Storica National Geographic - novembre 2020

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NU MERO 141

NATIONAL GEOGRAPHIC

storicang.it

GLADIATORI NEFERTITI

TAJ MAHAL

BAMBINI DEL VULCANO

I BAMBINI DEL VULCANO

SACRIFICI AGLI DEI INCA

SCULTURE DEL PARTENONE

LE SCULTURE DEL PARTENONE STANLEY IN AFRICA

GLADIATORI

ALFONSO II DELLE ASTURIE

ALFONSO II

IL RE CASTO CHE S’ISPIRAVA A CARLO MAGNO

TAJ MAHAL HENRY M. STANLEY

NEFERTITI LA BELLEZZA IN EGITTO

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IN

LA O IC D E

Speciale Storica Archeologia

DELO E DELFI

I grandi santuari di Apollo ricostruiti in 3D. Per secoli i pellegrini da tutta la Grecia si recarono presso questi templi per consultare l’oracolo del dio Apollo. In edicola dal 23 ottobre. Prezzo ¤9,90.

Speciale Storica Grandi filosofi

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La storia non è una banale sequenza fortuita di eventi ma il lungo cammino dell’umanità verso la libertà. In edicola dal 23 ottobre. Prezzo ¤9,90.

Speciale Storica Grandi battaglie

LE GRANDI BATTAGLIE DELL’ETÀ MODERNA Importanti vittorie e dolorose disfatte che hanno determinato gli assetti politici nella geografia del mondo. In edicola dal 27 ottobre. Prezzo ¤9,90.

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LUCE E COLORE IL MARMO DEL TAJ MAHAL CAMBIA DI TONALITÀ E COLORE A SECONDA DELLA LUCE CHE SI POSA SUL MONUMENTO. NELL’IMMAGINE, SCATTATA ALL’ALBA, IN CERTE ZONE IL BIANCO SEMBRA ROSATO.

22 Nefertiti e la bellezza in Egitto Il suo celebre busto rappresenta il modello di bellezza femminile che trionfò durante il periodo di Amarna. DI BARBARA FAENZA

36 I bambini congelati delle Ande Nel 1999 gli archeologi hanno rinvenuto le mummie di tre bambini, sacrificati in una cerimonia inca. DI ARIADNA BAULENAS

46 Le sculture del Partenone I frontoni e i fregi del grande tempio sull’Acropoli celebrano la grandezza di Atene. DI RAQUEL LÓPEZ MELERO

60 Scontri tra gladiatori I celebri combattimenti erano soggetti a regole e rituali rigorosi. DI MAURICIO PASTOR MUÑOZ

78 Alfonso II delle Asturie Alla fine del I secolo d.C. il re asturiano fece di Oviedo una splendida corte. DI JAIME NUÑO

90 Taj Mahal, icona dell’India Il mausoleo fu costruito nel seicento in onore della prediletta dell’imperatore moghul. DI EVA F. DEL CAMPO

106 Henry Morton Stanley nel cuore dell’Africa Le sue spedizioni gli valsero grande popolarità, ma il suo comportamento fu spesso criticato. DI ENRIQUE VAQUERIZO

8 PERSONAGGI STRAORDINARI Robert Koch

Rivoluzionò il mondo della medicina scoprendo come si trasmettono malattie infettive quali la tubercolosi e il colera.

14 ANIMALI NELLA STORIA L’orso polare

16 VITA QUOTIDIANA

L’arte giapponese di prendere una tazza di tè Nel XV secolo venne elaborato un rituale ricco di significati morali ed estetici per consumare il tè.

120 GRANDI SCOPERTE I bronzi del Luristan In una regione montuosa dell’Iran sono venuti alla luce migliaia di oggetti in bronzo di grande varietà, forse realizzati dal popolo dei cassiti.

124 LA FOTO DEL MESE 126 LIBRI E MOSTRE ELMO. DECORATO A RILIEVO E SORMONTATO DA UNA CRESTA, ERA DATO IN DOTAZIONE A UN TIPO DI GLADIATORE CHIAMATO MIRMILLONE. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION

storicang.it

GLADIATORI TAJ MAHAL

Pubblicazione periodica mensile - Anno XII - n. 141

I BAMBINI DEL VULCANO

LE SCULTURE DEL PARTENONE STANLEY IN AFRICA ALFONSO II DELLE ASTURIE

IL RE CASTO CHE S’ISPIRAVA A CARLO MAGNO

NEFERTITI LA BELLEZZA IN EGITTO

PRESIDENTE

RICARDO RODRIGO

SACRIFICI AGLI DEI INCA

Editore: RBA ITALIA SRL via Gustavo Fara, 35 20124 Milano tel. 0200696352 e-mail: storica@storicang.it Direttore generale: ANDREA FERDEGHINI

EDITORA

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BUSTO DELLA REGINA NEFERTITI. MUSEO EGIZIO, BERLINO. FOTO: BPK / SCALA, FIRENZE

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M onete antiche t estiMoni della storia

COMMODO Appartenuto alla dinastia degli Antonini, Commodo fu spietato imperatore dell’ antica Roma dal 180 al 192, succedendo al padre Marco Aurelio. Grande appassionato di prove di forza e combattimenti gladiatori al punto da scendere egli stesso nell’arena come protagonista, si fece soprannominare l’Ercole romano indossando una pelle di leone, uccidendo avversari e migliaia di animali. Amato dal popolo e appoggiato dall’esercito, morì ucciso dal suo maestro di lotta, l’ex gladiatore Narcisso.

imperatore e gladiatore

Il denario che lo raffigura è una autentica moneta coniata in argento e circolata durante gli anni del suo regno. Garantita originale e in ottimo stato qualitativo, viene offerta a € 245,00 in cofanetto con certificato di garanzia Bolaffi, nome che dal 1890 è sinonimo di collezionismo di qualità in Italia e nel mondo.

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PERSONAGGI STRAORDINARI

Robert Koch, il cacciatore di batteri Il medico tedesco rivoluzionò il mondo della medicina scoprendo come si trasmettono malattie infettive quali la tubercolosi e il colera

Da medico di campagna a premio Nobel 1843 Robert Koch nasce a Clausthal, in Bassa Sassonia. Nel 1866 ottiene il dottorato in medicina.

1876 Presenta a Bratislava le sue scoperte sul ciclo di vita del batterio dell’antrace, una grave patologia infettiva.

1882 Koch annuncia di aver individuato il bacillo della tubercolosi e due anni dopo scopre il microbo responsabile del colera.

1905 Riceve il premio Nobel per la medicina. Muore cinque anni dopo per un attacco cardiaco.

I

l 19 dicembre 1843 Charles Dickens pubblicò a Londra il suo Canto di Natale, un romanzo breve in cui uno dei personaggi, il piccolo Tim, muore straziato dalla tubercolosi. Solo pochi giorni prima, nella città tedesca di Clausthal, nasceva il medico e ricercatore che quarant’anni dopo avrebbe fatto conoscere al mondo i batteri responsabili di questa malattia, la più devastante del XIX secolo. Robert Koch era il terzo di tredici figli. Suo padre era un ingegnere minerario che aveva collaborato con Alfred Nobel ai test sull’uso della nitroglicerina. Amante della lettura, degli scacchi e dei viaggi, Hermann Koch trasmise queste passioni a Robert, che all’età di cinque anni sorprese tutti imparando a leggere da autodidatta grazie al prezioso aiuto dei giornali trovati in casa. Nel 1862 entrò all’Università di Gottinga, dove studiò medicina. Nel 1866 ottenne il dottorato e l’anno successivo sposò la sua fidanzata di sempre, Emmy Fratz. In seguito lavorò negli ospedali di Hannover e di Amburgo e come medico di cam-

pagna. Nel 1870 partì volontario per la Guerra franco-prussiana. Le esperienze vissute in quel contesto avrebbero segnato le sue ricerche sull’infezione delle ferite. Al termine del conflitto si trasferì nella località di Wollstein (oggi Wolsztyn), in Posnania, dove divenne medico distrettuale. Si stabilì in una grande casa con quattro stanze che utilizzava come abitazione, ambulatorio e laboratorio. Fu qui che rivoluzionò la storia della batteriologia.

Il flagello dell’antrace Robert Koch dimostrò un particolare interesse per le patologie infettive che colpivano i suoi pazienti. Una di queste era il carbonchio (o antrace), una terribile malattia che mandava in rovina gli allevatori e metteva a repentaglio i mezzi di sussistenza delle famiglie povere. Nel giro di qualche giorno una pecora o una mucca perfettamente sane potevano spegnersi in preda a febbre e tremori, mentre il loro sangue si trasformava in una massa nerastra. Anche le persone a contatto con il bestiame potevano ammalarsi e in molti casi morivano di polmonite fulminante. Nel tentativo di risolvere il mistero, Koch visitò le fattorie infestate dall’an-

Koch s’interessò all’antrace, che decimava il bestiame e si trasmetteva anche alle persone AKG / ALBUM

MICROSCOPIO APPARTENUTO A ROBERT KOCH.

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PERSONAGGI STRAORDINARI

RIVALITÀ OLTRE LA SCIENZA ROBERT KOCH e Louis Pasteur,

le due eminenze dell’epidemiologia di fine ottocento, ebbero un rapporto teso che rifletteva l’ostilità instauratasi tra Francia e Germania in seguito alla Guerra franco-prussiana del 1870. Sebbene in un congresso medico del 1881 Pasteur avesse definito le ricerche sull’antrace di Koch un «grande passo in avanti», l’anno successivo i due si scontrarono a un altro convegno, apparentemente a causa di un errore di traduzione del discorso di Koch, che avrebbe rimproverato a Pasteur di non avere una formazione medica e ne avrebbe sminuito le scoperte sull’antrace. ROBERT KOCH AL LAVORO NEL SUO LABORATORIO. FOTO DELLA COLLEZIONE DEL GIORNALE TEDESCO SÜDDEUTSCHE ZEITUNG.

SÜDDEUTSCHE ZEITUNG PHOTO / AGE FOTOSTOCK

trace con delle piccole e rudimentali apparecchiature e un microscopio che Emmy gli aveva regalato per il suo ventottesimo compleanno. Grazie a questo strumento il ricercatore poté esaminare decine di gocce di sangue nero prelevato dai bovini deceduti, finché un giorno vide galleggiare al loro interno delle strutture microscopiche a forma di bastoncino. Ben presto scoprì che anche altri campioni di animali morti contenevano quei minuscoli e ignoti organismi, assenti nelle bestie sane. Poteva essere la loro trasmissione a

provocare la malattia? Per scoprirlo Koch immerse una scheggia di legno nel sangue scuro di un animale colpito dall’antrace e, dopo avervi praticato un’incisione con il bisturi, la inserì alla base della coda di alcuni topi. Al mattino seguente trovò i roditori riversi sul dorso e completamente irrigiditi. Ne dissezionò i cadaveri, rimosse il fegato, i polmoni e la milza, prelevò un campione di tessuto che depose su un vetrino e lo osservò al microscopio. C’erano di nuovo quei bastoncini di dimensioni insignificanti, ma letali. Koch capì

che si trattava di batteri, dei tipi di microrganismi che in quegli stessi anni avevano cominciato a essere studiati da pionieri della batteriologia come Ferdinand Cohn, anche se furono Louis Pasteur e lo stesso Koch a collegarli per primi alla trasmissione delle malattie.

Piccoli e resistenti Koch coltivò i batteri dell’antrace nel liquido trasparente contenuto negli occhi dei vitelli e dimostrò che l’ottava generazione dei germi era altrettanto mortale della prima. Tutto STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

SCOPERTI GLI ASINTOMATICI

SCIENCE SOURCE / ALBUM

MENTRE STUDIAVA le epidemie di tifo in Germania, Robert Koch si rese conto che ci sono persone che, pur senza manifestare i sintomi di una malattia, sono portatrici degli agenti infettivi che la provocano e possono diffonderli. Il concetto di portatore sano si rivelò fondamentale per affrontare i focolai epidemici. La scoperta aiutò George Soper a risolvere il caso di Mary Mallon, ribattezzata in seguito Mary la Tifoidea, una cuoca al servizio dell’alta borghesia newyorkese che all’inizio del XX secolo contagiò decine di persone. Mary fu più volte messa in quarantena e trascorse gli ultimi 20 anni circa della sua vita in un sanatorio, isolata dal resto della società. MARY MALLON (IN NERO) NEL CENTRO DOVE TRASCORSE GLI ULTIMI ANNI DELLA SUA VITA.

questo spiegava come mai l’antrace sopravvivesse e continuasse a infettare gli animali anno dopo anno. Il 30 aprile 1876, presso l’Istituto di fisiologia vegetale dell’Università di Breslavia, Robert Koch comunicò al mondo le sue scoperte. Per tre giorni condusse degli esperimenti, poi passati alla storia, che fornivano la

prima descrizione del ciclo di vita di un batterio e la prova che tali microbi erano in grado di passare da un organismo all’altro e di causare malattie come l’antrace. Il pubblico lo guardava con ammirazione: Koch aveva appena gettato le basi della lotta alle malattie infettive. Raggiunta ormai la fama, il ricercatore ottenne dal go-

LE ENDOSPORE OSSERVANDO i batteri dell’antrace al mi-

SPL / AGE FOTOSTOCK

BATTERI DELL’ANTRACE CON LE ENDOSPORE COLORATE DI ROSSO.

La tubercolosi LOREM IPSUM

croscopio Koch individuò al loro interno delle piccole perle brillanti. Erano endospore, ovvero delle cellule che permettono ai microbi di resistere alle condizioni esterne e di sopravvivere di stagione in stagione anche al di fuori dell’organismo ospite.

verno tedesco un nuovo laboratorio, apparecchiature e finanziamenti, oltre a degli assistenti straordinari come Friedrich Loeffler, Georg Gaffky e Richard Petri. Nei mesi successivi consolidarono e perfezionarono le tecniche di coltivazione dei batteri. Nel 1881 Koch partecipò al settimo Congresso medico internazionale di Londra, dove conobbe Louis Pasteur, con il quale avrebbe sempre avuto una lunga e aspra rivalità personale e professionale. Ma in quel congresso Pasteur riconobbe i progressi di Koch. Il tema centrale dell’evento era la tubercolosi, e Koch tornò a Berlino deciso a studiare la malattia. Il primo materiale infetto che ricevette era stato prelevato da un giovane operaio, morto quattro giorni dopo essere stato ricoverato in ospedale. Metodico

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PERSONAGGI STRAORDINARI

ROBERT KOCH, sulla

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destra, a Kimberley (Sudafrica) durante una missione di ricerca sulla peste bovina nel 1896-1897.

ed efficiente, in seguito Koch girò per gli ospedali e gli obitori di Berlino richiedendo tessuti di persone decedute a causa della tubercolosi. Studiò attentamente i campioni raccolti e li inoculò in centinaia di animali – cavie, topi, conigli, cani, gatti, polli, marmotte, tartarughe e persino anguille e una carpa dorata –, fino a che non riuscì a individuare il microbo responsabile della patologia, che fu battezzato “bacillo di Koch”. Il 24 marzo 1882, in una piccola sala della Società di fisiologia di Berlino affollata di brillanti scienziati – tra cui Paul Ehrlich, Hermann von Helmholtz e Rudolf Virchow, che tempo addietro aveva disprezzato il suo lavoro –, Robert Koch raccontò com’era riuscito a identificare la causa del flagello. Al termine dell’intervento di Koch, Virchow (consapevole di non avere più nulla da aggiungere) si alzò, si mise il cappello e se ne andò.

La notizia che Koch aveva scoperto il batterio responsabile della tubercolosi si diffuse quel pomeriggio stesso e fece immediatamente il giro del mondo.

conobbe Hedwig Freiberg, una studente d’arte e attrice diciassettenne, di cui s’innamorò e che sposò nel 1893, dopo un chiacchierato divorzio dalla prima moglie. Questo non impedì allo Un fiasco e un divorzio scienziato tedesco di continuare le sue Alla fine del 1882 Koch e Pasteur ini- ricerche. Nel 1896 si recò in Sudafriziarono una sfida a chi riuscisse a ca per studiare la peste bovina e più scoprire per primo il batterio che stava tardi in India per indagare la malaria. alla base di un’altra terribile patolo- Infaticabile, nel 1902 tornò in Africa gia, il colera. Il trionfo del tedesco, centrale per occuparsi di un’epideche individuò il germe nelle putride mia di tripanosomiasi, o malattia del acque delle cisterne di Alessandria sonno. Dopo una vita in lotta contro i d’Egitto e ne identificò le modalità di microbi, nel 1905 Robert Koch ricetrasmissione, fece di lui un eroe, un vette il premio Nobel per la fisiologia vero e proprio cacciatore di microbi. e la medicina grazie al suo lavoro sulla A dire la verità, il vero scopritore fu tubercolosi. Morì cinque anni dopo, un italiano, Filippo Pacini, ma non vittima di un attacco cardiaco. ebbe il successo di Koch. In ogni caso RAÚL RIVAS GONZÁLEZ UNIVERSITÀ DI SALAMANCA qualche anno più tardi la fortuna si rivoltò contro Koch: il suo rimedio Virus e batteri. Per per la tubercolosi, la tubercolina, si nemico invisibile saperne Il Michele La Placa. rivelò un fallimento. Anche la sua di più Il Mulino, Bologna, 2011. vita personale andò in crisi. Nel 1889

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ANIMALI NELLA STORIA

I popoli inuit imitavano le tecniche di caccia degli orsi polari e ogni volta che ne uccidevano uno eseguivano dei rituali di espiazione

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econdo una vecchia leggenda inuit, nanuq, il maestoso orso polare, è in realtà un grande essere umano ricoperto da una spessa pelliccia bianca che lo protegge dal freddo. Quando arriva alla sua grotta, si toglie il mantello peloso e resta nudo come qualsiasi altro uomo. L’origine della leggenda va cercata nel modo di camminare degli orsi, che appoggiano le zampe posteriori nelle orme di quelle anteriori, con il risultato che le loro tracce possono far pensare a un animale eretto. A volte gli orsi si alzano anche sui quarti posteriori per annusare l’aria in cerca di prede, assumendo una po-

UN ORSO POLARE SI DIFENDE DA ALCUNI CACCIATORI INUIT. LITOGRAFIA. XX SECOLO.

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stura simile a quella di un uomo. Non sorprende quindi che tutte le culture artiche attribuiscano agli orsi alcune caratteristiche umane. Gli inupiaq dell’Alaska non potevano pronunciarne il nome mentre li cacciavano per timore di spaventarli, e gli inuit della Groenlandia dopo averne ucciso uno dovevano spogliarsi nudi prima di rientrare nella loro capanna, proprio come nella leggenda vista all’inizio.

L’anima dell’orso Esistevano vari riti per garantire che l’anima dell’animale cacciato fosse soddisfatta. I popoli ciukci e yupik della Siberia orientale ringraziavano

BRIDGEMAN / ACI

L’orso polare, venerato e sacrificato PIPA D’AVORIO DEL POPOLO KORIAKO (SIBERIA ORIENTALE) DECORATA CON FIGURE DI ORSI POLARI.

l’orso, umka, per essersi concesso ai cacciatori e ne sottoponevano i resti – in particolare il teschio – a rituali sciamanici volti a placarne lo spirito e permettergli di farsi cacciare di nuovo in futuro. Al di là di quanto dicono le leggende, l’orso in realtà non vive nelle grotte e non ha il pelo bianco. Ha l’epidermide nera e uno strato di pelliccia color crema ricoperto da un secondo strato di peli trasparenti e cavi che riflettono la luce solare, facendolo apparire bianco all’occhio umano. Ma la mitologia non sbaglia ad attribuire all’orso polare quella combinazione di fascino e timore che esercita su tutte le culture artiche. Gli inuit dicono di aver imparato a cacciare le foche osservando le tecniche dei nanuq. I nenet della Siberia settentrionale barattavano i lunghi canini dell’orso polare con le popolazioni delle foreste, i cui cacciatori le usavano come talismani contro gli attacchi degli orsi bruni. L’orso polare è stato a lungo una delle prede essenziali per la sussistenza dei popoli artici. Considerata una prelibatezza, la sua carne ancora oggi nutre le comunità più remote della Groenlandia e del Canada, e la sua pelliccia viene utilizzata per confezionare pantaloni particolarmente caldi. L’orso polare fece una grande impressione anche sui primi europei che poterono osservarlo. Nel 1594

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ANIMALI NELLA STORIA

UN MEMBRO della spedizione di Willem Barentsz spara a un orso polare nell’arcipelago della Novaja Zemlja, nell’Artico a nord della Russia.

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l’esploratore olandese Willem Barentsz ne catturò uno vivo e lo legò al ponte della sua nave, ma l’animale divenne così aggressivo che alla fine furono costretti a ucciderlo. Nel 1773, mentre prestava servizio come guardia marina, il futuro ammiraglio britannico Horatio Nelson decise di provare a cacciare un orso polare. Mancò il bersaglio, ma l’esploratore inglese Constantine John Phipps, che guidava la spedizione, conseguì un importante risultato: fu il primo a descrivere l’orso polare come una specie a sé stante. Dopo aver notato che trascorreva più tempo in mare che sul ghiaccio gli assegnò il nome scientifico di Ursus maritimus.

Infatti, anche se è in grado di percorrere decine di chilometri al giorno sulla terra ferma, l’orso polare è classificato come mammifero marittimo. Le doti acquatiche gli permettono di nuotare per lunghi periodi senza pause percorrendo centinaia di chilometri.

La salvezza degli esploratori Chi invece riuscì a cacciare diversi orsi e a sopravvivere grazie alle loro carni furono gli esploratori Fridtjof Nansen e Hjalmar Johansen. Dopo il tentativo fallito di raggiungere il Polo Nord a bordo della Fram, i due trascorsero l’inverno del 1896 nutrendosi di plantigradi e trichechi nel loro precario rifugio

nella terra di Francesco Giuseppe. Se Nansen e Johansen si ritrovassero nella stessa situazione oggi, non sarebbero in grado di cavarsela tanto facilmente. Con una popolazione di quasi 30mila individui sparsi nell’Artico, gli orsi polari sono sempre più rari, vulnerabili ed esposti a nuovi pericoli, al punto da essere diventati un’icona della lotta al cambiamento climatico. L’inquinamento delle acque, la riduzione dello spessore e dell’estensione dei ghiacci, la caccia e il calo del numero di prede naturali potrebbero portarli presto all’estinzione. JORDI CANAL-SOLER GIORNALISTA

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V I TA Q U OT I D I A N A

L’arte giapponese di prendere una tazza di tè Nel XV secolo il maestro Murata elaborò un rituale, ricco di significati morali ed estetici, per consumare il tè

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ome qualsiasi fenomeno culturale, la cerimonia giapponese del tè non è sorta dal nulla, e non è di certo rimasta uguale rispetto alle sue origini. Il cha no yu (letteralmente, acqua calda per il tè) ha vissuto un processo di elaborazione materiale e concettuale sino a cristallizzarsi nella forma con cui è oggi messo in pratica. I primi passi del tè in Giappone sono ancora avvolti nelle nebbie della leggenda. Si dice che fu il celebre - kai (774-835) patriarca buddista Ku a portare nell’arcipelago la bevanda dalla Cina Tang agli inizi del IX secolo. A ogni modo, sembra proprio che nei primi tempi berla fosse una pratica riservata alla corte e, soprattutto, all’ambito religioso buddista. Il tè veniva importato dalla Cina, e non risulta sia esistita una produzione locale almeno fino al XII secolo quando, sempre secondo la leggenda,

Eisai, maestro buddista zen fondatore della scuola Rinzai, portò dei semi e li piantò nei giardini del suo tempio, pubblicando inoltre un libro in cui elogiava i benefici del tè.

