Speciale Storica n°22 - Grandi Invenzioni

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Periodicità bimestrale

SPECIALE

numero 22 novembre 2015 € 9,90

GRANDI INVENZIONI LE PIETRE MILIARI DELLA TECNOLOGIA E DELLA SCIENZA, DALLA RUOTA ALL'AEREO, CHE HANNO INCISO PROFONDAMENTE SULLA SOCIETÀ, SULL'ECONOMIA E SUL CORSO STESSO DELLE VICENDE STORICHE


IMPARARE a

PENSARE Le idee dei grandi filosofi spiegate in modo chiaro. Una biblioteca essenziale che ti invita a riflettere in maniera critica sulle grandi questioni del mondo di oggi.

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GIUSTIZIA - ETICA - LIBERTÀ - CRISI DEI VALORI


GRANDI INVENZIONI IL VOLO DELL’IMMAGINAZIONE Le prime macchine volanti richiamarono potentemente l’attenzione di scrittori e artisti, che immaginarono gli apparecchi più fantasiosi ed eccentrici. Litografia del 1898 del musical The Air Ship, scritta da J. M. Gaites e messa in scena a New York. AKG / ALBUM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA FERROVIA NEL XIX SECOLO Dalla locomotiva The Rocket messa a punto da Robert Stephenson nel 1829 all’apertura della prima tratta della Transiberiana nel 1896: il XIX è stato il secolo della ferrovia. Nell’immagine, un convoglio ferroviario in un tunnel londinese. Science Museum, Londra.

Ventuno rivoluzionarie invenzioni: gli autori, le epoche, le tecniche e i cambiamenti apportati alla nostra civiltà

20 LA CER AMICA 26 LA SCRITTUR A 32 LA RUOTA 38 LA METALLURGIA DEL FERRO 44 L’ARTE DELLA GUERR A 50 IL CALCESTRUZZO ROMANO 58 LA BUSSOLA 64 LA POLVERE DA SPARO 70 IL MULINO 76 L’OROLOGIO 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


DE AGOSTINI / ALBUM

82 LA STAMPA 90 MICROSCOPIO E TELESCOPIO 96 IL MOTORE 104 IL TELEGR AFO 110 IL TELEGR AFO SENZA FILI 116 L’ELETTRICITÀ 124 L’AEREO

L’OROLOGIO ASTRONOMICO, MONTATO SUL LATO SUD DEL MUNICIPIO DELLA CITTÀ VECCHIA, A PRAGA. FOTOGRAFÍA: BLOODUA / AGE FOTOSTOCK

132 L’AUTOMOBILE 140 LA FOTOGR AFIA 146 IL CINEMA 154 IL TELEFONO STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PATRIMONIO

Da Abu Simbel a Katmandu

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el 1959, quando fu progettata la diga di Assuan, la grande opera d’ingegneria destinata alla regolamentazione delle acque del Nilo, il principale fiume africano, e alla creazione di un immenso serbatoio d’acqua – il lago Nasser –, il mondo intero temette per la sorte di Abu Simbel. L’opera prevista comportava l’inabissamento sotto le acque dei templi scavati nelle rocce lungo le rive del Nilo nubiano durante il regno di Ram-

ses II e della sua sposa Nefertari, nel XIII secolo a.C. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco) decise quindi di avviare un’ambiziosa campagna internazionale per la raccolta del denaro necessario all’attuazione di un lavoro titanico: trasferire i templi, pezzo su pezzo, in un sito prossimo all’originario per poterli salvare. Questa costosissima operazione fu possibile grazie alla cooperazione di una cinquantina di Paesi e costituì un suc-


DELL’UMANITÀ

cesso che divenne premessa per la firma della Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Mondiale, Culturale e Naturale dell’Umanità, avvenuta nel corso della Conferenza generale dell’Unesco tenutasi a Parigi nel 1972. L’obiettivo era preservare per le future generazioni i principali siti naturali del pianeta e i patrimoni culturali costituiti da testimonianze monumentali e artistiche. Oggi prendono parte a questo progetto 191 Stati che vi hanno aderito nel corso degli anni e condividono gli obiettivi della Convenzione, impegnandosi a individuare e inventariare gli elementi più significativi del proprio patrimoFOTO: GEORG GERSTER / NATIONAL GEOGRAPHIC CREATIVE (A SINISTRA); JOSEF NIEDERMEIER / IMAGEBROKER / AGE FOTOSTOCK (SOPRA)

nio, a renderne nota l’eccezio- MONUMENTI NUBIANI, DA ABU SIMBEL A FILE nalità e ad accrescere i mezzi EGITTO necessari per salvaguardarli. Anno d’iscrizione: 1979 I templi di Ramses II ad Abu Simbel e il Uno sforzo globale per con- santuario di Iside a File, nell’Egitto nubiano, servare nelle migliori condi- furono salvati dalla crescita delle acque del zioni possibili oltre ottocen- Nilo provocata dalla diga di Assuan to siti di inestimabile valore (a sinistra, trasferimento di un frammento di una statua di Ramses) grazie a una culturale, che ci permette di campagna internazionale promossa ammirare oggi testimonianze dall’Unesco tra il 1960 e il 1980. risalenti a migliaia di anni fa: vestigia di civiltà estinte, luoghi sacri, antichi nuclei urbani, complessi palaziali e castelli, gioielli di regni antichi, mirabili opere d’ingegneria, raffinati oggetti artistici.


NATIONAL GEOGRAPHIC PATRIMONIO DELL’UMANITÀ

Da Abu Simbel a Katmandu

Cosciente della grande importanza di questo patrimonio universale, National Geographic ha voluto mostrare fin dall’inizio, attraverso le sue pubblicazioni e altri mezzi d’informazione, le meraviglie della natura e quelle che l’uomo è stato in grado di creare nel corso della sua storia. Ma ha anche messo in guardia su quanti pericoli molte di queste testimonianze corrono. Nel caso dei beni culturali, spesso le minacce sono legate al trascorrere del tempo o sono la conseguenza di catastrofi naturali o, purtroppo, dell’azione dell’uomo, come sta avvenendo nel Vicino Oriente. Se negli anni Sessanta del secolo scorso Abu Simbel ha rappresentato una sfida tecnologica al servizio della lodevole intenzione di salvare dei templi egizi, oggi il mondo si sente impotente di fronte alle terribili immagini di distruzione provenienti dal Nepal. Unesco è consapevole che, per rimediare ai danni prodotti dai recenti terremoti che hanno devastato il Paese, si apriranno nuovi fronti. Il suo direttore generale, Irina Bokova, oltre a trasmettere la propria partecipazione per la perdita di migliaia di vite umane, ha voluto portare all’attenzione generale l’impatto devastante causato dai moti tellurici nella valle di Katmandu, Patrimonio dell’Umanità dal 1979: «Abbiamo mobilitato i nostri esperti e stiamo preparando una missione internazionale per valutare i danni in modo approfondito

e consigliare e sostenere le autorità nepalesi e le comunità locali nel percorso di recupero». Oggi abbiamo a disposizione molti strumenti e conoscenze sofisticate per riparare i danni causati dalla forza della natura o dalle distruzioni perpetrate dall’uomo. Questo progetto richiederà l’impegno di migliaia di persone in tutto il pianeta: ingegneri, tecnici, restauratori, architetti, artisti, esperti informatici, geologi, chimici, professionisti di formazione multidisciplinare che si dedichino al recupero di questa eredità senza la quale perderemmo per sempre una parte importante della nostra storia. La cultura, ha detto lo scrittore e ministro francese André Malraux, è ciò che continua a vivere dopo la morte. Senza di essa, senza le sue molteplici manifestazioni, noi saremmo vittime di un’amnesia esistenziale che ci impedirebbe di continuare a tracciare il percorso del nostro passaggio nel mondo e a scrivere la storia della civiltà umana. Con la pubblicazione della nuova opera National Geographic Patrimonio dell’Umanità, intendiamo contribuire alla scrittura di questa storia ed effettuare, con una collana costituita da 30 volumi illustrati con immagini di altissima qualità fotografica, un viaggio esaustivo alla scoperta di tutti i beni naturali e culturali che fanno parte del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Un’autentica finestra aperta sulle meraviglie del nostro mondo.

PATRIMONIO DELL’UMANITÀ è un’opera in 30 volumi di grande formato che offre

le informazioni più aggiornate sui siti e i monumenti dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, rispondendo così alla chiamata istituzionale del National Geographic di suscitare interesse verso la protezione del pianeta. Organizzata per continenti e Paesi secondo un criterio geografico, l’opera è splendidamente illustrata con oltre 6.000 fotografie e cartine. Mostra anche i documenti protetti dall’Unesco con il programma “Memoria del Mondo” e le tradizioni, le espressioni orali, le arti dello spettacolo, i costumi sociali, i riti e le festività, le conoscenze e le tecniche artigianali tradizionali comprese nel programma “Patrimonio Culturale Immateriale”. Scopri come abbonarti su www.rbaitalia.it. FOTO: BERTRAND GARDEL / HEMIS / GTRES (DESTRA, SOPRA E SOTTO); YANN DOELAN / HEMIS / GTRES (DESTRA, CENTRO)


PARCO NAZIONALE DI TIKAL GUATEMALA

Anno d’iscrizione: 1979

Situata nel cuore di una selva impenetrabile, Tikal, che fu abitata dal VI secolo a.C. al X secolo d.C., è uno dei più importanti siti della civiltà maya. Il suo centro cerimoniale comprende templi, palazzi e piazze alle quali si accedeva attraverso rampe. Nei dintorni si trovano resti di abitazioni.

ANGKOR CAMBOGIA

Anno d’iscrizione: 1992

Su un’area di circa 400 chilometri quadrati, per la maggior parte ricoperti di rigogliosa foresta, si trovano le vestigia di Angkor, centro dell’Impero khmer, che toccò il suo apogeo tra il IX e il XIV secolo. Ne fanno parte il celebre tempio di Angkor Wat, l’ultima capitale khmer, e il Bayon, tempiomontagna decorato con innumerevoli sculture.

VENEZIA E LA SUA LAGUNA ITALIA

Anno d’iscrizione: 1987

Fondata nel V secolo, la città lagunare si estende su 118 isolette collegate fra loro da ponti. Dal IX al XIX secolo Venezia fu una grande potenza marittima e nel corso del tempo fu abbellita da palazzi e chiese che conservano capolavori dei più grandi artisti di ogni epoca, come Giorgione, Tiziano, Veronese, Tintoretto.


LEBRECHT MUSIC & ARTS / ALBUM


IL CORAGGIO DI CONOSCERE

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apere aude: «Abbi il coraggio di conoscere», ripeteva la grande scienziata Rita Levi Montalcini, tanto da fare di questa esortazione di Immanuel Kant il titolo di un suo libro che mi volle dedicare. E in effetti per cambiare il mondo attraverso la scienza e la tecnologia (ma anche in altri campi) l’ingrediente principale è proprio il coraggio. Il coraggio di chiedersi perché le cose sono così e non in un altro modo, di muovere contro i dogmi e le convinzioni del resto del mondo per trovare nuove strade inesplorate, di cercare l’impossibile. Perché il pensiero, aggiungeva la scienziata, «non ha Colonne d’Ercole». La storia delle grandi invenzioni che hanno cambiato la nostra civiltà è infatti una storia di coraggio, di passione, di intuizioni e di duro lavoro. A mano a mano, quelli che in passato sembravano sogni irrealizzabili – trasmettere la voce a distanza in modo istantaneo, vedere immagini che provengono dall’altro capo del mondo, volare come gli uccelli – si sono piano piano trasformati in una realtà che oggi diamo per scontata quando usiamo il cellulare o prendiamo l’aereo. Ma dietro queste invenzioni c’è il lavoro di personaggi diventati poi famosissimi e di gente rimasta anonima, e la volontà di non arrendersi mai. Thomas Edison, per realizzare la lampadina elettrica, fece 1200 esperimenti fino a trovare il filamento che riusciva a diventare incandescente senza bruciare; e a chi gli chiedeva, durante questi tentativi, se non fosse il caso di soprassedere, rispondeva: «Oggi intanto ho imparato come non si deve costruire una lampadina». Guglielmo Marconi, per regalare al mondo la sua invenzione del telegrafo senza fili, si dovette scontrare con l’ottusità dei burocrati italiani e fu costretto a emigrare in Inghilterra. Johannes Gutenberg dedicò la sua vita alla realizzazione della stampa a caratteri mobili combattendo contro la miseria e i tradimenti dei suoi collaboratori. Tutti però avevano una cosa in comune: il coraggio delle proprie idee. Come diceva Albert Einstein, «La cosa importante è non smettere mai di porsi domande». Giorgio Rivieccio

IL PROGRESSO TECNOLOGICO nell’Inghilterra vittoriana: il motore a vapore, le ferrovie e l’illuminazione elettrica avrebbero trasformato il mondo. Illustrazione degli inizi del XX secolo. ORONOZ / ALBUM


LE INVENZIONI CHE HANNO Il costante sviluppo tecnologico ha permesso all’umanità di dare vita a società sempre

IV MILLENNIO A.C. LA SCRITTURA

ART ARCHIVE

TRIPODE IN CERAMICA DEL X SECOLO A.C. RINVENUTO NELLA NECROPOLI DEL CERAMICO (KERAMEIKOS), ATENE.

Sebbene la scrittura cuneiforme si debba ai Sumeri, per oltre 3000 anni venne utilizzata da diverse civiltà. Verso la stessa epoca, in Egitto nacque la scrittura geroglifica. PAGINA 26

I primi utensili in ceramica hanno visto la luce in Mesopotamia ed erano realizzati con l’argilla presente nei terreni lungo le rive dei fiumi Tigri ed Eufrate. PAGINA 20

ERICH LESSING / ALBUM

VIII MILLENNIO A.C. LA CERAMICA TAVOLETTA CON SEGNI CUNEIFORMI DA LAGASH (SUMER), 2400 A.C. LOUVRE, PARIGI.

il mondo antico LE CIVILTÀ DELL’ANTICHITÀ SVILUPPARONO NUMEROSE

E ALLA DIFESA CONTRO GLI ATTACCHI DEI POPOLI VICINI.

CARRO VOTIVO RINVENUTO A DULJAJA (SERBIA). ETÀ DEL BRONZO. MUSEO NAZIONALE, BELGRADO.

XII SECOLO A.C. LA METALLURGIA DEL FERRO

I primi oggetti realizzati in ferro compaiono nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo Orientale. PAGINA 38

PUNTE DI FRECCIA DELLA CULTURA DI GOLASECCA (PROVINCIA DI VARESE). 450 A.C. CIRCA. MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO, NOVARA.

3000 A.C.

LA RUOTA

Grazie alla ruota, le piattaforme slittanti cedettero il passo a quelle rotanti, che potevano circolare più facilmente su terreni accidentati e irregolari. I primi carri nacquero in Mesopotamia. PAGINA 32

DEA / ALBUM

AL COMMERCIO E ALLA COMUNICAZIONE FINO ALL’EDILIZIA

JOSEPH MARTIN / ALBUM

INNOVAZIONI IN TUTTI I CAMPI, DALL’ECONOMIA,


CAMBIATO LA STORIA

più complesse e di migliorare in modo decisivo le sue condizioni di vita

BUSSOLA TASCABILE IN AVORIO DEL XIX SECOLO, CHE COMPRENDE ANCHE UNA MERIDIANA.

BRIDGEMAN / ACI

UIG / ALBUM

MACCHINE D’ASSEDIO DELL’ANTICA ROMA, DA UN’INCISIONE DEL XIX SECOLO DI SCUOLA ITALIANA.

XI SECOLO LA BUSSOLA

IV SECOLO A.C. L’ARTE MILITARE

Nata in Cina, la bussola divenne nota in Occidente a partire dal XII secolo ed ebbe un ruolo fondamentale nei viaggi di scoperta ed esplorazione realizzati dagli Europei nel corso del XV, XVI e XVII secolo.

L’utilizzo della catapulta, una delle più complesse macchine antiche, è attestato a partire dal IV secolo a.C. Costruite con il fine di effettuare tiri di precisione, più che di potenza, come proiettili venivano usavati soprattutto frecce e dardi relativamente leggeri.

PAGINA 58

PAGINA 44

il Medioevo LONTANO DALL’ESSERE UN PERIODO DI IGNORANZA E

II SECOLO A.C. IL CALCESTRUZZO ROMANO

FANATISMO, IL MEDIOEVO SVILUPPÒ INNOVAZIONI CRUCIALI

Era semplice ed economico, due vantaggi che fecero dell’opus caementicium un materiale molto utilizzato nell’edilizia. Con esso, i Romani innalzarono gloriosi monumenti di eccellente qualità.

CHE PERMISERO DI ORIENTARSI NEI VIAGGI MARITTIMI,

STAMPARE LIBRI IN SERIE, SFRUTTARE L’ENERGIA NATURALE, MISURARE IL TEMPO E UTILIZZARE ARMI DA FUOCO.

PAGINA 50

FIASCHETTA PER POLVERE DA SPARO DEL XIX SECOLO. I CORNI ERANO SPESSO UTILIZZATI PER CONSERVARE LA POLVERE DA SPARO PERCHÉ L’AVORIO ISOLA E PROTEGGE DALL’UMIDITÀ.

BRIDGEMAN

/ ACI

LA CITTÀ DI ROMA IN UN RILIEVO DEL I SECOLO D.C. MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA, ROMA.

DE AGOSTINI

XII SECOLO LA POLVERE DA SPARO

Giunta in Europa dall’Oriente, la polvere da sparo ha trasformato radicalmente l’arte della guerra. L’uso delle armi da fuoco ha dato vita a una rivoluzione militare nella quale tutto ruotò intorno all’artiglieria. I cannoni suscitavano terrore nel nemico e obbligarono gli ingegneri a costruire fortezze più alte e resistenti. PAGINA 64

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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DE AGOSTINI / ALBUM

XII SECOLO IL MULINO

Ad acqua o a vento, i molteplici utilizzi del mulino (macinare il grano, produrre carta, fabbricare vetro e polvere da sparo, forgiare metalli...) hanno permesso di cambiare le tecniche di produzione e di economizzare le risorse.

MICROSCOPIO PETROGRAFICO (O A LUCE POLARIZZATA) DEL XIX SECOLO.

PAGINA 70

XV SECOLO LA STAMPA

BRIDGEMAN / ACI

OROLOGIO IN FERRO REALIZZATO IN GERMANIA VERSO LA METÀ DEL XVI SECOLO. FITZWILLIAM MUSUEM, CAMBRIDGE.

I caratteri mobili di Gutenberg permisero di stampare libri in serie. Con la stampa moderna si accelerò la trasmissione di conoscenze e di informazioni. PAGINA 82

XIV SECOLO L’OROLOGIO MECCANICO

Precisione ed efficacia furono i valori principali introdotti dall’orologio meccanico. Possederne uno era motivo di orgoglio e simbolo di prestigio. PAGINA 76

INTERNI DI UNA STAMPERIA, IN UNA INCISIONE DEGLI INIZI DEL XVII SECOLO. 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

BRIDGEMAN / ACI

MULINO AD ACQUA IN UNA MINIATURA DA UN MANOSCRITTO MEDIEVALE. XV SECOLO.


“Con l’aiuto del microscopio non c’è niente di così piccolo che possa sfuggire alla nostra indagine. Un nuovo mondo visibile è stato scoperto per il pensiero” ROBERT HOOKE (1653-1703)

XVIII SECOLO

LOCOMOTIVA DEL 1830. L’INCISIONE MOSTRA IL FUNZIONAMENTO BASATO SULLA FORZA A VAPORE.

Il dominio sull’energia del vapore ha permesso uno spettacolare sviluppo dei trasporti, dell’estrazione mineraria e della siderurgia, rendendo possibile la Rivoluzione Industriale in Gran Bretagna e in Europa. PAGINA 96

ADOC-PHOTOS / ALBUM

IL MOTORE A VAPORE

XVI SECOLO

IL MICROSCOPIO

Grazie a questa invenzione, la biologia fece un passo da gigante, potendo finalmente osservare microorganismi prima invisibili. PAGINA 90

i tempi moderni IL TELEGRAFO, IL VAPORE, IL TELEFONO, LA FOTOGRAFIA E IL CINEMA SONO TRA LE GRANDI INVENZIONI CHE HANNO CAMBIATO RADICALMENTE LA SOCIETÀ DELL’EPOCA CONTEMPORANEA.

1830 CIRCA

LA FOTOGRAFIA

I primi artefici di questa tecnica in grado di fissare immagini fecero la loro comparsa a Parigi ed erano pittori, chimici e ottici.

PRISMA / ALBUM

QUINTLOX / ALBUM

PAGINA 140

DAGHERROTIPO. LE CASCATE DEL NIAGARA, 1855 CIRCA.


PRISMA / ALBUM

RITRATTO DI MARCONI. FOTO DEL 1903, DALLA RIVISTA THE WORLD’S WORK.

1877

L’AUTOMOBILE

SCALA, FIRENZE

Sebbene ci fossero stati prototipi precedenti, fu l’ingegnere tedesco Nikolaus August Otto a costruire il primo motore a combustione in quattro tempi, che funzionava a gas.

SCALA, FIRENZE

PAGINA 132

1874 IL TELEGRAFO SENZA FILI

Con la sua invenzione il bolognese Guglielmo Marconi annullò di colpo le distanze sul nostro pianeta, consentendo di comunicare istantaneamente tra due punti qualsiasi del globo.

IL BUTLER PETROL-CYCLE INVENTATO DALL’INGLESE EDWARD BUTLER NEL 1888 ERA UN VEICOLO A TRE RUOTE CON MOTORE.

DE AGOSTINI / DAGLI ORTI / ALBUM

PAGINA 110

DETECTOR MAGNETICO DI MARCONI, REALIZZATO NEL 1902 IN UNA SCATOLA DI SIGARI (REPLICA).

BRIDGEMAN / ACI

TELEGRAFO AD AGHI IDEATO DA CHARLES WHEATSTONE E USATO IN SICILIA NEL XIX SECOLO.

1837 IL TELEGRAFO

Collegare il pianeta fu il grande successo del telegrafo, un’invenzione che divenne il simbolo del progresso nel XIX secolo. PAGINA 104

16 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


“L’uccello ha imparato quest’arte di equilibrio, e l’ha imparata così bene, che impariamo ad apprezzarla solo quando cerchiamo di imitarla”. WILBUR WRIGHT (1867-1912)

AEROPLANO DEL FRANCESE CLÉMENT ADER, COLLAUDATO NEL 1897.

XIX SECOLO

L’ELETTRICITÀ

BRIDGEMAN / ACI

Ha convertito la notte nel giorno e trasformato totalmente la vita dell’uomo. PAGINA 116

1903 L’AEREO

La storia dell’aviazione passa inevitabilmente per i fratelli Wright, sebbene prima e dopo di loro altri pionieri contribuirono a rendere realtà questo sogno che risale agli albori dell’umanità. PAGINA 124

BRIDGEMAN / ACI

MANIFESTO DEI FRATELLI LUMIÈRE DEL 1896.

1895 IL CINEMATOGRAFO AKG / ALBUM

STRADE ILLUMINATE NELLA CITTÀ DI NEW YORK. 1889.

I fratelli Lumière, figli di un fotografo, realizzarono la tecnica dell’immagine in movimento e commercializzarono con successo la loro invenzione. PAGINA 146 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MONDO ANTICO


EDAD MEDIA

LA VITA QUOTIDIANA A ROMA L’affresco della Casa di Iulia Felix a Pompei presenta, nella parte inferiore, un calamaio in bronzo con stiletto, un rotolo di papiro con sigillo e due tavolette cerate. I secolo d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli. SITES AND PHOTOS / ALBUM

La scrittura facilitò la comunicazione; la ruota, i trasporti; la ceramica, il commercio; il ferro, la produzione di armi più efficaci; il cemento, la vita urbana a Roma... Grazie a questi progressi, le grandi civiltà furono in grado di prosperare.


MONDO ANTICO

LA CERAMICA Con l’abbondante argilla fornita dai fiumi Tigri ed Eufrate gli abitanti dell’antica Mesopotamia realizzarono le prime rudimentali ceramiche fatte in casa. Solo in seguito si sviluppò la produzione in serie di vasellame cotto nel forno JUAN LUIS MONTERO FENOLLÓS PROFESSORE DI STORIA ANTICA PRESSO L’UNIVERSITÀ DI LA CORUÑA

DEA DELLA FERTILITÀ DI EPOCA NEOLITICA: STATUETTA IN ARGILLA DEL VI MILLENNIO A.C. PROVENIENTE DALL’ANATOLIA (TURCHIA). 20 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

sigenza di fabbricare vasellame a partire da un materiale plasmabile come il gesso; inoltre, dato che la produzione del gesso avveniva cuocendo frammenti di pietre, la comparsa di questi recipienti testimonia la diffusione della tecnologia del fuoco nel mondo neolitico. In definitiva, i due principi alla base della fabbricazione della ceramica – la capacità di ricavare vasellame da una materia prima malleabile e quella di utilizzare il fuoco – erano già conosciuti nei villaggi mesopotamici all’inizio del VII millennio a.C.

Un processo durato due millenni Le origini della ceramica coincisero probabilmente con la scoperta che, attorno ai focolari dove si cuocevano gli alimenti, la terra tendeva a indurirsi. Di qui l’idea di sfruttare questa proprietà, tipica dei terreni argillosi, per realizzare vasi cotti sul fuoco. I primi oggetti in ceramica furono realizzati in ambito domestico e avevano forma più o meno casuale. Lo testimoniano i frammenti di ceramica e le figurine in argilla rinvenute nel sito neolitico di Mureybet, nella valle del Medio Eufrate.

WERNER FORMAN / ART ARCHIVE

ART ARCHIVE

L

e origini della ceramica sono oscure, tuttavia le nostre conoscenze archeologiche ci permettono di ipotizzare i passaggi attraverso cui questa tecnica di lavorazione dell’argilla si impose nel mondo antico. In Mesopotamia, durante il Neolitico, le case non erano costruite in pietra ma con mattoni di adobe, un impasto di argilla, sabbia e paglia fatto essiccare al sole. Era inoltre frequente l’uso del gesso per rivestire e proteggere i muri delle abitazioni. Il gesso era anche utilizzato per fabbricare piccoli recipienti che gli archeologi hanno ribattezzato “vasellame bianco”, e che per almeno due motivi possono essere considerati i diretti antecedenti della ceramica. In primo luogo, producendo questi manufatti, l’uomo manifestava per la prima volta l’e-


MONDO ANTICO

CIOTOLA CON FIGURA UMANA Questa ciotola in terracotta, rinvenuta a Susa (Iran) e oggi al Louvre di Parigi, risale al 4000 a.C. circa. La figura dipinta potrebbe rappresentare una personificazione dell’agricoltura.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MONDO ANTICO

I PIÙ ANTICHI OGGETTI IN CERAMICA GIUNTI FINO A NOI RISALGONO ALL’VIII MILLENNIO A.C.

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Questi reperti, databili all’VIII millennio a.C., sono gli oggetti in ceramica più antichi pervenuti fino a noi. Non sappiamo in che modo la tecnica della ceramica si diffuse, ma pare certo che il processo non fu né rapido né omogeneo, poiché trascorsero quasi duemila anni prima che manufatti in argilla cotta fossero prodotti in tutto il Vicino Oriente.

UNA NAVE DA CARICO

Dare forma all’argilla

22 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ATTORNO AL 1350 A.C., UNA NAVE DA CARICO NAUFRAGÒ PRESSO ULUBURUN, AL LARGO DELL’ODIERNA TURCHIA. LA SUA STIVA CUSTODIVA CENTINAIA DI CERAMICHE DELL’ETÀ DEL BRONZO.

ROSALIE SEIDLER / NATIONAL GEOGRAPHIC CREATIVE

Creare vasellame in ceramica era un processo in più fasi. Innanzitutto bisognava procurarsi l’argilla e prepararla per la lavorazione. Le pianure mesopotamiche erano ricche di argille sedimentarie, depositate dal Tigri e dall’Eufrate; si trattava quindi di una materia prima abbondante, che gli abitanti della regione sfruttavano per costruire le loro case e, dopo il IV millennio a.C., come supporto per la scrittura – le tavolette su cui si incidevano i caratteri cuneiformi erano in argilla. Allo stato naturale, tuttavia, l’argilla non era utilizzabile; per poterla lavorare bisognava prima lavarla bene e poi ripulirla dalle sue impurità. Solo a quel punto l’artigiano poteva intervenire iniziando a modellare il blocco d’argilla nella forma voluta. Le tecniche utilizzate per lavorare la ceramica erano essenzialmente tre: la modellazione a mano, quella a stampo e la foggiatura al tornio. La modellazione a mano è il metodo più antico, conosciuto già nel Neolitico: si prendeva un blocco di argilla e, con le mani, gli si dava la forma desiderata; poi si procedeva alla cottura in forno. Così, nelle case mesopotamiche, si fabbricavano vasi o tazze. Per oggetti di dimensioni maggiori, come le brocche, la tecnica di lavorazione era diversa: si creavano cilindri di argilla lunghi come un grissino e li si arrotolavano gli uni sopra gli altri, unendoli poi fra loro e lisciandoli per ottenere una superficie compatta.

Tra il 1984 e il 1994 gli archeologi George F. Bass e Cemal Pulak riportarono alla luce il relitto di una nave del XIV secolo a.C. proveniente da Cipro o da un porto siriano o palestinese , e naufragata nei pressi di Uluburun, lungo la costa sudoccidentale della Turchia. Tra i pezzi in ceramica recuperati, integri o in frammenti, vi è la grande giara (pithos) in cui era conservata l’acqua potabile per l’equipaggio 1. Altri nove grandi vasi ciprioti 2, alti fino a 1,30 metri di altezza, erano usati come contenitori per trasportare granaglie, melagrane e forse olio d’oliva. 150 anfore cananee 3 custodivano infine una tonnellata di resina aromatica di terebinto, utilizzata frequentemente come incenso. Assieme agli oggetti menzionati, la nave imbarcava armi, gioielli, bicchieri, manufatti in rame, avorio e bronzo, nonché una grande quantità di ceramiche 4 cipriote e micenee destinate con ogni probabilità a essere smerciate dai marinai nei porti d’approdo della nave. ILLUSTRAZIONE LA PARTE SOMMERSA DELLA NAVE È STATA RICOSTRUITA ISPIRANDOSI AI RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI EFFETTUATI AL LARGO DI ULUBURUN, LUNGO LE COSTE DELLA TURCHIA SUDOCCIDENTALE; INVECE LA PARTE SUPERIORE SI BASA SULL’AFFRESCO DI UNA TOMBA EGIZIA DEL XIV SECOLO A.C. CHE MOSTRA L’ARRIVO DI UNA FLOTTA SIRIANA IN PORTO. AUTORI: NED E ROSALIE SEIDLER / NATIONAL GEOGRAPHIC.


MONDO ANTICO

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BILL CURTSINGER / NGS

LA COPPA IN ORO, sporca di sabbia, che occupa il centro della foto è circondata da pezzi in ceramica: un’anfora, un fiasco cananeo e, appena visibile, una kilyx, una coppa greca larga e piatta, con due anse come manici, utilizzata per le libagioni nei banchetti.

I SOMMOZZATORI recuperano un’anfora cipriota dal relitto della nave affondata a Uluburun: lo scafo era lungo 15 metri e aveva una capacità di carico di 20 tonnellate. Il relitto è stato ritrovato tra i 44 e i 52 metri di profondità, su un piano roccioso ricoperto di sabbia.

BILL CURTSINGER / NGS

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MONDO ANTICO

MANUFATTI DI OTTOMILA ANNI FA

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E PRIME VERE CERAMICHE mesopota-

miche corrispondono a tre culture sviluppatesi nel nord della regione tra il 6400 e il 5400 a.C. Sono le culture neolitiche di Hassuna, Samarra e Halaf. In genere, si tratta di ceramiche fatte a mano e riccamente decorate con motivi incisi o dipinti, che si evolvono da semplici ornamenti geometrici a più complessi disegni vegetali, animali e anche antropomorfi. Con la cultura di Halaf, la ceramica si trasformò in una produzione di straordinaria qualità tecnica ed estetica, traducendosi in splendidi vasi dipinti, spesso anche policromi. Il risultato è una ceramica di lusso prodotta da artigiani professionisti per il commercio e l’esportazione. Tell Arpachiyah, nel nord dell’odierno Iraq, e Chagar Bazar, nel nord della Siria, furono due importanti centri della produzione di questo tipo di ceramiche durante tutto il VI millennio a.C.

CERAMICA DI SAMARRA, PIATTO CON LA RAFFIGURAZIONE DI CAPRE SELVATICHE. 6200-5700 A.C. LOUVRE, PARIGI..

DAGLI ORTI / DEA / ALBUM

UN INSOLITO VASO ASSIRO Brocca in ceramica con curioso beccuccio antropomorfo proveniente dal sito archeologico di Til Barsip (l’odierna Tell Ahmar), in Siria. 2400 a.C., Museo nazionale di Aleppo, Siria.

24 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

La modellazione a stampo si basava sull’utilizzo di una matrice in gesso che replicava la forma desiderata. L’argilla liquida veniva colata dentro la matrice e lasciata asciugare; poi si estraeva il pezzo dallo stampo e lo si rifiniva a mano. Seguiva la cottura in forno.

L’uso del tornio Nello sviluppo della ceramica, l’impiego del tornio rappresentò un progresso tecnologico decisivo, poiché permise la produzione di vasellame in serie. Non è facile stabilire quando entrò in scena il tornio, derivazione diretta della ruota. L’esempio più antico pare essere una ruota da vasaio rinvenuta nella città sumera di Ur, nell’odierno Iraq, risalente al 3000 a.C. circa. Tuttavia, l’analisi delle ceramiche di un’altra città sumera, Uruk (sempre in Iraq), permette di retrodatare l’impiego del tornio alla metà del IV millennio a.C.

Dal punto di vista tecnico, si distinguono due tipi di tornio: quello “lento” o tournette (“torniella”) e quello “veloce” o a mano. Il primo è costituito da un disco girevole azionato dallo stesso artigiano con una mano; nel tornio veloce, invece, il vasaio muove il disco tramite un pedale, ed ha quindi entrambe le mani libere per lavorare l’argilla. Il tornio gira a una velocità maggiore e permette la lavorazione di più pezzi in minor tempo. La produzione, quindi, diventa seriale e si standardizza nelle forme per rispondere alla crescente domanda delle città mesopotamiche. A Susa, nel sud dell’Iran, è conservata la matrice di un sigillo cilindrico del 3500 a.C. circa raffigurante una bottega di artigiani al lavoro: nella scena non compare alcun elemento che faccia pensare a un tornio. In Egitto, la prova più antica dell’uso del tornio da vasaio è costituita dall’affresco di una tomba del 2400


WERNER FORMAN / UIG / ALBUM

MONDO ANTICO

a.C., in cui è raffigurato un uomo che modella un vaso su un disco girevole fatto ruotare con la mano destra. Il tornio veloce non apparirà nell’arte egizia prima del VI secolo a.C.

Dopo la decorazione, il forno Una volta rifinito il vaso, l’artigiano iniziava a decorarlo. In Mesopotamia, esistevano varie tecniche decorative: vi era la decorazione incisa, praticata incidendo la superficie del pezzo con un oggetto appuntito; quella excisa, che consisteva nell’estrarre modesti strati di impasto dalla superficie per creare disegni; la decorazione impressa, ottenuta premendo sulla superficie del manufatto un oggetto solido; la decorazione dipinta e l’invetriatura. Quest’ultima tecnica, basata sull’applicazione alle terrecotte di una vernice a base di silice e piombo, è documentata dal XIV secolo a.C. e si sviluppò nel I millennio a.C.; un buon

esempio è la Porta di Ishtar di Babilonia, conservata nel Pergamonmuseum di Berlino. La cottura del vasellame avveniva inizialmente in semplici fosse scavate nel terreno, dove non era possibile il controllo della temperatura. In seguito vennero realizzati veri e propri forni in adobe, suddivisi in due sezioni: una parte inferiore, o camera di combustione, e una parte superiore, o camera di cottura. Nella camera di combustione, in genere scavata nel terreno, si produceva il calore alimentando il fuoco con legno o sterco secco. La camera superiore, separata da quella di combustione da una griglia e ricoperta da una cupola, serviva per la cottura della ceramica. Questo tipo di forno permetteva un maggiore controllo della temperatura, che poteva raggiungere i 1000 gradi; è stato documentato a Yarim Tepe (Iraq), nel nord della Mesopotamia, già sul finire del VII millennio a.C.

UN VASAIO AL LAVORO Impronta di sigillo accadico risalente al 2340-2180 a.C., che mostra nella parte superiore un vasaio che modella in ginocchio un’anfora; di fronte a lui sono allineati vari contenitori in ceramica.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MONDO ANTICO

LA SCRITTURA La scrittura nacque nel IV millennio a.C. presso i Sumeri, come strumento per registrare e contabilizzare le attività economiche. In seguito si diffuse presso altre culture, assumendo forme grafiche e finalità differenti MARCOS SUCH-GUTIÉRREZ PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID

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WERNER FORMAN / GTRES

I

due primi sistemi di cise tra il 3200 e il 3100 a.C. scrittura dell’umanità con caratteri protocuneifornacquero sul finire del mi e rinvenute a Uruk, città IV millennio a.C., in corrispondente all’odierna due aree geografiche conWarka, nell’Iraq centrale. IN ARGILLA CON I tigue: la Mesopotamia, ovvero la SEGNIBULLA DEI TOKEN SULLA SUPERFICIE regione asiatica compresa tra i fiu- ESTERNA , 3400-3300 A.C., URUK. Una storia in quattro tappe AKG / ALBUM mi Tigri ed Eufrate, nella quale si Il cammino che conduce alla nascisviluppò la scrittura cuneiforme, e l’Egitto, ta della scrittura cuneiforme può essere suddove apparve la scrittura geroglifica. diviso in quattro tappe: la prima risale all’iniBenché entrambi questi sistemi di scrittura zio del Neolitico (8000 a.C.) e si caratterizza siano sorti in corrispondenza con la rivolu- per la comparsa in Mesopotamia di “gettoni” zione agricola del Neolitico, resta ignoto se la di pietra o argilla – i token– utilizzati come loro origine sia avvenuta indipendentemente unità di misura per la quantificazione del grao per diffusione da un’area all’altra. Nel caso no o del bestiame. In seguito (3500-3400 a.C.) della scrittura geroglifica, inoltre, non è nep- i token cominciarono a essere conservati nelpure chiaro da quali esigenze sia scaturita: se le bullae, contenitori ovali di argilla sulla cui da necessità economiche o religiose. superficie veniva impresso il segno dei gettoLa scrittura cuneiforme, invece, fu creata con ni per indicare quanti token di ogni forma fosfinalità amministrative, al termine di un pro- sero contenuti nella bulla stessa. cesso di perfezionamento nella registrazione Il terzo stadio (3400-3300 a.C.) ebbe inizio e contabilizzazione delle attività economiche quando ci si accorse che, per quantificare i operato dalle autorità sumere. Questo, alme- raccolti, non serviva collocare i token all’inno, è quanto traspare dai più antichi testi scrit- terno della bulla, bastava valutare il numero e ti della storia, oltre cinquemila tavolette in- la forma dei segni presenti al suo esterno.


MONDO ANTICO

L’ARTE SEGRETA DEGLI SCRIBI Scribi assiri in un bassorilievo rinvenuto a Ninive, nell’odierno Iraq: in Mesopotamia gli scribi detenevano i segreti della scrittura cuneiforme. VII secolo a.C., Londra. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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DEA / ALBUM

TESTO GIURIDICO RELATIVO A UN’EREDITÀ CUSTODITO NELLA SUA “BUSTA” DI ARGILLA: TAVOLETTA ASSIRA DEL XIV-XII SECOLO A.C., MUSEO NAZIONALE, ALEPPO (SIRIA).

