Storica National Geographic - febbraio 2020

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ORO DEGLI INCA

LE PIÙ LIBERE DELL’ANTICHITÀ

LA STATUA DELLA LIBERTÀ

LA NASCITA DI UN COLOSSO

MACHIAVELLI

- ESCE IL 18/01/2020 - POSTE ITALIANE S.P.A SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) 1 COMMA 1 - LO/MI. GERMANIA 12 € - SVIZZERA C. TICINO 10,20 CHF - SVIZZERA 10,50 CHF - BELGIO 9,50 €

CRONISTA DEL POTERE

MACHIAVELLI AUT. MBPA/LO-NO/063/A.P./2018 ART.

POMPEI

STATUA DELLA LIBERTÀ

SNG132_PORTADAbuena.indd 1 PERIODICITÀ MENSILE

DONNE IN EGITTO

L E U LTI M E SCO PE RTE

00132

LE DONNE IN EGITTO

9 772035 878008

NATIONAL GEOGRAPHIC

POMPEI

N. 132 • FEBBRAIO 2020 • 4,95 €

NU MERO 132

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L’ORO DEGLI INCA

PIZARRO E IL TESORO DI ATAHUALPA

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EDITORIALE

DOPO UNA LUNGA FILA e molti controlli di sicurezza ci s’imbarca per

Battery Park, a sud di New York, direzione Liberty Island. Lì agguarda, volto diretto all’Europa e spalle alla città, maestosa sul suo piedistallo la statua della Libertà. Una passeggiata attorno, o fin dentro la sua corona, e in solo pochi minuti grazie a un’altra barca ci si ritrova a Ellis Island. Qui in passato venivano internate le persone migranti prima di sbarcare a New York, la porta degli Stati Uniti, mentre oggi si erge un museo dedicato all’immigrazione. Un secolo fa gli Stati Uniti erano la terra promessa, il sogno dei contadini italiani, ucraini, irlandesi o polacchi; la possibilità di una nuova vita per le persone diseredate e perseguitate nel vecchio continente. Solo tra il 1880 e il 1921 nel Paese entrarono oltre ventitré milioni di europei: unicamente al due per cento di essi venne rifiutato l’ingresso. Per moltissimi europei oggi gli Stati Uniti e la statua della Libertà sono mete turistiche, d’affari o di studio. Per tanti altri che invece non hanno avuto la fortuna di nascere in un continente del benessere come il nostro, la terra promessa oggi è proprio l’Europa. Il mezzo con il quale cercano di raggiungerla in fuga da guerre, persecuzioni o semplicemente fame e mancanza di prospettive è ancora il mare, nel quale secondo l’UNHCR solo nel 2019 è morta una persona su quattro; oppure scappano sui camion, sovente perfino aggrappandosi sotto gli stessi. All’arrivo in Europa non li accoglie nessuna dea benevola e spesso non trovano neanche la terra promessa. Ma sì un continente abitato, anche, da tanti nipoti dei migranti del passato, che ancor di più dopo aver reso onore alla statua e a quel che rappresenta, tornano a casa e non dimenticano. ELENA LEDDA Vicedirettrice editoriale

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8 ATTUALITÀ 12 GRANDI INVENZIONI

La macchina a vapore La prima autovettura a motore destò molto scalpore, ma non ne venne venduta nemmeno una.

14 PERSONAGGI STRAORDINARI Lakshmi Bai

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Nel 1857 la regina di Jhansi guidò il suo popolo nella lotta contro i soprusi della Compagnia delle Indie. Dopo la morte in battaglia divenne una leggenda nazionale.

18 DATO STORICO

Una mongolfiera per bombardare Napoleone Nel 1812 venne costruito un dirigibile-mongolfiera per far fronte all’invasione della Russia da parte di Napoleone.

22 VITA QUOTIDIANA

Le perle a Roma Le perle si diffusero con gran successo tra l’aristocrazia romana a partire dal I secolo a.C.

116 GRANDI ENIGMI

Naufraghi in Antartide I sopravvissuti al naufragio della San Telmo (1819) furono forse i primi ad arrivare in Antartide.

120 ROVESCIO DELLA TRAMA Il machiavellismo di Machiavelli

122 FOTO DEL MESE 124 LIBRI E MOSTRE 18

20 OPERA D’ARTE

La più bella del reame La scultura di Uta von Ballenstedt, tra propaganda nazista e Disney. 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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28 LE DONNE NELL’ANTICO EGITTO NELL’EGITTO FARAONICO

le donne avevano gli stessi diritti e obblighi degli uomini. Non dovevano sottostare alla tutela del padre o del marito e, nonostante nella pratica si dedicassero spesso alla cura della casa, in teoria avevano accesso a impieghi tradizionalmente riservati agli uomini. Anche se il loro status cambiò durante l’antico Egitto, quasi sempre furono molto più libere delle donne greche e romane. DI BARBARA FAENZA UNA DOMESTICA SEMINUDA SERVE ALCUNE DONNE INTENTE AD ASCOLTARE UN ARPISTA CIECO DURANTE UN BANCHETTO. TOMBA DI NAKHT.

44 Pompei, le ultime scoperte Grazie a un ambizioso progetto finanziato in parte dall’Unione Europea, negli ultimi anni a Pompei si sono registrati importanti ritrovamenti, come alcune ville decorate con splendidi affreschi e mosaici. Gli scavi stanno inoltre facendo luce sulle ultime ore di vita delle vittime dell’eruzione. DI RUBÉN MONTOYA

66 L’oro degli inca Nel 1524 Hernando Pizarro partì da Panama alla conquista del regno di Birú, a ovest dell’attuale Colombia, ambito per le sue ricchezze. Dopo aver sconfitto gli inca, s’impadronì del più grande tesoro in oro nella storia della conquista dell’America. DI MARÍA DEL CARMEN MARTÍN RUBIO

82 Machiavelli, cronista del potere Negli anni al servizio della Repubblica di Firenze, in qualità di suo ambasciatore Machiavelli poté constatare come il crimine e la spregiudicatezza fossero l’unico modo per avere successo in politica. Tanto che lui stesso ne pagò le conseguenze sulla propria pelle. DI ANDREA FREDIANI

96 La statua

della Libertà In occasione del centenario della loro indipendenza, il 4 luglio 1876, gli Stati Uniti ricevettero dalla Francia un regalo che in poco tempo sarebbe diventato il loro simbolo: la statua della Libertà, la dea benevola che accoglie gli stranieri in fuga da tirannide e povertà. DI FRANCESCA LIDIA VIANO

LA TORCIA E IL BRACCIO DELLA STATUA DELLA LIBERTÀ ESPOSTI A FILADELFIA NEL 1876.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION

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L’ORO DEGLI INCA

PIZARRO E IL TESORO DI ATAHUALPA

Pubblicazione periodica mensile - Anno XII - n. 132

LE PIÙ LIBERE DELL’ANTICHITÀ

LA STATUA DELLA LIBERTÀ LA NASCITA DI UN COLOSSO

MACHIAVELLI

CRONISTA DEL POTERE

POMPEI LE U LTI M E SCO PE RTE

UNO DEGLI ARCHI ONORARI DELLA CITTÀ DI POMPEI. FOTO: ©GUIDO COZZI/FOTOTECA 9X12

NATIONAL GEOGRAPHIC e Yellow Border Design sono marche commerciali di National Geographic Society, usate su licenza

Editore: RBA ITALIA SRL via Gustavo Fara, 35 20124 Milano tel. 0200696352 e-mail: storica@storicang.it Direttore generale: ANDREA FERDEGHINI

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LE DONNE IN EGITTO

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AT T UA L I T À

FINO AI 49 METRI la piramide

MIDDLE EAST / ALAMY / ACI

romboidale di Dahshur conserva parte del suo originale rivestimento in pietra calcarea bianca.

ANTICO EGITTO

La seconda piramide del faraone Snefru, a Dahshur, ha riaperto le porte ai turisti

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Dahshur, a una quarantina di chilometri a sud del Cairo, in Egitto, si erge una singolare piramide attribuita a Snefru, primo faraone della quarta dinastia (2543-2436 a.C.) nonché padre di Cheope, il costruttore della grande piramide. Nota come piramide ottusa o romboidale, si staglia inconfondibile nel paesaggio desertico. All’inizio della sua realizzazione aveva una pendenza di circa sessanta gradi, ma a partire dai quarantasette metri l’inclina-

zione dei lati venne ridotta a quarantatré gradi: è questo dettaglio a conferirle il suo aspetto così particolare. Nel 1965 la struttura cominciò a presentare dei cedimenti, e le autorità decisero di chiuderla. Adesso, dopo circa mezzo secolo e al termine di un complesso restauro, il ministero delle antichità egiziano ha riaperto al pubblico la piramide. Sempre a Dahshur si erge la tomba di Sa Eset, sovrintendente alle piramidi del Medio regno, che aprirà i battenti intono al 2021.

SERGEY STRELKOV / ALAMY / ACI

La piramide romboidale

I VISITATORI che si recano a Dahshur potranno introdursi nella piramide romboidale dal lato nord e scendere al suo interno attraverso il tunnel lungo 79 metri che vediamo nell’immagine. Questo li condurrà sino alle camere sepolcrali. Durante il tragitto avranno modo di ammirare il soffitto, che presenta un’importante innovazione architettonica introdotta durante il regno di Snefru: la falsa volta ottenuta tramite l’accostamento di filari di mattoni.

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EDUARDO VIJANDE

AT T UA L I T À

UNO DEGLI UOMINI sepolti nella tomba numero 11 – di due EDUARDO VIJANDE

PANORAMICA DELLA NECROPOLI NEOLITICA PRIMA DELLA COSTRUZIONE DEL CAMPO DA HOCKEY.

metri di diametro e coperta con lastre di pietra – aveva tra i 25 e i 30 anni, e l’altro tra i 40 e i 50. Furono sepolti in momenti diversi ed entrambi morirono assassinati.

NEOLITICO

SÁNCHEZ BARBA ET A. / INTERNATIONAL JOURNAL OF PALEOPATHOLOGY

Un crimine a San Fernando I due uomini ritrovati in una tomba neolitica presentano forti contusioni al cranio

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el 2007 la costruzione di un campo da hockey nel comune di San Fernando (Cadice, Spagna) portò alla luce un cimitero neolitico vecchio circa seimiladuecento anni. I lavori si fermarono e gli archeologi riesumarono cinquantanove tombe con settantatré individui. Nella maggior parte dei casi, erano sepolture semplici, ma ce n’erano anche di più sontuose. Una di queste, la numero undici, conteneva un ricco corredo funerario (una col-

lana di ambra, aghi in osso, un’ascia di selce…) e i resti di due uomini che mostravano profonde ferite sul cranio.

Fu omicidio? Venne scavata gran parte della necropoli, e i corpi furono estratti per essere sottoposti ad analisi. Dopo anni d’indagine, i risultati sono stati pubblicati sulla rivista International Journal of Paleopathology. La conclusione è che, durante il Neolitico, lì si trovava un insediamento permanente di una certa importanza, e

L’IMMAGINE MOSTRA LA FERITA FRONTALE CHE PRESENTAVA L’UOMO PIÙ GIOVANE DELLA TOMBA NUMERO 11 E CHE SICURAMENTE PROVOCÒ LA SUA MORTE.

gli individui sepolti nella tomba undici erano persone di elevata condizione sociale. Le ferite che entrambi presentano sul cranio lasciano supporre un’aggressione che ne causò la morte. Il movente rimane un mistero, anche se

gli archeologi ritengono che dietro l’aggressione si celassero la distribuzione disuguale delle ricchezze e i primi germi della disparità sociale, che s’impose in quel periodo, dando origine a una serie di morti violente.

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GRANDI INVENZIONI

Il sogno della macchina a vapore 1873

La prima autovettura a motore poteva trasportare fino a 12 passeggeri a 40 chilometri all’ora. Destò molto scalpore ma non ne venne venduta nemmeno una

S

abato 9 ottobre 1875 un veicolo azionato da un motore a vapore e conosciuto come L’Obéissante percorse i duecentotrenta chilometri che separavano le città francesi di Le Mans e Parigi in sole diciotto ore, fermate incluse: per l’epoca fu un autentico trionfo. L’autovettura, simile a una diligenza ma senza cavalli e con un fumaiolo nella parte posteriore, aveva dodici posti, poteva circolare a una velocità massima di quaranta chilometri all’ora e affrontare persino strade in salita con una pendenza del dodici per cento. L’Obéissante, la prima autovettura a vapore, venne fabbricata da Amédée Bollée,

L’OBÉISSANTE CON DIVERSI PASSEGGERI A BORDO IN UNO DEI SUOI PRIMI VIAGGI.

un inventore francese nonché fonditore di campane. Pesava quattromila ottocento chili ed era contraddistinta da trazione posteriore (due motori a vapore, uno per ogni ruota), sospensione indipendente delle quattro ruote e caldaia nella parte retrostante. Considerata la prima vettura a trazione meccanica davvero funzionale per il trasporto di passeggeri in strada, L’Obéissante era veloce e silenziosa in confronto ai precedenti veicoli a vapore, goffi e lenti. Si manovrava in modo semplice (da lì il nome, L’Obbediente) e possedeva alcune caratteristiche proprie delle automobili del futuro: seduto nella zona anteriore, il conducente controllava il volante e tutti i dispositivi di guida, mentre lo chauffeur, seduto in fondo, si preoccupava di alimentare la caldaia a vapore.

Meravigliosa precisione

ROGER VIOLLET / AURIMAGES

L’Obéissante fu la prima autovettura privata a ottenere il permesso di circolare per le vie di Parigi, dove suscitò grande scalpore. Il 17 ottobre 1875 Le Figaro raccontava così il passaggio di tale portento per le strade della capitale, avvenuto pochi giorni prima: «Non emetteva rumore alcuno, si fermava all’improvviso girando a destra, a sinistra e su sé stessa con una meravigliosa precisione. I cavalli

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I AC Y/

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AMÉDÉE BOLLÉE, INVENTORE DI DIVERSI VEICOLI A VAPORE.

PIONIERE DELLE AUTOVETTURE 1873 Amédée Bollée inventa il primo veicolo a trazione meccanica, azionato da un motore a vapore.

1875 L’Obéissante è presentato al pubblico e percorre in 18 ore i 230 chilometri che separano Le Mans da Parigi.

1878 Bollée crea La Mancelle, un’autovettura più piccola di L’Obéissante: sarà la prima automobile prodotta in serie.

1885 L’OBÉISSANTE di Amédée

Bollée è oggi esposta al Musée des Arts e Métiers di Parigi.

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Bollée abbandona l’industria automobilistica dopo che Carl Benz costruisce il motore a combustione interna.

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di tutte le carrozze che circolavano sul viale sembravano un po’ sorpresi, ma nessuno pareva intimorito». Curiosamente, durante il tragitto L’Obéissante aveva accumulato diverse multe, in quanto il codice stradale dell’epoca non contemplava ancora la casistica inerente alla circolazione di autovetture. La questione però si risolse per il meglio non appena il prefetto della polizia venne invitato a salire a bordo e a percorrere i boulevard parigini. Nonostante l’entusiasmo del mondo scientifico, che si complimentò con Bollée per la sua ingegnosa creazione, purtroppo nessuno ordinò un modello del mezzo.

Non fu questa l’unica autovettura a vapore concepita dall’inventore di Le Mans. Bollée attribuì il fiasco commerciale di L’Obéissante al suo peso eccessivo, e quindi nel 1878 disegnò un mezzo più leggero – 2750 chili – e con meno posti a sedere, La Mancelle. Aveva un solo motore posto nella parte anteriore e viene considerata la prima automobile del mondo prodotta in serie: se ne fabbricarono circa cinquanta unità. Dopo di questa fu la volta di La Marie-Anne, un imponente “treno” da strada da venti tonnellate capace di rimorchiarne in pianura ben 100. Poi venne La Nouvelle, una versione migliorata di La Mancelle, e

infine La Rapide, un veicolo a sei posti che raggiungeva i sessanta chilometri all’ora circa e la cui campanella, situata sotto la parte anteriore del tettuccio, è la precorritrice degli attuali clacson. L’auto moderna nacque nel 1885 quando Carl Benz costruì un motore a combustione interna che sostituì quello a vapore. A quel punto Amédée Bollée decise di abbandonare definitivamente la sua avventura automobilistica. I figli ne avrebbero portato avanti l’impresa, sperimentando nuove tecnologie, mentre lui tornò a fondere campane. —Alec Forssmann STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

Lakshmi Bai, la regina guerriera dell’India Nel 1857 la regina di Jhansi guidò il suo popolo nella lotta contro i soprusi della Compagnia delle Indie. Dopo la morte in battaglia divenne una leggenda nazionale

Simbolo della resistenza indiana 1828-1835 Nasce Lakshmi Bai, chiamata Manu in famiglia. La data di nascita esatta è incerta.

1842 Sposa Gangadhar Rao e adotta il nome di Lakshmi Bai. Qualche tempo dopo suo marito diventa il maharaja di Jhansi.

1854 Le autorità britanniche le impediscono di assumere la reggenza in nome del figlio adottivo.

1857 Scoppia la Rivolta dei sepoy, che in poco tempo si diffonde in gran parte dell’India.

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metà dell’ottocento la Compagnia britannica delle Indie orientali dominava gran parte dell’India sia in modo diretto sia attraverso gli stati principeschi, ovvero retti da sovrani locali ma, di fatto, controllati dai britannici. La politica espansionistica della Compagnia determinò nel 1857 lo scoppio della cosiddetta “Rivolta dei sepoy” (dal nome delle truppe militari locali in forza alla Compagnia), chiamata anche Indian Mutiny dai britannici e Prima guerra d’indipendenza dagli indiani. Tra i ribelli vi fu anche una donna, Lakshmi Bai, la regina di Jhansi. Chiamata alla nascita Manikarnika (mutò il nome in Lakshmi Bai dopo il matrimonio, com’era usanza), ma soprannominata Manu in famiglia, era nata nell’odierna Varanasi. La data di nascita è controversa e oscilla tra il 1828 e il 1835. Si racconta che alla sua nascita gli astrologi predissero ai genitori che la bimba avrebbe posseduto le virtù delle tre dee induiste Lakshmi, Durga e Sarasvati: salute, valore e saggezza. La madre si chiamava Bha-

1858

girathibai e morì quando Manu aveva quattro anni. Suo padre, invece, era Moropant Tampe, consigliere del fratello del peshwa Bajirao, una sorta di primo ministro dell’impero induista Maratha. Dopo la morte della madre, Moropant si trasferì nella regione del Bithur, alla corte di Bajirao. Manu fu educata in casa e, cosa rara per le donne, ebbe la libertà di studiare discipline solitamente riservate agli uomini: infatti, imparò ad andare a cavallo, studiò scherma e apprese diverse tecniche di combattimento. Il suo carattere fiero e orgoglioso si mostrò fin dall’infanzia: un giorno le fu proibito di cavalcare un elefante di proprietà del peshwa. Il padre, dispiaciuto per l’umiliazione subita dalla figlia, le disse che non avrebbero mai potuto permettersi un elefante, ma lei risoluta rispose: «Il mio destino è di averne dieci di elefanti!».

Regina di Jhansi Quando Manu era ancora molto giovane, fu combinato il suo matrimonio con Gangadhar Rao, il maharaja di Jhansi, un piccolo stato principesco del nord. Le nozze furono celebrate nel 1842 con molta magnificenza: per l’occasione, furono organizzate rappresentazioni con cavalli arabi e

Alla nascita le predissero che avrebbe avuto le virtù di tre dee indù: Lakshmi, Durga e Sarasvati

Lakshmi Bai muore in un combattimento a cavallo contro gli inglesi nei pressi di Gwalior.

LA DEA DURGA. RILIEVO DEL XII SECOLO. 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC BRIDGEMAN

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IN NOME DELLA RANI LAKSHMI BAI LA RANI ha dato il proprio nome

a diverse istituzioni nazionali. Per esempio, negli anni quaranta è stata costituita la Rani di Jhansi, un’unità femminile dell’esercito nazionale indiano, e negli anni cinquanta è stato fondato l’Istituto nazionale di educazione fisica Lakshmibai, per promuovere le eccellenze sportive indiane. La rani è stata celebrata anche nell’arte: oltre numerose statue equestri, sono state scritte diverse opere letterarie in suo onore: tra queste, il poema dell’autrice Subhadra Kumari Chauhan (1930). Dal febbraio 2019 va in onda in India una serie tv a lei dedicata. LAKSHMI BAI, RANI DI JHANSI, BRANDISCE LA SPADA IN SELLA AL SUO CAVALLO. INCISIONE A COLORI DEL XIX SECOLO. ALAMY / ACI

Siddhabaksh, l’elefante preferito di Gangadhar, sfilò bardato interamente d’oro. Lungo le strade si svolsero combattimenti di galli e al popolo, accorso per vedere la sposa, furono donati cibo e vestiti. Dopo le nozze Manu venne chiamata con il nome di Lakshmi Bai, rani (ovvero regina) di Jhansi. Intorno al 1851 partorì Damodar Rao, il suo primo e unico figlio, che però morì dopo pochi mesi. Avendo bisogno di un erede per garantire la stabilità del trono, due anni dopo la coppia decise di adottare un bambino, figlio di un parente di Gangadhar, Anand Rao,

cambiandogli il nome in Damodar. Il maharaja, che pare non si fosse mai ripreso dalla scomparsa del figlio, morì il giorno dopo la cerimonia di adozione. Dopo la morte del marito, Lakshmi Bai salì sul trono di Jhansi, amministrandolo per conto del figlio adottivo. Da quel momento, la sua vita cambiò totalmente. Il 27 febbraio 1854, il governatore generale della Compagnia delle Indie orientali, James Broun-Ramsay, conte di Dalhousie, rivendicò l’illegittimità dell’erede al trono e fece applicare la cosiddetta “dottrina della decadenza”, una norma

secondo cui, in caso di morte senza eredi di un sovrano di uno stato principesco sotto l’influenza della Compagnia, questo sarebbe stato direttamente annesso a essa. Lakshmi Bai capì subito che avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche per salvare Jhansi dai colonizzatori britannici. Dapprima tentò la strada della diplomazia. Supportata dall’avvocato e scrittore John Lang, si appellò a Lord Dalhousie citando i trattati in cui i britannici garantivano sia la libertà di Jhansi come ricompensa per l’aiuto fornito durante la guerra anglo-birmana, sia la legittiSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAJE SINGULAR

ALCUNI UFFICIALI britannici

GRANGER / ACI

e le rispettive mogli vengono massacrati a Jhansi nel 1857, durante la Rivolta dei sepoy. Incisione.

mità dell’adozione di Anand secondo la legge locale. Il marchese ignorò le argomentazioni della rani e le intimò di tornare a Varanasi, offrendole una pensione annua di diverse migliaia di rupie. Lakshmi Bai rifiutò l’offerta e dichiarò allora che avrebbe combattuto per la libertà di Jhansi. Nel frattempo, i rapporti tra il governo britannico e gli indiani erano sem-

pre più tesi. Mentre la classe aristocratica temeva di perdere i propri privilegi, il popolo era scontento perché la Compagnia aveva varato una serie di riforme che abolivano tradizioni millenarie: per esempio fu vietata la sati, il sacrificio volontario della moglie sulla pira del marito. Era stata anche favorita l’attività missionaria cristiana, vista dai locali come un tentativo di

LA POLEMICA LA PRINCIPALE accusa

dei britannici nei confronti di Lakshmi Bai fu di essere stata coinvolta nel massacro di soldati inglesi avvenuto a Jhansi. Nel 1894 il figlio adottivo della regina pubblicò la lettera di un ufficiale britannico che la scagionava completamente. LAKSHMI BAI. FOTOGRAFIA SCATTATA ATTORNO AL 1850. AKG / ALBUM

minare le fondamenta dell’ortodossia religiosa. I primi a ribellarsi al governo furono i sepoy. Anche fra loro, infatti, serpeggiava il malcontento a causa del comportamento razzista degli ufficiali britannici nei loro confronti. Le truppe indiane avevano infatti ricevuto in dotazione dei fucili Lee Enfield: per caricarli bisognava compiere una procedura consistente nel mordere una cartuccia intrisa di grasso. Ben presto si diffuse la convinzione che questo grasso fosse di maiale o di bue, per cui mordere la cartuccia sarebbe stato un gesto impuro sia per gli induisti sia per i musulmani. Ciò fu pertanto letto come l’ennesimo segno di disprezzo da parte dei colonizzatori verso le tradizioni locali e fu tra le cause che portarono alla guerra. Il 10 maggio 1857 i sepoy assal-

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IL FORTE DI GWALIOR.

JENS BENNINGHOFEN / ALAMY / ACI

Durante la marcia verso Gwalior, Lakshmi Bai si scontrò con i soldati britannici e fu ferita a morte.

tarono i britannici a Meerut, nel nord dell’India. In breve tempo la rivolta si estese a macchia d’olio.

