NU MERO 71
NAPOLEONE IN SPAGNA
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EDITORIALE
Hildegarda
di Bingen non è oggi nota come meriterebbe, eppure fu una delle personalità più straordinarie del Medioevo religioso, ancora più importante se si riflette sulla condizione femminile dell’epoca. Non c’è campo dello scibile che la religiosa benedettina tedesca non abbia esplorato, compresa la politica: trattò da pari a pari con nobili e governanti del suo tempo e strinse un contraddittorio rapporto con Federico Barbarossa: dapprima amichevole, poi ostile in seguito alla decisione dell’Imperatore di nominare un antipapa. Ancora in vita fu considerata una delle maggiori studiose di teologia, tanto che i papi presentavano i suoi scritti nel corso di sinodi ecclesiastici. Ildegarda è stata anche la fondatrice della terapia dietologica moderna, cioè basata sul potere dell’alimentazione di prevenire e guarire le malattie, ma non più attraverso i presunti influssi magico-mistici di cibi e piante, bensì sulla base delle loro reali proprietà. Nei suoi scritti ci ha lasciato circa duemila rimedi alimentari per tutti i tipi di malattie, e con un approccio che oggi definiremmo olistico: Hildegarda cercava infatti non di curare la singola malattia o il sintomo, ma l’intero organismo, corpo e anima. È nota anche per le sue visioni e profezie, laddove queste non vanno intese come previsioni del futuro, ma come un linguaggio per raggiungere la verità divina e rivelarla agli uomini (e alle donne). GIORGIO RIVIECCIO Direttore
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Pubblicazione periodica mensile - Anno VI - n. 71
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IL FORO DI ROMA, centro politico e sociale dell’antica Urbe,
al tramonto. In primo piano, il tempio dedicato a Saturno e, dietro, l’arco di Settimio Severo.
Grandi storie
24 L’origine dei numeri L’uomo apprese a contare in epoche remote, ma i numeri che usiamo arrivarono dall’India attraverso il mondo arabo. DI GUILLEM NAVARRO
34 Amarna, la corte di Akhenaton e Nefertiti Akhenaton trasferì la capitale dell’Egitto ad Amarna, che in seguito si riempì di templi, palazzi e quartieri operai. DI TERESA ARMIJO
46 I filosofi greci Nell’antica Grecia, i filosofi si occupavano di temi disparati come il denaro, la politica, l’amicizia e l’amore. DI JUAN PABLO SÁNCHEZ
58 Tarquinio Superbo Con la sua espulsione finì l’epoca regia di Roma e nel 509 a.C. ebbe inizio l’età repubblicana. DI E. CASTILLO
68 La guerra del Vespro La rivolta popolare del 1282 a Palermo segnò la fine del dominio angioino in Sicilia. DI JACOPO MORDENTI
82 Bartolomeo Colleoni Le imprese del più celebre capitano di ventura italiano del Rinascimento. DI VITTORIO H. BEONIO BROCCHIERI
94 Napoleone in Spagna Nel 1808, l’imperatore francese occupò la Spagna, ma nel 1814 le truppe francesi vennero sconfitte. DI J. J. SÁNCHEZ BUSTO POLICROMO DI NEFERTITI RITROVATO AD AMARNA. MUSEO EGIZIO, BERLINO.
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Rubriche
8 PERSONAGGI STRAORDINARI
Ildegarda di Bingen, la mistica femminista
Santa, teologa, guaritrice, medico, fu una delle personalità più complesse del Medioevo religioso
12 L’EVENTO STORICO
Pompeo Magno sconfigge i pirati
Nel 67 a.C., il Senato incaricò Pompeo di dare caccia ai banditi che infestavano il Mediterraneo
16 VITA QUOTIDIANA
Le forze di polizia dell’antico Egitto
Pattuglie e guardie mantenevano con ferocia l’ordine nel Paese del Nilo
20 ATTUALITÀ 106 GRANDI SCOPERTE
L’inestimabile tesoro del Concepción,
Il galeone spagnolo del ’600 è ancora preda di cacciatori di tesori
110 GLI INDICI 2014 112 ITINERARI 114 PROSSIMO NUMERO
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PERSONAGGI STRAORDINARI
Ildegarda di Bingen, la mistica femminista Santa, teologa, guaritrice, medico, musicista, cosmologa, profetessa: la benedettina tedesca è stata una delle personalità più poliedriche e complesse del Medioevo religioso
P
oiché figlia di Eva, responsabile del peccato originale, la donna fu considerata nel Medioevo impura per natura e perciò relegata ai margini della vita della Chiesa. Il Decretum Gratiani, una raccolta di diritto canonico risalente al XII secolo, proibiva alle rappresentanti del“sesso debole”(monache incluse) di avere contatti con gli oggetti di culto e negava loro la possibilità di trattare argomenti teologici. Secondo Graziano, il monaco camaldolese compilatore della raccolta, la donna non ha infatti alcuna autorità e deve sottomettersi in tutto all’uomo. Pur in un simile contesto, alcune donne riuscirono a trovare una via per vivere pienamente il loro sentimento religioso, giungendo persino a diventare guide e maestre: tale via fu quella la della mistica, una comunicazione diretta con Dio che poteva assumere la forma di visioni, profezie o miracoli. La prima donna a seguire questa strada fu la tedesca Ildegarda di Bingen. Nata nel 1098 da una famiglia nobile, Ildegarda a soli 8 anni
Una vita al servizio delle donne 1098 Ildegarda nasce in un villaggio della Renania. A otto anni entra in una comunità religiosa, che dipende dall’abbazia di Disibodenberg.
1141 Ildegara racconta di aver ricevuto da Dio l’invito a scrivere delle visioni che l’avevano accompagnata sin dall’infanzia.
1147 Papa Eugenio III, in visita a Treviri per un sinodo, autorizza Ildegarda a proseguire nella stesura dello Scivias.
1179 Ildegarda muore nel monastero di Bingen, che aveva fondato nel 1150.
Il tentativo di canonizzare Ildegarda fallisce, ma si permette il suo culto.
LOREM IPSUM
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entrò come oblata nell’eremo di Giuditta di Sponheim, vicino all’abbazia di Disibodenberg nei pressi di Magonza, secondo l’usanza all’epoca diffusa di offrire agli enti monastici donne e bambini. Debole e malaticcia, mostrò già in tenera età un acceso fervore religioso, che si tradusse tra l’altro in visioni divine: iniziate nell’infanzia, esse l’accompagnarono per tutta la vita, sino alla morte giunta nel 1179.
Creatura di cenere e polvere Come testimonia la Vita di Santa Ildegarda vergine iniziata da Goffredo di Disibodenberg e terminata da Teodorico di Echternach, in un primo tempo Ildegarda esitò a divulgare le proprie visioni: “Sino a 15 anni ebbi molte visioni e parlavo molto di esse, sebbene in modo semplice, al punto che quelli che ascoltavano queste cose mi chiedevano meravigliati da dove venissero e da chi avessero origine. Anch’io ero alquanto meravigliata di me stessa [...]. Durante una mia malattia chiesi a una delle mie infermiere se anche lei vedeva cose simili: quando mi rispose di no, fui presa da una gran paura. Spesso, nelle mie conversazioni, parlavo di cose future, che vedevo come presenti; tuttavia, quando notai
La santa scrisse libri di medicina e dietologia che anticipano di secoli le conoscenze attuali MINIATURA DA UNA COPIA MANOSCRITTA DELLO SCIVIAS, 1220 CA. UNIVERSITÀ DI HEIDELBERG.
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LA SUA SCIENZA MEDICA E DIETOLOGICA ILDEGARDA È STATA la
fondatrice della terapia dietologica moderna, cioè basata sul potere dell’alimen tazione di prevenire e guarire le malattie, ma non più attraverso i presunti influssi magico-mistici di cibi e piante, bensì sulla base delle loro reali proprietà di intervenire sui processi fisiologici dell’organismo. A questa scienza la religiosa benedettina dedicò nove libri scritti in latino, fra i quali Physica e Causae et curae, molti dei quali rinvenuti a metà del Novecento. Come avesse fatto a sapere, o a intuire, cose che sarebbero state scoperte quasi mille anni dopo, è un mistero.
ILDEGARDA RAFFIGURATA SU UNA VETRATA DELL’ABBAZIA DI EIBINGEN, AD HESSE, CHE ATTUALMENTE PORTA IL SUO NOME.
la sorpresa dei miei interlocutori, diventai più riservata”. Soltanto intorno al 1136, dopo aver preso la direzione della sua comunità, Ildegarda decise di mettere per iscritto le sue visioni, assecondando quanto gli avrebbe ordinato una voce celestiale: “Oh, fragile creatura, cenere da cenere e polvere da polvere, racconta e scrivi ciò che vedi e odi”, ricorda la stessa Ildegarda in un suo libro intitolato Scivias, “Conosci le vie [della luce]”. Dopo non poche esitazioni, confessò l’accaduto al suo direttore spirituale e all’abate nella cui
giurisdizione si trovava il convento. Poiché non sapeva scrivere, ricorse all’aiuto di un monaco di nome Volmar: ciò comportò tra l’altro una forma di controllo maschile sul testo, che placò i timori dei superiori di Ildegarda nei confronti delle sue rivelazioni. Ella iniziò così la dettatura dello Scivias, un’opera composta da 26 visioni cosmologiche relative all’Apocalisse accompagnate da commenti teologici e lodi ispirate al Cantico dei cantici. Tra il 1146 e il 1147 Kuno, abate di Disibodenberg, inviò le pagine scritte da Volmar all’arcivescovo di Magonza,
affinché le esaminasse; quest’ultimo le fece a sua volta pervenire a papa Eugenio III e a Bernardo di Chiaravalle, che in quel periodo partecipavano a un sinodo nella vicina Treviri. Il contenuto delle visioni fu approvato e il loro carattere profetico riconosciuto: Ildegarda venne così autorizzata a proseguire nella stesura del libro e alcuni estratti vennero letti pubblicamente in occasione della chiusura del sinodo, tributando un onore che a nessuna donna era mai stato concesso. In una lettera del 1146 o 1147 indirizzata da Ildegarda a Bernardo di ChiaSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
ROVINE DELL’ABBAZIA
di Disibodenberg, monastero nei pressi di Magonza che accolse Ildegarda all’età di otto anni.
ravalle, si legge: “Io, miserabile, e ancora più miserabile nella mia condizione di donna, ho visto sin dall’infanzia cose grandi e meravigliose che la mia lingua non sarebbe in grado di raccontare se lo Spirito Santo non mi avesse insegnato a credere in loro”; poco più avanti, ella chiedeva al monaco: “Devo dire ciò che vedo aperta-
mente o mantenere il silenzio?”. Nella medesima lettera ricordava umilmente la sua condizione femminile, avvicinandola al destino degli uomini: “Sono nata dal ceppo di Adamo, che, consigliato dal diavolo, venne esiliato in terra straniera”. Se poteva considerarsi “saggia nell’anima”, se durante le sue visioni impara-
L’ALLEATO SAN BERNARDO valle sulla validità delle sue visioni, egli era impegnato nella predicazione della Seconda crociata. L’approvazione del monaco cistercense fu per Ildegarda di grande importanza: Bernardo era una figura illustre, ascoltata da papi e re, che tenevano in alta considerazione le sue opinioni.
BERNARDO DI CHIARAVALLE, XIV SECOLO. GALLERIA DELL’ACCADEMIA, FIRENZE.
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QUANDO ILDEGARDA consultò Bernardo di Chiara-
va “il senso interiore” delle Sacre Scritture che le “toccava il cuore e l’anima come una fiamma”, era perché Dio si rivolgeva a lei – e tramite lei a tutti gli uomini – per vie misteriose. Bernardo rispose offrendole aiuto e raccomandandole umiltà.
Dalla medicina alla musica Tra il 1158 e il 1163, Ildegarda compose il Libro dei meriti di vita e, tra il 1163 e il 1174, il Libro delle opere divine. Il successivo Libro delle sottigliezze delle creature divine è un’originale enciclopedia che si occupa di scienze naturali: contiene alcune intuizioni della concezione eliocentrica dell’universo e della teoria della circolazione del sangue, oltre a elementi che hanno ispirato negli anni Ottanta del Novecento la moda della medicina alternativa. Particolarmente conosciuti oggi sono i 73 inni liturgici da lei composti, raccolti nella Sinfonia dell’armonia del-
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A LUCCA I TESTI DELLE VISIONI LE OPERE DI ILDEGARDA di Bingen
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sono conservate in diversi manoscritti risalenti al XII e al XIII secolo, alcuni dei quali sono abbelliti da splendide miniature. È questo il caso di un codice contenente il Libro delle opere divine, originariamente redatto in uno scriptorium della Renania e oggi conservato nella Biblioteca Statale di Lucca: in esso sono presenti alcune illustrazioni che rappresentano Ildegarda seduta al suo scrittoio mentre contempla le visioni avute, che occupano l’intera pagina del manoscritto.
MINIATURA del Codex latinus 1942 della Biblioteca statale di Lucca, contenente il Libro delle opere divine di Ildegarda di Bingen.
BUSTO IN BRONZO DI FEDERICO I BARBAROSSA, XII SECOLO. CHIESA DEL CASTELLO DI CAPPENBERG.
le rivelazioni celesti, opera centrale nella tradizione del canto gregoriano, e l’Ordine delle virtù, opera teatrale liturgica terminata entro il 1151 che vanta numerose rappresentazioni. Il successo dei suoi libri procurò a Ildegarda un notevole prestigio personale: nel 1150 fondò – vicino a Bingen – una comunità femminile indipendente dall’abbazia di Disibodenberg e, nel 1165, creò un nuovo monastero sulle rive del Reno. Anche se il Decretum Gratiani proibiva alle donne di predicare, Ildegarda realizzò quattro campagne di predicazione: chierici, nobili e cittadini si riunivano per ascoltare i suoi sermoni; mantenne anche una corrispondenza con alcune delle maggiori figure della cristianità. Con l’autorità conferitale dalle sue visioni, non esitò a pronunciarsi in merito alle questioni politiche del suo tempo, come facevano i profeti dell’Antico Testamento. Nel 1155
l’imperatore Federico I Barbarossa la ricevette a Ingelheim e più tardi le mandò sua moglie Beatrice, non più fertile, con la speranza che le preghiere di Ildegarda contribuissero a farla rimanere incinta. Quando Federico scese in guerra contro il papa, provocando una profonda frattura con la Chiesa, ricevette una severa missiva nella quale la “Sibilla del Reno” gli rimproverava senza mezzi termini di “comportarsi come un bambino, come un uomo dalla vita insensata”.
Precorritrice del femminismo Ildegarda di Bingen è una delle figure più significative della lunga storia dell’emancipazione femminile. Se certamente non poteva mettere radicalmente in discussione il dominio maschile, valorizzò però la femminilità come mai nessuno prima aveva fatto. Nelle sue opere mistiche, mutò di segno l’immagine femminile tradi-
zionalmente negativa: assimilando la propria debolezza di donna a quella di Cristo, finì con l’esaltarla; sviluppò anche una spiritualità intensa, sensuale e quasi erotica intorno alla Vergine. Nel Libro delle sottigliezze delle creature divine trattò con sensibilità le questioni relative all’apparato genitale femminile, in modo particolare la prima mestruazione e la menopausa: in un mondo convinto dall’antichità che il sangue mestruale fosse malefico e veicolasse malattie quali la rabbia o facesse appassire l’erba e appannare gli specchi, ciò rappresentò un notevole progresso. JULIEN THÉRY UNIVERSITÀ DI MONTPELLIER
Per saperne di più
TESTO
Scivias Ildegarda di Bingen, L.B.V., 2002. SAGGIO
Ildegarda di Bingen. Mistica, visionaria, filosofa P. Dumoulin, San Paolo Edizioni, 2013.
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GRANDI SCOPERTE
L’inestimabile tesoro del galeone spagnolo del ’600 Dal naufragio nel 1641 davanti alla Repubblica Dominicana, la Concepción è stata preda di cacciatori di tesori, ma molto resta ancora da trovare
1641
GOLFO DEL MESSICO
LUOGO DEL NAUFRAGIO
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CUBA REPUBBLICA DOMINICANA
della dinastia Ming, gioielli, i beni della vedova di Hernán Cortés e una notevole quantità di metalli preziosi da contrabbandare in Europa, pari ad almeno un terzo del carico ufficiale.
Il naufragio Dopo aver fatto scalo a L’Avana per riparare un’avaria, la flotta riprese il viaggio verso la Spagna. Superò con successo il Canale di Bahama ma, all’altezza della Florida, fu sorpresa da un uragano che fece naufragare la maggior parte delle navi.
Il galeone spagnolo Concepción naufraga, a causa di una tempesta, a nord dell’isola di Hispaniola.
1687
La Concepción riuscì inizialmente a salvarsi: rimasta però priva di alberi, venne trascinata dai marosi. La sera del 30 ottobre il galeone sbatté violentemente contro alcune barriere coralline situate a 75 miglia nautiche a nord di Hispaniola (l’attuale Repubblica Dominicana); il relitto restò poi in balia delle correnti fino a quando, all’alba del giorno successivo, si infranse contro un’altra barriera corallina. L’equipaggio, terrorizzato, corse a mettersi in salvo; l’ammiraglio ordinò di fabbricare alcune zattere con il legname della nave, mentre alcuni ufficiali – ammutinatisi – tentarono di riportare a galla il relitto. La Concepción andò per diversi giorni alla deriva fino a quando, l’11 novembre, si spaccò lungo la linea di poppa e affondò, depositandosi
William Phips trova il relitto della Concepción e recupera 64 tonnellate d’argento tra lingotti e monete.
1968
Jacques Cousteau, cercando di localizzare la Concepción, porta alla luce un veliero del XVIII secolo.
UN SUB raccoglie
JONATHAN BLAIR / NGS
Banco de plata
M
N
el luglio del 1641 la flotta della Nuova Spagna, composta da 30 navi, partì da Veracruz alla volta della Spagna. In testa vi era, quale nave ammiraglia, il galeone San Pedro y San Pablo; in coda, la nave del comandante Juan de Villavicencio, la Nuestra Señora de la Pura y Limpia Concepción, un galeone di 600 tonnellate che era stato costruito a L’Avana nel 1620. La Concepción portava un carico di grande valore: migliaia di monete coniate da Filippo IV di Spagna e circa 25 tonnellate d’oro e d’argento, corrispondenti alla maggior parte dei metalli ricavati nelle miniere messicane e boliviane nei due anni precedenti. La stiva della nave custodiva inoltre manufatti in porcellana cinese
uno dei pochi resti lignei che ancora si conservano del galeone spagnolo Concepción, dopo i saccheggi degli ultimi secoli.
a 15 metri di profondità. Dei 250 uomini che si trovavano a bordo, soltanto una parte riuscì a salvarsi. Nei mesi successivi, furono elaborati progetti per il recupero dei tesori stivati
1978
Burt Webber Jr. scopre i resti della Concepción: il recupero del suo tesoro continua ancora oggi.
ASTROLABIO RECUPERATO DAL RELITTO DELLA CONCEPCIÓN DALLA SQUADRA DI BURT WEBBER JR. NEL 1978. JONAT
S HAN BLAIR / NG
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UN BUCO NELL’ACQUA
Il primo recupero Alcuni decenni dopo il naufragio, nel 1687, William Phips, un cacciatore di tesori del New England, conobbe casualmente un
sopravvissuto della Concepción, che gli rivelò la posizione del relitto in cambio di una parte del bottino eventualmente recuperato. Phips allestì immediatamente due navi: la James and Mary, sotto il suo comando, e l’Henry of London, agli ordini di un amico, il comandante Francis Rogers. Giunto a Hispaniola, Phips mise in atto uno stratagemma per ingannare le autorità spagnole: egli rimase ancorato nel porto della città con la James and
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nella nave. Lo stesso Villavicencio tentò a più riprese di organizzare una spedizione con tale obiettivo, ma essa non ebbe mai corso: la burocrazia spagnola, le tempeste e i pirati francesi finirono per ostacolare tutti i suoi piani di recupero.
NEL 1968 Jacques-Yves Cousteau organizzò una spedizione nei Caraibi per localizzare il relitto della Concepción. Come mostra il video che ne documenta le ricerche, Cousteau e il suo equipaggio esplorarono la zona per un mese, avvalendosi di una metodologia scientificamente poco ortodossa: alla fine rinvenirono solo i resti di un veliero del XVIII secolo.
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GRANDI SCOPERTE
INUTILI TENTATIVI DI SALVATAGGIO L’ILLUSTRAZIONE raffigura i momenti immediatamente successivi all’urto della
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INDIGENI CERCATORI DI PERLE SI IMMERGONO NEL LUOGO DOVE ERA AFFONDATA LA CONCEPCIÓN PER RECUPERARNE I FAVOLOSI TESORI.
RICHARD SCHLECHT / NGS
Concepción contro una barriera corallina: alcuni marinai tentano di riportare a galla la nave, mentre altri ne alleggeriscono il peso gettando fuori bordo parte del carico; dopo una lenta agonia, il galeone si spezzerà lungo la linea di poppa e affonderà tra due barriere coralline, depositandosi a 15 metri di profondità. Decenni dopo, William Phips tenterà di recuperare il tesoro avvalendosi di indigeni cercatori di perle, capaci di nuotare in apnea per cinque minuti.
Mary, fingendo di dedicarsi a trattative commerciali, mentre Rogers con l’Henry of London andava alla ricerca del relitto. Il compito era arduo: dopo quarant’anni, della struttura lignea della Concepción non era rimasto nulla; solo grazie all’avvistamento dei cannoni fu possibile
localizzare i resti della nave, che si trovavano fra tre grandi rocce che emergevano con la bassa marea. Anche se Phips riuscì a recuperare solo una frazione del tesoro sommerso, potè ugualmente tornare in Inghilterra ricchissimo: qui cedette parte del ricavato alla Corona, ottenendo in cambio il titolo di “Sir” e successivamente – nel 1691
– la nomina a governatore del Massachusetts. A seguito del ritrovamento di Phips, nessuno si occupò più della Concepción per quasi tre secoli: solo negli anni Sessanta del Novecento la nave, e specialmente il carico che giaceva ancora in fondo al mare, fu oggetto di un rinnovato interesse. Il celebre esploratore oceanografico Jacques Cousteau
Si calcola che il valore del carico della Concepción ammonta a circa cento milioni di euro attuali SERVIZIO DA CIOCCOLATA, RECUPERATO DAL NAUFRAGIO DELLA CONCEPCIÓN.
cercò invano di localizzare il relitto nel 1968. Il successo coronò invece la ricerca di un cacciatore di tesori statunitense, Burt Webber Jr. A mettere quest’ultimo sulla buona pista fu l’incontro all’Archivio Generale delle Indie di Siviglia con Jack Haskins, uno studioso che aveva ritrovato il diario di bordo di Phips; il documento non indicava tuttavia la posizione del relitto: i due uomini ipotizzarono che una simile informazione dovesse essere contenuta nel diario di bordo di Rogers, del quale però si erano perdute del tutto le tracce. Nell’aprile del 1978, la for-
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Brocche cinesi, collane e bambole ha seguito le orme di Burt Webber Jr., dedicandosi al recupero dei resti della Concepción. Rimuovendo la sabbia mediante tubi di aspirazione, Bowden ha trovato reperti di valore come quelli mostrati in questa pagina, oggetto di un reportage pubblicato sul National Geographic nel 1996. TRACY BOWDEN
Bambola con in mano una palla, oggetto tra i più curiosi rinvenuti da Bowden.
Sigillo in bronzo: la sua impressione sulla cera serviva per autenticare documenti.
tuna arrise finalmente a Webber: egli ricevette una lettera da Peter Earle, professore di Economia e appassionato di storia navale, nella quale costui gli proponeva di scrivere un libro sulla Concepción; in tale lettera, Earle gli comunicava di avere il diario di bordo di Francis Rogers. Il diario di bordo di Rogers descriveva la posizione del relitto con dovizia di dettagli e qualificava la Concepción come “la nave più ricca che fosse mai salpata dalle Indie”; inoltre, l’inventario di quanto recuperato nel 1687 lasciava chiaramente intendere co-
Catene d’oro di considerevole spessore e peso, recuperate nel 1978.
me, anche senza contare il carico non ufficiale, in fondo al mare dovesse trovarsi ancora più della metà delle ricchezze stivate nella nave.
Bottino da sogno Webber organizzò una spedizione di recupero e si accordò con le autorità dominicane sulla spartizione di quanto sarebbe stato ritrovato: a lui sarebbe andata la metà delle monete ritrovate, al governo l’altra metà delle monete e i reperti storici. Il tesoro riportato alla luce consistette in circa 60.000 monete, gioielli, catene d’oro, strumenti di navigazione e oggetti curiosi come un
Rosette d’oro con diamante al centro: i 32 pezzi probabilmente decoravano abiti.
Pendenti d’oro con diamanti e sottili catene d’oro finemente lavorate.
baule a doppio fondo che conteneva monete di contrabbando. L’operazione, se fu un successo dal punto di vista economico, fu un disastro da quello archeologico: Webber non seguì alcuna metodologia scientifica e finì per distruggere le testimonianze archeologiche. Le ricerche del carico perduto della Concepción continuano tuttora, a opera dell’Hispaniola Ventures (l’impresa fondata da Webber) e di altri cacciatori di tesori come Tracy Bowden: gli obiettivi principali sono i manufatti in porcellana della dinastia Ming e la restante parte delle monete.
FOTO: JONATHAN BLAIR / NGS
Brocca in porcellana della dinastia Ming, ritrovata intatta.
