INDICE Divagazioni a tavola sulla cucina e la cultura della melagrana e del fico ............................. 3 Del castagno e dei suoi frutti ................................................................................................ 7 Lo stracchino di gorgonzola tra storia e leggenda ................................................................ 11 Storia della pizza napoletana ............................................................................................... 13 Lo Zabaglione é figlio di molti padri .................................................................................... 15 Le erbe aromatiche in cucina ............................................................................................... 19 Il panettone: orgogliosamente milanese il dolce di Natale italiano .................................... 23 L’osso buco: tenero come le cosce di un angelo .................................................................. 27 La cucina italiana oggi in Italia e all’estero ......................................................................... 31 Del basilico di Pra’ e del suo pesto ..................................................................................... 35 La Focaccia di Recco ........................................................................................................... 39 Le trote di montagna ........................................................................................................... 43 FRATTAGLIE: un sapore antico ............................................................................................ 47 Chi ha inventato la pasta? ................................................................................................... 51 I Dolci di Natale in Italia .................................................................................................... 55 Il Parmigiano Reggiano. Il re dei formaggi ......................................................................... 59 Le Acciughe ........................................................................................................................ 63 Pasta alla carbonara ........................................................................................................... 67 Storia del riso ..................................................................................................................... 71 Il Carciofo .......................................................................................................................... 75 Le Lenticchie. Simbolo di prosperità ................................................................................... 79 Maccheroni al torchio di Verona al pomodoro .................................................................... 83 Colomba pasquale .............................................................................................................. 87 Le proprietà benefiche del limone ...................................................................................... 91 Il Cinghiale ......................................................................................................................... 95 I CONDIMENTI. Le salse e i sughi che caratterizzano la cucina del territorio ................... 99 Cena di Natale. PROSECCO ............................................................................................... 103 Il Raviolo ............................................................................................................................ 107 Il tonno ha una storia millenaria ........................................................................................ 111 Il Pomodoro ....................................................................................................................... 115 Cena Ecuménica: La Cucina del Riuso ............................................................................... 119 Il Carpaccio ....................................................................................................................... 123 La storia della Burrata ....................................................................................................... 127 Spaghetti alla chitarra. Musica per il palato ...................................................................... 131 Il polpo .............................................................................................................................. 135 Storia del vino Marsala ...................................................................................................... 139 Cena Ecuménica. I formaggi nella cucina della tradicione regionale ................................. 143 Il Tartufo Nero ................................................................................................................... 147 Vitello tonnato ................................................................................................................... 151 La nascita del cannolo siciliano tra storia e leggenda ......................................................... 155 Sfogliatella ......................................................................................................................... 159 L’Oliva Ascolana del Piceno DOP ....................................................................................... 163 La Polenta ............................................................................................................................ 167 Storia e proprietà del carciofo ............................................................................................. 171 Storia della Panzanella ........................................................................................................ 175 Storia del Pollo ................................................................................................................. 179 La Storia dei gnocchi ....................................................................................................... 183
Cittรก del Messico
Divagazioni a tavola sulla cucina e la cultura della melagrana e del fico.
20 de Octubre 2011
L
a frutta é un elemento basico della nostra dieta per la sua ricchezza di vitamine che sono fondamentali per i processi metabolici del nostro organismo, in quanto facilitano il processo di acquisizione delle altre sostanze nutritive, per questo é bene iniziare la colazione la mattina e anche i pranzi con un succo o un piatto di frutta.
La frutta insomma sia fresca che secca come le pere, le mele, le pesche, l’ananas, le prugne, l’uva e i fichi sono presenti in salsa, in conserva o semplicemente a pezzetti per accompagnare insalate, formaggi, salumi e carni. Immagino già che vi stiano venendo in mente tutti i piatti che hanno questi accostamenti, soprattutto quelli delle feste come i vari volatili ripieni di frattaglie e frutta fresca e secca, dalle faraone, ai fagiani, ai tacchini; piatti come quello che proveremo questa será: il filetto di petto d’anatra al ginepro accompagnato dalla conserva di more. Per questa cena Ecumenica, dedicata alla “cucina della frutta”, ci siamo ispirati per elaborare il menu, soprattutto a due frutti che sono considerati come i più antichi coltivati dall’uomo insieme all’uva e che per questo motivo hanno un ricco simbolismo culturale, oltre che un delizioso sapore, e la loro storia ci narra le origini stesse della nostra cultura: la melagrana e il fico.
Peró la frutta entra nelle nostre cucine e arriva sulle nostre tavole, soprattutto per il suo sapore delizioso e quel tocco di agrodolce che permette di sgrassare e rendere più delicate le carni dal sapore forte, come sono quelle di selvaggina e di maiale, per la presentazione delle quali esistono molte ricette con frutta. Basti pensare alla sella di capriolo con salsa di ribes, all’anatra all’arancia o all’arrosto di maiale accompagnato da fette di ananas fresco. Per esempio gli agrumi come il limone, il mandarino e l’arancia sono la base per molti condimenti e anche i frutti di bosco, col loro sapore asprigno, sono sempre più presenti sulle nostre tavole italiane per sposarsi con i sapori forti, come per esempio quando accompagnamo i formaggi stagionati con la delicata mostarda di ribes.
Questi frutti hanno un’origine addirittura mitica e
di pere, di pingui e lucenti mele, di melagrane ed uva” o come si legge in un frammento di Eurippo . “noci, mandorle, fichi, granate, datteri ed altre leccornie”. La terra greca era ricca di melagrane come testimonia un altro poeta greco, Ibico: “A primavera frondeggiano i melicidoni (melo cotogni) e i melograni irrigati dai fiumi”.
sono presenti sulle tavole dei greci antichi, oltre che sugli altari dei loro dei, dal V secolo, quando fanno la loro apparizione i dessert di dolci e frutta che erano sconosciuti ai tempi di Omero (sec.VIII a.C.), visto che non se ne fa menzione né nell’Iliade, né nell’Odissea. Come recita il poeta greco Matrone, nel testo “Il convito attico”: vi era “Frutta nelle seconde mense stracariche
Antichissime piante mediterranee, di origine fenicia, cotogne e melagrane, erano entrambe consacrate a Venere Afrodite, dea della bellezza, dell’amore, della sessualitá: le cotogne le erano sacre per il loro colore dorato, e quindi degno di una dea, ed erano chiamate anche “pomi d’oro”, e le melagrane, perché erano per eccellenza il simbolo dell’amore, della feconditá e dell’abbondanza delle messi, simbolismo evocato dal frutto gravido di chicchi rosso rubino, come il colore del sangue che é il simbolo della vita e della morte. Infatti, secondo il mito greco, il melograno è nato dal sangue di Dionisio, catturato ucciso e fatto a pezzi dai Titani. Per questo la melagrana è anche il simbolo della Grande Madre Terra, colei che da la vita e la morte. Per il suo significato di feconditá e abbondanza le spose dell’antica Roma se ne ornavano i capelli il giorno delle nozze. In Turchia invece durante la celebrazione del matrimonio, la melagrana viene lanciata a terra dalla sposa, perché si crede che le nasceranno tanti figli quanti sono i chicchi che fuoriusciranno dal frutto spaccato. Nella medicina indiana di tradizione Ayurvedica, il succo della melagrana combatte realmente la sterilitá.
I primi cristiani vedevano nella melagrana aperta il simbolo dell’amore di Cristo. Infatti anche nella Bibbia la melagrana é sinonimo di fertilitá e abbondanza, nonché della benedizione divina. Il testo sacro narra che il frutto era ricamato sulla veste per le funzioni
geografica protetta) e DOPmaggiore (denominazione sacre di Aronne, fratello di Mosé,d’origine ed era protetta)sui diverse varietà di castagne cuirelaSalomone castagna scolpito capitelli del primo Tempiofradel Montella in Campania e la castagna del Monte Amiatae adiGerusalemme, prima della sue multiple distruzioni in toscana, alcune varietà di marroni: il Marrone di Castel ricostruzioni. del Rio, il Marrone del Mugello e quello di San Zeno, una farina di castagne: farina Neccio della Garfagnana; Gli Ebrei e gli Egiziani nedisorbivano il succo conside-e un miele una di castagno: il miele dellaprelibatezza Lunigiana, delizioso randolo vera prelibatezza; che noi accompagnamento i formaggi. degusteremo questaper será nel risotto al Prosecco con succo e chicchi di melagrana. Nello scenario toscano, castagne e marroni svolgevano un ruolo emblematico, infatti, soprattutto nelle Sulle tavole greche c’eraesse anche una gran ricchezza di aree montane, erano il simbolo della sopravvivenza. fichi, altra pianta icona antichissima del paesaggio Oggi, con l’industrializzazione la conseguente mediterraneo. Lo testimoniano trael’altro i bassorilievi circolazione questi antichi legami si sono di una piantadel di denaro, fico su una delle piramidi egiziane di ormaiche dileguati, solo come scrittore rarità e Giza, data 4000sopravvivendo anni, come pure Archiloco, folklore. del VII sec. a.C. che fa riferimento alla cultura del fico nell’isola di Paros in Grecia. Nel periodo che va da Settembre a Novembre, periodo della raccolta èdelle castagne, numerosissime sono Quest’albero in grado di mettere le sue radici le sagre e anche gli eventi si susseguono in ovunque, nelleche zone scoscese e disuipaese terreni paese per far castagna. possono più aridi, perrivivere cui finil mito dall’ della antichitá sulle Sicoste del trovare un po’ se ovunque, ma soprattutto nel Pistoiese, Mediterraneo ne producevano in esubero e i fichi in Lunigiana e nella si parla ancora abbondavano sulle Garfagnana, tavole tantodove dei ricchi come dei del Maconeccio, che sisostituivano svolgeva neiil poveri, tanto cheun in rituale tempoantico di carestia boschiPer perquesta assicurare un buon raccolto di castagne. pane. ragione, in Grecia, era ritenuta una Questosacra rito coinvolgeva la gente dei paesi montagna, pianta e una risorsa nazionale e perdiproteggerla uomini e donne, che,dei la sicofanti” sera del 29 festa fu istituito il “collegio (dasettembre, σῦκον, sykon, di San verso l’imbrunire si riunivano nelle fico e daMichele, φαίνω, phainô, scopro, denuncio) ovvero le piazze, muniti di torce e campanacci perildirigersi verso guardie nazionali addette ad impedirne contrabando. castagneti, in processione, gridando Ili fatto che fosse un frutto comune allora «Maconeccio, é denunciato Maconeccio». suono dei campanacci e levale grida ancora adesso Ilnell’espressione italiana, “non un dellasecco”, gente,presente servivano ad allontanare le streghe fico anche in inglese “he doesn’t ea a scongiurare i malefici che che avrebbero distrutto fig” che é una frase idiomatica sta ad indicare cheil raccolto castagne distruggendo altresìche i mezzi di non valedelle proprio nulla, nemmeno qualcosa possa sostentamento tutto come l’anno.quello di un fico secco! avere un valore per minimo, Quando invece in Italia e ancor di piú in Inghilterra, La castagna è unvalore, prodotto versatile in gastronomia, e hanno un certo dato che vengono importati può essere utilizzata nella preparazione di piatti che vanno dall’antipasto al dolce. Peró oltre che per scopi alimentari, viene utilizzata anche per fini cosmetici: il decotto delle castagne può essere versato sui capelli castani dopo lo shampoo per esaltarne i riflessi e la polpa dei frutti bolliti può essere utilizzata sul viso come maschera rigenerante, emolliente e schiarente.
NegliTurchia ultimi anni, proprio per le proprietà dalla e dal Nord Africa, che sonocosmetiche i maggiori delle foglie,aldei frutti eseguiti della corteccia deldacastagno, produttori mondo, in Europa Spagna, si sta diffondendo la tendenza ad utilizzare questa Grecia e Italia. pianta all’interno dei programmi offerti dai centri benessere. Nella cucina toscana, castagne e farina di castagne sono state fin dal passato, le protagoniste di un’ampia gamma di ricette, dalle quali si ottenevano portate elaborate e succulente, destinate ad allietare le mense dei ricchi signori, (sto pensando alle farce per anitroccoli e fagianelle e alla pasta di farina di castagne per confezionare tagliatelle e lasagne), oppure semplici, esclusivamente a base di farina ed acqua, destinati a sfamare le popolazioni montane. Comunque sia per il suo dolce sapore, la imponenza Le ricette varianoladi localitàdei in suoi località, delle sue fronde, dolcezza frutticosì e lacome forza i nomi ai attecchiscono diversi piatti, ovunque, i cui ingredienti delle sueattribuiti radici, che questa principali sono sempre stessi: farina pianta eracomunque degna di essere sacra al gli padre degli dei ed acqua. nel suo aspetto di Zeus Meilichios, ovvero Zeus il “miele”, nel senso di “mite”. In suo onore venivano Fra le variecorone ricettedipossiamo menzionare: castaintrecciate fichi secchi da offrire allaDio con gnata, pattona, il ilcastagnaccio, le quali la si adornarnava suo altare. i necci cotti sui testi di pietra e la polenta neccia che ha una preparazione simile al soufflée di castagne che Vi é un simpatico aneddoto sulla leccornia rappredegusteremo questa sentata per i greci dai sera. fichi, il quale ci rivela che non solo Zeus amava i fichi, ma anche il filosofo Diogene, Nell’ augurare tutti i commensali buonfamoso appetitoper vi famoso per il asuo “Cinismo”, e Platone una graziosa ilpropongo suo “Convivio”. Si narrafilastrocca: infatti che Diogene invitó Platone ad assaggiare i fichi. Ma questi incominció a mangiarli avidamente, tanto che Diogene esclamó cinicamente: “avevo detto di assaggiarli, La castagna in acqua cottanon di divorarli !”.
prende il nome di ballotta
La frutta secca era in effetti molto amata dai greci ed era immancabile alla fineè di ogni pasto. Noci, se la macini farina mandorle, nocciole, uva passa di Corinto, fichi secchi di Sparta, deliziosa trabaccavonoedai vassoi delle cosidette sopraffina terze tavole, con le quali si concludeva la cena.
se l’impasto, cosa faccio?
E anche noi questa será concluderemo la nostra con i fichi, degustando l’originale “mille foglie di un gustoso castagnaccio! fichi all’Oporto”, ovvero una prelibatezza, oggi come allora, degna del banchetto degli dei e ci auguriamo che questo sposalizio tra la Melagrana e il Fico sia di buon auspicio per tutti i commensali Bibliografia: virtualmente presenti a questa grande tavola ecumenica. Carolina Giovannelli La castagna dal bosco alla tavola Tesi di laurea Facoltá di Agraria Padova 2008 http://tesi.cab.unipd.it/21829/1/TESI_CASATAGNA.pdf Isabella Spagnuolo Borgia http://www.treviambiente.it/09_prodottitipici/09_castagnastoria.php Accademica di Cittá del Messico http://www.girlpower.it/tempolibero_relax/cucina/castagne_storia_abano_terme.php
Cittá del Messico
Del castagno e dei suoi frutti Isabella Spagnuolo Borgia
I
l castagno è un albero antichissimo presente nel Mediterraneo sin dall’inizio dell’era geologica chiamata Cenozoico, ovvero da 65 milioni di anni fa.
E’ una tra le piante piu’ longeve al mondo e l’esemplare più antico d’Europa risale a 3000/4000 anni fa, e si trova in Sicilia, sulla strada provinciale che collega Sant’Alfio a Linguaglossa. Viene chiamato “castagno dei cento cavalli” poiché sotto le sue fronde la regina Giovanna d’Aragona e il suo seguito si ripararono da un temporale.
Decembre 2011
La vita dell’uomo, specialmente quella del montanaro, dato che questa pianta cresce tra i 300 e i 1000 metri s.l.m, in particolar modo sull’arco alpino e appenninico, è da sempre strettamente legata alla presenza del castagno nel paesaggio agrario. Durante il Medioevo e nell’Epoca Moderna, i montanari fondavano un nuovo villaggio solo laddove il castagno poteva crescere e dare legname e frutti, indispensabili per le esigenze quotidiane (alimentazione, riscaldamento, costruzioni). Durante il Medioevo si assiste ad una ristrutturazione del paesaggio agrario e forestale e, a partire dal Duecento il castagno si afferma come protagonista del paesaggio boschivo. Diventa preoccupazione di ogni Comunità, che vive in un regime per lo più autarchico, di regolare attraverso leggi e statuti la gestione dei castagneti. Negli archivi è così possibile ritrovare testi statuari che contengono norme severe per la tutela dei castagneti punendo i danneggiamenti, regolando i diritti d’uso e disciplinando gli usi civici, ciò fa sì che si istauri una
vera e propria “Civiltà del Castagno”. Ad esempio, specialmente all’epoca della caduta dei frutti, era vietato l’accesso agli animali, in particolar modo a capre e suini, ed erano previste pene severe per il pascolo abusivo ed il danneggiamento. Inoltre veniva proibito agli stranieri di approvvigionarsi del legname, mentre agli abitanti locali si impedivano prelievi eccessivi, si stabilivano ceduazioni organizzate e la raccolta era pubblicamente concessa dalle autorità comunali vietando ogni appropriazione illecita o fraudolenta.
Per le popolazioni montane, la pianta diventò un bene sempre più prezioso poiché, oltre a fornire legname per l’edilizia, la viticoltura ed il riscaldamento, era in grado di sopperire alle esigenze di cibo delle famiglie più povere. Le castagne, ovvero i frutti del castagno, per la loro composizione simile a quella del frumento, sono state definite “pane d’albero”, ed infatti costituivano proprio il pane quotidiano di intere popolazioni. Erano prevalentemente indirizzate alla macinazione per l’ottenimento di farina, conservabile per l’intero arco dell’anno, con essa si panificava, si preparavano polente, castagnacci, necci, nutrienti minestre dette pattone. Le castagne sono racchiuse a gruppi di tre all’interno dei ricci che le preservano dall’ingiurie atmosferiche e ora anche dall’inquinamento, sono ricche di fibre, di potassio e di vitamine del gruppo B, soprattutto B1 e B6 e maturano in autunno, da settembre a novembre. Per i valori nutrizionali delle castagne e per le proprietà disinfiammatorie delle sue foglie, il castagno è divenuto nei secoli una pianta essenziale per l’alimentazione di alcune popolazioni, tanto che giá Senofonte, nel IV secolo a.C. lo aveva definito l’ albero del pane.
carbone e tannino. Si tratta di prodotti di ottima qualità, infatti il carbone di castagno, se idoneamente ventilato, può raggiungere temperature in grado di fondere il ferro. Il tannino, la cui estrazione si affermò a metà Ottocento, era inizialmente impiegato per la tintura in nero della seta, successivamente il suo utilizzo si diffuse anche alla lavorazione conciaria delle pelli. Del castagno si conservavano anche le foglie, le quali venivano raccolte e fatte essiccare ed erano poi utilizzate in alcune tipiche preparazioni culinarie o per la realizzazione di infusi, dalle svariate proprietà curative attribuitegli dalla medicina popolare. La rivalutazione della storia, antropologia, cultura, tradizioni, gastronomia ed usi legati al castagno, nonché il suo ruolo nella conservazione del paesaggio agroforestale e nella difesa idrogeologica del suolo, ci inducono a guardare con rispetto il maestoso “albero del pane”, che si appresta ad entrare, con ritrovata agilità e nuovo vigore, nel Terzo Millennio.
Come succede in tutte le realtà afflitte dalla povertà e dal bisogno, le fonti di sostentamento a disposizione vengono sfruttate in ogni loro componente, e così è successo anche per il castagno, del quale “non si buttava via niente”. Le bucce, che rimanevano dalla mondatura delle castagne essiccate, erano conservate fino all’anno successivo, nel quale venivano impiegate per alimentare il fuoco, acceso all’interno dei canicci, per l’essiccazione del nuovo raccolto. Il legno oltre che essere impiegato come legna da ardere e da costruzioni, era anche destinato all’ottenimento di
Al fine di conservare e tramandare il complesso di storia, usi e tradizioni che ruotano attorno alla castanicoltura, nel 1985, nel comune di Colognora di Pescaglia, in Val di Roggio provincia di Lucca, è sorto il Museo del Castagno. Molte volte si fa confusione tra castagne e marroni, e sovente queste due parole vengono utilizzate come sinonimi , in realtà, le castagne sono differenti dai marroni, poichè le prime sono frutti dell’albero selvatico, mentre i secondi vengono prodotti da alberi coltivati e per questo vengono selezionate le piante che fanno i frutti piú grossi, é dai marroni per esempio che si ricavano i marrons glacés. É interessante sapere che oggi in Italia hanno conseguito il riconoscimento europeo di IGP (indicazione
geografica protetta) e DOP (denominazione d’origine protetta) diverse varietà di castagne fra cui la castagna di Montella in Campania e la castagna del Monte Amiata in toscana, alcune varietà di marroni: il Marrone di Castel del Rio, il Marrone del Mugello e quello di San Zeno, una farina di castagne: farina di Neccio della Garfagnana; e un miele di castagno: il miele della Lunigiana, delizioso accompagnamento per i formaggi. Nello scenario toscano, castagne e marroni svolgevano un ruolo emblematico, esse infatti, soprattutto nelle aree montane, erano il simbolo della sopravvivenza. Oggi, con l’industrializzazione e la conseguente circolazione del denaro, questi antichi legami si sono ormai dileguati, sopravvivendo solo come rarità e folklore. Nel periodo che va da Settembre a Novembre, periodo della raccolta delle castagne, numerosissime sono le sagre e gli eventi che si susseguono di paese in paese per far rivivere il mito della castagna. Si possono trovare un po’ ovunque, ma soprattutto nel Pistoiese, in Lunigiana e nella Garfagnana, dove si parla ancora del Maconeccio, un rituale antico che si svolgeva nei boschi per assicurare un buon raccolto di castagne. Questo rito coinvolgeva la gente dei paesi di montagna, uomini e donne, che, la sera del 29 settembre, festa di San Michele, verso l’imbrunire si riunivano nelle piazze, muniti di torce e campanacci per dirigersi verso i castagneti, in processione, gridando «Maconeccio, Maconeccio». Il suono dei campanacci e le grida della gente, servivano ad allontanare le streghe e a scongiurare i malefici che avrebbero distrutto il raccolto delle castagne distruggendo altresì i mezzi di sostentamento per tutto l’anno. La castagna è un prodotto versatile in gastronomia, e può essere utilizzata nella preparazione di piatti che vanno dall’antipasto al dolce. Peró oltre che per scopi alimentari, viene utilizzata anche per fini cosmetici: il decotto delle castagne può essere versato sui capelli castani dopo lo shampoo per esaltarne i riflessi e la polpa dei frutti bolliti può essere utilizzata sul viso come maschera rigenerante, emolliente e schiarente.
Negli ultimi anni, proprio per le proprietà cosmetiche delle foglie, dei frutti e della corteccia del castagno, si sta diffondendo la tendenza ad utilizzare questa pianta all’interno dei programmi offerti dai centri benessere. Nella cucina toscana, castagne e farina di castagne sono state fin dal passato, le protagoniste di un’ampia gamma di ricette, dalle quali si ottenevano portate elaborate e succulente, destinate ad allietare le mense dei ricchi signori, (sto pensando alle farce per anitroccoli e fagianelle e alla pasta di farina di castagne per confezionare tagliatelle e lasagne), oppure semplici, esclusivamente a base di farina ed acqua, destinati a sfamare le popolazioni montane. Le ricette variano di località in località, così come i nomi attribuiti ai diversi piatti, i cui ingredienti principali comunque sono sempre gli stessi: farina ed acqua. Fra le varie ricette possiamo menzionare: la castagnata, la pattona, il castagnaccio, i necci cotti sui testi di pietra e la polenta neccia che ha una preparazione simile al soufflée di castagne che degusteremo questa sera. Nell’ augurare a tutti i commensali buon appetito vi propongo una graziosa filastrocca:
La castagna in acqua cotta prende il nome di ballotta se la macini è farina deliziosa e sopraffina se l’impasto, cosa faccio? un gustoso castagnaccio!
Bibliografia: Carolina Giovannelli La castagna dal bosco alla tavola Tesi di laurea Facoltá di Agraria Padova 2008 http://tesi.cab.unipd.it/21829/1/TESI_CASATAGNA.pdf http://www.treviambiente.it/09_prodottitipici/09_castagnastoria.php http://www.girlpower.it/tempolibero_relax/cucina/castagne_storia_abano_terme.php
Delegazione di Cittá del Messico
Lo stracchino di gorgonzola tra storia e leggenda
L
a denominazione di stracchino include vari formaggi lombardi, come il gorgonzola, il taleggio, lo strachitunt e lo stracchino fresco, sono tutti formaggi grassi, fatti con latte contenente le parti burrose. Anche se non esistono riferimenti storici precisi sembra che il nome Stracchino derivi dal termine dialettale lombardo “Stracch”, vale a dire stracco, stanco: poiché questi formaggi erano prodotti a fine estate nelle vallate alpine con il latte proveniente da animali stanchi dopo il lungo viaggio di ritorno dai pascoli d’alta quota. Del celebre e caratteristico formaggio DOP (denominazione d’origine protetta), conosciuto in tutto il mondo,
che prende il nome dalla Città di Gorgonzola, non si hanno documenti che certificano la data di nascita. Secondo il gorgonzolese Fedele Massara, patriota e studioso di materie economiche e umanitarie vissuto durante la seconda metá dell’800, le origini del tipico formaggio risalirebbero almeno al XV secolo. Nei prati di Gorgonzola, in autunno, giungevano dagli alti pascoli bergamaschi numerose mandrie a pascolare, dette per questo bergamine: esse brucavano l´erba nata dopo l´ultima falciatura, detta erba quartirola. Affluendo così a Gorgonzola una gran quantità di bovini, vi si ammassava una grande quantità di latte, con mungiture matutine e serali, sicché nacque il
bisogno di trarne partito. Da ciò la fabbricazione dello stracchino, la cui invenzione è dovuta ai terrieri di Gorgonzola. Infatti il Gorgonzola come tutti gli stracchini, è un formaggio a due paste, cioè ottenuto mescolando la cagliata della sera con quella del mattino. Il latte fresco e intero della mungitura serale è fatto cagliare e il coagulo viene raccolto in fagotti di tela posti poi a sgocciolare per tutta la notte in ambiente a circa 18° C. La stessa operazione viene ripetuta con il latte della mattina ottenendo un coagulo che verrà posto a sgocciolare per circa 20-30 minuti. In questa fase di lavorazione verranno poste nello stampo composto con fascette di legno, che per il gorgonzola è rotondo mentre per altri stracchini è rettangolare, le due cagliate a strati, quella fredda della sera precedente e quella calda del mattino, avendo cura di cominciare e finire con una cagliata calda. Seguono la stufatura e la salatura a secco. La stagionatura avviene in locali con temperature dapprima attorno ai 10°C e successivamente di 2-4°C. Dopo circa 30 giorni dalla produzione le forme vengono forate su tutti i lati con degli aghi d’acciaio. Le due cagliate, avendo diversa consistenza, non si amalgamano bene e lasciano pertanto dei piccoli spazi che in seguito alla foratura si riempiono di aria. E’ proprio in questi spazio che le muffe naturali di penicillium glaucum, inserite nella cagliatura, iniziano a sviluppare la loro caratteristica efflorescenza, detta erborinatura, che da quel caratteristico color azzurrato che appare tra le fasce di cagliatura. Esistono peró due versioni di Gorgonzola: una piccante e una dolce. Il piccante si differenzia dal dolce per le differenti colture innestate e per un periodo di stagionatura più lungo per le venature blu/ verdi più accentuate, per la consistenza piú consistente della pasta e per il gusto più forte. A stagionatura ultimata, la forma viene tolta dalle fascette di legno, tagliata in due o ulteriormente frazionata e rivestita di alluminio goffrato, la cui funzione è ridurre il calo provocato dall’evaporazione, difendere la crosta dalle rotture e screpolature e salvaguardare nel trasporto e nel tempo le preziose caratteristiche organolettiche del formaggio. Come succede spesso quando non si conosce l’origine storica precisa di un fatto culturale, si crea una leggenda, ed anche un formaggio che si rispetti come
il gorgonzola, ha la sua bella leggenda la quale narra che vi era un giovane casaro che viveva in un paese delle Prealpi brianzole e che era innamoratissimo di una bellissima ragazza che però aveva il difetto di essere anche molto civettuola, poiché coltivava con assoluta noncuranza più di un interesse maschile.Il giovane casaro, a causa delle preoccupazioni amorose che la ragazza gli procurava, combinava pasticci di ogni sorta. Succedeva che dimenticava di ritirare gli animali alla sera, di mungere le mucche e di scremare il latte, ricevendo in cambio rimbrotti e sberloni dal suo padrone. Un bel giorno, forse perché aveva litigato con la sua amorosa, il giovane casaro rimase indietro col lavoro e rimandò all’indomani il lavoro della giornata, mescolando la cagliata della sera precedente con quella della mattina. Il formaggio così ottenuto con il passare del tempo non voleva indurirsi nonostante che il casaro, nell´intento di farvi uscire il grasso e i residui dell´acqua, lo punzecchiasse con un ramoscello. Quando il padrone si accorse del formaggio, lo annusò e trovatolo che puzzava, decise di tramutare il danno ricevuto in un affare e lo diede al giovane casaro, colpevole del fatto, come retribuzione di quel mese. Dato che il giovane non era iscritto ad alcun sindacato (anche perché allora non esistevano) non poté far altro che accettare l´odorosa retribuzione.Così avvenne che il casaro innamorato si trovò di fronte al dilemma di morire di fame o mangiare il formaggio, “sempremolle”. Poiché la sua morte non avrebbe certo risolto il problema dei numerosi corteggiatori della sua bella, saggiamente decise di vivere e quindi di mangiare il formaggio. Lo tagliò e inorridì al vedere la muffa che si era formata nei punti in cui lo aveva punzecchiato, però pensò che dopo tutto si trattava di un processo naturale e facendosi forza ne depose delicatamente un pezzetto sul pane e si mise a masticare.Con sorpresa si accorse che non era poi così cattivo e alla fine dell´esperimento era del parere che il formaggio era buono e saporitissimo. Preso dall’entusiasmo, avventatamente annunciò ai suoi conoscenti la bontà della sua invenzione che l’avrebbe reso l’uomo più famoso del mondo, ma dato che allora non esistevano uffici dove registrare i brevetti, ben presto tutti si misero a produrlo e ahimé fu il nuovo formaggio a diventare famoso, non lui.
Isabella Spagnuolo Borgia
BIBLIOGRAFIA
Giorgio Perego, Gorgonzola: Tre secoli della nostra storia´ , 2001 pag. 37 Fedele Massara, Cenni sulla storia, fabbricazione e commercio dello stracchino di Gorgonzola. Ed. Francesco Gareffi 1866 Pag. 1-15 http://www.brembana.info/cucina/strachitunt.html http://www.comune.gorgonzola.mi.it/Articoli/Conosci-Gorgonzola/La-storia-del-formaggio-a-Gorgonzola/534-Storia-delformaggio-a-Gorgonzola.asp
ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA FONDATA DA ORIO VERGANI NEL 1953
Delegazione di Cittá del Messico
Storia della pizza napoletana
La schiacciata di pane cotta a pietra ha origini antichissime; alcuni storici suppongono che era presente già nella cucina etrusca, ovviamente molto diversa da oggi. La pizza simile a quella odierna nasce come arricchimento di un piatto povero a base di farina, olio, sale e lievito. Questo avviene intorno al 1600 nel meridione, dove per rendere più appetibile la tradizionale schiacciata di pasta per pane cotta in forno a legna, si inizia a condirla con diversi ingredienti, la più
semplice era quella condita con aglio, strutto, sale grosso, caciocavallo e basilico, ma ve ne erano anche condite con le acciughe o i cicinelli che erano dei pesciolini diminuti. L’introduzione in Europa del pomodoro propizia la nascita della pizza così come la conosciamo oggi. Il pomodoro importato dal Peru, dopo la scoperta dell’America, fu dapprima usato in cucina come salsa cotta con un po’ di sale e basilico e fu più tardi che a qualcuno a Napoli, venne l’idea di metterlo
sulla pizza con l’aggiunta delle acciughe. Ed è così che ebbe origine la pizza napoletana e che Napoli ne divenne l’emblema. Fu tra ‘‘700 e ‘‘800 che la pizza si affermò sempre più come uno dei piatti della cucina napoletana preferiti del popolo. Nel ‘‘700 la pizza veniva cotta nei forni a legna ed era recata per i vicoli della città da un garzone di bottega che portava in equilibrio sul capo la stufa. Questa serviva a mantenere calde le pizze già confezionate con diversi ingredienti e condimenti, mentre il garzone attirava i compratori con richiami sonori e decantandone a squarciagola la delizia. A cavallo tra il ‘700 e l’800 comincia ad affermarsi l’abitudine di gustare la pizza anche presso i forni di produzione oltre che per strada o in casa, segno del crescente favore che incontrava questa vivanda nel popolo napoletano: nacquero così le prime pizzerie e se ne andarono delineando anche le caratteristiche che si ritrovano tuttora nelle pizzerie campane: ovvero il forno a legna, il bancone di marmo dove viene confezionata la pizza, lo scaffale dove sono in bella mostra gli ingredienti che andranno a comporre le differenti varietà di pizza, i tavoli dove gli acquirenti le consumano, l’esposizione esterna di pizze vendute ai passanti. Si incomincia, se non a mangiare, a distinguere in modo particolare la pizza, a Napoli, prima che spicchi il suo volo o meglio la traversata verso l’America, Infatti fu nell’ottocento che la pizza col pomodoro arrivò in America grazie ai napoletani che emigrarono a New York e continuò ad essere fatta come a Napoli. Ed è grazie all’arrivo in America che la pizza trovò il trampolino di lancio al resto del mondo. La leggenda narra che il matrimonio storico della mozzarella e il pomodoro, lo propose un pizzaiolo napoletano, Raffaele Esposito che elaborò questa pizza in onore della regina Margherita, moglie di Umberto I re d’Italia, nel 1889 in occasione della loro permanenza estiva alla reggia di CapodimonBIBLIOGRAFIA http://www.penisola.it/sorrento/pizza-storia.php http://www.villa-verde.it/storia_della_pizza.htm http://www.corsopizzaiolo.it/pizza-napoletana-d-o-c.html
te, come voleva una certa regola della monarchia, per fare atto di presenza nell’antico Regno delle due Sicilie. Alla regina piacque moltissimo la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico che rappresentava il tricolore italiano, per questo motivo il famoso pizzaiolo la chiamò con il nome della regina. Cosi fu che la pizza Margherita si impose ovunque nel mondo con questo nome. Gli storici però testimoniano che la pizza con questi ingredienti esisteva già e che fu solo dedicata dal pizzaiolo alla Regina Margherita per via del tricolore e perciò ribattezzata in suo onore. La presenza delle bufale che forniscono il latte per elaborare la mozzarella la dobbiamo ai Longobardi, calati in Italia meridionale dopo la caduta dell’impero romano, che portarono con sé le mandrie di bufale che si ambientarono tra il Lazio e la Campania. Dal 5 febbraio 2010 la Pizza Napoletana è entrata a far parte delle Specialità Tradizionali Garantite dall’Unione Europea (Stg) – E i canoni stabiliti, per quel che riguarda il prodotto finale, sono che la pizza napoletana Stg deve essere preparata con pomodoro, mozzarella di bufala Dop (denominazione d’origine protetta) o mozzarella Stg, olio extra vergine d’oliva e origano, avere un diametro non superiore ai 35 cm, il bordo rialzato (cornicione) tra 1 e 2 cm e una consistenza insieme morbida, elastica e facilmente piegabile “a libretto”. Il logo europeo Stg potrà essere utilizzato solo se il prodotto è conforme con il disciplinare di produzione, ma purtroppo sarà comunque permessa la possibilità di continuare a usare il nome di pizza napoletana anche per il prodotto non certificato. Isabella Spagnuolo Borgia
Accademica di Cittá del Messico
Cittá del Messico
Lo Zabaglione é figlio di molti padri Isabella Spagnuolo Borgia
Q
uando si parla di zabaglione o, secondo la scrittura piú antica, zabaione, si ha in mente la classica ricetta rinvigorente delle nostre nonne, a base di uova, zucchero e Marsala. Eppure questa crema, sia servita in tazza che come ripieno di bignole o base di torte e dessert é uno dei dessert italiani piú conosciuti all’estero.
Septiembre 2012
Volendo avere notizie storiche sulla sua origine, mi sono trovata in un vero ginepraio, dato che essendo un dessert di successo, finisce per avere la stessa sorte che la vittoria, che é figlia di molti padri, mentre é risaputo che é solo la sconfitta ad essere sempre orfana.
Questo dessert si preparava con vino di Cypro e faceva parte della cerimonia nuziale, in quanto alla fine del banchetto nuziale una bottiglia di zabaja, veniva consegnata agli sposi prima che si ritirassero, per garantire loro una fertile e prolungata luna di miele.
Citeró quindi alcune fonti di questa presunta paternitá.
In effetti, si potrebbe pensare che lo zabaglione derivi proprio da questa ricetta, perché nella ricetta pubblicata da Pellegrino Artusi, ne “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene” (1891) l’autore menziona la possibilitá di scegliere tra tre vini per fare lo zabaglione: il vino di Cypro, il Malaga e il Marsala. Quest’ultimo godeva di una popolaritá abbastanza recente, dovuta al fatto che alcuni mercanti inglesi nel XVIII sec. avevano incominciato a sviluppare nell’area di Marsala, la produzione di un antico vino siciliano chiamato Perpetuo, prodotto con uva passita. Per cui si puó pensare che l’Artusi abbia semplicemente suggerito dei sostituti per il vino di Cypro della ricetta originale illyrica.
La piú antica, la sostiene l’illustre storico Giuseppe Maffioli, autore del “Ghiottone Veneto” (1968), dato che propone che la parola zabaglione potrebbe derivare da “zabaja”, che era una bibita a base di birra, tuorlo d’uovo e miele, originaria dell’Illyria, dove la birra era denominata appunto “sabaium” (Alan Davidson, The Penguin Companion to Food, 2002) e di cui si hanno notizie giá in epoca romana. Questa regione, situata nella penisola balcanica, fu un territorio che per molto tempo appartenne alla Repubblica di Venezia, per cui da lí potrebbe essere sbarcata nella nostra penisola.
Ma le cose si complicano quando veniamo a scoprire che nel “Libro De Arte Coquinaria” (1465), il primo libro moderno di cucina della nostra penisola, scritta dal Maestro Martino da Como, citato dal giornalista gastronomico, italo americano, Rosario Scarpato, appare la ricetta del “bono zambaglione”, elaborato con 4 tuorli d’uovo, zucchero e cannella in abbondanza e con l’aggiunta di un non specificato vino dolce. Per cui la presenza di questa ricetta nel libro del Maestro Martino, collocherebbe la sua presenza in Lombardia giá dal 1465, possibilmente a Milano. C’è, infatti, almeno una fonte che presenta lo zabaglione con gli stessi ingredienti della ricetta di Martino come “specialità Milanese”. Questa fonte é il libro “La commare o riccoglitrice (Venezia, 1595)”,
preparare cosí una zuppa calda che prese il nome dal diminutivo in dialetto emiliano del capitano, ovvero Zvan Bajoun, da cui calzerebbe a pennello la derivazione prima in “zambajoun” e poi in “zabajone” . Il problema peró con questi dati é che del suddetto capitano di ventura non si hanno dati storici precisi e ancora di meno dell’ autore della storiella, un certo Numa, citato da Rosario Scarpati nel suo articolo sull’origine dello zabaglione: “Santi, soldati e mogli insoddisfatte: sconcertanti meraviglie di un precursore del viagra”. E veniamo ora al Piemonte, dove nel 1766, nel trattato culinario anonimo, attribuito al cuoco di Carlo Emanuele III, intitolato “ Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi” si trova una ricetta molto simile al moderno zabaglione, chiamata sanbajon. Secondo una storia popolare che circolava nell’‘800 in
un trattato di molto successo di ostetrica, scritto dal dottor Scipione, il frate domenicano Girolamo Mercurio, che raccomandava lo zabaglione a chi era esaurito o debilitato da un lavoro pesante, tanto come alle donne che avevano partorito di recente. Ma la Lombardia non é l’unica regione d’Italia a reclamarne la paternitá. Gli emiliani sostengono che nel XVI sec. il capitano di ventura Emiliano Giovanni Baglioni, accampatosi vicino a Reggio Emilia, non avendo con che sfamare i suoi soldati, si dovette arrangiare con qualche uovo, del vino e un po’ di zucchero che i soldati avevano trovato nelle fattorie della zona. Si dice che fece
Piemonte, il nome Sanbajon deriverebbe dal nome di un frate francescano spagnolo, che si trovava a Torino per un apostolato, San Pascual de Baylon (1540-1592), che canonizzato nel 1680, fu riconosciuto nel 1722 come il protettore dei pasticceri di tutto il mondo e, venerato nella chiesa di San Tommaso a Torino, si commemora il 17 maggio.