Alla guida di Jhansi Poche settimane dopo i rivoltosi giunsero anche a Jhansi, occuparono il palazzo reale e massacrarono oltre sessanta militari europei. Dopo quattro giorni, Lakshmi Bai riuscì a organizzare la difesa e ad allontanarli, ma fu sospettata di aver fomentato la rivolta. Poco dopo, affrontò il sovrano di uno stato vicino che tentava d’impossessarsi di Jhansi. Subito il popolo riconobbe in lei una vera e propria leader. Inoltre, poiché i britannici erano impegnati a sedare i vari focolai di rivolta, di fatto era rimasta lei a governare Jhansi e fino alla fine di febbraio del 1858 sembrò che fosse tornata la pace nel suo regno. La regina inizialmente non era intenzionata ad appoggiare gli insorti, ma quando nel mese di marzo i colonizzatori assediarono Jhansi e l’accusarono di un

secondo massacro di soldati britannici (avvenuto qualche tempo prima), cambiò idea. Il maresciallo Hugh Rose le intimò la resa immediata; per tutta risposta la rani lo sfidò con un proclama pubblico in cui diceva: «Noi combattiamo per l’indipendenza: se saremo vittoriosi, godremo i frutti della vittoria, se sconfitti e uccisi sul campo di battaglia, guadagneremo sicuramente l’eterna gloria». Il 23 marzo sir Hugh Rose attaccò il forte. I combattimenti si protrassero per diversi giorni e ben presto le forze indiane si rivelarono in svantaggio nonostante l’aiuto dell’armata di Tantia Tope, un altro leader ribelle. Il 2 aprile Rose espugnò il forte e Lakshmi Bai fu costretta alla fuga. Secondo la tradizione, saltò direttamente da una finestra in sella a Badal, il suo cavallo preferito, con Damodar Rao legato sulla schiena. Molto più probabilmente, i due fuggirono di notte, con l’aiuto delle guardie. La regina si ricongiunse con l’esercito di Tantia

Tope, con cui marciò verso la città di Gwalior, dove avvenne un nuovo scontro contro i colonizzatori. Il 17 giugno 1858 fu disarcionata mentre combatteva contro un ufficiale britannico e venne uccisa. È molto probabile che le esequie avvennero lo stesso giorno e fu sepolta nella zona di Phool Bagh a Gwalior. Secondo una tradizione, fu cremata, come lei stessa aveva chiesto in caso di morte in battaglia, non volendo che i nemici s’impossessassero del suo corpo. Tre giorni dopo i britannici sconfissero gli insorti. Data anche l’eco che la Rivolta dei sepoy aveva avuto in Europa, poco dopo la Compagnia delle Indie fu sciolta e nell’agosto del 1858 fu varato il Government of India Act con cui si trasferivano alla Corona tutti i diritti della Compagnia. Sir Hugh Rose a proposito di Lakshmi Bai scrisse: «È stata la più valorosa di tutti i leader indiani». —Alessandra Pagano STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

Lakshmi Bai, la regina guerriera dell’India Nel 1857 la regina di Jhansi guidò il suo popolo nella lotta contro i soprusi della Compagnia delle Indie. Dopo la morte in battaglia divenne una leggenda nazionale

Simbolo della resistenza indiana 1828-1835 Nasce Lakshmi Bai, chiamata Manu in famiglia. La data di nascita esatta è incerta.

1842 Sposa Gangadhar Rao e adotta il nome di Lakshmi Bai. Qualche tempo dopo suo marito diventa il maharaja di Jhansi.

1854 Le autorità britanniche le impediscono di assumere la reggenza in nome del figlio adottivo.

1857 Scoppia la Rivolta dei sepoy, che in poco tempo si diffonde in gran parte dell’India.

A

metà dell’ottocento la Compagnia britannica delle Indie orientali dominava gran parte dell’India sia in modo diretto sia attraverso gli stati principeschi, ovvero retti da sovrani locali ma, di fatto, controllati dai britannici. La politica espansionistica della Compagnia determinò nel 1857 lo scoppio della cosiddetta “Rivolta dei sepoy” (dal nome delle truppe militari locali in forza alla Compagnia), chiamata anche Indian Mutiny dai britannici e Prima guerra d’indipendenza dagli indiani. Tra i ribelli vi fu anche una donna, Lakshmi Bai, la regina di Jhansi. Chiamata alla nascita Manikarnika (mutò il nome in Lakshmi Bai dopo il matrimonio, com’era usanza), ma soprannominata Manu in famiglia, era nata nell’odierna Varanasi. La data di nascita è controversa e oscilla tra il 1828 e il 1835. Si racconta che alla sua nascita gli astrologi predissero ai genitori che la bimba avrebbe posseduto le virtù delle tre dee induiste Lakshmi, Durga e Sarasvati: salute, valore e saggezza. La madre si chiamava Bha-

1858

girathibai e morì quando Manu aveva quattro anni. Suo padre, invece, era Moropant Tampe, consigliere del fratello del peshwa Bajirao, una sorta di primo ministro dell’impero induista Maratha. Dopo la morte della madre, Moropant si trasferì nella regione del Bithur, alla corte di Bajirao. Manu fu educata in casa e, cosa rara per le donne, ebbe la libertà di studiare discipline solitamente riservate agli uomini: infatti, imparò ad andare a cavallo, studiò scherma e apprese diverse tecniche di combattimento. Il suo carattere fiero e orgoglioso si mostrò fin dall’infanzia: un giorno le fu proibito di cavalcare un elefante di proprietà del peshwa. Il padre, dispiaciuto per l’umiliazione subita dalla figlia, le disse che non avrebbero mai potuto permettersi un elefante, ma lei risoluta rispose: «Il mio destino è di averne dieci di elefanti!».

Regina di Jhansi Quando Manu era ancora molto giovane, fu combinato il suo matrimonio con Gangadhar Rao, il maharaja di Jhansi, un piccolo stato principesco del nord. Le nozze furono celebrate nel 1842 con molta magnificenza: per l’occasione, furono organizzate rappresentazioni con cavalli arabi e

Alla nascita le predissero che avrebbe avuto le virtù di tre dee indù: Lakshmi, Durga e Sarasvati

Lakshmi Bai muore in un combattimento a cavallo contro gli inglesi nei pressi di Gwalior.

LA DEA DURGA. RILIEVO DEL XII SECOLO. 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC BRIDGEMAN

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IN NOME DELLA RANI LAKSHMI BAI LA RANI ha dato il proprio nome

a diverse istituzioni nazionali. Per esempio, negli anni quaranta è stata costituita la Rani di Jhansi, un’unità femminile dell’esercito nazionale indiano, e negli anni cinquanta è stato fondato l’Istituto nazionale di educazione fisica Lakshmibai, per promuovere le eccellenze sportive indiane. La rani è stata celebrata anche nell’arte: oltre numerose statue equestri, sono state scritte diverse opere letterarie in suo onore: tra queste, il poema dell’autrice Subhadra Kumari Chauhan (1930). Dal febbraio 2019 va in onda in India una serie tv a lei dedicata. LAKSHMI BAI, RANI DI JHANSI, BRANDISCE LA SPADA IN SELLA AL SUO CAVALLO. INCISIONE A COLORI DEL XIX SECOLO. ALAMY / ACI

Siddhabaksh, l’elefante preferito di Gangadhar, sfilò bardato interamente d’oro. Lungo le strade si svolsero combattimenti di galli e al popolo, accorso per vedere la sposa, furono donati cibo e vestiti. Dopo le nozze Manu venne chiamata con il nome di Lakshmi Bai, rani (ovvero regina) di Jhansi. Intorno al 1851 partorì Damodar Rao, il suo primo e unico figlio, che però morì dopo pochi mesi. Avendo bisogno di un erede per garantire la stabilità del trono, due anni dopo la coppia decise di adottare un bambino, figlio di un parente di Gangadhar, Anand Rao,

cambiandogli il nome in Damodar. Il maharaja, che pare non si fosse mai ripreso dalla scomparsa del figlio, morì il giorno dopo la cerimonia di adozione. Dopo la morte del marito, Lakshmi Bai salì sul trono di Jhansi, amministrandolo per conto del figlio adottivo. Da quel momento, la sua vita cambiò totalmente. Il 27 febbraio 1854, il governatore generale della Compagnia delle Indie orientali, James Broun-Ramsay, conte di Dalhousie, rivendicò l’illegittimità dell’erede al trono e fece applicare la cosiddetta “dottrina della decadenza”, una norma

secondo cui, in caso di morte senza eredi di un sovrano di uno stato principesco sotto l’influenza della Compagnia, questo sarebbe stato direttamente annesso a essa. Lakshmi Bai capì subito che avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche per salvare Jhansi dai colonizzatori britannici. Dapprima tentò la strada della diplomazia. Supportata dall’avvocato e scrittore John Lang, si appellò a Lord Dalhousie citando i trattati in cui i britannici garantivano sia la libertà di Jhansi come ricompensa per l’aiuto fornito durante la guerra anglo-birmana, sia la legittiSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

ALCUNI UFFICIALI britannici

GRANGER / ACI

e le rispettive mogli vengono massacrati a Jhansi nel 1857, durante la Rivolta dei sepoy. Incisione.

mità dell’adozione di Anand secondo la legge locale. Il marchese ignorò le argomentazioni della rani e le intimò di tornare a Varanasi, offrendole una pensione annua di diverse migliaia di rupie. Lakshmi Bai rifiutò l’offerta e dichiarò allora che avrebbe combattuto per la libertà di Jhansi. Nel frattempo, i rapporti tra il governo britannico e gli indiani erano sem-

pre più tesi. Mentre la classe aristocratica temeva di perdere i propri privilegi, il popolo era scontento perché la Compagnia aveva varato una serie di riforme che abolivano tradizioni millenarie: per esempio fu vietata la sati, il sacrificio volontario della moglie sulla pira del marito. Era stata anche favorita l’attività missionaria cristiana, vista dai locali come un tentativo di

LA POLEMICA LA PRINCIPALE accusa

dei britannici nei confronti di Lakshmi Bai fu di essere stata coinvolta nel massacro di soldati inglesi avvenuto a Jhansi. Nel 1894 il figlio adottivo della regina pubblicò la lettera di un ufficiale britannico che la scagionava completamente. LAKSHMI BAI. FOTOGRAFIA SCATTATA ATTORNO AL 1850. AKG / ALBUM

minare le fondamenta dell’ortodossia religiosa. I primi a ribellarsi al governo furono i sepoy. Anche fra loro, infatti, serpeggiava il malcontento a causa del comportamento razzista degli ufficiali britannici nei loro confronti. Le truppe indiane avevano infatti ricevuto in dotazione dei fucili Lee Enfield: per caricarli bisognava compiere una procedura consistente nel mordere una cartuccia intrisa di grasso. Ben presto si diffuse la convinzione che questo grasso fosse di maiale o di bue, per cui mordere la cartuccia sarebbe stato un gesto impuro sia per gli induisti sia per i musulmani. Ciò fu pertanto letto come l’ennesimo segno di disprezzo da parte dei colonizzatori verso le tradizioni locali e fu tra le cause che portarono alla guerra. Il 10 maggio 1857 i sepoy assal-

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IL FORTE DI GWALIOR.

JENS BENNINGHOFEN / ALAMY / ACI

Durante la marcia verso Gwalior, Lakshmi Bai si scontrò con i soldati britannici e fu ferita a morte.

tarono i britannici a Meerut, nel nord dell’India. In breve tempo la rivolta si estese a macchia d’olio.

Alla guida di Jhansi Poche settimane dopo i rivoltosi giunsero anche a Jhansi, occuparono il palazzo reale e massacrarono oltre sessanta militari europei. Dopo quattro giorni, Lakshmi Bai riuscì a organizzare la difesa e ad allontanarli, ma fu sospettata di aver fomentato la rivolta. Poco dopo, affrontò il sovrano di uno stato vicino che tentava d’impossessarsi di Jhansi. Subito il popolo riconobbe in lei una vera e propria leader. Inoltre, poiché i britannici erano impegnati a sedare i vari focolai di rivolta, di fatto era rimasta lei a governare Jhansi e fino alla fine di febbraio del 1858 sembrò che fosse tornata la pace nel suo regno. La regina inizialmente non era intenzionata ad appoggiare gli insorti, ma quando nel mese di marzo i colonizzatori assediarono Jhansi e l’accusarono di un

secondo massacro di soldati britannici (avvenuto qualche tempo prima), cambiò idea. Il maresciallo Hugh Rose le intimò la resa immediata; per tutta risposta la rani lo sfidò con un proclama pubblico in cui diceva: «Noi combattiamo per l’indipendenza: se saremo vittoriosi, godremo i frutti della vittoria, se sconfitti e uccisi sul campo di battaglia, guadagneremo sicuramente l’eterna gloria». Il 23 marzo sir Hugh Rose attaccò il forte. I combattimenti si protrassero per diversi giorni e ben presto le forze indiane si rivelarono in svantaggio nonostante l’aiuto dell’armata di Tantia Tope, un altro leader ribelle. Il 2 aprile Rose espugnò il forte e Lakshmi Bai fu costretta alla fuga. Secondo la tradizione, saltò direttamente da una finestra in sella a Badal, il suo cavallo preferito, con Damodar Rao legato sulla schiena. Molto più probabilmente, i due fuggirono di notte, con l’aiuto delle guardie. La regina si ricongiunse con l’esercito di Tantia

Tope, con cui marciò verso la città di Gwalior, dove avvenne un nuovo scontro contro i colonizzatori. Il 17 giugno 1858 fu disarcionata mentre combatteva contro un ufficiale britannico e venne uccisa. È molto probabile che le esequie avvennero lo stesso giorno e fu sepolta nella zona di Phool Bagh a Gwalior. Secondo una tradizione, fu cremata, come lei stessa aveva chiesto in caso di morte in battaglia, non volendo che i nemici s’impossessassero del suo corpo. Tre giorni dopo i britannici sconfissero gli insorti. Data anche l’eco che la Rivolta dei sepoy aveva avuto in Europa, poco dopo la Compagnia delle Indie fu sciolta e nell’agosto del 1858 fu varato il Government of India Act con cui si trasferivano alla Corona tutti i diritti della Compagnia. Sir Hugh Rose a proposito di Lakshmi Bai scrisse: «È stata la più valorosa di tutti i leader indiani». —Alessandra Pagano STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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DATO S TO R I CO

Nel 1812 un ingegnere tedesco e il governo russo costruirono un dirigibile-mongolfiera per far fronte all’invasione della Russia da parte di Napoleone

N

el giugno 1783 i fratelli Joseph-Michel e JacquesÉtienne Montgolfier volarono per la prima volta su un pallone aerostatico. Quasi subito si cominciò a pensare a possibili usi militari di tale invenzione e già nel 1794 le mongolfiere vennero utilizzate per la ricognizione sui campi di battaglia. Ci fu però chi si spinse ben oltre. Nel 1810 Franz Leppich, un giovane inventore tedesco, propose al re Federico I del Württemberg di convertire i palloni in macchine da guerra. Il problema delle mongolfiere, spiegò Leppich, era la loro incapacità di volare controvento, ma dotandole

di ali potevano andare in qualsiasi direzione. All’inizio il re non approvò il progetto del tedesco, soprattutto perché Napoleone lo aveva già visionato e bocciato; poi però cambiò idea e concesse all’ingegnere una piccola sovvenzione. L’inventore era perciò impegnato a costruire la sua macchina quando, nei primi mesi del 1812, l’ambasciatore russo a Stoccarda David Alopaeus lo avvicinò tentandolo con un’offerta allettante perché lavorasse nel suo Paese. In una lettera rivolta allo zar Alessandro, Alopaeus descriveva nei dettagli una macchina «con una forma che ricorda quella di una balena», capace di sollevare «quaranta uomini con dodicimila cariche di esplosivo» per bombardare le posizioni nemiche. Assicurava inoltre che avrebbe potuto compiere il tragitto da Stoccarda a Londra in sole tredici ore.

Arma segreta A quei tempi Napoleone stava per lanciare la sua grande offensiva contro la Russia, la quale cercava in tutti i modi di prepararsi alla difesa. Il 26 aprile lo zar approvò finalmente il progetto e Leppich stabilì il suo laboratorio in un villaggio vicino a Mosca, dove il governatore Rostopčin gli procurò tutti gli strumenti necessari. BRIDGEMAN / ACI

PALLONE AEROSTATICO USATO COME PUNTO DI OSSERVAZIONE NELLA BATTAGLIA DI FLEURUS (1794). INCISIONE.

BRIDGEMAN / ACI

Una mongolfiera per bombardare Napoleone LA BATTAGLIA DEI PALLONI. CARICATURA INGLESE DEL 1784. BRITISH LIBRARY, LONDRA.

Sotto lo pseudonimo di Schmidt, Leppich si dedicava – sulla carta – a controllare la produzione di macchine agricole. Ma ben presto sorsero dei sospetti a causa dei picchetti di guardie appostati attorno al luogo, che aumentarono notevolmente quando Rostopčin ordinò grandi quantità di tessuto, acido solforico, polvere di smeriglio e altri prodotti per una cifra astronomica di oltre centoquarantamila rubli. A luglio centinaia di operai si affollavano nel laboratorio con turni di diciassette ore al giorno. Leppich rassicurò Rostopčin: il denaro non sarebbe andato perduto e la macchina volante sarebbe stata pronta per il 15 agosto: in autunno squadroni interi di mongolfiere avrebbero solcato il cielo di Mosca. Il 15 luglio lo zar Alessandro in persona visitò il laboratorio, dove gli vennero mostrati diversi componenti della macchina volante tra cui le ali e una grande gondola di quindici metri di lunghezza per otto di larghezza. L’imperatore non tardò a informare Kutuzov, il suo comandante in capo, dell’arma segreta e diede istruzioni sia a lui sia a Leppich perché si coordinassero nella futura offensiva aerea contro i francesi. Tuttavia, il 15 agosto, mentre i francesi erano già in marcia da Leppich, non giunse alcuna novità. Rostopčin cominciò a dubitare

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• lunghezza: 55-60 metri • larghezza: 16 metri • equipaggio: fino a 40 uomini

• peso: fino a 5 tonnellate

di lui e gli fece pressioni. Lo scienziato s’impegnò allora a consegnare la macchina per il 27 agosto, ma quando non rispettò nuovamente il termine, il governatore scrisse ad Alessandro accusando l’ingegnere tedesco di essere un «pazzo ciarlatano».

Fiasco tecnologico Intanto i francesi continuavano a marciare e la loro avanzata verso Mosca minacciava il laboratorio segreto. Così il materiale fu caricato su centotrenta carriaggi e portato a Nižnij Novgorod, mentre Leppich andò a San Pietroburgo. Dopo aver occupato Mosca, Napoleone venne a sapere della macchina volante e ordinò un’indagine. Dal

rapporto finale risultò che erano stati effettuati alcuni lavori «da parte di un inglese che si fa chiamare Schmidt e afferma di essere tedesco». Gli dissero pure che l’obiettivo dell’arma segreta era quello di distruggere Mosca prima che i francesi prendessero la città. Nel frattempo, Leppich proseguiva i suoi esperimenti nel celebre osservatorio di Oranienbaum. Nel novembre 1812 il suo primo prototipo di pallone crollò su sé stesso non appena fu trasportato fuori dall’hangar. Nel settembre 1813 ultimò finalmente una macchina volante che però era capace di elevarsi per appena dodici o tredici metri, un’altezza che non teneva fede alle sue promesse iniziali. Un mese più

NIKOLAY ROZHNOV / RIVISTA DI MOSCA

RICOSTRUZIONE DEL PALLONE DI LEPPICH CARATTERISTICHE

tardi il generale Aleksej Arakčeev aprì un’inchiesta sugli esperimenti di Leppich e scrisse che era un «vero e proprio ciarlatano che non ha la benché minima idea delle regole della meccanica e delle leggi sulle leve». Privo di fondi e caduto in disgrazia, Leppich abbandonò la Russia nel febbraio 1814. Le decine di migliaia di rubli che il governo russo aveva sprecato nel suo progetto si erano rivelate un inutile investimento. —Alexander Mikaberidze Per saperne di più

SAGGI

Quei temerari sulle macchine volanti Luigi Cancrini. Carocci, Roma, 2002.

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O P E R A D ’A R T E

ARTE TEDESCA

(M E TÀ X I I I

S E C .)

Uta von Ballenstedt: la più bella del reame La scultura venne utilizzata come strumento di propaganda nazista e diede un volto a uno dei cattivi per antonomasia del cinema: Grimilde, la matrigna disneyana di Biancaneve

T

ra le statue dei fondatori che adornano il coro della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Naumburg, cittadina della Germania centro-occidentale, spicca la figura raffinatissima e austera di Uta di Ballenstedt, la donna che prestò le fattezze a uno dei cattivi per antonomasia del cinema novecentesco: Grimilde, la matrigna di Biancaneve. Della sua vita si sa ben poco: Uta degli Askani di Ballenstedt era nipote di Odo primo margravio di Sassonia. Nel 1026, all’età di ventisei anni, sposò per motivi politici il quarantenne Ekkehard secondo, marchese di Meissen. Stando alla tradizione sfuggì al rogo dopo un’accusa di stregoneria, con notevole imbarazzo del devoto consorte. Morì senza figli il 23 ottobre 1045 (o 1046) a causa di un’epidemia che qualche mese dopo uccise anche il marito. Con lui si estinse la dinastia degli Ekkehardi-

ner. A renderla immortale ci pensò, un secolo e mezzo dopo, il geniale e ignoto Maestro di Naumburg che, tra il 1250 e il 1260, realizzò il ciclo commemorativo raffigurante gli illustri benefattori del duomo, ivi sepolti. Le statue, tra le opere più singolari della scultura europea medievale, seppur scolpite nello stesso blocco di pietra arenaria dei costoloni della volta, sono completamente autonome.

Una bellezza senza tempo La loro importanza artistica è dovuta al fatto che costituiscono uno dei vertici assoluti degli sviluppi plastici di derivazione francese. Nonostante non siano ritratti “dal vero” – i personaggi erano vissuti circa un secolo e mezzo prima – le dodici figure monolitiche, che incarnano il ceto dominante della metà del tredicesimo secolo, sono estremamente realistiche. Posta accanto al consorte, da cui è separata da uno scudo, Uta

appare algida e misteriosa; indossa una veste ornata da una preziosa spilla e sotto la gola stringe con la mano destra un pesante mantello dall’ampio bavero, rialzato sulla nuca, che ne esalta l’ovale del volto. Il viso, incorniciato da una fascia bianca orlata d’oro, è sormontato da un diadema decorato di gigli. L’espressione remota e senza tempo, gli occhi verdi a mandorla, resi ancora più magnetici dalla policromia generale, il naso dritto e le labbra rosso carminio, le garantirono un posto definitivo e durevole nell’immaginario collettivo popolare della società tedesca. Assurta a icona dell’arte teutonica e della germanicità nell’ottocento, fu utilizzata in maniera spregiudicata dalla propaganda nazista, che ne fece un monumento nazionale simboleggiante gli ideali del bello e del sacro del regime. ALESSIA CARMANNINI STORICA DELL’ARTE

nell’estate del 1935 Walt Disney viaggiava per l’Europa alla ricerca di modelli per il lungometraggio Biancaneve e i sette nani (1937). Un collaboratore, Wolfgang Reitherman, gli consigliò di recarsi a vedere la statua di Uta a Naumburg. Disney non arrivò in Sassonia ma nei diversi volumi di opere d’arte acquistati trovò le foto della scultura, la cui austera bellezza lo convinse a utilizzarla come modella - al pari delle attrici Joan Crawford, Katharine Hepburn e Gale Sondergaard - per la regina Grimilde, nome wagneriano evocante remote antichità germaniche.

ZIELSKE / AGE FOTOSTOCK

LA REGINA DI BIANCANEVE

SINISTRA: E. LESSING / ALBUM. DESTRA: WALT DISNEY PRODUCTIONS / ALBUM

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V I TA Q U OT I D I A N A

Le perle alla conquista di Roma

V

idi Lollia Paolina […] ricoperta di smeraldi e perle, che le splendevano sul capo e sui capelli intrecciati, sulle orecchie, sul collo e sulle dita, per un valore di quaranta milioni di sesterzi». A scriverlo, a metà del primo secolo d.C., è il naturalista Plinio il Vecchio a proposito della terza moglie dell’imperatore Caligola. Sebbene poche donne potessero permettersi i lussi di Lollia Paolina, l’amore per le perle era molto comune nella Roma imperiale. Il loro uso come ornamento e simbolo di prestigio fu alla base dello sviluppo d’intense relazioni commerciali con le regioni produttrici. Le origini orientali di questi gioielli sono testimoniate dallo stesso nome latino, margarita, un termine che tramite il greco deriva dal sanscrito mangara, “mazzo di fiori”. Nell’antichità erano note quattro regioni perlifere principali

– il mar Rosso, il golfo Persico, l’India e Ceylon – cui vanno aggiunte alcune zone della Cina. A Roma, grazie al commercio, arrivavano perle di tipologie, dimensioni e colori differenti. Le più apprezzate erano quelle del mar Rosso e del golfo Persico, considerate più brillanti e di miglior qualità. Meno pregiate erano quelle del mar Nero, piccole e di tonalità rossiccia, e quelle dell’Acarnania, in Grecia, piuttosto grezze, di grandi dimensioni e di color marmo. Dalla Britannia giungevano le più scure e dai riflessi dorati, che divennero le più ricercate nella parte occidentale dell’impero. Quelle della Mauritania, invece, godevano di buona reputazione per il loro piccolo formato.

Pescatori di perle Le fonti non forniscono molte informazioni su come venissero raccolte le perle. Alcuni autori sottolineano che quest’attività, strettamente le-

UN LAVORO PERICOLOSO I CERCATORI di perle si tappavano le orecchie con la cera prima d’im-

mergersi. Indossavano dei pesi per facilitare la discesa al fondale e si tenevano legati alla barca con una corda, che strattonavano quando volevano risalire. Un metodo meno pericoloso consisteva nell’uso delle reti a strascico.

NUOTATORE. FIGURA DI VETRO CHE DECORAVA UN MOBILE. BRIDGEMAN / ACI

CHRISTIE’S IMAGES / SCALA, FIRENZE

Provenienti dall’India o dall’Arabia, le perle si diffusero tra l’aristocrazia romana a partire dal I secolo a.C.

DUE DONNE osservano

una collana in una gioielleria di Pompei. Olio di Ettore Forti. Metà XIX secolo.

gata alla pesca, si svolgeva in estate, in quanto si credeva che l’ostrica trascorresse l’inverno al riparo nelle profondità marine. Scrive Claudio Eliano: «Le conchiglie che producono le perle vengono pescate quando il cielo è sereno e il mare tranquillo». I pescatori s’immergevano sott’acqua a raccogliere ostriche, che depositavano in una rete e portavano in superficie quando risalivano a prendere aria. L’operazione veniva ripetuta svariate volte. Date le difficoltà e i rischi connessi, questo lavoro veniva svolto di solito da criminali sotto il controllo delle autorità lo-

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cali. Le perle provenienti dalla Cina invece erano spesso coltivate. Una volta raccolte le ostriche, il mollusco veniva ucciso e lasciato decomporsi in modo che rilasciasse la madreperla, la sostanza da cui si sarebbe formato il gioiello vero e proprio. Secondo Eliano, «le ostriche vanno messe sotto sale in dei recipienti […] per consumarne la carne». La perla veniva quindi ripulita e classificata in base a biancore, dimensioni, rotondità, brillantezza e peso, per essere infine messa in vendita. Più elevata era la qualità di una perla, maggiore era il prezzo. A Roma tale

L’oggetto del desiderio venuto dall’Oriente LE PERLE ERANO conosciute e apprezzate da varie culture

dell’antichità, dall’India a Israele passando per l’Assiria e l’Egitto faraonico. Nel mondo greco sono documentate solo a partire dalle conquiste orientali di Alessandro Magno. A Roma cominciarono a diffondersi all’inizio del I secolo a.C. Le campagne di Pompeo in Asia Minore e Armenia (66-63 a.C.) contribuirono in modo decisivo alla nuova moda, come testimoniato dal trionfo celebrato dal generale al suo ritorno a Roma, quando sfoggiò 33 corone e un

tempietto decorati con perle e il suo stesso ritratto composto dei preziosi gioielli marini. Un ruolo decisivo fu svolto anche dall’incontro con l’Egitto ellenistico, soprattutto grazie alla figura della regina Cleopatra, che ne possedeva i due esemplari più grandi al mondo.

