Storica National Geographic - giugno 2020

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ADRIANO AD ATENE

OGODEI

ACHILLE CONTRO ETTORE IL TERRORE

LA FASE PIÙ DRAMMATICA DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

ADRIANO AD ATENE

- ESCE IL22/05/2020 - POSTE ITALIANE S.P.A SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) 1 COMMA 1 - LO/MI. GERMANIA 12 € - SVIZZERA C. TICINO 10,20 CHF - SVIZZERA 10,50 CHF - BELGIO 9,50 €

AUT. MBPA/LO-NO/063/A.P./2018 ART.

ACHILLE CONTRO ETTORE

IL REGIME DEL TERRORE

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PERIODICITÀ MENSILE

STONEHENGE

ARCHEOLOGIA DI UN LUOGO SACRO

00136

IL SESSO IN EGITTO

SIGNORE DELL’ASIA

9 772035 878008

NATIONAL GEOGRAPHIC

IL CIRCOLO DI STONEHENGE

N. 136 • GIUGNO 2020 • 4,95 €

NU MERO 136

storicang.it

IL SESSO IN EGITTO OGODEI

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OGODEI VENNE ELETTO GRAN KHAN NEL 1229. MINIATURA DEL XIV SEC.

24 Il sesso nell’antico Egitto Gli dei egizi insegnavano che il sesso era la base dell’armonia del cosmo e della fertilità della terra. DI MARC ORRIOLS-LLONCH

40 Stonehenge, archeologia di un luogo sacro All’inizio del XXI secolo l’archeologia ha cominciato a svelare gli enigmi di questo leggendario circolo di pietre. DI MICHAEL GANTLEY

60 La più grande battaglia dell’Iliade Venuto a sapere della morte del suo amico Patroclo per mano di Ettore, Achille volle vendicarlo. DI CAROLINE ALEXANDER

72 Adriano ad Atene L’imperatore accrebbe lo splendore di Atene costruendo mirabili monumenti. DI JUAN PABLO SÁNCHEZ

86 Ogodei, signore dell’Asia Il figlio di Gengis Khan fu il vero artefice dell’impero mongolo creato dal padre. DI ANTONIO GARCÍA ESPADA

104 Il Terrore, culmine della Rivoluzione Nel 1793 la Rivoluzione francese entrò in una spirale repressiva dalla quale non si salvò nessuno. DI V. L. ALCAÑIZ

6 GRANDI INVENZIONI

La baionetta, un’invenzione micidiale

8 PERSONAGGI STRAORDINARI

Sofonisba Anguissola, talento rinascimentale

16 DATO STORICO

Come si salutavano i romani

18 VITA QUOTIDIANA

La febbre dei pattini a rotelle nel XIX secolo

22 OPERA D’ARTE

Autoritratto di Élisabeth-Louise Vigée-Lebrun

122 GRANDI ENIGMI

Carmen, il mito di una zingara spagnola

126 FOTO DEL MESE 128 LIBRI

GIOVANE NUDA. STATUETTA D’AVORIO RISALENTE AL PERIODO TARDO (664-332 A.C.). LOUVRE. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION

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IL SESSO IN EGITTO OGODEI

Pubblicazione periodica mensile - Anno XII - n. 136

ACHILLE CONTRO ETTORE IL TERRORE

Editore: RBA ITALIA SRL

SIGNORE DELL’ASIA

LA FASE PIÙ DRAMMATICA DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

ADRIANO AD ATENE

IL CIRCOLO DI STONEHENGE ARCHEOLOGIA DI UN LUOGO SACRO

VISTA ZENITALE DEL CIRCOLO DI PIETRE DI STONEHENGE. SALISBURY, INGHILTERRA. FOTO: GETTY IMAGES /STEVE BANNER

RICARDO RODRIGO

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GRANDI INVENZIONI

La baionetta, un’invenzione micidiale

QUINTLOX / ALBUM

1680

BAIONETTA A TAPPO DEL XIX SECOLO CON RELATIVO FODERO.

Alla fine del XVII secolo fu ideato un sistema per agganciare al fucile una lama da usare negli scontri corpo a corpo una volta scaricata l’arma da fuoco

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teria, venne relegata al rango di pezzo da museo. Si dice che il termine “baionetta”derivi dal nome della località basco-francese di Bayonne: secondo la leggenda, qui fu utilizzata per la prima volta quando gli abitanti della città, avendo esaurito le munizioni, legarono dei pugnali alle estremità delle loro armi da fuoco e si scagliarono contro il nemico. Secondo una teoria più prosaica, all’inizio del XVII secolo si fabbricavano in Francia coltelli da montagna di alta qualità con un manico di legno che permetteva di fissarli alla parte terminale della canna, in francese bâillonner (imbavagliare, tappare la bocca), trasformando così il fucile in una mezza picca. Questo sarebbe stato il prototipo delle cosiddette “baionette a tappo”. Una terza ipotesi fa risalire il termine al vocabolo spagnolo bayneta, piccola guaina, riferito al fodero in cui il soldato riponeva l’arma bianca quando non era inastata. EsistoBRIDGEMAN / ACI

iventata una compagna inseparabile del fucile a partire dalla fine del XVII secolo, la baionetta si trasformò in uno degli strumenti più temuti e di maggior impatto psicologico sul morale degli eserciti. La combinazione di arma da taglio e da fuoco rivoluzionò per sempre le tattiche sul campo di battaglia permettendo ai soldati di eseguire le operazioni di tiro proprie dei moschettieri, o degli archibugieri, e allo stesso tempo di battersi corpo a corpo. Fu così che la picca, arma fino ad allora considerata la regina della fan-

SCONTRO CORPO A CORPO CON BAIONETTA DURANTE LA BATTAGLIA DI CULLODEN (1746).

no testimonianze dell’uso sporadico della baionetta a tappo da parte delle truppe francesi e olandesi intorno al 1647, verso la fine della Guerra dei trent’anni. È molto probabile che tutti i contendenti la conoscessero, per quanto non venisse usata in modo sistematico. Nella seconda metà del XVII secolo il suo impiego si diffuse all’interno dell’esercito francese, ma il problema principale di questo modello era che, una volta applicato al moschetto, rendeva impossibile sparare.

Progresso decisivo La Francia di Luigi XIV, il Re sole, era ormai diventata la potenza egemone in Europa e i suoi eserciti erano una fonte continua d’innovazioni tattiche e tecnologiche. Lo scrittore Voltaire riferisce che nel 1669 il colonnello Jean Martinet, ispettore generale di fanteria, aveva regolamentato l’uso della baionetta in alcuni reggimenti francesi, anche se non è chiaro a quale modello si riferisse il filosofo. A partire dagli anni settanta del seicento alcuni armaioli tentarono di assicurare la baionetta alla canna

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FUCILE prussiano del XVIII secolo con baionetta a ghiera.

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IL TRIONFO DELLA BAIONETTA 1647 Durante la Guerra dei trent’anni vengono usate baionette a tappo.

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1669 Il colonnello Jean Martinet introduce l’uso della baionetta nell’esercito di Luigi XIV.

Verso il 1670

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GERMÁN SEGURA GARCÍA STORICO MILITARE

1689 L’inglese MacKay progetta una variante ad anello.

1701-1714 Nel corso della Guerra di successione spagnola la baionetta soppianta definitivamente la picca.

RMN-GRAND PALAIS

per mezzo di anelli (che fungevano da fascette), con l’obiettivo di non ostacolare le operazioni di ricarica e di tiro. Il problema era garantire un fissaggio ottimale nonostante la disparità di calibro delle armi da fuoco dell’epoca. Il progresso definitivo arrivò con la comparsa della cosiddetta “baionetta a ghiera”, le cui prime versioni videro la luce in Francia una ventina di anni più tardi. Tuttavia alcuni ne attribuiscono l’invenzione al generale inglese MacKay, che nel 1689 progettò quella che inizialmente era forse solo una versione migliorata del modello ad anello. Quasi in contemporanea, nel 1685, gli spagnoli diedero la nuova arma in dotazione alle loro compagnie di granatieri, ma si trattava ancora della versione a tappo. Fu dopo la Guerra della grande alleanza (1688-1697) che la baionetta a ghiera si diffuse fino a soppiantare completamente la picca durante la Guerra di

successione spagnola (1701-1714). Il tipico modello di baionetta a ghiera consisteva in una lama d’acciaio a sezione triangolare 1, che sporgeva di una quarantina di centimetri dalla bocca del fucile. La lama era saldata a un manicotto metallico 2, mediante una doppia angolatura progettata per decentrarla rispetto all’asse di sparo e facilitare così il tiro e la ricarica dell’arma da fuoco. Il manicotto s’inseriva sulla parte finale della canna 3 , la volata, cui era assicurato da un’apposita molla. Una ghiera, o zigzag, permetteva la regolazione del mirino. La possibilità di utilizzare in contemporanea arma da fuoco e da taglio modificò definitivamente il volto della guerra nel XVIII secolo. Furono adottate innovazioni tattiche come le formazioni in linea, che permettevano di puntare il maggior numero di fucili contro le schiere nemiche per poi affidarsi alla baionetta quando arrivava il momento dello scontro corpo a corpo. Non sorprende quindi che quest’arma fosse ai suoi tempi considerata la più terribile invenzione creata dal genio distruttivo degli esseri umani.

Si sperimentano sistemi ad anello per fissare la baionetta alla canna del fucile senza ostacolare il tiro.

UN SOLDATO DI FANTERIA INASTA LA SUA BAIONETTA IN UN’INCISIONE FRANCESE DEL 1696. MUSÉE DE L’ARMÉE, PARIGI.

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PERSONAGGI STRAORDINARI

Sofonisba Anguissola, talento rinascimentale L’artista cremonese fu la prima donna a essere accettata come apprendista in una bottega professionale e lavorò come ritrattista alla corte di Filippo II di Spagna

Un percorso da artista e mecenate 1532 circa Sofonisba Anguissola nasce a Cremona, figlia di Amilcare Anguissola e Bianca Ponzoni, entrambi di famiglie benestanti.

1546 Inizia a studiare con Bernardino Campi: è la prima donna a essere accettata come studente in una bottega professionale.

1559 Invitata alla corte di Filippo II, raggiunge fama internazionale come ritrattista della famiglia reale spagnola.

1573 Sofonisba torna in Italia, dove continua a insegnare e diventa grande patrona e mecenate di giovani artisti.

1625 Muore a Palermo. Il suo successo e le opere influenzano le successive generazioni.

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ra i 178 artisti le cui vite e lavori sono inclusi nella seconda edizione (1568) di Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari sono menzionate solo sei donne. E nonostante sia Properzia de’ Rossi l’unica a essere onorata di una sua biografia, fu Sofonisba Anguissola a riscuotere la maggior fama in vita. Prima di sette figli, di cui un solo maschio, Anguissola nacque a Cremona probabilmente il 2 febbraio 1532 da Amilcare Anguissola e Bianca Ponzoni, entrambi provenienti da famiglie benestanti. Sappiamo che la madre morì quando Sofonisba aveva quattro o cinque anni. Amilcare Anguissola incoraggiò tutte le figlie, Sofonisba, Elena, Lucia, Europa, Minerva e Anna Maria, a coltivare le belle arti. Quattro delle sorelle divennero pittrici, ma nessuna raggiunse una fama pari a quella di Sofonisba. Dal canto loro Minerva divenne una scrittrice e studiosa di latino, e il fratello Asdrubale un musicista di un certo successo. Durante il Ri-

nascimento, alle pittrici era vietato intraprendere apprendistati presso botteghe professionali, che era il modo in cui imparavano l’arte gli allievi maschi. Tendenzialmente, le artiste dell’epoca ricevevano una formazione dai maschi della propria famiglia. Sofonisba e le sue sorelle in questo senso furono atipiche; Amilcare Anguissola, infatti, non era un artista. Tuttavia il padre permise a Sofonisba di studiare presso Bernardino Campi, stimato pittore della “scuola lombarda”, quando la ragazza aveva appena quattordici anni. Il suo apprendistato facilitò successivamente l’accesso di altre artiste al mestiere in quanto, per la prima volta, una donna veniva accettata come allieva presso una bottega professionale. Qui Sofonisba studiò per quattro anni, fino al 1550, quando Campi si trasferì a Milano. A quel punto e fino al 1553 la giovane continuò gli studi presso il pittore Bernardino Gatti.

L’incontro con Michelangelo Nel 1554, all’età di ventidue anni e mentre si trovava in viaggio a Roma, Anguissola incontrò Michelangelo

Il suo apprendistato avrebbe facilitato poi l’accesso di altre artiste al mestiere FILIPPO II DI SPAGNA RITRATTO DA ANGUISSOLA. 1565, MUSEO DEL PRADO, MADRID. ALBUM

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LA RISCOPERTA DI UN’ICONA FEMMINISTA COME MAI LA FAMA di Sofonisba Anguissola si è oscurata col tempo? Parzialmente, la causa è un’errata attribuzione di diverse sue opere ad artisti maschi a lei contemporanei. Inoltre, molti dei suoi lavori andarono perduti in un incendio all’Alcazar Reale a Madrid nel 1734. Fu riscoperta come icona femminista piuttosto recentemente, grazie a studiose quali Ann Sutherland Harris e Ilya Sandra Perlingieri. Queste hanno identificato l’importanza di Anguissola come mecenate e “imprenditrice di sé stessa”, e il suo ruolo nell’influenzare altre artiste donne, come Lavinia Fontana e Irene di Spilimbergo. AUTORITRATTO MENTRE DIPINGE LA MADONNA CON GESÙ BAMBINO. 1556, MUZEUM ZAMEK, ŁAN’CUT, POLONIA.

ERICH LESSING / ALBUM

Buonarroti. Impressionato dal suo talento, egli si offrì di aiutare la giovane artista, correggendo e commentando i suoi lavori e dandole alcuni dei suoi disegni da reinterpretare e da colorare. Da una lettera del 1562 scritta in accompagnamento al dono di due disegni dal nobile Tommaso Cavalieri a Cosimo I de’ Medici, sappiamo che Anguissola realizzò dei disegni su suggerimento di Michelangelo: «[...] havendo io un disegno di mano di una gentildonna Cremonese chiamata Sofhonisba Angosciosa,

oggi dama della regina di Spagna, lo mando insieme con questo [una Cleopatra di Michelangelo] et credo, che potrà stare a paragone di molti, perché non è solamente bello, ma ci è ancora inventione, et questo è che, havendo il divino Michelangelo veduto un disegno di sua mano di una giovane che rideva, disse che avrebbe voluto vedere un putto che piangesse come cosa molto più difficile, et essendole scritto, lei li mandò questo quale è un ritratto di suo fratello fatto piangere studiosamente».

Questo è il famoso disegno noto come Fanciullo morso da un gambero, che colpì particolarmente i contemporanei di Anguissola sia per il naturalismo, tratto da Leonardo, sia per l’abilità nel ritrarre l’espressione di disperazione del bambino – il cui soggetto era il fratellino Asdrubale – e il sorriso della figura femminile, Europa, sorella dell’artista. Il disegno avrebbe ispirato lo stesso Caravaggio a creare il celebre Ragazzo morso da un ramarro (1595-96). Nel 1559, all’età di ventisette anni, STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

LE SORELLE DI SOFONISBA LUCIA, EUROPA E MINERVA INTENTE NEL GIOCO DEGLI SCACCHI. 1555, MUZEUM NARODOWE, POZNAN, POLONIA.

SOFONISBA fu comunque limitata dalle convenzioni sociali dell’epoca, e ciò la spinse a ricercare possibilità per un nuovo stile di ritrattistica. Autoritratti e raffigurazioni dei membri della sua famiglia furono i soggetti più frequenti; scelse inoltre ambientazioni domestiche e informali, creando opere d’impatto diverso da quelle dei suoi contemporanei maschi. Queste innovazioni ebbero un successo tale che altri artisti, tra i quali il fiammingo Peter Paul Rubens, furono incaricati di copiare i suoi dipinti. Attraverso queste copie il suo stile influenzò il genere della ritrattistica.

LOREM IPSUM

Ritrattista della sua famiglia

LA MADRE DELL’ARTISTA, BIANCA PONZONI. 1557, STAATLICHE MUSEEN, BERLINO.

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PERSONAGGI STRAORDINARI

CONTRO LE NORME

AUTORITRATTO

con il pittore e suo conterraneo Bernardino Campi. 1550. Pinacoteca di Siena. ALBUM

RISALE AL 1559 una delle sue opere più famose, Bernardino Campi ritrae Sofonisba Anguissola. Campi dovrebbe essere il soggetto principale, invece tutti i dettagli della composizione conducono al volto di Sofonisba, centralizzato e luminoso. E mentre lui è rappresentato nel dipingerla, in realtà è Anguissola a dipingere entrambi: il suo Campi è più vivo, meno statico dell’immagine che lui ha creato di lei, vuota e inverosimile. Sofonisba lo dipinge mentre usa un appoggiamano, uno strumento considerato “da principianti”, come a lasciar intendere il minor valore artistico di lui rispetto al proprio; un ingegnoso modo di affermare che il suo talento non era merito di un uomo.

FOTO: BRIDGEMAN / ACI

Un successo inedito La sua posizione alla corte di Spagna le permise di raggiungere una fama senza precedenti come artista donna, anche a livello internazionale: era molto stimata e il suo lavoro tenuto in altissima considerazione. Alla morte della regina Elisabetta, sua protettrice, nel 1568, molti membri della corte decisero di lasciare la Spagna. Anguissola invece rimase a Madrid su richiesta del re Filippo II, il quale volle che fosse lei a educare

le giovani principesse, Isabel Clara decise di tornare nel nord d’Italia, Eugenia e Catalina Micaela. probabilmente per stare vicina alla Nel frattempo, il sovrano organiz- famiglia. Durante il viaggio in nave zò per Sofonisba un matrimonio col che la riportava a casa, conobbe il casiciliano Fabrizio Moncada, reggente pitano del vascello, Orazio Lomellino, di Paternò, assicurandole anche un e se ne innamorò. generoso corredo. Nel 1573 la coppia Nonostante l’uomo fosse di nascita si trasferì quindi in Sicilia. All’epoca nobile, la famiglia di Anguissola non una donna non poteva essere pagata approvò il suo desiderio di risposarsi in denaro, ma le venivano fatti regali intestati al padre oppure al marito: i ricchi doni, FANCIULLO MORSO DA UN GAMBERO. elencati nel contratto matri1554, MUSEO DI CAPODIMONTE, NAPOLI. moniale, che l’artista ricevette come compensazione per i suoi quadri, sono l’ennesima dimostrazione del suo immenso successo a corte. Le notizie sul periodo che Anguissola passò in Sicilia con Moncada sono scarse. Quello che si sa è che continuò a dipingere e a insegnare. Alla morte del marito, nel 1579, MONDADORI / ALBUM

Anguissola fu invitata alla corte di Spagna. Ufficialmente nominata dama di corte della regina Elisabetta di Valois, in realtà stava ricoprendo il ruolo di ritrattista della famiglia reale. Infatti c’è confusione tra le sue opere e quelle del pittore di corte ufficiale, Alonso Sánchez Coello, al quale furono attribuiti molti lavori di Anguissola.

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BRIDGEMAN / ACI

PERSONAGGI STRAORDINARI

Ritrattista della corte di Spagna istituì le regole da seguire per ritrarre la famiglia reale: oltre alla somiglianza fisica, le immagini dovevano esprimere il loro status e virtù, gravità e serenità. Anguissola adottò e interpretò questi criteri secondo il proprio stile e la propria sensibilità artistica: luce soffusa, attenzione alla psicologia dei soggetti, meticolosa rappresentazione dei dettagli. Ciò si vede dalle diverse trame del velluto nero del vestito e dal copricapo, composto da molti gioielli intrecciati nei capelli della regina che, secondo fonti dell’epoca, erano acconciati in quel modo tutti i giorni.

SÁNCHEZ COELLO

ELISABETTA DI VALOIS. 1561-1565, MUSEO DEL PRADO, MADRID.

L’INFANTA ISABEL CLARA EUGENIA, FIGLIA DI ELISABETTA DI VALOIS E FILIPPO II. 1599, MUSEO DEL PRADO.

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PERSONAGGI STRAORDINARI

ANTONINO BARTUCCIO / FOTOTECA 9X12

LA CATTEDRALE di Palermo come appare oggi. Nella città siciliana l’artista visse un decennio e vi morì nel 1625.

e chiese al duca Francesco I de’Medici d’intercedere. Il re Filippo II, al contrario, avvallò il nuovo matrimonio di Sofonisba. Le concesse persino un salario annuale in cambio del lavoro come suo agente a Genova, con l’incarico di trovare e proporre arte e artisti per decorare il nuovo palazzo reale del Escorial.

Gli ultimi anni in Italia Anguissola visse per trentacinque anni a Genova, dove continuò a far scalpore e a esser considerata una celebrità. Nella città ligure l’artista tenne incontri con altri intellettuali e diventò amica e protettrice di molti giovani artisti, inclusi Luca Cambiaso e Bernardo Castello. Dipinse opere a tema religioso con giochi di luce drammatici e nuovi ritratti delle principesse spagnole, ormai cresciute. Nel 1615 Sofonisba e Orazio si trasferirono a Palermo, dove lui condu-

ceva la maggior parte dei suoi affari. Con il passare del tempo, la donna soffrì di una progressiva cecità, che le impedì di dipingere. Ciononostante, divenne una grande mecenate, finanziando giovani artisti e aiutandoli a sviluppare le loro carriere. Nel 1624, un anno prima della morte, ricevette una visita dal pittore olandese Antoon van Dyck. Egli dipinse un ritratto di Anguissola, oggi in Inghilterra. Degli ultimi tempi dell’artista il nobile genovese Raffaele Soprani riferisce: «Onde soleva dire Antonio Vandich, che molto obligato si riputava alla conversazione di Sofonisba, e confessava d’haver ricevuto molto maggior lume dalle parole d’una cieca, che dalle opere de più stimati pittori». L’artista cremonese morì nella città di Palermo nel 1625 a età molto avanzata: se fosse effettivamente nata nel 1532, avrebbe avuto ben novantatré

anni. Sulla sua tomba, che si trova nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi, il marito fece incidere queste parole: «Alla moglie Sofonisba, posta tra le donne illustri del mondo per bellezza, straordinarie doti di natura, e tanto insigne nel ritrarre le immagini umane che nessuno del suo tempo poté esserle pari, Orazio Lomellini, colpito da immenso dolore, pose questo estremo segno di onore, esiguo per tale donna, ma il massimo per i comuni mortali». BIANCA PORCU STORICA DELL’ARTE

Per saperne di più

SAGGI

Voci d’artiste. Sofonisba Anguissola, Rosalia Novelli, Anna Fortino Santina Grasso, M. Concetta Gulisano, Maria Ilaria Randazzo. Edizioni d’arte Kalós, Palermo, 2018. La signora della pittura. Vita di Sofonisba Anguissola Daniela Pizzagalli. Rizzoli, Milano, 2003.

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IN ED ICO LA

Speciale Storica

Speciale Storica Grandi Personaggi

Già nell’antichità, la figura e le conquiste militari di Alessandro Magno trascesero i limiti della storia ed entrarono a far parte del mito. Dalla Macedonia il grande conquistatore portò la civiltà greca fino al Vicino Oriente, all’Egitto, al Regno di Persia e ai confini con l’India, creando un vasto impero che, con la sua morte, nel 323 a.C. entrò in una nuova tappa storica: l’Ellenismo. In questo periodo, che si prolungò durante tre secoli, l’impero fu frammentato e s’incamminò verso la sua fine con l’irruzione della Roma repubblicana nel Mediterraneo Orientale. In edicola dal 15 maggio. Prezzo ¤ 9,90.

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ALESSANDRO MAGNO

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GRANDI PERSONAGGI DEL MEDIOEVO

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DATO S TO R I CO

Come si salutavano i romani

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Nell’antica Roma gli amici si scambiavano saluti stringendosi la mano, abbracciandosi o baciandosi; invece di fronte ai superiori era necessario alzarsi in piedi e scoprirsi il capo sinistra, invece, si riteneva portasse sfortuna. Un’altra possibilità consisteva nell’abbracciarsi calorosamente. Anche il bacio poteva essere una forma di saluto. Dato sulla guancia o sulla bocca, era un gesto d’affetto tra coniugi, tra genitori e figli, e tra fratelli o amici. Ma non tutti gradivano quest’usanza, come si evince dai versi sarcastici del poeta latino Marziale: «Ad alcuni, Postumo, dai baci; ad altri porgi la mano destra. “Tu cosa preferisci?” mi chiedi. Preferisco la mano». Lo stesso Marziale si lamenta in un altro dei suoi epigrammi di un certo Lino, che in pieno inverno distribuiva baci gelidi all’intera Roma,

TRE TIPI DI SALUTI RIVOLTI ALL’IMPERATORE TRAIANO MENTRE COMPIE UN SACRIFICIO. PARTICOLARE DELLA COLONNA TRAIANA.

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uando si parla di saluto romano viene subito in mente il braccio alzato con la mano tesa. Eppure questo particolare gesto non risale a un’antica tradizione latina, ma è stato inventato tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, e poi diffuso dai regimi fascisti e da diverse rappresentazioni cinematografiche e televisive. Se un cittadino romano incontrava per strada qualche conoscente di pari classe sociale, lo salutava dicendo salve o ave; al che l’altro rispondeva salve et tu o ave et tu, “salve a te”. Allo stesso tempo i due potevano stringersi la mano destra come si fa attualmente – la

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RAPPRESENTAZIONE DI UNA STRETTA DI MANO SUL ROVESCIO DI UN ASSE CONIATO AI TEMPI DELL’IMPERATORE NERVA. 96-98 D.C.

senza preoccuparsi di quella specie di ghiacciolo che gli pendeva dal naso e della sua barba ispida e tagliente.

