Senza titolo-1 1
08/06/16 10:29
LE GUERRE MONDIALI
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INDICE INTRODUZIONE
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SCONTRO DI IMPERI Dossier: La società di massa
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LA GRANDE GUERRA
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BORGHESIA E RIVOLUZIONE Dossier: Le avanguardie: una nuova arte
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LA MARCIA VERSO L’ABISSO Dossier: Totalitarismi: leadership e repressione
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LA SECONDA GUERRA MONDIALE
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APPENDICI L’Europa tra le guerre mondiali Cronologia comparata: Europa, America, Asia, Africa e Oceania Statisti (1914-1945) Bibliografia Indice analitico Immagini
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PAGINA 2. Soldati francesi in trincea durante la Prima guerra mondiale. PAGINE 4 E 5. Assalto bolscevico al Palazzo d’Inverno di Pietrogrado nel 1917, in una ricreazione eroica, opera di N.M. Kochergin (Galleria d’Arte Regionale, Celjabinsk). NELLA PAGINA ACCANTO. Raduno nazionalsocialista a Norimberga, concepito come spettacolo a servizio del culto per il Führer, durante il Congresso del NSDAP del 1936.
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INTRODUZIONE
I
l 2 dicembre 1848, Francesco Giuseppe I saliva al trono dell’impero austroungarico. L’elettricità, il motore a scoppio, l’aspirina, il telefono, la fotografia, il cinema, le automobili, gli aerei, i sottomarini, le corazzate, l’Italia, la Germania, il suffragio universale o l’Internazionale Socialista non esistevano quando fu incoronato all’età di diciotto anni. Gli Stati Uniti non avevano conquistato l’Occidente. In Giappone, i samurai indossavano ancora le spade. Gli eserciti sfilavano con le loro uniformi colorate e la cavalleria era ancora un’arma terribile. Lo zar, il sultano ottomano, l’imperatore della Cina e lo stesso sovrano austroungarico erano i rappresentanti di poteri millenari. Quando morì, il 21 novembre 1916, di quel mondo antico non restava assolutamente più nulla. La scienza e la tecnica avevano trasformato la vita di milioni di persone, ma non quella dell’anziano imperatore, che, ancorato a un’epoca ormai svanita, non sopportava le lampadine, né il telefono. E la concorrenza imperialista aveva contribuito allo scoppio della Prima guerra mondiale, una carneficina interminabile diretta dal potenziale industriale degli avversari, che vide come protagonista l’acciaio delle mitragliatrici, i cannoni e i carri armati. Francesco Giuseppe morì durante il conflitto e non riuscì a vedere come, appena un anno dopo, il suo impero si disgregava, insieme a quello russo e all’ottomano, mettendo la parola fine al secolo XIX. La nuova Europa che nacque dalle loro ceneri accumulò recriminazioni nazionaliste e rancori di classe che indebolirono la democrazia liberale e alimentarono i nuovi movimenti di massa: il comunismo, sorto dalla dissoluzione della Russia in guerra, e il fascismo, emerso dalle insoddisfazioni del dopoguerra. La Grande Depressione diede una spinta all’opportunità per questi movimenti di vedere ingrossare le proprie fila, accentuando gli antagonismi sociali, e nel 1933 facilitò l’ascesa al potere del nazismo. Le ambizioni espansionistiche del Terzo Reich, insieme a quelle dell’Italia e del Giappone, furono la scintilla per una Seconda guerra mondiale, conclusasi con la fine della supremazia europea sul pianeta, in cui rimasero a confrontarsi i due veri vincitori del conflitto: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
PAGINE 8 E 9. Il dirigibile tedesco Hindenburg sorvola la città di New York nel maggio del 1937. NELLA PAGINA ACCANTO. Arresto di ebrei durante l’insurrezione del ghetto di Varsavia, nel maggio 1943; l’immagine faceva parte delle
fotografie trasmesse a Heinrich Himmler da Jürgen Stroop, il generale che soffocò la rivolta. L’SS che impugna un’arma è Josef Blösche, giustiziato per crimini di guerra nel 1969.
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ÂŤGUERRA NELLA PACEÂť. Poster
commemorativo delle manovre navali tedesche del 1903; la flotta che la Germania stava allestendo fu il motivo dello scontro con la Gran Bretagna. Nella pagina accanto, la corona imperiale dello zar Nicola II (Museo del Cremlino, Mosca). 12
SCONTRO DI IMPERI All’inizio del secolo XX, la Germania di Guglielmo II tentava di trasformarsi in potenza mondiale. Tali ambizioni diventarono pericolose in un’epoca in cui nasceva la politica di massa e il nazionalismo e l’Europa era divisa in due alleanze che si tenevano testa: la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza. La tensione sarebbe scoppiata nei Balcani, che l’agonia dell’impero ottomano avrebbe trasformato nella polveriera d’Europa.
I
cinquanta milioni di visitatori che, nell’anno 1900, attraversarono le porte dell’Esposizione Universale di Parigi si trovarono di fronte a una sorpresa dietro l’altra. E non soltanto perché poterono ammirare elementi esotici come la ricreazione di una miniera d’oro californiana o di una tomba faraonica. La mostra offriva l’occasione per un’emozionante immersione nella più prepotente modernità segnata da un susseguirsi di innovazioni tecnologiche. Il cinematografo permetteva la visione del volo del primo zeppelin, fiammanti modelli di automobili erano in mostra, così come veniva esibita una locomotiva tedesca in grado di raggiungere l’incredibile velocità di 120 km/h…
Nella sezione militare, rilucenti mitragliatrici, siluri e mezzi corazzati testimoniavano una versione del progresso meno ludica alla quale, alcuni anni dopo, sarebbero stati sacrificati non pochi di quei visitatori della mostra. Soprattutto, però, la vera innovazione di questa esposizione fu la «fata elettricità». Era per essa che funzionavano i telefoni, che si illuminavano i padiglioni; faceva sgorgare l’acqua dalle cascate e da fontane zampillanti sparse per tutto lo spazio espositivo; trasportava tutti quanti fin lì con la ferrovia locale nuova di zecca, la “metro”, e garantiva una comoda passeggiata per la rue de l’Avenir, la via del futuro: un viadotto di tre chilometri e mezzo con due mar13
SCONTRO DI IMPERI
IL MONDO NEI PRIMI ANNI DEL XX SECOLO 1903
Panama. Gli Stati Uniti auspicano l’indipendenza di questo Paese, il cui canale permetterà al loro esercito di essere presente nei due emisferi. 1904
Intesa Cordiale. Di fronte al riarmo navale e all’imperialismo tedesco, la Francia e la Gran Bretagna firmano l’Intesa Cordiale. 1905
Rivoluzione russa e guerra russogiapponese. Fallita democratizzazione dello zarismo e sconfitta russa. 1907
Intesa anglorussa. Il trattato delimita le sfere di influenza della Gran Bretagna e della Russia in Asia. 1911
Seconda crisi marocchina. Nei confronti di Francia e Germania, dopo una prima crisi non del tutto risolta con la Conferenza di Algeciras (1906). 1912-1913
Prima e seconda guerra balcanica. Ritirata ottomana dai Balcani. Creazione dell’Albania. La Serbia è la principale potenza nella regione.
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ciapiedi mobili che trasportavano gli attoniti utenti senza che questi ultimi dovessero camminare. L’esposizione rappresentava la concentrazione di un futuro che ormai era cominciato: mostrava la suggestiva superficie delle enormi trasformazioni che l’economia mondiale stava sperimentando, il cui moto espansionistico stava modificando la struttura della società e delle relazioni internazionali. La prima Rivoluzione industriale era ormai alle spalle. Basata sul carbone e sul vapore come fonti di energia, e sul tessile e il ferro come motori della crescita economica, aveva trasformato la Gran Bretagna in prima potenza economica mondiale. Dalla fine del secolo XIX tuttavia, si assistette al pieno sviluppo di una seconda Rivoluzione industriale, alimentata da petrolio, elettricità, acciaio e chimica organica. A partire da quel momento, e fino al 1914, tali settori segnarono l’economia mondiale con un forte impulso che permise il progresso rapido di Stati Uniti, Germania e Francia: insieme alla Gran Bretagna, giunsero a essere le prime quattro economie industriali mondiali. Il ritmo di crescita britannico era però più lento di quello dei suoi concorrenti che, tra l’altro, la superavano nello sviluppo di settori emergenti e tecnologici. Il risultato fu che la Gran Bretagna cedette la leadership agli Stati Uniti che divennero la prima potenza industriale del mondo. Nel 1913 producevano tanto acciaio come Gran Bretagna, Germania e Francia insieme e la loro produzione di petrolio di quell’anno era pari al 65% del totale mondiale. Al secondo posto si trovava la Germania, che nel 1900 superò la Gran Bretagna nella produzione di acciaio e che nel 1914 produceva quasi il triplo di energia elettrica: il 30% della produzione mondiale di elettricità era di origine tedesca. La Germania, in aggiunta, disponeva della prima industria chimica del mondo. La Gran Bretagna era stata relegata al terzo posto del podio delle potenze industriali, seguita dalla Francia. Non si erano alterate, tuttavia, soltanto le posizioni all’interno dell’esiguo gruppo dei Paesi che rappresentavano l’economia mondiale, ma fu anche ampliata la geografia dell’industrializzazione. In Europa, l’Italia fece i primi passi e spuntò una Russia fino a quel momento in letargo, mentre in Asia si assisteva all’inarrestabile ascesa del Giappone, unico Paese non occidentale che nella prima metà del XX secolo sarebbe stato in grado di misurarsi con le grandi potenze del momento, e non soltanto in termini economici.
Borghesi e proletari Si può capire come, alla vigilia della Grande Guerra, molti Europei pensassero che il mondo non potesse stare meglio. L’eccezionale espan-
Gli Stati Uniti, la nuova terra promessa Nel 1900, il nostro pianeta ospitava circa 1.650 milioni di abitanti: 133 vivevano in Africa; 947 in Asia, 156 in America e 408 in Europa. Nel Vecchio Continente, che occupa solo il 7% della superficie terrestre, viveva un quarto della popolazione mondiale. Nel 1914, i suoi abitanti giunsero a 450 milioni, nonostante l’emigrazione verso altri continenti. Le regioni agricole povere dell’Europa, come il Mezzogiorno italiano, l’Irlanda, la Galizia austriaca e l’Ucraina, a quel tempo russa, contribuirono al grave fenomeno migratorio con la maggior quantità di emigrati: oltre cinque milioni di Italiani lasciarono i propri Paesi nativi tra il 1900 e il 1920. Mete degli espatriati erano le “nuove Europe”, al culmine della popolarità, come Australia, America Latina, Canada e, soprattutto, gli Stati Uniti, la terra promessa del XX secolo. La spinta industriale e la colonizzazione dell’Ovest attrassero in quei luoghi più di 23 milioni di emigrati tra il 1880 e il 1921; soltanto nel 1907 ve ne giunsero 1,2 milioni. La gran parte entrava nel Paese passando da New York. Da qui, venivano raccolti su Ellis Island (nella foto), dove erano visitati e respinti qualora si fossero riscontrate malattie quali idiozia o tracoma.
sione industriale elargiva lavoro e ricchezze ovunque, mentre le innovazioni scientifiche e tecnologiche allungavano la vita e la rendevano più confortevole nel Vecchio Continente, dove le grandi potenze non avevano combattuto una guerra dai tempi del conflitto franco-prussiano, quaranta anni prima. Tutto sembrava propendere verso l’ottimismo di una borghesia soddisfatta e in ascesa. Così rammentava anche lo scrittore austriaco Stefan Zweig in Il mondo di ieri, impareggiabile ritratto della società prima del 1914: «Si guardava con disprezzo alle epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero stati tempi in cui l’umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un “progresso” ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell’età la forza di una religione; si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della scienza e della tecnica».
La fede nel progresso non era soltanto patrimonio della borghesia. Alimentava anche i movimenti di emancipazione dei lavoratori. Secondo Karl Marx (morto nel 1883), l’avvento del socialismo era il risultato inevitabile delle contraddizioni del capitalismo: il potere economico si concentrava nelle mani di un numero sempre più ridotto di persone, mentre la classe operaia non cessava di crescere fino a quando, alla fine, avrebbe superato la borghesia e instaurato la dittatura del proletariato, ultimo passo verso il socialismo. Nel Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) e nella Seconda Internazionale – per la cui fondazione, nel 1899, l’SPD aveva svolto un ruolo fondamentale – si erano imposte le tesi di dirigenti come Wilhelm Liebknecht, August Bebel e Karl Kautsky: il proletariato doveva organizzarsi in un partito che avrebbe guidato la lotta politica nelle istituzioni parlamentari borghesi, fino all’avanzata del socialismo, e avrebbe nel futuro capeggiato la posteriore costruzione della società socialista. Nel frattempo, la rivoluzione veniva rinviata. Fu questo il modello del socialismo in Austria, ispirato da
Victor Adler; in Italia, da Filippo Turati; in Spagna, portato avanti dal PSOE di Pablo Iglesias. Infine, tale modello si ripeté anche in Francia, dove le correnti marxiste ortodosse e riformiste guidate da Jules Guesde e Jean Jaurès si unificarono nell’anno 1905, nella Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (SFIO). Tutti questi gruppi marxisti, come la stessa Internazionale, si pronunciarono contro il revisionismo, il cui teorico di maggior rilevanza fu il tedesco Eduard Bernstein, che proponeva di mettere da parte in maniera definitiva la rivoluzione a beneficio della riforma del capitalismo dal suo interno, con la collaborazione delle forze radicali della borghesia. La divisione tra le tendenze ortodosse e quelle riformiste del socialismo fu evidente in Russia, dove, nel 1903, il Partito Operaio Socialdemocratico di Russia (POSR) si divise in due correnti: la principale, dei bolscevichi, rivoluzionaria e centralizzata, guidata da Lenin, e la minore, dei menscevichi, sostenitrice di una democrazia borghese come fase precedente all’instaurazione del socialismo.
LA STATUA DELLA LIBERTÀ. Eretta nel 1886
di fronte al porto di New York, su di un isolotto vicino a Ellis Island,«La libertà che illumina il mondo» era la prima immagine dell’America negli occhi di molti emigrati.
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SCONTRO DI IMPERI
Colpevole o innocente? L’affare Dreyfus divide la Francia Nel 1894, il capitano francese Alfred Dreyfus, di origine ebrea, venne condannato da un tribunale militare in quanto presunto autore di una nota anonima che forniva informazioni militari alla Germania. In realtà, la lettera era stata scritta da un ufficiale di origine ungherese, che però venne assolto nel 1898, in un processo manipolato dai vertici dell’esercito. Il romanziere Émile Zola pubblicò allora il celebre articolo J’accuse (“Io accuso”), in cui chiedeva la revisione del processo Dreyfus e la Francia si divise in due. Da una parte militava la destra monarchica, nazionalista, cattolica, dal feroce antisemitismo, come quello rappresentato da Édouard Drumont e il suo giornale La libre parole. L’altra parte raccoglieva i repubblicani radicali come Georges Clemenceau o Pierre Waldeck-Rousseau, socialisti come Jean Jaurès e personalità come lo stesso Zola, Anatole France e Marcel Proust. Il caso Dreyfus era stato trasformato in un affare politico. Secondo le parole dello scrittore antisemita Maurice Barrès, «non ci sono che due partiti, l’uno di fronte all’altro: quelli che gridano “Abbasso la patria!” e quelli che urlano “Viva l’esercito!”». Fu in quell’occasione che si utilizzò per la prima volta il termine “intellettuale”, con il quale si definivano scrittori e professori sostenitori di una revisione del processo Dreyfus. L’ufficiale venne riabilitato nel 1906, dopo che quel controverso caso ebbe favorito la vittoria elettorale di radicali e socialisti nel 1902. A sinistra, Dreyfus “il traditore!” in una caricatura dell’epoca.
Davanti al socialismo marxista sorgevano altri modelli di azione della classe operaia. In Gran Bretagna, essa si era unita intorno alle Trade Unions, sindacati i cui membri votavano il Partito Liberale (i precedenti whigs) per promuovere riforme a favore dei lavoratori; il socialismo britannico era mosso dal pragmatismo, e non dalla lotta di classe. All’estremo opposto si trovavano i difensori dell’“azione diretta” e dello sciopero generale come formula per ribaltare l’ordine borghese, secondo la teoria postulata da Georges Sorel nelle sue influenti Considerazioni sulla violenza (1906). Tali idee costituivano la base del sindacalismo rivoluzionario. In Francia, questa corrente si saldò nella Confederazione Generale del Lavoro (CGT), che influì prepotentemente nell’anarcosindacalsmo spagnolo, organizzatosi a partire dal 1911 nella Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT). Prima della Grande Guerra, quindi, la gamma dei movimenti operai era ampia e diversificata. Tra tutti, il socialismo marxista era diventato la forza più importante d’Europa. Rese le masse pro16
tagoniste della vita politica e la sua spinta fu decisiva per l’ascesa della democrazia. Di fronte alle sue rivendicazioni di giustizia sociale e all’internazionalismo proletario – che propugnava l’unione delle forze lavoratrici di tutti i Paesi contro il capitalismo – erano sorte però anche altre correnti: la più importante di tutte era il nazionalismo.
