I 100 anni del Bologna

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il Resto del Carlino GIOVEDÌ 1 OTTOBRE 2009

BOLOGNA, IL BOLOGNA E IL CARLINO

PIERLUIGI VISCI A UN SECOLO andiamo a braccetto con il glorioso Bologna F.C. e noi del Carlino non ci siamo ancora stancati. Come in un matrimonio: lo abbiamo seguito nella gioia e nel dolore, in salute in malattia. Strana creatura, però, una squadra di calcio: noi che di lei siamo più vecchi di venticinque anni (stiamo preparando la festa per il nostro 125˚ compleanno) l’abbiamo vista crescere, ma anche calare per poi tornare grande. E’ stato e continuerà ad essere un connubio entusiasmante. Nel corso degli anni il nostro giornale ha cambiato il modo di raccontare le gesta del Bologna. Per qualche decennio non ci sono state le immagini della tv e ogni partita era la tappa di un’Odissea sportiva

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che portava in giro per l’Italia cronisti senza telefono e senza fax, pionieri che mai una volta hanno lasciato i lettori senza un resoconto dettagliato. Iniziammo subito, il 4 ottobre del 1909: le venti righe con cui il Carlino annunciava la fondazione del Bologna F.C. sono diventate, con il passare degli anni, l’equivalente di un certificato di nascita. Lo firmammo noi ed è anche per questo che ci sentiamo parte della famiglia. Come minimo, testimoni al battesimo. La squadra della città e il giornale della città. C’è un legame stretto, che non è mai diventato simbiosi. Abbiamo esaltato i tanti successi del Bologna, gli abbiamo mandato al seguito firme di assoluta eccellenza nel panaroma del giornalismo italiano: ieri Severo Boschi, Italo Cucci e Giulio Cesare Turrini; oggi Giuseppe Tassi e Stefano Biondi. Abbiamo dedicato a giocatori, allenatori e presidenti un numero di titoli, di


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UN LEGAME INDISSOLUBILE

pagine e di fotografie incalcolabile, tanto alto da far invidia anche a qualche cosiddetto grande della Terra, ma siamo anche stati spesso su sponde differenti, facendo attenzione a non edulcorare i principi della professione con le polverine della passione. Quelli della critica sono stati e continueranno a essere i momenti più difficili: è come per un padre sentirsi costretto a sgridare i figli. A IL CARLINO mai ha fatto mancare il suo sostegno al Bologna. Fu celebre la strenua battaglia che ingaggiò con le grandi testate milanesi ai tempi dell’infamante accusa di doping, nel 1964. Ne abbiamo condotta una simile, di recente, quando il sospetto che, nel 2005, il Bologna fosse retrocesso non solo a causa dei suoi demeriti, ma anche per le conseguenza di qualche oscura manovra, lasciò strada alla certezza. Allora, a Bologna, non eravamo più soli, ma fummo l’unico giornale che non abbandonò per un solo giorno il club che chiedeva giustizia. Non è un caso che proprio il Carlino abbia ospitato gli scritti dei due più grandi campioni

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della storia del Bologna: Angelo Schiavio e Giacomo Bulgarelli, le «bandiere», l’uno eroe dei primi cinquant’anni, l’altro indiscusso simbolo della seconda metà del secolo rossoblù. E’ al Carlino che Schiavio, il più taciturno fra i campioni, si rivolse nel 1983 per invitare chi aveva portato il Bologna in serie C a sparire dalla scena calcistica. E’ sempre sul Carlino che Giacomo Bulgarelli, negli Anni Ottanta, divenne editorialista dispensando critiche e consigli in egual misura ai suoi eredi, a volte degni, a volte inadeguati a reggere il peso di una storia così ricca. Oggi iniziamo a ripercorrerla, quella storia che ha cementato un bel rapporto di lavoro e di solidarietà fra due istituzioni della nostra città. La squadra del Carlino è come una squadra di calcio: strada facendo cambia facce e sistemi di lavoro. Il nostro e vostro giornale non è mai uguale a quello del giorno prima, proprio come una partita o come un allenamento. Il giornale e la squadra hanno scritto insieme la storia di Bologna. Vi posso fare una promessa: continueremo a farlo. Con impegno, con passione e con rigore.

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LA PRIMA FORMAZIONE La squadra del Bologna 1909-1910 Da sinistra in piedi Della Valle, Orlandi, Gradi, Bernabeu (fratello di Santiago, al quale è intitolato lo stadio del Real Madrid), Donati, Bignardi e Passarelli. Accosciati da sinistra Saguatti, Rivas, Chiara, Venzo e Nanni.

STORIA DI GIULIO C. TURRINI Il gioco del calcio arriva a Bologna con un certo ritardo, rispetto ad altre città. Il Club più vecchio, fra quelli che ancora vivono, è il Genoa che ha come data di nascita il 1893 e che inalbera tuttora la scritta esotica che fu varata allora: “Genoa Cricket and Football Club 1893”. Cinque anni dopo (1898) nasce la Federazione Italiana, a Torino. A Genova, a Torino, a Milano sono gli stranieri, e soprattutto gli inglesi, a seminare: il football ha avuto i natali oltre Manica. A Bologna, invece, si comincia a parlare di calcio solamente nel primo decennio del nuovo secolo, mentre Ganna e Gaietti si sfidano sulla pista del vecchio ippodromo Zappoli, fuori porta San Felice, e mentre i coraggiosi pionieri dell’aviazione fanno i loro primi tentativi, spesso rimandando a casa delusi gli spettatori accorsi al richiamo.

I PRIMI CALCI AL FOOTBALL LA STORIA SBOCCIA SUI PRATI DI CAPRARA Arrigo Gradi e Bruno Nanni, tornati dal Corso delle Scuole di Commercio in Svizzera, sono i primi punti di riferimento. Hanno conosciuto il nuovo gioco lassù e cominciano a praticarlo senza pretese ai Prati di Caprara, assieme a Luis Rauch, un odontoiatra svizzero che si è stabilito a Bologna, a Vincenzi, Puntoni, Cavazza, Martelli, Della Valle. Dopo una sfida vinta con i ferraresi, il 4 novembre del 1906, l’idea di formare un Club si precisa quando arriva un altro straniero: un uomo alto, austero, che fino a pochi anni orsono — ormai quasi novantenne — ancora raccontava di quei giorni lontani, a chi lo andava a trovare nel suo appartamento di via Indipendenza. E’ Emilio Arnstein, nato il 4 giugno 1886 a Wotice, a sessanta chilometri da Praga, cittadino austriaco per vent’anni, poi cecoslovacco. Nel 1908 si è trasferito a Trieste come corrispondente di lingue estere e li fonda, col fratello Ugo, la squadra dei Black Stars; nel 1909, poi, arriva a Bologna, chiamato da una ditta di sementi. Chiede se in città si giochi a calcio e un tranviere gli indica «chi mat, chi corren dri ‘na bala», là fuori ai Prati di Caprara. Dall’incontro di Arnstein con Gradi e

Nanni germoglia l’idea. Cercano l’aiuto del cavalier Carlo Sandoni della Navigazione Generale Italia, presidente del Circolo Turistico Bolognese.

OTTOBRE 1909, LA FONDAZIONE DALL’AUSTRIA L’UOMO DEL DESTINO E’ dunque con l’appoggio di questo Club che nasce il Bologna, come riporta uno storico trafiletto del “Resto del Carlino”, in data 4 ottobre 1909, che tutte le successive rievocazioni di questi anni si sono fatte scrupolo di riportare: «Ieri mattina al Circolo Turistico Bolognese venne costituita la Sezione per le esercitazioni di sport in campo aperto, e precisamente il Football Club. Era desiderata da molti giovani questa iniziativa per il football, per la palla vibrata, pel tennis, e mentre già alcune esercitazioni si svolgevano da qualche settimana, ora si è fissato un ordinamento preciso, costituendo la Sezione presso il Circolo Turistico che già ha acquisito la maggiore importanza sportiva». Per qualche mese, il cavalier Sandoni fece da presidente e la sede risultò fissata in via delle Spaderie, un’antica strada scomparsa pochi anni dopo nella ristrutturazione del centro cittadino, chiusa dal celebre ‘‘fittone” che divenne lo scanzonato emblema della goliardia, e che fu poi trasportato sotto il portico dell’Università. Ma presto il Bologna riuscì ad ergersi in ente a sé stante, sotto la presidenza del professor Borghesani. Fra i primi giocatori, troviamo anche due convittori del Collegio di Spagna, Antonio Bernabeu e Natalio Rivas, centravanti ed ala sinistra. Il fratello minore di Bernabeu, Santiago, avrebbe legato il suo nome all’epopea del Real Madrid. E dopo un facile doppio incontro con la Sempre Avanti (10-0 e 9-1) per il titolo emiliano ed alcuni confronti amichevoli, il primo vero episodio della giovane vita del Club fu la partita che i milanesi dell’Internazionale, freschi campioni d’Italia, vennero a giocare ai Prati di Caprara il 16 maggio 1910, vincendola per 1-0 con un gol finale dello svizzero Peterly, un tiro da venti metri che — scrisse un cronista dell’epoca — «il goal-keeper felsineo avrebbe potuto benissimo riparare, se fosse corso alla difesa con maggior decisione». Gli anni che precedono la prima

guerra mondiale vedono il giovane Bologna partecipare al girone Veneto-Emilia del campionato nazionale, in cui sono il Vicenza e il Verona a fare la parte del leone. La squadra rossoblù, comunque, si batte con molto coraggio.

LA SCELTA DEI COLORI COME GLI SVIZZERI DEL SHONEBERG Al riguardo, deve essere ricordato come la scelta dei colori sociali fosse stata stabilita da Arrigo Gradi, il rosso e il blu della sua squadra degli anni in Svizzera, lo Shoneberg di Rossbach. In questo Bologna giovane, le prime figure che si stagliano sulle altre sono quelle di Guido Della Valle e dei due fratelli Badini: Angiolino ed Emilio. Della Valle sarebbe morto in guerra, ed avrebbe avuto poi due fratelli a continuare le gesta sul campo di calcio, Mario e soprattutto Geppe, uno dei personaggi più importanti nell’intera storia del Bologna. I Badini erano figli di un emigrato in Argentina, che aveva fatto fortuna ed era rientrato in patria. Angiolino era il capitano che rianimava la squadra con il suo esempio e il suo incitamento. In certo modo fu il primo allenatore, per quanto allora non esistesse a Bologna la figura dei “trainer” stipendiato; Emilio era un centravanti provvisto di tiro bruciante e sarebbe stato - alle Olimpiadi di Anversa nel 1920 - il primo giocatore rossoblù a figurare (onorevolmente) con il gol della vittoria sui norvegesi in squadra nazionale. In quegli anni, il Bologna ebbe due campi successivi. Dapprima il campo della Cesoja, appena fuori Porta San Vitale: un terreno fangoso, nascosto alla vista dei passanti dai teloni, stretto fra la ferrovia della “Veneta” ed una canaletta in cui spesso finiva il pallone; poi - dal 1913 - il pretenzioso “Sterlino”, a Villa Hercolani, con due tribune in cemento e con la singolare caratteristica del terreno di gioco declinante verso nord, così da preparare terribili fatiche a chi dovesse fare il secondo tempo in salita.

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GLI UOMINI DELLA SVOLTA L’austriaco Ermanno Felsner, qui con la squadra del 1924 (archivio Martinelli), è stato uno dei migliori allenatori della storia del Bologna. Arrivò da Vienna e rivoluzionò la squadra. Tra i suoi fedelissimi Angiolino Schiavio, terzo a destra nella foto sotto. Con lui, da sinistra, Reguzzoni e Gianni

LA GLORIA E IL DOLORE UNA SQUADRA DECIMATA DALLA GUERRA Il campo dello Sterlino (che sarebbe stato intitolato ad Angiolino Badini, morto per improvvisa malattia infettiva agli inizi del 1921) fu inaugurato nel novembre del 1913 con un’orazione di Giuseppe Lipparini, che citava fra l’altro queste parole di Teodoro Roosevelt: «nella vita, come nel gioco del football, la massima da seguire è questa: picchiare sodo, non giocare mai falso, e non schivarsi; ma picchiare sodo». Del resto, sul vessillo sociale figurava la massima ‘‘Animose, non violenter”. Per ingentilire un gioco a tratti rude, il presidente Rodolfo Minelli (che era succeduto a Rauch Borghesani, Arnstein, Ortiz e Gori, e che tenne la carica per sette anni) era solito distribuire alle gentili signore intervenute mazzi di violette. Ed ecco gli Anni Venti, che porteranno il Bologna a livello delle squadre più grandi ed alle due prime vittorie nel campionato italiano. In guerra, sono scomparsi quattordici giocatori, fra i quali Guido Alberti, Agostino Bianchi, Aldo Brivio, Guido Della Valle, Antonio Fontana, Guido Pifferi, Lino Sala. In quegli anni, tuttavia, Angiolino Badini ha preparato una squadretta di “boys”, che rappresenterà un serbatoio per il futuro.

IL PRIMO ALLENATORE ’PRO’ ARRIVA FELSNER, IL MAGO DI VIENNA Da alcune squadre minori dell’epoca (la Fortitudo, l’Audace) vengono altri ragazzi. Geppe Della Valle ed Emilio Badini sono due attaccanti di valore nazionale. In mediana, inizia una carriera che l’avrebbe presto portato ad essere il primo bolognese “verace” a giocare in maglia azzurra, quel Pietro Genovesi. Nel campionato 1919-20, il Bologna è già fra i “grandi” e cede solo per una disattenzione del portiere Modelli all’Internazionale, che sarà campione. Nell’estate il Consiglio, che ora è presieduto dal ragionier Cesare Medica, decide di assumere un allenatore professionista, e allo scopo pubblica un’inserzione sui giornali viennesi: l’Austria è considerata la sede del miglior calcio continentale dell’epoca. Fra le risposte, viene scelta quella di Ermanno Felsner, laureato, protagonista di una brevissima

carriera attiva, interrotta da un infortunio. Felsner resterà il ‘‘mago” del Bologna per più di dieci anni, fino al gennaio 1931. Il mago viennese perfeziona la tecnica di base ed il movimento collettivo della squadra. Deve superare, subito, la perdita dei due Badini: Angiolino che muore, Emilio che è vittima di un grave incidente a Padova, e non giocherà più. Felsner ha due trovate geniali. Prende un terzino (un “Back”, come si diceva) lungo lungo, lo imposta come centromediano: sarà Gastone Baldi, un giocatore elegantissimo, solamente facile all’emozione quando sarà chiamato in Nazionale, ma in tutti i casi, detentore del ruolo per oltre dodici anni. Prende un centromediano delle riserve, un ragazzo tarchiato e robusto, Cesare Alberti che è fratello di Guido scomparso in guerra, e trasforma questo Alberti in centravanti. La riuscita di Alberti, soprannominato il “mister”, sarà folgorante. Un giorno lo chiamano per la Nazionale Operaia, che deve incontrare la Francia a Milano: 7 a 1, sei gol di Alberti. Siamo alle porte del fascismo; poi c’è il 28 ottobre del 1922, pochi giorni dopo il Bologna vince in casa del Milan per 8-0, tre gol di Alberti e cinque di Geppo Della Valle. Ancora una settimana: contro la Cremonese, in un infortunio di gioco sul fango dello Sterlino, scricchiola un ginocchio di Alberti, e finisce la carriera del “mister” nel Bologna (non ha che diciotto anni). Più avanti, dopo due anni di sofferenze, Alberti sarà operato al menisco — primo asso in Italia — a Genova, giocherà di nuovo per il Genoa, ma concluderà la sua breve, sfortunata esistenza all’inizio del 1926, morendo ventunenne per aver mangiato ostriche guaste.