Non si sa con precisione quale fosse il carico originariamente stivato: tra quello ufficiale e di contrabbando, si pensa che il valore totale possa ammontare a cento milioni di euro. La leggenda che voleva la stiva della Concepción incapace di contenere tutte le ricchezze lì riposte sembra oggi, a quasi quattro secoli di distanza dal suo naufragio, più che mai viva. XAVIER ARMENDÁRIZ STORICO
Per saperne di più SAGGIO
Galeoni e tesori sommersi Claudio Bonifacio, Mursia, 2010.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GLI INDICI 2014
Indici 2014 Storica National Geographic GRANDI STORIE
Vicino Oriente Alfabeto (I primi alfabeti della storia) Assurnasirpal II (La rinascita dell’Assiria) Creso (Creso di Lidia) Diluvio Universale (Il Diluvio Universale) Divinità (Gli dei mesopotamici) Esseni (Gli Esseni) Maria Maddalena (Maria Maddalena) Matematica (L’invenzione della matematica) Nabonide (Nabonide) Ur (I tesori di Ur)
Grecia n. 70, p. 34 n. 62, p. 34 n. 63, p. 32 n. 61, p. 36 n. 68, p. 32 n. 60, p. 42 n. 64, p. 42 n. 59, p. 20 n. 69, p. 34 n. 65, p. 32
Egitto Abu Simbel (Abu Simbel) Aldilà (Le mummie di Anubi) Architetti (Gli architetti dei faraoni) Geroglifici (I geroglifici) Navigazione (Le barche dei faraoni) Oro della Nubia (Nubia) Oasi (Oasi d’Egitto) Ramses III (I Popoli del Mare) Ramses XI (Ramses XI) Saqqara (La piramide di Djoser) Tutankhamon (Il tesoro di Tutankhamon) Tuthmosis III (L’esercito egizio)
n. 67, p. 22 n. 69, p. 22 n. 65, p. 22 n. 63, p. 22 n. 70, p. 22 n. 64, p. 22 n. 62, p. 24 n. 66, p. 22 n. 68, p. 22 n. 60, p. 20 n. 61, p. 22 n. 59, p. 30
Alessandro Magno (Alessandro in India) Archimede (Archimede) Atene (Pericle) Demostene (Demostene) Enea (Enea) Gare panelleniche (Gli atleti greci) Magna Grecia (L’assedio di Siracusa) Mercenari greci (La ritirata dei Diecimila) Sparta (Licurgo)
n. 62, p. 44 n. 66, p. 42 n. 59, p. 40 n. 64, p. 32 n. 70, p. 46 n. 60, p. 30 n. 65, p. 42 n. 61, p. 48 n. 67, p. 46
Roma e civiltà italiche Battaglie (La battaglia di Carre) Britannia (La Britannia) Domiziano (Domiziano) Esercito (La guardia pretoriana) Etruschi (L’origine degli Etruschi) Marco Aurelio (Marco Aurelio) Parigi (Parigi, città romana) Pompei (La scoperta di Pompei) Popoli italici (I popoli italici) Scipione (Scipione) Traiano (Traiano) Vespasiano (Vespasiano)
n. 67, p. 36 n. 63, p. 52 n. 64, p. 52 n. 68, p. 42 n. 69, p. 44 n. 60, p. 54 n. 61, p. 58 n. 59, p. 50 n. 62, p. 56 n. 67, p. 56 n. 66, p. 52 n. 70, p. 56
Medioevo Abbazie (Montecassino) Carlo Magno (Carlo Magno) El Cid (El Cid) Federico Barbarossa (Federico Barbarossa) Giovanni Boccaccio (Decameron) Marco Polo (Marco Polo) Normanni (Ruggero II)
n. 66, p. 66 n. 70, p. 66 n. 69, p. 56 n. 62, p. 66 n. 65, p. 78 n. 59, p. 66 n. 61, p. 70
Età Moderna Abraham Lincoln (Abraham Lincoln) Andrea Doria (Andrea Doria) Bartolomé de Las Casas (Bartolomé de Las Casas) Carlo II di Spagna (Carlo II) Carlo V (L’incoronazione di Carlo V)
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Cristoforo Colombo (Colombo) Galileo Galilei (Galileo) Giordano Bruno (Giordano Bruno) Girolamo Savonarola (Savonarola) Nuovo Mondo (L’argento d’America) Rivoluzioni del 1799 (La Repubblica napoletana) Savoia (Dinastia Savoia)
n. 63, p. 62 n. 68, p. 66 n. 69, p. 68 n. 63, p. 72 n. 62, p. 76 n. 68, p. 80 n. 59, p. 80
Altre civiltà Cina (La Grande Muraglia) Gallia (I druidi) Giappone (I samurai) Impero bizantino (Alessio I Comneno) Impero moghul (Akbar) Impero mongolo (Samarcanda) Impero ottomano (Solimano il Magnifico) Sette Meraviglie (Le Sette Meraviglie) Valle dell’Indo (La civiltà dell’Indo) Vichinghi (La nascita della Russia)
n. 60, p. 66 n. 65, p. 52 n. 65, p. 64 n. 67, p. 66 n. 69, p. 78 n. 64, p. 64 n. 66, p. 78 n. 63, p. 40 n. 66, p. 32 n. 68, p. 54
RUBRICHE
n. 59, p. 12 n. 60, p. 8 n. 66, p. 10 n. 64, p. 10 n. 65, p. 10 n. 69, p. 10 n. 61, p. 10 n. 67, p. 10 n. 63, p. 10 n. 62, p. 12 n. 70, p. 10 n. 68, p. 10
L’evento storico 1709: l’inverno più rigido nella storia dell’Europa Basilio II di Bisanzio conquista i Balcani Crociati contro cristiani, la conquista di Zara Il grande incendio del 1666 che devastò Londra Il naufragio della Medusa, opera che sconvolse Parigi
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n. 64, p. 14 n. 61, p. 14 n. 69, p. 14 n. 66, p. 14 n. 62, p. 16 n. 63, p. 14
Vita quotidiana
Personaggi straordinari Agostino d’Ippona, santo filosofo dal passato eretico Caravaggio: artista tra il pennello e la spada Carlo il Temerario, il duca che voleva essere re Caterina Sforza, la contessa guerriera del Rinascimento Coriolano, l’eroe romano che tradì la sua patria El Greco, l’artista che dipingeva l’anima George Byron, poeta romantico della libertà Germanico: il generale più amato dai Romani Giuseppe Verdi, cantore del Risorgimento italiano Leone l’Africano, viaggiatore tra due mondi Mecenate, il munifico protettore di poeti e artisti Pocahontas, l’indiana tra due continenti
Il pallone aerostatico apre la conquista del cielo La “guerra degli specchi” tra la Francia e Venezia La Russia di Caterina II conquista il Mar Nero La società segreta degli Illuminati bavaresi Luigi XIV di Francia mette al bando gli ugonotti Vendetta in Vaticano: il “sinodo del cadavere”
n. 67, p. 14 n. 60, p. 12 n. 68, p. 14 n. 65, p. 14 n. 70, p. 14
Come vincere le elezioni nel XVIII secolo Da medicinale a droga: l’oppio arriva in Europa I cacciatori di balene in Età moderna Il vaccino, la più grande conquista della medicina La diffusione del duello nel XVII secolo La dura vita dei minatori iberici in epoca romana La meticolosa cura dei capelli in Mesopotamia La moda ufficiale in Giappone nel XVIII secolo La nobile bevanda che incantò tutta l’Europa La passione per il gioco nell’antica Roma La schiavitù nell’Atene dell’era classica La smania della villeggiatura nel XVIII secolo
n. 70, p. 18 n. 62, p. 20 n. 61, p. 18 n. 65, p. 18 n. 69, p. 18 n. 59, p. 16 n. 63, p. 18 n. 67, p. 18 n. 68, p. 18 n. 64, p. 18 n. 66, p. 18 n. 60, p. 16
Storia nell’arte L’eterno desiderio di immortalità La Camera Picta, vanto dei Gonzaga
n. 64, p. 90 n. 63, p. 90
Grandi scoperte Gli enigmatici colossi di pietra dell’Isola di Pasqua Il guerriero sarmata delle steppe e il suo tesoro Il ritrovamento dell’Ara Pacis, l’altare di Augusto La grotta Chauvet, capolavoro dell’arte preistorica La nave di Oseberg, tomba nascosta della regina vichinga La città maya persa nella foresta dello Yucatán Lo straordinario archivio reale dell’antica Ebla La villa dei mosaici del Tardo Impero rinvenuta in Spagna Madain Saleh, la ricca città nabatea nel deserto arabo Villa della Farnesina, la galleria di affreschi affacciata sul Tevere
n. 65, p. 90 n. 67, p. 92 n. 63, p. 86 n. 62, p. 90 n. 64, p. 86 n. 69, p. 92 n. 66, p. 90 n. 60, p. 90 n. 70, p. 90 n. 68, p. 90
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ITINERARI Berlino
Bruxelles
1 ROYAL BELGIAN INSTITUTE OF NATURAL SCIENCES
I percorsi di Storica
Roma
Fondato nel 1846, il museo ha una ricca collezione di fossili di iguanodonte.
3 CAPPELLA COLLEONI
Dove e come visitare i luoghi storici e i musei legati ai servizi e ai personaggi di questo numero di Storica
Piazza Duomo, Bergamo; www.turismo.bergamo.it
Opera rinascimentale di Giovanni Antonio Amadeo, si trova nella piazza Duomo di Bergamo alta, addossata alla basilica di Santa Maria Maggiore.
quelli giunti fino a noi. Deve il nome all’antiquario scozzese Henry Rhind, che lo acquistò nel 1858 a Luxor, in Egitto. Noto anche come Papiro di Ahmes (dal nome dello scriba della XV dinastia che lo trascrisse) è conservato al British Museum di Londra. Il papiro contiene problemi aritmetici, algebrici e geometrici e le relative soluzioni. PAGINA 24
l’origine dei numeri Tra le prime tracce che documentano l’uso dei numeri da parte dell’umanità vi sono alcuni reperti che risalgono a circa 30-35.000 anni fa. Si tratta di ossa intagliate con tacche che si pensa indichino un qualche tipo di conteggio. Il più noto è forse il cosiddetto Osso d’Ishango, datato al Paleolitico superiore (tra il 20.000 e il 18.000 a.C. circa). L’osso è un perone di babbuino, con una scaglia di quarzo innestata su una estremità, forse usata per incidere. Il reperto è stato rinvenuto nel 1959 dall’archeologo belga Jean de Heinzelin de Braucourt nel corso di una campagna di scavi a Ishango, piccolo villaggio nell’odierna Repubblica Democratica del Congo. L’antico reperto è conservato presso il Royal Belgian Institute of Natural Sciences 1 , a Bruxelles. A documentare le conoscenze matematiche dell’antico Egitto è il Papiro di Rhind, il più completo tra
Bergamo
29 Rue Vautier, Bruxelles (Belgio); www. naturalsciences.be
dubbio quella della necropoli formata da tre gruppi di tombe rupestri decorate da preziosi rilievi che documentano il rinnovamento artistico e la vivacità culturale che contraddistinsero il regno di Akhenaton. La tomba di Meryre, gran sacerdote di Aton, è particolarmente interessante per i rilievi che mostrano la famiglia reale mentre porge le offerte al dio del sole. Ad Amarna inoltre nel 1912 l’archeologo tedesco Ludwig Borchardt rinvenne il famoso busto della regina Nefertiti. Realizzato in pietra calcarea e strati di stucco dipinto, è conservato al Neues Museum di Berlino 2 .
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amarna Il faraone Akhenaton fondò una nuova città, Akhetaton (l’odierna Amarna) nella regione di Tell el-Amarna, trasferendovi la capitale del regno. L’attuale area archeologica si estende in un’arida vallata sulla sponda orientale del Nilo, a sud-est di Mallawi, a una distanza di circa 300 km dal Cairo. Dell’antica capitale rimangono i resti di un gigantesco palazzo, di un grande tempio rettangolare dedicato alla divinità solare Aton e delle ricche abitazioni dei funzionari del faraone. Ma l’area più interessante è senza
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i filosofi greci Nel 1996 ad Atene, nel corso di lavori di costruzione, sono stati rinvenuti i resti del Liceo di Aristotele, risalente al IV secolo a.C. Nell’antica Atene l’area del Liceo era in un sobborgo che aveva preso il nome da un tempio dedicato ad Apollo Linceo. Gli 11.000 metri quadrati
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2 NEUES MUSEUM
Bodestraße 1-3, Berlino; www.egyptian-museumberlin.com
Il museo venne fondato tra il 1841 e il 1859 per accogliere la collezione di reperti egizi. Fa parte del cosiddetto complesso dell’Isola dei musei.
3 MUSEI VATICANI
Viale Vaticano, Roma; www.museivaticani.va
Tra le raccolte d’arte più grandi del mondo, i Musei Vaticani vennero fondati da papa Giulio II nel XVI secolo. Ogni anno accolgono quasi sei milioni di visitatori.
del sito sono stati attrezzati con giardini e cartelli con informazioni sulla storia del luogo. l’Accademia, fondata da Platone nel 387 a.C., rappresentò per tutta l’età antica il simbolo della filosofia greca. Oggi sono stati rinvenuti i resti di una struttura del IV secolo a.C., la cui funzione rimane incerta, e un altro grande edificio di epoca posteriore, in genere identificato come un ginnasio. I due principali filosofi dell’antichità sono inoltre al centro del celebre affresco di Raffaello, la Scuola di Atene. Realizzata per volere di papa Giulio II tra il 1509 e il 1510, l’opera si trova nella Stanza della Segnatura, nei Palazzi Apostolici, ed è visitabile all’interno del percorso dei Musei Vaticani 3 .
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tarquinio superbo Iniziata sotto Tarquinio Prisco, la costruzione del Tempio di Giove Ottimo Massimo (o Giove Capitolino, in quanto sorgeva sul Campidoglio) venne terminata da Tarquinio Superbo,
ultimo re di Roma. L’edificio era il principale luogo di culto dell’Urbe, dedicato alla triade capitolina composta da Giove, Giunone e Minerva. Del tempio è rimasto ben poco. I resti del podio del tempio sono ancora in parte visibili sotto il Palazzo dei Conservatori e nei sotterranei dei Musei Capitolini. Le sculture in terracotta che lo decoravano, caratteristiche dell’arte etrusca, sono andate perdute, ma non dovevano essere molto diverse dalla scultura etrusca più famosa della stessa epoca, l’Apollo di Veio. Sempre Tarquinio Superbo fece portare a termine la costruzione della Cloaca Massima, mirabile opera idraulica costruita per convogliare nel Tevere le acque del Velabro bonificando l’intera zona. Ancora parzialmente in uso, se ne può vedere una parte nei pressi della chiesa di San Giorgio in Velabro.
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i vespri siciliani L’episodio che diede inizio ai Vespri siciliani avvenne sul sagrato della chiesa di Santo Spirito, a Palermo, oggi inglobata nel cimitero di Sant’Orsola. Secondo la tradizione, la chiesa e l’annesso monastero furono realizzati intorno al 1173, sotto il regno di Guglielmo II di Sicilia. L’edificio rappresenta una armoniosa contaminazione tra lo stile arabonormanno e quello gotico. La facciata, rimasta purtroppo incompleta, è a salienti, presenta cioè una successione di spioventi posti a differenti altezze. La chiesa inoltre si arricchisce sui lati e nelle absidi di archi incrociati e bicromi, tipici dell’arte normanna.
Un altro luogo legato ai Vespri siciliani è il castello Ursino, a Catania. Fondato nel XIII secolo, nel castello si riunì, dal 1295, il Parlamento siciliano, che elesse Federico III re di Sicilia. La costruzione, a pianta quadrata, è dotata di quattro torrioni e di un cortile centrale. Dal 1934 è adibito a Museo Civico della città e conserva più di 8000 pezzi tra reperti archeologici, epigrafi, monete, sculture, pitture, mosaici, sarcofaghi fittili greci e romani.
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bartolomeo colleoni Il castello di Solza, a circa 15 chilometri da Bergamo, è noto per aver dato i natali al grande condottiero Bartolomeo Colleoni. Risalente a un periodo compreso tra il X e l’XI secolo, la sua struttura attuale comprende i lati ovest e sud, costruiti in pietre squadrate e ciottoli. In origine era presente anche una torre, ora notevolmente ridotta in dimensioni. Il castello di Malpaga, nel territorio di Cavernago (piccolo comune alle porte di Bergamo), venne acquistato nel 1456 dal Colleoni, che lo trasformò in fortezza inespugnabile e in residenza principesca, a testimoniare il suo successo. Le pareti del castello sono quasi interamente affrescate (uno dei cicli pittorici è dedicato alla visita del re Cristiano I di Danimarca). In piazza Duomo, a Bergamo, si trova invece la Cappella Colleoni 4 , costruita tra il 1472 e il 1477 come mausoleo familiare. Il monumento più famoso che celebra il condottiero è tuttavia la statua equestre, opera del Verrocchio, che sorge a Venezia in Campo Santi Giovanni e Paolo (o Campo San Zanipolo). STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero LA BATTAGLIA NAVALE DI LEPANTO IL 7 OTTOBRE del 1571, nelle
NATIONAL MARITIME MUSEUM, LONDON / ALBUM
acque del golfo di Lepanto, le navi della Lega Santa – un’alleanza formata da Spagna, Stato della Chiesa, Venezia e Ordine di Malta – si scontrarono con la flotta dell’Impero ottomano, che da due secoli lottava per conquistare il Mediterraneo. Era in gioco la supremazia marittima, e la sorte favorì, dopo una durissima battaglia durata più di quattro ore, lo schieramento cristiano, sotto il comando di Don Giovanni d’Austria, fratello del re di Spagna, Filippo II.
Regine dell’Assiria
BERNARDO DI CHIARAVALLE, TRA FEDE E POLITICA
Semiramide, la più famosa delle regine dell’Assiria, è solo un personaggio leggendario. Tuttavia sappiamo che, come lei, le regine assire furono potenti membri della corte.
SANTO, DOTTORE DELLA CHIESA, mistico e
I mercenari greci Combattenti disciplinati e agguerriti, gli opliti greci nutrirono le file degli eserciti mercenari, non tanto per la sete di avventura, ma per sfuggire dalla povertà. AKG / ALBUM
filosofo: Bernardo di Chiaravalle è senza dubbio una delle figure più affascinanti e complesse del Medioevo. Spirito indomito e combattente, Bernardo partecipò attivamente alle turbolente vicende della Chiesa e dell’Europa occidentale del suo tempo. Su incarico di papa Eugenio III predicò la Seconda crociata e intervenne al famoso Concilio di Troyes, che segnò la fondazione dell’Ordine dei Templari. Celebre è inoltre la sua disputa con Pietro Abelardo, altra grande figura medievale.
La pena di morte La nostra esperta Eva Cantarella affronta questo tema spiegando come è cambiato, dall’antichità all’Illuminismo, il concetto di pena e di punizione nelle diverse civiltà.
La cabala A metà tra arte divinatoria e dottrina mistica, la cabala fu una delle più originali manifestazioni della cultura ebraica, diffusasi tra la Spagna e la Provenza dal XII secolo.
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BRIDGEMAN / INDEX
Pompeo Magno sconfigge i pirati dell’Asia Minore Nel 67 a.C., le autorità di Roma concessero al militare e uomo politico la carica proconsolare e pieni poteri per dare la caccia ai banditi che imperversavano in tutto il Mediterraneo
A
ffinché fosse possibile creare un grande e fiorente Stato nel Mediterraneo, una delle maggiori sfide affrontate da Roma fu quella di fronteggiare i pirati, che minacciavano senza sosta le rotte commerciali e le città costiere. Il fenomeno della pirateria, di origini antichissime, era diventato agli inizi del I secolo a.C. un’autentica piaga. I pirati più temuti scelsero come quartier generale il territorio della Cilicia Trachea, nel sudest dell’Anatolia (l’attuale Turchia):
tale regione risultava geograficamente congeniale sia per i rifugi naturali offerti dai rilievi montuosi, sia per le coste rocciose a picco sul mare, che non avevano punti di facile attracco. Nella Vita di Pompeo appartenente alle Vite Parallele, Plutarco riferisce come i pirati cilici possedessero basi operative dislocate lungo tutto il litorale anatolico, fortificate con torri e mura, e disponessero di oltre un migliaio di navi, ben equipaggiate e governate da abili marinai:“Le prue dorate, i tappeti di porpora e i remi d’argento davano
l’impressione che le loro malefatte li riempissero di orgoglio e di soddisfazione”. Essi erano noti per la musica e i canti; sembra inoltre che i loro riti religiosi includessero anche alcune pratiche misteriche come l’adorazione del dio iraniano Mitra: secondo Plutarco, sarebbero addirittura stati loro a introdurre tale culto nel mondo romano. Le scorrerie attuate dai pirati cilici avevano come obiettivi principali il saccheggio di città costiere e la cattura di prigionieri, che venivano poi venduti come schiavi nei mercati di Sicilia,
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AGE FOTOSTOCK
L’EVENTO STORICO
POMPEO MAGNO COME FIGLIO DI NETTUNO SU UN DENARIO CONIATO DAL FIGLIO SESTO. 44-43 A.C.
IL SALVATORE DELLA REPUBBLICA BATTAGLIA NAVALE
Pirati cilici assaltano imbarcazioni in mare aperto. I secolo d.C. Affresco della Casa dei Vettii, Pompei.
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Rodi, Alessandria e dell’Asia Minore. Celebre è l’episodio che coinvolse nel 74 a.C. il giovane Gaio Giulio Cesare, catturato dai pirati a Farmacusa (l’attuale Farmaco) mentre era in viaggio per Rodi (vedi Storica 54). Stando a quanto riferisce Plutarco nella Vita di Cesare, di fronte alla richiesta di riscatto avanzata e fissata a 20 talenti (circa 500 chili d’argento), Cesare avrebbe dichiarato sprezzante che era una cifra troppo bassa: la sua libertà non ne valeva meno di 50.
NEL 71 A.C., Pompeo godeva a Roma di grande prestigio: in quell’anno,
egli organizzò una processione trionfale per celebrare la sua vittoria in Spagna contro Sertorio e, poco dopo, sedò la rivolta di Spartaco. I Romani vedevano in lui il salvatore dello Stato: per questo motivo, nel 67 a.C., lo misero a capo della campagna contro i pirati cilici e, nell’anno seguente, di quella contro Mitridate VI re del Ponto.
Nella Vita di Pompeo si legge che i pirati cilici s’impadronirono di oltre quattrocento città, scelte in modo particolare tra quelle sprovviste di fortificazioni: solo dietro il pagamento di un ingente riscatto essi accettavano di andarsene. Dalle loro scorrerie non si salvarono né i templi – tradizionalmente considerati asili inviolabili – né alcune località dell’entroterra né le imbarcazioni mercantili, che solcavano i mari cariche di pietre e metalli preziosi, sale, spezie, tessuti, tinture, vino, olio, legname e altre ricche merci. Qualora fossero stati catturati, i pirati non dovevano ovviamente aspettarsi molta clemenza: tutt’al più potevano
I pirati cilici minacciavano i commerci e i rifornimenti di grano diretti a Roma TESTA DI MITRIDATE VI RE DEL PONTO, I SECOLO D.C. LOUVRE, PARIGI.
sperare in un’esecuzione sommaria o in una vendita come schiavi. Ancora Plutarco – nellaVita di Cesare – racconta per esempio come Cesare, una volta pagati i 50 talenti di riscatto, diede la caccia ai suoi sequestratori: “Li catturò quasi tutti, saccheggiò i frutti delle loro razzie, fece rinchiudere gli uomini nella prigione di Pergamo e si recò immediatamente dal governatore d’Asia, l’unico che in qualità di pretore aveva il compito di punire i prigionieri. Costui però, messi gli occhi sul bottino [...], disse che si sarebbe occupato a suo tempo dei prigionieri. Allora Cesare, mandatolo al diavolo, tornò a Pergamo e, tratti fuori dal carcere i pirati, li fece impalare tutti quanti”.
La minaccia cilicia Intorno al 70 a.C., i pirati cilici erano diventati una minaccia per la sopravvivenza stessa di Roma: le loro scorrerie mettevano in pericolo la fornitura di grano all’Urbe e interferivano graveSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’EVENTO STORICO
LA CITTÀ DI ANEMURIO (l’attuale
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Anamur), fondata dai Fenici nel XII secolo a.C., fu una delle più prospere della Cilicia: la sua costa offrì per secoli rifugio ai pirati.
mente nei commerci sia marittimi sia terrestri. A poco servirono le spedizioni organizzate contro di loro dalla Repubblica: le campagne di Marco Antonio Oratore nel 102 a.C., di Publio Servilio Vatia Isaurico nel 78 a.C. e di Marco Antonio Cretico nel 76 a.C. non portarono ad alcun risultato duraturo. I continui insuccessi rendevano necessaria l’adozione di una nuova stra-
tegia: affidare la direzione di tutte le operazioni a una persona sola, dotata di poteri straordinari; tale progetto fu attuato mediante la Lex Gabinia, proposta nel 67 a.C. dal tribuno della plebe Aulo Gabinio: essa prevedeva l’elezione di un comandante supremo, cui sarebbero stati riconosciuti per tre anni la carica di proconsole e una libertà d’azione
senza precedenti nella lotta contro i pirati. La scelta ricadde su Gneo Pompeo Magno, generale all’epoca molto popolare per le vittorie riportate contro Sertorio e Spartaco; egli ricevette un finanziamento di 6000 talenti attici e il comando di un’armata impressionante: 120.000 fanti (l’equivalente di venti legioni), 4000 cavalieri e 270 navi (di cui 70 hemiolie, cioè leggere).
Pompeo lancia l’offensiva
DE / IN AN ID BR
HYDRIA RAFFIGURANTE DIONISO E I PIRATI, VI SECOLO A.C. TOLEDO MUSEUM, OHIO.
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BENCHÉ I PIRATI DELLA CILICIA fossero i più pericolosi, non furono però gli unici a minacciare Roma durante l’età tardo-repubblicana: quelli tirreni, provenienti dal sud-Italia, ne sono un esempio. Secondo la leggenda, tramandata tra gli altri dal VII Inno omerico, essi avrebbero cercato di rapire il dio Dioniso, finendo da lui trasformati in delfini.
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DA PIRATI A DELFINI
Il primo obiettivo perseguito da Pompeo fu di carattere difensivo: proteggere sia i granai di Sicilia, Africa e Sardegna sia le rotte lungo le quali veniva trasportato il grano; una volta assicurata la fornitura del cereale all’Urbe, egli avrebbe intrapreso un’offensiva navale e terrestre contro le basi corsare. Per fare questo, divise l’area mediterranea in tre-
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L’itinerario di Pompeo a caccia dei pirati DIVIDENDO L’AREA MEDITERRANEA in tredici distretti, ognuno dei quali presidiato da un generale, Pompeo
riuscì a confinare i pirati nelle loro basi in Cilicia. Dopo aver ripristinato l’ordine nel Tirreno, egli mosse da Brindisi verso la Turchia meridionale, imponendo il dominio romano su tutta la regione. MAR N O ER
TERENZIO VARRONE
Roma
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Itinerario di Pompeo Zone controllate dai generali romani
GRECIA
Brindisi
Taranto
MAR EGEO
MAR TIRRENO
CAPPADOCIA
LUCIO LOLLIO
LICIA
Atene
CORNELIO SISENNA
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2 PANFILIA 3
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1 Rodi
CILICIA Pompeiopoli Coracesio Trachea CECILIO METELLO NEPOTE
Creta
Cipro
1 Rodi
2 Kragos
3 Coracesio
4 Pompeiopoli
Dopo aver riunito la flotta e fatto i preparativi necessari, Pompeo parte alla volta della Cilicia.
Regione ricca di falesie, dove Pompeo conquista varie città: Adana, Mallus e Epiphaneia.
Pompeo assedia gli ultimi pirati sopravvissuti, costringendoli alla resa.
La città di Solos viene ricostruita da Pompeo, che vi insedia molti dei pirati vinti.
dici distretti, ognuno dei quali fu presidiato da una flotta agli ordini di un comandante; Pompeo transitava con la propria flotta da un distretto all’altro, assicurandosi che i suoi luogotenenti eseguissero gli ordini. Stando a quanto si legge nella Vita di Pompeo, egli “suscitò ammirazione in tutto il mondo per la rapidità dei suoi movimenti, l’importanza dei suoi preparativi e la sua reputazione formidabile”; i pirati, che avevano pensato di affrontarlo e attaccarlo,“si spaventarono, cessarono gli attacchi contro le città che avevano assediato e si rifugiarono nelle cittadelle fortificate e nei porti abituali”. In soli quaranta giorni, Pompeo liberò dai pirati i mari Tirreno, Libico, di Sardegna, di Corsica e di Sicilia. La maggior parte dei fuggitivi si trincerò nelle proprie basi nella Cilicia Trachea: fu contro di esse che Pompeo, al comando di 60 delle sue migliori navi, guidò l’assalto finale. Di fronte
alla schiacciante superiorità romana i pirati, presi dal panico, si arresero chiedendo clemenza agli avversari; i pochi riottosi si concentrarono a Coracesio (l’attuale Alanya), dove furono sbaragliati dall’attacco lanciato da Pompeo sia per terra sia per mare.
non gli fu fatto alcun male; gli altri sperarono allora di essere perdonati: cercarono di scappare dai capi [pirati] e si recarono da Pompeo con mogli e figli, arrendendosi a lui. Questi furono risparmiati e, grazie al loro aiuto, furono rintracciati, catturati e puniti tutti coloro che erano ancora nascosti La clemenza del generale nei loro rifugi, perché consapevoli di L’intera campagna di Pompeo contro i aver commesso crimini imperdonapirati cilici durò poco più di tre mesi. bili”. Molti pirati vennero inviati come Secondo gli storici antichi, i corsari coloni in diverse zone dell’Anatolia, a caduti superarono le 10.000 unità, Taranto, nella Cirenaica e del nord della mentre il bottino conquistato fu di Grecia, così da togliere loro la tenta20.000 prigionieri, 400 navi e una zione di ulteriori scorrerie marittime grande quantità di armi, materie prime e impiegarli “costruttivamente” nella e prodotti artigianali. Nei confronti fondazione di nuove città. degli sconfitti, il comandante romano MIGUEL ÁNGEL NOVILLO LÓPEZ adottò un atteggiamento misericordioUNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE so: secondo la Vita di Pompeo, coloro SAGGIO che erano ancora liberi e che“chiesero Per Pompeo. Il grande antagonista saperne di Giulio Cesare perdono furono trattati con umanità, di più G. Antonelli, Newton Compton, tanto che, dopo il sequestro delle loro 2007. navi e la consegna delle loro persone, STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Sicilia
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Le forze di polizia brutali e violente dell’antico Egitto Pattuglie di frontiera, guardie delle necropoli reali o poliziotti locali si occupavano di mantenere l’ordine nel Paese del Nilo per controllare i lavoratori. Inoltre, all’ingresso dei laboratori degli artigiani, anch’essi retribuiti dallo Stato, vi erano altri sorveglianti che, secondo la Satira dei mestieri, un testo risalente al Nuovo Regno, si lasciavano talvolta corrompere da quanti desideravano concedersi un po’ di riposo.
I guardiani del mercato Al servizio del faraone vi era poi un altro gruppo di guardie, incaricate di scortare gli addetti alla riscossione dei tributi quando, ogni due anni, eseguivano in tutto il Regno il cosiddetto “censimento del bestiame”(vedi Storica 58). Ricorrendo a minacce e percosse, le guardie costringevano i contadini a dichiarare i loro proventi agli scribi esattori e punivano senza pietà chi si rifiutava o non poteva pagare poiché l’annata era stata cattiva. Si tratta di scene presenti nei rilievi di molte tombe dell’Antico Regno, tra cui la Mastaba
SCORTE ARMATE PER GLI EGIZI, uscire dall’ordinato mondo della valle
del Nilo implicava notevoli rischi. Per andare alla ricerca di minerali, metalli e altre materie prime dovevano addentrarsi nel deserto, il desheret, ossia “terra rossa”, e affrontare la fame, la sete e talvolta gruppi di nomadi armati. Per questo tali spedizioni erano sempre accompagnate da una scorta armata. MODELLINO DI ARCIERE NUBIANO. MEDIO REGNO, MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
LA CATTURA DI UN LADRO
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osì come non disposero di un esercito stabile, i faraoni non poterono contare nemmeno su un corpo di polizia organizzato, almeno fino al Nuovo Regno. Il mantenimento dell’ordine era affidato a diverse figure, che svolgevano mansioni specifiche, a seconda del luogo in cui prestavano la loro opera. A corte, i sovrani erano protetti da guardie del corpo personali, mentre la sorveglianza dell’harem – l’area del palazzo destinata alle donne della famiglia reale e ai loro bambini – spettava a una schiera di eunuchi. Al di fuori della corte, vi era una serie di funzionari locali, stipendiati dallo Stato, che sovrintendeva alla sicurezza pubblica. Era questo il caso del villaggio operaio di Deir el-Medina, nei pressi di Tebe, dove risiedevano i costruttori delle tombe reali. Qui, entrambi gli accessi al centro abitato erano muniti di un posto di guardia per evitare intrusioni da parte di estranei, oltre che
Rilievo della Tomba di Tep-emankh (V dinastia), a Saqqara, raffigurante un babbuino che afferra la gamba di un ladro in fuga. Museo Egizio, Il Cairo.
del visir Mereruka (VI dinastia), in cui appaiono raffigurazioni di contadini bastonati o torturati. Nei villaggi esisteva anche una sorta di polizia locale deputata a mantenere l’ordine nei giorni di mercato. Tali guardie si avvalevano di uno strumento d’intimidazione davvero inusuale, come illustra un rilievo della Mastaba di Tep-em-ankh (portatore del sigillo dell’Alto Egitto sotto la V dinastia) nella necropoli di Saqqara. Nella decorazione è rappresentata proprio una scena di mercato: un uomo tiene al guinzaglio due babbuini e uno di essi si avventa sulla gamba di
SCALA, FIRENZE
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uno sventurato taccheggiatore. Erano, insomma, delle “scimmie poliziotto”, le quali, peraltro, non erano gli unici animali impiegati nei pattugliamenti; molto diffuso era anche l’uso dei cani.
