EA
magazine
L ISSUE N°0
Issue n°0 novembre 2017
LEAP MAGAZINE è un progetto di Talbot. LEAP MAGAZINE HQ Via Ceresio 1 20154, MI Milano Italia CONTATTI info@leapmagazine.com www.leapmagazine.com LA REDAZIONE Matteo Garagiola, Sofia Motta, Diego Reitano, Jacopo Sironi, Rachele Stagni
Laboratorio di Metaprogetto Design della Comunicazione Politecnico di Milano a.a 2017/2018
LEAP
EDITORIALE L’unica certezza sul futuro è la sua imprevedibilità. Spesso, distratti dai continui cambiamenti, dimentichiamo i veri attori dell’evoluzione in atto: le persone. È grazie al loro coraggio che il mondo cambia. Le nostre storie raccontano il reinventare e il reinventarsi. Non descrivono solo i cambiamenti, parlano delle persone. Persone che, con tenacia, hanno lottato per i propri sogni. Hanno avuto il coraggio di mettere in gioco le proprie certezze senza rinunciare alla propria identità. Il loro spirito è riassunto in una parola: LEAP. Significa ‘balzo’, ma anche cambiamento, avanzamento, intuizione. Non solo saltare, ma saltare oltre. LEAP è un atto di creatività, che nasce da menti aperte, flessibili e libere da pregiudizi. È porsi nuovi limiti o superare una crisi senza seguire schemi convenzionali. È sfruttare le difficoltà per inventare nuovi strumenti e definire nuove prospettive. Non è in un’intuizione momentanea, ma un modo di essere, da vivere ogni giorno con costanza. LEAP è l’arte di trasformarsi rimanendo fedeli a sé stessi.
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INDICE
Christopher Anderson
Nuove realtà messe a fuoco.
La nuova anima di Torino Alla scoperta del lato post-industriale della città.
Editoriale
LEAP è l’arte di trasformarsi rimanendo fedeli a sé stessi.
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Playgrounds
La reinvenzione urbanistica di Rue Duperré x Pigalle.
13 22 Julia Hartz
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Da Hollywood a alla Silicon Valley. La storia di Julia Hartz, cofondatore di Eventbrite, la piattaforma per la vendita di biglietti online più diffusa al mondo.
Andreja Pejić
Da rifugiata alla copertina di Vogue.
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Tbilisi 2.0
Cronaca di una rivoluzione sociale e culturale.
Recycling with style
Marco Bolle
Intervista ai fratelli Freitag, inventori delle omonime borse.
Per Marco Bolle aver abbandonato una certezza per inseguire con tenacia i propri sogni, rappresenta ad oggi una vittoria personale oltre che un aiuto alla sua comunitĂ .
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Reinvention of normal
I fantastici oggetti di Dominic Wilcox.
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Oltre il cielo
Marina Popovich, alias “Madame Mig� si racconta: pilota di classe uno, ingegnere e poetessa, a 86 anni non smette di inseguire i propri sogni.
Andrea Caschetto
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Viaggiatore a memoria zero.
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Playgrounds A meno di 500 metri dal Moulin Rouge, nel quartiere più maledetto e artistico di Parigi, potete concedervi una partitella a pallacanestro facendovi inghiottire dai colori psichedelici di Pigalle Basket. Un campo da gioco che fonde street art, sport e moda situato nel IX Arrondissement, nato nel 2009 dalla collaborazione tra la casa di moda Pigalle, Nike e i creativi di Ill Studio. Uno spazio di 480 metri quadrati non regolamentare – addirittura c’è una scala d’emergenza in prossimità della metà campo – talmente ricco di colori da dare l’impressione di stare all’interno di un videogioco. Un’opera d’arte a cielo aperto, fruibile, open source. Fino al 2015 riquadri dai toni sgargianti si intersecavano sull’asfalto, come in una partita di Tetris dipinta da Mondrian. Da pochi mesi Pigalle Basket, il brand di moda parigino di Stéphane Ashpool (sempre in collaborazione con Ill Studio) ha deciso di dare un’altra mano di colore. Abbandonate le gure geometriche e lineari precedenti, il campo si è vestito di uno spettro cromatico che parte dal blu, attraver- sa il viola, sfocia nel fucsia e culmina con dei picchi di giallo e arancio. L’ispirazione arriva da un’opera d’arte del russo Kasimir Malevich, Gli Sportivi (1930). Quattro silhouette di uomini, uno a anco all’altro, colorati a spicchi. Un po’ dei Modigliani, un po’ degli Arlecchini.
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«È uno dei nostri quadri preferiti di tutti i tempi – hanno spiegato i creatori – siamo stati attratti dai soggetti della pittura russa, ma anche dai colori forti e dalla composizione gra ca che avevamo in mente. L’anatomia del corpo umano così come le sue performance hanno da sempre un rapporto con l’arte. Sin dall’antichità greca e romana, lo sport è rappresentato come un’idea dominante nella bellezza di un’epoca. Questa continua ricerca della modernità ha forgiato un forte legame tra funzionalità ed estetica nei decenni. Attraverso questo nuovo campo, vogliamo esplorare il rapporto tra lo sport, l’arte e la cultura e la sua nasci- ta come un potente indicatore socio-culturale. Ci impegniamo a stabilire paralleli visivi tra il passato, il presente e il futuro del modernismo dall’era dell’avanguardia dell’inizio del XX secolo, no all’origine dell’“open source”. Questa è la nostra inter- pretazione dell’estetica futura di basket e dello sport in generale».
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Per Ashpool, che parallelamente alle metamorfosi del suo campetto rinnova le sue collezioni, il punto di partenza di questo lavoro sono proprio gli anni Novanta, età dell’oro per il basket. «Le rivalità correvano, le leggende raggiungevano nuove vette, nascevano le dinastie. Quel decennio ha un’in uenza importante, non solo in termini di sport, ma anche per quanto riguarda la moda americana. La nostra collezione si ricollega proprio a quegli anni, infarciti con un diversi strati di pop». Il campetto è aperto a tutti, ça va sans dire. Ma non c’è solo Pigalle Basket. Sono numerosi gli artisti che si sono cimentati in progetti simili, donando alle città opere che sono anche luoghi di aggregazione sociale e sport. Lo scorso anno a Roma lo street artist lodigiano Alberonero ha affrescato un campo da basket – insieme al collettivo Studio Volante – nell’ex Dogana di Roma, in zona Termini. I colori tenui, quasi pastello, sono un tratto dominante della sua poetica, che per questo progetto speci co ha dichiaratamente tratto spunto dal progetto parigino. 09
Restando in Italia, ad Alessandria l’artista siciliano Gue (bella anche questa commistione regionale) ha realizzato un campo, in questo caso perfettamente regolamentare, ispirandosi direttamente alle linee e ai colori di Carlo Carrà. Il progetto – lodato da critici e riviste di settore – è stato reso possibile grazie a un nanziamento previsto dal Comune per rigenerare parchi, aree giochi e giardini. E se ci spostiamo nel cuore di New York, troviamo ancora Nike che ha dato mandato all’artista Kaws di riscrivere la logica di due campi da basket attigui alla Stanton Street di Manhattan. Due gure provenienti dai cartoon, una delle caratteristiche dominanti dei lavori di Kaws, si stagliano bellamente nel bel mezzo dei perimetri da gioco, confondendosi con le restanti linee curve e rotondeggianti. Isole di colore nell’indistinto delle metropoli, queste esperienze sono ottimi esempi di come si possano migliorare spazi cittadini partendo da due “collanti sociali” come arte e sport, sia con l’aiuto dei privati, sia con quello pubblico. Il basket si presta perfettamente a questi progetti per discorsi pratici (il campo) e per la sua cultura urbana, ma non si offenderebbe nessuno se idee del genere fossero di spunto per altre iniziative con lo stesso spirito. ◆◆◆ 10
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La nuova anima di Torino Il The Guardian l’ha inserita nella lista delle 10 città alternative da visitare assolutamente. I suoi quartieri underground sono fucina di street art, sperimentazioni musicali e hipsterismo. Chi ancora crede che Torino sia la Detroit d’Europa, deve aggiornarsi. Lontani i tempi della FIAT, Torino è oggi città studentesca e grande polo universitario, protagonista di grandi cambiamenti negli ultimi dieci anni, con un look nuovo di zecca. Torino risplende di bellezza. Ma non della bellezza manifesta di Roma, né di quella luccicante di Milano. Piuttosto di una bellezza riservata, nascosta e un po’ sabauda. E conserva sempre quella sua aria ex-industriale, un po’ fumosa, un po’ decadente, un po’ irrisolta, che costituisce il fascino assoluto della città. Tanti sono infatti quei luoghi, una volta sedi di fabbriche, che si sono reinventati a location alternative di movida diurna e notturna. Il loro fascino sta nel fatto che la maggior parte di questi non si trova in centro, come è facile prevedere, ma nelle periferie veraci. Perché i torinesi doc sono un po’ snob e loro il centro lo frequentano poco. Volete mettere quanto maggior fascino suscitano le situazioni un po’ borderline dei quartieri disastrati? Ecco dunque una guida ai più significativi.