Rituale importato

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Il tè veniva allora assunto alla maniera cinese Song, che i monaci avevano avuto modo di conoscere nei loro viaggi; si trattava di cerimonie molto formali, durante le quali si beveva seduti un tè preparato in una stanza diversa, mentre si ammiravano rotoli calligrafici o pitture cinesi e si usavano utensili di quel Paese. Con il passare degli anni la bevanda divenne sempre più popolare e il suo consumo si estese tra mercanti e guerrieri. Sorsero persino delle rumorose gare, chiamate to-cha, in cui i partecipanti cercavano di riconoscere i tè di maggiore qualità assaggiandoli. In tali aspettare il XV e il XVI secolo perché to-cha spesso si scommettevano alte quella del tè divenisse la cerimonia somme e scorreva l’alcol. Si dovettero nota ai nostri giorni. Protagonisti di tali cambiamenti furono vari maestri, tra i quali spiccano N0̄ami, Mus0̄ Kokushi, Takeno J0̄0̄, Sen no Rikyū e Murata Shuk0̄. Monaco, mercante, poeta e paesagSOTTO L’INFLUENZA del buddismo zen, la cerimonia gista, il maestro Murata (1423-1502) del tè divenne nota come chadō, 茶道, la via del tè. svolse il suo lavoro in un periodo inIl termine dō significa «via», «percorso» e «insecredibilmente convulso della storia gnamento» (è l'equivalente del più noto dao), ed è giapponese, segnato da una succesusato nei nomi di altre arti zen, come il kadō o ikebasione di guerre e rivolte che avrebna (decorazione floreale) o il kyūdō (tiro con l’arco). bero avuto un forte impatto sulla SET DA TÈ GIAPPONESE DEI SECOLI XVI E XVII. GRANGER / AURIMAGES città di Kyoto. Cresciuto tra feroci lotte interne che sconvolgevano lo

LA VIA DEL TÈ

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DONNA con le sue

ospiti mentre realizza la cerimonia del tè cha no yu. Illustrazione della seconda metà del XIX secolo.

shogunato – il governo militare esercitato dai diversi clan di samurai –, questo maestro del tè fondò le basi di una cerimonia armoniosa, pacata e piena di serenità. In contrasto con l’insicurezza del potere, o forse proprio per questo, la cerimonia sviluppata da Murata Shuk0̄ cercava di conseguire la quiete dello spirito tramite la semplicità delle piccole cose. Pare quasi che fosse stato il suo nome, semplice e contradditorio, a guidarlo in tale direzione: Murata significa “il campo del villaggio”, mentre il nome di battesimo, Shuk0̄, potrebbe essere

Ciotole di tè che si riparavano con l’oro LE CIOTOLE per

il tè, i chawan, erano molto apprezzate sin dal XV secolo. Il maestro Murata finì per dare il nome a un’intera tipologia, gli Juko Seiji, squisiti pezzi di color verde importati dalla Cina, che diventarono molto diffusi

alla metà del secolo successivo e di cui ci sono numerosi esempi nei musei giapponesi. Quando un CHAWAN di notevole valore si rompeva, a volte veniva riparato perfino con l’oro: è la tecnica nota come kintsugi, resa popolare durante il periodo Muromachi (se-

coli XIV-XVI), e che consiste nel riempire le fenditure con una lacca mescolata a POLVERE D’ORO. E così le "cicatrici" dell’oggetto costituiscono un elemento in più del suo fascino, in linea con l’idea giapponese d’imperfezione quale condizione di bellezza.

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V I TA Q U OT I D I A N A

IL CONGEDO DEL MAESTRO

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CONSIDERATO la maggiore autorità nella cerimonia del tè dell’epoca, il maestro Sen no Rikyū (1522-1591) godette del favore dello shōgun Hideyoshi, che tuttavia finì per sospettare di lui e gli ordinò di togliersi la vita tramite seppuku o harakiri. Rikyū decise di celebrare un’ultima cerimonia del tè. Secondo la versione romanzata di Okakura Kakuzō, dopo aver servito gli invitati e aver svuotato le ciotole «l’ospite, ultimo tra tutti», Rikyū gli regalò gli oggetti utilizzati e alla fine alzò la propria ciotola per dire: «Mai questa ciotola, macchiata dalle labbra della disgrazia, possa servire a un altro uomo». La ruppe quindi in mille pezzi. – IL MAESTRO DEL TÈ SEN NO RIKYU. – RITRATTO DI HASEGAWA TOHAKU. XVI SECOLO.

dello spirito. «Il tè e lo zen hanno lo stesso sapore» avrebbe riassunto anni dopo Sen no S0̄tan, nipote di Sen no Rikyū. Con gli anni il tè sarebbe divenuto uno dei “cammini artistici” dello zen, come la calligrafia o il decoro floreale. Il cha no yu del maestro Murata si poggiava sulla semplicità, cercando la bellezza ispiratrice Combinazione di elementi dell’imperfezione: è questo, in sinL’idea centrale del suo cerimoniale tesi, il concetto giapponese di wabi, proviene dallo zen, la scuola buddi- che avrebbe finito per dare il nome a sta che cercava di raggiungere l’illu- tale tipo di tè, il wabi-cha. Ma com’era la vera e propria ceriminazione tramite la meditazione. Consisteva nell’impiego di ciò che è monia? Nell’unico documento a lui quotidiano come via per il risveglio attribuito, Kokori no fumi (Lettera del cuore), una missiva diretta ai suoi discepoli), Murata Shuk0̄ spiega che «Il tè e lo zen hanno lo stesso bisognava usare sia utensili cinesi sia giapponesi, non facendo distinsapore», dichiarò un nipote zione tra oggetti raffinati e semplici, del maestro Sen no Rikyū e includendo perfino quelli rustici e imperfetti. A ogni modo, non bisoTAZZA DI CERAMICA TAKATORI, DEL XVII SECOLO. gnava ossessionarsi per quanto fosse

tradotto con un fastoso“gioia risplendente”. Quando nacque il maestro Murata, ancora si celebravano le tocha, ma negli ambienti più raffinati andava di moda prendere il tè allo stile shoin: il locale era lo stesso in cui veniva preparato il tè e in cui gli invitati s’inginocchiavano su tatami o stuoie, anche se si continuavano a usare utensili cinesi e si sfoggiavano pezzi lussuosi di quel Paese. Sembra che Murata provenisse da una famiglia di commercianti di Nara e che, ancora giovane, fosse entrato in contatto con il buddismo e con il maestro N0̄ami. Poi si traferì a Kyoto,

dove divenne monaco zen e studiò con Ikkyū S0̄yun, un eccentrico abate del tempio Daitoku-ji che aveva diversi interessi, tra cui il tè. Alla fine Murata Shuk0̄ si stabilì a Kyoto come mercante di tè, e qui cominciò a sviluppare la propria versione della cerimonia.

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V I TA Q U OT I D I A N A

LA CASA DEL TÈ nei

incompleto, o rilucente. La cerimonia proposta dal maestro Murata veniva eseguita in uno spazio ridotto, di quattro tatami e mezzo (circa nove metri quadrati). Fu lui, inoltre, il primo a costruire una capanna dedicata esclusivamente a tale rito, creando così uno spazio differenziato e simbolico in cui svolgere il rituale.

Una semplice cerimonia Per preparare la bevanda si usava il tè in polvere che i giapponesi chiamano matcha. Questo tipo di tè era quello che i monaci avevano conosciuto nella Cina Song. Cosa strana, ben presto nel continente cadde in disuso, mentre si mantenne in Giappone, dove continua a essere impiegato ancora oggi per la cerimonia del tè. Non si dispone di descrizioni precise circa la cerimonia di Murata, ma gli utensili basilari erano gli stessi attualmente in uso, per cui è ragio-

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giardini della villa imperiale di Katsura, a Kyoto, complesso che risale al XVII secolo.

nevole credere che anche i principali passi fossero simili e che, come oggi, l’anfitrione servisse gli ospiti, senza preparare il tè per sé stesso. L'acqua viene conservata fresca in un contenitore (mizusashi). Al momento opportuno, viene riscaldata sul braciere (furo) dentro un bollitore (kama). Quando è pronta, l’anfitrione ne versa un po' nella ciotola (chawan) per sciacquarla e poi la scarta mettendola nel recipiente preposto a tale scopo (kensui). Tutti gli invitati berranno da quell’unica ciotola. Dopo aver sciacquato la scodella, prende un cucchiaino (chashaku) e con quello inserisce tre cucchiaini di tè in povere, che è conservato in un recipiente speciale (chaire). Quindi versa dell’acqua nella ciotola, sino a riempirla. L’insieme viene agitato con un frullino di bambù (chasen) per ottenere una consistenza densa e spumosa. A quel punto il tè è pronto per essere consumato. Invece

di sfoggiare appariscenti capolavori cinesi, il maestro Murata appese alla sua capanna da tè una calligrafia dell’artista e maestro zen cinese Yuanwu, che gli aveva regalato il suo mentore, l’abate Ikkyū S0̄yun, inaugurando un’abitudine che si perpetua ancora oggi. Per Murata prendere parte al cha no yu sottintendeva il rispetto di quattro valori fondamentali: l’umiltà, la devozione per l’alimento, la purezza e la calma. Insomma, consisteva nel dimenticarsi di sé per approdare alla tranquillità del cuore. IRENE SECO SERRA ARCHEOLOGA

Per saperne di più

SAGGI

Manuale per la preparazione del tè Davide Pellegrino. Giunti, Firenze-Milano, 2018. La cultura del tè in Giappone e la ricerca della perfezione Aldo Tollini. Einaudi, Torino, 2014.

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NEFERTITI L A B EL L E ZZA I N EG ITTO Scoperto nel 1912, il celebre busto della regina Nefertiti rappresenta come nessun’altra opera il modello di bellezza femminile che trionfò durante il periodo di Amarna

UNO SGUARDO MISTERIOSO

Zigomi alti, palpebre leggermente abbassate, labbra carnose che disegnano un sorriso appena percettibile: lo straordinario busto trovato da Ludwig Borchardt ad Amarna continua a destare l’ammirazione dei visitatori del Museo egizio di Berlino, dove oggi è conservato. BPK / SCALA, FIRENZE

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L

a nobile dama, la Grande nel proprio palazzo, la donna dal bel viso, l’Incantevole con le due piume, la regina dell’allegria, l’aggraziata la cui voce genera gioia, Grande sposa reale, la sua amata, la Signora delle due Terre Neferneferuaton Nefertiti, viva e sana, giovane e per sempre durevole, in eterno». In tal modo un testo di Amarna descrive Nefertiti, sposa di Amenhotep IV, il faraone che, durante il Nuovo regno, adottò il nome di Akhenaton quando istituì il culto del dio Aton e fondò una nuova capitale dell’Egitto ad Amarna. Sicuramente la lode di Nefertiti aveva le caratteristiche pure di un complimento cortigiano, ma il «bel viso» e la giovinezza «sempre durevole» trovano riscontro nelle immagini conosciute della regina. E soprattutto nel suo celebre busto, autentica icona dell’antico Egitto. Il 6 dicembre 1912 l’archeologo tedesco Ludwig Borchardt lo scoprì ad Amarna e subito il mondo intero s’innamorò dell’avvenenza di Nefertiti. È stato definito il più bel ritratto del mondo antico e sembra la materializzazione del nome della reginaº : «La bella che qui viene». Fu rinvenuto nel laboratorio dello scultore Thutmose, dove si era conservato PRESENTAZIONE DEL BUSTO DI NEFERTITI NEL LUOGO DEL SUO RITROVAMENTO, AD AMARNA, NEL 1912. ÄGYPTISCHES MUSEUM UND PAPYRUSSAMMLUNG, BERLINO.

in maniera eccezionale. Scrisse Borchardt: «Era come se i colori fossero appena stati applicati. Lavoro assolutamente eccellente. Non serve descriverlo, bisogna vederlo». Il volto magro, il collo sottile di poco incurvato in avanti, gli zigomi alti, le palpebre degli occhi leggermente abbassate e quel sorriso, appena percettibile, su labbra piene e ben disegnate fanno sì che il busto continui a esercitare, ancora oggi, un fascino indescrivibile.

Studio delle proporzioni In realtà, come ha provato l’egittologo Rolf Krauss, tale viso dall’armonia perfetta venne creato seguendo rigorosi criteri estetici. Lo studioso tedesco ha applicato al disegno del busto (più precisamente, a un rilievo fotogrammetrico di questo) una griglia quadrettata con l’unità di misura dell’epoca, il pollice egizio (1,875 cm), un po’ come facevano gli artisti prima di scolpire una statua per seguire le esatte proporzioni del corpo. Krauss si è accorto che ogni particolare del volto di Nefertiti si trova su una linea o su un’intersezione di due linee della quadrettatura. Il ritratto ha una natura artificiale.

C R O N O LO G I A

IMMAGINE DELLA BELLEZZA

5000-3000 a.C.

2650-2175 a.C.

Predinastico. Immagini femminili con fianchi e triangolo pubico in evidenza per rappresentare la fertilità.

Antico regno. La figura muliebre è magra e slanciata ma conserva una forte carica erotica e sensuale.

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IL NILO NEL SUO PASSAGGIO AD AMARNA

In primo piano è visibile una parte del sito dell’antica città di Amarna, sulla sponda orientale del Nilo (la fotografia è scattata da nord a sud). KENNETH GARRETT

2010-1630 a.C.

1473-1458 a.C.

1353-1336 a.C.

309-30 a.C.

Medio regno. Abbandonata la magrezza del periodo precedente, le forme delle donne diventano più morbide.

Nuovo regno. Durante il lungo regno di Hatshepsut si assiste a una minore diversificazione di genere.

Nuovo regno. Sotto Akhenaton le forme femminili raggiungono una sinuosità che non verrà più superata.

Periodo tolemaico. La cultura greca e quella egizia si fondono dando vita a un’arte nuova e di grande fascino.

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La bellezza ritrovata e il mecenate dimenticato

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INANZIATORE della spedizione di Borchardt e primo

proprietario del busto di Nefertiti fu il mecenate d’arte ebreo James Simon (1851-1932). Berlinese ed erede di una ricchissima società che commerciava in cotone, nel 1920 donò la scultura, insieme ad altri splendidi reperti, allo stato tedesco. Quando l’Egitto ne chiese la restituzione, Simon si dichiarò favorevole però Wilhelm von Bode, l’allora direttore dei Musei di stato di Berlino, si oppose. Simon non era solo un grande mecenate d’arte ma anche un uomo generoso: aiutò molti ebrei tedeschi a fuggire dalla Germania dato che prima dell’avvento di Hitler, nel 1933, l’antisemitismo in Germania era già profondamente radicato. Con il nazismo il suo nome fu dimenticato e solo oggi è stato riscoperto. RITRATTO DI JAMES SIMON. FOTOGRAFIA SCATTATA IN DATA INCERTA.

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PAGINA DEL QUADERNO DI SCAVI DI BORCHARDT, IN CUI È NARRATO NEI DETTAGLI IL RITROVAMENTO DEL BUSTO DI NEFERTITI. ÄGYPTISCHES MUSEUM UND PAPYRUSSAMMLUNG, BERLINO.

La sua perfezione parrebbe quindi legata a canoni estetici dell’epoca, anche se partiva indubbiamente da una base reale: il vero volto della regina. La scultura è in pietra calcarea rivestita da uno strato di gesso che rende al meglio tutti i dettagli del volto. Manca l’occhio sinistro, e perciò l’immagine è ancora più affascinante ed enigmatica. Forse l’occhio si staccò a causa di una caduta del busto, oppure quest’ultimo non fu mai completato, come non è terminata la parte esterna delle spalle. Perché lasciare una statua non finita? Semplice: la scultura era “solo” un modello, non faceva parte di una statua a figura intera, come suggerisce, per esempio, il taglio appena sotto le spalle della sovrana. Doveva

essere il prototipo del volto di Nefertiti che gli scultori avrebbero utilizzato per rappresentarla in altre opere d’arte. Il famoso busto venne rinvenuto nell’antica Akhetaton (l’Orizzonte di Aton), la nuova capitale che progettò e costruì Akhenaton, marito della regina Nefertiti. Questi introdusse il culto per un unico dio solare, Aton, e per tale ragione è considerato il primo monoteista della storia. La capitale dell’Egitto, Tebe, era troppo vincolata alle antiche divinità, e il faraone decise quindi di fondare una nuova città in un territorio dove non si era mai costruito nulla e non si era venerato nessun dio. Gli egizi vissero ad Akhetaton poco più di vent’anni, ma quanto si è trovato dentro le mura dei suoi edifici e templi è straordinario. Nel cosiddetto periodo di Amarna l’arte raggiunse livelli che non sarebbero mai stati superati in tutta la storia egizia, e le ripercussioni furono senza precedenti. Durante la breve fase storica si pose fine ai canoni classici validi per la rappresentazione maschile, ma soprattutto a quelli in vigore per la raffigurazione delle donne. Le vecchie regole non avevano più valore.

I canoni della bellezza in Egitto L’iconografia femminile nell’antico Egitto è caratterizzata da tre costanti che si ripetono nel corso della sua storia: un fisico sottile e perfetto, in cui né l’età né gli anni lasciano segno; una grande sensualità, sottolineata da vestiti aderenti, “a guaina”, che fasciano il corpo e lasciano intravedere seni turgidi e ben formati, nonché un triangolo pubico evidenziato, e infine un volto liscio, rotondo, senza rughe, quasi da adolescente. Il viso emerge sotto vistose parrucche adornate con magnifici gioielli che rendono la figura ancora più desiderabile. Insomma, sono rappresentate così come l’uomo le vuole vedere: oggetto del desiderio, colme di erotismo e cariche di carnalità. Parallelamente, invece, nelle figure maschili si può trovare il grasso in eccesso, che diventa ostentazione di ricchezza, e un accenno alla vecchiaia, che rende gli uomini più saggi e venerabili. Si può inoltre osservare un certo interesse per il ritratto, un tentativo di conferire una personalità

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In questa copia di una pittura tebana della XIX dinastia, posteriore al periodo di Amarna, due donne con un vestito di lino trasparente e il petto nudo porgono delle offerte. Incisione da Histoire de l’art égyptien (Storia dell’arte egizia). Parigi, 1878.

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DEA / ALBUM

BELLEZZA ETERNA

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BUSTO IN GESSO DI AKHENATON SCOPERTO AD AMARNA. ÄGYPTISCHES MUSEUM UND PAPYRUSSAMMLUNG, BERLINO.

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COPPA IN ALABASTRO

Vi sono incisi i nomi di Akhenaton e di Nefertiti. Metropolitan Museum, New York. SCALA, FIRENZE

individuale al soggetto dipinto o scolpito. In una società in cui la donna godeva di libertà impensabili per altri popoli coevi, ci troviamo davanti al solito stereotipo della donna identificata per la sessualità e l’erotismo, comune in molte culture antiche e, purtroppo, cliché presente ancora oggi.

La bellezza ad Amarna Un simile canone di bellezza cambiò durante il periodo di Amarna. In primo luogo, le linee che delimitano le figure, prima rigide e dritte, divennero fluide e curve. Inoltre, se in passato l’iconografia maschile e quella femminile erano molto diverse, ora si assomigliano. Il nuovo stile giunge all’estremo nelle figure del re e della regina: linee sinuose, corpi allungati, vita stretta, fianchi ampi e cosce così robuste da far sì che il faraone sembri una donna.

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Ciò non deve meravigliare, perché nel nuovo credo religioso l’elemento muliebre della creazione era fondamentale, e doveva manifestarsi tramite l’arte. Aton era il padre e la madre degli uomini, e anche il sovrano lo era. Per questo è rappresentato con caratteristiche da donna. Il principio maschile e quello femminile creavano un’unità indissolubile che dava vita all’Egitto. Akhenaton è sempre accompagnato da Nefertiti, e a volte anche dalle figlie. Sopra di loro, Aton splende nel cielo: la famiglia reale diventa perciò un’icona da adorare. Se ci si concentra sui tratti del volto della regina, nelle prime opere ci pare difficile riconoscere la stessa donna del famoso busto di Berlino. Eppure è lei. Notiamo il collo sottile, il volto allungato e magro con naso e mento pronunciati, le labbra carnose e prominenti, le guance sprofondate e gli occhi a mandorla, talmente in evidenza da somigliare a due fessure inquietanti. E il re è raffigurato nello stesso modo. Le immagini paiono caricature, non ritratti reali. Il senso del “bello” è cambiato. Davanti a simili effigi prive di grazia, possiamo chiederci a cosa fosse dovuto un cambiamento così drastico. La risposta è semplice: nell’arte egizia la ricerca della bellezza è solo parzialmente relazionata alla realtà, è sempre idealizzata e serve a trasmettere un messaggio concreto. Akhenaton e Nefertiti introdussero il culto di un dio unico e usarono l’arte per diffondere il messaggio. Nei primi tempi della loro riforma religiosa, l’arte comportò una rottura: bisognava eliminare i canoni estetici precedenti perché si trattava di un nuovo inizio. Dopo il consolidamento del credo di Aton, l’arte registrò infatti una trasformazione profonda, gli eccessi vennero in parte superati e si passò a un’arte più armoniosa ed equilibrata. E qui entra in scena Thutmose, che nel suo laboratorio forgiò capolavori ineguagliabili. L’arte cambiò esteriormente, ma gli ideali rimanevano gli stessi. Prendiamo come esempio un concetto molto importante per la religione di Aton: l’accentuazione della femminilità legata all’idea di fertilità e vita. Nelle prime immagini compare in modo grottesco. Ora, invece, raggiunge un

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LA FAMIGLIA REALE DI AMARNA

Il rilievo mostra i reali in una scena famigliare, tema poco abituale nell’arte egizia. Akhenaton e Nefertiti, seduti sul trono e con le insegne del potere, giocano con tre delle loro figlie mentre Aton, il disco solare, li bagna con i suoi raggi benefici. Museo egizio, Il Cairo. ERICH LESSING / ALBUM

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TOMBA DI AKHENATON

La tomba reale del faraone Akhenaton venne costruita a est della sua capitale, Akhetaton. Sulle pareti possiamo notare rappresentazioni di Aton, Akhenaton e Nefertiti, nonchĂŠ scene della famiglia reale. KENNETH GARRETT

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La regina che abbatte i suoi nemici

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EFERTITI RIVESTIVA un importante ruolo politico

e religioso ed era sempre rappresentata accanto al marito nello svolgimento delle cerimonie religiose. È stata rinvenuta un’immagine della sovrana che brandisce la mazza uccidendo dei nemici. Si tratta di un unicum nella storia egizia. Mai una monarca era stata ritratta in questo sacro ruolo, che apparteneva solo al faraone, colto mentre protegge l’Egitto dominando la personificazione del caos, ovvero gli avversari. Una delle più famose scene di tale genere proviene dai primordi della storia egizia ed è la tavolozza del re Narmer. Qui il monarca tiene i nemici per i capelli e li uccide con una mazza. Tutti i faraoni si fecero raffigurare in un simile modo, ma mai una regina, eccetto appunto Nefertiti. NEFERTITI IN UN FRAMMENTO DI UN TALATAT CONSERVATO NEL MUSEO DI BOSTON. MUSEUM OF FINE ARTS, BOSTON.

MUSEUM OF FINE ARTS, BOSTON / BRIDGEMAN / ACI

LA SAGOMA DEI RE

L’anello mostra delle rappresentazioni schematiche di Akhenaton e Nefertiti. Metropolitan Museum, New York. SCALA, FIRENZE

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equilibrio armonico. Una scultura di quarzite rossa, senza testa, esposta nel Museo del Louvre, a Parigi, lo dimostra. Opera del laboratorio di Thutmose, raffigura una donna giovane dalla vita alta e stretta, seni piccoli e corpo sorprendentemente rotondo nella parte inferiore, con ventre, glutei e cosce molto pronunciati. Il vestito che indossa, leggero e plissettato, aderisce tanto alle forme da sembrare bagnato. Vista di profilo, la scultura ricorda le riproduzioni preistoriche delle donne. Le sue forme, anche se esagerate, tradiscono una notevole abilità scultorea e un’altrettanto notevole conoscenza anatomica. Ignoriamo chi sia, forse la stessa Nefertiti o una delle sue figlie, ma non importa. L’aspetto fondamentale è che qui si concretizza l’idea stessa di fertilità, esaltata in forme turgide e spropositatamente grandi. Siamo molto lontani dalla

rappresentazione di donne giovani e magre proprie dell’iconografia tradizionale.