SFIORATO LO SCUDETTO LA BEFFA CONTRO LA PRO VERCELLI Intanto, nel 1920-21, il Bologna di Felsner sfiora per la prima volta il titolo. Venendo battuto per 2-1 a Livorno, in campo neutro, dalla Pro Vercelli che in questi anni domina il calcio nazionale, nel tempo “ad oltranza”, dopo che si sono chiusi sull’1 a 1 i tempi regolamentari ed i supplementari. Il vercellese Rampini esce dal campo, rientra all’improvviso, scappa verso il gol, la gente invade il

terreno festeggiando la Pro Vercelli, e l’arbitro Vagge (che forse vorrebbe annullare il gol) prende atto della cosa; basta così. Due terzi posti nel girone di Lega Nord, per le stagioni successive, addirittura il successo nel Girone B, per l’anno 1923-24 e la finalissima col Genoa. Là, vincono loro per 1-0; allo Sterlino ci sono incidenti, l’arbitro sospende, vittoria “a tavolino” per i liguri, solamente un secondo posto. Ma l’infortunio di Alberti ha indirettamente favorito l’affermazione del giocatore più importante di tutta la storia del Bologna, Angiolino Schiavio. Senza Alberti, Felsner prova due giovani riserve: Gasperi diventerà — poi — il terzino sinistro di lunghissima gittata, il popolarissimo “Gisto”, o “Tubo di gelatina”. Un fazzolettone bianco sulla fronte, un temperamento eccezionale, colpitore di palla come pochi, figurerà ripetutamente anche in Nazionale. Per il posto di centravanti, tuttavia, Felsner tenta con Schiavio: ed è un trionfo.

LA BANDIERA ROSSOBLÙ SCHIAVIO, UN BOLOGNESE AL COMANDO Angiolino Schiavio, famiglia di origine comasca, ma bolognese puro sangue, sarà fino al 1937 l’insostituibile condottiero della squadra: tecnica validissima, coraggio, un serrato palleggio che gli avversari non sanno ostacolare, i gomiti larghi a protezione mentre avanza caracollando, tiri improvvisi da tutte le posizioni. Un campione dei più grandi, anche (e specialmente) in maglia azzurra. Al nome di Schiavio sarà legato anche il gol della prima vittoria mondiale nel 1934, nella finalissima con la Cecoslovacchia. Schiavio e Della Valle sono i due mattatori di questo Bologna che è ormai «lo squadrone che tremare il mondo fa», come canta la strofa ingenua ed entusiasta dei tifosi dello Sterlino. Per Bruno Roghi, i bolognesi sono “i veltri”, un nomignolo che li accompagnerà fino alla seconda Guerra mondiale.

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PADRONI D’EUROPA In quegli anni il Bologna vince anche in campo europeo: qui a sinistra un gol di Schiavio nel 6-1 al Rapid Vienna nel 1934. Da sinistra si riconoscono Schiavio, Fiorini, il portiere del Rapid e Reguzzoni Nella foto sotto a sinistra, il gerarca Leandro Arpinati

1925, IL PRIMO SCUDETTO CINQUE FINALI PER UN TRICOLORE Nel 1924-25 il Bologna è finalmente campione d’Italia. Vince il Girone B della Lega Nord, ed incontra nuovamente il Genoa che ha superato a fatica il Modena, nell’altro girone. E’ la famosa, terribile sequenza delle cinque finali. Nella prima, allo Sterlino, vince il Genoa con i gol di Alberti (il rossoblù di pochi anni prima, che fra l’altro salva anche un sicuro pareggio, sulla linea di porta) e di Catto; poi segna Schiavio, ma è 1-2. Sembra tutto perduto; ma il Bologna restituisce il colpo la settimana dopo, vincendo (anch’esso per 2-1) a Genova, con una lunga discesa di Genovesi ed un colpo di testa di Della Valle, sul finire. Il 7 giugno, “bella” a Milano: l’organizzazione è scadente, il pubblico è ai bordi del campo. Il Genoa pare avviarsi al trionfo, va sul 2-0, ma poi c’è il famoso episodio del gol di Muzzioli che i genoani contestano e che l’arbitro Mauro concede dopo una consultazione coi guardalinee, nonostante le vibrate proteste dei liguri, i quali sostengono che la palla è entrata per un buco della rete. Il Bologna pareggia, il Genoa non si presenta per i supplementari, la partita è annullata. Si rigioca ad un mese di distanza, a Torino. Stavolta la partita va liscia, ma è ancora pareggio: 1-1. Alla stazione, con i due treni speciali affiancati, c’è l’episodio di un colpo di rivoltella che parte dal treno diretto a Bologna e ferisce un tifoso del Genoa. Passa un altro mese, ed è solo il 9 agosto che la quinta partita viene allestita in gran segreto a Milano, e giocata alle sette del mattino sul campo della Forza e Coraggio. Vince il Bologna per 2-0, ed è campione della Lega Nord. Dopo il doppio, formale incontro con l’Alba di Roma, è anche campione d’Italia. In porta è arrivato il pisano Gianni, detto “il gatto magico”, Borgato si è affiancato a Gasperi sulla linea dei terzini, Pozzi e Muzzioli sono le ali, ci sono sempre Della Valle, Schiavio e Perin; e Genovesi, Baldi e Giordani in mediana. La squadra di Felsner si batte sempre a livello di eccellenza. Nel campionato successivo è di nuovo finalista, fa due pareggi con la Juve, ne è sconfitta nella “bella’’ a Milano quando pare la più probabile candidata al successo. Nel 1926-27 (si gioca ormai su formula a livello nazionale) il Bologna è secondo assoluto e il Torino, che sarebbe campione, è squalificato per tentativo di corruzione.

Presidente federale di quegli anni è il gerarca fascista Leandro Arpinati, bolognese, e la sede della Figc è a Bologna; ma proprio per non suggerire l’ipotesi di un provvedimento compiacente nei riguardi del ‘‘suo” Bologna, Arpinati stabilisce che (squalificato il Torino) lo scudetto 1927 non sia assegnato al Bologna, secondo. E’ di quell’epoca la diceria di un Bologna favorito a livello politico; ma in verità Arpinati, fondamentalmente un galantuomo, deciderà anche in seguito contro gli interessi dei rossoblù, come nei casi di Stabile e di Janni. Intanto, Leandro Arpinati (che nel 1933 cadrà in disgrazia, dopo un diverbio con Achille Starace) promuove la costruzione del gigantesco Stadio cui viene dato il nome di Littoriale, e che viene inaugurato nel maggio del 1927 con la vittoria degli azzurri sulla Spagna di Zamora. Così, c’è un nuovo trasloco del Bologna, che lascia il glorioso e vetusto Sterlino, per lo Stadio nel quale si esibisce ancora oggi. Eraldo Monzeglio, un casalese allievo di Caligaris, il livornese Alfredo Pitto, i fratelli padovani Busini sono fra i nuovi protagonisti del Bologna. Fra le “grandi famiglie” va ricordata anche quella dei Pilati, che dà alla squadra soprattutto due campioni: Piero, un finissimo mediano sottratto presto al calcio da un incidente di gioco, ed Angiolino (campione pure di tennis), che a vent’anni muore in una sciagura automobilistica dopo avere legittimato buonissime speranze.

FINALMENTE IL BIS 1928, DECIDE ‘TERESINA’ MUZZIOLI Primo nel suo girone, nel 1927-28, il Bologna è solamente quinto nel girone finale; ma dodici mesi dopo, eccolo campione d’Italia per la seconda volta. Come presidenti, si sono succeduti l’ingegner Paolo Graziani e il geometra Gianni Bonaveri, ma come allenatore c’è sempre lui, l’eterno Felsner. Fra le figure non proprio di contorno sono, dal 1913, il grande segretario Alessandro Oppi, un vero factotum, e il massaggiatore Amedeo Bortolotti, facondo, attivissimo, amico dei giocatori. Bologna e Torino vincono i rispettivi gironi nazionali, in questa stagione che sarà l’anticamera della ideale formula “a girone unico”, che scatterà nel 1929-30. La prima finale a Bologna è vinta dai rossoblù per 3 a 1. A Torino, il successo è dei granata (che sono i campioni in carica) per 1-0: è il Torino del celebre trio Baloncieri, Libonatti, Rossetti.

Terza finale a Roma, il 7 luglio. Una partita aspra, a lungo senza gol, con l’arbitro Carraro che nella ripresa espelle prima Pitto, poi Janni e Martelli. Il Bologna gioca in nove, contro i dieci del Torino. Ad otto minuti dalla fine Schiavio riceve la palla dal portiere Gianni, scende sulla destra per ottanta metri infilando quattro avversari, quando è al limite dell’area intravede Muzzioli che arriva di volata. Muzzioli, detto “Teresina” per certe rotondità di forme, velocità da centometrista, cuore indomito e un gran tiro riceve il pallone da Schiavio e spara al volo, trafiggendo il portiere Bosia.

SOTTO GLI OCCHI DEL DUCE MUSSOLINI APPLAUDE L’IMPRESA E’ lo scudetto, in tribuna c’è anche Mussolini. Bologna e Torino si ritroveranno pochi giorni dopo sul “Conte Rosso”, diretti in Sud America, per una lunga tournée. E’ chiaro che il viaggio del 1929 in Sud America (Brasile, Uruguay, Argentina, di nuovo Brasile) ebbe anche i contorni di una vacanza premio, a parte il fatto che laggiù giocavano bene e picchiavano sodo all’occorrenza, per non parlare di certi arbitri. Di quindici partite, il Bologna ne vinse solo tre e ne pareggiò altrettante, perdendo le altre; ma tra i successi ci fu quello, assolutamente prestigioso, del 10 agosto, sulla Nazionale uruguaiana, campione olimpica. Fra l’altro Geppe Della Valle — che esercitava la professione di ingegnere — era dovuto restare in Italia, e Schiavio si infortunò presto; al gruppo erano stati aggregati giocatori prestati da altre squadre come il livornese Magnozzi, i milanisti Schienoni, Tansini e Compiani, il modenese Dugoni, il barese Costantino, e l’alessandrino Giovanni Ferrari che sarebbe divenuto due volte campione del mondo e otto volte (record) campione italiano: 5 volte con la Juve, due con l’Inter, una col Bologna del 1940-41. Se quella interminabile “tournée” restituì la squadra al campionato meno di due settimane prima dell’inizio — con totale abolizione delle vacanze — e quindi condizionò la mediocre stagione 1929-30, conclusa al sesto posto, essa fu tuttavia all’origine delle grandi fortune successive della squadra rossoblù, perché fu laggiù a Montevideo che l’accompagnatore ufficiale Enrico Sabattini conferì l’incarico di segnalare oriundi italiani da mandare a Bologna, secondo la moda già lanciata dal Torino (Libonatti) e dalla Juventus (Orsi, e poi Monti, Cesarini, eccetera).


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IN VIAGGIO PREMIO Dopo aver vinto lo scudetto del 1929 il Bologna e il Torino, suo avversario in finale, partono sul ‘Conte Rosso’ per una lunga tournée in Sudamerica, nella quale i rossoblù battono anche la nazionale uruguagia campione del mondo. Nella foto sotto a destra, il presidente Renato Dall’Ara, in carica dal 1934

ARRIVANO GLI ORIUNDI SANSONE E FEDULLO, CHE COPPIA L’incarico fu affidato al faentino Ivo Fiorentini, che viveva sulle rive del Rio de la Plata, che sarebbe poi tornato in Italia per fare l’allenatore con ottime affermazioni, fra le quali quella clamorosa del Livorno 1942-43, che perse lo scudetto per un punto, dal grande Torino. Fiorentini mandò al Bologna prima Francisco Fedullo (per la stagione 1930-31), poi Raffaele Sansone (l’anno dopo) e infine Francisco Occhiuzzi (per il 1932-33): tre grandi acquisti, soprattutto i primi due. La coppia di mezzeali Sansone Fedullo avrebbe caratterizzato il Bologna degli anni Trenta: artista del pallone, finissimo uomo di manovra il giovane Sansone, robusto lavoratore dotato anche di grinta e di tiro il taciturno Fedullo. Comincia nel 1930-31 il periodo d’oro. Il Bologna si classifica terzo, anche se a metà c’è stato un cambio traumatico. In gennaio, infatti, ha interroto il suo rapporto il dottor Felsner, che era arrivato oltre dieci anni avanti, e lo ha sostituito l’ungherese Gyula Lelovich, da qualche anno suo assistente.

IL BOMBER PER L’EUROPA ‘RIGOLETTO’ REGUZZONI, L’UOMO DELLE COPPE All’ala sinistra è giunto Carletto Reguzzoni, di Busto Arsizio, che resterà per 16 anni: segaligno, curvo di spalle fino a meritarsi il nome di “Rigoletto”, tiratore inesorabile, Reguzzoni avrebbe fatto i bei giorni dell’attacco bolognese e specialmente sarebbe stato il mattatore delle due Coppe Europa che la squadra rossoblù avrebbe vinto nel 1932 e nel 1934. La sede della Società era ormai stabilmente alla Casa del Fascio, in via Manzoni. Il Bologna F.C. aveva salvato in qualche modo la propria identità quando nel 1927 Leandro Arpinati aveva stabilito di riunire in un solo grande organismo (la Bologna Sportiva) tutte le Associazioni bolognesi, salvo le vecchie Virtus e Fortitudo. Benché il Bologna fosse passato a chiamarsi Bologna Sportiva Calcio, pur tuttavia aveva conservato i suoi colori tradizionali, respingendo la proposta di uniformarsi al bianco e rosso, colori della città. La Sede, poi, era arrivata a questo approdo politico dopo la partenza in via Spaderie, il Bar Libertas in via Ugo Bassi dei tempi eroici (con un vecchio biliardo sul quale si

giocava anche a poker, rilanci di sei centesimi in sei, e Rivas, dominatore), il Caffè della Barchetta, il Caffè Nazionale in via dei Giudei, il Caffè del Corso, ed altri momentanei ormeggi. Il campionato 1931-32, condotto da Lelovich, rappresenta una grande occasione perduta. Se la Juventus può vantare il suo magico quinquennio (dal 1931 al 1935) ciò accade perché il 1˚ maggio 1932, nel confronto diretto fra bianconeri e rossoblù al vecchio campo di via Marsiglia, giocato sotto la pioggia e sulle pozzanghere, l’arbitro Lenti “non vede” il clamoroso fallo con cui Monti elimina Schiavio; e concede più tardi un provvidenziale rigore. Lo stesso portiere Gianni, nell’occasione, si fa beffare dal centravanti Vecchina, ed il 3-2 spiana la via ai bianconeri. Il Bologna sarà secondo a 50 punti (contro 54), con 10 punti sulla Roma, terza; ma nel girone d’andata, la squadra aveva lasciato credere ad una sua vittoria fatale, con un largo margine di vantaggio e con una imbattibilità protratta fino alla ventesima giornata. Ma l’occasione della rivincita viene subito dopo, con la Coppa dell’Europa Centrale, che è la sola manifestazione europea inter-clubs: iniziata nel 1927 con le squadre italiane in campo solo dalla terza edizione, il Genoa e la Juve (1929), l’Ambrosiana ed il Genoa (1930), la Juventus e la Roma (1931) senza grande fortuna, contro le frequenti rappresentanti cecoslovacche, ungheresi, austriache. Si gioca andata e ritorno, anche in finale. Ma della finale non ci sarà bisogno. Il Bologna elimina lo Sparta di Praga (complessivo 5-3); e il Vienna (complessivo 2-1): la Juve fa fuori il Ferencvaros, ma poi litiga con lo Slavia; sono due partite durissime e piene di incidenti (4-0 per i boemi e poi 2-0 per i torinesi). Con i deliberati di Klagenfurth e Budapest, sono entrambe squalificate e la Coppa è assegnata al Bologna, per conto suo arrivato alla finale, secondo le regole. Comincia il periodo dei frequenti cambi di allenatore. Nel 1932-33 l’ungherese Nagy; poi provvisoriamente Della Valle che ha chiuso col calcio attivo, e Achille Gama, che attacca anche la stagione successiva, per cedere poi ad un triumvirato (Genovesi, Schiavio, Perin), infine all’ungherese Kovacs. Terzo e quarto, sono i due piazzamenti di queste stagioni. E’ il periodo tutto juventino; il 4 giugno 1933 la Juve vince a Bologna per 2-1, ma chi ha visto quella partita molto sfortunata

ricorda ancora (quasi cinquanta anni dopo) il favoloso gol di Schiavio che infilò tutta la difesa juventina e nazionale, per poi depositare la palla in rete.