Razzismo, antisemitismo I trent’anni che precedettero la Prima guerra mondiale furono testimoni di una crescita talmente vitale del nazionalismo che alcuni storici giunsero a considerarlo come la causa principale del conflitto. Predominò un nazionalismo dai tratti aggressivi, autoritari e xenofobi, alimentato dai contenziosi territoriali tra i vari Stati, dalle frizioni generate dall’espansione industriale e imperialista e dal timore di alcuni gruppi sociali nei confronti del progresso dell’economia capitalista e delle politiche di massa. Tale nazionalismo trovò terreno fertile in un’epoca in cui l’ascesa del socialismo internazionalista aveva lasciato la bandiera del patriottismo nelle mani della destra. In Francia, la sconfitta del 1871 per mano della Prussia aveva consolidato un desiderio di vendetta in politici come il lorenese Raymond Poincaré, primo ministro nel 1912 e presidente della repubblica nel 1913. Questo nazionalismo antitedesco conviveva con il nazionalismo antidemocratico di intellettuali come Maurice Barrès o Charles Maurras, caratterizzato dal tradizionalismo e da un antisemitismo che si era largamente diffuso con il caso Dreyfus, controverso processo politico a un militare ebreo accusato ingiustamente di spionaggio a favore della Germania, che divise la Francia tra il 1894 e il 1906. Dall’altra parte della frontiera, nell’impero tedesco, il reich, il kaiser Guglielmo II pretendeva «un luogo al sole» per una Germania che era ormai la seconda potenza industriale del mondo. La sua aspirazione si trasformò in una vocazione imperialista frustrata più volte dai Britannici e dai Francesi, che spronò a un nazionalismo militarista ed espansionistico come quello della Lega Pangermanica (Alldeutscher Verband, fondata nel 1891), che voleva unire in un grande impero tutte le popolazioni di presunta stirpe germanica, dalla regione della Champagne francese fino all’Ucraina. Una tale idea andava ben oltre il progetto della Großdeutschland, ossia la rivendicazione di una Grande Germania formata dall’unione di Germania e Austria. Il nazionalismo rappresentato dalla Lega era impregnato di ideologia razzista: le sue aspirazioni non erano più giustificate da criteri territoriali o linguistici, bensì etnici. Si volevano unire tutti gli appartenenti di una “razza” all’interno di uno stesso territorio, ideale che trovava
GUGLIELMO II A BERLINO, 1904.
Fotografia dell’imperatore a Königsplatz nella capitale tedesca, durante l’inaugurazione del monumento ad Albrecht von Roon. Questo militare era stato l’artefice di una riforma dell’esercito prussiano che nel decennio del 1860 lo rese il migliore del continente. I successi nei confronti dell’Austria-Ungheria e della Francia permisero al cancelliere Bismark di costituire l’impero tedesco, nel 1871, con Guglielmo I come sovrano. Il nipote dell’imperatore, Guglielmo II, voleva esercitare il potere senza ostacoli da parte di Bismarck, che di fatto governava come un dittatore, per cui ne forzò le dimissioni. Ma a Guglielmo mancava l’abilità diplomatica del cancelliere, e la sua aggressiva politica estera (la Weltpolitik) contribuì a scatenare la Grande Guerra europea.
riscontro nell’equivalente panslavismo della Grande Serbia, che contribuì a scatenare la Prima guerra mondiale, così come nella Megali Idea, il Grande Ideale che aspirava a una Grande Grecia con capitale Istanbul, l’antica Costantinopoli bizantina, greca e ortodossa, o nella Panturania, che voleva annettere all’impero ottomano tutte le popolazioni turche dell’Asia e pretendeva l’assimilazione forzata alla sua cultura delle popolazioni slave, greche e armene. Il nazionalismo etnico, con il suo corollario di sottomissione delle minoranze (come gli Slavi, nel caso della Lega Pangermanica) era tipico di un’epoca caratterizzata dall’esplosione di teorie razziste e dall’adesione al darwinismo sociale. Questo prevedeva una società regolata dalla teoria biologica della selezione naturale, formulata da Charles Darwin nel 1859, e considerava l’esistenza di individui, classi sociali, nazioni e razze come una lotta in cui sopravvivono e trionfano i più idonei. Queste tesi legittimavano l’opposizione al socialismo, dato che sostenevano che la concorrenza sociale ed economica fosse utile per-
ché favoriva i più capaci. Avvallavano il razzismo e l’imperialismo cosicché, per esempio, la missione civilizzatrice attribuita agli Anglosassoni (giustificazione per l’imperialismo britannico e statunitense) era una manifestazione della supremazia intellettuale e spirituale delle razze nordiche. Creavano, inoltre, quella parvenza di verità scientifica all’antisemitismo, sostenuta da libri come Fondamenti del secolo XIX (1899) in cui il britannico Houston Stewart Chamberlain interpretava la storia in funzione della superiorità della razza ariana. Il suo pensiero, precursore diretto del nazismo, fu costruito sul razzismo e sui presupposti della teoria del darwinismo sociale: presenta la storia come lotta tra razze in cui gli Ariani, creatori di civiltà, si scontrano con i Semiti, distruttori di civiltà. Nell’Europa centrale e orientale, l’antisemitismo non aveva bisogno di presupposti scientifici per fiorire. L’ascesa distruttiva del capitalismo in quell’area, che proletarizzava contadini, artigiani e bottegai, convertì il giudeo, identificato con il banchiere e il mutuante, nel simbolo del nuovo e 17
SCONTRO DI IMPERI
Una patria in Palestina: la nascita del sionismo Il nazionalismo degli albori del secolo XX si manifestò in maniera singolare nel sionismo (di Sion, Gerusalemme), che promosse la creazione di uno Stato ebraico. Elementi scatenanti furono i pogrom del 1881 e del 1882 in Russia dopo l’assassinio di Alessandro II, per cui vennero colpevolizzati gli Ebrei. La persecuzione in Russia costrinse gli studenti ebrei a fondare i gruppi Hovevei Zion e Bilu, che favorirono la prima aliá o emigrazione ebrea in Palestina. Il movimento acquisì un forte impulso dopo che il giornalista ebreo austro-ungarico Theodor Herzl, che aveva assistito al processo Dreyfus a Parigi, pubblicò nel 1896 Lo Stato ebraico. Quest’opera che, all’aumento dell’antisemitismo in Europa, proponeva la creazione di uno Stato ebraico indipendente, promosse i congressi sionisti, la creazione dell’Organizzazione sionista mondiale (1897) e un fondo per l’acquisto di terre in Palestina (1901), a quel tempo sotto dominio ottomano, dove si sarebbe fondato il nuovo Stato. Nel 1903, un pogrom a Kishinev (oggi in Moldavia) venne diffuso dalla stampa di tutto il mondo e costrinse il governo britannico a offrire a Herzl parte dell’Africa orientale britannica. Il VII Congresso Sionista del 1905, tuttavia, risultò incline a rifiutare qualsiasi alternativa alla Palestina, dove la nuova aliá che seguì le aggressioni in Russia (nel 1905 ci fu un altro pogrom a Kishinev) alimentò la presenza ebraica di circa 20.000 persone nel 1880 fino a tra 60.000 e 85.000 nel 1914. Il sionismo ricevette il sostegno della comunità internazionale con la Dichiarazione Balfour del 1917, con la quale il governo britannico vedeva con favore la creazione «di una nazione per il popolo ebraico» in Palestina; fu questo il punto di partenza per il futuro Stato d’Israele.
ANNUNCIO IN DIE WELT (IL MONDO) DEL X CONGRESSO SIONISTA.
Die Welt fu il settimanale viennese fondato da Herzl per divulgare le sue idee. I congressi sionisti furono decisivi per trasformare il sionismo in un movimento di massa con radici in Europa e America.
sovvertitore ordine economico. Non deve parer strano che il socialdemocratico Bebel abbia definito l’antisemitismo come “il socialismo degli idioti”. L’antisemitismo divenne un’importante arma politica quando fu parte del patrimonio ideologico dei movimenti politici della classe media, come il partito sociale cristiano di Karl Lueger, che dominò la città di Vienna tra il 1897 e il 1910. La retorica antisemita di Lueger esercitò un profondo influsso sul giovane Adolf Hitler, che tra il 1908 e il 1913 visse a Vienna, dopo esservisi trasferito dalla cittadina provinciale di Linz. Nella capitale, con un 15% di popolazione ebrea, entrò in contatto con le teorie antisemite: «Una volta, camminando per i quartieri del centro, mi imbattei in un uomo con un lungo caftano, dai capelli ricci e neri – scrive in Mein Kampf (La mia battaglia) – Sarà un giudeo? Fu il mio primo pensiero. Gli Ebrei a Linz non avevano di sicuro quell’aspetto. Osservai l’uomo in maniera discreta e man mano che notavo la sua strana fisionomia, studiandola nei dettagli, venne palesandosi nella mia mente una seconda domanda. Sarà 18
per caso anche tedesco?». In terra germanica, quindi, antisemitismo, nazionalismo e razzismo cominciavano a formare una pericolosa combinazione. Tra le varie manifestazioni, va ricordata l’ascesa del movimento völkisch – mix di populismo e folklore – che considerava i Tedeschi come una comunità razziale e al contempo spirituale, con radici nel passato dei clan germanici, a cui aderirono e in cui militarono molte organizzazioni che costituirono la base del nazismo. Il nazionalismo esclusorio non fu l’unico in Europa. Ci fu un altro nazionalismo di tipo rivendicativo che propendeva per la modernizzazione di strutture statali anchilosate. Come il caso irlandese, che generò una gravissima crisi politica in Gran Bretagna, quando il Partito Liberale concesse un autogoverno limitato (Home Rule) all’Irlanda. In Spagna, il nuovo secolo vide l’irruzione del baschismo di Sabino Arana e del catalanismo che sarebbe stato decisivo nel dare il colpo di grazia al fallace sistema politico della Restaurazione. E nell’impero austro-ungarico, le richieste dei Cechi, scontratisi con i Tedeschi, furono una
delle cause dell’adozione del suffragio universale nel 1907, con cui si voleva portare in Parlamento partiti non nazionalistici, fossero essi cattolici o socialisti, che rompessero la dinamica dello scontro tra i blocchi nazionali.
L’avanzata della democrazia Il successo economico e il prestigio internazionale dei Paesi occidentali sembravano andare di pari passo con i sistemi parlamentari, fino al punto in cui, nel 1889, il Giappone dell’epoca Meiji, lanciatosi in un profondo processo di modernizzazione, conferì al millenario governo imperiale la facciata di una monarchia parlamentare. Fu così accettato in seno alla comunità internazionale. Nel 1905, la sua sconcertante vittoria militare sulla Russia, in cui lo zar si rifiutava di accettare una benché minima parvenza di governo costituzionale, parve confermare che la monarchia assoluta, oltre ad essere una vera antichità, era anche un freno al progresso. Persino il vecchio impero ottomano sperimentò nel 1908 una rivoluzione che introdusse il parlamentarismo.
In Europa, i regimi parlamentari vivevano cambiamenti significativi. Per prima cosa, la pressione delle masse forzò l’apertura democratica: il diritto al suffragio universale diventò un vantaggio per strati sempre più ampi della popolazione, nel momento in cui si estendevano le libertà di stampa e di associazionismo. Contribuì anche l’azione del socialismo e il nuovo ruolo svolto dalle classi medie in espansione: professionisti liberali, commercianti e piccoli proprietari, che sostennero i movimenti radicali come il Partito Repubblicano, Radicale e Radical-Socialista in Francia, l’ala sinistra del Partito Liberale inglese o il Partito Radicale Italiano. Questi movimenti, con orientamento laico e programmi moderni, furono decisivi nell’allargamento dei diritti sociali (con il riconoscimento dello sciopero), nell’intervento dello Stato in materia sociale (con l’espansione dell’istruzione primaria, la creazione di una cassa malattie e di pensione di vecchiaia, oltre al sussidio di disoccupazione) e nelle riforme fiscali necessarie per finanziare queste nuove funzioni dello Stato.
«BASTA CON LA REPRESSIONE CRUDELE DEGLI EBREI!». In questa
caricatura, Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, esorta lo zar di Russia, Nicola II, a farla finita con le persecuzione degli ebrei nel suo regno, in seguito al pogrom di Kishinev nell’aprile 1903. Tre giorni di attacchi significarono quasi 50 morti e 600 feriti, oltre a più di 700 abitazioni distrutte.
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HOLLYWOOD, LA FABBRICA DEI SOGNI AMERICANA
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rima della Grande Guerra, la casa francese Pathé dominava l’industria cinematografica: nel 1908 produceva dal 30% al 50% dei film proiettati nei nickelodeon statunitensi. Alla fine del conflitto, il cinema era americano: per ogni 5.000 metri di pellicola francese proiettata in Francia ce ne erano circa 25.000 di film importati, soprattutto dagli Stati Uniti che nel 1914 si erano già accaparrati il 60% del mercato anglosassone. In buona parte, lo si doveva alla forza dello star system nordamericano, che trasformava gli attori in prototipi comuni: dell’eroe (Douglas Fairbanks), del latin lover (Rodolfo Valentino), dell’ingenua (Mary Pickford) o del vagabondo (Charles Chaplin). In loro si identificava con facilità tutta una classe di lavoratori mediobassa, che trovò nel cinema la sua principale forma di intrattenimento grazie ai biglietti disponibili a poco prezzo. Lo star system era nelle mani di grandi produttori (le majors) radicati a Hollywood, in cui il sole della California garantiva la luce per girare e che fu fondata tra il 1912 e il 1920 da ebrei emigrati dall’Europa. A destra, Chaplin in Il monello (1921).
EMBLEMA DELLA 20TH CENTURY FOX. Fondata nel
1915 da William Fox, nato in Ungheria da famiglia ebrea, fu una delle major di Hollywood. 20
DIRE TUTTO SENZA L’USO DELLE PAROLE: IL NUOVO LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO Il cinema muto insegnò a prescindere dal dialogo e a usare il montaggio anziché le parole per trasmettere le informazioni attraverso il susseguirsi delle immagini. La nuova arte definì il linguaggio cinematografico, codificato da due registi straordinari. Uno, lo statunitense David W. Griffith, consacrò il primo piano, il montaggio alternato, il flashback e la profondità di campo in Nascita di una nazione (1915), film esaltatore di un Sud confederato, con protagonista Lilian Gish (in alto, nel film). L’altro, il sovietico Sergej M. Ejzenštejn, trasformò La corazzata Potëmkin (1925), che glorificava la Rivoluzione del 1905, nel repertorio più innovatore di montaggio cinematografico: combinava un realismo quasi documentaristico con il simbolismo di oggetti, ombre e sguardi, al fine di creare un dramma collettivo (di marinai, soldati, del popolo,...), lontano dalle sequenze narrative di Hollywood e dalle grandi stelle.
LOCANDINA DI LA CORAZZATA POTËMKIN (1925). In questo film
Ejzenštejn ricreò l’ammutinamento del giugno del 1905 in cui i marinai di quella nave russa insorsero contro i maltrattamenti inferti loro dagli ufficiali.
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SCONTRO DI IMPERI
Tra riforma e rivoluzione: i socialdemocratici tedeschi Nelle elezioni del febbraio 1890 al Reichstag, il Partito Socialdemocratico Tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) che era appena uscito dalla clandestinità a cui era stato relegato dal cancelliere Bismarck, ottenne poco più di 1.400.000 voti, il 19,7% dei suffragi.
Dal 1890, lo SPD tedesco non smise di crescere. Nei comizi del 1912 raccolse 4.250.000 voti, il 34,8% del totale, e diventò la principale forza politica del Reichstag. A quel tempo contava 1.700.000 militanti e pubblicava più di 90 giornali che facevano parte di un’ampia macchina politica e sociale. Essa includeva inoltre dai sindacati (nel 1914 era socialista quasi l’85% degli appartenenti ai sindacati tedeschi) alle cooperative e alle associazioni culturali come la Freie Volksbühne, il teatro popolare di Berlino, che nel 1913 aveva 70.000 membri. Divenuto il partito popolare più importante in Europa, lo SPD sosteneva che la rivoluzione era il suo obiettivo principale, concetto in contraddizione con una pratica politica riformista, a cui contribuì l’enorme burocrazia del partito. Le entrate del funzionario medio dell’SPD erano di circa 3.000 marchi, il doppio di quelle del salario medio tedesco; nelle elezioni del 1912, 55 candidati erano giornalisti che lavoravano nella stampa socialista. Tali burocrati dell’SPD e molti lavoratori qualificati non erano disponibili a rischiare il proprio benessere per la causa della rivoluzione. Il partito, quindi, era dominato da una maggioranza riformista, che scendeva a patti con lo Stato e il sistema capitalista. Contro di essa, e sotto l’influsso della Rivoluzione russa del 1905, si cristallizzò una tendenza rivoluzionaria rappresentata da leader come Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht, Clara Zetkin e Franz Mehring, che si rifiutarono di votare i crediti di guerra nel 1914 e costituirono l’embrione del Partito Comunista Tedesco. Nella foto, Clara Zetkin (a sinistra) con Rosa Luxemburg a braccetto.