Le tre età di Nefertiti Vengono dal laboratorio di Thutmose anche tre sculture eccezionali di Nefertiti che la mostrano in tre fasi diverse: giovane, regina e anziana. La prima è una testa in quarzite gialla che si trova al Museo egizio di Berlino. Il volto è fresco e soave, con grandi occhi messi in rilievo dalla linea nera del trucco. Il sorriso, appena percettibile, tradisce una straordinaria maestria e il naso è leggermente più lungo rispetto alle raffigurazioni successive. La seconda scultura è una testa in quarzite marrone, conservata nel Museo egizio del Cairo: qui Nefertiti è adulta, il viso ha perso la dolcezza dell’adolescenza ed è ritratta nel pieno dello splendore. Il viso è maturo e austero, i tratti forti esprimono il vigore di una sovrana. I particolari, molto precisi, si allontanano di gran lunga dai volti di donne rotondi e stereotipati dei periodi precedenti. La terza e ultima è una scultura di pietra dal corpo intero che si trova anch’essa a Berlino. Il viso magro tradisce una certa pesantezza, ancor più evidente per le rughe sulla commessura delle labbra. L’espressione è leggermente amara, il seno non così sodo e il ventre rilassato. La regina è nel suo tramonto: ostenta il fisico e le rughe con l’orgoglio di chi ha raggiunto la maturità e la saggezza. Per la prima volta non è colta nella piena giovinezza. Al contrario, già avanti con gli anni e con il corpo pesante, è un’audace immagine della vecchiaia. Tuttavia, dopo la parentesi di Amarna, la donna tornerà a essere bellissima, cristallizzata in un’eterna adolescenza dai tratti anonimi e stereotipati. La naturalezza che caratterizzava le rappresentazioni della regina Nefertiti non sarà più eguagliata. BARBARA FAENZA EGITTOLOGA

Per saperne di più

SAGGI

Enigma Nefertiti Brando Quilici, Zahi Hawass. Mondadori, Milano, 2017. ROMANZI

Nefertiti. La regina del sole Christian Jacq. TEA, Milano, 2019. LIBRI PER BAMBINI

Il segreto di Nefertiti Anna Simioni, Paolo Colombo. Milano, Piemme, 2020.

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VESTITO TRASPARENTE

Secondo gli studiosi, questa famosa statua senza testa rappresenta Nefertiti o una delle sue figlie. La magrezza della parte superiore del corpo contrasta con la sinuosità di quella inferiore, accentuata, più che dissimulata, dal vestito aderente in lino plissettato. Musée du Louvre, Parigi. SCALA, FIRENZE

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I VOLTI DELLA REGINA NEFERTITI Questi ritratti attribuiti a Nefertiti, per la maggior parte incompiuti, la presentano in diverse tappe della sua vita. Tutti convergono nel mostrare una regina dalla bellezza atemporale.

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1 La scultura rappresenta una donna ancora bella, che si è lasciata alle spalle la giovinezza. Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Berlino.

2 In questo busto la sovrana sfoggia un delicato sorriso. È raffigurata come un’adolescente. Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Berlino.

3 Busto incompiuto della regina, con sembianze di grande dolcezza e labbra dipinte con colori delicati. Museo egizio, Il Cairo.

4 Famoso busto di Nefertiti, trovato nel 1912 nella bottega dello scultore reale Thutmose. Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Berlino.

5 Questo busto parziale di Nefertiti presenta tratti più marcati, con gli occhi contornati di nero. Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Berlino.

6 Si crede che la testa in quarzite sia

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di Nefertiti. Il naso è rotto, e mancano sopracciglia e occhi. Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Berlino.

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FOTO: 1., 2. E 5. BPK / SCALA, FIRENZE. 3 E 6. SCALA, FIRENZE. 4. KENNETH GARRETT

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LE MUMMIE DI LLULLAILLACO

I BAMBINI CONGELATI DELLE ANDE Nel 1999 sulla cima del vulcano Llullaillaco, in Argentina, gli archeologi hanno rinvenuto le mummie congelate di tre bambini, sacrificati 500 anni fa durante una cerimonia inca

LA FANCIULLA

Avvolta in grosse tele, la giovane sembra dormire placidamente. È una delle tre mummie infantili scoperte sulla cima del vulcano Llullaillaco, sulle Ande argentine. MARIA STENZEL NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

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C R O N O LO G I A

Auge e caduta di un impero 1200

Manco Cápac, il leggendario primo inca, fonda la città di Cuzco, che diventerà la splendida capitale del suo impero.

1350-1380 circa

Inca Roca è il primo governante ad adottare per sé il titolo di inca, che verrà portato anche dai suoi successori.

1438

Pachacútec sale al trono. Sotto di lui l’impero raggiunge la massima espansione. Nel 1450 comincia a costruire Machu Picchu.

1471

L’inca Atahualpa è catturato a Cajamarca da Francisco Pizarro. Viene giustiziato dagli spagnoli l’anno seguente.

1536

Manco Inca inizia una ribellione contro il dominio spagnolo. I suoi eredi resisteranno nella città di Vilcabamba.

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ni zo az Am lle de

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L’ultimo inca di Vilcabamba, Túpac Amaru, è catturato e decapitato a Cuzco dagli spagnoli.

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ine del XV secolo. Ai piedi del vulcano Llullaillaco (Salta, ArSotto queste gentina), alto 6.739 metri, due righe, una mappa ragazzine, un bambino e una codel Sudamerica mitiva di adulti si preparano ad mostra l’estensione ascendere alla cima, dove la morte attende territoriale che alcuni di loro. Hanno percorso più di mille raggiunse l’impero chilometri. Sei mesi prima si sono infatti inca nel suo lasciati alle spalle Cuzco per intraprenperiodo di apogeo. dere un lungo viaggio che, attraverso valli e montagne, li ha condotti sino a queste nevi perenni. Sono stanchi e frastornaELA EZU ti dall’aria rarefatta, e così masticaVEN A N I IA O B no foglie di coca per compiere un OM N O Z Z C I COL M A B A ’ A L ultimo sforzo. Si preparano per L A D E I C ito Qu O R E R l’occasione da molto tempo: soD M UA D A EC E SIL S U no stati scelti almeno un anno A R B rca prima. Ha inizio l’ascesa, però a A Ù I am co LIV PER Caj Cuz o BaO a devono fermarsi per ripreng c a a m L itic Li T az A La P Sucre dere le forze e allestiscono un N Y G UA ARA O P accampamento provvisorio a N O A E I C C F O C I 5.200 metri. Si arresteranno A P ancora più volte, a mano a mano E CIL che l’altitudine aumenta, stavolta L’IMPERO DEGLI INCA

LOREM IPSUM

Túpac Yupanqui, successore di Pachacútec, segue la politica espansionistica del padre. L’impero inca si spinge sino a Quito, Ecuador.

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LA CIMA DEL VULCANO

Sul pianoro si possono vedere le tende dell’accampamento montato dagli archeologi della spedizione di Llullaillaco prima dello spettacolare rinvenimento. MARIA STENZEL / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

LA SIGNORA DI AMPATO CONOSCIUTO ANCHE come “mummia Juanita”, il cadavere di

questa giovane di non più di 15 anni, perfettamente conservato, venne scoperto nel 1995 da Johan Reinhard e Miguel Zárate durante una spedizione sul vulcano peruviano Ampato. Attorno al corpo era disposto un corredo funerario costituito da statuette in oro, valve di spondili e vari tipi di piante.

costruendo dei semplici parapetti che gli consentano di ripararsi dal vento. A pochi metri dalla vetta portano a termine il rituale, e i bambini vengono offerti agli dèi. Ora potranno finalmente riposare in un sonno eterno. Cinquecento anni più tardi, nel marzo 1999, ai piedi del Llullaillaco, un team di archeologi d’alta quota, guidati da Johan Reinhard e Maria Constanza Ceruti, si appresta a salire sulla vetta del vulcano seguendo le tracce degli antichi inca. Si mettono in cammino affrontando le intemperie e la mancanza d’ossigeno. Lungo la strada trovano i resti di uno degli attendamenti provvisori e di certi parapetti d’antica fattura che tradiscono momenti di breve riposo da parte dei viaggiatori del passato. A 6.715 metri un basamento cerimoniale lungo dieci metri e largo sei attira la loro attenzione, perché intuiscono che lì era stato celebrato un rituale. Quando scavano nel sito, costruito dagli inca sfidando la natura, ritrovano tre corpi in perfetto stato di conservazione.

La loro scoperta colpirà il mondo intero: si tratta delle mummie di Llullaillaco, che costituiscono una straordinaria finestra sul passato.

Congelati nel tempo Gli scavi hanno permesso di recuperare numerosi oggetti di notevole pregio, che confermano l’importanza del rituale celebrato sul vulcano. Sono però le mummie il ritrovamento di maggior rilievo. La prima corrisponde a un bambino di circa sette anni, sepolto con lo sguardo verso oriente. Indossava in testa un pennacchio di piume bianche e al polso un braccialetto d’argento. Il cadavere era deposto su una tunica, e accanto a lui vennero collocati diversi manufatti come sandali, due fionde e alcune sacSTATUETTA INCA AVVOLTA NEL TESSUTO, RINVENUTA ASSIEME ALLE MUMMIE DI LLULLAILLACO. MARIA STENZEL / NG IMAGE COLLECTION STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA SIGNORA DI AMPATO. MUSEO SANTUARIOS ANDINOS, AREQUIPA.

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che in tessuto. La perfetta conservazione della chioma consente di capire che aveva i pidocchi, giacché sono ancora presenti le lendini, o uova. La seconda mummia appartiene a una bambina di circa sei anni, pettinata con due trecce. È il corpo peggio preservato, perché vi si è abbattuto un fulmine. È nota come “la bambina del fulmine” e sulla fronte portava una piastra di metallo argentato. Nel suo corredo sono state trovate pentole, bicchieri e piatti in miniatura, nonché resti di mais, coca, patata e carne disidratata. A Llullaillaco venne seppellita pure una ragazza di non più di quindici anni, nota come la doncella (fanciulla). I capelli erano raccolti in fitte treccioline, preparate poco tempo prima del sacrificio. Come la bambina del fulmine, aveva accanto a sé bicchieri, recipienti in miniatura e sacche con cibo, oltre a un pettine, un cucchiaio e una tunica cucita in tessuto di fattura pregiata. La

CINQUECENTO ANNI SOTTO I GHIACCI

L’antropologo Johan Reinhard scopre il volto della “bambina del fulmine”, una delle tre mummie inca rinvenute a Llullaillaco. Dopo la morte, il corpo fu colpito da un fulmine.

LAMA D’ARGENTO CHE FACEVA PARTE DEL CORREDO FUNERARIO DELLE MUMMIE. MARIA STENZEL / NG IMAGE COLLECTION

possibile presenza di bambini sacrificati sulle montagne delle Ande era nota agli studiosi, perché in precedenza erano già state rinvenute altre mummie, come “il bambino della collina” a Santiago del Cile, o “la signora di Ampato” ad Arequipa (Perù). Grazie a loro e alle cronache del XVI e del XVII secolo conosciamo i dettagli della cerimonia che ebbe luogo sulla vetta del Llullaillaco: la capacocha.

Prescelti dagli dei La capacocha era un rito sacrificale che consisteva nell’immolare bambini e bambine provenienti dall’intero territorio dell’impero inca affinché fungessero da mediatori tra la comunità e gli dei. Veniva realizzato solo in occasioni speciali, come l’elezione di un nuovo governatore, una vittoria militare importante o un periodo di prolungata siccità che metteva in pericolo la sopravvivenza degli abitanti. Secondo le cronache, una volta che i bambini del rituale erano stati

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H. M. HERGET / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION MARIA STENZEL / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

scelti, a Cuzco, la capitale, aveva inizio una grande festa con balli e banchetti sontuosi. Dopo di questa i bambini, accompagnati da una comitiva che includeva degli esperti in tema religioso, intraprendevano un lungo pellegrinaggio fino al luogo in cui avrebbero “riposato in eterno”. Durante il cammino venivano ben nutriti e gli si permetteva di bere la chicha (una bevanda alcolica elaborata a partire dalla fermentazione del mais) e masticare foglie di coca, alimenti sacri tipici delle occasioni speciali. I bambini venivano sacrificati una volta giunti alla meta. Alcune mummie infantili rinvenute negli ultimi anni hanno svelato che la morte dei piccoli era stata violenta: un colpo in testa o per strangolamento. Non è però il caso di Llullaillaco, ed è probabile che i tre bambini perirono assiderati. I corpi venivano poi sepolti nei ghiacciai andini, dove le condizioni climatiche ne favorivano il congelamento. Le fonti scritte narrano che i sacrificati dovevano essere «da dieci anni in giù»;

LA FESTA DEL SOLE UN CRONISTA di origine inca, Felipe Guamán Poma de Ayala, ricorda che a giugno gli inca celebravano la festa del Sole (Inti Raymi) «e spendevano molto e compivano sacrifici al Sole. E avveniva il sacrificio detto capacocha, in cui erano sepolti cinquecento bambini innocenti e molto oro e argento e mullo (conchiglie)». In un’altra festa, a dicembre, si sacrificavano altri 500 tra bambini e bambine. CERIMONIA INCA. INCISIONE A COLORI DI H.M. HERGET.

questo afferma, per esempio, frate Martín de Murúa (1616). Solo così si era certi della loro verginità. Il fatto che i bambini offerti agli dèi divenissero loro intermediari gli assicurava una condizione sacra, semidivina, piuttosto ben vista in seno alla comunità. I cronisti rivelano che erano gli stessi governatori regionali dell’impero a offrire i propri figli all’inca in carica perché venissero sacrificati. In cambio l’inca riconosceva il loro sforzo in beneficio della comunità concedendogli gratificazioni e privilegi. In genere quindi i bambini sacrificati facevano parte delle élite provinciali dell’impero. Quando il team di Reinhard e Ceruti ha trovato le mummie di Llullaillaco sapeva di essere in presenza di una capacocha in-

I bambini prescelti intraprendevano un lungo pellegrinaggio a piedi fino al luogo in cui sarebbero stati sacrificati. Per la strada erano ben nutriti e potevano bere chicha STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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I BAMBINI DORMIENTI NEL VULCANO L’analisi dei corpi delle mummie di questi tre bambini ha fornito dati interessati sui loro ultimi giorni di vita.

Il bambino. Nel 2004 su un panno annodato al collo della mummia è stato scoperto un mix di sangue e saliva. Gli studiosi credono che provenga da un forte colpo, oppure da un edema polmonare provocato dall’altitudine.

La bambina del fulmine. Sulle spalle porta una mantella, o liclla, di color marrone, chiusa con una spilla, o tupu, d’argento. La lastra metallica che portava in testa dovette attirare un fulmine.

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FOTO: MARIA STENZEL / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

La fanciulla. L’analisi dei capelli ha permesso di conoscere la dieta dei suoi ultimi giorni: foglie di coca e una gran quantità di chicha, una bevanda alcolica.

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SCARPE E CORDA DI LANA

Tra i molti oggetti sepolti vicino ai bambini di Llullaillaco c’erano diverse calzature, come sandali e mocassini, e una fionda in corda di lana, trovata vicino al bambino. MARIA STENZEL / NG IMAGE COLLECTION

ta importanza, se lo accostiamo al fatto che sia il bambino sia la bambina presentano una deformazione del cranio. Tale pratica era un segno di distinzione nell’élite andina. La deformazione veniva praticata nei primi mesi di vita, legando alla testa delle piccole assi di legno e dei turbanti così da modellare il cranio ancora molle. Poiché non si può deformare la testa alle persone adulte, la pratica della deformazione craniale tradisce per forza uno status ereditato. Se i bambini di Llullaillaco hanno tale caratteristica e non erano malnutriti, dovevano appartenere a famiglie abbienti. Ciò confermerebbe che i prescelti per il rituale provenivano dalla nobiltà inca. Inoltre, come abbiamo già detto, i cronisti riferiscono che i bambini dovevano avere meno di dieci anni, come avviene con due delle mummie

LOREM IPSUM

ca, ma ha ben presto inteso l’eccezionalità del rinvenimento per lo straordinario stato dei corpi. Dal momento che sono rimaste sepolte per secoli nel freddo estremo, in assenza di vento e senza microrganismi attorno, le mummie sono tra le meglio conservate al mondo. Per tale ragione sono state sottoposte a ogni sorta di analisi scientifica, volta a verificare la veridicità delle informazioni fornite dalle fonti del periodo coloniale. Un esempio: lo studio della dieta dimostra una sovralimentazione negli ultimi mesi di vita, e questo conferma i dati forniti dai cronisti, secondo i quali al momento della scelta e all’inizio della camminata avevano luogo una festa e ricchi banchetti. Allo stesso modo si è potuto appurare che i bambini di Llullaillaco non vennero mai malnutriti. Il dettaglio è di una cer44 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MUSEO NACIONAL DE HISTORIA NATURAL DE CHILE

MACHU PICCHU

Anche se è stata ormai scartata la teoria dell’archeologo Hiram Bingham secondo cui Machu Picchu era un’immensa acllahausi abitata da donne, è probabile che alcuni dei suoi edifici (come quello nell’immagine) fossero adibiti a tale scopo.

BIMBO DEL COLLE EL PLOMO

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NEL 1954 venne rinvenuta sul colle El Plomo (Il Piombo, Cile), a 5.400 metri di altezza, la mummia di un bambino di 8 anni sacrificato in una capacocha. Risaltano il volto dipinto in rosso e ocra e la pettinatura, con più di 200 trecce (portava pure un copricapo in lana con piume di condor). Nel corredo risultavano piccole borse in pelle che contenevano capelli e unghie.

di Llullaillaco. La terza è una ragazza di non oltre quindici anni, e non è questo l’unico caso in una capacocha. Si doveva pertanto trattare di un’aclla (prescelta, in lingua quechua). Nell’impero inca esisteva un’istituzione esclusivamente femminile chiamata acllahuasi o “casa delle prescelte”, un tempio in cui venivano rinchiuse le donne più belle dell’impero, selezionate da funzionari che percorrevano il territorio su richiesta dell’inca. Le giovani si dedicavano alla produzione di chicha e tessuti e si consacravano al culto degli dèi. Vivere in castità dentro l’acllahuasi (nella quale si entrava da vergini) gli permetteva di essere offerte quasi fossero bambine, perché erano rimaste pure. L’età e le condizioni fisiche della“fanciulla di Llullaillaco”, che presenta come solo tratto distintivo un neo sul braccio, la rendevano un’ottima candidata per l’aclla. Non lo si è potuto dimostrare finché le analisi biochimiche della mummia non hanno svelato che, alcuni anni prima di essere sacrificata, la sua dieta era cambiata, da interamente vegetale

BAMBINO DEL COLLE EL PLOMO. MUSEO NACIONAL DE HISTORIA NATURAL, SANTIAGO DEL CILE.

(basata sulle patate) a mais e proteine animali, sinonimi di un’alimentazione ricca ed esclusiva. La giovane dovette essere reclutata anni prima per entrare nell’acllahuasi, dove si nutrì meglio, fino a essere scelta per la cerimonia della capacocha. Grazie alla scienza, le mummie di Llullaillaco hanno potuto rispondere a molte domande sugli antichi rituali inca. Probabilmente avranno ancora molto da raccontare, ma finché la scienza non farà altri passi in avanti le lasceremo riposare nel Museo di archeologia di alta montagna di Salta. Chi arriva fino a qui può contemplare il loro sonno congelato nel tempo a cinquecento anni dalla loro morte. ARIADNA BAULENAS I PUBILL STORICA E DIRETTRICE DELL’ISTITUTO DI CULTURE AMERICANE ANTICHE (BARCELLONA)

Per saperne di più

Le civiltà precolombiane Ariadna Baulenas i Pubill. Mondadori, Milano, 2017. La città perduta degli inca Hiram Bingham. Newton Compton, Roma, 2011.

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DEI, EROI E RITI

SCULTURE DEL I frontoni e i fregi del grande tempio sull’Acropoli contengono scene

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PARTENONE mitologiche che celebrano la grandezza di Atene

FREGIO DEL PARTENONE

Dal XIX secolo i pannelli che componevano il fregio interno del Partenone di Atene, con la rappresentazione di una processione religiosa, si trovano al British Museum. KONSTANTINOS TSAKALIDIS / ALAMY / ACI

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E UNA DEA DEL PARTENONE

Questa figura della dea Iris, ora al British Museum, faceva parte del frontone occidentale del Partenone. PRISMA / ALBUM

C R O N O LO G I A

IL GRANDE TEMPIO DI ATENA

mblema della potenza ateniese, il Partenone fu fortemente voluto attorno alla metà del V secolo a.C. da Pericle, importante leader cittadino che non badò a spese per costruirlo. L’edificio rappresenta un grandioso sforzo architettonico e scultoreo. È un tempio periptero, cioè circondato da colonne: ce ne sono otto sul fronte (da cui la denominazione di octastilo) e diciassette sui lati lunghi. Per quanto riguarda le dimensioni, occupa una superficie di settanta metri per trenta e raggiunge un’altezza massima di quattordici metri. È anfiprostilo, cioè dotato di un portico su ogni lato corto, integrato nel peristilio, e ha una cella o area interna suddivisa in due camere. Fu costruito interamente in marmo bianco proveniente dalla vicina cava del monte Pentelico, il migliore in circolazione all’epoca. Ad accentuare la maestosità di questo tempio contribuiva anche la sua posizione al centro dell’Acropoli di Atene. Gli architetti Callicrate e Ictino lavorarono al Partenone tra il 447 e il 438 a.C. La decorazione scultorea fu completata nel 432 a.C. sotto la responsabilità di uno dei più grandi artisti dell’epoca, Fidia. Questi si dedicò in particolare alla creazione di una statua crisoelefantina – cioè rivestita di lastre d’oro e d’avorio – di Atena Parthenos (vergine) di dimensioni colossali, che fu collocata nella cella del tempio. Si può dire che il Partenone nel suo complesso rappresentava

una gigantesca nicchia pensata per ospitare questa straordinaria immagine cultuale. La statua della dea costituiva anche una parte importante delle riserve economiche degli ateniesi, protette dalla sacra inviolabilità dell’icona divina. Il resto delle finanze cittadine era ospitato nella camera posteriore della cella insieme agli ex voto, alcuni dei quali di grande valore.

La gloria di Atene Il Partenone corrisponde al periodo di apogeo politico ed economico della polis ateniese seguito alla sconfitta del grande impero achemenide nelle cosiddette Guerre persiane, che ebbero come momenti culminanti le due invasioni della Grecia del 492-490 a.C. e del 480-479 a.C. Atene divenne la paladina della cultura ellenica, la città capace di proteggere il mondo classico in un conflitto difensivo, e quindi legittimo e civile: il tipo di guerra rappresentato dalla razionale Atena in contrapposizione al bellicoso Ares. Divenuta la gendarme del Mediterraneo orientale di fronte alla persistente minaccia persiana, la capitale dell’Attica impose ai suoi alleati greci onerosi tributi, destinati a coprire le spese militari ma anche ad altri scopi, come per esempio la costruzione del Partenone. Un tale contesto serve a comprendere l’importanza della decorazione scultorea del tempio e la natura del suo programma iconografico. Le qualità artistiche di questo monumento sono notevoli, ma non va dimenticato che i suoi obiettivi erano didattici e culturali prima ancora che estetici. Di fatto, alcune del-

480 a.C.

460 a.C.

447-432 a.C. 431 a.C.

1687

I persiani distruggono l’Acropoli ma vengono sconfitti dagli ateniesi a Salamina.

Pericle assume la carica di stratega e diventa la massima autorità ateniese.

In questi anni viene costruito e decorato il Partenone di Atene.

L’esplosione di un deposito di polvere da sparo danneggia gravemente il tempio.

Interruzione dei lavori sull’Acropoli a causa della Guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta.