PARCO DORA Parco Dora è l’esempio per eccellenza del parco post-industriale: dove c’era il cemento ora c’è l’erba. Situato nell’area di Spina 3, dove fino agli anni 90 sorgevano i grandi stabilimenti produttivi della Fiat e della Michelin, prende il nome dal fiume che lo attraversa, la Dora Riparia. Utilizzato dai torinesi per il jogging o il riposo domenicale, presenta ancora i segni del suo passato industriale: campeggiano alti pilastri rossi appartenuti al capannone industriale, la torre di raffreddamento che è diventata l’elemento distintivo del parco, e le vasche di decantazione sono state trasformate in giardini acquatici. Notevole inoltre il magnifico murales dedicato a Bobby Sands, tra boccali di birra, cappelli irlandesi e croci celtiche. 13
DOCKS DORA Situati nel quartiere popolare di Barriera di Milano, vicino alla ferrovia, i Docks Dora erano agli inizi del 900 un complesso di magazzini generali. Ricordano molto le costruzioni industriali della Londra ottocentesca alla Oliver Twist, austere e in mattoni. Ormai dismessi dalla loro funzione originaria, i Docks Dora non hanno tardato a rianimarsi: posizionati in un quartiere molto underground, sono oggi luogo di locali notturni, gallerie d’arte contemporanea e studi di artisti e musicisti.
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CORTILE DEL MAGLIO Nel quartiere più bohemien della città, Borgo Dora (situato presso il fiume Dora), il Cortile del Maglio fa parte di un grande complesso architettonico che costituiva l’Arsenale Militare. Fabbrica delle polveri e raffineria nel 1500, sede della produzione di oggetti di artiglieria nell’800, il Cortile del Maglio e l’area circostante sono oggi “il luogo alternativo” per eccellenza della città. Il Cortile ospita manifestazioni culturali e in inverno meravigliosi mercatini natalizi, mentre nelle strade adiacenti il sabato mattina si svolge il Balon, mercatino delle pulci e del vintage. Pieno di osterie tipiche della tradizione piemontese, negozietti di antiquariato e stradine di ciottoli, Borgo Dora si conferma zona privilegiata dai giovani hipster della città.
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LINGOTTO Uno dei principali stabilimenti di produzione della Fiat, è forse l’esempio più nitido. Si tratta di un comprensorio di edifici situato nell’omonimo quartiere Lingotto, un tempo vera e propria periferia dormitorio destinata ad alloggiare i dipendenti della fabbrica automobilistica. Oggi il quartiere rimane periferico ma non popolare come una volta, grazie anche alla rivalutazione dei locali. L’enorme struttura Lingotto infatti è diventata adesso un centro polifunzionale che ospita un centro commerciale e un multisala, un’area eventi all’aperto, un centro fiere dove ogni anno si svolgono diverse manifestazioni - dal Torino Comics al Salone Internazionale del Libro - la sede distaccata del Politecnico, un hotel, la pinacoteca e l’auditorium dedicati a Giovanni Agnelli, e persino un eliporto sul tetto. La struttura ha inoltre conservato al suo interno la storica pista di automobili ad elica, ora utilizzata come rampa. ◆◆◆
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Julia Hartz Julia Hartz, 38 anni è la cofondatrice e presidente di Eventbride, la compagnia di San Francisco che si è ricavato una nicchia nell’industria multimiliardaria del ticketing concentrandosi sulla democratizzazione della vendita di biglietti online. L’azienda aiuta chiunque, non solo i maggiori musicisti o squadre di calcio, a gestire un servizio di box office per l’organizzazione di eventi. La Hartz iniziò a studiare produzione televisiva alla Pepperdine Univeristy conducendo alcuni importanti stage e tirocini su set come “Friends”, serie tv più in voga del momento e altri show trasmessi su MTV. La nuova CEO di Eventbride è un chiaro esempio di come reinventarsi non significhi solo volere il meglio per se stessi, ma anche fare qualcosa in più per il futuro degli altri, d’altro canto come lei stessa la definisce “Eventbride is a people-centered company”.
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Da Holliwood alla Silicon Valley
Il richiamo della Silicon Valley: la Hartz stava lavorando alla FX Networks che al tempo stava girando serie come “The Shield” e “Rescue Me”, quando incontrò il suo futuro marito, un imprenditore e investitore della Silicon Valley. Il loro primo incontro fu a un matrimonio, poi lui le chiese di sposarlo e infine di lasciare Los Angeles per fondare insieme a lui una compagnia specializzata nel settore di eventi. L’idea di addentrarsi in questo settore partì proprio da un’intuizione di Julia, che stanca del suo posto precario seppur ben pagato e accompagnato da un elegante studio ad Hollywood, decise di rifiutare il ruolo esecutivo che le era appena stato offerto per lanciarsi in questa nuova avventura con il marito. Inizia l’era di Eventbride. Un amico diede loro uno spazio in un capannone che a breve si tramutò in un sala conferenze senza finestre. Lavoravano fianco a fianco: Julia Hartz si concentrava sulle operazioni commerciali e la customer experience, mentre suo marito Kevin sul prodotto in sé.
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«Quello che ho imparato durate i primi sei mesi dell’attività è che questo lavoro sta rivelando una parte di me che è sempre stata nascosta. Sentivo il bisogno di cambiare e ripartire ma non sapevo da dove iniziare. Questo cambiamento è stato per la mia vita un punto di svolta fondamentale». La Hartz sapeva fin dal principio che il successo dell’attività sarebbe pesato ampiamente sulle spalle degli impiegati, degli utenti e soprattutto sulla forza e l’animo resiliente che sta alla base dei valori della compagnia. Dal momento che Eventbrite è considerato uno dei migliori posti della Bay Area in cui lavorare, Julia Hartz ha da sempre rappresentato in maniera egregia l’anima della stessa della società e la sua cultura aziendale. Oggi: il Fortune magazine l’ha recentemente definita come la donna più potente e influente nel mondo dell’imprenditoria. Madre di due giovani figlie, si dice determinata ad aiutare le altre donne nel successo e nel mondo della tecnologia. La nuova CEO di Eventbride è un chiaro esempio di come reinventarsi non significhi solo volere il meglio per se stessi, ma anche fare qualcosa in più per il futuro degli altri. ◆◆◆
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Nuove realtà messe a fuoco Christopher Anderson è del 1970, ed è un giovane uomo che è stato all’inferno. Ma quello che più mi ha colpito di lui è che l’anima non l’ha persa, rimanendo una persona carica di empatia, sensibilità e umiltà. 23
Mi viene in mente quanto ha detto un suo amico, il pluriacclamato reporter di guerra Stanley Greene, che nella prefazione del suo libro Black Passport ammonisce che nella fotografia di guerra, se si è fortunati, si può resistere massimo otto anni: «If you stay at it longer than that, you turn, and not into a beautiful butterfly. You really turn. I see it in myself, and I see it in all my friends and colleagues». Anderson, membro di Magnum dal 2005, è nato in Canada e cresciuto in Texas; figlio di un predicatore, si è avvicinato alla fotografia per caso, individuando nel mezzo fotografico una via di fuga da una prospettiva di vita altrimenti angusta. Come molti altri del suo calibro – exceptionally gifted – è un autodidatta, non ha mai studiato fotografia né giornalismo, e all’inizio una cosa ha portato all’altra: «It has been basically where my curiosity has taken me from one thing to another, chance happens and things fall out of the sky and you find yourself doing something you could not have imagined». Un’opportunità importante per Chris è stata l’imbarcarsi nel 1999 con dei rifugiati Haitiani per documentare il loro tentativo di raggiungere l’America; la barca artigianale di legno affonderà nei Caraibi, Chris riesce a tenere i nervi saldi e, nonostante sia convinto di essere vicino alla morte, fotografa i momenti più drammatici del naufragio.
