RC
numerosette - luglio/agosto 2008
numerosette*luglio-agosto 2008
Rapporto ConFidenziale
r i v i s t a d i g i t a l e d i c u l t u ra c i n e m a t o g ra f i c a
in questo numero: speciale abel ferrara speciale volcano FILM festival -1-
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Rapporto ConFidenziale rivista digitale di cultura cinematografica
numerosette luglio-agosto 2008
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da un’esigenza di: Alessio Galbiati e Roberto Rippa.
rapporto.confidenziale@gmail.com
Rapporto Confidenziale - rivista digitale di cultura cinematografica non è un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7 marzo 2001 e non persegue alcuna finalità di lucro. La rivista vuole essere una voce libera ed indipendente di critica cinematografica: libera da ogni condizionamento ed indipendente nell’espressione del proprio senso critico. Le immagini utilizzate provengono dalla rete e sono pertanto da considerarsi di dominio pubblico. Per ogni possibile controversia ci rendiamo disponibili ai dovuti chiarimenti attraverso il seguente indirizzo di posta elettronica: rapporto.confidenziale@email.it Licenza: la rivista è rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia. Ogni volta che usi o distribuisci quest’opera, devi farlo secondo i termini di questa licenza, che va comunicata con chiarezza. In ogni caso, puoi concordare col titolare dei diritti utilizzi di quest’opera non consentiti da questa licenza. Questa licenza lascia impregiudicati i diritti morali. h t t p : / / c r e a t i v e c o m m o n s . o r g / l i c e n s e s / b y- n c - n d / 2 . 5 / i t Distribuzione: “Rapporto Confidenziale” è distribuito in formato PDF. Può essere letto con Acrobat e Adobe Reader 5.0 (e versioni successive).
contenuti
Alessandra Cavisi Matteo Contin Claudia D’Alonzo Alessio Galbiati Samuele Lanzarotti Ciro Monacella Cesare Moncelli Emanuele Palomba Roberto Rippa
editing e grafica Alessio Galbiati
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copertina Alessio Galbiati, The Film Director as Superstar - Kubrick Interviews. immagini comitato di
le immagini utilizzate sono tratte dal web; fatta eccezione per le opere tratte da China Girl a firma di Cesare Moncelli presenti su RC dalla pagina 36 alla 42.
redazione Akim Tamiroff, Patricia Medina, Guy Van Stratten, Katina Paxinou, Paul Misraki e Gregory Arkadin.
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SOMMARIO rivista digitale di cultura cinematografica
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05 06 07
Editoriale di Alessio Galbiati
“Odissea nella Sesta Dimensione” di Samuele Lanzarotti
FOCUS ON: Gordon Willis, The Prince of the Darkness di Emanuele Palomba
09
Volcano Film Festival 2008.
La parola al Direttore di Peppe Cammarata 09 Lapilli. cortometraggi in concorso 11 Sul bordo del cratere. rassegna di lungometraggi 13 Escursioni sul vulcano. retrospettiva su Carlo Lizzani 14 Lavica. live_set A/V 16 Sotto il vulcano. Workshop 17
18 19 21
Il favoloso mondo di Michel Gondry di Emanuele Palomba Funny Games (1997) vs. Funny Games (2007) di Alessandra Cavisi
La grafica al cinema. Intervista a Mathias Mazzetti, responsabile di “grafica & creatività” per Mediafilm di Matteo Contin
23
Il cinema seconda la American International Pictures. “Heavy Traffic”
di Roberto Rippa
25 28 29 31
Shining: dal romanzo al cinema di Emanuuele Palomba Il ritorno di Killing, il diabolico super criminale di Roberto Rippa Intervista a SS-Sunda di Mort Todd (trad. di Roberto Rippa)
speciale, Abel Ferrara!
Ferrara: Abel rintraccia Caino di Ciro Monacella 32 China Girl di Cesare Moncelli 36 The Driller Killer di Samuele Lanzarotti 43 King of New York di Matteo Contin 45 The Addiction di Samuele Lanzarotti 46 Bad Lieutenant di Alessandra Cavisi 47 Trafficanti di moralità. Cinepanettone all’eroina di Alessio Galbiati 49 The Funeral di Matteo Contin 50 L’angelo della vendetta di Samuele Lanzarotti 51 Abel Ferrara. Filmografia completa di Alessio Galbiati e Paola Catò 52
57
Sonar 2008. with DigiMag
66
indice filmografico
SonarCinema 2008. Musica per gli occhi di Alessio Galbiati 57 Future Past Cinema: SonarMatica 2008 di Claudia D’Alonzo 64
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editoriale Al solito l’editoriale. Croce e delizia. A dire il vero più croce. Testa o croce? La testa è quella di Abel Ferrara, del quale ci siamo occupati diffusamente con uno speciale che spazia nel suo cinema - ma che prescinde dalla novità (Go Go Tales è passato in qualche sala italiana, ma diffusamente lo trovate sulle riviste specializzate con le quali abbiamo ingaggiato un duello, siamo dunque duellanti...) - e la croce è quella dell’essere umano Ferrara sopra la quale egli stesso ha da tempo deciso di auto-affiggersi per provare a liberarsi - e liberarci da un’ansia ed una colpa cattolicamente ataviche - o atavicamente cattoliche? Con immagini (quelle di Cesare Moncelli) e con parole (quelle di Lanzarotti, Monacella, Cavisi, Galbiati e Contin), abbiamo ammirato la sua auto-croce-fissione. Un gioco sospeso fra Sacro e Profano (servono le maiuscole?!) lo stesso praticato dagli organizzatori della terza edizione del Volcano Film Festival, festival del cinema artigiano, che in una delle sue sezioni utilizza questo concetto come tema per un workshop aperto alle giovani leve dell’audiovideo siculo. Con il VFF entriamo per la prima volta all’interno d’un evento “reale” provando a suturare quella distanza che la rete pone fra lo scrivente e la realtà. Se Rapporto Confidenziale nasce come tentativo d’oltrepassare l’atomizzazione, vera e propria deriva dello scrivere di cinema sul web, questa prima media partnership sancisce un salto notevole nella qualità del percorso che abbiamo intrapreso. La nostra presenza al festival in questione, come pure dell’imminente Festival di Locarno lascerà tracce anche sul prossimo numero con report dettagliati degli eventi in questione. Con questo numero doppio, il settimo (ovvero l’ottavo, tenendo conto del numerozero di dicembre 2007) si chiude la prima fase di RC, quella che da tempo amo definire ‘eroica’. Da settembre saremo diversi, più completi e chiari, più sistematici ed approfonditi ma sempre liberi ed indipendenti, consapevoli d’essere la prima rivista italiana che parla di cinema utilizzando quel rivoluzionario strumento che sono le licenze Creative Commons, per una libera circolazione del sapere e della curiosità. A settembre allora... e buona lettura!!! Alessio Galbiati
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“Odissea nella Sesta Dimensione” di Samuele Lanzarotti
Forbidden Zone di Richard Elfman (1980 USA 73’) con Hervé Villechaize, Susanne Tyrrell, Gysele Lindley, Marie-Pascale Elfman, Danny Elfman, Joe Spinell, Matthew Bright
La quintessenza del cinema di serie Z ci viene regalata da questo midnight movie fuori tempo massimo, che appare come un esilarante incrocio tra “Alice nel paese delle meraviglie”, i film deliranti di John Waters e “The Rocky Horror Picture Show”. Il film nasce dalle idee di Danny e Richard Elfman e dalle performance del loro leggendario gruppo “The Mystic Knights of the Oingo Boingo”, ispirandosi ai cartoons degli anni Trenta di Max Fleischer e agli umori anarcoidi e goderecci della controcultura. E’ un musical surreale in bianco e nero di comica stranezza, incentrato sulla Sesta Dimensione, luogo immaginario fatto di fondali di cartapesta che sembrano usciti da un film espressionista tedesco e governato da una regina viziosa (una mitica Susan Tyrrell) e da un re nano ninfomane, interpretato da Hervé Villechaize, impresso nella nostra mente indimenticabilmente come “Tattoo” nella serie Fantasilandia. La Sesta Dimensione è abitata da ogni genere di stramberia a partire da un uomo/rospo in smoking, un gorilla in reggiseno, una principessa in fulminante topless, Joe Spinell in libera uscita da “Maniac”, i deliranti Kipper Kids (vedere per credere), drag queens, uomini/pollo dalle incerte tendenze e soprattutto da Satana, un travolgente Danny Elfman in smoking bianco con coda e cravatta che canta, in perfetto stile Cab Calloway, una memorabile versione di Minnie the Moocher Raccontare la trama è sminuente perché il film va vissuto e goduto soprattutto nei siparietti musicali, assolutamente godibili e spassosi (ovvio se si è in possesso dell’adeguato sense of humour), che vanno dallo swing al jazz alla latino-americana. Certo la recitazione è spesso dilettantesca (eccetto Susan Tyrrell che come Bitch Queen è esemplare), ma va considerato che l’unico attore pagato del cast fu Hervé e viste le intenzioni forse ciò era voluto. Da ricordare l’uomo lampadario/candeliere sospeso al soffitto sopra la tavola imbandita dei due regnanti, in seguito trasformato in scheletro. Scena cult: quella in cui Hervé cammina sulla tavola imbandita per tuffarsi tra le gambe della libidinosa regina. Con questa pellicola Danny Elfman, ora stimato compositore di Hollywood e marito di Bridget Fonda, getta le basi per la sua futura collaborazione con Tim Burton, che vedendo questo film deciderà di fare il regista, chiamando poi Elfman per le musiche del suo esordio “Pee-Wee’s Big Adventure”. Il sodalizio tra i due porterà al capolavoro “Nightmare before Christmas”, in cui tra l’altro sono evidenti non pochi parallelismi con questo, ingiustamente ignorato, “Forbidden Zone”. (Samuele Lanzarotti)
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FOCUS ON:
Gordon Willis, The Prince of the Darkness di Emanuele Palomba
Quando, nel 1982, ricevette finalmente la sua prima nomination all’Oscar per il suo lavoro nel film Zelig, Gordon Willis si disse «onorato». E dopo una breve pausa aggiunse, non senza una certa dose di sarcasmo: «ma sono anche sorpreso». Willis avrebbe infatti potuto interpretare tranquillamente per la Academy il ruolo di “uomo invisibile” durante tutti gli anni Settanta: sebbene poco acclamato, il suo lavoro era però ben visibile agli occhi di tutti gli amanti del Cinema. Egli, in quella decade, fu direttore della fotografia di alcuni capolavori assoluti come Il Padrino (parte prima e seconda, 1972-74), Tutti gli uomini del presidente (1976), Io & Annie (1977), Manhattan (1979), solo per citare i più acclamati. Dieci anni che, per molti, sarebbero valsi un’intera carriera; e sembra davvero incomprensibile il motivo per cui sino al 1982 non abbia potuto vantare neanche una nomination – può consolarlo il fatto di essere stato in ottima compagnia, con Hitchcock e Kubrick, nel club degli snobbati dagli Oscar. La sua scarsa popolarità durante i seventies può essere, semplicemente, spiegata dal fatto che Willis è stato un eminente rappresentante della contro-cultura hollywoodiana: fu infatti pioniere di un nuovo modo di intendere la fotografia, con rivoluzionarie tecniche visive di narrazione, come la tendenza ad utilizzare, per creare atmosfera, una inedita illuminazione sempre meno marcata – da qui il suo soprannome, The Prince of Darkness. La luce era però libera di esplodere, attraverso una finestra, in tutta la sua lucentezza e luminosità, con immagini sovraesposte e, in generale, conferendo un alterato e particolarissimo stile ad ogni scena. Willis era a capo di quella nuova ondata di direttori della fotografia che stava cambiando radicalmente la loro arte. Ne Il Padrino, ad esempio, decise di nascondere gli occhi di Marlon Brando, in modo da impedire agli spettatori di comprenderne i suoi reali sentimenti e sensazioni. «Ancora non mi capacito delle reazioni» disse Brando «le persone si meravigliano: ‘Non riesco a vedere i suoi occhi!’». In effetti gli occhi non sono visibili solo nel dieci percento del film, ma in quei momenti Willis decide, come con uno schioccar di dita, di impedire l’accesso ai pensieri e all’anima del padrino. Una scelta a dir poco rivoluzionaria. Ma questa non è l’unica caratteristica che rende Willis “diverso” dagli altri operatori hollywoodiani: vive sulla East Coast, dove ha realizzato alcuni dei suoi migliori lavori, ed è convinto che la figura del direttore della fotografia non debba essere solo “di contorno”, ma possa invece ritagliarsi un ruolo da protagonista in un film – Manhattan ne è un clamoroso esempio. Molti direttori della fotografia della vecchia scuola lo hanno sempre considerato “fortunato”, perché libero di fare scelte estreme che in molti casi sarebbero valse solo un licenziamento…
ma il tempo è stato galantuomo, e dopo aver ricevuto il prestigioso premio alla carriera della ASC (American Society of Cinematographers), è stato acclamato come «il miglior direttore della fotografia che lavora in America oggi. Nessuna discussione» [Masters of Light, 1984, Dennis Schaefer, Larry Salvato]. Una opinione soggettiva, certo, ma è indubbio che Willis abbia influenzato significativamente l’arte della fotografia cinematografica, e la sua realizzazione tecnica. Mentre girava Il Padrino, ad esempio, Willis creò una patina dorata divenuta di fatto parte integrante della struttura del film. Insieme ai costumi e all’ostentata ricchezza, l’atmosfera che riuscì ad inventare divenne una efficace metafora visiva per l’epoca in cui il film era ambientato. Willis non ha mai avuto l’arroganza di sostenere che il “concetto artistico” fosse tutto nella fotografia: il lavoro manuale è la vera base della sua professione. Come egli stesso ha detto: «L’arte viene dal lavoro manuale…per esempio, puoi anche avere un’idea geniale per un dipinto, ma poi, sei in grado di trasformarla, praticamente, in un quadro? Se dici di no, la tua idea è senza valore perché non c’è modo di realizzarla. È la capacità di mettere in pratica le tue idee che ti rende libero». Willis è letteralmente cresciuto nell’industria cinematografica. Abbandonato presto il fisiologico sogno di divenire un attore, iniziò ad interessarsi alla luce ed al set design. Dopo aver partecipato alla Guerra di Corea, da documentarista embedded, come diremmo oggi, nel 1956 tornò a New York dove iniziò la sua carriera nel fiorente mondo della TV. Tra una pubblicità ed un documentario (esperienze che lo formarono profondamente), il suo talento iniziò ad essere notato, esordendo come direttore della fotografia nel lungometraggio End of the Road (1969). Questo film fu un vero spartiacque nella sua carriera, tanto che nei successivi tre anni lavorò in ben nove progetti, l’ultimo dei quali fu proprio Il Padrino, di Francis Ford Coppola. Come affermato dallo stesso Willis: «Gli studenti a volte mi chiedono come ho iniziato, e io gli rispondo che, certo, la fortuna è una fattore importante, ma devi essere in grado di approfittare della tua fortuna…». Nonostante avesse già realizzato diverse opere interessanti prima de Il Padrino, con quest’ultimo raggiunse le luci della ribalta. La pellicola, che inizialmente avrebbe dovuto solo essere un film d’exploitation ispirato all’opera di Mario Puzo, si trasformò presto, grazie al talento di Coppola, in un capolavoro del cinema tout-court. Un classico. Willis ottenne la sua seconda nomination all’Oscar proprio grazie alla terza, e sicuramente meno riuscita, parte de Il Padrino (1990), quasi come risarcimento per i mancati riconoscimenti ai primi due film della trilogia. La fotografia infatti fu fedele a quella delle precedenti pellicole, ma l’attesa
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era enorme, «come chiedere a Michelangelo di riaffrescare la Cappella Sistina». Per primo Willis aveva cambiato l’uso dei punti di luce e dei contrasti, come nella sequenza che passa dalla briosa, luminosissima scena del matrimonio a quella cupa e minacciosa ambientata all’interno dello studio del padrino, che siede nell’oscurità. Nella terza parte, utilizzò gli stessi contrasti di luce ed ombra, rendendo la camera spesso uno spettatore immobile dell’azione. Scelse poi di contenere le immagini in uno spazio stretto, utilizzando lenti focali da 40 a 75mm. Oltre a quella con Coppola, anche la collaborazione con Woody Allen fu decisamente fruttuosa (otto pellicole, tra il 1977 e il 1985). Come dice Willis: «Allen aveva spesso una idea ben precisa, io mi sono solo limitato a realizzarle per lui». Fu infatti di Allen l’idea di girare Manhattan in bianco e nero, mentre Willis lo convinse ad alzare ulteriormente “l’asticella”, girando il film in formato widescreen. «Il bianco e nero era appropriato. Si tratta di una storia romantica, ambientata nella realtà. La nostra percezione di
Manhattan era basata su idee ispirate dalla musica di George Gershwin. Usammo la stessa logica nell’ideare l’atmosfera de Una commedia sexy in una notte di mezza estate. Era una calda luce estiva, per questo la tenemmo piuttosto giallastra». Oltre a Manhattan, il connubio Allen-Willis produsse altri film (come Zelig e Stardust Memory) in bianco e nero, adeguati per ambientazione e tematiche ad un look âgé. Willis, che si è ormai “ritirato” dal cinema (L’ombra del diavolo, 1997, è l’ultimo film a cui ha collaborato), oggi insegna tenendo lezioni per giovani aspiranti, ma la sua filosofia è la stessa che aveva definito anni prima, dopo quella famosa nomination all’Oscar: «Abilità manuale ed arte sono inseparabili. Se non stai pensando al perché fai qualcosa, qualcosa di importante sicuramente viene perso nel processo… devi essere consapevole di quale sia la tua idea in ogni ripresa». Adattamento italiano dell’articolo Willis Receives ASC Lifetime Achievement Award, www.theasc.com.
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mercoledì 06 Agosto 2008 EFFETTI COLLATERALI - Palazzo rosso (Archi) 19h30 - Aperitivo d’apertura ESCURSIONI SUL VULCANO - Piazza Scarcella 21h00 - Video intervista a Carlo Lizzani realizzata appositamente dal VolcanoFilmFestival 21h30 - Achtung banditi! di Carlo Lizzani, 1951. (95’) Introduce Giacomo Manzoli. 23h00 - Roma bene di Carlo Lizzani, 1971. (100’) Introduce Giacomo Manzoli.
Utero di Camila Marquez, Raul Fernando e Rebeca Ramos Garcia (bra) (4’) Infettami di Andrea Princivalli & animaclip (ita) (4’46’’) 44 di Massimo Fidanza (ita) (11’45’’) Incontri al buio di Gianfranco Esposito (ita) (16’) SUL BORDO DEL CRATERE - Piazza Scarcella 22h30 - Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, 2005. (110’) SUL BORDO DEL CRATERE- Palazzo rosso (Archi) 22h00 - Incontro con Antonio Martino. Pancevo_mitva grad di Antonio Martino, 2007. (30’)
SUL BORDO DEL CRATERE - Palazzo rosso (Archi) 22h30 - L’isola analogica di Francesco Raganato, 2007. (27’) 23h00 - Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi, 2007. (85’)
23h00 Incontro con Alessandro Gagliardo, Julie Ramaioli, Giuseppe Spina. Même père même mère di Alessandro Gagliardo, Julie Ramaioli, Giuseppe Spina, 2008. (80’)
LAVICA - Palazzo rosso (Archi) 01h00 - Marco Pianges - Live set audio-video.
LAVICA- Palazzo rosso (Archi) 01h00 - Dillinger è morto sonorizzazione e montaggio live del capolavoro di Marco Ferreri (1969) - K Loud (music) - ilcanediPavlov! (video) a seguire djset by K Loud (aka CL. Audio, Machine Jockey/ Ita) vjset by ilcanediPavlov!
giovedì 07 Agosto 2008 EFFETTI COLLATERALI- Palazzo rosso (Archi) 19h30 - Performance/azione a cura di Attraversamente. ESCURSIONI SUL VULCANO - Piazza Scarcella 21h30 - Banditi a Milano di Carlo Lizzani, 1968. (102’) Introduce Giacomo Manzoli 23h00 - Celluloide di Carlo Lizzani, 1995. (115’) Introduce Giacomo Manzoli SUL BORDO DEL CRATERE- Palazzo rosso (Archi) 22h30 - Incontro con Daniele Pilli, co-protagonista del film. Fine pena mai di Davide Barletti e Lorenzo Conte. (90’) LAVICA- Palazzo rosso (Archi) 01h00 - Da’wei - Live set
venerdì 08 Agosto 2008 EFFETTI COLLATERALI- Palazzo rosso (Archi) 19h30 - Malastrada.film - presentazione centro di creazione e diffusione cinematografica. LAPILLI (fuori concorso) - Piazza Scarcella 21h30 Storia della Sicilia in cento secondi di Salvatore Scandurra (ita) (1’40’’)
sabato 09 Agosto 2008 EFFETTI COLLATERALI- Palazzo rosso (Archi) 19h30 - Anteprima mondiale - presentazione del documentario brasiliano, in uscita tra qualche mese, Abertura das portas (Opening doors) di Adriana Nolasco, Terencio Porto ed il gruppo Carambolas produçòes. Proiezione del promo e videointervista degli autori. LAPILLI (in concorso) - Piazza Scarcella 21h30 600 sigarette dopo di Daniele Natali (ita) 23’54’’ Cactus di Alessandro Molatore (irl) 5’ Amelia di Chiara Idrusa Scrimieri (ita) 17’ Mofetas di Ines Enciso (esp/mar) 10’ Devoiko di Renaud Perrin (fra) 5’30’’ I colpevoli di Svevo Moltrasio (ita) 20’ L’oro rosso di Cesare Fragnelli (ita) 12’22’’ Nine seconds and twenty seven frames di Terencio Porto e Camila Marquez (bra) 4’ Lacreme napulitane di Francesco Satta (ita) 18’45’’ La moglie di Andrea Zaccariello (ita) 22’34’’ Made in Japan di Ciro Altàbas (bra) 5’ Murgia: un fenomeno carsico di Massimo Terlizzi (ita) (17’)
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SUL BORDO DEL CRATERE- Palazzo rosso (Archi) 22h00 - Incontro con Carmine Amoroso. Cover Boy di Carmine Amoroso, 2006. (97’) LAVICA- Palazzo rosso (Archi) 01h00 - Milano calibro 9 - REMIXED sonorizzazione audiovisiva dell’omonimo film di Fernando Di Leo (1972). K Loud (music) - DJCINEMA (video). (30’)
10 Agosto 2008 EFFETTI COLLATERALI- Palazzo rosso (Archi) 19h30 Aperitivo di chiusura LAPILLI (in concorso) - Piazza Scarcella 21h30 Botti ri pipi ardenti di Maria Maggiore (ita) 18’ Boletos por favor di Lucas Figueroa (esp) 14’ Ciao tesoro di Amedeo Procopio (ita) 10’30’’ Dvd di Ciro Altabàs (esp) 17’ Mantra d’attesa di Emanuele Policante e Vieri Brini (ita) 6’30’’ Memoires d’une famille cubaine di Yan Vega (cuba) 16’ Un lavoro serio di Eleonora Campanella (ita) 8’15’’ Monsieur Bordigon di Sara Colaone, Francesco Satta e Brane Solce (ita/slo) 2’34’’ Shadow worlds di Thomas Kutschker (ger) 15’ Vietato fermarsi di Pierluigi Ferrandini (ita) 8’34’’ 23h30 Premiazione cortometraggi vincitori di LAPILLI. Proiezione lavoro finale del workshop SOTTO IL VULCANO. SUL BORDO DEL CRATERE- Palazzo rosso (Archi) 22h00 - Incontro con Giuseppe Gagliardi. La vera leggenda di Tony Vilar di Giuseppe Gagliardi, 2006. (95’) LAVICA- Palazzo rosso (Archi) 01h00 - Fahrenheit Remixed - Beatwin ll film di François Truffaut, tratto dal romanzo di Ray Bradbury, viene rimontato in diretta con le tecniche di un vj set e contemporaneamente la colonna sonora originale viene mixata con la musica elettronica composta appositamente. Umberto Saraceni (video), Jan Maio (audio). a seguire djset di Jan Maio.
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“Passammo l’estate su una spiaggia solitaria e già arrivava l’eco di un cinema all’aperto…” (F.Battiato)
Scrivendo queste righe alzo gli occhi e vedo l’Etna in eruzione come un augurio di un nuovo fermento. Esplosioni di cinema Volcanico riversano sull’isola, anche quest’anno, colate di immagini, di idee e suggestioni. Il festival, giovane ma in netta crescita, dalla prima edizione è stato un continuo crescere di contenuti e di nuovi spazi dedicati ad essi, oltre che nel numero di presenze di pubblico. Il festival, indipendente e completamente gratuito, sostiene la formazione, resistendo con le proprie forze, grazie anche all’impegno del comune di Riposto. Una festa che porta sul territorio siciliano un contatto con il cinema possibile, con visioni e sogni che altrimenti resterebbero lontani; un momento d’incontro e di confronto con quanti fanno del cinema un’arte ed una professione, per cercare di creare un percorso dal quale iniziare a “fare cinema”. Il Volcano come possibilità d’indotto, oltre che festivaliero, anche formativo in una zona lontana dai maggiori centri cinematografici nazionali eppur piena di fermento, di passioni, di colori, di storie da raccontare, di talenti e ricca di set naturali. Un festival come questo vuole anche essere una sorta d’incontro e approccio ad un certo tipo di cinema di qualità che spesso passa dalle sale per pochissimo tempo o che per le poche copie distribuite, a volte, non arriva in molte città. Esso vuole essere un confronto tra giovani film maker e autori affermati, vuole trovare immagini e visioni nuove, linguaggi e metodi produttivi, vuole allacciare contatti e relazioni per ritrovare nel cinema ciò che siamo. Vuole anche essere collegamento e finestra sul mondo accogliendo temi e lavori spesso lontani da questi luoghi. Alla Terza edizione posso considerare che il Volcano non è un festival vetrina ma un momento di produzione culturale che nel futuro mi auguro diventi anche spinta e sostegno continuativo per una produzione cinematografica siciliana. Il festival si apre come ogni anno con l’inizio delle lezioni del workshop per ragazzi “Sotto il vulcano” che questa edizione ha come tema il “sacro e profano” e punterà alla creazione di un lavoro finale che stia tra la documentazione visiva e la video arte utilizzando, linguaggio iconografico e artigianalità visiva. E poi inizia la presentazione di quel cinema che considero “Cinema artigiano”, in quanto scelta di libertà che consiste nel lavorare al di fuori di alcune pressioni commerciali e contemporaneamente, se non soprattutto, privilegia il processo artistico al prodotto, l’atto di creazione all’opera finita.
Il Volcano si presenta anche quest’anno con le sue caratteristiche essenziali che lo fanno incandescente: tra le sezioni, il Premio Volcano del concorso internazionale per cortometraggi “Lapilli” che quest’anno vede presenti in selezione autori italiani circondati da lavori pervenuti dal Brasile, dalla Francia, dalla Germania, dall’Irlanda, dalla Spagna e da Cuba. La selezione presenta quest’anno, più che nelle passate edizioni, differenze di tecniche, oltre che una grande varietà di generi e linguaggi. La sezione dedicata a quei registi che stanno “Sul bordo del cratere” segue la sua linea a sostegno di opere prime, autoproduzioni, o particolari “imprese” che forse partono fuori mercato ma alla fine si fanno notare per l’innovazione o la ricerca, sia artistica che produttiva, per i temi trattati o le doti autoriali e cinematografiche. I film e i loro autori presenti quest’anno sono “Cover boy” di Carmine Amoroso - girato con un nuovo formato digitale hdv utilizzato per la prima volta per un lungometraggio -, “Fine pena mai” opera prima di Davide Barletti e Lorenzo Conte del collettivo romano di filmaker Fluid video crew, il pluripremiato, autoprodotto e anch’esso girato in digitale “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti, il mokumentary opera prima nel lungometraggio del giovane regista Giuseppe Gagliardi “la vera leggenda di Tony Vilar”e il documentario di Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose” incursione sentimentale e curiosa negli anni del femminismo. In questa sezione troveremo anche “L’isola analogica” di Francesco Raganato sperimentale documento sulle strane vicende dell’ isola di Alicudi, “Mème pére mème mére” - documentario di Malastrada.film realizzato in Burkina Faso e coprodotto da 760 produttori dal basso. Per chiudere la sezione, un documentario sostenuto da Videoinflussi e dal Volcano, girato nella città più inquinata d’Europa, “Pancevo_ mrtav grad” di Antonio Martino - autore già vincitore del premio “Ilaria Alpi” lo scorso anno con un altro documentario autoprodotto, “Gara de nord_copii de strada” e presentato al Volcano nel 2006. Nella sezione ‘Escursioni sul vulcano’, invece, seguiremo il percorso tracciato da Carlo Lizzani nel sentiero vulcanico della storia del cinema, attraverso le sue opere. L’autore su cui ci proponiamo lo studio, con la sua biografia artistica e professionale ci offre, da sola, un panorama di per sé esaustivo di ciò che è stata l’intera storia del cinema italiano. La sezione aprirà con un’intervista al grande regista realizzata
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appositamente per salutare il pubblico del festival e poi i film della retrospettiva saranno introdotti da Giacomo Manzoli, teorico di cinema italiano e docente all’università di Bologna. Per chiudere, già dalla scorsa edizione, la sezione che anima le notti stellate del festival, Lavica_ live performing area, luogo di sperimentazione e di apertura verso nuovi linguaggi visivi, dove tutte le sere dopo le proiezioni si alterneranno vj, filmaker, video artisti e musicisti invitati dal festival a presentare le loro opere di miscelazione dal vivo, di modo da attraversare i molteplici linguaggi del cinema. La terza edizione del VolcanoFilmFestival si preannuncia in un’eruzione scoppiettante fin dagli appuntamenti preserali, con Effetti Collaterali, attraverso le presentazioni, gli aperitivi, gli incontri e i dibattiti. Eventi speciali come la presentazione in anteprima mondiale del documentario brasiliano Abertura das portas (Opening doors) di Adriana Nolasco, Terencio Porto ed il gruppo Carambolas produçòes – documentario che si interroga su Rio de Janeiro: bella, calda e sexy o crudele, violenta e corrotta - e progetti di creazione e diffusione cinematografica, con gli ideatori, renderanno il dialogo più costruttivo. Presentata l’edizione di quest’anno, non mi resta che augurare agli artigiani del cinema, al pubblico, agli appassionati, agli addetti ai lavori di godersi la festa della settima arte, nella sua versione popolare, seppur di nicchia, oltre che l’incantevole set naturale nel quale il festival si svolge. Peppe Cammarata Direttore artistico Volcano Film Festival
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BOTTI RI PIPI ARDENTI
di Maria Maggiore (Italia/2007, 18’) interpreti: Giovanni Mirabella, Rita Foti, Nelluccia Giammona, Turi Vicari, Salvatore Valastro, Santo Valastro, D’ambra Giuseppe, Nino Buzzurri
Questo lavoro vuole essere una sorta di rivisitazione del film La terra trema che Luchino Visconti gira ad Acitrezza nel 1948. Incontrando e intervistando gli attori che parteciparono a questa esperienza, nel tentativo di far trasparire la loro dignitosa semplicità, i loro modi spontanei, le loro parole schiette.
CACTUS
di Alessandro Molatore (Irlanda/2007, 5’) interpreti: James J. Akpotor, Gorge Seremba, Eileen Fennel Cactus è un piccolo esemplare di assurdità. E’ una commedia surreale nella quale il trasporto di un inusuale oggetto interagisce irrazionalmente con la varietà della vita quotidiana di Dublino.
CIAO TESORO
di Amedeo Procopio (Italia/2008, 10’) interpreti: Andrea Tibaldi, Marina Remi, Elisabetta Ferrari, Gerardo Maffei
Un locale notturno con dei loghi misteriosi..Una danzatrice del ventre che gioca con veli dorati..Un uomo, visibilmente emozionato, propone a una donna, che assiste allo spettacolo con un’amica, di andare a letto con lui entro un’ora.
DEVOIKO
di Renaud Perrin (Francia/2008, 5’)
Un uomo parte per un viaggio, una donna rimane sola. La memoria degli altri si offusca piano piano.
Lapilli
DVD
di Ciro Altabàs (Spagna/2006, 17’) interpreti: César Camino, Carlos Martìnez, Sara Montalvo
CONCORSO CORTI Il concorso Lapilli, aperto a filmaker e rigisti di qualsiasi nazionalità ed età, crea una vetrina per la diffusione, soprattutto, di opere che utilizzano nuove tecniche e tecnologie, nel racconto e nell’espressione cinematografica. Come lapilli incandescenti i cortometraggi selezionati mostreranno il grande potenziale comunicativo insito anche in opere di breve durata. La giuria di Lapilli, quest’anno, sarà composta da: DAVIDE BARLETTI, regista - FluidVideoCrew, STEFANO SARDO, sceneggiatore, musicista, direttore artistico di CortoinBra e SlowFoodonFilm, STEFANO GILARDINO, scrittore / giornalista musicale e redattore di Rock Sound, LUCA BUSSO, regista, direttore artistico di CortoinBra e coordinatore artistico di SlowFoodonFilm e da altri professionisti del settore.
Questo cortometraggio include: selezioni di scene / trailer / selezioni di scene tagliate / finali alternativi / scene eliminate / videoclip / inchiesta su “Cos’è un freak?” / commento audio / selezione dei personaggi e una storia lui-incontralei.
I COLPEVOLI
di Svevo Moltrasio (Italia/2007, 20’) interpreti: Stefano Abbati, Edy Angelillo, Riccardo Zinna, Edoardo Pesce, Sara Platania
In una villa di campagna si sta celebrando una festa in onore di Emanuele. Ci sono i suoi amici e la sua famiglia al completo, ma il festeggiato sembra essere interessato a qualcos’altro e tarda a farsi vedere. Quando finalmente si presenta agli invitati, sembra nascondere un inquietante segreto…
L’ORO ROSSO
di Cesare Fragnelli (Italia/2007, 12’) interpreti: Alessandro Haber, Antonella Bavaro, Michele Sinfisi, Elena Di Marco, Alexandru Vicu
Erika, fuggita dalla Romania diversi anni prima, vive la sua vita di routine come una casalinga qualunque a sud, nella regione adriatica più ricca e contraddittoria: la Puglia. Ma la sua vita, il suo passato non sono quelli di una casalinga comune.
