SPECIALE
numero 17
€ 9,90
LA VITA QUOTIDIANA IN EGITTO, GRECIA E ROMA FAMIGLIA, SCUOLA, MODA, COSMESI, SESSUALITÀ UN VIAGGIO APPROFONDITO NELLE CASE DEL POPOLO E DEI POTENTI DI TRE GRANDI CIVILTÀ
DANITA DELIMONT AGENCY / AGE FOTOSTOCK
UNA VITA OPULENTA Nonostante la distruzione causata dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., le stanze lussuosamente affrescate della Casa della Caccia Antica (così chiamata per le scene di caccia che ornano alcune pareti), a Pompei, testimoniano ancora oggi lo stile di vita delle classi più abbienti nella Roma imperiale.
LA VITA QUOTIDIANA IN EGITTO, GRECIA E ROMA
COSTUMI DURATURI Lawrence AlmaTadema nel 1872 dipinse l’opera Una vedova egizia ai tempi di Diocleziano, che ci ricorda come usi e costumi del mondo egizio siano perdurati per millenni, come nel caso della pratica della mummificazione. Rijksmuseum, Amsterdam.
l’archeologia e le testimonianze scritte ci consentono di ricostruire la vita quotidiana di quelle civiltà che sono ormai scomparse da molto tempo.
10 Gli artigiani della Valle dei Re 22 L’infanzia in Egitto 30 La giornata di un visir 40 L’eros velato degli Egizi 48 I sacerdoti dell’antico Egitto 60 Il teatro in Grecia 72 La scuola in Grecia 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
AKG / ALBUM
80 La giornata di una donna ateniese 90 Il maquillage in Grecia 98 Il commercio marittimo ad Atene 110 I doveri della ricchezza 120 Il vestito a Roma 128 Pettinature a Roma
RITRATTO DI PAQUIUS PROCULUS E SUA MOGLIE, AFFRESCO DEL 20-30 D.C. NEL COSIDDETTO IV STILE, DALLA CASA DI PANSA A POMPEI. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI. FOTO: PRISMAARCHIVO
136 Il legionario romano 148 La magia a Roma STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DEA / DAGLI ORTI / ALBUM
DONNE ATENIESI Due giovani donne raffigurate mentre attingono acqua da una fonte. Dettaglio da una hydria (anfora per l’acqua), che le donne erano solite trasportare sulla testa. Ceramica attica a figure nere, VI secolo a.C. Museo Kanellopoulos, Atene.
LA STORIA QUOTIDIANA
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a vita quotidiana nelle grandi civiltà del passato può insegnarci molte cose che la storia scritta dai grandi, la storia di battaglie e di conquiste, non ci rivela. Nell’antico Egitto, per esempio, il vero nucleo della società era la famiglia; il vincolo matrimoniale era sacro (anche se era possibile il divorzio) e le istituzioni favorivano la creazione di nuove famiglie appena l’età dei giovani lo consentiva. Le donne avevano piena libertà di intraprendere mestieri e professioni, anche se – naturalmente – erano gli uomini a tenere in mano le redini della società e dello Stato. La situazione cambiò profondamente con la nascita della civiltà greca. A dispetto delle profonde innovazioni nella struttura politica, come la nascita della democrazia e la partecipazione attiva di tutti – o meglio quasi tutti – alla vita della polis, la società greca fece parecchi passi indietro per ciò che riguardava per esempio la famiglia. Questa non era più vista, come in Egitto, quale nucleo paritario e molto coeso (basta guardare le immagini dipinte sulle tombe del Paese del Nilo, dove quasi sempre gli uomini, dai semplici scribi ai faraoni, sono ritratti insieme alle proprie compagne), ma semplicemente un luogo dove far crescere i figli. Le donne vivevano in segregazione quasi completa; gli uomini stavano con i propri simili e i bambini, a seconda del sesso, venivano avviati verso l’uno o l’altro destino fin da piccoli. Senza contare che in luoghi come Sparta le donne avevano esclusivamente un ruolo riproduttivo per i futuri soldati o le future madri e il concetto di famiglia era sostanzialmente abolito. Nell’antica Roma la famiglia riprese una certa importanza; le donne erano molto più libere che in Grecia, potevano andare agli spettacoli, alle terme, era loro consentito divorziare anche senza gravi motivi, e pure gestire il patrimonio familiare se il pater familias lo consentiva; ma l’istituzione familiare non ebbe più quel ruolo di sacralità che possedeva nella civiltà egizia. Il concetto romano di famiglia, alla fine, è poi quello che è rimasto e ha forgiato la società occidentale, sia pure con le tante differenze di tempi e di luoghi. Ma prendere in prestito qualche idea dalle famiglie del Paese del Nilo non sarebbe stato male. Giorgio Rivieccio
DEA / DAGLI ORTI / ALBUM
LE ATTIVITĂ€ SPORTIVE Ragazze che giocano a palla, da uno dei mosaici di Villa del Casale, a Piazza Armerina in Sicilia. Il mosaico, che raffigura alcune giovani donne impegnate in varie discipline e attivitĂ sportive in tenute succinte, riveste il pavimento di una stanza di questa residenza romana fatta erigere agli inizi del IV secolo d.C.
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ARALDO DE LUCA
OSIRIDE ACCOGLIE IL FARAONE L’affresco che orna la tomba di Horemheb, nella Valle dei Re, raffigura il faraone al cospetto di Osiride, dio dell’Aldilà. Sulla destra, in primo piano, compare Maat, dea egizia che sovraintende all’ordine cosmico. ATTREZZI DA LAVORO Utensili in legno rinvenuti a Deir el-Medina nel sepolcro dell’architetto Kha, capo dei lavori della necropoli tebana, e della sua sposa Merit. XIV secolo a.C., Museo Egizio, Torino.
CORBIS / CORDON PRESS
GLI ARTIGIANI DELLA VALLE DEI RE Gli artisti e gli operai che costruirono le tombe dei faraoni nella Valle dei Re risiedevano a Deir el-Medina, villaggio sulla sponda ovest del Nilo, dove la vita era interamente organizzata in funzione del lavoro JOSÉ MIGUEL PARRA EGITTOLOGO E SAGGISTA
G ART ARCHIVE
randi templi, immense piramidi, ipogei labirintici: l’antico Egitto ci parla soprattutto attraverso i suoi monumenti funebri, imponenti “libri di pietra” decorati con affreschi dai complessi significati simbolici. Un patrimonio d’arte unico nel suo genere, un tesoro creato da artigiani la cui abilità tecnica non aveva pari in tutto il mondo antico.
AL SERVIZIO DEL DEFUNTO Ushabti proveniente dalla tomba di Khabekhnet, artigiano di Deir el-Medina: gli ushabti erano statuette che rappresentavano l’alter ego del defunto nell’Aldilà. XIII secolo a.C., Louvre, Parigi.
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Eppure, di questi straordinari artisti-operai, sappiamo poco o nulla. Essi, infatti, non appartenevano a quel ristretto ceto di privilegiati ai quali, nella civiltà egizia, venivano svelati i segreti della scrittura. Dunque, su di loro non esistono testimonianze scritte, né dirette né indirette. Con un’unica straordinaria eccezione: quella relativa alle maestranze di Deir el-Medina, un villaggio poco distante da Tebe (l’odierna Luxor) dove vivevano gli operai e gli artigiani impegnati nella costruzione delle tombe della Valle dei Re. Le grandi tombe reali del Medio e Antico Regno, le piramidi, erano state saccheggiate dai predatori di tesori nei secoli di anarchia seguiti alla crisi della XIII dinastia, tra 1790 e il 1543 a.C. Per questo, dopo la restaurazione del potere centrale operata dalla XVIII dinastia (1543-1292 a.C.), i sovrani del Nuovo Regno decisero di separare i propri luoghi di sepoltura dai templi dove si sarebbe celebrato il loro culto funebre. Questi ultimi continuarono a essere edificati a Tebe, allora capitale del regno, mentre per la sepoltura si scelse un angolo di deserto sulla sponda occidentale del Nilo, uno uadi (vallone) nascosto tra i canyon e le colline circostanti: la Valle dei Re. Fu cambiata anche la tipologia delle tombe reali: invece delle piramidi si iniziarono a costruire gli ipogei, sepolcri sotterranei scavati nelle pareti o nel fondo della valle e divisi in sale e corridoi che si estendevano sotto terra per centinaia di metri. Ovviamente, per realizzare opere di tale complessità, servivano anni se non decenni. E dunque Amenhotep I, figlio del fondatore della XVIII dinastia
Ahmose, decise di selezionare i migliori artigiani del regno e di affidare loro in esclusiva il compito di scavare e decorare le tombe reali. Per mantenere una certa riservatezza sul loro lavoro, operai, scultori e pittori furono alloggiati in un villaggio situato a circa quattro chilometri dalla sponda occidentale del Nilo, dietro una collina che lo nascondeva agli sguardi. Oggi tale villaggio è conosciuto come Deir el-Medina, ma allora veniva chiamato Set-Maat, “il Luogo della Verità”.
Un villaggio di sessanta case Cinto da un muro di mattoni, il villaggio era formato da un gruppo di case riunite sui due lati di una strada che tagliava l’abitato da nord a sud. All’inizio risiedevano a Deir el-Medina 21 famiglie, che sul finire della XX dinastia (1185-1078 a.C.) erano salite a 68. Questo perché, con il tempo, alle maestranze del villaggio fu richiesto anche di costruire le tombe della Valle delle Regine, situata immediatamente a sud di quella dei Re. Gli operai di Deir el-Medina erano lavoratori privilegiati, al servizio diretto del faraone e dotati di una caratteristica insolita per l’epoca: molti di loro sapevano leggere e scrivere. Annotavano quindi gli eventi salienti della loro attività su lastre di pietra o ceramica dette ostraka, s0rta di diari di pietra grazie ai quali oggi sappiamo come si svolgeva la loro vita lavorativa e come impiegavano le ore libere. La giornata di un operaio di Deir el-Medina iniziava dunque al sorgere del sole, quando, in compagnia dei suoi “colleghi”, usciva dal villaggio e percorreva a piedi il chilometro e mezzo che lo separava dalla Valle dei Re.
MARCELLO BERTINETTI
UN VILLAGGIO NEL DESERTO Il villaggio di Deir el-Medina, nascosto in una vallata tra le alture della Valle dei Re. A sinistra del villaggio, sul fianco della collina, si nota la necropoli degli operai. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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CUSTODIA D’ORO PER SPECCHIO A FORMA DI ANKH, XIV SECOLO A.C., IL CAIRO.
Lì si svolgeva il suo lavoro, organizzato in forme quasi moderne. Le maestranze del villaggio, infatti, erano divise in due squadre, formate dallo stesso numero di operai e guidate da due capisquadra. A ognuna di esse era dato un nome nautico: gli abitanti delle case costruite sulla destra della via principale di Deir el-Medina formavano la squadra di tribordo, mentre quelli del lato sinistro erano il gruppo di babordo. Le due squadre si alternavano nel lavoro di scavo, anche se in punti diversi della tomba, mentre altri operai, non stanziati nel villaggio, svolgevano compiti ausiliari, come ripulire gli ipogei dalle macerie. I turni dei due gruppi coprivano l’intero arco della giornata, dall’alba fino al tramonto. La settimana lavorativa durava nove giorni, con il decimo dedicato al riposo.
L’inizio degli scavi Gli scavi di una tomba cominciavano subito dopo l’ascesa al trono di un nuovo faraone. A comunicare l’ordine d’inizio dei lavori agli operai era il visir o un suo funzionario, come si evince da un ostrakon di Deir el-Medina: “Anno 1, secondo mese dell’inverno. Il governatore di Tebe arrivò al recinto e lesse loro una lettera dicendo: ‘Ramses II è apparso come grande sovrano della Terra’. Ed essi si rallegrarono. E il governatore disse: ‘Che la squadra si metta all’opera’. I capisquadra allora si recarono da lui per ricevere i compiti”. La collocazione della tomba reale era scelta dall’architetto del re insieme al visir e al faraone e i lavori avvenivano sulla base di un progetto elaborato a corte. Una volta definito il punto d’accesso al sepolcro, gli operai avviavano gli scavi, aprendo nella roccia un tunnel con copertura a volta. Tutte le attività avvenivano in contemporanea. Mentre nelle profondità della tomba i tagliapietra 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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VANNINI / CORBIS / CORDON PRESS
UNO SCRIBA ANNOTAVA CHI SI ERA RECATO AL LAVORO E CHI NO, E I MOTIVI DELL’ASSENZA
allargavano il passaggio, vicino all’ingresso altri operai intonacavano i muri, e scultori e pittori decoravano le pareti con i loro dipinti a rilievo. In una società burocratizzata come quella egizia, nulla era lasciato al caso: così, ogni mattina, uno scriba del faraone annotava chi si era recato al lavoro e chi no, e quale giustificazione aveva fornito per assentarsi. Il motivo di queste assenze era, in genere, la malattia: “Giorno 11. Mery-Sekhemt venne alla Valle dei Re, ma non andò a lavorare; Baki, malato. Giorno 12. Baki, malato; Mery-Sekhmet venne, ma era troppo indisposto per lavorare”. Analoga precisione si riscontra nella registrazione degli strumenti da lavoro – pennelli, pitture, scalpelli– forniti agli operai dai funzionari del faraone: “Anno 1, quarto mese d’inverno, giorno 21. Consegnati 68 scalpelli alla squadra. Distribuzione: 34 per il lato destro, 34 per il sinistro”.
PREPARARE IL NECESSARIO per il viaggio ultraterreno del faraone era un compito che impegnava centinaia di persone: non solo gli operai che scavavano e decoravano la tomba, ma anche tutti gli artigiani chiamati ad allestire il corredo funebre del defunto: dagli orafi, che realizzavano la maschera mortuaria, agli intagliatori, che lavoravano le pietre dei gioielli, fino ai falegnami, che costruivano i mobili da mettere nella tomba o le bare in cui il corpo del sovrano veniva deposto.
ARALDO DE LUCA
CORREDO DA VIAGGIO
LAVORO DI SQUADRA Le fasi di decorazione di una tomba egizia: gli operai hanno lisciato e intonacato il muro; ora viene preparata la quadrettatura che servirĂ da griglia per i disegni su cui, piĂš tardi, lavoreranno scultori e pittori.
MODELLINO DI UNA BOTTEGA DI FALEGNAMERIA, XI DINASTIA, MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
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RAMSES VII FARAONE XVIII DINASTIA FARAONE XIX DINASTIA FARAONE XX DINASTIA
YUYA E TUYA
RAMSES IV RAMSES II
MERNEPTAH
RAMSES XI USERHAT FIGLI DI RAMSES II
TIY O AKHENATON SITRA (IN)
TUTANKHAMÓN RAMSES IX RAMSES I
RAMSES V E RAMSES VI
AMENHOTEP II MAIHERPERI BAY TAUSERT E SETNAKHT
SETI I RAMSES III
TIA’A
TUTHMOSIS I E HATSHEPSUT
HATSHEPSUT-MERYET-RA
TUTHMOSIS III
TUTHMOSIS I SETI II
I riti di sepoltura
RAMSES X MENTUHERKHEPESHEF TUTHMOSIS IV AMENMESES
AMENEMIPET
SIPTAH
LA NECROPOLI DEI FARAONI La mappa mostra la collocazione delle tombe dei faraoni del Nuovo Regno sepolti nella Valle dei Re. Finora, nella necropoli, sono stati rinvenuti oltre 60 sepolcri, ma solo 26 ospitavano spoglie reali.
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TEMPLI FUNEBRI
Quando gli scalpelli si erano consumati, venivano raccolti dai funzionari reali e sostituiti con nuovi attrezzi: “Anno 6, terzo mese dell’estate, giorno 23. Riconsegna delle lame smussate degli scalpelli reali da parte dei capisquadra”. Con pari pedanteria venivano registrate le forniture di pittura, stoppini e olio per lampade: “Anno 6, terzo mese dell’inondazione, giorno 26. Consegna di olio per accendere le lampade quando la squadra lavora. Terzo mese dell’inondazione, giorno 27. 95 stoppini dal magazzino”. Ovviamente, si annotavano per iscritto anche i progressi nel lavoro: “Terzo mese dell’inondazione, giorno 28. Apertura del secondo passaggio. Lavoro realizzato: 17 cubiti (circa 9 metri: ndr)”. Quando un operaio si assentava a lungo per malattia, i suoi compagni chiedevano aiuto ai loro superiori per evitare eccessivi ritardi nel lavoro: “Bisogna parlare con i capisquadra
CARTOGRAFIA: EOSGIS
HOREMHEB
affinché promuovano uno dei tuoi uomini, di modo che mi possa dare una mano con la pittura. Sono solo, perché mio fratello è malato”. Alla morte del faraone, le maestranze di Deir el-Medina avevano settanta giorni di tempo – il periodo necessario per la mummificazione – per rifinire la tomba e completare i preparativi per la sepoltura. Il primo passo era trasferire fino al sepolcro il corredo funebre, un compito nel quale, dato il numero, il peso e l’ingombro degli oggetti trasportati, veniva coinvolto tutto il villaggio. Un documento risalente al XII secolo a.C attesta che, ai preparativi funebri di Ramses IV, lavorarono 450 persone.
FIGLI DI RAMSES III
I giorni precedenti la sepoltura servivano agli operai anche per accertarsi che le bare destinate ad accogliere la mummia del sovrano potessero essere calate senza problemi nella camera funebre. Questo, però, presupponeva di introdurre nell’ipogeo almeno parte del corredo funerario e di sistemarlo come poi sarebbe restato per l’eternità. Un compito che si svolgeva sotto lo sguardo attento dei più alti funzionari del regno: “E lasciarono che il sarcofago di alabastro fosse calato nella tomba per installarlo dentro il sarcofago di legno; e vi si incassò perfettamente. Poi, all’interno delle bare, furono disposti gli oggetti d’argento. Il maggiordomo del faraone mandò quindi a prendere gli intagliatori di alabastro. Li scortarono attraverso il passaggio, e lo scriba Amennakht li lasciò entrare nella tomba, e passarono la notte a martellare l’esterno del sarcofago di alabastro, e il suo interno, fino all’alba. Terminarono, e venne dipinto con figure”. A questo punto, tutto era pronto per la solenne processione funebre, che conduceva la mummia del faraone dal tempio mortuario alla Valle dei Re. Il corteo, con in testa il nuovo faraone, partiva da Tebe e, varcato il Nilo, s’addentrava tra i canyon della valle fino all’ingresso dell’ipogeo, dove si celebrava la cerimonia dell’apertura della bocca (attraverso la quale venivano restituiti simbolicamente al defunto l’uso dei sensi e lo spirito vitale). Dopo il banchetto funebre, la cassa con la mummia del faraone veniva introdotta nella tomba, che poi era chiusa e sigillata.
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ALBUM
LA “VITA IN DIRETTA” LI ARCHEOLOGI hanno scoperto a Deir
el-Medina migliaia di ostraka, schegge di pietra calcarea e di ceramica sulle quali gli abitanti del villaggio scrivevano e disegnavano. Le informazioni che contengono hanno fornito una visione ”in diretta“, vivida e immediata, della vita degli operai delle tombe reali, ai quali non mancava certo il senso dell’umorismo nonostante le condizioni di lavoro piuttosto dure.
3 Il gatto pastore
La satira è un tema ricorrente nei disegni degli ostraka: qui un gatto con un piccolo fagotto sul dorso guida un gruppo di sei oche. In alto si scorge una cesta con le uova.
1 Lezioni al babbuino
Un uomo cerca di ammaestrare un babbuino di sua proprietà, in modo che impari ad arrampicarsi sulle palme e a raccoglierne i datteri per poi consegnarglieli.
ART ARCHIVE
4 La suonatrice
Al di là del loro valore storico, alcuni ostraka di Deir el-Medina colpiscono per la qualità artistica: è il caso di questo schizzo raffigurante una donna che suona uno strumento a corde. ALBUM
2 Serpente protettore Alcune scene hanno tema religioso: in questo ostraka, per esempio, compare il serpente che simboleggia la dea Mertseger, protettrice delle necropoli.
SCALA, FIRENZE
ERICH LESS
ING / ALBU
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5 Madre
che allatta un neonato Anche le scene di vita quotidiana erano spesso raffigurate negli ostraka. Qui una donna con una strana acconciatura allatta il figlio. Sotto, un‘altra donna si osserva allo specchio.
PROVENIENZA 1. LOUVRE, PARIGI; 2. MUSEO EGIZIO, TORINO; 3. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO; 4. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO; 5. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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COSTRUTTORI DI TOMBE
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A FONDAZIONE DI DEIR EL-MEDINA risale alla fine del XVI secolo a.C.,
l’epoca del faraone Amenhotep I e di sua madre Ahmes Nefertari, vedova di quell’Ahmose I che, espellendo dall’Egitto gli invasori hyksos, sancì l’affermazione della XVIII dinastia e l’inizio del Nuovo Regno. Deir el-Medina fu abitata in modo più o meno continuativo per circa 450 anni. Intorno al XIII secolo a.C., ai tempi della XIX dinastia, il villaggio raggiunse la massima espansione, arrivando a ospitare, all’interno o all’esterno delle sue mura, ben 120 case, per un totale di oltre 400 abitanti. Il luogo iniziò a decadere nei decenni finali del XII secolo a. C., durante la XX dinastia, per essere quindi definitivamente abbandonato con l’avvento della XXI dinastia.
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DAGLI ORTI / ART ARCHIVE
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UNA SQUADRA DI OPERAI EDILI AL LAVORO, PITTURA A RILIEVO DALLA TOMBA DEL VISIR REKHMIRE. XV SECOLO A.C., VALLE DEI NOBILI, TEBE (OGGI LUXOR).
1 La cinta muraria
Il villaggio si estendeva su un‘area di 7500 metri quadrati ed era cinto da un muro di mattoni (fatti di argilla, sabbia e paglia essiccata) lungo 132 metri e alto 6. Di notte, la porta d‘ingresso al villaggio restava chiusa.
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2 La piazza
Lungo la via principale del villaggio, nei pressi della porta d‘accesso, si apriva un piazzetta dove, ogni mattina, gli operai si riunivano prima del lavoro per ricevere le consegne giornaliere dai loro capisquadra.
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3 La via principale
Tagliava da nord a sud il villaggio, dividendolo in due metà quasi uguali Abitare da un lato o dall‘altro della strada significava appartenere a squadre diverse di lavoro, con turni, compagni e compiti differenti.
4 Le abitazioni
Le case, di forma rettangolare, erano in genere costituite da un’unica stanza, con poca mobilia e una cucina all‘aperto. Nelle abitazioni più grandi, ampie anche 120 metri, potevano esserci fino a sei locali.
5 La necropoli
Sulle colline attorno a Deir el-Medina vi erano le tombe degli operai, costituite da una piccola piramide in mattoni circondata da un cortile. Sotto la piramide si apriva l’ipogeo, dove avveniva la sepoltura dei defunti.
ACQUARELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE. © ÉDITIONS ERRANCE
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L‘IPOGEO DEL “SERVITORE” Sennedjem, “Servitore del Luogo della Verità”, era probabilmente un caposquadra di Deir el-Medina; visse durante i regni di Seti I e Ramses II, nel XIII secolo a.C. La sua tomba è stata ritrovata nel 1886.
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A quel punto la cerimonia funebre era finita e gli operai di Deir el-Medina potevano tornare al villaggio, dove si sarebbero riposati in attesa dell’ordine del visir di iniziare i lavori per la costruzione della tomba del nuovo faraone.
Il primo sciopero della storia Così scorreva la vita a Deir el-Medina, una routine che solo raramente era rotta da eventi eccezionali. Uno di questi avvenimenti straordinari si verificò durante il regno di Ramses III quando, in un momento di caos politico, si verificarono ritardi nel pagamento degli operai. La situazione finì per degenerare e, dopo mesi di proteste, i lavoratori decisero di incrociare le braccia. Fu il primo sciopero della storia, e a quanto è dato saperne fu un successo, in quanto i rifornimenti vennero (piuttosto lentamente) ripristinati. A parte questi momenti di tensione, a Deir el-Medi-
na le giornate trascorrevano senza scosse, tra impegni di lavoro e religiosi, beghe familiari, piccoli affari tra vicini. Ce lo raccontano gli ostraka giunti fino a noi, che documentano per esempio la trattativa tra l’operaio Ao-Nakhte e il pittore Mery-Sekhmet, con il primo che si dice disposto a pagare tele, sandali e ceste di grano purché il secondo gli dipinga la tomba. In un altro ostraka, invece, un funzionario di polizia affitta il proprio asino a un suo sottoposto, mentre in un terzo si raccoglie la denuncia di una donna che accusa il marito di averla bastonata. Storie ordinarie, storie di piccola umanità, come la vicenda dell’affascinante imbroglione che abusa del proprio incarico per saccheggiare le tombe altrui. Storie fuori dal tempo, provenienti da un minuscolo villaggio egizio di tremila anni fa ma che, per molti versi, potrebbero essere state scritte oggi.
LA TOMBA DI SENNEDJEM
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LAVORATORI di Deir el-Medina impiegava-
ta per splendore quella di Sennedjem, rinvenuta nel 1886. Gli scopritori trovarono l‘ipogeo intatto, ancora chiuso dalla porta in legno dipinto che precludeva l‘accesso alle sue stanze, riccamente decorate e contenenti oltre venti mummie. L‘effetto dei dipinti, tutti su sfondo giallo, è impressionante. Nelle scene sono raffigurati Sennedjem e la sua sposa, varie divinità e scene di vita ultraterrena. DIPINTI DALLA TOMBA DI SENNEDJEM: UNA PARTE DEL CORREDO FUNEBRE RINVENUTO NELL’IPOGEO È CONSERVATA AL MUSEO EGIZIO DI TORINO.
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(SOFFITTO)
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AKG / ALBUM
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no buona parte del proprio tempo libero a scavare e decorare le tombe destinate a se stessi e alle loro famiglie. I luoghi prescelti per la sepoltura si concentravano in genere nella zona più elevata della collina che si ergeva accanto al villaggio. Le tombe, spesso di modeste dimensioni, erano orientate verso l‘ipogeo del faraone che l‘artigiano aveva servito in vita. Tra tutte le tombe operaie di Deir el-Medina, risal-
3 In ginocchio davanti alla dea
Osiride, dio della morte e della rinascita, porta la corona Atef, lo scettro e il flagello, simboli di regalità. Il colore verde della pelle simboleggia la rigenerazione della vita e della natura.
Sennedjem e la sua sposa sono inginocchiati dinnanzi a Nut, la dea egizia del cielo, qui raffigurata come un albero di sicomoro che versa l‘acqua della vita nelle mani dei due sposi.
AKG / ALBUM
CORBIS / CORDON PRESS
2 Il sovrano dell’Oltretomba
Sennedjem e sua moglie lavorano i campi di lino della Duat, l‘Oltretomba egizio. Nel registro superiore del dipinto, la coppia miete le spighe di grano, abbondanti e mature.
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1 Lavori agricoli nell’Aldilà
4 La barca solare di Ra
5 Il gatto uccide il serpente
6 Il dio dell’imbalsamazione
Il dio solare Ra percorre il Nilo celeste sulla sua barca reale in compagnia di cinque schiavi e dell‘uccello sacro Bennu, simbolo di rinascita, ornato con la corona Atef.
Il Grande gatto di Eliopoli, forma animale del dio Ra, uccide il malefico serpente Apofi, simbolo del Caos, che ogni giorno cerca di interrompere il tragitto del carro solare.
Il dio Anubi, dal volto di sciacallo, procede all‘imbalsamazione del corpo di Sennadjem. Nell‘antico Egitto, gli imbalsamatori portavano maschere con le sembianze del dio. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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UNA PRIGIONIERA CON I SUOI FIGLI Nella tomba costruita per il faraone Horemheb a Saqqara vi è un bassorilievo raffigurante la cattura dei nemici dell’Egitto. Tra i prigionieri c’è anche una donna che porta i suoi due figli sulle spalle.
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LE MUMMIE DI DUE BAMBINI In Egitto l’infanzia era un periodo delicato, nel quale i fanciulli erano esposti a molte malattie. Nella pagina a fianco, due mummie di bambini rinvenute nell’oasi del Fayyum. I secolo d.C. Staatliche Museen, Berlino.
ERICH LESSING / ALBUM
CRESCERE TRA GLI AMULETI
L’INFANZIA IN EGITTO L’arrivo di un figlio nel mondo egizio era fonte di grande gioia, ma anche di molte preoccupazioni, dal momento che molti bambini non riuscivano a sopravvivere al periodo dell’infanzia BÁRBARA RAMIREZ GARCÍA STORICA
COME EVITARE GRAVIDANZE INDESIDERATE
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E CONOSCENZE GINECOLOGICHE
DAGLI ORTI / ART ARCHIVE
degli antichi Egizi, a noi note grazie ai papiri medici, testimoniano l’uso di contraccettivi esclusivamente femminili. Il Papiro Ebers tramanda un rimedio che avrebbe permesso alla donna di non concepire per uno, due o tre anni: “Tritare una manciata di punte di acacia e datteri. Mescolare con miele. Impregnare un tampone e introdurlo nella vagina.” Il Papiro Kahun riporta un altro metodo: “Mescolare latte acido con escrementi di coccodrillo o natron e miele”. Anche se ai nostri occhi questi sistemi possono apparire poco efficaci e igienici, sappiamo per certo che le foglie d’acacia contengono gomma arabica, che può fungere da spermicida. Un’analoga funzione possono avere gli escrementi degli animali e il miele. Per rimandare eventuali altre gravidanze, si prolungava il periodo dell’allattamento fino ai due o ai tre anni.
IL NANO SENEB E LA MOGLIE CON I FIGLI. IL MASCHIO HA LA TIPICA TRECCIA A DESTRA. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
ERICH LESSING / ALBUM
UNA DONNA CHE ALLATTA Questo recipiente in terracotta mostra un’Egizia nell’atto di offrire il seno a un bambino. L’oggetto risale al Nuovo Regno. Louvre, Parigi.
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n Egitto la nascita di un figlio era un avvenimento molto atteso e un motivo di grande letizia. I papiri che raccolgono massime e sentenze del Paese del Nilo mostrano con chiarezza quale finalità avesse il matrimonio. “Prendi moglie finché sei giovane perché ti dia un figlio […]. Felice è l’uomo che ha una grande famiglia. Sarà elogiato per la sua discendenza”, si legge negli Ammaestramenti di Ani. I figli non rappresentavano solo il culmine dell’amore coniugale e un sostegno per la vecchiaia, ma il loro arrivo significava per i genitori anche più braccia per lo svolgimento dei lavori quotidiani. Inoltre essi garantivano la continuità patrimoniale e la memoria della famiglia nel tempo, dato che si occupavano dei rituali funerari dei loro genitori. I bambini erano i benvenuti qualunque fosse il loro sesso, anche se le preferenze propendevano
verso i maschi. Per sapere se una donna fosse incinta e per conoscere il sesso del figlio in arrivo, si ricorreva a metodi come quelli registrati nei papiri medici: “Metterai orzo e grano in due sacchi di tela e la donna li bagnerà con la propria urina ogni giorno […]. Se entrambi germoglieranno, vorrà dire che la donna è incinta. Se germoglierà prima l’orzo, sarà un bambino; se prima il grano, una bambina. Se non germoglierà nessuno dei due, la donna non partorirà” (Papiro di Berlino). Gli Egizi erano coscienti del fatto che tanto il periodo della gravidanza quanto il momento del parto implicavano rischi per la madre e il piccolo, ragion per cui cercavano di proteggerli con amuleti magici raffiguranti divinità come Bes, Thueris o Hathor. Il parto aveva luogo (almeno a partire dal Nuovo Regno) in capanne situate in giardino o sotto le tettoie della casa. Al loro interno le levatrici aiutavano le
KENNETH GARRETT
donne (accovacciate su alcuni mattoni rituali) a partorire, mentre recitavano scongiuri per proteggere madre e bambino. Subito dopo la nascita, la madre dava un nome al piccolo: il “nome della madre”, in relazione alla personalità del bambino o in onore a qualche divinità. Poi però era registrato nella Casa della Vita, un archivio di solito annesso ai templi, con un altro nome: il nome che egli avrebbe portato per il resto dei suoi giorni.
