150 anni Unità d'Italia

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IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO

GIOVEDÌ 25 NOVEMBRE 2010

150 anni d’Italia, insieme al tuo Quotidiano

Legat R. (sec. XIX): Battaglia di Calatafimi. Milano, Museo del Risorgimento. © 2010. Foto Scala, Firenze

Ogni mercoledì due pagine dedicate al Risorgimento

Andare insieme verso la libertà, il progresso e la crescita civile: questo volevano gli italiani, uomini e donne, che fecero l’Italia unita. Un’Unità conquistata il 17 marzo 1861 con aspre ed epiche battaglie sostenute da questi forti ideali. La politica, l’economia, la letteratura, l’arte, la musica accompagnarono il Paese verso un sentire comune, verso la modernità e l’Europa. Da mercoledì 1° dicembre il vostro giornale ospiterà per quattro mesi, fino al 17 marzo 2011, articoli di storici, docenti universitari, intellettuali, giornalisti che racconteranno gli eventi e i personaggi di quella fondamentale stagione.

Una riflessione sull’Italia di allora per meglio capire quella di oggi.

conseil.it

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30 Il caffè della domenica CULTURA E SOCIETÀ

IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO

DOMENICA 28 NOVEMBRE 2010

Quando l’Italia s’è desta Il Risorgimento degli ideali Da mercoledì il nostro viaggio attraverso la stagione dell’Unità IL “FARSI” dell’Italia nel corso dell’’800 fu paradossalmente, ad un tempo, avventura brevissima e per tanti versi improvviso e lento sedimentarsi di molteplici raccordi soprattutto culturali, che unirono nei secoli le popolazioni tra Alpi e Sicilia. Eppure la presenza, per un verso, del ruolo universale della Chiesa e il perdurare delle divisioni ereditate dalle frammentazioni territoriali del medioevo, sembravano rendere impossibile il realizzarsi di

qualsiasi utopia di unità politica. Ma poi arrivò l’’800, che raccoglieva l’espandersi dei valori della Rivoluzione francese, con la loro uguaglianza degli individui e la nuova sovranità democratica, tenute insieme da un forte sentimento di appartenenza nazionale. Questo significò allora il 17 marzo 1861, questo significò l’Unità d’Italia. L’idea di nazione, dunque, a far da lievito ad un diffuso sentimento di popoli che volevano riappropriarsi del proprio destino, protesi verso spazi di libertà ostili ai vecchi assolutismi dei principi e alle antiche immobili gerarchie sociali. Secolo cruciale, dunque, l’Ottocento, vero e proprio balzo in avanti verso una “modernità” che si allargava, nel bene e nel male, a tutti gli aspetti della realtà e che riassumeva tutte le diverse aspirazioni al collegamento del nostro paese con la più avanzata civiltà europea. Ecco perché il nostro giornale ha ritenuto importante riflettere – attraverso gli interventi dei nostri collaboratori e giornalisti, di storici, docenti universitari, intellettuali – su alcuni di tali fenomeni e su personaggi che connotarono il secolo e che trovarono particolare rispondenza nelle diverse regioni

della penisola. Consentendo in tal modo al ricordo celebrativo del nostro processo unitario di immergersi nel concreto della molteplicità delle variabili che si intrecciarono allora e che spiegano ancora oggi – di là dai miti e dai richiami monumentali – gli eventi di quella stagione. Dal 1˚ dicembre e fino a marzo 2011 - data in cui ricorre il 150˚ anniversario dell’Unità d’Italia -, dedicheremo ogni mercoledì due pagine all’argomento. Si tratta di diciassette appuntamenti, con il coordinamento redazionale di Achille Scalabrin e quello scientifico del professor Angelo Varni, che vogliono essere un invito a riflettere sull’Italia di allora per meglio capire quella di oggi. La politica, l’economia, la letteratura, l’arte, la musica accompagnarono questo cammino storico. Che il vostro giornale racconterà avvalendosi di firme importanti - da Petacco a Cardini, da Della Peruta a Franzina, da Brilli a Bressan, da Emiliani a Ugolini, da Ceccuti a Casamassima, da Ciuffoletti a tanti altri -. Si tratta di un viaggio nella storia di un Paese che appena un secolo e mezzo fa conquistò la sua indipendenza. E che oggi vuole ricordare, per continuare su quella strada.