Anche in questo caso la derivazione da San Baylon della parola sanbaglione poi trasformatasi in zabaglione, sarebbe un’etimologia possibile. Ma quello che é piú interessante di quest’ultima paternitá é la formula della ricetta inventata da Fra´Pascuale di Baylon. Si dice che dopo averla scoperta un po’ per caso la andasse ripetendo come una formula matematica 1+2+2+1. La formula stava a significare 1 tuorlo + 2 cucchiai di zucchero + 2 gusci di vino dolce + 1 guscio d’acqua tiepida, ingredienti che bisognava allora come nella ricetta odierna, amalgamare con la frusta uno alla volta e poi cuocere a bagnomaria fino e togliere dal fuoco al primo accenno di bollore. Si dice che la semplicitá della formula fosse dovuta al fatto di poterla consigliare facilmente alle sue penitenti come crema corroborante, per loro, i figli e soprattutto i mariti! É evidente che questa ricetta giá presente nell’ “Libro De Arte Coquinaria” del 1465 non puó essere stata inventata da San Baylon, ma semmai reinventata! Per cui non sapendo a chi credere, non posso far altro che consigliarvi di provare questa semplice, ma seducente ricetta, definita “goduriosa” dallo scrittore catalano, Manuel Vázquez Montalban, e che si va ad aggiungere alle tante altre ricette che hanno contribuito al successo della nostra cucina nel mondo.
Bibliografia: Davidson Alan, The Penguin Companion to Food, Penguin Books UK 2002 Maffioli Giuseppe, il ghiottone Veneto. Bramante editrice, Torino 1968 Scarpato Rosario, Saints, soldier and unsatisfied wives: puzzling wonders of a viagra forerunner in http://www. itchefs-gvci.com/index.php?option=com_content&view=article&id=302:saints-soldiers-and-unsatisfied-wivespuzzling-wonders-of-a-viagra-forerunner%20&catid=119:zabaione&Itemid=25 Comune di Torino: Torino Turistica, http://www.comune.torino.it/canaleturismo/it/curiosare/zabaglione.htm
Cittá del Messico
Le erbe aromatiche in cucina Isabella Spagnuolo Borgia
L
e erbe aromatiche hanno molti usi nella cucina italiana. Oltre a rialzarne il gusto hanno spesso proprietá salutari. Il prezzemolo, per esempio, il cui sapore si sposa particolarmente bene con l’aglio, si usa tritato insieme all’aglio sia per condire le verdure, sia per fare il salmoriglio per il pesce, sia per trifolare funghi e lumache, sia per la saporitissima salsa verde con cui si accompagnano i lessi, ed é molto ricco in minerali e vitamine, oltre ad avere proprieta’ digestive e diuretiche.
Ottobre 2012
Alle erbe si é da sempre attribuita anche la proprietá di conservare i cibi, queste proprietá sono state confermate dalla scienza moderna, infatti ora si sa’ con certezza che la salvia e il rosmarino, per esempio, hanno proprietá antiossidanti che evitano l’ossidazione dei grassi, cosí quando cuciniamo gli arrosti, steccati con salvia e rosmarino evitiamo il rapido irrancidirsi dei grassi che ne fuoriescono.
Il mazzetto di odori, é un ingrediente tipico della nostra cucina, e consiste in rametti di diverse erbe aromatiche legate con un filo. Puó essere sia di erbe fresche che di erbe secche, da sole o combinate con qualche spezia, come la cannella o la vaniglia, o con bucce di agrumi. I mazzetti destinati a profumare i brodi, si avvolgono nella garza perché non si disperdano nel brodo. Mentre é sufficiente legare tra sé le erbe che si aggiungono agli arrosti e agli stufati, affinché sprigionino liberamente il loro aroma. Tipico per il brodo di biancostato di manzo e gallina é il rametto di prezzemolo, sedano e alloro, al quale i francesi aggiungono anche il timo e avvolgono il tutto in una foglia di porro, chiamandolo “bouquet garni”. Mentre, per fare l’arrosto di agnello, si é soliti utilizzare il mazzetto composto da timo, rosmarino e menta, per l’arrosto di vitello si utilizza quello di salvia e rosmarino a cui si aggiunge l’aglio quando l’arrosto é di maiale.
Tra le piú classiche misture di erbe vorrei menzionare le erbe di Provenza, composte da timo, rosmarino, alloro, basilico, mentuccia. Dal 2003 , un certificato di qualità (label rouge) tutela l’autenticità del misto di “herbes de provence”, che deve contenere il 26% di rosmarino, il 26% di santoreggia, 26% di origano, il 19% di timo e il 3% di basilico. Le erbe di Provenza vengono utilizzate nei ripieni delle verdure, nelle grigliate sia di carne che di pesce e per insaporire l’olio di cottura prima di aggiungerci il cibo.
Quando invece usiamo le erbe fresche tritate, dobbiamo assicurarci che siano freschissime, dato che si ossidano facilmente, contaminandone il sapore, il colore e perdendo l’aroma. Se invece le erbe tritate sono secche, bisogna considerare che al seccarle il sapore si concentra, per cui bisognerá usarne molto meno che se fossero fresche. Un consiglio é quello di farle rinvenire, ammollandole nel vino bianco o di conservarle miste sotto sale per cospargene poi gli arrosti.
Un trito di erbe particolarmente saporito é la gremolata, che si aggiunge all’ossobuco di vitello a fine cottura, questa é composta da aglio, prezzemolo e buccia di limone.
Le erbe di cucina vengono anche utilizzate per aromatizzare l’olio di oliva, aggiungendone dei rametti nella bottiglia in cui si conserva l’olio, come nell’olio aromatico Portofino con cui é condito il branzino nel menu che degusteremo questa sera. E ora qualche consiglio per conservare le erbe fresche. Naturalmente il metodo piú semplice e di coltivarle nei vasi, magari sulla finestra della cucina, per averle a portata di mano. Peró se le comprate meglio metterle in un vaso con acqua che oltretutto decora e profuma la cucina. Alcune erbe delicate come il prezzemolo, il cerfoglio e il basilico, si possono tritare e mettere in freezer, dove si mantengono pronte per l’uso. Se non si ha tempo di tritarle, si possono congelare le foglie intere messe in bustine di plastica ermetiche e poi tritarle ancora congelate al momento dell’uso.
Se invece le volete seccare bisogna farne dei mazzetti e appenderli per lo stelo in un abitazione ben ventilata o alle travi di una terrazza o di un sottotetto. Una volta secchi si sfogliano i rami e si conservano in vasi ermetici o sotto sale. Con queste ultime si possono spalmare gli arrosti per farne una crosta che ne esalterá il gusto impedendo che ne escano i succhi, come nel filetto in crosta di rosmarino che assageremo tra poco. Non mi resta che augurarvi buon appetito, e viste le qualitá salutari delle erbe, buon pro vi facciano.
CittĂĄ del Messico
Il panettone: orgogliosamente milanese il dolce di Natale italiano. Isabella Spagnuolo Borgia
M
algrado i molti dolci tradizionali che si avvicendano sulle tavole delle diverse regioni italiane, il panettone è forse l’unico dolce che a Natale non può mancare sulle tavole di tutti gli italiani.
Novembre 2012
di quella squisitizza, e fu lí per lí che il dolce natalizio venne battezzato con questa risposta:” L’é el pan del Toni!”, da cui “panatton” in milanese. Leggenda a parte, secondo lo storico Ludovico Antonio Muratori, vissuto tra il 1672 e il 1751, l’origine del dolce si riconduce ad una usanza pagana, detta cerimonia del ciocco, o del ceppo, attestata in Lombardia giá nei primi anni del Mille.
Vi è una leggenda, che ha fatto il giro del mondo, in Messico si trova anche stampata sull’involucro del panettone venduto nella riconosciuta pasticceria El Globo, che attribuisce l’invenzione del panettone ad uno sfortunato aiutante di panettiere, di nome Toni. Si dice che la notte della vigilia di Natale, fece sbadatamente cadere l’asse sulla quale aveva preparato le pagnotte di pane da impastare, le quali andarono a mescolarsi con lo zucchero, l’uvetta e le uova: ingredienti che il padrone gli aveva lasciato sull’estremitá opposta della lunga asse, per preparare una torta per gli invitati al suo cenone di Natale. Nel tentativo di salvare le uova che stavano per rotolare giú dall´asse, queste gli si ruppero in mano ed andarono a mescolarsi con il resto degli ingredienti, compresa la pasta del pane. Al povero garzone non restò che impastare il tutto, intriso di lacrime di disperazione e metterlo al forno, sperando che il padrone non si accorgesse dell’accaduto. Grande invece fu lo stupore del padrone quando vide quella torta cosí ben lievitata e saporita che piacque moltissimo ai suoi ospiti, i quali vollero sapere il nome
Il rituale prevedeva che di fronte al pasto natalizio, il capofamiglia versasse un po’ di vino dal proprio bicchiere, benedicendolo su un ceppo di quercia acceso appoggiato su un letto di rami di ginepro, e poi facesse bere un sorso del suo calice a tutti i familiari; spezzava poi il ”pane grande” di cereali, incidendone la superficie in forma di croce e ne distribuiva un pezzo a tutti i componenti della famiglia, come é tipico nei pranzi rituali pagani. Un pezzo di questo pane, veniva poi gelosamente conservato fino al Natale successivo, come simbolo del legame familiare. Col passare del tempo peró il pane si fece solo con farina bianca, per sottolinearne la regalitá: e per questo il pane di Natale venne chiamato “pan del ton” ovvero “pane di lusso” da qui l’etimolgia del nome “panettone” secondo il Muratori. Vi é anche testimonianza che nel Natale del 1495 la ricetta del “panis quidam acinis uvae confectus” (tr. dal lat. il pane fatto con acini d’uva), ideata dal cuoco Antonio Toni per la cena di Natale di Ludovico il Moro, fu fatta distribuire dal Signore della cittá a tutti i milanesi, con atto munifico, perché tutti la potessero assaggiare e preparare per il pranzo di Natale. E anche qui leggenda vuole che el “pan del Toni” diventi il dolce natalizio per eccellenza dei milanesi.
La fama del panettone continua nel Settecento, quando l’illuminista milanese Pietro Verri ne tesse le lodi. Il vocabolario Milanese-Italiano del Cherubini lo descrive nel 1839 col nome di Panatton de Natal, come: “Specie di pane di frumento addobbato con burro, uova, zucchero e uva passerina (ughett) o sultana che intersecato a mandorla quando é pasta (cruda), cotto che sia risulta a molti cornetti.
A partire dal XV secolo quindi, grazie a Ludovico il Moro il dolce divenne simbolo del Natale a Milano, e si diffuse poi al resto d’Italia. La ricetta del panettone é presente anche nel celebre trattato di cucina, pubblicato da De’Vecchi a Venezia nel 1570, ”Opera” di Bartolomeo Scappi, che era il cuoco personale di Papa Pio V. Nell’Opera vi sono piú di mille ricette e fatto curioso vi sono la prima raffigurazione conosciuta di una forchetta da usare a tavola anziché le mani e anche i metodi per la preparazione e l’uso dei nuovissimi ingredienti importati dalle Americhe.
Grande e di una o piú libbre sogliamo farlo soltanto per Natale; di pari o simil pasta, ma in panellini si fa tutto l’anno dagli offellai (da offella: focaccia) e lo chiamiamo Panattonin...”
Nel 1847, Paolo Biffi ne prepara uno di dimensioni da record per il papa Pio IX, cui venne recapitato per mezzo di una carrozza. Nel Novecento il panettone comincerà a essere esportato, e da lì inizierà un successo mondiale, che continua ancor oggi. Ed è sempre nel Novecento, infine, che il panettone assume la forma “alta” che noi tutti oggi conosciamo, grazie all’inventiva di Angelo Motta, che fasciò per primo lo stampo con carta da forno,
ottenendo cosí una maggior crescita in verticale con la tradizionale forma a cupola. Oggi per tutelare la preparazione del panettone tradizionale, si sta lavorando alla stesura di un disciplinare che permetta di ottenere la concessione del marchio europeo DOP (Denominazione d’Origine Protetta): un riconoscimento ulteriore per una specialità che da sempre lega il suo nome alle festività natalizie.
BIBLIOGRAFIA Bartolomeo Scappi, 1570, Opera ed. De’ Vecchi - Venezia http://www.ilpaesedeibambinichesorridono.it/il_panettone.htm http://www.aetnanet.org/catania-scuola-notizie-6073.html http://www.pilloleculinarie.it/curiosita/2415/la-storia-del-panettone/
Cittá del Messico
L’osso buco: tenero come le cosce di un angelo Isabella Spagnuolo Borgia
L
1. Lombata 2. Filetto 3. Scamone 4. Girello 5. Fesa esterna 6. Noce
7. Fesa Interna 8. Pesce 9. Geretto posteriore 10. Pancia 11. Fesone di spalla 12. Copertina
13. Fusello di spalla 14. Biancostato 15. Sottospalla 16. Geretto anteriore 17. Braciole 18. Punta di petto 19. Reale
a ricetta dell’ossobuco (comprese le erronee diciture: ossobucco, osso bucco, osobuco, etc.) é tra le ricette italiane piú conosciute al mondo. Google, se interrogato in inglese su questo piatto, in solo 0,26 secondi da due milioni di risultati comprendenti questo vocabolo.
Febrero 2013
L’ossobuco, ovvero osso cavo, é considerato in termini culinari come un piatto tipico della cucina milanese accompagnato dalla gremolada.
o De.Co., che sono un riconoscimento pubblico dell’origine di un prodotto e della sua appartenenza a un dato territorio.
Il taglio di carne é quello dello stinco di vitello centrale e posteriore, piú carnoso e morbido rispetto a quello anteriore, che é piú adatto per i bolliti, dato che é piú fibroso e con meno carne. Questo piatto, come abbiamo detto, molto popolare anche all’estero, é stato insignito di vari riconoscimenti. Nel 2012 é stato proclamato piatto ufficiale alla quinta edizione dell’IDIC – International Day of Italian Cuisines – la cui missione é quella di proteggere e promuovere la qualitá e autenticitá della cucina italiana nel mondo. Le precedenti edizioni hanno celebrato nell’ordine: spaghetti alla carbonara, risotto alla milanese, tagliatelle al ragú bolognese, trenette al pesto genovese. Mentre il Consiglio Comunale di Milano, cittá che reclama la paternitá dell’oss buss (cosí é denominato l’ossobuco in dialetto milanese), nel 2007 l’ha chiamato a far parte delle Denominazioni Comunali
Non c’é dubbio che l’ossobuco sia originario della regione lombardia, peró non se ne conosce la data di apparizione.
Se si prende in considerazione la gremolata a base di scorza di limone che accompagna il piatto si può presumere che il piatto fosse già presente nel XVIII secolo. Secondo gli storici della cucina fu nel periodo della rivoluzione Illuminista che il limone – in questo caso la scorza – sostituì più costose spezie, quali i chiodi di garofano, la cannella e la noce moscata.
Fino a quel periodo il piatto non includeva pomodori, che iniziarono a essere usati alla fine del XVIII secolo, dopo la loro importazione dalle Americhe. Alcuni autori credono che l’Ossobuco abbia una storia molto recente, anche perché non appare in libri popolari del XIX secolo, quali “La vera cucina lombarda”, publicata da un anonimo nel 1890. É nel 1891 che la ricetta dell’Ossobuco alla milanese appare nella “Scienza in Cucina e l’arte del mangiare bene” di Pellegrino
Artusi. Lo scrittore di origine romagnola incluse nella sua raccolta di ricette di cucina nazionale solo quelle più famose, note e radicate da lungo tempo. Io sarei propensa a credere che la ricetta sia una rivisitazione lombarda dello stinco di vitello tipicamente austriaco, lasciatoci in ereditá dalla dominazione austriaca in Lombardia.
L’ossobuco prima salato e infarinato viene soffritto in un battuto di cipolla, sedano e carota e dopo averlo sfumato col vino bianco viene brasato e portato a cottura con un po’ di brodo di vitello in cui é stato sciolto del concentrato di pomodoro. Ma quello che gli da il profumo e il sapore caratteristico é la “gremolada”, che consiste in un trito di aglio, prezzemolo, scorza di limone e a volte anche acciughe ( come nella ricetta che Ada Boni pubblica ne “Il talismano della felicità”), che si aggiunge all’ultimo momento prima di spegnere il fuoco per portarlo in tavola.
La parola gremolata viene dal milanese “gremolà”, ridurre in grani, ed era usata nel passato anche per insaporire le scaloppine e piatti a base di coniglio. Gli ossibuchi devono cuocere fino a che la carne si stacca dall’osso é puó essere tagliata con la sola forchetta, gli stinchi devono essere di vitello di latte per essere sufficientemente teneri. Il poeta newyorkino, Billy Collins, nel suo poema “Osso Buco” ha scritto che la sua carne dovrebbe essere “tenera come le cosce di un angelo/che ha vissuto un’esistenza in volo”.
Il midollo infine è una vera leccornia per gli intenditori e tradizionalmente era mangiato con l’aiuto di un cucchiaino lungo che si chiama “esattore”. Come si è detto l’ossobuco si mangia con il risotto o con la polenta, ma anche col puré come nel menu di questa sera. Una cosa è certa, dopo averlo mangiato, deve generare quella sensazione che Collins descrive come “il leone dell’appagamento” che piazza “una calorosa pesante zampata” sul petto di chi ha appena cenato con l’ossobuco.
BIBLIOGRAFIA http://www.alimentipedia.it/ossobuco-di-vitello.html http://www.superdi.it/pagina.php?cod=122 http://www.gvci.org/index.php?option=com_content&view=article&id=658&Itemid=1078
Cittá del Messico
La cucina italiana oggi in Italia e all’estero Isabella Spagnuolo Borgia
I
l tema di quest’anno della cena della cultura é dedicato alla Cucina Italiana Oggi, opera che il nostro centro studi pubblicherá a giugno nella Collana di Cultura Gastronomica.
Marzo 2013
Questa iniziativa rappresenta un contributo dell’Accademia, con scadenza biennale, all’approfondimento di temi culturali relativi al panorama gastronomico, prendendo in considerazione i rapidi mutamenti degli stili di vita, delle consuetudini alimentari, il susseguirsi di mode spesso effimere: tutti elementi da valutare con competenza e serietà per evitare che si crei, nella società e nell’individuo,
un caos alimentare, una confusione di valori e di comportamenti. Dallo studio delle preziose valenze del passato e della tradizione, dall’esame approfondito del presente, l’Accademia intende, con questa collana, tracciare le linee guida di un armonico percorso gastronomico-culturale per il futuro. Parlando di futuro mi vengono in mente le aspettative e le proposte d’avanguardia del Manifesto della cucina futurista di Marinetti e Fillia pubblicato nel 1930. La proposta piú provocatoria e quella del resto meno realizzatasi é quella dell’abolizione della pastasciutta per la sua pesantezza nell’essere digerita e anche perché la sua abolizione avrebbe liberato l’Italia dal costoso grano straniero e favorito l’industria italiana del riso. Queste le aspettative nelle parole dei futuristi: “L’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana” ... “La pastasciutta, nutritivamente inferiore del 40% alla carne, al pesce, ai legumi, lega coi suoi grovigli gli italiani di oggi ai lenti telai di Penelope e ai sonnolenti velieri, in cerca di vento.”
Altra aspettativa del tutto erronea del futurismo gastronomico era la previsione di una tecnologia vincolata alla chimica per l’assunzione dei cibi, tecnologia che invece si é sviluppata soprattutto nella loro conservazione con tutto il vantaggio di poterli cosí esportare e internazionalizzare.
Ecco un’altra aspettativa dei futuristi: “L’abolizione del quotidianismo mediocrista nei piaceri del palato. Invitiamo la chimica al dovere di dare presto al corpo le calorie necessarie mediante equivalenti nutritivi gratuiti di Stato, in polvere o pillole, composti albuminoidei, grassi sintetici e vitamine. Si giungerà così ad un reale ribasso del prezzo della vita e dei salari con relativa riduzione delle ore di lavoro.”
Ma il palato é legato a sensazioni molto primitive e per questo saldamente impresse nella nostre menti, basti pensare come sia difficile abituarsi a stili gastronomici diversi da quello con cui ci si é nutriti nell’infanzia e come certi sapori dell’infanzia ovvero della cucina di mamma, non si scordino mai e risultino irrinunciabili. Per cui malgrado l’evoluzione gastronomica e la fusion che a volte si applica in gastronomia, e viste le deluse aspettative del futurismo, dato che sappiamo benissimo che né gli italiani, né chi s’aspetti di mangiare italiano, rinuncerebbe mai alla pastasciutta, come non abbiamo rinunciato noi nel pranzo di oggi, possiamo dire che la gastronomia in genere tende ad essere tradizionalista, oggi come ieri. Semmai la globalizzazione ha favorito le esportazioni di materie prime e di prodotti finiti, come salumi,
paste, salse, formaggi, vini, oli, etc. Inoltre nel caso di noi italiani all’estero ci rendiamo conto che i ristoratori del luogo hanno clienti più informati e raffinati rispetto al passato, che hanno viaggiato e conoscono le ricette originarie e gli accostamenti coi vini locali, cosa che li sprona a cercare di non tradire la tradizione e ad allargare le possibilità di scelta. I cuochi sono invitati ad uscire dalle cucine e ad entrare nelle biblioteche e a viaggiare, per apprendere a riconoscere gli ingredienti genuini ed originali, che ora hanno a disposizione grazie alle importazioni, come non avveniva fino ad una trentina di anni fa. È importante che il cuoco si confronti con altri cuochi, di regioni e nazioni diverse, in un processo di continuo sviluppo, ma non della fusion con altre gastronomie (fusion che genera solo “confusion” come ebbe a sottolineare il nostro ex Presidente Giuseppe
Dell’Osso, quando venne a Cittá del Messico), ma dell’acquisizione della propria specifica identitá gastronomica. Nonostante l’industria di massa facesse presagire ben altro, come prospettato dai futuristi, l’alimentazione in Italia si è arricchita e specializzata in relazione alla definizione della propria identitá gastronomica a confronto con le altre e con l’acquisizione all’estero degli ingredienti che ne rispettano la tradizione. A questi fatti, se ne lega uno di grande importanza: la rinascita di una vera e propria cucina italiana. In Piemonte, in Friuli-Venezia Giulia, in Calabria... è possibile mangiare lo stesso piatto, che l’utilizzo di ingredienti diversi rende tuttavia caratteristico di un luogo o dell’altro. Questa tipicità regionale della nostra cucina è molto apprezzata dagli stranieri e contribuisce alla sua notorietà all’estero.
BIBLIOGRAFIA http://www.alberghiera.it/page.asp?idc=328 http://www.futurismo1.com/about/manifcucina.htm http://www.accademiaitalianacucina.it/it/content/lattivit%C3%A0-editoriale
Cittá del Messico
Del basilico di Pra’ e del suo pesto Isabella Spagnuolo Borgia
I
n Liguria la gastronomia é caratterizzata dalla erbe aromatiche piú che dal pesce: erbe come la borragine per confezionare i pansotti e il basilico con cui si elabora la salsa al pesto, che da alcuni decenni è tra le salse più conosciute e diffuse nel mondo.
Abril 2013
Il basilico (dal latino basilicum), chiamato in dialetto genovese baxaicò, classificato botanicamente come “ocimum basilicum”, etimologicamente deriva dal greco òzo = olezzo e basileus = re, per cui significa: olezzo regale. Deriva quindi il nome dal suo particolare aroma. Inoltre era considerato una pianta sacra ed utilizzato come ornamento all’entrata delle case per tener lontani gli spiriti maligni. Ancora ai giorni nostri in Messico é considerata la pianta per eccellenza per allontanare il malocchio e viene bruciata a tal fine nella cerimonia di pulizia detta: “limpia”.
Ricordo che appena arrivata in Messico piú di trenta anni fa’, ignara dei rituali messicani, andai al mercato di San Angel a comprare qualche rametto di basilico per condire la salsa al pomodoro, ma ebbi del bello e del buono a convincere l’ortolana, che come appresi poi era una venditrice di sole erbe o “yerbera”, che ne volevo poco, lei insisteva che era troppo poco per fare un bel fuoco!
Il basilico genovese, sebbene questa pianta sia originaria dell’ India e cresca spontaneamente in
Africa e America centrale, é sicuramente il migliore per quel che riguarda l’ottimo equilibrio tra il delicato profumo e il dolce sapore, senza tracce di gusto di menta che invece si riscontra in altre varietá. Il piú pregiato é quello della delegazione di Pra’, situata nel genovesato, dove la particolare situazione geografica di vicinanaza al mare, ventilazione e clima soleggiato hanno permesso la selezione di questa varietá unica, dalle foglie dal colore verde tenue e di dimensioni medio piccole.
Nelle poesie o novelle dialettali di poeti liguri il basilico per fare il pesto si coltivava in una latta posta sul davanzale di una finestra, di fronte al mare per carpirne “gli umori salsi e il calore del sole”. Nel 2005 il basilico coltivato in Liguria ha avuto il riconoscimento DOP (Denominazione di Origine Protetta) dalla Comunitá Europea. Il fatturato medio annuo ricavato dalla vendita del basilico prodotto in Liguria, ascende agli 8 milioni di euro. Purtroppo peró é presente sul mercato italiano del basilico mediocre e a basso prezzo, proveniente dalla Cina, Israele e Cile.
La ricetta emblematica della gastronomia ligure é certamente la salsa al pesto che si elabora appunto, pestando nel mortaio di marmo, con un pestello di legno, le foglie di basilico di piante che non abbiano superato i due mesi di vita, insieme all’aglio, aggiungendovi poi pinoli, olio d’oliva rigorosamente ligure (perché piú dolce e adatto a smorzare il sapore piccante dell’aglio), parmigiano e pecorino.
Col pesto si condiscono paste come trofie, trofiette, trenette, ma anche minestre, ripieni di verdure e anche salmorigli e piatti di pesce, se si prescinde dai formaggi. La salsa si può eventualmente conservare per qualche giorno, dopo averla ricoperta d’olio. I pinoli, considerati un’aggiunta fatta verso la fine del 1800, possono essere anche facoltativi. Obbligatorio invece l’aglio, che trova perfetta armonia col basilico genovese. I primi piatti col pesto esigono, essendo una salsa fredda e quasi vegetale, vini bianchi giovani, profumati, secchi, ma morbidi e freschi, delicatamente caldi, pieni e continui come il Riviera Ligure di Ponente Pigato e il Collio Sauvignon.
Ed ora un po’ dei storia. Sebbene alcuni gastronomi vorrebbero trovare origini antichissime di questa salsa, ricerche serie attestano che il pesto tuttalpiú deriva dall’aggiadda (agliata): una salsa a base d’aglio pesto con aceto, olio d’oliva e sale, risalente al 1200, che serviva per conservare meglio i cibi cotti e per coprire gli aromi e i sapori di carni troppo frollate o già con inizio di putrefazione.
nella “Cuciniera genovese” del 1865, di Giovanni Battista Ratto e di suo figlio Giovanni, dove viene definito “battuto d’aglio e di basilico” ed è una salsa con cui “si condiscono tutte le paste”. Vi viene indicato anche il modo di conservarla: in una arbanella (termine ligure per definire un barattolo di vetro), coperto di olio d’oliva, “chiuso con tappo di pergamena, legata con uno spago intorno”.
Di certo sappiamo che la ricetta del pesto, così come la conosciamo oggi, è stata codificata verso la metà dell’800: compare infatti trascritta per la prima volta
BIBLIOGRAFIA Ratto, G.B. e Ratto, G. (1865) La cuciniera genovese ossia la vera maniera di cucinare alla genovese. Ed. Frilli 2006 http://www.ilpestodipra.com/chisiamo.htm http://www.tigulliovino.it/dettaglio_articolo.php?idArticolo=611 http://sito.parco-basilico.it/
Cittádel delMessico Messico Cittá
DelFocaccia basilico di Pra’ La Recco e del suo pestoVittorio Stewens Isabella Spagnuolo Borgia
LI
a focaccia classica di Genova, meglio conosciuta come focaccia alla genovese, è una specialità tipica della cucina ligure: sorta di pane piatto (al massimo 2 cm) si distingue perché, prima dell’ultima n Liguria lievitazione la gastronomia viene spennellata é caratterizzata condalla un’emulsione erbe aromatiche composta piú da cheolio dal extravergine pesce: d’oliva, acqua erbe come e sale la grosso, borragine la si può per consumare confezionare giài pansotti a colazione, e il come basilico “rompi con cui digiuno” si elabora nellalamattinata salsa o come aperitivo-antipasto. al pesto, che da alcuni decenni è tra le salse più conosciute e diffuse nel mondo.
Maggio Abril 2013 2013
preparata anche nella cucina di casa. La sua variante più classica consiste nella sua ricopertura con cipolle tagliate assai finemente. Nella sua versione classica gli ingredienti occorrenti sono:
Breve Rassegna È particolarmente gradevole se accompagnata con un buon bicchiere di vino bianco, (o gianchetto pron. [u gianchettu] in lingua ligure) che ne favorisce la digestione. I genovesi usano anche inzuppare la focaccia nel caffelatte come colazione.
• Farina bianca di grano tenero tipo 00 rinforzata 500 g. • Acqua pura (300 g) oppure una miscela di acqua e vino bianco. • Malto o farina di cereali maltati (25 g). • Lievito di birra (quantità variabile a seconda delle condizioni climatiche. Per una lievitazione di 20 ore con temperatura ambiente di 20 °C 0.1%). • Sale fino per l’impasto (10-15 g) e sale grosso per il condimento (10 g). • Olio d’oliva extravergine (100 g, includendo sia quello dell’impasto sia quello usato per ungerla). All’impasto base possono essere aggiunte olive o rosmarino, oppure possono essere aggiunte sopra alla focaccia cipolle bianche tagliate a fettine, dopo averle unte con olio extravergine di oliva e salate, e lasciate riposare per una ventina di minuti.
Origini La focaccia viene preparata nei forni di ormai diverse città italiane, ma risulta spesso differente da quella tradizionale genovese. A parere di molti, infatti, la vera focaccia alla genovese la si può apprezzare solo nelle città liguri e nei borghi dislocati lungo la riviera ligure. I buongustai sono soliti aspettare di acquistarla calda, appena uscita da una delle varie infornate che si succedono nella mattinata, come si usa per la farinata. La focaccia è tipica del mattino, la farinata della sera, anche se ormai con i tempi moderni questo ritmo si è perso. Il segreto della sua fragranza è costituito dalla qualità della farina e soprattutto dall’uso di olio extravergine d’oliva. Ingredienti La elaborata lievitazione e l’accurata lavorazione della pasta richiedono una ventina di ore (ecco perché il prodotto risente decisamente delle condizioni climatiche, riuscendo meno buono nelle giornate particolarmente piovose); l’optimum di cottura lo garantisce soltanto un forno da panettiere (meglio se a legna), tuttavia una discreta focaccia può essere
Varianti La possibilità di elaborare varianti è limitata solo dalla fantasia del panettiere. Molto diffusa è anche la focaccia con le cipolle, alimento di antiche tradizioni nei quartieri più popolari di Genova e pasto usuale degli scaricatori del porto perché capace di saziare molto, in quanto la cipolla blocca i recettori dello stimolo della fame.
Tradizionali sono la focaccia con le olive (sopra, come per quella con le cipolle) o con la salvia (nell’impasto) o con il rosmarino (nell’impasto) o con le patate (nell’impasto) o con l’uvetta passa (in forma più dolciastra, nell’impasto); ultimamente si fanno focacce con patate e/o pomodori(sopra) o noci (nell’impasto) o con il formaggio (non tipo Recco). In Liguria è anche possibile trovare versioni decisamente moderne, ma non meno valide. È possibile
assaporare, per esempio, focaccia cosparsa di salse varie (nell’impasto), affettati o anche versioni dolci (nell’impasto), farcite di panna (nell’impasto), frutta secca(nell’impasto) o crema gianduia (nell’impasto). La fugàssa co-o formàggio (nell’impasto), focaccia con il formaggio, propria di Recco, non è considerabile una variante della focaccia genovese in quanto prodotta con pasta non lievitata (nell’impasto).
Focaccia di Recco Abbinamento ai vini Tradizionalmente da tempi remoti (e per remoti si intende dalla nascita dell’attività portuale della città), il rito della focaccia avviene verso le 11 di mattina. La focaccia è accompagnata da un bicchiere di vino bianco di Coronata. Al di là dell’ovvio risultato di rifocillare, l’assunzione di focaccia e vino bianco produce un effetto di sazietà permanente (probabilmente dovuto anche alla leggera ebbrezza dovuta al vino bianco) che annulla il senso di appetito che viene all’ora di
pranzo. Gli scaricatori del porto (i camalli) potevano in tal modo evitare di pranzare e questa abitudine contribuì ad alimentare il mito dell’avarizia dei genovesi. Oggidì gli abbinamenti consigliati con la focaccia classica sono: • •
Cortese di Gavi Vernaccia di Oristano
Cittá del Messico
Le trote di montagna Isabella Spagnuolo Borgia
L
a trota (Salmo trutta), è un pesce di acqua dolce che fa parte della famiglia dei Salmonidi; è diffusa in gran parte dell’Europa e vive esclusivamente in acque pulite poichè è un pesce estremamente sensibile e non sopravvive nelle acque inquinate.
Settembre 2013
Le trote di montagna vivono in acque fresche, limpide e molto ossigenate, con temperature non superiori ai 18 - 20°C, caratteristiche dei torrenti o dei laghi montani. In montagna è diffusa fino alla quota di circa 2500 m. Di indole stanziale e territoriale, si stabilisce in un tratto di fiume o di torrente ben definito, dove si nasconde ponendosi in agguato, col muso rivolto alla corrente, in attesa di cibo. Si nasconde nelle curve delle rive, dietro i sassi che frangono la corrente o dietro tronchi caduti, nelle buche dove si creano i rigiri, tra le radici sommerse, a valle delle cascate, nelle
fossette sul fondale in zone a corrente non elevata. Si trattiene anche nelle acque a corrente moderata dove si formano larghi spiazzi, ma sempre al riparo d’ogni ostacolo naturale che crei zone d’ombra. Nei laghi frequenta le zone rocciose dove si aprono cavità naturali e sosta anche in vicinanza di gruppi di vegetazione, senza infrascarsi. La sua rilevante velocità di scatto intorno ai 40 km/h, le consente di catturare anche prede veloci sul filo della corrente. Le migrazioni riproduttive e gli spostamenti maggiori si svolgono generalmente durante le ore crepuscolari e notturne. Le dimensioni della trota sono mediamente non troppo grandi: può arrivare a 50 centimetri di lunghezza e a 1,5 kg di peso e la sua carne ha una caratteristica colorazione bianca. La trota di montagna ha un corpo affusolato e un mantello verde bruno scuro con tonalità grigiastre, peró quello del maschio durante il periodo degli accoppiamenti puó variare fino a diventare bruno violaceo o color ocra secondo le condizioni ambientali e lo stato fisiologico del pesce. La parte superiore del corpo ed i fianchi presentano numerose macchie nere. I fianchi sono punteggiati da piccole macchie, rosse e nere, circondate o meno da un alone giallo o biancastro. Talvolta negli esemplari più vecchi le macchie
colorate scompaiono e resta solo la punteggiatura scura. Durante il periodo di frega, i maschi sviluppano un muso prominente con mascelle ad uncino e la tinta della livrea diviene più marcata e brillante.
La maturità sessuale viene raggiunta a circa 2 - 3 anni. Il periodo riproduttivo si estende da ottobre a febbraio e talvolta giunge fino a marzo. Gli esemplari maturi possono compiere piccole migrazioni per raggiungere le aree più adatte alla frega. Le zone riproduttive sono rappresentate da acque pure, di scarsa profondità, correnti e bene ossigenate, con substrato misto a ciottoli, ghiaia e sabbia. La femmina scava una depressione poco profonda nel substrato e vi depone le uova. Dopo la fecondazione da parte del maschio, la madre ricopre la covata con la ghiaia del nido. Non esistono cure parentali. Ogni
femmina depone da 1.000 a 2.000 uova per kg di peso. Gli avannotti restano sepolti nella ghiaia fino al riassorbimento del sacco vitellino, quindi emergono e cominciano a cibarsi. In natura la dieta della trota è strettamente carnivora, anche se in allevamento questi pesci vengono alimentati con mangimi misti a cereali e proteine. Le prede più frequenti sono gli stadi larvali e adulti di insetti. Le trote di taglia maggiore predano altri pesci, in particolare scazzoni, sanguinerole e vaironi, in minor misura catturano anche anfibi e piccoli mammiferi come toporagni e roditori. I grandi esemplari, territoriali e solitari, spesso dimostrano tendenza al cannibalismo, in particolare in tratti di torrente o di fiume dove immissioni sovradimensionate di trote abbiano determinato la scomparsa delle altre specie di pesci. Nei corsi d’acqua dove la dieta sia composta in misura significativa da crostacei, o se in allevamento viene alimentata con mangimi arricchiti con chitina e carotenoidi, le carni della trota acquistano una colorazione rosea o aranciata, in questo caso si dice comunemente che la trota è salmonata. La trota in condizioni sperimentali facilmente genera ibridi con altre specie simili, come la trota iridea, la trota marmorata, il salmone, il salmerino di fontana, mentre tali ibridazioni risultano molto rare in natura. In tutta Europa, la pesca della trota è soggetta a
regolamentazione con periodi di divieto e misura minima. La specie è inclusa nella Lista Rossa IUCN (International Union for Conservation of Nature and Natural Resources). La trota ricopre un discreto interesse commerciale, specialmente per la produzione di materiale da ripopolamento per la pesca sportiva. Esemplari di questa specie sono disponibili sui mercati ittici in quantità esigue. Le sue carni ottime, sode e di sapore delicato, bianche o rosate, vengono commercializzate fresche, surgelate e affumicate. I soggetti selvatici, in particolare quelli pescati nei torrenti e nei laghi di montagna, sono di qualità migliore.
evitare di coprirne il sapore molto delicato. Ottima quindi la trota lessata, condita con olio, limone, sale e pepe, in padella, alla griglia e al forno. La trota, non “lega” molto con l’olio extra vergine di oliva (a parte una piccola quantità)e per la sua cottura viene usato principalmente il burro o cosparsa semplicemente di sale e erbe aromatiche e grigliata.
Fino dall’antichità la trota è stata molto apprezzata in gastronomia. Di facile digestione, la trota, ha carni non molto grasse che sono quindi indicate nelle diete e contiene inoltre una buona dose di fosforo e potassio. La trota, in cucina, si adatta ad essere preparata in svariati modi, anche se è comunque consigliato scegliere preparazioni il più semplice possibile, per BIBLIOGRAFIA http://www.ittiofauna.org/webmuseum/pesciossei/salmoniformes/salmonidae/salmoninae/salmo/ salmotrutta/truttafario/salmotruttafario0.htm http://www.giallozafferano.it/ingredienti/Trota
Cittá del Messico
LeFRATTAGLIE: trote di montagna Spagnuolo Borgia un sapore Isabella antico Isabella Spagnuolo Borgia
IL
a trota (Salmo trutta), è un pesce di acqua dolce che fa parte della famiglia dei Salmonidi; è diffusa in gran parte dell’Europa e vive esclusivamente l tema di quest’anno della Cena Ecumenica è dedicato alle frattaglie. Frattaglia in acque pulite poichè è un pesce estremamente sensibile e non sopravvive nelle deriva dal vocabolo latino fractus, frangere, e quindi per similitudine indica quelle parti acque inquinate. frammentate, di poco valore, che rimangono in un macello, dopo aver levato tutte le parti migliori.