“If you stay at it longer than that, you turn, and not into a beautiful butterfly. You really turn.”
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Questo coraggioso reportage gli farà vincere nel 2000 la Robert Capa Gold Medal, uno dei premi internazionali più prestigiosi della fotografia. Da allora ha documentato incessantemente dalle zone di conflitto più calde: Afghanistan, Iraq, Libano, Israele; ha vinto due volte l’autorevole World Press Photo e innumerevoli altri premi internazionali, pubblicato tre libri importanti – un quarto in arrivo –, i suoi reportage sono apparsi sui più importanti giornali internazionali ed è il primo photographer in residence del New York Magazine. 25
Quattro anni fa nasce suo figlio Atlas, e in modo molto naturale, come capita a chiunque abbia un bimbo anche senza bisogno di essere un fotografo, inizia a fotografare lui e l’altro amore della sua vita, la moglie Marion Durand. Pian piano quanto era iniziato senza alcuna velleità artistica diventa il suo progetto a lungo termine più importante: Son, una riflessione profonda sulla vita, la morte, sé stesso. «I spent many years escaping my life s a preacher son in Texas and going to war zones and looking for some intimacy in my pictures, and something to communicate about the world I was experiencing and then I had my own son, and at the same time my father became ill and I started thinking about very obvious things like life and death and the seasonal nature of life and I began making pictu res of my family and in a very organic way in the beginning, not as a work and is through making those pictures that I realized that everything that I have done up to it was really just to prepare me to make these pictures, and that was my most important work». Lo stesso coraggio che Chris ha dimostrato sui campi di battaglia lo ritroviamo nella sua capacità introspettiva e nel fronteggiare i propri di demoni: è come se la nascita di Atlas abbia aperto una nuova fase della vita di Anderson, una fase ancora più autentica e intimista; e forse un ruolo importante in questa decisione di abbandonare la fotografia di guerra lo ha giocato anche la morte del suo caro amico e vicino di casa a Williamsburg, Brooklyn, il war reporter Tim Hetherington, morto a Misurata nell’Aprile 2011. Le immagini di Anderson sono eccezionali per la composizione, la luce, la capacità di restituire un atmosfera rarefatta, autentica, interiore. 26
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“I had my own son, and at the same time my father became ill and I started thinking about very obvious things like life and death and I began making pictures of my family. I realized that everything that I have done up to it was really just to prepare me to make these pictures, and that was my most important work.�
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Parliamo della rivoluzione digitale, degli smartphone, del fatto che oggi chiunque può essere un fotografo; conveniamo nel ritenere questa rivoluzione positiva, emancipatrice per la fotografia stessa, quasi servisse a liberarla e a mettere da parte per sempre l’ipocrisia che la vorrebbe mezzo di fedele e obiettiva riproduzione di realtà. Un po’ la stessa funzione liberatoria che a suo tempo l’invenzione della fotografia ebbe nei confronti della pittura. Come dire, per le news spot ormai spesso ci sono le istantanee fatte con gli smartphone, mentre i fotografi professionisti hanno più libertà nel dare la loro interpretazione dei fatti, nell’esplorare nuovi linguaggi visivi più personali e in sintonia con la loro realtà interiore. «Personally I feel completely liberated by how I go about communicating something that I believe to be an emotional truth rather than reporting an information».
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Chris si chiede però «how is that an image of mine can cut through all that noise? I think it is not about being a better or worst picture, if there is something it can be about it, if there is a reason it can cut through all that noise is a certain authenticity, and at the end that authenticity becomes the ultimate value in a photograph, and if there is one thing that I want in my own photography is the authenticity». Come ultima domanda gli chiedo un consiglio per i giovani che si avvicinano a questo lavoro: «Forget about being a professional photographer and just make pictures, make the pictures that you need and forget about the profession (…) if you make the pictures that you feel you need to make perhaps the profession will then follow but it does not start with the profession, it start with the pictures». ◆◆◆ 32
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“Personally I feel completely liberated by how I go about communicating something that I believe to be an emotional truth rather than reporting an information�. 34
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Andreja Pejic Da rifugiata a Vogue
Nata come Andrej nel 1991 a Tuzla, Bosnia Erzegovina, da madre serba e padre croato, si trasferisce in Australia a solo otto anni con lo status di rifugiato. In un’intervista racconta di come da bambino sognasse di svegliarsi un giorno ed essere finalmente una bambina, di come crescere in Australia sia stato piacevole sebbene a fine anni ’90 il discorso sui generi non fosse accettato come ora e non riuscisse a spiegare a sua madre, che a volte gli chiedeva se fosse gay, che no, non era così. Il suo mondo inizia ad aprirsi grazie a Google, al quale pone domande e riceve risposte; inizia ad acquistare illegalmente farmaci che rallentano la pubertà, avendo ormai ben chiaro che la cosa più importante per lei è ottenere il corpo in cui si è sempre riconosciuta. Poi a diciassette anni lo scouting di un’agenzia londinese la scova mentre lavora da McDonald’s. 39
Femminile e androgina al tempo stesso, quando ha debuttato nella moda, per lei la scalata è stata continua: il successo, i casting per uomo e per donna. Ben presto arriva ad essere la prima modella trans riconosciuta da Vogue. Una transizione che ha una forte copertura mediatica e che lei affronta come manifesto politico. Quando le chiedono quale sia la cosa migliore dell’essere finalmente una donna lei risponde ‘il potere’. Adesso, a ventiquattro anni, fa un breve riassunto della sua vita: «Il mio sogno era: inizia giovane, prendi gli ormoni, vivi come una donna, fai il possibile per diventare accettabile, poi seppellisci il tuo passato e cambia i tuoi amici. Ora ho realizzato che non devo essere imbarazzata dal mio passato. Posso avere la mia storia e questo non mi fa essere meno donna. Sono nata donna, mi ci è solo voluto del tempo per esserlo completamente». Dal 2014, dopo l’intervento chirurgico, è una donna, ma a lungo è stata una delle modelle trans più celebri al mondo sfilando, fino al 2011, sia abiti femminili che maschili. Andreja è la prima modella transgender a diventare testimonial di un brand di cosmetici, Make up for ever, con uno slogando tutto significativo: “Sii audace, sii sorprendente, sii te stessa” (be bold, be unexpected, be you). Il mondo della moda l’ha considerata a lungo sia donna che uomo e lo dimostra il fatto che, sempre nel 2011, si è classificata al diciottesimo posto tra i 50 migliori modelli maschi e contemporaneamente è stata inserita tra le 100 donne più sexy secondo la rivista Fhm.