H. M. HERGET / NGS

MONDO ANTICO

GLI UTENSILI PER SCRIVERE GLI STRUMENTI che gli scribi mesopotamici

usavano per scrivere erano ricavati dai materiali che la regione, bagnata dai fiumi Tigri ed Eufrate, offriva con più abbondanza: l’argilla, impiegata anche per fabbricare le case, e le canne e i giunchi, le cui parti superiori venivano tagliate a punta per trasformarle in stili, strumenti a sezione triangolare usati per incidere l’argilla umida con i segni cuneiformi.

UNA CASTA RICCA E POTENTE L’illustrazione mostra alcuni scribi al lavoro: nelle antiche civiltà mesopotamiche gli scribi costituivano una casta ricca e potente, addetta a svolgere compiti amministrativi e alla copiatura dei testi scientifici e religiosi.

28 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

PICCOLI CUNEI TRACCIATI CON UNA PUNTA SMUSSATA: LA TECNICA PER SCRIVERE SULL’ARGILLA

Quando si incide l’argilla umida con una punta, i segni non sono precisi. Per questo i Sumeri adottarono una tecnica diversa: imprimere i segni mediante una canna lievemente smussata in punta. Incidendo l’argilla in questo modo, gli scribi ottenevano segni lineari che ricordavano piccoli cunei; di qui il nome della scrittura cuneiforme, che deriva dal latino cuneus, “cuneo”, “chiodo”. Le estremità dei solchi tracciati con la punta smussata potevano poi essere facilmente modificate e allungate, ed è così che nacquero le otto figure (sotto) che compongono tutti i segni cuneiformi.

I token furono così abbandonati e le bullae iniziarono ad appiattirsi. Così si arrivò alle prime tavolette di argilla, impresse con le forme dei token o con segni che le riproducevano. L’ultima fase (3300-3200 a.C.) coincide con la comparsa di tavolette incise con i primi numeri e con pochi pittogrammi, ovvero segni grafici che raffiguravano l’oggetto contabilizzato. Queste tavolette sono state ritrovate solo a Uruk e nella regione di Susa, in Iran. La comparsa di numeri riflette un processo di astrazione nella contabilità. Fino al 3300 a.C. circa, ogni token rappresentava una determinata quantità di beni. Per esempio, se un token ovale equivaleva a una giara di olio, per indicare due giare dovevano essere impiegati due token, e così via. Non si era ancora arrivati a stabilire che un token potesse equivalere a più unità. Fu verso il 3300 a.C. che apparvero i precursori dei primi testi cuneiformi: tavo-

FONTE: LOUIS-JEAN CALVET, HISTOIRE DE L’ÉCRITURE, 2011.

lette d’argilla sulle quali, come detto, erano incisi numeri e segni pittografici. Queste tavolette sono l’embrione dei primi veri testi scritti, apparsi verso il 3200 a.C. nella città di Uruk. Si trattava di documenti di natura relativamente complessa, contenenti liste di professioni, comunicazioni commerciali, elenchi contabili e di merci. I testi erano incisi con stili appuntiti sull’argilla fresca e normalmente avevano tratti curvilinei; si cercava di disegnare più che di scrivere. I primi esempi di scrittura totalmente cuneiforme, ossia costituita da segni lineari a forma di cuneo, sono documentati a partire dal 2900 a.C. Questa scrittura fu inventata dai Sumeri, popolazione della Mesopotamia meridionale, e in origine era costituita da circa 1000 segni. Adottata anche da altri popoli mesopotamici e anatolici, tra cui gli Accadi, gli Assiri e gli Ittiti, restò in uso per oltre tremila anni, un


MONDO ANTICO

LE TAVOLETTE DI ARGILLA

CONSACRAZIONE ALLA DEA NINIMNPA DEL TEMPIO DI LARSA, IN IRAQ: TAVOLETTA A CARATTERI CUNEIFORMI, XIX SECOLO A.C., LOUVRE, PARIGI.

ERICH LESSING / ALBUM

ILUSTRACIÓN: SANTI PÉREZ

Uno dei primi compiti dell’apprendista scriba era imparare a fabbricare tavolette d’argilla di forma e spessore adeguati. La maggior parte delle tavolette veniva fatta asciugare dopo l’incisione; se le si voleva riutilizzare bastava inumidire l’argilla. Quando invece si voleva evitare che i testi fossero manomessi, o si desiderava realizzare esemplari destinati all’archiviazione, si procedeva alla cottura in forno delle tavolette, operazione che induriva l’argilla e ne rendeva impossibile il riutilizzo.

La lingua delle scienze La scrittura cuneiforme nacque con finalità economiche, ma fu poi usata – soprattutto dopo l’affermazione della lingua accadica a spese di quella sumera (2000 a.C.) – anche per narrare le gesta dei sovrani, per firmare trattati politici o per compilare testi scientifici. Il suo declino coincise con l’espansione della lingua aramaica, che si accompagnò alla diffusione di un nuovo sistema di scrittura, l’alfabeto, i cui segni grafici venivano trascritti in inchiostro su pergamene e rotoli di pelle.

L’abbandono della scrittura cuneiforme iniziò già in epoca achemenide (539-331 a.C.), quando l’aramaico, convertito in lingua ufficiale, divenne la lingua principale dell’Impero persiano. Il suo impiego si incrementò ai tempi della dinastia seleucide (312-65 a.C.), per divenire quindi sempre più generalizzato e relegare l’antica lingua cuneiforme – come secoli dopo sarebbe avvenuto al latino – all’ambito ristretto dei testi scientifici. Poi sopravvenne il silenzio. Una spessa coltre di oblio seppellì la voce della Mesopotamia fino al XIX secolo. Nel 1835 la scoperta sul monte Behistún, in Iran, di un’iscrizione in tre lingue (persiano antico, elamitico e babilonese) del “Re dei re” persiano Dario I permise la decifrazione della scrittura cuneiforme, e gli antichi sovrani e dei della Mesopotamia tornarono a vivere e parlare.

PREGHIERA AL DIO SHARA In epoca sumera la scrittura cuneiforme fu spesso usata per testi devozionali, come quello contenuto in questa placca votiva in oro dedicata al dio guerriero Shara. XXIV secolo a.C., Louvre.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

periodo nel corso del quale i suoi segni subirono molti cambiamenti: oltre a diminuire di numero, essi divennero via via più semplici e simmetrici, venendo infine impiegati non più per rappresentare concretamente o simbolicamente concetti e cose, ma per esprimere i suoni della lingua parlata.


LA SCRITTURA CUNEIFORME MONDO ANTICO

DAL PITTOGRAMMA ALLA LETTERA: L’EVOLUZIONE NEI

4 LA SCHEMATIZZAZIONE

DELLA SCRITTURA La scrittura cuneiforme, basata su incisioni a forma di cuneo, favorì la stilizzazione dei segni, che sempre più si allontanarono dalla riproduzione pittografica degli oggetti raffigurati. Per sveltire la scrittura, gli scribi finirono per rappresentare l’orzo con pochi tratti di stilo, semplificandone il segno come si vede qui sotto.

5 COLONNE VERTICALI E LINEE ORIZZONTALI Nei primi documenti contabili i segni erano incolonnati dall’alto in basso e, in caso di più colonne, queste erano allineate da destra verso sinistra. Attorno al 2300 a.C. gli scribi iniziarono a disporre i segni in linee orizzontali, sulle quali si scriveva da sinistra a destra come facciamo oggi. AKG / ALBUM

30 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

1.

2.

Uomo. Sembra essere il disegno stilizzato del busto e della testa di un uomo. Si pronunciava lu.

Vacca. Il segno, raffigurante in forma stilizzata la testa di una vacca, corrisponde alla parola sumera ab.

3.

RAPPRESENTANO SUONI Attorno al XVI secolo a.C. gli scribi intuirono la possibilità di utilizzare i segni cuneiformi per creare parole indipendenti dall’oggetto che rappresentavano. Così il segno di “orzo”, she, venne usato per rappresentare una parola con una sillaba in comune, cioè she-er-ku, “lista di frutta”.

TAVOLETTA CON SCRITTURA CUNEIFORME RINVENUTA A EBLA (SIRIA), XXIV SECOLO A.C.

Pesce. Il disegno rappresenta in forma semplificata un pesce, animale che in sumero veniva chiamato ku. Uccello. Raffigura l’immagine di un uccello mentre vola. Corrisponde alla parola sumera mushen.

TAVOLETTA DEL RE UR-NANSHE RINVENUTA A LAGASH, IN IRAQ. XXX-XVIII SECOLO A.C., LOUVRE, PARIGI.

6 LETTERE CHE

Donna. Disegno del sesso femminile. Corrisponde al termine sumero munus, che significava appunto “donna”. Bocca. Rappresenta una testa con una bocca disegnata con tratti verticali. Si pronunciava ka.

ATTIVITÀ UMANE

ALBUM

Terra. Il segno sembra raffigurare un appezzamento di terreno. In sumero corrisponde alla parola ki. Acqua. Segno raffigurante una corrente d’acqua e pronunciato a. Lo stesso suono era usato per la preposizione “in”.

AZIONI

LASCIA “MACCHIE” Incidere i segni cuneiformi con lo stilo appuntito provocava piccoli distacchi d’argilla che sporcavano la tavoletta. Perciò gli scribi adottarono uno stilo smussato, che garantiva una maggiore pulizia nel lavoro di scrittura. Verso il 2500 a.C. il segno dell’orzo era come lo vediamo qui sotto.

NATURA

3 UNO STILO CHE NON

TAVOLETTA CON PITTOGRAMMI SUMERI E SEGNI CUNEIFORMI ASSIRI, VII SECOLO A.C.

Stella. Segno raffigurante una stella. Corrisponde al termine sumero an. Lo stesso segno significa dingir, “dio”.

PERSONE

Col passare del tempo, gli scribi cambiarono la disposizione dei segni, imprimendo loro una rotazione verso sinistra di 90 gradi. Tale modifica rispondeva a una necessità pratica: infatti, ruotando i segni, si riducevano i movimenti del polso che lo scriba doveva compiere per incidere l’argilla. Ecco, nel 3100 a.C., quale forma aveva assunto il segno dell’orzo.

ANIMALI

2 I SEGNI ORIZZONTALI

Verso il 3200 a.C. gli scribi sumeri incominciarono a registrare le quantità dei raccolti. Nelle loro tavolette d’argilla l’orzo era rappresentato mediante un segno pittografico con la forma di una spiga (sotto a sinistra). I solchi slabbrati indicano che, per incidere l’argilla, gli scribi sumeri utilizzavano uno stilo appuntito di canna o giunco. AKG / ALBUM

SEGNI DI COSE

1 I PRIMI PITTOGRAMMI

Mangiare. Azione espressa combinando i segni di “testa” e “cibo”. Corrisponde alla parola ku. Camminare. Il segno raffigura la caviglia e il piede sollevato. Corrisponde alla parola du. Bere. Combinazione dei segni di “testa” e “acqua”. Corrisponde alla parola sumera nag.

UN ANTICHISSIMO PROVERBIO SUMERO

“UNO SCRIBA CHE NON


SECOLI DEI SEGNI CUNEIFORMI Pittogramma 3200 a.C.

Ruotato di 900 3100 a.C.

Sumero arcaico Periodo accadico Neoassiro 2500 a.C. 2000 a.C. I millennio a.C.

CONOSCE IL SUMERO NON È UNO SCRIBA”

CODICE DI HAMMURABI, STELE DEL XVIII SECOLO A.C. CON ISCRIZIONI IN PALEOBABILONESE, LOUVRE, PARIGI.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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ERICH LESSING / ALBUM

MONDO ANTICO XXXXXXXXF

La scrittura cuneiforme fu il risultato di una serie di innovazioni dovute all’ingegno degli scribi mesopotamici. Le prime tavolette erano registri di contabilità su cui erano incisi pittogrammi, cioè disegni schematici di cose concrete, come per esempio le spighe di cereali. A poco a poco i segni si semplificarono e si disposero su linee orizzontali, come nei libri attuali. Ma il cambiamento decisivo fu lo sviluppo di un sistema di segni con valore fonetico, ovvero di segni che equivalevano a suoni: ciò permise di trasferire compiutamente in forma scritta la lingua parlata.


MONDO ANTICO

LA RUOTA I primi mezzi di trasporto utilizzati in Mesopotamia erano specie di slitte trainate da animali. Intorno al 3000 a.C. vennero aggiunte le ruote e così nacquero i carri, che con il tempo si fecero più leggeri, rapidi e manovrabili JUAN LUIS MONTERO FENOLLÓS PROFESSORE DI STORIA ANTICA PRESSO L’UNIVERSITÀ DI LA CORUÑA

MODELLO DI CARRO PROVENIENTE DAL SUD DELLA MESOPOTAMIA, XX-XVII SECOLO A.C., BAGHDAD. DAGLI ORTI / CORBIS / CORDON PRESS

32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

reti fluviali, e la barca era il principale mezzo di trasporto usato dai suoi abitanti. Ma questo sistema di circolazione acquatica risultava insufficiente per l’approvvigionamento di legno o pietra provenienti dalle zone montagnose circostanti la regione; queste aree impervie non potevano essere raggiunte in barca, e tale impedimento favorì l’invenzione della ruota.

Addio alla slitta Alla fine del IV millennio a.C., nel momento di massimo splendore della città sumera di Uruk (Iraq), le popolazioni stanziate nella Mesopotamia meridionale usavano un veicolo senza ruote, una specie di slitta trainata da animali addomesticati. Ma questa slitta era in grado di scivolare solo su terreni fangosi o sabbiosi quali erano le pianure alluvionali che occupavano il sud della Mesopotamia, oppure andava fatta scorrere su grossi tronchi d’albero con tempi di spostamento inevitabilmente lunghi. Era quindi impensabile impiegarla per tragitti di decine di chilometri come quelli necessari per trasportare le materie prime dai loro luoghi di produzione fino a Uruk.

WERNER FORMAN / BRIDGEMAN / ACI

T

ra il IV e il III millennio a.C., la Mesopotamia visse quella che gli storici hanno definito “rivoluzione urbana”: nacquero le prime vere città, grandi insediamenti nei quali gli abitanti non si limitavano a coltivare le terre circostanti, ma si dedicavano a occupazioni specializzate, e che per la propria sopravvivenza dipendevano dal commercio a lunga distanza. In Mesopotamia, infatti, scarseggiavano materie prime fondamentali come il legno, la pietra e il metallo, che quindi dovevano essere importate dalle regioni vicine: l’Anatolia, l’Afghanistan e il Libano. I fiumi Tigri ed Eufrate, insieme ai canali artificiali di navigazione che lambivano le maggiori città, furono la base degli scambi commerciali di quell’epoca remota. I primi centri urbani erano immancabilmente legati a


MONDO ANTICO

LO STENDARDO REALE DELLA NECROPOLI DI UR Dettaglio dallo stendardo reale rinvenuto a Ur (Iraq) e raffigurante un carro trainato da onagri. 2500 a.C., Londra.

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MONDO ANTICO

LE RUOTE DEI PRIMI CARRI ERANO COMPOSTE DA TRE PEZZI DI LEGNO PIENO ACCORPATI TRA LORO CARRO A DUE RUOTE DI TERRACOTTA, II MILLENNIO A.C., LOUVRE, PARIGI. MUSÉE DU LOUVRE / ART ARCHIVE

Per questo tipo di viaggi, occorreva un mezzo più duttile e veloce, un veicolo che i Sumeri inventarono dotando la base della slitta di due paia di ruote, come si evince dalle pittografie incise sulle tavolette d’argilla rinvenute a Uruk e databili attorno al 3200 a.C. Fu in questo modo che nacque il primo carro, un veicolo a ruote che consentiva lo spostamento veloce su terreni di qualsiasi natura e conformazione.

L’evoluzione del carro Una delle prime testimonianze relative all’utilizzo del carro in Asia proviene dalla città sumera di Mari (Siria), vicino all’Eufrate: si tratta di due impronte di ruote impresse nel bitume e databili al 2850 a.C. La meglio conservata di queste due ruote aveva un diametro di circa 60 centimetri ed era costituita da tre pezzi di legno pieno uniti insieme per mezzo di traverse di legno. Al momento della scoperta si trovava vicino ad alcuni attrezzi da lavoro e allo scheletro di un asino, animale addomesticato in Mesopotamia nel tardo IV millennio a.C. Il ritrovamento delle impronte in un quartiere artigianale e la presenza di uno strumento come la sgorbia, usato nella lavorazione del legno, fa pensare che il luogo della scoperta fosse in origine un’officina specializzata nella produzione di ruote. Altre ruote apparvero in contesti funerari della Mesopotamia meridionale, come i modellini di carro rinvenuti nella necropoli di Ur, città sumera vicino a Nassiriya (Iraq): i reperti, datati al 2550 a.C, avevano quattro ruote tripartite di diametro compreso tra i 60 e i 100 centimetri ed erano trainati da buoi. Le tombe della città di Kish (Iraq), suppergiù della stessa epoca, hanno restituito ruote in legno con diametro di 50 centimetri, mentre dagli scavi nel sito di Susa, in Iran, sono emerse ruote più grandi, risalenti al 27o0 a.C. circa. 34 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

La scarsità dei reperti archeologici, dovuta alla deperibilità del legno, è compensata dal ritrovamento di raffigurazioni che confermano la diffusione del carro in Mesopotamia. Il pezzo più celebre è lo Stendardo reale di Ur, forse la cassa di risonanza di uno strumento musicale decorata sui due lati con mosaici che rappresentano rispettivamente una scena di guerra e una di pace. Nella prima compaiono diversi carri militari a quattro ruote (semplici dischi di legno con un foro in mezzo per l’asse del carro) trainati da onagri. A Mari, gli scavi nel tempio di Ishtar e nel Palazzo reale hanno portato alla luce intarsi di madreperla (simili a mosaici) raffiguranti ruote di carro tripartite, come quelle ritrovate nello stesso sito dagli archeologi. Da segnalare infine la statuina in bronzo rinvenuta in un tempio di Tell Agrab (Iraq), nella Mesopotamia centrale: rappresenta un carro a due ruote trai-


MONDO ANTICO

I SECOLI D’ORO DEL CARRO LEGGERO

I

N MESOPOTAMIA, il carro leggero conob-

be il suo massimo sviluppo tra il IX e VII secolo a.C., epoca in cui compare spesso raffigurato nei bassorilievi ornamentali dei palazzi reali del Nuovo Impero assiro (932612 a.C.). I carri di questo periodo si caratterizzavano per l’accresciuto diametro delle ruote, larghe fino a 1,5 metri, e per un numero di raggi variabile tra i sei e gli otto. Si calcola che un carro assiro dovesse pesare al massimo 55 chili: era quindi piuttosto maneggevole e poteva essere condotto anche da un solo auriga. Il suo utilizzo era riservato a poche, ben definite situazioni: le battaglie, la caccia al leone – uno svago reale – e il trasporto del sovrano durante le cerimonie solenni. Anche dopo il crollo dell’Impero assiro, il carro leggero restò un’arma importante dell’esercito persiano, che all’epoca di Alessandro Magno contava su un folto reparto di carri falcati, cioè armati di lame montate sui mozzi delle ruote. Solo nel III secolo a.C. iniziò il declino dei carri da guerra, definitivamente soppiantati dalla cavalleria, più manovrabile e versatile.

ERICH LESSING / ALBUM

nato da quattro asini e guidato da un uomo barbuto che tiene le redini con la mano sinistra. Tutti questi reperti testimoniano come in Mesopotamia il carro venisse sin dall’inizio usato per scopi diversi: per la guerra come per la caccia, per le cerimonie sacre così come per il trasporto di materie prime. Forse anche per questo esso ebbe un’evoluzione rapida: dai primi carri, lenti e poco manovrabili, si passò in pochi secoli a modelli più leggeri e veloci.

La ruota a raggi Il primo progresso tecnico fu il passaggio dalla ruota piena a quella cava, costituita da un robusto cerchio di legno rafforzato da una grossa traversa, anche essa di legno, al cui centro era ricavato il foro per il passaggio dell’asse. La raffigurazione più antica di questo tipo di ruota si trova in un sigillo cilindrico del 22502000 a.C rinvenuto a Tepe Hissar, in Iran.

La tappa successiva fu la comparsa dei raggi, certamente già inventati attorno al 1850 a.C., come attestano i carri con ruote a quattro raggi riprodotti sui sigilli della colonia assira di Kanesh (oggi Kültepe), in Anatolia. La prima vera ruota a raggi in nostro possesso appartiene invece a un carro ittita in bronzo del 1750 a.C. circa, portato alla luce nel sito anatolico di Acem Hüyük, in Turchia. Da questi ritrovamenti, parrebbe lecito supporre che la nascita del carro con ruote a raggi sia avvenuta in Asia Minore all’inizio del II millennio a.C. Tuttavia, alcuni studiosi rigettano questa ipotesi, e ritengono invece che i primi veicoli di questo tipo siano apparsi nella regione compresa tra il Caucaso settentrionale e i Carpazi orientali, area da dove il carro si sarebbe poi diffuso in Mesopotamia attraverso le migrazioni di popoli indo-ariani avvenute all’inizio del II millennio a.C.

LA BATTAGLIA DI TIL-TUBA Un carro da guerra in uno dei bassorilievi del palazzo reale di Ninive (Iraq) dedicati alla celebre battaglia di Til-Tuba (635 a.C.), vinta dall’esercito di re Assurbanipal contro gli Elamiti. VII secolo a.C., Londra.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MONDO ANTICO

IL CARRO DA GUERRA GIÀ NEL II MILLENNIO A.C., GLI ESERCITI MESOPOTAMICI USAVANO IN BATTAGLIA PRIMITIVI CARRI DA GUERRA PER ROMPERE LE FILA DELLA FANTERIA NEMICA E INSEGUIRNE LE UNITÀ IN RITIRATA. NEI SECOLI SUCCESSIVI I CARRI DIVENNERO PIÙ LEGGERI, RAPIDI E MANOVRABILI, TRASFORMANDOSI IN EFFICACI ARMI D’ATTACCO IMPIEGATE DAGLI ESERCITI ORIENTALI IN NUMEROSE SITUAZIONI BELLICHE

i sumeri È attribuita loro l’invenzione del carro da guerra, nato come evoluzione di quello da trasporto. Il suo impiego si generalizzò nel corso delle frequenti guerre tra le città-stato sumere.

La cassa Costruita in legno e rinforzata con strisce di cuoio e chiodi di rame, aveva una struttura estremamente pesante.

Tipo di ruote Massicce, di legno Numero di ruote 4 Traino 4 onagri (asini selvatici) Equipaggio

Ruote massicce Erano dischi di legno con diametro tra i 50 e gli 80 centimetri e un “battistrada” di cuoio fissato con chiodi di rame.

gli ittiti La penisola anatolica fu la culla della civiltà ittita, fiorita tra il XIX e il XII secolo a.C. Gli Ittiti perfezionarono il carro leggero e lo trasformarono nella loro arma principale. Tipo di ruote A raggi, di legno e ferro Ruote leggere Gli Ittiti adottarono la ruota a raggi.

Numero di ruote 2 Traino 2 cavalli Equipaggio

gli assiri Metallo Le grandi ruote a otto raggi, rinforzate con cerchioni di metallo, resero i carri assiri più solidi e maneggevoli.

Attorno all’VIII secolo a.C., gli Assiri costruirono potenti carri da guerra, con grandi ruote cerchiate, da usare come forza d’urto dei loro eserciti.

SOL 90 IMAGES / ALBUM

Tipo di ruote A raggi, di legno e ferro

36 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Numero di ruote 2 Traino 2-3 o 4 cavalli Equipaggio


MONDO ANTICO

gli egizi Il carro leggero fu probabilmente introdotto nell’antico Egitto dagli Hyksos, popoli asiatici che invasero il Delta del Nilo verso il 1650 a.C. Gli Egizi lo perfezionarono.

Faretra Di legno o di cuoio, era fissata saldamente a un lato esterno della cassa del carro.

Tipo di ruote A raggi, di legno e ferro Numero di ruote 2 Traino 2 cavalli

POSIZIONE La cassa era in posizione avanzata rispetto all’asse del carro, per garantire al conducente una maggiore manovrabilità e permettergli di compiere curve molto strette senza perdere in stabilità.

Cassa

Equipaggio

Timone Era una lunga barra ricavata da un unico pezzo di legno.

Cassa Era costruita unendo pezzi di legno ricurvi con rinforzi di cuoio e chiodi di rame. Per fissare la cassa al timone e all’asse si utilizzavano cinturini di cuoio. Ruote Da quattro o sei raggi. Asse In legno, era fissato alla parte posteriore della cassa del carro. DIMENSIONI

75 cm

50 cm

1m 2m

1m

Le ruote In posizione verticale, attraversava l’asse assicurando la ruota. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MONDO ANTICO

LA METALLURGIA DEL FERRO Intorno al 1200 a.C. iniziarono ad apparire oggetti in ferro in una vasta area tra il Mediterraneo orientale e il Vicino Oriente. Questo metallo finì per diventare il più usato per fabbricare armi e sostituì progressivamente il bronzo JUAN LUIS MONTERO FENOLLÓS PROFESSORE DI STORIA ANTICA PRESSO L’UNIVERSITÀ DI LA CORUÑA

ASCIA CERIMONIALE ASSIRA IN ORO, BRONZO E FERRO: PROVIENE DALL’ANTICA CITTÀ PORTUALE DI UGARIT, SULLA COSTA SIRIANA. 1500-1200 A.C., MUSEO ARCHEOLOGICO DI ALEPPO, SIRIA.

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dall’Assiria (Iraq), fino alla Palestina e a Cipro. La metallurgia del ferro è molto più complessa di quella del rame o dell’oro: infatti, per estrarre questo metallo dal suo minerale, occorre raggiungere temperature superiori ai 1500 gradi, troppo alte per essere prodotte con le fornaci in uso nel II millennio a.C.

Capacità tecnica A partire dal IV millennio a.C., gli artigiani mesopotamici avevano imparato a lavorare il rame, che fonde a poco più di mille gradi, ma non disponevano delle conoscenze necessarie per raggiungere temperature superiori e trasformare il minerale di ferro in metallo. Solo l’apporto del carbonio proveniente dal carbone vegetale permetteva di ridurre il punto di fusione del minerale di ferro; ma se si esagerava con il carbonio, il metallo che usciva dalla fusione si dimostrava estremamente fragile. Il risultato era una sorta di ferro cementato, una specie di “semiacciaio” che, a partire dal XII-XI secolo a.C., incominciò a essere utilizzato in Anatolia, a Cipro e in Palestina per la fabbricazione di piccoli oggetti.

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he la comparsa e la diffusione della metallurgia del ferro abbia costituito un evento fondamentale è dimostrato dal fatto che, con il nome di questa tecnologia, è stata addirittura ribattezzata una tappa della storia dell’umanità: l’Età del ferro, il cui inizio si colloca attorno al 1200 a.C. La vecchia teoria secondo la quale la diffusione della metallurgia del ferro sarebbe stata il risultato di una tecnologia segreta a lungo monopolizzata dagli Ittiti in Anatolia e dai Filistei in Palestina è oggi considerata priva di valore storico. Lo dimostra il ritrovamento in tutto il Vicino Oriente di oggetti in ferro prodotti a partire dalla fine del II millennio a.C.: dal Paese degli Ittiti, Hatti (Turchia), al regno di Urartu, in Armenia,


MONDO ANTICO

L’ESERCITO ASSIRO ASSALTA UNA CITTÀ ASSEDIATA Scena di guerra in un rilievo del palazzo reale di Kalhu, l’odierna Nimrud, in Iraq. Nella città assira sono state rinvenute placche circolari di ferro, uno dei modi in cui, anticamente, questo metallo veniva immagazzinato. VIII secolo a.C., Londra. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PIÙ PREZIOSO DELL’ORO NON È L’ORO DELL’IMPUGNATURA, ma il ferro della lama il metallo più prezioso del pugnale cerimoniale (qui sopra) rinvenuto nel 1922 tra i tesori di Tutankhamon. A scriverlo fu lo stesso scopritore del reperto, l’archeologo inglese Howard Carter, secondo il quale la caratteristica che rendeva unico questo pugnale era il fatto che la sua lama fosse in ferro, “ancora lucido e molto simile all’acciaio”. Per Carter questo particolare segnalava l’inizio del tramonto della civiltà egizia, “l’impero più grande dell’Età del bronzo”. Infatti la scoperta del pugnale bimetallico nella tomba di Tutankhamon, rivelando la presenza nel Paese nilota di oggetti in ferro provenienti dalle città ittite dell’Asia Minore, documentava il rafforzarsi dell’influenza “straniera” nell’Egitto della XVIII dinastia.

I PUGNALI DEL FARAONE Nella tomba del faraone Tutankhamon, vissuto nel XIV secolo a.C., vi erano due pugnali cerimoniali: uno aveva la lama in oro, l’altro in ferro (in alto nella foto). XVIII dinastia, Museo Egizio, Il Cairo.

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Le insormontabili difficoltà nel fondere il ferro e nel dargli forma tramite stampi, come si faceva con il rame e con il bronzo, indusse gli artigiani mesopotamici a produrre soprattutto ferro forgiato, ovvero lavorato a caldo (a una temperatura inferiore a quella di fusione) tramite la tecnica della martellatura.

In Palestina e in Assiria In Mesopotamia, la metallurgia del ferro non si impose fino al Nuovo Impero assiro e all’Impero babilonese di Nabucodonosor II, tra l’VIII e il VI secolo a.C. Tuttavia, l’archeologia ha riportato alla luce oggetti di ferro più antichi provenienti da diverse città mesopotamiche, come Ur, Uruk o Eshnunna. Molti di questi reperti, risalenti al III millennio a.C., sono il risultato di due processi metallurgici distinti: da un lato l’uso di un metallo di ferro ottenuto accidentalmente tramite la fusione di rame

ad alto contenuto ferroso (come la calcopirite), dall’altro l’impiego del cosiddetto ferro meteorico, una lega naturale di ferro e nichel. I testi più antichi sull’uso del ferro nel Vicino Oriente provengono dagli archivi reali del palazzo di Mari, in Siria: risalgono al XVIII secolo a.C. e ci dicono che il ferro era usato per realizzare armi o ornamenti come anelli e bracciali, offerti in dono per il loro grande pregio. La diffusione del ferro in Mesopotamia ebbe inizio solo tra il XIII e XII secolo a.C., in ambito assiro. Così, il re Salmanassar I (1274-1245 a.C.) racconta che, in occasione della ricostruzione del tempio di Assur, nell’odierno Iraq, ordinò di depositare in offerta presso le fosse di fondazione vari tipi di metalli: argento, oro, stagno, rame e anche ferro. Un altro esempio dell’importanza assegnata al ferro dagli Assiri proviene da un testo del re Ninurta-tukulti-Assur, che regnò breve-


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ROBERT HARDING / CORBIS / CORDON PRESS

mente nel 1133 a.C.: da esso sappiamo che il sovrano aveva al suo servizio un fabbro di corte. Tutto questo ci dice che alla fine del II millennio a.C. il ferro era considerato una materia prima pregiata, la cui produzione era controllata direttamente dalla monarchia. Un’altra prova del valore attribuito al ferro proviene dall’archivio reale di Amarna, in Egitto, dove sono conservati documenti con le liste dei doni scambiati tra il faraone Akhenaton e il sovrano del Mitanni, un regno nel nord della Siria: in queste liste sono presenti armi e ornamenti in ferro. Non va poi dimenticato che il celebre tesoro del faraone Tutankhamon (1341-1323 a.C.) comprendeva anche un pugnale cerimoniale con lama in ferro. Le testimonianze archeologiche sul primo uso del ferro in Mesopotamia sono molto scarse, poiché non da qui, ma dalla Siria e dalla Palestina, partì la diffusione di questo metallo nel

Vicino Oriente. La collezione mesopotamica più importante è composta da 80 oggetti in ferro, tra armi e ornamenti, provenienti dai corredi funerari rinvenuti a Mari nelle tombe reali del Medio Impero assiro (XIII secolo a.C.).

Lingotti di stagno in dono A favorire la diffusione del ferro nel Vicino Oriente, e in particolare in Mesopotamia, furono soprattutto motivi economici. Produrre bronzo era costoso, poiché questo metallo è una lega di rame e stagno, minerali all’epoca piuttosto scarsi e difficili da estrarre. Per questo non stupisce che, tra i doni inviati alle corti mesopotamiche, vi fossero abitualmente lingotti di stagno PETRIE MUSEUM UCL di forme e pesi diversi.

FERRO METEORICO Grani di collana in ferro meteorico risalenti al 3200 a.C. circa: sono stati ritrovati in un sito archeologico vicino a Gerzeh, nel nord dell’Egitto. Petrie Museum of Egyptian Archaeology, Londra.

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IL FERRO ERA PIÙ COMUNE IN NATURA DEL RAME E, DI CONSEGUENZA, PIÙ ECONOMICO DA ESTRARRE STATUETTA IN ORO E ARGENTO DI DIVINITÀ ITTITA, 2100 A.C. CIRCA, ANKARA (TURCHIA).

Sappiamo, per esempio, che nella prima metà del XVIII secolo a.C. il potente re di Mari ZimriLim inviò un lotto di lingotti di stagno al sovrano di Yamhad (la moderna Aleppo) Yarim-Lim, così come ad altri signori e principi della regione. Al contrario, il ferro era un metallo maggiormente diffuso in natura (circa mille volte più del rame) e, di conseguenza, molto più economico da estrarre e lavorare. A differenza di quanto accade con altri metalli, l’Iraq possiede miniere di ferro. La più importante è quella di Wadi Al-Hussainiya, nelle vaste aree desertiche che occupano la parte nordoccidentale del Paese: qui è stata ritrovata un’iscrizione in aramaico che documenta scavi minerari sin dal I millennio a.C. In Giordania, le miniere di Ajlun, a nord dell’odierna capitale Amman, furono oggetto di un’intensa attività estrattiva probabilmente già a partire dal XII secolo a.C., come dimostrano le 30 tonnellate di scorie di ferro rinvenute nella zona. Di fatto, la regione giordano-palestinese fu la maggiore fornitrice di minerali di ferro utilizzati nel Vicino Oriente.

La svolta del primo millennio Il grande valore attribuito originariamente al ferro, il tipo di oggetti che vi si fabbricavano e il ritrovamento di reperti in ferro nelle tombe regali sono altrettanti indizi di come, per un lungo periodo, questo metallo fosse ritenuto non meno prezioso dell’oro e dell’argento. Solo a partire dal I millennio a.C. il ferro divenne il metallo più comune usato in Mesopotamia. Nei testi redatti dalla corte del Nuovo Impero assiro attorno al IX secolo a.C., sono menzionati numerosi oggetti in ferro, siano stati essi conquistati come bottino di guerra dai sovrani nelle loro spedizioni in Palestina, oppure pagati come tributi dai popoli sconfitti. È il caso del regno di Lachish, nell’odierna Palestina, che inviò cento pugnali in ferro al re assiro Tukulti-Ninurta II (890-884 a.C.). 42 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Il precoce sviluppo della metallurgia del ferro in Siria e Palestina, e l’influenza dei sovrani assiri su quest’area all’inizio del I millennio a.C., spiegano l’accresciuta disponibilità di questo metallo in Assiria e il suo uso sistematico da parte di fabbri e artigiani. Lo testimonia il fatto che, nei magazzini del palazzo reale di Dur Šarrukin (oggi Khorsabad, in Iraq), la capitale del sovrano assiro Sargon II (721-705 a.C.), sono stati rinvenuti lingotti di ferro per un totale di 160 tonnellate; e che nel palazzo del governatore della città assira di Kalhu (l’irachena Nimrud) sono state recuperate innumerevoli placche circolari in ferro, la forma più comune con cui veniva immagazzinato questo prezioso metallo. Nei testi dell’Impero neobabilonese (625-538 a.C.) si fa riferimento anche a lingotti a forma di guscio di tartaruga, nonché a sbarre e chiodi in ferro. Sebbene la Mesopotamia possedesse alcune miniere, i Babilonesi importavano la maggior parte del ferro dalle regioni turche della Cilicia e della Ionia, perché il minerale estratto era di migliore qualità. In ambito militare, il ferro si impose presto come il metallo più utilizzato. In uno Stato fortemente militarista come l’Assiria dell’VIII e VII secolo a.C., la fanteria aveva un ruolo chiave, e la monarchia doveva fornire ai suoi soldati un equipaggiamento adeguato. Gli scavi effettuati nei principali siti archeologici assiri hanno riportato alla luce lance, pugnali, punte di freccia e anche elmi fabbricati in ferro. La maggior parte delle armi offensive rappresentate sui bassorilievi che ornavano con scene di guerra i palazzi reali assiri (per esempio a Ninive) erano in ferro. Questo non implica affatto la scomparsa definitiva del bronzo; semplicemente il suo uso fu destinato alla realizzazione di statue, figurine, vasi e di quelle armi che dovevano risultare non troppo pesanti, come le corazze composte da scaglie di metallo.


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IL VINCITORE DEI ROMANI Statua in bronzo del I secolo d.C. che raffigura forse Surena, il generale dei Parti che sconfisse Crasso a Carre (53 a.C.). Il bronzo era destinato a sculture e armi leggere. Museo nazionale dell’Iran, Teheran.

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L’ARTE DELLA GUERRA Dall’amigdala alla catapulta, dal fuoco greco al longbow, dalle armi di offesa a quelle di difesa, le conoscenze tecniche e tecnologiche, unite alla strategia militare, hanno accompagnato l’evoluzione dell’umanità MASSIMO BOZZO GIORNALISTA SCIENTIFICO E SCRITTORE

L’ELEPOLI, LA TORRE D’ASSEDIO DI DEMETRIO I POLIORCETE, FU UTILIZZATA PER L’ATTACCO ALLE MURA DI RODI NEL 305 A.C.

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no a quella che è definita come “l’arte della guerra”. Non a caso, il più antico testo di strategia militare ha questo titolo e si deve al generale cinese Sun Tzu (Sunzi nella nuova grafia cinese), che lo scrisse tra il VI e il V secolo a.C. L’esemplare più antico che abbiamo di questo testo è un manoscritto del III secolo a.C., su un papiro di bambù. Dall’epoca, il libro è rimasto in auge e molti personaggi, anche della storia recente, ne hanno tratto ispirazione: da Napoleone a Mao Zedong al generale MacArthur. La nota curiosa è che i consigli di Sun Tzu sono applicati anche all’economia e agli affari e persino ai rapporti di coppia. Molte aziende di tutto il mondo utilizzano oggi il libro di Sun Tzu per il management.