I pericoli dell’infanzia Fin dal primo istante della sua vita il nuovo membro della famiglia veniva difeso dagli spiriti maligni e dalle malattie con molteplici amuleti, come l’udjat (l’Occhio di Horus) o le fasce protettive decorate con immagini apotropaiche. Vi erano anche piccoli cilindri di vari materiali che venivano appesi al collo del neonato e che contenevano al loro inter-
no formule benauguranti o sfere di rame che suonavano a ogni movimento. La mortalità infantile era molto alta, a causa delle condizioni igieniche del parto e, in molti casi, all’immaturità fisica della madre; il primo mese di vita era il più critico. I medici cercavano di limitare i rischi raccomandando durante i primi anni un’alimentazione a base del latte materno o di quello di una nutrice. Il valore conferito all’allattamento è rimasto impresso in pitture e sculture, così come nelle ricette dei papiri medici: “Per far montare il latte: spina dorsale di pesce persico del Nilo. Cuocere in aceto. Spalmare sulla schiena” (Papiro Ebers) . Tuttavia intorno ai tre anni, in concomitanza con la fine del periodo dell’allattamento, i problemi derivati dal cambio di alimentazione potevano provocare infezioni mortali. I bambini che morivano venivano sepolti vicino a casa o anche nella casa stessa.
AKHENATON CON LA SUA FAMIGLIA Il faraone Akhenaton e la moglie Nefertiti giocano con le tre figlie nel palazzo di Amarna, la nuova capitale, sotto i raggi del dio Aton. Stele in pietra calcarea. 1345 a.C. Neues Museum, Berlino.
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UNA SCENA DI VITA FAMILIARE Le pitture tombali egizie raffigurano spesso famiglie. Qui il defunto è ritratto con la moglie, i figli e un servo. Tomba di Anherkhau a Deir el-Medina, vicino a Luxor.
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JOSEF NIEDERMEIER / AGE FOTOSTOCK
DAGLI ORTI / ART ARCHIVE
I FARAONI, FIGLI DELLE DEE
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A RAFFIGURAZIONE DEL FARAONE come bambino nutrito
da una divinità femminile riflette l’importanza del latte materno nei riti di incoronazione dell’antico Egitto. Lo stesso dio Horus, secondo la religione egizia, divenne re attraverso l’ingestione del latte che sua madre, la dea Iside, gli aveva offerto. I faraoni, incarnazione di Horus sulla Terra, si servirono dell’iconografia dell’atto dell’allattamento al seno per riconfermare la loro divinità e per esprimere il rinnovamento della giovinezza e del vigore necessari per mantenere il potere regale in eterno. Molti sovrani si fecero dunque ritrarre come infanti che succhiano il latte dal petto della dea Isis-Hathor. In questo modo veniva legittimata simbolicamente la loro origine divina. È il caso del faraone Tuthmosis III, che riceve il latte sacro da Iside raffigurata in forma di albero, o di Amenhotep II, allattato da Hathor.
IL FARAONE AMENHOTEP II BEVE LATTE DALLA MAMMELLA DELLA DEA HATHOR, QUI RAFFIGURATA COME UNA GIOVENCA. DECORAZIONE IN CALCARE DIPINTO DA DEIR EL-BAHRI.
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A volte i loro piccoli corpi erano deposti in vasi, avvolti in stuoie di palma o fasce di lino, altre volte in casse. Ci sono anche testimonianze, soprattutto presso le classi più elevate, di mummie di bambini interrate in piccoli sarcofagi. In ogni caso le inumazioni erano accompagnate da corredi funerari corrispondenti alla condizione sociale delle famiglie.
Dal gioco al lavoro Le pitture ci mostrano bambini che scorrazzano per i campi, giocando e compiendo esercizi di abilità in compagnia di animali domestici. Durante la prima infanzia le madri portavano i propri figli sul petto, all’interno di una sacca che permetteva loro di curarli mentre svolgevano le attività quotidiane. Poi, dopo i primi passi e fino al termine dell’infanzia, i bambini andavano in giro nudi, con indosso solo cinture e amuleti, con la testa
IL GRANDE TEMPIO DI ABU SIMBEL Ai piedi dei quattro colossi che raffigurano il faraone Ramses II si ergono piccole statue dei vari membri della famiglia reale: la madre, la sposa Nefertari e alcuni dei suoi figli.
sioni artigianali. Nel frattempo, nelle scuole veniva loro insegnata la scrittura geroglifica e il rispetto di Maat, l’ordine cosmico e sociale. I più fortunati, tra cui alcune bambine, potevano accedere alle scuole dei templi insieme a coloro che erano destinati a diventare scribi e funzionari, a esercitare libere professioni o il sacerdozio. I tutori svolgevano un ruolo fondamentale nell’educazione dei figli dei faraoni e dei nobili, preparandoli alle future responsabilità di governo attraverso varie discipline. La prima mestruazione segnava la fine dell’infanzia per le bambine, che da quel momento abbandonavano la nudità e si preparavano per il matrimonio. L’infanzia dei maschi proseguiva per un paio d’anni. I bambini e le bambine, divenuti adulti, iniziavano un nuovo ciclo della società egizia, lasciando spazio alle nuove generazioni che, nel corso del tempo, perpetuarono la memoria del Paese del Nilo.
TESTA DI TUTANKHAMON L’opera in legno scolpito, stuccato e dipinto raffigura la testa del faraone bambino che emerge da un fiore di loto a simboleggiare la rinascita eterna del sovrano. Museo Egizio, Il Cairo.
CORBIS / CORDON PRESS
rasata e una ciocca di capelli raccolta sul lato destro. Generalmente venivano rappresentati in questo modo, in piedi vicino ai genitori e con il dito indice sulle labbra. Nei corredi di alcune sepolture infantili sono stati rinvenuti i giochi usati dai bambini e dalle bambine di migliaia di anni fa: bambole di legno o fango con i capelli fatti di perline, palle in fibra vegetale, animali e piccole barche di legno, trottole, giochi da tavolo, carri di terracotta… A mano a mano che crescevano e a seconda della posizione sociale delle loro famiglie, erano iniziati ai compiti propri del mondo degli adulti. Le ragazze si occupavano, tra le altre cose, del confezionamento di tessuti, della preparazione di unguenti, della birra e del pane, della raccolta del grano e delle faccende domestiche, mentre i ragazzi erano avviati ai lavori agricoli e all’allevamento, alla pesca, alla caccia, alla produzione del vino e alle profes-
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LE VIGNE DELL’ ALDILÀ La piccola ma decoratissima tomba di Sennefer, nella Valle dei Re: fratello di un visir, Sennefer fu sindaco di Tebe e uno dei più potenti funzionari della corte di Amenhotep II (XVIII dinastia).
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LO SCARABEO MAGICO Splendido amuleto in oro, lapislazzuli e amazzonite appartenuto al visir Paser, che svolse il suo incarico durante i regni di Seti I (XIX dinastia) e del figlio Ramses II. Museo del Louvre, Parigi.
ERICH LESSING / ALBUM
IL BRACCIO DESTRO DEL FARAONE
LA GIORNATA DI UN VISIR I faraoni delegavano buona parte delle loro responsabilità di governo al visir, una sorta di primo ministro che dirigeva l’amministrazione pubblica, si occupava di politica interna e presiedeva la Corte Suprema per conto del sovrano JOSÉ MIGUEL PARRA EGITTOLOGO E SAGGISTA
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a giornata di un visir iniziava molto presto, spesso prima dell’alba. Non appena sveglio, il potente “primo ministro” del faraone si recava nel bagno della sua casa (che nelle ville nobiliari di città si trovava a ridosso della camera da letto) e si faceva “la doccia”. L’acqua gli veniva versata addosso da grandi catini sollevati dai suoi servitori e defluiva poi, attraverso un condotto di scarico, nelle strade, in genere prive di un sistema fognario. Iniziava quindi la fase della vestizione: all’epoca della XVIII dinastia (1550-1291 ca. a.C.), la moda prescriveva che i nobili e gli alti funzionari indossassero un gonnellino lungo fino ai polpacci, abbinato a una tunica superiore di lino plissettata e trasparente. Ai piedi si portavano sandali di papiro intrecciato, mentre i guanti erano appannaggio del solo faraone. A questo punto il visir era quasi pronto per iniziare la sua giornata di lavoro, una giornata che si annunciava carica di incombenze e responsabilità, come sappiamo da una serie di iscrizioni rinvenute sui muri delle tombe di vari alti funzionari della XVIII dinastia. Il visir, infatti, non era soltanto l’uomo di fiducia del faraone, il suo braccio destro e il suo consigliere, ma anche il capo della macchina burocratica egizia, il responsabile dell’amministrazione della giustizia e, in molti casi, anche colui che decideva (previo consenso del sovrano) la politica interna ed estera del regno.
Dopo una colazione a base di birra, carne e frutta, il visir si recava nella zona di ricevimento della propria villa, costituita in genere da un grande salone sostenuto da colonne di legno. Lì si sedeva su un seggio e colloquiava con i funzionari che dovevano informarlo su quanto accadeva nelle varie regioni del Paese: non solo la valle del Nilo, ma anche le province egizie in Siria, Palestina e nella Nubia, un’antica regione a cavallo tra l’Egitto e l’odierno Sudan. 32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’udienza mattutina
LA FAMIGLIA DI RAMOSE Governatore di Tebe e visir sotto i faraoni Amenhotep III e Akhenaton, Ramose è raffigurato insieme ai suoi familiari in un rilievo dalla tomba di Sheikh Abd El-Qurna, a Tebe (oggi Luxor).
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DE AGOSTINI
SULLE SPALLE DEL VISIR GRAVAVA IL COMPITO DI GOVERNARE I VASTI DOMINI DEL FARAONE PIATTO IN ORO E ARGENTO DALLA TOMBA DI PSUSENNE I, X SECOLO A.C.
Un’agenda molto fitta Una volta raccolte queste informazioni, il visir si incamminava verso il palazzo reale, dove ogni mattina officiava la cerimonia di apertura delle porte e aggiornava il faraone sulle novità politiche. Per quanto immenso fosse il suo potere, infatti, il visir era comunque sottoposto all’autorità del Signore delle Due Terre, Alto e Basso Egitto, cui spettava l’ultima parola su tutte le questioni del regno. L’apertura delle porte del palazzo reale si svolgeva ogni giorno secondo un rito immutabile: il visir si avvicinava all’ingresso della Grande Porta, e lì trovava ad attenderlo il capo della Tesoreria, che lo accoglieva con le seguenti parole: “Tutto nel palazzo è a posto e prospera. I funzionari mi hanno dato questa informazione: ogni cosa è in buono stato e prospera. La Casa del Re è in buono stato e prospera”. Al che il visir rispondeva con una formula analoga, ma riferita ai vari ministeri presenti nella residenza e alla sigillatura delle porte avvenuta la sera prima. Solo a questo punto egli ordinava alle guardie di 34 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Uno dopo l’altro, i funzionari sfilavano al cospetto del visir, alternandosi ai messaggeri inviati dai governatori provinciali per ragguagliarlo circa la situazione politica, militare e amministrativa dei territori loro affidati. Ecco per esempio quale tipo di notizie – stando alle iscrizioni rinvenute nella tomba del visir Rekhmire (XV secolo a.C.) – comunicavano i funzionari al braccio destro del faraone:“Occorre informarlo della chiusura all’ora corretta delle stanze sigillate, così come della loro tempestiva apertura. Bisogna metterlo al corrente dello stato delle fortezze lungo il Delta del Nilo e nel nord del Paese, e aggiornarlo su tutto ciò che entra ed esce dalla Casa del Re. Bisogna altresì comunicargli tutto ciò che entra ed esce dagli appartamenti del faraone, e riferirgli il motivo per cui vi entra e per cui vi esce.”
aprire le porte del palazzo, affinché i funzionari e gli scribi che vi lavoravano potessero avervi accesso. Da quel momento la giornata del visir si faceva frenetica, un susseguirsi di consultazioni e incombenze amministrative scandite da un’agenda fittissima, determinata di volta in volta dalle necessità di governo. Il faraone era il cuore e l’anima dell’Egitto: i suoi desideri erano ordini e le sue parole legge, ma gli obblighi cerimoniali a cui doveva adempiere erano così numerosi che non avrebbe mai potuto regnare sul Paese se al suo fianco non ci fosse stato il visir, chiamato a rappresentarlo dinnanzi al popolo e a guidare lo stuolo di governatori che amministravano le innumerevoli province reali. L’importanza politica del visir appare rimarcata nelle iscrizioni della tomba di Rekhmire, a Tebe, dove il defunto viene descritto come “il nobile, il principe, l’intendente degli intendenti, l’uomo dei segreti; non c’è porta tra lui e il faraone”.
ANIMALI ESOTICI PER IL FARAONE
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EKHMIRE FU VISIR ALL’EPOCA
di Thutmosis III (morto nel 1425 a.C. circa) e del suo successore Amenhotep II. I compiti che dovette svolgere nell’esercizio del suo potere furono innumerevoli, almeno a giudicare dagli affreschi della sua tomba situata nella Valle dei Nobili, non lontano da Tebe. In uno di questi affreschi, il visir è ritratto mentre riceve i doni inviati al faraone dai Paesi tributari, doni tra i quali figurano molti animali esotici. Ecco dunque, nella parte alta del dipinto, un gruppo di splendidi levrieri da caccia 1, sotto i quali avanzano alcuni buoi 2. Alla loro destra, due schiavi della Nubia conducono una giraffa 3 con una scimmia arrampicata sul collo. Nel registro inferiore dell’affresco, invece, è raffigurata un’ambasciata proveniente da Retjenu, regno che si estendeva tra l’odierna Siria e la Cananea: i tributi recati in dono al faraone dai suoi abitanti sono un cucciolo di elefante 4, un orso 5 e un cavallo 6.
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AFFRESCHI DALLA TOMBA DEL VISIR REKHMIRE, NELLA NECROPOLI DI SHEIKH ABD EL-QURNA, A LUXOR.
Il visir riceveva messaggi e aggiornamenti nel corso di tutta la giornata. Una parte di queste missive era affidata a fogli di papiro ma, dato il costo di tale materiale, più spesso gli scambi avvenivano tramite ostraka, frammenti di pietra usati come supporto per la scrittura. Uno di questi frammenti, l’ostrakon Toronto A 11, ci svela i compiti di supervisione e controllo svolti dal visir:“Lo scriba Nebre comunica al suo signore, il visir Paser: che il villaggio – oh faraone, vita, forza e salute – posto sotto l’autorità del mio signore si trova in eccellente ordine e che ogni posto di sorveglianza istituito nelle sue vicinanze è sicuro. In quanto ai servitori del faraone, vita, forza, salute, gli vengono consegnati i salari concordati con il mio signore”. Oltre a queste incombenze, il visir era poi anche chiamato ad amministrare la giustizia, la Maat (dal nome della dea dell’ordine cosmico), presiedendo il tribunale che giudicava i delitti più
gravi. Il visir e il faraone costituivano la corte suprema alla quale ogni cittadino che si reputava leso nei propri diritti poteva rivolgersi. Il testo trovato nella tomba di Rekhmire descrive il tono solenne e, insieme, rituale delle udienze presiedute dal visir:“Starà seduto su una sedia, con un tappeto steso sul pavimento, un cuscino dietro la schiena, un cuscino sotto i piedi. Impugnerà un bastone; i quaranta rotoli di pelle [il codice delle leggi, ndr] saranno aperti davanti a lui”.
Il giubileo regale Questa era la tipica giornata del visir, che si snodava tra riunioni con i ministri, scambi epistolari, visite al sovrano, udienze in tribunale, partecipazione alle molteplici cerimonie in cui era richiesto un rappresentante del potere regale. A volte, viaggiare per il Paese diventava un obbligo che imponeva al visir di stare lontano dalla capitale per settimane se non addirittura per mesi. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IN ONORE DI AMON-RA La grandiosa sala ipostila del tempio di Amon-Ra, a Karnak, fu costruita sotto i faraoni Seti I e Ramses II, che delegarono la supervisione dei lavori ai loro visir.
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SCALA, FIRENZE
IL TRIONFO DI TUTHMOSIS III Tuthmosis III abbatte i suoi nemici, rilievo dal complesso templare di Karnak, sulla riva destra del Nilo. Il faraone della XVIII dinastia fu colui che maggiormente ampliò il vasto complesso templare di Amon.
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È quanto accadeva, per esempio, in occasione della Festa Sed, un giubileo regale che si svolgeva dopo i primi trent’anni di regno e che rappresentava una sorta di rigenerazione rituale della forza vitale del faraone. In questo caso la routine quotidiana del visir era stravolta dagli impegni legati all’organizzazione della cerimonia, e la sua giornata si faceva ancora più convulsa.
Il pilastro del Paese Senza dubbio, il visir poteva contare su decine di aiutanti e collaboratori, ma il carico di lavoro a cui doveva sottoporsi era comunque impressionante e giustificava gli immensi privilegi di cui godeva a corte e presso il faraone. Con l’arrivo della sera, concluse le attività di palazzo, il visir poteva ritirarsi nella sua dimora, dove lo raggiungeva la notizia della sigillatura delle porte della Casa del Re. A quel punto la sua giornata di lavoro era davvero conclusa, ed egli
poteva infine concedersi qualche ora di riposo. Ogni visir riceveva la nomina nel corso di una cerimonia durante la quale il faraone gli ricordava gli obblighi e i doveri a cui era chiamato. In genere il visir trascriveva tali obblighi sulle pareti della sua tomba, di modo che restassero fissati per l’eternità e che fosse chiaro a tutti come si era sforzato di rispettarli alla lettera. Migliaia di anni dopo, gli archeologi hanno rinvenuto queste preziose iscrizioni nelle tombe di User (visir della regina Hatshepsut e di Thutmosis III), Rekhmire e Paser (visir di Seti I e Ramses II) e le hanno raccolte sotto il titolo L’insediamento del visir. In questo testo il faraone avverte il suo futuro braccio destro di quanto gravoso sarà il compito che lo attende: “Considera bene l’incarico del visir, rifletti su tutto ciò che comporta, poiché è il pilastro su cui si regge il Paese. In quanto al visirato, sicuramente non è piacevole; di fatto è amaro come la bile”.
ARALDO DE LUCA
DA FAVORITO DEL RE A FARAONE ALVOLTA, nella lunga storia dell’Egitto, il
visir ascese alla carica di faraone. È quanto accadde ad Ay, ritenuto il padre della regina Nefertiti, che fu visir di Tutankhamon e, dopo la prematura scomparsa di quest’ultimo (morto a soli 18 anni nel 1327 a.C.), divenne il penultimo faraone della XVIII dinastia egizia. Pochi decenni dopo analoga sorte toccò a Paramessu, valoroso comandante dell’esercito di Horemheb (1323-1295 a.C.), che per i suoi meriti militari ottenne la nomina a visir. In assenza di un erede, Horemheb lo designò poi suo successore, spianandogli la strada verso il potere regale. Horemheb fu proclamato faraone attorno al 1295 a.C. con il nome di Ramses I, divenendo il fondatore della XIX dinastia.
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AL COSPETTO DEGLI DEI Affresco dalla tomba di Horemheb nella Valle dei Re, a Luxor: il dipinto mostra il faraone al cospetto di Hathor (a sinistra), Horus (con la testa di falco) e, fuori scena, Iside. VISIR, SCRIBA E SOVRANO Talvolta i visir venivano rappresentati come scribi. È il caso di questa statua in granito di Paramessu, visir di Horemheb e futuro Ramses I. Museo Egizio, Il Cairo.
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IL FARAONE CON LA MOGLIE Tutankhamon versa un liquido nella mano di Ankhesenamon, sua sposa, in una sottile allusione all’atto sessuale. Particolare dal trono dorato del faraone, 1340 a.C. circa, Museo Egizio, Il Cairo.
IL SESSO NEI POEMI E NELLE PITTURE TOMBALI
L’EROS VELATO DEGLI EGIZI Gli antichi Egizi hanno lasciato molte testimonianze circa la loro visione della sessualità, anche se quasi sempre in forma velata: attraverso giochi di parole oppure per mezzo di immagini dalle sottili allusioni simboliche ASUNCIÓN ESTEBAN RECIO DOCENTE DELL’UNIVERSITÀ DI VALLADOLID
IL PAPIRO EROTICO DI TORINO
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OTO FIN DALL’ANTICHITÀ, si dice che lo stesso Jean-François Champollion (1790-1832), lo studioso che decifrò i geroglifici, si scandalizzasse nel vederlo esposto al Museo Egizio di Torino. Si tratta di un rotolo risalente alla XX dinastia (1185-1078 a.C. circa) e trovato nella zona di Tebe/Deir el-Medina. La sezione destra del recto (la facciata anteriore) è occupata da immagini di animali umanizzati, mentre i due terzi della sezione sinistra sono occupati da una decina di scene a esplicito contenuto sessuale: meretrici che trasportano il corpo di un uomo esausto dopo gli amplessi, accoppiamenti in posizioni degne di un equilibrista, uomini dal pene enorme. Si ipotizza che le immagini raccontino, in forma satirica, le avventure di un visitatore in uno dei bordelli di Tebe, ma purtroppo si conservano solo in minima parte i testi che le accompagnavano. SCENE DAL PAPIRO EROTICO CONSERVATO NEL MUSEO EGIZIO DI TORINO: LUNGO 2,59 METRI, IL PAPIRO RISALE ALLA XX DINASTIA.
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PROSTITUTA CON CLIENTE Frammento di una statuetta di epoca tolemaica (IV-I secolo a.C.) che raffigura una prostituta con il suo cliente (del quale si sono conservati solo la caviglia e il piede destro). Collezione privata.
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reci e Romani erano soliti trattare il tema della sessualità in modo molto esplicito, sia nella letteratura sia nell’arte; da questo punto di vista, dunque, gli Egizi potrebbero sembrare un popolo più pudico e misurato. In effetti, se ci si limita a considerare superficialmente le pitture murali e i papiri rinvenuti nelle tombe o nei siti archeologici della Valle del Nilo, gli antichi sudditi del faraone appaiono quasi restii a occuparsi della sessualità nei suoi aspetti più propriamente fisici. Ciò non toglie che l’erotismo, soprattutto come elemento generatore di vita, sia presente indirettamente in numerose manifestazioni della cultura egizia.
Le tombe, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono in realtà piene di allusioni a questo tema, anche se celate dietro una fitta foresta di simboli. Una delle scene più frequenti nella decorazioni delle mastabe (le sepolture a tronco di piramide) e degli ipogei egizi è, per esempio, quella costituita da due immagini del defunto a bordo di una piccola imbarcazione di papiro. In una di queste scene egli è raffigurato mentre pesca con l’arpione, mentre nell’altra scaglia una lancia contro uno stormo di anatre che si leva in volo.
Il pasto serale della dea Nut I giochi di parole, molto amati dagli Egizi, ci aiutano a decifrare il significato celato dietro queste azioni apparentemente caste. Poniamo innanzitutto l’attenzione sui due pesci arpionati: si tratta di una tilapia e di un pesce persico del Nilo. Non ci sarebbe niente di stra-
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no, se non fosse che queste due specie vivono in habitat molto diversi: esse rappresentano simbolicamente l’Alto e il Basso Egitto che il defunto desidera portare con sé nell’Aldilà. Ma vi è di più. La tilapia ha un’abitudine particolare: quando avverte il pericolo, alza la coda e si mette a nuotare all’indietro, nascondendo i suoi piccoli all’interno della bocca. Passato il pericolo, i piccoli escono dalla bocca della madre e riprendono a nuotare autonomamente. Gli Egizi paragonavano questo comportamento a quello della dea Nut (la divinità del cielo e della nascita) che ogni sera ingoiava il dio sole Ra per espellerlo rinvigorito il mattino dopo. Così nelle tombe egizie la tilapia è il simbolo della nuova vita che intraprenderà il defunto quando rinascerà nell’altro mondo. L’aspetto sessuale della scena è dovuto al fatto che nella lingua egizia il verbo “arpionare” possiede esattamente la stessa struttura
consonantica del verbo “fecondare”. L’allusione quindi risiede nel gioco di parole. La stessa cosa accade nell’altra decorazione, che all’apparenza non sembra altro che una banale scena di caccia. Il suo significato tuttavia si modifica se teniamo presente che il verbo “lanciare” ha con il verbo “generare” lo stesso rapporto semantico del caso precedente, e che le anatre, nell’immaginario egizio, rappresentavano un inconfutabile simbolo erotico.
A CACCIA NELLE PALUDI Caccia alle anatre nel Delta del Nilo, dipinto tombale del 1400 a.C. circa: le scene di pesca e caccia nelle paludi sono ricche di simboli erotici, giochi di parole, ammiccamenti sessuali. Tomba di Menna, Luxor.
Libagioni funebri Molte decorazioni di tombe raffigurano banchetti funebri in cui alcune serve riempiono le coppe degli invitati o la consorte del defunto fa lo stesso con quella del marito. Il messaggio subliminale non risiede nella bellezza delle fanciulle rappresentate, per quanto notevole, ma nel verbo “versare” che possiede una struttura identica a “eiaculare”. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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MOLTI ANIMALI RAFFIGURATI NELLE TOMBE EGIZIE SONO SIMBOLI EROTICI
Come si vede, le raffigurazioni delle tombe egizie presentano sempre un doppio piano di lettura: un primo livello puramente letterale (le scene significano nient’altro che quello che si vede) e un secondo metaforico, che fa riferimento alla sessualità e alla capacità di generare nuova vita nell’Aldilà. Nessuno lo direbbe entrandovi, ma tutte le scene delle tombe egizie possiedono espliciti (per quanto ai nostri occhi spesso indecifrabili) riferimenti al sesso. Prendiamo per esempio due immagini ricorrenti e a prima vista del tutto inoffensive: le scimmie verdi e i gatti. In primo piano, seduti sotto la sedia della loro padrona, questi due animali sembrano avere semplicemente il compito di accompagnarla nell’Aldilà. In realtà entrambi alludono alla sessualità della defunta: la scimmia è un diffuso simbolo erotico, mentre nell’arte egizia l’immagine del gatto indica spesso l’assenza di mestruazioni, ovvero segnala che la donna è nei giorni fertili e dunque pronta a unirsi a suo marito per generare nuova vita.
Sesso prematrimoniale Questi messaggi subliminali, che permettevano di rappresentare il tema della sessualità nell’arte ufficiale di corte, non erano tuttavia l’unico mezzo conosciuto dagli Egizi per parlare di erotismo. Pensiamo per esempio agli ostraka, pezzi di pietra o frammenti di vasellame in terracotta che scriba e artigiani usavano come supporto alternativo alla scrittura (il papiro era molto caro) o per fare degli schizzi e prendere appunti. Attraverso queste pietre, e le poche citazioni che vi appaiono, sappiamo per esempio che solitamente l’uomo si accoppiava alla donna standole di sopra. Molti ostraka mostrano coppie che praticano il sesso da tergo. Dalle immagini è impossibile stabilire se si tratti di sodomia, ma è molto 44 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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CIONDOLO CON SCIMMIE E SCARABEO, XIV SECOLO A.C., IL CAIRO.
probabile che così fosse, dal momento che in questo modo si era certi di evitare gravidanze indesiderate. Poiché i poemi amorosi ci parlano spesso di teneri incontri fisici tra innamorati, ne deduciamo che il sesso prematrimoniale non era vietato, anche se probabilmente era consigliato ai giovani di salvaguardare le apparenze.
Unguenti contro l’impotenza Essendo la capacità di generare molto importante per gli Egizi, non appare strano che gli uomini con difficoltà di erezione ricorressero a ogni tipo di rimedio in grado di aiutarli. Questa scelta non era ritenuta affatto indecorosa, dato che persino gli dei, qualche volta, avevano avuto le loro “défaillance”. In un racconto mitologico dedicato a Horus, per esempio, Iside spalma un unguento miracoloso sul pene del figlio per fargli ottenere un’erezione.
I PIACERI DELL’ALDILÀ Negli affreschi della tomba di Nebamon, alto funzionario ai tempi della XVIII dinastia, è raffigurato un banchetto allietato da serve e ballerine seminude. British Museum, Londra.
DISEGNI SU PIETRA
teghe reali, alcuni artisti egizi utilizzarono gli ostraka, frammenti di pietra calcarea o di terracotta, per raffigurare scene che difficilmente sarebbe stato concesso loro di dipingere in una tomba: fanciulle che danzano toccate da una scimmia, suonatrici dal seno procace, ballerine in topless... Immagini sensuali se non apertamente erotiche, lontanissime dalle rarefatte atmosfere simboliche della grande pittura tombale egizia. LE CONTORSIONI DI UNA BALLERINA IN UN OSTRAKON DELLA XIX DINASTIA, MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
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LIBERI DALLE LIMITAZIONI delle bot-
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I mortali dovevano accontentarsi di bere speciali intrugli afrodisiaci e di presentare falli votivi alla dea dell’amore e della bellezza Hathor, ex voto il cui scopo era di potenziare sia la virilità degli uomini sia la fertilità delle donne.
Diaframmi fatti di sterco La nostra fonte principale per cercare di scoprire il modo in cui gli Egizi vivevano il sesso rimangono tuttavia i poemi amorosi. Grazie a questi testi abbiamo un’idea più precisa (sia pure filtrata dalla letteratura) dei loro gusti sessuali. Nessuno si meravigli, ma ai sudditi del faraone piacevano gli stessi giochi erotici di oggi, anche oltre il confine della perversione. Alcune poesie parlano di desiderio di dominio, altre di tendenze masochiste. Il testo di una sentenza narra di come un gruppo di donne cercò di comprare i magistrati che dovevano giudicarle organizzando per loro varie orge.
Il fatto è che, secondo i testi, spesso era la donna a prendere l’iniziativa. In Egitto neanche la masturbazione era malvista. D’altra parte come avrebbe potuto esserlo, dato che lo stesso dio Atum aveva creato il mondo per sua mano facendo nascere dal proprio seme la prima coppia di dei Shu e Tefnut? Che la sessualità fosse considerata dagli Egizi non solo un modo per riprodursi ma anche una fonte di piacere e intimità per la coppia è del resto dimostrato dalla diffusione presso questo popolo di rudimentali forme di contraccezione. Si sa per esempio che alle donne timorose di una gravidanza era suggerito l’uso di un “diaframma” fatto di sterco di coccodrillo, latte acido e miele, oppure di un tampone imbevuto di sostanze spermicide naturali. Alcuni dipinti mostrano anche uomini che portano una sorta di preservativo, ma non si sa se per motivi rituali o a scopo contraccettivo.
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LA CREAZIONE DELL’UNIVERSO Il dio dell’aria Shu separa Geb, dio della Terra, da Nut, dea del Cielo, assistito da due aiutanti dalla testa di ariete. Particolare dal sarcofago di Nespawershepi, 984 a.C. circa. Fitzwilliam Museum, Cambridge.
L’INTIMITÀ DELLA COPPIA REALE Tutankhamon scocca una freccia sotto lo sguardo di Ankhesenamon: la scena celebra simbolicamente la potenza sessuale del faraone. Trono di Tutankhamon, Museo Egizio, Il Cairo.
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IN ONORE DEL DIO AMON Il faraone Tuthmosis III compie un’offerta al supremo dio egizio Amon-Ra. Pittura dalla cappella della dea Hathor nel tempio funerario di Hatshepsut, a Deir el-Bahari (Luxor). 1440 a.C. circa.
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IMBARCAZIONE SACRA Barca solare in bronzo dedicata al faraone Djedhor: sorretta dal dio-coccodrillo Sobek, simbolo del Nilo, la barca ospita nel santuario della divinità il simulacro di Amon-Ra. IV secolo a.C., Lisbona.