Sicurezza alle frontiere I faraoni disponevano inoltre di contingenti armati preposti al controllo delle zone di frontiera; il loro compito era difendere militarmente il territorio, ma anche impedire l’ingresso agli stranieri. Ciò avvenne specialmente in Nubia, dove venne edificata tutta una serie di fortezze lungo il Nilo. In particolare, una stele del XIX secolo a.C. rinvenu-
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Saccheggiatori di tombe tra gli stessi costruttori TALVOLTA, erano gli stessi operai di Deir el-Medina, addetti all’al-
lestimento delle tombe dei faraoni nei pressi di Tebe (odierna Luxor), a compiere razzie nei sepolcri reali. Nel Papiro Salt, risalente al Nuovo Regno, si narra la vicenda di un certo Paneb. QUESTI, capo di una squadra di operai, era un personaggio losco, noto per essere uno spregiudicato seduttore, dedito ad atti di violenza contro i suoi vicini e la sua stessa famiglia. Suo fratello Amennakht lo accusò di essersi impossessato di parte del corredo di pietre preziose destinate
alla sepoltura del faraone Seti II e di aver aggredito il padre adottivo, NEFERHETEP, che si era salvato solo grazie all’intervento di altri lavoratori. Malgrado ciò, Paneb riuscì a cavarsela con qualche bastonata e ottenne in seguito l’incarico di caposquadra in luogo di Amennakht.
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L’AIUTO DI CANI E BABBUINI
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I POLIZIOTTI svolgevano spesso i loro compiti di vigilanza nei mercati con l’ausilio di babbuini dalla spiccata aggressività. Gli animali erano tenuti al guinzaglio, ma venivano slegati per rincorrere i ladri. Anche i cani erano impiegati nei servizi di guardia e in guerra. I nobili egizi andavano nel deserto a caccia di antilopi e gazzelle, servendosi di cani addestrati a scovare le prede.
DEIR EL-MEDINA,
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ta a Semna, ai confini con il Sudan, recita: “Frontiera meridionale, posta nell’ottavo anno sotto la maestà del re dell’Alto e Basso Egitto, Sesostris III, che vive da sempre e per l’eternità. L’attraversamento di tale frontiera via terra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibita a qualsiasi nubiano, con la sola eccezione di coloro che desiderano oltrepassarla per vendere o acquistare al mercato di Iken [Mirgissa, in Sudan]”. Vi erano poi pattuglie di frontiera nel deserto libico, popolato da tribù di beduini che turbavano con le loro incursioni la tranquillità
LOUIS-MARIE PREAU / GTRES
DUE CANI SEGUGI NELLA MASTABA DI MERERUKA A SAQQARA, VI DINASTIA.
il villaggio degli operai, era sottoposto alla sorveglianza dei medjay, che controllavano lo svolgimento dei lavori, per evitare furti negli ipogei.
del confine occidentale, arrivando a spingersi fin sulle rive del Nilo a partire dal Primo Periodo Intermedio. Proprio per contrastare le scorrerie delle genti libiche, fu istituito un reparto di polizia del deserto. Gli esponenti di tale corpo, detti nw-w, sorvegliavano i movimenti dei beduini e proteggevano le carovane, accompagnati da feroci cani addestrati per la ricerca di persone.
I custodi delle necropoli Nel Nuovo Regno si assiste allo sviluppo di una nuova unità d’élite della polizia interna: i medjay. Il loro nome deriva da quello della regione nubiana
Pattuglie di frontiera perlustravano il deserto per respingere le frequenti scorrerie dei bellicosi beduini libici DAGA PROVENIENTE DALLA TOMBA DI TUTANKHAMON. XVIII DINASTIA. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
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della Medja, di cui erano originari. Nel corso dell’Antico e del Medio Regno essi erano nomadi pressoché ostili agli Egizi; durante la XIII dinastia si stanziarono perlopiù a sud della seconda cateratta e all’inizio della XVIII dinastia intervennero, in qualità di mercenari, nella guerra di liberazione contro gli invasori Hyksos, sotto gli ordini del faraone Ahmose. Il loro apporto alla cacciata dei“capi dei Paesi stranieri”, gli Hyksos, fu così determinante che i medjay divennero una forza speciale di polizia paramilitare. Oltre a controllare il deserto a occidente di Tebe, essi dovevano sorvegliare le necropoli reali, per contrastare i frequenti tentativi di furto negli ipogei, e altre zone di particolare rilevanza per il sovrano; erano tenuti inoltre a garantire la sicurezza degli operai, ma anche che la loro condotta fosse corretta. Per quanto riguarda la Valle dei Re, la necropoli reale di Tebe, tuttavia,
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Percosse e bastonate ai colpevoli no molto comuni nell’antico Egitto e andavano dalle frustate fino alle mutilazioni o alla morte. Un esempio si trova in una scena rappresentata nella tomba dello scriba Menna, vissuto durante il regno di Tuthmosis IV. Nella parte superiore del dipinto murale alcuni ufficiali vengono ricevuti in casa di Menna 1. In quella inferiore uno schiavo viene bastonato 2, mentre un secondo uomo supplica clemenza per il malcapitato 3.
è evidente che la loro opera di vigilanza non fosse impeccabile. A dimostrarlo è il caso della Tomba di Tutankhamon, che venne saccheggiata due volte poco dopo che il faraone vi era stato sepolto. Nella prima occasione, probabilmente, i ladri portarono via in tutta fretta piccoli oggetti di valore, contenitori di profumi e unguenti preziosi. In seguito, vi fu un secondo tentativo di saccheggio; questa volta però, i razziatori furono colti in flagrante e la porta che dava accesso all’eterna dimora del faraone bambino venne sigillata. Tale sarebbe rimasta fino a che l’archeologo inglese Howard Carter non la scoprì nel 1922.
Carceri e condanne I criminali che venivano arrestati restavano in carcere in attesa del giudizio. Le condanne prevedevano pene corporali, come le bastonate, nel caso di reati minori come il furto, oppure mutilazioni che interessavano il naso, le
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LE PUNIZIONI CORPORALI era-
orecchie e i piedi, inflitte quale castigo di svariati atti di violenza. Tra le colpe più aspramente punite dallo Stato vi era la mancata esecuzione delle corvées o del lavoro forzato nelle campagne dovuto al faraone. Nell’Antico Regno, infatti, la costruzione di opere pubbliche per il mantenimento dello Stato era un compito che spettava a tutti. Tali prestazioni di lavoro erano soggette a un controllo molto stretto, in quanto esistevano liste degli abitanti di ogni villaggio e dei compiti che venivano loro attribuiti. I ricchi pagavano per esentarsi da tali obblighi, mentre i più poveri dovevano piegarvisi e se tentavano la fuga venivano puniti con la schiavitù a vita. La polizia, peraltro, aveva il potere di imprigionare i familiari del fuggitivo, che venivano liberati solo se questi si fosse consegnato alle autorità. I reati più gravi, come l’omicidio o il tradimento, comportavano, oltre alla
pena di morte, la condanna ai lavori forzati nelle miniere per l’estrazione di metalli, rame e oro, oppure nelle cave di pietra dei deserti, dove eseguivano compiti ingrati e pericolosi in condizioni spaventose, fino a morirne. Non vi era sorte più terribile. In ogni modo, la semplice esistenza di questo sistema di sfruttamento dei delinquenti per coprire il fabbisogno di minatori prova che i faraoni potevano avvalersi di una forza di sicurezza solerte ed efficiente, nonostante abbia lasciato ben poche tracce nei documenti dell’epoca. JOSÉ MIGUEL PARRA EGITTOLOGO
Per saperne di più
SAGGIO
La civiltà dell’antico Egitto A. Lepore, Lampi di Stampa, 2008. ROMANZO
Il ladro di tombe Antonio Cabanas, Marco Tropea Editore, 2007.
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AT T UA L I T À
AYMAN MOHAMED DAMARANY. SUPREME COUNCIL OF ANTIQUITIES, ABYDOS OFFICE
GLI ARCHEOLOGI Ayman Damarany e Yasser Abd el Razik mostrano un cartiglio con il nome del faraone Mentuhotep II.
RITROVAMENTI WERNER FORMAN / GTRES
La cappella del faraone che fondò il Medio Regno Uno scavo illegale presso Abydos ha fatto scoprire un santuario che fornirà elementi preziosi sulla vita del re, di cui finora si ignora molto
MENTUHOTEP II,
ritenuto il fondatore del Regno Medio, rimase sul trono per circa cinquant’anni. Successe al padre, Antef III, come re di Tebe, e intraprese una guerra per riunificare l’Egitto dopo la parentesi del Primo Periodo Intermedio. A Deir el-Bahari sorge il suo tempio funerario, vicino a quello della regina Hatshepsut.
N
ella zona di Sohag, presso Abydos (nel sud dell’Egitto), una missione archeologica egiziana ha scoperto una cappella funeraria egizia risalente all’XI dinastia. Il rinvenimento è stato effettuato in seguito ad alcuni scavi illegali da parte di tombaroli, subito arrestati dalla polizia locale che ha quindi allertato il Ministero per le Antichità. La successiva indagine ha permesso di scoprire una cappella funeraria in pietra calcarea, fatta
erigere dal primo faraone del Regno Medio, Mentuhotep II (2046-1995 a.C.), sovrano dell’XI dinastia.
Dedicata a Osiride La cappella è consacrata a Osiride, dio dell’Oltretomba, che ha il suo principale santuario proprio ad Abydos. L’importanza della scoperta si deve anche alla scarsezza di monumenti dedicati a Mentuhotep II. Ubicata a circa 150 metri dal tempio di Seti I, la cappella sembra essere in buone
condizioni, malgrado il fatto che negli anni ’30 del XX secolo sopra di essa sia stata costruita la fossa biologica di una abitazione. Sulle sue pareti sono presenti iscrizioni in geroglifico, che sono già state analizzate dagli esperti; e proprio grazie a questi testi è stata possibile un’accurata datazione del monumento, attribuendolo al faraone Mentuhotep II, come dimostra anche il cartiglio con il nome del re. Nella cappella sono attualmente in corso lavori di restauro.
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L’ORIGINE DEI NUMERI Sono state necessarie migliaia di anni perché i numeri si evolvessero fino ad assumere la forma in cui li conosciamo oggi. Egizi e Babilonesi furono grandi matematici, ma dobbiamo agli Indiani il primo sistema decimale posizionale GUILLEM NAVARRO MATEMATICO
C
ome fanno notare gli storici delle scienze matematiche, è significativo che in molte lingue del mondo persista l’uso di declinare le forme grammaticali al singolare, al duale e al plurale. Sicuramente, per lungo tempo i nostri più remoti antenati non andarono oltre alla distinzione tra i concetti di “uno”, “due” e “molti”, come ancora oggi avviene presso alcuni popoli come gli zulu e i pigmei africani. Lo sviluppo della nozione di numero fu il frutto di un processo graduale che viene fatto risalire a circa 300.000 anni fa, quando l’uomo preistorico registrava quantità numeriche inizialmente con le dita e, nel caso in cui non fossero sufficienti, formando mucchi di pietre o incidendo tacche su ossa o bastoni. Verosimilmente, i primi conteggi della storia dovevano riguardare la natura, i branchi di animali o le fasi lunari.
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CONTARE CON LE DITA
Computo sulle dita secondo lo schema di Beda il Venerabile. Miniatura dal De numeris di Rabano Mauro. IX secolo, Monastero di Santa Maria di Alcobaça (Portogallo). I NUMERI DEI SUMERI
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Tavoletta di creta con segni numerici proveniente da Tell es-Sweyhat, nell’odierna Siria. Epoca sumerica, 3300 a.C. circa. Museo Archeologico di Aleppo.
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ANTICHISSIME FORME DI CONTEGGIO
Nel 1959, Jean de Heinzelin de Braucourt, geologo belga dell’Institut Royal des Sciences Naturelles de Belgique, era impegnato in una campagna di scavi a Ishango, un piccolo villaggio nell’odierna Repubblica Democratica del Congo, quando scoprì un osso di babbuino – un perone – recante tre diverse serie di incisioni, la più interessante delle quali rappresenta i numeri primi 11, 13, 17 e 19. Il reperto, risalente al Paleolitico superiore, tra il 20000 e il 18000 a.C., non è altro che un antichissimo strumento di calcolo, in cui a ogni tacca corrisponde un’unità. Sono qui riprodotti i due lati dell’osso, che presenta un cristallo di quarzo incastonato a un’estremità e le tacche disposte su tre colonne distinte.
Ognuna delle due colonne laterali presenta un totale di 60 tacche suddivise in piccoli gruppi. Ciascun gruppo di tacche è composto da numeri dispari.
CALENDARIO ASTRONOMICO
BPK / SCALA, FIRENZE
Il sette era un numero sacro presso molte civiltà antiche, come appare evidente in questo calendario astronomico dove sono rappresentate le costellazioni zodiacali, tra cui figurano le sette stelle delle Pleiadi. Staatliche Museen, Berlino.
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Furono necessarie migliaia di anni perché le capacità di enumerazione progredissero e l’uomo arrivasse a concepire altre cifre oltre a quelle ricavate in base alle membra del corpo umano, quali il due (le mani), il quattro (le mani e i piedi, oppure gli spazi tra le dita di una mano) o il cinque (le dita). D’altronde, ancora oggi il sistema numerico di alcune popolazioni, come gli eschimesi, si fonda sul computo delle dita delle mani e dei piedi; essi, per esempio, per indicare il sette dicono “due dita del secondo piede”, mentre designano il venti con l’espressione “uomo intero”. Gli indigeni della Papua Nuova Guinea, invece, si toccano varie parti del corpo, arrivando fino a ventidue. Infine, i munduruku, un’isolata tribù indigena dell’Amazzonia, sanno contare solo fino a cinque in senso aritmetico e denotano quantità superiori con espressioni come“poco”, “molto”o“una certa quantità”;
In questa parte dell’osso compaiono 48 tacche disposte in un gruppo di 3 tacche, seguito da gruppi di 6, 4 e 8. Vi è poi un gruppo di 10 e un altro di 5, per finire con uno di 5 e un altro di 7. Tali numeri suggeriscono una rudimentale conoscenza dei concetti di moltiplicazione e divisione.
si servono poi di varie locuzioni quali “più di una mano”,“due mani”,“alcuni alluci”. Secondo il linguista francese Pierre Pica, ciò deriva da un adattamento a un contesto ambientale in cui determinate conoscenze matematiche non sono indispensabili nella vita quotidiana e, dunque, il numero di vocaboli che fa riferimento a numeri e concetti di ordine matematico è alquanto limitato. Tuttavia, come hanno osservato gli antropologi, i munduruku sono capaci di formarsi una rappresentazione mentale di numeri anche molto grandi, ben al di sopra di quelli che sono in grado di nominare, e di svolgere con questi operazioni approssimate. Essi applicano inoltre spontaneamente il concetto di addizione, sottrazione e comparazione tra le quantità, così come avviene nei bambini piccoli che non hanno mai ricevuto insegnamenti di aritmetica; si trovano però in difficoltà quando si tratta di effettuare conteggi esatti. L’evoluzione, in definitiva, secondo il matematico e neuropsicologo francese Stanislas Dehaene, ha impresso nel nostro cervello un
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In una delle colonne, le tacche appaiono disposte in gruppi di 19, 17, 13 e 11. Nella seconda colonna, i numeri rappresentati sono invece 11, 21, 19 e 9.
ROYAL BELGIAN INSTITUTE OF NATURAL SCIENCES
DONNA MUNDURUKU PER QUESTA TRIBÙ, STANZIATA NELLA REGIONE SUDORIENTALE DELL’AMAZZONIA, I NUMERI NON INDICANO QUANTITÀ ESATTE MA APPROSSIMATIVE. INCISIONE DEL 1873.
innato “senso del numero” già da milioni di anni; ma se il concetto di numero approssimato è universale, quello di calcolo esatto non lo è. Si può dunque supporre che vi sia stata nell’uomo primitivo un’iniziale capacità di valutare la quantità numerica e di porre a confronto insiemi di oggetti; il passo successivo, quello della rappresentazione simbolica, invece, fu molto più complesso.
Un’origine sacra o profana? La matematica nacque probabilmente come risposta a precise necessità quotidiane, quali la registrazione di greggi, abitanti e raccolti o esigenze commerciali e amministrative. Altre ipotesi, tuttavia, suggeriscono che tale scienza possa avere avuto un’origine religiosa, in quanto i sacerdoti cercavano di stabilire attraverso la numerazione il tempo giusto per cerimonie, sacrifici e rituali festivi. Del resto, per secoli gli uomini hanno ravvisato un legame speciale tra i numeri e il divino e la matematica era
IL TEOREMA DI PITAGORA Formulato da Pitagora nel VI sec. a.C., fu divulgato da Euclide nel primo libro degli Elementi. Sotto, la dimostrazione del teorema in un manoscritto arabo del XIII secolo.
innanzitutto pratica religiosa per Pitagora, che vedeva nei numeri l’essenza di tutte le cose. Il grande filosofo greco del VI secolo a.C. e i suoi seguaci operavano una distinzione tra numeri maschili (quelli dispari, reputati perfetti) e numeri femminili (pari e imperfetti), e assegnavano un ruolo di primo piano al dieci, la cosiddetta tetraktys o numero quaternario. Quest’ultimo, ottenuto attraverso la somma dei quattro primi numeri, era considerato un simbolo di completezza e perfezione. D’altronde, non è un caso se i sistemi di numerazione a base 10 sono sempre stati i più diffusi nel corso della storia, poiché dieci sono le dita delle nostre mani. Così, la notazione decimale veniva utilizzata, per esempio, dagli Egizi e da alcuni popoli del Vicino Oriente, tra cui gli Assiri e gli Eblaiti.
Il mondo è matematico Il sistema di numerazione geroglifico è antico almeno quanto le prime piramidi, che risalgono a 5000 anni fa, e si basava sul raggruppamento additivo: si SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
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DALL’INDIA A PISA
L’EVOLUZIONE GRAFICA DEI NUMERI LA NOTAZIONE POSIZIONALE INDIANA, con l’uso sistematico dello zero, risale al V secolo d.C. I segni con cui oggi rappresentiamo le cifre sono il frutto di una lunga serie di trasformazioni.
CARTOGRAFIA: EOSGIS
Il sistema numerico posizionale su base 10, ideato in India già nella seconda metà del I millennio a.C., arrivò in Europa, insieme al concetto e al segno dello zero, attraverso gli Arabi e fu introdotto per la prima volta nel Vecchio Continente nel 1202 dal matematico Leonardo Pisano detto Fibonacci. Europa. Fu il matematico pisano Leonardo Fibonacci a introdurre in Europa il sistema numerico indo-arabo nel suo Liber abaci (1202).
Arabi. Intorno al 773 d.C. il sistema indiano iniziò a diffondersi tra gli Arabi grazie ai contatti commerciali.
UNO STRUMENTO DI CALCOLO
L’abaco, composto da una serie di asticciole inserite in una tavola di legno, sulle quali erano infilate delle palline mobili, fu utilizzato dall’antichità al Medioevo. Abaco russo del XVI secolo. Ashmolean Museum, Oxford.
India. Nel III secolo a.C. esistevano già le cifre da 1 a 9, ma lo 0 fu introdotto solo nel V secolo d.C.
scriveva cioè una serie di simboli numerici, se necessario ripetendoli, uno accanto all’altro, e il numero indicato era la somma totale del valore dei segni. Gli Egizi rappresentavano così numeri anche molto grandi: dall’iscrizione che compare sulla testa della mazza cerimoniale di Narmer (3000 a.C. circa), sappiamo che il faraone, dopo una vittoria militare, riportò nel Paese del Nilo 400.000 capi di bovini e 1.422.000 capre. Tuttavia, benché la notazione egizia permettesse di risolvere facilmente operazioni come la somma e la differenza di interi, la moltiplicazione e la divisione richiedevano calcoli lunghi basati su duplicazioni successive oppure divisioni per metà. Con il tempo la numerazione geroglifica fu soppiantata dal più rapido metodo di scrittura ieBRIDGEMA
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ratico – così detto perché usato principalmente dai sacerdoti – che prevedeva simboli diversi per ogni unità, decina, centinaia e migliaia. Ma nonostante tale radicale modifica dei segni, il sistema matematico egizio rimase sostanzialmente immutato per secoli. Diversa evoluzione ebbe invece la scienza dei numeri in Mesopotamia. I Babilonesi, già al tempo di Hammurabi, intorno al 1800 a.C., possedevano un metodo di numerazione efficiente e versatile, ereditato dai Sumeri. Si trattava di una notazione sessagesimale (a base 60) a carattere posizionale, in cui, cioè, ogni cifra assumeva un valore diverso a seconda della posizione occupata nella scrittura complessiva del numero, così come avviene nel nostro sistema. Tale aspetto costituiva un’innovazione fondamentale nella rappresentazione dei numeri. I Babilonesi potevano così designare agevolmente tutti i numeri inferiori al milione attraverso tre soli segni combinati tra loro: un trattino orizzontale, uno verticale e un segno a forma di cuneo. Essi, inoltre, ebbero la geniale intuizione di estendere la notazione posizionale
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I CONTI NEL MEDIOEVO
CIFRE GHUBAR. Letteralmente
“polvere”, erano le cifre arabe nella loro forma occidentale, utilizzate forse in calcoli svolti mediante un abaco a sabbia.
LE PRIME MODIFICHE.
I copisti arabi modificarono progressivamente le cifre indiane, per renderne più agevole la scrittura.
LA DIFFUSIONE IN EUROPA.
I caratteri numerici usati dagli Arabi occidentali di Spagna e Nord Africa sono quelli che si diffusero in Europa.
anche alle frazioni, raggiungendo un grado di precisione rimasto a lungo ineguagliato. Con i Babilonesi assistiamo, insomma, alla prima grande “età della matematica”.
Il concetto di zero Spetta però agli Indiani, influenzati forse dalla tradizione matematica cinese, il merito di aver ideato, nella seconda metà del I millennio a.C., un sistema di numerazione posizionale decimale sostanzialmente identico a quello che noi usiamo tuttora. Agli Indiani si deve inoltre l’introduzione dello zero e dei numeri negativi. Gli scribi babilonesi utilizzavano già alcuni simboli speciali che indicavano la grandezza zero, ma quest’ultimo non era considerato un numero, era solo un segno vuoto in un sistema posizionale. Una delle prime attestazioni dello zero dotato di valore numerico e tratteggiato con la sua caratteristica grafia, un piccolo cerchio vuoto, si ha in un’iscrizione su un piatto votivo indiano risalente all’876 d.C. Del resto, fu proprio un grande matematico indiano, Brahmagupta (VII secolo d.C.), autore
LA DIREZIONE DELLA GRAFIA. Gli
Arabi adottarono la scrittura dei numeri da sinistra a destra, in modo contrario al senso della loro grafia.
LE CIFRE ATTUALI. Tra il XIII
Il sistema posizionale indiano si diffuse piuttosto lentamente nel mondo occidentale e convisse per secoli con l’uso dell’abaco.
e il XV secolo si stabilizzò in Europa la grafia dei numeri, che sarebbe stata fissata in via definitiva dalla stampa.
SOL 90 / ALBUM
LA GRAFiA INDIANA. In questa forma, il sistema di numerazione indiano si diffuse nel mondo arabo nel IX secolo d.C.
In Europa, fino a tutto il Medioevo, si usava per fare i conti il tradizionale abaco, anche se in una versione migliorata, in cui le linee orizzontali rappresentavano potenze di 10.
del trattato Brahmasphuta Siddhanta (L’inizio dell’universo), a proporre il primo esempio di aritmetica sistematica comprendente lo zero, che veniva trattato non più come un simbolo posizionale ma come un numero a tutti gli effetti. Egli spiegava così la relazione tra lo zero, denominato shunya (vuoto), e gli altri numeri: “Un debito [un numero negativo] meno shunya è un debito; una fortuna [un numero positivo] meno shunya è una fortuna; shunya meno shunya è shunya; una fortuna sottratta da shunya è un debito; il prodotto di shunya moltiplicato per un debito o una fortuna è shunya”. Grazie al matematico Leonardo Fibonacci, che lo introdusse in Europa nel XIII sec., il sistema numerico indiano sarebbe giunto, infine, a noi. Per saperne di più
IL MONDO È MATEMATICO In edicola dal 10 gennaio, è una collezione unica, rigorosa e divertente grazie alla quale il lettore potrà scoprire tanti affascinanti aspetti della matematica, che, senza rendercene conto, ci accompagna in ogni momento della nostra vita quotidiana.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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CONTARE E MISURARE IN EGITTO Gli antichi Egizi svilupparono ottime conoscenze matematiche e scientifiche, indispensabili per far fronte alle necessità della vita quotidiana. In altre parole, la geometria, l’algebra e l’aritmetica erano scienze destinate a risolvere problemi pratici. In questa doppia pagina si illustra l’evoluzione del sistema numerico egizio attraverso due esempi: la lista del bottino di Narmer (3000 a.C. circa), il primo faraone dell’Egitto unificato, e l’elenco delle province di Sesostris I (1971-1930 a. C.).
1
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IL SISTEMA NUMERICO
1
ALLA FINE DEL IV MILLENNIO a.C., gli Egizi disponevano già
Il ricco bottino di guerra di Narmer
di un sistema di numerazione decimale: vi erano geroglifici per indicare ciascuna delle prime sette potenze successive di dieci, i quali venivano combinati per creare il numero desiderato. Tale notazione aveva però un inconveniente, poiché bisognava utilizzare molti segni per rappresentare i diversi numeri. Con lo sviluppo del codice ieratico e demotico, i simboli si semplificarono notevolmente e se ne formarono di nuovi per velocizzare la scrittura.
La testa di mazza di Narmer, datata intorno al 3000 a.C., presenta scene decorative in rilievo su registri sovrapposti. Nell’ultimo è rappresentato il numero dei capi di bestiame e prigionieri riportati in Egitto dal faraone dopo una vittoria. 1.000.000
100.000 100.000 100.000
• SCRITTURA GEROGLIFICA (DAL IV MILLENNIO a.C.)
400.000 bovini 1
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1.000
10.000
1000
10.000 10.000
1.422.000 capre
120.000 prigionieri
100.000 1 .000.000
• SCRITTURA IERATICA (DAL III MILLENNIO a.C.)
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1000
2000
3000
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• SCRITTURA DEMOTICA (DAL VII SECOLO a.C. )
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TESTA DI MAZZA CERIMONIALE DI NARMER, IN PIETRA, RINVENUTA A IERACOMPOLI. ASHMOLEAN MUSEUM, OXFORD.
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Province d’Egitto
Nella Cappella Bianca, eretta dal faraone Sesostris I (XII dinastia) all’interno del Grande Tempio di Amon a Karnak, figura una lista dei nomi, ossia le province amministrative in cui era suddiviso l’antico Egitto.
4 5
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ERICH LESSING / ALBUM
3
1 Simboli geroglifici che indicano l’unità. 2 Simboli geroglifici per rappresentare il numero mille. 3 Khnum, dio di Elefantina. 4 Il XXI distretto dell’Alto Egitto. La sua capitale era Crocodilopolis, consacrata a Sobek, il dio coccodrillo. 5 Il XX nomo dell’Alto Egitto. La sua capitale era Eracleopoli. 6 Lunghezza del XX nomo, circa 33.592 km.
LA MISURAZIONE DI UN CAMPO DI GRANO Gli agrimensori egizi
NELLA TOMBA TEBANA DI MENNA,
Chiamati dai Greci arpedonapti, ossia “tenditori di funi”, gli agrimensori egizi si servivano di una corda con nodi disposti a intervalli regolari per tracciare angoli retti. Tredici nodi equidistanti Triangolo rettangolo con lati di 3, 4 e 5 unità.
1. Gli Egizi avevano scoperto, probabilmente, che un triangolo i cui lati misurano 3, 4, e 5 unità contiene un angolo retto. 2. Con una corda munita di 13 nodi equidistanti, essi formavano triangoli rettangoli per poter delimitare sul terreno dei campi quadrati.
ARALDO DE LUCA
ispettore del catasto durante il regno di Tuthmosis IV (XV secolo a.C.), è raffigurata la misurazione di un campo di grano. Il ruolo di Menna consisteva nella supervisione delle proprietà agricole del faraone: si effettuava prima una valutazione della probabile resa dei raccolti, poi, nel periodo della mietitura, dei funzionari calcolavano l’importo della tassa da pagare in base alla quantità del raccolto. Nel dipinto della tomba, vari scribi e servitori accompagnano gli agrimensori, che sono rappresentati nell’atto di utilizzare strumenti deputati alle operazioni di misura; in particolare il funzionario sulla destra è impegnato a svolgere una corda. A questi si avvicinano un contadino e sua moglie con rustiche offerte.
PITTURA MURALE DELLA TOMBA DI MENNA, NELLA NECROPOLI DI SHEIKH ABD EL-QURNA (TEBE OVEST), XVIII DINASTIA.
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LA MATEMATICA SU TAVOLETTE CUNEIFORMI
1
UNA CONOSCENZA AVANZATA
DA QUANDO ALLA METÀ DEL XIX SECOLO ebbero inizio gli scavi archeologici nelle antiche città della Mesopotamia, sono state rinvenute più di 400 tavolette di argilla di contenuto matematico, comprendenti problemi aritmetici, esercizi per studenti, tavole di moltiplicazione e metrologiche (per la conversione delle unità di misura).
Nell’antica Mesopotamia, con la comparsa delle tavolette cuneiformi, intorno al 3200 a.C., apparvero anche i primi numeri. Furono i Sumeri a ideare un sistema a base 60 che fu poi adottato anche dai Babilonesi. Questi ultimi svilupparono notevolmente le loro conoscenze matematiche in risposta alle necessità quotidiane: c’era bisogno di strumenti di calcolo per le transazioni commerciali, la suddivisione dei terreni e la redazione dei testamenti.
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TAVOLETTA DI ARGILLA (YBC 7289), SULLA QUALE UNO SCRIBA BABILONESE RAPPRESENTÒ UN QUADRATO CON LE SUE DUE DIAGONALI. II MILLENNIO A.C. YALE UNIVERSITY LIBRARY.