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La sua carriera è andata anche oltre le barriere delle passerelle quando David Bowie l’ha voluta nel un suo video, The Stars - Are Out Tonight, perché Andreja interpretasse proprio lui negli anni giovanili, riuscendo, peraltro in pieno, nell’intento di impersonare la leggenda del rock quando lui stesso ammiccava giocando sull’ambiguità di genere. Dopo l’operazione che ha reso Andreja Pejic una donna anche dal punto di vista anatomico, lei stessa si è raccontata in un’intervista a People. «Voglio condividere la mia storia con il mondo perché penso di avere una responsabilità sociale», ha detto alla celebre rivista americana. «Mi auguro che, adottando un atteggiamento di apertura su un argomento come le differenze di genere, si contribuisca a renderlo sempre meno un problema. Ho sempre sognato di essere una ragazza. In uno dei miei primi ricordi, giravo con la gonna di mia madre cercando di sembrare una ballerina». Quando le viene chiesto che cosa è cambiato veramente nella sua vita dopo l’intervento chirurgico, Andreja risponde che, aspetto fisico a parte, rimane sempre la stessa persona, con la stessa anima e pensieri di sempre. È stato solo un cambiamento esterno, non interno o della personalità. A volte cambiare significa solo rivelare se stesso. A distanza di anni dall’uscita della notizia, la sua vita da donna continua a descriverla per immagini su Instagram, dove comunica costantemente il suo coinvolgimento in un tema sociale così delicato e la sua tenacia nel dimostrare che a volte, un cambiamento così radicale fa bene a sé stessi e vale da esempio per altri. ◆◆◆ 41
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Recycling with style Nel 1993 i due graphic designer Markus e Daniel Freitag erano alla ricerca di una borsa funzionale, impermeabile e robusta per contenere i loro progetti. Ispirati dal traffico dei coloratissimi mezzi pesanti che tutti i giorni rombavano sulla tangenziale di Zurigo davanti alla loro abitazione, crearono una Messenger Bag utilizzando vecchi teloni di camion, camere d’aria usate e cinture di sicurezza. CosÏ, nel salotto di quell’appartamento, nacquero le prime borse Freitag, tutte pezzi unici. 43
CHI SEI E DOVE LAVORI? Daniel Freitag: Grafico diplomato, oggi produttore di borse. Curioso tuttofare, paziente pensatore che progetta e riflette all’interno della propria azienda, con amore per i dettagli. Il mio impegno come capo e creativo domina la mia vita quotidiana da un punto di vista temporale. Il ruolo di fondatore, rappresentante e proprietario mi costringe regolarmente a cambiare prospettiva. Markus Freitag: Datore di lavoro e di idee, fabbricante di borse, ricontestualizzatore di teloni di camion, designer, fondatore, sviluppatore, rappresentante, qualche volta dilettante, ciclista, padre e snowboarder. Dal 1993 dipendente della propria azienda come uno di due Creative Directors.
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“Poiché sino ad oggi non ho mai guidato un’auto, ma solo biciclette, so che a volte nella vita serve una borsa robusta, idrofuga e funzionale.” Markus Freitag
IL RICORDO DELLA VOSTRA INFANZIA? Markus: Durante la giornata della raccolta dei ferri vecchi trascinavamo un rimorchio attraverso le strade per raccogliere tutti i pezzi rotti di biciclette, che poi usavamo per assemblare delle altre bici funzionanti. Dato che siamo cresciuti come fratelli abbiamo avuto modo di mettere alla prova la nostra collaborazione molto presto, compresi successi, insuccessi e litigi. E ancora oggi lavoriamo come allora nella nostra cameretta: all’inizio c’è un’esigenza personale, poi cerchiamo le idee, e naturalmente cerchiamo continuamente di superarci a vicenda, e durante la realizzazione ciascuno fa intuitivamente quello che gli riesce meglio. Da bambini nella nostra lista dei desideri c’era sempre qualcosa che Babbo Natale non portava mai, e allora lo costruivamo noi, con i nostri mezzi e in teamwork. Daniel: La rimessa e la gola nel bosco. Siamo cresciuti in una vecchia casa contadina. Dietro la casa c’era la rimessa, con una montagna di legna vecchia che arrivava fino al tetto. È stata la materia prima per realizzare molti dei nostri sogni di ragazzini: capanne, zattere e macchine giocattolo. Vicino alla casa c’era una gola, un boschetto con un torrente. Qui potevamo tuffarci e sfogarci. Il bosco diventava il Far West, l’Himalaya e/o una giungla.
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PERCHÉ SEI DIVENTATO PRODUTTORE DI BORSE? Daniel: Le borse sono il prodotto che noi offriamo. Nelle borse c’è molto di più. Freitag rappresenta per me la possibilità di realizzare le cose che mi toccano. È stato così nel 1993 ed è così ancora oggi. Markus: Perché nel 1978 nostro padre ci ha mostrato come funziona una compostiera e perché è divertente pensare e agire in cicli. Da qui è nata la consapevolezza che l’immondizia, nel migliore dei casi, diventa qualcos’altro. Poiché sino ad oggi non ho mai guidato un’auto, ma solo biciclette, so che a volte nella vita serve una borsa robusta, idrofuga e funzionale. Dato che nel 1993 in Svizzera non esisteva ancora una borsa per corrieri in bicicletta, insieme a mio fratello ho deciso di cucirne qualcuna.
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QUAL È LA TUA ROUTINE QUOTIDIANA? Daniel: Le idee sono le prime a svegliarsi, poi alle 7 mi alzo dal letto anch’io. Il tentativo di dormire a sufficienza durante i weekend fallisce al più tardi alle nove. Durante la settimana il ruolo di padre termina alle 8.46 con una corsa in bici di 19 minuti fino alla fabbrica nella zona industriale di Zurigo. L’organizzazione del marchio Freitag e lo scambio con il team è così divertente e interessante che il desiderio di una settimana composta da nove giorni è molto serio: sei giorni di pensieri e di realizzazioni creative, poi tre giorni di tempo libero per viaggi, movimento e incontri. Markus: Alle 8.55 mi pongo l’obiettivo della giornata e al più tardi alle 17.55 mi metto all’opera per realizzarlo. Fino alle 8.55 leggo il giornale, bevo Ovomaltina, vado in bicicletta o preparo le fette di pane imburrato per le mie due figlie. Dalle 18.55 preparo la cena, incontro gli amici, intrattengo la mia famiglia o mi lascio intrattenere dalla mia famiglia. Sei ore di sonno filato non sono molte, ma sono giusto sufficienti. 48
“Freitag rappresenta per me la possibilità di realizzare le cose che mi toccano. Fu così nel 1993 ed è così ancora oggi.”
Daniel Freitag
QUALI SONO LE TUE ESPERIENZE GRATIFICANTI? Daniel: Considero un grande successo, il fatto che il nostro primo modello di borsa sia ancora in catalogo 20 anni dopo il lancio e che non abbia perso nulla in attualitĂ . QUALI SONO LE GIOIE DEL LAVORO? Markus: I risultati, i pezzi unici, le esperienze e i progetti sempre nuovi sono una gioia, ma soprattutto lo scambio con i collaboratori e i partner commerciali mi piace molto.
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“Chiunque si occupa seriamente del concetto di sostenibilità comprende rapidamente che tutto ciò non ha nulla a che vedere con un pensiero a breve termine.”
Daniel Freitag
CHE COSA SIGNIFICA PER VOI LA SOSTENIBILITÀ? Daniel: Chiunque si occupa seriamente del concetto di sostenibilità comprende rapidamente che tutto ciò non ha nulla a che vedere con un pensiero a breve termine. Esistono degli interventi ecologici sensati, realizzabili a breve termine, ma moltissimo deve essere pensato a lungo termine con una visione globale. Sono convinto che ciò è essenziale per l’ambiente e per la società e che queste strategie si diffonderanno ampiamente. 50
QUALI CARATTERISTICHE PERSONALI SONO NECESSARIE COME UNO DEI FREITAG BROS.? Markus: Restare fedeli a se stessi, significa tenere i piedi per terra e comprendere sempre nuovamente i contesti e le condizioni, non perdere di vista “tutto l’insieme” e delegare molto. QUALI SONO LE PREOCCUPAZIONI NELLA QUOTIDIANITÀ LAVORATIVA? Markus: A dire il vero, l’unica preoccupazione è che la giornata è troppo corta per sbrigare tutte le incombenze. ◆◆◆
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Oltre il cielo Da saldatrice a pilota: la vera storia di Marina Popovich
Si dice che “the sky is the limit”. Ma la vita di Marina Popovich, “Madame Mig”, come la chiamavano negli anni della cortina di ferro, è una vita che coi luoghi comuni ha ben poco a che vedere. Per conoscerla, è più utile uno dei mille aneddoti che la riguardano: è il 1950, non ha ancora vent’anni. Una mattina si presenta all’aerodromo di Tušino, a Mosca, con una dichiarazione firmata da Kliment Vorošilov, presidente del Presidio del Consiglio Supremo dell’Unione Sovietica. La lettera – ottenuta pochi giorni prima su indicazione di Nikolai Kamanin, già eroe nazionale e futuro selezionatore dei cosmonauti, quelli che alla faccia degli Stati Uniti raggiungeranno lo spazio per primi – comanda che la ragazza sia sottoposta ai test di volo per l’ammissione all’aeronautica militare.