Baci da lontano Si poteva salutare anche mandando baci a distanza con la mano destra. Bastava congiungere la punta dell’indice con quella del pollice, che andava tenuto dritto, portare le due dita alla bocca e sfiorarle con le labbra, quindi lanciare il bacio tendendo la mano. Compiuto inizialmente in segno di venerazione per le statue delle divinità, il gesto venne in seguito esteso anche alle persone degne di ammirazione. Nel suo romanzo L’asino d’oro lo scrittore Apuleio racconta che Psiche suscitava la meraviglia di tutti grazie alla sua bellezza, paragonabile a quella della dea Venere, e che al suo passaggio la gente mandava baci di saluto e di adorazione. Il bacio a distanza veniva usato anche dagli artisti per ricambiare l’entusiasmo del pubblico, come secondo lo scrittore di favole Fedro fece un certo flautista con gli appassionati che si erano alzati in piedi per applaudirlo. Nel 69 d.C. l’effimero imperatore Otone mandava baci ai pretoriani, che lo acclamavano come loro nuovo sovrano. In una società fortemente gerarchica come quella romana, il saluto tra persone di diversa estrazione socia-

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CONGEDARSI ALLA ROMANA AL MOMENTO di prendere com-

miato un cittadino romano usava il termine vale se si rivolgeva a una sola persona o valeo se i destinatari del saluto erano più di uno. L’espressione deriva dal verbo latino valeo che significa «essere in salute», «stare bene». Quindi il senso della formula era «stai/state bene» o «possa/possiate godere di buona salute»; dallo stesso verbo deriva anche la parola «convalescente». Una formula più lunga, usata soprattutto nei testi scritti, era cura ut valeas, «cerca di stare bene; prenditi cura di te stesso». DUE SOLDATI SI ABBRACCIANO E SI BACIANO IN SEGNO DI AMICIZIA. COLONNA TRAIANA. MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA, ROMA. AKG / ALBUM

le era molto ben definito. Baciare la mano, per esempio, indicava rispetto e deferenza. Lo facevano i figli con i padri in determinate occasioni, ma anche i soldati con i rispettivi comandanti e i membri dei ceti umili con quelli delle classi più elevate. Non era insolito vedere i candidati a una certa carica pubblica baciare le mani dei loro potenziali elettori, per quanto fossero più abituali le strette di mano per strada o nel foro.

Segni di riverenza Le buone maniere richiedevano che un cittadino comune si alzasse in piedi all’arrivo di un magistrato, e lo

stesso dovevano fare i membri delle classi inferiori di fronte a quelli dei ceti più alti, i giovani al cospetto di un anziano e i senatori quando un’alta carica o lo stesso imperatore entrava o usciva dalla sede del senato. Inoltre era buona educazione scoprirsi il capo per salutare un funzionario pubblico o qualcuno cui si desiderava tributare particolare rispetto. I magistrati, d’altro canto, erano obbligati al saluto solo nei confronti di chi occupava una posizione più elevata della loro. Nel mondo militare i soldati salutavano i superiori portandosi la mano destra tesa alla testa in modo simile a quanto si fa attual-

mente. I romani attribuivano al saluto un tale valore sociale che esisteva un’istituzione specifica chiamata salutatio. Ogni mattina i personaggi più importanti aprivano le porte delle loro dimore affinché amici e clientes (ovvero chi aveva qualche obbligo nei loro confronti) potessero andare a rendergli omaggio. Quelli di rango uguale o superiore andavano per rafforzare i legami di amicizia e di potere, mentre i più umili vi si recavano nella speranza di portarsi a casa un po’ di monete, oppure per richiedere qualche particolare favore. FERNANDO LILLO REDONET FILOLOGO CLASSICO

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V I TA Q U OT I D I A N A

La febbre dei pattini a rotelle nel XIX secolo Negli anni settanta dell’ottocento aprirono migliaia di piste dove la gente poteva praticare il nuovo sport

L’

essere umano pattina da tempi immemorabili, lo dimostra il ritrovamento di rudimentali lame per scivolare sul ghiaccio fatte di ossa di mammut risalenti al Paleolitico superiore. Ciononostante i pattini a rotelle sono un’invenzione piuttosto recente. Sviluppatosi nel corso dell’ottocento, entro la fine del secolo l’uso dei pattini era diventato una moda in grado di conquistare tutto il mondo. Questo affermava nel 1876 il settimanale francese La vie parisienne: «Che gioia non sentirsi più pesanti, attaccati alla terra! […] Il grande piacere del pattinaggio è quello di liberarsi degli ostacoli». Tradizionalmente la prima apparizione dei pattini a rotelle si fa risalire alla metà del XVIII secolo a Londra, in una delle serate per l’alta società organizzate da una certa Theresa Cornely nella sua dimora

di Soho Square. Tra gli invitati era presente un inventore belga, John Joseph Merlin, che decise di stupire i presenti suonando il violino mentre pattinava su delle tavolette di legno munite di ruote metalliche. Ma gli sguardi ammirati si trasformarono presto in occhiate piene di orrore quando Merlin, incapace di frenare, andò a schiantarsi contro un prezioso specchio mandandolo in frantumi.

Pattini in linea

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Nel 1819 il francese Petitbled brevettò i suoi pattini: erano costituiti da una suola in legno munita di cinghie per poterla allacciare comodamente UNA PISTA di pattinaggio e avevano tre ruote disposte in fila, dello Utah (Stati Uniti) negli anni ’80 dell’ottocento. che potevano essere di legno, metallo o avorio. Ma a renderli veramente innovativi era un tacco, fissato con una vite all’altezza dei talloni, che permetteva di frenare. Sebbene no ancora difficili da manovrare ed quest’aggiunta rappresentasse un era necessario disporre di un ampio enorme passo in avanti, i pattini era- spazio giacché era possibile tracciare solamente curve molto larghe. Nel 1828 il famoso pattinatore francese su ghiaccio Jean Garcin creò un modello più evoluto. Stanco di dover attendere l’arrivo delNEL 1876 la rivista madrilena La Ilustración Española y Amela stagione fredda per tornare a ricana raccontava i vantaggi di quelli che definiva «pattidedicarsi al suo sport preferito, ni a rotelle perfezionati», accompagnando l’articolo con Garcin inventò un tipo illustrazioni come quella qui a sinistra. Ma si sentiva in di pattini chiamati Cindovere di avvertire: «Sono una sorta di catapulta che gar – un anagramma del una volta lanciata è difficile da fermare, o quantomeno suo cognome – che si richiede un certo sforzo e una buona dose di abilità». allacciavano alle caviglie evitando così brutte

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RISCHIO DI PERDERE IL CONTROLLO

PATTINO A ROTELLE PERFEZIONATO. INCISIONE DI LA ILUSTRACIÓN ESPAÑOLA Y AMERICANA. 1876. 18 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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“storte”. Nel 1848 il parigino Louis Legrand presentò un prototipo con due rotelle collocate su una lama come quella dei pattini su ghiaccio. Una versione con ruote doppie pensata per le donne mirava a «compensare la debolezza delle loro caviglie». Nonostante i limiti intrinseci di questi modelli, in poco tempo i pattini divennero molto popolari. Nel 1824 la stampa di Bordeaux sottolineava che i due spazi pubblici cittadini dove si poteva pattinare dalla mattina alla sera non erano sufficienti. Nel frattempo iniziavano a proliferare le scuole che insegnavano

i rudimenti dei pattini a rotelle. La prima venne aperta nel 1823 al numero sei di Windmill Street, a Londra, in un campo da tennis inutilizzato. L’anno dopo ne aprì una a Bordeaux e in seguito un’altra a Parigi. Nel 1828 lo stesso Garcin inaugurò la sua accademia dove si poteva imparare a volteggiare sui Cingar.

Il miglioramento decisivo Alla fine fu un meccanico del Massachusetts, James Leonard Plimpton, a creare il modello di pattini che oggi conosciamo. Quando il suo medico gli raccomandò di praticare il patti-

naggio sul ghiaccio, l’uomo approfittò delle sue conoscenze tecniche per inventare un sistema di quattro lame parallele collocate a due a due sulla suola del pattino. Questo modello ebbe scarso successo sul ghiaccio, ma applicato ai pattini a rotelle rappresentò un’innovazione radicale: le quattro ruote disposte su due file parallele aumentavano la stabilità e permettevano di eseguire delicatamente giri e manovre di altro tipo. Plimpton brevettò i suoi primi pattini nel gennaio 1863 ottenendo un successo immediato. Subito dopo inaugurò una fabbrica, mentre spunSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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V I TA Q U OT I D I A N A

BALLO IN MASCHERA su

tavano ovunque piste dedicate unicamente al pattinaggio su ruote. Per ottenere la massima resa economica dalla sua invenzione, Plimpton stabilì che i pattini a rotelle non potessero essere acquistati da privati, ma che dovessero essere venduti esclusivamente ai proprietari delle piste, che poi li avrebbero affittati ai loro clienti. Plimpton si spinse an-

SCALA, FIRENZE

pattini. Il pattinaggio andava di gran moda nell’alta società britannica, come mostra quest’illustrazione del 1877 della rivista The Graphic.

cora più in là, inaugurando decine di piste, gli skating-rink, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, dove si moltiplicarono soprattutto a partire dagli anni settanta dell’ottocento.

Una miniera d’oro Nel 1876 Londra contava più di sessanta sale con piste di cemento, asfalto, legno e perfino marmo. Alcune erano lussuose e scintillanti, a uso esclusivo degli aristocratici, mentre altre, più spartane, erano frequentate soprattutto da studenti che passavano pomeriggi interi a divertirsi. A Milano venne aperto uno stabilimento

Nel 1876 un giornale francese menzionava il «delirio su ruote» che stava invadendo Parigi UN PATTINATORE SUI PATTINI TRICICLI DI J.F. WALTER, DOTATI DI UNA PICCOLA RUOTA POSTERIORE CHE NE MIGLIORAVA LA STABILITÀ. WHA / AURIMAGES

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del genere nel 1877, inaugurato dalla ditta Cugini Praga nei bagni Diana di porta Venezia. A Parigi la prima pista di pattinaggio venne inaugurata nel 1875 nel vecchio Cirque de l’Impératrice, sugli Champs-Elysée: misurava più di mille metri quadrati e comprendeva anche un giardino, un caffè, un ristorante e un bar americano. Le feste e i concerti che vi si svolgevano, uniti all’atmosfera magica data dall’ancora poco diffusa illuminazione elettrica, contribuivano a renderla un posto incantevole. Il mercoledì il biglietto era più caro del normale e l’accesso era limitato ai membri dell’aristocrazia. I signori, elegantissimi in soprabito e cappello a cilindro o bombetta, portavano un monocolo e il bastone, che aggiungeva un tocco di distinzione e in più favoriva l’equilibrio. Le dame sfoggiavano fluttuanti cappelli di piume e ornavano le gonne appuntate

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IL PATTINAGGIO AL POSTO DELLA MESSA LA MODA DEL PATTINAGGIO

su un fianco con dei nastri. Spesso portavano un ventaglio e, nonostante lo scarso equilibrio dei pattini dell’epoca, indossavano i tacchi alti. Insomma, le sale di pattinaggio erano l’occasione perfetta per vedere ed essere visti, un passatempo all’insegna della moda di fine secolo. Questo tipo di ambiente divenne in poco tempo così popolare da far concorrenza alle sale da ballo. Nel 1876 Le Monde Illustré parlava del «delirio su ruote» che stava invadendo Parigi e La Revue des sports dichiarava: «Il pattinaggio a rotelle si sta affermando sempre più come uno sport serio, rivendicando il posto che gli corrisponde nell’alta società francese».

Un successo effimero Eppure il successo dei pattini non trovava tutti d’accordo. Ad esempio nel 1876 il naturalista ed esploratore Henri Mouhot affermava polemico: «S’inizia

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su ruote raggiunse il suo apice intorno al 1880. La popolarità di questo sport era tale che la domenica gli appassionati preferivano andare a pattinare piuttosto che a messa. Almeno questo è il messaggio trasmesso dall’incisione satirica qui accanto, apparsa in una rivista statunitense nel 1885. L’immagine mostra un sacerdote in una pista di pattinaggio intento a leggere una preghiera e seguito da due parrocchiane. La didascalia spiega il significato della vignetta: «Un suggerimento ai pastori con pochi fedeli per riempire le loro chiese».

[a pattinare] con due gambe e si finisce con una». Alla fine degli anni ottanta dell’ottocento alcuni imprenditori statunitensi cercarono di creare una sorta di multinazionale delle piste da pattinaggio, la Columbia-Skating Rink. Affittarono in diverse città del mondo grandi strutture in grado di accogliere migliaia di pattinatori. Nel 1892, quando fu inaugurata quella di Parigi, un giornalista locale scrisse un articolo in cui affermava che si trattava della pista di pattinaggio più grande del mondo, senza paragoni con ciò che si era visto fino ad allora. L’iniziativa degli «audaci imprenditori nordamericani», sempre secondo l’articolo, aveva trionfalmente raggiunto l’Australia, le Indie e ottenuto un enorme successo all’Olympia di Londra. La pista, con una superficie di 3.500 metri quadrati e realizzata in legno d’acero, era perfettamente liscia e costituiva un’ampia distesa che dava

l’illusione del ghiaccio, «meravigliosamente riscaldata e illuminata con luce elettrica». Naturalmente non potevano mancare un’orchestra di alto livello, eleganti decorazioni e soprattutto «cinquemila paia di pattini a rotelle, tra cui i famosi Ball-Bearing». L’azienda metteva inoltre a disposizione del pubblico vari insegnanti. Per l’inaugurazione erano stati distribuiti 40mila inviti. Anche se il giornalista si augurava che quella sala potesse risvegliare la passione per il pattinaggio, «uno sport tanto salutare quanto mondano», ormai l’epoca d’oro dei pattini a rotelle volgeva al suo termine. Sarebbero tornati in auge solo qualche decennio più tardi, esattamente nel 1910 quando, insieme alle gare di velocità, s’imposero gli sport sui pattini come l’hockey e il pattinaggio artistico. ANNALISA PALUMBO GIORNALISTA

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O P E R A D ’A R T E

ÉLISAB ETH - LOUISE VIGÉE- LEB RUN

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Autoritratto con cappello di paglia Negli anni precedenti alla Rivoluzione francese il quadro incarnò l’aspirazione delle donne a liberarsi dalle imposizioni della moda e ad affermarsi per i propri meriti famoso Autoritratto con cappello di paglia, ora conservato alla National Gallery di Londra, le consentì di affermarsi come artista. All’artificiosità, caratteristica del rococò, Élisabeth-Louise preferì quella semplicità che avrebbe poi segnato il periodo antecedente alla Rivoluzione francese, quando si diffuse il ritorno alla natura promosso dal filosofo Rousseau. Posta al centro della composizione, e con lo sguardo rivolto verso il pubblico, la pittrice si dipinge con la chioma sciolta, senza il talco tipico del momento: un’acconciatura apparentemente informale che la regina Maria Antonietta aveva imposto come tendenza nel 1781, dopo la nascita del secondo figlio. Tale messa in piega era chiamata appunto coiffure à l’enfant (pettinatura da bambino). Sul capo Vigée-Lebrun sfoggia un cappello di paglia abbellito da una piuma di struzzo e fiori di campo.

Sorriso insinuante

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Per evitare ogni artificiosità Élisabeth-Louise non si rappresentò con il trucco pesante dell’epoca e optò per un incarnato naturale: il viso si mostra in ombra per la tesa del cappello, che incornicia le sopracciglia non depilate e le labbra socchiuse e rosate. Malgrado l’om-

bra appena accentuata sulla bocca, s’intravedono i denti, il cui scintillio richiama gli orecchini in madreperla. A Vigée-Lebrun piaceva dipingere i propri modelli adulti con la bocca semiaperta, un carattere di spontaneità che contrastava con la posa solenne dei ritratti aristocratici, e che fu perciò oggetto di critiche. La pittrice indossa un vestito rosa senza crinolina interna, ovvero senza il rigido panier che rendeva gonfie le gonne. Poiché tale abito ricordava quello delle dame nelle Antille francesi, ricevette il nome di “vestito da creola”. Era chiamato pure “vestito camicia”: per la sottigliezza e semplicità dei tessuti e per la sua aderenza al corpo somigliava molto all’indumento intimo indicato all’epoca come chemise (camicia). Sulla vita Élisabeth-Louise porta un ampio nastro di seta marrone e sotto lo scialle nero s’intuiscono delle ampie maniche. La scollatura rotonda ornata di volant e merletti, che termina in un fiocco vistoso, è in pendant con i polsini. Il quadro era anche un atto d’affermazione dell’autrice, che si raffigurava come una donna moderna e indipendente e teneva in mano gli utensili del lavoro: una paletta di colori e dei pennelli sporchi di pittura. ARIANNA GIORGI STORICA DELL’ARTE

maria antonietta. Il vestito che sfoggia Vigée-Lebrun nell’autoritratto iniziò a diffondersi tra le donne dell’alta società alla fine degli anni settanta del XVIII secolo. L’avrebbe poi portato alla ribalta Maria Antonietta (a sinistra), che l’indossa in un dipinto della stessa pittrice, nel 1783. National Gallery of Art, Washington.

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utrice di più di ottocento opere, Élisabeth-Louise Vigée-Lebrun fu la grande pittrice dell’aristocrazia francese alla fine del XVIII secolo, nonché la ritrattista favorita della regina Maria Antonietta, che raffigurò in ben trenta occasioni. Malgrado il successo e l’ammissione all’Académie royale de peinture et de sculpture, non fu un’artista convenzionale. Nei dipinti non si limitava a riprodurre i modelli, ma voleva rivelarne il carattere e le attitudini, e mostrare al contempo le idiosincrasie dell’epoca. In particolare le sue opere esprimevano un nuovo ideale femminile, che lei stessa incarnò in una tela realizzata all’età di ventisette anni. Il quadro, il

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IL SESSO IN E G I T T O

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Gli dei egizi insegnavano che l’atto sessuale era la base dell’armonia del cosmo e della fertilità della terra. La sessualità umana era quindi soggetta ad alcune regole, che però non escludevano la ricerca del piacere

RE E DÈI

In questo rilievo proveniente dalla cappella Rossa di Hatshepsut a Karnak la regina appare con sembianze maschili e intenta ad abbracciare il dio Amon sotto forma di Min, il dio itifallico della fertilità.

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STATUETTA EROTICA

In epoca tolemaicoromana la sessualità è talvolta rappresentata in forme satiriche, come in questa statuetta in cui l’uomo appare con un fallo sproporzionato. Musée d’archéologie méditerranéenne, Marsiglia.

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e informazioni sui rapporti sessuali nell’antico Egitto giunte fino ai nostri giorni sono di carattere molto diverso rispetto a quelle che si trovano in altre culture. Se nei testi sacri egizi gli atti sessuali vengono descritti apertamente con verbi espliciti, nelle opere letterarie profane sono menzionati sempre in forme metaforiche o eufemistiche che mirano a dissimularne la natura. Nell’ambito iconografico avviene invece il contrario: nei contesti religiosi, come le tombe o i templi, le rappresentazioni visive con espliciti riferimenti sessuali scarseggiano. Immagini di questo tipo si trovano solo

in certa documentazione non ufficiale che fuoriesce dalle norme abituali di decoro sociale. Da ciò si può dedurre che la sessualità, come tutte le altre attività fisiologiche, era una prerogativa delle divinità e non poteva essere raffigurata né doveva essere menzionata in modo esplicito al di fuori della sfera del sacro.

Copulazioni divine La sessualità svolgeva un ruolo determinante nell’immaginario culturale egizio. La prova di ciò è che l’atto sessuale aveva un’evidente importanza nella creazione del cosmo. Nei Testi delle piramidi, considerati il primo corpus religioso documentato, il demiurgo, o dio creatore, è solo e dà origine alla sua progenie masturbandosi. È una divinità androgina capace di partorire autonomamente e di produrre la differenziazione sessuale: «Io sono colui che venne alla vita come Atum, fu in Eliopoli che si eresse il mio fallo, io lo afferrai e giunsi

JEAN-LUC MABY / RMN-GRAND PALAIS

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L’UNIONE DI GEB E NUT

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In questa scena, raffigurata nel sarcofago dello scriba Butehamon, la dea del cielo Nut è in procinto di congiungersi sessualmente con Geb, il dio della terra. Museo egizio, Torino.

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all’orgasmo, così avvenne che nacquero i due fratelli Shu e Tefnut». Con il tempo, e per assimilazione con altre tradizioni relative al mito della creazione, l’atto sessuale del demiurgo diventa più complesso. Il dio passa dalla masturbazione alla copulazione con la propria mano, intesa come parte femminile divinizzata e differenziata dal suo corpo: le eiacula in bocca e questa, simile all’utero materno, concepisce e dà alla luce la sua discendenza.

L’atto sessuale gioca un ruolo chiave anche nel ciclo mitico del dio Osiride. Dopo che questi è stato ucciso e smembrato dal fratello Seth, la moglie Iside ricostruisce il suo corpo in frantumi, si trasforma in un uccello rapace e si posa sul suo fallo per accoppiarsi con lui: «Tua sorella Iside viene verso di te rallegrandosi nel suo amore per te. Tu la fai sedere su di te, il tuo membro penetra in lei ed ella rimane incinta di un figlio simile alla stella Sepet. Horus-Sepet viene da te sotto forma

di Horus-che-abita-in-Sepet». Il risultato di questo atto sessuale stabilisce i due pilastri della monarchia dell’antico Egitto. Da un lato l’orgasmo di Osiride è il fattore scatenante della sua (ri)nascita e fa di lui il signore dell’oltretomba; dall’altro sua moglie e sorella Iside rimane incinta e partorisce Horus, il dio con cui s’identifica il faraone, incarnazione di Horus in terra.

Gli esseri umani e il sesso I rapporti sessuali avevano ovviamente un’importanza fondamentale anche nel mondo terreno. Ogni buon egizio, infatti, una volta raggiunta l’età adulta, aveva il compito di formare una famiglia e mettere al mondo dei discendenti. Così, per esempio, nel Papiro di Ani si dice: «Prendi una donna quando sei giovane, affinché faccia dei figli per te. Lei ti darà una progenie finché sei giovane. Insegnate alla vostra prole a diventare adulti. Felice è

IL DIO OSIRIDE

Osiride rinacque grazie alla moglie Iside, che si unì con lui per concepire un figlio, il dio falco Horus. Nell’immagine, rappresentazione di Osiride nella tomba di Horemheb della Valle dei Re.

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SEDUTA SULLE SUE GINOCCHIA

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Questa scena curiosa e tenera mostra la regina Nefertiti, cinta da una tunica drappeggiata, seduta sulle ginocchia del marito Akhenaton. Davanti a loro c’è un tavolo di offerte. Rilievo. Musée du Louvre.

UNA COPPIA FA SESSO

Su questo ostrakon qualcuno raffigurò una coppia intenta a copulare. La donna avvolge le gambe intorno al collo dell’uomo. Deir el-Medina. UIG / ALBUM

l’uomo che ha una discendenza abbondante, perché l’uomo è rispettato in proporzione al numero di figli».

Anche se non ci sono molte informazioni specifiche su questo aspetto, le relazioni sessuali non avevano plausibilmente un carattere privato. Le case egizie erano piccole e avevano pochissime stanze in cui conviveva un gran numero di persone: genitori, figli, nonni e in alcuni casi anche zie. Pertanto (e a differenza di quanto avviene nella nostra cultura, dove la sfera sessuale è contraddistinta dalla riservatezza) doveva essere normale per gli adulti fare sesso in ambienti dov’erano presenti anche altri membri della famiglia. Sebbene la documentazione scritta sembri

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ridurre la sfera sessuale all’ambito della procreazione, altre testimonianze dimostrano che le cose non stavano esattamente così. Le fonti iconografiche, e in particolare il cosiddetto Papiro satirico-erotico di Torino, illustrano una grande varietà di posizioni, la più documentata delle quali è il “coito a tergo”, in cui l’uomo penetra la donna da dietro – immagini che possono alludere non solo alla penetrazione vaginale ma anche a quella anale. In altri casi l’uomo si accoppia sdraiandosi sulla donna, oppure lui è in piedi e lei distesa sulla schiena o seduta. In una sola occasione la donna è rappresentata sopra l’uomo. Questa varietà è indicativa di una ricerca del piacere sia maschile sia femminile che non è certo caratteristica di società che limitano la copula alla procreazione. Oltre a queste differenti posture, le fonti documentano anche, per quanto in numero minore, altri generi di attività sessuali il cui

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IL VILLAGGIO DEGLI ARTIGIANI

Situato sulla sponda occidentale di Tebe, il villaggio di Deir elMedina ospitava gli artigiani che costruirono le tombe della Valle dei Re. Vi è stata ritrovata un’abbondante documentazione sulla vita dei suoi abitanti. ANGUS MC COMISKEY / ALAMY / ACI

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EROTI SMO E CAR I CAT U R A

IL PAPIRO SATIRICO-EROTICO

MICHAL BOUBIN / AGE FOTOSTOCK

MICHAL BOUBIN / AGE FOTOSTOCK

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RICOSTRUZIONE DI DUE SCENE DEL PAPIRO SATIRICO-EROTICO DI TORINO.

questo documento di contenuto satirico rinvenuto a Deir el-Medina si compone di due parti: in una sono raffigurati animali che svolgono attività umane, nell’altra appaiono illustrazioni sessuali esplicite. Le due parti furono probabilmente separate dall’egittologo Jean-François Champollion, e quest’ultima rimase nascosta nei magazzini del Museo egizio di Torino. Contiene dodici vignette simili a caricature che rappresentano scene sessuali tra uomini dall’aspetto grottesco e avvenenti figure femminili. 1 Una fanciulla si dipinge le labbra guardandosi

in uno specchio prima di un incontro sessuale.