Settembre 2013 Ottobre 2013
Quindi sono frattaglie la trippa, il fegato, il cervello, il rognone, la coratella, il polmone, le animelle e anche il sangue. In un animale di scarse dimensioni hanno poca importanza, ma in un bovino adulto assommano a svariati chili. Nel passato le famiglie piĂš povere ne facevano un gran consumo. Oggi invece le tabelle dietetiche sempre piĂš meticolose e spietate ci fanno prendere atto con stupore che queste parti povere hanno anche un basso tasso calorico e oltre tutto un elevato colesterolo. Ad esempio, rispetto al
manzo magro che fornisce 85 mg di colesterolo (e 129 calorie), quello della trippa sale a mg 155, quello del fegato varia, a seconda della specie animale, da 230 a 610, restando su 438 per i bovini (e 132 calorie), per non parlare del cervello che tocca punta 2.000 di colesterolo (e 156 calorie). Per tutte queste rivelazioni
le frattaglie hanno fatto un tonfo. Però bisogna ammettere che con esse si possono elaborare dei piatti molto saporiti, come la salsa a base di fegato di lepre che assaggeremo questa sera.
Il fegato deve il suo nome ai Romani, che lo chiamavano ficatum riferendosi espressamente al fegato d’oca ingrassato con i fichi. I Francesi hanno fatto tesoro di questa antica ricetta, elaborando il foie gras, con il quale sono stati preparati i grissini del nostro menú ecumenico. Insieme al polmone, alla milza e al cuore, il fegato costituisce la cosiddetta corata, o coratella se si tratta di piccoli ovini, caprini e suini. Ricordo ancora il profumo che si sprigionava dalla cucina, il sabato mattina, giorno in cui mio padre, che era fiorentino, si dedicava a cucinare i suoi piatti preferiti e che mia madre, siciliana, non sapeva cucinare: era l’aroma della coratella trifolata con aglio e prezzemolo, che lui chiamava fritticello forse perché a differenza della coratella conteneva anche la trachea. Ricordo ancora lo scrocchiare sotto i denti della trachea, la massa spugnosa dei polmoni, la callositá dei rognoni e la
consistenza totalmente diversa del fegato e del cuore piú simili a quelli della carne: sapori di un tempo che non ho mai piú ritrovato.
Rispetto alle altre frattaglie il fegato si distingue per l’elevatissimo contenuto di vitamina A. La ricetta regionale italiana mondialmente più conosciuta è quella del fegato alla veneziana, ricetta molto gustosa elaborata solo con cipolla e fegato.
Cittá del Messico
Chi ha inventato la pasta? Isabella Spagnuolo Borgia
P
er tentare di rispondere bisogna tornare indietro nel tempo e visitarne la storia e le leggende. Alcuni testi si riferiscono a Marco Polo, altri a genti venute dall’Oriente o addirittura ai Mongoli. Quale la veritá quando in realtá l’origine della pasta si perde nei meandri del tempo?
Novembre 2013
Cercando di usare la logica pensiamo che, come il pane, la pasta fu con grande probabilitá un cibo spontaneo, legato alla scoperta e all’uso dei cereali. Nel bacino del Mediterraneo in tempi ormai remoti si svilupparono coltivazioni di frumento e orzo, grano saraceno nell’Africa settentrionale, nel Nord europeo avena, mais nell’America centrale e segale nei paesi anglosassoni. I cereali vennero dapprima utilizzati grazie alla raccolta dalla vegetazione spontanea, poi selezionati e coltivati. In tappe successive, si arriva alla macinazione e alla farina, all’impasto, alla sfoglia e ... alla pasta. Con l’avvento dell’organizzazione civile delle tribú
stanziali, si giunse quindi all’utilizzo di un impasto molto simile alla pasta attuale. La prima indicazione storica dell’esistenza di qualcosa di simile alla pasta in Europa, risale alla civiltà greca: la parola lagane era usata nel mondo greco per indicare una sfoglia larga e piatta di pasta tagliata a strisce. Aristofane, il commediografo greco della fine di V secolo a.C., in un passo di carattere gastronomico di una sua commedia, accenna ad una pasta di frumento che ricorda gli attuali ravioli. Fu cibo degli etruschi, visto che in una tomba di Cerveteri sono raffigurati coltelli, mattarello e una rotella che sembra quella ancora in uso per la preparazione dei ravioli (pare che gli etruschi preparassero e cucinassero lasagne di farro, un cereale simile al frumento, ma ben piú resistente alle intemperie e alle malattie). É certo che i romani (pronti ad imitare o a far proprie usanze altrui e spesso a migliorarle), parlano per primi di lagane. Le lagane romane certamente non erano identiche alle attuali lasagne e ai maccheroni, ma sicuramente gli assomigliavano ed erano a base di farina, ne é prova il fatto che il piu’ antico libro di ricette romane, scritto da Apicio, raccomandava di utilizzare “le duttili lagane per racchiudervi timballi e pasticci”.
Nel 35 a.C.- Q. Orazio Flacco (65 a. C. - 8 a.C.) descrive nella satira VI del I Libro, v. 115 la propria frugale cena: [...] “inde domum me ad porri et ciceris refero laganique catinum”, (tr. quindi me ne ritorno a casa per mangiare una scodella di porri, ceci e lagane). Che cosa siano queste lagane ce lo spiega il Forcellini (1688 - 1768) nel suo Lexicon totius latinitatis, dove le descrive come sottili strisce di farina e acqua, che cotte in brodo grasso, si condiscono con cacio, pepe, zafferano e cannella. Insomma qualcosa di molto simile in questo caso alle pappardelle del nostro menú. Nel XII secolo si documentata l’esistenza di un’industria di pasta secca, detta “itrija”, localizzata nelle vicinanze di Palermo. Uno scritto del 1154, del geografo di origine araba Al-Idrisi, che era al servizio di Ruggero II, intitolato “Il libro di chi si diletta a girare il mondo” si legge di una zona abitata con case e “molti mulini”, a poca distanza da Palermo, denominata “Trabia” dove si fabbrica pasta a forma di fili (Tria in arabo), e di commerci della pasta, molto sviluppati, in paesi di “Musulmani e Cristiani”, spedita con navi che ne trasportarono abbondanti quantità ovunque nel Mediterraneo”. Viene riferito anche che “Orazio - che amava la vita semplice e rustica - preferiva mangiare una scodella di porri, ceci e lagane a casa sua piuttosto che frequentare le feste e i banchetti della corte di Augusto”. Intorno all’anno Mille abbiamo la prima ricetta documentata di pasta, nel libro “De arte Coquinaria per vermicelli e maccaroni siciliani”, scritto da Martino Corno, cuoco del potente Patriarca di Aquileia.
In Puglia le lasagne secche oncor oggi vengono chiamate “Tria”. Manca ancora quasi un secolo alla nascita di Marco Polo (che tornó dall’Oriente nel 1295) e giá si usava la pasta alimentare a forma di spaghetto e questo basta a eliminare il dubbio e a sfatare la leggenda sulla provenienza degli spaghetti dalla Cina, su cui si é tanto discusso. Molti altri spunti si possono trarre da scritti del XII e XIII secolo dove vengono spesso fatti riferimenti ad “abbuffate di lasagne con formaggio”, Jacopone da Todi nomina la pasta in una delle sue invettive contro il Papa, Boccaccio nel Decamerone ne fa un elogio convincente ed entusiasta e altri anche se meno famosi, ma convinti, ne decantano in versi le qualitá. Nel XVII secolo, poi, a Napoli, la Pasta incontró il pomodoro, giunto in Europa dopo la scoperta dell’America. Questo connubio fu una vera rivoluzione gastronomica, questo nuovo accostamento fece rapidamente dimenticare le combinazioni agrodolce e dolce-salato fino ad allora utilizzate in cucina.
La Pasta cosí trattata non entró’ immediatamenteo nelle mense “nobili e principesche d’Italia”, perché veniva ancora mangiata con le mani. Nel 1787 Goethe, nel suo diario Viaggio in Italia, dopo aver definito i maccheroni come una «pasta delicata, fatta di farina fina, fortemente lavorata, bollita e trafilata in certe forme», disegna delicati scorci di vita napoletana descrivendo l’attività dei maccheronari che, agli angoli di quasi tutte le grandi via, «con le loro casserole piene di olio bollente sono occupati, particolarmente nei giorni di magro», a preparare maccheroni, con «uno smercio incredibile», tanto che «migliaia di persone portano via il loro pranzo e la loro cena in un pezzettino di carta». Fu solo attorno al 1800, che grazie ad un intraprendente ciambellano di corte di Re Ferdinando II, tal Gennaro Spadaccini, e alla sua geniale idea di utilizzare una forchetta con 4 punte corte (poi diventata di uso comune e che era giá in uso pieghevole e a 3 punte alla corte dei Medici), che la pasta fu servita anche nei
BIBLIOGRAFIA http://it.wikipedia.org/wiki/Pasta G.Scotti in www.italy-food.net
pranzi delle corti di tutt’Italia e di lá inizió il suo giro del mondo. Nel 1806 M. Bonaiuti da Londra scrive, in Italian scenery: «I maccheroni di Napoli si riconoscono facilmente. Non sono avvolti a matassa come quelli di Genova. Sono assolutamente diritti e solo ad una estremità hanno una curva, perchè non appena sono usciti dalla pressa per la lunghezza prestabilita, vengono appesi a dei bastoni per farli essiccare. Il foro che li attraversa da un capo all’altro è perfettamente eseguito. [...] Ciò che più li distingue è il loro colore giallo dorato. Il loro impasto è granulare e guardato contro luce presenta una particolare trasparenza propria dei veri maccheroni di Napoli». La pasta da allora é diventata il cibo piú italiano che ci sia, quello che ovunque nel mondo viene istintivamente associato all’Italia. La pasta italiana qualitativamente resta la migliore al mondo, orgoglio e vanto della nostra cucina, compagna della nostra tavola e della nostra storia.
CittĂĄ del Messico
I Dolci di Natale in Italia Isabella Spagnuolo Borgia
I
l Natale è un’occasione che consente a molti di noi, intrappolati nei frenetici ritmi quotidiani, di fermarsi qualche ora a tavola per gustare con calma le prelibatezze della tradizione gastronomica.
Dicembre 2013
Ma il Natale è anche ricco di gesti simbolici e ricchi di tradizione che donano a questa festa un’enorme magìa.
e tantissime sono le dolcezze tipiche delle regioni: roccoco’, susamielli, divino amore, zeppole e struffoli, panpepato, panettonbe, ricciarelli e tanto altro...
E parte di questa magia é costituita dai dolci che hanno un ruolo importantissimo nella cucina natalizia italiana. Le preparazioni natalizie sono legate alla rinomata tradizione pasticciera italiana
Le zeppole, tipiche della costiera sorrentina, sono ciambelline fritte preparate con una pasta a base di farina acqua latte ed anice e condite con miele, diavulilli (per chi non lo sapesse sono i confettini piccini e coloratissimi che ci riportano alla mente le decorazioni dei nostri alberelli di natale) e scorzette d’arancia.
Gli struffoli sono un tipico dolce natalizio, la cui forma è a base di sfere ricoperte di miele e dai multicolorati diavulilli. L’origine degli struffoli è greca: il nome, deriva da strongulos, cioè pasta a forma sferica, arrotondata o incavata; anche questa preparazione è consolidata nella tradizione pasticciera napoletana.
I roccocò a forma di ciambella, adatto a chi ha denti solidi, trae la sue origini invece dal francese rocaille per la barocca e rotondeggiante forma di conchiglia. Famosissimo è anche il panforte di Siena, delizioso e ricco di mandorle, noci e gherigli.
Come pure é famoso il Panettone milanese, con la sua bella forma a cupola, che stasera degusteremo ripieno di Mascarpone. Il dolce tipico di Ferrara per il Natale è il panpepato a base di spezie, cioccolato e frutta secca. A Bologna e in tutta la sua provincia, il panone è il dolce tipico delle feste natalizie insieme al certosino. I due dolci sono di colore simile tra loro ma di consistenza nettamente diversa: hanno in comune le
decorazioni in superficie fatte con canditi, cioccolato e frutta secca ma, se il certosino assomiglia, nella sua consistenza, al panpapato ferrarese, il panone è più una ricca torta lievitata ma tanto, tanto piena di bontà. A Mantova i dolci tipici sono: l’anello di Monaco e la classica sbrisolona. Il primo ha la forma di un panettone e quasi il suo stesso tipo di pasta (a parte la farcia), però ha un buco nel mezzo largo quasi come una bottiglia bordolese. Sembra quasi un ciambellone molto alto. L’interno del dolce ha vari livelli di farcitura dove si alternano nocciole e mandorle tostate, zucchero e Marsala (in alcuni versioni si trova anche la cioccolata) mentre la parte superiore, quella che in un normale panettone è marroncina, è tutta ricoperta di una bianchissima glassa di zucchero.
In Trentino c’è lo Zelten; da queste parti è il dolce natalizio per eccellenza. Si tratta di un pane dolce farcito con frutta secca e canditi. Lo si gusta al rientro dalla messa di mezzanotte. Ogni famiglia ha ancora la sua ricetta specifica per la buona riuscita del dolce.
Cittá del Messico
Il Parmigiano Reggiano Il re dei formaggi Victor Stewens
I
l parmigiano reggiano è probabilmente, dopo la pasta, la pizza ed il vino, il componente gastronomico italiano più diffuso nel mondo, anche se come occorre con tutti i prodotti di successo, questo prodotto artigianale di una regione ben definita dell’Italia, è anche il più copiato, sofisticato e vittima del “falso in cucina”.
6 Marzo 2014
A continuazione vogliamo, in una forma succinta, presentare questo prodotto “italianissimo” ed incoraggiare i lettori ad essere critici con i stabilimenti che offrono un parmigiano reggiano che non è quello originale. Le origini del parmigiano risalgono al secolo XII quando al lato dei grandi monasteri (benedettini o cistercensi) o i grandi castelli comparvero degli edifici piccoli, dove si lavorava e trasformava il latte, il principale ingrediente del parmigiano. Conseguentemente il “secreto”del parmigiano sono le mucche da latte di buone dimensioni (originalmente la Reggiana rossa e adesso la Frisona) allevate sui pascoli nutritivi della regione del Parma e Reggio. Importante è notare che l’abbondanza di acqua sorgiva in quella zona aiutava alla formazione di praterie sugose e adatte per la produzione di un latte con le caratteristiche ideale per la produzione di un formaggio a pasta dura. Un altro ingrediente importante che si trova nel Parmense e no nelle altre cittadine della regione era il sale: le saline di Salso Maggiore fornivano il sale per la trasformazione casearia del latte. La produzione del Parmigiano Reggiano è pertanto vincolata esclusivamente alle Province di Parma, Modena, Reggio Emilia e una zona della Provincia di Mantova e di Bologna, tra i fiumi Po e Reno. Qui si concentrano 4.000 allevamenti con
mucche alimentate di foraggi della zona. Interessante osservare che anche l’alimento degli animali è sottoposto a un rigido regolamento e controllo. Infatti, sono proibiti foraggi insilati o fermentati. Il controllo della qualità del latte è basico per mantenere le caratteristiche uniche di questo formaggio totalmente naturale, senza additivi o conservanti.
Gli ingredienti sono gli stessi di 900 anni fa: latte di una zona d’origine ben definita, caglio naturale e sale. Il procedimento non è cambiato nel trascorso dei tempi. Ogni giorno, il latte della mungitura serale viene lasciato riposare sino al mattino in ampie vasche, nelle quali affiora spontaneamente la parte grassa, destinata alla produzione di burro. Insieme al latte intero della mungitura del mattino, appena giunto dagli allevamenti il latte scremato della sera viene poi versato nelle tipiche caldaie di rame a forma di campana rovesciata, con l’aggiunta di caglio di vitello e del siero innesto, ricco di fermenti lattici naturali ottenuti dalla lavorazione del giorno precedente. Il latte coagula in una decina di minuti. La cagliata che si presenta viene frammentata in minuscoli granuli grazie ad un antico attrezzo detto spino. E’ a questo punto che entra in scena il fuoco, per una cottura che raggiunge i 55 gradi centigradi,
al termine della quale i granuli caseosi precipitano sul fondo della caldaia formando un’unica massa. Dopo circa cinquanta minuti, la massa caseosa viene estratta, con sapienti movimenti, dal casaro. Tagliato in due parti e avvolto nella tipica tela, il formaggio viene immesso in una fascera che gli darà la sua forma definitiva. Con l’applicazione di una placca di caseina, ogni forma viene contrassegnata con un numero unico e progressivo che l’accompagnerà proprio come una carta d’identità. Dopo poche ore, una speciale fascia marchiante incide sulla forma il mese e l’anno di produzione, il numero di matricola che contraddistingue il caseificio e l’inconfondibile scritta a puntini su tutta la circonferenza delle forme, che a distanza di pochi giorni vengono immerse in una soluzione satura di acqua e sale. E’ una salatura per assorbimento che in poco meno di un mese conclude il ciclo di produzione e apre quello non meno affascinante della stagionatura. La stagionatura minima è infatti di dodici mesi, ed è solo a quel punto che si potrà dire se ogni singola forma potrà conservare il nome che le è stato impresso all’origine.
Magazzino di stagionatura del parmigiano-reggiano
Gli esperti del Consorzio di tutela le esaminano una ad una. Dopo la verifica dell’organismo di controllo, viene applicato il bollo a fuoco sulle forme che hanno i requisiti della Denominazione d’origine Protetta. Per ognuna forma sono stati necessari circa 550 litri di latte, e l’impegno costante di allevatori e casari. Ma il lavoro continua. Lasciato riposare su tavole di legno, la parte esterna del formaggio si asciuga formando una crosta naturale, senza trattamenti, perciò perfettamente edibile.
Una forma di formaggio Parmigiano-Reggiano mediamente s’aggira sui 38,5 kg. Per produrre una forma di Parmigiano Reggiano servono circa 550 litri di latte con una media di 16 litri per ogni chilogrammo di formaggio prodotto.
Riassumiamo le caratteristiche basiche per riconoscere il Parmigiano Reggiano D.O.P: • Forma cilindrica, a scalzo leggermente convesso o quasi diritto, con facce piane, leggermente orlate; • Dimensioni: diametro da 35 a 45 cm., altezza dello scalzo da 18 a 24 cm.; • Peso medio di una forma: Kg. 35/40; • Confezione esterna: tinta oscura ed oleatura o giallo dorato naturale; • Colore della pasta: da leggermente paglierino a paglierino; • Aroma e sapore della pasta caratteristica: fragrante, delicato, saporito, ma non piccante; • Struttura della pasta: minutamente granulosa, frattura a scaglia; • Occhiatura: minuta, appena visibile; • Spessore della crosta: circa 6 mm.;
LA PROCEDURA DELL’ASSAGGIO Per assaggiare al meglio il Parmigiano Reggiano occorre seguire questi semplici passaggi: • osservare la scaglia o il campione di Parmigiano Reggiano • prenderlo fra le mani e tastarlo • spezzarlo e annusarlo valutandone gli odori • mordere il pezzetto e deformarlo con i denti • masticarlo, facendolo ruotare in tutto il cavo orale • espirare l’aria dal naso e valutare aroma e persistenza globale • valutare l’intensità dei sapori fondamentali • distinguere le caratteristiche della struttura del formaggio percepite in bocca • deglutire il campione e valutare l’eventuale comparsa di retrogusti. Per terminare: alcuni si ricorderanno il terremoto che ha colpito il Modenese in maggio del 2012: anche i magazzini della stagionatura del Parmigiano hanno sofferto danni. Secondo stime della Coldiretti Emilia Romagna sono tra le 400 e le 500 mila le forme di Parmigiano Reggiano pesantemente danneggiate dal terremoto. Ad essere colpite sono state soprattutto le forme fresche (sei mesi di stagionatura) danneggiate dal crollo delle scalere, le grandi scaffalature di stagionatura che sono collassate sotto la scossa di terremoto di 6 gradi della scala Richter. Secondo una prima valutazione i danni ammontano solo per il Parmigiano Reggiano ad oltre cento milioni di euro ma è tutto il comparto agricolo ad avere subito ripercussioni.
Fonte http://www.parmigiano-reggiano.it http://it.wikipedia.org/wiki/Parmigiano-Reggiano
Cittá del Messico
Le Acciughe Marco Cannizzo
L
’acciuga o alice è un pesce della famiglia degli Engraulidae.
L’ordine Clupeiformes comprende numerose specie di pesci d’acqua dolce e salata, suddivisi in 6 famiglie, tra cui due specie molto conosciute e apprezzate per l’alimenti sono le acciughe e le sardine.
Maggio 2014
Chiamata in italiano anche alice, l’acciuga è un pesce comunissimo nel bacino del Mediterraneo e per questo ha molte denominazioni regionali o dialettali: “lice” tra Bari e Brindisi, “anciova in Sicilia, “sardon” tra Veneto e Marche, “anciuia” in Liguria. azione umana, l’acciuga e la sardina. Questa specie è diffusa nell’Oceano Atlantico orientale tra la Norvegia ed il Sudafrica. È presente e comune nei mari Mediterraneo, Nero e d’Azov. Alcuni esemplari sono stati catturati nel canale di Suez, si tratta di una delle poche specie di pesci mediterranei che hanno intrapreso una migrazione verso il mar Rosso, in senso contrario a quello dei migranti lessepsiani. L’acciuga fa vita pelagica ma all’arrivo della primavera si approssima in branco alla costa.
Corpo lungo, provvisto di squame, muso breve. Le pinne pettorali sono normali. La pinna caudale è a V. L’acciuga si distingue dagli altri per avere la mascella di sotto più corta di quella di sopra. Il colore è verde
azzurro, i fianchi e la pancia sono di colore argento, lungo i fianchi c’è una linea a volte marrone ma che nelle varianti gastronomicamente più pregiate deve essere color blu elettrico. Può essere lunga da 12-18 centimetri fino ad un massimo di 20 centimetri.
La salatura del pesce é possibilmente l’ usanza gastronomica piú antica tra quelle che esistono in Spagna. L’ origine si rimonta all’ Etá del Bronzo quando giá si sfruttava commercialmente il sale nella salatura del pesce. É peró verso la metá del terzo millennio A.C. quando i fenici cominciano a commercializzare e diffondere il procedimento di salatura in fabbriche lungo le coste mediterranee. Posteriormente Roma, erede di questa tradizione, sviluppó e potenzió ancora di piú l’ uso del sale per la conservazione del pesce, creando una delle pietanze piú squisite del mondo: L’ ACCIUGA
In tema di acciughe bisogna menzionare necessariamente Santoña, al nord della Spagna, che é stata la zona ove sono state preparate per la prima volta le acciughe sott’ olio come le conosciamo oggi.
Tuttavia il merito si attribuisce a uno dei primi salatori italiani che si recarono sul posto, il siciliano Giovanni Vella Scaliota. Merito suo é stato inventare i filetti di acciuga sott’ olio nel anno 1883. Vella era arrivato a Santoña nell’ anno 1880 inviato dall’ impresa napoletana Angelo Parodi dedicandosi insieme ad altri italiani alla professione di “salatore”. Cominció a realizzare in fabbrica il procedimento di lavare la salatura e poi formare due filetti togliendo la spina centrale e conservando in scatola i filetti utilizzando burro sciolto come copertura. Le acciughe preparate da Vella erano molto saporite ma anche molto care cosí, continuando ad aguzzare l’ ingegno e dopo vari esperimenti, arrivó alla conclusione che l’ olio d’ oliva a 0 gradi di aciditá era la migliore soluzione.
Pesci di profondità, le alici si avvicinano alle coste durante il periodo riproduttivo, ovvero nei mesi compresi tra marzo ed agosto; è allora che vengono pescate, di notte alla luce di enormi lampare.
L’acciuga, considerato un pesce poco ricercato, viene raramente consumato fresca, mentre è apprezzato come conserva sotto sale, sott’olio o marinata. La sua salagione, un’arte antica conosciuto già degli Etruschi, è una sorta di rito dove si utilizza una dose di sale che, messa tra uno strato e l’altro di alici, permetta di vedere e non vedere i pesci. Il Verga, nel suo romanzo “I Malavoglia”, dedica molte pagine a descrivere questa attività fatta di sera in famiglia chiacchierando amabilmente. In Liguria, già a partire dal tardo Medioevo troviamo tracce delle acciughe, come delle altre specie di pesce azzurro conservate sotto sale, negli statuti o atti notarili di molte località. A quell’epoca questi pesci erano un gustoso companatico di poco prezzo, che grazie alla lunga conservazione si diffuse anche nelle tradizioni gastronomiche delle regioni dell’interno. L’acciuga è un alimento che rifugge ad esperimenti e fantasiose associazioni, vuole ricette antiche e semplici, come dimostrano i pescatori di Aci Trezza in Sicilia, che delle nutrienti acciughe sotto sale hanno fatto il simbolo della festa della Vergine, dove per propiziarsi la protezione della Madonna nel lungo inverno, le mangiano e le offrono in quantità condite con olio, aceto, pepe, accompagnate da pane appena sfornato e innaffiate con vino. Le larve di acciuga sono conosciute come “gianchetti” o “bianchetti” e si gustano appena sbollentate e condite con olio, limone e pepe. Il maggior pregio delle alici è nella loro parte grassa: per prima cosa non troppo abbondante, e poi è particolarmente ricca di acidi grassi omega 3, utili per svolgere un’azione salutare a carico del sistema cardiocircolatorio, controllando la concentrazione sanguigna dei trigliceridi e diminuendo la tendenza delle piastrine ad aggregarsi attorno alle placche di colesterolo. Piatti tipici con acciughe: Uno dei piatti che non si puó non menzionare é la Bibliografia: www.taccuinistoricci.it www.wikipeddia
Bagna Cauda, originaria del Piemonte. Potremmo definirla la fondue italiana, perché si tratta di una salsa che viene servita calda e nella quale si bagnano vegetali e pane affinché ne prendano il sapore. Sembra che tradizionalmente la consumassero i contadini seduti attorno al fuoco per ristorare le forze. La Bagna Cauda si preparava in un recipiente di terracotta ad una temperatura moderata per non fare bollire il contenuto. La ricetta di Bagna Cauda piú comune contiene olio d’ oliva extra vergine, acciughe, aglio, latte o burro e noci, anche se c’é chi indica che originalmente si elaborava con olio di noci invece che olio di oliva e senza latticini. Un altro piatto molto rinomato in Sicilia a base di sarde ed acciughe e la pasta con le sarde, pasta cche sardi in siciliano é un piatto típico della cittá di Palermo. La pietanza si prepara con pasta (generalmente maccheroni), sardine fresche e finocchio. Contiene anche olio d’ oliva, cipolla, uva passa e pinoli. Inoltre si aggiungono un poco di acciughe sotto sale o sott’ olio per dare sapore ed un pó di zafferano per sapore e colore. É un piatto antico quindi possono esistere diverse varianti nelle varie localitá della Sicilia. Valori nutritivi Composizione per 100 g: • Acqua 79,60 g, • Proteine 15,31 g, • Lipidi 3,55 g, • Glicidi 1,51 g, • Vitamina A 0,04 mg, • Vitamina B 0,03 mg, • Calcio 18 mg, • Fosforo 182 mg, • Ferro 0,90 mg. L’acciuga ha un’eccellente valore alimentare per il suo contenuto in proteine e minerali. Sono facilmente digeribili per via della scarsa quantità di tessuto connettivo e di grassi. BUON APPETITO!!
CittĂĄ del Messico
Pasta alla carbonara Marilena Moneta Caglio e Dino Pagliai
T
anti pensano che le origini della carbonara risiedano a Roma, altri le collegano ai carbonai, altri ancora ne rivendicano la paternitĂ al nome derivante dal paese pugliese di Carbonara, nella provincia di Bari.
Settembre 2014
Chi ne attribuisce la paternità ad Ippolito Cavalcanti, nobile napoletano che ne aveva pubblicato la ricetta in un suo libro, mentre altre fonti la considerano una tipica ricetta nata durante la seconda guerra mondiale dall’unione tra la cucina romana e le grandi quantità di bacon portate dagli americani come provviste militari. Militari di stanza a Roma chiedevano a pranzo uova, pancetta e “noodles”, tipici spaghetti cinesi allora molto usati in America, che gli osti romani soddisfacevano servendo guanciale, uova fritto e spaghetti nello stesso piatto, i soldati americani mescolavano il tutto creando, a loro insaputa, l’antenato del celebre piatto. Altri ipotizzano che la carbonara sia stata inventata da un cuoco che faceva parte dell’associazione segreta dei carbonari, gruppo di patrioti che si batteva contro l’occupazione austriaca del Nord Italia attiva tra la fine del ‘700 e la guerra d’indipendenza, teoria che ne suggerisce la nascita, e il consumo, nei nascondigli degli aderenti. Anche i sardi ne rivendicano la paternità ipotizzando
la nascita del piatto a Carbonia nel cagliaritano, per merito di un cuoco che preparava i pasti agli operai che lavoravano nelle carbonaie, trasferitosi in seguito a Roma portando la ricetta chiamata “alla carbonara” in ricordo di quest’ultimi. Un’ipotesi che avvalora il racconto delle origini del nome è la presenza del pepe nero macinato con abbondanza sopra il piatto come se fosse una spolverata di polvere di carbone. Ma come tutte le grandi opere ognuno ci mette il dito, in questo caso il maccherone, controversa diventa anche la disputa sul tipo di pasta da usare, lunga o corta. Alcuni preferiscono i rigatoni, ma sono molto utilizzati anche gli spaghetti, le penne, le tagliatelle e addirittura gli gnocchi. Comunque sia il formato di pasta è il sugo, la crema che conquista. La carbonara, anche se di dubbia provenienza, di certo è che è entrata di diritto nei primi posti dell’hit-parade gastronomica internazionale. Una volta risolto il quesito sulla pasta la disputa si sposta sul tipo di grasso da utilizzare, sulla presenza o meno degli albumi, sulla cottura dell’uovo e
sull’uso di panna, e infine sulla qualità del formaggio. Una buona carbonara deve prevedere una buona pancetta artigianale, poco stagionata ma di intenso sentore di grasso e profumo di carne che tagliata a dadini e sfritta in una capiente padella con poco olio extravergine di oliva diventa traslucida e appena croccante.Famoso primo piatto, caratterizzato da pasta condita con salsa a base di uova e pancetta (guanciale) rosolata.
Ingredienti 400 g 200 g 4 q.b. q.b. q.b. 50 g
Spaghetti Pancetta affumicata o guanciale tuorli Uova Olio Sale Pepe Pecorino
Preparazione: • Cuocete gli spaghetti in acqua bollente e con poco sale. La cottura deve essere al dente. Nel frattempo tagliate a dadini la pancetta o il guanciale di maiale (secondo la tradizione è quest’ultimo che andrebbe utilizzato), lasciando sciogliere in un tegame con un poco di olio.
Spaghetti alla carbonara Gli spaghetti alla carbonara, classico della cucina laziale, vengono preparati cuocendo al dente la pasta mentre si rosolerà a parte la pancetta o il guanciale con olio per una decina di minuti. A parte si lavoreranno le uova a cui andrà aggiunto il parmigiano ed il pepe nero a cui unirete la pasta e mescolerete servendo quindi la pasta ben calda.
Quando la pancetta o il guanciale appariranno parzialmente sciolti aggiungere un pochino di acqua e cucinare a fuoco moderato per circa 10 minuti. • Sbattete in un’insalatiera i quattro tuorli, come per fare una comune frittata, ed aggiungete il pecorino ed un buon pizzico di pepe nero. • Versate la pasta scolata in una terrina cappiente e aggiungetevi la pancetta o il guanciale preparati con l’unto bollente. • Mescolate gli ingredienti utilizzando due forchette e procedendo con delicatezza per non spezzare gli spaghetti e poi unite le uova preparate col formaggio, proseguite ad amalgamare gli ingredienti fintanto che le uova non risulteranno rapprese. Servire la pasta immediatamente in modo che risulti ben calda. Consigli Gli spaghetti alla carbonara sono forse uno dei piatti più conosciuti in Italia e all’estero, i veri spaghetti alla carbonara vanno preparati rigorosamente col guanciale di maiale, ma alcuni preferiscono la più magra pancetta.
Rigatoni alla carbonara Ingredienti 400 gr di rigatoni 200 gr. di pancetta affumicata 4 Uova 80 gr. di parmigiano grattugiato 40 gr. di Burro Olio evo sale e pepe
Procedimento Cuocete i rigatoni in acqua bollente, salando un po’ meno del normale; effettuare una cottura al dente. Tagliate a dadini la pancetta di maiale, e scioglietela in un tegame con un poco di olio, e, a rosolatura avviata, aggiungete un pochino di acqua e cucinate per una decina di minuti a fuoco moderato. A questo punto sbattete le quattro uova intere, come per fare una comune frittata, ed aggiungetevi il parmigiano grattugiato ed un buon pizzico di pepe nero. Preparate una pentola alta sciogliendovi tutto il burro sul fondo, versatevi la pasta scolata, la pancetta preparata con il suo unto bollente. Mischiate con due forchette delicatamente per non spezzare i rigatoni e poi unite le uova preparate col formaggio, mescolate fintanto che le uova non risultino rapprese. Servite subito ben caldi.
BibliografĂa www.tacuinistorici.it www.buonissimo.org
Cittá del Messico
Storia del riso Marilena Moneta Caglio e Dino Pagliai
L
e origini del riso non sono certe, si ritiene che le varietà più antiche siano comparse oltre quindicimila anni fa lungo le pendici dell’Himalaya. Fu durante l’Impero Persiano che il riso si propagò verso l’Asia occidentale e poi si estese in altre direzioni.
Ottobre 2014
Il mondo classico mediterraneo conobbe questo cereale dopo la conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno. Teofrasto, contemporaneo del condottiero, fu il primo a descriverlo nel suo trattato sulla storia delle piante. Ne parlò come di un cereale che cresceva in acqua per lungo tempo e i cui semi erano particolarmente idonei ad essere bolliti per soddisfare le esigenze alimentari dei popoli dell’Asia. Dalle descrizioni riportate nel Periplo del Mare Eritreo, resoconto della geografia portuale databile al I sec. d.C., sappiamo che il grano e il riso erano scambiati lungo le rotte del Golfo Persico e del Mar Rosso: provenivano dalle regioni dell’Ariacia (Afghanistan meridionale) e di Barigozzo (Barygaza, porto della costa occidentale dell’India) ed erano destinati agli empori della Penisola Araba. Anche se tutt’oggi resta un mistero come il riso sia arrivato in Occidente, si presume che la “Porta del pepe” di Alessandria d’Egitto possa essere stata il suo varco d’accesso. Orazio e Discoride ricordano che nel mondo romano questo costoso prodotto, veniva utilizzato a scopi medicinali e non alimentari, contro i problemi intestinali, le intossicazioni, o come prodotto di bellezza della pelle. Ancora nel VI secolo, come testimonia Antimo nel suo trattato di dietetica, il riso veniva indicato sotto forma di farina contro la dissenteria. Il Riso arrivò definitivamente in Europa all’inizio del VIII sec. attraverso la Spagna, con l’invasione degli arabi, che successivamente lo introdussero nel XI sec. anche in Sicilia,
dove fu presto apprezzato per le sue qualità alimentari. Durante quasi tutto il Medioevo questo cereale venne comunque considerato nel centro-nord della penisola una delle molte spezie che giungevano dall’Oriente con le navi arabe, genovesi e veneziane. Erano gli speziali a vendere il riso, assieme a droghe o prodotti esotici d’importazione, e il Liber de coquina lo consigliava nel biancomangiare, sopratutto allo scopo di rendere densa la vivanda. E’ presumibile affermare che nel ‘400 una qualche coltivazione di riso era presente in Toscana, nelle zone umide e lungo i torrenti dell’Appennino, e poi in Valle Padana. Dopo la metà del secolo Mastro Martino proponeva una preparazione che rappresentava un tratto di unione fra l’uso medievale del riso sotto forma di farina, e il suo uso moderno come pietanza a se. Il riso veniva anche chiamato il “tesoro delle paludi”, perché era in questo tipo di terreni che prosperava, necessitando
nell’epoca della germinazione dell’acqua per difendersi dalle basse temperature notturne.
A fine XV sec. la coltivazione risicola “sfondò” al nord Italia, ed esattamente in Lombardia e Piemonte, nell’area dell’attuale vercellese, dove le prime risaie (definite mare a quadretti), furono impiantate ad opera di Ludovico il Moro e di suo fratello Galeazzo Sforza, che pensarono di sfruttare le frequenti inondazioni del Po per questa coltura. Nel Cinquecento il riso entrò al pari del mais, nella schiera dei nuovi alimenti con i quali placare la fame contadina. Di tale destinazione è testimone il cronista bolognese Pompeo Vizani, quando racconta le drammatiche conseguenze della carestia del 1590, in occasione della quale ai tanti poveri del contado venivano dispensati ogni giorno “quattro once di riso”.
Fu probabilmente a causa di questa “nuova” immagine di cibo povero, che il riso non trovò particolare attenzione nei ricettari delle corti cinquecentesche. Durante il XVII sec. la coltivazione del riso conobbe un’involuzione sopratutto a causa di polemiche sull’igiene ambientale. I medici accusavano questo cereale di portare la malaria (la cui vera colpevole era la zanzara), cosicché i coltivatori venivano obbligati a tenere le risaie a sei miglia dai centri abitati, pena multa e galera. Il riso, alimento di facile digeribilità, tornò poi di nuovo in auge nel Settecento, conquistando per la prima volta nuove aree di coltivazione, come risposta alle gravi difficoltà alimentari popolari. Durante l’Ottocento il Governo Piemontese e Cavour promossero studi per sussidiare il territorio vercellese d’acqua, tanto che verso gli ultimi decenni di quel secolo venne aperto anche un canale intestato allo statista.
Bibliografia: www.tacuinistorici.it imagine: www.google.com
Risotto allo zafferano o alla milanese Ingredienti per 4
400 g di riso semifino vialone nano 1 litro di brodo di carne 1/2 bicchiere di vino bianco secco 40 g di burro 40 g di midollo di bue 60 g di grana padano stagionato 24 mesi 30 g di cipolla 0,5 g di zafferano in pistilli
Preparazione
Soffriggere la cipolla in 20 g di burro insieme al midollo sminuzzato, aggiungere il riso e cuocerlo a fuoco medioalto per 2-3 minuti, girando delicatamente ma spesso, poi aggiungere il vino bianco e farlo evaporare. Aggiungere quindi 3 mestoli di brodo bollente, mescolare dolcemente e non toccare fino alla successiva aggiunta di brodo. A metà cottura aggiungere i pistilli di zafferano sciolti in un mestolo di brodo bollente. Spegnere la fiamma quando il riso è ancora al dente e la consistenza ancora piuttosto liquida (“all’onda”), aggiungere 20 g di burro e il parmigiano e mescolare energicamente (mantecare) per 20-30 secondi, quindi far riposare il risotto per 1 minuto e solo allora servire.