Una guerra illustrata Tra le più antiche notizie sull’arte e i macchinari bellici vi sono quelle dell’anonimo autore romano del De rebus bellicis (IV-V secolo) e le Epitoma rei militaris, in cui Flavio Vegezio Renato (IV-V secolo) narra come l’arte militare dei Romani permetta loro di costruire un impero. Entrambe le opere suggeriscono il

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in dall’antichità, l’evoluzione delle armi è andata di pari passo con lo sviluppo della tecnica. La tradizione vuole che l’invenzione delle macchine da guerra risalga al tempo di Pericle (495-429 a.C.). Plutarco scrive che “Pericle si servì di macchine, novità che suscitava meraviglia, e che era con lui presente il meccanico Artemone”. Anche il termine “macchina” (mechané) nasce in quest’ambito e appare negli scritti della fine del V secolo a.C. per indicare congegni usati negli assedi, sia quelli semplici come la torre mobile o l’ariete sia quelli più complessi come la catapulta. In seguito le armi, unite alla strategia, porta-


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UN’ARMA DECISIVA: L’ARCO LONG-BOW Nella Guerra dei Cent’anni (1337-1453) tra Francia e Inghilterra, gli arcieri inglesi usarono l’innovativo arco dalla gittata fino a 200 metri. Illustrazione tratta da Les Chroniques d’Angleterre di Jean de Wavrin. British Library, Londra. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LE MACCHINE BELLICHE

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E ARMI, NELL’ANTICHITÀ, erano tanto più efficaci quanto più erano insolite e imprevedibili negli effetti, come la gru a tripla puleggia realizzata da Archimede. Plutarco, narrando l’assedio romano a Siracusa, riferisce che «le navi vennero agganciate con artigli di ferro e mediante un contrappeso scaraventate contro le fortificazioni o fatte cadere in mare in seguito allo sgancio degli artigli». Ma la vittoria poteva essere determinata da piccoli dettagli, come un arco più lungo o uno scudo più robusto.

LE CATAPULTE ROMANE Ampiamente descritta dal teorico dell’architettura Vitruvio e riprodotta sulla Colonna traiana, in epoca romana la catapulta lanciava frecce e giavellotti con una gittata di 4 o 5 metri.

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L’arco e la balestra Gli archi compaiono fin nelle pitture rupestri preistoriche. Quelli occidentali sono un unico pezzo di legno flessibile, quelli orientali sono “compositi”, costruiti assemblando materiali diversi come legno, corno e osso. Gli unici eserciti occidentali a usare l’arco fino al 1627 furono quelli inglesi. Usavano l’arco lungo (longbow) che consente tiri a parabola fino a 200 m, ma pesa 50-55 kg. Nei secoli XIII e XIV arco lungo e balestra (in alto, balestra progettata da Leonardo; Codice Atlantico) avevano la stessa gittata, ma mentre un arciere scagliava 10 frecce al minuto, un balestriere ne scoccava solo 3.

rafforzamento dei confini contro gli invasori ricorrendo alla meccanizzazione dell’esercito. L’opera di Vegezio (il maggiore testo di riferimento in Occidente fino al Rinascimento) è dettagliata e va dall’arruolamento dei soldati alla disciplina all’addestramento, dalle tattiche in battaglia all’uso delle armi alla difesa degli accampamenti. Mentre nelle straordinarie macchine del De rebus bellicis sono numerose le anticipazioni tecnologiche: dalla liburna (imbarcazione con ruota a pale azionata da un argano con quattro buoi) all’ascogefyrus (ponte mobile poggiato su otri) alla ballista fulminalis (lanciadardi azionato da pochi uomini). Nella parte orientale dell’Impero romano, è noto soprattutto il trattato sull’arte della guerra di Erone di Bisanzio (IX secolo), che traduce i complessi trattati ellenistici illustrando le macchine con disegni tridimensionali come le “testuggini” montate su ruote, che proteg-

Gli scudi compositi Già dall’antichità si comprese che l’abbinamento di materiali diversi consentiva una maggiore robustezza. Un esempio è citato nell’Iliade. A differenza dei comuni scudi in strati di cuoio, quello dell’eroe omerico Achille aveva cinque strati di metallo saldati l’uno all’altro. Il primo, più interno, e il quinto, più esterno, erano di bronzo, il secondo e il quarto, intermedi, di stagno, mentre quello centrale d’oro. Ai cinque strati corrispondevano cinque fasce circolari concentriche, su cui il fabbro divino (il dio Efesto) aveva inciso numerose raffigurazioni.

gono i soldati fino sotto le mura nemiche dove scavare una galleria. Nel Medioevo, tecniche e mezzi bellici vengono riscoperti e modernizzati soprattutto in Germania, dove codici manoscritti e illustrati accomunano antiche macchine e nuove artiglierie. All’inizio del Quattrocento, queste idee sono compendiate dal medico militare bavarese Konrad Kyeser nel Bellifortis. L’opera, soprattutto illustrata, in 10 libri, descrive carri da guerra con armi da fuoco, macchine da assedio ed elevatrici, armi da difesa, carri da assalto con armi da taglio come falci e picche, macchine incendiarie. Un armamentario che vale all’autore il soprannome di “emissario del diavolo”. Tra i disegni compare anche un combattimento tra due palombari con serbatoi d’aria costituiti da vesciche animali. Molte opere si rifanno a quella di Kyeser: la più importante è il Manoscritto della guerra


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La catapulta Tra le macchine belliche antiche è la più complessa. Cominciò a essere impiegata nel IV secolo a.C.; le prime catapulte nacquero come potenziamento del comune arco manuale. Le corde, sia dell’arco sia per le molle delle catapulte, erano di tendini o crini di animali oppure di capelli femminili. Le catapulte più avanzate, a torsione, scagliavano dardi fino a 350-450 metri o pietre di 26 kg fino a circa 135 metri. Filone di Bisanzio cita una catapulta pneumatica ad aria compressa, il chalcotonon, in cui l’energia era immagazzinata spingendo pistoni a tenuta in due cilindri.

ussita, di un anonimo, così chiamato per i riferimenti a macchine usate nel conflitto boemo del XV secolo. Nell’opera, della quale si conosce un’unica copia, vi sono scale articolate, carri, ponti e imbarcazioni provenienti dall’opera di Kyeser, ma anche contenuti originali, come macchine inventate dagli Ussiti (rivoluzionari boemi), dai Veneziani e dai Catalani. Rispetto alle artiglierie di Kyeser, il manoscritto introduce la novità del cannone montato su un affusto a due ruote.

Gli italiani e le armi Anche nomi italiani figurano tra i grandi teorici dell’arte della guerra. Alla metà del 1400, Guido da Vigevano progetta carri trainati con un sistema di pale da mulino a vento collegate con ingranaggi alle ruote. Dispositivi analoghi sono proposti da inventori successivi come Leonardo da Vinci e Francesco di Gior-

Il cannone La prima notizia di un cannone (in bambù) in Cina risale al 1126, poi sostituito da canne di metallo nel 1290. La diffusione in Europa risale invece alla metà del XIV secolo. Inizialmente, i cannoni erano molto piccoli e il loro peso non superava i 18 kg. La tecnologia europea dei cannoni sorpassò presto quella cinese e le artiglierie cominciarono a costituire un fattore decisivo nel XVII secolo; abbattere fortezze prima imprendibili fu determinante nelle lotte delle grandi monarchie contro i signori feudali che erano contrari all’assorbimento in Stati unitari a base nazionale.

gio Martini. Nello stesso periodo, Mariano di Jacopo, detto Taccola e considerato l’Archimede senese, nel De machinis libri decem (ritenuto il primo trattato con una concezione moderna), illustra sia la progettazione di fortificazioni sia i mezzi per attaccarle. Nei decenni successivi, la città fortificata è la base del sistema difensivo della popolazione ed è capace di contenere un gran numero di soldati, artiglierie e viveri. Nella prima metà del 1500 la fortezza cambia aspetto e abbandona la cinta muraria uniforme. Nel 1527, Michele Sanmicheli adotta a Verona, nei bastioni della Maddalena e delle città spagnole, nuove regole costruttive: il muro uniforme a cortina è sostituito da difese poligonali regolari e irregolari da dove gli assediati concentrano il fuoco incrociato. Nel 1529 Michelangelo segue le stesse regole per fortificare San Miniato.

PALMANOVA LA STELLATA La città fortezza fu edificata dai Veneziani nel 1593. Cartografia del XVI secolo dal Civitates Orbis Terrarum, Biblioteca Marciana, Venezia.

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Il fuoco greco Era una via di mezzo tra un cannone e un lanciafiamme. La prima fonte scritta sul fuoco greco, del 673, lo attribuisce all’architetto greco-siriano Kallinikos. Gli ingredienti non sono descritti in particolare, ma si ritiene siano petrolio grezzo (dall’Asia Minore), salnitro, zolfo e carbone. Tali sostanze formavano una palla che era incendiata un attimo prima del lancio e restava accesa anche se cadeva in acqua. La palla veniva lanciata con tubi di rame inseriti in forme di esseri mitologici aventi a che fare con il fuoco e spesso installati sulle navi. In alto: miniatura dal manoscritto Madrid Skylitzes (XII secolo).

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L’ASSEDIO ROMANO

I ROMANI MOSTRARONO IL LORO GENIO PRATICO CON LA REALIZZAZIONE DI DIVERSE MACCHINE E CON IL LORO UTILIZZO COMBINATO PER L’ASSEDIO DI FORTIFICAZIONI. UTILIZZARONO TORRI E ARIETI PER SUPERARE LE MURA E DIVERSE MACCHINE PER LANCIARE PROIETTILI, COME LA BALISTA – UNA CATAPULTA DI MEDIA PORTATA E DI BUONA MANOVRABILITÀ – E L’ONAGRO, CHE DOVEVA ESSERE MANOVRATO DA QUATTRO UOMINI. Matassa Era formata da corde fatte con crini e tendini di animali, ritorte e collegate a un argano che sosteneva ciascun tirante.

Balista Utilizzando il principio della torsione, questa macchina, derivata dal lithobolos greco, lanciava pesanti dardi o pietre sferiche a circa 300 metri di distanza con grande efficacia. Tiranti Muovendo i tiranti, la matassa di corda entrava in tensione e generava la forza per l’impulso. Leva La leva, collegata a una guida dentata, fletteva i tiranti; abbassandola, i tiranti venivano rilasciati e partiva il dardo.

Guide dentate Evitavano che il lancio avvenisse mentre ancora si stavano mettendo in torsione le corde. Alzata A differenza di altre catapulte, la balista poteva aggiustare l’altezza del tiro per dargli maggiore o minore distanza. Per questo vi erano diversi fori regolatori.

DIMENSIONI 2,4 m

3,5 m

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Grilletto Liberava la torsione della matassa e spostava all’indietro i tiranti.

Munizioni I dardi lanciati erano in grado di perforare gli scudi e le armature e di trapassare i corpi; venivano anche lanciate pietre sferiche poco più grandi di un’arancia.


MONDO ANTICO

Onagro

Traversa Quando il tirante colpiva la traversa, il proiettile (una pietra o una sfera infuocata) usciva con forza in avanti.

Era la più grande delle armi romane del periodo tardoimperiale per lanciare proiettili. Il suo nome potrebbe derivare da quello dell’omonimo asino selvatico, al cui scalciare erano paragonate le caratteristiche dell’arma.

Matassa di corda

DIMENSIONI Grilletto Azionandolo, un gancio mobile liberava il tirante che usciva con forza in avanti.

Torsione Tramite una leva veniva applicata una torsione a una matassa del tirante di lancio.

2m 5,2 m

Ariete

Trasporto A seconda delle dimensioni, la macchina aveva 4 o 6 ruote in legno massiccio rivestite in ferro.

Sostanzialmente si trattava di un tronco d’albero che colpiva varie volte le mura o il portone di una fortificazione per demolirle o aprire una breccia.

Protezione Tutta la struttura era coperta con legno, vimini, lana e cuoio per proteggere i soldati che la spingevano dall’interno.

DIMENSIONI 3m ©SOL 90 IMAGES

Tronco Era legato tramite catene a una trave. Sulla punta vi era una calotta in ferro, spesso a forma di testa di ariete (da cui deriva il nome della macchina).

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MONDO ANTICO

IL CALCESTRUZZO ROMANO Il calcestruzzo romano consentì, mediante la tecnica dell’opus caementicium, la costruzione di grandiosi edifici destinati a durare millenni e a influenzare tutta l’architettura occidentale. Sarebbe stato “riscoperto” solo nel Settecento LUIS BAENA DEL ALCÁZAR PROFESSORE DI ARCHEOLOGIA ALL’UNIVERSITÀ DI MALAGA

MONETA EMESSA DURANTE IL REGNO DELL’IMPERATORE GORDIANO I CON L’IMMAGINE DEL COLOSSEO. III SECOLO D.C., BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE, PARIGI. 50 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

zione era di costruire edifici solidi e duraturi. Oltre questi due principi base, ne esisteva un terzo che si manifestò sin dai tempi della Repubblica, ma che andò accentuandosi in epoca imperiale: la ricerca della monumentalità. Gli edifici pubblici dovevano presentarsi allo spettatore come minimo con un aspetto decoroso, ma possibilmente con un’apparenza grandiosa e, se possibile, spettacolare.

Le regole di Vitruvio Ai giorni nostri, oltre 1500 anni dopo la fine dell’Impero, possiamo constatare come l’ambizione romana di costruire edifici monumentali e quasi indistruttibili abbia trovato compimento. Molti di questi edifici, innalzati con blocchi di pietre perfettamente squadrati, destano tuttora la nostra ammirazione. Tanto più che, osservandoli meglio, ci si rende conto dell’altra grande eredità lasciata dall’architettura romana: la capacità di edificare cupole e volte grandiose con materiali a basso costo. E di costruire edifici e monumenti dalle dimensioni impressionanti con un calcestruzzo di qualità certo inferiore a quello odierno.

DANITA DELIMONT / AWL IMAGES

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o spirito pratico dei Romani, tipico di un popolo dalle origini contadine, fece sì che, sin dalle origini dell’Urbe, essi costruissero quasi esclusivamente edifici monumentali di pubblica utilità. Per questo stimavano un capomastro più di un pittore o di uno scultore; e per questo, prima di avviare un nuovo progetto, si premuravano di chiedersi quali vantaggi avrebbe arrecato alla collettività. Dato poi che ogni opera pubblica costava fiumi di denaro, una preoccupazione costante delle autorità romane fu che esse fossero edificate a regola d’arte, affinché durassero il più a lungo possibile e richiedessero solo una ragionevole manutenzione. Perciò, il secondo obiettivo degli architetti romani in fase di progetta-


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L’ANFITEATRO DI ROMA Per impiantare le fondamenta del Colosseo, nel I secolo d.C., si ricorse alla tecnica dell’opus caementicium, usata anche per costruire le possenti volte su cui poggiava la gradinata.

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MONDO ANTICO

NELLA PREPARAZIONE DELLA MALTA VITRUVIO RACCOMANDAVA L’USO DELLA POZZOLANA Vitruvio, il celebre architetto latino del I secolo a.C., nel suo De architectura descrive il procedimento con cui veniva ottenuto tale calcestruzzo (talvolta chiamato anche “cemento romano”, sebbene per noi il termine cemento indichi il legante che, unito alla sabbia, dà origine appunto al calcestruzzo). Da lui sappiamo che l’“ingrediente” principale per preparare il calcestruzzo era la calce, ottenuta cuocendo “pietre bianche” (calcari o marmo) in fornaci aerate a una temperatura di poco inferiore ai mille gradi. In tal modo le pietre perdevano peso (a causa della liberazione di anidride carbonica) e, una volta ridotte in polvere, si trasformavano in “calce viva”, che con l’aggiunta di acqua dava origine a un liquido denso chiamato “calce spenta”. Le calci così ottenute variavano di qualità a seconda del tipo di pietra da cui erano state ricavate. I Romani prediligevano la calce pura (grassa), senza presenza di impurità argillose; inoltre, come sottolinea Vitruvio nel suo trattato, occorreva distinguere tra le calci ottenute da “pietre più compatte e dure”, adatte per i lavori di costruzione veri e propri, e quelle tratte da pietre porose, che meglio si prestavano all’intonacatura dei muri e delle pareti.

Oltre alla calce, il secondo elemento nella preparazione del calcestruzzo era la sabbia, che poteva essere di mare, di fiume o di cava. Vitruvio sconsigliava la prima a causa della presenza di salnitro (nitrato di potassio); raccomandava invece la pozzolana (pulvis puteolana in latino), una cenere di origine vulcanica il cui nome deriva dal luogo in cui veniva estratta: Puteoli, ovvero l’odierna Pozzuoli, e per estensione tutti i territori dell’area vesuviana. Miscelando la calce spenta alla sabbia, i muratori romani ottenevano la malta, un legante a cui aggiungevano frammenti di tegole e ceramica per accrescerne l’impermeabilità. 52 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

GIOVANNI SIMEONE / FOTOTECA 9 X 12

La preparazione della malta

UNA CUPOLA DI 43 METRI La cupola semisferica del Pantheon di Roma, costruita in calcestruzzo romano nel II secolo d.C., ha un diametro alla base di 43,30 metri, pari all’altezza complessiva dell’interno dell’edificio.


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MONDO ANTICO

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IL CALCESTRUZZO PERMISE AGLI ARCHITETTI ROMANI DI COPRIRE GLI EDIFICI CON GRANDI CUPOLE LAVORI EDILI, RILIEVO DALLA TOMBA ROMANA DEGLI HATERII, II SECOLO D.C.

Ecco le indicazioni di Vitruvio su come preparare la malta: “Quando la calce è spenta, la si mescoli con sabbia di cava, nella proporzione di tre parti di sabbia e una di calce; se invece la sabbia è fluviale o marina, la proporzione dovrà essere di due a uno, e così si avrà il giusto equilibrio nel composto. Se alla sabbia di fiume o di mare si aggiunge poi una terza parte di mattone schiacciato e vagliato, la qualità del composto sarà ancora migliore”. Poco dopo Vitruvio si sofferma sulla pozzolana e sottolinea come, usandola nella preparazione della calce, si garantirà una maggior solidità a ogni genere di edificio, e soprattutto a quelli che hanno le fondamenta in mare, “perché questa polvere si consolida sott’acqua”. Una volta preparata la malta, l’ultimo passaggio per arrivare al calcestruzzo consisteva nel mescolarla con ciottoli, pietre grezze e schegge di selce o mattoni (il cosiddetto caementa); si otteneva così un composto che, versato nelle fondamenta degli edifici o tra le pietre dei muri, si consolidava rapidamente, formando un blocco compatto e duro come la roccia. Da qui l’invenzione romana dell’opus caementicium, una tecnica edilizia che si fondava appunto sull’uso sistematico del calcestruzzo.

Muri a secco, volte, cupole Con questa nuova tecnica si potevano innalzare sia i muri a secco sia le pareti interne di un edificio, usando il calcestruzzo come nucleo della muratura rivestita sui lati da paramenti murari costruiti con modalità diverse: le due più comuni erano l’opus incertum, basato sull’impiego di blocchi di pietre irregolari, e l’opus reticulatum, più geometrico e raffinato. L’opus caementicium fu applicato dai Romani nella costruzione di muri, volte e cupole (mediante l’uso di impalcature di legno rimosse dopo il consolidamento del calcestruzzo), e 54 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Il livello superiore era costituito da una galleria aperta affacciata sul piano terra. Gli interni erano intonacati e, nel caso di alcuni negozi, decorati con affreschi.

L’ingresso di molti negozi era incorniciato con grossi blocchi di travertino.

I negozi, tabernae in latino, davano sulla strada oppure su corridoi interni.

per pavimentare le vie e le carreggiate imperiali. Inoltre, con il tempo, si imparò ad associare il calcestruzzo con altri materiali, quali i mattoni, i laterizi e il tufo, estendendone l’impiego a ogni tipo di monumento. Non di rado, il nucleo di calcestruzzo era ricoperto da uno strato di intonaco su cui venivano applicate pitture, mosaici o lastre marmoree. I Romani non furono i primi a utilizzare la malta come legante edile; tuttavia la loro formula a base di sabbia, calce e ceramica triturata – miscelate in proporzioni precise– costituì un apporto originale che si diffuse in tutto l’Impero. L’introduzione di questo sistema costruttivo avvenne tuttavia gradualmente: in un primo momento lo si utilizzò nelle fondamenta dei grandi templi del Lazio – come il Santuario della Fortuna Primigenia a Praeneste (oggi Palestrina) – e in quelle degli acquedotti e anfiteatri. Poi, a partire dal II


MONDO ANTICO

UN CENTRO COMMERCIALE ROMANO

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HERVÉ CHAMPOLLION / AKG / ALBUM

MERCATI DI TRAIANOfurono costruiti per ordine dell’omonimo imperatore sulle pendici del colle Quirinale, tra il 100 e il 112 d.C. Si tratta di un complesso di edifici innalzati con la tecnica dell’opus latericium (calcestruzzo romano ricoperto di mattoni), e destinati a ospitare 150 negozi o tabernae. La parte inferiore era occupata dal Grande Emiciclo, antistante il Foro di Traiano; più sopra, la Grande Aula ricordava un moderno centro commerciale: fiancheggiata da ambienti coperti da volte a botte, si articolava su tre livelli animati da decine di negozi.

La struttura interna degli edifici era in calcestruzzo romano.

IL GRANDE EMICICLO DEI MERCATI DI TRAIANO, SEDE DI ATTIVITÀ COMMERCIALI MA ANCHE AMMINISTRATIVE.

PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM

secolo a.C., si cominciò a impiegarlo anche negli edifici commerciali, come il Porticus Aemilia, un enorme magazzino lungo 487 metri e largo 60 eretto nel 174 a.C. nell’Emporium, il porto fluviale di Roma. E man mano che il ricorso all’opus caementicium si generalizzava, cambiava la mentalità degli architetti. Dalle forme costruttive ereditate dai Greci, basate su linee verticali e orizzontali, si passò a una nuova visione architettonica che prevedeva anche la linea curva. In effetti il calcestruzzo romano consentiva di erigere volte grandiose ed enormi cupole, risolvendo il problema della copertura di ambienti molto spaziosi. L’architettura dei Greci si era fondata sull’armonia delle proporzioni; ora gli architetti romani potevano concedersi il lusso della monumentalità. Tra i tantissimi esempi di coperture a volta costruite in epoca romana, i più significativi sono forse quelli

della Grande Aula nei Mercati di Traiano e delle Terme di Caracalla e di Diocleziano. Ma è nella progettazione delle cupole che gli architetti romani eccelsero. Celebri sono rimaste le cupole degli edifici termali di Baia (l’odierna Bacoli), in Campania, e quella che sormonta l’audace “sala ottagona” della Domus Aurea di Nerone, a Roma; la perfezione, tuttavia, fu raggiunta con il Pantheon di Agrippa, ricostruito dall’imperatore Adriano tra il 118 e il 125 d.C.: la sua cupola, realizzata attraverso un’unica gittata di calcestruzzo sopra a una colossale impalcatura in legno, è una delle più grandi che sia mai stata costruita, superando di poco in ampiezza persino quella della Basilica di San Pietro, in Vaticano. Caduta nell’oblio nel Medioevo, questa tecnica fu pienamente riscoperta nel ‘700 dall’inglese John Smeaton, che reinventò il calcestruzzo utilizzando un nuovo tipo di calce. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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UNA STAMPA PER UN RE William Caxton mostra il suo lavoro al re Edoardo IV d’Inghilterra. Caxton (1422-1491) fu il primo a introdurre la pressa tipografica in Inghilterra, a Westminster, dove pubblicò circa un centinaio di titoli. Dipinto di Daniel Maclise. 1851. Knebworth House, Hertfordshire. BRIDGEMAN / ACI

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EDAD MEDIA

Stampa, polvere da sparo, mulino, orologio e bussola. Queste cinque grandi invenzioni sono la prova migliore che il Medioevo non fu un periodo buio o un’epoca di arretratezza, come talvolta si crede.


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LA BUSSOLA Originaria della Cina, ebbe un ruolo fondamentale nella navigazione e rese possibili le grandi scoperte geografiche. Nel 1600 si scoprì che funziona grazie al magnetismo terrestre BERNAT HERNÁNDEZ UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA

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DEA / ALBUM

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l fenomeno del magnetiche divinatorie di geomantismo, provocato dalzia e per cerimoniali religiolo sfregamento di si. La prima citazione è nel frammenti di ferro trattato del 1044 Wu ching con calamite naturatsung yao (Compendio di li, era noto fin dall’antichiimportanti tecniche milità. Esso è menzionato in testi tari) del cinese Tsêng Kungdi Talete di Mileto e di Platone, liang, dove si parla di un “pesce” ma fu in Cina che si scoprì che BUSSOLA ISLAMICA DATABILE AL di magnetite adoperato per trovare CIRCA E USATA PER INDIVIDUARE ogni ago magnetizzato che pos- 1520 il sud. Nel 1177, si ebbe il primo riLA DIREZIONE DELLA MECCA. MUSEO NAZIONALE, DAMASCO. sa girare liberamente indica ferimento di un ago magnetico utiAKG / ALBUM sempre la direzione nord-sud. lizzato dai Cinesi per la navigazione, O meglio il contrario, poiché in Cina mostradescritto nel trattato P’ingchow di Chu Yu. va sempre il sud, in segno di umiltà nei conIndispensabile sulle navi fronti dell’imperatore: si dovevano infatti sempre dare rispettosamente le spalle all’OrL’invenzione passò in Arabia. Verso la metà sa Maggiore, sede del “Sovrano dall’Alto” del XIII secolo,la cronaca di un viaggio tra (Shangdi), del quale l’imperatore era il somTripoli e Alessandria, il Libro del tesoro dei mo rappresentante sulla Terra. Allora si fabmercanti, raccontava come in una notte senbricavano bussole “asciutte” (piccole tartaza stelle il capitano di una nave si avvalse di rughe intagliate nel legno che contenevano un ago magnetizzato per trovare la rotta. magnetite e che giravano sopra un perno di Dal semplice utilizzo dell’ago magnetizzato bambù affilato) e ad acqua (in cui barrette di si passò in Europa a uno strumento più sofimagnetite venivano fatte galleggiare sull’acsticato, con un processo che fu accompagnaqua). Tali aghi calamitati servivano per prato da varie ricerche sulla fisica del magnetismo.


MEDIOEVO

LE ROTTE SULL’OCEANO Pagina dall’Atlante catalano, portolano realizzato dal cartografo spagnolo Abraham Cresques, nel XIV secolo. Fu il primo a includere una rosa dei venti.

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LA BUSSOLA E LA ROSA DEI VENTI

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L CONTRIBUTO della bussola ai progressi

della navigazione occidentale andò di pari passo con la conoscenza del vento e delle correnti. La bussola tuttavia ebbe grande importanza nella realizzazione di portolani più esatti, che permisero di stabilire rotte su grandi estensioni marine. Tali rotte erano indicate per mezzo di rose dei venti, che raffiguravano le linee da seguire. In questo modo si otteneva una suddivisione dello spazio marittimo che non indicava solamente il nord. Con tale sistema il timoniere poteva orientarsi con maggiore precisione e, allo stesso tempo, tenere la rotta, ovvero mantenere costante l’angolo tra la sua direzione e l’orientamento dell’ago della bussola. Quando fu aggiunta una rosa dei venti al meccanismo della bussola, il lavoro del timoniere fu notevolmente semplificato, perché non doveva più confrontare costantemente le indicazioni dello strumento con quelle del portolano. MINIATURA IN CUI SI FISSA LA POSIZIONE. DAL MANOSCRITTO DI JACQUES DE VAULX. 1584, BIBLIOTHÈQUE NATIONALE, PARIGI.

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MODELLO TASCABILE Bussola e orologio solare portatili. Strumento risalente al XV secolo conservato presso il Museo navale di Madrid.

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Il francese Pierre de Maricourt, più noto come Petrus Peregrinus, scienziato e filosofo, svolse un ruolo fondamentale in questa evoluzione. Maricourt – il quale già nel 1269 aveva scritto una Epistola de magnete che introdusse definitivamente la bussola in Occidente – osservò che l’estremità di un ago di ferro magnetizzato si orientava verso il nord. Cosicché, collocando uno di questi aghi sulla superficie dell’acqua contenuta in un recipiente e un altro nel palmo della mano, constatò l’attrazione tra i poli opposti e la repulsione tra i poli uguali. Sorprendentemente, nella seconda parte della sua opera Maricourt giunse a paragonare la pietra imàn (o magnetite) di forma sferica al globo terrestre e concluse che l’ago si orientava in direzione dei poli celesti. “Grazie a questo strumento – scrisse – potrete trovare la rotta verso le città e le isole di

ogni luogo verso cui desideriate andare, per terra come per mare, purché conosciate latitudine e longitudine”. La prima menzione in Europa dell’uso pratico di bussole nella navigazione compare alla fine del XII secolo nel trattato De utensilibus dello scienziato inglese Alexander Neckam. I marinai diffusero poi rapidamente l’utilizzo della bussola a tutto il Mare del Nord e all’Atlantico. Grazie a questa nuova tecnologia era ora possibile spingersi al largo nei mari e negli oceani con maggiore sicurezza.

L’ago nautico I primi aghi magnetici presentavano difetti notevoli, tanto che vi si ricorreva come ultima risorsa, quando non fosse possibile orientarsi con il Sole o con la Stella Polare. Le oscillazioni delle navi rendevano infatti impossibile la lettura corretta di un pezzo di metallo


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posto su un sughero galleggiante. In tal senso si ottennero miglioramenti usando liquidi più densi per il galleggiamento, come l’olio, ma soprattutto limitando i possibili movimenti del cosiddetto “ago nautico” fissandolo su un supporto, su cui furono segnate le 32 punte della rosa dei venti. Da tali prime modifiche deriva il nome dello strumento: è dal tardo-latino buxida (“piccola scatola”) che deriva “bussola”; si identificava così il contenitore con la tecnica.I naviganti medievali invece chiamavano la bussola “marinaretta” perché divenne per loro una compagna indispensabile nelle traversate.

La Terra è magnetica Sebbene tutte queste migliorie tecniche avessero ovviato ad alcuni errori di lettura, esse non poterono eliminare la base geologica delle deviazioni di direzione: la declinazione

magnetica, ossia il fatto che il nord magnetico non coincide con il nord geografico. Alla fine del XVI secolo, un fabbricante di vele e bussole, l’inglese Robert Norman, scrisse un trattato che conteneva spiegazioni di tale fenomeno e il suggerimento di servirsene per misurare le differenze di latitudine. Le sue conclusioni diedero il via a una serie di trattati sul magnetismo, come il De magnete (1600) e altri scritti dell’inglese William Gilbert. Gilbert forniva la prima spiegazione razionale delle proprietà della bussola: era la Terra stessa a essere magnetica. Fino a quel momento, la natura del magnetismo appariva tanto misteriosa che sulle navi era persino proibita la presenza di aglio, poiché si riteneva che i vapori acri di questo ortaggio potessero causare il malfunzionamento della bussola. Gilbert progettò inoltre uno strumento per misurare la declinazione magnetica. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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nica, notando la misteriosa deriva dello strumento a ovest delle Azzorre, quando la declinazione magnetica (la differenza tra il nord geografico e quello indicato dalla bussola) si fece più acuta, fino a raggiungere un “quarto di vento”, oltre 11 gradi. La differenza tra i calcoli di una bussola e quelli di un astrolabio era intorno ai 15 gradi in direzione nord. I progressi marittimi furono inarrestabili. Nel 1575 lo scrittore francese Louis de Roy, in una sua opera, menzionò l’incontro tra Ferdinando Magellano e il re di Malacca (oggi in Malesia), un incontro che, secondo lui, era stato reso possibile dalle nuove conoscenze sui mari e dall’impiego della bussola.

Correggere le rotte

AKG / ALBUM

LA LEGGENDA DELL’INVENTORE L’amalfitano Flavio Gioia, del XIV secolo, al quale una leggenda attribuisce l’invenzione della bussola. Incisione della serie Nova Reperta di Giovanni Stradano, 1588-1600.

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Egli tuttavia sbagliò nel considerarla un valore assoluto, dato che non era a conoscenza di un dato fondamentale: il campo magnetico del pianeta cambia costantemente.

Nell’era delle scoperte Durante il XVI e il XVII secolo, l’epoca delle grandi scoperte, la bussola fu essenziale per i marinai. Enrico il Navigatore, principe del Portogallo, era perfettamente consapevole del ruolo delle innovazioni tecnologiche, e fondò osservatori e scuole di navigazione per potersi avventurare negli oceani. Grazie alla bussola, i Portoghesi doppiarono il Capo di Buona Speranza, il punto più a sud dell’Africa, aprendo così la rotta verso l’Estremo Oriente. Nel 1432 il marinaio portoghese Gonçalo Cabral raggiunse le isole Azzorre servendosi della bussola. E anche Cristoforo Colombo la utilizzò nel corso della sua traversata ocea-

Riuscire a stabilire la declinazione era indispensabile per i navigatori. Nel XVII secolo ebbe così inizio una competizione tra le potenze europee per finanziare il lavoro di quanti fossero in grado di definire le variazioni di tale declinazione e in questo modo di correggere le rotte. Filippo III di Spagna offrì 120.000 dollari spagnoli, mentre gli Stati Generali, o Parlamento dei Paesi Bassi, promisero 30.000 fiorini. Da allora in poi, tutti i resoconti delle spedizioni marittime raccolsero i valori della declinazione in punti distinti. Per esempio fu questo il caso dei viaggi di Willem Barents e di William Baffin, quest’ultimo alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest (che collega l’Atlantico con il Pacifico attraverso il nord dell’odierno Canada), i quali registrarono i rischiosi sbarchi da loro effettuati tra gli orsi polari per misurare le oscillazioni provocate dalla vicinanza al polo terrestre. A causa di tali limitazioni, la bussola presentò da allora poche modifiche. Dalla metà del XVII secolo la semplice pietra imàn utilizzata per magnetizzare l’ago fu sostituita da una lamina di acciaio precedentemente magnetizzata, che rafforzava le proprietà del metallo impiegato nella fabbricazione dello strumento. Agli inizi del XIX secolo, questa nuova tecnica permise lo sviluppo dei magnetometri, apparecchi impiegati per misurare la forza e la direzione del campo magnetico, che ebbero un’ampia diffusione negli osservatori. Grazie a essi fu possibile iniziare a superare le limitazioni che il magnetismo terrestre imponeva all’orientamento della bussola.


LA SPEDIZIONE DEL CONTE DI LA PÉROUSE

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EL 1785, LUIGI XVI, invidioso delle traversate

che James Cook aveva realizzato per conto dell’Inghilterra, incaricò Jean-François de Galaup, conte di La Pérouse, di portare a termine un’ambiziosa spedizione che avrebbe dovuto esplorare nuove rotte marittime nell’Oceano Pacifico, con le fregate Boussole e Astrolabe. Dopo tre anni di navigazione, l’equipaggio fece naufragio di fronte alle isole Salomone, lasciando però ai posteri molti scritti relativi alle scoperte allora compiute dall’America alla Cina. Il destino di quei marinai e scienziati rimane un mistero: nonostante fossero forniti dei migliori apparecchi di misurazione della loro epoca (tra i quali la bussola), essi non riuscirono a fare ritorno in patria.

DE AGOSTINI / DAGLI ORTI / ALBUM

ORONOZ / ALBUM

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NELL’ISOLA DI PASQUA La spedizione doppiò Capo Horn, compilò una relazione sulla colonia spagnola del Cile e visitò l’isola di Pasqua. Tra l’equipaggio vi erano anche scienziati esperti in diversi settori.

STRUMENTI MECCANICI Grafometro utilizzato da La Pérouse. Con questo strumento si potevano misurare gli angoli orizzontali, che venivano letti su una scala graduata a forma di semicerchio.

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LA POLVERE DA SPARO Tra il XIII e il XIV secolo un potente composto a base di salnitro, carbone e zolfo trasformò completamente l’arte della guerra in Europa, dopo essersi diffuso in Oriente e poi nel mondo islamico: la polvere pirica o da sparo GERMÁN SEGURA GARCÍA STORICO MILITARE

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ERICH LESSING / ALBUM

BRIDGEMAN / INDEX

rendete zolfo, nitrato e tamente come opera del diavolo. carbone: usati separataIn realtà, la diffusione della polvemente non producono alcun re da sparo in Europa era il risultaeffetto, ma miscelati in un to di una serie di esperienze e di contenitore vuoto e contatti tra popoli diversi durati chiuso, provocano più rumore secoli. Anche se la leggenda ne ha e più bagliore di un tuono”. attribuito a lungo l’invenzione al Correva l’anno 1257 quando il monaco tedesco Berthold Schwarz Doctor Mirabilis, soprannome (1318-1384), oggi gli storici sono del frate, filosofo, scienziato e alchimista convinti che la scoperta della polinglese Roger Bacon (italianizzato in Rugvere pirica (o polvere nera) non gero Bacone), metteva per la prima possa essere il frutto del genio FIASCHETTA DI POLVERE DA SPARO IN volta per iscritto, in un trattato si- CORNO E ARGENTO DORATO, XVI SECOLO, di una sola persona, ma sia GERMANIA. COLLEZIONE PRIVATA. gnificativamente intitolato Epistola piuttosto il risultato degli de secretis operibus artis et naturae et esperimenti svolti da generanullitate magiae (“Lettera sulle opere segrete zioni di alchimisti. Furono questi instancabidell’arte e della natura e sull’inutilità della ma- li sperimentatori ad accorgersi, forse fortuigia”), la formula della polvere pirica, il primo tamente, che una determinata combinazione esplosivo utilizzato dall’uomo. di salnitro, carbone e zolfo, sottoposta al caSi trattava di una miscela “magica” in grado di lore di una fiamma, prendeva fuoco molto generare, bruciando, un tale frastuono e una velocemente, generando nell’esplosione una tale distruzione da gettare nel terrore tutti tale quantità di gas da proiettare lontano qualcoloro che avevano la sventura di sperimen- siasi oggetto si trovasse nelle vicinanze. Una tarne gli effetti. Non a caso molti Europei con- scoperta epocale, che nel giro di pochi decentemporanei di Bacone la bollarono immedia- ni avrebbe cambiato la storia del mondo.


ASSALTO INGLESE MEDIOEVO A UNA CITTÀ L’esercito inglese utilizzò per la prima volta l’artiglieria durante la Guerra dei Cent’anni (1337-1453). Miniatura della fine del XV secolo, British Library, Londra.

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LA LEGGENDA DEL FRATE ALCHIMISTA

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EL XIV SECOLO Francesco Petrar-

ca lasciava intendere che fosse stato il grande matematico e fisico siracusano Archimede (III sec. a.C.) a inventare il cannone: avrebbe ideato armi a vapore che sfruttavano l’espansione del gas per lanciare i proiettili a grande velocità contro il nemico. Acutamente, l’architetto Francesco di Giorgio Martini fece notare nel Quattrocento che se gli antichi avessero avuto a disposizione i cannoni, sarebbero state trovate feritoie nelle loro fortezze. Nella stessa epoca, l’umanista rinascimentale Flavio Biondo attribuì a un tedesco del XIV secolo l’invenzione della polvere da sparo, sostenendo che fosse stata usata per la prima volta nella guerra di Chioggia, scoppiata tra il 1378 e il 1381 tra Genova e Venezia. La leggenda si completò quando l’inventore fu identificato con il frate e alchimista tedesco Berthold Schwarz, vissuto alla fine del Trecento nel monastero di Friburgo.

BRIDGEMAN / ACI

UN CANNONE ITALIANO Modello fiorentino del Seicento con scene di mitologia classica scolpite sulla bocca da fuoco: la canna è montata su un affusto veneziano in legno del XIX secolo. Wallace Collection, Londra.

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Dopo la scoperta, infatti, ci si rese ben presto conto che la polvere pirica poteva trovare numerose applicazioni in campo militare, e da quel momento essa divenne la protagonista indiscussa di qualsiasi guerra, rimanendo l’unico esplosivo conosciuto fino alla diffusione della nitroglicerina, nel XIX secolo.