2 Una donna siede su uno sgabello mentre pratica sesso

con un uomo dall’aria sciatta dotato di un grande fallo. 3 Un uomo penetra da dietro una donna (non visibile

nell’immagine) su di un carro.

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UNA COPPIA RICEVE OFFERTE

In questa stele proveniente dalla tomba di un personaggio di nome Ramose, questi e la moglie appaiono seduti e intenti a ricevere offerte di alimenti e incenso dal figlio e dalla figlia. Museo archeologico, Firenze.

UN BAMBINO DISTESO

«Non copulare con una donnabambina», si dice nelle Massime di Ptahhotep. Da ciò si deduce che la pedofilia non fosse socialmente accettata. Statuetta di un bambino. Periodo tolemaico. AKG / ALBUM

scopo non è in alcun modo riproduttivo ma edonistico. Per esempio la masturbazione, come visto precedentemente, oppure il sesso anale e la fellatio.

Adulteri e adultere A eccezione del faraone, la società egizia era monogama. Ciononostante, tutto sembra indicare che l’adulterio fosse un’attività più abituale di quanto previsto dai morigerati ideali di vita egizi. Già nelle confessioni negative del Libro per uscire nel giorno (le dichiarazioni d’innocenza che il defunto doveva professare di fronte al tribunale di Osiride, riportate nel capitolo 125) era necessario negare di aver avuto rapporti sessuali con donne sposate: «Non ho

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copulato con la moglie di un uomo». In modo analogo alcune storielle usate per istruire oralmente le masse analfabete narrano di casi di adulterio e delle relative conseguenze. La situazione alla base di questi racconti morali è quasi sempre la stessa: una donna sposata seduce un uomo di ceto sociale inferiore che soccombe al fascino di lei; gli amanti vengono invariabilmente scoperti dal consorte tradito e condannati a morte.

Riguardo ai casi d’infedeltà si sono conservati anche vari documenti legali. Le cause contro uomini che avevano tresche con donne sposate seguivano sempre lo stesso schema. Tra le accuse rivolte a Penanuki, un sacerdote di Elefantina, si legge ad esempio: «Imputazione relativa all’adulterio commesso con la cittadina Mutnemeh, figlia di Pasekhet, moglie del pescatore Thotemheb, figlio di Pentaur. Imputazione relativa all’adulterio commesso con Tabepas, figlia di Shuy, moglie di Ahauty».

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DEA / ALBUM

Purtroppo non si conosce la sentenza di questi processi, quindi non è chiaro quale punizione fosse riservata agli adulteri. Anche il resto della documentazione relativa alla vita quotidiana, nella maggior parte dei casi lettere, menziona esempi di tradimenti, soprattutto femminili. Queste comunicazioni personali erano spesso l’occasione per rivelare intrallazzi amorosi che avevano per protagoniste persone sposate. Dall’insieme delle testimonianze si può dedurre che sia gli uomini sia le donne cercavano nuovi partner al di fuori del matrimonio per godere di una sessualità differente da quella che vivevano con il rispettivo coniuge. Ma le regole del gioco erano diverse per maschi e femmine: mentre l’uomo sposato era libero di fare sesso con altre donne – sempre che queste non avessero marito – alla donna sposata non era consentito alcun tipo di relazione extraconiugale, né le nubili potevano accoppiarsi con uomini am-

mogliati. Forse gli uomini potevano dedicarsi al sesso fuori dal matrimonio anche frequentando delle specie di postriboli, ma non è certo. Tradizionalmente si è ritenuto che nell’antico Egitto esistesse la prostituzione. Alcuni termini riferiti alle donne sono stati spesso tradotti con il termine “prostituta”; in realtà, se si osserva meglio il contesto in cui vengono usati, si può notare che sono associati in primo luogo alla musica e secondariamente all’alcol, ma mai ad attività sessuali. Inoltre, la moneta venne introdotta in Egitto solo nel periodo persiano, quindi il pagamento di eventuali servizi avrebbe dovuto avvenire tramite baratto o qualche sistema sconosciuto. Insomma, sulla base della documentazione giunta fino ai nostri giorni non è possibile confermare l’esistenza della prostituzione. Va però tenuto conto del fatto che l’antico Egitto era una società patriarcale in cui prevaleva la mascolinità egemonica, e in ambienti di questo

ARPISTA IN UNA SCENA EROTICA

Questo frammento di cuoio raffigura una scena erotica in cui appaiono una donna che suona l’arpa sotto una vite e un uomo nudo con i genitali in evidenza. Metropolitan Museum, New York. MMA / RMN-GRAND PALAIS

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RAMOSE E SUA MOGLIE

La tomba di Ramose, che fu visir durante il regno dei faraoni Amenofi III e Akhenaton, è una delle più belle della necropoli di Sheikh Abd el-Qurna, situata sulla sponda occidentale di Luxor. In questo rilievo Ramose e sua moglie Merytptah – intenta ad abbracciare il consorte – indossano elaborate parrucche. DEA / SCALA, FIRENZE

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UNA COPPIA MASCHILE

Khnumhotep e Niankhkhnum furono parrucchieri reali durante il regno di Niuserra, faraone della V dinastia. Secondo alcuni egittologi, erano una coppia omosessuale. Scena della loro comune mastaba a Saqqara.

tipo esiste di solito qualche forma di sfruttamento sessuale femminile.

Nonostante la permissività che, come visto in precedenza, sembra caratterizzare alcune pratiche erotiche del mondo egizio, c’erano dei confini ben precisi. Nelle Massime di Ptahhotep, per esempio, si pongono esplicitamente dei limiti di età alle relazioni sessuali: «Non copulare con una donna-bambina». Altri documenti indicano che non si poteva entrare nei luoghi sacri dopo aver consumato un rapporto, a meno di non sottoporsi a una purificazione rituale. Ma a essere oggetto di biasimo tra gli egizi era soprattutto la pratica omosessuale. Come già detto ogni buon cittadino doveva formare una famiglia, il che rappresentava di per sé un motivo sufficiente a escludere l’omosessualità GIOVANE NUDA. STATUETTA D’AVORIO RISALENTE AL PERIODO TARDO (664-332 A.C.). LA RAGAZZA INDOSSA SOLO UNA CORTA PARRUCCA. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI. BRIDGEMAN / ACI

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in quanto relazione impossibilitata a generare. Nelle confessioni negative del Libro per uscire nel giorno, infatti, il defunto doveva dichiarare di non avere praticato sesso orale ad altri uomini né di averli penetrati. Ciononostante, alcune testimonianze sembrano indicare che il sesso anale fosse accettato in determinati contesti e forme. Questo atto sessuale veniva infatti usato come punizione o addirittura come metodo di sottomissione nei confronti del nemico sconfitto. La parte attiva – il penetrante – era il vincitore o il punitore; la parte passiva – il penetrato, il perdente o il punito – veniva umiliato attraverso la costrizione ad assumere il ruolo femminile all’interno di un rapporto. L’avversione nei confronti degli uomini che avevano subito una penetrazione anale era così forte tra gli egizi che esisteva persino un insulto specifico per designarli: nkkw, letteralmente“colui che viene ripetutamente penetrato”.

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M. CHAMBERS / AGE FOTOSTOCK

A partire dal Nuovo Regno diventa una prassi abbastanza normale quella di utilizzare insulti che fanno riferimento a un atto sessuale. Il più comune era augurarsi che un animale, di solito un asino – ma anche i cani erano citati di frequente – si accoppiasse con il bersaglio degli improperi e con i suoi parenti: «Che un asino si fotta lui e la sua sposa», auspica un detto alquanto comune. A volte l’offesa poteva virare verso dei contenuti incestuosi: «Che un asino si fotta sua moglie e questa suo figlio».

Una questione culturale La grande varietà di posture e pratiche sessuali citate dalle fonti testimonia il fatto che gli antichi egizi non percepivano la sessualità come un ambito dotato di uno scopo meramente riproduttivo, bensì come un’attività che aveva tra i suoi fini anche il piacere. La ricerca del godimento personale può sembrare qualcosa di scontato essendo attual-

mente la forma abituale di concepire il sesso nel mondo occidentale. A livello religioso invece, diversamente da quanto avviene oggi, gli egizi concepivano la sessualità come un atto caratteristico del mondo divino; essa era infatti necessaria al buon funzionamento del cosmo.

Se ne può concludere che le pratiche sessuali rappresentano un elemento caratterizzante di una determinata società. La sessualità umana è dunque uno dei vari ambiti che permettono di differenziare le culture le une dalle altre, allo stesso modo della lingua, la scrittura, la religione o l’abbigliamento.

L’ASINO COME INSULTO

Uno degli animali più ricorrenti negli insulti di tipo sessuale era l’asino. Qui sopra ne è raffigurato uno legato accanto a tre spiriti armati di coltello. Papiro di Khensumose. Kunsthistorisches Museum, Vienna. ERICH LESSING / ALBUM

MARC ORRIOLS-LLONCH EGITTOLOGO. UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA

Per saperne di più

SAGGI

Erotismo e sessualità nell’antico Egitto Alfredo Luvino. Yume, Torino, 2015. L’amore al tempo dei faraoni Florence Maruéjol. Gremese, Roma, 2012.

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EROTI SMO E R EG AL I T À

NELL’INTIMITÀ DEL FARAONE Nell’anticamera della tomba di Tutankhamon, nella Valle dei Re, Howard Carter scoprì una piccola cappella in legno dorato destinata a una statua di culto. Il tempietto era decorato con rilievi raffiguranti il sovrano e sua moglie Ankhesenamon in diverse situazioni affettuose, che rappresentavano una descrizione metaforica della loro unione sessuale.

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LA REGINA

Ankhesenamon è raffigurata seduta ai piedi del marito. Indossa una tunica trasparente drappeggiata, che lascia intravedere il seno e il ventre. Ha in testa una corta parrucca su cui porta la corona shuty con due alte piume.

2

LIBAGIONE

Il faraone versa un liquido, forse un unguento, nella mano destra della moglie, che lo riceve con il braccio sinistro appoggiato sulle ginocchia del faraone. Il liquido versato ha una connotazione sessuale legata alla rinascita e alla cosmogonia.

3

TUTANKHAMON

Il faraone osserva la moglie mentre le versa l’unguento sulla mano. Seduto su uno sgabello pieghevole, il sovrano impugna con la sinistra un fiore di loto e delle mandragore. In testa ha la corona blu khepresh e indossa una lunga tunica e una collana usekh.

PARTICOLARE DI UNA DELLE QUATTRO SCENE CHE DECORANO IL TEMPIETTO RELIQUIARIO IN LEGNO DORATO SCOPERTO NELL’ANTICAMERA DELLA TOMBA DI TUTANKHAMON. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.

BRIDGEMAN / ACI

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STONE LE ULTIME

TOM MACKIE / AWL IMAGES

All’inizio del XXI secolo l’archeologia ha cominciato a svelare gli enigmi di questo leggendario circolo di pietre che si erge sulla piana di Salisbury, nel sud dell’Inghilterra

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HENGE SCOPERTE

STONEHENGE IN INVERNO

L’immagine mostra il famoso complesso megalitico dopo una nevicata. Anche se alcuni ricercatori sostengono che non fu mai completato, è molto probabile che il suo stato attuale sia dovuto all’azione degli elementi e dei saccheggiatori.

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1925 1950

Viene rinvenuta la tomba dell’arciere di Amesbury, al cui interno si trova un ricco corredo funebre datato tra il 2400 e il 2200 a.C. Lo Stonehenge Riverside Project (SRP) effettua 45 scavi in diverse aree del sito di Stonehenge.

se formata da circa 162 pietre. Attualmente all’interno del cerchio resistono in piedi sei grandi blocchi di arenaria sormontati da tre enormi architravi; nell’anello esterno ci sono diciassette pietre verticali dello stesso materiale che sostengono una manciata di elementi orizzontali. Delle ottanta pietre blu presumibilmente ospitate dal complesso originario ne rimangono quarantatré. Nonostante il degrado, Stonehenge e l’area circostante esercitano ancora un grande fascino e non smettono di sollevare interrogativi: qual era la funzione di questi spazi e da chi furono creati? Da dove venivano le pietre utilizzate? La costruzione avvenne in una o più fasi? Il sito di Stonehenge (dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1986) comprende vari insediamenti, luoghi di sepoltura, aree cerimoniali e altri grandi edifici in argilla e in pietra di notevoli dimensioni. Il cursus (una lunga fossa affiancata da un rialzo) e il viale, ad esempio, si estendono per tre chilometri, mentre Durrington Walls, con i suoi cinquecento metri di diametro, è l’henge (ovvero uno spazio circolare delimitato da un fossato e da un terrapieno) più ampio finora conosciuto in Gran Bretagna, a dimostrazione della capacità delle popolazioni preistoriche di concepire, progettare e costruire monumenti di grandezza e complessità elevate.

Un vero e proprio cimitero? Le ricerche più recenti hanno fornito nuove risposte alle domande che continuano a porsi sia i visitatori di Stonehenge sia gli storici e gli archeologi. Tra il 2003 e il 2009 lo Stonehenge Riverside Project (SRP) diretto da Mike Parker Pearson dell’Università di Sheffield ha effettuato quarantacinque scavi nel complesso, tra cui il cursus, Durrington Walls e West Amesbury (noto anche come Bluestonehenge).

TESTA DI MAZZA IN GNEISS LEVIGATO TROVATA VICINO ALLE BUCHE DI AUBREY.

Nel 2008, sempre nell’ambito di questo progetto, sono stati realizzati altri due scavi all’interno del circolo litico di Stonehenge. Uno di questi mirava a recuperare i resti del-

ILLUSTRAZIONE: 4D NEWS

Nel suo periodo di maggior splendore estendeva verosimilmente la sua influenza su un territorio di oltre duecento chilometri quadrati abitato da alcune delle prime comunità agricole delle isole britanniche. Si ritiene che l’imponente costruzione originale fos-

2002

Il primo intervento eseguito a Stonehenge intorno al 3000 a.C. fu la creazione del perimetro circolare. Consisteva in un fossato e due terrapieni, uno interno e l’altro esterno, fatti con il materiale argilloso estratto nel corso dei lavori di scavo. Dentro tale perimetro fu quindi eretto un anello di cinquantasei pali di legno o pietra, di cui rimangono solo i fori nel terreno: si tratta delle cosiddette “buche di Aubrey”. Per centinaia di anni il sito fu utilizzato per seppellire i resti delle cremazioni funebri. Intorno al 2500 a.C. subì una notevole trasformazione con la costruzione del circolo litico conservatosi fino ai giorni nostri, costituito da enormi sarsen, ovvero dei blocchi di arenaria, e da massi più piccoli di basalto bluastro, noti come “pietre blu”. Stonehenge è probabilmente il monumento preistorico di questo tipo più elaborato dal punto di vista architettonico.

Gli archeologi Richard Atkinson e Stuart Piggott effettuano scavi a Stonehenge. Prima datazione al carbonio-14.

2003-2009

Una zona sacra

A tre km da Stonehenge viene scoperto Durrington Walls, forse il villaggio dove risiedettero i costruttori del celebre monumento.

KEN GEIGER / NG IMAGE COLLECTION

S

u una dolce collina della piana di Salisbury, nella contea dello Wiltshire (a 130 chilometri da Londra), sorge uno dei monumenti megalitici più impressionanti al mondo. La costruzione del famoso circolo di Stonehenge iniziò intorno al 3000 a.C., ma l’opera fu continuamente modificata nel corso dei 1500 anni successivi. L’emblematico anello di pietra fu eretto nel tardo Neolitico, intorno al 2500 a.C. Stonehenge e i territori circostanti – che comprendono vari siti e alcune aree rituali in connessione tra loro – rappresentano una testimonianza delle pratiche cerimoniali e funerarie dell’Età del bronzo, caratteristiche di una società altamente organizzata e dotata di approfondite conoscenze astronomiche.

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OLTRE UN M I L L ENNI O DI EVO LUZ I O NE

LE TRE GRANDI TAPPE

L’

aspetto di Stonehenge si è evoluto da un circolo iniziale alla complessa opera di cui oggi sono visibili i resti. Sebbene vi siano prove che tra l’8500 e il 7000 a.C. fossero già presenti nella zona alcuni gruppi di cacciatori-raccoglitori, le prime costruzioni si registrano solo nel 3000 a.C. Il monumento originale era costituito da un henge, una struttura circolare delimitata da un fossato. I costruttori depositarono gli strumenti utilizzati per gli scavi (picconi in corno di cervo e pale in ossa di mucca) su entrambi i lati dell’ingresso e sul fondo dello stesso fossato. È stato pertanto possibile datarli con il metodo del carbonio-14: risalgono al periodo compreso tra il 3000 e il 2920 a.C. e sono quindi coevi di questa prima struttura circolare. In una seconda fase furono costruiti gli anelli che formavano il cromlech, o circolo di pietre. Le ultime modifiche di un certo rilievo vennero apportate secoli dopo, quando furono posate nuove pietre e si procedette a costruire il viale. Poi il sito fu abbandonato.

1

2

Triliti

3

PRIMA FASE (3000-2700 A.C.)

Al principio Stonehenge consiste in un fossato circolare delimitato all’interno e all’esterno da due terrapieni. Dentro il fossato vengono scavati 56 fori (le buche di Aubrey) destinati forse a ospitare dei pali di legno o pietra di cui però non ci sono prove archeologiche.

2

SECONDA FASE

(2700-2500

Pietra del tallone

Pietra del sacrificio

A.C.)

Vengono costruiti i circoli litici: cinque triliti di sarsen al centro, disposti a ferro di cavallo, attorniati da circoli di blocchi di basalto bluastro (bluestone, pietre blu), e un circolo esterno di sarsen con architravi.

3

TERZA FASE (2500-1600 A.C.)

Vengono posate due pietre (quella del “tallone” e quella del “sacrificio”) per indicare la direzione dell’alba nel giorno del solstizio d’estate; vengono aggiunti due circoli di buche (Z e Y) all’esterno del cromlech e si costruisce il viale che porta al fiume Avon.

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Buche Y

Buche Z

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IL CIRCOLO DI WEST AMESBURY

Situato all’estremità del viale che lo collega a Stonehenge (a tre km di distanza), era forse connesso anche a Durrington Walls attraverso il corso del fiume Avon. Oggi di questo antico henge rimangono solo nove buche e alcuni fossati.

EFE

CREMAZIONI FUNEBRI

Sotto, resti di ossa cremate e sepolte in una delle “buche di Aubrey” che fanno parte del circolo di Stonehenge. ALAMY / ACI

le cremazioni funerarie della settima buca di Aubrey per applicarvi nuove tecniche d’indagine scientifica e forense. Infatti fino a poco tempo fa i resti umani cremati, a differenza di quelli sepolti, non potevano essere sottoposti a studi scientifici adeguati a causa degli effetti deterioranti della combustione. Ora invece sono utilizzabili metodologie come l’analisi degli isotopi di stronzio. Le ricerche dello Stonehenge Riverside Project hanno permesso di datare i fori alla prima fase del sito e hanno dimostrato che il monumento fu utilizzato come luogo di sepoltura fino al 2450 a.C., rafforzando così l’idea che fosse associato al culto dei morti. L’analisi delle ossa della buca numero sette, appartenenti a venticinque individui, ha ri-

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velato che almeno dieci di loro (il quaranta per cento) non avevano vissuto nelle vicinanze di Stonehenge né nelle aree argillose del sud dell’Inghilterra per lo meno nei dieci anni precedenti alla loro morte. Si è ipotizzato che provenissero dal Galles occidentale, la zona di origine delle pietre blu, il che dimostrerebbe l’esistenza di collegamenti tra le varie regioni sia nella fase di costruzione sia in quella di utilizzo del sito. È anche possibile che tali individui fossero stati cremati altrove e poi sepolti qui in un secondo momento, forse in occasione della posa delle pietre blu. Sulla base dei resti trovati in diverse zone di Stonehenge (molti dei quali nelle buche di Aubrey), si ritiene che vi fossero state seppellite circa 240 persone. Si tratta di un nume-

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BUCA DI AUBREY, RICOPERTA, NELLE VICINANZE DEL CIRCOLO DI PIETRA DI STONEHENGE.

ro piuttosto esiguo se si considera che il sito venne usato per un lungo periodo. È dunque plausibile che fosse destinato a ospitare il riposo finale di un ristretto gruppo di uomini, donne e bambini. La maggior parte delle ossa appartiene a maschi di età compresa tra i venticinque e i quarant’anni, verosimilmente importanti leader. Tutto ciò indica che Stonehenge fu con ogni probabilità un autentico cimitero, in accordo con l’opinione prevalente tra gli archeologi secondo cui era un luogo di venerazione degli antenati.

Gli scavi effettuati nell’ambito dello SRP hanno rivelato anche la grande estensione di Durrington Walls, un insediamento edificato all’interno di uno spazio circolare simile a quello di Stonehenge. Con un diametro di poco meno di cinquecento metri, l’henge si estendeva su 170mila metri quadrati. Al suo interno oltre alle case furono eretti due circoli di pali di legno. L’enorme quantità di resti di animali rinvenuti nell’insediamento suggerisce un elevato consumo di maiali e mucche in determinati periodi dell’anno: probabilmente un gran numero di persone si riuniva a Durrington Walls a metà dell’estate e dell’inverno per celebrare grandi feste stagionali.

Le sepolture e i monumenti in pietra di Stonehenge contrastano con i circoli in legno e le semplici abitazioni di Durrington Walls, dove sono state trovate 80mila ossa animali e solo quattro umane. Archeologi come Mike Parker Pearson e Ramilisonina hanno suggerito che Durrington Walls e Stonehenge fossero parte di un unico complesso in cui la pietra era usata per gli antenati e il legno per i vivi. L’uso dei circoli di legno a Durrington Walls costituirebbe quindi una celebrazione dell’esistenza. MICHAEL GANTLEY UNIVERSITÀ DI OXFORD

Per saperne di più

SAGGI

Stonehenge Bernhard Maier. Il Mulino, Bologna, 2020. Stonehenge. Fra archeologia e storia Paolo Malagrinò, Ginevra Bentivoglio. EditoriA, Roma, 2013.

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SERGIO AZENHA / ALAMY / ACI

Durrington Walls

LE BUCHE D I AU B R E Y I 56 FORI, CON UNA PROFONDITÀ media di 0,76 metri per 1,06 metri di diametro, disposti in circolo e noti come “buche di Aubrey”, risalgono alle prime fasi di costruzione di Stonehenge. Di questi, 25 sono stati scavati nella prima metà del XX secolo; negli strati superiori di molti di essi sono stati trovati resti di cremazioni funebri e spille ossee che forse servivano a chiudere le sacche di pelle o di tessuto che li contenevano. La buca numero sette è stata scavata di nuovo nel 2008, e in quell’occasione sono stati identificati e analizzati i resti di almeno 25 persone (uomini, donne e bambini) lì deposti nel corso di cinque secoli, tra il 3000 e il 2450 a.C. Questo fa di Stonehenge il più antico cimitero di cremazione della Gran Bretagna.

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Cursus. La costruzione, avvenuta intorno al 3500 a.C., di questa fossa rettilinea affiancata da un terrapieno richiese la rimozione di 20mila tonnellate di terra.

Stonehenge

Fossato. Tra il 3000 e il 2700 a.C. venne costruito il primo sito di Stonehenge: un fossato delimitato da terrapieni e contenente le 56 buche di Aubrey.

Circolo centrale. Costruito intorno al 2500 a.C. con sarsen e pietre blu.

In questo punto il viale curvava bruscamente, e chi proveniva dal fiume si vedeva comparire davanti agli occhi Stonehenge in cima a una collina.

I L COM PLE SSO DI S TON EH ENG E L’area di Stonehenge si estende su una superficie di 26 km2 e ospita una quantità unica di monumenti funebri e rituali. Comprende la stessa Stonehenge, il cursus, Durrington Walls e Woodhenge, così come la più grande concentrazione di tumuli funerari della Gran Bretagna. La datazione del cursus fa pensare che fosse parte di un complesso precedente all’erezione di Stonehenge. Altri monumenti, come Woodhenge e il circolo meridionale di Durrington Walls, hanno conservato l’allineamento in direzione dei solstizi d’estate e d’inverno. ILLUSTRAZIONE: 4D NEWS

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Durrington Walls. Questo insediamento neolitico fu costruito tra il 2525 e il 2440 a.C. Si ritiene che ospitasse i costruttori del monumento e chi si recava in pellegrinaggio a Stonehenge.

Woodhenge. Realizzato con pali di legno, questo monumento circolare fu eretto intorno al 2300 a.C.

Viale. Costruito intorno al 2100 a.C., era largo 12 m e delimitato da due terrapieni. Costituiva l’ampia entrata cerimoniale a Stonehenge per la gente che proveniva dall’Avon, a più di 1,5 km di distanza.

West Amesbury Circle. Secondo l’archeologo Michael Parker Pearson, il viale e la riva dell’Avon costituivano un percorso rituale che collegava Stonehenge e Durrington Walls passando per West Amesbury. Intorno al 2300 a.C. circa furono rimosse le pietre blu con cui era stato eretto questo circolo tra il 3400 e il 2500 a.C.