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L’irruzione di nuovi protagonisti, come socialisti e radicali, fu accompagnata da una metamorfosi nelle modalità di partecipazione. I partiti dei notabili, strutturati intorno ad alcune personalità, vennero sostituiti dai partiti delle masse, come quello dei radicali francesi o dall’SPD tedesco. Questa ascesa apparentemente incontenibile delle masse, che sembrava conquistare tutti i campi un tempo riservati alle élite, dalla politica alla cultura, suscitava le obiezioni di numerosi intellettuali. Il medico francese Gustave Le Bon, nella sua influente opera Psicologia delle folle (1895) considerava come caratteristica fondamentale delle società a lui contemporanee «l’assunzione delle classi popolari alla vita politica, la loro progressiva trasformazione in classi dirigenti» e affermava che: «Il diritto divino delle folle sostituisce il diritto divino dei re. […] Le civiltà sono state, fin qui, create e guidate da una piccola aristocrazia intellettuale, mai dalle folle. Queste non hanno che la forza di distruggere». Ciò non era così strano, dato che, secondo il già citato psicologo sociale francese, le masse erano «poco atte al ragionamento». La paura della democrazia e del conseguente dominio delle folle minacciose descritte da Le Bon portò le classi dirigenti a erigere barriere per evitare che l’estensione del suffragio alterasse la politica e l’ordine sociale. E lo si faceva ricorrendo a varie modalità. C’erano camere alte, come quelle dei Lord in Gran Bretagna, che frenavano le iniziative delle camere basse elette da un suffragio più o meno ampio. I sistemi elettorali potevano far prevalere alcuni elettori a scapito di altri: nel caso del Landtag, il Parlamento della Prussia, gli elettori erano raggruppati in tre classi, secondo le imposte versate da ogni contribuente, di modo che nell’anno 1908 furono necessari 60.000 voti per eleggere sei socialisti, e solo 418.000 per 212 deputati conservatori. Il voto era vincolato all’età minima, che poteva essere di trent’anni, come in Danimarca, o al possesso di un diploma di istruzione superiore, come in Belgio. Oppure si ricorreva al broglio puro e semplice, come quello orchestrato dai notabili nella Spagna della Restaurazione.
Le grandi potenze La Francia era lo Stato in cui maggiormente si notava il progresso della democrazia. Alla fine del secolo XIX, la Terza Repubblica era stata sul bordo dell’abisso a causa del tentativo golpista del generale Boulanger (1889) e del caso Dreyfus, che favorì l’agitazione di quei membri antirepubblicani monarchici, di destra, nazionalisti e antisemiti, sostenuti dalla Chiesa e dall’esercito. In campo opposto, la sinistra repubblicana si consolidò intorno al governo di Waldeck Rousseau (1899), con la presenza di radicali, che furono l’asse della politica francese
fino al 1940, e di socialisti, un’unione che trionfò nelle elezioni del 1902 e proseguì verso una Repubblica democratica a carattere sempre più laico, in cui varie leggi ridussero i poteri della Chiesa e le strapparono il controllo dell’istruzione scolastica. Tra il 1908 e il 1910, però, i dissensi riguardanti la questione sociale e la politica militare e colonialistica ruppero la coalizione di sinistra e resero più complicata la creazione di una maggioranza parlamentare. La nuova SFIO (Sezione Francese dell’Internazionale Operaia) si oppose all’intervento militare in Marocco e all’allungamento del servizio militare a tre anni (che avrebbe dovuto avere lo scopo di rafforzare il potere militare francese di fronte alla Germania). Il pacifismo valse alla SFIO un milione di voti nel 1910 tanto da diventare poi il secondo partito politico della Francia nel 1914: ciò, però, attrasse l’odio dei nazionalisti fanatici come l’omicida del leader socialista e pacifista Jean Jaurès, ucciso a luglio di quello stesso anno. Sorsero anche tensioni tra socialisti e radicali a causa degli scioperi degli anni 1904-1907, fortemente voluti dai sindacalisti rivo-
luzionari della CGT ma repressi in maniera violenta dal radicale Georges Clemenceau, ministro degli Interni e in seguito capo del governo. Nel 1914, il Reich era il colosso economico europeo e il suo esercito era il più potente del continente. Sotto il dominio della Prussia e del suo sovrano, il kaiser Guglielmo II, l’impero tedesco comprendeva quattro regni, sei granducati, cinque ducati, sette principati, tre città libere e il territorio dell’Alsazia e Lorena, strappato alla Francia nel 1871. Tutte queste regioni erano rappresentate proporzionalmente dai 58 deputati del Bundesrat o Consiglio Federale, la camera alta: dei 58 la Prussia ne aveva 17, numero che le permetteva di porre il veto a qualsiasi riforma costituzionale che richiedesse la maggioranza dei tre quarti. Il peso politico della Prussia era giustificato: era prussiano il 65% della superficie del Reich e oltre il 60% della sua popolazione, così come le regioni industriali del bacino della Ruhr, della Saar e l’Alta Slesia. L’imperatore nominava il cancelliere, che rispondeva soltanto al sovrano ed esercitava un’autorità incontestata sia in Prussia che in tutto l’im-
FRANCESCO GIUSEPPE I A PENZIG, 1914.
Il sovrano dell’impero austro-ungarico in una fotografia del 1914 alla stazione viennese di Penzig, utilizzata dalla famiglia imperiale per la vicinanza con la residenza reale di Schönbrunn. Quando la Grande Guerra scoppiò, il sovrano aveva ottantaquattro anni, e regnava da sessantacinque anni su di un vasto impero, nel cui esercito erano presenti le undici lingue delle minoranze nazionali che convivevano sui suoi territori.
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SCONTRO DI IMPERI
La suddivisione del mondo: un pianeta in mano alle potenze europee La Conferenza di Berlino (1884-1885), nella quale le potenze europee organizzarono la suddivisione del continente africano in nome del “libero commercio e dei diritti civili”, fu una pietra miliare decisiva dell’imperialismo, ossia, nell’occupazione e nello sfruttamento sistematico dei territori d’oltremare. L’imperialismo fu soprattutto una questione europea. La Gran Bretagna aveva il primato: il suo impero comprendeva il 20% della superficie terrestre (31,4 milioni di km2) e una percentuale simile di abitanti del pianeta (367,3 milioni); era seguita dalla Francia, con 10,98 milioni di km2 e 50,1 milioni di abitanti e, molto più in basso, dalla Germania (2,3 milioni di km2 popolati da 11,9 milioni di persone). Bernhard Dernburg, segretario di Stato tedesco per le colonie nel 1907, espresse così il punto di vista dei colonizzatori: «La colonizzazione deve comprendere lo sfruttamento del suolo, dei suoi tesori, della flora e della fauna e, soprattutto, dei suoi uomini, a favore della nazione colonizzatrice. In cambio, quest’ultima si impegna a offrire la propria cultura, che è superiore, i suoi principi morali e i suoi metodi, anch’essi migliori». Tale ideologia superiore non impedì, per esempio, che si sottomettesse ai lavori forzati la popolazione del Congo (colonia 73 volte più grande della sua madrepatria) per sfruttare il caucciù e l’avorio o per costruire linee ferroviarie. Come non impedì nemmeno che, nel 1904, la ribellione degli Herero in Namibia, a quel tempo sotto dominio tedesco, terminasse con il primo genocidio del XX secolo. A destra, guerrieri herero attaccano le truppe tedesche a Organjira, secondo una litografia del tempo (Biblioteca delle Arti Decorative, Parigi).
pero, cosicché le funzioni costituzionali limitate del Reichstag, la camera bassa dell’impero, non riuscivano nemmeno ad avere il controllo sulle finanze. Una tale situazione permise al kaiser di portare avanti il suo sogno in piena libertà: assegnare alla Germania il ruolo internazionale che le competeva, degno della sua potenza economica. Era quindi necessario competere con la Gran Bretagna, la padrona dei mari, e tale compito fu affidato all’ammiraglio Alfred von Tirpitz, il quale avviò la creazione di un’imponente flotta (1898), con l’obiettivo dello scontro con il Regno Unito. Questa Weltpolitik (politica mondiale) basata su aspirazioni coloniali entusiasmò l’opinione pubblica che si sentiva circondata dai nemici della Germania: Francia, Gran Bretagna e Russia. Il nazionalismo incarnato nel sovrano, inoltre, agì come contrappeso davanti all’avanzata dell’SPD, rappresentante di una classe operaia le cui aspirazioni politiche erano volte a frenare il reazionario kaiser, l’aristocrazia terriera (i Junker) e i magnati dell’industria. Nelle elezioni del 1912, i socialdemocratici erano diventati la principale forza politica del Rei24
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chstag con il raggiungimento di un terzo dei voti (4.250.000), ma questo non voleva dire che avessero acquisito un ruolo politico. Si palesava lo scontro tra la corona e il parlamento, che però passò in secondo piano con lo scoppio della Grande Guerra. In quanto all’impero austro-ungarico, si reggeva sulla figura dell’imperatore Francesco Giuseppe I che occupava il trono fin dal 1848. La sua figura personificava la continuità della monarchia dualistica, uno Stato diviso tra territorio austriaco (Cisleitania) e quello ungherese (Transleitania), che avevano in comune soltanto il sovrano e i Ministeri di Guerra, Finanza e degli Esterni. Una tale fragile unione era minacciata dall’esplosione del nazionalismo slavo, con il focolaio della Boemia a nord e della Serbia ansiosa di espandersi, a sud-est. L’idea di una Grande Serbia che unisse tutti gli Slavi degli antichi territori ottomani significava una minaccia diretta per l’Austria-Ungheria, in cui il progetto di un attacco preventivo contro gli assillanti Serbi fu sempre incombente nei circoli di potere tanto che, alla fine, contribuì allo scoppio della Prima guerra mondiale.
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MAR G L AC I A L E
Capo Nord
A RT I C O
Groenlandia Islanda
Svezia Norvegia
Canada
Regno Unito Danimarca Paesi Bassi Germania Belgio
Impero russo
Mongolia
Francia
Honduras britannica
OCEANO PA C I F I C O
Polinesia francese Colonie e domini: Italia Portogallo Francia Belgio Regno Unito Paesi Bassi Danimarca Germania Giappone
Spagna Italia
OCEANO
Stati Uniti
Impero Grecia ottomano Corea Giappone Cina Afghanistan Malta Cipro Persia Bermuda Río de Oro Algeria Libia (Sahara spagnolo) Egitto India Birmania Hong Kong Africa Africa Arabia Marianne Porto Rico occidentale equatoriale Capoverde Eritrea francese Sudan Indocina francese Siam Gambia Filippine Cabo TogoNigeria Abissinia Guinea portoghese Gardafui Brunei Sierra Leone Guyana Ceilán Malesia Marshall Somalia Uganda Costa Maldive Arcipelago Sarawak d’Oro Africa orientale Bismarck britannica Seychelles Congo Indonesia Nuove Ascensione Nuova Ebridi Africa Angola belga OCEANO Africa orientale Timor occidentale tedesca Guinea Salomone INDIANO Cocos Santa Elena tedesca britannica Nuova Mauritius Africa sudoccidentale Caledonia Reunión Australia tedesca Madagascar Sudafrica Mozambico AT L A N T I C O
Cuba Giamaica
Mercati per i prodotti industriali delle madrepatrie Caucciù Avorio Minerali: Au (Oro) Ag (Argento) Cu (Rame) Fibre tessili: Cotone Lana Prodotti tropicali: Legname Spezie Cacao Caffè Tè
Portogallo
Capo di Buona Speranza
Tristan da Cunha
S. Paolo Crozet Falkland Stretto di Magellano Cabo de Hornos
M A R
G L A C I A L E
Isola Amsterdam
Kerguelen
Tasmania
Nuova Zelanda
A N TA R T I C O
Georgia del Sud
La Gran Bretagna entrò nel nuovo secolo con la morte della regina Vittoria, nel gennaio 1901. Durante i sessantatré anni del suo regno, il Paese era diventato il primo impero mondiale e la nazione più ricca sulla terra. Le classi medie, le più numerose d’Europa, sostenevano con entusiasmo la monarchia ed erano invase da una mistica nazionalista che poggiava sull’idea dell’impero portatore di civiltà. Tuttavia, ben oltre gli aristocratici della camera dei Lord e dell’élite borghese che, divisa tra il partito liberale e quello conservatore, popolava la Camera dei Comuni, c’era tutta una popolazione operaia soggetta a durissime condizioni di lavoro, a cui mancava una vera e propria rappresentanza politica, visto che le Trade Unions, i cui membri passarono da uno a quattro milioni tra il 1886 e il 1913, davano il proprio appoggio elettorale ai candidati liberali. La situazione cambiò nel 1900, quando sindacati e associazioni socialiste come la Società Fabiana fondarono il Comitato di Rappresentanza del Lavoro (LRC), con l’idea di creare una forza politica autonoma. Nel 1906, l’accordo tra LRC e i
liberali li portò a una vittoria schiacciante, con 397 seggi, e permise all’LRC di ottenere 29 deputati che, dopo le elezioni, fondarono il partito laburista. Cominciò quindi un’epoca di riforme che si prolungò fino al 1914 e modificò il sistema politico alle radici. Laburisti e liberali radicali, questi ultimi guidati da Lloyd George (figlio di un maestro) – e con Herbert Asquith (figlio di un industriale tessile) come capo di governo dal 1908, ampliarono una normativa sociale che prevedeva il diritto allo sciopero, l’assistenza sanitaria in caso di malattia, un sistema di pensioni e l’ampliamento del sistema scolastico. Si trattava di ciò che oggi è noto come Welfare State, lo Stato del benessere. Per suffragare questo nuovo impegno dello Stato, fu pianificata una riforma fiscale a carattere progressivo, che venne approvata dalla Camera dei Comuni ma a cui si opposero i Lord nel 1909. Nel 1911, il confronto tra le due camere si concluse con la fine del diritto di veto assoluto da parte dei Lord, ai quali furono tolte le competenze in materia finanziaria. L’élite aristocratica aveva perso il controllo della politica che ora, concentrata nella 25
SCONTRO DI IMPERI
Nicola e Alessandra: gli ultimi zar di Russia e l’influenza di Rasputin Nel 1894, Nicola II salì al trono di Russia da cui diresse il destino di quasi 170 milioni di persone. Era profondamente convinto del suo ruolo di autocrate per diritto divino, ma gli mancava una vera visione politica ed era debole e indeciso.
Sullo zar Nicola II esercitò una grande influenza la moglie, l’altrettanto reazionaria principessa tedesca Alix de Hesse-Darmstadt, che adottò il nome di Aleksandra quando si convertì alla religione ortodossa per sposarsi con il sovrano. Entrambi pensavano di poter dirigere il Paese così come era stato governato dal primo Romanov, trecento anni prima; Nicola non era in grado di percepire la profondità dei cambiamenti che la Russia stava vivendo, scossa dalle rivendicazioni di operai e contadini. Quando il 22 gennaio del 1905, la “domenica di sangue”, l’esercito sparò su migliaia di manifestanti, lo zar fu privato della sua aura di “padre del popolo”. Nel frattempo, l’emofilia di cui soffriva l’erede, Aleksej, mise la zarina nelle mani del mistico curatore Grigorij Efimovič Rasputin, che cominciò a esercitare un’influenza smisurata su Aleksandra e, attraverso la zarina, sulla politica; molti Russi credettero che fosse Rasputin a governare il Paese. Nel 1915, in piena Grande Guerra, Nicola, spinto da Aleksandra, assunse il comando dell’esercito, per cui divenne il colpevole delle sconfitte russe, mentre la zarina governava il Paese come reggente, circondata da una cricca in cui Rasputin svolgeva un ruolo fondamentale. Nel dicembre del 1916, il monaco fu assassinato dai monarchici (sembra per mano del granduca Dmitrij Pavlovič), in un contesto di cospirazioni per detronizzare Nicola. Tre mesi dopo, lo zar abdicò. In alto, una fotografia dei Romanov prima della Rivoluzione. Nicola II è ritratto insieme alla moglie e al suo erede Aleksej; intorno a loro, anche le figlie: da sinistra a destra, Marija, Tatjana, Olga e Anastasija.
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Camera dei Comuni, si apriva alle classi popolari, anche se con alcuni limiti: prima del 1918 poteva votare soltanto il 60% degli uomini. Rimanevano due problemi politici da risolvere: il voto alle donne e la concessione all’Irlanda di un’autonomia, a cui si opponevano conservatori e militari, la cui resistenza aprì la strada a una crisi nazionale, che fu evitata soltanto dallo scoppio del conflitto bellico. La Russia continuava a essere attanagliata dalle forti convinzioni autocratiche dello zar Nicola II (1894-1917). Capo dello Stato e della Chiesa ortodossa, sovrano assoluto per diritto divino, il monarca si opponeva a qualsiasi forma di sistema politico rappresentativo mentre il Paese viveva profonde trasformazioni per mano del capitale straniero, principalmente francese. Una rapida industrializzazione creò un proletariato concentrato nelle grandi fabbriche di Mosca e di San Pietroburgo, da cui si diffondeva il marxismo. Nel frattempo, le campagne erano affollate a causa dell’aumento della popolazione e le richieste per la ridistribuzione della terra come quella proposta dal Partito Socialista Rivoluzionario (PSR). A quei tempi, tuttavia, l’unica via di uscita per i contadini era la colonizzazione della Siberia, attraversata dalla ferrovia Transiberiana, che doveva unire Mosca con Vladivostok, sull’Oceano Pacifico. L’espansione russa in Asia si scontrò con le ambizioni del Giappone sulla Cina, e condusse alla guerra del 1904-1905, che terminò con l’inaspettata vittoria dell’esercito nipponico. La sconfitta danneggiò il prestigio del regime zarista e del suo potere militare, tanto che cominciò ad affiorare lo scontento. Nel gennaio del 1905, una grande manifestazione operaia pacifica fu sciolta con le armi nel centro di San Pietroburgo, seguita da una spirale di scioperi e repressioni. In ottobre, lo zar annunciò una riforma costituzionale che si concluse in niente, mentre tra il 1906 e il 1917 si succedettero tre dume o assemblee legislative, con poteri sempre più ridotti. La mancanza di un programma politico fece sì che la violenza divenisse l’unica via verso la riforma politica, mentre la debolezza della borghesia, in uno Stato in cui l’industrializzazione si era appena messa in moto, facilitò la diffusione delle proposte dei bolscevichi nelle città e dei socialisti rivoluzionari nelle campagne.
