IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
GIOVEDÌ 25 NOVEMBRE 2010
150 anni d’Italia, insieme al tuo Quotidiano
Legat R. (sec. XIX): Battaglia di Calatafimi. Milano, Museo del Risorgimento. © 2010. Foto Scala, Firenze
Ogni mercoledì due pagine dedicate al Risorgimento Andare insieme verso la libertà, il progresso e la crescita civile: questo volevano gli italiani, uomini e donne, che fecero l’Italia unita. Un’Unità conquistata il 17 marzo 1861 con aspre ed epiche battaglie sostenute da questi forti ideali. La politica, l’economia, la letteratura, l’arte, la musica accompagnarono il Paese verso un sentire comune, verso la modernità e l’Europa. Da mercoledì 1° dicembre il vostro giornale ospiterà per quattro mesi, fino al 17 marzo 2011, articoli di storici, docenti universitari, intellettuali, giornalisti che racconteranno gli eventi e i personaggi di quella fondamentale stagione.
Una riflessione sull’Italia di allora per meglio capire quella di oggi.
conseil.it
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30 Il caffè della domenica CULTURA E SOCIETÀ
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
DOMENICA 28 NOVEMBRE 2010
Quando l’Italia s’è desta Il Risorgimento degli ideali Da mercoledì il nostro viaggio attraverso la stagione dell’Unità IL “FARSI” dell’Italia nel corso dell’’800 fu paradossalmente, ad un tempo, avventura brevissima e per tanti versi improvviso e lento sedimentarsi di molteplici raccordi soprattutto culturali, che unirono nei secoli le popolazioni tra Alpi e Sicilia. Eppure la presenza, per un verso, del ruolo universale della Chiesa e il perdurare delle divisioni ereditate dalle frammentazioni territoriali del medioevo, sembravano rendere impossibile il realizzarsi di
qualsiasi utopia di unità politica. Ma poi arrivò l’’800, che raccoglieva l’espandersi dei valori della Rivoluzione francese, con la loro uguaglianza degli individui e la nuova sovranità democratica, tenute insieme da un forte sentimento di appartenenza nazionale. Questo significò allora il 17 marzo 1861, questo significò l’Unità d’Italia. L’idea di nazione, dunque, a far da lievito ad un diffuso sentimento di popoli che volevano riappropriarsi del proprio destino, protesi verso spazi di libertà ostili ai vecchi assolutismi dei principi e alle antiche immobili gerarchie sociali. Secolo cruciale, dunque, l’Ottocento, vero e proprio balzo in avanti verso una “modernità” che si allargava, nel bene e nel male, a tutti gli aspetti della realtà e che riassumeva tutte le diverse aspirazioni al collegamento del nostro paese con la più avanzata civiltà europea. Ecco perché il nostro giornale ha ritenuto importante riflettere – attraverso gli interventi dei nostri collaboratori e giornalisti, di storici, docenti universitari, intellettuali – su alcuni di tali fenomeni e su personaggi che connotarono il secolo e che trovarono particolare rispondenza nelle diverse regioni
della penisola. Consentendo in tal modo al ricordo celebrativo del nostro processo unitario di immergersi nel concreto della molteplicità delle variabili che si intrecciarono allora e che spiegano ancora oggi – di là dai miti e dai richiami monumentali – gli eventi di quella stagione. Dal 1˚ dicembre e fino a marzo 2011 - data in cui ricorre il 150˚ anniversario dell’Unità d’Italia -, dedicheremo ogni mercoledì due pagine all’argomento. Si tratta di diciassette appuntamenti, con il coordinamento redazionale di Achille Scalabrin e quello scientifico del professor Angelo Varni, che vogliono essere un invito a riflettere sull’Italia di allora per meglio capire quella di oggi. La politica, l’economia, la letteratura, l’arte, la musica accompagnarono questo cammino storico. Che il vostro giornale racconterà avvalendosi di firme importanti - da Petacco a Cardini, da Della Peruta a Franzina, da Brilli a Bressan, da Emiliani a Ugolini, da Ceccuti a Casamassima, da Ciuffoletti a tanti altri -. Si tratta di un viaggio nella storia di un Paese che appena un secolo e mezzo fa conquistò la sua indipendenza. E che oggi vuole ricordare, per continuare su quella strada.
«Attenti, il pericolo Alessandro Farruggia «DICIAMOLO chiaramente: l’Italia è un posto migliore di quello che era due secoli fa, anche grazie all’unificazione. Anche se mi rendo conto che in molti non saranno d’accordo...». Dalla sua bella casa di Oxford, indulgendo in una ironia molto british, lo storico Dennis Mack Smith — uno dei massimi esperti di Risorgimento, protagonista di epiche battaglie con icone della nostra storiografia come Rosario Romeo e Renzo De Felice — si gode i suoi novant’anni, che «mi fanno sentire più ottimista».
meriti del Risorgimento italiano? Al punto da dire, lei così critico con i Savoia e con i germi che hanno infettato il parlamentarismo italiano dell’ottocento e che poi hanno portato al fascismo, che tutto sommato fu un successo?
«Alcuni lo negano che il risorgimento abbia avuto meriti. Ma vogliamo provare che cosa sarebbe stato se l’unificazione non ci fosse stata? Ipotizzare i futuri possibili non mi appassio-
Denis Mack Smith «Senza il Sud il Nord non sarebbe decollato. Tanti passi in avanti, però...»
Al punto da riconoscere i
Sopra, un particolare de «La battaglia di Novara del 1848», olio su tela. «La battaglia di Solferino del 24 giugno 1859» di Paul Alexandre Protais
na, ma il vostro Paese, laddove non era parte di altri imperi, a metà ottocento era un mosaico di regni, graducati, ducati, individualmente di poco o nessun peso e anche globalmente di seconda fascia fino a quando, grazie a Cavour, si è trasformato una potenza europea. L’Italia ne ha tratto vantaggi e così tutta l’Europa. E quindi Cavour, pur con i suoi errori e il rapporto conflittuale con Garibaldi, dovrebbe essere caldamente ringraziato per la sua capacità di visione e il suo coraggio...». Crede che anche la Lega dovrebbe riconoscere i meriti del Risorgimento?
«Se qualcuno pensa che il Nord non ha tratto vantaggi dall’an-
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DOMENICA 28 NOVEMBRE 2010
Il caffè della domenica 31 CULTURA E SOCIETA’
«L’incontro tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi a Teano il 26 ottobre 1860», di Sebastiano De Albertis. Sotto, «Vittorio Emanuele e Cavour durante il plebiscito della Toscana»
ora è il localismo» nessione del Regno delle due Sicilie sbaglia. E sbaglia anche se pensa che il Nord si sarebbe potuto sviluppare in questo modo prodigioso fino ad essere in grado di competere alla pari con le parti più avanzate d’Europa senza il contributo economico, tecnologico e umano
del Sud, che è stato rilevante. Semmai c’è da chiedersi perchè sia andato principalmente a vantaggio del Nord. Qui la responsabilità della classe dirigente del Sud mi pare emergere con chiarezza». Ma si può dire che infine “si sono fatti gli italiani“?
«Ma certo. Lei pensa il contrario solo perchè sente parlare di Padania? La presenza di pulsioni autonomiste è comprensibile ed è una costante in tutta Europa, ma questo non significa che nel vostro Paese non ci sia un carattere nazionale e una cultura nazionale, ancorchè incompiuti. Non stato un processo perfetto? E’ la storia, che non è perfetta e va accettata per quella che è. E semmai bisogna trarne delle elezioni per il futuro..». E noi l’abbiamo fatto?
Chi è CLASSE 1920, londinese, Denis Mack Smith è uno dei maggiori storici europei. Si è occupato, con taglio di alta divulgazione, di storia italiana tra Otto e Novecento. Moltissime le sue opere: dalle biografie di Garibaldi e Mazzini, all’analisi del fascismo, alla storia di Casa Savoia.
«Disordinatamente, parzialmente. Ma se posso avanzare un modesto suggerimento da un novantenne innamorato dell’Italia, cercate di non essere prigionieri di rivendicazioni localistiche nè di vittimismi e abbiate la saggezza di percepire l’immagine globale. Se guardate alla situazione disastrosa nella quale versava l’Italia ancora alla fine della seconda guerra mondiale non potrete che riconoscere che sì, i passi in avanti sono stati notevoli pur se tra mille problemi come il persistente divario tra Nord e Sud, la ricorrente tendenza al populismo, le infiltrazioni della criminalità organizzata. L’Italia non è ancora una nazione in pace con se stessa, ma vi siete rialzati».
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IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010
DA SUDDITI A CITTADINI PER DECIDERE IL PROPRIO FUTURO. UNO STATO UNITARIO A COSTO ANCHE DELLA PROPRIA VITA
Carlo Alberto entra a Pavia (stampa dell’epoca); «Manin proclama la Repubblica di Venezia, 1848» - Museo Risorgimento di Venezia
Una sola Patria per
Con la Rivoluzione francese nacque l’idea di nazione, di ANGELO VARNI
FU LA RIVOLUZIONE francese a diffondere in Europa l’aspirazione dei popoli a costituirsi in libere comunità nazionali. Nel momento, cioè, in cui i sudditi delle precedenti monarchie assolute si trasformavano in cittadini uguali di fronte alla legge e reclamavano il diritto-dovere di partecipare, attraverso i propri rappresentanti eletti, alle decisioni di governo, ecco che dovevano riconoscersi in collettività omogenee, tenute insieme da vincoli che ne giustificassero un identico destino. Nacque allora il concetto di patria, con tutta la sua tensione etico-politica, la sua capacità di porsi in cima alla scala dei valori cui finiva per essere lecito sacrificare anche la propria vita. Con una sfumatura pure religiosa, in grado di sostituirsi con ugual forza alla concezione, fino ad allora accettata, di un potere esercitato per diritto divino. Da qui l’uso
«Bersaglieri che conducono prigionieri austriaci», di Silvestro Lega Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze
della parola martire al di fuori del tradizionale contesto cristiano, per qualificare chi si sacrificava, appunto, per la patria, avvolta, così, in sorta di aura di sacralità. Le conquiste napoleoniche di tanta parte della nostra penisola, tra fine ‘700 e primo decennio dell’’800, immersero da subito l’Italia in questa
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atmosfera culturale ed in questa prospettiva politica. Il progetto di costruire uno Stato nazionale unitario e indipendente dallo straniero uscì dalle aspirazioni intellettuali dei nostri maggiori letterati (da Dante , a Petrarca, a Machiavelli) e divenne programma concreto di una battaglia, dove l’anelito ad un comune ri-
di Pino Casamassima
Quando il mare inghiottì l’«Ercole»
S Camillo Benso, conte di Cavour ( ritratto dell’epoca)
U PALERMO splendeva il sole quel lunedì 4 marzo 1861, quando salpò l’«Ercole», una nave a vapore sulla quale si trovava anche Ippolito Nievo, trentenne letterato padovano al seguito di Garibaldi, di cui era stato il cronista più attento. La nave s’inabissò al largo di Napoli, sua destinazione finale. Il 17 marzo nasceva il Regno d’Italia, e sull’affondamento dell’“Ercole” calò il sipario. Le cause del disastro furono addebitate allo scoppio di una caldaia. Cento anni dopo, Giulio Di Vita, uno studioso del Risorgimento, riaprì il caso, sostenendo che gli inglesi avevano versato a Garibaldi tre milioni
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CULTURA & SOCIETA’ 37 IDENTIKIT DELLA PRIMA CLASSE DIRIGENTE
Quell’élite di patrizi con animo liberale di ZEFFIRO CIUFFOLETTI
L’INDIPENDENZA DALLO STRANIERO: UN’IDEA DI DANTE E MACHIAVELLI CHE MAZZINI, GARIBALDI E CAVOUR TRASFORMARONO IN REALTA’
tante diversità
poi il Risorgimento la consegnò agli Italiani considerazione di uniformità di razza, di sangue, di territorio, persino di lingua: di appartenenze, in definitiva, sanzionate a priori dalla natura, ritenute, invece, solo indizi dell’esistenza di una famiglia nazionale. Questa occorreva vivesse, al contrario, nella coscienza di ognuno, nella volontà di esserne parte, nella disponibilità ad assumerne il carico di doveri necessari al compito supremo di contribuire al progresso collettivo dell’umanità in armonia con le altre nazioni, ugualmente assurte a indipendenza e ad autonomo autogoverno. sorgimento delle popolazioni, divise in una molteplicità di Stati retti da principi assoluti, si nutriva dei valori di libertà e democrazia, ereditati dall’’89, e trasfusi in un’Europa avviata a grandi passi verso nuovi livelli di progresso materiale e civile. In questo senso l’idea di nazione che animò il nostro cammino verso l’unità rimase estranea ad ogni
ERA QUESTA, in particolare, la voce di Mazzini a parlare agli Italiani incitandoli alla lotta e portando in tal modo nel nostro paese le suggestioni del miglior romanticismo europeo, quello che coniugava sentimento e libertà, grandi ideali e disponibilità al sacrificio per raggiungerli, richiamo alle radici del passato e aspirazione appassionata alla costruzione di un futuro ricco dei valori dello spirito.
e i segreti dei Mille di franchi francesi («diversi milioni di euro attuali») per agevolare con la corruzione la “conquista” del Sud in funzione antiborbonica. Si spiegava così la resa di Palermo – assolutamente inconcepibile sul piano militare – ottenuta non a colpi di moschetto, ma di piastre d’oro: quelle versate a Ferdinando Lanza, il generale napoletano che fece ‘arrendere’ centomila uomini a poco più di mille. Ma si spiegava così anche il naufragio di una nave che trasportava i registri finanziari della spedizione garibaldina. Il giovane Nievo avrebbe potuto salvarsi se solo avesse dato retta a Hennequin, console inglese a Palermo, che cercò di dissuadere quel giovane e ingenuo «poet» dall’imbarcarsi sull’«Ercole».
Ma non si trattava solo del messaggio fatto giungere nel paese dall’esule genovese: l’intero gruppo dirigente che seppe realizzare, sotto la guida lucidissima di Cavour e in collaborazione con il vittorioso azionismo garibaldino, il “miracolo” dell’unità, in nessun momento si lasciò attrarre da una concezione della nazione che non fosse sostanza di libertà per la società italiana. Senza mai indulgere ad un’interpretazione egoistica della cittadinanza nazionale, dove il
Sentimento e libertà Un’unica famiglia nazionale nonostante la non uniformità di razza, di sangue e di lingua pacifico combinarsi con gli altri Stati nazionali europei escludesse prevaricazioni, superiorità razziali, illusioni di conquista. Quando, dunque, negli ultimi decenni del secolo, sotto l’impressione della raggiunta unità dello Stato tedesco dovuta alla forza delle armi prussiane, la speranza di nazione si tramutò in nazionalismo sopraffattore, il richiamo all’ideale risorgimentale si spense e si spezzò il legame inscindibile con il sogno di democrazia dei popoli. E furono allora le guerre del ‘900, i soprusi etnici, le conflittualità di un oggi, incapace di comprendere il messaggio più profondo di quell’eredità lasciataci dall’ elaborazione civile e morale dell’’800. La presente occasione commemorativa deve aiutarci, di là da ogni retorica, a riprendere il filo di quel pensiero che ci vide non ultimi protagonisti della cultura e della politica europee.
LE CLASSI dirigenti che segnarono la nascita dello stato unitario provenivano in generale dal patriziato urbano storicamente dominante nelle città dell’Italia centrosettentrionale. Durante il quindicennio successivo all’Unità – ovvero nel periodo di quella Destra storica che pose le basi dello Stato liberale – il 43% dei ministri apparteneva infatti alla nobiltà, o borghesia terriera e proveniva dall’area centrosettentrionale della Penisola. Per quanto spesso dissimili per cultura e per formazione, gli uomini politici che costruirono lo Stato unitario avevano da secoli fatto delle città l’epicentro del rispettivo potere politico e sociale, sebbene la fonte principale della loro ricchezza derivasse prevalentemente dalla proprietà fondiaria e dalla rendita che da questa ricavavano. Tuttavia, più che veri e propri percettori di rendita, essi erano spesso veri e propri imprenditori agricoli. LA NOBILTÀ ITALIANA – per ragioni storiche, geografiche ed economiche, ma anche per via della frammentazione politica della Penisola – rappresentava un caso estremo di diversificazione nel quadro della aristocrazia europea. Del resto, il processo che condusse all’unificazione fu visto come un fenomeno eversivo da buona parte della nobiltà romana e anche da quella meridionale, con conseguenze non indifferenti sullo stesso processo di costruzione della nazione. Nonostante le diversità, proprio da questa nobiltà cittadina, spesso colta e aperta alle nuove correnti ideali e culturali europee, provenivano in gran parte i ristretti nuclei di patrizi subalpini, liguri, lombardi, veneti e toscani che alimentarono il liberalismo – laico e cattolico – dell’era risorgimentale. Si pensi a Federico Confalonieri, una delle figure di primo piano del patriziato milanese e al gruppo del Conciliatore, oppure al gruppo toscano di Capponi, Ricasoli e Ridolfi, unito intorno all’«Antologia» e all’«Accademia dei Ge-
orgofili». Un patriziato cittadino che proprio perché eroso nei suoi privilegi di ceto dall’avanzare dello stato amministrativo e dell’accentramento burocratico, era particolarmente sensibile alle istanze ideali liberali e patriottiche che si manifestarono con forza nell’età del Romanticismo e della Restaurazione. Questo patriziato cittadino, spesso liberale e liberista come nel caso dei lombardi e dei toscani, nutrì la ferma convinzione che la questione italiana e la questione costituzionale dovessero andare di pari passo e, magari, trovare soluzione nell’istituzione di un’unione confederale. Pur dotati di sensibilità religiosa, i liberali italiani miravano alla separazione fra Stato e Chiesa o alla riforma di quest’ultima. Infine, essi avevano una costante attenzione alle tematiche relative al progresso tecnico-economico e allo sviluppo dei canali navigabili e delle ferrovie, ma mostravano anche una certa sensibilità sociale, troppo spesso considerata, in maniera sbrigativa, di tipo paternalistico. In verità, i più illuminati favorirono l’istruzione del popolo e – quando fu possibile – svilupparono il mutuo soccorso e l’associazionismo, nonché le Casse di Risparmio per i ceti popolari.
Sensibili all’Europa Proprietari terrieri e borghesi di origini centrosettentrionali Furono queste – in una realtà prevalentemente agricola come era la penisola nella prima metà dell’’800 – le élites destinate a svolgere un ruolo attivo nel corso del Risorgimento e, successivamente, nella costruzione dello Stato nazionale. PER TUTTI LORO non potevano esserci Risorgimento e Stato nazionale senza un parallelo sviluppo dell’economia e della società civile. Cavour, Ricasoli e Minghetti furono fra i maggiori artefici della indipendenza nazionale e della costruzione dello Stato unitario. Furono, per forza di cose e per destino, ma anche per passione, cultura, senso di responsabilità e coraggio, uomini di Stato che venivano, appunto, dalla Terra e dall’esperienza imprenditoriale.
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di ROBERTO BALZANI *
GARIBALDI, UNICO PADRE DELLA PATRIA A VISITARE TUTTO IL PAESE. PER UNIFICARLO
SONO POCHI, nel Risorgimento, i personaggi che hanno attraversato davvero la penisola, dalle Alpi alla Sicilia. Cavour non frequentava volentieri gli ambienti a sud del Po, ai quali preferiva di gran lunga le villes lumières, Parigi e Londra. Mazzini, poi, fu addirittura il leader assente, l’uomo il cui profilo, per moltissimi patrioti, prese forma più nell’immaginazione che nella realtà: se si escludono il 1848-49 e il 1860, la sua presenza pubblica fu infatti pressoché nulla, anche a causa della vita da cospiratore braccato che lo accompagnò per quarant’anni. Andò meglio a Massimo d’Azeglio, in alcuni momenti della stagione riformatrice antecedente il ’48; e, forse, in circuiti più regionali, a Farini e a Ricasoli. Ma si tratta di personaggi considerati dal grande pubblico alla
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stregua di comprimari. L’unico, fra i “padri della patria”, ad aver davvero visto il paese, tanto sotto il profilo sociale, quanto sotto quello paesaggistico, fu Giuseppe Garibaldi. Le sue peregrinazioni nel teatro bellico del nord Italia, nel 1848-49 e nel 1859; le campagne di Roma; la spedizione siciliana del 1860 e quella finita in Aspromonte nel 1862; la breve guerra in Trentino nel 1866; e, dopo il 1870, le sue presenze in luoghi e città della “nuova Italia”, scortato dal suo “stato maggiore” ed acclamato da reduci, società operaie e deputati progressisti, rendono evidente la mobilità dell’Eroe dei Due Mondi e la sua straordinaria capacità di venire in contatto con i mille volti del paese. UN ININTERROTTO itinerario di lapidi e monumenti, d’altronde, conferma il rilievo attribuito, già all’indomani dell’Unità, al contatto fra il Generale e le piccole patrie: al punto da generare, in alcuni casi, veri e propri rituali da “santo protettore” laico, come a Cesenatico a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento. Ma non è della “memoria di marmo” che ci si vuole qui occupare. Il tema, piuttosto, è quello dei riflessi indotti dal passaggio garibaldino sull’identità dei territori, anche a distanza di tempo. Il caso forse più clamoroso è rappresentato dalla cosiddetta “trafila” che consentì a Garibaldi di sfuggire a quattro eserciti nell’esta-
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te del 1849, inseguito con i suoi uomini dopo la caduta della Repubblica romana. La storia è nota. Uscito da Roma il 2 luglio con circa 4.000 effettivi, il Generale raggiungeva rocambolescamente San Marino il 31 luglio, con la moglie Anita incinta e malata. A quel punto, contando di poter guadagnare la via per Venezia, egli affidava il destino suo e di circa 250 fedelissimi ad una rete di patrioti locali, di fatto ignoti, i quali lo aiutarono a scendere in Romagna, ad evitare gl’imperiali, ad imbarcarsi a Cesenatico e - dopo esser stato intercettato all’altezza delle Valli di Comacchio -, a riprendere la fuga con l’inseparabile Leggero attraverso Ravenna, Forlì, Modigliana e, di lì, per Cerbaia, Prato, Empoli fino a Massa Marittima e Cala Martina, nel Grossetano, da dove s’imbarcò, ormai libero, il 2 settembre 1849. Nel frattempo, Anita era morta, Ugo Bassi e Ciceruacchio erano stati fucilati, la tragedia dei democratici in fuga si era compiuta: ma l’Eroe era stato salvato. Il capanno in cui aveva trovato ricovero, alla periferia di Ravenna, sarebbe stato equiparato dai repubblicani locali, vent’anni dopo, alla capanna di Betlemme: un posto dove si era fatta l’Unità d’Italia. Il capanno esiste ancora, dov’era e com’era: una società, da 130 anni, ne custodisce la memoria e ne cura la manutenzione. Ma Garibaldi era sceso pure attraverso le Marche, da Pesaro al-
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la valle del Tronto, durante la trionfale marcia d’avvicinamento a Roma, nel gennaio 1849. Egli andava nella Città eterna per la Costituente, e, al suo passare, mobilitava i giovani e i reduci della recente campagna nel Veneto, delusi e amareggiati dalla conclusione ingloriosa del “loro” ’48. Diverso lo stato d’animo con cui sarebbe giunto, ferito, a Pisa, nel novembre 1862, dopo i fatti di Aspromonte. Il Garibaldi pisano, il cui ricordo è testimoniato sul Lungarno dal monumento di Ettore Ferrari, condensava in sé l’aspirazione repressa a un moto popolare per liberare Roma e, d’altro canto, il senso di una “guerra civile” strisciante fra moderati e democratici, che si sarebbe risolta a vantaggio dei primi alcuni anni dopo, a Mentana (1867). Gli itinerari garibaldini
di Pino Casamassima
Michelina, che per amore diventò brigantessa
I
L FENOMENO del brigantaggio meridionale, esploso dopo l’unità d’Italia, coinvolse anche diverse donne. Una di esse fu Michelina Di Desare, la cui «pessima condotta» è documentata nei registri del comune di Caspoli (Caserta) con una segnalazione del maggio del 1868, cioè tre mesi prima della sua morte,
avvenuta il 30 agosto di quell’anno, quando la brigantessa aveva 26 anni. La «malavita» di Michelina era iniziata fin dall’infanzia, quando la fame l’aveva spinta a compiere diversi furti, finché a vent’anni – in quel 1861 che aveva salutato l’unità d’Italia – era andata in sposa a un cafone del luogo: tal Rocco Tanga,
morto però dopo nemmeno un anno. Francesco Guerra era un ex soldato borbonico, poi affiliato alla banda di Rafaniello, di cui aveva assunto il comando alla sua morte. Michelina lo conobbe casualmente, se ne innamorò, e ne condivise la condizione di brigante. Grazie alla spiata per soldi di Giovanni, fratello di Michelina, la
banda fu sorpresa e sgominata: dopo l’uccisione del suo uomo, la brigantessa si battè strenuamente fino alla morte. Poi anche lei fu denudata, esposta nella pubblica piazza, e fotografata: l’immagine del suo cadavere contrasta con un’altra che la ritrae bella e fiera nel suo costume “della festa”.
