palazzo Grassi di Venezia gli dedica una importante mostra antologica nell’82, a cura di Maurizio Calvesi, Cesare Brandi e Vittorio Rubiu. Nel 1983 affresca una cappella del Sacromonte di Varese con la Fuga in Egitto. Vengono pubblicati, a cura di Enrico Crispolti, i primi tre volumi del catalogo generale dei suoi dipinti. Nel 1985 intraprende un’opera monumentale, affrescando l’intera volta ( più di 120 mq. di pittura) del soffitto del teatro lirico Vittorio Emanuele di Messina, rappresentando la leggenda del Cola Pesce.
Nel 1986 dipinge un ciclo di opere dedicato al tema del gineceo che culmina nel quadro “Nella stanza le donne vanno e vengono…”, ultimo grande sforzo del pittore che resterà incompiuto. Il 18 gennaio del 1987 muore lasciando alcune opere, tra le più importanti, alla Galleria Nazionale d’A rte Moderna di Roma. Altre opere e una ricca raccolta documentale le ha già affidate al museo che la sua città natale, Bagheria, gli ha intitolato. Il Museo Guttuso, che ha sede nella settecentesca Villa Cattolica, raccoglie così la più ampia collezione di opere, quadri, disegni e grafica dell’artista, e nel giardino della Villa conserva la grande Arca funebre dedicatagli dal suo amico Giacomo Manzù, dove egli riposa. Subito dopo la morte viene organizzata dal Museo Guttuso di Bagheria, a cura di Maurizio Calvesi, con il contributo dei più importanti critici italiani, la mostra “Dagli esordi al Gott mitt Uns”. Dopo la sua morte, il figlio adottivo Fabio Carapezza Guttuso fonda gli Archivi Guttuso, cui destina lo studio di Piazza del Grillo, e integra la collezione del museo di Bagheria. Gli Archivi organizzano numerose mostre, tra queste due antologiche del pittore, una in Germania nel ’91 e l’altra nel ’96 a Londra e Ferrara; il completamento, in collaborazione con Enrico Crispolti, del Catalogo Ragionato Generale dei Dipinti di Renato Guttuso; e nel decennale della morte, una grande mostra, incentrata sulla collaborazione tra Guttuso e il teatro musicale, al teatro Massimo di Palermo. Infine curano, per la Rizzoli nel 1999, una completa, monografia dedicata all’A rtista.
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“Uso la gommapiuma perché il suo crostone scabroso è pieno di avvenimenti nuovi e di meraviglia.. Evocando costellazioni, mappature astronomiche, geologie astrali, Superficie lunare è una decantazione della realtà, uno spazio non più drammaticamente post-atomico, ma positivamente e felicemente cosmico, la cui fisicità è costantemente confermata dalla presenza oggettuale o materica (la gommapiuma), ma anche contraddetta dal progressivo prevalere di una dimensione mentale, tradotta da un bianco composito di straordinaria forza espressiva.” Giulio Turcato
GRUPPO DEGLI OTTO
“Un gruppo di artisti di indirizzo astratto, per un’arte slegata sia dalla figurazione che dall’astrazione postcubista, alla ricerca di un linguaggio pittorico comune” Il critico d’arte Lionello Venturi, nel 1952 dà l’impulso alla formazione di un gruppo artistico che verrà nominato “Gruppo degli otto”, costituito da Birolli, Corpora, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova, Afro e Moreni : si tratta di artisti con un comune indirizzo astratto, per un’arte slegata sia dalla figurazione vera e propria sia dall’astrazione che ne avevano elaborato le correnti postcubiste, prediligendo il richiamo all’Orfismo ed a un lirismo di impronta naturalistica con particolare attenzione alle avanguardie francesi, senza dimenticare l’esperienza impressionista, un linguaggio complesso per il quale Venturi conia il termine astrattismo-concreto. Va detto che a partire dal ’45, periodo dell’euforismo postbellico, l’Italia vive un periodo di particolare libertà espressiva e di grande curiosità intellettuale verso la cultura europea, preclusa negli anni precedenti per motivi politici, e, in un clima di particolare fermento, due sono le tendenze predominanti che si affermano nelle arti visive: da una parte il filone astrattista che culminerà nella costituzione del “Gruppo degli otto”, dall’altra un filone neoespressionista - neorealista che sfocerà nel Fronte Nuovo delle Arti (il manifesto è del ’42), dove si cercherà una conciliazione con le istanze astrattiste attraverso una elaborazione della forma in chiave neocubista (ciò che fa per esempio Guttuso). Gli artisti di indirizzo più spiccatamente astratto confluiranno, dopo la scissione del “Fronte Nuovo”, nel “Gruppo degli otto”, a sua volta disperso a metà degli anni ’50 per la divergenza dei linguaggi dei vari componenti, tutte personalità forti ed impegnate, inadatte a sottomettersi ad un programma unitario: infatti ciascuno di loro porterà avanti una personale ed originale ricerca formale, recependo il nuovo messaggio europeo dell’Informale materico, dell’astrattismo americano o dell’action painting, secondo le proprie individuali propensioni umane e culturali. Ciò che resta in comune e che è generalizzabile a tutta la pittura astratta, è la connessione tra impegno artistico e impegno morale, l’identificazione tra estetica ed etica, perseguita attraverso un linguaggio artistico rivoluzionario che, forse utopisticamente, vuole contribuire a migliorare la condizione sociale e morale dell’umanità. Pur avendo avuto questo movimento una vita relativamente breve, durata pochi anni, ha un suo ben preciso significato storico nel rapporto con le grandi correnti astrattiste mondiali, testimoniando l’apertura e la ricettività della cultura italiana verso il neoplasticismo di “De Stijl” e l’Espressionismo astratto americano, dei quali tuttavia rifiuta l’idealismo metafisico e la furia irrazionale, nella ricerca di un linguaggio che non cancelli le originarie radici culturali. Scrive Lionello Venturi: ”Si tratta anche in Italia di accordarsi su un linguaggio comune, in cui ciascuna personalità metta il suo accento individuale. Costituire un linguaggio pittorico comune, ecco il problema essenziale del gusto odierno“. Fu un tentativo vano, ciascuno del gruppo finì per esprimersi in toni talmente soggettivi e personali da non essere assimilabile ad alcun altro, Emilio Vedova e Afro Basaldella, capisaldi dell’astrattismo italiano, parlano probabilmente il linguaggio più alto e universale, seppure in una personale declinazione che li pone fuori da ogni gruppo, e fuori dal coro. Presentati in quello stesso anno alla Biennale di Venezia, questi autori proposero un’arte che rinunciava contemporaneamente sia all’approccio figurativo sia al formalismo neocubista per un astrattismo non esente da note impressionistiche. Intorno alla metà degli anni 50 tendenze centrifughe legate alla forte personalità artistica dei suoi autori presero il sopravvento sul programma unitario portando alla dispersione del gruppo. La scissione fu inoltre favorita dall’avvento della poetica informale già annunciata con l’introduzione nelle loro opere di elementi materici e di modi gestuali.
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GIULIO TURCATO Mantova, 1912 – Roma, 1995
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Nasce a Mantova il 16 marzo 1912. Nel 1920 si trasferisce con la famiglia a Venezia, dove segue saltuariamente l’Accademia o piuttosto la scuola del nudo, perché la famiglia lo osteggiò sempre nella sua scelta artistica. Nel 1934, durante il servizio militare a Palermo, avverte i primi sintomi di una malattia polmonare che segnerà gran parte della sua esistenza. Nello stesso anno risulta presente alla IV Mostra dell’Artigianato, nell’ambito del gruppo di artisti veneti selezionati dall’ENPI. Nel 1937 si stabilisce a Milano dove, ammalatosi spesso, passa per vari ospedali, riuscendo comunque a realizzare delle prospettive architettoniche per l’architetto Muzio di Milano, ad allestire la sua prima mostra personale e ad entrare in contatto con il Gruppo di Corrente senza aderirvi. Negli anni 1942-43 insegna disegno in una scuola di avviamento professionale a Portogruaro ed esordisce alla XXIII Biennale con l’opera Maternità. Attilio Podestà commenta: “Nel concorso per opere ispirate al momento attuale è da notarsi ancora: la Maternità di Turcato, che si richiama al Birolli”. Si reca saltuariamente a Milano in compagnia di Emilio Vedova. Nel 1943 giunge a Roma, dove partecipa alla IV Quadriennale e ad una mostra alla Galleria dello Zodiaco, insieme a Vedova, Donnini, Purificato, Leoncillo, Valenti e Scialoja. Nello stesso anno, ancora una personale alla “Campana”, e quindi l’inizio di un nuovo capitolo della vita e dell’arte di Turcato: la sua partecipazione alla Resistenza, e dopo la Liberazione, il definitivo trasferimento in città. A partire da questo momento, la sua attività artistica si lega strettamente all’impegno sociale e politico, culminato nell’iscrizione al Partito Comunista Italiano. Nel 1945 la casa editrice Sandron (Roma) licenzia il volume Interviste di frodo, in cui Marcello Venturosi, annotando alcuni momenti della vita artistica romana, parla anche di Turcato, tracciandone un personale ritratto. Nello stesso anno aderisce alla “Libera Associazione Arti Figurative” e all’”Art Club” di Prampolini e Jarema, concorrendo a gran parte delle iniziative espositive dell’associazione, in Italia e all’estero. In occasione di una mostra alla Galleria del Secolo di Roma sottoscrive insieme a Corpora, Fazzini, Guttuso e Monachesi un Manifesto del Neocubismo, divulgato da “La Fiera Letteraria” nel 1947. Alla fine dell’anno si reca a Parigi con Accardi, Attardi, Consagra, Maugeri, Sanfilippo e Vespignani, restando fortemente impressionato dal lavoro di Magnelli, Picasso e Kandinkij. Il 15 marzo 1947 firma a Roma con Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli e Sanfilippo (insieme ai quali frequenta lo studio di Guttuso in via Margutta) il manifesto Forma, pubblicato in aprile nel primo ed unico numero della rivista “Forma”, ove appare anche il suo articolo Crisi della pittura. Nell’estate dello stesso anno partecipa alla prima mostra del “Fronte Nuovo delle Arti” alla Galleria Spiga: l’esposizione costituisce la sua adesione ufficiale al movimento. In ottobre espone con Consagra, Dorazio, Guerrini e Perilli all’Art club di Roma: la mostra è considerata l’uscita ufficiale di Forma. Con lo stesso gruppo ed il critico Guglielmo Peyrce redige, in novembre, il giornale murale Da Cagli a Cagli per protestare contro il testo di Antonello Trombadori pubblicato nel catalogo della mostra di Corrado Cagli alla Galleria La Palma di Roma. Numerosi episodi caratterizzano la sua vicenda biografica nel 1948: compie viaggi a Milano e Venezia, in Polonia, e partecipa alla V Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia. Nel 1949 tiene numerose personali a Milano, Roma e Torino ed il suo dipinto Rivolta (1948) entra a far parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 1950 soggiorna di nuovo a Parigi, dove ha modo di conoscere Manassier, Pignon e Michel Seuphor. Con opere ispirate a tematiche sociali partecipa alla Biennale di Venezia. L’anno seguente concorre al Premio Taranto ed il suo Piccolo Porto entra a far parte delle collezioni del palazzo del Quirinale. Nel 1952, con Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Vedova, entra a far parte del “Gruppo degli Otto”, promosso da Lionello Venturi, col quale espone alla Biennale di Venezia. Tiene una personale alla Cassapanca di Roma (11 dipinti), accompagnato in catalogo da un testo di Enrico Prampolini. Partecipa ad una collettiva dedicata al disegno itinerante negli Stati Uniti. Diviene assistente alla Cattedra di Figura al Liceo Artistico di Roma nel 1953 ed ha una personale al Naviglio di Milano ed interviene al dibattito sul tema Arte Moderna e Tradizione aperto sulle pagine di “Realismo” nel mese di febbraio. Torna alla XXVII Biennale di Venezia con un intenso scritto di Emilio Villa che appare su “Arti Visive”. Nel 1955 Carrieri parla di Turcato nel volume Pittura e scultura d’avanguardia in Italia. Espone alla Quadriennale Romana (la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma acquista un suo Reticolo). Nel 1956 compie un viaggio in estremo oriente passando per Mosca fino a giungere in Cina, dove in giugno espone insieme a Sassu, Tettamanti, Zancanaro, Raphael e Fabbri alla mostra Cinque Pittori italiani in Cina. Notevole è, nel corso del ‘57, l’interesse da parte della critica per il suo lavoro e nel ‘58 la Biennale di Venezia ordina una sua sala personale, comprendente undici lavori introdotti in catalogo da Palma Bucarelli. Nel 1959 Giulio Carlo Argan e Nello Ponente considerano il suo lavoro in Arte dopo il 1945 ed è presente alla seconda edizione di Documenta a Kassel. Insieme ad altri artisti decide di non partecipare alla Quadriennale romana per protestare contro l’organizzazione e gli organi direttivi che la presiedono e, durante un’intervista, spiega i motivi della sua decisione. Firma un articolo intitolato Conformismo: pigrizia mentale, apparso nel mese di maggio sulle pagine di “Arte Oggi”, in cui parla delle posizioni assunte dalla pittura contemporanea.
A partire dal 1960 espone con Novelli, Perilli, Dorazio, Consagra, Bemporad, Giò e Arnaldo Pomodoro nell’ambito delle rassegne intitolate Continuità, promosse in diverse gallerie italiane da Giulio Carlo Argan. Nel ‘60 ha una mostra insieme ad Ajmone e Dova alla Bottega d’Arte di Livorno, ed un suo scritto appare nel volume Crack. Due personali, una alla New Vision Centre Gallery di Londra ed un’altra al Canale di Venezia, si svolgono nel corso del ‘62, durante il quale Gillo Dorfles parla del suo lavoro nel libro dedicato alle Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Nel 1963 Emilio Villa torna ad occuparsi di lui presentandone la personale alla Tartaruga di Roma. Stipula inoltre insieme a Dorazio, un contratto con la Galleria Marlborough di Roma e festeggia l’avvenimento regalandosi un viaggio a New York come semplice turista. Nel 1964 si unisce in matrimonio con la cineasta romana Vana Caruso, espone alla Scaletta di Catania ed al Segno di Roma. L’anno dopo partecipa alla Quadriennale di Roma vincendo il premio della Presidenza del Consiglio, ed è convocato per la prima rassegna celebrativa dedicata a Forma 1. Nel 1966 Maurizio Calvesi ne “Le due avanguardie” e Maurizio Fagiolo in “Rapporto 60” parlano della sua pittura, mentre Nello Ponente cura il testo che accompagna la sua sala personale alla Biennale di Venezia, in cui compaiono, tra le 13 opere esposte, diverse gommapiuma. Nel 1973 la città di Spoleto gli dedica una prima mostra antologica, curata da Giovanni Carandente, seguita a distanza di un anno da un’altra, più vasta, al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Il 24 febbraio 1984 si inaugura presso il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano la mostra Giulio Turcato. Partecipa alle rassegne storiche dedicate a Forma 1 a Bourg-en-Bresse e a Darmstad (1987). È presente nuovamente alla Biennale di Venezia, ospitato nella sezione intitolata Opera Italiana (1993). In seguito ad una crisi respiratoria, muore a Roma il 22 gennaio 1995.
