I rapatori di teste

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Marco Moschini

Una dolcissima fiaba sulla diversità

E 7,00

I rapatori di teste

quelli di paesi lontani. Esperto di pedagogia e scrittore per l’infanzia, ha pubblicato fiabe, filastrocche e saggi per numerose case editrici. In questa collana ha pubblicato “L’alfabeto incantato” (2007).

998 di Cingoli 1

Marco Moschini scrive per divertire i bambini, anche

ittà Premio C

Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE,­ GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n° 633, art. 2 lett. d).

Qui si narra di erbe straordinarie, di pipì fosforescenti, di un cielo coi buchi e un prato stellato, e di feroci rapatori di teste. Ma anche di un bambino diverso e del suo coraggioso compagno di banco, e della loro amicizia delicata e sensibile. Perché si può parlare di temi importanti, anche con il sorriso sulle labbra.

Marco Moschini

I rapatori di teste

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Serie rossa



Per volare con la fantasia

12 Collana di narrativa per ragazzi


Redazione: Emanuele Ramini

Ufficio stampa: Salvatore Passaretta Team grafico: Letizia Favillo

Nuova Edizione 2009 1a Edizione 1999 Ristampa 7 6 5 4 3 2 1

2018 2017 2016 2015 2014 2013 2012

Tutti i diritti sono riservati © 2009 Raffaello Libri Srl Via dell’Industria, 21 60037 - Monte San Vito (AN) e-mail: info@grupporaffaello.it www.grupporaffaello.it e-mail: info@ilmulinoavento.it www.ilmulinoavento.it Printed in Italy

È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di ­questo libro senza il permesso scritto dei titolari del copyright.


Marco Moschini

I rapatori di teste

Illustrazioni di

Vinicio Salvini


a Francesco e a Michele

“Erbacce� sono quelle piantine di cui non sono stati ancora scoperti i pregi


Il mio maestro C’era una volta il mio maestro.

Anche lui aveva le mani sporche di gesso, la matita rossa e blu e gli occhiali appoggiati sul naso, ma era un maestro diverso da tutti gli altri perché aveva perduto la pazienza e non riusciva più a trovarla. L’aveva cercata dappertutto: in fondo alle tasche, in mezzo ai libri, nel cassetto della cattedra e perfino sotto i banchi. Niente. Non c’era più. E si disperava. – Come faccio se un alunno sbaglia? Chi mi darà la pazienza per rispiegargli tutto da capo una volta, due volte, tre volte? Mi dovrò arrabbiare per forza!… E così a scuola faceva i salti fino al soffitto, diventava rosso come un palloncino rosso e urlava, urlava… da far tremare la lavagna! 5


Il peggio, però, per il povero maestro doveva ancora arrivare. Ormai i bambini avevano cominciato a non considerarlo più un amico, a non volergli bene come una volta, a non cercarlo… Insomma non lo riconoscevano più. E una mattina, mentre stava urlando, si accorse di non spaventare più nessuno, anzi, tutti si comportavano come se lui proprio non ci fosse. Poteva sbraitare, dare i pugni sulla cattedra, saltare sui banchi, buttarsi dalla finestra… e quelli niente. Sembrava che non lo sentissero e non lo vedessero. Infatti stava scomparendo. Per l’esattezza stava diventando trasparente. Dallo spavento inghiottì il gesso e si pulì la bocca col cancellino. Chiamò la bidella. Elia arrivò subito. – Che c’è maestro?… Ma dov’è il maestro?… Chi ha suonato? Siete stati voi, eh?! Lo farete morire un giorno o l’altro quel poveretto… Discoli siete! Discoli! Non essere visto neanche dalla bidella fu un duro colpo per il maestro e anche una 6


tremenda conferma. Pensò che fosse giunto il momento di svenire e svenne. Appena riaprì gli occhi li richiuse subito. Poi cercò gli occhiali, se li appoggiò bene sul naso e guardò di nuovo. C’era tutt’intorno un paese stranissimo: gli alberi drizzavano al cielo le radici e volgevano a terra le foglie; le case… erano tutte storte! – Prendetelo! È un maestro! E fu subito circondato. – Ma… chi siete? – balbettò con un filo di voce. – Siamo gli errori! Quelli che fanno i bambini e anche i grandi. Perché ci dai la caccia? Che cosa ti abbiamo fatto? – Co… come avete fatto a vedermi? Ero diventato invisibile… – È vero, ma noi i maestri li riconosciamo dalla puzza!… – Cancelliamolo! – urlò un errore inferocito. – Non è giusto… non può essere vero… non vi conosco… 7



– Io sono il 3+2 e volevo fare 6 ma tu mi hai costretto a fare 5. Ho provato a insistere ma tu mi hai sepolto sotto una croce rossa e blu! Il povero maestro si sentÏ morire.