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1 A/
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LAVORARE CON I NUMERI
I segni cuneiformi
L’efficienza del sistema di numerazione babilonese si fondava sulla sua straordinaria flessibilità, che permetteva di rappresentare tutti i numeri attraverso due soli segni cuneiformi: il primo, a forma di cuneo verticale , esprimeva l’unità e ogni potenza positiva di 60; il secondo, a forma di cuneo orizzontale , indicava invece la decina.
Il sistema a base 60
Dato che può significare sia 1 che 60, 602 (equivalente a 60x60 in base decimale) oppure 603 (cioè, 60 x 60 x 60), e poiché rappresenta 10, l’interpretazione di un numero dipende dal contesto. si può intendere come Così, la sequenza 60 + 10 + 5 = 75 o come 602 (60 x 60) + 10 + 5 = 3615, e anche come 603 (60 x 60 x 60) +10 + 5 = 216.015.
Le frazioni ANTICHI ESERCIZI. SU UN’ANTICA TAVOLETTA CUNEIFORME BABILONESE FIGURANO DEI PROBLEMI SUL CALCOLO DELLE AREE, ACCOMPAGNATI DA ALCUNI DIAGRAMMI. II MILLENNIO A.C. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
I Mesopotamici furono i primi a utilizzare le frazioni per esprimere numeri più piccoli dell’unità, in modo da poter conteggiare gli interessi che si dovevano pagare su un prestito oppure calcolare il moto dei pianeti; non è un caso se la Mesopotamia costituì anche la culla dell’astronomia.
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2 Linee e numeri I segni cuneiformi sono numeri. Su un lato del quadrato compare un 30 e sulla diagonale orizzontale si leggono due numeri sessagesimali, che nella nostra forma decimale corrispondono a 1,41421 (sopra) e 42,4263 (sotto).
3 L’interpretazione Il numero 30 è la misura del lato del quadrato, mentre 1,41421 è un’ottima approssimazione di √2. 42,4263, invece, è la lunghezza della diagonale del quadrato di lato 30, ed è uguale al prodotto di 30 per la radice di 2.
FONTE: LOS MATEMÁTICOS DE BABILONIA. R. CARATINI. BELLATERRA, 2004.
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1 La tavoletta YBC 7289 Datata al 2000-1600 a.C., mostra un quadrato con la sua diagonale e su di essa un numero che è una buona approssimazione della radice quadrata di 2. I Babilonesi conoscevano dunque la relazione su cui si basa il teorema di Pitagora.
1; 24, 51, 10 [1,41421] 42; 25, 35 [42,4263]
2
3
POICHÉ QUALSIASI NUMERO VENIVA SCRITTO COMBINANDO I DUE SEGNI E , INTERPRETARLI ERA UNA VERA E PROPRIA ARTE. PER INDICARE LO “0” SI LASCIAVA UN PICCOLO SPAZIO TRA I SEGNI, O SI UTILIZZAVANO DUE O TRE PICCOLI CUNEI INCLINATI.
I NUMERI NELLA SCRITTURA CUNEIFORME 1
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11
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60
70
4 13
60 + 10 + 5 =75
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15
17
20
(2 x 60) + 40 + 5 = 165
il sistema decimale I numeri 75, 3615 o 216.015 sono espressi nel nostro sistema posizionale decimale, o a base 10. In questa notazione, 75 equivale a “sette volte 10” + “cinque volte 1”. D’altra parte, il nostro sistema dispone di dieci segni (0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9) per indicare tutti i numeri, contro i due segni ( , ) impiegati dai popoli mesopotamici.
il sistema sessagesimale Nell’antica Mesopotamia era diffuso il sistema posizionale sessagesimale, o a base 60, e dunque i numeri venivano espressi in maniera differente. Per i Sumeri, 75 sarebbe equivalso a “una volta 60” + “una volta 10” + “cinque volte 1” e sarebbe stato rappresentato in tal modo con i . simboli cuneiformi:
Noi possiamo scrivere le frazioni sotto forma di numeri decimali, le cifre situate alla destra della virgola, che rappresentano frazioni dell’unità: decimi (1/10), centesimi (1/100), millesimi (1/1000). Così, 1,25 significa 1 unità, 2 decimi e 5 centesimi: 1 + 2/10 + 5/100. Le frazioni decimali sono dunque quelle frazioni che hanno come denominatore una potenza di 10.
Le frazioni mesopotamiche avevano come denominatore una potenza di 60; tuttavia non esisteva una notazione specifica per rappresentarle, così il valore corretto dei segni andava desunto dal contesto. Per esempio, i segni possono corrispondere sia a 60 + 10 + 5 (75 nel sistema decimale), sia alla frazione 1 + 15/60 (1,25 nel sistema decimale).
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La corte di Akhenaton e Nefertiti
AMARNA Il faraone eretico Akhenaton trasferì la capitale dell’Egitto ad Akhetaton, l’odierna Amarna, consacrata al culto di Aton. Dopo la morte del re, la città fu abbandonata e ricoperta dalle sabbie. Si è preservato così un sito ricco di testimonianze TERESA ARMIJO ARCHEOLOGA
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uando, scendendo lungo il Nilo, si giunge ad Amarna, città che fu la capitale dell’Egitto nel corso del regno (1350-1333 a.C.) di Akhenaton e Nefertiti, ci si trova in una piana desertica popolata da rovine. Solo le due colonne ricostruite del Piccolo Tempio di Aton ne testimoniano l’antica grandezza. Akhetaton (“Orizzonte del disco solare”), l’odierna Amarna, fu abbandonata poco dopo la morte del suo fondatore, Akhenaton, e demolita nel corso degli anni: i faraoni successivi e gli abitanti dei villaggi vicini ne prelevarono le pietre, riutilizzandole per nuove costruzioni. Fortunatamente per gli archeologi, però, non venne mai eretta sulle sue rovine una nuova città; le sabbie del deserto ricoprirono le fondamenta degli edifici e quanto abbandonato dagli abitanti, preservandoli nel tempo e rendendo Amarna il sito archeologico più ricco di informazioni sulla vita degli antichi Egizi.
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IL GENERALE DI AKHENATON
Prima di diventare a sua volta faraone d’Egitto, Horemheb fu generale dell’esercito sotto il regno di Akhenaton e successivamente consigliere del faraone Tutankhamon. In questo rilievo della sua tomba a Saqqara, Horemheb riceve “l’oro del valore” per i meriti ottenuti nelle sue attività militari. Rijksmuseum, Leida.
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UNA GIOVENCA TRA I GIUNCHI. PIASTRELLA DI AMARNA, XIV SECOLO A.C. LOUVRE, PARIGI.
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Case nelle quali non mancava nulla
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Durante il quinto anno del regno di Akhenaton, quando la corte si trasferì ad Amarna, i primi a stabilirsi nella nuova capitale furono i funzionari al seguito del faraone. Ognuno di loro scelse la posizione e la dimensione della propria abitazione, che occupava un’ampia area ed era fornita di ogni comodità. Intorno a tali abitazioni sorgevano i granai e i magazzini, dove si conservavano i viveri e i prodotti da barattare, le scuderie per i cavalli, un recinto di piccole dimensioni per i carri e delle botteghe di tessuti e ceramica per uso quotidiano. Non mancavano un orto e un pozzo, né le stalle per gli animali domestici. C’erano anche luoghi destinati alla preparazione degli alimen-
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ti: uno spazio appositamente adibito alla macinazione del grano, reso necessario dalla quantità di farina che l’operazione disperdeva nell’ambiente circostante, un altro alla fabbricazione della birra, un terzo riservato al focolare e situato nella parte sud dell’abitazione, in modo che il vento del nord – quello che soffia più frequentemente ad Amarna – trasportasse i fumi e i cattivi odori lontano dalla casa. Veniva inoltre costruita una piccola cappella ospitante statue o rilievi dei faraoni, cui ci si rivolgeva affinché i sovrani – nella loro veste di intermediari tra uomini e dei – dirigessero suppliche ad Aton, il disco solare. Le abitazioni erano formate da un salone centrale intorno al quale si disponevano le altre stanze. Il salone era caratterizzato da tre elementi che erano presenti in tutte le case: una panca bassa con cuscini, sulla quale sedersi a gambe incrociate, un braciere per riscaldare le fredde notti del deserto e una tavola per abluzioni, fornita di una brocca d’acqua per rinfrescarsi o lavarsi mani e piedi. La tavola era di pietra nelle dimore più ricche, in mattoni di fango nelle abitazioni di medie dimensioni, come quelle appartenute agli artigiani; è invece assente nelle piccole case che compongono il Villaggio degli Operai, luogo di residenza dei lavoratori impegnati nella costruzione delle tombe reali e nobiliari. Una delle dimore più lussuose di Amarna era quella del visir Nakht. Oltre a un salone riccamente decorato essa
Le case di Amarna avevano un luogo per fabbricare la bevanda più popolare: la birra
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Particolarmente interessanti circa la vita nella città scomparsa sono le montagne di spazzatura risalenti a quell’epoca, tra le quali sono stati rinvenuti diversi reperti: piume e ossa di uccelli, resti di capre e pecore, lische di pesce, semi di orzo, piselli, lenticchie, cetrioli, cipolle, aglio, melograni, uva, fichi, olive e datteri: da tutto questo possiamo dedurre come la dieta degli abitanti di Amarna fosse variegata, sana ed equilibrata.
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UN SIRIANO BEVE BIRRA CON UNA CANNUCCIA IN UNA STELE DI AMARNA. STAATLICHE MUSEEN, BERLINO.
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L’EFFIMERA CAPITALE D’EGITTO
LA TOMBA DI PARENNEFER
Maggiordomo e consigliere di Akhenaton, Parennefer si fece seppellire in una tomba costruita nella necropoli di Amarna. Nell’immagine si può vedere il rilievo nel quale il defunto esce dalla tomba per adorare il sole.
1345 a.C. Amenhotep IV, dopo aver cambiato il suo nome d’incoronazione con quello di Akhenaton, trasferisce la sua corte in una nuova città, l’odierna Amarna.
1337 a.C. Per l’intransigenza religiosa del faraone, che ammette quale unico dio Aton, molti nobili abbandonano la città lasciando le proprie tombe incompiute.
1336 a.C. Nel decimo anno del regno di Akhenaton hanno ancora luogo a corte fastose cerimonie, come la ricezione di tributi da Paesi stranieri.
1336-1333 a.C. Il faraone affronta situazioni drammatiche, come la morte della figlia, la principessa Maketaton. Nefertiti scompare dalla vita pubblica.
1330 a.C. Tre anni dopo la sua incoronazione, Tutankhamon abbandona Amarna per Tebe e ristabilisce il culto di Amon.
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BUSTO POLICROMO DI NEFERTITI, RITROVATO AD AMARNA DA BORCHARDT NEL 1912. STAATLICHE MUSEEN, BERLINO.
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6 Stagno
5 Giardino
PALAZZO NORD
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disponeva di una seconda sala più piccola, nella quale venivano serviti i pasti, e di altre due stanze utilizzate per i ricevimenti: due gallerie con grandi finestre che si aprivano sul giardino, una a nord esposta al vento estivo e un’altra a ovest per catturare gli ultimi raggi solari dei tramonti invernali. Le abitazioni di dimensioni medio-grandi possedevano una stanza da bagno che prevedeva un gabinetto con sedile in legno o mattone, contenente un recipiente di legno collocato nel terreno, e una doccia, costituita da una lastra di pietra dotata di una canalina di scolo che portava l’acqua a un contenitore destinato a raccoglierla. I tavoli da toilette per le signore testimoniano la raffinatezza degli artigiani nel fabbricare piccoli recipienti di vetro o alabastro per profumi, scatolette per conservare cosmetici, pettini, specchi.
Gli artigiani più apprezzati Intorno a queste abitazioni se ne costruirono altre più piccole, per coloro che accompagnavano le famiglie
Resti del Palazzo Nord, situato ad Amarna tra il Sobborgo Nord e la Città Nord, i cui scavi iniziarono alla fine del XIX secolo.
nobili e lavoravano per loro. Ad Amarna non c’era un quartiere destinato ai ricchi e un altro ai poveri: chiunque poteva scegliere dover far erigere la propria casa. La città si popolò progressivamente di gente proveniente da altri villaggi e città dell’Egitto; persone che giungevano da una medesima località arrivavano a gruppi e formavano piccoli quartieri. A volte diverse abitazioni avevano un’uscita che dava sullo stesso cortile: ciò suggerisce come, tra i vicini, dovesse esserci un rapporto di amicizia. Tra coloro che giungevano ad Amarna in cerca di fortuna vi erano anche artigiani. Nel quartiere nord sono state dissepolte delle piccole abitazioni povere, dove si produceva ceramica vetrata. Negli scavi del 1931 sono state trovate perle di collane a forma di fiori, di frutti o rotonde e gli stampi per realizzarle. In tale zona si produceva quindi una bigiotteria molto di moda ad Amarna: la stessa Nefertiti, nel busto conservato agli Staatliche Museen di Berlino, indossa una collana composta da fili di perle di ceramica, che la ricoprono quasi sino al petto. Ciò testimonia come ad Amarna si fosse sviluppata una forma di economia che prevedeva
Altare
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Piantina della casa di Meryre, realizzata da A. Prisse d’Avennes alla metà del XIX secolo a partire da un rilievo della tomba ad Amarna.
Scatolette, pettini e specchi mostrano la maestria degli artigiani di Amarna AKHENATON IN UN RILIEVO RITROVATO AD AMARNA. STAATLICHE MUSEEN, BERLINO. BPK / SCALA, FIRENZE
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Ufficio
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Appartamenti privati
Guardiola Stalla
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Scaffali per offerte
DAGLI ORTI / ART ARCHIVE
Appartamenti per i 1 funzionari del tempio
LA CASA DI MERYRE attingere l’acqua da pozzi e canali). In un terzo spazio era situato un altare 8, presso cui erano disposti degli scaffali sui quali si conservavano in perfetto ordine le offerte 9. Si pensa che i locali di fianco all’altare fungessero da appartamenti per i servitori del tempio.
di pietra per la costruzione
FOTO: 1 PIANTA DELLA CASA DI MERYRE. DISEGNO DI A. PRISSE D’AVENNES. 2 OPERAI AL LAVORO, RILIEVO TROVATO AD AMARNA. MUSEO DI MALLAWI, AL-MINYA.
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Grandi blocchi di pietra accatastati
Sezione trasversale di una casa, con i vari locali
WERNER FORMAN / GTRES
UNE DELLE TOMBE PRIVATE situate ad Amarna apparteneva a Meryre, il “maggiore dei veggenti di Aton”. Sulle pareti della tomba è inciso un dettagliato schema della sua abitazione, tipica degli alti funzionari della città. Entrando dalla guardiola 1, si vede un piccolo ufficio 2 nel quale Meryre, in qualità di portatore del sigillo reale, si occupava di gestire le offerte destinate al dio. Più avanti c’erano gli appartamenti privati del proprietario 3 e, di fronte, una stalla 4 . Di fianco si trovava un giardino 5 con palme da dattero, melograni e piante che circondaIntagliatori vano uno stagno 6 vicino al quale lavorano i blocchi c’era uno shaduf 7 (strumento per
Operai al lavoro. Il rilievo mostra, a sinistra, intagliatori e artigiani che lavorano alla costruzione di una casa; a destra, l’interno di un’abitazione.
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LA TOMBA REALE DI AMARNA
lino utilizzate, catalogato le trame e i disegni, stabilito come si rifiniva la tela quando veniva tolta dal telaio e come essa fosse cucita. Gli artigiani di Amarna erano tessitori capaci, ma sarti non molto abili: i pezzi venivano tessuti della misura opportuna per l’abito che si voleva realizzare. Come si può vedere in una famosa statua di Nefertiti conservata al Museo del Louvre di Parigi, un rettangolo di stoffa serviva da vestito per le donne: con un semplice nodo e un pezzo di tela piegato, cucito lungo i bordi laterali e con un buco al centro dove infilare la testa, si otteneva una camicia o una tunica cui si poteva dare la lunghezza desiderata. Gli scialli plissettati completavano l’abito.
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la possibilità per un medesimo individuo di svolgere più impieghi. È quanto si riscontra, nello specifico, nel Villaggio degli Operai menzionato in precedenza. Al suo sorgere, tutte le abitazioni erano uguali; ben presto però gli operai che erano al contempo anche imprenditori riuscirono a migliorare la loro condizione economica, trasformando le proprie case e modificando così la struttura del Villaggio. Al di fuori di esso vennero creati una serie di porcili per allevare maiali. In questa zona sono stati scoperti due edifici: gli archeologi hanno determinato che uno era adibito al sacrificio degli animali mentre l’altro era destinato alla produzione di conserve e alle salature. Simili attività procuravano guadagni aggiuntivi agli operai, che vendevano gli alimenti nelle zone ricche della città. Anche le donne procuravano benefici extra alla famiglia, lavorando con telai che – a giudicare dalle dimensioni – non venivano utilizzati solo per le necessità domestiche. Tra il 1979 e il 1986 sono stati rinvenuti nel Villaggio circa 5000 frammenti di tessuto, principalmente di lino: gli esperti hanno determinato le qualità di
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Akhenaton evitò di decorarla con scene del viaggio di Ra attraverso l’Oltretomba, che contrastavano con il culto di Aton.
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La strada più grande di Amarna La costruzione di Amarna non seguì, almeno all’inizio, alcun progetto urbanistico preciso. L’unica strada pianificata fu la Via Reale, che partiva dall’estremo nord – dove risiedevano Akhenaton e Nefertiti – e attraversava tutta la Città Centrale. Lungo essa si situarono gli edifici ufficiali, come i due templi dedicati ad Aton, ampi spazi
Gli abitanti di Amarna godettero della libertà di avviare botteghe e fattorie private 40 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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WERNER FORMAN / GTRES
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KENNETH GARRETT
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CITTÀ DI ARTISTI LA RAPIDA COSTRUZIONE della nuova capitale di Akhenaton comportò l’arrivo ad Amarna di un gran numero di artisti, occupati nella decorazione dei templi, dei palazzi e delle abitazioni della città, oltre che nella fabbricazione di gioielli, ceramica e oggetti funerari. Il faraone diede impulso alla creazione di botteghe di Stato, supervisionate da un funzionario; la loro produzione era apprezzata anche in Paesi lontani, come rivelano le Lettere di Amarna, la celebre collezione della corrispondenza in scrittura cuneiforme tra la corte egizia e le monarchie mesopotamiche: in alcune lettere i sovrani stranieri chiedevano al faraone che inviasse loro regali quali “un intaglio di legno che rappresenti un animale selvatico come se fosse vivo”, alberi in avorio o statue di oro massiccio. Nelle botteghe si preparavano anche i regali che si facevano al faraone nelle occasioni importanti: statue d’avorio o di ebano,
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collane, armi; sappiamo per esempio che molti dei pezzi appartenenti al tesoro della tomba di Tutankhamon vennero fabbricati proprio ad Amarna. È stato anche trovato il laboratorio di scultura di un non meglio identificato Tuthmosis: aveva dimensioni impressionanti, 3000 m2, e contava su un’organizzazione del lavoro molto avanzata. Nelle vicinanze sorgeva lo studio dello scultore Ipo, che, con i suoi 330 m2, risultava decisamente più piccolo del laboratorio di Thutmose. Gli artigiani più modesti, sia che si dedicassero alla maiolica o alla ceramica, sia al vetro o all’ebanisteria, riunivano nel medesimo edificio l’abitazione e la bottega. FOTO: 1 STATUA DI SCRIBA RISALENTE AL REGNO DI AMENHOTEP III, PADRE DI AKHENATON, RINVENUTA AD AMARNA. STAATLICHE MUSEEN, BERLINO. 2 COLLANA DI MAIOLICA POLICROMA PROVENIENTE DA AMARNA. BRITISH MUSEUM, LONDRA. 3 BARCA SOLARE DI ALABASTRO RITROVATA NELLA TOMBA DI TUTANKHAMON. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. 4 MUSICI IN UN RILIEVO DELLA TOMBA DI MERYRE, AD AMARNA. 5 RECIPIENTE PER UNGUENTI A FORMA DI TILAPIA DEL NILO, TROVATO AD AMARNA. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
1 Scriba. Seduto
nella postura tipica dei membri della sua classe, ha tuttavia una gamba sollevata.
2 Collana di maiolica. Collana dal disegno floreale realizzata in una bottega dedicata alla maiolica, ad Amarna. 3 Barca di alabastro. Fu costruita ad Akhetaton, come gran parte del corredo funebre di Tutankhamon. 4 Rilievo. Scoperto in una tomba di Amarna, raffigura un’esibizione di arpisti e cantanti. 5 Unguentario. Realizzato in cristallo blu, questo recipiente a forma serviva a contenere essenze.
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IL FARAONE IN FAMIGLIA
probabilmente aperti al pubblico: nel Grande Tempio erano infatti situate 929 tavole in mattoni di fango, sulle quali gli abitanti potevano disporre le loro offerte. Egizi e stranieri, quando venivano invitati ai ricevimenti reali, dovevano rimanere meravigliati di fronte alla bellezza dei palazzi cittadini: Amarna fu una città cosmopolita, capace di attirare sia un commerciante greco che si stabilì nel quartiere nord, sia l’asiatico che appare rappresentato in una piccola stele mentre beve della birra con una lunga cannuccia, come si era soliti fare nel suo Paese. Lungo la Via Reale, si potevano osservare persone abbigliate nei modi più disparati e udire parlare diverse lingue. In qualche occasione gli stupefatti passanti potevano persino vedere il faraone, che si spostava sul suo carro per prendere parte ai riti religiosi nei due templi principali della città o alle cerimonie ufficiali che si svolgevano nel Grande Palazzo. Nella tomba dell’alto dignitario Meryre è rappresentata una scena che rende bene l’idea di come potesse essere una processione sulla Via Reale. Il faraone guida senza l’aiuto del cocchiere un destriero, preceduto dal visir e seguito da Nefertiti, l’unica regina egizia che troviamo raffigurata nell’atto di condurre personalmente il proprio carro. Le principesse escono da palazzo (dove due portieri parlano tra loro) accompagnate da portatori di venta-
gli e dame, mentre alcuni soldati corrono davanti al carro del sovrano e ai lati della strada. L’Amarna di Akhenaton aveva tuttavia anche dei lati oscuri. L’intransigenza religiosa del faraone dovette disilludere molti nobili, che fuggirono dalla città lasciando incompiute le tombe che stavano costruendo. Recentemente sono stati inoltre portati alla luce, all’esterno della città, i cimiteri destinati ai poveri: i resti umani ritrovati mostrano un alto tasso di mortalità giovanile, oltre alla presenza sulla schiena e sulle spalle di gravi lesioni, dovute all’aver sopportato pesi eccessivi. La vita di Amarna fu molto breve: 13 anni durante il regno di Akhenaton e, forse, circa altri 3 durante quello di Tutankhamon. La città fu tuttavia protagonista di un periodo intellettualmente molto vivace e caratterizzato da una notevole libertà, come mostrato dall’arte e dalla proliferazione delle piccole imprese. La cosmopolita, dinamica e creativa Amarna testimonia un momento unico e irripetibile nella storia dell’antico Egitto. Per saperne di più
DEA / AGE FOTOSTOCK
BPK / SCALA, FIRENZE
La stele, rinvenuta ad Amarna, mostra Akhenaton e Nefertiti intenti a giocare con le figlie. Staatliche Museen, Berlino.
Alcune anatre prendono il volo nelle paludi del Nilo, rappresentate da piante di papiro e fiori di loto. Pavimento del Palazzo di Maru Aton. Museo Egizio, Il Cairo.
SAGGI
Storia dell’antico Egitto Nicolas Grimal, trad. di G. Scandone Matthiae, Laterza 2007. Akhenaton e Nefertiti. Storia dell’eresia amarniana Franco Cimmino. Bompiani, 2002. INTERNET
www.amarnaproject.com
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GALLERIE DI PALAZZO DALLA FINE DEL XIX SECOLO, gli scavi effettuati da archeologi come Flinders Petrie, Leonard Wooley e Ludwig Borchardt nel quartiere dei palazzi della Città Centrale di Amarna portarono alla luce uno degli elementi più sorprendenti dell’antica capitale di Akhenaton: il favoloso colore delle decorazioni originali degli edifici. Tra i resti rinvenuti – alcuni molto ben conservati – si trovano colonne dipinte di rosso, blu e oro, muri ricoperti da lastre di pietra colorata, mattoni vetrificati sui quali sono raffigurati piante, fiori e pesci multicolori, pavimenti di gesso vivacemente dipinto con scene che ricreano la flora e fauna del Nilo.
Le due principesse, figlie della coppia reale, adornate con alcuni gioielli siedono su un pavimento. Dipinto della Casa Reale di Amarna. Ashmolean Museum, Oxford. DEA / AGE FOTOSTOCK
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IL QUARTIERE DEI PALAZZI
Nel centro dell’antica Amarna erano situati i palazzi di Akhenaton e Nefertiti, Casa del sommo sacerdote Panehsy
Gempaaton. Composto da sei corti separate da porte, che contenevano 750 tavole da offerta.
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Santuario. Riservato alla famiglia reale, che innalzava qui le sue offerte ad Aton.
Stalla per gli animali destinati al sacrificio Magazzini e panifici del Grande Tempio. Qui si conservavano e preparavano gli alimenti destinati al culto di Aton
929 tavole da offerta a cielo aperto
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Harem nord. Area con piccoli cortili, camere, un giardino interno e sale da ricevimento
NILO
1 GRANDE TEMPIO DI ATON
2 VIA REALE
3 GRANDE PALAZZO
L’area, di 760 x 270 m, era in origine circondata da un muro di 2,5 m di larghezza; la porta d’ingresso aveva torri di mattoni. Al suo interno si trovava il Gempaaton (“colui che trovò Aton”), la zona principale; dietro uno spazio aperto si trovava il santuario.
La lunga via processionale, utilizzata in occasione delle cerimonie ufficiali, attraversava la città da nord a sud, collegando gli edifici più importanti: dal Grande Tempio di Aton, passava per il Grande Palazzo e la Casa del Faraone, arrivando sino al Piccolo Tempio di Aton.
Sul lato ovest della Città Centrale si ergeva questo sontuoso edificio. Sembra che abbia avuto un uso esclusivamente cerimoniale, forse per grandi ricevimenti e fastose cerimonie. Consisteva in una serie di cortili con colonne e di Saloni di Stato in pietra comunicanti tra loro.
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E DEI SANTUARI DI ATON gli uffici reali e i grandi edifici cerimoniali dedicati al nuovo culto solare Caserme di polizia e stalle Quartiere militare
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Casa della Vita
Magazzini
Santuario
Ufficio della corrispondenza
Porte
Cortile cerimoniale 4 Ponte
Appartamenti privati
6 Magazzini
Harem sud Saloni di Stato
Grande area cerimoniale
4 CASA DEL FARAONE
5 UFFICI REALI
6 PICCOLO TEMPIO DI ATON
Era unita al Grande Palazzo da un ponte di mattoni che attraversava la Via Reale. Da qui Akhenaton governava la città. Occupava un’area di 138 x 120 m ed era formata da un vasto cortile cerimoniale con zone di servizio, sale d’udienza e locali privati.
Qui lavoravano i funzionari che svolgevano le mansioni burocratiche: registravano ingressi e uscite dai magazzini, fissavano razioni, preparavano scorte… Nel cosiddetto “Ufficio della Corrispondenza del Faraone” furono trovate le celebri Lettere di Amarna.
Con una superficie di 191 x 111 m, consisteva in aree aperte separate da imponenti porte di mattoni. Lo circondava una muraglia con torrioni a intervalli di 14 metri. Passata la terza porta si ergeva il santuario: aveva muri larghi 2 m ed era circondato su tre lati da alberi.
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ILLUSTRAZIONE: PAUL DOCHERTY
Cortile aperto
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L’ACCADEMIA DI PLATONE
Il filosofo e alcuni suoi discepoli nel giardino dell’Accademia, presso Atene. Mosaico del secolo I d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
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I fondatori del pensiero occidentale
I FILOSOFI GRECI I primi filosofi dell’Occidente, lungi dal vivere rinchiusi in uno studio, si comportavano da maestri nelle questioni più importanti della vita: dalla politica al denaro, dall’amicizia all’amore JUAN PABLO SÁNCHEZ DOTTORE IN FILOLOGIA CLASSICA NORTHEAST NORMAL UNIVERSITY, CHANGCHUN (CINA)
N SCALA, FIRENZE
ell’antica Grecia i filosofi non vivevano in una torre d’avorio, dedicandosi esclusivamente ai loro pensieri e alle loro idee, contemplando il mondo dalla superiorità del loro intelletto. Al contrario, vivevano calati nella società del loro tempo, preoccupati per la loro sussistenza, le loro famiglie o i problemi politici del momento. Certamente la loro strana professione di filo-sofi ( “amanti della sapienza”) li faceva apparire spesso come personaggi eccentrici: è per esempio il caso di Socrate, che Aristofane, Senofonte e Platone concordano nel presentarci come non bello di aspetto, sempre intento a osservare inquisitivo gli Ateniesi con i suoi occhi sporgenti, assediandoli con eterne domande. Tuttavia le varie scuole filosofiche ebbero discepoli appartenenti a ogni estrazione sociale e diedero un contributo fondamentale alla cultura del proprio tempo.
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LA CAPITALE DELLA FILOSOFIA
JON ARNOLD / AWL IMAGES
Tra il V e il IV a.C., la città di Atene divenne il centro nevralgico della filosofia greca. Nell’immagine, una veduta dell’Acropoli, cuore di Atene, e della vicina collina di Filopappo.