GIULIO TURCATO, ITINERARI, Anni ‘70 Olio su gommapiuma su legno, 80 x 100 cm
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“Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.“ Alberto Burri
ARTE INFORMALE
Con il termine Arte informale si definisce una serie di esperienze artistiche, sviluppate in Europa, America e Giappone, caratterizzata dal rifiuto di qualsiasi forma, figurativa o astratta, costruita secondo canoni razionali, rapportabili alla tradizione culturale precedente. Il termine informale fu coniato in Francia negli anni Cinquanta per indicare la tendenza verso un nuovo modo di creare immagini senza il ricorso alle forme riconoscibili, precedentemente usate, come il Cubismo e l’Espressionismo. Ma già tra il 1910 e il 1945 pittori europei trasferiti a New York (Masson, Duchamp, Kandinskij, Mondrian ed Albers) stavano orientando in questo senso il gusto pittorico. Le ragioni profonde di tale rifiuto derivano dal disagio degli artisti di fronte all’immane tragedia della seconda guerra mondiale e al disinteresse per l’umanità ed il suo mondo che ha permesso tale orrore. Il rifiuto della “forma” era già un concetto dell’Arte Astratta, dell’Action painting, del Tachisme, dell’Espressionismo astratto, più altri movimenti che ritraevano gli oggetti senza rispettarne le forme ed i colori, attingendo solo alla visione o immaginazione dell’artista, ma rimanendo pur sempre forme. Gli artisti riconducibili a questa tendenza hanno dato origine a opere estremamente diversificate, ma spesso caratterizzate da libere pennellate e densi strati di colore, segni e metodi all’insegna dell’improvvisazione, in modo che l’evento artistico, svuotato da qualsiasi residuo valore formale, si esaurisca con l’atto stesso della sua creazione. Oggi s’individuano, nell’ambito dell’Informale, due correnti principali: l’informale gestuale e l’informale materico. A queste due tendenze devono essere aggiunti altri due segmenti: lo spazialismo e la pittura segnica. Alcuni componenti della Corrente Informale realizzano una pittura d’azione in cui il colore è steso con gesto istintivo, quasi violento. Altri artisti inventano la pittura segnica, fatta di motivi e segni che si richiamano a caratteri di scritture inventate, altri ancora realizzano la pittura materica, eseguita con particolari impasti o accostamenti di materiali eterogenei. L’informale gestuale, definito anche “action painting”, proviene dagli Stati Uniti, e coincide di fatto con l’espressionismo astratto.Suo maggior rappresentante è Jackson Pollock. La sua tecnica pittorica consisteva nello spruzzare o far gocciolare i colori sulla tela senza alcun intervento manuale. Le immagini così ottenute si presentano come un caotico intreccio di segni colorati, in cui non è possibile riconoscere alcuna forma. I quadri informali sono pertanto la negazione di una conoscenza razionale della realtà e la rappresentazione di un universo caotico, unica testimonianza dell’essere e dell’agire. In ciò si lega molto profondamente alle filosofie esistenzialistiche di Jean Paul Sartre, di Maurice Merieau Ponty ed Albert Camus, piene di pessimismo ed angoscia, testimonianti il vuoto di certezze e di fiducia nella ragione umana. Nell’Informale di gesto il risultato che si ottiene è del tutto automatico: deriva da gesti compiuti secondo movenze in cui la gestualità parte dalla liberazione delle proprie energie interiori. Nel “gesto” non v’è alcun momento cosciente, che cerchi di razionalizzare o spiegare ciò che proviene dall’inconscio. Uno dei grandi fascini di quest’arte risiede proprio nel suo “farsi”. Da essa derivano tutte quelle esperienze successive, quali il comportamentismo, la body art o le performance, in cui il risultato estetico non risiede più nell’opera compiuta, ma solo nel vedere l’artista all’opera. Tra i principali artisti americani dell’action painting ricordiamo, oltre a Pollock, Willem de Kooning e Franz Kline. L’Informale di materia è la tendenza che maggiormente si manifesta in Europa. Con l’Arte Informale i pittori si appropriano della problematica del contrasto o prevalenza della materia sulla forma, che aveva già interessato Michelangelo. L’Arte Informale Materica inizia nello stesso anno in cui Pollock inventa l’action painting: il 1943. Protagonista è il pittore francese Jean Fautrier, che, rifacendosi alle esperienze del Cubismo sintetico di Picasso e Braque ed alle ricerche surrealiste di Max Ernst, inserisce nei suoi quadri materiali plastici che emergono dalla superficie del quadro. In tal modo rompe il confine tra immagine bidimensionale e immagine plastica, proponendo opere che non sono più classificabili nelle tradizionali categorie di pittura o scultura. Agli intrinseci valori espressivi dei materiali si rivolgono alcuni artisti informali europei: tra essi emergono soprattutto il francese Jean Dubuffet, lo spagnolo Antoni Tápies e l’italiano Alberto Burri (1915-1995). Burri, in particolare, propone opere dalla singolare forza espressiva, ricorrendo a materiali poveri: legni bruciati, vecchi sacchi di juta, lamiere e plastica. Dopo aver debuttato come pittore figurativo, Burri passa attraverso l’astrattismo per approdare alla pittura Informale diventando una delle figure più rappresentative con Renato Birolli, Mario Ballocco, Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla, Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso, Edmondo Bacci, ma soprattutto con Tancredi Parmeggiani. Le opere più note di Alberto Burri sono le serie dei “Crateri”, delle “Ferite”, delle “Combustioni”, dei “Sacchi”, dei “Legni”, dei “Ferri” e delle “Plastiche”. Poiché le superfici rugose ed irregolari richiamano alla mente sensazioni di spiacevolezza o di conflitto, mentre le superfici morbide e levigate inducono più facilmente a sensazioni di dolcezza e di serenità, l’artista, nella sua scelta e in quella degli accostamenti tra materie diverse, esprime la propria energia creativa.
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La materia si trova quindi in primo piano: un sacco, un rottame d’acciaio, un morbido pezzo di gomma, una fredda luce al neon, una scheggia di vetro, altro non sono che altrettanti atti artistici. In questo senso l’arte diventa soprattutto scelta e questa nuova visione ne allarga il campo praticamente all’infinito. Tutto può diventare arte, così come è possibile che nulla effettivamente lo sia. Lo Spazialismo è una corrente non uniforme, che ha come rappresentanti due artisti: il milanese Lucio Fontana e il russo (ma naturalizzato americano) Marc Rothko. Le loro opere possono ricondursi all’Informale per la comune assenza di “forme”, ma la loro ricerca ha per fine risultati diversi da quella degli altri artisti informali. Con le loro opere mirano a suggerire effetti spaziali del tutto inediti. Fontana ricorrendo a buchi e tagli prodotti nelle tele, Rothko ricorrendo alle stesure di colori secondo macchie di sottile variazione tonale. Queste applicazioni nell’ambito pittorico hanno la capacità di suscitare atmosfere immateriali e non terrene, proponendo una nuova visione di spazi, oltre lo spazio naturalmente percepito. La pittura segnica è un’altra versione dell’Arte Informale, anche se da questa si differenzia per la mancanza di un netto rifiuto della forma. Nelle opere degli artisti che utilizzano la pittura segnica, la forma, benché non del tutto assente, tende a trasformarsi in “segno”, cioè in un elemento grafico che sia riconoscibile dal punto di vista formale, ma non nel suo contenuto. Gli artisti che si esprimono attraverso la Pittura Segnica tendono a costruire nuovi alfabeti visivi, non concettuali, in cui è evidente la componente calligrafica. Tra gli artisti più significativi di questa tendenza sono da citare l’italiano Giuseppe Capogrossi, il francese Georges Mathieu e i tedeschi Wols (pseudonimo di Wolfgang Schultze) e Hans Hartung. Il pittore francese Jean Dubuffet (1901-1985), le cui opere principali sono: “Così vanno le cose” e “Les Mires”, conia il termine “Aer Brut” per definire la produzione artistica di persone prive di formazione, che vivono ai margini della società o sono internate in ospedali psichiatrici. Gli autori di opere classificabili come aer brut, totalmente autodidatti ed estranei ai circuiti dell’arte tradizionale, utilizzano un linguaggio figurativo personale, esprimendo un mondo dell’immaginario del tutto individuale, sovente sconcertante e assimilabile all’arte Informale. La gestualità insita nel tracciare il segno, nello stendere il colore, nell’incidere, graffiare, tagliare, ferire o bucare la materia, non risponde ad una volontà dell’artista di rappresentare alcunché, ma è l’opera che, ribaltando il vecchio rapporto, vuole essere “altro” dalla realtà che la circonda, vuole essere realtà indipendente essa stessa, testimone del fare e dell’essere dell’artista. La materia appare quale realtà completamente autonoma, oggetto-soggetto di un’arte autosufficiente in sé, che si presenta in primo piano, eliminando qualsiasi rappresentazione che non sia quella di se stessa in tutte le sue caratteristiche di fisicità spazio-temporale. Willem de Kooning (1904-1991) è un altro grande interprete della stagione dell’Action Painting americana, che, nel gesto della mano che dipinge, rovescia sulla tela le energie interne, opera incidendo però su tracce di figure. Attraverso una tecnica aggressiva, il pittore si accanisce su frammenti di un corpo deformando, sfigurando e rendendo irriconoscibile l’unica parte del reale che permane nelle sue opere. Alcune opere famose dell’artista irlandese Willem de Kooning sono: “Luce d’agosto”, 1946; “Donna I”, 1950-52; “Porta sul fiume”, 1960. Altro esponente di rilievo della cerchia newyorchese è Franz Kline (1910-1962), che a partire dagli anni Cinquanta definisce il suo lavoro attraverso grandi sigle grafiche, realizzate con gesto ampio, tracciato a pieno braccio col segno pesante di una pennellata nera su fondo bianco (il bianco e nero per Kline “contano come se fossero colori”). In tutte le poetiche del segno e del gesto, palesemente evidenti sono le caratteristiche di denuncia, di rifiuto e di protesta dell’artista. La creazione di un nuovo alfabeto, di una nuova scrittura, di una nuova arte, che rifiuta il valore di ogni precedente conoscenza, dà vita alla “negazione del mondo”, una “iconografia del no” (Argan) ed una identificazione del segno con la propria sofferenza esistenziale di cui si fa diretta trascrizione.
ALBERTO BURRI Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995
Alberto Burri nasce a Città di Castello (Perugia) il 12 marzo 1915. Frequenta come tutti i bambini la scuola elementare e poi quella media e superiore. Si iscrive alla Facoltà di Medicina di Perugia, che frequenta dal 1934 al 1939 e diventa medico. Sono anni difficili per l’Italia fascista: scoppia la Seconda guerra mondiale e nel 1940 Alberto parte per il fronte africano, arruolato come medico. Fatto prigioniero dagli inglesi, resta imprigionato in un campo del Nord Africa, prima di essere trasferito dagli americani in Texas, dove inizia a dipingere. Tornato in Italia nel 1946, Burri si trasferisce a Roma, deciso a diventare un artista e ad abbandonare il mestiere di medico. Nel 1947 fa la sua prima mostra personale alla galleria La Margherita; le sue opere in questo periodo vogliono ancora rappresentare fedelmente la realtà. Presto, però, si allontana dalle raffigurazioni realiste e comincia ad avvicinarsi all’astrattismo: l’anno dopo, infatti è già impegnato nelle prime composizioni astratte: Bianchi e Catrami. Nel 1949 realizza SZ1, il primo “Sacco” stampato. In questi anni crea molte opere e partecipa a molte discussioni artistiche, anche con altri pittori (tra cui Capogrossi). Partecipa alla Biennale di Venezia e inizia l’opera Grande Sacco. Dal 1952 realizza i suoi primi sacchi, che sono le sue opere più conosciute, per le quali usa vecchie tele di juta, rattoppate e bucate, come “colore” per la sua pittura. La sua novità è che egli trova frammenti di materiali diversi e li propone come opera d’arte. Le sue opere, realizzate con catrame, muffe, ferri e plastiche, rivoluzionano il rapporto tra materia, forma e colore. Le mostre di Chicago e New York del 1953 segnano l’inizio del successo internazionale. Nel 1954 realizza piccole combustioni su carta. Continua a utilizzare il fuoco anche negli anni successivi, realizzando Legni (1956), Plastiche (1957) e Ferri (1958 circa). Dal 1955 in poi è riconosciuto artista importante e innovatore in tutto il mondo. Tra il 1961 e il 1969 Burri realizza il ciclo di Plastiche combuste. Sul finire degli anni ‘60 si trasferisce a Los Angeles. Visto il suo successo, la Galleria Nazionale d’A rte Moderna di Roma gli dedica una sala permanente. Per tutti gli anni ’70 Burri continua a comporre e realizzare svariate tipologie di opere, anche per il teatro. Nel 1981 viene inaugurata la Fondazione Burri a Città di Castello. In questi anni Burri si dedica al progetto (interrotto nel 1989) del Grande Cretto per la cittadina siciliana di Gibellina, sconvolta dal terremoto del 1968. Negli anni ‘80 vengono dedicate a Burri tante mostre. Lasciata la California, Burri si trasferisce a Beaulieu, in Francia, ma continua a frequentare Città di Castello. Nel 1993 espone al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza, l’ultimo grande cretto in ceramica, Nero e Oro. Alberto Burri muore infine a Nizza nel 1995, dopo una vita ricca di viaggi e di esperienze.
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ALBERTO BURRI, SENZA TITOLO, 1968 Acetato su cartoncino, 25 x 18 cm
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ALBERTO BURRI, SENZA TITOLO, 1968 Acetato su cartoncino, 18 x 25 cm
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Un bès – Antonio Ligabue “Voglio avere a che fare con l’uomo Antonio Ligabue, con il Toni, lo scemo del paese. Mi attrae e mi spiazza la coscienza che aveva di essere un rifiuto dell’umanità e, al contempo, un artista, perché questo doppio sentire gli lacerava l’anima: l’artista sapeva di meritarlo un bacio, ma il pazzo, intanto, lo elemosinava”. Mario Perrotta
ARTE NAIF
Con il termine Art Naif (dal francese naïf, “ingenuo”) ci si riferisce all’arte popolare che non è frutto di studi accademici o artistici, classici, non si ispira alle correnti o movimenti artistici catalogati nelle varie culture. Per i “puristi” l’arte popolare esclude anche le opere eseguite da artisti professionisti che imitano lo stile dei “dilettanti” realmente a digiuno di prospettiva o di qualità estetiche che si possono riscontrare nelle opere degli artisti “diplomati”. L’Arte popolare esprime in modo particolare l’identità culturale della gente, mettendo in evidenza i valori della comunità condivisi ed estetica. Per questo essa utilizza una larga fascia di supporti oltre alla classica tela bianca o la tavola in legno come tessuti colorati, legno grezzo, carta, creta, metallo e altro ancora. Gli artisti naif tradizionali sono in genere autodidatti e acquistano abilità e tecniche attraverso tirocini in contesti informali della comunità Oltre al più diffuso termine “Art Naif”, identificano l’arte popolare altre definizioni che sembrano più adatte alla cultura da cui nascono. L’arte popolare è caratterizzata dalle diversità non solo geografiche, ma anche temporali che rendono difficile da descrivere con un modello unitario. Da queste diversità l’arte popolare ha assunto varie definizioni come Arte Primitiva, Art Brut, Pop Art, Outsider Art, Arte Tradizionale, Arte Tribale, Arte Vagabonda, Arte Autodidatta, Folk Art e perfino Arte della Classe Operaia. Il fenomeno dell’arte naif cominciò a farsi notare dall’inizio del 1930 con la cosiddetta “Scuola di Hlebine” quando il pittore accademico Krsto Hegedusic notò le opere di due giovani contadini, Ivan Generalic e Franjo Mraz e diede a loro le essenziali conoscenze tecniche e li incluse nelle mostre del noto gruppo “Zemlja”. Con il pittore naif Mirko Virius, l’arte naif entrò nella storia dell’arte in grande stile ed il paese di Hlebine (nella regione nord occidentale della Croazia) divenne famosa per i pittori contadini. Dopo la seconda guerra mondiale la Scuola di Hlebine si allargò accogliendo Franjo Filipovic, Dragan Gazi, Josip Generalic, Mijo Kovacic, Ivan Vecenaj e Martin Mehkek. Al giorno d’oggi la pittura e la scultura della “Scuola di Hlebine” comprende centinaia di nomi, sia della vecchia che della nuova generazione. Mirko Virius che ha lasciato un’orma indelebile in questa forma artistica ha iniziato a dipingere in età avanzata ed In soli tre anni (1936-39) ha creato una incredibile mole di lavoro. Ha partecipato alla Prima Mostra dei pittori contadini a Zagabria con acquerelli, disegni e olii. La sua opera è dominata da raffigurazioni espressive e tristi del lavoro contadino, della terra e degli abitanti poveri. Le linee di spicco, la purezza e l’eleganza dei suoi disegni ha indotto il critico Josip Depolo a chiamarlo “il Giotto di Podravina “. In Francia, il concetto di Art brut (in italiano, Arte grezza) è stato inventato nel 1945 dal pittore Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti che operano al di fuori delle norme estetiche convenzionali. Egli intendeva definire un’arte spontanea, senza pretese culturali e senza alcuna riflessione o realizzati da pensionanti dell’ospedale psichiatrico, autodidatti, psicotici, prigionieri, persone completamente digiune di cultura artistica come i bambini. Nel secondo dopoguerra nasce il gruppo Compagnìe de l’Art Brut, ricostituito dopo la tragedia dell’arte degenerata di Hitler. Le opere della Compagnia si trovano al Museè de l’Art Brut di Losanna. Outsider art è il termine coniato dal critico Roger Cardinal nel 1972 come sinonimo inglese di art brut. Mentre il termine di Dubuffet si riferisce ai bambini ed alle persone costrette in comunità, gli inglesi accomunano il termine Outsider Art agli autodidatti o pittori che esprimono stati mentali estremi, idee non convenzionali o elaborati mondi di fantasia anche se non istituzionalizzati. Di solito, quelli etichettati come artisti della Outsider art sono estranei al tradizionale mondo dell’arte ed hanno pochi o nessun contatto con le istituzione e il loro lavoro viene scoperto soltanto dopo la loro morte. L’Outsider Art ai giorni nostri è emersa come una categoria di successo dal 1993 quando l’annuale Fiera Outsider Art di New York ha messo le basi per un lucroso marketing. L’arte popolare americana non è unitariamente descrivibile per l’apporto degli emigranti europei ed orientali di sempre nuove comunità etniche. Ancora oggi sopravvive il Quilting, la tecnica tramandata nelle famiglie dell’ovest per la creazione e la decorazione di stoffe sovrapposte e trapuntate: Patchwork e Quilt. Purtroppo quelle opere d’arte, che una volta venivano realizzate a mano, sono diventate, con l’uso delle macchine, prodotti semi industriali. Dal 1960 appare una nuova forma d’arte popolare americana con la creazione di “chillum”, tubi di bambù impreziositi da decorazioni impresse a fuoco o realizzati in terracotta, originali pipe vendute sulle bancarelle agli angoli di strada nelle città, utilizzate per il “fumo” L’Arte Naif italiana ha avuto tante espressioni specialmente nella scultura del legno colorato in montagna e nei lavori di cucito ad imitazione delle tappezzerie. Nel XX secolo, dopo la scoperta dell’arte Naif dell’Est Europeo e l’aumento di interesse per questa forma d’arte ci ha portato a scoprire veri e propri talenti. Il principale pittore naif di questo secolo è stato Antonio Ligabue che ha portato sulla tela una natura selvaggia e violenta. Gli artisti italiani naif ancora viventi sono Elena Guastalla, Brenno Benatti, Francesco Maiolo e Claudia Vecchiarelli.