Avon

Avon

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1 B LU E STO N E , L E P I E T R E D E L G A L L E S

L’ORIG IN E DEI MONOLITI B LU

L

e famose pietre blu di Stonehenge (principalmente riolite e diabase) furono le prime a essere utilizzate nel sito. Sebbene già negli anni venti del novecento si fosse ipotizzato che l’area di origine di queste pietre potessero essere le Preseli Hills, delle colline del Galles occidentale (a circa 200 km di distanza), solo recentemente si è concluso che venivano dalle cave di Craig Rhos e Carn Goedog. Secondo alcune teorie, le pietre sarebbero state trascinate fino a Salisbury dallo scioglimento dei ghiacciai. Tuttavia la teoria più accreditata è che furono gli abitanti della regione gallese a portarle a Stonehenge. Ciò costituirebbe uno dei più straordinari esempi di trasporto su lunga distanza di grandi monoliti in epoca preistorica. Qualcuno ha suggerito che il ri-

corso alle bluestone fosse motivato dalle particolari proprietà curative a esse attribuite. Ma archeologhe come Alison Sheridan preferiscono concentrarsi sull’importanza dell’area di Preseli per i costruttori di Stonehenge. Sulla base della densità di dolmen in quella zona nel primo Neolitico, queste ritengono che Preseli fosse uno dei primi insediamenti sulla costa del mare d’Irlanda di comunità agricole provenienti dalla Bretagna francese. L’utilizzo delle pietre blu a Stonehenge solleva interrogativi sulla natura dei contatti tra la regione storica del Wessex (dove si trova il monumento) e il Galles meridionale, così come sull’identità e l’origine delle persone lì sepolte: appartenevano a comunità vicine (forse a un’élite locale) o erano individui provenienti da zone più remote, come il Galles?

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Probabile rotta delle pietre blu Rotta alternativa delle pietre blu Probabile rotta dei blocchi di sarsen Rotta alternativa dei blocchi di sarsen

Mappa con le possibili rotte marittime seguite dalle pietre utilizzate a Stonehenge. Si tratta d’ipotesi non verificate. Secondo un’altra teoria, le pietre blu furono trasportate lungo un percorso prevalentemente terrestre che attraversava le valli di Nyfer, Taf, Towy e Usk, e l’estuario del Severn per poi raggiungere il Somerset e infine la piana di Salisbury.

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LA CAVA DI STONEHENGE

Alcune grandi pietre svettano sulle Preseli Hills, nel Galles occidentale. I ricercatori ritengono che da qui provengano le gigantesche bluestone del cromlech di Stonehenge. ANDREW HENDERSON / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

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Gli architravi sono fissati alle pietre verticali con una giunzione a incastro del tipo a tenone e mortasa.

A COSA SERV I VA?

LA FUNZIONE DI STONEHENGE

I

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ritrovamenti archeologici indicano che la costruzione rispondeva probabilmente a una combinazione di rituali, come per esempio le feste stagionali legate all’osservazione solare e lunare. Dato che l’edificazione del monumento durò tra i 1.200 e i 1.500 anni, è ipotizzabile che abbia assunto funzioni diverse a seconda dei periodi. L’ingresso è orientato verso il sole nascente nel giorno del solstizio d’estate, il più lungo dell’anno. Questo suggerisce che Stonehenge fungesse da calendario per seguire il movimento del sole e della luna e per determinare i cambi di stagione, essenziali per delle comunità che dipendevano dall’agricoltura, dalla pesca e dalla caccia. Chi si riuniva a Stonehenge per il solstizio d’estate si trovava probabilmente di fronte a un evento più mitologico che astronomico; le cerimonie che vi si celebravano costituivano forse una rappresentazione d’idee sulla vita, la morte e l’aldilà.

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EREZIONE DEI TRILITI DI SARSEN A STONEHENGE. ILLUSTRAZIONE DI IVAN LAPPER.

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CIRCOLO ESTERNO

ILLUSTRAZI0NE: 4D NEWS

HERITAGE-IMAGES / ALBUM

Ha un diametro di circa 30 metri. Era formato da 30 blocchi di sarsen sormontati da architravi; le pietre erano state precedentemente lavorate.

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SECONDO ANELLO

Questo cerchio era formato da una sessantina di pietre blu di dimensioni più piccole e disposte verticalmente. A differenza di quelle del circolo esterno, non erano scolpite.

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Il trilite più grande si trova di fronte all’ingresso e al viale. Misura 7,3 m dal suolo (architrave compreso).

4

All’interno del cromlech sono state trovate ossa di animali.

Le offerte dovevano essere abituali, considerata la funzione religiosa svolta dal monumento.

La “pietra dell’altare” prende il nome dalla sua posizione centrale. Non si sa se fosse collocata orizzontalmente o verticalmente.

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TRILITI DI SARSEN

I cinque monumentali triliti di sarsen sono disposti a ferro di cavallo in ordine di altezza crescente. Quello centrale è il più alto; ognuno degli elementi verticali pesa più di 20 tonnellate.

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IL CIRCOLO INTERNO

Il circolo interno, quello di minori dimensioni, è costituito da pietre blu (le più piccole di tutto il cromlech) disposte anch’esse a ferro di cavallo.

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GAVIN HELLIER / AWL IMAGES

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VISTA AEREA

L’immagine mostra la piana di Salisbury coperta dalla nebbia, con una vista zenitale di Stonehenge che permette di apprezzarne lo stato di conservazione attuale.

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INTERNO DI UNA CASA

Le abitazioni, di circa 25 m2, erano usate solo per mangiare e dormire. L’arredamento era basico: pagliericci e mobilio per la conservazione di alimenti. Le pareti interne erano in graticcio.

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ESTERNO DELLA CASA

Le pareti esterne venivano probabilmente intonacate con l’argilla per renderle impermeabili. La struttura era ricoperta da un tetto di paglia.

U N V I L L AG G I O N E O L I T I CO

DURRINGTON WALLS

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uove tecniche di datazione incentrate sull’uso della statistica bayesiana hanno permesso di stabilire che l’insediamento risale intorno al 2500 a.C. Sarebbe quindi contemporaneo all’erezione dei cerchi di pietra di Stonehenge, da cui l’ipotesi che desse alloggio ai costruttori del monumento. Secondo i risultati degli scavi del 2004-2007, Durrington Walls era formato probabilmente da un migliaio di abitazioni. Dei due cerchi di pali di legno qui edificati, il più grande è quello meridionale, che ha un diametro di circa 40 m ed è costituito da sei anelli concentrici. L’ingresso è diretto verso l’alba nel solstizio d’inverno (quindi in senso opposto a quello di Stonehenge, la cui entrata è diretta verso l’alba nel solstizio d’estate), mentre il viale che conduce all’henge punta in direzione del tramonto nel solstizio d’estate.

Circolo settentrionale

Circolo meridionale

ILLUSTRAZIONI: 4D NEWS

ADAM STANFORD / AERIAL-CAM

IL SITO DI DURRINGTON WALLS COME APPARE OGGI.

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Viale

UN VILLAGGIO NEOLITICO

Questa ricostruzione mostra l’insediamento intorno al 2500 a.C. Si possono vedere i monumenti in legno dei circoli settentrionale e meridionale, così come il viale che collegava l’insediamento all’Avon.

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1 L’ACCESSO Il complesso era dotato di un unico accesso collegato all’Avon da un viale che attraversava l’ampio fossato circostante. L’ingresso doveva essere una semplice apertura situata a nord-est del circolo di legno.

UN MON U M ENTO DI L EG NO

CIRCOLO DI WOODHENGE

Il terrapieno e il fossato delimitavano un henge di forma leggermente ovale.

T

IL CIRCOLO DI LEGNO DI WOODHENGE VISTO DALL’ALTO.

L’anello esterno ha un diametro di circa 40 m.

ILLUSTRAZIONE: 4D NEWS

CHARLES WALKER / ALAMY / ACI

re chilometri a nord-est di Stonehenge e qualche centinaio di metri a sud di Durrington Walls sorge Woodhenge. Identificato nel 1926 grazie a una fotografia aerea, il monumento ha una forma circolare e un unico ingresso a nord-est orientato, come Stonehenge, verso il solstizio d’estate. La superficie interna è di circa 1.600 m2 ed è delimitata esternamente da un fossato e da un terrapieno. Il diametro totale raggiunge i 110 metri. Il terrapieno è largo dieci metri e alto uno; il fossato a fondo piatto misura dieci metri di larghezza per 2,5 di profondità. All’interno del perimetro sono presenti sei cerchi concentrici di fori o buche che un tempo ospitavano supporti in legno; il cerchio esterno misura intorno ai 40 metri di diametro. Al centro dell’anello furono sepolti i resti di un bambino in posizione fetale. La struttura risale al 2300 a.C.

Similmente al caso di Stonehenge, il fossato e il terrapieno formavano un recinto di circa 110 m di diametro.

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2 LA

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STRUTTURA

I pali di legno, forse un tempo decorati, formavano sei cerchi concentrici di differenti diametri. Probabilmente i montanti verticali erano congiunti con delle travi orizzontali per formare la struttura portante.

TETTO

Non ci sono prove che Woodhenge fosse coperto (e anche se lo fosse stato, il tetto non si sarebbe conservato). L’esistenza dei pali di legno è stata dedotta dalla presenza dei fori in cui erano inseriti.

Alcuni archeologi ritengono che la struttura fosse coperta e disponesse di un’apertura al centro.

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Un viale attraversava il fossato all’altezza dell’ingresso.

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Zanne di cinghiale

UNA TOM BA DEL L’ ÉL I TE

L’ARCIERE DI A M E SB U RY

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a tomba dell’Arciere è stata scoperta nel 2002, durante gli scavi preliminari alla costruzione di una nuova area residenziale presso Amesbury, quattro chilometri a sud-est di Stonehenge. La tomba, datata tra il 2400 e il 2200 a.C., è la più preziosa sepoltura non solo di Stonehenge ma di tutta la Gran Bretagna dell’Età del bronzo. I risultati dell’analisi degli isotopi di ossigeno, effettuata sullo smalto dei denti dell’arciere, indicano che questi proveniva da una regione alpina dell’Europa centrale. Ciò dimostrerebbe l’esistenza di connessioni tra l’Inghilterra e il continente all’alba dell’Età dei metalli. Un foro nella mascella suggerisce che l’arciere fu vittima di un doloroso ascesso dentale, mentre la mancanza di una rotula nel ginocchio sinistro indica una grave lesione lasciatagli probabilmente in eredità da una prolungata infezione ossea.

Coltello di rame

O G G ET T I P E R S O N A L I

Nel corredo funebre rinvenuto accanto all’arciere di Amesbury spiccano alcuni oggetti: cinque vasi di ceramica, 18 punte di freccia in selce, alcune zanne di cinghiale, due bracciali di arenaria, tre piccoli coltelli di rame, una pietra focaia, vari strumenti per la lavorazione del metallo, un anello di scisto e, forse i più preziosi di tutti,

due manufatti in oro per ornamentazione personale, probabilmente due fermacapelli. I ritrovamenti della tomba dell’arciere (qui a destra) sono tra i più antichi esempi di oggetti di questo tipo scoperti in Gran Bretagna fino a oggi. KENNETH GEIGER / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

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Decorazioni in oro

Punte di freccia in selce

PELLEGRINO O SCIAMANO?

Questo maschio di etĂ compresa tra i 35 e i 45 anni era circondato da frecce, da cui il nome assegnatogli dagli archeologi. Ma chi fosse questo individuo rimane un mistero. Il ricercatore Timothy Darvill ipotizza che potesse trattarsi di un pellegrino o forse di una specie di sciamano giunto sul posto nella speranza che il potere taumaturgico delle pietre blu potesse guarire la sua lesione al ginocchio. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LE ARMI DI ACHILLE

Il dio Efesto consegna lo scudo appena forgiato alla ninfa Teti, che vi si riflette. Un ciclope al servizio della divinità sta dando gli ultimi ritocchi all’elmo che – come gli schinieri e l’armatura posati a terra – è destinato ad Achille, figlio di Peleo e della stessa Teti. Affresco di Pompei. Museo archeologico nazionale, Napoli. ERICH LESSING / ALBUM

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LA GRANDE BATTAGLIA DELL’ILIADE

ACHILLE CONTRO ETTORE Venuto a sapere della morte del suo amico Patroclo per mano di Ettore, Achille tornò a unirsi alla guerra contro i troiani con le armi che il dio Efesto aveva forgiato per lui

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IL PROTAGONISTA

Questa statua del II secolo a.C. con aggiunte barocche, nota come Ares Ludovisi, faceva forse parte di un gruppo scultoreo in cui apparivano anche Achille e la madre Teti. Museo nazionale romano, palazzo Altemps, Roma. BRIDGEMAN / ACI

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Iliade di Omero dedica molto spazio alle descrizioni particolareggiate dei combattimenti trattandosi di un’epopea incentrata sulla guerra che vide scontrarsi due grandi eserciti sotto le mura di una città dell’Asia Minore, Troia. Il culmine dell’azione epica viene raggiunto proprio in uno di questi duelli, quello tra l’eroe greco Achille e il troiano Ettore. Nonostante le personalità molto diverse, i due uomini hanno dei tratti in comune. Entrambi sono nobili; Achille è figlio di una ninfa e del re di Ftia, Ettore è il rampollo del re e della regina di Troia. Entrambi sono i guerrieri di punta dei rispettivi eserciti, e entrambi sono giovani e rispettati. E come il poema epico cerca di dimostrare,

entrambi hanno una disperata voglia di vivere. Per entrambi, il confronto finale assume dei toni molto personali. La carneficina compiuta da Achille tra i nemici troiani ha causato la morte dei fratelli e dei cognati di Ettore. Questi, a sua volta, ha ucciso il migliore amico di Achille, Patroclo. È peculiare il fatto che nel corso del poema i due eroi si scambino le armi. In realtà, le ragioni per cui Ettore arriva a indossare l’elmo e la corazza di Achille e le conseguenze del suo gesto costituiscono uno dei temi più drammatici della saga. È noto che la causa della guerra è la fuga, secondo altri il rapimento, di Elena, regina della città greca di Sparta, tra le braccia di Paride, principe di Troia (detta anche Ilion, da cui deriva il nome dell’opera) e fratello di Ettore. Sebbene Elena e Paride siano personaggi centrali dell’Iliade, la loro fatidica romance è ormai un avvenimento remoto quando si alza il sipario sul poema epico, incentrato invece sulle tragiche conseguenze di quell’imprudente slancio di passione. I temi centrali dell’Iliade sono lo scontro implacabile tra due grandi eserciti, i continui combattimenti individuali tra i guerrieri, le fasi di preparazione e di recupero dalla battaglia, e il costo in termini di vite umane e di dolore generato dalla guerra. Anche se si ritiene che l’Iliade sia stata composta nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., la versione finale quasi certamente è frutto di almeno cinquecento anni di nar-

razioni orali di varie generazioni di poeti. La tradizione epica culminata nell’opera di Omero affonda dunque le sue radici nella civiltà micenea (1600-1150 a.C.), che è anche lo sfondo storico in cui l’autore colloca la guerra dei re greci contro la città nemica dell’Asia minore. Il periodo corrisponde all’Età del bronzo, che prende il nome dal nuovo materiale con cui le società del tempo producevano gli utensili destinati all’agricoltura, alla guerra o al commercio.

ELMO MICENEO

Nell’Iliade il troiano Ettore è spesso menzionato con l’epiteto «dall’elmo lucente». Qui sotto, elmo miceneo del XVI secolo a.C. Museo archeologico nazionale, Atene. DEA / ALBUM

Il mondo dell’Età del bronzo Il bronzo è più resistente del rame e del ferro; pertanto le punte acuminate delle lance e delle frecce e le robuste spade fabbricate con questa innovativa lega di rame e stagno erano oggetti di utilità, prestigio e valore elevatissimi. Analogamente, le armature di bronzo – elmo, scudo e corazza per il corpo, schinieri per la parte anteriore delle gambe – costituivano per un guerriero il modo più sicuro di proteggersi dalle poderose armi, anch’esse di bronzo, che avrebbe trovato sul campo di battaglia. Considerato il tema centrale dell’opera, non sorprende che nell’Iliade siano dedicate descrizioni particolarmente minuziose anche all’equipagSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PUGNALI MICENEI

Qui sopra, due pugnali ageminati in oro, argento, bronzo e niello provenienti dalle cittadelle di Micene e Pilo. DEA / SCALA, FIRENZE

giamento bellico. E nella grande varietà di armi tratteggiate, nulla è paragonabile alla magnifica panoplia appartenente ad Achille. In realtà il figlio della ninfa Teti possiede due diverse armature, ognuna delle quali è a suo modo unica e rimanda a una fase specifica della partecipazione dell’eroe greco al conflitto. La prima corrisponde al momento in cui era il più feroce e temuto guerriero sul campo di battaglia; la seconda a quando si ritira completamente dal combattimento, adirato per il fatto che il comandante in capo, Agamennone, gli ha confiscato la parte centrale del suo bottino di guerra: una giovane vedova di nome Briseide, a cui Achille teneva particolarmente.

Le armi di Achille In quanto figlio di una ninfa e di un mortale Achille è un semidio, un essere superiore agli altri eroi, nelle cui vene non scorre il sangue divino, il cosiddetto “icore”. Sebbene proprio come il resto dei guerrieri Achille sia mortale, il suo stretto rapporto con gli dei dell’Olimpo gli procura alcuni innegabili vantaggi. Sua madre è in contatto diretto con Zeus, il re dei numi, e può intercedere per il figlio senza dover ricorrere alla trafila di suppliche proprie degli umani. Sul campo di battaglia Achille dispone di cavalli da guerra divini, dono di nozze degli dei al padre e generati da Zefiro, il dio del vento. Anche la sua caratteristica lancia di frassino – che nessun altro eroe ha la forza sufficiente per sollevare – è un regalo di matrimonio al padre, in questo caso del centauro Chirone, fratellastro di Zeus. Pure la meravigliosa armatura è un omaggio nuziale, che Peleo ha ricevuto dalle divinità

L’ANTICA TROIA

Colpita da un terremoto e da un incendio causato da una guerra, Troia fu abbandonata intorno al 1100 a.C. Sarebbe rinata in epoca romana, periodo a cui risalgono i resti qui visibili. IMAGES & STORIES / ALAMY / ACI

olimpiche. Ma ciò che maggiormente contraddistingue Achille è che sembra avere la possibilità di scegliere il suo destino. Questo fatto si rivela quando una piccola delegazione di compagni si presenta alla sua tenda per chiedergli di tornare a unirsi alla battaglia. Achille rifiuta e in un intervento decisivo dichiara di sapere che se riprenderà a combattere perderà la vita: «Mia madre, Teti dai piedi d’argento, mi parla di due destini che mi conducono a morte: se resto qui a bat-

La madre di Achille, Teti, ottenne da Zeus una protezione speciale per il figlio ZEUS E TETI. OLIO DI JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES. 1811. MUSÉE GRANET, AIX-EN-PROVENCE. JOSEPH MARTIN / ALBUM

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termi intorno alle mura di Troia, non farò più ritorno ma eterna sarà la mia gloria; se invece torno a casa, nella patria terra, per me non vi sarà gloria, ma avrò lunga vita, non mi raggiungerà presto il destino di morte». Achille decide di restare nella sua tenda. Da quel momento l’andamento dello scontro inizia a volgere a sfavore dei greci (che nel poema sono chiamati achei). Alla fine Patroclo rivolge all’amico la richiesta disperata di prestargli la sua leggendaria corazza: «Le tue armi dammi, da portare sulle mie spalle, e i troiani mi scambieranno per te e si daranno alla fuga, mentre i figli degli achei, sfiniti, avranno respiro». Con riluttanza l’eroe cede alle suppliche del compagno. Così Patroclo si dirige verso il campo di battaglia con addos-

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PATROCLO E LE ARMI DI ACHILLE OMERO RACCONTA con queste parole il momento in cui Patroclo prese in mano le armi del suo amico Achille: «Intorno alle gambe mise per prime le belle gambiere, con i rinforzi di argento alle caviglie; intorno al petto si pose la corazza di Achille nipote di Eaco, che scintillava come una stella. Appese alle spalle la spada di bronzo ornata d’argento e poi lo scudo, grande e pesante; sulla testa fiera pose l’elmo ben fatto ornato di coda equina: pauroso oscillava in alto il pennacchio. Prese due solide lance, adatte alla sua mano. Ma non poté prendere la lancia del nobile Achille, nipote di Eaco, la lancia grande, forte e pesante. Nessuno degli altri Achei, Achille soltanto poteva impugnarla».

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APOLLO CONTRO ACHILLE

Il dio dell’Olimpo più apertamente schierato contro i greci durante la guerra di Troia era Apollo, il che si spiega forse con le sue origini anatoliche. Qui sotto, rilievo del tempio di Apollo Palatino a Roma. AKG / ALBUM

so la favolosa armatura di Achille. Il nobile gesto di Patroclo ottiene i risultati sperati, migliorando notevolmente la situazione degli achei. Tuttavia finirà per costargli la vita a causa dell’intervento del dio Apollo, infaticabile difensore di Troia. Protetto da una coltre di nebbia, il nume colpisce Patroclo sulla schiena e sulle ampie spalle con il palmo della mano per poi spogliarlo di tutto l’equipaggiamento prestatogli dall’amico Achille: gli sfila l’elmo dalla testa, gli spezza la lancia, gli sgancia la fibbia con il balteo e infine gli slaccia la corazza. Ormai completamente vulnerabile, Patroclo viene ferito alla schiena da una lancia troiana. Cerca di fuggire, ma Ettore si avventa su di lui e lo finisce. Vantandosi di fronte al corpo del nemico ucciso, il principe di Troia vuole impossessarsi della sua armatura. Tra achei e troiani scoppia una feroce lotta per il prezioso bottino. Alla fine sono questi ultimi ad avere la meglio. Ben presto Ettore decide di abbandonare le sue armi per indossare quelle di Achille. Di fronte a questo atto di orgoglio Zeus, che osserva la scena dall’alto, scuote il capo in segno di disapprovazione.

Il dolore di Achille Quando Achille viene a sapere della morte di Patroclo, la sua ira nei confronti di Agamennone svanisce all’istante: è pervaso dal dolore per l’amico caduto e dall’odio verso Ettore. Assetato di vendetta, il figlio di Peleo annuncia la sua decisione di tornare a combattere e chiede alla madre Teti di procurargli una nuova armatura. Con questa scelta Achille compie un passo decisivo in direzione di quel destino che, in un primo momento, aveva

EFESTO E TETI

In questa coppa o kylix attico vediamo Efesto consegnare alla ninfa Teti le armi che ha appena forgiato per Achille. V secolo a.C. Staatlichen Museen, Berlino. SINISTRA: BPK / SCALA, FIRENZE. DESTRA: BRIDGEMAN / ACI

voluto evitare, ovvero una morte nel pieno della giovinezza. A questo punto l’azione sul campo di battaglia si ferma, e il poeta segue Teti nell’Olimpo, la dimora delle divinità, e nella fucina di Efesto, mastro ferraio dei numi. Nella sua vivace e magica bottega – dotata di un gigantesco mantice e di alcuni congegni meccanici – Efesto forgia la nuova armatura di Achille, che rappresenta una sorta di punto di svolta nella vita del celebre eroe. Le armi

Apollo, avvolto nella nebbia, colpì Patroclo e gli slacciò la corazza; questi fu poi ferito da un guerriero troiano e quindi ucciso da Ettore

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TETI E ACHILLE

L’eroe Achille riceve dalla madre le armi fabbricate da Efesto. Museo nazionale etrusco di villa Giulia, Roma.

che la madre ha fatto realizzare per lui nella speranza che lo proteggano sono in realtà un simbolo della sua morte imminente. Efesto ne è consapevole. Egli costruisce il più splendido equipaggiamento che un mortale abbia mai indossato. Tuttavia, come ammette candidamente, la sua arte non sarà sufficiente a salvare il figlio della divina Teti: «Come vorrei poterlo sottrarre alla morte tremenda quando lo raggiungerà il destino crudele: così lui avrà armi bellissime, meraviglia per gli uomini che le vedranno». Deciso a impegnarsi a fondo nel suo compito, Efesto realizza un elmo, una corazza e degli schinieri magnifici. Il suo capolavoro è lo scudo: «Su di esso il dio dall’abile ingegno

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LE NUOVE AR MI DI ACHILLE ricevuto da Efesto la nuova armatura di Achille, Teti scende dall’Olimpo per consegnarla al figlio. Lo vede che piange abbracciato al cadavere di Patroclo e lo esorta a superare il suo dolore e ad accettare le splendide armi che Efesto ha forgiato per lui. Detto questo, le deposita a terra, e i mirmidoni, sudditi del figlio, sono scossi da un tremito; nessuno osa alzare gli occhi per guardarle. Achille si rallegra alla vista di quell’opera d’arte, quindi si rivolge alla sua divina genitrice con queste parole: «Madre mia, le armi che il dio mi ha donato sono opera d’immortali, nessun uomo poteva farle». Poi indossa la corazza e immediatamente si lancia lungo la riva del mare, «gridando con voce terribile», per spronare i greci alla battaglia finale contro Troia.