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IL PARTENONE

Sulla facciata orientale del grande tempio dell’Acropoli di Atene si trovava il portico d’ingresso della cella in cui era collocata la statua crisoelefantina di Atena. SHUTTERSTOCK STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PARTI DEL TEMPIO

SCULTURE

1 Peristilio 2 Pronao 3 Cella 4 Opistodomo

5 Frontone orientale 6 Fregio esterno 7 Fregio interno 8 Statua di Atena Parthenos

AGE FOTOSTOCK

le sculture del Partenone non erano visibili con facilità. La camera che ospitava la statua di Atena su un grande piedistallo scolpito non era liberamente accessibile. Il fregio di 160 metri posto sui lati lunghi della cella e che raffigura la processione delle grandi Panatenee, la principale festività religiosa ateniese, era difficilmente apprezzabile non solo dall’esterno, perché coperto dalle colonne, ma anche dall’interno, in quanto si trovava a un’altezza di dodici metri in un corridoio molto stretto. Alcuni studiosi ipotizzano che si trattasse di una sorta di rilievo votivo offerto dal demos (popolo) ateniese ANTEFISSA IN MARMO POSTA ALLA CONCLUSIONE DI UNA FILA DI TEGOLE SUL TETTO DEL PARTENONE.

e raffigurante varie fasi della storia cittadina, in un tentativo di unire passato e presente. Tutti potevano invece vedere i due frontoni che sormontavano la facciata anteriore e quella posteriore, le cui scenografie rappresentavano rispettivamente la nascita eccezionale di Atena dalla testa di Zeus e la presa di possesso dell’Acropoli da parte della dea. Atena era quindi una divinità poliade, incaricata cioè di proteggere la città, il suo territorio, i suoi abitanti e tutto ciò che questi possedevano: le case, le istituzioni e i mezzi di sostentamento. Erano perfettamente visibili anche le novantadue metope del fregio dorico che decoravano l’intero peristilio. L’opera esaltava il profilo civilizzatore dei greci, uomini

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dell’Asia minore, in uno scontro che sembra preannunciare la vittoria degli ateniesi sui persiani. Nella sezione sud l’eroe locale Teseo si confronta con le amazzoni, le guerriere che sovvertendo i ruoli di genere simboleggiano la minaccia dei barbari contro i greci. Sul lato occidentale i nemici sono i centauri, contro i quali è sempre Teseo a intervenire.

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Distruzione e ricostruzione

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e dèi, in contrapposizione a un nemico dai tratti barbari che si opponeva all’ordine presieduto dalla giustizia di Zeus. Atene riusciva sempre a svolgere un ruolo preponderante, sia tramite i suoi eroi leggendari sia grazie alla sua dea protettrice, alla quale la mitologia ufficiale attribuiva la prerogativa di aiutare i greci a imporsi con giustizia sui loro avversari. Sul lato principale, posto a est, alcune divinità, tra cui la stessa Atena, combattono contro i giganti, i figli della Terra che tentano di assaltare l’Olimpo per rovesciare l’ordine stabilito. Sul lato settentrionale gli achei, sempre con la figlia di Zeus al loro fianco, lottano contro i troiani

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L’INTERNO DEL PARTENONE DI ATENE

L’illustrazione qui sopra mostra la struttura del tempio eretto sull’Acropoli di Atene per volere di Pericle.

Nel 1687 il Partenone fu quasi completamente distrutto da un colpo di bombarda sparato dai veneziani sull’edificio che gli ottomani, all’epoca signori di tutta la Grecia, avevano adibito a magazzino della polvere da sparo. Le sculture risultarono gravemente danneggiate. I resti in condizioni migliori furono trasferiti da lord Elgin in Inghilterra all’inizio del XIX secolo e lì venduti al British Museum. Gli altri reperti, e ciò che fu recuperato nelle campagne archeologiche successive, si trovano in quello che oggi è il museo dell’Acropoli di Atene. Negli ultimi decenni sono stati dedicati molti studi al tentativo di comprendere quale fosse il vero aspetto della scultura greca e romana, molto differente da quanto suggeriscono le opere visibili oggi nei musei. In questo modo si è potuta ricostruire indicativamente la policromia originale delle statue ispirandosi ai dipinti di Pompei e anche ad alcuni frammenti restaurati con tecniche avanzate. In modo analogo è stato possibile effettuare una ricostruzione ideale delle sculture perdute del Partenone. Pur trattandosi d’ipotesi, permettono di apprezzare la ricchezza e la complessità di quello che fu il tempio più emblematico dell’antica Grecia. RAQUEL LÓPEZ MELERO UNIVERSITÀ NAZIONALE SPAGNOLA DI EDUCAZIONE A DISTANZA

Per saperne di più

SAGGI

Le due donne del Partenone Karen Essex. Bompiani, Milano, 2008. L’eco dei marmi. Il Partenone a Londra V. Farinella, S. Panichi. Donzelli, Roma, 2003. I marmi del Partenone. Le ragioni della loro restituzione C. Hitchens. Fazi, Roma, 2009.

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Partenone

Statua di Atena

Propilei

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LA SOMMITÀ DELL’ACROPOLI

IL TEMPIO DI ATENA Durante l’invasione della Grecia del 480 a.C. i persiani occuparono Atene e distrussero l’Acropoli. Qualche anno più tardi Pericle lanciò un ambizioso progetto di ricostruzione dell’area. Al centro dell’Acropoli fu eretta una grande statua in bronzo della dea Atena, la scalinata venne completata col monumentale accesso dei Propilei, e fu costruito e consacrato un nuovo tempio dedicato ad Atena, il Partenone appunto.

ATENA. COPIA ROMANA DEL II SECOLO A.C. DELLA SCULTURA ORIGINALE DI FIDIA.

ILLUSTRAZIONE 3D: TRASANCOS 3D

DEA / ALBUM

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I FRONTONI

Zeus Era

GLI DEI DELL’OLIMPO NEL PARTENONE

Iris

Ares Dioniso Artemide

Elio

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Dioniso è seduto su una pelle di animale, affiancato da Demetra e Persefone.

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FRONTONE ORIENTALE

In ciascuno dei due frontoni 25 figure dai volumi rotondi e di dimensioni maggiori del vero emergevano da uno sfondo blu. Il frontone orientale ha al centro uno Zeus seduto, dal cui capo è appena nata, con l’aiuto dell’ascia di Efesto, un’Atena già adulta. All’evento assistono altre divinità olimpiche, ma non si sa esattamente quali. Sicuramente c’è Era, anch’essa seduta, mentre la figura reclinata è forse Afrodite. Ci sono anche Apollo con la sua lira e il bellicoso Ares con il suo scudo. Il carro di Elio, il Sole, visibile sul lato sinistro, e il carro di Selene, la Luna, in procinto di scomparire sul lato destro, simboleggiano il momento dell’alba.

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Atena

Ermes Secondo la leggenda Cecrope fu il primo re di Atene. Era rappresentato con la metà inferiore del corpo in forma di serpente.

Aglauro Cecrope

Nike Erittonio

Re dell’Attica

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Atena Poseidone Efesto

Estia

Apollo

Selene, la Luna, scompare all’orizzonte guidando una quadriga. Si è conservata la scultura di uno dei cavalli.

Ermes Dione Selene

Afrodite

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Lo scenario del frontone occidentale è l’Acropoli di Atene; e il motivo principale la disputa tra Atena e Poseidone per diventare la divinità protettrice degli ateniesi. Poseidone fa sgorgare una fonte con il suo tridente, ma Atena vince regalando alla città il prezioso ulivo che appare alle sue spalle. Il suo carro è guidato da Nike, personificazione della vittoria. A sinistra sono visibili un sovrano dell’Attica e Cecrope, il mitico re-serpente di Atene, con la figlia Aglauro. A destra ci sono probabilmente Orizia, Creusa e Procri, figlie del re di Atene Eretteo. I resti conservati permettono solo un’ipotetica ricostruzione dei particolari.

5 Poseidone

Iris

Orizia Anfitrite

Creusa

Cefalo Procri Eos

Secondo il mito Cefalo, marito di Procri, sfuggì alla seduzione di Eos, dea dell’alba.

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ILLUSTRAZIONE 3D: TRASANCOS 3D. FOTO: BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE; ECCETTO 4, GETTY IMAGES

FRONTONE OCCIDENTALE

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LE METOPE

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ILLUSTRAZIONE: ROMÁN GARCÍA

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Un centauro rapisce una donna lapita. Fidia elude il tabù del nudo femminile ricorrendo al panneggio a effetto bagnato, che lascia intravedere il corpo.

BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

IL FREGIO ESTERNO del Partenone è formato da un’alternanza di triglifi (elementi rettagolari composti da tre sporgenze) e metope, dei riquadri destinati alla decorazione scultorea. Qui si trovano due figure sempre distinte che danno vita a composizioni differenti tra loro. Le metope dei lati orientale, occidentale e meridionale sono state distrutte a colpi di martello dai cristiani, che quando trasformarono il Partenone in una chiesa bizantina vollero cancellare l’iconografia pagana. Il bombardamento del 1687 fece il resto. Si sono invece conservate le metope del lato sud relative alla centauromachia, seppur parzialmente danneggiate. E anche un numero di frammenti sufficienti a identificare il tema delle altre tre parti: la gigantomachia, a est; la Guerra di Troia, a nord, e l’Amazzonomachia, a ovest. La centauromachia è la lotta del popolo leggendario tessalo dei lapiti, che abitava la vallata del Peneo, contro i centauri, creature metà uomini e metà cavalli. Secondo la leggenda i centauri furono invitati alle nozze d’Ippodamia, figlia del re di Argo, con il re dei lapiti Piritoo. In questa circostanza si ubriacarono e tentarono di violentare la sposa e altre donne. Scoppiò una battaglia alla quale prese parte anche l’eroe ateniese Teseo, amico di Piritoo. Alla fine i centauri furono sconfitti e scacciati dalla Tessaglia.

DEA / ALBUM

STORIA DELLA GUERRA DEI LAPITI CONTRO I CENTAURI

Un centauro strangola un lapita. Il volto di quest’ultimo ha un’espressione trattenuta, in linea con l’ideale classico di sophrosyne (temperanza).

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METOPA POLICROMA

BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

La metopa numero quattro sul lato sud del Partenone mostra un lapita a terra che cerca di proteggersi con lo scudo dall’attacco di un centauro. Questi sta per scagliargli addosso un’idria che deve aver preso al banchetto nuziale. La ricostruzione riprodotta sotto l’originale permette di apprezzare tutti i dettagli della scena e la possibile colorazione che avevano anticamente le figure. Com’è noto i triglifi erano blu, mentre le metope avevano probabilmente uno sfondo bianco.

Un lapita strangola un centauro, il cui volto contratto in una smorfia è simbolo di barbarie. Le teste di questi centauri s’ispirano alle maschere teatrali.

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ILLUSTRAZIONE 3D: TRASANCOS 3D. FOTO: BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

UIG / ALBUM

Lapita vittorioso su un centauro. Rappresentazione anatomica di un nudo maschile con un clamide come sfondo.

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IL FREGIO INTERNO

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Due cavalieri in processione: un efebo nudo con un mantello (clamide) allacciato al collo e un adulto con una tunica corta.

E

S

W

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Tre divinità identificate con Poseidone, Apollo e sua sorella Artemide.

L A GRANDE FESTA DI ATENA LUNGO LE PARETI della

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FOTO: BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

cella del Partenone è posto un fregio di 160 metri che rappresenta la processione delle grandi Panatenee, la principale festività religiosa ateniese. Dall’angolo sud-ovest partono due cortei che avanzano in direzioni opposte per poi convergere sul lato est, in corrispondenza dell’ingresso della cella. Sul lato ovest un gruppo di cavalieri si prepara per la parata che avanza verso la sezione nord, dove 60 efebi a cavallo 1 sono preceduti da 11 quadrighe. Davanti a loro ci sono i cittadini anziani con i musicisti e gli animali destinati al sacrificio 2. La processione è aperta dalle cittadine 3: le nubili hanno i capelli sciolti mentre le donne sposate li hanno raccolti in una crocchia. La sezione meridionale è una copia di quella settentrionale. Nella parte in corrispondenza dell’entrata, situata a est, ci sono dieci figure maschili in piedi, forse i mitici re di Atene, e 12 divinità olimpiche sedute e di maggiori dimensioni, che sembrano contemplare il doppio corteo mentre si suddividono a loro volta in due gruppi rivolti in direzioni opposte. Atena, Efesto, Poseidone, Apollo, Artemide e Afrodite 4 da una parte; Ermes, Dioniso, Demetra, Ares, Era e Zeus dall’altra 5. Al centro c’è la controversa scena principale 6, che molto probabilmente rappresenta la consegna alla dea Atena del nuovo peplo, la lussuosa veste tessuta e ricamata da due adolescenti ateniesi durante i quattro anni che separavano una festività dall’altra.

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Un bue viene condotto al Partenone per essere sacrificato alla dea.

3 Alcune donne nubili e sposate partecipano al corteo. La prima di loro regge un incensiere. Zeus e Era conversano tra loro prima dell’arrivo delle offerte degli ateniesi.

Il peplo. In questa scena gli ateniesi consegnano l’offerta alla dea Atena.

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ADORATI XXXXXXXXX LOTTATORI XXXXXX XXX

Quest’olio Nequassi redivend Francesco aec eatios Netti mostra esaddwilevenda festeggiamento quidit etus di quiun quidunt gladiatore facesinea una volorem villa di oluptiu Pompei ntiunti al termine dicimindi un explaborrum, combattimento. ut volorem oluptiu ntiunti dicimin explaborrum, ut quo torem.

SCONTRI NELL’ANFITEATRO

GLADIA T Nonostante fossero brutali e a volte si concludessero con la morte, i combattimenti

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SCALA, FIRENZE

A TORI

ti

dei gladiatori erano soggetti a regole e rituali rigorosi

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MARCO ANSALONI

SCUOLA DI GLADIATORI

Nella foto, il Ludus magnus di Roma, dove si allenavano i gladiatori. Fu costruito durante il regno di Domiziano e aveva un accesso diretto al Colosseo.

I

combattimenti dei gladiatori (chiamati munera gladiatoria) erano i più popolari di tutti gli spettacoli a cui si poteva assistere a Roma e nell’impero. Ancora oggi i vari aspetti che circondavano la vita e i rituali di coloro che lottavano negli anfiteatri esercitano un grande fascino. Ogni anno appaiono sul mercato libri, articoli, film e serie televisive che continuano ad alimentare la passione per l’argomento. Purtroppo i contenuti veicolati da questi prodotti d’intrattenimento non sempre corrispondono a quanto avveniva nell’arena. Le lotte tra gladiatori sono state tradizionalmente mal interpretate da storici e

studiosi, finendo per essere ridotte a duelli sanguinosi che si concludevano invariabilmente con la morte di uno dei partecipanti. In realtà spesso sia il vincitore sia lo sconfitto lasciavano l’anfiteatro vivi. L’essenza del combattimento non era il sangue ma l’esibizione di abilità, forza e resistenza. Lo spettacolo puntava a mettere in scena i valori di una società fortemente militarizzata che viveva di e per la guerra. Si trattava dunque di sport e intrattenimento al tempo stesso. Le ferite, e in alcuni casi la morte, erano inerenti all’arte gladiatoria. Recarsi all’arena permetteva alla plebe di dimenticare per un attimo le dif-

C R O N O LO G I A

VITA E MORTE NELL’ARENA SCALA, FIRENZE

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65 a.C. Giulio Cesare offre uno spettacolo con 320 coppie di gladiatori. In futuro il senato ne limiterà il numero.

LOTTA TRA DUE GLADIATORI. FIGURINE DI TERRACOTTA. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, TARANTO.

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IL COLOSSEO DI ROMA

Vespasiano iniziò la costruzione di questo monumentale anfiteatro che fu completato dal figlio Tito nell’80 d.C. L’imperatore inaugurò l’edificio con i giochi gladiatori più fastosi che Roma avesse mai visto. HARALD NACHTMANN / GETTY IMAGES

22 a.C.

80 d.C.

107 d.C.

404 d.C.

Augusto riforma i giochi. Fissa un limite di 120 coppie e vieta di offrire più di due munera all’anno.

Tito inaugura il Colosseo con 100 giorni di giochi impressionanti, che coinvolgono migliaia di gladiatori e animali.

Per festeggiare le sue vittorie in Dacia Traiano organizza 123 giorni di giochi con 10mila gladiatori e 11mila animali.

L’imperatore Onorio proibisce lo svolgimento di combattimenti tra gladiatori nell’impero romano d’occidente.

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IN ATTESA DEL VERDETTO

Il gladiatore sconfitto attende il verdetto finale, mentre il vincitore solleva la spada. Rilievo del I secolo a.C. scoperto nel 2006 a Capena, a nord di Roma. AP IMAGES / GTRES

ficoltà della propria vita e decidere dell’esistenza altrui, decretando la fine o la salvezza di chi veniva sconfitto. Inoltre, grazie alle lotte chi era fortunato e abile nelle scommesse poteva realizzare qualche ingente vincita, che avrebbe migliorato la propria condizione economica. Ancora oggi, a distanza di oltre duemila anni, c’è chi si appassiona a una partita di calcio per gli stessi motivi: l’esaltazione di poter urlare contro i giocatori rivali oppure all’arbitro, e il tentativo di arricchirsi grazie alle scommesse.

Un giorno intero di svago In realtà i combattimenti tra gladiatori erano solo una parte dello spettacolo che veniva offerto nell’anfiteatro. L’evento era organizzato da un impresario detto editor e durava un’intera giornata, a volte anche diversi giorni consecutivi. La mattina era dedicata alle lotte tra animali selvatici e alla caccia (venatio), mentre a mezzogiorno era il momento delle esecuzioni dei condannati. Nel pomeriggio arrivava finalmente il turno dei gladiatori, senza dubbio lo spettacolo maggiormente apprezzato dal pubblico. I lottatori si presentavano nell’arena con un abbigliamento caratteristico. Tutti indossavano protezioni simili: fasce di cuoio sulle gambe (fasciae); placche di metallo a riparare le braccia e le spalle (manicae), ed elmo in testa (galea). Portavano anche un sospensorio (subligaculum) agganciato a una specie di cinturone chiamato balteus. Per il resto lottavano a torso nudo e scalzi, come si può dedurre da alcune pitture e da testi-

Per aumentare il fascino dei combattimenti venivano messi di fronte gladiatori con armi e tecniche differenti

RAFFAELLO BENCINI / BRIDGEMAN / ACI

monianze archeologiche quali gli scheletri riesumati dal cimitero di Efeso. A differire erano invece le armi utilizzate, che dipendevano dalla tecnica di combattimento. Esistevano infatti vari tipi di gladiatori, suddivisi in due categorie principali, a seconda che utilizzassero armi pesanti o leggere. In epoca imperiale il primo gruppo comprendeva il secutor, l’hoplomachus e il murmillo (mirmillone), accomunati dal fatto di utilizzare scudi – per questo venivano chiamati collettivamente scutarii – e spade. Del secondo gruppo, quello dei parmularii, facevano parte il retiarius (reziario), che combatteva praticamente nudo con una rete, un tridente e un pugnale; il thraex (trace), che aveva un piccolo scudo rettangolare

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GLADIATORI A POMPEI

L’affresco raffigura gli scontri avvenuti a Pompei nel 59 d.C. tra il pubblico di uno spettacolo di gladiatori. Poco dopo, il senato romano vietò eventi di questo tipo nella città campana.

e una spada ricurva di dimensioni ridotte, e il gallus, munito di scudo rettangolare, tridente e spada corta, anche se gli esperti discrepano in merito alle altre parti del suo equipaggiamento. Non era abituale che nell’arena si affrontassero gladiatori della stessa categoria. L’interesse del combattimento risiedeva proprio nel mettere a confronto tecniche e armi differenti. Una sorta di legge di compensazione prevedeva che se uno dei contendenti aveva uno strumento difensivo in più dell’avversario, quest’ultimo avrebbe avuto in cambio un’arma offensiva di cui il primo era privo. Ciò aumentava il fascino dello spettacolo agli occhi del pubblico. In ogni caso gli avversari dovevano essere di

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LOTTE NON SOLO DA UOMINI ANCHE DIVERSE DONNE .combattevano negli anfiteatri. Tra le

più famose vi era Atropos. Secondo un’iscrizione trovata a Ostia, il primo editor di gladiatrici in città fu un tale di nome Hostilinianus. Anche diversi autori antichi fanno riferimento alle gladiatrici. Petronio, per esempio, le cita nel suo Satyricon, mentre Svetonio racconta di un combattimento organizzato dall’imperatore Domiziano tra gladiatrici e nani. Esistono anche delle rappresentazioni, come il bassorilievo di Alicarnasso, risalente al I-II secolo d.C. in cui sono raffigurate due donne in battaglia. Ancora non è chiaro dove si allenassero. Secondo lo storico Mark Vesley, è possibile che la loro formazione avvenisse insieme agli adolescenti nei collegia iuvenum, dove i ragazzi fino ai 14 anni apprendevano le tecniche di combattimento.

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Tintinnabulum, figura priapica di gladiatore con campanelli. Oggetti di questo tipo erano utilizzati per scacciare il malocchio e attirare la fortuna. Museo archeologico nazionale, Napoli. SCALA, FIRENZE

Chi non combatteva con l’intensità richiesta veniva pungolato con un ferro incandescente o a colpi di frusta

regolamento. Gli appassionati andavano ad ammirare le doti acrobatiche, la preparazione, l’agilità, l’abilità nel maneggio delle armi, il coraggio e la virtù dei gladiatori. Per questo era necessario che fossero scrupolosamente rispettate alcune norme di fair play.Se per esempio uno dei contendenti perdeva accidentalmente un’arma, gli veniva concesso del tempo per recuperarla. Non c’erano riprese, il combattimento si svolgeva senza soluzione di continuità. Erano la fatica e l’equipaggiamento (pesante o leggero) di ogni gladiatore a determinare la durata dello scontro. Sulle tattiche e sulle strategie utilizzate non si sa molto. Si è conservata una frase dell’Institutio oratoria di Quintiliano che allude a quattro fasi (manus) dell’azione, costituite da finte, attacchi, parate e contrattacchi. Tutto questo richiedeva una grande abilità con la spada. Secondo Seneca, gli spettatori partecipavano al combattimento incitando i propri beniamini con grida come «uccidi, fustiga, brucia!», oppure «habet, hoc habet!» (l’ha preso!) quando un colpo raggiungeva il suo obiettivo. Il pubblico poteva intervenire anche avvisando uno dei gladiatori delle azioni del suo avversario, o persino suggerendo delle mosse, un modo per esprimere il proprio favore o entusiasmo per uno dei due contendenti.

L’attesa del verdetto Il combattimento si concludeva quando uno dei lottatori veniva ucciso o si arrendeva. Un’altra possibilità era che lo scontro si prolungasse troppo a lungo, senza che nessuno dei due fosse disposto a cedere; in questo caso, la lotta veniva interrotta ed entrambi lasciavano l’arena con la qualifica di stans missus (imbattuto). Ma una conclusione del genere non era frequente. Il gladiatore poteva esprimere la volontà di arrendersi gettando a terra lo scudo ed estendendo l’indice della mano. Allora l’arbitro metteva fine alle ostilità separando i due contendenti con il bastone, in modo analogo a quanto avviene oggi nella boxe e

BPK / SCALA, FIRENZE

AMULETO PROTETTIVO

livello simile. Le condizioni di parità dello scontro rendevano imprevedibili le scommesse e mantenevano vivo l’interesse degli spettatori. Erano i gladiatori stessi a chiedere accoppiamenti equilibrati dove l’esito fosse il più incerto possibile. Consideravano un insulto dover affrontare un avversario inferiore e meno esperto. A occuparsi di tutto questo era l’editor, che prima della sfilata iniziale decideva gli abbinamenti. Se era presente l’imperatore, poteva essere lui stesso a scegliere, o in alcuni casi anche il pubblico. Va comunque ricordato che oltre alle monomachiae (i classici scontri a due) c’erano anche lotte tra più di un avversario alla volta, così come combattimenti di massa (chiamati gregatim). Una volta decisi gli accoppiamenti, iniziava il riscaldamento (prolusio) in cui i gladiatori si scambiavano colpi con armi di legno smussate. Come avviene oggi negli sport professionistici (calcio, tennis, eccetera) questa fase preliminare era già parte dello spettacolo. Poi, mentre la prima coppia si preparava a uscire sul terreno, l’editor presentava le armi che sarebbero state utilizzate e ne dimostrava la qualità e la pericolosità. Terminato il riscaldamento, i primi due lottatori scendevano nell’arena in compagnia dell’arbitro principale (summa rudis) e di quello ausiliario (secunda rudis). I due giudici erano affiancati dai lorarii o incitatores, che avevano il compito di pungolare con una frusta (lora) o con un ferro incandescente chi non si batteva con l’intensità richiesta. A quel punto tutti salutavano l’editor con un cenno del capo, e questi dava il segnale d’inizio dello scontro. La lotta era disciplinata da un vero e proprio

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NEL PIENO DELLO SCONTRO

Questa scena di un mosaico della città tedesca di Nennig mostra un reziario che attacca con il tridente un secutor (entrambi i termini indicano un tipo di gladiatore). Questi è protetto dall’elmo e dal lungo scudo. Al centro l’arbitro con un bastone in pugno sorveglia attentamente i contendenti.