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LA DELUSIONE DEI GARIBALDINI DOPO L’UNITA’ «Garibaldi davanti a Capua» di Girolamo Induno (Museo del Risorgimento di Milano); «Garibaldi nella battaglia di Calatafini» di Remy-Legat (Museo del Risorgimento di Milano). Sotto: «Garibaldi mentre trasporta Anita morente» di Pietro Bauvier (Museo del Risorgimento di Brescia)
conservano, quindi, la testimonianza tanto del grande “pellegrinaggio involontario” dell’Eroe dei Due Mondi, quanto delle fasi alterne del Risorgimento, di cui egli fu protagonista: luoghi importanti non solo per alimentare il contributo locale al pantheon nazionale, ma per capire, attraverso eventi non di rado drammatici, le fasi complesse e controverse, spesso segnate da una traccia rossa come una camicia e come il sangue, che hanno fatto della nostra penisola una Nazione. (*) Docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna
Poi venne la stagione dei ‘limoni spremuti’ di COSIMO CECCUTI *
RITORNARE alle fonti: carteggi, biografie, diari, memorie. Può essere questa la via da percorrere, pur con le opportune accortezze, per ritrovare nella rivisitazione del Risorgimento, a 150 anni dall’Unità d’Italia, una dimensione fedele ed umana, contro le deviazioni dell’agiografia e della retorica di antica memoria o le forzature di certe “mode revisionistiche” dei nostri giorni, che rischiano egualmente di snaturare il significato ed i valori di una stagione della storia italiana ed europea che sta alle origini della nostra comunità nazionale. Anche quella memorialistica aveva spesso intenti ben precisi. Popolari biografie della seconda metà dell’Ottocento, come quelle di Jessie White Mario, l’infermiera dei Mille, dedicate a Garibaldi come a Mazzini, erano dettate dal desiderio di costruire o rafforzare il mito degli “eroi”, cercando altresì di evidenziare il contributo delle correnti democratiche al processo di unità nazionale, soffocato nella storiografia ufficiale dall’egemonia
Le memorie di chi c’era Il successo di Garibaldi non piace al re, che in tutta fretta liquida i suoi fedelissimi sabauda, esaltante oltre ogni limite il ruolo svolto dalla Monarchia. Se rileggiamo le note di alcuni protagonisti, spesso appartati e discreti, si coglie l’efficacia e l’autenticità di una vicenda complessiva assai più vicina a noi, fatta di grandezze e di miserie, di generosità e di egoismi, in una più corretta collocazione delle figure e degli eventi. Penso alla recente, opportuna ristampa delle memorie di Giuseppe Bandi, I Mille (editore Polistampa), un livornese che segue devotamente Garibaldi nella sua più clamorosa impresa. Ebbene, un solo esempio demitizzante: l’autore non parla mai dell’incontro di Teano, “gonfiato” nei
resoconti ufficiali per opportunità politica e retorica nazionalistica. E’ vero che Bandi si ripromette di riferire solo ciò a cui è stato concretamente presente (non si trovava a Teano), ma nessun accenno, nelle sue pagine, nessun richiamo all’episodio eretto a simbolo della collaborazione e dell’unità d’intenti. La verità storica, che affiora da quelle memorie, ricorda piuttosto l’irritazione del Re, “geloso” del clamoroso successo di Garibaldi, il fastidio delle truppe piemontesi per i volontari garibaldini, il vivo desiderio di “toglierseli tutti di torno”, una volta ricevuto nelle mani un regno. Era stata negata la proroga della dittatura a Garibaldi, che l’aveva chiesta, era stato ferito l’orgoglio dei garibaldini cui fu impedito di battersi insieme alle truppe regolari per il completamento dell’impresa,
Grandezze e miserie Il mito degli eroi nasce per per bilanciare i meriti impropri che Casa Savoia si attribuisce contro le ultime residue resistenze del Borbone. Sollevate dal compito che fra tante reticenze si erano assegnato – liberare il Mezzogiorno - le camicie rosse, furono congedate dopo l’ultimo atto loro consentito, quello di partecipare o piuttosto assistere alla presa di Capua. Garibaldi, del resto, se ne va, poiché si rifiuta di assistere al bombardamento della città deciso dai piemontesi del Generale della Rocca: “In vita mia non ho mai tirato cannonate sui civili”; fu il suo sprezzante commento nel malinconico saluto ai volontari. Al Re fu impedito dalla ragion di Stato di recarsi al campo dei garibaldini, né rivolse loro l’atteso ordine del giorno. “Il nostro compito era finito – si lamenta Bandi- ma non ne veniva per conseguenza buona e legittima che ci si considerasse così dall’oggi al domani come limoni oramai spremuti e non buoni che a gettarsi via”. Eppure è bene cercare ancora oggi tra quei “limoni spremuti” le radici autentiche e solide della nostra identità di nazione. (*) Docente di Storia dei partiti e delle rappresentanze politiche, Università di Firenze
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«Cinque giornate di Milano: attacco di Porta Tosa» di Giulio Gorra (Museo del Risorgimento, Milano)
di FRANCO DELLA PERUTA*
FU CERTO nelle città che il desiderio di indipendenza dallo straniero e il maturarsi della coscienza nazionale, trovarono fertile terreno di espressione. Il tradizionale spirito municipale dei tanti campanili d’Italia si nutriva in tal modo della speranza di ribadire i propri antichi obbiettivi di autogoverno, trasferendoli in una dimensione capace di adeguarsi ai nuovi valori propri di uno Stato moderno rispettoso dell’uguaglianza, della libertà, di rapporti tra governanti e governati fissati da norme discusse in assemblee rappresentative.
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Quasi un ritorno, quindi, a quelle collettività comunali che avevano segnato la storia di tanta parte della penisola nei secoli precedenti e che ora sembrava possibile a molti far rivivere, sia pure su ben altre basi ideali. Un sogno forse anacronistico, ma che comunque contribuì a far scoccare in molte città la scintilla rivoluzionaria del 1848, di quella “primavera dei popoli” densa di speranze in tutta Europa. LA VICENDA di Milano e delle sue “cinque giornate” è per tanti versi emblematica di tali atteggiamenti, fatti di motivazioni contingenti ma alimentati da sentimenti affondanti nella storia. Già nel ’47, infatti, l’insofferenza dei milanesi verso le autorità austriache si era rivelata in numerosi episodi, culminati in scontri di piazza duramente repressi, dove ceti sociali diversi e difformi quanto a obbiettivi politici trovarono unità d’intenti nel rifiuto di soggiacere alla prepotenza dei soldati stranieri comandati dal gen. Radetzky. Fu, quindi, evidente come una simile ostilità fosse diventata un fenomeno di
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massa e come la risolutezza manifestata da una parte della cittadinanza nell’opporre un’energica resistenza all’aggressione poliziesca incoraggiasse i più animosi (mazziniani soprattutto) a raddoppiare gli sforzi in vista di un possibile confronto armato. E questo esplose il 18 marzo, dopo le accoglienze entusiastiche fatte ai successivi annunci delle rivolte di Palermo, Firenze, Torino, Roma e persino Vienna: la richiesta dell’istituzione della Guardia Civica fu accompagnata dall’occupazione del palazzo del Governo e dal levarsi delle barricate nelle strette vie cittadine. RADETZKY, con i suoi 14 mila uomini pensò di poter resistere mantenendo alcuni capisaldi strategici – come il Castello – nel centro e distribuendo la maggior parte dei reparti lungo i 12 chilometri del circolo delle mura spagnole sì da isolare la città. I tentativi dei giorni seguenti di inoltrarsi verso l’interno furono, però, resi vani dall’accanita resistenza armata dei milanesi schierati dietro circa 1600 barricate, costruite con il materiale più vario: lastricato delle strade, casse di
MERCOLEDÌ 15 DICEMBRE 2010
ciottoli, carrozze, banchi di scuole e di chiese, tavoli, sedie, armadi, letti, pagliericci, confessionali e così via. Tra il terzo e il quarto giorno di violenti combattimenti vi fu la svolta: gli Austriaci furono costretti ad abbandonare le postazioni del centro e la sera del 22 decisero di ritirarsi, mentre i milanesi si riversarono nelle strade al grido di “fuori i lumi”, “vittoria, vittoria”. Il trionfo dell’insurrezione fu pagato dal sacrificio di almeno 300 morti, a seguito di una partecipazione corale di uomini, donne, fanciulli, nobili, borghesi e soprattutto di umili popolani, senza trascurare il contributo del clero ambrosiano e la concomitante rivolta delle altre province della Lombardia. Si trattò, dunque, di una indimenticabile testimonianza che le aspirazioni dei milanesi alla libertà, all’indipendenza e al riconoscimento dell’identità nazionale avevano messo radici robuste, che neppure la successiva sconfitta della “guerra regia” avrebbe potuto indebolire. E lo stesso si può affermare per le altre città della penisola che insorsero in quegli stessi mesi. Così, ad esempio, Brescia, liberatasi dallo stra-
di Pino Casamassima
Silvio Pellico, da Saluzzo all’Argentina
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A CITTÀ italiana più grande del mondo non si trova in Italia ma in Argentina, ed è proprio Buenos Aires, la capitale, per i tanti residenti d’origine italiana che la popolano, un po’ come tutto quel Paese sconfinato, dov’erano sbarcati emigranti arrivati da ogni dove della penisola, compreso Saluzzo, un paesino della provincia di Cuneo. Da qui, alla fine dell’800 partì una piccola
comunità senza arte né parte. Trovarono accoglienza nella provincia di Santa Fè, dove dettero vita a un villaggio che presto s’ingrandì fino a giustificare un nome per quel luogo. Lo chiamarono Silvio Pellico, in onore del loro concittadino più illustre. Pellico era stato arrestato a Milano il 13 ottobre del 1820 insieme con Piero Maroncelli, come lui appartenente alla società carbonara dei “Federati”. Rinchiusi nei fami-
gerati Piombi di Venezia, avevano subito un processo in cui erano stati condannati a morte, ma nel febbraio successivo la sentenza era stata commutata in 15 anni di carcere duro da scontarsi nella fortezza dello Spielberg, in Moravia. Qui Pellico aveva scritto “Le mie prigioni”: «un’opera autobiografica – avrebbe dichiarato in seguito il principe di Metternich – che ha danneggiato l’Austria più di una battaglia perduta».
Letteratura e Risorgimento, di Marco Antonio Bazzocchi; L’Ottocento di Pinocchio, di Enrico Gatta
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
1848, LE CITTÀ INSORGONO: SULLE BARRICATE CONTRO GLI OCCUPANTI
niero pressoché contemporaneamente a Milano, che poi avrebbe pagato duramente l’anno seguente, dopo la definitiva sconfitta piemontese, con i bombardamenti e i veri e propri massacri delle “dieci giornate”. O BOLOGNA, capace anch’essa, l’8 agosto‘48, di respingere dalla città l’arrogante presenza straniera in una battaglia che vide il prevalente impegno dei quartieri abitati dal popolo minuto, espressione di una città ancora immersa in un mondo pre-industriale. Ed ancora Venezia con la sua indomita resistenza di molti mesi, soprattutto tra primavera ed estate ’49, a riprova non discutibile di un cammino risorgimentale capito ed accompagnato da un’opinione pubblica ben più larga dei ristretti gruppi che ne guidarono gli sviluppi nei decenni seguenti. (*) Presidente dell’Istituto Lombardo di Storia Contemporanea
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LA PRINCIPESSA BELGIOIOSO, «PRIMA DONNA D’ITALIA»
Cristina, la bella patriota ‘colta più di un uomo’ di ARRIGO PETACCO
SE POTESSIMO effettuare un sondaggio nell’immaginario popolare per collocare anche una donna nel Pantheon maschilista dei “Padri della Patria”, sicuramente balzerebbe al vertice della classifica la bella Virginia Oldoini contessa di Castiglione. Libri, film, feuilleton e sceneggiati televisivi hanno infatti contribuito a rendere la “divina contessa” la dama più popolare del nostro Risorgimento. Questo perché perché, gabellando per patriottica la sua impresa seduttrice nell’alcova imperiale di Napoleone III, ne hanno fatto immeritatamente una “madre” della Patria. In realtà, anche se è vero che la bella Virginia, adempiendo la missione che le aveva affidato Cavour di charmer politiquement l’Empereur, coqueter avec lui, le seduir s’il le fallait, favorì l’alleanza franco-piemontese che sconfisse l’Austria nella seconda Guerra d’Indipendenza, è anche vero che a spingerla nel letto dell’Imperatore non fu l’amor di Patria, ma la
Le grandi dame del Risorgimento Coraggiosa riformista in prima linea Ma i ‘padri della Patria’ preferivano la seduttrice contessa di Castiglione vanità e l’interesse personale. A Virginia infatti il Risorgimento non interessava. Anzi spesso lo irrideva come quando, mostrando agli amici la chemise de nuit, “di crespo verde, leggera come una nuvola” che aveva indossato per la bisogna, sosteneva impudentemente che era quella, e non il tricolore, che avrebbe meritato di sventolare sui pennoni. C’era invece un’altra donna, ingiustamente dimenticata dagli storici, che meriterebbe un busto al Pincio come è Dall’alto: «Le Cinque giornate di Milano» di Verazzi (Museo del Risorgimento di Milano); «La contessa di Castiglione» (Museo Francese di Ajaccio); «Cristina di Belgioioso» di Hayez (collezione privata)
toccato a tutti i Padri della Patria. Era la principessa Cristina di Belgioioso, una milanese bella, ricca, intelligente e persino “colta più di un uomo”, come si mormorava con tono scandalizzato. Cristina era anche una fervente patriota e una coraggiosa riformista. Nel suo feudo di Locate realizzò la prima scuola materna, la prima società di mutuo soccorso e anche la prima scuola professionale per i figli dei suoi contadini. Un’impresa, quest’ultima, che irritò i buoni borghesi. “Se facciamo studiare i contadini” la rimbrottò severamente Alessandro Manzoni, “chi zapperà le nostre terre?” . Perseguitata dalla polizia austriaca, Cristina si trasferì in seguito a Parigi dove fondò “L’Italie”, un giornale bilingue cui collaborarono Balzac, de Musset, Hugo, La Favette e altri intellettuali francesi, ma non gli esuli italiani, ai quali la principessa aveva aperto le sue pagine. Secondo Mazzini, “scrivere su un giornale diretto da una donna sarebbe stata un’ignominia”. Rientrata precipitosamente a Milano dopo le “Cinque giornate”, Cristina fu messa in disparte dai patrioti perché aveva osato criticare il governo provvisorio. In quei giorni infatti, mentre la guerra era ancora in corso, i nuovi governanti stavano già litigando per contendersi i ministeri. “Ma non sarebbe meglio” aveva osservato, “invece che perdere tempo coi vostri litigi, mandare dei cappotti ai nostri ragazzi che stanno combattendo sullo Stelvio in abiti primaverili?”. Quell’“impicciona” era proprio insopportabile. SOLO GARIBALDI riconosceva i suoi meriti. La definì “prima donna d’Italia” e la portò con sé a Roma dove Cristina partecipò alla lotta in difesa della Repubblica Romana fondando, prima ancora di Florence Nightingale cui si attribuisce il merito, il corpo delle infermiere volontarie arruolando nobildonne e prostitute. Anche questa sua iniziativa destò scandalo. Il gesuita padre Bresciani inveì contro questa “femmina sfacciata e impudente” che con le sue “infermierine con le maniche rimboccate assai sopra il gomito e con risolini sdolcinati accompagna quei meschini all’altro mondo bestemmiando e lascivendo con l’Italia in bocca”. Povera Cristina. Sostenitrice della parità dei sessi pubblicò nella “Nuova Antologia” anche la prima inchiesta sulla condizione femminile. Ma purtroppo trovò sordi i suoi lettori e morì sola e dimenticata. Gli uomini non le perdonavano l’intelligenza e gli storici preferirono esaltare le prodezze della “divina contessa” perché il suo comportamento era assai consono a ciò che i Padri della Patria si attendevano da una femmina.
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IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
di MARCO A. BAZZOCCHI*
LO SQUILLO
di Pino Casamassima
Franceschiello, il Re Lasagna
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LI PIACEVA la pizza. E, da buon napoletano, i maccheroni. Solo che lui non era un napoletano qualsiasi, era un re: Francesco II di Borbone. L’ultimo re di Napoli. Franceschiello per tutti. Lo chiamavano pure Re Lasagna, a significare una personalità molle e incapace, a capo di un “esercitiello”: soldati molli e incapaci come lui. Esercito di Franceschiello divenne sinonimo di un gruppo di smidollati e indisciplinati dediti solo a gozzovigliare. Questa la vulgata appioppata al giovane monarca che, di fatto, non era né migliore né peggiore dei suoi predecessori (né dei suoi tanti successori saliti al “trono di Napoli”). Francesco, questo il suo vero nome, è l’ultimo dei Borboni a sedere sul trono delle Due Sicilie. Aveva solo 23 anni quando ereditò da suo padre, Ferdinando III, una situazione politicamente ed economicamente disastrosa, nella quale davano il peggio di sé una serie di personaggi disonesti. Di fatto, nell’unico anno del suo regno, la sua “colpa grave” fu quella di lasciarsi distrarre dai (tanti) problemi dei suoi sudditi. “Preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari”: una dichiarazione che gli valse l’epiteto di “imbecille” da parte di suo suocero, che l’aveva redarguito per aver distribuito alla popolazione a prezzi stracciati un notevole quantitativo di grano, causando un ulteriore danno economico alle già dissestate finanze reali, sulle quali, come non bastasse, gravavano le spese della regina, Maria Sofia: ma non per gioielli e profumi e pellicce, ma per interventi sostanziosi a favore della popolazione. Insomma, due serpi nel nido reale! La loro breve storia da regnanti si concluse a Gaeta, dove calò il sipario dei Borboni. Era il 13 febbraio del 1861: un mese dopo nasceva il Regno d’Italia.