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Dopo la fine della guerra, quando i reggimenti d’aviazione costituiti da donne erano solo tre, l’indicazione per le compagne è di partorire i futuri assi del cielo, non di farne parte. Ma Marina Popovich, nata Vasiliyeva il 20 luglio del 1931 a Leonenki, in Russia, la pensa in modo diverso. Oggi, a 67 anni di distanza, è una leggenda dell’aviazione, Eroe del lavoro socialista e Ordine del coraggio assegnatole nel 2007 da Vladimir Putin. È la prima donna ad aver superato il muro del suono, nel 1964. Vanta 102 record stabiliti su 40 tipi di velivoli diversi in 5600 ore di volo. E una stella a suo nome nella costellazione del Cancro. Quando le si chiede di presentarsi, però, dice tutt’altro. SIGNORA POPOVICH, LEI COME SI DEFINIREBBE QUINDI? Sono una poetessa, un’ingegnere e un’ex pilota di classe uno. COME È INIZIATO TUTTO? COME ANDÒ QUELLA MATTINA A TUŠINO? Dopo 24 mesi di rifiuti da parte dell’accademia mi presentai all’aerodromo con la lettera di Vorošilov. E quando arrivai mi si gelò il sangue. PERCHÉ? Sulla pista, per l’esame, c’erano tre Yak, apparecchi ben diversi da quelli su cui avevo imparato a volare a Novosibirsk. 15 minuti prima del test, con l’aiuto di un altro candidato, scrissi su un foglio le tecniche di pilotaggio di quell’aereo sconosciuto, le velocità di decollo, i parametri delle figure acrobatiche. Poi, quando arrivò il generale Balashov, l’esaminatore, gli chiesi un cuscino. 54
“Una volta diventata pilota, capii che il mio obiettivo era un altro: dovevo diventare collaudatrice.”
UN CUSCINO? Sì. Con i miei 160 centimetri d’altezza non arrivavo alla pedaliera dell’aereo. In tutta risposta Balashov mi chiese se volessi anche una bambola, per mettermi a mio agio. Ma non ne ho mai avute e glielo dissi. Quindi, sistemato il cuscino, decollai. Feci tutte le manovre richieste, mi spinsi anche a un avvitamento e poi atterrai. Un rientro rivedibile, a essere onesti.
COME ARRIVÒ AD ARRUOLARSI? Durante la guerra la mia famiglia decise di scappare. Partimmo per la Siberia, alloggiando prima ad Ojash, per arrivare due mesi dopo a Pushkarivka. Da lì a Novosibirsk . DOVE DECISE DI ISCRIVERSI ALL’ISTITUTO AERONAUTICO... A dire il vero a una scuola per saldatori, perché l’anno precedente, i miei voti non erano abbastanza buoni per l’aviazione. Quando il mio nome non comparve fra gli ammessi ai corsi di pilotaggio diedi di matto. Solo Igor Karpinskij, che nella zona era un aviere piuttosto noto, riuscì a calmarmi, promettendomi che mi avrebbe insegnato a volare al vicino aeroclub. Fu proprio così. Ricordo il mio primo decollo in solitaria come fosse ieri. Spingersi oltre, percepire il limite come un nuovo punto di partenza. Non è come dirlo o scriverlo: fra gli anni ’50 e ’60 i collaudatori di velivoli sperimentali morivano al ritmo di uno la settimana. Gli aerei di Marina Popovich presero fuoco due volte in volo. La prima si salvò non si sa come dopo essere precipitata. La seconda, nel ’66, a bordo di uno Yak 25, riuscì ad atterrare con un motore fuori uso e quasi senza carburante. A riceverla una delegazione intera: aveva appena superato di 244 chilometri il record mondiale di percorrenza, che era americano.
ANDÒ BENE? Balashov mi diede il massimo dei voti. «Soprattutto perché questo aereo lei non l’ha mai visto prima», disse, lasciandomi di stucco. Gli domandai come lo sapesse: «Se no avrebbe sistemato la pedaliera, è regolabile», rispose ridendo. Da quel momento ero un cadetto dell’aeronautica sovietica. E la ragazza più felice del mondo. 55
COSA AMAVA DELLA SUA VITA DA PILOTA? Mi torna distintamente alla memoria la gioia che volare da sola, manovrando un velivolo come fosse una parte di me, seppe regalarmi. In quel momento la rabbia che mi aveva trascinato per anni, anche dopo la guerra, svanĂŹ di colpo. Fu sostituita da un senso di responsabilitĂ profondo, quasi solenne, nei confronti delle persone che potevo e dovevo proteggere. Dando sempre il meglio di me. Alzando, giorno dopo giorno, le mie aspettative. Per questo, una volta diventata pilota, il mio obiettivo fu subito un altro: avrei testato gli aerei migliori che i nostri ingegneri avessero costruito. Dovevo diventare collaudatrice. Ce la feci otto anni dopo, passando in 24 mesi dalla terza alla prima classe.
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EBBE MAI PAURA? Un collaudatore non può averne. Il suo obiettivo è portare l’aereo al limite, carpirne i segreti e spiegarli agli altri. Non lo fai per te, ma per chi piloterà dopo e per le persone sopra le cui teste voli. La priorità non è la tua sicurezza, ma la loro. E TEMETTE MAI PER SUO MARITO, UNA VOLTA DESTINATO ALLO SPAZIO? Eravamo certi che gli ingegneri, soprattutto dopo alcuni incidenti all’inizio del programma, avessero tutto sotto controllo. E così era. Peraltro cosa avrei dovuto temere? Un lancio nello spazio era meno complesso del collaudo di un aereo sperimentale. Cosa che non mancai mai di ricordare a Pavel: cantava meglio di come pilotasse. Aveva una voce bellissima.
Già durante gli studi aveva incontrato l’uomo che avrebbe sposato. Era un cadetto anche lui. Al primo appuntamento gli aveva regalato un mazzo di margherite, il fiore degli aviatori, colte accanto alla pista di Novosibirsk. Pavel Popovich era rimasto così colpito dal gesto, che più di 10 anni dopo, il 12 agosto del ’62, avrebbe portato quel bouquet, fatto essiccare, sulla Vostok 4, in orbita.Poco dopo il matrimonio, Marina e Pavel furono trasferiti alla nascente Città delle Stelle, vicino Mosca. Iniziato il programma di reclutamento nel maggio 1959, superarono entrambi la selezione dei primi astronauti. A quel punto, per Marina, il confine da raggiungere divennero le stelle. Il suo lavoro era fra i più pericolosi.
INVIDIAVA A SUO MARITO IL FATTO CHE SAREBBE STATO IN ORBITA? Al contrario, ero orgogliosa. E sicura che l’avrei seguito; il progettista capo del programma spaziale Sergej Korolëv e Kamanin non mi avevano ancora chiamata perché moglie di un cosmonauta, o per chissà quale motivo, pensavo. Ero un collaudatore di prima classe, pilotavo ogni giorno le macchine volanti migliori del paese. E, detta tutta, non so nemmeno se ci avrei rinunciato per fare qualche giro attorno alla Terra. CHE COSA PENSÒ QUANDO FU NOTO CHE LA PRIMA COSMONAUTA SAREBBE STATA VALENTINA TEREŠKOVA? Avevo passato la prima selezione ma non fui ammessa fra le 5 finaliste annunciate nel febbraio 1962. Nessuno mi spiegò mai perché. Si dice abbia deciso Nikita Krusciov in persona: riteneva perfetto lanciare nello spazio una lavoratrice senza particolari competenze di volo. 57
“Se nella tua vita non hai incontrato difficoltà, esci e comprale.”