CAMBIO AL VERTICE ENTRA DALL’ARA, RESTERA’ 30 ANNI Alla fine del campionato seguente, succede qualcosa di molto importante per le fortune di una squadra che sta mettendo in luce altri giocatori d’acciaio, come i laterali Montesano e Corsi, come l’eclettico Maini che gioca in tutti i ruoli, come (a strappi) un’interessante riserva di nome Biavati. II declino della fortuna di Arpinati, che è costretto all’esilio, porta con sé anche varianti nella struttura della squadra, a parte il fatto che il presidente Bonaveri, assicuratore, è trasferito a Venezia. Così, viene incaricato un industriale che da qualche tempo segue la squadra, un tipo brillante, deciso, simpatico. Si chiama Renato Dall’Ara, e sarà il presidente di trent’anni, senza dubbio la figura di maggiore risalto fra tutti i dirigenti che il Bologna abbia avuto in ottant’anni. Renato Dall’Ara comincia con la Coppa Europa del 1934, con la trasferta in Ungheria, a Debreczen, contro il Bocskay. Un battesimo fortunato. Non c’è Sansone, rientrato per un anno a Montevideo, da dove tornerà tuttavia in autunno per non muoversi più, se ancora oggi “Raflèin’’ presta la sua apprezzata collaborazione. Al posto di Sansone gioca, per i primi turni, Perazzolo. Il Bologna elimina il Bocskay (3-2 globale), poi il Rapid (7-5), poi il Ferencvaros (6-2), infine per la doppia finale perde a Vienna contro l’Admiral per 3-2, ma stravince (5-1) sul proprio campo. Questo 5-1, che fa seguito al 6-1 dato al Rapid ed all’altro 5-1 col Ferencvaros, suggella la straordinaria estate dell’attacco bolognese, davvero scatenato nelle competizioni europee, e soprattutto esalta le qualità di Reguzzoni, che il mago viennese Hugo Meisl (il creatore del Wunderteam) non esita a definire la più forte ala del Continente. In Nazionale, comunque, Pozzo preferisce a Reguzzoni il grande Raimondo Orsi.

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il Resto del Carlino GIOVEDÌ 1 OTTOBRE 2009 AVVISO A PAGAMENTO

BOLOGNA CALCIO SOLIDALE sentivo molto emozionato, però avevo sempre il dubbio che fosse un sogno. Allora presi la bottiglia di Coca Cola e la versai in testa. Non era un sogno!”. “ Sono una Befana con la barba, un po’ particolare – fu allora la risposta del calciatore rivolto al vincitore del premio - il tuo racconto è molto bello e sono contento che tu abbia avuto questo riconoscimento. Ormai non ci sono più dubbi, non è un sogno, la tua Befana è veramente Beppe Signori…i capelli però non me li tagli, né li metti in cassaforte”. Beppe Gol regalò al ragazzo un suo poster e gli fece un’ulteriore sorpresa: l’inserimento del racconto nel suo sito molto frequentato dai fans. Così il racconto di Michele Francia andò nel settore “Parole” in buona compagnia, assieme a riflessioni di ammiratori, dello stesso campione ed aforismi di Oscar Wilde. Insomma tutto questo per dire che Bologna calcio è nella città ed una parte di essa è anche nella “Casa dei Risvegli Luca De Nigris”.

Bologna mia città di adozione dagli anni ’70 si porta dietro la squadra conosciuta dagli amici bolognesi ed imparata ad amare nel corso del tempo. Per me di origini meridionali con Napoli nel cuore (anche se di padre juventino) ho ritrovato in questa città la passione del pubblico, lo stesso modo di gioire e di soffrire. Ed ho trovato un grande affetto da parte del mondo sportivo. Dopo la morte di Luca e la nascita del progetto della Casa dei Risvegli Luca De Nigris (oggi realtà all’ospedale Bellaria Azienda Usl di Bologna e associazione Gli amici di Luca) varie volte la solidarietà del Bologna F.C. si è fatta sentire. Ricordo un grande raduno al Dall’Ara con Oliviero Toscani che fotografava squadre bolognesi, che firmava il mattone per la Casa dei Risvegli Luca De Nigris assieme a Guidolin e Pagliuca che sventolavano la bandiera della “Giornata dei risvegli per la ricerca sul coma- vale la pena” ogni anno il 7 ottobre (oggi all’undicesima edizione testimonial sempre il grande Alessandro Bergonzoni), un generoso Jonathan Binotto, il

Fulvio De Nigris

grande Ezio Pascutti con le vecchie glorie in una partita benefica. Ma ricordo in particolare un disponibile Beppe Signori che si vestiva da Befana con il vincitore, Michele Francia allora allievo delle Scuola elementare Tambroni, un bambino oggi cresciuto, vincitore con il premio narrativa del tradizionale concorso “Sulle tracce della Befana” promosso da “Gli Amici di Luca” sotto l’egida del Provveditorato agli Studi ed il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di

Bologna. Vinse con un racconto nel quae sognava di incontrare la Befana e di scoprire che sotto le sue sembianze si nascondeva il suo idolo: Beppe Signori. Il calciatore del Bologna, appena saputo del racconto, si rese disponibile ad esaudire il sogno del ragazzo vestendo i panni della vecchia signora con tanto di scopa di saggina invitandolo a Casteldebole. Quello era il sogno di Michele: “gli feci firmare venti fogli, poi gli tagliai i capelli e li misi dentro la cassaforte. Mi


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UN ATTACCO DA FAVOLA Nell’immagine a destra una delle linee d’attacco migliori nella storia del Bologna: da sinistra Biavati, Sansone, Puricelli, Andreolo e Reguzzoni, stagione 1939-40, con lo scudetto sul petto. Nella foto sotto a destra, l’allenatore ungherese Arpad Weisz

IL PROFETA MAGIARO ALLENA WEISZ, TORNA IL TRICOLORE La Coppa Europa che si è conclusa il 9 settembre, ha tuttavia lo stesso effetto del viaggio in Sud America di cinque anni prima, e il campionato 1934-35 vede il Bologna solamente sesto. A febbraio è “sollevato” l’allenatore Kovacs, e da Novara arriva l’ungherese Arpad Weisz, una bella figura di istruttore e di uomo, da alcuni ritenuto il più grande allenatore capitato a Bologna. Nell’estate del 1935 ecco — da Montevideo — l’eccelso Michele Andreolo, un atleta taurino, un combattente che strizza ogni tanto l’occhio ai piaceri della vita, ma che non folgora solamente cuori femminili, bensì anche i portieri avversari. Nel 1935-36, Andreolo gioca al centro di un reparto consacrato dalle stagioni: Gianni, Monzeglio, Gasperi, Montesano e Corsi. Anche l’attacco è collaudatissimo: Maini, Sansone, Schiavio, Fedullo e Reguzzoni. Il Bologna arriva alla penultima giornata con un punto di vantaggio sulla Roma di Bernardini, e due partite da fare in casa; entrambe (col Palermo e con la Triestina) sono sbloccate da Andreolo con micidiali tiri di punizione. E’ il terzo titolo. Alla fine, Angiolino Schiavio — che deve gestire un’avviatissima attività commerciale, che ha 31 anni e porta addosso i segni di mille battaglie — comunica che «ha chiuso». E di colpo si presenta il problema del centravanti: Weisz cerca di risolverlo (senza molta fortuna) con lo scattista livornese Busoni. Per sua fortuna, è pronto per una brillantissima carriera di ala destra Amedeo Biavati, uno dei “grandi” fatti in casa. Ed il Bologna concede il bis, è campione anche nel 1937 sia pure con diverso atteggiamento: talvolta remissivo in casa, vince spesso fuori. In ogni modo, a due giornate dalla fine ha i cinque punti che garantiscono lo scudetto, davanti alla Lazio. E qui, ecco un’altra gemma di questo periodo d’oro: il Torneo dell’Esposizione di Parigi, una eletta manifestazione cui i francesi hanno invitato i campioni di tutt’Europa, compresi gli scontrosissimi inglesi. Il Bologna (nelle cui file è tornato per un breve

“revival” Schiavio) stupisce l’Europa calcistica: elimina prima (4-1) i campioni francesi del Sochaux, piega in semifinale i campioni cecoslovacchi dello Slavia (2-0) ed infine regala un altro 4-1, in finale, ai campioni inglesi del Chelsea. Nel Bologna di quest’anno, Weisz ha sostituito Gianni con un suo vecchio allievo, il portiere Ceresoli che l’Ambrosiana ha considerato finito, e che lui ricostruisce. Monzeglio gioca da due anni alla Roma, e come terzino si è affermato il giovanissimo Dino Fiorini, di San Giorgio di Piano (come Cesare Alberti...): uno stupendo atleta, gran colpitore, capace anche di giocare all’ala e di fare gol. Fiorini è un po’ bizzarro, lo chiamano “il Conte Spàzzola”, si concede il lusso di vittoriosi duelli con Piola. Morirà tragicamente nella guerra che scoppierà fra pochi anni. Alcuni infortuni condizionano il Bologna del 1937-38 (quinto alla fine) e l’inizio della stagione successiva. Nell’estate, il furbo Dall’Ara ha dovuto salvarsi con un piccolo escamotage dal Milan, che gli ha quasi soffiato Andreolo (fresco campione del mondo, con Biavati): un mezzo pasticcio che porta allo scioglimento del Consiglio Direttivo. Comunque l’imperturbabile Dall’Ara resta, come Commissario. Le nubi si stanno addensando sull’Europa, si accentuano le discriminazioni razziali, ed è per questa follìa che a fine ottobre viene dato il benservito a Weisz, che è di razza ebraica. Weisz va a Parigi poi si trasferirà in Olanda, sarà rinchiuso in un lager e morrà con la moglie Elena ed i due figli.

IL BOMBER DA MONTEVIDEO PURICELLI CAPOCANNONIERE PER FELSNER Il posto di Weisz è preso da chi? Dal vecchio Felsner, che ha risolto il suo rapporto col Milan. In difesa si è formata una nuova coppia: PagottoRicci (Fiorini accusa certi malanni, giocherà a strappi), ma soprattutto è arrivato un nuovo centravanti. E da dove se non da Montevideo? Si chiama Ettore Puricelli, si dimostrerà un artista nel gioco di testa, col quale sfruttare gli inviti pennellati da Biavati, l’ala dal “passo doppio”, un sortilegio tecnico grazie al quale

Biavati si invola, imprendibile. Puricelli è capo-cannoniere, come era stato Schiavio a suo tempo, il Bologna è campione 1938-39 con due giornate di anticipo. Veramente anni d’oro, se nel 1939-40 c’è un secondo posto (per via della sconfitta all’ultima giornata sul campo dell’Ambrosiana, 1-0) e se nel 1940-41 gli allievi di Felsner sono per la sesta volta campioni d’Italia. In porta gioca Pietro Ferrari, un vero atleta, in mediana è arrivato da qualche anno l’elegante Marchese. Fedullo è ritornato a Montevideo, dove morirà relativamente giovane, e come mezz’ala sinistra si alternano il veronese Andreoli e quel “Gioanin” Ferrari di cui abbiamo detto a proposito del viaggio 1929 in Sud America.

FERMATI DALLA GUERRA L’ULTIMO SCUDETTO NEL 1941 Questo campionato 1940-41 resterà l’ultimo vinto, fino a quello del 1963-64. Comincia un lento, progressivo declino. Fin qui il Bologna è stato veramente lo «squadrone che tremare il mondo fa»; ma ora si accentua un certo immobilismo: è scoppiata la guerra. Settimi nel 1942, sesti nel 1943 (si sono avvicendati Arcari IV, un vecchio sogno di Dall’Ara realizzato tardivamente, e il dàlmata Matosic, oltre che il giovane Nardi che sarà messo fuorigioco da una malattia). Ed è guerra dura, l’attività è sospesa per due anni, l’Italia è ormai divisa in due. Si gioca un campionato di guerra a carattere regionale, e per l’occasione il Bologna torna al vecchio Sterlino. A contendergli il posto per le finali è la squadra dei Vigili del Fuoco La Spezia. Ci sono incidenti, il Bologna non si presenta per il ritorno (programmato, fra l’altro, a Carpi) e in questa burletta di campionato del Nord i pompieri spezzini riusciranno a fare lo scherzo al Torino: non si potrà parlare comunque di scudetto.