MOVIMENTI di idee tra Italia e Europa, uomini che fuggono, uomini che si nascondono, complotti progettati al buio e a volte realizzati, ma soprattutto grandi passioni, grandi ideali, giovani che partono dal Nord per andare al Sud, giovani che seguono un fantasma e vanno a sacrificarsi: così appare il nostro Ottocento, a guardarlo dalla prospettiva di quel complesso insieme di idee e di fatti che chiamiamo Risorgimento, metafora in cui è implicita una morte precedente, e un conseguente ritorno alla vita. Anche per questo possiamo dire che l’Italia, non avendo avuto un Romanticismo letterario simile a quello della Germania e in generale del Nord Europa, conosce il suo vero romanticismo più come “azione” che come vera produzione letteraria. Il nostro romanticismo, cioè, passa direttamente dalle pagine dei
grandi scrittori dell’inizio dell’ottocento agli eventi che poi si sgranano per tutto il secolo. Un romanticismo immaginato a tavolino e poi vissuto, a distanza di anni: un paradosso, una sfasatura che però può rivelarsi importante. Tanto per fare un esempio: la componente ideologica dei “Promessi sposi” di Manzoni, con l’immagine di un popolo di umili vessato dai potenti, può benissimo essere letta allegoricamente
«Promessi sposi» C’è un popolo di umili vessato dai potenti, evidente allegoria di un bisogno di liberazione come annuncio di un bisogno di liberazione (della Lombardia dagli Austriaci, naturalmente, ma anche dell’Italia in generale), anche il coro dell’Adelchi (“Dagli atri muscosi, dai fori cadenti …”) va in questa direzione, la canzone dedicata da Leopardi “All’Italia”, dove l’Italia è una donna vessata e ridotta in catene, può essere spostata dal 1819, anno della composizione, in epoche più avanzate, dove realmente
MERCOLEDÌ 22 DICEMBRE 2010
c’è chi va a combattere per la nazione (“l’arme qua l’arme, combatterò sol io, sol io procomberò” urlava Leopardi). E IN EFFETTI quanto Leopardi dichiarava con finalità poetiche, a distanza di qualche decennio i giovani patrioti andranno a realizzare di persona. Il poeta voleva morire come i combattenti leggendari di Salamina per difendere la sua patria ingiuriata, i giovani come Carlo Pisacane andranno a morire per compiere un’impresa di per sé eroica e disperata. Non a caso Leopardi ricordava i “trecento” spartani guidati da Leonida, e questi “trecento”, giovani e forti, ritornano nella “Spigolatrice di Sapri”, il famoso componimento di Luigi Mercantini per Carlo Pisacane, visto però dagli occhi di una giovane popolana (la spigolatrice, appunto) che se ne innamora e lo guarda combattere e morire come un leggendario cavaliere biondo. I giovani intellettuali si muovono, così, dalle città in cui sono nati per andare a liberare quella parte del Paese che è ancora soggiogata. Seguono Garibaldi: il rosso della sua camicia è il colore della lotta, della passione, del sacrifi-
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
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LE NUOVE GENERAZIONI MUOVONO VERSO L’ITALIA DA LIBERARE, A INDICARE LA STRADA SONO LE OPERE DI MANZONI E DI LEOPARDI. È LA STAGIONE DEL ROMANTICISMO FATTO DI AZIONE E NON SOLO DI LIBRI
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UN PARTICOLARE EROE DEL NOSTRO RISCATTO NAZIONALE
Pinocchio, il burattino che ha fatto gli italiani di ENRICO GATTA
cio. Mazzini lo spiega con fermezza da profeta, ricordando i fratelli Bandiera : “Il martirio non è sterile mai. Il martirio per una Idea è la più alta formola che l’io umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione”. TRA I TANTI possibili, il destino più anomalo, a metà tra letteratura e leggenda, è quello del giovane padovano Ippolito Nievo, che a ventisette anni compo-
I giovani intellettuali Seguono Garibaldi: il rosso della sua camicia è il colore della lotta e della passione ne un romanzo, le “Confessioni di un italiano”, il cui protagonista, Carlo Altoviti, inizia la rievocazione di una lunga vita dichiarandosi già italiano (e siamo nel 1858). Anche Nievo è un giovane che va a morire per la patria, ma la sua morte è misteriosa e non avviene sul campo ma in mare, durante una tempesta che sommerge il battello con cui sta tornando sul continente. Dopo aver combattuto, è Nievo che deve
giustificare la gestione economica dell’impresa. È lui che, trentenne ma già grande scrittore, redige un perfetto Resoconto amministrativo della spedizione in Sicilia e, in parallelo, un Giornale della spedizione. Ma i documenti più interessanti, e ancora oggi commoventi, sono le lettere che Ippolito scrive alla madre e alla fidanzata, dove possiamo seguire, di giorno in giorno, le fasi della spedizione, vissute da una prospettiva intima, senza retorica, ma piena di entusiasmo e di passioni vere. Nievo tocca con mano le contraddizioni delle guerre in Sicilia, la mescolanza tra veri combattenti e briganti che intralciano le azioni, le ambiguità di una lotta condotta solo in nome di alti ideali. Arrivato a Palermo, confessa alla madre che è un vero miracolo se lui e gli altri ce l’hanno fatta, resta incantato dalla Sicilia e la paragona al Friuli dove è cresciuto, e poi scrive una delle frasi più belle di quest’epoca: “Ciao, ciao, Mamma mia! Baciamoci mille volte traverso il mare, facciamo così tra noi due l’unità d’Italia”.. (*) Docente di Letteratura Italiana contemporanea, Università di Bologna
Dalle campagne all’industria, di Maria Luisa Betri; Pellegrino Artusi, la cucina dell’Unità, di Piero Meldini
«Ritratto di Manzoni», di Molteni e D’Azeglio (Pinacoteca di Brera, Milano); sotto: «La morte di Carlo Pisacane», di Sciuti (Museo Civico, Catania); Pinocchio in una stampa dell’Ottocento. In basso a destra, Carlo Lorenzini detto il Collodi
ANCHE Pinocchio, il vecchio e caro burattino di legno, è un eroe del Risorgimento. Non perché si sia unito ai rivoltosi del ‘48 e del ‘59 o abbia fatto l’Italia, ma perché ha contribuito a fare gli italiani, dando loro i primi basilari princìpi di una educazione nazionale. Carlo Lorenzini detto il Collodi creò «Pinocchio» pubblicandolo a puntate sul «Giornale dei bambini» tra il 1881 e il 1883, in piena epoca post-risorgimentale. Lui sì era un patriota. Era un mazziniano di fede forse non proprio adamantina, ma viva. Degli italiani non aveva grande stima: li considerava disonesti e ignoranti essendo felici
Carlo Lorenzini detto il Collodi Dei suoi concittadini non aveva stima: li considerava disonesti e ignoranti. E felici di esserlo di esserlo. «Noi siamo contenti scriveva in un articolo il Lorenzini polemista - dei nostri diciassette milioni di analfabeti - e li citiamo tutti i giorni come se fossero diciassette milioni di enciclopedisti, e tutti i giorni ci fanno ridere, come se fossero diciassette milioni di Stenterelli». Eccolo dunque il modello base dell’adolescente in miseria nell’Italia post-unitaria: neanche uno Stenterello o un Pulcinella, o un Arlecchino come le maschere del teatro di Mangiafuoco, ma un burattino allo stato ancora più grezzo. Un bugiardo, un traditore, un ladro, un perdigiorno colpevole di non voler migliorare. E dunque destinato a restare una ragazzo di strada, «un tipo di canaglia, uno scolare che bazzica unicamente la R. Scuola della Corte d’Assise». CON MAGGIOR garbo, lo stesso concetto è espresso anche nel romanzo. «Guai a quei ragazzi - ammonisce il Grillo parlante - che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la
casa paterna! Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente». Rincara la dose la Fata, quando Pinocchio, pur tra buoni propositi, obietta che oramai per andare a scuola gli «pare un po’ tardi» e che lavorare gli «par fatica»: «Ragazzo mio», replica la Fata, «quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o allo spedale. L’uomo, per sua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia, e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più». PER FORTUNA Pinocchio, pur fra tanti difetti, è un modello di bontà: piange lacrime amare di pentimento quando crede che la Fata dai capelli turchini sia morta e fa di tutto per salvare il vecchio babbo Geppetto. «E dai ragazzi buoni di core, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperare qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada». Il messaggio per gli adolescenti dell’Italia umbertina è chiaro: se non vogliono trasformarsi in «bellissimi somari», devono «avvezzarsi a essere ragazzini per bene»: essere ubbidienti, andare volentieri a scuola, prendere amore allo studio e al lavoro, dire sempre la verità... CON LA MATURAZIONE conosceranno anche l’amor di patria, come accade a Giannettino, che è il protagonista delle successive opere del Collodi ed è, appunto, il burattino rigenerato e diventato «ragazzino per bene». Grazie alle proiezioni di uno strumento ottico, la lanterna magica, Giannettino conosce tutti gli eroi del Risorgimento, da Garibaldi a re Vittorio Emanuele. Compresi quei giovani fiorentini che «ai primi rumori di guerra del 1848, fuggirono, quasi di soppiatto dalle loro case, per non essere trattenuti e per correre a combattere contro i tedeschi a Montanara e Curtatone». Proprio come il Collodi.
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di MARIA LUISA BETRI*
PAESE prevalentemente agricolo al momento dell’unificazione, in cui i tre quarti della popolazione vivevano di attività connesse al lavoro della terra, l’Italia acquisì, come è noto, una fisionomia compiutamente industriale soltanto nel secondo dopoguerra, e in particolare nella fase di grande accelerazione cosiddetta del ‘miracolo economico’, tra il 1958 e il 1963. Mentre il comparto agricolo abdicava per la prima volta al suo primato occupazionale a vantaggio del settore secondario e di un terziario in via d’espansione, andava scomparendo, dopo un declino consumatosi con i ritmi quasi secolari di un ‘lungo addio’, la società rurale, ovvero uno dei caratteri costitutivi della realtà italiana. Anche in quella congiuntura di cambiamento epocale, tuttavia, in cui si affermava pienamente il sistema produttivo industriale, la persistenza della figura ibrida dell’operaio-contadino, «legato alla terra fin dentro le fabbriche», non di rado oscillante, per imposizione o per scelta, «tra campo e opificio e cantiere edile e altro ancora», rifletteva la prolungata complementarietà tra settore primario e settore secondario che aveva indelebilmente segnato l’originale processo di sviluppo industriale italiano. E’ la vicenda innescata dal diffondersi nella fascia pedemontana e dell’alta pianura asciutta dell’area latamente padana, dal Piemonte al Veneto, dei «lavori industriali intrecciati ai campestri», di cattaneana memoria, che ebbero un terreno di coltura particolarmente fertile in Lombardia. Ove lo sviluppo del setificio, uno dei settori trainanti dell’industrializzazione italiana ottocentesca, fu emblematico di un
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
sistema manifatturiero evoluto in un rapporto osmotico con l’agricoltura, favorito dalla disponibilità di materia prima, di forza motrice idrica, e di una manodopera eccedente, docile e a basso costo. L’ARRETRATEZZA dei rapporti di produzione nell’area collinare e dell’«asciutta» e le condizioni naturali ivi assai meno favorevoli di quelle della pianura irrigua, avviata a un intenso sviluppo capitalistico, indussero infatti la forza lavoro femminile e minorile delle famiglie coloniche a procurarsi un reddito complementare nel lavoro nelle filande, opifici che subentrarono alla trattura della seta, prima rudimentalmente eseguita a domicilio dai contadini. «L’ombra del gelso è un’ombra d’oro», si diceva, a significare gli elevatissimi profitti garantiti dalla produzione di seta greggia, grazie alla massiccia espansione della gelsibachicoltura che dalla metà del Settecento aveva trasformato il paesaggio agrario e l’assetto economico di quelle plaghe. La remunerativa produzione e vendita delle sete, fino alla Prima guerra mondiale la voce primaria nel complesso delle esportazioni italiane, attirando proprietari terrieri, detentori di capitali, e commercianti-banchieri, interessati a svolgere un’attività economica non esclusivamente agricola, fecero da volano al decollo di un altro settore del comparto tessile, destinato a grande sviluppo: quello cotoniero. Nella zona dell’alto Milanese, tra Gallarate, Busto
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MERCOLEDÌ 29 DICEMBRE 2010
Arsizio e Legnano, grazie anche alle cospicue risorse finanziarie e alle competenze tecniche di un gruppo di imprenditori di origine svizzera o tedesca, la filatura del cotone cominciò a concentrarsi in stabilimenti che impiegavano talora un elevato numero di addetti, avvalendosi di moderni macchinari, e assunse ben presto i caratteri di un vero e proprio sistema di fabbrica. LA PROBLEMATICA territoriale già messa a fuoco nelle dinamiche della prima industrializzazione in area lombarda si è riproposta nelle fasi dello sviluppo della piccola e media impresa, particolarmente intenso negli anni Settanta del Novecento, all’indomani del miracolo economico, in Emilia-Romagna e nell’area tosco-umbro-marchigiana, nucleo della cosiddetta «terza Italia» costituita dalle regioni del NordEst-Centro. Le forme di lavoro autonomo e di pluriattività, connesse alla piccola proprietà coltivatrice e al sistema di appoderamento mezzadrile, di cui era intessuto il retroterra rurale, hanno favorito la maturazione di capacità e attitudini messe successivamente a frutto nell’imprenditorialità diffusa, spesso innestata nella tradizione artigianale e commerciale di una maglia urbana di medie e piccole dimensioni. Un’ulteriore riprova, dunque, di come il legame tra agricoltura e industria sia stato un dato strutturale dello sviluppo economico italiano. * Docente di Storia Contemporanea e Storia del Risorgimento Università di Milano
di Pino Casamassima
I pugnalatori di Palermo GUIDO GIACOSA è un avvocato la cui vita cambia radicalmente il 25 maggio del 1862, quando viene mandato in Sicilia come Sostituto Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Palermo. Giacosa è un integerrimo piemontese che si sente catapultato in un altro mondo, seppur anch’esso appartenente a quello stesso Regno nato un anno prima. Come riporta Leonardo Sciascia nella sua impareggiabile ricostruzione della vicenda dei pugnalatori, il
Sostituto piemontese «diventa ben presto impaziente e insofferente di fronte alla realtà siciliana». E non sa ancora quel che lo aspetta... La sera del 1˚ottobre, accade «un fatto criminale di orrida novità»: 13 persone vengono accoltellate alla stessa ora in diversi punti della città da altrettanti killer tanto assomiglianti da parere un solo uomo. Catturato, uno di essi, Angelo d’Angelo, fa subito i nomi degli altri pugnalatori. Il movente è seminare il terrore per far rimpiange-
re alla popolazione il vecchio ordine borbonico. Mandante, Romualdo Trigona, principe di Sant’Elia, la persona più potente di Palermo. Il processo si conclude con condanne ai lavori forzati per quasi tutti i killer, meno 3 che vengono giustiziati. Il nome Trigona non verrà mai pronunciato e il principe di Sant’Elia, fresco senatore del Regno, ne uscirà indenne. Ostacolato in ogni iniziativa, Giacosa si dimetterà e tornerà in Piemonte a fare l’avvocato.
I cattolici e la Nazione, di Edoardo Bressan; Il mito della Repubblica Romana, di Romano Ugolini
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
MERCOLEDÌ 29 DICEMBRE 2010
«Il racconto del ferito» di Gerolamo Induno (da «1861 - I pittori del Risorgimento», per gentile concessione di Skira Editore); «Maremma» di Giovanni Fattori (Galleria d’Arte Moderna, Firenze); Pellegrino Artusi e un’edizione de «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene»)
FU L’INDUSTRIA DELLA SETA IL VOLANO DELLO SVILUPPO ITALIANO
CULTURA & SOCIETA’ 33
«La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene»
E Artusi riunì l’Italia a tavola di PIERO MELDINI
«BISOGNA riconoscere che La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi sposi»: così scriveva Piero Camporesi nella sua luminosa introduzione all’edizione Einaudi del ricettario artusiano (1970). L’affermazione potrà suonare leggermente enfatica, ma corrisponde al vero. Per la sua travolgente e durevole fortuna (quattordici edizioni vivente l’autore e un’autentica alluvione di ristampe postume) e per la crescente autorità, il manuale di Pellegrino Artusi costituisce un vero e proprio spartiacque. Non c’è ricettario italiano successivo, fino agli anni Quaranta e oltre, che non si confronti con «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene». Molti la saccheggeranno; da parecchi altri verrà parafrasata, compendiata, aggiornata, riveduta e corretta; pochissimi la ignoreranno. LE RICETTE artusiane, trasmesse oralmente di madre in figlia e di signora in domestica, e trascritte in migliaia di quaderni, finiranno per fissare la formula canonica di numerosi piatti della cucina italiana, compresi alquanti di derivazione locale e popolare. Nel manuale di Artusi i piatti regionali (soprattutto romagnoli, emiliani e toscani, ma anche veneti, milanesi, genovesi, romani, napoletani e siciliani) sono tranquillamente mescolati fra loro e con piatti della cucina internazionale e d’altri Paesi, Francia in testa; i piatti poveri convivono con quelli della tradizione aristocratica; ai piatti d’autore, dal vecchio Panunto al recente Vialardi, si sommano quelli
trasmessi da amici e lettori. Questo ricco ed eterogeneo patrimonio culinario è accolto nella Scienza in cucina senza esitazioni e soggezioni di sorta — a volte, semmai, con un pizzico di diffidenza — e rimaneggiato senza troppi scrupoli, «provando e riprovando». Il ricettario artusiano, in effetti, non riflette una cucina d’invenzione, ma una cucina quasi integralmente ripresa, e a questa Artusi resterà fedele di edizione in edizione. LA RAGIONE del successo della «Scienza in cucina» non sta dunque nell’originalità delle ricette, ma nelle tre grosse novità che caratterizzano l’opera: la preliminare e perfetta messa a punto dei piatti in collaborazione con i due cuochi di casa, Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini; il taglio didattico, con l’illustrazione puntuale delle procedure e la specificazione delle dosi e dei tempi; infine, e soprattutto, l’adozione di un’amabile vena narrativa, di un tono colloquiale e di una lingua limpida. All’Italia del 1891, ancora gastronomicamente subalterna alla Francia, Artusi affida una proposta che è il compendio e la riscrittura dell’intero scibile culinario e che è destinata, nel giro di pochi anni, a costituire una carta d’identità. La cucina che l’anziano commerciante e possidente propone alla variegata borghesia italiana è una cucina ragionevolmente semplice, pratica, sana e parsimoniosa. Modellata sul codice culturale ed etico del ceto sociale che più si identifica con la giovane nazione e che ne costituisce il maggior collante, la cucina di Artusi diverrà rapidamente il canone gastronomico dell’Italia. Tant’è che larga parte della cucina casalinga novecentesca e di quella cosiddetta «tradizionale» discende direttamente o indirettamente dalla bibbia artusiana, o ne è in vario grado marchiata. SFOGLIO, appena pubblicato da Casa Artusi, Forlimpopoli, il repertorio bibliografico «Ricettari di casa» e trovo elencati i manuali di ben 15 nonne, da nonna Adua a nonna Peppina. «Cucina della nonna»? Mah. Parlerei piuttosto di cucina del nonno.
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IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
di EDOARDO BRESSAN*
LO SQUILLO
di Pino Casamassima
La tragica Esperia dei fratelli Bandiera
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I CHIAMAVA Esperia la loro società segreta. Esperia, il nome col quale i greci indicavano l’Italia, approdo di Diomede, eroe acheo che aveva combattuto la guerra di Troia. Ed eroi vollero farsi anch’essi, i fratelli Bandiera. Figli di un ammiraglio che li aveva avviati alla carriera militare, Attilio ed Emilio divennero ufficiali della Marina austriaca prima di disertare aderendo alle idee mazziniane. Attorno all’Esperia radunarono ferventi rivoluzionari, come loro convinti di poter guidare una sollevazione popolare che partisse dal Sud. L’OCCASIONE si presentò quando nel marzo del 1844 scoppiò a Cosenza un moto popolare, destinato comunque al fallimento. Partiti nel giugno successivo da Corfù – dove col barese Vito Infante avevano messo in piedi una sede dell’Esperia – i fratelli Bandiera puntarono decisamente sulla Calabria. Con essi c’erano 17 uomini, fra cui il brigante calabrese Giuseppe Meluso. Sbarcati nei pressi di Crotone, proseguirono per la Sila, con l’intento di nascondersi per preparare una nuova sommossa a Cosenza. Ma fra loro c’era anche il corso Pietro Boccheciampe, che svelò il nascondiglio per intascare la taglia di Meluso. I rivoltosi furono così catturati – all’infuori proprio del Meluso che, conoscendo i luoghi, riuscì a far perdere le sue tracce – e fucilati. Le salme dei fratelli Bandiera rientrarono a Venezia nel giugno del 1867, un anno dopo la liberazione di Cosenza al termine della III guerra d’Indipendenza, sei anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia.