>>> selezionati per il concorso:
600 SIGARETTE DOPO
di Daniele Natali (Italia/2007, 24’) interpreti: Lidia Vitale, Andrea Bruschi
Una donna in crisi esistenziale decide, attraverso un gesto estremo, di mettere in atto una piccola rivoluzione nella propria vita. Fuma 600 sigarette una dopo l’altra, senza soluzione di continuità. Il giorno in cui sta per accendere l’ultima sigaretta, suona alla porta uno strano venditore…
AMELIA
di Chiara Idrusa Scrimieri (Italia/2007, 17’) interpreti: Amelia Arigliani, Giuseppina Stametra
Il ricco mondo interiore di Amelia le permette di inventare una vecchiaia ironica e fantasiosa, proiettandosi all’esterno dei propri pochi metri quadrati di spazio vitale con la forza e l’energia dell’immaginazione. Così Amelia, quasi sempre seduta al tavolo della propria cucina, passa il tempo, o aspetta che il tempo passi, a 94 anni. Scrive, legge, si soffia il naso, lancia un’occhiata miope alla televisione, fa ginnastica. Sogna di stare in un’isola deserta, sola e nuda, o immersa nell’acqua, come da giovane…
BOLETOS POR FAVOR
di Lucas Figueroa (Spagna/2006, 14’) interpreti: Antonio Regueiro, Tomas Saez, Mariano Vricella Un treno, una persecuzione, solo un modo di scappare...
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LA MOGLIE
VIETATO FERMARSI
Un marito e una moglie. Bella e innamorata. E’ il loro anniversario. Un regalo per lei. Una casetta sul mare, isolata e romantica. Due giorni insieme e lontano da tutti. Ma quel regalo per la moglie potrebbe essere l’ultimo, terribile appuntamento.
Un giovane contadino si alza ogni mattina alle 4:30 per andare a lavorare nei campi. Ma un giorno il ragazzo si troverà a dover difendere i propri diritti, così come tentò di fare suo nonno nel 1948.
di Andrea Zaccariello (Italia/2007, 23’) interpreti: Enrico Silvestrin, Valeria Solarino e Renato Remotti
di Pierluigi Ferrandini (Italia/2008, 8’) interpreti: Antonio Iandolo, Andrea Magistrale
>>> fuori concorso:
LACREME NAPULITANE
di Francesco Satta (Italia/2007, 18’) interpreti: Antonio Allocca, Dario Oppido
Alla vigilia di Natale, su un treno che parte da una Napoli da cartolina e diretto a Milano, si incontrano due personaggi molto caratteristici e decisamente agli antipodi: un anziano signore, prototipo del simpatico rompiscatole napoletano, e un ingegnere milanese in viaggio d’affari. Costretti all’intimità dai ristretti spazi del treno, il contrasto fra i loro caratteri originerà la comicità e il patetismo tipici della classica commedia all’italiana, genere a cui il corto rende omaggio con un deliberato gioco sui cliché.
MADE IN JAPAN
di Ciro Altabàs (Spagna/2007, 5’) interpreti: Ciro Altabàs, Irene Gonzales Paulos
“Mia madre mi ha confessato che quel signore che io credevo essere mio padre non era mio padre…”
MANTRA D’ATTESA
di Emanuele Policante e Vieri Brini (Italia/2007, 6’) interpreti: Rodolfo Mongitore, Palmira Galasso (voce) L’attesa in una sala d’aspetto si può rivelare lunga se non letale. L’informatore farmaceutico ogni giorno vaga da una sala all’altra e aspetta il suo turno; ed intanto che fa? Ascolta: le chiacchiere, i dolori e le lamentele dei pazienti. Arriverà anche il suo turno.
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di Massimo Fidanza (Italia/2008, 11’) interpreti: Daniele Zappalà, Samantha Intelisano, Janosh Cappello, Dott. Giovanni Parisi, personale e ragazzi detenuti IPM
Un corto realizzato quasi del tutto all’interno di un carcere minorile; una trama nata come risposta ai numerosi problemi posti dall’insolito contesto lavorativo, primo tra tutti, il dover celare per legge, l’identità dei detenuti minorenni coinvolti come attori. Tra documentario e finzione, tra narrazione e sogno, il corto gioca con l’opacità e la trasparenza della rappresentazione (narrazione), cinematografica, svelando a tratti per lo spettatore, la cornice metacomunicativa che la produce.
INCONTRI AL BUIO
di Gianfranco Esposito (Italia/2008, 16’) interpreti: IIb Liceo Classico, Polivalente Statale “Gandhi” di Casoria (Na)
Cinque storie “comuni” di liceali accomunati dall’uso scorretto e incontrollato di Internet, trovandosi spesso in situazioni più grandi di loro.
INFETTAMI
di Andrea Princivalli & Animaclip (Italia/2008, 5’)
Corto d’animazione che indaga le emozioni umane dettate del dolore e dall’incomunicabilità con la colonna sonora “Infettami” dei Soluzione.
MEMOIRES D’UNE FAMILLE CUBAINE
“STORIA DELLA SICILIA IN CENTO SECONDI”
Cortometraggio di fiction creato a partire da foto appartenenti ad un album fotografico di una famiglia cubana il cui destino è legato alla storia della Rivoluzione dal 1959 ad oggi.
Nello scarabocchio animato “Storia della Sicilia in cento secondi”, come suggerisce già il titolo, c’è da correre attraverso una narrazione incalzante e ipercompatta. Chi sapeva poco o nulla degli eventi narrati sarà forse sorpreso dal gran numero di conflitti, guerre, monarchie, dominazioni, martiri e delinquenze che hanno sventrato l’isola nei millenni. Consiglio di non battere mai le palpebre mentre si guarda il video: c’è il rischio di perdersi un secolo intero.
di Yan Vega (Cuba/2007, 16’)
MOFETAS
di Ines Enciso (Spagna-Marocco/2008, 10’) interpreti: Mostafa Abdeslam, Mohamed Maltof
L’imbrunire nel porto di Tangeri. Karim e Aziz aspettano in silenzio. O ci provano…
MONSIEUR BORDIGON
di Sara Colaone e Francesco Satta (Italia-Slovenia/2007, 3’) animazione
Monsieur Bordigon è uno scarafaggio filosofico. Vive nei più sordidi recessi dei luoghi abitati dagli umani, esseri mortali esattamente come lui. Ma per Bordigon invece gli uomini sono Dei, capaci di decidere del suo destino con un capriccioso movimento del piede. Questione di punti di vista, forieri di innumerevoli equivoci tragicomici. E Bordigon naturalmente è l’uomo. Con lui condivide pene, dolori, gioie, aspirazioni; sentimenti, amori, fede, speranza. Perché Bordigon spera, ed è dunque il più umano di tutti gli scarafaggi.
di Turi Scandurra (Italia/2008, 100”)
UTERO
di Raul Fernando, Camila Marquez, Rebecca Ramos Garci (Brasile/2001, 4’) interpreti: Pedro Rocha Pitta Resta aperto alle possibilità / sii un poco forte/ lasciati cadere nel nulla / sogna ad occhi aperti / resta sveglio nei sogni / sogna della realtà / sii reale quando finisce / resta a tuo agio fuori posto.
MURGIA: UN FENOMENO CARSICO di Massimo Terlizzi (Italia/2008, 17’)
Un viaggio insolito nell’altopiano della murgia barese, accompagnati da un autentico e bizzarro autista Pino Malerba, e dalla voce sensuale e ironica di Anna Rispoli
NINE SECONDS AND TWENTYSEVEN FRAMES di Camila Marquez e Terencio Porto (Brasile/2007, 4’) Una cerimonia. Un meeting. Un vuoto storico...
SHADOW WORLDS
di Thomas Kutschker (Germania/2008, 15’) Shadow worlds è un esperimento visivo sulle ombre. Le storie e le idee che compongono il film spaziano dagli antichi miti, le cui ombre erano entità autonome, a ombre e mondi paralleli della fisica quantistica.
UN LAVORO SERIO
di Eleonora Campanella (Italia/2006, 8’) interpreti: Sara Brugnolo, Danilo De Summa
Sara è un attrice. Si è appena trasferita in una nuova casa con il suo compagno. Attraverso tre telefonate racconta i suoi progetti futuri e i suoi stati d’animo in maniera differente. Cambiano gli interlocutori, cambiano l’umore, il tono della telefona..le emozioni che prova una giovane attrice nel voler credere in un mestiere. Un mestiere fatto di realtà e finzione.
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Sul bordo del cratere
Arriva un tempo in cui, per mantenere le proprie posizioni, occorre crescere e Antonio diverrà un esponente importante della mafia locale.
Il vento fa il suo giro
RASSEGNA LUNGOMETRAGGI
La rassegna di lungometraggi fuori concorso è la sezione dedicata a quei registi che stanno “sul bordo del cratere”. Attraverso di essa è rinnovato da parte del festival il sostegno ad opere prime, autoproduzioni, o particolari “imprese” che spesso partono fuori mercato ma alla fine si fanno notare per l’innovazione o la ricerca, sia artistica che produttiva, per i temi trattati o le doti autoriali e cinematografiche. Inoltre essa è un’occasione per creare un dibattito tra autori, giovani registi di corti/stagisti e pubblico sulle difficoltà produttive e distributive. Cover Boy - L’ultima rivoluzione
(Italia/2006) Regia: Carmine Amoroso; soggetto: Carmine Amoroso; sceneggiatura: Carmine Amoroso e Filippo Ascione; fotografia: Paolo Ferrari; montaggio: Luca Manes; musiche originali: Marco Falagiani, Okapi; scenografia: Maria Adele Conti, Biagio Fersini; costumi: Alessandro Bentivegna; effetti: Giuseppe Squillaci; interpreti: Eduard Gabia (Ioan), Luca Lionello (Michele); Chiara Caselli (Laura); Luciana Littizzetto (Luciana) prodotto da: Augusto Allegra, Giuliana Gamba e Arturo Paglia per Filand Srl; Isabella Cocuzza per Paco Cinematografica; distribuzione: Istituto Luce; durata: 97’. Ioan è rumeno, cresciuto in piena fase di transizione post-comunista e giunto in Italia alla ricerca di un futuro migliore. Michele, giovane precario italiano, vive sulla propria pelle le difficoltà del mondo del lavoro nell’epoca della flessibilità. Due vite vissute ai margini di una società basata sulla disuguaglianza, sulla competitività e sull’inasprimento dei conflitti. Alla feroce lotta quotidiana per la sopravvivenza Ioan e Michele oppongono il valore della amicizia e della solidarietà. Sarà proprio Michele a guidare Ioan verso la meta finale del suo viaggio.
Fine pena mai
(Italia/2008) Regia: Davide Barletti, Lorenzo Conte; soggetto: da un romanzo di Antonio Perrone, Massimiliano Di Mino, Pierpaolo Di Mino, Marco Saura, Davide Barletti; sceneggiatura: Massimiliano Di Mino, Pierpaolo Di Mino, Marco Saura; fotografia: Alberto Iannuzzi; montaggio: Roberto Missiroli, Paolo Petrucci; musiche originali: Brutopop, Antongiulio Galeandro; scenografia: Sabrina Balestra; costumi: Allegra Mori Ubaldini, Fiamma Benvignati; interpreti: Claudio Santamaria (Antonio Perrone), Valentina Cervi (Daniela Perrone), Daniele Pilli (Gianfranco), Giorgio Careccia (Daniele), Ippolito Chiarello (Nasino), Giancarlo Luce (l’Africano), Ugo Lops (il Bello), Danilo De Summa (brindisino), Giuseppe Ciciriello (brindisino), Lea Barletti (moglie di Nasino), Fabrizio Parenti (tenente), Simone Franco (pescatore), Fabrizio Pugliese (ristoratore); prodotto da: Amedeo Pagani e Daniele Mazzocca produzione: Classica SRL, Verdeoro SRL, Paradis Films; distribuzione: Mikado; durata: 90’. All’inizio degli anni Ottanta Antonio Perrone è il promettente primogenito di una benestante famiglia del sud Italia. Si innamora di una donna, Daniela, che diverrà sua moglie insieme sognano una vita all’insegna della conquista dei piaceri più evidenti che una società consumistica promette. Per raggiungerli si trasformano da giovani romantici in protagonisti del piccolo crimine di provincia, fatto di rapine e spaccio di droghe.
(Italia/2005) Regia: Giorgio Diritti; soggetto e sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla; fotografia: Roberto Cimatti; montaggio: Edu Crespo, Giorgio Diritti; musiche originali: Marco Biscarini, Daniele Furlati; scenografia: Vincenzo Berardi, Paolo Ludice, Saverio Mallieni; costumi: Raffaella Ciavarelli, Manuela Marzano; suono: Carlo Missidenti; interpreti: Thierry Toscan (Philippe), Alessandra Agosti (Chris), Dario Anghilante (Costanzo), Giovanni Foresti (Fausto), Caterina Damiano, Giacomino Allais, Daniele Mattalia, Ines Cavalcanti, Kevin Chiampo, Frédérique Chiampo, Emma Giusiano, Bruno Demaria; prodotto da: Simone Bachini, Mario Chemello, Giorgio Diritti; produzione: Aranciafilm, Imago Orbis; distribuzione: Aranciafilm; durata: 110′ A Chersogno, piccolo villaggio delle Alpi Occitane si trasferisce un pastore francese con la moglie, due figlie e le sue capre. Gli abitanti del villaggio, dopo una generosa accoglienza cominciano a sentire scomoda la presenza del nuovo arrivato. Gelosia e incomprensione prendono il sopravvento e, mentre la convivenza diventa sempre più difficili, tutto volge al peggio: la cantina dei formaggi si allaga e la moglie s’innamora dell’unico amico di famiglia.
La vera leggenda di Tony Vilar
(Argentina-Usa-Italia/2006) Regia: Giuseppe Gagliardi; soggetto: Peppe Voltarelli; sceneggiatura: Giuseppe Gagliardi, Peppe Voltarelli; fotografia: Michele Paradisi; montaggio: Gianluca Stuard; musiche originali: Peppe Voltarelli; interpreti: Peppe Voltarelli (Peppe), Totonno Chiappetta (Antonio Guaron), Cristina Mantis (Connie Catalano), Dario De Luca (Joey Ricciolo), Saverio La Ruina (Vinny Lucania), Roy Paci (Roy Paci); prodotto da: Avocado Pictures, TICO Film Company; produzione esecutiva: TICO Film Company; distribuzione: Metacinema; durata: 97’. Tony Vilar è stato uno dei più popolari cantanti sudamericani del dopoguerra: arrivò in Argentina da bambino, nei primi anni Cinquanta. Nel decennio successivo, si affermò in America Latina come star italiana del melodico. Celebri le sue versioni in spagnolo di hit di successo in Italia, fu il primo che portò al successo mondiale “Cuando calienta el sol”. Un cantautore italiano di oggi, decide di mettersi sulle sue tracce tra Buenos Aires e New York. La vera leggenda di Tony Vilar è un mockumentary musicale, un road-movie sulle tracce degli italiani d’oltreoceano.
Vogliamo anche le rose
(Italia/2007) Regia: Alina Marazzi; soggetto e sceneggiatura: Alina Marazzi; montaggio: Ilaria Fraioli; musiche originali: Ronin; scenografia: Gaia Giani; animazione e titoli: Cristina Seresini; sound designing: Benni Atria; interpreti: Anita Caprioli (voce diario di Anita), Teresa Saponangelo (voce diario di Teresa); Valentina Carnelutti (voce diario di Valentina) prodotto da: Gianfilippo Pedote e Francesco Virga; produzione: MIR Cinematografica con Rai Cinema, in coproduzione con Ventura Film e RTSI - Televisione Svizzera, in associazione con Fox Channels Italy; distribuzione: Mikado; durata: 85′ Il film ripercorre gli anni della liberazione sessuale femminile e per
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numerosette - luglio/agosto 2008
farlo usa immagini di repertorio, filmati in super8, immagini delle Teche Rai e della Cineteca di Bologna, oltre a film sperimentali e testi tratti dai diari dell’Archivio di Pieve Santo Stefano. Non mancano lettere e conversazioni con le testimoni di quegli anni, foto dell’epoca, fotoromanzi e riviste. Ma tutte queste immagini vengono intercalate a tre percorsi individuali vissuti a Roma, quelli di Anita, Teresa e Valentina, che scrivono le loro memorie nel 1967, nel ‘75 e nel ‘79. Prestano loro la voce tre attrici, Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti, ma i volti sono quelli di ragazze dell’epoca, immortalate in casalinghi super8. Attraverso il loro sguardo e la loro presa di coscienza riviviamo quella rivoluzione.
Escursioni sul vulcano RETROSPETTIVA CARLO LIZZANI
(a cura di Giacomo Manzoli, teorico del cinema Italiano e docente presso l’Università di Bologna)
>>> documentari
L’Isola Analogica
Francesco G. Raganato, Italia/2007, 27’, Beta SP. L’Isola Analogica racconta alcune curiose vicende che hanno avuto luogo ad Alicudi, un’isola delle Eolie. Leggende, allucinazioni, usanze e superstizioni, causate dal consumo accidentale di segale cornuta, la pianta da cui si ricava l’LSD.
Même Pére Même Mére - Un film de voyage
di Alessandro Gagliardo, Julie Ramaioli, Giuseppe Spina. malastrada.film, S.A.C.R.E., 760 coproduttori dal basso. Francia/Italia/Burkina Faso 2008. 82 minuti. Formato: 16mm, DV Mi allontano dalla terra, dai luoghi ben conosciuti, dalle forme, dalla stesso impianto prospettico. Una voce mi insegue, forse la mia, forse quella di un paese. Arrivo in Burkina Faso, vago per le sue città, cerco di colmare il mio distacco dalle cose, dalla gente, di fermare i miei sensi, per vedere. Ma la rigidità delle differenze culturali e delle sue corruzioni, la sconosciuta schizzofrenia dei luoghi, mi imprigionano conducendomi ad uno stallo mentale che si trasforma in malattia, in allucinazione. Lentamente mi disintossico e accompagno Dario, uno dei miei compagni di percorso, in un villaggio del sud. Inizio ad aprire gli occhi e a rendermi conto di ciò che è celato in profondità, e nello stesso istante non vedo più l’uomo che mi sta davanti: le voci si confondono, le mie immagini si frantumano. La storia, la rivoluzione, il movimento di un paese, il suo pensiero, il monolite della tomba deserta di Thomas Sankara. Scappo dall’inferno di Ouagadougou, verso il nord, supero la tempesta e tutto diventa rarefatto. Incontro allora l’essere umano, ne sento la morte della sua storia, della sua politica, ne sfioro la calma sabbia del deserto.
Pančevo_Mrtav Grad di Antonio Martino, Serbia, 2007, 26’, Dv
Italia-Serbia/Italy-
A Pančevo ha sede il complesso industriale più grande della ex Yugoslavia. Questa città è anche nota per essere la città più inquinata d’Europa. Oggi si registrano livelli altissimi di benzene e di altre sostanze inquinanti. Intanto la gente di Pančevo si ammala di cancro ed i bambini affollano l’ospedale per gravi problemi respiratori. Tutto questo però non è bastato a convincere il governo serbo e l’Europa a trovare una soluzione a questo problema.
Se si dovesse scegliere un autore in grado di offrire - con la sua biografia artistica e professionale - un panorama esaustivo di ciò che è stata l’intera storia del cinema italiano, quel regista sarebbe Carlo Lizzani. Critico cinematografico negli anni del Fascismo, fra le righe di quel movimento fondato dal critico Umberto Barbaro e dal quale nascerà - sulle ceneri del regime - la grande stagione Neorealista. Una stagione alla quale Lizzani partecipa attivamente, come assistente di Rossellini, come sceneggiatore di De Santis, Lattuada, Vergano (ne Il sole anche di notte farà anche l’attore), come teorico e operatore culturale, attività che affiancherà costantemente a quella di cineasta, scrivendo la prima storia sistematica del cinema italiano e dirigendo - negli anni della rinascita - la Mostra del Cinema di Venezia. Anche come autore, nelle circa 70 opere della sua filmografia, Lizzani si segnala per la straordinaria capacità di mantenere una linea coerente - basata soprattutto sulla sobrietà e l’intelligenza della messa in scena - in una produzione estremamente eclettica: documentari: (Viaggio al sud, Facce dell’Asia che cambia), film di ispirazione neorealista (Achtung! Banditi!, Cronache di poveri amanti), commedie di costume (Lo svitato, La vita agra), film di impegno storico e civile (Roma bene, Kleinhoff Hotel, Celluloide), frequenti incursioni in generi come il western (Requiescant) e il poliziesco (Banditi a Milano, Torino nera), per concludere con una vasta esperienza in ambito televisivo, perfino eccessiva, qualitativamente, rispetto agli standard del mezzo, a dimostrazione della sua impossibilità a tradire la causa del cinema (Nucleo zero, Un’isola, Emma. Quattro storie di donne). ACHTUNG BANDITI!
Interpreti: Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto Maggiorani, Vittorio Duse, Pietro Tordi, Giuliano Montaldo, Rob Lowe. Genere: Guerra, b/n 95 minuti. Produzione: Italia. La guerra partigiana a Genova e nell’Appennino ligure, dall’organizzazione clandestina in città e nelle fabbriche fino alla battaglia aperta sui monti. Nel film è presente il passaggio dei repubblichini tra le file dei partigiani. Realizzato in formula cooperativa, è il primo film di Lizzani. Non è solo un capolavoro che tiene assieme le istanze neorealiste con quelle del cinema bellico e d’azione, tanto più sorprendente perché il racconto corale è orchestrato da due esordienti (lo stesso Lizzani e l’operatore Carlo di Palma). Il film è anche un caso unico in Italia di pellicola realizzata per la diretta volontà popolare su un tema – la resistenza – per nulla amato dall’establishment dell’epoca. Venne infatti concepito per volontà di Giuliano De Negri, dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, attraverso la Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici che promosse un vasto azionariato fra operai, contadini, studenti, impiegati ciascuno dei quali acquistò azioni del film per 500 lire, offrendo anche il proprio aiuto diretto alla realizzazione del film. (Giacomo Manzoli)
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BANDITI A MILANO
Interpreti: Gian Maria Volontà, Don Backy, Laura Solari, Carlo Gravina, Tomas Milian, Ray Lovelock, Ezio Sacrotti, Piero Mozzarella, Mararet Lee. Genere: Drammatico, colore 102 minuti. Produzione: Italia 1968. 5 settembre 1967, Milano. Quattro rapinatori escono dal Banco di Napoli di largo Zandonai. La polizia li bracca in un lunghissimo inseguimento-sparatoria che si lascia dietro una scia di sangue innocente. Instant movie girato a ridosso (7 mesi dopo) della cronaca. Frettoloso nell’analisi sociale, sembra appurato che falsifichi i fatti e i personaggi. Nella parte di Pietro Cavallero, capo di una banda sgominata alla fine del 1967 dopo 17 rapine, G. M. Volonté mima con bravura la parlata torinese, l’ambiguità, il sarcasmo e l’immaginazione del boss. Globo d’oro dell’Associazione Stampa Estera e Grolla d’oro come migliore attore. Colonna sonora di Luis Bacalov (dizionario dei film Morandini) Un film semplicemente pazzesco. Totalmente destrutturato sul piano narrativo e perfetto per la sua efficacia, che – si spinge – in termini di secchezza cronachistica – laddove neppure Francesco Rosi aveva mai osato arrivare. Uscito appena sei mesi dopo gli avvenimenti che racconta, “Banditi a Milano” trae dalla sua natura di istant-movie una energia formidabile. Questo gli consente di essere un film vertiginoso sul piano del ritmo e il primo vero gangster movie italiano in grado di rivaleggiare con i colleghi americani (fosse di Frankenheimer o di Friedkin nessuno si stupirebbe). Non a caso, sul suo successo (8° nella classifica assoluta degli incassi del ’68), verrà impostato un intero genere, chiamato (ingiustamente) poliziottesco. (Giacomo Manzoli)
ROMA BENE
Interpreti: Senta Berger, Vittorio Caprioli, Franco Fabrizi, Mario Feliciani, Philippe Leroy, Virna Lisi, Nino Manfredi, Michèle Marcire, Gastone Moschin. Genere: commedia. Durata: 100 minuti. Prodotto in Francia, Germania Ovest, Italia, 1971. Intorno al salotto della duchessa Silvia Santi, moglie dell’industriale Giorgio, ruotano alcuni dei personaggi più in vista dell’aristocrazia, della finanza, della politica e del clero: un ambiente apparentemente rispettabile, ma in realtà squallido e corrotto. Mentre Fellini ha sempre dimostrato, nei confronti di Roma, un atteggiamento ambivalente di profondo disprezzo e amore viscerale, l’essere romano di nascita concede a Lizzani la licenza di dimostrarsi feroce fino in fondo, proprio come i maestri della commedia grottesca (Risi e Monicelli) con cui il film si confronta. Il cast è formidabile – Manfredi, Leroy, Orsini, Moschin, Lisi, Berger, Mercier – e mostra di divertirsi parecchio a dar vita a questa girandola di tradimenti, intrighi e depravazioni che tratteggia una caricatura dei cosiddetti “poteri forti” in un periodo in cui il cinema trae dalla cronaca un forte odore di decomposizione sociale. Per disintossicarsi del film, Lizzani partià per la Cina dove resterà per ben sette mesi, ma una volta tornato completerà una sorta di trilogia metropolitana, rivolgendo uno sguardo altrettanto acuto a Torino e Milano. (Giacomo Manzoli)
CELLULOIDE
Interpreti: Giancarlo Giannini, Massimo Ghini, Anna Falchi, Lina Sastri, Christopher Walken, Andrea Aureli, Luigi Montini, Antonello Fassari, Angelo Pellegrino, Massimo Dapporto, Massimo Ciavarro, Francesco Gabriele, Mathilda May, Giuliano Montaldo. Genere biografico, colore 115 minuti. Produzione Italia, 1995. Dal libro omonimo (1983) dello sceneggiatore Ugo Pirro. Ricostruzione cinematografica, in chiave tragicomica, di come nacque e come si svolse la lavorazione di ‘Roma città aperta’ (1945), film spartiacque nella storia del cinema italiano. Lizzani ha evitato i rischi del macchiettiamo da museo delle cere: con impegno ed entusiasmo ha raggiunto momenti di grazia – anche per merito di L. Sastri e della splendida A. Magnani. Bravi anche M. Dapporto (il produttore P. Amato) e G. Giannini nel ruolo dello sceneggiatore Amidei. Dal romanzo omonimo di Ugo Pirro, grande sceneggiatore inventore del cinema di impegno civile e collaboratore storico dello stesso Lizzani. Un libro che ripercorre, in forma narrativa, la genesi del capolavoro che ha cambiato la storia del cinema (e non solo) in Italia. Racconta una storia seria con tono leggere, a seguito di una ricerca accuratissima il cui scopo è dimostrare che il film fu merito più dello sceneggiatore Amidei che del genio di Rossellini. Lizzani sposa questa tesi, ma è più che altro il preteso per un film sul cinema, un omaggio a Pirro e al cinema italiano, un affresco dell’Italia nell’immediato Dopoguerra, commosso e tenerissimo, nostalgico ma non patetico. (Giacomo Manzoli)
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LAVICA LIVE_SET A/V
Lavica è la sezione aperta alla sperimentazione visiva e ai nuovi linguaggi. Essa propone un innesto tra cinema e videoarte dedicandosi all’interazione musica/video, alle manipolazioni cinematografiche, alle contaminazioni e alla ricontestualizzazione di immaginari, il tutto dentro opere performative e liveset, che miscelano dal vivo suoni ed immagini. Marco Pianges, classe ’79, dal ‘97 utilizza il computer alla ricerca di “forme” sonore che distolgano l’attenzione dagli affetti. Nel 2005 intraprende brillantemente gli studi presso il conservatorio “A. Scontrino” di Trapani al corso di laurea “Musica e nuove tecnologie”. Nel 2008, appoggiato e incoraggiato da Maestri del calibro di D. Sciajno, rilascia il suo primo album Inside Implosion per la tedesca Retinascan. Le recensioni non tardano ad arrivare ed ultima, in ordine di tempo, quella del magazine “Blow Up”. La forma aperta dell’esecuzione caratterizza le sue performance e la formula di live processing viene applicata alla parte audio dei suoi ultimi lavori audiovisivi. Nella performance presentata al festival, Pianges musicherà in live un montaggio surrealista di Hans Richter, la cui colonna sonora è stata distrutta dai nazisti. Davide Severi, in arte Da’wei, musicista polistrumentista e compositore. Lavora nell’ambito della musica elettronica e delle colonne sonore. La sua musica è una spontanea e sincretica mescolanza di usi e culture musicali diverse e lontane, che armonicamente si intersecano a formare un tessuto sontuoso, variopinto ed in continua evoluzione. Melodia orientale, struttura rinascimentale ed estetica elettronica si fondono in dei ‘prismi’ tridimensionali costantemente in permutazione, alla ricerca di un ponte tra i matematicismi degli Autechre, la geometria di Bach e la trascendenza della musica indiana (in un discorso personale mai forzato e sempre istintivo). >>> performance A/V
Fahrenheit
Remixed - Beatwin - Fahrenheit Remixed è una video performance. Il film di François Truffaut viene rimontato in diretta con le tecniche di un vj set e, contemporaneamente, la colonna sonora originale viene mixata con la musica elettronica composta appositamente. Esso dura esattamente lo stesso tempo del film - la peculiarità di questo lavoro è l’approcio “live”, l’audio e il video vengono manipolati in diretta, seguendo il film. Beatwin è un progetto di Umberto Saraceni (alias Mister U/visuallab che da oltre 10 anni crea immaginario visivo per eventi live) e Jan Maio (Musicista in varie rockband: MGZ, LE SIGNORE, FEM. Compositore di computer music, ha collaborato con Gabriele Salvatores come violinista e dal 1999 al 2006 con Cubase Magazine - ora CM2 - come groovista e sound designer. Ha prodotto musica per spot e per film e cortometraggi). Il progetto nasce per sperimentare nella pratica quella che era una riflessione teorica sulla percezione di senso e sulla contaminazione tra ambiti diversi: riproporre film “cult” dotati di una forte componente iconografica rimontandoli, a tempo di musica elettronica, per proporli fuori dagli ambiti di appartenenza e di fruizione classici. MILANO CALIBRO 9 - REMIXED + DILLINGER E’ MORTO «Il talento fa quello che vuole, il genio quello che puo’. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento.» Carmelo Bene La pratica della (ri)sonorizzazione con le moderne tecnologie audiovideo fornite dalla rivoluzione digitale è divenuta una forma di produzione artistica sempre più diffusa. Dare una nuova forma acustica alla successione di immagini che compone un film, questa l’essenza della pratica. I film muti per statuto sono la tipologia filmica che più d’ogni
altra si è prestata nel tempo a questo tipo di sperimentazioni. Le più celebri sonorizzazioni sono senz’altro la (ri)lettura in chiave rock fatta da Giorgio Moroder del classico “Metropolis” di Friz Lang, il montaggio audio-visivo realizzato dall’americano Dj Spooky d’uno dei più grandi classici del cinema delle origini (“Nascita di una nazione”) ed ancora su “Metropolis” la fitta trama techno composta da Jeff Mills. Dal 2005 con l’avvento del fenomeno YouTube questa pratica è divenuta ancora più popolare, sono infatti ormai una miriade le opere appartenenti a questo (sub)genere disponibili grazie a quello che è, a tutti gli effetti, il più grande archivio d’immagini in movimento d’ogni tempo (se a questo sommiamo realtà quali Google Video, Revver, Vimeo, Daily Motion ed altri ancora ci possiamo davvero rendere conto della rivoluzione in atto). Dunque la (ri)sonorizzazione non è nulla d’originale, è una reazione spontanea all’incessante pioggia d’immagini in movimento alla quale (tutti) siamo esposti, un ombrello creativo per tutelarci dal diluvio che tanto più sarà tecnologicamente abbordabile, nella sua realizzazione tecnica, tanto più sarà pratica comune e banale. La vera dialettica innescata da questo fenomeno emergente dell’audiovideo non sarà allora quella fra copia ed originale, ma fra legale ed illegale, è il copyright la nuova frontiera dell’audiovideo ed è con il diritto d’autore che questi enormi archivi di immagini manipolate giocano oggi la partita più interessante, prefigurando quel che sarà (forse) il futuro del cinema. MILANO CALIBRO 9 – REMIXED sonorizzazione audiovisiva dell’omonimo film di Fernando Di Leo (1972). K Loud (music) - DJCINEMA (video). (30’) Abbiamo pensato di giocare con Milano calibro 9 perchè il film di Di Leo racconta una città cinica e spietata della quale a trentasei anni di distanza ritroviamo tutti i caratteri in questa nostra contemporaneità. Il montaggio prende le distanze dal bluff di Ugo Piazza, che per immagini non può essere raccontato, e si concentra sul denaro che, come belve fameliche, tutti i volti del film combattono per ottenere. La trama visiva è dunque contratta e resa lineare attraverso un montaggio che serra i tempi dell’azione, ne aumenta il ritmo e ne amplifica l’intensità visiva, rendendo però il doveroso (e cinèfilo) omaggio ad alcune sequenze intoccabili perché magistrali. Il tentativo è quello di (ri)costruire una trama a sé stante, autonoma dall’originale e, forse, più prossima ai romanzi milanesi di Giorgio Scerbanenco, anche grazie all’utilizzo di sovratitoli. Il tappeto sonoro sincronizzato dal vivo dal musicista e produttore K Loud (aka CL. Audio) è di matrice eminentemente techno realizzato con sonorità originali senza il ricorso al campionamento di brani preesistenti, una tessitura musicale che dialoga con i protagonisti del miglior noir della storia del cinema italiano. MC9 - remixed è un progetto artistico che intende portare nei club la storia di Ugo Piazza, le immagini di Fernando di Leo e le atmosfere di Giorgio Scerbanenco, per proporre alle giovani generazioni (ma non solo) una modalità differente di vivere il rituale collettivo del ballo. Milano calibro 9 - remixed sarà presentato in versione live il giorno 9 agosto alle ore 1.00, presso il Palazzo rosso di Archi. A seguire djset by K Loud (aka CL. Audio, Machine Jockey/Ita) & vjset by ilcanediPavlov! DILLINGER È MORTO sonorizzazione e montaggio live del capolavoro di Marco Ferreri (1969). K Loud (musix) ilcanediPavlov! (video). Se dal punto di vista produttivo con MC9 abbiamo proceduto dalle immagini alla musica con il progetto legato al film di Marco Ferreri compiamo il percorso inverso. Attraverso un campionamento della pellicola in 70 parti sono le immagini che cercano un contatto con la musica prodotta da K Loud. «Sfuggire a ciò che si è, questo è il sogno del protagonista di Dillinger è morto […]. Ferreri respira gli umori della contestazione con la leggerezza del buffone, ben sapendo di appartenere a quelle élite di “vitelloni della cultura” che non raggiungerà mai il popolo, in quanto priva di un linguaggio comune a coloro che possono fare la rivoluzione. Il linguaggio dunque. La depurazione drammaturgica iniziata con la rarefazione simbolica del profilmico in Break-up e proseguita con L’harem, […],
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raggiunge in Dillinger è morto il punto di non ritorno. Dopo essere stato diluito in un pomeriggio bucato (Break-up), il fantasma della durata si materializza ora nella notte illuminata di un uomo predicato in negativo (senza nome, senza voce), maschera opaca di quell’alienazione che affligge come un male incurabile la società dei consumi. Al racconto subentra l’osservazione, alla compressione la dilatazione, all’azione un’attesa senza oggetto. Icona dell’apatia borghese, Michel Piccoli inaugura il lungo sodalizio con Marco Ferreri, consegnandogli un corpo svuotato, dalla mimica implosa, marionetta pensante presente in ogni inquadratura a tal punto da apparire invisibile.» (Alberto Standola, Marco Ferreri, Il Castoro, 2004) Dillinger è morto sarà presentato in versione live il giorno 10 agosto alle ore 1.00, presso il Palazzo rosso di Archi. A seguire djset by K Loud (aka CL. Audio, Machine Jockey/Ita) & vjset by ilcanediPavlov! bio. DJCINEMA . Progetto per la valorizzazione del rapporto fra “dj culture” e cinema finalizzato alla costruzione di forme alternativa di fruizione e produzione culturale, ideato e sviluppato da Paola Catò e Alessio Galbiati. web: djcinema.wordpress.com - mail: djcinema@email.it K Loud . Claudio Vittori (conosciuto anche con il nome di CL. Audio). Produttore di musica elettronica, techno e ambientale, autore e compositore, sound designer per brand internazionali e performer live, fondatore dell’etichetta Machine Jockey. web: www.cielleaudio.com - www.myspace.com/cielleaudio www.myspace.com/machinejockey mail: info@cielleaudio.com - booking@cielleaudio.com ilcanediPavlov! . Progetto di Alessio Galbiati focalizzato sulla video performance live con una particolare attenzione all’immagine cinematica. Nato come “parte” di DJCINEMA è in breve divenuto un progetto performativo autonomo. web: www.myspace.com/ilcanedipavlov mail: ilcanedipavlov@gmail.com
SOTTO IL VULCANO WORKSHOP
Il workshop, per residenti in Sicialia sotto i 23 anni, è finalizzato all’affinamento di tecnica e teoria degli strumenti di videoripresa. Con l’aiuto dei relatori i ragazzi sono tenuti a scrivere e poi realizzare un video di circa cinque minuti, durante le giornate del festival, grazie alle possibilità che l’ormai affermata tecnologia digitale mette a disposizione anche di chi si approccia per la prima volta all’universo cinematografico. Il comune di Riposto e l’hinterland diventeranno così un set cinematografico all’aperto, i cittadini protagonisti, gli stagisti cinematografari. A chiusura dell’ultima serata del festival il lavoro del laboratorio formativo sarà proiettato alla presenza dei partecipanti, dei curatori, delle autorità locali, degli ospiti e degli spettatori. Quest’anno il tema del workshop sarà: sacro vs profano.