«Attenti, il pericolo Alessandro Farruggia «DICIAMOLO chiaramente: l’Italia è un posto migliore di quello che era due secoli fa, anche grazie all’unificazione. Anche se mi rendo conto che in molti non saranno d’accordo...». Dalla sua bella casa di Oxford, indulgendo in una ironia molto british, lo storico Dennis Mack Smith — uno dei massimi esperti di Risorgimento, protagonista di epiche battaglie con icone della nostra storiografia come Rosario Romeo e Renzo De Felice — si gode i suoi novant’anni, che «mi fanno sentire più ottimista».

meriti del Risorgimento italiano? Al punto da dire, lei così critico con i Savoia e con i germi che hanno infettato il parlamentarismo italiano dell’ottocento e che poi hanno portato al fascismo, che tutto sommato fu un successo?

«Alcuni lo negano che il risorgimento abbia avuto meriti. Ma vogliamo provare che cosa sarebbe stato se l’unificazione non ci fosse stata? Ipotizzare i futuri possibili non mi appassio-

Denis Mack Smith «Senza il Sud il Nord non sarebbe decollato. Tanti passi in avanti, però...»

Al punto da riconoscere i

Sopra, un particolare de «La battaglia di Novara del 1848», olio su tela. «La battaglia di Solferino del 24 giugno 1859» di Paul Alexandre Protais

na, ma il vostro Paese, laddove non era parte di altri imperi, a metà ottocento era un mosaico di regni, graducati, ducati, individualmente di poco o nessun peso e anche globalmente di seconda fascia fino a quando, grazie a Cavour, si è trasformato una potenza europea. L’Italia ne ha tratto vantaggi e così tutta l’Europa. E quindi Cavour, pur con i suoi errori e il rapporto conflittuale con Garibaldi, dovrebbe essere caldamente ringraziato per la sua capacità di visione e il suo coraggio...». Crede che anche la Lega dovrebbe riconoscere i meriti del Risorgimento?

«Se qualcuno pensa che il Nord non ha tratto vantaggi dall’an-


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DOMENICA 28 NOVEMBRE 2010

Il caffè della domenica 31 CULTURA E SOCIETA’

«L’incontro tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi a Teano il 26 ottobre 1860», di Sebastiano De Albertis. Sotto, «Vittorio Emanuele e Cavour durante il plebiscito della Toscana»

ora è il localismo» nessione del Regno delle due Sicilie sbaglia. E sbaglia anche se pensa che il Nord si sarebbe potuto sviluppare in questo modo prodigioso fino ad essere in grado di competere alla pari con le parti più avanzate d’Europa senza il contributo economico, tecnologico e umano

del Sud, che è stato rilevante. Semmai c’è da chiedersi perchè sia andato principalmente a vantaggio del Nord. Qui la responsabilità della classe dirigente del Sud mi pare emergere con chiarezza». Ma si può dire che infine “si sono fatti gli italiani“?

«Ma certo. Lei pensa il contrario solo perchè sente parlare di Padania? La presenza di pulsioni autonomiste è comprensibile ed è una costante in tutta Europa, ma questo non significa che nel vostro Paese non ci sia un carattere nazionale e una cultura nazionale, ancorchè incompiuti. Non stato un processo perfetto? E’ la storia, che non è perfetta e va accettata per quella che è. E semmai bisogna trarne delle elezioni per il futuro..». E noi l’abbiamo fatto?