Oltre l’Europa Il Giappone che aveva vinto la Russia era una monarchia parlamentare, anche se solo da un punto di vista formale. L’imperatore Mutsuhito, la cui persona era sacra e inviolabile, godeva di un potere praticamente illimitato. Il Giappone era uno Stato assoluto, in cui il liberalismo era molto debole, il socialismo era perseguitato e si imponeva un nazionalismo che si manifestava nel culto della figura
dell’imperatore, nella religione scintoista e nei valori del sacrificio e della disciplina. La modernizzazione dell’epoca Meiji (nome adottato da Mitsuhito quando era salito al trono, nel 1867) aveva dato al Paese forze militari e uno sviluppo industriale senza confronto in Asia ed entrambi questi fattori ebbero un peso decisivo nell’espansione imperialista sulla limitrofa Cina. Con questa mossa espansionistica si voleva allentare la grande pressione demografica e alimentare la crescita economica al di là del mercato interno, ostacolata dai bassi salari dei lavoratori urbani e dalle imposte che pesavano sui contadini. Gli zaibatsu, i grandi gruppi finanziari e industriali, incoraggiavano l’espansione alla ricerca di nuovi mercati, manodopera e materie prime, e l’esercito vedeva nel dominio del continente un modo per rendere sicuri i confini dell’arcipelago giapponese. Tra gli anni 1894 e 1895, la prima guerra tra Cina e Giappone terminò con la concessione cinese dell’indipendenza alla Corea, che rimase sotto il dominio giapponese, il conseguimento da parte del Giappone dell’isola di Formosa (l’attuale Tai-
wan), oltre alla strategica penisola di Liaodong e della sua grande base navale di Port Arthur (l’attuale Lüshunkou). La Russia, tuttavia, considerava quest’ultimo territorio una parte vitale della sua espansione a Oriente, e ottenne il sostegno delle potenze occidentali per obbligare il Giappone a restituirlo ai Cinesi. Il fatto destò nei Giapponesi un profondo odio verso i Russi e gli Occidentali, come anche un desiderio di vendetta che giustificò la guerra russo-giapponese del 1904-1905. Sull’altra sponda dell’Oceano Pacifico, gli Stati Uniti erano entrati nel XX secolo da potenza economica, ma con una società esposta al capitalismo più vorace, rappresentato dalle grandi corporazioni. L’enorme potere delle imprese rischiava di provocare un’esplosione sociale (lo sciopero era proibito, i sindacalisti erano perseguitati, il padronato impiegava milizie private nei conflitti di lavoro) e di far sprofondare il sistema politico a causa della corruzione dilagante. Non è strano che quegli anni siano stati testimoni della crescita del sindacalismo rivoluzionario dei Lavoratori Industriali del Mondo (IWW), dell’apogeo del Partito Socialista Ameri-
LA BATTAGLIA DI MUKDEN (1905). Posto
di comando russo durante i combattimenti di Mukden tra Russi e Giapponesi, il maggiore conflitto terrestre dalla battaglia di Lipsia, nel 1813. Il Giappone diede il via alla guerra contro la Russia con un attacco a sorpresa alla base navale di Port Arthur; quarant’anni dopo, sarebbe cominciato un altro conflitto con un altro attacco a sorpresa alla base navale americana di Pearl Harbor.
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SCONTRO DI IMPERI
La Rivoluzione messicana: dieci anni di intensa guerra civile Sotto Porfirio Díaz, presidente del Messico dal 1876, l’economia del Paese centroamericano si modernizzò, fluirono capitali stranieri, soprattutto dagli Stati Uniti, e aumentarono le esportazioni, tra cui quelle del petrolio del golfo. Alla fine del secolo XIX, la popolazione messicana passò da 9,5 a 15 milioni di abitanti. Il 62% viveva in campagna, dove l’1% dei proprietari terrieri controllava il 97% delle terre. Cresceva la protesta per una riforma agraria e il malessere sociale si diffuse quando, nel 1909, il liberale Francisco Ignacio Madero (nell’immagine di destra, in automobile) denunciò la sistematica frode elettorale di Díaz ed esortò alla rivolta, che scoppiò nel novembre del 1910. Sostenuto dalle classi medie escluse dal potere, il suo movimento si trasformò in rivoluzione quando alla promessa della riforma agraria, si unirono i leader dei contadini, Emiliano Zapata e Pancho Villa. Nel 1911, Díaz si dimise e Madero lo sostituì, ma rinviò la riforma agraria e con il suo tentativo di controllare le compagnie petrolifere si inimicò gli Stati Uniti. Nel 1913 venne ucciso dal generale Victoriano Huerta, il quale, appoggiato da possidenti e porfiristi, si scontrò con Zapata, Villa e Venustiano Carranza, maderista. Quest’ultimo ebbe la meglio e promulgò la Costituzione del 1917, che nazionalizzava le ricchezze minerarie e riconosceva i diritti dei lavoratori. Eletto presidente, con una riforma agraria mise fuori gioco Zapata, che venne assassinato. Le imposte ai petrolieri però significarono la perdita dell’appoggio degli Stati Uniti e il tentativo di eleggere il suo successore gli valse l’opposizione di Álvaro Obregón. Carranza fu assassinato e la rivoluzione terminò con Obregón, presidente nel 1920 con il sostegno degli operai, delle classi medie urbane e dei militari. In basso, il simbolo del Messico nel 1916.
cano (che nelle elezioni presidenziali celebrate nel 1912 ottenne il 6% dei voti) e del culmine del radicalismo nel Partito Democratico, rappresentato dal candidato alla presidenza William Jennings Bryan, il politico che affermò: «Non dobbiamo crocifiggere l’umanità su una croce d’oro». L’avidità del capitalismo corporativo scatenò una reazione che si cristallizzò nel progressismo. Tale movimento politico, che influenzò entrambi i partiti principali, segnò l’operato dei presidenti che si succedettero fino alla Grande Guerra: i repubblicani Theodore Roosevelt e William H. Taft e il democratico Woodrow Wilson. Il loro obiettivo consisteva nell’evitare l’espansione del radicalismo politico, conciliando la democrazia con la crescita economica. Furono regolamentati i monopoli e vennero riconosciuti alcuni diritti sindacali. Si diede il via alla lotta contro la corruzione politica, per cui venne ridotto il potere degli apparati dei partiti attraverso riforme quali la diffusione delle primarie per l’elezione dei propri candidati o l’elezione diretta dei senatori. L’impatto delle idee radicali, inoltre, andò stemperandosi con le 28
opportunità di promozione sociale che il boom economico offriva alle classi medie e con la diffusione su grande scala dei consumi di massa. C’erano ancora tuttavia due grandi settori esclusi dalla vita politica: le donne, che prima della Grande Guerra potevano soltanto votare nei dieci Stati più occidentali, e i neri del Sud, bersagli di un razzismo che si avvaleva di ogni pastoia amministrativa per escluderli dal diritto di voto.
Imperi e alleanze All’inizio del secolo, le potenze industriali si erano avventurate in una vera e propria corsa per il dominio del mondo. L’imperialismo, però, non consisteva soltanto nell’impossessarsi di territori in Africa o Asia. Si manifestava anche con il dominio economico su Stati formalmente indipendenti che, in pratica, erano sottomessi alle estorsioni dei più potenti, come succedeva, per esempio, con la Turchia, la Cina o i Paesi dell’America Latina. La nuova potenza economica mondiale, gli Stati Uniti, scelse questa seconda via: quella del dominio indiretto e dell’uso puntuale della forza
DUE UOMINI DEL POPOLO. Emiliano Zapata (a sinistra), capo dei contadini del Messico meridionale, fu il più importante comandante rivoluzionario. Non riconobbe Madero come presidente, perché questi non applicò la riforma agraria che aveva promesso, e nel 1911 propose una divisione di terre nel suo piano di Ayala. Continuò a combattere con questo obiettivo e nello Stato di Morelos organizzò un regime rivoluzionario fino a quando venne assassinato da un gruppo di carranzisti nel 1919. L’altro grande leader delle campagne fu Francisco Pancho Villa (a destra). Dopo essere stato accusato in gioventù di omicidio, fuggì e lavorò come bracciante e allevatore, dedicandosi anche al banditismo. Divenuto un dirigente agrario del nord, si unì a Madero e combatté nella rivoluzione fino quando, all’epoca di Orozco, gli fu assegnata una tenuta in cui, nel 1923, morì assassinato da figure vicine al governo.
o, secondo le parole di due presidenti americani, quella dei «dollari anziché pallottole» (Taft), e la politica del «parla con gentilezza, ma portati dietro un grosso bastone» (Roosevelt). Era la «diplomazia del dollaro» e del «grosso bastone». Nella decade del 1980, mentre gli Stati Uniti completavano la loro espansione a ovest, la vittoria nella guerra di Spagna aprì loro le porte dei Caraibi, in cui passarono al controllo di Cuba e Porto Rico, ma anche quelle dell’Asia, dove si impadronirono dell’isola di Guam e delle Filippine. Competere con gli Europei nei mercati latinoamericani e asiatici significava dominare i Caraibi e il Pacifico, e le forze militari americane, che nel 1907 erano la terza forza mondiale dopo quella britannica e la tedesca, avevano bisogno di un canale per muoversi velocemente da un mare all’altro. Venne costruito quindi il canale di Panama, dopo che gli Stati Uniti ebbero facilitato la secessione di questo territorio colombiano nel 1903. In seguito, gli Statunitensi vi consolidarono il proprio dominio, così come gli interessi delle proprie imprese operative nei Caraibi con l’occupazione temporanea del Ni-
caragua, di Haiti e della Repubblica Dominicana e con l’intervento nel Messico rivoluzionario. Nell’emisfero opposto, i suoi possedimenti insulari favorivano l’avanzata della flotta statunitense verso la Cina, il più grande e appetitoso mercato dell’Asia. Lì, l’aggressione occidentale e l’impotenza del governo imperiale nel frenarla avevano già fatto scoppiare la rivolta dei Boxer (1899-1900), il cui annientamento da parte di truppe europee, statunitensi e giapponesi finì con nuove concessioni alle potenze coloniali da parte della Cina. Se i Caraibi e l’America Latina erano la riserva privata degli Stati Uniti secondo la “dottrina Monroe” («L’America agli Americani»), la Cina e la Corea avevano lo stesso significato per il Giappone. La Russia, tuttavia, covava in cuor suo ambizioni su entrambi i Paesi. Il Giappone voleva evitare che le altre potenze appoggiassero la Russia, come era successo in seguito alla vittoria giapponese in Cina nel 1895, e si avvicinò alla Gran Bretagna, che temeva la pressione russa sulla Persia e sull’India: nel 1902, un trattato consegnò la Cina al potere britannico e la Corea a quello giapponese. 29
SCONTRO DI IMPERI
Addio alla Cina imperiale: nasce la prima Repubblica d’Asia Nel 1901, il fallimento della rivolta dei Boxer, che si era avvalsa della connivenza dell’imperatrice vedova Cixì, consegnò alle potenze straniere il controllo dell’economia cinese. Davanti all’inferiorità del suo Paese, il governo cinese, in maniera simile a ciò che era successo nel Giappone Meiji, avviò un programma di riforme che si estendevano dall’istruzione fino all’esercito. Intanto, la guerra russo-giapponese, avviata su territorio cinese, diede ai Giapponesi il controllo della Manciuria e della Corea, domini cinesi. L’evidente necessità di modernizzazione portò a una tentennante riforma costituzionale che, alla morte di Cixì nel 1908 e con la successione di Puyi, fu rimandata di due anni, sotto la reggenza del padre, il principe Chiun. Come nella Russia zarista, la mancanza di canali per la partecipazione politica fece sì che l’unica possibilità a una monarchia screditata fosse la sua soppressione, fomentata da società segrete che diffondevano idee repubblicane e democratiche tra l’esercito e le classi popolari. Nell’ottobre del 1911, militari ribelli occuparono la città di Wuchang e la rivoluzione si estese a macchia d’olio. A dicembre, il democratico Sun Yat-sen (nell’immagine) venne eletto presidente dai rivoluzionari. Seguirono l’abdicazione dell’imperatore il 12 febbraio 1912, la divisione in campo repubblicano e il trionfo dell’autoritario generale Yuan Shikai, alla cui morte, avvenuta nel 1916, il potere rimase nelle mani di comandanti militari: i “signori della guerra”.
della sconfitta dei Giapponesi, diventava facile per il Regno Unito trovare anche un accordo con la Russia zarista, suo avversario da secoli nel continente asiatico. Con l’intesa anglo-russa del 1907, entrambi gli Stati si suddivisero la Persia in sfere di influenza, riconobbero la sovranità cinese sul Tibet e il predominio britannico in Afghanistan. L’accordo fu favorito dal fatto che i Russi condividevano la diffidenza di Britannici e Francesi nei confronti dell’espansione tedesca. La Russia temeva sia le ambizioni del Reich in Europa centrale sia quelle degli Austro-ungarici, protetti dalla Germania, nei Balcani. L’alleanza anglo-francese del 1904 e quella anglo-russa del 1907 rientrarono globalmente nella cosiddetta Triplice Intesa. Tale intesa costituì il peggior incubo per Bismarck, il cancelliere che aveva creato l’impero tedesco con il quale Guglielmo II si scontrò nel 1890. Con un’abilità diplomatica senza eguali, Bismarck aveva creato una rete di alleanze il cui fulcro era la Triplice Alleanza costituita dal Reich, dall’Austria-Ungheria e dall’Italia, mentre cercava di ottenere la neutralità della Russia (con la quale siglò il Trattato di Controassicurazione) e di evitare a qualsiasi costo lo scontro con il Regno Unito. Impediva così che Russi e Britannici si potessero coalizzare con i Francesi (umiliati dalla sconfitta del 1871 con la Prussia) e che la Germania si trovasse incastrata tra i suoi nemici. Ma la Weltpolitik del kaiser e delle élite militari e industriali della Germania mandarono all’aria il sistema ideato da Bismarck.
La grande crisi: Marocco
IL “RAGNO” BRITANNICO E L’INTESA CORDIALE (pag. 31). Manifesto satirico
tedesco sull’Intesa Cordiale, l’alleanza siglata nel 1904 da Francesi e Britannici. Nel 1915, cominciata ormai la Grande Guerra, l’aquila tedesca guarda come si sfilaccia la rete intessuta dal ragno britannico per impossessarsi dell’Europa. 30
Nel 1905, con un altro trattato, gli Stati Uniti accettarono il dominio giapponese sulla Corea e il Giappone rinunciò a intervenire nelle Filippine. Tale situazione favorì la libertà di movimento del Giappone nella guerra contro la Russia, e la sua vittoria, la prima di un Paese non occidentale su di una potenza europea, gli facilitò la sottomissione della Corea (annessa nel 1910) e il controllo della regione della Manciuria. La guerra russo-giapponese ebbe profonde conseguenze in Europa. Il Regno Unito era preoccupato per la costruzione di una grande flotta di guerra da parte del Reich e per l’espansionismo tedesco in Africa e nel Vicino Oriente, situazione che inquietava anche la Francia. Per questo motivo, Britannici e Francesi si erano avvicinati e, nel 1904, l’Intesa Cordiale sancì la loro alleanza, con la quale entrambi i Paesi accantonavano i propri disaccordi coloniali: si riconoscevano l’occupazione britannica dell’Egitto e gli interessi della Francia in Marocco, che i Francesi speravano di convertire in un loro protettorato. Ora, con la Russia in profonda crisi interna, a causa
La Germania pensò che l’Intesa del 1904 tra Francesi e Britannici significasse una restrizione nella libertà d’azione per il suo Paese, il che diede il via a due “crisi marocchine”. Nella prima, scoppiata nel 1905 la Germania tentò di rompere l’alleanza franco-britannica: a marzo il kaiser fece visita a Tangeri e si proclamò difensore delle pari opportunità per tutte le potenze in Marocco, che l’Intesa riservava alla Francia. Ciò intensificò pericolosamente la tensione tra Parigi e Berlino, ma Londra mantenne il suo appoggio alla Francia. La conseguente Conferenza Internazionale di Algeciras del 1906 sancì l’indipendenza formale del Marocco. La seconda crisi scoppiò a luglio del 1911, quando la Germania inviò la cannoniera SMS Panther al porto marocchino di Agadir con l’intenzione di fermare l’avanzata dell’esercito francese in Marocco, che era in piena contraddizione con l’accordo di Algeciras. La Francia, il Regno Unito e la Germania giunsero sull’orlo della guerra, sullo sfondo di focolai nazionalisti e imperialisti che, spinti dalla stampa di massa, infiammarono l’opinione pubblica.
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La Serbia, nascita di una potenza balcanica Dopo la guerra russo-turca del 1877-1878, il Congresso di Berlino segnò il riflusso ottomano nei Balcani: i Turchi vi mantennero soltanto l’Albania, la Macedonia e parte della Tracia e dovettero accettare l’indipendenza di Serbia, Montenegro e Romania, l’autonomia della Bulgaria e l’amministrazione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria.