POCHI GIORNI DOPO L’ATTERRAGGIO VALENTINA TEREŠKOVA FU NOMINATA EROE. LEI COME LA PRESE? Continuai serenamente a lavorare. Ripresi anche a studiare per diventare docente universitario. Per quanto fossero notizie riservate, sapevamo che il volo di Tereškova non era stato strepitoso. Non per colpa sua, sia chiaro. Ma nei tre giorni in orbita si sentì male (ai tempi, non si conoscevano gli effetti di una prolungata assenza di peso, ndr) e durante l’atterraggio si ferì. La notizia peggiore fu che Korolëv impose che nessun’altra donna venisse più lanciata. Fu quello a diffondere il malcontento. 58
È UNA LEGGENDA DELL’AERONAUTICA; HA RIMPIANTI? Nessuna leggenda; ci sono stati e ci saranno piloti migliori di me. Sono però orgogliosa di essere diventata una collaudatrice di prima classe. C’è un detto giapponese che amo: “Se nella tua vita non hai incontrato difficoltà, esci e comprale. Solo affrontandole potrai dirti uomo”. Sono sopravvissuta alla malaria, alla carestia, alla guerra; poco prima di iniziare l’accademia rischiai di non poter più pilotare per un assideramento. Rimasi 5 mesi in ospedale. Eppure, ho volato tutta la vita. Sa qual è il segreto? La pazienza. Che con l’impegno può portare ovunque. DAVVERO NIENTE CHE VORREBBE FARE E NON HA FATTO? Andare sulla Luna, guardare anche il mio cielo dall’alto. E non escludo che lo farò. Ho pazienza. ◆◆◆
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Tbilisi 2.0
Cronaca di una rivoluzione sociale e culturale Ritorniamo ai tempi in cui la Georgia - un paese delimitato dal Mar Nero e dalle montagne caucasiche - era segregato dietro alla cortina di ferro. Già a quei tempi era considerato la california dell’URSS. Decisamente più piccolo della Carolina del Sud, ma dal terreno di grandissima versatilità, questo fertile paese ha grande reputazione per la produzione di frutta e ortaggi eccezionali, vini eccellenti e talentuo 61
Sospesa fra passato e futuro, la capitale della Georgia sta vivendo un rinnovamento mai visto prima.
si filmmakers. Negli anni ha grande reputazione per la produzione di frutta e ortaggi eccezionali, vini eccellenti e talentuo settanta, per gli abitanti dell’unione sovietica, visitare Tbilisi era come arrivare ad Oz, improvvisamente tutto si trasformava, da bianco e nero tutto
New 62
assumeva un nuovo colore. Oggi la cittĂ sta vivendo una forte rivoluzione culturale, caratterizzata da una crescente apertura al resto del mondo nel campo del turismo e di tutte le arti, che la sta rendendo una delle mete piĂš interessanti da esplorare in questi anni. Tbilisi ha visto una crescita
di designer e giovani imprenditori che hanno apportato un frizzante tocco glamour al paese. Essendo sopravvissuta alla guerra civile nei primi anni ’90, e successivamente a una rivoluzione post sovietica nei primi 2000, Tbilisi ha riconquistato potente e rinnovata ambizione. Segni della sua reinvenzione sono evidenti ovunque. Lo si può vedere sulle boulevard in stile parigino che accostano il fiume Kura, ora attraversato dall’installazione a forma di fiocco di Michele De Lucchi, il Ponte della Pace; nella proliferazione di nuovi ristoranti, che offrono piatti della tradizione Persiana, ma anche di ispirazione asiatica; e nella scena di musica elettronica di spicco, che, in qualche modo, possiamo considerare rivale di Berlino. L’omofobia rimane ancora un grosso tabù, ma il grande afflusso di giovani turisti internazionali sta stimolando sempre di più un’apertura mentale. La città è eccentrica, un vero e proprio miscuglio di influenze architettoniche offre un’identificabile timeline di occupanti creatasi nel tempo: Persiani, Bizantini, Ottomani, Russi e Sovietici. Una fortezza medievale
si erige sopra una distesa di ville in stile Art Nouveau, monumenti brutalisti e ville moderne di miliardari, alcune delle quali fluttuano sopra alla città come fossero degli ufo.
Old 63
Le radici della cucina locale si ricollegano al passato, in particolare al VI secolo, quando Tbilisi era famosa per essere un polo commerciale di fermata sulla strada per la seta. Si può gustare il mondo intero assaggiando i piatti locali; la focaccia azzima tradizionale viene cotta in forni di argilla, simili ad un tandoori, e i khinkali, ravioli in brodo tipici, possono competere con quelli di Hong Kong. L’uva del Georgia risulta avere una tradizione ancora più fondata ed antica, il vigneto coltivato più antico conosciuto al mondo si trova infatti nel sud del Caucaso. Tanti coltivatori di vino stanno ora riportando alla luce e ridefinendo 64
il metodo di produzione kvevri, vecchio 8000 anni, il quale implica la conservazione del vino sottoterra, in vasi di terracotta. I vini dal colore ambrato in particolare, prodotti dalla fermentazione dell’uva bianca con la buccia, stanno ottenendo grande successo tra gli esperti internazionali. Non berrete mai da soli.
I georgiani, a quanto pare, hanno un innato bisogno di fare festa e sono aperti a chiunque volesse aggiungersi, soprattutto se con una buona tolleranza all’alcool.
PE OP LE Il rinnovamento di Tbilisi è reso possibile dai visionari che guidano la trasformazione creativa della città : imprenditori, attivisti, filmaker‌ Ecco le le storie di alcuni di loro
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ELENE MARGVELASHVILI Attivista Elene Margvelashvili, 25 anni, ha recentemente abbandonato una promettente carriera come conduttrice di talk show per dedicarsi interamente ad una campagna in favore dei diritti dei pedoni e degli spazi pubblici. Non sono molti i ventenni che rinuncerebbero a presentare uno show che va in onda ogni notte su una grande rete televisiva, specialmente se lo si fa per dedicarsi alla causa di salvare la città. Ma è anche vero che non ci sono molte altre città ricche di ispirazione - e in pericolo - come Tbilisi. Ci siamo incontrati in un edificio semi-abbandonato sulle sponde del fiume Mtkvari, una vecchia stazione per autobus degli anni ‘50. Gli ornamenti e il colonnato fanno intuire la sua passata importanza. Oggi un’officina, un parcheggio e un’improvvisata latrina per tassisti oscurano la decadente eleganza della costruzione, ma non per Elene. «Uno strumento che usiamo per ristabilire la connessione tra le persone e la città è l’arte pubblica», spiega. «Uno degli artisti con cui lavoriamo ha scelto di 66
provare a salvare alcuni pezzi di un edificio che stava per essere abbattuto. Data la sua rilevanza architettonica, abbiamo portato i pezzi qui, in un altro edificio a rischio di demolizione. Si tratta di un atto simbolico, perchè questo è uno spazio che era dedicato al trasporto pubblico». L’organizzazione di Elene, Iare Pekhit (Andare A Piedi) lavora per salvare Tbilisi da sé stessa grazie all’arte, all’attivismo e alla costruzione di una connessione tra le persone e gli spazi
pubblici - da qui la scelta di creare installazioni negli edifici abbandonati. «L’arte pubblica è un buon mezzo per creare questa connessione, perchè porta le persone a visitare questi spazi e a viverli in un modo totalmente nuovo. Si tratta di creare nuovi spazi pubblici in posti dove nulla normalmente accade, di stabilire una specie di legame, una specie di rinascita. E quando questi posti vengono messi in pericolo - un avvenimento molto probabile a Tbilisi quando qualcuno vuole sostituirli con un albergo o un ristorante, ci saranno persone che considereranno importanti questi posti, che ci saranno stati, ci avranno passato del tempo, ci avranno portato i propri bambini per giocare e così via». La lotta di Elene e dei suoi compagni attivisti è tutta in salita. L’ultimo piano regolatore di Tbilisi, una città con una popolazione superiore al milione, risale a prima della caduta dell’Unione Sovietica. Nei successivi 25 anni, economiche auto di seconda mano hanno riempito le strade fino a intasarle ed edifici mediocri hanno rimpiazzato, strada dopo strada, le eleganti costruzioni del diciannovesimo decolo. Le emissioni dei veicoli e la polvere dei cantieri, combinate insieme, hanno reso la qualità dell’aria una tra le più scadenti al mondo - tutto questo mentre gli alberi più antichi sono abbattuti e gli spazi verdi vengono cementificati. «Tbilisi una volta era urtiertoba,» dice Elene, usando un termine che alla lettera significa “unità di persone”. «Tbilisi era una città costruita sulle relazioni, sullo stare insieme, sulla comunicazione fra le persone. Era quasi un cliché». Elene è qui per assicurarsi che quello spirito di unità e condivisione continui a esistere.