L’intuizione degli Arabi Le prime testimonianze sull’utilizzo della polvere da sparo provengono dall’Oriente. In Cina e in India pare fosse conosciuta già prima dell’anno Mille, ma almeno inizialmente era impiegata quasi esclusivamente per fabbricare i fuochi d’artificio fatti esplodere durante le feste e i riti religiose, forse con l’intento di scacciare gli spiriti maligni. Furono gli Arabi i primi a comprendere pie-

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namente le potenzialità belliche della polvere da sparo, e a migliorarne la composizione per renderla ancora più micidiale: essi scoprirono che una polvere costituita dal 74% di salnitro, l’11% di zolfo e il 15% di carbone si avvicinava alla composizione ideale per ottenere la massima potenza esplosiva. Sempre gli Arabi, infine, disegnarono i primi rudimentali cannoni a mano, superando la difficoltà, fin lì insormontabile, di creare canne metalliche capaci di sopportare la violenza dell’esplosione. Le potenti “bocche da fuoco” arabe si diffusero in tutto il mondo islamico, e fu così che giunsero in Europa. Sappiamo che alla fine del XIV secolo l’artiglieria a base di polvere da sparo era diffusa in tutto il Vecchio Continente, ma ricostruirne il percorso non è per nulla facile. Il termine “artiglieria” venne applicato, dopo che si diffuse la polvere da sparo, esclusivamente alle


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SCALA, FIRENZE

Polvere, cannoni, proiettili in ferro PER UN CERTO PERIODO, i cannoni furono realizzati in bronzo: la fusione delle campane, infatti, era una tecnica consolidata, e quanti vi si dedicavano erano anche in grado di fondere cannoni, attività raffigurata in questa miniatura quattrocentesca.

1 DAL BRONZO AL FERRO Con la richiesta di cannoni di sempre maggior potenza e gittata, alla fine del XIV secolo il bronzo venne sostituito dal ferro forgiato, un metallo molto più resistente.

2 L’ANIMA Si riscaldavano barre di metallo che venivano saldate a colpi di martello attorno a un nucleo di legno, e poi rinforzate con robuste cerchiature metalliche. In tal modo si realizzava la canna o anima del cannone.

3 LA CAMERA La polvere da sparo era contenuta in una camera di scoppio amovibile (per questo non si vede nella miniatura) che veniva applicata alla parte posteriore del cannone al momento dello sparo.

4 I PROIETTILI A metà del XV secolo, gli artiglieri francesi utilizzavano proiettili in ferro, ritenuti più efficaci di quelli in pietra che si spezzavano facilmente quando colpivano le mura.

All’inizio del XIV secolo apparvero in Spagna anche i primi cannoni: lo storico Jerónimo Zurita (1512-1580), nei suoi Anales de la Corona de Aragón, scrive che le truppe di Granada, nel 1331, terrorizzarono gli abitanti di Alicante attaccando la città con un’arma che “lanciava palle di ferro mediante il fuoco”. Dalla Spagna, l’artiglieria si diffuse nel resto d’Europa: si accetta per convenzione che la prima apparizione dell’artiglieria inglese abbia avuto luogo durante la Guerra dei Cent’anni (1337-1453), poiché la si adoperò almeno nell’assedio di Tournai (1340) e nella battaglia di Crécy (1346), durante la quale una bombarda “causò enorme panico e sconcerto tra i Genovesi” al servizio del re di Francia. All’epoca, anche i Francesi pare non ignorassero l’esistenza dell’artiglieria: certe fonti risalenti al 1338 accennano ad alcuni “cannoni puntati contro Puy Guillaume, in Alvernia”.

IL LAVORO IN UNA FONDERIA La fusione di una bombarda – sorta di cannone di grosso calibro – in una fonderia di epoca medievale. Miniatura dal Trattato di aritmetica di Filippo Calandri, fine del XV secolo, Biblioteca Riccardiana, Firenze.

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armi da fuoco di grosso calibro: cannoni, obici e mortai. Ma in origine il termine si riferiva a tutti i marchingegni utilizzati per assaltare una fortezza (arieti, catapulte e simili). Tale circostanza ha creato non poche controversie al momento di ricostruire la prima volta in cui fu utilizzata in Europa la “nuova artiglieria”.

L’artiglieria di Alfonso I d’Aragona Nel XIII secolo compaiono varie testimonianze circa l’impiego di armi da fuoco nella parte della Penisola iberica controllata dai musulmani e nella Spagna cristiana: secondo varie cronache dell’epoca, Alfonso I d’Aragona utilizzò l’artiglieria durante la presa di Saragozza (1118), mentre gli abitanti di Niebla – fra i quali molti Arabi – la impiegarono contro di lui quando, avendo il re posto sotto assedio la città, si difesero dai suoi attacchi con una sorta di rudimentale arma da fuoco.

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ERICH LESSING / ALBUM

L’USO DEI PRIMI CANNONI PROVOCAVA PIÙ VITTIME TRA QUANTI LI MANEGGIAVANO CHE TRA I NEMICI LA PRIMA RAFFIGURAZIONE EUROPEA DI UN CANNONE, MINIATURA DEL XIV SECOLO.

Una rivoluzione militare Per ottenere un’artiglieria davvero efficiente furono necessari però molti decenni, a causa di gravi inconvenienti nel loro impiego. Alcuni storici riferiscono che le armi da fuoco causavano più terrore tra chi le usava di quanto non nuocessero a chi le subiva. Era quasi impossibile abituarsi al terribile rumore provocato dallo sparo, e gli incidenti erano così frequenti che gli artiglieri si riconoscevano facilmente per le amputazioni e la loro proverbiale sordità. Inoltre, la fattura artigianale di queste prime armi, la qualità non uniforme della polvere da sparo, la confezione delle “palle” da lanciare erano fattori che influivano sulla precisione e l’efficacia dello sparo. Nonostante questi difetti, è innegabile che l’introduzione della polvere da sparo rivoluzionò l’arte della guerra, al punto che l’intero complesso delle tattiche militari dovette adattarsi alla nuova realtà. In particolare, all’accresciuta potenza dell’artiglieria corrispose un’evoluzione delle fortificazioni, che cominciarono a essere cinte da mura basse, spesse e dal profilo angolato, pensate per assorbire o deviare il fuoco nemico. Le fortificazioni avevano spesso una forma pentagonale, con bastioni che si allungavano a formare angoli acuti: questa linea era studiata per far sì che ciascun bastione fosse coperto dal fuoco di un bastio68 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ne vicino, in modo da eliminare i punti deboli che favorivano l’azione degli attaccanti. Oltre a influenzare la forma delle città, l’introduzione dell’artiglieria ebbe un impatto psicologico significativo su quanti potevano contare sulle nuove armi. Le truppe che combattevano a fianco di un signore protetto da pezzi d’artiglieria sentivano di avere un enorme vantaggio dalla loro parte. Il possesso di armi da fuoco pesanti, inoltre, era il segno più evidente del potere dei sovrani. Solo il monarca poteva permettersi un consistente arsenale d’artiglieria: i Re cattolici Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia, per esempio, misero in campo nell’ultima fase della campagna di Granada (1481-1492) un parco d’artiglieria di ben 200 pezzi. Al contrario, i nobili in attrito con la corona non vedevano più nei propri castelli delle roccaforti sicure contro il potere reale, poiché le fortezze medievali, inadatte a fronteggiare la potenza delle armi da fuoco, in caso di ribellione sarebbero state distrutte facilmente.

La massima di Napoleone Le armi da fuoco pesanti iniziarono a essere adoperate con maggiore frequenza a partire dal XV secolo e soprattutto nelle guerre d’assedio: il loro peso e la scarsa manovrabilità dei cannoni non le rendeva adatte a guerre più movimentate. Solo nel XVIII secolo, i supporti su cui poggiavano le bocche di fuoco divennero più agili e in grado di adattarsi al ritmo delle operazioni; questo fattore, insieme ai progressi nella fabbricazione della polvere da sparo e alla costruzione di cannoni a calibro standard, favorì l’avvento di un’artiglieria più mobile, sicura ed efficace. Le armi da fuoco raggiunsero un livello così alto di perfezione che un eminente artigliere come Napoleone Bonaparte poté proferire una massima rimasta celebre: “L’artiglieria conquista il terreno, la fanteria lo occupa”.

SCALA, FIRENZE

In Italia, l’uso documentato delle armi da fuoco risale ai primi decenni del XIV secolo. Furono impiegate a Firenze nel 1325 e nel 1331 durante l’assedio di Cividale del Friuli compiuto dalle truppe imperiali. Nei decenni successivi fu soprattutto la Repubblica di Venezia a contribuire allo sviluppo delle artiglierie nella Penisola: i Veneti facevano uso di piccoli cannoni di ferro e bombarde di tutti i calibri. Più o meno nello stesso periodo, la diffusione delle armi da fuoco è attestata anche nelle Fiandre, in Germania e in Russia.


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IL DECLINO DELLA CAVALLERIA

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NO SCHELETRO, armato di un rudimentale fucile a miccia, prende di mira papi, re e nobili nel Trionfo della morte, un affresco dell’oratorio dei Disciplinati di Clusone (Bergamo), dipinto nel 1485 da Giacomo Borlone de Buschis. Formata da una grossa canna di metallo legata con anelli a un telaio di legno, quest’arma è il simbolo di uno dei maggiori cambiamenti causati dall’avvento della polvere da sparo: il tramonto della cavalleria. I cavalieri, protetti dalle loro armature, smisero di imporre la propria legge in battaglia. Anzi, essi potevano restare vittime di qualsiasi popolano che sapesse maneggiare un archibugio. Nel XVII secolo, Miguel de Cervantes lamentava la circostanza, facendo dire a Don Chisciotte, a proposito dell’inventore dell’artiglieria, che per colpa sua “il braccio di un codardo può togliere la vita a un valoroso cavaliere”.

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IL MULINO Macinare il grano, forgiare il metallo, fabbricare carta. Gli usi di una macchina in grado di produrre energia con la forza dell’acqua o del vento si moltiplicarono. Il mulino cambiò le tecniche di produzione e incrementò i profitti BERNAT HERNÁNDEZ UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA

IL MULINO MISTICO. CAPITELLO DELL’ABBAZIA ROMANICA DI SANTA MADDALENA DI VÉZELAY, IN BORGOGNA. XII SECOLO. AKG / ALBUM

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quali Baghdad, Damasco, Antiochia o Nishapur. In Cina, la tecnologia impiegata nei mulini fu presto applicata all’agricoltura, all’estrazione mineraria e alla metallurgia. La prima menzione di questi dispositivi in Europa si ha in una bolla pontificia dell’anno 1105, con la quale viene concessa la costruzione dei mulini nelle diocesi francesi di Bayeux, Coutances ed Évreux. A differenza di quelli orientali, che avevano la ruota orizzontale e l’asse verticale, i mulini a vento europei avevano la ruota verticale e l’asse orizzontale. L’intero mulino era realizzato su una base girevole in modo da allinearsi automaticamente alla direzione del vento. Successivamente, verso il 1300, furono realizzati mulini a torre soltanto con la parte superiore girevole.

Mulini sempre più efficienti I monaci cistercensi furono così i “portabandiera” dell’introduzione dei mulini ad acqua di uso agricolo in Europa occidentale: nelle zone in cui si trovavano i loro monasteri realizzarono canalizzazioni che portavano acqua corrente agli impianti, mulini per cereali (che

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radizionalmente al mulino ad acqua, così come alla noria (o ruota idraulica) collegata ai corsi d’acqua fluviali, si è attribuita un’origine araba, mentre nei mulini a vento si è individuata un’invenzione propriamente europea. Oggi però è stato stabilito con relativa certezza che anche i mulini a vento provengono dall’Oriente: i primi sono infatti attestati in Persia intorno al VII secolo d.C. Lo testimonia un documento del 644, che racconta la cattura di un certo Abu Lu’lu’a, «costruttore di mulini a vento», che aveva assassinato il califfo Umar ibn al-Khattab. Nel caso dei mulini idraulici, furono i viaggiatori medievali a tracciare l’estesa mappa dei complessi sistemi di norie che costellavano i fiumi nei pressi di città islamiche


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PAESAGGIO CON MULINO Dietro il Palazzo reale dell’Almudaina, nel porto di Palma di Maiorca, è visibile il mulino di Portixol. Dettaglio dalla Pala d’altare di San Giorgio di Pere Niçard. 1470 circa. Museo diocesano, Maiorca.

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IN INGHILTERRA NEL XII SECOLO SI CONTAVANO FINO A 5600 MULINI IDRAULICI FERMACARTE A FORMA DI MULINO A VENTO. LAWRENCE MANNING / CORBIS / CORDON PRESS

trasformavano il grano in farina), frantoi (mulini per l’olio) e piccole fucine, in cui l’acqua azionava i magli che forgiavano il metallo sull’incudine. I mulini idraulici combinavano sistemi di ruote con una valvola motrice che consentiva di regolare l’afflusso di acqua. Tali meccanismi tuttavia risultavano poco efficienti in termini energetici: raggiungevano infatti solo dai 2 ai 5 cavalli vapore. I mulini ad acqua ebbero la meglio su tutti gli altri a partire dal XII secolo: nella poco popolata Inghilterra di allora si arrivò a contare fino a 5600 mulini idraulici. Vi si raggiunse così un grado di dipendenza dall’energia non animale sconosciuto fino a quel momento. A quell’epoca, a Parigi e nei suoi dintorni furono costruiti oltre mille mulini e molte altre città europee crearono reti di canali per sfruttare in modo efficiente la forza motrice dell’acqua. Risale al 1272 la prima testimonianza dell’impiego in Italia dei primi mulini ad acqua in grado do fornire forza motrice alle industrie: a Bologna per azionare i filatoi e a Fabriano (1276) per la fabbricazione della carta. Correnti fluviali e maree furono incanalate per la lavorazione dei cereali e, dal XVI secolo, i mulini furono utilizzati anche per produrre polvere da sparo e vetro, oltre che nelle diverse fasi del finissaggio (ossia della finitura) dei tessuti. Nelle zone costiere si innalzarono molte dighe che trattenevano le acque dell’alta marea per poi riversarle di nuovo in mare durante la bassa marea, così da azionare grandi ruote o pale. Con il passare del tempo i mulini verticali divennero mobili nella loro parte superiore per sfruttare le variazioni di vento. Arrivarono così a generare un’energia motrice pari a quella compresa tra i 20 e i 30 cavalli vapore. La loro efficienza aumentò poi grazie all’aggiunta di un asse orizzontale. Essi furono a questo punto impiegati in operazioni molto diverse di pompaggio e di 72 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

produzione manifatturiera. Le conseguenze tecniche furono rilevanti, anche nel settore dell’ingegneria navale: la costruzione delle caravelle, protagoniste della nuova espansione europea, beneficiò dell’uso di strumenti che implicavano il controllo del vento sulla terraferma e che ridussero i tempi e i costi dei lunghissimi viaggi oceanici.

Nelle armi e nelle lettere L’uso dei mulini ebbe altre importanti ripercussioni in Occidente. Le loro applicazioni allo sviluppo delle armi e delle lettere ne sono due buoni esempi. Tramite un sistema di leve, i mulini a palle (funzionanti con sfere di metallo o pietra) permettevano di polverizzare gli elementi del composto per la polvere da sparo: selce, salnitro, zolfo e carbone vegetale. Per evitare che tale miscela esplodesse, veniva lavorata dopo averla inumidita; poi era essicca-


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I MULINI DI DON CHISCIOTTE

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I È AFFERMATO che i mulini a vento nella regione spagnola della Mancha costituissero una novità ai tempi di Miguel de Cervantes (1547-1616), autore del Don Chisciotte; da qui sarebbe derivata la confusione del protagonista, che li scambiava per giganti contro cui combattere. I mulini tradizionali della Mancha erano idraulici e si trovavano lungo fiumi dalla portata costante, ma di fatto erano più numerosi quelli messi in funzione da torrenti. Don Chisciotte restava attonito anche di fronte alle gualchiere, mulini idraulici utilizzati per la follatura dei panni. In tutti e due i casi però si trattava in realtà di una parodia. Sebbene proliferassero alla fine del XVI secolo per l’aumentata domanda di farina, i mulini a vento erano già diffusi in Castiglia a partire dalla metà del XV secolo. Qui permisero di superare i limiti imposti dal clima e determinarono una resa più costante dei lavori di macina.

ARAZZO CON PERSONAGGI DEL DON CHISCIOTTE; SULLO SFONDO, VARI MULINI. XVIII SECOLO. PALAZZO REALE, MADRID.

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ta e collocata in piccoli barili di legno. Questo tipo di fabbricazione fece sorgere importanti complessi manifatturieri in molte città. Le nuove tecniche resero inoltre possibile la produzione in serie della carta, che grazie alla stampa incrementò la diffusione di informazioni tramite i libri e le incisioni. I mulini per ottenerla sminuzzavano stracci, canapa, giunchi e cortecce d’albero per ottenere la pasta di carta. Si posero così le basi di una meccanizzazione che si trasmise poi ad altri settori. Gli aumenti di produttività ottenuti grazie a queste nuove macchine modificarono attività che fino ad allora dipendevano esclusivamente dallo sforzo di uomini e animali. Mutò così anche la mentalità europea: si iniziò infatti a vedere il mondo in termini di meccanizzazione industriale. I mulini influenzarono anche i rapporti di potere, a livello sia locale sia nazionale. Su scala locale, i gruppi

sociali che ne detenevano il controllo videro aumentare il loro prestigio. L’aumento della produzione di merci con valore aggiunto (farina, olio, polvere da sparo, carta e panni) procedette parallelamente al calo del loro costo e alla loro diffusione.

Sinonimo di prestigio Le classi borghesi e mercantili accrebbero così la loro importanza sociale. Inoltre l’utilizzo intensivo a livello industriale dei mulini idraulici in Inghilterra e dei mulini a vento in Olanda permise a entrambi i Paesi di aprire nuovi mercati ai loro prodotti e di incrementare notevolmente i profitti dei loro commerci. Il mulino lasciò un’impronta indelebile nella storia del mondo moderno. La dipendenza dall’energia prodotta dall’acqua e dal vento fu infatti una caratteristica del mondo preindustriale europeo. Nel XVIII secolo le aree di STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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IL MULINO AD ACQUA Macchina ad acqua per la macinazione ritratta in un’incisione dell’olandese Philip Galle (1537-1612). La raccolta di cui fa parte, Nova Reperta, illustra le principali invenzioni dell’epoca. Collezione privata.

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maggiore sviluppo economico erano occupate dai mulini idraulici, al punto che il loro elevato numero rese difficile l’ubicazione delle prime fabbriche fornite di macchine a vapore. Anche nel Nuovo Mondo, la tecnologia utilizzata in tale tipo di mulino prevalse in modo permanente: nel 1840, negli Stati Uniti erano in funzione quasi 40.000 mulini idraulici.

Una professione con un futuro Tra il 1700 e il 1850 si introdussero innovazioni tecniche molto importanti. Gli studi del matematico francese Antoine Parent, per esempio, migliorarono l’efficienza del mulino. Di fatto, il prestigio dei costruttori di mulini non smise di crescere: aperti alle novità, essi divennero veri e propri specialisti nella scelta dei materiali e nelle misurazioni della potenza prodotta. Gli “inventori-costruttori di mulini”, come furono chiamati nella Francia dell’Illu-

minismo, si rivolgevano ai governi e alle accademie delle scienze per offrire i loro servizi. Uno dei più famosi fu Claude-Valentin Durand, il quale nel 1792 ricevette 10.000 libbre come premio per aver progettato più di quaranta mulini nella sola città di Versailles. La meccanizzazione dei processi di produzione tessile dopo il 1770 consentì nuove applicazioni dell’energia idraulica, che scatenarono una competizione con l’energia prodotta dalle macchine a vapore. Nel XIX secolo le ruote di metallo accrebbero le potenze prodotte dai mulini. Divennero comuni le potenze superiori ai 100 cavalli vapore, anche se di rado si superarono i 200. Nel 1851 i meccanismi ibridi di legno e metallo installati vicino a Troy (nello Stato di New York) permisero di arrivare a produrne fino a 280. Il passo seguente sarebbero state le turbine, che avrebbero sostenuto il trionfo della rivoluzione industriale.

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MULINI AD ACQUA IN FONDERIA IMPIEGO DEI MULINI ad acqua nell’industria

del ferro fece sorgere le fonderie vicino alle rive dei fiumi. Tali stabilimenti erano solitamente composti da due parti: il forno con il fuoco e il martinetto o maglio. Un’alta cascata azionava, da un lato, alcune ruote che, a loro volta, facevano muovere i mantici dei forni per la fusione, e dall’altro, le ruote annesse all’edificio dove si trovavano i martinetti. Alcune aste incassate nel manico di questi ultimi permettevano di muovere i pesanti magli destinati a colpire il metallo. L’impiego dell’energia idraulica nelle fucine facilitò enormemente il faticoso lavoro dei fabbri ferrai e, allo stesso tempo, permise di forgiare oggetti in ferro di considerevoli dimensioni.

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LA FUCINA DEL FERRO Olio su tela dipinto da Joseph Wright nel 1772. La città natale dell’artista, Derby (in Inghilterra), fu un importante centro della Prima rivoluzione industriale.

UNA FONDERIA NEL XVIII SECOLO Una fucina e strumenti di misurazione in una pagina dell’Enciclopedia di Diderot. Agli inizi dell’industrializzazione, la presenza di mulini segnalava le aree di maggiore sviluppo.

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MEDIOEVO

L’OROLOGIO Il Medioevo offrì all’Europa una nuova invenzione: l’orologio meccanico, un congegno affascinante che trasformò la vita degli abitanti delle città e introdusse in Occidente i valori della precisione e dell’efficienza JAVIER ORDÓÑEZ PROFESSORE DI STORIA DELLA SCIENZA. UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID

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MERIDIANA SUL PORTALE REALE DELLA CATTEDRALE DI CHARTRES.

dove nel 1379 Rostock eresse un proprio orologio (oggi perduto) e si propagò in città tanto a nord come Lund, in Svezia, che ebbe il suo orologio nel 1424, quanto a est come Olomouc, in Moravia, che poté disporre di un proprio orologio nel 1420. La passione per gli orologi non derivava da un accresciuto interesse per le arti meccaniche. L’Occidente, che pur manifestava una così intensa attrazione per gli orologi, faticava a procurarsi e a utilizzare il metallo, e mostrò in realtà maggiore interesse per la produzione di pezzi di artiglieria che per la fabbricazione di orologi.

Le clessidre dell’Oriente Nel X secolo, l’Europa valeva poco quanto ad abilità tecnologiche, ambito in cui dominavano altre due civiltà: la cinese e l’islamica. Già nel IX secolo, un’ambasciata del califfo Harun al-Rashid offrì all’imperatore Carlo Magno un orologio meccanico che suscitò una così grande ammirazione da essere registrato e descritto in modo dettagliato negli annali reali. Fu però nell’Impero cinese che venne realizzato uno degli orologi più perfetti di quell’epoca.

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ra il XIV e il XV secolo accadde qualcosa nel Vecchio Continente, per cui nel giro di pochi decenni nell’Europa centrale e occidentale furono fabbricati molti orologi meccanici. Ancora oggi si possono ammirare numerosi di questi meccanismi, che raggiunsero livelli di perfezione sorprendenti. Nel 1344 Padova aveva già installato un orologio pubblico; Genova, Bologna e Ferrara costruirono i loro rispettivamente nel 1353, 1356 e 1362. Nel 1359 la cattedrale di Chartres disponeva di due orologi come segno di prestigio e magnificenza, e Lione si dotò del suo nel 1383. La passione per tali congegni si estese fino alle Isole Britanniche, dove tra il 1386 e il 1392 fu installato un orologio nella cattedrale di Wells; raggiunse quindi il Mar Baltico tedesco,


MEDIOEVO

LE ORE, UNO SPETTACOLO Tra i grandi orologi astronomici d’Europa, spicca quello della cattedrale di Strasburgo, costruito nel XVI secolo, quando smise di funzionare l’orologio realizzato tra il 1352 e il 1354.

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MEDIOEVO

I CONGEGNI DI ALFONSO X

GLI OROLOGI CINESI MISURAVANO IL TEMPO DEGLI ASTRI. GLI EUROPEI, QUELLO DEGLI UOMINI

Tra le opere che furono promosse dal re di Castiglia Alfonso X, detto “il Saggio”, vi sono i Libros del saber de astronomía (1276), che comprendono i Libros de los relojes, relativi a cinque differenti tipi di orologio: due solari, uno ad acqua, uno a combustione e uno a mercurio. L’opera riunisce l’antica tradizione tecnica del Vicino Oriente e della Grecia, che fu raccolta dal mondo islamico e poi diffusa in Occidente per opera della cosiddetta “Scuola dei Traduttori di Toledo”, città in cui vennero tradotte dall’arabo in latino numerose opere scientifiche e religiose.

Gli astronomi cinesi concepirono l’idea di fabbricare un meccanismo che riproducesse il tempo solare, e tra il X e l’XI secolo idearono vari prototipi. Il più famoso fu l’orologio dell’astronomo di corte Su Song, costruito intorno al 109o. Questi ingegnosi apparecchi combinavano la conoscenza delle arti meccaniche con il sapere astronomico della società cinese, abituata a interessarsi dei fenomeni celesti. In realtà, gli orologi cinesi e arabi furono l’ultimo stadio evolutivo di un tipo di orologi che poi venne meno: le clessidre, che utilizzavano il flusso dell’acqua per misurare il tempo. Probabilmente gli orologi astronomici cinesi erano enormi clessidre dotate di regolatori idraulici e furono fabbricati come meccanismi per un uso quasi solo imperiale. Gli orologi europei invece non furono inventati per esprimere il tempo degli astri e dell’imperatore, ma per misurare il tempo degli uomini. Lo stimolo per le innovazioni tecnologiche fu legato a due avvenimenti culturali europei: lo sviluppo degli ordini religiosi, soprattutto quello cistercense, e la nascita di città operose. Tanto i monaci quanto gli abitanti delle città, i borghesi, dovevano rispettare orari che non potevano essere regolati dal sorgere e dal tramontare del sole. Avevano bisogno di misurare i tempi intermedi in modo preciso.

Finestra

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Nei monasteri si inventarono meccanismi che aiutarono i monaci a conoscere con precisione le ore della preghiera durante il giorno e la notte, ed è in questo contesto che bisogna immaginare la nascita dei primi orologi meccanici intorno all’anno Mille. A partire dall’XI secolo, con il nuovo impulso impresso dal commercio e dalle manifatture alla vita urbana, le città raggiunsero una grande prosperità e promossero la costruzione di orologi meccanici in grado di regolare le varie attività. 78 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ORONOZ / ALBUM

Dal monastero alla città

Edificio a forma di torre cilindrica con cupola semisferica


MEDIOEVO

Ruota o noria formata da dodici scomparti collegati tra loro.

Ruota dentata. Ingranaggio dentato mosso dalla puleggia. È a forma di astrolabio e fa un giro al giorno.

Puleggia. Il peso tira la corda che è avvolta intorno a essa.

Il peso del mercurio L’orologio all’argento vivo (così era chiamato il mercurio) è formato da una clessidra circolare a forma di noria che contiene mercurio, più denso dell’acqua, in dodici scomparti comunicanti tra loro attraverso piccoli fori. La ruota si muove tirata da una corda avvolta su una puleggia da cui pende un peso. Il mercurio passa dai fori di una cassa a un’altra per mantenere la ruota in equilibrio quando non lo è; in questo modo si rende stabile il movimento rotatorio della ruota. A sua volta, la ruota è collegata a un ingranaggio dentato che segna le ore. In questo congegno è stato riconosciuto un antecedente degli orologi meccanici medievali, poiché è composto da un peso, da una ruota dentata e da un meccanismo sonoro con campane che si azionano ogni ora.

Il sole e l’acqua Uno dei due orologi solari è “il palazzo delle ore” (a), un edificio con dodici finestre, da ciascuna delle quali entra il sole a un’ora differente del giorno. L’orologio ad acqua (B) consiste invece in un serbatoio che riempie un altro serbatoio più piccolo, il quale, attraverso un foro calibrato, alimenta un recipiente che contiene un galleggiante. Questo solleva una tavola con le ore e i segni dello Zodiaco.

Per il suo peso, il mercurio rimane sempre nella parte inferiore e rende stabile la rotazione della puleggia passando da uno scomparto all’altro a intervalli regolari.

Peso

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Quadro con le ore e i segni dello Zodiaco.

Deposito d’acqua

Galleggiante

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MEDIOEVO

IL TEMPO, UN BENE PREZIOSO

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URANTE IL MEDIOEVO, l’orologio

non fu solamente un oggetto di prestigio molto ambito; fu anche un simbolo morale e un elemento che aiutava a regolare la vita spirituale. Per i pensatori cristiani, il tempo era molto importante, dal momento che era irrecuperabile: per questa ragione non lo si poteva dilapidare godendo dei beni effimeri del mondo, ma doveva essere impiegato per la meditazione, la preghiera e la preparazione al Giudizio divino. Con le seguenti parole si esprimeva l’erudito ecclesiastico Giovanni di Salisbury nel XII secolo: “Che cosa c’è di più indegno [...] dell’uomo che spreca il tempo, [...] che dissipa la sua stessa vita e per questo motivo disonora se stesso?.” Da qui l’importanza che si attribuì agli orologi in tale epoca, importanza che oggi noi conosciamo attraverso immagini come quella riprodotta qui a lato, appartenente a una delle più grandi opere del misticismo tedesco.

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OROLOGIO ASTRONOMICO In metallo dorato, venne costruito ad Augusta (in Baviera) nel 1580. Deutsches Historisches Museum, Berlino.

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Nei monasteri e nelle città il ritmo di lavoro era artificiale, a differenza di quanto avveniva nei campi, dove esso era naturale in quanto scandito dalla traiettoria del sole. Ma un ritmo di lavoro artificiale doveva essere regolato da un tempo artificiale e da un tipo di congegno che non aveva motivo di emulare il movimento degli astri. Nacque così in Europa l’orologio meccanico, che sarebbe divenuto il simbolo più autentico della filosofia di vita ed economica dell’Occidente, introducendovi valori nuovi come la precisione e l’efficienza. Anche se i monasteri furono la culla dell’orologio meccanico, quest’ultimo ebbe il suo pieno sviluppo nelle città. L’attività dei mercanti e il lavoro degli artigiani avevano bisogno di essere regolati. E le campane furono i primi oggetti utilizzati a tale scopo. Ognuna aveva il suo timbro e volume caratteristico, e le città si riempirono di campane che indicavano le

diverse ore con i loro rintocchi. Ce n’erano all’interno delle chiese e anche nei posti di lavoro, dove segnavano l’inizio e la fine della giornata; altre annunciavano l’apertura e la chiusura delle porte della città. Ognuno dei loro rintocchi dava conto di un’attività.

Macchine per segnare l’ora Mentre si costruivano campane (con i relativi campanili), si fabbricarono meccanismi capaci di muoverle: questi dispositivi furono gli antecedenti degli orologi meccanici. Lo scopo di questi orologi primitivi era “dare l’ora” con il suono di una campana. Per questo il termine inglese clock, “orologio”, è molto simile al tedesco glocke e al francese cloche, che significano “campana”. Per svolgere questa funzione, si sviluppò una nuova tecnologia che non si basava sul fluire dell’acqua, ma sull’azione di un peso che pende da una corda


MEDIOEVO

Orologi per meditare QUESTA MINIATURA decora il manoscritto che contiene la traduzione medievale francese dell’Horologium sapientiae (“L’Orologio della saggezza”). Redatta dal mistico tedesco Enrico Suso intorno al 1330, l’opera è divisa in 24 capitoli, 1 per ciascuna ora del giorno, come aiuto per vivere la devozione quotidiana. L’illustrazione offre un panorama completo degli strumenti utilizzati all’epoca per misurare lo scorrere del tempo.

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1 OROLOGIO CON PESI. Questo complesso meccanismo, finemente decorato, era unito a una campana che non appare nell’immagine. Il quadrante è diviso in 24 ore, secondo lo stile degli orologi in uso nel XIV secolo.

4 MERIDIANA PORTATILE. Orologio detto “da pastore”, perché da questi usato per la sua trasportabilità. È un cilindro fornito di gnomone (asta che proietta la propria ombra). Era un orologio solare portatile.

2 ASTROLABIO. Accanto al monaco domenicano che rappresenta l’autore del libro appare un astrolabio di enormi dimensioni. Questo strumento astronomico svolgeva spesso le funzioni di orologio.

5 QUADRANTE CON FILO A PIOMBO. Strumento astronomico usato anche per calcolare l’ora. Posto verticalmente grazie al filo a piombo, permetteva di misurare la posizione del sole, dalla quale, conoscendo il Sud, si ricavava l’ora.

3 OROLOGIO CON CARILLON. Segnava l’ora tramite rintocchi e fu l’orologio per eccellenza del Medioevo. Con i suoni delle sue campane accompagnava lo svolgersi del lavoro degli artigiani e le meditazioni dei monaci.

6 ALTRI TIPI DI OROLOGI. Oltre a un orologio meccanico, sul tavolo ci sono due quadranti. Il più distante è un quadrante orizzontale, il più vicino è del tipo detto “equatoriale”. Funzionavano entrambi come orologi solari.

BIBLIOTÈQUE ROYALE DE BELGIQUE

arrotolata su un asse: quando il peso si trova nella parte più alta del percorso, tira la corda e, svolgendola, muove il meccanismo legato all’asse. Questo tipo di congegno presentava lo stesso problema delle clessidre: se non gli si poneva un freno, pesi e correnti d’acqua lo muovevano continuamente. Il tempo era ed è un fluire continuo, ma per costruire l’orologio era necessario interromperlo, renderlo una successione di frammenti: le unità di tempo che oggi chiamiamo minuti e secondi.

L’invenzione dello scappamento Per frenare tale flusso continuo occorreva un regolatore o scappamento, di cui già disponeva l’orologio di Su Song, anche se nel caso dei nuovi orologi meccanici fu ideato un sistema di oscillazione che frenava e liberava la caduta del peso. L’invenzione dello scappamento rese possibile la costruzione di orologi all’inizio

molto pesanti, ma a poco a poco permise di ideare meccanismi di dimensioni minori. I pesi furono sostituiti da molle, gli orologi passarono dalle torri alle case, poi alle credenze domestiche, quindi alle tasche e infine ai polsi dei loro possessori. È difficile immaginare un percorso simile per le clessidre cinesi. Tale processo di miniaturizzazione fu accompagnato dal costante intento di migliorare la precisione; se la campana doveva suonare a una determinata ora, doveva essere il più possibile precisa. I meccanismi basati sui pesi o sulle molle, sviluppati a partire dal XV secolo, risultarono in tal senso molto più duttili. Intanto nelle cattedrali e nei edifici civili più prestigiosi d’Europa si costruivano fantastici orologi astronomici. Quando i gesuiti, guidati da Matteo Ricci, giunsero in Cina alla fine del XVI secolo, l’unico dono che sorprese la corte fu l’orologio meccanico. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MEDIOEVO

LA STAMPA Dopo anni di ricerche ed esperimenti compiuti in gran segreto, Johannes Gutenberg inventò intorno al 1450 un metodo che avrebbe rivoluzionato la diffusione del sapere in tutta Europa: la stampa ANTONIO FERNÁNDEZ LUZÓN DOTTORE IN STORIA

RITRATTO DI JOHANNES GUTENBERG IN UN’INCISIONE DI ANDRÉ THÉVET, 1584. 82 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

vita risulta ancora piena di lacune. Si sa che il suo vero nome era Johannes Gensfleisch e che nacque intorno al 1398 a Magonza. Il nome con cui è conosciuto deriva da quello di una tenuta di suo padre, un ricco patrizio locale che si occupava della coniazione di monete.

Un artigiano imprenditore Dopo gli studi a Erfurt, verso il 1434 Gutenberg si trasferì a Strasburgo, dove intraprese l’attività di orafo. Nel 1436 affrontò la causa intentatagli da una donna di nome Ennelin per aver infranto una promessa di matrimonio: un altro segnale del suo carattere brusco e difficile, manifestatosi già due anni prima, quando fece incarcerare un compaesano per debiti. Gutenberg dimostrò subito una perizia tecnica straordinaria e uno spiccato spirito imprenditoriale. Nel 1437 elaborò un innovativo sistema per lucidare le pietre preziose, e un anno dopo stipulò un contratto con Andreas Dritzehen, Hans Riffe e Andreas Heilmann per la fabbricazione di specchietti per i pellegrini, che questi ultimi erano soliti portare legati al loro cappello, alla tunica o al bastone.

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el 1471, un umanista francese rese omaggio alla “nuova specie di librai” che negli anni precedenti avevano diffuso dalla Germania una nuova tecnica, che permetteva di produrre libri senza più la necessità di copiarli a mano. Fra costoro, “Giovanni, noto come Gutenberg” era stato il “vero inventore della stampa”, l’uomo che aveva creato “i caratteri con i quali tutto ciò che si dice e si pensa può essere subito messo per iscritto, riscritto e consegnato ai posteri”. Johannes Gutenberg compì una delle scoperte destinate ad avere il maggiore impatto sulla storia, ma la ricostruzione della sua


LA “BIBBIA MEDIOEVO DELLE 42 LINEE” La “Bibbia delle 42 linee”, così detta per il numero di righe a due colonne che riempiono le sue 1282 pagine. La Bibbia veniva stampata da Gutenberg senza decorazioni, che poi gli acquirenti facevano aggiungere. British Library, Londra.

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MEDIOEVO

LA PRESSA DI

LA COPIA MANOSCRITTA FU L’UNICA FORMA DI RIPRODUZIONE DEI TESTI PER SECOLI

INVENTATA DA JOHANNES GUTENBERG INTORNO AL 1450, LA STAMPA A CARATTERI MOBILI PERMISE PER LA PRIMA VOLTA LA PRODUZIONE DI LIBRI IN SERIE. TALE RIVOLUZIONE NELLA TRASMISSIONE DELLA CONOSCENZA E DELLE IDEE FU DECISIVA PER LA RAPIDA DIFFUSIONE DEL PENSIERO RINASCIMENTALE.

Lo scopo era attirare la luce proveniente dalle reliquie e dalle immagini sacre: si riteneva che così esse avrebbero trasmesso ai fedeli la loro benedizione. La produzione di specchi richiedeva grande abilità nel lavorare i metalli e andava incontro a una forte richiesta del mercato: due tratti in comune con l’altra grande invenzione cui Gutenberg stava lavorando in gran segreto, un metodo per produrre libri in modo meccanico, usando caratteri in metallo.

Il contributo di Gutenberg La copia di testi tramite stampa, il cui antecedente più antico sono i sigilli babilonesi, era già nota in Estremo Oriente secoli prima dell’invenzione di Gutenberg. Fu quest’ultimo però a introdurre la pressa meccanica e i caratteri mobili in metallo, rendendo possibile per la prima volta la stampa in serie. L’utilità dell’invenzione risultò molto presto evidente: le prime stampe permettevano infatti di stampare fino a 250 fogli nell’intervallo di tempo di un’ora.

Il successo dei caratteri mobili

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Dalla forma di stampa al torchio Per stampare si usava una forma di stampa con tre elementi: una base con i caratteri, un altro telaio con la carta e la fraschetta, che servivano a determinare l’area di stampa e ne proteggevano i margini. Montata la forma, la si collocava sotto il torchio, la cui vite a pressione saliva e scendeva grazie a una leva.

Fraschetta

Timpano

Carrello mobile Guide orizzontali permettevano di collocare e ritirare la forma di stampa dal punto di pressa senza alzare molto la platina.