Informazioni
Come mai un risotto allo zafferano è appellato alla milanese. Una leggenda racconta che nacque dopo la metà del ‘500, quando un artigiano che lavorava alle vetrate del Duomo prese in moglie la figlia di un mastro vetraio. Per far colpo sugli invitati del banchetto nuziale, l’ingegnoso
europea e alla scuola diEscoffier. Fu proprio Giuseppe a dettare e far gustare agli amici italiani e stranieri, la vera ricetta di cottura, detta poi alla Verdi, perfettamente fedele alla più schietta tradizione della storia del risotto “italiano”.
sposo dipinse il risotto con un po’ dello zafferano che veniva usato nella preparazione dei colori. Anche Giuseppe Verdi è stato protagonista della diffusione del risotto alla milanese, portandone la testimonianza nella più raffinata cucina
Storia dello zafferano Durante la storia lo zafferano ha avuto gli usi più disparati: per profumare, tingere tessuti, dipingere, curare alcune malattie, colorare alimenti e insaporire vivande. Pianta erbacea originaria dell’Asia minore già menzionata in un papiro egiziano del 1550 a.C. La mitologia greca ne attribuisce la nascita all’amore ricambiato di un bellissimo giovane di nome Crocus, che viveva al riparo degli Dei, per una ninfa di nome Smilace che però era la favorita del Dio Ermes. Il Nume, per vendicarsi di Crocus, trasformò il giovane in un bulbo. Omero, Virgilio e Ovidio ne parlano spesso nelle loro opere. Ad esempio nel IX e XII libro dell’Iliade si narra di come Isocrate facesse profumare i guanciali con zafferano prima di andare a dormire, e di come le donne troiane lo usassero per profumare i pavimenti dei templi. Lo zafferano si coltivava in Cilicia, Barbaria e Stiria. Scano scrive che i Sidoni e gli Stiri ci coloravano i veli delle loro spose ed i sacerdoti vi profumavano i templi per le grandi cerimonie religiose. Durante l’impero romano, aumentò la produzione di zafferano. Il lusso dell’epoca diede al croco una notevolissima importanza, e con esso erano profumate le abitazioni e i bagni imperiali. Con la caduta dell’Impero Romano la popolarità dallo zafferano venne meno, e la sua coltura sopravvisse in Oriente, nell’impero di Bisanzio, e nei paesi arabi. Attorno all’anno mille furono gli Arabi che ne reintrodussero in Europa la coltivazione attraverso la Spagna. Fino al Medioevo le pianta aveva il nome di croco, poi gli arabi lo cambiarono in za’faran (termine derivato dal persiano Sahafran) in riferimento al colore giallo assunto dagli stimmi dopo la cottura. In Italia la coltivazione dello
zafferano è documentata dal XIII sec. (Toscana, Umbria, Abruzzo, Sardegna). Allo zafferano venivano attribuite virtù afrodisiache già in epoca classica, come testimoniano sia Dioscoride che Plinio, perché capace d’incrementare l’attività sessuale dei maschi e accrescere la cupidigia delle femmine. Il cardinale Richelieu usava come eccitante una confettura allo zafferano, e alla fine dello stesso secolo il chirurgo francese Ambrogio Parè consigliava agli impotenti il risotto condito con questa spezia. Durante l’800 il pensiero scientifico era diviso fra chi riteneva la spezia debilitante e chi invece ne constatava gli effetti eccitanti sulla libido. All’inizio del XX sec. lo zafferano veniva ancora consigliato contro la sterilità femminile. Secondo la medicina naturale gli stimmi della pianta erano prescritti contro reumatismi, gotta, mal di denti e come abortivo, applicandolo sia direttamente sull’utero che assumendolo per via orale. Nella cucina medioevale e rinascimentale lo zafferano veniva impiegato oltre che per l’aroma anche per la colorazione simile all’oro, quale antidoto contro tutti i mali. Un tempo possedere zafferano era una vera prova di ricchezza, per ottenere un chilo di stimmi necessitano duecentomila fiori, e le madri ne facevano la dote per le figlie. Ancora oggi in alcune aree del sud Italia c’è una tradizione secondo la quale per augurare felicità agli sposi viene cosparso il letto nuziale di fiori di croco.
Cittá del Messico
IL Carciofo Roberto Cannizzo, Fernando Estrada e Dino Pagliai
O
riginario del Medioriente, il carciofo selvatico ha costituito fin dall’antichità un prodotto importante per i fitoterapisti di Egizi e Greci, ma pare che altrettanto antico sia il suo impiego nella cucina. Già nel IV sec. a.C. era coltivato dagli Arabi che lo chiamavano “karshuf” (o kharshaf ), da cui l’attuale termine.
Novembre 2014
Nello stesso periodo Teofrasto nella “Storia delle piante” parla di “cardui pineae” che per caratteristiche di forma, proprietà e virtù sarebbero assimilabili ai nostri carciofi. L’uso di una qualche varietà di carciofo selvatico nella cucina romana è ricordata da Columella, che chiamandolo col nome latino di Cynara, conferma come a quel tempo si usasse consumare quella pianta sia a scopo medicinale che alimentare. Nel “De re coquinaria” di Apicio, si parla anche di cuori di cynara che, a quanto pare, i Romani apprezzavano lessati in acqua o vino. La coltivazione del carciofo da noi conosciuto venne introdotta in Europa dagli Arabi sin dal ‘300, ma notizie molto dettagliate sul suo sfruttamento risalgono al ‘400, quando dopo vari innesti, dalle zone di Napoli si diffuse prima in Toscana, e successivamente in molte altre regioni. Nella pittura rinascimentale italiana, il carciofo è rappresentato in diversi quadri: “L’ortolana” di Vincenzo Campi, “L’estate” e “Vertumnus” di Arcimboldo.
Il carciofo dapprima non godette di un eccessivo favore culinario, tanto che ai primi del ‘500 Ariosto affermava: “durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade”. In quell’epoca, l’ortaggio iniziò comunque a comparire frequentemente nei trattati di cucina, dove si spiegava anche come trinciarlo, e la stessa regina Caterina de’ Medici ne divenne una sua estimatrice. La fama afrodisiaca del carciofo, derivante con molta probabilità dall’aspetto fallico, andò di pari passo con la sua diffusione, ed era già ben radicata nel 1557, se il Mattioli nei suoi “Discorsi” scrive: “la polpa dei carciofi cotti nel brodo di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con galanga per aumentare i venerei appetiti”. Un anno dopo il Felici concorda attestando che: “servono alla gola e volentieri a quelli che si dilettano de servire madonna Venere”. Riguardo alla preferenze dal modo di consumare i carciofi nel 1581 Montaigne durante il suo Grand Tour annota che: “in tutta Italia vi danno fave crude,
piselli, mandorle verdi, e lasciano i carciofi pressoché crudi”. La marcia trionfale di questa pianta non conobbe soste neppure nei secoli successivi, tanto che ai primi dell’Ottocento il grande gastronomo Grimod de La Reyniere decanta: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. Dobbiamo aggiungere che è un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco”. Ciò che distingue i diversi tipi di carciofo sono le spine che possono essere presenti o meno e il colore che può essere verde tendente al grigio o violetto. Oggi le varietà spinose più conosciute sono: i verdi della Liguria e di Palermo, e i violetti di Chioggia, Venezia e Sardegna. Un’ulteriore varietà di spinoso è quello di Toscana, di colore violaceo. Fra i non spinosi, invece, troviamo il cosiddetto Romanesco, comunemente conosciuto come mammola, quello di Paestum e di Catania.
Per la conservazione si consiglia: se sono molto freschi ed hanno il gambo lungo di immergerli nell’acqua come si farebbe con i fiori freschi. Per riporli in frigo si devono togliere le foglie esterne più dure e il gambo; lavati e ben asciugati vanno messi in un sacchetto di plastica o un contenitore a chiusura ermetica: si conserveranno per almeno 5-6 giorni. Si possono anche congelare dopo averli puliti e sbollentati in acqua acidulata con succo di limone, lasciati raffreddare e sistemati in contenitori rigidi. Gustosi e versatili, questi ortaggi rappresentano una vera e propria miniera di principi attivi, utili sia per la digestione e la diuresi che per la cura della bellezza di viso, corpo e capelli. In cucina i carciofi molto teneri si possono mangiare anche crudi, mentre gli altri vengono preparati fritti, alla giudia, alla romanesca, insomma nei più svariati modi. Si ricordo inoltre che in molte regioni italiane c’è la grande tradizione di fare con i carciofi le conserve sott’aceto o sott’olio.
La massima produzione di carciofi l’abbiamo da novembre a giugno. Il requisito fondamentale del carciofo è la freschezza, quindi al momento dell’acquisto è bene scegliere carciofi pieni, sodi, con foglie dure e ben serrate. Quando li si acquista devono essere sodi e senza macchie. Preferire gli esemplari più piccoli con le punte ben chiuse. Il gambo deve essere duro e senza parti molli o ingiallite. Se il gambo è lungo ed ha ancora delle foglie attaccate, controllare che siano fresche.
circa 10 minuti, successivamente scolateli, strizzateli e premeteli un po’ un contro l’altro per farli aprire leggermente.
I carciofi alla giudia sono un tipico contorno della gastronomia Laziale, in particolar modo della città di Roma, dove questo piatto è stato inventato. I carciofi alla giudia sono un piatto classico, molto semplice da preparare ma allo stesso tempo capace di esaltare l’aroma e il sapore di questo ortaggio. La storia di questo piatto ci riporta indietro nel tempo e nello spazio, nel ghetto ebraico di Roma. Qui, le massaie ebree, utilizzando la“mammola”romana, ovvero il carciofo tipico del Lazio, preparavano questo piatto semplice ma gustoso che veniva mangiato in particolar modo nel periodo della ricorrenza di Kippur. Kippur, chiamata anche festa dell’espiazione, è un giorno di digiuno totale, in cui ci si astiene dal mangiare, dal bere e da qualsiasi lavoro o divertimento e ci si dedica solo al raccoglimento e alla preghiera.
Mettete abbondante olio in una padella molto ampia e lasciate che si riscaldi; attenzione, è importante che la quantità dell’olio sia molta per riuscire a ricoprire tutti i carciofi. Nell’attesa che l’olio si riscaldi, approffittatene per salare e pepare gli ortaggi. Raggiunta la giusta temperatura dell’olio, immergete i carciofi e fateli friggere a fiamma bassa per 7 minuti. Utilizzate una forchetta per controllare la cottura: se si infilzerà completamente nel carciofo allora la preparazione è quasi giunta al termine. Finito il tempo di cottura, alzate la fiamma del gas e utilizzando due forchette, o in alternativa una pinza da cucina, premete i cuori di carciofi sul fondo della padella in modo da farli aprire e fargli raggiungere la tipica forma a “fiore”. Tenete gli ortaggi nell’olio fino a quando non raggiungeranno il tipico colore dorato sinonimo di croccantezza.
Dopo avere passato 24 ore di digiuno, gli ebrei solitamente mangiavano i carciofi che per questo motivo furono chiamati “alla giudia”.
Preparazione
Iniziate a pulire i carciofi eliminando le foglie esterne più dure per arrivare a quelle interne, estremamente più morbide. Ricordatevi di lasciare intatto un pezzetto di gambo ma di eliminare i torniteli. Terminata l’operazione ponete i carciofi i una bacinella abbastanza ampia, precedentemente riempita con con acqua e limone; lasciateli nell’acqua acidulata per
Bibliografía www.tacuinistorici.it www.buttalapasta.it
Una volta pronti, scolateli e poneteli su un piatto ricoperto da carta di cucina, in questo modo perderanno l’olio in eccesso. Prima di gustarli aspettate qualche minuto per farli raffreddare… non è consigliabile mangiarli estremamente caldi!
CittĂĄ del Messico Marilena Moneta, Carlo Mapelli e Dino Pagliai
e i h c c i t n e Le L simbolo di prosperitĂ
L
e lenticchie, alimento base per i popoli nomadi fin dal Neolitico, assumono fin dalla coltivazione un significato ben augurale. La loro coltivazione inizia nelle terre dell’antico Egitto diventando subito un alimento nutriente di piccole dimensioni ma di grande spessore nell’arte del cibare.
Enero 2015
L
e lenticchie, alimento base per i popoli nomadi fin dal Neolitico, assumono fin dalla coltivazione un significato ben augurale. La loro coltivazione inizia nelle terre dell’antico Egitto diventando subito un alimento nutriente di piccole dimensioni ma di grande spessore nell’arte del cibare. Dall’Egitto già nel 525 a.C. e precisamente dall’antichissima Pelusio sul Nilo che un mito vuole patria del grande Achille, si racconta che le navi egizie rifornivano regolarmente i porti di Grecia ed Italia di lenticchie. E da qui la lenticchia oltre che alimento diventa anche elemento d’ interpretazioni. Le lenticchie nell’antichità furono collegate simbolicamente anche alla morte. Basta rileggere il notissimo episodio scritto nel libro della Genesi dove ci racconta di Esaù che rientrato affamato dalla campagna, vide Giacobbe che aveva cotto un piatto di lenticchie. Quando gli chiese da mangiare poiché era sfinito, Giacobbe chiese in cambio la primogenitura, e Esaù accettò (cfr. Genesi 25,29-34). Quindi abdica a favore del fratello, di essere lui il padre, la guida ed il Re degli ebrei, combinando una com-
pravendita cosi sfavorevole all’uno, quanto favorevole all’altro. E’ il primo cibo preparato dall’uomo del quale si ha testimonianza scritta, non meno di 4000 anni fa. Parafrase che si usa ancora quotidianamente nei modi di dire, delle persone che si vendono per poco, per un piatto di lenticchie appunto, che significa ricevere un valore bassissimo rispetto a quello che si dà in cambio. Da allora l’antica tradizione ebraica impone che gli Ebrei mangino lenticchie quando sono in lutto, in ricordo di Esaù per aver svenduto quanto aveva di più prezioso. Per millenni la lenticchia risulta uno dei prodotti più importa ti nell’agricoltura e nel commercio del Mediterraneo e alime to fra i più comuni ed apprezzati ad Atene come a Roma dove Atemidoro, nato ad Efeso nel II secolo e vissuto a Roma, nella sua opera onirica “Interpretazione dei sogni” accomuna le lenticchie con l’annunciazione di lutti mentre Plinio li glorifica per il loro alto valore nutritivo e per la virtù di infondere tranquillità all’animo. Di quale sublime devozione era tenuta la lenticchia basterebbe cono-
scere la storia della colonna egizia del colonnato di Piazza S. Pietro, portato a Roma nel I secolo per volere di Caligola, l’obelisco attraversò il Mediterraneo su una nave immerso e protetto da un carico di lenticchie. Lenticchie servite in minestra, puls-lentis, da cui trae poi nome il pulmento, quindi con l’arrivo del mais trasformato in polenta. Ancora nei secoli dopo le lenticchie torneranno a tormentare i sogni adducendo fortuna o lutti a seconda di chi interpretava e gradiva questo piccolo legume.
Il cotechino con le lenticchie è un piatto tipico del menu delle feste natalizie ed in particolar modo della notte di capodanno perché la tradizione vuole che mangiare un pezzetto di cotechino prima della mezzanotte, sia di buon augurio per l’anno nuovo.
Nel Medioevo i ceti più abbienti, i nobili ricchi relegarono il consumo delle lenticchie alla mensa dei poveri, servite e mangiate quasi esclusivamente nei conventi e fra la gente, umile ma dotta, che diede alla lenticchia il ruolo che meritava, nutrire bene, piacere e costare poco. Ancora, come a rimarcarne l’inutilità come cibo goliardico fu definito nel Rinascimento, dal medico Petronio, cibo caldo e secco, adatto a coloro che vogliono vivere castamente. In Francia al tempo di Luigi XIV le lenticchie venivano date come cibo ai cavalli e Alexander Dumas nel suo “Grand Dictionnair de Cuisine del 1873” le considerava un cibo pessimo.
pone, come dice la parola stessa, nella zampa. Per quanto riguarda le origini, possiamo dire che il cotechino nasce come piatto povero che mangiavano i contadini abitualmente con le zuppe di legumi ed il minestrone.
Annotiamo infine una curiosa credenza popolare sulle lenticchie. In quanto di piccole dimensioni, a parità di peso con altri legumi, si presentano nel piatto in numero maggiore. Perciò mangiare lenticchie nel primo giorno dell’anno, induce la famiglia a sperare di guadagnare un pari numero di monete d’oro.
Tanto per chiarire le idee iniziamo col dire che il cotechino è una cosa completamente diversa dallo zampone: infatti, nonostante sia un insaccato di maiale identico allo zampone per il contenuto, il cotechino è insaccato nelle budella del maiale mentre lo zam-
Prodotto tipico dell’Emiliana Modena, il cotechino era anticamente preparato solo ed esclusivamente dai “lardaroli” ed i “salsicciari”, gli ex “beccai”, che si riunirono in corporazione autonoma solo a partire dal 1547. In realtà, però, la prima citazione riguardo al cotechino viene fatta solo duecento anni dopo, nel 1745, in un calmiere e la prima ricetta appare l’anno dopo. L’importanza che ha assunto il cotechino ai giorni nostri, la si deve però al grande padre della cucina italiana Pellegrino Artusi che, nella sua immensa opera, “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, parla del famoso “cotechino fasciato”.
L
Preparazione
a prima cosa da fare è mettere il cotechino a cuocere il una pentola piena d’acqua, seguite le istruzioni riportate sulla confezione se utilizzate un cotechino precotto.
Per quanto riguarda le lenticchie, è sempre consigliabile lasciarle per un paio di ore in una ciottola d’ acqua, cambiandola un paio di volte. Tritate finemente in un frullatore il sedano e la cipolla; mettete il trito ottenuto in una pentola antiaderente con l’olio e il burro e fate dorare qualche minuto. Regolate di sale e pepe a piacere. Aggiungete le lenticchie e fate cuocere a fiamma viva per un paio di minuti; aggiungete il brodo un poco alla volta e coprite con un coperchio; fate cuocere a fuoco medio fino a che le lenticchie saranno cotte pero non troppo, circa 40 minuti; aggiungete altro brodo un poco per volta se dovessero asciugarsi. Dovranno risultare cotte ritirando il broddo rimasto. Una volta che anche il cotechino sarà pronto, toglietelo dalla confezione del sottovuoto e tagliatelo a fette spesse circa 1cm. Ritirare le lenticchie cotte e servirle su un piatto da portata, dove servirete il cotechino previamente tagliato a fette, tutto ben caldo.
Bibliografía www.tacuinistorici.it www.giallozafferano.it
Cittá del Messico
o i h c r o t l a i n o r Macche o r o d o m o p l a di Verona
“
....inde domum me ad porri et ciceris refero laganique catinum. (Me ne torno a casa alla mia scodella di porri, ceci e lasagne.)” La voce è quella di Orazio, e ci giunge dal lontano 35 a.C.
Simposiarcas Marilena Moneta y Dino Pagliai Febbraio 2015
A
ntenate delle lasagne, le làgane (dal greco laganon: sfoglia di pasta tagliata a strisce) a quei tempi si mangiavano con tutto: con la carne, il pesce, le uova, e si mettevano pure nelle minestre, per irrobustirle. Nel Sud d’Italia, le lagane erano piuttosto note. Ma si trattava comunque di un prodotto a diffusione locale, e di pronto consumo; come dire, cotto/mangiato. Non si può parlare di diffusione su larga scala della pasta fino a che non si trovò il modo di conservarla a lungo. Per mettere a punto una valida tecnica di essiccazione bisognò aspe-ttare fino al XII secolo. La pasta veniva prima esposta al sole, perché perdesse la maggior parte dell’umidità, e poi trasferita in ambienti chiusi, riscaldati debolmente da bracieri, in modo da liberarsi dell’umidità r esidua. Lo dice l’arabo Al-Idrisi, a conferma che gli arabi di pasta se ne intendevano. Dal momento che, con tutta probabilità, in Sicilia ce l’avevano portata loro.
Ormai in grado di conservarsi a lungo, e quindi disponibile a viaggiare, dalla Sicilia la pasta si portò in Liguria. Spesso però ad andarci era il solo grano duro, che veniva essiccato e lavorato a regola d’arte sul posto, grazie al clima mite e ventilato delle coste liguri. Il dato è certo; nel 1316 viene registrata a Genova la presenza di tal Maria di Borgogno, “quae faciebat lasagnas.”Proprio in quegli anni la pasta si diffuse a macchia d’olio (la macchia di pomodoro sarebbe arrivata molto più tardi). Il segno di tale diffusione fu la nascita, nel 1337 a Firenze, della prima Corporazione dei Pastai, della quale facevano parte anche i Fornai. Col tempo la corporazioni prendono corpo in tutt’Italia. Nel 1571 nasce a Napoli “l’Arte dei Vermicellari”. I genovesi rispondono quasi subito (1574) con la corporazione dei Fidelari, che raggruppa i produttori di “fidei” (i fidelini, una pasta lunga e filiforme) e i Formaggiari (la pasta col formaggio c’è andata d’accordo immediatamente). Pasta così? Macchè: nel 1605 i siciliani si ricordano finalmente delle loro tradizioni pastaiole e fondano a Palermo “La Maestranza dei Vermicellari”.Le corporazioni proliferano quando i produttori di un certo bene sono
molti, e perciò c’è da darsi delle regole. E i produttori sono tanti quando ci sono molti consumatori. Anche per la pasta le cose sono andate così; già nel 1450 Maestro Martino, cuoco del Reverendissimo Monsignor Camerlengo et patriarca de Aquileia, pubblica una serie di ricette a base di maccheroni. A leggerle oggi, fanno un po’ impressione: i maccheroni sono fatti con farina e acqua, e fin qui tutto bene. Poi però vengono cotti, in acqua o in brodo, anche per due ore! Alla fine, il colpo di grazia: Maestro Martino consiglia di condirli con spezie dolci….. Venticinque anni dopo, nel 1475, viene stampato il primo libro di cucina del mondo. Si intitola “De honesta voluptate”, e ne è autore Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina.E’ anche grazie a lui che la
pasta comincia a diffondersi in Francia, alla corte di Caterina dei Medici, facendo da traino per gli altri prodotti della cucina rinascimentale italiana. Nel 1548 Cristofaro da Messisburgo, “scalco” a Ferrara, alla corte del cardinale Ippolito d’Este, pubblica il “Libro Novo”, un libro di cucina con molte ricette di maccheroni. In quel periodo, alla pasta artigianale, fatta a mano, si è affiancata la pasta “industriale”. Lo stesso Messisburgo, nel “Liber de arte coquinaria”, cita “l’ingegno”, la prima rudimentale trafila per produrre la pasta lunga, i vermicelli. In Sicilia, dove pare già esistesse da tempo, questa macchina si chiamava “ncegnu”, o “arbitriu”: l’impasto di semola di grano duro e acqua veniva pressato con
un pistone in un cilindro di legno, da cui, attraverso una trafila in rame dotata di fori rotondi, uscivano i “vermicelli”. Più lunghi di quelli fatti a mano, che in genere non superavano la lunghezza di un dito (da cui “piccoli vermi”). Intanto, molto tempo è passato. Siamo ormai alla fine del settecento. In inglese, passato si dice “past”. E proprio in quegli anni, la pasta la ritroviamo pure là. Come c’è arrivata? Francia e Inghilterra sono separate da una sola Manica. Ma la pasta dovette rimboccarsene due, per raggiungere, dopo i francesi, anche gli inglesi. Può darsi che le abbiano dato una mano i piazzisti di enciclopedie porta a porta; Diderot e D’Alembert, nella
loro Encyclopedie (1779) riportano il mestiere di “vermicelier” (vermicellaio), illustrando, con la pignoleria che li ha resi famosi, le tecniche di lavorazione del prodotto e gli attrezzi del mestiere. In Inghilterra, i “macaroni” - li chiamavano così – diventarono simbolo di raffinatezza. A Londra c’era perfino un “Macaroni Club”, che pare fosse uno dei templi del dandismo. In America si dice che la pasta ce l’abbia condotta Thomas Jefferson. Lo statista li avrebbe assaggiati durante un viaggio in Italia, e si sarebbe fatto spiegare (col tipico pragmatismo americano) come si faceva a fabbricarseli da sé. Ma è più probabile che la pasta sia arrivata negli States insieme ai nostri emigranti, la cui
lontananza da casa alimentava un desiderio di vicinanza coi sapori della propria terra. E perciò si portavano appresso in America quintalate di spaghetti. Pure per gli americani, all’’inizio, i “macaroni” furono sinonimo di bizzarria e di esotismo: il protagonista della ballata “Yankee Doodle Dandy” se ne va in giro per la città con un “maccarone” sul cappello, a mo’ di piuma. Negli USA “macaroni” è ancora sinonimo di italiano. Non è precisamente un apprezzamento, ma gli italiani d’America ne vanno fieri. Perché è comunque un riconoscimento della nostra primogenitura nei confronti della pasta. OK, guys: prendeteci pure in giro. Tanto lo sapete anche voi che ( quando dovrete decidere quali piatti togliere dalla vostra ipercalorica dieta) gli ultimi saranno i primi.
Bibliografía www.maccheroni.it Foto Ristorante LA ENOTEK
CittĂĄ del Messico
e l a u q s a p a b m o Col
Q
uesto dolce di pasta lievitata, che chiude tradizionalmente il pranzo pasquale, sembrerebbe abbia radici nell’epoca medioevale. I suoi primi ingredienti erano molto semplici: uova, farina, lievito e miele.
Carlo Peruzzi, Marilena Moneta Caglio e Dino Pagliai Aprile 2015
T
ra le leggende che circolano sulla sua nascita ve ne raccontiamo due.
La prima ha come protagonista re Alboino che, conquistata Pavia dopo tre anni di assedio alla vigilia di Pasqua del 572(?), avrebbe salvato la città dal saccheggio perché tra i doni ricevuti vi erano dei pani dolci di suprema bontà preparati a forma di colomba. La seconda leggenda sull’origine di questa ricetta è legata alla battaglia di Legnano (1176), vinta della Lega dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa. L’idea del dolce sarebbe nata ad un condottiero del Carroccio che per celebrare la vittoria fece confezionare dei pani speciali in omaggio alle tre colombe che durante la battaglia avevano “vigilato” sulle insegne lombarde.
Questo dolce è diventato emblema della Pasqua italiana solo dagli anni ‘30 dello scorso secolo, quando l’azienda pasticcera Motta decise di realizzare una preparazione simile al panettone, modellata a forma di colomba e arricchita con pasta di mandorle e glassa di zucchero. Negli ultimi decenni, anche se sono nate moltissime varianti della ricetta (impreziosita di creme o resa austera dall’assenza di mandorle e canditi), è rimasta forte la sua valenza simbolica legata all’annuncio di pace e bella stagione.
INGREDIENTI 560 g. di farina 140 g di zucchero ½ bicchiere di latte 1 pizzico di sale fino Gocce di cioccolato
200 g di burro 4 tuorli 1 bustina di vanillina 25 g di lievito di birra
Preparare il lievitino: Mettere in una ciotola il lievito, scioglierlo in 2-3 cucchiai di acqua tiepida, aggiungere 60 g di farina, impastate con le dita e dare la forma di una palla. Fare un taglio a croce sulla palletta e metterla in una grossa ciotola, coperta con abbondante acqua tiepida. Appena la palletta viene a galla, capovolgerla con le dita ed aspettare ancora una decina di minuti.
Preparare l’impasto: Setacciare la farina rimasta con il sale e la vanillina. Creare il solito incavo al centro e metteteci 4 tuorli, 130 gr di burro fuso tiepido e lo zucchero. Impastare con le mani aggiungendo poco latte per volta. Togliere il lievitino dall’acqua scolandolo il più possibile ed aggiungerlo all’impasto. Lavorarlo con le mani finchè non risulti più appiccicoso. Formare una palla, infarinarla, e metterla in una ciotola asciutta coperta con un telo un po’ inumidito. Sistemarla in un luogo tiepido senza correnti d’aria. Lasciarla riposare finchè aumenta il volume iniziale di circa 1/3.
Sciogliere altri 35 g di burro ed aggiungerli all’impasto lavorandolo fino ad assorbimento. Infarinare di nuovo la palla e rimetterla nella ciotola coperta per un’altra mezzora. Il giorno successivo, sciogliere gli ultimi 35 g di burro ed incorporarli aggiungendo abbondanti gocce di cioccolato ed amalgamare per bene. Prendere uno stampo di carta per colomba. Sistemarvi l’impasto in modo da non lasciare buchi. L’impasto è un po’ elastico e questa operazione non risulta facilissima. Lasciare riposare in luogo tiepido per 40 minuti coperto con un telo leggermente umido.
Preparare la glassa: Prendere le mandorle già spellate e frullarle, lasciandone da parte alcune intere. Prendere un paio di albumi, aggiungere circa 3 cucchiai di zucchero ed il frullato di mandorle, quindi, frullare il tutto nuovamente. Se ne ottiene una poltiglia. Con un pennello, cospargere abbondantemente l’intera colomba con questa poltiglia. Distribuire la granella di zucchero in modo da farla aderire bene all’impasto. Prendere le mandorle intere tenute da parte e, dopo averle ben inzuppate nella poltiglia, sistemarle sulla colomba. Mettere in forno caldo a 200°C per 15 minuti, poi coprirla con un foglio di alluminio e calare la temperatura a 170°C e continuate per altri 25 minuti. Spegnere il forno e lasciarla dentro con lo sportello aperto.
Buona Pasqua e buon appetito Dino Pagliai Bibliografía www.taccuinistorici.it www.buttalapasta.com www.cookaround.com
Cittá del Messico
LE PROPRIETÁ E N O M I L L E D E H BENEFIC
N
oto con il nome di Citrus lemon, appartenente alla famiglia delle Rutaceae, il limone è un agrume molto apprezzato per le sue numerose e benefiche proprietà e proprio per questo motivo, fin dall’antichità, veniva considerato una sorta di “panacea per tutti i mali”.
Augusta Terzi, Enrique Gilardi e Dino Pagliai giugno 2015
E
sso deriva da un albero che può raggiungere anche i 6 metri di altezza con petali bianchi e frutti gialli di forma ovale che presentano una protuberanza all’apice e una forma appuntita nell’altra estremità. Il limone fu scoperto in India, Cina e Indocina dove veniva utilizzato per le proprietà antisettiche e antireumatiche e sembra che gli antichi Egiziani lo utilizzassero addirittura per imbalsamare le mummie. Gli islamici lo consideravano un frutto sacro e spesso veniva usato come antidoto contro i veleni e persino come oggetto scaramantico per allontanare le negatività. In Grecia, invece aveva lo scopo di profumare la biancheria e difenderla dalle tarme. Questo frutto cominciò a diffondersi in Italia solo nel XII secolo, grazie agli Arabi che lo portarono in Sicilia e successivamente nelle altre regioni italiane. Il suo utilizzo in cucina, risale però al XVIII secolo.
Utilizzo del limone nell’antichità Il primo a parlare del limone fu Teofrasto, filosofo e scienziato greco che, nel 310 a.C., nella sua celebre opera di botanica “La Storia delle piante”, descrisse le virtù terapeutiche del frutto: molto utile nei casi di avvelenamento e per “addolcire” l’alito. Secondo quanto ripor-
tato dal filosofo, molti medici nell’antichità ne elogiavano il succo o il decotto come efficace rimedio contro l’alitosi. Era anche considerato dagli antichi un ottimo deterrente contro i veleni, specialmente contro quelli mortali. Il medico Dioscoride, esperto di botanica officinale, nel I secolo d.C. consigliava di mescolare con il vino i semi di limone macinati, come lassativo e consigliava alle donne in gravidanza di consumare il limone, come rimedio per le voglie. Nel 40 d.C. Scribonio Largo, medico dell’imperatore Claudio, raccomandava i limoni cotti nell’aceto, come cura contro la gotta. Galeno, uno dei più famosi medici del passato, considerava la buccia di limone un tonico per lo stomaco, se assunta in piccole quantità. Marziale nel 250 d.C. esaltava un famoso sciroppo per la tosse preparato con limone, liquirizia, rosmarino, datteri, fichi e altri frutti. Infine Virgilio racconta che i Persiani ricorrevano ai fiori di limone per alleviare l’affanno negli anziani.
Caratteristiche e proprietà nutrizionali del limone Come accennato, il frutto del limone è giallo all’esterno e bianco internamente; la sua polpa spugnosa è suddivisa in spicchi e si presenta aspra e succosa, mentre la buccia risulta ruvida e particolarmente utile per ricavare essenze, quali la pectina. I semi contenuti nel frutto vengono macinati e utilizzati per ricavare un olio essenziale, particolarmente aromatico, utile in cucina e per la produzione di detersivi. I limoni vengono coltivati in tutto il mondo, specialmente nei climi caldi e umidi. Tantissime sono le varietà ed è possibile distinguere tra i vari frutti in base all’aspetto esteriore: esistono molte qualità pregiate sia in Italia (Femminello Comune, Zagara Bianca, Siracusano e Apireno, Monachello, Interdonato), sia all’estero (Eureka, Lisbon, Verna o Berna, Mesero, Gallego, Karystini). Molti distinguono tra limoni gialli e verdi, tuttavia entrambe le specie crescono sullo stesso albero e rappresentano il prodotto della fioritura estiva. La parte più utilizzata del limone è il succo, che rappresenta fino al 50% del suo peso. Esso contiene 50-80 grammi per litro di acido citrico, che gli conferisce il tipico sapore asprigno e diversi altri acidi organici tra cui l’acido ascorbico; inoltre è molto ricco di vitamine. 100 grammi di prodotto contengono 45 Kcal, 85 gr. di acqua, o,6 gr. di lipidi, 149 mg di potassio, 11 mg di calcio, 11 mg di vitamina C (71% del fabbisogno giornaliero di vitamina C per un adulto), 28 mg di magnesio.
Proprietà terapeutiche del limone
Utilizzo del limone in cosmesi
Il limone si presenta come un ottimo antisettico e battericida, ma non solo: è anche un valido aiuto per chi ha poche difese immunitarie in quanto è in grado di “aumentare” la produzione dei globuli bianchi, è anche rinfrescante, disintossicante, e calmante. È anche ottimo contro i dolori reumatici e funge bene da “scudo”, contro la pressione alta. È particolarmente indicato anche per coloro che soffrono di anemia ed è un buon stimolatore gastro-epatico-pancreatico. Anche per quanto riguarda il trattamento del diabete, questo frutto si è dimostrato un ottimo deterrente. Alcuni recenti studi americani hanno evidenziato che il limone, se assunto regolarmente e nelle dosi giuste, potrebbe svolgere anche un’azione preventiva contro il tumore dell’intestino, dello stomaco e del pancreas.
Oltre alle numerose proprietà, il limone può essere utilizzato in cosmesi per tonificare la pelle del viso, poiché è un ottimo astringente contro le piaghe e i foruncoli; è anche un ottimo coadiuvante cosmetico in caso di cellulite e aiuta a ridurre le macchie cutanee. Mischiato insieme al miele, il limone è in grado di evitare l’eccesso di sebo in pelli grasse, proprio grazie alla sua azione emolliente che ne facilita la penetrazione dei principi attivi, principali responsabili di infiammazioni e brufoli. L’olio cosmetico di limone se utilizzato regolarmente per almeno 20 giorni consecutivi, migliora l’aspetto del contorno occhi: basta applicarlo la sera, ad occhi chiusi, con un leggero massaggio circolare.
Il limone come rimedio per i capelli opachi Il limone rappresenta un ottimo rimedio contro i capelli spenti e opachi,: basta spremere un limone (3 cucchiai) in mezzo litro d’acqua ed aggiungere due cucchiai di olio di oliva. Frizionare i capelli con questa lozione e poi lasciare in posa per 30/40 minuti. Successivamente risciacquare con abbondate acqua tiepida. L’olio d’oliva nutre e serve ad ammorbidire e illuminare i capelli, mentre il limone li fortifica e li lucida.
Zabaione al limone Ingredienti: 3 tuorli+2 albumi 2 limoni 100 gr di zucchero 20 gr di zucchero a velo 1 pizzico di sale Preparazione: 1. Lavare ed asciugare i limoni. 2. Riunire in una ciotola di vetro, così può andare a bagno maria, i tuorli con lo zucchero e con una frusta renderli gonfi e spumosi. 3. Aggiungere la scorza dei limoni e il succo, mescolare per amalgamare gli ingredienti. 4. Trasferire la ciotola su una pentola con poca acqua e cuocere la crema a bagno maria per 7/8 minuti fino a che il composto non sarà bello denso. 5. Togliere dal fuoco e lasciare raffreddare. 6. Intanto montare gli albumi con lo zucchero a velo e un pizzico di sale fino a che la meringa non risulterà soffice. 7. Amalgamarla alla crema di limone molto delicatamente con dei movimenti dal basso verso l’alto con una spatola. 8. Suddividere la crema nelle ciotoline e mettere in frigo per almeno un ora. Io ho decorato con due fettine di limone. Un consiglio: fate delle mini porzioni perchè l’uovo rende questo dessert un pò pesante, ne basterà pochissimo.
Utilizzo del limone in aromaterapia Particolarmente utilizzato in aromaterapia (forma di medicamento alternativa che si basa sull’utilizzo di oli vegetali essenziali per curare dolore, stress, depressione e regolarizzare le diverse funzioni corporee) il limone veniva utilizzato per questo scopo già dagli antichi Egizi, che si avvalevano del suo succo per curare anche le dermatiti. Gli esperti di aromaterapia spiegano che le essenze (in questo caso quelle del limone) agiscono direttamente sul sistema nervoso ed endocrino migliorando anche gli stati d’animo poiché le molecole aromatizzate, raggiungendo le la corteccia cerebrale, inducono una piacevole sensazione di equilibrio e benessere, che va a compensare eventuali situazioni di ansia e stress. Utilizzo del limone in cucina Come tutti sanno, il limone in cucina viene largamente usato, sia sotto forma di succo, sia come condimento e va ad arricchire molti piatti; si abbina facilmente alla carne e al pesce e in molti casi viene usato anche in sostituzione dell’aceto.
Bibliografía http://elieveroincucina.blogspot.mx/2011/03/zabaione-al-limone.html http://www.greenme.it/mangiare/alimentazione-a-salute/10685-acqua-limone-benefici-salute
Cittá del Messico
I
l cinghiale è un suide selvatico diffuso in tutto il mediterraneo. La carne di cinghiale appartiene alle carni nere da pelo. È molto gustosa e ormai facilmente reperibile nei grandi supermercati soprattutto tra i surgelati. La carne di cinghiale è assai rinomata ed apprezzata in quanto unisce al sapore della carne suina quello della cacciagione.
Marilena Moneta Caglio, Enrique Gilardi e Dino Pagliai settembre 2015
I
l cinghiale è strutturato per essere un combattente infatti sia la pelle spessa, atta a non far penetrare le taglienti zanne dei suoi avversari, che le zanne, sono delle ottime armi contro gli avversari. Il corpo è ricoperto da una pelliccia ispida formata da setole di un colore che va dal marrone al grigio. Presenta dimorfismo sessuale: i maschi sono in genere più grandi delle femmine. Le zampe sono molto muscolose e corte in quanto la sua andatura normale è il trotto. Solo se esiste una reale necessità il cinghiale galoppa velocemente. Ciascuna zampa è provvista di uno zoccolo in pratica formato dal terzo e quarto dito. Le altre dita, poco sviluppate, si appoggiano al suolo solo quando cammina su terreni soffici. I canini inferiori si sono trasformati in zanne (molto più grandi nel maschio che nelle femmine) che fuoriescono dalla bocca mentre i canini superiori si posizionano dietro le zanne. Queste vengono affilate strofinandole le une sulle altre rendendole in questo modo particolarmente taglienti.
RIPRODUZIONE E CRESCITA DEL PICCOLI In genere nelle regioni a clima temperato le femmine danno alla luce i piccoli in primavera mentre nelle regioni a clima tropicale le nascite avvengono tutto l’anno, anche se più concentrate durante le stagioni umide. Le femmine di cinghiale hanno un ciclo di circa 21 gg e rimangono in calore per tre giorni. Quando arriva il periodo della riproduzione e le femmine entrano in calore i maschi che normalmente fanno vita solitaria si uniscono ad un gruppo e, dopo aver cacciato lottando eventuali altri maschi presenti, si accoppiano con quante più femmine gli è possibile. Le lotte in questo periodo tra maschi sono molto violente. La gravidanza dura circa 100-115 giorni al termine della quale la femmina si allontana dal gruppo, cerca un luogo tranquillo e sicuro e dopo aver preparato un adeguato giaciglio mette al mondo da 4 a 8 cuccioli, alle volte anche 12. Questi sono allattati per 3 - 4 mesi nella tana che lasciano solo nei brevi periodi in cui seguono la madre alla ricerca di cibo. I piccoli per i primi sei mesi di vita hanno un mantello caratteristico, striato che gli consente di mimetizzarsi meglio nel sottobosco.
ABITUDINI ALIMENTARI Il cinghiale è onnivoro per eccellenza anche se il 90% della sua dieta è a base di vegetali: frutta, semi, funghi, nocciole, tuberi, radici, bulbi. Trova il cibo grazie al suo grugno mobile che termina con le narici. Passa il tempo ad annusare il terreno e quando individua qualcosa di suo gradimento inizia a scavare con il grugno stesso in quanto le narici possono essere chiuse per evitare che corpi estranei possano penetrarvi. Non disdegna la carne sia sotto forma di carogne che può trovare come avanzo di qualche altro predatore che cacciando piccoli animali quali ad esempio uccelli, roditori, rettili, insetti, crostacei, molluschi e vermi.
Culinarie La carne di cinghiale è piuttosto fibrosa per questo si presta particolarmente a cotture in padella, come stufati, cotture in umido o sughi. Si presta comunque anche arrosto o allo spiedo, purché venga lardellata per renderla meno asciutta. Si consuma sia la carne di cinghiale da allevamento che del cinghiale selvatico. Spesso i piccoli, ritenuti particolarmente gustosi dagli intenditori, vengono arrostiti interi, previa eviscerazione. La qualità e i tagli della carne corrispondono a quelli del maiale. Per la loro polposità vengono prediletti i tagli della coscia di cinghiale, ma in alcune zone anche la carne della testa è considerata una prelibatezza. Piatti tipici sono per esempio le pappardelle al ragù di cinghiale o il cinghiale alla maremmana, piatti piuttosto sostanziosi e tipici della regione Toscana. Preparato in umido viene servito con la polenta e quello avanzato viene usato per condire la pasta. È possibile trovare in commercio anche preparati di ragù di cinghiale in barattoli di vetro.