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La crisi si risolse quando la Francia scambiò con il Reich parte del Congo francese per parte del Camerun tedesco. La stampa tedesca ritenne che il Paese fosse stato umiliato ancora una volta dai Francesi e dai Britannici, poiché non era riuscito a metter piede in Marocco. Ma il vero obiettivo dello scoppio della crisi da parte della Germania nel 1911 era ottenere l’intero territorio del Congo francese, conquista che avrebbe avvicinato il Reich al compimento del suo progetto di una Mittelafrika: un’Africa centrale tedesca estesa dall’Oceano Indiano all’Atlantico, unendo i domini tedeschi dell’Africa Occidentale (Camerun, Togo), Africa Orientale (Tanzania, Ruanda, Burundi) e dell’Africa del sud-ovest (Namibia). Per conseguire tale obiettivo doveva impadronirsi delle colonie portoghesi dell’Angola e del Mozambico, così come di una parte dell’enorme Congo belga, ma Regno Unito e Francia non lo avrebbero mai permesso. Le rivalità tra le potenze permisero comunque a Portoghesi e a Belgi di mantenere le proprie colonie dell’Africa, allo stesso modo in cui resero possibile nel 1912 la costituzione in Marocco di un protettorato spa32
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In Serbia, dove governava la dinastia filo-austriaca degli Obrenovic, un gruppo di militari ultranazionalistici assaltò il palazzo reale di Belgrado nel giugno del 1903, uccise lo screditato re Alessandro I e la moglie e gettò i corpi mutilati dal balcone. Con il golpe salì al potere la dinastia Karadjorjevic nella persona del filo-russo Pietro I e la politica serba prese una direzione espansionistica con l’obiettivo di riunire tutti gli Slavi che vivevano al di fuori dei suoi confini. Questo significava una minaccia per gli Austro-ungarici, che fecero pressioni sulla Serbia: il controllo delle frontiere della Bosnia-Erzegovina permetteva loro di soffocare l’antiquata economia del loro avversario, come nel 1906 con “ la guerra dei maiali”, che prevedeva di limitare le esportazioni serbe, basate principalmente su questi animali. Quando gli Austro-ungarici annetterono la Bosnia-Erzegovina nell’ottobre del 1908, l’economia della Serbia si occupò di ottenere uno sbocco al mare attraverso la Macedonia ottomana. La Bulgaria, tuttavia, che si era appena proclamata indipendente, rivendicava anch’essa quel territorio. La lotta per il dominio della Macedonia aveva ormai portato alla guerra serbo-bulgara del 1885, e fu elemento chiave nello sviluppo delle guerre balcaniche. Alla sua conclusione, la frustrazione delle aspirazioni bulgare sulla Macedonia favorì l’avvicinamento di Bulgaria e Germania nelle due guerre mondiali. A destra, ufficiali bulgari nelle posizioni espugnate ai Turchi, nell’ottobre 1912.
Acquisizioni territoriali (1913): Del Montenegro Della Serbia Della Grecia Della Bulgaria Della Romania Dell’Albania (nuovo Stato)
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gnolo subordinato agli interessi della Francia, oltre che alla conquista italiana dei domini ottomani della Cirenaica e della Tripolitania (l’attuale Libia) negli anni 1911 e 1912. L’intervento dell’Italia significò una profonda crisi per il traballante impero ottomano e favorì la disgregazione dei suoi territori europei, accendendo la miccia della Grande Guerra.
La grande crisi: Bosnia All’inizio del secolo XX, il sultanato ottomano, in piena decadenza, assisteva impotente al suo lento smembramento. Nel luglio del 1908, l’opposizione al reazionario sultano Abdul Hamid II, guidata dai militari del Comitato per l’Unione e il Progresso, i cosiddetti Giovani Turchi, impose una Costituzione e un sistema parlamentare, sulla scia di quanto successo in Russia dopo la sconfitta di fronte al Giappone. In ottobre, l’Austria-Ungheria, che vedeva nei territori turchi la sua area di conquista imperialista, approfittò della crisi politica in Turchia per annettersi la Bosnia-Erzegovina. L’episodio la spinse quasi sull’orlo di una guerra contro la Serbia, che considerava le terre bosniache parte di
una Grande Serbia, che avrebbe dovuto riunire gli Slavi dei Balcani. La Serbia non agiva sola: dietro di sé aveva una Russia umiliata dal Giappone, le cui brame sul territorio balcanico e sugli stretti che mettevano in comunicazione il Mar Nero e il Mediterraneo, nelle mani degli Ottomani, erano giustificate dal movente religioso, ossia dal voler riunire gli Slavi di tradizione ortodossa. In tale occasione, la Francia, appena uscita dalla crisi marocchina del 1906, non appoggiò la Russia davanti all’AustriaUngheria, poiché considerò la crisi come uno squilibrio locale e sia Russi che Serbi dovettero cedere. Nell’ottobre del 1908 tuttavia, entrò in lizza nei Balcani un nuovo protagonista: la Bulgaria, che si dichiarò indipendente dalla Turchia. Nel 1912, mentre l’Italia stava lottando con i Turchi a Rodi e nelle isole del Dodecaneso, la Serbia, Bulgaria, Grecia e il Montenegro si allearono contro gli Ottomani nella prima guerra balcanica (1912-1913). Lo scontro si risolse con il ripiegamento turco nei Balcani e, come effetto collaterale, la creazione dell’Albania, sostenuta dall’Italia, che aveva ambizioni di controllo sull’Adriatico, e dagli Austro-ungarici, che
impedirono così che la Serbia avesse uno sbocco in mare, posizione che esasperò i Serbi. Nel 1913 scoppiò una seconda guerra balcanica, avviata dalla Bulgaria (Paese che aveva ottenuto le maggiori concessioni territoriali con il conflitto precedente) e voluta dai dirigenti austro-ungarici. I Bulgari, però, furono sconfitti da Serbia, Montenegro, Romania, Grecia e dagli stessi Turchi. Da questo conflitto emerse come potenza balcanica la Serbia, che praticamente raddoppiò la sua popolazione (da 2,9 milioni di abitanti passò a 4,5 milioni) e il suo territorio (da 48.300 km2 passò a 87.000 km2). Era diventata la paladina del panslavismo di fronte all’Austria-Ungheria, i cui dirigenti temevano che, dopo l’emancipazione degli Slavi dal dominio turco, cominciasse anche la ribellione degli Slavi che invece facevano parte del loro stesso impero. Di conseguenza, un settore dell’élite austro-ungarica, in cui militava Franz Conrad von Hötzendorf, capo di Stato maggiore, si pronunciò a favore di una guerra preventiva che annientasse il potere della Serbia prima che il nazionalismo slavo agisse da disgregatore della Monarchia Duale. Lo spettro della guerra incombeva sui Balcani. 33
LA SOCIETÀ DI MASSA
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La società di massa In Occidente, il XX secolo inaugurò una nuova società caratterizzata dallo sviluppo della vita urbana e dalla produzione e consumo di massa di beni e servizi, dalle automobili fino agli spettacoli.
N
el mondo industrializzato, i primi anni del secolo XX furono segnati dal movimento di popolazioni dalla campagna alla città. Nelle città si poteva ambire a trovar lavoro o, perlomeno, a garantirsi condizioni di vita migliori che andavano dalle cure mediche all’istruzione pubblica. Ben oltre l’appagamento dei bisogni basilari, tuttavia, nel passaggio dal secolo XIX al XX le città cominciarono a offrire anche altre attrazioni, che conferivano un suggestivo splendore alla nuova civiltà urbana dell’era industriale. I processi di urbanizzazione e di industrializzazione infatti erano strettamente collegati: più cresceva il progresso economico di un Paese, più in esso aumentava il numero dei grandi agglomerati urbani. Alla vigilia della Grande Guerra, c’erano nell’Europa occidentale 184 città di oltre 100.000 abitanti, di cui 50 si trovavano nel Regno Unito, dove era presente anche la città più popolata del continente e del pianeta: Londra, con 7,2 milioni di abitanti nel 1910. Era seguita da Parigi, con quasi 2,9 milioni, Berlino e Vienna, con due milioni e San Pietroburgo, che raggiungeva quasi la stessa cifra. Altri due centri urbani superavano il milione di abitanti: Mosca e Costantinopoli. In Spagna, soltanto Madrid e Barcellona raggiungevano i 600.000 abitanti (nel 1930, Barcellona fu la prima città spagnola a superare il milione di abitanti). Per quanto riguarda gli Stati Uniti, nel 1910 c’erano già 50 città con oltre un milione di abitanti. La più grande era New York che era passata da 800.000 abitanti nel 1860 a 4,7 milioni nel 1910; venti anni dopo, sull’isola di Manhattan, vivevano 2,3 milioni di persone, il 40% di tutta la popolazione newyorchese. A questo fenomeno contribuirono i primi PUBBLICITÀ DELLA COCA COLA DEL 1914.
Offriva “vigore”, per niente strano, visto il suo contenuto di coca, caffeina e cola.
Dalla macchina da cucire elettrica al vibratore L’elettricità diede forte impulso ai consumi soprattutto urbani, dal momento che dipendeva dalla presenza di reti elettriche, e femminili, poiché le casalinghe erano le più interessate ad acquistare elettrodomestici. L’elettrificazione del focolare domestico aumentò tantissimo negli Stati Uniti, dove si assistette ai progressi più notevoli. Nel 1889 apparve la macchina da cucire elettrica, nel 1903 il ferro da stiro leggero (il primo modello elettrico, del 1882, pesava sette kg) e nel 1907, l’aspirapolvere. Nel 1909 si videro i primi tostapane e nel 1913 si vendettero i primi frigoriferi elettrici domestici e la prima lavastoviglie. Anche gli apparecchi personali furono elettrificati: se nel febbraio del 1886 appariva nell’Harper’s Weekly la prima pubblicità per uno spazzolino da denti elettrico, a marzo del 1889 le pagine di McClure’s mostravano quella per un vibratore femminile come rimedio per «i mal di testa e le rughe» (veniva commercializzato come apparecchio per i massaggi).
«UN BLOCCO DI GHIACCIO ETERNO». Così
riportava lo slogan della pubblicità di uno dei primi frigoriferi commercializzati dall’Electrolux nel 1927.
grattacieli, edifici sorti durante la ricostruzione di Chicago dopo il grande incendio del 1871 e che si svilupparono prepotentemente nelle grandi città americane in continua crescita.
Produrre e consumare Le moltitudini urbane cominciarono a muoversi per mezzo del trasporto collettivo elettrico, come il tram o la metropolitana. Con questi mezzi, o con la ormai popolare bicicletta, uomini e donne percorrevano il tragitto tra la propria casa e il luogo di lavoro, che poteva essere una fabbrica dell’hinterland o gli uffici che a quei tempi le grandi imprese aprivano nel cuore delle città, nei pressi delle attività finanziarie. Impiegati e operai ammiravano con invidia le automobili, che non erano più una novità, ma facevano ormai parte del paesaggio urbano. Prima della Grande Guerra circolavano nel mondo due milioni di questi veicoli, dei quali il 63% circolava negli Stati Uniti. Nel Vecchio Continente, la Repubblica francese fu il Paese che mostrò il maggior interesse per quelle macchine: da 300 veicoli in circolazione nel 1895 passò a 107.535 nel 1914. La sua industria automobilistica era la seconda del mondo dopo quella degli Stati Uniti, anche se la distanza tra le due era abissale: nel 1913 si producevano 45.000 automobili francesi contro le 480.000 statunitensi. La diffusione dell’automobile per le strade della città è sintomatica anche di un altro aspetto della nuova società industriale: il consumo di massa. Quantità notevoli di prodotti fabbricati in serie attendevano di essere acquistati dai consumatori che ne erano, a loro volta, i produttori. Chi comprese tutto questo come nessun altro fu Henry Ford. Il cosiddetto “fordismo” voleva ridurre costi e prezzi attraverso il lavoro in catena di montaggio: le prime Ford T apparse sul mercato nel novembre del 1908 costavano 825 dollari (a quei tempi lo stipendio annuale di 35
LA SOCIETÀ DI MASSA
Henry Ford, il trionfo della produzione in serie
Nel 1903, l’ingegnere americano Henry Ford, con altri investitori, fondò la Ford Motor Company. Il suo obiettivo era trasformare l’automobile, a quel tempo privilegio delle classi più abbienti, in un bene di consumo di massa, per conquistarsi la clientela rurale che utilizzava il cavallo e il carretto per muoversi. Fu questa la motivazione della famosa Ford T, i cui assi, posizionati ad una maggiore altezza rispetto ad altre automobili, le permettevano di circolare per i sentieri di campagna. Era, inoltre, un veicolo di facile manutenzione: i pezzi di ricambio si potevano comprare nei negozi dei villaggi o per posta, e non c’era bisogno di meccanici specializzati. Tra il 1908 e il 1927 furono venduti 15 milioni di Ford T, un record dovuto alla catena di montaggio, introdotta da Ford nel 1913: su di essa si metteva il telaio del veicolo, nel quale venivano assemblati i pezzi e il tempo di esecuzione di ogni lavoro era cronometrato per ottenere la massima produttività. Siccome gli operai dovevano attenersi a un repertorio limitato di movimenti, alla catena di montaggio potevano lavorare anche emigrati che non parlavano inglese o persone analfabete. Ford pagava cinque dollari al giorno, il doppio del salario del tempo, e non, come si potrebbe pensare, per trasformare i suoi operai in potenziali clienti, ma perché i suoi lavoratori accettassero un regolamento lavorativo severo e per diminuire così il turnover del personale, ossia, la continua sostituzione di coloro che abbandonavano il lavoro. La standardizzazione dei pezzi e la riduzione del tempo di montaggio (le automobili erano nere perché la tinta di quel colore si asciugava più velocemente) facilitò l’abbassamento dei costi e incrementò la produzione: se nel 1909 erano stati fabbricati 17.700 veicoli, nel 1923 erano già 1.817.891, più di quelli prodotti da tutte le altre compagnie americane insieme. In alto, telaio di una Ford T sui binari della catena di montaggio.
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un insegnante arrivava a 850 dollari), scesero poi a 360 nel 1916, ossia tra il 10 e il 20% delle entrate annuali di una famiglia media americana; nel 1921, il prezzo della Ford T era ormai di soli 260 dollari. Ford, inoltre, creò una rete di concessionari e fu uno dei primi industriali a offrire prestiti agevolati. Il prestito privato, infatti, si diffuse e prese piede il sistema di vendita a rate, allettante per la maggior parte della gente che si recava nei grandi magazzini, templi del consumo di massa come Au Bon Marché (i più grandi magazzini del mondo, secondo quanto recitava la loro pubblicità), La Samaritaine, Le Printemps e Galeries Lafayette a Parigi, Harrod’s (che nel 1911 si estendeva per due ettari e aveva già 6.000 impiegati) e Selfridge’s a Londra, o i popolari Kadewe di Berlino. Il fenomeno del consumo di massa stimolò lo studio dei mercati: il termine marketing fu utilizzato per la prima volta nel 1902 a proposito di un corso tenutosi all’Università del Michigan. E diede il via anche all’irrefrenabile uso della pubblicità. Grandi artisti del momento, come il ceco Alfons Mucha, accettarono di dedicarsi agli annunci pubblicitari che su grandi cartelloni rivestivano i muri della città ed erano riprodotti nelle pagine della stampa, settore che sperimentò un vero e proprio boom.
Stampa e pubblicità Lo sviluppo dell’industria giornalistica era legato sia al progresso che all’istruzione – con l’ampliamento del sistema scolastico primario gratuito e obbligatorio – come anche al miglioramento generale del livello di vita in Occidente, che includeva l’aumento del tempo libero. Crebbe la domanda delle pubblicazioni stampate e, per rispondere alle richieste, giornali e riviste incrementarono in maniera esponenziale il numero di copie diminuendo i costi grazie alle innovazioni tecnologiche, con lo sviluppo della Linotype, della Monotype, della rotativa e con la fabbricazione della carta dal legno, attraverso il solfito. Mentre nel 1871 l’abbonamento annuale a un quotidiano parigino costava 36 franchi, l’equivalente di 164 ore di lavoro, nel 1910 si era abbassato a 24 franchi, ossia a soltanto 74 ore. Il giornale francese più venduto era Le Petit Parisien,
indirizzato alla classe operaia; il suo prezzo di cinque centesimi di franco (un sou, equivalente ad alcuni minuti di lavoro) rimase uguale fino al 1917. Anche se nel caso de Le Petit Parisien, gli utili provenivano dal continuo aumento delle vendite, fu la pubblicità, divenuta una nuova fonte di entrate, che permise la creazione delle grandi imprese giornalistiche: il business della nuova stampa popolare non consisteva soltanto nel vendere giornali ai lettori, ma anche spazi agli inserzionisti. Nell’anno 1905, quindi, c’erano una ventina di riviste mensili con tirature superiori a 100.000 copie, destinate soprattutto a un pubblico femminile e finanziate sostanzialmente dalla pubblicità e dagli annunci economici. La costituzione delle nuove imprese giornalistiche richiese un capitale notevole. In Gran Bretagna, nel 1896 Alfred Harmsworth destinò un milione di ghinee per avviare il Daily Mail: venduto poi
al modico prezzo di mezzo penny, il giornale passò da una tiratura di 200.000 copie di quell’anno a 989.000 copie nel 1900. Il quotidiano conteneva gli ingredienti tipici della nuova stampa popolare: una combinazione di patriottismo e di notizie che andavano oltre la politica, come la vita dei personaggi celebri, catastrofi, scandali… La stampa americana giocò d’anticipo in questa nuova tipologia, su cui William Randolph Hearst fondò il suo impero economico cavalcando l’entusiasmo per un nazionalismo aggressivo (i suoi giornali alimentarono, per esempio, lo scoppio della guerra ispano-americana del 1898), per lo scandalo e per il sensazionalismo. Tutto era lecito per aumentare la circolazione dei quotidiani. Per l’appunto, l’espressione “stampa gialla”, che definisce i giornali e i mezzi di comunicazione sensazionalisti, fu coniata a New York per riferirsi alla tipologia di giornalismo praticato dal New York
GALERIES LAFAYETTE. Fondate nel 1893,
occupavano vari edifici e attraevano sia le sartine che le signore della borghesia. World di Joseph Pulitzer e dal New York Journal di Hearst nella loro guerra all’ultimo sangue per accaparrarsi il pubblico tra il 1895 e il 1898; a quanto pare, tale termine era in relazione con la pubblicazione in entrambe le testate dei primi fumetti a colori pubblicati nella stampa: The Yellow Kid, “il bambino giallo”. Furono sempre gli Americani a inventare l’intervista e il tabloid, un formato più piccolo che si poteva leggere comodamente sui mezzi pubblici. Nei primi anni del secolo XX, gli Stati Uniti furono di fatto il primo Paese del mondo per volume di giornali venduti per abitante: uno ogni 3,8 persone (seguito dalla Francia, con 6,5, dalla Gran Bretagna, con 8, da Italia e Giappone, con 12 e dalla Russia con 58). Un nuovo apparecchio, anch’esso ameri37
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Riviste di moda per la nuova donna A cavallo dei due secoli, la comparsa di pubblicazioni specializzate trasformò il culto della moda in un altro fenomeno della società consumistica. La rivista più di nicchia tra tutte era la francese La Gazette du Bon Ton (1912-1925), le cui splendide illustrazioni presentavano le creazioni di grandi stilisti come Jacques Doucet o Paul Poiret. Più popolari erano quelle americane, come Ladies’ Home Journal, fondata nel 1883, e Vogue, nata nel 1892. Le riviste di moda rispecchiavano la tendenza alla semplificazione nell’abbigliamento che, nel decennio del 1910, si manifestò con il declino del corsetto, sintomo di un nuovo modello di fisico femminile. Infatti, lo studio della linea femminile nelle due pubblicazioni americane già citate mostra che tra il 1900 e il 1910 la relazione tra la circonferenza del seno e quella della vita era di 2/1, proporzione che nel 1925 si era abbassata a 1,1/1. La linea si appiattì, e l’abbigliamento si mascolinizzò progressivamente fino agli anni Venti con abiti e pettinature à la garçon (o alla maschietta), stile in cui si distinse Coco Chanel. A destra, disegni di Poiret del 1908. A sinistra, scarpe in vendita nei grandi magazzini di Londra Harrod’s, nel 1900.
cano, contribuì a trasformare il giornalismo nel cambio di secolo: la macchina fotografica portatile Kodak, fornita di pellicola che ingombrava poco e si cambiava facilmente. La riproduzione di fotografie rese le riviste illustrate uno dei prodotti culturali più popolari del nuovo secolo.