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V I TA Q U OT I D I A N A

IL PORTICO DELLE PERLE

UNA DONNA estrae una collana di perle da uno scrigno colmo di gioielli. Affresco

della basilica Palatina di Costantino. IV secolo d.C. Diözesanmuseum, Treviri.

A ROMA i venditori di perle la-

DEA / ALBUM

voravano in un’area chiamata Porticus Margaritaria, dove si producevano e vendevano i gioielli. L’esistenza di questo luogo è testimoniata da alcune iscrizioni, ma non se ne conosce l’ubicazione esatta. Sotto, rilievo con una gioielleria. Museo della civiltà romana, Roma.

SCALA, FIRENZE

commercio si sviluppò tra la fine del primo secolo a.C. e l’inizio del primo secolo d.C., nel periodo di consolidamento della rotta commerciale con l’Oriente che passava per l’Egitto. Durante l’impero di Augusto diverse ambasciate indiane raggiunsero Roma cariche di oggetti preziosi, tra cui le perle, dopo un viaggio che poteva durare anche quattro anni. Fu in quell’epoca che il commercio di beni di lusso iniziò ad attrarre nella capitale un numero sempre maggiore di clienti

interessati all’acquisto di prodotti esotici. Sotto gli imperatori Claudio e Nerone, il commercio delle perle si concentrò in alcuni porti della costa araba che fungevano da intermediari tra l’India e l’Occidente. Da lì le merci raggiungevano Alessandria d’Egitto, dove venivano stoccate nei magazzini e quindi distribuite in tutto il Mediterraneo. Questa via commerciale è attestata in Periplo del mar Eritreo, un’opera che parla anche delle tipologie di perle predilette dai romani. Nella capitale i mercanti specializzati nella vendita di perle si chiamavano

Le perle provenienti dall’India e dal mar Rosso erano apprezzate per il loro biancore ORECCHINI DEL TIPO CROTALIA, IN ORO, PERLE, GRANATE E VETRO. III SECOLO.

margaritarii ed erano riuniti in corporazioni o collegi che difendevano i propri interessi. Molti erano uomini liberi, legati economicamente a un padrone che traeva profitto dal loro lavoro. I proprietari di negozi spesso assoldavano un guardiano o incaricavano uno schiavo di vigilare i locali giorno e notte per evitare furti.

Monopolio commerciale Nell’Urbe sono state ritrovate diciotto iscrizioni che menzionano la professione del margaritarius, ma è possibile che questo termine, usato per definire il venditore di perle, si applicasse anche ad altre professioni, come gli esportatori e i gioiellieri. La maggior parte delle iscrizioni è stata rinvenuta vicino alla via Sacra, una delle strade più note e trafficate di Roma, che sarebbe diventata il fulcro del commercio di beni di lus-

BRIDGEMAN / ACI

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Un tocco distintivo PER SEDURRE le clienti più esigenti i gioiellieri romani idearono

FOTO: FOTOGRAFICA FOGLIA / SCALA, FIRENZE

varie combinazioni di perle, metalli e pietre preziose. In questa pagina, una collana, un bracciale e un anello.

Bracciale in oro e perle conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli.

Collana in oro, perle e pietre dure proveniente da Pompei. Museo archeologico nazionale, Napoli.

Anello in oro con una perla proveniente da Oplonti, vicino Pompei. Museo archeologico nazionale, Napoli.

so. Ciononostante, i mercanti non operavano solo nella capitale. Nella Spagna romana è stata trovata una lapide dedicata a un certo Silvano, un margaritarius che viveva ad Augusta Emerita (l’odiera Mérida).

sugli abiti, sui diademi, sulle forcine per i capelli e persino sulle calzature, esattamente ai lacci delle loro crepide, i sandali di moda all’epoca. Non è strano che i poeti criticassero simili eccessi. In uno dei suoi epigrammi, Marziale scrive a propoForme diverse sito di una certa Gellia: «Non giura Secondo Plinio il Vecchio, i romani in nome di nessun dio, ma solo delle avevano vari nomi per le perle. Le più sue perle. Le bacia e le abbraccia, le grosse erano le cosiddette uniones; chiama fratelli e sorelle e le ama molto quelle lunghe e appuntite venivano più dei suoi due figli. La sventurata chiamate “elenchi”, e quando erano dichiara che se dovesse perdere un riunite in piccoli orecchini erano det- tale tesoro non potrebbe sopravvivere te crotalia, perché crepitavano come nemmeno un giorno». Le perle divennero anche un simdelle nacchere nel momento in cui si urtavano tra di loro. bolo del potere imperiale. Di Nerone, Le perle potevano essere indossate per esempio, si diceva che le mettesse in vari modi – come orecchini, sul nei letti che portava con sé quando filo di una collana, cucite ai vestiti o viaggiava. Gli imperatori da Caracalla incastonate in altri supporti. Le don- in poi indossavano corone di questi ne dell’aristocrazia imperiale le sfog- gioielli marini alternati con pietre giavano in tutte le maniere possibili, preziose. Le perle erano utilizzate

anche per decorare le statue. Sempre secondo Plinio il Vecchio, l’amore per questi monili era stato introdotto a Roma da Pompeo in occasione del trionfo per celebrare la vittoria sui pirati dell’Adriatico, quando il generale fece sfilare in processione un suo ritratto composto interamente di perle. Il ricordo di questo fatto indignava ancora lo scrittore: «Il tuo volto, grande Pompeo, fatto di perle? Sperperare il denaro per delle cose da donne, che a te non dovrebbe esser lecito né avere né indossare?». —Lucía Avial-Chicharro Per saperne di più

TESTI

Storia naturale. Vol. 2 Plinio il Vecchio. Einaudi, Torino, 1997. SAGGI

Gioielli. Breve storia dall’antichità a oggi Clare Phillips. Rizzoli, Milano, 2003.

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LA PRINCIPESSA MERITAMON

Primo piano del volto pensoso della principessa Meritamon scolpito sul suo sarcofago. Il trucco ne mette in risalto lo sguardo secondo le consuetudini egizie. XVIII dinastia. Museo egizio, Il Cairo. Nella pagina accanto, specchio a forma di emblema della dea Hathor. Metropolitan Museum, New York. VOLTO: BRIDGEMAN / ACI. SPECCHIO: ALBUM

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CONTADINE, NOBILI E REGINE

LE DONNE IN EGITTO Anche se nel corso della storia dell’antico Egitto lo status femminile subì importanti cambiamenti, le donne conservarono quasi sempre libertà e diritti di cui non poterono godere in altri popoli

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A

ll’inizio dei tempi c’era il nulla, racconta un antico mito cosmogonico; su tutto regnava il Nun, una distesa di acqua immobile circondata da una assoluta oscurità su cui sorse una collina e su questa il dio Sole demiurgo. Insieme al dio venne in esistenza Maat, divinità dell’ordine, dell’equilibrio e della giustizia, princìpi indispensabili per iniziare la creazione. Maat personifica l’ossatura di tutto il creato, la sua giustizia e i suoi valori etici ed è all’opposto di tutto ciò che va contro le regole ed è ingiusto. Questo principio è donna, una splendida dea ornata

da una piuma di struzzo sulla testa. Nella religione egizia l’elemento femminile era fondamentale e anche nella vita di tutti i giorni le donne godevano di una libertà e di una considerazione che sarebbero state impensabili, ad esempio, per le greche o le romane.

Le donne nella società Le donne sono onnipresenti nell’arte egizia, con il fisico snello da eterne adolescenti, la carnagione più chiara rispetto a quella degli uomini e occhi languidi allungati dal trucco. Spalle minute, fianchi stretti e arti delicati rendono le loro figure meno imponenti di

2814 a.C. circa C R O N O LO G I A

REGINE A PIENO TITOLO

La regina Merneith governa come reggente fino alla maggiore età del figlio, il futuro faraone Den (I dinastia). Viene sepolta con onori reali sconosciuti fino ad allora.

1763-1760 a.C. UNA DONNA CON UN CESTO DI PANE IN TESTA E UN’ANATRA NELLA MANO DESTRA. XI DINASTIA. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. AKG / ALBUM

Nefrusobek, figlia del re Amenemhat III e sorella di Amenemhat IV, fu la prima donna a regnare come faraone e al tempo stesso fu l’ultimo sovrano della XII dinastia.

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VOGLIO DIPINGERMI GLI OCCHI unguenti ritrovati nelle tombe sono un’ottima testimonianza dell’importanza del trucco nell’antico Egitto. I cosmetici erano realizzati con pigmenti naturali come la malachite e la galena, a cui si aggiungevano acqua, resina o grassi per facilitarne l’applicazione. In una poesia del Nuovo regno una donna dice all’amato: «Voglio dipingermi gli occhi perché brillino quando ti vedo». Il trucco non aveva comunque solo una funzione estetica, ma serviva anche a proteggere il volto. Molte egizie di classe elevata utilizzavano prodotti sbiancanti per il viso, creme antirughe a base di mirra, oli e unguenti per nutrire la pelle.

Questi due rilievi del sarcofago della moglie del faraone Mentuhotep II, Kawit, la ritraggono in atteggiamenti quotidiani. In uno beve da una ciotola mentre le sistemano la parrucca, nell’altro prende un bicchiere che le porge una serva tenendo in mano un fiore di loto.

quelle maschili, ma non meno importanti. Osserviamo l’aristocratica seduta a banchetto con eguale dignità insieme agli uomini, la vediamo bere vino e birra, mentre parla con le amiche o porta alle narici un fiore di loto. Ammiriamo il suo corpo stretto in abiti aderenti e ornato da splendidi gioielli. Seguiamo la donna povera che va al mercato a vendere i frutti della sua terra accompagnata dai figli più piccoli; la vediamo china sui campi a raccogliere il lino, la osserviamo intenta a preparare la birra, a macinare i cereali, a cuocere il pane. Ammiriamo la bravura dell’operaia al lavoro sui telai o intenta a confe-

1479-1458 a.C.

FOTO : SCALA, FIRENZE

LA PRINCIPESSA KAWIT

zionare profumi. Le donne sono ovunque, si muovono in tutti gli ambienti, la loro vita è attiva e produttiva. Chiamate “viventi nella città”, ovvero “cittadine”, non erano soggette ad alcuna tutela, né del padre, né del marito. La loro capacità giuridica era completa e pari a quella degli uomini: potevano adottare, vendere, ereditare, firmare contratti. Basti pensare che in un testo del Medio regno si legge di una donna che, coraggiosamente, citò in giudizio il padre reo di aver favorito la seconda moglie a discapito dei figli di primo letto: «Mio padre ha commesso un’irregolarità», si lamenta la donna. «Posso riavere

1192-1191 a.C. La fine della XIX dinastia è segnata dal regno di Tausert, madre di Siptah (settimo faraone della dinastia). La regina assume il potere alla morte del figlio, in un periodo turbolento della storia egizia.

UNA SCATOLA DI COSMETICI

Questo cofanetto dipinto e ben conservato conteneva boccette di cosmetici, profumi e unguenti appartenuti a Merit, moglie dell’architetto Kha. Museo egizio, Torino.

51-30 a.C. Cleopatra VII è l’ultima sovrana d’Egitto. Dopo la conquista da parte di Ottaviano (il futuro imperatore Augusto) il Paese del Nilo verrà dichiarato provincia romana.

XXXXXXXX

Hatshepsut assume la reggenza fino alla maggiore età di Thutmose III, suo figliastro e nipote, e si proclama faraone. Per legittimare il suo potere dichiara di essere figlia del dio Amon-Ra.

SCALA, FIRENZE

LE TAVOLOZZE di cosmetici e i cofanetti con le boccette di

LA DEA MAAT CON UNA PIUMA DI STRUZZO SUL CAPO. RILIEVO DIPINTO. MUSEO ARCHEOLOGICO, FIRENZE. SCALA, FIRENZE

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Stelle della musica e della danza

UN GRUPPO DI DONNE BATTE LE MANI E SUONA MENTRE DUE DANZATRICI BALLANO AL RITMO DEI LORO STRUMENTI MUSICALI. TOMBA DI NEBAMON. BRITISH MUSEUM.

UOMINI E DONNE potevano lavorare come musicisti sia in

forma indipendente sia come membri di un tempio o di una villa. Hekenu e Iti sono due suonatrici di cui si sono tramandati i nomi fino ai nostri giorni. Si esibirono insieme durante l’Antico regno e la loro attività fu celebrata sulle pareti della tomba del funzionario Nikaura, un onore insolito. La musica era legata agli dei, e per questo i templi avevano bande e cori di cantori e danzatrici, ma era anche molto apprezzata al di fuori dell’ambito religioso. I banchetti privati dell’alta nobiltà erano allietati dalle esibizioni di orchestre, spesso composte da sole donne. Il suono di strumenti a fiato e ad arco accompagnava una danza fatta di movimenti sinuosi e a volte acrobatici, come si può vedere in numerosi rilievi e dipinti.

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FOTO: ALBUM

UNA DOMESTICA SEMINUDA SERVE ALCUNE DONNE CON UN CONO DI PROFUMO IN TESTA INTENTE AD ASCOLTARE UN ARPISTA CIECO DURANTE UN BANCHETTO. TOMBA DI NAKHT.

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UN TEMPIO IN ONORE DI UNA REGINA

Quest’immagine notturna mostra il più piccolo dei due templi funerari che il faraone Ramses II fece erigere ad Abu Simbel. È dedicato alla sua Grande sposa reale, la regina Nefertari, “colei per cui il sole risplende”. Nefertari, che morì prima del marito, era la moglie favorita di Ramses ed esercitò su di lui una profonda influenza. Il faraone volle renderle omaggio con questo edificio, un riconoscimento insolito per una donna.

JANE SWEENEY / AWL IMAGES

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Uniti a immagine degli dei LE STATUE di sposi seduti, abbracciati o per mano ricordano le immagini sacre della dea Iside che stringe tra le braccia il marito e fratello Osiride, dio dell’oltretomba. Tutte le coppie rievocavano in forma simbolica i due sposi divini, e per questo i coniugi si chiamavano reciprocamente “fratello” e “sorella”. In questa pagina, due rappresentazioni di coppie risalenti all’Antico regno (2543-2120 a.C.).

FOTO: SCALA, FIRENZE

IL SACERDOTE TENTI E LA MOGLIE SI TENGONO PER MANO. V DINASTIA. STAATLICHEN MUSEEN, BERLINO. A SINISTRA, MEMI E SUA MOGLIE SABU. 2575-2465 A.C. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK.

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SCALA, FIRENZE

QUESTO BUSTO FEMMINILE È DI SOLITO IDENTIFICATO CON LA REGINA NEFERTITI, MOGLIE DI AKHENATON. È FASCIATO DA UNA STRETTA TUNICA PIEGHETTATA E TRASPARENTE. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.

L

a nudità non era probabilmente un argomento tabù nella società egizia. In molte rappresentazioni vediamo uomini e donne del popolo che svolgono le loro attività quotidiane nudi o vestiti con un semplice perizoma. Per quanto riguarda gli abiti, il tessuto più utilizzato da tutte le classi sociali era il lino, a volte tinto in colori vivaci – tranne nel caso delle vesti cerimoniali, che erano sempre bianche. La moda femminile cambiò nel corso del tempo, passando dall’abito stretto con spalline caratteristico dell’Antico regno a completi molto più elaborati, alcuni quasi trasparenti, in cui le pieghe acquisirono via via maggiore importanza. Per renderle più rigide si ricorreva spesso a qualche tipo di amido. Erano molto utilizzati anche scialli, gioielli e maniche rimovibili. Nelle occasioni importanti le aristocratiche indossavano parrucche di capelli veri decorate con gioielli o elementi vegetali.

però, troviamo anche donne scriba, titolo acquisito grazie agli insegnamenti di un tutore privato o perché avevano frequentato la scuola. C’era infatti la possibilità di accedere a professioni aperte ad ambedue i sessi, anche se in proporzione minore. Alcuni esempi sono però eclatanti, come la suocera del faraone Pepi primo (re della sesta dinastia), la dama Nebet, che era giudice e visir. Caso eccezionale dovuto al fatto che ella apparteneva a una famiglia potente che aveva protetto il faraone da un complotto ordito contro di lui all’interno dell’harem. Altro esempio la dama Peseshet, vissuta durante la quarta dinastia, che era sovrintendente delle mediche, ginecologhe e ostetriche alla corte del faraone. Altri titoli prestigiosi portati da donne erano quelli di controllore dei magazzini, intendente dei riti funebri o capo del dipartimento commerciale, solo per citarne alcuni. Poi, dal Medio regno, quando la società divenne sempre più

LA SIGNORA DEI LIBRI

La dea Seshat, personificazione della scrittura, è rappresentata con una stella sul capo mentre scrive gli anni su una foglia di palma.

AKG / ALBUM

i miei beni?». Da ricordare anche la storia di Naunakhte, di umili condizioni e moglie di un operaio, che nominò erede di quasi tutti i suoi beni una figlia diseredando gli altri, colpevoli di non averla aiutata durante la vecchiaia. Naunakhte scrive: «Quanto a ciascuno che ha posato le sue mani sulle mie, gli darò dei beni, ma a colui che non mi ha dato nulla non darò i miei beni». Davanti alla legge le donne erano considerate uguali all’uomo, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Le donne greche e romane, invece, erano ritenute incapaci di ragionare e prendere decisioni e venivano perennemente affiancate da un tutore: tale consuetudine venne esportata sulle rive del Nilo quando, a partire dalla conquista di Alessandro Magno, i greci avrebbero dominato l’Egitto. Nella maggioranza dei casi, le donne si fregiavano del titolo di nebet per, “signora della casa”, poiché amministravano i beni della famiglia, si occupavano della preparazione dei cibi, della confezione dei vestiti e della cura dei figli. Nel corso della storia,

L’ABITO FEMMINILE

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Protezione per le partorienti L’OBIETTIVO DEL MATRIMONIO in Egitto era la procreazione, tanto che l’infertilità poteva essere causa di divorzio, anche se la morale comune consigliava l’adozione piuttosto che una separazione. Il geroglifico “nascita” rappresenta una donna inginocchiata con testa e braccia di un bambino che le spuntano tra le gambe. La donna infatti partoriva accovacciata con i piedi poggiati su quattro mattoni rituali, i cosiddetti “mattoni della nascita”, che avrebbero protetto il neonato e successivamente, posti nella sua tomba, avrebbero vegliato sulla sua rinascita nell’aldilà. L’allattamento al seno durava tre anni. Se la madre non aveva latte poteva ricorrere a una balia o al latte vaccino somministrato tramite una ciotola con un lungo beccuccio. La mortalità materna era molto elevata; per scongiurarla si utilizzavano gli amuleti del dio Bes, un nano con criniera e orecchie di leone che proteggeva le donne e alleviava i dolori del parto.

IL NANO BES ERA UN ESSERE GROTTESCO CHE PROTEGGEVA DONNE INCINTE, MADRI E BAMBINI. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI. DEA / ALBUM

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PARTO. QUESTO RILIEVO DEL TEMPIO DI HATHOR A DENDERA MOSTRA UNA PARTORIENTE ASSISTITA DA DUE DEE HATHOR CON TESTA DI VACCA. PERIODO TOLEMAICO. AKG / ALBUM

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SCENA DELLA TOMBA DEL VISIR RAMOSE NELLA NECROPOLI TEBANA DI ABD EL-QURNA. RAPPRESENTA UN GRUPPO DI PREFICHE CHE PIANGONO LA MORTE DEL PROPRIETARIO DEL SEPOLCRO. AKG / ALBUM 40 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Lavorare come prefiche IN EGITTO C’ERANO DONNE che lavoravano come prefiche, una professione esclusivamente femminile. Erano assunte per partecipare ai funerali e contribuire al prestigio del defunto lamentandone pubblicamente la morte. L’attività di queste donne è rappresentata nelle tombe di alcuni personaggi importanti, come quella del visir Ramose in queste pagine. Le prefiche seguivano il corteo funebre e manifestavano il proprio dolore in modo ostentato piangendo, battendosi il petto nudo, gettandosi della terra in testa e strappandosi i capelli. A volte le figlie accompagnavano le madri, come si può vedere in questa scena in cui una bambina nuda imita i gesti delle adulte.

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Viva gli sposi «Se sei una persona virtuosa, fonda il tuo focolare. Ama tua moglie con ardore», insegnava un saggio dell’età delle piramidi. Il matrimonio, atto fondamentale nell’antico Egitto e base della società, era un fatto privato e consisteva semplicemente nell’andare a vivere insieme. Sposarsi si diceva “sedersi con” che per estensione può intendersi anche come “vivere con”. Nell’Egitto di oggi, durante le nozze gli sposi stanno seduti mentre attorno a loro si scatena la festa. Tornano alla mente quelle antiche statue che potrebbero rappresentare, cristallizzato per l’eternità, l’esatto

DANZA ACROBATICA

In quest’ostrakon di pietra calcarea una danzatrice, coperta solo da una stoffa che le cinge i fianchi, esegue una posizione acrobatica (quella che oggi si definirebbe “ponte”). Museo egizio, Torino. E. LESSING / ALBUM

momento del matrimonio. Le feste nuziali erano, allora come oggi, lunghe e impegnative, tanto che potevano costituire un motivo di assenza dal lavoro. Con il matrimonio, le donne conservavano la loro genealogia e il nome, e non aggiungevano al loro quello del marito. Uomini liberi potevano sposarsi con schiave: in questo caso le donne venivano affrancate e i figli che nascevano dalla coppia erano persone libere. E se accadeva il contrario? Takemenet, vissuta nel Nuovo regno, volle come sposo lo schiavo dello zio, prigioniero di guerra del faraone Thutmosi terzo. Ebbe non solo il consenso di tutta la famiglia, che le fornì una ricca dote, ma l’amato ex schiavo ricevette in eredità dallo zio il titolo di barbiere del tempio. Documenti molto interessanti e di grande modernità sono i cosiddetti “contratti di matrimonio” che fecero affer-

LOREM IPSUM

militarizzata, l’amministrazione fu gestita solamente da uomini e le donne restarono, nella maggioranza dei casi, nebet per, “signora della casa”.

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PICCOLE GRANDI REGINE EGIZIE IN ALCUNI GRUPPI SCULTOREI

mare a Diodoro che, con questi patti, il marito s’impegnava a obbedire in tutto e per tutto alla moglie. In realtà servivano a tutelarla in caso di dissoluzione dell’unione, poiché, se questo accadeva, avrebbe dovuto abbandonare il tetto coniugale mentre i figli sarebbero rimasti a carico del padre. Questi contratti facevano sì che alla donna spettasse quanto aveva portato con sé al momento dell’unione, un terzo di quanto acquistato in comune e una sorta di pensione a vita. Se il marito non fosse riuscito a restituirle i beni che le spettavano, avrebbe dovuto tenerla sotto il suo stesso tetto finché non fosse stato in grado di sdebitarsi. Nel caso in cui il divorzio fosse dovuto alla presenza di un’altra donna, il marito si sarebbe ritrovato fianco a fianco l’ex moglie e la nuova compagna. Con simili impegni la poligamia era poco diffusa negli strati medi e bassi della popolazione, mentre era praticata tra gli aristocratici e alla corte del faraone. La preoccupazione per il futuro di una figlia era comunque grande, come testimonia una lettera del Nuovo regno scritta da un padre premuroso: «Tu sei mia

ALAMY / ACI

Veduta aerea di Deir el-Medina, la cittadina dove vivevano i costruttori delle tombe reali. L’abbondante documentazione qui rinvenuta fornisce molte informazioni sulla vita dei suoi abitanti e racconta alcuni casi di adulterio e di liti coniugali.

ALAMY / CORDON PRESS

IL VILLAGGIO DEI LAVORATORI

del Nuovo regno (XVIII-XX dinastia; 1539-1077 a.C.) legati a particolari contesti cultuali, le regine vennero rappresentate in miniatura rispetto al faraone. Questo non deve stupirci: per ragioni politiche e religiose si voleva mettere in risalto l’assoluta divinità del re e il suo potere sovraumano, che non aveva uguali sul resto dell’umanità, comprese le mogli, le figlie o la madre. Può essere considerata una specie di convenzione, perché questo non significa che le regine egizie non esercitassero un ruolo effettivo nel governo del Paese; anzi, alcune furono davvero molto influenti.

figlia e se l’operaio Baki ti ripudia dal focolare coniugale, potrai abitare nella mia casa, che io costruii; nessuno potrà cacciarti». E quando una donna rimaneva vedova? Per quelle più povere significava perdere l’unica fonte di sostentamento della famiglia: il marito. Se i figli erano piccoli dovevano stare con la madre con tutti i problemi che ne potevano derivare. Ciononostante la vedova, indentificata con la dea Iside, godeva di una certa benevolenza ed era considerata alla stregua di una Iside terrena. «Esercita la tua giustizia per tutto il tempo che sarai sulla terra», scrivevano i saggi. «Consola l’afflitto, non opprimere la vedova».

AI PIEDI DEL FARAONE

Sebbene Nefertari fosse la Grande sposa reale di Ramses II e avesse un proprio santuario accanto a quello del marito, nel colosso settentrionale del grande tempio di Abu Simbel è rappresentata in scala ridotta e posta ai piedi del trono del faraone.

BARBARA FAENZA EGITTOLOGA

Per saperne di più

SAGGI

Sotto l’oro del volto Christiane Desroches. SugarCo, Milano, 1988. La donna nell’antico Egitto Enrichetta Leospo, Mario Tosi. Giunti, Firenze, 1997. Nefer, La donna nell’antico Egitto Catalogo mostra Milano 2007. Federico Motta Editore.