Salumi di cinghiale I salumi di cinghiale, come per esempio i salamini, venduti anche sott’olio (foto a sinistra) dovrebbero contenere solo carne magra di cinghiale e grasso del maiale, invece spesso sono composti soprattutto da carne di maiale e solo dal 30% circa di carne di cinghiale. I salami puri di cinghiale purtroppo quasi sempre contengono nitriti, conservanti potenzialmente cancerogeni che sarebbe bene evitare. I salumi di cinghiale come per esempio il prosciutto sono da preferire perchè più facile trovarli senza conservanti oppure con nitrato e antiossidante, meno dannosi dei nitriti, contenuti in alta quantità nei salami.
Maiali rinselvatichiti in Florida
Caccia al cinghiale In Europa e in Asia fin dai tempi più antichi la caccia al cinghiale era considerata una caccia da guerrieri per la pericolosità della preda. Gli Etruschi cacciavano il cinghiale di notte o all’alba, e lo catturavano con reti, trappole varie e l’aiuto di ferocissimi cani. Il suo comportamento, il colore, la forza lo facevano chiamare anche la “bestia nera”, spesso associata alla personificazione del male, del diavolo e della cattiva stagione. Nella cultura religiosa dei Celti invece il cinghiale rappresentava il potere spirituale dei druidi, contrapposto a quello temporale dei cavalieri (simboleggiati dall’orso).
Bibliografía http://www.agraria.org/selvaggina/cinghiale.htm http://www.elicriso.it/it/animali_regno/sus_scrofa/
Solo nel XVIII secolo iniziò l’allevamento selettivo ed intensivo del maiale. Fino a quel momento, i maiali venivano tenuti in regime di semilibertà, rendendosi quindi estremamente suscettibili di meticciamento con cinghiali selvatici: questi maiali erano perciò di aspetto ancora molto simile ai cinghiali, con pelo lungo e colorito bruno. Cronache dell’epoca segnalano pesi medi di una cinquantina di chili nell’animale eviscerato, il che segnala una stasi dal momento della domesticazione: gli animali in stadio precoce di domesticazione, infatti, tendono sempre a diminuire le proprie dimensioni rispetto alla popolazione selvatica.
Cittá del Messico Cena Ecumenica
L
a parola salsa deriva dal latino “salsus” (salato), perchè è sempre stato il sale il condimento base di ogni cucina. Già in Mesopotamia nel III millennio a.C., poi in tutto il Meditteraneo, era diffuso l’impiego di salse per condire quasi tutte le preparazioni. Presso gli antichi Romani era famoso il garum , ma spezie ed erbe aromatiche (senape, coriandolo, cumino, aneto, timo, aglio, zafferano o pepe) venivano frequentemente utilizzate, come è riportato in Apicio, per salse e intingoli che costituivano una parte molto importante nella cucina romana.
Roberto Cannizzo, Enrique Gilardi e Dino Pagliai 15 Ottobre 2015
S
i legge in Ateneo che tutti amavano i condimenti e che senza di questi nessuno avrebbero mangiato volentieri carne e pesce. Era importante, per la buona riuscita di un banchetto, conoscere le salse e quindi le spezie e, soprattutto, era importante saperle accompagnare ai cibi. Si legge, a questo proposito, in Orazio che non bastava, al mercato, prendere dal costoso banco dei pescivendoli tutti i pesci se non si conosceva la salsa che li avrebbe poi accompagnati. Le salse modificavano il sapore dei cibi, li rendevano più gustosi anche se non si poteva certo dire che il loro odore fosse altrettanto invitante. Plauto infatti dice che l’odore che si sprigionava dalle salse era analogo a quello che derivava dalla mescolanza del sudore e degli unguenti. Abbondante pepe e vino rendevano più saporite le biete insipide, e il solo pepe era consigliato per accompagnare un beccafico così come, ancora il pepe, veniva utilizzato per condire un pollo fatto a pezzi e cucinato in casseruola con brodo bollente. Plinio ricorda che la menta fresca, il cui aroma stimolava l’appetito, veniva unita in ugual misura alla lattuga per accompagnare piatti di pesce o di uova. Nel ‘300 Guillaume Tirel contribuì ad esaltarne la preparazione nel più antico libro di cucina francese: “Le Viandier”.
Successivamente, sembra che i cuochi fiorentini arrivati alla corte di Francia con Caterina de’ Medici (XVI sec.), arricchirono la varietà delle salse anche con il probabile antenato della besciamella: “lo bianco mangiare”. Sempre presso la corte di Francia, i cuochi spagnoli al seguito di Anna d’Austria (XVII sec.), portarono la salsa spagnola o bruna. Le salse possono essere sia calde che fredde. Talleyrand, principale esponente politico francese durante il Congresso di Vienna (1814), di fronte ai rappresentanti della Gran Bretagna, massima potenza della coalizione vincitrice, si consolava affermando: “ L’Inghilterra ha tre salse e 360 religioni, la francia a tre religioni e 360 salse”. Le calde, utilizzate sopratutto nei ricettari “professionali”, elencano fra le più importanti le così dette “salse madri”: la besciame-
lla, la vellutata o bianca, la spagnola o bruna, e la salsa di pomodoro. Da queste originano tutte le altre, battezzate da Escoffier “les grandeurs” dell’arte culinaria francese, rappresentano una versione aristocratica degli intingoli della cucina popolare. Le salse fredde, che hanno contribuito ad arricchire i sapori della cucina casalinga, si può dire che derivano quasi tutte dalla maionese, chiamata anche “salsa condottiera”. Utilizzate sin dai tempi più antichi per condire e rendere così più appetitosi i piatti, le salse e i sughi, sono tra gli elementi portanti della cucina italiana e internazionale; stuzzicanti e colorate, saporite e gustose, le salse e i sughi hanno il compito di esaltare il gusto dei piatti, di creare contrasti di sapori, di valorizzare i singoli ingredienti di un piatto, facendo in modo che ogni sapore emerga senza mai prevalere.
Dalle salse più famose, come la maionese o la Béchamel, a quelle più semplici, come la Salsa rosa o la Vinaigrette, passando per condimenti mutuati dalle cucine di tutte il mondo, come lo tzatziki e la salsa di Rafano, ogni salsa rende speciale e unico ogni piatto. Il sugo è da sempre uno dei protagonisti più apprezzati della tradizione italiana. Uno dei sughi più antichi è il classico soffritto di aglio, olio e peperoncino utilizzato ancora oggi come condimento semplice per la pasta. Dal nord al sud, la cucina regionale italiana propone una ricchissima varietà di sughi realizzati con carne, pesce, verdure e uova. Il più rinomato è il ragù alla bolognese di origine emiliana. La cucina laziale è celebre per i suoi condimenti a base di pancetta e guanciale mentre le regioni del sud Italia utilizzano spesso gli ortaggi e il pesce per creare condimenti dal sapore forte e deciso. Diffuse anche le speciali salse che differiscono di regione in regione
per consistenza e ingredienti contenuti. Se desiderate portare in tavola le uova, ma non sapete con quale salsa accompagnarle, potete preparare quella verde di erbe miste, ottima se servita anche con peperoni verdi, rossi e gialli cotti sulla griglia. Un’altra salsa salata conosciuta è il pesto tradizionale fatto alla maniera ligure. Anche la salsa tonnata è un classico della cucina italiana molto apprezzato in tutto il paese. Parlando di pesto viene in mente subito la Liguria: è in questa splendida regione infatti che, con sapiente cura, nasce questa salsa che si dice addirittura sia afrodisiaca. Il pesto è una salsa fredda, sinonimo e simbolo di Genova e dell’intera Liguria, che da alcuni decenni è tra le salse più conosciute e diffuse nel mondo. Le prime tracce del pesto le troviamo addirittura nell’800 e da allora, la ricetta si è sempre mantenuta identica, almeno nella preparazione casalinga. Per fare il vero pesto alla genovese occorrono un mortaio di marmo e un pestello di legno e... molta pazienza.
Come ogni ricetta tradizionale, ogni famiglia ha la sua ricetta del pesto alla genovese, quella che vi proponiamo in questa ricetta è quella del Consorzio del pesto genovese.
La classificazione delle salse Una prima distinzione la possiamo fare tra: • Salse calde ottenute mediante la cottura degli alimenti • Salse fredde ottenute senza ricorrere alla cottura. La classificazione più importante è quella che distingue: • Salse madri da cui derivano tutte le altre • Salse di base derivate da salse madri con l’aggiunta di determinati elementi • Salse composte o derivate ottenute per elaborazione di quelle di base Le salse madri • La vellutata comune, ottenuta dalla legatura di fondi bianchi • La vellutata di pesce • Il fondo bruno legato • La salsa besciamella • La salsa di pomodoro
Le salse di base • Le salse di base bianche, derivate dalle vellutate (salsa parigina, suprema, alla panna, mornay, villeroy, bercy, aurora) • Le salse di base scure, derivate dal fondo bruno legato (salsa spagnola, demi-glace, bordolese, finanziera) Roux I roux sono dei composti (burro e farina) usati per legare alcune salse. A seconda delle cotture a cui viene esposto avremo: • Roux bianco (vellutate) • Roux biondo (vellutata e besciamella) • Roux bruno (salse con carne) Dopo aver fuso il burro aggiungiamo farina fino ad avere un composto denso che terremo sul fuoco in base al roux che vorremo ottenere.
Bibliografía http://www.taccuinistorici.it/ita/news/contemporanea/panini-e-cibo-di-strada/storia-delle-salse.html http://www.misya.info/ricette/salse-sughi http://www.salepepe.it/ricette/salse-sughi/ http://ricette.giallozafferano.it/Pesto-alla-Genovese.html http://www.bekoelettrodomestici.it/beko-in-cucina/corso-di-cucina/salse-madri-e-per-condimento/
Cittá del Messico
Cena di Natale
I
l Prosecco è un vino spumante deliziosamente equilibrato, colore giallo paglierino brillante con bollicine fini e persistenti, il suo aroma fruttato con note di agrumi rendono molto rinfrescante per il palato. E ‘realizzato in 3 tipologie: Brut, Dry e Dry Extra. Questo spumante si mescola bene con qualsiasi piatto, dall’antipasto al dolce. È perfetto per celebrare un’occasione speciale o semplicemente in un giorno caldo, bere un bicchiere di Prosecco sul bordo della piscina.
Marilena Moneta Caglio, Enrique Gilardi e Dino Pagliai 24 Novembre 2015
I
l territorio del Prosecco si estende nella fascia collinare della provincia di Treviso, compresa fra le cittadine di Conegliano e Valdobbiadene. Un insieme di catene collinari che dalla pianura si susseguono fino alle Prealpi. Se Conegliano è considerata il centro culturale della zona del Prosecco e sede della Scuola Enologica e delle istituzioni di ricerca, Valdobbiadene, che ogni anno ospita la Mostra Nazionale dello Spumante, ne costituisce il cuore produttivo. La zona di produzione si estende sulla fascia collinare della Marca trevigiana, fra Conegliano, Vittorio Veneto, Pieve di Soligo, Vidor e Valdobbiadene; interessa 15 comuni e si estende su un’area di circa 18 mila ettari di superficie agricola. La vite è coltivata solo sui versanti meridionali, a un’altitudine compresa tra i 50 e i 500 metri slm. Attualmente all’albo Doc sono iscritti circa 4.100 ettari di vigneto, lavorati da 3.300 viticoltori, da cui sono stati raccolti nelle ultime vendemmie circa 105 quintali per ettaro.
Le aziende spumantische sono oltre cento, il che fa del comprensorio di Conegliano-Valdobbiadene il più importante distretto enologico italiano specializzato nella produzione di spumante con metodo Charmat. Il clima del comprensorio collinare, insieme alle caratteristiche dei terreni e alle esposizioni prevalentemente meridionali dei versanti, rende questa zona particolarmente adatta alla viticoltura. Un clima piacevole, tanto che storicamente i nobili veneziani amavano trascorrere l’estate in questi luoghi per sfuggire all’afa lagunare. La storia del Prosecco è una storia antica e diverse sono le ipotesi avanzate sulla sua origine. La più accreditata identifica il Prosecco con un vino noto ai tempi dell’Impero Romano, il Pucino, proveniente dalle colline carsiche che incorniciano a nord il golfo di Trieste, dove esisteva una località omonima e un vitigno del tutto simile denominato Glera. Le catalogazioni compiute nelle colline di ConeglianoValdobbiadene all’inizio del Novecento mostrano l’esistenza di vari biotipi di prosecco.
I presenti sul territorio risultavano essere il prosecco tondo, il prosecco bianco o prosecco Balbi, con acino fenico, e il prosecco lungo, così detto per la forma allungata dell’acino. Il prosecco è un vitigno rustico e vigoroso, con tralci color nocciola e grappoli piuttosto grandi, lunghi, spargoli e alati; a maturazione gli acini assumono un bel colore giallo dorato. Il prosecco è il vitigno che garantisce la struttura base al vino di Conegliano-Valdobbiadene, ma Verdiso, Perera e Bianchetta, vitigni considerati minori, possono in alcune annate e in alcune zone contribuire con la loro specificità a mantenere l’equilibrio organolettico. Il Verdiso veniva citato già nel ‘700 e nel XIX secolo era il vitigno più diffuso. Utilizzato nella vinificazione del Prosecco per aumentare l’acidità e la sapidità, è importante per equilibrare la componente acida nelle annate calde; oggi si cerca di valorizzarlo vinificando in purezza e ottenere un vino armonico e gradevole. Ha grappoli di media grandezza con peduncoli molto lunghi ed erbacei, tralci lunghi e sottili di colore rossiccio. Gli acini sono medio grandi, di forma ellissoidale, con buccia di colore verde chiaro dalla caratteristica punteggiatura, che diventa giallo citrino a maturazione. La Perera, utilizzata nella vinificazione per aumentare il profumo e l’aroma, è un vitigno molto simile al Prosecco, con grappoli leggermente più grandi, acini di color giallo intenso e foglie verde scuro, lucide e lisce.
Il nome deriva dalla forma dell’acino simile ad una pera rovesciata o, secondo alcuni, dal gusto particolare della polpa che ricorda quello della pera. La Bianchetta, citata fin dal ‘500, veniva utilizzata, maturando prima, per ingentilire il Prosecco soprattutto nelle annate fredde. Coltivata ancora nelle zone più alte e impervie, ha una notevole vigoria, foglie color verde opaco e grappoli verdi-giallastri di media grandezza dotati di una grande ala ben evidenziata. Il Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, nasce da poche ma precise regole che ne garantiscono l’unicità e l’autenticità. Tranquilli, Frizzante o Spumante, il Prosecco Doc di Conegliano-Valdobbiadene si riconosce per il colore giallo paglierino leggero, la moderata corposità, l’esclusivo profumo fruttato e floreale. Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Tranquillo. E’ la versione meno conosciuta al di fuori della zona di produzione. Si ottiene dai vigneti più fitti e poco produttivi, e da uve ben mature. Il colore è paglierino delicato, i profumi sono di mela, pera, mandorla e di miele millefiori.
La struttura è soave e persistente, con un retrogusto talvolta gradevolmente amarognolo che lo rende più articolato e complesso. Si consiglia di berlo alla temperatura di 10.12°C su antipasti delicati di mare e di terra, minestre in brodo leggere e carni bianche. Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Frizzante. Nasce originariamente con la rifermentazione in bottiglia (sur lie) e risulta asciutto e leggero; armonizza la fragranza dei profumi varietali dell’uva con la vivacità delle bollicine, risultando fresco, giovanile e molto godibile. Il colore è il caratteristico paglierino leggero, al naso l’aroma è ricco di sentori floreali e fruttati, con un prevalere di mela acerba e limone. Perfetto a 8-10°C come aperitivo, su antipasti e primi non elaborati. Prosecco di Valdobbiadene Superiore di Cartizze. Cartizze è una piccola area di 106 ettari di vigneto, compresa tra le colline di S.Pietro di Barbozza, Santo Stefano e Saccol, nel comune di Vadobbiadene, dove
si produce un Prosecco particolarmente pregevole. In Francia lo chiamerebbero cru, per le sue inconfondibili e aristocratiche peculiarità, un cru che nasce dalla perfetta combinazione tra un microclima dolce e un terreno antichissimo, originatosi dal sollevamento di fondali marini. Nella zona di Cartizze le uve vengono vendemmiate tardi, quando gli acini mostrano i primi segni di appassimento naturale, ottenendo così in fase di vinificazione un Prosecco con aromi e sapori di grandissima intensità. Il colore è più intenso di quello del normale Prosecco, ha una complessità di profumi invitanti e ampi, dalla mela alla pera, dall’albicocca agli agrumi, alla rosa, con una piacevole nota di mandorla glassata al retrogusto. Il sapore è rotondo, con una morbida sapidità e un finissimo perlage. Per esaltare le sue caratteristiche viene prodotto quasi esclusivamente nella versione Dry. Il Cartizze va servito ad una temperatura di 7-8°C . Por: Filippo Ronco
Bibliografía http://www.imujer.com/gourmet/3289/caracteristicas-del-prosecco http://www.tigulliovino.it/dettaglio_articolo.php?idArticolo=274
Cittá del Messico
I
Romani sicuramente non conoscevano il raviolo, ma preparavano dei piatti che potevano essere già considerati progenitori della pietanza. Una ricetta del cuoco romano Marco Gavio Apicio chiamata “patinam apicianam sic facies“- torta di Apicio -, era già una specie di raviolo.
Marilena Moneta Caglio e Dino Pagliai
Marzo 2016
S
econdo gli storici dietro al termine raviolo ci sono diversi equivoci. Dall’interpretazione dei testi medievali sarebbe possibile comprendere che il nome “raviolo” poteva essere sia sinonimo di tortello, quindi un ripieno avvolto nella pasta, che indicare una sorta di impasti o polpette modellate a forma di uovo, cotte in brodo o in grasso. Le nascita del termine “raviolo” avrebbe diverse interpretazioni, ad esempio una lo farebbe derivare da “rabiola” cioè piccola rapa, un’altra da “rovigliolo” nel senso di groviglio (per il ripieno). Ma quella che più ci piace, anche se non esistono documenti che la confermino, è l’ipotesi che il raviolo sarebbe stato concepito a Gavi Ligure, quando questo paeseroccaforte apparteneva alla “Repubblica di Genova”, il suo primo cuoco sarebbe stato un tal “Ravioli”, che è appellativo di famiglie tuttora residenti in zona. Il raviolo è l’unica pasta ripiena di cui si abbia notizia nei secoli XII e XIII. Secondo quanto si legge su “Paesaggio agrario in Liguria”, in un contratto della fine del millecento, un colono savonese si impegna a fornire al padrone un pasto per tre persone, alla vendemmia, composto di pane, vino, carne e ravioli. Nel ‘200 Genova comincia a diffondere i ravioli, anche grazie agli scambi che si facevano nelle “fiere”. Il
“raviolus” giunge a Parma prima della fine del secolo (cronaca di Fra Salimbene), e verso la metà del ‘300 il Boccaccio lo esalta nel Decamerone fra le leccornie del Paese della Cuccagna: “...stava genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi...”. Anche nelle famiglie più povere, una religiosa attenzione è da sempre destinata alla preparazione di questa pasta fresca all’uovo ripiena, il cui nome cambia (raviolo o agnolotto) a seconda della posizione geografica e dei diversi ingredienti contenuti (i più diffusi sono ricotta, spinaci e noce moscata).
Ravioli al Carciofo e profumo di timo Presentazione I ravioli ai carciofi al profumo di timo sono un primo piatto raffinato e saporito. Si tratta di una pietanza semplice da realizzare anche in casa che valorizza al meglio i versatili carciofi. Il ripieno è preparato con carciofi che vengono prima insaporiti in padella e poi tritati; a questi si accompagna il gusto più delicato della ricotta, mentre il tocco
in più, per un ripieno dal profumo davvero speciale è l’aggiunta del timo e della maggiorana freschi. Il segreto per ottenere un ottimo ripieno è di non tritare eccessivamente i carciofi che serviranno per la farcitura, in modo che il ripieno risulti ancora più corposo. In questa ricetta i ravioli ai carciofi sono conditi con il burro fuso profumato con il timo, ma potrete sbizzarrirvi con ciò che più vi piace, come ad esempio una salsa ai formaggi, oppure perché no con un sugo a base pomodoro.
Ingredienti Per la pasta fresca Farina tipo 00 300 g Uova 3 Ingredienti per il ripieno Carciofi 8 Ricotta 160 g Parmigiano reggiano 60 g Maggiorana 1 rametto Timo 1 rametto Olio di oliva extravergine 4 cucchiai Cipolle la metà di una Aglio 1 spicchio Vino bianco mezzo bicchiere Sale q.b. Pepe q.b. Per condire Burro 150 g Timo 4 rametti Parmigiano reggiano 80 g
Preparazione Per prima cosa preparate la pasta fresca che vi servirà per realizzare i ravioli. Mentre la pasta fresca all’uovo riposa, occupatevi del ripieno. Mondate e tagliate i carciofi. Tritate finemente la cipolla e fatela appassire a fuoco bassissimo per circa 15 minuti insieme
Bibliografía: www.taccuinistorici.it www.giallozafferano.it FOTOS: google images… ravioli.
ai quattro cucchiai d’olio e allo spicchio d’aglio schiacciato o tritato finemente, quando la cipolla sarà diventata trasparente unite i carciofi e fateli dorare; verso metà cottura aggiungete il vino bianco, e salate. Una volta cotti, trasferite i carciofi nella tazza di un robot da cucina e frullateli grossolanamente (dovranno esserci ancora dei pezzi di carciofi). Una volta ottenuta la crema trasferitela in una ciotola e unite la ricotta, le foglie fresche di maggiorana e di timo tritate, e infine il formaggio grattugiato. Amalgamate quindi bene il tutto. Ora occupatevi della pasta fresca. Tirate una sfoglia piuttosto sottile, tagliatela in strisce di 10 cm circa di larghezza, posizionate al centro il ripieno, e richiudete le sfoglie su loro stesse. Fate una leggera pressione sulla sfoglia con il dito intorno al ripieno in modo da far uscire l’aria all’interno. A questo punto con un coppa pasta tagliate i ravioli. Man mano che preparate i ravioli ai carciofi disponeteli su un canovaccio infarinato. Una volta pronti ,fateli lessare in abbondante acqua salata; mentre i ravioli cuociono, fate sciogliere il burro in una padella e aggiungete il timo fresco. Quando i ravioli saranno cotti, scolateli e fateli saltare nel burro aromatizzato: fateli insaporire per qualche minuto. Impiattate decorando il piatto con qualche fogliolina di timo, e come tocco finale date una spolverizzata di parmigiano.
Conservazione Potete conservare i ravioli in frigoirfero per un giorno al massimo in un contenitore ermetico. In alternativa potete congelarli da crudi. Per la congelazione potete procedere riponendo il vassoio con i ravioli in congelatore per farli indurire un paio d’ore. Quando saranno ben induriti, metteteli in un sacchetto gelo, meglio se già porzionati, e riponeteli nuovamente in congelatore. Quando li dovrete utilizzare lessateli direttamente da congelati in acqua bollente e procedete come da ricetta.
Cittá del Messico
Il tonno ha una storia millenaria
L
a pesca del tonno era praticata già nella preistoria, come dimostrano i graffiti scoperti nella grotta del Genovese a Levanzo, una delle isole Egadi. E nell’antichità classica sono numerosissime le attestazioni delle qualità nutrizionali e perfino terapeutiche del tonno: da Omero in giù ne scrivono, generalmente in toni positivi se non entusiastici, autori come Polibio, Strabone, Plinio, Plutarco, Galeno, Aristotele nonché scrittori/gastronomi quali Marziale, Apicio e Archestrato di Gela che, nel IV secolo a. C., trattava dell’uso del tonno nella cucina dell’epoca.
Marilena Moneta Caglio e Dino Pagliai Maggio 2016
L
a pesca del tonno fu descritta per la prima volta da Aristofane, da Oppiano e dal siracusano Teocrito. Aristofane (V secolo a.C.) racconta che una vedetta si appostava sul rilievo costiero più alto per segnalare l’arrivo dei tonni, i quali venivano spinti dalle correnti marine all’interno di un intrigo di reti. Dagli scritti di Strabone (I secolo a.C.) veniamo a conoscenza del fatto che i Fenici, abili pescatori, si spinsero oltre le colonne d’Ercole alla ricerca dei branchi di tonni, che erano poi lavorati a Cadice, luogo in cui sono state trovate monete raffiguranti questo pesce.
Una delle principali ricchezze del Mediterraneo Nell’antichità classica il tonno ha rappresentato una delle maggiori ricchezze economiche e risorse naturali per tutte le popolazioni che si affacciavano sul Mediterraneo. E quando parliamo di tonno ci riferiamo al “tonno rosso” (Tunnus tynus), per molti secoli fonte di cibo e
di lavoro, e quindi di reddito, per i pescatori, i costruttori di barche e di reti e per tutti quelli che lavoravano la carne del tonno lungo tutto il bacino di quello che i romani chiamavano “mare nostrum”, da Gibilterra all’Ellesponto.
In Italia l’epicentro dell’economia del tonno è stato il Mezzogiorno, in particolare la sua parte occidentale. Dalla Sicilia veniva, ad esempio, la gran parte della materia prima utilizzata per produrre il “garum”, una salsa di tonno largamente utilizzata (e apprezzata) nell’antica Roma, ottenuta dalla macerazione e filtrazione di un composto di interiora e sangue di tonno. E quando l’impero romano declinò (e con esso il garum), le dominazioni successive proseguirono, e perfezionarono, la filiera del tonno: dalla pesca alla sua lavorazione, conservazione e commercializazzione. Sono da citare, in particolare, gli arabi, i quali edificarono nuove tonnare lungo le coste e dai quali deriva l’etimologia di tutte le parole e i canti scanditi durante la cattura dei tonni e la loro successiva lavorazione.
L’epoca delle tonnare Quando si parla di tonno viene subito in mente la tonnara, un metodo di pesca e di lavorazione oggi in disuso, ma del quale rimangono numerosissime testimonianze storiche in tutto il Mediterraneo, a cominciare dalla Sicilia e isole vicine. Una volta pescati dai tonnaroti sotto la guida del rais (parola di origine araba da rais=capo), con il secolare rituale della mattanza, i tonni venivano portati all’interno della tonnara. Lì venivano appesi nel bosco (insieme di cime per agganciare e far scolare i tonni), tagliati, eviscerati, privati delle uova, bolliti, messi in salamoia o immersi nell’olio di oliva e, infine, confezionati.
Di tutto ciò la testimonianza forse più completa, e affascinante, si trova nello stabilimento di lavorazione del tonno Florio dell’isola di Favignana (nelle Egadi), oggi trasformato in Museo del tonno: costruito su progetto dell’arch. Giuseppe Damiani Almeyda (lo stesso del Teatro Politeama di Palermo) e inaugurato nel 1878, lo stabilimento vantava, solo quattro anni dopo, la cattura di oltre diecimila tonni per la lavorazione dei quali vennero impiegate fino a mille persone. La struttura è un vero gioiello di archeologia industriale: essa non era solo il luogo dove venivano custodite le attrezzature, le ancore e le barche della mattanza in quella che diventò una delle più fiorenti industrie di lavorazione conserviere del tonno, ma rappresenta anche la storia della famiglia Florio e del suo intrecciarsi con la vita degli isolani, che trovarono nell’economia del tonno il riscatto sociale dalla povertà e una decisiva fonte di reddito.
La rivoluzione di Appert C’è un momento preciso in cui, in tutti i settori economici, scatta il passaggio alla produzione moderna. Per l’industria del tonno è quello in cui il francese Nicolas Appert e l’inglese Bryan Donkin scoprono, all’inizio dell’Ottocento, un metodo per la sterilizzazione delle scatole metalliche da destinare alla conservazione dei cibi. Prima, come si è visto, per il tonno si faceva ricorso a conservanti “naturali”, in primis il sale e poi l’olio di oliva (fin dall’antichità si hanno notizie di tonno conservato sott’olio in orci di terracotta). Ma la vita del prodotto così conservato era, ovviamente, limitata.
Passarono alcune decine di anni dall’invenzione di Appert ma nella seconda metà dell’Ottocento la “appertizzazione” si estese finalmente anche al tonno, inscatolato in scatole di latta chiuse ermeticamente e successivamente sterilizzate. Seguì un boom nella diffusione del tonno conservato fino a pochi anni prima inimmaginabile. Oggi la pesca e la lavorazione del tonno sono pratiche diffusa in pressoché tutto il mondo: con circa 4 milioni di tonnellate all anno, il tonno rappresenta quasi il 5% di tutto il pesce pescato nel pianeta.
TONNO CON ARANCE, FINOCCHI E MANDORLE Ingredienti per 4 persone 400 grammi tonno 30 grammi mandorla a lamelle q.b. peperoncino piccante fresco 2 arance 5 cucchiai olio di oliva extravergine q.b. sale 2 finocchi Come preparare il tonno con arance, finocchi e mandorle 1) Per realizzare la ricetta del tonno con arance, finocchi e mandorle innanzitutto pulisci i finocchi, conservando qualche “barbina”, affettali finemente e mettili in una ciotola con acqua e ghiaccio. Preleva la scorza di mezza arancia non trattata e mettila da parte; priva tutte le arance (non trattate) della buccia e della parte bianca, tagliale al vivo, inserendo la lama di un coltellino affilato tra spicchio e spicchio, eliminando la pellicina che le ricopre. 2) Trita la scorza dell’arancia tenuta da parte, mettila in un contenitore alto e stretto con 3-4 “barbine” di finocchio lavate e tagliuzzate, aggiungici un pizzico di sale e peperoncino tritato e 4-5 spicchi di
Bibliografía http://tonno360.it/?page_id=108 www.salepepe.it
arancia, unisci l’olio e frulla gli ingredienti con un frullatore a immersione, fino a ottenere una salsa cremosa. 3) Tosta le lamelle di mandorle in un tegame antiaderente senza alcun condimento; distribuisci il tonno tagliato a fettine sottili nei piatti, uniscici i finocchi ben scolati e gli spicchi di arancia, condisci il tutto con la salsina preparata e completa con le lamelle di mandorle. Servi il tonno con arance, finocchi e mandorle.
Cittá del Messico
Una bacca famosa in tutto il mondo
I
l pomodoro è una Solanacea originaria dell’America Latina. Ricercato per i suoi frutti gustosi e ricchi di vitamine, ha alle spalle una lunga storia. Introdotto all’inizio in Europa come pianta ornamentale, fu ritenuto velenoso, e solo nel Settecento cominciò a essere usato in cucina. Tuttavia i Napoletani già dal Cinquecento apprezzavano
la bontà dell’oro rosso
Marilena Moneta Caglio e Dino Pagliai Agosto 2016
Il pomo del lupo
I
I botanici chiamano il pomodoro Solanum lycopersicum, che significa «pomo del lupo», dal greco lỳkos «lupo» e Persikòn (mèlon) «pomo persico; pesca». Ma che c’entra il lupo col pomodoro? Qualche informazione ci viene dalla storia di questa pianta dai frutti straordinari e appartenente alla famiglia delle Solanacee, come la patata, il peperone, il tabacco. Il pomodoro cresce bene nei climi caldi e può raggiungere i 2 m di altezza; i suoi frutti sono bacche rosse di forma e dimensioni diverse secondo le varietà, dal sapore dolce-acidulo, ricchi di vitamine (A, C, B, K, PP) e di sostanze antiossidanti come il licopene. Solanum lycopersicum deriva probabilmente dalla mutazione di una Solanacea selvatica con piccole bacche amare, che nel Messico precolombiano veniva chiamata tomatl. Quando gli Spagnoli arrivarono in America Latina nel 16° secolo, oltre al mais trovarono, coltivate dagli indigeni messicani e peruviani, piante di pomodori che chiamarono perciò tomate. Alcuni esemplari furono portati in Europa dove però vennero utilizzati solo come piante da giardino e non in cucina perché, come
tutte le Solanacee, godevano la cattiva fama di essere piante velenose. È forse per questo che alcuni contadini – sembra italiani – chiamarono l’ortaggio pomo del lupo, cioè cibo di un animale selvaggio molto temuto; i botanici, poi, si sarebbero rifatti al suo nome popolare.
Velenoso oppure no? In effetti sappiamo che molte Solanacee sono davvero tossiche – basti pensare al tabacco1, allo stramonio2 o alla belladonna3 – ma altre, pur conte-
nendo la velenosa solanina, sono commestibili: è il caso della patata, del peperone, del pomodoro stesso. Se i medici del Cinquecento consideravano il pomodoro velenoso, gli alchimisti invece gli attribuivano poteri afrodisiaci – aumenterebbe cioè il desiderio amoroso – e lo usavano per preparare pozioni e filtri d’amore. Si ritiene questo il motivo per cui cominciò a essere chiamato in inglese love apple, in francese pomme d’amour («pomo d’amore») e in italiano pomo d’oro; ma se nella nostra lingua questo nome gli è rimasto, in inglese (tomato) e in francese (tomate) ha prevalso invece quello legato alla radice della parola precolombiana.
1
2
Nel Settecento, comunque – vuoi per fame o per ricerca di cibi esotici –, il pomodoro riesce a conquistare le cucine di tutta Europa e in seguito di tutto il mondo. Nel Sud d’Italia, invece, la pianta, che si ambienta bene grazie al clima assolato, è coltivata sin dalla metà del Cinquecento, in particolare tra Napoli e Salerno, che rapidamente diventano la patria dell’oro rosso. Qui s’imparò a conservare la salsa ricavata dalla pummarola e qui, alla fine del Settecento, sorsero le prime fabbriche di conserva di pomodoro. È dunque l’Italia, in particolare il Sud della penisola, che vanta il primato di aver introdotto il pomodoro in cucina. Il suo uso diventa quotidiano e nel secolo seguente avviene una seconda decisiva svolta che ne aumenta notevolmente il consumo: l’invenzione della pizza.
3
La pasta al pomodoro Dal libro del 1837 Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, la ricetta dei vermicelli col pomodoro: «Piglia quattro rotoli» – il rotolo è un’antica misura di peso equivalente a circa 200 g – «de pommodoro, li tagli, levi la semenza e quella acquiccia, li fai bollire e quando sono squagliati fai restringere quel sugo mettendoci un terzo di sugna» – ossia grasso di maiale. «Quando quella salsa si è stretta giusta fai bollire due rotoli di vermicelli verdi verdi» – vale a dire cotti al dente – «e scolati metti quella salsa col sale e pepe, tenendoli sul fuoco così si asciuttano un poco. Ogni tanto gli dai una rivoltata e quando sono ben conditi li servirai».
Spaghetti al pomodoro
SPAGHETTI ALL’ AMATRICIANA l’anima simbolo per rendere il profumo più delicato. Dopo Un piatto simbolo della cucina italiana, con i di tipiciun piatto La forza
2 minuti di cottura a fiamma viva, unite i pomodori ingredienti del Bel Paese: spaghetti, pomodoro pelati (2) e aggiustate di sale (3), e basilico. Gli spaghetti al pomodoro sono Le terribili conseguenze del semplice terremotoma del 24 agosto, che ha colpito il Centro Italia e segnatamente i comuni di un’istituzione, una ricetta tutt’altro Amatrice, Arquata Tronto,per hanno indotto milioni di persone a donare cose e denaro, attraverso che banale.Accumoli Soggettaead infinitedel varianti trovare enti e associazioni, una stupenda gara dicremosità generosità, mentre ancora non sono cessati crolli e mentre si cercano l’equilibrio perfettoindi sapori, la giusta le vittime sepolte le macerie. Maitipo come eancora dolcezza partendo giàsotto dalla scelta del diin questa occasione si era vista una siffatta gara di solidarietà in Italia e nel mondo. pomodoro più adatto. Questo piatto è un vero banco di prova per chi ama prepararlo in casa, ma anche per gli chef stellati che serbano gelosamente coprite con un coperchio e fate cuocere per almeno i segreti delle loro versioni perfette! Eccoci ai fornelli 1 ora a fuoco molto basso: il sugo dovrà sobbollire insieme a voi per suggerirvi la nostra ricetta di molto dolcemente (4). Mescolate di tanto in tanto. questo classico intramontabile: una cottura lenta Trascorso il tempo indicato, eliminate l’aglio (5) e dolce dei pomodori pelati, il profumo delle e passate i pomodori al passaverdure (6), così da foglioline di basilico fresche sono tra suggerimenti Lai ricetta del Comune di Amatrice ottenere una purea liscia ed omogenea. per un sicuro successo! Sicuramente ricorderete la (dosi per 4 persone) famosa scena del film “Miseria e Nobiltà”, quando Felice Sciosciammocca e gli altri componenti della Unire i pomodori tagliati a filetti e puliti dai semi Ingredienti: famiglia si fiondano sul piatto da portata e iniziano (meglio prima sbollentarli, così si toglierà più 500 g di spaghetti, ad afferrare gli spaghetti al pomodoro con le mani. facilmente la pelle e poi tagliarli). Aggiustare di sale, 125 g di guanciale di Amatrice, Siamo certi che con la nostra versione sarete tentati mescolare e dare qualche minuto di fuoco. un cucchiaio di olio extravergine di oliva, di fare altrettanto! Buon appetito! un goccio di vino bianco secco, Togliere il peperoncino, rimettere dentro i pezzetti di 6 o 7 pomodori San Marzano o Trasferite padella il sugoalla (7),salsa. accendete Ingredienti guanciale,nuovamente dare ancorain una mescolata 400 g di pomodori pelati, nuovamente il fuoco molto basso e aggiungete le 320 g Spaghetti N°5 un pezzetto di peperoncino, foglie basilico Dopo qualche minuto 800 g Pomodori pelati tipo piccadilly Lessarediintanto la (8). pasta in abbondante acqua potete salata. 100 g di pecorino di Amatrice grattugiato, spegnere la salsa edente, teneree inmetterla caldo. Ainquesto punto 30 g Olio di oliva extravergine Scolarla bene al una terrina sale. non vi resta che cuocere lagrattugiato. pasta in abbondante 1 spicchio Aglio aggiungendo il pecorino Attendere acqua bollente e salata (9) 4 foglie Basilico qualche secondo e poi versare la salsa. Preparazione: Sale q.b. Mettere in una padella, preferibilmente di ferro, Mescolare e, per chi lo desiderasse, passare a parte l’olio, il peperoncino e il guanciale tagliato a pezzetti: Preparazione altro pecorino. la proporzione di un quarto, rispetto alla pasta, è tradizionale e sacra per gli esperti e, o si mette il guanciale, vale a dire la parte della ganascia del maiale, o non sono spaghetti all’amatriciana, che solo con esso avranno una delicatezza e una dolcezza dopodiché scolatela al dente direttamente nel insuperabili. sugo (10) e mantecate qualche istante fiamma viva mescolando di continuo per amalgamare il tutto (11). Per preparare gli spaghetti al pomodoro cominciate Rosolare a fuoco vivo. Aggiungere il vino. Togliere I vostri spaghetti al pomodoro sono pronti non vi dalla della salsa. In una padella versate dalla preparazione padella i pezzetti di guanciale, sgocciolare resta che impiattare e guarnire se preferite con altre l’olio allo spicchio d’aglio beneextravergine e tenerli dad’oliva parte insieme possibilmente in caldo: si foglioline fresche di basilico (12)! sbucciato e diviso a metà (1), così potrete eliminare evita il rischio di farli diventare troppo secchi e salati e resteranno più morbidi e saporiti.
Bibliografía: Bibliografía: http://www.treccani.it/enciclopedia/pomodoro_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/ http://ricette.giallozafferano.it/Spaghetti-al-pomodoro.html http://www.comune.amatrice.rieti.it/storia/
Cittá del Messico Cena Ecuménica:
LA CUCINA DEL RIUSO Contro lo spreco, la tradizione familiare propone gli avanzi con gusto e fantazia
L
Cenni storici
a Conca di Amatrice deve essere stata frequentata sin dall’età protostorica. Il fatto di trovarsi lungo il tracciato della Via Salaria spiega come la conca fosse abitata continuativamente dall’epoca preromana. All’epoca romana risalgono resti di edifici e tombe rinvenute in diverse zone del territorio. In effetti, secondo la tradizione, la città di “Summa Villarum” trasmise il proprio nome, nell’epoca di mezzo, a tutta l’area, che nel VI secolo fu annessa al Ducato di Spoleto.