Base Caratteri

Carta

Leva Carta SOL 90 / ALBUM

In Europa, per molti secoli l’unica forma di riproduzione dei testi fu la copia manoscritta realizzata dagli scrivani. Il lavoro si concentrò negli scriptoria dei monasteri, finché nel XIII secolo la produzione di manoscritti fu trasferita nei nuovi centri universitari. Qui sorsero laboratori in cui lavoravano fino a cinquanta copisti, con un’organizzazione quasi industriale. Poi si diffuse l’uso della carta: prodotta con lino e canapa, risultava molto più economica e maneggevole della pergamena. Alla fine del ’300 in Europa si diffuse la tecnica dell’incisione su legno, o xilografia, che permetteva di imprimere molte immagini su tela o carta tramite una sola lastra. Questo primo tipo di stampa si orientò all’inizio verso la produzione di immagini devozionali. Si poterono così stampare opuscoli impressi su una sola faccia, i quali nella seconda metà del ’400 si trovarono a coesistere con i nuovi libri stampati con caratteri in metallo. Tale tecnica presentava però lo svantaggio che le lastre di legno inciso, oltre a richiedere molto tempo per l’intaglio, si deterioravano in fretta. Era perciò necessario ideare un metodo che permettesse di stampare meccanicamente testi scritti senza che fosse necessario incidere ogni pagina. La soluzione furono i caratteri mobili: piccoli cubi di metallo ognuno dei quali recava una lettera a rilievo.

Torchio a vite. L’enorme pressione necessaria per la pressa poteva causare lo spostamento della struttura. Per evitarlo, di solito si fissava il torchio al soffitto.

Vite Caratteri Base

Platina


MEDIOEVO

Johannes Gutenberg nacque intorno al 1398 a Magonza, città tedesca nella quale, in società con Johann Fust, diede avvio alla stampa a caratteri mobili. Dopo aver perso una causa per debiti intentatagli da Fust, Gutenberg proseguì probabilmente da solo la sua attività di stampatore fino alla morte, sopraggiunta nel 1468. La prima grande opera di Gutenberg fu la cosiddetta “Bibbia delle 42 linee”, da lui portata a termine nel 1455 circa.

GUTENBERG

La fabbricazione dei caratteri mobili metallici I caratteri mobili in metallo di Gutenberg sono stati utilizzati per oltre quattro secoli. Garantivano infatti una resistenza ideale per la produzione in serie dei libri, molto superiore a quella propria dei precedenti caratteri in legno. La loro fabbricazione è descritta nelle immagini a lato.

Supporto Vi si collocavano timpano, base e fraschetta per inchiostrare la pagina con un composto di olio e fuliggine e centrare i caratteri da stampa.

Il proliferare degli incunaboli La diffusione della stampa in tutta Europa ebbe come risultato una proliferazione di incunaboli, nome che indica i libri stampati prima del 1500. Le oltre 6000 diverse opere stampate nei primi cinquanta anni dell’utilizzo di questa invenzione servirono ad ampliare in modo significativo il ventaglio tematico del sapere all’interno delle cerchie erudite europee.

Punzone e matrice Il punzone si intagliava all’estremità di una barra; poi lo si batteva su un metallo più morbido per ottenere la matrice.

Guida. Il compositore, al momento di preparare le colonne tipografiche, era guidato da una copia manoscritta del testo da stampare, che era posta qui.

Stampo e carattere La matrice era posta alla base di uno stampo. Dopo avere riempito tale stampo con una lega metallica composta da piombo, stagno e antimonio fusi, si otteneva il carattere.

Composizione. Un operaio selezionava i caratteri con le lettere da usare e le ordinava all’interno delle colonne che formavano le colonne di testo.

1454-1464 1465-1474 1475-1484 1485-1494 Magonza Salterio liturgico (1457)

Ars Musicorum (1495)

Grammatica castellana (1492)

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MEDIOEVO

AKG / ALBUM

“NON INSEGNATE L’ARTE DELLA STAMPA” CHIESE AI SOCI GUTENBERG PER MANTENERLA SEGRETA STATUA DI SANTA GIULIANA. 1517. MUSEO PROVINCIALE. TRENTO.

I cubi si potevano poi combinare per formare le parole e le linee di una pagina. I vantaggi del procedimento, che consentiva di riprodurre testi su larga scala e con una velocità prima impensabile, produssero un enorme successo. In passato, gli storici hanno individuato vari personaggi cui attribuire l’invenzione dei caratteri mobili al posto di Gutenberg. Si potrebbe iniziare con quelli provenienti dall’Estremo Oriente, documentati nell’XI secolo, anche se non vi sono prove che l’invenzione sia stata poi trasmessa in Occidente. Ad Avignone, un orafo di nome Waldvogel si vantava, tra il 1444 e il 1446, di conoscere “un’arte di scrivere artificialmente” (cioè in modo meccanico) e di possedere “due alfabeti in acciaio, 48 caratteri di stagno e alcuni materiali per la riproduzione di testi ebraici e latini”. In Olanda per l’invenzione della stampa si cita invece il nome di Laurent Coster. Oggi invece la paternità esclusiva della scoperta è attribuita a Gutenberg, anche se le circostanze in cui avvenne non sono chiarite del tutto. Sembra che il tedesco abbia compiuto i primi esperimenti di stampa a Strasburgo, con l’aiuto dei suoi soci della fabbrica di specchietti. Si premurò di mantenere segreto il suo lavoro: ai soci chiese di non insegnare a nessuno l’uso del torchio; non sappiamo però se allora esso servisse per lucidare gli specchi o per produrre libri. In ogni caso, alla morte di Dritzehen sorse un conflitto d’interessi tra Gutenberg e gli altri soci, e poco dopo l’inventore ritornò a Magonza, dove di certo si trovava nel 1448. Di nuovo Gutenberg dovette cercare soci che finanziassero la sua impresa. Johann Fust, un commerciante di Norimberga, gli prestò 800 fiorini per la fabbricazione di “certi strumenti”, e ne promise altri 300 per il “lavoro dei libri” in un nuovo contratto, che prevedeva spese per carta, pergamena e 86 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

inchiostro. Gli studiosi credono che il denaro sia stato investito nella stampa della celebre “Bibbia delle 42 linee”, anche se già prima Gutenberg aveva stampato un manuale di latino e alcuni formulari di indulgenze papali.

Un affare molto redditizio È probabile che l’impresa sia stata da subito un successo. Ciò spiegherebbe il voltafaccia avvenuto alla fine del 1455, quando Fust accusò Gutenberg di impiegare il denaro che gli aveva prestato per qualcosa di diverso dalla “fabbricazione di libri”. Il tribunale condannò Gutenberg a restituire il denaro con l’aggiunta degli interessi, 1200 fiorini, una cifra cui l’inventore non poteva far fronte. Fust si appropriò inoltre di gran parte del materiale per stampare, si impossessò del redditizio affare e si sbarazzò dell’inventore, che per lui era divenuto un ostacolo. Con l’appoggio del fu-


MEDIOEVO

LA CULTURA OLTRE IL POTERE

L

N

A STAMPA COMPORTÒ la democratiz-

zazione del sapere. Tra il 1455 e il 1500 si impiantarono in Europa più di mille tipografie, che produssero una vasta diffusione della conoscenza, ormai meno soggetta al controllo delle autorità civili o religiose. La situazione cambiò agli inizi del XVI secolo, quando gli Stati e la Chiesa cattolica si resero conto del peso di tali centri di diffusione di testi e cercarono di porli sotto il loro controllo. Il ruolo rivoluzionario della stampa è testimoniato dal fatto che l’accusa di Lutero contro la vendita delle indulgenze da parte del papato non avrebbe avuto ripercussioni se non fosse stata stampata in centinaia di copie poi diffuse in tutti i territori di lingua tedesca. La stampa fu decisiva anche nella diffusione della “scienza moderna” tramite accademie e associazioni, una diffusione non sempre gradita alle autorità ecclesiastiche. Grazie alla stampa, per la prima volta la cultura oltrepassava i confini del potere.

LA PRIMA TIPOGRAFIA DI FIRENZE. OLIO SU TELA DI TITO LESSI, 1906. GALLERIA D’ARTE MODERNA, ROMA.

ART ARCHIVE

turo genero, Peter Schöffer, che conosceva la tecnica ideata da Gutenberg, creò uno dei laboratori più prosperi d’Europa. Comunque Gutenberg conservò almeno un torchio, con il quale continuò a lavorare a Magonza, dove stampò un dizionario di latino, il Catholicon. Alcuni studiosi ritengono che poi si sia trasferito per un periodo nella vicina Bamberga, dove tra il 1458 e il 1460 avrebbe finito di stampare la “Bibbia delle 36 linee”, un’opera intrapresa a Magonza anni prima.

La diaspora dei tipografi Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre del 1462, Magonza fu presa d’assalto dalle truppe del principe Adolfo II di Nassau, che ne rivendicava la carica di arcivescovo. Nei cruenti combattimenti che seguirono la città venne saccheggiata. Molti artigiani e commercianti la abbandonarono, e tra loro i tipografi che vi

risiedevano. Tale emigrazione forzata favorì la diffusione dell’arte della stampa in tutta Europa, dapprima in Italia (a Roma, nel 1467), in seguito in Francia e in Spagna. Anche Gutenberg fu una vittima della repressione scatenata dall’arcivescovo: la sua casa fu confiscata e dovette andare in esilio in una città vicina, Eltville. Sappiamo che versava in gravi difficoltà economiche; non è invece certo se, al suo ritorno a Magonza, abbia ripreso il mestiere di tipografo. Nel 1465 Adolfo II ne riconobbe il valore e lo inserì tra il personale del suo palazzo, promettendogli uno stipendio annuale. Alla morte di Gutenberg, nel febbraio 1468, tra i beni di sua proprietà si trovarono “alcuni caratteri, carte, strumenti e altri oggetti necessari per la stampa”. Era il materiale grazie al quale aveva rivoluzionato il modo in cui gli uomini, da allora in poi, avrebbero avuto accesso alle informazioni e al sapere. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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TEMPI MODERNI

IL “GIGANTE” DI MAXIM Nel 1894, l’inventore statunitense Hiram Maxim costruì un aereo azionato a vapore e dalle dimensioni enormi: un biplano di 32 m di apertura alare e di oltre 3000 kg di peso che utilizzava binari per prendere velocità e decollare. Purtroppo ebbe uno spettacolare incidente. UNIVERSAL IMAGES GROUP / ALBUM


Il cinema metteva in scena il mondo, e con il treno, l’automobile e l’aereo risultò più semplice conoscerlo in modo diretto. La fotografia forniva prove e conferme, la radio e il telefono facilitavano la comunicazione e tutto fu visto sotto una nuova luce grazie all’elettricità. Erano i segnali della modernità.

EDAD MEDIA


TEMPI MODERNI

MICROSCOPIO E TELESCOPIO L’invenzione del telescopio, e quella quasi contemporanea del microscopio, rivoluzionarono la nostra percezione dell’universo e il nostro sguardo sul mondo, permettendoci di scrutare l’infinitamente lontano e l’infinitamente piccolo BERNAT HERNÁNDEZ PROFESSORE DI STORIA MODERNA ALL’UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA

DE AGOSTINI / ALBUM

LA NUOVA INVENZIONE. UNO DEI PRIMI TELESCOPI USATI DA GALILEO PER LE SUE RICERCHE ASTRONOMICHE. MUSEO GALILEO, FIRENZE.

90 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

delle lenti, ma fu solo con la nascita della scienza moderna che si pensò di sfruttarlo per fabbricare strumenti che potessero potenziare le capacità visive dell’occhio umano e, di conseguenza, migliorare la nostra conoscenza dell’universo che ci circonda.

Le costellazioni babilonesi Nell’antichità, l’astronomia si basava sull’osservazione a occhio nudo dei cieli. Verso il 1800 a.C., i Babilonesi diedero un nome alle costellazioni. Le basi dell’ottica moderna si devono agli Arabi, mentre i primi cataloghi stellari risalgono al mondo greco e orientale. In Cina, si studiava il cielo da migliaia di anni. Quando il gesuita italiano Matteo Ricci visitò nel 1601 l’osservatorio imperiale di Pechino, rimase stupito dagli antichi “strumenti astronomici forgiati in metallo, degni di interesse per la loro dimensione e bellezza. Non abbiamo visto né letto nulla di simile in Europa. Per 250 anni sono rimasti qui, esposti alla pioggia, alla neve e a tutti gli agenti atmosferici. Eppure, non hanno perso nulla della loro brillantezza originale”.

BRIDGEMAN / ACI

D

ue strumenti ottici legati all’osservazione di quanto vi è di più lontano e di quanto vi è di più piccolo ebbero un ruolo decisivo nella rivoluzione scientifica dei secoli moderni. Telescopio e microscopio contribuirono a modificare in profondità la nostra percezione della realtà, aprendo nuovi orizzonti nell’ambito di due scienze dalle origini antichissime quali l’astronomia e la biologia. Entrambi gli apparecchi nacquero dalla combinazione di lenti e vetri graduati, con origini comuni nel tempo e nello spazio: la fine del XVI secolo e le grandi città mercantili dei Paesi Bassi. Da secoli era noto il potere d’ingrandimento


TEMPI MODERNI

I GESUITI IN ORIENTE Nel XVII secolo, i gesuiti inviati come missionari in Cina prestarono servizio presso la corte imperiale in veste di astronomi, diffondendovi i nuovi strumenti di osservazione occidentali. Arazzo del XVIII secolo realizzato dalla prestigiosa manifattura francese di Beauvais, MusĂŠe de TessĂŠ, Le Mans.

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Nettuno

TEMPI MODERNI

(scoperto nel 1846)

SOLE

Insieme ai collaboratori Filippo Salviati e Benedetto Castelli, nel 1611 Galileo studiò a fondo le macchie solari (osservate due anni prima), scoprendo che si spostano – prova certa della rotazione del Sole su se stesso – e tracciandone una mappa.

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FLORILEGIUS / ALBUM

GIOVE

I TELESCOPI GIGANTI DI HERSCHEL

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OPO AVER SCOPERTO nel 1781 il pianeta Urano, l’astronomo tedesco-britannico William Herschel si dedicò alla costruzione di telescopi sempre più grandi, fino a realizzarne uno, nel 1786, di dimensioni impressionanti: aveva uno specchio concavo da 122 centimetri di diametro e un tubo lungo 40 piedi (più di 12 metri). Il 40-feet telescope di Herschel, il primo di dimensioni così grandi, confermò come, agli occhi degli stessi astronomi, i progressi della loro disciplina fossero ormai inscindibilmente collegati allo sviluppo tecnico di questi strumenti ottici. Un legame di cui dovette cogliere l’importanza lo stesso re britannico Giorgio III: egli infatti, dopo aver concesso ad Herschel i finanziamenti per costruire il suo telescopio gigante, gli garantì un vitalizio grazie al quale l’astronomo poté dedicarsi a tempo pieno alla scienza, trasformando la sua dimora di Slough, vicino a Windsor, in una casa-osservatorio dalla quale effettuò importanti scoperte. IL 40-FEET TELESCOPE DI HERSCHEL IN UN’INCISIONE OTTOCENTESCA: ALLA COSTRUZIONE DI QUESTO GIGANTESCO TELESCOPIO RIFLETTORE LAVORARONO BEN QUARANTA OPERAI.

92 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Nel 1610, Galileo individuò la presenza di quattro satelliti orbitanti intorno a Giove. Ciò costituiva una prova a favore della teoria eliocentrica di Copernico, perché dimostrava che non tutti gli oggetti del Sistema Solare orbitano attorno alla Terra.

Eppure, le conoscenze accumulate dall’Oriente nel corso di millenni vennero superate dall’astronomia europea in soli due secoli, grazie all’invenzione del telescopio. Alla metà del XVI secolo, in Inghilterra si usavano già le lenti per osservazioni a lunga distanza, ma non a scopo astronomico. Nel 1608, in modo casuale, un apprendista dell’ottico olandese Hans Lippershey scoprì che, combinando tra loro due lenti, riusciva a vedere ingrandita una chiesa situata a una certa distanza da lui, anche se l’immagine risultava capovolta. Lippershey montò le lenti su un tubo e fabbricò il primo telescopio, termine che in greco significa “che vede lontano”. Il nuovo strumento fu adibito a usi militari – serviva per scorgere in anticipo l’arrivo delle truppe nemiche – e si cercò di mantenere segreta la sua scoperta: ma fu impossibile. Partendo da quanto sapeva sull’invenzione


Urano

(scoperto nel 1781)

Terra Marte

Mercurio

Fascia di asteroidi

LUNA Aristotele aveva affermato che la Luna è una sfera fissa, immutabile e perfetta. Grazie al telescopio, Galileo dimostrò che la superficie lunare è in realtà “scabra, irregolare, piena di cavità e sporgenze” come la Terra.

IL SISTEMA SOLARE DI GALILEO TEMPI MODERNI

“Così infinitamente rendo grazie a Dio, che si sia compiaciuto di far me solo primo osservatore di cosa così ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta”. Non nasconde la commozione Galileo nella sua lettera al segretario di Stato del Granducato di Toscana Belisario Vinta, scritta il 30 gennaio 1610, pochi giorni dopo aver compiuto le spettacolari scoperte astronomiche che avrebbero rivoluzionato per sempre la nostra conoscenza del Sistema Solare.

VENERE Dopo aver osservato per alcune settimane Venere, Galileo scoprì che il pianeta presentava delle fasi analoghe a quelle della Luna: questo non poteva avvenire se Venere e il Sole avessero ruotato intorno alla Terra.

SATURNO Nel luglio del 1610 Galileo osservò Saturno, che gli parve composto da tre “corpi”: uno centrale e due più piccoli disposti a mo’ di “orecchie” attorno al maggiore. In realtà, ciò che Galileo aveva visto erano gli anelli planetari che circondano Saturno. SCALA, ARCHIVES

Telescopi di oltre dieci metri Galileo pubblicò tutte queste scoperte nel suo Sidereus nuncius (“Il messaggero celeste”, 1610), e ne trasse la conferma della validità della teoria eliocentrica elaborata dal polacco Niccolò Copernico, un modello astronomico fin lì suffragato solo da calcoli matematici. Nel 1611, il tedesco Giovanni Kepler migliorò

a sua volta l’“occhiale” di Galileo, ideando un telescopio che montava due lenti convesse anziché una concava e una convessa. Ciò garantiva un campo visivo maggiore e meglio illuminato, ma al prezzo di un aumento della lunghezza focale, ovvero della distanza tra la lente che funge da obiettivo e il punto in cui l’immagine è focalizzata. Ne derivò la necessità di fabbricare telescopi sempre più lunghi, alcuni anche oltre i dieci metri. Ma non era questo il vero problema dei telescopi rifrattori (costituiti cioè da due lenti); il loro maggior limite era la scarsa qualità delle immagini prodotte, un difetto dovuto agli aloni colorati (detti aberrazioni cromatiche) causati dalle leggi della rifrazione. Insigni matematici, tra i quali Cartesio, si applicarono al problema, senza tuttavia riuscire a escogitare una soluzione definitiva.

TELESCOPIO DI NEWTON Fu il primo telescopio riflettore della storia, che usava due specchi al posto delle lenti. Modello del 1671 conservato presso la Royal Society di Londra.

ERICH LESSING / ALBUM

di Lippershey, Galileo Galilei costruì un telescopio potenziato, in grado di ingrandire fino a trenta volte il soggetto osservato. Nell’inverno del 1609, fabbricò un “occhiale” – così Galileo chiamava il suo strumento – con il quale avrebbe realizzato straordinarie scoperte astronomiche: osservò i satelliti di Giove, le fasi di Venere, le rugosità della superficie lunare, le macchie solari, gli anelli di Saturno; si accorse per primo che la Via Lattea era composta da miriadi di stelle.

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TEMPI MODERNI

ROBERT HOOKE SCOPRÌ LE INVISIBILI STRUTTURE CHE FORMANO IL SUGHERO E LE BATTEZZÒ “CELLULE” MICROSCOPIO DEL 1765 REALIZZATO DALL’OTTICO FRANCESE FRANÇOIS VILLETTE. RUE DES ARCHIVES / ALBUM

Fu così che, verso la metà del XVII secolo, si cominciò a riflettere sulla possibilità di sostituire le lenti con coppie di specchi: adottando superfici riflettenti, infatti, i raggi luminosi non avrebbero subito rifrazioni, e le immagini prodotte sarebbe quindi state prive di aberrazioni cromatiche. Fu l’inglese James Gregory, nel 1663, il primo a creare un telescopio basato sull’uso di specchi: uno parabolico, con funzioni di obiettivo, e l’altro concavo; ma il primo vero telescopio riflettente fu opera di Isaac Newton, che nel 1668 ideò un esemplare formato da uno specchio primario parabolico e da un piccolo specchio piano inclinato di 45° rispetto all’asse ottico. Quattro anni dopo, il francese Laurent Cassegrain propose a sua volta un telescopio basato su una diversa combinazione di specchi: in esso l’immagine si formava dietro lo specchio parabolico, opportunamente forato, e l’oculare si trovava perciò sulla culatta dello strumento, e non vicino all’estremità superiore del tubo come in quello newtoniano. Nel 1721, infine, l’inglese John Hadley presentò alla Royal Society il primo telescopio riflettore capace di prestazioni paragonabili a quelle dei migliori rifrattori dell’epoca.

Specchi di vetro argentato Nel frattempo, anche i telescopi rifrattori erano stati migliorati. Nel 1733, per esempio, l’inglese Chester Moore Hall ideò il primo obiettivo acromatico, creato associando due lenti con indice di rifrazione diverso, una convergente e l’altra divergente: in tal modo le immagini erano molto più nitide e le distorsioni cromatiche ridotte al minimo. Nel 1845 si ebbe un nuovo progresso: l’astronomo William Parsons progettò il più grande telescopio fin lì mai realizzato, un gigante con un diametro di 183 metri e specchi fatti in una lega di rame e stagno. La vera svolta avvenne tuttavia pochi anni dopo, quando si diffuse94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ro i primi specchi costruiti in vetro argentato: una tecnica che migliorò enormemente la potenza visiva dei telescopi, consentendo di avviare uno studio sistematico del Sole e, in particolare, del fenomeno delle eclissi.

Un cannocchiale rovesciato Anche la storia del microscopio, come quella del telescopio, ebbe iniziò nel XVI secolo. Sebbene il potere delle lenti fosse noto da tempo, fu solo nel 1590 che, nel laboratorio degli ottici olandesi Hans e Zacharias Janssen, padre e figlio, nacque il microscopio “composto”; in pratica un cannocchiale rovesciato con entrambe le lenti convesse: l’obiettivo, che riproduceva l’immagine dell’oggetto, e l’oculare, che l’ingrandiva fino a 30 volte. Questo rudimentale strumento fu poi perfezionato da Anthony van Leeuwenhoeck (1632-1723), che costruì un microscopio con una sola lente e riuscì a portare l’ingrandimento di un’immagine fino a 300 volte. Privo di una formazione scientifica canonica, questo commerciante olandese riuscì con il suo microscopio a osservare per primo microrganismi quali globuli rossi, protozoi e spermatozoi, e a confermare le teorie dell’italiano Malpighi circa la circolazione sanguigna nei capillari umani. Le potenzialità del microscopio erano comunque enormi. Lo constatò anche l’ inglese Robert Hooke (1635-1703) il quale, osservando un pezzo di sughero, scoprì l’esistenza di invisibili celle che formavano il suo tessuto e le chiamò “cellule”. Hooke perfezionò il microscopio e, primo fra gli accademici del suo tempo, lo utilizzò per osservazioni scientifiche che raccolse nel trattato Micrographia (1665): un testo che ebbe enorme risonanza tra i suoi contemporanei, vuoi per le dettagliate descrizioni fisiologiche di insetti, piante, microrganismi, vuoi per le 60 tavole con cui Hooke illustrava le scoperte fatte.


TEMPI MODERNI UNA PULCE VISTA PER LA PRIMA VOLTA AL MICROSCOPIO. IL DISEGNO FU PUBBLICATO DA ROBERT HOOKE NEL SUO TRATTATO MICROGRAPHIA.

BRITISH LIBRARY / ALBUM

E L’INVISIBILE DIVENTÒ VISIBILE

I

IL MICROSCOPIO COMPOSTO MESSO A PUNTO DA ROBERT HOOKE COMPRENDEVA UN SISTEMA DI ILLUMINAZIONE ARTIFICIALE DEL CAMPIONE.

L MICROSCOPIO RIVELÒ la struttura nascosta delle

AKG / ALBUM

cose e fece scoprire l’esistenza di esseri fino lì invisibili all’occhio umano. Robert Hooke (1635-1703) fu il primo scienziato di professione a sviluppare il microscopio composto – cioè dotato di una coppia di lenti convergenti – e a utilizzarlo per realizzare osservazioni minuziose del mondo biologico. Le sue dettagliate descrizioni sui più minuscoli organismi viventi , e le bellissime tavole con cui illustrò il suo trattato Micrographia (1665), svelarono agli uomini un mondo esotico e mostruoso, con mosche dagli occhi compositi e pidocchi dalle zampe pelose. Dal canto suo, il medico italiano Marcello Malpighi (16281694) si servì del microscopio per studiare la fisiologia umana, scoprendo la struttura e il funzionamento dei polmoni e i segreti della circolazione sanguigna. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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TEMPI MODERNI

IL MOTORE Il motore a vapore permise di produrre energia senza dipendere, come nel caso dei mulini, dalla forza del vento o dell’acqua. Fu la spinta e il simbolo della Rivoluzione industriale, che avrebbe cambiato la società e l’economia BERNAT HERNÁNDEZ PROFESSORE DI STORIA MODERNA ALL’UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA

MONDADORI PORTFOLIO / ALBUM

IL DIGESTORE A VAPORE, INVENTATO NEL 1679 DAL MATEMATICO E FISICO FRANCESE DENIS PAPIN, FU IL PRECURSORE DELLA MODERNA PENTOLA A PRESSIONE.

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ti secoli, le potenzialità del vapore acqueo vennero trascurate o ignorate. Il Medioevo fu, in tutta Europa, l’epoca dei mulini ad acqua e a vento, che sfruttavano le forze della natura per produrre energia motrice.

Pressione atmosferica e vuoto Solo tra il XVI e il XVII secolo, si cominciò a valutare la possibilità di utilizzare il vapore come forza motrice. Sono rimasti celebri, a tale riguardo, gli esperimenti compiuti da Leonardo da Vinci e dall’alchimista campano Giovanni Battista Della Porta (1535-1615). Nel frattempo, si moltiplicavano le ricerche sulle proprietà dell’aria e del vuoto. Nel 1650, il tedesco Otto von Guericke inventò la prima pompa pneumatica capace di produrre il vuoto, e se ne servì per un celebre esperimento pubblico a Magdeburgo: egli costruì due semisfere di bronzo che fece combaciare perfettamente; poi, grazie alla sua pompa, creò il vuoto al loro interno; la forza che la pressione atmosferica esercitava all’esterno delle due semisfere fu tale che neppure varie coppie di cavalli furono in grado di separarle.

BRIDGEMAN / ACI

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idea di sfruttare il calore prodotto dalla combustione per generare energia motrice nacque nel I secolo d.C.: lo scienziato alessandrino Erone costruì una sfera di rame, la eolipila, che ruotava per effetto del vapore originato dall’acqua in ebollizione al suo interno, vapore fatto poi sfiatare attraverso due tubicini a “L” situati agli estremi opposti della sfera. Erone, come altri scienziati del suo tempo, utilizzò il vapore per creare ingegnosi congegni meccanici a carattere ludico, come un tempio in miniatura con porte semiautomatiche; ma mai vi intravvide una reale finalità pratica. In realtà, per mol-


TEMPI MODERNI

UNA LONDRA AVVENIRISTICA Illustrazione satirica di Henry Thomas Alken (1785-1851 pubblicata sulla rivista inglese The Connoisseur: mostra la via londinese Whitechapel Road intasata da una miriade di insoliti e avveniristici veicoli a vapore. 1828, National Railway Museum, York (Gran Bretagna).

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TEMPI MODERNI

WATT RESE PIÙ EFFICIENTE LA MACCHINA IDEATA DA NEWCOMEN RENDENDOLA FINALMENTE PRATICA L’EFFIGIE DI JAMES WATT SU UNA MEDAGLIA COMMEMORATIVA DEL XIX SECOLO. UNIVERSAL IMAGES GROUP / ALBUM

Von Guericke dimostrò anche che la pressione atmosferica poteva produrre moto: con la sua pompa estrasse l’aria sotto un pistone chiuso in un cilindro; il pistone, “schiacciato” dalla pressione atmosferica, scendeva inesorabilmente verso il basso, malgrado lo sforzo di venti uomini di tenerlo sollevato tirando una corda che scorreva su una carrucola. A fine Settecento, il francese Denis Papin, inventore della pentola a pressione, compì un ulteriore passo avanti: egli ideò un congegno costituito da un cilindro contenente un pistone sotto al quale veniva posta un po’ d’acqua. Questa, scaldata e portata a ebollizione, si trasformava in vapore, che sospingeva il pistone fino alla cima del cilindro. A quel punto la fonte di calore veniva tolta, e il vapore, raffreddandosi, si condensava. Il pistone, non più sostenuto dalla pressione del vapore, ridiscendeva dunque verso il basso e questo moto, trasmesso attraverso un ingranaggio a ruote dentate e cremagliera, consentiva di azionare qualunque meccanismo.

L’“amico del minatore” Mentre Papin svolgeva le sue ricerche in Francia, nella vicina Inghilterra l’industria mineraria viveva anni d’oro: ciò aveva indotto le compagnie carbonifere a scavare gallerie sempre più profonde, con conseguenti difficoltà nell’aspirare l’acqua delle falde freatiche. L’ingegnere Thomas Savery, ispirato dagli studi di Papin, nel 1698 diede una risposta a questo problema brevettando una pompa a vapore studiata appositamente per risucchiare l’acqua dalle gallerie sotterranee. Ribattezzata Miner’s Friend, “l’amico del minatore”, la pompa di Savery aspirava l’acqua in cilindri entro i quali era stato creato il vuoto tramite condensazione di vapore; l’altezza massima di aspirazione era di circa 10 metri. La Miner’s Friend ebbe un discreto successo nell’Inghilterra settecentesca, venendo ac98 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

quistata da diverse compagnie minerarie; ma non risolse mai i problemi di efficienza legati alla scarsa qualità dei giunti in metallo, che causavano perdite continue di pressione. Molto meglio funzionante si rivelò al confronto la pompa ideata da un altro inglese, Thomas Newcomen, un fabbro del Devonshire che, sulla scia di Papin, nel 1712 costruì la prima macchina in grado di trasformare l’energia del vapore in energia meccanica. Per poter brevettare il suo modello, Newcomen dovette combattere una dura battaglia contro l’impresa che deteneva i diritti sulla pompa di Savery, così come su tutte le macchine a vapore che impiegavano il calore. Dopo lunghi negoziati, Newcomen acconsentì infine a concedere all’impresa rivale una cospicua royalty, in cambio del permesso di commercializzare la sua macchina. Il successo fu immediato: malgrado gli esorbitanti costi d’acquisto – causati anche dall’edificio in mattoni nel quale la pompa doveva essere inserita – e gli smodati consumi di carbone, alla fine del XVIII secolo in Gran Bretagna erano in funzione un migliaio di macchine di Newcomen, e il modello fu esportato anche in Germania, Francia, Spagna e Stati Uniti. Un tale successo attirò l’attenzione di un altro meccanico, lo scozzese James Watt, che si era trovato a riparare uno dei congegni di Newcomen. In modo intuitivo, egli comprese la principale causa di inefficienza della macchina: le insopportabili tensioni che doveva sopportare l’unico cilindro in cui aveva luogo sia la produzione del vapore sia la sua condensazione. Watt dedicò ore di riflessione al problema, finché, durante una passeggiata domenicale, comprese che la condensazione doveva avvenire fuori dal cilindro; progettò perciò una nuova macchina dotata di un secondo cilindro che fungesse da camera di condensazione. Nel 1765 egli realizzò il suo prototipo, e nel 1769 lo brevettò.


TEMPI MODERNI

AKG / ALBUM

LA MACCHINA “ATMOSFERICA” DI NEWCOMEN

LAVORI MINERARI A LIVERPOOL Macchina a vapore per aspirare acqua in una miniera di Liverpool, nel 1792: gli ingegneri del XIX secolo presero spunto dall’invenzione di Newcomen per ideare macchine meno costose e più efficienti.

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A MACCHINA DI NEWCOMEN occupava un edificio alto 10 metri , al cui interno era posto un bilanciere connesso al pistone tramite una catena. Una metà del bilanciere fuoriusciva dell’edificio ed era unita a un tirante che si prolungava fino a una pompa ad acqua nella miniera, a 50 metri di profondità. Il carbone che alimentava il forno veniva introdotto da una saracinesca sotto la caldaia. Per effetto della combustione, l’acqua si trasformava in vapore e questo, introdotto nel cilindro tramite una valvola, sollevava il pistone. Il moto si trasmetteva al bilanciere che, abbassandosi su un lato, metteva in funzione la pompa. La successiva condensazione del vapore faceva oscillare il bilanciere sul lato opposto, sollevando il pistone della pompa che estraeva l’acqua.

UNA POMPA DI PROFONDITÀ Fino all’invenzione della macchina di Newcomen (a lato, in un disegno), era impossibile sfruttare i filoni di carbone a grande profondità, perché le gallerie si allagavano. PRISMA / ALBUM

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TEMPI MODERNI

IMPIANTI ATTIVI GIORNO E NOTTE

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ACQUISTO e la manutenzione delle

prime macchine a vapore esigevano ingenti investimenti di capitali. Di conseguenza, per ammortizzare i costi, gli imprenditori erano costretti a incrementare i ricavi, cosa che si ottenne allungando le giornate di lavoro. La regola già in vigore negli altiforni e nelle miniere, secondo la quale gli impianti dovevano restare in funzione giorno e notte, si estese anche ad altre attività. Ciò modificò radicalmente le abitudini di vita di migliaia di lavoratori, già sconvolte dal declino delle piccole imprese artigianali, soppiantate da fabbriche sempre più grandi e impersonali. Come ha scritto lo storico statunitense Lewis Mumford (1895-1990), “più grande divenne sinonimo di meglio”, e questo cambiamento comportò un drastico peggioramento delle condizioni di vita della popolazione nel corso del XIX secolo.

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TEMPI MODERNI

LA DURA VITA DEGLI OPERAI Operai al lavoro in una fonderia della seconda metà dell’Ottocento: dipinto del pittore tedesco Adolf von Menzel, 1872- 1875, Nationalgalerie, Berlino. AKG / ALBUM

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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TEMPI MODERNI

RECORD DI VELOCITÀ SU ROTAIE

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EL 1829 LE FERROVIE britanniche

indissero una gara per stabilire che tipo di locomotiva dovesse trainare i vagoni sulla nuova linea tra Liverpool e Manchester. Al concorso parteciparono solo cinque concorrenti: tra questi vi erano George e Robert Stephenson, padre e figlio, che trionfarono stabilendo con la loro locomotiva Rocket (“Il razzo”) il nuovo primato di velocità su rotaie: 40 chilometri all’ora circa contro i 20 km/h precedenti. La Rocket era la prima locomotiva davvero funzionante, con alcune novità tecniche (tra cui la caldaia multitubolare) che sarebbero state poi riprese da tutti o quasi i modelli successivi. Al suo nome è legato anche uno dei primi incidenti ferroviari della storia: si verificò il 15 settembre 1830, durante la cerimonia d’inaugurazione della linea Liverpool-Manchester, quando la Rocket, lanciata a piena velocità, travolse un deputato uccidendolo.

LA ROCKET IN UN’ILLUSTRAZIONE D’EPOCA: LA LOCOMOTIVA ORIGINALE SI TROVA ALLO SCIENCE MUSEUM DI LONDRA.

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UN’INVENZIONE REDDITIZIA Ricostruzione della macchina a vapore di James Watt: grazie a questa invenzione Watt e il suo socio Boulton realizzarono ingenti guadagni. Conservatoire national des arts et métiers, Parigi.

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Occorre comprendere bene in che cosa consistette il contributo di Watt al progresso della macchina a vapore: prima di lui, l’abbassamento del cilindro dopo la fine del ciclo di riscaldamento era dovuto alla “spinta” della pressione atmosferica; Watt riuscì invece a ottenere che fosse la pressione del vapore ad azionare il pistone, facendo sì che questa agisse su entrambe le facce dello stantuffo. Fu allora, in senso stretto, che nacque la prima macchina a vapore moderna. James Watt realizzò anche un semplice meccanismo che trasformava il moto rettilineo del pistone, dal basso verso l’alto e viceversa, in un moto circolare continuo, e inventò una valvola di regolazione per mante-

nere costante la velocità della sua macchina. Gli effetti delle scoperte di Watt furono incalcolabili: l’efficienza termica della macchina da lui inventata era enormemente maggiore che non quella delle pompe precedenti, e di conseguenza molto minore era la quantità di carbone necessaria per azionarla.

Il “vero” cavallo-vapore Nel 1775 Watt divenne socio di Matthew Boulton, proprietario di una grande fonderia a Birmingham: le macchine fabbricate per quest’industria, molto complesse, potevano adattarsi anche ad altre attività non direttamente connesse all’industria estrattiva. Grazie alla sua creatività, Watt riuscì a utilizzare il vapore per scaldare le stanze nelle quali lavorava e ideò strumenti per misurare l’energia prodotta dalle sue macchine. Si preoccupò anche dei problemi di sicurezza lega-


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ti allo sfruttamento del vapore, e per questo si oppose sempre all’utilizzo di caldaie ad alta pressione, conscio delle esplosioni e degli incendi che avrebbero potuto provocare. Oltre alla macchina a vapore, Watt compì anche altre invenzioni minori e definì l’unità di misura della potenza: il cavallo-vapore britannico, pari alla potenza prodotta da un vero cavallo per spostare di un piede (30,48 centimetri) 33.000 libbre (14.969 chilogrammi) in un minuto. In seguito il nome del geniale scozzese sarebbe stato associato alla nuova unità di misura della potenza entrata in vigore nel Sistema internazionale: il watt, appunto. All’inizio del XIX secolo, la tecnologia europea era ormai in grado di costruire motori a vapore sufficientemente piccoli e potenti da poter essere montati su veicoli grandi come carrozze. In tal modo l’invenzione di Watt

non alimentò solo la nascente Rivoluzione industriale, ma anche quella dei trasporti. Nel 1769, un ingegnere francese, Nicholas Cugnot, costruì un veicolo a tre ruote mosso da una grossa caldaia; il suo prototipo venne migliorato dallo scozzese William Murdoch, che nel 1785 fabbricò un mezzo più leggero a uso civile. La vera svolta avvenne tuttavia solo nel 1801, quando l’inglese di origine russa Richard Trevithick, già ideatore di alcuni prototipi “da strada”, li adattò affinché potessero circolare su binari: nasceva così la prima rudimentale locomotiva a vapore. In seguito, la potenza del vapore fu impiegata per il trasporto fluviale e marittimo, e alla fine del XIX secolo suscitò l’interesse anche dell’industria automobilistica. Nel 1873 il francese Amédée Bollée presentava il suo primo modello di autovettura con motore a vapore: L’Obéissante, “L’Obbediente”.

NAVIGAZIONE SUL FIUME HUDSON Il primo battello a vapore progettato dall’ingegnere Robert Fulton solca le acque del fiume Hudson nel 1807, trasportando passeggeri e merci da New York alla città di Albany, distante oltre 230 chilometri.