NELLA CULTURA del primo Ottocento, la religione cattolica continua a costituire, come la lingua e la letteratura, uno dei riferimenti più saldi della “nazione” italiana, della quale da sempre, e non soltanto in una ristretta élite, era stata avvertita la profonda dimensione unitaria, al di là della contingente divisione in un sistema di Stati regionali che si era stabilizzato dal XV secolo in avanti. L’esperienza napoleonica aveva dato un assetto coerente in senso nazionale almeno a una parte della penisola, dalla Lombardia alle Marche, intorno a quella Repubblica e poi Regno d’Italia in cui per la prima volta il nome italiano aveva assunto un connotato statuale. La sistemazione europea decisa al Congresso di Vienna nega però libertà e indipendenza all’Italia, un sogno ancora coltivato con il proclama di Rimini di Gioacchino Murat del 30 marzo 1815 ma destinato a essere sconfitto, il 2 e 3 maggio dello
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stesso anno, nella battaglia di Tolentino. Tale aperta negazione del principio nazionale, ancorché sostenuta dalle armi austriache, non può tuttavia reggere in un’Europa che su di esso immagina ormai il suo avvenire, nel segno di una cultura romantica che vede strettamente legati sentimento patriottico e tradizione religiosa. Come in tutti i “Risorgimenti” europei, la Chiesa non è certo
L’impronta neoguelfa Da Gioberti, Balbo e Rosmini proposte di stampo federalista tese a valorizzare il papato ostile al movimento nazionale italiano: la successiva e per molti versi dolorosa svolta del 1848-1849 non può far dimenticare quanto la cultura cattolica abbia contribuito a dare un significato al tempo stesso storico e politico, e non più meramente letterario, alla parola Risorgimento e quanto, proprio negli anni Quaranta dell’Ottocento, la proposta “neoguelfa” di Gioberti, Balbo e Rosmini, d’impronta federalista
«Il combattimento del 31 marzo 1849 durante le dieci Giornate di Brescia», di Francesco Joli (da ‘1861. I pittori del Risorgimento’, gentile concessione Skira editore); a destra: ritratto di Giuseppe Mazzini; in alto a sinistra caricatura raffigurante Otto von Bismarck e Pio IX che giocano a scacchi (opera di Wilhelm Scholz)
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CULTURA E SOCIETA’ 35
VIAGGIO NEL MITO, TRA GARIBALDI E MAZZINI
Repubblica romana La forza di un destino
OLTRE A LINGUA E LETTERATURA E’ LA CHIESA A DETTARE LA SPERANZA DI UNITA’. AL GRIDO DI «VIVA PIO IX», I CATTOLICI, SOPRATTUTTO MILANESI, SI RIBELLANO ALL’AUSTRIA. E’ IL 1848, INIZIA LA PRIMAVERA DEI POPOLI
e tesa a valorizzare il ruolo del papato, abbia aperto la via a una più larga condivisione dell’ideale di una nuova Italia. I primi mesi del 1848, anno dei miracoli e primavera dei popoli, sembrano appunto salutare la realizzazione di queste aspirazioni, largamente condivise dall’opinione cattolica, fra la partecipazione pontificia alla prima guerra d’indipendenza, aperta non a caso dalle manifestazioni al grido di Viva Pio IX, e il ruolo svolto dai cattolici stessi nelle Cinque Giornate di Milano. Ed è proprio il cattolicesimo milanese a rappresentare uno degli esempi più significativi in questa prospettiva, che matura già nei primi anni della Restaurazione quando si comprende che il dominio austriaco, con il Regno Lombardo-Veneto, non può con ogni evidenza dare spazio né alle aspirazioni dei popoli ormai insopprimibili, tanto che a esse avevano fatto riferimento le ultime coalizioni antinapoleoniche, né a una libertas Ecclesiae soffocata dal rinnovato giurisdizionalismo degli Asburgo. Gli organismi rappresentativi del Lombardo-Veneto
Il contrasto Stato-Chiesa di Edoardo Bressan; Il Risorgimento e le 100 città di Zeffiro Ciuffoletti
sono una finzione e non possono più garantire nemmeno le antiche prerogative municipali e territoriali, che soltanto un sistema di libertà appare in grado di assicurare. ALL’INTERNO del cattolicesimo lombardo si fa strada una profonda insoddisfazione. Alessandro Manzoni, che già nei versi del Proclama di Rimini, lasciati incompiuti dopo la sconfitta di Murat a Tolentino, ave-
Vade retro Asburgo Nel Lombardo-Veneto covano rabbie e delusioni: Manzoni le trasforma in identità italiana va evocato l’“itala fortuna”, è il primo a dar voce, con i versi di Marzo 1821, alla speranza del “varcato Ticino”, il disegno cioè di un esercito amico che aiuti Milano nella liberazione dallo straniero: disegno irrealizzato in occasione dei moti del 1821, sconfitto nel 1848 nonostante la vittoriosa insurrezione popolare, compiuto finalmente nel 1859. La guerra nazionale trova la sua legittimazione nei
di ROMANO UGOLINI*
valori che fondano l’identità italiana, di una patria che non può non essere “una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor”. L’insoddisfazione per le “catene d’oro” imposte alla Chiesa dalla politica ecclesiastica austriaca, che ostacolano la stessa azione educativa e caritativa degli istituti religiosi e dell’associazionismo laico, è fatta propria da Antonio Rosmini, che a contatto con l’ambiente milanese matura la sua proposta politica, in una coraggiosa scommessa sull’indipendenza italiana e su un futuro segnato dalle libertà costituzionali. Rosmini nel 1848 plaude agli “eroici milanesi, veri figli d’Italia” ed è protagonista dell’ultimo e sfortunato tentativo di un’unione dei principi della penisola. L’approdo coerente di pensiero e di azione alla causa nazionale non va tuttavia perduto, poiché anche negli anni successivi, pur nelle dure contrapposizioni legate alla “questione romana”, i cattolici possono sì e fortemente eccepire sul modo in cui l’Unità viene realizzata ma non sulla sua legittimità e il suo valore. * Docente di Storia Contemporanea, Università di Macerata
AVERE SEMPRE desta l’attenzione su quanto avveniva, o poteva avvenire, a Roma era un’eredità antica, quasi bimillenaria. Alla vigilia dell’Ottocento vi aveva fatto riferimento il movimento giacobino e, in seguito, varcato il secolo, il primo Napoleone, che aveva voluto Roma come seconda città dell’Impero ed il Papa ad incoronarlo a Parigi. Roma, con Mazzini quanto con Garibaldi, era al centro dei programmi dei due esponenti più rappresentativi del movimento democratico nazionale, che la prospettavano, l’uno — Mazzini — come iniziatrice di una terza epoca storica, fondata questa volta sull’esplicitazione della volontà popolare, e l’altro — Garibaldi — come ammodernamento della Antica, in chiave nazionale, prima, e universale, poi. A Roma era nato nel 1846, predetto da Gioberti, il mito di un Papa liberale e nazionale, mito che aveva sorpreso perfino Metternich, attento indagatore, per i suoi fini di conservazione dell’egemonia austriaca, dei sentimenti profondi dei moderati e del popolo minuto; ma Papa Mastai Ferretti, che ebbe il merito di risvegliare l’opinione pubblica moderata, per dirla all’Azeglio, non seppe poi gestirla, lasciandosi travolgere dall’enorme ondata di partecipazione politica che aveva suscitato. GIÀ LA FUGA di Pio IX a Gaeta nel novembre del 1848 avrebbe potuto costituire da sola una notizia di grande effetto sul piano internazionale, ma il vero problema era, in una Roma resa vacante di un potere governativo, se la direzione della città sarebbe caduta nelle mani di una minoranza democratica, priva oltre tutto di salde radici nella Capitale, o se la maggioranza moderata sarebbe rimasta sul proscenio, non ritirandosi da una ribalta alla quale era stata sospinta da pochi mesi. Il cammino verso la Repubblica romana del 9 febbraio fu esemplare al riguardo: esso fu ampiamente condiviso da moderati e democratici, e la stessa proclamazione della Repubblica conobbe poche defezioni, votata da una amplissima maggioranza, te-
sa a ricercare i motivi di coesione, e non quelli di contrapposizione ideologica. La Repubblica romana durò in vita meno di cinque mesi, e sarebbe del tutto miope interpretare il perpetuarsi del suo mito, circoscrivendone la spiegazione unicamente allo svolgersi delle sue note vicende. Delegittimata da Pio IX, essa vide ben quattro eserciti muoverle contro; vide il Governo di Mazzini e gioì delle vittorie di Garibaldi contro francesi e borbonici. Alla fine cadde, cedendo alla sproporzione delle forze, militari quanto economiche, in campo e alle mire di potere di un nuovo Bonaparte repubblicano. Ma il significato più rilevante non va neppure ricercato nella capacità della Repubblica di governarsi senza il Pontefice, il che comunque le valse una notorietà internazionale e le simpatie del mondo anglicano e protestante. La vera sostanza del suo valore sta tutta nella capacità che la Repubblica romana ebbe di polarizzare su di sé il nuovo spirito nazionale, moderato quanto democratico, nel chiamare tanta gioventù da ogni parte d’Italia a lottare per un ideale — Roma fulcro della Nazione — senza distinzioni di nascita e condizione sociale, nel varare il 4 luglio 1849, una Costituzione che, pur non entrata in vigore, avrà il significato di un articolato e moderno messaggio verso il futuro. La Repubblica romana del 1849 fu, di fatto, laboratorio della futura Unità: Mazzini e Garibaldi non avevano condiviso la stessa valutazione politica e militare, è vero, ma avevano fatto di tutto per non dare adito a divisioni; il moderato Armellini aveva ricoperto il suo ruolo di Governo accanto a Pisacane, e, vicino ad essi, un conservatore cattolico quale Vincenzo Pianciani poteva dire che «i nostri» avevano vinto i francesi il 30 aprile. DOPO LA CADUTA della Repubblica romana, venne l’epoca delle accuse, delle recriminazioni e dei contrasti ideologici; Mazzini e Garibaldi significativamente non vi parteciparono, cercando, al contrario, di sopirli, certi che i semi gettati a Roma avrebbero fruttato in futuro. Ma fu Cavour, come lucidamente comprese Gramsci, a prendere l’egemonia di quei moderati lasciati senza guida, e non di meno decisi a non ritirarsi nell’inazione, e a condurli a un nuovo decisivo abbraccio con i democratici. Non a caso il 14 luglio 1860, impotente a dominare il rapido corso delle vicende italiane, Napoleone III confessava a Costantino Nigra che si rimproverava un solo errore: l’intervento contro la Repubblica romana del 1849. * Professore di Storia Contemporanea; Preside della Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Perugia
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«I bersaglieri alla presa di Porta Pia» di Michele Cammarano (Museo di Capodimonte, Napoli - da «1861 I pittori del Risorgimento», per gentile concessione di Skira editore)
di EDOARDO BRESSAN*
IL BIENNIO cruciale del 1848-1849 rivela clamorosamente l’impossibilità di una soluzione “neoguelfa” del problema nazionale italiano, aprendo la via a quella cavouriana, indirizzata a una prospettiva unitaria, decisa a regolare i conti con lo Stato pontificio e l’influenza della Chiesa in Italia, consapevole della necessità di quell’appoggio internazionale la cui mancanza aveva determinato il fallimento della prima guerra d’indipendenza. Questo avrebbe permesso di realizzare l’Unità in chia-
ve moderata, monarchica e accentrata, portando a compimento il processo risorgimentale nel periodo compreso fra il 1859 e il 1861 che nessuno poteva pronosticare a tavolino e che è del resto legato a una molteplicità di fattori interni e internazionali, abilmente utilizzati da Cavour. CON LA NASCITA del Regno d’Italia nel 1861, la reazione dei cattolici appare segnata dalla protesta per la fine di un “regime di cristianità”. Ora invece una normativa d’impronta laica e separatista dal Regno di Sardegna si estende al resto della penisola, in modo particolare con le leggi di unificazione amministrativa del 1865 e quelle eversive dell’asse ecclesiastico del 1866-1867. A tutto questo, di
LO SQUILLO
per sé destinato a modificare secolari forme di presenza della Chiesa nella società, si aggiunge la “questione romana”, con l’annessione delle Legazioni nel 1859 e delle Marche e dell’Umbria nel 1860, fino all’epilogo del 20 settembre 1870 e della “legge delle Guarentigie” dell’anno seguente. Entrambi gli aspetti portano, fra l’altro, a un ridimensionamento dello stesso progetto di Cavour: se lo statista piemontese aveva sempre pensato a una supremazia dello Stato nei confronti della Chiesa, questa non avrebbe dovuto configurarsi in forme ostili, lasciando spazio a una visione del mondo in cui il cristianesimo avesse una parte significativa. Ma con Roma capitale – e già proclamata tale nel 1861 – il
conflitto con la Chiesa non può che inasprirsi, con la ferma protesta del papa “prigioniero in Vaticano” e soprattutto il non expedit, che impone un astensionismo politico destinato a durare a lungo e segna la fine delle ultime speranze dei conciliatoristi d’ispirazione rosminiana e cattolico-liberale. Lo stesso si può dire per il problema delle libertà locali, ostacolato e in parte compromesso da una situazione di grave difficoltà. I progetti regionalistici e di decentramento amministrativo vengono accantonati in favore di una soluzione improntata al centralismo. IN UN QUADRO del genere ad affermarsi, nel mondo cattolico, è l’anima intransigente, da cui nasce un associazionismo ini-
zialmente lontano dalla politica: dopo vari tentativi, nel 1867 viene fondata a Bologna la Società della gioventù cattolica italiana che, con i congressi di Venezia e di Firenze del 1874-1875, promuove la costituzione dell’Opera dei Congressi, una vasta realtà fedele al papa e soprattutto artefice di una capillare attività educativa, culturale e sociale. I cattolici, pur nella dura polemica con lo Stato liberale, compiono in tal modo un percorso che ha quale esito l’inserimento nella vita delle istituzioni: si precisa infatti che il non expedit non preclude il voto amministrativo, aprendo così la strada per entrare nelle rappresentanze e spesso nei governi locali – dei Comuni e delle Province – il cui ruolo appare subito di
di Pino Casamassima
E i garibaldini vendicarono Pisacane
L’
8 DICEMBRE 1856, Re Ferdinando di Borbone scampò miracolosamente a un attentato. L’anno prima era fallito l’assalto al carcere dell’isola di Santo Stefano. Il mazziniano Carlo Pisacane, sostenitore di una rivoluzione che partisse dal Sud, dopo un primo tentativo fallito, il 25 giugno 1857 riuscì a radunare 20 uomini coi quali salpò da Genova col piroscafo Cagliari. Il piano prevedeva che durante la navigazione una goletta li avrebbe
riforniti di armi, ma il piano fallì a causa delle avverse condizioni del mare. Approdati a Ponza, Pisacane e i suoi riuscirono comunque a liberare 323 detenuti, e l’indomani, il 28 giugno, la truppa rinfoltita sbarcò a Sapri, dove però, contrariamente agli accordi, ad accoglierli non c’era nessuno dei repubblicani napoletani. Fiducioso nella sollevazione popolare di Napoli, Pisacane proseguì, ma a Padula i Borboni ebbero la meglio, costringendolo a ripiegare su Sanza, dove, il 2
luglio, il dramma si concluse. Convinti dai Borboni che si trattasse di pericolosi evasi i contadini si unirono ai soldati in un massacro alla fine del quale i cadaveri furono gettati in una fossa comune. Tre anni dopo, passando da lì i Mille, un gruppo di garibaldini calabresi giustiziò quanti avevano preso parte a quella mattanza: per primo, Savino Leviglia, la guardia urbana che s’era vantata d’esser stato lui a uccidere il capo di quei ribelli: Carlo Pisacane.
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LE CENTO CITTA’ FORGIARONO L’IDENTITA’ ITALIANA
L’OSTILITA’ DELLA CHIESA ACCOGLIE IL NUOVO REGNO, MA DOPO L’ASTENSIONISMO POLITICO ANCHE I CATTOLICI DIVENTANO CITTADINI
grande importanza anche come garanzia per l’impegno del “movimento cattolico” nel campo della scuola, dell’assistenza, del credito popolare, della cooperazione e del mutuo soccorso, che avrebbero trovato l’approvazione e il riconoscimento dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII nel 1891. Non è allora un caso che i cattolici in molte città chiamino il loro giornale ‘Il Cittadino’, con un forte valore simbolico: la riscoperta di una cittadinanza condivisa porta al superamento delle lacerazioni precedenti, nell’appartenenza – mai venuta meno – alla patria italiana. *Docente di Storia Contemporanea, Università di Macerata
Dipingere l’Italia, di Andrea Emiliani; I monumenti del Risorgimento, di Francesco Ghidetti
Nasce una Nazione fatta di piccole patrie di ZEFFIRO CIUFFOLETTI*
C’È UN PASSO della Canzone italiana, poi ribattezzata, Inno di Garibaldi, scritto nel 1859 da Luigi Mercantini, il più popolare poeta del Risorgimento, che racchiude un aspetto fondante dell’identità italiana: “Le genti d’Italia son tutte una sola/ son tutte una sola le cento città”. Le città, le “cento città italiane”, con Roma in testa, rappresentavano molto bene la dimensione popolare e urbana, ma anche policentrica, della giovane nazione che stava per affermarsi sulla scena europea. Si può dire, anche, che le origini del Risorgimento si legavano intimamente alla riscoperta delle “piccole patrie” che avevano caratterizzato la storia antica e medievale di una “nazione”, ricca di storia e cultura, ma divisa e sottomessa, perché incapace di federare le sue grandi e piccole città-stato. Queste idee, complici la nuova sensibilità portata dal Romanticismo, stavano lievitando già sul finire dell’età napoleonica e poi nell’epoca della Restaurazione. Si pensi al grande successo di un’opera come la Storia delle Repubbliche italiane nel medioevo dello svizzero Sismondi de Sismondi. L’edizione parigina, uscita fra il 1809 e il 1819, e più ancora la successiva traduzione italiana, fecero di quest’opera una tra le più importanti e lette dalla gioventù colta della penisola. Benché subito censurata dell’Austria e messa all’Indice della Chiesa, l’opera di Sismondì esaltava la forza e la civiltà delle
Ritratto fotografico di Pio IX (collezione Palazzoli, Firenze); sopra: «La notte del 31 marzo 1849» di Faustino Joli (Musei Civici di Brescia; da «1861 I pittori del Risorgimento», per gentile concessione di Skira editore)
“patrie cittadine italiane”, contrapposte all’Impero e al Papato. Da qui presero corpo i miti di Legnano e della Lega delle Città in lotta per difendere la loro autonomia dall’Impero. La Lega delle Città che si erano battute a Legnano era l’antefatto di una nazione che aveva, tuttavia, perso l’occasione di trasformare un’alleanza vittoriosa in una federazione. SIA IL FEDERALISMO cattolico liberale, sia il federalismo democratico di Cattaneo si ispirarono a questa storia, trasformata in un mito, che diventò la forza attiva del Risorgimento. Per la cultura cattolica la comunità politica naturale era proprio il municipio, la piccola patria, in cui i legami impersonali e l’interesse per il bene comune si concretizzavano nell’esperienza diretta dei cittadini. Carlo Cattaneo identificò nelle città, nei liberi municipi, il “principio ideale delle istorie italiane”. “Le nostre città – scrisse – sono il centro antico di tutte le comunicazioni di una larga e popolosa provincia, vi fanno capo tutte le strade, tutti i mercati del contado, sono il cuore nel sistema delle vene, sono termini cui si dirigono i consumi, e da cui si diramano le industrie e i capitali, sono un punto di intersezione o piuttosto un centro di gravità”. Purtroppo questa storia era valida in prevalenza per l’Italia centrosettentrionale. DIVERSA ERA LA STORIA dell’Italia meridionale, dove avevano prevalso realtà statuali dominanti sulle “povere città provinciali”, e dove le città erano grandi capitali come Napoli e Palermo dal tessuto sociale fragile, fatto di schiere di burocrati, “paglietti” e masse popolari misere e analfabete. Insomma le città italiane del centro-nord erano un ricettacolo vivo di ricchezza e di arte, di tradizioni civili e religiose sempre vicine al popolo. Gli abitanti di queste città si sentivano almeno un po’ cittadini proprio perché eredi di antiche e ben radicate istituzioni e tradizioni civiche, per quanto svuotate di significato a causa dalla formazione di Stati accentrati e da dominazioni esterne. Il Risorgimento italiano, proprio per questo, prese le mosse da quelle élites colte cittadine che si riunivano nei salotti , nei circoli, nei teatri , nei caffè, nelle università e nei gabinetti di lettura. Il problema di fondo dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48 e delle ipotesi federaliste, rimase quello di conciliare il policentrismo con il centralismo, il localismo con l’unitarismo, il Nord con il Sud. Ancora oggi, a centocinquant’anni dalla nascita dello Stato Unitario, questi sono i nostri problemi e di essi si occupa l’agenda politica alla ricerca di una difficile, ma non impossibile, soluzione. *Docente di Storia Contemporanea, Università di Firenze
36 CULTURA & SOCIETA’
di ANDREA EMILIANI
I PITTORI riuniti al Caffè Michelangelo di Firenze, dopo qualche anno di discussioni e di lavoro, si videro accusati di essere dei ‘macchiaioli’. In realtà, la parola ‘macchia’ usata dalla critica in senso spregiativo, era stata ripresa dal linguaggio del mestiere: fare ‘macchia’ voleva dire ridurre il disegno e lavorare di colore accostato secondo accordi tonali. Era una tecnica antica. Per intenderci, lo scrittore e pittore Jacopo Alessandro Calvi aveva ritenuto di usare, ancora nel 1816, la parola ‘macchia’ come spiegazione del modello di stile del Guercino giovane. CORREVA l’anno 1861 e gli amici del gruppo, a cominciare da Telemaco Signorini, pensarono di adottare quella critica come contrassegno stilistico. In fondo, sarà questa la stessa strada seguita dai colleghi di Monet a Parigi. Quell’«Impression. Soleil levant» titolo di un dipinto datato 1872 ed esposto oggi al Museo Marmottan, doveva in realtà dare il nome al grande movimento davvero rivoluzionario destinato a muovere 1’espressione artistica del naturalismo moderno. I primi macchiaioli ebbero il merito di abbandonare nel passato gli armamentari stilistici che avevano segnato la pittura purista e neoclassica. In parte, erano pittori che avevano incominciato a lavorare assai presto, e che erano stati coin-
volti nell’ondata rivoluzionaria degli anni della prima guerra del Risorgimento liberale, cioè, il biennio 1848-1849. Adriano Cecioni, Nino Costa (di origini laziali) e poi Giovanni Fattori livornese, Telemaco Signorini e, infine, il romagnolo Silvestro Lega, parteciparono tutti al generoso travaglio libertario. E, in alcuni tra loro, il grande tema dell’unificazione italiana rimase ben impresso attraverso opere di fama. È IL CASO di Lega autore dell’insolito dipinto dal titolo «Gli austriaci prigionieri dei bersaglieri», che si data nell’ anno 1860 circa. Il Risorgimento alimentò del resto l’immaginazione di molti artisti con le sue aspre vicende. Per non parlare poi degli scultori che, a forza di monumenti dedicati a Mazzini e a Garibaldi, e poi a Vittorio Emanuele II oppure a Cavour, riempiranno le piazze della nuova Italia, consolando molto lo spirito di un’unificazione ormai raggiunta. Le Belle Arti, appena nate come amministrazione, furono sommerse dalla quantità di concorsi per opere pubbliche. ANCHE il più popolare tra tutti, Giovanni Fattori, che rivelava nelle sue lettere una inarrestabile parlata livornese, lavorò molto per le memorie patrie. Esiste ancora una sua lettera, del novembre 1878, nella quale descrive la visita di Umberto I, da poco re d’Italia, al suo studio fiorentino. In realtà Diego Martelli gli aveva insegnato il comportamento da tenere e le cose da dire, perché il pittore aveva bisogno di vendere il quadrone che stava dipingendo e che raffigura-
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MERCOLEDÌ 19 GENNAIO 2011
«La prima bandiera tricolore portata in Firenze nel 1859» di Saverio Altamura (per gentile concessione del Museo del Risorgimento di Torino). «Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta» di Giovanni Fattori (Gallleria d’Arte moderna di Palazzo Pitti, Firenze). Monumenti a Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Roma
va il famoso ‘quadrato’ di Magenta, cioè la protezione militare organizzata attorno a Vittorio Emanuele nel corso della decisiva battaglia. Fattori guidò il giovane monarca in visita allo studio, ma non rivelò di non aver mai visto nella realtà il luogo dell’avvenimento famoso. Umberto osservò la scena, ammirandola assai, ma alla fine disse, rivolto all’artista: «Lei ci ha poetizzato». Fattori rispose secco che non la pensava così. Poi, sincerità per sincerità, il pittore si
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informò su quanto tempo fosse durato il combattimento. E il re precisò che si era combattuto per una mezz’ora. A giudicare da questo colloquio, sembra davvero che la stagione degli eroismi fosse ormai finita. Questo incontro, tuttavia, costituisce una pagina schietta della storia italiana e testimonia, una volta di più, della consonanza tra ispirazioni e suggestioni di quel gruppo di artisti e la sensibilità propria del loro tempo verso una prospettiva di comunanza e di partecipazione nazionali.
di Pino Casamassima
Don Andreoli, dalla sacrestia al patibolo OPO che nel gennaio del 1821 erano stati trovati volantini “sovversivi”, e ossessionato dai fermenti rivoluzionari, il duca di Modena Francesco IV emanò un decreto che sanciva la decapitazione per chiunque avesse fatto parte di una società segreta. Nel marzo dell’anno successivo, un’autorità prefettizia fu accoltellata da uno studente, provocando due reazioni. La prima, riguardava gli studenti: da quel momento in poi avrebbero dovuto alloggiare in collegi facilmente controllabili, oltre a
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non potersi iscrivere a Giurisprudenza, ritenuta “particolarmente pericolosa”. La seconda, fu la caccia ai cospiratori, che provocò una cinquantina di arresti, fra cui quello di un prete, don Giuseppe Andreoli, condannato a morte con altre sei persone. L’esecuzione fu fissata per le ore 12 dell’11 settembre 1822 e a nulla servirono le suppliche del Vescovo. Prima di avviarsi al patibolo, don Andreoli regalò ai detenuti le sue cose, fra cui una tabacchiera. Il macabro corteo s’era però mosso con largo anticipo, tanto che il
povero prete aspettò la sua ora pregando sotto una pioggia battente. Appena la sua testa rotolò nella cesta, il sole s’affacciò dalle nuvole: un segno che il popolo interpretò come divino. Sulla lapide a sua memoria posta a Correggio, dove il sacerdote era stato arrestato, si legge: «Così fu ucciso il sacerdote Andreoli per aver con puro e generoso animo aspirato a cacciar via le tenebre della servitù dalla sua nobile patria».
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MERCOLEDÌ 19 GENNAIO 2011
SIGNORINI, FATTORI, LEGA, PATRIOTI E «MACCHIAIOLI»: NEI LORO DIPINTI IL VOLTO DEL RISORGIMENTO
CULTURA & SOCIETA’ 37
VIAGGIO NEI LUOGHI DEL RISCATTO NAZIONALE
L’Italia, un museo a cielo aperto di FRANCESCO GHIDETTI
L’ITALIA è un enorme museo del Risorgimento. A cielo aperto, in angusti spazi espositivi, fra mura secolari. E’ perciò impresa tutt’altro che agevole disegnare una mappa di quelli che furono i luoghi del nostro riscatto nazionale. Innanzitutto, guai a dimenticare che non esiste ‘un’ Risorgimento, bensì tanti momenti — di cui magari nemmeno ci accorgiamo correndo distrattamente da una parte all’altra della città — di una storia irripetibile. Per farla breve: il museo del Risorgimento non è qualcosa di avulso dal contesto e testimonianze curiose o fondamentali per capire la ‘biografia di una nazione’ possono essere trovate anche nei musei civici o nelle piazze dei più sperduti paesini. IL NOSTRO viaggio potrebbe cominciare ovunque. Ma, considerando come episodio-chiave la spedizione dei Mille, non possiamo che partire da Marsala. A due passi dal Duomo ha infatti sede il Complesso monumentale di San Pietro che ci offre una mirabile sezione dedicata a Garibaldi e al Risorgimento. Moltissimi i tesori contenuti nello scrigno lilybetano, tra cui la poltrona in damasco dove Garibaldi riposò dopo lo sbarco. Nel Complesso si trova anche il Centro studi garibaldini. Più avanti ecco il teatro della battaglia che, probabilmente, decise le sorti dei Mille: Calatafimi. A Pianto Romano l’ossario domina sulle vallate di questo pezzo di Sicilia. Da visitare (ha riaperto da poco) il piccolo ma preziosissimo museo del Risorgimento di Palermo in piazza San Domenico (www.storiapatria.it) dove ci si rende conto dell’enorme portata politica del garibaldinismo come fenomeno politicosociale.