Dino Pagliai ed Enrique Gilardi Rivero 20 Ottobre 2016
N
el Regesto di Farfa sono ricordati, per il periodo che va dalla metà dell’VIII secolo agli inizi del XII, i nomi di molte località e villaggi dell’attuale comune e, tra essi, nel 1012, anche quello di Matrice, ricordato ancora nel 1037 nel diploma con cui l’imperatore Corrado II conferma al Vescovo di Ascoli i suoi possedimenti. Solo intorno al 1265, al tempo del re Manfredi di Svevia, Amatrice entra a far parte definitivamente del Regno di Napoli. La città non volle sottostare al dominio angioino e anzi, più volte, si ribellò apertamente. Nel 1271 e nel 1274 Carlo d’Angiò inviò degli eserciti per debellare la resistenza degli amatriciani e ridurre la città all’obbedienza.
Contemporaneamente si assiste alla scomparsa dei baroni e alla formazione, con a capo Amatrice, della “Universitas”, cioè del “comune” in territorio liberamente organizzato, relativamente autonomo dal potere centrale, che si governa tramite un parlamento. In questo periodo l’influenza della città si estende su un territorio che va da Campotosto sino ai confini di Cittareale, ma anche su molti castelli e villaggi sul versante teramano. Nei secoli XIV e XV Amatrice è in continua lotta con le città e i castelli circostanti, per questioni di confine e di prestigio. Sono rimasti famosi i conflitti con Norcia, Arquata, L’Aquila. Tradizionale alleata di Amatrice fu la città di Ascoli.
Gli amatriciani presero parte, a fianco delle milizie comandate da Braccio Fortebraccio da Montone, al lungo assedio dell’Aquila e alla battaglia finale del giugno 1424, che segnò la sconfitta di Braccio morto sul campo. Amatrice, durante i conflitti tra angioini e aragonesi per il possesso del Regno di Napoli, sostenne tenacemente i secondi, anche durante la guerra. Il sovrano aragonese Ferdinando, sedata la rivolta dei Baroni nel 1485, nell’anno seguente ricompensò Amatrice, concedendole il privilegio di battere moneta con il motto “Fidelis Amatrix”. Tuttavia nel febbraio 1529, dopo
un’eroica resistenza, venne riconquistata e messa a ferro e fuoco da Filiberto di Chalon, generale di Carlo V. Per punire la ribellione, Carlo V diede lo Stato di Amatrice in feudo ad un suo capitano, Alessandro Vitelli. Successivamente, pur facendo
parte sempre del Regno di Napoli, Amatrice, tra il 1582 e il 1692, passò sotto il dominio di un ramo degli Orsini e in seguito ai Medici di Firenze, che la conservarono fino al 1737. Infine nel 1759 il feudo entrò a far parte dei domini personali del re di Napoli. Sul finire del XVIII secolo e per quasi tutto il successivo, il territorio amatriciano, come buona parte della penisola, fu interessato dal fenomeno del “brigantaggio” a sfondo politico e sociale. Un ruolo importante nella storia del Risorgimento italiano lo ebbero anche i patrioti amatriciani, primi fra tutti Piersilvestro Leopardi, Don Giuseppe Minozzi e Don Nicola Rosei. Sempre di origine amatriciana, della frazione Preta, fu Don Giovanni Minozzi, fondatore dopo la Prima Guerra Mondiale dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia.
SPAGHETTI ALL’ AMATRICIANA La forza di un piatto simbolo Le terribili conseguenze del terremoto del 24 agosto, che ha colpito il Centro Italia e segnatamente i comuni di Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, hanno indotto milioni di persone a donare cose e denaro, attraverso enti e associazioni, in una stupenda gara di generosità, mentre ancora non sono cessati crolli e mentre si cercano ancora le vittime sepolte sotto le macerie. Mai come in questa occasione si era vista una siffatta gara di solidarietà in Italia e nel mondo.
La ricetta del Comune di Amatrice (dosi per 4 persone)
Ingredienti: 500 g di spaghetti, 125 g di guanciale di Amatrice, un cucchiaio di olio extravergine di oliva, un goccio di vino bianco secco, 6 o 7 pomodori San Marzano o 400 g di pomodori pelati, un pezzetto di peperoncino, 100 g di pecorino di Amatrice grattugiato, sale. Preparazione: Mettere in una padella, preferibilmente di ferro, l’olio, il peperoncino e il guanciale tagliato a pezzetti: la proporzione di un quarto, rispetto alla pasta, è tradizionale e sacra per gli esperti e, o si mette il guanciale, vale a dire la parte della ganascia del maiale, o non sono spaghetti all’amatriciana, che solo con esso avranno una delicatezza e una dolcezza insuperabili. Rosolare a fuoco vivo. Aggiungere il vino. Togliere dalla padella i pezzetti di guanciale, sgocciolare bene e tenerli da parte possibilmente in caldo: si evita il rischio di farli diventare troppo secchi e salati e resteranno più morbidi e saporiti.
Bibliografía: http://www.comune.amatrice.rieti.it/storia/
Unire i pomodori tagliati a filetti e puliti dai semi (meglio prima sbollentarli, così si toglierà più facilmente la pelle e poi tagliarli). Aggiustare di sale, mescolare e dare qualche minuto di fuoco. Togliere il peperoncino, rimettere dentro i pezzetti di guanciale, dare ancora una mescolata alla salsa. Lessare intanto la pasta in abbondante acqua salata. Scolarla bene al dente, e metterla in una terrina aggiungendo il pecorino grattugiato. Attendere qualche secondo e poi versare la salsa. Mescolare e, per chi lo desiderasse, passare a parte altro pecorino.
Cittá del Messico
Il Carpaccio
l
l Carpaccio, uno dei piatti più famosi della cucina italiana e riprodotto in tutto il mondo in un’infinità di varianti, è stato creato nel 1950 da Giuseppe Cipriani, il fondatore dell’Harry’s Bar di Venezia.
Marilena Moneta Caglio e Vittorio Stewens Dicembre 2016
D
urante la visita a Venezia di una sua amica che doveva seguire una dieta molto rigida e non che non poteva magiare della carne cotta, Cipriani creò il carpaccio, nome che fa riferimento al pittore Vittore Carpaccio dell’inizio del Secolo XVI e del quale si svolgeva un’esposizione a Venezia proprio nel periodo in cui Cipriani sviluppò la su creazione culinaria. Infatti, i colori del piatto, d’accordo al proprio Cipriani, ricordavano i colori che l’artista utilizzava nelle sue opere.
Vittore Carpaccio, Sogno di Sant’Orsola
The pilgrims meet the Pope
Ed effettivamente, comparando i colori delle opere di Vittore Carpaccio ed il Carpaccio originale creato da Cipriani, non si può negare una certa rassomiglianza.
VERSIONI ALTERNATIVE Fare un carpaccio è diventata una moda, che coinvolge ormai ogni tipo di alimento, frutta inclusa. Dirlo può apparire un nonsense, perché la frutta viene già consumata soprattutto cruda, ma in questo caso il riferimento è al tipo di taglio sottile che vi si applica. Ogni stagione ha un suo carpaccio anche nella grande famiglia delle verdure: i vegetali comunemente consumati cotti se tagliati sottili possono diventare ottimi carpacci crudi. Dalle zucchine alla zucca, passando per melanzane e funghi, seguono le regole della carne per questa ricetta: condimento a scelta, erbe aromatiche, da consumare freddi. Poche gocce di aceto di umeboshi, il tipico condimento a base di prugne giapponesi, sono
l’ingrediente usato da molti chef asiatici esperti di cucina vegetariana per condire i carpacci di verdure. QUESTIONE DI NOMI Vittore Carpaccio, l’artista che ha ispirato il nome del piatto, era un pittore del Rinascimento veneziano. Il suo nome ispirò Cipriani per via dell’uso dei colori, i rossi e i gialli, tipici delle sue tele. La salsa che lo accompagna viene chiamata citando un altro grande Kandinsky: la salsa infatti va lasciata sulla carne come a creare una sorta di astratto.
spesso artista, cadere quadro
Il Carpaccio originale “alla Cipriani” consiste
a tagliare delle fettine sottilissime crude di controfiletto di manzo, anche se è accettato l’uso di filetto. Inutile ricalcare che la carne deve essere freschissima e che d’accordo alla ricetta originale non è ammesso che sia scongelata. La carne è accompagnata con una salsa a base di maionese che è insaporita con Worcestershire sauce (salsa Worcester), limone, latte, sale e pepe bianco. Giuseppe Cipriani ci trasmette la seguente ricetta per la salsa: • (Ricetta tratta da “The Harry’s Bar Cookbook” di Arrigo Cipriani) (dosi per 6 se servito come antipasto) 675 gr di fettine sottilissime di controfiletto di manzo
• Amalgamate prima la maionese con la salsa Worcester ed il succo di limone. Aggiungete poi abbastanza latte da ottenere una salsa fluida e abbastanza liquida. Aggiustate di sale e pepe ed eventualmente aggiungete altra Worcester o altro succo di limone secondo i gusti. Nappate le fettine di manzo con la salsa e servite immediatamente. Oggigiorno troviamo un’infinità di varianti del carpaccio originale di manzo che include l’uso del parmigiano, dei funghi, la rucola o fettine di tartufo, per menzionare degli esempi. Visto il successo che ha avuto il carpaccio, in seguito altri “carpaccio” sono stati creati, essenzialmente a base di pesce e polpo.
• Per la salsa Carpaccio: 185 ml di maionese (preferibilmente fatta in casa) 1-2 cucchiai da tè di salsa Worcester 1 cucchiaio da tè di spremuta di limone 2-3 cucchiai di latte sale e pepe bianco
Bibliografía: http://www.finedininglovers.it/blog/food-drinks/origine-carpaccio-storia-curiosita/
Cittá del Messico
LA STORIA DELLA BURRATA
D
a non trascurare, per tutti gli amanti dei latticini, le prelibatezze casearie, uniche ed invidiate in tutto il mondo: una di esse è senza dubbio la “Burrata”, prodotta nella bella Puglia. Solo a guardarla, stimola l’appetito e fa venire l’acquolina in bocca!
Marilena Moneta Caglio, Dino Pagliai e Massimo Bachi
9 Febbraio 2017
O
riginaria di Andria e diffusa soprattutto nella subregione pugliese delle Murge, potrebbe essere confusa, erroneamente ed a prima vista, con la mozzarella, il più tipico e conosciuto tra i formaggi campani. La burrata è un tipo di mozzarella vaccina, farcita al suo interno con un ripieno che prende il nome di stracciatella, che non è altro che un misto di panna e mozzarella tagliata a pezzettini.
Per quanto riguarda le origini, si dice che sia stata inventata nell’anno 1956, presso la masseria “Piana Padula”, nei pressi di Castel del Monte (area
riservata alla lavorazione delle manteche, formaggi a pasta filata stagionati, ripieni al loro interno). Chi fu l’artefice di tale capolavoro? Il merito va tutto a Lorenzo Bianchino, il quale nel ‘56, anno di una straordinaria nevicata che rendeva difficili i trasporti, che il signor Bianchino, ebbe un’idea: creare una specie di sacchetto con la pasta della mozzarella per conservarvi all’interno la panna e la stracciatella. cercò un modo per riciclare le rimanenze della pasta filata in esubero dalla lavorazione della mozzarella, unendole ad una sorta di crema, ottenuta con la panna fresca. Intanto modellò, con la pasta filata, una sorta di “cesto” e con la tecnica della “strozzatura” conferì la classica forma del caciocavallo. In questo modo, da un’idea semplice e geniale, nacque la Burrata, prelibatezza che oggi delizia i nostri palati: non a caso, il suo gusto e la sua particolarità ebbero in poco tempo riscosse uno straordinario successo in Italia e nel mondo, fino a divenire un prodotto simbolo di un’intera regione.
Come viene preparata la burrata? La lavorazione della burrata richiede passaggi ben schematici e precisi e non necessita dell’ausilio di macchinari: tutto avviene manualmente. Il primo step consiste nel filtrare il latte vaccinato, che viene poi pastorizzato. Attraverso siero-innesto naturale si passa alla fase dell’acidificazione di buona parte della lavorazione del giorno precedente, rigorosamente a temperatura ambiente.
granuli. Dopo la sedimentazione, si adagia la cagliata su piani d’acciaio e si lascia maturare per un lasso di tempo variabile, che spazia dalle 2 alle 4 ore. Si immerge poi in acqua salata a circa 85/90 gradi e si inizia a modellare, conferendo la classica forma a sfera. All’interno si inseriscono le rimanenze della pasta e la panna e si sigilla con cura. Infine, si immerge in acqua fredda per una mezz’oretta.
La coagulazione avviene nel giro di circa mezz’ora: si riscalda il latte alla temperatura di massimo 35 gradi e si aggiunge il caglio di vitello. Dopodiché, con l’ausilio di uno spino preferibilmente d’acciaio, si procede alla rottura della cagliata, ottenendo piccoli
Il prodotto ottenuto, frutto della maestria e della manualità dei migliori maestri del settore caseario, è unico nel suo genere… Ed arriva sulle nostre tavole con tutta la sua bontà!
All’assaggio la Burrata mostra le solite caratteristi che di un formaggio fresco; infatti l’intensità dell’Odore (2,5) mostra descrittori che ricordano il latte fresco e la panna fresca, e allo stesso modo anche l’intensità dell’Aroma (2,5) mostra lo stesso livello e gli stessi descrittori: latte fresco, panna fresca e burro. Per quanto riguarda i sapori, le caratteristiche mostrano un sapore Dolce (3,5) piuttosto elevato e persistente. Il sapore Acido (1,5), invece, si percepisce ma non è elevato perché la Burrata utilizzata per l’assaggio era appena stata prodotta: se avessimo aspettato qualche ora, il sapore Acido sarebbe stato molto più percettibile.
La Burrata per l’assaggio è un prodotto del Caseificio Semeraro, Carovigno (Brindisi). L’acidità è, in questo prodotto, il segnale della sua freschezza. Il sapore Salato (3,0) lo si percepisce meglio dopo la deglutizione quando in bocca rimane una persistenza di sapore dolce e un retrogusto salato gradevolissimo che scatena l’aumento della salivazione e quindi la pulizia della bocca. La Burrata non è Amara (0,0), non è Astringente (0,0), non è Piccante (0,0). La sua struttura è piuttosto interessante perché è disomogenea: all’esterno la buccia, una parte più dura di pasta filata, mentre dentro un liquido consistente che è la crema di siero e degli sfilacci di mozzarella. La struttura è Elastica (3,5) se il prodotto è fresco. Poco Dura (1,5) dovuta alla buccia esterna. Non è Friabile (0,0), non è Adesiva (0,0) ed è Solubile (4,0); infine, è ricca di Umidità (4,5). Per gustarla al meglio, secondo la tradizione, la si può utilizzare in insalate, abbinata aipomodori e condita (anche se anche senza condimento è perfetta) con un filo di olio extra vergine d’oliva. Ad ogni modo sarà… paradisiaca! Tutto, però, ha un prezzo. Per correttezza aggiungiamo che a questo gusto intenso corrisponde anche un apporto calorico non indifferente: ogni 100 grammi di Burrata si contano 450 calorie.
Bibliografía: www.vesuviolive.it www.ilgiornale.it www.latenews.it
Cittá del Messico
Spaghetti alla chitarra musica per il palato
G
li spaghetti alla chitarra: semola di grano duro, uovo e un pizzico di sale sono gli ingredienti necessari a creare una delle paste all’uovo più gustose e apprezzate d’Italia.
Questi “spaghetti” si presentano come particolarmente grossi, sostanziosi, di sezione quadrata, con uno spessore e una larghezza di 2-3 mm. Anche la loro consistenza è particolare: porosi, consentono al sugo di attaccarsi e aderire agli spaghetti, per la gioia del palato.
Marilena Moneta Caglio, Enrique Gilardi e Dino Pagliai
Maggio 2017
Il nome degli spaghetti alla chitarra
I
l nome degli spaghetti alla chitarra deriva dall’attrezzo tradizionale che si usa per prepararli, chiamato appunto “chitarra”. È questa macchina, che in dialetto abruzzese è chiamata “maccarunàre”, a donare agli spaghetti alla chitarra la loro inconfondibile forma e consistenza. La chitarra è costituita da un’intelaiatura di legno sulla quale sono inseriti alcuni fili d’acciaio tesi che la fanno assomigliare all’omonimo strumento musicale. È proprio premendo la pasta contro questa intelaiatura che si ottengono grossi spaghetti, porosi e di sezione quadrata.
La diffusione regionale degli spaghetti alla chitarra Gli spaghetti alla chitarra, chiamati anche maccheroni alla chitarra, sono una pasta di origine abruzzese. La loro definizione e origine, però, non è così semplice ed è molto discussa.
Benché sia la pasta abruzzese ad avere questo nome, possiamo dire che gli spaghetti alla chitarra sono in realtà diffusi in diverse regioni del centro e del sud Italia. Pur mantenendo la stessa forma e lo stesso impasto acquistano, in ogni regione, nomi differenti che indicano però lo stesso tipo di pasta.
Nella maggior parte dei casi, infatti, le differenza si limita al nome. Così lo stesso tipo di pasta è chiamata tonnarelli in Lazio, troccoli (o torchioli o truoccoli) in Basilicata e Puglia settentrionale (sono più diffusi nella Daunia, ovvero nella provincia di Foggia), ma anche maccheroni crioli in Molise. In Abruzzo e in Molise questa pasta viene tradizionalmente cucinata con ragù di carne di manzo, agnello e maiale. Esistono però ricette, meno tradizionali ma comunque apprezzate, che prevedono il condimento con sughi a base di carne di cinghiale, di lepre o di cacciagione.
La ricetta degli spaghetti alla chitarra Preparare gli spaghetti alla chitarra non è un procedimento particolarmente difficile anche se richiede tempo e, naturalmente, è l’esperienza a fare la differenza. Ingredienti per 4 persone: – 400gr di farina di grano duro – 4 uova – sale Procedimento: 1- Il primo passaggio è quello di setacciare la farina sul piano di lavoro, creando la classica forma a fontana nella quale inseriamo le uova rotte e un pizzico di sale. 2- Sbattendo le uova con una forchetta raccogliamo la farina e iniziamo ad impastare fino a quando avremo ottenuto un composto liscio ed omogeneo. Più a lungo l’impasto sarà lavorato, più la pasta sarà di buona qualità e resisterà alla cottura.
3- Una volta che saremo soddisfatti del nostro composto, avvolgiamolo in una pellicola trasparente e facciamolo riposare per circa un’ora in un luogo fresco e asciutto. Passato questo tempo è giunto il momento di stendere la pasta con l’aiuto di un mattarello finché otterremo una sfoglia di circa 5 mm di spessore.
4- Procediamo dunque ad ottenere la forma di questi spaghetti utilizzando la macchina tradizionale chiamata “chitarra�. 5- Dopo aver fatto riposare e asciugare gli spaghetti ormai formati su un piano infarinato, sono pronti per essere cotti e gustati.
Un consiglio? Gli spaghetti alla chitarra vogliono una cottura decisamente al dente e devono essere accompagnati con condimenti ricchi e importanti.
BibliografĂa: https://lorenzovinci.it/magazine/recipe/gli-spaghetti-alla-chitarra-ricetta-originale-attrezzo-condimenti/
CittĂĄ del Messico
C
on alcuni piccoli trucchi, la cottura del polpo in pentola a pressione è veloce e assicura un risultato ottimale: un polpo cosÏ tenero da poter essere fatto in insalata. Sono animali strettamente di acqua marina diffusi in quasi tutti gli oceani e mari del mondo, a eccezione delle zone polari e subpolari.
Dino Pagliai e Manfredi Carnevale
Luglio 2017
Il polpo
I
l loro habitat sono le zone tropicali, subtropicali e temperate entro i 100-150 metri di profondità. Vivono soprattutto nelle acque costiere e nella parte superiore della piattaforma continentale. CARATTERISTICHE FISICHE Il polpo presenta un corpo ovale con la testa e il corpo fusi insieme a formare un’unica struttura chiamata mantello; sono presenti otto protuberanzecje costituiscono i tentacoli o braccia. Nella testa sono localizzati lateralmente due piccoli occhi sporgenti. Il corpo ha una pelle è liscia che può cambiare di colore a seconda dell’ambiente nel quale si trova l’animale. Questa forma di mimetismo è una strategia adottata dal polpo per meglio mimetizzarsi con l’ambiente ed avviene grazie a particolari cellule pigmentate (cromatofori) poste nella cute e a cellule, dette iridofori, responsabili dei riflessi e dell’iridescenze. Tra i diversi animali è sicuramente tra quelli che riescono a mimetizzarsi più rapidamente. Possiedono otto tentacoli (di cui uno trasformato in organo copulatore chiamato ectocotilo) ciascuno
provvisto di due serie di ventose, maggiormente sviluppate nei maschi piuttosto che nelle femmine. Al centro dei tentacoli, sulla parte inferiore del corpo, si trova la bocca che termina con un becco corneo usato per rompere i gusci delle conchiglie e il carapace dei crostacei che sono il loro principale alimento. Nella parte posteriore del mantello del polpo sono presenti da 7 a 11 lamelle branchiali e un sifone che serve per espellere l’acqua utile per l’espirazione e la locomozione. Sono privi di scheletro e di conchiglie all’interno del corpo e possiedono una ghiandola del nero che produce un liquido nerastro, comunemente chiamato inchiostro, che viene espulso nelle situazioni di pericolo per confondere gli aggressori e dare il tempo di nascondersi o mimetizzarsi. Il polpo ha un encefalo di grandi dimensioni ed è un animale che ha dimostrato di avere capacità di apprendere azioni che dipendono dalla memoria e non solo.
Croce e delizia di chi ama la cucina di mare. C’è chi non osa cucinarlo, perché immagina chissà quali insidie. Chi ogni tanto lo ha fatto, ma sudando sette camicie. Chi comunque preferisce ordinarlo solo al ristorante o in gastronomia. Chi infine, come me, lo cucina almeno una volta alla settimana e ha sfatato uno dopo l’altro i miti che ne circondano scelta e cottura. Ecco cosa non fare, e perché. 1. Non contare le ventose. Sui tentacoli del polpo, quale che sia la sua dimensione, dalle gigantesche piovre ai piccoli polpetti, ci sono sempre 2 file di ventose. Se ce ne è una sola, vi stanno vendendo un moscardino o quella che, in alcune parti d’Italia, viene chiamata polpessa, in entrambi i casi un mollusco di qualità inferiore, meno saporito e meno tenero. A proposito di tenerezza, non demonizzate polpi congelati e decongelati: il freddo ha sulle fibre del mollusco lo stesso effetto della battitura, ovvero le spezza, rendendo le carni più morbide. Detto
questo, ovvio che il fresco acquistato dal vostro pescivendolo di fiducia è imbattibile. 2. Cuocerlo in un pentolone d’acqua. “O purp’se coce dint’all’acqua soje”, come direbbe Viviana Varese, che il polpo nella sua acqua lo ha in carta da sempre. Non serve tuffarlo in un silos di acqua bollente, né fare operazioni di magia come scottare tre volte i tentacoli o aggiungere il famigerato tappo sughero che, come è noto, era un espediente usato da “polpari” nei mercati, per “pescare” i molluschi cotti nei calderoni in cui sobbollivano. E mi direte: ma allora i polpari cuocevano in tanta acqua! Vero, ma avevano anche l’esigenza di tenere in caldo e di non far seccare all’aria la loro mercanzia, che immersa nel brodo di cottura appena fumante restava morbida e succosa. Ricapitolando: basta mettere il polpo in un tegame su un filo d’olio, aglio e alloro invece dell’inutile tappo, niente sale. Se proprio volete, giusto un filino d’acqua che, insieme all’olio, eviterà alle ventose di attaccarsi al fondo del tegame a inizio cottura. Poi si copre con un coperchio, si porta su fuoco basso (meglio ancora con una retina spargifiamma) e si attende che la magia della lenta cottura faccia il suo dovere, regalandoci carni morbide e anche un brodetto molto saporito, perfetto da aggiungere a una zuppa o per cuocerci le patate.
3. Pensare che occorrano ore di cottura. La soluzione è la pentola a pressione. Ecco gli step: filo d’olio, aromi, polpo, chiudere, fiamma vivace, sibilo, fiamma al minimo, 20 minuti, spegnere. Per polpi molto piccoli possono bastare 15 minuti, per quelli più grandi 25.
Polpo alla griglia Il polpo è buonissimo e versatile e si può preparare in molti modi diversi, potete fare un guazzetto con il pomodoro, un’insalata di polpo e patate oppure un’insalata di mare. Se cercate qualche idea nuova da portare sulle vostre tavole potete fare il polpo alla griglia con la ricetta greca.
Alla fine, meglio non sfiatare la valvola e aprire la pentola, ma lasciarla chiusa finché la pressione interna non è calata naturalmente: durante questo periodo, il polpo cuocerà ancora un po’, si imberrà dei suoi succhi e le fibre si inteneriranno ulteriormente. 4. Eliminare pelle e ventose. A me personalmente quei tentacoli denudati, bianchi e lisci come fossero bastoncini di surimi prima del bagno di colore, fanno ben più impressione delle veraci ventose e della pelle sottile e rossastra. Permesso, a mio avviso, solo eliminare le membrane molto scure fra un tentacolo e l’altro. 5. Cuocerlo direttamente sulla griglia. Il polpo alla brace è delizioso. Perché perde la consistenza viscosa, diventa croccante e acquista quel saporino di fumo che piace sempre tanto. Inutile che vi dica che prima va lessato. Meglio però non posarlo direttamente sulla graticola: i tentacoli scapperebbero di sotto, rischiando di bruciarsi, e il calore sarebbe troppo violento.
Ingredienti: 1,5 kg di polpo Olio extravergine di oliva Sale Pepe Prezzemolo tritato Aceto bianco o rosso Origano Vino bianco o rosso Preparazione Lavate bene il polpo e poi mettetelo in una pentola spaziosa piena di acqua e cuocetelo per 30 – 40 minuti, dipende dalle dimensioni. Scolate il polpo e fatelo raffreddare. Prendete una ciotola grande e mettete un bicchiere di vino, sale, pepe, prezzemolo, origano, aceto e olio, mettete dentro il polpo tagliato a pezzi grandi e fatelo marinare per almeno un’oretta. Preparate la brace e grigliate il polpo per qualche minuto girandolo a metà cottura. Servitelo con una vinaigrette con olio, aromi e un pizzico di aceto.
Meglio una piastra in ghisa, posata sulla griglia del barbecue o, più semplicemente, sulla fiamma del fornello.
Bibliografía: http://www.dissapore.com/grande-notizia/cucinare-polpo/ http://www.elicriso.it/it/animali_regno/octopus_vulgaris/ http://www.gustoblog.it/post/174027/il-polpo-alla-griglia-con-la-ricetta-greca
Cittá del Messico
Storia del vino Marsala
L
a storia dei vini di Sicilia, terra d’origine della civiltà mediterranea, si intreccia con i miti della religione ellenica. È storicamente provato che i primi coloni greci giunti a Naxos si siano dedicati professionalmente alla coltivazione della vite. Infatti il culto di Dioniso e dei vini pregiati s’inestò dalla Naxos delle isole Cicladi alla nuova colonia. Sulle monete di “Tauromenium” (Taormina) veniva raffigurata la testa del dio del vino, e leggenda vuole che Dioniso in persona si sia spinto nella valle del fiume Alcantara per la curiosità d’assaggiare il vino generato dalla vite “Eugenia”.
Dino Pagliai, Vittorio Stewens ed Enrique Gilardi
Agosto 2017
successivi, in seguito alla distruzione di gran parte dei vigneti francesi per la fillossera e la peronospora, la produzione enologica sicula costituì un’importante fonte d’importazione per gli industriali francesi. La Sicilia sembrava relegata al ruolo di terra di vini bianchi e di vini da meditazione come il Marsala o il Passito di Pantelleria.
Vino Marsala
Quella del vino Marsala è una storia atipica, intrisa di eventi, fatti, affari e commerci. Al centro di questa storia si trova il commerciante inglese John Woodhouse che, nel 1773, dopo essere approdato nel porto di Marsala, si ristorò con il suo equipaggio bevendo il buon vino del luogo.
È
invece storica la testimonianza del poeta greco Esiodo, che cita il dolcissimo “Biblico” giunto nell’Ellade da Siracusa, progenitore del Moscato. Spettò ai Fenici portare in tutte le coste raggiungibili dalle loro navi i vini siciliani, facendone uno dei prodotti più importanti degli scambi commerciali dell’epoca. Non mancò poi un periodo di crisi, quando tra il III e il II sec. A.C. l’isola divento da esportatrice ad importatrice di vini, in seguito alle guerre d’occupazione romana e alla politica dell’Urbe che privilegiò lo sfruttamento della terra di Sicilia per le colture cerealicole. Tuttavia i grandi vini dell’isola non scomparvero, come testimoniava la predilezione di Giulio Cesare per il Mamertino, e di Plinio per il Taormina bianco, ottenuto da antichi vitigni come Catarratto, Carricante, Grillo, Inzolia e Minella. Con la caduta dell’Impero Romano l’isola fu teatro delle invasioni barbariche e delle dominazioni arabe che quasi cancellarono la vite. La situazione tornò favorevole dal ‘400, dai porti della Sicilia ricominciarono a salpare navi cariche di vino leggero dell’Etna, alcolico di Trapani e Palermo, aromatico di Catania e Pantelleria. Già alla fine del secolo successivo sia Sante Lancerio che il Bacci scrissero giudizi positivi sui vini siciliani. Da fine ‘700 i grandi movimenti delle flotte inglesi favorirono il sorgere della grande industria enologica sicula incentrata sul Marsala. Fu proprio questo vino il protagonista del brindisi fatto da Dumas con Garibaldi per celebrare la conquista di Palermo da parte dei Mille. Poi, dal 1870 e negli anni
Il vino, che veniva trattato con il metodo di invecchiamento detto perpetuum (in Portogallo è il metodo “Soleras” utilizzato per il Jerez e il Porto cioè invecchiamento in botti sovrapposte), piacque all’inglese che decise di portarne qualche botte verso le coste inglesi, dopo aver aggiunto dell’acquavite di vino per preservare il vino nel viaggio.
Provate a immaginare lo stupore nel volto di un viticoltore marsalese di fine ‘700 al cui cospetto si presentò per la prima volta un mercante ‘nglisi (informazione sufficiente per gli abitanti del luogo), venuto da Liverpool (informazione necessaria per le autorità), di nome John Woodhouse (signor Giovanni Casadilegno avrebbero scritto i notai negli atti che lo riguarderanno), presumibilmente accompagnato da un interprete, per acquistare un certo numero di botti di mosto o di vino da imbarcare e spedire “fuori Regno” di Sicilia. Il successo in Inghilterra fu grande e Woodhouse pensò di tornare in Sicilia per iniziare a produrre lui stesso il vino, seguito da altri imprenditori inglesi che avevano “fiutato” l’affare. E di imprenditori inglesi, infatti, ne vennero parecchi e tutti molto abili e intraprendenti: da Joseph Payne, a James Hopps, da Benjamin Ingham accompagnato dai nipoti Whitaker, ecc. Ma i siciliani non rimasero a guardare. Infatti, nel 1833 Vincenzo Florio fondò le omonime cantine iniziando la produzione di Marsala in concorrenza con gli inglesi. In poco tempo il vino liquoroso siciliano conquistò il mondo e già nel 1931 si iniziò a provvedere a leggi e regole che proteggessero il prodotto e ne circoscrivessero la zona di produzione.
Per gli stessi motivi nacque nel 1963 il Consorzio per la tutela del vino Marsala DOC e fu così che nel 1969 il Marsala divenne il primo prodotto italiano riconosciuto come DOC.
Quando si parla dei Florio il pensiero corre subito alla imponente flotta mercantile, alle feste, ai ricevimenti, al lusso, alle corse automobilistiche, a Donna Franca Florio “La Regina di Palermo”, moglie di Ignazio Florio Jr., donna bellissima, colta e affascinante alla cui mensa sedevano il Kaiser Guglielmo II che la chiamò “La Stella d’Italia” ed il celebre Gabriele D’Annunzio che la definì “Unica”. Ma è soprattutto la storia della crescita costante delle fortune di una famiglia di imprenditori, iniziata a fine settecento, che copre più di un secolo di successi prima di conoscere il tracollo finanziario e la fine della dinastia. Ma a noi meridionali piace ricordare soprattutto le sconfitte, amiamo molto il rimpianto e tendiamo a dimenticare le storie belle e costruttive che per quasi un secolo e mezzo hanno segnato il successo di una famiglia che ha dato lavoro e benessere a tante altre famiglie, non solo a quelle legate ai Florio da rapporti di lavoro, ma anche a quelle estranee da tale rapporto . Infatti si racconta che, ogni giorno, dietro i cancelli degli stabilimenti Florio stazionassero centinaia di persone che ricevevano un contributo in denaro dai contabili di casa Florio senza alcun concambio. Tutto ha inizio con Tommaso Florio a metà Seicento in Calabria, a Melicuccà, e poi a Bagnara, dove il figlio Domenico e il nipote Vincenzo, qui trasferitisi, esercitano il mestiere di fabbro. L’ascesa comincia con Paolo e Ignazio, figli di Vincenzo. A spingere i Florio sul mare fu probabilmente Paolo Barbaro, genero di Vincenzo Florio, che strappò Paolo al destino di “scalco” accogliendolo come socio nella sua attività di “ambulante” del mare che girava per i porti del Tirreno commerciando. Tra il 1800 e 1801 Paolo però, chiamato a sé il fratello Ignazio, si stabilisce definitivamente a Palermo: i due aprono un piccolo negozio in Via Dei Materassai e si dedicano per alcuni decenni al redditizio commercio delle spezie e merci rare, all’affitto e successivo acquisto di qualche tonnara sul litorale palermitano ed al prestito al “cambio marittimo”. Ma il salto di qualità avvenne con Vincenzo, figlio di Paolo. Fra le iniziative destinate ad aver maggior fortuna vi sarà la costruzione di uno stabilimento per la produzione di vino “Marsala”, in concorrenza con le famiglie inglesi che già operavano nel settore, come i Woodhouse e gli Ingham. L’inserimento di Vincenzo Florio nel mercato del vino, nel 1834, è un momento
importante sia per la storia della famiglia sia per la storia del vino Marsala. Intanto, rispetto agli altri mercanti inglesi, la scelta di Vincenzo Florio è di rivolgersi soprattutto al mercato nazionale più che fare la concorrenza, che sarebbe stata persa già dal nascere, a Ingham che aveva il predominio del mercato americano o ai Woodhouse che avevano il predominio del mercato del Nord Europa. Le cose cominciano a cambiare sensibilmente nella seconda metà dell’Ottocento quando Vincenzo Florio e il figlio Ignazio investono sempre di più nell’azienda per modernizzarla. Nelle loro cantine si realizzerà il primo impianto di imbottigliamento meccanico ben prima che non alla Ingham o alla Woodehouse. L’epidemia di “fillossera” e le cattive scelte dei viticultori segnarono il declino del Marsala. La prima, perché decimò i vigneti, la seconda perché, ” a scapito delle qualità top “Superiore e Vergine”, privilegiò la produzione del Marsala fine, invecchiato per un solo anno, e di Marsala “aromatizzati”. Entrambi infatti ebbero un enorme successo perché risultarono facilmente commercializzabili, sia per il loro diffuso uso in cucina per “sfumare” i piatti sia per il costo molto conveniente. Vitigni come il Perricone- a bacca nera- da cui si otteneva il marsala “Ruby” (rubino), il Catarratto, il Grillo, l’Inzolia e il Damaschino – vitigni a bacca bianca da cui si ottenevano i marsala “Superiore” o “ Vergine” furono abbandonati o destinati alla produzione di altri vini.
Oggi il vino Marsala, sta lentamente recuperando il suo ruolo di grande vino. E ciò, grazie al lavoro ed alla passione di numerosi viticoltori, ma anche alla ripresa delle produzioni di eccellenza - che tanto furono apprezzate nel passato da palati esigenti che oggi sembrano tornare tali -, a scapito di quelle commerciali. Un bicchiere di buon Marsala, secco, semidolce o dolce, bevuto a tutto pasto, potrà diventare una buona abitudine in alternativa ai tanti vini che hanno il solo merito di essere “alla moda”.
Scaloppine al Marsala Battete leggermente le fettine di carne tra due fogli di carta da forno e infarinatele. Ponete in una padella bassa e molto larga l’olio e il burro, scaldateli e adagiatevi le fettine infarinate; fatele dorare a fuoco moderato da entrambi i lati, e quando saranno pronte toglietele dalla padella e ponetele su un piattino. Nella stessa padella in cui avete saltato le fettine di lonza, versate il Marsala e un goccio di aceto balsamico, fate sfumare per circa due minuti; nel frattempo stemperate in un bicchiere d’acqua fredda un cucchiaio di farina, aggiungetela in padella mescolando continuamente in modo da far addensare la salsina senza creare grumi. Aggiustate di sale, poi aggiungete la carne in padella e lasciate insaporire. Impiattate le scaloppine e servitele calde.
Bibliografía: http://www.taccuinistorici.it/ita/news/contemporanea/vino-vitigni/marsala-colore-di-Sicilia.html http://www.taccuinistorici.it/ita/news/antica/vino-vitigni/Sicilia-dal-Biblico-al-Marsala.html http://www.taccuinistorici.it/ita/news/contemporanea/vino-vitigni/storia-perricone-un-calice-di-benessere.html http://ricette.giallozafferano.it/Scaloppine-al-Marsala.html
Cittá del Messico
Cena Ecuménica I formaggi nella cucina della tradizione regionale
I
L’Abbinamento Cucina - Formaggio
n occasioni anteriori, durante le cene Accademiche, abbiamo già presentato vari formaggi italiani (parmigiano, mozzarella, provolone). Questa volta, seguendo il tema della Cena Ecumenica del 2017, presenteremo piatti italiani, conosciuti da molti, e il suo abbinamento con un formaggio specifico: formaggi italianissimi che si possono trovare in negozi specializzati in prodotti italiani o stabilimento da buongustai. Come Accademici della Cucina Italiana – eruditi della nostra cucina e interessati in salvaguardare le ricette tradizionali italiane – è importante conoscere la giusta combinazione menu-formaggio, per riconoscere variazioni o addirittura falsificazioni di certi piatti tipici. È importante distaccare che il formaggio è un prodotto tipicamente regionale e molte volte locale. Così la seguente presentazione di ricette, utilizzando il formaggio come elemento importante, è un viaggio per tutta Italia.
Dino Pagliai, Vittorio Stewens ed Ezio Chiai Ottobre 19 2017
Parmigiano Reggiano/ Fettuccine all’Alfredo / Lazio
50 gr
circa di pecorino (delicato e non troppo salato) grattugiato vergine di oliva Sale Pepe
PREPARAZIONE:
INGREDIENTI 50 gr q.b. q.b. 200 ml 50 gr 350 gr q.b.
Burro Sale Pepe Panna da cucina Parmigiano grattugiato Fetuccine fresche Parmigiano grattugiato per condire
PREPARAZIONE: Le fettuccine all’Alfredo si preparano cuocendo burro e panna in una pentola e poi aggiungendo il parmigiano grattugiato; a parte si lesserà la pasta al dente che verrà poi mantecata nella salsa e servita calda.
In una padella (preferibilmente di ferro) scaldat l’olio e aggiungete il guanciale tagliato a listarelle lunghe circa un paio di centimetri. Quando avrà iniziato a fondere unite il peperoncino. Rosolate il guanciale fino a quando avrà preso colore, quindi sfumate con il vino bianco. Lasciate evaporare, scolate il guanciale e tenete da parte al caldo. Nella stessa padella mettete i pomodori pelati schiacciati, regolate di sale e cuocete per il tempo di cottura della pasta, che nel frattempo avrete buttato all’interno di una casseruola con acqua bollente salata. Quando sarà quasi giunta a cottura, unite il guanciale al condimento ed eliminate il peperoncino. Scolate la pasta al dente e trasferitela nella padella con il sugo. Fuori dal fuoco aggiungete il pecorino grattugiato e regolate di pepe fresco di mulinello a piacere. Mescolate bene e servite subito, completando con altro pecorino.