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IL TELEGRAFO L’invenzione del telegrafo consentì la trasmissione di notizie da un capo all’altro del mondo, rivoluzionando le comunicazioni: i messaggi, grazie alla nuova tecnologia, potevano essere inviati più lontano e più velocemente ÁNGEL CALVO PROFESSORE EMERITO ALL’UNIVERSITÀ DI BARCELLONA

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osì come oggi risulta infaceva pronunciare a un personaggio del concepibile un mondo suo romanzo Giuseppe Balsamo: “Si senza Internet, allo scoprirà mai un modo per sapere stesso modo la all’istante cosa accade a cento storia del XIX e leghe di distanza da noi?” XX secolo sarebbe stata diverIl “tachigrafo” sa senza l’invenzione del telegrafo. Al pari della ferrovia, Il telegrafo è un sistema di questo nuovo mezzo fu precomunicazione ideato per sto identificato con il contrasmettere notizie, mescetto stesso di progresso, saggi od ordini a distanza una tecnologia destinata a attraverso determinati coTELEGRAFO A CINQUE AGHI DI COOKE E WHEATSTONE, rivoluzionare il mondo: “È un dici. Il primo telegrafo otti1837, SCIENCE MUSEUM, LONDRA. fatto, o me lo sono sognato, che co fu inventato nel 1792 dal franper mezzo dell’elettricità il mondo della ma- cese Claude Chappe, a scopi militari. teria è divenuto un gran fascio di nervi che Chiamato tachygraphe, era costituito da una vibra per centinaia di miglia in un battibale- rete di “semafori”, collocati su alture, che si no? O meglio, tutto il globo è un’immensa trasmettevano messaggi in codice dall’uno testa, un cervello, istinto e intelligenza in- all’altro. I “semafori” erano pali alti circa diesieme! Oppure potremmo dire che è esso ci metri, dotati in cima di tre enormi bracci stesso pensiero, e non la materia che noi cre- mobili che potevano assumere posizioni didiamo!”, scriveva nel XIX secolo il roman- verse corrispondenti alle singole lettere del ziere statunitense Nathaniel Hawthorne, messaggio da trasmettere. Rispetto al corautore de La lettera scarlatta. Quanto paiono riere a cavallo, il tachigrafo garantiva maggior lontane le parole che Alexandre Dumas padre velocità nella trasmissione dei messaggi e un


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ASSUNZIONI AL FEMMINILE Giovani donne inglesi lavorano alla Electric Telegraph Company di Londra, nel 1880. Nel Regno Unito, le donne iniziarono presto a essere assunte dalle compagnie private di telegrafia. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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ESPERIMENTO PARIGINO L’inventore francese Claude Chappe sperimenta nel luglio del 1793 il suo telegrafo ottico su un’altura di un parco privato a Parigi. Illustrazione del 1901 tratta dal quotidiano Le Petit Journal.

contatto costante tra punti diversi del territorio. Tuttavia era afflitto da gravi limiti: primo fra tutti la dipendenza dalle condizioni atmosferiche (in particolare nebbia e pioggia), che potevano impedire agli operatori di decifrare con il cannocchiale il messaggio inviato loro dalla stazione precedente. La telegrafia ottica fu inaugurata nel 1794 in Francia, che creò il sistema telegrafico più esteso, e si diffuse quindi nel resto d’Europa.

Il linguaggio dell’elettricità La vera svolta nel campo delle telecomunicazioni avvenne tuttavia con la comparsa del telegrafo elettrico. La scoperta non può essere attribuita a un singolo inventore, poiché fu il risultato di una complessa serie di ricerche ed esperimenti. Uno dei passi decisivi nel lungo cammino verso la nuova tecnologia fu opera di Harrison Gray Dyar, un chimico ame106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ricano che, nel 1828, creò la prima linea telegrafica sperimentale, collegando un apparecchio trasmittente e uno ricevente tramite un cavo in ferro isolato con vetro. L’invio dei messaggi avveniva sotto forma di impulsi elettrici e utilizzando un codice – un alfabeto fatto di simboli, composti a loro volta da un certo numero di “punti” – che veniva impresso su un nastro di carta tramite un procedimento elettrochimico. Circa dieci anni dopo, nel 1837, gli inglesi Charles Wheatstone e William Fothergill Cooke brevettarono il primo telegrafo “ad aghi”. In questo modello la trasmissione dei segnali avveniva mediante un sistema a cinque fili che, per effetto degli impulsi elettrici, muoveva altrettanti aghi magnetici; la direzione assunta di volta in volta da due di questi aghi, determinata dalla corrente prodotta nella stazione trasmittente, indicava all’operatore che riceveva il segnale le lettere del messaggio. Il telegrafo ad aghi trovò immediata applicazione in ambito ferroviario, dove era fondamentale assicurare una rapida comunicazione tra stazioni. Così, nello stesso 1837, Wheatstone e Cooke installarono un sistema telegrafico ad aghi lungo la linea Londra-Birmingham, tra le stazioni di Euston e Camden Town. In seguito (1846) il brevetto fu acquistato dalla Electric Telegraph Company, di cui Cooke era socio, che si specializzò nella costruzione di telegrafi lungo le ferrovie.

La strategia di Morse Quasi contemporaneamente, negli Stati Uniti, Samuel Finlay Breese Morse riusciva a inviare segnali a una distanza di 15 chilometri tramite un nuovo sistema telegrafico fondato sull’alternanza di impulsi elettrici brevi e lunghi, il famoso “alfabeto Morse”. La richiesta di brevetto da parte di Morse fu parte di una complessa strategia imprenditoriale orientata a vendere l’invenzione al governo federale statunitense e poi, dopo il fallimento delle trattative, a ottenere dallo stesso governo cospicue commesse pubbliche. In ogni caso la telegrafia si basò per molto tempo sul sistema di trasmissione messo a punto da Morse nel 1837, un sistema che combinava la semplicità e praticità di impiego con i costi (relativamente) contenuti occorrenti per impiantare i pali e i fili delle linee telegrafiche.


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Rullo inchiostrato

Nastro di carta avvolto su una bobina rotante.

Tasto telegrafico Premendolo, il telegrafista chiude il circuito elettrico e genera un segnale lungo il cavo. Un impulso elettrico breve è un punto, un impulso elettrico lungo è una linea.

Punzone Preme la carta sul rullo inchiostrato imprimendo un punto o una linea a seconda del segnale ricevuto.

Elettromagnete Quando riceve un segnale elettrico, genera un campo magnetico che aziona la barra del punzone.

Morsetti della batteria Vi si collegava una comune pila (non visibile).

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LA SBALORDITIVA INVENZIONE del telegrafo non solo potenziò enormemente le possibilità dell’uomo di comunicare a distanza, ma cambiò il volto stesso del pianeta. Quando entrò in scena per la prima volta nel 1837, nessuno poteva immaginare che, di lì a pochi decenni, sarebbe stato possibile inviare e ricevere messaggi da un capo all’altro della Terra quasi in tempo reale. Una rivoluzione di portata epocale, che trasformò per la prima volta il mondo in un “villaggio globale”. Proprio la consapevolezza del valore immenso della nuova scoperta fece sì che ovunque in Europa, tra il 1840 e il 1860, si moltiplicassero le linee telegrafiche. Un processo che proseguì fino all’inizio del nuovo secolo quando, grazie a Guglielmo Marconi, fu messo a punto il telegrafo senza fili.

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MESSAGGI A DISTANZA IN TEMPO REALE

IL CODICE MORSE FU IDEATO DALL’OMONIMO INVENTORE STATUNITENSE IN COLLABORAZIONE CON IL SUO ASSISTENTE TECNICO ALFRED VAIL. OGNI LETTERA DELL’ALFABETO CORRISPONDEVA A UNA SEQUENZA DIVERSA DI LINEE E DI PUNTI, TRASMESSI TRAMITE SEGNALI TELEGRAFICI DI MAGGIORE O MINORE DURATA.

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LA GUERRA DEL TELEGRAFO Data la vastità degli Stati Uniti e i costanti movimenti di truppe, l’uso del telegrafo fu cruciale per inviare ordini durante la Guerra di secessione americana. In alto, l’esercito confederato installa cavi telegrafici.

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Il telegrafo elettrico di Morse fu immediatamente percepito come un potente mezzo per consolidare gli Stati nazionali, collegando le capitali al resto del territorio, oltre che come uno strumento per trasmettere velocemente le notizie e per semplificare gli scambi commerciali. Questo spiega la sua rapida diffusione in ogni continente, fatto che comportò l’alterazione del paesaggio a causa dei pali telegrafici “i cui fili vibrano come corde di un’arpa”, secondo le parole dello scrittore Jules Verne (1828-1905). Il primo messaggio trasmesso da Morse nel 1844 – una citazione biblica che recitava “What hath God wrought!” (“Quali cose Dio ha creato!”) – diede il via alla diffusione del sistema negli Stati Uniti e poi in Europa dove, sul finire del XIX secolo, Inghilterra e Francia vantavano i più estesi collegamenti telegrafici. In Italia, a partire dal 1861, il sistema Morse di-

venne il sistema nazionale ufficiale. La gestione delle linee e degli uffici telegrafici venne assegnata allo Stato, sotto la direzione del Ministero dei Lavori Pubblici. Nel 1889 nacque il Ministero delle Poste e dei Telegrafi. Tutto ciò avvenne non senza il superamento di molti ostacoli, tra i quali tradizioni culturali radicate da millenni. Nella Cina, per esempio, i contadini vedevano nell’acqua rugginosa sgocciolante dai cavi ossidati “il sangue degli spiriti oltraggiati”, e il governo di Pechino dovette ingaggiare esperti di feng shui per evitare che i pali fossero piantati in punti della Terra ritenuti vitali. Anche altrove, il carattere innovativo del telegrafo suscitò perplessità e sconcerto. Se i proprietari di case danneggiate da fulmini in prossimità delle linee telegrafiche davano la colpa del disastro ai cavi, altri chiedevano di inviare tramite il telegrafo gli oggetti più di-


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CAVI SOTTO L’OCEANO

sparati: biglietti, pacchi, ombrelli, regali. Negli Stati Uniti un agricoltore, vedendo un palo colpito da un fulmine, si affrettò ad avvisare che un messaggio era sfuggito dal legno ed era andato perduto. Lo stesso Morse dovette sopportare non poche ironie quando, nel 1843, chiese di installare la prima linea telegrafica tra Washington e Baltimora.

L’Internet vittoriana La creazione di una rete mondiale di telegrafia sarebbe stata impossibile senza lo sviluppo dei cavi sottomarini, i “serpenti” delle profondità, come li chiamò Verne nel sue romanzo Ventimila leghe sotto i mari. Le origini dei cavi sottomarini si intrecciano con la nascita del telegrafo. Fu tuttavia solo nella prima metà dell’Ottocento, dopo la scoperta delle proprietà isolanti della guttaperca – una gomma estratta in resina da alcune

LAVORI NELLA STIVA DELLA NAVE GREAT EASTERN PER LA POSA DEL PRIMO CAVO TRANSATLANTICO.

specie di alberi – che fu possibile realizzare cavi sottomarini. Un grande contributo venne in tal senso dal tedesco Werner von Siemens, che nel 1847 ideò una tecnica per applicare la guttaperca ai cavi. Nella seconda metà del XIX secolo, lo sviluppo di navi sempre più grandi e di macchinari sempre più sofisticati permise la posa di enormi quantità di cavi telegrafici sui fondali marini, mentre colossali investimenti britannici creavano la cosiddetta “Internet vittoriana”, una rete telegrafica mondiale. Nel 1881, oltre la metà della lunghezza totale dei cavi mondiali apparteneva al Regno Unito, seguito a distanza dalla Francia. In seguito, lo sviluppo in tutti i continenti della rete di cavi sottomarini e di superficie sarebbe proseguito per altri trent’anni, interrompendosi solo dopo l’invenzione, nel 1895, del telegrafo senza fili.

SAMUEL MORSE IN POSA L’inventore americano inviò il suo primo messaggio telegrafico il 24 agosto del 1844, dal Campidoglio di Washington alla stazione ferroviaria di Baltimora: il testo conteneva una citazione biblica.

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DOPO UN TENTATIVO fallito nel 1858, il primo cavo transatlantico realmente funzionante venne posato nell’estate del 1866, grazie al lavoro della nave posacavi Great Eastern, che immagazzinava nelle sue stive fino a 4300 chilometri di cavi. Venne steso tra l’Irlanda e l’isola di Terranova (in Canada), coprendo una distanza di 3000 chilometri.

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IL TELEGRAFO SENZA FILI Ignorato in patria, l’inventore bolognese dovette emigrare in Inghilterra per regalare al mondo l’invenzione che lo avrebbe trasformato: il telegrafo senza fili, padre della radio GIORGIO RIVIECCIO DIRETTORE DI STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

DETECTOR MAGNETICO DI MARCONI, REALIZZATO NEL 1902 IN UNA SCATOLA DI SIGARI (REPLICA). 110 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Risultato: Marconi regalò all’umanità la radio, lo strumento divenuto l’emblema e il motore della società delle comunicazioni del Ventesimo secolo e oltre. E tutti i brevetti relativi divennero proprietà della Gran Bretagna. Marconi fu quindi uno dei primi italiani ad aprire la strada alla “fuga dei cervelli” che avrebbe privato l’Italia delle sue menti scientifiche più elevate e che, sia pure per altri motivi, sarebbe stata seguita tra gli altri da Fermi e Segrè.

Un giovane talento Autunno 1886: Guglielmo Marconi, dodicenne (era nato a Bologna il 25 aprile 1874) passa molto del suo tempo con un vecchio cieco. Ai genitori che gliene chiedono il perché, risponde, emozionato: “È stato un telegrafista e mi sta insegnando l’alfabeto Morse!”. Estate 1894: Marconi, reduce da una disastrosa esperienza scolastica che non gli fa ottenere neanche un diploma, trascorre le vacanze a Oropa, nel Biellese. Qui legge un necrologio del grande fisico tedesco Heinrich Rudolph Hertz, lo scopritore delle onde elettromagnetiche. Le esperienze del vecchio telegrafista

SCALA, FIRENZE

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el 1896, il ministro italiano delle Poste e Telegrafi rispondeva a un giovane scienziato bolognese che il dispositivo presentato non rivestiva alcun interesse in quanto “non avrebbe avuto futuro”. Lo scienziato era Guglielmo Marconi; l’invenzione, offerta gratuitamente al Ministro, era la radio. Ma se la scarsa lungimiranza dei nostri burocrati privò subito l’Italia di un’apparecchiatura che l’avrebbe messa alla testa dello sviluppo tecnologico mondiale in questo settore, rappresentò una vera e propria fortuna per il ventunenne inventore che, rivolgendosi poi al ministro inglese delle Poste con una identica offerta, fu accolto a braccia aperte.


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GLI ESPERIMENTI DI MARCONI Nell’illustrazione, realizzata da Achille Beltrame per La Domenica del Corriere (22 aprile 1899), Marconi sta effettuando alcuni esperimenti con il telegrafo senza fili attraverso la Manica. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LE INVIDIE DEI POTENTI CONCORRENTI

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L SUCCESSO DELLA PRIMA TRASMISSIONE

SCALA, FIRENZE

radio attraverso l’Oceano Atlantico, nel 1901, procurò a Marconi, appena ventisettenne, fama internazionale, ma gli scatenò contro l’ostilità di molti. In particolare, le potenti compagnie che detenevano il monopolio delle trasmissioni telegrafiche via cavo sottomarino tra l’Europa e l’America (vedi capitolo sul telegrafo) si sentirono minacciate da quella invenzione che avrebbe potuto rendere subito obsoleta la loro attività. In particolare, la società Anglo-American Cable Company, proprietaria del cavo transatlantico che collegava Inghilterra e Stati Uniti, citò in giudizio Marconi e vinse la causa, riuscendo a far togliere all’inventore italiano l’uso della base di Terranova, all’epoca territorio inglese. Questa volta Marconi venne salvato dal ministro canadese delle Finanze, William Stevens Fielding, che gli offrì 15 mila sterline per la costruzione di una nuova base a Glace Bay, nella Nuova Scozia. A questo punto nessuno poté più fermare il rivoluzionario telegrafo senza fili.

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OMAGGIO AL GENIO Moneta da 100 lire, coniata nel 1974 per commemorare il centenario della nascita di Marconi. Sul verso della moneta è raffigurata l’antenna radio del suo telegrafo.

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bolognese e dell’austero scienziato tedesco si fondono in una sola: nasce l’idea della telegrafia senza fili, ossia della trasmissione di segnali attraverso lo spazio, sostituendo ai cavi metallici le inafferrabili, immateriali onde elettromagnetiche. “Era un’idea talmente semplice”, avrebbe detto poi, “da meravigliarsi che nessuno ci avesse pensato prima”. Autunno 1894: Marconi si ritira nella villa paterna di Pontecchio, presso Bologna, dove comincia a lavorare sulla sua idea. Come base di partenza utilizza le esperienze di un altro famoso fisico, Augusto Righi, amico di famiglia, che gli mette a disposizione il suo laboratorio. Ma Marconi non ha grande dimestichezza con formule ed equazioni: la sua mente geniale, intuitiva e pratica sente che ne può fare a meno. E per sua fortuna. La sua “ignoranza” accademica lo spinge a tentare ciò che i sacri testi avevano sempre rite-

nuto impossibile: lo stesso Righi, difatti, riteneva, basandosi sulle conoscenze teoriche dell’epoca, che sarebbe stato impossibile inviare segnali nello spazio attraverso ostacoli naturali, cioè fra due punti non visibili fra loro. Il che avrebbe fatto ovviamente cadere tutta l’importanza di un dispositivo come la radio. Ne faceva tra l’altro fede l’esperienza di Newton sulla luce che, diceva questi, “non è capace di svoltare dietro gli angoli”. Primavera 1895: Newton aveva indubbiamente ragione. Ma solo per quanto riguardava la luce. Nel caso delle onde radio, pur appartenendo alla stessa famiglia delle onde luminose, la situazione era del tutto diversa. Le onde radio possono essere infatti riflesse dagli strati alti dell’atmosfera, che si comportano come un vero e proprio specchio invisibile. Marconi, naturalmente, non lo sapeva. La sua esperienza fu uno dei rari casi in cui l’intrapren-


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denza ha la meglio sui dogmi scientifici. Così, il giovane inventore comincia a sfidare l’impossibile, quasi senza rendersi conto di combattere tre secoli di scienza. Autunno 1895: Marconi, anche grazie a una serie di circostanze fortuite, riesce a inviare attraverso le onde elettromagnetiche alcuni segnali fra la villa paterna e una località lontana un chilometro e mezzo, nascosta da una collina, dove il fattore della proprietà è pronto a riceverli. È nato il telegrafo senza fili, il “padre” della radio. Per la prima volta nella storia viene scambiato un messaggio fra due punti non collegati materialmente.

La svolta inglese Inverno 1895-96: Marconi invia la famosa lettera al ministro italiano delle Poste, ottenendo il garbato ma ottuso rifiuto. È consapevole però che per sviluppare la sua invenzione ha

bisogno di finanziamenti e strutture e grazie ad alcune amicizie della madre, l’irlandese Annie Jameson, entra in contatto con il ministero inglese delle Poste. Giugno 1896: arrivato in Inghilterra, Marconi chiede il brevetto della sua invenzione. Un mese dopo dà inizio agli esperimenti ufficiali, finanziati dal ministero inglese: un successo dopo l’altro: a soli 23 anni, l’inventore italiano è già ricco e famoso. Comincia così a collezionare altri successi, come il primo salvataggio “telegrafico” di una nave in difficoltà che chiede e ottiene aiuti dalla terraferma. L’inventore bolognese è pronto per affrontare la prova dal cui esito sarebbe dipeso l’avvenire della telegrafia senza fili, e quindi della radio, nel mondo. Si tratta della prima trasmissione di un segnale radio attraverso l’oceano, giudicata impossibile a causa della curvatura della terra, che si erge fra le due sponde dell’Atlan-

MARCONI CON LA SUA INVENZIONE L’inventore dette inizio all’era “wireless”, cioè senza fili, da cui discendono radio, tv, radar, satelliti artificiali, e che rese possibili innovazioni come l’aereo e i voli spaziali. Foto apparsa nel 1903 nella rivista The World’s Work.

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AGE FOTOSTOCK

MESSAGGI OLTRE L’OCEANO Monumento eretto nel 1937, nei pressi della stazione radio di Poldhu Point (in Cornovaglia), per celebrare la prima trasmissione transatlantica di Marconi, nel 1901.

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tico come fosse una montagna alta 250 chilometri. Altro che la collinetta di Pontecchio! Marconi, fiducioso del fatto che a differenza di quelle luminose le onde radio “possono svoltare dietro gli angoli”, decide di tentare.

La lettera “S” Settembre 1901: Marconi installa a Poldhu, in Cornovaglia, l’apparato trasmittente dotato di una gigantesca antenna circolare alta sessanta metri. Agli inizi di dicembre salpa per l’America per impiantare a Terranova il dispositivo ricevente, dopo essersi procurato un’ampia scorta di cioccolato e liquori con cui combattere il rigidissimo inverno nordamericano. L’11 dicembre 1901 hanno inizio le prove di trasmissione. Il segnale prescelto è la lettera “S” nell’alfabeto Morse: tre punti in successione. Marconi e il fedele assistente Kemp cominciano a mettersi in ascolto, ma il vento

strappa i palloni con l’antenna dall’ormeggio. Il 12 dicembre giunge l’atteso segnale dall’Europa: tre brevi “clic” destinati a cambiare il mondo, a trasformarlo in un enorme villaggio. Comincia così un altro periodo fortunato: nel 1909, a 35 anni, Marconi viene insignito del premio Nobel per la Fisica, lui, che non aveva portato a termine neanche le scuole secondarie e si definiva sempre un “dilettante”! Poi giungono riconoscimenti da parte delle massime associazioni scientifiche del mondo, fra cui l’Accademia dei Lincei e la National Academy of Sciences di Washington. Altri successi, altri riconoscimenti avrebbero costellato la vita di Marconi. Questi culminarono nel 1930 con l’accensione a distanza, dall’Inghilterra, delle luci dell’Esposizione universale di Sydney: il suo “telegrafo senza fili” riusciva ormai a compiere il giro del mondo. Nello stesso periodo Marconi, che si era legato ai movimenti nazionalistici italiani, aderì pubblicamente al Fascismo. Il governo italiano lo blandì con onorificenze e incarichi prestigiosi: presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, presidente dell’Accademia d’Italia, membro del Gran Consiglio del Fascismo. Fu una scelta che molti italiani non gli avrebbero mai perdonato e che gettò un’ombra sulla sua grandissima fama di inventore. Ma i riconoscimenti ufficiali non distolsero Marconi dalle sue ricerche. Già nella Prima guerra mondiale aveva cominciato a studiare la riflessione dei segnali radio, cioè il principio del radar. Nel 1935, sul suo panfilo Elettra, che rappresentava il suo laboratorio per sei mesi l’anno, iniziò gli esperimenti sulle onde ultracorte, di cui intuiva il brillante futuro come veicolo per le trasmissioni televisive, delle quali all’epoca già si cominciava a parlare. Non riuscì però a portare a termine questi studi: alla fine dello stesso anno fu colpito da una serie di disturbi cardiaci. Il 20 luglio del 1937, dopo una crisi più violenta del solito, Marconi moriva a Roma a 63 anni. Ma più che il funerale di Stato e il cordoglio di Mussolini e del Governo italiano, contò quanto scrisse su di lui il Times di Londra, il giorno dopo: “Allorché gli storici futuri passeranno in rassegna il principio del Ventesimo Secolo, vedranno in Guglielmo Marconi l’uomo più significativo della nostra epoca, l’uomo da cui la nostra età prende il nome”.


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L’SOS SALVIFICO NEL DISASTRO DEL TITANIC

IL TITANIC AFFONDA Il tragico affondamento del transatlantico inglese avvenuto alle prime ore del 15 aprile 1912, in una illustrazione dell’epoca eseguita da Graham Coton (1926-2003).

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A STRAORDINARIA UTILITÀ dell’invenzione di Marconi si impose agli occhi del mondo durante il naufragio del Titanic. Fu grazie alla radio, infatti, se parte dei passeggeri del transatlantico riuscì a salvarsi. Sulla nave erano infatti presenti due “marconisti” il cui compito principale era inviare “marconigrammi” dei passeggeri più facoltosi che mandavano saluti a parenti e amici sulla terraferma. Ma fu l’SOS inviato via radio dal Titanic alla nave Carpathia che permise a 706 superstiti della tragedia di attraccare al molo 54 di Manhattan. A qualche giorno dal naufragio, i sopravvissuti consegneranno a Guglielmo Marconi una targa d’oro come simbolo della loro riconoscenza, dopo avergli gridato: “Le dobbiamo la vita!”.

LA SALA RADIO DEL TITANIC La sala radio di una nave, simile a quella del Titanic. All’epoca queste trasmissioni erano gestite direttamente dalla società di Marconi. Da The Illustrated London News, aprile 1912. BRIDGEMAN / ACI

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L’ELETTRICITÀ Edison, Volta, Ampère, Tesla... Sono nomi strettamente legati alla storia dell’elettricità, una forma di energia che ha affascinato l’uomo fin dall’antichità e da cui oggi non possiamo prescindere LUIS CONDE-SALAZAR INFIESTA STORICO E SCRITTORE

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isalgono alla Grecia del nome, un elemento capace di attrarVI secolo a.C i primi re il ferro e che servì da base per la esperimenti sull’elettrimagnetizzazione di barre metalliche cità. Lì, sulla costa ionica, con cui si costruirono le bussole. nell’attuale Turchia, nacque Il nome dell’energia Talete di Mileto, uno dei Sette Saggi della Grecia. Talete provò che sfregando un Passarono diversi secoli finché, nel 1600, pezzo di ambra sulla pelle di un anil’inglese William Gilbert, medico permale, l’ambra (una resina fossilizsonale della regina Elisabetta I e zata) acquisiva la proprietà di atstudioso del magnetismo terrestre, trarre verso sé corpi leggeri come scoprì che diverse gemme mostrafilamenti di paglia o piccoli semi. vano la stessa forza di attrazione Il naturalista aveva scoperto (bendell’ambra quando le si sfregava. LAMPADINA DI EDISON CON INCANDESCENTE CREATA NEL Poiché il termine “elettrone” deché, naturalmente, non lo sapesse) FILAMENTO 1879. MUSEO DELLA SCIENZA, LONDRA. l’elettricità statica o, detto in altri signava l’ambra in greco, Gilbert termini, l’accumulazione di elettricità in un chiamò questi materiali “elettrici”, e il fenoelemento isolante, carente di conduttività meno di attrazione “elettricità.” Poiché l’“eelettrica, per il qual motivo l’elettricità non lettricità” sembrava rimanere in quei corpi può fluire da esso. se non si introduceva in essi alcuna variazioGli antichi Greci chiamavano l’ambra “elet- ne, si finì per chiamarla “elettricità statica”. trone” ed esiste un colore per riferirsi all’am- Da allora e fino alla fine del secolo XIX vi bra gialla, il tono “elettro”. furono spettacolari scoperte legate all’eletTalete sperimentò le reazioni anche con la tricità e al magnetismo, le cui applicazioni magnetite, minerale proveniente dalla città cambiarono la percezione del nostro mondo. greca Magnesia ad Sipylum da cui prende il Sessanta anni dopo la pubblicazione di De Ma-


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UN’INDUSTRIA IN CRESCITA Fabbrica della compagnia tedesca AEG, fondata nel 1883 e ancora oggi attiva nella produzione di elettrodomestici.

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TEMPI MODERNI

PER L’ALTA SOCIETÀ DELLA FINE DEL XIX SECOLO, L’ELETTRICITÀ ERA UN CURIOSO DIVERTIMENTO MACCHINA MAGNETOELETTRICA DI CLARKE. XIX SECOLO.

gnete, Magneticisque Corporibus, et de Magno Magnete Tellure Physiologia Nova di Gilbert, il magdeburghese Otto von Guericke costruì la prima macchina in grado di separare la carica elettrica ottenuta per sfregamento di una sfera di zolfo, ovvero il primo generatore elettrostatico. Guericke modellò una sfera di zolfo che girava intorno a un asse mosso da una manovella; quando con la mano si toccava la sfera mentre girava, quest’ultima accumulava una grande quantità di elettricità statica e poteva produrre scintille. Guericke aveva osservato per primo la luminescenza indotta dall’elettricità statica, e poiché la macchina poteva essere scaricata e caricata infinitamente, si trasformò in un autentico divertimento tra le classi più agiate: nei salotti dell’aristocrazia si poteva assistere alle scintillanti dimostrazioni ed essere “elettrificati”, sentendo, per esempio, come si rizzavano i propri capelli. Intorno al 1707, l’inglese Francis Hauksbee (o Hawksbee) perfezionò la macchina di frizione di von Guericke, sostituendo alla sfera di zolfo un globo di vetro, e il ferrarese Niccolò Cabeo definì il concetto di repulsione (interazione) elettromagnetica tra i corpi.

Raggi e scintille Nel 1747, il politico, scienziato e inventore Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, respinse l’idea, diffusa al tempo, che esistessero due tipi di flusso elettrico (noti all’epoca come “resinoso” e “vitreo”): scoprì che si trattava di due aspetti della stessa forza, che chiamò “positivo” e “negativo”, concetti che continuiamo a utilizzare anche oggi. In seguito, nel 1752, Franklin inventò il parafulmine dimostrando che la folgore era elettricità, e che l’elettricità atmosferica agiva come l’elettricità terrestre. 118 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

L’energia, la poderosa ed enigmatica forza, cominciava a rivelare i suoi misteri, ma le questioni principali erano due: come dominarla e come generarla. Tra il 1791 e il 1792, il bolognese Luigi Galvani pubblicò il De viribus electricitatis in motu muscolari, un opuscolo in cui venivano illustrati tutti i processi che lo avevano portato alla scoperta dell’elettricità biologica o animale: era questa energia, infatti, a far contrarre i muscoli della zampa di una rana. Lo scienziato pensò che, in qualche modo, quei muscoli avevano generato la loro elettricità. La sua teoria incontrò la ferma opposizione di un altro scienziato, allora professore di fisica all’Università di Pavia: Alessandro Volta. Secondo lo studioso comasco, che diede alle stampe in risposta a Galvani la Memoria seconda sull’elettricità animale, le contrazioni non avevano a che vedere con la rana, ben-


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CORPI MOLTO ELETTRICI

L

ELETTRICITÀ È UNA È PROPRIETÀ

fisica che si manifesta attraverso l’attrazione o la repulsione che esercitano tra loro le distinte parti della materia, la cui origine sta nella presenza di componenti con carica negativa (elettroni) e altri con carica positiva (protoni). Naturalmente, poiché è una caratteristica propria della materia, si applica anche al corpo umano. L’elettricità è la forza che fa muovere i nostri muscoli, che fa sì che il nostro cuore pulsi o che sentiamo piccole scariche quando tocchiamo una superficie che accumula elettricità statica. Il sistema nervoso umano è capace di produrre differenze di potenziale elettrico di 0,7 volt tra le membrane dei neuroni. Ma ci sono specie animali, come i pesci elettrofori quali anguilla, pesce siluro, pesce gatto elettrico, torpedini e rana pescatrice, in grado di generare correnti elettriche molto più potenti che possono arrivare a 1 ampere, quantità di elettricità sufficiente per uccidere le loro prede o stordire un uomo adulto.

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sì con i fili di ferro e ottone che Galvani aveva collegato al nervo dell’anfibio. Fu il contrasto col bolognese a portare Volta, nel 1800, a costruire il primo dispositivo elettrochimico capace di fornire elettricità formato da alcune placche di rame e zinco sovrapposte e in contatto con una soluzione salina. Il risultato fu una “corrente” (Volta fu il primo ad applicare questo termine) elettrica che fluiva dal filo che univa entrambe le placche. Nel 1801 presentò alla Royal Society la sua scoperta: Volta aveva inventato la “pila”. Altri scienziati indagarono l’elettricità. Tra questi spiccano il francese André-Marie Ampère, teorico dell’elettromagnetismo da cui prende il nome l’unità di misura dell’elettricità, l’ampère, e il fisico e chimico britannico Michael Faraday, inventore del primo trasformatore che rese popolari i termini “elettrolisi”, “elettrolito”, “anodo” o “catodo”, e scoprì

l’“induzione elettromagnetica”, benché quest’ultima fosse stata già teorizzata dall’abate veronese Francesco Zantedeschi. E l’induzione elettromagnetica condusse alla dinamo, il primo generatore di elettricità la cui realizzazione è attribuita ad Antonio Pacinotti nel 1860. Si trattava di un cavo che produceva energia elettrica facendo girare una bobina dentro un campo magnetico. Tutte queste scoperte dovevano essere dimostrate matematicamente, lavoro che realizzò il fisico scozzese James Clerk Maxwell. Questi provò che le onde elettromagnetiche (“alterazioni elettromagnetiche”) erano associate a tutte le correnti elettriche variabili. E sintetizzò tutte le leggi sull’elettricità e il magnetismo in una sola teoria elettromagnetica che includeva anche la luce. Finalmente, nel 1897, il fisico britannico Joseph John Thomson scoprì ciò che fluiva in

L’ELETTRICITÀ NEI SALONI Nel XVIII secolo, la curiosità che destava l’elettricità rese di moda esperimenti come quello evocato nell’incisione, opera di Jean-Antoine Nollet, dove appare una macchina di Hauksbee.

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E SI FECE LA LUCE

I

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CINQUANTA MILIONI DI VISITATORI che, nel 1900, varcarono le porte dell’Esposizione nazionale di Parigi furono accolti dalle molteplici e abbaglianti applicazioni di una nuova e poderosa fonte di energia: l’elettricità. Questa era capace di esaltare i padiglioni espositivi che, sopraggiunta la notte, si illuminavano. Il Palazzo dell’elettricità di Edmond Paulin e Eugène Hénard, che ospitava nella sua sala di ferro e di vetro varie applicazioni dell’elettricità, era l’attrazione principale. L’elettricità illuminava i padiglioni, convogliava l’acqua dai serbatoi dello Château d’Eau e veniva usata per la rete metropolitana di Parigi appena inaugurata. Era arrivato il futuro.

DAVANTI AL MERAVIGLIOSO PALAZZO DELL’ELETTRICITÀ SI ALZAVANO I GETTI DI UN IMPONENTE ZAMPILLO CHE MUOVEVA 100.000 LITRI DI ACQUA AL MINUTO E IL CUI MECCANISMO ERA AZIONATO DALL’ELETTRICITÀ.

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TRENO ELETTRICO COSTRUITO T E M PPER I L’ESPOSIZIONE M O D E RDEL N 1900. I AL CENTRO SI SCORGE IL CAMINO MONUMENTALE CHE ESPELLEVA IL FUMO GENERATO DALLE MACCHINE A VAPORE CHE PRODUCEVANO ELETTRICITÀ PER LA DIMOSTRAZIONE.

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movimento elettrico All’Esposizione parigina l’elettricità muoveva il treno, ma anche la Rue dell’Avenir, un tapis roulant di 3,5 km e nove stazioni che spostava gli spettatori (fino a 14.000 contemporaneamente) all’interno della manifestazione.

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il cuore della dimostrazione Il Palazzo dell’Elettricità (di 420 m di lunghezza e 60 di larghezza) consumava 200.000 chili di carbone all’ora; inoltre, utilizzava 100.000 litri d’acqua al minuto. Il vapore generava i 38.000 kw/h necessari per mantenere in funzione l’Esposizione che fece di Parigi la “Ville Lumière”.

CARTELLO CHE ANNUNCIAVA L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE DI PARIGI, DEL 1900. LA TORRE EIFFEL, CHE DOMINA LA CITTÀ IN QUESTO CARTELLO, ERA STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC 121 STATA COSTRUITA IN OCCASIONE DELL’EXPO DEL 1889.


TEMPI MODERNI CORBIS / CORDON PRESS

LA CENTRALE DI PEARL STREET Costruita nel 1882 per la compagnia di Edison, fu la prima centrale elettrica di New York; generava elettricità mediante macchine a vapore.

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NEL LABORATORIO. NIKOLA TESLA SEDUTO NEL SUO LABORATORIO, NEL MEZZO DI UNO DEI SUOI ESPERIMENTI.

TESLA, IL GENIO ELETTRICO

I

L SERBO NIKOLA TESLA (1856 -1943) dedicò parte della sua vita a ideare un modo in cui l’energia fosse gratuita e arrivasse a tutti. Nel 1884 si trasferì negli Stati Uniti e fu assunto da Edison alla Edison Machine Works, ma tra i due sorsero subito divergenze: Tesla era uno scienziato puro; Edison, oltre a un rinomato inventore, era un abile imprenditore. Mentre Tesla affermava che il migliore sistema elettrico fosse quello a corrente alternata, il secondo si impegnò a mantenere quello a corrente continua, e benché il tempo diede ragione a Tesla (il cui sistema continua a essere utilizzato), Edison impose i criteri commerciali del suo brevetto e per molto tempo si dedicò a umiliare pubblicamente il suo rivale. Tesla, che aveva inventato il motore a induzione, propose a Edison di migliorare il suo generatore in cambio di 50.000 dollari. Ottenne l’incarico, ma Tesla non vide un centesimo. Si narra che Edison gli disse: “Quando sarai un vero americano riuscirai a capire il senso dell’umorismo yankee”. A questa frase Tesla rispose: “Il presente è vostro, ma il futuro è mio”.

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un circuito elettrico: dimostrò che una corrente era costituita da cariche elettriche negative, che chiamò “elettroni”. Esistevano ormai da tempo le condizioni perché l’elettricità lasciasse il laboratorio e si presentasse in società; l’inglese William Sturgeon creò tra il 1823 e il 1824 un’elettrocalamita con la quale lo statunitense Joseph Henry elaborò uno dei primi motori elettrici della storia, provato su imbarcazioni e ferrovie. A partire dal 1880, l’elettricità, una forma di energia facilmente trasportabile a lunga distanza, trasformabile, regolabile e divisibile, irruppe nell’industria con viva forza.

Dalla candela alla lampadina Il motore di Henry poteva essere alimentato solo da pile elettriche e il suo costo era circa venti volte superiore a quello delle macchine a vapore, cosa che ritardò la diffusione nell’u-


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la sua invenzione, il cui primo uso pubblico è datato 1877, nei magazzini del Louvre. In breve tempo, la sua fabbrica a regime produsse 8000 candele al giorno. Ma il suo successo non durò molto, anche perché nel 1879 il prolifico inventore statunitense Thomas Alva Edison presentò la sua “lampadina”, con un filamento che rimaneva incandescente 40 ore usando solo 10 volt. L’elettricità divenne universale, e tra il 1853 e il 1895 venne costruita la prima centrale idroelettrica con generatori azionati da macchine a vapore nelle Cascate del Niagara. La prima centrale idroelettrica realizzata in Europa fu quella di Tivoli nel 1886, che consentì l’illuminazione di Roma con luce elettrica nel 1892. Nel 1885, i tram elettrici circolavano già per le strade di alcune città statunitensi, e non avrebbero tardato ad arrivare in Europa.

ELETTRICITÀ COMMERCIALE La lampada a incandescenza di Edison conobbe molto velocemente un’infinità di variazioni. Sotto, lampadine Mazda prodotte da General Electric nel 1921.