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ANTONIO LIGABUE, CANE CON PAESAGGIO, 1956/57 Olio su tavola di faesite, 41 x 63 cm Pubblicazioni: Catalogo Generale - Ediz. Mondadori Electa, pag. 271
ANTONIO LIGABUE Zurigo (Svizzera), 1899 – Gualtieri 1965
Ligabue, il cui vero cognome è Laccabue, nasce in Svizzera a Zurigo il 18 dicembre del 1899. Figlio di un’emigrante italiana, fu dato in adozione ad una famiglia svizzera tedesca che lo affidò a sua volta ad un Istituto per ragazzi difficili da dove fu espulso a sedici anni. Selvaggio, imprevedibile per il suo rapporto con il mondo e la realtà, per tutta la vita fu considerato un matto e venne espulso in manette dalla Svizzera ed istradato in Italia. La sua pazzia era solo il suo essere istintivo ed autentico nella vita, come nel suo essere pittore. Riconosciuto, come il più alto esponente dei Naif italiani, riempie la realtà della campagna lombarda di alberi e foglie di una fantastica giungla popolata di animali domestici e selvaggi. Nella sua “diversità” Ligabue si distingueva dagli altri ragazzi per l’abilità nel disegno e per l’amore verso gli animali. Ritornato forzosamente in Italia, per mantenersi si adattò a fare mille mestieri, lontani dalla pittura, ma ebbe occasione di dipingere cartelloni e fondali per circhi equestri. Per i disturbi mentali di cui soffriva, Ligabue viveva completamente solo ed isolato e fu persino ricoverato in manicomio più di una volta. Un fortunato incontro di Antonio Ligabue con lo scultore Marino Renato Mazzacurati nel 1927, diede una svolta finalmente positiva alla sua vita sfortunata. Lo scultore, maestro della prima Scuola Romana, riconobbe in quello strano personaggio le doti del vero artista. Mazzacurati insegnò a Ligabue l’uso dei colori ad olio, aiutandolo a padroneggiare il suo talento e facendolo entrare nel mondo artistico. Dal 1932 Antonio Ligabue è in grado di vivere con i proventi della sua arte, la sua vita è completamente dedicata alla pittura, amici e conoscenti, nonostante la sua parlata mezzo tedesca e le sue stranezze, lo ospitano dando alla sua esistenza una parvenza di normalità. Ma nel 1937 viene internato in un manicomio in “stato depressivo” ed ancora una volta lo scultore Mazzacurati si interessa a lui, facendolo dimettere. Anche in manicomio Ligabue continua a dipingere sotto l’occhio attento e curioso dei medici che dicono di lui: “...dipinge in modo primitivo, comincia dall’alto con pentimenti e correzioni, sino al margine inferiore...”. Comunque Ligabue, anche quando fu raggiunto dalla notorietà, continuò ad essere un personaggio inquietante, diverso e strano. Rintanato tra gli alberi, le nebbie e le calure della Bassa Padana, con le sue ossessioni maniacali, Ligabue continua a rappresentare il mondo intorno a sé in tinte fosche e misteriose. Durante la seconda guerra mondiale Antonio Ligabue viene ingaggiato come interprete dai tedeschi, ma, durante un diverbio, aggredisce un soldato con una bottiglia e viene nuovamente internato in una casa di cura, dove rimane per tre anni. Quando nel ‘48 Ligabue viene dimesso, cominciano anni durante i quali la fortuna sembra volgere stabilmente a suo favore. Critici e galleristi cominciano ad occuparsi di lui, mentre la sua attività pittorica subisce un netto miglioramento. Vince premi, vende quadri e può coltivare la sua passione per le moto, di cui, alla sua morte, ne avrà collezionate ben sedici accanto alle quali amava farsi fotografare. Ligabue, da sempre incuriosito dal mondo della meccanica, dipinse molti quadri raffiguranti questi soggetti, arricchiti dalla propria passione e fantasia. Il suo “Triciclo volante” rappresentava una creatura ermafrodita, un po’ macchina e un po’ insetto, che ripropone il primo mezzo di locomozione di ognuno di noi ed il sogno del volo. Il coinvolgimento di Antonio Ligabue nella natura circostante, lo spinge addirittura ad aspirare ad essere un uccello, un insetto, o uno dei suoi animali. Di questi animali, che Ligabue dipingeva a memoria, nella vita quotidiana imitava i versi, le posizioni ed i gesti, prima di fissarli sulla tela. Ligabue, Toni come lo chiamavano gli amici, quando raggiunse la sicurezza economica, dopo la vita randagia e selvaggia, amava vestirsi bene e si comperò una macchina, con cui andava in giro per ore scarrozzato da un autista, senza riuscire però a convincere la donna di cui era innamorato, a sposarlo. Negli anni fra il 1930 ed il 1940, Ligabue, oltre che con la pittura, si esprime con la scultura. La materia prima la trovava nella terra lungo il Po, argilla che depurava masticandola pazientemente e che rendeva malleabile impregnandola di saliva. Dal blocco d’argilla Ligabue toglieva materia sbozzando la figura che voleva rappresentare, poi rifiniva il modello a colpi di pollice, usando un attrezzo affilato ed appuntito per scolpire alcuni particolari. Gli animali sono i soggetti delle sculture di Ligabue, ma, a differenza di quelli dipinti, sono più realistici, come presi dalla pittura dell’ottocento, dimenticando le fantasiose deformazioni. La maggior parte delle prime sculture di Ligabue, essendo fatte di materiale fragile, sono andate perdute, ma quando, dopo un decennio, negli anni ‘50, riprende a scolpire, Ligabue si premura di cuocerle in modo da garantirne una più a lungo la durata. Dopo la morte dell’artista, gli animali in terracotta sono stati fusi in bronzo, usando tecniche diverse per gli stampi e ricavando opere d’arte per cui Ligabue risulta, oltre ad essere un grande pittore, anche un vitale e potente scultore. Nel febbraio del 1961 la prima grande personale di Antonio Ligabue presentata a Roma, segna il definitivo successo dell’artista, la cui attività creativa conquistò molti scrittori, giornalisti e grandi critici tra cui Anatole Jakovky che lo aiutò ad essere conosciuto a livello internazionale. L’anno dopo, mentre Ligabue è sofferente per essere stato colpito da paresi, il suo paese Guastalla gli dedica una grande mostra antologica. Nonostante la sua infermità, Antonio Ligabue continua a dipingere fino alla sua morte avvenuta il 27 maggio del 1965.
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“Uno dei motivi più forti che conducono gli uomini all’arte e alla scienza è la fuga dalla vita quotidiana con la sua dolorosa crudezza e la tetra mancanza di speranza, dalla schiavitù del propri desideri sempre mutevoli.” Albert Einstein
ARTE POVERA
L’arte Povera è un movimento che nasce nell’ambito della Arte Concettuale apparsa in Europa intorno agli anni 1960. L’arte concettuale si opponeva alle forme d’arte fino allora conosciute, che venivano giudicate ed apprezzate dalla società contemporanea, in base alle qualità dell’opera stessa e nella sua capacità di suscitare emozioni. Gli artisti appartenenti a questa nuova corrente, sostenevano che l’arte non risiede nell’aspetto delle opere realizzate, ma nell’idea, nella parola o nel pensiero percorso per realizzare tale opera e presto si divisero in due gruppi: quello legato al pensiero e quello legato all’evento. Gli artisti che aderiscono al movimento dell’Arte Povera si esprimono producendo opere concrete, sostenute da messaggi decisamente intellettuali, sono forse più artigiani che pittori o scultori. Questi artisti, schifando tele e pennelli, utilizzano materiali “poveri” per definizione, ossia terra, legno, ferro, stracci, plastica, scarti industriali, con la volontà di ricreare un’espressione originale, utilizzando un alfabeto fatto di materiali poveri ed in disuso, dopo avere perso la capacità di assolvere il compito a cui erano destinati. Un’altra caratteristica del lavoro degli artisti del movimento è il ricorso alla forma dell’installazione, come luogo della relazione tra opera e ambiente e a quella della “performance”. Nel settembre del 1967 si inaugura nella galleria La Bertesca di Genova la mostra dell’Arte Povera curata dal critico d’arte Germano Celant, che si occupa della definizione teorica del movimento omonimo. La scelta del termine “Arte Povera” rimanda al lessico del regista Jerzy Grotowski, che aveva proposto, fin dall’inizio degli anni Sessanta, la costituzione di un “teatro povero” con grandi spettacoli basati sulle tecniche della finzione scenica e sul coinvolgimento dello spettatore. Celant delinea la teoria e la fisionomia del movimento attraverso mostre e scritti come “Conceptual Art, Arte Povera, Land Art” del 1970 ed afferma, semplificando, che l’arte povera si manifesta essenzialmente “nel ridurre ai minimi termini, nell’impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi”. Secondo il critico Celant gli artisti dell’arte povera portano avanti la stessa ricerca estetica del “Teatro Povero”, rinunciando nelle loro opere a qualsiasi finzione, per presentare semplicemente se stessi in quanto elementi soggetti alle forze della natura ed allo scorrere del tempo come qualsiasi altro oggetto. Per gli artisti che hanno abbracciato l’Arte povera, l’unica vera realtà è il presente da affrontare con un atteggiamento di critica verso il sistema. Come gli altri movimenti appartenenti alla Corrente dell’Arte Concettuale, la Pop Art, la Minimal Art e la Land Art, viene dato rilievo artistico non solo all’opera realizzata, ma anche agli elementi utilizzati nella realizzazione: il tempo, i gesti dell’artista, i materiali impiegati e persino l’attenzione verso gli oggetti e le performance in cui sono coinvolti gli spettatori. Le principali figure del movimento furono gli artisti che parteciparono alla mostra del 1967: Mario Merz, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto. A questi si aggiunsero presto Giovanni Anselmo, Mario Ceroli, Brajo Fuso, Piero Gilardi, Luigi Mainolfi, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Ferruccio Bortoluzzi e Gilberto Zorio, allargando le forme di espressione di questo movimento fino alla Junk Art di Alberto Burri. L’obiettivo degli artisti dell’Arte Povera è quello di superare l’idea tradizionale secondo cui l’opera d’arte occupa un livello di realtà sovratemporale e trascendente. Nell’Arte povera legata all’evento rientrano quelle esperienze artistiche che non producono opere, ma solo eventi limitati nel tempo, eventi che hanno un inizio ed una fine temporale. La traccia di questi “Eventi - Opere d’Arte Povera” rimane solo nella testimonianza, attraverso filmati o fotografie che hanno registrato dell’evento stesso, anche se alcuni artisti dell’Arte Povera hanno contestato il concetto di unicità ed irripetibilità dell’opera d’arte Nel caso dell’Arte povera legata al pensiero, abbiamo artisti la cui attività, seppur legata alla produzione di opere concrete, si pone come messaggio prettamente intellettuale. Esempio fu l’opera Vietnam di Pistoletto (1965, collezione Menil, Houston) che raffigura un gruppo di manifestanti pacifisti, rappresentati con delle sagome fissate ad uno specchio, in modo tale che i visitatori della galleria si riflettessero in esso. Così facendo, la gente diventava parte integrante dell’opera stessa, venendosi a creare una sorta di interazione tra la creazione artistica ed il pubblico spettatore.
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PIERO GILARDI, PASSITO DI PANTELLERIA, 2003 Poliuretano espanso, Ø 100 cm Pubblicazioni: Catalogo Mostra “Piero Gilardi, Il giardino di Dionisio”, Galleria Biasutti&Biasutti - Torino, pag. 21 - 02-31/10/2003
PIERO GILARDI Torino, 1942
Piero Gilardi nasce a Torino nel 1942, dove vive e lavora. Nel 1963, realizza la sua prima mostra personale Macchine per il futuro. Due anni più tardi realizza le prime opere in poliuretano espanso, i Tappeti-natura che espone a Parigi, Bruxelles, Colonia, Amburgo, Amsterdam e New York. A partire dal 1968 interrompe la produzione di opere per partecipare all’elaborazione delle nuove tendenze artistiche della fine degli anni ’60: Arte Povera, Land Art, Antiform Art. Collabora alla realizzazione delle due prime rassegne internazionali delle nuove tendenze allo Stedelijk Museum di Amsterdam e alla Kunsthalle di Berna. Nel 1969, comincia una lunga esperienza transculturale diretta all’analisi teorica e alla pratica della congiunzione “Arte Vita”. Come militante politico e animatore della cultura giovanile conduce svariate esperienze di creatività collettiva nelle periferie urbane e “mondiali”: Nicaragua, Riserve Indiane negli USA e Africa. Nel 1981 riprende l’attività nel mondo artistico, esponendo in gallerie delle installazioni accompagnate da workshops creativi con il pubblico. A partire dal 1985 inizia una ricerca artistica con le nuove tecnologie attraverso l’elaborazione del Progetto IXIANA che, presentato al Parc de la Villette di Parigi, prefigura un parco tecnologico nel quale il grande pubblico poteva sperimentare in senso artistico le tecnologie digitali. Nel corso degli anni ’90 ha sviluppato una serie di installazioni interattive multimediali con una intensa attività internazionale. Insieme a Claude Faure e Piotr Kowalski, ha costituito l’associazione internazionale Ars Technica. In qualità di responsabile della sezione italiana di Ars Technica promuove a Torino le mostre internazionali Arslab. Metodi ed Emozioni (1992), Arslab. I Sensi del Virtuale (1995), Arslab. I labirinti del corpo in gioco (1999). Ha pubblicato due libri di riflessione teorica sulle sue varie ricerche: Dall’arte alla vita, dalla vita all’arte (La Salamandra, Milano 1981) e Not for Sale (Mazzotta, Milano 2000 e Les Presses du réel, Dijon 2003). Scrive articoli per varie riviste d’arte come Juliet e Flash Art. Ha promosso il progetto del PAV – Parco Arte Vivente, che si è aperto a Torino nel 2008, nel quale si compendiano tutte le sue esperienze relative alla dialettica Natura/Cultura.
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“Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale.” Marcel Proust
ARTE CINETICA
L’arte cinetica è una corrente artistica nata negli anni venti e successivamente sviluppatasi negli anni cinquanta e anni sessanta che si propone di introdurre il movimento nell’opera artistica. Nel 1961, quando nel mondo si scontravano opinioni diverse sull’astrattismo, sull’arte concreta, sull’arte espressionista e sulla figurazione, furono organizzate a Zagabria alcune mostre, occasione d’incontro tra artisti di provenienza diversa, sia geografica che artistica, alla ricerca di qualcosa di nuovo. Nacque quindi l’Arte Cinetica, in parte legata a osservazioni di tipo psicologico, comprende: “oggetti in movimento” (di Alexander Calder, Bruno Munari), esperimenti mediante “trucchi percettivi” (Victor Vasarely, Gruppo T (T sta per tempo) (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e in un secondo tempo Grazia Varisco), Gruppo N (Alberto Biasi, Edoardo Landi, Toni Costa, Ennio Chiggio, Manfredo Massironi)), dove il movimento è dato dallo spostamento dello spettatore e “oggetti che si lasciano muovere” o meglio, che acquistano particolari caratteristiche (Munari, Mari), grazie ad un intervento esterno. Tra i protagonisti di questo che diventerà un movimento artistico europeo, citiamo ancora: Julio Tinguely, Pol Bury, Jean Le Parc, Sol LeWitt, Joseph Kosuth, il gruppo Zero di Dusseldorf e quello del GRAV (Groupe de recherche d’art visuel) che nacque a Parigi nel luglio del 1960. Si costituisce a Roma nello stesso periodo, raccogliendo in sé elementi eterogenei di impostazione gestaltica il Gruppo Uno. Gli artisti che lo componevano, intendevano svolgere operazioni di gruppo realizzando opere che arricchissero “l’alfabeto formale tramite il controllo razionale della conoscenza”. Cercavano dei segni che rappresentassero la simbologia essenziale della vita, capaci con la loro geometria di creare un nuovo linguaggio ”storico”. Ne facevano parte, tra gli altri, Biggi, Carrino, Frascà, Pace e Uncini. Da lì a poco sempre in Italia nascerà l’Arte Programmata termine coniato dal suo più valido esponente: Bruno Munari che insieme a Giorgio Soavi a Milano, presso un negozio Olivetti, e precisamente nel maggio1962, presenteranno una mostra denominata appunto “Arte Programmata”destinata a spostarsi a Roma e a Venezia. Espongono il Gruppo T, il Gruppo N, Enzo Mari, Munari, Getullio Alviani e il Groupe de recherche d’art visuel. Lo scritto in catalogo è di Umberto Eco che ne illustrerà le finalità. “L’opera artistica non può essere un pezzo unico”, diceva Munari, “ma bisogna mirare alla serialità per dare così la possibilità a più persone di possedere un’opera d’arte anche se riprodotta .”