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ALL’INTERNO DEL COLOSSEO

L’immagine mostra l’arena dell’anfiteatro Flavio, dove si svolgevano i combattimenti. Sotto si può vedere l’intricato labirinto di stanze che costituivano i sotterranei del monumento. Qui gladiatori e fiere aspettavano il loro turno. MAURIZIO RELLINI / AWL IMAGES

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nelle arti marziali. In caso uno dei lottatori fosse gravemente ferito, doveva arrendersi; se non lo faceva, spettava all’arbitro fermare il combattimento. In entrambi i casi era l’editor ad avere l’ultima parola sulla vita del gladiatore sconfitto. Poteva concedergli la missio (grazia), o richiedere al vincitore di ucciderlo. Non era una scelta facile per l’editor:da un lato era lui ad avere ingaggiato i gladiatori, e la morte di uno di loro poteva costargli un risarcimento piuttosto salato; ma dall’altra doveva tenere conto dei sentimenti degli spettatori, che non sempre apprezzavano i gesti di clemenza. PRONTI PER LA LOTTA

Questo rilievo mostra un gladiatore perfettamente equipaggiato e pronto a combattere. Museo archeologico di Efeso. MAURICIO ABREU / ALAMY / ACI

Missio o iugula Dal canto suo il gladiatore sconfitto faceva del suo meglio per rimanere in piedi (stans) fino alla pronuncia del verdetto. Reggersi sulle proprie gambe serviva a dimostrare agli spettatori e all’editor che aveva combattuto dignitosamente; al contrario, andare a terra era una manifestazione di debolezza, considerata meritevole di morte. In attesa della sentenza, il vincitore si metteva in posa con la spada alzata e pronta a sferrare il colpo fatale, mentre lo sconfitto depositava l’arma a terra e univa le mani dietro la schiena. Se la maggioranza del pubblico invocava la grazia, l’editor sventolava un’estremità della toga o uno straccio (mappa) esclamando «Missio!».Se invece gli spettatori propendevano per l’uccisione, l’impresario urlava «Iugula!» (sgozza) e, con il pugno chiuso si faceva scorrere il pollice sul collo, da sinistra a destra, simulando l’atto di tagliare la gola a qualcuno (il gesto del pollice rivolto verso il basso, reso popolare dal cinema, è dovuto a un’errata traduzione dell’espressione latina pollice verso, che in realtà significa “con il pollice esteso [verso la giugulare]”).

In attesa del verdetto, il vincitore si metteva in posa sollevando la spada e preparandosi ad assestare il colpo di grazia

SHUTTERSTOCK

Se il combattimento avveniva a Roma ed erano presenti le vestali (le sacerdotesse di Vesta), spettava a loro decretare la morte o la salvezza del gladiatore sconfitto in base all’opinione prevalente tra il pubblico. Secondo lo specialista francese Georges Ville, nel I secolo d.C. il dieci per cento dei gladiatori moriva in combattimento. La grazia era negata a circa un venti per cento degli sconfitti. Nel corso del II e del III secolo la mortalità registrò un incremento: a essere ucciso nel corso della lotta era il venticinque per cento dei gladiatori, mentre la percentuale di vinti che si salvavano era scesa al cinquanta per cento. Secondo alcune ipotesi, il motivo di questo cambiamento è da ricercarsi in un evento verificatosi nell’anno 90,

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TEATRO DE EFESO

Questo edificio con una capacità di 25mila spettatori era usato non solo per le rappresentazioni teatrali ma anche per gli spettacoli di gladiatori e le lotte tra animali.

durante il regno di Domiziano, quando un lottatore vittorioso si rifiutò di giustiziare l’avversario sconfitto. A partire da quel momento s’impose la consuetudine che a decidere il destino dei vinti fossero i vincitori stessi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questi ultimi preferivano in genere eliminare l’avversario, il che spiegherebbe l’incrementò della mortalità. Tuttavia la grazia non dipendeva solo da come i contendenti si erano battuti. I lottatori più anziani e famosi avevano più probabilità di ottenere la missio in caso di resa. La maggior parte dei gladiatori moriva prima del decimo combattimento. Chi raggiungeva un simile traguardo diventava una celebrità e si conquistava ammiratori pronti a chie-

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UN CIMITERO DI GLADIATORI IN UNA FOSSA VICINA AL TEATRO di Efeso è stato identificato un cimitero di gladiatori. Sono stati trovati i resti di 68 individui: 67 uomini e una donna. Tutti furono sepolti lì nel II secolo d.C. I maschi avevano tra i 20 e i 30 anni e un’altezza media di 1,68 m, che anche all’epoca era normale. Dal canto suo, la donna era morta tra i 45 e i 55 anni ed era alta 1,59. Nella stessa fossa è stata trovata una lapide con il nome di un lanista, o allenatore, di nome Euxenius, di 55 anni di età. L’area scavata è di appena una ventina di metri quadrati, e nonostante nessuno degli scheletri fosse completo, i crani, i denti e le ossa delle braccia e delle gambe ritrovati sono stati sufficienti per ricostruire l’alimentazione e le condizioni di lavoro di queste persone.

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LA PANOPLIA DI UN GLADIATORE in questa pagina sono visibili vari elementi protettivi – scudi, elmi, schinieri e spalliere – oltre ad alcune spade utilizzate dai gladiatori che si allenavano nel ludus (palestra) di Pompei e combattevano nell’anfiteatro cittadino. I reperti sono conservati presso il Museo archeologico nazionale di Napoli.

Strigile, spatola di bronzo utilizzata per ripulire il corpo del gladiatore dall’olio e dalla sabbia. Sopra, vaso di bronzo per contenere l’olio.

Gladi (spade corte), da cui deriva il termine “gladiatore”. Sono di origine ispanica ed erano usati anche dalle legioni.

Scudo circolare da gladiatore. Scudi di questo tipo erano parte dell’equipaggiamento dell’hoplomachus, un lottatore dotato di armi pesanti.

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Ocreae (schinieri). Servivano a proteggere la parte inferiore delle gambe ed erano usati da vari tipi di gladiatori.

Galerus. Protezione di bronzo per la spalla sinistra indossata da alcuni gladiatori come il reziario. Questo ha una decorazione marina.

Elmo. Quello visibile nell’immagine è decorato a rilievo e sormontato da una cresta, ed era dato in dotazione ai mirmilloni.

FOTO: MARCO ANSALONI

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IL VINCITORE E IL VINTO

Questo rilievo commemora le vittorie di un ignoto gladiatore contro i suoi avversari. Nella scena superiore appare il nome dello sconfitto, Improbus. MARCO ANSALONI

derne la grazia nel caso fosse stato sconfitto. Se il verdetto era favorevole, il vinto lasciava l’arena sulle proprie gambe e veniva portato in infermeria (sanitarium) per farsi curare le ferite. In caso di decisione opposta, doveva offrire la gola al vincitore, che lo sgozzava con un taglio netto. Se chi si arrendeva non riusciva più a muoversi, e quindi neppure a offrire la gola, l’avversario gli affondava la spada accanto all’incavo della scapola sinistra, trafiggendogli il cuore. A quel punto entravano nell’arena due inservienti che si occupavano del cadavere. Uno dei due era travestito da Mercurio, il dio psicopompo, cioè incaricato di guidare le anime dei defunti (con una tunica sopra le ginocchia e un copricapo alato) e l’altro da Dis Pater, una divinità degli inferi. Mercurio aveva in mano un ferro rovente con cui marchiava lo sconfitto per verificare che fosse davvero morto. L’apparizione di questi personaggi nell’arena era indubbiamente uno dei momenti più attesi. Mentre si avvicinavano al defunto, i due facevano battute e gesti per il divertimento del pubblico. Se al contatto con il metallo incandescente il gladiatore a terra si muoveva, gli inservienti lo colpivano ripetutamente alla testa con un martello fino a quando non dava più segni di vita. In caso contrario, gli infliggevano solo tre colpi. Quindi il corpo veniva caricato su una lettiga e portato simbolicamente all’Averno, cioè nell’oltretomba. A quel punto i due personaggi mascherati lasciavano l’anfiteatro attraverso la porta Libitinensis e depositavano il cadavere nello spoliarium, uno spazio dove veniva privato delle vesti e delle protezioni. Ma prima gli inservienti praticavano un nuovo taglio alla gola del gladiatore per certificarne uffi-

Nello spoliarium si procedeva a togliere armi e vestiti al gladiatore morto. Il suo sangue veniva imbottigliato e poi venduto

cialmente la morte. Quindi gli estraevano il sangue e lo imbottigliavano in delle ampolle, che poi venivano messe in vendita. Si credeva infatti che il sangue dei lottatori fosse un rimedio contro la sterilità, l’impotenza, l’epilessia e molti altri disturbi. Il commercio di queste ampolle, così come delle armi o di altri oggetti appartenuti ai gladiatori, costituiva un affare molto redditizio.

Una degna sepoltura Una volta spogliato, il corpo del lottatore veniva consegnato a chi ne faceva richiesta, di solito la moglie, un parente o un membro della sua familia gladiatoria.Questa persona s’incaricava del funerale e della sepoltura. Se c’erano più morti appartenenti a una

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stessa familia, le loro esequie si svolgevano nello stesso luogo in contemporanea, com’è chiaramente testimoniato dai ritrovamenti del cimitero di Efeso. Se invece nessuno ne richiedeva il corpo, il defunto veniva sepolto dal collegio dei gladiatori della città dove era stato ucciso, o da qualche ricco ammiratore. Il destino del vincitore era molto diverso. Ancora nell’arena si toglieva l’elmo e salutava il pubblico con il tipico gesto con cui i gladiatori celebravano la vittoria: alzando il braccio con il gladius (spada) in pugno. Quindi riceveva una veste viola, la palma della vittoria, una corona d’alloro e un piatto d’argento. A quel punto faceva un giro dell’arena per raccogliere gli applausi dei tifosi e i premi che questi gli lanciavano da-

gli spalti (monete, regali, ecc.). Era prevista anche una ricompensa in denaro messa in palio dall’editor. Infine, al termine della giornata, il vincitore prendeva parte ai festeggiamenti pubblici in onore dei gladiatori vittoriosi, che ricevevano l’omaggio dei loro ammiratori. MAURICIO PASTOR MUÑOZ UNIVERSITÀ DI GRANADA

Per saperne di più

SAGGI

POLLICE VERSO

In questo dipinto di Jean-Léon Gérôme il pubblico chiede la morte dello sconfitto girando il pollice verso il basso, un gesto che i romani in realtà non facevano. 1872. Phoenix Art Gallery. BRIDGEMAN / ACI

Morte nell’arena. Storia e leggenda dei gladiatori Federica Guidi. Mondadori, Milano, 2006. Gladiatori: sangue e spettacolo nell’antica Roma Konstantin Nossov. LEG, Gorizia, 2010. Un giorno al Colosseo. Il mondo dei gladiatori Fik Meijer. Laterza, Roma-Bari, 2006.

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UN GIORNO AI GIOCHI DI LEPTIS MAGNA

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MARCO ANSALONI

Gli scavi effettuati nel 1914 dall’archeologo Salvatore Aurigemma in una villa situata a 36 chilometri dall’antica città romana di Leptis Magna, nell’attuale Libia, hanno portato alla luce uno splendido mosaico, che ha al centro delle immagini geometriche e delle rappresentazioni di pesci ed è circondato da una cornice raffigurante un gioco gladiatorio. Qui accanto se ne possono vedere alcune scene. Il mosaico completo è esposto in verticale in una sala del Museo archeologico di Tripoli.

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ELMO DA GLADIATORE MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.

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1 ORCHESTRA

2 EQUITES

Accompagna le evoluzioni dei lottatori. Due persone sedute suonano dei cornua. Sopra di loro è stata preparata una cassa per accogliere il gladiatore defunto.

Sono gladiatori che iniziano a combattere a cavallo. Il vincitore cerca di finire lo sconfitto, ma l’arbitro glielo impedisce in attesa della decisione dell’editor.

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2 2 3

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3 FERITO

4 TRACE E MIRMILLONE

5 CONCLUSIONE

6 LETTIGA

Un reziario ferito alza un dito per chiedere all’editor d’interrompere il combattimento. Viene inseguito da un secutor munito di armi pesanti.

Un trace, a sinistra, affronta un mirmillone: il primo ha una spada ricurva (sica) e un piccolo scudo rettangolare (parma). Il secondo indossa degli schinieri (ocreae).

Fine di un combattimento tra un hoplomachus (sulla sinistra) e un mirmillone. In attesa della decisione dell’editor, l’arbitro li separa con un bastone.

Il gladiatore sulla sinistra pugnala l’avversario facendolo sanguinare. Sopra quest’ultimo c’è il torus Libitinae, la lettiga per trasportare i cadaveri.

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IL RE CASTO CHE S’ISPIRAVA A CARLO MAGNO

ALFONSO II

Dopo l’ascesa al trono delle Asturie nel 791 d.C., Alfonso II stabilì la capitale a Oviedo e la trasformò in una splendida corte seguendo l’esempio del suo contemporaneo Carlo Magno

OVIEDO, CORTE REGIA

Quest’edificio era in origine un palazzo che Ramiro I fece costruire nei dintorni di Oviedo poco dopo essere salito sul trono nell’842. Più tardi sarebbe divenuto la chiesa di Santa María del Naranco. REINHARD SCHMID / FOTOTECA 9X12

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LA GROTTA DI COVADONGA

La leggenda associa il luogo a una battaglia combattuta da Pelayo contro i musulmani nel 718. Nel XII secolo vi si stabilì una comunità monastica. SHUTTERSTOCK

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S

Tuttavia la formazione del regno delle Asturie fu un processo ben più complicato. Sin dalla fine dell’impero romano e durante il dominio visigoto (418-711), in molti territori dell’Hispania il potere si concentrò nelle mani di gruppi regionali o locali. E, sebbene questi affermassero di agire per conto dello stato, si comportavano in modo indipendente, sulla base di rapporti clientelari. Il successo della conquista musulmana fu possibile grazie alla capacità degli invasori di giungere a un accordo con tali gruppi che, pur di vedere rispettato il proprio status, non trovarono inconvenienti nell’accettare la nuova autorità e la sua religione. Fu così, per esempio, che nel 714 Munuza, leader del popolo di religione musulmana degli imazighen, divenne governatore di Gijón approfittando dei contrasti tra i clan della zona. Negli anni seguenti quei gruppi si coalizzarono per resistere agli invasori, ma ciò non comportò la creazione di una monarchia vera e propria. Pelayo, a cui la tradizione attribuisce la prima vittoria contro i musulmani a Covadonga (718), non era più che un capo locale. Quanto ad Alfonso I (739-757), venne eletto e accettato come primus inter pares,

ovvero allo stesso livello degli altri suoi simili. Il potere di tali sovrani dipendeva perciò dalla loro forza e dall’insuccesso degli intrighi degli altri aspiranti. Durante l’VIII secolo i re asturiani trasferirono la capitale diverse volte, perché ognuno si spostava sul territorio a lui più devoto. La situazione cambiò soltanto durante il regno di Alfonso II (791-842).

Il re casto Nato verso il 760, Alfonso II era figlio del re Fruela I e di una principessa vascona chiamata Munia. Il padre morì quando Alfonso era ancora un bambino. Venne allora preso in carico dalla zia Adosinda, sposa del re Silo. Alla morte di Silo, nel 783, Alfonso fu proclamato re con l’appoggio della zia, ma un altro zio, Mauregato, riuscì a impossessarsi del trono e Alfonso dovette fuggire nelle terre della famiglia materna. A Mauregato successe Bermudo I, che dovette abdicare nel 791 dopo una pesante sconfitta contro i musulmani nella battaglia del fiume Burbia. In quel momento Alfonso tornò nelle Asturie per essere rieletto re, stavolta definitiva-

C R O N O LO G I A

739

791

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PRIMI RE DELLE ASTURIE

Sale al trono il primo re eletto delle Asturie, Alfonso I, genero di Pelayo.

Ha inizio il regno di Alfonso II, che ricostruisce Oviedo e ne fa la capitale.

Alfonso II muore senza discendenti. Gli succede al trono il cugino Ramiro I.

Alla morte di Alfonso III, il regno si divide in quelli di Asturie, León e Galizia.

TARGA SUL PALAZZO DI ALFONSO III A OVIEDO.

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AKG / ALBUM

i è soliti credere che, dopo l’invasione della penisola iberica da parte dei musulmani nel 711 e il crollo della monarchia visigota, si salvò solo la fascia di terra che si affaccia sul mar Cantabrico. Lì sarebbe subito sorto un nuovo stato, destinato a combattere contro l’invasore e a dare inizio al fenomeno della Reconquista.

ALFONSO II DELLE ASTURIE

In questa miniatura di un codice del XII secolo il re casto compare seduto sul trono. Cattedrale di Santiago de Compostela.

ORONOZ / ALBUM

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MINIATURA

di un codice del Commentarium in Apocalypsin (Commenti all’Apocalisse) di Beato di Liébana. XI secolo. Biblioteca nacional, Madrid.

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Pravia Oviedo

ORONOZ / ALBUM

Il fondatore del regno Alfonso voleva costituire una monarchia forte e rispettata, libera dagli intrighi di palazzo. Il nuovo stato si sarebbe dovuto poggiare su quattro fondamenti: potere militare, amministrazione efficace, affermazione dell’immagine del sovrano – in tutto ciò Carlo Magno era senz’altro un modello – e benedizione divina e della Chiesa, secondo un cammino bramato da Beato. Alfonso II portò a termine più campagne vittoriose contro i musulmani. Respinse diverse invasioni andaluse ed effettuò perfino un’incursione in cui saccheggiò Lisbona, mandando poi parte del bottino a Carlo Magno. All’interno del regno dovette affrontare alcuni nobili ribelli. Organizzò la curia affidandosi a magnati e a uomini di Chiesa, e si dotò di una cancelleria che registrasse ogni evento. In questo modo il sovrano godeva

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Lugo Astorga

Tui Braga

Cangas de Onís

REGNO DELLE ASTURIE

Miranda de Ebro Amaya

León

Chaves Zamora

Simancas Domini di Alfonso II delle Asturie Località riconquistate (VIII-IX secolo)

CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

mente. Il suo governo, durato mezzo secolo, fu lungo e fecondo. Durante tale periodo Alfonso consolidò la monarchia, e vennero forgiate le basi di un regno che s’ingrandì gradualmente. Il sovrano seguì l’esempio di Carlo Magno, con cui mantenne strette relazioni diplomatiche. Si dice persino che la moglie, Berta, appartenesse alla casa reale franca, anche se i dubbi su questa unione non sono pochi. Nel progetto politico di Alfonso giocò un ruolo fondamentale Beato. Per molti si trattava di un monaco proveniente da San Martín de Turieno, a Liébana, una valle a est del regno, mentre altri sostengono che potesse essere un cristiano emigrato da al-Andalus, la Spagna musulmana. Beato trascorse una vita lontana dal chiostro, al quale preferì la corte e i viaggi. Si sa che fu precettore di Adosinda, la zia protettrice di Alfonso II. Fu anche uno dei capi dell’ortodossia cattolica contro l’eresia adozionista promossa da Elipando, arcivescovo di Toledo. Dietro tale scontro efferato s’intuisce l’aspirazione a fondare una Chiesa “nazionale” asturiana, affrancata dall’obbedienza all’antica capitale visigota, che in quel tempo era sottomessa agli emiri di al-Andalus.

co Oceano Atlanti

Compostela

Mar Cantabrico

E M I R AT O D I C O R D O VA

IL REGNO DIETRO I MONTI DURANTE L’VIII SECOLO il dominio effettivo dei sovrani si li-

mitava alle valli asturiane, anche se in teoria il loro “regno” si estendeva dalla Galizia alla Vasconia (la regione che oggi corrisponde ai Paesi Baschi). Alfonso II riuscì a controllare l’intero territorio, però non si spinse oltre le montagne. L’avrebbero fatto Ordoño I e, soprattutto, Alfonso III, che fece costruire una linea di fortezze lungo il fiume Duero.

di un controllo maggiore sulle alte cariche. Seppe inoltre potenziare una politica di accordi con la nobiltà e guadagnarsi le simpatie del clero tramite la costruzione di numerosi monasteri, la promozione di una liturgia solenne e la fondazione – così crede la maggior parte degli studiosi – del vescovato di Oviedo. Perfino la sua vita personale, «gloriosa, casta, pudica, sobria e immacolata», come afferma la Crónica de Alfonso III, venne recepita quale modello di virtù cristiana. Ciò gli valse il soprannome di “casto”, con cui è passato alla storia. Sempre durante il suo regno, verso l’830, venne scoperta la tomba dell’apostolo Santiago, che un inno

RAMIRO I DELLE ASTURIE

La statua di Gerardo Zaragoza adorna dal 1942 il giardino dei Re nella città di Oviedo. ORONOZ / ALBUM

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SAN JULIÁN DE LOS PRADOS

Costruita durante il regno di Alfonso II, la chiesa conserva buona parte degli affreschi originali, considerati l’ultima eredità dell’antichità classica. ORONOZ / ALBUM

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BASILICA DI SANTULLANO

Anche con tale nome è conosciuta la chiesa di San Julián de los Prados, l’unica che si mantiene integra dal regno di Alfonso II delle Asturie. Venne restaurata agli inizi del XX secolo. 86 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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ALAMY / ACI

Splendore di Oviedo Alfonso II non solo riedificò la nuova chiesa, ma pensò anche di creare la sua nuova città. Un simile impegno è riassunto in una delle versioni della Crónica de Alfonso III: «Questi [Alfonso II] fu il primo a stabilire il trono a Oviedo. Costruì una basilica in onore del Nostro Redentore e Salvatore Gesù Cristo, d’ammirabile fattura, e che per questo è ora chiamata chiesa di San Salvador. Qui aggiunse [...] sei altari che contengono le reliquie di tutti gli apostoli». La cronaca narra di altri progetti architettonici: «Eresse anche, in onore della sempre Vergine Santa Maria, un tempio accanto alla chiesa prima nominata [...] Nella parte occidentale di tale venerabile edificio alzò un’altra chiesa per il panteon reale. E inoltre eresse in memoria di San Tirso una terza basilica, la cui bellezza è più facile da ammirare che da elogiare nelle parole di uno scrittore erudito. E, a circa uno stadio di distanza del palazzo reale, fece edificare un tempio consacrato al martire San Julián [...] decorato con pregevole gusto». Alfonso II non fece però innalzare solo chiese: «Costruì anche palazzi regi, bagni, triclini [sale di ricevimento e cerimonia],

ORONOZ / ALBUM

attribuito a Beato dichiarava patrono della Spagna. Lo stesso Alfonso si premurò di finanziare la prima basilica eretta a Compostela sul nuovo “luogo santo”. Con non pochi sforzi il sovrano s’impegnò inoltre a creare un’immagine brillante della monarchia, cui diede finalmente una capitale stabile, Oviedo. Il sito originario della città si trovava su una collina situata lungo uno snodo viario romano. In epoca imperiale sembra che sulla cima fosse già presente un luogo di culto delle acque. Lì, «in questo luogo santo... che chiamano Oveto», l’abate Fromestano e il nipote Máximo avevano fatto costruire dal 761 il monastero di San Vicente, attorno al quale si erano stabiliti i nuovi abitanti. Poco dopo il re Fruela aveva edificato per questi coloni la chiesa di San Salvador, che sarebbe stata distrutta dagli arabi andalusi durante le incursioni del 794-795.