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so dell’elettricità. Ci fu bisogno di aspettare fino al 1870, quando Zénobe Théophile Gramme, un ingegnoso operaio industriale belga senza formazione accademica, ideò, sulla base delle scoperte del già citato Pacinotti, una dinamo che generava ininterrottamente elettricità. Nel 1871 ne ideò un modello più avanzato che suscitò ammirazione per il suo potenziale di utilizzo nell’industria e fondò a Parigi la società di macchine magneto-elettriche Gramme. Nel 1878 iniziò la costruzione di eccellenti alternatori per usi industriali. L’elettricità trovò applicazioni anche nel campo dell’illuminazione. L’ingegnere russo Pável Yablochkov inventò un sistema basato su un insieme di bobine a induzione in cui la carica primaria si collegava a una fonte di corrente alternata e quelle secondarie potevano collegarsi a varie lampade ad arco del suo progetto. Yablochkov chiamò “candela elettrica”

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L’AEREO Nel 1903 I fratelli Wright costruirono il primo aeroplano dotato di motore in grado di sollevarsi dal suolo e volare, grazie a un’innovazione costruttiva che pose fine alla lunga teoria di esperimenti compiuti nei decenni precedenti LUIS CONDE-SALAZAR INFIESTA STORICO E SCRITTORE

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NAVIGAZIONE AEREA. QUESTA INCISIONE DEL 1785 IPOTIZZAVA UN IBRIDO TRA MONGOLFIERA E NAVE. 124 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

una rampa, resta sollevato in aria per qualche decina di metri, poi perde quota ed è costretto ad atterrare, non senza difficoltà; la potenza generata dai due motori è troppo bassa, e la portanza prodotta dalle ali troppo modesta perché lo strano velivolo possa volare. In realtà, quello che ha fatto il monoplano di Mozhaysky è stato un “balzo”. Lungo, è vero, oltre una ventina di metri, ma pur sempre un balzo. Ciononostante, nel 1916, l’Enciclopedia militare sovietica presenterà Mozhaiski come il primo aviatore della storia: un’attribuzione, peraltro, non del tutto mistificatoria, dato che studi compiuti attorno al 1980 hanno dimostrato che, con un solo motore in più, quel guscio di legno avrebbe forse potuto volare.

Ali da pipistrello Mozhaiski morì nel 1890, lo stesso anno in cui l’ingegnere francese Clément Ader, che in gioventù aveva costruito un velocipede con ruote di caucciù – il precursore dell’odierna bicicletta – realizzò il primo volo con un aeroplano nel grande parco del castello di Armainvilliers, a circa 40 chilometri da Parigi.

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uglio 1882: in una pista russa di Krasnoye Selo, vicino a San Pietroburgo, è posato un strano apparecchio a forma di barca: la sua fusoliera in legno è lunga oltre 15 metri, l’apertura alare raggiunge i 24 metri; il monoplano pesa più di 900 chilogrammi ed è mosso da due macchine a vapore di circa 30 cavalli, che azionano le eliche. A inventarlo è stato l’ufficiale russo Alexander Fedorovich Mozhaysky (1825-1890), che vuole diventare il primo uomo a costruire un apparecchio a motore più pesante dell’aria – non quindi un aerostato – in grado di volare. Il suo progetto, tuttavia, fallisce: il monoplano, lanciato a tutta velocità da


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IL PROTOTIPO DI CLÉMENT ADER L’Avion III, costruito da Clément Ader nel 1897 su incarico del Ministero della Guerra francese, si rivelò incapace di volare. Musée des Arts et Métiers, Parigi.

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IL VOLO A PROPULSIONE UMANA

OTTO LILIENTHAL DIVENNE CELEBRE ANCHE PERCHÉ UTILIZZAVA LA FOTOGRAFIA COME TESTIMONIANZA DELLE SUE IMPRESE: IN QUESTE TRE FOTO LO VEDIAMO MENTRE EFFETTUA ALCUNI VOLI CON I SUOI ALIANTI.

I

L TEDESCO Otto Lilienthal (1848-1896)

dedicò buona parte della sua esistenza allo studio del volo a vela: utilizzò speciali diagrammi per descrivere l’aerodinamica delle ali degli uccelli (che prese a modello per i suoi apparecchi) e dimostrò come fosse possibile volare senza il supporto del motore, semplicemente sfruttando la forza di sostentamento dell’aria. Tra il 1891 e il 1896 compì oltre duemila voli con i suoi alianti, simili nella forma a deltaplani, lanciandosi da tetti e colline; ognuno di questi voli mirava a ottenere un controllo totale sulle tecniche di planata e sostentamento nell’aria: «Occorre volare e cadere. Cadere e volare fino a che possiamo volare senza cadere». Il 9 agosto del 1896, mentre effettuava l’ennesimo volo sperimentale, un’improvvisa raffica di vento danneggiò il suo apparecchio, facendolo precipitare. Ricoverato in ospedale con la colonna vertebrale spezzata, si spense il giorno successivo dicendo: «È necessario che ci siano dei sacrifici».

Era il 9 ottobre quando l’Éole, così si chiamava l’aereo di Ader, in onore del dio greco dei venti, si alzò dal suolo di 20 centimetri e percorse in volo una cinquantina di metri, prima di toccare nuovamente terra. L’Éole pesava oltre 200 chili ed era mosso da un motore a vapore – con bruciatore ad alcol – di quattro cilindri e circa 20 cavalli di potenza. La cosa più sorprendente del prototipo di Ader erano tuttavia le ali. L’ingegnere francese aveva a lungo studiato il volo degli uccelli, che raccoglieva in una grande voliera a casa propria, e si era convinto che imitarne la struttura alare per costruire una macchina volante era virtualmente impossibile. Pensò perciò di ispirarsi alle ali dell’unico mammifero volante esistente sulla Terra, il pipistrello, e per la precisione a una sottospecie di grandi dimensioni comune in Asia. L’aereo di Ader aveva 126 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

un’unica ala articolata, lunga 14 metri, che poteva essere controllata in volo tramite un rudimentale sistema di leve e pedali. Azionandoli, il pilota poteva flettere in alto o in basso le estremità delle ali, modificarne la superficie o variarne la curvatura, dirigendo così in qualche modo l’apparecchio. Ader brevettò l’invenzione e, nella memoria descrittiva, la ribattezzò «apparato alare per la navigazione aerea, chiamato aeroplano». Pochi giorni dopo scrisse all’amico Gaspard-Félix Tournachon, pioniere della fotografia, di avere compiuto il primo decollo con l’Éole. Nel 1892, Ader si accordò con il Ministero della Guerra francese per costruire un aeroplano in grado di volare a diverse centinaia di metri di quota per un tempo prolungato. Ricevette in cambio una sovvenzione di 200.000 franchi, aumentata a 250.000 nel 1894.


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L’Avion III fu ultimato nel 1897, ma il volo di prova si risolse in un disastro. Il tempo era cattivo e Ader sottovalutò la pendenza della pista di lancio; così l’aereo decollò troppo presto e, dopo aver sbandato più volte, si schiantò al suolo trecento metri più in là, spezzando un’ala e le due eliche. L’esercito cancellò il contratto con Ader pochi mesi dopo.

Gli esperimenti di Lilienthal Otto anni prima, nel 1889, l’ingegnere Otto Lilienthal aveva pubblicato in Germania un saggio destinato a grande fortuna, Il volo degli uccelli come base dell’aviazione. Nelle sue pagine, l’autore promuoveva l’idea di approfondire i principi del volo a vela attraverso la costruzione di libratori e alianti, piuttosto che progettare macchine volanti a motore senza la certezza che avrebbero funzionato. Ribadi-

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va inoltre il suo ottimismo circa le possibilità umane di volare: «Non si può comprendere la sostanza dell’aria finché non si sente il suo potere di sostentamento. Ispira fiducia». Le teorie di Lilienthal, e i suoi voli librati e veleggiati anche di centinaia di metri, ebbero enorme influenza sul futuro dell’aviazione: nel 1898, per esempio, il francese Jean-Claude Pompeïen-Piraud, già pioniere dell’aerostato, presentò all’Esposizione Universale di Parigi un modello in scala di macchina volante sul quale erano montate ali simili a quelle progettate da Lilienthal. A quell’epoca, l’aeronautica non era più il sogno di un gruppo di pionieri ritenuti pazzi; lo dimostra la fondazione dell’Aéro-Club de France nel 1898. Tutto lasciava presagire che l’uomo, di lì a qualche decennio, avrebbe volato per davvero con un velivolo a motore.

L’AVIAZIONE MILITARE Copertina del saggio di Clément Ader Avionnerie militaire, pubblicato nel 1912; Ader fu tra i primi a ipotizzare l’utilizzo dell’aviazione come arma bellica di attacco e ricognizione. RUE DES ARCHIVES / ALBUM

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1.

LA PASSIONE DEL VOLO NACQUE NEI FRATELLI WRIGHT QUANDO ERANO ANCORA BAMBINI

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C’era tuttavia un problema che assillava chiunque aspirasse a progettare un aereo: l’impossibilità di fornirgli una propulsione adeguata. I motori a vapore, voluminosi e pesanti, non sprigionavano sufficiente potenza per permettere a un velivolo di staccarsi dal suolo. La soluzione venne con il perfezionamento del motore a scoppio, inventato attorno alla metà del XIX secolo. Nel 1900, i francesi Jules-Albert De Dion e Georges Bouton, basandosi sul “motore leggero a benzina” creato dal tedesco Gottlieb Daimler, costruirono il primo propulsore a cilindri per aeromobili.

I FRATELLI WRIGHT

Nel 1903 Orville e Wilbur Wright coronarono anni di studi e ricerche aerodinamiche divenendo i primi uomini nella storia a compiere un volo continuato e controllato con un aereo a motore.

Due fratelli, un unico destino

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L 17 DICEMBRE DEL 1903, le brulle piane di Kill Devil, vicino a

Kitty Hawk (Carolina del Nord), furono lo scenario del più importante avvenimento nella storia dell’aviazione. Davanti a pochissimi testimoni, Wilbur Wright portò a termine un volo della durata di quasi un minuto e un percorso di circa 260 metri a bordo del Flyer I, il primo prototipo a motore realizzato dai fratelli Wright. L’antico sogno umano di imitare il volo degli uccelli si era finalmente realizzato. Dopo l’impresa, i fratelli Wright inviarono un telegramma al padre per avvisarlo del successo e chiamarono la stampa per comunicare la notizia. Più tardi, sarebbero arrivati il Flyer II e il Flyer III: quest’ultimo, nel 1905, con Wilbur ai comandi, rimase in volo per 40 minuti.

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Nel frattempo, al di là dell’oceano, erano iniziati gli esperimenti dei fratelli Wilbur e Orville Wright. Il padre, Milton, era un pastore evangelico e tra i fondatori di un giornale cristiano conservatore, The Star. Attorno al 1870, nel corso di una cena pubblica, Milton pronunciò una frase che, riletta a posteriori, fa sorridere: «Se Dio avesse voluto che volassimo, saremmo nati con le ali». Parole da cui traspariva lo scetticismo della società statunitense circa le possibilità umane di volare, ma che non impedirono al reverendo Wright di accendere involontariamente nei figli la passione per l’aviazione, regalando loro, quando erano piccoli, un modellino di elicottero. I due bambini si incuriosirono al modello, lo studiarono, lo fecero volare (il velivolo era spinto da una banda elastica attorcigliata ) e, quando si ruppe, ne crearono varie copie. In seguito Wilbur e Orville dovettero ridurre il tempo dedicato agli studi aeronautici per iniziare a lavorare: dapprima come stampatori, poi in un negozio di loro proprietà che fabbricava e vendeva velocipedi. La passione per il volo, tuttavia, non si era spenta; nel 1896, alla notizia della morte di Lilienthal, i due fratelli decisero così di raccoglierne il testimone.


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2.

1. Wilbur al comando

In questa foto del 1910, si vede Wilbur Wright al comando di uno dei biplani a motore creati con il fratello Orville. Due anni prima aveva battuto in Francia nuovi primati di distanza e altitudine di volo. Fu anche il primo a volare con un passeggero a bordo.

2. Il Flyer I

Fu il primo aeroplano della storia a volare in modo continuato e controllato. Senza pilota a bordo, pesava circa 280 chili. Realizzò quattro voli e la maggiore distanza percorsa fu di 260 metri; il tempo massimo trascorso in volo fu invece di 59 secondi.

3. Il Flyer II

Fu il secondo biplano a motore costruito dai fratelli Wright, nel 1904. Il suo progetto era molto simile a quello del Flyer I, benché potesse contare su un motore più potente. Le prove di volo ebbero luogo a Huffman Prairie, vicino a Dayton, nell’Ohio.

3.

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DOPO IL VOLO DEI FRATELLI WRIGHT, I PROGRESSI IN CAMPO AERONAUTICO FURONO INARRESTABILI ALBERTO SANTOS-DUMONT CON IL SUO DIRIGIBILE, CARICATURA DEL 1910. ART ARCHIVE

Investirono tutti i profitti del loro negozio di velocipedi nello sviluppo di un modello di aliante e, una volta che lo ebbero completato nella loro officina di Dayton, in Ohio, si trasferirono tra le dune sabbiose di Kitty Hawk, in Carolina del Nord, per sperimentarlo. Come a suo tempo Lilienthal, Wilbur Wright decise di non installare un motore sul suo aliante fino a che non fosse stato certo di poterlo controllare completamente in volo. A tal fine ideò un sistema di “svergolamento” che permetteva, tramite un sistema di cavi, di aumentare l’angolo d’incidenza da un lato dell’ala e diminuirlo dall’altro; il pilota aveva così il totale controllo sulla stabilità del velivolo. In seguito i fratelli Wright affidarono a un loro collaboratore, il meccanico Charlie Taylor, il compito di costruire il motore da installare sul loro prototipo. Prima di montarlo, tuttavia, perfezionarono ulteriormente la struttura del modello, ribattezzato Flyer I, aggiungendovi una coda con timone di direzione e dotandolo di ali più strette e allungate. A quel punto, tutto era pronto per il primo volo. Che avvenne il 17 dicembre del 1903, a Kitty Hawk. Fu Orville Wright a decollare per primo, percorrendo 36 metri in 12 secondi; qualche ora dopo, Wilbur tenne in aria il Flyer per 59 secondi, atterrando dopo 260 metri. Era la prima volta che un uomo riusciva a far volare una macchina motorizzata più pesante dell’aria con un pilota a bordo.

Il conquistatore dei cieli Quello che accadde negli anni seguenti fu impressionante. Il brasiliano Alberto Santos-Dumont, famoso per avere sorvolato la torre Eiffel in dirigibile, nel 1906 volò con il suo biplano per 60 metri. La stampa francese gridò al miracolo, dichiarando che Santos-Dumont aveva “conquistato i cieli”; ma il suo primato fu presto surclassato dai fratelli Wright, che arrivarono a compiere tragitti di due ore. Mal130 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

grado ciò, Santos-Dumont è ancora oggi ritenuto una figura fondamentale nella storia dell’aeronautica, perché fu il primo a decollare autonomamente con un aereo: infatti i fratelli Wright avevano utilizzato una rotaia per facilitare il distacco da terra del loro Flyer I. L’aeronautica era ormai considerata a tutti gli effetti una scienza, e nel 1907 Alexander Graham Bell, l’inventore del telefono, creò in Canada l’Aerial Experiment Association, un ente specializzato in ricerche aeronautiche. Nel 1909, Louis Blériot attraversò la Manica con un monoplano di sua costruzione, l’anno successivo l’americano Glenn Curtis sperimentò un aereo che poteva sganciare bombe. Agli apparecchi fu incorporata la radio; nel 1911, il francese Pierre Prier realizzò il primo volo senza scali tra Londra e Parigi, mentre il suo connazionale Roland Garros saliva fino a quasi 4000 metri di quota a bordo di un Blériot XI con motore da 50 cavalli. Nel 1914, all’esplodere della Prima guerra mondiale, la ricerca si focalizzò su come sfruttare a scopi bellici il nuovo mezzo. Benché in principio l’idea del combattimento aereo non fosse contemplata, già nel 1915 Roland Garros inventò un sistema che permetteva di sparare con la mitragliatrice dall’aereo. Per evitare che i proiettili potessero danneggiare le eliche, egli modificò la parte finale della mitragliatrice aggiungendovi due coni metallici. Poco dopo, lo statunitense Anthony Fokker perfezionò il sistema di Garros creando un dispositivo di sincronizzazione grazie al quale la mitragliatrice sparava solo quando l’elica del motore era fuori dalla linea del fuoco. Da quel momento, i duelli aerei si moltiplicarono in tutta Europa e assi dell’aria come il tedesco Manfred von Richthofen (il Barone Rosso), il francese Charles Nungesser o Francesco Baracca divennero autentiche leggende viventi. Con loro ebbe inizio l’età eroica dell’aviazione, nata appena vent’anni prima.


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IL DIRIGIBILE DI ALBERTO SANTOS-DUMONT

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L BRASILIANO Alberto Santos-Dumont (18731932), figlio di un magnate del caffè, modificò il motore a scoppio progettato dai francesi Jules-Albert De Dion e Georges Bouton e ne sviluppò uno proprio: aveva 2,5 cavalli di potenza e pesava 35 chili, era leggero, sicuro e produceva poche vibrazioni. In una parola, era perfetto da installare sul suo dirigibile, il Numero 6, ultimo prototipo di una serie iniziata nel 1898. Con esso, nel 1901 Santos-Dumont vinse i 100.000 franchi del premio Deutsch, decollando dal comune di Saint-Cloud per doppiare la torre Eiffel e tornare poi, in mezz’ora, al punto di partenza . Anche grazie a quest’impresa, nel 1909 Santos-Dumont ottenne la prima licenza di aviatore concessa in Francia.

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IL 19 OTTOBRE DEL 1901, CON IL SUO DIRIGIBILE NUMERO 6, SANTOS-DUMONT VOLÒ DAL COMUNE DI SAINT-CLOUD A PARIGI, DISTANTE CIRCA 15 KM; POI DOPPIÒ LA TORRE EIFFEL E TORNÒ AL PUNTO DI PARTENZA, IL TUTTO IN MENO DI MEZZ’ORA.

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L’AUTOMOBILE Fare scorrere in su e in giù un pistone all’interno di un cilindro: questo il principio alla base delle macchine a vapore. Lo stesso concetto, applicato a motori montati su veicoli dotati di ruote, avrebbe portato alla nascita dell’automobile ENRIQUE MESEGUER

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n giorno sarà possibile costruire veicoli in grado di muoversi con una forza inconcepibile senza l’aiuto di animali da tiro”. Così il frate francescano Ruggero Bacone, vissuto nell’Inghilterra del XIII secolo, anticipava un futuro nel quale immaginava ci sarebbe stato spazio anche per macchine volanti e sottomarine. La sua “profezia”, espressa nel trattato Opus Maius (1267), si realizzò solo cinque se-

coli più tardi, quando in Europa comparve il primo veicolo spinto da un motore a vapore. L’uso del vapore come forza motrice non era nuovo, derivava dalle esperienze di Denis Papin, Thomas Newcomen e James Watt, padri della Rivoluzione industriale. Nelle loro macchine il vapore veniva introdotto in un cilindro che ospitava un pistone: questo, sospinto dalla pressione del vapore, saliva verso l’alto, salvo ridiscendere quando, a causa della condensazione del vapore (e del vuoto che, di conseguenza, si creava sotto il pistone), veniva “schiacciato” dalla pressione atmosferica. Tale movimento longitudinale veniva poi convertito – tramite un sistema a biella e manovella – in un movimento circolare che poteva azionare qualunque meccanismo. Nel 1769 James Watt migliorò ulteriormente il processo, facendo in modo che il vapore agisse su entrambe le facce del pistone, e non solo su quella inferiore. Nasceva cosìla prima macchina a vapore non atmosferica. L’OBÉISSANTE, L’“OBBEDIENTE”: COSÌ IL FRANCESE AMÉDÉE BOLLÉE CHIAMÒ IL PRIMO VEICOLO A VAPORE COSTRUITO NEL 1873. PESAVA ALL’INCIRCA 48OO KG E AVEVA 12 POSTI A SEDERE. MUSÉE DES ARTS ET MÉTIERS, PARIGI.

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DEA / DAGLI ORTI / ALBUM

STORICO E SCRITTORE


TEMPI MODERNI

IL COMBUSTIBILE VINCENTE Manifesto pubblicitario di Eugène Le Mouël dedicato alla Vaporine, una marca francese di benzina utilizzata per i primi motori a scoppio. 1898, Bibliothèque des Arts Décoratifs, Parigi.

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TEMPI MODERNI

LA CITTÀ CONDIVISA Cartolina del 1910 raffigurante la Friedrichstrasse, una delle strade più popolari di Berlino. Nell’immagine, un’auto condivide la carreggiata con alcune carrozze trainate da cavalli.

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E fu proprio ispirandosi alle ricerche di Watt che, nel 1769, il francese Nicholas-Joseph Cugnot riuscì a costruire il primo veicolo qualificabile (a fatica) come “automobile”, termine che, alla lettera, significa “che si muove da sé”. Il proposito di Cugnot era di velocizzare il trasporto dei cannoni militari; progettò perciò un triciclo dotato di un’enorme caldaia il cui vapore azionava due cilindri verticali collegati alla ruota anteriore. Il veicolo aveva un’autonomia di 20 minuti e si muoveva a neppure quattro chilometri l’ora, meno di un pedone. Limiti che, uniti a un incidente accaduto durante le prove – la carrozza, priva di freni, si sfasciò contro un muro – spensero gli entusiasmi per il veicolo di Cugnot. Il primo a commercializzare veicoli a vapore fu Amédée Bollée, un costruttore francese che nel 1873 presentò al pubblico un nuovo modello: L’Obéissante, “L’Obbediente”. Nel frat-

tempo, le automobili a vapore avevano conquistato l’America: nel 1906 i gemelli Francis Edgar e Freelan Oscar Stanley idearono un veicolo che stracciò ogni precedente primato di velocità, superando i 205 chilometri l’ora.

L’addio al vapore La popolarità dei veicoli a vapore raggiunse l’apice negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, quando circa il 40 per cento delle auto statunitensi montavano questo tipo di motore; poi declinò lentamente, sotto la pressione di un nuovo, temibilissimo concorrente: il motore a scoppio o a combustione interna. La macchina a vapore è un motore a combustione esterna; il processo di combustione che trasforma l’energia termica in energia meccanica avviene al di fuori del motore, in una caldaia dove il combustibile scalda l’acqua producendo il vapore che azionerà il veicolo.


TEMPI MODERNI

LA PRIMA AUTOMOBILE LA PATENT MOTORWAGEN, BREVETTATA da Karl Benz nel 1886, era

un’autovettura a tre ruote con un motore a scoppio a quattro tempi. Per la prima volta erano presenti su un mezzo di trasporto un carburatore, il raffreddamento ad acqua, l’accensione elettrica, un impianto sterzante e il telaio tubolare. Pesava 230 kg e raggiungeva quasi i 15 km/h. LA PATENT MOTORWAGEN, IL VEICOLO REALIZZATO E BREVETTATO DALL’INGEGNERE TEDESCO KARL BENZ NEL 1886, È OGGI CONSERVATA ALLO SCIENCE MUSEUM DI LONDRA.

Attorno alla metà del XIX secolo, tuttavia, si stava ormai per concludere il processo di messa a punto del motore a combustione interna, nel quale la combustione avviene direttamente nel motore. I suoi vantaggi erano evidenti: da un lato si evitavano le dispersioni di calore causate dal passaggio del vapore dall’esterno all’interno del motore, dall’altro questo motore era meno ingombrante, in quanto privo della caldaia; poteva quindi essere montato su veicoli più piccoli e più leggeri. La principale difficoltà che dovettero superare i progettisti del motore a scoppio fu il controllo della combustione interna, ottenuta facendo esplodere nel cilindro una miscela di aria e combustibile. Le prime esperienze in questo campo risalivano al 1680, quando il fisico, matematico e astronomo olandese Christiaan Huygens aveva dimostrato che, dando fuoco a un po’ di polvere da sparo all’in-

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terno di un cilindro, si creava un vuoto di pressione che faceva scendere bruscamente un pistone posto alla sua sommità. Dopo gli esperimenti di Huygens, trascorsero quasi due secoli prima che si trovasse un modo di generare movimento sfruttando gli effetti dell’esplosione di un combustibile in un cilindro. Accadde dopo il 1850 quando, con la scoperta di nuove tecniche di estrazione e trasporto, si diffusero i primi motori a scoppio alimentati da gas. Il primo motore a utilizzare in modo efficiente una miscela detonante di aria e combustibile fu progettato e sperimentato in Italia nel 1853 dal fisico toscano padre Eugenio (Nicolò) Barsanti e dal fisico toscano Felice Matteucci. Essi resero praticabile il principio

IL MOTORE DI DAIMLER Uno dei primi motori bicilindrici a quattro tempi costruiti da Gottlieb W. Daimler: dalla fusione della sua azienda con quella di Karl Benz nacque nel 1926 la Mercedes-Benz.

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TEMPI MODERNI

LA PASSIONE PER LA VELOCITÀ

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IRRUZIONE DELL’AUTOMOBILE scatenò una passione sfrenata per la velocità. Dopo il brevetto del motore a quattro tempi di Nikolaus A. Otto nel 1877, le successive migliorie tecniche implicarono l’aumento della velocità: se un’automobile del 1890 circolava a 20-30 km/h, nel decennio successivo raggiunse i 63 km/h. Maggiore era la velocità delle automobili di lusso: nel 1902, una Mercedes Simplex della Daimler superava i 100 km/h, mentre negli anni ‘20 del XX secolo erano frequenti modelli con velocità di 145 km/h, e le automobili sportive arrivavano a 170-180 km/h. La velocità portò con sé un nuovo spettacolo di massa: le corse automobilistiche. La prima, tra Parigi e Rouen, si svolse nel 1894 ed ebbe 21 partecipanti. Nel 1911, a Indianapolis, negli Stati Uniti, 80.000 spettatori entusiasti assistettero alla prima Indy 500, nella quale trionfò il pilota di casa Ray Harroun.

ANNUNCIO PER GLI PNEUMATICI FRANCESI MICHELIN. MANIFESTO DEL 1908, DI ERNEST MONTAUT.

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SPIRIT OF ECSTASY La statuetta femminile che orna il radiatore di tutte le Rolls-Royce comparve a partire dal 1911 e fu disegnata dallo scultore inglese Charles Robinson Sykes (1875-1950). TOPIC PHOTO AGENCY IN / AGE FOTOSTOCK

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del motore a scoppio attraverso valvole di aspirazione e di scarico e un volano. Il 5 giugno 1853 i due inventori lasciarono un plico sigillato all’Accademia dei Georgofili a Firenze con i risultati delle loro esperienze, e la richiesta che questi fossero diffusi dieci anni dopo. Nel 1854 ottennero il brevetto inglese. Poi dettero inizio a Firenze a un’attività industriale per lo sviluppo del motore, ma la morte prematura di Barsanti mise fine alle esperienze. A migliorare il motore fu nel 1859 il belga Étienne Lenoir, che lo montò su un triciclo ribattezzato Hippomobile. Secondo il brevetto, si trattava di un propulsore “nel quale l’aria è dilatata tramite la combustione di gas accesi mediante elettricità”. Nel 1862, una carrozza spinta da uno di questi motori percorse per tre ore le vie di Parigi, coprendo quasi 18 chilometri.

Malgrado i consumi altissimi e il basso rendimento, il motore di Lenoir rappresentò una svolta nella storia dell’automobile; in pochi anni, tuttavia, divenne obsoleto, e al suo posto cominciarono a comparire motori a quattro tempi (quello di Lenoir ne aveva due) nei quali la combustione del carburante avveniva in altrettante fasi: aspirazione, compressione, espansione, scarico.

Il primo motore a benzina Il primo motore di questo tipo fu progettato nel 1862 dall’ingegnere francese Alphonse Beau de Rochas, che lo brevettò ma non trovò i capitali per montarlo su un veicolo. Toccò così al tedesco Nikolaus August Otto, nel 1877, costruire il primo motore a quattro tempi regolarmente messo in commercio. Per costruirlo, Otto aveva fondato un’azienda nella quale chiamò a lavorare anche il conna-


TEMPI MODERNI

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zionale Gottlieb W. Daimler, che però presto lo lasciò e si mise in proprio. Nel 1893 Daimler, insieme al socio Wilhelm Maybach, fabbricò il primo motore a quattro tempi a benzina, installandolo su una sorta di rudimentale motocicletta. Infine, nel 1886, un altro tedesco, Karl Benz, brevettò quella che è considerata la prima vera automobile: un triciclo equipaggiato con un motore a scoppio che Benz chiamò Patent Motorwagen o Velociped.

L’epoca del “fordismo” Tre anni dopo, all’Esposizione Universale di Parigi, Daimler e Maybach presentarono il primo veicolo a quattro ruote concepito come unità di motore e telaio: la Daimler Stahlradwagen, un’autovettura con propulsore bicilindrico a V e telaio in tubi di acciaio. Il successo dei motori a benzina mandò presto in pensione sia quelli a gas e a vapore sia i

veicoli elettrici, così diffusi nel 1899 che uno di essi, costruito per il pilota Camille Jenatzy, divenne la prima auto a superare i 100 chilometri all’ora. Ma il lungo tempo di ricarica delle batterie, e la scarsa diffusione della rete elettrica, limitarono l’uso di questi mezzi. In tutto ciò, l’automobile era ancora un veicolo semiartigianale, che risultava perciò assai caro. La produzione di massa si impose grazie a Henry Ford, un industriale americano convinto che l’automobile non dovesse essere un bene di lusso. Per limitare i costi, egli razionalizzò perciò al massimo i processi produttivi, vendendo i suoi modelli – come la Ford T, uscita nel 1908 – a prezzi popolari. Ford ripensò totalmente l’organizzazione del lavoro, standardizzando l’assemblaggio dei veicoli mediante la catena di montaggio: un’innovazione che avrebbe rivoluzionato la funzione degli operai e trasformato la società.

IL SIMBOLO DI UNO STATUS Dame inglesi dell’alta società attorno a una Rolls-Royce: la foto fu scattata all’inizio del XX secolo da Charles S. Rolls, fondatore insieme a Henry Royce della celebre azienda di automobili di lusso.

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TEMPI MODERNI

CATENA DI MONTAGGIO IN UNA FABBRICA DELLA FORD, IN MICHIGAN. LA FOTOGRAFIA, SCATTATA NEL 1913, MOSTRA GLI OPERAI MENTRE STANNO COLLOCANDO IL MOTORE SUL TELAIO DELL’AUTO, CHE SI MUOVE LUNGO ROTAIE INSTALLATE ALL’INTERNO DELLA FABBRICA.

LA FORD T: L’AUTO DI MASSA

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EL 1903, HENRY FORD fondò la Ford Motor Com-

pany. Il suo obiettivo era di fare dell’automobile, allora privilegio delle classi benestanti, un bene di largo consumo, conquistando anche la clientela rurale, che utilizzava ancora il cavallo e la carrozza per muoversi negli Stati Uniti. Questo fu il germe della famosa Ford T, i cui assi, disposti a maggiore altezza rispetto alle altre automobili, le permettevano di circolare per le strade di campagna. Era, inoltre, un veicolo di facile manutenzione: i pezzi di ricambio potevano essere comprati nei magazzini dei paesi o per posta, e non aveva bisogno di meccanici specializzati. Tra il 1908 e il 1927 si vendettero 15 milioni di Ford T, un record reso possibile dall’introduzione nelle fabbriche della catena di montaggio: era il telaio del veicolo, e non più l’operaio, a spostarsi lungo il nastro trasportatore, che permetteva di assemblare i pezzi con maggiore velocità ed efficienza, accrescendo la produttività.

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FORD T DEL 1927, L’ANNO IN CUI LA PRODUZIONE DI QUESTO MODELLO SI INTERRUPPE. GRAZIE AL SUCCESSO DELLA FORD T, L’USO DELL’AUTO SI ESTESE AGLI INTERI STATI UNITI.

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La catena VEICOLI PRODOTTI DA HENRY FORD TRA IL 1896 E IL 1927: IL PIÙ ANTICO (PRIMO IN ALTO), COSTRUITO A MANO E CHIAMATO QUADRICYCLE, MONTAVA RUOTE DA BICICLETTA E UTILIZZAVA ETANOLO COME COMBUSTIBILE.

Poiché agli operai era richiesta una serie molto limitata e ripetitiva di gesti, nella catena di montaggio potevano lavorare anche persone che non parlavano inglese.


TEMPI MODERNI

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Il salario

Ford pagava gli operai cinque dollari al giorno, il doppio del salario dell’epoca; in cambio pretendeva l’osservanza della rigida disciplina imposta dalla catena di montaggio.

Abbassare i costi

L’uso della vernice nera in tutti i primi modelli si deve al fatto che si asciugava più rapidamente degli altri colori, velocizzando così i tempi di produzione.

La produzione

Nel 1909 Henry Ford fabbricò 17.700 veicoli, che nel 1923 erano già saliti a 1.817.891: più di tutti quelli prodotti dalle altre compagnie statunitensi.

Il prezzo

Nel 1909, la prima Ford T costava 900 dollari, scesi a soli 345 nel 1916; questa cifra rappresentava il 10-20% dei redditi annuali di una famiglia media americana. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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TEMPI MODERNI

LA FOTOGRAFIA La sua capacità di bloccare l’attimo e di trasmetterlo ai posteri garantì il successo della fotografia fin dai suoi inizi. Comportò un’autentica rivoluzione; senza di lei, la storia oggi non sarebbe la stessa PEDRO GARCÍA MARTÍN

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a fotografia fu ufficialmente presentata al pubblico il 7 gennaio del 1839 a Parigi come una tecnica che permetteva di fissare immagini durature su un supporto sensibile alla luce. I primi fotografi furono, dunque, pittori, chimici e ottici che sperimentarono la camera oscura per catturare scene della realtà. Nel 1822 Louis-Jacques-Mandé Daguerre e Charles-Marie Bouton allestirono uno spettacolo visuale in Place de la République, a Pa-

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LA PRIMA FOTOCAMERA DI TIPO COMMERCIALE FU REALIZZATA A PARIGI NEL 1839 SULLA BASE DI UN PROGETTO DI LOUIS DAGUERRE. DA ALLORA LA FOTOGRAFIA SMISE DI ESSERE SOLO SPERIMENTALE. 140 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

rigi, che chiamarono “diorama”. Si trattava di un macchinario che, combinando luci e specchi, proiettava per 15 minuti su un telo di 22 metri per 14 diverse immagini che lentamente apparivano e lentamente svanivano. Il diorama anticipava lo schermo bianco del cinema, e le sue rappresentazioni erano paesaggi e rovine gotiche secondo il gusto romantico degli spettatori, per la maggior parte borghesi. Nel 1827 Daguerre incontrò a Parigi Joseph Nicéphore Niépce, un brillante ricercatore che stava sperimentando una nuova tecnica che permettesse di “catturare le immagini”. Quelle che lo stesso Niépce definì eliografie si ottenevano cospargendo una lastra di peltro con il bitume di Giudea (un tipo di asfalto che ha la caratteristica di indurire alla luce) cui si sovrapponeva un’incisione. Una volta scavata con l’acquaforte e lavata con olio di lavanda, la lastra ottenuta era utilizzata per la stampa. Intorno al 1826, con l’ausilio della camera oscura e grazie a una lunga esposizione alla luce (della durata di circa 8 ore), Niépce realizzò la Vista dalla finestra a Le Gras, che oggi è ritenuta la più antica fotografia esistente.

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PROFESSORE DI STORIA MODERNA. UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID


TEMPI MODERNI

UNO DEI PRIMI DAGHERROTIPI Il Boulevard du Temple di Parigi nel 1838. La strada sembra deserta, ma in basso a sinistra si intravede una sagoma: è una persona che, per apparire nell’immagine, dovette stare immobile per almeno dieci minuti.

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TEMPI MODERNI

“PERFINO PER DONNE E BAMBINI”

FOTOCAMERA A SOFFIETTO Il modello Kodak n. 3 prodotto nel 1901. Macchine fotografiche come questa includevano già un rullino. Il loro facile utilizzo accrebbe la passione per la fotografia.

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LA PUBBLICITÀ DI UNA FOTOCAMERA NEL 1888 “Voi premete il pulsante e noi faremo tutto il resto” era lo slogan della prima fotocamera Kodak. Leggera e dotata di un rullino per cento fotografie, era chiamata “Detective.”

Nel 1829 Daguerre e Niépce firmarono un contratto che prevedeva una loro collaborazione per lo studio dei materiali fotosensibili. Tuttavia Niépce morì a distanza di 4 anni dall’accordo senza essere riuscito a cogliere i frutti del suo lavoro. Nel 1839 Daguerre presentò all’Accademia delle Scienze di Parigi il dagherrotipo, che è considerato il primo vero tipo di procedimento fotografico per la riproduzione di immagini e che da lui prende il nome. Nel dagherrotipo l’immagine si otteneva usando un supporto in argento o rame argentato sensibilizzato, in camera oscura, mediante esposizione a vapori di sodio. La lastra veniva poi esposta al sole per una durata di 10-15 minuti e forniva un unico positivo non riproducibile, quindi irripetibile. Contattato dal politico e scienziato dell’Accademia delle Scienze François Arago, Daguerre propose l’acquisto del

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un’immagine-matrice e la sua riproduzione illimitata rivoluzionarono la fotografia. La macchina fotografica sostituì l’unicità dell’originale con la pluralità delle copie; pose fine all’immagine irripetibile e diede spazio alle immagini multiple della società di massa. Determinò così la democratizzazione dell’immagine. La pubblicità pose l’accento sulla semplicità pratica delle fotocamere. Una campagna pubblicitaria della Kodak del 1888 si basava sulla facilità d’uso dei nuovi dispositivi: “Perfino per donne e bambini!”, recitava lo slogan. Nell’immaginario collettivo si consolidarono due concetti: tutti dobbiamo essere fotografati alle nostre diverse età e tutti siamo capaci di fotografare il mondo che ci circonda. In questo modo, da allora gli uomini hanno creduto di poter sopravvivere oltre la propria morte, mentre i loro album di famiglia sono entrati a far parte della cultura visiva dell’umanità.

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A CREAZIONE AUTOMATICA di

procedimento da parte dello Stato, il quale acquisì il brevetto della fotografia. Nello stesso 1839 la Francia rinunciò però al monopolio e regalò al mondo intero questa invenzione. Quando la stampa annunciò la scoperta in modo ufficiale, il 7 gennaio del 1839, giorno a cui ci si riferisce convenzionalmente per la nascita della fotografia, il britannico William Talbot si affrettò a dichiarare che aveva già reso nota al pubblico, nel 1835, la calotipia o sciadografia, una tecnica di sua invenzione che prevedeva l’immersione di un foglio nel cloruro d’argento sul quale venivano appoggiati oggetti come foglie o fiori; sul foglio, esposto alla luce, compariva il negativo dell’oggetto. Talbot intuì rapidamente il metodo per trasformare l’immagine in positivo utilizzando un secondo foglio in trasparenza. “Finalmente si è vinta la morte!”, scrissero i giornali. L’illusione di poter arrivare ai poste-


TEMPI MODERNI

ri è frutto della superbia umana. La stessa frase si sarebbe detta alla fine del XIX secolo con l’invenzione del cinematografo e degli autocromi, ossia delle prime fotografie a colori.