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Da pugile a filosofo A giudicare da questi aneddoti, può sembrare che i filosofi greci preferissero vivere ritirati dal mondo. Ciò verrebbe confermato anche da alcuni dati storici: Platone, per esempio, aprì l’Accademia in un bosco di olivi sacri nei pressi di Atene, al quale si giungeva per un cammino ombreggiato tra templi, giardini e ville patrizie. Vicino all’Accademia si trovava la scuola di Epicuro, il Giardino, un piccolo prato irrigato dalle acque del fiume Eridano. Il Liceo, la scuola fondata da Aristotele, era situato nei dintorni di Atene, attorniato dal celebre portico dove il filosofo e i suoi discepoli passeggiavano durante le loro lunghe discussioni
C R O N O LO G I A
NASCITA DI IDEE NUOVE
SCALA, FIRENZE
Alcuni dei primi pensatori greci furono estremamente solitari, motivo per il quale suscitarono in certi casi ammirazione, in altri disprezzo. Nelle Vite dei filosofi Diogene Laerzio, riprendendo una tradizione risalente a Erodoto, racconta che Pitagora di Samo si rinchiuse in una grotta e che quando ne uscì – macilento – gridando di essere tornato dall’inferno, tutti videro in lui qualcosa di divino. Ancora Diogene Laerzio riferisce di quando Empedocle si gettò nell’Etna, per far credere di essere diventato un dio: la forza delle fiamme lanciò in aria uno dei suoi sandali, provocando il riso degli spettatori per la grottesca fine del filosofo. Celebre è infine l’aneddoto tramandato dallo stesso scrittore su Talete di Mileto: costui, assorto nello studio delle stelle, sarebbe caduto in un fossato, suscitando le risa di una vecchia; ella, accorrendo in suo soccorso, lo avrebbe canzonato dicendogli:“Talete, pretendi di conoscere ciò che sta in cielo, quando non noti nemmeno quello che c’è ai tuoi piedi?”.
e che valse loro l’appellativo di Peripatetici. Molti di questi filosofi erano di umili origini e la loro vita fu, all’inizio, molto dura. Sappiamo da Diogene Laerzio che lo stoico Cleante di Asso, prima di predicare l’atarassia (“assenza di turbamenti”) come antidoto alle traversie della vita, si guadagnò da vivere come pugile; quando finalmente giunse per studiare ad Atene, con solo quattro monete in tasca, sbarcò il lunario lavorando come portatore d’acqua. Il peripatetico Teofrasto, successore di Aristotele alla guida del Liceo, era figlio di un follatore di Ereso, sull’isola di Lesbo. Di Epicuro, Diogene Laerzio riferisce che in gioventù, sull’isola di Samo, fosse solito seguire la madre di casa in casa, aiutandola a purificare le abitazioni con la lettura di formule espiatorie. Socrate era figlio di un cavapietre e di una levatrice ateniesi: stando al Teeteto di Platone, egli paragonava la sua pratica filosofica – tesa a favorire la nascita della verità nell’anima degli interlocutori – alla maieutica, l’arte delle ostetriche; inoltre non aveva difficoltà ad ammettere tra i suoi discepoli gente di umile condizione come
VII-VI a.C.
V a.C.
IV a.C.
IV-III a.C.
È il periodo della filosofia cosiddetta presocratica, che prende avvio da Talete di Mileto.
Socrate gira per Atene, interrogando criticamente i suoi concittadini.
Aristotele apre ad Atene la sua scuola, interessandosi a molti campi del sapere.
Epicuro fonda il suo Giardino, insegnando a ricercare i piaceri “naturali e necessari”.
LA SCUOLA DI ATENE
Platone e Aristotele attorniati da illustri pensatori dell’antichità. Affresco realizzato da Raffaello Sanzio per la Stanza della Segnatura del Vaticano. 1508-1511.
EUCLIDE E PITAGORA. FORMELLA DI MARMO DI LUCA DELLA ROBBIA, 1437. MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO, FIRENZE.
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BRI
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GEM
AN
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DEX
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LA FILOSOFIA GRECA IN UNA COPPA D’ARGENTO LE ROVINE DI POMPEI mostrano fino a che
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3 COPPA D’ARGENTO RISALENTE AL 79 D.C. RINVENUTA NEL 1895 NELLA VILLA DI BOSCOREALE, È OGGI CONSERVATA AL LOUVRE DI PARIGI.
H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
punto nel I secolo d.C. l’élite romana fosse influenzata dalla filosofia greca, in particolare quella epicurea. Nella Villa dei Papiri vi era una biblioteca nella quale sono stati rinvenuti, oltre ai busti di Epicuro, Ermarco e Zenone, anche numerose opere dei filosofi epicurei, giunte sino a noi soltanto in forma frammentaria. In una villa campestre situata a Boscoreale sono state trovate due coppe risalenti al I secolo d.C., decorate con una serie di scheletri. La scena, se in apparenza sembra una danza macabra medievale, raffigura in realtà filosofi e poeti dell’antica Grecia e va letta come un invito a godere dei piaceri della vita: per ribadire tale concetto, sulle coppe furono incisi motti come “Godi finché sei vivo, il domani è incerto”.
Il filosofo stoico e quello epicureo 3
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ERICH LESSING / ALBUM
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I due scheletri, che si fronteggiano intorno a un tripode, corrispondono al fondatore della Stoà Zenone di Elea 1, rappresentato con borsa e bastone, e a Epicuro 2, capostipite della scuola che da lui prende il nome. Ai piedi di quest’ultimo si vedono due cani 3 che si accoppiano. La coppa esprimerebbe il desiderio di godersi la vita senza curarsi dell’opinione dei filosofi.
Moschione e Archiloco Lo scheletro a sinistra rappresenta il poeta tragico Moschione 1 (IV secolo a.C.), mentre tiene nella sinistra una torcia e nella destra un teschio; quello a destra raffigura il poeta lirico Archiloco 2 (VII secolo a.C.), intento a suonare una cetra. Una ghirlanda di rose 3 percorre la frangia superiore della coppa.
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L’irriverente Diogene La crescente instabilità politica delle città greche nel IV secolo a.C. provocò risposte diverse tra i filosofi. Platone (come ci informa egli stesso nella Lettera VII) partì per la Sicilia, nel tentativo di educare alla filosofia il tiranno di Siracusa, Dionisio, e finì venduto da quest’ultimo come schiavo. Una volta liberato e rientrato ad Atene, comprò la tenuta dove sorse l’Accademia e lì proseguì la sua attività filosofica, formulando tra l’altro la celebre“teoria delle idee”: il mondo sensibile, corruttibile e in divenire, è una copia di quello ideale, immateriale e immutabile, che si configura pertanto come la“realtà vera”. Altri filosofi preferirono dedicarsi ai semplici appetiti corporei, come predicava Aristippo di Cirene. Zenone di Elea, fondatore della Stoà, perseguì con i suoi discepoli l’ideale di una vita imperturbabile, guidata unicamente da una ragione capace di preservare l’uomo dai capricci della sorte. Anche gli Epicurei cercarono la tranquillità: un rifugio nel quale il filosofo potesse godere dei piaceri semplici e quotidiani, osservando a distanza
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LA RICERCA DI DIOGENE IL FILOSOFO CINICO DIOGENE DI SINOPE viveva ad Atene in una botte, circondato da cani randagi, ai quali i suoi avversari lo paragonavano. Egli soleva camminare per la città con una lanterna accesa, dicendo a chi s’interrogava sul suo strano comportamento: “Cerco un uomo”. Alla risposta dei suoi concittadini che di uomini ce n’erano molti, il Cinico rispondeva: “Cerco un uomo vero, uno che viva per se stesso, non un indistinto membro del gregge”.
il turbolento agitarsi dell’esistenza umana. Chi meglio rappresenta l’alienazione del filosofo nella demoralizzata Grecia del IV secolo a.C. è però Diogene di Sinope, il più provocatorio tra i pensatori che illuminarono l’Ellade. La sua vita fu una serie di sfide al buon costume di una società che si presumeva rispettabile: stando a quanto racconta Diogene Laerzio, era per esempio orgoglioso che suo padre, un banchiere, fosse stato accusato di falsificare monete e punito con l’esilio; sosteneva che anche lui, vivendo come un vagabondo apolide, cercava di dimostrare la falsità delle convenzioni sociali della Grecia del suo tempo. Soprannominato “il Cinico” (dal greco kyon, “cane”, termine da cui deriva anche il nome della corrente filosofica che da lui prese le mosse, il Cinismo), passava
CONVERSAZONE FILOSOFICA
Socrate dialoga con una musa. Sarcofago delle Muse, II secolo. Louvre, Parigi.
WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
Eschine, discendente da una famiglia di salumieri:“Mi ha saputo stimare solo il figlio di un salumiere!”, fa dire a Socrate Diogene Laerzio. Socrate fu un personaggio popolare nell’Atene del V secolo a.C. In gioventù aveva servito nella milizia cittadina e aveva lavorato per un periodo come scultore, creando opere che vennero esposte nell’Acropoli. Stando a quanto scrive Senofonte nel Simposio, cui fa riferimento anche Diogene Laerzio, non disdegnava nemmeno i piaceri mondani, come suonare la lira e danzare; presenziava inoltre ai banchetti dei politici più in vista della città, ai quali – secondo il Simposio di Platone – partecipava indossando gli unici sandali che pare aver posseduto in tutta la vita: era infatti solito camminare scalzo. Socrate prendeva parte anche alle assemblee cittadine e non esitava a esprimere il proprio parere, per quanto divergente da quello altrui. Personaggio scomodo, suscitò il malcontento di molti suoi concittadini al punto che, nel 399 a.C., venne accusato di empietà e di corruzione dei giovani; giudicato colpevole e rinchiuso in carcere, fu condannato a morte.
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DIOGENE IL CINICO NELLA SUA BOTTE. PITTURA A OLIO DI JEAN-LÉON GÉRÔME, 1860. WALTERS ART MUSEUM, BALTIMORA.
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Asso, in Asia Minore, visse nel IV secolo a.C. un periodo di grande splendore sotto il governo di Ermia, che favorì l’arrivo in città di molti pensatori, tra i quali Aristotele. Nell’immagine, il tempio di Atena che sorge sull’Acropoli di Asso.
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CITTÀ DEI FILOSOFI
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Misogini e femministi Platone disprezzava Diogene: secondo Diogene Laerzio, l’avrebbe etichettato come un “Socrate pazzo”; Platone avrebbe addirittura fondato l’Accademia fuori dalle mura della città perché non avrebbe sopportato che Diogene calpestasse i tappeti della scuola con i suoi piedi infangati. Stando alla medesima fonte, avendo Diogene sentito che Platone aveva definito l’uomo un“bipede implume”, gli avrebbe lanciato durante una lezione un gallo spennato, esclamando: “Ecco un uomo di Platone!”; mentre i discepoli dell’Accademia cercavano di afferrare l’animale, Platone, considerando gli artigli adunchi del gallo, avrebbe aggiunto: “Senza piume, ma con unghie piatte!”. Quando in un’altra occasione Platone stava riflettendo sul “mondo delle idee”, Diogene gli si sarebbe avvicinato dicendogli: “Vedo questo tavolo e questo bicchiere: non vedo però né la tavolità né la bicchierità” (indicando con queste espressioni l’essenza ideale dei due oggetti). Nella Grecia del VI-V secolo a.C., le donne avevano un ruolo culturale abbastanza marginale: non svolgevano attività intellettuali e non po-
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PRESO IN GIRO DA UNA CORTIGIANA SECONDO UNA TRADIZIONE TARDA, molto diffusa ma di origine incerta, Aristo-
tele avrebbe ripreso il suo discepolo Alessandro Magno per essersi invaghito di una cortigiana, la bella Fillide. Questa, offesa, avrebbe deciso di sedurre il filosofo: prima di concedersi a lui, avrebbe però preteso di salirgli in groppa, a cavalcioni. Aristotele avrebbe accettato, riconoscendo che non esiste intelligenza umana che non sia annebbiata dalla passione per una donna.
tevano frequentare scuole filosofiche. Nei loro confronti, i filosofi adottarono atteggiamenti differenti. Alcuni mostrarono una misoginia viscerale, come Diogene il Cinico: secondo Diogene Laerzio egli, vedendo delle donne impiccate a un ulivo, avrebbe esclamato: “Ah, se simili frutti pendessero da tutti gli alberi!”. Altrettanto caustico fu Aristippo di Cirene: stando a quanto scrive Diogene Laerzio, a una cortigiana che lo assicurava di essere incinta di lui, egli avrebbe risposto:“Come puoi sapere con quale spina ti sei punta quando cammini in un campo pieno di spine?”; rimproverandogli la donna che il mancato riconoscimento avrebbe danneggiato il nascituro, il filosofo avrebbe commentato aspro: “Cresciamo anche i pidocchi, e li gettiamo molto lontano!”. Altri filosofi invece si sposarono e formarono una famiglia, anche se le relazioni
IL MAESTRO ARISTOTELE
Stele dedicata ad “Aristotele figlio di Nicomaco, maestro di tutta la sapienza”, II secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale, Atene.
DEA / ALBUM
le giornate in una botte, come un barbone, rivendicando la sua indipendenza dalla società cosiddetta per bene: preferiva osservare in solitudine il correre di un topo piuttosto che partecipare alla vita della Grecia del tempo. Nella sua stravaganza, durante l’estate Diogene si rotolava nella sabbia calda mentre in inverno abbracciava le statue coperte di neve; un simile comportamento intendeva mandare un messaggio preciso: se la sofferenza è una componente ineliminabile della vita umana, occorre comunque gioire per il semplice fatto di essere vivi. La sua irriverenza è ben esemplificata da un celebre aneddoto, riferito tra gli altri da Plutarco (nelle Vite parallele) e Diogene Laerzio. Alessandro Magno, avvicinandosi una volta al filosofo che si trovava disteso intento a predere il sole, l’avrebbe invitato a esprimere un desiderio: per tutta risposta, Diogene gli avrebbe chiesto di spostarsi, per non fargli ombra; Alessandro se ne sarebbe andato tra le risa dei compagni, commentando: “Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene”.
AKG / ALBUM
ARISTOTELE CAVALCATO DA UNA CORTIGIANA, FILLIDE, IN UN’OPERA DI URS GRAF DEL 1521. DESSAU, STAATLICHE GALERIE.
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IL RE E IL FILOSOFO
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Rilievo marmoreo raffigurante il celebre incontro tra Diogene il Cinico e Alessandro Magno, opera di Pierre Puget del 1671. Louvre, Parigi.
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con le consorti furono tutt’altro che armoniose. Stando a quanto scrive Senofonte nel Simposio, Socrate soleva dire che, dopo aver sopportato il carattere della moglie Santippe, gli risultava più facile trattare con le altre persone; non tutti sanno però che Socrate fu contemporaneamente legato anche a un’altra donna, Mirto, figlia di Aristide il Giusto. Lo stoico Cratete di Mallo educò con attenzione le proprie figlie e le diede in sposa ai suoi discepoli, per assicurare così una continuità alla scuola. Secondo una tradizione, testimoniata da Diogene Laerzio e dalla lettera – forse risalente al III secolo a.C. – indirizzata a Ipparco dallo Pseudo-Liside, Pitagora non solo avrebbe educato la figlia Damo, ma le avrebbe inoltre lasciato in eredità le proprie opere, con l’avvertenza di non affidarle a nessuno che non fosse della famiglia; ella rispettò scrupolosamente quest’ultima volontà: piuttosto che vendere i libri del padre, preferì vivere in povertà e solitudine. A partire dall’epoca ellenistica, le scuole filosofiche si aprirono progressivamente anche agli strati della popolazione tradizionalmente marginali, come le donne e gli schiavi: così fece, per esempio, Epicuro.
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UN ALLEGRO DEMOCRITO GUARDA LO SPETTATORE. OLIO DI CHARLESANTOINE COYPEL, 1746. COLLEZIONE PRIVATA.
DEMOCRITO, FILOSOFO DELLA RISATA DEMOCRITO DI ABDERA è celebre, tra l’altro, per l’idea che la risata rende saggi. Una lettera spuria tramandata nel Corpus Hippocraticum racconta di come i suoi concittadini, vedendolo ridere costantemente e perciò preoccupati della sua salute mentale, avrebbero chiamato Ippocrate perché lo guarisse dal suo presunto delirio. Il medico, dopo averlo visitato, avrebbe dichiarato: “Democrito non delira e non è pazzo: è l’uomo più sensato del nostro tempo”.
L’ultimo giorno di Epicuro I testamenti dei filosofi permettono di accostarsi alla vita quotidiana dei loro autori: oltre alle disposizioni circa il futuro delle loro scuole, si menzionano le tenute e gli schiavi che possedevano, il corredo domestico e le reliquie familiari che si trovavano nelle loro abitazioni (Aristotele accenna per esempio a una statuetta di Demetra, dea dell’agricoltura, che era appartenuta a sua madre), i titoli delle opere che avevano scritto, oggetti ed effetti personali preziosi (bicchieri, anelli, tappeti, letti decorati e cuscini) che gli eredi avrebbero dovuto spartirsi. I testamenti recano anche traccia dei debiti contratti dai filosofi e dei nomi di coloro che dovevano loro del denaro: Platone, nelle sue ultime volontà tramandateci dal solito Diogene Laerzio, segnala come il cavapietre Euclide gli debba tre mine. Il più bell’addio al mondo è tuttavia quello di Epicuro, conservato nella lettera che egli
indirizzò all’amico Idomeneo: “Era il giorno beato e ultimo della mia vita, quando ti scrivevo questa lettera. I dolori della vescica e delle viscere erano tali da non poter essere maggiori: eppure a tutte queste cose si opponeva la gioia dell’anima per il ricordo dei nostri passati discorsi filosofici”. Sul letto di morte, Epicuro lottò contro la sofferenza causatagli da calcoli renali, andando con la memoria ai giorni felici trascorsi a filosofare con gli amici: l’amicizia, al pari della ricerca della verità, è un elemento essenziale per raggiungere la felicità. Per saperne di più
TESTO
Vite dei filosofi Diogene Laerzio, 2 voll., Laterza, 2008. SAGGI
Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci Luciano Canfora, Sellerio, 2000. L’esercizio della regione nel mondo classico P. L. Donini e F. Ferrari, Einaudi, 2005.
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I DIVERSI STILI DI VITA PORSI IL PROBLEMA DI DIO
Diversamente dai sofisti, Socrate non accettò mai denaro dai suoi discepoli. Uno di essi, Aristippo, accumulò invece una fortuna insegnando come utilizzare il denaro; quando Socrate gli chiese dove l’avesse presa, egli rispose: “Da dove tu hai preso così poco”. Gli Stoici credevano che il denaro potesse essere un mezzo utile al raggiungimento della felicità, ma non un fine in se stesso.
La maggior parte dei filosofi greci credeva in qualche forma di divinità. Quando a Talete di Mileto venne chiesto se gli dei vedessero le ingiustizie degli uomini, egli rispose: “E persino i loro pensieri”. Anche gli Epicurei ammettevano l’esistenza degli dei, che però concepivano come entità imperturbabili, estranee alle sorti dell’umanità: per questo motivo vennero accusati di ateismo.
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IL GIARDINO DEI FILOSOFI. L’OPERA, UN OLIO DI A. STROHMAYER DEL 1834, RAPPRESENTA LA SCUOLA DI EPICURO, SITUATA IN UN GIARDINO NEI PRESSI DI ATENE, VICINO ALL’ACCADEMIA DI PLATONE. COLLEZIONE PRIVATA.
RINUNCIARE ALLE RICCHEZZE
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Nel corso del tempo si svilupparono in Grecia numerose correnti filosofiche, che si differenziavano tra loro sia per questioni teoriche o scientifiche sia per il loro atteggiamento verso la vita. Secondo alcuni si doveva intervenire in politica mentre per altri occorreva restarne ai margini, alcuni credevano in un dio che determinava le questioni umane mentre altri erano atei, alcuni cercavano la felicità nei piaceri mentre altri promuovevano l’astinenza.
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Filosofi idealisti come Platone ritenevano che l’anima dell’uomo fosse incorruttibile e che sopravvivesse alla morte del corpo, in una dimensione ultraterrena. Per Epicuro invece l’anima da sola non vive, né pensa, né esiste: “La morte non è nulla per noi, dato che quando ci siamo noi la morte non è presente, mentre quando la morte arriva noi non esistiamo più”.
Filosofi molto diversi tra loro, come Platone, Zenone di Elea o Diogene il Cinico, sostenevano che le donne, così come i figli, dovessero essere in comune, svincolate da legami matrimoniali e familiari. Altri invece, come Aristotele, ritenevano che il filosofo dovesse sposarsi per formare una famiglia e fosse tenuto a rispettare i genitori, i fratelli e le sorelle tanto quanto gli dei.
Se i Cirenaici credevano che la felicità si fondasse sul piacere, i Cinici disprezzavano le comodità e il lusso. Una volta Diogene il Cinico, mentre lavava delle erbe, s’imbattè nell’edonista Aristippo, che si stava dirigendo a un banchetto: “Se sapessi prepararti questo pasto, non mendicheresti nei palazzi”, disse il primo al secondo, che rispose: “E se tu sapessi trattare gli uomini, non staresti qui a lavare erbe”.
Già i primi filosofi, esponenti della scuola ionica, come Talete di Mileto, si interessarono alla politica; i Sofisti e Socrate scelsero poi di intervenire attivamente nella vita democratica di Atene. Un secolo dopo, quando la Grecia era ormai stata conquistata dai Macedoni, Epicuro predicò un ideale di vita ritirata: “Il saggio non farà politica”; “Passa inosservato finché sei vivo”, affermava in riferimento al filosofo.
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IMPEGNARSI IN POLITICA
PRISMA ARCHIVO
PERSEGUIRE I PIACERI
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CONTRARRE MATRIMONIO
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NON TEMERE LA MORTE
IMMAGINI. DA SINISTRA A DESTRA: VERSO DI UNA DRACMA ATENIENSE, CON L’IMMAGINE
DI PEGASO. BUSTO DI MARMO DI ERMES, V SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO DEL PIREO, ATENE. TAVOLETTA VOTIVA RAFFIGURANTE ADE E PROSERPINA, V SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO DI REGGIO CALABRIA. PORTAGIOIE CON SCENA DI MATRIMONIO, V SECOLO A.C. LOUVRE, PARIGI. STELE FUNERARIA DI GIOVANE ATLETA, VI SECOLO A.C. METROPOLITAN MUSEUM, NEW-YORK. KLEROTERION UTILIZZATO PER SCEGLIERE I FUNZIONARI PUBBLICI AD ATENE, III SECOLO A.C. MUSEO DELL’AGORA, ATENE.
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TARQUINIO SUPERBO L’ultimo re di Roma Salito al trono dopo aver ucciso il suocero Servio Tullio, perseguitò i senatori e oppresse il popolo, meritandosi l’appellativo di Superbo. Passò alla storia come il tiranno che fu responsabile della caduta della monarchia a Roma ELENA CASTILLO RAMÍREZ UNIVERSITÀ COMPLUTENSE (MADRID) - UNIVERSITÀ LA SAPIENZA (ROMA)
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LA MOGLIE DI TARQUINIO
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Tullia minore, ambiziosa e crudele figlia di Servio Tullio e moglie di Tarquinio Superbo, passa con il suo carro sul corpo del padre, assassinato per ordine del marito. Incisione su legno di AgustĂn Querol, 1890.
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IL FORO, CENTRO CIVICO DI ROMA
Da sinistra, il Tempio di Vespasiano, la Chiesa dei Santi Luca e Martina, l’Arco di Settimio Severo e il Tempio di Saturno. Proprio nel Foro romano Lucio Tarquinio si autoproclamò re.
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a storiografia antica sulle origini di Roma pone in particolare risalto la data del 509 a.C., un anno cruciale poiché segnò la fine del regime monarchico in vigore dalla fondazione della città, avvenuta quasi due secoli e mezzo prima, e l’inizio della repubblica. L’ultimo re di Roma, Lucio Tarquinio, è divenuto celebre con il nome di Tarquinio Superbo. Furono proprio gli annalisti romani ad attribuirgli tale appellativo, differenziandolo così da un altro Tarquinio, detto Prisco, quinto re di Roma dal 616 al 578 a.C.
Nella tradizione storica di età repubblicana Tarquinio Superbo, incarnazione dei peggiori vizi della monarchia, appare come un simbolo della tirannia assoluta. Tuttavia, sotto il suo regno Roma conobbe un periodo di notevole crescita economica e culturale, uno sviluppo urbanistico e un’espansione territoriale senza precedenti. Tarquinio Superbo, di origine etrusca come i suoi predecessori Tarquinio Prisco e Servio Tullio, affermò la supremazia di Roma nel Lazio e mantenne il predominio sugli Etruschi e sugli Equi, trasformando l’Urbe in una grande potenza militare e politica. La sua figura
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IL TIRANNO ETRUSCO DI ROMA
Tarquinio Prisco, di origine etrusca, alla morte di Anco Marzio riesce a farsi acclamare re dal popolo, sottraendo così il trono ai due figli del defunto sovrano. Ha dunque inizio il dominio della dinastia tarquinia.
534 a.C. L. RICCIARINI / PRISMA
616 a.C. VASO A FORMA DI TESTA FEMMINILE. IV SECOLO A.C. MUSEO DI VILLA GIULIA, ROMA.
Tarquinio Superbo, figlio di Tarquinio Prisco, si impadronisce del regno con l’appoggio dei patrizi, ostili alle riforme favorevoli ai plebei di Servio Tullio, che viene barbaramente assassinato.
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Un trono usurpato La tradizione annalistica, confluita in età augustea (fine I secolo a.C.) nelle opere dello storico latino Tito Livio e del greco Dionigi di Alicarnasso, narra con dovizia di particolari l’ascesa di Lucio Tarquinio al potere.
509 a.C. Una rivolta popolare capeggiata da Lucio Giunio Bruto determina la cacciata di Tarquinio e la nascita del nuovo governo repubblicano. Poco prima anche gli Ateniesi si erano liberati dei loro tiranni, i Pisistratidi.
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Servio Tullio, giudicato dai posteri un esempio di saggezza e moderazione, aveva due figlie, Tullia maggiore e Tullia minore, caratterizzate da personalità completamente diverse: se l’una era di indole buona ed equilibrata, l’altra era perfida e ambiziosa. Le due giovani andarono spose ai due figli di Tarquinio Prisco, Lucio e Arunte Tarquinio, anch’essi di temperamento opposto. Il destino volle, però, che la giovane virtuosa si unisse in matrimonio con Superbo, mentre la spregiudicata sorella toccò al mite Arunte. Non passò molto tempo che Tullia minore e il cognato si accordarono, insieme uccisero i rispettivi consorti e convolarono
499-496 a.C. Tra queste due date ha luogo la battaglia del Lago Regillo, nel territorio tuscolano, nella quale le truppe latine ed etrusche comandate da Ottavio Mamilio, genero di Tarquinio Superbo, vengono sconfitte.
UN REGNO PRESO CON LA FORZA
Secondo Tito Livio, Tarquinio “non aveva al regno altro diritto fuorché la forza, e non era né stato eletto dal popolo, né confermato dai senatori”. Sotto, il re in un’incisione del XIX secolo.
495 a.C. Tarquinio, ritiratosi presso la corte del tiranno Aristodemo di Cuma, muore. All’annuncio della sua morte esplode nella Roma repubblicana il conflitto, fino allora latente, tra patrizi e plebei.
MARY EVANS / ACI
resta in ogni caso avvolta nella leggenda, così come quasi tutti gli avvenimenti della Roma arcaica. Infatti, trascorsero oltre due secoli dalla cacciata dell’ultimo re alla prima elaborazione storiografica degli annalisti (III secolo a.C.) e risulta dunque difficile ricostruire criticamente le vicende della storia primitiva della città.
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LA TRIADE CAPITOLINA
Tempio di Fides. Era la divinità della lealtà che presiedeva ai trattati con i regni stranieri.
Tempio di Opi. Edificio consacrato alla dea delle messi e della fertilità, di origine sabina.
Tempio di Giove Ottimo Massimo. Dedicato alla triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva.
Sul Campidoglio il più piccolo dei sette colli dell’Urbe, Tarquinio Superbo innalzò un vasto tempio dedicato alla triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva. L’edificio, orientato verso il Foro, divenne il più importante centro di culto dello Stato.
Il Capitolium
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Sulla sommità meridionale del colle si ergeva il Tempio di Giove Capitolino, o Tempio di Giove Ottimo Massimo, che con la sua pianta di 53 x 63 metri era il più ampio della regione. Decorato dal celebre scultore Vulca di Veio, ospitava al suo interno i Libri Sibillini, una raccolta di responsi oracolari in lingua greca.
UN TEMPIO PER IL DIO GIOVE
Tarquinio Superbo fonda il Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Affresco di Pietro Buonaccorsi, detto Perin del Vaga, 1525 circa. Galleria degli Uffizi, Firenze.
infine a nozze. Istigato dalla nuova moglie, Lucio Tarquinio riuscì a ingraziarsi i patrizi, che non vedevano di buon occhio le concessioni di Servio Tullio in favore della plebe e, un giorno, irruppe nel Foro con una schiera di uomini armati, si sedette sul seggio regale all’interno della Curia e si autoproclamò re. Il suocero, ormai privo dell’appoggio del Senato, venne barbaramente assassinato. Il suo cadavere rimase abbandonato sulla strada, lungo il Clivus Urbius, nei pressi del Foro, dove la figlia Tullia, dando prova di estrema crudeltà, lo calpestò con il suo carro. Tito Livio presenta il regime di Tarquinio come una vera e propria tirannia. Il sovrano, rac-
Come i tiranni della Grecia arcaica, Tarquinio Superbo diede impulso all’edilizia, avviando molte opere pubbliche
conta,“fece uccidere i principali senatori che credeva avessero favorito l’opera di Servio” e assunse personalmente il controllo della giustizia, decidendo a suo piacimento chi mandare a morte o in esilio. Egli teneva saldamente nelle sue mani l’amministrazione interna ed esterna, senza consultare il popolo né il Senato, ed era sempre circondato da guardie del corpo, poiché sapeva di dover fondare il proprio potere sulla paura. All’epoca della sua ascesa al trono, secondo le fonti antiche, esistevano a Roma due fazioni, una Factio Tarquinia composta dagli aristocratici che vedevano messa in pericolo la loro egemonia su Roma e un’altra favorevole ai movimenti innovatori rappresentati dalla figura di Servio Tullio. Quest’ultimo, tra le altre disposizioni, aveva suddiviso il popolo in tribù territoriali e incluso i plebei nell’esercito. La figura di Tarquinio, peraltro, viene spesso accostata a quella dei tiranni della Grecia arcaica, come Policrate di Samo o Pisistrato di Atene, i quali esercitavano nelle loro poleis un potere assoluto con il supporto di un solido
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Asylum. Zona franca creata da Romolo per accogliere i profughi delle comunità circostanti.