DOPO AVER

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IL CADAVERE DI ETTORE

Achille trascina con il suo carro il corpo senza vita del troiano Ettore sotto l’ombra alata di Patroclo. Lekythos (vaso per oli) del V secolo a.C. Musée du Louvre, Parigi. RMN-GRAND PALAIS

incise molti disegni a rilievo. Raffigurò la terra e il cielo e il mare, e poi il sole instancabile e la luna piena e tutte le costellazioni che incoronano il cielo». Efesto rappresenta sullo scudo le città con il loro brulicare di vita, i matrimoni e le assemblee, la guerra, i pastori e le loro greggi, le fattorie e le vigne. Insomma lo scudo con cui Achille torna in guerra è un compendio delle varie forme di vita che si accinge a perdere per sempre. Tornato finalmente sul campo di battaglia, Achille avanza fino a quando il destino non lo fa ritrovare faccia a faccia con Ettore. Questi indossa l’armatura sottratta al cadavere di Patroclo e appartenuta in precedenza allo stesso Achille. Il principe troiano vede avvicinarsi il suo avversario rivestito di bronzo e fulgido come una stella, e il suo coraggio vacilla. Per un attimo pensa di spogliarsi completamente dell’armatura e arrendersi inerme ad Achille. Ma poi abbandona l’idea, spronato dalla dea Atena, che ha assunto le sembianze di suo fratello Deifobo. Ora è di nuovo pronto a battersi contro il suo avversario, che incede verso di lui. I due eroi marciano l’uno in direzione dell’altro: «Simile a un’aquila dall’alto volo che attraverso le nuvole oscure punta sulla pianura per rapire un tenero agnello o una timida lepre. Così Ettore si lanciò agitando la spada affilata. Achille si lanciò a sua volta con l’animo pieno di furia selvaggia: gli copriva il petto lo scudo, luminoso, bellissimo, oscillava sul capo l’elmo splendente, a quattro punte, volteggiava intorno la bella criniera d’oro che Efesto aveva fatto ricadere, folta, intorno al cimiero».

Armi magiche Gli studiosi ritengono che nella tradizione preomerica la lancia di frassino di Achille avesse dei poteri magici, come la capacità di non mancare mai il bersaglio o di tornare in mano al suo proprietario dopo essere stata scagliata. Ma nell’Iliade è semplicemente un’arma di ottima fattura. Così, i cavalli di Achille, pur essendo in teoria divini e veloci come il vento, nel poema sembrano avere caratteristiche del tutto ordinarie.

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BRIDGEMAN / ACI

Nell’epica orale precedente alla sistematizzazione di Omero probabilmente anche l’armatura di Achille era dotata di facoltà taumaturgiche e rendeva invulnerabile chi la indossava. Questa teoria spiegherebbe le strane circostanze della morte di Patroclo. Nessun altro eroe viene fisicamente attaccato da un dio, come invece capita a lui: Apollo sembra intenzionato non semplicemente a tramortirlo, ma a spogliarlo dell’armatura prodigiosa di Achille. Ora che i due avversari si trovano uno di fronte all’altro, il corpo di Ettore è protetto da quella stessa corazza, ma non completamente: «Là dove la clavicola separa il collo dalle spalle – la gola – quel punto era scoperto». È proprio lì che Achille assesta il

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suo colpo, ferendo mortalmente Ettore. Lo sguardo predatorio con cui Achille scruta il corpo del nemico è semplicemente un segno delle sue abilità strategiche? Oppure è un residuo di una versione precedente del mito in cui l’eroe greco doveva cercare l’unico punto che la magica armatura indossata da Ettore non riusciva a proteggere? Il poeta che elaborò la versione finale dell’Iliade era erede di una tradizione epica antica di almeno cinque secoli. Questa metteva a sua disposizione vari artifici per intrattenere il pubblico: cavalli divini, pozioni miracolose, mantelli che conferiscono l’invisibilità e un’armatura capace di rendere invulnerabile l’eroe principale della vicenda. Ciononostante Omero sembra aspirare

a trasmettere un messaggio più profondo e universale. Nel suo racconto anche un semidio come Achille è fatto di carne e di ossa, e dunque può essere ferito e sanguinare. La riflessione finale che l’Iliade lascia in eredità è ineludibile: la guerra è qualcosa di così terribile che neppure gli eroi possono uscirne indenni. CAROLINE ALEXANDER STORICA. AUTRICE DI THE WAR THAT KILLED ACHILLES

Per saperne di più

LA FINE DI UN PRINCIPE

Con l’aiuto di Atena, Achille affonda la sua lancia nella gola di Ettore, che indossa l’armatura sottratta al cadavere di Patroclo. Olio di Rubens. Musée des Beaux-Arts, Pau.

TESTO

Iliade Trad. di G. Tonna. Garzanti, Milano, 2014. SAGGI

Il grande racconto della guerra di Troia Giulio Guidorizzi. Il Mulino, Bologna, 2018. Le lacrime degli eroi Matteo Nucci. Einaudi, Torino, 2014.

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LO SCUDO DI ACHILLE Nel libro 18 dell’Iliade Omero racconta come Efesto, su richiesta di Teti, costruisce un magnifico scudo per Achille decorandolo con numerose scene, che il poeta descrive in modo particolareggiato. Questo passaggio dell’Iliade è diventato famoso fin dall’antichità e ha ispirato diversi artisti, che hanno tentato di ricostruire lo scudo. All’inizio del XIX secolo lo scultore inglese John Flaxman disegnò questo disco d’argento dorato decorato con una selezione di scene omeriche. 1 IL FIRMAMENTO Efesto «raffigurò la terra e il cielo e il mare, e poi il sole instancabile e la luna piena e tutte le costellazioni […] e l’Orsa – che chiamano anche Carro».

2 CITTÀ IN FESTA «In una vi sono nozze e banchetti, portano per la città le spose uscite dai talami [...] dei danzatori volteggiano e in mezzo a loro echeggia il suono di auli e di cetre».

3 CITTÀ ASSEDIATA «Intorno all’altra città sono accampati due eserciti di guerrieri che splendono in armi […] Ma non si piegano gli assediati e di nascosto si armano per un’imboscata».

4 LAVORI NEI CAMPI «Vi raffigura anche un maggese, un campo fertile e vasto, arato di fresco e per tre volte; in esso molti aratori guidano i buoi in un senso e nell’altro».

5 IL RACCOLTO «Qui i mietitori con le falci affilate mietono il grano; cadono a terra, uno dopo l’altro, i mannelli, alcuni lungo i solchi, altri, con dei giunchi, vengono legati in covoni».

6 PASTORI E LEONI «Insieme alle vacche camminano quattro pastori, li seguono nove cani dai piedi veloci». Ma questi non bastano a impedire che due leoni divorino un enorme toro.

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ADRIANO AD

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ATENE Affascinato dalla cultura ellenica sin dall’adolescenza, l’imperatore Adriano fece diversi viaggi in Grecia e accrebbe lo splendore di Atene costruendo mirabili monumenti

L’AMANTE DELLA GRECIA

Ad Atene Adriano promosse la costruzione di nuovi edifici, come una grande biblioteca, il Panhellenion e il tempio di Zeus, l’Olympieion. A sinistra, busto dell’imperatore conservato nelle Gallerie degli Uffizi, a Firenze. Sullo sfondo, incisione del XIX secolo che ricostruisce Atene ai tempi di Adriano. SFONDO: PRISMA / ALBUM. BUSTO: WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

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L’ACCADEMIA DI PLATONE

Il maestro conversa con i discepoli nella sua scuola di Atene. Mosaico rinvenuto nella villa di T. Siminius Stephanus a Pompei. ACROPOLI DI ATENE

Adriano si era formato ad Atene, che considerava la culla del mondo classico. Nell’immagine, vista dall’alto della collina dell’Acropoli.

BRIDGEMAN / ACI

AMATO DAGLI ELLENI

La riconoscenza della Grecia nei confronti di Adriano è evidente sul rovescio di questa moneta. Qui l’imperatore è salutato da una donna che rappresenta la provincia romana dell’Acaia, che allora includeva Atene. Incisione di Francesco Fanelli. 1695.

N

ell’anno 125 d.C. Atene era in fibrillazione perché attendeva un’importante visita ufficiale da parte dell’imperatore di Roma. Adriano si trovava già in Grecia da alcuni mesi: era andato a caccia nell’agreste Arcadia, aveva pregato Apollo nel santuario di Delfi e ammirato la gioventù guerriera di Sparta mentre questa si allenava sulle sponde dell’Eurota. Al proprio passaggio aveva fornito prove evidenti della sua munificenza, riempiendo le casse delle città con doni o promuovendo la costruzione di nuovi edifici. E così quando Adriano giunse ad Atene venne degnato di tutti gli onori: in via del tutto eccezionale gli fu promesso

che sarebbe stato iniziato ai famosi misteri eleusini – culti segreti delle dee Demetra e Persefone – senza dover prima sottoporsi ai digiuni previsti né praticare i riti purificatori che gli altri erano obbligati a portare a termine. La visita venne celebrata con una serie di spettacoli eseguiti, secondo la tradizione, nell’antico teatro di Dioniso. Dal suo scranno imperiale Adriano poté apprezzare come il palco del teatro fosse stato ampliato e abbellito in suo onore con fregi in rilievo. L’imperatore rimase molto soddisfatto del suo viaggio, soprattutto perché capì che Atene, anche se impoverita, ancora manteneva l’atmosfera di studiata grazia in cui ogni piacere, intellettuale o sensuale che fosse, conservava la stessa importanza che aveva

C R O N O LO G I A

L’AMICO DEI GRECI AL

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111-112

117

Durante il governo di Traiano, cugino del padre, Adriano viaggia in Grecia per studiare e viene eletto arconte di Atene.

Traiano muore in Cilicia mentre è di ritorno dalla campagna contro i parti. Adriano gli succede sul trono imperiale.

AC I

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Adriano visita il Peloponneso e la Grecia centrale, e presiede le feste ateniesi delle Grandi Dionisie.

L’imperatore si reca in Grecia per la terza volta. Visita Atene e Sparta, le città più beneficiate dalla sua politica.

Nel quarto viaggio in Grecia Adriano consacra l’Olympieion di Atene e fonda il sinedrio panellenico, l’assemblea dei greci.

Dopo una lunga agonia l’imperatore Adriano muore a Baia, vicino Napoli. Prenderà il suo posto Antonino Pio. MICHELE FALZONE / AWL IMAGES

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Erode Attico, il collaboratore ADRIANO non avrebbe potuto portare a termine i suoi progetti urbanistici ad Atene se non avesse potuto contare sull’aiuto entusiasta di alcuni membri dell’aristocrazia locale come Erode Attico, intellettuale che era nato da una famiglia ricchissima (discendente, a quanto si diceva, del generale Milziade, che sconfisse i persiani a Maratona). ERODE ATTICO finanziò numerose opere pubbliche in tutta la Grecia. Per fare un esempio, ad Atene sovvenzionò parte della costruzione dello stadio Panatenaico, meglio conosciuto come Kallimarmaro (dal bel marmo), oltre all’impressionante odeon che sorge sul pendio dell’Acropoli e che oggi, in estate, accoglie gli spettacoli del Festival ellenico di Atene ed Epidauro.

ODEON DI ERODE. AI PIEDI DELL’ACROPOLI, VICINO AL TEATRO DI DIONISO, SI ERGE L’ODEON CHE ERODE ATTICO FECE COSTRUIRE NEL 161 D.C. ALAMY / ACI

ND

PA L

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ERODE ATTICO Amico e collaboratore di Adriano, questo retore, politico greco e ricco mecenate adottò un nome romano: Lucio Vibullio Ipparco Tiberio Claudio Attico Erode. Busto al Museo del Louvre.

RM

N-G

RA

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avuto nel passato. Tredici anni prima Adriano aveva già trascorso del tempo ad Atene per la propria formazione, mentre un cugino del padre, l’imperatore Traiano, controllava gli ingranaggi del potere a Roma. Aveva allora avuto l’impressione che nulla fosse cambiato dall’epoca d’oro di Pericle, sette secoli prima, quando Atene si trovava al culmine del suo splendore ed era stato eretto il Partenone. Vivaci conversazioni continuavano ad animare le scuole filosofiche, e i ragazzi ad allenare i propri muscoli sulla sabbia delle palestre. Tutto ciò aveva riportato il futuro imperatore al periodo in cui Socrate s’inebriava nella sala da ginnastica osservando la bellezza del fanciullo Carmide attraverso il suo mantello scoperto, prima d’iniziare con lui il celebre dialogo sulla saggezza (scritto da Platone e che un giovane Adriano aveva potuto leggere nell’edizione trascritta dal filosofo). Insomma, il tempestoso cuore di Adriano, ricolmo di letture classiche – non a caso lo chiamavano graeculus (il grechetto) –, aveva proiettato la sua visione idealizzata della Grecia classica su una realtà contemporanea ben più decadente. Ma è anche

vero che gli ateniesi avevano sempre cercato di entrare nelle sue grazie e per questo gli avevano concesso la cittadinanza onoraria, proclamandolo persino arconte (magistrato supremo) nel 112 d.C.

Il progetto dell’Olympieion Durante la sua prima visita Adriano ebbe occasione di ammirare i monumenti dell’Acropoli, i cui marmi brillanti si alzavano verso il cielo sereno, abitato dagli dei. Eppure il suo cuore voleva lasciare un’impronta indelebile nella città che considerava la sua culla spirituale. Per questo, ormai imperatore, si propose una sfida immensa. Lo sguardo di Adriano si posò sulla pianura bagnata dall’Ilisso: lì giaceva, incompiuto, l’Olympieion, un tempio consacrato a Zeus olimpio la cui costruzione era in ritardo di sei secoli. Le capanne si ammassavano accanto alle pietre ed erano il segno evidente del lungo periodo di decadenza in cui era sprofondata la città dall’Età classica. Per l’imperatore era ovvio che bisognava sistemare il quartiere e riedificare il santuario, e quindi pensò di trasformare una città

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LA TORRE DEI VENTI

Nell’agorà romana di Atene s’innalza questo curioso monumento, noto come torre dei Venti o orologio di Andronico di Cirro. L’edificio, eretto nel I secolo a.C., conteneva al suo interno una clessidra, o orologio idraulico. K. VOLHA / ALAMY / ACI

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finito per ospitare la stessa popolazione della vecchia Atene. Anche le élite locali, contagiate dall’entusiasmo dell’imperatore, unirono le loro forze e si misero all’opera: la città avrebbe di nuovo provato quell’esaltazione gioiosa delle grandi imprese di un tempo, come quando era alla testa di un prospero impero nell’Egeo. Solo alcuni anni più tardi, nel 132 d.C., l’Olympieion venne perciò consacrato durante una grande festa e in presenza di esponenti di tutte le città greche. In tale solenne occasione, Adriano occupò un posto d’onore sotto il portico del tempio, mentre il sofista Polemone di Laodicea elencava nel suo discorso inaugurale i titoli che Atene aveva concesso al sovrano: evergete (benefattore), olimpio (come Zeus, padre degli dei) e filelleno (amico dei greci). Nel frattempo all’interno del tempio gli scultori ancora lavoravano all’enorme statua criselefantina – d’oro e avorio – dedicata a Zeus, vicino alla quale erano già state ultimate le statue, più discrete, di Adriano. In una cesta era poi possibile ammirare un autentico pitone moluro, che sarebbe stato consacrato in ricordo di Erittonio, il mitologico re di Atene che aveva il corpo di serpente ed era chiamato “nato dalla terra”.

AKG / ALBUM

UNA STATUA DI ZEUS

L’intenzione di Adriano era creare per il suo Olympieion una magnifica statua di Zeus simile a quella presente nel tempio del dio a Olimpia, ricostruito nell’incisione sopra queste righe.

già ammirevole in una che fosse davvero perfetta, senza che il piccone dovesse intaccare l’anima eterna dell’Acropoli. E se il Partenone era sublime, l’Olympieion sarebbe stato ancora più splendido e immenso. Le cento e più colonne corinzie del tempio, con le rigogliose foglie di acanto – un ornamento che non avevano le colonne doriche del Partenone –, dovevano imporsi come il simbolo di quella rinascita della Grecia in cui sperava l’imperatore, che a ragione si considerava più di un mero “Pericle romano”. Inoltre l’Olympieion sarebbe stato il centro nevralgico di un ampliamento urbanistico noto come Adrianopoli (la città di Adriano), che si sarebbe esteso lungo l’Ilisso e avrebbe

Adriano voleva che l’Olympieion fosse un Partenone nuovo e più bello TESTA DI ADRIANO. ETHNIKO ARCHAILOGIKO MOYSEIO, ATENE. DEA / ALBUM

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L’unione di tutti i greci Intanto, non lontano dall’Olympieion e in un altro santuario dedicato a Zeus Panhellenios (di tutti i greci), si teneva un’assemblea in cui si parlava dei problemi, soprattutto economici, che affliggevano le città greche del Mediterraneo. I presenti avevano trovato un accordo dopo difficili negoziazioni preliminari, forse iniziate durante la visita precedente di Adriano in Grecia e in Asia Minore, nel 128 d.C. Le città greche erano gelose delle loro istituzioni e tradizioni locali e ancora covavano rancore contro l’Atene imperialista del passato. Tuttavia poco a poco s’imposero la razionalità e il fervore di Adriano. Fu l’inizio del grande progetto comune del sinedrio panellenico, il Panhellenion: una federazione che includeva tutte le città greche con riunioni regolari ogni anno e con il suggello di giochi panellenici simili alle Panatenee, le grandi feste ateniesi dell’Età classica. Adriano volle potenziare Atene anche come punto di riferimento negli studi. Per questo è sintomatico che, accanto all’agorà, o mercato di epoca romana, Adriano facesse

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TEMPIO DI ZEUS OLIMPICO

Adriano volle trasformare questo tempio, che s’innalza tra le due colline di Atene, l’Acropoli e il monte Licabetto, nel più maestoso della Grecia. Nell’immagine, le colossali 15 colonne corinzie, alte 17 metri, che oggi sono ancora in piedi. HERCULES MILAS / ALAMY / ACI

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AI PIEDI DELL’ACROPOLI

Tra gli attuali quartieri di Monastiraki e Plaka, ad Atene, a nord dell’agorà romana e ai piedi dell’Acropoli, sono presenti i resti della fastosa biblioteca di 122 metri di lunghezza e 82 di larghezza che l’imperatore Adriano fece erigere nell’anno 132 d.C. MILAN GONDA / AGE FOTOSTOCK

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L’arco di Adriano V I C I N O A L L’AT T UA L E viale Regina Amalia, ad Atene, s’intravede un arco romano di circa 20 metri di altezza. È eretto con il marmo del monte Pentelico, lo stesso usato per il Partenone, e i conci sono uniti da fascette, senza cemento né malta. SU CIASCUN LATO dell’apertura centrale, quasi cancellate dall’inquinamento, si possono leggere le due iscrizioni: «Questa è Atene, l’antica città di Teseo» (lato nord-ovest) e «Questa è la città di Adriano, e non di Teseo» (lato sud-est). I testi indicano che si tratta della porta d’ingresso ad Adrianopoli, la zona di Atene costruita da Adriano. Se consideriamo che l’arco non è mai stato protetto, è un vero miracolo che si sia conservato fino ai nostri giorni.

ARCO DI ADRIANO. INCISIONE DEL MONUMENTO COME APPARIVA NEL XIX SECOLO. ÉMILE THÉROND. 1867.

BIBLIOTECA AMBROSIANA / SCALA, FIRENZE

ADRIANO NELL’AGORÀ GRECA Questa scultura di Adriano, di cui si conserva solo il corpo, mostra l’imperatore vestito con un’armatura finemente decorata. È esposta nell’agorà di Atene.

erigere una nuova biblioteca, la più grande mai costruita in città. Qui tutto sembrava organizzato per permettere la meditazione e lo studio: le esedre, spazi semicircolari con comode sedute per i seminari; le colonne in marmo di Frigia, che reggevano le gallerie superiori dov’erano conservati i libri; il cortile porticato con giardino e un grande specchio d’acqua centrale dove si poteva leggere in tranquillità... E così chi fosse andato al mercato e avesse ricercato altro oltre al cibo, avrebbe dovuto varcare soltanto un propileo di quattro colonne corinzie in marmo caristio, o cipollino, per ammirare l’alabastro e l’oro che abbellivano i locali. Una simile estasi preparava l’anima a inedite e stimolanti avventure intellettuali.

abitanti. Va anche detto che, per alcuni, le esuberanti costruzioni e le altre opere volute da Adriano costituivano soltanto uno stravagante gesto di ottimismo nel contesto di una decadenza quasi irreversibile. Il sinedrio panellenico, per esempio, non ebbe grande attività dopo la morte dell’imperatore. Ciononostante Adriano fece qualcosa di più oltre a dare una nuova vita ad Atene: nel promuovere il legame culturale della città con l’eredità del V secolo a.C. – l’epoca d’oro di Pericle, Fidia o Socrate – la trasformò nel vero centro spirituale di tutto il mondo ellenico e nel simbolo eterno della cultura classica, che è come ancora oggi continuiamo a considerarla. JUAN PABLO SÁNCHEZ FILOLOGO CLASSICO

BRIDGEMAN / ACI

Rivitalizzare Atene

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Prima di Adriano altri romani si erano recati ad Atene per studiare e formarsi. Tuttavia la maggioranza di loro si era accontentata di contemplarne i monumenti o portare con sé qualche ricordo (un fregio, una colonna) senza preoccuparsi della crescente miseria degli

Per saperne di più

SAGGI

Adriano. Roma e Atene Andrea Carandini, Emanuele Papi. UTET, Torino, 2019. Adriano James Morwood. Il Mulino, Bologna, 2015. ROMANZI

Memorie di Adriano Marguerite Yourcenar. Einaudi, Torino, 2014.

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BIBLIOTECA DI ADRIANO

Nel 267 gli eruli attaccarono Atene e distrussero la biblioteca. Successivamente l’area venne trasformata in una chiesa e poi nella residenza del governatore ottomano, finché nel XX secolo furono condotti i primi scavi archeologici. MILAN GONDA / AGE FOTOSTOCK

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ATENE, CITTÀ ROMANA

NEL II SECOLO D.C. Adriano, grande amante di tutto ciò che era greco, intraprese ad Atene un monumentale progetto urbanistico. L’imperatore costruì acquedotti, una colossale biblioteca, una basilica, nuove porte per la città e diversi templi. In questa pagina sono indicati alcuni dei principali monumenti dell’Atene romana sino al III secolo d.C.

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ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE © JEAN-CLAUDE GOLVIN / ÉDITIONS ERRANCE

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TEATRO DI DIONISO

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AGORÀ ROMANA

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ODEON DI ERODE ATTICO

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BIBLIOTECA

STOA

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MONUMENTO DI FILOPAPPO

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STOA DI ATALO

O D E O N D I A G R I P PA

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COLLINA DELLA PNICE

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VIA PANATENAICA

TEMPIO DI ARES

TEMPIO DI EFESTO

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IL FIGLIO DI GENGIS KHAN

OGODEI, IL SIGNORE DELL’ASIA

SCALA, FIRENZE

Le conquiste di Gengis Khan crearono un regno che si estese su gran parte dell’Eurasia grazie al figlio Ogodei, il vero creatore dell’impero mongolo

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IL NUOVO SOVRANO

Ogodei venne eletto Gran Khan nel 1229. Questa miniatura del XIV secolo illustrava un’edizione persiana del Jami al-tawarikh (Raccolta delle storie) di Rashid al-Din. Nella pagina precedente, dinaro coniato da Gengis Khan o da Ogodei con l’effigie di un leone.

ALBUM

(

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AKG

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FUNERALI DI GENGIS KHAN. I MONGOLI, VESTITI A LUTTO, PIANGONO LA MORTE DEL LORO CAPO RIUNITI INTORNO AL FERETRO. MINIATURA DI UN MANOSCRITTO PERSIANO.

DEA / ALBUM

UN CAVALIERE TURCO-MONGOLO USA IL SUO FORMIDABILE ARCO COMPOSITO, LA CUI POTENZA DI TIRO POTEVA SUPERARE I 300 METRI. PARTICOLARE DI UNA MINIATURA PERSIANA DEL XV SECOLO.

N

Il lascito del conquistatore

el 1227 moriva il più grande conquistatore della storia dell’umanità. Gengis Khan si spense all’età di sessantasei anni mentre era impegnato in prima persona a reprimere la ribellione dei cinesi tangut (dangxiang in cinese) nel regno di Xi Xia. Qui il sovrano perse la vita (non si sa se per una ferita di guerra o avvelenato da una concubina), mentre l’esercito mongolo uccideva migliaia di abitanti e radeva al suolo intere città. Era un modo in cui i guerrieri placavano non solo la loro tristezza ma anche l’ansia per l’incerto futuro che attendeva l’impero dopo la scomparsa del suo fondatore. I mongoli non disponevano di una chiara politica di successione, ed erano in gioco l’avvenire del più grande impero terrestre della storia, la sua complessa unità interna e la sua capacità di resistere ai temibili nemici dell’epoca.

i popoli della steppa, ristrutturò l’esercito mongolo e piegò le più grandi civiltà del suo tempo: i regni Qin, Corasmio e Xi Xia, un tempo potenti, furono ridotti in cenere. Gengis lasciò in eredità al suo successore il più grande impero della storia e una nuova aristocrazia basata esclusivamente sui meriti militari e desiderosa di conquistare nuove terre e favolosi bottini. Il prestigio di Gengis era immenso, e il condottiero trovò un successore della sua statura in Ogodei, che ereditò il suo carisma quasi sacrale. Le conquiste ripresero e l’impero continuò a espandersi a ritmo serrato. La macchina da guerra mongola era ancora lontana dal conoscere i propri limiti, e la sua superiorità rimase incontrastata per tutta la prima metà del XIII secolo. GENGIS KHAN UNIFICÒ

Ogodei, il successore IL SUCCESSOR E DI GENGIS KHAN

RITRATTI: BRIDGEMAN / ACI

La titolarità della carica d’imperatore poteva essere decisa solo dal kuriltai, la veneranda assemblea plenaria alla quale partecipavano tutti gli uomini e le donne illustri delle tribù della steppa. La principale istituzione politica dei mongoli rispecchiava perfettamente il carattere marcatamente egualitario e democratico delle società nomadi, dove non esistevano grandi distinzioni di genere né forti disuguaglianze economiche. Non c’erano neppure protocolli o regole di suc-

1186 circa

1229

Nasce Ogodei. È il terzo figlio maschio di Borte e Temujin. Vent’anni dopo, quest’ultimo unirà tutte le tribù della steppa mongola e sarà proclamato Gengis Khan.