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CERVELLATI UNO E DUE Cesarino Cervellati da Baricella ha scritto alcune delle pagine più belle nella storia del Bologna, come giocatore arrivando anche alla nazionale (foto a sinistra), poi come allenatore (qui a fianco è con Bulgarelli). Sotto a destra Gino Cappello

PACE, SI GIOCA CAPPELLO LA STELLA DI UN GRUPPO MODESTO E si salta al dopoguerra, partite amichevoli allo Sterlino, anche con inglesi e polacchi, e poi il campionato 1945-46, diviso fra Nord e Centro Sud. Che Bologna - tipo troviamo, oltre la tragedia della guerra? Molte vecchie conoscenze, come Ferrari, Pagotto, Ricci, Malagoli, Marchese, Biavati, Arcari e Reguzzoni. Andreolo e Sansone si sono accasati a Napoli. Centromediano è Todeschini, che è anche apprezzato scultore, mezz’ala destra è Valcareggi (non c’è bisogno di spiegazioni). Soprattutto c’è stato un clamoroso cambio col Milan per il ruolo di centravanti: Puricelli è andato a vestirsi di rossonero e qui è arrivato Gino Cappello, padovano, grande artista del calcio. Cappello — una tecnica ineguagliabile, qualità atletiche di primissimo ordine, ma un carattere non fermissimo e dunque un rendimento saltuario — sarà la gemma di un Bologna modesto per molti anni. Si torna al girone unico nel 1946-47 e per un momento ci si illude: la squadra è affidata all’allenatore ungherese Viola, con cui nell’estate ha vinto la Coppa Alta Italia (finale sul Novara), il torneo di consolazione per le escluse dal girone finale. E in autunno il Bologna infila sette partite che la issano addirittura al comando; fra di esse, l’1-0 al Modena («cross» di Valcareggi, tuffo di Cappello a deviare di testa) in occasione del quale incontro si registra un primato di affluenza mai più battuto. Non solo, ma in sette partite la rete affidata al giovane Glauco Vanz resta inviolata. All’ottava, il sogno svanisce in Corso Filadelfia a Torino, in casa dei campionissimi granata. Vanz para anche un rigore, prolungando la sua imbattibilità, ma infine un bolide di Castigliano introduce il 4-0 a favore del Torino, nel cuore dei suoi cinque scudetti consecutivi. Alla fine, il Bologna è comunque quinto. Passa a Lelovich. Poi tornerà — per una terza, breve apparizione — Ermanno Felsner, e Cargnelli; e poi (dopo un interregno affidato a Genovesi) l’inglese Crawford, al centro — probabilmente

— di un equivoco. Oltre Manica il tecnico è configurato col nome di “manager”, mentre il “coach” (allenatore) è colui che fa sostenere le sedute di preparazione.

L’EQUIVOCO CRAWFORD ERA UN COACH, NON UN MANAGER Crawford era un “coach”, non un “manager”; ma anche il Bologna di questi anni non era più il Bologna: ottavo, quinto, addirittura quindicesimo nel 1949-50 quando la retrocessione viene evitata con un pareggio con la Lucchese. La girandola dei giocatori è altrettanto densa di nomi che quella degli allenatori, e fra i molti nomi vanno estratti quelli dei due terzini locali Giovannini e Ballacci, del centromediano Marchi e soprattutto di un ragazzino di Baricella, Cesarino Cervellati, che ha il calcio nel sangue. Ne combinerà di bellissime, figurerà assai bene in Nazionale, diventerà molti anni dopo “l’allenatore del-l’esse-o-esse”. Cappello trova una buona spalla in Cervellati, e Cervellati la trova nello strambo uruguaiano Garcia, così dotato come disordinato. Dopo alcuni ungheresi di serie B, ecco l’atletico Sarosi III (fratello del grande Giorgio) e Stefano Mike, detentore di un tiro straordinario. A cavallo del ‘50, via agli stranieri, e Dall’Ara si rivolge alla Danimarca, facendone arrivare due mediani: prima Ivan Jensen e poi Axel Pilmark, se non altro una base di classica continuità. Nel 1951 il Bologna si batte bene (è sesto), e allora Dall’Ara pronuncia la fatidica frase: «Il miglior modo di acquistare è non vendere». E l’anno seguente è proprio crisi, nonostante sia arrivato anche Aldo Campatelli, dopo molti anni di milizia all’lnter. Comincia Crawford, gli subentra il toscano Galluzzi, ma la squadra va sempre peggio. Ed ecco una miracolosa vittoria a Udine, un pareggio in casa dell’lnter, un conclusivo 4-2 al Como. Il Bologna è salvo per un baffo. Ma quante ne passerà. Dopo la grande paura, Renato Dall’Ara decide di cambiare. In un certo senso nell’estate del 1952 nasce l’evo moderno del Bologna che

porterà, dopo una dozzina di anni, all’acuto del settimo scudetto, ma che avrà ancora momenti di terrore.

LA SVOLTA DI DALL’ARA ARRIVA VIANI, SI RICOSTRUISCE Dall’Ara affida la squadra a Giuseppe Ferruccio Viani, detto “Gipo”, un tecnico trevigiano che aveva giocato da centro-mediano nell’lnter del primo Meazza, e che si sta affermando come allenatore di grandi qualità, dimostrate a Siracusa, a Benevento, a Salerno (dove ha inventato un ripiego difensivo definito il “vianema”), a Palermo, a Lucca, infine alla Roma, che ha appena riportato in Serie A. Viani trova un Bologna privo del suo uomo di maggior classe, Gino Cappello, che nell’estate — durante un torneo notturno di vasto successo, il «Palio Petroniano» — è entrato “in collisione” con l’arbitro Palmieri ed è stato squalificato a vita. Il portiere Giorcelli, il difensore Cattozzo, il centro-mediano Greco, gli attaccanti Bacci e Randon sono le novità dì una squadra che propone un calcio agile e discontinuo, tuttavia interessante: Bacci sarà il capocannoniere addirittura con 18 reti (che varranno un ricco trasferimento alla Fiorentina), ma Mike e Cervellati non stanno a guardare. Il Bologna è quinto e sarà sesto l’anno successivo, quando da Verona arriva la coppia di giovani mezze ali Pivatelli e Pozzan, e da Venezia il “rosso” Bonafin, un centravanti intelligente quanto fragile; ma soprattutto quando Cappello — riqualificato — ha la sua stagione più brillante, a trentatré anni: una serie ininterrotta di grandi partite. Un certo La Forgia, un pugliese che sa correre i 100 metri in 11”, piega il terzino milanista Silvestri alla sconfitta. Viani suggerisce al Bologna una nuova sede in via Testoni, dopo quella piuttosto precaria di via Altabella.

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GLI INIZI DEL MITO Giacomo Bulgarelli, nella foto a destra, è stato la bandiera della squadra rossoblù, debuttando giovanissimo e arrivando fino alla nazionale. Oggi la curva dei tifosi del Bologna al Dall’Ara porta il suo nome Nella foto sotto a destra, Gino Pivatelli che vinse anche il titolo di capocannoniere

UN BOMBER FATTO IN CASA PIVATELLI SPEZZA IL DOMINIO STRANIERO Il terzo anno di Viani è anche migliore, perché la squadra infila una serie di risultati positivi e ad un certo momento è ad un sol punto dal Milan: a febbraio è trattata male dagli arbitri a Catania ed a Napoli e perde il contatto, comunque alla fine è quarta. Pivatelli, un po’ incerto nella stagione precedente, ha preso coscienza dei propri mezzi di folgoratore di reti e sale a quota 17, ma l’anno dopo arriverà addirittura a 29, interrompendo — dopo otto anni — l’egemonia degli stranieri nella classifica dei marcatori. Il 1955-56 (l’anno in cui Pivatelli vincerà la classifica dei tiratori, e la Fiorentina di Bernardini e Julinho conquisterà il primo scudetto della storia viola) è un altro periodo di passione. La campagna rinforzi è insignificante e Gipo Viani accusa un primo infarto, che lo sottrae per qualche tempo alla squadra e che gli toglie tranquillità. La squadra non va. Un’illusione quando a Napoli la squadra risale dal 3-0 a quindici minuti dalla fine, al 3-3, e la folla invade il Vomero; Ulisse Bortolotti, che si sta sostituendo da anni al padre come massaggiatore di lungo corso, deve difendersi a colpi di sifone, Viani si accapiglia con Lauro. Ma le cose continuano male e la sera di una dannata sconfitta con la Juventus, 29 gennaio 1956, Viani rassegna le sue dimissioni a Dall’Ara, che — affiatatissimo con lui — si adatta a malincuore. Arriva come allenatore Aldo Campatelli. A cinque punti dalla salvezza, dopo le due sconfitte iniziali di Campatelli, c’è davvero da disperare. Invece, succede il miracolo. Quindici partite consecutive senza perderne una, con robuste vittorie in casa (due 6-1) e fuori (3-0 a Milano, 3-1 a Trieste, 5-2 a Genova). Il fatto è che Pivatelli è un castigo di Dio, e con Cervellati, Pozzan e Randon si sta segnalando un certo Ezio Pascutti, fatto esordire da Viani a Vicenza, per Capodanno, ed ora utilizzato da Campatelli: con 11 gol in 18 partite, Pascutti fa subito capire di quale pasta sia fatto. In mediana è arrivato il francese Bonifaci a fare da pendant con Pilmark, e a chiusura della difesa

Anselmo Giorcelli gioca il suo quarto campionato intero consecutivo, un record di presenze. Il Bologna, che pareva già in B, conclude addirittura al quinto posto.

L’ADDIO DI ‘GIPO’ RIMONTA INCREDIBILE CON CAMPATELLI E poi c’è’ un altro anno con Campatelli in panchina, ed un quinto posto in coabitazione; un anno nel quale la difesa è rinforzata da Mirko Pavinato, un vicentino che sarà per anni esempio di serietà, di rendimento, di correttezza. Ma il 6-1 che la Nazionale italiana becca a fine stagione a Zagabria introduce la moda degli iugoslavi, e Dall’Ara (che ha fatto il viaggio in Croazia) ne torna con un allenatore, Ljubo Bencic, e con un attaccante al tramonto che a Londra aveva fatto ammattire gli inglesi nelle file del Continente segnando tre gol: Bernard Vukas. A Lima, in Perù, l’Argentina allenata da Stabile ha vinto il campionato sudamericano, imponendo il suo trio degli “angeli dalla faccia sporca” e mentre l’Inter acquista Angelillo dal Boca Juniors e la Juventus Sivori dal River Plate, Dall’Ara — che ha deciso di passare alle spese folli rinnegando la sobrietà di tanti anni — acquista Humberto Maschio, mezz’ala del Racing. Poi, il Bologna si assicura anche due mediani (Bodi e Mialich) e la sera del 28 agosto 1957 allo stadio, in una partita amichevole veramente di lusso, batte la Juventus per 6-1, facendo pensare a chissà che. Il campionato è un’altra cosa. Faticato 2-2 con l’Udinese, onorevolissima sconfitta a Roma (3 a 4) con la Lazio. In entrambe le occasioni, Vukas va in gol: bene, per una irripetibile stranezza statistica, saranno i soli due gol segnati da lui in due anni e in 45 partite di campionato. Dopo la sconfitta di Alessandria, Bencic è sollevato e al suo posto arriva Giorgio Sarosi, grande campione dell’Ungheria degli anni trenta ed ottimo allenatore. Sarosi è un tipo talmente riservato che non concede una sola intervista che è una, ma lavora sodo e il Bologna si riprende abbastanza bene, arrivando sesto. Poi, c’è un altro cambio: Alfredo Foni per il 1958-59, l’anno in cui il Bologna inserisce due elementi importantissimi: il fine mediano Romano Fogli che viene dal Torino, e

un’ala destra tecnica come Marino Perani, bergamasco. Pascutti conosce una stagione brillantissima (17 gol). A fine campionato viene inserito per due partite un ragazzino che sta preparando l’esame di maturità, un giocatore nato in casa e scoperto assieme dai due ungheresi (Lelovich e Mike) suoi vicini di casa: Giacomo Bulgarelli. Il decimo posto di questa stagione, tuttavia, è una cosa modesta.

IL PREDESTINATO I PRIMI PASSI DI BULGARELLI Un altro cambio si prepara, per la panchina di allenatore. Viene da Bari Federico Allasio, che era stato il centromediano di un Torino nel quale (sul finire degli anni trenta) aveva giocato anche Raf Vallone. Allasio ha modi bruschi, ma sulle prime riesce ad imporre le sue idee. In porta Santarelli ha preso da qualche tempo il posto di Giorcelli, c’è un terzino spavaldo e tecnico come Capra, ci sono due mezzeali nuove: l’uruguaiano Ettore Demarco ed il vicentino Sergio Campana che poi diventerà avvocato e grande patrocinatore del mondo dei calciatori. All’inizio il Bologna è fra i primi, e la vittoria sulla Juve (3-2 nella pioggia e nelle emozioni) solennizza degnamente il cinquantenario, ricordato con una riunione collettiva delle ”vecchie glorie”: ci sono anche Arnstein, Gradi, Chiara, insomma quelli dei Prati di Caprara. Poi c’è una leggera flessione, ma la squadra è comunque quinta. Alla fine, Dall’Ara realizza un grosso affare col Napoli, cui cede Pivatelli, Mialich e Bodi avendone in cambio 122 milioni e un centravanti brasiliano che laggiù ritengono quasi finito, Luis Vinicius de Menezes, detto “Vinicio”, che avrà invece ancora molte cose da raccontare. Bulgarelli è virtualmente titolare, non hanno grande rilievo gli acquisti di Burelli e di Cappa. Infine, un ragazzino con tanti capelli in testa: è Ezio Pascutti all’inizio della carriera. 1 - CONTINUA

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il Resto del Carlino VENERDÌ 2 OTTOBRE 2009

GLI UOMINI DEL PARADISO A sinistra Fulvio Bernardini, con due uomini con i quali costruì il suo Bologna da sogno: quello che sapeva giocare come in Paradiso. Tra gli interpreti principali Giacomo Bulgarelli e Harald Nielsen. A sinistra, nel frattempo, la classe cristallina del «Tedesco» rossoblù, al secolo Helmut Haller

STORIA DI GIULIO C. TURRINI Ed ecco avviarsi l’ultimo periodo d’oro. Arriva un grande saggio del calcio, un uomo di antica civiltà, Fulvio Bernardini. Per questa sua prima stagione (1961-62) gli acquisti importanti sono due: il centro-mediano Janich e la mezz’ala Franzini, più un terzo. Con Janich e Fogli si è stabilmente affermato in mediana Paride Tumburus, rude scorza friulana, giocatore di alto rendimento. L’Inter vorrebbe Pavinato, ma Dall’Ara non cede nessuno, figuriamoci. Nella storia di questa stagione, una grande sconfitta, il 4 a 6 di San Siro con l’Inter, e molte vittorie condite di un gioco finissimo. Nielsen (il terzo acquisto della stagione, un danese che nel 1960 si è rivelato alle Olimpiadi) ha un inizio incerto e viene accantonato, per ora va bene Vinicio. Ma poi Nielsen — che il pubblico chiama «Dondolo» — seguendolo con particolare affetto — ha un buon finale, un periodo in cui si colloca un successo sul campo della Juve (3 a 2) giocando in nove contro undici. Ormai Bulgarelli è un perno insostituibile della squadra e andrà alla Coppa del Mondo in Cile, assieme a Pascutti, a Janich e Tumburus. Il Bologna è quarto in classifica.