Tabularium. Eretto nel 78 a.C., era destinato a ospitare gli archivi pubblici dello Stato romano.
IL CAMPIDOGLIO E IL FORO ROMANO, CON GLI EDIFICI CHE LI CARATTERIZZAVANO NEL PRIMO SECOLO A.C.
Tempio di Giunone. Dedicato a Giunone Moneta, “che ammonisce”. Vicino vi era un’officina di conio.
Mura serviane. Erette nel VI secolo a.C., erano lunghe circa 11 km e intervallate da 12 porte.
Comitium. Qui i cittadini divisi per Curie si riunivano per discutere gli affari pubblici.
Tempio della Concordia
Curia o Senato
Tempio di Saturno Foro Basilica Emilia Basilica Sempronia
Tempio di Vesta
L’Arx Capitolina
Tempio dei Dioscuri
Sulla seconda cima del Campidoglio, posta a nordovest, di qualche metro più alta della prima ma di estensione minore, gli auguri osservavano il cielo per trarre responsi dal volo degli uccelli. In epoca tardo-repubblicana il luogo accolse templi dedicati a culti orientali, come l’Iseo (Tempio di Iside).
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apparato militare ed erano in genere promotori di grandiose opere pubbliche. Similmente, Tarquinio Superbo promosse a Roma lo sviluppo delle infrastrutture urbane e la costruzione di numerosi edifici civili e religiosi. Tra questi vi era il grande tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, per il quale convocò artisti e artigiani etruschi. La tradizione attribuisce poi al sovrano il primo impianto del Circo Massimo, con la creazione di tribune per i senatori e i cavalieri, opera secondo altri autori già avviata da Tarquinio Prisco. Infine, sotto Tarquinio si conclusero i lavori di costruzione della Cloaca Massima, l’imponente opera d’ingegneria idraulica con il precipuo scopo di drenare il terreno paludoso compreso tra il Campidoglio e il Palatino.
TARPEA, LA RUPE DEI TRADITORI Moneta raffigurante la morte di Tarpea, la fanciulla che ha dato il nome alla rupe (la parete meridionale del Campidoglio) dalla quale venivano gettati i traditori. Denario in argento di Lucio Titurio Sabino, 89 a.C.
I successi militari
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In politica estera, l’ultimo re dell’Urbe proseguì l’ambizioso progetto di espansione territoriale iniziato dai predecessori. Il suo principale obiettivo fu il controllo delle altre città latine, poste in un territorio di BRITI
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interesse strategico, in quanto testa di ponte verso le zone dominate dall’ostile popolo dei Volsci, nel Lazio meridionale. E proprio dalla conquista di importanti centri come la volsca Suessa Pometia, Tarquinio ricavò il bottino e la manodopera necessari alla costruzione del tempio di Giove Capitolino. Le sue imprese militari sarebbero poi culminate nella presa di Gabii, una delle città più potenti del Lazio antico, posta in posizione strategica sulla via di collegamento tra Etruria e Campania. Quest’ultima, però, cadde grazie a uno stratagemma. Il figlio minore del re, Sesto Tarquinio, finse di ritirarsi a Gabii per sfuggire alla tirannia del padre. Secondo Livio, una volta accolto nella città, il giovane divenne uno degli uomini più in vista, tanto da diventare comandante dell’esercito. Allora, fece uccidere i notabili, ne confiscò i beni e consegnò infine Gabii nelle mani di Tarquinio Superbo. Non si sa quanto vi sia di vero in questo episodio leggendario, in ogni caso a quell’epoca Roma concluse un trattato di E R I
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Alleatosi con il deposto Tarquinio Superbo, Lars Porsenna, re etrusco di Clusium (l’odierna Chiusi, in provincia di Siena), marciò verso Roma con una potente armata e strinse d’assedio la città. Secondo Tito Livio, i Romani opposero una strenua resistenza e alcuni di loro, tra cui Orazio Coclite e Gaio Mucio (Muzio) Scevola, si distinsero particolarmente per il loro eroismo. Lo storico afferma che Porsenna, stupito e spaventato dal coraggio dei suoi difensori, rinunciò all’assedio dell’Urbe. Tacito riferisce invece che il re si impadronì di Roma e impose agli sconfitti un trattato nel quale proibiva loro di servirsi di ferro fuorché per gli strumenti agricoli. LARAN, IL DIO ETRUSCO DELLA GUERRA. STATUETTA IN BRONZO. MUSEO ARCHEOLOGICO, FIRENZE.
GIUNIO BRUTO, IL LIBERATORE
Lucio Giunio Bruto mandò in esilio Lucio Tarquinio Collatino, suo collega nel primo consolato, perché nessuno della gente tarquinia rimanesse a Roma. Busto in bronzo del console, IV-III sec. a.C. Musei Capitolini, Roma.
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L’eroismo di Orazio Coclite
Nella guerra contro Porsenna, Orazio Coclite impedì il passaggio degli Etruschi sul ponte Sublicio dando modo ai Romani di distruggerlo alle sue spalle. Poi, secondo Livio, egli si gettò nel Tevere esclamando: “Padre Tiberino [...] accogli con propizie acque queste armi e questo soldato!”, e uscendone poi incolume.
alleanza con gli abitanti di Gabii, che divenne un “municipio federato” (cioè che conservata la propria sovranità). Poi, Tarquinio Superbo si assicurò la fedeltà di Tusculum offrendo in sposa una delle sue figlie al dittatore della città, Ottavio Mamilio. Sotto il suo regno, infine, l’Urbe si aggiudicò l’egemonia sui centri della Lega latina, quali Aricia (Ariccia), Lanuvium (Lanuvio), Cora (Cori), Tibur (Tivoli) e Ardea.
La cacciata da Roma La tradizione connette la caduta di Tarquinio Superbo a un grave atto di violenza commesso dal figlio Sesto: lo stupro di Lucrezia, la bellissima e virtuosa moglie del patrizio Lucio
Dopo la cacciata dei Tarquini, Bruto e Tarquinio Collatino furono proclamati consoli
M. BELLOT / RMN-GRAND PALAIS
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GLI EROI DI ROMA
ORAZIO COCLITE DIFENDE IL PONTE SUBLICIO. OLIO SU TELA DI CHARLES LE BRUN. XVII SECOLO.
Tarquinio Collatino, cugino del re. Il suicidio della donna, che si pugnalò dopo aver raccontato al marito l’oltraggio subito, suscitò un’indignazione tale che i Romani, incitati da Lucio Giunio Bruto, figlio di una sorella di Tarquinio Superbo, si sollevarono contro il tiranno e lo bandirono dalla città, mentre questi si trovava impegnato nell’assedio di Ardea. I liberatori di Roma, Lucio Giunio Bruto e Tarquinio Collatino, presero il potere come consoli, una nuova magistratura annuale che avrebbe sostituito la figura del re. La monarchia veniva così abolita e aveva inizio il governo repubblicano. Si tratta, naturalmente, di un racconto leggendario, scritto molto tempo dopo gli avvenimenti narrati. Gli storici contemporanei hanno formulato diverse ipotesi sull’espulsione dei Tarquini: secondo alcuni fu determinata da una rivoluzione interna, secondo altri fu opera di un invasore etrusco e non di un pugno di aristocratici romani; altri ancora interpretano il colpo di mano come una congiura di famiglia: in tale ottica il rovesciamento di Tarquinio sarebbe stato provocato
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Mucio Scevola si brucia la mano destra
Durante l’assedio di Roma, Mucio si intrufolò nell’accampamento etrusco e uccise per errore uno scriba al posto di Porsenna. Arrestato, si bruciò volontariamente la mano che aveva fallito. Il re, ammirato, ordinò la sua liberazione: “Vattene libero”, disse, “hai avuto l’ardire di recare più danno a te stesso di quanto ne avessi recato a me”.
da coloro che per vincoli di sangue potevano essi stessi sperare di prendere il suo posto. Una volta spodestato, Superbo si rifugiò nella città etrusca di Caere (Cerveteri) con due figli, mentre Sesto Tarquinio cercò scampo a Gabii, dove, vittima di antichi rancori, finì assassinato. Dall’Etruria il detronizzato re di Roma mise in atto una serie di tentativi per tornare nell’Urbe. In un primo momento, organizzò un complotto a cui presero parte molti giovani della nobiltà romana contrari al nuovo regime repubblicano, tra cui Tullio, figlio dello stesso Lucio Giunio Bruto. Tullio fu arrestato e condannato a morte insieme a tutti gli altri cospiratori e il padre, narra Livio, volle assistere personalmente alla sua uccisione.
La fine di un tiranno Allora, Tarquinio Superbo cercò di rimpadronirsi del potere con l’appoggio delle città etrusche di Veio e Tarquinia. Tuttavia, la battaglia della Selva Arsia, nei pressi dell’Urbe, si concluse a favore dei Romani, benché negli scontri avesse perso la vita il console Bruto, che a sua
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CLELIA SCAPPA DAL CAMPO ETRUSCO INSIEME ALLE SUE COMPAGNE ATTRAVERSANDO IL TEVERE. JACQUES STELLA, XVII SECOLO. LOUVRE.
MUCIO SCEVOLA DAVANTI A PORSENNA. OLIO SU TELA DI CHARLES LE BRUN, XVII SECOLO. MUSÉE DES URSULINES, MÂCON.
La fuga a nuoto di Clelia
Ostaggio degli Etruschi, Clelia riuscì a fuggire attraversando a nuoto il Tevere sotto i dardi nemici, “alla testa di una schiera di fanciulle”, che ricondusse tutte sane e salve a Roma. Porsenna, furibondo, pretese la restituzione della giovane, ma poi, mutata l’ira in ammirazione, la liberò e le permise di portare via con sé una parte dei suoi ostaggi.
volta aveva ucciso Arunte, il figlio di Tarquinio. Questi si rivolse dunque a Lars Porsenna, re etrusco di Chiusi, che cinse d’assedio Roma, ma il suo possente esercito fu respinto grazie all’eroica resistenza di figure leggendarie come Orazio Coclite e Gaio Mucio Scevola. Superbo, non ancora rassegnato, fuggì a Tusculum, alla corte del genero Ottavio Mamilio, e ottenne il supporto della Lega latina. Anche la nuova coalizione sarebbe stata sconfitta dalle truppe romane comandate da Aulo Postumio e Tito Ebuzio, nella battaglia decisiva del Lago Regillo (499 o 496 a.C.). Fu il colpo di grazia per l’anziano re. Cacciato dai Latini, dagli Etruschi e dai Sabini, ormai novantenne, Tarquinio Superbo trovò asilo a Cuma, in Campania, presso la corte del tiranno Aristodemo, dove spirò poco tempo dopo. Per saperne di più
TESTO
Storia di Roma. Libri 1-2 Tito Livio, Garzanti Libri, 2005. SAGGIO
Res publica. Come Bruto cacciò l’ultimo re di Roma Andrea Carandini, Rizzoli, 2011.
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LA SORTE TRISTE E INGIUSTA
Il suicidio della matrona dopo l’oltraggiosa violenza subita dal figlio di Tarquinio
LA MORTE PIUTTOSTO CHE IL DISONORE Alla fine del primo libro della sua Ab Urbe condita, Tito Livio narra l’episodio che sarebbe stato all’origine della cacciata della dinastia dei Tarquini dall’Urbe: la violenza commessa da Sesto Tarquinio ai danni di Lucrezia, una matrona nota per le sue doti di pudicizia e fedeltà al marito. Il pittore fiorentino Biagio d’Antonio Tucci rappresenta la vicenda nella sua opera Storie di Lucrezia (1480-1485), conservata nella Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro di Venezia.
Arriva Tarquinio Sesto Tarquinio giunge a Collazia, antica città nei pressi di Roma, e si reca a casa di Collatino, in assenza dell’uomo, con il proposito di sedurne la moglie, la casta Lucrezia. La matrona, ignara delle sue reali intenzioni, lo accoglie e lo fa sistemare nella stanza degli ospiti.
LA MORTE DI LUCREZIA. SCULTURA DI PHILIPPE BERTRAND, 1704. METROPOLITAN MUSEUM OF ART, NEW YORK. SCALA ,
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DELLA VIRTUOSA LUCREZIA Superbo fu la scintilla che scatenò la rivolta popolare contro la monarchia
Il suicidio
Il giuramento di Bruto
Nel cuore della notte Tarquinio si introduce nella camera della donna e la stupra sotto la minaccia di ucciderla e disonorarla: avrebbe posto accanto al suo cadavere quello di un servo nudo, sicché la credessero sorpresa “in un turpe adulterio”.
Quando ritornano il padre e il marito, Lucrezia rivela loro l’accaduto: “Io assolvo me dal peccato ma non mi sottrraggo al castigo: nessuna donna vivrà impudica mai più, se seguirà l’esempio di Lucrezia”. Poi, afferra un pugnale e lo affonda nel suo cuore.
Lucio Giunio Bruto estrae il pugnale dalla ferita ed esclama: “Su questo sangue purissimo […], giuro e chiamo voi testimoni, o dei, che perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo e tutta la sua stirpe con il ferro e con il fuoco[...] e né a loro né ad altri consentirò di regnare su Roma”.
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L’insurrezione Bruto e Collatino portano il corpo senza vita di Lucrezia nel Foro e lo mostrano alla moltitudine. Qui Bruto si rivolge al popolo romano e lo esorta a porre fine alla tirannia dei Tarquini a Roma, dando avvio alla rivolta che avrebbe portato alla nascita della repubblica.
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La violenza
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L’ITALIA MERIDIONALE CONTESA
LA GUERRA DEL VESPRO Nel 1282, una rivolta popolare scoppiata a Palermo divenne rapidamente un caso internazionale che vide coinvolte le potenze del tempo. La posta in gioco era il Mezzogiorno italiano, che ne uscì spezzato JACOPO MORDENTI, STORICO E SCRITTORE
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IL PRIMO MOTO DEL VESPRO
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LOREM IPSUM
La tela di Andrea Gastaldi (1852) rievoca l’offesa perpetrata da un soldato angioino su una nobildonna che accese la rivolta palermitana contro i Francesi. Galleria nazionale di arte moderna, Roma.
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IL CASTELLO URSINO
FEDERICO II, STUPOR MUNDI
Il principe della famiglia sveva degli Hohenstaufen riunì regno di Germania e regno di Sicilia e nel 1220 divenne imperatore. Di grande personalità, era definito “meraviglia del mondo”.
È
il 26 marzo 1282, lunedì di Pasqua. A Palermo, all’ora dei vespri, deflagra improvvisamente quella che sulle prime ha tutta l’aria di essere soltanto una rivolta popolare, una ribellione che tuttavia porta al massacro della guarnigione francese che Carlo I d’Angiò (12261285), sovrano del Regno di Sicilia per investitura papale fin dal 1265, aveva posto a presidio della città siciliana. La rivolta si propaga subito a macchia d’olio nell’isola: quando un mese dopo arriva a coinvolgere la ricca e fedele città di Messina, re Carlo comincia a realizzare di avere a che fare con qualcosa di più che un semplice tumulto, qualcosa in grado di proiettare suo malgrado la Sicilia, persino più che in passato, al centro dello scenario politico mediterraneo. Ma come si è arrivati a questo stato di cose?
ALESSANDRO SAFFO / FOTOTECA 9X12
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Nel 1295, nel castello di Catania, progettato da Riccardo da Lentini, l’architetto di Federico II di Svevia, il parlamento siciliano elesse come sovrano Federico III d’Aragona.
Le ragioni dei vespri siciliani – il nome con il quale la rivolta è passata alla storia – affondano le radici negli anni Cinquanta del Duecento, all’indomani della morte di Federico II Hohenstaufen (1194-1250), imperatore del Sacro Romano Impero nonché re di Sicilia. La scomparsa dello svevo nel 1250 aveva generato due ordini di problemi: da un lato, infatti, aveva sollevato all’interno della compagine ghibellina la questione della successione al titolo imperiale e a quello siciliano; dall’altro lato aveva portato la curia papale ad attivarsi energicamente per evitare che appunto i due titoli finissero per insi-
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ARAGONA E ANGIÒ IN GUERRA 70 HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Carlo I d’Angiò, investito del Regno di Sicilia da Clemente IV, sconfigge a Benevento Manfredi. Due anni più tardi sconfigge anche Corradino, l’ultimo Hohenstaufen.
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Il lunedì di Pasqua scoppia a Palermo una rivolta popolare che, in breve, si propaga in tutta la Sicilia. L’intervento aragonese trasforma la rivolta in un conflitto internazionale che spezza il Mezzogiorno.
CARLO I D’ANGIÒ. SCULTURA DI ARNOLFO DI CAMBIO. XIII SEC.
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UN ABILE E NAVIGATO DIPLOMATICO
GIOVANNI DA PROCIDA
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he dietro la rivolta palermitana del 1282 ci fossero l’intellighenzia e le sostanze della corte aragonese e di quella bizantina è un sospetto che già diverse fonti dell’epoca tendono a esternare. Nelle declinazioni più romanzesche di tale sospetto, a emergere fra i cospiratori è Giovanni da Procida, partigiano svevo di lungo corso che aveva raggiunto la corte di Barcellona dopo la tragica morte di Corradino: fra il 1279 e il 1282 Giovanni avrebbe viaggiato sotto mentite spoglie fra Aragona, Sicilia, Italia centrale, Costantinopoli, Malta, intento a tessere la trama che avrebbe dovuto minare il dominio angioino. In realtà è improbabile che Giovanni, ormai in là con gli anni, abbia in quel frangente lasciato Barcellona, tanto più che la sua attività di cancelliere è ben documentata; è a ogni modo interessante constatare come simili ricostruzioni dell’accaduto, pure se non vere, siano state ritenute almeno verosimili.
Dagli Svevi ai Francesi Nel 1252 Corrado IV (1228-1254), l’erede designato da Federico II, era riuscito a superare i contrasti sorti in Germania in merito alla successione imperiale, ed era sceso nel Mezzogiorno italiano per prendere possesso anche del Regno di Sicilia, provvisoriamente retto dal fratellastro Manfredi (1232-1266). Corrado IV moriva tuttavia appena due anni dopo, peraltro non prima di essere sta-
to scomunicato da papa Innocenzo IV (1195 circa-1254), che in veste di signore feudale della Sicilia stava trattando l’assegnazione del Regno al figlio di Enrico III d’Inghilterra, Edmondo (1245-1296). A Corrado era subentrato allora Manfredi, il quale, se sulle prime aveva operato in qualità di reggente del nipote, il piccolo Corradino (1252-1268), nel 1258 aveva approfittato dell’inconcludenza dell’accordo fra papato e Inghilterra e, diffusa la falsa notizia della morte di Corradino, si era fatto incoronare re di Sicilia. Il potere raggiunto da Manfredi – tanto nel Mezzogiorno, quanto in seno al fronte
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A conclusione del conflitto, aragonesi e angioini siglano il trattato di Caltabellotta, che prevede che la Sicilia ritorni agli Angiò alla morte di Federico III di Sicilia, che assume il titolo di re di Trinacria.
Giovanna d’Angiò e Federico IV di Sicilia siglano un nuovo accordo, che prevede la subinfeudazione della Sicilia a Federico. Questi deve rivolgere l’omaggio feudale tanto a Giovanna quanto a Gregorio XI.
Alfonso V d’Aragona, adottato da Giovanna II d’Angiò, prende possesso del Regno di Sicilia, che attraverso i viceré è di fatto sotto controllo degli aragonesi dal 1412.
IL SIMBOLO DELLA SOMMOSSA
Il 3 aprile 1282 i ribelli adottano la bandiera giallo-rossa con al centro la triscele, la figura a tre gambe che rappresenta i tre promontori dell’isola: essa diventerà il vessillo della Sicilia.
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stere ancora su di un’unica persona, configurando una concentrazione di potere che faceva sentire il papa minacciosamente circondato.
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ROBERTO D’A NGIÒ Moneta con l’effigie di Roberto d’Angiò. In seguito agli accordi di Caltabellotta (1302) perse la sovranità sulla Sicilia e si ritrovò a governare sulla sola Napoli. I suoi tentativi di riconquistare l’isola, attraverso un’allenza con papa Giovanni XXII, andarono falliti.
ghibellino italiano – aveva messo in allarme la curia papale. Alla ricerca di una personalità da opporgli, stante il ristagno delle trattative con la corte inglese, papa Urbano IV (1195 circa -1264) si era rivolto a Carlo d’Angiò, fratello minore di Luigi IX di Francia (1214-1270). L’accordo fra le parti veniva siglato nel 1263 e prevedeva, di contro all’infeudazione papale del Regno di Sicilia a Carlo, un rapido intervento militare degli angioini contro Manfredi.
L’investitura di Carlo d’Angiò
SCALA, FIRENZE
Nominato senatore di Roma da papa Clemente IV (1190/1200-1268), nel 1265 Carlo d’Angiò veniva formalmente investito del Regno di Sicilia. L’anno successivo, il re passava all’attacco di Manfredi: a risultare decisiva era la battaglia di Benevento, che vedeva lo svevo cadere sul campo. Carlo prendeva così possesso del Regno, ma il clima era lungi dal potersi dire pacificato: di lì a breve i partigiani degli Hohenstaufen si sollevavano contro Carlo, forti di avere alla loro testa una personalità quale Corradino. Questi, ormai adulto, era stato persuaso a far valere i propri diritti ereditari sul Regno di Sicilia: dalla Baviera era dunque sceso militarmente in Italia, e tuttavia nel 1268 finiva con l’avere la peggio nella battaglia di Tagliacozzo. Catturato, veniva poco dopo decapitato a Napoli.
CHRISTOPHE BOISVIEUX / AGE FOTOSTOCK
DEA / SCALA, FIRENZE
DUELLO TRA UN CAVALIERE FRANCESE E MANFREDI PER LA CONQUISTA DEL REGNO DI SICILIA, XIII SEC., PERNESLES-FONTAINES, FRANCIA.
Sgombrata la scena dai pretendenti svevi, re Carlo I si trovava dunque ad avere mano libera in Italia. I suoi erano progetti politici di ampio respiro: già conte d’Angiò, di Maine, di Provenza e di Forcalquier, guardava al Mezzogiorno italiano come a un trampolino per estendere il proprio dominio sul Mediterraneo orientale. Se già nel 1266 aveva conquistato l’isola di Corfù, per assurgere l’anno successivo a campione del traballante Impero Latino d’Oriente, incalzato dai bizantini di Nicea, nel 1272 Carlo arrivava a cingere la corona di Albania, e cinque anni più tardi, giunto all’apice del successo, quella di Gerusalemme. In territorio italiano, l’amministrazione angioina aveva finito per porsi sostanzialmente in continuità con quella sveva: se si eccettua l’introduzione di alcune figure amministrative di stampo tipicamente francese – fra cui in primo luogo il siniscalco e il camerario – si deve prendere atto di come la fiscalità e la ripartizione territoriale del Regno avessero fatto propria l’eredità federiciana. A rompere con
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LA CAPPELLA PALATINA
(XII secolo) fu fatta edificare da Ruggero II il Normanno all’interno del palazzo reale che anche gli Svevi usarono per le attività amministrative e di governo.
EQUILIBRISMI DIPLOMATICI
UNA SICILIA, ANZI DUE
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LAFAMIGLIA DI FERDINANDO IV DI BORBONE. RITRATTO DI ANGELICA KAUFFMANN (1783). SAMMLUNGEN DES FUERSTEN VON LIECHTENSTEIN, VADUZ
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’eco della frattura provocata dai vespri siciliani si è avvertito per secoli. Si pensi alla questione delle titolature: tanto il regno di matrice aragonese, quanto quello di matrice angioina, continuarono per ragioni di prestigio a chiamarsi “Regno di Sicilia”, inducendo nel corso del tempo a specificazioni bizzarre – Regno citra Farum da una parte e ultra Farum dall’altra – se non a formulazioni diplomatiche al limite del grottesco. Se già Alfonso V d’Aragona il Magnanimo, nel 1442, si definiva rex utriusque Siciliae, rendendo plurale un toponimo singolare, nel 1816 Ferdinando di Borbone, riunificati sotto di sé isola e continente, coniava la dicitura “Regno delle due Sicilie”, che sarebbe venuta meno solo con l’unità d’Italia.
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LA CORONA IMPERIALE Di forma ottagonale, è composta da otto piastre d’oro tempestate di gemme. Risale al X secolo e fa parte delle insegne imperiali. È conservata nella Hofburg di Vienna.
il passato, semmai, era la composizione della classe dirigente, nella quale Carlo immetteva massicciamente suoi connazionali, sottostimando forse le conseguenze delle malversazioni e dei soprusi che, di fatto, questa situazione favoriva.
L’ombra del complotto È appunto dal profondo malcontento nei confronti dei francesi, vissuti come prepotenti occupanti, che si direbbe muovere sulle prime la rivolta siciliana del 1282. Tuttavia interpretare i vespri come feroce espressione di popolo non esclude che accanto – se non dietro – il risentimento generale sia possibile intravedere l’operare di concerto dei numerosi avversari di Carlo I d’Angiò. Fra di essi spiccavano l’imperatore Michele VIII Paleologo (1223-1282), al vertice di un rinato impero bizantino che vedeva nella politica orientale degli angioini una concreta minaccia per la propria sopravvivenza, e Pietro III d’Aragona (1239-1285) che, avendo sposato Costanza, figlia di Manfredi, intravedeva nel legittimismo svevo il volano per espandere l’influenza del proprio regno. È proprio l’intervento militare di Pietro in Sicilia a trasformare i vespri siciliani da subitanea rivolta locale a logorante questione internazionale. Se in un primo momento, sull’onda dei tumulti, le città siciliane aveva-
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CLAUDIO CASSARO / FOTOTECA 9X12
LA ROCCA DI CALTABELLOTTA L’ANTICA TRIOCALA, NON DISTANTE DA AGRIGENTO E STORICAMENTE PROTETTA DALLA SUA IMPONENTE ROCCA, FU IL LUOGO DOVE SI FIRMÒ LA PACE TRA FEDERICO III D’ARAGONA E CARLO II D’ANGIÒ.
no vagheggiato il costituirsi di una lega da porsi direttamente sotto l’autorità pontificia, tanto il netto rifiuto di papa Martino IV (1210-1285) di avallare un simile progetto, quanto ancora di più le operazioni militari messe in atto da Carlo I per recuperare l’isola, avevano spinto i siciliani a cercare un interlocutore all’altezza della situazione, trovandolo appunto nel sovrano d’Aragona la cui corte, del resto, ospitava da anni un cospicuo numero di fuoriusciti svevi. Pietro, se pure estraneo a qualsivoglia complotto ai danni di Carlo d’Angiò, si dimostrava capace di cogliere repentinamente l’opportunità offertagli: da Tunisi – dove si trovava in funzione di una inconcludente crociata la cui tempistica aveva da subito avuto un che di sospetto, almeno agli occhi dei più smaliziati – aveva gioco facile a raggiungere con la possente flotta aragonese le coste siciliane. Le conseguenze della spedizione aragonese erano molteplici e travalicavano rapidamente l’ambito isolano: da un lato, in area pirenaica si apriva un fronte di scontro fra l’Aragona e la Francia, intenzionata a sostenere anche
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UN ANTEFATTO LEGGENDARIO
LE TRADIZIONI ROMANZATE
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ppurare quale sia stato l’episodio materialmente scatenante la rivolta palermitana è arduo. Già nelle fonti dell’epoca, tuttavia, sono attestate almeno due tradizioni di estrazione popolare: la prima riconduce l’insurrezione alle molestie di un soldato francese – tale Drouet – ai danni di una nobildonna palermitana, in soccorso della quale sarebbe prontamente intervenuto il marito; la seconda fa invece riferimento agli insulti che un gruppo di soldati francesi avrebbe rivolto a dei ragazzi che recavano con loro un gonfalone di Pisa (città storicamente legata a Palermo, non fosse altro nell’alveo del ghibellinismo italiano). Un ulteriore dettaglio dal sapore romanzesco: mentre infiammava la rivolta, per individuare i soldati francesi in incognito i palermitani avrebbero intimato ai sospetti di pronunciare la parola ciceri; quanti venivano traditi dalla pronuncia sarebbero stati trucidati all’istante.
militarmente gli interessi angioini; dall’altro, i rivoltosi siciliani della prima ora venivano estromessi dalla guida delle operazioni belliche, attraverso le quali il conflitto veniva via via spostato dall’isola al continente. Due anni più tardi la posizione di Carlo d’Angiò risultava seriamente compromessa: gli aragonesi avanzavano nel Mezzogiorno, mentre suo figlio Carlo (1254-1309), erede al trono, veniva catturato al termine di una battaglia navale nel golfo di Napoli; e proprio la città partenopea, seppure provvisoriamente, arrivava a sollevarsi contro gli angioini.