Il libro: mistero e avventura Così come per i lettori di giornali, aumentò anche il numero dei lettori di libri: sorse un grande mercato di volumi concepiti come prodotto di intrattenimento. Tra il 1880 e il 1920 ci fu il boom di una narrativa popolare rivolta alle classi medie in espansione e ai lavoratori urbani. Tra i generi preferiti di questo pubblico numeroso c’erano i romanzi polizieschi, con eroi come Sherlock Holmes e Padre Brown, entrambi britannici, l’americano Nick Carter o il francese Arsenio Lupin, o con personaggi malvagi come Fu Manchu o Fantomas, che tra il 1911 e 38
il 1913 fu il protagonista di 32 volumi di racconti che vendettero circa cinque milioni di copie al bassissimo prezzo di 65 centesimi di franco. Seguivano i romanzi d’avventura, tra cui particolare successo ebbero quelli di ambiente western, creati da autori come l’americano Zane Grey e il tedesco Karl May, adorato nel suo Paese (Hitler fu uno dei suoi più entusiasti ammiratori), oltre a quelli con avventure esotiche, con Tarzan, personaggio creato nel 1912 da Edgar Rice Burroughs, che sfruttò un altro genere molto in voga, quello della fantascienza, in cui trionfava il classico britannico H.G. Wells. Tutti questi generi avrebbero ben presto conosciuto un felice connubio con una nuova industria culturale: il cinema.
L’industria del tempo libero Il cinematografo e il grammofono, insieme alla radio (che raggiunse l'apice del suo successo dopo la Grande Guerra),
costituivano il fulcro di industrie culturali completamente nuove, la cui fruizione, a differenza di quanto accadeva invece con la stampa, non richiedeva l’alfabetizzazione. Fu tale caratteristica una delle chiavi del loro successo, evidente nella loro crescita in maniera esponenziale. Nel 1900 si vendettero negli Stati Uniti tre milioni di incisioni grammofoniche (tra cilindri e dischi, i due formati dell’epoca); nel 1910 se ne commercializzarono 30 milioni e nel 1921 erano già 140 milioni. In quanto al cinema, divenne lo spettacolo di massa per antonomasia. Il 28 dicembre 1895, i fratelli Lumière proiettarono a Parigi la prima pellicola, e tra quella data e il 1900 ottennero 2,4 milioni di franchi per realizzare altri film, un’industria tanto fiorente come quella della vera e propria proiezione. Nel 1906 c’erano già 10 cinema nella “città della luce”, che divennero 87 nel 1908. Nel 1911, Parigi
inaugurò il cinema più grande del mondo: il Gaumont-Palace, con 3.400 posti. Il successo del cinematografo fu universale e fulminante. Nel 1905, un negoziante della Pennsylvania proiettò un film nel suo magazzino, al costo di un nickel (moneta da cinque centesimi) per persona e nel 1910 funzionavano già negli Stati Uniti circa diecimila nickel odeon, sale di cinema in cui si ritrovavano 23 milioni di spettatori alla settimana, il 20% della popolazione degli Stati Uniti. Il costo del biglietto era basso e i film erano muti, per cui tutti quanti potevano vederli e capirli: dagli emigrati irlandesi fino ai Siciliani e agli ebrei della Galizia. Nel 1911 venne costruito il primo studio cinematografico permanente a Hollywood e nel 1914 Charles S. Chaplin creò the tramp, il vagabondo, che i Francesi chiamarono Charlot e che incantò sia le masse che gli artisti e gli intellettuali: fu il primo personaggio universale nella storia del cinema. Il potere di suggestione sulla gente di quella che ormai era definita come “settima arte” (termine, a quanto pare, coniato nel 1911 dallo scrittore e teorico del cinema Ricciotto Canudo) non sfuggì a Lenin, il leader dei bolscevichi: «Di tutte le arti, il cinema è per noi la più importante», affermò nel 1919 ad Anatoli Lunacharski, commissario della Pubblica Istruzione.
Lo sport, un nuovo spettacolo Ben presto, gli operatori della macchina da presa divennero una presenza costante degli eventi sportivi, come i fotografi e i giornalisti. E, con il nuovo secolo, anche lo sport era diventato uno spettacolo di massa. Mentre tra le classi medie si diffuse la pratica del golf e del tennis, sport precedentemente riservati alle élite, le classi dei lavoratori si dedicarono con entusiasmo al calcio e al ciclismo. Sorto in Gran Bretagna, il calcio si diffuse ben presto in tutto il continente europeo, dapprima attraverso gli impiegati delle aziende britanniche, come succes-se anche nell’America Latina. Nell’anno 1904, con la fondazione della Fédération Internationale de Football Association (FIFA), questo sport acquisì dimensione transnazionale, e poi divenne sport professionale e riempì le pagine della stampa popolare con anglicismi come penalty, offside e lo stesso termine
football, parola che compare nei primi club, come il Football Club Barcellona, che fu creato nel 1899, o il Madrid Football Club, nato nel 1902. In quanto al ciclismo, la pratica di tale sport era alla portata di tanti lavoratori che si muovevano in bicicletta per andare a lavorare. Le gare ciclistiche cominciarono a entusiasmare gli animi fin dall’inizio del secolo, in pratica dal 1903, con il Tour de France, un percorso attraverso il territorio francese organizzato per promuovere il giornale sportivo L’Auto. Un altro sport, la cui popolarità scoppiò all’inizio del secolo e continuò a crescere costantemente, fu l’automobilismo. Come era successo per il ciclismo, fu una pubblicazione francese, Le Petit Journal, che nel 1894 organizzò la prima corsa automobilistica della storia, dalla capitale alla città di Ruan. La costruzione del circuito automobilistico di Indianapolis, negli Stati Uniti, mostrò subito il
IL TOUR DE FRANCE GIUNGE A PARIGI NEL 1908. Lucien Petit-Breton, ciclista vincitore
di quell’anno e di quello precedente, morì al fronte nella Grande Guerra. potenziale economico di questa attività, in cui si fondevano tecnologia, rischio e sport. Nel 1911, 80.000 spettatori acquistarono un biglietto per assistere alla prima corsa delle famose 500 miglia, con bolidi che raggiungevano i 120 km orari. Prima della Prima guerra mondiale quindi, lo sport era diventato un fenomeno sociale di grande dimensione, che i Giochi Olimpici moderni, voluti dal francese Pierre de Coubertin, consacrarono come spettacolo di massa. La seconda edizione dei Giochi stessi, che fu celebrata all’interno dell’Esposizione Universale del 1900, a Parigi, riaffermò la popolarità dello sport e trasformò le prove sportive in un incentivo ulteriore della spettacolare mostra internazionale. 39
TRUPPE DELLA DIVISIONE CANADESE. Soldati canadesi
dopo la terza battaglia di Ypres, o di Passchendaele, nel 1917, nelle inospitali trincee delle Fiandre. Nella pagina accanto, distintivo dei piloti di guerra della Marina tedesca durante la Grande Guerra.
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LA GRANDE GUERRA Nell’estate del 1914, l’Europa si invischiò in una guerra che assunse dimensioni inimmaginabili per i contemporanei e falciò la vita di milioni di combattenti. L’allungamento del conflitto scatenò crisi sociali che risultarono essere fatali per la Russia zarista e il Reich tedesco: la monarchia cadde in entrambi i Paesi. E in Russia nacque una nuova forza politica internazionale con la presa del potere da parte dei bolscevichi: il comunismo.
L
e grandi crisi anteriori al 1914 (in Marocco e in Bosnia-Erzegovina) avrebbero potuto provocare lo scoppio di una guerra se uno dei due contendenti non avesse ceduto. Ma l’Austria-Ungheria non poteva cedere nei Balcani. Se non avesse riaffermato il proprio potere militare nei confronti della Serbia, l’impero si sarebbe disintegrato sotto la pressione dei nazionalismi che lo attraversavano. Quel momento di riaffermazione avvenne nell’estate del 1914. Il 28 giugno, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe ed erede dell’impero, fu assassinato con la moglie durante una visita a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina.
Tale omicidio, per mano dello studente bosniaco Gavrilo Princip, fu istigato dall’organizzazione terrorista Unione o Morte, nota come “La Mano Nera” e composta da ultranazionalisti serbi. A Vienna, l’attentato contro l’arciduca costituì un autentico regalo per Hötzendorf e i sostenitori della guerra contro la Serbia. Il 23 luglio, l’Austria-Ungheria presentò un ultimatum ai Serbi con il quale pretendeva che i suoi funzionari partecipassero alle indagini sul crimine e concesse a Belgrado 48 ore per una risposta. Come era prevedibile, la Serbia si negò senza alcun indugio a una tale umiliante richiesta e il 28 luglio l’AustriaUngheria le dichiarò guerra. Tutto ciò poteva fa41
LA GRANDE GUERRA
EVENTI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE 1914
L’Europa si mobilita
Attentato di Sarajevo. Le potenze europee si dichiarano guerra. La Francia ferma nella Marna l’avanzata tedesca su Parigi. Sconfitte russe a Tannenberg e nei laghi Masuri. La Turchia entra in guerra.
Durante il mese che trascorse tra l’attentato di Sarajevo e la prima dichiarazione di guerra, Berlino offrì a Vienna un appoggio illimitato, il cosiddetto “assegno in bianco”, che spronò gli Austro-ungarici a perseguire il progetto di una guerra. I Tedeschi avevano appoggiato gli alleati perché pensavano che i Russi non fossero preparati per un conflitto e che ne sarebbero rimasti fuori, o che, comunque, né la Gran Bretagna, né la Francia avrebbero appoggiato i Russi nel caso si fossero alleati con la Serbia. Era questa l’intenzione della politica del cancelliere tedesco del tempo, Bethman Hollweg: rompere l’Intesa e, con essa, il cerchio che opprimeva la Germania. D’altra parte, la Russia era un altro contendente che non poteva abbandonare il gioco. Se avesse tollerato l’umiliazione dell’Austria-Ungheria ai Serbi, suoi protetti, avrebbe presto cessato di essere una potenza di peso nei giochi di potere europei. Comunque, sebbene i Russi avessero potuto sperare in una vittoria sugli Austro-ungarici, sicuramente, imporsi sulla Germania era inimmaginabile. Se il Reich fosse intervenuto nel conflitto, il destino della guerra sarebbe dipeso dall’entrata dei Francesi contro i Tedeschi. Era anche probabile che ciò succedesse, dato che per la Francia abbandonare la Russia al suo destino avrebbe significato riconoscere la supremazia tedesca in Europa. A questo punto della partita, quando ancora non erano state prese decisioni chiare, i militari russi e tedeschi si impadronirono completamente del gioco. Il 29 luglio, con l’appoggio garantito della Francia, lo zar ordinò la mobilitazione parziale contro l’Austria-Ungheria. Per i comandanti russi l’ordine reale supponeva di lasciare indifesa la frontiera verso la Germania, guardiana degli Austro-ungarici. Alla fine, prevalse la sua idea e il 30 luglio lo zar Nicola II decretò la mobilitazione generale. Il giorno prima, Edward Grey, ministro britannico degli Affari Esteri, aveva dichiarato all’ambasciatore tedesco a Londra che se il conflitto austro-serbo si fosse esteso, la Gran Bretagna «non avrebbe potuto rimanerne fuori». Davanti alla brutta piega che stavano prendendo i fatti, il kaiser rimase perplesso e indeciso e volle fermare la mobilitazione di Tedeschi e Austriaci. Tuttavia, Helmut von Moltke, comandante in capo tedesco, e Erich von Falkenhayn, ministro prussiano della guerra, sostenevano che attendere ulteriormente a dichiarare guerra alla Rus-
1915
Stallo sul fronte occidentale. L’Italia entra in guerra. I Turchi impediscono l’occupazione britannica dei Dardanelli. La Germania e la Bulgaria occupano la Serbia. 1916
Battaglia di Verdun. Battaglia navale dello Jutland. Battaglia della Somme. Offensiva di Brusilov e sconfitta austro-ungarica a est. La Romania e la Grecia entrano in guerra. 1917
La Germania dichiara la guerra sottomarina. Rivolte a San Pietroburgo: fine della monarchia russa. Gli Stati Uniti entrano in guerra. Colpo di Stato bolscevico; guerra civile in Russia. 1918
La Germania crolla. Gli alleati si aprono un varco nella linea Hindenburg. Il kaiser fugge. Armistizio a Compiègne. Fine della guerra.
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cilmente risultare in una terza guerra balcanica, ma l’azione degli alleati dei Serbi e degli Austroungarici trasformò un conflitto locale in una grande guerra dalla portata planetaria.
L’attentato di Sarajevo, un pretesto per la guerra Nel 1914, l’erede al trono austro-ungarico era l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe: la successione era ricaduta su di lui dopo il suicidio del figlio del sovrano a Mayerling, nel 1889. L’arciduca era poco apprezzato dalla corte imperiale a causa del suo matrimonio con Sofia Chotek, una plebea cui uno stretto protocollo vietava di assistere agli eventi ufficiali insieme al marito. Quel 28 giugno, tuttavia, lontano dalla rigida atmosfera viennese, aveva potuto accompagnare il marito durante la visita a Sarajevo, capitale della regione della BosniaErzegovina. Lì, sette terroristi serbo-bosniaci attendevano l’automobile sulla quale si spostava la coppia. Uno lanciò una bomba, ma l’arciduca la sviò con un braccio. Poi, un altro, di nome Gavrilo Princip, sparò e uccise l’erede e sua moglie. La loro morte non fu la causa della guerra, come è dimostrato dal fatto che il consiglio dei ministri non si riunì fino al 7 luglio e che in Germania il kaiser se ne andò in vacanza. Fu la volontà austro-ungarica di cominciare una guerra che scatenò il conflitto. A destra, gli arciduchi lasciano il municipio di Sarajevo prima dell’attentato in cui morirono.
sia avrebbe voluto dire lasciare esposta la Germania alle prime mosse russe e francesi. Inoltre, tra gli alti comandi militari tedeschi si era manifestata l’idea di sferrare una guerra preventiva contro i Russi prima che questi completassero la modernizzazione dell’esercito, così come la guerra preventiva voluta da Hötzendorf era volta a farla finita con la minaccia serba prima che i Serbi mettessero a rischio l’esistenza dell’Austria-Ungheria. Il 31 luglio, infine, i governi tedesco e austroungarico inviarono a Mosca un ultimatum con cui si richiedeva la smobilitazione russa, a cui seguì la mobilitazione dell’esercito tedesco. La guerra era ormai una realtà.