SQUADRA SEMPRE PIU’ FORTE DALLA GERMANIA ECCO HALLER Renato Dall’Ara è lanciato, sente che stanno per tornare i giorni della gloria. In Germania segue da tempo le piste di Helmut Haller, mezz’ala dell’Augsburg e dopo averlo quasi implorato, lo convince a venire per l’anno dopo. Con Haller, il livello tecnico della squadra si alza ancora. A Bernardini scappa detto: «così, si gioca solo in Paradiso» e in effetti certe partite sono straripanti di spettacolo e di gol. Pascutti (che ha appena conosciuto la grande giornata di Vienna) segna per dieci giornate consecutive, un primato tuttora imbattuto (almeno per i colori rossoblù), Nielsen non ha ombre e fulmina portieri; Haller, Bulgarelli, oltre che Renna e Perani (che si alternano nel ruolo di ala destra) concorrono al festival. Questo Bologna bellissimo manca un poco nei confronti diretti con le grandi e l’opinione di molti è che tutto dipenda dai portieri (sono tre: Rado, Cimpiel e Santarelli),

mentre c’è probabilmente un eccesso di allegria offensiva in questa squadra bellissima che alla fine è — inspiegabilmente — solo quarta. In tutti i modi, nell’estate del 1963 arriva anche il grande portiere, il mantovano William Negri detto «Carburo», che Fabbri sta imponendo anche in Nazionale. Con Furlanis terzino destro e la difesa meglio bloccata, ecco un Bologna che non è più disposto a scialacquare calcio, che vuole ottenere ciò che gli compete, nella lotta con l’Inter di Herrera e il Milan di Viani. Dopo un avvio non esaltante, eccolo infilare dieci vittorie consecutive dal 24 novembre al 2 febbraio e collocarsi al vertice. Dall’Ara, ammalato, segue le vicende della squadra da casa, interviene solo saltuariamente, ma Bernardini, il direttore sportivo Antonio Bovina, l’insostituibile segretario Vittorio Ugolini, lo tengono al corrente di tutto. Una svolta decisiva è stabilita per il 10 marzo, quando il calendario porta i rossoblù a San Siro, contro il Milan. Segnano i rossoneri, poi replicano Pascutti e Nielsen, la vittoria per 2-1 colloca il Bologna solo al comando, con due punti sull’Inter e tre sul Milan, quando sono alle viste due partite interne. Tutto è euforia, ma al mercoledì esplode la grana del doping: le nuovissime norme contro gli eccitanti prevedono squalifiche e sconfitte a tavolino per chi sia trovato in colpa, ed ecco il verdetto delle analisi relative a Bologna-Torino 4-1 del 2 febbraio, secondo il quale i cinque giocatori sottoposti al controllo sono risultati positivi. La notizia ha l’effetto di una bomba, è una città che insorge, subodorando chissà quale trucco. Il Bologna di questi tempi non ha bisogno di additivi, si dice, Bernardini è l’uomo meno portato a simili trucchi.

QUEL 29 MARZO 1964 E’ LA «PASQUA DI SANGUE» Le provette di Coverciano non erano sigillate, figuriamoci poi se Pascutti (per dire) ha bisogno del doping. Dall’altra parte, a Milano, si dice che il Bologna non vuole accettare la realtà dei fatti, che per il momento significa tre punti in meno in classifica (sconfitta col Torino, e un punto di penalizzazione), e squalifiche a Bernardini, a Bovina, al medico sociale. Quando lo dicono a Dall’Ara, il vecchio

presidente — a letto, ammalato — piange a lungo. La città è in subbuglio, ci sono gli inviati delle grandi occasioni, per qualche giorno non pare prudente per i milanesi circolare da queste parti. In simile atmosfera si prepara per il 29 marzo (che è il giorno di Pasqua) la partita con l’Inter. Sarà una Pasqua di sangue, si dice. Ed invece sarà una partita correttissima, che l’Inter vincerà per 2-1, uscendo addirittura applaudita.

IL GIALLO DELLE PROVETTE NEI SECONDI FLACONI NON C’E’ AMFETAMINA Intanto, al Centro di Coverciano c’è stato il sequestro delle seconde provette effettuato dal maggiore Carpinacci. Le provette d’appello, sigillate, sono trasferite a Roma all’Istituto di Sanità. Il Bologna fa ricorso e due mesi dopo la sentenza d’appello restituisce al Bologna l’onorabilità e i tre punti in classifica, perché i «secondi flaconi» non portano assolutamente tracce di anfetamina. Il fatto è che la sera del 31 maggio Bologna ed Inter finiscono alla pari, a 54 punti (tre oltre la media) e sarà necessario lo spareggio a Roma. E’ una sequenza drammatica. L’Inter ha appena conquistato a Vienna la sua prima Coppa dei Campioni, strappandola al Real Madrid; il mercoledì che precede lo spareggio i due presidenti interessati (Dall’Ara e Moratti) si incontrano a Milano col presidente di Lega Perlasca. Ufficialmente, dovrebbero trattare di premi partita, ma pare che Dall’Ara contesti al collega il fatto di aver intavolato trattative con Bernardini per la stagione successiva. In ogni modo, Dall’Ara a un tratto si accascia, crolla, muore nelle braccia di Moratti e di Perlasca.


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GLI ULTIMI TROFEI Bruno Pesaola e Luciano Conti: i protagonisti degli ultimi successi del Bologna — una Coppa Italia nel 1974 vinta all’Olimpico di Roma in finale con il Palermo — negli Anni Settanta. In basso l’esultanza di una delle leggende degli anni Sessanta, Ezio Pascutti, il goleador che non calciava i rigori, ma segnava tanto ugualmente

La notizia arriva a Roma dove, al campo di Tor di Quinto, Bernardini sta preparando la sua squadra per la partita decisiva. Da giorni i rossoblù stanno a Fregene, ambientandosi al grande caldo romano, mentre l’Inter respira il fresco di Cernobbio; arriverà solo alla vigilia. Nel grande catino infuocato dell’Olimpico, l’Inter troverà un Bologna determinato che ha allestito anche la variante Capra all’ala sinistra e che con due gol di Fogli e di Nielsen conquisterà il settimo ed ultimo scudetto della sua storia. Morto Dall’Ara, ne prende l’eredità Luigi Goldoni, vecchio industriale che parte con acquisti importanti, ma che resterà piuttosto deluso dalle vicende successive.

COPPA DEI CAMPIONI AMARISSIMA IN SPAGNA DECIDE LA MONETINA Già la Coppa dei Campioni è amarissima con il Bologna battuto 1-0 a Bruxelles dall’Anderlecht, vincitore per 2-1 a Bologna quando però il gol di Stockman al 90’ impone l’obbligo della «bella». A Barcellona i rossoblù sprecano occasioni su occasioni, chiudono sullo 0-0, viene lanciata la monetina che qualifica l’Anderlecht. Finito. E così tutti accusano il trauma e non c’è nulla di più di un sesto posto. Arriva Scopigno, il «filosofo», e Goldoni lo sostituisce dopo cinque giornate con Carniglia; la squadra ha ancora qualcosa da dire, e dopo un inizio incerto ha un brillantissimo finale, è seconda dietro l’lnter. Nella stagione successiva è terza: Vavassori, Ardizzon, Pace, Turra, il giovane Roversi si mischiano ai «vecchi draghi» dell’anno dello scudetto. Intanto, ritorna al Bologna come direttore sportivo Gipo Viani, reduce da un terribile incidente che gli ha stravolto i lineamenti ma non l’abilità di

LA FOTO D’AUTORE Un celebre immagine che ha fatto il giro del mondo: il tuffo spettacolare di Ezio Pascutti che brucia così nello scatto il «principe» dei difensori, Tarcisio Burnich. Il pallone, naturalmente, finirà nella rete nerazzurra

manager: Nielsen al tramonto è desiderato da Herrera all’Inter, e porta a Bologna Clerici e Guarneri.

L’INTESA CON MONDINO FABBRI SAVOLDI DIVENTA BEPPE-GOL Le cose non vanno, a metà campionato 1967-68, Viani assume anche la responsabilità tecnica al posto di Carniglia, pilotando il Bologna verso un quinto posto. Le competizioni internazionali intersocietà comprendono oltre a una ormai sbiadita Coppa Europa (che tuttavia il Bologna è riuscito a rivincere nel 1962, giocando anche con alcuni rincalzi, contro il Nitra), la Coppa delle Fiere, in cui i rossoblù hanno ben figurato nel 1967 (eliminati nei quarti dal Leeds ancora con la monetina) e in cui in questo 1968 sono battuti in semifinale dal Ferencvaros. Amareggiato, Viani se ne va per un ultimo tentativo a Udine, dove muore ai primi del 1969. Da parte sua Goldoni lascia la poltrona di presidente (dopo aver ceduto Haller alla Juve) a Raimondo Venturi, i cui primi acquisti sono davvero notevoli: Savoldi, Cresci, Gregori, Muiesan, Adani. La responsabilità tecnica è affidata a Cervellati che tuttavia alla fine del girone di andata, dopo una sconfitta con l’Inter, si dimette: e arriva il rumoroso Pugliese, il «mago di Turi», per una risalita che vede il Bologna nono. Ma intanto c’era stato un accordo con Edmondo Fabbri, che lascia il Torino per assumere la guida tecnica della squadra rossoblù. Fra Venturi (che rimpiange Pugliese) e Fabbri, l’accordo è tutt’altro che ideale, e per il Bologna non c’è nulla di più di un decimo posto; gli stessi Muiesan e Savoldi trovano ostacoli sulla strada del gol. La prima vittoria in Coppa Italia addolcisce il finale di stagione e a essa si aggiunge il successo sul Manchester City, per la Coppa di Lega Italo-Inglese. Dopo il biennio di Venturi, una nuova struttura dirigenziale con un pacchetto di maggioranza che assegna la carica di presidente a Filippo Montanari, uno sportivo di vecchia data affezionato ai colori rossoblù, capace di riassumere la tendenza degli azionisti di maggioranza, che è quella di una politica saggia dei piccoli passi, senza gravi rinunce. Gli arrivi di Liguori e di Fedele, il decollo di Savoldi che diviene il nuovo idolo, il Beppe-gol dei tifosi, ripresentano per il girone d’andata una squadra che produce un bel calcio e ottiene risultati di primo piano. Ma il destino è in agguato ancora un volta e il 10 gennaio 1971 a San Siro

Benetti travolge Liguori, stroncandone un ginocchio e l’ascesa verso una carriera brillantissima. Il Bologna accusa la perdita di un mediano come «Whisky» Liguori e deve accontentarsi del quinto posto, in una stagione nella quale avrebbe potuto battersi per un traguardo più importante. Se l’anno prima c’è stata la vittoria nella Coppa Italia, questa volta c’è la finalissima del Torneo Anglo Italiano, oltre che una serie di buoni risultati in una stagione tournée negli Usa. Il terzo anno di Fabbri, invece, è contrastato da molte avversità, fra cui l’indisponibilità iniziale di Bulgarelli.

L’INGRESSO DI LUCIANO CONTI NEL 1974 ARRIVA LA COPPA ITALIA Dapprima, la società sembra intenzionata a difendere l’allenatore, al di là di alcune sconfitte, ma più avanti lo sostituisce, richiamando Oronzo Pugliese in coppia con Cervellati. Nulla di speciale, undicesimi prima, undicesimi all’arrivo, comunque salvi. Nell’estate, un doppio choc. La maggioranza cede il 51 per cento di azioni a un industriale, Luciano Conti. E questa è ormai storia contemporanea, che esenta da una trattazione più lunga. Conti trova il contratto di conferma a Pugliese, ma non vuole il «mago di Turi» e chiama da Sanremo Bruno Pesaola. Un inizio difficile, poi un assestamento, il sesto posto. A primavera, ritorna come direttore sportivo, Carlo Montanari, un forlivese che era stato lanciato nel grande calcio da Viani, che lo aveva voluto al Milan nel 1956. Sesto nel 1973, nono nel 1974, con un’altra vittoria in Coppa Italia, settimo nel 1975, il Bologna di Conti e Pesaola conosce tre anni tranquilli. Ma la cessione di Fedele all’Inter nel 1973 ha anticipato di due anni il terremoto del 1975, quando vengono trasferiti Savoldi al Napoli, Pecci (il campioncino fatto in casa e cresciuto al campo Virtus, nei «boys» affidati a Vavassori, assieme a Chiodi, Colomba, Paris, Mei, Grop) al Torino, Ghetti e Landini all’Ascoli. Arrivano molti quattrini e una schiera di giocatori maturi che per il primo anno funzionano ancora, così da procurare al Bologna un settimo posto e a Conti la fama di «volpe» del mercato.

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STORIE DI BOMBER Stefano Chiodi e Cesarino Cervellati, la punta e l’allenatore di un Bologna capace di salvarsi all’ultimo respiro. A destra, invece, il bomber per antonomasia degli anni Settanta: Giuseppe Savoldi. Sotto Adelmo Paris, centrocampista e capitano di lungo corso (poi finito a Malta), con l’allenatore Luigi Radice

Ma poi, tutto frana. Pesaola è tornato per un anno a Napoli, c’è un tentativo Giagnoni: fra lui e Conti non si intendono, la squadra non va e tocca a Cesarino Cervellati assumere il comando delle operazioni e rimediare una prima salvezza nella primavera 1977, salvezza che è sicura solo alla penultima giornata, col 4-1 alla Sampdoria. Così, comincia (dopo che Conti ha molto esitato nella riconferma) Cervellati: una illusoria affermazione a San Siro, un pari, tre sconfitte, Cesarino lascia e ritorna dal Sud Bruno Pesaola.

ALL’ULTIMO MINUTO UN SUCCESSO ROCAMBOLESCO ALL’OLIMPICO La salvezza, stavolta, sarà ancora più rocambolesca, si materializzerà all’ultima giornata, con il successo per 1 a 0 sul campo della Lazio. E allora: conferma per Pesaola, ma il Bologna 1978-79 discende direttamente da quello degli anni precedenti. Il 23 dicembre il Petisso lascia il posto a Perani, che si vede affidata la squadra per sette giornate. La sconfitta interna con la Roma interrompe anche il breve periodo Perani, ed è ancora una volta Cervellati a uscire dalle quinte e a rimediare una salvezza ulteriormente mirabolante, rispetto alle altre due: differenza reti, dopo una serie di risultati mozzafiato. E poi Luciano Conti disse: basta. E venne Tommaso Fabbretti e ritornò — a sorpresa — Marino Perani e furono effettuati alcuni acquisti che soddisfacessero i progetti del nuovo allenatore. Allo scoccare dei 70 anni di vita, il Bologna è questo. II «maestro» se ne va in un cupo giorno d’ottobre e tocca a noi narrare il seguito della storia, ripercorrere gli anni di piombo che hanno sporcato il blasone rossoblù. In chiusura del suo racconto Giulio Cesare Turrini auspicava il ritorno del Bologna alle glorie perdute, e invece proprio in quel campionato, 1979-80, sul mondo del calcio si abbatte il ciclone delle scommesse clandestine. Il nuovo presidente del Bologna si chiama Tommaso Fabbretti, imprenditore rampante nel ramo delle assicurazioni.

Rileva la società da Luciano Conti, e si getta nella mischia con l’entusiasmo del neofita. Il pianeta calcio lo abita da poco, ma si sbilancia presto in proclami roboanti e sceglie un direttore sportivo che passa per autentico ras del mercato, Riccardo Sogliano. La squadra è affidata a sorpresa a Marino Perani, ripudiato due anni prima dalla gestione Conti dopo una serie di rovesci. Il tecnico rinnega le sue teorie più ardite (il portiere-capitano che agisce da libero) e dimentica i lanci di prezzemolo del pubblico rossoblù. La campagna acquisti non è male: arrivano Mastropasqua, Spinozzi, Fabbri, un giovanotto di nome Beppe Dossena che gioca tornante. E poi torna in rossoblù l’ultima amata bandiera, Beppe Savoldi. Il bomber ha 33 anni, un passato importante in maglia rossoblù e poi sotto il Vesuvio, nel Napoli dell’ingegner Ferlaino. La squadra si destreggia bene, rinuncia agli azzardi tattici, bada al sodo e i risultati la premiano. Ne viene fuori un tranquillo campionato di centroclassifica.