– E cosa dovrei dire io, che non ti sta mai bene dove mi metto? – era l’h, che alzò la zampetta e gli diede un calcio nel sedere. – Aiuto! – urlò il maestro. – Buttiamolo nel lago dell’inchiostro! – gridarono tutti. – No! Non ce lo butterete! – esclamò una voce di bambino. Intorno si fece un gran silenzio. Il maestro si voltò. – Pecorello?!… Ma tu… non eri in classe? – Sì – rispose Pecorello avanzando tranquillo in mezzo agli errori, – ma ogni tanto vengo qui quando a scuola mi annoio… E fortuna che sono arrivato adesso! Poi, rivolgendosi agli altri: – Non deve essere buttato nel lago, perché io gli voglio bene! – Questo è già molto, ma vogliamo sapere se sbaglia anche lui! – Un errore l’ho commesso proprio stamattina! – intervenne pronto il maestro che intanto aveva ripreso coraggio. – Non ci sono 10


stato attento e ho perso la pazienza… – Se è così… allora è dei nostri… – mormorò l’accento con una punta d’imbarazzo. – Sarà… ma bisogna tenerlo d’occhio! Non c’è da fidarsi tanto. – Per questa volta gli è andata bene. Deve proprio ringraziare il suo alunno! – Grazie! Se non fosse stato per te, chissà cosa… Ma dove sei?! Pecorello!… Pecorello!!… In quel preciso momento il maestro si ritrovò in classe. – Maestro!… Dov’eri andato che t’abbiamo cercato tanto!? E neanche la bidella t’ha trovato… – Ma Pecorello… non v’ha detto niente? – Ma lui non parla… lo sai che non sa parlare… e poi non s’è mosso. È qui, buono buono come sempre…

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Era stato un incubo!!! Quell’incubo era destinato a lasciare un segno profondo nel fragile equilibrio del maestro, tanto che ne parla ancora con terrore ogni volta che viene a trovarmi in negozio. (Ormai vecchietto, e per i quattro capelli che gli restano, è infatti mio assiduo cliente).* Pecorello, invece, ne era uscito alla grande!... Ma nessuno si congratulò con lui.

* Se muori dalla curiosità di sapere che cosa si vende nel mio negozio, puoi andare a pagina 92. Però aspetta.

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Pecorello Pecorello era il mio compagno di banco.

Il suo vero nome era Leonello, ma era così tenero e mite da somigliare a una pecorella e più ancora a un agnellino. Le gambette erano sottili come le zampe di una cicogna ma corte corte; la testina era completamente pelata e le orecchie perfettamente a sventola. Era sempre molto silenzioso ma ogni tanto schiudeva le labbra e allora tutti udivano chiaramente “tao du du” e perfino “ese’ ese’ pappo”, di cui nessuno conosceva il significato ma che bastavano a dargli un’arietta straniera e a tenere a rispettosa distanza i più fastidiosi della classe. La sua parola più “normale” era PIPÌ, e quella la capivano subito tutti perché non si 13


poteva mai sapere dove la faceva, anche se era annunciata da un vago odore di tiglio. La cosa incredibile, però, era questa: chi ne veniva annaffiato diventava luminoso. Non proprio come una lampadina ma quanto bastava per apparire fosforescente anche in pieno giorno. Questa sua qualità gli aveva fatto guadagnare molte figurine e più d’una merenda. Ma, passato l’iniziale entusiasmo per le firme luminose sui diari e per i cuori fosforescenti, ognuno aveva continuato a giocare con i propri amici e fra questi lui non c’era mai. Sicché la fiammella della sua presenza ardeva inosservata e si sarebbe ben presto spenta se a rinvigorirla non fosse piombata in classe una supplente acida e con le labbra sottili come una lametta da barba. Il maestro, infatti, sarebbe stato assente qualche tempo per rimettersi dal brutto esaurimento che lo aveva colpito. 14


La supplente Per la signorina Zittelli la scuola doveva

insegnare a stare zitti e il suo sogno era un tappo infilato nella bocca di ognuno di noi. Ogni tre parole le usciva un sibilo come quello dei serpenti prima di mordere. – Sssst! Silenzio! Guardatemi negli occhi! Sssst! Non vi girate! Sssst! Pecorello non parlava e per questo non poteva rimproverarlo, ma non lo sopportava per un altro motivo: con lui le minacce non funzionavano. E non avere alcun potere la mandava in bestia. Quello sguardo gelido che c’inchiodava, rimbalzava sugli occhietti di Pecorello assenti e di una serenità impermeabile che lo rendeva superiore a tutti noi. E una mattina accadde che, mentre noi trattenevamo il fiato impietriti, lui, che ama15