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IL FAVOLOSO MONDO DI MICHEL GONDRY di Emanuele Palomba
Se appartenete a quella popolazione di cinefili che, dopo aver visto un vhs preso a noleggio, lo riavvolgeva, con gran rispetto per ciò che quel gesto rappresentava, molto probabilmente adorerete questo film. “Be Kind Rewind” recita infatti l’insegna che campeggia sullo scalcinato negozio di noleggio video del vecchio signor Fletcher (Danny Glover), dove con un dollaro puoi portarti via per una sera il film che preferisci – rigorosamente in nostalgici vhs. Ad aiutarlo (per modo di dire) ci sono l’ “erede” Mike (Mos Def) e il suo fedele amico Jerry (Jack Black), ossessionato da teorie complottistiche e naïf quanto basta. Quest’ultimo, dopo l’ennesimo strambo tentativo di sabotare la vicina centrale elettrica, diventa carico di tanta energia magnetica da riuscire a rendere inutilizzabili tutte le cassette del negozio. Superato l’iniziale scoramento, i due, costretti da una zelante avventrice della videoteca (Mia Farrow), si decidono a sostituire il vhs mancante – Ghostbusters – con una loro reinterpretazione. Il filmino ha successo e la voce si sparge: presto ogni abitante di Passaic – ma anche forestieri arrivati addirittura da New York – vuole noleggiare la sua pellicola preferita in versione Sweded, cioè rigirata dai due ragazzi e dalla loro fortuita complice (Melonie Diaz), con i pochissimi mezzi a loro disposizione. C’è però una missione più grande da svolgere: salvare il negozio dalla imminente demolizione; forse un corale (e fittizio) documentario su Fats Waller, pianista jazz da sempre considerato uno del posto, riuscirà a compiere il miracolo.
Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm (Be Kind Rewind) Michel Gondry, 2007 (Usa), 98’ uscita italiana: 23 maggio 2008
Le opere di Michel Gondry (Eternal Sunshine of the Spotless Mind, L’arte del sogno) non sono mai banali. Che siano corti, clip musicali o film, l’autore francese dimostra sempre una tale, inesauribile, verve creativa da essere paradossalmente molto spesso incompreso, o comunque non apprezzato a sufficienza. Be Kind Rewind ne è un palese esempio: avvalendosi di un cast molto valido – Jack Black è una scossa elettrica che percorre tutto il film – Gondry inventa una favola surreale e divertente, che ha le radici nella sua più grande passione: le immagini in movimento, catturate da una camera. Non importa che si tratti di costosissimi macchinari di una produzione hollywoodiana o di una cinepresa d’antan che registra direttamente su vhs, la magia è la stessa. Così possiamo assistere alle imprese di Black e Def, che con la loro camera reinventano i cult del passato, da 2001: Odissea nello spazio a Rush Hour. Con improbabili ed ingegnosissimi effetti speciali, i due rivelano allo spettatore come siano l’inventiva e l’estro a fare davvero la differenza; e non importa se qualche Major è subito pronta a schiacciare (letteralmente) le loro ambizioni: nessuno potrà privarli della creatività. Nasce così quella piccola chicca rappresentata dal finto-documentario sulla vita di Fats Waller, mosaico di tante, ingenue, bugie, in grado forse di far sciogliere anche il cuore del palazzinaro che vuole cacciarli – ma niente tarallucci e vino finale, non temete. Gondry si diverte a scherzare sulla “sacralità” del cinema (quello vero, quello serio) concedendosi un’ora e mezzo di puro esercizio ludico, con una storia surreale ed un po’ nostalgica. E lo spettatore non può fare a meno di seguirlo (merita sicuramente una visita anche il sito del film, www.bekindrewind-themovie. com, dove potrete scoprire tutti i segreti dello Sweeding...). Pifferaio magico.
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REGIA: Michael Haneke CAST: Susanne Lothar, Ulrick Muhe, Frank Giering, Aro Frisch ANNO: 1997
Funny1997 Games di Alessandra Cavisi
TRAMA: Georg e Anna, insieme al loro bambino George vanno a passare un po’ di tempo nella loro casa sul lago. Ed è così che una tranquilla e borghese famiglia viene scossa da due ragazzi apparentemente gentili ed educati, che però nascondono un sadismo e una cattiveria incredibili.
ANALISI PERSONALE Quando qualcosa non va per il verso giusto, chi non vorrebbe avere a portata di mano un telecomando con cui mandare indietro il tempo e sistemare tutto? Haneke nel suo terribilmente angosciante e impressionante film, il telecomando lo mette in mano a coloro i quali sono detentori di una violenza inumana, talmente efferata da non poter essere nemmeno mostrata, ma solo immaginata o sfiorata. Le vittime sono dei ricchi villeggianti, con prole al seguito, che si stabiliscono nell’enorme villa sul lago per passare un po’ di tempo fra cene con amici ed escursioni in barca a vela. Di cosa si tratta quindi? Di una critica neanche troppo velata all’alta borghesia che vive solo di piacere e di lusso? O piuttosto siamo di fronte ad una profonda analisi dei meccanismi che stanno dietro alla crudeltà umana? Molto probabilmente non si tratta di nessuna delle due cose, dato che in realtà tutto ciò che accade in Funny games non ha un senso, né tantomeno una motivazione di fondo. Proprio per questo motivo la pellicola è stata più volte, e molto probabilmente ingiustamente dato che il paragone è a dir poco quasi blasfemo, paragonata al film culto di Kubrick, tale Arancia meccanica nel quale di sicuro si parlava di violenza e spietatezza, ma nel quale la profondità dello sguardo e del linguaggio cinematografico era di gran lunga superiore. In Funny games abbiamo la riproposizione di alcuni dei momenti salienti di Arancia meccanica, e cioè di quella violenza domestica che colpisce delle vittime ignare ed innocenti, che non possono difendersi soprattutto perché non conoscono la natura del male che li sta affliggendo. Piter e Paul, che si rivolgono l’uno all’altro chiamandosi anche
Tom e Gerry, hanno un aspetto talmente pulito da non dare adito a nessun tipo di sospetto da parte dello spettatore che comincia a preoccuparsi solo quando ad un certo punto non sente più abbaiare il cane di famiglia. Cominciano così i “giochi divertenti” che danno il titolo al film di Haneke. I due giovani studenti lindi e cortesi improvvisamente, e apparentemente a causa di una scortesia di Anna ma in realtà premeditatamente, cominciano a dare ampio sfogo dei propri più reconditi, ma neanche tanto, istinti uccidendo la povera bestia che aveva sicuramente fiutato il pericolo. Ma il cane non sarà di sicuro l’unica vittima impotente di questo duetto ben assortito. Padre madre e figlio dovranno affrontare, senza poter controbattere o poter chiedere aiuto, la prepotenza e l’eccessiva brutalità di Piter e Paul, i quali di quando in quando si rivolgono direttamente alla telecamera e quindi a noi spettatori cercando quella complicità di cui molto probabilmente si sentono bisognosi. La complicità molto probabilmente non arriva, anche perché si tende a condannare le loro efferate e immotivate azioni, mentre si esulta quando finalmente Anna riesce a prendere il fucile e a sparare ad uno dei due ragazzi, il più prepotente. E’ proprio qui che Haneke ci riporta con i piedi per terra, volendo molto probabilmente condannare anche quest’altro tipo di violenza perpetuata a fini difensivi. E’ proprio in questo momento che uno dei due ragazzi prende il telecomando e riavvolge il nastro, tornando indietro e stando più attento al fucile. Segno questo del fatto che nella vita non sempre il bene riesce a sopraffare il male, ma soprattutto che molto spesso il bene non è del tutto bene e il male non è del tutto male. Quando Georg chiede loro “Perché lo fate?”, questi rispondono “Perché no?”, lasciando lo spettatore allibito e al contempo spaesato. Perché quello che più colpisce in questa pellicola è proprio il suo alto grado di incidenza e di impressionabilità, nonostante tutti gli atti di più estrema violenza (l’uccisione del cane o quella del bambino, per citarne qualcuno) non vengono mai ripresi dalla mdp, ma solo sentiti tramite il sonoro o visti di
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sfuggita come delle ombre sfuggevoli. Ombre sfuggevoli come quelle che accompagnano i due “enfants terribles”, che tra una botta di mazza da golf e l’altra, ammiccano rivolgendosi alla telecamera, si abbuffano di cibarie varie e filosofeggiano sulla vita prendendosi gioco delle loro vittime. Vittime riprese a lungo con dei piani-sequenza che ce ne mostrano la sofferenza ed il delirio, ma anche il forte spirito di sopravvivenza che li porta a
cercare di fare di tutto pur di salvarsi la vita, nonostante forse non ci siano più ragioni per vivere. Funny games non permette profonde analisi o particolari riflessioni, ma è contraddistinto da una particolare carica dirompente che anche dopo il finale poco speranzoso, lascia lo spettatore scosso e quasi traumatizzato.
REGIA: Michael Haneke CAST: Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Devon Gearhart ANNO: 2007
Funny2007 Games di Alessandra Cavisi
TRAMA: Due giovani di bell’aspetto e ben educati, penetrano con una scusa nella casa delle vacanze di una ricca famiglia di borghesi e vi portano lo scompiglio e la violenza più inaudita, senza alcun motivo apparente.
ANALISI PERSONALE Funny games è un auto-remake, una copia perfetta di un proprio film girato dieci anni prima in patria. Una pellicola completamente identica alla sua precedente, scena dopo scena, sequenza dopo sequenza, dialogo dopo dialogo. Viene da chiedersi il perché di una tale operazione, a tratti rischiosa a tratti alquanto furba e semplice nella sua attuazione, almeno apparentemente. Che sia per motivi di soldi o di forti pressioni da parte di produttori e di alcuni attori protagonisti, che sia perché il regista ha voluto esportare la sua pellicola in America, dove si parla l’inglese, la lingua che esprime meglio delle altre la violenza (almeno a detta di Heneke); che sia per il semplice fatto di voler sostituire la protagonista dell’originale con la fascinosa, sensuale e conturbante Naomi Watts (anche produttrice del film), che sia per uno qualsiasi di questi motivi o per qualunque altra ragione a noi sconosciuta, il risultato finale è che il Funny games del 2007 non ha nulla da invidiare a quello del 1997, e viceversa. Riprodotto fedelmente anche per quanto attiene ad ambientazione, colonna sonora, atmosfere, messaggi impliciti ed espliciti che assumono una nuova connotazione proprio perché riproposti in un’epoca diversa e in un contesto sociale diverso, l’unica differenza è costituita dal cast, in questo caso stellare, nel caso precedente
costituito da attori meno celebri ma sicuramente ottimi nella loro interpretazione dello sgomento, della paura, del dolore, della sorpresa e dell’incredulità e infine della rassegnazione. Non sono da meno nemmeno gli attori chiamati in causa per il remake, a partire da Michael Pitt che dona al suo personaggio uno smalto differente rispetto all’attore che lo interpretava nel 1997, ma che esprime parimenti quelle che sono le credenze e le intenzioni del regista che sicuramente mette i suoi pensieri in bocca al biondino dalla parlantina sciolta che ammicca alla telecamera e al suo pubblico di “voyeur” altrettanto colpevoli di assistere, sempre più desiderosi di proseguire, allo scempio portato avanti dai due ragazzi con i guanti bianchi. Non possiamo non notare una sorta di condanna della spettacolarizzazione del dolore e della violenza, i continui riferimenti a questo ruolo assunto dallo spettatore ci conducono verso una profonda riflessione sul rapporto tra pubblico e oggetto di attenzione, in questo caso il cinema e quello che racconta. Particolarmente illuminante al riguardo, oltre alle citatissime scene in cui Michael Pitt si rivolge direttamente alla telecamera o a quella assolutamente funzionale del telecomando salvifico per i carnefici, è il dialogo finale che i due ragazzi hanno sulla barca a vela nella quale stanno trasportando Naomi Watts verso il suo destino.I due stanno filosofeggiando e ad un certo punto il più spietato e cinico si riferisce all’altro dicendo che se una cosa la vediamo sullo schermo, allora è reale, perché può accadere, ed in realtà è accaduta. Il regista ci sta dicendo che, nonostante siamo di fronte ad una finzione, la violenza è una cosa tangibile che sta davanti agli occhi di tutti quanti, e per
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quanto essa sia efferata e spaventosa, non si riesce comunque a distogliere lo sguardo. Ed è proprio per questo che tutti gli atti di più efferata malvagità avvengono sempre fuori campo e non vengono mai mostrati se non nei loro effetti. Ne possiamo intuire la portata solo attraverso i suoni e i rumori e i movimenti successivi dei protagonisti. Ed è così che l’uccisione a sangue freddo di una persona è palesata da un copioso schizzo di sangue che cola su un televisore o la morte di un cane un po’ fastidioso è resa tangibile dall’arrestarsi del suo incessante abbaiare. Non manca la sottile, ma sicuramente avvertibile, critica a quella borghesia sfacciatamente ricca che vive di agi e comodità, tra una partita a golf e un giro in barca a vela, e che progetta serate all’insegna di barbecue con amici altrettanto ricci ed altrettanto borghesi. Se decidi di andare a passare le vacanze in un posto tranquillo e tremendamente isolato, forse un po’ te la sei andata a cercare. Ed è così che i protagonisti, caduti vittime di un’inspiegabile ed indefinibile destino, rimangono inermi di fronte alla spietatezza dei due giovani, e
perdono tempo ad asciugare telefonini con il phon o a vestirsi per non mostrarsi in lingerie. Ma in realtà, nonostante questi accorgimenti che di sicuro ci allontanano emotivamente ed intellettualmente dai due coniugi, non possiamo non rimanere quasi pietrificati alla vista del loro immenso dolore mostrato in uno straordinario pianosequenza che ne analizza potentemente le interiorità più profonde. La musica classica, simbolo di classe e di appartenenza ad un ceto sociale culturalmente ed intellettualmente elevato, viene sostituita da una potentissima e disturbante musica metal che arriva a sconquassare e a destabilizzare le sicurezze e le certezze fino ad allora possedute. Fanny games è tutto questo, è una serie di intense ed interessantissime riflessioni sulla violenza, sul ruolo che ha la società in relazione ad essa, ma non solo che però, a discapito di quanto il trailer fuorviante tenta di comunicare, non ha nulla a che vedere con il famosissimo capolavoro di quel gran genio che è stato Stanley Kubrick.
La grafica al cinema. Intervista a Mathias Mazzetti, responsabile di “grafica & creatività” per Mediafilm. di Matteo Contin Mathias Mazzetti si diploma al liceo artistico e in Nuova Grafica e Illustrazione presso l’Istituto Superiore di Comunicazione di Milano. Lavora per cinque anni presso una piccola agenzia pubblicitaria e dal 2005 diventa Responsabile di grafica e creativita’ per la Mediafilm. L’approdo alla comunicazione per il cinema e’ stata una cosa pianificata o casuale? La scelta di lavorare per l’industria cinematografica e’ stata una casualita’ alla “Sliding doors”, per restare in tema. E’ curioso come il proprio percorso professionale possa improvvisamente mutare per puro caso... soprattutto per quanto mi riguarda, non essendo per nulla fatalista. Divenne un’occasione straordinaria per poter coniugare due grandi passioni, quella per grafica e cinema. Immagino quindi che da appassionato di cinema, entrare a far parte di un processo che ti coinvolge direttamente per la buona riuscita di un film (tra i tanti fattori, il marketing e’ uno di questi) sia stata una bella soddisfazione! Cos’e’ cambiato nel tuo modo di lavorare (se qualcosa e’ cambiato)? Penso che per realizzare la locandina di un film entrino in gioco fattori differenti dal realizzare un manifesto per un’automobile... Si’, si tratta indubbiamente di grandi soddisfazioni professionali. Tra l’altro ho la fortuna, lavorando per Mediafilm, di poter lavorare su titoli decisamente particolari e molto diversificati. Si lavora su horror, commedie, film d’autore, animation, con una varieta’ di soggetti e situazioni che escludono monotematicita’. E’ un lavoro appassionante e coinvolgente, una sfida comunque impegnativa visto che le dinamiche dello sviluppo creativo cambiano di volta in volta. Riguardo la realizzazione del manifesto finale, entrano in gioco i piu’ svariati fattori, anche se a dire il vero il processo creativo non e’ poi cosi’ differente rispetto a qualsiasi altro prodotto. Come per una qualsiasi campagna pubblicitaria, si lavora su target di riferimento, progetto d’impaginazione, sviluppo cromatico, copywriting etc. per raggiungere l’obiettivo: creare un “desiderio” e vendere il prodotto, cioe’ convincere la gente ad affollare le sale. Per quanto riguarda i film acquisiti all’estero ci vengono forniti i manifesti originali, ed il lavoro spesso e’ gia’ molto buono
se non ottimo, quindi in diversi casi e’ stata fatta la scelta di non modificare l’artwork originale. In altri casi invece le scelte sono state radicali, in modo tale da poter rivolgere il film ad un pubblico differente o piu’ vasto. Certo e’ che partire da zero rimane la vera sfida, la piu’ difficile ma anche la piu’ soddisfacente. Personalmente non vedo l’ora di poter mettere le mani su due titoli in uscita nelle sale nei prossimi mesi che offrono notevoli spunti creativi: si tratta di “Black sheep” e “Denti”, due horror originali ed intriganti. Cercheremo di stupire il pubblico, anche con strategie di marketing alternative. Lavorare su un film non e’ molto diverso rispetto al lancio promozionale di un qualsiasi altro prodotto, creativamente parlando. Intanto ci dai l’ottima notizie che due pellicole strane come “Black sheep” e “Denti” usciranno anche qui in Italia: ho avuto già occasione di vederli entrambi e devo dire che sono due buoni prodotti, soprattutto quest’ultimo. Gia’ con l’horror spagnolo “Rec” avete provato ad attuare strategie alternative di marketing, cosa che in Italia accade raramente. Com’e’ andato questo primo esperimento e come penserete di muovervi in futuro? “Rec” e’ un film a cui tenevamo molto, in quanto si tratta di un horror di indubbia qualita’. L’esperimento e’ andato molto bene. L’iniziativa piu’ divertente e’ stata la promozione in centro a Milano, con delle sedicenti pompiere atte a far urlare i passanti. Gli urli sono finiti successivamente su YouTube e saranno disponibili sotto forma di contenuto extra nell’uscita dvd/blu-ray del film. Edizioni ricchissime in cui ci stiamo sbizzarrendo per garantire agli appassionati il massimo della qualita’. Inoltre mi preme sottolineare che lo staff della distributrice Mediafilm e’ formato da giovani molto entusiasti e propositivi, lavorare in un contesto del genere e’ un vantaggio indiscutibile. Tornando al lancio cinematografico, e’ stata allestita una vetrina in un noto centro commerciale e degli stand con gadget omaggio in alcune sale cinematografiche che hanno avuto ottimi riscontri. Con “Denti” e “Black sheep” pero’ cercheremo di fare un ulteriore passo avanti per stupire e soddisfare gli amanti di questo genere di film, categoria di cui faccio indubbiamente parte!
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Allora per il lancio di “Denti” mi aspetto una comoda dentiera vaginale! A parte gli scherzi, trovo che la Mediafilm in questo ultimo anno abbia fatto un buon lavoro, e il coraggio di portare in Italia film come quelli gia’ citati o “Go go tales” di Abel Ferrara, la confermano come una nuova e interessante realta’ tutta italiana. Torniamo alle locandine: ci puoi illustrare il processo che sta dietro alla realizzazione di ogni manifesto? Un poster originale viene realizzato innanzitutto analizzando le immagini che vengono fornite. Si tratta di una fase cruciale, spesso le immagini sono poche o poco rilevanti, a quel punto bisogna escogitare le strategia migliore per ovviare al problema. Soprattutto per titoli minori rivolti direttamente all’home video capita di dover utilizzare sfondi ed immagini che nulla centrano con il film. Non e’ detto che sia un dramma: la cosa risulta spesso un pretesto per dare il meglio di se’. Fortunatamente per le produzioni maggiori le stills fornite sono numerose e di buona qualita’. La seconda fase e’ rivolta alla ricerca. Grazie ai numerosi database on line si possono consultare le proposte internazionali sul titolo e le locandine di maggior successo sul genere trattato. Questa e’ una fase importante, visto che molti posters internazionali sono vere proprie opere d’arte realizzate da professionisti straordinari. Senza dimenticare che spesso gli spunti migliori provengono dalle magnifiche locandine dell’era “pre” Photoshop, illustrate a mano e ormai nell’immaginario collettivo. Molta attenzione viene dedicata allo studio delle fonts da utilizzare e ai colori, determinanti per caratterizzare il film in maniera precisa. Poi si inizia a lavorare con layout e visual per decidere la strada da seguire ed infine full-immersion in Photoshop: si passa a dare forma all’idea. Hai accennato all’arte legata al manifesto cinematografico che, inconsciamente, rappresenta il modo di sentire di un determinato periodo storico. Mi vengono in mente i bellissimi primi piani delle locandine neorealiste, oppure quelle di gruppo dei grandi masterpiece come “Guerre stellari” o “Indiana Jones”. Volendo inquadrare indicativamente la grafica dei manifesti del nostro periodo, come la descriveresti?
al discorso “Cloverfield”, possiamo ammettere che Internet e’ l’unico terreno ancora vergine dove e’ possibile sperimentare nove forme di comunicazione e, perche’ no, trovare un nuovo tipo di pubblico, che segue con interesse ogni tappa della pellicola mesi e mesi prima dell’uscita nelle sale. Si crea cosi’ un’attesa nel pubblico veramente alta, aspettative che pero’ non sempre vengono esaudite (vedi ad esempio il recente e catastrofico insuccesso di “Speed racer”). Come pensi che si evolvera’ il web-marketing in relazione alle nuove uscite cinematografiche? Esatto, sono d’accordo con te. L’ottimo lavoro svolto in rete spesso non porta ai risultati sperati. Per quanto mi riguarda ho avuto un’esperienza diretta con il lancio di “Snakes on a plane”, straordinario successo su Internet, bassi riscontri in sala. La rete offre ottime opportunita’ promozionali ma da prendere con le pinze, un buon riscontro non significa certo garanzia di risultati al box office. L’evoluzione del web marketing sara’ in continua ascesa visto che gli utenti sono in crescita, connettersi e’ piu’ semplice e l’esigenza di informazione aumenta. Il futuro e’ sicuramente in rete. Tu ti occupi anche della progettazione della grafica dei prodotti home-video: che differenze ci sono tra manifesto e copertina di un DVD e perche’ spesso non sono uguali? Si tratta di esigenze commerciali. Si cerca di rilanciare il prodotto che non ha funzionato a pieno, oppure si cerca semplicemente di allargarne il target di riferimento, cercando di offrire un prodotto che possa suscitare interesse ad un numero maggiore di spettatori. Ad esempio, con l’uscita home video di “Feed” non potevamo proporre l’eccessivo art dell’uscita cinema (con la frase lancio “cannibalismo, obesita’, sesso gratuito: puoi digerirlo?”), sarebbe stato troppo limitativo, quindi abbiamo optato per una copertina decisamente piu’ soft/action rendendo il film piu’ thriller e meno splatter.
Piuttosto ridondante. C’e’ un livellamento qualitativo dovuto alle nuove tecnologie che semplificano notevolmente il modo di lavorare. Quindi vediamo molti manifesti di indubbia qualita’, pero’ molto simili. Oggi con Photoshop si fanno veri e propri miracoli, anche se il rischio e’ quello di abusarne creando delle vere e proprie mostruosita’ digitali. Allo stesso tempo pero’ le possibilita’ sono infinite, il giusto mix di idee e mezzi fa si che si possano ammirare delle opere straordinarie. Cito tra i miei preferiti il poster di “Hard candy”, straordinario! Parlando di guerrilla marketing abbiamo gia’ detto (sottointendendolo) che il manifesto cinematografico non e’ l’unico modo per pubblicizzare il film, anzi, solitamente e’ solo l’ultimo tassello di una strategia pubblicitaria piu’ estesa. In un’ideale classifica, quali metodi di marketing ritieni piu’ funzionali per “vendere” un film? Il discorso dipende direttamente dal budget a disposizione per la campagna pubblicitaria, ma trailer nelle sale ed in televisione rimangono i mezzi piu’ funzionali in assoluto. Con “Rec” vi sono stati ottimi riscontri anche su canali alternativi come YouTube, grazie a banner pubblicitari su portali e siti a tema. Operazioni di guerrilla marketing sono un mezzo promozionale interessante, creativo e sorprendente: non escludo che vengano attuate per la promozione di film di cui abbiamo parlato anche in precedenza, anche perchè non sempre c’e’ la disponibilita’ di budget “importanti”. Ho ammirato recentemente l’ottimo lavoro svolto con la comunicazione virale di “Cloverfield”, che con poco ha ottenuto molto. Infatti secondo me “Cloverfield” e’ piu’ interessante per l’hype che e’ riuscito a creare attorno a se’ piuttosto che per il film in se’. Citi YouTube e, insieme
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IL CINEMA SECONDO LA AMERICAN INTERNATIONAL PICTURES di Roberto Rippa
Heavy Traffic (USA, 1973) di Ralph Bakshi
Trama. Film d’animazione che mette in scena la vita quotidiana di Michael Corleone, ventiduenne fumettista sessualmente frustrato, figlio di un mafioso e di una psicopatica, in una New York violenta e oscura. Commento. Ralph Bakshi realizza Heavy Traffic nel 1973, ossia immediatamente dopo il successo del suo Fritz the Cat, il primo film d’animazione a venire classificato negli Stati Uniti come X, ossia alla stregua di un film pornografico. Bakshi cita apertamente come influenze il romanzo Last Exit to Brooklyn di Hubert Selby (portato in seguito sullo schermo da Uli Edel nel 1989), di cui si dice avesse tentato vanamente di acquistare i diritti, le opere del fotografo Robert Frank e la musica di John Coltrane. Funestato da numerose liti tra Bakshi e il co-produttore Steve Krantz (l’altro è Samuel Z. Arkoff), che a un certo punto lo licenzia e tenta invano di sostituirlo (salvo poi riassumerlo), Heavy Traffic è uno sguardo sul lato sordido di New York, lo stesso che verrà mostrato sullo schermo tre anni dopo da Martin Scorsese in Taxi Driver, e non lesina in quanto a sesso e violenza, mescolando personaggi reali e animati e usando spesso fotografie come sfondi per le azioni. Il film venne accolto in maniera trionfale dalla critica, ottenendo persino la benedizione di Charles Champlin che, sul New York Times, lo definì dotato di “furiosa energia, tanto spesso fastidioso da vedere quanto esilarante”. Pur discontinuo nell’umorismo nero che lo dovrebbe pervadere nelle intenzioni (smorzato in parte dal rimaneggiamento per ottenere una classificazione migliore dalla censura statunitense), Heavy Traffic rimane un’opera selvaggia e potente, tanto da non sfigurare al fianco delle prime opere di Abel Ferrara o a Mean Streets di Scorsese, non troppo curiosamente uscito nello stesso anno.
Ralph Bakshi Nome leggendario del cinema di animazione statunitense, Ralph Bakshi nasce ad Haifa (attualmente Israele), nel 1938. Giunto a New York, in fuga dalla Seconda guerra mondiale con la sua famiglia, frequenta la High School of Industrial Arts dove si diploma nel 1957. La gavetta effettuata presso gli studi Terrytoons lo portano ad essere animatore prima e regista quindi di una serie parodistica dei cartoni animati con supereroi come protagonisti dal titolo The Mighty Heroes. Trasferitosi nel 1967 alla Paramount, lavora alla serie animata di Spiderman e ad alcuni corti. È il produttore della serie Steve Krantz a suggerirgli di usare il fumetto di Robert Crumb Fritz the Cat come spunto per il suo primo lungometraggio animato. Uscito negli Stati Uniti con la classificazione censoria X (ossia quella destinata ai film pornografici), Fritz the Cat gode di una minore severità nella classificazione in Europa, dove viene distribuito con successo, raggiungendo l’incasso record - per un film di animazione dell’epoca - di 100 milioni di dollari. Il successo del primo lungometraggio permette a Bakshi di realizzare altri due progetti, Heavy Traffic e Coonskin, entrambi molto discussi ma bene accolti dalla critica. Nel 1977 e 1978, si dedica al genere fantasy, realizzando rispettivamente Wizards e la sua versione animata di The Lords of the Rings da Tolkien. Pensato inizialmente come un trilogia, i primi due capitoli vengono accorpati in un unico film e, malgrado il successo di quest ultimo (che ottiene un premio al Giffoni Film Festival nel 1980), la United Artists, poco convinta del progetto, rifiuta di finanziarne il seguito. Hey Good Lookin’, prodotto dalla Warner Brothers nel 1982, con la sua usuale commistione di animazione e cinema reale, non convince la produzione, che forza Bakshi a sostituire le immagini girate dal vero con sequenze animate.
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Dopo gli insuccessi di American Pop del 1981, e di Fire and Ice del 1983, realizzato in collaborazione con l’artista Frank Fazetta, Bakshi si dedica alla televisione, tornando quindi al cinema con Cool World nel 1992. Film che mescola animazione con personaggi reali, protagonista Kim Basinger, Cool World soffre di numerosi rimaneggiamenti in fase di produzione, tanto da portare il regista a disconoscerne la paternità. Attualmente Ralph Bakshi vive nel New Mexico dove si dedica alla pittura. Nell’aprile di questo anno, è stato pubblicato un volume sulla sua opera dal titolo Unfiltered: The Complete Ralph Bakshi (The Force Behind Fritz the Cat, Mighty Mouse, Cool World, and The Lord of the Rings), con prefazione di Quentin Tarantino. Il MoMA di New York ha acquisito la sua produzione cinematografica. (fonti: IMDb, Wikipedia) Collegamenti: Sito ufficiale di Ralph Bakshi: www.ralphbakshi.com
Heavy Traffic
Fotografia scattata da Ralph Bakshi per Heavy Traffic.