Il kuriltai o assemblea dei nobili elegge Gran Khan Ogodei, che ha l’appoggio di Tolui. Gengis non voleva Chagatai come suo successore e Joci era morto nel 1225 o 1226.

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RITRATTI DI GENGIS KHAN, OGODEI E KUBLAI SU SETA RISALENTI AL XIII SECOLO. SONO CONSERVATI PRESSO IL MUSEO DEL PALAZZO NAZIONALE DI TAIPEI.

BORTE

G ENGIS KHAN

1167-1227 ca.

JOCI

† 1225/1226

CHAGATAI

OGODEI

† 1242

TOREGENE

1186-1241

TOLUI

SORGAQTANI

Reggente 1241-1246

BATU

† 1255

OGHUL

G U YUK

Reggente 1248-1251

1206-1248

MONGKE

1208-1259

KUB L AI

1215-1294

HULAGU ARIQ BOKE

1217-1265

1219-1266

DINASTIE RISULTANTI

Orda d’Oro (Russia, Ucraina e Kazakistan) Fino al 1480

Khanato Chagatai (Kashgaria e Transoxiana) Fino al 1705

Dinastia Yuan (Cina) Fino al 1368

AL

BU

Ilkhanato (Persia) Fino al 1335

DUE UCCELLI SU UNA MALVA ALCEA. PIATTO CINESE LACCATO DEL XIV SECOLO. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK. M

1234

1235

1240

1241

Vittoria finale contro l’impero Qin. Chormagan conquista l’Armenia e la Georgia. L’anno successivo iniziano i preparativi per l’invasione dell’Europa.

Ogodei fonda Karakorum e unifica e istituzionalizza per la prima volta la rete stradale conosciuta in precedenza come via della Seta.

La presa di Kiev e la resa di Novgorod concludono la conquista della Russia da parte dei mongoli. All’altra estremità dell’Eurasia le truppe del Gran Khan invadono il Tibet.

Ogodei muore a Karakorum. Quattro mesi più tardi la notizia raggiunge le truppe mongole sul Danubio. Inizia la reggenza di Toregene, fino a quando Guyuk assume il potere nel 1246.

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Novgorod Mosca

FESTA ALLA CORTE DEL GRAN KHAN A KARAKORUM. MINIATURA DEL JAMI AL-TAWARIKH DI RASHID AL-DIN. MANOSCRITTO PERSIANO DEL XIV SECOLO. (

PRINCIPATI RUSSI

Graz Venezia

Kiev Nuova Saraj

Roma

Caffa Bizanzio M

Trebisonda

A

R

M

E

D

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Mosul RA

NE

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Baghdad Il Cairo

Damasco

SULTANATO MAMELUCCO

Medina Nucleo originario dell’impero mongolo intorno al 1206

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Domini della dinastia cinese Song del sud Campagne militari di Gengis Khan (1206-1227)

Campagne di Ogodei (1229-1241) Confini dell’impero di Gengis Khan MONGOLES

Tribù mongole intorno al 1220

TUNGUSES

Altre popolazioni

CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

Epiche sbornie L’ALCALINITÀ DEL LATTE di giumenta fermentato

– detto airag o kumis – era fondamentale per compensare la dieta quasi solo carnivora dei pastori nomadi. Da qui l’accettazione dell’ubriachezza tra i mongoli. Ma in seguito all’incontro con il mondo sedentario, altre bevande alcoliche, meno alcaline e più inebrianti (vino, birra), spodestarono l’airag. Forse a ciò si dovette il declino della salute, l’incremento della gotta, la diminuzione della fertilità e la crescita delle intossicazioni etiliche nella popolazione mongola. Nonostante ciò l’alcol mantenne il suo prestigio per tutto il XIII secolo: non era insolito vedere Ogodei concedere udienze o dispensare giustizia ubriaco. Il suo decesso per intossicazione etilica fu considerato un esempio di morte onorevole.

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Tabriz

CALIFFATO ABBASIDE

cessione. L’unico criterio per stabilire la leadership era il merito personale, la capacità di dimostrare forza, coraggio e buon senso. L’estrema soggettività di questi criteri di elezione non favoriva in alcun modo il raggiungimento del consenso necessario a garantire una guida abbastanza forte da conservare l’unità e la prosperità di una struttura politica delle dimensioni dell’impero mongolo. Dopo due anni di deliberazioni, il kuriltai assegnò il difficile compito a Ogodei, terzogenito di Gengis e di sua moglie Borte. Non si conoscono con certezza la data e il luogo esatti della sua nascita, che avvenne probabilmente intorno al 1186 in qualche zona della Mongolia o della Cina settentrionale. La sua formazione militare iniziò alla

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vgorod

BURIATI KIRGHISI OIRATI

Mosca Bolgar Kazan

NAIMAN

PRINCIPATI RUSSI

Kuldja

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Merv

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Medina

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Xanadu

GIAPPONE

KEREITI

Herat

COREA IA Beijing L GO IMPERO (Pechino) N O CHIN M Kaifeng

Ningxia ,an Chang , (Xi an) IMPERO

DEI SONG DEL SUD

IMPERO XI XIA

Quanzhou

Chengdu

Guangzhou (Canton)

Balkh Kabul

Yunnan

Lahore Delhi SULTANATO DI DELHI

O

Bharuch

i Ogodei

Lhasa

Peshawar

Kandahar Kerman Shiraz Hormuz

R

Beshbalik

KARA KHITAY Tashkent Samarcanda IMPERO Kokand Kashgar CORASMIO Bukhara Khotan

ALIFFATO BBASIDE

TATARI

Karakorum

Nuova Saraj

Trebisonda

MONGOLI

mpero

OCEANO INDIANO

ANNAM

Patna

Pagan PEGU

IMPERO KHMER

STATI INDIANI

Daulatabad Warangal Goa

tradizionale età di tre o quattro anni, quando imparò a cavalcare e a cacciare animali di vario tipo con il potente arco composito dei pastori nomadi. Probabilmente iniziò a partecipare alla guerra all’età di tredici o quattordici anni. Tuttavia la prima notizia certa della sua biografia risale al 1203, quando fu gravemente ferito nella battaglia di Qalaqaljid contro la tribù dei keraiti. Ogodei si salvò per miracolo, ma si riprese rapidamente e accompagnò il padre nella vittoria finale sui keraiti e poi sui naimani, fino all’unificazione di tutte le tribù della steppa mongola, avvenuta nel 1206. Nel 1211 Ogodei era già al comando del suo contingente: circa cinquemila uomini con i quali ottenne importanti vittorie contro

Hanoi

Angkor

Golfo del Bengala

l’impero dei Jin nella Cina settentrionale. Dopo averne assoggettata la capitale, nei pressi dell’attuale Pechino, e aver piegato i regni circostanti di Xi Xia e Kara Khitay (Grande Liao), Gengis Khan prese probabilmente la decisione più temeraria della sua vita: attaccare l’impero corasmio, il più potente dell’Asia occidentale. La mossa andò a buon fine e gli permise di sottomettere tutte le città del Turkestan e dell’antica Persia, seppure a un prezzo molto alto in termini di vite umane. Ogodei ebbe un ruolo

ALLA CONQUISTA DEL MONDO

Ogodei assoggettò i principati russi e schiacciò i polacchi e gli ungheresi; i suoi successori, Mongke e Kublai, sconfissero i Song del sud e conquistarono tutta la Cina.

L’addestramento militare di Ogodei sarebbe iniziato a tre o quattro anni, com’era consuetudine tra i mongoli STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GUERRIERI NOMADI

Alle grandi marce degli eserciti mongoli partecipavano intere famiglie con le loro yurte (tende come quelle visibili nella foto) e grandi mandrie di bovini, a volte milioni di capi, che rafforzavano la loro indipendenza dalla produzione agricola permettendogli di sostenere campagne molto lunghe. VLADIMIR KONDRACHOV / ALAMY / ACI

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TORTURA ED ESECUZIONE DI PRIGIONIERI DA PARTE DEI MONGOLI. MINIATURA PERSIANA DEL XIV SECOLO. JAMI AL-TAWARIKH, DI RASHID AL-DIN.

BRIDGEMAN / ACI

(

13 settembre 1229 lo proclamò khan di tutti i mongoli. Si possono ipotizzare le ragioni che spinsero Gengis a puntare su Ogodei. La lealtà di quest’ultimo era ampiamente riconosciuta da tutte le persone della sua cerchia. Ogodei stesso disse di aver ereditato dal padre la buona stella, quella che i mongoli chiamavano su, il fiuto per la fortuna. E aveva grandi doti anche in campo militare.

Il conquistatore Appena assunto il potere, Ogodei si mise alla testa dell’esercito per concludere la missione che la morte aveva impedito al padre di portare a termine: impiegò tre anni per sconfiggere definitivamente l’impero dei Qin e iniziare la guerra contro il potente impero dei Song, nella Cina meridionale. Nel 1240 gli eserciti mongoli invasero il Tibet, avanzando verso i confini dell’attuale Nepal e del Bengala, e stringendo progressivamente l’assedio ai Song. Contemporaneamente Ogodei inviò uno dei suoi più brillanti generali, Chormaqan, a consolidare il dominio sull’Asia occidentale. Le sue truppe riuscirono a estendere l’impero mongolo agli attuali territori del Paki-

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da protagonista nella conquista di alcuni dei centri principali, come Otrar nel 1219 e Urgench nel 1221. In quest’ultimo caso, fu probabilmente lo stesso Ogodei a ordinare l’esecuzione di tutta la popolazione cittadina, stimata da alcune fonti in oltre un milione di abitanti, per favorire la resa e le diserzioni in campo nemico. Se questo fosse vero, si tratterebbe di una delle più grandi carneficine della storia dell’umanità. Furono lasciati in vita solo gli artigiani più abili, che vennero deportati e impiegati in altre città del nascente impero mongolo. Sempre a Urgench, nell’attuale Uzbekistan, scoppiò la rivalità tra Joci e Chagatai, i due fratelli maggiori di Ogodei. La loro reputazione di feroci guerrieri li portò a un duro scontro personale che, agli occhi di Gengis, ne rivelò l’avventatezza, l’arroganza e in fin dei conti l’inadeguatezza ad assumere la guida dell’impero. Erano preferibili la sagacia e la temperanza di Ogodei. Joci, il primogenito, non riuscì a sopportare l’umiliazione e morì qualche anno dopo in località ignota. Chagatai e Tolui, il più giovane dei quattro fratelli, accettarono la decisione di Gengis e sostennero Ogodei davanti al kuriltai, che il

Ogodei probabilmente ordinò lo sterminio della popolazione di Urgench, composta da più di un milione di persone: fu uno dei più grandi massacri della storia 94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA PRESA DI SAMARCANDA

Gengis Khan conquistò questa città nel 1220, durante la sua brutale campagna contro lo scià di Corasmia; giustiziò tutti gli uomini armati e fece prigionieri 30mila artigiani, che deportò in Mongolia. Nella foto, la madrasa di Ulug Beg, nel Registan.

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amministrare con successo il più grande impero conosciuto fino ad allora dall’umanità. A questo scopo ricorse all’enorme bacino di talentuosi servitori riuniti dal padre, seppur mantenendo un certo margine di scelta.

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Lo statista

NEI DOMINI DEL GRAN KHAN

Questo particolare del quinto foglio dell’Atlante catalano, risalente al 1375 circa, mostra una carovana di solito identificata con quella dei Polo. Bibliothèque nationale, Parigi.

stan e del Kashmir a sud, e della Georgia e dell’Armenia a nord. Lì entrarono in contatto con i crociati latini, ottenendo il vassallaggio del principe di Antiochia Boemondo V. Sconfissero anche i selgiuchidi dell’Anatolia (attuale Turchia), il cui declino permise il successivo sviluppo della dinastia ottomana nella regione. Ma al di là dell’unificazione militare di tutta l’Asia dal Mediterraneo al mar Giallo, il grande risultato di Ogodei fu la costruzione di un apparato statale in grado di

Ogodei volle conferire al suo impero un’aura di sacralità: Gengis fu elevato al rango di divinità e gli furono dedicati altari e rituali

Ogodei suddivise innanzitutto l’impero in tre amministrazioni corrispondenti all’incirca a Cina, Asia centrale e Persia, e guidate rispettivamente da un erudito confuciano, un carovaniere cristiano e un mercante musulmano. Tutti e tre facevano parte del settore più progressista della cerchia (kheshig) di Gengis, favorevole a un equilibrio tra vita nomade ed economia sedentaria. Con l’appoggio di Ogodei riuscirono a realizzare ambiziosi piani di tutela dell’agricoltura e dell’artigianato e di promozione del commercio. A loro si deve l’introduzione su scala asiatica della cartamoneta, inventata alcuni secoli prima ai tempi della dinastia cinese Tang ma mai pienamente sfruttata. La misura di maggior portata di Ogodei fu la creazione di una vasta rete viaria, costantemente sorvegliata da migliaia di soldati. Le sue ampie strade fiancheggiate da file di alberi erano dotate di servizi di posta militare (detti yam) ogni trenta o quaranta chilometri e formavano una rete che aveva i suoi nodi in località separate l’una dall’altra da non più di cinquecento chilometri. Se alcune di queste località esistevano già, altre furono create da Ogodei, come la famosa Karakorum, la prima città fondata dai mongoli. Questa immensa rete stradale si estendeva da un capo all’altro dell’Asia, unificando per la prima volta nella storia la via della Seta, il reticolo d’itinerari commerciali che fin dall’antichità univa l’impero romano alla Cina. Grazie a essa gli scambi tra Europa e Asia s’intensificarono. Un gran numero di spie, monaci o mercanti, come il famoso Marco Polo, utilizzarono queste strade nel corso del XIII e XIV secolo su invito degli stessi khan, e a loro si deve il primo incontro sistematico tra Oriente e Occidente. Un altro dei grandi contributi di Ogodei alla tecnologia politica dei mongoli fu il titolo di khaghan (che in

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LA CAPITALE SCOMPARSA

Nel XVI secolo per la costruzione del monastero buddista di Erdene Zuu vennero utilizzati materiali dell’antica Karakorum, che sorgeva nelle vicinanze.

M. KOKHANCHIKOV / ALAMY / ACI

Europa divenne “Gran Khan”), un termine inventato dagli uiguri. Tramite il suo uso Ogodei volle sacralizzare il proprio impero, attribuendosi una sorta d’insuperabile autorità con giurisdizione universale e carattere retroattivo: Gengis Khan fu elevato infatti al rango di divinità, e gli furono dedicati specifici riti e altari. Fin dall’antichità i mongoli adoravano i loro antenati, gli ongod, ma anche le forze della natura, che erano dominate da una divinità suprema chiamata Tengri, il Cielo. La corte di Ogodei fece di Gengis l’ultimo inviato di questo nume, equiparandolo così ai profeti delle grandi religioni eurasiatiche come Mosè, Gesù o Maometto. E come questi, Gengis portò con sé la sua legge, la Yeke

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Karakorum, la capitale dei mongoli FU LO STESSO OGODEI a scagliare le frecce che

delimitarono i confini della città. Questa aveva 12 pagode, due moschee, una chiesa, un osservatorio astronomico, decine di lussuosi palazzi e monumenti stravaganti come una fontana meccanica realizzata da un orafo francese, da cui sgorgavano ininterrottamente vino, birra, idromele e kumis. Dopo Karakorum furono fondate altre città lungo la via della Seta come Pechino, Xanadu, Soltaniyeh e Saraj. Ogodei diede un contributo centrale al più grande sforzo sistematico della storia antica dell’umanità per favorire gli scambi politici, economici e culturali su una scala realmente globale.

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Yasa, la cui autorità non riconosceva alcun limite. Era solo questione di tempo prima che l’umanità intera si piegasse al suo volere. L’iniziativa di Ogodei però non riuscì ad affermarsi completamente: sebbene i templi dedicati a Gengis siano sopravvissuti fino ai giorni nostri, già alla fine del XIII secolo importanti khan mongoli preferivano dichiararsi pubblicamente buddisti o musulmani. Ma il tipo di autorità associata alla figura del Gran Khan permise ai suoi successori di contemplare qualsiasi tipo di divisione – politica, linguistica o religiosa – come perfettamente compatibile con il loro potere, e ciò contribuì a configurare un impero marcatamente cosmopolita. Il titolo di khaghan divenne immediatamente la maggiore espressione del potere politico sulla faccia della terra.

La crisi finale L’imperatore Federico II, contemporaneo di Ogodei, sapeva grazie ai suoi informatori che per i mongoli il Gran Khan era dio in terra. Ma la verità è che Ogodei, lungi dal considerarsi tale, riconobbe i suoi errori in diverse occasioni, arrivando persino a scusarsi per alcuni di essi. Ad esempio, per il rapimento di varie fanciulle della tribù mongola degli oirati, ordinato come punizione per non aver ricevuto i tributi imposti. Secondo la leggenda ripresa da vari cronisti persiani, più di quattromila bambine e ragazze tra i sette e i sedici anni furono pubblicamente violentate dai soldati di Ogodei. Il Gran Khan ammise anche i suoi problemi con l’alcol, ma la confessione non bastò a salvarlo: si spense infatti in seguito a un’intossicazione etilica in una notte di dicembre del 1241. L’alcol fu sempre uno dei problemi più gravi dei discendenti di Gengis. Nove anni prima Ogodei aveva visto morire fra le sue braccia il fratello minore Tolui per la stessa ragione. Quella tragica perdita lo aveva colpito profondamente, spingendolo a delegare sempre più potere alla sua cerchia familiare. Di questa situazione seppero approfittare due donne, che iniziarono a delinearsi come future leader dell’impero mongolo.

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LA CRUENTA BATTAGLIA DI LEGNICA

Questa miniatura realizzata nel 1353 ricostruisce lo scontro del 1241 tra i mongoli (a sinistra, con i loro archi), i polacchi e i rispettivi alleati, che furono sconfitti e registrarono 30mila vittime.

Una era Sorgaqtani, la vedova di Tolui, di cui un viaggiatore straniero – il vescovo siriaco Gregorio Barebreo – disse: «Se dovessi vedere tra le donne un’altra come lei, non esisterei ad ammettere la superiorità del genere femminile rispetto a quello maschile». Sorgaqtani fu una delle consigliere più ascoltate da Ogodei e si distinse come fautrice di una maggior sedentarizzazione dell’amministrazione mongola. L’altra, Toregene, era una delle mogli “secondarie” di Ogodei. Grazie al tacito sostegno di Chagatai, Toregene assunse sempre più potere fino a diventare imperatrice reggente tra il 1241 e il 1246, quando finalmente riuscì a imporre il figlio Guyuk come nuovo Gran Khan, sebbene questi non avesse

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goduto del favore di Ogodei. Pur essendo stata inizialmente allontanata da corte dalla stessa Toregene, Sorgaqtani alla fine seppe imporsi propiziando l’ascesa al trono dei suoi due figli, Mongke prima e Kublai poi, e creando il nuovo stile di governo che caratterizzò l’ultimo secolo dell’epoca mongola. I due fratelli avrebbero smesso di considerarsi come meri conquistatori con diritti inalienabili su tutto il mondo per presentarsi invece come sovrani dispensatori di pace e giustizia; e il terrore non sarebbe più stato la principale strategia di propaganda. Lo scenario migliore per raccontare la fine tumultuosa del regno di Ogodei è proprio l’Europa, la cui invasione era stata meticolosamente pianificata dal Gran Khan nel 1235,

subito dopo la conquista dell’impero Qin. A questo scopo fu organizzato un enorme esercito guidato dai nipoti di Gengis Khan, ovvero i primogeniti dei figli di Borte: Batu, Buri, Guyuk e Mongke. La spedizione fu un successo clamoroso. In soli tre anni i mongoli conquistarono tutte le roccaforti della Russia, da Mosca a Kiev. Attraversarono i Carpazi, invasero la Polonia e l’Ungheria e in pochi giorni, tra il 9 e l’11 aprile 1241, distrussero la grande coalizione formata da templari, cavalieri teu-

Ogodei morì per un’intossicazione etilica proprio come suo fratello Tolui, deceduto tra le sue braccia nove anni prima STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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tonici, principi austriaci, tedeschi, polacchi e ungheresi nelle battaglie di Legnica e Mohi. L’imperatore Federico II non poté fare altro che avvertire i re di tutta Europa del pericolo che incombeva sul continente. Le truppe mongole avevano ormai raggiunto le porte di Vienna e la costa adriatica quando decisero improvvisamente di fermare l’attacco. Le loro imponenti vittorie erano avvenute nonostante le grandi divisioni dei leader dell’impero. Tra Batu e Guyuk, figli rispettivamente di Joci e Ogodei, esisteva una forte rivalità che si protrasse durante tutta la campagna militare per concludersi con uno scandaloso confronto pubblico sulle rive del Danubio. Quando Ogodei, che fino a quel momento era riuscito a controllare le ambizioni del figlio, si spense improvvisamente a causa del prolungato abuso di alcol, Toregene poté mettere sul trono Guyuk nonostante il parere contrario espresso dal sovrano prima di morire. Batu pianificò per anni la vendetta. Alla morte di Guyuk, appoggiò l’ascesa al trono di Mongke e con l’aiuto di Sorgaqtani fece massacrare più di trecento discendenti di Ogodei.

Il tradimento di Toregene, la violenta reazione della famiglia imperiale e lo sterminio di quasi tutti i discendenti del defunto sovrano finirono per mettere in secondo piano il ruolo svolto da Ogodei come statista: egli forgiò infatti il più grande impero terrestre della storia, uno stato con una struttura che fu in grado di sopravvivere per oltre un secolo e mezzo. Il figlio di Gengis Khan fu il principale fautore della complessa trasformazione della potenza conquistatrice del padre nella solida e prolungata esperienza storica dell’impero mongolo. ANTONIO GARCÍA ESPADA AUTORE DI EL IMPERIO MONGOL

Per saperne di più

SAGGI

Storia segreta dei mongoli S. Kozin (a cura di). Guanda, Parma, 2009. I Mongoli. Espansione, impero, eredità M. Bernardini, D. Guida. Einaudi, Torino, 2012. Gengis Khan. L’uomo che creò l’impero più vasto di tutti i tempi M. Bocci. Rusconi, Milano, 2019.

DEA / ALBUM

L’artefice dell’impero

La pericolosa lotta per il trono LA PRIMOGENITURA non conferiva il diritto a succedere al Gran Khan, e questo generò sanguinose lotte per il potere. Alla morte di Ogodei una delle sue mogli, Toregene – alleata di Chagatai, fratello del defunto sovrano, e dotata di grande abilità politica –, riuscì a far salire al trono il figlio Guyuk, che pur non aveva goduto dei favori del padre. Quando questi morì, sua moglie Oghul fu vittima di Sorgaqtani, vedova di Tolui – un altro fratello di Ogodei –, che fece proclamare Gran Khan il figlio Mongke. Oghul fu accusata di tradimento e stregoneria. Venne spogliata, le furono cucite insieme le mani con dei tendini di animali, poi fu avvolta nel feltro e gettata in un fiume. Più di 300 nobili legati a Ogodei e Chagatai furono giustiziati e le loro mogli torturate.

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SOPRA, A SINISTRA, È RAFFIGURATO IL FIGLIO E SUCCESSORE DI OGODEI: GUYUK SI TROVA A CORTE TRA MUSICISTI E SERVITORI. MINIATURA PERSIANA. TOLUI E LA MOGLIE SORGAQTANI SEDUTI IN TRONO. SORGAQTANI RIUSCÌ A ELIMINARE LA DISCENDENZA DI OGODEI E A FAR ELEGGERE KHAN I FIGLI DI TOLUI, MONGKE E KUBLAI. MINIATURA PERSIANA. AKG / ALBUM

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Ogodei proseguì l’espansione mongola in Occidente attaccando la Polonia e l’Ungheria. I polacchi furono schiacciati il 9 aprile 1241 a Liegnitz (Legnica), mentre l’11 aprile, a Mohi fu massacrato l’esercito di Béla IV d’Ungheria. Batu, nipote di Ogodei, fu uno dei comandanti in quest’ultima battaglia. Nonostante i suoi buoni risultati, a realizzare l’intervento decisivo fu Subutai, il miglior generale di Gengis Khan e il responsabile della pianificazione della campagna europea. uda AB

con delle catapulte le forze di guardia al ponte principale, mettendole in fuga. Quindi lo attraversò mentre il grosso dell’esercito di Béla IV si preparava allo scontro. La cavalleria pesante ungherese fece vacillare Batu, ma a quel punto comparve Subatai dalle retrovie.

Külsöböcs

Sajóhidvég

Nyékládháza

1 MUHI (MOHI) Köröm Girincs Sajò

Hejokeresztúr

2 pe s

Nagycsécs Sajóörös

Hejoszalonta

Sajószöged

Szakáld

(I toponimi della mappa sono quelli attuali) Hej o

Hejobába

Confini attuali EUROPA

Kiscsécs

t

La conquista del ponte avrebbe spianato ai mongoli la strada verso Pest, la capitale ungherese. Il primo tentativo di attraversamento fu respinto nella notte tra il 10 e l’11 aprile. Il fratello di Batu, Shiban, si diresse allora verso nord per attraversare il fiume con delle zattere fatte di otri gonfiati, mentre Subatai costruiva un ponte provvisorio a sud.