GLI AFFRESCHI DI SAN JULIÁN LE PITTURE MURALI della chiesa di San Julián de los Prados

(sopra, in un disegno di Magín Berenguer) restituiscono alla perfezione l’ideale politico-religioso di Alfonso II. La struttura geometrica è simbolo di perfezione; il colore e i giochi di luce indicano il potere, e l’articolazione su tre livelli, con ricche architetture, ma senza rappresentazioni figurate, evoca la Gerusalemme celeste descritta nel libro dell’Apocalisse.

pretori [per il governo e l’amministrazione], tetti e cupole, e ogni sorta di edificio venne realizzato e decorato in grande bellezza». La maggioranza di queste strutture è scomparsa, come la basilica di San Salvador, sostituita dalla cattedrale gotica. Opera dell’architetto di corte Rioda, doveva essere straordinaria con la sua muraglia, la torre e le imponenti dimensioni: più di quaranta metri di lunghezza e circa trenta di larghezza. Di altri monumenti, tra cui la chiesa di San Tirso, rimane qualche rovina. Si mantiene integra unicamente la sontuosa chiesa di San Julián de los Prados, le cui pitture murali esprimono la gloria a lungo vagheggiata da Alfonso. Lo sottoliZ / ALB ORONO

SCRIGNO DELLE AGATE

Lo scrigno di legno, con lamine in oro sbalzato e lastre di agata, era una donazione di Alfonso III e fa parte del tesoro della Cámara Santa di Oviedo.

UM

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La croce degli angeli narrata nell’Historia silense, Alfonso II voleva regalare una croce d’oro e pietre preziose alla chiesa di San Salvador di Oviedo. Un giorno gli apparvero due angeli dalle sembianze di

SECONDO UNA LEGGENDA

pellegrini, che si presentarono come orafi e si offrirono di forgiare la croce. Lavorarono rapidamente e scomparvero di colpo, lasciando un gioiello «che emanava luce come il sole. Da lì si dedusse che era un’opera

divina, e non umana». Correva l’anno 808 e gli angeli dovevano essere artigiani dell’Italia settentrionale, forse mandati da Carlo Magno: per lo stile, la croce somiglia più ai modelli lombardi che a quelli visigoti.

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REMEDIOS VALLS / AGE FOTOSTOCK

nea la Crónica albeldense, ultimata nell’883: «Abbellì con oro e argento tutte queste case di Dio, con colonne e archi». Il sovrano ne decorò molte con gemme estratte da vecchi edifici romani. Certi studiosi gli attribuiscono infine la Cámara santa – in origine era la chiesa di San Miguel – e la cripta di Santa Leocadia, che altri considerano opera di Alfonso III (866-910). Fu così che venne plasmata una nuova capitale, sede reale ed ecclesiastica costellata di edifici superbi, disposti sulla cima di una collina ben protetta. La loro monumentalità era esaltata dalle umili capanne sorte lì vicino: la povera gente, che a mano a mano popolava i pendii della capitale, si stabilì in baracche alzate con pali di legno o, probabilmente, in case simili alla tipica palloza asturiana (in pietra e con tetto conico fatto di vegetali).

LA CÁMARA SANTA IN QUESTO LOCALE all’interno dell’attuale cattedrale di San Salvador di Oviedo sono conservati i più preziosi e sacri tesori del regno delle Asturie. Tra questi risalta l’Arca santa (in primo piano nella foto). Secondo la leggenda, giunse da Gerusalemme piena di reliquie. Per questo la Cámara santa divenne una tappa obbligata per i pellegrini di Compostela. Oggi invece si sa che venne realizzata negli ultimi anni dell’XI secolo.

AGE FOTOSTOCK

La metamorfosi di un regno Nel complesso Alfonso II riuscì in quanto si era prefissato. Dal punto di vista territoriale, si limitò a contenere con successo le incursioni musulmane, e il suo maggiore trionfo fu la graduale trasformazione di una società quasi tribale in uno stato organizzato e unito, in linea di continuità con gli antichi re visigoti. Lo rimarca ancora una volta la Crónica albeldense: «Instaurò a Oviedo, come se fosse Toledo, l’ordine dei goti, sia nella Chiesa sia nel Palazzo». La propaganda artistica che accompagnò tale processo risente delle aspirazioni del monarca, poi portate avanti dai suoi successori. Dopo la morte di Alfonso II salì al trono l’“usurpatore” Nepoziano (842), che venne subito sconfitto dal “legittimo” Ramiro I, fondatore del palazzo di Santa María del Naranco e della chiesa di San Miguel de Lillo. Afferma la Crónica albeldense: «[Ramiro] fu bilancia di giustizia, ai ladri tolse gli occhi e pose fine al fuoco degli stregoni». Nell’850 gli successe il figlio Ordoño I, il primo monarca in linea ereditaria. Questi conquistò León, affacciandosi così alla Meseta. Il suo impegno venne moltiplicato da Alfonso III il Grande (866-910), che

sicuramente costruì a Oviedo una nuova muraglia, un nuovo palazzo e un castello. Ciononostante, conferì un protagonismo crescente a León, spostando pian piano verso sud il peso della corte. Fu allora che le valli del nord cominciarono a sprofondare in un lungo letargo, sempre più marginali in un regno sempre più forte. JAIME NUÑO DIRETTORE DEL CENTRO DI STUDI DEL ROMANICO DELLA FONDAZIONE SANTA MARÍA LA REAL

Per saperne di più

SAGGI

Storia della Spagna Pierre Vilar. Garzanti, Milano, 1977. Fra cristiani e musulmani Manuel Vaqueiro Piñeiro. Mondadori, Milano, 2008. Culture in conflitto Bernard Lewis. Donzelli, Roma, 1997. INTERNET

Mirabilia ovetensia mirabiliaovetensia.com

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I L M A U S O L E O D I U N ’ I M P E R AT R I C E

TAJ MAHAL Agli inizi del XVII secolo l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire in onore della sua sposa prediletta, Mumtaz Mahal, un magnifico mausoleo che è divenuto un’icona dell’architettura indiana

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LUCE E COLORE

Il marmo del Taj Mahal cambia di tonalità e colore a seconda della luce che si posa sul monumento. Nell’immagine, scattata all’alba, in certe zone il bianco sembra rosato. MICHELE FALZONE / AWL IMAGES

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Agra

BRIDGEMAN / ACI

L’INDIA NEL 1648 MAPPA DELL’IMPERO MOGHUL REALIZZATA DAI CARTOGRAFI WILLEM E JOAN BLAEU.

I

l Taj Mahal è una delle opere d’arte più note al mondo e uno degli edifici più emblematici della dinastia degli imperatori indiani moghul. È un maestoso mausoleo, nonché luogo di pellegrinaggio, e venne eretto per volere dell’imperatore Shah Jahan, il quinto della dinastia dei Grandi Moghul, affinché accogliesse il corpo della moglie defunta Mumtaz Mahal.

Il costruttore del mausoleo Shah Jahan aveva gusti raffinati e fu un grande mecenate delle arti. S’interessava alla gemmologia e portò avanti l’intenso lavoro dei miniaturisti di corte,

C R O N O LO G I A

SPINELLO INCISO CON I NOMI DEGLI IMPERATORI MOGHUL, TRA CUI SHAH JAHAN.

IL REGNO DI SHAH JAHAN

divenuti famosi in tutto il mondo per le l’elaborata e ricca decorazione ai margini delle pitture e per la maestria nei motivi floreali. Tra i pittori di corte acquistarono notevole importanza il ritratto femminile e la rappresentazione di harem, di unioni tra amanti e d’incontri notturni, intrisi di una forte carica erotica. L’architettura era una delle grandi passioni di Shah Jahan e vi si dedicò intensamente continuando la magnifica tradizione dei suoi predecessori. Fu lui a ultimare il forte Rosso di Agra e il forte di Lahore, e a far costruire il forte Rosso di Delhi, oltre alle moschee del Venerdì presenti in queste due ultime città.

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In India ha inizio la dinastia moghul con Babur, il cui impero aveva la capitale a Kabul e si estendeva sino a Fergana, in Uzbekistan.

Muore l’imperatore Jahangir e sale al trono Shah Jahan, nipote del grande imperatore Akbar (15561605), il vero promotore dell’impero moghul in India.

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VISTA IMPONENTE

Dopo aver varcato il recinto del Taj Mahal, si può godere di un’impressionante prospettiva della facciata principale del mausoleo, che si riflette nelle acque dello stagno. GIORDANO CIPRIANI / FOTOTECA 9X12

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Muore Mumtaz Mahal, la “prescelta o perla del palazzo”, moglie adorata e favorita di Shah Jahan. Si spegne nel dare alla luce il quattordicesimo figlio.

A Delhi Shah Jahan fonda la città di Shahjahanabad, con il forte Rosso e Jama Masijd, la moschea del Venerdì.

Nella città di Agra viene ultimato il Taj Mahal, che a partire da allora diviene una delle opere più conosciute e ammirate dell’India.

Il terzo figlio di Shah Jahan, Aurangzeb, prende il potere e rinchiude il padre a vita nel forte Rosso di Agra, dove morirà nel 1666.

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La perla del palazzo IL TAJ MAHAL è uno dei pochi monumenti della storia consacrati all’amore. Venne costruito per accogliere le spoglie di Arjumand Bano Begam, nota come Mumtaz Mahal, la “prescelta o perla del palazzo”. La donna, che rivestì il ruolo d’imperatrice consorte, non fu mai sposa ufficiale del monarca, anche se dai 19 anni in poi fu la favorita del suo harem. La leggenda narra che la giovane accompagnava l’imperatore in ogni sua campagna militare, e che questi non le permetteva di scostarsi da lui. Nei 19 anni di convivenza ebbero 14 figli. Ciò significa che l’imperatore le dovette dedicare un’attenzione particolare, considerata la mole di obblighi e il gran numero di donne presenti nell’harem.

MUMTAZ MAHAL A CAVALLO E CON UNA LANCIA DURANTE LA CACCIA A UNA TIGRE. EDINBURGH UNIVERSITY LIBRARY. BRIDGEMAN / ACI

IL GRANDE IMPERATORE MOGHUL Akbar, nonno di Shah Jahan, è considerato il vero artefice dell’impero moghul. Fu un uomo estremamente raffinato e amante delle arti. Moneta in argento di Agra, dell’epoca di Akbar.

Il gioiello di Agra Non è noto il nome dell’architetto che progettò e diresse i lavori, anche se molti indicano come possibile candidato Ustad Ahmad Lahawri. Inoltre le cronache dell’epoca fanno allusione a vari personaggi che vi giocarono un ruolo rilevante. Tra questi compaiono Ismail Khan, dalla Turchia; Amanat Khan, da Shiraz, in Iran, e Makramat Khan e Mir Abdul-Karim, anche loro provenienti da Shiraz. Furono molti pure gli artigiani giunti da diverse parti del globo per occuparsi delle decorazioni. Stando a quanto racconta il viaggiatore francese Jean-Baptiste Tavernier, la rea-

lizzazione del Taj Mahal coinvolse più di 20mila manovali. Costruito nel purissimo marmo bianco delle cave di Makrana, richiese vent’anni di fatiche, dal 1632 al 1652, oltre a un immenso investimento umano ed economico, che avrebbe rovinato le casse dell’impero moghul. Ciononostante, il risultato è uno dei capolavori dell’arte universale e un simbolo dell’India. Il Taj Mahal si erge sulle sponde del fiume Yamuna ad Agra, un’importante città nello stato indiano dell’Uttar Pradesh. Incorniciato da un bel giardino islamico irrigato da canali, è composto da un complesso di edifici distribuiti su una superficie rettangolare di diciassette ettari, delimitata da un’imponente muraglia disposta perpendicolarmente rispetto allo Yamuna. Si accede all’area tramite una porta monumentale alta tre piani dalla tipica forma a iwan (in questo caso il termine, che ha varie accezioni archiettoniche, indica il portale di facciata), in arenaria rossa e marmo, che si trova all’estremità opposta del fiume. La tomba non è visibile dall’esterno. Eppure, una volta superata la grande porta

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Ciononostante la sua più celebre opera resta il Taj Mahal, monumento ammirato dal mondo intero non soltanto per le dimensioni smisurate, ma in particolare per il suo equilibrio, per la perfetta armonia delle parti e perché, sebbene imponente, appare leggiadro e delicato.

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IL FORTE ROSSO

La fortezza venne ultimata durante il regno di Shah Jahan, che qui trascorse prigioniero gli ultimi anni. Deve il suo nome al colore dell’arenaria con cui fu costruita. LUIGI VACARELLA / FOTOTECA 9X12

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CENOTAFIO

I monumenti funerari di Mumtaz Mahal (nell’immagine) e di Shah Jahan sono eretti in marmo bianco. Li decorano motivi floreali e scritte, con incastonature di gemme. GETTY IMAGES

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ne di caravanserraglio, ovvero di ostello per i pellegrini. Le due costruzioni sono sormontate da due grandi chhatri, una sorta di baldacchini o padiglioni con cupola, molto frequenti nell’architettura indiana. Il mausoleo è un’imponente massa cubica di sessantadue metri per sessantadue, smussata negli angoli così da avere una struttura ottagonale. È collocato su una piattaforma alta circa sette metri e larga e lunga 104 metri. Il basamento presenta, ai quattro angoli, altrettanti minareti di cinquantadue metri d’altezza. La struttura si apre con quattro iwan (in questo caso il termine indica gli archi) in corrispondenza dei quattro punti cardinali ed è coronata da una maestosa cupola centrale a doppia calotta con quattro chhatri. Lo spazio interno accoglie i cenotafi della coppia reale, cioè tombe vuote che riproducono quelle situate nella camera sotterranea; è anch’esso ottagonale e si divide in quattro sale, sempre ottagonali.

Ogni cosa al suo posto

UNA PORTA MONUMENTALE

L’iwan (portale ad arco) che permette l’accesso alla zona del Taj Mahal ha addirittura tre piani. Sopra, il monumento in una litografia. BRIDGEMAN / ACI

ottagonale, la particolare disposizione della struttura permette una spettacolare vista panoramica del monumento e del suo riflesso nelle acque dello stagno che si trova al centro del giardino. Proprio in fondo a quest’ultimo si eleva la piattaforma rettangolare che fa le veci di una terrazza sul fiume. Sopra vi sono costruiti tre palazzi: il principale, al centro, è la vera e propria tomba, ubicata perciò alla fine del giardino e non, come di solito avviene nei mausolei indo-persiani, al centro dello stesso. A destra e a sinistra della tomba sono collocati due edifici gemelli fatti di arenaria rossa: la moschea, orientata verso La Mecca, e lo jawab (letteralmente, eco della moschea), che compie la funzio-

Il Taj Mahal è un edificio unico nella storia dell’arte grazie all’armonia delle proporzioni e alla bellezza e maestria delle decorazioni, che si sposano con grazia al mausoleo. Collocati alle quattro estremità del basamento e leggermente inclinati, i minareti sembrano sostenere il peso dell’edificio nel loro punto di equilibrio. In tal modo creano un effetto di unità, dando la sensazione che nessun elemento potrebbe essere altrove rispetto al posto che occupa. Il marmo, poi, con la sua trasparenza e l’aspetto etereo, pare rendere il Taj Mahal quasi incorporeo, e in base alla luminosità si tinge di tonalità diverse, così da creare incantevoli giochi di luce. A mezzogiorno l’edificio si mostra di un bianco nitido, all’alba di una sfumatura rosata e al riflesso della luna traslucido. Tra la piattaforma e la porta d’ingresso si estende un ampio giardino largo tre-

Il Taj Mahal è un edificio unico nella storia dell’arte per la squisita armonia delle sue proporzioni COPPA DI SHAH JAHAN. VICTORIA AND ALBERT MUSEUM, LONDRA. PRISMA / ALBUM

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INGRESSO AL MAUSOLEO

Le quattro porte d’accesso all’interno del mausoleo sono decorate con motivi floreali e scritte. Nell’immagine si può apprezzare la tonalità ocra del marmo per via della luce al tramonto. MAURIZIO RELLINI / AWL IMAGES

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SIMMETRIA PERFETTA

Il Taj Mahal ha a fianco a sé la moschea (a sinistra) e lo jawab. Il giardino è diviso in quattro quadrati identici da due canali che convergono nello stagno centrale, equidistante dal mausoleo e dall’ingresso. MICHELE FALZONE / AWL IMAGES

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Leggende del Taj Mahal

1 INCORONAZIONE DI SHAH JAHAN IN UN’ILLUSTRAZIONE DELLA CRONACA UFFICIALE DEL SUO IMPERO, IL PADSHAHNAMA.

LA STORIA del Taj Mahal è avvolta dalla leggenda e dal romanticismo, e ha fatto sognare e immaginare moltissimi racconti ai visitatori di tutte le epoche. Una di queste leggende narra che Shah Jahan volesse erigere per sé, di fronte all’edificio, un altro monumento, identico ma costruito in marmo nero e unito al Taj Mahal da un ponte sul fiume. La leggenda si basa sulla collocazione asimmetrica dei due cenotafi, il che porta a credere che quello dell’imperatore venne aggiunto d’improvviso. L’aspetto romantico della storia aumenta perché, e questo dato è certo, Shah Jahan venne destituito dal figlio Aurangzeb e rinchiuso in una torre del forte Rosso, da cui poteva contemplare il Taj Mahal.

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cento metri. Evoca il paradiso islamico, e all’epoca era ornato da diverse varietà di piante, soprattutto da arbusti floreali, alberi da frutto e fiori. Al suo interno vivevano cervi, scimmie e ogni specie di uccelli tra cui i pavoni. Al centro si trova una vasca di marmo, equidistante dal mausoleo e dalla porta monumentale, che a sua volta è costeggiata da un porticato.

Una decorazione esuberante Di notevole interesse è la peculiare decorazione, costituita da pietre dure incastonate nel marmo con una tecnica incredibilmente precisa e raffinata, che dona vitalità ed esuberanza. Nella maggior parte dei casi si tratta di motivi vegetali, fiori e guldasta (pinnacoli in pietra a mo’ di bouquet), che richiamano il paradiso. Sono frequenti pure i versetti coranici, incisi sui muri in una grafia elegante. Una simile tipologia di decorazione trova un suo antecedente immediato nella tomba fatta costruire, sempre ad Agra, da Jahangir, l’imperatore

che precedette Shah Jahan, per accogliere le spoglie del suocero e ministro, I’timad-udDaulah. Questo mausoleo costituisce uno degli altri gioielli dell’architettura moghul. I motivi decorativi appaiono sempre in armonia con gli elementi architettonici, e l’esito è un complesso elegante e, malgrado le dimensioni, delicato. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che per la sua bellezza il Taj Mahal sia stato definito dallo scrittore britannico Rudyard Kipling «un cancello d’avorio sotto il quale passano i sogni» e dal poeta indiano Rabindranath Tagore «una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo». Lacrime proprio come quelle che probabilmente l’imperatore Shah Jahan versò per la sua amata Mumtaz Mahal. EVA FERNÁNDEZ DEL CAMPO UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID

Per saperne di più

SAGGI

Arte indiana Cinzia Peruccini. Giunti, Firenze, 2020. L’arte indiana Michel Delahoutre. Jaca Book, Milano, 2020. LIBRI PER RAGAZZI

La principessa del Taj Mahal Candia Castellani. Alberti, Roma-Reggio Emilia, 2010.

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IL POTERE DEL GRANDE MOGHUL Sotto queste righe, cammeo della metà del XVII secolo che mostra l’imperatore moghul Shah Jahan mentre uccide un leone in procinto di divorare un uomo.

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LUSSO INTERNO

Nel mausoleo risalta la decorazione con motivi vegetali eseguita sul marmo stesso, adornato inoltre con gemme incastonate.

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MERAVIGLIA DELL’ARTE MOGHUL

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Secondo la leggenda, l’imperatore Shah Jahan promise alla moglie che le avrebbe costruito una tomba all’altezza del suo fascino. Il risultato fu un grande mausoleo in marmo bianco, in cui tutti gli elementi contribuiscono alla sensazione di equilibrio e simmetria dell’insieme.

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1 PLINTO

La piattaforma su cui si erge il Taj Mahal è più alta rispetto al solito. In questo modo eleva e fa risaltare l’insieme centrale.

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2 MINARETI

A ogni angolo del plinto compare un minareto di 52 m d’altezza, coronato da un chhatri, padiglione che termina in una cupola.

3 GULDASTA

Ai margini dei muri portanti sono fissati a intervalli regolari degli elementi decorativi dalla forma floreale.

4 CUPOLA

La cupola centrale, a calotta doppia, raggiunge al culmine i 73 m d’altezza. La circondano 4 chhatri.

5 ARCATE

Su ogni lato si apre un grande pishtaq, o arcata, che dà profondità alla struttura e rispecchia i cambiamenti della luce.

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«QUATTRO GIARDINI»

Il giardino del Taj Mahal risponde al tipo chahar bagh, espressione persiana che letteralmente significa “quattro giardini”. È formato da un quadrato, diviso da due canali che s’incrociano per formare altri quattro quadrati identici.

7 CENOTAFI La sala centrale ospita i monumenti funerari di Shah Jahan e di Mumtaz Mahal. I corpi della coppia si trovano nelle rispettive tombe, presenti in una camera sotterranea.

Sulle arcate principali e sulle fasce degli ordini di archi compaiono versetti del Corano scritti con un tratto accurato.

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Grata di marmo. I cenotafi sono protetti da una grata di filigrana lavorata a partire da un unico blocco di marmo.

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6 CALLIGRAFIA

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Nel cuore dell’Africa

STANLEY le tre spedizioni di henry morton stanley gli valsero una grande popolarità, ma il suo comportamento fu spesso oggetto di critiche

L’IMPRONTA DELL’ESPLORATORE

Qui sopra, le scarpe di Stanley conservate presso la Royal Geographical Society di Londra. A destra, Stanley indossa il copricapo da lui stesso disegnato per l’esplorazione. In alto, Leopoldo II del Belgio, che lo assunse dopo la sua spedizione in Congo. La mappa della regione congolese, visibile sullo sfondo, appartenne a Stanley.

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FOTOS: BRIDGEMAN / ACI

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RICOSTRUZIONE IDEALIZZATA DELL’INCONTRO TRA LIVINGSTONE E STANLEY A UJIJI. INCISIONE DEL 1872, ANNO IN CUI STANLEY PUBBLICÒ LA CRONACA DELLA SUA SPEDIZIONE ALLA RICERCA DEL MISSIONARIO.

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L’ESPLORAZIONE D E L C O N T IN E N T E

l dottor Livingstone, presumo». Questa famosa frase venne pronunciata a Ujiji, un remoto villaggio sulle rive del lago Tanganica, ed era rivolta a David Livingstone, un medico e missionario scozzese di cinquantotto anni, celebre esploratore scomparso mesi prima in Africa orientale mentre cercava le sorgenti del Nilo. L’uomo che avrebbe proferito queste parole era Henry Morton Stanley, all’epoca alla sua prima grande spedizione nel continente e divenuto in seguito una delle figure più affascinanti, camaleontiche e controverse della storia delle esplorazioni africane. Con quella frase e quel viaggio Stanley, a soli trentun anni, entrò nel ristretto gruppo dei grandi viaggiatori della storia e cominciò a costruirsi un’immagine personale.