I pittori del Nord, di Andrea Emiliani; Come nascono le camicie rosse, di Gabriele Moroni
ALTRO luogo-simbolo è Roma. Forse il luogo-simbolo, l’obiettivo cui tutti i patrioti hanno puntato per realizzare l’unità nazionale. Inutile sottolineare la quantità di tesori presenti nella capitale. Sarebbe un delitto non visitare il museo centrale del Risorgimento nel complesso del Vittoriano in piazza Venezia (www.risorgimento.it: accanto c’è l’istituzione di studi per eccellenza, vale a dire l’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano). Difficile esprimere a parole l’emozione che si prova nei vari ambienti, ma è certamente impossibile per-
dersi la galleria dove vengono ripercorse le tappe dell’epopea. Sempre a Roma, da vedere il viale abbellito dai platani che costeggia il Gianicolo: ci sono i busti dei maggiori protagonisti della Repubblica romana del 1849 e una statua di Garibaldi a cavallo datata 1895 e firmata Emilio Gallori che fece infuriare sino a non molto tempo fa la diplomazia vaticana che considerava un affronto avere così vicino l’Eroe dei Due Mondi, noto anticlericale e mangiapreti. Su Colle del Pino conviene dare un’occhiata all’Ossario garibaldino: tra aprile e luglio 1849 le camicie rosse dettero il meglio per difendere strenuamente la Repubblica Romana. CAPITOLO altrettanto decisivo riguarda le altre due capitali: Torino e Firenze. Nella culla dei re sabaudi e soprattutto di Cavour sta per riaprire (www.museorisorgimentotorino. it) il museo del Risorgimento con 27 sale che ripercorrono le vicende italiane ed europee dal XVIII secolo a quella che fu chiamata la ‘quarta guerra d’indipendenza’ (cioè il primo conflitto mondiale). Da non perdere lo studio di Cavour, la ricostruzione della camera di Oporto dove morì Carlo Alberto, ma soprattutto la Camera dei deputati del Parlamento subalpino. Firenze, invece, non ha più un museo del Risorgimento anche se è in fase avanzata l’idea di farlo rinascere allo Stibbert, altro museo caro ai fiorentini. L’elenco sarebbe ancora molto lungo. Impossibile dimenticare Milano. Il museo (www. museodelrisorgimento.mi.it) ha quindici sale tematiche con particolare attenzione alle Cinque giornate del marzo 1848. Spostiamoci poi in Emilia che vanta a Reggio il museo del Tricolore (www.tricolore.it) e in Liguria, a Genova, dove, oltre allo scoglio dei Mille a Quarto, al museo garibaldino di villa Spinola (tel. 010/38.54.93), luogo dei preparativi del Generale per la spedizione che liberò il Sud dai Borboni, esiste un museo del Risorgimento con annesso Istituto mazziniano davvero sensazionale ((www.istitutomazziniano.it). E, per finire, se davvero volete sentire l’eco di quegli anni formidabili, andate a Caprera. Lì, su quell’isola ventosa quant’altri mai, riposa Garibaldi. Tra poco nascerà il museo nazionale. Concludiamo questo excursus consigliando due testi: «L’Unità d’Italia», eccellente guida ai luoghi del Risorgimento» di Mario Bussoni (Mattioli 1885 editore) e «I luoghi di Garibaldi» del Touring club italiano a cura di Maria Canella.
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di GABRIELE MORONI
E’ NERA, con al centro il Vesuvio in eruzione, la bandiera che il 9 luglio 1848, a Montevideo, viene consegnata alla Legione italiana che agli ordini di Garibaldi combatte in Uruguay contro il dittatore Oribe e il suo luogotenente Rosas. Da poco gli uomini di Garibaldi (nell’America Latina già lo chiamano «El Diablo») hanno anche una divisa. Rossa. Non per scelta ideologica
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di quello che diventerà più tardi in Europa il colore della rivoluzione ma per una decisione del caso. Il governo di Montevideo, cui spetta l’equipaggiamento dei volontari, ha scoperto in una manifattura della città una partita di stoffa rossa. E’ stoffa per le tuniche dei macellai, destinata a un «saladero» di Buenos Aires. Rossa perché lì risalterebbero meno le inevitabili macchie di sangue. E’ fatta. I volontari italiani combatteranno in divisa da macellaio. Il comandante si adegua con comodo. Per il momento Garibaldi indossa una giubba azzurra senza insegne con il bavero rovesciato e doppia bottoniera, cappello bianco di castoro al-
to, di forma cilindrica. Solo più tardi vestirà con tunica scarlatta, fazzoletto al collo, in testa un feltro nero con la penna. Intanto lotta contro l’artrite degenerativa che lo perseguiterà per tutta la vita. Nel 1848, richiamato dai venti di guerra e già aureolato dalla fama di biondo eroe senza macchia, torna in Italia portandosi dietro 62 uomini, alcuni in camicia rossa. Un anno dopo, nei giorni della Repubblica Romana, le camicie vengono confezionate e distribuite ai volontari accorsi a combattere contro i francesi. Per rivedere il rosso garibaldino si dovrà attendere più di un decennio. La storia si riannoderà per un pertugio
angusto, passando attraverso una fuitina e un matrimonio riparatore. GANDINO, piccolo borgo della Bergamasca, scrigno di storia, tesori, memorie. Paese di tessitori e tintori. Nell’’800 lavorano almeno undici aziende tintore, alcune autonome, altre collegate a stabilimenti di tessitura. Utilizzano materie prime vegetali, minerali, animali. Per lo scarlatto, il più tipico dei colori gandinesi, si impiega la cocciniglia, un insetto importato dall’America, fatto essiccare, macinato fine fine per poi essere disciolto nel bagno di tintura. Nel 1820 Giovan Battista Fiori è un vivace enfant du pays di sedici anni. Con i suoi bollenti spiriti ha compromesso una ragazza milanese, Ci-
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priana Sordelli. Nozze frettolose, nascita di Giovanni, che vivrà per poche ore. E’ troppo. Il paese ronza di pettegolezzi. Gaetano Fiori e Maria Carnazzi, genitori severi e preoccupati, spediscono a Milano l’imberbe rampollo e la giovane consorte. E’ la fortuna dell’intraprendente Giovanni che nella grande città si scopre la sua vocazione di uomo d’affari e pubbliche relazioni. Nel settembre 1859 Garibaldi lancia la sottoscrizione per il «Milione di fucili». E’ probabile che allora, grazie alle sue sensibilissime antenne, Giovanni Fiori capti le prima notizie sul progetto di una spedizione in Sicilia. Quando la decisione è presa rimane pochissimo tempo. Garibaldi esige che le uniformi dei suoi siano rosse. Fiori si precipita a Gan-
«Garibaldi a Palermo» di Fattori (da «1861 - I pittori del Risorgimento», per gentile concessione di Skira editore); a destra «La vasca dell’Accademia di Francia a Roma» di Corot (Museo dipartimentale dell’Oise) e «La meditazione» di Hayez (Galleria d’arte moderna di Verona)
LO SQUILLO
di Pino Casamassima
Carlo III di Borbone, il ‘tirannello’ di Parma EL 1849 Ferdinando Carlo di Borbone aveva assunto la reggenza del Ducato di Parma col nome di Carlo III. «Tirannello»: così lo chiamava il popolo. Una qualifica azzeccata per uno «strambo» di una dinastia di «strambi»: suo
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padre non aveva combinato nulla in tutta la sua vita, suo nonno era morto pazzo, e lui non aveva tradito le “tradizioni” di famiglia. Nato nel 1823, era cresciuto negli stravizi e nel 1845aveva sposato Luisa Maria di Berry, che gli aveva dato quattro figli. Prevalentemente interessato alle donne e al gioco, s’era occupato
della vita pubblica solo in termini vessatori. Fra le sue disposizioni spiccavano le pene corporali con frusta e bastone. Timoroso dei “danni” che poteva provocare la cultura, chiuse l’università di Parma. Una tirannia, la sua, destinata a scadere nel marzo del 1854, quando una riunione clandestina si concluse con un
sorteggio dal quale uscì il nome di Carra, un sellaio: sarebbe stato lui – poi rifugiatosi in Argentina – ad eseguire il regicidio. Un colpo di coltello provocò la morte del trentenne “Tirannello” dopo una giornata di dolorosa agonia. La reggenza fu assunta da Luisa Maria in nome del suo primogenito, che però non sarebbe
mai salito su quel trono: dal luglio successivo ebbero inizio una serie di moti che si conclusero con la fuga dei Borbone, nel settembre del 1859. L’11 marzo successivo un plebiscito proclamò l’annessione del Ducato al Regno dei Savoia.
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SOLO LA METÀ DEI ‘MILLE’ POTÉ INDOSSARE LA DIVISA, PER MANCANZA DI STOFFA. A TINGERLA CI PENSÒ UN BERGAMASCO dino. In una settimana di lavoro frenetico raccoglie tutte le pezze di stoffa che trova e dove può, dove trova, le fa tingere di rosso. Questo spiega perché il colore di divise e camicie non sarà uguale per tutte. LA LOCALITA’ si chiama Prat Serval, Prato dei Servalli, dal nome di una famiglia. La Tintoria degli Scarlatti era alimentata da una sorgente naturale, l’unica, mentre le altre dovevano sfruttare le acque della sorgente Concossola, ampia come un fiume. La lapide murata sulla facciata nel 1961 per il centenario dell’Unità è un volo pindarico del prevosto di allora, don Antonio Giuliani:
«Qui arte vetusta tinse le camicie rosse, che sangue generoso avrebbe ritinto nelle battaglie della libertà». Non esistono documenti, solo una tradizione orale che prende le mosse dalle memorie di Erminio Robecchi Brivio, nipote dell’intraprendente Fiori. Può confermarla il particolare che la tintoria disponeva di caldaie stagnate e lo stagno garantiva lucentezza allo scarlatto. Da Gandino partono le pezze rosse che a Bergamo vengono trasformate in camicie nella sartoria di Celestina Belotti, fidanzata del garibaldino Francesco Nullo, mentre a Milano provvedono Laura Solera Mantegazze e altre patriottiche signo-
I circoli e le riviste culturali, di Cosimo Ceccuti; La lingua italiana dopo l’Unità, di Maria Luisa Altieri Biagi
re. Poche, camicie perché la stoffa è davvero scarsa. Cinquecento, secondo gli storici più generosi. Un centinaio, ridimensiona un calcolo più realistico e forse più veritiero. Certo è che fra gli uomini imbarcati sul «Piemonte» e il «Lombardo», in rotta verso il regno di re Franceschiello, oltre la metà, scrisse nel suo diario il volontario bergamasco Guido Sylva non potè «sovrapporre la rossa divisa a l’abito borghese». Il rosso è tanto poco diffuso nelle file garibaldine e tanto sconosciuto agli avversari che a Calatafimi i borbonici credono di avere di fronte degli evasi dalle galere dove l’uniforme dei detenuti è scarlatta.
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E L’ARTE FECE I CONTI CON IL RISORGIMENTO
Il perfezionismo dell’Ottocento di ANDREA EMILIANI
LE REALTÀ delle fattezze umane come anche del paesaggio e della stessa ‘natura morta’ erano nelle scuole pittoriche italiane in paragone con l’Europa settentrionale assai fittizie. In ogni città della penisola continuarono la loro attività artisti e scultori, disegnatori e incisori. Il loro numero fu anzi assai alto, ma il cammino apparve rivolto ad una inestinguibile dominio del passato. Quando si parla della pittura italiana del primo 800, nelle diverse regioni della penisola, è inevitabile assistere infatti in modi diversi ad una diffusa e pervicace volontà di curare una esecuzione di alta e assoluta perfezione. Devo dire che solo lo scultore Antonio Canova è riuscito a infondere nelle sue opere straordinarie una bellezza che ci appare insieme di ispirazione antica e di moderna espressività. Del resto, la stessa tradizione delle Accademie più famose – da Milano a Firenze, da Roma a Bologna oppure a Venezia - sfiorava appunto un accademismo che illuminava solamente l’attenzione quasi perversa rivolta soprattutto al confronto con il passato. Ma si trattava di un confronto passivo. QUANDO si pensa che un grandissimo artista come Camille Corot in questi anni durante il tempo dei suoi appassionati soggiorni , poggiava a terra il cavalletto sia in Toscana che soprattutto nella campagna romana e nella vallata della Nera, ci si sorprende sempre. Soltanto dopo il 1861, i pochi artisti che si riunivano nel caffè Michelangelo di Firenze mostrarono, anche per la qualità dell’in-
formazione filtrata da Parigi per il tramite degli scritti e delle lettere del critico Diego Martelli, di trovare in sostanza la forza di dimettere l’accanimento della forma e cioè del disegno, e di affrontare la struttura delle ‘macchie’ cromatiche equilibrate nella luminosità dell’assetto tonale. C’E’ UN GRANDE artista che attraversa in modo insieme esemplare e tuttavia controverso l’intero secolo XIX, e che risponde al nome del veneziano Hayez. La sua attività di impianto fortemente storico e mediovaleggiante, quanto a contenuti, si associa anche a veri capolavori rivolti soprattutto alla ritrattistica. Hayez, allievo di un’Accademia presieduta da un ormai moderno scrittore storico dell’arte, quale Leopoldo Cicognara, dopo aver toccato la Roma napoleonica ed essere rientrato a Venezia, passò poi all’Accademia milanese di Brera. Già l’anno successivo alla sua morte, e cioè nel 1882, la celebrazione della sua scomparsa prese l’aspetto di una stentorea difesa dell’arte più rappresentativa del passato. IL SECONDO Ottocento, fu perfino suggestivo nelle sue ricognizioni di paesaggio in Sicilia come a Napoli, oppure nelle mani abilissime di un vedutista come Ippolito Caffi, capace di far risorgere le glorie della grandissima ‘veduta’ veneziana del XVIII secolo, liberò artisti grandi come il piemontese Reycend, oppure il milanese Gola. La Biennale di Venezia, inaugurata a fine secolo, nel 1895, vide trionfare nel gusto del pubblico un enorme dipinto del torinese Grosso che, all’unisono con D’Annunzio, celebrava nel pessimo gusto un ambiguo Trionfo della Morte appollaiata sul letto di una seducente e prosperosa femmina senza veli. L’artista più attuale nella sua meditata carriera, che si confrontò sul luogo anche con il ‘japonisme’ che tanta fama aveva incontrato nella grande Parigi, appare sempre di più il reggiano Fontanesi. Presto trasferitosi a Torino, la capacità di elevare la sua meditazione sul paesaggio padano assedia i sentimenti e si direbbe anzi i sensi del vivere con emozioni di esaltante vicinanza al pensiero sulla natura. Egli fu del resto tra i pochi che non diede luogo al costante e talvolta anche un poco ambiguo celebrativismo risorgimentale.
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di MARIA LUISA ALTIERI BIAGI (*)
«OSANNA, finalmente ci siamo contati! Non più scuse, non più sconce finzioni, non più insinuazioni maligne. I due partiti si sono divisi l’uno dall’altro, come si divide l’acqua dall’olio; di qua gl’italiani, di là i separatisti!» (‘La Nazione’, 18 marzo 1860). Così il Collodi commentava il plebiscito che aveva deciso l’unione della Toscana al Piemonte: 366.571 i votanti desiderosi di diventare «italiani»; 14.000 i «separatisti», favorevoli al ritorno del Granduca Leopoldo. Maturavano così -per volontà popolare, oltre che per accordi diplomatici e azioni militari- le condizioni che permisero a Vittorio Emanuele II di proclamare il «Regno d’Italia» (17 marzo 1861).
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FATTA L’UNITÀ SI PENSÒ ALLA LINGUA COMUNE. MANZONI CONSIGLIÒ IL FIORENTINO E TESTI DIALETTALI ‘COMPARATIVI’ diffondere «la buona lingua» il Manzoni consiglia un vocabolario italiano basato sull’uso fiorentino e vocabolari dialettali «comparativi», che facilitino il passaggio dai dialetti alla lingua. Meno attuabile la proposta di trasferire maestri toscani in al-
Scuola e letteratura Pochi gli italofoni. E ci fu chi propose di ‘esportare’ maestri toscani in ogni RAGGIUNTA l’unità politica, si pensa alla regione del nuovo Regno. Ma poi... lingua e il ministro dell’istruzione chiede a un Manzoni più che ottantenne, come «rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia». E il Manzoni risponde con una relazione (‘Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla’) che conferma la sensibilità sociale da lui mostrata con le continue correzioni ai ‘Promessi Sposi’, a creare una «lingua dell’uso» che fosse «bene comune» del popolo italiano; parole di livello letterario (frequenti nell’edizione del 1827) vengono sostituite da parole quotidiane nell’edizione del 1840: accorata/mesta, affranta/ stanca, conquisa/vinta, fievole/debole, immoto/immobile, occultato/nascosto, sùbita/improvvisa, tacito/zitto, tapina/misera, ecc. Per
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tre regioni, a formare o aggiornare insegnanti locali. QUALE ERA, realmente, la situazione linguistica della neonata «nazione»? Nel 1861 i cittadini italiani erano circa 22 milioni; diventeranno 26 milioni dopo l’annessione del Veneto (1866) e la conquista di Roma (1870). Incerto invece il numero degli italofoni: la percentuale proposta dai linguisti oscilla dal 2,5% a più del 12% (dai 630.000 ai 3 milioni di individui). Più che scegliere in una “forbice” così ampia, dovremmo ammettere un numero molto più alto di cittadini forniti di «conoscenza passiva» dell’italiano: quelli che,
pur parlando un dialetto, erano in grado di “capire” (e quindi facilitati a imparare) l’italiano parlato da altri con cui avevano rapporti sociali o lavorativi. Un numero destinato a crescere rapidamente per il forte aumento della popolazione che, a fine secolo, superava i 50 milioni (più che raddoppiata, dunque, rispetto al 1861). E i nati nella seconda metà del secolo erano certamente più scolarizzati dei nati nella prima metà, grazie alla migliorata organizzazione scolastica postunitaria. AUMENTANO i lettori, e quindi gli scrittori e le tirature di giornali, romanzi d’appendice, novelle, segretari galanti, libri per ragazzi, per signorine... Di un romanzo di Jolanda (Maria Majocchi Plattis, 1864-1917), ‘Le tre Marie’, furono vendute più di centomila copie. Tanta crescita era accompagnata da un appiattimento linguistico che un critico fine come Renato Serra così descriveva, nel 1913: «Quello che sembrava un mito, un ideale favoloso, l’unità della lingua e del tipo letterario, oggi comincia ad essere un fatto compiuto e pacifico , tanto naturale che la gente quasi non se ne accorge: non si sente più, oggi, a leggere, se l’autore sia lombardo o piemontese, o siciliano. Oggi tutti scrivono, in modi diversi, press’a poco la stessa lingua; con una certa pulizia, più che proprietà, e scelta e ricchezza di vocabolario comune...». E’ lo «stampo unico», il «tipo unico», di cui Serra un po’ si rallegra e un po’ si lamenta perché «l’uniformità dello stampo finisce presto a uguagliar tutto». Saranno le avanguardie letterarie e i pochi ma grandi scrittori del Novecento a rinnovare la lingua. Saranno i molti e grandi poeti dello stesso secolo a restituire colori alle sbiadite parole di tutti: «le tue parole iridavano come le scaglie / della triglia moribonda». (E. Montale). (*) Docente di Storia della lingua italiana, Università di Bologna
di Pino Casamassima
Mameli, poeta ucciso da ‘baionetta amica’ ENTRE IO aspettavo te/Michele Novaro incontra Mameli e insieme scrivono un pezzo tuttora in voga», cantava Rino Gaetano, anche lui destinato alla morte giovane per far felice gli dei. Giovane, anzi, giovanissimo con i suoi 21 anni era Goffredo Mameli quando morì. Figlio di un’aristocratica famiglia genovese, dimostrò subito una forte passione per la letteratura, componendo fin dai tempi della scuola versi d’ispirazione romantica e patriottica: fra questi, il
«M
“Canto degl’Italiani’’, musicato in una notte dall’amico Michele Novaro, e destinato a diventare l’inno nazionale italiano col nome di “Inno di Mameli”. Dopo aver conosciuto Mazzini, in Mameli s’erano irrobustiti i suoi già forti sentimenti patriottici, tanto da indurlo a partecipare attivamente ad alcuni avvenimenti salienti del movimento risorgimentale: nel marzo del 1848 partecipò alle 5 giornate di Milano, nel giugno successivo si fece portavoce della richiesta dello Statuto a Carlo Alberto, e dopo la fuga di Pio IX partì con Garibaldi da Ravenna alla vol-
ta di Roma, dove nel febbraio del 1849 fu costituita la Repubblica romana. La sua inquietudine rivoluzionaria lo portava a spostarsi di continuo e si trovava a Genova quando seppe che la Francia aveva attaccato la Repubblica romana: tornato precipitosamente a Roma, fu accidentalmente ferito a una gamba dalla baionetta di un commilitone: un taglio di poco conto, ma l’infezione gli fece prima perdere la gamba, poi la vita. Le sue poesie furono pubblicate per la prima volta nel 1850 con la prefazione di Giuseppe Mazzini.
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EDITORIA E CIRCOLI LETTERARI «I figli del popolo» di Giacchino Toma (Pinacoteca provinciale di Bari) e, a sinistra, «Visita di Garibaldi a Manzoni» di Sebastiano De Albertis (Civico Museo di Milano)
E il progresso fu dato alle stampe di COSIMO CECCUTI (*)
IL RISORGIMENTO italiano fu un fenomeno culturale prima ancora che una serie di eventi politico-militari. L’affermarsi dell’idea di nazione, in Italia e in Europa, la faticosa formazione della coscienza di un’appartenenza comune, si accompagnò alla circolazione e alla diffusione delle idee – pur combattute dalla censure e dalle autorità di polizia – al dialogo e al confronto, alla riscoperta e al recupero di radici lontane, dalle radizioni alla lingua, all’orgogliosa rivendicazione delle antiche libertà. Una delle grandi “rivoluzioni” del periodo post-napoleonico fu l’apertura al progresso, nei circoli, nei gabinetti scientifici e letterari, nei congressi degli scienziati; una rivoluzione che si accompagnò al radicale cambiamento degli obiettivi e della realtà stessa dell’editoria. Si abbandonano le pubblicazioni di élite e si tende a raggiungere un pubblico sempre più vasto, contenendo i costi e moltiplicando le tirature. I contenuti mettono da parte la letteratura “edonistica”, il bello per il bello, e si aprono alla letteratura “civile”, che soddisfa le istanze patriottiche provenienti dal basso, suscitando l’orgogliosa reazione dei lettori a fronte delle sopraffazioni e delle ingiustizie, come accade in teatro, in occasione della messa in scena delle tragedie di Gian Battista Niccolini o delle opere liriche di Giuseppe Verdi. IN QUELL’ITALIA definita dal cancelliere austriaco Metternich “pura espressione geografica” e dal poeta francese Lamartine addirittura “terra di morti”, ci si infiamma per i versi di Foscolo e di Leopardi, si leggono con passione i romanzi storici di Grossi e di Manzoni, di Guerrazzi e di D’Azeglio, che evocano episodi gloriosi del lontano passato, dall’epopea dei Comuni al periodo delle Signorie. L’Italia c’era, nell’imporsi di una lingua comune dei dotti attraverso la Commedia di Dante il volgare dei trecentisti toscani, o nelle orgogliose, eroiche ribellioni di Ettore Fieramosca e di Francesco Ferrucci, nell’estremo sacrificio di Arnaldo da Brescia che non si piega alla prepotenza del Papato alleato con l’Impero. Nel campo dei periodici, il romanticismo trova a Milano nel 1818 la prima, importante pubblicazione di respiro europeo col Conciliatore, di Pellico, Berchet e Confalonieri, di breve durata per il rigore austriaco. Sarà la Toscana più tollerante dei Lorena a costituire l’autentico cenacolo e centro di attrazione per il liberalismo moderato dell’intero paese. Fra 1821 e 1832 l’Antologia di Gian Pietro Vieusseux rappresenta luogo ideale di confronto per il rinnovamento e l’emancipazione culturale, sociale, civile, anticipando l’ancora lontana stagione delle riforme. Dopo la stretta reazionaria successiva ai fatti del 1830-31, Firenze accoglie i grandi editori, esuli alla ricerca di tolleranza se non di libertà: da Parigi l’intraprendente Felice Le Monnier ripara sulle rive dell’Arno, dove avvia agli inizi degli anni Quaranta la “Biblioteca nazionale”, collezione già nel titolo rivoluzionaria, che accanto ai classici accoglie opere di limpido contenuto patriottico: Dante, Machiavelli, Alfieri, ma anche Tommaseo e Guerrazzi, Pellico e Mamiani, Giusti e Colletta. E per la prima volta la pubblicazione di tutte le opere di uno stesso autore, da Foscolo a Leopardi. “Officina vulcanica” definiva quella tipografia papa Pio IX per il contenuto dei libri che uscivano dai suoi torchi. Prima con Le Monnier e dal 1854 in proprio opera a Firenze il piemontese Gaspero Barbèra, l’editore di De Amicis e del Carducci, artefice nel periodo decisivo del riscatto nazionale della “Biblioteca civile dell’italiano”.