Chi è CLASSE 1920, londinese, Denis Mack Smith è uno dei maggiori storici europei. Si è occupato, con taglio di alta divulgazione, di storia italiana tra Otto e Novecento. Moltissime le sue opere: dalle biografie di Garibaldi e Mazzini, all’analisi del fascismo, alla storia di Casa Savoia.

«Disordinatamente, parzialmente. Ma se posso avanzare un modesto suggerimento da un novantenne innamorato dell’Italia, cercate di non essere prigionieri di rivendicazioni localistiche nè di vittimismi e abbiate la saggezza di percepire l’immagine globale. Se guardate alla situazione disastrosa nella quale versava l’Italia ancora alla fine della seconda guerra mondiale non potrete che riconoscere che sì, i passi in avanti sono stati notevoli pur se tra mille problemi come il persistente divario tra Nord e Sud, la ricorrente tendenza al populismo, le infiltrazioni della criminalità organizzata. L’Italia non è ancora una nazione in pace con se stessa, ma vi siete rialzati».


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MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

DA SUDDITI A CITTADINI PER DECIDERE IL PROPRIO FUTURO. UNO STATO UNITARIO A COSTO ANCHE DELLA PROPRIA VITA

Carlo Alberto entra a Pavia (stampa dell’epoca); «Manin proclama la Repubblica di Venezia, 1848» - Museo Risorgimento di Venezia

Una sola Patria per

Con la Rivoluzione francese nacque l’idea di nazione, di ANGELO VARNI

FU LA RIVOLUZIONE francese a diffondere in Europa l’aspirazione dei popoli a costituirsi in libere comunità nazionali. Nel momento, cioè, in cui i sudditi delle precedenti monarchie assolute si trasformavano in cittadini uguali di fronte alla legge e reclamavano il diritto-dovere di partecipare, attraverso i propri rappresentanti eletti, alle decisioni di governo, ecco che dovevano riconoscersi in collettività omogenee, tenute insieme da vincoli che ne giustificassero un identico destino. Nacque allora il concetto di patria, con tutta la sua tensione etico-politica, la sua capacità di porsi in cima alla scala dei valori cui finiva per essere lecito sacrificare anche la propria vita. Con una sfumatura pure religiosa, in grado di sostituirsi con ugual forza alla concezione, fino ad allora accettata, di un potere esercitato per diritto divino. Da qui l’uso

«Bersaglieri che conducono prigionieri austriaci», di Silvestro Lega Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze

della parola martire al di fuori del tradizionale contesto cristiano, per qualificare chi si sacrificava, appunto, per la patria, avvolta, così, in sorta di aura di sacralità. Le conquiste napoleoniche di tanta parte della nostra penisola, tra fine ‘700 e primo decennio dell’’800, immersero da subito l’Italia in questa

LO SQUILLO

atmosfera culturale ed in questa prospettiva politica. Il progetto di costruire uno Stato nazionale unitario e indipendente dallo straniero uscì dalle aspirazioni intellettuali dei nostri maggiori letterati (da Dante , a Petrarca, a Machiavelli) e divenne programma concreto di una battaglia, dove l’anelito ad un comune ri-

di Pino Casamassima

Quando il mare inghiottì l’«Ercole» U PALERMO splendeva il sole quel lunedì 4 marzo 1861, quando salpò l’«Ercole», una nave a vapore sulla quale si trovava anche Ippolito Nievo, trentenne letterato padovano al seguito di Garibaldi, di cui era stato il cronista più attento. La nave s’inabissò al largo di Napoli, sua destinazione finale. Il 17 marzo nasceva il Regno d’Italia, e sull’affondamento dell’“Ercole” calò il sipario. Le cause del disastro furono addebitate allo scoppio di una caldaia. Cento anni dopo, Giulio Di Vita, uno studioso del Risorgimento, riaprì il caso, sostenendo che gli inglesi avevano versato a Garibaldi tre milioni

S Camillo Benso, conte di Cavour ( ritratto dell’epoca)