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ALBERTO BIASI, DINAMICA VISIVA, 1966 Tavola e PVC, 105 x 105 cm Pubblicazioni: Catalogo Mostra “44 protagonisti di The Responsive Eye allora e dopo”, Galleria Orler - Mestre, pag. 23 - 15/11/14-06/01/15
ALBERTO BIASI Padova, 1937
Nato nel 1937 a Padova, dove tuttora risiede, Alberto Biasi è uno dei protagonisti dell’arte italiana del dopoguerra, nonché tra i fondatori dello storico Gruppo N. Orfano di madre trascorre parte dell’infanzia con la nonna paterna a Carrara San Giorgio, piccola località del padovano. Solo più tardi, alla fine del conflitto bellico, ritorna nella città natale dove poi frequenta il liceo classico e successivamente si iscrive alla Facoltà di Architettura di Venezia e al Corso Superiore di Disegno Industriale. Conclusi gli studi, a partire dal 1958, tiene le prime lezioni di disegno e storia dell’arte nella scuola pubblica, ottenendo, tra il 1969 e il 1988, la cattedra di arti della grafica pubblicitaria presso l’Istituto Professionale di Padova. Nel 1959 partecipa a varie manifestazioni artistiche giovanili e con alcuni coetanei studenti di Architettura forma il Gruppo Enne-A. Nel 1960 espone assieme a Enrico Castellani, Piero Manzoni, Agostino Bonalumi e altri artisti europei alla Galleria Azimut di Milano. Sempre nel 1960, in un periodo all’insegna dell’innovazione e della sperimentazione, in stretta collaborazione con Manfredo Massironi forma il Gruppo N. Mentre l’anno seguente aderisce al movimento “Nuove tendenze” e nel 1962, come Gruppo N, espone con Bruno Munari, Enzo Mari e il milanese Gruppo T nella prima mostra dell’Arte Programmata al Negozio Olivetti di Milano. In questo periodo (soprattutto tra il ‘59 e il ‘60) realizza le Trame, oggetti reticolari e permeabili, dove la modularità ha risvolti ottico-cinetici nel rapporto tra luce e movimento dello sguardo. Alla serie delle Trame accosta ben presto quella dei Rilievi ottico-dinamici, sovrapposizioni di strutture lamellari dalle cromie contrastanti che attivano particolari effetti visivi. Anche le Torsioni, eseguite con lamelle in genere bicolori che generano il dinamismo ottico attraverso i differenti punti di vista dell’osservatore, e gli Ambienti come i Light prisms (progettati nel ‘62 e trasferiti in dimensioni ambientali nel ‘69), sono prodotti a partire dagli anni Sessanta. Terminata l’esperienza del Gruppo N, Biasi continua la sua indagine sull’interazione tra spettatore e opera d’arte. Negli anni Settanta elabora i Politipi - un ciclo a cui si dedica fino agli anni ‘90, quando compaiono anche piccoli inserimenti di colore -, caratterizzati dalla sovrapposizione di più piani e dall’intreccio multiplo di listelli, alludendo così alla terza dimensione. Alla fine degli anni Novanta realizza gli Assemblaggi, combinazioni di superfici differenti talvolta monocrome, composte anche in dittici o trittici, dove è evidente una maggiore tensione tridimensionale, che prenderà corpo nell’ultimo decennio con alcune sculture in acciaio come i totem o le lastre a sviluppo verticale. Nell’arco della sua sessantennale carriera, Alberto Biasi ha partecipato a molte rassegne internazionali tra cui la XXXII e XLII Biennale di Venezia, la X, XI e XIV Quadriennale di Roma, la XI Biennale di San Paolo e ha esposto in diverse Biennali della grafica, ottenendo importanti riconoscimenti tra i quali il World Print Competition ’73 del California College of Arts and Crafts in collaborazione con il San Francisco Museum of Modern Art. Ha tenuto numerosissime personali in spazi privati e pubblici come il Muzeum Sztuki di Łódź in Polonia, il Museo Civico agli Eremitani di Padova, il Museu Diocesà di Barcellona, Palazzo Ducale di Urbino, Palazzo dei Priori di Perugia, il MACBA di Buenos Aires, il MAC di Santiago del Cile, il MARCA di Catanzaro, Palazzo Reale di Genova e Palazzo Pretorio di Cittadella (Padova). Le sue opere fanno parte di prestigiose collezioni pubbliche e museali in Italia e all’estero tra cui il MoMA di New York, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e l’Hermitage di San Pietroburgo.
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NOUVEAU RÉALISME
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Movimento artistico accentrato sull’attività critica di P. Restany, che nel 1960 riuscì a far convergere in una comune e unitaria linea di ricerca l’a pporto diverso di manifestazioni parallele scaturite da nuove forze operanti succedute all’ultima stagione dell’astrattismo. Il critico francese raccolse attorno a sé alcune personalità artistiche di grande impegno (Klein, Tinguely, Hains, Rotella, Arman, Dufrêne, Raysse, Villeglé, Spoerri, César, Niki de Saint-Phalle, Christo) operanti sul fronte di un nuovo approssimarsi percettivo al reale per il recupero totale della realtà nella più ampia autonomia espressiva di immagine oggettuale. Attraverso l’utilizzo di materiali caratteristici della tecnologia moderna – dall’oggetto di serie, nuovo o usato, ai rottami di ferro, ai tubi compressi, ai manifesti lacerati, ai pigmenti colorati e alle vernici fluorescenti, ecc. – viene così operato il tentativo di integrare l’opera d’arte nell’universo standardizzato creato dall’era industriale. Tappe fondamentali di questo movimento furono i tre manifesti di P. Restany (Milano, 1960; Parigi, 1961; Monaco, 1963), di cui il primo, Les Nouveaux Réalistes, pubblicato a Milano nell’aprile del 1960, rimane fondamentale per la definizione del gruppo artistico, che ebbe la sua consacrazione con la mostra (maggio 1960) alla Galleria Apollinaire. Dieci anni dopo, nel 1970, la storia del Nouveau Réalisme si concludeva ufficialmente con la grande rassegna a Milano, con interventi nel vivo del centro storico della città (“impacchettamento” di monumenti da parte di Christo). Nella storia dell’arte contemporanea il contributo dei diversi artisti del Nouveau Réalisme ha segnato un periodo importante, le cui conseguenze hanno determinato illimitate disponibilità di ricerca. Negli Stati Uniti l’American New Realism ha sviluppato una nuova stagione artistica, basata sull’avventura dell’oggetto dopo il suo recupero e le esperienze maturate attraverso il New Dada e la pop art.
“Si usano gli specchi per guardarsi il viso, e si usa l’arte per guardarsi l’anima.” George Bernard Shaw
MIMMO ROTELLA Catanzaro, 1918 - Milano, 2006
Nasce a Catanzaro il 7 ottobre 1918. Studia arte a Napoli e successivamente si trasferisce a Roma. Qui conduce ricerche ed esperimenti in varie direzioni: fotografie, foto-montaggi, decollages, assemblages di oggetti eterogenei, poesia fonetica, musiche primitive. Nel 1951-52 è negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio della “Fullbright Foundation“ di Kansas City ricevuta dapprima come studente e poi come artista. Nel 1954 Emilio Villa lo invita ad esporre in una mostra collettiva i suoi manifesti lacerati. Le opere di Rotella si imposero subito all’attenzione della critica e del collezionismo d’avanguardia ed a questa prima mostra ne seguirono molte altre. Nel 1961 partecipa su invito del critico francese Pierre Reastany al gruppo Noveaux Rèealistes ( Arman, Cesar, Deschamps, Dufrène, Hains, Yves Klein, Martial Raysse, Niki de Saint-Phalle , Spoerri, Tinguely, Villeglè). Nel 1963 realizza le prime opere di arte meccanica (Mec_Art) stampando immagini fotografiche su tela emulsionata. Alla fine degli anni ‘60 realizza gli artypoplastiques, prove di stampa, colori, percezioni, riportate su rigidi supporti di plastica. Rotella si è imposto per avere fatto dell’arte un comportamento: “Giocando con l’erotismo e la speculazione intellettuale Rotella é un agitato che passa attraverso vari stili con un distacco da dandy“ scrisse Otto Hahn. E questa sua “vitale agitazione“ lo porta nel 1990 ad una riappropriazione della pittura dipingendo su decollages i ritratti dei Maestri dell’arte del ‘900. Nel 1992 riceve da parte del Ministro della Cultura francese, Jack Lang, il titolo diOfficiel des arts et des Lettres. E’ invitato al Gugenheim Museum di New York nel 1994 in “Italian Metamorphosis“, ancora al Centre Pompidou nel 1996 in “Face à l’Histoire“ , e nel 1996 al Museum of Contemporary ART DI Los Angeles in “Halls of Mirror“, una mostra che farà il giro del mondo. Mimmo Rotella é tra i più importanti artisti italiani del novecento, le sue opere sono presenti nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. Rotella muore nel Gennaio del 2006.
MIMMO ROTELLA, NIAGARA PER DUE, 1990 Decollage, 49,5 x 70 cm
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“L’arte è l’incontro inatteso di forme e spazi e colori che prima si ignoravano.” Fabrizio Caramagna
SPAZIALISMO
“Io buco… passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere”. (Lucio Fontana) Lo spazialismo si pone, precocemente, come una delle aree storiche della ricerca informale. Spazio, gesto, segno sono gli elementi che sono alla base di questo movimento che intende rinnovare l’arte per aggiornarla alle conquiste dell’era scientifica. Qualsiasi gesto può definire e costruire lo spazio. Il movimento spaziale nasce per iniziativa dello scultore Lucio Fontana a Buenos Aires, nel 1946. Nel 1947, Fontana torna in Italia ed il movimento si arricchisce di adesioni e dei concetti espressi in tanti manifesti. Un ambiente spaziale è stato presentato da Fontana nel 1949 alla Galleria del Naviglio di Milano. Sul Manifiesto Blanco, manifesto per l’arte integrale, si iniziano a delineare le urgenze di un superamento dell’arte come sino ad allora concepita e stagnante, inserendo le dimensioni del tempo e dello spazio. Mentre la tecnologia apre i suoi orizzonti, Einstein e Freud sono le figure che segnano lo stravolgimento psichico del primo cinquantennio del secolo. Lo spazialismo si ricollega all’Informale ma senza l’esistenzialismo negativo che aveva distinto le opere di Dubuffet, di Wols o di Fautrier. I pittori spazialisti non hanno come priorità il colorare o dipingere la tela, ma creano su di essa delle costruzioni che mostrano agli occhi del passante come, anche in campo puramente pittorico, esista la tridimensionalità. Il loro intento è dar forma alle energie nuove che vibravano nel mondo del dopoguerra, dove la presa di coscienza dell’esistenza di forze naturali nascoste come particelle, raggi, elettroni premeva con forza incontrollabile sulla “vecchia” superficie della tela. Tali forze troveranno lo sfogo definitivo nel rivoluzionario gesto di Fontana, che bucando e tagliando la superficie del quadro, fece il passo finale di distacco dalla vecchia arte verso la nuova arte spaziale. Il secondo manifesto dello Spazialismo è redatto il 18 marzo del 1948 ed è firmato da Lucio Fontana, Gianni Dova, Beniamino Joppolo, Giorgio Kaisserlian, Antonio Tullier. Caratteristica di questo manifesto è di cercare di visualizzare ciò che può produrre plasticamente l’arte spaziale. Nel movimento è basilare la componente architettonica. Nel 1949, alla Galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo, Fontana crea l’Ambiente spaziale (Ambiente nero): “è il primo tentativo di liberarsi da una forma plastica statica; l’ambiente era completamente nero, con luce nera di Wood, entravi trovandoti completamente isolato con te stesso, ogni spettatore reagiva con il suo stato d’animo del momento, precisamente, non influenzavi l’uomo con oggetti, o forme impostegli come merce in vendita, l’uomo era con se stesso,colla sua coscienza, colla sua ignoranza, colla sua materia.” (Lucio Fontana) Con l’ambiente nero, Fontana intende andare oltre la bidimensionalità della tela o la tridimensionalità della scultura creando un opera dove è possibile entrare: l’arte entra in una dimensione sociale. A questo punto del 1949 si conclude la prima fase dello Spazialismo per lasciare spazio ad un secondo periodo che durerà fino al 1954, in cui si afferma il vero e proprio movimento sia a Milano che a Venezia. Il terzo manifesto dello Spazialismo del 2 aprile 1950 è il tentativo di una prima autostoricizzazione. Nel 1951, alla Triennale di Milano, Fontana crea un neon lungo 100 metri, l’arabesco fluorescente che farà scuola nei successivi anni settanta a Flavin e Bruce Nauman. A fianco di Fontana, alla Triennale di Milano, collaborano Gianni Dova e Roberto Crippa. Sempre in quest’occasione viene redatto, da lui solo, il Manifesto tecnico dello Spazialismo: i mezzi sono la luce di Wood, la televisione... un’arte basata su unità di tempo e di spazio; è avversato il figurativismo. L’installazione “Arabesco fluorescente” dura solamente tre giorni e prelude ad una serie di disegni, Concetti spaziali, presentati a Milano alla Libreria Salto. Da allora tutta la sua produzione avrà il titolo di Concetti spaziali. Il 6 novembre 1951, alla Galleria del Naviglio, viene redatto il Manifesto dell’arte Spaziale da: Anton Giulio Ambrosini, Giancarlo Carozzi, Roberto Crippa, Mario Deluigi, Gianni Dova, Lucio Fontana, Virgilio Giudo, Beniamino Joppolo, Milena MIlani, Berto Morucchio, Cesare Peverelli, Vinicio Vianello. Fontana ritorna quindi alla tela riportando tutta l’esperienza dell’ambiente spaziale e dell’arabesco, perforandola: più in là della prospettiva ... la scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita. Il buco in senso costruttivo. La prima mostra collettiva avviene alla Galleria del Naviglio dal 23 al 29 febbraio 1952. La rapida diffusione dello Spazialismo avviene grazie al lavoro di Carlo Cardazzo, sia a Milano che a Venezia dove è proprietario della Galleria del Cavallino. Il 17 maggio 1952 viene redatto il Manifesto spaziale per la televisione. Il 1958 vede riunito il gruppo per un’ultima mostra d’arte Spaziale al Centro Artistico Livornese, mostra che vede l’adesione di Emilio Scanavino. L’adesione di quest’ultimo è la più tarda, ma significativa adesione al gruppo milanese, anche se presto gli esiti della sua ricerca, pur tangenziali al movimento, poco avranno a che fare con la poetica spaziale. Con l’ottavo Manifesto Spazialista, il 5 giugno 1958, si identifica la conclusione dello Spazialismo. E’ proprio nel 1958 che Fontana interverrà con i primi tagli.
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ROBERTO CRIPPA, SPIRALE, 1954 Olio su tela, 115 x 145 cm
ROBERTO CRIPPA Monza, 1921 – Bresso, 1972
Roberto Crippa nasce a Monza nel 1921. Frequenta l’Accademia di Brera dove ha come insegnanti Aldo Carpi, Achille Funi e Carlo Carrà. Nel 1947 si diploma all’Accademia ed espone alla Galleria Bergamini a Milano. Risente del clima post-cubista. Nel 1948 partecipa alla Triennale di Milano e alla Biennale di Venezia. Nel 1950 è ancora presente alla Biennale di Venezia ed espone nella mostra collettiva “Arte spaziale” alla Galleria Casanova di Trieste. Crippa frequenta Lucio Fontana e firma il terzo dei manifesti dello spazialismo “Proposta di un regolamento”. Nel 1951 firma il “Manifesto dell’A rte Spaziale” e visita New York dove conosce il gallerista Alexander Jolas, che gli organizzerà mostre personali dalla cadenza annuale. Partecipa ad esposizioni personali e collettive a New York, al Naviglio a Milano, a Firenze, a Venezia, Zurigo, Stoccolma. Nel 1954 partecipa alla Biennale di Venezia, e alla X Triennale di Milano, espone a New York e tiene viva la collaborazione con architetti, già iniziata nel 1951 in occasione della Triennale. Nel 1955 espone al Naviglio di Milano i polimaterici. Nel 1956, oltre alla Biennale di Venezia è presente in collettive a Tokyo, Hiroshima, Amsterdam, Madrid e in personali a Parigi e Roma. Continua la sua presenza a New York, Londra, Buenos Ayres per tutto il 1957 anno in cui realizza i primi sugheri, cortecce e legni, oltre che proseguire la realizzazione di ferri, bronzi, pezzi in acciaio dal contenuto neo-primitivo e simbolico. Nel 1958 prende parte alla Biennale di Venezia e l’anno dopo persegue un intenso itinerario espositivo per tutto il mondo. Nel 1960 inaugura la produzione di amiantiti, collages con sugheri, giornali, veline plastificate ed altri materiali. Molto ricca l’attività espositiva in Giappone, Olanda, Stati Uniti, Australia, Francia e nel 1962, durante uno dei suoi numerosi voli acrobatici, si frattura le gambe e per un anno è costretto all’uso di una carrozzina e di stampelle, impedimento che non blocca il suo vitalismo; si presenta ugualmente a mostre a Losanna, New York e Parigi. Fino al 1967 il percorso espositivo segna tappe in paesi di tutto il mondo; proprio in quell’anno la Rhodesia gli dedica un francobollo. La sua fama è ormai al vertice e l’artista dà avvio a una serie di amiantiti incise con intagli e con rilievi. Nel 1968 è nuovamente invitato alla Biennale di Venezia e alla Biennale di Mentone. Segue I’iter espositivo veramente molto fitto in Italia e all’estero, al quale affianca instancabilmente la passione per il volo acrobatico, tanto da essere invitato nel 1971 a rappresentare l’Italia ai Campionati mondiali di acrobazia per il 1972. Proprio nel 1972 però il suo monoposto precipita presso l’aeroporto di Bresso e Crippa, a soli cinquantuno anni, trova la morte insieme al suo allievo Piero Crespi.