STELLE E OPERAI CON DOSSENA I GREGARI SPINOZZI E FABBRI Ma tanta calma di venti prelude a una fragorosa tempesta. Il Bologna, con Milan e Lazio, resta pesantemente coinvolto nello scandalo delle scommesse clandestine. Molti suoi giocatori finiscono sul banco degli imputati: Savoldi, Petrini, Paris, Dossena, Colomba e Zinetti. Tutti, con le eccezioni di Savoldi e Petrini, se la cavano con pene lievi, ma sul Bologna cala la mannaia della penalizzazione: -5 punti da scontare nel campionato successivo. Fabbretti ha i brividi sulla schiena e decide di fare le cose in grande stile. Porta a Bologna Gigi Radice, profeta di uno scudetto record con la maglia del Torino e poi malamente scaricato proprio dal presidente Pianelli. Per Gigi è un momento difficilissimo: un incidente stradale, nel quale ha trovato la morte l’amico fraterno Paolo Barison, gli ha lasciato ferite nel

morale e segni nel fisico (una vistosa cicatrice e un dito mozzato). Pochi credono a una sua resurrezione e invece Radice si cala nella voglia di riscatto dell’ambiente, lega subito con una città che è pronta a farsi ammaliare dal suo carisma. E così nasce un Bologna travolgente, che batte la Juve a Torino, si mangia il gap del -5 in sole quattro giornate e finisce settimo in classifica, a onta della penalizzazione.

UN FUNAMBOLO DAL BRASILE ECCO ENEAS, L’ESTRO E SREGOLATEZZA I nuovi innesti Vullo, Garritano e Pileggi, cuori granata, contribuiscono a compattare 1o spogliatoio e il brasiliano Eneas, fortissimamente voluto da Radice, diventa oggetto di culto o di contestazione. Il colorato ha classe da vendere, ma spesso è bruciato sull’anticipo. Eppure, palla al piede diventa slalomista implacabile, splendido esteta del pallone. Ma la mossa tattica più importante è l’inversione di compiti fra Colomba (schierato sulla fascia) e Dossena, che diventa il propulsore centrale del gioco, il perno dell’ultimo Bologna dei sogni, prima del «grande freddo».

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LA STELLA E IL GOLDEN BOY Giacomino Bulgarelli, capitano di un grande Bologna, stringe la mano a Franz Beckenbauer, leader della Germania e del Bayern Monaco. In basso, invece, una delle prime immagini di un ragazzino pronto a salire sul pullman della storia: Roberto Mancini in serie A con il Bologna solo per una stagione

STORIA DI GIUSEPPE TASSI L’era-Radice si chiude in fretta, fra rimpianti e polemiche. Gigi e Fabbretti non simpatizzano mai, non sono fatti per convivere. Quando il suo Bologna infiamma ancora la gente del Comunale, Radice si fa sedurre dalla sirena più amata, quella milanista. La fuga è nell’aria e Fabbretti la incoraggia, smantellando la squadra che aveva divorato il -5. Partono Bachlechner, Dossena, Eneas e al posto del sorridente brasiliano arriva un amletico tedesco, Herbert Neumann.

IL RIMPIANTO NEUMANN TANTA CLASSE, MA POCHI RISULTATI Ai nastri di partenza della stagione 1981-1982 il nuovo tecnico è Tarcisio Burgnich. La «Roccia» non ha precise credenziali come tecnico (solo una buona stagione a Catanzaro), ma davanti all’entusiasmo contagioso delle folle rossoblù si sbilancia perfino in un pronostico: «E’ un Bologna da quarto posto». A confortare le ambizioni dovrebbero essere i nuovi acquisti: il fantasista Chiorri, lo stopper Mozzini, il centravanti Stefano Chiodi, goleador di casa restituito alla patria rossoblù e soprattutto Herbert Neumann. E invece il Bologna infila una serie grigia, vince la sua prima partita dopo sei turni di campionato (1-0 ad Avellino, con gol di Chiodi) e soprattutto gioca stabilmente senza straniero. Neumann ha il tocco sapiente, ma troppo spesso resta fuori per infortunio e quando Burgnich lo chiama al timone della squadra, esibisce cadenze lentissime e ritmi da slow. La difesa, con Mozzini ormai alla frutta e un Carrera in disarmo, diventa un traforo. Il culmine della crisi tecnica arriva a Cesena, dove i rossoblù finiscono sotto i cingoli di Schachner. E’ un 4-1 che lascia il segno. Fabbretti raduna il consiglio: la notte è tempestosa, parte il siluro a Burgnich, esce fuori il nome di Edmondo Fabbri, ma all’ultimo tuffo prevale la linea giovanilista. Sulla panchina rossoblù siederà Franco Liguori, proprio lui, il magnifico «Whisky» degli anni Settanta. Proiettato dalle giovanili alla serie A in un giorno, Liguori affronta di slancio il nuovo ruolo e i risultati gli danno ragione.

La squadra è quart’ultima, ma batte subito la Roma e poi pareggia con la Juve e la classifica si impenna. Ma qui tecnico e giocatori si concedono un peccato di presunzione e arrivano due sconfitte di fila (contro Napoli e Fiorentina). Liguori potrebbe tacitare la contestazione pareggiando in casa con l’Udinese. E invece il suo Bologna rincorre il successo, costruisce un calcio suicida e finisce 2-0 per i bianconeri friulani. La serie B ora è più di un semplice fantasma e il verdetto decisivo è affidato agli ultimi novanta minuti del campionato. Il Bologna gioca ad Ascoli, col cuore in gola e l’orecchio alla radio per captare i risultati di Genoa e Cagliari. Mozzini va in gol e i rossoblù, per un minuto covano la grande illusione della salvezza. Ma poi dagli altri campi arrivano notizie impietose e l’Ascoli entra due volte nel burro della difesa bolognese. Segnano Torrisi e Greco quando il Bologna è già virtualmente in B. Una carovana piena di tristezza lascia lo stadio Del Duca: il 16 maggio 1982, dopo 72 anni di storia, il Bologna abbandona il paradiso.

PRIMA VOLTA TRA I CADETTI ADDIO ALLA SERIE A DOPO 72 ANNI Il presidente Fabbretti si dilegua in un dopo partita convulso e isterico, dove a piangere sono soltanto i tifosi veri. Poi, nei giro di poche ore, mentre la città del pallone è ancora sotto choc, ecco un nome nuovo da dare in pasto alla folla: Gigi Radice. Ancora lui, il grande taumaturgo, può salvare Fabbretti da una contestazione sempre più violenta e riportare il Bologna nel regno perduto. Radice comincia col solito piglio autoritario. Via il direttore sportivo Borea, spazio al fido Mario David e primi acquisti: Frappampina, un terzino di fascia cresciuto nel Bari e Bachlechner, cavallo di ritorno dalla sponda interista. Ma il nuovo matrimonio si spezza nel pieno dell’estate per motivi che restano misteriosi: Radice scopre che Fabbretti ha ceduto Mancini alla Sampdoria, il presidente ribatte che Gigi è già a conoscenza dell’affare. Il tecnico, piccato, convoca i giornalisti e dichiara: «con un presidente del genere non resto un minuto di più». Detto e fatto, Gigi sbatte l’uscio e se ne va, portandosi dietro David.

Il Bologna resta senza diesse e senza allenatore. E qui Fabbretti ha un’altra pensata. Chiama in società Bulgarelli, e si nasconde all’ombra della vecchia bandiera. Giacomo diventa direttore generale, mentre in panchina va a sedere Alfredo Magni, un tecnico catturato all’ultimo tuffo, che vanta modesti precedenti alla guida del Monza. La squadra è un mosaico folle e disarticolato. Figlia di impostazioni diverse, la campagna acquisti, porta in rossoblù carneadi e buoni talenti, ma soprattutto tanti inutili doppioni. Ecco qualche nome: Galdiolo, Biondi, Logozzo, Roselli e poi Turone (libero in disarmo acquisito con ingaggio principesco di 250 milioni di lire), Gibellini, Russo e Guidolin. Bulgarelli e Fabbretti predicano l’immediato ritorno in A e invece Magni incassa una batosta dopo l’altra, fino all’esonero. Sulla panca rossoblù arriva Paolo Carosi che ha qualità umane e tecniche per raddrizzare la barca. La squadra risale fino al settimo posto, ma qui succede il patatrac societario. Fabbretti finisce dietro le sbarre nel bel mezzo di un’inchiesta sulle sue assicurazioni. Resterà detenuto per due mesi nel carcere di Ferrara. Il reggente diventa il vicepresidente Enzo Mariniello, un sincero appassionato del calcio, che ancora non ne conosce i sottili meccanismi.

PRESIDENTE IN MANETTE DUE MESI NEL CARCERE DI FERRARA I giocatori non ricevono più premi speciali e incentivi, la squadra si sfalda, diventa un mucchio selvaggio e ingovernabile. Su alcuni atleti si addensa l’ombra del sospetto, mentre il Bologna incassa una sconfitta dopo l’altra. Quando Fabbretti esce dal carcere tenta ancora il colpo a sensazione. Esonera Carosi e contatta Radice, cercando di ricucire l’antico strappo, ma la trattativa fallisce e il Bologna deve rivolgersi al solito pietoso Cireneo, Cesarino Cervellati.

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UN CENTRALE «MITICO» Renato Villa, apparentemente scoordinato ma, in realtà, sempre pronto a intervenire e a salvare la retroguardia rossoblù. In basso uno degli altri protagonisti della promozione in serie A della stagione 1987/88. Eraldo Pecci lasciò il Napoli di Maradona per tornare nella città dov’era cresciuto prima di passare al Torino

IN SERIE C CON LA GRINTA GIUSTA IN PANCHINA C’E’ IL DURO CADE’ Fabbretti non regge più il gioco. E’ stanco di fare da bersaglio di violente contestazioni e così affida la società a un prestanome, Giuseppe Brizzi, un cinquantenne veronese, già capotifoso e poi dirigente nella società di Garonzi. L’intermediario è Ferruccio Recchia, anch’eglì veronese, faccia sgherra, modi spicci e un passato calcistico alla corte di Scibilia nell’Avellino. Sotto le insegne di una fantomatica finanziaria, la Lusi, i due diventano «marescialli» di Fabbretti. II campionato è all’epilogo, arrivano soldi e premi, ma il Bologna non può evitare un secondo tuffo nel fango. Sul campo di Cremona i rossoblù consumano novanta minuti da incubo, perdono 4-0 e retrocedono in serie C. A guidare l’ascensore per l’inferno c’è Tommaso Fabbretti, e con lui una schiera di giocatori che non conoscono l’onore. La doppia retrocessione scatena una violenta contestazione contro Fabbretti. Fabbretti è sempre dietro l’angolo, ma Brizzi e Recchia hanno mano libera. Il Bologna è in fondo al baratro e il duo veronese può gestire un’autentica rivoluzione tecnica che risana, in parte, le casse rossoblù. Della vecchia guardia restano solo Logozzo, Fabbri, Paris e De Ponti, mentre sotto le Due Torri piovono i portieri Bianchi e Maiani, i difensori Bombardi e Zagano, i centrocampisti Donà, Ferri, Pin, Facchini e l’attaccante Sauro Frutti. Al volante dell’utilitaria rossoblù c’è Giancarlo Cadè, 54 anni, capelli bianchi e provata esperienza di promozioni importanti. La storia della stagione 1983-1984 si divide su due binari: la squadra, trascinata dai gol di Frutti, guadagna passo passo la testa della classifica; la società vive un continuo travaglio. Alcuni fornitori e poi lo stesso Comune di Bologna ne chiedono addirittura il fallimento per insolvenza. Se il tribunale accettasse le istanze dei creditori, il Bologna scomparirebbe dal calcio. Ma Giuseppe Brizzi, assistito da Gianluigi Farnè, il segretario generale ereditato da epoche felici, salva la baracca, tacita i creditori e assicura la sopravvivenza del Bologna, intanto il geometra veronese, spalleggiato dall’inseparabile Recchia, ingaggia una dura battaglia legale con Tommaso Fabbretti. E’ stanco di fare l’uomo di paglia, vuole essere presidente a

tutti gli effetti e chiede al predecessore di vendergli le quote azionarie. Il duello si trascina per mesi, finché al prezzo di due miliardi «il Gatto e la Volpe» (così la gente rossoblù chiama lo strano binomio) rilevano la gestione della società, Ferruccio Recchia, che agisce da vero e proprio direttore sportivo, pretende la vetrina e presto entra in urto con Cadè. Ma il tecnico ha il merito di non attizzare la polemica, guida la squadra con piglio sicuro e la porta in buona posizione all’ultimo sprint con Parma e Vicenza. La promozione in B arriva all’ultima giornata, quando un gol di Facchini liquida il Trento e fa esplodere la festa rossoblù col fragore di un piccolo scudetto. Per il ritorno in B il pilota è Pietro Santin, baffo elettrico, profeta del calcio-pressing, appena scottato da un’infelice esperienza napoletana. Sul vecchio tronco si innestano giocatori ritenuti importanti (Marocchino, Romano, Greco, Piangerelli) e Lorenzo Marronaro, destinato a diventare una piccola bandiera di questi difficili anni rossoblù. Ma fra i giocatori della promozione e i nuovi arrivati non c’è feeling e ad aggiungere elettricità all’ambiente arriva un litigio fra Santin e Marocchino, che sfiorano la rissa. Recchia si schiera dalla parte del giocatore, sollecita la pace e lascia innescata la miccia. E così, ai primi rovesci, Santin fa capire che non vuole interferenze tecniche, mentre il diesse ringhia a Brizzi: «Presidente deve scegliere: o me o Santin». Il number one non rinuncia al suo compare e trova perfino una formula umiliante per liquidare Santin: licenziamento per fatto e colpa, un banale escamotage per non pagare nemmeno l’ingaggio al tecnico silurato.