(USA, 1973) Regia e sceneggiatura: Ralph Bakshi Musiche: Ed Bogas, Ray Shanklin Fotografia: Ted C. Bemiller, Gregg Heschong Montaggio: Donald W. Ernst Interpreti principali: Joseph Kaufmann, Beverly Hope Atkinson, Frank DeKova, Terri Haven, Mary Dean Lauria. E con le voci di: Jacqueline Mills, Michael Brandon, Morton Lewis, Bill Striglos, Jay Lawrence, Lee Weaver, Phyllis Thompson, Kim Hamilton, Carol Graham, Candy Candido, Helene Winston, William Keene, Peter Hobbs, John Bleifer, Walt Gorney. 79’
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SHINING: DAL ROMANZO AL CINEMA. di Emanuele Palomba
«Il film è sempre meno bello del libro da cui è tratto». Questo discutibile adagio ricorre spesso quando ci si trova a commentare pellicole con sceneggiatura “non originale”, riadattamenti più o meno brillanti di opere letterarie. Anche in questo campo Stanley Kubrick ha dimostrato tutta la sua genialità: la maggior parte delle opere del cineasta americano (meno che i film degli esordi e 2001: Odissea nello spazio, da cui fu in seguito tratto un libro), sono state infatti sceneggiate riadattando romanzi non sempre particolarmente noti – fanno probabilmente eccezione Lolita e, per l’appunto, (The) Shining. Il romanzo fu pubblicato da Stephen King nel 1977 originariamente con il titolo Una splendida festa di morte e divenne ben presto parte della straripante biblioteca di Kubrick, alla ricerca di un soggetto interessante dopo aver girato Barry Lindon (1975). Sin dalla prima lettura, furono palesi le enormi potenzialità del romanzo scritto da questo giovane autore americano che si era già fatto conoscere dal cinema con la sua opera prima, Carrie (1974), scelta da Brian De Palma per uno dei suoi horrorsplatter degli esordi (Carrie - Lo sguardo di Satana, 1976). Come era già avvenuto in passato, il lavoro di Kubrick non si limitò ad una pedissequa riproduzione delle parole di King in immagini su celluloide, ma finì col diventare una vera e propria “riscrittura” del romanzo.
Il risultato finale fu un capolavoro, ancora oggi paradigma del cinema horror. L’Hotel degli orrori. La storia era diabolicamente semplice: un “quasi-scrittore” di nessuna speranza accetta di lavorare durante l’inverno come custode dell’imponente Overlook Hotel, portando con sé la moglie e il figlio dalle doti non proprio comuni. Benché il proprietario lo abbia avvertito riguardo le atroci vicissitudini capitate ai precedenti guardiani, Jack Torrance decide di accettare l’incarico, convinto che la solitudine e la quiete di quel posto possano anche aiutarlo a concludere il romanzo su cui lavora da una vita. Ma «all work and no play makes Jack a dull boy» (“il mattino ha l’oro in bocca”, nella versione italiana voluta da Kubrick) e ben presto l’amorevole padre di famiglia si trasforma nell’incubo peggiore per Wendy e Danny: una incarnazione del male che si annida da secoli nell’Overlook Hotel. Questione di punti di vista. Stephen King pone al centro del romanzo Danny e il suo dono, quella “luccicanza” (terribile traduzione dell’inglese shining) che dà il titolo al libro. Già prima dell’arrivo all’Overlook, iniziamo a conoscere il difficile rapporto che c’è tra Jack e Danny, e in particolare iniziamo ad intuire ciò che cova nel più profondo dell’animo del signor Torrance: frustrazione, senso di inadeguatezza, rabbia incontrollabile. Una volta giunti all’Hotel, e dopo aver conosciuto il bonario cuoco Hallorann che come Danny possiede lo “shining”, la vita del bambino sembra essere serena. Il padre scrive e lavora, la madre è tranquilla, e lui ha tantissimo spazio a disposizione per giocare ed esplorare. L’idillio è interrotto solo dopo un lungo prologo, quando l’inverno incombe e l’Overlook inizia a manifestarsi, attraverso un misterioso album dei ritagli, in tutta la sua malefica influenza.
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Ancora una volta è Danny ad essere al centro dell’attenzione: è lui l’unico a poter salvare la madre e sé stesso (contattando telepaticamente il fido Hallorann), è lui ad accorgersi della lenta ma inevitabile metamorfosi di Jack, ed è lui ad essere il vero “obbiettivo” della furia di ciò che si è impossessato del padre. E così, nell’epilogo, King “salva” Danny e sua madre, ma soprattutto salva Hallorann che, ritornato all’Overlook tra mille difficoltà, assiste all’esplosione del malefico hotel e riesce a resistere al suo alone tentatore. Hallorann sembra essere diventato un “padre” per Danny, tanto da accompagnarlo a pescare nelle ultime e idilliache pagine del libro; Jack è morto nell’esplosione dell’Overlook, e si defila dal racconto come un antagonista qualsiasi. La “rivoluzione copernicana” di Kubrick consiste nel porre al centro della narrazione il personaggio oggettivamente più carismatico, quel Jack Torrance che sembra disegnato su misura per l’omonimo Nicholson. L’attore americano non interpreta il suo personaggio, è il suo personaggio. Sin dalle prime scene assistiamo a un netto taglio rispetto al romanzo di King: il film tratta solo della parte essenziale della storia, eliminando introduzione ed eventi passati; e sin dalle prime scene è Jack ad essere il protagonista. Kubrick ci mostra l’evoluzione della sua crescente psicosi, e soprattutto il suo sempre maggior interesse per le misteriose forze che sembrano abitare da secoli l’Overlook. Danny (Danny Lloyd) è quasi una figura di secondo piano, così come la madre Wendy (Shelley Duvall) ed Hallorann (Scatman Crothers), personaggi utili soprattutto a mettere in risalto la metamorfosi di Jack, o addirittura sacrificati per mantenere massima la tensione (il cuoco viene ucciso proprio quando tutti pensiamo possa divenire il “salvatore della patria”). Anche l’epilogo è profondamente significativo: Kubrick “concede” a Danny e Wendy la fuga dall’Overlook, ma, ben diversamente dal romanzo di King, l’Hotel resta intatto in tutta la sua influenza; anzi se possibile la sua diabolica forza sembra essere aumentata, in quanto un nuovo spirito è entrato a far parte delle tante anime che lo custodiscono – magnifica la sequenza finale in cui vediamo Nicholson, ormai morto, che è inquietantemente apparso in una foto di sessant’anni prima affissa nell’ingresso dell’Hotel. Altro che idilliaci laghi dove pescare sereni e dimenticare le terribili esperienze passate: di Danny e Wendy non sapremo nulla, neanche se si sono effettivamente salvati; in compenso sappiamo che, ancora una volta, l’Overlook ha trionfato (il finale originale, poi tagliato, prevedeva di mostrarci i due sopravvissuti in un ospedale, salvi ma ancora consci della implacabile influenza dell’Hotel, che si manifestava attraverso quella palla già “protagonista” durante gli avvenimenti precedenti). Questione di particolari. Per motivi ancora oggi indecifrabili si possono riscontrare, nella trasformazione da romanzo a film, anche una serie di piccoli (e poco significativi ai fini della trama) cambiamenti, forse più frutto delle idiosincrasie di Kubrick piuttosto che di un lavoro sistematico sulla narrazione. Citando qualche esempio - quanto meno i più evidenti che può capitare di notare a chi ha letto in precedenza il romanzo – possiamo osservare come Wendy, espressamente descritta da King come una donna bionda, divenga la bruna Shelley Duvall (che visse parte della lavorazione del film come un incubo, fin troppo coinvolta dalla tragica situazione del suo alter ego), o come la misteriosa stanza 217 divenga la stanza 237 - in questo caso la spiegazione c’è, e il cambiamento fu dovuto
alle richieste dei proprietari dell’albergo (il Timberlane Lodge) in cui furono ambientati gli esterni; il direttore era impaurito dal fatto che nessun altro avrebbe più accettato di soggiornare nella loro suite 217… In effetti King si ritrovò in particolare disaccordo con Kubrick per quanto riguardava il casting: oltre a non preferire particolarmente la Duvall (che era di fatto l’esatto opposto del personaggio che immaginava, una bionda ex cheerleader che non aveva mai dovuto avere a che fare con problemi “reali”), lo scrittore americano fu inizialmente contrario anche alla scelta di Nicholson per il ruolo di Jack Torrance. La questione era che il protagonista di Qualcuno volò sul nido del cuculo (Milos Forman, 1975), risultava sin dai primissimi istanti della pellicola non particolarmente rassicurante, e dunque il suo climax di follia poteva apparire quasi “prevedibile”; King avrebbe preferito un attore dall’aspetto del tipico “bravo padre di famiglia” (in particolare Jack Palance), in modo da rendere ancora più sconvolgente l’evoluzione della sua psicosi. L’insostenibile leggerezza dell’essere (un regista). Scrive Stephen King nel suo On Writing – Autobiografia di un mestiere, che «una vecchia regola del teatro recita: “se c’è una pistola sulla mensola del caminetto nell’atto I, deve sparare nell’atto III”(…) altrimenti la cosa sa troppo di deus ex machina». Ogni indizio insomma, a tempo debito, deve essere posto all’attenzione dello spettatore, che si ritroverà a capirne il senso solo alla fine. Nel suo libro King si attiene rigorosamente a questa regola: ogni particolare, anche quelli apparentemente più insignificanti, trovano una spiegazione al termine del romanzo. E così la caldaia, sin dai primi momenti di narrazione ben tenuta in considerazione, “accompagnerà” Jack nella sua escalation di follia sino alla liberatoria esplosione finale; il cimitero indiano, su cui è stato edificato l’Overlook, sembra rappresentare una credibile spiegazione agli avvenimenti accaduti nell’Hotel; ogni “pezzo del puzzle” sembra trovare perfettamente il suo posto. È anche possibile comprendere appieno, pagina dopo pagina, la metamorfosi di Jack, il suo lento ma inesorabile abbandonarsi alla volontà dell’Overlook che lo condurrà ad attentare alla vita dei suoi familiari. King deve fornire questi dettagli, affinché il lettore possa comprendere ciò che effettivamente accade nella vita dei, credibilissimi, personaggi che ha delineato nelle pagine del suo romanzo. Al contrario, Kubrick non ha come scopo quello di raccontare una storia “valida” dal punto di vista della composizione narrativa; il suo principale obbiettivo è di dar vita ad un’opera d’arte, effimera, magari a tratti inconcludente o imperfetta, ma visivamente meravigliosa. In questo contesto possiamo comprendere il motivo per cui ignori bellamente il cimitero indiano - citato quasi distrattamente e senza ulteriori approfondimenti – o la ragione che lo spinge a eliminare nettamente dalla storia ogni riferimento alla caldaia, all’album dei ritagli (che avrebbe aiutato a comprendere l’origine della follia di Jack), o ad omettere praticamente tutti i momenti in cui mr. Torrance inizia a dimostrarsi sempre meno capace di agire razionalmente – fino alla esplosione della sua pazzia, nella scena del «all work and no play makes Jack a dull boy». Kubrick si sofferma invece su tutta una serie di particolari, di scene, di immagini, non indispensabili ai fini della “storia” ma ben efficaci nello sconvolgere lo spettatore. La regia è “folle” perlomeno quanto Jack: fiumi di sangue, sequenze sessualmente esplicite o raccapriccianti (la “evoluzione” della donna nella stanza 237), un magistrale senso dell’arte che
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spinge il regista americano a mostrare tutta una serie di “pistole” (per dirla alla King) che non saranno destinate a sparare, ma bensì a rendere barocca ed inquietante l’atmosfera. Al contrario del mondo possibile disegnato da King, dove anche gli eventi paranormali rispondono ad un criterio di verosimiglianza confacendosi alle regole di quel mondo (facilmente intuibili dal lettore), il mondo possibile di Kubrick è volutamente privo di una struttura razionale-verosimile che ne identifichi le leggi universali, provocando un senso di smarrimento nello spettatore, angiosciato dalla consapevolezza che i pezzi del puzzle non torneranno mai loro posto. Con buona pace dei più accaniti fan di Stephen King, possiamo affermare che praticamente ogni scelta che Kubrick fece, rivoluzionando in parte la prospettiva ed alcuni aspetti del romanzo, si è rivelata col senno di poi assolutamente apprezzabile.
Probabilmente osservando il ghigno inquietante di Jack Nicholson non ci aspettiamo nulla di buono neanche nei momenti di presunta “tranquillità”, ma questo non fa altro che innalzare la tensione sin dai primissimi istanti. Mentre nel romanzo la parte iniziale è tutto sommato “serena”, priva di particolari avvisaglie del pericolo imminente, nel film di Kubrick iniziamo a temere per la sorte di Danny e Wendy sin dal momento in cui un sorridente Jack li sta portando in macchina all’Overlook hotel, e racconta con ghigno sardonico una storia di “cannibalismo d’emergenza”. Kubrick garantisce poi alla pellicola una cifra stilistica inarrivabile: l’utilizzo continuo della steadycam (praticamente “inventata” dal regista americano su quel set), il diabolico scandire dei giorni prima con dissolvenze poi con stacchi netti (in modo da ottenere sempre il miglior risultato nel destabilizzare l’ignaro pubblico), il fantastico carrello aereo per la lunghissima sequenza d’apertura, sono solo alcuni dei mezzi (alcuni inediti) di cui il geniale cineasta
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si serve per proporre al meglio questo interessante soggetto. Il risultato è un capolavoro considerato ancora oggi il principale punto di riferimento per il cinema horror, destinato all’immortalità anche grazie ad alcune scene facenti ormai parte dell’immaginario collettivo (Nicholson che fa capolino dalla porta squarciata del bagno chiamando la sua “amata” moglie; Danny che percorre infiniti corridoi sul suo triciclo avvolto da un inquietante silenzio; un ascensore che aprendosi lascia passare un “fiume” di sangue che allaga l’atrio dell’Hotel; le due gemelle che invitano il bambino a giocare con loro… per sempre). Come si diceva all’inizio? «Un film proprio non può essere all’altezza del libro da cui è tratto» Mai dare troppa importanza agli adagi … si ringrazia per la consulenza il kubrickologo di fiducia, Mario Trifuoggi.
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Il ritorno di Killing, il diabolico super criminale di Roberto Rippa È da qualche mese in circolazione tra vari festival e serate speciali di presentazione (e in maggio una versione di 52’ è passata su www.magazzinimusicali.it) il documentario The Diabolikal Super-Kriminal, che ha avuto la sua prima al Ravenna Nightmare Film Fest lo scorso novembre ottenendo il premio del pubblico. Realizzato da SS-Sunda, già autore di Flesh Doll Operetta, e prodotto da Sinepathic Films, The Diabolikal Super-Kriminal verte sul personaggio di Killing (Sadistik negli Stati Uniti), protagonista di un fotoromanzo nato nel 1966 sull’onda del successo di Diabolik e Satanik, pubblicato per 62 numeri e oggetto di censura a causa delle scene all’epoca considerate spinte. Il documentario include interviste esclusive a Liliana Chiari, attrice per Fellini e Salce, Emma Costantino (la Erna Schurer di tanto cinema di genere italiano, da Nude per l’assassino, 1975, di Andrea Bianchi a La Vergine, il toro e il capricorno, 1977, di Luciano Martino), Gabriella Giorgelli (Fratellohomo, sorella bona di Mario Sequi, Sette orchidee macchiate di rosso e Il cinico, l’infame e il violento di Lenzi, Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda di Martino) e al regista Corrado Farina (Baba Yaga, Hanno cambiato faccia) e a molti altri testimoni generosi di aneddoti sul fumetto e sull’epoca in cui toglieva il sonno ai censori. Personaggio in totale controtendenza rispetto ai supereroi positivi tanto amati quanto portatori malsani di un ideale patriottico e culturale unico, come spiega SS-Sunda nell’intervista che segue, Killing è un’incarnazione del male e basta, senza sottotesti o messaggi occulti. E come tale è stato amato nei Paesi dove il fotoromanzo è stato pubblicato tradotto (dalla Francia alla Turchia - dove il personaggio è stato usato per il film della serie Kilink di cui abbiamo parlato nel numerozero di Rapporto confidenziale- dagli Stati Uniti a Paesi Latino americani come Colombia, Argentina, Brasile). The Diabolikal Super-Kriminal, alla fine, non rappresenta solo un’occasione per conoscere coloro che hanno inventato o dato vita cartacea al personaggio (compreso il fino ad ora misterioso attore che, mascherato, dava corpo al personaggio), ai suoi antagonisti e alle sue svariate amanti, ma anche per un excursus nel clima dell’epoca, in cui la censura imperversava esercitando un potere pressoché incontrastabile. The Diabolikal Super-Kriminal verrà proiettato lunedì 8 settembre a Milano al cinema Mexico (via Savona 57). alla presenza dell’autore, dell’attrice Liliana Chiari e di altri ospiti non ancora confermati. The Diabolikal Super-Kriminal verrà proiettato lunedì 8 settembre a Milano al cinema Mexico (via Savona 57). alla presenza dell’autore, dell’attrice Liliana Chiari e di altri ospiti non ancora confermati.
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Intervista a SS-Sunda di Mort Todd (www.goSadistik.com) traduzione Roberto Rippa goSADISTIK.com: Per iniziare: quando sei nato, dove e ci sono interessanti aneddoti sui tuoi antenati? SS-SUNDA: Sono nato in Italia nel 1973. Non dico la data perché detesto che qualcuno mi faccia gli auguri per il compleanno. A proposito dei miei antenati, a dire il vero non mi importa granché ma se ti interessa saperlo ho appena scoperto di avere origine turche. goS: Quando hai scoperto di essere un artista? Quali sono le tue influenze? Qual è il tuo mezzo preferito, film o fumetto? SS-S: L’arte non esiste, è solo una parola creata dall’uomo per dividere i suoi simili in categorie e classi. Al di fuori della parola, comunico anche attraverso la scrittura, il disegno e l’immagine filmata. Credo che queste siano le vie pratiche per esprimermi. La prima cosa che ho scoperto, dopo la parola, è stato il fumetto. Quando ero un bambino, ero solito disegnare strisce porno ispirate a cartoni innocenti e poi le vendevo ai miei compagni delle elementari. Le mie influenze sono troppe, mi dilungherei troppo su fumetti, cinema, libri e musica che mi hanno ispirato e illuminato. Fino ad oggi ho diretto alcuni cortometraggi porno-splatter, ho scritto e disegnato, talvolta solo scritto, molti fumetti underground per fanzine italiane e spagnole. goS: Quando hai iniziato a leggere i fumetti? Ti ricordi quali erano e quanto hanno influenzato te e la tua vita?
The Diabolikal Super-Kriminal Regia, sceneggiatura: SS-SUNDA Basato sul fotoromanzo Killing (noto anche come Sadistik), pubblicato da Comicfix Musiche: EL REVERENDO M, MIRCO MARTELLI, NEUROPA, CHARLES E. HALL BAND Fotografia: ELISA MARITANO Scenografia: DAVID GILIO Montaggio: DIEGO PASCAL PANARELLO Costumi e Trucco: VALENTINA CENCETTI Nuovo Costume di “Killing”: FRANCESCO EPPESTEINGHER, RAFFAELLA PLOIA Con la partecipazione di: ALDO AGLIATA (“l’uomo dietro la maschera” ovvero: KILLING), CORRADO FARINA (scrittore / regista cinematografico), MARIO GOMBOLI (editore “Diabolik”), ANTONIO VIANOVI (editore / critico fumetti), GIOVANNI ROMANINI (disegnatore di fumetti), MASSIMO SEMERANO (autore di fumetti), GIANCARLO CARELLI (giornalista), GIULIO OGGIONI (grafico), ERNA SCHURER (attrice), GIANCARLO BORRELLI (figlio del regista di “Killing” / giornalista), RICO BOIDO, (attore), VITO FORNARI (“Tarzan” italiano / attore), LILIANA CHIARI (attrice), DONATELLA PAPI (figlia del fotografo di “Killing” / giornalista), ROMANO SCAVOLINI (regista cinematografico), CARLO CASO (fotografo), PAUL MULLER (attore), GABRIELLA GIORGELLI (attrice), FRANCO FRESCURA (sceneggiatore fumetti), ANTONIO BELLOMI (scrittore), JOHN BENEDY (attore) E con, per la parte fiction: JUDITH PELIGRO, CATARSINA TRANSFERT, DOLORES SUAVE Una produzione Sinepathic Films realizzata da DIEGO P. PANARELLO, SS-SUNDA, ALESSANDRO ZANOTTI 72’
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SS-S: Era Topolino. Ricordo che ne sfogliavo le pagine quando ancora non sapevo leggere. In un certo senso penso mi abbia influenzato ma il mondo Disney non è il tipo di mondo in cui mi piacerebbe vivere. goS: E quando hai visto il primo fotoromanzo? E cosa era? SS-S: Il primo è stato propro Killing. Dovevo avere undici anni quando ho visto alcuni numeri di Kriminal, dei maestri Magnus e Bunker, e me ne sono innamorato. Grazie a quelle ristampe avevo riscoperto i fumetti noir. Quindi nei negozi di libri di seconda mano ho iniziato a cercare titoli come Satanik, Demoniak, Sadik, Mister X e Infernal, finché mi è capitata tra le mani una copia di Killing. Ero senza parole. Era sorprendente per me vedere un fumetto con personaggi reali. Ho visto in seguito anche spazzatura come Genius, che comparato a Killing in quanto a contenuto e esecuzione equivarrebbe a paragonare i documentari di propaganda militare con i documentari di Michael Moore. Rosario Borelli è senza dubbio il più grande regista di racconti a fotografie che io abbia mai visto. È vero che, senza pubblicazioni come Diabolik e Kriminal, Killing non sarebbe mai esistito ma è altrettanto vero che senza Borelli non avremmo avuto fotoromanzi come Fatalik, Terrifik, Yorga, Namur, eccetera… goS: Quali pensi siano le differenze tra fumetto e fotoromanzo che la maggior parte delle persone non realizzano? SS-S: Nei fumetti nulla è impossibile perché puoi disegnare qualsiasi cosa tu voglia. Nel fotoromanzo c’erano parecchi limiti tecnici, nulla a che vedere con l’era digitale che viviamo. goS: Da dove è nata l’idea di un documentario su Killing?
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SS-S: Essendo io stesso un amante sia del cinema che del fumetto, ho deciso di usare il migliore fotoromanzo che io abbia mai conosciuto per parlare di un cinema e di un fumetto che non esistono più. Un’altra fonte di ispirazione sono stati gli anni ‘60, la Beat generation, il movimento hippy. Mi affascinavano quando ero adolescente e ancora li tengo in grande considerazione. Credo che la (poca) libertà di cui godiamo oggi sia dovuta (molto) a loro. Killing è stato snobbato dai miei predecessori culturali, perchè al periodo era seguito soprattutto da un pubblico di borghesi repressi che aveva un idea distorta sull’erotismo e sulla donna. Quindi, per l’hippy-freak convinto che sono, ho deciso di contribuire alla sua rivalutazione, perchè dopo quarant’anni sono estremamente convinto che Killing possa avere un tipo di pubblico più adeguato. Non sto dicendo che abbia vinto il “pensiero borghese”, ma semplicemente che Killing per quei tempi era troppo avanti... infatti parole come psicotronico e hard-boiled nel 1966 non erano ancora state coniate. goS: Quale tipo di pubblico vorrà vedere il film? SS-S: Non lo so, ma il mio The Diabolikal Super-Kriminal vuole anche essere un documento storico e culturale, adatto a diversi tipi di pubblico. goS: Cosa ha di tanto attraente un maniaco omicida mascherato e perché gode di un culto internazionale malgrado non venga stampato da così tanto tempo? SS-S: Killing è il male e basta. Non ci sono messaggi nascosti, a parte il suo amore per Dana. Killing parla solo di crimine. Esattamente l’opposto di quei supereroi psicopatici pieni di morale stupida e patriottica. I supereroi vorrebbero rappresentare il bene assoluto ma non sono altro che figli di una bandiera, protettori di una legge e una cultura, quelle dei loro stati. Non sono mai difensori di un’etica civile mondiale. goS: Come si svolge a livello cinematico DSK? Qual è la sua struttura? SS-S: Inizierà come un saggio sull’attacco moralistico in Italia ai fumetti noir e erotici dell’epoca. Poi ci saranno storie dei sopravvissuti del fotoromanzo (attori e staff editoriale) e alcune opinioni di persone illustri su Killing e su ciò che gli orbitava intorno. Ci saranno anche filmati d’archivio in 8mm girati da uno degli sceneggiatori di Killing alla redazione della casa editrice Ponzoni, alcune magnifiche sequenze erotiche, sempre in 8mm, tratte dai corti anni’60 di Corrado Farina; e infine una Killing fiction da me realizzata. goS: Come hai trovato gli attori originali del fotoromanzo? e qual è stato il migliore e il peggiore momento con loro? SS-S: Non è stato facile! Molti tra loro erano caduti nel dimenticatoio da almeno 30 anni. Altri non avevano il nome compreso nei crediti e alcune attrici si erano allora nascoste sotto uno pseudonimo. Ho usato metodi da investigatore! Il momento migliore è stato quello dell’intervista a Rico Boido. Mi ha sopreso per il suo calore umano e perché parla e si muove come un trentenne. Il mio secondo momento preferito è stato quando ho ottenuto che lo sconosciuto attore che interpretava Killing indossasse la maschera di nuovo, 37 anni dopo. Ho passato bei momenti anche con Vito Fornari (che prima di apparire in Killing era stato il protagonista di Kimba, fotoromanzo modellato sul personaggio di Tarzan) e Erna Schurer, per la sua dolcezza. È stato bello con tutti, ad eccezione che con un attore che prima di farsi intervistare mi ha chiesto 2000 Euro. Mi ha spiegato che essendo famoso nel cinema, avrebbe potuto ricordarsi solo per soldi di quel miserabile fotoromanzo!!! goS: Quali sono stati il momento peggiore e migliore della produzione? SS-S: Il peggiore è stato quando, in pre-produzione, ho scoperto che Rosario Borelli era morto nel 2001. Avrei voluto congratularmi con lui di persona ma questo documentario non uscirà tanto presto quanto avrei desiderato. Il migliore sarà quando io e la produzione troveremo una distribuzione seria che garantisca a questo film quanta più visibilità possibile nel mondo. Collegamenti The King of Crime, il blog dedicato a The Diabolikal Super-Kriminal: http://thekingofcrime.blogspot.com Teaser del documentario (YouTube): http://youtube.com/watch?v=6lgMX1TZlqA Sito ufficiale americano di Killing: http://gosadistik.com
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speciale, Abel
Ferrara!
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FERRARA: ABEL RINTRACCIA CAINO di Ciro Monacella
Abel Ferrara è nel suo corpo, nella sua faccia da doberman pestato, quanto è in ogni suo singolo film. La sua natura di camminatore degli spigoli e degli spaghi sospesi sull’abisso lo incatena ad una apparente monotematicità che, dietro una patina di prevedibile schematismo, cela puntualmente un’incrinatura. Basta averne visto solo due film, a caso, per avvertire quanto fondante sia nel suo corpo, nella sua faccia e nella sua arte, ad esempio, la riflessione sul cristianesimo. Da lì, alla velocità dello spirito santo, si passa alla riflessione su Dio. Da lì, stessa velocità di prima, alla riflessione sull’arte, ovvero sulla sola attitudine che l’uomo abbia mantenuto dalla - e della - sua creazione: la ri-creazione.
I
l discorrere di Ferrara ha il senso della individuazione di un orientamento a mezzo di continue e lancinanti opposizioni. Qui risiederebbe lo schema. Tuttavia, ben lontano dalla logica “A è opposto a B perché la loro unione dà piena simmetria”, il discorso di Ferrara scova nell’opposizione un punto di rottura. Quello che in altri tempi sarebbe stato osannato col nobile lemma dilemma, qui, in tempi in cui droga e alcool offrono tanto per poco (o poco per tanto) è un’equazione algebrica da risolvere facendo a meno della scienza. Il dilemma è un concreto, meccanico, inceppo. Talmente concreto, o talmente meccanico, che la sua forma visibile è l’esito di una sperimentazione condotta in fase creativa dallo stesso regista sul suo proprio corpo/faccia/film – da qui il pestaggio. Esso esprime di volta in volta non tanto la pretesa della corretta scelta al cospetto di una biforcazione sul sentiero morale, ma
una domanda sulla possibilità che il suddetto sentiero esista – altrimenti la morale non adempirebbe alla sua funzione ordinatrice. In “The Addiction” (1995), ad esempio, la domanda è: se il male appartiene all’uomo, se esso esiste solo nell’uomo, se l’uomo stesso ne è plagiato ed assuefatto tramite le sue estrinsecazioni, l’idea della catarsi ha una natura diversa da quella della mera illusione? Nel successivo “The Funeral” (“Fratelli”, 1996) la portata di questa domanda si estende rompendo l’orizzonte: ammettendo per fede un disegno divino, e ammettendo in esso il ruolo polemico se non fondante del male, quale è la collocazione dell’uomo in tale disegno se non quella di oggetto, e strumento, di morte? Ovvero, il disegno di Dio prevede che Egli alla fine resti da solo? Perché allora disegnare? In “Dangerous Game” (“Occhi di serpente”, 1993) la domanda è: la libera e cosciente scelta della propria dissoluzione ha
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un limite? E nella definizione di questo limite – e di quello del proprio libero arbitrio – in qual misura l’uomo ha da dar conto a Dio e in quale al prossimo suo? Qui il personaggio interpretato da Harvey Keitel è alle prese con un film per la cui regia sacrifica la salute mentale dei propri attori. Il titolo del film è “Mother of Mirrors”. Verso la fine della lavorazione il regista-Keitel attraverso il film denuderà la propria volontà di redenzione, e ogni dialogo di finzione si posizionerà in una prospettiva tale da svelare come la vicenda fosse votata alla comprensione di sé da parte del soggetto (e oggetto) creatore. Ecco che il titolo del film nel film, questa madre degli specchi, è l’arte stessa. Colei che riflettendo svela e svelando riflette. Il passaggio obbligato per ogni luogo che giaccia sotto la pelle. Ferrara dunque appartiene a quella ristretta cerchia di autori per i quali l’attualità è implicita e permanente. Costoro sono i soli in grado di forzare i limiti anche a rischio di dipingere lo stesso quadro per tutta la vita: dalle rinnovate sfumature di questi si capisce il mondo più che dalla fantasmagorica peripezia di un qualsiasi Spielberg. Costoro posseggono quella noce di malattia che li torce alla risposta, e loro è il regno dei cieli checché ne dica il re, loro è il regno d’oltre-schermo:
OLTRE LO SCHERMO: LA MADDALENA La metateatralità dunque, che non può essere passeggera, si ripropone ancora una volta addensandosi di connotazioni religiose – e non a caso il metateatro sta al teatro (ne è sostanza e nutrimento) come la vita alla morte (indagine risolta dalla funzione della religione) – in “Mary” (2005). Qui “This is my blood”, il film nel film del regista indipendente Tony Childress (Matthew Modine), è la rivisitazione del fulcro della religione cristiana. Si narra del momento cruciale in cui dopo la morte di Gesù si tarano le autorità degli apostoli, con partecipata attenzione alla figura di Maria di Magdala – la Mary interpretata da Juliette Binoche. In un fotogramma che riprende il set s’intravede il profilo curvo e in schivata di Abel Ferrara, di sfondo rispetto al vero (ma di fiction) regista Modine.