«La lotta alla povertà» di Paolo Sorcinelli; «Risorgimento e anti Risorgimento» di Franco Cardini
NON SOLO FIRENZE e la Toscana. A Torino opera, in contemporanea col fiorentino Vieusseux, Giuseppe Pomba, editore fra l’altro della celebre Storia universale di Cesare Cantù, in trentacinque volumi, iniziata nel 1838 e conclusa nel 1846: fra i primi, in Italia, a promuovere l’editoria popolare, quale risposta alla crescente domanda di cultura e di informazione proveniente dal basso. (*) Docente di Storia dei partiti e delle rappresentanze politiche, Università di Firenze
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di PAOLO SORCINELLI (*)
NEL 1815 il vulcano Tambora (attuale Indonesia) oscura i cieli di mezzo mondo con cenere e anidride solforosa. I raccolti marciscono per due anni di seguito e nell’agosto del 1817 in Sicilia cade “neve rossa”. Anche l’Italia deve fare i conti con la carestia e con il tifo petecchiale. Ad Ancona colpisce sei abitanti su cento, a Urbino cinque, a Perugia soltanto tre. Ma non sono soltanto i pidocchi a preoccupare lo Stato Pontificio. Una testimonianza del 1829 assicura che su cento abitanti ce ne sono trentuno “infetti”, ciechi, erniosi, gozzosi, muti, nani, paralitici, pellagrosi, storpi. A Bologna, nella prima metà del secolo si contano ventitre annate con patologie diffuse. Fra cui anche il cholera morbus, che dal 1834 al 1911 colpisce ripetutamente città e regioni, mietendo ovunque vittime. Ma per un quadro più complessivo bisognerà attendere i resoconti delle visite per la leva obbligatoria. Ad iniziare dal 1861, i ventenni di tutto il neonato Regno d’Italia sono scrutati, misurati, pesati. Esce allo scoperto un’umanità di cronici, di epilettici, di gozzuti, di vaiolosi, di non abili per “mancanza di statura”. Proprio così: fra il 1862 e il 1865, il 40% dei coscritti non superava i 156 centimetri di staura previsti per servire la patria. E fra il 1863 e il 1874, furono più di settemila i giovani non arruolati perché scrofolosi. ANCHE LE ADOLESCENTI anticipavano o ritardavano la prima mestruazione a seconda dei livelli alimentari su cui potevano fare affidamento. Calorie e vitamine era termini ancora sconosciuti, ma su una
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
UN’UMANITÀ DI EPILETTICI, GOZZUTI, VAIOLOSI: COSÌ SI PRESENTAVA IL NUOVO REGNO AI SUOI ESORDI
problema delle fognature e degli acquedotti e la legge Crispi rende obbligatoria la denuncia dei decessi per malattie infettive. A quasi trent’anni dall’unificazione si scopre così che la mortalità per enterite, difterite e tifo costituisce la prima causa di morte degli italiani. I più esposti sono naturalmente i bambini e questa è una circostanza decisiva per fissare la speranza di vita a 33 anni. Nel 1901, vent’anni dopo, il dato è salito a 41. Grazie ai progressi nelle infrastrutture sanitarie, ma anche al ruolo giocato da medici e levatrici. La loro distribuzione sul territorio garantisce un presidio medico e un punto di osservazione privilegiato.
cosa il sapere medico e la medicina popolare concordavano perfettamente. Una buona alimentazione era determinante per mantenersi in salute e un toccasana per guarire dai malanni. Lo dimostra il fatto che brodo di carne, pane bianco e vi-
Inabili al servizio militare Fra 1862 e 1865 il 40% dei coscritti non supera la visita di leva perché misura meno di 156 centimetri no rosso avevano un posto privilegiato al capezzale di ogni malato. Negli ospedali per indigenti e cronici, nelle locande sanitarie per curare la pellagra, nelle colonie marine per salvaguardare gli adolescenti scrofolosi, nei sanatori per rimettere in sesto i tisici. La mappa sanitaria della nazione si definirà meglio dopo il colera del 1884, quando il Ministero dell’Interno lancia una ricognizione “sulle condizioni igienico-sanitarie nei comuni”. Quattro anni più tardi sarà la volta dell’ inchiesta Bertani sulle “condizioni sanitarie dei lavoratori della terra”. Intanto, la scoperta del vibrione del colera e del bacillo del tifo porta alla ribalta il
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NELLE CAMPAGNE il servizio di condotta è spesso carente o problematico, ma ciò non toglie che l’operato di medici e levatrici assuma sul finire del secolo una valenza sociale e culturale di grande impatto. Come stanno a dimostrare le figure di Ignazio Guerra, Giuseppe Badaloni, Tullio Betti, Gastone Gherardi e Angelo Celli. Fra il 1880 e il 1910, il loro modus operandi, di stampo positivista, è improntato quasi sempre su una vicinanza intellettuale alle idee socialiste e repubblicane. Rendendo inevitabile il confronto/ scontro col “contadino arricchito”, col “fittaiolo facoltoso”, col “mediocre possidente con l’aria da gran signore” che al medico condotto sono disposti a perdonare tutto. Anche la “negligenza, l’ignoranza e la rozzezza”, ma non un’ulteriore imposizione contributiva per “migliorie igieniche”. Interventi che dal loro punto di vista sono soltanto moderne minchionerie. Una delle tante contraddizioni che segnano il passaggio da un’idea d’Italia a un’Italia realizzata. (*) Docente di Storia sociale, Università di Bologna
di Pino Casamassima
Cristina, la femminista dell’Ottocento UANDO, nel 1866, esce il breve ma intenso saggio «Della presente condizione delle donne e del loro avvenire» diventa presto una sorta di manifesto di un movimento femminista ante litteram, che ha in Cristina Trivulzio di Belgioioso non solo la sua autrice, ma un vero e proprio simbolo. Nata da una famiglia agiata, a soli 4 anni Cristina eredita il cospicuo patrimonio dei Trivulzio per la prematura morte di suo padre. Sua madre Vittoria si risposa con Alessandro Visconte d’Aragona, un ari-
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stocratico convertito alle idee liberali, tanto da essere arrestato come cospiratore: un avvenimento che – per sua stessa ammissione – condiziona la formazione politica di Cristina. Andata in sposa a soli 16 anni al frivolo e donnaiolo principe Barbiano di Belgioioso, lo lascia dopo pochi anni di matrimonio per iniziare una vita che la porta a girare per l’Europa, soprattutto Parigi, dove ospita diversi rifugiati politici. Tornata in Italia, organizza un battaglione di volontari per sostenere il governo provvisorio di Milano. A Roma, invece,
su incarico di Mazzini, dirige gli ospedali militari, utilizzando parimenti contesse e prostitute, tanto da attirarsi le ire del papa. Dopo la caduta della Repubblica romana fugge prima in Grecia, poi in Turchia. Rientrata in Italia dopo aver subito un attentato da un esule bergamasco, cerca di mettere in pratica le idee di Fourier, creando scuole e una comune agricola. Negli ultimi anni della sua vita si dedica alla scrittura con opere di ispirazione politica. Quando muore, nel luglio del 1871, Roma è finalmente capitale del Regno d’Italia.
“Una madre preoccupata” di Gerolamo Induno. A destra, “Il ritorno”, sempre di Induno e un’opera di Giovanni Fattori
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
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CULTURA E SOCIETA’ 37
IL RISCHIO DELLE CELEBRAZIONI
E venne l’anno della disunità d’Italia di FRANCO CARDINI (*)
SIAMO al Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Che in dieci anni, tra 1860 e 1870, cambiò tre volte capitale: il che significa senza dubbio qualcosa. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti del Po, dell’Arno e del Tevere. Nato regno unitario e centralistico, il paese si ritrova oggi repubblica federalista: un punto d’arrivo agli antipodi rispetto alla partenza, si direbbe. Il regno era rimato profondamente cattolico, eppure chiuse il papa in Vaticano e ce lo tenne quasi sessant’anni; la repubblica è “laica”, non ha più religione di stato, eppure i suoi schermi televisivi trasmettono ogni girono l’immagine del pontefice. Siamo davvero finiti là dove né Vittorio Emanuele II, né il Cavour né Garibaldi (per tacer del Rosmini e del Cattaneo) avrebbero mai voluti andare. Insomma, che cosa dobbiamo davvero celebrare? L’unità di un paese che è sull’orlo della secessione? La conquistata sovranità di un paese che ormai – tra Unione Europa, NATO e istituzioni sovranazionali e internazionali – l’ha perduta da un pezzo? Il “Risorgimento”, laddove non si è mai capito con precisione che cosa dovesse ri-sorgere (la grandezza di Roma? Le libertà comunali del medioevo? Il genio del Rinascimento? O che cos’altro?). Meglio sarebbe forse, più che celebrare, commemorare. Un verbo intenso, quest’ultimo: che significa ricordare insieme, avere una memoria comune. Ce l’abbiamo? Vogliamo averla? Ci serve ancora? Stretti fra i nostalgici dell’epopea di Solferino e la gente che straccia e brucia il tricolore, i restanti cittadini di buon senso debbono pur farsi delle domande su che cos’è ch’è andato storto. L’unità ci ha almeno in una qualche misura disunito; l’Italia fu fatta più o meno fra 1848 e 1918, ma in quei settant’anni non si riuscì a “fare gli italiani”, a compiere un processo serio di “nazionalizzazione delle masse”. Ci provammo anche elaborando una soluzione autoritaria: che addirittura di denominò “totalitaria”: e va riconosciuto che essa fece fare, sia pur forzosamente, dei passi avanti al sentimento civico; ma il suo fallimento travolse anche quei risultati e rischiò di affidare lo stesso patriottismo alla damnatio memoriae. Avevamo conservato fino a ieri i due veri, formidabili strumenti di costruzione della consapevolezza unitaria: la leva militare obbligatoria e la scuola pubblica. Negli ultimi anni, li abbiamo distrutti entrambi.
«L’emigrazione», di Emilio Franzina; «Gli ufficiali borbonici incarcerati al Nord», di Gabriele Moroni
SERVE ALLORA a qualcosa ripercorrere, come fa Pino Aprile in Terroni (Piemme), il dramma del fallimento dell’unità, e “tutto quel che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero meridionali”? Certo, riflettere su uno “sviluppo interrotto”, sul forzoso “scambio asimmetrico” fra le due Italie, sulla tragedia del “brigantaggio”, dell’emigrazione e della sempre evitata riforma agraria e dell’inutile macello del ’15-18 ci fa capire in parte che cosa sia accaduto. Non dico che Aprile abbia ragione in tutto; e certo le nostalgie borboniche (e papaline, e granducali) non servono a nulla. Però, a parte il fascino di un libro che ha pagine davvero suggestive, anche il lavoro di Giordano Bruno Guerri sulla “guerra civile” nel Mezzogiorno sottolinea come il comportamento delle truppe piemontesi fu quello di un esercito in un “paese coloniale”; e aggiunge che, a proposito dell’arretratezza del governo borbonico, molto di quel che si è detto propaganda. Vogliamo andar oltre, e osservare che gli stessi rilievi di Gilberto Oneto, La strana unità (Il Cerchio) sono intelligenti e plausibili per quanto presentati in una forma che può sembrare quella del pamphlet? E vogliamo infine aggiungere che un territorio evitato dagli storici d’oggi è quello della forte, determinante influenza inglese sull’unità italiana? Su tale tema, di autentica primaria importanza, di solito si tace. Ma a proposito di mancata costruzione identitaria, di negata riforma agraria e pertanto di dramma dell’emigrazione, il discorso non può portar dritto al momento nel quale si cercò di risolvere questi nodi e di appianare queste contraddizioni: al fascismo. E qui servirebbe il coraggio di proclamare esplicitamente quella verità che Antonio Pennacchi ha adombrato in Canale Mussolini (Mondadori): se – facciamo la storia come va fatta, cioè con i “se” e con i “ma” – al Duce fosse venuto un bel coccolone il 28 aprile del ’35, dieci anni precisi prima della sua tragica vera fine, vale a dire all’indomani della Carta del Lavoro, della Conciliazione, dell’avvio della politica delle “grandi opere” che aveva stupito ed entusiasmato Franklin D. Roosevelt, della definitiva fondazione dello “stato sociale”, della bonifica delle paludi pontine e della conferenza di Stresa dov’egli era stato il più energico e lucido nel denunziare il pericolo-Hitler, oggi forse la storia d’Italia e magari d’Europa sarebbe diversa. Magari migliore. E chi pensa che con quest’articolo io voglia provocare una rissa, ha perfettamente ragione. (*) Docente di Storia medievale, Università di Firenze
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IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
di EMILIO FRANZINA
«Gli emigranti» di Angelo Tommasi (Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma); sopra: bastimento di emigranti in arrivo a New York; nella pagina accanto: soldati borbonici in una stampa dell’800
LO SQUILLO di Pino Casamassima
Tito contro «la jena» L CORAGGIO con cui Brescia si distinse in uno degli episodi più epocali del Risorgimento fu immortalato in un celebre verso di Carducci, che nelle Odi barbare definì “leonessa d’Italia” la città lombarda. Nel 1848 delle grandi speranze, anche a Brescia si costituì un comitato clandestino: a guidarlo, il ventiduenne Tito Speri e Pietro Boifava, curato di Serle, un piccolo paese della provincia. Confidando nell’aiuto dei piemontesi, che non arriverà perché Carlo Alberto era stato sconfitto a Novara, Tito Speri era riuscito a coinvolgere la città in una sommossa contro gli austriaci che durò per dieci giorni. Divenuta teatro di guerra in ogni angolo, Brescia fu piegata solo dopo dieci giorni di combattimenti, quando arrivò il famigerato maresciallo Haynau, soprannominato non casualmente “la jena”. Nella notte del 1˚ aprile gli austriaci ebbero finalmente la meglio, piegando gli insorti e saccheggiando la città. I bresciani furono passati per le armi per mesi, fino al 12 agosto, data dell’amnistia voluta da Radetzky. Nel complesso furono 378 i civili uccisi. Tito Speri riuscì a scappare in Svizzera, da dove poi raggiunse Torino. Tornato a Brescia a capo di un nuovo manipolo di insorti, fu arrestato e tradotto nella fortezza austriaca di Belfiore, nel mantovano, dove fu impiccato all’alba del 5 marzo 1853.
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DI LÀ DAI LUOGHI comuni che accompagnano le valutazioni sulla storia del fenomeno migratorio, dalle quali ad esempio risulta una pressoché esclusiva considerazione del suo verificarsi nel Sud del paese, all’atto dell’unificazione nazionale il primo censimento del 1861 faceva registrare un numero già impressionante di italiani all’estero. Oltre 200 mila, per la precisione, distribuiti ancora inegualmente fra varie parti del mondo e provenienti proprio dalle regioni del Nord. Quasi 80 mila erano, a quella data, i nostri connazionali presenti in Francia e circa 30 mila fra Svizzera e Germania mentre nelle “lontane Americhe”, come si usava dire allora, se ne contavano 100 mila, metà dei quali solo negli Stati Uniti. In mezzo a loro, sia lì che nell’America ispano-portoghese, si trovavano senz’altro i protagonisti dell’esilio risorgimentale, a cominciare, s’intende, da Garibaldi (ma lo stesso si potrebbe dire per Foscolo, per Mazzini o per molti altri patrioti). La novità degli anni settanta e ottanta dell’Ottocento, anni di crisi soprattutto agricola, fu costituita dal dilagare nelle
MERCOLEDÌ 16 FEBBRAIO 2011
campagne settentrionali di una visione ottimistica delle opportunità offerte dall’emigrazione non più solo al di là delle Alpi, bensì pure oltreoceano. E in particolare, con una simmetria che sarebbe stata confermata trent’anni più tardi dalle partenze in massa dal Sud per gli Usa, in paesi come l’Argentina e il Brasile. Una specie di mito americano ad uso dei contadini si venne formando soprattutto in area alpina e padana da dove mossero i primi contingenti messi insieme da reclutatori privati – spesso ma non necessariamente senza scrupoli – ora al soldo di quei governi ed ora in stretto rapporto con le più intraprendenti compagnie di navigazione, concentrate specialmente a Genova, il nostro porto per eccellenza e più alla portata dei liguri, dei piemontesi, dei lombardi, dei veneti e dei friulani per evidenti ragioni geografiche. LIGURI E GENOVESI, sin dagli anni venti del secolo XIX, avevano preso a dirigersi verso le regioni platensi e dalla fine della decade 1830 annoveravano laggiù insediamenti famosi come quello della Boca del Riachuelo a Buenos Aires. L’emigrazione dal Nord per l’Argentina prese slancio a far data dal 1873 quando furono alcuni gruppi trentini (ancora sudditi austriaci) a inaugurare una nuova stagione ben presto caratterizzata dall’azione congiunta dei richiami americani e dalle
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CULTURA & SOCIETA’ 33
IN MIGLIAIA SI RIFIUTARONO DI PASSARE CON I SAVOIA
ALLA NASCITA DEL REGNO ERANO 200MILA GLI ITALIANI EMIGRATI. LA METÀ «NELLE LONTANE AMERICHE». POI FU UN FIUME INARRESTABILE agevolazioni nei costi del trasporto. Già nel 1876, tuttavia, allorché ebbe inizio per la prima volta in Italia il rilevamento ufficiale degli esodi sia temporanei che “permanenti”, la situazione migratoria appariva chiaramente delineata: settentrionali in rotta per il Sudamerica e via via meridionali diretti in prevalenza negli Stati Uniti. NEL PRIMO CASO, e per alcuni decenni, alla ricerca plausibile di terra libera, nel secondo – essendosi esaurita, assieme all’epopea della frontiera, appunto la disponibilità di terra in Usa – a caccia di lavori nelle città della costa atlantica. Ciò non toglie che anche in Brasile e in Argentina, e segnatamente in città quali San Paolo e Porto Alegre o come Buenos Aires e Rosario, le strade degli “italiani del nord” e degli
«I volontari», di Alberto Malfitano; «Le ferrovie dell’Unità» di Andrea Giuntini
“italiani del sud” - per usare una etichetta in uso presso i rilevatori statistici americani - si mescolarono ben presto affrettando, lontano dall’Italia, i tempi di un’acculturazione nazionale poi colpevolmente (da noi) dimenticata. I VARI RAPPORTI consolari e le successive inchieste della Direzione Centrale di Statistica ne diedero subito indiretta conferma anche se non potevano offrire quelle efficaci descrizioni che la stampa coeva, ma ben presto anche le lettere degli emigrati o le narrative di alcuni scrittori (De Amicis su tutti) sapevano già somministrare. Il lato avventuroso o romanzesco appunto di tante vicende individuali e di gruppo, come quella, per fare un unico esempio, dei contadini di Novi e di Concordia in provincia di Modena, che nel 1876 raggiunsero in modo rocambolesco il Brasile chiamativi da una nobildonna loro compaesana amica dell’Imperatore Dom Pedro II e fissatisi poi nella Valle del Paraiba, emerge ancora vivida nelle parole del maestro elementare Enrico Secchi il quale li accompagnò nel viaggio e se ne fece cronista nel suo diario, quarant’anni più tardi, quando era ormai diventato, a San Paolo, uno dei maggiorenti della “colonia italiana” di quella metropoli che allora contava quasi 200 mila italiani pari al 37% della sua popolazione complessiva.
Fenestrelle, il ‘lager’ per soldati borbonici di GABRIELE MORONI
CAPUA, il Volturno, il Macerone, il Garigliano, Mola. L’assedio e la caduta di Gaeta. Ultimi sussulti delle Due Sicilie, di Francesco II, giovane, mitissimo, pio re borbonico, e di Maria Sofia, energica, volitiva regina, salita sugli spalti in difesa di quell’ultimo lembo di regno. Il 13 febbraio 1861 la fortezza di Gaeta capitola dopo cento giorni di fronte all’armata del generale Enrico Cialdini. I prigionieri ammontano a 1700 ufficiali e 24mila soldati. Delegato a occuparsi del loro futuro e, per un destino curioso, anche dei volontari garibaldini, è il ministero della Guerra. Viene delegato il colonnello torinese Giovanni Thaon de Revel. L’ufficiale si trova preso fra due fuochi: da una parte i militari del disciolto esercito rimangono sostanzialmente fedeli alla candida bandiera col giglio in oro dei Borboni; dall’altra il governo di Torino, per quanto sospettoso di quei soldati, preme per recuperare più truppa possibile. Nell’esercito finalmente italiano vengono ammessi alla fine 2311 ex ufficiali, 927 dei quali assegnati alla forza attiva. Diversi i criteri seguiti per i soldati semplici. In attesa della chiamata di leva sono rispediti a casa. Per quelli che non sanno dove andare viene creata una compagnia di veterani inviata al Nord con compiti di sorveglianza agli uffici militari. La sorte peggiore tocca a chi, restio a proseguire la ferma militare nel nuovo regno, è inviato in prigionia nei campi del Nord. VENGONO APERTI campi di prigionia temporanea a Torino, Genova, Milano, Bergamo, Brescia, Rimini. Nel novembre del 1860 Cavour invia il generale Alfonso La Marmora a ispezionare la Cittadella di Milano (il castello). Il rapporto del generale è datato 18 novembre: «I prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Di 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizi. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi e da mali venerei [...]dimostrano avversione a prendere da noi servizio». La riflessione di Cavour è un singolare miscuglio di realismo politico e disprezzo, mitigato da venature umanitarie: «Il trattare tanta parte del popolo come prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell’Esercito nazionale è impossibile e inopportuno». Alla chiamata per gli arruolamenti nei quattro contingenti piemontesi rispondono solo in 5400 su oltre 20mila prigionieri. Gli altri vengono trattenuti a Milano, Genova, To-
rino, oppure avviati alla durissima prigionia nel forte di San Maurizio Canavese e nella fortezza di Fenestrelle. Scrive la “Civiltà cattolica”: «Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e in Lombardia, si ebbe ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e di altri luoghi nei più aspri siti delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati a spasimar di freddo e di stento tra le ghiacciaie». FENESTRELLE, nome vezzoso per il forte innalzato nel 1713 da Vittorio Amedeo, duca di Savoia. La più estesa costruzione in muratura dopo la Muraglia cinese, una sorta di Linea Maginot arrampicata su un’area impervia tra i 1200 e i 1800 metri di altezza, un insieme di fortificazioni collegate fra di loro da una scala di 3996 gradini. Destinata ad essere opera di difesa, non tarda a trasformarsi in prigione. Il 22 agosto del 1861 i mille soldati borbonici detenuti a Fenestrelle
Prigionieri del Nord «Gittati a spasimar di freddo e di stento tra le ghiacciaie» Il disprezzo di Cavour tentano una rivolta, subito repressa. Molti, fra quelli che accettano di indossare la nuova divisa, disertano per arruolarsi nelle bande di briganti o riparare nello Stato Pontificio. Si muore e per ragioni igieniche i corpi vengono sciolti nella calce viva, all’interno di una grande vasca. I registri parrocchiali non annotano tutti i nomi, si fermano a cinquantuno. Abbandonato dopo la metà degli anni ’40, il forte-prigione torna a vivere una ventina di anni fa grazie a un gruppo di volontari. Nessuno ha cancellato la scritta all’ingresso: «Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce».