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I SACERDOTI DELL’ANTICO EGITTO Tra i funzionari che formavano la burocrazia egizia i sacerdoti erano delegati dal faraone a sostituirlo nella celebrazione dei riti, organizzati secondo una rigidissima scala gerarchica JOSÉ MIGUEL PARRA EGITTOLOGO E SAGGISTA
L
a geografia della Valle del Nilo era segnata dalle decine di templi che i suoi abitanti avevano innalzato in onore delle numerose divinità del pantheon egizio. Eppure, malgrado questa molteplicità di luoghi sacri, esisteva una sola persona, in tutto l’antico Egitto, che era ritenuta degna di officiare i riti religiosi: il faraone.
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Per i sudditi del Regno delle due Terre – l’Alto e il Basso Egitto – solo il faraone poteva fungere da intermediario tra il mondo divino e quello umano. A lui, dunque, spettava di celebrare tutte le cerimonie previste dalla religione egizia: sia i riti quotidiani in onore del dio, sia le feste speciali organizzate nei vari templi. Un compito immane, superiore alle forze persino di un essere ritenuto semidivino come il faraone. Di qui la necessità di nominare un gruppo di funzionari reali che facessero le veci del sovrano nelle cerimonie: i sacerdoti. Questi erano i rappresentanti religiosi del faraone, per conto del quale gestivano le attività cerimoniali ed economiche dei vari templi. La loro era una funzione vicaria, priva di qualsiasi sacralità. Non a caso, nei dipinti parietali dei templi egizi, chi officia le cerimonie è sempre e solo il faraone, l’unico che, in quanto incarnazione del dio Horus, può relazionarsi alla pari con le altre divinità.
Burocrati di Stato
SACERDOTE CON TESTA D’ARIETE Un sacerdote di Amon-Ra regge uno stendardo su cui è fissata una testa di ariete, simbolo della divinità. Statuetta in legno dipinto databile al 1300 a.C. circa. Louvre, Parigi.
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In quanto meri sostituti del faraone, ai sacerdoti non era richiesta alcuna vocazione religiosa specifica. Per poter assolvere ai loro doveri, bastava che fossero in grado di leggere le formule da recitare durante il culto. Si trattava, insomma, di una carica burocratica, spesso a carattere temporaneo. Ancora nel Medio Regno, infatti, era usuale che un sacerdote svolgesse il suo compito per tre mesi l’anno, o anche meno: “Adempie al suo incarico per trenta giorni, calzando i sandali bianchi, accedendo al sancta sanctorum, mangiando il pane nella Casa del
dio”, si legge nell’Insegnamento per Merikara, un testo sapienziale del XXI secolo a.C. Questa provvisorietà, se da un lato serviva al sovrano per tenere sotto ferreo controllo la casta sacerdotale, dall’alto gli consentiva di distribuire tra il maggior numero possibile di funzionari le prebende derivanti dalla carica di sacerdote. Prebende legate in larga misura alle offerte dei fedeli che, dopo un periodo di esposizione sugli altari, venivano spartite tra il personale del tempio.
La spartizione delle offerte La suddivisione avveniva sulla base del ruolo ricoperto dal sacerdote. Per esempio, il clero di Kahun, località in cui sorgeva la piramide di Sesostri II, si spartiva le offerte secondo questo criterio: al supervisore degli hemnetjer (i sacerdoti) spettavano dieci porzioni; il capo dei “sacerdoti lettori” ne riceveva sei; quattro il “sacerdote lettore” del mese, tre l’ispettore che controllava il clero, due gli addetti alle aspersioni purificatorie e i sacerdoti incaricati della manutenzione degli oggetti sacri; infine lo “scriba del tempio” aveva diritto a poco più di una porzione. Solo durante il Nuovo Regno, quando l’Egitto si trasformò in un grande impero, l’incarico di sacerdote divenne fisso. A quell’epoca, il sovrano sovvenzionava i maggiori templi con donazioni di terre e denaro. Esemplare in questo senso il caso del complesso templare di Karnak, presso Tebe, dove all’epoca di Ramses III lavoravano 81.322 uomini, chiamati a occuparsi del culto ma anche delle proprietà dei templi, tra cui figuravano 1478 chilometri di terreni e 421.362 capi di bestiame.
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IL GRANDE TEMPIO DI KARNAK Il recinto sacro di Amon, nel complesso templare di Karnak (Tebe): a partire dalla XVIII dinastia, Amon fu identificato con il dio del Sole Ra e divenne la massima divinitĂ egizia.
KARNAK, LA RESIDENZA IL GRANDE COMPLESSO SACRO DI KARNAK, CONSACRATO AL DIO AMON, FU PER SECOLI
A
PARTIRE DALLA XVIII DINASTIA, non vi fu faraone
che rinunciò a dar prova della sua devozione verso il dio Amon arricchendo il complesso templare di Karnak con nuovi edifici e nuove decorazioni. Sorto nel XX secolo a.C. sulla riva destra del Nilo, un paio di chilometri a nord di Tebe (l’odierna Luxor), il complesso crebbe secolo dopo secolo, fino a ricoprire, all’epoca della XXX dinastia (380-342 a.C.), un’area di circa 300.000 metri quadrati. Eppure, malgrado queste dimensioni, il complesso di Karnak forse non fu il più grande dell’antico Egitto: si ritiene che il tempio di Eliopoli (nell’odierna periferia del Cairo), dedicato al dio Ra e oggi ridotto a pochi resti, si estendesse su una superficie ancora maggiore.
Obelischi
W. FORMAN / SCALA, FIRENZE
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SESOSTRI I COMPIE OFFERTE AL DIO AMON-MIN. RILIEVO DALLA CAPPELLA BIANCA DI KARNAK.
RICOSTRUZIONE DELLE DUE PARTI DI TEBE, ORIENTALE E OCCIDENTALE, DIVISE DAL NILO.
Recinto di Montu, o Mentu, antico dio tebano della guerra. Venne associato al dio solare Ra.
C
B ECCO COME DOVEVA APPARIRE IL GRANDE RECINTO DI AMON AL TERMINE DEL SUO LUNGHISSIMO PROCESSO DI COSTRUZIONE. ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN.
SULLE SPONDE DEL GRANDE FIUME. Sulla riva orientale del fiume si trovavano templi, palazzi, il nucleo urbano della città e i campi coltivati dai suoi abitanti A. A ovest del Nilo, invece, vi era la città dei morti, con i grandi templi funerari dei faraoni, come Deir el-Bahari b, e le necropoli reali della Valle dei Re e della Valle delle Regine c.
Fu costruito intorno al 1450 a.C. per commemorare il primo giubileo reale del faraone (1479-1425 a.C.). In un fregio della Sala degli antenati, il sovrano è raffigurato mentre porge offerte a 61 suoi predecessori.
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1 Tempio di Tuthmosis III
IL PRINCIPALE LUOGO DI CULTO DELL’ANTICO EGITTO
Il Lago sacro, lungo 130 metri, simboleggiava Nun, l’oceano primordiale.
Piloni
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Tempio di Jonsu o Khonsu, figlio di Amon. Dio lunare associato alla fertilità, emetteva oracoli.
2 Grande sala ipostila
3 Tempio di Ramses III
4 Primo pilone
Fu realizzato dal faraone Nectanebo I (380-362 a.C.) e segna il limite del grande viale cerimoniale che univa Karnak al vicino tempio di Luxor. È fiancheggiato da sfingi con la testa d’ariete risalenti al XIII secolo a.C.
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Si trova su un lato del Grande cortile porticato di Karnak e fu edificato da Ramses III (1184-1153 a.C.) come deposito delle barche processionali di Amon, Mut e Jonsu. Nel cortile si innalzano statue colossali del faraone.
PRISMA
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Si trova dietro il secondo pilone ed è composta da 134 colonne, che nelle file centrali raggiungono i 26 metri di altezza. La sala, iniziata da Seti I (1290-1279 a.C.), fu terminata durante il regno del suo successore Ramses II.
ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE. © ÉDITIONS ERRANCE.
DEL DIO AMON
Recinto di Mut, dea madre, sposa di Amon. Mut, Amon e loro figlio Jonsu formavano la triade tebana.
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SOLO FARAONE E GRAN SACERDOTE POTEVANO ACCEDERE ALLE AREE SACRE DEL TEMPIO
Data la potenza anche economica dei templi, era inevitabile che il faraone si preoccupasse della fedeltà alla corona di coloro che li guidavano. Per questo si riservava il diritto di scegliere di persona il sacerdote-capo di ogni tempio. Ecco, per esempio, come un testo ritrovato in una tomba tebana descrive la nomina di Nebunefef a Gran sacerdote di Amon: “Si condusse alla presenza di Ramses II Nebunenef, che allora era Gran sacerdote di Onuris-Shu e di Hathor, signora di Dendera. Sua Maestà gli disse: “A partire da ora, sarai Gran sacerdote di Amon; i suoi tesori e i suoi granai saranno sotto il tuo sigillo. Sarai il capo del tempio. Tutti i suoi beni dipenderanno da te. In quanto al tempio di Hathor, ne attribuirò il sacerdozio a tuo figlio”.
Il Primo Profeta di Amon Insieme al nuovo incarico, Nebunefef ricevette il titolo di “Primo servitore del dio Amon” e di “Apritore delle porte del cielo”. Ogni Gran sacerdote, infatti, aveva un proprio appellativo, legato al tipo di culto a cui sovraintendeva: il capo del tempio di Ra, a Eliopoli, era, per esempio, “il Grande Veggente”, quello che si occupava del culto di Ptah, a Menfi, era il “Gran Maestro dell’Arte”. Il nome generico di “Primo Profeta”, con cui oggi designiamo tutti i Grandi sacerdoti egizi, deriva da un equivoco di epoca ellenistica. Quando i Greci iniziarono a frequentare il tempio di Karnak, notarono che i fedeli, durante le processioni, ponevano domande ad Amon, e che la risposta del dio dipendeva dall’inclinazione, a destra o a sinistra, assunta dalla statua. Pensarono perciò che i sacerdoti egizi, come quelli greci, agissero da interpreti della volontà divina, e li ribattezzarono Profeti. Invece, in Egitto, i membri del clero erano chiamati “servitori del dio”. 54 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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AMON RAFFIGURATO IN FORMA DI LEONE, AMULETO DELL’XI-X SECOLO A.C.
A Karnak esisteva un “Primo Profeta di Amon”, a cui si affiancavano un “Secondo”, un “Terzo” e perfino un “Quarto Profeta”. Una moltiplicazione di ruoli resa inevitabile dalle dimensioni abnormi raggiunte dal centro tebano. Infatti, dato che solo il Primo Profeta era autorizzato a penetrare nel naos del tempio (la Casa del dio), e che a Karnak si concentravano decine di edifici sacri, era inevitabile che, per consentire il regolare svolgimento delle cerimonie, il Gran sacerdote fosse costretto a incaricare altri sacerdoti di sostituirlo nei riti meno importanti, con un meccanismo di delega identico a quello utilizzato dal faraone nei suoi confronti. Al di sotto dell’élite dei Profeti, la scala gerarchica del clero egizio contemplava la categoria degli itu neter, “i padri del dio”, sacerdoti di livello intermedio tra i cui compiti vi era quello di marciare in testa alle processio-
LA TRIADE TEBANA IN PROCESSIONE
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TEBE SI SVOLGEVANO due cele-
brazioni di grande importanza. Una era la festa di Opet, che giunse a durare anche 24 giorni e si celebrava nella stagione di akhet, l’inondazione, ai primi di settembre. In quell’occasione, le barche sacre della triade tebana navigavano lungo il tragitto che separava i due più importanti templi di Amon, situati a Karnak e nella vicina Tebe (Luxor). Le barche erano accompagnate da una folla che cercava di avvicinarsi e toccare le statue degli dei. Lo scopo del corteo – che in origine procedeva via terra lungo il Viale delle sfingi – era rivitalizzare il dio e il potere reale. La seconda celebrazione era la Bella Festa della Valle, che aveva luogo a maggio-giugno. Nel giorno prescelto, la triade tebana veniva portata in processione fino alla sponda occidentale del Nilo, dove rendeva omaggio ai templi funerari dei faraoni. Era una specie di “festa dei morti”, in cui si ricordavano i propri cari celebrando banchetti in loro onore. UN GRUPPO DI SACERDOTI UAB TRASPORTA UNA BARCA SACRA, DIPINTO DALLA NECROPOLI DI SHEIKH ABD EL-QURNA, A TEBE.
ni purificando il suolo con abbondanti aspersioni d’acqua. Agli itu neter erano inoltre affidati altri riti di purificazione, come quelli compiuti sui sacerdoti che dovevano accedere al naos o sulle offerte destinate al dio. Il livello più basso del clero egizio era costituito dai sacerdoti uab, dei quali sappiamo poco o nulla ma che probabilmente erano addetti alla pulizia del tempio, alla manutenzione degli arredi sacri e ad altri compiti manuali come, per esempio, portare sulle spalle la pesante barca del dio nelle processioni. Ai sacerdoti uab, membri del basso clero, era proibito accedere alle zone sacre del tempio; dunque, da un punto di vista gerarchico, si collocavano a un livello appena superiore a quello dei fedeli, che non potevano spingersi oltre la grande corte colonnata da cui si accedeva al vestibolo e al santuario del dio. Oltre a questi sacerdoti, e ad altre figure spe-
cializzate come i “sacerdoti lettori”, nei templi egizi era prevista la presenza anche di sacerdotesse. Organizzate come i colleghi maschi in base ai compiti svolti, le sacerdotesse si avvicendavano mensilmente nel servizio e prendevano parte alle processioni e alle cerimonie pubbliche. Le loro mansioni, inizialmente ampie, andarono via via riducendosi, fino a che, durante il Nuovo Regno, vennero impiegate soprattutto come “cantrici del dio”.
La giornata del Gran sacerdote Prima dell’alba, il Gran sacerdote iniziava la sua giornata immergendosi nel lago sacro di Karnak o lavandosi con acqua prelevata dal suo bacino. Dopo questo primo rito di purificazione, veniva cosparso di incenso profumato e si puliva la bocca masticando una manciata di natron, il sale naturale utilizzato anche nel processo di mummificazione. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LE GERARCHIE DEL POTERE Nel grande tempio di Amon, a Karnak, lavoravano oltre 80.000 tra sacerdoti e addetti vari: FARAONE, CAPO DI TUTTI I SACERDOTI
UOMO
Primo servitore del Dio (Primo Profeta)
Secondo servitore del Dio
Terzo servitore del Dio
Quarto servitore del Dio
DONNA
Sposa del Dio, Divina Adoratrice
Custode dell’Harem
Madre del Dio
Nutrice del Dio
ALTO CLERO
Il faraone, sommo sacerdote Il faraone era il Primo sacerdote e il responsabile di tutti i culti del regno. Era l’interprete della volontà degli dei e doveva mantenere la Maat, l’ordine universale. Poiché gli era impossibile presenziare a tutti i riti, delegava ai Grandi sacerdoti il compito di sostituirlo nei vari templi. Solo i Grandi sacerdoti, in qualità di suoi rappresentanti, potevano accedere all’area del tempio consacrata al dio.
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STATUA IN BRONZO E ARGENTO DELLA DIVINA ADORATRICE KAROMAMA, XXII DINASTIA, IX SECOLO A.C., PARIGI. 56 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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La Divina adoratrice A partire dalla XVIII dinastia, spose e figlie dei faraoni potevano adottare il titolo di Divine adoratrici di Amon. Con la XXIII dinastia, la carica, che in genere andava a una figlia nubile del faraone, assunse un notevole peso religioso, maggiore, talvolta, di quello del Primo profeta di Amon. Le Divine adoratrici officiavano riti fondativi, presiedevano alla consegna delle offerte e partecipavano a feste di rigenerazione.
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IL FARAONE SETI I, DELLA XIX DINASTIA, FA UN’OFFERTA A RA-HORAKHTY. RILIEVO DIPINTO DAL TEMPIO DI SETI I, ABYDOS.
Il Primo profeta di Amon Era il sacerdote di maggior rilievo del tempio di Amon, scelto dal faraone e ratificato dal verdetto di un oracolo. Era affiancato da altri sacerdoti che, come lui, avevano la facoltà di accedere alle zone più sacre del recinto sacro, oltre che da una schiera di segretari e servitori. In certe epoche il suo potere fu pari, se non superiore, a quello del faraone.
RAMSESNAKHT, PRIMO PROFETA DI AMON, CON LA TRIADE TEBANA, XII SECOLO A.C., IL CAIRO.
NEL TEMPIO EGIZIO DI AMON erano i numerosi funzionari suddivisi in varie categorie, ciascuna con compiti ben definiti Sacerdoti puri
Sacerdoti orologi
Sacerdotesse pure
Cantrici di Amon
Sacerdoti oroscopi Musiciste
Sacerdoti musici
Sacerdoti ausiliari
Danzatrici
Laiche
BAJO CLERO
I sacerdoti puri Si occupavano dei riti minori e della manutenzione del tempio; inoltre si caricavano sulle spalle le barche divine nelle processioni. Erano divisi gerarchicamente (direttore, supervisore, gran sacerdote uab) e in base alle funzione svolte: a Karnak, per esempio, c’erano gli Apritori del santuario, i sacerdoti lettori ecc. SACERDOTI UAB PORTANO SULLE SPALLE LA BARCA SACRA DEL DIO JONSU, SIGNORE DEGLI ORACOLI. BASSORILIEVO DAL COMPLESSO TEMPLARE DI KARNAK.
I sacerdoti lettori Questi “sacerdoti puri” godevano di grande considerazione. Alla carica si giungeva partendo dal ruolo di scriba. Il loro apporto era imprescindibile in tutte le cerimonie, in quanto avevano il compito di recitare ad alta voce gli inni durante le celebrazioni. Erano esperti di testi sacri e controllavano che le varie funzioni religiose si svolgessero secondo il rituale.
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UN ARPISTA SUONA PER IL DIO RA, STELE IN LEGNO STUCCATO E DIPINTO. XI-VIII SECOLO A.C., LOUVRE, PARIGI.
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Arpisti, flautisti e cantori La presenza di musicisti nei templi egizi è attestata sin dall’Antico Regno, e i documenti dimostrano che si trattava di una categoria piuttosto numerosa. La funzione primaria di questi membri del basso clero era allietare il dio. Fungevano da cantori e suonatori di strumenti. In alcune cerimonie intervenivano insieme ai sacerdoti, sotto la supervisione del Direttore dei musicisti.
KA’APER, CAPO DEI SACERDOTI LETTORI DI MENFI, RAFFIGURATO IN UNA SCULTURA DI LEGNO DEL XXVI-XXIV SECOLO A.C. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IL GRANDE SACERDOTE LAVAVA LA STATUA DEL DIO CON ACQUA E INCENSO PRIMA DI RIVESTIRLA IL FARAONE AHMOSE I PURIFICATO DA DUE DIVINITÀ, XVI SECOLO A.C., IL CAIRO.
Procedeva quindi alla vestizione e alla consacrazione delle offerte, dopo di che poteva accedere al sancta sanctorum del tempio, al quale erano ammessi solo lui e il faraone. Prima di varcare la soglia di questo spazio sacro, il Gran sacerdote accendeva una torcia per illuminare l’ambiente, che provvedeva poi a profumare abbondantemente con incenso. Solo a questo punto poteva rompere i sigilli del chiavistello e aprire le porte della “Casa del dio”, l’armadio di pietra con porte di legno dorato nel quale era riposta la statua del dio. Alla sua vista, il Gran sacerdote si prostrava e baciava il pavimento, dopo di che compiva un giro rituale attorno al “tabernacolo” prima di presentare offerte di mirra, oli aromatici e una statuetta della dea Maat.
L’abbraccio al dio Era giunto il momento di estrarre la statua del dio dal sancta sanctorum. Prima, però, bisognava ammucchiare sul pavimento un po’ di sabbia pulita, da utilizzare come base d’appoggio per la statua. Infatti, doveva sembrare che il dio sorgesse dalla sabbia così come aveva fatto all’origine dei tempi dal Benben, la collina primigenia sulla quale il dio creatore Atum aveva generato se stesso e la prima coppia divina. Deposta la statua sul pavimento, il sacerdote si dedicava alla pulizia dell’armadio, che effettuava con la massima cura. Poi abbracciava teneramente la statua, in una dimostrazione dell’intimità che, in quanto rappresentante del faraone, lo legava al dio, e procedeva a rimuovere gli oli e gli unguenti avanzati dai riti precedenti. Infine spogliava il dio e lo lavava con acqua e incenso, prima di rivestirlo con capi puliti: una fascia per i capelli, abiti freschi di lino, una collana d’oro, un pettorale e le insegne della divinità. Le operazioni di pulizia quotidiana terminavano ungendo il dio con oli preziosi, truccandogli gli occhi con polvere di kohl – un eye58 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
liner naturale – e spargendo altra sabbia pulita sul pavimento, che veniva poi purificato con acqua e natron. Il sacerdote sollevava quindi la statua e la riponeva dentro l’armadio di pietra, ma senza chiuderne le porte. Bisognava infatti nutrire la divinità, e a questo scopo l’officiante purificava una serie di vassoi deposti dinnanzi alla statua. Elencava quindi a uno a uno i cibi esposti sull’altare delle offerte, prendendo una porzione di ciascuno di essi e depositandola sui vassoi. Finita l’elencazione, implorava il dio di accettare le offerte presentate e, per trasferirgli maggior forza, gli offriva due piccoli amuleti, l’uno a forma di chiave della vita (ankh) e l’altro di cuore (ib). Poi rendeva nuovamente omaggio al dio e, recitati alcuni inni, chiudeva le porte dell’armadio e sigillava il catenaccio. A quel punto il sacerdote non doveva far altro che raccogliere la sabbia rimasta sul pavimento, spazzare le sue impronte, spegnere la torcia e abbandonare il sancta sanctorum.
Oltre la religione Le esigenze del dio erano soddisfatte, almeno fino al tramonto, quando il Gran sacerdote doveva compiere il Rituale della Sera, pressoché identico a quello mattutino. Tra l’una e l’altra cerimonia, gli restava il tempo per occuparsi dell’organizzazione del tempio, della gestione dei suoi beni e delle molte questioni su cui era chiamato a decidere. L’indebolimento del potere dei faraoni tra la fine della XX dinastia e l’inizio della XXII fece sì che, a partire dal 1080 a.C., il Primo Profeta tebano di Amon acquisisse sempre più autonomia, finendo per comportarsi come un autentico sovrano dell’Alto Egitto. In quel periodo, i Gran Sacerdoti di Karnak sommarono il potere politico e quello religioso, giungendo a fondare una dinastia parallela a quella dei faraoni, inaugurata da Heritor nel 1080 a.C. ed estintasi solo nel 945 a.C.
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IL COLOSSO DI RAMSES II Pinedjem I, uno dei Primi Profeti di Amon, usurpò con proprie iscrizioni una statua di Ramses II, a Karnak. Nell’XI secolo a.C., il potere era infatti diviso tra i faraoni, a nord, e i Primi profeti, a sud;
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WERNER FORMAN / AKG / ALBUM
LA RIVOLUZIONE DI MENANDRO Il commediografo Menandro (IV sec. a.C.) con una maschera teatrale. Inaugurò il filone della Commedia Nuova, non più rivolta alla satira sociale, ma più leggera e farsesca. Musei Vaticani, Roma.
LO SPETTACOLO DI DIONISO
IL TEATRO IN GRECIA Nell’Atene del V secolo a.C. il teatro, sia tragico sia comico, era una manifestazione di massa e rispecchiava la vita democratica della città, come spontanea espressione dello spirito religioso e civico della polis ÓSCAR MARTÍNEZ SCRITTORE E DOTTORE IN FILOLOGIA CLASSICA
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u a Dioniso, il dio della vite e dell’ebbrezza, che gli Ateniesi dedicarono le loro festività più importanti. Il fulcro di tali celebrazioni consisteva nello svolgimento di agoni teatrali che catalizzavano tutte le energie della cittadinanza; le rappresentazioni erano circoscritte a queste feste, e non costituivano, come succede oggi, una semplice forma di svago.
IL “BIGLIETTO D’INGRESSO” Gettone romano che fungeva da biglietto per il teatro. In Grecia invece il teatro, vista la sua funzione civica, aveva un prezzo molto basso (circa due oboli al giorno), ed era gratuito per i poveri.
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Ad Atene esistevano anche altre feste in onore di Dioniso, ma era nelle Grandi Dionisie che il dio riceveva i maggiori onori da parte degli Ateniesi: un gruppo di giovani efebi, insieme a vergini che recavano offerte, accompagnava la statua del dio fino al suo santuario, situato alle pendici meridionali dell’Acropoli e a ridosso del quale si ergeva il teatro di Dioniso. La loro celebrazione durante i mesi primaverili, quando era pronto il primo vino, facilitava l’affluenza via mare di visitatori provenienti da altri luoghi, circostanza che contribuiva a espandere il prestigio di Atene tra le altre poleis. Non a caso era allora che gli Ateniesi vedevano i loro alleati depositare sul palcoscenico del teatro il tributo annuale per il mantenimento della Lega di Delo, la coalizione militare comandata da Atene. Dopo le libagioni che gli strateghi compivano in onore di Dioniso, venivano proclamati i nomi di coloro che si erano distinti per le loro attività in favore della città e del suo benessere, e si procedeva alla sfilata di quegli orfani i cui padri erano caduti per difendere Atene e il cui mantenimento ora spettava all’intera polis. La scelta degli autori che avrebbero preso parte alla competizione drammatica dipendeva dall’arconte eponimo, l’autorità politica che dava il suo nome all’anno in corso, un fatto che evidenzia la completa partecipazione della città all’evento. Gli autori drammatici consegnavano all’arconte un riassunto dell’opera che intendevano rappresentare, e questi decideva quale sarebbe stata messa in scena. Era allora il momento di un’altra figura chiave nella produzione teatrale: il corego, un
cittadino facoltoso che, a mo’ di imposta indiretta, si assumeva la responsabilità dell’allestimento di un’opera, il che poteva arrivare a costargli 30.000 mine (una mina equivaleva a 100 dracme; e mezza dracma era il salario quotidiano di un marinaio ateniese). Le sue funzioni erano quelle di scegliere i membri del coro e di farsi carico dei costi delle maschere, dei costumi, delle sale per le prove e della loro manutenzione, mentre gli onorari degli attori e i premi per gli autori delle opere vincitrici erano a carico della città. Sappiamo che all’età di vent’anni, il politico ateniese Pericle fu il corego dei Persiani di Eschilo, che ottenne la vittoria nel 472 a.C.
La messa in scena Giunto il momento delle rappresentazioni, la gara teatrale cominciava secondo un programma preciso. In primo luogo si rappresentavano in un solo giorno le cinque commedie in concorso, le quali erano state composte da altrettanti autori precedentemente selezionati. Tuttavia, mentre i commediografi in gara erano cinque e presentavano un’opera ciascuno, nel caso della tragedia concorrevano tre autori. Ognuno metteva in scena tre opere che, almeno nei primi tempi, erano collegate da un nesso tematico, formando una trilogia. Oltre alle tre tragedie, ogni autore presentava un dramma satiresco, cioè un’opera di carattere burlesco nella quale un eroe si confrontava con un coro di satiri, creature metà umane e metà caprine caratterizzate da violenti appetiti carnali; si trattava del contrappunto necessario per smorzare l’intenso effetto emozionale prodotto dalle tragedie.
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ODEON DI ERODE ATTICO Sul pendio meridionale dell’Acropoli di Atene nel II secolo d.C. il ricchissimo politico e sofista Erode Attico fece erigere in memoria della moglie un teatro in pietra destinato alle esecuzioni musicali. Sulla sua gradinata, formata da 32 file, potevano trovare posto 5000 spettatori. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’AUTORE DELLA PRESA DI MILETO FU MULTATO PER AVER RICORDATO UN COSÌ TRISTE EPISODIO
I tragediografi e i commediografi non gareggiavano tra di loro, e nemmeno si dava il caso che potessero conciliare i due ruoli. Le commedie si riferivano unicamente a questioni relative alla vita quotidiana, anche se non era infrequente l’allusione o perfino la comparsa in scena di personaggi della vita pubblica ateniese, come Socrate o Pericle. La tragedia sviluppava invece episodi estratti dal repertorio mitico, anche se agli inizi del V secolo a.C. vennero portati in scena alcuni episodi storici vicini nel tempo. Per esempio, I Persiani (l’unica tragedia a tema storico a noi giunta) era incentrata sulla vittoria che i Greci ottennero sui Persiani nella battaglia di Salamina, avvenuta otto anni prima. Inoltre Frinico, uno dei primi tragediografi, aveva presentato in precedenza un’opera intitolata La presa di Mileto (andata perduta) in cui si evocava la conquista della città da parte dei Persiani; si narra che il pubblico scoppiò a piangere e che all’autore fu comminata una multa di mille dracme per aver ricordato un così drammatico episodio.
Solo opere originali Le opere erano sottoposte al giudizio di una giuria composta da dieci persone che emettevano il loro voto per mezzo di una tavoletta; da queste dieci votazioni se ne estraevano cinque a caso, e sulla base di queste si stabiliva il vincitore. Questa particolare procedura scongiurava la possibile pressione che il pubblico avrebbe potuto esercitare sul giurato nel momento dell’espressione del verdetto. Aristofane, per quel che riguarda la commedia, ed Eschilo, Sofocle e Euripide, per la tragedia, sono gli autori la cui opera è arrivata fino a noi (in una proporzione molto inferiore rispetto a quanto in realtà produssero) e sebbene la loro grandezza letteraria sia rico64 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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BUSTO DI ESCHILO. NY CARLSBERG GLYPTOTHEK, COPENHAGEN.
nosciuta in modo unanime, non sempre ottennero il gradimento del pubblico. Le volte in cui Euripide ottenne la vittoria furono poche in confronto a Sofocle, che, secondo le fonti, non arrivò mai ultimo. Da parte sua, Aristofane decise di riscrivere Le nuvole mosso dal disappunto che provò per non aver ottenuto la vittoria; di fatto, la versione che oggi conserviamo di questa commedia non è quella che fu rappresentata di fronte al pubblico nel 423 a.C. poiché le opere presentate alle Grandi Dionisie dovevano essere originali. Ciò implica che, almeno nel periodo del quale parliamo, non vi furono “repliche”, tranne che nel caso di Eschilo, alla cui morte fu emesso un decreto che consentiva di riportare in scena le sue opere. Il prestigio di cui godevano gli autori teatrali era enorme tanto che venivano indicati con il termine didaskalos, che significa “maestro”. Il fatto che tale parola significasse
CRATERE DI PRONOMOS La scena, dipinta dal cosiddetto “pittore di Pronomos”, raffigura la preparazione della recita di un dramma satiresco in presenza di Dioniso e Arianna. V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
NELLA TRAGEDIA, dove non rimaneva scoperta quasi nessuna parte del corpo dell’attore, le vesti, che caratterizzavano i personaggi rendendo subito evidente la loro professione o condizione (messaggeri, anziani, prefiche), erano portate sempre con solennità. Nella commedia, gli abiti erano più leggeri e ornati in modo grottesco con pance smisurate e falli, nel caso degli uomini, o con abbondante peluria pubica nel caso delle donne. DUE ATTORI DI COMMEDIA. STATUETTE DI TERRACOTTA. I SECOLO A.C. LOUVRE, PARIGI.
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I COSTUMI TEATRALI
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IL MONUMENTO DI LISICRATE Il corego (impresario teatrale) Lisicrate fece erigere questo monumento nella Plaka di Atenee per commemorare il tripode, premio assegnatogli nel 335334 a.C. per uno dei suoi spettacoli.
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anche “preparatore” è un indizio del fatto che l’autore non si limitava alla composizione di un’opera, ma svolgeva anche le funzioni di direttore teatrale, dirigendo i movimenti del coro e incaricandosi tra l’altro della produzione musicale, dato che il testo conteneva, oltre alle parti recitate, anche parti cantate.