Ora, considerata la meticolosità seppure ruvida di Ferrara in fase di montaggio, considerata la sua precisa ma arrogante architettura drammaturgica, non si può non ammettere che la sua presenza in scena – narrativamente ingiustificabile – sia stata inclusa per ragioni indipendenti, dunque, dalla coerenza narrativa. Perfino in contrasto con essa. Il senso di quella presenza va interpretato alla stregua di un sigillo: è un tratto d’inchiostro fatto di proprio pugno che intende certificare l’integrale autenticità della riflessione. Ciò di fatto scalza la figura del regista Tony Childress dalla comoda posizione dell’alter ego, per rinviarla ad una estensione particolare e storicizzata dell’autore. Il personaggio interpretato ottimamente da Matthew Modine non è altri che una porzione di Abel Ferrara per nulla in opposizione rispetto al totale; più precisamente è la porzione che s’interroga sulle versioni di divinità trasmesse dalle scritture, e su quelle al contrario compatibili alla luce dei recenti ritrovamenti (il cosiddetto Vangelo di Tommaso, o Quinto Vangelo, rinvenuto in Egitto nel 1945 tra i Codici di Nag Hammadi). La ricerca di Ferrara è orientata a seconda dei suoi lavori per direttrici assai variegate, ma tutte accomunate dalla impellenza della denudazione. La verità è oggetto di circumnavigazione. Nel caso di Mary, la verità sulla fede. Dunque la fede stessa. Ferrara qui adopera tre fili tematici in movimento centripeto: c’è la vicenda del regista che lotta per poter dire ciò che pensa; c’è la vicenda dell’attrice Marie Palesi che non riesce ad uscire dal personaggio di Mary; c’è il popolare anchorman Ted Younger (il solito monumentale Forest Whitaker) che scivola nella domanda sul divino per ragioni personali. I tre muoveranno gli uni verso gli altri non senza interruzioni, brusche frenate, scarti stizziti. In dondolii che trovano percorsi scomodi, in equilibrio fra emotività e razionalità, in cerca di una via che sia rettamente praticabile, mentre l’occhio allucinato di Ferrara ritrae e scompone, cattura e fonde. C’è una sequenza, ad esempio, in cui per la prima volta entrano in comunicazione Marie Palesi e Ted Younger – di fatto i due estremi quanto a vicinanza alla posizione mistica della cristianità. La loro conversazione è telefonica, Ted è in una metropoli, Marie è a Gerusalemme. Ferrara riesce a creare un vincolo d’immagine fra i due attraverso la sovrapposizione di tre inquadrature in sfumato: restano più o meno fissi i due personaggi (la densità dello sfumato varia, si carica e si scarica), mentre la terza inquadratura è il luogo, dapprima il notturno metropolitano con le sue luci cadenti, in seguito l’esterno pomeridiano di una spianata sabbiosa in medioriente. Qui la delicatezza del passaggio è sintomatica di un processo d’estrapolazione di singolarità dalla totalità, quasi una testimonianza visiva del triplice ma unitario afflato divino: gli uomini, i due poli dialettici della questione, vincolati (e poi svincolati) alla natura del creato e al luogo reale
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tramite l’immagine. Nonostante il tema appaia impegnativo, Ferrara non manca di fornire all’andamento del film le sue consuete virate ironiche. Un’ironia che di colpo solca il blocco d’argilla lasciando un marchio, un punto d’approdo o di partenza stabile nella memoria: il film s’intitola “This is my blood”, e nel presentarlo il regista, che narcisisticamente ha scelto se stesso per la parte di Gesù, lo introduce dicendo “questo è il mio film, e questo è il mio sangue”, dove film sostituisce l’eucaristico corpo, e diventa con ammirevole audacia esso stesso atto memoriale del sacrificio di Cristo. Il film, nell’ottica del regista/porzione di Ferrara, è della sostanza dell’ostia, e la sua funzione è un’annunciazione. Di cosa? La trama suggerisce una risposta ben più rivoluzionaria della “moderna fiction che ha fatto della Maddalena l’amante di Gesù” – si riferisce a Dan Brown. Maria di Magdala è, in nome dell’antica e bieca invidia maschilista, un ostacolo per gli apostoli a causa della sua vicinanza spirituale al Cristo. Costoro non possono tollerare che Gesù abbia scelto lei. In sostanza lo scenario proposto segue il vangelo gnostico di Maria che fa della conoscenza, una conoscenza intuitiva, prerogativa unica per la salvezza. Si può ben avvertire come questo scenario sia conflittuale e, seppure ricco di suggestività, interamente da verificare. Siamo cioè al punto di rottura, al dilemma o inceppo. Tuttavia non è arduo, considerando Cristo l’artefice di un moto di rinnovamento morale dalle forti implicazioni sociali, immaginare che alla sua morte gli apostoli si siano venuti a trovare nella condizione, del tutto umana, di organizzarsi per evitare la dispersione o la alterazione del materiale umano sedotto. Non è arduo quindi immaginare che, come in ogni successione accade, certe posizioni abbiano prevalso su altre. E la suggestività sta nell’idea che nel film è attribuita a Tommaso, assai vicino alla Maddalena, per cui Gesù non fosse l’unico figlio di Dio, ma lo fosse in maniera identica rispetto a tutti gli altri uomini. È nella condotta di vita che la natura del rapporto padre-figlio si specifica. Però, ammettendo l’assoluta normalità del Cristo, si sarebbe permessa la sottrazione della sua cristianità, dell’unzione, la sottrazione della sacralità. Sacralità, a sua volta, determinante per la costituzione di una chiesa con tanto di simulacra. Si comprende bene come questa riflessione abbia rappresentato per Ferrara una sfida interiore che richiama la sofferenza del protagonista del suo “Il cattivo tenente” – tra l’altro si possono ammirare analoghe sanguinose inquadrature del crocefisso. E proprio alla luce di tale sofferenza, di tale ostinazione nell’affondo, si può rileggere il titolo del film nel film come fosse la dichiarazione di una raggiunta pace interiore. “Questo è il mio sangue” può dirlo solo colui che ha smesso di sanguinare o che, al limite, ha già riaperto gli occhi sul proprio sangue. Che poi il film non approdi ad alcuna certezza non venga considerato un refuso: la grazia di Ferrara è nella sua
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assenza di grazia, la potenza della sua voce è nella sua voce sciupata, la sua coerenza è nella sincerità dell’incoerenza, la sua forza… le palle: LE PALLE DI FERRO DI FERRARA Quando Ferrara dice che bisogna avere le palle solo per avvicinarsi al suo “Il cattivo tenente”, non lo fa per istrionismo o spicciola spavalderia. Di certo l’idea di rifare un film ancora attualissimo e per niente superato è enigmatica non tanto per inadeguatezza del nuovo regista (Werner Herzog dovrebbe essere in grado di non tradire l’opera) quanto per il ruolo da protagonista che ricade su Nicholas Cage. Buon attore senz’altro, il coppolino, plasmabile nel volto e capace di trasparire malesseri, ma povero del gusto di fradicio che Harvey Keitel trasuda. Esistono più motivi per cui “Il cattivo tenente” vuole le palle. Anzitutto la necessità del film. La ragione intima della storia è già nella titolazione: un ossimoro di lettura. Lo sfratto della rassicurazione nella nostra società non può che essere la dimostrazione, iperrealistica e scorbutica, del male nel bene. Dal momento in cui la democrazia assicura all’individuo un certo spazio di manovra, il potere della determinazione dei limiti di quello spazio, e del loro integro mantenimento, è messo nelle mani di coloro che per strada, e non nei palazzi dove si discutono le norme, combattono le violazioni e permettono il permesso: la polizia. Da ciò deriva che la sensazione di legalità come percepita dalla collettività, e ancor più in profondo la sensazione di tranquillità, dipenda strutturalmente dalla piena coincidenza fra la divisa, e il buon ruolo pubblico che essa impegna, e l’essenza carnale in chi abita quella divisa. Il fatto che Abel Ferrara ritragga un tenente dalla psicologia complicata che tuttavia è ascrivibile all’ampia definizione di cattiveria, significa una sola cosa: la nostra realtà fonda la propria somma virtù – la promessa di una vita migliore e più serena rispetto ad altre civiltà – su una premessa che è solo apparentemente inattaccabile; ma che se attaccata costituisce l’abbandono del singolo a se stesso, in un’architettura che umanamente e urbanisticamente non fa che accentuarne il disastro. Primo punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” mostra una falla nella nostra concezione di civiltà. Ancora, buona parte della tensione narrativa poggia su un
inesorabile ma graduale tracollo. Al di là del falso nucleo del poliziesco (lo stupro, di cui parleremo sotto), questo tracollo è inizialmente incentrato sulla finale del campionato di baseball fra Mets e Dodgers, sul cui esito c’è un ricco giro di scommesse clandestine. Il cattivo tenente partecipa a quelle scommesse con ostinazione. Continua a giocarsi la vittoria dei Dodgers e puntualmente perde, ma rigioca il suo debito ancora una volta, al raddoppio, perdendo. Questo aneddoto, di per sé poco significativo non fosse che per una sua estrema americanità, ha la duplice valenza di stringere l’imbuto attraverso il quale il protagonista dovrà passare – s’evince che questo è il tipo di film in cui lo spettatore, a dispetto della abominevole condotta del personaggio, parteggia inevitabilmente per lui –, e di mostrare come la mala sorte sia una miope sfasatura. È chiaro a tutti, nel film e in platea, e addirittura ad una parte del tenente (quella che ai colleghi suggerisce la giocata contraria alla sua e dunque vincente) che la serie di finale ha preso la via dei Mets. Ma il tenente non accetta. Incurante di ogni minimo segno, s’incaponisce nella sua giocata. Perché? Perché già non ha scelta: l’unica giocata che può è quella che gli cancellerebbe il debito. Allora la sua mala sorte è nell’assenza di scelta, ma non solo, perché anche in una scelta obbligata possono coesistere interpretazioni differenti della stessa. Lui sceglie di scommettere sulla sua redenzione, ovvero sulla bontà della sorte a prescindere dai segni del mondo. Secondo punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” mostra che ogni gratuita credulità ha uno scotto salato. Ancora, la monaca stuprata è una donna di sensazionale bellezza. La sua pelle candida e nuvolosa straborda dalle lacerazioni dell’abito sacro in una scena di inarrivabile anticristianità: cade la Madonna, il Cristo agonizza in croce, il crocefisso le squarcia il sesso. La suora è un personaggio maschera, la fervida credente obnubilata dalla fede, in qualche modo rapita dal suo abito come la Marie Palesi di “Mary” è rapita dal suo abito attoriale. Tuttavia il suo corpo desiderabile è una violenta recriminazione. Interpretabile come una scelta esteticamente furbetta del regista (mai viste monache così belle!), o come un frangente sacrificato al realismo (perché altrimenti stuprare una racchia in più monaca?), il corpo della suora va rivisto alla luce della sua reazione nei giorni successivi. Ella perdona gli aggressori, anzi si affligge interiormente poiché non è stata in grado di alleviare le pene di quei ragazzi emerse in una così
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autentica preghiera. Il suo corpo, il suo essere al contempo carne e desiderio, è la natura del suo sacrificio, ovvero il suo inchiodarsi alla croce. Terzo punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” adegua al tempo l’essenza del cristianesimo. Ancora, tanto è maschera la suora quanto mascherato è il cattivo tenente. È l’uomo che non comprende la fede, né il possessore della fede, né la propria incapacità di raggiungerla – gli riesce solo di rinnegare questa sua incapacità. Il personaggio che si dimena di fronte alla pace che di colpo rinviene nella suora, e che a lui sembra essere proibita, non fa che lottare contro la sua condanna alla cattiveria. Se fino allo stupro egli aveva vissuto in totale dissipazione di sé (“i vampiri sono fortunati – gli dice la sua donna/spacciatrice – perché si nutrono di persone che incontrano, mentre noi dobbiamo mangiarci le gambe per camminare”), assorbito dalle droghe e da una sessualità corrotta e incontenuta (crudissima e imponente la scena della masturbazione di Harvey Keitel), dopo l’incontro con la dimensione altra della fede egli sa riconoscere la sua disperazione. Finalmente piange. Ulula di stomaco come ferito a morte. D’un tono di lamento animale che s’avvertirebbe nei boschi, di notte, smarrito l’orientamento. Quel momento segna il destino del cattivo tenente: egli decide di cibarsi di sé in maniera differente, e s’accompagna alla fine dopo un ultimo, contrastato, sacrificio. Ed è la potenza del racconto ad avvisarci che il dilemma che regge tutto il film non può essere mero campo d’addestramento cinematografico: Abel Ferrara deve aver attinto da dentro di sé tanto la cattiveria quanto il suo reciproco ideale. Quarto punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” non discute il generico o l’universale, ma il particolare animo del regista. Si tratta di arte come cucchiaio, essa scava in cerca di un’io che sia senza mediazioni: L’IO IM-MEDIATO: NEW ROSE HOTEL Tratto dal racconto cyberpunk di William Gibson, New Rose Hotel è il nome del cunicolo d’albergo da cui X (Willem Dafoe) ripercorre nell’ultima mezz’ora di film le vicende fin lì narrate. In un futuro indeterminato ma a gittata di fuoco, due spie industriali (Dafoe e Christopher Walken) assoldano una prostituta italiana (Asia Argento) perché circuisca un geniale ingegnere genetico, ma i piani pur razionalissimi sono travolti dalle forze nere che fanno sottotraccia nell’essere umano. L’intreccio appare a lungo, nella sua diluizione, un mero pretesto per la definizione filosofica dell’ambiente e della lettura delle circostanze che nel dato ambiente allacciano i destini dei protagonisti. L’ombra di chi ha creato opacizza il tessuto senza concedere troppo al topos narrativo: navighiamo, appunto, in un io. Il centro, a giustificazione delle intenzioni dei due faccendieri, è la scienza intesa come l’ultima forma della domanda sul senso. “Una vita senza ricerca non vale la pena d’essere vissuta”, dice Walken, colui che ha abbandonato da tempo la ricerca della virtù e che non sa più neppure se la virtù sia conoscenza o se invece la conoscenza sia virtù. Walken dice che secondo i Greci “la virtù è centrare il bersaglio”, ma mentre fino al secolo scorso il superamento del limite consisteva nell’esplorazione, ad esempio dell’antartide, oggi quel varco risiede “nell’esile porzione della mente” dello scienziato: la ricerca. Quella scintilla, non altro, è virtù. Allora tutto può e deve rileggersi già dall’inizio: la solidità apparente del personaggio interpretato da Walken, che a tutti gli effetti è il teorico tanto dell’operazione di spionaggio industriale quanto della sua pretesa ideologica, è aperta alla contraddizione. La sua ricerca, affannata, turbata al limite dell’insanità, è più irresistibile che mai, e continua a volgersi verso un’idea già meglio definita di virtù. Ma i movimenti sono quelli degli insetti fra i funghi del sottobosco. Già alla caduta del sipario ci accoglie uno spazio cupo, sensoriale, in cui la luce che definisce le forme è filtrata in un unico totalizzante rosso. Mentre intorno voci femminili si alternano in canti d’abbandono al canto stesso, come se il canto, e con esso il corpo e le labbra e le mani erotiche, disegnino già dall’inizio la possibilità che una realtà di riserva esista. Il canto è un porsi più in alto, o più dentro, comunque via dal metro quadro che abita il corpo. E in questa deriva di sensi Ferrara rende al meglio perché egli è sporco, il suo ondeggiare è da angoli di vicolo, il suo filmare è iniettato d’eroina. Ma con misura, mantenendo il galleggiamento in piena perpendicolarità al baratro. Allo stesso suo modo si
adeguano gli attori, magnetizzati in un fascino putrido come sopravvissuto ai tumori e alle radiazioni. Lupi, ovvero “occhio scintillante, labbra affilate, costole in mostra”, sono gli attori e il regista. Lupo è l’uomo – come già e ad oltranza in “The Addiction” – , la sua voglia è una abito che deve essere coerente, intimamente vincolato alla consapevolezza che sia così. Da questo humus salgono frasi come “(…) la solita spaccapalle in giarrettiera che fa venire all’uomo complessi di inferiorità”, in descrizione di una donna cui si accompagna un “non è di indole gentile”, dove la gentilezza è, qui in definizione della donna unitamente alla prima espressione, la generosità sessuale, l’assoluto darsi. Ossia la capacità, e la potenza, di insinuarsi senza freni fra le pieghe più infossate della realtà – ancora il sesso come varco – per superarla ed arrestarsi in una dimensione divina o, più bassamente, orgasmica. È evidente come Ferrara tenga a conservare nel suo cinema una prerogativa di letterarietà che altrove langue, giacché ogni frase, ogni parola, è alta, profonda, pregna di due o più livelli. E sebbene non abbia accesso ai brodi creativi e alle pozze organiche come Lynch, Ferrara è comunque capace di scorticare perchè ha dimestichezza con il lato d’ombra dell’uomo quanto Cronenberg, ma da premesse, e con modalità di indagine, differenti. Si noti ad esempio come l’ultima parte del film, lungi dalla riproposizione del già narrato intendendolo strumento di commemorazione, agisca a ristrutturare la memoria nella memoria per trovare la verità del passato, per raggiungere il reale presente. Allora le stesse scene saranno viste da inquadrature leggermente diverse, da altri punti di vista, e ciò arricchirà il ricordo gettando nuova luce su parole abbozzate, piccoli sorrisi ingolfati, accenni di emozioni che solo in quanto riletti possono essere estratti dal nugolo di macchinazioni che l’uomo innesca. Risulterà evidente, ad esempio, senza grossolana psicologia, il sintomo della finzione della donna/puttana/spia, il segnale della sua molteplice recitazione: ella di fronte ai dubbi di lui alza la posta, promette di più, promette l’eternità; ma chi ama è simbiotico all’oggetto amato, e la donna realmente innamorata sarebbe contagiata dal dubbio; l’unica ragione per cui si promette il massimo è una goffa, ma efficace, volontà persuasiva. Ecco, tornando al regista, si può dire quanto sincero egli sia nella sua completa assenza di promesse: tutto è lì, raggomitolato in una narrazione concisa, economico e paziente nella volontà di evidenziare la cancellazione di ogni mediazione fra se stesso e la rappresentazione. Rappresentazione, poi, che sembra godere d’umiltà nel suo concludersi in fretta affinché lo spettatore la riempia col suo lavoro di riflessione da un angolo buio, da un angolo sospeso fra gli angeli del passato e i demoni del futuro… dal suo personale New Rose Hotel.
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China Girl
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; fotografia: Bojan Bazelli (1.33:1, colore); montaggio: Anthony Redman; musiche: Joe Delia; scenografie: Dan Leigh; arredo: Leslie E. Rollins; costumi: Richard Hornung; trucco: Cydney Cornell, Katherine James; casting: Marcia Shulman; aiuto regia: Louis D’Esposito, David Sardi; effetti speciali: Matt Vogel; interpreti: James Russo, Richard Panebianco, Sari Chang, David Caruso, Russell Wong, Joey Chin, Judith Malina, James Hong, Robert Miano, Paul Hipp, Doreen Chan, Randy Sabusawa, Keenan Leung, Lum Chang Pan, Sammy Lee; produttori: Mitchell Cannold, Mary Kane, Michael Nozik, Steven Reuther; case di produzione: Great American Films Limited Partnership, Street Lite, Vestron Pictures; luoghi delle riprese: New York City, Raleigh Studios - Hollywood; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1987; durata: 96’. Una personalissima rivisitazione della storia di Romeo e Giuliettae e dei giovani in West Side Story dove Montecchi e Capuleti diventano due clan, uno cinese e uno italiano. La giovane coppia tenta di tenere la relazione fuori dalla rivalità tra famiglie. Ferrara lo considera uno dei suoi film preferiti.
di Cesare Moncelli
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THE DRILLER KILLER “Fare del cinema è scrivere su della carta che brucia ” THE DRILLER KILLER di Abel Ferrara (1978 USA 85’)
P
rimo film partorito dal talentaccio del duo maledetto Nicholas St. John/ Abel Ferrara, autori di due capolavori degli ultimi anni come “IL CATTIVO TENENTE” e “THE ADDICTION”. Abel Ferrara è anche l’attore principale di questo suo secondo film come lo era anche del primo, il porno delirante NINE LIVES OF A WET PUSSY (per la cronaca ha interpretato anche il maniaco sessuale del suo terzo film L’ANGELO DELLA VENDETTA). L’idea di cinema di Abel è estrema e volutamente disturbante,
ma la sua geniale intuizione è sempre stata quella di cercare di raggiungere la purezza e la trascendenza trattando di ciò che comunemente viene considerato indecente e spregevole. Solo partendo dal basso si può raggiungere l’alto, lezione chiaramente derivata dal maestro Rainer Werner Fassbinder. Infatti già da questo film, censurato ovunque, il regista ha il coraggio di mostrare la singolare via di redenzione del suo protagonista, il pittore Reno, in crisi creativa e con grossi problemi economici. Mancano i soldi per l’affitto e le bollette, il rapporto con la fidanzata è un inferno, ed è così costretto a subaffittare parte del suo loft ad una banda di punk incallita, capace di suonare ininterrottamente a volumi e ritmi vertiginosi (i pezzi del film sono di Abel Ferrara, chitarrista ancor prima che regista) facendo così definitivamente perdere il lume della ragione a Reno, oltre alla capacità creativa. Una sera, però, vedendo in televisione la pubblicità di un prodigioso trapano elettrico di ultima concezione Reno ha l’ispirazione creativa definitiva: creare opere d’arte mutilando dal vivo gli abitanti notturni delle strade di New York, usando questo sfavillante trapano come pennello riuscendo così allo stesso tempo a sfogare sanguinosamente tutta la sua più intima frustrazione e rabbia verso una società ripugnante. Il film si inserisce nel filone del cinema horror degli anni ’70 e non è esente da siparietti erotici chiaramente inseriti per accontentare la produzione e i gusti bassi del pubblico onanista. Assolutamente degno di rilievo è il modo in cui il regista riesce a dare l’idea del processo creativo in pittura rappresentando le difficoltà e la ricerca interiore che preludono al concepimento dell’opera d’arte; sicuramente lo Scorsese di “LEZIONI DI VERO ” ne sarà stato ispirato (sul tema, da leggere “Il capolavoro sconosciuto” di Balzac). A livello cinematografico non si può non ricordare come predecessore di questo film il piccolo cult “Bucket of Blood” del maestro Roger Corman. I quadri che compaiono nel film sono del pittore Douglas Anthony Metro all’epoca buon amico e inevitabile compagno di sbronze di Abel Ferrara.
(di Samuele Lanzarotti)
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GLI OCCHI SPIGOLOSI DI UN NOSFERATU METROPOLITANO
di Matteo Contin
KING OF NEW YORK
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Frank White è appena uscito di prigione. Dice che ha perso tempo, nel guadagnare soldi, nel recuperare il dominio sulla città. Ora deve riguadagnarsi il suo posto nella malavita newyorkese. Ma qualcosa è successo in prigione e si instilla in lui la voglia di redenzione. Abel Ferrara con “King of New York” ritorna a dipingere una storia malata e allucinata della malavita che agisce nella scura notte newyorkese. Con la solita buona orchestrazione di eccessi visivi e narrativi, Ferrara costruisce un’opera interessante soprattutto per l’ottima caratterizzazione psicologica del personaggio principale. Una sorta di Scarface ugualmente rabbioso ma in cerca di una redenzione che sfocerà nella raccolta fondi per un ospedale di Harlem, fondi rubati ai trafficanti di droga come avrebbe fatto un novello Robin Hood. Un eroe scorretto, violento, sanguinario ma che, negli occhi spigolosi di Christopher Walken trova anche una sua dolcezza. Proprio come accade al vampiro Nosferatu (non a caso citato anche nel film) che, nonostante la sua bruttezza, la sua spietata cattiveria, trova il suo cuore per morire accanto alla persona che ama. Quant’è la distanza tra bene e male? Quanto deve essere il male per poter oscurare il bene? Quanto il bene deve essere grande da poter cancellare ogni peccato? Ferrara si pone da sempre questi interrogativi che naturalmente non hanno ancora trovato (e forse non troveranno mai) una risposta. Da premiare anche la scelta di Ferrara e del suo fido sceneggiatore Nicholas St. John di mostrare non solo la vita e le difficoltà di White, ma anche quella dello spacciatore Jump e di due poliziotti irlandesi che cercano in ogni modo di ostacolare l’ascesa del nostro anti-eroe. Ferrara li immerge in un’atmosfera cupa, notturna, degna di un film sui vampiri. E il finale di una dolcezza mostruosa, brucia tutta la notte con il sogno di una redenzione. Oltre al già segnalato Walken, perfetto nel suo ruolo, troviamo un bravissimo Laurence Fishburne (Jump) che con la sua istintività animalesca si contrappone al protagonista. Wesley Snipes e David Caruso (l’Horatio Caine di “CSI: Miami”) sono i due poliziotti che daranno del filo da torcere alla malavita della zona. Azzeccate le musiche di Joe Delia così come la fotografia Bojan Bazelli (nonostante la scena in cui usa un filtro blu sia la meno riuscita di “King of New York”).
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“I’m the resurrection” The Addiction di Abel Ferrara (1995 USA 82’) con Lili Taylor, Annabella Sciorra, Christopher Walken
The Addiction
L’ontologia del male nella storia...devastante capolavoro al termine della notte, creato da Abel Ferrara e Nicholas St. John (dodici anni di lavoro sulla sceneggiatura...), incentrato sul vampirismo come metafora di un mondo, non dissimile da quello contemporaneo, che non ha praticamente più nessun’altra forma di relazione che non sia quella del divorarsi e dello sbranarsi vicendevolmente. Il ritratto di un’umanità allucinata dove gli esseri umani sono praticamente ridotti ad alberi sanguinanti in attesa del giudizio finale, fatidico momento in cui potranno impiccarsi ai propri stessi rami. Un’umanità barbara che si è dannatamente sforzata di vivere al di là del bene e del male (vi ricorda qualcosa?), dimenticandosi della storia e delle nefandezze del passato, forse perché l’essere umano non è malvagio per via del male che fa, ma è portato a fare del male proprio perché è intrinsecamente malvagio. Non c’è possibilità di fuga perché il libero arbitrio porta inevitabilmente sulla strada del male: la vampira lascia la sua vittima libera di andarsene dicendogli “guarda il peccato in faccia e digli di andarsene con fermezza e convinzione”, ma quasi nessuno se ne va (solo un predicatore per strada riesce a rifiutare). A tal proposito l’addiction (la dipendenza) del titolo è parte integrante della natura dell’organismo umano, anche perché sopperisce ad una duplice funzione, da una parte soddisfa lo stimolo continuo che scaturisce dalla propensione al male, dall’altra parte ottunde magicamente la percezione, in modo da rendere evanescente la coscienza e diminuire l’autoconsapevolezza del nostro stato. A tal punto l’esistenza diventa ricerca di sollievo dal vizio, ma beffardamente il vizio è l’unico sollievo che possiamo trovare. Le biblioteche non sono altro che cimiteri zeppi di pietre tombali e la filosofia si riduce a sterile propaganda in quanto tende continuamente a cambiare l’oggetto in base alle proprie esigenze contingenti...ciò che rimane fondamentale è il nostro impatto sugli altri ego...nel film estremizzato dalle scintillanti immagini dell’orgia cannibalica in occasione della festa di laurea. Il cinema di Ferrara e St. John è perennemente e meravigliosamente incentrato sul rapporto tra uomo e fede, sulla correlazione tra vizio e riscatto, sul peccato e la possibilità di redenzione e questo film non fa eccezione. Ma qui la fatalità dell’autodistruzione che emerge è quasi soffocante e il vampirismo non è un trastullo fine a sé stesso, anzi è proprio l’allegoria perfetta per il perverso meccanismo fondante della nostra società: chi morde si conficca nella carne dell’altro trascendendo la carne stessa, chi viene morso desiste ad una violenza soverchiante. Captiamo contemporaneamente l’aggressività e la lassità tipiche delle forme ancestrali di sessualità, insite nel caleidoscopio dell’erotismo, fin dentro la morte. Il film, estremo e morale, non fa sconti. Proprio per questo se non si percepisce la corrispondenza tra il lampo dell’orgasmo e quello della dissoluzione, si corre il rischio di non riconoscere il nucleo pulsante, sensuale e illuminante da cui origina la pellicola. Girato a New York in soli venti giorni, con una fotografia in un bianco e nero livido e contrastato, è un prodigio di essenzialità, memorabilmente interpretato da due mostri sacri come Lili Taylor e Christopher Walken/Peina e intensificato dalle musiche di Joe Delia.
(di Samuele Lanzarotti)
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BAD LIEUTENANT
IL CATTIVO TENENTE di Alessandra Cavisi
Bad Lieutenant REGIA: Abel Ferrara CAST:Harvey Keitel ANNO: 1992
TRAMA. Un tenente corrotto fino al midollo, dedito all’uso di qualsiasi sostanza stupefacente, affamato di sesso e alcool e incallito scommettitore, si ritrova ad indagare sullo stupro ai danni di una suora. Quando questa decide di perdonare i due uomini che l’hanno aggredita sull’altare della chiesa, il tenente rimane al contempo incredulo e turbato. Questo avvenimento lo farà riflettere sulla sua vita di peccatore e sul significato del perdono. ANALISI PERSONALE. Un film per stomaci forti questo di Abel Ferrara che trova la sua forza nella visionarietà e nell’interpretazione magistrale di quel grande attore che è Harvey Keitel. Qui dà vita ad un personaggio sicuramente disturbante e a tratti spregevole, che non si preoccupa minimamente di sniffare cocaina davanti ai suoi famigliari, o di rubare un chilo di droga da un auto in cui è avvenuto un delitto (salvo poi perderli perché scivolatigli dalla giacca), o di fare affari con criminali e spacciatori. Una vita sregolata la sua, piena di numerose ossessioni, a partire da quella per le scommesse sul baseball. Nonostante sia pieno di debiti fino al collo, continua a puntare ingenti somme di denaro sulla vittoria della sua squadra preferita, sperando di poter risolvere i suoi problemi economici, non rendendosi conto del pericolo a cui si sottopone con i suoi creditori di malaffare. Una vita sessuale non proprio sana (fa sesso con più donne alla volta sempre sotto l’effetto di stupefacenti e in balia dell’alcool e del fumo), contribuisce a caratterizzare in maniera del tutto negativa questo incallito peccatore, ma cattolico nell’anima. Sarà necessario lo stupro, effettuato sull’altare di una chiesa, ai danni di una suora che poi perdonerà i due teppisti, a fargli prendere una strada diversa. Sarà questo atto di estrema fede nell’umanità e di bontà cristiana a fargli perdere quasi la ragione. Il tenente non riuscirà a comprendere il perdono della donna seviziata brutalmente, non capirà la sua totale mancanza di odio verso coloro che le hanno fatto del male,
e anzi criticherà questa sua eccessiva generosità per poi arrivare a capire di essere lui stesso un grandissimo peccatore bisognoso di perdono. Nonostante la pellicola sia mascherata da noir, quello che conta è proprio il messaggio che la parabola discendente del tenente porta con sé. Infatti, i colpevoli dello stupro si conoscono da subito e non saranno le indagini ad essere in primo piano, ma la spirale di degradazione del tenente che arriverà persino a sfogarsi contro Cristo per non averlo saputo guidare in maniera migliore e a perdonare egli stesso i due teppisti, nonostante il loro atto sia parso insostenibile e inaccettabile, persino ad un depravato come lui. Una corruzione la sua, che non lascia spazio alla comprensione dello spettatore, sempre più impressionato e inorridito dal livello di scempiaggini da lui compiute, come nella famosissima e prolungatissima sequenza nella quale costringe due ragazzine, fermate perché con una luce rotta e scoperte senza patente, a simulare la fellatio e ad assistere alla sua masturbazione. Ma questa non è l’unica sequenza volutamente eccessiva, ed estremamente indigeribile. A shockare e quasi inorridire ci pensano anche la sequenza dello stupro che colpisce persino l’ateo più incallito e quella dello sfogo del tenente in chiesa, che vede come interlocutore un Cristo silenzioso che poi si dimostra essere un’anziana signora con calice in mano. Comincia ad avere le allucinazioni il nostro estremo protagonista, e forse anche noi dato che senza volerlo ci ritroviamo a porci gli stessi quesiti che egli stesso si pone, pur non essendo al suo livello di degenerazione. Con una fotografia incentrata particolarmente sul rosso, il colore del peccato, e sui chiaroscuri Il cattivo tenente è un grandissimo film, che pur essendo sgradevole ed impressionante, riesce a catturare lo spettatore e a coinvolgerlo anche grazie ad un’ambientazione notturna newyorchese che ben si confà al tipo di narrazione e al messaggio insita in essa (interessantissima ed indicativa la sequenza in discoteca, luogo di completo annullamento di sé stessi). Cosa ci lascia alla fine Il cattivo tenente? In sostanza un unico grande insegnamento: in un mondo crudele, pieno di abiezione ed immoralità, è sempre e comunque possibile trovare la propria via per la redenzione.
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Trafficanti di moralità. Cinepanettone all’eroina. di Alessio Galbiati
‘R Xmas titolo italiano: Il nostro Natale. Regia: Abel Ferrara; soggetto: Cassandra De Jesus; sceneggiatura: Abel Ferrara, Scott Pardo; montaggio: Patricia Bowers, Bill Pankow, Suzanne Pillsbury; fotografia: Ken Kelsch; musiche: Schooly-D; sonoro: Jeff Pullman, Marsha Moore, Dow McKeever, Raymond Karpicki; scenografie: Frank DeCurtis; arredatore: Guido DeCurtis; costumi: Debra Tennenbaum; trucco: Maryann Marchetti, Evelyne Noraz; acconciature: Thom Timan; aiuto regista: Vebe Borge, Louis Guerra; interpreti: Drea de Matteo, Lillo Brancato, Lisa Valens, Ice-T, Victor Argo, Denia Brache, Gloria Irizarry, Naomi Morales, Nelson Vasquez, Andrew Fiscella, Thomas Murray, Edwin Martinez, Janis Corsair, Anne Ackerman, Frank Cuervo; case di produzione: Valence Films Inc., Barnholtz Entertainment; produttore: Pierre Kalfon; produttori associati: Cassandra De Jesus, Tony Trimarco; co-produttori: Denis Heraud, Richard Klug, Frank DeCurtis; produttori esecutivi: Barry Amato, Stefano Celesti; luoghi delle riprese: New York City; lingue: Inglese, Spagnolo; paese: USA, Francia; anno: 2001; durata: 85’. Il film è ambientato nella New York del 1993, poco prima dell’ascesa del Sindaco Rudolph “Tolleranza Zero” Giuliani, e mostra la quotidianità di una coppia di trafficanti di droga centroamericani sotto le feste natalizie. Tutto scorre tranquillo e normale fino a che il marito viene rapito da un gruppo di trafficanti di colore, con cui la coppia fa affari, interessata ad impadronirsi dei loro soldi ma anche ad esprimere giudizi morali sul loro “bizzarro” stile di vita.