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MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

CULTURA & SOCIETA’ 37 IDENTIKIT DELLA PRIMA CLASSE DIRIGENTE

Quell’élite di patrizi con animo liberale di ZEFFIRO CIUFFOLETTI

L’INDIPENDENZA DALLO STRANIERO: UN’IDEA DI DANTE E MACHIAVELLI CHE MAZZINI, GARIBALDI E CAVOUR TRASFORMARONO IN REALTA’

tante diversità

poi il Risorgimento la consegnò agli Italiani considerazione di uniformità di razza, di sangue, di territorio, persino di lingua: di appartenenze, in definitiva, sanzionate a priori dalla natura, ritenute, invece, solo indizi dell’esistenza di una famiglia nazionale. Questa occorreva vivesse, al contrario, nella coscienza di ognuno, nella volontà di esserne parte, nella disponibilità ad assumerne il carico di doveri necessari al compito supremo di contribuire al progresso collettivo dell’umanità in armonia con le altre nazioni, ugualmente assurte a indipendenza e ad autonomo autogoverno. sorgimento delle popolazioni, divise in una molteplicità di Stati retti da principi assoluti, si nutriva dei valori di libertà e democrazia, ereditati dall’’89, e trasfusi in un’Europa avviata a grandi passi verso nuovi livelli di progresso materiale e civile. In questo senso l’idea di nazione che animò il nostro cammino verso l’unità rimase estranea ad ogni

ERA QUESTA, in particolare, la voce di Mazzini a parlare agli Italiani incitandoli alla lotta e portando in tal modo nel nostro paese le suggestioni del miglior romanticismo europeo, quello che coniugava sentimento e libertà, grandi ideali e disponibilità al sacrificio per raggiungerli, richiamo alle radici del passato e aspirazione appassionata alla costruzione di un futuro ricco dei valori dello spirito.

e i segreti dei Mille di franchi francesi («diversi milioni di euro attuali») per agevolare con la corruzione la “conquista” del Sud in funzione antiborbonica. Si spiegava così la resa di Palermo – assolutamente inconcepibile sul piano militare – ottenuta non a colpi di moschetto, ma di piastre d’oro: quelle versate a Ferdinando Lanza, il generale napoletano che fece ‘arrendere’ centomila uomini a poco più di mille. Ma si spiegava così anche il naufragio di una nave che trasportava i registri finanziari della spedizione garibaldina. Il giovane Nievo avrebbe potuto salvarsi se solo avesse dato retta a Hennequin, console inglese a Palermo, che cercò di dissuadere quel giovane e ingenuo «poet» dall’imbarcarsi sull’«Ercole».

Ma non si trattava solo del messaggio fatto giungere nel paese dall’esule genovese: l’intero gruppo dirigente che seppe realizzare, sotto la guida lucidissima di Cavour e in collaborazione con il vittorioso azionismo garibaldino, il “miracolo” dell’unità, in nessun momento si lasciò attrarre da una concezione della nazione che non fosse sostanza di libertà per la società italiana. Senza mai indulgere ad un’interpretazione egoistica della cittadinanza nazionale, dove il

Sentimento e libertà Un’unica famiglia nazionale nonostante la non uniformità di razza, di sangue e di lingua pacifico combinarsi con gli altri Stati nazionali europei escludesse prevaricazioni, superiorità razziali, illusioni di conquista. Quando, dunque, negli ultimi decenni del secolo, sotto l’impressione della raggiunta unità dello Stato tedesco dovuta alla forza delle armi prussiane, la speranza di nazione si tramutò in nazionalismo sopraffattore, il richiamo all’ideale risorgimentale si spense e si spezzò il legame inscindibile con il sogno di democrazia dei popoli. E furono allora le guerre del ‘900, i soprusi etnici, le conflittualità di un oggi, incapace di comprendere il messaggio più profondo di quell’eredità lasciataci dall’ elaborazione civile e morale dell’’800. La presente occasione commemorativa deve aiutarci, di là da ogni retorica, a riprendere il filo di quel pensiero che ci vide non ultimi protagonisti della cultura e della politica europee.