Attore, una professione privilegiata È noto che Sofocle e Eschilo presero parte alla rappresentazione delle proprie opere come attori. A metà del V secolo a.C. Sofocle avrebbe però messo fine a questa pratica. La parola greca per indicare l’“attore” era hypokrites, termine che significa “colui che risponde”, il che ci riconduce a quel momento fondamentale del teatro greco in cui uno dei membri del coro si separò dagli altri e iniziò a rivolgersi loro recitando. Per molto tempo, un solo attore – sempre maschio, anche nel
caso di ruoli femminili – fu più che sufficiente per rappresentare una tragedia, in quanto grazie alle maschere e ai costumi questi poteva interpretare diversi personaggi. Fu così che, mentre altri autori incentrarono il peso drammatico sull’interazione tra un personaggio e il coro, Eschilo vide presto i vantaggi che poteva recare all’azione drammatica il mettere in scena due personaggi che dialogavano tra loro, per la qual cosa aveva bisogno di almeno due attori in scena. Nell’Orestea (l’unica trilogia sopravvissuta per intero), Eschilo sembra aver impiegato fino a tre attori, numero che poi si sarebbe stabilito come canonico con Sofocle. Considerando che lo stesso Eschilo recitò nelle sue opere e tenendo conto delle testimonianze che lo associano agli attori Minnisco e Cleandro nelle sue produzioni, non è improbabile che quella sia stata la prima compagnia teatrale della storia. La commedia, a causa dell’importanza speciale che in essa si attribuiva ai dialoghi e agli slanci comici che favoriscono la presenza in scena di più di due o tre personaggi, poteva ricorrere a più attori; a volte, fino a cinque, oltre ai kopha prosopa (“personaggi muti”). Così come per gli autori, non sembra che gli attori recitassero indistintamente in tragedie e commedie: sarebbero stati specializzati in un unico ruolo. Tuttavia, l’importanza dell’attore andò aumentando, fino a che nel 449 a.C. fu istituito un premio per il miglior attore principale, o protagonistes, nell’ambito della tragedia. Si dovette aspettare fino al IV secolo a.C. perché si stabilisse un premio per gli attori comici. Il prestigio che acquisirono gli interpreti si riflesse nella loro progressiva professionalizzazione e nella nascita di gruppi di attori che portarono i loro spettacoli in ogni zona della Grecia, godendo di immunità e agendo a volte anche come ambasciatori. Lo sforzo dell’attore doveva essere notevole, dato che, oltre a padroneggiare il canto e la danza, doveva svolgere ruoli differenti nel corso della stessa rappresentazione. Ciò era reso possibile dall’uso della maschera teatrale, associata fin dall’antichità al culto di Dioniso. Tali maschere – quelle di ceramica che si sono conservate sono databili a un’epoca più tarda – erano fatte di lino indurito e il loro utilizzo non era circoscritto al solo scopo di consentire a un attore di cambiare
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MASCHERE PER FAR RIDERE E SPAVENTARE
MOSAICO CON MASCHERE L’influenza del teatro greco si estese anche a Roma. Mosaico da Pompei che ritrae una maschera tragica e una maschera comica. I secolo d.C. Musei Capitolini, Roma.
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EL V SECOLO A.C., le maschere erano raffigurazioni molto riuscite dei volti dei personaggi, con la bocca semi aperta. Si realizzavano incollando strisce di lino, poi modellate sul viso dell’attore. Si ottenevano così maschere leggere ma rigide, che si potevano anche dipingere: quelle dei satiri probabilmente erano rosse, quelle delle donne bianche. Aristofane ricorreva anche a maschere caricaturali dei personaggi reali che ridicolizzava, come Cleone nei Cavalieri o Socrate nelle Nuvole. Altre maschere infondevano timore, come quelle del coro delle Furie nelle Eumenidi di Eschilo, o quella di Edipo cieco e sanguinante nell’Edipo re di Sofocle.
MELPOMENE, MUSA DELLA TRAGEDIA La lunga veste con cintura alta era associata agli attori tragici; la corona di uva allude al dio Dioniso. Scultura del II sec. d.C. Ny Carlsberg Glyptothek, Copenhagen.
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IL TEATRO DI DIONISO AD ATENE
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TEATRI, in età classica consacrati a Dioniso – nelle cui grandi feste, le Dionisie e le Lenee, si rappresentavano sia tragedie sia commedie –, erano a cielo aperto e accoglievano migliaia di cittadini. I primi teatri, ancora mobili e non stabili, costruiti in legno, comparvero tra V e IV secolo a.C. Oggi possiamo ammirare le imponenti costruzioni (o, meglio, ricostruzioni) dell’Odeon di Erode Attico, alle pendici dell’Acropoli ateniese, o del monumentale teatro di Epidauro, che poco hanno a che vedere con i modesti palchi sui quali rappresentarono per la prima volta le loro opere Eschilo, Sofocle ed Euripide. Le vestigia a noi giunte dei più antichi edifici destinati alle rappresentazioni teatrali, come per esempio il teatro di Dioniso – collocato sul versante meridionale dell’Acropoli di Atene, di cui si può vedere qui la ricostruzione –, ci suggeriscono la presenza in origine di uno spazio scenico nel quale il pubblico si sedeva su gradini di legno sistemati sul pendio collinare. Intorno al 330 a.C. Licurgo apportò al teatro di Dioniso una serie di modifiche. Risalgono a quest’epoca la ricostruzione in pietra, l’orchestra di circa 20 metri di diametro e una skené (“impianto scenografico”) di circa 20 metri di lunghezza. ARALDO DE LUCA / CORBIS
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TESTA DI DIONISO. COPIA ROMANA DI UN ORIGINALE GRECO DEL IV SECOLO A.C. MUSEI CAPITOLINI, ROMA.
1 Gli spalti
3 Il pubblico
5 Posti d’onore
7 La scena
2 I settori
4 Il teatro di pietra
6 L’orchestra
8 Macchine sceniche
L’ampio semicerchio della cavea sfruttava il pendio di una collina ed era protetto alle estremità da due robusti muri di contenimento. Tra gli spalti vi erano i corridoi per consentire al pubblico di raggiungere i posti.
Le gradinate potevano accogliere fino a 17.000 spettatori. Gli spalti erano divisi in 13 settori, 10 dei quali corrispondevano a ognuna delle 10 tribù di Atene, i cui membri prendevano posto nel settore loro riservato.
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Oggi si ritiene che anche le donne assistessero alle rappresentazioni, alle quali presenziavano i cittadini ateniesi, i meteci (gli stranieri residenti nella città) e coloro che in quel momento si trovavano in visita ad Atene.
In origine il teatro era costruito in legno. Secondo alcune fonti, fu Pericle a far erigere il primo teatro di pietra, nel V secolo a.C.; tuttavia, studi recenti hanno stabilito che i resti dell’edificio in pietra sono posteriori, del IV secolo a.C.
Al centro della prima gradinata aveva un posto riservato il sacerdote di Dioniso. Intorno sedevano le autorità cittadine in rappresentanza delle istituzioni democratiche e la giuria che assegnava i premi ai vincitori.
Era lo spazio davanti alla scena, dove ballava e cantava il coro, guidato dal corifeo. Il nome orchestra (da cui deriva il termine italiano) viene dal verbo greco orchemai, “danzare”. Al centro vi era un altare dedicato a Dioniso.
Lo spazio riservato agli attori era il logheion, la scena, dove si esibivano i tre attori che, in età classica, impersonavano i diversi personaggi. Alle spalle degli attori si trovava la skené, un impianto scenografico fisso in pietra.
Tra i meccanismi scenici c’era la gru o mechané con cui si introducevano divinità giunte dal cielo (l’apò mechanès theós o, in latino, deus ex machina) e l’enkyklema, piattaforma rotante con cui si mostrava quanto accaduto altrove.
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9 L’Odeon
Pericle introdusse nei Giochi panatenaici gli agoni musicali, per ospitare i quali venne eretto l’Odeon, a ovest del teatro di Dioniso, un grande edificio di circa 63 per 69 metri la cui copertura in legno poggiava su 90 colonne.
La scenografia Era molto semplice. Molto spesso si trattava della facciata di un palazzo con varie porte dipinte. La scenografia migliorò con Sofocle, ma rimase assai schematica. A volte erano introdotti una tomba o pochi altri elementi.
Sotto il proscenio Nell’illustrazione a destra la piattaforma del proscenio (cioè la parte anteriore della scena). Al di sotto vi erano alcuni passaggi coperti, che permettevano agli attori improvvise apparizioni dal basso o erano utilizzati per produrre effetti scenici.
Il theologeion Sullo fondo della scena si ergeva un edificio, nella cui parte superiore comparivano gli dei quando intervenivano o si rivolgevano al pubblico. Tale zona elevata fu usata anche da Medea alla fine dell’omonima tragedia.
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AGLI SPETTATORI INSODDISFATTI ERA CONSENTITO LANCIARE CIBO CONTRO GLI ATTORI
personaggio; potevano infatti esistere anche due maschere per uno stesso ruolo, il che dava luogo a un cambio di aspetto che arrivava a impressionare profondamente il pubblico: basti pensare al protagonista dell’Edipo re di Sofocle che tornava in scena – le azioni violente non si rappresentavano mai sul palcoscenico – dopo essersi strappato gli occhi. Per quanto riguarda la commedia, a volte le maschere costituivano caricature riconoscibili di personaggi molto noti della vita reale. D’altro canto, l’utilizzo di maschere comportava la mancanza di un’espressione facciale, carenza che faceva ricadere il peso della tecnica interpretativa sui gesti e sulla voce. Mediante la voce gli attori sottolineavano nitidamente l’ira, la sincerità o la falsità, ed è possibile che a causa dei marcati toni insidiosi di certi personaggi il termine hypokrites acquisì poi il significato negativo che oggi ha la parola “ipocrita” nelle lingue moderne.
Costumi fantastici Per quanto riguarda i costumi, nella tragedia gli attori indossavano vesti più nobili di quelle di uso quotidiano, sebbene nel caso degli appartenenti al coro si utilizzassero indumenti che riflettevano la loro condizione, il loro sesso, la loro provenienza ecc… L’impiego del proverbiale coturno (una calzatura alta che permetteva all’attore di elevare la propria statura di circa dieci centimetri) non doveva essere così esteso come si suppone, almeno per l’epoca della quale parliamo, ma sarebbe da riferire a epoche più tarde. Per quanto attiene alla commedia, oltre al vestiario più informale, esisteva un abbigliamento tipico che sfoggiava un colossale membro virile associato al culto di Dioniso. Allo stesso modo, le vesti del coro avrebbero acquisito tonalità tanto sorprendenti quanto quelle dei suoi 70 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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BUSTO DI ARISTOFANE. IV SECOLO A.C. LOUVRE, PARIGI.
componenti: le rane, le vespe, le nuvole o gli uccelli che formavano il coro nelle commedie di Aristofane esibivano il loro colorato abbigliamento di fronte a spettatori che godevano della fantasiosa visione della realtà che i comici dispiegavano davanti ai loro occhi. Il pubblico viveva l’esperienza teatrale in modo diverso rispetto a oggi. Gli spettatori, tra i quali vi erano bambini e probabilmente donne, accedevano alle rappresentazioni teatrali al prezzo di due oboli, ed esisteva un “fondo statale per gli spettacoli” (theorikon) che serviva per sovvenzionare l’ingresso a chi non poteva pagare il biglietto, un fatto la cui esistenza è stata oggi comprovata dall’archeologia. Nella prima giornata gli spettatori si divertivano assistendo alle opere dei commediografi, la cui riuscita si basava sull’utilizzo di un linguaggio crudo e colloquiale – anche se a volte si utilizzava un linguaggio decisa-
L’UMORISMO CONTRO LA GUERRA
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mente poetico – , situazioni assurde e scene di comicità corporale che, combinati con una grande dose di mordacità e di critica politica e sociale, si rivelavano adatte a un pubblico che non esitava a manifestare gridando il proprio gradimento nel corso della rappresentazione.
Passione sugli spalti Se consideriamo il fatto che gli spettatori assistevano, dalla mattina a tarda sera, a un totale di diciassette rappresentazioni nel corso della festa, non è difficile intuire che il loro comportamento fosse molto più rilassato rispetto a quello del pubblico attuale. Per esempio, accadeva spesso che, in segno di malcontento, gli spettatori lanciassero in direzione del palcoscenico alcuni degli alimenti che avevano portato con sé per rifocillarsi. Quanto alla tragedia, il fatto che gli spettatori sapessero come si sarebbe conclusa la vicenda
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AL PALCOSCENICO, Aristofane
criticò senza pietà i mali dell’epoca nella quale visse, tra i quali il maggiore fu la Guerra del Peloponneso, che vide lo scontro tra Atene e Sparta nella seconda metà del V secolo a.C. La maggior parte delle sue undici commedie pervenuteci affrontano, con un tono profondamente antibellico, il tema della guerra. Gli Acarnesi mette in scena un contadino che, stanco della guerra, stringe con il nemico una tregua privata, mentre nella Pace un vignaiolo si reca sul dorso di uno scarabeo in cielo, dove si rende conto che la Pace è prigioniera di Polemos, il demone della guerra; alla fine riesce a liberare la Pace e a portarla di nuovo ad Atene, per la gioia dei contadini e la delusione dei commercianti di armi. Ma il contributo più celebre di Aristofane contro la guerra è la commedia Lisistrata (“colei che scioglie gli eserciti”), dove le Ateniesi si accordano con le Spartane: per ottenere la pace si asterranno dall’avere rapporti sessuali coni loro mariti fino a che questi non troveranno un accordo.
non impediva loro di goderne appieno, poiché l’effetto non dipendeva dalla “suspense”, ma dal modo in cui l’autore reinterpretava il mito. A ogni modo, il pubblico si immedesimava intensamente in ogni nuova messa in scena tanto che l’apparizione del coro delle Furie nell’Orestea seminò il terrore nel teatro. Inoltre il fatto che il pubblico conoscesse ciò che il protagonista ignorava serviva a produrre la cosiddetta “ironia tragica”. In tal modo gli spettatori accompagnavano l’eroe nella sua caduta, con il vantaggio che non erano abbattuti dalle disgrazie, una situazione che causava una sorta di katharsis o “purificazione”. Sotto il segno di Dioniso, così, gli Ateniesi trovarono nel teatro un mezzo per canalizzare le loro emozioni e per unire la città, consolidando, in ultima istanza, l’antica illusione per la quale sotto la maschera un cittadino qualunque poteva diventare un eroe o un dio.
UN PALCOSCENICO A ROMA Rappresentazione di una farsa su uno palcoscenico il cui sfondo rimane coperto da una tenda decorata. Disegno di Peter Connolly sulla base della decorazione di un reperto in ceramica.
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EUCLIDE E I SUOI ALLIEVI Il grande matematico greco Euclide circondato dai suoi allievi in un dettaglio de La scuola di Atene, celebre affresco di Raffaello Sanzio. 1509-1511, Stanza della Segnatura, Musei Vaticani.
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UN QUADERNO DI ESERCIZI Tavoletta del II secolo d.C. utilizzata nelle scuole greche per insegnare a leggere e contare. Nella colonna di sinistra si riconosce un elenco di sillabe di tre lettere: aaa, bab, bbd.
BRIDGEMAN / INDEX
UN LUNGO PERCORSO FORMATIVO
LA SCUOLA IN GRECIA Nella Grecia classica i bambini, accompagnati da uno schiavo, frequentavano la scuola a partire dai sei, sette anni, imparando a leggere, scrivere e contare; le bambine erano escluse da questo percorso formativo DAVID HERNÁNDEZ DE LA FUENTE UNIVERSITÀ DI POTSDAM
IL RECINTO SACRO DI ZEUS Veduta aerea dell’Altis di Olimpia, il recinto sacro dove, durante i Giochi Olimpici, si svolgevano le più solenni cerimonie in onore di Zeus. In Grecia, la formazione fisica aveva pari valore di quella intellettuale.
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li antichi Greci chiamavano paideia (da pàis, bambino) l’educazione che i ragazzi ricevevano a partire dal sesto o settimo anno d’età, dopo il periodo della prima infanzia trascorso in famiglia. L’obiettivo di questo iter formativo era decisamente ambizioso: non tanto e non solo preparare il giovane alla futura vita lavorativa, ma anche formare dei perfetti cittadini attraverso un insegnamento a tutto tondo: letterario e retorico, scientifico e filosofico, senza dimenticare l’educazione fisica e artistica. Formatosi in epoca arcaica, il concetto tipicamente greco (e più specificamente ateniese) di paideia si definì durante l’età classica, nel V secolo a.C., e più tardi, nel periodo ellenistico (dal IV secolo a.C.), si estese a tutte le regioni del Mediterraneo, divenendo un modello
formativo comune a tutti i popoli che si affacciavano sul Mare Nostrum. Lo adottarono sia i Romani sia, più tardi, i cristiani, che ne propiziarono la definitiva consacrazione nonostante la loro distanza dalla cultura pagana.
Uno schiavo come pedagogo I genitori affidavano i propri figli, a partire dai sei-sette anni, alle cure di uno schiavo di fiducia, il paidagogos (pedagogo). Il suo compito era quello di accompagnare i bambini a scuola e andare a riprenderli, aiutarli a memorizzare le lezioni e insegnare loro la moralità e le buone regole di comportamento. Le bambine, invece, venivano educate in casa (anche se si ha notizia di casi nei quali anch’esse furono “scolarizzate”), generalmente dalle madri, che si occupavano di insegnare loro i dettami da seguire nell’allevamento dei figli e nella gestione della vita domestica.
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Le scuole frequentate dai giovani greci erano private. Alla guida vi era il grammatistes o maestro delle prime lettere (grammata), che si occupava dei bambini fino a quando compivano 12 o 14 anni. Era una professione poco valorizzata, per esercitare la quale non occorreva una qualifica particolare e che molti sceglievano solo per sfuggire alla povertà. Il salario era decisamente modesto, di poco superiore a quello di un operaio qualificato.
Imparare a leggere e scrivere Il maestro sedeva in posizione rialzata, davanti ai bambini e ai loro pedagoghi. Come si può vedere in alcune ceramiche antiche, gli alunni erano posati su sgabelli e scrivevano su tavolette di legno, i pinakes, appoggiate alle ginocchia (non si usavano gli scrittoi). La tavoletta era impregnata di cera: con l’aiuto di uno stilo, appuntito da una parte e piatto
NELLA GRECIA CLASSICA, la sposa ideale era colei che aveva trascorso
l’infanzia rinchiusa nella casa paterna e appreso solo a filare e svolgere le faccende domestiche. Le bambine erano perciò escluse dall’educazione riservata ai maschi. Facevano eccezione Sparta, dove le giovani potevano frequentare le palestre, e il circolo poetico di Saffo, a Lesbo. STATUA DI SAFFO, LA POETESSA CHE, NEL VI SECOLO A.C., CREÒ A LESBO UN CIRCOLO DI GIOVANI ERUDITE.
dall’altra, si tracciavano o cancellavano le lettere. A scuola, il maestro utilizzava anche altro materiale per l’insegnamento e per la pratica della scrittura, come gli ostraka (frammenti di ceramica) e, raramente, il papiro, molto più costoso, su cui si scriveva con l’inchiostro. La lettura era più difficile da apprendere che non oggi, poiché le parole non erano separate una dall’altra e non esistevano segni di punteggiatura. I bambini leggevano a voce alta e memorizzavano vari testi poetici; certamente imparavano le opere di Omero, vero maestro di tutti i giovani Greci, ma anche le massime dei Sette Savi, gli antichi poemi di Esiodo e la poesia lirica. In questa prima fase, lo studio della matematica si limitava al calcolo, a volte supportato da un abaco. Un citarista insegnava a suonare la lira, per accompagnare la lettura delle poesie, oppure il flauto.
A LEZIONE DAL MAESTRO Un giovane allievo ascolta in piedi gli insegnamenti del suo precettore. Coppa da vino (kylix) nera a figure rosse databile al V secolo a.C. Louvre, Parigi.
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YANN ARTHUS-BERTRAND / CORBIS / CORDON PRESS
RECLUSE IN CASA
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IL CICLO SCOLASTICO ATENIESE
4 NA CERAMICA greca a figure
rosse, conservata a Berlino, mostra una delle rappresentazioni più antiche dell’educazione dei bambini nella Grecia classica. Opera del ceramografo Duride, attivo ad Atene tra il 500 e il 470 a.C. circa, espone i diversi momenti del ciclo scolastico ateniese: l’insegnamento delle prime lettere, la declamazione della poesia (in un altro frammento qui non riportato), l’apprendimento della musica e persino l’educazione fisica. I Greci ponevano i valori morali dell’educazione sopra quelli intellettuali; così gli eroi omerici si distinguevano per le loro virtù. La musica incideva direttamente sul carattere morale: esistevano toni più o meno nobili in base alla loro influenza sul carattere. Inoltre, imparando a cantare i poemi antichi accompagnandosi con la lira, i giovani assimilavano i valori tradizionali della polis: lo spirito guerriero, l’amor patrio, la religiosità, la devozione filiale.
KYLIX A FIGURE ROSSE CON SCENE DI VITA SCOLASTICA, 480 A.C. CIRCA, STAATLICHE MUSEEN, BERLINO.
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IL PEDAGOGO E IL SUO PUPILLO Un pedagogo accompagna a scuola il fanciullo che gli è stato affidato. Statuetta in terracotta del II secolo a.C., Louvre, Parigi.
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Come scrive il filosofo Platone nelle Leggi, la musica faceva parte della formazione morale e ogni individuo istruito doveva essere capace di intonare le canzoni tradizionali o i poemi accompagnandosi con la lira.
A scuola anche di domenica Come in ogni epoca, anche nell’antica Grecia spesso la scuola era per i bambini un obbligo poco gradito. La giornata scolastica iniziava molto presto, allo spuntare del giorno; nel pomeriggio vi era una seconda sessione di studio. Non erano previsti giorni di riposo durante la settimana, anche se nel corso dell’anno c’erano numerose festività. I metodi pedagogici, inoltre, non erano particolarmente attenti a dosare l’insegnamento sulle capacità dei piccoli allievi. Nella lettura, per esempio, gli studenti passavano direttamente dall’apprendimento dell’alfabeto
alla lettura di passaggi complessi di Omero, con il risultato che molti, a dieci anni, non avevano ancora imparato a leggere correttamente. I maestri, da parte loro, non si facevano problemi nell’imporre con la forza la disciplina in classe. Uno scrittore satirico del III secolo a.C., Eroda (o Eronda), rappresenta una scena divertente in cui una madre si arrabbia con il figlio per il suo disinteresse verso gli studi. “E quella povera tavoletta – dice adirata la madre del piccolo discolo – che mi sforzo di incerare tutti i mesi, se ne giace là, abbandonata davanti alla colonnina della parete. Non la piglia per scrivervi su qualche bella cosa, ma per raschiarla tutta quanta. Una ‘alfa’ dalla ‘beta’non sa distinguere, se non gli ripeti cinque volte la stessa cosa”. La madre accompagna poi il figlio a scuola. Appena arrivata, il maestro Lamprisco mette il bambino sulla schiena di un compagno ed esclama: “Qua il nerbo sodo,
1 L’AULETA. Il maestro di musica, seduto di fronte all’allievo, gli insegna a suonare l’aulós, il tipico flauto doppio greco. L’aulós, fatto di canna, legno, osso oppure avorio, era usato per accompagnare le tragedie ma anche nei banchetti e nei riti funebri.
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2 LA SCUOLA. L’aula scolastica è arredata in modo austero, con poche sedie e sgabelli. Dalle pareti, che talvolta potevano essere decorate, pendono oggetti legati all’insegnamento: strumenti musicali, rotoli di papiro e tavolette. 3 LA LIRA. Una lira pende da un chiodo alla parete. Il maestro citarista insegnava a suonare diversi strumenti, come la lira, la cetra o l’arpa. Inoltre faceva memorizzare e declamare ai bambini i poemi da accompagnare con questi strumenti. 4 LA SCRITTURA. Il grammatistes, il maestro elementare incaricato di insegnare lettura, scrittura, aritmetica e letteratura, mostra all’alunno come tracciare le lettere sulla tavoletta di cera, o forse gli sta correggendo gli esercizi. 5 IL PEDAGOGO. Lo schiavo incaricato di accompagnare il bambino a scuola attende, seduto su uno sgabello, che termini la lezione. Al pedagogo era chiesto anche di aiutare il suo pupillo nei compiti a casa e di insegnargli a comportarsi in modo educato.
la coda di bue, con cui concio di santa ragione quelli che scappano e gli indisciplinati... Presto, qua: prima che io vomiti la mia bile!”. Il bambino risponde al maestro: “No, ti supplico, Lamprisco: per coteste Muse, e per la tua barba, e per l’anima di Cottide; non mi picchiare con la sferza soda, ma con l’altra...”.
L’istruzione secondaria Nell’antica Grecia, l’istruzione secondaria godeva di maggiore considerazione rispetto a quella primaria. In epoca ellenistica si diffuse la figura del cosiddetto grammatikós, il professore che si occupava della formazione letteraria dei giovani tra i 14 e i 18 anni. Questi insegnanti arrivarono a godere di grande prestigio: molto richiesti in tutto il mondo greco, alcuni di essi erano letterati di fama. Sotto la loro guida, i ragazzi studiavano i grandi autori della tradizione letteraria greca, non
solo i poeti, ma anche gli oratori (Antifonte, Demostene e Isocrate), i drammaturghi (Euripide e Menandro erano i preferiti dell’epoca) e gli storici (in particolar modo Tucidide). Approfondivano anche le materie scientifiche: matematica, geometria, aritmetica, musica (intesa come disciplina derivata dalla scienza pitagorica) e astronomia. Tutto era legato all’ideale di un’educazione a 360 gradi, che i Greci definivano enkyklios paideia, cioè “istruzione universale”. Durante l’adolescenza, i ragazzi si dedicavano a un’altra disciplina che era considerata elemento fondante del processo formativo: l’educazione fisica, che si svolgeva nell’arena oppure in palestra. Sotto la direzione di un allenatore, o paidotribes, si esercitavano nel pentathlon: lotta, corsa, salto, lancio del disco, lancio del giavellotto. Si allenavano anche nel pugilato e nel pancrazio, una specie di lotta libera. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’ODEON DI KOM EL-DIKKA Nel sito archeologico di Kom el-Dikka, ad Alessandria d’Egitto, è stato rinvenuto un teatro coperto del V secolo d.C. che, come gli auditoria circostanti, fungeva da sede di incontri accademici legati al Museo di Alessandria.
Il maestro di questa disciplina indossava un lungo mantello e assisteva agli allenamenti impugnando un bastone, che usava per correggere i difetti dei suoi allievi. La punizione fisica per mano degli insegnanti era ritenuta normale, qualunque fosse la disciplina di cui questi si occupavano: secondo la mitologia, Lino, maestro di musica di Eracle, esasperato dalla sua lentezza nell’apprendere, perse la pazienza e lo colpì; il giovane Eracle gli restituì il colpo con la sua lira e, senza volerlo, lo uccise.
L’ultima tappa della paideia Compiuti i 18 anni, infine, quando l’adolescente diventava un giovane (éphebos), iniziava l’ultima fase della sua formazione come cittadino, la cosiddetta efebia. In epoca classica, l’efebia corrispondeva a una specie di servizio militare della durata di due anni, nel corso del quale i giovani vivevano in comunità con i lo78 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ro coetanei e imparavano l’uso delle armi e la strategia bellica, mentre assorbivano lo spirito civico e democratico della città. Nel periodo ellenistico, tuttavia, l’aspetto militare dell’efebia venne meno (o si ridusse molto) in favore di una maggiore attenzione alla formazione letteraria e intellettuale del giovane. L’ éphebos si affidava a sofisti e retori, oratori e docenti che giravano di polis in polis per tutto il mondo antico, impartendo lezioni e tenendo conferenze anche davanti a folle di cittadini curiosi. Una volta raggiunta poi l’età adulta (che nella maggior parte delle città greche coincideva con il compimento del ventunesimo compleanno), il giovane poteva diventare egli stesso un filosofo, un oratore, un medico, un matematico o un militare di carriera, facendo delle conoscenze acquisite la base di una vita dedicata al benessere personale e al servizio della città in cui era nato e cresciuto.
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I MAESTRI DI ALESSANDRO MAGNO
TRE GRANDI PRECETTORI Oltre ad Aristotele, Alessandro Magno (qui in un mosaico romano del 100 a.C. circa) ebbe come precettori Anaximenas per l’oratoria e Lisimaco per la letteratura.
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ILIPPO II DI MACEDONIA affidò l’educazione di suo figlio, il futuro Alessandro Magno, ai migliori maestri dell’epoca. Anche i principi erano sottoposti a un duro addestramento fisico e militare, che nel caso del conquistatore della Persia venne supervisionato dal suo primo tutore: Leonida, parente di sua madre. Alessandro combinò questa formazione con i suoi studi sotto la tutela di Aristotele di Stagira, uno dei massimi filosofi della Grecia classica, che lo istruì in discipline diverse quali, appunto,la filosofia, la medicina, la geografia, la zoologia e la botanica. Forse fu lui a ispirare al giovane Alessandro la sua devozione poetica per Omero e l’insaziabile curiosità scientifica e geografica che ostentò nelle sue spedizioni di conquista.
IL FILOSOFO DI STAGIRA Aristotele fu precettore di Alessandro Magno tra il 343 e il 340 a.C.: copia romana da un busto originale greco del filosofo, IV secolo a.C., Museo Nazionale Romano, Roma.
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LA DEA DELLE PARTORIENTI La dea greca Artemide in un rilievo del V secolo a.C.: protettrice dei neonati, delle fanciulle vergini e delle partorienti, le era attribuito il potere di guarire le malattie femminili. Museo dell’Acropoli, Atene.
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LAVORI DOMESTICI Anfora per olio in terracotta risalente al VI secolo a.C.: la raffigurazione mostra donne alle prese con i lavori domestici e, in alto, un gruppo di giovani danzatrici. Metropolitan Museum, New York.
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LA CASA, I FIGLI, LE AMICHE
LA GIORNATA DI UNA DONNA ATENIESE Anche se trascorrevano buona parte del loro tempo in casa, occupandosi dei figli e dell’amministrazione domestica, le donne ateniesi non disdegnavano di uscire per incontrare le amiche o frequentare cerimonie religiose e teatri RAQUEL LÓPEZ MELERO DOCENTE DELL’UNIVERSITÀ NAZIONALE A DISTANZA DI MADRID
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vent’anni, per una donna ateniese del V secolo a.C. iniziava la terza e ultima stagione dell’esistenza. A quell’epoca, infatti, l’aspettativa di vita femminile era piuttosto bassa, di poco superiore ai trent’anni: questo soprattutto a causa della maternità, che provocava la morte di una partoriente su quattro. Proviamo ora a immaginare la giornata di una di queste donne, Eudossia, nata ad Atene da una famiglia benestante. A quattordici anni si era sposata con l’erede di una tenuta (oikos) di medie dimensioni, di circa quindici anni più anziano di lei. Dapprima il suo ruolo nella casa del marito era stato marginale. Tuttavia, con la maternità, molte cose erano cambiate. Ora che è madre di due figli, si comporta da padrona di casa e signora. D’altronde ha portato in dote un patrimonio considerevole, che è diventato ancora più importante dopo che la famiglia del marito si è dissanguata per costituire la dote matrimoniale della figlia minore.
Durante l’infanzia, nella sua casa natale, Eudossa ha imparato a svolgere i lavori domestici e ricevuto una serie di insegnamenti atti a metterla nella condizione di ricoprire con dignità il suo ruolo di moglie di un cittadino facoltoso. Così ora sa leggere e scrivere con discreta scioltezza, sa tessere, filare e cucire la lana, è in grado di occuparsi personalmente dell’educazione dei suoi due figli, sia pure con l’aiuto di alcuni schiavi istruiti. È facile ipotizzare che Eudossia si senta una donna serena e rispettata, perché si fa carico dei suoi doveri di moglie e madre mentre il marito si addestra per la guerra e, se necessario, va a combattere. A lui tocca il compito di servire la comunità con le armi; lei, invece, deve dare alla luce e crescere i figli che un giorno garantiranno la sopravvivenza della città. 82 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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I doveri di una moglie
I LUOGHI DEL POTERE ATENIESE L’Acropoli, cuore politico di Atene: nella città attica le donne, pur escluse dalla vita pubblica, avevano la responsabilità di amministrare i beni di famiglia e tutte le attività legate alla conduzione della casa.