“Usiamo l’arte pubblica per ristabilire la connessione tra le persone e la città.” 67
LEVAN KOGUASHVILI Regista Ho incontrato Levan Koguashvili, uno dei registi cinematografici più discussi e talentuosi del momento, sul terrazzo in legno levigato di un’antica villa che appartiene alla sua famiglia dall’inizio del ventesimo secolo. Una rara eccezione nella città di Tbilisi, visto che la maggior parte delle ville lussuose appartenute alle ricche famiglie sono state convertite in case popolari oppure demolite. Nonostante la location idilliaca Levan crede the Tbilisi sia cambiata profondamente. «Tempo fa vivere quì era come vivere in un piccolo villaggio, dove tutti conoscono tutti. Oggi la città ha un’aurea completamente diversa e ancora quasi non la riconosco» dice men68
tre mi aiuta a tagliare delle fette di anguria. Questo non dovrebbe suonare troppo strano, visto che Levan ha passato sei anni perfezionando le sue abilità da regista a New York. «È stata un’esperienza che mi ha aperto gli occhi,» mi dice. «Negli anni novanta andai in una rinomata scuola di cinema a Mosca e fu lì che mi innamorai del cinema, ma fu vivendo e studiando a New York che diventai un vero regista». Questo mix di background artistici ha portato molti critici a comparare Kogua-
“Amo documentare momenti strani, per trovare ciò che c’è di comico nella vita”
shvili ad altri grandi del cinema georgiano come Otar Ioseliani e Zaza Urushadze, i lavori dei quali hanno introdotto nuovi stili e tecniche narrative nella tradizione cinematografica che ancora gira intorno al mondo sovietico. «Certamente sento molte influenze dall’estero ma più di tutto mi sento profondamente connesso alla ricca storia del cinema georgiano, con la sua unica abilità di raccontare una storia triste con umorismo,» dice Levan che è tornato a Tbilisi nel 2008 trovandosi nell’epicentro di una scena artistica che stava per esplodere. «Sono stato costantemente occupato dal momento del mio ritorno filmando, scrivendo e pensando. Non ricordo di aver passato un solo giorno senza far niente», afferma insistendo nel dire che le scarse strutture e budget ridotti non fermeranno i giovani locali dall’entrare nell’industria cinematografica. Per il suo ultimo film Blind Dates, ha preso la decisione di assumere attori amatori perché credeva che recitassero meglio dei professionisti. Il film ha ricevuto ottime critiche ed è stato proiettato a numerosi festival internazionali. Blind Dates segue le vite di normali abitanti di Tbilisi che si innamorano, si tradiscono, si scontrano e si perdonano -in breve, interpretano loro stessi di fronte alla cinepresa. Il precedente lavoro di Koguashvili Street Days è ambientato anch’esso a Tbilisi, offrendo uno sguardo alla Georgia contemporanea incredibilmente onesto. Anche il suo prossimo film sarà sulla società di Tbilisi? «Non proprio, sto attualmente ultimando un documentario su un uomo che spese quattoridici anni in prigione e una volta uscito riscopre il gusto per la vita in un villaggio remoto. Ha recentemente ritrovato l’amore della sua vita su un sito di incontri online che è estremamente sovreppeso. Amo documentare momenti strani, per trovare ciò che c’è di comico nella vita».
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PAKO SABELASHVILI Attivista LGBT La piazza che si trova di fronte al palazzo del parlamento georgiano, costruito in periodo staliniano, è conosciuto per essere da tempo il luogo delle proteste a Tbilisi. Fulcro di massacri, di rivoluzioni ( e di un pogrom anti-gay), è sicuramente il luogo adatto per incontrare un attivista georgiano di nuova generazione. «L’attivismo è un virus incurabile – una volta infettato non puoi più tornare indietro» Pako Sabelashvili combatte in prima linea nella lotta per la giustizia sociale in Georgia, sin dal lontano 1990. Lavorare per proteggere i diritti degli emarginati sociali e dei diseredati è diventato piano piano parte della sua vita. 70
«L’attivismo è un virus incurabile – una volta infettato non puoi più tornare indietro» ci racconta. «Sono sempre stato infettato da cose del genere durante la mia vita. Sai, essere cresciuto nella Georgia degli anni 90, significa crescere in un sistema pieno di ingiustizie Inizialmente ho collaborato con una ONG che si occupava di diritti per i disabili, dopodichè ho lavorato per un’organizzazione che cercava di rivendicare i diritti degli sfollati, infine mi sono concentrato sull’attivismo LGBT, perchè sono omosessuale e in questo paese ci sono tantissime cose che mi impediscono di vivere serenamente. Ho deciso di non lasciare il paese per trasferirmi dove altre persone avevano già lottato per l’eguaglianza prima di me, ma piuttosto farlo qui».
“Ho scelto di non trasferirmi altrove, ma di continuare a lottare qui” 71
VALERI CHEKHERIA Imprenditore Chekheria è uno degli attori della trasformazione creativa che è in corso a Tbilisi. Il boom artistico che la città sta vivendo è in parte alimentato dal costante afflusso di figure dai mondi del design, del cinema e dell’arte. Secondo l’imprenditore molti di loro hanno scoperto la nazione grazie a Room Hotels, un binomio costituito dall’elegante sede nella capitale e dal sanatorio di età sovietica convertito in albergo, situato fra le catene montuose un centinaio di miglia più in là. Con la recente apertura dello spazio multifunzionale Fabrika - che coniuga un ostello, aree per il co-working e quartieri creativi - Adjara Group, l’azienda per cui lavora 72
Chekheria, vuole attirare i creativi che vorrebbero viaggiare con un budget più ridotto. «Fabrika diventerà un terreno di coltura per i nuovi talenti georgiani. è stato progettato come luogo di incontro fra i locali e i viaggiatori da tutto il mondo, per manifestare la propria creatività e imparare gli uni dagli altri» aggiunge Chekheria, che stenta a trattenere l’entusiasmo. Mentre ci vengono portate due tazze di caffè, mi guardo intorno nella lobby del
Rooms Hotel. La combinazione di mobilio vintage, pannelli di legno, lastre di cemento e dettagli che richiamano il periodo sovietico rivelano la particolare sensibilità estetica per cui i designer e gli architetti georgiani sono conosciuti. Dietro a Chekheria vedo un quadro che rappresenta una donna mentre cavalca una zebra, dipinto dall’artista contemporanea Eteri Chkadua. Chiedo a Valery se sia stato difficile raccogliere gli elementi di design. «No, li abbiamo fatti arrivare da tutto il mondo. è una collezione genuinamente internazionale, assemblata da designer georgiani». Chekheria si è laureato alla Columbia University di New York, prima di tornare i Georgia e di entrare nel gruppo Adjara nel 2011. Spesso menziona il ruolo fondamentale di Rooms Hotel nell’ispirare la nuova generazione di creativi georgiani. «Nessuno pensava che si potesse costruire un albergo di respiro globale in uno stato di cui pochi avevano sentito parlare, e trasformarlo in una destinazione popolare. Il nostro esempio ha incitato gli imprenditori georgiani ad alzare l’asticella e a lanciare nuovi progetti» dice, sorridendo e facendo un cenno ad un passante. Mentre parliamo di come si potrebbe rendere la Georgia più attraente per i turisti stranieri, Chekheria rimarca la sua convinzione che la risorsa cruciale del suo paese saranno sempre le persone e la loro ospitalità senza limiti. «La parte migliore del nostro hotel è il personale», aggiunge. «Non potrei essere più orgoglioso di questi ragazzi. Abbiamo provato ad assumere
“Il nostro esempio ha incitato gli imprenditori georgiani ad alzare l’asticella e a lanciare nuovi progetti”
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persone giovani e dalla mentalità aperta, che volessero lavorare in un posto bello e divertente come questo. Il loro entusiasmo è quello che mi guida e che porta Tbilisi nella giusta direzione». Fabrika è un centro culturale nato dall’idea di un gruppo di giovani georgiani come spazio dedicato alle menti ribelli per creare, condividere, socializzare o semplicemente passare una notte. Un tempo era una fabbrica tessile sovietica, ora trasformata e rimessa in vita 74
FABRIKA
Il cuore di questa rinascita ha sede negli spazi di aggregazione, dove si condividono idee, si discute e nascono contaminazioni culturali e ideologiche. Tra gli svariati locali e ambienti spicca Fabrika.