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DIPINTI CHE RINASCONO

Un operaio rimuove lapilli e materiale vulcanico durante i nuovi scavi nella regio, che hanno riportato alla luce la decorazione in primo stile pompeiano dell’atrio della casa di Giove. CESARE ABBATE / EPA / EFE

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P OM PEI LE ULTIME SCOPERTE

Grazie a un ambizioso progetto finanziato in parte dall’Unione Europea, negli ultimi anni a Pompei si sono registrati importanti ritrovamenti, come alcune ville decorate con splendidi affreschi e mosaici STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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G

li scavi in quella che allora non era ancora nota come la città di Pompei iniziarono nel 1748. Da allora gli archeologi hanno riportato alla luce circa quarantacinque dei sessantasei ettari dell’area. Sono stati scoperti complessivamente millecinquecento edifici e circa due milioni di metri cubi di strutture murarie, oltre a migliaia di metri quadrati di mosaici, dipinti, stucchi e altri elementi architettonici. Nessun altro sito dell’antica Roma può vantare ritrovamenti paragonabili per quantità e rilevanza. Tuttavia un terzo dell’area è ancora da scavare, e i lavori più recenti dimostrano che Pompei ha nuove sorprese in serbo. Il patrimonio archeologico pompeiano è vissuto sotto continue minacce, che si sono intensificate nel ventesimo secolo: dall’inclemenza degli elementi atmosferici alla barbarie dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale, dal degrado causato dal turismo di massa alle pratiche di scavo illegali. L’inserimento del sito nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1997 e la celebrazione del duecentocinquantesimo anniversario della sua scoperta l’anno successivo hanno richiamato l’attenzione sulla fragilità delle rovine dell’area e sulla necessità di proteggerle e conservarle. A partire da quel momento, grazie al nuovo impulso dato dal ministero per i beni e le attività culturali, i progetti di ricerca degli archeologi italiani e stranieri si sono moltiplicati. Tra questi ultimi va ricordato lo scavo della casa di M.

POMPEI NEL XXI SECOLO

Spurius Saturninus e di D. Volcius Modes avviato nel 2007 da un’équipe spagnola guidata da José María Luzón.

Il Grande Progetto Nel 2012 l’approvazione del Grande Progetto Pompei, finanziato dal governo italiano e dall’Unione Europea, ha segnato una nuova svolta per le ricerche locali. Quest’ambizioso programma ha permesso di soddisfare le esigenze più urgenti in termini di conservazione e restauro delle sezioni del sito già scavate. È stato possibile riaprire molti spazi che avevano dovuto essere chiusi per motivi di salvaguardia – come la casa della Fontana grande o l’atrio della casa dei Vettii – e restaurare edifici come la casa del Criptoportico o quella dei Mosaici geometrici. Allo stesso tempo sono stati promossi nuovi progetti di ricerca e di scavi che, negli ultimi due anni, hanno portato agli importanti ritrovamenti presentati nelle pagine seguenti. La maggior parte di queste recenti scoperte risponde a uno degli obiettivi del Grande Progetto Pompei: consolidare e mettere in sicurezza i fronti dei circa ventidue ettari della superficie pompeiana che rimangono ancora sepolti sotto metri di lapilli e cenere. Tra le aree non scavate della città, i lavori si sono concentrati finora sulla regio V, una zona situata nella parte nord-est di Pompei di cui è stata portata integralmente alla luce una sola insula, o isolato, più altre sei a livello parziale. Sempre qui sono state ritrovate

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L’UNESCO inserisce il sito di

IL GOVERNO italiano appro-

LO SCAVO di gran parte della

Pompei nella lista del patrimonio mondiale. Un programma dell’anno successivo promuove l’arrivo di nuove équipe archeologiche internazionali.

va il Grande Progetto Pompei, parzialmente finanziato dall’Unione Europea e diretto alla conservazione del sito nonché alla prosecuzione degli scavi.

casa di Giove permette di portare alla luce un mosaico a tema mitologico. Alla fine dell’anno in un’altra domus è stato trovato l’affresco di Leda e il cigno.

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2019 NELLA cosiddetta “casa del Giardino” viene scoperta una collezione di centinaia di monili e amuleti che erano stati originariamente conservati in una cassa di legno.

CASA DI GIOVE

Lavori di restauro in una delle stanze che danno sull’atrio della casa di Giove. La decorazione è in primo stile pompeiano. Al centro, il vano di una finestra ancora ostruito dai lapilli. CESARE ABBATE / EPA / EFE

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LE REGIONES DI POMPEI

Nel XIX secolo l’archeologo Giuseppe Fiorelli divise la superficie di Pompei in regiones e insulae per facilitare la localizzazione dei resti.

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CONCESSIONE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI

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alcune residenze di lusso come quella del “banchiere” Lucio Cecilio Giocondo, quella di Marco Lucrezio Frontone e la casa delle Nozze d’argento.

Delfini e amuleti Allo scopo di consolidare parte degli edifici già riportati alla luce nei secoli precedenti, i nuovi lavori si sono incentrati su una superficie di circa mille metri quadrati nel cosiddetto“cuneo”– la zona tra le case delle Nozze d’argento e di Marco Lucrezio Frontone, e sui punti di scavo che si affacciano sul vicolo adiacente e su via del Vesuvio. Tra i più recenti ritrovamenti vanno ricordate le nuove stanze sontuosamente decorate della casa di Giove – in parte già scavate nell’ottocento –, con la loro peculiare iconografia sui mosaici dei pavimenti; e la casa del Giardino. Qui sono stati rinvenuti i resti di diversi individui, una ricca collezione di monili e, soprattutto, un’iscrizione a carboncino che permetterebbe di modificare la data dell’eruzione del Vesuvio sotto cui rimase sepolta la città. Sono stati inoltre parzialmente portati alla luce i resti di quella che sembra essere una dimora di lusso, la cosiddetta“casa dei Delfini”, così come una vicina taverna elegantemente decorata che dà su una stradina finora sconosciuta, ribattezzata dagli archeologi “vicolo dei Balconi”.

Nelle vicinanze è stato rinvenuto anche un piccolo giardino con un altare domestico, perfettamente conservato, che rivela i colori della vita quotidiana a Pompei, come anche gli affreschi della nuova casa scoperta in via del Vesuvio. Liberati dai metri cubi di cenere e lapilli che li ricoprivano, i nuovi reperti hanno dischiuso una finestra quasi intatta sulle ultime ore di vita della città e su alcuni dei saccheggi avvenuti nei secoli successivi. Si ritiene che il consolidamento di tutti i fronti delle aree non ancora scavate richiederà circa due anni. Va segnalato che, per la prima volta nella storia del sito, è in corso un ampio intervento, che prevede l’utilizzo delle tecnologie più avanzate e può contare sulla partecipazione di un’équipe multidisciplinare sotto la direzione scientifica di Massimo Osanna. Lo scopo finale di questi immensi lavori è preservare un gioiello del patrimonio archeologico mondiale e dare continuità alle ricerche in corso ormai da 271 anni. RUBÉN MONTOYA RICERCATORE DELL’UNIVERSITÀ DI LEICESTER

Per saperne di più

INTERNET

I siti di Pompei pompeiisites.org (Portale ufficiale del Parco archeologico di Pompei) La fortuna visiva di Pompei pompei.sns.it (Archivio d’immagini e testi dal XVIII al XIX secolo)

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ILLUSTRAZIONE: ESTUDI LLIMÓS. FOTO: CONCESSIONE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI

POMPEI, REGIO V la regio v di Pompei è delimitata a sud da via di Nola e a ovest da via del Vesuvio. Finora ne sono stati portati alla luce solo sette isolati (insulae), mentre il resto dell’area è ancora coperto di cenere e lapilli. Gli scavi futuri riveleranno il tipo di residenze, laboratori e stabilimenti commerciali che si trovavano in questa zona della città campana.

CASA DI GIOVE NELLA REGIO V DI POMPEI, SCAVATA PARZIALMENTE NEL XIX SECOLO.

Casa dei Delfini

Casa del Giardino

Casa di Leda e il cigno

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Casa delle Nozze d’argento

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Casa di Giove

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TRASPORTO DI UN CALCO IN GESSO CON IL CORPO DI UN BAMBINO DI CIRCA QUATTRO ANNI PER SOTTOPORLO A UNA TAC.

NUOVE SCOPERTE A POMPEI

M O R T E E S O P R AV V I V E N Z A

LE ULTIME ORE DELLE VITTIME DELL’ERUZIONE i recenti scavi hanno riportato alla luce nuovi dati su diverse vittime dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e fornito dettagli su come trascorsero le loro ultime ore di vita. Gli individui trovati nella casa del Giardino sopravvissero alle fasi iniziali dell’eruzione rifugiandosi in alcune stanze dell’abitazione, ma morirono per asfissia o schiacciati da un crollo nelle ore successive. Altri scomparvero cercando la fuga tra le vie della città, come dimostra il defunto che aveva con sé una borsa piena di monete (sotto) rinvenuto nei pressi di vicolo dei Balconi. Altri ancora riuscirono a scappare, come dimostra una scoperta avvenuta nel 2017 presso porta Stabia: si tratta dei segni lasciati dai carri su uno strato di cenere e pietra pomice nella fretta di abbandonare la città devastata. Allo stesso tempo gli archeologi hanno effettuato anche nuove analisi dei calchi in gesso realizzati dai loro predecessori nel XIX e nel XX secolo per studiare più a fondo le condizioni di vita dei pompeiani nei primi anni dell’era volgare.

SCHELETRO DI UN INDIVIDUO TROVATO NELLA REGIO V. FU SCHIACCIATO DOPO LA MORTE DAL CROLLO DI UN BLOCCO DI PIETRA.

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SOPRA: CIRO DE LUCA / REUTERS / GTRES. SOTTO : CIRO FUSCO / AP IMAGES / GTRES

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L A C H I AV E I N U N G R A F F I T O

LA NUOVA DATA DELL’ERUZIONE La data tradizionale dell’eruzione del Vesuvio, il 24 agosto del 79 d.C., si basa su una lettera in cui Plinio il Giovane descrive l’evento. Tuttavia rende difficile spiegare perché nell’area siano stati ritrovati dei frutti carbonizzati tipicamente autunnali, del vino sigillato dopo la vendemmia, dei bracieri nelle stanze di alcune case e una

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moneta probabilmente coniata nel settembre del 79. Ora però un’iscrizione ritrovata su una parete della casa del Giardino consente di rimettere in discussione la data ufficiale. Il testo si riferisce a un evento avvenuto il 17 ottobre («Il 17 ottobre lui indulse al cibo in modo smodato», secondo A. Varone; «Il 17 ottobre hanno preso nella dispensa olearia», secondo G. Ammannati). Sebbene l’anno non sia indicato, si ritiene debba corrispondere a quello dell’eruzione, considerando il fatto che il testo è scritto a carboncino e che questo si cancella rapidamente. I ricercatori propongono quindi il 24 ottobre come data più plausibile.

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NUOVE SCOPERTE A POMPEI

L A V I L L A D I C I V I TA G I U L I A N A

I CAVALLI SEPOLTI prima dell’eruzione del 79 d.C. nella periferia pompeiana esistevano numerosi complessi industriali e abitativi, i cui resti hanno cominciato ad apparire nel corso del XVIII secolo. All’inizio del novecento sono stati rinvenuti nell’attuale Civita Giuliana, situata a 700 metri da Pompei in direzione nord-ovest, alcuni ambienti residenziali e produttivi di una villa suburbana. Negli ultimi anni la polizia italiana è dovuta intervenire ripetutamente per fermare gli scavi illegali di gallerie effettuati nella zona. In seguito a tali atti delinquenziali le autorità hanno attuato un piano di protezione, che ha portato a nuovi ritrovamenti archeologici. Tra questi si segnala un locale identificato come una stalla dell’antica dimora aristocratica nella quale sono stati rinvenuti un mobile in legno e i resti di due cavalli (nell’immagine a destra). L’ottimo stato di conservazione di uno degli animali, sopravvissuto al saccheggio, ha permesso di realizzare per la prima volta a Pompei un calco in gesso di un equino (nella foto qui sotto). Sul cavallo, che giace sul fianco sinistro, erano presenti anche i resti delle bardature decorate in bronzo.

CALCO IN GESSO DI UNO DEI CAVALLI RITROVATI NELLA VILLA SUBURBANA DI CIVITA GIULIANA.

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CESARE ABBATE / AP IMAGES / GTRES

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NUOVE SCOPERTE A POMPEI

L’AFFRESCO DI LEDA E IL CIGNO DURANTE GLI SCAVI.

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VIA DEL VESUVIO

L’AFFRESCO DI LEDA E IL CIGNO in via del vesuvio gli archeologi hanno riportato alla luce una domus decorata con splendidi dipinti che indicano l’elevato status sociale del proprietario. All’ingresso della casa (fauces) è presente un’effigie del dio Priapo (nell’immagine sotto), mentre l’atrio, solo parzialmente scavato, è decorato con una scena relativa alla leggenda di Narciso. Dal suo canto una delle stanze (cubiculum), accessibili dall’atrio, è caratterizzata da uno splendido affresco raffigurante il mito di Leda e del cigno (a sinistra). La regina spartana, rappresentata seminuda e sensualmente reclinata, accoglie in grembo Giove, che ha assunto le sembianze di un cigno per congiungersi alla sua amata. Secondo alcuni miti, Leda ebbe quattro figli, due dei quali sarebbero stati frutto dell’amore con Giove. In quest’opera di eccezionale qualità si ha l’impressione d’incrociare lo sguardo di Leda, che sembra controllare la stanza a partire dall’ingresso dov’è posta la scena.

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FIGURA DI PRIAPO ALL’INGRESSO DELLA CASA DA POCO SCAVATA. LEDA: ABBATE / AP IMAGES / GTRES. PRIAPO: CONCESSIONE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI

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NUOVE SCOPERTE A POMPEI

I DUE DELFINI DORATI CHE DANNO IL NOME ALLA CASA.

BESTIARIO ROMANO

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LA CASA DEI DELFINI recenti scavi nella regio V hanno portato alla luce i resti di una sontuosa dimora finora sconosciuta e ubicata di fronte alla cosiddetta “casa delle Nozze d’argento”. Nella parte occidentale della casa c’è uno spazio 1 decorato su base cromatica bianca con interessanti prospettive architettoniche e figure di uccelli tra i frutti, tra cui si distinguono una ghiandaia 2 e un pappagallo. Ancor più raffinate sono le pitture all’ingresso della villa. Qui sono rappresentati con notevole maestria e gran dovizia di particolari vari animali tra i quali un pavone 3, un capriolo 4, delle bestie fantastiche e la coppia di delfini 5 da cui ha preso il nome la casa. La decorazione della residenza è un esempio di quarto stile pompeiano. Nella parte scavata finora prevalgono il rosso all’entrata e il bianco in una delle stanze. Gli archeologi confidano di poter trovare altri dipinti di qualità simile proseguendo gli scavi dell’atrio – che ha un’altezza stimata di circa quattro metri – e delle stanze che vi si affacciano.

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STANZA DELLA SEZIONE OCCIDENTALE DELLA CASA DEI DELFINI CON MOTIVI ARCHITETTONICI SU SFONDO BIANCO.

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FOTO: SERGIO SIANO / CONCESSIONE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI. CAPRIOLO : SHUTTERSOTCK

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UNA GHIANDAIA CAMMINA TRA I FRUTTI.

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PAVONE SU SFONDO ROSSO.

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CAPRIOLO SU SFONDO ROSSO.

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VEDUTA GENERALE DEL LARARIO RINVENUTO NEL GIARDINO DI UNA CASA A CUI SI ACCEDE DAL VICOLO DI MARCO LUCREZIO FRONTONE.

NUOVE SCOPERTE A POMPEI

C U LT O D E I L A R I

LA CASA DEL LAR ARIO nella zona del “cuneo” della regio V, in una casa scavata all’inizio del XX secolo a cui si accede dal vicolo di Marco Lucrezio Frontone, gli archeologi hanno ritrovato uno spazio in cui un tempo c’era un giardino. Una delle pareti ospitava un larario, ovvero un’edicola per il culto domestico. La nicchia dell’edicola 1 è stuccata e fiancheggiata da un’immagine dei lari. Sotto sono raffigurati due serpenti e, al centro, un altare su cui sono poste una pigna e due uova 2, tipici doni offerti a queste divinità protettrici della casa. A completare la decorazione ci sono dei motivi vegetali e un pavone 3 che sembra sbucare tra le piante. Sulle altre pareti si è conservata una scena di caccia in cui si possono apprezzare le figure di un cavallo, di un cinghiale e di un cane 4; è simile a molte altre presenti in città, come quella della vicina dimora di Marco Lucrezio Frontone. Davanti al larario, al bordo del piccolo stagno circondato da colonne, è stata ritrovata un’arula, ovvero un piccolo altare, che presenta ancora i segni di combustione delle offerte lì realizzate.

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ISCRIZIONI TROVATE ALL’INCROCIO TRA IL VICOLO DEI BALCONI E QUELLO DELLE NOZZE D’ARGENTO.

SCENA DI CACCIA DIPINTA SU UNA DELLE PARETI DELLA CASA.

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SOPRA: CIRO FUSCO / EFE. SOTTO: CESARE ABBATE / EPA / EFE

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GRAFFITI ELETTORALI

«VOTATE PER ELVIO SABINO» al momento della fatale eruzione vulcanica Pompei si trovava nel pieno di una campagna elettorale, come dimostrano le centinaia d’iscrizioni scoperte in tutta la città. Gli scavi più recenti hanno fornito nuovi esempi di propaganda politica. Nella parte superiore della fo-

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to qui a sinistra si può leggere: «Votate edile Elvio Sabino, uomo giusto e degno di servire lo stato». Sabino doveva essere uno dei principali candidati se si considera che sono state trovate più di 135 iscrizioni a suo favore. Sotto è visibile un’epigrafe parzialmente riportata alla luce che sollecita il voto a favore di Lucio Albucio, un altro degli aspiranti edili di quell’anno. Entrambe le scritte sono state rinvenute a pochi metri dalla casa delle Nozze d’argento, una lussuosa dimora che, secondo gli archeologi, apparteneva proprio a Lucio Albucio e che deve il nome al fatto che i re d’italia la visitarono in occasione del loro anniversario nel 1893.

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RESTI DI UN AFFRESCO SCOPERTO IN UN LOCALE NEI PRESSI DEL VICOLO DEI BALCONI.

NUOVE SCOPERTE A POMPEI

CASE E RISTORANTI

LA VITA IN VICOLO DEI BALCONI

CIRO FUSCO / ANSA / AP IMAGES / GTRES

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SOPRA: CIRO FUSCO / ANSA / AP IMAGES / GTRES. SOTTO: CONCESSIONE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI

il cosiddetto vicolo dei Balconi collegava la via di Nola con il vicolo delle Nozze d’argento. Il suo recente scavo ha permesso di portare alla luce una serie di case con balconi di cui si possono ancora distinguere i tetti (sotto). Le numerose anfore rinvenute su uno dei balconi hanno spinto gli archeologi a ipotizzare che al momento dell’eruzione lo spazio fosse utilizzato come deposito o che le anfore fossero state collocate lì per asciugarsi al sole. Nel corso dei lavori sono stati ritrovati svariati ambienti abitativi che si affacciano sul vicolo e sono decorati con eleganti affreschi, come si può vedere nelle fotografie a destra. All’incrocio tra il vicolo dei Balconi e quello delle Nozze d’argento è stato individuato uno spazio che era adibito a thermopolium o taverna, in cui sono apparse numerose anfore e vari utensili accatastati al suolo. Inoltre, vi è stato ritrovato un bancone decorato con dipinti di grande qualità.

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Il bancone del thermopolium del vicolo dei Balconi è decorato con due splendidi dipinti ben conservati. Il primo, su sfondo giallo, rappresenta l’interno della taverna con un lavoratore che si destreggia tra le anfore. L’altro raffigura una Nereide (una delle 50 figlie del dio marino Nereo) a cavallo di un ippocampo in un ambiente marino.

VEDUTA DEL VICOLO DEI BALCONI, COSÌ CHIAMATO PER LE VARIE CASE CON BALCONE QUI RITROVATE.

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LA METAMORFOSI DI O RI O N E

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Questo mosaico figurativo illustra la morte del gigante Orione e la sua successiva trasformazione in stella. Secondo una delle diverse versioni esistenti del mito, il gigante minacciò di eliminare qualsiasi animale presente sulla faccia della terra, e per questo la dea Gea inviò uno scorpione a ucciderlo. Alla base del mosaico c’è un serpente arrotolato, che potrebbe simboleggiare il mondo stesso. Sopra di esso è visibile lo scorpione che punge mortalmente Orione. La seguente metamorfosi in costellazione è rappresentata dalle fiamme che vengono accese sul suo corpo da una creatura alata con una torcia in mano. Nella parte superiore del mosaico un’altra creatura alata è in procinto di collocargli sul capo una corona d’alloro.

D I P I N T I E PAV I M E N T I

RITORNO ALLA CASA DI GIOVE questa dimora della regio V fu parzialmente portata alla luce nell’ottocento, quando venne trovato un larario con l’immagine del dio da cui la casa prende il nome. Recenti scavi hanno rivelato l’esistenza di un atrio e di un cortile interno attorno al quale è organizzata la domus. Probabilmente la casa era in ristrutturazione al momento dell’eruzione del Vesuvio. La cosa più interessante è la decorazione in primo stile pompeiano, con stucchi dipinti che simulano delle lastre di marmo in diversi colori. In una delle stanze sono stati ritrovati segni dell’incendio finale che distrusse la decorazione parietale e ridusse in cenere i mobili e i letti, ancora parzialmente visibili al suolo. Il pavimento era rivestito di un austero cocciopesto (opus signinum) con occasionali intarsi di marmo come quello nella foto di destra, al cui centro è visibile un mosaico di eccezionale qualità che rappresenta una scena mitologica.

STANZA DELLA CASA DI GIOVE DURANTE GLI SCAVI. FOTO SCATTATA NEL MARZO 2019.

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CIRO DE LUCA / REUTERS / GTRES

CIRO DE LUCA / REUTERS / GTRES

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NUOVE SCOPERTE A POMPEI

LA CASA DEL GIARDINO

L’ULTIMA SCOPERTA lo scorso agosto è stata presentata al pubblico una sorprendente collezione di oggetti personali rinvenuti in una delle stanze della casa del Giardino. La collezione era originariamente contenuta in una cassa di legno di cui sono stati trovati i resti carbonizzati e i cardini di bronzo. Gli oggetti, che sono stati successivamente restaurati dagli archeologi, erano probabilmente di uso femminile, come fanno pensare i due specchi, le numerose collane di perle, gli amuleti fallici, l’unguentario di vetro, le statuette di varie forme (figure umane, coleotteri, elementi vegetali, fiori, un teschio…), le conchiglie e le numerose pietre preziose scolpite, alcune delle quali con l’effigie di un satiro o la testa del dio Dioniso. Per quanto il tema sia tuttora in fase di studio, i motivi iconografici spingono gli archeologi a ritenere che molti di questi pezzi non fossero puramente ornamentali e legati alla bellezza personale, ma potessero avere anche un carattere simbolico, di buon auspicio e protezione dalla sfortuna. Molto probabilmente tali oggetti appartenevano ai proprietari della casa del Giardino.

AFFRESCO DI UNA DELLE STANZE DELLA CASA DEL GIARDINO IN CUI SONO RAPPRESENTATE DIVERSE FIGURE IN ATTEGGIAMENTO DI PREGHIERA.

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LEGGENDA AUREA

Un notabile dell’istmo di Panama, Panquiaco, consegna a Núñez de Balboa i pezzi d’oro reclamati dagli spagnoli. Incisione di Theodor de Bry per un testo sulla storia della scoperta dell’America realizzato da G. Benzoni. 1594. BPK / SCALA, FIRENZE

L’ORO DEGLI COME PIZARRO OTTENNE IL TESORO

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INCA

D I A TA H UA LPA

Nel 1524 Pizarro partì da Panama alla conquista del regno di Birú. Dopo aver sconfitto gli inca, s’impadronì del più grande tesoro in oro nella storia della conquista dell’America

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Dalla mappa a lato si può evincere la grandezza dell’impero inca, il Tahuantinsuyo, che si estendeva dall’Equador all’attuale Santiago del Cile.

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FRANCISCO PIZARRO

Nel 1502 l’hidalgo partì alla volta del Nuovo Mondo per assicurarsi un prospero avvenire. Ritratto anonimo. Château de Beauregard, Loira.

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uando Cristoforo Colombo tornò dal primo viaggio nelle Americhe sostenendo di aver visto donne e uomini addobbati con accessori d’oro, si scatenò una vera e propria “febbre”, che avrebbe contraddistinto tutta la storia dell’esplorazione e della conquista da parte degli spagnoli. Tuttavia l’ossessione per i metalli preziosi fu segnata pure da delusioni costanti e frustrazioni, perché le ambizioni dei conquistatori erano talmente sfrenate che non sempre trovavano riscontro nella realtà. Dopo aver assoggettato il Messi-

A Cuzco si ergeva il Coricancha, un grande tempio dedicato al Sole. Dopo la conquista spagnola, sopra il Coricancha venne costruito il convento di Santo Domingo.

co azteco, per esempio, Hernán Cortés mise insieme un tesoro d’oro, argento e gemme valutato in duemila milioni di pesos. In seguito, però, nelle terre messicane non rinvenne più né oro né argento finché, dopo la fondazione del vicereame della Nuova Spagna, ebbe inizio lo sfruttamento delle miniere. Già prima della spedizione di Cortés la ricerca dell’oro si era diretta verso sud, nei territori prossimi all’equatore: secondo antiche leggende, lì si trovavano ricchi giacimenti. Per questo gli esploratori della Tierra Firme – così venne chiamato l’esteso territorio tra l’istmo di Panama e il nord di Colombia e

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SULLE TRACCE DELL’ORO

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Pizarro e 180 uomini navigano lungo le coste nord dell’Equador. Lì per la prima volta sentono parlare di Cuzco, la capitale inca.

In guerra con il fratello Huáscar, Atahualpa invita Pizarro a Cajamarca pensando di sconfiggerlo facilmente con il suo grande esercito.

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Atahualpa viene catturato dagli spagnoli. L’oro riunito per il suo riscatto viene fuso, ma ciò non impedisce la morte dell’imperatore.