I cannoni di agosto Il sistema di alleanze antagoniste sprofondò l’Europa nella guerra. La dinamica bellica, tuttavia, fu anche, come è stato detto, il “trionfo della programmazione”. Per decenni, gli Stati più grandi avevano progettato complessi piani di guerra. La mobilitazione di milioni di uomini e il trasporto di migliaia di tonnellate di equipaggiamenti e armi,
POSAR PEU DE LLARG
come anche di centinaia di migliaia di animali da soma e da tiro, richiedevano la pianificazione millimetrica dei trasferimenti per ferrovia. In Francia, la mobilitazione di tre milioni di combattenti con il materiale doveva essere sincronizzata con il passaggio di 4.728 convogli; in Germania, 4.400.000 soldati dovevano muoversi su 11.000 treni. Una volta ordinata la mobilitazione, per evitare un vero e proprio caos, non si potevano introdurre variazioni al programma. Nel caso della Germania, l’operazione doveva attenersi al piano Schlieffen, chiamato così dal nome del capo di Stato maggiore che ne aveva formulato le direttrici nel 1905. Il piano prevedeva di attaccare la Francia da nord, dal territorio belga, schivando così la potente linea difensiva francese disposta di fronte all’Alsazia-Lorena. Così come previsto, parte dell’esercito tedesco avrebbe attraversato il Belgio e marciato parallelamente al canale della Manica fino oltre Parigi; sarebbe poi sceso verso la capitale e l’avrebbe superata a ovest; in seguito, avrebbe girato a sinistra e sarebbe entrato in contatto con le altre truppe
UN FOT
tedesche che provenivano dalle Ardenne belghe. Secondo il piano tedesco, la capitale, così circondata, sarebbe facilmente caduta nelle loro mani e la Francia avrebbe richiesto l’armistizio, come già era successo nel 1871. Durante le sei settimane previste per questa campagna militare, una piccola parte dell’esercito avrebbe combattuto i Russi a est. Ottenuta la vittoria sul fronte occidentale, le truppe tedesche sarebbero state trasferite sul fronte russo, dove avrebbero sconfitto l’esercito zarista, ritenuto inefficace. Modificare questo piano significava lasciare la Germania alla mercé di un attacco francese. Da qui la contestazione di Moltke al kaiser, quando egli gli chiese di preparare la guerra soltanto contro i Russi: non era possibile, visto che la sconfitta della Russia doveva essere preceduta da quella della Francia, grande alleata dei Russi. Il piano Schlieffen comportava la violazione della neutralità del Belgio, garantita fin dal 1839 con il Trattato di Londra, cosa che presupponeva, con assoluta sicurezza, l’entrata in guerra della
GAVRILO PRINCIP, L’ASSASSINO. Essendo
minorenne, non fu condannato a morte, bensì a vent’anni di carcere. Morì nel 1918, nella prigione di Theresienstadt (l’attuale Terezin, nella Repubblica Ceca).
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LA GRANDE GUERRA
Schrecklichkeit: il terrore tedesco di fronte alla propaganda alleata Durante la Grande Guerra, la propaganda divenne un’arma ulteriore di lotta tra le due parti. I governi si servivano largamente della stampa popolare per galvanizzare l’opinione pubblica e trasformare il nemico in un’entità abominevole, come fecero gli alleati riguardo all’occupazione e alle azioni dell’esercito tedesco in Belgio, nell’agosto del 1914. Gli irregolari belgi, i francs-tireurs, logoravano il nemico senza dargli tregua e tale azione demoralizzava e intralciava l’avanzata tedesca verso la Francia. Risoluti a porre fine a tale situazione, i vertici tedeschi cominciarono una campagna di Schrecklichkeit, ovvero di terrore: 5.521 Belgi furono fucilati e migliaia vennero deportati in campi di lavoro. A Dinant, per esempio, furono giustiziati 674 uomini di notte, e donne e bambini furono obbligati a guardare. In un tale contesto, alla fine di agosto, fu arrestata l’infermiera britannica Edith Cavell. Fu accusata di spionaggio e venne fucilata nell’ottobre del 1915. Questo episodio, convenientemente sfruttato dalla stampa britannica e da quella francese, creò l’immagine dei Tedeschi come barbari distruttori, gli “Unni”. In alto, l’esecuzione di Edith Cavell secondo un’illustrazione di Le Petit Journal (novembre 1915).
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Gran Bretagna. I Britannici non potevano tollerare che la Germania si impadronisse dei porti strategici belgi nel canale della Manica e li trasformasse in proprie basi navali. Il 1° di agosto, la Germania dichiarò guerra alla Russia, il 3 la dichiarò alla Francia e al Belgio e il 4, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania. Così, tra il 28 luglio e il 4 agosto, l’Europa precipitò in una guerra generale il cui spaventoso sviluppo nessuno poteva prevedere allora, ma le cui tremende conseguenze furono intuite da tanti. Il 28 luglio, Moltke, in una lettera diretta a Bethmann Hollweg, etichettò il conflitto alle porte come una «guerra mondiale» e dichiarò che le nazioni illuminate si sarebbero fatte a pezzi tra di loro fino a «distruggere per decenni la civiltà in quasi tutta l’Europa». La notte del 4 agosto, uno scoraggiato Grey si affacciò alla finestra del suo ufficio e guardò come si stavano spegnendo le luci di Londra. «Si stanno spegnendo le luci di tutta Europa – annunciò – e non le rivedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita». Il pessimismo di non pochi politici e militari contrastava con l’entusiasmo di alcuni gruppi che nelle grandi capitali celebravano le dichiarazioni di guerra. Tra di loro c’era la folla riunitasi il 2 agosto nella piazza dell’Odeon di Monaco di Baviera, a cui si unì un festante Adolf Hitler di venticinque anni. Una parte dell’Europa marciava verso l’abisso piena di euforia, dando libero sfogo alle pulsioni nazionaliste e ai sentimenti xenofobi. A Berlino, Parigi e Vienna si acclamavano i capi di Stato e gli eserciti. A San Pietroburgo, lo zar e sua moglie si affacciarono al balcone del palazzo reale e la folla, inginocchiata, intonò l’inno nazionale. Da un punto di vista politico, un simile stato d’animo si tradusse nell’unità di tutti i gruppi politici di ciascun Paese nei confronti del conflitto. In Francia si chiamò union sacrée (“unione sacra”). Il lorenese Raymond Poincaré si riconciliò con Georges Clemenceau che, a quel tempo, era suo acerrimo nemico politico: parlarono dell’Alsazia e della Lorena occupate dai Tedeschi nel 1871 e versarono lacrime di emozione. «Quando due uomini hanno pianto insieme, sono uniti per sempre», affermò Clemenceau. In Germania, corrispondente alla union sacrée c’era la burgfrieden (“la pace delle fortezze”); persino i socialdemocratici, che avevano ritenuto che la solidarietà operaia internazionale fosse l’antidoto alla guerra, votarono nel Reichstag a favore delle spese previste per la guerra. Lo stesso successe in Francia, dove due socialisti passarono a far parte del governo e in Russia, dove non ci fu nessun voto contrario (anche se alcuni deputati socialdemocratici si assentarono nel momento della votazione).
Nell’Europa inondata dall’entusiasmo patriottico regnava l’idea che la guerra sarebbe stata breve: i soldati britannici erano sicuri di riuscire a trascorrere il Natale a casa. Nell’ambiente era ancora vivo il ricordo della guerra franco-prussiana, che era stata liquidata in due mesi. Senza dubbio, quarant’anni dopo, l’evoluzione dei fucili, la potenza di tiro delle mitragliatrici e il potere distruttivo dell’artiglieria impedivano gli spostamenti rapidi e le battaglie decisive, elementi caratteristici delle guerre europee del secolo XIX.
1914: tutti contro tutti Nach Paris, “a Parigi”, era scritto sui vagoni dei treni che trasportavano i soldati tedeschi al fronte secondo il piano Schlieffen. Moltke si attenne a esso, con un’eccezione: aveva indebolito l’ala tedesca che doveva attraversare il Belgio, a vantaggio dell’ala sinistra, che doveva fermare i Francesi nell’Alsazia-Lorena. Ciò ridusse la potenza dell’offensiva germanica, a cui si aggiunse la coraggiosa resistenza del piccolo esercito belga, che fece indietreggiare in maniera decisiva l’esercito tede-
sco. L’aggressione al Belgio mosse migliaia di Britannici ad arruolarsi come volontari, tanto che a un certo punto non ci furono più uniformi a sufficienza. A differenza delle altre Nazioni, la Gran Bretagna non aveva il servizio militare obbligatorio e quindi il suo esercito era formato da soli soldati professionisti che si unirono nella piccolissima British Expeditionary Force (BEF), i cui 120.000 uomini frenarono momentaneamente i Tedeschi a Mons prima di ritirarsi a Parigi, come fece anche l’esercito francese del nord. Mentre i Tedeschi avanzavano, il comandante in capo dell’esercito francese, Joseph Joffre, seguendo le direttrici del Piano XVII francese, attaccò frontalmente l’Alsazia-Lorena, la linea di frontiera meglio fortificata d’Europa. L’entusiasmo offensivo francese (i cadetti dell’Accademia militare di Saint-Cyr si presentarono vestiti da cerimonia per l’occasione) poté fare ben poco di fronte alla difesa tedesca, e migliaia di soldati, vestiti con appariscenti pantaloni rossi e giacche blu, caddero falciati dalle mitragliatrici e dall’artiglieria tedesca. La battaglia delle Frontiere, così come
SOLDATI TEDESCHI PARTONO PER IL FRONTE FRANCESE NEL 1914. Le frasi scritte
con il gesso sul vagone del treno testimoniano l’ingenuo entusiasmo che regnava all’inizio della guerra: “Viaggio a Parigi”, “Arrivederci sul Boulevard”, “A combattere! Mi pizzica la punta della sciabola”. In questo modo, quasi si stesse assistendo a una festa, cominciò una guerra che quasi tutti consideravano evitabile ma che nessuno, in realtà, volle evitare.
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LA GRANDE GUERRA
Un mondo in guerra: soldati di tutti i continenti
In Africa, Francesi e Britannici occuparono tutte le colonie tedesche. Vi combatteva l’unico comandante tedesco mai vinto durante la guerra: Paul von Lettow-Vorbeck, il cui comportamento coraggioso nell’Africa orientale tedesca al comando dei suoi soldati nativi, gli Àscari, lo consacrò a leggenda vivente. In Asia, il Giappone si dichiarò a favore degli alleati e ottenne le enclavi tedesche in Cina e nel Pacifico settentrionale, base della sua espansione futura. La guerra non fu combattuta soltanto in terraferma: anche il mare fu uno sfondo fondamentale, e non soltanto per l’enormità degli scontri navali. Anche se la rivalità navale tra Britannici e Tedeschi contribuì allo scoppio del conflitto, ci fu soltanto una grande battaglia per mare, nello Jutland, nel 1916; i Tedeschi conseguirono una vittoria pirrica ma, visto che la loro flotta era nettamente inferiore, si ritirarono alla base fino alla fine del conflitto. Più importanza ebbe la guerra sottomarina nell’Atlantico, con cui la Germania tentò di piegare la Gran Bretagna, tagliandole gli approvvigionamenti di cibo e materie prime. A sinistra, medaglia commemorativa della vittoria delle truppe alleate.
SVEZIA NORVEGIA
11 10 9 REGNO UNITO 8 OCEANO 7 BÉLGIO 1 6 AT L A N T I C O 2 3 5 FRANCIA ITALIA 4 SPAGNA
CANADA
STATI UNITI
PORTOGALLO
HAITI
Honduras britannica
Malta
Guyana
OCEANO PA C I F I C O
PERÙ
TOGO AFRICA OCC. TEDESCA ANGOLA
BRASILE
Cipro
AFRI TED
Santa Elena
BOLIVIA PARAGUAY CILE URUGUAY
Imperi centrali e alleati Colonie tedesche Paesi dell’Intesa e alleati Colonie dell’Intesa Paesi neutrali Blocco sottomarino tedesco
O
ET
COLOMBIA ECUADOR
Marchesi
IM IM PE SE BU RO
GRECIA
MAROCCO REP. DOMINICANA RÍO DE ORO AFRICA EGITTO MÉSSICO CUBA (SAHARA OCCIDENTALE Porto Rico SPAGNOLO) FRANCESE HONDURAS VENEZUELA NIGERIA
Bermuda
venne chiamata, terminò con un’altra schiacciante sconfitta francese e una nuova ritirata. Paradossalmente, la ritirata degli eserciti fu la salvezza della Francia. Il piano Schlieffen non prevedeva la retrocessione dei Francesi: essi avrebbero dovuto resistere, per poi essere battuti progressivamente. Ora, i Francesi e i Britannici sconfitti al nord si erano concentrati a Parigi, mentre Joffre, facendo ricorso ai riservisti, aveva formato in fretta e furia la VI armata, che posizionò di fronte alla città e che poteva rompere le linee dei Tedeschi, qualora questi, come prevedeva il piano Schlieffen, avessero tentato di accerchiare la città da ovest. I comandanti tedeschi decisero di farla finita con questa minaccia e abbandonarono il piano iniziale per marciare contro la VI armata, anche se la manovra aprì delle brecce nei loro contingenti. Ecco che allora giunse il momento del sessantenne energico generale Joseph Gallieni. Il 2 settembre, quando la caduta di Parigi pareva inevitabile, il governo francese e il Parlamento si trasferirono a Burdeos e Gallieni rimase al co46
MAR G L AC I A L E A RT I C O
Groenlandia
La Prima guerra mondiale ebbe una dimensione geografica mai conosciuta prima. Le due alleanze nemiche entrarono in guerra trascinandosi dietro le rispettive colonie e altri Stati del Vecchio Continente intervennero nel conflitto mossi da interessi territoriali, cosicché vi parteciparono 14 Paesi europei. In America furono 11 i Paesi in guerra, tutti quanti nello stesso gruppo di alleati, anche se soltanto l’azione degli Stati Uniti fu veramente rilevante durante tutto il conflitto.
AFRICA DEL SUDOVEST
MA
SUDAFRICA
ARGENTINA
C Falkland
M A R G L AC I A L E
Georgia del Sud
mando della capitale. Fu lui che convinse Joffre ad attaccare il fianco destro dei Tedeschi, le cui truppe ormai esauste si trovavano a 50 km circa dalla capitale. Questa controffensiva, che durò dal 6 al 9 settembre su di un fronte di oltre 200 km, divenne il “miracolo della Marna” la battaglia che salvò Parigi e che è ricordata per i 6.000 combattenti che Gallieni, in un momento decisivo, inviò al fronte a bordo dei taxi della capitale. I Tedeschi ripiegarono oltre il fiume Aisne e lì si rafforzarono. Davanti a un tale fallimento, però, 33 generali tedeschi furono destituiti, tra cui Moltke, che venne sostituito da Falkenhayn. Alla Marna seguì la “corsa verso il mare”: i due nemici mobilitarono le proprie forze verso nord, tentando di passare dall’altra parte. Nessuno raggiunse l’obiettivo: la corsa terminò con la lunga battaglia di Ypres (ottobre-novembre), che segnò il fallimento tedesco del piano di conquista dei porti del canale. Il fronte si stabilizzò lungo 700 km di trincee, dal Mare del Nord fino alla neutrale Svizzera e in tre anni e mezzo non si mosse di più di 15 km da entrambe le parti.
ANT
Lib 30 pag 46-47 Principali fronti europei: 1 Belgio-Francia del nord 2 Nordest d’Italia 3 Serbia-Albania del nord 4 Dardanelli 5 Romania-Moldavia 6 Galizia 7 Ucraina 8 Polonia-Bielorussia 9 Lituania 10 Lettonia-Estonia 11 Finlandia del sud
EZIA
11 10 9 8 7 6 3 5 A 4
IMPERO AUSTRO-UNGARICO IM PE RO RUSS O SERBIA BULGARIA AFGHANISTAN ROMANIA IMPERO OTTOMANO
COREA
ECIA
Malta
MONGOLIA
Cipro
CINA
PERSIA
A
LA
Aden
INDIA
Socotra
ETIOPÍA
GIAPPONE
CYLON
BIRMANIA FILIPPINE SIAM INDOCINA Guam Marianne
AFRICA OR. Seychelles TEDESCA
Comores
BORNEO
NUOVA
O C E A N O GIAVA Timor GUINEA INDIANO
Mauritius Reunión MADAGASCAR
AUSTRALIA
A
ALE
TASMANIA
Crozet A N TA RT I C O
Isola Amsterdam Kerguelen
Rotterdam PAESI BASSI Bruges Dunkerque
Anversa Bruxelles Ypres Maastricht (ott. – nov. 1914) Lille BELGIO Colonia Arrás Charleroi Liegi Amiens GERMANIA Somme Rethondes (11/11 1918)
Meaux
Parigi
Carolinas Palau Marshall
MALESIA
Maldive
Battaglie principali Firma dell’armistizio Fronti: Agosto-settembre 1914 Fronte in stallo (1914-1918) Luglio 1918 Fronte dell’armistizio (novembre 1918)
(giu. – nov. 1916)
GITTO ARABIA
Lib 30 P 46-47 Zoom 1
Salomone Nuove Ebridi
Laon
Sedan LUSSEMBURGO Reims Metz
Marne Vitry Verdún (feb. - dic. 1916) (set. 1914)
F RANC IA
Nancy
Lib 30 P 46-47 Zoom 2 Pskov Riga (set. 1917)
Memel Königsberg
Gumbinnen (ago. 1914)
Vicebsk Smolensk
Vilna (set. 1915) L. Masurianos (sep. 1914) GERM AN I A Tannenberg (ago. 1914)
Torun
I MP E RO RUSSO
Varsavia
Brest-Litovsk (3/3 1918) Lódz (nov. - dic. 1914) Offensiva Brusílov (giu. - set. 1916)
Rivne
Cracovia
Przemysl (set. 1914 - mar. 1915)
I MP ERO AUST RO-U NGARI CO Battaglie principali Firma dell’armistizio Fronti: Dicembre 1914 Dicembre 1915 Dicembre 1917
ROMANIA Bucarest (nov. - dic. 1916)
FRONTE DELL’EST, FRONTE DELL’OVEST. Nonostante si sia combattuto anche in Africa e Asia, lo scenario principale della guerra fu l’Europa e, in essa, il fronte occidentale. Sul fronte orientale, molto più ampio, nessun avversario riusciva a ottenere una vittoria militare decisiva. Infatti, data la vastità dell’impero zarista, le sue truppe (come già era successo durante le guerre napoleoniche) potevano cedere terreno mentre l’avanzata nemica perdeva resistenza mano a mano che si assottigliavano i suoi corridoi di approvvigionamento, in un territorio che era carente di strade e di rete ferroviaria; nella stessa situazione si trovavano i Russi al contrattacco. Il fronte occidentale era considerato determinante da tutte le parti, perché era lì che si risolveva la questione della supremazia delle potenze industriali; lì, ferrovie e strade portavano fino alle zone di combattimento e riversavano sulle trincee migliaia di tonnellate di armi e munizioni, insieme a migliaia di uomini (sulla Marna i Francesi andarono in guerra in taxi). La facilità di trasporto permise agli strateghi di progettare le grandi battaglie di logoramento del 1916 (Verdun e la Somme), che divorarono centinaia di migliaia di soldati.