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GIANNI DOVA Roma, 1925 – Pisa, 1991
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Gianni Dova nasce a Roma l’8 gennaio 1925 e nel 1939 si stabilisce con la famiglia a Milano. Durante la guerra frequenta l’Accademia di Brera, con maestri quali Carpi, Carrà e Funi. Con alcuni dei suoi compagni, in particolare con Roberto Crippa, instaura un rapporto di collaborazione e profonda amicizia. Partecipa attivamente al dibattito culturale dei primi anni del dopoguerra, firmando il Manifesto del realismo (Oltre Guernica) nel 1946. La sua pittura in questo periodo è di stampo neocubista, in linea con la tendenza dominante nei giovani artisti da poco usciti dall’Accademia che vedevano nel Picasso di Guernica un modello da seguire. La sua ricerca interessa collezionisti e galleristi: sottoscrive, infatti, in questi anni un contratto con Antonio Boschi, importante mecenate dei giovani artisti milanesi, e con Carlo Cardazzo, anima e cervello delle Gallerie del Naviglio a Milano e del Cavallino a Venezia. Nel 1947 fonda, con Brindisi e Kodra, il Gruppo di Linea, che segna una prima rottura con il neocubismo: nelle opere iniziano a comparire animali fantastici che risentono di un rinnovato clima surrealista. Nel 1948 si avvicina al Movimento Spaziale di Lucio Fontana e sottoscrive il Secondo manifesto spaziale. Allo stesso tempo viene anche affiliato al neonato MAC Movimento Arte Concreta, di Dorfles e Ballocco: sono di questo periodo, infatti, opere più marcatamente astratto-geometriche, in virtù delle quali viene anche invitato a partecipare alla prima rassegna Arte astratta in Italia alla Galleria di Roma, organizzata per iniziativa del Gruppo Forma. Sempre nel 1948 viene organizzata la sua prima personale Galleria del Naviglio di Milano, che ospita, nel 1950, una importante mostra di Pollock che lo colpisce in modo particolare. Questa, insieme al diffondersi del surrealismo e delle teorie espresse nei diversi manifesti spaziali, lo convince a provare una pittura nuova, più informale. Sempre più vicino al Movimento Spaziale, realizza, a partire dal 1951, opere informali in cui compaiono forme liquide e ameboiche, di impronta precocemente tachiste nell’ambito milanese. Nello stesso anno è invitato a partecipare all’importante mostra Arte astratta e concreta in Italia alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Inizia anche una duratura collaborazione per la Triennale di Milano, per la quale realizza parte degli allestimenti nello stesso 1951 e nel 1954 e alla quale parteciperà anche con opere in ceramica e stoffe. Nel 1952 vince il Premio Graziano, organizzato alla Galleria del Naviglio, dedicato alla bomba atomica: nei titoli delle sue opere informali compare il termine “nucleare”. È dello stesso anno la sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia; in quest’occasione conosce Michel Tapié al quale mostra il suo lavoro. Alla fine del 1953 Dova attraversa un periodo di crisi, dopo il quale si apre una nuova fase pittorica. Nel 1954 si stabilisce a Parigi. La sua pittura, a contatto con Max Ernst e Wilfredo Lam, dopo un periodo di transizione, inizia ad alludere a una figurazione zoomorfa declinata in senso surrealista. Nel 1955 partecipa per la prima volta sia al Salon de Mai sia a Phases a Parigi, esponendovi poi costantemente. Nel 1956 si trasferisce ad Anversa, dove approfondisce ulteriormente la componente surrealista della sua pittura, anche grazie alla frequentazione con artisti quali Lam, Matta e Brauner. L’anno seguente torna a Parigi. La critica italiana e internazionale si interessa sempre più alla sua opera, tanto che viene organizzata un’importante mostra personale al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles. Alla fine del 1958 torna a risiedere a Milano. Nel 1959 espone Difesa contrastata, una grande tela di quindici metri quadrati, alla Quadriennale di Roma e partecipa per la prima volta a Documenta a Kassel. Viene invitato nel 1960 alla mostra Possibilità di relazione, curata da Enrico Crispolti, Roberto Sanesi e Emilio Tadini alla Galleria L’Attico di Roma. Nel 1962 gli viene assegnata una sala personale alla Biennale di Venezia: a presentarlo in catalogo è Guido Ballo. Nelle sue opere lo spazio si espande, l’atmosfera si fa sempre più luminosa e i personaggi diventano più accoglienti e gioiosi: si avverte un rapporto più armonioso tra uomo e mondo. Nel 1964 gli viene dedicata una sala personale nella mostra Pittura a Milano dal 1945 al 1964, allestita a Palazzo Reale. Nello stesso anno realizza La corrida nella piazza Minoia di Arcumeggia, frazione del Comune di Casalzuigno in provincia di Varese, nell’ambito del progetto per un “borgo dipinto” promosso dall’Ente Provinciale per il Turismo nel 1956. Nel 1965 Peppino Palazzoli presenta alla sua Galleria Blu di Milano una mostra in cui espone i lavori di Dova e Crippa degli anni 1950-53, sottolineando la loro centralità nelle poetiche informali. Dal 1966 lavora per lunghi periodi a Calice Ligure, dove ha uno studio. Qui dipinge tele ispirate ai riflessi dei fondali marini. Il viaggio in Bretagna del 1967 lo colpisce profondamente, mostrandogli una natura ricca di fermenti simbolici. Nelle sue opere approfondisce la riflessione sulle profondità marine e realizza nuove tele di voli sull’acqua e giardini. L’anno seguente acquista in quella regione una casa dove si trasferisce per lunghi periodi. Alla fine del 1971 Franco Russoli presenta una sua antologica a Palazzo Reale di Milano. Inizia in questo periodo la produzione di tempere su carta che occuperà, accanto alla pittura, tutto il decennio. Nel 1974 vengono pubblicate due importanti monografie, una a cura di José Pierre dal Musée de Poche di Parigi e una dalla Galleria Borgogna di
Milano, in cui sono ripubblicati testi di numerosi critici e storici dell’arte. Del 1975 è la monografia edita da Prearo Editore, a cura di Franco Russoli, che si pone ancora oggi come opera fondamentale per una prima catalogazione generale dell’opera dell’artista. Due anni dopo viene pubblicata la monografia Dova per la Collana Maestri Contemporanei delle Edizioni Vanessa, a cura di Alfonso Gatto. Verso la fine degli anni ’70 il paesaggio inizia a prendere il sopravvento nelle opere: la natura, raccontata attraverso la brillantezza del colore, è ora l’assoluta protagonista, anche se sempre popolata da creature che “fanno capolino”, ammiccano e ci guardano quasi nascondendosi. Del 1984 è la mostra antologica organizzata al Circolo della Stampa di Milano e presentata da Franco Passoni. Nel 1986 Puntoelinea pubblica una monografia intitolata Dova. La memoria del tempo, in cui vengono riproposti importanti testi di critica e citazioni dell’artista. Nel 1991 viene organizzata un’importante mostra antologica in tre sedi, a Viareggio, Cesena e Mantova, a cura di Claudio Spadoni. Il 14 ottobre di quell’anno Dova muore a Rigoli, presso Marina di Pisa.
GIANNI DOVA, GIARDINO AL CALEIDOSCOPIO, 1964 Olio su tela, 80 x 100 cm
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POP ART
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Diciamocelo: l’abbiamo sempre sottovalutata. Abbiamo sempre guardato con sospetto a quest’espressione artistica nata Oltreoceano, nel “paese degli eccessi e del consumismo”. Come biasimarci in fin dei conti: viviamo nel Paese dell’Arte, che ha dato i natali agli artisti più importanti della storia. Ma anche in Italia c’era chi faceva la storia della Pop Art. Mario Schifano era tra quelli. Anzi, ne era il punto focale. Classe 1934, animo “errante ed irrequieto” sin dalla tenera età, Mario Schifano si appassionò al mondo dell’arte seguendo le orme del padre nel suo impiego di restauratore di archeologia. Interessandosi anche ai movimenti artistici italiani del suo tempo, Schifano iniziò il suo percorso “pop” dopo un viaggio a New York intrapreso con la compagna, l’italianissima Anita Pallenberg, conosciuta in seguito per la sua storia romantica e decennale con Keith Richards dei Rolling Stones all’apice della carriera di quest’ultimo (anni ’60-’70). A New York Schifano frequentò la celebre Factory di Andy Warhol, la “Mecca” della Pop Art, dove artisti da tutto il mondo (e Warhol stesso, che Schifano conobbe) si esprimevano, sperimentavano e facevano arte in modo irriverente, polemico, scioccante, denunciando lo stesso consumismo che aveva reso l’America grande e creando i propri antieroi. Non appena tornò in Italia, la produzione artistica di Schifano raggiunse l’apice della sua prolificità. Mostre, esibizioni discusse e criticate all’insegna della libertà sessuale, serie tematiche di opere come “Propagande” (incentrata sullo studio, la rivisitazione e la critica dei loghi dei più importanti brand italiani ed esteri) o “Televisori” (con uno studio critico sui mass media e la percezione di essi), assieme all’uso smodato di droghe e alla fama di “scapestrato”, hanno contribuire a consacrare Schifano come “artista maledetto”. Ciò che rimane oggi di quest’animo inquieto, deceduto per un infarto all’età di 64 anni nel 1998, è esattamente la definizione di Pop Art Italiana: una grande impronta critica, creativa, polemica e irriverente nella cultura e nella storia italiana.
“L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.” Paul Klee
MARIO SCHIFANO Homs (Libia), 1934 - Roma, 1998
Figlio di un archeologo responsabile degli scavi a Leptis Magna in Libia, dopo un apprendistato al Museo Etrusco di Villa Giulia esordisce nel 1960 con una mostra alla Galleria La Salita di Roma presentata da Pierre Restany: Cinque pittori romani: Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini. Attira subito l’interesse della critica realizzando quadri monocromi che offrono l’idea di uno schermo fotografico che in seguito accoglierà numeri, lettere, segnali stradali, i marchi della Esso e della Coca Cola. Firma un contratto in esclusiva con la gallerista americana Ileana Sonnabend. Sue mostre personali vengono allestite a Roma, Parigi e Milano. Riceve i primi riconoscimenti: il Premio Lissone 1961, il premio Fiorino e La Nuova Figurazione, Firenze1963. Nel 1962 espone alla Sidney Janis Gallery di New York nella mostra The New Realists. Interrompe il sodalizio con Ileana Sonnabend. Nel 1963 compie il primo viaggio negli Stati Uniti dove frequenta Frank O’Hara, Jasper Johns, Andy Warhol. Nelle sue opere iniziano ad apparire citazioni dalla storia dell’arte italiana e dal Futurismo. Dipinge i primi Paesaggi anemici che presenta alla Biennale di Venezia nel 1964. Risalgono a questo periodo i suoi primi lavori cinematografici, cortometraggi 16mm. in bianco e nero. Inizia una collaborazione in esclusiva con il gallerista milanese Giorgio Marconi che durerà fino al 1970. Partecipa a collettive internazionali, al Carnegie Institute di Pittsburgh nel 1964, nel 1965 alle Biennali di San Marino e di San Paolo del Brasile e al National Museum of Modern Art di Tokio. Nel 1966 -1967 inizia le serie Ossigeno ossigeno, Tuttestelle, Oasi, Compagni, compagni. Nel 1967 presenta allo Studio Marconi di Milano il lungometraggio 16 mm. Anna Carini vista in agosto dalle farfalle. Collabora con un gruppo di rock psichedelico: Le stelle di Mario Schifano. Uno dei loro concerti d’esordio, il 28 Dicembre 1967 al Piper Club di Roma, diventa il primo liveshow multimediale italiano. Realizza tre film sperimentali in 35 mm: Satellite, Umano non umano, Trapianto, e consunzione e morte di Franco Brocani. Partecipa a una collettiva alla Galleria La Salita di Roma dove non espone dipinti ma proietta fotogrammi sulla guerra del Vietnam. Ed è proprio l’interesse per la storia contemporanea e il suo impegno civile che lo porta a una crisi ideologica e d’identità tale da dichiarare di voler abbandonare la pittura. Nel 1970 insieme allo scrittore Tonino Guerra si reca in America per i sopralluoghi del film Laboratorio umano, poi mai realizzato. Tornato in Italia, spazientito dai tempi lunghi delle produzioni cinematografiche, inizia la serie dei Paesaggi TV dove trasferisce su tela le immagini televisive con la tecnica dell’emulsione fotografica. Inizialmente sono i fotogrammi scattati negli Stati Uniti con le sale di trapianto cardiaco a Houston, i laboratori della Nasa, di Alamogordo e di Los Alamos, a essere oggetto di rielaborazione (daranno vita a opere come Pentagono, Medal of Honor, Era Nucleare). Poi inizia a rivisitare pittoricamente le immagini trasmesse dalla RAI e da altre emittenti televisive. Nell’elaborazione di queste opere utilizza nuovi smalti industriali di grande brillantezza e trasparenza, capaci di asciugare con grande rapidità, consentendogli così anche una produzione molto più estesa. Nel 1971 espone alla mostra Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-70, curata da Achille Bonito Oliva; sue personali si inaugurano a Roma, Parma, Torino e Napoli. Nel 1973 partecipa alla X Quadriennale di Roma e a Contemporanea, curata da Achille Bonito Oliva. Nel 1974 il Palazzo della Pilotta (Salone delle Scuderie) di Parma ospita la sua prima importante retrospettiva, curata da Arturo Carlo Quintavalle. Una crisi ideologica ed esistenziale lo costringe a periodi di isolamento nel suo studio dove realizza dei lavori reinterpretando Magritte, De Chirico, Boccioni, Cézanne, Picabia. Rifà le proprie opere degli anni sessanta nel ciclo Sintetico dall’Inventario. Nel 1976 è presente alla mostra Europa/America, l’astrazione determinata 1960-76 allestita presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Bologna. Nel 1978 torna alla Biennale di Venezia con le serie Al mare e Quadri equestri, opere dipinte con estrema grazia e leggerezza che costituiscono l’esempio di una ritrovata freschezza creativa. Viene invitato a Arte e critica 1980, al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Nel 1981 partecipa all’esposizione Identité italienne al Centre Georges Pompidou di Parigi. Sono di questo periodo i cicli Architetture, Cosmesi, Biplani e Orti botanici. Nel 1982 le sue opere partecipano alla rassegna Avanguardia/ Transavanguardia alle Mura Aureliane di Roma. Marco Meneguzzo cura una sua personale alla Loggia Lombardesca di Ravenna. Concepisce una sequenza di dipinti di grandi dimensioni tra cui Biciclette e Ballerini. In quest’anno lo ritroviamo alla XL Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Nel 1984 è invitato nuovamente alla Biennale di Venezia. In contemporanea Alain Cueff presenta ai Piombi il ciclo Naturale sconosciuto, dove emerge la sua particolare attenzione nei confronti della natura. Nascono così i Gigli d’acqua, i Campi di grano, le Onde e una serie di quadri realizzati con la sabbia per una mostra sui deserti in Giordania. Anche le tele donate a Gibellina per la ricostruzione artistica dopo il terremoto scaturiscono da questo nuovo impulso pittorico.
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Nel 1985 a Firenze, in Piazza Santissima Annunziata, dipinge davanti a seimila persone la Chimera, un’opera monumentale di quattro metri per dieci che inaugura una rassegna sugli Etruschi. Si sposa con Monica De Bei da cui ha il figlio Marco, e la sua pittura si fa più densa e ricca di suggestioni. Nel 1988 la Galleria Adrien Maeght di Parigi inaugura la mostra Le secret de la jeunesse éternelle, un Faust dionysiaque. Grande appassionato di ciclismo, è l’unico italiano che per due volte disegna la maglia gialla del Tour de France. Nel 1989 è tra i protagonisti della rassegna Arte italiana del XX secolo, organizzata dalla Royal Academy di Londra. Sue personali sono allestite al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles e al Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara. Nel 1990, dopo un decennio di pittura intensa dove ha prodotto molti tra i suoi lavori più emozionanti, inaugura la riapertura del Palazzo delle Esposizioni di Roma con Divulgare, una rassegna di opere di dimensioni eccezionali elaborate con le prime tecnologie digitali. Le immagini riprodotte uniscono alla dimensione dell’inconscio la realtà filtrata dalla televisione. I grandi quadri rappresentano le nuove visioni satellitari, le urgenze ambientali, la guerra. Il suo impegno civile si estende realizzando dei lavori a sostegno delle campagne di Greenpeace, Acnur e di molte altre associazioni di volontariato. Nel 1991 realizza la mostra Estroverso alla Galleria Mazzoli di Modena. Crea i bozzetti per la scenografia della Norma di Vincenzo Bellini per il Teatro Petruzzelli di Bari. La Biennale di Venezia del 1993, curata da Achille Bonito Oliva, gli offre una sala personale nella sezione Slittamenti. Nel 1994 partecipa alla rassegna The Italian Metamorphosis, 1943-1968, organizzata al Solomon R. Guggenheim Museum di New York; nel 1996 espone in Spagna e in America Latina con la mostra Musa ausiliaria, un omaggio nei confronti della televisione. Le opere di questi anni testimoniano il suo rinnovato interesse per la tecnologia. Nel 1996 la Stet-Telecom gli commissiona una nuova immagine della società in occasione della presentazione della rete internet sul territorio italiano. Schifano coglie immediatamente le possibilità del web che con il suo accesso illimitato estende le possibilità delle arti visive e la novità delle fibre ottiche che velocizzano la comunicazione, tanto da dedicargli un’opera che ne diventa il simbolo. Si dedica alla fotografia ed espande e moltiplica la produzione di quadri seriali utilizzando la televisione come medium commerciale. Nel 1997 partecipa a Minimalia, a Palazzo Querini Dubois di Venezia. Muore a 63 anni il 26 gennaio 1998 dopo un infarto nel suo studio di via delle Mantellate a Trastevere. La sua ampia e smisurata produzione pittorica è rappresentata dall’Archivio Mario Schifano, fondato nel 2003 dagli eredi.