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IL FASCINO DI GARIBALDI E DI MAZZINI MOBILITÒ MIGLIAIA DI VOLONTARI IL RISORGIMENTO DIVENTÒ LA LORO RAGIONE DI VITA
LO SQUILLO di Pino Casamassima
La Nicchia di Cavour ICCHIA. Così la chiamavano da piccola, per quella sua abitudine di rinchiudersi in se stessa come una conchiglia a proteggere i suoi tesori: il suo era quello della bellezza. Una bellezza che lei sapientemente utilizzava per ottenere quel che voleva. Virginia Oldoini Verasis nacque a Firenze nel 1837 e all’età di 16 anni sposò il conte di Castiglione – più vecchio di 12 anni – che, al contrario di lei, l’amava alla follia. Dopo il matrimonio, la coppia si trasferì in Piemonte, vivendo per lo più a Torino, dove nacque il figlio Giorgio. Ma lei, cresciuta negli agi e nei privilegi, oltre che nella consapevolezza di una bellezza che fece girare la testa anche al re, non poteva restare imbrigliata in una noiosa vita familiare: le sue frequentazioni a corte divennero così sempre più frequenti e in una di queste occasioni venne avvicinata da Cavour. Il “tessitore” del Regno d’Italia, pur non disprezzando le grazie femminili, pensò di utilizzare politicamente anche la travolgente bellezza di Virginia, inviandola come ambasciatrice a Parigi col compito di “conquistare” Napoleone III alla causa italiana. Compito svolto alla perfezione, tanto che Camillo Benso fu invitato a partecipare al Trattato di pace successivo alla guerra di Crimea, dove potè parlare davanti a una platea internazionale. La bellezza e la vita irrequieta di Virginia rubarono le notti a molti suoi contemporanei. Morì a Parigi alle soglie di quel 900 che avrebbe «tanto voluto salutare»: il 28 novembre 1899.
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IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
di ALBERTO MALFITANO (*)
LIBERTÀ, democrazia, lotta contro lo straniero e desiderio di chiamarsi nazione. Nel pieno dell’Ottocento, tra età romantica e suggestioni rivoluzionarie provenienti da quella fucina di moti popolari che fu Parigi, queste furono le parole d’ordine e i sentimenti che animarono tanti italiani. Il Risorgimento, i cui semi ideali erano stati piantati proprio dalle baionette francesi scese al seguito di Napoleone, li vide germogliare, coinvolgendo migliaia di giovani che seppero lottare per i valori unitari. Ragazzi delle nostre città, allora ancora in buona parte racchiuse dentro antiche mura, che furono la vera anima di quel movimento e sposarono con entusiasmo
MERCOLEDÌ 23 FEBBRAIO 2011
il sogno di rinascita di una nazione italiana. In uomini come Mazzini e Garibaldi, anch’essi giovanissimi quando cominciarono a lottare, trovarono le proprie guide. Il primo era appena ventiseienne quando fondò la Giovine Italia, che nel nome racchiudeva quell’ansia di rinnovamento che avrebbe poi animato generazioni di patrioti; il secondo era già un ‘guerrillero’ conosciuto per le sue battaglie di libertà in America del sud, quando nel 1848 tornò in Italia a combattere contro gli austriaci nella I guerra d’indipendenza, e per la difesa della Repubblica romana l’anno seguente. È in quella fase che il volontarismo ebbe uno dei suoi momenti più epici. I VOLONTARI erano già accorsi negli anni precedenti a difendere con le armi la causa in cui credevano, che fosse l’unità o la richiesta della costituzione, ad esempio facendosi travolgere a Vicenza nel 1848 dalla formidabile macchina bellica asburgica, o segnando a Curtatone e Montanara una delle pagine più eroiche dell’intera
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MERCOLEDÌ 23 FEBBRAIO 2011
“La partenza dei coscritti“ di Gerolamo Induno (“1861. I pittori del Risorgimento” - per gentile concessione di Skira editore); a fianco: inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici (stampa dell’epoca); sotto a destra: l’attesa del treno in una stampa dell’Ottocento
epopea unitaria. Ma è nel 1849, agli ordini di Garibaldi, che l’esercito di volontari accorso a difendere Roma mette in campo una formidabile quanto disperata prova militare resistendo a lungo all’assalto di un altro degli eserciti più potenti d’Europa, quello francese. Il comandante del corpo di spedizione transalpino, il generale Oudinot, rimasto famoso per la frase “les italiens ne se battent pas”, fu smentito sul campo, al punto di dover richiedere rinforzi a Parigi per avere ragione dei difensori di Roma, tra cui il giovanissimo Goffredo Mameli. E’ un decisivo tassello della biografia di Garibaldi, il leader ormai riconosciuto del volontarismo italiano, che lo vedrà trasformato in mito vivente, e che ne farà il punto di riferimento obbligato per tutti i giovani sensibili verso la lotta per la patria. La Lombardia, e in special modo Bergamo, fornirà un contingente numerosissimo alla spedizione dei Mille, nel 1860. In Romagna, Garibaldi troverà un terreno assai fertile per i suoi periodici richiami alle armi, anche grazie al ricordo della ‘trafila’, la fuga dagli austriaci dopo la caduta di Roma. OGNI QUALVOLTA ci sarà da lottare per completare l’unificazione i romagnoli accorreranno da ogni borgo. Un esempio per tutti: dalla sola Forlì, che contava allora circa quindicimila abitanti, partiranno, nell’autunno del 1867, 167 giovani alla volta di Roma e quattro di loro troveranno la morte, a Mentana, per mano dei fucili francesi, nuovamente inviati a proteggere il potere temporale di Pio IX a quasi vent’anni dalla caduta della Repubblica romana. Il fenomeno del volontarismo fu insomma molto ampio e, sebbene circoscritto alle re-
«L’opera lirica e il Risorgimento» di Enrico Gatta; «L’Unità d’Italia vista dal cinema» di Silvio Danese
CULTURA E SOCIETA’ 37
FERROVIE, UN’ARMA DECISIVA PER IL PAESE NUOVO
L’Italia salì in treno per sentirsi più unita di ANDREA GIUNTINI (*)
altà urbane, in particolare del centro e del nord, coinvolse per anni migliaia di ragazzi pronti ad abbandonare famiglia, studio o lavoro, per seguire un’avventura, in cerca di gloria ma anche di una società migliore di quella ereditata dai padri. FU UN FENOMENO irripetibile, legato alla cultura romantica, che con il regno unitario e soprattutto con l’avanzare dei fantasmi nazionalistici, troveranno sempre minore spazio per esprimersi. E’ un filone che si esaurirà nelle tragedie collettive del Novecento, come la Grande Guerra, per perdersi nell’atmosfera torva della dittatura fascista, fino a rinascere nel secondo Risorgimento, quello resistenziale. Se, dunque, qualche insegnamento ci è stato lasciato dalla tradizione del volontarismo, va forse ricercato nell’entusiasmo con cui tanti giovani hanno messo in gioco la propria vita per una società che volevano rinnovare nel senso della giustizia e della fraternità e di cui l’Italia di oggi non può che esser loro fortemente debitrice. * Ricercatore di Storia contemporanea, Università di Bologna
A BORDO occorreva fare attenzione ai vicini molesti, così come al rischio di perdere il cappello a causa del vento. Consigli del padre di Pinocchio, Carlo Lorenzini, che nel 1856 pubblicava a beneficio del lettore digiuno di cose ferroviarie un’amena guida del viaggiatore sulla Firenze-Livorno (“Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida Storico-Umoristica” di Carlo Lorenzini), una delle prime linee dell’Italia preunitaria. Le ferrovie furono anche in Italia il più grande affare economico del XIX secolo e il loro impatto complessivo fu di straordinaria intensità. La maggior versatilità, l’incomparabile velocità e la regolarità misero le ferrovie in una condizione di netta superiorità rispetto a qualsiasi altro mezzo di trasporto. Pochi oggetti sono in grado di descrivere visivamente meglio delle
La velocità del progresso Lo sviluppo delle strade ferrate nei piani di Cavour. Piemontesi e toscani i più lungimiranti ferrovie l’Ottocento e l’idea stessa di progresso. Vapore, ferro, carbone e il genio dell’uomo che spinge sempre più avanti i confini del sapere tecnico: tutto questo trova nelle ferrovie la sintesi ideale e da allora le ferrovie occupano uno spazio ben definito nell’immaginario collettivo della maggior parte della popolazione del pianeta. A PARTIRE dalla fine degli anni Venti, si sviluppò anche sulla penisola un fervido dibattito sull’introduzione delle strade ferrate, la cui costruzione e gestione venne lasciata in gran parte alla mano privata, non senza una presenza spesso decisiva di quella pubblica in un’anomala commistione che sopravvisse fino alla nazionalizzazione del 1905. Spinti da motivazioni diverse e orientati verso obiettivi spesso divergenti – natura commerciale, desiderio di prestigio o patente di modernità - i governanti italiani, la borghesia più aperta e una nuova leva di tecnici si accostarono al problema ferroviario. Mancavano la tecnologia, importata quasi interamente dalla Gran Bretagna, i capitali, anch’essi raccolti in gran parte presso le principali case finanziarie europee, e lo spirito imprenditoriale, che lentamente maturò anche presso gli italiani. Più concreti e consapevoli furono piemontesi e toscani; l’unico politico italiano in grado di disegnare in modo lungimiran-
te una rete ferroviaria già italiana fu Cavour, che verso la metà degli anni Quaranta, indovinando il destino unitario del paese, affidava alle ferrovie un ruolo cruciale rispetto al processo di unificazione politica ed economica. Assai meno amichevolmente vennero accolte le prime proposte ferroviarie nello Stato della Chiesa, dove il papa Gregorio XVI negò loro ospitalità. All’esordio precoce nel 1839 con la famosa Napoli-Portici, lungo la quale furono realizzate le officine di Pietrarsa, seguirono nel giro di qualche anno numerose altre realizzazioni: al momento della nascita del nuovo Regno, la dotazione complessiva - 1.625 km. si componeva di sub sistemi regionali scollegati fra loro e sostanzialmente non comunicanti. BISOGNAVA ricucire la tela, cosa che il nuovo Stato fece dopo il 1861, affastellando linee su linee con l’obiettivo soprattutto di unire il nord del paese con il sud, ancora sprovvisto della nuova infrastruttura, e affidando alle ferrovie il compito di favorire l’integrazione fra le varie economie regionali. I risultati, fra luci ed ombre, furono quantitativamente apprezzabili: nel 1866 la rete assommava ad oltre 4.000 km., ma rispondeva solo parzialmente a logiche coerenti, piuttosto ad un generico bisogno di modernizzazione, ed era ancora poco sfruttata per il trasporto delle merci. Fu per questo che si portò dietro errori che il paese in certi casi non ha ancora finito di scontare. La salita al potere della Sinistra nel 1876 segnava il secondo boom ferroviario: in quindici anni, dal 1881 al
1895, si costruirono 6.500 km. di ferrovie per la gran parte secondarie di integrazione della rete principale. Le linee più impegnative furono quelle di montagna – dai Giovi (1855) alla Porrettana (1864), dal Brennero (1867) al Fréjus (1872), dal Gottardo (1882) al Sempione (1905) – che rappresentarono un banco di prova per generazioni di ingegneri. Con la nazionalizzazione del 1905, giunta al termine di un confronto aspro dai toni spesso sopra le righe e prolungato nel tempo, si chiudeva il siglo de oro delle ferrovie; un nuovo concorrente, il motore, avrebbe connotato il mondo dei trasporti nel nuovo secolo. * Docente di Storia economica, Università di Modena e Reggio Emilia
il caffè 42 CULTURA & SOCIETA’
IL MELODRAMMA ‘COLONNA SONORA’ DEL RISORGIMENTO. E VERDI DIVENNE UN MITO
LO SQUILLO di Pino Casamassima
Jacopo Ruffini suicidato in cella LA MATTINA del 19 giugno 1833, a 3 giorni dal suo ventottesimo compleanno, lo trovarono con la gola tagliata nella cella in cui era stato rinchiuso un mese prima: un suicidio, quello di Jacopo Ruffini, poco convincente. Come Giuseppe Mazzini, Ruffini era nato a Genova il 22 giugno 1805 da una famiglia borghese, e dopo aver frequentato come praticante uno studio notarile, grazie a suo padre fu impiegato presso il Tribunale di Prefettura, arrivando ad assumere l’incarico di vice presidente. Tuttavia, sentendosi imbrigliato in una vita noiosa, si iscrisse alla facoltà di medicina, laureandosi nel 1830 sotto la guida di Giacomo Mazzini, padre di Giuseppe. Con suo fratello Giovanni cominciò a frequentare casa Mazzini, intavolando una serie di discussioni politiche con l’amico Giuseppe: poco dopo i due fratelli Ruffini si associarono alla Carboneria. Da questo momento l’attività cospirativa di Jacopo Ruffini si sviluppò lungo l’asse con la Francia, mentre lavorava come assistente all’ospedale di Pammatone. Arrestato forse su delazione di due furieri di fanteria, fu torturato per un mese nell’intento di estorcergli i nomi degli altri cospiratori. Destinato all’impiccagione, Jacopo Ruffini fu forse ucciso per timore che la sua esecuzione provocasse disordini in città in un momento in cui era appena stato sedato uno dei moto insurrezionali organizzati dalla Giovine Italia di Mazzini.
IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO
di ENRICO GATTA
LA PRIMA donna era giù di voce. E all’allestimento erano stati destinati solo resti di magazzino. Alla Scala, i primi di marzo del 1842, pochi avrebbero scommesso sul buon esito del «Nabucodonosor» di Giuseppe Verdi, oltretutto reduce da un ‘fiasco’ di quelli dai quali difficilmente ci si risolleva... E invece il «Nabucco» - così il titolo sarebbe stato semplificato - fu molto più di un trionfo: la vicenda degli Ebrei prigionieri a Babilonia, e dunque la storia di un popolo oppresso, e quel coro dolcissimo e potente, “Va’ pensiero sull’ali dorate”, esaltarono l’amor patrio degli italiani. COMINCIÒ allora il Risorgimento in musica? No. Già da molto tempo, fin dall’Ancien Régime, il melodramma interpretava i sentimenti delle masse, portando loro messaggi artistici, poetici e anche politici. Tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento in Italia il numero dei teatri crebbe a dismisura. «Non si ha città alcuna, per picciola che sia, la quale non ami possedere un teatro», scriveva nel 1830 il Ferrario nel suo trattato di architettura
teatrale. Nel 1868, nel primo censimento postunitario – come ha ricostruito la storica Carlotta Sorba – le sale teatrali, grandi o minuscole, erano ben 942 in 650 comuni: circa 400 nel Regno di Sardegna, nel Lombardo-Veneto e nei Ducati padani; 357 in Toscana e nel Centro Italia escluso il Lazio; 169 nel Regno delle due Sicilie. IN QUESTA ITALIA dei teatri soffiò presto il vento del Risorgimento. Nel 1813, nell’«Italiana in Algeri» di Rossini, mentre nell’orchestra un violino accenna ironicamente alla “Marsigliese”, il coro degli schiavi inneggia alla patria: «Pronti abbiamo e ferri e mani / per fuggir con voi di qua.../ Quanto vaglian gl’Italiani / al cimento si vedrà!» E all’amato Lindoro la protagonista Isabella raccomanda: «Pensa alla patria, e intrepido / il tuo dover adempi: / vedi per tutta Italia / rinascere gli esempi / d’ardire e di valor». Rossini non fu un modello fulgido di patriota. Scrisse sì quel grandioso monumento alla libertà che è il «Guillaume Tell», ma fu buon amico del Principe di Metternich e fuggì terrorizzato da Bologna non appena scoppiarono i moti del ‘48. Quanto a un’altra star del melodramma, Gaetano Donizetti, solo di recente la storia lo ha liberato da sospetti di ambiguità. Nominato Maestro di Cappella di Sua Maestà Apostolica l’Imperatore d’Austria,
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il compositore si atteggiava a impolitico: «Io sono uomo – scriveva al padre – che di poche cose s’inquieta, anzi di una sola, cioè se l’opera mia va male. Del resto non mi curo». Aveva tuttavia contatti con esponenti mazziniani e, come ha appurato lo storico Denis Mack Smith, la sua casa a Parigi fu recapito segreto di Mazzini. Cospiratore e ‘carbonaro’, Vincenzo Bellini partecipò ai moti antiborbonici del 1821. Poi si mostrò più prudente, ma in ogni caso dette alla causa risorgimentale pagine che ancora oggi provocano brividi, come il coro «Guerra, guerra!» della «Norma» (1831) e, nei «Puritani», la cabaletta di Sir Riccardo e Sir Giorgio che in duetto proclamano: «Suoni la tromba e intrepido / io pugnerò da forte / bello è affrontar la morte / gridando libertà!». Gli anni caldi del Risorgimento anche a voler scremare una certa enfasi della mitografia postunitaria – furono dominati da Verdi, che dopo il «Nabucco» continuò nel 1843 con «I Lombardi alla prima crociata» e nel 1844 con «Ernani», epico incitamento ai patrioti ad essere uniti e concordi nell’azione. “Si ridesti il Leon di Castiglia” cantano i congiurati contro Carlo V. E continuano: «Siamo tutti una sola famiglia,/ pugnerem colle braccia, co’ petti; / Schiavi inulti più a lungo negletti / Non sarem finché la vita abbia il cor...». Il culmine è raggiunto con
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IL GIORNO - LA NAZIONE - IL RESTO DEL CARLINO
CULTURA & SOCIETA’
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LA NUOVA PATRIA RACCONTATA DAL CINEMA
La nostra Storia scritta sulle pellicole di SILVIO DANESE
«La battaglia di Legnano», andata trionfalmente in scena a Roma il 27 gennaio 1849, pochi giorni prima della proclamazione della Repubblica Romana. Stavolta non c’è Castiglia che tenga: «Viva Italia! - canta già nella prima scena il coro – Sacro un patto / tutti stringe i figli suoi: / esso alfin di tanti ha fatto / un sol popolo d’eroi!». IL TEMA della patria accompagnerà a lungo l’opera di Verdi, tanto da fare di lui una icona del Risorgimento. Questo legame stretto tra il genio e il suo tempo è detto come meglio non si potrebbe dal film «Senso» di Luchino Visconti (1954), che comincia con una scena del «Trovatore» alla Fenice di Venezia. Il tenore con la spada sguainata canta “Di quella pira”. E al ‘do di petto’ finale, alle parole “All’armi!”, si scatena una manifestazione patriottica: sulla platea piena di ufficiali austriaci si rovescia dal loggione una pioggia di volantini inneggianti alla guerra. È il 1866, il Risorgimento è agli ultimi fuochi.
“Teatro alla Scala durante una performance” (Bibliothéque de l’Opera Garnier, Parigi), il “Ritratto di Giuseppe Verdi” di Boldini e il manifesto de “Il Gattopardo” di Visconti
IL RISORGIMENTO di barbe e carbonari, di cavalli bianchi a Teano e fazzoletti rossi a Marsala, di volantini all’opera e trasformismi sabaudi, al cinema è uno spettro pirandelliano: uno, nessuno, centomila. Gli storici non sono mai soddisfatti di un film storico. Il film non è mai soddisfatto della Storia. Le variabili di peso sono almeno due: l’attualità che genera il film e gli autori che lo pensano e lo realizzano. «Noi credevamo», di Mario Martone, il più esteso e ambizioso progetto sul Risorgimento, tre ore e passa per quattro decenni, decine di personaggi, frantumato nella geopolitica di metà ’800, è esposto ai bombardamenti della nozione e della ricostruzione, armati da docenti universitari, studiosi per passione, collezionisti, ricercatori. Hanno ragione, hanno le prove, i documenti. Ma quanti sono disposti a saltare su un film storico che storicizza e insieme di apre al senso della contemporaneità? In fondo, quanti risorgimenti ci sono al cinema? C’È UN GARIBALDI «autore della Storia», anche se fa una manciata di brevi apparizioni, mentre coraggio e strategia si riflettono nella peripezia del giovane che fa su e giù tra Sicilia, Quarto e Calatafimi, nel Risorgimento secondo Blasetti di «1860», prodotto nel 1934 dalla Cines di Emilio Cecchi, curioso paradigma della propaganda nazionalista, ma stilisticamente «considerato nel dopoguerra uno degli incunaboli del neorealismo» (Morandini). Blasetti pensa-
A colpi di film De Sica, Rossellini, Lattuada, Visconti, Magni tra i registi che si sono ispirati al Risorgimento
«La crescita sociale» di Maurizio Degl’Innocenti; «Il teatro del Risorgimento» di Claudio Cumani
va la penisola in rivolta, lo sbarco, i moti dei picciotti filtrando il cinema sovietico di Ejzenstejn e Pudovkin. Il Risorgimento di Mario Soldati, che lavora sul romanzo di Fogazzaro «Piccolo mondo antico», è un sentimento di rivolta spinto dal tragico privato: Maironi (Massimo Serato), persa la bimba, si butta nell’azione patriottica. Era il 1941, l’emozione del sacrificio si allineava ai venti di guerra, anche se più di Maironi resta impressa Luisa, la ventenne Alida Valli. Sono i due poli tra «Teresa Confalonieri» (1934) di Guido Brignone (Coppa Mussolini a Venezia), «Il Dottor Antonio» (1937) di Guerzoni o «La contessa Castiglione» (1942) di Calzavara, tra Cavour inamidati e nobili calli-
grafici e contegnosi, mentre «Un garibaldino al convento» (1942) di De Sica (nel cameo di Nino Bixio) o «Giacomo l’idealista» (1943), esordio di Alberto Lattuada, sono commedie di echi, atmosfere, finalmente «epoca» ripulita dal ridodante e dall’aulico. POI C’È il Risorgimento «resistenziale» del dopoguerra. L’Italia è fatta, anzi rifatta. Chi erano gli italiani? Difficile dire quanti hanno visto «La pattuglia sperduta - Vecchio regno» (1952) di Pietro Nelli, riuscito in fondo come Risorgimento neorealista, con senso dell’impresa, di fermezza, di opposizione di aria azionista, tra le «Camicie rosse» di Alessandrini, scritto da
Renzo Renzi, Enzo Biagi e Sandro Bolchi, già infilzato come «nazionalpopolare», e quel discusso «Viva l’Italia» (1961) di Rossellini, incompreso a volte per quanto tolga all’impresa garibaldina oleografia tracciando un percorso «freddo» che può sembrare didascalico. Altra vicenda, lo storicismo degli anni ’70, pressato dalla contestazione e dal ribellismo studentesco, dalla rinascita della parola «utopia». E qui bisognerebbe parlare almeno di «Bronte» (1972) di Florestano Vancini sulla rivolta agraria e «Quanto è bello lu morire acciso» (1975) di Ennio Lorenzini sull’impresa di Pisacane, o della satira attualistica (il malcostume perenne) di «Nell’anno del Signore» di Luigi Magni o «Correva l’anno di grazia 1970» di Alfredo Giannetti. «Senso» (1954) e «Il Gattopardo» (1963). Oltre gli eventi, che spesso provano la povertà o la tendenziosità dei punti di vista di certi film, Visconti ha messo in gioco la trama di emozioni e di relazioni delle classi, degli interessi, delle ipocrisie, delle inerzie dell’umana commedia risorgimentale. Solo in secondo piano? Ma che sfondo!