Fontina Valdostana / Petto di Pollo alla Valdostana / Valle d’Aosta
Pecorino Romano / Pasta all’Amatriciana / Lazio INGREDIENTI
INGREDIENTI 320 gr 300 gr 120 gr 1 1/2
di bucatini (oppure spaghetti o spaghetton) di pomodori pelati (in stagione 4-5 pomodori rossi maturi) di guanciale stagionato a fette spesse peperoncino biochiere di vino bianco secco e acidulo Olio extra
4 4 q.b. 1 bicchiere q.b. q.b. 30 gr q.b. 2
Petti di pollo Fontina a fette spesse Pangrattato fresco Vino bianco secco Olio d’oliva Farina Burro Sale Uova
PREPARAZIONE: Battete i petti di pollo fino ad ottenere un fetta di carne piatta abbastanza da posarci sopra le fette di fontina. Passateli nella farina e poi nelle uova sbattute e infine nel pangrattato, poi friggeteli in abbondante olio bollente. Sistemate sui petti di pollo dorati le fette di fontina e spruzzate
con vino bianco lasciandolo evaporare mentre la fontina si scioglie. Servite i petti di pollo caldissimi.
Asiago / Gnocchi con Fonduta di Asiago / Altopiano d’Asiago, Vicenza, Veneto
INGREDIENTI 150 gr q.b. 50 gr 1 mazzetto 1 litro q.b. 230 gr 25 gr
Taleggio Cademartori Olio extravergine d’oliva Parmigiano grattugiato DOP Rucola Broda Vegetale Sale e pepe Riso Burro
PREPARAZIONE:
INGREDIENTI PER 2 PERSONE 100 gr di asiago fresco DOP 200 gr di patate 20 gr di uova Una punta di farina Un PO di latte fresco Asiago stagionato DOP grattugiato a piacere Olio extravergine di oliva
Per realizzare il risotto tale-ggio e rucola, tritate finemente la cipolla e fatela rosolare in un tegame antiaderente con un filo d’olio, poi unite il riso, mescolate e lasciatelo tostare. Aggiungete un mestolo di brodo caldo alla volta fino a portare il riso a cottura, avendo cura di lasciare che venga assorbito del tutto prima di versare quello successivo. Una volta al dente, spenete la fiamma e unite la rucola già lavata e sminuzzata. Mantecate con burro, parmigiano e Taleggio DOP Vero Cademartori tagliato a dadini, regolate di sale e pepe e servite.
Caciocavallo / Frittelle di Caciocavallo / Italia Meridionale
PREPARAZIONE: Fate bollire le patate per circa 20 minuti in acqua o, ancora meglio, in forno a vapore. Sbucciatele, premetele con lo schiaccia patate, unite pochissimo uovo (circa 1/3), una punta di farina, sale e stendete il tutto dividendolo in pezzi tondi di circa 5 cm (una specie di tortelli). Nel frattempo avrete sciolto nel latte l’Asiago Fresco DOP e l’avrete fatto raffreddare. Versatelo nei tortelli e richiudeteli. Fateli saltare per qualche attimo in padella con olio extravergine d’oliva e con Asiago Stagionato DOP grattugiato. Servite in un piatto caldo.
Taleggio / Risotto al Taleggio e Rucola / Bergamo, Lombardia
INGREDIENTI 300 gr
150 gr 5
Caciocavallo stagionato Olio extravergine di oliva Prezzemolo tritato Noce moscata Pangrattato Uova Limone Farina Sale Pepe
Mozzarella / Mozzarella in Carrozza / Italia
PREPARAZIONE: Raccogliete in una ciotola il pangrattato, il caciocavallo grattugiato, 3 uova e amalgamate unendo sale, pepe, prezzemolo tritato e un pizzico di noce moscata. Create delle piccole palline, infarinatele e passatele in 2 uova sbattute. Rosolate in abbondante olio caldissimo facendole dorare uniformemente; scolatele su carta da cucina. Servitele subito con prezzemolo tritato, scorza di limone grattugiata, sale e qualche petalo di caciocavallo a piacere.
Provolone / Focaccine in Padella / Toscana
INGREDIENTI 8 q.b. 250 gr q.b. 2 q.b. 1 pizzico
Fette di pancarrè Olio di arachide per friggere mozzarella Pangrattato Uova Farina di sale
PREPARAZIONE:
INGREDIENTI 250 gr 20 gr 130 ml 1
Farina 00 Olio extravergine di oliva Acqua tiepida cucchiaino raso di sale 1 pizzico di zucchero Mezza bustina di lievito istantaneo per preparazione salate
PREPARAZIONE: Mettete in una ciotola la farina, lo zucchero e il lievito. Aggiungete l’olio e l’acqua. Impastate fino a quando non otterrete un panetto morbido e compatto. Infarinate un piano e stendete il panetto; con una taglia biscotti da 8 cm ricavati dei dischetti. Farcite la metà dei dischi con salame e provolone oppure con il vostro salume preferito. Prendete la metà di quelli restanti e coprite e sigillate bene i bordi con le dita. Ungete leggermente una padella e fate cuocere le focaccine per circa 4 min. per lato a fiamma medio-bassa.
Información proporcionada por el Ing. Vittorio Stewens
Tagliate i bordi scuri del pancarrè. Tagliate la mozzarella a fettine e disponetene alcune tra due fette di pancarrè. Pressate bene per farle aderire bene a formare dei panini. Fate attenzione a non far sbordare la mozzarella fuori. Se la mozzarella in carrozza vi si apra in cottura, potrebbe dipendere dal fatto che che la mozzarella contiene ancora troppo siero. Mettete la mozzarella tagliata a fette ad asciugare in uno scolapasta e poi seccatela anche con della carta assorbente da cucina, prima di metterla nelle fette di pancarrè. Sbattete le uova aggiungendo il pizzico di sale. Passate ciascun panino nell’uovo sbattuto su ambo i lati, poi nella farina, poi ancora nell’uovo e per ultimo nel pangrattato facendo attenzione a coprire bene anche i bordi per evitare fuoriuscite di mozzarella durante la cottura. Friggete tutti i panini di mozzarella in carrozza in abbondante olio caldo di arachide finchè non si saranno dorati da ambo i lati. Scolate la mozzarella in carrozza su un foglio di carta assorbente e servitela caldissima e filante.
Cittá del Messico
Il Tartufo Nero
P
etrarca fu incoronato poeta in Campidoglio nel 1341.
Viaggiò moltissimo, svolgendo anche missioni diplomatiche grazie alla sua fama europea. Nel suo capolavoro“Il Canzoniere”, oltre a dare le espressioni più limpide ed appassionate dell’amore e del dolore, creando le forme ed il linguaggio propri della lirica moderna, egli probabilmente individuava nello sguardo della sua Laura, il fascino e la misticità del più nobile prodotto della nostra terra: il tartufo.
Marilena Moneta Caglio e Dino Pagliai Dicembre 2017
F
rancesco, merita perciò un riconoscimento anche dal mondo della gastronomia, proprio perché, nel nono sonetto inviando un cesto sembra di tartufi ad un amico, poeticamente così li descrive:
Fu nella gastronomia del XVI sec. che i preziosi tuberi andarono a ricoprire un ruolo di primo piano. Giovan Battista Rossetti, al servizio della duchessa d’Urbino Lucrezia d’Este nel 1554 pubblicò “Il libro dello Scalco” con varie preparazioni al tartufo. Baldassarre Pisanelli nel “Trattato della natura” del 1596 suggerisce di mangiare i tartufi cotti, con molto aglio, pepe, limone o in alternativa di cuocerli nel brodo grasso con cannella.
...e non pur quel che s’apre a noi di fòre, le rive e i colli di fioretti adorna, ma dentro, dove già mai non s’aggiorna, gravido fa di se il terrestro umore, onde tal frutto e simile si colga… Per condividere i piaceri del Petrarca vi consigliamo di degustare il tartufo nero pregiato leggermente scottato con olio, pepe e sale.
Storia del rapporto tra tartufo e cucina Il tartufo ha avuto in cucina un posto d’eccellenza fin dall’antichità. Rappresentava una pietanza ricercata e pagata a peso d’oro da ricchi e nobili. I romani che ne erano molto ghiotti, lo chiamavano “funus agens” (portatore di morte), perché se mangiato in massicce quantità provocava indigestioni mortali. La prima traccia scritta di preparazioni al tartufo è di Apicio Costui, consiglia di conservarli sigillati in vaso in luogo fresco, tagliati a fette sottili, disposti a strati alterni con segatura secca. L’autore latino propone alcune ricette, delle quali una sola con tartufo a crudo: indica di bollirli in pentola con salsa di vino, olio e miele, oppure di bollirli e accompagnarli con una salsa a base di pepe, coriandolo, ruta, miele e olio. II tartufo del periodo era per lo più quello della Cirenaica, sembra la terfezia, con un’intensità d’aroma non certo paragonabile al tartufo italiano d’oggi. Durante il Medievo i tartufi subirono l’oblio culinario, anche se qualcuno riconosce in alcune righe del Petrarca la loro presenza.
Secondo il Castelvetro (XVII sec.) si deve avvolgerli in carta bagnata, cuocerli sotto la cenere, sbriciolarli, saltarli con olio, sale, pepe, per poi servirli con succo di limone o di arancia. I tartufi erano immancabili pure nei famosi banchetti del Re Luigi XVI, dove il Massaliot (1699) li proponeva abbinati a pernici, pollastre e capponi. Nel ‘700 avvenne il matrimonio del tartufo con altri cibi prelibati, come la salsa di ostriche di Francois Mann Talleyrand, ministro degli esteri di Napoleone, era grande estimatore dei tartufi che
usava assieme alle donne come arma di diplomazia: ai suoi ricevimenti non mancavano mai ricette “al tartufo” ideate da Careme. Anche nei grandi appuntamenti della storia questo alimento era presente: dal pranzo di conclusione del congresso di Vienna (1815 “croquettes d’esturgeon aux truffes”), al banchetto offerto nel 1896 dal presidente della Repubblica Francese allo Zar Nicola.
Il tartufo nero di Carpineto Romano Lepini terra di tartufi. E tutti tartufi eccellenti, come il nero di Carpineto Romano, in provincia di Roma. E’ un tartufo che raggiunge in questo periodo il suo massimo fulgore gustativo e olfattivo. Dicono che sia uno dei tartufi più profumati d’Europa. Ne è convinto persino Domenico Bigioni, presidente della Get (Federazione europea tartufai), che del settore è uno dei massimi esperti. I Monti Lepini ne sono stati sempre fertilissimi. Anche se soltanto negli ultimi anni si è incominciato a raccoglierli e valorizzarli. Lo sapevano bene i cercatori dell’Umbria, tanto che negli anni ’70 saccheggiarono letteralmente i boschi del comprensorio spacciandoli come tartufi di Norcia. Le popolazioni lepine invece ci hanno messo trent’anni per capire il loro valore e soltanto da poco hanno incominciato a raccoglierli e commercializzarli. Il tartufo lepino non ha proprio un bell’aspetto: troppo irregolare, superficie rugosa e colore nero intenso. Ma sotto la rude scorsa “cela prelibatezze sorprendenti quando viene manipolato da mani esperte e viene accompagnato da essenziali e semplicissimi ingredienti”. Nei sontuosi banchetti del cardinale Pietro Aldobrandini, padrone dell’allora ducato di Carpineto accudito da Donna Olimpia sua sorella, il “tartufolo grattato, a fettoline, sotto la bragia” non mancava mai.
Brillat Savarin lo riteneva il “diamante della cucina”, Gioacchino Rossini, “il Mozart dei funghi”, Auguste Escoffier “perla della cucina”, Pellegrino Artusi“simbolo del buon mangiare”. Proprio Rossini lo apprezzava nei tournedos, oppure nell’insalata con radicchio, olio d’oliva, senape, limone, sale e pepe. Giuseppe Verdi, invece, lo mangiava a fettine nel timballo di pasta sfoglia, petti di pollo e purè di fegato profumato al Madera. Con il ‘900 il tartufo entrò diffusamente nella cucina borghese, diventando un piatto di mezzo: servito crudo, scaldato o nello champagne.
Oggi i ristoratori dei Monti lepini lo utilizzano nella preparazione di nuove e vecchie ricette. Spesso con il tartufo arricchiscono i funghi porcini. Una miscela afrodisiaca, capace di “risvegliare anche i sensi più restii” sosteneva Vincenzo Corrado nel suo “Cuoco Galante”.
Fonduta Valdostana
Quando saranno rassodate scolatele e Quando il formaggio sarà fredda. completamente sciacquatele sotto acqua Una voltafuso aggiungete, sgusciatele fuori dal fuoco, un tuorlo volta, raffreddate, e tagliatele in 4alla parti mescolando e aspettando che il tuorlo precedente (19). Unite gli spicchi d’uovo nella ciotola con sia verdure completamente amalgamato prima mettere le (20). Aggiungete anche il di tonno l’altro. sgocciolato (21). Rimettete la fonduta sul fuoco e lasciate cuocere, sempre a fiamma bassa, per mezz’ora. A questo punto potreste già metterla nell’apposito recipiente con fornelletto incorporato, ma se, come me non l’avete, andrà benissimo la pentola di coccio.
Passate sotto al grill i cubetti di pane e serviteli insieme alla fonduta. le acciughe sott’olio e i capperi dissalati (potete dissalarli sciacquandoli Lasotto fonduta valdostana è un piatto e fa un po’ di brodo (23). acqua fresca corrente) (22),famosissimo infine aggiungete La variazzione per la nostra cena nell Ristorante parte di quelle ricette per vale davvero la pena Utilizzate il frullatore adcui immersione (eventualmente va beneeanche il Fontina e Taleggio e alla fine Quattro fatta con aspettare infatti di certo può catalogare classico l’inverno: mixer) e aggiungete altrosibrodo al bisogno (24). qualche lamella sottile di tartufo nero di Spoleto nei piatti invernali. E’ fatta con fontina sciolta nel nell’ Umbria. latte, con burro in ottenere cui si inzuppano crostini pane. Frullate fino ad una crema lisciadi e della In consistenza realtà può che essere usata (25). comeA questo condimento preferite puntoper la delle patate al cartoccio anche per arricchire dei carne dovrebbe essereo completamente fredda. primi piatti. sottilmente con un coltello a lama Affettatela liscia (26). Disponete le fettine in un piatto da Ingredienti: Fondutanel valdostana percrema quattro persone portata e versate mezzo la ottenuta. 400 gr di fontina. Decorate infine con i frutti di cappero, qualcuno 40intero gr di burro. e qualcuno tagliato a metà ed ecco pronto pane a dadini. il vostro vitello tonnato (27). 250 ml di latte. 4 tuorli CONSERVAZIONE Tagliate la fontina a cubetti Mettetela ammollosinelconserva latte, almeno per 5giorni ore. al Il vitellointonnato per 1-2 Mettete la fontina nella pentola, possibilmente massimo in frigorifero, coperto con pellicola. E’ di preferibile coccio, aggiungete burro e accendete conservareil la crema da parte. il fuoco basso, girando con una frusta. Si sconsiglia la congelazione. Consiglio: Il formaggio non deve mai bollire, ma solo sciogliersi.
Bibliografía: http://ricette.giallozafferano.it/Vitello-tonnato.html Bibliografía: www.taccuinistorici.it www.buttalapasta.it
CONSIGLIO Aggiungete o sostituite le verdure così come le spezie con quelle che preferite, meglio se di stagione. Se non amate acciughe e/o capperi eliminateli tranquillamente. In alcune versioni si utilizza la maionese invece delle uova sode, potete provare ad utilizzarla aggiungendo la quantità che desiderate!
Cittá del Messico
Vitello tonnato
O
Vitello tonnato alla maniera antica
ggi vi presentiamo un piatto tipico piemontese, esattamente della città di Torino: il vitello tonnato alla maniera antica, chiamato così proprio perchè non si butta via nulla di tutto quello che viene utilizzato per la cottura. A differenza della versione più classica del vitello tonnato qui la carne non viene cotta nel brodo, dunque non si tratta di un lesso ma un arrosto rosolato prima sulla fiamma e poi passato in forno.
Dino Pagliai, Massimo Bachi 8 Marzo 2018
Questo procedimento serve ad otterrete una carne tenera, cotta a puntino e ancora rosata all’interno. Al posto delle classiche verdure come carota e cipolla si utilizzano tonno, alici e capperi, che insieme alle uova sode, formeranno una salsa tonnata cremosa senza il bisogno di aggiungere la maionese! Ma guardando la foto avrete già capito qual’è la differenza sostanziale! Infatti la crema non ricopre le fettine ma viene dosata all’interno di ciascuna. Una soluzione che perfetta secondo lo Chef Davide Scabin: “ogni boccone avrà il suo giusto condimento, un’esplosione di sapori”. Anche se siete legati alla versione più classica noi vi consigliamo di provare almeno una volta il vitello tonnato alla maniera antica; noi ce ne siamo innamorati e siamo sicuri capiterà anche a voi!
Vitello tonnato
INGREDIENTI 800 g 1 costa 1 1 1 spicchio 250 g 1,5 l 1 foglia 3 3 cucchiai ½ cucchiaino 2 pizzichi
Vitello (magatello o girello) Sedano Carote Cipolle dorate Aglio Vino bianco Acqua Alloro Chiodi di garofano Olio extravergine d’oliva Pepe nero in grani Sale fino PER LA SALSA
2 Uova 100 g Tonno sott’olio sgocciolato 3 filetti Acciughe sott’olio 5g Capperi sotto sale Frutti di cappero per decorare q.b. PREPARAZIONE Come preparare il Vitello tonnato
Molti non sanno che il vitello tonnato, o vitel tonnè, è un vanto della cucina piemontese al punto da tramandare due versioni ben distinte tra loro: alla maniera antica e questa che conosciamo tutti. Si tratta di una ricetta che negli anni ’80 spopolava su tutte le tavole delle feste, delle grandi occasioni, dei primi aperitivi chic fatti in casa e persino sulle navi da crociera! Il vitello tonnato sta agli antipasti di terra proprio come il cocktail di gamberetti sta a quelli di mare ed insieme sono i due veri protagonisti dei cosiddetti anni Favolosi! Quello che rende davvero speciale questa ricetta è la tenerezza della carne che non deve stracuocere diventando così scura e stopposa. Perciò grazie ai nostri consigli otterrete delle fettine tenere e succulente da nappare con la buonissima salsa di uova e tonno. Signore e signori, assicuratevi di avere tutto l’occorrente, oggi si prepara l’intramontabile ricetta del vitello tonnato!
Per preparare il vitello tonnato, iniziate dalla pulizia delle verdure che serviranno per cuocere la carne. Lavatele, quindi pelate la carota e spuntatela, tagliatela in pezzi (1). Poi eliminate le estremità dal sedano e tagliate anch’esso in pezzi (2). Sbucciate la cipolla e dividetela in 2 parti (3). Man mano raccogliete gli ingredienti in una ciotola e aggiungete anche l’aglio intero, senza camicia.
Passate alla pulizia della carne eliminando eventuali cartilagini e filamenti di grasso (4). In una pentola capiente mettete il pezzo di girello, le verdure tagliate (5), la foglia di alloro, 2-3 chiodi di garofano e i grani di pepe nero (6).
Versate il vino bianco (7) e poi l’acqua che dovrà coprire il tutto (8). Unite due pizzico di sale (9).
e poi l’olio (10). Accendete il fornello e attendete che raggiunga il bollore, dopodiché, man a mano eliminate la schiuma che affiorerà in superficie (11). Poi chiudete col coperchio e abbassate leggermente la fiamma lasciando cuocere circa 40-45 minuti: ricordando che per ogni 500 g di carne occorrono circa 30 minuti di cottura. L’importante è che al cuore la carne non superi i 65°, da misurare con un termometro da cucina (12). Una volta cotto il pezzo di carne (13), scolatelo e lasciatelo raffreddare completamente (14). Poi eliminate alloro, pepe e chiodi di garofano (15). Recuperate 1/3 del brodo ottenuto e lasciatelo restringere a fiamma alta per una decina di minuti. La restante parte di brodo di carne sarà utile per altre preparazione, come per esempio i risotti (16); a fine cottura scolate le verdure in un recipiente (17). Intanto passate a preparare le uova sode. In un pentolino con abbondante acqua fredda immergete le uova fresche. Accendete il fornello e dal momento del bollore contate 9 minuti (18).
Quando saranno rassodate scolatele e sciacquatele sotto acqua fredda. Una volta raffreddate, sgusciatele e tagliatele in 4 parti (19). Unite gli spicchi d’uovo nella ciotola con le verdure (20). Aggiungete anche il tonno sgocciolato (21).
le acciughe sott’olio e i capperi dissalati (potete dissalarli sciacquandoli sotto acqua fresca corrente) (22), infine aggiungete un po’ di brodo (23). Utilizzate il frullatore ad immersione (eventualmente va bene anche il classico mixer) e aggiungete altro brodo al bisogno (24). Frullate fino ad ottenere una crema liscia e della consistenza che preferite (25). A questo punto la carne dovrebbe essere completamente fredda. Affettatela sottilmente con un coltello a lama liscia (26). Disponete le fettine in un piatto da portata e versate nel mezzo la crema ottenuta. Decorate infine con i frutti di cappero, qualcuno intero e qualcuno tagliato a metà ed ecco pronto il vostro vitello tonnato (27).
CONSERVAZIONE
CONSIGLIO
Il vitello tonnato si conserva per 1-2 giorni al massimo in frigorifero, coperto con pellicola. E’ preferibile conservare la crema da parte. Si sconsiglia la congelazione.
Aggiungete o sostituite le verdure così come le spezie con quelle che preferite, meglio se di stagione. Se non amate acciughe e/o capperi eliminateli tranquillamente. In alcune versioni si utilizza la maionese invece delle uova sode, potete provare ad utilizzarla aggiungendo la quantità che desiderate!
Bibliografía: http://ricette.giallozafferano.it/Vitello-tonnato.html
Cittá del Messico
La nascita del cannolo siciliano Vitello tonnato tra storia e leggenda
S
econdo una leggenda la nascita dei cannoli sarebbe avvenuta a Caltanissetta, “Kalt El Nissa” locuzione che in arabo significa “Castello delle donne”, a quei tonnato maniera antica tempi sede Vitello di numerosi harem dialla emiri saraceni.
O
vi presentiamo un piatto tipicoantiche piemontese, esattamente L’odierno ggi cannolo siciliano avrebbe dunque origini, anche se nei secoli della città di Torino: il vitello tonnato alla maniera antica, ha subìto diverse trasformazioni, e il suo antenato potrebbe essere stato un dolce a chiamato così proprio perchè non si butta via nulla di tutto forma di banana, ripieno di ricotta mandorle e miele. quello che viene utilizzato per la cottura. A differenza della versione più classica del vitello la carne non vieneper cotta L’ipotesi più accreditata sarebbe quellatonnato che le qui favorite dell’emiro, passare il nel brodo, dunque non si tratta di un lesso ma un arrosto rosolato tempo, si dedicassero alla preparazione di prelibate pietanze, in particolare di dolci sulla fiamma e poi passato in forno. “inventato” il cannolo, allusione e in uno prima dei tanti esperimenti culinari avrebbero evidente alle “doti” del sultano.
Dino Pagliai, Massimo Bachi
Dino Pagliai / Enrique Gilardi / Vittorio Stewens
8 Marzo 2018 17 Maggio 2018
Un’altra fonte, invece, tramanda che i cannoli siano stati preparati per la prima volta in un convento sempre nei pressi di Caltanissetta. Si racconta che in occasione del Carnevale le monache “inventarono” un dolce formato da un involucro (“scorcia”) riempito da una crema di ricotta e zucchero ed arricchito con pezzetti di cioccolato e granella di mandorle (cucuzzata). Sia che si tratti di suore o concubine, “queste donne, rese diverse dal voto di castità, probabilmente nel loro intimo non lo erano così tanto di fronte al piacere voluttuoso offerto dal magnifico dolce”. Di certo sappiamo che le sue radici risalgono alla dominazione araba in Sicilia (dal 827 al 1091). Gli Arabi, come i Greci, apportarono molte novità nell’arte, in generale, e nella cucina, in particolare, come ad esempio, la canna da zucchero, il riso, le mandorle, il gelsomino, il cotone, l’anice, il sesamo e le droghe: cannella e zafferano. Essi erano anche abilissimi pasticceri, e se è vero che la ricotta di pecora già si produceva in Sicilia, è anche vero che sono stati gli Arabi a lavorarla con canditi, pezzetti di cioccolato e ad aromatizzarla con liquori, dando vita ad un’accoppiata vincente, zucchero e ricotta , preludio dei dolci siciliani più famosi al mondo: la cassata ed i cannoli. L’ipotesi sull’origine del sublime cilindro di ricotta, stimolante per il gusto ed accattivante per le interpretazioni tra sacro e profano, è descritta dal duca Alberto Denti di Pirajno, cultore di gastronomia. In “Siciliani a tavola” (la cui edizione fu terminata da Massimo Alberini, dopo la scomparsa del nobile siciliano) il duca sostiene che il cannolo sarebbe stato inventato dalle abili mani delle suore di clausura di un convento nei pressi di Caltanissetta. Per l’esattezza, si legge: “Il cannolo non è un dolce cristiano, ché la varietà dei sapori e la fastosità della composizione tradiscono una indubbia origine mussulmana”. La tesi è verosimile in quanto alla fine della dominazione araba in Sicilia, coincisa con l’arrivo dei Normanni, gli harem si svuotarono (si ricorda che Caltanissetta in arabo significa “Castello delle donne”, poiché gli emiri saraceni vi tenevano i loro harem), e una o più donne ormai libere, convertitesi al Cristianesimo, entrarono in convento. Qui potrebbero avere riprodotto alcune delle ricette con le quali avevano sedotto le corti degli emiri, trasmettendole in seguito a “quelle sante ancelle del Signore sino a noi poveri peccatori”. E ciò spiegherebbe l’esistenza di un legame tra le due leggende. Altro che cialda e ricotta! Il dolce siciliano per antonomasia era apprezzato già dagli antichi romani: “Tubus farinarius, dulcissimo, edulio ex lacte factus”, lo definì Marco Tullio Cicerone quando era questore in Sicilia, a Lylibeum (l’odierna Marsala), prima di diventare console romano
destinato a fama imperitura. Mentre un Anonimo siciliano riportato dal Pitrè cantò così le lodi di questo straordinario dolce:
“Beddi cannola di Carnalivari Megghiu vuccuni a lu munnu ‘un ci nn’è: Su biniditti spisi li dinari; Ognu cannolu è scettru d’ogni Re. Arrivinu li donni a disistari; Lu cannolu è la virga di Mosè: Cui nun ni mangia si fazza ammazzari, Cu li disprezza è un gran curnutu affè!” Si tratta di un dolce, in tutto e per tutto siciliano, anche nei forti contrasti: nei colori, nel profumo, nel sapore, nella consistenza, e dall’intrigante forma cilindrica, conservatasi nel tempo. Giuseppe Coria evidenzia in uno studio sul rapporto tra la geometria e la simbologia che il suo aspetto rappresenterebbe la forma fallica. Il cannolo dunque esprimerebbe, un significato di fecondità, di forza generatrice, e di allontanamento delle influenze maligne. E a proposito di dolci simili al cannolo, sembra che Brillant Savarin, sublime meditatore della “Fisiologia del Gusto” abbia detto: “il Creatore, obbligando l’uomo a mangiare per vivere, lo invita con l’appetito e lo ricompensa con il piacere”. Quel che fin qui emerge è chiaramente il nesso tra l’origine del cannolo e la città di Caltanissetta, e questo a prescindere da quello che è stato l’esatto fatto storico, sia esso sacro o profano: il convento o l’antico castello di Pietra Rossa. E svariati sono i siti internet che indicano in Caltanissetta il luogo in cui sarebbero nati i cannoli, come i seguenti, citati a caso e solo a titolo esemplificativo: accademiabarilla.it (cannoli siciliani), granarolo.it (le origini del cannolo siciliano), slowfoodsciacca.it (la storia millenaria della cucina siciliana), mondodelgusto.it (storia e leggenda del cannolo siciliano), cannoloanfriends.it (la storia del cannolo), siciliainformazioni.com (la storia del cannolo siciliano tra il serio e il faceto), primo piatto. barilla.com (i tesori della pasticceria siciliana). Poiché gira e rigira, tra mito storia e realtà, Caltanissetta con il capolavoro dell’arte dolciaria siciliana c’entra sempre, è ora di renderle giustizia e dare vita ad un percorso fatto di incontri, dibattiti, sagre e fiere, per tributarle finalmente il giusto “riconoscimento di paternità” , quale CITTA’ DEL CANNOLO. A beneficiarne sarebbe tutto il sistema economico della provincia: dalla valorizzazione del territorio, all’esaltazione del patrimonio artistico e culturale al conseguente incremento turistico.
Sarebbe interessante accettare una sfida dai territori palermitani e/o trapanesi, e se volete agrigentini, sull’origine dell’emblema dell’arte dolciaria siciliana: da Piana degli Albanesi ai vari conventi di monache Benedettine, come quelle della “martorana” che inventarono appunto il marzapane, o se preferite “pasta reale”, o le monache di Erice che asseriscono di essere state le depositarie dei segreti di questa pasticceria. Cassate, bocconcini, ravioli, marzapane, babà, profitterol, saint honorè, “minni di vergini”, rollò. Ma su tutti si erge, imperioso e prepotente, Sua Maestà: il cannolo! Presidente di Provincia, Sindaco, Assessore al Commercio, al Turismo, e soprattutto, alla Cultura e associazioni di categoria, lanciate questa succulenta e simpatica sfida e organizziamo a Caltanissetta il “Festival internazionale del cannolo”. Giù il ponte levatoio: animiamo di costumi medievali i quartieri arabi degli “Angeli”, curtigghi, trazzera, e ” ‘strata i Santi”, e ridiamo virtualmente vita al Castello di Pietra Rossa. Che i cavalieri, le dame e gli scudieri scendano in campo, armati di mestoli, di antiche ricette e di cannella, per lanciare la sfida sul dolce più buono che l’umanità abbia mai gustato, “duellando” scherzosamente e con gioia, contro le immancabili diffide, urla e alti lai, dei presunti padri adottivi della nissena leccornia, pronti a reclamarne la paternità.
Ricetta
d’arancio - 50g di canditi (arance, zucca, cedro, ciliegine) - 50g di granella di pistacchi - 30g di scaglie di cioccolato fondente - cannella - sale - olio per friggere Preparazione Impastare lo zucchero con lo strutto ed un pizzico di sale, poi aggiungere la farina, il caffè, il cacao, il miele e il vino. Lavorare bene e lasciar riposare in luogo fresco. Nel frattempo setacciare la ricotta, quindi aggiungere lo zucchero a velo, l’acqua di fiori d’arancio, la cannella, i pistacchi, il cioccolato e i canditi. Stendere la pasta e tagliarla a quadretti. Avvolgere ogni pezzo su un tubo metallico, dandogli la forma classica del cannolo e friggere nell’olio caldo fino a completa doratura. Scolare e lasciar raffreddare. Sfilare i cannoli dai tubi metallici e farcirli con la ricotta. Decorare con le ciliegine candite e servire subito spolverando con lo zucchero a velo..
Ingredienti per 24 cialde 250 g 30 g 50 g 5g 1 1 1 1 30 ml 30 ml
Farina 00 Zucchero a velo Strutto Cacao amaro in polvere cucchiaino Sale fino cucchiaino Cannella in polvere cucchiaino Caffè solubile Uova medie (dal peso di 50 gr sgusciato) Aceto di vino bianco Marsala secco
Per il ripieno
750 g Ricotta di pecora 300 g Zucchero 75 g Gocce di cioccolato fondente
Per guarnire
Ciliegie candite 24 Zucchero a velo q.b.
Per spennellare Albumi 1
Per friggere Strutto 1 l
Ingredienti 150g farina - 1 cucchiaio di zucchero semolato - 30g di strutto o burro - 1 bicchiere circa di vino rosso o Marsala - 1 cucchiaio di miele - 1 cucchiaino di caffè in polvere - 1 cucchiaino di cacao - 300g di ricotta - 200g di zucchero a velo + la decorazione - 1 cucchiaio di acqua di fiori
Prima di iniziare a preparare le cialde (dette “scorcie”) mettete la ricotta a scolare in un colino poggiato dentro a una ciotola e riponete il tutto in frigorifero. Mettete in una ciotola capiente la farina setacciata, il sale, la cannella, il caffè in polvere, il cacao e lo zucchero a velo setacciati. Aggiungete lo strutto, l’uovo e poi, a filo, l’aceto mischiato con il marsala (1); questi ultimi liquidi, devono essere aggiunti piano piano, impastando, perché
potrebbe non essere necessario aggiungerli interamente, a seconda di quanto assorbirà la farina da voi utilizzata. Tenete presente che l’impasto dovrà risultare morbido ed elastico ma consistente, un po’ più duro dell’impasto del pane. Impastate il composto per almeno 5 minuti (2) su di un piano di lavoro, fino a che non sarà elastico, liscio ed omogeneo (3) poi avvolgetelo nella pellicola trasparente e mettetelo a riposare per almeno un’ora in frigorifero.
Ora dedicatevi a preparare la crema per la farcitura: prendete la ricotta ben scolata e ponetela dentro ad una ciotola dove aggiungerete lo zucchero (4). Mescolate delicatamente gli ingredienti senza insistere troppo, poi coprite la ciotola con della pellicola e ponetela in frigorifero per almeno un’ora. Trascorso il tempo indicato, prendete un setaccio a maglie molto fini, poggiatelo su di una ciotola e con l’aiuto di una spatola schiacciate il composto di ricotta e zucchero verso il basso per farlo fuoriuscire; setacciate in questo modo tutto il composto (5). Una volta ottenuta una crema molto fine, aggiungete le gocce di cioccolato (6) (oppure, se preferite, dei cubetti di zucca candita, come tradizione vuole): conservate la crema di ricotta in frigorifero dentro ad un contenitore col coperchio.
e poi arrotolerete sugli appositi cilindri di metallo, avendo cura di spennellare le estremità con l’albume d’uovo (10) prima di sovrapporle. In alternativa alla forma tonda, potete anche ritagliare con una rotella tagliapasta a bordo liscio dei rombi di pasta (11) per poi utilizzarli nello stesso modo, cioè avvolgendoli ai cilindri di metallo (12).
Scaldate lo strutto (o l’olio) (13) in un pentolino non troppo grande fino ad arrivare a 170-180° (14) e poi friggete tutte le cialde, mettetele a perdere l’olio in eccesso su di un paio di fogli di carta assorbente e quindi fatele raffreddare completamente (15) prima di estrarre i cilindri di metallo.
Una volta fredde, riempite le cialde con la crema di ricotta (16) che avrete messo dentro ad una tasca da pasticciere con bocchetta liscia e larga. Completate il dolce guarnendolo con mezza ciliegia (17) candita posta su entrambe le estremità (oppure scorze di zucca o arancia candita o pistacchi tritati) e una generosa spolverata di zucchero a velo e servite (18).
Prendete l’impasto per le cialde dei cannoli e tiratelo in una sfoglia sottile 1-2 mm (7) (potete utilizzare la macchina per la sfoglia oppure tirarla col mattarello). Prendete un coppapasta rotondo del diametro di 9 cm, quindi ricavate almeno 24 sagome (8) che allargherete con le mani rendendole ovali (9)
Bibliografía: https://bedduviddi.it/la-nascita-del-cannolo-siciliano-tra-storia-e-leggenda/ https://ricette.giallozafferano.it/Cannoli-siciliani.html
Cittá del Messico
Sfogliatella
L
Storia della Sfogliatella
a storia della sfogliatella ha radici antiche ma controverse. Tutti concordano sulla matrice monastica e sul secolo di nascita: il XVIII. I più ne assegnano la creazione al monastero di Santa Rosa d’Amalfi dove sembra nacque per il buon senso della monaca cuoca. Si racconta che serviva un dolce da donare ai benefattori della comunità. Víctor Stewens, Enrique Gilardi e Dino Pagliai Ottobre 2018
C
osì la sorella prese un po’ di pasta di semola, vi aggiunse uova, ricotta, zucchero, frutta secca, alcune spezie e ci farcì della pasta sfoglia sagomata a forma di cappuccio. La torta riscosse molto successo e venne chiamata Santarosa in onore della patrona. Fu all’inizio dell’800 che questa golosità, grazie all’incontro con l’oste Pasquale Pintauro, divenne un cibo popolare della grandezza di una pasta da tenere in mano. La ricetta della sfogliatella ha subito nel tempo numerose variazioni. Oltre all’originale croccante “riccia” (pasta sfoglia a strati finissimi sovrapposti), c’è la più recente e soffice “frolla” (pasta frolla). Una ghiotta versione della sfogliatella riccia è la “coda d’ aragosta”, molto grande ed allungata, farcita con panna montata, crema chantilly o marmellata.
Ingredienti 300g 250g 150g 200g 125g 2 1 50g
di farina di zucchero semolato di burro di ricotta di semolino uova tuorlo di canditi Cannella in polvere Baccello di vaniglia Zucchero a velo Sale
Preparazione Amalgamare la farina con 120g di zucchero, il burro ammorbidito e un pizzico di sale, se necessario aggiungere qualche cucchiaio di acqua fredda per ottenere una pasta liscia e omogenea. Far riposare in frigo per 30 minuti. Nel frattempo preparare il ripieno mescolando la ricotta, lo zucchero restante, un pizzico di cannella e la vaniglia. Cuocere il semolino in acqua bollente e incorporare al composto. Aggiungere anche le uova e i canditi amalgamando bene il tutto. Stendere la pasta e ritagliarla formando tanti dischetti ovali. Posizionare il ripieno al centro, bagnare i bordi e piegare ogni disco a metà sigillando bene. Adagiare le sfogliatelle su una placca oleata e spennellare con il tuorlo. Cuocere in forno caldo per 15 minuti circa. Sfornare, lasciar raffreddare e spolverare con lo zucchero a velo.
- Sfogliatelle alla Nutella Sciogliete il burro a bagnomaria e lasciatelo intiepidire. Stendete la pasta foglia e dividetela in tre strisce uguali, tagliando nel senso della lunghezza. Con un pennello, spennellate tutte la superficie con il burro fuso. Poi cospargeteci sopra lo zucchero semolato. Disponetele uno sopra l’altro e arrotolatele ben stretti. Coprite il rotolo con la pellicola trasparente e riponetelo in congelatore per almeno 2 ore.
Disponetele su una teglia ricoperta di carta da forno e poi modellatele con le mani, schiacciandole leggermente e formando un incavo al centro. In quel punto mettete un cucchiaino di nutella e richiudete il bordo sigillando il tutto, formando una conchiglia (la classica forma delle sfogliatelle napoletane). Riponetele di nuovo in congelatore per 10 minuti e poi cuocetele in forno, statico e preriscaldato, a 200° per 15 minuti circa. Dovranno risultare gonfie e ben dorate sulla superficie. Toglietele dal forno e lasciatele raffreddare.
Trascorso il tempo necessario, tagliatelo con un coltello a lama liscia, formando delle girelle di circa 1 cm di spessore. Ne verranno fuori 8.
Spolveratele con dello zucchero a velo e poi le vostre.
Le Sfogliatelle allá Nutella, Saranno pronte per essere gustate. Una tira l’altra.
Cittá del Messico
Crema pasticcera Invece, una variante della Sfogliatella e riempirla con la crema pasticcera.
3. Una volta montate le uova, aggiungi entrambi gli amidi (sostituibili con 60 g di farina) e amalgamali col movimento dall’alto verso il basso. 4. Dai un occhio al latte con la panna. Appena sobolle, elimina la scorza del limone e aggiungi la montata di tuorli. Non occorre mescolarli subito in pentola. Fino a quando non riprende il bollore lasciali galleggiare per qualche minuto a fuoco medio.
La crema pasticcera è una ricetta base dolce e vellutata, ottima per farcire crostate e dolci di piccola pasticceria
Ingredienti 750 ml 250 ml 150 g 30 g 30 g 6 1
Latte Intero Panna Fresca Liquida Zucchero Amido Di Mais (Maizena) Amido Di Riso (Fruminia) Tuorli Scorza Di Limone
Preparazione: Procedimento 1. Per la crema pasticcera inizia a sbattere i tuorli in una ciotola assieme allo zucchero fino ad ottenere una montata. 2. Nel frattempo metti a sobollire a fuoco basso, in una pentola capiente, il latte con la panna e anche con la scorza di un limone non trattato e ben lavato.
5. Ad un certo punto vedrai affondare i tuorli dal centro. È arrivato il momento di prendere la frusta e mescolare energicamente per 30 secondi. Spegni il fuoco e continua a mescolare per circa un altro minuto fino a che noterai la crema addensarsi in un batter d’occhio
- Conservazione Non lasciare raffreddare la crema nella pentola ma travasala in un contenitore di acciaio o vetro basso e largo possibilmente a bagnomaria di acqua e ghiaccio per far raffreddare prima. Puoi coprire la superficie della crema con della carta da forno stropicciata che va messa a contatto per evitare le pellicina. Se usi la pellicola, verifica che sia adatta allo scopo. Una volta fredda, può essere conservata coperta in frigorifero per un massimo di 3 giorni.