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MARIO SCHIFANO, SEMPRE VERDE, 1985 Smalto e Acrilico su tela con cornice dipinta, 165 x 215 cm Pubblicazioni: Catalogo Mostra Schifano, Ediz. La Gradiva, pag. 43 - Galleria la Barcaccia, Roma, 1985 Studio Metodologico Vol. II - Rep. 84-198, pag. 73
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“L’artista è un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma di passaggio, da una tela di ragno.” Pablo Picasso
ELEMENTARISMO - CONCRETISMO E M.A.C.
Il Movimento per l’arte concreta, o MAC, è un movimento artistico fondato a Milano nel 1948 da Atanasio Soldati, Gillo Dorfles, Bruno Munari, Gianni Monnet, con il fine di promuovere l’arte non figurativa, ed in particolare un tipo di astrattismo libero da ogni imitazione e riferimento con il mondo esterno, di orientamento prevalentemente geometrico. Il nome del movimento si rifà ad una accezione del termine “concreto”, usato nel senso detto, introdotto inizialmente negli anni trenta da Van Doesburg e Kandinskij. Il Concretismo si oppone, quindi, oltre che alla figurazione, anche all’astrazione cosiddetta “lirica”. Il MAC esordì con una mostra collettiva tenuta alla Libreria Salto di Milano nel dicembre 1948, presentata da Marchiori. Negli anni seguenti, il Movimento si struttura con una rete organizzativa diffusa in varie città, oltre Milano, come Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli e comprendente non solo pittori o scultori, ma anche architetti, industrial designers, grafici. Quest’ultima caratteristica del MAC può essere messa in relazione con la molteplicità di interessi di tre figure come quelle di Dorfles , di Munari e Dorazio. Successivamente alla sua fondazione aderirono al movimento, tra gli altri, Antonio Franchini, Gianni Bertini, Ferdinando Chevrier, Franz Furrer, Augusto Garau, Mario Nigro, Ideo Pantaleoni, Galliano Mazzon, Plinio Mesciulam, Luigi Veronesi, Renato Barisani referente e coordinatore per Napoli fino al 1958, Vittorio Ugolini, Luiso Sturla segretario per la Liguria fino al 1957. Fra gli architetti Attilio Mariani, Carlo Perogalli, Tito Varisco, Roberto Menghi, Marco Zanuso, Mario Ravegnani, Carlo Paccagnini, Vittoriano Viganò. Ebbero rapporti con il MAC anche i giovani pittori romani Accardi, Dorazio, Perilli, che daranno vita al gruppo Forma 1. Il MAC si sciolse nel 1958.
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PIERO DORAZIO, SENZA TITOLO, 1950 Olio su tela, 45 x 60 cm
PIERO DORAZIO Roma, 1927 – Todi, 2005
«In quei suoi tessuti o meglio membrane, di pittura uniforme quasi monocroma e pure intrecciata di fili diversi di colore, di raggi di colore, s’aprono, dentro i fitti favi gli alveoli custodi di pupille pregne di luce, armati di pungiglioni di luce. La luce è infatti in Dorazio, e sarà come realtà di pittura per merito di Dorazio, anche concentrazione e fissazione su un punto di luce riaffiorato da abissi, iterato all’infinito. Così può uno scernare il miele delle ore.» (Giuseppe Ungaretti, Un intenso splendore, cat. Im Erker Galerie, Saint Gallen (CH), 1966) Piero Dorazio frequenta lo studio del pittore Baldinelli insieme con Perilli nei primi anni ‘40 e lo studio di Guttuso alla fine del decennio. La sua pittura presenta precocemente afferenze dalle linee-forza futuriste, dal cubismo e dal concretismo. Nel 1947 è tra i fondatori del Gruppo Forma 1 con Perilli, Accardi, Attardi, Sanfilippo e Maugeri. Con Guerrini si trasferisce a Parigi: grazie a Severini frequenta i colleghi francesi e partecipa al I Congresso internazionale dei critici d’arte. Dipinge quadri astratto-geometrici con riferimenti a Magnelli. Nel 1950 si stacca da Forma 1 aderendo con Perilli e Guerrini al gruppo ‘Arte concreta’; apre la galleria-libreria ‘L’Age d’or’, luogo d’incontro per artisti e sede di divulgazione dell’astrattismo. Nel 1951, su invito di Fontana, realizza con Perilli e Guerrini pitture murali alla Triennale di Milano. Partecipa alla sua prima Biennale di Venezia su invito di Prampolini nel 1952. Nasce la Fondazione Origine dalla fusione del gruppo di Age d’or con il gruppo Origine di Ballocco, Burri, Capogrossi e Colla. Dorazio organizza la mostra ‘Arte astratta italiana e francese’ alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, in collaborazione con l’Art Club. Introduce i primi segni colore nelle stesure piatte ordinate geometricamente. Soggiorna per un anno a New York, su invito dell’Università di Harvard. Nel 1955 espone con Perilli alla Galleria delle Carrozze in una mostra d’arte programmata dal titolo ‘Colore come struttura’. Espone alle Biennali del 1956 e 1958. Prima personale nel 1957 alla galleria La Tartaruga di Roma. Lavora ai reticoli cromatici. Dopo una sperimentazione sulle superfici monocromatiche, nel 1960 partecipa a ‘Monochrome Malerei’ a Leverkusen, a cura di Udo Kultermann e allestisce una sala alla XXX Biennale. Insegna per un decennio all’Università di Pennsylvania a Filadelfia. Ampia rassegna al Kunstverein di Düsseldorf nel 1961, presentata da K.H.Hering e W.Grohmann. Inizia ad esporre alle gallerie Marlborough di Roma e Londra. Nella prima metà degli anni ‘60 realizza composizioni geometriche su ampi schemi liberi, a stesure di colori piatti. Sala personale alla Biennale del 1966 con opere monocrome su fondo grezzo. Dalla seconda metà degli anni ‘60 lavora a situazioni formali dinamiche racchiuse in griglie orizzontali; dai secondi anni ‘70 infittisce il tessuto di minimi tracciati ancora ad andamento orizzontale di segno-colore. Nel 1970 cura la retrospettiva di Rothko alla Biennale di Venezia. Dalla metà degli anni ‘70 vive a Todi dove allestisce una retrospettiva di opere dal 1946 al 1975, con testi di M.Volpi Orlandini e L.Caramel. Espone alla galleria Emmerich di New York. Sala personale alla Biennale del 1988. Personali a Grenoble e Bologna nel 1990. A. Zevi presenta la retrospettiva alla Loggetta Lombardesca di Ravenna; G.De Marchis al Museo Seibu di Tokyo nel 1985. Intenso il curriculum espositivo nelle gallerie private e l’elenco dei musei che contengono opere dell’artista.
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ANACRONISMO
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Riferimento a valori ed ambienti fuori tempo rispetto alla contemporaneità e rivalutazione di un background culturale umanistico tipicamente italiano, legato alla tradizione passata e recente, all’iconografia classica di una produzione artistica tra le più ricche e valide dell’occidente. Negli anni ‘70/’80 si diffonde in Italia un movimento che prende il nome di Anacronismo, sostenuto dal critico d’arte Maurizio Calvesi, in aperta polemica contro le cervellotiche degenerazioni del concettuale, che sempre più spesso scivola verso intellettualistiche esercitazioni mentali incomprensibili ai fruitori: l’Anacronismo, come il termine indica etimologicamente, fa riferimento a valori ed ambienti fuori tempo rispetto alla contemporaneità, riallacciandosi ad un background culturale tipicamente italiano, e perciò caratterizzato fortemente dai contenuti umanistici, dal legame con la tradizione passata e recente, dai richiami all’iconografia classica di una produzione artistica tra le più ricche e valide non solo dell’occidente, ma del mondo. Inquadrabile genericamente nella corrente post-moderna, l’Anacronismo esprime, come altri movimenti contemporanei quali i Nuovi Nuovi, i Postmodernisti, la Transavanguardia, l’esigenza di rifondare l’arte moderna su valori concreti, non importa se tradizionali ed in un certo senso restaurativi, magari tornando alla figurazione rivisitando la passata tradizione culturale, ciò che fa preferibilmente l’Europa, ed in particolare appunto l’Italia. Il tentativo è quello di creare, con mezzi non attuali, anacronistici, appunto, ma di collaudata efficacia, con un linguaggio colto, ironico e sottilmente destabilizzante un mondo diverso da quello moderno, un’alternativa migliore, attraversando il tempo e recuperando un’identità culturale che si credeva persa nella confusione e nella omologazione dei linguaggi. Paradossalmente, proprio nel richiamo alla tradizione risiede il valore provocatorio e dirompente di questa tendenza, che spesso e volentieri ricorre alla citazione, rivisitando in termini talora metaforici, talora imitativi la passata storia dell’arte e trovando proprio nella rivalutazione di importanti presupposti culturali europei la forza oppositiva verso lo strapotere dell’arte e del sistema di mercato americani. Carlo Maria Mariani, Franco Piruca, Alberto Abate, Stefano Di Stasio, Ubaldo Bartolini, Paola Gandolfi, Omar Galliani; oltre a Salvo e Luigi Ontani che risultano essere tra i nomi più rappresentativi del Movimento.
“La scienza descrive le cose così come sono; l’Arte come sono sentite, come si sente che debbano essere.” Fernando Pessoa
SALVO Leonforte, 1947 – Torino, 2015
Salvo (nome d’arte per Salvatore Mangione) nasce a Leonforte, in provincia di Enna nel 1947. Nel 1956 si trasferisce con la famiglia da Catania a Torino, che rimarrà la sua città d’adozione. Dall’inizio degli anni ’60 dipinge e si mantiene vendendo a poco prezzo ritratti, paesaggi e copie da Rembrandt e Van Gogh. Nel 1963 partecipa alla 121a Esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti con un disegno da Leonardo. Tra il settembre e il dicembre 1968 è a Parigi, coinvolto dal clima culturale del movimento studentesco. Rientrato a Torino, inizia a frequentare gli artisti che operano nell’ambito dell’Arte Povera e che trovano un punto di riferimento nella galleria di Gian Enzo Sperone. Conosce Boetti, di cui diventa amico e con cui condivide lo studio fino al 1971, poi Merz, Paolini, Penone, Pistoletto, Zorio, e i critici Renato Barilli, Germano Celant e Achille Bonito Oliva. Nel 1969 ha rapporti con i concettuali americani Joseph Kosuth, Robert Barry e Sol LeWitt. In estate compie un primo lungo viaggio in Afghanistan, a cui ne seguiranno altri. Inizia lavori in cui sono già chiare le tendenze – la ricerca dell’io, l’autocompiacimento narcisistico, il rapporto con il passato e con la storia della cultura – che diventeranno nodi essenziali della sua ricerca successiva. Tra questi, la fotografia Autoritratto come Raffaello e la serie 12 autoritratti in cui inserisce con fotomontaggi il proprio volto su immagini tratte da giornali, presentate nel 1970 alla Galleria Sperone, nella sua prima mostra personale. Parallelamente ai lavori fotografici Salvo esegue lapidi in marmo su cui sono incise parole o frasi, quali Idiota, Respirare il padre, Io sono il migliore. Sono opere che, pur se maturate nel contesto dell’Arte Povera, mostrano nelle connotazioni monumentali e arcaicizzanti un carattere peculiare e precorritore della sua futura ricerca. È del 1970 Salvo è vivo, oggi all’Australian National Gallery di Canberra e al Neues Museum di Weimar, dell’anno seguente 40 nomi, elenco di personaggi illustri che da Aristotele giunge fino a Salvo. La serie delle lapidi proseguirà fino a tutto il 1972 con iscrizioni dalle fonti più varie, come un testo assiro in Il lamento di Assurbanipal o una parabola di Esopo per La tartaruga e l’aquila. Dal 1971 realizza i Tricolore, superfici su cui è scritto “Salvo” in bianco, rosso e verde o con lettere al neon, inoltre copie di romanzi trascritte da lui stesso in cui viene riproposto il medesimo processo di sostituzione degli autoritratti inserendo il proprio nome al posto di quello dei protagonisti; è il caso, per esempio, di Salvo nel paese delle meraviglie (da Carroll) e L’isola del tesoro (da Stevenson). Nel corso di quest’anno conosce Cristina, che rimarrà sua compagna tutta la vita. Tramite Robert Barry, conosce Paul Maenz. Inizia così un lungo rapporto di amicizia e lavoro con il gallerista tedesco, che in giugno presenta nella sua galleria a Colonia una personale, preceduta in marzo dall’esordio parigino alla Galerie Yvon Lambert. Nel giugno 1972 incontra John Weber e viene programmata per il gennaio seguente nella galleria newyorkese l’ultima sua esposizione di opere concettuali. Nello stesso anno Salvo partecipa a Documenta 5 di Kassel. Il 1973 è l’anno della svolta: Salvo torna alla pittura, per non abbandonarla mai più. Il recupero delle tecniche tradizionali era già presentito in alcuni Autoritratti benedicenti disegnati tra il 1968 e il 1969. Con l’intento di rivisitare la storia dell’arte Salvo procede nei suoi d’après. La citazione di opere antiche non impone la copia tout court ma il rifacimento in chiave semplificata, dove l’artista talvolta inserisce se stesso con il procedimento dell’autoritratto. I lavori, ispirati a grandi maestri del Quattrocento quali Cosmè Tura e ancora Raffaello, vengono esposti in numerose mostre. L’anno seguente si apre a Colonia la rassegna “Projekt ‘74”: Salvo chiede di non esporre alla Kunsthalle, sede della mostra, ma di allestire una sala al Wallraf-Richartz-Museum, dove San Martino e il povero del ‘73 (oggi alla Galleria d’Arte Moderna di Torino) è collocato accanto a capolavori di un pittore per ogni secolo, come Simone Martini, Lucas Cranach il Vecchio, Rembrandt e Cézanne. Sempre nel 1974 Salvo partecipa presso lo Studio Marconi di Milano alla collettiva “La ripetizione differente”, curata da Barilli. In dicembre, da Toselli, propone una sola opera, il Trionfo di San Giorgio (da Carpaccio), di oltre sette metri, poi inviata alla Biennale di Venezia del 1976 come unico suo intervento. Dipinge le prime Italie e Sicilie, restituite attraverso le rispettive mappe geografiche ben riconoscibili e recanti, nell’ordinata scansione sulla superficie dell’opera, i nomi di insigni filosofi, pittori, letterati seguiti da quello dello stesso Salvo. Dal 1976 si delinea un nuovo momento della sua ricerca. Elabora una serie di paesaggi in cui propone con colori squillanti, cavalieri tra rovine architettoniche e visioni di colonne classiche, viste in vari momenti del giorno e della notte. Conosce Giuliano Briganti e Luisa Laureati, e Luciano Pistoi, il gallerista con cui avrà per molti anni un rapporto privilegiato. Nel 1977, anno in cui nasce sua figlia Norma, per la prima volta un museo ospita una sua retrospettiva. Curata da Zdenek Felix per il Museum Folkwang di Essen, la vasta rassegna passa poi a Mannheimer Kunstverein di Mannheim. In quest’anno termina i Giganti fulminati da Giove, una delle opere di maggiori dimensioni del periodo mitologico. Allestisce alcune personali tra cui una mostra sul Capriccio alla Galleria Stein di Torino, poi presso Françoise Lambert ed alla Galleria Pero, a Milano, Massimo Minini a Brescia e partecipa ad alcune collettive, tra cui quella alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna e alla Holly Solomon Gallery di New York.