LE CLASSI dirigenti che segnarono la nascita dello stato unitario provenivano in generale dal patriziato urbano storicamente dominante nelle città dell’Italia centrosettentrionale. Durante il quindicennio successivo all’Unità – ovvero nel periodo di quella Destra storica che pose le basi dello Stato liberale – il 43% dei ministri apparteneva infatti alla nobiltà, o borghesia terriera e proveniva dall’area centrosettentrionale della Penisola. Per quanto spesso dissimili per cultura e per formazione, gli uomini politici che costruirono lo Stato unitario avevano da secoli fatto delle città l’epicentro del rispettivo potere politico e sociale, sebbene la fonte principale della loro ricchezza derivasse prevalentemente dalla proprietà fondiaria e dalla rendita che da questa ricavavano. Tuttavia, più che veri e propri percettori di rendita, essi erano spesso veri e propri imprenditori agricoli. LA NOBILTÀ ITALIANA – per ragioni storiche, geografiche ed economiche, ma anche per via della frammentazione politica della Penisola – rappresentava un caso estremo di diversificazione nel quadro della aristocrazia europea. Del resto, il processo che condusse all’unificazione fu visto come un fenomeno eversivo da buona parte della nobiltà romana e anche da quella meridionale, con conseguenze non indifferenti sullo stesso processo di costruzione della nazione. Nonostante le diversità, proprio da questa nobiltà cittadina, spesso colta e aperta alle nuove correnti ideali e culturali europee, provenivano in gran parte i ristretti nuclei di patrizi subalpini, liguri, lombardi, veneti e toscani che alimentarono il liberalismo – laico e cattolico – dell’era risorgimentale. Si pensi a Federico Confalonieri, una delle figure di primo piano del patriziato milanese e al gruppo del Conciliatore, oppure al gruppo toscano di Capponi, Ricasoli e Ridolfi, unito intorno all’«Antologia» e all’«Accademia dei Ge-

orgofili». Un patriziato cittadino che proprio perché eroso nei suoi privilegi di ceto dall’avanzare dello stato amministrativo e dell’accentramento burocratico, era particolarmente sensibile alle istanze ideali liberali e patriottiche che si manifestarono con forza nell’età del Romanticismo e della Restaurazione. Questo patriziato cittadino, spesso liberale e liberista come nel caso dei lombardi e dei toscani, nutrì la ferma convinzione che la questione italiana e la questione costituzionale dovessero andare di pari passo e, magari, trovare soluzione nell’istituzione di un’unione confederale. Pur dotati di sensibilità religiosa, i liberali italiani miravano alla separazione fra Stato e Chiesa o alla riforma di quest’ultima. Infine, essi avevano una costante attenzione alle tematiche relative al progresso tecnico-economico e allo sviluppo dei canali navigabili e delle ferrovie, ma mostravano anche una certa sensibilità sociale, troppo spesso considerata, in maniera sbrigativa, di tipo paternalistico. In verità, i più illuminati favorirono l’istruzione del popolo e – quando fu possibile – svilupparono il mutuo soccorso e l’associazionismo, nonché le Casse di Risparmio per i ceti popolari.

Sensibili all’Europa Proprietari terrieri e borghesi di origini centrosettentrionali Furono queste – in una realtà prevalentemente agricola come era la penisola nella prima metà dell’’800 – le élites destinate a svolgere un ruolo attivo nel corso del Risorgimento e, successivamente, nella costruzione dello Stato nazionale. PER TUTTI LORO non potevano esserci Risorgimento e Stato nazionale senza un parallelo sviluppo dell’economia e della società civile. Cavour, Ricasoli e Minghetti furono fra i maggiori artefici della indipendenza nazionale e della costruzione dello Stato unitario. Furono, per forza di cose e per destino, ma anche per passione, cultura, senso di responsabilità e coraggio, uomini di Stato che venivano, appunto, dalla Terra e dall’esperienza imprenditoriale.