Pizarro aiuta Diego de Almagro a organizzare una spedizione per il Cile. Non trovano nessuna delle ricchezze tanto sognate.

Il 26 aprile ha luogo la Battaglia di Las Salinas, in cui Gonzalo e Hernando Pizarro vincono Almagro, che viene giustiziato.

Il 26 giugno, mentre è nella sua casa a Lima, Francisco Pizarro viene ucciso dal figlio di Diego de Almagro e dai suoi complici.

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L’IMPERATORE CARLO V

Durante il governo di Carlo V le spedizioni di Cortés e di Pizarro permisero alla corona spagnola di fondare un grande impero nel continente americano. Ritratto dell’imperatore. Kunsthistorisches Museum, Vienna. ERICH LESSING / ALBUM

Venezuela – si concentrarono in quella regione, e la zona dell’istmo avrebbe addirittura preso il nome di Castiglia dell’Oro. Ma durante i viaggi, come quello che li avrebbe condotti sulle sponde del Darién, tra le attuali repubbliche di Panama e Colombia, gli spagnoli non s’imbatterono in questo prezioso metallo, bensì negli indigeni, che li avrebbero uccisi con frecce avvelenate. Nel 1513 Vasco Núñez de Balboa arrivò fino al mare del Sud, poi ribattezzato oceano Pacifico; tale scoperta avrebbe aperto una nuova rotta per cercare i metalli preziosi. Mentre percorreva il litorale meridionale dell’istmo, lo stesso Núñez de Balboa visse un’esperienza allettante. Nel momento in cui stringeva la pace con un villaggio della zona, i curacas o capi gli consegnarono dei piccoli tesori: al ritorno a Santa María, il comandante spagnolo aveva radunato più di duemila pesos. Nelle seguenti spedizioni, realizzate tra il 1515 e il 1517, raccolse più di trentamila pesos in oro. Altre quantità vennero rinvenute durante le incursioni nel golfo di San Miguel e sull’isola di Teraraqui, nell’arcipelago delle Perle. Non c’è da stupirsi, quindi, se gli spagnoli credettero di trovarsi in una terra ricca d’oro.

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Alla ricerca di Birú

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Durante le spedizioni lungo i litorali del mare del Sud, gli indigeni dissero agli spagnoli che a meridione esisteva un regno ancora più ricco. Per un certo tempo l’idea di raggiungerlo non si realizzò. Nel 1522, però, Pascual de Andagoya intraprese un viaggio lungo le coste meridionali di Panama e lì, a ovest dell’attuale Colombia, scoprì uno sfarzoso regno chiamato Birú. Quando Andagoya fece ritorno a Panama,

IL MARE DEL SUD

Questa sezione della cartina dell’America di Diego Gutiérrez, pubblicata nel 1562, rappresenta l’area esplorata dagli spagnoli, da Núñez de Balboa a Pizarro.

SCIENCE SOURCE / ALBUM

alla sua vicenda s’interessò un conquistatore veterano, Francisco Pizarro, che a quei tempi viveva nella colonia centroamericana e che poteva godersi una vita agiata grazie a due encomiendas, ovvero due assegnazioni di terra ottenute dagli indios, e a diversi affari legati allo sfruttamento delle miniere. Tuttavia, i sogni di gloria di Pizarro non erano appagati. Il condottiero non esitò a lasciarsi alle spalle quell’esistenza più che soddisfacente e si lanciò alla conquista dell’ambìto regno

A Túmbez gli spagnoli vennero a sapere di una grande città con le case rivestite in oro L’INCA ATAHUALPA. RITRATTO. STAATLICHE MUSEEN DI BERLINO.

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di Birú. Il 14 novembre 1524 partì alla ricerca di quel regno assieme a 112 soldati e ad alcuni indios del Nicaragua. La prima fase portò all’esplorazione del mare del Sur e durò quasi quattro anni. Nel 1527, all’altezza dell’isola del Gallo, nell’attuale Colombia, l’equipaggio di Pizarro, deluso perché Birú era introvabile ed erano già morti molti dei suoi membri, si ammutinò e tornò a Panama. Pizarro andò avanti con tredici uomini finché raggiunse la città di Túmbez, in territorio peruviano. Continuò a veleggiare lungo la costa e trovò altre grandi città: si convinse, quindi, di essere arrivato nel regno di cui parlavano gli indigeni della costa panamense. A qual punto decise di rientrare a Panama per informare le autorità e chiedere un aiuto economico per

A CACCIA DEI TESORI NELL’ISTMO NEL 1516 GONZALO DE BADAJOZ portò a termine una delle

numerose incursioni che si spingevano nell’istmo di Panama alla ricerca dell’oro. Su richiesta del governatore Pedro Arias Dávila, Badajoz attraversò l’istmo fino a El Chirú, sulla costa del Pacifico, e da lì avanzò verso ovest sino a Natá. Gli indigeni li evitavano e, quando un capo di nome Quitatara ricevette un messaggio degli spagnoli, gli mandò «undici castigliani [pesos] di buon oro» chiedendogli di andarsene perché non voleva avere contatti con loro. Alla vista dell’oro Badajoz minacciò Quitatara: gli avrebbe mosso guerra se l’altro non lo avesse incontrato. Ne seguirono alcune scaramucce, e in una di queste gli indios bruciarono una capanna in cui gli spagnoli avevano riposto tutto l’oro riunito fino ad allora, più di 50 pesos. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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KERO O VASO INCA

In questo vaso cerimoniale compare una scena con musicisti abbigliati all’europea. I kero potevano essere in legno o in argilla e venivano usati nelle cerimonie per bere la chicha, una bevanda fermentata a base di mais.

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BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

il suo progetto. Poiché non ottenne alcun sostegno, agli inizi del 1529 si recò in Spagna, dove l’imperatore Carlo quinto gli diede il suo appoggio. Pizarro ottenne “le capitolazioni” dall’imperatrice Isabella, moglie del monarca, e poi fece ritorno a Panama per organizzare una missione, non più solo d’esplorazione, ma anche di conquista. Dal 31 gennaio 1531 Pizarro e centottanta uomini percorsero la costa settentrionale dell’attuale Equador. Una volta giunti a Túmbez, videro che la città era distrutta e gli abitanti fuggiti. Tuttavia, grazie a degli interpreti locali poterono parlare con un uomo che era rimasto lì; questi li pregò di non saccheggiare la sua casa e allo stesso tempo raccontò che conosceva una città grande e molto popolosa in cui le abitazioni erano decorate in oro. Si trattava di Cuzco, la capitale del Tahuantinsuyo, il regno degli inca, che Andagoya aveva chiamato Birú. Nel sentire quel racconto, Pizarro ordinò subito di continuare le ricerche.

La caduta di Atahualpa Atahualpa, il sovrano inca, non ignorava l’arrivo degli stranieri e, giacché questi erano pochi e lui invece comandava un esercito di circa seimila guerrieri, credette di poterli vincere facilmente. Li invitò perciò a Cajamarca. Il 15 novembre 1532, però, fu sconfitto dall’esercito spagnolo e dai suoi alleati indigeni e venne fatto prigioniero. Stando a quanto racconta il cronista Agustín de Zárate, Pizarro attribuì la vittoria all’intervento divino: «Ringrazio Dio nostro Signore e noi tutti, signori, dobbiamo essergli grati per un così grande miracolo». Quello stesso giorno Pizarro fece condurre il re inca nel suo palazzo e lo invitò

L’ARRESTO DI ATAHUALPA

Il 16 novembre 1532, dopo una cruenta battaglia, Pizarro e i suoi uomini catturarono l’inca Atahualpa nella piazza di Cajamarca. Incisione di Theodor de Bry. Americae. 1596. Staatliche Museen, Berlino.

BPK / SCALA, FIRENZE

a cena. Quindi lo fece portare in un alloggio e gli permise di girare in totale libertà all’interno dell’area, sorvegliata solo all’esterno da una sua guardia. Ma Atahualpa non si sentiva tranquillo. Credeva che l’avrebbero ucciso non appena avessero saputo che i capitani a lui fedeli avevano imprigionato il fratello Huáscar, l’erede legittimo al trono di Tahuantinsuyo. Per questo il giorno seguente pensò di lusingare Pizarro con una proposta allettante: gli assicurò che, se gli aves-

Atahualpa promise a Pizarro di riempire d’oro e d’argento due locali grandi quanto la sua stanza FIGURA CON LE BRACCIA APERTE. ORNAMENTO IN ORO. STAATLICHE MUSEEN, BERLINO.

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se garantito la salvezza, in quaranta giorni avrebbe ricoperto d’oro e d’argento una stanza grande quanto quella in cui si trovavano. Non solo: i metalli sarebbero stati talmente tanti che avrebbero colmato la stanza fino in alto, ovvero fino a dove arrivava la sua mano con il braccio teso. A suggello di questa proposta venne perfino tracciata una linea per indicare il limite. Il condottiero accettò. Uno scrivano ratificò l’accordo e Atahualpa diede l’ordine di andare a prendere l’oro e l’argento promessi. Difatti poco tempo dopo iniziarono ad arrivare grandi quantità di tali metalli. Molti pezzi erano anfore, grandi pentole e vasellame di varia natura; alcuni di questi vennero valutati in cinquantamila o sessantamila pesos, e altrettanto diversi oggetti di

UN BOTTINO MILIONARIO LA PRECISA CONTABILITÀ tenuta dagli spagnoli ci permette di sapere quale fosse il valore totale del tesoro consegnato da Atahualpa a Pizarro: corrispondeva a 1.326.539 pesos. Non dimentichiamo che a quei tempi l’oro si misurava in “castigliani” o pesos de oro, un’unità che equivaleva alla sesta parte di un’oncia. Il tesoro di Atahualpa raggiungeva quindi le 221.089 once d’oro, ovvero poco più di sei tonnellate. Se comparato alla valuta attuale, il bottino equivaleva a più di 300 milioni di euro. Nel periodo successivo alla fine degli inca, l’interesse per il territorio sarebbe rinato nel 1545, con la scoperta delle miniere d’argento di Potosí, che per un secolo, prima che si esaurissero, ingrossarono le finanze della corona spagnola. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA FORTEZZA DI PISAC

L’impressionante costruzione, a trenta chilometri da Cuzco, si affaccia dall’alto di un colle nella valle sacra degli inca. Secondo gli specialisti, si trattava di una tenuta reale appartenuta all’inca Pachacútec e composta da corridoi, acquedotti e strutture domestiche e cerimoniali.

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Questo delicato pezzo d’artigianato inca misura poco più di cinque centimetri ed è stato costruito con tre sottili lamine d’oro piallate tramite percussione: rende merito all’abilità degli artigiani inca. British Museum, Londra. ALAMY / ACI

La divisione del bottino Grazie all’immenso bottino gli spagnoli (e i loro alleati indios) avevano sufficienti ragioni per ritenersi soddisfatti. Tuttavia, sapevano che da un momento all’altro poteva giungere il grande esercito che i capitani inca stavano organizzando per salvare Atahualpa. Si rallegrarono non poco quando, il 14 aprile, videro arrivare Diego de Almagro con un folto gruppo di uomini reclutati a Panama e

in Nicaragua: sarebbe stato un aiuto inestimabile contro i numerosi nemici. Oltre a ciò, l’oro e l’argento non avevano ancora raggiunto l’altezza stabilita. Atahualpa continuava a ripetere che di lì a poco sarebbe arrivato l’oro mancante, ma i soldati non gli credettero e l’atmosfera si surriscaldò. Gli spagnoli sapevano che, qualora fossero stati attaccati dall’esercito di Quizquiz, capitano di Atahualpa, avrebbero avuto scarse possibilità di sopravvivere. Come narra López de Caravantes, gli uomini di Pizarro pretesero allora che gli venisse data la loro parte del bottino, mentre i soldati giunti assieme ad Almagro, invidiosi per il risultato di una conquista a cui non avevano preso parte, volevano che il bottino fosse suddiviso anche tra di loro. Alla fine Pizarro decise di dar retta ai propri uomini per potersi poi mettere in marcia verso Cuzco. Il 17 giugno ordinò di fondere e caratare tutto l’oro e l’argento raccolti e di suddividerli. Nel farlo seguirono alla lettera le regole del diritto di guerra spagnolo. Dopo aver separato quanto spettava al sovrano per il quinto reale (264.859 pesos, ovvero la quinta parte del totale), quanto rimaneva fu spartito in base ai meriti tra i 168 uomini che avevano partecipato alla cattura di Atahualpa. Diego de Almagro e i suoi non avevano diritto alla spartizione e ricevettero solo una piccola fetta per coprire parte dei bisogni. Poiché diedero segni di malcontento, Pizarro cercò di ricompensarli aiutandoli, due anni dopo, a organizzare una spedizione nei territori del Cile, dove si diceva ci fossero grandi ricchezze. Ma lì avrebbero trovato soltanto lande desolate e la morte per fame. Lo scrivano Pedro Sancho de la Hoz riferì come si fosse fuso l’oro – «1.326.539 pesos in buon oro» – e di come fosse stato diviso il bottino. Immediatamente dopo Pizarro emise un’ordinanza, letta nella piazza di Cajamarca al risuonare delle trombe, secondo la quale Atahualpa aveva rispettato il patto e per questo veniva liberato, senza più l’obbligo di consegnare argento e oro. Eppure nello stesso comunicato si annunciava che, come misura di sicurezza, il sovrano sarebbe rimasto prigioniero finché

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UN LAMA D’ORO

oreficeria. Ciononostante, allo scadere dei quaranta giorni la stanza non si era riempita fino all’altezza indicata. I soldati credevano che l’inca li avesse ingannati e cominciarono a mormorare contro di lui e a ripetere che avrebbe dovuto morire. Venuto a conoscenza delle voci, Atahualpa riferì a Pizarro che i metalli tardavano ad arrivare a causa della grande distanza tra Pachacamac, Cuzco e Quito, le città da cui venivano prelevati. Gli chiese perciò d’inviare alcuni suoi uomini lungo le strade per controllare che i metalli stessero giungendo. Pizarro mandò a Pachacamac il fratello Hernando, e spedì a Cuzco alcuni capitani. Il 23 maggio 1533 uno di loro tornò da Cuzco e comunicò che la città era molto grande, proprio come gli era stato detto, e possedeva immense ricchezze. Aveva perfino visto due case placcate in oro. Secondo la versione ufficiale spagnola, che tendeva ovviamente a esaltare i trionfi dei conquistadores, il capitano raccontò inoltre che i suoi due compagni stavano portando tutti i rivestimenti aurei delle case assieme a un altro carico, sempre d’oro, che gli aveva consegnato il capo locale di Jauja. A trasportare il materiale erano gli stessi indigeni, che a gruppi di quattro reggevano sulle spalle una portantina; poiché il peso era notevole, avrebbero impiegato un mese ad arrivare. Due giorni dopo giunse Hernando Pizarro con ventisette carichi d’oro e duemila marchi d’argento (un marco d’argento equivaleva a circa duecentotrenta grammi).

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SACCHEGGIO NEL TEMPIO

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Hernando Pizarro sovrintende il trasporto dei tesori del tempio di Pachacamac. Incisione di un testo sulla storia della conquista dell’America scritto da Antonio de Herrera.

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non fossero sopraggiunti altri soldati di rinforzo. Quando, pochi giorni dopo, sembrò che Quizquiz si stesse avvicinando a Cajamarca con cinquantamila guerrieri, gli uomini di Pizarro pensarono che si sarebbero salvati solo se Atahualpa fosse morto. Sottoposto a processo, fu condannato a morte e giustiziato il 26 luglio 1533.

Che ne fu del tesoro? MONETA SPAGNOLA

Il rovescio della moneta da due carlini porta il nome dell’imperatore Carlo e venne coniata a Napoli. Gabinete Numismático. Museo Nacional de Arte de Cataluña, Barcellona. ORONOZ / ALBUM

Dopo la spartizione del bottino di Atahualpa, per un certo tempo Cajamarca rimase una terra promessa. Ovviamente per gli spagnoli. L’oro e l’argento scorrevano da tutte le parti. Poiché i conquistadores preferivano consumare subito gli scarsi prodotti che gli giungevano, li pagavano a peso d’oro, e mai espressione fu più azzeccata. Francisco de Jerez ricordava che un cavallo valeva tremilacinquecento pesos, una bottiglia di vino quaranta (quanto delle calze) e un mantello cento. I debiti venivano pagati con pezzi d’oro, che non venivano neppure pesati. Alcuni soldati chiesero il permesso di tornare in Spagna e iniziare lì una nuova vita grazie al bottino peruviano, mentre la maggior parte preferì investirlo in case e affari nelle nuove città che a mano a mano venivano fondate. Parallelamente si decise di trasferire la parte del tesoro riservata alla corona spagnola. Se ne incaricò personalmente Hernando Pizarro, che riunì 100.448 pesos e raccolse oro grezzo e oggetti in oro per un valore di 164.411 pesos, più 5.048 marchi d’argento. Il 14 gennaio 1534 Hernando Pizarro giunse a Siviglia con quell’immenso bottino. I pezzi in oro e in argento viaggiavano all’interno di casse di legno ed erano talmente numerosi che gli addetti della Casa de Contratación, istituzione che controllava i commerci tra la Spagna e i territori conquistati, impiegarono

BERNARD GOLDEN / ALAMY / ACI

una giornata intera per scaricarli e smistarli nei carri che li avrebbero poi portati nella parte posteriore dell’Alcázar di Siviglia, dove si trovava il deposito reale. Per diversi giorni la gente andò a vedere quegli oggetti in oro grandi e bizzarri; tra di loro figuravano un grande scranno e la statua di un bambino, probabilmente il simbolo del dio Sole dell’alba. Inoltre, venivano esposti anche molti lingotti. Queste opere d’arte non furono tenute in degna considerazione e vennero fuse dopo

L’imperatore Carlo V utilizzò parte dell’oro inca per saldare i suoi debiti con i banchieri tedeschi PROFILO DI UN’ARMATURA DEL XVI SECOLO. ARMERÍA REAL, MADRID. ORONOZ / ALBUM

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e

CHIESA DI SANTA CATALINA

Dopo la conquista spagnola, a Cajamarca s’iniziarono a erigere chiese e edifici in stile barocco. Ne è un valido esempio questa chiesa, costruita nel 1665 circa e poi diventata cattedrale.

un mese. Si mandò il ricavato all’imperatore, che consegnò ai banchieri tedeschi buona parte del bottino sequestrato agli inca per poter estinguere i propri debiti. Il resto servì per provvedere alle spese della guerra che l’imperatore aveva intrapreso contro la Turchia di Solimano il Magnifico. MARÍA DEL CARMEN MARTÍN RUBIO RICERCATRICE IN STORIA DELL’AMERICA

Per saperne di più

SAGGI

Alla scoperta del misterioso tesoro degli inca Paolo Cortesi. Newton Compton, Roma, 2001. Il tesoro degli inca Jack Du Brul. Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2018. LIBRI PER RAGAZZI

Il tesoro degli inca P.P. Strello. Piemme Junior, Casale Monferrato, 2002.

LA ROVINA ECONOMICA DI PIZARRO FRANCISCO PIZARRO utilizzò tutto l’oro che gli spettava per

organizzare nuove spedizioni e fondare alcune città, tra le quali Ciudad de los Reyes, ovvero Lima, l’attuale capitale del Perù. A malapena trovò altro oro e altro argento, poiché per gli indigeni questi metalli non avevano valore economico, bensì ornamentale. Pizarro chiese all’imperatore Carlo V di poter spostare il proprio governo a Charcas, a sud di Cuzco, dove avrebbe potuto sfruttare le miniere locali. Ciononostante, l’imperatore non glielo concesse. Francisco Pizarro era in rovina quando morì, il 26 giugno 1541, assassinato nella sua casa di Lima a causa di una congiura ordita dai suoi nemici, fedeli a Diego de Almagro, conosciuto anche come El Adelantado o El Viejo. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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1. AKG / ALBUM; 2. ORONOZ / ALBUM; 3. SCALA, FIRENZE; 4. ORONOZ / ALBUM; 5. AKG / ALBUM

L’oro costituiva un elemento fondamentale nella visione cosmica inca. Questi credevano che provenisse dal sudore del sole e lo relazionavano al potere maschile, soprattutto a quello dell’imperatore, o inca, figlio del Sole.

ORO INCA 1.

Maschera che rappresenta il dio Sole. Proviene dalla regione di Tolita, nell’Equador. Museo del Banco Central, Quito.


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2.

4.

Kero realizzato in oro e sbalzato. È decorato con scene naturalistiche di uccelli e piante. Art Institute of Chicago.

Lamina inca d’oro sbalzato che rappresenta probabilmente una scena di caccia. Museo de América, Madrid. 3.

Figura maschile d’oro. L’oro è accostato agli uomini e l’argento alle donne. Museo Histórico Regional, Cuzco.

Statuetta in oro che rappresenta un uomo con delle grandi orecchie: così erano rappresentati i nobili locali. Colección Larrea. Museo de América, Madrid.

5.


MACHIAVELLI Negli anni al servizio della Repubblica di Firenze, Machiavelli poté constatare come il crimine e la spregiudicatezza fossero l’unico modo per avere successo in politica

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MACHIAVELLI

Molti anni dopo la morte di Machiavelli, avvenuta nel 1527, Santi di Tito ne rievocò la figura in questo olio su tavola. Palazzo Vecchio, Firenze. Alla pagina precedente, inizio del primo capitolo di Il principe in un manoscritto miniato. Biblioteca Laurenziana, Firenze. FOTO: SCALA, FIRENZE

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VEDUTA DI FIRENZE C R O N O LO G I A

Una vita al servizio di Firenze

A sinistra, la torre di palazzo Vecchio, sede della Repubblica di Firenze, al cui servizio lavorò Machiavelli. Davanti alla cattedrale, la torre quadrata del Bargello, dove fu torturato nel 1513. ISTOCK / GETTY IMAGES

1469 Figlio di un modesto avvocato, Niccolò Machiavelli nasce il 3 maggio a Firenze, dove Lorenzo il Magnifico assume il potere.

1494 I Medici sono espulsi da Firenze. Viene instaurata una repubblica ispirata alle idee del frate domenicano Girolamo Savonarola.

1498 Esecuzione di Savonarola. Come segretario della Seconda Cancelleria, Niccolò si occupa di varie missioni diplomatiche e militari.

1512 Papa Giulio II promuove la Lega Santa, che sconfigge la Francia, alleata di Firenze. I Medici tornano in città. Niccolò perde i suoi incarichi.

1513 Accusato di aver cospirato contro i Medici, Machiavelli è imprigionato e torturato. Una volta libero, inizia la scrittura di Il principe.

STEMMA DELLA FAMIGLIA MEDICI

Dalle caratteristiche “palle” dello stemma presero nome i sostenitori dei Medici, detti “palleschi”. SCALA, FIRENZE

Ottiene il favore del cardinale Giulio de’ Medici (che nel 1523 diventa papa Clemente VII), per il quale sarà consigliere e cronista.

1527 Le truppe di Carlo V saccheggiano Roma e i Medici cadono. Machiavelli muore il 22 giugno dopo aver cercato di tornare alla Cancelleria.

LOREM IPSUM

1521

S

i blocca sulla soglia, Niccolò, quando si rende conto di cosa lo aspetta. Fissa il gancio al soffitto e la corda che ne pende, e capisce che sta per passare il momento più drammatico della sua vita. Giunge a rimpiangere i tetri momenti trascorsi in quel buco di cella buia e puzzolente, pieno di escrementi di topo, e si augura che ce lo riportino presto. I suoi aguzzini gli chiedono, ancora una volta, notizie della cospirazione contro i Medici di cui sarebbe stato partecipe. Ma Niccolò non può dirgli nulla, perché non sa nulla. Non è colpa sua se qualcuno ha avuto l’idea d’inserirlo nella lista di personaggi da contattare per rovesciare la signoria. Il guaio è che lui non sa ancora se è il tipo d’uomo che direbbe qualunque cosa, pur di evitare il dolore. Quando gli fanno mettere le mani dietro la schiena e gli stringono i polsi con la corda, si rende conto che lo scoprirà presto di che pasta è fatto. Ha avuto tante volte a che fare con grandi uomini che hanno fatto del coraggio e della forza, fisica e d’animo, la

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loro arma vincente. Ha trattato con loro da pari a pari, e adesso è arrivato il momento di scoprire se merita di essere considerato alla loro altezza. Iniziano a issarlo, e i tendini già tirano fino a esplodere. Lancia subito un grido di dolore. Non vorrebbe; forse un uomo come Cesare Borgia, che lui tanto ammirava, non darebbe questa soddisfazione ai suoi aguzzini. Le braccia sembrano in procinto di staccarsi dal corpo. La corda le tira verso l’alto in senso contrario ai movimenti permessi dalle articolazioni. Gli pare che gliele stiano strappando via dal busto. Lacrime gli velano la vista, rendendo indistinte le sagome dei suoi torturatori. I suoi rantoli di dolore trasformano le loro domande in rumori di fondo. I suoi piedi penzolano a qualche spanna da terra, ora. No, gli sembra di essere quasi attaccato al soffitto. Sa già cosa accadrà e si concentra per sopportare l’impatto. Ma lo lasciano andare troppo presto e, quando atterra sul pavimento, l’urto CA L

IL PROFETA FIORENTINO Sotto, il frate domenicano Girolamo Savonarola, che assunse il controllo di Firenze tra il 1494 e il 1498. Museo del Bargello, Firenze.

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A,

FIR

ENZ

è violento; forse le caviglie si sono slogate, almeno quanto le spalle. Neppure il tempo di gemere a terra che iniziano a sollevarlo di nuovo. E sa già che andranno avanti finché non parlerà. O finché non si renderanno conto che non sa niente. Ma Niccolò è in grado di porsi solo una domanda. Come è potuto finire in una situazione così spiacevole? Lingua tagliente, senza dubbio. Penna graffiante come poche, anche. Ma prudente e perfino trasformista, nel suo atteggiamento politico. Così era Niccolò Machiavelli, sempre attento, in tempi di frequenti cambiamenti di regime, a lasciarsi una porta aperta con chi non era al potere, ma avrebbe potuto esserlo di lì a breve. Per questo, ciò che gli accadde nel 1513 dovette rappresentare un fulmine a ciel sereno. Lo incarcerarono con l’accusa di aver partecipato a una cospirazione contro il regime dei Medici. Questi erano rientrati a Firenze l’anno precedente, dopo la parentesi repubblicana iniziata nel 1494, quando erano stati

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CATTEDRALE E CAMPANILE DI PISA

Nel 1494 Pisa fu liberata dal dominio di Firenze, sotto cui si trovava dal 1406. Ma nel 1509 fu riconquistata dalle milizie della Repubblica fiorentina create da Machiavelli.