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RIUNIONE PRENUZIALE Un gruppo di donne celebra i riti prenuziali in casa della sposa: decorazione da un epinetron (supporto per la filatura della lana) attribuito al Pittore di Eretria, V secolo a.C., Atene.
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UNA SCENA FREQUENTE NELLE STELI FUNERARIE DEDICATE ALLE MADRI DEFUNTE: UNA GIOVANE DONNA OSSERVA DAL MONDO DEI MORTI IL SUO BAMBINO, CHE SI PROTENDE DALLE BRACCIA DI UNA SCHIAVA TENTANDO DI RAGGIUNGERLA.
ORFANI ALLA NASCITA: LE MORTI PER PARTO
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E MORTI PER PARTO erano frequenti nell’antica Grecia, e molti bambini restavano orfani della madre quando ancora erano in fasce. Le ansie generate dai pericoli della gravidanza si riflettono in opere teatrali come la Medea di Euripide, nella quale si afferma: “Preferisco tre volte stare a piede fermo con uno scudo che partorire una sola volta”. Sono state rinvenute anche molte steli funerarie attiche che testimoniano la frequenza di queste tragedie familiari. In tali lastre funebri di pietra o marmo, in genere è raffigurato il fantasma della madre che osserva malinconicamente il figlio, o l’immagine della partoriente esausta. Per rassicurare se stesse circa il buon esito della gravidanza, le Ateniesi ricorrevano a speciali amuleti e invocavano la protezione delle divinità legate alla maternità: Ilizia, dea delle nascite, Era, dea del matrimonio, e Artemide, protettrice delle partorienti. STELE FUNERARIA IN MARMO DEL 380 A.C. CIRCA: LE PRIME LASTRE SEPOLCRALI A RILIEVO COMPARVERO IN GRECIA GIÀ IN EPOCA MICENEA. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, ATENE.
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La tradizione ateniese, del resto, vuole che i ruoli di marito e moglie siano ben distinti: l’uomo partecipa alla vita politica e alla gestione dello Stato in ogni suo aspetto, mentre alla donna è assegnata la responsabilità di amministrare la casa e il patrimonio familiare.
La casa si risveglia In un giorno qualunque dell’anno, Eudossia si sveglia dunque alle prime luci dell’alba. Mentre allatta l’ultimogenito, può sentire dalla camera da letto, situata al piano alto della casa, il rumore degli schiavi che iniziano le loro attività e il marito che si prepara per uscire. La figlia maggiore, di quattro anni, è già in piedi; per quanto svezzata, non ha ancora rinunciato al latte, che però le viene dato dalla balia. Quando ha finito di allattare, Eudossia si ripulisce il viso dalla maschera a base di oli e creme naturali che si è applicata la sera prima
che invece dovrà essere acquistato. La casa si trova alla periferia della città, e il servo deve percorrere un lungo cammino a piedi per raggiungere il mercato; non può andarci tutti i giorni. L’ideale è che porti con sé l’asino e svolga più commissioni insieme, in modo da rimanere poi libero per altre faccende.
La stanza dei telai Eudossia si reca quindi nella stanza dei telai. Lì si aggira la sua bambina, incuriosita dalle attività a cui non è ancora ammessa. La suocera, vedova da tempo, si intrattiene filando, poiché ormai non ha più la vista per tessere. Sta raccontando alla nipote del suo più grande orgoglio: essere stata una delle arrefore, le due bimbe tra i sette e gli undici anni scelte ogni anno per tessere il magnifico peplo che la città offre alla dea Atena in una solenne cerimonia estiva.
UN SERPENTE PER BRACCIALE Quando uscivano di casa, le donne greche amavano agghindarsi con ciondoli e gioielli preziosi, come questo bracciale d’oro a forma di serpente della prima metà del IV secolo a.C.
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e si raccoglie i capelli in una specie di chignon. Poi indossa un peplo di lana, un comodo telo rettangolare da avvolgere intorno al corpo e fissare sulle spalle con due fibule. Dopo aver preso le chiavi della dispensa scende al piano inferiore, dove si trovano la cucina e il grande cortile centrale da cui si accede alle varie dépendance della casa. Lì la attendono due schiave pronte a obbedire a ogni suo ordine. Eudossia chiede a una di attingere l’acqua dal pozzo per lavare i vestiti, mentre si dirige con l’altra verso la dispensa per preparare la colazione, costituita da pane d’orzo imbevuto di vino e latte di capra. Ora è il momento di rivedere i conti e il registro delle scorte. Eudossia tira fuori una tavoletta cerata da una cassapanca. Prende nota del miele e dei fichi raccolti in campagna, prodotti che uno degli schiavi venderà al mercato dell’Agorà di Atene. E pensa a ciò
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INCOMBENZE FEMMINILI Nell’antica Grecia il cucito era una tipica mansione femminile, anche se nelle famiglie benestanti la padrona di casa si limitava a controllare il lavoro compiuto dalle schiave. Illustrazione dalla rivista Penrose’s Annual, 1923.
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Questa storia, ripetuta un’infinità di volte con dovizia di particolari, suscita sempre tra le donne presenti un bisbiglio di ammirazione. Essere scelta dalle autorità cittadine come arrefora è l’onore più grande che una bambina ateniese possa immaginare.
L’offerta alla dea del focolare Esaminato il lavoro delle tessitrici, Eudossia prende per mano la figlia e si reca con lei a compiere il primo e più importante tra i riti quotidiani. Raggiunto il piccolo altare casalingo consacrato alla dea Estia, lo cosparge con semi di grano in segno di devozione: spera così di assicurarsi la benevolenza della dea del focolare, che con la sua protezione potrà garantire il benessere domestico e la salute della famiglia. La bambina osserva in silenzio ciò che un giorno dovrà fare lei stessa, poi attraversa di corsa il cortile per recuperare la sua bambola.
È giunta l’ora che Eudossia si prepari a uscire: una delle schiave ha riempito d’acqua una tinozza e l’aiuta a lavarsi, usando come sapone la pietra pomice sfregata contro la pelle precedentemente massaggiata d’olio. Poi inizia la fase della pettinatura e del trucco, operazioni compiute anch’esse con l’aiuto di una schiava. Per migliorare il suo aspetto, Eudossia può scegliere tra un’infinità di cosmetici: unguenti oleosi per ammorbidire la pelle, essenze naturali per profumarsi, un fondotinta, il “bianco di piombo” (o biacca), per schiarire il proprio incarnato secondo i dettami dalla moda. Come fard può usare una pasta di gelso da fissare alla pelle tramite “polvere di cinabro”, mentre per scurirsi le sopracciglia ha a disposizione antimonio nero e polvere di carbone. Una volta perfezionato il suo make-up, Eudossia sostituisce il semplice peplo casalingo con una tunica molto più elegante e appariscente.
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1 Flautista
Con i capelli raccolti, scandisce il ritmo con il doppio flauto o aulós.
2 Dioniso
Maschera del dio del vino posta su un palo rivestito con una tunica.
3 Tralci di vite
Qui erano appese le offerte. La vite è l’emblema di Dioniso.
LA MISTICA FOLLIA DELLE MENADI
Immagine di un piccolo tempio con frontone decorato.
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Appaiono vestite con tuniche leggere e spettinate.
LE ADORATRICI DI DIONISO Un gruppo di menadi celebra Dioniso in una kylix (coppa da vino) attica a figure rosse rinvenuta a Vulci, città etrusca a nord di Roma. V secolo a.C., Staatliche Museen, Berlino.
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SUONATRICE DI FLAUTO Solo raramente, e solo se ricche di famiglia, le Ateniesi ricevevano un’educazione letteraria e musicale. Fanciulla che suona il flauto, rilievo dal Trono Ludovisi, V secolo a.C., Roma. ALBUM
URANTE LA CELEBRAZIONE delle Lenee, la festa in onore del dio Dioniso, pudiche mogli e rispettabili madri di ogni età si trasformavano in menadi, donne in preda a una follia sacra ispirata dalla divinità. Nella mitologia greca, le Menadi (o Baccanti) erano creature semiselvatiche che formavamo il corteo trionfale del dio del vino Dioniso: vestite di sole pelli di animali, inneggiavano alla potenza liberatrice del loro signore cantando e danzando sfrenatamente attorno al suo carro, in una sorta di irrefrenabile delirio mistico. Di qui il carattere orgiastico delle Lenee, feste religiose durante le quali le seguaci di Dioniso celebravano nell’ebbrezza la rinascita del dio dopo essere stato fatto a pezzi e divorato dai Titani.
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CONFRONTO TRA POETI Le due voci liriche più originali della Grecia arcaica, Saffo e Alceo, in una ceramica a figure rosse: le poesie amorose di Saffo riflettono la sensibilità di un universo aristocratico femminile. V secolo a.C., Monaco.
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Anch’essa è formata da un unico drappo rettangolare, ma la stoffa non è lana bensì un lino vaporoso e sgargiante. Chiuso da una cucitura laterale, l’abito lascia scoperte le braccia e parte del petto; una cintura in vita lo stringe creando morbidi drappeggi sui fianchi.
Pomeriggio con le amiche La schiava porge alla sua padrona il portagioie, ed Eudossia vi prende due bracciali lavorati a spirale. Esita qualche istante sugli orecchini, ma poi opta per due grandi cerchi con pendenti. Indossa quindi una collana di pietre preziose e orna la sua pettinatura con nastri e diademi. Infine si osserva per qualche istante nel piccolo specchio metallico retto dalla schiava; l’immagine riflessa la soddisfa pienamente, ora si sente davvero pronta per uscire. Si infila un paio di sandali e scende di corsa le scale: il sole già alto le indica che ha fatto tardi.
Sempre in compagnia di una schiava, Eudossia percorre a passi svelti il tratto di strada che la separa da una delle case vicine. Lì si sono riunite altre quattro aristocratiche signore ateniesi con le quali si è accordata per pranzare e trascorrere un pomeriggio di svago. Le donne si accomodano sui triclini, dinnanzi ai quali la servitù ha allineato piccoli vassoi di ceramica con stuzzichini a base di olive, fichi, formaggio e pesce essiccato. Le donne si complimentano a vicenda per l’abbigliamento e si informano sui rispettivi mariti. Quando una di loro annuncia di essere incinta, le amiche l’abbracciano e le augurano un parto sereno. Un’altra, vedova di guerra, racconta dell’uomo che l’ha avvicinata il giorno prima mentre visitava la tomba del marito. Eudossia parla dei suoi piccoli, la quarta amica sta organizzando le nozze della figlia e chiede consiglio su alcuni dettagli della cerimonia. A metà pomeriggio la padrona di casa prende la lira e recita alcuni versi di Saffo accompagnandosi con la musica. Prima del tramonto, Eudossia si congeda dalle amiche e torna a casa, sempre scortata dalla schiava. Ha trascorso un pomeriggio piacevole e ora è ben disposta a condividere il talamo con il marito, sotto il segno di Eros.
Libertà limitata Il luogo comune secondo cui le Ateniesi vivevano sottomesse al marito e perennemente rinchiuse tra le mura domestiche non corrisponde del tutto alla realtà. Di certo donne come Eudossia, di famiglia agiata e con uno o più figli, avevano come primo dovere quello di occuparsi del focolare domestico ed erano escluse da eventi maschili come i banchetti. Tuttavia, per altri aspetti, godevano di una certa indipendenza. Amministravano la casa e spendevano il denaro di famiglia con relativa libertà. Inoltre, anche se la loro vita trascorreva per buona parte nel gineceo, potevano uscire di casa (ma solo se accompagnate da schiavi) e partecipare a cerimonie religiose, riti funebri, preparativi matrimoniali, spettacoli teatrali. Volendo, potevano anche divorziare, ma da questo punto di vista la legge le discriminava parecchio rispetto agli uomini: infatti, mentre i primi potevano ripudiare la moglie senza alcuna limitazione, alle seconde era permesso lasciare il marito solo per gravi motivi.
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RELAX A BORDO VASCA Tre giovani donne si rilassano nutrendo i pesci di una grande vasca. Olio su tela di Lawrence Alma-Tadema, 1903, Manchester Art Gallery.
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RITRATTO FEMMINILE Il volto truccato di una giovane donna in un ritratto funebre proveniente dall’oasi egiziana di El Fayyum. Encausto su legno. II secolo d.C. Louvre, Parigi.
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COPERCHIO DECORATO Nella pagina a fianco il coperchio di una scatola per specchio in bronzo; su di esso sono raffigurate due donne greche intente alla cura del proprio corpo. Louvre, Parigi.
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I SEGRETI DI BELLEZZA
IL MAQUILLAGE IN GRECIA Oli profumati per il corpo, biacca per una carnagione lattea e carbone per il contorno occhi: essere bella faceva parte dei compiti di una donna greca. Ma erano molte le sostanze tossiche di cui non si conoscevano i pericoli RAQUEL LÓPEZ MELERO UNIVERSITÀ NAZIONALE DI EDUCAZIONE A DISTANZA
LE ARMI DELLE DONNE PER LA PACE
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NA DELLE COMMEDIE di Aristofane ha come protagonista Lisistrata, una giovane ateniese che, nel corso della Guerra del Peloponneso, si rivolge a un uditorio solo femminile affermando che le donne, se si accordano, possono salvare l’intera Grecia. Dopo averla ascoltata, una delle presenti esprime un dubbio: “Che cosa mai potrebbero fare di saggio e importante le donne? Ce ne stiamo sempre tutte truccate e agghindate, avvolte in vesti color zafferano, a pensar solo alle nostre lunghe tuniche e alle nostre scarpine”. Lisistrata le risponde: “Ma son proprio queste le cose da cui mi aspetto la salvezza: abiti color zafferano, profumi, scarpine, rossetto e vesti trasparenti”. Il suo piano prevedeva infatti che tutte le donne avrebbero dovuto astenersi dall’avere rapporti sessuali con i mariti fin quando questi non avessero firmato la pace.
UNA DONNA SI GUARDA ALLO SPECCHIO MENTRE UNA SCHIAVA APRE UN PORTAGIOIE. IV SECOLO A.C. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
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TEMPIETTO ORNAMENTALE In questo raffinato oggetto di oreficeria è raffigurato Dioniso ebbro con un satiro. Oro con granati e smeraldi. II secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale, Atene.
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e donne sposate nell’antica Grecia erano solite curare il proprio aspetto con estrema attenzione. Indossavano abiti molto colorati, che lasciavano intuire le forme del corpo; ornavano i lunghi capelli con nastri e diademi; si ingioiellavano, si profumavano e, soprattutto, si truccavano. Il loro obiettivo fondamentale era risultare attraenti agli occhi dei mariti, ma ci tenevano molto anche a distinguersi dal personale femminile di servizio, per sottolineare la loro funzione di padrone e amministratrici della casa. Il primo passo per curare la propria immagine era mantenere una pelle pulita, idratata e profumata. Per il viso, utilizzavano una maschera da notte, che si toglievano il mattino seguente con il latte. Sul resto del corpo prati-
cavano una sorta di peeling esfoliante, prima cospargendolo di olio d’oliva (usato anche dagli uomini nelle palestre), poi passandovi sopra la pietra pomice o la cosiddetta “soda naturale” (carbonato di sodio). Questo tipo di trattamento agiva anche in sostituzione del sapone, che fu introdotto successivamente, poiché la miscela formata dall’acido oleico e dal composto di sodio, cosparsa sulla superficie calda del corpo, produceva un effetto di saponificazione.
Trattamenti per il corpo Dopo i vari trattamenti, le donne si lavavano con acqua pura o mescolata con oli aromatici. L’olio d’oliva era l’ingrediente principale nella preparazione di unguenti da applicare sul corpo; si usavano anche altri oli, più ricercati, come base per la preparazione di profumi. Gli aromi aggiunti erano di solito quelli già in
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uso presso gli Egizi, come cedro, mirra, pino e giglio, ma se ne introdussero anche di nuovi, come lo zafferano, la mela cotogna, il cisto e la viola. Il più apprezzato era l’olio di rosa, originario del Lontano Oriente ma noto ai Greci, come attesta l’Iliade, in cui si legge che la dea Afrodite unge il corpo del defunto Ettore “con olio profumato di rose” (XXIII, 186). Nell’arte e nella letteratura dell’antica Grecia, le donne sono rappresentate o descritte con la carnagione chiara, mentre gli uomini hanno una pelle color rosso scuro. Questo diverso ideale di bellezza maschile e femminile era legato ai differenti ruoli assegnati ai due sessi per il buon funzionamento della polis. Il maschio svolgeva i suoi compiti all’aria aperta, come coltivatore o cittadino-soldato; il contributo, non meno importante, della donna era invece quello della maternità, della produzione tessile e della preparazione del cibo,
oltre che, in generale, dell’amministrazione dell’oikos, termine che significava sia “casa” sia “patrimonio familiare”. Questa rigida divisione dei compiti non implicava, tuttavia, che le donne non trascorressero mai del tempo fuori casa; una simile organizzazione rispondeva piuttosto al bisogno di attribuire spazi e funzioni sociali a ciascuno dei due sessi, in un tipo di società nella quale tanto l’uomo quanto la donna erano strettamente legati al gruppo familiare e a una comunità civile che costituiva un insieme solidale di unità familiari.
LA NASCITA DI AFRODITE Sul bassorilievo che orna il cosiddetto Trono Ludovisi, è ritratta una donna, forse Afrodite, con un chitone, un vestito di origine orientale generalmente in lino, sorretta da due figure femminili. V secolo a.C. Museo Nazionale Romano, Roma.
L’ideale della carnagione bianca Nell’antica Grecia, il colore bianco trasformava per convenzione la donna in qualcosa di bello, in un oggetto del desiderio. Nelle tragedie greche, tale concetto trova conferma nella frequente attribuzione di candore alle STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA TOILETTE QUOTIDIANA DELLE DONNE
1. Il bagno In questa scena raffigurata su una pelìke (vaso con imboccatura larga) attica del V secolo a.C. due donne si lavano presso un lavacro pubblico; una ha in mano uno strigile: probabilmente ha appena strofinato la pelle con sabbia e olio per tonificare il corpo, dopo aver fatto ginnastica, o per ottenere un effetto esfoliante (peeling).
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STATUA DI KORE La donna raffigurata nella scultura arcaica di stile ionico indossa grandi orecchini e sfoggia una complessa acconciatura. 550480 a.C. Museo dell’Acropoli, Atene.
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parti nude di un corpo femminile per il resto vestito. A parlare di bianchezza sono di solito i servitori, quando esaltano la bellezza della loro signora o di una nubile. Il fascino dell’eroina tragica rafforza la carica patetica del suo destino, e il candore della sua carnagione serve a indicarne la purezza. L’uso dell’epiteto omerico leukólenos (“dalle bianche braccia”) è spesso associato al ruolo di sposa e madre, e, in qualche caso, serve ad attribuire una connotazione positiva al personaggio, per esempio a donne che siano ammirate e rispettate per la loro virtù e onestà. Il bianco conferisce una qualità di cui deve disporre la donna per attrarre un uomo e quindi svolgere la sua funzione riproduttiva. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che la maternità nel mondo greco non aveva rilevanza solo a livello familiare, ma era considerata fondamentale per il mantenimento
2. Igiene quotidiana Sulla coppa attica del 480 a.C. una donna è raffigurata nell’atto di strofinarsi una gamba o di applicarvi un unguento profumato, dopo averla lavata nel recipiente che si vede in primo piano. L’altra figura femminile sembra invece aver appena terminato di indossare una veste.
della comunità: era un compito importante tanto quanto quello della difesa della polis. Del corpo femminile, i medici greci avevano scarse conoscenze, ragion per cui svilupparono le teorie più disparate sul suo funzionamento, in accordo, generalmente, con il ruolo che le donne erano chiamate a svolgere all’interno delle comunità. La diversità del colore della carnagione tra uomini e donne fu attribuito, quindi, non al diverso tipo di vita da loro condotto, ma a una differenza naturale tra i due sessi; più chiara era la carnagione della donna, più essa sarebbe stata femminile e quindi, in ultima analisi, feconda. Convinte che il candore della pelle fosse l’espressione naturale della femminilità, le donne si sentirono indotte a correggere il loro aspetto per adattarlo a quell’ideale. Di conseguenza, come provano testimonianze letterarie e archeologiche, nella Grecia clas-
ART ARCHIVE
SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DI NAPOLI E POMPEI
GRECHE: LAVARSI, ORNARSI, MOSTRARSI
3. Come una dea della bellezza Una promessa sposa, raffigurata come la dea Afrodite su un vaso funerario apulo databile al IV secolo a.C., indossa ricchi gioielli e un’elegante veste, mentre si osserva in uno specchio. Le donne greche erano solite prendere a modello la dea della bellezza per esaltare le proprie capacità seduttive.
sica sul viso veniva applicato il “bianco di piombo” (o biacca), un carbonato di piombo molto comune. L’impiego prolungato di questo prodotto risultava in realtà dannoso, dal momento che distruggeva la struttura stessa dell’epidermide. Poteva addirittura provocare la morte, se per caso fosse stato ingerito. Tuttavia, il suo effetto molto coprente e la sua notevole resistenza all’acqua trasformarono il bianco di piombo nel maquillage più diffuso.
Labbra, occhi e capelli Un altro prodotto fortemente tossico, il solfuro di mercurio, chiamato “polvere di cinabro”, veniva utilizzato per far durare più a lungo il composto con cui le donne tingevano di rosso le labbra e le guance. Il volto reso bianco dalla biacca acquisiva dunque colore grazie all’uso del rosso, ma anche grazie al trucco applicato sugli occhi.
4. Due dame alla moda In questa scena dipinta su un vaso funerario apulo del IV secolo a.C., una fanciulla è raffigurata con un parasole, accanto a un’ancella che ha in mano un ventaglio. La scena testimonia quali fossero l’abbigliamento e le acconciature femminili nelle ricche colonie greche dell’Italia meridionale.
Proprio come in Egitto, gli occhi erano la parte del viso che si metteva più in risalto. I bordi delle palpebre erano evidenziati con una linea nera, tratteggiata con carbone o altri prodotti analoghi, che veniva allungata lateralmente per far sembrare gli occhi più grandi. Si applicavano inoltre vari pigmenti, come dimostrano alcuni reperti archeologici: rosso sulla palpebra superiore, verde tutt’intorno, fino all’osso orbitale e sotto la palpebra inferiore. Le sopracciglia erano scurite con antimonio nero e polvere di carbone ed era frequente allungarle fin quasi a farle congiungere l’una con l’altra: tale caratteristica era infatti sinonimo di carattere, e la debolezza era un elemento negativo tanto negli uomini quanto nelle donne. A questi cosmetici si aggiungeva poi la tintura per capelli, che serviva a rendere il loro aspetto più luminoso e brillante. Truccarsi era dunque una pratica molto fre-
REPERTI: 1. PELÌKE ATTICA. VASO A FIGURE ROSSE CON DUE
DONNE RAFFIGURATE NELL’ATTO DI DETERGERSI. V SECOLO A.C.
KUNSTHISTORISCHES MUSEUM, VIENNA. 2. KYLIX ATTICA.
COPPA DA VINO DEL V SECOLO A.C. CON DUE GIOVANI
INTENTE ALLA TOILETTE QUOTIDIANA. DA VULCI.
ANTIKENSAMMLUNG, BERLINO.
3. LÈBES GAMIKÒS.
VASO RITUALE DA MATRIMONIO CON UNA DONNA CHE SI GUARDA ALLO SPECCHIO. IV SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO DI SIRACUSA. 4. VASO
FUNERARIO. DALLA MAGNA
GRECIA. IV SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO, NAPOLI.
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ALCUNI AUTORI GRECI BIASIMARONO LA CIVETTERIA DELLE DONNE
quente, ma non mancano nelle fonti letterarie greche atteggiamenti censori nei confronti delle donne che modificavano il proprio aspetto naturale per risultare più attraenti.
L’Economico di Senofonte offre un esempio di questo tipo di critica alla vanità femminile. Si tratta di un dialogo composto intorno alla metà del IV secolo a.C., nel quale il possidente Iscomaco racconta a Socrate di aver visto un giorno la propria moglie “che si era spalmata con molta biacca, per sembrare più bianca di quanto non fosse, e di molto belletto, per sembrare più rosea della realtà, e con indosso scarpe alte per sembrare più alta del naturale”. Il marito decide allora di spiegare alla moglie che è necessario che nel rapporto tra gli sposi non vi sia alcuna falsità: “Gli esseri umani ritengono che la cosa più piacevole sia il corpo umano senza il trucco”. Questo brano dimostra come anche nell’antica Grecia potesse sorgere un conflitto tra l’estetica e l’etica, conflitto che si poteva risolvere mettendo da parte la bellezza per privilegiare la salute e la virtù della donna. Un uomo onesto non doveva farsi sedurre dall’inganno, ma trovare bello e attraente il corpo sano e naturale della donna che svolgeva il suo ruolo di madre e custode del focolare. Esistono anche epitaffi nei quali alcuni mariti ateniesi celebrano la scarsa attenzione che le loro mogli dedicarono in vita alla cura personale: la civetteria risultava, in tal modo, distinta dalla sophrosyne, il buon senso che doveva caratterizzare la donna. Quasi cinquecento anni più tardi, Plutarco riprenderà la critica nelle sue Quaestiones convivales, nelle quali dichiarerà di non aver nulla da eccepire sui bagni, gli unguenti e le acconciature dei capelli, ma giudicherà il trucco e i profumi, così come l’oro e la porpora, una inutile esagerazione. 96 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’eccesso di trucco
RITRATTO DI DUE GIOVANI DONNE Nel dipinto Il poeta favorito, Lawrence Alma-Tadema raffigurò due fanciulle dei tempi antichi truccate e vestite elegantemente. 1888. Liverpool, Lady Lever Art Gallery.
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LA NAVE DI DIONISO Il dio viaggia su una imbarcazione tra i marinai mutati in delfini. Interno di una kylix (coppa per il vino) dipinta dal pittore Exekias. VI sec. a.C. Staatliche Antikensammlungen, Monaco.
IL COMMERCIO MARITTIMO AD ATENE Nel V secolo a.C. l’economia di Atene dipendeva dalle importazioni di grano e legname, che avvenivano quasi solo via mare: ciò fece sviluppare la navigazione in una polis che inizialmente non aveva affatto questa vocazione FRANCISCO JAVIER MURCIA FILOLOGO
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l commercio era un’attività vitale per la sopravvivenza delle città greche, che non poterono mai realizzare la loro aspirazione all’autarchia, cioè alla piena autosufficienza. Poiché gli aspri rilievi rendevano difficili le comunicazioni via terra, i grandi scambi commerciali si realizzavano via mare. La polis che avesse dominato i mari si sarebbe dunque assicurata l’egemonia.
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Nei tempi antichi i nobili ateniesi si imbarcavano sulle loro navi per vendere al di fuori dei confini cittadini le eccedenze della propria produzione agraria, ma nel V secolo a.C. erano aumentati i pregiudizi verso ogni attività economica diversa dall’agricoltura. Dato che il possesso di terre costituiva un privilegio dei cittadini più abbienti, il dedicarsi alla coltivazione dei campi era considerato un indicatore di buona condizione sociale. Sebbene il commercio marittimo fosse passato sotto il controllo dei meteci, cioè degli stranieri residenti in città, erano ancora molti i cittadini dediti a tale attività. Sembra che questi fossero esonerati da alcuni oneri come la partecipazione a spedizioni militari, poiché esercitavano un mestiere vitale per Atene; ma ciò sarebbe stato anche motivo di disprezzo, come testimonia il fatto che alcuni personaggi delle commedie di Aristofane ripetono spesso l’espressione “Dichiaro che sono un commerciante” quando intendono sfuggire ai loro obblighi.
Commerciare grazie ai prestiti TETRADRACMA ATENIESE Rovescio di un tetradracma ateniese che ritrae una civetta, animale sacro ad Atena, la protettrice di Atene. Questo tipo di moneta fu il più diffuso nel mondo greco di età classica. 100 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
In generale, i commercianti (emporoi) erano di condizione modesta e molte volte dovevano chiedere un prestito per comprare il proprio carico di merci. Alcuni erano padroni delle imbarcazioni, ma la maggioranza pagava per essere trasportato insieme alle proprie merci sulla nave di un armatore (naukleros). Tali associazioni tra armatore e commerciante valevano solo per il viaggio di andata e ritorno; non si può dunque parlare di una classe mercantile che controllasse il commercio.
Nei contratti si fissavano la rotta e i tempi di navigazione. L’armatore poteva essere il capitano della barca o affidare tale ruolo a un pilota (kybernetes) che governava la nave con l’aiuto di un ufficiale di prua (proreus). Era un costume frequente che, dopo anni passati tra i pericoli per mare, un mercante si ritirasse con i propri guadagni e si limitasse a investire il capitale in imprese altrui. Nel IV secolo a.C. si sviluppò un complesso diritto commerciale e queste forme di prestito si diffusero. Avevano come garanzia il carico o l’imbarcazione stessa; il capitale e l’interesse (tra il 12% e il 30%) si restituivano alla fine del viaggio dopo aver concluso la vendita. In caso di naufragio, il creditore perdeva tutti i suoi diritti e il debitore rimaneva libero dal debito; perciò si annoveravano molti naufragi fraudolenti con cui si tentava di truffare i creditori. I tribunali ateniesi trattavano le dispute che sorgevano in tali situazioni con un procedimento urgente (in non più di un mese) perché i commercianti potessero riprendere la loro attività.
A tutta vela Le imbarcazioni destinate al commercio erano sospinte da una grande vela quadrata spiegata sopra un albero fisso; quando non c’era vento, disponevano di uno “schifo” (dal longobardo skif) ossia di un natante a remi, che si poteva usare per rimorchiare la nave e serviva anche per le manovre di attracco o come scialuppa di salvataggio. Il pilota poteva governare la nave grazie ai timoni provvisori di poppa, due grandi remi situati su uno dei due fianchi della nave, azionati per mezzo di una barra.
WALTER ZERLA / AGE FOTOSTOCK
IL TEMPIO DI POSEIDONE A capo Sunio, a 60 metri di altezza sulle acque dell’Egeo e a circa 70 chilometri a sudest di Atene, si trova il tempio dedicato a Poseidone, il dio del mare e delle tempeste.
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PRISMA ARCHIVO
ATENE IMPOSE LA PROPRIA EGEMONIA MILITARE, COMMERCIALE E POLITICA SULL’EGEO
Il proreus scrutava l’orizzonte e nei suoi momenti liberi, come si legge in un passo dello storico Senofonte, controllava le varie strumentazioni della nave, “dal momento che quando la divinità scatena una tempesta, non è possibile trovare ciò di cui si ha necessità né disporre di ciò che non è a disposizione”. A causa delle forme rotondeggianti, le barche non erano veloci ma sopportavano le dure condizioni legate alla navigazione d’altura. Le fonti scritte si riferiscono a esse come holkades, “navi da carico”, o eikosoroi, “navi a 20 remi” – nome che si applicava in modo generico a tutte le imbarcazioni mercantili. Esisteva una grande varietà di modelli, legata alle specificità di ogni armatore e alla durata prevista della vita della nave. Nel 1965 si scoprì vicino a Kyreia, sulla costa di Cipro, il relitto di una nave mercantile del III secolo a.C., che trasportava più di 400 anfore. Secondo gli esperti, la barca fu utilizzata per 80 anni e fu trasmessa di padre in figlio per tre generazioni. Le condizioni di vita su una nave non erano piacevoli; vi era una piccola cabina e il passeggero era obbligato a dormire sul ponte, circondato dalle merci imbarcate all’ultimo momento. L’acqua e i viveri erano razionati perché non togliessero spazio al carico. Prima dell’epoca ellenistica la maggior parte delle imbarcazioni aveva una capacità modesta, intorno alle 100 tonnellate, sebbene alcune arrivassero a trasportarne 400. Durante tutto il V secolo a.C., Atene impose la sua egemonia militare e politica sul Mar Egeo. Nessuna polis poteva far uscire le proprie merci se non erano coinvolti gli interessi di Atene, “la signora dei mari”, che riuscì a sradicare la pirateria dall’Egeo, così che le navi mercantili poterono percorrere il mare senza altri rischi che le tempeste e i naufragi causati dall’imperizia del pilota o dal sovraccarico. 102 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
SCALA, FIRENZE
ALABASTRON. VI SEC. A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO, GIRONA (SPAGNA).