IL REBUS MAROCCHINO IL GIOCATORE CHE NESSUNO RIESCE A CAMBIARE La squadra finisce nelle mani titubanti di Bruno Pace, ex poeta rossoblù quando tirava calci coi suoi piedi sghembi. La navigazione è difficile, il Bologna non si stacca dalle ultime piazze, il salto di qualità non arriva mai. E’ in questo clima che Brizzi si dice disposto a cedere la società. Sullo scranno di presidente è pronto a sedersi Valerio Gruppioni, giovane rampollo di Gaetano, e reuccio dell’alluminio. La trattativa sembra vicino all’epilogo, quando Brizzi si fa renitente. Allora la Gruppioni family lo convoca nella casa di Pianoro. Ignaro dei registratori nascosti dietro le tende, il presidente formula le sue richieste, mentre

una truppa di giornalisti mobilitati dai Gruppioni aspetta nel sottoscala l’esito degli eventi. Quando l’accordo sfuma, si spalancano le porte a taccuini e telecamere. Brizzi resta di ghiaccio, i Gruppioni dichiarano che il presidente è disposto a cedere solo a prezzo di un robusto sottobanco e minacciano di far ascoltare le bobine del colloquio alla stampa. Brizzi si irrigidisce, si sente vittima di un complotto e annuncia che non cederà più il Bologna, ma il clima all’interno della società è irrimediabilmente deteriorato e anche il binomio Brizzi-Recchia si sfalda: il direttore sportivo se ne va con una buonuscita di 400 milioni e il presidente allaccia contatti con un industriale di Ospitaletto, Luigi Corioni, per cedere la società. Quando il Bologna di Pace si salva in extremis a Varese grazie a un gol di Gazzaneo, Corioni è di fatto in nuovo padrone rossoblù.

LO SBARCO DI SOR CARLETTO MAZZONE TENTA IL RILANCIO La nuova era comincia da lontano. All’alba della stagione 1985-1986 il Bologna esce ufficialmente dagli «anni di piombo». L’uomo della rinascita si chiama Gino Corioni, un self made man bresciano che ha costruito le sue fortune su uno sgabellino da bagno. I sanitari sono la base del suo impero, la Saniplast, un’azienda dal fatturato solidissimo, nata e cresciuta intorno a un’idea felice.Corioni ha già tentato l’approccio col Milan ai tempi di Farina, sogna una grande piazza «per fare calcio all’infinito». E quando il geometra Brizzi lancia un sos da Bologna è pronto a raccoglierlo. I suoi capitali cominciano a scorrere come linfa vitale nel sangue rossoblù alla fine del campionato 1984-1985. Corioni fa festa in segreto alla salvezza bolognese conquistata a Varese e una settimana dopo legge sul Resto del Carlino che sarà lui il nuovo padrone del Bologna. Al prezzo di otto miliardi (dichiarati) rileva la maggioranza azionaria da Brizzi e copre i «buchi neri» che segnano le casse del Bologna. Il geometra veronese chiede di restare presidente, Corioni dice sì, poi lo emargina inesorabilmente e sale sulla poltrona che fu di Dall’Ara. E’ il ventunesimo presidente rossoblù, ha il piglio dell’emergente, la voce roca, le idee chiare. Ama le battute sopra le righe e annuncia alla città che il Bologna è costruito per tornare subito in serie A. Per dare corpo ai suoi disegni mette in piedi uno staff importante: Nello Governato direttore sportivo e Carlo Mazzone allenatore.


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BUON COMPLEANNO BOLOGNA

IL «CLAN» DEI BRESCIANI Gino Corioni, veniva da Brescia. Volle fortissimamente Gigi Maifredi e, con lui, conquistò la promozione in serie A. Alla loro destra un giovanissimo Valerio Gruppioni. A destra un terzino «Mondial», Antonio Cabrini. In basso la «Freccia di Prima Porta», il bomber della risalita in serie A, Lorenzo Marronaro

La campagna acquisti non è travolgente, ma porta in rossoblù uomini collaudati come De Vecchi, già regista di Milan e Ascoli e il maratoneta Nicolini, altro figlioccio di Mazzone. E’ una squadra di livello medio alto, che in B potrebbe perfino dettare legge. Ma qualche meccanismo non funziona, Nicolini e De Vecchi sono vittime di una partenza difficile e l’ennesima scommessa su Marocchino è un salto nel buio. Mazzone va avanti come un ariete, il suo Bologna pare sempre sul punto di decollare, ma l’aggancio al treno delle primissime fallisce regolarmente. Quando il campionato volge al termine il Bologna si prende il lusso di rifilare quattro gol all’Ascoli, dominatore del torneo. E così Mazzone chiude il campionato con un buon sesto posto e un pizzico di thrilling. Scoppia un nuovo giallo scommesse: sono coinvolte Vicenza, Triestina ed Empoli e il Bologna potrebbe conquistare a tavolino la promozione in serie A. Ma i giudici del pallone salvano la società toscana e il sor Carletto si congeda con una punta di amarezza. Scottato dall’impatto del primo anno, Corioni cambia filosofia: tecnico giovane (Vincenzo Guerini, lanciato da Pisa ed Empoli) squadra svecchiata e calcio arrembante. Partono Limido, Ferri, De Vecchi e Gazzaneo; arrivano Galvani, Musella, e Stringara.

IL RITORNO DI UN SIMBOLO RIECCO PECCI, L’ULTIMO LEADER Ma soprattutto torna in rossoblù Eraldo Pecci, l’erede naturale di Bulgarelli che il Bologna lanciò nell’Olimpo del calcio dieci anni prima. Eraldo lascia il Napoli e Maradona per tornare alle radici e riportare in alto la squadra del cuore. Guerini ripete l’errore di Mazzone, fidando ancora su Marocchino e al mercato d’ottobre gli regalano uno strano difensore che sembra uno gnomo: si chiama Renato Villa, faceva il magazziniere-giocatore nell’Orceana. Bologna lo accoglie con un sorriso ironico: di lì a pochi mesi comincerà ad adorarlo. Anche questo è un campionato in salita, la squadra non gira, la prima vittoria arriva solo alla quinta giornata. Guerini non ha il piglio del vincitore, si piange addosso,

perde occasioni propizie e tre sconfitte consecutive lo precipitano nello sconforto. Corioni si rimangia in fretta l’amore per il giovane tecnico bresciano e affida la squadra al vecchio «zio di campagna» Gian Battista Fabbri, un ultrasessantenne che corona così il suo sogno proibito di allenare il Bologna. Gote rubizze e sorriso facile, G.B. riporta il buonumore nello spogliatoio, semina fiducia dove c’era la depressione e la squadra si salva alla grande, trascinata dall’estro di Pecci. I rossoblù finiscono decimi a 36 punti, il vecchio zio saluta la truppa e Corioni presenta a una Bologna sfiduciata l’«uomo della resurrezione», Gigi Maifredi da Lograto.

ALLA SCOPERTA DEI GIOVANI LE SCOMMESSE CUSIN, DE MARCHI E MONZA La piazza sussulta, non dà credito all’ex venditore di champagne che predica il rischioso verbo della «zona» e vuole esportare sotto le Due Torri il modello tattico del suo Ospitaletto. Perfino Gigi, che ancora non è grande Istrione, si scoraggia e dice a Corioni che è pronto a rinunciare al mandato. Ma il presidente è un cocciuto e la scommessa su Maifredi lo alletta, anche perché la filosofia dei giovani si sposa con le esigenze di bilancio della società. Arriva una nidiata di ragazzi dell’Ospitaletto: Cusin, De Marchi, Monza, Gilardi. In più, fantastico cadeau per Maifredi, Fabio Poli, che ha rotto con l’allenatore laziale Fascetti e Pecci a fare da chioccia. Così, un po’ per caso un po’ per programma, nasce il Bologna che ammalia le folle, la squadra che rinconcilia la città col calcio spettacolo. E’ un campionato che somiglia a una cavalcata trionfale: dopo una sbandata iniziale col Lecce, la banda Maifredi vola fino a 51 punti e il 29 maggio 1988 il Bologna torna trionfalmente in serie A. Il gol della promozione matematica lo segna Lorenzo Marronaro, in coda a una stagione-monstre che lo vedrà capocannoniere con 21 reti. E’ festa grande in città, i tifosi intitolano una strada a Gigi Maifredi, che Corioni ha strappato alle grinfie della Juve; nascono accostamenti con Bernardini e il suo Bologna da paradiso. Maifredi affronta la A con una squadra ritoccata: Corioni cede

il gioiello Marocchi, uomo perno nella cavalcata della promozione, Ottoni e Pradella.

E GIGIONE SCELSE RUBIO E DEMOL GLI STRANIERI COMPARSE Arrivano Lorenzo, gli stranieri Rubio e Demol (che faranno da comparse fino al termine del campionato) e il duo Bonetti-Bonini, destinato a diventare cerniera portante del centrocampo. Il campionato comincia con un elettrochoc: cinque sconfìtte consecutive. Maifredi è frastornato ma non si arrende, la squadra accusa il colpo, eppure nessuno parla di esonero, Corioni compreso. Pian piano i rossoblù riemergono, il tecnico rende meno spregiudicata la sua «zona» e la squadra guadagna una salvezza larga, chiudendo al decimo posto. Così Corioni gioca la carta delle stelle. Chiama in rossoblù Geovani, Cabrini, Giordano, e il bulgaro Iliev. Obiettivo dichiarato la zona Uefa. La squadra si adorna di bellezze, ma sa giocare calcio pratico, essenziale. Maifredi sveste i panni del fenomeno, predica umiltà e mentre il Bologna festeggia i suoi ottant’anni di vita la squadra è di nuovo lassù fra le grandi del calcio, vicino al paradiso perduto. La A è finalmente un Paradiso ritrovato. Maifredi e Corioni possono esultare.

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BUON COMPLEANNO BOLOGNA

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ABBRACCIO DEI CAMPIONI Lajos Detari, di spalle, talento cristallino ma pure carattere bizzoso e ballerino. Dopo una delle sue tante invenzioni abbraccia Antonio Cabrini. In caso Giancarlo Marocchi, detto Ciccio. Cresciuto nel Bologna, diventato grande a Torino con la Juventus, e poi rientrato nella sua città, con il passo e la grinta dei giorni migliori

STORIA DI STEFANO BIONDI Oggi come allora: per il Bologna è particolarmente difficile trovare gli stranieri che facciano la differenza. Il Bologna di Gigi Maifredi torna in A con il difensore belga Demol, con il centrocampista finlandese Aaltonen (fresco di prodezza in Coppa Campioni contro l’Inter e, si diceva, dall’Inter stessa parcheggiato alla corte rossoblù) e con l’attaccante cileno Hugo Rubio preferito a Zamorano.

L’EQUIVOCO PINO LORENZO «FARA’ MEGLIO DI ZAMORANO» Maifredi nega, ma in quei giorni di consultazioni con Corioni che gli chiedeva di scegliere fra i due cileni, disse proprio così: «Pinone Lorenzo è meglio di Zamorano, quindi prendiamo Rubio che giocherà seconda punta». Demol piace poco all’Omone, Aaltonen non ha il passo per stare in serie A e Rubio si fa male dopo poche apparizioni. Il Bologna vince all’esordio con il Pisa, poi sprofonda. Cinque sconfitte di seguito, un pari interno con Lazio, prima della disfatta nel derby con il Cesena del Condor Agostini. Il coro del «Manuzzi» è assordante e incessante: «Oh Maifredi salta la panchina». Bologna ultimo e senza gioco. L’esonero dell’allenatore sembra inevitabile, scontato. Corioni entra in uno spogliatoio di giocatori sicuri che il presidente darà l’annuncio. Il sor Gino spiazza tutti: «Ricordatevelo bene, questo è il vostro allenatore e tale rimarrà fino all’ultima giornata di campionato. E’ con lui che dovete fare i conti, sono stato chiaro?». Grande mossa del pres. Da quel momento il Bologna si dimentica di quanto fosse stato bello l’anno prima in serie B e inizia a giocare umilmente e a vincere qualche partita. Sarà quella la prima versione della cooperativa del gol rilanciata nel 1994 da Ulivieri. Squadra senza stelle, soprattutto senza bomber, il Bologna ha nel solo Fabio Poli un solista di classe, ma strada facendo troverà i gol di tutta la squadra. Ma il senso della squadra e il piacere della sofferenza erano stati ritrovati e il Bologna, salvo con una giornata di anticipo, potrà ben dire di aver centrato un’altra impresa. Nell’arco di dieci anni, il Bologna

avrebbe conosciuto due brasiliani sfortunati. Prima quell’Eneas de Camargo, scomparso in un incidente stradale, dopo una vita di stenti e di rimpianti, poi Geovani che oggi sta combattendo la sua battaglia con una sindrome degenerativa degli arti motori. Hanno fatto poco, ma erano allegri, semplici, sorridenti e hanno lasciato anche loro un piccolo segno nella storia del Bologna. La stagione 1989-90, pur ricalcando quella precedente (buon gioco di squadra e capocannoniere Giordano con 7 gol) vedrà il Bologna sempre al riparo da brutte sorprese nella stagione che precede il Mondiale delle notti magiche e che offre al pubblico un Dall’Ara in via di ristrutturazione e dalla capienza ridotta.

SIMPATIA DO BRASIL INNAMORATI DI GEOVANI La città, per tanti anni ignorata della Federcalcio, torna capitale dello sport, mentre Bologna diventa per qualche giorno capitale della politica: il segretario Achille Occhetto decide di cambiare il nome del Partito Comunista. Lacrime di nostalgia alla Bolognina, lacrime di terrore davanti alla rianimazione dell’ospedale Maggiore, pochi giorni più tardi (il 30 dicembre), quando il romanista Lionello Manfredonia lotta fra la vita e la morte. Era crollato sul terreno di gioco, colpito da un infarto. Il professor Brachetti e il suo staff gli salveranno la vita. La squadra è in crescita, Maifredi e Pecci hanno provvisoriamente rotto la loro amicizia, che ricuciranno col passare degli anni. Paolo Stringara tiene in pugno le redini della squadra, Renato Villa è diventato per tutti il Mitico, il capitano, l’uomo che incarna il sogno italiano: l’ex magazziniere dell’Orceana ce l’ha fatta, ora è popolare quasi quanto Baresi. Il Bologna sta bene, è una bella miscela di gioventù e di esperienza ed è anche abbastanza fortunato: entra in Coppa Uefa arrivando ottavo. Ma l’alleanza con la Juve richiede un prezzo da pagare. L’avvocato Montezemolo ha messo gli occhi su Gigi Maifredi e il sor Gino, suo malgrado, dovrà dire obbedisco alla Signora. «Sei sicuro?», gli chiede Corioni. «Sì», è la risposta dell’Omone «vado a giocarmi la mia

grande occasione». Addio. Anche Corioni è un uomo corteggiato. Lo cerca il ministro del lavoro Prandini, bresciano come lui: gli chiede se vuole occuparsi della squadra di casa sua, terra di tanti operai dell’acciaio che non si identificano in un Brescia sempre sottotono. Corioni non lo dice, ma in cuor suo sceglie Brescia. Chiama Sogliano a dirigere il Bologna, affidandogli un mandato preciso: vendere il più possibile, senza dare l’impressione di smobilitare. Addio a De Marchi, Luppi e Stringara, arrivano Detari, Turkyilmaz e Notaristefano e tanti altri. Anche le ultime bollicine del calcio champagne sono svaporate.