Vidi per la prima volta il film in una sala deserta della cineteca di Bologna, come a dire che in fondo Abel Ferrara non è Autore così popolare; i suoi film di fatto passano nelle sale con la velocità della luce e si fanno raggiungere solo da coloro i quali hanno la pazienza passionale di andarseli a recuperare sui più disparati supporti. Il primo cinema di Ferrara era talmente underground da essere giunto ai “giorni nostri” oltremodo usurato, sbiadito ed in alcuni casi è già andato perso: The Driller Killer è un film in Public Domain reperibile sui maggiori siti P2P legali, mentre il brevissimo docufilm Not Guilty: for Keith Richard (1977) non è più fra noi. Parlare di Ferrara, del suo cinema, genera continui cortocircuiti temporali tale è costante e ricorrente la sua poetica. Verrebbe quasi da pensare che in fondo la tematica centrale sia sempre la stessa, modulata di volta in volta con registi differenti in un’articolazione magistrale degna delle migliori filmografie di sempre. Non parlo di ambienti, situazioni o culture ma del messaggio profondo, la poetica o, se preferite, la filosofia delle immagini in movimento prodotte da A. F.; egli sembra avere completamente interiorizzato la frase che pronuncia Harvey Keitel nella prima sequenza del capolavoro di Martin Scorsese (Mean Streets): “I peccati si scontano per le strade e non in chiesa”. Quindi il tema è sempre lo stesso, ‘R Xmas lo applica su d’una struttura semplice e lineare articolata con una ricca trama di dissolvenze incrociate che amplificano l’ansia della situazione. In un mondo senza morale, dove si è disposti a spendere qualsiasi cifra per regalare alla propria figlioletta una bambola alla moda-isterica dell’anno, spacciare eroina non è poi la cosa più disdicevole che si possa fare. Certo, ogni azione comporta delle conseguenze e soprattutto chi meno ha è molto più motivato ad ottenere qualcosa a qualsiasi costo. Il denaro è tutto, perché compra la felicità, ma il denaro è sterco del diavolo perché comporta sempre un prezzo da pagare, d’un valore non convertibile in banconote. Quando uscì forte era la curiosità di capire come avrebbe raccontato la sua città ancora fumante dall’11 settembre ma Ferrara stupì tutti evitando d’affrontare l’argomento (quanto meno in maniera esplicita) ed ambientando la vicenda nel 1993, ultimo anno di mandato del primo – ed unico – sindaco di colore della storia di New York City, David Norman Dinkins, al cui posto giunse quel Rudoplh Giuliani che per quasi un decennio portò avanti una politica spietata e paranoica nei confronti della micro-criminalità, ripulendo i bassifondi da quella che il presidente Sarkozy chiamerebbe “feccia”. E’ tutta d’oro l’esistenza della famiglia di orgini centro-americane protagonista del proprio natale (“Il nostro Natale” è il titolo scelto dal distributore italiano), sguazzano nel benessere in maniera idilliaca, macchinone, casa in un quartiere esclusivo di Manhattan e tanto amore familiare. I soldi sono la misura della felicità nella New York della fine dello scorso secolo. Quando marito e moglie escono dall’appartamento e ricevono dai commessi del loro palazzo esclusivo le chiavi della loro auto non capiamo dove stiano andando. Li vediamo assorti e silenziosi lasciarsi alla spalle l’isola di Manhattan per sprofondare in un qualche quartiere decisamente malfamato, li vediamo entrare in un appartamento di loro proprietà e risolutamente predisporlo ad un qualcosa che ancora ci sfugge. Quando su di un tavolo vediamo rovesciarsi un enorme quantità d’eroina, allora comprendiamo la natura dell’opulenza che hanno lasciato sull’isola di Manhattan. Spacciatore significa che ti occupi della divisione della sostanza in tante piccole dosi, ed in base alla calibrazione della quantità dello stupefacente produci più o meno guadagno. Far circolare la sostanza, non nel proprio corpo, ma per le strade, è questo lo specifico dello spaccio, ovviamente finalizzato al “make money”. Ma la base della piramide dello smercio spesso reclama un trattamento migliore, un occhio di riguardo. Succede allora che una gang di “negri” non vuole più giocare alle regole stabilite e fa saltare il banco rapendo l’uomo della coppia protagonista del film e chiedendo “soldi, tanti soldi”, alla terrorizzata moglie. Il film diviene allora una frenetica e claustrofobica ricerca di denaro, da una parte, ed un incubo di violenza per il rapito. Come già detto, la tensione viene amplificata da un montaggio punteggiato da dissolvenze assai frequenti fra temporalità e spazialità non raccordate fra loro, la diegesi è dunque totalmente dilatata quasi a creare l’effetto della complessità a fronte d’uno sviluppo tutto sommato lineare, scarno. Ferrara vuole raccontarci semplicemente un Natale d’una famiglia di spacciatori d’eroina che con questa attività ha fatto un sacco di soldi e che minacciata cerca di fare tutto il possibile per ristabilire l’ordine iniziale. Propperianamente questa è una fiaba, non russa ma newyorkese, firmata dal genio maledetto di Abel Ferrara.
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THE FUNERAL
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IL SANGUE CHIAMA SANGUE
di Matteo Contin
Nella New York degli anni Trenta si consumano le vicende della famiglia (genetica e mafiosa) Tempio. Viene ucciso Johnny, fratello minore di Chaz e Ray, e i due fratelli sono pronti a vendicare la sua morte. Il sangue chiama sangue, la morte chiama morte. Sappiamo tutti quanto Abel Ferrara sia un regista anticonformista. Conferma di essere una voce fuori dal coro anche quando si avvicina a generi e trame convenzionali per il cinema americano. È il caso di “Fratelli”, in apparenza classico mafiamovie di scorsesiana e coppoliana memoria ma che in realtà si rivela essere grazie alla sceneggiatura di Nicholas St. John, un dramma contemporaneo di amore fraterno e morte. Il dramma si tinge delle tinte nere e verdi della vendetta (illuminate dalla bella fotografia di Ken Kelsch), con un piglio registico violento e livido tipico del cinema cannibale di Abel Ferrara. La costruzione drammatica è un interessante miscela di tragedia greca e dramma elisabettiano, dove la strage finale assume quasi una funzione catartica di espiazione dei propri peccati. L’impianto da classico film di mafia dunque serve solo per affrescare un riflessione teologica sulla vita umana, sulla vendetta, sul perdono, l’orgoglio e il destino. Interessante anche il ruolo che Ferrara ritaglia alle donne all’interno della pellicola. Viste nei classici film di mafia come compagne silenziose e mute di mariti celebri, pronte solo ad interrompere il loro silenzio durante le veglie funebri, in “Fratelli” le donne cercano in ogni modo di redimere i mariti, di distoglierli dall’odio che distruggerà la loro famiglia, naturalmente senza successo, come se la follia auto-distruttiva dell’onore e dell’orgoglio sia ancora più forte dell’amore. Vero successo al festival di Venezia del 1996, “Fratelli” vanta di un cast di alto livello, composto da Cristopher Walken, Chris Penn (vincitore della Coppa Volpi a Venezia), Benicio del Toro, Isabella Rossellini e Vincent Gallo.
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L’ANGELO DELLA VENDETTA di Samuele Lanzarotti
“I peccati si scontano per le strade e non in chiesa”
L’angelo della vendetta – Ms45 di Abel Ferrara (1981 USA 80’)
L’incontro dell’attrice Zoë Lund con altri due geniali outsiders, quali Abel Ferrara e Nicholas St. John, porta alla creazione di questa pellicola “L’Angelo della Vendetta” (titolo originale “Ms 45”, dal calibro della pistola della protagonista), nella quale Zoë interpreta una timida sartina muta, chiamata Thana (il nome é già tutto un programma) immersa in una New York infernale. Stuprata due volte nel corso della stessa giornata, la ragazza, sconvolta e disperata, riuscirà ad uccidere il secondo violentatore (il primo é interpretato dallo stesso Ferrara) e, trasformata dalla disumana ferocia subita, se ne vendicherà barbaramente, facendolo letteralmente a pezzi, poi sparsi per la città in sacchetti di plastica o trasformati in macinato per il cagnolino della vicina ficcanaso. Con la pistola dell’aggressore, la donna si trasformerà in una serial killer, giustiziera notturna senza scrupoli, decisa ad eliminare il genere maschile dalle strade della putrescente Grande Mela. La realtà di New York mostrata nella pellicola di Ferrara é impregnata di degradazione, squallore e violenza indicibili e quella della protagonista, violata e oppressa nella sua iniziale purezza, é una delle poche reazioni plausibili. La straordinaria e bellissima Zoë nella parte della muta Thana ci regala un’interpretazione indimenticabile, grazie al suo incredibile lavoro sulle espressioni facciali e i movimenti corporei, riuscendo a comunicare sia l’innocenza che la furia selvaggia. Il suo personaggio é dotato di un incredibile magnetismo che, ricordando il film, rimane vivo nel tempo. In un delirante ballo di Halloween finale si veste da suora, con reggicalze, rossetto fuoco e pistola e fa strage del genere maschile tout court. Proprio in questa sequenza vi è l’apice del film, in quel mix di slow-motion, musica ipnotica, sangue e ironia blasfema. La vendetta che si consuma nel film, come sottolinea Zoë nelle interviste, non é solo quella per la libertà della donna contro una violenta società maschilista, ma anche quella per la libertà della fragile handicappata, della lavoratrice precaria e ricattabile, fino alla lotta per la libertà di ogni individuo in una società feroce ed aggressiva. Colgo l’occasione, parlando di questo film, per rendere omaggio alla protagonista, successivamente anche co-sceneggiatrice (e attrice in una breve accecante sequenza) dell’illuminante “Il Cattivo Tenente”. Una vita breve e intensa la sua, vissuta consapevolmente sulla propria pelle e sull’orlo del precipizio, tra Eros e Thanatos, tra peccato e redenzione, tra droga e filosofia. Zoë nasce nel 1962 e giovanissima si lega a movimenti
studenteschi di protesta come figura teorica e organizzativa di primo piano, mentre a diciassette anni diventa assistente e compagna del filmmaker e critico Edouard (Yves) de Laurot. Il suo talento musicale in quegli anni é impressionante, ma lei ritiene che sia il cinema l’arte che le può permettere di veicolare ed esprimere in maniera decisiva le proprie rivoluzionarie teorie e convinzioni. L’incontro con Abel Ferrara le cambia la vita e probabilmente il destino...Grazie alla notorietà che “L’Angelo della Vendetta” le regala, Zoë si trasferisce a Los Angeles col suo compagno, che si spaccia furbescamente per Abel Ferrara (il vero Abel racconta che quando arrivò ad Hollywood, anni dopo, molti pensavano di averlo già conosciuto). I due cercano finanziamenti per gli innumerevoli progetti dell’attrice, arrivando a incontrare tra gli altri Francis Ford Coppola e Warren Beatty, ma la sofferenza e la pulsione autodistruttiva divorano Zoë, che cerca sempre più conforto e fuga nelle droghe (descriverà, in seguito, queste esperienze nel film “The Self-Destruction of Gia” su Gia Giarandi). In questo periodo Zoë fa la modella per guadagnarsi da vivere, ma vanno anche ricordate la sua doppia interpretazione nel film “Special Effects” del 1984 (diretto da Larry Cohen) e la partecipazione al documentario “Heavy Petting”, nel quale diversi personaggi famosi, tra cui William Burroughs e Allen Ginsberg, raccontano le loro prime esperienze sessuali. Zoë scrive, nel frattempo, numerosi racconti, romanzi e addirittura quindici sceneggiature, sempre incentrati sui temi della colpa e della possibile redenzione, ma é assolutamente incapace di chiudere le lunghe trattative per farli pubblicare. Nel 1992 scrive la sceneggiatura del capolavoro ferrariano “Il cattivo tenente”, in cui interpreta anche una tossicodipendente spacciatrice, rendendo evidente l’assunto scorsesiano che “i peccati si scontano per le strade e non in chiesa”. Nel 1993 scrive, dirige e interpreta un brevissimo corto intitolato “Hot Ticket”. La sua irriducibile diversità la porta ad autodistruggersi... muore infatti a Parigi all’età di 37 anni, a causa di un infarto per abuso di cocaina. “I vampiri sono fortunati. Si nutrono degli esseri che trovano. Invece noi divoriamo noi stessi. Dobbiamo mangiare le nostre gambe per trovare la forza di camminare. Dobbiamo arrivare per potere andar via. Dobbiamo succhiarci fino in fondo. Dobbiamo divorarci da soli, finché non resta nient’altro che la fame. Noi diamo, diamo e diamo come pazzi. Non credo che tutto questo abbia senso. Non significa niente. Gesù ha detto: settanta volte sette, nessuno riuscirà mai a capire perché l’hai fatto, ti abbiamo già dimenticato il mattino dopo. Peccato.” (Zoë Lund in “Il Cattivo Tenente”)
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9 Lives of a Wet Pussy
1976
Regia: Jimmy Boy L. (alias di Abel Ferrara); sceneggiatura: Nicholas St. John; montaggio: Jimmy Lane (alias di Abel Ferrara), K. James Lovttit; fotografia: Francis Delia (colore); musiche: Joe Delia; suono: John Paul McIntyre; trucco: Lois Brown, Mike Stigliano; aiuto regia: Holly Yellen; interpreti: Pauline LaMonde, Dominique Santos, Joy Sliver, David Pirell, Shaker Lewis, Nicholas St. John, Tony Richards, Peggy Johnson, Abel Ferrara, Everett East, Ack Ming; direttore di produzione: Marc Levitt; produttore: Rochelle Weisberg; casa di produzione: Navaron Films; distribuzione: VCX (USA) DVD, Navaron Films (USA); luoghi delle riprese: New York City; paese: USA; anno: 1976; durata: 70’ (63’ cut version).
Abel Ferrara
Le avventure sessauli di due giovani donne newyorkesi; film hard d’un giovanissimo Jimmy Boy L. che forse ha firmato quest’opera con un po’ di disagio.
Not Guilty: For Keith Richards (documentario)
1977
regia: Abel Ferrara, Babeth Mondini; fotografia: Abel Ferrara, Babel Mondini; montaggio, musiche, produzione: Babeth Mondini; interpreti: Abel Ferrara, Susan Andrews; paese: USA; anno: 1977; durata: 5’. Cortometraggio andato perduto riutilizzato in ‘Chealse on the Rocks’.
The Driller Killer
filmografia completa a cura di Alessio Galbiati e Paola Catò
Nicky’s Film (cortometraggio)
1971
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John (Nicodemo Oliverio); fotografia: 1.37:1, bianco e nero; interpreti: Nicholas St. John, Abel Ferrara, Nadia Von Loewenstein; paese: USA; anno: 1971; durara: 6’. Il primo film di Ferrara, scritto ed interpretato dal suo amico Nocodelmo Oliverio, pseudonimo di Nicholas St. John. E’ una sorta di sogno astratto, in bianco e nero e senza suono. Ne è rimasta un’unica copia su video tape.
The Hold Up (cortometraggio)
La storia di un giovane della classe operaia che decide di aiutare i compagni di lavoro quando prendono l’iniziativa di aprire un benzinaio ha una struttura narrativa molto più chiara del film precedente. Anche di quesyo l’unica copia rimasta è su VHS.
Could This Be Love?
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; fotografia: Ken Kelsch, James Lemmo (1.37:1, colore); montaggio: Bonnie Constant, Michael Constant, Abel Ferrara, Orlando Gallini; musiche: Joe Delia; suono: John Paul McIntyre, Richard Weigle; operatore: David Sperling; trucco: Rita Gooding; effetti speciali: David E. Smith; dipinti e artwork: D.A. Metrov (Douglas Metro); interpreti: Abel Ferrara, Carolyn Marz, Baybi Day, Harry Schultz, Alan Wynroth, Maria Helhoski, James O’Hara, Richard Howorth, Louis Mascolo, Tommy Santora, Rita Gooding, Chuck Saaf, Gary Cohen, Janet Dailey, Joyce Finney; produttore: Rochelle Weisberg; direttore di produzione: Mary Kane; casa di produzione: Navaron Productions; luoghi delle riprese: New York City; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1979; durata: 96’ (94’ cut version - 96’ uncut version). Un exploitation movie ispirato ai B-movie, in cui Ferrara stesso recita sotto lo pseudonimo di Jimmy Laine; un pittore che entra in profonda crisi, sollecitato da un atroce complesso punk, fino ad impazzire ed uccidere diverse persone con un trapano elettrico. Alcuni aspetti della storia si basano sulla vita del pittore e musicista Douglas Metro e su alcune esperienze fatte da questi e da Ferrara mentre vivevano in un appartamento in lower Manhattan.
1972
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Abel Ferrara e Nicholas St. John; fotografia: Hasi Vogel (1.33:1, bianco e nero); suono: Brendon Jones, John Paul McIntyre; effetti visivi: Lynn Doodkin; titoli: Lynn Doodkin; produttore: John Howard; interpreti: Ken Fowler, Mary Kane, Robert G. Denison, Joe Guida, Joseph Capecchi, John Paul McIntyre, Chris Daviantes, Jonathan Mack, Ken Wilson, Abel Ferrara (voce del protagonista); luoghi delle riprese: New York City; formato: 16 mm; paese: USA; anno: 1972; durata: 14’.
1973
Regia e sceneggiatura: Abel Ferrara; montaggio: Joseph Burton; fotografia: Jon Rosen, Francis Delia (1.33:1, colore); musiche: Dennis Gray; suono: John Paul McIntyre; aiuto regista: Hasi Vogel; art department: Linda Clements, Douglas Gervasi, Nadia Von Loewenstein; produttore: Claude Ramirez; casa di produzione: Caution Films; distribuzione: Aurora (Brazil) DVD; luoghi delle riprese: New York City; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1973; durata: 29’. Il più ambizioso dei primi corti di Ferrara. Prima descrive l’incontro a sfondo sessuale tra una pittrice, la sua amante - che posa come modella - ed una prostituta. Poi si focalizza su una cena organizzata dal marito della pittrice. Infine la prostitua si presenta fingendosi la cugina della modella.
1979
Ms. 45 (Angel of Vengeance)
1981
titolo italiano: L’angelo della vendetta Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; fotografia: James Lemmo (1.37:1 - 1.85:1, colore); montaggio: Christopher Andrews; musiche: Joe Delia; suono: Christopher Andrews, Jack Cooley, Kathleen King, John Paul McIntyre; music editor: Christopher Andrews; architetto-scenografo: Ruben Masters; trucco: Lisa Monteleone; effetti speciali: Sue Dalton, John Paul McIntyre, Matt Vogel; interpreti: Zoë Lund, Albert Sinkys, Darlene Stuto, Helen McGara, Nike Zachmanoglou, Abel Ferrara, Peter Yellen, Editta Sherman, Vincent Gruppi, S. Edward Singer, Stanley Timms, Faith Peters, Lawrence Zavaglia, Alex Jachino, Jack Thibeau; produttore: Rochelle Weisberg; casa di produzione: Navaron Productions; luoghi delle riprese: New York City; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1981; durata: 80’. La pima insolita figura di giustiziere urbano nella carriera cinematografica di Ferrara si incarna in una ragazza muta che lavora in una sartoria e viene violentata due volte nello stesso pomeriggio. Dopo aver ucciso il secondo stupratore prende la sua pistola e inizia ad amministrare la sua personale giustizia. Ferrara stravolge il modello di quei film che rappresentano lo stupro e la successiva vendetta, un sottogenere popolare in quel periodo, che mette in scena una visione femminile e distorta.
Fear City
1984
titolo italiano: Paura su Manhattan Regia: Abel Ferrara; sceneggiatore: Nicholas St. John; fotografia: James Lemmo (1.85:1, colore); montaggio: Jack W. Holmes, Anthony Redman; musiche: Dick Halligan; suono: Terry Lynn Allen, George H. Anderson, John Duffy, Scott Hecker, Mark P. Stoeckinger; sound
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mixer: James M. Tanenbaum; scenografie: Vincent M. Cresciman; arredatore: Cricket Rowland; costumi: Linda M. Bass; makeup: Francesca Maxwell; casting: Johanna Ray; aiuto regia: Peter Manoogian; coreografo: Kathryn Doby; coreografia arti marziali: Harlan Cary Poe; titoli: Dale Tate; supervisione alla sceneggiatura: Kathryn Zatarga; interpreti: Tom Berenger, Billy Dee Williams, Jack Scalia, Melanie Griffith, Rossano Brazzi, Rae Dawn Chong, Joe Santos, Michael V. Gazzo, Jan Murray, Janet Julian, Daniel Faraldo, Maria Conchita Alonso, Ola Ray, Cihangir Gaffari, Emilia Crow; stunt: Pat Banta, Justin De Rosa, Arnaldo L. Díaz, Sidney Filson, Daryle Ann Lindley; produttore: Bruce Cohn Curtis; executive producer: Tom Curtis, Stanley R. Zupnik; production manager: Michael Fottrell; case di produzione: Twentieth Century-Fox Film Corporation, ZupnikCurtis Enterprises, Rebecca Productions; luoghi delle riprese: New York City, Raleigh Studios - Hollywood; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1984; durata: 96’. E’ un thriller violento, tra exploitation e un tipicissimo crime move, girato anche di notte, che racconta la storia di un ex boxer rimasto traumatizzato dalla morte di un avversario sul ring, e che gestisce con un amico un’agenzia che fornisce ragazze a strip club. Un killer esperto in arti marziali inizia ad assalire le ragazze.
Miami Vice (TV)
1985
Abel Ferrara ha diretto due episodi della celebre serie tv prodotta da Michael Mann. The Home Invaders (Stagione 1, Episodio 19). Messa in onda: 15 marzo 1985. The Dutch Oven (Season 2, Episode 4). Messa in onda: 25 ottobre 1985.
The Gladiator (TV)
1986
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatore: William Bleich (writer); fotografia: James Lemmo (1.33:1, colore); montaggio: Herbert H. Dow; musiche: David Michael Frank; suono: Phillip Seretti, Don Summer, Janja Vujovich; scenografie: Richard La Motte; arredatore: Richard Hench; casting: Susan Glicksman; trucco: Ann Marie D’Angelo; supervisione alla sceneggiatura: Jesse Long; production manager: Claude Lawrence Jr.; aiuto regia: Michael Kennedy, Robert J. Koster; stunt: Gary Epper, Richard Epper; interpreti: Ken Wahl, Nancy Allen, Robert Culp, Stan Shaw, Rosemary Forsyth, Brian Robbins, Rick Dees, Bart Braverman, Michael Young, Harry Beer, Garry Goodrow, Robert Phalen, Linda Thorson, Mary Baldwin, Thom Bierdz; produttore: Robert Lovenheim; executive producers: Tom Schulman, Jeffrey Walker, Michael Chase Walker; case di produzione: Walker Brothers Productions, New World Television; distribuzione: American Broadcasting Company (ABC); produttore: Rochelle Weisberg; casa di produzione: Navaron Productions; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1986; durata: 98’. Un enigmatico guidatore si getta contro altre macchine in autostrada e nelle vie della città. Il fratello della vittima di uno degli scontri decide di agire diventando un vendicatore motorizzato che punisce chiunque commetta violazioni alla guida. Diretto dopo aver preso parte in Miami Vice, è un episodio pilota per una serie mai realizzata.
Crime Story (TV)
1986
Abel Ferrara ha diretto due “piloti” della serie ideata da Chuck Adamson e Gustave Reininger per la Michael Mann Productions. Pilot #1 (Season 1, Episode 1). Messa in onda: 18.09.1986 Pilot #2 (Season 1, Episode 2). Messa in onda: 18.09.1986 Ferrara ha diretto il pilota di una nuova serie prodotta da Michael Mann dopo Miami Vice. La storia si svolge a Chicago, nel 1963, e descrive la lotta contro il crimine organizzato condotta dall’insolito tenente Mike Torello, un poliziotto duro, scettico e colto con una vita matrimoniale piuttosto caotica, interpretato dall’ex poliziotto Dennis Farina.
China Girl
Vestron Pictures; luoghi delle riprese: New York City, Raleigh Studios - Hollywood; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1987; durata: 96’. Una personalissima rivisitazione della storia di Romeo e Giuliettae e dei giovani in West Side Story dove Montecchi e Capuleti diventano due clan, uno cinese e uno italiano. La giovane coppia tenta di tenere la relazione fuori dalla rivalità tra famiglie. Ferrara lo considera uno dei suoi film preferiti.
Cat Chaser
1989
titolo italiano: Oltre ogni rischio Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: James Borrelli e Elmore Leonard da un romanzo di Elmore Leonard; fotografia: Anthony B. Richmond; montaggio: Anthony Redman; musiche: Chick Corea; suono: Charles R. Beith Jr., Dino Dimuro, G. Michael Graham, Dan Hegeman, Grover B. Helsley, Dave McMoyler, Henri Lopez (sound mixer); scenografie: Dan Leigh; arredatore: C.J. Simpson; casting: Diane Dimeo; costumi: Michael Kaplan; trucco: Julie HillParker, Timothy Huizing; effetti speciali: Greg Hull; aiuto regista: Louis D’Esposito, Glen Trotiner; stunts: Jay Amor, Denver Mattson, Mario Ortiz; interpreti: Peter Weller, Kelly McGillis, Charles Durning, Frederic Forrest, Tomas Milian, Juan Fernández, Kelly Jo Minter, Phil Leeds, Tony Bolano, Adrienne Sachs, Roberto Escobar, Millie Ruperto, Vivian Addison, Brooke Becker, Fara Schiller; distribuzione: American Broadcasting Company (ABC); produttori: William N. Panzer, Peter S. Davis; produttori esecutivi: Guy Collins, Josi W. Konski; produttore associato: Mari Provenzano; case di produzione: Vestron Pictures; Whiskers Productions Inc.; luoghi delle riprese: Laguna Studios, Laguna Beach, California, USA - Miami Beach, Florida, USA - San Juan, Puerto Rico; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1989; durata: 90’. Adattamento cinematografico di un romanzo di Elmore Leonard, uno degli scrittori più amati dal regista. E’un thriller complesso fitto di interessi ed intrighi politici che si svolge metà in Florida e metà a Santo Domingo, con Peter Weller nella parte di un ex marine schiacciato dal peso di un passato sanguinoso. I produttori del film ne tagliarono parti sostanziali.
King of New York
1990
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; fotografia: Bojan Bazelli (1,85:1, colore); montaggio: Anthony Redman; musiche: Joe Delia; suono: Drew Kunin; scenografie: Alex Tavoularis; architetto-scenografo: Stephanie Ziemer; arredatore: Sonja Roth, Stephanie Ziemer; costumi: Carol Ramsey; costumista: Emelle Holmes; trucco: Ron Abrams, Carla White; aiuto regista: David Sardi; casting: Randy Sabusawa; stunts: Bill Anagnos, Carl Ciarfalio, Andy Duppin, Frank Ferrara, Gene Harrison, Jim Lovelett, Chuck Margiotta, Cynthia Neilson, Hugh Aodh O’Brien, Mick O’Rourke, Michael Russo, Manny Siverio, Jeff Ward; interpreti: Christopher Walken, David Caruso, Laurence Fishburne, Victor Argo, Wesley Snipes, Janet Julian, Joey Chin, Giancarlo Esposito, Paul Calderon, Steve Buscemi, Theresa Randle, Leonard L. Thomas, Roger Guenveur Smith, Carrie Nygren, Ernest Abuba; direttore di produzione: Mary Kane, Diana Phillips; prodottore: Mary Kane, Augusto Caminito; produttore esecutivo: Jay Julien, Vittorio Squillante; produttore associato: Randy Sabusawa; case di produzione: Caminito, The Rank Organisation, Reteitalia, Scena International; luoghi delle riprese: 5th Avenue, Brooklyn, Fifth Avenue, Manhattan, Ossining, Queensboro Bridge, Times Square Subway Station, Times Square, Plaza Hotel (750 Fifth Avenue), Saranac Lake, Sing Sing Penitentiary (354 Hunter Street); lingue: Inglese, Spagnolo; formato: 35mm; paese: Italia, USA, UK; anno: 1990; durata: 103’. Ferrara iniziò ad essere noto con questo thriller edonistico, asciutto, violento, morale e notturno che si muove al ritmo dello street hip-hop. Christopher Walken, nel primo film con il regista, interpreta un gangster che esce di prigione e tenta di prendere il controllo della città entrando in conflitto con i clan degli italiani, degli asiatici e dei colombiani, e che da soldi ad un ospedale nel Bronx che si trova costretto a chiudere.
1987
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; fotografia: Bojan Bazelli (1.33:1, colore); montaggio: Anthony Redman; musiche: Joe Delia; scenografie: Dan Leigh; arredo: Leslie E. Rollins; costumi: Richard Hornung; trucco: Cydney Cornell, Katherine James; casting: Marcia Shulman; aiuto regia: Louis D’Esposito, David Sardi; effetti speciali: Matt Vogel; interpreti: James Russo, Richard Panebianco, Sari Chang, David Caruso, Russell Wong, Joey Chin, Judith Malina, James Hong, Robert Miano, Paul Hipp, Doreen Chan, Randy Sabusawa, Keenan Leung, Lum Chang Pan, Sammy Lee; produttori: Mitchell Cannold, Mary Kane, Michael Nozik, Steven Reuther; case di produzione: Great American Films Limited Partnership, Street Lite,
Bad Lieutenant
1992
titolo italiano: Il cattivo tenente Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Victor Argo, Paul Calderon, Abel Ferrara, Zoë Lund; fotografia: Ken Kelsch (1.85:1, colore); montaggio: Anthony Redman; musiche: Joe Delia; sonoro: Michael P. Cook, Denis Dutton, James Koford, Allan Schultz, Randall K. Tomlin, Clancy T. Troutman; scenografie: Charles M. Lagola; arredatore: Stephanie Carroll; costumi: David Sawaryn; acconciature: Cydney Cornell; makeup: Joe Cuervo; interpreti: Harvey Keitel, Victor Argo, Paul Calderon, Leonard L. Thomas, Robin Burrows, Frankie Thorn, Victoria Bastel, Paul Hipp, Brian McElroy, Frankie Acciarito, Peggy
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Gormley, Stella Keitel, Dana Dee, Anthony Ruggiero, Vincent Laresca; casa di produzione: Bad Lt. Productions; produttore: Mary Kane, Edward R. Pressman; co-produttore: Randy Sabusawa; produttore esecutivo: Patrick Wachsberger, Ronna B. Wallace; luoghi delle riprese: Bronx, Madison Square, Manhattan e Port Authority Bus Terminal a New York City, Jersey City; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1992; durata: 96’. Il film distintamente più morale di Ferrara: Harvey Keitel interpreta un tenente della polizia ossessivo e compulsivo, che si intasca le droghe degli spacciatori che arresta, gioca con le prostitute e perde incredibili somme di denaro con le scommesse sportive. Il casp di una giovane infermiera, violentata con un crocefisso sull’altare della chiesa, gli fornisce la sua personale redenzione.
Body Snatchers
1993
titolo italiano: Ultrcorpi - l’invasione continua Regia: Abel Ferrara; soggetto: Raymond Cistheri, Larry Cohen; sceneggiatura: Stuart Gordon, Dennis Paoli, Nicholas St. John dal romazo di Jack Finney;; montaggio: Anthony Redman; fortografia: Bojan Bazelli (2.35:1, colore); musiche: Joe Delia; scenografie: Peter Jamison; architetto-scenografo: John Huke; arredatore: Linda Spheeris; costumi: Margaret Mohr; trucco: Joe Cuervo; assistente alla regia: Drew Ann Rosenberg, Robert J. Wilson; casting: Ferne Cassel; Tonya S. Holly; interpreti: Gabrielle Anwar, Terry Kinney, Billy Wirth, Christine Elise, R. Lee Ermey, G. Elvis Phillips, Reilly Murphy, Kathleen Doyle, Forest Whitaker, Meg Tilly, Stanley Small, Tonea Stewart, Keith Smith, Winston E. Grant, Phil Neilson; casa di produzione: Warner Bros. Pictures; produttore: Robert H. Solo; coproduttore: Michael Jaffe; produttore associato: Kimberly Brent; luoghi delle riprese: Craig Air Force Base (Selma, Alabama, USA), Selma (Alabama, USA); paese: USA; anno: 1993; durata: 87’. E’ il terzo adattamento del romanzo di Jack Finney su degli esseri da un altro pianeta atterrati sulla terra si impadroniscono dei corpi delle persone. E’ il film più costoso di Ferrara (una produzione Hollywoodiana) ed ha un’ambientazione diversa dalle due precedenti versioni, trasportando l’azione im un campo dell’esercito. Come dice lo stesso Ferrara, questa storia è davvero inquietante.
Dangerous Game
1993
titolo italiano: Occhi di serprente Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; montaggio: Anthony Redman; fotografia: Ken Kelsch (1.85:1, colore); musiche: Joe Delia; sonoro: Michael Barosky, Jessica Caggiano, Stuart Levy, Greg Sheldon; scenografie: Alex Tavoularis; architetto-scenografo: Nathan Crowley; arredatore: Stephanie Ziemer; costumi: Marlene Stewart; makeup: Joe Cuervo, Raqueli Dahan; aiuto regia: Terry Miller; casting: Randy Sabusawa; interpreti: Harvey Keitel, Madonna, James Russo, Nancy Ferrara, Reilly Murphy, Victor Argo, Leonard L. Thomas, Christina Fulton, Heather Bracken, Glenn Plummer, Niki Munroe, Lori Eastside, John Snyder, Adina Winston, Dylan Hundley; case di produzione: Cecchi Gori Europa N.V., Eye Productions, Maverick Picture Company, Pentamerica; prodottore: Mary Kane; produttore esecutivo: Freddy De Mann, Ron Rotholz; luoghi delle riprese: Los Angeles, New York; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1993; durata: 108’. Un filmmaker indipendente (Harvey Keitel) inizia a girare un film che ritrae l’ultima notte di una coppia in crisi. L’attrice protagonista del film, intitolato “Mother of Mirrors” è in cerca di riconoscimento artistico. Il fatto che il personaggio sia interpretato da Madonna è solo uno dei tanti elementi che collocano questo film a cavallo tra fiction e documentario.
The Addiction
1995
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; montaggio: Mayin Lo; fotografia: Ken Kelsch (1.85:1, bianco e nero); musiche: Joe Delia; suono: Bob Barnes, Héctor Cordero, Andrew Edelman, Clancy T. Troutman; scenografie: Charles M. Lagola; architettoscenografo: Beth Curtis; arredatore: Sara Baldocchi, Mary Prlain; costumi: Melinda Eshelman; trucco: Patricia Regan, Linda Grimes; aiuto regia: Randy Fletcher, Dean Garvin, Evan Labb, Glen Trotiner; stunts: Ren Campbell, Blaise Corrigan, Phil Neilson; interpreti: Lili Taylor, Christopher Walken, Annabella Sciorra, Edie Falco, Paul Calderon, Fredro Starr, Kathryn Erbe, Michael Imperioli, Jamal Simmons, Michael A. Fella, Louis Katz, Leroy Johnson, Fred Williams, Avron Coleman, Lisa Casillo; case di produzione: Fast Films, Guild, October Films; prodottori: Fernando Sulichin, Denis Hann; produttori esecutivi: Preston L. Holmes, Russell Simmons; luoghi delle riprese: New York City; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1995; durata:
82’. Una studentessa di filosofia, interpretata da Lili Taylor, è alla ricerca delle ragioni per cui l’umanità nel corso della storia ha commesso un’enormità di massacri. La giovane viene assalita da una donna vampiro e condannata a vagare tra i non-morti. Un film con ispirazioni personali del regista sull’esperienza della dipendenza, girato in un crudo bianco e nero e che niente ha a che vedere con i film sui vampiri.