Nel corso della Guerra del Peloponneso, che vide lo scontro tra Ateniesi e Spartani, questi ultimi incoraggiarono le azioni dei pirati lungo le rotte commerciali di Atene; gli stessi Spartani, come afferma lo storico Tucidide, trattavano i commercianti ateniesi come nemici di guerra e li giustiziavano senza remore. Già nel IV secolo a.C., in assenza di un potere forte sul mare, la pirateria tornò a rappresentare una piaga nell’Egeo e il commercio diventò nuovamente un’attività pericolosa.
Il porto di Atene Atene poteva contare su un grande porto fortificato, il Pireo. Era un promontorio roccioso con tre rade: quelle di Zea e Munichia per le navi da guerra, e quella di Cantaro, in cui si concentrava l’attività commerciale e che, secondo Strabone, poteva accogliere 400 navi. Il Pireo divenne il maggior centro economi-
NAVI FOCESI A MARSIGLIA Sopra, navi provenienti dalla città greca di Focea, in Asia Minore, giungono nel porto di Marsiglia nel VI secolo a.C. I Focesi furono i primi a commerciare con il Mediterraneo occidentale.
ROTTE SICURE
holkades (plurale di holkas), imbarcazioni dallo scafo rotondeggiante con cui si realizzava la maggior parte del trasporto delle merci. I Greci preferivano la navigazione di cabotaggio, lungo la costa, rispetto a quella d’altura, in mare aperto, molto più rischiosa in caso di tempesta. A ogni modo, gli scambi commerciali erano concentrati nei mesi dell’anno caratterizzati da miglior tempo, da maggio a settembre. REMATORI SU UNO STAMNOS, VASO PER LIQUIDI. V SECOLO A.C. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
ERICH LESSING / ALBUM
LE GRANDI NAVI da carico erano le
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ATENE SI APRE AL MARE bio Danu
IN MENO DI UN SECOLO ATENE PRIMEGGIÒ SUL PIANO Mar Nero COMMERCIALE E MILITARE
N
Golfo Saronico
EL VI SECOLO A.C. Atene IMPERO
GRECIA
Mar Egeo PERSIANO
Efeso
Il Pireo CARTOGRAFIA: EOSGIS
SALAMINA Mar Mediterraneo
lometri di lunghezza; in questo modo, come risultò evidente durante la Guerra del Peloponneso, la città aveva il rifornimento garantito in caso di un attacco nemico e poteva resistere a un lungo assedio. Un altro collegamento tra il porto del Falero e Atene, costruito pochi anni dopo, completò il sistema difensivo della città, che durante il V secolo a.C. raggiunse l’egemonia marittima sull’Egeo.
Falero
Mura costruite tra il 450 e il 440 a.C.
Lunghe Mura, erette tra il 460 e il 445 a.C.
ERICH LESSING / ALBUM
era una città fondamentalmente agricola, priva di una flotta degna di questo nome e con un piccolo porto, il Falero, esposto alle tempeste e agli attacchi nemici. Il generale e politico Temistocle si propose di risolvere questa situazione e dal 493 a.C., prima della grande invasione persiana della Grecia, diede impulso a un nuovo centro portuario nel Pireo, un promontorio roccioso che disponeva già di tre porti naturali molto più protetti. La fortificazione del Pireo fu terminata dopo la guerra, mentre contemporaneamente sorgeva una città portuaria di nuova costruzione disegnata dall’architetto Ippodamo da Mileto. Alcuni anni dopo, Pericle collegò il Pireo con Atene mediante le cosiddette Lunghe Mura, di sei chi-
GALERA GRECA SU UN VASO A FIGURE NERE DEL VI SECOLO A.C. LOUVRE, PARIGI.
SEZIONE DI UNA RIMESSA DEL PIREO, CON UNA IMBARCAZIONE AL SUO INTERNO.
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Atene
XXXXXXXXF
Megara Salamina
Baia di Eleusi
Psittaleia
Area in cui ebbe luogo la decisiva battaglia navale di Salamina contro i Persiani, nel 480 a.C.
Porto di Cantaro
Mura di Temistocle
Mura di Atene, ricostruite da Temistocle nel 478-477 a.C.
Via
is) Eleus o s r e a (v Sacr Città disegnata da Ippodamo di Mileto PANORAMICA DEL PIREO VERSO IL 430 A.C.
Porto di Zea
Arsenale di Filone
Porto di Munichia
ILLUSTRAZIONI: PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM
Vista ingrandita
IL PIREO: PORTO COMMERCIALE E BASE MILITARE DI ATENE adibirono a porti costruendo ampi ingressi. Il porto più grande, quello di Cantaro, concentrò la maggior parte dell’attività commerciale, mentre quelli di Zea e Munichia accoglievano le navi della flotta. In ognuno di questi gli archeologi hanno trovato i resti di rimesse (in greco, neosoikoi) utilizzate per tenere al coperto le navi durante l’inverno. Per Platone, fu Temistocle che diede inizio alla loro costruzione. Nei tre porti esistevano circa 400 capanni come quelli dell’immagine a destra.
ILLUSTRAZIONI: PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM
IL PIREO DISPONEVA DI TRE INSENATURE, che gli Ateniesi
NEOSOIKOI, RIMESSE DEL PIREO IN CUI LE NAVI ERANO TENUTE AL COPERTO DURANTE L’INVERNO.
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AKG / ALBUM
LA FLOTTA DI TEMISTOCLE marinai”, afferma Erodoto. Il generale ateniese ordinò di costruire una flotta di 200 navi per lottare contro i Persiani durante la Seconda guerra persiana, e così facendo non solo garantì l’indipendenza della Grecia grazie alla vittoria navale di Salamina, nel 480 a.C., ma preparò il terreno per la trasformazione di Atene nella maggior potenza commerciale dell’Egeo. NAVE DA GUERRA GRECA, INCISA SU UN SIGILLO. V SECOLO A.C. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
co dell’Egeo; vi si recavano i commercianti di ogni zona, attratti da un mercato in cui si poteva comprare e vendere di tutto. L’area commerciale del Pireo si chiamava Emporion e includeva cinque portici colonnati usati come magazzini; di questi uno era riservato alla vendita di grano e si chiamava alphitopolis (“Dove si vende la farina”). Qui, alcuni magistrati speciali, i sitophylakes o “controllori del grano”, erano incaricati di verificare che il grano fosse venduto al giusto prezzo. Nell’Emporion si commerciavano solo prodotti provenienti dal mare. Separando quest’area mercantile si facilitava alle autorità portuali il compito di ispezionare le navi e il loro carico, in quanto Atene applicava un’imposta del due per cento a tutte le merci che entravano o uscivano dal suo porto (si trattava, quindi, di una misura di riscossione e non protezionistica). Se durante i mesi invernali la navigazione 106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
EGMONT STRIGL / AGE FOTOSTOCK
TEMISTOCLE “salvò la Grecia quando obbligò gli Ateniesi a diventare
diminuiva, il porto ribolliva invece di febbrile attività per sei mesi all’anno, da aprile a settembre; in quel periodo, non meno di sei navi frumentarie attraccavano quotidianamente nel porto del Pireo per rifornire la città. Platone paragona efficacemente i commercianti a uccelli migratori, “che, volando sopra i mari, per commerciare e in cerca di guadagni, si recano in città straniere con il bel tempo”.
Taverne, bordelli e templi Dopo essere sbarcati e aver venduto le proprie merci, i commercianti riposavano in attesa di procurarsi un nuovo carico per rendere proficuo il viaggio di ritorno. Ippodamo da Mileto si era incaricato della struttura urbanistica della città portuale secondo un innovativo schema ortogonale, ma va detto che i commercianti trovavano le medesime strutture in tutti gli altri grandi porti dell’Egeo e qui vi
compivano i medesimi gesti. In primo luogo visitavano i banchi dei cambiavalute per poter disporre di moneta locale. Passavano poi a mettersi in ordine dai barbieri, i luoghi delle città antiche in cui la gente si riuniva e dove tutto si raccontava e si veniva a sapere. I commercianti, che dovevano il loro successo alla capacità di cogliere informazioni e di tessere buone relazioni, andavano immediatamente in questi ritrovi per aggiornarsi. Vi erano numerose taverne e bordelli di infima categoria dove le donne si mostravano nude sulla porta chiedendo per le loro prestazioni solo un obolo. Esisteva anche la prostituzione maschile; sappiamo infatti dal retore Eschine che un certo Timarco, cittadino ateniese, si stabilì nel Pireo in gioventù e che “mercanti e stranieri ebbero i suoi favori”. Esistevano anche numerosi ostelli che offrivano pessime condizioni di soggiorno. C’erano, certamente,
anche templi, dato che i naviganti, in quanto uomini esposti continuamente al rischio di morire, erano molto religiosi. Si conserva una stele del 333 a.C. con il decreto che permette ai commercianti di una città cipriota, Cizio, di edificare un tempio ad Afrodite nel Pireo: “Il popolo ha stabilito di concedere ai mercanti di Cizio l’autorizzazione per acquistare un terreno e costruirvi un santuario in onore di Afrodite”. Afrodite, la dea venerata a Cipro, probabilmente qui era adorata come “colei che concede una buona navigazione”. I templi, che funzionavano anche come depositi di denaro o documenti, testimoniano inoltre il rispetto e la protezione che Atene dispensava a una comunità straniera. Di Cizio era anche il celebre filosofo Zenone, fondatore della scuola stoica. Come altri suoi concittadini, si era inizialmente dedicato al commercio della porpora, ma fece naufragio
L’ANTICO PORTO DI MILETO Nel V secolo a.C., Atene prese il posto di Mileto, in Caria (nell’attuale Turchia), nel ruolo di maggiore centro mercantile del Mar Egeo. Nel 494 a.C., la città si ribellò al dominio persiano.
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ANDOCIDE, NOBILE E MERCANTE
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DEA / ALBUM
A VITA DI ANDOCIDE, un aristocratico ateniese, mutò improvvisamente nel 415 a.C., quando, alla vigilia della spedizione in Sicilia, fu accusato di aver compiuto un atto sacrilego, la “mutilazione delle erme”, cioè dei pilastri sormontati da una testa di Ermes . Evitò la pena capitale perché denunciò altre persone, ma fu privato dei suoi diritti ed esiliato. Si dedicò allora al commercio nell’Egeo su una barca di sua proprietà, approfittò dell’amicizia con il re di Macedonia per esportare legna e aiutò Atene in un momento di difficoltà, consegnando il suo carico di legname a prezzo di costo per agevolare il riarmo della flotta. Finita la Guerra del Peloponneso tornò ad Atene per riottenere i suoi diritti. Ricordò ai giudici i suoi anni da mercante: se era sopravvissuto, lo doveva agli dei che non gli avevano voltato le spalle, perché “quale maggior rischio c’è per i mortali che navigare in mare aperto in inverno?”.
HERMES E UNA SFINGE. OINOCHOE (VASO PER LIQUIDI). VI SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, ATENE.
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BUSTO DI ZENONE Un violento naufragio che lo privò del carico indusse Zenone di Cizio a lasciare il commercio per dedicarsi alla filosofia. Museo Archeologico, Venezia.
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mentre stava dirigendosi verso il Pireo. Molto afflitto, si stabilì presso la bottega di un libraio. Finirono così tra le sue mani i Memorabili di Senofonte, nei quali si parla di Socrate e, affascinato, chiese dove si potessero trovare uomini come lui; il libraio allora gli additò Cratete il Cinico, che passava di lì, e gli disse: “Segui quell’uomo”. Su tale combinazione, che lo condusse a divenire da commerciante un filosofo, Zenone chiosò: “Ho fatto un buon viaggio, facendo un naufragio”. Il commercio si sviluppava al margine di qualsiasi operazione ufficiale, salvo di quelle che si riferivano a importazioni essenziali per la sicurezza e la sussistenza di Atene. Si trattava del grano e dei materiali dell’esercito: legno, lino, pesce e l’ocra rossa con cui si dipingevano gli scafi delle navi. L’importazione di grano ricoprì un ruolo rilevante all’interno del commercio ateniese.
Nel V secolo a.C., l’incremento della popolazione portò con sé l’assoluta dipendenza dal grano che proveniva da luoghi distanti come Cipro, l’Egitto e, soprattutto, dalle regioni settentrionali del Mar Nero. Atene si assicurò il controllo della rotta verso il Mar Nero e l’Ellesponto o Stretto dei Dardanelli, che mette in comunicazione l’Egeo con il Mar Nero. Lì, per lo meno dal 426 a.C., operavano alcuni magistrati ateniesi, gli hellespontophylakes, “i guardiani dell’Ellesponto”, i quali vigilavano sui convogli di grano che facevano rotta verso Atene e che nei momenti di maggior pericolo erano protetti dalla flotta da guerra. Dopo la sconfitta nella Guerra del Peloponneso, Atene conservò il suo potere commerciale. Per l’approvvigionamento di grano si guadagnò per vie diplomatiche l’amicizia di Evagora, sovrano di Cipro, e dei re barbari del Bosforo Cimmerio, l’attuale Crimea. In uno dei suoi
LUCA DA ROS / FOTOTECA 9X12
discorsi, Demostene spiega: “Importiamo grano più di qualsiasi altro Paese del mondo. Ebbene, la quantità che ci arriva dagli altri mercati è simile a quella che il Mar Nero ci invia. Ciò è comprensibile: in quella regione il grano abbonda e il suo sovrano Leucone ha concesso una franchigia ai commercianti che lo esportino ad Atene, e, in più, le navi di Atene hanno l’autorizzazione di caricare per primi”.
La ricerca del profitto Da parte sua, la città di Atene dettò leggi severissime che proibivano a tali imbarcazioni di portare il grano in altro luogo che non fosse il Pireo. Si trattava di intercettare pratiche fraudolente di furbi commercianti che, dopo aver caricato il grano nel Mar Nero, si fermavano in altri porti in cerca di maggiori guadagni. Le fonti antiche ci offrono un’immagine piuttosto negativa dei commercianti per mare: sono
uomini arditi, così avidi di guadagno da essere disposti ad affrontare i pericoli del mare, tempeste, pirati e naufragi; sono subdoli e sleali nei loro affari, disposti perfino ad affondare la nave per sfuggire ai creditori od occultare le loro macchinazioni. Non c’è da stupirsi che i filosofi esprimessero i loro pregiudizi contro il commercio. Aristotele, nella sua Politica, afferma che i commercianti cercavano solo di ottenere un profitto contro natura; l’aristocratico Platone, che vedeva nel mare l’origine di ogni immoralità, collocò la sua città ideale nell’entroterra, perché, secondo quanto scrive nelle Leggi, “la vicinanza al mare rende la vita quotidiana gradevole, però, in fondo, salmastra e amara, poiché, nel diffondere la febbre del commercio e del guadagno e nel generare nelle anime costumi instabili e disonesti, allontana dalla città la fiducia e l’amicizia”.
L’ACROPOLI DI ATENE Lo stratego Pericle nel V secolo a.C. promosse sull’Acropoli la costruzione del Partenone e di una grande statua di Atena che le barche potevano scorgere quando entravano nel porto del Pireo.
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ARISTOCRATICHE CONVERSAZIONI Spettacolo teatrale nella residenza di Napoleone III di Francia (1808-1873): la scena mostra la conversazione di un gruppo di patrizi in una villa romana. Olio su tela di G. Boulanger, 1860, Versailles.
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GLI OBBLIGHI DI UN PATRIZIO ROMANO
I DOVERI DELLA RICCHEZZA Salutare i clienti al mattino, frequentare il Foro per discutere di affari o politica, recarsi alle terme per curare il proprio corpo: la giornata di un patrizio romano era scandita da attività ricorrenti che culminavano, la sera, in un grande banchetto ELENA CASTILLO DOCENTE DI ARCHEOLOGIA CLASSICA PRESSO L’UNIVERSITÀ COMPLUTENSE
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ell’antica Roma, gli appartenenti a famiglie nobili o benestanti dovevano assolvere ogni giorno a molti obblighi. Dall’alba fino a tarda notte, tutte le loro attività erano tese alla costruzione di una buona immagine sociale. Per questo dimostravano pubblicamente la loro generosità (liberalitas) e il loro valore (virtus), imprescindibili per conquistare le più alte cariche della magistratura. La giornata di un nobile romano iniziava molto presto, allo spuntare del giorno. Appena alzato, indossava la toga e si preparava alla salutatio matutina, una cerimonia durante la quale riceveva individualmente tutte le persone che avevano rapporti con lui: i membri della sua “famiglia” (familia) – che comprendeva parenti e schiavi – gli amici e i “clienti” (clientes). Questi ultimi erano cittadini svantaggiati di varie classi sociali che si ponevano al servizio di un potente signore (dominus) in cambio di protezione, cibo o denaro.
Ogni mattina, lo ianitor, cioè lo schiavo che sorvegliava l’ingresso della casa, apriva la porta, davanti alla quale si era radunata una folla di visitatori. Un servitore accompagnava gli amici intimi e le persone di pari rango alla camera da letto del padrone. Gli altri attendevano il proprio turno fuori dalla casa o nel vestibolo, il corridoio che conduceva dalla strada alla porta d’ingresso, finché il patrono non dava loro il permesso di entrare nell’atrio, dove si svolgeva la salutatio. Uno schiavo specializzato nel riconoscere i clienti, il nomenclator, si metteva al fianco del padrone e gli sussurrava all’orecchio il nome di ciascuno. Poi, il signore lo ripeteva ad alta voce mentre stringeva la mano del cliente e gli faceva consegnare la sportula, originariamente un cestino di vivande che con il tempo divenne un’elargizione in denaro. 112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
VITTORIO SCIOSIA / FOTOTECA 9X12
Una folla di postulanti
GIARDINO CON PORTICI Peristilio della villa di Giulio Polibio, a Pompei (I secolo d.C.): nell’architettura romana il peristilio era il giardino interno della casa, racchiuso sui lati da un ampio porticato.
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LA DOMUS DI UN PATRIZIO ROMANO
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COPPA DA VINO IN ARGENTO L’opulento stile di vita dei patrizi romani è testimoniato dallo sfarzo dei loro oggetti domestici, come la coppa in argento sbalzato rinvenuta nella Casa del Menandro, a Pompei. I secolo d.C., Napoli.
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1 PETER CONNELLY / ALBUM
LE ABITAZIONI delle famiglie romane più abbienti erano pensate in funzione degli obblighi sociali dei loro padroni. L’area privata era costituita da una serie di piccole stanze, i cubicula, usate come camere da letto e talvolta abbellite da pavimenti mosaicati. Gli spazi principali della domus, tuttavia, avevano funzioni di rappresentanza: il vestibolo e l’atrio, per esempio, erano rispettivamente la sala d’attesa per i clienti in visita al padrone e l’ambiente in cui questi li riceveva. L’atrium, un vasto spazio aperto generalmente circondato da portici, era la zona dove si svolgeva la maggior parte della vita domestica. Un altro locale di notevole importanza era la sala dei banchetti, destinata ad accogliere i commensali presenti alle sontuose cene che spesso concludevano le giornate dei “ricchi e potenti” di Roma. Una tipica sala da banchetto conteneva tre letti, fatti di legno o pietra, sui quali gli ospiti mangiavano distesi. Di qui il nome dato alla sala, triclinium, termine di origine greca che significa, appunto, “tre letti”.
La folla più grande di salutatores si accalcava dinnanzi alla casa dell’imperatore, dove il personale incaricato di sovrintendere all’incontro era numeroso. Oltre alla visita degli amici, per i quali la salutatio era obbligatoria, l’imperatore riceveva anche i senatori con la famiglia. In alcuni giorni di festa, come l’anniversario dell’ascesa al trono o le calende di gennaio (il primo giorno dell’anno), le porte del palazzo si aprivano al popolo, che sfilava dinnanzi all’imperatore in segno di fedeltà. Mentre riceveva clienti e amici, il patrono consumava la colazione (ientaculum), in genere costituita da pane condito con aglio e sale e immerso nel vino, oltre che da formaggio, uova, frutta secca e olive. Il patrizio approfittava di queste prime ore del mattino per occuparsi anche
delle attività gestite, sotto la sua supervisione, dai liberti di famiglia. Il saluto mattutino poteva durare due delle dodici ore in cui era suddivisa la giornata. Il padrone, quindi, non usciva di casa prima dell’hora tertia (le nove), quando si recava al Foro, a piedi o in lettiga, accompagnato dal solito codazzo di clienti.
Al lavoro nel Foro Nel Foro i patrizi passavano gran parte della giornata, dedicandosi alla propria attività lavorativa, il negotium, che in genere era quello di oratore, giurista o banchiere. In particolare, trascorrevano molto tempo nei tribunali, cercando strumenti legali per nuocere agli avversari e difendere amici e clienti dalle accuse. Il mezzogiorno, che coincideva con la fine dell’ora sesta, segnava la pausa dal lavoro, durante la quale ci si rifocillava in qualche taverna. Per questo secondo pasto (pran-
2 ATRIO. Era il centro nevralgico della casa, il luogo in cui il padrone esibiva la sua ricchezza e riceveva i visitatori, a partire dai clienti mattutini. Era anche una zona di lavoro riservata alle donne.
3 PERISTILIO. Era il cortile
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interno della casa, circondato da portici. Aveva un uso più privato rispetto all’atrio. Nelle case aristocratiche, le sue pareti erano spesso decorate da affreschi.
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4 TABLINUM. Tra l’atrio 1 VESTIBOLO. Le dimore patrizie avevano un ampio vestibolo, che le collegava alla strada antistante. Qui ogni mattina i clienti attendevano in fila di essere ricevuti dal padrone.
dium) un cittadino romano poteva scegliere tra legumi, pesce, uova, pollame e frutta. Dal riposo dell’ora sesta deriva la parola “siesta”, che in latino si chiamava meridiatio. In effetti, almeno in estate, il pisolino di mezzogiorno era un’abitudine assai diffusa, tanto che le strade della città apparivano deserte. Dopo questa breve pausa, l’attività del Foro riprendeva fino al termine dell’hora nona, le 15, quando il Senato veniva chiuso.
Gli svaghi di fine giornata I giorni di festa (feriae) e tutti quelli in cui, per tradizi0ne, sia il Senato sia i tribunali restavano chiusi, erano dedicati all’otium. I Romani più ricchi si ritiravano nelle loro villae di campagna o vicine al mare, dove si dedicavano alla lettura e alla conversazione, mentre la plebe partecipava agli spettacoli che l’aristocrazia offriva nel teatro o nel circo e che spesso si
e il peristilio, originariamente serviva come studio del padrone di casa. Diventò in seguito il cuore della vita domestica e poteva essere riccamente decorato.
concludevano con grandi banchetti gratuiti. Nei normali giorni di lavoro, invece, una volta sbrigati gli affari nel Foro, il patrizio si concedeva una passeggiata tra i portici del Campo Marzio, oppure si recava alle terme. In tutti questi luoghi aveva occasione di chiacchierare con amici e conoscenti, discutere delle ultime notizie e parlare d’affari. Questi incontri di fine giornata consentivano anche di organizzare un altro momento centrale della giornata dei patrizi, la cena (coena), invitando i commensali più appropriati o, al contrario, facendosi invitare in una domus prestigiosa. La cena, in effetti, era per i potenti un’occasione privilegiata per mantenere le relazioni sociali e crearne di nuove, in modo da garantirsi il consenso sociale e politico. In occasione dei banchetti, gli aristocratici di maggior ricchezza esibivano il proprio benessere con stoviglie di lusso e cibi esotici.
LA CASA DEL BANCHIERE La domus di Lucio Cecilio Giocondo, potente banchiere di Pompei, nella ricostruzione di Peter Connolly: la casa, edificata tra il III e il II secolo a.C., restò sepolta nell’eruzione del Vesuvio (79 d.C.).
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FRANCESCO IACOBELLI / AWL IMAGES
IL FORO: UNA TAPPA OBBLIGATA I patrizi romani trascorrevano buona parte della loro giornata nel Foro, cuore della vita politica, sociale e religiosa della capitale: a sinistra, l’arco di Settimio Severo e, sullo sfondo, le colonne del tempio di Saturno.
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ERICH LESSING / ALBUM
LA SALA DEI BANCHETTI Nella Casa di Nettuno e Anfitrite, a Ercolano, è presente questo vasto triclinio estivo ornato sulla parete destra da un mosaico mitologico e, sullo sfondo, da un ninfeo a tre nicchie un tempo occupato da una fonte.
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Gli invitati non indossavano la toga, ma una veste più comoda e leggera chiamata synthesis. Al loro arrivo erano accolti da uno schiavo che toglieva loro i sandali, li aiutava a lavarsi mani e piedi e li accompagnava nella sala del banchetto, dove i posti erano assegnati in base alla condizione sociale dell’ospite.
Gli svaghi di fine giornata Come racconta Petronio nel Satyricon (I secolo d.C.), durante il celebre banchetto offerto dal liberto arricchito Trimalcione, le portate, da tre a sette, erano servite a intervalli regolari. Ognuna di esse, accompagnata da numerosi contorni, era servita da un gruppo di schiavi sotto la direzione di un tricliniarcha, un supervisore del banchetto scelto dai commensali. Nei grandi ricevimenti, che duravano parecchie ore, il dolce (secundae mensae) dava inizio all’ultima fase del banchetto, la comissatio,
in cui si offrivano bevande in abbondanza e intrattenimenti vari, con musicisti, cantanti, ballerine, mimi e buffoni. Un’iscrizione ritrovata nel triclinio di una casa di Pompei ammoniva così i commensali: “Non rivolgere sguardi languidi alla sposa di un altro. Non essere maleducato nella conversazione. Evita di arrabbiarti e usare un linguaggio offensivo. Se non riesci a farlo, torna a casa”. Finito il banchetto, gli invitati, ubriachi, rientravano alle proprie abitazioni dopo essere stati rivestiti dai rispettivi schiavi, che li avevano attesi seduti per terra davanti al triclinio. Anche l’anfitrione si ritirava nella camera da letto (cubiculum), una piccola stanza con pochi mobili situata vicino all’atrio o al peristilio. Spesso, la camera da letto era posizionata in modo che la prima luce del mattino potesse filtrarvi e segnare così, per il patrizio, l’alba di una nuova, intensa giornata.
LOCUS CONSULARIS Posto destinato all’ospite d’onore
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SUMMUS IN IMO Posto del padrone di casa
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LECTUS MEDIUS
LECTUS SUMMUS
4 LECTUS IMUS
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1 1 Pulizia Secondo il galateo, gli ospiti, giunti nel luogo del banchetto, erano tenuti a togliersi le scarpe e a farsi lavare i piedi dai servi.
2 Profumi Per coprire gli odori causati dal sudore dei commensali, venivano distribuiti appositi unguenti e corone profumate.
3 Abbigliamento Nei banchetti delle famiglie patrizie si indossava la synthesis, usata in particolare dai liberti per ostentare la propria ricchezza.
UN RITO ALL’INSEGNA DEL PIACERE uno dei piaceri offerti ai convitati: vi erano anche la musica dei flautisti e dei suonatori di cetra, le danze proposte da ballerine seminude, gli spettacoli presentati da attori e saltimbanchi. In generale i banchetti erano considerati dal padrone di casa un’occasione per ostentare la propria ricchezza, e dagli invitati un momento di relax e godimento. Ecco come il poeta Marziale descrive un banchetto allestito dal liberto Zoilo: “Quando ha caldo una concubina lo rinfresca con un ventaglio, mentre uno schiavo allontana le mosche. Una massaggiatrice gli percorre il corpo con mani esperte; un eunuco, allo schioccare delle dita, sostiene l’ebbro pene del padrone per aiutarlo a urinare”.
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EI BANCHETTI romani, il cibo era solo
4 Servitori Erano di tre tipi: gli analecta, schiavi che si occupavano della pulizia; i ministratores, che servivano, e i coppieri addetti al vino.
5 Gli eccessi I testi dell’epoca segnalano spesso gli eccessi dei banchetti, dove i convitati si rimpinzavano di cibo fino a vomitare.
LA DISPOSIZIONE DEGLI OSPITI Gli invitati ai banchetti si disponevano sui letti del triclinio secondo un ordine prestabilito: affresco pompeiano del I secolo d.C., Napoli. IL VENDITORE DI FOCACCE Statuetta in bronzo proveniente da Pompei e utilizzata, forse, per il servizio nei banchetti. I secolo d.C., Museo Archeologico Napoli. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DALLA TOGA AI PANTALONI
IL VESTITO A ROMA BRIDGEMAN / INDEX
Oltre a costituire un importante simbolo sociale e un segno di identità, il modo di vestire nell’antica Roma esprimeva una concezione del corpo molto diversa da quella odierna FRANCISCO GARCÍA JURADO UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID
DONNE IN UNO SPOGLIATOIO Nelle terme romane c’era una prima sala non riscaldata adibita a spogliatoio che veniva chiamata con termine greco apodyterium. Olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1886. Collezione privata.
L’ANTENATO DEL NOSTRO REGGISENO
I
ROMANI non conoscevano il concetto
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di biancheria intima. Il capo d’abbigliamento che più si avvicinava a questa idea era lo strophium, una fascia di cuoio o tela che, indossata sopra la tunica, teneva il petto sollevato, come testimoniano sia l’iconografia sia scrittori come Cicerone o Catullo. Quest’ultimo narra dell’infelice Arianna che, abbandonata da Teseo, “tiene il petto scoperto, senza che lo veli una veste, senza un laccio che leghi il suo seno di latte”. La fascia pectoralis, il mamillare e la zona o cintura erano altri precursori del reggiseno, a volte a diretto contatto con la pelle; la loro funzione era quella di mettere in risalto il busto nelle giovinette. Le danzatrici indossavano una fascia sopra la pelle come nell’attuale bikini. Nell’immagine a fianco un dettaglio di un mosaico di Piazza Armerina mostra una fanciulla con indosso un indumento di questo genere.
FANCIULLA CON FASCIA SUL PETTO IN UN MOSAICO DELLA VILLA DEL CASALE. IV SECOLO D.C. PIAZZA ARMERINA.
ELIO CIOL / CORBIS
COPPIA DI FIBULE Le spille che fissavano il mantello sopra le spalle erano talvolta veri e propri gioielli. Due fibule a forma di lettera “s” in argento dorato, pietre dure e smalti. Museo Archeologico, Cividale del Friuli.
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A
gli occhi degli antichi Romani il nostro abbigliamento apparirebbe barbaro. Infatti l’abito nell’antichità classica, e in particolare a Roma, rispecchiava un concetto del corpo molto diverso da quello attuale. Per cominciare, i capi di vestiario si distinguevano non tanto per il fatto di essere indossati all’interno o all’esterno degli edifici, quanto piuttosto per il tipo di contatto con il corpo: vi erano quelli nei quali il corpo veniva infilato, come la tunica, e quelli che lo cingevano a mo’ di mantello, come la toga o il pallio (una cappa di lana di forma quadrata o rettangolare da indossare sopra la tunica). Il loro uso era così importante che in latino esistono due verbi specifici per esprimere, rispettivamente, l’atto d’indossare
una tunica e quello di indossare un mantello: il termine induere, riferito ai capi d’abbigliamento in cui il corpo viene introdotto, e il verbo amicire, il cui significato originario era “coprire con una veste entrambe le spalle”.