Una situazione di stallo Gli aragonesi, tuttavia, non riuscivano a concretizzare il proprio vantaggio: nel 1285 moriva Pietro III, a cui subentravano i figli Alfonso (1265-1291) in Aragona e Giacomo (1267 1327) in Sicilia. Nello stesso anno moriva anche papa Martino IV, nonché Carlo I; il figlio di questi, ancora prigioniero, veniva liberato tre anni più tardi, e solo dopo aver assunto l’impegno, sancito dal trattato di Canfranc, di
mediare fra Francia e Aragona ai fini della pace, nonché di non assumere in prima persona il titolo di re di Sicilia. In contraddizione con i termini di Canfranc, nel 1289 Carlo lo Zoppo veniva incoronato sovrano del Regno di Sicilia da papa Niccolò IV (1227-1292), e come Carlo II si adoperava per recuperare il consenso intorno alla monarchia angioina. Un ennesimo decesso finiva per scompaginare una volta di più il quadro dello scontro: nel 1291 moriva Alfonso III d’Aragona, a cui subentrava il fratello Giacomo; questi non rinunciava alla corona di Sicilia, e tuttavia assegnava l’isola al fratello Federico (1273/1274-1337), in veste di luogotenente. Quattro anni dopo Giacomo II siglava ad Anagni, dinnanzi a papa Bonifacio VIII (1230 circa-1303), una pace che prevedeva la rinuncia aragonese alla Sicilia e al Mezzogiorno italiano, di contro all’ottenimento di Sardegna e Corsica. Il nuovo corso fra aragonesi e angioini veniva sottolineato dalle nozze fra Giacomo e Bianca, una delle figlie dello Zoppo. Lungi dal rivelarsi risolutoria, tale pace induceva i siciliani, nel 1296, a scon-
UN EVENTO ISPIRATORE
I vespri siciliani raffigurati in una celebre tela di Francesco Hayez (1791-1881). L’antefatto dei vespri ha ispirato molti artisti ottocenteschi. Galleria nazionale di arte moderna, Roma.
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PALERMO, LA MARTORANA
PIETRO III, RE D’ARAGONA E DI SICILIA. MINIATURA TRATTA DALLA CRONICA GERAL DE ESPANHA (1344). ACADEMIA DAS CIENCIAS, LISBONA.
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STEMMA ARAGONESE Fu Pietro III ad adottare l’emblema con le aquile coronate a simbolo della casata, visibile sotto nel mosaico della Cappella Palatina di Palermo.
fessare i propositi aragonesi e a proclamare re il luogotenente Federico, che nell’assumere la titolatura di Federico III andava ancora una volta a porsi nel solco del legittimismo svevo. Dopo altri sei anni di guerra, nel corso dei quali le posizioni siciliane avevano loro malgrado ceduto terreno dinnanzi alle forze congiunte di aragonesi e angioini, le potenze in gioco concludevano la cosiddetta pace di Caltabellotta: Federico III rinunciava al continente ma non alla Sicilia, che sarebbe tornata agli angioini solo dopo la sua morte; Carlo II di contro smantellava i propri presidi isolani. Per suggellare l’accordo, Federico sposava un’altra figlia di Carlo, Eleonora. L’anno successivo papa Bonifacio VIII, che non a torto vedeva nei termini di Caltabellotta il disconoscimento di quanto sancito pochi anni prima ad Anagni, ratificava la pace solo a due condizioni: Federico avrebbe dovuto riconoscere il papa come suo signore feudale e avrebbe dovuto rinunciare alla titolatura di re di Sicilia in luogo di quella meno equivoca di re di Trinacria. L’equilibrio raggiunto era in realtà più precario di quanto si potesse pensare, e per più di una ragione. Da una parte Federico, sicuro delle proprie posizioni, tornava a intitolarsi re di Sicilia. Dall’altra parte il fronte angioino si trovava a fare i conti con lo spinoso problema della successione: alla morte di Carlo II nel 1309
MASSIMO RIPANI / FOTOTECA 9X12
SCALA, FIRENZE
La chiesa (a sinistra) fu fatta costruire nel 1143 da Ruggero II secondo il gusto bizantino. Nel 1282, qui fu offerta la corona regale a Pietro III d’Aragona. In primo piano, la chiesa di San Cataldo (XI sec.).
subentrava il suo terzogenito Roberto (12771343), non senza che fosse necessario tacitare le rimostranze dei tre fratelli e soprattutto del nipote Caroberto, già re di Ungheria.
La guerra permanente La situazione sembrava precipitare nel 1312, allorquando l’alleanza fra Federico III e Enrico VII (1275-1313), il nuovo imperatore sceso a Roma per cingere la corona del Sacro Romano Impero, riaccendeva il sentimento ghibellino italiano e, con esso, l’interminabile scontro con i guelfi, dei quali Roberto d’Angiò assurgeva a campione. La minaccia di un ennesimo periodo di guerra veniva sul momento disinnescata dalla morte improvvisa di Enrico nel 1313, morte a cui faceva seguito un periodo di relativa calma fra la corona siciliana e quella angioina; tuttavia nel 1320 Federico tornava di fatto alla carica, giacché associando al trono il figlio Pietro veniva meno al primo e più importante nodo di Caltabellotta. Non solo: sette anni più tardi, dopo aver resistito ai ripetuti assalti angioini ai danni di
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UNA COMPLESSA EREDITÀ
GLI ANGIÒ DI UNGHERIA
LUIGI D’ANGIÒ, RE DI NAPOLI, SICILIA E GERUSALEMME (1339-1384), BIBLIOTHÈQUE NATIONALE, PARIGI.
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DEA / SCALA, FIRENZE
n ramo degli Angiò di Napoli riuscì a imporsi in Ungheria: la moglie di Carlo II lo Zoppo era infatti Maria Arpad, figlia di Stefano V d’Ungheria, e fu per suo tramite che il primogenito Carlo Martello d’Angiò nel 1290 ottenne il titolo di re di Ungheria. Alla morte di questi, nel 1295, l’eredità del Regno di Sicilia era andata al fratello Roberto il Saggio, e non al figlio Caroberto. A questi, che combinò il matrimonio del figlio Andrea con Giovanna d’Angiò, successe in Ungheria il figlio Luigi I il Grande: nel 1347, e poi ancora nel 1350, Luigi mosse guerra contro gli angioini del Mezzogiorno per vendicare l’assassinio del fratello del 1345 e arrivò molto vicino a unire i due regni.
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MANUEL COHEN / ART ARCHIVE
Palermo e delle coste siciliane, Federico stringeva ancora una volta alleanza con il Sacro Romano Impero, nella persona di Ludovico IV il Bavaro (1282-1347); il mancato supporto militare all’impresa romana dell’imperatore, a ogni modo, faceva sì che già nel 1328 questo capitolo potesse dirsi concluso. Federico III moriva nel 1337, non prima di aver dovuto fronteggiare la recrudescenza dell’offensiva di Roberto d’Angiò. Gli succedeva Pietro II (1304-1342), che se in termini di politica interna si trovava a dover fare i conti con la riottosità dell’aristocrazia siciliana, in termini di politica estera doveva misurarsi tanto con gli angioini quanto con la curia papale, dalla quale – dinnanzi al definitivo rifiuto siciliano di rispettare i termini di Caltabellotta – veniva scagliato l’ennesimo interdetto sull’isola. Pietro moriva nel 1342, e la corona passava al figlio Ludovico (1335/37-1355), minorenne: Roberto d’Angiò non riusciva tuttavia ad approfittare della situazione, giacché un anno più tardi moriva.
La lunga mano dell’Aragona Un nuovo accordo fra le parti veniva raggiunto solo nel 1372. Lo siglavano Federico IV (1341-1377), subentrato nel 1355 al fratello Ludovico, e Giovanna d’Angiò (1327-1382), che il nonno Roberto, dopo la scomparsa del figlio Carlo nel 1328, aveva designato erede del
SEBASTIANO SCATTOLIN / AGE FOTOSTOCK
RUGGIERO DI LAURIA All’epoca dei vespri, la flotta aragonese era comandata dal fedele vassallo di Manfredi, artefice di clamorose vittorie: nella prima battaglia nel golfo di Napoli (16 giugno 1284) fece prigioniero Carlo II d’Angiò.
SCALA, FIRENZE
LA BATTAGLIA DI ISCHIA. LA FLOTTA ARAGONESE RITORNA VITTORIOSA A NAPOLI DOPO LA BATTAGLIA DI ISCHIA IL 12 LUGLIO 1465, (1472 CIRCA, PARTICOLARE)
Regno, affiancandole quale marito il secondogenito di Caroberto d’Ungheria, Andrea d’Angiò (1327-1345). Dopo tre mariti e lunghi anni trascorsi all’insegna di una politica aggressiva che, pur mettendo in difficoltà la Sicilia, non era riuscita ad averne definitivamente ragione, Giovanna firmava una pace con la quale formalmente subinfeudava l’isola a Federico, che a sua volta si impegnava a prestare il dovuto omaggio tanto a lei quanto a papa Gregorio XI (1330 circa-1378), e acconsentiva ad assumere il titolo di re di Trinacria. Federico IV moriva nel 1377: ereditava la corona la figlia Maria (1362/63-1401), che veniva affiancata – e di fatto esautorata – da quattro vicari, espressione dell’aristocrazia siciliana. Tre anni più tardi l’Aragona tornava però a proiettarsi sull’isola: Pietro IV (1319-1387) se ne autoproclamava re, e nominava il suo secondogenito Martino di Montblanc il Vecchio (1356-410) vicario generale; nel 1391 il figlio di questi, Martino il Giovane (1374 -1409), sposava Maria e si preparava ad affrontare non meno di cinque anni di guerra civile. Maria veniva
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IL PESANTE ONERE ECONOMICO
CONSEGUENZE DELLA GUERRA
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anto in Sicilia quanto nell’Italia peninsulare, lo stato di guerra permanente indotto dai vespri siciliani comportò conseguenze rilevanti sia sul piano sociale che su quello economico. Il potere regio si trovò sempre più nella condizione di dipendere dall’appoggio politico e militare dell’aristocrazia, e questo portò a concessioni fiscali e giurisdizionali che finirono per acuire le differenze sociali e favorire le oligarchie. Non solo: se sulle prime il dispendio di risorse in funzione dell’impegno bellico venne in parte compensato dalla ricchezza agricola di cui l’Italia meridionale era capace, sul lungo periodo tale dispendio si rivelò un macigno che indusse ad aumentare la pressione fiscale. Se a ciò si aggiungono i costi della politica culturale di alcuni sovrani – si pensi a Roberto d’Angiò il Saggio – si intuisce quanto sovente poterono risultare decisivi gli onerosi prestiti concessi dai banchieri dell’Italia centro-settentrionale.
meno nel 1401, Martino nel 1409: in assenza di eredi, la Sicilia era priva di una guida. Nel 1412 il concilio di Caspe, in Aragona, eleggeva un nuovo, unico sovrano per tutti i possedimenti della corona, Ferdinando de Antequera (1380-1413): in Sicilia egli sarebbe stato rappresentato da un viceré, il suo secondogenito Giovanni. Nel 1416 subentrava a Ferdinando il suo primogenito Alfonso (1394-1458), che per troncare sul nascere qualsiasi velleità autonomistica siciliana sostituiva il fratello con due viceré spagnoli estranei alla famiglia reale.
La fine degli Angiò di Napoli E proprio Alfonso V il Magnanimo, nel 1442, riusciva a prendere possesso del Regno angioino. Giovanna d’Angiò si era compromessa nell’ambito dello Scisma d’Occidente del 1378, sostenendo l’antipapa Clemente VII (13421394) in luogo di Urbano VI (1318 circa-1389): questi aveva chiesto l’intervento di suo cugino Carlo di Durazzo (1345-1386), già re d’Ungheria, il quale entrava militarmente nel Regno e nel 1382 eliminava Giovanna dalle scene. Carlo
III moriva quattro dopo, e nuovamente la questione successoria trascinava il Regno di Sicilia nel caos: gli scontri fra i pretendenti angioini si concludevano solo nel 1398, con l’imporsi del secondogenito di Carlo, Ladislao (13761414). A questi subentrava nel 1414 la sorella Giovanna (1373-1435), che per far fronte ai nemici interni nel 1420 adottava proprio Alfonso V d’Aragona. Con la morte di Giovanna II nel 1435 si estingueva la dinastia napoletana degli Angiò: sette anni più tardi, complice un uso brillante della diplomazia, Alfonso aveva ragione delle ultime resistenze francesi, guidate da Renato d’Angiò (1409-1480), ed entrava a Napoli. Nel 1443 papa Eugenio IV (1383-1447) gli riconosceva ufficialmente il possesso tanto della Sicilia quanto del Mezzogiorno.
Per saperne di più
IL MASCHIO ANGIOINO
La principale testimonianza della dominazione angioina a Napoli è il Castel Nuovo, così chiamato perché si affiancò a due fortificazioni esistenti, fatto erigere tra il 1279 e il 1281 da Carlo I d’Angiò.
SAGGI
I vespri siciliani Steven Runciman, Dedalo, Bari, 1997. Storia della Sicilia Francesco Benigno, Giuseppe Giarrizzo, Laterza, Roma-Bari, 1999.
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L’OTTOCENTO RISCOPRE L’EROISMO
LA BATTAGLIA fu
combattuta fra le truppe imperiali e i comuni della Lega Lombarda.
I vespri siciliani, come altri episodi che hanno segnato la storia della nostra penisola, assunsero nel tempo una simbolica importanza. Il mondo risorgimentale in particolare vide nei moti di Palermo contro la dominazione angioina del 1282, come nella battaglia di Legnano contro il Barbarossa del 1176, il simbolo della cacciata dello straniero, l’emblema della lotta per l’indipendenza. In un’Italia ancora divisa e governata da potenze estere, le passate lotte divennero moderni simboli di una nuova coscienza politica e sociale.
UN EVENTO CHE ISPIRÒ GLI ARTISTI
SCALA, FIRENZE
L’OLTRAGGIO DEGLI ANGIOINI. Il pittore Domenico Morelli scelse i vespri siciliani come soggetto patriottico e nazionalista. Ispirato dalla rappresentazione al teatro San Carlo dell’opera di Verdi, che a Napoli andò in scena con il titolo Batilde di Turenna, Morelli raffigurò tre giovani donne in fuga dagli oltraggi perpetrati dalle truppe angioine a Palermo. L’influenza dell’opera verdiana è evidente in questa tela in cui Morelli affida alle fanciulle in primo piano drammatiche movenze teatrali.
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1 FOTO: 1. I VESPRI SICILIANI DOMENICO MORELLI (1859-1860), MUSEO DI CAPODIMONTE, NAPOLI.
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POLI.
BATTAGLIA DI LEGNANO L’EPICA VITTORIA CONTRO FEDERICO BARBAROSSA (1176), SIMBOLO DELLA LOTTA CONTRO LO STRANIERO, FU UN MOMENTO STORICO CARO AGLI ARTISTI RISORGIMENTALI. AMOS CASSIOLI (1860-1870), GALLERIA D’ARTE MODERNA DI PALAZZO PITTI, FIRENZE.
LA BANDIERA
crociata issata sul Carroccio contrappunta la vittoria della Lega Lombarda. IL CARROCCIO
era un grande carro trainato da buoi bardato con i vessilli comunali.
LO SCONTRO
causò un gran numero di morti, soprattutto fra le file imperiali.
SCALA, FIRENZE
L´IMPERATORE Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, giace sconfitto a terra.
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Il canto degli italiani
I vespri siciliani risuonarono nell’Ottocento anche a teatro, con l’opera che Giuseppe Verdi a quell’evento dedicò, rappresentata nel 1856 alla Scala con titolo e ambientazione cambiati, per motivi di censura.
SCALA, FIRENZE
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La censura sull’arte
Goffredo Mameli, poetasoldato di sentimenti liberali e repubblicani, seguace della corrente mazziniana, nel 1847 scrisse l’inno del Risorgimento, su musica di Michele Novaro, destinato a diventare, nel tempo di un secolo, l’inno nazionale.
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2. GIUSEPPE VERDI GIOVANNI BOLDINI (1842-1931), CASA DI RIPOSO PER ARTISTI G. VERDI, MILANO. 3. GOFFREDO MAMELI MUSEO DEL RISORGIMENTO, MILANO.
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Il grande condottiero
BARTOLOMEO COLLEONI Fu tra i più celebri capitani di ventura italiani del Rinascimento, epoca in cui le Signorie si affidavano a essi per abilità e preparazione, tanto da riuscire a sconfiggere spesso i più efficienti eserciti stranieri VITTORIO H. BEONIO BROCCHIERI PROFESSORE DI STORIA MODERNA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA CALABRIA
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egli ultimi secoli del Medioevo in Italia i campi di battaglia furono dominati dai mercenari. I cavalieri feudali e le milizie cittadine non scomparvero dalla scena, ma la loro importanza diminuì. I principi avevano bisogno di eserciti più numerosi e preparati, ma soprattutto sotto il loro controllo. L’età delle Signorie fu quindi anche l’età dei condottieri. Nel Trecento molti di loro provenivano dall’Europa del Nord, mentre nel Quattrocento il“mercato”della guerra fu monopolizzato dagli italiani. Ma la figura del condottiere non godette di molta fortuna: Petrarca li definì“banditi dediti a una perenne cospirazione contro la pace e l’ordine”e per Machiavelli erano“ambiziosi, sanza disciplina, infedeli, gagliardi fra li amici, fra’ i nemici vili”. Affidando la propria difesa ai condottieri prezzolati, l’Italia si trovò“ridotta in schiavitù e disprezzata”. Sono giudizi troppo severi.
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MONUMENTO A COLLEONI
BRIDGEMAN / INDEX
La statua equestre che raffigura il celebre condottiero è opera di Andrea del Verrocchio. Campo San Giovanni e Paolo (o Campo San Zanipolo), Venezia.
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ERASMO DA NARNI
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Più noto come il Gattamelata, fu un altro grande condottiero del Rinascimento. Opera attribuita ad Antonio Maria Crespi. 16131621. Pinacoteca Ambrosiana, Milano.
È vero, i condottieri furono spesso opportunisti, avidi e infidi. Ma in fondo non furono peggiori di molti sovrani e principi come il re d’Inghilterra Riccardo III o Luigi XI di Francia. E non è vero che i condottieri italiani avessero ostacolato i progressi tattici e tecnici dell’arte della guerra. Nel Quattrocento, le compagnie guidate dai condottieri italiani sconfissero spesso eserciti stranieri. Un’impresa che riuscì anche a Bartolomeo Colleoni.
Le origini e l’apprendistato Bartolomeo nacque nel 1400 a Solza, un paese vicino a Bergamo, in una famiglia nobile, anche se non molto in vista. È vero che “il mestiere delle armi” poteva essere un mezzo di ascesa,
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VITA DEL CAPITANO DI VENTURA
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ma era comunque consigliabile non partire proprio dai livelli più bassi della scala sociale. Tra i grandi condottieri, quelli di umili origini furono pochi, come Niccolò Piccinino, figlio di un macellaio, o Erasmo da Narni detto Gattamelata, figlio di un fornaio. A partire dalla seconda metà del secolo i capitani di ventura furono perlopiù rampolli delle più prestigiose famiglie dell’aristocrazia italiana e talvolta erano piccoli signori indipendenti che mettevano a frutto le loro competenze militari per integrare i redditi che ricavavano dai loro piccoli Stati, come i Malatesta di Rimini o i loro rivali Montefeltro di Urbino. Come molti suoi colleghi, Bartolomeo mosse i primi passi come “apprendista” di un con-
1400
1414-24
1431-1454
COLLEONI NASCE A SOLZA,
A 14 ANNI INIZIA la sua carriera
PASSA dal combattere per Ve-
vicino a Bergamo, da una famiglia della piccola nobiltà. Secondo alcuni biografi nello stemma dinastico apparivano teste di leone e da queste sarebbe derivato il cognome.
militare, poi raggiunge Braccio da Montone e partecipa all’assedio di Acerra. Raggiunge Napoli sotto il capitano Caldora e si distingue nella battaglia dell’Aquila.
nezia al servire Milano. Nel 1454 annuncia a Francesco Sforza le sue dimissioni e firma una condotta con Venezia. Rimarrà al servizio della Serenissima fino alla morte.
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1475 MUORE a Malpaga. Il luogo esat-
to della sepoltura rimane avvolto nel mistero fino al 1969, quando grazie a un’indagine geofisica si trova la salma nel mausoleo della cappella Colleoni di Bergamo.
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LA SCALINATA DEI DOGI
All’interno del Palazzo Ducale di Venezia, la Scala dei Giganti (dalle statue di Marte e Nettuno poste ai lati) era il luogo dove avveniva l’incoronazione dei dogi.
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LA MISTERIOSA FINE DI BRACCIO DA MONTONE LA FINE DI BRACCIO da Montone dopo la battaglia dell’Aquila, nel
dottiero già famoso, Braccio da Montone, che era stato allievo di Alberico da Barbiano, a sua volta apprendista del celebre John Hawkwood, Giovanni Acuto. In seguito passò agli ordini di Jacopo Caldora, sotto il quale partecipò al suo primo scontro importante, la battaglia dell’Aquila nel 1424, proprio contro Braccio, che morì per le ferite riportate.
Da Venezia a Milano
SCALA, FIRENZE
Nel 1431 Bartolomeo entrò, al comando del Carmagnola, al servizio di Venezia e negli anni seguenti si fece una solida reputazione, combattendo con i più illustri capitani dell’epoca, come il Gattamelata e Francesco Sforza. Quello con Venezia fu un rapporto tra alti e bassi. Così, nel 1442 Colleoni si rivolse al principale antagonista di Venezia, Filippo Maria Visconti, che lo accolse prima a braccia aperte e poi, forse deluso dalla
BRACCIO DA MONTONE
ORONOZ / ALBUM DEA / SCALA, FIRENZE
1424, resta avvolta dal mistero. Il condottiero, prigioniero e ferito alla testa il 2 giugno 1424, sarebbe morto a causa di un brusco movimento del chirurgo che lo stava medicando. Per alcuni il gesto fatale del medico sarebbe stato però intenzionalmente provocato da Francesco Sforza, rivale di Braccio. Per altri invece a ucciderlo sarebbe stato Andreasso Castelli, gran contestabile di Napoli, per vendicare la morte di alcuni suoi parenti trucidati in precedenza da Braccio. Altri ancora diedero invece la colpa al nobile abruzzese Jacopo Caldora. È impossibile oggi dare una risposta, ma se consideriamo la gravità della ferita e le modeste risorse della medicina e della chirurgia del tempo, è probabile che la grave lesione riportata da Braccio da Montone in battaglia sarebbe risultata comunque fatale.
in un dipinto anonimo del XVI secolo. Il condottiero perugino fu allievo di Alberico da Barbiano e maestro del Colleoni. Oratorio di San Francesco, Perugia.
mancanza di risultati o sospettoso della sua fedeltà, lo fece rinchiudere nella famigerata prigione dei Forni a Monza, dove rimase fino alla morte di Filippo Maria, nel 1447. Uscito dai Forni, Bartolomeo rimase comunque al servizio di Milano e dell’Aurea Repubblica Ambrosiana, che aveva provvisoriamente preso il posto della signoria viscontea. E fu in questa fase che ottenne la sua prima importante vittoria personale, nella battaglia di Bosco Marengo, l’11 ottobre 1447, contro i Francesi. Una vittoria che conferì a Colleoni un grande prestigio non solo in Italia,“havendone egli acquistato nobilissimo titolo d’haver in giusta battaglia, debellato, et vinto una nation superbissima, et per terribilità et fierezza di quei tempi tremenda”(Pietro Spino). Questa vittoria smentisce anche un luogo comune sull’arte della guerra all’epoca dei condottieri, quello secondo il quale i soldati di ventura italiani“non si ammazzano nelle zuffe”. In realtà
La battaglia di Bosco Marengo rese celebre Bartolomeo anche fuori dall’Italia FILIPPO MARIA VISCONTI, VERSO DI UNA MEDAGLIA DI PISANELLO. XIV-XV SEC. BARGELLO, FIRENZE.
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IL CASTELLO SFORZESCO
Uno dei simboli di Milano, sorge sul precedente Castello di Porta Giovia, edificato nel 1368 da Galeazzo II Visconti. Con gli Sforza il castello venne sostanzialmente modificato.
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RITRATTO DI COLLEONI
nella “zuffa” di Bosco Marengo di uomini ne vennero ammazzati moltissimi, oltre 1500, una cifra molto alta per l’epoca.
Da Milano a Venezia
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Dopo la vittoria, Colleoni ritornò al servizio della Serenissima, anche perché la presenza di Francesco Sforza a Milano gli lasciava poco spazio, militare e politico. La Repubblica ambrosiana lo accusò di tradimento e mise sulla sua testa una taglia di 10.000 ducati. I condottieri non erano però gli unici a cambiare fronte: quando Venezia si rese conto che Francesco Sforza sarebbe stato un vicino scomodo, incaricò proprio Colleoni di fermarlo. Quindi i due si trovarono nuovamente sui versanti opposti della barricata. Ma non per molto. Nel febbraio del 1451 Venezia nominò capitano generale dell’esercito Gentile da Leonessa. Col-
leoni, deluso, non rinnovò la sua“condotta”, il contratto che lo legava a Venezia, e ne stipulò un altro, proprio con Francesco Sforza – diventato signore di Milano – per combattere contro Venezia. Ma i contatti con Venezia nel frattempo non si interruppero, e forse questo spiega la condotta incerta delle operazioni di Colleoni. Nel febbraio del 1454 Bartolomeo annunciò le dimissioni a Francesco Sforza e a marzo sottoscrisse la nuova condotta con Venezia alla quale rimase fedele fino alla morte.
La fedeltà del condottiero Nel seguire i continui cambiamenti di campo di un condottiero come Colleoni, nel groviglio confuso di guerre, tregue, trattati e paci provvisorie dell’Italia del Quattrocento, ci si perde facilmente e si rischia di cadere nell’errore di dare giudizi moralistici sul comportamento di questi professionisti della guerra: mercenari senza ideali, senza patria e senza onore, pronti
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Opera di Giovan Battista Moroni, il dipinto (realizzato nel 1565) riprende l’effigie del condottiero raffigurata su una medaglia. Luogo Pio Colleoni, Bergamo.
Colleoni servì prima Venezia, poi Milano e nuovamente Venezia, fino alla morte BACINETTO, ELMO MEDIEVALE MODIFICATO NEL XV SECOLO. DEUTSCHES HISTORISCHES MUSEUM, BERLINO.
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LA BALESTRA, ARMA DELL’EST X INDE AN / GEM BRID
Furono gli italiani a introdurre dall’Oriente la balestra, che non aveva la rapidità dell’arco lungo (longbow) inglese, ma che scagliava un dardo, il verrettone, di grande potenza e molto devastante, tanto che il papa ne proibì invano l’uso nelle guerre fra cristiani.
BALESTRA di scuola tedesca del XV secolo, in legno, corno, ferro e cuoio. Le frecce hanno penne quadrangolari. Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, Roma.
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MARTINETTO di balestra; il congegno con manovella è staccato dall’arma e costituisce uno strumento a sé.
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COTTA di maglia metallica, protezione posta all’altezza del collo e dell’inguine.
ARCO E FRECCE. L’arco lungo (l’inglese longbow) era in legno di tasso, con corda in canapa o budello. Le frecce potevano colpire fino a 350 m di distanza.
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ARMATURA del XV secolo. In acciaio, pesava tra i 25 e i 30 chili. Quella per il cavallo era chiamata barbatura. Royal Armouries, Leeds (Inghilterra).
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MITO E REALTÀ DEI CAPITANI DI VENTURA L’ICONOGRAFIA DEI CONDOTTIERI li rappresenta a cavallo con corazza, lancia e spada. Ma dipendeva dal prestigio di cui godeva la figura del cavaliere, un’eredità del mondo feudale. Negli eserciti dei capitani di ventura italiani, infatti, la fanteria aveva un’importanza crescente. Soldati appiedati armati di picche, alabarde, archi e balestre erano una componente essenziale. I condottieri italiani, contrariamente a quanto che si crede, adottarono le nuove armi da fuoco (schioppetti individuali o cannoni da campo e da assedio) che si stavano diffondendo sui campi di battaglia.
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LA BATTAGLIA DI SAN ROMANO
a vendersi al migliore offerente. Proprio come dicevano di loro i critici umanisti. In realtà Colleoni di ideali e di valori ne aveva, anche se diversi dai nostri. Tra questi l’idea di “patria” era certamente meno definita e importante di quanto non lo sia diventata in seguito. Ma c’erano altri ideali per cui combattere. Innanzitutto l’onore e la gloria, da conquistare sul campo. Poi c’era il legame di fedeltà verso il proprio comandante e il cameratismo che legava il singolo combattente ai commilitoni. La“compagnia”era in fondo la vera patria dei soldati di ventura e dei loro comandanti e al suo interno lo spirito di corpo e il senso di lealtà reciproco era molto forte.
L’ultima battaglia Venezia, da cui Colleoni aveva ricevuto anche dei feudi, per due volte lo aveva riaccolto non per generosità, ma per calcolo. Egli era un ottimo professionista, ed era meglio averlo come amico che come nemico. Ma la Serenissima non voleva finire come l’Aurea Repubblica Ambrosiana, esautorata da un condottiero al suo servizio. L’obbiettivo era anzi imporre un maggiore controllo: si muovevano i primi passi per la creazione di un esercito permanente. Colleoni era consapevole dei suoi ristretti
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I capitani di ventura erano raffigurati secondo i canoni dell’iconografia medievale. Olio su tavola di Paolo Uccello, 1438 circa. Galleria degli Uffizi, Firenze.
margini di manovra politici, ma non rinunciò a ogni autonomia. Nel 1467 le convulsioni interne della politica fiorentina gli offrirono l’occasione per un’ultima campagna e un’ultima battaglia. Forse egli sperava di approfittare dell’occasione per indebolire gli Sforza, alleati di Firenze, e diventare signore di Milano. Il 25 luglio 1467 Colleoni, che appoggiava la fazione antimedicea, si scontrò con l’esercito guidato da Federico da Montefeltro. La battaglia fu sanguinosa, ma l’esito incerto. I Medici restarono al potere e Colleoni tornò alla sua corte Malpaga dove morì il 2 novembre 1475. La Serenissima gli tributò grandi onori, tra i quali una sua statua equestre opera del Verrocchio. Secondo le sue volontà la statua avrebbe dovuto essere collocata in Piazza San Marco, ma la Repubblica non gli concesse tale privilegio. Forse anche da morto il Colleoni era considerato una figura troppo ingombrante. La statua venne quindi relegata in Campo San Giovanni e Paolo, dove si trova tuttora. SAGGI
Per saperne di più
Il condottiero. Vita, battaglie e avventure di Bartolomeo Colleoni Marianna Frigeni, Longanesi, 1985. Barolomeo Colleoni e le compagnie di ventura nel XV secolo Luca Cristini, Matteo Radaelli, Soldiershop, 2014.