1 All’alba Batu attaccò

Sa jò

Ónod

ejo H

IL PONTE SUL SAJÒ

Sajópetri

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LA BATTAGLIA DI MOHI

Hejopapi

Mohi Ingrandimento

Paludi L’area era costellata da terreni paludosi, il che rendeva difficili gli spostamenti dei soldati.

Avanzata mongola Ritirata ungherese

ASIA AFRICA

Mar Mediterraneo

2 Per non ritrovarsi circondati gli ungheresi si

ritirarono nel loro accampamento. Lì furono bombardati dal nemico con le catapulte e attaccati con “dardi infuocati”. Sopraffatti, si diedero alla fuga attraverso un varco che i mongoli avevano lasciato aperto a questo scopo e furono inesorabilmente abbattuti.

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Tiszalúc

L ’A R T I G L I E R I A M O NGO L A

L’esercito mongolo disponeva di una sofisticata tecnologia militare appresa dagli avversari cinesi, che includeva le catapulte e l’uso della polvere da sparo. Si ritiene che quest’ultima sia stata usata per la prima volta in Europa proprio a Mohi, come suggerito dalle cronache dell’epoca, che parlano di “dardi infuocati”.

Tibisco

Kiscsécs

Sajókesznyéten

Dardi infuocati Forse furono sparati con delle rudimentali armi da fuoco.

Catapulte Perfezionate dai mongoli, permettevano il lancio di grandi massi o di granate incendiarie.

Mongoli L’esercito era formato dalla cavalleria pesante e dalla cavalleria leggera, la cui arma principale era il temibile arco composito.

Sajóörös

Gli ungheresi A fianco delle truppe del re Béla IV si schierarono i soldati del Sacro romano impero e i cavalieri templari e ospitalieri.

Ponte sul fiume Sajò Era lungo circa 200 metri e in pietra.

FORZE IN CAMPO

Non ci sono dati affidabili sul numero di effettivi schierati da ogni lato, ma forse erano circa 25mila. I mongoli uccisero attorno ai 10mila nemici.

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Il culmine della Rivoluzione

IL TERRORE Nel 1793 la Rivoluzione francese entrò nella sua fase più drammatica. Minacciati dall’invasione straniera e da una controrivoluzione interna, i capi degli insorti diedero il via a una terribile spirale repressiva

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IN ATTESA DELLA GHIGLIOTTINA

Quest’olio del pittore francese Charles Louis Müller rappresenta la chiamata al patibolo delle ultime vittime del Terrore in una cella della prigione di Saint-Lazare. 1850. Musée de la Révolution française, Vizille. RMN-GRAND PALAIS

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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

L

O S PA RG I M E N TO di sangue nei massacri del settembre 1792 causò commozione tra i rivoluzionari, che di colpo si dovettero confrontare con il lato più oscuro della rivolta iniziata nel 1789. Alcuni, come il ministro girondino Roland, proposero di stendere un velo pietoso su quanto successo, da considerare come una disgrazia inevitabile. Altri, invece, credettero che l’evento avesse contribuito a salvare la Rivoluzione. Così dichiarò il ministro della giustizia Garat nell’ottobre dello stesso anno, in un dibattito nella Convenzione: «È quasi un crimine contro la nazione francese credere che tali fatti non appartengano all’insurrezione [...] queste giornate di sangue sono state il prolungamento delle lotte della libertà contro il dispotismo».

BRIDGEMAN / ACI

MASSACRI DI SETTEMBRE

I cadaveri dei prigionieri assassinati durante la carneficina del settembre 1792 vengono trasportati in un cimitero dopo essere stati spogliati.

L’

11 dicembre 1792, in seno al parlamento della Convenzione nazionale, ebbe inizio il processo a Luigi XVI. Il sovrano era stato deposto quattro mesi prima in seguito a un’insurrezione dei sanculotti, il popolo sovversivo di Parigi. Fu allora che incominciò la fase più radicale della Rivoluzione francese. Luigi XVI era accusato di aver cospirato contro di essa al fine di restaurare l’assolutismo: quasi all’unanimità i deputati votarono la sua colpevolezza, anche se successivamente si divisero in merito alla pena da applicare.

09-1792 C R O N O LO G I A

03-1793 La Convenzione nazionale ordina di fondare il Tribunale rivoluzionario, un organo eccezionale di giustizia, incaricato di perseguitare i presunti delitti di tradimento e di cospirazione.

RO GE

MESI DI SANGUE

RV IOL

Gruppi di sanculotti attaccano le prigioni di Parigi e uccidono in massa i detenuti, accusati di aver sostenuto la controrivoluzione.

Nelle ultime ore della sessione notturna del 16 gennaio 1793 la maggioranza dei congregati fu concorde nel decretare la morte del monarca. Cinque giorni più tardi in Place de la Révolution (oggi Place de la Concorde) venne eretta la ghigliottina, e 1.200 guardie scortarono il carro di Luigi fino al patibolo. Prima che la lama cadesse sul suo collo, il sovrano affermò: «Muoio innocente. Perdono i miei nemici e spero che il mio sangue sia utile ai francesi e plachi la collera di Dio». La scomparsa del re avvenne in un frangente critico per la Francia rivoluzionaria. All’esterno le truppe francesi

LET /A UR AG

LUIGI XVI. BUSTO DI LOUIS-PIERRE DESEINE.

ES

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ARNAUD CHICUREL / GTRES

repubblicana ostile alla Chiesa o anche individui che approfittavano degli eventi per arricchirsi. Gli“accaparratori”, insomma, i quali rivendevano i prodotti di prima necessità a un prezzo maggiore di quanto li avevano pagati. Nel settembre dell’anno precedente una simile concomitanza di minacce esterne e timori di complotti interni aveva dato luogo a un terribile episodio: una folla inferocita aveva fatto irruzione nelle carceri di Parigi massacrandone i detenuti. Per cinque giorni chiunque veniva considerato un controrivoluzionario era sottoposto a un processo sommario per poi esse-

09-1793

06-1794

Viene presa la decisione di riorganizzare il Tribunale rivoluzionario allo scopo di rendere più agili e duri i processi contro chi viene sospettato di essere controrivoluzionario.

Dopo essere scampato a un attentato, Robespierre promuove il Grande Terrore. In sole sette settimane sono condannate oltre 1.300 persone, più che nei 14 mesi precedenti.

Nell’agosto 1792 il comune di Parigi (nell’immagine) venne proclamato Comune rivoluzionario e reclamò l’applicazione del Terrore.

07-1794 Robespierre è deposto e giustiziato sulla ghigliottina assieme ai suoi più stretti collaboratori. La sua condanna mette fine al Terrore.

DECAPITAZIONE DI ROBESPIERRE IL 28 LUGLIO 1794. INCISIONE DEL 1799.

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IL COMUNE DI PARIGI

BRIEDGEMAN / ACI

pativano pesanti sconfitte contro le potenze assolutistiche che gli avevano dichiarato guerra l’anno precedente. All’interno, nella regione della Vandea, era scoppiata una grande ribellione controrivoluzionaria, che avrebbe spinto il governo repubblicano a inviare migliaia di soldati per cercare di sopprimerla. In tutto il Paese la guerra aveva provocato una carestia, che a sua volta aveva portato a numerose rivolte. In un simile e difficile contesto, tra i circoli rivoluzionari si consolidò l’idea che queste difficoltà dipendessero dall’azione occulta dei nemici della Rivoluzione: ex aristocratici, preti che non avevano accettato la legislazione

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UN CLIMA IRRESPIRABILE

O

OLTRE AL TRIBUNALE RIVOLUZIONARIO, la Rivolu-

zione si dotò di altri strumenti di difesa che andarono a comporre la cosiddetta “struttura del Terrore”. Il 21 marzo si ordinò di organizzare comitati di sorveglianza in ogni località. Avevano il compito di controllare i passaporti ed emettere certificati di civismo, e portavano i sospetti davanti al Tribunale. Questi comitati, presto caduti nelle gelose mani dei sanculotti, furono uno degli strumenti più efficaci per fondare un nuovo stato centralizzato e poliziesco. Ne diede testimonianza la scrittrice femminista inglese Mary Wollstonecraft, futura madre di Mary Shelley, l’autrice di Frankenstein, che nel dicembre 1792 si trasferì a Parigi per vivere quello che considerava un evento di fondamentale importanza storica. Pochi mesi dopo le autorità ordinarono a tutti gli stranieri senza permesso di lasciare il Paese. Wollstonecraft abbandonò Parigi per Le Havre, e da lì scrisse a un’amica: «Mi si gela il sangue, sono disgustata al pensiero di una rivoluzione che costa così tanto sangue e lacrime amare».

ROGER VIOLLET / AURIMAGES

DECRETO DI ARRESTO PER DANTON E I SUOI SEGUACI DA PARTE DEL COMITATO DI SALUTE PUBBLICA, EMESSO IL 30 MARZO 1794.

re trucidato lungo i corridoi o nelle strade limitrofe da cittadini armati di spade, asce, picche e bastoni. Il bilancio finale era stato di più di mille morti. Quando il 10 marzo 1793, nell’anniversario della presa del palazzo delle Tuileries, i sanculotti si rivoltarono contro l’assemblea, i capi rivoluzionari decisero che bisognava evitare a tutti i costi il ripetersi di una nuova strage. Purché il popolo non si facesse giustizia da solo, la Convenzione introdusse una serie di leggi e fondò alcuni organismi incaricati di arrestare e giudicare i nemici della Rivoluzione. Nacque così il regime del Terrore. Uno dei grandi leader del momento, Danton, giustificò in una sola frase la nuova tappa politica: «Siamo terribili per dispensare il popolo dall’esserlo».

Il Tribunale rivoluzionario La Convenzione decise di creare un tribunale straordinario per punire «ogni iniziativa controrivoluzionaria, ogni attentato contro la libertà, l’uguaglianza, l’unità, l’indivisibilità della Repubblica, la sicurezza interna ed

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COMITATO RIVOLUZIONARIO

I membri di un comitato di sicurezza (o rivoluzionario) esaminano il certificato di un cittadino negli anni del Terrore.

GRANGER / AURIMAGES

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LA SFIDA DEI VANDEANI Sotto, stendardo degli insorti della Vandea in cui, contro la Rivoluzione, si rivendicano la religione cattolica e l’erede di Luigi XVI: suo figlio, Luigi XVII.

Oltre a ciò, allo scopo di coordinare la difesa e soprintendere i ministeri, il 6 aprile venne fondato il Comitato di salute pubblica. Composto da nove membri – poi dodici e infine quattordici –, divenne l’organo fondamentale del Terrore, vedendo man mano aumentare il proprio potere dal giugno 1793, quando i giacobini, guidati da Robespierre, s’imposero come la forza politica dominante. All’inizio le istituzioni del Terrore non si mostrarono particolarmente solerti. Durante i primi sei mesi di vita il Tribunale rivoluzionario giudicò soltanto 260 persone e ne condannò un quarto. La situazione cambiò dopo l’estate 1793, quando la Rivoluzione dovette affrontare un’ulteriore crisi esistenziale. Le truppe nemiche penetrarono nel suolo francese. All’interno dei confini, alla guerra in Vandea si aggiunsero le sommosse federaliste, incalzate dal partito girondino, che i giacobini avevano allontanato dal potere. In settembre le voci su LOREMU IVIS

esterna dello stato e tutti i complotti tendenti a restaurare la monarchia o a fondare qualsiasi altra autorità che minacci la libertà, l’uguaglianza e la sovranità del popolo». Con sede a Parigi, tale tribunale era composto da cinque giudici, un pubblico accusatore e una giuria di dodici membri. In teoria ogni processo avrebbe avuto le giuste garanzie e contemplava perfino il diritto all’assistenza di un avvocato. Ma la giuria veniva scelta dalla Convenzione, le sentenze erano inappellabili e la condanna doveva essere eseguita entro ventiquattr’ore dalla sua emissione. Non solo: al colpevole sarebbero stati confiscati tutti i beni. La figura chiave nell’esercizio del Tribunale rivoluzionario, come venne chiamato dall’ottobre 1793, era il pubblico accusatore, AntoineQuentin Fouquier-Tinville, un funzionario sino ad allora sconosciuto che si sarebbe rivelato un lavoratore indefesso e implacabile contro i presunti nemici della Rivoluzione.

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TERRORE NECESSARIO

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In quest’allegoria, Il trionfo della Montagna, ovvero la vittoria dei montagnardi, vengono ritratte le dee Libertà e Uguaglianza su un carro. Ai piedi dell’immagine, Ercole e Minerva sterminano «i diversi mostri che sotto diverse maschere volevano strapparci la Libertà», come recita la legenda dell’immagine.

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PRO E CONTRO Mentre i giacobini giustificavano la repressione del Terrore come una misura necessaria per il trionfo della Rivoluzione, i loro avversari la consideravano uno strumento della tirannide personale di Robespierre. Le illustrazioni di queste due pagine mostrano la contrapposizione delle due correnti di pensiero.

In quest’incisione del 1794 Robespierre ghigliottina il boia, l’ultimo sopravvissuto dopo la decapitazione della totalità dei francesi. Le ghigliottine con le lettere alfabetiche simboleggiano le vittime. Sulla piramide si legge: «Qui giace tutta la Francia». Il “tiranno” sta calpestando le costituzioni del 1791 e del 1793.

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BPK / RMN-GRAND PALAIS

DISPOTISMO SENZA LIMITI

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TINVILLE: ORCO O PATRIOTA?

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OPO LA CADUTA di Robespierre e la fine del Terrore, uno dei primi a essere arrestati dal nuovo regime fu il potentissimo pubblico accusatore del Tribunale rivoluzionario, Antoine-Quentin Fouquier-Tinville. La propaganda antigiacobina lo volle presentare come un personaggio spietato e sanguinario, immagine cui aveva contribuito il suo carattere aspro e la meticolosità professionale. Al processo si difese affermando: «Io non ho agito che in forza di leggi formulate da una Convenzione investita di pieni poteri». Venne condannato a morte nel maggio 1795, assieme ad altri nove membri del Tribunale. Fouquier-Tinville lasciò scritta un’ultima dichiarazione: «Io non ho nulla di cui rimproverarmi: mi sono sempre conformato alle leggi […] Io muoio per la mia patria».

BRIDGEMAN / ACI

un’imminente carestia scatenarono nuove ondate di panico. Il 5 settembre la folla chiese alla Convenzione che venisse garantita la somministrazione del pane e che i traditori fossero eliminati. Insoddisfatti dall’incertezza generale, i sanculotti pretesero l’arresto immediato dei sospetti nonché il controllo sugli accaparratori di beni primari, e i deputati giacobini dettero ascolto alle loro richieste. Come ebbe a dire un oratore, Bertrand Barère: «È giunta l’ora che l’uguaglianza passi la falce su tutte le teste. Così, legislatori, mettete il terrore all’ordine del giorno».

Tutti sospettati Il Comitato di salute pubblica avviò quindi un’ampia riorganizzazione del Tribunale rivoluzionario. Il numero dei giudici aumentò a sedici e quello dei giurati a sessanta, il che permise di dividere il Tribunale in quattro sezioni. La corte si dotò anche di un proprio carcere. In questo modo il numero dei processi accrebbe drasticamente, e le sentenze s’inasprirono. Si è calcolato che tra l’ottobre 1793 e il gennaio

IL FISCALE FOUQUIERTINVILLE Grazie ai favori di Camille Desmoulins, Fouquier-Tinville (sopra) fece carriera nell’amministrazione della giustizia dopo il 1789 finché venne nominato pubblico accusatore del Tribunale rivoluzionario.

1794 in tutta la Francia furono giustiziate circa ottomila persone, la metà del totale delle vittime del Terrore. Inoltre il 17 settembre 1793 venne approvata la cosiddetta legge dei sospetti, la quale si accanì contro quelli che «sia per la loro condotta, o le loro relazioni, o dalle loro parole o scritti, si sono dimostrati essere partigiani della tirannia e del federalismo, e nemici della libertà» oppure contro coloro che non si erano esposti in prima persona a favore della Rivoluzione. Cadevano quindi nel suo mirino i preti recidivi, gli ex nobili, i funzionari pubblici sospesi o dimessi e gli emigrati. La legge duplicò quasi il numero di prigionieri presenti nelle carceri di Parigi. Al culmine del Terrore dentro le gattabuie francesi si stipavano circa 80mila sospetti e, in generale, nel periodo del regime instaurato da Robespierre mezzo milione d’individui vi trascorse, per ragioni politiche, periodi più o meno lunghi. Tra ottobre e novembre si celebrarono alcuni processi di grande risonanza, a cominciare da quello della regina Maria Antonietta, che il 14 ottobre venne condotta davanti al Tribunale.

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PROCESSO A DANTON

Il capo degli “indulgenti”, Danton, si difende dalle imputazioni della pubblica accusa Fouquier-Tinville nel processo dell’aprile 1794. Incisione di Jean Mathias Fontaine.

AGENCE BULLOZ / RMN-GRAND PALAIS

Le vittime In questa fase del Terrore i girondini divennero, appunto, i capri espiatori. Tra le vittime si annovera una delle scrittrici emerse durante la Rivoluzione, Olympe de Gouges, autrice della Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina). Vilipesa dalla stampa populista, venne arrestata il 20 luglio 1793 perché aveva chiesto un referendum sulla monarchia. Deferita anche lei al Tribunale, si difese:

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«Non esistono forse la libertà di opinione e di stampa consacrate nella Costituzione come il patrimonio più prezioso dell’umanità? I vostri atti arbitrari devono essere condannati davanti al mondo intero». Dichiarata colpevole per i suoi «scritti controrivoluzionari», venne giustiziata il 3 novembre 1793. Pure il matematico e filosofo Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Condorcet finì nel mirino del Terrore per le sue simpatie verso i girondini. Per nove mesi riuscì a nascondersi nella casa di alcuni conoscenti e, paradossalmente, ne approfittò per comporre l’Esquisse d’un tableau histori-

VOLTI DEI CONDANNATI

Il barone Dominique Vivant Denon disegnò alcuni rivoluzionari diretti al patibolo. Sotto, da sinistra a destra: Danton, Hébert e uno sconosciuto.

MARTINE BECK-COPPOLA / RMN-GRAND PALAIS

Due giorni più tardi fu condannata a morte per alto tradimento e giustiziata sulla ghigliottina. Nello stesso periodo ebbe luogo anche il procedimento contro i moderati deputati girondini, che erano stati proscritti durante la crisi di giugno: furono accusati di mollezza eccessiva perché non avevano votato a favore della morte di Luigi XVI. Più di novanta membri vennero arrestati per essere giudicati il 30 ottobre. Ventuno furono uccisi – tra questi, il loro capo, Brissot –, mentre gli altri rimasero in carcere sino alla fine del Terrore.

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PRESUNTI CONTRORIVOLUZIONARI AFFOGATI NELLA LOIRA, A NANTES, PER ORDINE DEL DEPUTATO CARRIER. INCISIONE.

IL TERRORE IN PROVINCIA

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OLTRE A DOVER RESISTERE alle truppe straniere,

il governo rivoluzionario affrontò due minacce all’interno del territorio francese: la ribellione contadina della Vandea, a ovest, e le rivolte federaliste nelle grandi città del sud (Bordeaux, Lione, Tolosa e Marsiglia) e a Caen. Considerate un tradimento e un attentato all’unità della patria, queste insurrezioni furono represse senza pietà. A Nantes il rappresentante in carica Carrier organizzò affogamenti massicci di prigionieri nelle acque della Loira, causando migliaia di morti. A Lione, Collot d’Herbois e Fouché fecero fucilare senza processo duemila sospetti. Come castigo la Convenzione ordinò inoltre di distruggere la città e di ribattezzarla Ville-Affranchie (città liberata). Il Terrore fu più moderato da altre parti, come nella Gironda, grazie alla condotta dell’inviato del Comitato di salute pubblica, Robert Lindet. A volte una minore violenza corrispose all’arricchimento dei rappresentanti del potere, come nel caso di Jean-Lambert Tallien a Bordeaux.

que des progrès de l’esprit humain (Abbozzo di un ritratto storico dei progressi dello spirito umano), una riflessione sull’inarrestabile miglioramento dell’umanità nel corso della storia. Nel marzo 1794 cercò di fuggire da Parigi, ma venne scoperto e incarcerato da un comitato locale di sicurezza. A quanto pare, ingerì una dose di veleno e morì nella sua cella. Il 29 dicembre venne giustiziato l’ex sindaco di Strasburgo, Philippe-Frédéric de Dietrich, nella cui casa era stato intonato per la prima volta l’inno La Marsigliese. Secondo Robespierre, era «uno dei maggiori cospiratori della Repubblica». La presenza di casi simili, ovvero di ferventi rivoluzionari che d’improvviso venivano dichiarati nemici della Repubblica e uccisi, fece temere a molti che il Terrore si stesse spingendo troppo in là e che la Rivoluzione stesse distruggendo sé stessa. Soprattutto in un momento in cui la situazione alle frontiere era divenuta favorevole per la Francia, e veniva meno quindi il pretesto di salvare la patria da nemici esterni. Sorse perciò la fazione degli “indulgenti”,

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LA CONCIERGERIE

Il complesso del palazzo di Giustizia, sulle sponde della Senna, ospitava la prigione della Conciergerie e la sede del Tribunale rivoluzionario.

PASCAL DUCEPT / GTRES

propensi ad attenuare la persecuzione contro i presunti sospetti. Danton, lo stesso che aveva giustificato i massacri di settembre, chiese la creazione di un“comitato di clemenza”per tutelare chi non aveva commesso alcun delitto. E, dalle pagine di Le Vieux Cordelier, il suo amico Camille Desmoulins diede voce a chi non capiva perché il Terrore continuasse a perpetuarsi se i suoi obiettivi sembravano essere stati raggiunti: «Volete sterminare tutti i vostri nemici sulla ghigliottina! Vi è mai stata maggiore follia? Potrete eliminare qualsiasi persona sul patibolo senza guadagnarvi così dieci nemici tra famiglia e amici? Credete voi che queste donne, questi vegliardi […] questi egoisti, questi“ritardatari” della Rivoluzione siano davvero pericolosi?».

Lotta mortale per il potere

LB OZ / A UM

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DANTON, IL TRIBUNO INDOMABILE Quando salì sul patibolo, Danton disse al suo boia: «Non dimenticate di mostrare la mia testa al popolo. Ne vale la pena». Ritratto di Charpentier.

O RO N

Se, una volta passata la crisi del settembre 1793, in generale la situazione in Francia si era placata, lo stesso non accadde a Parigi. Nella capitale il Terrore divenne un’arma nelle mani di Robespierre e dei giacobini del Comitato

di salute pubblica, arma impugnata contro le fazioni politiche nemiche. Si abbatté, per esempio, su Hébert, capo degli enragés (indignati), i sanculotti più estremisti di Parigi, ovviamente inclini a un’intensificazione delle misure radicali contro gli accaparratori e contro ogni sorta di presunti cospiratori. Nel marzo 1794, quando Hébert chiamò a una «sacra insurrezione» contro la Convenzione, venne arrestato con i suoi seguaci. Al cospetto del Tribunale rivoluzionario furono accusati, senza prove, di essere degli «agenti stranieri». Il 24 Hébert andò incontro alla stessa sorte che tante volte aveva preteso per gli altri, ovvero “radersi con la lama nazionale”. Il 30 marzo, una settimana più tardi, Danton, Desmoulins e altri indulgenti furono arrestati e deferiti al Tribunale assieme ad alcuni cittadini che si erano veramente macchiati di frode. Difatti non era infrequente che venissero accomunati e confusi delitti comuni e politici. Sempre combattivo, negli interrogatori Danton affermò: «La mia voce non sarà udita soltanto da voi, ben-

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NELLE PRIGIONI DEL TERRORE

CORRIDOIO DELLA PRIGIONE DI SAINT-LAZARE NEL 1973. HUBERT ROBERT. MUSÉE CARNAVALET, PARIGI. GRANGER / AURIMAGES

l pittore Hubert Robert fu arrestato il 20 ottobre 1793 perché «sospettato d’inciviltà conclamata e per le sue relazioni con gli aristocratici». Robert sarebbe rimasto in prigione quasi dieci mesi, fino alla caduta di Robespierre. Una volta uscito, rievocò in vari quadri quanto aveva visto nelle carceri parigine per le quali era passato, quella di Sainte-Pélagie e di Saint-Lazare, due delle 65 prigioni della capitale. Le condizioni dei reclusi dipendevano dalla ricchezza: i più abbienti potevano godere di pasti decenti, di visite e perfino di luoghi di svago. Gli altri, invece, pativano l’affollamento e le privazioni. Queste ultime miserie le avrebbero sofferte tutti coloro che transitavano per la prigione della Conciergerie, l’anticamera della ghigliottina. SVAGO DEI PRIGIONIERI NEL CARCERE DI SAINT-LAZARE A PARIGI. HUBERT ROBERT. MUSÉE CARNAVALET, PARIGI. BULLOZ / RMN-GRAND PALAIS

HUBERT ROBERT RITRATTO DA ÉLISABETH-LOUISE VIGÉE LE BRUN. ÉCOLE DES BEAUX-ARTS, PARIGI. BERIZZI / RMN-GRAND PALAIS

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DISTRIBUZIONE DI LATTE AI PRIGIONIERI DI SAINTLAZARE. HUBERT ROBERT. COLLEZIONE PRIVATA. BRIDGEMAN / ACI

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L’ULTIMO VIAGGIO DEI REI

LE VITTIME DEL TERRORE CONDOTTE ALLA GHIGLIOTTINA SU UN CARRETTO. INCISIONE.