IL PROFETA DISARMATO

SAVONAROLA

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l 23 maggio 1498 il frate domenicano Girolamo Savonarola fu condannato a morte. Il giorno successivo venne impiccato, le sue spoglie bruciate e le ceneri sparse nell’Arno. Machiavelli, che allora aveva 29 anni, non era mai stato un “piagnone”, come venivano sarcasticamente chiamati i sostenitori del frate che fustigava la corruzione del papato e i vizi dei fiorentini. Savonarola annunciava l’avvento del regno di Dio mentre amministrava il governo della città. Ciononostante, alla fine dovette soccombere di fronte alla vendetta dello stato pontificio e dell’oligarchia di Firenze. Con la sua fredda visione politica, in Il principe Machiavelli presenta Girolamo Savonarola come un «profeta disarmato» che poteva contare soltanto sulla forza delle sue

parole per tenere insieme i seguaci e impedire che lo abbandonassero. Il frate infatti aveva convinto molta gente di essere un portavoce di Dio, ma quando «la moltitudine cominciò a non credergli […] lui non aveva modo di tenere saldi quelli che avevano creduto, né di far credere a chi non credeva». Osserva Machiavelli: «Da qui nacque che tutti i profeti armati [come Mosè] vincono e quelli disarmati cadono in rovina» .

espulsi dalla città. Quello di Machiavelli non fu solo il periodo dell’esplosione del Rinascimento, ma anche quello delle Guerre d’Italia, il momento in cui più acute furono le lotte per il predominio sulla penisola che videro coinvolti i potentati principali emersi dalla frammentazione medievale, ovvero Firenze, Repubblica di Venezia, regno di Napoli, ducato di Milano, un papato che, con i Borgia, aveva reso ancor più manifeste le sue ambizioni temporali, e potenze straniere quali Francia, Spagna e Sacro romano impero, ciascuna intenzionata a espandere la propria area d’influenza. Questo periodo s’inaugurò nel 1492 con la morte di Lorenzo il Magnifico, il signore di Firenze che, col suo carisma, aveva costituito l’ago della bilancia degli stati italiani; e terminò idealmente nel 1527 – proprio l’anno della morte del nostro protagonista –, quando il sacco di Roma perpetrato da lanzichenecchi e spagnoli al servizio dell’imperatore Carlo quinto sancì il fallimento di ogni politica distensiva e l’asservimento di gran parte della politica italiana agli intrighi stranieri.

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Bellinzona

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Lodi (1523)

Milano

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Novara M (1513) Pavia Torino (1525) NF

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Genova

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Marignano (1515) Novellara Mirandola

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VENEZIA Venezia

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Piombino

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Ravenna (1512) San Marino

FIRENZE Siena

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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

Napoli

te dopo che Machiavelli aveva informato la Repubblica di aver avuto successo, ponendo il segretario in grave imbarazzo. Il mancato accordo tra Firenze e Imola ebbe delle conseguenze: la prima smise di appoggiare Caterina esponendo, di fatto, la seconda alle mire di Cesare Borgia, il figlio naturale di papa Alessandro sesto. Cesare, che stava costruendo il suo proprio stato nell’Italia centrale, non perse tempo: prese Forlì e catturò la sua signora. Dal canto suo, nei Discorsi Machiavelli si sarebbe vendicato descrivendola come una donna insensibile e spietata in occasione della morte del marito, Girolamo Riario, ucciso da congiurati forlivesi, che poi fecero prigionieri lei e i suoi figli. Il loro obiettivo era la fortezza di Ravaldino: «E non volendo il castellano dar loro la fortezza, Madonna Caterina promise ai congiurati che, se la lasciavano entrare,

DEA

Machiavelli venne nominato segretario della Seconda Cancelleria di Firenze e dei Dieci di Libertà e Pace, cui erano demandate la politica estera e le questioni militari. Nel luglio del 1499 ebbe l’occasione di confrontarsi con un pezzo grosso del calibro di Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì; Firenze, infatti, era insolvente verso il figlio di questa, Ottaviano, condottiero al soldo della città fiorentina. A dispetto di ciò, Machiavelli doveva ottenere un altro incarico da mercenario per il giovane, e in un primo momento parve che fosse riuscito nel suo intento. Ma poi la signora cambiò idea, sfortunatamen-

Machiavelli fu impressionato dal coraggio e dalla determinazione della contessa di Forlì. Questo presunto ritratto di Caterina è opera di Lorenzo di Credi. 1481 circa. Pinacoteca civica, Forlì.

/ AL

La carriera d’ambasciatore

CATERINA SFORZA

I

L

Machiavelli finisce di essere spettatore e diventa attore nel 1498, all’indomani dell’esecuzione di Girolamo Savonarola. Dopo la caduta dei Medici, questo frate domenicano avvolto da un’aura profetica aveva instaurato una repubblica teocratica, ma la scomunica ricevuta in seguito al suo scontro con il papato ne precipitò la fine.

Roma

PO

Stati in orbita francese Stati pontifici e feudi ecclesiastici Monarchia spagnola Stati indipendenti Cessioni alla Svizzera e agli Asburgo Battaglie per il controllo SARDEGNA del ducato di Milano

NA

SANDRA RACCANELLO / FOTOTECA 9X12

CORSICA

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FORTEZZA DI SENIGALLIA

Fu teatro di uno dei più celebri misfatti compiuti da Cesare Borgia. Nel 1502 il duca attirò qui i quattro luogotenenti che cospiravano contro di lui, li imprigionò e li giustiziò. RICCARDO SPILA / FOTOTECA 9X12

CESARE BORGIA

ASCESA DI UN PRINCIPE

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l fine giustifica i mezzi». La massima che ha reso celebre Niccolò Machiavelli non è sua. Si tratta di una semplificazione della sua analisi sulle qualità di un governante, che tratteggiò con crudo realismo in Il Principe, un’opera per la quale s’ispirò neppure troppo velatamente a Cesare Borgia. Il suo non era un principe ideale, ma reale, ovvero dotato delle

qualità necessarie per reggere uno stato in quei frangenti convulsi della storia d’Italia. Ed erano delle qualità non necessariamente positive: la mancanza di scrupoli e perfino la crudeltà erano elementi che potevano garantire la stabilità del regno, scongiurando minacce esterne e soprattutto interne al suo potere. Le analisi politiche dell’autore, le sue distinzioni tra i vari tipi di principe, di stato, di soluzioni politiche, rimangono comunque tra le

più lucide e prive di pregiudizi che si siano mai lette. Ecco come descrive l’ascesa al potere del Borgia: «Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé, non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi».

gliel’avrebbe consegnata, e lasciò loro i suoi figlioli come ostaggi. Stabilito il patto, la lasciarono entrare; ma appena fu dentro, dalle mura rimproverò loro la morte del marito, promettendo di vendicarsi. E per mostrare che dei suoi figlioli non le importava, mostrò loro i genitali, dicendo che aveva ancora la possibilità di farne altri». Esattamente un anno dopo, il segretario incontrava nientemeno che Luigi dodicesimo, il nuovo re di Francia, per provare a convincerlo a cancellare il debito contratto dalla città fiorentina per l’aiuto, in realtà solo teorico, che il sovrano aveva fornito a Firenze nella riconquista di Pisa. Fu un nuovo fallimento, tanto che Machiavelli fu richiamato e sostituito da un altro ambasciatore. Ma non sarebbe stata la sua ultima missione di fronte al sovrano gallico. La presenza francese nell’Italia settentrionale rappresentava un contrappeso al papato, che puntava a estendere i domini della Chiesa minacciando gli interessi dei vicini territori fiorentini. Alla Repubblica conveniva pertanto cercare una buona intesa con entrambi.

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Il successivo incarico lo vide alle prese col personaggio più carismatico dell’epoca, Cesare Borgia, detto il Valentino. Questi aveva appena posto sotto il proprio giogo la Romagna e sembrava che il suo prossimo obiettivo fosse proprio Firenze, cui aveva appena sottratto alcuni territori. Stavolta la sua missione, in coppia con Francesco Soderini, ebbe successo, grazie anche alle pressioni della corte di Francia, contraria a un’ulteriore espansione del duca. Machiavelli fu anche testimone di uno dei delitti più efferati di Cesare: la cosiddetta “strage di Senigallia”, la trappola in cui il duca attirò i suoi luogotenenti ribelli, sterminandoli dopo aver finto di voler trattare la pace. La narrazione del cruento episodio, considerata la prima cronaca politica di Machiavelli, è istruttiva non solo sulla natura umana ma anche sui mezzi necessari per conservare il potere. «Scesa la notte, il duce fece uccidere Vitellozzo e Liverotto, facendoli strangolare. Nessuno di loro

fece una morte degna, l’uno supplicando, l’altro piangendo e attribuendo al compare tutte le colpe. Furono lasciati vivere, invece, Pagolo e il Duca di Gravina, almeno finché il duca non apprese che il papa, a Roma, aveva in ostaggio il cardinale Orsino, l’arcivescovo di Firenze e Jacopo di Santa Croce; solo allora, infatti, il 18 gennaio a Castel della Pieve li fece strangolare a loro volta». Ma il Valentino non rinunciò alle sue mire su Firenze e da allora lui e Machiavelli ebbero nuove occasioni di diventare buoni amici, fino al rapido declino del primo. La scena, ormai, era del personaggio che più di ogni altro ne aveva causato la caduta, il papa-guerriero Giulio secondo che, da cardinale, era stato acerrimo avversario di Alessandro sesto. Il segretario, ora anche Cancelliere dei Nove ufficiali della milizia fiorentina, si trovò a dover mediare nella contesa tra papato e Venezia per i territori romagnoli che facevano gola alla Repubblica di San Marco. E poi

LUIGI XII DI FRANCIA Tra il 1500 e il 1511 Machiavelli svolse quattro missioni presso il monarca francese. Sigillo d’oro del re. 1504. Bibliothèque Nationale, Parigi.

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QUESTO QUADRO, CONSIDERATO IL RITRATTO DI CESARE BORGIA, È OPERA DI ALTOBELLO MELONE. 1513 CIRCA. ACCADEMIA CARRARA, BERGAMO.

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CASTELLO DUCALE DI URBINO

Nel 1502 Machiavelli e Pier Soderini furono nominati ambasciatori di Firenze presso Cesare Borgia, figlio naturale di papa Alessandro VI. Conobbero il duca a Urbino, città che aveva da poco conquistato a tradimento nell’ambito delle sue campagne per costruirsi uno stato in Romagna. «Se non mi volete come amico, mi avrete come nemico», avrebbe detto Borgia ai due. ISTOCK / GETTY IMAGES

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INCONTRO A PERUGIA

Machiavelli conobbe papa Giulio II nel 1506. I due s’incontrarono durante l’assedio pontificio a Perugia, città che apparteneva alla Santa Sede ma dov’era salito al potere un signore locale. UIG / GETTY IMAGES

IL GONFALONIERE SODERINI

UN POLITICO INGENUO

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li errori di Pier Soderini, gonfaloniere del governo fiorentino, precipitarono la caduta della Repubblica. Nel 1512 la Lega Santa formata dalla Spagna, dal papato e dalla Repubblica di Venezia aveva concordato di restituire il potere ai Medici, espulsi da Firenze un decennio prima. Ma le truppe spagnole incaricate di far rispettare gli ac-

cordi non avevano artiglieria né provviste. In agosto, mentre erano accampate di fronte al possedimento fiorentino di Prato, il loro generale Raimondo de Cardona offrì di ritirarsi dalla zona in cambio di 30mila ducati e del ritorno dei Medici a Firenze come semplici cittadini. Nonostante l’opinione favorevole di Machiavelli, Soderini rifiutò e gli spagnoli, affamati, saccheggiarono Prato in un bagno di sangue. Immediatamente i sostenitori dei Medici occuparono palaz-

zo Vecchio, sede del governo fiorentino. Soderini supplicò che gli si risparmiasse la vita e fuggì. Non si era mai deciso a cacciare il partito mediceo da Firenze, in disaccordo con Machiavelli, che nel 1522 gli dedicò questo epitaffio: «La notte che morì Pier Soderini, / l’alma n’andò de l’Inferno a la bocca; / e Pluto le gridò: “Anima sciocca, / che Inferno? Va’ nel Limbo tra’ bambini”». È un rimprovero a Soderini per essersi mosso in politica con l’ingenuità di un fanciullo.

a sondare il terreno presso la corte imperiale di Massimiliano d’Asburgo in Tirolo, sebbene non in veste ufficiale, per scongiurare la discesa in Italia del sovrano.

L’ultima missione Il suo ultimo incarico diplomatico fu come inviato a Mantova, presso la corte di Isabella d’Este, in piena guerra della Lega Santa, promossa infine dal papa contro Venezia. Tuttavia, il repentino cambio di fronte di Giulio secondo, che con la città lagunare stipulò la pace inimicandosi la Francia, pose improvvisamente Firenze dalla parte sbagliata. Le truppe spagnole al servizio del papa sconfissero quelle fiorentine a Prato e permisero il rientro dei Medici. Così Machiavelli descrive, in una sua lettera alla marchesa di Mantova Isabella d’Este del settembre 1512, la sconfitta fiorentina: «[...] gli Spagnoli, aperta una breccia nel muro, cominciarono a pressare i difensori e ad atterrirli, al punto che dopo non molta resistenza tutti fuggirono, e gli Spagnoli, occupata la piazzaforte, la saccheg-

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SCALA, FIRENZE

giarono e ne ammazzarono tutti gli uomini con miserabile spettacolo di calamità [...] Vi morirono oltre quattromila uomini, mentre gli altri furono fatti prigionieri e costretti in vari modi a riscattarsi; né risparmiarono vergini rinchiuse o luoghi sacri, che si riempirono tutti di stupri e di sacrilegi». L’anno seguente sarebbe arrivata l’accusa di cospirazione. A quanto pare, la sua unica colpa era stata quella di conoscere alcuni dei personaggi implicati nella congiura. Tra i partecipanti c’era il suo amico Pietro Paolo Boscoli, nobile fiorentino, che perse un foglietto su cui erano annotati una ventina di nomi, tra i quali proprio quello di Niccolò. Il 18 febbraio 1513 il foglietto fu rinvenuto da un oratore senese, Bernardino Cocci, che ne informò Giuliano de’Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e reggente di Firenze. Immediati scattarono gli arresti, che condussero nell’arco di soli cinque giorni alla condanna a morte mediante decapitazione dello stesso Boscoli e di Agostino Capponi. Probabilmente la cospirazione era di più vaste proporzioni, ma il

regime preferì non infierire. Machiavelli, da parte sua, s’industriò a ingraziarsi il reggente di Firenze, dedicandogli un sonetto nel quale narrava di come fosse stato svegliato dalle preghiere dei due condannati a morte. Sarebbe tuttavia rimasto in carcere se l’elezione di un Medici al pontificato, col nome di Leone decimo, non fosse stata seguita da un’amnistia. Se la cavò ma politicamente, ormai, era finito. A parte un incarico come responsabile della difesa della città, si ritirò a vita privata, redigendo scritti che lo avrebbero reso celebre ben più delle sue gesta e nei quali, come fece con Il principe, riversò tutto il suo sapere in merito agli oscuri intrighi della politica rinascimentale che tanto intimamente conosceva.

IL PAPA DELLA GUERRA

Giulio II restituì ai Medici il governo di Firenze. Sopra, il pontefice in ginocchio nell’affresco di Raffaello La messa di Bolsena. 1508-1524. Musei Vaticani, Città del Vaticano.

ANDREA FREDIANI STORICO E ROMANZIERE

N.d.R.: Alcune citazioni di Machiavelli sono state semplificate e modernizzate per renderle più comprensibili

Per saperne di più

SAGGI

Il principe e altre opere politiche Niccolò Machiavelli. Feltrinelli, Milano, 2013.

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COSPIRAZIONI, ARRESTI E TORTURE l 16 settembre 1512, dopo la sconfitta delle milizie della Repubblica fiorentina per mano delle truppe spagnole, un colpo di stato riportò i Medici al governo di Firenze. Machiavelli fu allontanato dai suoi incarichi e confinato nella sua piccola proprietà rurale. Ma il peggio doveva ancora arrivare. FIRENZE NEL 1470. COPIA DELLA CARTA DELLA CATENA. SI POSSONO APPREZZARE LE CARCERI DEL BARGELLO E IL PATIBOLO CITTADINO, DOVE FURONO GIUSTIZIATI BOSCOLI E CAPPONI.

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IL 12 FEBBR AIO 1513 NICCOLÒ MACHIAVELLI FU ARRESTATO CON L’ACCUSA DI AVER PARTECIPATO A UNA CONGIUR A CONTRO I MEDICI, I NUOVI SIGNORI DI FIRENZE

1 . L’A R R E S T O I principali congiurati furono Pietro Paolo Boscoli, Agostino Capponi, Niccolò Valori e Giovanni Folchi. Un giorno Boscoli perse un foglietto su cui erano annotati una ventina di nomi, tra cui quello di Machiavelli. L’oratore senese Bernardino Cocci trovò il biglietto e corse a informarne Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e signore di Firenze. Le persone coinvolte furono immediatamente arrestate, ma quando le guardie andarono a casa di Machiavelli non lo trovarono, non si sa se per caso o perché fosse stato allertato. Fu pubblicato un proclama che esortava chiunque sapesse dove si trovava a denunciarlo entro un’ora, pena l’accusa di ribellione e la confisca dei beni. Machiavelli decise allora di presentarsi alle autorità costituite.

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GIULIANO II DE’ MEDICI, SIGNORE DI FIRENZE E DUCA DI NEMOURS. BOTTEGA DI RAFFAELLO. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK.

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2. LA TORTURA Imprigionato nelle carceri del Bargello 1 , Machiavelli fu sottoposto per sei volte al tratto di corda, una tortura consistente nel legare i polsi dietro la schiena al prigioniero e poi issarlo con una carrucola. La corda veniva allentata di colpo e bloccata prima che il corpo toccasse terra, provocando così strappi muscolari e dislocazione delle articolazioni. Machiavelli sopportò con dignità la tortura e non disse nulla che potesse comprometterlo. Tempo dopo, in una lettera a Vettori, si stupiva del suo stesso coraggio, affermando di aver affrontato il tormento con più forza di volontà di quella che si sarebbe aspettato.

3 . LE ESECUZIONI All’alba del 23 febbraio Machiavelli udì dalla sua cella i canti funebri della Compagnia de’ Neri, la confraternita i cui membri, vestiti in abito scuro, confortavano i condannati a morte. Boscoli e Capponi vennero scortati fino al patibolo 2 dove furono decapitati. Al boia furono necessari due tentativi per riuscire a giustiziare Capponi. Machiavelli non provò il benché minimo accenno di compassione: i due giovani avevano agito con irresponsabilità e negligenza, e lo avevano messo in pericolo scrivendo il suo nome sulla lista dei possibili sostenitori.

4. I SONETTI DAL CARCERE Da quella stessa notte Machiavelli cercò d’ingraziarsi il signore Giuliano de’ Medici, al quale dedicò un primo sonetto che comincia così: «Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti [ceppi] / e sei tratti di fune sulle spalle». Poi Machiavelli raccontava che le preghiere dei due condannati lo avevano svegliato: «Dormendo presso a la aurora, / cantando sentii dire: “Per voi s’òra”. / Or vadin in buona ora, / purché vostra pietà ver me si voglia». Machiavelli evitò la morte, ciononostante rimase in carcere finché l’11 marzo non fu eletto papa il fratello di Giuliano, Giovanni. Per l’occasione fu decretata l’amnistia generale, che gli permise di lasciare la prigione.

REO SOTTOPOSTO AL TRATTO DI CORDA IN UN’INCISIONE DEL XVII SECOLO. PER AUMENTARE IL DOLORE GLI È STATO ATTACCATO UN PESO A UNA GAMBA . SCIENCE SOURCE / ALBUM

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IL GIGANTE DI NEW YORK

La statua della Libertà è alta 46 metri, che diventano 93 se s’include il piedistallo. F. SCHIEFELBEIN / GETTY IMAGES

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LA STATUA DELLA LIBERTÀ L A N A S C I TA D I U N C O L O S S O Nel 1886 fu inaugurata a Bedloe’s Island, alle porte di New York, la statua che oggi è il simbolo degli Stati Uniti. Ma l’ispirazione originale del progetto proveniva dall’Egitto

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G LA VISIONE DI BARTHOLDI

In questo disegno di Bartholdi la statua della Libertà ha un aspetto molto simile a quello che avrebbe avuto alla fine, anche se qui il piedistallo è di forma piramidale. GRANGER / AURIMAGES

li Stati Uniti prenostri giorni, l’idea di costruire sto celebreranla statua sarebbe nata intorno no il centea una tavola da pranzo. Il nario della padrone di casa era lo stop ro p r i a rico del diritto Édouard indipendenza» recitade Laboulaye. I suoi va un annuncio pubblimodi erano eccentrici: cato su tutti i giornali girava per Parigi vestito francesi la mattina del come Benjamin Fran28 settembre 1875. «Il klin, con le dita sporche grande evento, che avrà d’inchiostro, redingoÉDOUARD DE LABOULAYE, IN UN’INCISIONE FATTA A luogo il 4 luglio 1876, ci te al ginocchio e capelli PARTIRE DA UNA FOTO. darà modo di festeggiare che sfioravano le spalle. Si con i nostri amici nordameracconta che una sera non RM N-G RA ND ricani l’antica e sincera amiprecisata del 1865 Laboulaye PAL AIS cizia che unisce da tanto tempo avesse invitato Frédéric-Auguste le nostre nazioni […] In mezzo al porto di Bartholdi, il futuro architetto della statua, New York, in un’isola che appartiene all’U- e un certo numero di amici nella propria dinione degli Stati, di fronte a Long Island, mora estiva. Il discorso era caduto sui fatti dove fu versato il primo sangue per l’indi- recenti degli Stati Uniti d’America, dove pendenza, sorgerà una statua colossale […] gli stati del nord avevano da poco sconfitto che rappresenterà La libertà che illumina il quelli del sud e riunito il Paese in una somondo […] Il monumento sarà costruito da lida federazione. Laboulaye aveva propoentrambe le nazioni […] Noi gentilmente sto di solennizzare l’evento regalando agli offriremo la statua ai nostri amici nordame- statunitensi un monumento per celebrare ricani che, da parte loro, faranno fronte alle l’amicizia che li legava alla Francia. spese di costruzione del piedistallo». Così Gli storici hanno sempre prestato fede a veniva presentata ai francesi quella che sa- questa storia (che Bartholdi stesso diffuse rebbe diventata la statua della Libertà, oggi quando ormai la statua era stata terminata nota come il simbolo degli Stati Uniti, la dea ed era pronta a essere spedita negli Stati benevola che accoglie gli stranieri in fuga da Uniti), senza tuttavia poterla dimostrare. Il tirannide e povertà. Nell’annuncio, tuttavia, problema ha che fare con alcuni vuoti minon si faceva parola di tutto ciò. La statua steriosi che caratterizzano le carte di Barvi appariva come un regalo francese per il tholdi, da sempre custodite nella casa di centenario della guerra che, tra il 1775 e il famiglia a Colmar, in Alsazia. La collezione, 1783, aveva reso le colonie inglesi d’America altrimenti completa, è priva dei documenti indipendenti dalla madrepatria. relativi agli anni della cena a casa di LabouLo scambio di doni di tal fatta non è mai laye, come pure delle lettere che lo stesso stato pratica comune tra le nazioni. Ma la Laboulaye, amico dell’architetto almeno dal statua che i francesi intendevano spedire 1857, gli aveva spedito prima e durante la coa New York non sarebbe stata soltanto un struzione della statua. Non sappiamo come omaggio agli Stati Uniti. La Francia di Luigi e quando questi documenti siano spariti, sedicesimo aveva contribuito a finanziare ma la loro assenza, insieme al fatto che lo la guerra di liberazione americana e aveva stesso Bartholdi abbia aspettato vent’anni accompagnato il prestito con l’invio di uo- prima di parlare delle origini del monumenmini e armi. La statua era perciò anche to, genera qualche sospetto. un regalo che la Francia faceva a sé Le origini del mistero sembrano trovarstessa per sottolineare il proprio si in Egitto, l’antica terra che custodiva il ruolo nella liberazione dell’A- passaggio in India e che francesi e inglesi merica dall’Inghilterra. si contendevano senza tregua. Nel 1854, a Secondo una soli ventidue anni, Bartholdi era partito da storia giunta ai Marsiglia per Il Cairo. Nascosta la capiglia-

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La contadina egizia L’architetto portò con sé un modellino e due acquerelli di una donna formosa che indossava una veste da contadina, o fellah, così leggera da far intravedere i capezzoli. Nella mano sinistra reggeva una lanterna; un velo le copriva i capelli, sui quali era posata una corona da cui scaturivano raggi che illuminavano il golfo. Il titolo dell’opera era Egitto che illumina l’Asia. A guardar bene, la statuetta di Bartholdi aveva ben poco di egiziano, fatta eccezione per le vesti. I suoi simboli evocavano una certa filosofia del progresso che si era diffusa in Francia sotto l’impatto delle ultime conquiste tecnologiche. L’estensione delle linee ferroviarie e la competizione con l’Inghilterra per il controllo del traffico transoceanico avevano indotto i fran-

FOTO DI UN’INCISIONE OGGI PERDUTA DI BARTHOLDI CON IL PROGETTO DEL FARO DI SUEZ PRESENTATO NEL 1869. MUSÉE BARTHOLDI, COLMAR.