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LA CAPPELLA COLLEONI
Il mausoleo del condottiero, a Bergamo, fu realizzato da Giovanni Antonio Amadeo tra il 1472 e il 1477, e accoglie anche le spoglie della figlia Medea.
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LA CORTE AL CASTELLO DI MALPAGA Il centro della corte di Colleoni fu il castello di Malpaga, presso Bergamo, acquistato nel 1456. Il complesso assolveva a diverse funzioni. Era il quartier generale delle forze di Colleoni, luogo di interessi economici, circondato da terre di cui il condottiero era proprietario, centro politico e amministrativo, poiché da qui il capitano di ventura amministrava la giustizia e di riscuoteva le imposte. Ma a differenza di Mantova o Urbino, Malpaga non divenne mai capitale di una vera signoria indipendente, neppure piccolissima.
BARTOLOMEO E IL RE DI DANIMARCA
Nel 1474 Bartolomeo Colleoni ospitò, nel castello di Malpaga, il re danese Cristiano I, che è qui raffigurato mentre viene ricevuto dal condottiero, su un cavallo bianco, alla porta dell’edificio.
SCENE DI VITA NOBILE: LA BATTUTA DI CACCIA
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Il ciclo di affreschi del castello comprende anche una vivace scena di caccia, con mute di cani e cacciatori con falchi. A sinistra, il re danese, su un cavallo nero, è affiancato dal Colleoni.
Malpaga era una corte in senso rinascimentale: nelle sale affrescate si ricevevano ospiti illustri, ma anche artisti e scrittori che con la loro presenza e le loro opere conferivano prestigio alla corte di Colleoni. Le sale furono decorate con splendidi affreschi, alcuni dei quali attribuiti al Romanino, ma più probabilmente di Marcello Fogolino.
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I DONI DEL COLLEONI AL RE DANESE
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La scena, ambientata nella corte centrale del castello, mostra Bartolomeo, seduto a sinistra, mentre distribuisce doni ai membri del seguito reale. Sulla destra un gruppo di cavalieri.
IL GRANDE BANCHETTO IN ONORE DEL RE
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Cristiano I, a sinistra della scena, appare isolato dal resto dei commensali, in segno di rispetto. Tra i partecipanti vi sono anche alcune dame, tra le quali potrebbero esservi anche le figlie di Bartolomeo Colleoni.
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NAPOLEONE IN SPAGNA Nell’ottobre 1808, l’imperatore dei Francesi assunse personalmente il comando dell’esercito per fronteggiare la rivolta spagnola. Ma l’occupazione della Spagna non durò a lungo: nel 1814 le truppe francesi vennero sconfitte
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LA RESA ALL’IMPERATORE
Il 3 dicembre 1808, Napoleone riceve alle porte di Madrid la delegazione spagnola che annuncia la resa della città. Opera di Carle Vernet, 1808. Castello di Versailles.
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Napoleone conquista Madrid 19-VII-1808
L’esercito francese in Spagna, sotto il comando di PierreAntoine Dupont, viene sconfitto a Bailén. Napoleone decide di recarsi in Spagna.
29-X-1808
L’imperatore parte da Parigi dopo essersi assicurato l’alleanza dello zar Alessandro I di Russia nel grande congresso di Erfurt.
5-XI-1808
Le truppe francesi del generale Claude Victor-Perrin vengono sconfitte dall’esercito di Joaquín Blake nella battaglia di Balmaseda, in Biscaglia.
10-XI-1808
A Gamonal le forze di Nicolas Soult e Jean-Baptiste Bessières sconfiggono l’esercito spagnolo e poi occupano e saccheggiano Burgos.
30-XI-1808
I Francesi vincono la resistenza iberica e valicano il passo di Somosierra. La cavalleria polacca riveste un ruolo decisivo negli scontri.
4-XII-1808
GIUSEPPE BONAPARTE
Dopo aver ottenuto che Carlo IV di Borbone e suo figlio, il futuro Ferdinando VII, rinunciassero alla Corona, Napoleone proclamò re di Spagna il fratello Giuseppe, il 7 luglio 1808. Moneta da 320 reali di biglione con l’effigie di Giuseppe I.
17-I-1809
Napoleone torna in Francia. Il giorno prima gli Inglesi, sconfitti a La Coruña, avevano abbandonato precipitosamente la Spagna.
ASF / ALBUM
Nonostante la valorosa resistenza dei Madrileni, la città deve arrendersi a Napoleone, che da Chamartín promulga leggi riformatrici.
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al 27 settembre al 14 ottobre 1808, Napoleone convocò nel cuore della Germania, a Erfurt, allora sotto il controllo francese, un imponente congresso diplomatico, cui parteciparono lo zar di Russia Alessandro I e i principi tedeschi. In quei giorni la piccola città prussiana si trasformò nella sede di una corte ricca e sfarzosa; Napoleone invitò artisti e letterati del calibro di Johann Wolfgang von Goethe e intrattenne i suoi ospiti con rappresentazioni teatrali, messe solenni, battute di caccia e parate militari. Con tali manifestazioni di opulenza e potere, il Corso si proponeva di impressionare il sovrano russo, mentre la stampa tedesca, sottoposta naturalmente alla censura, doveva diffondere in tutta la Germania una rinnovata ammirazione per l’imperatore dei Francesi. Eppure, tutta questa magnificenza celava in realtà una situazione di grave debolezza. Nel maggio dello stesso anno, infatti, aveva avuto inizio in Spagna una violenta insurrezione contro i Francesi e il 19 luglio l’armata napoleonica aveva subi-
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LA RESA DEI FRANCESI A BAILÉN, IL 19 LUGLIO 1808. OPERA DI JOSÉ CASADO DEL ALISAL. XIX SECOLO. MUSEO DEL PRADO, MADRID.
ERICH LESSING / ALBUM
IL CENTRO STORICO DI VITORIA
La piazza della Vergine Bianca nel centro di Vitoria-Gasteiz, con un monumento che celebra la vittoriosa battaglia di Vitoria (1813), disputata tra la coalizione angloispano-portoghese e i Francesi.
to una cocente e inaspettata sconfitta nella battaglia di Bailén, in Andalusia. Bonaparte si apprestava dunque a riconquistare il Paese e intendeva assumere personalmente il comando dell’esercito. Prima, però, occorreva rinsaldare l’alleanza difensiva con la Russia e assicurarsi che lo zar Alessandro I non prendesse parte a un’eventuale coalizione antifrancese promossa dall’Austria; obiettivi, almeno apparentemente, raggiunti a Erfurt. Subito dopo la fine del congresso, Napoleone rientrò a Parigi e il 29 ottobre si diresse verso la Penisola iberica. Tuttavia, quando ai primi di novembre giunse a Bayonne, a pochi chilometri dal confine spagnolo, rimase deluso per il pessimo stato in cui trovò le sue truppe. Profondamente irritato di fronte alle carenze nell’equipaggiamento dei soldati, avrebbe esclamato: “Non ho più niente, sono nudo! Ho bisogno di tutto e i fornitori sono dei ladri. Nessuno è stato così indegnamente servito e tradito”. Poi scrisse una lettera al ministro dell’Amministrazione della guerra, il generale Jean François Aimé Dejean, deplorando la si-
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IL 19 LUGLIO DEL 1808, l’armata di Napoleone subì la sua prima schiacciante sconfitta e l’umiliazione di una resa incondizionata. Si trattò di un evento decisivo, che ebbe ripercussioni anche al di fuori delle frontiere iberiche. L’Impero francese, estesosi in tutta Europa, si trovava di fronte al suo primo insuccesso; si iniziò allora a porre in dubbio la sua apparente invincibilità.
tuazione:“Per ora non ho più di 1400 casacche e 7000 cappotti in luogo di 50.000, 15.000 paia di scarpe invece di 129.000. Mi manca tutto. Quanto a uniformi e forniture l’esercito non potrebbe versare in condizioni peggiori”.
L’imperatore a Vitoria In ogni modo, il 6 novembre una serie di cannonate annunciò agli abitanti di Vitoria (Gasteiz in basco), nell’odierna Comunità autonoma dei Paesi Baschi, che l’imperatore era arrivato. Qui Napoleone trovò il fratello Giuseppe, proclamato re di Spagna solo pochi mesi prima, e tutta la sua armata, di cui assunse il completo controllo, compresa la gestione amministrativa. Sappiamo dalle Memorie di André François Miot, conte di Melito, che durante il suo soggiorno a Vitoria Napoleone prese parte a un’udienza pubblica tenuta da Giuseppe, cui presenziarono i cosiddetti afrancesados. Questi ultimi erano perlopiù esponenti della borghesia liberale spagnola, sostenitori di Bonaparte e fauto-
SCIABOLA DI NAPOLEONE
Toledo, città della Spagna centrale, per secoli rinomata per l’alta qualità delle sue spade, ospita nel suo Museo dell’Esercito la preziosa impugnatura di una sciabola di Napoleone.
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LA BATTAGLIA DI BAILÉN
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LA TRAVERSATA DEI MONTI
Conquistata Madrid, nel dicembre 1808 Napoleone intraprese una nuova offensiva che lo portò ad attraversare la Sierra de Guadarrama. Joseph Louis Hippolyte Bellangé, XIX secolo.
ri di riforme amministrative ed economiche volte alla modernizzazione dello Stato. In tale occasione, il Corso rivolse parole dure agli astanti: “Sono giunto fin qui con i soldati che vinsero ad Austerlitz, a Jena, a Eylau. Chi potrà fronteggiarli? […] Entro due mesi la Spagna sarà una mia conquista e avrò su di essa tutti i diritti che spettano al vincitore. I trattati, gli statuti, tutti quegli atti che erano stati sanciti per mutuo consenso ormai non esistono più; non sarò più tenuto a rispettarli e se ne onorerò qualcuno, lo dovrete solo alla mia generosità. Ma poiché non posso più fidarmi di questo Paese, prenderò le mie precauzioni; e se lo assoggetterò a un governo militare, sarà ciò a cui mi avrete costretto”. In ogni caso, le notizie dal fronte non erano positive. Infatti, contravvenendo agli ordini dell’imperatore, il 31 ottobre il generale François-Joseph Lefebvre aveva attaccato a Pancorbo (distante circa 55 chilometri da Vitoria) le truppe di Joaquín Blake, il comandante dell’ala sinistra dell’esercito spa-
gnolo, non ottenendo altro che spingerlo a ritirarsi con una perdita di solo 600 uomini. Per di più, il 5 novembre i Francesi erano stati sconfitti a Balmaseda, nei pressi di Bilbao. Con ormai circa 200.000 soldati regolari a disposizione, gli Spagnoli puntavano a un doppio aggiramento delle posizioni francesi da est e da ovest, lasciando al centro un debole sbarramento, presso Burgos, per contrastare l’offensiva nemica. Indurre ad avanzare, accerchiare e annientare le due ali isolate era ciò che Napoleone si era prefisso fin dall’inizio, per poi dirigersi a Burgos e aprirsi la via verso Madrid; tuttavia la rapida ritirata di Blake metteva a repentaglio i suoi piani.
IL CAPITANO POLACCO
Particolare di un dipinto raffigurante il capitano della cavalleria polacca Jan Korjietulski, che diresse la carica contro l’artiglieria spagnola durante la battaglia di Somosierra, il 30 novembre 1808. Henryk Pillati, 1855.
Nel cuore della Castiglia
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L’imperatore non perse tempo. Il 9 novembre affidò la guida dello schieramento centrale all’esperto maresciallo Nicolas Soult, che il giorno dopo avrebbe conquistato Burgos, sbaragliando con facilità i 12.000 uomini dell’armata di Estremadura posti a guardia
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L’ARCO DI SANTA MARIA, UNA DELLE DODICI PORTE DI ACCESSO ALLA BURGOS MEDIEVALE. SULLO SFONDO, LE GUGLIE DELLA CATTEDRALE.
NAPOLEONE E IL CID WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
DURANTE LA CAMPAGNA in Spagna, i soldati francesi profanarono
della città. Al comando dell’esiguo esercito vi era il conte di Belveder, giovane e inesperto, il quale, invece di asserragliarsi a Burgos, andò incontro alle truppe nemiche. Lo scontro avvenne a Gamonal, oggi un quartiere di Burgos: la cavalleria francese guidata da Jean-Baptiste Bessières, superiore per numero e qualità, sgominò i cavalieri avversari e ne travolse la fanteria. La disfatta per gli Spagnoli fu totale e Burgos venne brutalmente saccheggiata. L’11 novembre l’imperatore fece il suo ingresso in città e vi stabilì il suo quartier generale; il giorno seguente promulgò un’amnistia generale per tutti coloro che avessero deposto le armi entro un mese: “Accordiamo, tanto in nome nostro quanto di nostro fratello, il re di Spagna, perdono generale e intera e piena amnistia a tutti gli Spagnoli che nello spazio d’un mese dopo il nostro ingresso in Madrid avranno deposto le armi e rinunciato a qualunque alleanza, adesione e comunicazione con l’Inghilterra, e che si saranno rannodati intorno alla costituzione e al trono”. Subito dopo partì alla volta della capitale iberica.
la tomba del Cid Campeador, eroe leggendario della Reconquista, sepolto nel monastero di San Pedro de Cardeña, presso Burgos. Per rimediare, l’imperatore fece erigere un mausoleo in onore del condottiero nel centro della città. Le spoglie del Cid furono in seguito recuperate e dal 1921 riposano nella Cattedrale di Burgos.
Pare che un redattore del Moniteur, giornale ufficiale dell’Impero francese, avesse descritto così la battaglia di Burgos: “L’imperatore, con truppe molto inferiori a quelle del nemico, è riuscito a infliggergli una sanguinosa sconfitta”. Ma Napoleone, che controllava personalmente tutti i bollettini di guerra prima che venissero pubblicati, annotò a margine:“Idiota… non ho bisogno di gloria; ne ho fin troppa. Ciò di cui ho bisogno è che credano che abbia soldati e non li ho”. Poi cancellò la frase e la sostituì con quest’altra:“Con forze di gran lunga superiori a quelle del nemico, l’imperatore ha ottenuto una grande vittoria”. Nel frattempo, l’ala sinistra dell’esercito spa-
“Entro due mesi la Spagna sarà mia e avrò su di essa tutti i diritti che spettano al vincitore”, disse Napoleone a Vitoria
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CARTOGRAFIA: EOSGIS
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A R
C A N T A B R I C O La Coruña
Oviedo
Lugo
P O R T O G A L LO
O C E A N O
Pontevedra Orense
LIÉBANA MONTI DI LEÓN
Pedrafita
SIERRA DE CANALES
León
Astorga
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Logroño
Burgos
Salamanca
Girona
RAM DAR GUA
Saragozza
Soria Calatayud
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Segovia
Ciudad Rodrigo
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Toledo
Tago
Talavera de la Reina
El Bruc
CAMPO DE CARIÑENA
PRIORATO
Ebro
Barcellona
Tarragona
Guadalajara
Teruel
Assedio
MAESTRAZGO
SERRANÍA DE CUENCA
Passo di montagna Percorso di Napoleone Altri movimenti delle truppe francesi
Castellón de la Plana
MONTI DI TOLEDO
Mérida
Lleida
Battaglia
MADRID
Valencia
Ciudad Real
Albacete
Badajoz Despeñaperros Gua dian a
Figueres
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Tudela
Tordesillas
BURGOS, TAPPA DECISIVA NELL’AVANZATA FRANCESE
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Jaca
23-XI-1808
Valladolid
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ra il 10 novembre del 1808, quando ebbe luogo il primo successo della campagna di Napoleone in Spagna: la presa di Burgos. Gli Spagnoli decisero di affrontare gli invasori nei pressi di un villaggio vicino alla città, Gamonal, commettendo così un grave errore tattico, poiché la scelta di una battaglia in campo aperto favorì i Francesi, superiori di numero. La fanteria nemica ebbe subito la meglio, anche se due reparti spagnoli opposero una strenua resistenza, distinguendosi per il loro valore: sull’ala destra, il quarto battaglione delle
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Espinosa de los Monteros
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San Sebastián Bilbao
10-XI-1808
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Duero
I C O A N T L T A
Santiago de Compostela
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Balmaseda
Santander
ENA
guardie vallone (mercenari belgi al servizio della Spagna), dei cui 307 uomini sopravvissero solo in 74, e, sull’ala sinistra, una divisione di granatieri, guidati dal giovane tenente colonnello Juan Díaz Porlier, che riuscì a scappare dopo la disfatta. Con il cedimento di entrambe le ali dello schieramento iberico, i Francesi irruppero a Burgos e si diedero a un feroce saccheggio da cui ricavarono 2000 sacchi di pregiata lana merino; i vincitori uccisero senza pietà ogni soldato in fuga, come mostra l’incisione qui sotto, e non esitarono a profanare le tombe dei conventi.
VALLE D’ALBAIDA
Alicante
1 Balmaseda
Il maresciallo Victor aveva avuto l’incarico di inseguire le truppe del generale Blake, ma questi sorprende i Francesi a Balmaseda, infliggendo al nemico notevoli perdite.
2 Espinosa de los Monteros
In questa località nella provincia di Burgos, le truppe francesi del generale Victor sconfiggono e mettono in fuga l’esercito di Joaquín Blake, comandante dell’esercito della Galizia.
3 Tudela
L’armata spagnola posta sotto il comando dei generali Castaños e Palafox viene sgominata nei pressi di Tudela dai Francesi guidati dall’abile maresciallo Jean Lannes.
4 Madrid
I Madrileni resistono alcuni giorni all’assedio francese. Alla fine, non vedendo altra via d’uscita, il generale Tomás de Morla firma la resa della città a Napoleone presso Chamartín.
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NAPOLEONE BONAPARTE NEL SUO STUDIO DELLE TUILERIES, CON INDOSSO L’UNIFORME DI COLONNELLO DEI GRANATIERI. JACQUESLOUIS DAVID, 1812.
igueres Girona
I GIUDIZI DI NAPOLEONE SULLA SPAGNA
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apoleone disprezzava la Spagna, considerata la patria del fanatismo, dell’Inquisizione e del dispotismo. Similmente, non nutriva alcuna stima per i Borbone di Spagna, che riteneva deboli e per nulla temibili. Fu questa una delle ragioni che lo spinsero a invadere il Paese nel 1808. Inizialmente, non reputò nemmeno necessario recarvisi di persona; convocò invece a Bayonne, da dove promulgò anche una nuova costituzione, un’assemblea di notabili e obbligò Carlo IV, e poi il figlio Ferdinando VII, ad abdicare in favore del fratello Giuseppe Bonaparte. L’idea negativa che egli aveva degli Spagnoli traspare chiaramente da una lettera indirizzata a Giuseppe il 9 settembre 1808: “Il popolo spagnolo è vile e codardo, come gli Arabi che ho combattuto in Egitto”.
gnolo era stata sbaragliata a Espinosa de los Monteros, nel nord dell’attuale provincia di Burgos, dopo una lunga battaglia combattuta tra il 10 e l’11 novembre. Per di più, anche l’ala destra dell’armata iberica, posta sotto il comando dei generali Francisco Castaños e José Palafox, sarebbe stata sgominata il 23 novembre presso Tudela (nel sud della Navarra) dalle truppe del maresciallo Jean Lannes. Fu per gli Spagnoli una disfatta ancora più cocente di quelle subite a Gamonal e a Espinosa de los Monteros. Ormai alla Giunta Suprema della Spagna, il governo provvisorio sorto nell’estate del 1808 in nome del legittimo sovrano Ferdinando VII di Borbone, non rimanevano che i 20.000 uomini dell’esercito di riserva.
La conquista di Madrid Il 29 novembre Napoleone e la sua armata si accamparono a Boceguillas, non distante dal passo montuoso di Somosierra, l’ultimo ostacolo da valicare prima di raggiungere Madrid, difeso da un presidio di soli 9000 uomini e da una batteria di 16 cannoni. Gli scontri ebbero
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luogo il giorno seguente e questa volta Napoleone assunse personalmente la direzione delle operazioni. Poiché la fanteria gli sembrava avanzare troppo lentamente, ordinò al comandante della cavalleria leggera polacca, il capitano Jan Korjietulski, di lanciarsi alla carica e neutralizzare i cannoni iberici. Si trattò di un attacco quasi suicida, anche perché la fanteria era troppo distante per poter offrire il suo supporto. Il drappello venne decimato e lo stesso ufficiale morì. Fu necessario l’intervento della fanteria, unito a una nuova carica della cavalleria, per sopraffare gli artiglieri spagnoli e impossessarsi della vetta. Ma ora la capitale iberica era praticamente indifesa. Gli abitanti di Madrid erano intenzionati a resistere con tutte le loro forze, ma le fortificazioni della città erano insufficienti, la guarnigione poco numerosa e le armi ancora più scarse. Così, dopo pochi giorni di scontri, la capitale fu costretta ad arrendersi alle truppe francesi e Napoleone vi fece il suo ingresso, accolto dal gelo della popolazione. Era il 4 dicembre.
L’EROE DI BAILÉN
Dopo la grande vittoria di Bailén, il generale Francisco Javier Castaños , che aveva diretto le operazioni, venne nominato comandante in capo dell’esercito spagnolo. Busto del generale. Museo dell’Esercito, Toledo.
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IL PALAZZO REALE DI MADRID
La facciata principale del Palazzo Reale di Madrid con l’ampio cortile della Plaza de la Armeria. Dal 4 al 22 dicembre, Napoleone preferì risiedere nella villa del duca dell’Infantado, a Chamartín.
Nel frattempo, la Giunta Suprema era fuggita a Badajoz, nella regione dell’Estremadura. Napoleone riteneva, a torto, che una volta presa la capitale la guerra fosse pressoché conclusa. Si stabilì dunque in una villa del duca dell’Infantado a Chamartín (oggi un quartiere di Madrid), e, senza minimamente coinvolgere il fratello Giuseppe nelle sue decisioni, promulgò i rivoluzionari Decreti di Chamartín, che riformavano radicalmente l’amministrazione del Paese. Il primo aboliva i diritti feudali; il secondo sopprimeva l’Inquisizione; il terzo riduceva di due terzi i conventi e disponeva che i beni a essi confiscati venissero utilizzati per finanziare l’amministrazione e l’esercito; il quarto, infine, prevedeva l’eliminazione delle barriere doganali interne. Del resto, a guidare le azioni dell’imperatore, almeno secondo quanto lui stesso affermava, era la ragion di stato; in una lettera al conte Pierre-Louis Roederer, suo stretto collaboratore, non a caso scriveva: “È necessario che la Spagna sia francese; è per la Francia che abbiamo con-
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Jean Lannes seguì l’imperatore in Spagna e fu l’artefice della vittoria di Tudela. Nel 1809 assediò e prese Saragozza, ma lo stesso anno morì nella battaglia di Essling, in Austria, a 40 anni. Ritratto di Jean Lannes, opera di François Gérard, XIX secolo.
quistato la Spagna con il suo sangue, le sue braccia, il suo oro. Non ho mai fatto nulla se non per dovere e attaccamento alla Francia. Ho detronizzato i Borbone solo perché conviene alla Francia e al consolidamento della mia dinastia. Non cerco nient’altro se non la gloria e la forza della Francia... Miei sono i diritti della conquista; non importa il titolo di chi governi: re di Spagna, viceré, governatore generale, la Spagna deve essere francese”.
Una conquista effimera Dopo aver trascorso poco più di due settimane a Chamartín, Napoleone partì all’inseguimento del corpo di spedizione inglese, intervenuto a favore dei ribelli iberici fin dal luglio del 1808. Al comando vi era il generale John Moore che, venuto a conoscenza della caduta di Madrid, stava guidando la ritirata verso la costa gallega. Si trattò di una campagna estremamente dura per entrambi gli schieramenti a causa delle proibitive condizioni climatiche. I soldati britannici, estenuati dalla fame, oltre che dal freddo e dalla BRIDGEMAN / INDEX
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IL MARESCIALLO PIÙ FEDELE
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NAPOLEONE, AD ASTORGA, ORDINA AI SUOI SOLDATI DI TRATTARE CON RIGUARDO I PRIGIONIERI INGLESI. HIPPOLYTE LECOMTE, CASTELLO DI VERSAILLES.
L’IMPERATORE AD ASTORGA SANDRA RACCANELLO / FOTOTECA 9X12
QUANDO NAPOLEONE giunse ad Astorga, il 3 gennaio 1809,
fatica, finirono per saccheggiare tutti i villaggi che incontravano sul loro cammino, suscitando la violenta ostilità dei contadini. D’altronde, non versavano in condizioni molto migliori le truppe francesi, costrette ad attraversare le possenti montagne della Sierra de Guadarrama, che la neve e il gelo avevano trasformato in un ostacolo pressoché invalicabile. Peraltro, di lì a poco Napoleone fu raggiunto da notizie allarmanti: era ormai evidente che l’Austria si stesse preparando a una nuova guerra e, come se non bastasse, a Parigi Charles-Maurice de Talleyrand e Joseph Fouché, l’uno ministro degli Esteri, l’altro della Polizia, stavano architettando una cospirazione ai suoi danni. Così, il 3 gennaio 1809, appena giunto ad Astorga, si vide obbligato a cedere il comando dell’esercito al maresciallo Nicolas Soult e si apprestò a rientrare in patria. Tornato indietro fino a Valladolid, la notte del 17 gennaio partì in tutta fretta per Parigi. La campagna iberica di Napoleone volgeva al termine con risultati importanti ma non definitivi. L’esercito spagnolo era stato disperso
vi trovò centinaia di civili britannici, talmente esausti che non erano riusciti a seguire le loro truppe nella ritirata. L’imperatore ordinò ai suoi uomini di soccorrerli e permettere loro di riunirsi al loro esercito, un gesto di magnanimità che contrastava con il duro trattamento in genere riservato agli Spagnoli.
e Giuseppe era di nuovo a Madrid; i Britannici, sconfitti, avevano dovuto abbandonare, almeno temporaneamente, il Paese, ma i movimenti dell’armata francese erano stati rallentati dalla morfologia montuosa del territorio, così che gli avversari erano riusciti a evitare la totale distruzione. In assenza dell’imperatore, la guida delle operazioni rimase ai marescialli che, però, preda di forti rivalità, non furono in grado di collaborare efficacemente. Il dominio napoleonico sulla Penisola iberica, d’altronde, si rivelò presto effimero. Fin dal 1812, quando Bonaparte fece ritirare dal Paese le truppe più salde per impiegarle nella fatale campagna di Russia, fu chiaro quanto fragili e illusorie fossero state tutte le conquiste ottenute dai Francesi in quattro anni di guerra. Per saperne di più
SAGGI
Le campagne di Napoleone David G. Chandler, BUR, 1992. Napoleone George Lefebvre, Laterza, 2009. Da Bayonne a Cadice. Il processo di trasformazione costituzionale in Spagna (1808-1812) Simonetta Scandellari, Sicania, 2009.
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L’ASSALTO AL PASSO DI SOMOSIERRA Nel 1810, Louis-François Lejeune, un ufficiale che aveva partecipato alla spedizione di Napoleone in Spagna, rappresentò in modo vivido e verosimile la battaglia di Somosierra. Il suo dipinto raffigura il momento cruciale in cui i lancieri polacchi sferrano l’attacco decisivo contro i difensori spagnoli appostati in cima al passo.
1 DUE SOLDATI POLACCHI FERITI
Secondo il pittore, si trattava di due fratelli polacchi feriti dallo stesso colpo. Uno di loro spira tra le braccia dell’altro, mentre a pochi passi infuriano i combattimenti.
2 LA COLLERA DELL’IMPERATORE
Napoleone rinfaccia a un colonnello spagnolo l’esecuzione di alcuni prigionieri francesi. Questi risponde: “Sono a vostra disposizione”, ormai rassegnato alla sua sorte.
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3 LA CARICA DEI LANCIERI POLACCHI
4 LA LOTTA PER I CANNONI
La carica dei cavalieri polacchi risulta decisiva per contrastare l’azione dell’artiglieria spagnola; tuttavia molti di loro perdono la vita durante l’attacco.
Gli Spagnoli hanno a disposizione sedici cannoni per difendere il passo. Quando i Francesi se ne impadroniscono, finiscono gli artiglieri a colpi di spada.
5 UN DOTTORE MEDICA UN UFFICIALE FRANCESE
6 L’UCCISIONE DEI FRANCESI CATTURATI
7 UN PRIGIONIERO FRANCESE LIBERATO
8 L’ODIO MORTALE DI UNO SCONFITTO
Il dottor Yvan, chirurgo di Napoleone, assistito da un ufficiale, si occupa di medicare il maggiore Philippe de Ségur, ferito al fianco destro durante il primo assalto.
Uno dei prigionieri francesi liberati dai suoi compatrioti indica la coccarda e la croce della Legion d’Onore che teneva sul petto, nascosta sotto gli indumenti.
Dopo aver giustiziato crudelmente un drappello di soldati francesi, gli Spagnoli si liberano dei loro cadaveri gettandoli sotto un ponte, per occultare il misfatto.
Lo sguardo sdegnoso di uno dei soldati catturati dai Francesi rivela tutta la determinazione degli Spagnoli, decisi a continuare la lotta per la libertà fino alla fine.
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LA BATTAGLIA DI SOMOSIERRA (30 NOVEMBRE 1808). OLIO SU TELA DI LOUIS-FRANÇOIS LEJEUNE, 1810. CASTELLO DI VERSAILLES.
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