La toga e la tunica Oggi non abbiamo l’abitudine di usare mantelli come nell’antichità. A Roma essi, oltre a fornire una protezione dai rigori invernali, avevano, quando erano particolarmente lussuosi, il compito di conferire al corpo l’aspetto solenne delle sculture classiche. In ogni caso, la toga era un simbolo d’identità dei cittadini romani nel Foro. Così racconta Catone il Censore: “Nel Foro era costume vestirsi con decoro, mentre a casa s’indossava il minimo indispensabile”. L’abbigliamento dell’antica Roma presentava perciò non soltanto capi diversi da quelli attuali, ma an-
LUISA RICCIARINI / AISA
che un modo diverso di concepire il vestito. La posizione ascendente o discendente della tunica rispetto alla parte superiore del corpo poteva comportare connotazioni rispettivamente positive o negative. Infatti le tuniche raccolte in alto con una cinta (succinctae) simboleggiavano la pratica del lavoro, mentre la tunica lunga fino ai piedi (demissa) era considerata tipica degli stranieri e degli effeminati, anche se, indossata da una matrona, era sinonimo di castità. Diceva il poeta Tibullo alla nutrice della sua amata (Elegie, I Libro, 6, 67-68): “Insegnale a essere casta, anche se un nastro non tiene legati i suoi capelli e una lunga stola non le scende sui piedi”. Altre tuniche, le manicatae (da cui deriva la parola “manica”) coprivano le braccia fino alle mani, e anch’esse erano considerate sconvenienti per gli individui di sesso maschile. Cicerone accusò Catilina e i suoi complici di
essere dei degenerati perché indossavano tuniche talari a maniche lunghe. La tunica infatti aveva per antonomasia maniche corte e scendeva poco al di sotto del ginocchio.
Nuovi indumenti barbari L’insieme dei capi di vestiario classico era basato sulla simmetria e la verticalità. Tuttavia tale concetto andò gradualmente cambiando per l’introduzione di abiti usati in altri Paesi, come le bracae (maglie che coprivano i piedi e le gambe fino alla cintura), che erano più comode e che proteggevano meglio dal freddo. Svetonio racconta che l’imperatore Augusto indossava, anche se solo in privato, delle specie di mutandoni lunghi (foeminalia) poiché era molto freddoloso. L’impiego di questi capi da parte dei soldati provenienti dalle campagne del Nord Europa diede origine a un vero e proprio cambio di
UN NEGOZIO DI TESSUTI La qualità delle stoffe era un chiaro segno della posizione sociale di chi le indossava. Rilievo in marmo con due commercianti che mostrano le loro merci ai clienti. II secolo d.C. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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SCALA, FIRENZE
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CERIMONIA DI LUSTRATIO Nella Sala del Grande dipinto della Villa dei Misteri a Pompei i protagonisti di un rito di purificazione sono vestiti con stoffe color porpora, la tinta piĂš costosa e apprezzata. I secolo a.C.
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RITRATTO FEMMINILE Gli abiti, gli accessori e i cosmetici indicavano la posizione sociale di una matrona. Dipinto a encausto su legno rinvenuto nell’oasi di El Fayyum. II secolo d.C.
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L
A TOGA ERA UN CAPO tanto elegante quanto scomodo, che non solo era difficile da portare, ma perfino da indossare. Per infilarla occorreva infatti l’aiuto di uno schiavo che doveva avvolgere con un telo lungo quasi quattro metri il corpo del suo padrone. La toga serviva a distinguere i cittadini a seconda dell’età, della condizione sociale o della carica pubblica. I bambini indossavano la toga praetexta fino a sedici anni. A quel punto adottavano la toga virilis, simbolo del passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Il giovane era pertanto considerato togatus, titolo al quale era connesso un valore simbolico, dal momento che la toga costituiva l’indumento più nobile e rappresentativo del cittadino romano, che la indossava in ogni occasione quando si trovava fuori di casa. All’interno della sua dimora, invece, il cittadino, e in pubblico lo schiavo, andavano tunicati, cioè con indosso la tunica corta e informale che era l’altro indumento tipico dell’antica Roma.
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DALLA TUNICA ALLA TOGA
LA TOGA. L’imperatore Augusto indossa la toga classica, l’abito più nobile dei cittadini romani, con il quale egli veniva di solito rappresentato.
mentalità. È significativo il fatto che il termine bracae fosse usato in modo generico per definire diversi indumenti forestieri, che mettevano in evidenza la biforcazione del tronco all’altezza delle gambe. Non è difficile immaginare lo sconcerto che poteva suscitare in un cittadino romano l’uso di questo capo d’abbigliamento “barbaro”, forse lo stesso che potrebbe suscitare in noi, abituati ai pantaloni, la vista di un uomo con indosso una lunga tunica. L’aria di novità portò con sé un altro tipo di indumento, la camicia, che era molto diversa dalla tunica classica e rappresentava un enorme cambiamento. Anche il poeta Marziale racconta ridendo di un amico che indossa una camiciola che gli “copre metà delle natiche”. La storia della moda e dell’abbigliamento a Roma è stata dunque anche espressione della contrap-
IL MANTELLO. La clàmide o cappa era uno degli indumenti usati a Roma per proteggersi dal freddo. La statua del I secolo a.C. raffigura un atleta.
posizione tra il classico e il nuovo proveniente dal Nord Europa, rappresentato in particolare dalle bracae, antenate dei moderni e poco nobili (in quanto barbari) pantaloni.
L’abbigliamento femminile Con il passare del tempo, un capo d’abbigliamento quanto mai maschile come le bracae finì con il dare il nome all’indumento intimo femminile per eccellenza: le “braghe” (o mutandine), a significare che, dopo gli uomini, anche le donne cominciarono a indossare tale capo di vestiario. Tuttavia, il concetto attuale di biancheria intima era ancora del tutto sconosciuto tra le donne romane. Esse infatti potevano indossare una specie di “reggiseno” (strophium), cingendosi il petto con una fascia (fascia pectoralis), o tenendolo sollevato con una cintura (zona) sistemata alla base del seno stesso, come molti secoli
LA TUNICA. Più corta e meno formale della toga, per lavorare poteva essere stretta da una cinta. Sopra, Antinoo, l’amato di Adriano, in veste di Aristeo.
dopo avrebbe fatto Giuseppina Bonaparte. Sarebbe passato comunque del tempo prima che anche la tunica interna o subucula (sottoveste), indossata in principio sia dagli uomini sia dalle donne, si trasformasse in corpetto. La tunica femminile per antonomasia era la stola, diversa da quella maschile perché aveva le maniche lunghe e arrivava fino ai piedi. Essa rappresentava, prima di tutto, un simbolo di castità. Il corredo d’indumenti femminili si differenziava da quello maschile soprattutto per la varietà dei colori. Nell’Arte di Amare (III, 170-194), il poeta Ovidio dava lezioni alle giovinette proprio su questa varietà cromatica. Nonostante le differenze sociali, le matrone e le prostitute condividevano una vera e propria ossessione: il gusto per l’ornamento e le acconciature. La mentalità romana, fortemente legata al pensiero giuridico, distinse
LA STOLA. Era la tunica tipicamente femminile, riservata alle matrone, con le maniche lunghe fino alle mani. La statua risale al II secolo d.C.
ciò che era sostituibile, ovvero gli ornamenti e gli accessori, da ciò che era ereditabile e patrimoniale, in particolare l’oro e la porpora. Si giunse anche alla promulgazione di una legge, la Lex Oppia, che dal II secolo a.C. limitò lo sfrenato desiderio di eleganza, nei vestiti e nei gioielli, delle donne più ricche. Tale legge, che originò la prima manifestazione femminile di protesta dell’antichità, non impedì però che sorgesse una vera e propria industria del lusso, e che a Roma giungessero dall’Oriente le porpore e le sete più preziose. I vestiti più ricercati erano indicati con un nome derivato dal luogo d’origine del tessuto o della tintura, come l’isola di Cos per la seta o la città di Tiro per la porpora. Qualcosa di simile avviene oggi con i grandi stilisti: dire che una matrona indossava un “vestito di Cos” era chic e trendy quanto dire oggi che un personaggio famoso veste un Armani.
AKG / ALBUM
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LA TOGA INFANTILE. Il passaggio dall’infanzia all’età adulta comportava la sostituzione della toga praetexta con la toga virilis. Sopra, un giovane Nerone.
I COMPLEMENTI. La tunica colorata o il peplo alla greca, lungo fino ai piedi, erano corredati da maquillage, pettinatura e gioielli alla moda.
STATUE: 1. AUGUSTO
CON INDOSSO UNA TOGA.
I SECOLO D.C. LOUVRE, PARIGI.
2. ATLETA. SCULTURA
PROVENIENTE DA AYDIN.
I SECOLO A.C. (TURCHIA).
3. NERONE BAMBINO IN UNA
SCULTURA DA GABII (O ANZIO). I SECOLO D.C. LOUVRE, PARIGI.
4. ANTINOO. SCULTURA DEL
II SECOLO D.C. LOUVRE, PARIGI.
5. MATRONA ROMANA.
DA AFRODISIA (TURCHIA). II SECOLO D.C. 6. DONNA ROMANA (FORSE CIRCE). I SECOLO D.C. MUSEO
ARCHEOLOGICO, SPERLONGA.
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ACCONCIATURE DELL’ETÀ FLAVIA Vibia Matidia, nipote della sorella dell’imperatore Traiano, Marciana, è ritratta con una complessa acconciatura tipica dell’età Flavia. II secolo d.C. Musei Capitolini, Roma.
DAGLI ORTI / ALBUM
SPECCHIO D’ARGENTO Uno specchio da toletta del tesoro di Boscoreale, con scena mitologica di Leda e il cigno, in argento lavorato a sbalzo. Tesoro di Boscoreale. I secolo d.C. Louvre, Parigi.
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RICCI E PARRUCCHE ALLA MODA
PETTINATURE A ROMA A partire dall’età di Augusto, nel I secolo a.C., le donne dell’alta società romana sfoggiarono acconciature sempre più appariscenti e spettacolari, seguendo la moda dettata dalla famiglia imperiale ELENA CASTILLO PROFESSORESSA DI ARCHEOLOGIA CLASSICA NELLA UNIVERSITÀ COMPLUTENSE
S
“
igilla la porta della tua camera. Non mostrare l’opera ancora grezza e imperfetta”. Ciò consigliava Ovidio alle matrone romane di età augustea, che, nascoste nelle loro stanze e aiutate dalle loro serve, si preparavano a mostrarsi in pubblico, nascondendo i difetti ed evidenziando i loro pregi attraverso ogni tipo di artificio: tinte, parrucche, toupet, pettini, spilloni per i capelli, oli profumati, sbiancanti per i denti…
Per le donne romane, il maquillage, il profumo e la pettinatura erano l’ultima fase dell’igiene quotidiana. Prima si detergevano braccia e gambe (dal momento che il resto del corpo si lavava, solitamente, ogni nove giorni, in coincidenza con i giorni del mercato, le nundinae), si sbiancavano i denti con soda, bicarbonato di sodio e talvolta urina, si depilavano e, infine, si dedicavano all’elaborazione di una pettinatura più o meno complessa. Questa in genere era una imitazione di quelle sfoggiate dalle grandi dame dell’aristocrazia romana o un adattamento personalizzato che mettesse in risalto la forma del volto. Lo stesso Ovidio su questo tema scriveva nella sua Ars amatoria: “Che ognuna scelga la [pettinatura] più appropriata guardandosi allo specchio. Un viso lungo vuole capelli separati sulla fronte e senza ornamenti […]. Un volto rotondo starà meglio con un piccolo ciuffo sulla fronte, lasciando scoperte le orecchie. Un’altra lascerà sciolti i capelli sulle spalle, come Febo quando suona la lira; o li porterà raccolti dietro, come Diana cacciatrice”. Durante l’infanzia e l’adolescenza, le giovani romane portavano i capelli al naturale, lisci o ricci. Separati da una riga centrale, di solito li raccoglievano in uno chignon sulla nuca o li intrecciavano intorno alla testa. 130 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’arte di farsi belle
SCENA DI TOILETTE QUOTIDIANA Una fanciulla viene pettinata davanti a sua madre da una ornatrix, schiava specializzata nelle acconciature. Affresco da Pompei. I secolo d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
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UNO STILE PER OGNI DINASTIA
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CASSETTA PORTAGIOIE Cofanetto di età imperiale rinvenuto a Cuma. Contiene oggetti per la toilette: un pettine in avorio, spilloni per i capelli e uno specchio. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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ART ARCHIVE
e durante il restante periodo imperiale, la pettinatura delle donne romane cambiò continuamente. Gli stili si succedettero di dinastia in dinastia: dalla pettinatura “all’Ottavia” che fecero trionfare le donne della famiglia di Augusto, fino alle parrucche del III secolo “alla Giulia”, passando per le spettacolari acconciature dell’età Flavia. Come in tutti i fenomeni alla moda, imperatrici e principesse svolsero un ruolo determinante nella diffusione delle nuove acconciature. Queste spopolavano prima tra l’alta società della capitale imperiale, per poi diffondersi nelle diverse provincie dell’Impero per mezzo dei ritratti delle imperatrici che campeggiavano sulle monete. Anche gli uomini seguivano le mode. Secondo il filosofo Seneca, questi trascorrevano intere giornate dal parrucchiere e preferivano sopportare il disordine che regnava all’interno della Repubblica piuttosto che quello della propria capigliatura.
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EL CORSO DEL I SECOLO D.C.
ETÀ AUGUSTEA (INIZIO I SEC.)
1. Toupet e chignon di trecce per la moglie di Augusto L’imperatrice Livia, moglie di Augusto, adottò un’acconciatura che era stata resa popolare da Ottavia, la sorella dell’imperatore. Due ciocche dividono la chioma e si ripiegano in un toupet frontale (nodus). I capelli si raccolgono dietro in uno chignon di trecce e quelli ai lati sono ondulati.
Al giorno delle nozze si riservava invece una pettinatura speciale di tradizione greca ed etrusca: si dividevano i capelli in sei parti (sex crines), legate da nastri, che si raccoglievano in uno chignon alto e appuntito detto titulus. Durante la cerimonia nuziale, il futuro sposo divideva i sex crines con la punta di una lancia, la hasta caelibaris, e la sposa, con i capelli sciolti, copriva il viso con un velo di color zafferano, il flammeum. Con il tempo, questo tipo di pettinatura rimase riservata alla flaminica, la moglie del flamine diale, sacerdote preposto al culto di Giove. Divenute dominae, signore della casa, le donne romane potevano cambiare a proprio piacimento il colore e la forma dei loro capelli. Con l’arrivo a Roma delle prime schiave germaniche iniziò la moda dei capelli biondi. Per mutare il colore corvino o castano
DINASTIA GIULIO CLAUDIA (I SEC.)
2. La moda dei ricci all’epoca di Claudio Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, porta sotto la tunica che le copre la testa una pettinatura del tipo Salus, caratterizzata da una massa di ricci intorno al viso. La riga centrale divide la chioma in due ciocche e uno chignon con quattro trecce raccoglie i capelli sulla nuca.
dei capelli, si ricorreva a tinte o a parrucche di capelli naturali montati su una sottile pelle di capriolo. Tali parrucche erano in vendita “davanti agli occhi di Ercole e del coro delle Muse nel Campo Marzio”, secondo quanto afferma Ovidio, cioè nel circo Flaminio. Per tingersi, le donne potevano ricorrere a varie preparazioni che arrivavano da diverse parti dell’Impero. La più comune era la pila Mattiaca, proveniente dalla città di Mattium (attuale Marburgo in Germania), che conferiva ai capelli un colore biondo acceso, che a volte veniva potenziato con polveri d’oro cosparse sulla testa. Era conosciuto anche come “schiuma batava” o sapo, e consisteva in un composto di grasso di capra e di cenere di faggio sotto forma di sapone solido o liquido. Per tingere i capelli di rosso, si utilizzava l’henné, una sostanza vegetale proveniente dall’Egitto e dalle provincie orientali. Si
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DINASTIA DEI FLAVI (FINE I SEC.)
3. Acconciature posticce per la figlia di Tito Giulia, figlia dell’imperatore Tito, diede il nome a una delle pettinature tipiche dell’età Flavia. Sulla fronte della dama si poneva una corona posticcia di ricci, la cui altezza andò progressivamente aumentando. I capelli, intrecciati, si fissavano dietro a mo’ di turbante (in orbem).
DINASTIA DEI SEVERI (III SEC.)
4. Parrucche con scriminature di tradizione ellenistica Giulia Domna, seconda moglie di Settimio Severo, riprese la moda dell’acconciatura “a melone”, di tradizione ellenistica. Una parrucca, con ondulazioni artificiali parallele alla riga centrale, lasciava spuntare da sotto, all’altezza delle guance, piccole ciocche di capelli naturali.
importavano anche indici capilli, capelli neri dall’India, ideali per coprire i capelli bianchi. Oltre a cambiare il colore della capigliatura, era possibile trasformare capelli lisci in capelli ricci e pieni di boccoli. A tale scopo si usava il calamistrum, uno strumento formato da due tubi: uno di metallo che si riscaldava sul fuoco, e un altro più piccolo sul quale prima si arrotolavano i capelli che si volevano arricciare e che poi veniva collocato all’interno dell’altro tubo caldo. In molti casi, l’uso continuato di tinte abrasive e del calamistrum rovinava irrimediabilmente i capelli.
Le regole della moda Per raccogliere le ciocche e le trecce in chignon o in raggiere intorno alla testa, o per sistemare i toupet, si usavano spilloni per i capelli (acus crinales), fabbricati in legno, osso, avorio o metallo. Essendo cavi all’interno
IMMAGINI: 1. LIVIA DRUSILLA, MOGLIE
DI AUGUSTO E MADRE DI TIBERIO. BUSTO IN MARMO DEL I SECOLO D.C. MUSEO
ARCHEOLOGICO, EFESO. 2. MESSALINA.
MOGLIE DELL’IMPERATORE CLAUDIO. SCULTURA IN MARMO DEL I SECOLO D.C. LOUVRE, PARIGI.
3. DAMA ROMANA. BUSTO IN MARMO DATABILE
ALLA FINE DEL I SECOLO D.C. MUSEI CAPITOLINI, ROMA. 4. GIULIA DOMNA. SECONDA MOGLIE DI SETTIMIO SEVERO. BUSTO IN MARMO
DELLA FINE DEL II SECOLO D.C. LOUVRE, PARIGI.
potevano essere riempiti di profumi, oli o perfino di veleno: servivano così anche come armi offensive. In un’occasione Fulvia, la moglie di Marco Antonio, prese un ago dai suoi capelli e, posta la testa mozzata di Cicerone sulle sue ginocchia, gli trapassò la lingua. Durante i primi secoli della Repubblica le pettinature femminili erano molto semplici, in quanto le tinte e gli arricciacapelli erano considerati propri di cortigiane e straniere e le donne sposate uscivano in strada coperte da un velo. Tuttavia, la moda e i gusti cambiarono nei primi anni dell’Impero e le pettinature, ora scoperte, si diversificarono all’infinito. “Così come non si possono contare le innumerevoli ghiande di una quercia frondosa, né le api sull’Hibla o sulle Alpi le fiere, allo stesso modo non posso ricordare il numero delle pettinature, perché ogni giorno ne nasce una nuova”, scriveva Ovidio. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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dente (in orbem). “Tanti giri fanno le trecce sulla testa! Tanti piani si ergono su una testa eretta!”, cantava nel II secolo d.C. Giovenale. Ai tempi di Traiano e Adriano, la pettinatura con il toupet frontale di ricci raggiunse il grado più elevato di artificiosità e la spirale posteriore, composta da numerose trecce e toupet, divenne una sorta di turbante. Per sollevare la pesante impalcatura di capelli e per sistemare correttamente ogni riccio e boccolo che adornava la testa, le matrone delle famiglie più ricche potevano contare su alcune servitrici esperte in pettinature, le ornatrices. Secondo il giureconsulto Marziano, per apprendere questo mestiere era necessario assistere un maestro parrucchiere per almeno due mesi. Al più piccolo errore, o se la signora non rimaneva soddisfatta del suo aspetto, era frequente che tali schiave venissero maltrattate, come riferisce Ovidio: “Per un niente [la matrona] la graffia e le strappa dalle mani gli spilloni dei capelli e glieli infila rabbiosa nelle braccia; e quella pettina e maledice la padrona e allo stesso tempo, sanguinando, piange sugli odiati capelli”.
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Il rigore del Cristianesimo
BUSTO DI ADRIANO A Roma la barba divenne di moda a partire dal II secolo d.C., quando l’imperatore Adriano se la fece crescere per nascondere alcuni difetti della pelle. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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La pettinatura “stile Ottavia” (la sorella di Augusto), caratterizzata da un toupet frontale (nodus) e da due trecce laterali annodate sulla nuca, fu la prima tipicamente italica. La adottarono anche Livia e Fulvia, la moglie di Marco Antonio. Nella terza decade del I secolo d.C. apparve a Roma la pettinatura del tipo Salus, simbolo di eleganza e regalità, che si differenziava dalla precedente principalmente per l’accumulo di ricci intorno alle tempie. Il gusto per i capelli arricciati andò crescendo nella seconda metà del I secolo d.C. Ai tempi di Nerone e durante l’età Flavia diventò di moda l’uso di un toupet di ricci che si metteva a mo’ di corona sulla parte alta della fronte. Si utilizzava un nastro di cuoio ricoperto di capelli per nascondere la linea d’unione tra il toupet e la fronte. Il resto della capigliatura si distribuiva in trecce, che si raccoglievano intorno alla testa a forma di spirale discen-
I Padri della Chiesa criticarono duramente l’adozione da parte dei cristiani di questi artifici propri del mondo pagano. Nel II secolo il teologo e filosofo cristiano Clemente Alessandrino, per esempio, censurava in questo modo l’uso di parrucche e di toupet: “Non adornate le vostre teste sante e cristiane con le spoglie di una testa estranea che magari è impura, corrotta e condannata alle pene dell’Inferno. […] Tutte quelle pieghe, tutte quelle trecce, tutti quei boccoli che elle intrecciano l’uno con l’altro, le fanno sembrare cortigiane e le imbruttiscono invece di abbellirle. […] Tutte quelle modanature, tutte quelle reti di forme e colori diversi per mezzo delle quali legano e avvolgono i loro capelli, tutte quelle innumerevoli trecce che uniscono le une alle altre con mille attenzioni e invenzioni, tutti quegli specchi di fattura e di materiale magnifico, con il cui aiuto compongono il loro viso e il loro aspetto per sedurre meglio coloro che, come bambini sorpresi, si lasciano trasportare dai loro incanti ingannevoli […] tutte questi artifici manifestano la loro vanità e corruzione”.
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RICOSTRUZIONI FANTASIOSE Due giovani romani vestiti e pettinati alla moda si ammirano allo specchio, nel dipinto ottocentesco di Lawrence Alma-Tadema. Collezione privata. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA GUERRA CONTRO I DACI Combattimenti tra legioni romane e Daci, popolazione dell’odierna Romania sottomessa nel II secolo d.C. da Traiano. Calco in gesso della Colonna Traiana, Museo nazionale delle antichità, Bucarest.
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ELMO DI EPOCA IMPERIALE Durante le marce i legionari romani portavano un carico notevole: corazza, scudo, armi e un elmo simile a quello della foto. L’intero equipaggiamento poteva arrivare a pesare più di 30 chili.
G. OMBLER / DK IMAGES
IL LEGIONARIO ROMANO Un legionario restava in servizio, generalmente, per vent’anni, durante i quali doveva affrontare molti sacrifici e sottostare a una dura disciplina. In cambio gli erano garantiti vitto, alloggio, salario e assistenza medica BORJA PELEGERO STORICO E ARCHEOLOGO
I
primi raggi di sole illuminano le mura di Viminacium, fortezza romana sulle sponde del fiume Mlava, affluente del Danubio. Lì, nel giugno dell’87 d.C., il quinto anno del regno di Domiziano, risiede la Legio VII Claudia, una delle tante unità dislocate dall’Impero nei turbolenti territori balcanici. È una giornata come altre, e i legionari si apprestano ai consueti compiti quotidiani. Non appena il corno della sveglia risuona per la fortezza, le porte delle baracche in cui dormono i soldati si spalancano e i primi legionari si riversano nelle vie. Tra di loro non vi è Tiberio Claudio Massimo, che si trova ancora nella baracca. Tiberio non è un pedites, un fante, come la maggior parte degli altri legionari, bensì un eques, un membro del minuscolo contingente di cavalleria che difende la fortezza. Nato a Filippi, nella Grecia settentrionale, proviene da una famiglia di soldati. Nell’82 d.C., poco meno che ventenne, si è iscritto alle liste dei volontari, quindi ora, nella tarda primavera dell’87 d.C., ha 25 anni.
PHOTO AISA
In otto per camera
NEL NOME DEL POPOLO ROMANO Particolare di insegna militare con la sigla SPQR, Senatus populusque romanus, “Nel nome del Senato e del popolo romano”. I-II secolo d.C. Museo de Arqueología de Cataluña, Barcellona.
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Subito dopo il risveglio, Tiberio si veste in pochi istanti, in quanto la tunica con la quale ha dormito è la stessa che usa di giorno. Si tratta di un abito di lana a maniche corte, di colore bianco o rosso, che lo copre fin sopra le ginocchia. Sotto questa veste, Tiberio indossa un paio di pantaloni di lana, aderenti e a mezza gamba, mentre la vita è stretta dal cingulum, un cinturone di placche metalliche a cui è appeso il fodero del pugnale. Come calzature, infine, il legionario porta le caligae, un paio di bassi stivali di cuoio (ma dall’aspetto sembrano sandali) con la suola chiodata. La baracca dove alloggia Tiberio ha la forma di un rettangolo allargato ed è divisa in dieci piccole stanze più una, di maggiori dimensioni, posta all’estremità. In ciascuna delle stanze piccole alloggia un contubernium, un plotone di otto soldati che dormono e mangiano insieme, mentre la stanza
più ampia è riservata al centurione, il capo degli ottanta uomini (ma possono essere anche di più) che formano una centuria. Ogni stanza contiene quasi esclusivamente i letti a castello in legno degli otto legionari e un caminetto che i soldati usano per cucinare. Dopo essersi rivestito, Tiberio consuma rapidamente una colazione fredda a base di panis focacius (pane schiacciato) e formaggio, poi si dirige con i compagni all’appello mattutino, che serve per verificare le assenze tra i soldati e consegnare il signum (l’insegna distintiva) alle varie centurie, cui vengono comunicati anche i compiti di giornata.
Attività quotidiane Una volta ricevuto il signum, i soldati delle centurie si mettono al lavoro. I compiti possono variare molto di giorno in giorno, a seconda della zona e della situazione in cui opera la legione. Si va da incarichi militari, come montare la guardia, pattugliare il territorio o addestrarsi, ad altri collegati al mantenimento della fortezza: spazzare le baracche, raccogliere la legna, lavorare nei forni delle terme. Alimentare le migliaia di soldati di un castrum romano richiede ingenti quantità di cibo; di conseguenza, un buon numero dei soldati della Legio VII lavora ogni giorno nei granai di Viminacium, cura le greggi, prepara il pane e il formaggio, produce la birra. In tempo di pace, le legioni romane sono anche chiamate a contribuire allo sviluppo civile della provincia in cui risiedono, partecipando alla costruzione di strade, ponti e acquedotti; ma nella primavera dell’87 d.C., la situazione nell’area balcanica è tutt’altro che tranquilla.
RICCARDO SPILA / FOTOTECA 9 X 12
IL GRANDE FORO DI TRAIANO Con il bottino ricavato dalla campagna in Dacia, Traiano costruì a Roma un immenso foro e vi fece erigere la Colonna Traiana, decorata con rilievi che celebrano i trionfi bellici dell’imperatore.
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UNA LUNGA CARRIERA DA SOLDATO
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IBERIO CLAUDIO MASSIMO, eques
GABRIEL OJÉDA / RMN
della Legio VII Claudia, è davvero esistito. Nato attorno al 62 d.C., nell’88 combatté nella prima battaglie di Tapae (Romania) contro il re dacico Decebalo, ottenendo una medaglia al valore. Più tardi (102 d.C.) fu promosso duplicarius (sottufficiale con doppia paga) e aggregato a un reggimento ausiliario di cavalleria nei Balcani. Partecipò alle due guerre daciche (101-102; 105-106) dell’imperatore Traiano in veste di explorator. Al termine del secondo conflitto, Decebalo fuggì sulle montagne a nord del regno e i Romani organizzarono un’autentica caccia all’uomo. Tiberio e i suoi compagni lo scovarono, lo uccisero (altri sostengono che si suicidò) e portarono la sua testa a Traiano, che nominò l’explorator decurione. Tiberio partecipò quindi alla guerra contro i Parti (114-115), fu di nuovo decorato e terminò la sua carriera militare dopo trent’anni di onorato servizio.
LEGIONARIO IN LOTTA CONTRO UN BARBARO, BASSORILIEVO ROMANO DEL II SECOLO D.C., LOUVRE, PARIGI.
L’ELMO DI AGHIGHIOL Elmo da parata del V secolo a.C. trovato nella tomba getodacica di Aghighiol, in Romania. La sua decorazione, in oro e argento, attesta la ricchezza dei Daci già in epoca preromana.
Due anni prima, il re dei Daci Decebalo, sovrano di un regno nell’attuale Romania, ha attaccato di sorpresa la provincia romana della Mesia, tra le odierne Serbia e Bulgaria, massacrando la legione che la presidiava. Non solo, quando nell’86 d.C. Roma ha tentato di reagire, organizzando una campagna punitiva agli ordini del prefetto Cornelio Fusco, la spedizione si è risolta in un disastro.
I privilegi degli immunes
ART ARCHIVE
Nel giugno dell 87 d.C., il fronte del Danubio è quindi caldo come non mai e i legionari di Viminacium si preparano a una nuova spedizione contro Decebalo, stavolta guidata dall’imperatore Domiziano in persona. Di tutto questo fermento si coglie traccia nell’agitazione che pervade la fortezza, dove le legioni paiono quasi ansiose di iniziare a svolgere le loro mansioni quotidiani. 140 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Tiberio, il nostro eques, ha il rango di vexillarius (portastendardo) di uno squadrone di cavalleria, cosa che lo rende l’equivalente di un sottufficiale e fa di lui un immunis. Appartiene cioè a quella classe di legionari specializzati ai quali vengono risparmiati i lavori più ingrati, come pattugliare i bastioni o pulire le latrine. Tra i compiti previsti per gli equites vi è, invece, quello di scortare gli ufficiali di servizio nella fortezza. Ed è proprio questo l’incarico a cui oggi Tiberio è destinato; guidare il corpo di guardia che deve garantire la sicurezza del legato imperiale – in genere un senatore – al comando della legione. Non appena l’appello si è concluso, e le legioni hanno pronunciato il consueto giuramento di fedeltà all’imperatore, Tiberio si affretta quindi insieme ai compagni verso la propria baracca, dove recupera la corazza, le armi e le altre parti del suo pesante armamento.