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Tra la fine del 1979 e il 1980 Salvo dipinge una serie di paesaggi con case di campagna, chiese e monumenti quali San Giovanni degli Eremiti a Palermo e la Torre di Pisa, in cui compaiono alberi d’ispirazione giottesca e vegetazioni prima quasi inesistenti. Tra il 1982 e il 1983 la sua notorietà si consolida ulteriormente a livello europeo. Dopo l’ampia retrospettiva organizzata da Massimo Minini al Museum van Hedendaagse Kunst di Gand, l’anno seguente sono riunite al Kunstmuseum di Lucerna le sue opere più significative realizzate dal 1973, poi al Nouveau Musée di Villeurbanne, presso Lione. Iniziano i suoi rapporti con gli scrittori Giuseppe Pontiggia e Leonardo Sciascia, che dedicheranno a Salvo alcuni scritti. Nell’estate del 1984 Maurizio Calvesi invita Salvo ad “Arte allo specchio”, alla 41a Biennale di Venezia: vi partecipa con sei lavori, tra le quali San Martino e il povero, Il bar del 1981 e un quadro del ciclo di Rovine ripreso in quest’anno. Al ritorno da un lungo viaggio in Grecia, Jugoslavia e Turchia dipinge i mishram, le caratteristiche tombe musulmane viste a Sarajevo. A questa tematica, presentata da Franco Toselli, seguiranno le Ottomanie (neologismo di Salvo), varianti dei precedenti paesaggi in cui compaiono i minareti resi nell’essenzialità della loro architettura. Nel 1986 viene pubblicato il trattato Della Pittura – Imitazione di Wittgenstein, 238 brevi paragrafi in cui Salvo raccoglie i suoi pensieri sulla pittura con il metodo della proposizione assiomatica e dell’interrogazione retorica. Il volume esce in italiano, inglese, tedesco e in spagnolo. Conosce Daniele Pescali, che diventerà il suo mercante principale dal 1987 al 1995. Del 1988 sono due le mostre istituzionali, al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam e al Musée d’Art Contemporain di Nîmes. Dipinge lavori che si ispirano alla pittura di P. Saenredam, gli Interni con funzioni straordinarie, presentati nel 1991 alla Galleria In Arco di Torino. Nel 1992 Renato Barilli cura l’ampia personale Archeologie del futuro alla Galleria dello Scudo di Verona, nel cui catalogo compaiono testi di Giuseppe Pontiggia, Paul Maenz e Luigi Meneghelli. Dagli anni ‘90 Salvo dedica alcune serie di quadri a luoghi che ha visitato, tra cui Oman, Siria, Emirati Arabi, Tibet, Nepal, Etiopia, oltre a gran parte d’Europa, in particolare Francia, Germania e Norvegia. Dal 1995 Salvo trascorre alcuni mesi all’anno nel golfo di Policastro e nelle Valli del Po, vicino al Monviso, luoghi che lo hanno ispirato per numerose opere. In questi anni conosce e frequenta lo scrittore Nico Orengo, per cui nel 2003 illustrerà il libro Cucina crudele. È del 1998 la mostra antologica a Villa delle Rose, sede della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, a cura di Renato Barilli e Danilo Eccher. Negli anni 2000 altri viaggi ispirano la sua pittura, in particolare quelli in Cina, Thailandia, Egitto e in Islanda. Varie le mostre personali, tra cui quelle nelle gallerie Zonca & Zonca di Milano, Raffaelli di Trento e Mazzoleni di Torino e in spazi pubblici come la Palazzina Azzurra di S. Benedetto del Tronto e il Trevi Flash Art Museum, a cura di Luca Beatrice e come la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, per la doppia personale con Gabriele Basilico, a cura di Giacinto Di Pietrantonio. In questi anni la sua pittura si rivolge al soggetto delle pianure, introducendo un nuovo taglio prospettico nei suoi paesaggi. La sua città, Torino, gli dedica nel 2007 un’ampia mostra antologica alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di Pier Giovanni Castagnoli. Salvo trascorre molto tempo a Costigliole d’Asti, tra Langhe e Monferrato, i cui paesaggi collinari si ritrovano nelle sue opere recenti. Dal 2013 lavora con la galleria Mehdi Chouakri di Berlino che nel 2014 presenta una sua mostra personale. Nello stesso anno, oltre a dipingere i suoi soggetti prediletti come paesaggi e nature morte, riprende in chiave nuova alcuni soggetti abbandonati da più di trent’anni, realizzando ad esempio una grande Italia, una Sicilia e un Bar, che presenta nel marzo 2015 in occasione della sua mostra personale alla galleria Mazzoli di Modena.
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SALVO, OTTOMANIA, 1992 Olio su tela, 35 x 50 cm
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“L’oggetto dell’arte non è riprodurre la realtà, ma creare una realtà della stessa intensità.” Alberto Giacometti
MAGICO PRIMARIO
Un movimento di impronta post- modernista, dove la citazione è finalizzata ad un corto circuito emotivo tra passato e presente, “alla ricerca di entità archetipiche annidate da sempre nel cuore dell’uomo” Magico Primario, che trae la sua denominazione da una omonima mostra del 1980, è un movimento inquadrabile nell’ambito del filone del post-modernismo, un fenomeno che verso gli anni ‘80 si differenzia in varie correnti di diversa declinazione, tutte ad impronta citazionista e figurativa, come i Nuovi Nuovi di Renato Barilli, gli Anacronisti di Maurizio Calvesi, i Nuovi Selvaggi della Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, nei termini o di una rigorosa rivisitazione dei temi classici o di una loro interpretazione ironicamente sgrammaticata. Alla base, in ogni caso, c’è il tentativo di superare i concetti ormai logori di eredità avanguardista nell’esigenza di rifondare l’arte moderna su valori concreti, non importa se tradizionali ed in un certo senso restaurativi, tornando alla tradizione ed alla figurazione. Teorico del movimento, nato ufficialmente nel 1982, è Flavio Caroli, oggi ordinario di Storia dell’Arte Moderna presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Responsabile Scientifico di Palazzo Reale a Milano, acuto indagatore dei modelli culturali, delle utopie, delle nevrosi degli anni ‘80, “scintillanti di passioni e di ansie”. Gli artisti aderenti al movimento sono Ubaldo Bartolini, Omar Galliani, Luigi Mainolfi, Aldo Spoldi, Salvo, Luciano Castelli, Nino Longobardi, Gianfranco Notargiacomo, Marcello Jori, quest’ultimo anche nel gruppo dei Nuovi-Nuovi. In seguito Caroli dirà: “...Quando parlavo di “Magico” io alludevo fondamentalmente alla possibilità di una nuova Bellezza e di una nuova Seduzione, dopo le astinenze del Concettuale.... Quando parlavo di “Primario”, alludevo alla ricerca di entità archetipiche annidate da sempre nel cuore dell’uomo, e tanto più destinate a essere dissepolte quanto più ci si inoltra nella grande pellicola, o nella grande insignificanza, del consumo. La cosa ha avuto la sua diffusione e fortuna, il che, naturalmente, è stato ottimo sintomo di autenticità”.(“Dall’altrove” di Flavio Caroli ) È caratteristica degli anni ‘80 il proliferare di movimenti di reflusso (i molti neo- ecc) a denunciare una crisi di identità dell’arte moderna, che a volte si rifugia in una ricerca storica molto vicina ad una fredda analisi linguistica, a volte, come nel caso del Magico Primario, recupera il dato emotivo all’interno di una figurazione colta ma non culturale, dove la citazione è finalizzata ad un corto circuito emotivo tra passato e presente, dove si intrecciano tempo e memoria, come nell’opera di Gianfranco Notargiacomo, forse il più rappresentativo esponente del movimento.
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MARCELLO JORI, ORTO DEGLI ULIVI, 2000 Olio e oro su tela, 152 x 196 cm Pubblicazioni: Catalogo Mostra “Maecello Jori-Jori di Napoli”, Ex Chiesa delle Concezioniste - Giugliano (NA) - Dic.2000-Gen.2001
MARCELLO JORI Merano, 1951
Marcello Jori nasce a Merano nel 1951. Fra i protagonisti della scena artistica italiana, partecipa a tre Biennali di Venezia, alla Biennale di Parigi, a due Quadriennali di Roma. Tiene mostre in gallerie e musei nazionali e internazionali, tra cui: Galleria d’Arte Moderna, Roma; Studio Morra e Galleria Trisorio Napoli, Castel Sant’Elmo Napoli; Studio Marconi, Milano; Galleria De’ Foscherari e Galleria d’Arte Moderna, Bologna. Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Trento. Hayward Gallery, Londra; Kunstverein, Francoforte; Holly Solomon, New York. Negli anni 90 partecipa alla mostra Psicho, curata da C. Leigh, A. Dannatt e D. Kuspit, e a un’importante esposizione a quattro, con Dan Flavin, Sol LeWitt e James Croak, al Kunst Hall di New York. Tiene anche una personale all’Art Institute di Boston. Fin dall’inizio della sua attività, persegue un progetto di arte totale che oggi lo porta a rivestire una posizione di grande attualità nella definizione dell’eclettismo contemporaneo. Agli inizi degli anni ‘80, dopo un periodo dedicato alle scritture dipinte che faranno delle parole un segno ricorrente in tutto il suo percorso, inizia la produzione dei cristalli, gemme preziose contenitori di energia e di luce, geometrie che lo porteranno a ridipingere il mondo seguendo le regole del suo stile. Nasceranno opere fortunate che raggiungono oggi i risultati più importanti, con la serie dei Giacimenti, delle Foreste e delle Città. Da anni sta sviluppando l’ambizioso progetto della Città meravigliosa: una città dipinta per gli artisti più significativi del mondo che Jori coinvolge e ritrae personalmente, dipingendone poi le abitazioni a misura dei loro corpi. Negli anni ‘80 è tra i fondatori del Nuovo Fumetto Italiano. Pubblica in Italia per Linus, Alter e Frigidaire, in Francia per Albin Michel su L’Echo des Savanes. Collabora anche con le riviste Vogue e Vanity. Dal 1992 al 1998 disegna in esclusiva per la casa editrice giapponese Kōdansha. Negli anni Duemila, pubblica Nonna Picassa, un romanzo per Mondadori e compie utili perlustrazioni in nuovi ambiti della creatività che gli servono a comprendere altri livelli di comunicazione artistica come ad esempio quelli della musica di massa: il Rock. L’esperienza lo porta a realizzare per Vasco Rossi la scenografia di Rock sotto l’assedio, concerto tenutosi allo stadio San Siro di Milano: una città dipinta di 20 metri per 70. Nel 2000 tiene una personale al Museo d’Arte Moderna di Bologna a cura di Danilo Eccher, nella quale viene riproposta l’opera fotografica degli anni ‘70. A Milano nel 2003, alla galleria Emi Fontana, presenta per la prima volta le Predicazioni, libri opera scritti e illustrati a mano dall’artista in copia unica. Per riportare in vita artisti leggendari, inventa un nuovo modo di raccontare in forma di ‘predicazione’. Un testo accompagnato da illustrazioni, pensato per essere letto ad alta voce, è lo stesso Jori a farlo, al MAMbo di Bologna e al Macro di Roma. Nel 2007, il fumetto che l’artista aveva abbandonato si ripresenta in nuove forme nella collaborazione con l’azienda Alessi, che ha inizio con la serie intitolata Figure e che arriva oggi alla produzione delle Palle Presepe, ultima importante novità. Così come la pittura trova nuova espressione nella collaborazione con l’azienda Moroso. Nel 2010 infatti viene presentato al Salone del mobile di Milano il suo primo lavoro per Moroso: Alì Babà, il tavolo del tesoro. Nel 2010 espone alla galleria Giorgio Persano a Torino e ricomincia la collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano, dove nel gennaio 2011 tiene una personale intitolata “Gli Albi dell’Avventura”. Nell’ottobre 2011 produce una serie di opere per Diego Della Valle, nelle quali interpreta alcuni tra i più celebri monumenti del mondo, presentati a Parigi all’ambasciata italiana. Nel 2011 comincia la collaborazione con il Corriere della Sera per il quale realizza sei copertine. Espone i suoi Giacimenti in una mostra personale all’Ocean House di Miami. Nel 2013 tiene una nuova esposizione “La Gara della Bellezza” al Museion di Bolzano e contemporaneamente la mostra “La Città Meravigliosa degli Artisti Straordinari” al Castel Tirolo a cura di Danilo Eccher. Partecipa ad Artissima con una personale nella sezione “Back to the Future”. Nello stesso anno ADN Collection di Bolzano gli dedica una sala. Nel 2015 tiene un’importante mostra personale alla Fondazione Marconi intitolata “Le Grand Jour à l’Ile de la Grande Jatte” con catalogo a cura di Bruno Corà e libro pubblicato da Skira e realizzato dall’artista. Partecipa alla mostra “Scenario di terra” al MART di Rovereto e all’esposizione “Come è viva la città” a Villa Olmo a Como. L’artista vive e lavora a Milano.
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TRA IMPRESSIONISMO E SIMBOLISMO MICHELE CASCELLA Ortona, 1892 - Milano, 1989 98
Michele Cascella, famoso paesaggista crepuscolare italiano, nasce ad Ortona, in provincia di Chieti, il 7 settembre 1892 in una famiglia numerosa, comprendente, oltre ai fratelli e sorelle (sono 6), il padre e la madre, il nonno e due sorelle del padre. Figlio di un bravo pittore, ceramista e litografo, oltre che sarto del paese, Michele si rivela un pessimo studente con scadenti risultati, non solo nelle materie scolastiche, ma persino in disegno. Dopo l’ennesima bocciatura, il padre lo porta nel suo laboratorio cromolitografico e Michele con il fratello Tommaso, prende dimestichezza con gli arnesi del mestiere, si ambienta nel laboratorio, esegue gli esercizi che suo padre gli suggerisce, copia i disegni di Leonardo e Botticelli, ma anche grandi bocche e grandi nasi che suo padre disegna per lui. Michele Cascella deve alla pazienza ed alla fiducia del padre se già nel 1907, solo quindicenne, può mettere in mostra i suoi lavori a Milano, l’anno dopo a Torino e nel 1909 alla Galleria Druet di Parigi. I primi lavori vengono eseguiti “dal vero”, adoperando soprattutto il pastello e, seguendo le suggestioni della stagione simbolista, privilegiando la forza evocativa del colore nel fermare “une petite sensation”. Cascella non segue alcuna filosofia nel creare i suoi quadri, ma applica la logica dell’arte come gliel’ha insegnata suo padre, paragonandola ad una dolce melodia di sottofondo. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Michele Cascella viene richiamato alle armi, ma nello zaino si porta tele e colori con i quali fissa i ricordi della vita militare, alcuni dei quali sono ora esposti al Museo del Risorgimento ed nelle Raccolte Storiche di Milano. Alla fine della guerra Michele Cascella si stabilisce definitivamente a Milano dedicandosi alle incisioni ed alla ceramica, tornando solo più avanti all’acquarello ed alla pittura ad olio. Nel 1924 espone per la prima volta alla Biennale di Venezia e l’anno dopo organizza una personale alla Galleria Pesaro di Milano, ben recensita da Carlo Carrà, grande sostenitore del primitivismo nella pittura di Cascella. Le sue piacevoli vedute marine e urbane, i delicati ritratti femminili, gli portano presto un grande successo di pubblico, dal 1928 al 1942 ogni anno viene invitato a partecipare alla Biennale di Venezia, e nell’ultimo anno, il 1942, ottiene persino una sala personale. Durante gli anni anni Trenta, Michele Cascella, uomo di grande simpatia e umanità, utilizza spesso la tecnica dell’acquarello per riprendere serene vedute e scorci di città che espone a Londra, Parigi e Bruxelles, diventando uno dei pittori più amati e seguiti dal grande pubblico non solo italiano. Nel 1933 Cascella collabora con il “Corriere della Sera” con disegni al tratto, raffiguranti importanti località italiane. Nel 1934 soggiorna in Libia, le sue opere sono molto popolari e la Principessa di Piemonte lo incarica di eseguire un ciclo di dipinti sul paesaggio dell’Italia meridionale. Michele Cascella, tenace lavoratore, nel 1937, vince la medaglia d’oro alla Exposition Universelle di Parigi. Negli anni successivi al 1940, i soggetti più ripresi da Michele Cascella sono fiori, nature morte, campi di grano e di papaveri, paesaggi abruzzesi e Portofino, esprimendo l’amore per la natura e la gioia di vivere con l’olio, l’acquarello, il pastello e la litografia. Negli anni Cinquanta e Sessanta Michele Cascella espone periodicamente a Parigi, alla Galleria Andrè Weil, alla Galleria Allard ed alla Galleria Marseille, con crescente successo. Il Maestro Michele Cascella muore a Milano il 31 Agosto 1989 dopo una vita completamente dedicata alla pittura.
“Se c’è sulla terra e fra tutti i nulla qualcosa da adorare, se esiste qualcosa di santo, di puro, di sublime, qualcosa che assecondi questo smisurato desiderio dell’infinito e del vago che chiamano anima, questa è l’arte.” Gustave Flaubert
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MICHELE CASCELLA, PORTOFINO, Anni ‘70 Olio su tela, 77 x 100 cm
IL MAESTRO DELLE ESTROFLESSIONI AGOSTINO BONALUMI Vimercate, 1935 – Monza, 2013 100
“L’irresponsabilità che segna la società come oggi ce la ritroviamo, è dura mortificante insipienza”. È l’incipit dell’ultimo scritto di Agostino Bonalumi, reso noto insieme ad altri inediti dall’ampio catalogo della mostra che gli dedica il Marca di Catanzaro. Nel testo, Bonalumi lamentava l’impossibilità dell’esperienza, soprattutto sul piano artistico, in un’epoca in cui una “realtà-non realtà avvolge l’individuo tuttavia distante, velocizzata rallentata ripetuta anticipata posticipata, senza coinvolgerlo veramente”. L’autore pone l’accento sull’oggettualità dell’arte-esperienza, rivendicando l’aspetto principe della sua ricerca, la Pittura-Oggetto, legata a un linguaggio nuovo, a un’idea di spazio nuova, condivisa in parte con Piero Manzoni, Enrico Castellani e Lucio Fontana. Per lui lo spazio non si limita alla tela, ma ne oltrepassa i confini, deformandoli, forzandoli “attraverso materiali plasmabili che diventano strumentali alla sua poetica in espansione dove l’opera, pronta ad invadere lo spazio circostante, diventa ambiente, luogo tattile, esperienza fisica”, spiega il curatore Alberto Fiz. Bonalumi è un artista non facilmente catalogabile. Dopo una breve esperienza nell’Informale, saranno le estroflessioni a codificare la sua voce, e rappresentano “un principio metodologico, un’invenzione stilistica”, precisa Fiz, per attuare “il superamento del piano rappresentativo” attraverso infinite declinazioni, come la “geometria umanizzata, persino antropomorfa”, sempre con rigore formale e coerenza. Non ci sono parole più nitide delle stesse che usa Bonalumi in Evoluzione dialettica: “Nella persistenza della estroflessione cambiano la tecnica, i mezzi, gli strumenti mediante i quali la superficie è spinta verso l’esterno, o ritratta verso l’interno, facendo sorgere il pensiero di uno spazio dietro l’opera”. In relazione alla forma e al colore, invece, qui “il colore”, osserva ancora Fiz, “è inteso come luogo, come opportunità per sviluppare la forma. I colori, poi, quasi fossero dei codici matematici, danno il titolo ai suoi lavori”. Il dinamismo delle tele estroflesse – realizzato con il prezioso contributo della moglie – è ottenuto mediante l’ausilio di centine, bacchette d’acciaio incollate sulla tela in modo da dilatarne la superficie, alterandone la percezione e creando così “un ulteriore livello di ambiguità”. È il dubbio a fare da cornice all’indagine bonalumiana: “Tuttavia l’opera d’arte”, scriveva, “sarà tanto più significante quanto più, nel suo sistemarsi e farsi ricerca ordinata, riuscirà ad essere accumulazione di dubbio”. A margine, ipotizza Fiz, “una sottile ironia, non solo nei confronti dello spettatore […] ma anche rispetto al sin troppo serioso sistema dell’arte”.