38 CULTURA & SOCIETA’

di ROBERTO BALZANI *

GARIBALDI, UNICO PADRE DELLA PATRIA A VISITARE TUTTO IL PAESE. PER UNIFICARLO

SONO POCHI, nel Risorgimento, i personaggi che hanno attraversato davvero la penisola, dalle Alpi alla Sicilia. Cavour non frequentava volentieri gli ambienti a sud del Po, ai quali preferiva di gran lunga le villes lumières, Parigi e Londra. Mazzini, poi, fu addirittura il leader assente, l’uomo il cui profilo, per moltissimi patrioti, prese forma più nell’immaginazione che nella realtà: se si escludono il 1848-49 e il 1860, la sua presenza pubblica fu infatti pressoché nulla, anche a causa della vita da cospiratore braccato che lo accompagnò per quarant’anni. Andò meglio a Massimo d’Azeglio, in alcuni momenti della stagione riformatrice antecedente il ’48; e, forse, in circuiti più regionali, a Farini e a Ricasoli. Ma si tratta di personaggi considerati dal grande pubblico alla

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stregua di comprimari. L’unico, fra i “padri della patria”, ad aver davvero visto il paese, tanto sotto il profilo sociale, quanto sotto quello paesaggistico, fu Giuseppe Garibaldi. Le sue peregrinazioni nel teatro bellico del nord Italia, nel 1848-49 e nel 1859; le campagne di Roma; la spedizione siciliana del 1860 e quella finita in Aspromonte nel 1862; la breve guerra in Trentino nel 1866; e, dopo il 1870, le sue presenze in luoghi e città della “nuova Italia”, scortato dal suo “stato maggiore” ed acclamato da reduci, società operaie e deputati progressisti, rendono evidente la mobilità dell’Eroe dei Due Mondi e la sua straordinaria capacità di venire in contatto con i mille volti del paese. UN ININTERROTTO itinerario di lapidi e monumenti, d’altronde, conferma il rilievo attribuito, già all’indomani dell’Unità, al contatto fra il Generale e le piccole patrie: al punto da generare, in alcuni casi, veri e propri rituali da “santo protettore” laico, come a Cesenatico a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento. Ma non è della “memoria di marmo” che ci si vuole qui occupare. Il tema, piuttosto, è quello dei riflessi indotti dal passaggio garibaldino sull’identità dei territori, anche a distanza di tempo. Il caso forse più clamoroso è rappresentato dalla cosiddetta “trafila” che consentì a Garibaldi di sfuggire a quattro eserciti nell’esta-

LO SQUILLO

te del 1849, inseguito con i suoi uomini dopo la caduta della Repubblica romana. La storia è nota. Uscito da Roma il 2 luglio con circa 4.000 effettivi, il Generale raggiungeva rocambolescamente San Marino il 31 luglio, con la moglie Anita incinta e malata. A quel punto, contando di poter guadagnare la via per Venezia, egli affidava il destino suo e di circa 250 fedelissimi ad una rete di patrioti locali, di fatto ignoti, i quali lo aiutarono a scendere in Romagna, ad evitare gl’imperiali, ad imbarcarsi a Cesenatico e - dopo esser stato intercettato all’altezza delle Valli di Comacchio -, a riprendere la fuga con l’inseparabile Leggero attraverso Ravenna, Forlì, Modigliana e, di lì, per Cerbaia, Prato, Empoli fino a Massa Marittima e Cala Martina, nel Grossetano, da dove s’imbarcò, ormai libero, il 2 settembre 1849. Nel frattempo, Anita era morta, Ugo Bassi e Ciceruacchio erano stati fucilati, la tragedia dei democratici in fuga si era compiuta: ma l’Eroe era stato salvato. Il capanno in cui aveva trovato ricovero, alla periferia di Ravenna, sarebbe stato equiparato dai repubblicani locali, vent’anni dopo, alla capanna di Betlemme: un posto dove si era fatta l’Unità d’Italia. Il capanno esiste ancora, dov’era e com’era: una società, da 130 anni, ne custodisce la memoria e ne cura la manutenzione. Ma Garibaldi era sceso pure attraverso le Marche, da Pesaro al-