California
1996
videoclip della cantante Mylène Farmer. Regia: Abel Ferrara; fotografia: Ken Kelsch; musiche originali: Laurent Boutonnat, Mylène Farmer; trucco e parrucco: Pierre Vinuesa; intepreti: Mylène Farmer, Giancarlo Esposito; case di produzione: Polydor, Toutankhamoun; paese: USA, Francia; anno: 1996; durata: 5’. Stip-bar, donne oggetto, usi ed abusi; il Ferrara pensiero in cinque velocissimi minuti. Più che un video, un manifesto estetico.
The Funeral
1996
titolo italiano: Fratelli Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Nicholas St. John; fotografia: Ken Kelsch (1.85:1, colore); montaggio: Mayin Lo, Jim Mol, Bill Pankow; musiche: Joe Delia; suono: Jason Canova, Rosa HowellThornhill, Fred Rosenberg, Greg Sheldon, Jeffrey Stern, Mel Zelniker; scenografie: Charles M. Lagola; architetto-scenografo: Beth Curtis; arredatore: Diane Lederman; costumi: Melinda Eshelman; trucco e parrucco: Patricia Regan, Nancy Tong; aiuto regia: Noga Isackson; casting: Ann Goulder; case di produzione: C&P Productions, MDP Worldwide, October Films; produttore: Mary Kane; produttori associati: Annabella Sciorra, Jay Cannold, Russell Simmon; produttori esecutivi: Michael Chambers, Patrick Panzarella, Randy Sabusawa; luoghi delle riprese: New York City; lingue: Inglese, Italiano; paese: USA; anno: 1996; durata: 99’. In piedi innanzi alla bara del fratello assassinato, i membri di un clan mafioso rivivono il passato. Un Ferrara vagamente neo-classico ma come sempre abilissimo nel creare una composizione di personaggi che vivono al limite, interpretati da un cast degno di nota: Christopher Walken, Annabella Sciorra, Chris Penn, Benicio del Toro, Isabella Rossellini e Vincent Gallo. E’ l’ultimo film scritto da aNicholas St. John.
The Blackout
1997
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Abel Ferrara, Marla Hanson, Christ Zois; fotografia: Ken Kelsch; montaggio: Jim Mol, Anthony Redman; musiche: Joe Delia; sonoro: Gary Alper, Greg Curry, T.W. Davis; Patrick Derivaz, Jason England, Bill Fox, Andrew Greene, Erik Horvitz, Sean Keegan, Jeffrey L. Sandler, Gary Solomon, Dan Thomas, Clancy T. Troutman, Jeff Wannberg; scenografie: Richard Hoover; architetto-scenografo: Ren Blanco; arredatore: Valarie Wise; costumi: Melinda Eshelman; trucco e parrucco: Jay Cannistraci, Donna Battersby Greene; effetti speciali: John Patteson; stunts: Jay Amor, Jim Vickers; casting: Lori Eastside; interpreti: Matthew Modine, Claudia Schiffer, Béatrice Dalle, Sarah Lassez, Dennis Hopper, Steven Bauer, Laura Bailey, Nancy Ferrara, Andrew Fiscella, Vincent Lamberti, Victoria Duffy, Nicholas De Cegli, Daphne Duplaix, Mercy Lopez, Lori Eastside; case di produzione: CIPA, Les Films Number One, MDP Worldwide; produttori: Clayton Townsend, Edward R. Pressman; coproduttori: Michel Chambat, Pierre Kalfon; produttori associati: Jay Cannold; produttori esecutivi: Alessandro Camon, Mark Damon; luoghi delle riprese: Miami, New York City; formato: 35 mm; paese: USA, Francia; anno: 1997; durata: 98’. Una star di Hollywood perde il già scarso controllo rimastogli quando la sua donna gli dice di avere abortito. Nonostante passato un po’ di tempo sembra essersi ripreso tra le braccia di una rassicurante giovane interpretata da Claudia Schiffer, il male di nuovo si manifesta nella sua coscienza. Un viaggio da New York a Miami carico di droga, follia e oscuri labirinti della memoria. 1997
Subway Stories: Tales from the Underground (TV)
film collettivo a episodi diretto da 10 registi: Jonathan Demme (ep. “Subway Car from Hell”), Craig McKay (episodio “The Red Shoes”), Bob Balaban (ep. “The 5: 24”), Patricia Benoit (ep. “Fern’s Heart of Darkness”), Seth Zvi Rosenfeld (ep. “The Listeners”), Lucas Platt (ep. “Underground”), Alison Maclean (ep. “Honey-Getter”), Julie Dash (ep. “Sax Cantor Riff”), Abel Ferrara (ep. “Love on the A Train”), Ted Demme (ep. “Manhattan Miracle”); case di produzione: Clinica Estetico, HBO
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NYC Productions, Ten in a Car Productions; produttori: Richard Guay, Valerie Thomas; produttori associati: Victoria Westhead; produttori esecutivi: Jonathan Demme, Rosie Perez, Edward Saxon; luoghi delle riprese: New York City; anno: 1997; paese: USA; durata: 80’.
Love on the A Train
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Marla Hanson; interpreti: Rosie Perez, Mike McGlone, Gretchen Mol; montaggio: Elizabeth Kling; fotografia: Ken Kelsch; musiche: Mecca Bodega; durata: 10’ ca. Un film Tv prodotto da Jonathan Demme per HBO, che racconta dieci storie ambientate nella metropolitana di New York. Ferrara ha diretto la nona, Love on the A Train, centrata sulla relazione tra un uomo e una donna che per nove mesi si guardano e solo a malapena si sfiorano all’interno della carrozza.
New Rose Hotel
1998
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Abel Ferrara, Christ Zois da un racconto di William Gibson; montaggio: Jim Mol, Anthony Redman; fotografia: Ken Kelsch (1.85:1, colore); musiche: Schooly-D; sound editor: Philippe Desloovere, Tony Pipitone, Randy Ward; scenografie: Frank DeCurtis; arredatore: Rich Devine; costumi: David C. Robinson; trucco: Lynn Campbell; acconciature: Deanna; aiuto regista: Noga Isackson, Howard McMaster; effetti visivi: Dante D. Bruno, Paul Killian, Kris Schumacher; stunts: John R. Favre, Phil Neilson, Brian Smyj; interpreti: Christopher Walken, Willem Dafoe, Asia Argento, Annabella Sciorra, John Lurie, Kimmy Suzuki, Miou, Yoshitaka Amano, Gretchen Mol, Phil Neilson, Ken Kelsch, Andrew Fiscella, Rachel Glass, Roberta Orlandi, Erin Jermaine Serrano; case di produzione: Edward R. Pressman Film, Quadra Entertainment; produttore: Edward R. Pressman; co-produttori: Willem Dafoe, Christopher Walken, Adam Brightman; produttore associato: Milena Cannaro; produttori esecutivi: Alessandro Camon, Jay Cannold, Gregory G. Woertz; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 1998; durata: 93’. Il mondo delle mega-corporation, dell’ingegneria genetica, del traffico illegale di informazioni e dello spionaggio industriale con il tocco di Abel Ferrara, ispiratosi alla storia scritta da William Gibson. Christopher Walken e Willem Dafoe, che hanno co-prodotto il film, devono conquistarsi la fiducia di un ingegnere giapponese e ingaggiano come complice una prostituta interpretata da Asia Argento. Tra cyberpunk e noir.
‘R Xmas
2001
titolo italiano: Il nostro Natale. Regia: Abel Ferrara; soggetto: Cassandra De Jesus; sceneggiatura: Abel Ferrara, Scott Pardo; montaggio: Patricia Bowers, Bill Pankow, Suzanne Pillsbury; fotografia: Ken Kelsch; musiche: Schooly-D; sonoro: Jeff Pullman, Marsha Moore, Dow McKeever, Raymond Karpicki; scenografie: Frank DeCurtis; arredatore: Guido DeCurtis; costumi: Debra Tennenbaum; trucco: Maryann Marchetti, Evelyne Noraz; acconciature: Thom Timan; aiuto regista: Vebe Borge, Louis Guerra; interpreti: Drea de Matteo, Lillo Brancato, Lisa Valens, Ice-T, Victor Argo, Denia Brache, Gloria Irizarry, Naomi Morales, Nelson Vasquez, Andrew Fiscella, Thomas Murray, Edwin Martinez, Janis Corsair, Anne Ackerman, Frank Cuervo; case di produzione: Valence Films Inc., Barnholtz Entertainment; produttore: Pierre Kalfon; produttori associati: Cassandra De Jesus, Tony Trimarco; coproduttori: Denis Heraud, Richard Klug, Frank DeCurtis; produttori esecutivi: Barry Amato, Stefano Celesti; luoghi delle riprese: New York City; lingue: Inglese, Spagnolo; paese: USA, Francia; anno: 2001; durata: 85’. Il film è ambientato nella New York del 1993, poco prima dell’ascesa del Sindaco Rudolph “Tolleranza Zero” Giuliani, e mostra la quotidianità di una coppia di trafficanti di droga centroamericani sotto le feste natalizie. Tutto scorre tranquillo e normale fino a che il marito viene rapito da un gruppo di trafficanti di colore, con cui la coppia fa affari, interessata ad impadronirsi dei loro soldi ma anche ad esprimere giudizi morali sul loro “bizzarro” stile di vita.
Mary
2005
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Abel Ferrara, Mario Isabella, Simone Lageoles, Scott Pardo; fotografia: Stefano Falivene (1.85:1, colore); montaggio: Patrizio Marone, Adam Mcclelland, Fabio Nunziata, Langdon Page, Julia Ruell; musiche: Francis Kuipers; sonoro: Marco Coppolecchia, Chris David, Claudio Marani; scenografie: Frank DeCurtis; architetto-scenografo: Monica Sallustio; costumi: Frank DeCurtis, Silvia Nebiolo; direttore di prodzione: Costanza Coldagelli, Rocky Ziegler; casting: Matteo Mussoni; interpreti: Juliette Binoche,
Forest Whitaker, Matthew Modine, Heather Graham, Marion Cotillard, Stefania Rocca, Marco Leonardi, Luca Lionello, Mario Opinato, Elio Germano, Emanuela Iovannitti, Chiara Picchi, Angelica Di Majo, Ettore D’Alessandro, Alex Grazioli; case di produzione: Wild Bunch, Associated Film, Central Films, De Nigris Productions, Surreel; produttori: Fernando Sulichin, Roberto De Nigris, David Hausen; coproduttori: Jean-Pierre Marois, Thierry Klemeniuk, Frank DeCurtis; produttore associato: Lewis Saul; produttori esecutivi: Riccardo Neri, Jean Cazes; luoghi delle riprese: New York City, Gerusalemme, Matera, Roma; formato: 35 mm; lingue: Inglese, Ebraico, Francese; paese: Italia, Francia, USA; anno: 2005; durata: 83’. Dopo aver terminato le riprese di un film su Gesù Cristo. l’attrice che interpreta il ruolo di Maria Maddalena (Juliette Binoche) decide di andare a Gerusalemme a risolvere alcuni dubbi che interpretare il personaggio ha sollevato in lei. Dopo un anno, a New York, un giornalista presenta una serie televisiva sulla figura storica di Gesù. In questo film Ferrara si mette faccia a faccia con la tematica della religione.
Go Go Tales
2007
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Abel Ferrara; fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Fabio Nunziata; musiche: Francis Kuipers; suono: Paolo Amici, Maurizio Argentieri, Silvia Moraes, David Quadroli, Fabrizio Quadroli; scenografie: Frank DeCurtis; arredatore: Corinna Ughi; costumi: Gemma Mascagni; trucco: Giancarlo Del Brocco; parrucco: Giammarco Gaeta, Marco Perna, Aldo Signoretti; effetti speciali: Maurizio Corridori; effetti visivi: Bruno Albi Marini, Stefano Camberini; operatore e steadicam: Luigi Andrei; aiuto regista: Federico Ferrario, Alberto Mangiante, Barbara Pastrovich, Gianluigi Tarditi, Alessandra Balestra; casting: Gillian Hawser; interpreti: Willem Dafoe, Bob Hoskins, Matthew Modine, Asia Argento, Lou Doillon, Roy Dotrice, Frankie Cee; produttori: Enrico Coletti, Massimo Cortesi, Oriane Gay, Paolo Lucidi; luoghi delle riprese: Roma, Cinecittà Studios, New York City; paese: Italia, USA; anno: 2007; durata: 96’. Il “Ray Ruby’s Paradise” è molto più di un locale per spogliarelliste: è una fabbrica di sogni per ballerine in cerca di fortuna, gestita dal carismatico Ray Ruby e da una serie di personaggi che gli ruotano intorno, altrettanto stravaganti. Ray Ruby, coperto di debiti, sta disperatamente cercando di non far chiudere il suo locale, dove le più belle ragazze “GoGo” non sono delle semplici lap-dancers ma appartengono all’agenzia di talenti “Ray of Hope” (Raggio di speranza) che promette loro di diventare, forse un giorno, superstar di Hollywood. La storia si svolge tutta in una sola notte, dal tramonto all’alba, a Manhattan, nel night club di Ray, costretto a scontrarsi con i debiti e con la proprietaria dello stabile, stanca di non ricevere l’affitto. Suo fratello Johnie, inoltre, vorrebbe “staccare la spina” del Paradise e ha deciso di non finanziare oltre il locale. Ma il sognatore che è in Ray ha la meglio e, grazie al consiglio dell’amico Jay, decide di investire i risparmi di una vita in un “mega sistema” nel tentativo di vincere la lotteria. Ciò che ne consegue è uno spettacolo quanto mai divertente e surreale: vince ma, ironia della sorte, ha smarrito il biglietto della lotteria! Chissà se lo ritroverà…
Chelsea on the Rocks (doc)
2008
Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Abel Ferrara, David Linter, Christ Zois; fotografia: David Hausen, Ken Kelsch (1.85:1, colore); montaggio: Langdon Page; musiche: Robert Burger; sonoro: Tom Paul, Thomas Myers, Eric Milano; scenografie: Frank DeCurtis; montaggio: Langdon Page; costumi: Nile Cmylo; trucco: Joelle Troisi; interpreti: Vito Acconci, Donald Baechler, Stanley Bard, Sathima Bea Benjamin, Jamie Burke, Ira Cohen, Robert Crumb, Giancarlo Esposito, Caitlin Mehner, Gaby Hoffmann, Adam Goldberg, Milos Forman, Ethan Hawke, Dennis Hopper, Grace Jones, Aline Kominsky, Shanyn Leigh, Bijou Phillips, Sherry Cosovic, Robert Oppel, Christy Scott Cashman, Arthur Weinstein; materiale d’archivio: William S. Burroughs, Quentin Crisp, Walter Cronkite, Jerry Garcia, Janis Joplin, Lance Loud, Rockets Redglare, Sid Vicious, Andy Warhol; case di produzione: Apollo Films Ltd., Deerjen Films; produttori esecutivi: Ovidio E. Diaz, Kris Haber; produttori: David D. Wasserman, Jen Gatien; produttori associati: Gavin Poolman, John D. Trapman; luoghi delle riprese: New York City; formato: 35 mm; paese: USA; anno: 2008; durata: 82’. La storia ultra-centenaria del celebre Chelsea Hotel di New York è ripercorsa da Abel Ferrara attraverso questa docufiction che ri-mette in scena scorci di epoche passate anche attraverso materiale d’archivio. Sono di prossima uscita altri due lavori di A.F.: Pericle il nero, prequel di King of New York, e Napoli, Napoli, Napoli docufilm girato, prodotto e nato nella città da cui il titolo. Non male per un tipo così.
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Ho scritto questo articolo il mese scorso di fretta e furia fra il rientro da Barcellona e le estenuanti ore passate in un ufficio immerso nell’atroce canicola, l’ufficio ma pure io, che sembrava non mollare mai. Ho scritto questo articolo per il numero 36 di DigiMag, il mensile del progetto DigiCult quest’anno Media Partner del Festival Catalano, che ha coperto l’evento in maniera dettagliata e meticolosa con gli articoli di Marco Mancuso (Le luci e i suoni di SonaRama 2008), Silvia Bianchi (Tre giorni di Sonar!) e Claudia D’Alonzo (Future Past Cinema: Sonarmatica 2008). Ho scritto anche lo scorso anno del SonarCinema… devo ammettere d’essere recidivo! >>> www.digicult.it - www.digicult/digimag
di Alessio Galbiati Dalle 12 alle 20 per tutti e tre i giorni di durata del Festival (19.20-21 Giugno 2008), come sempre presso l’Auditorium del Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, ha preso forma per l’undicesima volta (la prima edizione è del 1998) la sezione dedicata alla settima arte del Sonar di Barcellona. Quest’anno, e per la prima volta, gli organizzatori della chermesse hanno voluto utilizzare un tema comune per la totalità degli extra d’un festival che ha da sempre come tratto distintivo quello dell’interdisciplinarietà, un’attitudine ben sintetizzata dalla collocazione della sua parte diurna negli edifici del sopraccitato CCCB e del Museum d’Art Contemporani de Barcelona (MACBA). Questo tratto comune è stato il cinema. Cinema beyon Cinema il concetto teorico attorno al quale annodare le differenti aree, ovvero SonarMàtica, Sonarama, Digital Art À La Carte ed – ovviamente – la rassegna SonarCinema. Una scelta che ha voluto sancire una riappacificazione che in questi ultimi tempi si sta affermando come un’avvenuta metabolizzazione dei profondi legami che uniscono l’arte digitale ed il cinema delle origini, o più in generale con la preistoria delle immagini in movimento. Una scelta che mira ad interrogare il presente per comprendere il futuro attraverso la consapevolezza del fatto che ciò è rimesso in discussione dalla rivoluzione dei media digitali possiede il medesimo statuto ontologico del susseguirsi di stimolazioni visive sulla retina, lo stesso limite incontrato dalla lanterna magica
e dagli “spettatori” dei nickelodeon d’inizio secolo, magari proprio quelli del bellissimo pezzo esposto per i corridoi di SonarMàtica. SonarCinema è forse prima d’ogni altra cosa un’oasi di fresco e tranquillità dove ristorare il corpo dal serrato ed estenuante programma del magafestival catalano. Dopo qualche anno di frequentazione sento l’esigenza di spendere attorno a questa banale constatazione due parole per descrivere, a coloro i quali non vi sono ancora passati, questa originale modalità di fruizione dell’immagine in movimento che ha il notevole merito di porre la visione della riproduzione d’immagini ai margini d’un contesto assai più ricco. Bastano pochi minuti seduti nella freschissima sala per ricordarsi che all’esterno di essa tutto un mondo di suoni ed altre immagini scorre veloce, si ha la netta sensazione d’essere circondati da musica che infatti filtra dalle pareti restituendo la propria eco. È in questa marginalità eccezionale d’oasi cinematica che Andrew Davies, curatore della sezione, gioca con il Sonar proponendo una rassegna polimorfica di materiale eterogeneo composta da 14 distinte selezioni per un totale di 58 opere mostrate e di 48 registi coinvolti. Durata complessiva: 585 minuti, qualcosa meno di dieci ore!. Durante le tre giornate il calendario delle proiezioni ha offerto ad ogni opera la possibilità d’essere vista due volte entro una logica assai democratica di visibilità d’ogni singolarità. Una rassegna polimorfica di
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materiale eterogeneo legato da un tema comune che quest’anno porta il nome di CineMaterial, ovvero la manipolazione di materiale pre-esistente attraverso la pratica del montaggio. Davies, che sentiremo per il prossimo numero di DigiMag, si ritaglia fra l’eterogeneità della propria curatela una micro-rassegnamanifesto (omonima) composta da tre lavori che possono essere considerate come veri e propri paradigmi dei motivi che hanno dato corpo a questa undicesima edizione di SonarCinema. Il resto è caos organizzato sottoforma di menu che da una parte risponde alle esigenze degli organizzatori del festival di dare visibilità a contributi d’un buon numero degli artisti presenti e dall’altra mette in scene la moltitudine d’audiovideo che si sviluppa attorno alla scena elettronica ad ogni latitudine (o comunque parecchie). Di cinema quest’anno al Sonar ce n’era molto e forse la sezione ad esso dedicata non era la più interessante; ho avuto modo di curiosare, seppur per un tempo assai limitato, fra le opere proposte dalla sezione Digital Art à la Carte “Live-Cinema, Youtube, Short Film and Videogames” rimanendo sorpreso nel vedere lavori di cineasti del calibro di Bigas Luna (“Homo Ludens On The Net”) e Jonathan Caouette, relegati in un contesto di fruizione assai sfuggente e troppo atomizzato (delle pseudopoltroncine high-tech con le quali navigare in maniera limitata entro una piccola porzione di web), che avrebbero
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forse meritato d’essere proposti nel contenitore a loro più prossimo. Ma questo è tutto un altro discorso… Quel che è certo è che pure quest’anno la rassegna cinema curata da Andrew Davies è stata assolutamente ricca di materiali diversi fra loro, forse sbilanciata però un po’ troppo nella mostrazione di opere poco conosciute e dunque esponendosi alla critica dell’opinabilità della curatela. Ma in dieci ore di programmazione qualcosa di interessante, anche per i palati più fini, dovrà pur essere stato proiettato.
www.thewire.co.uk/files.php?file=614&action=stream www.pfaffenbichlerschreiber.org/en/FilmVideo/MOSAIKM%c9CANIQUE www.german-films.de/app/filmarchive/film_view.php?film_id=1490
SonarCinema 2008. • • • • • • • • • • • • • •
CineMaterial (40 min) What the Future Sounded Like (30 min) Pilgrimage from Scattered Points (45 min) Dub Echoes (70 min). Regia: Bruno Natal Part of the Weekend Never Dies (60 min) Author’s Clips: Choreographies (30 min) Author Clips: Osaka (30 min) Author’s Clips: Audio Dregs (45 min) Mort Aux Vaches Ekstra DIEM (50 min) In The Name of Kernel: Song of the Iron Bird (20 min) Animal Charm (40 min) Soundtrack: Martin Siewert (40 min) Kuvaputki e Hazmazk (40 min) In Transit (45 min)
>>> CineMaterial Come accennato nell’introduzione Andrew Davies ha curato con particolare attenzione il menù principale di questa edizione del SonarCinema. Cinematerial è una riflessione sul tema della manipolazione e dell’appropriazione di materiale preesistente, tema ampiamente rappresentato nelle altre parti di cui si compone questa selezione ma qui portato ad un livello d’esplicita evidenza. Il lavoro di Norbert Pfaffenbichler, Mosaik Mécanique (9’30”, 2007), è una manipolazione-scomposizione d’un classico della Keystone del 1914 (A Film Johnnie, diretto da George Nichols) interpretato da Charlie Chaplin e Fatty Arbuckle all’interno d’un reticolo simmetrico composto da 98 immagini ognuna delle quali è una singola sequenza delimitata da tagli di montaggio. La durata complessiva dell’opera è la stessa dell’originale, ciò che viene dilatato è il concetto di sequenza: sono tutte infatti presenti simultaneamente. Work, Rest & Play di Vicki Bennett (People Like Us, 2007) “gioca” invece con la tripartizione dell’immagine, mettendo in scena con una modalità assolutamente originale quelli che potrebbero essere i sogni del bambino che punteggia l’opera all’apertura ed alla chiusura. Bennet articola un messaggio stratificato ed aperto ad una moltitudine di interpretazioni accostando fra loro un gran numero di immagini provenienti da archivi industriali del periodo 40-75 archiviati su due delle più grandi cineteche web quali il Prelinger Archives e l’AV Geeks. Infine l’opera che più d’ogni altra m’ha colpito: Kristall, per la regia di Christoph Girardet e Matthias Müller (Germania/2006, 15’). Questo pluripremiato cortometraggio è la quintessenza della cinèfilia perché raccoglie un numero davvero sorprendente di sequenze estratte da una serie di film assolutamente celebri del periodo quaranta-sessanta. I soggetti di queste sequenze sono gli attori colti di fronte allo specchio in un gioco di riflessi davvero sorprendente che al di là della bellezza intrinseca e dell’emozionalità sprigionata mette a nudo il ripetersi di tutta una serie di convenzioni tipico del cinema classico. La donna allo specchio che pensierosa si pettina, l’uomo che rabbioso infrange lo specchio e ancora, la donna che legge una lettera di fronte allo specchio e l’uomo che di soppiatto emerge alle spalle della donna seduta di fronte ad uno specchio; Girardet e Müller montano una sequenza mozzafiato, che rimarrà, una volta afferrata dagli occhi, un ricordo indelebile, pura poesia per immagini. “Kristall creates a melodrama inside seemingly claustrophobic mirrored cabinets. Like an anonymous viewer, the mirror observes scenes of intimacy. It creates an image within an image, providing a frame for the characters. At the same time it makes them appear disjointed and fragmented. This instrument for self-assurance and narcissistic presentation becomes a powerful opponent that increases the sense of fragility, doubt, and loss twofold.” (Christoph Girardet & Matthias Müller)
>>> What The Future Sounded Like Regia: Matthew Bate; produttore: Claire Harris; suono: Richard Pilcher (Stereo 5.1 Surround Sound); animazioni: Greg Holfeld; sequenze super-8: Ian Helliwell; sound design: Pete Best; sound edit: Liam Price; mixer: Peter Smith; postproduzione: Facility The Lab; post-produzione: Meredith Hosking; ricerche d’archivio: Archive Research Claire Harris; immagini d’archivio: Crown Copyright, Film Images, Film Australia ITN Source, Reuters, British Pathe, BBC Motion Gallery, Getty Images, Terry Nation Estate, EMS Archive, Tristram Cary Archive, Peter Zinovieff Archive, Film World, Canberra Times, Yancey e Hawkwind Archives; prodotto in collaborazione con: Australia Film Commision, South Australian Film Corporation, Adelaide Film Festival Investment Fund, Australian Broadcasting Corporation (ABC); formato: HDV e Digital Betacam - 16:9 Widescreen Anamorfico; paese: Australia, anno di produzione: 2007; durata: 27’. Questo interessante documentario, molto British dal punto di vista della realizzazione (interviste ed immagini di repertorio sono la struttura portante) racconta le memorie d’uno di quegli istituti di ricerca musicali votati all’elettronica assai meno celebre del GRMC (Groupe de recherches de musique concrète) di Parigi guidato da Pierre Shaeffer, dello studio radiofonico della WDR (Westdeustcher Rundfunk) di Colonia diretto dal trio Beyer, Eimert e Mayer-Eppler (ma è il nome di Stockhausen ad essere il più celebre di questo laboratorio di ricerca), come pure dell’italiano studio di fonologia RAI con sede in corso Sempione a Milano, diretto dai geniali Bruno Maderna e Luciano Berio. Una storia minore che trova in questo breve documentario australiano uno strumento che saprà dimostrarsi negli anni a venire fondamentale alla trasmissione della propria esperienza alle generazioni future. Nato negli anni sessanta dall’esigenza di un gruppo di musicisti d’avanguardia di sperimentare nuove sonorità futuristiche, l’ Electronic Music Studios (EMS) è legato ai nomi di due grandi pionieri dell’elettronica quali Tristram Cary (celebre in tutto il mondo per la colonna sonora della mitica serie Doctor Who) e Peter Zinovieff. E’ da questi laboratori che nacque uno dei sintetizzatori più fortunati d’ogni tempo, l’esoterico VCS3 (il vero antagonista del Moog), che venne utilizzato dai più importanti gruppi musicali per più di quarant’anni: da Brian Eno ai Pink Floyd di “The Dark Side of the Moon”, fino ad arrivare ad Aphex Twin ed ai Chicken Lips (ma l’elenco potrebbe davvero non finire mai: David Bowie, . What The Future Sounded rimette al proprio posto un tassello fondamentale della ricerca musicale del secolo passato, è un ponte fra due epoche, è la storia dei suoni che ci circondano. www.myspace.com/whatthefuturesoundedlike - www.whatthefuturesoundedlike.com
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www.ems-synthi.demon.co.uk - www.analogdays.com
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>>> Pilgrimage from Scattered Points Regia, sceneggiatura, montaggio e fotografia: Luke Fowler; produzione: Toby Webster (The Modern Institute); musiche: Carnelius Cardew, The Scratch Orchestra, Thurston Moore; paese: UK; anno di produzione: 2006; durata: 45’. “Pellegrinaggio da punti dispersi” potrebbe essere la bislacca traduzione del titolo del documentario diretto da Luke Fowler presentato al SonarCinema 2008. Nei 45 minuti di durata si ripercorre la storia del musicista avant-gard Cornelius Cardew (1936-1981) e dalla sua Scratch Orchestra (fondata nel 1968), un ensamble di musica sperimentale composto da musicisti non professionisti con il fine, tutto politico, di creare una vera e propria liberazione musicale della popolazione. Un progetto utopico di liberazione delle masse, musica per tutti prodotta da chiunque secondo il motto marxista “Silence is therefore the only possible means of communication”. La regia del trentenne di origini scozzesi Luke Fowler è frenetica, caratterizzata da un montaggio davvero incessante che pare perseguire l’idea del dare una forma a-temporale al materiale utilizzato. Una scelta davvero interessante che comporta un monumentale lavoro di editing e trattamento delle fonti assolutamente originale e ben realizzato. Fowler mixa fra loro immagini d’archivio, contenenti dichiarazioni sempre assai politiche di Cardew (marxismo e maoismo tout court) ad una centellinata campionatura di interviste a suoi collaboratori che ricordano il passato, fra cui Howard Skempton e Michael Parsone, ma lo fa evitando gli stilemi classici del documentario, filtrando tutti i contributi con una vasta gamma di effetti visivi e, come già detto, un montaggio frenetico. Ovviamente buona parte del lavoro è dedicata all’illustrazione di alcune delle performance della Scratch Orchestra, ricavate da un documentario della tv pubblica inglese del 1971 Journey To The North Pole (regia di Hanne Boenish) che con la sua gran super-8 si sposa a meraviglie con il gusto per l’immagine “sporca” di Fowler. Anche se suddiviso in parti/capitoli il documentario in questione non riesce ad essere completamente chiaro allo spettatore. E’ come se l’enorme lavoro di documentazione e di ricerca del materiale abbia fatto perdere al regista la lucidità necessaria per restituire allo spettatore con sufficiente chiarezza i fatti documentati. Lo stile stesso, frenetico e incessante, porta l’intera operazione sul versante d’una assoluta incomprensibilità (volendo essere indulgenti si potrebbe parlare di ‘complessità’), i fatti raccontati non vengono spiegati con dovizia di particolari tanto da far sembrare il tutto una specie di mockumentary, un finto documentario su d’un qualcosa di plausibile ma completamente inventato. Ma se tutto questo è vero, allora Fowler ha fatto senz’altro un ottimo documentario; alla peggio un superbo mock! D’assoluto interesse l’invettiva contenuta nell’opera “Stockhausen Serves Imperialism” che, fatto più unico che raro, contesta al compositore tedesco, ma all’avanguardia più in generale tutta una serie di modalità compositive e d’esecuzione che sarebbe forse il caso d’andarsi a riguardare per togliere dal piedistallo molta della sperimentazione che per la sua complessità intrinseca si è ormai supinamente portati a “consumare” a-criticamente.