“Le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare.” Rainer Maria Rilke
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AGOSTINO BONALUMI, BLU, 1981 Smalto su tela estroflessa, 130 x 130 cm
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“L’opera d’arte è un messaggio fondamentalmente ambiguo, una pluralità di significati che convivono in un solo significante.” Umberto Eco
TRANSAVANGUARDIA
La Transavanguardia è il nome di una corrente artistica del movimento pittorico Postmoderno, così battezzata dal critico d’arte Bonito Oliva, che definisce la tendenza artistica di alcuni giovani pittori italiani degli anni 1970. Nata come una sorta di reazione alla sperimentazione artistica spinta all’eccesso dalla Pittura Concettuale, che caratterizzava quel periodo storico, la nuova corrente ha origine da un gruppo di artisti emergenti che in quegli anni parteciparono alla sezione “Aperto 80” della Biennale di Venezia. La Transavanguardia teorizzava un ritorno alla manualità, alla gioia del dipingere, restituiva al pennello, alla tela ed ai colori il loro posto nell’a rte della pittura, anche attraverso la libera riscoperta delle radici locali e popolari di ciascun artista. Il movimento, trova nel Critico d’a rte Achille Bonito Oliva, il teorizzatore e lo storico che disegna il profilo e dà riconoscibilità al movimento genuinamente italiano: “La transavanguardia ha risposto in termini contestuali alla catastrofe generalizzata della storia e della cultura, aprendosi verso una posizione di superamento del puro materialismo di tecniche e nuovi materiali e approdando al recupero dell’inattualità della pittura, intesa come capacità di restituire al processo creativo il carattere di un intenso erotismo, lo spessore di un’immagine che non si priva del piacere della rappresentazione e della narrazione”. Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, furono i precursori della nuova corrente che venne poi battezzata Transavanguardia dopo la Biennale di Venezia del 1980. Ad essi si aggiunsero Mimmo Germanà ed Ernesto Tatafiore, presenti nella sezione “Aperto ‘80” della mostra; un insieme di personalità diverse, che in seguito differenzieranno ancora di più il loro linguaggio. Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia dell’ ‘80 e alla rassegna internazionale “Transavanguardia Italia/ America” nell’ ‘82, questo movimento rappresenta per l’Italia l’occasione di inserirsi a livello internazionale nel circuito commerciale dell’arte moderna, monopolizzato dai mercanti americani. La Transavanguardia cerca saldi legami con la tradizione storica, con la pittura, la scultura, la figurazione, con una rappresentazione che ha come aspirazione finale una simbiosi emotiva di carattere cosmico, in un’impronta vagamente surrealista. Le opere di questi giovani pittori sono fortemente narrative e trasmettono immagini fantastiche legate agli interessi primari dell’artista, quali spazio, tempo o storia, interpretati in una totale libertà espressiva. Comune agli Artisti di questa corrente resta l’uso di un linguaggio forte, intenso ed innovativo, dal segno graffiante e dal colore vivido che li collega al Neo-Espressionismo europeo e fonte d’ispirazione per i pittori tedeschi del “Neuen Wilden” che si fecero strada negli anni ‘80, contagiando pittori come Jean Michel Basquiat, Jonathan Borofsky, David Salle, Julian Schnabel. Sandro Chia (Firenze, 1946) sin dai primi lavori si dedicò a una pittura a olio che ricordava quella Manierista, dipingendo figure michelangiolesche avvolte da un sorriso ironico. Dal punto di vista cromatico, Chia amò esprimersi con i colori accesi del Futurismo, ma non si stancò di proporre un ritorno al «quadro-quadro» e alla «pittura-pittura», al recupero della bidimensionalità della tela e dei suoi valori fondanti: colore, tono, volume, ma soprattutto figurazione dal contenuto volutamente colto e fitto di rimandi ed echi del passato letterario, filosofico ed artistico. Enzo Cucchi (Morro d’Alba 1949), dopo gli esordi in ambito concettuale con l’uso del carboncino e del collage, è approdato alla figurazione, promuovendo a base pittorica le installazioni da lui realizzate in materiali diversi, tra i quali la terra, il legno bruciato, i tubi al neon ed il ferro, ma recuperando i mezzi espressivi più tradizionali del fare arte: pennelli e colori, abbracciando nel contempo un uso quasi Caravaggesco della luce, che gli ha consentito effetti di profondità spaziale. Fin dai suoi primi lavori, Cucchi ha utilizzato la ceramica, inserendola nei suoi lavori pittorici, trovando, per questa materia, sempre più spazio riportando i temi prediletti in una dimensione scultorea. Nella produzione di Francesco Clemente (Napoli, 1952) trovano posto, accanto ad un eclettico interesse per numerose tecniche espressive, dalla pittura ad olio al mosaico, dall’incisione alla scultura, numerose opere su carta, dove si fondono simboli astratti, figure umane, accenni di graffiti e suggestioni decorative. Grande viaggiatore, Francesco Clemente ha creato un personale vocabolario visivo affollato di icone che provengono dalla tradizione orientale, dall’occidente classico e dalla cultura popolare del cinema e della televisione. Negli anni ‘80 ha dipinto insieme ad Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat e spesso il suo mondo artistico è da lui visualizzato come campo di battaglia tra due principi opposti, mantenendo sempre il suo timone artistico puntato sul disegno puro. I Neuen Wilden, o Nuovi Selvaggi, un gruppo di artisti Neoespressionisti tedeschi, attivi negli anni Ottanta a Berlino e in Germania, rappresentano l’equivalente della Transavanguardia italiana. Seguaci di una pittura “urlata” e gestuale, dai toni violenti e dissonanti, sono Helmut Middendorf, Rainer Fetting e Salomé, allievi di Karl Horst Hödicke all’Accademia di Belle Arti di Berlino, che espongono in una galleria autogestita nel quartiere di Kreuzberg.
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NICOLA DE MARIA, REGNO DEI FIORI (Limpidi fiori del mattino), 2004 Tecnica mista su tela, 80 x 70 cm
NICOLA DE MARIA Foglianise, 1954
Nato a Foglianise (Benevento) il 6 dicembre 1954, Nicola De Maria vive fin da ragazzo a Torino, dove abita ancora oggi. Si iscrive alla Facoltà di Medicina proseguendo gli studi di specializzazione in Neurologia, professione che non eserciterà mai, preferendo dedicarsi all’arte. Dopo essere passato da una breve esperienza fotografica, dal 1975 inizia una prolifica produzione di disegni su pagine di quaderno, prima in matita e poi a pastello, olio e acquerello. Questi primi successi lo spingono a dipingere direttamente sulle pareti e a realizzare le prime piccole tele ad olio. Proprio nella pittura De Maria trova il linguaggio più appropriato per esprimersi, mescolandosi così alla vivacità artistica di quella città, Torino, che vedeva l’Arte Concettuale come protagonista ed elemento trascinante. Grazie all’influenza di questa corrente artistica, unita ad una vasta cultura classica e moderna, Nicola De Maria inizia a svelare quel suo caratteristico linguaggio altamente spirituale e lirico. Ogni sua opera dipinta è colore puro, è pensiero dell’anima, è poetica. Nel 1977 realizza il primo dipinto murale a Milano, al quale ne segue un altro per la Biennale di Parigi dello stesso anno. De Maria continua a trascendere dai confini della tela pervadendo lo spazio espositivo utilizzando le tecniche del colore proprie degli antichi maestri che affrescavano le chiese in Italia. Negli anni ‘80, l’artista dipinge vari spazi espositivi e gli vengono dedicate alcune retrospettive sui suoi lavori ad olio. Per tutti questi anni, il lavoro di De Maria ha sempre un ruolo fondamentale in tutte le numerose mostre collettive organizzate da Achille Bonito Oliva sulla Transavanguardia. Il pittore, che viene inizialmente incluso in questo contesto, ben presto si separa sviluppando un corpo di lavori non figurativi e in piccola scala. La sua opera è astratta ma carica di segnali figurativi non solo poetici (Regno dei Fiori 1983/85), ma soprattutto spirituali (La Testa Allegra Di Un Angelo Bello 1986/87). Infatti l’artista sembra trasformare la poesia e la lirica in pittura, ogni sua opera è confine magico, paesaggio fiabesco nel quale è necessario concentrare lo sguardo per capire il suo stato d’animo. Emblematica a questo proposito la frase di Nicola De Maria che in un’intervista si definisce: “Uno che scrive poesie con le mani piene di colori”. È proprio la spiritualità che lo porta nel corso degli anni ‘90 a concentrare il suo lavoro sull’astrazione pura trasformando le opere in una sorta di preghiera che può essere raffigurata solo con un gesto pittorico intenso. Nel corso di questo periodo non vengono mai trascurati gli elementi fondamentali che hanno sempre caratterizzato il suo lavoro come, ad esempio, il brillante cromatismo. L’uso del colore di De Maria rispecchia l’attaccamento alla sua terra, alla “mediterraneità” che continuamente rappresenta con paesaggi popolati da personaggi coraggiosi, sapienti, splendenti di potere naturale. Ma questi soggetti vengono solo citati ed è proprio non raffigurandoli che obbliga l’osservatore ad immergersi in quel mondo fantastico, spirituale e poetico come il suo creatore.
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“Impara le regole come un professionista, affinché tu possa infrangerle come un artista.” Pablo Picasso
ANTONIO NUNZIANTE, ONIRICO VENEZIANO, 2008 Olio su tela, 150 x 150 cm Pubbllicazioni: “Nunziante Oneiros”, Ed. Mat. 2009 - ”Antonio Nunziante Ricordi”, Edizione Orler 2013 Esposizioni: “Oneiros. Schola dell’A rte dei Tiraoro e Battioro Campo San Stae”, Gallerie Orler - Venezia, 2009 “Nunziante, Opere 2002-2010”, Galleria Civica E. Mariani - Seregno, 2010 Art Manege - Mosca, 2011 “Ricordi”, Gallerie Orler - Venezia, 2013
TRA SURREALISMO E METAFISICA ANTONIO NUNZIANTE Napoli, 1956 Antonio Nunziante nasce a Napoli nel 1956. Prodigo dell’arte sperimenta la pittura ad olio a soli otto anni. Trascorre l’adolescenza a Torino dove la famiglia si trasferisce nel 1961. Frequentando il negozio del padre fin da piccolo, entra in contatto con i principali artisti Torinesi e Piemontesi, uno dei quali gli dona la prima scatola di colori ad Olio. Dopo le scuole dell’obbligo seguono la maturità artistica e l’Accademia delle Belle Arti dove segue in particolare le lezioni di figura all’Accademia libera del nudo e un corso di specializzazione sulle tecniche di restauro a Firenze. E’ in tale occasione che ha modo di impadronirsi dei segreti degli antichi pittori direttamente dai maestri fiorentini eredi della tradizione rinascimentale italiana. Nel ’75 inizia la sua carriera da pittore professionista. Inizialmente la sua pittura si divide tra momenti puramente figurativi espressi in nature morte, paesaggi e nudi di donna ad altri più surreali, ispirati ai mondi fantasy di Boris e le visioni di Dalì. In alcune opere compare la componente romantico-metafisica come in Bocklin e in de Chirico. Nel ’83 ha modo di farsi conoscere dal pubblico americano esponendo all’Artexpo di New York e Los Angeles. La naturale predisposizione verso la pittura gli fa conseguire presto un buon successo di mercato mentre deve lavorare molto per ottenere riconoscimenti da parte della critica. Gli anni ottanta sono anche gli anni della sperimentazione e questo lo testimoniano alcune opere di carattere puramente concettuale firmate con lo pseudonimo di Rascal Babaloo. Tre biennali di Bergamo tra l’86 e il 90 e sempre nel 90 è Tokyo ad ospitarlo con una personale dopodiché New York nel ’91 e Firenze nel ’92. Gli anni novanta sono segnati dall’incontro con il mercante Aldo Labrecciosa che diventerà uno dei suoi sostenitori più fedeli e che lo rende sensibile a nuove tecniche culturali. Probabilmente in seguito a questo connubio nasce in Antonio Nunziante la voglia di sperimentarsi in nuovi campi, dirigendo il suo interesse verso le sculture e i bassorilievi archeologici, affermando un’innovativa perfezione classico formale. Il ritorno ad una tradizione mai abbandonata e la grande sensibilità che lo accostano agli avvenimenti quotidiani lo conducono a rivisitare e ad attualizzare le opere quali il Cristo di Rembrandt. Il capolavoro venne notato durante una visita alla Galleria Sabauda e l’immediata realizzazione avvenne dopo avere assistito ad una scena di violenza che comportava la divisione di una mamma dal suo bambino. Nel suo studio sulle colline piemontesi continua la ricerca artistica con l’intento di rendere fruibile il suo dipingere al grande pubblico. Come lui stesso dice “Sarei disposto a spiegare la dinamica che mi conduce a eseguire un quadro”. Dal 1997 inizia la collaborazione in esclusiva con le Gallerie Orler di Mestre, Madonna di Campiglio, Abano Terme e San Martino di Castrozza, con la quale organizza una nuova mostra nel 1999 nell’elegante cornice della chiesa di San Vidal a Venezia. Nel 2000 l’artista passa a lavorare in esclusiva per la galleria Telemarket e insieme organizzano nel 2001 una mostra personale a Roma. Nello stesso anno due opere dell’artista vengono riprodotte a piena pagina nel catalogo della mostra “Hommage à l’Ile des morts d’Arnold Boclin” al Museo Bousset- Meaux di Parigi. All’inizio del 2002 Telemarket dedica uno speciale televisivo all’artista condotto da Dario Olivi. Nell’aprile dello stesso anno durante uno Speciale su Telemarket presenta 20 oli su tela tra cui un’opera diversa dalle solite nata dopo le sensazioni dovute all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 intitolata “Apocalisse”. L’8 giugno 2003 Telemarket propone un altro speciale sul pittore presentando 11 opere su tela e per la prima volta la cartella di serigrafie eseguite nel 2002-2003. Il 2003 è anche l’anno delle quattro mostre in America : Artexpo di New York, di Philadelphia, una personale a New York e a Greenville North Carolina che lo consacrano all’attenzione del collezionismo internazionale. Il 1° Marzo 2004 è la data dell’ultimo speciale fatto da Telemarket con il maestro ospite in studio, con conduzione di Alessandro Orlando. Durante l’estate del 2004 torna definitivamente in esclusiva alla Galleria Orler. Il 9 aprile del 2005 la Galleria Orler presenta uno speciale televisivo con 47 opere. Durante la trasmissione viene presentato un filmato che documenta il lavoro del Maestro durante la realizzazione di un’olio su tela. Nel 2006 la Galleria Orler organizza una grande Mostra al Museo degli Strumenti Musicali di Roma, curata da Vittorio Sgarbi. Nell’ottobre dello stesso anno è protagonista di una Mostra Antologica alla fiera nazionale del Tartufo di Alba. Nel giugno 2007 nasce una collaborazione tra il Maestro Nunziante “Area Costruzione” e “La Cooperativa San Pacrazio” che sfocia nel progetto di realizzare 3 Porcellane da incastonare in 3 diversi complessi abitativi piemontesi. A marzo del 2008 esce il Quinto Catalogo Generale, presentato durante la Mostra “Il Novecento italiano da De Chirico ai giorni nostri”. Accanto all’attività creativa e artistica, Antonio Nunziante si è dedicato in questi anni anche al sociale, dedicando tempo, energia, passione e risorse ai giovani impegnati in diverse attività sportive, dalla pallacanestro al calcio, dall’equitazione al tennis e sostenendo numerose iniziative benemerite nel campo della cultura dello sport e della solidarietà.
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Progetto grafico
Arch. Alessio Gilardi, Quadrifolium Group Srl - Lecco Edizione e stampa
Settembre 2019, G&G Srl - Padova In copertina
Pablo Atchugarry, Corona di Luce, 2015 Ex Chiesa della SS. Trinità di Cuorgnè, altare