MAIFREDI DICE ADDIO LO ASPETTA LA JUVENTUS Il Bologna non è brutto, ma non ha un’anima e la piazza non capisce perché il sogno si sia spezzato all’improvviso. In panchina c’è Franco Scoglio, il professore delle palle inattive che da Messina aveva attirato su di sé l’attenzione dei grandi club. «Se non vinco lo scudetto entro tre anni, smetto», diceva l’uomo di Lipari. Povero professore, che sfortuna: un infortunio dopo l’altro impoverì una squadra molto difficile da assemblare e con molte lacune. Che il vento era cambiato si capì a Cesena: anche Scoglio come Maifredi viene battuto (gol di Ciocci) nel derby, ma per lui nessuna prova d’appello. Esonerato. Torna Gigi Radice, ma non col piglio che lo guidò nell’80. Era un uomo che ne aveva viste troppe, molto fatalista, poco comunicativo. La squadra lo seguiva, ma senza passione, senza credere abbastanza in ciò che faceva. Paradossale: il Bologna arriva fino ai quarti di finale di Coppa Uefa contro lo Sporting Lisbona, quando in campionato il suo destino è segnato da tempo. Niente miracolo in Coppa (con la squadra titolare infortunata per nove-undicesimi) e niente miracolo in campionato.

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BUON COMPLEANNO BOLOGNA

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UNA COPPIA SPECIALE Roberto Baggio, scaricato dal Milan, arrivò a Bologna conquistando la piazza a suon di gol. E riconquistando pure, a furor di critica, quella maglia azzurra che lo avrebbe portato direttamente ai Mondiali di Francia 1998. In basso, invece, Renzo Ulivieri da San Miniato, il tecnico della doppia promozione

Il Bologna torna in serie B, Gino Corioni torna a Brescia. La delusione è cocente e lo slogan «il Bologna ai bolognesi» è nuovamente di stretta attualità. In due chiamano banco: sono Piero Gnudi e Valerio Gruppioni. A loro si aggiunge il cremonese Vittorio Wanderlingh, una meteora nel panorama dirigenziale. In panchina torna Maifredi.

SI RIVEDE MAIFREDI E DI WANDERLINGH NON C’E’ TRACCIA Il Bologna impiega cinque partite prima di vincerne una (con la Lucchese) e di Wanderlingh già non si sente più parlare. Scomparso. Rimangono Gnudi e Gruppioni, che hanno due angeli custodi. Buono, quello di Valerio, che è il padre Gaetano; criticabile quello di Gnudi, che è Pasquale Casillo. La famiglia Gruppioni annusa il pericolo di bancarotta e lascia che a gestire la cosa rossoblù sia Gnudi. Casillo è restio a mettere quattrini nel Bologna, però manda i suoi uomini a sincerarsi che quelli già sborsati non vadano sperperati. L’effetto Maifredi non c’è: l’idea migliore della stagione è quella di rivolgersi a Nedo Sonetti, collaudato tecnico, esperto in salvezze. «Voglio vedere la belvaggine negli occhi dei miei calciatori», dice Nedo. Il Bologna si salva all’ultima giornata in casa dell’Ancona. Le premesse per il disastro ci sono tutte. Un allenatore esperto come Bersellini non riesce a scongiurarlo. Dietro le quinte i casilliani gli hanno costruito una squadra promettente, ma troppo giovane. Arrivano Porro e Casale, ma anche Iuliano e Pessotto, Bucaro e Sottil. Per metterli sulla pista di decollo ci vorrebbe tutto quello che a Bologna non c’è più: un ambiente sereno, la pazienza della piazza, la saggezza dei gestori. La situazione precipita in fretta. Bersellini viene cacciato, al suo posto arriva Cerantola. «Cerantola chi?» e « C come Cerantola» sono i titoli dei giornali. Profetici: Cerantola segue a ruota Bersellini e il Bologna opta per una diarchia capace di far leva sui ricordi più belli: in panchina Romano Fogli, dietro la scrivania Franco Janich. Il problema sono gli stipendi che non arrivano. Saranno dieci i giocatori a mettere in mora la società, mentre il Carlino, anticipando tutti, darà la notizia che

scuote l’opinione pubblica: i sindaci della società hanno portato i libri in tribunale. La squadra è già retrocessa in serie C per la seconda volta nella sua storia. Il fallimento del club è questione di pochi giorni. Il 18 giugno del 1993 il Bologna tocca il punto più basso della sua storia. Ma si riprende subito. Il magistrato nomina Eraldo Pecci perito per la parte sportiva. Per rimettere in vita il Bologna servono cinque miliardi di lire. Sono pronti a versarli Ivan Ruggeri (che diventerà poi presidente dell’Atalanta) e Giuseppe Gazzoni Frascara. Ruggeri si ritira dall’asta: il 28 giugno Gazzoni entra in tribunale per rilevare il nuovo «Bologna F.C. 1909». Si riparte dalla serie C. Gazzoni non è da solo: con lui le Coop e quattro grossi nomi dell’imprenditoria bolognese, come Franco Goldoni, Mario Bandiera, Marco Pavignani e il compianto Giandomenico Martini. L’inizio di un’avventura che durerà 12 anni è faticoso. Gazzoni e i suoi tanti soci ancora non conoscono le cifre del pallone e consegnano a Eraldo Pecci (ds) e ad Alberto Zaccheroni (allenatore) 400 milioni di lire coi quali rifondare la squadra. I nuovi dirigenti pensano che la prima sarà una stagione di transizione, ma presto si rendono conto che ai bolognesi non si possono prospettare due stagioni in C. All’improvviso cambiano gli obiettivi. Pecci capisce che aria tira e se ne va. Zaccheroni, a malincuore, lo dovrà seguire. Arrivano altri denari, altri giocatori e anche Edi Reja, ma ai playoff passa la Spal.

SE NE VANNO LE COOP ANCHE PECCI E ZACCHERONI LASCIANO L’anno successivo è quello delle scelte indovinate. Le Coop sono diventate «adriatiche» e non possono giustificare ai soci di diverse regioni le spese per il calcio bolognese, quindi escono di scena. Rimangono Gazzoni, Bandiera e Goldoni. E’ il presidente a scegliere Renzo Ulivieri allenatore e Gabriele Oriali come direttore sportivo. A calamitare su di sé l’attenzione è il tecnico, un «toscanaccio» verace, che parla di qualunque cosa e a volte parla troppo. Come quella volta in cui, di fronte alla candidatura del suo presidente a sindaco, disse pubblicamente che non lo avrebbe mai

votato. Lì rischiò l’esonero, ma Oriali sapeva come ricucire gli strappi fra il Capitalista e il Comunista e organizzò la cena della pace a casa dell’allenatore, che al suo datore di lavoro confezionò anche uno scherzo: lo fece mangiare davanti a un piccolo busto di Lenin, poi lasciò che i fotografi entrassero nel suo soggiorno a immortalare la scena.

RENZACCIO, IL DOPPIO SALTO DALLA C ALLA A COME AL TORNEO DEI BAR Ulivieri ripristina a Bologna le regole del professionismo più esasperato e la squadra, stavolta sì costruita per vincere, in realtà ammazza il campionato. Prima, alla fine, con 81 punti. Seconda la Pistoiese con 59. Ma ora bisogna vincere anche il campionato di serie B e da quel Bologna se ne andranno in dieci, compreso Luca Cecconi che aveva segnato 14 gol e dieci facce nuove arriveranno. La nuova creatura di Ulivieri è una squadra senza stelle, ma è solida, destinata a durare nel tempo, tarata sulle necessità della categoria. Sesta a sette giornate dalla fine, prima sul traguardo. Inizia la grande rimonta che passerà alla storia come «Il torneo dei bar». E col Chievo... cross di Doni, gol di Bresciani. In serie A non c’è posto neppure per loro. E’ la legge di Renzaccio: qui si comanda in tre, io, Renzo e il bimbo della Gina (che è la sua mamma). Stagione 1996-97: il Bologna arriva settimo, il suo capo cannoniere è Kolyvanov con 11 reti, poi ci sono Andersson a quota 8, Scapolo a 5 e Paramatti a 4. Ulivieri va pazzo per il suo gruppo. Adora il concetto di squadra simile a un’orchestra. Gazzoni, invece, ha visione meno socialista del pallone e piazza uno dei colpi di questo secolo rossoblù ingaggiando Roberto Baggio. Ulivieri reagisce male: «Si rischia di retrocedere», dice. In realtà, gli brucia che, dopo due promozioni, la dirigenza sia uscita dal binario che ha tracciato. A fine stagione andrà al Napoli, dopo aver lasciato il Bologna a un passo dall’Uefa.

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BUON COMPLEANNO BOLOGNA

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IL RITORNO NELL’ÉLITE Alfredo Cazzola, Daniele Arrigoni e Renzo Menarini, felici e contenti in mezzo al Dall’Ara. E’ un caldo pomeriggio di inizio giugno, corre l’anno 2008: il Bologna ha appena battuto il Pisa ed è rientrato nel calcio che conta. In basso Francesca Menarini, la prima donna presidente nell’anno del centenario del Bologna Fc 1909

Sulle scena torna Carlo Mazzone che debutta in Intertoto. Oriali va all’Inter e lascia il suo posto a Oreste Cinquini. C’è subito aria di ribaltone in panchina, perché Cinquini ama la politica dei giovani e considera Mazzone un tecnico della vecchia guardia.

LARGO AI GIOVANI LA STRATEGIA DEL DIESSE CINQUINI In realtà, non riuscirà mai a esonerarlo, perché il Bologna di Mazzone, che ha sostituito Baggio con Signori, gioca bene, vince spesso e diverte. Ne rifila tre a Inter e Juve mandando il pubblico in visibilio, porta il Bologna a due semifinali, di Coppa Uefa e di Coppa Italia, ma a fine stagione sarà sacrificato sull’altare della modernità. Un rinnovamento radicale, ma costoso, quello che minerà definitivamente l’economia del Bologna gazzoniano. Sergio Buso, vecchia gloria rossoblu e, a lungo, stratega agli ordini di Ulivieri, sulla panchina del Bologna dura poco. Il suo posto lo prenderà Guidolin, allenatore preparato come pochi, allenatore bravissimo nel leggere le partite e nello sfruttare al massimo le potenzialità della sua squadra, ma tormentato da chissà quali spettri. Guidolin regge l’urto delle incomprensioni finché Gazzoni è in grado di allestire squadre al di sopra di ogni sospetto di retrocessione, ma quando il patron apre l’era del risparmio, Guidolin preferisce andarsene: sa che senza il supporto dei risultati non avrà la gente dalla sua parte. Uno dopo l’altro il Bologna cede Castellini e Cruz: Guidolin dà le dimissioni. Al suo posto torna Mazzone. Dopo aver visto sfilare Kolyvanov, Andersson, Baggio, Signori e Cruz, i bolognesi si accontentano di Igli Tare centravanti. Mazzone mette in salvo quel Bologna che Gazzoni e Bandiera non possono e non vogliono più foraggiare come ai bei tempi. L’anno dopo sarà quello della retrocessione, della più incredibile della retrocessioni in cui il Bologna è incappato. A ridosso della zona Uefa a dieci giornate dalla fine, costretto allo spareggio con il Parma, dopo l’ultimo pareggio in casa con la Samp. Il Bologna era impoverito, ma sano e non truccava né il campionato né i bilanci. Prima di arrendersi, Gazzoni ha lottato

nelle stanze della Federcalcio, al momento delle iscrizioni. Perché chi non rispetta le regole ha scappatoie, occhi di favore, pagamenti rateali e quant’altro e chi è in regola su tutto deve starsene in serie B? Durante il consiglio federale definitivo Gazzoni viene trattato come un sognatore, come un romantico illuso e deve alzare bandiera bianca. I bilanci di «Victoria», la finanziaria che foraggia il club, non reggono l’urto della retrocessione: Gazzoni si arrende. Bandiera dice che era meglio se avesse costruito un ospedale. Pentito. Una bella pagina della storia rossoblu si chiude.

VITTIMA DI CALCIOPOLI L’INUTILE BATTAGLIA PER LA LEGALITÀ Intanto, però, si apre l’era di Calciopoli che condiziona ancora i giudizi sull’operato di Moggi e sull’amicizia di questi con l’attuale patron Renzo Menarini. Gazzoni, per ripartire in serie B prima di cedere il club, vorrebbe Zeman. Dalla Federcalcio gli fanno sapere: meglio di no, il boemo ha parlato tanto in questi anni, non è ben visto dal Palazzo. Gazzoni richiamerà Ulivieri e gli affiderà la squadra che poche settimane più tardi saranno Cazzola e Menarini a rilevare per pochi euro e una sostanziosa ricapitaliazzazione. Com’è nella sua natura, Alfredo Cazzola si infila l’armatura e si dichiara pronto alla battaglia. Gli piace vincere, è abituato a farlo, ma quel Bologna che dodici anni dopo il fallimento ha rischiato di ricascarci, non ha armi per vincere. Cazzola litiga con Ulivieri, lo caccia, lo richiama, non gli piace il suo linguaggio, ma ammette che sulla squadra e sull’ambiente quell’uomo una notevole presa ce l’ha. Come per Maifredi e Scoglio, Cesena diventa punto vitale anche per Ulivieri: Bologna sconfitto, qualche tifoso indignato butta indietro la maglia ai giocatori. Non era mai successo prima. E’ un segnale di malcontento e di stanchezza. Ulivieri esonerato, tocca a Mandolini, uno dei tanti allenatori giovani che ha toccato con mano quanto la «placida» Bologna si difficile da vivere e quanto il Bologna, con la sua storia e i suoi trofei lontani, sia difficile da allenare. A vincere il campionato di serie B sarà Arrigoni con i gol di Marazzina. Ma a Cazzola e Menarini le istituzioni

girano la spalle. Il progetto del grande parco divertimenti, che dovrebbe nascere nella zona di Molinella per foraggiare il progetto di un Bologna in grande stile, è irrealizzabile. Cazzola da quel giorno pensa a come e a chi cedere la sua quota di maggioranza. Ci prova con un gruppo friulano molto vicino al presidente Pozzo. Affare fatto, se non fosse che Renzo Menarini ci ripensa e dice no, dice che è meglio andare avanti. Allora Cazzola ci prova con Joe Tacopina, avvocato di New York che si dichiara portavoce di un fondo di investimento formato da una clientela prestigiosa. Che fosse vero o no, non si saprà mai. Al momento di firmare, Tacopina se n’è andato. Però Menarini qualcosa di simile a un senso di colpa lo ha maturato, se è vero che alla fine dell’estate, con il Bologna di nuovo in serie A, è lui a chiamare banco. E ad affidare alla figlia Francesca l’incarico di presidente, la prima donna numero uno della storia rossoblù. Intanto Renzo dice di avere mezzi limitati e di aspettare soci. Non arriverà nessuno a dargli una mano.

CENTENARIO DAVVERO SPECIALE FRANCESCA, LA PRIMA DONNA PRESIDENTE Arriverà quindi una salvezza insperata per una squadra modesta, alla quale tre allenatori (Arrigoni, Mihajlovic e Papadopulo) non riescono a cambiare volto e della quale, neppure scavando, trovano l’anima. Anche Menarini, dopo un solo anno di reggenza, decide di cedere. E anche lui, sulla strada dei suoi sogni, troverà il suo Joe Tacopina. Che poi si chiamasse Rezart Taçi, fa poca differenza. La sostanza è che Menarini è sempre proprietario unico del Bologna che ha iniziato la stagione dei suoi cento anni con la colonna sonora della passata stagione: «Abbiamo pochi denari, facciamo del nostro meglio». Dopo cento anni il Bologna ha un problema: stenta a trovare uomini e strategie che gliene garantiscono altri cento.

2 - FINE

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