Il ritratto diventa fotografico Le prime foto imitarono la pittura. La novità e il prestigio della fotografia fecero sì che i potenti volessero trasmettere la propria immagine ai posteri facendosi ritrarre con gli attributi del potere: troni, corone, medaglie, bandiere, parlamenti, banche, fabbriche e marchi commerciali. Presto la fotografia diventò accessibile a molte tasche e la classe media si abituò a fotografare bambini, sposi e morti. I neonati, perché la mortalità infantile era molto elevata. I novelli sposi, perché il matrimonio era per tutta la vita. I defunti, perché per i parenti era l’ultimo ricordo del morto. Incorniciate, le foto di quei momenti accompagna-

vano i discendenti stando sulle pareti delle abitazioni e all’interno dei portafogli. In questo modo, il ritratto fotografico si sostituì al ritratto pittorico. Per questa ragione i pionieri del XIX secolo si diedero essi stessi la qualifica di “fotografi ritrattisti”. Tra questi vi erano Gaspard-Félix Tournachon, che adottò lo pseudonimo di Nadar e dal 1858 realizzò le prime fotografie aeree della storia scattandole da un aerostato, e Antoine Lumière, padre dei fratelli Auguste e Louis, inventori del cinematografo. Inoltre, lo studio, gli arredamenti e le posture di coloro che posavano per i fotografi non erano molto differenti da quelli cui facevano ricorso i pittori. La tela, la tavolozza e i pennelli furono sostituiti da una camera posta su un cavalletto. Fa parte della memoria collettiva la scena, in quadri e film, in cui un fotografo, mettendo a fuoco l’obiettivo e tenendo in mano un flash di magnesio,

LA FOTOGRAFIA NELLA PITTURA Una dama elegante, seduta sulla spiaggia del comune francese di Biarritz, osserva la fotocamera portatile più lussuosa dell’epoca. Olio su tela di Joaquín Sorolla. 1906. Museo Sorolla, Madrid.

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TEMPI MODERNI

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FOTO DI GUERRA A COLORI Ufficiali di fanteria francesi ritratti nel 1917. Questa immagine è un autocromo, il metodo fotografico a colori brevettato dai fratelli Lumière nel 1903, che fu l’unico disponibile fino al 1935.

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chiede alle persone che sta per ritrarre di “guardare l’uccellino” e questi rispondono cheese. Un’espressione che, con variazioni in ogni lingua, è giunta fino alla nostra era digitale.

L’evoluzione dei temi I temi scelti dai fotografi ritrattisti soddisfacevano il gusto borghese. L’immagine del capostipite campeggiava sulle pareti delle case, così come le fotografie dei dirigenti su quelle delle sedi istituzionali. I paesaggi e i monumenti si impiegarono come simboli dello Stato. Si diffusero anche le cartes de visite, fotografie di persone in formato ridotto che divennero presto un oggetto da collezionare. L’apprezzamento sociale per la fotografia crebbe e si diffuse, e i politici scoprirono presto la forza seducente delle immagini: i candidati si fecero ritrarre per amplificare il loro carisma. I militari, a partire dalla guerra di Crimea (1853-

1856), videro in essa un mezzo di propaganda per attestare la propria forza nelle sfilate o per screditare il nemico mostrando il campo dopo la battaglia. Ma la usarono anche con fini propagandistico-educativi, come accadde con i rivoluzionari fucilati della Comune di Parigi. E, naturalmente, ad accompagnare la fotografia fu la censura: quella civile, che perseguiva il nudo in nome della morale, e quella militare, che vietava le immagini dei soldati morti per non abbattere il morale della retroguardia. Negli stessi anni i poliziotti di New York e Parigi seguirono i principi della criminologia moderna, basata sulla fisiognomica, secondo cui “il viso è lo specchio dell’anima”. Secondo il metodo di Alphonse Bertillon (1882), basato sull’antropometria, si crearono schedari di criminali con foto e impronte digitali. Le novità tecniche si succedettero. A partire dal 1855 migliorò la nitidezza grazie a negativi di collodio umido e positivi in carta all’albumina. Nel 1872 l’inglese Eadweard Muybridge scompose il movimento fotografando il galoppo di un cavallo. La “rivoltella astronomica” di Jules Janssen (1874) e il “fucile” di Étienne-Jules Marey (1882) diedero luogo alla cronofotografia, la cattura del movimento mediante serie di fotografie scattate a intervalli regolari. Nel 1881, Louis Lumière inventò le foto istantanee che, come le pitture impressioniste, bloccavano il movimento. E insieme al fratello Auguste brevettò nel 1903 gli autocromi o foto a colori. A quel tempo, la fotografia si era già trasformata in un’arte.

Fotografia e verità Fin dalla sua nascita, si dibatte se la fotografia rifletta o manipoli la verità. Le istantanee di cadaveri di sudisti sul campo di battaglia di Gettysburg (1863) mostravano in realtà yankee vivi mascherati da ribelli morti; e il monello intirizzito durante la Grande Depressione era un ragazzo che il fotografo aveva pagato per indossare stracci e sporcarsi il viso. Le immagini però sono anche obiettive, perché il fotografo puntando la camera ritrae dal vivo scene della vita materiale, paesaggi, usi... Alcune foto scattate “in tempo reale” sono divenute icone, come il fungo della bomba atomica, lo sbarco sulla Luna e gli attentati alle Torri Gemelle. A ogni foto, in quanto fonte storica, serve un’interpretazione critica.


TEMPI MODERNI

FOTO DI QUESTA PAGINA: ADOC-PHOTOS / ALBUM

L’ATTRICE SARAH BERNHARDT POSÒ PER NADAR VARIE VOLTE; IL FOTOGRAFO SEPPE COGLIERE IL SUO SGUARDO FOTOGENICO.

PIONIERE DELLA FOTOGRAFIA AEREA, NADAR RITRASSE PARIGI DA UN PALLONE AEROSTATICO. SCATTÒ LA PRIMA DI QUESTE FOTO AEREE NEL 1858.

NADAR, FOTOGRAFO PIONIERE

CHARLES BAUDELAIRE, RITRATTO DA NADAR NEL 1855.

ADOC-PHOTOS / ALBUM

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L PIÙ IMPORTANTE tra i fotografi ritrattisti fu il francese Nadar, pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon (1820-1910). A differenza di altri colleghi che puntavano al successo, il suo intento fu trasformare le fotografie in arte. Rinunciò perciò all’attrezzatura da studio e a colorarle o ritoccarle, giocando piuttosto con la luce e lo sguardo dei modelli. Fotografò la terra dal cielo, come del resto anche le catacombe. Per la sua esperienza nel campo della fotografia aerea, durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871 fu scelto come capo di una compagnia di aerostieri, per collaborare alla difesa di Parigi. Il suo studio nella capitale francese divenne un punto di incontro degli intellettuali. Lì si tenne, nel 1874, la prima mostra degli impressionisti. ADOC-PHOTOS / ALBUM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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TEMPI MODERNI

IL CINEMA Ufficialmente, il cinematografo dei fratelli Lumière fu inaugurato come spettacolo il 28 dicembre 1895 a Parigi. Ma la magia che offriva fu possibile solo grazie ad altri pionieri e ai loro ingegnosi apparecchi PEDRO GARCÍA MARTÍN CATTEDRATICO DI STORIA MODERNA. UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID

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SCALA, FIRENZE

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e invenzioni sono figlie gresso tecnico nella seconda metà del del loro tempo: il cinema Settecento e 15 anni prima dell’inaugunacque nel pieno della razione del cinematografo, nel “cultura dell’ozio” 1870, era stata introdotta l’eletdella Belle époque, tricità. In questo clima di febbre gli anni dell’euforia e dell’otinventiva, i macchinari ottici initimismo che precedettero la ziarono a svegliare il furore, gli Prima guerra mondiale, duambulanti portarono le immagini rante i quali pittori e fotogradella lanterna magica dalla città alfi venivano incaricati di rila campagna e i pittori ricorsero trarre la gioia di vivere della alla camera oscura per rendere più borghesia. Le loro immagini mo- LA LANTERNA MAGICA (IN ALTO, UNA dettagliate le loro tele. Tutti questravano una grande varietà di A FORMA DI TORRE EIFFEL), ANTENATA sti apparati visivi spianarono il CINEMATOGRAFO, PROIETTAVA divertimenti: gite campestri, vita DEL cammino al cinema. ALL’ESTERNO IMMAGINI STATICHE. da spiaggia, sport, balletti e cabaNel XIX secolo gli spettacoli auret. Tuttavia, dopo la prima proiezione del diovisivi divennero di moda e si predisposero cinematografo nella Parigi del 1895, al pubbli- luoghi adatti, quali per esempio i passaggi coco non furono più sufficienti queste immagi- perti di Parigi, in ferro e cristallo, tipici di queni di istanti congelati nel tempo. Aveva appe- gli anni, che furono teatro di attrazioni come na contemplato la vita in movimento e aspi- la proiezione di panorami sulle pareti di una rava a conoscere il mondo dalla prima fila. sala cilindrica immersa nell’oscurità. Il cambiamento nello sguardo degli spettato- Per il cinema era necessario combinare due ri era iniziato molto prima, sul filo della Rivo- invenzioni: una pellicola che catturasse le imluzione Industriale. La macchina a vapore e la magini della realtà e un apparecchio capace di ferrovia avevano inaugurato il culto per il pro- proiettarle. La pellicola sensibile, fatta di cel-


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UN PUBBLICO ENTUSIASTA Le proiezioni dei film dei Lumière raggiunsero una grande popolarità. Tuttavia i due fratelli preferirono concentrarsi sulla fotografia a colori. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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TEMPI MODERNI

UN SUCCESSO IMMEDIATO E UNIVERSALE

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L CINEMATOGRAFO era un’industria culturale di nuovo genere, la cui fruizione, a differenza del libro o della stampa, non richiedeva un’alfabetizzazione. Questa costituisce una delle chiavi del suo successo, come testimonia la folgorante crescita che fece del cinema il primo spettacolo di massa. Nel 1895 i fratelli Lumière proiettarono a Parigi la prima pellicola, L’uscita dalle officine Lumière, e tra questa data e il 1900 incassarono 2,4 milioni di franchi per la realizzazione di pellicole, che divenne un business estremamente redditizio. Nel 1906 vi erano 10 cinema a Parigi, che nel 1908 erano già divenuti 87, e nel 1911 la città accolse il più grande cinema d’Europa: il Gaumont-Palace, con 3400 posti a sedere. In quanto agli Stati Uniti, nel 1910 erano già funzionanti 10.000 nickelodeon, sale cinematografiche frequentate da 23 milioni di spettatori alla settimana, ovvero il 20% della popolazione statunitense.

PUBBLICITÀ DEL KINETOSCOPIO DI EDISON, UNO SPETTACOLO DI IMMAGINI IN MOVIMENTO. 1913.

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IL PRIMO PROIETTORE Con questo apparecchio i Lumière realizzarono la prima proiezione cinematografica pubblica a Parigi, il 28 dicembre 1895. National Media Museum, Bradford (Inghilterra).

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luloide e in formato 35 mm (alla base, fino all’avvento del digitale, dell’industria cinematografica), venne realizzata nel 1888 dallo statunitense George Eastman, fondatore della Kodak; questi sostituì alla lastra di cristallo un rullo di pellicola, rendendo la fotografia un passatempo di massa. Comparve anche il primo proiettore a pellicola a lente singola, realizzato dal francese Louis Aimé Augustin Le Prince, secondo alcuni storici il vero padre del cinema, che nel 1888 filmò una scena nel giardino di casa propria, a Leeds (il cortometraggio noto come Roundhay Garden Scene), considerata la prima sequenza di immagini in movimento. Purtroppo, Le Prince scomparve misteriosamente mentre viaggiava sul treno Digione-Parigi nel 1890 dove si stava recando per presentare la sua

invenzione che quindi non trovò diffusione. Un passo essenziale fu fatto da Thomas Edison nel 1891, quando, oltre ad aver praticato delle perforazioni laterali nella pellicola, diede vita al kinetoscopio, precursore del proiettore cinematografico in cui lo spettatore poteva vedere, dall’apertura praticata in una cassa in legno, brevi sequenze animate. I kinetoscopi furono portati nelle fiere e nelle sale giochi dell’epoca. Funzionavano introducendo nell’apposita fessura un nickel (una moneta del valore di 5 centesimi di dollaro), ragion per cui molti teatri di proiezione assunsero il nome di Nickel Odeon.

Arriva il cinematografo Le immagini in movimento uscirono dalla “gabbia” del kinetoscopio grazie ai fratelli Lumière, il cui nome è indissolubilmente legato all’invenzione del cinema.


TEMPI MODERNI

LUMIERE & COMPANY / ALBUM

I fratelli Auguste e Louis erano borghesi che divennero pionieri di quel futuro ipotizzato dalla Belle époque. Raggiunsero il successo in un momento di frenesia tecnologica, quando le macchine erano idolatrate nelle esposizioni universali, i cui visitatori erano mossi da un fervore futurista. I creatori di immagini, dal pittore impressionista Claude Monet al pioniere della fotografia Nadar, nella loro ricerca di una pittura chiara e di una fotografia “animata” furono gli artisti dell’avanguardia che consacrarono la primavera della modernità. E in questo contesto, la fotografia diede ai fratelli Lumière quello di cui avevano bisogno. Tutto ebbe inizio quando il maggiore, Antoine, fotografo e imprenditore, giunse a Lione nel 1870 in fuga dai Prussiani che avevano invaso la Francia. Nella città aprì uno studio fotografico e i suoi figli svolsero un apprendistato scientifico in un istituto tecnico, dove

furono risvegliate anche la tenacia di Auguste e l’ingegno di Louis. Quest’ultimo, nel 1881, ideò la lastra fotografica secca ad alta rapidità. Presto l’impresa di famiglia iniziò una produzione di massa e divenne in breve tempo la più importante d’Europa. L’invenzione fu commercializzata con la marca Lumière e un’etichetta azzurra, dal colore delle casse che contenevano le lastre. Il benessere economico raggiunto permise ai due fratelli di dedicarsi alla ricerca sperimentale. Auguste e Louis conoscevano la pellicola di celluloide brevettata dalla Kodak, che catturava le immagini della realtà, e lavoravano a un apparecchio che le proiettasse in un ambiente più ampio, ma non trovavano il meccanismo in grado di trascinare la pellicola. Fu Louis a trovare la soluzione. Una sera, mentre la famiglia si trovava nella sala in ferro e cristallo adiacente Villa Lumière, rimase col-

LA PRIMA PELLICOLA L’uscita dalle officine Lumière fu proiettata nel 1895 e ne furono fatte tre versioni, come dimostrano alcune inquadrature e i cambi di vestiario degli operai, in base alle diverse stagioni.

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TEMPI MODERNI

IL CINEMA MUTO, UN’ARTE

BRIDGEMAN / ACI

DURANTE I SUOI PRIMI ANNI, IL CINEMA SPERIMENTÒ TECNICHE E APPARECCHIATURE

FIRTS NATIONAL / ALBUM

IL MELODRAMMA Ne Le vittime dell’alcolismo (1902), il regista francese Ferdinand Zecca adattò un romanzo di Émile Zola, L’ammazzatoio, per raccontare il declino di una famiglia preda di un padre alcolizzato. Oltre al dramma sociale, la filmografia di Zecca era molto varia e molto vasta. Divenne famoso con Storia di un crimine (1901).

IL CINEMA COMICO Il film Charlot soldato, ambientato nella Prima guerra mondiale e proiettato nel 1918, fu interpretato e diretto da Charlie Chaplin. Già star della celluloide, Chaplin interpreta una recluta statunitense al fronte, e nel film vi è un tono di critica anti-militarista. 150 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


TEMPI MODERNI

SENZA PAROLE PORTANDO SULLA SCENA I TEMI PIÙ DISPARATI

BRIDGEMAN / ACI

IL CINEMA FANTASTICO Insieme al suo amico, il mago RobertHoudin, Méliès realizzò quei trucchi che presto avrebbe portato nei cinema. Per filmare Viaggio nella Luna (1902) si rinchiuse per mesi nel suo studio, fino a ottenere la famosa scena del razzo che finisce nell’occhio del satellite. I circa 15 minuti di proiezione rappresentano le fondamenta del genere fantastico.

OMAGGIO A JULES VERNE Lettore vorace dei romanzi di Verne, Georges Méliès trasse ispirazione dalle sue opere per alcuni film. Un ottimo esempio è Alla conquista del Polo Nord (1912), basato su Le avventure del capitano Hatteras e dei suoi compagni a bordo della nave Avanti, in esplorazione tra i ghiacci polari.

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MELIES / ALBUM

GAUMONT / ALBUM

POLIZIA E CATTIVI Fantomas all’ombra della ghigliottina (1913) fu la prima delle cinque pellicole realizzate da Louis Feuillade basate sui romanzi di Pierre Souvestre e Marcel Allain. Fantomas, uno dei personaggi più popolari nella storia del romanzo criminale francese, era interpretato da René Navarre.


TEMPI MODERNI

GRAZIE AI LUMIÈRE E AI LORO OPERATORI EBBE INIZIO LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE DELL’IMMAGINE

AKG / ALBUM

I FRATELLI LUMIÈRE: AUGUSTE (A SINISTRA) E LOUIS (A DESTRA).

pito dalla macchina da cucire della madre: il suo funzionamento gli aveva dato la chiave per risolvere il problema. Fu quindi progettato il primo apparecchio che permetteva non solo riprese cinematografiche, ma anche la loro proiezione. Lo chiamarono “cinematografo”. La prima proiezione pubblica del cinematografo si tenne il 28 dicembre 1895 nel Gran Café de Paris. La prima pellicola della storia si intitolava L’uscita dalle officine Lumière. L’immediato successo del cinema portò i Lumière a formare operatori, che in seguito furono inviati in altri continenti per filmare luoghi e persone di tutto il mondo. Ebbe così inizio la prima globalizzazione iconica del pianeta. I Lumière intonarono il canto del cigno all’EXPO del 1900, a Parigi. A causa delle dimensioni, non fu infatti possibile montare l’enorme schermo che intendevano installare allo Champde-Mars. Inoltre non riscosse molto interesse il “fotorama”, che proiettava fotografie su uno schermo panoramico di 360°. I Lumière persero interesse per il cinema, che curiosamente consideravano “un’invenzione senza futuro”, e si concentrarono sulla fotografia. Le fabbriche di Lione continuarono a produrre le lastre, mentre i laboratori facevano ricerche per ottenere fotografie a colori.

Un grande business Quando il pubblico si stancò di guardare pellicole familiari e paesaggi di altri Paesi, i Lumière cambiarono strategia. Iniziarono a vendere i loro proiettori agli ex operatori, alcuni dei quali avevano creato le loro società. Tra loro, Georges Méliès. Nel suo studio di Montreuil, vicino a Parigi, realizzava pellicole sempre più elaborate, nelle quali, grazie a trucchi ingegnosi, moltiplicava teste umane, si ballava tra le fiamme dell’inferno e prendevano vita i personaggi dei cartelloni pubblicitari. Il suo vertice creativo fu il film Viaggio nella Luna, ispirato ai romanzi di Jules Verne e H. G. Wells. 152 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Ebbe un enorme successo in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti grazie ai suoi effetti speciali e alla durata di ben 15 minuti. Nello stesso periodo nacquero “case cinematografiche”, società che dominarono il mercato fino alla Grande Guerra. Le commedie di Léon Gaumont, i drammi di Ferdinand Zecca prodotti dai fratelli Pathé e i copioni storici della torinese Itala Films invasero le sale e si guadagnarono i favori del pubblico. Lo spagnolo Segundo de Chomón mise a punto la tecnica del giro di manovella (o scatto singolo), che dava l’impressione che gli oggetti si muovessero da soli, permettendo anche di far sparire cose o persone. Fu così che nacque il cinema di animazione, il cui massimo esempio, all’epoca, fu il film Hotel elettrico (del 1908, scritto e diretto dallo stesso Chomón), nel quale gli oggetti che si muovevano da soli suscitarono la meraviglia del pubblico. Negli Stati Uniti, il business della celluloide era segnato dal monopolio che Thomas Edison aveva imposto nella East Coast. L’ambizioso inventore fu a capo della Edison trust, che raggruppava le grandi compagnie di produzione cinematografica. Per ottenere il suo monopolio, perseguì con accanimento i cineasti indipendenti tramite funzionari corrotti, attaccabrighe privi di scrupoli e investigatori privati della famosa agenzia Pinkerton, che non si facevano scrupoli a usare il revolver. Per questo, le società indipendenti iniziarono a trasferirsi in California, dove il sole splendeva per quasi tutto l’anno, i paesaggi erano l’ideale per le location dei film e la manodopera era economica. Inoltre, il confine con il Messico era vicinissimo, in caso si dovesse sfuggire alla giustizia, alla mafia o agli scagnozzi inviati da Edison. Il sistema degli studios, lo star system, riuscì a vincere il confronto a scapito della costa atlantica. E una piccola cittadina dell’Ovest, chiamata Hollywood, divenne presto la mecca mondiale del cinema.


TEMPI MODERNI

ALBUM

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RIMA DELLA GRANDE GUERRA, la casa francese Pathé, fondata a Vincennes nel 1896, dominava l’industria cinematografica: nel 1908 produceva tra il 30 e il 50 per cento dei film proiettati nei nickelodeon statunitensi. Al termine della guerra tuttavia il cinema era statunitense: ogni 5000 metri di pellicola francese proiettata in Francia, vi erano 25.000 metri di pellicole importate, soprattutto dagli Stati Uniti, che nel 1914 si erano già accaparrati il 60 per cento del mercato britannico. Questo era dovuto soprattutto alla forza dello star system statunitense che si basava sui grandi e potenti produttori, le cosiddette majors, fondate tra il 1912 e il 1920, in particolare da ebrei immigrati dall’Europa, sulla verde collina di Hollywood.

BRIDGEMAN / ACI

IL TRIONFO MONDIALE DI HOLLYWOOD

SELIG POLYSCOPY COMPANY Nel 1908 divenne la prima compagnia cinematografica a stabilirsi a Los Angeles, la futura mecca del cinema. In alto alcuni attori durante una ripresa.

IL PRIMO CINEMATOGRAFO Secondo il brevetto dei Lumière, registrato il 13 febbraio 1895, era “un apparecchio utile a catturare e avere visione di esperimenti cronofotografici”. Musée des Arts et Métiers, Parigi.

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TEMPI MODERNI

IL TELEFONO Poco dopo l’invenzione del telegrafo, Antonio Meucci ideò un nuovo strumento capace di trasportare la voce a distanze prima inimmaginabili: il telefono. Ma solo oggi la paternità dell’invenzione gli è stata riconosciuta GIULIA ZANCHI REDATTRICE SCIENTIFICA

MODELLO A MANOVELLA. QUESTA GENERAVA UNA CORRENTE ELETTRICA PERMETTENDO IL CONTATTO CON IL CENTRALINO. 154 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Johann Philipp Reis, che nel 1863 riuscì a trasmettere a una distanza di 100 metri dei suoni musicali; l’inglese David Hughes e l’americano Thomas Alva Edison, che contribuirono al perfezionamento della tecnologia dopo la sua diffusione; e il valdostano Innocenzo Manzetti, pioniere in questo campo, che già a metà dell’Ottocento costruì un apparecchio elettrico (il télégraphe parlant, precursore del telefono) in grado di comunicare a distanza sfruttando il principio dell’induzione magnetica. Nonostante per ragioni storiche la paternità dell’invenzione sia spesso attribuita a Bell, spetta invece a pieno titolo all’italiano Meucci: dopo una controversia durata oltre un secolo, il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto il primato del nostro connazionale l’11 giugno 2002, ben 113 anni dopo la sua morte.

L’inventore sfortunato Nato a Firenze nel 1808, Meucci si distingue per le sue invenzioni ideando un “telefono acustico” mentre lavora come macchinista al Teatro della Pergola, per consentire le comu-

CORBIS / CORDON PRESS

ERICH LESSING / ALBUM

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ensato inizialmente come strumento di intrattenimento, il telefono (o “telegrafo parlante”) fu il frutto del lavoro di diversi studiosi che a partire dalla metà dell’Ottocento contribuirono alla realizzazione di questa nuova tecnologia in grado di trasportare a grandi distanze il suono, e quindi la voce. I suoi protagonisti più noti sono l’italiano Antonio Meucci e lo scozzese-statunitense Alexander Graham Bell, ma non dobbiamo dimenticare l’americano Elisha Gray, collega e concorrente di Bell, che perse la corsa al brevetto per un soffio; il francese Charles Bourseul, che nel 1854 elaborò un sistema per trasmettere la voce umana; il tedesco


TEMPI MODERNI

MEUCCI CON I CIMELI DI GARIBALDI L’inventore del telefono possedeva diversi oggetti appartenuti a Giuseppe Garibaldi (che soggiornò nella sua fabbrica di candele a Staten Island, New York) durante i due anni di permanenza americana. Li lasciò ai suoi eredi, che però non ne colsero il valore.

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TEMPI MODERNI

BELL BREVETTÒ IL SUO APPARECCHIO BRUCIANDO SUL TEMPO GRAY E SCALZANDO ANTONIO MEUCCI OPERAIO SU UN PALO. FOTOGRAFA RISALENTE ALLA FINE DEL XIX SECOLO. AKG / ALBUM

Il sogno infranto Dopo anni prolifici in cui continua a perfezionare il suo sistema di trasmissione della voce, la fortuna volta le spalle a Meucci il quale, a seguito di un incidente, è costretto a interrompere ogni sua attività precipitando in una situazione di gravi ristrettezze economiche. Tuttavia, lo scienziato non abbandona il sogno di concretizzare la sua invenzione: nel 1871 deposita un brevetto provvisorio per 156 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

l’invenzione del telefono, al costo di 10 dollari all’anno. Poi, con 10 dollari prestati dagli amici, riesce a rinnovare il brevetto per un altro anno, dopo di che è costretto a lasciarlo decadere, non potendosi permettere la cifra di 200 dollari per il brevetto definitivo. In grave crisi finanziaria e conscio di non poter continuare a rinnovare il brevetto, Meucci consegna i disegni del teletrofono al vicepresidente dell’American District Telegraph di New York, la stessa società per cui lavoravano come consulenti Alexander Graham Bell e Elisha Gray. È la fine del sogno.

La corsa per il brevetto Nato nel 1847 a Edimburgo, Bell era ancora in fasce all’epoca dei primi esperimenti di Meucci. Divenuto professore di linguaggio per sordomuti, studiò approfonditamente la tecnologia del telegrafo, che tuttavia riteneva lenta e poco efficace per le comunicazioni, e contribuì al suo potenziamento. Come altri studiosi dell’epoca era interessato alla possibilità di trasmettere suoni intelligibili sfruttando la corrente elettrica, per “telegrafare qualunque suono, perfino quello della voce”. Dopo aver studiato il lavoro di Meucci, con l’aiuto del suo assistente Thomas A. Watson riuscì, tra il 1874 e il 1875, a finalizzare un primo apparecchio telefonico per trasmettere elettricamente dei segnali sonori. Il 14 febbraio 1876 Bell presentò all’ufficio brevetti il proprio apparecchio telefonico, anticipando di un soffio il collega Elisha Gray, che depositò il suo modello appena due ore dopo. Fu così che l’invenzione del telefono restò associata per lungo tempo a Bell e ancora oggi, specialmente nel mondo anglosassone, la questione della paternità è controversa. Sebbene l’invenzione del telefono sia giustamente attribuita ad Antonio Meucci, resta il fatto che il contributo di Alexander Graham Bell fu determinante, al pari di quel-

ART ARCHIVE

nicazioni tra il palcoscenico e il personale dietro le quinte. Nel 1935 si trasferisce a Cuba insieme alla moglie Ester, seguendo una compagnia teatrale, e nel 1849 riesce per la prima volta a trasmettere delle parole da una stanza a un’altra nella sua casa all’Avana utilizzando uno strumento elettrico che consisteva in un filo di ferro conduttore collegato a varie pile, teorizzando così la creazione di un sistema di comunicazione telefonica attraverso cavi elettrici. L’anno seguente Meucci si trasferisce a New York, dove sviluppa una fiorente attività imprenditoriale – prima una fabbrica di salsicce, poi una di candele – continuando allo stesso tempo gli esperimenti nelle trasmissioni elettriche e perfezionando il suo apparecchio, il “teletrofono”. La sua casa sull’isoletta di Staten Island, davanti a Manhattan, diviene anche il ritrovo di altri emigrati italiani (tra cui Giuseppe Garibaldi). Nel 1854 Meucci realizza il primo esemplare di telefono, per consentire alla moglie, costretta a letto da una grave infermità, di comunicare dalla sua camera da letto con il suo laboratorio e altre stanze della casa. L’inventore lo descrive con queste parole: “È un diaframma vibrante che altera la corrente di un magnete elettrizzato. Queste variazioni di corrente, trasmettendosi all’altro capo del filo imprimono analoghe vibrazioni al diaframma ricevente, riproducendo la parola”.


TEMPI MODERNI

deviasse le chiamate a un’altra impresa ARRIVANO della concorrenza. Questo lo portò a creasuo popolare collar box. Si trattava di LE CHIAMATE reunilsistema di centraline che permetteva all’utente di chiamare direttamente seAUTOMATICHE gnando dal proprio telefono il numero NEL 1891, ALMON B. STROWGER sviluppò

il primo sistema di comunicazione automatica. Questo impresario di pompe funebri di Kansas City era convinto che l’operatrice della centrale della sua città

dell’abbonato col quale desiderava comunicare. Con ciò risultava non necessario il lavoro delle centraliniste, le hello girls: erano nate le centraline automatiche, chiamate a sostituire le manuali. In seguito, ai modelli migliorati del sistema

di Strowger, la compagnia Western Electric sommò i sistemi rotary (selettore girevole) e crossbar (multiselettore, con aumento della flessibilità). Ma il grande cambiamento nelle centraline automatiche sarebbe arrivato nella seconda metà del Ventesimo secolo, con l’uso del computer, quando la multinazionale ITT creò a Parigi il Pentaconta. CENTRALE TELEFONICA NEL 1890. OPERATORI E TELEFONISTE AVREBBERO PRESTO SMESSO DI ESSERE NECESSARI A CAUSA DELL’IMPIEGO DI SISTEMI AUTOMATICI.

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GRANGER COLLECTION / ART ARCHIVE

TEMPI MODERNI

NUOVI PAESAGGI URBANI Quando le linee telefoniche incominciarono a essere diffuse, i pali divennero parte integrante del paesaggio. Nella foto, la città di Bethlehem (in Pennsylvania), nel 1930.

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li di Elisha Gray e del precursore Manzetti. Nel 1877 nasce la Bell Telephone Company, la prima compagnia telefonica al mondo, da cui avrà origine il colosso americano AT&T. Il 27 novembre 1877 Bell registra il suo brevetto anche in Italia; il 30 dicembre del 1877 a Milano viene effettuata la prima telefonata urbana tra due apparecchi che mettevano in comunicazione una caserma dei pompieri con la stazione tramviaria di Porta Venezia. Il primo vero servizio telefonico nella Penisola italiana avrebbe avuto inizio nel 1881, a Roma: entro la fine dell’anno gli abbonati erano già 900. La prima telefonata transatlantica fu effettuata invece tra le città di New York e Londra, il 7 gennaio 1927. Questa corsa da allora non si è più fermata e ci ha portato dal telegrafo al telefono, fino ad arrivare a Internet e ai moderni sistemi di telecomunicazione di massa.

Nel frattempo, dopo essere stato un imprenditore di successo e un esponente di spicco della comunità italoamericana di New York e nonostante la sua rivoluzionaria invenzione, per una serie di eventi sfortunati che lo coinvolsero, Antonio Meucci era morto povero e dimenticato nel 1889, senza poter assistere alla risoluzione del contenzioso legale per la paternità del telefono che lo aveva visto coinvolto insieme a Bell.

Un riconoscimento tardivo Sebbene il brevetto definitivo del telefono fosse stato registrato da Bell nel 1874, i meriti dell’inventore italiano sono stati riconosciuti dal Congresso degli Stati Uniti nel giugno 2002 grazie a una risoluzione presentata dal deputato italoamericano Vito Fossella. Finalmente, Antonio Meucci è stato proclamato “inventore del telefono”.


TEMPI MODERNI

LA PRIMA CENTRALE TELEFONICA

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A PRIMA LINEA TELEFONICA del mondo fu installata il 4 aprile 1877: collegava il negozio di Charles Williams alla sua casa di Sommerville, in Massachusetts. Da allora, Graham Bell sviluppò a tutta velocità la sua famosa applicazione commerciale. Insieme a Gardiner Greene Hubbard (il suocero dello stesso Bell) e Thomas Sanders, che l’avevano aiutato a finanziare le sue ricerche, fondò la Bell Telephone Company, nucleo della futura impresa AT&T. Prestare servizio agli abbonati richiese di unire i domicili, gli stabilimenti o uffici a un’unica centrale telefonica. New Haven, in Connecticut, fu la prima città nel 1878 ad avere a che fare con una di esse (apriva dalle sei della mattina alle due del pomeriggio) e anche con un tariffario telefonico. Tre anni dopo, la maggior parte delle città statunitensi aveva la propria centrale. Del conglomerato Bell System faceva parte la Western Electric Company, che sarebbe diventata col tempo la proprietaria delle licenze di produzione di Bell e una delle più grandi fornitrici di apparecchi telefonici.

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CONVERSAZIONI PRIVATE. PRIMA CHE L’ELETTRICITÀ FOSSE ABITUALE NELLE CASE, LA MAGGIOR PARTE DEI TELEFONI AVEVA UNA BATTERIA. CENTRALE A BERLINO. IL TELEFONO ARRIVÒ IN GERMANIA IL 5 NOVEMBRE DEL 1877 GRAZIE AL CAPO DELLE POSTE, HEINRICH VON STEPHAN.

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LEEMAGE / PRISMA

IL TRASPORTO DEL FUTURO? Illustrazione che immagina una ferrovia aerea, con propulsione a elica, per la cittĂ di Parigi. Avrebbe servito il tratto tra la Porte de La Chapelle e Saint-Denis. Incisione pubblicata sulla rivista Le Petit Journal, nel 1924.


PER SAPERNE DI PIÙ OPERE GENERALI

MONDO ANTICO

1001 invenzioni che hanno cambiato il mondo. AA.VV. Atlante, 2010.

Il filo d’oro. Storia della scrittura. Ewan Clayton. Bollati Boringhieri, 2014.

Storia della tecnologia. AA.VV. Bollati Boringhieri, 2013.

Il libro delle antiche invenzioni. Peter James, Nick Thorpe. Armenia, 2001.

Storia sociale della conoscenza. Da Gutenberg a Diderot. Peter Burke. Il Mulino, 2002. Breve storia della nuova scienza. William F. Bynum. Salani, 2015. Breve storia delle invenzioni. Trevor Norton. Vallardi, 2015.

Il primo ferro cadde dal cielo. Wilhelm Sandermann. Cappelli Editore, 1978.

MEDIOEVO L’enigma della bussola. L’invenzione che ha cambiato il mondo. Amir D. Aczel. Cortina Raffaello, 2005.

Le 100 grandi invenzioni. Tom Philbin. Hobby & Work, 2008.

Storia del libro. Dall’antichità al XX secolo. Frédéric Barbier. Dedalo, 2004.

Storia della scienza moderna e contemporanea. Paolo Rossi (a cura di). TEA, 2000.

Il libro. Dal papiro a Gutenberg. Bruno Blaselle. EDUCatt Uni. Cattolica, 2009.

Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia. Lucio Russo, Emanuela Santoni. Feltrinelli, 2010.

Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali. Chiara Frugoni. Laterza, 2014.

TEMPI MODERNI Storia del cinema. Un’introduzione. David Bordwell, Kristin Thompson. McGraw-Hill, 2014. Il telescopio di Galileo. Una storia europea. Massimo Bucciantini, Michele Camerota, Franco Giudice. Einaudi, 2012.

ART ARCHIVE

Meucci. L’uomo che ha inventato il telefono. Franco Capelvenere. Vallecchi, 2003.

La rivoluzione industriale. Paul Mantoux Res Gestae, 2015.

La fotografia. Una storia culturale e visuale. Graham Clarke. Einaudi, 2009.

L’invenzione del fotografico. Storia e idee della fotografia dell’Ottocento. Federica Muzzarelli. Einaudi, 2014.

I fratelli Wright. Tom D. Crouch, Peter L. Jakab. White Star, 2004.

Storia della fotografia. Beaumont Newhall. Einaudi, 1984.

Marconi. Il ragazzo del wireless. Giancarlo Delle Donne, Barbara Valotti. Hoepli, 2015. La rivoluzione industriale tra l’Europa e il mondo. Tommaso Detti, Giovanni Gozzini (a cura di). Bruno Mondadori, 2009. Guglielmo Marconi. Genio, storia e modernità. Gabriele Falciasecca, Barbara Valotti. Giorgio Mondadori, 2003. Dai fratelli Wright a Hiroshima. Gianluca Fiocco. Carocci, 2002. MINIATURA DA HOROLOGIUM SAPIENTIAE (1334), DI HEINRICH SUSO.

BIBLIOTÈQUE ROYALE DE BELGIQUE

DEA DELLA FERTILITÀ DEL VI MILLENNIO A.C. DALL’ANATOLIA..

Le ferrovie. Stefano Maggi. Il Mulino, 2013. La storia del volo. Dalle macchine volanti di Leonardo da Vinci alla conquista dello spazio. Riccardo Niccoli. White Star, 2013. Storia sociale dell’automobile in Italia. Federico Paolini. Carocci, 2007. La rivoluzione scientifica. Steven Shapin. Einaudi, 2003. Guglielmo Marconi. Luigi Solari. Odoya, 2011. Storia del cinema. Gianni Rondolino. Einaudi, 2008.


STORICA

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EVA CANTARELLA Professore di Istituzioni di Diritto Romano e di Diritto Greco Antico, Università Statale di Milano; global visiting professor New York University. Autrice di: L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nel mondo greco e romano, Feltrinelli.

PAOLO MATTHIAE Professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico, Università di Roma La Sapienza; direttore della Missione Archeologica Italiana a Ebla; membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Autore di: Ebla, un impero ritrovato, Einaudi.

VITTORIO BEONIO BROCCHIERI Professore di Storia moderna (Università degli Studi della Calabria); membro del collegio della scuola di dottorato Andre Gunder Frank. Autore di: Celti e Germani. L’europa e i suoi antenati Encyclomedia Publishers.

MARINA MONTESANO Professore di Storia medievale, Università di Messina e VitaSalute San Raffaele, Milano; membro fondatore della International Society for Cultural History. Autrice di: Da Figline a Gerusalemme. Viaggio del prete Michele in Egitto e in Terrasanta (1489-1490), Viella.

YULIA PETROSSIAN BOYLE Senior Vice President, ROSS GOLDBERG Vice President, Digital, RACHEL LOVE, Vice President, Book Publishing, CYNTHIA COMBS, ARIEL DEIACO-LOHR, DIANA JAKSIC, JENNIFER LIU, RACHELLE PEREZ COMMUNICATIONS

BETH FOSTER Vice President RESEARCH AND EXPLORATION COMMITTEE

PETER H. RAVEN Chairman JOHN M. FRANCIS Vice Chairman PAUL A. BAKER, KAMALIJIT S. BAWA, COLIN A. CHAPMAN, KEITH CLARKE, J. EMMETT DUFFY, CAROL P. HARDEN, KIRK JOHNSON, JONATHAN B. LOSOS, JOHN O’LOUGHLIN, NAOMI E. PIERCE, JEREMY A. SABLOFF, MONICA L. SMITH, THOMAS B. SMITH, WIRT H. WILLS


125° ANNO

L’opera più attuale e completa sul Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, a cura di National Geographic. Un’occasione unica per visitare i luoghi e i monumenti del patrimonio culturale collettivo che per eventi della natura o per mano dell’uomo purtroppo non è più possibile vedere dal vivo.

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La collezione prevede 30 uscite. Dall’uscita 2 all’uscita 30 un nuovo volume a € 9,99. L’Editore si riserva di modificare la lunghezza dell’Opera nonché di variarne la sequenza. © 2015 RBA ITALIA S.r.l.

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