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la valle del Tronto, durante la trionfale marcia d’avvicinamento a Roma, nel gennaio 1849. Egli andava nella Città eterna per la Costituente, e, al suo passare, mobilitava i giovani e i reduci della recente campagna nel Veneto, delusi e amareggiati dalla conclusione ingloriosa del “loro” ’48. Diverso lo stato d’animo con cui sarebbe giunto, ferito, a Pisa, nel novembre 1862, dopo i fatti di Aspromonte. Il Garibaldi pisano, il cui ricordo è testimoniato sul Lungarno dal monumento di Ettore Ferrari, condensava in sé l’aspirazione repressa a un moto popolare per liberare Roma e, d’altro canto, il senso di una “guerra civile” strisciante fra moderati e democratici, che si sarebbe risolta a vantaggio dei primi alcuni anni dopo, a Mentana (1867). Gli itinerari garibaldini

di Pino Casamassima

Michelina, che per amore diventò brigantessa L FENOMENO del brigantaggio meridionale, esploso dopo l’unità d’Italia, coinvolse anche diverse donne. Una di esse fu Michelina Di Desare, la cui «pessima condotta» è documentata nei registri del comune di Caspoli (Caserta) con una segnalazione del maggio del 1868, cioè tre mesi prima della sua morte,

I

avvenuta il 30 agosto di quell’anno, quando la brigantessa aveva 26 anni. La «malavita» di Michelina era iniziata fin dall’infanzia, quando la fame l’aveva spinta a compiere diversi furti, finché a vent’anni – in quel 1861 che aveva salutato l’unità d’Italia – era andata in sposa a un cafone del luogo: tal Rocco Tanga,

morto però dopo nemmeno un anno. Francesco Guerra era un ex soldato borbonico, poi affiliato alla banda di Rafaniello, di cui aveva assunto il comando alla sua morte. Michelina lo conobbe casualmente, se ne innamorò, e ne condivise la condizione di brigante. Grazie alla spiata per soldi di Giovanni, fratello di Michelina, la

banda fu sorpresa e sgominata: dopo l’uccisione del suo uomo, la brigantessa si battè strenuamente fino alla morte. Poi anche lei fu denudata, esposta nella pubblica piazza, e fotografata: l’immagine del suo cadavere contrasta con un’altra che la ritrae bella e fiera nel suo costume “della festa”.


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CULTURA & SOCIETA’ 39

LA DELUSIONE DEI GARIBALDINI DOPO L’UNITA’ «Garibaldi davanti a Capua» di Girolamo Induno (Museo del Risorgimento di Milano); «Garibaldi nella battaglia di Calatafini» di Remy-Legat (Museo del Risorgimento di Milano). Sotto: «Garibaldi mentre trasporta Anita morente» di Pietro Bauvier (Museo del Risorgimento di Brescia)

conservano, quindi, la testimonianza tanto del grande “pellegrinaggio involontario” dell’Eroe dei Due Mondi, quanto delle fasi alterne del Risorgimento, di cui egli fu protagonista: luoghi importanti non solo per alimentare il contributo locale al pantheon nazionale, ma per capire, attraverso eventi non di rado drammatici, le fasi complesse e controverse, spesso segnate da una traccia rossa come una camicia e come il sangue, che hanno fatto della nostra penisola una Nazione. (*) Docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna