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I legionari dispongono di tre tipi diversi di corazza: la lorica hamata, una cotta di maglia composta da una fitta rete di anelli d’acciaio intrecciati; la lorica squamata, che è costituita da un giubbotto di cuoio su cui sono cucite centinaia di lamelle di ferro o bronzo parzialmente sovrapposte, come, appunto, le squame di un pesce; e la lorica segmentata (un nome di origine moderna), costituita da una trentina di piastre di ferro articolate tra loro grazie a un complesso sistema di strisce di cuoio, cerniere e ganci metallici. Questo modello, che garantisce la massima protezione a spalle, torace e addome del soldato, è probabilmente il più diffuso nel I secolo d.C. Gli elmi di epoca imperiale, fabbricati in ferro o in bronzo, sono provvisti di ampi paraguance che proteggono il viso e di un robusto paranuca; lo scudo in legno, di forma rettangolare, assomiglia a un’enorme tegola convessa,
alta oltre un metro e larga circa 80 centimetri. Come armi i legionari hanno a disposizione il pilum, il giavellotto, che sono addestrati a scagliare da una distanza di 10-20 metri, e il gladius, la spada, che usano nei combattimenti corpo e corpo. All’epoca di Domiziano, le spade tipo Mainz, con lama rastremata al centro e lunga tra i 40 e i 50 centimetri, stanno cadendo in disuso, sostituite da quelle di tipo Pompei, della stessa lunghezza ma con punta più corta e doppio taglio. Questo è l’equipaggiamento dei pedites, i fanti; gli equites come Tiberio Claudio Massimo, invece, sono armati in modo diverso. Innanzitutto non usano la lorica segmentata, troppo pesante e scomoda da portare a cavallo, ma la lorica hamata o la squamata.Inoltre il loro elmo ha un paranuca più piccolo perché, in caso di caduta, con quello usato dai fanti rischierebbero di spezzarsi il collo.
CARICA DI CAVALLERIA La cavalleria romana carica i Daci in una delle tante battaglie che caratterizzarono le vittoriose campagne di Traiano (101-102; 105-106 d.C.) contro Decebalo. Illustrazione di Peter Connolly.
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LA VITA IN UN CASTRUM I LEGIONARI TRASCORREVANO BUONA PARTE DELLA LORO VITA NEGLI ACCAMPAMENTI
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NA LEGIONE ROMANA era un’efficientissima macchina da guerra, ma anche un gruppo disciplinato di lavoratori che, in tempo di pace, si impegnavano per costruire strade, ponti, acquedotti, dighe, porti e accampamenti. Questi ultimi potevano essere temporanei o permanenti. Le due tipologie erano costruite secondo lo stesso schema, ma con materiali diversi: i castra permanenti venivano realizzati con muri e torri di pietra e legno, rivestimenti di ardesia e addirittura bagni e finestre protetti da lastre di vetro. Un esempio di accampamento permanente è la fortezza di Viminacium (nella ricostruzione a destra), sede della Legio VII Claudia . Sorta nel I secolo d.C. a sud del Danubio, nella provincia balcanica della Mesia, presenta la classica struttura rettangolare, con ingressi sui lati lunghi e mura fornite di torri di guardia distribuite a intervalli regolari.
Mura Costellate da torri difensive, circondavano il campo, che era rettangolare e misurava tra i 20 e i 25 ettari.
Ospedale Qui i medici militari curavano i soldati malati oppure feriti.
AKG / ALBUM
Botteghe Vi si fabbricavano chiodi, tegole e ceramiche siglati con il nome della legione di stanza nel castrum.
Anfiteatro Oltre che per i combattimenti tra gladiatori, era utilizzato per le parate e le lotte tra soldati.
GLI ACCAMPAMENTI ROMANI disseminati per la Britannia,
sulle sponde del Reno e lungo il Danubio, erano avamposti militari che avevano come primo scopo la difesa dei limes (confini) settentrionali dell’Impero dai possibili attacchi barbarici. Molti di questi accampamenti (sopra, l’ingresso principale del castrum di Saalburg, in Germania) diedero origine nel tempo a città: è il caso della fortezza di Juvavum, da cui nacque l’attuale città di Salisburgo, in Austria.
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Il fossato difensivo Per difendersi dagli attacchi nemici, attorno al castrum si scavava un fossato profondo 2,7 metri e largo 3,6. Poi, con la terra estratta si costruiva un terrapieno di oltre un metro.
Le baracche Una volta erette le fortificazioni del castrum, si montavano le tende oppure si costruivano le baracche. Ogni centuria aveva a disposizione uno spazio di circa 36 metri per 10.
ILLUSTRAZIONI: PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM
ROMANO DI FRONTIERA DI FRONTIERA, COSTRUITI PER PROTEGGERE L’IMPERO DALLE INVASIONI BARBARICHE Granai Posti su pilastri, erano sopraelevati e servivano a conservare il cibo.
Principia Erano gli edifici del quartier generale, collocato al centro del castrum.
Praetorium Era la casa in cui dimorava il comandante con la sua famiglia e gli schiavi.
Tre marce al mese Durante le tre marce mensili, i legionari si caricavano con il loro equipaggiamento, a volte pesante anche 40 chili: dovevano percorrere 36 chilometri in cinque ore.
Tribuna Di qui il comandante teneva i suoi discorsi alle truppe schierate nella spianata di fronte.
Via principalis Attraversava l’intero l’accampamento; gli ingressi erano collocati lungo i lati maggiori del rettangolo.
Alloggi degli ufficiali I soldati di grado maggiore avevano abitazioni ampie, più confortevoli di quelle riservate alle truppe.
I centurioni Consegnavano ogni giorno al generale un rapporto sui soldati loro affidati. Erano ammessi ai consigli di guerra e davano la loro opinione sulle tattiche belliche da utilizzare.
Il pasto comune Con le razioni di cibo fornite alla loro unità, i legionari si preparavano da mangiare su focolari posti vicino alla loro tenda o nelle loro baracche. Consumavano insieme i pasti.
Via praetoria Andava dall’ingresso principale fino al quartier generale.
Baracche Ciascuna ospitava una centuria di 80 uomini, divisa a sua volta in gruppi di otto.
L’allenamento I legionari romani si allenavano costantemente, colpendo con spade e lance di legno un palo piantato a terra. Simulavano anche combattimenti tra loro utilizzando armi vere.
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compagni sottovalutino l’incarico. La possibilità di subire un attacco da parte dei Daci è concreta, come ben sanno tutti i legionari che si sono trovati a fronteggiare le micidiali imboscate tese dai sudditi di Decebalo. La tomba 152 del cimitero di Viminacium, per quanto di oltre due secoli posteriore all’epoca di Tiberio, testimonia quanto pericoloso potesse essere inoltrarsi lontano dalla fortezza. Gli archeologi vi hanno trovato il corpo di un soldato con ferite di freccia al fianco e alla gamba destra, e un colpo di spada sul retro del cranio. Dato che le frecce paiono scagliate da breve distanza, e che il colpo alla testa fu assestato quando il legionario era già a terra, gli archeologi ne hanno ricavato la convinzione che il giovane morì in un’imboscata, probabilmente avvenuta durante l’attività di pattugliamento.
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Il quartiere fuori dalle mura
LAVORI DI OGNI TIPO Legionari impegnati nella costruzione di un accampamento durante la prima guerra dacica (101-102). Calco di un bassorilievo della Colonna Traiana, Museo della Civiltà Romana, Roma.
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Lo scudo non è convesso ma piatto, di forma ovale o esagonale. E gli equites non hanno il giavellotto, impossibile da scagliare a cavallo, ma una lancia da carica lunga oltre tre metri e uno spadone con lama di 60-90 centimetri. Tutte le legioni dell’esercito romano hanno una base operativa fissa, ma molti dei loro effettivi sono dislocati lontano dal castrum, a presidiare forti e torri di controllo. Oggi, il legato imperiale della Legio VII Claudia ha deciso di ispezionare tali distaccamenti, e per questo ha ordinato a Tiberio di organizzare un servizio di pattuglia. I cavalieri della scorta, dopo aver recuperato le armature e i cavalli dalle stalle, si recano quindi dinnanzi ai principia (gli edifici del quartier generale) e lì attendono l’arrivo del legato. I compiti di pattugliamento fanno parte della noiosa routine di qualunque reparto di cavalleria, ma ciò non significa che Tiberio e i suoi
Non appena il legato sopraggiunge, il drappello guidato da Tiberio lascia Viminacium e si avvia a cavallo attraverso il caos delle canabae, le baracche attorno alle mura che formano il quartiere civile in cui risiedono tutti coloro che vivono dei bisogni dell’esercito: commercianti, fabbri, artigiani, osti e prostitute. Ai soldati romani dell’epoca di Tiberio era vietato sposarsi durante la leva, il che spiega la presenza di prostitute attorno alla fortezza. Peraltro molti legionari non si facevano scrupolo di sfidare il divieto avviando relazioni stabili con donne al seguito dell’esercito, dalle quali, spesso, avevano anche figli. Queste “famiglie di fatto” vivevano nelle canabae, così come alcuni veterani che, dopo il congedo, non avevano voluto rientrare nei Paesi d’origine. Si è sempre creduto che questi gruppi familiari non potessero accedere alle basi militari, ma il ritrovamento di oggetti di corredo femminile e giocattoli all’interno di varie fortezze di confine ha indotto gli studiosi a mettere in dubbio la fondatezza di questa ipotesi. Fortunatamente per Tiberio, la pattuglia che comanda non incontra ostacoli nel suo giro d’ispezione, così, a metà pomeriggio, egli è già di ritorno a Viminacium. L’eques consegna il cavallo a un servo, ordinandogli di strigliarlo, poi si reca alla baracca per ripulirsi dalla polvere. Nel frattempo riflette su cosa fare nel resto del pomeriggio.
L’IMPERO ROMANO
Roma prima di Augusto (fino al 23 a.C.) Conquiste di Augusto (23 a.C.-14 d.C.) Conquiste di Claudio (41-54 d.C.) Altre conquiste del I secolo d.C. Conquiste di Traiano (98-117 d.C.) Acquisizioni territoriali del II secolo (115-117 d.C.)
Mare BRITANNIA d e l N o r d Londra CAMPI DECUMANI
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Roma cominciò la sua ascesa intorno al 500 a.C. e con Augusto si trasformò in un impero che, dal Mediterraneo, si si espanse in ogni direzione, toccando l’apogeo tra il I e il II secolo d.C. Alla base di questa crescita vi fu la forza delle legioni, unità base dell’esercito romano, che costituirono la migliore macchina da guerra del mondo antico.
Secondo la leggenda, Marte, dio della guerra, fu il padre di Romolo e Remo, i fondatori, di Roma nel 753 a.C.
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GIUDEA
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Mar Morto ARABIA
EGITTO
ORGANIZZAZIONE DELL’ESERCITO
CORAZZA Si portava sopra la tunica ed era in genere costituita da da piastre di metallo unite tra loro da fibbie. SCUDO Unendo gli scudi, la legione si schierava a testuggine.
CONTUBERNIO
CENTURIONE Ufficiale al comando della centuria. Sull’elmo aveva un pennacchio per essere riconoscibile in battaglia. Proteggeva le gambe con due schinieri. COORTE
LEGIONE
6 CENTURIE
10 COORTI
La prima coorte aveva 10 centurie.
IL LEGIONARIO I soldati arruolati nelle legioni erano cittadini romani che sceglievano come professione la guerra e prestavano servizio per venti o più anni.
CENTURIA 10 CONTUBERNI
8 SOLDATI
L’esercito era formato in genere da 30 legioni
TRASPORTO I legionari si muovevano per mare e per terra, a piedi e a cavallo, lungo le grandi vie che collegavano le province dell’Impero. CALIGAE Erano calzature fatte di cuoio, con chiodi di ferro applicati alla suola.
QUINQUEREMI Erano le più grandi navi da guerra della flotta romana, usate sia per il trasporto delle truppe sia nelle battaglie navali.
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ILUSTRAZIONE: SOL 90 IMAGES / ALBUM
ELMO Proteggeva testa, nuca e guance del legionario.
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L’ESERCITO ROMANO INVESTIVA MOLTE RISORSE NEL BENESSERE E NELLA SALUTE DEI SUOI SOLDATI
In un primo momento è tentato di recarsi alle terme, vero epicentro della vita sociale della legione, ma poi decide di andare al valetudinarium, l’ospedale, a visitare un amico ferito. L’ospedale è uno degli edifici più grandi della fortezza, una struttura rettangolare con spazi sufficienti per accogliere oltre 300 pazienti. L’amico di Tiberio è in buona salute; i medici militari sono eccellenti professionisti, formati appositamente per l’assistenza dei soldati e in possesso di un’enorme esperienza pratica. Oltretutto hanno a disposizione strumenti chirurgici in bronzo preclusi alla maggior parte dei medici civili.
Grande cura per l’igiene Di fatto, l’accesso a una buona assistenza medica è uno dei vantaggi dell’arruolamento in una legione. L’esercito romano investiva enormi quantità di denaro per garantire il benessere dei suoi soldati, con l’obiettivo di averli pronti a combattere in caso di necessità. Roma sapeva che un’epidemia poteva distruggere un esercito più rapidamente di qualsiasi guerra, e per questo le misure d’igiene negli accampamenti militari erano accuratissime. La fornitura di acqua pulita era oggetto di particolare attenzione: se necessario, si costruiva un acquedotto anche solo per portare acqua fresca fino al castrum. Dopo la visita in ospedale, Tiberio ritorna alla sua baracca per cenare insieme ai compagni di contubernium. La dieta militare è sufficientemente varia, comprende pane, formaggio, carne, verdure, legumi, frutta. I soldati cucinano nelle loro stanze e tutti gli alimenti sono forniti dall’esercito, che ne detrae il prezzo dal salario dei legionari. Tiberio ha mangiato poco a colazione, quindi ora è affamato. La sua cena consiste in un pezzo di carne di vitello arrostita ac146 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
PANITHAN FAKSEEMUANG / GETTY IMAGES
TESTA DACICO-ROMANA DI MEDUSA, II SECOLO D.C., SARMIZEGETUSA (ROMANIA).
compagnata da pane integrale e lenticchie. Gli scavi archeologici hanno smentito l’ipotesi che i legionari seguissero una dieta esclusivamente vegetariana. A giudicare dalle ossa rinvenute nei pressi delle fortezze, la carne più apprezzata era quella di vitello, seguita dalla pecora e dal maiale. I legionari non potevano permettersi di condire il cibo con garum, la costosa salsa di interiora di pesce molto amata dai Romani, e dovevano quindi adattarsi a una variante più economica, la muria. Dopo cena, Tiberio e i compagni si concedono qualche ora di svago prima del riposo. Seduti sotto il portico della baracca, si rilassano chiacchierando o giocando a ludus latrunculorum, una specie di dama. Tiberio ne approfitta per scrivere una lettera ai familiari. Tutti i legionari della fortezza andranno a dormire al tramonto, tranne quelli che devono montare di guardia nelle prime ore notturne.
GLI SPETTACOLI DEL COLOSSEO Spesso i prigionieri di guerra catturati dalle legioni romane venivano inviati in Italia e utilizzati come gladiatori negli spettacoli del Colosseo (nella foto sopra) o di altri anfiteatri minori.
UFFICIALI IN PRIMA FILA
NELLE BATTAGLIE i centurioni, ufficiali
MILITARI ROMANI IN UNA RICOSTRUZIONE DELLO STORICO E ILLUSTRATORE PETER CONNOLLY.
AKG / ALBUM
al comando delle centurie, si schieravano sempre in prima fila, per trascinare i propri uomini e guidarli nei loro movimenti. Nell’acquerello qui a lato è raffigurato un centurione in equipaggiamento da battaglia. Dietro di lui, in secondo piano, si notano un portastendardo e, a destra, suonatori di corno e di tuba. Sulla sedia, affiancato da un alto ufficiale, è ritratto l’imperatore Vespasiano, al potere dal 69 al 79 d.C.
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CONSULTO DA UNA MAGA Un’anziana maga prepara una pozione, probabilmente d’amore, per due giovani fanciulle. Mosaico rinvenuto nella Casa di Cicerone a Pompei. II secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
MANO APOTROPAICA La mano riprodotta nella pagina a fronte fu realizzata con il preciso scopo di respingere o annullare gli influssi maligni. L’oggetto è esposto al Museo San Martino di Napoli.
ORONOZ / ALBUM
ELISIR , RITUALI E STREGHE
LA MAGIA A ROMA Le maledizioni e le fatture scagliate contro i nemici e contro gli amanti infedeli erano una pratica molto diffusa nella società romana, profondamente permeata di superstizione ANTÓN ALVAR NUÑO DOTTORE IN SCIENZE DELLE RELIGIONI
RITI MAGICI CONTRO IL MALOCCHIO
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BRIDGEMAN / INDEX
L MALOCCHIO costituiva una particolare tipologia di maledizione. Si trattava di una forma di magia nera molto temuta tra i Romani che non richiedeva nessun rituale o incantesimo specifici, né l’invocazione degli dei e neppure la consultazione di maghe e fattucchiere. Si riteneva che il malocchio potesse essere provocato da persone colpite da patologie oculari serie, come la doppia pupilla, oppure dagli invidiosi. Dal momento che era una delle maledizioni più frequenti, esisteva a Roma tutta una serie di oggetti apotropaici, appositamente realizzati nella convinzione che il fatto di indossarli garantisse di essere protetti da questo maleficio: amuleti di corallo, talismani di forma fallica e portafortuna decorati con rappresentazioni della gorgone Medusa, la mostruosa creatura mitologica che era in grado di pietrificare chiunque avesse osato guardarla negli occhi.
DONNA ROMANA INTENTA ALLA PREPARAZIONE DI UN FILTRO AMOROSO. PALAZZO MASSIMO ALLE TERME, ROMA.
DEA / ALBUM
BULLA IN ORO A SBALZO A Roma un oggetto molto comune era la bulla, medaglione contenente amuleti portafortuna che i fanciulli indossavano fino all’età di 16 anni. IV secolo a.C. Museo Gregoriano Etrusco, Vaticano.
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ormule magiche, elisir d’amore, maledizioni e bambole infilzate con aghi. L’antica Roma mescola tutti gli ingredienti immaginabili intorno al mondo della magia, tanto che gli autori classici come Orazio, Ovidio e Virgilio evocano le streghe presentandole come vecchie malefiche, capaci di invertire il corso di fiumi, modificare il clima e far piangere sangue da luna e stelle. Il poeta Lucano, nella Pharsalia, opera in cui è narrata la guerra civile tra Pompeo e Cesare, descrive una strega, chiamata Eritto, che vive nei sepolcri e ha le mani macchiate di sangue. Da lei si reca Sesto, il figlio di Pompeo, per una profezia. Così Eritto rianima il cadavere di un soldato con una tremenda cerimonia e il morto predice la sconfitta di Pompeo e l’assassinio di Cesare. Il poeta Orazio, in una delle sue Satire, de-
scrive una drammatica scena che riunisce tutte le componenti di un rito di magia nera nel mondo romano. Egli racconta della malvagia strega Canidia, che, con Sagana e Veia, rapisce un bambino al quale estrae le viscere per usarle come ingrediente di un elisir d’amore.
Riti malefici Nell’antro delle streghe, dove si svolge il rituale, Canidia, come narra Orazio, getta alle fiamme “uova di rospo viscido sporche di sangue, penne di civetta [...] e ossa strappate ai denti di una cagna”. Nel frattempo, Sagana sparge per la casa acqua del lago d’Averno e Veia sotterra il bambino fino al mento per lasciarlo poi morire di fame. Molte narrazioni letterarie sono per loro stessa natura inverosimili: le streghe (sempre anziane e orripilanti) vengono descritte come creature alle quali crescono vipere nei
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capelli, o capaci di resuscitare i morti o di trasformarsi in gufo. Ma la rappresentazione macabra della magia è un semplice rovesciamento delle pratiche religiose “ortodosse” dei Romani. Così, mentre i rituali civici si svolgevano durante il giorno, le streghe operavano al riparo della notte; invece di intonare pietose preghiere, le fattucchiere imprecavano contro gli dei; al posto che dirigersi al tempio, utilizzavano i cimiteri o i loro nascondigli come scenario per i rituali, e profanavano gli altari con sangue e viscere di bambini.
Archeologia e stregoneria Tuttavia la magia non è un’invenzione degli scrittori classici. Al contrario, sappiamo che la fattucchieria faceva parte della cultura popolare e perfino della vita quotidiana dei Romani, così come la magia nera, cioè l’insieme di quei riti volti a fare del male alle altre
persone. È quanto dimostrato da numerosi oggetti collegati alle pratiche di magia nera ritrovati dagli archeologi, come tavolette con maledizioni e sculture utilizzate in modo simile alla tradizione voodoo. Uno degli esempi più illuminanti proviene dall’Egitto, dalla città greco-romana di Antinopoli: lì fu ritrovato un vaso e, all’interno di questo, una statuetta femminile d’argilla infilzata con tredici aghi di bronzo e un piatto di piombo. Su quest’ultimo è incisa una maledizione nella quale un certo Sarapammon, l’autore del testo (o chi lo aveva commissionato), invocava lo spirito di un defunto chiamato Antinoo perché obbligasse una giovane a innamorarsi di lui. Il testo enumera tutti gli dei degli Inferi, anche divinità sconosciute al pantheon romano come Abrasax, Iao o Marmaraouoth. Nella parte centrale il testo dice: “Dèstati [spirito di Antinoo] per me e
RILIEVO CON SCENA AGRICOLA Una legge delle Dodici Tavole stabiliva: “Nessuno si appropri con la magia del raccolto o del grano di un altro”. Si credeva perciò che i sortilegi potessero rovinare i campi. II secolo d.C. Louvre, Parigi.
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W. BUSS / AGE FOTOSTOCK
ANFITEATRO DI EL DJEM All’interno di questo edificio del III secolo d.C., che sorge nella colonia romana di El Djem, in Tunisia, è stata scoperta un’iscrizione relativa a un tale di nome Donato, dedito alla professione di mago.
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vai in ogni posto, in ogni quartiere, in ogni casa e costringi Tolemaide che ha generato Aias, figlia di Origene, affinché non venga posseduta, sodomizzata e che non dia nessun piacere a un altro uomo, se non a me solo, Sarapammon, generato da Area”.
Specialisti in rituali Le maledizioni scritte e le pratiche assimilabili al voodoo, che sicuramente erano accompagnate da incantesimi e invocazioni a dei infernali, richiedevano a volte l’intervento di uno specialista in rituali, un mago o una fattucchiera che organizzava una messa in scena, usava ingredienti esotici difficili da reperire e spesso fantastici, e si vantava di conoscere una lingua sconosciuta di origine divina, capace di sottomettere la volontà degli dei. Gli scavi realizzati nel 1999 alla fonte, risalente al IV secolo a.C., dell’antica divinità Anna
Perenna, nel quartiere Parioli di Roma, hanno portato alla luce, nella cisterna retrostante la fontana, svariati oggetti utilizzati per pratiche magiche e riti religiosi. Laminette con incise maledizioni e recipienti di piombo contenenti vere e proprie bambole voodoo, un pentolone di rame e svariate monete e lucerne sembrano confermare la presenza di maghe professioniste alla fontana della dea.
Magia alla portata di tutti Altre pratiche esoteriche erano invece più semplici e alla portata di tutti. Per esempio, si faceva cadere in un pozzo una piccola lamina sulla quale era scritto il nome della persona che si voleva maledire. Una pratica che chiunque fosse capace di scrivere, anche in modo piuttosto rudimentale, poteva ricreare. Esisteva una grande varietà di motivi che spingevano le persone, sia dell’aristocrazia sia
L’ABITUDINE ROMANA DI MALEDIRE
STATUETTA INFILZATA CON AGHI. MANUFATTO IN TERRACOTTA PROVENIENTE DALL’EGITTO ROMANO. LOUVRE, PARIGI.
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E MALEDIZIONI erano incise su piccole lamine in oro o piombo (defixiones) che, arrotolate e tenute ferme da un chiodo, venivano deposte in una buca del terreno, presso una tomba o una fonte ritenute in comunicazione con gli Inferi. A volte si scagliavano anatemi trafiggendo pupazzi di cera o d’argilla: “Io ti do, o Salvia, le labbra e la lingua di Plozio [...],perché non possa dire dove soffre; le sue dita perché non possa aiutarsi; il suo ventre e la sua schiena, perché non possa riposare; la sua vescica, perché non possa urinare; le sue gambe, perché non possa stare in piedi”.
ART ARCHIVE
LAMINA BRONZEA CON MALEDIZIONI. RHEINISCHES LANDESMUSEUM, TREVIRI.
Tavolette di anatemi: gli incantesimi nella vita quotidiana
SCALA, FIRENZE
NELL’IMPERO ROMANO era consuetudine ricorrere alla magia come risposta a ogni genere di torto e offesa. Si è conservata una grande quantità di lamine nelle quali si chiede vendetta o giustizia per fatti comuni come, per esempio, il furto di calzature nei bagni pubblici. Le tipiche figurine che talvolta si accompagnavano alla maledizione scritta di solito erano legate alle mani e ai piedi.
LIBRETTO DI MAGIA IN BRONZO CON DIVERSE INVOCAZIONI, MALEDIZIONI E INCANTESIMI PER LE SITUAZIONI PIÙ DIVERSE. MUSEO NAZIONALE ROMANO, ROMA.
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del popolo, a ricorrere alla stregoneria. Buona parte delle testimonianze a noi giunte sono legate a problemi amorosi, tuttavia anche un banale furto poteva essere all’origine di una maledizione contro un ladro. Interessante è il caso di alcune tavolette di piombo (defixiones) provenienti dal tempio di Mercurio a Uley (Gran Bretagna): in una di queste, un tal Cenacus si raccomanda al dio perché faccia giustizia per un furto di bestiame e perché i colpevoli paghino amaramente finché non si decidano a rimediare alla loro indegna azione. In una seconda lamina è citata la dea Saturnina perché si adoperi per recuperare una veste di lino probabilmente rubata; l’autore non trascura di inserire un infausto augurio all’indirizzo dell’ignoto ladro, sia esso uomo, donna, schiavo o libero. Inoltre si lanciavano maledizioni dirette contro i rivali nel teatro o nei giochi circensi, nelle quali si chiedeva, per esempio, che i cavalli della squadra rivale inciampassero. Si trattava di una pratica comprensibile se si tengono in considerazione le grandi quantità di denaro che muovevano le scommesse in quelle gare. Ma anche le dispute politiche, giudiziarie o economiche potevano dar luogo a malauguri scagliati da una delle parti, quindi non è raro trovare implicati in tali rituali medici, avvocati, gestori di taverne, fabbri… Perfino membri della famiglia imperiale si lasciarono tentare. Racconta lo storico Tacito che dopo la misteriosa morte di Germanico, figlio adottivo dell’imperatore Tiberio, vennero ritrovati nella sua stanza resti di corpi umani, incantesimi, cenere con resti di sangue e defixiones con il nome di Germanico. La magia nera coinvolgeva ceti sociali molto diversi in una sorta di democrazia della superstizione e del male, tanto che Plinio il Vecchio così riassunse ciò che molti antichi romani dovevano pensare: “Non c’è nessuno che non tema di subire una maledizione”. 154 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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UNA BUONA PARTE DELLE MALEDIZIONI ERA LEGATA A PROBLEMI AMOROSI
LA MORTE DI GERMANICO In questo dipinto del XVII secolo, Nicolas Poussin raffigura il decesso dell’imperatore avvenuto per avvelenamento. Institute of Arts, Minneapolis.
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VICINO AL POZZO Edoardo Ettore Forti ha ricreato, in questo dipinto (XIX secolo), un momento della vita quotidiana in una città romana: le donne che attingono acqua da un pozzo. L’acqua giungeva a Pompei attraverso l’acquedotto dell’Aqua Alsietina, noto anche come Aqua Augusta.
MODERNIDAD SOBRE LAS RUINAS En Roma, las más modernas construcciones conviven con ruinas de más de dos mil años de antigüedad, como sucede en el hotel Radisson Blu, ubicado en la Via Filippo Turati. Durante la construcción del edificio se encontraron los restos de una vía romana del siglo II a.C., que se han conservado y pueden verse desde la recepción del hotel.
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IL LAVORO DELLO SCRIBA La statua, alta 51 centimetri e realizzata in pietra calcarea, è stata rinvenuta a Saqqara. Raffigura uno scriba intento al suo lavoro: nella mano destra impugna il pennello e con la sinistra tiene aperto il rotolo di papiro. Prima metà della V dinastia. Museo Egizio, Il Cairo.
PER SAPERNE DI PIÙ EGITTO SAGGI Vita quotidiana degli Egizi Franco Cimmino. Bompiani, 2001. Antico Egitto. Arte, storia e civiltà Valeria Cortese, M. Cristina Guidotti. Giunti, 2009. Il Libro dei Morti degli antichi Egizi Boris de Rachelwiltz. Edizioni Mediterranee, 1992. Gli antichi egizi. Immagini, scene e documenti di vita quotidiana Boris de Rachelwiltz. Edizioni Mediterranee, 1987. Vita quotidiana nell’antico Egitto Fabrizio Felici Ridolfi. Scienze e Lettere, 2000. Storia dell’antico Egitto Nicolas Grimal. Laterza, 20o7. Le donne dei faraoni. Il mondo femminile nell’antico Egitto M. Cristina Guidotti (a cura di). Fabbrica delle Idee, 2003. Vita quotidiana dell’antico Egitto Christian Jacq. Mondadori, 2000. La donna nell’antico Egitto Enrichetta Leospo, Mario Tosi. Giunti, 1997. L’amore al tempo dei faraoni Florence Maruéjol. Gremese Editore, 2012. La civiltà sul Nilo. Storia e cultura dell’antico Egitto Giorgio Spina. De Ferrari, 2008.
Storia sociale dell’antico Egitto B.G. Trigger, B.J. Kemp, D. O’Connor. Laterza, 2000. L’antico Egitto. Storia di un impero millenario Toby Wilkinson. Einaudi, 2012. ROMANZO Sinuhe l’egiziano Mika Waltari. BUR, 2012.
GRECIA SAGGI L’ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica Valeria Ando. Carocci, 2005. I Greci a teatro Harold C. Baldry. Laterza, 2009. La giustizia nella Grecia antica Cinzia Bearzot. Carocci, 2008. Il mondo di Atene Luciano Canfora. Laterza, 2013. Il mondo dei Greci Giovanna Daverio Rocchi. Bruno Mondadori, 2008. La tragedia greca Jacqueline de Romilly. Il Mulino, 1996. L’Antichità. Grecia Umberto Eco (a cura di). Encyclomedia, 2012.
Storia dei Greci Indro Montanelli. BUR, 1989.
L’uomo romano Andrea Giardina (a cura di). Laterza, 2006.
Il cittadino nella Grecia antica Claude Mossé. Armando Editore, 1998.
Storia completa dell’esercito romano Adrian Goldsworthy. Logos, 2007.
La nascita della tragedia Friedrich Nietzsche. Adelphi, 1977. I misteri del gineceo Paul Veyne. Laterza, 2000.
Il magico nella cultura antica Georg Luck. Mursia, 2006.
TESTI Tutte le tragedie Euripide, Eschilo, Sofocle. Bompiani, 2011.
ROMA SAGGI Le case del potere nell’antica Roma Andrea Carandini. Laterza, 2014. La vita quotidiana a Roma Jérôme Carcopino. Laterza, 2005.
Le legioni romane. L’armamento in mille anni di storia Silvano Mattesini. Gremese, 2006. Storia di Roma Indro Montanelli. BUR, 2011. Vita romana Ugo Enrico Paoli. Mondadori, 2014. TESTI Della magia Lucio Apuleio. Garzanti, 2006.
La donna romana Francesca Cenerini. Il Mulino, 2013.
Le metamorfosi o l’asino d’oro Lucio Apuleio. Einaudi, 2010.
Storia delle religioni Giovanni Filoramo. Laterza, 1994.
Satyricon Petronio Arbitro. BUR, 2009.
LAMPADA ROMANA IN BRONZO CON MASCHERA TRAGICA. I SECOLO A.C.
ROMANZI Io, Claudio Robert Graves. Corbaccio, 2012. Sotto l’aquila di Roma Simon Scarrow. Newton Compton, 2009.
Storia del mondo greco François Lefèvre. Einaudi, 2012. ALBUM
Paideia. La formazione dell’uomo greco Werner Jaeger. Bompiani, 2003. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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A CACCIA LUNGO IL NILO Nella tomba di Nakht, scriba, sacerdote e capo dei granai sotto il faraone Tuthmosis IV, l’alto funzionario è raffigurato con la sua famiglia durante una battuta di caccia nelle paludi del Nilo, a bordo di una barca di papiro. XVIII dinastia, 1400 a.C. circa. Necropoli di Sheikh Abd elQurnah, Tebe.
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