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di MAURIZIO DEGL’INNOCENTI
NEI PRIMI decenni postunitari anche in Italia andò emergendo tra i ceti popolari una diffusa rete solidale su basi corporative e mutualistiche, composta da società di mutuo soccorso e di miglioramento, fratellanze, cooperative, inizialmente incoraggiate dalle stesse classi dirigenti, poi sempre più espressione di un’autotutela che recepiva le sollecitazioni ideali e politiche di due grandi idee-forza dell’Ottocento: l’associazione e il volontariato, coniugandole in termini di continuità organizzativa all’interno di una prospettiva legalitaria, che la clas-
se dirigente tese dovunque a incoraggiare. Fu un fenomeno europeo che interessò tutte le società avviate sulla strada dell’industrializzazione, per rispondere in modo pragmatico alla questione sociale, come allora si chiamava. In Italia il fenomeno si segnalò per minore solidità settoriale ma per più ampia varietà, intrecciandosi con i complessi esiti dell’unificazione intorno allo Stato accentrato e con scarsa base di consenso attivo, e segnato dalla perdurante sussistenza di aree di arretratezza, i cui negativi effetti furono accentuati dalla “grande depressione” dalla metà degli anni ’70. IL MOVIMENTO più precoce fu costituito da società operaie con finalità di mutuo soccorso
LO SQUILLO
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contro il rischio di malattia, invalidità, disoccupazione, precostituendo così un embrionale welfare privato in assenza di quello pubblico: da 443 nel 1862 passarono a 1447 nel 1873, a 4896 nel 1885 e a 6722 nel 1896, per dar vita nel 1900 ad una Federazione nazionale. Ma ben presto in virtù della intrinseca duttilità si affermò in modo prevalente la società cooperativa. Nelle città e nei borghi interessò la produzione, innestandosi sul mestiere artigiano, e il consumo dei generi di prima necessità. Nella zona di bonifica, che richiamava vasta manodopera avventizia, cercò di dare risposta al drammatico problema occupazionale: fu il caso della società dei braccianti, che praticava il turno di lavoro a squadre. La maggior parte
di Pino Casamassima
Il Po di Ciceruacchio O’ CARRETTIERE ma a tempo perso omo”: una delle tante frasi, in rigoroso romanesco, attribuite ad Angelo Brunetti, soprannominato Ciceruacchio fin da ragazzo perché grassoccio. Nato nel rione romano di Campo Marzio nel settembre del 1800, oltre a svolgere l’attività di carrettiere del porto Ripetta, Brunetti gestiva anche una taverna nei pressi di Porta del Popolo. Nel luglio del 1846, quando per la sua elezione Pio IX concesse la grazia ai detenuti politici, Ciceruacchio offrì bottiglie di vino alla popolazione attorno a un grande falò in piazza. Dopo il tradimento delle riforme promesse da Pio IX, Brunetti abbracciò la causa mazziniana, partecipando alla rivoluzione del 1848. Dopo la caduta della Repubblica romana, si unì a Garibaldi per raggiungere Venezia, ma presso il delta del Po dov’era approdato il suo barcone, fu denunciato agli austriaci dagli abitanti del luogo. Alla mezzanotte del 10 agosto 1849 Ciceruacchio fu fucilato con tutti i suoi compagni. Fra essi, il figlio Lorenzo, di soli 13 anni, e Luigi Bossi di Terni: il figlio maggiore che si nascondeva sotto quel nome perché ricercato per l’assassinio di Pellegrino Rossi, primo ministro dello Stato Pontificio.
“S
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di tali istanze finirono per riconoscersi nella Lega nazionale delle cooperative, già Federazione dal 1886, con sede a Milano. Per iniziativa della borghesia liberale presero corpo i con-
giunse dimensioni ragguardevoli: un censimento del 1902, in difetto, registrò 2823 cooperative, con oltre mezzo milione di soci, ma allo scoppio della guerra mondiale non furono meno di un milione.
L’azione collettiva L’autotutela anticipava con grande vitalità il welfare statale
ALLA FINE del secolo prese corpo anche l’organizzazione sindacale strutturata: dalla lega di miglioramento o di resistenza (al padrone) alla camera del lavoro su base territoriale e alle federazioni di mestiere. Il vero impulso maturò nel clima rivendicativo del 1901-2, quando scioperarono in centinaia di migliaia nei centri urbani e nelle campagne (caso clamoroso in Europa) inaugurando un ciclo che avrebbe conosciuto un ulteriore salto di qualità con la costituzione della Confedera-
sorzi agrari, riuniti in una Federazione nel 1891 a Piacenza, e le banche popolari che nel 1893 erano già 730. Dal 1883 sotto l’influenza della parrocchia si sviluppò la cassa rurale, per prestiti di piccola entità erogati sulla fiducia all’interno del villaggio, allo scopo di fronteggiare l’usura. Il movimento rag-
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IL TEATRO DEL FAMOSO ATTORE MODELLÒ LA PATRIA
LA «QUESTIONE SOCIALE» FU AFFRONTATA ORGANIZZANDO MUTUE, FRATELLANZE E COOPERATIVE
zione generale del lavoro nel 1906. Per certi versi l’universo associativo fu l’ambito del particolare, della piccola comunità, del mestiere, del villaggio, del quartiere, vicino alla persona e ai suoi mutevoli bisogni, e dunque sperimentale e pragmatico, non privo di fragilità e tutt’altro che impermeabile alla speculazione, sempre in bilico tra la affannosa difesa di aree di emarginazione e la cooptazione allo sviluppo, ma è indubbio che interpretò cultura del fare e pragmatismo, per giunta - e qui è il punto interessante - con una proiezione nazionale di esperienze e di obiettivi, anche se con densità diversa: assai più decisa al Nord e al Centro, e più rarefatta al Sud. Ne furono testimonianza le strutture di secondo grado, dichiarata-
“Quarto Stato”, di Pellizza da Volpedo (Museo del Novecento, Milano); nelle foto piccole: Gustavo Modena e Adelaide Ristori in immagini dell’epoca
mente “nazionali”, talvolta dalla durata secolare, e il loro configurarsi come tessuto connettivo delle subculture democratica, socialista, cattolica. Con ciò innervando quella tendenza all’organizzazione politica su base nazionale e territoriale, che inaugurata dal Partito socialista nel 1892, si sarebbe definitivamente affermata nel corso del ‘900. TALE AZIONE collettiva di tutela e di educazione civile e politica nella pratica delle regole democratiche (un voto a testa) contribuì a strutturare l’intera trama sociale avvicinando ampi settori del ceto popolare e operaio alle istituzioni, e su questa premessa a consolidare lo stesso Stato uscito dalle guerre risorgimentali. Nell’anno delle celebrazioni dell’Unità d’Italia sarebbe un errore considerare ciò una pagina minore.
Il Risorgimento visto dagli stranieri, di Attilio Brilli; Ottocento, il secolo delle invenzioni, di Giorgio Pedrocco
Gustavo Modena, il soldato va in scena di CLAUDIO CUMANI
FORSE il critico Ugo Ojetti peccava di ottimismo quando scriveva: «Se la patria italiana ebbe in quegli anni convulsi una sede, questa fu il teatro; se ebbe una voce capace di penetrare fin nella dispersa e ingenua anima popolare, questa fu la voce dei nostri attori». Perché non c’è dubbio che nei decenni in cui si doveva fare l’Italia il pubblico si rivolgeva con predilezione alla lirica. E del resto le censure politiche, seppur vigilanti sui libretti operistici, vedevano con favore la frequentazione del teatro musicale piuttosto che di quello di prosa. INSOMMA, faceva più paura un attoresoldato come Gustavo Modena alle prese con Alfieri piuttosto che lo slogan ‘viva Verdi’. Tutti d’accordo sul fatto che il nostro teatro patriottico sia stato fatto dagli attori più che dai drammaturghi. Anche se c’era un interesse degli intellettuali dell’epoca verso la questione nazionale e una consapevolezza della loro responsabilità nella formazione dell’identità nazionale, i testi di quel teatro oggi però paiono quasi inconsciamente riflettere il comune sentire di una borghesia in fieri. Non a caso la scena patriottica del Risorgimento viene spesso considerata un episodio minore caratterizzato dall’irruenza dei mattatori alle prese con modi e stili spesso inconciliabili. Eppure, dopo che si era spenta praticamente nell’insuccesso la fiamma delle tragedie manzoniane, almeno un paio di nomi i manuali teatrali li fanno. Due nomi che testimoniano per vie diverse il desiderio di cambiamento. Silvio Pellico (sì, l’autore de ‘Le mie prigioni’, il libro che, come ricorda Franco Manzoni, Metternich trovò più dannoso di una sconfitta militare) scrisse una ‘Francesca da Rimini’ di suggestione dantesca che avrebbe dato il via a una tipizzazione diffusa dell’eroina romantica. Afflati libertari e patriottici permearono, invece, i versi di Giovan Battista Nicolini. Suo un ‘Arnaldo da Brescia’ di proporzioni quasi epiche in cui, con un occhio a Schiller e un altro a Byron, circolano rivendicazioni di indipendenza politica e dignità
umana. Ma di attori si deve soprattutto parlare. Prestanza fisica, voce sonora, abilità consumata nel conquistare il pubblico: questo suggerisce l’iconografia popolare. Eppure sta lì, nell’ostinazione di un mazziniano nomade e selvaggio come Gustavo Modena padre di una riforma che ha cambiato le regole della scena, la svolta. Cosa diceva questo combattente ed esule avverso ai compromessi di Cavour e di Garbaldi e fautore di un teatro che lui chiamava dei bedoini (e cioé viaggiante, capace di attraversare il deserto delle istituzioni del suo tempo)? Diceva che i giovani attori non potevano avere modelli passivi da imitare ma in loro doveva essere stimolata la libertà di affermazione della personalità. Pochi come l’indocile Gustavo lottarono e soffrirono per l’unità d’Italia. Combattente nel ‘31, nel ‘48, nel ‘49 (vide morire Mameli), esule in vari paesi europei, aveva portato in teatro con un forte impegno morale e civile, una recitazione che rifuggiva l’interprete gigione o trombone. Dunque, se teatro politico (ovvero portatore di nuovi valori) c’è stato nell’Ottocento italiano quello è stato di Gustavo Modena. Ma se teatro patriottico è esistito, allora il discorso non può escludere altre personalità, primi fra tutti Tommaso Salvini e Adelaide Ristori. Salvini, che nel ‘49 si sbarazza del costume di scena al teatro Valle di Roma per imbracciare il
Copioni risorgimentali Tommaso Salvini e Adelaide Ristori tradussero in prosa l’impegno civile e politico moschetto contro i francesi a porta San Pancrazio, è davvero l’allievo prediletto di Gustavo. E la ribalta europea, grazie a leggendarie interpretazioni di Shakespeare e Alfieri, lo consacra a una fama che permane nel tempo. LA STESSA COSA capita ad Adelaide Ristori (stella della Compagnia Reale sarda) che, grazie al successo all’estero, vede il suo nome appiccicato a acque di colonia, cosmetici e caramelle. Personaggio affascinante questa primadonna, tanto amica di Cavour da diventare una pedina essenziale nella scacchiera politica del primo ministro. Una specie di Mata Hari capace di tastare il polso a potenti e regnanti, zar compresi, mentre dal palco le sue eroine tragiche scatenavano entusiasmi nelle platee. Una cosa è certa: la tradizione del grande attore ha avuto il merito di sconfessare la diceria che il teatro italiano non avrebbe avuto più una propria voce dopo i comici dell’arte. Il grande attore, pur con attitudini diverse, aveva saputo abbracciare il tricolore e divenire testimone della propria epoca, incamminandosi verso le luci della modernità che la fine del secolo faceva intravvedere.
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di ATTILIO BRILLI (*)
LE TESTIMONIANZE di viaggiatori stranieri che parlino in maniera esplicita delle lotte risorgimentali delle quali si trovano ad essere testimoni sono relativamente rare. Per un verso ci si imbatte in coloro che, come John Ruskin o Fedinand Gregorovius, considerano l’Italia alla stregua di un teatro di fascinose rovine in cui si vorrebbe che gli italiani restassero i perenni pastorelli d’Arcadia; per altro verso, s’incontrano personaggi più o meno pubblici, poco propensi a rendere palesi le loro idee e le loro impressioni sulla realtà politica di un paese nella quale interferiscono altre potenze oc-
cidentali. Ma quei viaggiatori che si esprimono apertamente sul cammino accidentato degli Italiani verso l’unità nazionale si rivelano voci preziose dell’epopea risorgimentale. Lo sguardo del viaggiatore straniero, specie se è inglese o francese, è portato dalla sua consolidata storia nazionale a sottrarre personaggi ed eventi all’enfasi retorica e celebrativa. Balzano allora agli occhi aspetti, atteggiamenti, riflessioni che soltanto il distacco di uno sguardo forestiero può cogliere, sino a fare emergere volti inediti della realtà, ad opporre alla prospettiva eroica della guerra, al “dolce morir per la patria”, il verso amaro di Melville: “Cos’altro come una pallottola può sciogliere l’inganno?” EMERGONO così gesti, scene, inquadrature fugaci che appar-
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tengono alla registrazione immediata di una realtà minore per la quale non c’è spazio nella storiografia tradizionale. Si pensi al “dongiovanni” per antonomasia, Lord Byron, che in casa dell’amante Teresa Guiccioli, a Ravenna, si lascia coinvolgere nelle trame dei
Risvolti inediti I souvenir di guerra, le ruberie negli ospedali, le nostalgie granducali
di guerra! O ancora all’indignazione dell’infermiera britannica che s’accorge delle ruberie che il personale sanitario perpetra negli ospedali napoletani appropriandosi di generi di prima necessità destinati ai garibaldini feriti; o infine a quel viaggiatore inglese che passa per Piazza della Signoria a Firenze mentre alcuni operai smontano fischiettando le insegne granducali. Pacifici fino alla fine i vecchi granduchi e non esenti da nostalgie i loro ex sudditi.
carbonari delle Romagne con i quali canta: “Sem tutt soldat per la libertà!”; o allo stupore dell’agente di commercio William Arthur che nel 1860, alla stazione di Novara, s’imbatte in un nugolo di ragazzini che offrono cappellini austriaci, spade francesi, granate piemontesi: erano nati i souvenir
IL VIAGGIATORE ha il grande privilegio di poter rievocare in tempo reale o a breve scadenza eventi cruciali per il destino dell’Italia. C’è una pagina straordinaria in cui l’anglo-fiorentino Thomas Adolphus Trollope, affacciandosi alle fine-
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stre del Palazzo apostolico di Loreto, ricostruisce le fasi della battaglia di Castelfidardo che s’era svolta poco prima nella valle sottostante, immedesimandosi negli alti prelati della Santa Casa i quali, con la sconfitta di Lamorcière, vedevano dissolversi il potere temporale della Chiesa. E suscita un moto di simpatia il padre della storiografia britannica, Trevelyan, che durante il viaggio di nozze ripercorre con la consorte, parte a piedi e parte in bicicletta, l’itinerario della drammatica anabasi garibaldina, da Roma a San Marino, prendendo appunti per il libro che le avrebbe dedicato. Non è un altro Risorgimento quello narrato dai viaggiatori, e tanto meno un antirisorgimento, ma l’arricchirsi di questa grande fase storica che viene vissu-
LO SQUILLO di Pino Casamassima
Il calvario di Piero QUELLA di Piero Maroncelli è una vita tormentata, che pare uscita da uno dei tanti melodrammi della nostra lirica. Il libretto d’opera della sua vita avrebbe potuto musicarlo proprio lui, che dopo aver studiato musica s’era fatto conoscere come compositore di talento. Nato nel 1795 a Forlì, giovanissimo era stato contrattualizzato dalle Edizioni musicali Ricordi a Milano, dove aveva conosciuto Silvio Pellico col quale condivideva il fervore patriottico. Poco dopo, i due organizzarono dei moti rivoluzionari, ma nell’ottobre del 1820 furono scoperti, arrestati e condannati a morte: pena poi commutata nell’ergastolo da scontarsi nella fortezza dello Spielgberg. Mentre Pellico scriveva “Le mie prigioni”, dopo dieci anni di una carcerazione disumana, Maroncelli fu attaccato da un tumore a un ginocchio. Per salvargli la vita, il medico fu costretto ad amputargli la gamba. La vulgata vuole che dopo il terribile intervento chirurgico compiuto senza alcun anestetico, il musicista abbia donato una rosa al dottore per ringraziarlo. Poco dopo, i due patrioti furono graziati e lui, dopo aver sposato la cantante lirica Amalia Schneider, emigrò a New York. Un gruppo di amici riuscì infine a farlo assumere come direttore di una Società Filarmonica: una serenità interrotta da un altro tumore che lo portò alla morte nell’agosto del 1846. Vent’anni dopo la sua salma fu riportata nell’Italia libera e tumulata con grande onore a Forlì.
L’imbarco a Genova di Garibaldi, di Induno (da 1861 - I pittori del Risorgimento, per gentile concessione di Skira editore); La ferrovia Napoli-Portici in un quadro dell’epoca
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VERSO LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
SCRITTORI E VIAGGIATORI D’OLTRALPE DESCRIVONO CITTÀ E PERSONAGGI SENZA ENFASI RETORICA: UN RACCONTO DAL BASSO DEL NOSTRO RISORGIMENTO
Irrompe la tecnologia E il lavoro cambia faccia di GIORGIO PEDROCCO (*)
ta e registrata in presa diretta, dal basso, nel suo svolgimento quotidiano. NEGLI ABBOZZI dei viaggiatori non manca una straordinaria galleria di ritratti di protagonisti del Risorgimento colti dal vero. In questo senso si rivelano impareggiabili gli americani che agiscono con la spregiudicatezza di un corrispondente di guerra. Basti pensare allo storico Ticknor che si reca in visita ad un elusivo Manzoni, per il quale l’adozione di istituzioni “troppo liberali” avrebbe potuto provocare in Italia maggiori repressioni; o a Henry Adams ai cui occhi Garibaldi in camicia rossa, che intervista a Palermo in mezzo ad autentici “eroi da romanzo”, appare dotato di “una spontanea capacità di guadagnarsi la simpatia della gente”. E dopo i ritratti degli uomini,
ci sono quelli delle città e delle campagne, ora tristi ed austere come Verona invasa dalle uniformi austriache; ora ridenti e pavesate con il tricolore, come Milano o Bologna; ora trepidanti come la Valdichiana che saluta in Vittorio Emanuele II “il padron nuovo”. Ci sono infine, in successione, le tre capitali dell’Italia unita: Torino che assume il volto mesto di “capitale dei ricordi”; Firenze, capitale provvisoria, che per l’occasione abbatte “l’aureo anello” delle mura medievali amate dagli stranieri, e Roma che da capitale ecumenica e universale diventa la capitale definitiva di un moderno stato nazionale. * Professore di Letteratura anglo-americana, Università di Siena
I notabili dell’Italia unita, di Sandro Rogari; L’Unità nasce in Parlamento, di Antonio Patuelli
NON È POSSIBILE scrivere la storia dell’età contemporanea senza fare i conti con le innovazioni tecnologiche, che hanno radicalmente cambiato non solo le forme del lavoro, ma soprattutto i connotati, prima della società europea e poi progressivamente, dalla fine dell’Ottocento, di quelle dei diversi continenti per arrivare ora alla “società globale”, risultato dell’accessibilità delle tecnologie grazie alla rete informatica. Di fronte al mare magnum di invenzioni, realizzato negli ultimi due secoli, non è facile trovare il filo rosso di un racconto che cerchi di spiegare come sono andate le cose. Proviamo con alcuni esempi, cominciando dalla locomotiva a vapore, perché solo grazie a quest’applicazione la macchina a vapore - l’innovazione simbolo della prima rivoluzione industriale - finalmente trovò il modo per sviluppare tutte le sue potenzialità operative. IL 15 SETTEMBRE 1830 migliaia di persone assistevano all’inaugurazione della prima ferrovia: le locomotive Rocket e Planet, realizzate da George Stephenson e dal figlio Robert, correvano alla media di 25 Km. all’ora tra il porto di Liverpool e la capitale dell’industria cotoniera, Manchester. Fu un grande successo; in poco tempo si diffuse tra gli investitori la febbre ferroviaria, col risultato che nel giro di un ventennio una fitta ragnatela di rotaie collegava le moderne architetture delle stazioni delle maggiori città inglesi dalla Manica alla Scozia. Miglioravano le comunicazioni e gli scambi e cresceva in maniera esponenziale la produzione dell’industria pesante, siderurgica e meccanica. Le ferrovie si diffusero quasi immediatamente in Europa occidentale determinandovi un’accelerazione all’industrializzazione: il modello inglese diventava un punto di riferimento per l’economia europea dei paesi più avanzati, che però non si accontentarono di seguirne le orme, ma cercarono, investendo notevoli mezzi finanziari pubblici e privati soprattutto in Francia e in Germania, di approfondire i rapporti tra ricerca scientifica e tecnologica e di procedere alla formazione di tecnici ed ingegneri, capaci di tradurre i risultati delle ricerche scientifiche in innovazioni tecnologiche, rendendole poi operative nella pratica industriale.
Comparvero così quei “grappoli d’innovazioni” di processo e soprattutto di prodotto, che alla fine del XIX secolo tennero a battesimo la seconda rivoluzione industriale: una profonda trasformazione che ha consentito all’industria di espandersi in nuovi spazi geografici e in altri comparti produttivi e che ha ulteriormente cambiato le forme del lavoro e la quotidianità sociale. I NUOVI MATERIALI messi in campo, grazie alla sinergia tra scienza e tecnica, dalla chimica, dai coloranti alle fibre artificiali, hanno cambiato le fogge del vestire; i prodotti medicinali di sintesi, a cominciare dai sulfamidici, hanno aperto nuovi orizzonti alla pratica medica; mentre i fertilizzanti artificiali, aumentando la produttività dei terreni agricoli, resero disponibili maggiori quantità di beni alimentari. Sempre in questi stessi decenni, una serie di fattori concomitanti, quali la possibilità di produrre acciaio a bassi costi, l’invenzione del motore a scoppio e la creatività di carrozzieri e meccanici, realizzò il bene di consumo durevole per eccellenza, l’automobile, la cui produzione in grandi quantità portò Henry Ford nel 1909 a progettare un’auto nera, semplice e solida, il modello T, e ad introdurre, derivandola dai grandi mattatoi di Chicago, la catena di montaggio per fabbricare automobili a prezzi accessibili a tutti,
L’era delle innovazioni Nuovi materiali, fertilizzanti, fino al motore a scoppio: il mondo si trasforma in pochi anni almeno negli Stati Uniti. Per chiudere questi rapidi flash è d’obbligo parlare dell’elettricità diventata in quegli anni il simbolo del progresso stesso grazie alle abbaglianti luminarie delle grandi città, un altro segno del boom economico delle società industriali alle soglie del Novecento. Ma più che la lampadina è il motore elettrico che ha trasformato sia le fabbriche, mandando per sempre in pensione macchine a vapore e ruote idrauliche, sia le abitazioni, dotandole di un ventaglio d’elettrodomestici, di cui oggi non si potrebbe più fare a meno. Le nuove tecnologie raramente parlano in italiano, ma in Italia sono sempre esistiti degli ottimi traduttori. Uno dei primi fu sicuramente proprio Cavour che realizzò nel decennio di preparazione la ferrovia tra Genova e Torino, una linea che svolse un ruolo strategico nel 1859 durante la seconda guerra d’Indipendenza, trasferendo rapidamente l’esercito francese, sbarcato nel porto di Genova, a Novi Ligure e ad Alessandria. La vittoria in quella guerra dei franco-piemontesi sull’Impero Asburgico, come tutti dovrebbero sapere, determinò l’avvio dell’Unità d’Italia… * Professore di Storia della tecnica, Università di Bologna