>>> Dub Echoes Regia e sceneggiatura: Bruno Natal; animazioni: Adriano D’Aguiar e Juarez Escosteguy; operatore: Bruno Natal; suono: Lontra Music; montaggio: Daniel Ferro, Julio Adler, Rafael Mellin; musiche: Digitaldubs Sound System; produttore: Bruno Natal; paese: Brasile; anno: 2007; durata: 71’. Dub Echoes per qualche strano motivo che ignoro mi è particolarmente piaciuto. Saranno i suoni, che poi non immaginavo potessero risultarmi così gradevoli, saranno le belle location, sarà che il voler considerare il dub come l’ombelico del mondo musicale elettronica, perfetto mix (nonché il più duraturo sulla scena della musica campionata) fra vecchio e nuovo, passato e presente. Il Dub diviene una specie di religione, verbo fatto suono, o magari aria da respirare. Il Dub alla fine è tutto, una filosofia vera e propria con la quale appropriarsi di tutto ciò che ci circonda nel modo più libero, democratico e pacifico. Un vento di creatività che dalla Jamaica s’è diffuso in tutto il mondo. La cosa che più impressiona del lavoro di Nadal è il numero di musicisti, studiosi e altro ancora intervistati in giro per il mondo: 2manydjs, Aba Shanti-I, Adam Freeland, Audio Bullys, Basement Jaxx, Beat Junkies, Bill Laswell, Black Alien, Bullwackie, Bunny Lee, Congo Natty, David Katz, Dennis Bovell, Dj Spooky, Don Letts, Dr. Das, Dreadzone, Dub Pistols, G-Corp, Glyn Bush, Gussie Clarke, Howie B, Kode 9, Lee “Scratch” Perry, Ltj Bukem, Mad Professor, Marcelo Yuka, Mario Caldato Jr., Mutabaruka, Nação Zumbi, Peter Kruder, Roots Manuva, Scientist, Sly & Robbie, Steve Barrow, Switch, Thievery Corporation, U-Roy, Victor “Ticklah” Axelrod, Zion Train. Questa scelta, messa a disposizione da una produzione decisamente accomodante e danarosa, calza a pennello con uno dei messaggi forti contenuti in questo lavoro, l’idea per cui il dub sia diffuso in tutto il mondo diviene dato di fatto, perché è proprio nei quattro angoli del globo che queste persone parlano. Ed il ping-pong è incredibile, si hanno campi e controcampi fra dialoghi di differenti intervistati da una parte all’altra del pianeta. Un tizio afferma che il Dub è libertà a Rio De Janeiro e da Londra un altro chiosa che questa libertà sta nella natura stessa della tecnica utilizzata. Forse il documentario migliore visto in questa edizione del Sonar perché ad una tecnica di ripresa e montaggio piuttosto neutra e ben fatto si somma la scelta d’una tematica decisamente interessante ed assai poco indagata con tanta dovizia di dettagli. Bruno Natal ha realizzato un video didattico sul Dub e la sua eco probabilmente incomincerà a propagarsi nei tempi a venire. www.dubechoes.com
>>> Part of the Weekend Never Dies Regia: Saam Farahmand e Soulwax; montaggio: Kurt Augustyns; fotografia: Saam Farahmand; produttori: Sasha Nixon e Grace Bodie; paese: UK, Belgio; data di uscita: 25 agosto 2008; durata: 60’. Lo scorso anno il SonarCinema ospitò lo strepitoso DVD dei Beastie Boys (Awesome; I Fuckin’ Shot That!) in cui 50 telecamere guidate da 50 persone differenti, da 50 punti di vista differenti, hanno registrato l’intera esibizione del trio newyorkese al Madison Square Garden, quest’anno 1 sola
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sono, nell’accezione di Marc Auge, non luoghi desolantemente svuotati d’una propria identità. Le presenze di altri musicisti/ dj’s famosi (James Murphy, Nancy Whang, Erol Alkan, Tiga, Justice, Busy P, So-Me, Peaches, Kitsuné e Klaxons) sembrano voler aggiungere pepe laddove il piatto risulta insipido. Pur se ottimamente confezionato e di sicuro riscontro fra il pubblico, questo documentario non convince fino in fondo, affascina ma non è mai sincero. Dopo avere seguito i Soulwax in giro per il mondo, alla fine del tour, non capiamo in fondo chi si nasconde dietro questo nome, ogni agiografia presuppone fede altrimenti il trucco si svela da se rischiando il ridicolo. Presentato in anteprima per il mercato spagnolo, il DVD sarà disponibile a parte dal 25 agosto, per la gioia dei fan che non aspettano altro di poter esporre un nuovo santino merceologico nella propria videoteca. www.partoftheweekendneverdies.com
>>> Author’s Clips: Choreographies Come da tradizione anche quest’anno non si è potuto fare a meno d’una selezione di videoclip musicali dell’ultimo anno e mezzo legati fra loro dalla messa in scena di coreografie (concetto applicato a dire il vero in modo assai estensivo). Si passa da vere e proprie coreografie in stile Broadway del video diretto da Dougless Wilson, che con impertinenza gioca con la base ritmica del brano dei Goldfrapp, al meno convenzionale e notevole per tecnica di regia (piano sequenza unico) e per tecnica del ballerino Bill Shannon (affetto dalla nascita da un problema psicomotorio) “Work It Out” diretto da uno dei videomaker più talentuosi in circolazione: Joey Garfield. Di Dougal Wilson è stato anche presentato il tenebroso video di “What’s a Girl to Do?” dei Bat for Lashes, una strana coreografia realizzata sulle due ruote da un gruppo di ragazzi in bmx, aggindati come lupi attorno ad una proto-Cappuccetto Rosso. Il video dei Buraka porta sullo schermo le incredibili evoluzioni di ballerini angolani alle prese con il Kuduro (ma significa “culo duro”?!), mentre “Eddy Fresh” mette in scena una pariodia della cultura hip-hop. Poi il concetto di coerografia si dilata veicolando videoclip come la delizosa piccola orchesta sintetica dei Perish Factory per i Bomb the Bass, oppure l’insolità congèrie antropomorfica dei Subway Lung. Poi è stato inserito anche il video, stravisto e rivisto in ogni dove, della pop(olarissima) “D.A.N.C.E.” dei Justice, diretto dal coollissimo duo Jonas & François. Anche quest’anno il Sonar ha voluto omaggiare alcuni degli artisti presenti (Goldfrapp, Justice, Buraka e Kid Acne) con una piccola dose del loro universo audiovideo. N.B. Il videoclip ai tempi di youtube permette il recupero d’ognuno dei selezionati. telecamera riprende 120 show dei Soulwax in giro per il pianeta terra. “Part Of The Weekend Never Dies” è in fondo uno di quegli oggetti audiovisivi agiografici che restituiscono tutta l’aura mitica che circonda band musicali di successo. I viaggi, i concerti, i dietro le quinte, gli amici famosi e quelli meno, gli hotel, gli aeroporti, i fans, le groupie... Veniamo trasportarti per circa un’ora all’interno del Radio Soulwax World Tour, a stretto contatto con i quattro componenti d’una delle band di maggiore successo degli ultimi anni. L’operazione è prodotta dalla Factory Partizan (vero e proprio marchio di qualità) e diretta da Saam Farahmand (con gli stessi Soulwax), autore di videoclip di successo per Klaxons, Hercules & Love Affair e Janet Jackson. Personalmente non amo molto questo tipo di lavori, forse perché non ho un gruppo musicale, né tanto meno mi capita di fare frequentemente tour mondiali, quel che mi lascia maggiormente perplesso è il senso stesso di queste operazioni che non riuscendo nemmeno a raccontare fino in fondo la sostanza della musica suonata mi lasciano l’impressione del prodotto patinato un po’ troppo fine a se stesso. Ho citato non a caso il lavoro dei Beastie Boys perché ritengo che in certo qual modo questi due progetti rappresentino due estremi opposti di raccontare l’esibizione live, da una parte la performance è vissuta come evento collettivo in cui lo stesso pubblico è parte attiva, dall’altra il pubblico è solo sfondo intercambiabile (Londra, Parigi, Rio e Tokyo sembrano un’unica grande metropoli ai piedi delle star) ed oltretutto assai omogeneo per modi di reazione agli stimoli sonori e per look. Oltretutto praticamente tutti i luoghi
Bat for Lashes - What’s a Girl to Do?. Regia di Dougal Wilson. 3’ RJD2 - Work It Out. Regia di Joey Garfield. 3’30” Kid Acne - Eddy Fresh. 3’ Buraka Som Sistema - Sound of Kuduro. 4’ Goldfrapp - Happiness. Regia di Dougal Wilson. 3’30” Justice - D.A.N.C.E. Regia di Jonas & François. 3’ Trans Am - Tesco vs. Sainsburys. Regia di Subway Lung. 4’ Bomb the Bass - Butterfingers. Regia di Perish Factory. 4’
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Clip diretti da Eric Mast aka E*Rock. - Cherry (musica: Ratatat) - Dead Weird Keks (musica: Global Goon) - Dome TV pt.2 (musica: White Rainbow) - Geomagnetic Mind Feed (excerpt) (musica: E*Rock) - I Love Your Music (musica: Tobiah) - Mind as Master (musica: Sack & E*Rock) - Native 78 (musica: White Rainbow) New Alium (musica: Lucky Dragons) - SHTML (musica: Yacht) - Streets (musica: Valet) - The Physical DJ (musica: E*Rock) - Uncle David (musica: Neon Hunk) Clip di artisti della Audio Dreg Rec. - O.Lamm - Aerialist. Regia di Mumbleboy - O.Lamm - Bu-ri-n-gu za-no-i-zu!. Regia di Ian Lynam - O.Lamm - Genius Boy. Regia di Kumi Kamoto - WZT Hearts - Discuss Winter. Regia di Mark Brown - Melodium - Felt Melt. Regia di Torisu Koshiro www.audiodregs.com - www.e--rock.com
>>> Author Clips: Osaka Dopo aver visto la selezione di videoclip in questione mi sono fatto l’idea che ad Osaka c’è qualcosa nell’aria che non va’. Uno potrebbe aspettarsi un’incredibile uso delle tecnologie digitali e invece ti ritrovi di fronte ad immagini, certo digitali certo ultramanipolate, ma l’estetica non è quella dell’ipertecnologicità. Insomma sembra di assistere a variazioni sul tema dell’estetica del primo Shinya Tsukamoto: post-post-punk ?! La colonna audio, assai omogenea per sempre piuttosto simile, proviene da alcune delle band e dei personaggi più off della scena musicale della metropoli giapponese. La parte musicale del Sonar diurno ha ospitato alcuni fra i rappresentanti della scena della città nipponica, il sabato pomeriggio presso il SonarComplex si è prestato alle “dolenti note” di Ove Naxx, Bogulta, al DJ Scotch Egg ed ai Morusa. Destabilizzante! Zuinosin - Scool Oi. Regia di Catchpulse Baiyon - Under the Bridge. Regia di Catchpulse Nanycal - Drumsmemen Father’s Song. Regia di Catchpulse DJ Scotch Egg - Scotch Bach. Regia di Steve Glaisher Ove Naxx - Donga’s Monsta Circus. Maruosa - Muscle Spark.
>>> Mort Aux Vaches Ekstra DIEM Kristian Vester, più comunemente noto come Goodiepal (ma ultimamente ha deciso di farsi chiamare Van Den Gæoudjiparl Dobbelsteen), è considerato uno fra i più influenti ed interessanti artisti emersi della scena elettronica degli ultimi anni. La sua sensibilità, il suo modo di lavorare, ed il suo personalissimo approccio alla composizione sono le principali caratteristiche d’un piccolo-grande genio eccentrico d’origine danese. Opera strana per genesi (nasce come un ciclo di lezioni tenuto da Goodiepal al Dansk Institut for Elektronisk Musik, poi diviene un libro e per ultimo una registrazione realizzata dalla tv danese d’una di queste lezioni) e per contenuto, un territorio teorico e concettuale assai sdrucciolevole per un critico cinematografico che si inoltra in ambiti solo sporadicamente battuti. Cinquanta minuti di voli pindarici, d’improvvisazione musicale, fatti nella forma della lezione, o se si preferisce, del monologo straripante d’un genio (che forse in un’altra epoca si avrebbe avuto il coraggio di chiamare rivoluzionario). ascoltare.webeden.co.uk/#/gaeouija/4524167296 - www.smallfish.co.uk/shop/ release/?cat=GOODIEBOOK www.myspace.com/goodiepal - www.musik-kons.dk/diem/goodiepal08.php
>>> In The Name of Kernel: Song of the Iron Bird Joan Leandre è un artista catalano attivo dell’inizio degli anni novanta che utilizza la manipolazione della virtualità dei videogames, e della loro estetica, per proporre una visione straniante dei mondi digitali generati dai calcolatori d’ultima generazione. Leandre, conosciuto anche con il nome di Retroyou, pare avere una fissazione speciale per i simulatori di volo. Simulatore di simulatori che sembrano ormai correre spediti verso la duplicazione della realtà. www.retroyou.org
>>> Author Clips: Audio Dregs Audio Dreges Recording è il nome dell’etichetta di Portland fondata da Eric Mast, ovvero E*Rock: poliedrico artista multidisciplinare che spazia dalla produzione musicale a quella audiovisiva con assoluta disinvoltura. E*Rock realizza videoclip in flash, un software dannatamente popolare sul web ma che in parte fatica ad affermasi al di fuori della rete. Egli produce piccole e deliziose animazioni in sincronia ai suoni accompagnati, un mondo leggero e fantasioso si sprigiona dalla giustapposizione di microsequenze d’immagini in movimento che negli esiti più modesti ricorda molto materiale dilettantesco, ma che nelle opere più fortunate è capace di costruire bellissime iterazioni fra immagini in flah ed attori in carne e ossa. Scelta strana quella di inserire una monografia del genere, che senz’altro non eccelle per qualità ed originalità.
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>>> Animal Charm Estetica anni ottanta rubata alle tv commerciali, televendite per denti bianchi e roba del genere. E ancora: annientamento d’ogni umanità e conformismo di plastica. Animali selvatici sparsi qua e la (potrebbe piacere a Charlemagne Palestine?!?!): uomini e bestie. Il montaggio è estremamente basilare, taglia e cuci elementare composto da giustapposizioni di senso stralunate. L’audio scorre sopra le immagini senza raccordi di sorta. Animal Charm è lo pseudonimo dietro al quale si celano Jim Fetterley e Rich Bott un duo californiano attivo nella sperimentazione visiva da poco più d’una decade che si caratterizza per un’attitudine dissacrante dell’immaginario pop, lo stile è quello dell’artigianato digitale casalingo, estetica youtube ante litteram. Il bersaglio principale è la cultura di massa propagandata dalle tv commerciali, un bersaglio da parodiare attraverso un montaggio destrutturate che mette in circolo percorsi di senso sapientemente definiti “danteschi” dal curatore. Queste le opere proposte per una durata complessiva di 40 minuti: Animal Charm Live. Lightfoot Fever. Street Shapes. Computer Smarts. Brite Tip. Il Mouille. Sunshine Kitty. Hot Mirror.
dirigibile (9.2), quella della carne sullo spirito, del bianco sul nero, dell’uomo sulla bestia (9.3), e poi la conquista del campo nemico da parte di eserciti che dapprima si affrontano alla baionetta e poi via via in un crescendo bellico giungono a fronteggiarsi con meccanici strumenti da guerra (9.4). - Erase Remake. Regia: Jan Machacek. - Hello Again. Regia: Michaella Grill. - Trans. Regia: Michaella Grill. - Cityscapes. Regia: Michaella Grill. Scorci urbani d’inizio 900 quasi impercettibili, sporcati da una patina digitale che li rende appena visibili. L’effetto ricercato da Grill sembra puntare alla materializzazione della distanza temporale che ci separa dalla cattura d’una imprecisata città d’inizio secolo.
Lightfoot Fever (1’30”, 1996). Prendi Jim Bailey che canta il superclassico “Fever”, montalo con immagini di animali selvatici, shekera l’audio campionando le varie parti della melodia, alterna un duetto sensuale dell’interprete con una compagna sinuosa ad immagini di quegli stessi animali con qualche compagno della propria specie ed otterrai la stramba miscela allestita per questo breve e fulminante esperimento. Il video è inserito nella compilation Animal Charm Videoworks: Volume 1 e nell’antologia American Psycho(drama): Sigmund Freud vs. Henry Ford. Computer Smarts (1’30”, 2002). Se fosse possibile tradurre per immagini il trasferimento d’una memoria enciclopedia d’un calcolatore nel microscopico cervello d’un pappagallo ci si troverebbe di fronte al cortissimo in questione. Il video è inserito nella compilation Animal Charm Videoworks Volume 3: Computer Smarts. Brite Tip (3’00”). Con tutta una serie di effetti di montaggio che variano dalla tendine alle dissolvenze incrociate in questo video troviamo kulešovianamente giustapposte fra loro immagini che descrivono l’educazione forzata alla quale sono sottoposti, allo stesso modo (?) bambini e cani poliziotto. Come a dire che l’educazione è sempre un poco coatta. Il video è inserito nella compilation Animal Charm Videoworks Volume 3: Computer Smarts. www.animalcharm.com - youtube.com/user/therealanimalcharm www.myspace.com/animalcharm
>>> Soundtrack: Martin Siewert Bella questa monografia dedicata alle sonorizzazioni del viennese Martin Siewert, una selezione che ha dato modo di vedere alcune opere davvero interessanti di autori provenienti dall’area della mittle europa. Gustav Deutsch, Jan Machacek e, con ben tre opere, Michaella Grill. Cinque lavori che compendiano in maniera chiara le differenti forme delle collaborazioni e le diverse attitudini dei registi proposti, tutti e tre d’assoluto valore sia artistico che tecnico. - Film Ist # 9. Regia: Gustav Deutsch (AUT/2002). Film Ist è un progetto giunto nel 2002 alla sua seconda parte (capitoli dal 7 a 12), è una serie suddivisa in dodici capitoli composta al suo interno da una serie variabile di piccoli frammenti di cinema delle origini, recuperati e restaurati dai cinque archivi di pellicole che hanno collaborato alla realizzazione di questo complicato progetto diretto da Gustav Deutsch (uno dei più importanti filmmaker europei viventi). Recuperati e restaurati ma inevitabilmente muti i film vengono accompagnati dalle melodie lunari ed elettriche di Martin Siewert. Il SonarCinema estrae i quattro elementi che compongono il capitolo numero 9, denominato conquest, Deutsh vira il colore alla maniera di molto cinema dei primi trent’anni della sua storie e monta fra loro delle micronarrazioni autonome. La conquista è quella della locomotiva a vapore (9.1), quella del cielo da parte dell’uomo con il
>>> Kuvaputki + Hazmazk Kuvaputki Regia: Edward Quist. Musiche: Pan Sonic. Montaggio Wargula. Durata 35’. 2008. Il primo lavoro in DVD mai pubblicato dai Pan Sonic, già questo dato fa del lavoro in questione un evento, è il risultato della collaborazione intercorsa fra il duo finlandese e l’artista digitale Edward Quist che ha prodotto per loro una complessa immagine d’un raggio catodico come accompagnamento ai suoni astratti da loro generati in una performance live della quale emergono vaghe immagini dei due. Ilpo Väisänen and Mika Vainio sono i soli protagonisti di questo interessante esperimento audio che a dispetto di quanto ci si potrebbe immaginare evita il ricorso alla sincronizzazione di suono ed immagine, le due colonne (audio e video) corrono autonome per sviluppo e struttura. Un prodotto assolutamente in linea con lo stile Pan Sonic, essenziale, minimale e molto noise. Hazmazak Regia: Edward Quist. Musiche: Del Marquis & Edward Quist. Durata 5’. 2008. La passione, fissazione, di Edward Quist per la ripresa degli elettroni osservati in un tubo vacuo (il fenomeno fisico che permette la generazione dei raggi catodici) torna anche in questo breve lavoro che illustra una variazione sul tema di quanto espresso nel precedente lavoro. www.embryoroom.com/kuvaputki
>>> In Transit In transito e di passaggio, ed estensivamente il viaggio e la trasformazione, questo il tema scelto come filo rosso di congiunzione per tre cortometraggi che in modi differenti si misurano con il movimento e la prospettiva. Please Stand Back di Stadtmusik (2007) si rapporta allo spazio architettonico della città considerandolo quale forza motrice dei processi che lo compongono. Lo spazio è letto come una sovrapposizione di immagini fotografiche entro cui muovere il proprio punto di vista e dove la dinamica fra movimento dell’occhio che guarda e la prospettiva che lo contiene assume tratti differenti dal dato reale. fourtythousand3hundred20 memories diretto da AGF e Sue
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Costabile (2006) ci depista illudendoci d’essere ad un passo dalla sue comprensione facendoci seguire un viaggio del quale però ben presto ci sfuggono i confini. Kaamos Trilogy ()di Mia Makela (aka Solu) è una riflessione sulla luce, o la sua assenza. Un viaggio attraverso le tenebre nel freddo del nord della Finlandia. ‘Kaamos’ è un termine
finlandese che descrive i mesi senza sole dell’emisfero nord, quando la luce è una rarità.
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www.sixpackfilm.com/catalogue.php?oid=1613&lang=en www.ondarock.it/recensioni/2006_agf.htm www.solu.org
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di Claudia D’Alonzo Con il titolo Cinema Beyond Cinema la sezione Multimedia del Sonar 2008 ha inteso offrire uno sguardo sulle diverse declinazioni che la definizione “cinematografico” ha assunto nel contemporaneo, in particolare attraverso la mostra SonarMàtica dal titolo “Future Past Cinema” e il database video interattivo Digital à la Carte. La ridefinizione del concetto di cinema, come fenomeno percettivo ed esperienziale dell’immagine in movimento, è un tema sempre più centrale in molti festival che si occupano di arte elettronica, basti pensare al concept Cinematic Experience dell’ultimo Sonic Acts di Amsterdam dello scorso Febbraio 2008. Si riscontra la necessità teorica di collocare la sperimentazione audiovisiva contemporanea in un panorama disciplinare più ampio e definito, quello cinematografico, rintracciando negli esperimenti sull’ottica e la percezione del pre-cinema, i presupposti teorici e tecnici di molte esperienze attuali. Un riferimento al cinema come struttura entro la quale stabilire dinamiche percettive, oltrepassando codici e regole che hanno portato alla sua definizione linguistica. Il Sonar si inserisce in questa direzione attraverso una mostra, “Future Past Cinema” che, pur non avendo la pretesa di tracciare delle vere e proprie ipotesi teoriche, stabilisce un confronto interessante tra le tecniche protocinematografiche e una selezione di live e installazioni di autori contemporanei.
Il progetto, a cura di José Louis de Vicente, Oscar Abril Ascaso e Advanced Music, si pone come secondo capitolo di una trilogia inaugurata lo scorso anno e dedicata ai collegamenti tra l’arte del Diciannovesimo e quella del Ventesimo secolo. L’edizione di quest’anno è stata incentrata su un confronto tra storia e innovazione, grazie all’esposizione di macchine del Diciannovesimo secolo appartenenti alla collezione Tomàs Mallon ed opere contemporanee, reso possibile anche grazie alla collaborazione con il Medialab di Prado ed il Museo del Cinema di Girona. Questo incontro tra Sonar e istituzioni museali ha dato vita un progetto curatoriale ben ideato e sviluppato, una mostra nella quale ciascun lavoro contemporaneo è stato associato ad un modello di macchina o tecnica protocinematografica, tra le quali zootropi, lanterne magiche, cronofotografie. Un percorso parallelo, tra le tappe della genesi cinematografica e autori attuali che recuperano e sviluppano quegli stessi esperimenti e quelle stesse illusioni che hanno contribuito alla nascita della magia dell’immagine in movimento. Come l’Utsushi-e, teatro delle ombre del VIII secolo, considerata una delle tecniche capostipiti della moderna animazione orientale, recuperata da Takashi Kawashima in un live, Takashi’s Season, ospitato all’interno della mostra in associazione ad un modello di lanterna magica. L’artista costruisce il suo set come un teatrino di ombre, un gioco fiabesco
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di sagome inscenato dall’artista in sincronia perfetta con gli sfondi digitali. Una costruzione di forme stralunata e fantastica che stenta a diventare vera e propria storia, nella quale il fascino principale è dato dal duettare di paesaggio digitale e performer resi entrambi attori e voci narranti. Altro lavoro del vivo presentato all’interno di Future Past Cinema, è stato lo splendido Demi-Pas, set di live cinema del francese Julien Maire, nel quale l’artista costruisce letteralmente per il pubblico un suo piccolo film artigianale, nel quale la luce del proiettore illumina e distilla vita da maschere meccaniche che nascondono piccoli quadri, mondi in movimento composti in tempo reale dall’artista a costruire una storia e insieme un’atmosfera. Attraverso le sue macchine del sogno Julien Maire immerge lo spettatore in un panorama di sospensione in bilico tra la poesia dello schermo e la realtà fisica della macchina attivata dal performer. Ai celebri esperimenti di Muybridge è stata associata l’installazione We are the time. We are the famous, realizzata da Andy Cameron, Oriol Ferrer Mesià, David McDougall, Joel Gethin Lewis e Hansi Rabel per Fabrica. L’opera interattiva, presentata per la prima volta nel 2006 al Centre Pompidou di Parigi, recupera dalla cronofotografia il meccanismo di suddivisione del movimento in piccole particelle di tempo immobile, microsequenze del pubblico invitato a ricomporre e scomporre due diversi simulacri del sé in tempo reale.
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Interessante anche Boxed-ego, installazione di Alvaro Cassinelli che crea una sorta di contaminazione tra la tecnica del peepshow e i video corridor di Bruce Nauman. Attirando lo spettatore a spiare in una scatola, che contiene una riproduzione dello spazio espositivo, Cassinelli ne cattura l’immagine attraverso un sistema di stereocopico di videocamere. Cassinelli cattura nella scatola l’ego dello spettatore e mette in scena una versione tridimensionale del noto ma sempre destabilizzante paradosso dell’osservatore/osservato. La sezione Digital à La Carte ha offerto invece una carrellata molto ampia degli sviluppi che le tecnologie digitali e le modalità di diffusione on-line stanno determinando in ambito audiovisivo, presentati attraverso quattro diversi progetti: Homo Ludens on the net, a cura di Eric Berger e Laura Baigorri, una rassegna di games, siti internet ed installazioni interattive attraverso le quali fare un punto sulla storia del videogame sia come settore dell’intrattenimento di massa, che come evoluzione nella costruzione di ambienti audiovisivi e narrazioni. All You Zombies, una selezione di video tratti dall’omonima opera cinematografica dell’inglese Jonathan Caouette,
realizzato attraverso la selezione di clip video reperite in rete, una versione web della tecnica di found footage nella quale però, almeno nella versione presentata al Sonar, l’autore non applica un processo di montaggio e ricomposizione originale del materiale, ma lascia a l’utente il libero arbitrio della navigazione tra un video e l’altro. Il Notodofilmfest.com di Bigas Luna, concorso tutto spagnolo alla ricerca di nuovi talenti, offre attraverso le possilità della rete una vetrina ad autori di video clip e cortometraggi. Infine Live Cinematic, sezione curata da Mia Makela, si colloca all’interno del Digital à la Carte come il progetto più ricco di lavori interessanti, attraverso una selezione di autori riuniti a rappresentare l’attuale contesto dell’interazione audio-video in tempo reale, tra i quali Rechenzentrum, Hotel Modern, Transforma e Light Surgeons. Mia Makela presenta con Live Cinematic una raccolta di video e registrazioni di live di livello indiscutibile, preferendo però la celebrazione di nomi stranoti dell’audio-video internazionale piuttosto che la ricerca di qualcosa di veramente nuovo.
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Diabolik (Italia-Francia/1968) di Mario Bava [numerotre]
Panic in Year Zero! (USA/1962) di Ray Milland [numerocinque]
Il divo (Italia-Francia/2008) di Paolo Sorrentino [numerocinque]
Paranoid Park (USA-Francia/2007) di Gus Van Sant [numerouno]
Does Your Soul Have a Cold? (USA/2007) di Mike Mills [numeroquattro]
Persepolis (Francia-USA/2007) di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud [numerodue]
Eastern Promises (USA-UK/2007) di David Cronenberg [numerouno]
The Phantom of the Paradise (USA/1974) di Brian De Palma [numerotre]
Edward Scissorhands (USA/1990) di Tim Burton [numeroquattro]
Phase IV (USA/1974) di Saul Bass [numerocinque]
EsCoriandoli (Italia/1996) di A. Rezza e F. Mastrella [numerodue]
La porta sul buio (Italia/1973) Di AA. VV. [numerotre]
Empire of the Ants (USA/1977) di Bert I. Gordon [numerodue]
The Queen (UK-Francia-Italia/2006) di Stephen Frears [numerodue]
EUROPA (Italia/2007) di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini [numeroquattro]
La ragazza del lago (Italia/2007) di Andrea Malaioli [numerocinque]
Femme Fatale (USA-Francia-Germania/2002) di Brian De Palma [numerouno]
Redacted (USA-Canada/2007) di Brian De Palma [numeroquattro]
Die fetten Jahre sind vorbei (Germania-Austria/2004) di Jans Weingartner [numerozero]
Rendition (USA/2007) di Gavin Hood [numerodue]
Dust Bowl Ha! Ha! (Canada/2007) di Pierre Lapointe [numerocinque]
Russkiy kovcheg (Russia-Germania/2002) di Aleksandr Sokurov [numerouno]
The Food of the Gods (USA/1976) di Bert I. Gordon [numerodue]
La seconda volta (Italia-Francia/1995) di Mimmo Calopresti [numerodue]
Foxy Brown (USA/1974) di Jack Hill [numeroquattro]
Seraphim Falls (USA/2006) di David Von Ancken [numerocinque]
Frogs (USA/1972) di George McCowan [numerodue]
Shivers (Canada/1975) di David Cronenberg [numerotre]
An seh (Iran/2007) di Naghi Nemati [numerouno]
Gas! - Or - How It Became Necessary to Destroy the World in Order to Save It (USA/1971) di Roger Corman [numerocinque]
Slipstream (USA/2007) di Anthony Hopkins [numerocinque]
Apnea (Italia/2007) di Roberto Dordit [numerozero]
Il giardino delle delizie (Italia/1967) di Silvano Agosti [numerocinque]
Arriva la bufera (Italia/1993) di Daniele Luchetti [numerodue]
La giusta distanza (Italia/2007) di Carlo Mazzacurati [numerozero]
Awesome; I Fuckin’ Shot That! (USA/2006) di Nathanial Hörnblowér [numerotre]
Gomorra (Italia/2008) di Matteo Garrone [numerocinque]
Basta guardarla (Italia/1970) di Luciano Salce [numerocinque]
Land des Schweigens und der Dunkelheit (Germania Ovest/1971) di Werner Herzog [numerocinque]
indice filmografico Abre los ojos (Francia-Spagna/1997) di Alejandro Amenábar [numeroquattro] All That Jazz (USA/1979) di Bob Fosse [numerocinque] American Pimp (USA/1999) di The Hughes Brothers [numerozero] L’amico di famiglia (Italia/2007) di Paolo Sorrentino [numerozero]
Beach Blanket Bingo (USA/1965) di William Asher [numerotre]
La grande abbuffata (Francia-Italia/1973) di Marco Ferreri [numerodue]
Beach Party (USA/1963) di William Asher [numerotre]
House of Usher (USA/1960) di Roger Corman [numerouno]
Before the Devil Knows You’re Dead (USA/2007) di Sidney Lumet [numerodue]
J’ai toujours rêvé d’être un gangster (Francia/2007) di Samuel Benchetrit [numerocinque]
Berlinguer ti voglio bene (Italia/1977) di Giuseppe Bertolucci [numerocinque]
Juno (USA/2007) di Jason Reitman [numeroquattro]
Blood Simple (USA/1984) di Joel Coen [numerocinque]
Kill Bill: Vol.1 (USA/2003) di Quentin Tarantino [numerodue]
Body Double (USA/1984) di Brian De Palma [numerodue]
Kill Bill: Vol.2 (USA/2004) di Quentin Tarantino [numerodue]
Break up - L’uomo dei palloni (Francia-Italia/1969) di Marco Ferreri [numeroquattro] Cannibal Holocaust (Italia/1980) di Ruggero Deodato [numerocinque]
Karanlik Sular (Turchia/1993) di Kutluğ Ataman [numerozero]
La casa dalle finestre che ridono (Italia/1976) di Pupi Avati [numerozero]
Kilink Istanbul’da (Turchia/1967) di Yilmaz Atadeniz [numerozero]
La Cena per Farli Conoscere (Italia/2006) di Pupi Avati [numerozero]
Ma hameh khoubim (Iran/2005) di Bizhan Mirbaqeri [numerouno]
Chahar Shanbeh Souri (Iran/2006) di Asghar Farhadi [numerouno] Chand kilo khorma baraye (Iran/2006) di Saman Salour [numerouno]
INLAND EMPIRE (USA-Polonia-Francia/2006) di David Lynch [numerozero]
marassem-e
Malamilano (Italia/1997) di Tonino Curagi e Anna Gorio [numerotre] tadfin
Malen’kie ljudi (Kazakistan-Francia/2003) di Nariman Turebayev [numeroquattro]
Charlie Wilson’s War (USA/2007) di Mike Nichols [numerodue]
Man cheng jin dai huang jin jia (Hong Kong-Cina/2006) di Zhang Yimou [numerouno]
Chicago 10 (USA, 2007) di Brett Morgen [numerodue]
Mesto na Zemle (Russia/2001) di Artur Aristakisjan [numerotre]
Un chien andalou (Francia/1929) di Luis Buñuel [numerodue]
Milano calibro 9 (Italia/1972) di Fernando di Leo [numeroquattro]
A Child is Waiting (USA/1963) di John Cassavetes [numerocinque]
Moolaadé (Senegal-Francia-Burkina Faso-Marocco-TunisiaCamerun/2003) di Ousmane Sembene [numerocinque]
A Clockwork Orange (UK/1971) di Stanley Kubrick [numerocinque] Coffy (USA/1973) di Jack Hill [numeroquattro] Cruising (USA/1980) di William Friedkin [numerodue] The Darjeeling Limited (USA/2007) di Wes Anderson [numeroquattro] Death Proof (USA/2007) di Quentin Tarantino [numerouno] [numerocinque] Destricted (USA-UK/2006) di AA.VV. [numerodue]
Ms. 45 (USA/1981) di Abel Ferrara [numerodue] My Best Friend’s Birthday (USA/1987) di Quentin Tarantino [numerodue] Il neige à Marrakech (Svizzera/2006) di Hicham Alhayat [numerocinque] Ne touchez pas la hache (Francia-Italia/2007) di Jacques Rivette [numerouno] North by Northwest (USA/1959) di Alfred Hitchcock [numeroquattro] Notturno Bus (Italia/2007) di Davide Marengo [numerouno]
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Spell (Dolce Mattatoio) (Italia/1970) di Alberto Cavallone [numeroquattro] Squirm (USA/1976) di Jeff Lieberman [numerodue] Sunset Boulevard (USA/1950) di Billy Wilder [numerocinque] Süpermen Dönüyor (Turchia/1979) di Yilmaz Atadeniz [numerozero] Sympathy for Lady Vengeance (Corea del Sud/2005) di Park Chan-wook [numerodue] Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street (USA-UK/2007) di Tim Burton [numeroquattro] Tarzan Istanbul’da (Turchia/1952) di Orhan Atadeniz [numerozero] Les Témoins (Francia/2007) di André Téchiné [numerouno] Teosofia (Italia/2006) di M. Vaccari e L. Basadonne [numerodue] Thumbsucker (USA/2005) di Mike Mills [numeroquattro] The Trip (USA/1967) di Roger Corman [numerocinque] Truck Turner (USA/1974) di Jonathan Kaplan [numeroquattro] Tutta la vita davanti (Italia/2008) di Paolo Virzì [numeroquattro] Ultimo tango a Zagarol (Italia/1973) di Nando Cicero [numeroquattro] L’ultimo uomo della terra (Italia-USA/1964) di Ubaldo Ragona e Sidney Salkow [numerocinque] Vanilla Sky (USA/2001) di Cameron Crowe [numeroquattro] Vanishing Point (USA/1971) di Richard C. Sarafian [numerouno] Vivement dimanche! (Francia/1983) di François Truffaut [numeroquattro] West and Soda (Italia/1965) di Bruno Bozzetto [numerocinque] The Wild Angels (USA/1966) di Roger Corman [numerocinque] X (USA/1963) di Roger Corman [numerouno] XXY (Argentina/2007) di Lucìa Puenzo [numerotre] Zidane, un portrait du 21e siècle (Francia-Islanda/2006) di D. Gordon e P. Parreno [numerozero]
L’elenco dei film citati nei vari numeri di Rapporto Confidenziale segue l’ordine alfabetico. L’alfabeto è quello internazionale; gli articoli che precedono il titolo, determinativi e indeterminativi – sia italiani che stranieri – vengono mantenuti ma non sono considerati. I titoli sono da intendersi sempre riferiti alla lingua originale, mentre le nazioni indicate sono da intendersi quali quelle dei paesi di produzione. Il riferimento fra parentesi quadre è relativo al numero della rivista in cui compare l’articolo del film.
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numerosette - luglio/agosto 2008
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