Poi venne la stagione dei ‘limoni spremuti’ di COSIMO CECCUTI *

RITORNARE alle fonti: carteggi, biografie, diari, memorie. Può essere questa la via da percorrere, pur con le opportune accortezze, per ritrovare nella rivisitazione del Risorgimento, a 150 anni dall’Unità d’Italia, una dimensione fedele ed umana, contro le deviazioni dell’agiografia e della retorica di antica memoria o le forzature di certe “mode revisionistiche” dei nostri giorni, che rischiano egualmente di snaturare il significato ed i valori di una stagione della storia italiana ed europea che sta alle origini della nostra comunità nazionale. Anche quella memorialistica aveva spesso intenti ben precisi. Popolari biografie della seconda metà dell’Ottocento, come quelle di Jessie White Mario, l’infermiera dei Mille, dedicate a Garibaldi come a Mazzini, erano dettate dal desiderio di costruire o rafforzare il mito degli “eroi”, cercando altresì di evidenziare il contributo delle correnti democratiche al processo di unità nazionale, soffocato nella storiografia ufficiale dall’egemonia

Le memorie di chi c’era Il successo di Garibaldi non piace al re, che in tutta fretta liquida i suoi fedelissimi sabauda, esaltante oltre ogni limite il ruolo svolto dalla Monarchia. Se rileggiamo le note di alcuni protagonisti, spesso appartati e discreti, si coglie l’efficacia e l’autenticità di una vicenda complessiva assai più vicina a noi, fatta di grandezze e di miserie, di generosità e di egoismi, in una più corretta collocazione delle figure e degli eventi. Penso alla recente, opportuna ristampa delle memorie di Giuseppe Bandi, I Mille (editore Polistampa), un livornese che segue devotamente Garibaldi nella sua più clamorosa impresa. Ebbene, un solo esempio demitizzante: l’autore non parla mai dell’incontro di Teano, “gonfiato” nei

resoconti ufficiali per opportunità politica e retorica nazionalistica. E’ vero che Bandi si ripromette di riferire solo ciò a cui è stato concretamente presente (non si trovava a Teano), ma nessun accenno, nelle sue pagine, nessun richiamo all’episodio eretto a simbolo della collaborazione e dell’unità d’intenti. La verità storica, che affiora da quelle memorie, ricorda piuttosto l’irritazione del Re, “geloso” del clamoroso successo di Garibaldi, il fastidio delle truppe piemontesi per i volontari garibaldini, il vivo desiderio di “toglierseli tutti di torno”, una volta ricevuto nelle mani un regno. Era stata negata la proroga della dittatura a Garibaldi, che l’aveva chiesta, era stato ferito l’orgoglio dei garibaldini cui fu impedito di battersi insieme alle truppe regolari per il completamento dell’impresa,

Grandezze e miserie Il mito degli eroi nasce per per bilanciare i meriti impropri che Casa Savoia si attribuisce contro le ultime residue resistenze del Borbone. Sollevate dal compito che fra tante reticenze si erano assegnato – liberare il Mezzogiorno - le camicie rosse, furono congedate dopo l’ultimo atto loro consentito, quello di partecipare o piuttosto assistere alla presa di Capua. Garibaldi, del resto, se ne va, poiché si rifiuta di assistere al bombardamento della città deciso dai piemontesi del Generale della Rocca: “In vita mia non ho mai tirato cannonate sui civili”; fu il suo sprezzante commento nel malinconico saluto ai volontari. Al Re fu impedito dalla ragion di Stato di recarsi al campo dei garibaldini, né rivolse loro l’atteso ordine del giorno. “Il nostro compito era finito – si lamenta Bandi- ma non ne veniva per conseguenza buona e legittima che ci si considerasse così dall’oggi al domani come limoni oramai spremuti e non buoni che a gettarsi via”. Eppure è bene cercare ancora oggi tra quei “limoni spremuti” le radici autentiche e solide della nostra identità di nazione. (*) Docente di Storia dei partiti e delle rappresentanze politiche, Università di Firenze


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