CHRISTIAN KEMPF / MUSÉE BARTHOLDI COLMAR

tura corvina sotto un turbante, si era imbarcato su una dahabeah che risaliva il Nilo per ammirare monumenti e ritrarre volti. Al ritorno dall’Egitto, aveva dipinto contadine velate e scolpito statuette d’argento di musici e incantatori. Ma la sua vera passione erano i monumenti colossali. Mai i tempi erano stati più favorevoli ai suoi gusti. Nel 1867 una grande manifestazione industriale aprì le porte a Parigi. Nel palazzo di ferro e vetro allestito sul campo di Marte i francesi diedero vita a una specie di metropoli universale in miniatura completa di acquari, fari e ascensori ad acqua. Padiglioni russi, spagnoli e cinesi ricreavano le meraviglie dei rispettivi Paesi per un pubblico curioso. Niente, tuttavia, intrigò Bartholdi quanto la sezione egizia, dove un padiglione ospitava il plastico del canale che i francesi stavano per completare tra il Mediterraneo e il mar Rosso. Secondo l’ingegnere responsabile dei lavori, Ferdinand de Lesseps, il canale sarebbe diventato una cerniera del mondo, la scorciatoia tra l’ovest e l’est. E Bartholdi si mise in testa di glorificare l’impresa costruendo un faro alto come quelli delle esposizioni che illuminasse il golfo di Suez per le navi in arrivo dall’Oriente. Nel marzo del 1869 s’imbarcò quindi nuovamente per Il Cairo, questa volta per discutere il progetto con il viceré d’Egitto.

LA REGINA CONTADINA IL FILOSOFO CHE AVEVA PRONOSTICATO l’avvento di un

mondo globalizzato, nel quale la tecnologia avrebbe azzerato le distanze e annullato i privilegi, si chiamava Henri de Saint-Simon. Bartholdi ignorava le sue teorie, ma conosceva quelle del suo discepolo Prosper Enfantin, un eccentrico che si considerava la reincarnazione di Gesù e cercava la “donna messia” con cui unirsi per cambiare il mondo. Un progetto sansimoniano di tempio-faro colossale la rappresentava come una regina. Ma altri discepoli di Enfantin, che si erano recati in Egitto per esplorare la possibilità di tagliare l’istmo di Suez con un canale, vedevano la messia come una contadina egiziana, laboriosa e disinibita. Bartholdi riesumò questa figura quando Lesseps tradusse i progetti sansimoniani in realtà. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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in più con le contadine locali, spesso rappresentate in atteggiamento umile, magari con un’anfora in bilico sul capo. Ciononostante Bartholdi trovò la soluzione «meno attraente» e la ignorò.

Un massone visionario

EDIZIONE DI UNA CANZONE VENDUTA NEL 1884 A NEW YORK PER RACCOGLIERE FONDI PER IL PIEDISTALLO.

SHERIDAN LIBRARIES / GETTY IMAGES

MEDAGLIA DELL’ORGANIZZAZIONE CHE RACCOGLIEVA FONDI PER IL PIEDISTALLO.

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cesi a preconizzare l’avvento di un mondo globalizzato, tenuto insieme da invenzioni tecnologiche. Al centro di questo mondo vi sarebbe stata la Francia, destinata a raggiungere i punti più remoti del pianeta, saldando la conoscenza occidentale con la bellezza orientale. Vestita da egiziana e con la luce del progresso in mano, la personificazione dell’Egitto di Bartholdi era un chiaro tributo agli investimenti francesi a Suez. Il viceré non ne fu entusiasta. Avrebbe preferito una figura che esibisse qualche somiglianza

Alla vigilia del secondo viaggio in Egitto, Bartholdi aveva ricevuto una proposta di lavoro, «un affare incerto, che poteva avere buone prospettive, ma anche cattive». Si trattava del progetto di Laboulaye, che Bartholdi avrebbe di lì a poco descritto come un monumento in onore dell’indipendenza statunitense. Se Laboulaye ne aveva parlato a Bartholdi già nel 1865, le sue richieste si erano fatte più pressanti tra il 1867 e il 1869. Perché? Secondo alcuni storici, Laboulaye intendeva celebrare l’abolizione della schiavitù seguita alla Guerra di secessione. Ma aveva dubbi su questo punto. Secondo lui, gli statunitensi «guardavano i neri con orrore e disgusto, negli stati liberi come nel Sud». L’ammirazione di Laboulaye per gli Stati Uniti era di altra natura. Egli non perdonava agli inglesi di essersi impossessati delle colonie francesi d’America durante la Guerra dei sette anni. Gli Stati Uniti, diceva Laboulaye, erano la «terra promessa» dei francesi, il luogo nel quale essi potevano «solo sperare di tornare» dopo anni di attesa. Ma di quale ritorno si trattava? Un ritorno finanziario, che avrebbe permesso ai francesi d’investire nella nascente industria statunitense. Non a caso, la statua della Libertà sarebbe stata costruita con rame estratto da miniere del Michigan e della Norvegia controllate da compagnie francesi. Laboulaye auspicava anche una sorta di rinascita spirituale della Francia in America. Aveva maturato questa aspettativa all’interno della massoneria, da sempre ritenuta custode di un sapere esclusivo destinato a una minoranza di eletti. Ma egli guardava a un futuro nel quale i segreti massonici sarebbero stati rivelati al popolo. Il luogo di questa rivelazione, diceva, sarebbero stati gli Stati Uniti, un Paese nel quale i primi coloni avevano portato «la torcia del Vangelo», pregato Dio «in libertà» e introdotto il rispetto della proprietà privata. È possibile che Laboulaye avesse condiviso le proprie convinzioni con Bartholdi prima che questi

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Le catene scomparse Dopo l’estate del 1870 Bartholdi abbandonò i modellini della fellah: i francesi dichiararono guerra alla Prussia, Napoleone terzo cadde prigioniero. Era la fine dell’impero. La repubblica che sorse al suo posto si mobilitò per frenare l’ulteriore avanzata tedesca. Ma fu tutto vano. I francesi vennero sconfitti e Bartholdi partì per gli Stati Uniti. A New York lo aspettava una doccia fredda. Di fronte alla fellah (che nel frattempo Bartholdi aveva rivestito di panni romani), i newyorkesi si chiusero in un silenzio imbarazzato. Ma lui non si scoraggiò: viaggiò in lungo e in largo per il Paese, fino a quando, a Filadelfia, qualcuno s’interessò al progetto. In città stavano cominciando allora i preparativi per l’Esposizione universale del 1876, un evento che avrebbe coinciso con i

IL CREATORE DELLA STATUA DELLA LIBERTÀ IN UNA FOTO SCATTATA INTORNO AL 1880.

BRIDGEMAN / ACI

si mettesse al lavoro sulla statua egiziana. Tutto sommato la luce del progresso impugnata dalla fellah era presa in prestito dal repertorio massonico, dove il “portatore di torcia” simboleggiava il sole della rivelazione iniziatica. E gli Stati Uniti non erano forse il Paese nel quale le verità massoniche di Laboulaye (e di una certa massoneria francese, religiosa e conservatrice) si sarebbero rivelate al mondo? Tornato a Parigi, Bartholdi non buttò i calchi egiziani. Si era confrontato con la madre Charlotte, per la quale «gli stessi principi non possono essere applicati in entrambi gli emisferi», ma non si era trovato d’accordo. Per lui, come per Laboulaye, la Francia era destinata a esercitare la propria influenza negli Stati Uniti come in Egitto. Il che significava che la stessa statuetta poteva essere utilizzata in entrambi i Paesi. Ecco perché Bartholdi aggiunse un unico, nuovo dettaglio alle fellah scolpite di ritorno dall’Egitto (nessuna delle quali recava il nome “Egitto” alla base): un coccio di vaso, simbolo romano di libertà. Forse Bartholdi aveva deciso di lusingare il viceré estendendo il significato della statua alla libertà dal lavoro forzato, che un suo editto aveva abolito nel 1863. O forse stava davvero preparandosi a portare a termine il progetto di Laboulaye per gli Stati Uniti, dove il coccio di vaso avrebbe indicato la liberazione statunitense dagli inglesi.

UN SIMBOLO OCCULTO NEL 1870 BARTHOLDI SI ARRUOLÒ nell’esercito di Garibaldi, l’eroe dei due mondi accorso in Francia per combattere contro i prussiani. Un anno dopo Bartholdi pianse nel vedere Garibaldi lasciare il Paese tra i fischi dei francesi, mentre la sua città, Colmar, passava alla Germania. Pieno di rabbia, scolpì un’allegoria dell’Alsazia che malediceva i tedeschi e contemporaneamente aggiunse delle punte alla corona della statua. Cosa accomunava questi due atti? Bartholdi era solito firmare le proprie opere con allusioni autobiografiche. La stella rievocava le insegne di Colmar: un morgenstern (mazza ricoperta di punte) su un campo rosso e verde. Rossa al momento della consegna e verde in seguito ad anni di ossidazione, la statua nasconde nel capo la sfida lanciata dal suo artefice alla Germania. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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«FORZA RAGAZZI, STO ARRIVANDO!». MANIFESTO DEL 1917 RIFERITO ALL’INGRESSO DEGLI STATI UNITI NELLA GRANDE GUERRA.

festeggiamenti per il centenario dell’indipendenza statunitense. Gli organizzatori gli chiesero se sarebbe stato disposto a offrire la statua alla città. Bartholdi temporeggiò perché sognava di collocarla nel porto di New York, ma non voleva farsi sfuggire un’occasione preziosa. Intuiva infatti che gli imprenditori francesi e statunitensi interessati a incontrarsi all’Esposizione del 1876 avrebbero avuto più motivi di chiunque altro per finanziare una statua che immortalava l’amicizia tra i due Paesi. La campagna per sponsorizzare “il monumento dell’indipendenza” (come veniva chiamata allora la statua della Libertà) cominciò il 6 novembre 1875 con una cena solenne nel parigino Hôtel du Louvre. Al centro della sala, tutta decorata di simboli massonici (stelle di David, fiaccole e mani che si stringevano) la statua serbava delle sorprese: vestita da matrona romana, indossava una corona a raggi, mentre il coccio di vaso (che in una versione intermedia Bartholdi aveva sostituito con una catena spezzata) era sparito dalla mano sinistra. Al suo posto stavano le tavole della Dichiarazione d’indipendenza. Una catena spezzata s’intravedeva a stento ai suoi piedi.

La statua modulare

THIERRY OLLIVIER / RMN-GRAND PALAIS

L’EVOLUZIONE DI UN CONCETTO

Questa serie di sette terrecotte realizzate da Bartholdi mostra lo sviluppo dell’idea iniziale dello scultore. CHRISTIAN KEMPF / MUSÉE BARTHOLDI COLMAR

Reso più moderato (e dunque più gradito agli statunitensi), il modello della statua era pronto. L’industriale nazionalista e antibritannico Pierre-Eugène Secrétan si offrì di fornire tutto il rame (che si sarebbe procurato al di fuori del mercato britannico) necessario a costruire la statua; città produttrici di beni di lusso e vini da esportare negli Stati Uniti contribuirono all’impresa inviando dai duecentocinquanta ai mille franchi ciascuna. E mentre gli imprenditori inviavano assegni a Bartholdi e ai suoi collaboratori, l’architetto si rivolgeva alla ditta Eiffel et Cie, celebre per la costruzione di ponti ferroviari ad arco. Eiffel assegnò il lavoro al socio Maurice Koechlin, il quale studiò una struttura simile ai piloni sui quali poggiava il viadotto di Garabit sul fiume Truyère, ultimo nato della compagnia. Partendo dal modello esposto la sera del 1875 e attraverso una serie d’ingrandimenti progressivi, Bartholdi ottenne

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FRANCESCA LIDIA VIANO WEATHERHEAD CENTER FOR INTERNATIONAL AFFAIRS, UNIVERSITÀ DI HARVARD AUTRICE DI SENTINEL, HUP, 2018.

LA TORCIA E IL BRACCIO DELLA STATUA ESPOSTI A FILADELFIA NEL 1876.

BRIDGEMAN / ACI

calchi colossali del corpo della statua. Poi vi si arrampicò sopra con i suoi uomini per battervi a mano strati roventi di rame prima d’inchiodarli uno all’altro e ancorarli al pilone di Koechlin. Ciononostante, i lavori procedevano a rilento. Per la grande festa di Filadelfia era pronto solo il braccio con la torcia. Bartholdi lo inviò e il successo fu tale che Filadelfia chiese con sempre maggiore insistenza di avere il monumento quando fosse stato completato a Parigi. I newyorkesi, che avevano procrastinato sino ad allora, si decisero ad agire. L’iniziativa passò nelle mani di alcune personalità eminenti di New York che erano state coinvolte nell’organizzazione dell’Esposizione francese del 1878, dove Bartholdi contava ora di presentare la testa e il busto della statua. Si trattava di sfruttare ancora una volta la forza d’urto dell’evento e di attingere alle reti degli imprenditori che vi avrebbero partecipato. Ma che fare dopo la fine dell’Esposizione? Gli statunitensi avevano preso l’impegno di costruire il piedistallo e ne avevano affidato la progettazione all’architetto Richard Morris Hunt. Ciononostante, alla fine del l’anno 1878 non vi erano fondi sufficienti a procedere e l’opinione pubblica era fredda rispetto al progetto. Le cose cambiarono nel 1883, quando il democratico di origini ungheresi Joseph Pulitzer lanciò una campagna sul proprio giornale, il New York World, dove rappresentò Lady Liberty come una ragazzona sorridente e collegò il suo destino a quello del cittadino statunitense comune, sempre più spesso di origini straniere. In realtà, come i newyorkesi si accorsero quando la nave Isère scaricò i pezzi della statua a Bedloe’s Island il 17 giugno 1885, essa aveva un viso severo, quasi burbero. Ma era pur sempre un’immigrata, un’esule europea. Forse per questo, una volta costruito il piedistallo e dopo avervi issato la statua pezzo dopo pezzo, gli statunitensi si dimenticarono di lei. Sino al 1916, quando la sua provenienza francese contribuì a farne un simbolo importante delle campagne statunitensi in Europa. Ancora oggi la statua rimane una figlia del vecchio continente.

NEW YORK S’IMPONE SULLE ALTRE CITTÀ DOPO AVER ULTIMATO A PARIGI la costruzione e l’assemblaggio della statua, nel 1885 Bartholdi la smontò per inviarla a New York. Si trattava di una decisione rischiosa, dal momento che la città non aveva ancora raccolto il denaro necessario alla costruzione del piedistallo. Filadelfia, che aveva ospitato l’esposizione della torcia, si offrì di accogliere l’intera statua, e altrettanto fecero Boston e Baltimora. A Minneapolis si propose di collocarla sulle rive del Mississippi. Ma nell’agosto dello stesso anno la sottoscrizione pubblica promossa da Joseph Pulitzer attraverso il suo New York World riuscì finalmente a raccogliere 100mila dollari. La somma, donata da quasi 125mila persone, permise alla statua di rimanere a New York. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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ANTONIO BARTUCCIO / FOTOTECA 9X12

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UN GIGANTE ALLE PORTE Quando arrivò per la prima volta a New York nel 1871, Bartholdi vide Bedloe’s Island e decise che quell’isola di fronte alla città era il luogo perfetto per collocare la sua opera. La statua è rivolta verso l’Europa e il piedistallo è posto al centro di un’antica fortificazione con il perimetro a stella, Fort Wood. Nel 1956 l’isola cambiò nome in Liberty Island.

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1880

PELLE DI RAME, OSSA D’ACCIAIO PER LA PROGETTAZIONE della struttura della statua, Bartholdi si affidò

ai servizi dell’ingegnere Maurice Koechlin. La pelle del colosso era costituita da trecento lastre di rame sagomate a martello su delle riproduzioni in grande scala delle diverse parti della statua. Le lastre erano unite tra loro da una serie di nastri metallici rivettati e collegate alla struttura centrale in acciaio in modo da consentire piccoli spostamenti ed evitare tensioni. Il telaio interno era studiato per sopportare i forti venti oceanici della baia di New York.

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SAGOMATURA DEL RAME

Il rivestimento in rame fu prodotto a Parigi dal laboratorio Monduit, Gaget, Gauthier et Cie: trecento pezzi per un peso totale di 800mila chili. NEW YORK PUBLIC LIBRARY / BRIDGEMAN / ACI

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1881

UNA VOLTA PRONTE, le lastre di rame furono assemblate a Parigi, quindi adattate alla struttura di sostegno. La collocazione simbolica del primo rivetto avvenne nel 1881, per mano dell’ambasciatore statunitense Levi P. Morton. L’anno successivo, quando la statua era conclusa fino alla vita, Bartholdi offrì alla stampa un pranzo in cima all’impalcatura. Il 4 luglio 1884 l’opera ormai completa fu presentata all’ambasciatore nel corso di un’affollata cerimonia. Restò a Parigi fino al gennaio 1885, quando Bartholdi diede l’ordine di smontarla per procedere al suo trasporto negli Stati Uniti.

FOTO: BRIDGEMAN / ACI; GRANGER / AURIMAGES

ASSEMBLAGGIO A PARIGI

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IL NUOVO MONDO

Gli immigrati provenienti dall’Europa osservano la statua della Libertà mentre la nave su cui viaggiano si dirige a Ellis Island, dove saranno fatti sbarcare. Foto degli anni dieci del novecento. EDWIN LEVICK / GETTY IMAGES

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1883

UN INNO ALLA SPERANZA IN QUELL’ANNO il comitato che

raccoglieva fondi per il piedistallo chiese alla poeta Emma Lazarus di partecipare a un evento a questo scopo. Lazarus proveniva da una famiglia sefardita e aveva aiutato gli ebrei indigenti emigrati dalla Russia che attendevano il permesso per entrare negli Stati Uniti. Il 2 novembre compose il sonetto Il nuovo colosso (in allusione al colosso di Rodi), che faceva della statua l’emblema di una terra d’accoglienza. Nella poesia, la «madre degli esuli» si rivolge alle «antiche terre» d’Europa: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri / le vostre masse rannicchiate desiderose di respirare libere […] / Mandatemi loro, i senzatetto, squassati dalle tempeste / e io alzerò la mia fiaccola accanto alla porta dorata!».

MANOSCRITTO ORIGINALE DI IL NUOVO COLOSSO (SOPRA), CON LA DATA DI COMPOSIZIONE E LA FIRMA DELL’AUTRICE IN CALCE. A DESTRA, LAZARUS IN UN’INCISIONE DEL 1888. FOTO: GRANGER / ALBUM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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STRUTTURA INTERNA DELLA STATUA. ILLUSTRAZIONE TRATTA DA LES GRANDS TRAVAUX DU SIECLE DI J.B. DUMONT. 1891 BRIDGEMAN / ACI

1885

GRANDE ATTESA la fregata francese Isère, salpata da Rouen, raggiunse il porto di New York con le 214 casse in cui Bartholdi aveva imballato le lastre di rame della statua. Per iniziare l’assemblaggio fu però necessario attendere l’aprile dell’anno successivo, quando fu completato il piedistallo. I fondi raccolti non permisero di costruirlo secondo il progetto originale, in pietra, dell’architetto americano Richard Morris Hunt, per cui si optò per una soluzione più economica: una base di cemento ricoperta di granito. Dato che il piedistallo era troppo stretto per collocarvi sopra le impalcature, gli operai montarono le lastre appendendosi a delle corde.

IL 17 GIUGNO

ARRIVO DELLA FREGATA ISÈRE AL PORTO DI NEW YORK, DOVE RICEVETTE UN’ACCOGLIENZA ENTUSIASTICA. GLI SPETTATORI SI ACCALCARONO SUL PIEDISTALLO DELLA STATUA ANCORA IN FASE DI COSTRUZIONE. GRANGER / AURIMAGES

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IL VOLTO DEL COLOSSO

Scattata a Bedloe’s Island nel 1885 dopo l’arrivo delle casse, questa foto permette di apprezzare le enormi dimensioni della statua: l’altezza del volto è di circa 5,29 m per 3 di larghezza. L’occhio e la bocca sono larghi rispettivamente 0,76 e 0,91 m; il naso è lungo 1,37 m. GRANGER / AURIMAGES

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dal presidente Cleveland percorse le strade di New York da Madison Square, dov’era stata esposta la torcia, fino a Battery Park, a sud di Manhattan, passando per la Fifth Avenue e Broadway. Quando i partecipanti transitarono davanti alla Borsa, gli operatori gettarono in aria migliaia di pezzi di nastro adesivo, inaugurando la tradizione della ticker-tape parade, la parata trionfale con pioggia di coriandoli. In mare trecento imbarcazioni sfilarono davanti al colosso, anche se la nebbia e la pioggia limitavano la visibilità . Il volto della statua, coperto da una bandiera francese, fu svelato da Bartholdi. Seguirono spari di cannone a salve e un discorso del presidente.

IL 28 OTTOBRE un corteo guidato

IL GRAN GIORNO

1886

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Edward Moran è l’autore di quest’olio, La statua della libertà che illumina il mondo, raffigurante l’inaugurazione del monumento. 1886. Museum of the City of New York.

IMMAGINE RICORDO

ANNUNCIO DELL’INAUGURAZIONE DELLA STATUA DELLA LIBERTÀ ALLA PRESENZA DEL SUO CREATORE, FRÉDÉRIC-AUGUSTE BARTHOLDI, IL 27 OTTOBRE 1886.

GRANGER / AURIMAGES


GRANDI ENIGMI

Naufraghi in Antartide: la tragedia della San Telmo I sopravvissuti al naufragio della San Telmo, avvenuto nel 1819, furono forse i primi uomini a mettere piede in Antartide giare invano, concluse che si trattava di una chimera. Se davvero le terre antartiche esistevano, pensava, si trovavano così prossime al polo che nessuno le avrebbe mai raggiunte.

Una scoperta fortuita L’illustre navigatore si sbagliava. Mezzo secolo più tardi un anonimo marinaio inglese, William Smith, le trovò molto più vicine di quanto credesse Cook. Nel febbraio del 1819, mentre navigava da Montevideo (Uruguay) a Valparaíso (Cile), un mare in tempesta gli bloccò il passaggio per capo Horn, obbligandolo a deviare il tragitto verso sud, dove soffiavano ven-

ti migliori. Era una prassi solita per schivare le bufere, ma poiché Smith era già esperto nella navigazione nell’Artico, scese ancor più a sud di qualsiasi altro capitano, preferendo gli iceberg alle tormente. Durante la traversata avvistò delle isole sconosciute e si convinse che facevano parte di quella misteriosa terra che tanto aveva inseguito: l’Antartide. Quando raggiunse Valparaíso, Smith raccontò della sua scoperta, ma all’inizio nessuno gli dette credito. Eppure non si arrese e nei mesi seguenti s’imbarcò di nuovo verso sud alla ricerca delle isole. Le rintracciò nuovamente e nell’ottobre

MISSIONE SFORTUNATA LA DIVISIONE del Mare del Sud, con la San Telmo in testa, partiva nel maggio del 1819 in direzione di Lima per affrontare le rivolte indipendentiste in America. La spedizione incontrò avversità sin dall’inizio: una delle navi, l’Alejandro I, dovette tornare a Cadice appena cominciò a imbarcare acqua vicino all’equatore. ROSENDO PORLIER Y ASTEGUIETA, COMANDANTE DELLA FLOTTA. DONAZIONE DI D. ANTONIO PORLIER JARAVA, MARCHESE DI BAJAMAR

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DOPPIARE il capo Horn era F&A ARCHIVE / AURIMAGES

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al sedicesimo secolo le flotte che navigavano nell’emisfero australe rivolgevano il loro sguardo a sud per provare a intravedere l’Antartide, un continente sfuggente e ignoto, che i geografi dell’antica Grecia avevano definito un luogo fertile. Non lo trovarono mai. Neppure uno dei più abili marinai della storia, il capitano Cook, riuscì a individuare quel territorio così inafferrabile. Nel 1772, mentre navigava per conto dell’Ammiragliato britannico, Cook si addentrò nei mari australi alla ricerca di quella mitica terra. Dopo tre anni trascorsi a veleg-

una traversata difficile, perfino nei mesi estivi. Questa litografia colorizzata mostra una nave che supera lo stretto a metà del XIX secolo.

del 1819 sbarcò per prenderne possesso in nome del re d’Inghilterra. Per questo oggi compare nei libri di storia come lo scopritore dell’Antartide. L’anno seguente Smith tornò nelle isole per esplorarle dietro incarico di un comandante inglese, William Shirreff, che ne aveva intuito il valore geostrategico ed economico per la Gran Bretagna. Nei primi mesi del 1820 Smith e un ufficiale inglese, Edward Bransfield,

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GRANDI ENIGMI

esplorarono l’arcipelago che, più tardi, sarebbe stato battezzato con il nome di Shetland Australi. In una di queste isole, poi nota come isola Livingston, fecero una scoperta inattesa: i resti di un recente naufragio. Non solo: Smith rinvenne anche le carcasse degli animali che i sopravvissuti dovevano aver ucciso per cibarsene. Al pari di qualsiasi altro marinaio britannico suo contemporaneo, intuì subito di quale

nave si trattasse: l’imbarcazione spagnola San Telmo, scomparsa alcuni mesi prima mentre cercava di doppiare capo Horn. Se ciò fosse stato vero, allora altri uomini avevano già messo piede nell’Antartide prima di lui. Per ordine delle alte sfere, gli esploratori inglesi tacquero su quel rinvenimento, in modo che nessuno potesse dubitare circa l’importanza della scoperta di Smith. La San Telmo faceva parte di una flotta che nel mag-

gio del 1819, durante i burrascosi moti d’indipendenza dell’America spagnola, Ferdinando settimo aveva fatto armare per fronteggiare l’insurrezione che minacciava il Perù. La squadra navale aveva ricevuto il pomposo nome di Divisione del Mare del Sud ed

era costituita da millequattrocento uomini, distribuiti su quattro navi. Ben presto le imbarcazioni divennero tre perché la quarta era in uno stato talmente deplorevole che dovette tornare indietro durante la traversata dell’Atlantico. Alla fine d’agosto le navi restanti

William Smith è considerato il primo ad aver messo piede nel territorio antartico STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI ENIGMI

ROTTA AD ALTO RISCHIO

LIMA

PER LE NAVI DOPPIARE CAPO HORN

è stata da sempre un’impresa titanica. Questo perché nello spazio compreso tra l’estremità meridionale del Sudamerica e l’Antartide l’oceano si restringe: la corrente, altrimenti più libera, acquista quindi velocità. Lo stesso accade ai venti, già di per sé forti a quelle latitudini. E questo comporta mari in tempesta, venti ciclonici, continue burrasche e, più a sud, la presenza di iceberg.

RIO DE JANEIRO

Rotta della flotta spagnola nel 1819 Possibile rotta della San Telmo

MONTEVIDEO

ISOLA LIVINGSTON, DOVE FURONO TROVATI I RESTI DELLA SAN TELMO.