come spazio multifunzionale, accomunando così persone pronte a mettersi alla prova con nuove esperienze creative. Lo spazio continua a vivere oggi come punto d’incontro principale della città, rigorosamente in stile urban, nel quale si riuniscono bar, studi di artisti e negozi, spazi di co-working, l’ostello più grande della regione e un cortile enorme in cui potersi rilassare. Lo spazio ospita qualsiasi tipo di eventi e offre un calendario ricchissimo, sia per gli ospiti internazionali che per i locali. Questo luogo di raduno evoca vibrazioni positive e serenità, proponendo così una nuova visione della città, conseguente alla sua rinascita. ◆◆◆
Un tempo una fabbrica tessile sovietica, ora trasformata e rimessa in vita come spazio multifunzionale
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«Banca addio, aggiusto le biciclette»
Lasciare un posto in banca per dedicarsi alle biciclette. Investire sul futuro a partire dalle intramontabili due ruote, il mezzo di trasporto più economico. È la storia di Marco Bolle, 31enne laureato in economia, che insieme ad altri due giovani ha dato vita nel multietnico quartiere torinese di San Salvario alla “Ciclofficina artigiana”, inaugurata in marzo. «Ho iniziato come hobby, poi ho capito che volevo lavorare nel mondo delle bici. Ho imparato il mestiere da autodidatta. Quello delle biciclette? Un settore in cui mi è sembrato che si potesse investire, visto che i tanti che non si possono più permettere l’auto si spostano il più possibile in bici. Nella bottega si effettuano riparazioni, saldatura, recupero di componentistica, restauro di bici antiche, realizzazione di telai da due o tre ruote partendo da semplici tubi. «Da aprile a novembre abbiamo avuto tantissimi clienti, mentre durante l’inverno l’attività è più tranquilla», spiega Bolle che ama questo mestiere «perché si lavora con le mani, si sta a contatto con la gente e si diffonde la cultura della mobilità lenta, umana». 78
La storia di Marco Bolle
Per dedicarvisi si è licenziato dalla banca, dove «non aveva alcuna soddisfazione dalla vita sedentaria in ufficio», e attraverso l’as sociazione “MuoviEquilibri” ha seguito la nascita di alcune ciclofficine popolari, dove chiunque può riparare da sé la propria bici, assistito da professionisti. Per passare dall’hobbistica alla professione, Marco si è messo in società con altri due giovani, Giorgio Fox, laureato in ebraico biblico, e Luca Galliano, che per dedicarsi alle bici ha lasciato i suoi studi al Politecnico. «Il nostro investimento è stato minimo: avevamo già l’attrezzatura e abbiamo trovato un locale con un affitto basso che abbiamo ristrutturato da soli», spiega Marco. Il locale è piccolo, «così cerchiamo di riparare le bici sul momento, perché non abbiamo un magazzino in cui depositarle». In città esiste una forte comunità di ciclisti, come dimostra ad esempio il successo del bike pride, e realtà come la ciclofficina di San Salvario sono tutt’altro che isolate. Inoltre, il servizio comunale di bike sharing, inaugurato nel 2010, ha registrato negli ultimi sei mesi il 30% di crescita degli abbonamenti, arrivati a quota 18mila. Per Marco Bolle aver abbandonato una certezza per inseguire con tenacia i propri sogni, rappresenta ad oggi una vittoria personale oltre che un aiuto alla sua comunità. ◆◆◆ 79
Reinvention of normal
Dominic Wilcox 81
Dominic Wilcox è un artista, designer, inventore e una vera e propria fucina di idee che lavora nel territorio della quotidianità: gli oggetti di tutti i giorni, l’ambiente, gli edifici, le interazioni umane, nessuna area di normalità è fuori dalla sua portata.
Il suo lavoro, che in genere è caratterizzato da un forte sarcasmo, punta il riflettore sulla banalità, aggiungendo sempre qualcosa di nuovo e dando una prospettiva alternativa sulle cose che diamo per scontate. I suoi lavori sono stati esposti in tutto il mondo e venduti in negozi come Moss a New York e Selfridges a Londra. È stato commissionato anche per alcune opere anche da Nike, Esquire magazine e dall’organizzazione benefica Helena Christensen.
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La rivista di design e architettura Icon ha anche presentato alcuni bozzetti delle invenzioni di Dominic nei suoi numeri sotto il titolo “The lost sketchbooks”. Fin dall’inizio dei suoi studi, Dominic ha sempre intuito che nell’arte ci fosse qualcosa in più che la mera rappresentazione pittorica di soggetti e paesaggi. Da allora l’artista ha ideato un suo modo di percepire gli oggetti e, ingaggiato da persone e organizzazioni per l’ideazione di soluzioni creative e interessanti, si diverte a progettare donando loro nuova vita e un utilizzo del tutto particolare e inaspettato. ◆◆◆
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Andrea Caschetto
Viaggiatore a memoria zero Ognuno ha un proprio progetto, un desiderio da realizzare. Quello di Andrea Caschetto, 26enne di Ragusa, è quello di giocare con tutti i bambini orfani del mondo e regalare loro tanti sorrisi. Invece di lasciare questo
sogno nel cassetto, ha preso lo zaino, il naso rosso da clown, palloncini, fogli di carta, pennarelli, matite ed è partito con un budget ridottissimo e come bussola il suo cuore. A dispetto di chi, dopo l’operazione che ha affrontato per rimuovere il tumore in testa, gli aveva detto che era destinato a una vita sedentaria e tranquilla, perché avrebbe sofferto di gravi problemi di concentrazione e di una sorta di stanchezza cronica. Quello che ha visto, le esperienze che ha vissuto, le storie delle persone che ha incontrato, le ha poi racchiuse in un racconto appassionato e coinvolgente, denso di emotività, di energia e di felicità contagiosa, in libreria da ottobre: “Dove nasce l’arcobaleno”. Andrea ha deciso che devolverà in beneficienza tutti i proventi derivanti dalla vendita del suo libro. 85
A 15 anni sei stato operato alla testa per un tumore e poco dopo hai scoperto che avevi una capacità mnemonica ridotta, i ricordi latitavano e si confondevano. ma non ti sei arreso ai fatti, hai capito che potevi trattenerli con le emozioni, ancorarli con il cuore. COME E QUANDO L’HAI SCOPERTO? COME HA CAMBIATO LA TUA VITA? Dopo l’intervento la mia concentrazione era pessima. Non memorizzavo più niente, per tutti ero diventato “memoria zero”, un soprannome che adoravo. A 17 anni ho avuto l’occasione, grazie ad una Onlus, di andare in Sudafrica per l’apertura di un centro pediatrico in un quartiere desolato di Pietermaritzburg, una città tra Durban e Johannesburg. Qui per la prima volta ho visitato un orfanotrofio e ho giocato con i bambini. Quando sono tornato in Italia, ero sorpreso: rispetto agli altri viaggi che avevo fatto, questa volta mi ricordavo tutti i volti dei piccoli che avevo conosciuto, cosa avevo mangiato, le attività che avevo svolto, le sensazioni che avevo provato. Così grazie a delle ricerche su Internet, ho scoperto che tutto quello che colpisce i nostri sentimenti passa dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine e lì resta per sempre. E che potevo ricordami di ogni cosa se associavo le emozioni alle immagini. Ho adottato questo metodo e ho ottenuto dei risultati incredibili: mi sono laureato, ho preso un master e ho imparato quattro lingue. Ho imparato a scegliere i ricordi, a selezionarli, perché lo spazio è poco e voglio riempirla solo con quelli positivi. Ognuno di noi può decidere di farlo, stabilire cosa trattenere e cosa lasciare andare per vivere felici. Ti sei scontrato con realtà dure e dolorose a rischio talvolta della sua stessa vita. Non deve essere stato facile. COSA TI HA GUIDATO FINO IN FONDO A QUESTO VIAGGIO? La felicità che ho provato quando i bambini negli orfanotrofi mi dicevano che da grandi volevano essere come me. Sorridere è la chiave per entrare in contatto con il cuore di chi incontriamo lungo la strada. E’ internazionale, è lo stesso in tutte le lingue del mondo ed è l’unico mezzo per comunicare con ogni persona, anche quella che crediamo siano più diversa e lontana da noi. ◆◆◆ 86
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