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OLORO CHE VENIVANO con-

dannati dal Tribunale rivoluzionario erano condotti dalla prigione della Conciergerie al patibolo, e tale viaggio divenne uno spettacolo di massa. Nell’ultima fase del Terrore la ghigliottina fu spostata a est della città, fuori le mura, nella cosiddetta Place du Trône-Renversé, oggi Place de la Nation. Il tragitto durava un’ora e mezza. I “rei” si trovavano su un carretto: alcuni erano seduti su un’asse mentre altri, in piedi, si reggevano alla ringhiera di legno. I gendarmi li scortavano davanti e dietro. A volte tra la folla si nascondevano dei sacerdoti in abiti civili, che potevano in questo modo concedere di nascosto l’assoluzione dai peccati oppure offrire ai detenuti un segno di riconoscenza, spesso con un semplice sguardo.

BRIDGEMAN / ACI

SOSTENITORE DEL TERRORE

BRIDGEMAN / ACI

La legenda di quest’immagine recita: «Terrorista che legge un giornale, disgustato da quanto vi è scritto». Disegno di Lesueur.

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sì da tutta la Francia». Era proprio quello che il Tribunale non pareva disposto a permettere. Gli imputati vennero perciò tenuti nascosti fino all’ineluttabile sentenza di condanna a morte. La fine di Danton fece rabbrividire Parigi. Il libraio Ruault confessò d’inorridire. Sostenne: «La rivoluzione divora i suoi propri figli; uccide i suoi fratelli; corrode le sue viscere» e «si è trasformata nel più orribile e crudele dei mostri». Sotto l’autorità indiscussa di Robespierre e del Comitato di salute pubblica, la macchina repressiva non si arrestò mai. L’8 maggio, per esempio, fu ghigliottinato il noto chimico e biologo Antoine Lavoisier. Era stato arrestato nel novembre dell’anno precedente in quanto esattore nell’Ancien Régime; a nulla poterono le lettere dei suoi colleghi, che ne sottolineavano il valore scientifico e

imploravano clemenza. E a nulla servì una sua richiesta di differire l’esecuzione per poter portare a termine un esperimento. Secondo alcuni, prima che il presidente del Tribunale firmasse la sentenza ebbe a dire: «La Repubblica non ha bisogno di eruditi e di chimici. Il corso della giustizia non può essere sospeso».

Il Grande Terrore Due settimane più tardi, il Terrore fece un altro passo ed entrò nella fase di maggiore recrudescenza, il cosiddetto Grande Terrore. A servire da detonatore furono due attentati avvenuti a Parigi il 22 maggio, ad appena poche ore di distanza l’uno dall’altro. Prima un ex servitore sparò contro Jean-Marie Collot d’Herbois, presidente della Convenzione, che si salvò. Quasi contemporaneamente una giovane di vent’anni fu arrestata davanti alla casa di Robespierre mentre si preparava a uccidere il “tiranno”, come confessò in seguito. Entrambi gli episodi, esaltati dalla propaganda di Robespierre, aggravarono il clima di paranoia che si viveva nei circoli del potere e furono il

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pretesto per misure ancora più estreme contro i cospiratori. Il 10 giugno venne promulgata una legge con cui si riformava il Tribunale rivoluzionario affinché punisse in modo più efficace i nemici del popolo. Gli accusati si videro privati del diritto a un avvocato, e si autorizzò perfino l’emissione di condanne senza prove materiali, sulla sola base della «intima convinzione» di giuria e giudici. Il risultato fu terrificante. Nei suoi quattordici mesi di esistenza il Tribunale rivoluzionario di Parigi aveva messo a morte 1.250 persone. In seguito alla nuova legge, in sole sette settimane ne condannò 1.375. Nell’ultima fase le esecuzioni giornaliere passarono da tre a quasi trenta, tante che la ghigliottina venne spostata a est della città per facilitare lo smaltimento dei cadaveri. Nessuno si sentiva più in salvo, nemmeno quei giacobini che avevano giocato un ruolo attivo nell’applicazione del Terrore. Un gruppo di deputati, con Fouché e Tallien in testa, ordì quindi un piano per spodestare Robespierre. Il 26 luglio “l’incorruttibile” si rivolse alla Convenzione

per denunciare la presenza di cospiratori in seno all’assemblea e ai comitati, chiedendo una nuova depurazione sanguinaria. Tuttavia, quando vi tornò l’indomani, un coro di voci lo accolse gridando «abbasso il tiranno!». Alla fine la Convenzione votò all’unanimità per il suo arresto. Il pomeriggio seguente Robespierre e una ventina di suoi seguaci furono portati davanti al tribunale, che li condannò in base a quel processo per direttissima voluto proprio dalla terribile legge dell’aprile precedente. La ghigliottina era tornata in Place de la Révolution per mettere fine al Terrore.

ARRESTO DI ROBESPIERRE

Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1794 Robespierre fu arrestato nel Comune di Parigi dopo aver abbandonato la Convenzione grazie all’intervento della folla. I suoi aguzzini lo trovarono con la mascella rotta.

VLADIMIR LÓPEZ ALCAÑIZ STORICO

Per saperne di più

SAGGI

Robespierre. L’incorruttibile e il tiranno Marcel Gauchet. Donzelli, Roma, 2019. Storia del Terrore Roberto Paura. Odoya, Bologna, 2015. Cittadini. Cronaca della rivoluzione francese Simon Schama. Mondadori, Milano, 2017. ROMANZI

L’armata dei sonnambuli Wu Ming. Einaudi, Torino, 2014.

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LA SANGUINOSA FINE DEL TERRORE

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uest’incisione, pubblicata subito dopo la caduta di Robespierre, rappresenta in modo semplice ma fedele l’esecuzione dell’“incorruttibile” e dei suoi ultimi seguaci, avvenuta il 28 luglio 1794. Place de la Révolution, dov’era stata di nuovo spostata la ghigliottina per l’occasione, è circondata da gendarmi. Sul patibolo hanno appena decapitato Couthon, mentre il fratello minore di Robespierre sta

salendo i gradini. Dietro, su un carro, aspettano il loro turno Hanriot, Dumas (ex presidente del Tribunale rivoluzionario), Robespierre (che si copre la mascella, rotta in seguito a uno sparo nella notte precedente) e SaintJust. Sugli altri due carri attende un’altra quindicina di fedeli a Robespierre. Il titolo dell’incisione è Decapitazione di Robespierre e dei complici cospiratori contro la Libertà e l’Uguaglianza.

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GRANDI ENIGMI

Carmen, il mito di una zingara spagnola Per scrivere la tragica storia della gitana andalusa uccisa dal suo amante, il francese Mérimée s’ispirò forse a un fatto reale Nel racconto originale la storia comincia con un archeologo, alter ego dell’autore, che nell’autunno del 1830 si reca in Andalusia in cerca di rovine romane e qui conosce José, un bandito con cui stringe amicizia.

Scrittore e viaggiatore A Cordova l’archeologo incontra una gitana di nome Carmen, o Carmencita. Quando lei si offre di leggergli la mano compare il suo amante, che altri non è che José. Lei lo incita a uccidere il forestiero, ma lui rifiuta e Carmen si accontenta di sottrargli l’orologio. Mesi più tardi, il narratore viene a sapere che José sta per essere giustiziato e

va a trovarlo in prigione. Il bandito gli rivela di essere un nobile di Navarra, don José Lizarrabengoa e di aver conosciuto Carmen a Siviglia quando era soldato. Lei lavorava in una fabbrica di sigari e aveva accoltellato una collega durante una lite, motivo per cui l’aveva arrestata. Ma la donna l’aveva corteggiato per farsi liberare, l’aveva sedotto, convinto a disertare e trascinato in una vita di violenza e banditismo, finché non si era stancata di lui e innamorata di un picador di tori (nell’opera viene trasformato nel torero Escamillo). Accecato dalla gelosia, José l’aveva uccisa e si era consegnato alla

INNAMORATO DELLA SPAGNA MÉRIMÉE (1803-1870) non fu il tipico viaggiatore roman-

tico pieno di luoghi comuni su una «Spagna da tamburello» ma un vero erudito che arrivò a scrivere una storia del re Pietro di Castiglia detto “il Crudele”. Le sue Cartas de España ricevettero le lodi degli scrittori Unamuno e Azorín per la conoscenza che dimostravano del Paese. PROSPER MÉRIMÉE FOTOGRAFATO A METÀ DEL XIX SECOLO, ALL’ETÀ DI 50 ANNI.

Tabacos de Sevilla (Uscita dalla Fabbrica di Tabacchi di Siviglia) di Gonzalo Bilbao. Le sigaraie, che avevano fama di avere un carattere forte, ispirarono Mérimée nella creazione del racconto.

giustizia. Sull’origine di questa storia il documento più significativo è una lettera del 16 maggio 1845 che Mérimée inviò alla sua amica la contessa di Montijo, madre della futura imperatrice di Francia Eugenia de Montijo. Nella missiva lo scrittore racconta di aver passato gli ultimi otto giorni a scrivere «una storia che mi raccontaste quindici anni fa e che temo di aver rovinato». Si riferisce al suo primo viaggio in Spagna nel

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SALIDA de la Fábrica de

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pparsa prima in forma di racconto in una rivista letteraria del 1845, e poi resa celebre dall’opera di Bizet (1875), la storia di Carmen è un mito universale oggi più vivo che mai. È anche un riuscito esempio della visione romantica della Spagna, per alcuni una vera “spagnolata”. Difatti, esiste un’opera che contenga più stereotipi su questa terra? Gitani, banditi, donne sensuali e selvagge, tori, caldo torrido, passione, crimini… C’è da chiedersi se Carmen rifletta una realtà storica o sia piuttosto una semplice fantasia del suo creatore, lo scrittore francese Prosper Mérimée.

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EROINA DELL’OPERA NELL’OPERA di Bizet (1875) Carmen non è

Mérimée, che quindici anni più tardi decise di rielaborarla in forma letteraria. Si è anche ipotizzato che lo scrittore francese si fosse ispirato a un’altra storia raccontatagli dalla contessa di Montijo e riguardante un suo cognato, che si era innamorato perdutamente di una sigaraia; tuttavia questa non era andalusa, bensì madrilena. Un’altra possibile fonte d’ispirazione del personaggio di Carmen si trova

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1830, un soggiorno di sei mesi che lo aveva condotto nelle terre di Castiglia, Andalusia, Valencia e Catalogna. In quell’occasione aveva frequentato i conti di Montijo, e in uno dei loro incontri la contessa gli aveva raccontato la storia truculenta di «un prepotente di Malaga che aveva ucciso la sua amante», una prostituta. Non si conoscono altri dettagli della vicenda, che per qualche ragione rimase impressa nella memoria di

più una gitana che ruba, mente, si prostituisce e addirittura uccide, ma una donna indipendente che ama la libertà più di ogni altra cosa e che accetta con coraggio il suo destino tragico. Qui sotto, una pagina manoscritta della partitura.

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GRANDI ENIGMI

SIGARAIE nella Fabbrica

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di Tabacchi di Siviglia mentre producono sigarette. Fotografia di fine XIX secolo.

in un testo di Mérimée in cui racconta che, mentre viaggiava da Valencia a Sagunto, si era fermato in una modesta taverna per placare la sete. «Una ragazzina, non tanto indurita dal sole, mi portò una brocca di acqua fresca […] bevvi l’acqua che mi offrì, mangiai il gazpacho

condito da Carmencita e le feci persino un ritratto nel mio quaderno di appunti». In seguito apprese che quella Carmencita era una gitana che aveva fama di essere una strega. Basandosi su questo brano, nel 1962 venne pubblicato uno studio dal titolo La Carmen de Mérimée era valenciana. La Carmen letteraria è probabilmente un misto tra la prostituta di

Malaga, la sigaraia di Madrid e la gitana di Valencia.

La gitana La differenza principale tra Carmen e le storie raccontate a Mérimée dalla contessa di Montijo risiede nel fatto che il personaggio letterario è una gitana. Probabilmente ciò è dovuto all’interesse dell’autore nei confronti dei gitani spa-

Nel sentire comune la Spagna era un Paese esotico dall’autenticità ancestrale, in contrapposizione alla moderna Francia LA CANTANTE CÉLESTINE GALLI-MARIÉ NEI PANNI DI CARMEN. L. DOUCET, 1884. BNF / RMN-GRAND PALAIS

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gnoli, del loro stile di vita e della loro lingua. Quando nel 1847 Carmen apparve in forma di libro, l’autore aggiunse un capitolo a mo’ di appendice documentale sui gitani, basandosi su The Zincali di George Borrow. L’autore s’ispirò anche a un poema dello scrittore russo Aleksàndr S. Puškin chiamato appunto Gli zingari. Si è ipotizzato che questa trasformazione della protagonista in gitana, oltre a rispondere ai canoni tipici dell’epoca, servisse a Mérimée per non offendere i suoi amici spagnoli. Infatti, il ritratto di Carmen non è esattamente positivo.

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MORTE DI CARMEN all’ingresso

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dell’arena di Siviglia, secondo la versione dell’opera di Bizet. Mérimée, invece, ambienta l’omicidio in un bosco. Olio di Manuel Cabral. 1890.

È una donna volubile, cinica e licenziosa. Va a letto con José perché l’ha aiutata a scappare, ma poi gli dice con freddezza: «Ti ho pagato. Ora siamo pari!». Associare queste qualità negative ai gitani era un luogo comune molto radicato all’epoca. Un altro tratto caratteristico del personaggio è la sua condizione di sigaraia. La Fabbrica di Tabacchi di Siviglia iniziò la sua attività nel 1758 e, sebbene all’inizio la maggior parte degli operai fosse costituita da uomini, nel 1830 erano stati sostituiti quasi completamente dalle donne. Nei suoi grandi capannoni roventi arrivarono

a lavorare circa cinquemila operaie. Nessun uomo poteva entrare senza preavviso. Questo dominio femminile alimentava le fantasie, ma in realtà le donne lavorano a cottimo con turni estenuanti, si portavano il pranzo per interrompersi il meno possibile, tenevano con sé i figli piccoli e all’uscita dal lavoro le aspettavano i mariti o i fidanzati.

Un mito erotico In ultima analisi, la figura di Carmen risponde alla fantasia erotica universale secondo cui le straniere sono sempre più passionali e lussuriose delle com-

patriote. Nel XIX secolo, questa idea si sposava con la convinzione romantica che Paesi come la Spagna avessero conservato un’autenticità ancestrale, a differenza delle nazioni più moderne e industrializzate dove la vita era più insulsa e noiosa. Bisognava trovare i paradisi perduti e la Spagna era un oriente esotico a portata di mano. In realtà, queste presunte differenze erano fittizie e lo stesso Mérimée lo riconobbe in privato, ad esempio in una lettera del febbraio 1841 alla contessa di Montijo in cui parla delle lionnes (leonesse), donne che

praticano la stessa libertà sessuale degli uomini senza preoccuparsi di dare scandalo. Ma queste lionnes non erano povere gitane dalla pelle scura della soleggiata Andalusia ma francesi benestanti dalla pelle pallida che vivevano nella piovosa Parigi. Ciononostante nessun viaggiatore spagnolo ha mai scritto un romanzo truculento su di loro. JUAN JOSÉ SÁNCHEZ ARRESEIGOR STORICO

Per saperne di più Carmen. Testo francese a fronte. Prosper Mérimée (a cura di S. Lorusso). Marsilio, Venezia, 2004.

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LA FOTO DEL MESE

FIANDRE, 1917 LA TERZA BATTAGLIA per il controllo della città belga di Ypres è passata

alla storia come battaglia di Passchendaele dal nome della località in cui si concluse. Tra il 12 ottobre e il 6 novembre del 1917 le truppe inglesi, australiane, neozelandesi e canadesi disputarono ai tedeschi il controllo del piccolo villaggio fiammingo in una serie di atroci combattimenti nel fango. L’esplosione di milioni di proiettili e le piogge torrenziali iniziate ai primi di ottobre trasformarono il terreno in un paesaggio apocalittico: un acquitrino paludoso punteggiato di crateri abbastanza profondi perché vi annegasse un uomo. Di fatto ogni quattro vittime britanniche una morì affogata in quella poltiglia fangosa. Nella foto, soldati della quarta divisione australiana il 29 ottobre 1917 in quello che un tempo era stato un bosco nei pressi di Ypres. SCIENCE SOURCE / ALBUM

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L I B R I A CURA DI MATTEO DALENA STORIA ROMANA

La disinformazione presso i romani

C Néstor F. Marqués

FAKE NEWS DELL’ANTICA ROMA Bibliotheka Edizioni, 2020; 256 pp.; 18¤

i sono stereotipi lasciati in eredità da un secolo all’altro e duri a morire. Le inesattezze sono giunte in alcuni casi fino a oggi, entrando a pieno titolo nei dizionari. Un esempio è quello del termine “orgia” con il quale oggi s’intende un incontro di più persone finalizzato al sesso. In realtà la parola latina orgia indicava semplicemente un rito in onore di Dioniso caratterizzato da danze, balli e canti. Fu la campagna moralizzatrice condotta dal

console Postumio e dal senato romano più di duemila anni fa a bollare il rito come impudico. Un altro esempio è la credenza che tutti i romani vomitassero per continuare a mangiare, forse infilandosi delle piume d’uccello nella gola. Il fatto è vero ma, secondo alcuni, non era una cosa capillarmente diffusa nel tempo né tra le diverse classi sociali. Allo stesso modo ad alcuni personaggi furono affibbiati epiteti non sempre rispondenti al vero come «Livia

l’avvelenatrice, Claudio lo stolto e Domiziano il disumano». A scriverlo è l’archeologo e storico Néstor F. Marqués (tradotto da Elena Longo) che porta decine di esempi per spiegare il fenomeno della disinformazione e degli inganni della propaganda nell’antica Roma. Il presupposto da cui parte Marqués è che «i romani che popolano il nostro immaginario non sono quelli che sono vissuti duemila anni fa». Secondo l’autore, a distorcerne il ricordo «sono stati sia gli scrittori loro contemporanei, che hanno raccontato la verità secondo il proprio punto di vista e hanno così plasmato le opinioni dei posteri, sia coloro i quali, in seguito, hanno seguito la stessa strada».

STORIA ROMANA

LA RISATA, ATTO BENEFICO O IMPERTINENTE? GIOIOSA o sarcastica, geniale o malvagia, nervosa o

isterica, «la risata è un fenomeno universale, il che non significa che sia uniforme». Esordisce così il critico letterario Terry Eagleton (tradotto da Denis Pitter) nel suo saggio sulla storia della risata a partire dal Medioevo. Era quella l’epoca in cui lo scherzo – e di conseguenza il riso – erano stati banditi dal culto religioso e dai cerimoniali dello stato feudale. La Regola benedettina infatti avversava chi incitava alla risata, che era considerata dal monaco irlandese Colombano un’impertinenza per la quale era necessario un periodo di digiuno. Al contrario, nell’opera Summa Theologiae Tommaso d’Aquino la considerava «un atto necessario per il conforto dello spirito». Terry Eagleton

BREVE STORIA DELLA RISATA Il Saggiatore, 2020; 214 pp.; 17¤

Gerardo Bianco

TELLUS. LA SACRALITÀ DELLA TERRA NELL’ANTICA ROMA Salerno, 2019; 84 pp.; 8,90¤ POTRAI CACCIARE la natura

col forcone, ma essa comunque ritornerà». Risuona come un ammonimento il passo delle Epistulae del

poeta Orazio. Nell’antica Roma Tellus (la Terra) era la casa condivisa dagli dèi, dagli antenati e dagli uomini. La vita associata di questi ultimi era possibile soltanto tramite la ricerca della benevolenza divina. La pax deorum era, infatti, una situazione di concordia tra i cittadini e le divinità. Erano Giano e Termine, divinità degli inizi e dei confini, a mettere in guardia dalla presunzione e dall’onnipotenza degli umani”. A indagare tra i signa – o manifestazioni del divino – è Gerardo Bianco, secondo cui «gli antichi Romani sentirono il loro sistema religioso […] come razionale, confermato, nella sua validità, dai successi della città di Roma alla conquista del mondo».

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STORIA MEDIEVALE

La mano del potere sui costumi femminili

N Maria Giuseppina Muzzarelli

LE REGOLE DEL LUSSO Il Mulino, 2020; pp. 300; ¤ 24

el mese di agosto del 1276 a Bologna, Francesca, la moglie di un venditore di drappi, rifiutò di farsi misurare la lunghezza dello strascico della gonnella e fu denunciata. Un ufficiale cercava di stabilire la lunghezza della cauda, cioè la “coda” del vestito, proibita dagli statuti del 1250-1261. Questi vietavano a qualunque donna, tranne alle meretrici, di portare indumenti che in qualsiasi loro parte toccassero terra. Se a infran-

gere la norma era una donna nubile, questa doveva versare 25 lire; se invece era sposata, la multa raddoppiava e la sua dote veniva incamerata direttamente dal comune. In questo modo, secondo la storica Maria Giuseppina Muzzarelli, «fa il suo esordio a Bologna la legislazione suntuaria, quell’insieme di provvedimenti che sono stati concepiti e adottati fra Medioevo ed Età moderna per limitare lussi e sprechi». Si trattava di un vero e proprio

ARTE MODERNA

Raffaello e Castiglione in difesa di Roma

U Vittorio Emiliani

RAFFAELLO TRADITO Bordeaux, 2020; pp. 112; ¤ 14

no scritto a quattro mani, contenente parole di vibrante protesta, s’innalza nell’inverno del 1519 a tutela del patrimonio artistico e architettonico di Roma antica. Reca le firme di Raffaello Sanzio, giunto ormai all’apice della carriera artistica e pertanto una voce influente in materia, e dell’umanista Baldassar Castiglione, l’autore del Cortegiano, che dall’estate di quell’anno risiedeva a Roma. La lettera è indirizzata a papa

Leone X, il quale aveva richiesto una pianta a rilievo della città accompagnata da una serie di prescrizioni utili a preservare l’antico. Il tono degli scriventi è di rammarico ma anche di forte denuncia: «Con grandissimo dolore, guardo alla Roma odierna come al cadavere, quasi, di una nobile patria, un tempo regina del mondo ed ora così miseramente lacerato». Non solo i goti, i vandali «e altri perfidi nemici» fecero scempio della città «con armi taglienti,

“assillo normativo” mantenutosi in vita dal XIII al XVI secolo e in maniera più sporadica dal XVII alla fine del XVIII secolo. Attraverso queste norme i comuni cercavano di porre sotto il proprio stretto controllo ogni aspetto della vita collettiva. Tali leggi indicano una precisa volontà delle istituzioni, ovvero quella di “normare tutto il normabile” e di destinare il denaro derivante dalle sanzioni a scopi sociali. Furono le donne a essere maggiormente colpite dai provvedimenti. Tramite il divieto di sfoggiare fili dorati e altri ornamenti «si sottolineava la subalternità femminile», spiega Muzzarelli, e si relegavano le donne come Francesca all’invisibilità.

morsi avvelenati, con l’empio furore, il ferro e il fuoco», ma anche i pontefici che avrebbero dovuto difenderla «si sono applicati a distruggere templi antichi, statue e altri edifici gloriosi». Il giornalista Vittorio Emiliani analizza lo straordinario documento in cui Raffaello e Castiglione puntano il dito contro i predecessori di Leone X responsabili, a detta degli autori, di aver distrutto templi, statue, archi ed edifici antichi e di aver ricavato “vile calce” da quelle antiche macerie. Secondo Emiliani il messaggio di Raffaello e Castiglione però, non è passato, visto che fra ottocento e novecento Roma è stata soggetta a speculazione, abusivismo e bruttezza. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Prossimo numero I LEGGENDARI GUERRIERI GIAPPONESI

DEA / ALBUM

I SAMURAI furono a lungo protagonisti della storia nipponica, trasformandosi in un’élite militare che fu in grado di dominare il Giappone per settecento anni. Nelle biografie di molti di loro gli eventi reali si mescolano alle gesta leggendarie, e alcuni sono diventati degli autentici miti della storia e della cultura del Paese. È il caso di Minamoto no Yoshitsune nel XII secolo, o di Toyotomi Hideyoshi nel XVI secolo.

UN MILIONARIO ESPLORA LA VALLE DEI RE L’ESPLORAZIONE delle tombe reali

nella Valle dei Re è debitrice della passione per l’Egitto di un milionario egocentrico: lo statunitense Theodore Davis. Tra il 1902 e il 1910 grazie agli scavi da lui patrocinati furono scoperte quasi due dozzine di tombe nella necropoli di Tebe. Tra queste spiccano quella di Thutmose IV, trovata da Howard Carter nel 1903, e quella di Yuya e Tuia, individuata nel 1905 da James Quibell.

Epidauro, casa di cura della Grecia Nell’antichità i malati andavano ogni anno in pellegrinaggio a Epidauro, dove si trovava il santuario dedicato ad Asclepio, dio della medicina. Qui migliaia di fedeli si facevano curare varie tipologie di disturbi tramite il rituale dell’incubazione dei sogni.

Le idi di marzo Cesare era divenuto il re senza corona di Roma. La vittoria in una cruenta guerra civile aveva concentrato nelle sue mani tutto il potere della repubblica. Il timore che potesse trasformarla in una monarchia spinse i suoi avversari ad assassinarlo il 15 marzo del 44 a.C.

Un messia contro Roma Nel 132 d.C., quando Adriano annunciò l’intenzione di trasformare Gerusalemme in una colonia romana, Simon Bar Kokheba capeggiò una rivolta che si concluse con il massacro di metà della popolazione della Giudea.

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