QUINTLOX / ALBUM

CAPO HORN

calarono l’ancora a Montevideo per poi continuare il viaggio che le avrebbe condotte a Lima. Il responsabile della flotta, Rosendo Porlier y Asteguieta, sapeva benissimo che, nel rigido inver-

no dell’emisfero australe, le imbarcazioni avrebbero incontrato i mari in tempesta in corrispondenza di capo Horn. Tuttavia le autorità del Perù attendevano con ansia sia le navi, per la potenza di fuoco dei cannoni, sia il denaro che queste trasportavano: in questo modo avrebbero potuto pagare le truppe ancora fedeli alla corona spagnola.

Per questo Porlier decise di affrontare la tanto temuta rotta seppure in condizioni sfavorevoli. Le acque avevano sempre messo a dura prova uomini e imbarcazioni, ma in quell’occasione gli elementi tutti sembravano aver complottato contro le navi spagnole. Violente tempeste gli impedirono di avanzare, obbligandolo a dirigersi sempre più verso

La San Telmo affrontò lo stretto di capo Horn con molteplici avarie durante l’inverno australe SAN TELMO. COSTRUITA NEL 1788. MUSEO NAVAL, MADRID. DAGLI ORTI / AURIMAGES

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sud pur di schivare l’inferno. E nemmeno lì le bufere gli concessero tregua. Le onde, i venti e le correnti squassarono per giorni le barche e le sottoposero a un duro castigo, soprattutto la San Telmo. Il 2 settembre, mentre la nave veniva rimorchiata da una di quelle di sostegno, un’onda fortissima ruppe le funi e separò la San Telmo dalle altre.

Il naufragio Quanto successe poi alla San Telmo e ai 664 uomini del suo equipaggio rimane un mistero. Secondo un’ipotesi, prima del naufragio questi riuscirono ad avvi-

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L’ISOLA LIVINGSTON.

ALAMY / CORDON PRESS

Qui finirono le reliquie del naufragio della San Telmo. Nell’immagine, una spiaggia sulla costa meridionale dell’isola.

stare una terra a sud, l’isola Livingston, e cercarono di dirigere lì l’imbarcazione per aggiustarla. Forse s’incagliarono mentre cercavano di raggiungerla, e quest’eventualità sarebbe stata senz’altro migliore rispetto a un naufragio in alto mare. È possibile infatti disincagliare una nave che si è arenata oppure, se i danni sono molto gravi, con alcune sue parti si possono costruire altre imbarcazioni più piccole con cui mettersi in salvo; la storia navale è piena di casi simili. Se gli uomini videro le isole, è quindi sicuro che cercarono di raggiungerle. Era la loro

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unica possibilità di salvezza. Ciononostante non è sicuro che ci siano arrivati.

I resti L’unica certezza è che non si seppe più nulla né della nave né dell’equipaggio, dato ufficialmente per disperso nel 1822. I navigatori britannici che in quegli anni percorsero la zona assicuravano di aver trovato «il ceppo dell’ancora […] con anelli di ferro e fasciame in rame, bome e alberi; resti malinconici della sventura di uomini disgraziati». I cacciatori di foche, che frequentarono l’area poco tempo dopo, non rinvenne-

ro nulla, tranne le assi di legno del naufragio, che usarono come combustibile. In un secondo momento, alcuni studi archeologici condotti in quei territori, soprattutto a opera di ricercatori argentini e cileni, hanno dimostrato in maniera accurata la presenza di cacciatori di foche, anche se non hanno apportato prove attendibili circa la presenza dei marinai della San Telmo. È molto probabile, allora, che l’imbarcazione si sia inabissata in alto mare e che quanto trovarono Smith e Bransfield sulla spiaggia fossero solo i resti del

naufragio trasportati poi dalla corrente. Altri invece ritengono che la nave, seppure in pessime condizioni, riuscì ad approdare e, dopo aver ricevuto alcune riparazioni, riprese la rotta. Se anche fosse avvenuto così, le acque impietose avrebbero concluso quello che non erano riuscite a ottenere la volta precedente. —Javier Cacho Per saperne di più SAGGI

Avventura ai Poli Reinhold Messner. Mondadori, Milano, 2010. I più importanti disastri navali K.C. Barnaby. Mursia, Milano, 2006.

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IL ROVESCIO DELLA TRAMA

Il machiavellismo di Machiavelli

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uando leggiamo Il Principe balza subito agli occhi l’indifferenza di Machiavelli per la passione artistica imperante in due illustri scrittori della sua generazione: il poeta Ludovico Ariosto e lo storico Francesco Guicciardini. Invece di preoccuparsi, come facevo loro, dei problemi di stile, Machiavelli scriveva in modo diretto, esponendo chiaramente le sue tesi. Ne ha parlato spesso il saggista britannico John Addington Symonds nel suo importante libro Renaissance in Italy (Il Rinascimento in Italia). Addington Symonds voleva dimostrare che Machiavelli aveva dedicato la sua vita a definire l’azione de l’homme politique come norma della modernità; e che non lo aveva fatto solamente in Il Principe, in Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio o in

Arte della guerra, bensì anche nelle sue commedie Clizia e Mandragola, nonché nella novella Belfagor arcidiavolo. L’obiettivo del saggista britannico era quello di svelare la persona che si nascondeva dietro il pensatore politico. Perché nella sua opinione Machiavelli era un uomo dal duplice volto. Uno era quello dell’uomo che serviva fedelmente lo stato, conosceva a fondo la natura umana e fondava la moderna filosofia politica; l’altro, quello di un uomo che amava la vita e i piaceri, e non esitava a propagare le chiacchiere e le freddure che circolavano nel torbido ambiente fiorentino. Con una simile doppia personalità Machiavelli rilesse in modo acuto la concezione dello stato come «opera d’arte», per utilizzare una definizione coniata dallo storico svizzero Jacob Burckhardt nella maestosa opera Die Kultur der Renais-

Il pericolo risiede nei governanti mediocri, che perdono di vista un valido obiettivo per avidità, ignoranza o mera stupidità

sance in Italien (La civiltà del in che modo? Machiavelli Rinascimento in Italia). Tra non ha dubbi: quando è in la costituzione dell’antica ballo la salvezza della patria, Repubblica romana e quel- non bisogna essere troppo la della nazione moderna si fiscali nella scelta dei mezzi, frappone il modello di stato purché ai cittadini non sia sorto nelle città rinascimen- arrecato danno. La famosa tali italiane, nelle quali la tor- massima «il fine giustifica i re simboleggiava la gerarchia, mezzi», che s’intuisce dalle e la piazza le reti commercia- pagine di Il Principe, è proprio li. Si superava così l’antica il machiavellismo di Machialotta tra i papi di Roma, per velli. Perché, in fin dei conti, i quali il potere veniva dalla la politica non è altro che una delega di Dio ai suoi rappre- questione di abilità, che vede sentanti in terra – gli stes- come prioritario l’obiettivo si papi, ovviamente –, e gli finale, e non il modo per conimperatori del Sacro roma- seguirlo, benché alle condino impero, i quali credevano zioni già citate. piuttosto che il potere fosse Questa tesi spalanca le un’emanazione della grazia porte al mondo moderno: divina ai membri della loro la storia è la sequenza logica famiglia. Tali idee, soste- degli eventi, e non c’è altro neva Machiavelli, avevano nesso intellegibile tra le sue condotto l’Italia allo scontro varie fasi se non la volontà politico, alle vendette fami- umana, aiutata naturalmenliari e alla violenza sociale: te dalla fortuna. Il successo una realtà descritta magi- in politica non deve basarsi stralmente da Shakespeare sulla morale. L’unico pericolo in Romeo and Juliet (Romeo risiede nella mediocrità dei e Giulietta). Era perciò fon- governanti che, spesso, perdamentale individuare qual- dono di vista un valido obietcuno che potesse scongiurare tivo per avidità, ignoranza simili danni, e trovare una o mera stupidità. È questa motivazione importante per l’eredità di Machiavelli su cui farlo: quel qualcuno sarebbe oggi dovremmo riflettere. stato il principe, e la motivazione la ragione di stato. Ma —José Enrique Ruiz-Domènec

MANUEL COHEN / SCALA, FIRENZE

Cinque secoli fa il pensatore fiorentino affermò che la morale non ha rapporti con la politica: è importante il fine che si vuole perseguire, non i mezzi utilizzati

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STATUA di

Machiavelli realizzata nel XIX secolo e posta su una facciata delle Gallerie degli Uffizi, a Firenze.

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LA FOTO DEL MESE

L’ALTRA NEW YORK SITUATA NELLA PARTE più antica di Manhattan, Mulberry Street è il simbolo

del degrado urbano della New York del XIX secolo. Nella zona si concentravano gli immigrati italiani, costretti a pagare affitti molto elevati per dei tuguri miserabili. Questa foto del 1888 ritrae alcuni personaggi dall’aria losca che guardano nell’obiettivo, in sintonia con questo specifico punto della via, noto come The Bandits’ Roost (il ritrovo dei banditi). L’autore dello scatto, Jacob Riis, è stato un pioniere della fotografia sociale e anche dell’uso del flash al magnesio per illuminare le realtà più oscure del suo tempo. FOTOTECA GIRALDI / BRIDGEMAN / ACI

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA STORIA MODERNA

La Rivoluzione francese in trecento libri

H Antonino De Francesco

TUTTI I VOLTI DI MARIANNA Donzelli, 2019; 402 pp.; 34¤

a un’espressione incoraggiante e fiera scolpita su un giovane volto quasi incorniciato tra il berretto frigio e una ciocca di capelli castani. È un viso armonioso quello di Marianna, figura femminile scelta nel corso del diciannovesimo secolo per rappresentare gli ideali della Rivoluzione francese, ma che successivamente s’impose come emblema della repubblica. Dall’epoca degli eventi rivoluzionari fino a tutto il ventesimo secolo Marian-

na è stata al centro di oltre trecento storie. Si tratta di opere che hanno indagato gli aspetti più disparati del processo rivoluzionario e delle sue conseguenze in Francia e negli altri Paesi, generando intensi dibattiti storiografici. Le contrapposizioni ideologiche più rilevanti hanno visto da un lato i partigiani della libertà e dell’uguaglianza, dall’altro i sostenitori dell’ordine e della tradizione. Lo storico Antonino De Francesco ha scandagliato questa immensa mole di scritti per

rintracciarvi innanzitutto «uno smarrimento di quella identità repubblicana sulla quale la Francia moderna aveva costruito la propria immagine in Europa». Lo stesso 1789, data da sempre cruciale nelle periodizzazioni storiche, avrebbe perso il proprio fascino a vantaggio di una storia sempre più sovranazionale. La tesi dell’autore è che, sotto la spinta della globalizzazione e dell’europeismo, la devozione al concetto di patria nato dalla rivoluzione sarebbe stato sacrificato dalle classi dirigenti francesi rispetto ad altre logiche, in primis economiche. La difesa di Marianna spetterebbe oggi alle ali estreme dello schieramento politico francese, di destra come di sinistra.

PREISTORIA

MONDI STRAORDINARI SOTTO LE CITTÀ AL DI SOTTO delle strade delle metropoli ci sono spazi

impensabili e inesplorati, rivelatori della quotidianità di altre epoche. Il primo a fotografare i sotterranei di Parigi, ad esempio, fu Gaspard Félix Tournachon, detto “Nadar” che nel 1861 inventò una lanterna alimentata a batterie che gli consentì di fotografare gallerie, cunicoli e cripte. Quasi centosessant’anni dopo, Will Hunt si è calato negli underground di tutto il mondo, da Parigi fino alle antiche città della Cappadocia, dalle caverne preistoriche del sud-ovest francese alle miniere statunitensi, allo scopo di esplorare quei «mondi del sottosuolo» che incuriosiscono e insieme spaventano. Will Hunt

I MISTERI DEL SOTTOSUOLO Bollati Boringhieri, 2019; 40 pp.; 28 ¤

Massimo Sandal

LA MALINCONIA DEL MAMMUT Il Saggiatore, 2019; 334 pp.; 22 ¤ SECONDO un calcolo appros-

simativo sulla Terra vivono circa otto-nove milioni di specie. Di queste, poco più di un milione e duecentociquantamila sono state catalogate a partire dal diciottesimo seco-

lo con l’opera del naturalista svedese Linneo. Secondo lo scrittore Massimo Sandal «gli altri sette milioni e mezzo non le conosce (ancora) nessuno […] Se dedicassimo una sola pagina a ogni specie sulla Terra, riempiremmo una biblioteca con qualcosa come sedicimila volumi». Secondo alcune fonti, tra il novantanove e il 99,9 per cento delle specie mai esistite sulla Terra (come lo stesso mammut, il dodo o l’alca) è estinto. Sandal racconta la grande storia delle estinzioni a partire da quella del Permiano (oltre duecentocinquanta milioni di anni fa) e mette in guardia: «La vita è così fragile che potremmo essere noi l’asteroide che causerà la prossima estinzione di massa».

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STORIA SOCIALE

L’Europa alle terme con Goethe e Beethoven

Q David Clay Large

L’EUROPA ALLE TERME EDT, 2019; 504 pp.; 28¤

uando il 4 luglio del 1785 il poeta tedesco Wolfgang Goethe entrò in carrozza nella piazza del mercato di Karlsbad, località boema nota all’epoca come stazione termale di prima categoria, un trombettiere in cima a una torre iniziò a suonare una fanfara di benvenuto. Dopo aver elargito laute mance al musico, al cocchiere, al doganiere e al lacchè dell’albergo, il poeta iniziò il suo soggiorno di un mese e mezzo per godere della rinomata vita

sociale dello stabilimento termale e, allo stesso tempo, curare la gotta e i disturbi cronici allo stomaco. A Karlsbad si recava anche il compositore tedesco Ludwig van Beethoven, che ai flirt e al gioco d’azzardo preferiva la cura di emicrania, colite, epatite, diarrea, flatulenza, emorroidi e, soprattutto, sordità. Diversi per carattere e convinzioni politiche, secondo lo storico David Clay Large, i due «erano pur sempre uniti dalle malattie e dai tentativi, sempre più dispe-

STORIA ANTICA E MEDIEVALE

La storia millenaria del fiore tra i fiori

D Claudia Gualdana

ROSA. STORIA CULTURALE DI UN FIORE Marietti 1820, 2019; 192 pp.; 18¤

i rose sono cosparsi i secoli della storia dell’umanità. Il flos florum (fiore dei fiori), come probabilmente definì la rosa lo scrittore alessandrino Achille Tazio, viene da lontano. Cresceva rigogliosa nei giardini pensili di Semiramide a Babilonia, decorava i muri del palazzo di Minosse a Cnosso, dà addirittura il nome all’isola di Rodi nell’Egeo (da rhodon, rosa in greco), detta appunto “isola delle rose”. Al centro dei riti dionisiaci, si diceva che

la rosa mitigasse una delle conseguenze dell’ubriachezza, il parlar troppo, e di conseguenza impedisse di svelare segreti. Anche «le terre di Roma erano ebbre di rose, nell’Urbe e nei possedimenti dell’impero», svela l’autrice Claudia Gualdana, precisando che il rinomato fiore «giunse dalla Persia attraverso la Grecia e la Macedonia per spiccare tuttora sopra ogni altro fiore, almeno nel mondo occidentale». Simbolo del sacrificio dei martiri cristiani, in epo-

rati, di alleviare quei disturbi con le acque curative». Tra i due nacque un rapporto di stima basato sul racconto dei rispettivi malanni. È nei grandi kurorte (città termali) dell’Europa centrale come Baden-Baden, Wiesbaden, Karlsbad, Marienbad che, secondo l’autore, «nel corso del diciannovesimo secolo la cultura dell’idroterapia ha raggiunto i suoi massimi traguardi in termini di perfezione, fama mondiale e varietà di trattamenti». Le città termali, che spesso si autopromuovevano come «paradisi lontani dai conflitti del mondo reale», erano in realtà luoghi in cui tra vizi, intrighi politici e relazioni diplomatiche si poteva trovare di tutto eccetto, forse, l’agognato relax.

ca medievale la rosa diventava parte delle facciate di centinaia di cattedrali romaniche e gotiche in tutta Europa, per mezzo dell’elemento architettonico del rosone. Attraverso le vetrate di chiese e cattedrali passava infatti la sempiterna luce di Cristo, principio e fine di ogni cosa, che accoglieva i fedeli nello spazio sacro. La rosa era anche alla base di preparati medievali per curare diversi malanni, dall’influenza agli eccessi alcolici. Un vero e proprio viaggio a ritroso quello compiuto dall’autrice alla ricerca di usi e simbologie di un’infiorescenza «amata, recisa e cantata centinaia, migliaia di volte dai nostri antenati, simbolo di amore, devozione, gentilezza». STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA ARTE MODERNA

Da Tiziano a Rubens

T

ra sedicesimo e diciassettesimo secolo le strade che congiungevano le città di Anversa e Venezia brulicavano di mercanti e artisti carichi di merci, ma soprattutto d’idee. Per queste vie erano transitati artisti come Peter Paul Rubens (1577-1640) o Anthony van Dyck (1599-1641) che si spostavano dalle Fiandre in Italia al fine di acquisire tecniche pittoriche e suggestioni compositive. A Venezia tali artisti furono i protagonisti di una produzione straordinaria che poi andò ad arricchire le collezioni pubbliche e private di Anversa e di tutte le Fiandre. Dopo quasi cinque secoli, oltre centoquaranta opere d’arte realizzate a Venezia da artisti fiamminghi, ma anche da veneziani illustri come Jacopo Robusti detto “Tintoretto” (1519-1594) e Tiziano Vecellio (1488/90-1576),

MAERTEN DE VOS 1532–1603. La Calunnia di Apelle (1594–1603?), olio su tavola, collezione privata.

fanno ritorno nella città lagunare in una mostra che, nelle intenzioni del curatore Ben van Beneden e della direttrice scientifica Gabriel-

la Belli, «vuole narrare la ricchezza, la complessità, le specificità e le relazioni di un territorio a cavallo di due secoli». Di Tiziano fa ritor-

no soprattutto Ritratto di dama con la figlia, trovato incompiuto nello studio dell’artista, morto a causa della peste nel 1576. Si pensa che la tela ritragga la donna amata, Milia, insieme alla loro figlia in una scena di grande intimità. Tuttavia, per molto tempo questa raffigurazione è rimasta celata sotto la composizione Tobia e l’arcangelo Raffaele, un soggetto religioso che qualche apprendista di bottega di Tiziano dipinse sul soggetto originario. Radiografato nel 1948, e successivamente ripulito in un restauro durato oltre vent’anni, il quadro è rappresentativo di una mostra attraverso cui Venezia riscopre i propri tesori. DA TIZIANO A RUBENS Appartamento del Doge, Palazzo Ducale, Venezia Fino all’1 marzo 2020 palazzoducale.visitmuve.it

ARTE E MISTERO

La ragazza del quadro

R CORREGGIO (Antonio

Allegri), Ritratto di giovane donna, (dettaglio del viso) 1520 ca.,olio su tela. San Pietroburgo, Museo Hermitage.

ealizzato attorno al 1520, Il ritratto di giovane donna di Antonio Allegri detto “il Correggio” (ca. 1489-1534) è uno dei più importanti eseguiti dall’artista reggiano e oggi di proprietà del Museo Ermitage di San Pietroburgo. La tela ritrae una dama cinquecentesca vestita parzialmente con abiti scuri, seduta davanti a un albero,

con le braccia incrociate, colta nell’atto di reggere una coppa d’argento. Chi è la giovane donna? Il primo a porsi questa domanda nel 1958 è stato Roberto Longhi, uno dei più importanti storici dell’arte italiani, il quale ipotizzò che potesse trattarsi della poeta del cinquecento Veronica Gambara, che aveva cercato di lenire il dolore per la mor-

te del marito ingerendo un farmaco. A sostegno di quest’ipotesi, sulla coppa si trova l’iscrizione greca “NEPENTHES” (ovvero “che toglie il dolore”). RITRATTO DI GIOVANE DONNA DEL CORREGGIO Chiostri di San Pietro, Reggio Emilia Fino all’8 marzo 2020 palazzomagnani.it

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA ARTE CONTEMPORANEA

STORIA DELLA DANZA

Isadora Duncan tra lodi e critiche

I PLINIO NOMELLINI

(Livorno, 1866 - Firenze, 1943). Isadora Duncan. Gioia (Gioia tirrena), 1914. Quadreria Villa San Martino, Collezione Silvio Berlusconi. DANZARE LA RIVOLUZIONE. ISADORA DUNCAN E LE ARTI FIGURATIVE IN ITALIA TRA OTTOCENTO E AVANGUARDIA Mart Rovereto Fino all’1 marzo 2020

l processo di liberazione del corpo femminile da norme e convenzioni ha trovato nella“danzatrice scalza” californiana Isadora Duncan (18771927) una straordinaria interprete. Danzava infatti a piedi nudi, con i capelli sciolti e, ammantata di veli fluttuanti, cercava di riprodurre il movimento dell’onda. Isadora è ritenuta la fondatrice della danza moderna, superando i canoni classici del balletto romantico. Centinaia di dipinti, sculture e fotografie al centro di una mostra al Mart di Rovereto testimoniano il

suo rapporto con gli ambienti artistici italiani, specie quelli delle Avanguardie. Dal 1913, dopo la tragica morte dei figli Deirdre e Patrick (annegati nella Senna a causa di un incidente d’auto), la danzatrice si trasferì in Versilia, dove venne accolta dall’attrice teatrale Eleonora Duse. Qui artisti come Plinio Nomellini e Romano Romanelli rimasero affascinati dalle movenze di Isadora: il primo le dedicò gli studi per la tela Gioia tirrena, il secondo s’ispirò a lei per Il risveglio di Brunilde e altri due ritratti.

STORIA E COSTUME

IL VELOCIPEDE A CAVALLO TRA DUE SECOLI A PARTIRE dall’invenzione

della draisina ottocentesca da parte del barone tedesco Karl Drais von Sauerbronn (che diede vita a una sorta di “macchina da corsa” mossa dalla forza delle sole gambe) la diffusione della bicicletta moderna rappresentò una svolta negli usi e nei costumi di una sempre più ampia collettività. Inizialmente i moralisti consideravano l’uso della bicicletta da parte delle donne poco decoroso, mentre i

CORSE VELOCIPEDISTE, 1896, Pubblicità estratto di carne

Liebig, Londra. Courtesy Comune di Modena.

medici lo ritenevano dannoso per il sistema nervoso e riproduttivo femminile. Solo tra l’otto e il novecento i benefici della pedalata vengono riconosciuti anche per le donne. Con trecentocinquanta figurine, una

mostra ricostruisce due secoli di storia della bicicletta.

JIM DINE. White Gloves, 4 Wheels, 2007. Smalto a base olio e carboncino su legno, 207x148x61 cm. The Artist, courtesy of Richard Gray Gallery Jim Dine © Jim Dine by SIAE 2019

UN BURATTINO MODERNO il burattino nato dalla penna di Carlo Lorenzini, noto come “Collodi”, è un’icona della cultura italiana. Raccontato a puntate nel Giornale per i Bambini dal 1881, apparve per la prima volta in un volume pubblicato a Firenze nel 1883. Sessanta opere tra sculture in legno, ferro e cartapesta, dipinti, bronzi, foto e video di artisti come LaChapelle, Munari, Paldino, Calder e altri, raccontano la celebre marionetta diventata secondo la curatrice Lucia Fiaschi «l’interprete delle inquietudini della contemporaneità e l’icona del nostro tempo afferrandone la natura metamorfica». PINOCCHIO,

BICI DAVVERO! Velocipedi, figurine e altre storie Fino al 13 aprile 2020 Museo della figurina, Modena.

ENIGMA PINOCCHIO Villa Bardini, Firenze Fino al 22 marzo 2020 villabardini.it

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IN ED ICO LA

Speciale Storica Biografie dei Santi

I SANTI FRANCESCANI

Francesco, Chiara e Antonio hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa cattolica. In edicola dal 18 dicembre. Prezzo ¤9,90.

Speciale Storica

REGNI E IMPERI DEL VICINO ORIENTE Nel mediterraneo fiorì una moltitudine di piccoli regni, spesso in lotta e incapaci di raggiungere un’unità politica stabile e di trasformarsi in potenze di rilievo. In edicola dal 15 gennaio. Prezzo ¤9,90.

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TOMBE REALI D’EGITTO Nella Valle dei Re si trovano le due tombe icone dell’archeologia: quella di Tutankhamon e quella di Nefertari. In edicola dal 21 gennaio. Prezzo ¤9,90.

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Prossimo numero LA VITA DI UN MONACO NEL MEDIOEVO

BRIDGEMAN / ACI

NEI MONASTERI medievali la giornata dei religiosi era scandita da diverse preghiere quotidiane, dal “mattutino” fino alla “compieta” prima di coricarsi (cosa che non avveniva più tardi delle nove di sera). Nel mezzo c’erano i pasti e, a seconda degli ordini monastici, le ore di lavoro e i brevi momenti di svago. Lo stile di vita austero praticato in questi luoghi rappresentava uno dei massimi ideali dell’uomo medievale.

DARWIN: LO SCANDALO DELL’EVOLUZIONE

PRISMA / ALBUM

IL 24 NOVEMBRE 1859 fu pubblicata a

Londra un’opera destinata a rivoluzionare la storia della scienza. L’origine delle specie di Charles Darwin introdusse una nuova visione della natura che ruotava attorno ai concetti di evoluzione, lotta per la sopravvivenza e selezione naturale. Applicati alle persone, questi principi contraddicevano alcuni dei dogmi fondamentali del cristianesimo. Ciò provocò una vivace e talvolta violenta polemica.

Narmer, l’unificatore Studi recenti hanno gettato nuova luce su Narmer, il leggendario re a cui si attribuisce il merito di aver unificato l’Alto e il Basso Egitto cinquemila anni fa.

Le amazzoni e la cultura greca Le donne guerriere, realmente vissute in Asia centrale, esercitarono un fascino particolare sulla cultura greca, che le rese protagoniste di svariati miti.

Il funerale dell’imperatore a Roma Ogni volta che un imperatore moriva si organizzavano spettacolari riti funebri per mettere in risalto il carattere divino della sua figura.

Niccolò Copernico L’astronomo che cambiò radicalmente la nostra visione del cosmo era estremamente riservato ed elaborò la sua teoria in gran segreto.

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