Stanley nacque a Denbigh, un piccolo villaggio del Galles, primo dei cinque figli illegittimi di una cameriera di nome Elisabeth Parry. Nel suo certificato di nascita appariva come «John Rowlands, bastardo». Si mormorava che Betsy, com’era nota la madre, avesse comprato per poche monete il nome e il riconoscimento del bambino da John Rowlands, un ubriacone locale. Additata alla pubblica riprovazione, Betsy se ne andò da Denbigh lasciando il figlio in compagnia del nonno, macellaio di professione, e degli zii. Quell’abbandono rappresentò un forte trauma per John, la cui biografia è segnata dai ripetuti tentativi di far-

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Umili origini

ATTRAVERSO L’AFRICA Questa carta realizzata intorno al 1850 potrebbe essere stata una di quelle che alimentarono i sogni di avventura del giovane Stanley. Si vedono le grandi aree incomplete che lui stesso in seguito avrebbe contribuito a mappare. L’esploratore confermò l’origine del Nilo e attraversò l’Africa da est a ovest seguendo il corso del fiume Congo.

1841

1859

John Rowlands nasce a Denbigh, in Galles, il 28 gennaio. La madre lo abbandonerà e i suoi parenti lo metteranno in un ospizio.

Rowlands va a New Orleans. Racconterà di aver stretto amicizia con Henry Hope Stanley, di cui prende il nome e il cognome.

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SIDI MUBARAK BOMBAY, UN EX SCHIAVO CHE PARLAVA DIVERSE LINGUE, FECE DA GUIDA A GRANT, SPEKE, LIVINGSTONE, STANLEY E CAMERON.

1859-1867

1871

1873-1877

1879-1884

1887-1890

Svolge vari lavori. Dopo aver combattuto da entrambe le parti nella Guerra di secessione, inizia a lavorare come giornalista.

Guida la sua prima spedizione africana, finanziata dal New York Herald, alla ricerca di Livingstone di cui diventa amico.

A capo di una missione esplorativa per trovare le sorgenti del Nilo, naviga il fiume Congo fino alla foce.

Collabora all’instaurazione della colonia di Leopoldo II del Belgio in Congo aprendo nuove vie di comunicazione.

Ultima spedizione, per salvare Emin Pascià, accerchiato dai ribelli in Equatoria. Ritiratosi in Inghilterra, Stanley muore nel 1904.

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TIPPU TIB ERA IL MAGGIOR MERCANTE DI SCHIAVI DELL’AFRICA CENTRALE; DIEDE A STANLEY UN SOSTEGNO DECISIVO PER L’ESPLORAZIONE DEL FIUME CONGO.

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di avventure. Un giorno il capitano della nave da carico Windermere gli offrì di unirsi al suo equipaggio come mozzo. Poco prima di Natale del 1858, quando mancava un mese al suo diciottesimo compleanno, John Rowlands salpò per gli Stati Uniti. Alcuni mesi più tardi attraccava al porto di New Orleans.

Il sogno americano

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Poco dopo lo sbarco, John conobbe Henry Hope Stanley, un commerciante di cotone per il quale iniziò a lavorare. Quell’incontro gli cambiò radicalmente la vita. Stanley si affezionò a Rowlands, lo adottò e gli diede il suo nome, anche se morì poco dopo senza aver fatto testamento. Almeno questa è la versione sempre sostenuta dal viaggiatore gallese.

STANLEY PRIMA DELLA CELEBRITÀ

La foto mostra Stanley a trent’anni, all’epoca in cui guidò la spedizione alla ricerca di Livingstone.

si accettare dalla madre tramite le sue imprese. Alla morte del nonno, quando John aveva

solo cinque anni, gli zii lo mandarono in un ospizio, dove crebbe accanto a orfani e mendicanti in un ambiente duro, dal quale scappò a sedici anni. Ripreso con riluttanza dalla famiglia, il giovane Rowlands svolse vari lavori, dal commesso di una merceria al macellaio, dal lavavetri al controllore di balle di cotone presso il porto di Liverpool. Fu qui, grazie al contatto costante con i marinai, che iniziarono a prendere forma i suoi sogni di viaggi e

DOPO LA GUERRA CIVILE STANLEY LAVORÒ COME GIORNALISTA E INIZIÒ A SOGNARE DI DEDICARSI ALLE ESPLORAZIONI

Tuttavia secondo alcuni dei suoi biografi, come Tim Jeal, se è vero che Rowlands lavorò per Stanley, non fu da questi mai adottato e s’inventò quella storia per ottenere un nuovo cognome che nascondesse la sua illegittimità negli Stati Uniti. Questa sarebbe stata la prima di molte bugie, mezze verità, esagerazioni o imprecisioni che punteggiano la vita di un uomo determinato fin da subito a fare fortuna e raggiungere la gloria. Secondo quanto egli stesso raccontò successivamente, dopo la morte del padre adottivo si dedicò a girare il Paese con il suo nuovo cognome e collezionò una sfilza di modesti impieghi nel sud degli Stati Uniti. Nel 1861, allo scoppio della Guerra di secessione, si trovava in Louisiana, dove le pressioni sociali dei suoi vicini lo spinsero ad arruolarsi nell’esercito confederato. Fu fatto prigioniero nella battaglia di Shiloh e riconquistò la libertà in cambio dell’arruolamento nelle file dell’Unione. Ricoverato in ospedale per dissenteria, disertò alla prima occasione. Stanco della guerra, rientrò in Galles, ma la madre, ormai sposata con un altro uomo, si rifiutò di accoglierlo vedendolo in simili condizioni di povertà. Senz’altra via d’uscita, decise di tornare negli Stati Uniti. Dopo aver modificato il suo aspetto fisico e falsificato la sua data di nascita per non essere identificato come disertore, si arruolò nuovamente nell’esercito unionista, questa volta come scrivano

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LA BATTAGLIA DI MAGDALA

Nell’aprile 1868 le forze britanniche sconfissero gli etiopi a difesa della fortezza di Magdala.

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di bordo nella marina. In questo periodo divorò libri di grandi viaggiatori come Burton, Speke e lo stesso Livingstone, e rivelò il suo talento per il giornalismo. Vendette servizi di guerra ai giornali locali e iniziò a coltivare l’idea di diventare un famoso esploratore. Dopo aver lasciato l’esercito propose a James Gordon Bennett jr, proprietario del New York Herald, d’inviarlo in Africa alla ricerca di Livingstone. Bennett respinse la proposta a causa dell’inesperienza di Stanley ma, impressionato dalla sua audacia e dalla sua ambizione, gli commissionò la copertura della guerra tra Regno Unito ed Etiopia. Il gallese viaggiò come inviato nell’impero ottomano, in Grecia e infine in Spagna, dove avrebbe dovuto seguire le avvisaglie della

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CORRISPONDENTE DI GUERRA NEL 1867 Stanley si fece inviare dal Missouri Democrat

a coprire le guerre indiane in Nebraska. Le sue vivide cronache della campagna del generale Hancock gli valsero una certa reputazione e gli permisero di convincere James Gordon Bennett jr, proprietario del New York Herald, a mandarlo in Africa come corrispondente per seguire la guerra britannica contro l’imperatore etiope Teodoro II. Lì dimostrò tutte le sue doti: sfruttando l’amicizia con un telegrafista, riuscì a raccontare la sconfitta e il suicidio del sovrano etiope con vari giorni di anticipo sugli altri inviati. Quel successo convinse Bennett del fatto che il ritrovamento di Livingstone avrebbe rappresentato un’esclusiva storica.

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STANLEY CON IL SUO GIOVANE SERVITORE E FIGLIO ADOTTIVO KALULU. QUESTI ACCOMPAGNÒ STANLEY NELLA SPEDIZIONE DEL 1874-1877, MA ANNEGÒ DURANTE LA DISCESA DEL FIUME CONGO. ISPIRÒ STANLEY NELLA REALIZZAZIONE DI UN LIBRO.

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STANLEY E GLI AFRICANI

Terza guerra carlista. Qualche tempo dopo ricevette un telegramma di Gordon Bennett, che gli chiedeva di tornare a New York.

LA RELAZIONE DI STANLEY con gli indigeni fu caratterizzata dalla brutalità. Esistono numerose testimonianze della scia di morti lasciata dalle sue spedizioni e della sua fama di “grilletto facile”. Anche se nelle sue cronache Stanley si schierò spesso contro la schiavitù, non si fece problemi a raggiungere accordi commerciali con Tippu Tib, il maggior trafficante di schiavi di Zanzibar. Le accuse di crudeltà rivolte a Stanley dalla stampa statunitense s’intensificarono dopo la missione di soccorso a Emin Pascià. L’esploratore gallese cercò di giustificare la spedizione dal punto di vista etnografico divulgando informazioni sui pigmei, che definì «estremamente bassi, degradati, quasi bestiali».

Alla ricerca di Livingstone

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L’Herald e gli Stati Uniti volevano essere i primi a trovare Livingstone e a intervistarlo. In realtà non è che il missionario scozzese si fosse perso. Negli anni cinquanta del XIX secolo aveva esplorato l’interno dell’Africa per evangelizzare gli indigeni e nel corso dei suoi viaggi aveva contribuito notevolmente alla conoscenza del continente.

Livingstone aveva scoperto le cascate Vittoria ottenendo una grande notorietà nell’Inghilterra del tempo. Nel 1866 aveva intrapreso una spedizione alla ricerca delle sorgenti del

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Nilo. Sebbene per anni non avesse più inviato alcuna corrispondenza né altre notizie di sé, non aveva mai dato segni di trovarsi in difficoltà. L’Herald insomma gli mandò un soccorso non richiesto, perché Bennett aveva fiutato una storia con grandi potenzialità di vendita per il giornale: il leggendario esploratore scozzese che veniva salvato da un giovane intrepido grazie a una missione finanziata da un giornale statunitense. Stanley era alla sua prima grande spedizione. Del “continente nero” (come lo chiamava nelle sue cronache) sapeva soltanto quanto letto nei libri di viaggio di autori come lo stesso Livingstone, che ammirava profondamente. La geografia dell’Africa centrale era per gli europei dell’epoca quasi altrettanto misteriosa

di quanto lo era stata per i greci e per i romani di molti secoli prima. L’esistenza dei grandi laghi era sconosciuta, e l’esatta posizione delle sorgenti del Nilo e del Congo era solo una congettura. Ma quando Stanley giunse a Zanzibar trovò una certezza: tutti sapevano che Livingstone viveva nel villaggio di Ujiji, sulle rive del lago Tanganica. Il 6 gennaio 1871 una comitiva di oltre cento uomini lasciava l’isola guidata da uno Stanley entusiasta, che portava la bandiera statunitense. Ma l’Africa non tardò a ostacolare

CASCATE VITTORIA

Livingstone arrivò in Africa nel 1841, l’anno in cui nacque Stanley. Nel novembre del 1855 divenne il primo occidentale a vedere queste impressionanti cascate del fiume Zambesi.

ANCHE SE LIVINGSTONE NON DIEDE MAI SEGNI DI ESSERE IN DIFFICOLTÀ, IL NEW YORK HERALD E STANLEY DECISERO DI “SALVARLO” STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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STANLEY IN UNA FOTOGRAFIA DELLA SECONDA EDIZIONE DI COME TROVAI LIVINGSTONE, IL SUO LIBRO PUBBLICATO CON GRANDE SUCCESSO NEL 1872.

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l’avanzata del gruppo. La mosca tse-tse fece strage tra i cavalli della spedizione e molti dei partecipanti furono sopraffatti dalla dissenteria e dalla malaria. Inoltre le guerre locali per il controllo del commercio dell’avorio li costrinsero a deviare dal tragitto originario e le diserzioni si susseguirono, nonostante la durezza con cui venivano represse da uno Stanley sempre più ossessionato dal successo della sua missione.

Iniziarono a circolare voci sulla possibile morte di Livingstone. Se si fossero rivelate vere, avrebbero privato la spedizione di ogni scopo. Ma Stanley si chiedeva anche se, nel caso in cui fosse ancora vivo, il missionario sarebbe stato felice di essere “salvato”. Finalmente una ventina di uomini guidati dall’avventuriero, che in quei giorni era attanagliato dalla malaria, si presentò alle porte di Ujiji. Era il 28 ottobre secondo il diario di Stanley, o il 10 novembre secondo altri membri della spedizione. I servitori si precipitarono ad avvertire Livingstone, anch’egli malato, dell’arrivo di quella ridotta comitiva.

Con ogni probabilità quella frase – «Il dottor Livingstone, suppongo» – con cui Stanley avrebbe salutato il missionario non fu mai pronunciata. Nel suo diario il gallese annotò solamente: «Vidi un uomo bianco, pallido, con un cappello blu sbiadito dalla visiera ad arco e ornato di pizzo dorato annerito, una

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L’amicizia con Livingstone

CASCO COLONIALE DI STANLEY CONSERVATO PRESSO LA ROYAL GEOGRAPHIC SOCIETY DI LONDRA.

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LE SFUG G E N T I O R I G I N I D E L N I L O

NELLE ACQUE DEL LAGO TANGANICA

LIVINGSTONE E STANLEY NAVIGANO DA UJIJI AL FIUME RUZIZI. THE GRAPHIC. 1872.

fiume Ruzizi, ritenuto il corso superiore del Nilo. I due lasciarono Ujiji il 16 novembre 1871 e il 28 scoprirono che il Ruzizi in realtà s’immetteva nel lago, non potendo così essere l’origine del Nilo. Rientrarono quindi a Ujiji, dove arrivarono il 13 dicembre.

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opo il loro incontro Livingstone e Stanley DTanganica, decisero di esplorare il nord del lago che credevano sfociasse nel

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giacca rossa, una camicia di tela, dei pantaloni di tweed, e quando me lo trovai di fronte smontai da cavallo». Secondo quanto sostiene il biografo Tim Jeal, Stanley era un ammiratore dello stile laconico degli ufficiali britannici che aveva conosciuto in Abissinia e avrebbe inventato solo in un secondo momento la storia del famoso saluto per abbellire il suo racconto. Livingstone fu sorpreso di sapere che era stata organizzata una spedizione per venirlo a cercare, ma accettò volentieri l’aiuto date le sue precarie condizioni di salute e le poche scorte che ormai gli restavano. Tra i due uomini si sviluppò in seguito una stretta relazione con tinte paterno-filiali. Stanley, che non aveva conosciuto il padre, nutriva da sempre una forte ammirazione per quell’uomo, che considerava il suo punto di riferimento. Nelle cronache che inviava all’Herald descriveva Livingstone con toni idealizzati rivestendolo di un’aura di sacralità. Dal canto suo il celebre missionario scozzese apprezzava il coraggio e la curiosità del suo «giovane scopritore». Ma i due erano in disaccordo su molte questioni, soprattutto di natura politica: Stanley era un conservatore e Livingstone un liberale. Si distinguevano anche per il modo in cui trattavano i nativi: la gentilezza dello scozzese era in contrasto con la brutalità del gallese, che non esitava a sparare a chiunque interferisse con i suoi propositi. Nonostante queste differenze, trascorsero insieme quattro mesi e intrapresero un viaggio a nord del lago Tanganica. Scoprirono che il lago non defluiva nel Nilo come il missionario aveva sempre creduto. Progettarono anche altre missioni insieme, ma Stanley ricevette una lettera dell’Herald con cui il giornale lo informava che non avrebbe più coperto le sue spese. Livingstone, d’altra parte, si rifiutava di tornare in Gran Bretagna. Il 14 marzo 1872 i due si salutarono con grande rammarico. La nuova stella

5. 9-8-1877 Stanley arriva a Boma, un centro mercantile portoghese in Congo. Torneranno a Zanzibar solo 114 delle 228 persone partite con lui.

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DOPO LA SPEDIZIONE SUL FIUME CONGO, OLTRE ALLA POPOLARITÀ DI STANLEY CREBBERO ANCHE LE ACCUSE NEI SUOI CONFRONTI PER LA CRUDELTÀ CHE RISERVAVA AGLI AFRICANI

dell’esplorazione africana e dell’Herald era al culmine della sua fama, soprattutto negli Stati Uniti. Livingstone, dopo essere riuscito a farsi pubblicare dal giornale numerose lettere contro la schiavitù, continuò le sue esplorazioni fino alla morte, sopravvenuta in Zambia un anno più tardi. Stanley fu probabilmente l’ultimo europeo a vederlo vivo.

L’uomo del Congo Dopo la scomparsa del missionario, Stanley fece un secondo viaggio in Africa finanziato congiuntamente dal New York Herald e dal Daily Telegraph di Londra. In questo caso l’obiettivo era proseguire la ricerca, che Livingstone non aveva potuto concludere, per verificare se il fiume Lualaba fosse l’ori-

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2. 03-1875 Arriva al lago Vittoria e nel corso di due mesi lo circumnaviga. Ritiene che le cascate di Ripon possano essere l’origine del Nilo, come sostenuto da J.H. Speke. 4. 17-10-1876 Seguendo il corso del Lukuga raggiunge le rive del Lualaba, che decide di seguire per verificare se si tratti del Nilo, visto che scorre verso nord.

1. 17-11-1874 Partito da Zanzibar, Stanley si addentra nel continente diretto verso il lago Vittoria, lontano 1200 km, alla guida di 228 persone.

3. 27-5-1876 Ritorna a Ujiji, sulle rive del lago Tanganica, che circumnaviga. Si convince che il lago sia la sorgente del fiume Lualaba, a sua volta possibile origine del Nilo.

gine del Nilo. La spedizione, molto più grande della precedente, fu gestita con pugno di ferro da uno Stanley che alternava momenti di euforia, scoppi di rabbia e giorni di tristezza in cui si ripiegava su sé stesso. «Non sono stato mandato in questo mondo per essere felice, ma per svolgere una missione speciale», era solito ripetere.

Durante quel viaggio, iniziato nel 1874 e proseguito quasi tre anni, l’esploratore gallese dimostrò che il lago Vittoria era il secondo specchio d’acqua dolce più grande al mondo; poi discese il Lualaba scoprendo che era il corso superiore del fiume Congo, di cui raggiunse la foce sulla costa atlantica del continente al termine di ottomila chilometri di navigazione. Ma insieme alla popolarità di Stanley cresce-

vano anche le accuse nei suoi confronti per il crudele trattamento che riservava agli indigeni. Nonostante la posizione antischiavista assunta di fronte all’opinione pubblica, Stanley considerò sempre gli africani dei barbari incivili. A ciò si aggiungevano le critiche da parte degli scienziati per il disinteresse che le sue spedizioni manifestavano verso la biologia, l’antropologia e quant’altro andasse oltre la pura esplorazione geografica. Stanley rientrò in Inghilterra ma non riuscì a destare l’interesse del Paese tanto da poter riprendere le sue spedizioni in Congo. Così fu assunto dal re Leopoldo II del Belgio per gettare le basi commerciali del suo dominio nella regione. Il gallese rimase in Congo cinque anni, costruendo strade e inviando navi

UN VIAGGIO DI MILLE GIORNI

Questa mappa, che mostra la più grande spedizione di Stanley, illustrava l’edizione spagnola di Through the Dark Continent (Attraverso il continente nero), la cui versione originale inglese risale al 1878.

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UNA CAMPAGNA CON POCA GLORIA

ALLA RICERCA DI EMIN PASCIÀ spedizione di Stanley prevedeva ’ ultima Lmedico di andare in soccorso di Emin Pascià, un e avventuriero diventato governatore

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della regione di Equatoria, nel Sudan meridionale. Nel 1884 Pascià si ritrovò isolato dall’avanzata del movimento mahdista, il cui obiettivo era espellere egiziani e inglesi dal Sudan. William Mackinnon, fondatore della British East Africa Company, vide nel salvataggio di Emin un modo per aprire la zona al commercio britannico. Decise quindi

CONFERENZA DI STANLEY ALLA ROYAL ALBERT HALL PER LA ROYAL GEOGRAPHIC SOCIETY. ILLUSTRAZIONE PUBBLICATA IN THE GRAPHIC. 1890.

a vapore lungo il fiume omonimo. La sua ferrea determinazione di fronte alle difficoltà gli valse tra i suoi aiutanti locali il soprannome di Bula Matari (frangitore di rocce). Con la sua azione Stanley spianò la strada a uno degli episodi più sanguinosi della storia africana: la colonizzazione del Congo da parte del sovrano belga. Tre anni più tardi l’esploratore effettuò la sua ultima spedizione, che si concluse con un sonoro fiasco: il salvataggio di Emin Pascià, governatore per conto della Gran Bretagna della provincia di Equatoria, nel Sudan meridionale, che si trovava accerchiato dalle forze dei ribelli mahdisti. Successivamente Stanley si stabilì in Inghilterra, dove si dedicò alla scrittura e alle conferenze. Alla fine della sua vita poté finalmente godere di quella pace coniugale che gli era sempre stata preclusa: a quasi cinquant’anni sposò Dorothy Tennant, con cui adottò un bambino. Fu deputato del Partito liberale unionista e nel 1899 fu nominato baronetto dalla Corona, diventando ufficialmente Sir Henry Morton Stanley. ENRIQUE VAQUERIZO STORICO E GIORNALISTA

Per saperne di più

SAGGI

David Livingstone. Una vita per l’Africa Tim Jeal. Mursia, Milano, 2008. Diari dell’esplorazione africana Henry Morton Stanley. Dall’Oglio, Milano, 1963. Come trovai Livingstone Henry Morton Stanley. Ghibli, Milano, 2015.

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TESTI

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STANLEY ATTRAVERSA UNA RADURA DELLA GRANDE FORESTA DELL’ITURI DURANTE IL SUO VIAGGIO ALLA RICERCA DI EMIN PASCIÀ. INCISIONE DEL SUO LIBRO IN DARKEST AFRICA (NELL’AFRICA PIÙ OSCURA). 1890.

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IL TENENTE STAIRS, UNO DEGLI UOMINI DI STANLEY, VIENE FERITO DA UNA FRECCIA AVVELENATA NELL’AGOSTO DEL 1887 NEL CORSO DELLA SPEDIZIONE.

di finanziare una spedizione e ne offrì la guida a Stanley, che partì nel 1887. Ma quando l’anno dopo l’esploratore trovò Pascià, questi disse di non aver bisogno di alcun aiuto e si rifiutò di andarsene, salvo poi cambiare idea. Raggiunsero insieme la costa nel dicembre

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del 1890. La spedizione si rivelò un disastro. Più di 200 partecipanti morirono e gli uomini di Stanley massacrarono migliaia di africani. Inoltre la comitiva diffuse al suo passaggio la malattia del sonno, il che valse a Stanley forti critiche in Gran Bretagna.

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GRANDI SCOPERTE

I bronzi del Luristan, dal saccheggio al salvataggio

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ll’inizio degli anni trenta del secolo scorso il mercato delle antichità fu invaso da splendidi manufatti in bronzo finemente decorati. Il loro luogo d’origine era indicato genericamente come la regione montuosa del Luristan, nell’odierno Iran centro-occidentale. Una terra aspra abitata dai lur, popolazione semisedentaria la cui lingua, secondo alcuni specialisti, sarebbe correlata al persiano antico. Nell’autunno del 1928 un contadino aveva rinvenuto nel suo campo presso Harsin (a quaranta chilometri a est di Kermanshah) alcuni di questi oggetti. A quel punto, la sonnolenta cittadina si era popolata di antiquari che acquistavano queste opere d’arte a un

MAR CASPIO

TEHERAN

Luristan

IRAN

GOLFO PERSICO

prezzo irrisorio per poi rivenderle a musei e collezioni private. Un business remunerativo che le autorità locali non arrestavano.

Razzia incontrollata Questo stato di cose sarebbe andato avanti per molto tempo, complice l’insicurezza della regione, che impediva l’invio di spedizioni scientifiche. Basti pensare che solo nel 1938 l’archeologo Erich Schmidt ebbe la possibilità di organizzare la prima missione ufficiale per esplorare il sito di Surkh

sec. a.C.

CRONOLOGIA

XI-VIII

MIGLIAIA DI BRONZI

In questo periodo esperti artigiani della regione del Luristan elaborano manufatti in bronzo.