va le cose ordinatelle, si alzò pigramente, raccolse da terra ad una ad una le cartacce sparse qua e là sul pavimento e, con tutta calma, le depose come un mazzetto di fiori sulla cattedra dell’esterrefatta signorina Zittelli. Poi la guardò negli occhi con languore, prese un lungo respiro e tirò fuori una parolina di quattro lettere: pipì. – Nooo!! Non ti ci mandoo!! – abbaiò la signorina perdendo il suo controllo glaciale. A quel punto entrò la bidella. – Zittelli al telefono! Bisogna sapere che la signorina Zittelli era tanto rigida con i bambini quanto svenevole e caramellosa con i grandi, soprattutto se erano uomini. Allora faceva lunghi sorrisini melensi che le scoprivano le gengive e la coprivano di ridicolo. E ogni giorno, prima di uscire, arrivava quella telefonata. Come sempre si alzò di scatto mentre le orecchie le diventavano viola, s’aggiustò la camicetta, si spolverò la gonna e sparì a passettini fitti fitti e veloci. 16


Pecorello era rimasto in piedi un po’ soprappensiero, assorto ad ascoltare a bocca aperta un lungo discorso che il suo corpo gli faceva e che noi non potevamo sentire, ma che cominciavamo a indovinare da un certo odor di tiglio e poi dal lucente rigagnolo che si faceva strada giù giù, lungo le gambette sottili, fino all’incontro fatale con il pavimento di graniglia. La pipì dilagò con discrezione, seguendo dapprima il profilo delle mattonelle sconnesse e poi colmando senza pietà gli spazi rimasti asciutti. Conclusa l’operazione, Pecorello staccò i piedini dal centro della pozzanghera e, visibilmente rasserenato, tornò a brucare zitto zitto l’erbetta del suo banco. La Zittelli rientrò a lunghi passi da maresciallo, con le orecchie ancora viola ma decisa a recuperare il tempo perduto. A testa alta e con lo sguardo ormai fisso al dovere, non poteva accorgersi della trappola innescata raso terra. 17


La vedemmo lanciare in alto la gamba sinistra e piroettare con grazia sul piede destro nel tentativo di aggrapparsi alla chiave dell’armadietto; poi allargò le braccia per equilibrare il sedere ma l’altro piede decise lì per lì di staccarsi da terra provocando un incontenibile desiderio di finire sul pavimento. Un tonfo sordo in mezzo al laghetto decretò la fine del volo.


Strinsi a Pecorello, da sotto il banco, la sua manina tozza per congratularmi, mentre uno scintillio leggero ravvivava i suoi occhietti a mandorla. Ma un ben più consistente luccicore faceva risplendere il sedere della signorina Zittelli: le due rotonde metà avevano assorbito buona parte del liquido e la campanella le aveva fatte rialzare prima che la loro proprietaria si riprendesse del tutto. Così, spandendo luce tutt’intorno e sbandando un po’, quel sedere era uscito dal portone tra la folla dei genitori che si apriva per farlo passare e si richiudeva, poi, perplessa e incuriosita.

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L’albero Gli animali erano la mia passione. Con

l’arrivo dell’estate, più di tutti mi attiravano le farfalle. Le inseguivo e poi rimanevo incantato a guardarle. Mi sarebbe piaciuto molto essere una farfalla, non solo per volare, ma anche per non andare a letto dopo pranzo. – Beate loro che non ci vanno!… Infatti, andarci era per me una sofferenza: mi giravo, mi rigiravo, soffiavo, smaniavo, sudavo, finché mi scoppiava il mal di testa. – Ve l’avevo detto che dormire dopo pranzo mi fa male! Così arrivai a un compromesso: il pomeriggio sarei andato non più a letto ma fuori, sotto l’albero, a patto di non far chiasso. Tra me e quell’albero c’era qualcosa: un’in20


tesa, una corrente, silenziosa come le radici che scavano in profondità e ti arrivano sotto i piedi e tu neanche te ne accorgi, però ci sono. Intanto era l’unico vero albero rimasto nei paraggi. Intendiamoci, ce n’erano altri, ma più che piante erano “un pianto”: alberelli, bastoncini, fili d’erba cresciutelli che il vento strapazzava e spennava come pollastrelli. Lui invece era enorme: un monumento della natura scolpito dal tempo e dalle tempeste. Era riuscito a innalzare braccia poderose per tagliare il vento e farlo urlare, e aveva ospitato, su quelle strade di legno, generazioni di passerotti, formiche, lumache e cicale. Il tronco non era alto ma possente, e per abbracciarlo bisognava essere in due. All’inforcatura dei rami c’era tanto spazio da poterci costruire una casetta. – Quando me la costruisci, nonno? – Vedremo… – Tu dici sempre “vedremo” ma io non la vedo mai. Finché una domenica… 21


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