Bibliografía: www.taccuinistorici.it/ita/news/moderna/pasticceria/sfogliatella-e-santarosa www.blog.giallozafferano.it/giallocrema/crema-pasticcera/
Cittá del Messico
L
L
‘Oliva Ascolana del Piceno DOP ’Oliva Ascolana del Piceno DOP presenta una forma ellittica ed è disponibile al consumo sotto forma di olive in salamoia o ripiene. L’Oliva in salamoia si presenta di colore uniforme dal verde al giallo paglierino, sapore lievemente acido con un leggero retrogusto amarognolo. È fragrante e croccante in bocca. L’oliva ripiena, di forma leggermente allungata irregolare, presenta aree verdi percettibili.
Dino Pagliai Dicembre 2018
Marziale, in un epigramma satirico critica un tal Mancino per la grossolanità dei suoi banchetti in cui, tra le varie prelibatezze che mancavano, sottolinea l’assenza di olive picenae; in un altro epigramma, poi, accenna all’oliva picena come stimolatore di appetito.
L
a percezione olfattiva è di media intensità con note fruttate di oliva verde e spezie. Il prodotto risulta croccante di sapore delicato con retrogusto amaro. La zona di produzione dell’Oliva Ascolana del Piceno DOP comprende alcuni Comuni della Provincia di Ascoli Piceno ed alcuni comuni della provincia di Teramo.
Il territorio Piceno nell’antichità doveva essere disseminato da ricche piantagioni di olivo, almeno stando a quanto asserisce un autore minore latino nel poema epico “le Puniche”. In quell’epoca bastava dire “olive picenae” per identificare le olive che giungevano a Roma da quella provincia. Plinio le riteneva migliori fra tutte quelle italiane. Non si può pensare che sotto il nome di Picenae si confondessero altre varietà di olive da mensa perché precise testimonianze del Columella, nel suo Trattato di Agricoltura, mettono in luce dieci varietà di olive da tavola fra cui la Picena. Successivamente, si deve ai Monaci Benedettini Olivetani la razionalizzazione delle pratiche agronomiche sugli olivi e furono i primi ad operare la concia delle olive utilizzando il “ranno”, liquido alcalino ottenuto dissolvendo una parte di calce viva con 4-5 parti di cenere di legno in acqua.
La coltivazione dell’olivo nel territorio Piceno risale agli albori della sua introduzione nella penisola italica da parte dei Fenici e Greci. La selezione della varietà da mensa, oggi conosciuta come Ascolana Tenera è avvenuta nei secoli per opera dell’uomo e già dai tempi degli antichi Romani essa era nota ed apprezzata tanto da indicarla come “Picenae” ed in seguito denominata “Ascolana”.
Inedite carte provenienti dall’archivio dei Monaci Benedettini forniscono notizie anteriori al 1500 sulla coltivazione, sulla raccolta e sull’utilizzazione delle olive da tavola nell’ascolano. I metodi di preparazione delle olive prevedevano, da documenti risalenti a quell’epoca, un trattamento a base di calce e potassa e successivamente sale per la conservazione.
Olive farcite all’ascolana
Alcuni autori descrivono la raccolta delle olive ascolane, il trattamento delle stesse e la preparazione di quelle che, eliminatone il nocciolo, venivano chiamate Giudee per essere senz’anima; tali olive possono essere considerate le attuali progenitrici delle olive ripiene. Alcune ricerche bibliografiche fanno risalire al secolo scorso la nascita della tradizione legata alla farcitura ed alla frittura delle olive da tavola secondo metodo e ricette ancora in uso. La tradizione popolare ritiene che l’origine dell’oliva farcita e fritta sia stata un’esigenza di recupero delle carni di risulta dei banchetti e dei pranzi che si tenevano nelle famiglie abbienti. La ricetta originaria della farcitura si può far risalire ad un periodo intorno alla costituzione del Regno d’Italia (1859-61). Grande, tenera, dolcissima e ricca di polpa, l’Ascolana si conserva in salamoia: dopo una breve fase di fermentazione – di poco più di una settimana – le olive sono collocate in recipienti con acqua salata ed aromatizzate con il finocchio selvatico, erba odorosa cara alla tradizione conserviera della zona. Ma l’Ascolana Tenera dà il meglio di sé farcita e fritta. Le sapide polpettine che ne derivano si gustano come aperitivo ma, per la loro ricca consistenza, possono degnamente sostituire una pietanza.
Sono inequivocabilmente il piatto più rappresentativo della gastronomia Marchigiana e anche se negli anni si sono affermate proposte alternative alla ricetta originale, noi vogliamo ricordarvi la preparazione classica, che oltre alle “ascolane tenere” (olive conservate in una salamoia condita con semi di finocchio ed erbe aromatiche) prevede l’utilizzo di tre tipi di carne differente (manzo, suino e pollo), formaggio parmigiano, uova, cipolla, carota, sedano e noce moscata.
Preparazione Snocciolare le olive con taglio a spirale e lasciarle a bagno in acqua fredda. Rosolare bene le carni in un tegame con il lardo del prosciutto tritato o olio di oliva. Togliere la carne dal tegame e raffreddare. Staccare il fondo di cottura con del vino su fuoco dolce. Tritare finissime le carni, inserendo nell’ordine gli aromi, il fondo di cottura, della salsa di pomodoro, un uovo ed un tuorlo, parmigiano grattugiato, e pestare in un mortaio l’impasto ottenuto. Farcire le olive ridando loro la forma ovale allungata originale. Panare e far riposare in fresco per mezz’ora. Friggere in olio caldo le ascolane, scolare bene e farle asciugare lasciandole riposare brevemente sulla carta. Servire calde.
Bibliografía Bibliografía: www.taccuinistorici.it/ita/news/antica/oli-olive/Oliva-Ascolana-del-Piceno-DOP.html https://it.wikipedia.org/wiki/Sus_scrofa www.taccuinistorici.it/ita/ricette/moderna/sfiziosita-/Olive-farcite-allascolana.html
Cittá del Messico
LastoriaPolenta e tradizioni
T
ra gli alimenti più diffusi perchè: facile da preparare (acqua e farina) in un paiolo di rame con un bastone di nocciolo chiamato comunemente tarello, dona sazietà, si sposa facilmente e stagionalmente con diversi alimenti, può essere consumata anche nei giorni di magro. Questa è una vivanda che marca la continuità della cucina italiana, risalendo ben oltre il Medioevo agli usi delle popolazioni italiche.
Simposiarca: Dino Pagliai
Febbraio 2019
A iniziare dai secoli centrali del Medioevo, analoghi usi si facevano delle castagne, grande risorsa delle popolazioni di montagna. In quest’epoca una delle preparazioni pù semplici era ottenuta da un’impasto d’acqua con farina d’orzo, di miglio e qualche altro ingrediente, versato in un paiolo per essere rimestato continuamente fino a cottura avvenuta.
P
iatto forte dell’alimentazione contadina, sin da quando in epoca romana veniva confezionata con la farina di farro e chiamata puls.
Con il tempo a questo cereale si affiancarono vari grani e granelli di minor pregio (segale, orzo, miglio, sorgo, ecc.) che data la loro scarsa attitudine alla panificazione servivano per ottenere farine, spesso associate a legumi, che una volta essiccati entravano sfarinati nella preparazione della polenta.
Anche se la polenta ha lasciato tracce importanti nei manuali di cucina rivolti alle classi elevate (Libro de coquina - fave infrante), era destinata sopratutto a riempire la pancia e a garantire la sopravvivenza del popolo. Questa funzione rimase tale anche quando alle fave e ai cereali. Dopo la scoperta dell’America, si aggiunse la farina di mais (presenza documentata durante la carestia di Venezia del 1630).
Un “pulmentario” di fava e panico compare in un documento lucchese del 765 d.C. come vivanda destinata in elemosina ai poveri.
L’affermazione definitiva della polenta di granturco avvenne nel ‘700, prima come esotica preparazione dei ceti abbienti, poi quale cibo contro la fame diffuso presso tutte le classi sociali. Il mais, seppur di difficile uso per la panificazione a causa del suo scarso contenuto in glutine, veniva coltivato inizialmente dai coloni nei propri orti, destinati secondo i patti agrari ad esenzione dalle tesse al proprietario. Successivamente il padronato impose la coltivazione estensiva di questo cereale, riducendo la spettanza dei contadini in prodotti pregiati, e condannandoli alla dieta monoalimentare che causò le vaste epidemie di pellagra dell’Ottocento. La polenta tradizionalmente veniva consumata secondo un rigido cerimoniale. Dopo essere stata preparata e messa sulla spianatoia veniva affettata dalla massaia o dal capoccia, con lo spago e non con il coltello. I primi taglia erano due ad angolo retto, poi la si divideva in quattro parti e successivamente in fette di uguale spessore, per agevolarne la rapida distribuzione ai membri della famiglia (anche più di 10) seduti in attesa ai lati della tavola. Il primo a prenderne un pezzo era capo della famiglia. Con la polenta, in particolari occasioni o feste, si faceva la “grande gara magnona”. Diversi concorrenti si mettevano attorno alla polenta e la mangiavano; il primo che arrivava al centro dove era posta una salsiccia o un pezzo di carne vinceva il goloso premio. La comparsa più celebre della polenta nella letteratura italiana moderna è forse nel VI capitolo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, «perfetto conoscitore della storia agraria». In Italia oggi sono moltissime le diverse tipologie di polenta salata o dolce.
Polenta con salsicce
Ingredienti Per preparare il sugo:
150 g 1 1 1
di salsiccia rametto di rosmarino scalogno cucchiaio di olio extravergine di oliva Pepe nero macinato al momento 50 ml di vino bianco secco 250 ml di passata di pomodoro
Per preparare la polenta:
500 ml di acqua 125 g di farina di mais per polenta a cottura rapida 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva 25 g di Parmigiano Reggiano grattugiato, più alcune scaglie per decorare 1 cucchiaino di sale grosso
Preparazione Sbriciolare la salsiccia rimuovendo il budello in cui è insaccata. Lavare il rosmarino, selezionarne le foglie e tritarle finemente con la mezzaluna su un tagliere. Pulire lo scalogno e tritarlo finemente.
Ricetta e preparazione
Mettere in una padella l’olio, lo scalogno tritato e portarla sul fuoco. Far dorare lo scalogno dolcemente, quindi alzare la fiamma ed unire la salsiccia, un cucchiaino di rosmarino tritato, una macinata di pepe e farla uniformemente colorire a fiamma media. Unire il vino e fare evaporare a padella scoperta. Inclinarla da un lato e con un cucchiaio togliere il grasso in eccesso. Unire la passata di pomodoro, lasciar riprendere calore e cuocere per 20 minuti a fiamma bassa coperto.
Come fare la Frittata di carciofi
Quando il sughetto sarà pronto pre-
Pulite i carciofi con cura togliendo le parti parare la dure polenta. Mettere a bollire una esterne più e la parte interna.
capace pentola con l’acqua, verificandone l’esatta sulla confezione Metteteproporzione i carciofi in ammollo in acqua del con tipo di farina utilizzata. 3 cucchiai di aceto. Tagliate i cuori di carciofo a fettine. Fate cuocere i carciofi in una pentola usando l’acqua congrosso, l’aceto inl’olio cui avete messo in Unire il sale extravergine ammollo i carciofi e aggiungete un po’ di sale. di oliva e versare a pioggia la farina mesco-
lando continuamente con una frusta per Fate cuocere i carciofi per circa 15-20 minuti evitare che si formino grumi. Cuocere emescolando scolateli. Mescolate i carciofi con 2 uova continuamente a fiamma mediae un pizzico di sale. Aggiungete il parmigiano per il tempo indicato per il tipo di farina scelto. grattugiato, il pepe e il prezzemolo e mescolate.
Mettete 1 cucchiaino di olio in una padella antiaderente e versate il composto di uova e carciofi. Fate cuocere la frittata. A metà cottura girate la frittata aiutandovi con un piatto piano o un coperchio. Completate la cottura della frittata.
Verso fine cottura unire il Parmigiano grattugiato.
Carciofo alla Romana
A scanso di equivoci: i carciofi alla romana che, come dice il nome, sono fra i più cucinati nella Capitale e dintorni, non sono quelli fritti, ma quelli cotti in tegame. Prepararli è piuttosto semplice, a patto di scegliere i migliori, cioè quelli romaneschi, detti ancheQuando “mammole”: molto è grandi, forma quasi prontadisuddividerla la polenta sferica, tutti gli altri fra duesvettano piatti, su appiattirla con per un tenerezza cucchiaioe dolcezza.
e porre al centro di ognuno una porzione di sugo. Cospargere con le scaglie di Parmigiano Una volta puliti a dovere, vanno lasciati interi Reggiano e servire immediatamente. ed allargati un pochino in punta, in modo da
poterli disporre in piedi, a testa in giù, uno vicino all’altro, in un tegame contenente un dito d’acqua ed un po’ d’olio extravergine. Ciò che rende i carciofi alla romana unici ed estremamente saporiti è il fatto che, prima di essere messi in pentola, vengono riempiti con un trito di olio, aglio, prezzemolo, sale e mentuccia. Cuocendoli a fuoco molto basso, chiusi con un coperchio, saranno cotti in un quarto d’ora circa, buoni più che mai. Provare per credere!
Consigli: Per gustare al meglio la frittata di carciofi lasciatele almeno 30 minuti a temperature ambiente.
Bibliografía: Bibliografía: https://www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/antica/ortaggi-frutta/carciofo-tenero-guerriero.html www.taccuinistorici.it/ita/news/medioevale/pasta-cereali/polenta-dal-farro-al-granturco https://www.buttalapasta.it/articolo/ricetta-frittata-di-carciofi/6362/ www.taccuinistorici.it/ita/ricette/moderna/sfiziosita-/polenta-di-mais-e-salsicce https://www.bellacarne.it/blog/carciofo-alla-romana/
Cittá del Messico
Storia e proprietà del carciofo
O
riginario del Medioriente, il carciofo selvatico ha costituito fin dall’antichità un prodotto importante per i fitoterapisti di Egizi e Greci, ma pare che altrettanto antico sia il suo impiego nella cucina. Già nel IV sec. a.C. era coltivato dagli Arabi che lo chiamavano “karshuf” (o kharshaf), da cui l’attuale termine.
Simposiarcas: Sr. Ezio Chiai / Ing. Dino Pagliai 30 Aprile 2019
di pari passo con la sua diffusione, ed era già ben radicata nel 1557, se il Mattioli nei suoi “Discorsi” scrive: “la polpa dei carciofi cotti nel brodo di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con galanga per aumentare i venerei appetiti”. Un anno dopo il Felici concorda attestando che: “servono alla gola e volentieri a quelli che si dilettano de servire madonna Venere”.
N
ello stesso periodo Teofrasto nella “Storia delle piante” parla di “cardui pineae” che per caratteristiche di forma, proprietà e virtù sarebbero assimilabili ai nostri carciofi. L’uso di una qualche varietà di carciofo selvatico nella cucina romana è ricordata da Columella, che chiamandolo col nome latino di Cynara, conferma come a quel tempo si usasse consumare quella pianta sia a scopo medicinale che alimentare. Nel “De re coquinaria” di Apicio, si parla anche di cuori di cynara che, a quanto pare, i Romani apprezzavano lessati in acqua o vino. La coltivazione del carciofo da noi conosciuto venne introdotta in Europa dagli Arabi sin dal ‘300, ma notizie molto dettagliate sul suo sfruttamento risalgono al ‘400, quando dopo vari innesti, dalle zone di Napoli si diffuse prima in Toscana, e successivamente in molte altre regioni. Nella pittura rinascimentale italiana, il carciofo è rappresentato in diversi quadri: “L’ortolana” di Vincenzo Campi, “L’estate” e “Vertumnus” di Arcimboldo. Il carciofo dapprima non godette di un eccessivo favore culinario, tanto che ai primi del ‘500 Ariosto affermava: “durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade”. In quell’epoca, l’ortaggio iniziò comunque a comparire frequentemente nei trattati di cucina, dove si spiegava anche come trinciarlo, e la stessa regina Caterina de’ Medici ne divenne una sua estimatrice. La fama afrodisiaca del carciofo, derivante con molta probabilità dall’aspetto fallico, andò
Riguardo alla preferenze dal modo di consumare i carciofi nel 1581 Montaigne durante il suo Grand Tour annota che: “in tutta Italia vi danno fave crude, piselli, mandorle verdi, e lasciano i carciofi pressoché crudi”. La marcia trionfale di questa pianta non conobbe soste neppure nei secoli successivi, tanto che ai primi dell’Ottocento il grande gastronomo Grimod de La Reyniere decanta: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. Dobbiamo aggiungere che è un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco”. Ciò che distingue i diversi tipi di carciofo sono le spine che possono essere presenti o meno e il colore che può essere verde tendente al grigio o violetto. Oggi le varietà spinose più conosciute sono: i verdi della Liguria e di Palermo, e i violetti di Chioggia, Venezia e Sardegna. Un’ulteriore varietà di spinoso è quello di Toscana, di colore violaceo. Fra i non spinosi, invece, troviamo il cosiddetto Romanesco, comunemente conosciuto come mammola, quello di Paestum e di Catania.
Frittata di Carciofi
La massima produzione di carciofi l’abbiamo da novembre a giugno. Il requisito fondamentale del carciofo è la freschezza, quindi al momento dell’acquisto è bene scegliere carciofi pieni, sodi, con foglie dure e ben serrate. Quando li si acquista devono essere sodi e senza macchie. Preferire gli esemplari più piccoli con le punte ben chiuse. Il gambo deve essere duro e senza parti molli o ingiallite. Se il gambo è lungo ed ha ancora delle foglie attaccate, controllare che siano fresche. Per la conservazione si consiglia: se sono molto freschi ed hanno il gambo lungo di immergerli nell’acqua come si farebbe con i fiori freschi. Per riporli in frigo si devono togliere le foglie esterne più dure e il gambo; lavati e ben asciugati vanno messi in un sacchetto di plastica o un contenitore a chiusura ermetica: si conserveranno per almeno 5-6 giorni. Si possono anche congelare dopo averli puliti e sbollentati in acqua acidulata con succo di limone, lasciati raffreddare e sistemati in contenitori rigidi. Gustosi e versatili, questi ortaggi rappresentano una vera e propria miniera di principi attivi, utili sia per la digestione e la diuresi che per la cura della bellezza di viso, corpo e capelli. In cucina i carciofi molto teneri si possono mangiare anche crudi, mentre gli altri vengono preparati fritti, alla giudia, alla romanesca, insomma nei più svariati modi. Si ricorda inoltre che in molte regioni italiane c’è la grande tradizione di fare con i carciofi le conserve sott’aceto o sott’olio.
I carciofi sono delle verdure deliziose che si prestano a moltissime ricette, come questa, che può essere servita come secondo oppure tagliata a cubetti anche come antipasto.
Ingredienti Frittata di carciofi per quattro persone • • • • • • • •
6 carciofi Sale q.b. 3 cucchiai di aceto Parmigiano grattugiato q.b. 2 uova Pepe q.b. Prezzemolo q.b. Olio extravergine di oliva q.b.
Ricetta e preparazione
Carciofo alla Romana
Pulite i carciofi con cura togliendo le parti esterne più dure e la parte interna.
A scanso di equivoci: i carciofi alla romana che, come dice il nome, sono fra i più cucinati nella Capitale e dintorni, non sono quelli fritti, ma quelli cotti in tegame.
Mettete i carciofi in ammollo in acqua con 3 cucchiai di aceto. Tagliate i cuori di carciofo a fettine. Fate cuocere i carciofi in una pentola usando l’acqua con l’aceto in cui avete messo in ammollo i carciofi e aggiungete un po’ di sale.
Prepararli è piuttosto semplice, a patto di scegliere i migliori, cioè quelli romaneschi, detti anche “mammole”: molto grandi, di forma quasi sferica, svettano su tutti gli altri per tenerezza e dolcezza.
Fate cuocere i carciofi per circa 15-20 minuti e scolateli. Mescolate i carciofi con 2 uova e un pizzico di sale. Aggiungete il parmigiano grattugiato, il pepe e il prezzemolo e mescolate.
Una volta puliti a dovere, vanno lasciati interi ed allargati un pochino in punta, in modo da poterli disporre in piedi, a testa in giù, uno vicino all’altro, in un tegame contenente un dito d’acqua ed un po’ d’olio extravergine.
Come fare la Frittata di carciofi
Mettete 1 cucchiaino di olio in una padella antiaderente e versate il composto di uova e carciofi. Fate cuocere la frittata. A metà cottura girate la frittata aiutandovi con un piatto piano o un coperchio. Completate la cottura della frittata.
Ciò che rende i carciofi alla romana unici ed estremamente saporiti è il fatto che, prima di essere messi in pentola, vengono riempiti con un trito di olio, aglio, prezzemolo, sale e mentuccia. Cuocendoli a fuoco molto basso, chiusi con un coperchio, saranno cotti in un quarto d’ora circa, buoni più che mai. Provare per credere!
Consigli: Per gustare al meglio la frittata di carciofi lasciatele almeno 30 minuti a temperature ambiente.
Bibliografía: https://www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/antica/ortaggi-frutta/carciofo-tenero-guerriero.html https://www.buttalapasta.it/articolo/ricetta-frittata-di-carciofi/6362/ https://www.bellacarne.it/blog/carciofo-alla-romana/
Cittá del Messico
Storia e proprietà del carciofo Storia della Panzanella
Q O
uest’umile e semplice piatto del recupero, tipico dell’Italia centrale, ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro. riginario del Medioriente, carciofo selvatico hadicui costituito Una ricetta simile dovevail essere il “pan lavato” parla fingià dall’antichità un. prodotto importante per i fitoterapisti di il Boccaccio Egizi e Greci, ma pare che altrettanto antico sia il suo impiego nella Già nel la IV nascita sec. a.C.della era coltivato dagli Arabi che Molticucina. attribuiscono panzanella, all’usanza lo chiamavano “karshuf” (o kharshaf), da cui l’attuale contadina di bagnare il pane vecchio e secco pertermine. mescolarlo con le verdure disponibili nell’orto.
Simposiarcas: Sr. Enrique Ezio ChiaiGilardi / Ing.e Dino Dino Pagliai Pagliai Simposiarcas: 30 luglio 2019, 2:002019 p.m. 30 Aprile
U
Panzanella del contadino
n’altra scuola di pensiero sostiene invece che la panzanella nasca a bordo delle barche da pesca, dove i marinai preparavano un veloce pasto bagnando con acqua di mare del pane duro e qualche ortaggio. Anche l’origine del termine è incerta. Secondo alcuni, deriverebbe dalle parole pane e zanella (conchino, piatto fondo o zuppiera), per altri dal nome “panzana” che in origine voleva dire pappa.
Agnolo Bronzino, pittore che operò alla corte de’ Medici nel ‘500, così canta le lodi di
questo piatto:
“Chi vuol trapassar sopra le stelle en’tinga il pane e mangi a tirapelle un’insalata di cipolla trita colla porcellanetta e citriuoli vince ogni altro piacer di questa vita considerate un po’ s’aggiungessi bassilico e ruchetta”. La preparazione di questa ricetta che appartiene alla cucina del recupero varia da regione a regione, da luogo a luogo e addirittura di famiglia in famiglia.
Oltre a pane raffermo, cipolla, basilico, cetriolo, pomodoro, olio d’oliva, aceto e sale, ci possiamo trovare anche tonno e uovo. In Toscana e Lazio il pane viene lasciato a bagno in acqua, poi strizzato, spezzettato e mescolato ai restanti elementi; in Umbria e nelle Marche le fette di pane sono bagnate ma non sbriciolate e gli altri ingredienti messi sopra come si trattasse di una bruschetta.
Ingredienti • • • • • • • • • •
pane raffermo pomodori cetrioli cipolla sedano (facoltativo) basilico olio d’oliva extra vergine aceto sale pepe
Preparazione
Spezzettare il pane e metterlo a bagno in acqua e aceto, intanto tagliare i pomodori ben maturi a tocchetti, affettare il cetriolo ed il sedano se gradito, e tagliare la cipolla a rondelle. Unire tutte le verdure precedentemente tagliate, il basilico a foglie sminuzzate, e condire con un buon olio evo, aceto, sale e pepe.
Quando il pane si sarà ammorbidito strizzarlo bene e sbriciolarlo in una ciotola capiente, lasciando qualche pezzetto più intero che darà una piacevole consistenza al piatto finito.
Volendo si può provare se è gradita la variante più dolce usando aceto balsamico invece di aceto di vino o di mele.
Bibliografía: www.tacuinigastrosofici.it www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/moderna/cibi-tradizionali/Agnolo-Bronzino-e-la-panzanella.html www.taccuinigastrosofici.it/ita/ricette/moderna/cucina-del-benessere/panzanella-del-contadino.html
Cittá del Messico
Storia del Pollo
P
ollo è il nome generico proveniente dal latino “pullus” (animale giovane in generale), dato sia al maschio che alla femmina della specie Gallus gallus, allevati sia per usi alimentari diretti che per la produzione di uova. Si distinguono razze da carne caratterizzate da una notevole crescita (Dorking, Cornish ecc.), razze da uova come Livornese, Valdarno, Polish ecc, e razze miste nate da ibridi creati per l’allevamento intensivo.
Simposiarcas: Dino Pagliai y Massimo Bacchi 10 settembre 2019, 8:30 p.m.
N
ei ricettari tradizionali viene usata una specifica terminologia per distinguere l’età dei polli: pollastro fino a 3-4 mesi con peso di 600 g; pollo di grano fino a 6 mesi e 1 kg; pollo o pollastra fino a maturità e 1,5 kg. Ci sono poi il galletto, maschio giovane di circa 6 mesi; il gallo da riproduzione arrivato a un paio d’anni e a fine carriera (durissimo); la gallina esemplare da uova abbattuta a fine attività, molto dura ma apprezzata per le carni grasse che danno un ottimo brodo. Probabilmente il pollo venne addomesticato intorno al 4000 a.C. nella piana dell’Indo. Sicuramente era presente nell’antico Egitto intorno al XIV secolo a.C. Nell’antichità pare che si diffuse sopratutto per le uova prodotte e non per le qualità gastronomica delle carni. Sembra che galli e pollastri arrivarono in Grecia al seguito dell’Armata d’Oriente di Alessandro Magno, tanto che Aristofane chiamava i polli “uccelli di Persia”. Secondo alcuni ricercatori i maschi si diffusero prima delle femmine perché apprezzati come animali da combattimento, per divertire ed intrattenere il pubblico e come simbolo di fertilità. A tale scopo venivano anche sacrificati ed offerti alle divinità. Socrate, ormai moribondo, raccomandava al discepolo Critone di sacrificare un gallo ad Esculapio, il dio della medicina, fungendo il canto mattutino dell’animale da nunzio d’ingresso dell’anima nell’altro mondo. Gli antichi romani furono grandi consumatori di uova e galline, e il prestigio del pollo oltre che dalle ricette di Apicio è dimostrato dagli scritti di Catone e Columella, che ci tramandano nozioni sulle tecniche di allevamento. Altre testimonianze sono fornite da poeti e scrittori come Marziale, Giovenale e Petronio. Quest’ultimo, nel Satyricon, descrivendo le portate del banchetto di Trimalcione evidenzia anche la carne di pollo. Come anticipato i Latini utilizzavano i polli anche nei riti religiosi. Nella Roma imperiale esistevano intere squadriglie di galli profetici.
Prima di ogni grande battaglia veniva offerta loro una razione di mangime. Se i pennuti mangiavano voracemente, la vittoria era assicurata; in caso contrario la sconfitta era inevitabile. Nella gastronomia medioevale le classi superiori preferivano al pollo animali più spettacolari ed esotici, quali pavoni e faraone. L’allevamento dei polli era una delle poche attività alle quali la contadina poteva dedicarsi liberamente, senza renderne conto al feudatario: doveva però regalare un numero stabilito di polli e uova al padrone per ogni superficie lavorata (usanza rimasta fino a metà ‘900). Fu solo nel ‘600 che il pollo divenne un simbolo di borghese agiatezza, introdotto come ingrediente principe in molte ed elaborate ricette di cucina. Fra i polli più famosi della storia ricordiamo quello di Enrico IV e di Napoleone. La fortuna culinaria del pollo e il suo valore di cibo d’élite terminarono alla metà del ‘900, quando a causa dell’allevamento in batteria in 45 giorni (al pollo ruspante servono 10 mesi), il mercato fu inondato da esemplari che costavano poco ed avevano carni molli e insipide. Oggi, anche se i polli da “cortile” sono rari e costosi, il mercato offre, grazie ai nuovi criteri d’allevamento (selezione delle razze, degli spazi e dei mangimi), prodotti di buona qualità adatti alle varie preparazioni tra le quali segnaliamo quelle che lo vedono essere la farcitura di gustosi panini.
Pollo alla cacciatora Nonostante siano in molti a rivendicare la paternità, sembra che la ricetta originale del pollo alla cacciatora sia nata in Toscana. Una ricetta senza tempo che ha il tipico sapore di casa: quello che ristora, che consola e soprattutto che dona sensazione di benessere. Possiamo dire con assoluta certezza che il pollo alla cacciatora è esattamente al pari della carne alla pizzaiola, sono perciò considerabili come le due massime istituzioni della nostra cucina popolare italiana. Per chi non dovesse conoscere questa meravigliosa ricetta, si tratta di pollo tagliato in pezzi, rosolato in padella e profumato gli odori classici: cipolla, sedano e carota.
Un secondo piatto molto semplice quanto goloso che addirittura è capace di trasformarsi in ricetta ricchissima solo e soltanto se si assolve al più importante dei compiti: la scarpetta nel gustosissimo sughetto! Adesso veniamo alla preparazione del pollo alla cacciatora. Che esistano tante versioni è un fatto assolutamente risaputo, noi perciò abbiamo pensato di regalarvi la nostra, quella che ci ha fatto sentire proprio come a casa. Se desiderate accompagnarla con un contorno, possiamo suggerirvi la bandiera, una versione umbra della peperonata!
Ingredienti • • • • • • • • • • • •
Pollo intero de 1.3 kg Cipolle dorate 1 costa Sedano 1 costa Vino rosso 100 g Rosmarino 1 rametto Sale fino q.b. Pomodori pelati 400g Carote 1 Aglio 1 spicchio Olio extravergine d’oliva q.b. Prezzemolo tritato 1 ciuffo Pepe nero q.b.
Preparazione Come Preparare il Pollo alla Cacciatora
Per preparare il pollo alla cacciatora cominciate dal taglio delle verdure. Dopo aver mondato la cipolla, sbucciate anche la carota e spuntatela, infine togliete il ciuffo dal sedano e tritate il tutto fino ad ottenere dei dadini di 2-3 mm 1. Poi passate alla pulizia del pollo. Tagliatelo in pezzi separando cosce, petto e alette 2. A questo punto avete tutto quello che vi occorre, spostatevi ai fornelli. In una casseruola mettete a scaldare un goccio d’olio, non esagerate perché la pelle del pollo rilascerà molto grasso. Accendete la fiamma e lasciate scaldare qualche istante, dopodiché versate i pezzi di pollo, cominciando sempre dal lato della pelle 3.
Conservazione
Il pollo alla cacciatora si conserva per un paio di giorni in frigorifero ben coperto da pellicola trasparente. Lasciate rosolare per una decina di minuti rigirando dopo un po’ 4. Quando il pollo sarà ben colorito aggiungete il trito di sedano, carota e cipolla e poi lo spicchio d’aglio mondato 5. Poi sale, pepe e rosmarino, mescolate e fate insaporire per altri 5 minuti 6.
Se preferite potete congelarlo una volta cotto se avete utilizzato ingredienti freschissimi.
Consiglio
Sfumate con il vino rosso e lasciate evaporare completamente la parte alcolica 7. Togliete il rosmarino e lo spicchio d’aglio 8 e poi aggiungete i pomodori pelati a pezzetti 9.
Durante la bella stagione utilizzate dei pomodori freschi da sugo, durante il resto dell’anno invece utilizzate i pelati o della passata di pomodoro per ottenere un sugo più corposo. Se non amate il prezzemolo potete ometterlo, se invece volete dare una marcia in più alla ricetta sostituitelo con delle foglioline di maggiorana. In aggiunta al rosmarino potete aggiungere 1 rametto di salvia.
Mescolate il tutto 10 e coprite con il coperchio, lasciate cuocere a fuoco moderato per 30-35 minuti 11. Ricordate che se il pollo fosse più grande allora bisognerà aumentare ancora un po’ la cottura, viceversa se più piccolo. Ad ogni modo il pollo si ritiene pronto non appena la carne si stacca dalle ossa 12.
A fine cottura assicuratevi che sia giusto di sale e infine spolverizzate con il prezzemolo 13. Un’ultima mescolata 14 e il vostro pollo alla cacciatora è pronto, buon appetito 15! Bibliografía: https://www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/contemporanea/panini-e-cibi-di-strada/storia-pollo-e-panino.html https://ricette.giallozafferano.it/Pollo-alla-cacciatora.html
Cittá del Messico
Cena Ecuménica La storia dei gnocchi
I
l termine gnocco ha un’antica origine e probabilmente deriva dal longobardo knohhil, che indica il nodo del legno. A questo termine con ogni probabilità sono da riportare i knodel altoatesini, dai quali derivano anche i canederli trentini.
Proseguendo il suo cammino cuciniero verso il meridione, compare il termine gnocco o gnocchi, parola che nel secondo millennio si diffonde nel veneto e nella pianura padana per significare bocconcini di pasta, simili ai nodi del legno.
Dino Pagliai, Vittorio Stewens e Massimo Bachi Ottobre 17 2019
ricetta di Gnocchi di Miglio con l’Aglio. Vincenzo Corrado (1734-1836), nel suo libro Cuoco Galante, descrive gli Gnocchi alla Panna e gli Gnocchi alla Dama. Corrado (1801) porta anche la prima ricetta italiana degli gnocchi di patata.
G
li gnocchi sono un piatto povero, che raramente trova posto nei ricettari gastronomici dell’alta cucina. Costituiti da farina impastata con l’acqua o al massimo con qualche uovo, foggiati come un piccolo e corto cilindretto, spesso deformato per impressione su di una superficie irregolare (parte interna di una grattugia o di una forchetta), lessati e conditi con sugo o burro e formaggio, sono un piatto tradizionale della cucina veneta, emiliana, piemontese. Il termine gnocco ha poi altre estensioni, ad esempio quello di gnocchi alla romana costituiti da semolino, oppure di gnocco fritto reggiano, nel quale la farina di grano tenero è impastata nell’acqua, tirata in sfoglia che viene tagliata in forma di sottili losanghe, che sono fritte nello strutto.
Alla fine dell’Ottocento gli gnocchi dalla cucina povera italiana passano a quella borghese, come testimonia Pellegrino Artusi che nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (ultima edizione 1910). In proposito “la famiglia de’ gnocchi è numerosa” afferma l’Artusi. Oltre a quelli in brodo vi sono quelli di patate e di farina gialla per minestra e quelli di semolino e alla romana, e quelli al latte per dolce. Dopo l’Artusi, gli gnocchi, anche di patata, divengono un classico della cucina e della gastronomia italiana, con lo sviluppo di una gran varietà di condimenti che vanno dai sughi di carne a quelli di verdure.
Gli gnocchi, nati come pezzetti di pasta di farina cotta nell’acqua, fanno parte delle paste di grano tenero che fanno colla e che gli antichi Greci denominavano colla, almeno se dobbiamo credere a Costanzo Felici (1525-1585). Per avere precise ricette di gnocchi, come oggi li intendiamo, bisogna arrivare al Libro contenente la maniera di cucinare di un anonimo reggiano della seconda metà del Settecento, per la casa dei conti Cassoli residenti a Reggio Emilia, che descrive una
Gnocchi ai 4 formaggi PRESENTAZIONE Esiste un piatto più cremoso, godurioso, insomma proprio da leccarsi i baffi come gli gnocchi ai 4 formaggi? Non ci resta che scoprirlo preparando questo primo piatto sostanzioso, partendo ovviamente dall’impasto per gli gnocchi di patate fatti in casa. Vi ricordate tutti i segreti per ottenere la giusta consistenza? Né troppo duri, né troppo molli... e una volta pronti, al posto del classico sugo o di condimenti particolari che vi abbiamo già proposto, vi invitiamo a tuffarli in un avvolgente crema per
veri appassionati di formaggio: Casera, Emmentaler, Gorgonzola dolce e Fontina. 4 formaggi, da declinare anche in versione regionale, con i migliori formaggi della vostra zona... provate per esempio la versione al taleggio degli
ate lessando queste ultime: in una pentola capiente sistemate le patate e coprite con abbondante acqua fredda 1. Dal momento in cui l’acqua sarà a bollore contate circa 30-40 minuti, a seconda della loro grandezza; fate la prova forchetta e se i rebbi entreranno senza difficoltà nel mezzo allora potrete scolarle. Pelatele mentre sono ancora calde e subito dopo schiacciatele sulla farina che avrete versato sulla spianatoia a fontana 2. Aggiungete poi l’uovo leggermente battuto insieme a un pizzico di sale 3
gnocchi speck e noci! State già sognando il gusto avvolgente di questi gnocchi ai 4 formaggi? Una vera coccola golosa da concedersi quando si preferisce, non solo il giovedì! Non dimenticate di accompagnarli con un buon vino, in questa versione saranno perfetti con un rosso veneto di medio corpo e dalla struttura elegante!
INGREDIENTI
e impastate il tutto con le mani 4 fino ad ottenere un impasto morbido ma compatto 5. Ricordate che lavorandoli troppo, gli gnocchi diventeranno duri durante la cottura, quindi limitatevi ad impastare il necessario. Prelevate una parte di impasto e stendetelo con le punte delle dita per ottenere dei bigoli, cioè dei filoni, spessi circa 2 cm 6; per farlo aiutatevi infarinando la spianatoia, di tanto in tanto, con della semola. Nel frattempo, coprite l’impasto rimanente con un canovaccio per evitare che sisecchi.
CALORIE PER PORZIONE 993 INGREDIENTI PER GLI GNOCCHI 1 kg Patate 300 g Farina 00 1 Uova 1 pizzico Sale fino PER LA CREMA 4 FORMAGGI 150 g Gorgonzola dolce 100 g Valtellina Casera 100 g Fontina 100 g Emmentaler 250 g Panna fresca liquida Pepe nero q.b.
Preparazione COME PREPARARE GLI GNOCCHI AI 4 FORMAGGI Per preparare gli gnocchi di patate cominci-
Poi tagliate i filoncini a tocchetti 7 e facendo una leggera pressione con il pollice trascinateli sul rigagnocchi per ottenere la classica forma 8. Se non avete il riga gnocchi, potete utilizzare una forchetta e trascinarli sui rebbi; anche in questo caso, utilizzate la farina di semola per evitare che si appiccichino. Mano a mano che preparate gli gnocchi di patate sistemateli su un vassoietto con un canovaccio leggermente infarinato, ben distanziati l’uno dall’altro. Tagliate a pezzetti il Gorgonzola 9.
Il Casera, la Fontina e l’Emmentaler 10. In un pentolino scaldate la panna liquida, quindi versate tutti i formaggi a pezzetti (11-12) e cuocete a fiamma bassa per 20 minuti, mescolando spesso per evitare che si formino grumi e per favorire il fondersi dei formaggi.
Conservazione Si consiglia di consumare subito gli gnocchi ai 4
formaggi. E’ possibile conservare per un paio di giorni al massimo solo la crema di formaggi.
Una volta pronta la crema ai 4 formaggi 13, potrete lessare gli gnocchi in abbondante acqua; cuoceteli per pochi istanti e non appena saliranno a galla, scolateli con l’aiuto di una schiumarola, versateli man a mano nel tegame con la crema ai 4 formaggi 14. Mescolate molto delicatamente per non sfaldarli, aromatizzate con del pepe nero a piacere e servite subito i vostri gnocchi ai 4 formaggi 15.
Consiglio Una manciata di noci in granella conferirà una piacevolissima nota croccante!
Bibliografía https://www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/medioevale/pasta-cereali/storia-degli-gnocchi.html https://ricette.giallozafferano.it/Gnocchi-ai-4-formaggi.html