Dum. E i risultati furono significativi. All’interno di quello che sarebbe stato identificato come un santuario, venne alla luce un gran numero di bronzi di grande pregio. Ma era una goccia nel mare. Ormai il danno era stato fatto. Migliaia di oggetti erano stati dissotterrati illegalmente senza informazioni essenziali. Solo una cosa sembrava assodata. La quasi totalità proveniva da contesti funerari: tombe a camera edificate con pietre poste verticalmente a guisa di mura e lastre più grandi come coperture. André Godard, direttore del Servizio archeologico iraniano dal 1928, ha lasciato questa testimonianza su come alcuni sapessero individuare il luogo dove scavare. L’esistenza di una sorgente d’acqua era un elemento

GEORG GERSTER / AGE FOTOSTOCK

In una regione montuosa dell’Iran sono venuti alla luce migliaia di oggetti in bronzo di grande varietà, forse realizzati dai cassiti

imprescindibile. Una volta individuata, era chiaro che nelle vicinanze non poteva mancare un insediamento e poco più in là l’area cimiteriale. Fu coniata questa semplice formula: «Cerca una

1928

1938

1965-1979

Un contadino della cittadina di Harsin trova nei suoi campi dei bronzi, che vende a prezzi irrisori.

L’archeologo tedesco Schmidt organizza la prima missione ufficiale di scavi a Surkh Dum.

L’Università di Gent e i Musei reali di Bruxelles, entrambi in Belgio, effettuano scavi in Luristan.

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GRANDI SCOPERTE PANORAMA della pianura

di Kermanshah, nell’Iran occidentale, appartenente alla regione storica del Luristan, con la sua caratteristica alternanza di valli e catene montuose.

CENTINAIA DI OGGETTI archeologico in Luristan è stato realizzato nel sito di Surkh Dum. Si trattava di un insediamento di cui sono parzialmente venuti alla luce due edifici, uno dei quali dedicato al culto. Gli scavi hanno permesso di ritrovare centinaia di oggetti in bronzo, avorio e ceramica, e quasi 200 sigilli cilindrici.

IL PRIMO SCAVO

islamica (1978-79) rendesse quasi impossibile inoltrarsi nella regione. Di grande importanza sono stati gli scavi effettuati tra il 1965 e il 1979 nel Luristan occidentale dall’Università di Gent e dai Musei reali di Bruxelles, che hanno permesso di localizzare un gran numero di sepolture ricche di reperti databili tramite la stratigrafia. Oggi, grazie a questi studi, con l’espressione “bronzi del Luristan” s’indica un vasto repertorio di manufatti pro-

MANICO DI ASCIA IN BRONZO CON IMMAGINI DI ANIMALI. LOS ANGELES COUNTY MUSEUM OF ART.

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sorgente e nelle vicinanze troverai una necropoli. È semplice e infallibile». La grave lacuna di dati scientifici è stata per lungo tempo un fattore limitante. Soltanto negli ultimi decenni è stato possibile stabilire una sequenza cronologica grazie all’analisi stilistica e iconografica dei manufatti. Lavoro che è stato agevolato da una serie di scavi archeologici realizzati nel corso degli anni sessanta e settanta, prima che la Rivoluzione

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GRANDI SCOPERTE

Un mondo affascinante

FOTO: AKG / ALBUM

I bronzi del Luristan mostrati in queste pagine sono conservati presso il Museo d’arte della contea di Los Angeles.

Vaso cilindrico con figura umana, forse un sacerdote, che fa un sacrificio davanti al fuoco.

dotti in un periodo che va dall’XI secolo a.C. alla metà del VII secolo a.C. – la cosiddetta “Età del tardo ferro del Luristan” – e che è suddiviso in tre fasi: I (1050900 a.C.), II (900/800-750 a.C.) e III (750/725-650 a.C.). Sebbene sia stata por-

Ascia con le caratteristiche punte sull’impugnatura, realizzata tramite fusione.

tata alla luce un’incredibile varietà di oggetti, è possibile catalogarli in base a un certo numero di classi. Una delle più affascinanti riguarda i cosiddetti stendardi, ovvero manufatti che venivano fissati alla sommità di pali o altri supporti. Ciò che li rende unici è la complessa iconografia mutuata dal mondo animale e in cui abbondano gli stambec-

chi. Una delle varianti più diffuse e affascinanti è il cosiddetto “signore degli animali” raffigurante un essere antropomorfo stilizzato che afferra il collo di alcune bestie (leoni e altri felini) a voler simboleggiare il dominio sulla natura. In genere le composizioni sono elaborate e il risultato sul piano stilistico è assai complesso. Si tratta di

Non è chiaro se gli spilloni fossero ex voto o fermagli per le vesti SPILLONE CON TESTA A DISCO CON IL CLASSICO TEMA DEL SIGNORE DEGLI ANIMALI.

Stendardo che evoca il caratteristico tema del ”signore degli animali” in modo ripetitivo e stilizzato.

vere e proprie opere d’arte che dimostrano che chi le realizzò era in grado di padroneggiare le tecniche metallurgiche con incredibile abilità. Diffusissimo è anche il repertorio di armi (pugnali, punte di freccia, lance e asce). Dal canto loro le bardature per cavalli sono una prova della natura nomadica delle genti che abitavano quella terra. Come ha scritto l’archeologo Paolo Matthiae: «L’elemento più frequentemente attestato è il morso guarnito da due guanciere figurative a placchetta traforata con immagini di animali il cui ventre presentava un grosso

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Guanciera traforata appartenente al morso di un cavallo che raffigura un animale mitologico con ali e corna.

foro attraversato dalla barra del morso». In alcuni casi il repertorio iconografico è caratterizzato da tori, leoni, stambecchi; in altri da animali fantastici (come grifoni e sfingi). Non mancano neppure oggetti di vita quotidiana. I più celebri sono gli spilloni, il cui uso è dibattuto. Se alcuni studiosi pensano si trattasse di ex voto, altri suggeriscono che potevano essere utilizzati per fissare le vesti. Ne sono attestati di due tipi: con testa a disco oppure con testa quadrata. Anche la tecnica impiegata è diversa: i primi sono lavorati a sbalzo o tramite

incisione, i secondi a fusione. I temi trattati sono vari. Uno dei più famosi è una figura femminile (forse una dea della fertilità) attorniata da simboli come il pesce e il melograno. Un’ultima categoria molto diffusa sono i bicchieri cilindrici rastremati (che si assottigliano) alla sommità con un piccolo puntale alla base. La tematica decorativa, realizzata a sbalzo sulla parte esterna, prevede scene come i banchetti rituali, in cui compaiono figure impegnate in atti cerimoniali e affiancate da inservienti o musici. Di fronte all’immenso repertorio dei bron-

Spillone a testa quadrata con una figura antropomorfa dalle lunghe corna che regge due animali (forse capre).

zi ci si è posti il problema di chi sia stato a produrlo.

L’enigma dei cassiti Un’ipotesi interessante legherebbe questi manufatti ai cassiti, una popolazione stanziatasi nelle valli del Luristan a partire dal XVI secolo a.C. Successivamente i cassiti conquistarono la Mesopotamia centro-meridionale prima di esservi estromessi all’inizio del XII secolo a.C. Lo dimostrerebbe il fatto che su molte spade sono presenti iscrizioni cuneiformi proprio di epoca tardo-cassita. Tuttavia questa ipotesi presenta un problema: non

sono mai stati trovati manufatti di questo tipo in Mesopotamia, e questo ha portato a mettere in discussione la teoria. L’unica spiegazione alternativa potrebbe essere allora che la loro fabbricazione sia da legare alla fase in cui queste genti, una volta estromesse dalle pianure mesopotamiche, rifluirono nelle terre d’origine, con cui non avevano mai allentato i legami. ANTONIO RATTI STORICO

Per saperne di più Los Angeles County Museum of Art https://collections.lacma.org/ search/site/

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LA FOTO DEL MESE

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CHIUSURA FINO A NUOVO ORDINE «TUTTI I TEATRI RIMARRANNO CHIUSI fino a nuovo ordine su richiesta del sindaco». Il manifesto a fianco a queste righe è esposto nel botteghino di un teatro nel centro di Seattle, negli Stati Uniti. Davanti posa un giovane strillone protetto da una mascherina. La foto venne probabilmente scattata nell’autunno del 1918, quando decine di migliaia di statunitensi (195mila solo in ottobre), morirono per la febbre “spagnola”, così chiamata perché, nella censura dei mezzi di comunicazione durante la Prima guerra mondiale, la stampa della Spagna neutrale fu l’unica a fornire notizie sulla pandemia. Era un nome ambiguo per un virus di origine aviaria giunto negli Stati Uniti forse attraverso alcuni soldati tornati in patria dalla provincia cinese del Guangdong. Sembra che in 18 mesi la febbre avesse colpito un terzo della popolazione mondiale e ucciso dai 25 ai 50 milioni di persone, tra le quali circa 675mila statunitensi. ALAMY / ACI

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA

EPICA

Enea, un migrante in terra straniera

O Giulio Guidorizzi

ENEA, LO STRANIERO. LE ORIGINI DI ROMA Einaudi 2020; 180 pp., 14 ¤

gni guerra della storia dell’umanità ha portato con sé distruzione e morte, ma anche movimenti di civili alla ricerca di condizioni di vita migliori. Roma affonda le proprie radici storiche in una di queste migrazioni. Enea fuggì dalla città di Troia, messa a ferro e fuoco dai greci, caricandosi sulle spalle il vecchio padre Anchise e tenendo per mano il figlio Ascanio. Quindi s’avventurò nell’ignoto Mediterraneo alla ricerca di un po-

sto da poter chiamare casa. Calandosi nel poema epico virgiliano, il classicista Giulio Guidorizzi ricostruisce il contesto sociale che l’eroe fondatore di Roma incontrò al momento del proprio arrivo. Il Latium (Lazio) era un luogo appartato il cui nome, secondo alcuni, derivava proprio da latere, nascondersi. Si raccontava, infatti, che nei boschi tra il monte Albano e il colle Soratte si fosse nascosto Saturnus (Saturno) spodestato da Zeus. Qui, secondo

Guidorizzi, vivevano i latini «uomini selvaggi e primitivi […] gente dei boschi e della pianura, non delle acque. Eppure da quel mare giunse un tempo il loro eroe fondatore» che, come Saturno, «incominciò a donare la civiltà agli uomini primitivi che le abitavano». Assoggettare le genti di quelle terre remote sarebbe stato facile eppure, secondo l’autore «Enea non li volle come schiavi, ma come compagni». La storia di Enea – esule, profugo, migrante, straniero – s’impone come “antidoto” ai sovranismi di oggi perché, come scrive Seneca, «farai fatica a trovare ancora una terra abitata dagli indigeni: tutto è il risultato di commistioni e d’innesti».

BIOGRAFIE A FUMETTI

UN MOSTRO CREATO PER VINCERE LA NOIA COME NACQUE Frankenstein, uno dei mostri più ap-

prezzati della letteratura mondiale? Scaturì dalla penna della diciannovenne Mary Shelley che nel 1816 soggiornava a villa Diodati, sul lago di Ginevra, insieme al poeta romantico e compagno Percy Bysshe Shelley, alla sorellastra Mary Claire e a Lord Byron, famoso amante di quest’ultima. La pioggia cadeva copiosa, le menti divagavano e la noia li spinse a sfidarsi a scrivere «una storia che susciti vero terrore». Alessandro Di Virgilio e Manuela Santoni raccontano la nascita del “moderno Prometeo”, incarnazione dell’antica paura dell’uomo nei confronti dell’ignoto e il diverso. Alessandro Di Virgilio, Manuela Santoni

MARY SHELLEY, L’ETERNO SOGNO Becco Giallo 2020; 136 pp., 18 ¤

A. Surian, D. Di Masi, S. Boselli

MARIA MONTESSORI. IL METODO IMPROPRIO Becco Giallo 2020; 216 pp., 19 ¤ IL SEGRETO del libero svilup-

po dei bambini sta nell’organizzare i mezzi necessari alla loro nutrizione interna». Sono parole della pedagogista ed educatrice Maria

Montessori, che nel 1909 diede alle stampe Il metodo della pedagogia scientifica. L’opera rivoluzionò il modo di concepire l’infanzia, educando alla spontaneità e alla libertà e rompendo gli steccati innalzati dall’educazione autoritaria dell’epoca. Una graphic novel firmata Alessio Surian, Diego Di Masi e Silvio Boselli scandisce le tappe di quel “pellegrinaggio scientifico” che spinse Maria Montessori, una delle prime donne italiane laureate in medicina e nota per il suo femminismo, a formare insegnanti in tutto il mondo. Nel fumetto il metodo scientifico seguito dall’educatrice viene presentato come «panacea a ogni errore scolastico o familiare».

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STORIA MODERNA

I disperati della seta a Lucca nel cinquecento

R Renzo Sabbatini

LA SOLLEVAZIONE DEGLI STRACCIONI Salerno 2020; 192 pp., 16 ¤

epubblica di Lucca, anno 1531. Nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio, duecento giovani in formazione militare marciarono per le strade della città «scorretti et audaci». Il giorno successivo, nella chiesa di San Francesco, il gruppo di setaioli si fece davvero imponente. Tessitori e altri artigiani della seta erano ridotti quasi alla fame. Peste, carestia ed episodi bellici avevano tramortito l’attività serica lucchese che, esposta

alle fluttuazioni dei mercati europei, attraversava una fase di bassa congiuntura. Ci fu chi, indebitato, decise di andarsene, mentre altri rientrarono per riprendere la lavorazione, ma anche perché una legge specifica considerava la migrazione un reato. I setaioli protestavano contro una serie di disposizioni del Consiglio generale che, pur con il proposito della lotta agli abusi e alle trasgressioni, non faceva altro che ridurre ulteriormente gli esigui salari dei

lavoranti. I tumulti popolari sotto «l’insegna del drappo nero mezza stracciata, augurio di dolore e presagio di rovina», con le donne per la strada che gridavano «pane, pane!», è comunemente conosciuta come “rivolta degli Straccioni”. Lo storico Renzo Sabbatini ricostruisce l’escalation di proteste e violenze che sfociarono in una vera e propria guerra civile. Se i mastri setaioli ottennero quasi subito la cancellazione delle leggi inique, i capi “irriducibili” della sedizione furono puniti con la morte e la galera, il bando e l’esilio. In definitiva, la vittoria totale dei maestri setaioli non intaccò la stabilità del potere politico e la pace sociale”.

STORIA SOCIALE

Tra lazzaretti e forche: la quarantena nei secoli

L Maria Paola Zanoboni

LA VITA AL TEMPO DELLA PESTE Jouvence 2020; 218 pp., 18 ¤

e misure di contenimento prese dai governi nel corso dei secoli per far fronte alle ondate epidemiche, specie di peste, non erano molto diverse da quelle di oggi. Nella Napoli del seicento, ad esempio, si faceva fatica a rispettare il confinamento in casa e molti ambivano a lavorare nel lazzaretto come inservienti perché «preferivano morire di peste che di fame». In diverse parti d’Italia si chiedeva a gran voce «la restituzione del com-

mercio», come a Chiavari nel 1657, quando mancava la farina per preparare il pane, la popolazione moriva di fame e i tessitori erano caduti in rovina per la mancanza di commissioni e materia prima. I cittadini reagivano con ostilità alle misure di contenimento e non serviva a molto sbarrare le porte delle case mentre i malati cercavano di fuggire dai lazzaretti. Ciò portò all’instaurazione di forme di “dittatura sanitaria”, come quella di Palermo del

1575, guidata dal medico e deputato alla sanità Giovanni Filippo Ingrassia, che non esitò a innalzare forche per convincere la gente a obbedire. La storica Maria Paola Zanoboni dedica un saggio alle epidemie dall’antichità al XVIII secolo concentrandosi sulle conseguenze economiche e sociali, sui tentativi di sanare il deficit e sulle reazioni della gente in quarantena: «I reclusi erano rifocillati a spese dello stato se indigenti, oppure era concesso solo al capofamiglia di uscire di casa, la mattina, per procurarsi i viveri. La gente mal sopportava tutto questo, e cercava con ogni sotterfugio di continuare i propri commerci». STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA ARTI VISIVE

Il fotografo della mondanità

N

ei suoi celebri manifesti rappresentò la vita mondana, inventando la figura femminile liberty resa in pose diverse. Dell’illustratore triestino Marcello Dudovich (18781962) sono noti i cartelloni concepiti per pubblicizzare le grandi aziende del tempo (Martini, Campari, Rinascente, Agfa film). Alla base dei soggetti scelti stava però la fotografia, praticata non occasionalmente da Dudovich sin dai primi del novecento. L’artista si affermò infatti nelle vesti di “cronista mondano” della rivista satirica bavarese Simplicissimus, nella quale fu ingaggiato per ritrarre scene di vita galante ed elegante in salotti e teatri. Negli anni successivi continuò a considerare la fotografia come una sorta di “promemoria” da cui trarre spunti da riprodurre gra-

ALLESTIMENTO di una sala della mostra dedicata a Marcello Dudovich. Foto di Federico Valente.

ficamente. Dal bozzetto a tempera o a matita si arrivava al prodotto finito, cioè il manifesto pubblicitario oppure un’illustrazione da pubblicare su qualche rivista. Una mostra a

Trieste esplora la produzione artistica di Dudovich concentrandosi proprio sullo stretto legame tra fotografia e cartellonistica a scopo illustrativo e pubblicitario.

MARCELLO DUDOVICH, FOTOGRAFIA FRA ARTE E PASSIONE Ex Scuderie Castello di Miramare, Trieste Fino al 10 gennaio 2021 miramare.beniculturali.it

ARTI VISIVE

Immagini fissate nel tempo

P WILLIAM HENRY FOX TALBOT

Articles of China on two shelves, 1839-1844, carta salata da calotipo, 12.7 x 16.9 cm, Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

rima dell’invenzione della fotografia le immagini venivano riprodotte tramite il disegno, la xilografia, l’incisione a bulino e l’acquaforte. Poi, nel 1839, a Parigi Louis-Jacques-Mandé Daguerre riuscì a catturare le immagini su lastre di rame argentato. Il dagherrotipo restituiva immagini nitide, ma non riproducibili. A ciò pensò l’inglese William

Henry Fox Talbot: utilizzando i sali d’argento su fogli di carta diede vita ai cosiddetti calotipi, immagini in negativo che potevano essere stampate all’infinito. Talbot e Daguerre fissavano le immagini grazie a una soluzione chimica scoperta da John Herschel (l’iposolfito di sodio). Una mostra a Modena documenta l’attività di Talbot e i contatti che ebbe con

altri fotografi, artisti e scienziati del suo tempo. Tra questi l’astronomo Giovan Battista Amici, considerato il più grande inventore di strumenti ottici del XIX secolo. L’IMPRONTA DEL REALE Sala Mostre Gallerie Estensi, Modena Fino al 10 gennaio 2021 gallerie-estensi. beniculturali.it

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ARTE SACRA

Il potere del miracolo in sei secoli d’arte

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no dei princìpi basilari della medicina medievale era che la guarigione del corpo passava da quella dell’anima. La pittura esaltò così i poteri taumaturgici di uomini, e più raramente donne, le cui gesta miracolose sono tramandate da fonti agiografiche. Ad esempio nella pala d’altare Beata Umiltà e le storie della sua vita (1335-1340 c.ca) del pittore Pietro Lorenzetti è rappresentata la guarigione di un monaco da parte di Beata Umiltà, nobildonna votatasi a una vita di clausura. Umiltà tracciò più volte il segno della croce sull’arto incancrenito, che sarebbe miracolosamente guarito. Nell’ambito della pittura a soggetto miracolistico i personaggi maggiormente ritratti sono i santi Cosma e Damiano, che secondo la Legenda Aurea «erano istru-

BEATO ANGELICO. I santi Cosma e Damiano guariscono il diacono Giustiniano (1438-1442 c.ca), Museo di San Marco, Firenze.

iti nell’arte medica e ricevettero tanto potere dallo Spirito Santo che riuscivano a guarire tutte le malattie degli uomini e degli animali, ma non volevano mai

essere pagati dei loro servigi». I due fratelli, vissuti nel III secolo nei territori sudorientali dell’impero romano, e martirizzati in quanto cristiani sotto l’im-

peratore Diocleziano, sono i protagonisti delle opere di Sandro Botticelli e Beato Angelico. Le guarigioni di difetti fisici e malattie gravi operate da Cristo, dalla Vergine, da apostoli e da santi sono al centro di una mostra sul potere del miracolo analizzato attraverso una serie di opere realizzate tra il trecento e il novecento. Secondo Angelo Tartuferi, autore del saggio introduttivo, le raffigurazioni dei miracoli «esercitavano un impatto fortissimo sulla pratica devozionale quotidiana paragonabile – fatte le debite proporzioni – all’influenza dei social media». GUARIGIONI MIRACOLOSE Sito web Gallerie degli Uffizi Fino al 31 dicembre 2020 uffizi.it/mostre-virtuali/ guarigioni-miracolose

STORIA CONTEMPORANEA

Alla scoperta delle Dolomiti

L FRANZ LENHART, Cortina,

1947 ca., riproduzione fotomeccanica. Treviso, Museo nazionale Collezione Salce.

e Dolomiti, che il Romanticismo contribuì a rendere di moda oltre la Manica, entrarono nei circuiti turistici a partire dalla seconda metà dell’ottocento. Furono due esploratori britannici, Josiah Gilbert e George Cheetam Churchill, a farle conoscere attraverso il libro The Dolomite Mountains (1864). Insieme alle loro mogli, che li aiutaro-

no a fare amicizia con i locali, Josiah e George furono considerati i primi turisti in assoluto nelle Dolomiti. Importante fu anche l’esperienza della trevigiana Irene Pigatti (1859-1937) una delle prime alpiniste in Italia, che tra il 1886 e il 1893 scalò ben otto cime, di cui cinque non erano mai state raggiunte da donne. Una mostra a Conegliano testi-

monia l’importanza assunta dalle Dolomiti nel turismo ottocentesco e il coraggio di chi si avventurò tra quei territori inesplorati. IL RACCONTO DELLA MONTAGNA NELLA PITTURA Palazzo Sarcinelli, Conegliano (Tv) Fino all’8 dicembre 2020 visitconegliano.it

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Prossimo numero IL VIAGGIO AL NUOVO MONDO DURANTE il XVI e XVII

ALBUM

secolo, circa 450mila persone si videro obbligate a lasciare la Spagna e ad attraversare l’oceano alla ricerca di un futuro migliore. La traversata che attendeva questi uomini e donne era piena di pericoli: durava circa quaranta giorni, ma se le condizioni meterologiche non erano favorevoli, poteva essere anche più lunga. Alla durezza del viaggio si sommava la paura per un finale che, sapevano, poteva non essere lieto.

CAVALIERI MEDIEVALI, TRA STORIA E LEGGENDA TRA IL XII E IL XIV SECOLO, mentre si

modificavano le strategie belliche sui campi di battaglia, la cavalleria incarnò gli ideali di coraggio, generosità, lealtà e purezza tipici del mondo cortese. L’addestramento all’uso delle armi era importante, ma non esauriva la formazione del cavaliere. Ne facevano parte anche la caccia, i giochi, i valori cristiani e l’amore per la poesia. AKG / ALBUM

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Socrate, il maestro della Grecia

Nell’Atene del V secolo a.C. rivoluzionò gli insegnamenti filosofici e raccolse attorno a sé un gruppo di discepoli con i quali praticò un metodo di argomentazione basato sul dialogo.

Venti date che cambiarono la storia Dalla Grecia classica al mondo contemporaneo, venti episodi che contribuirono a cambiare il loro tempo e la visione del mondo del momento.

Filippo V, il re malinconico

Da quando era ragazzino il primo Borbone di Spagna soffrì di forte depressione e gravi disturbi di personalità.

Il faro di Alessandria

All’ingresso del porto di Alessandria si ergeva un’enorme torre alta più di cento metri, la cui luce brillava di notte con una forza tale da farla sembrare una stella.

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VAllEttA, malta

Malta, Gozo e Comino

Un arcipelago che abbraccia le diverse culture del Mediterraneo a poco più di un’ora di volo dall’Italia. 7000 anni di storia e 3 siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO tra i quali la capitale Valletta.



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