L’Austria-Ungheria, che aveva scatenato la guerra, mostrò fin dall’inizio la sua inefficacia militare che l’avrebbe caratterizzata per tutto il conflitto. Invase la Serbia e occupò Belgrado, ma venne cacciata dal Paese a dicembre da un esercito che aveva fucili soltanto per la metà dei suoi soldati. Perse anche la Galizia per mano dei Russi. L’esercito zarista, che si era mobilitato prima del previsto contro i Tedeschi, attaccò con due eserciti la Prussia orientale per alleviare la pressione tedesca sui Francesi. I Tedeschi, tuttavia, comandati dal maresciallo Paul von Hindenburg, con Erich Ludendorff come suo secondo, li sconfissero strepitosamente nelle battaglie di Tannenberg (agosto) e dei laghi Masuri (settembre). Due mesi più tardi, i Russi, come già era successo ai Tedeschi, dovettero combattere su due fronti: il 12 novembre, la Turchia si era alleata con gli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria, impero ottomano e Bulgaria). I Giovani Turchi vedevano nel conflitto un’opportunità per rifarsi delle perdite del 1911-1912 in Africa settentrionale (contro l’Italia) e dei Balcani (contro Bulgari,
Greci e Serbi), così come per far fronte alle ambizioni russe sul Caucaso e sullo stretto dei Dardanelli e alle aspirazioni della Gran Bretagna sulla regione della Mesopotamia. Alla fine di quell’anno, il conflitto che si era previsto rapido e che era stato preparato per decenni era sfociato in una realtà nuova: la guerra di trincea. I generali, ingabbiati in teorie belliche che risalivano alle guerre napoleoniche, continuavano a ordinare ai propri uomini l’assalto di queste linee fortificate con la speranza che venissero superate, lanciandoli contro un muro di fuoco di mitragliatrici e di artiglieria e provocando carneficine la cui grandezza aumentò con l’uso dei nuovi elementi distruttivi.
1915: stallo Nel nuovo anno, i contendenti riuscirono a piegare l’avversario attaccando il nemico più debole di ogni alleanza, mentre cercavano di vincerlo attirando nuovi adepti alla loro causa. La Germania cambiò il piano Schlieffen: attaccò la Russia per obbligarla a firmare la pace e poi scaricare tutto il 47
Mattanza a Verdun: gli avversari si annientano reciprocamente
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Nel 1915, Falkenhayn, comandante supremo tedesco, decise di attaccare una postazione cui i Francesi non potevano rinunciare, per riuscire a distruggere i loro eserciti, che sarebbero accorsi alla battaglia. L’intenzione era dissanguare letteralmente la Francia, causandole perdite di cinque combattenti ogni due soldati tedeschi e obbligarla a firmare la pace. Dato il suo valore simbolico, si scelse come obiettivo Verdun, che nel 1792 e nel 1870 aveva fornito una resistenza eroica ai Prussiani. L’attacco era iniziato il 21 febbraio del 1916, con un bombardamento d’artiglieria di nove ore che aveva colpito le fortificazioni che proteggevano la città. In seguito, erano avanzati dei corpi di nuova creazione: le truppe d’assalto, equipaggiate con un’altra novità, il lanciafiamme, e i Tedeschi occuparono i principali punti di difesa, quali l’emblematico forte di Douaumont, che cadde il giorno 25. I Francesi, come aveva previsto Falkenhayn, si asserragliarono a Verdun e seguirono dieci lunghi mesi di spietati combattimenti: a luglio, la popolazione di Fleury cambiò di mano 16 volte. La battaglia mostrò il nuovo volto della guerra, con l’impiego massiccio dell’artiglieria, la disputa per la superiorità aerea e il peso della logistica: i Francesi usarono fino a 6.000 veicoli per inviare uomini e rifornimenti al fronte sulla strada da Bar-le-Duc a Verdun. L’aviazione tedesca non la bombardò, poiché l’obiettivo di Falkenhayn era di triturare l’esercito francese e aveva necessità che i soldati francesi giungessero al macello. A ottobre, i Francesi riconquistarono Douaumont, e in dicembre la battaglia terminò dopo aver dissanguato le fila di entrambi i nemici, con un totale di 300.000 morti. Qui a lato, l’elmetto d’acciaio tedesco (stahlelm); a destra, attacco francese a Verdun.
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proprio potere militare sul fronte occidentale. Falkenhayn, che riteneva decisivo il fronte occidentale, si opponeva a una tale strategia dal momento che la Russia avrebbe potuto perdere enormi territori senza che i Tedeschi ottenessero una vittoria decisiva. Cedette così alle pressioni di Hindenburg e Ludendorff, davanti alla necessità sempre più perentoria di sostenere l’AustriaUngheria, le cui perdite superavano ormai i due milioni. I fatti gli avrebbero dato ragione. Anche se la Russia perse la Polonia e retrocesse anche al sud, la vittoria tedesca, così come era successo in Francia l’anno precedente, non significò la distruzione dell’esercito zarista, che riuscì a ritirarsi in ordine e a coprire le perdite con le enormi riserve umane di cui disponeva. La Russia, quindi, avrebbe continuato a combattere. Il volume di militari e di materiali impiegati per le offensive del fronte russo obbligò i Tedeschi ad adottare una strategia difensiva sul fronte occidentale, decisivo anche per i Francesi e i Britannici. I Francesi, spronati dal desiderio di cacciare i Tedeschi dai territori che avevano invaso, 48
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Verdun, settore riserva
A Bar-Le-Duc
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Esercito tedesco Esercito francese Posizione francese fino al 21/2/1916 Posizione francese al 24/2/1916 Ritirata francese alla fine di febbraio 1916 Area francese recuperata nell’autunno del 1916 Posizione francese nell’aprile del 1916
guidarono varie offensive contro un nemico inferiore numericamente, ma ben installato su solide linee fortificate, che trasformarono in autentiche carneficine gli attacchi che in primavera e in autunno l’Intesa lanciò nelle Fiandre, Artois e Champagne, in battaglie in cui si impiegò per la prima volta gas velenoso. L’Italia, membro della Triplice Alleanza in cui i suoi soci confidavano poco, si era dichiarata neutrale all’inizio della guerra, ma si unì all’Intesa quando le fu assicurato che sarebbero state soddisfatte le sue rivendicazioni su territori austriaci. Il 23 maggio dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, ma le sue truppe, al comando del dispotico maresciallo Luigi Cadorna, si rivelarono tanto incapaci sul nuovo fronte alpino quanto quelle del suo nemico. Sul fianco meridionale, la Germania assunse la direzione della guerra nei Balcani davanti all’incapacità del suo alleato austro-ungarico per chiudere la questione della Serbia; la occupò in ottobre con l’aiuto della Bulgaria, che entrò nel conflitto per risarcirsi delle perdite subite con la seconda guerra balcanica. Da parte loro, i Turchi
ottennero una clamorosa vittoria sull’Intesa, che, sotto la spinta di Winston Churchill (a quel tempo al comando dell’ammiragliato britannico) aveva progettato un’offensiva sullo stretto dei Dardanelli; la sua intenzione era di aprire un passaggio al Mediterraneo per la Russia, indurre Romania e Grecia a entrare in guerra contro i Turchi e persino obbligare questi ultimi ad arrendersi. Nell’aprile del 1915, Francesi, Britannici e l’ANZAC (Australiani e Neozelandesi) sbarcarono nella penisola di Gallipoli, sulla riva europea dello stretto. Ma la disastrosa pianificazione della campagna e l’inaspettata resistenza turca, diretta dal risoluto e tenace Mustafa Kemal («Non vi chiedo che attacchiate, vi chiedo che moriate», disse agli uomini del suo esercito quando questi si lamentarono della mancanza di munizioni), trasformarono la spedizione in un disastro totale, e gli alleati dovettero perciò reimbarcarsi a dicembre, dopo aver sofferto di dissenteria in estate e di congelamento in inverno. Alla fine dell’anno, le potenze centrali avevano costretto i Russi a retrocedere, avevano distrutto
i Serbi e avevano contenuto le offensive del nemico su tutti i fronti. Ma non avevano tuttavia ottenuto la vittoria definitiva.
1916: guerra totale Nel dicembre del 1915, gli alleati (Francia, Gran Bretagna, Russia e Italia), riuniti a Chantilly, decisero di lanciare tre offensive simultanee l’anno successivo, con le quali speravano di superare il punto morto in cui si trovava il conflitto. Sul fronte occidentale, la Francia e la Gran Bretagna pianificarono un attacco sulla Somme per luglio, ma Falkenhayn li anticipò a Verdun, dove i Tedeschi sferrarono la maggior offensiva della guerra. Davanti all’impossibilità di aprirsi un varco sul fronte francese, Falkenhayn, freddo e metodico comandante tedesco, adottò una nuova strategia: quella del logoramento. Suo obiettivo non era tanto conquistare Verdun quanto dissanguare la Francia: indurre il nemico a contrattaccare per difendere l’onore nazionale, e quindi sfinirlo in maniera sistematica e continua fino a stremare i suoi soldati e obbligarlo a chiedere la pace. Doveva es49
LA GRANDE GUERRA
L’insurrezione irlandese di Pasqua nell’aprile del 1916 Nel maggio del 1914, la Camera dei Comuni britannica votò a favore della Home Rule, una legge di autogoverno promossa dai deputati del Partito Nazionalista Irlandese, ma allo scoppio della guerra venne lasciata in sospeso fino alla fine dello scontro bellico. Il congelamento della legge portò una parte di nazionalisti irlandesi che puntavano all’indipendenza a optare per l’insurrezione. Armati e uniti nella Irish Republican Brotherhood (Fratellanza Repubblicana Irlandese), guidata dall’intellettuale gaelico Patrick H. Pearse, e nel molto più esiguo Irish Citizen Army (Esercito Civile Irlandese) con a capo il socialista James Connolly, promossero una sommossa a Dublino il 24 aprile 1916, il lunedì di Pasqua, per la quale contavano su armi acquistate dai Tedeschi; Pearse proclamò l’indipendenza dell’Irlanda. L’arrivo dell’artiglieria britannica spense la rivolta e gli insurrezionalisti si arresero il 29 aprile. Furono oltre 500 i morti e quasi 3.000 i feriti. La popolazione non si era unita alla rivolta, ma davanti all’esecuzione di quindici capi dei ribelli (tra cui Pearse e Connolly) gli Irlandesi reagirono offrendo il loro appoggio al movimento indipendentista Sinn Féin, che nel 1918 divenne la forza più votata in Irlanda. A destra, soldati britannici mentre combattono a Dublino durante la rivolta.
LA GRANDE BERTA.
Caricatura di Bertha Krupp, il cui nome venne dato a un enorme mortaio dell’esercito tedesco, in seguito noto come La Grande Berta.
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sere una Materialschlacht, una “battaglia di materiali”. Fece preparare perciò la più grande concentrazione di artiglieria della storia: 1.200 cannoni su di un fronte di 13 km. La cosiddetta “operazione Gericht” (“tribunale” o “patibolo”) cominciò il 21 febbraio con un tuonare di artiglieria che si poteva sentire a 150 km di distanza e con l’impiego di una nuova arma: il lanciafiamme. Quattro giorni dopo l’inizio della battaglia, i Tedeschi conquistavano il forte di Douaumont, considerato inespugnabile. La catastrofe sembrava incombere sulla Francia e il generale Henry Philippe Pétain fu recuperato dal letto della sua amante, a Parigi, e portato a dirigere la difesa di Verdun. Questa dipese dagli uomini e dagli approvvigionamenti fatti affluire da una stretta via: la Via Sacra, che permise di lanciare sui Tedeschi più di cinque milioni di proiettili nelle prime sette settimane di battaglia. Ad aprile, Pétain, che spingeva per la guerra difensiva, fu sostituito da un entusiasta sostenitore dell’offensiva a oltranza, Robert Nivelle. Per alleviare la pressione sull’esercito francese, gli alleati anticiparono le offensive previste a Chan-
tilly: a giugno, i Russi lanciarono un’offensiva contro le posizioni austro-ungariche, e in luglio, i Britannici ne cominciarono un’altra sulla Somme. I Tedeschi si videro costretti a inviare truppe da Verdun su altri fronti, e cedettero progressivamente terreno fino alla fine dell’anno. A ottobre, forze francesi riconquistavano la simbolica piazza di Douaumont, protette da una cortina di fuoco d’artiglieria che avanzava fino a 100 m in quattro minuti. La Francia aveva preso l’iniziativa. La battaglia più lunga della guerra e della storia si concluse a dicembre. Nonostante non ci fosse stato un vero vincitore, rimase un senso di sconfitta tra i Tedeschi e alzò il morale dei Francesi, i quali, sebbene avessero avuto 377.231 vittime (di cui 162.440 morti) di fronte ai 337.000 dei Tedeschi (di cui, 143.000 morti) mantennero Verdun. Lo scontro cambiò la sorte dei comandanti avversari: Falkenhayn venne destituito in agosto e sostituito da Hindenburg, con Ludendorff come vice, mentre il generale Joffre fu rilevato dal comando a dicembre da Nivelle. I campi bruciati di Verdun, con cadaveri ridotti in poltiglia dagli obici, con topi che si nutri-
HINDENBURG E LUDENDORFF. Nel 1914,
Paul von Hindenburg (a sinistra), che era intervenuto nella guerra franco-prussiana e si era ritirato dall’esercito nel 1911, venne chiamato per combattere i Russi sul fronte orientale, e da quel momento ebbe come vice Erich Ludendorff (a destra), un brillante militare che aveva svolto un ruolo decisivo nella resa di Liegi durante l’invasione del Belgio. Le vittorie di Tannenberg e dei laghi Masuri diedero a Hindenburg un carisma straordinario, anche se il vero genio strategico del duo militare era Ludendorff. Entrambi gli ufficiali guidarono le redini della guerra e, di fatto, anche quelle di tutta la politica tedesca fino a quando, nel 1916, il maresciallo Hindenburg sostituì Erich von Falkenhayn al comando dello Stato maggiore tedesco.
vano dei resti di uomini e animali e con l’olezzo della putrefazione su tutto, erano una visione dell’inferno in terra. Lo stesso inferno che vissero anche i combattenti della Somme. La battaglia di Verdun, che assorbì l’esercito francese, conferì tutto il protagonismo della Somme a un esercito britannico che ora contava su 1,1 milioni di uomini. I suoi comandanti, con sir Douglas Haig a capo di tutto, fecero dell’artiglieria la chiave della vittoria: per diversi giorni, i cannoni dovevano fare piazza pulita delle difese nemiche e permettere alla fanteria di avanzare senza ostacoli. Il bombardamento cominciò il 24 giugno e utilizzò oltre 1,5 milioni di proiettili su meno di 30 km di fronte. La stoccata finale cominciò alle 6:25 del 1 luglio; per un’ora cadde sui Tedeschi la pioggia di fuoco più intensa della storia (se ne udì il fragore fino in Gran Bretagna). I proiettili, tuttavia, non avevano distrutto le recinzioni di filo spinato né raggiunto i rifugi tedeschi, scavati fino a nove metri di profondità. Quando 100.000 fanti britannici avanzarono gomito a gomito alle 7:30, carichi di zaini pesanti 30 kg, furono crivellati dalle mitraglia-
trici nemiche, che trasformarono quel giorno nel più sanguinoso episodio della storia militare britannica mai occorso: 57.570 furono le vittime, di cui 19.240 i morti. Fallito l’attacco iniziale, la Somme divenne un’altra grande battaglia di logoramento, poco più breve di quella di Verdun ma molto più sanguinosa: quando si concluse a novembre, le perdite furono di circa 450.000 Tedeschi, 420.000 Britannici e 200.000 Francesi. Per la prima volta si erano usati i carri armati, un’arma che avrebbe fatto da protagonista nel futuro bellico insieme all’aereo, impiegato su grande scala dai belligeranti sia nella Somme che a Verdun. Entrambe le battaglie avevano ampiamente provato che la concentrazione di uomini e armamenti in un punto non portava alla rottura del fronte. Il generale russo Aleksej Brusilov provò un altro metodo. Dato che un lungo bombardamento previo e la concentrazione di truppe allertavano il nemico, in giugno sferrò contro gli Austro-ungarici quattro attacchi contemporanei con una breve preparazione d’artiglieria, su di un fronte di oltre 300 km. 51
UNA GUERRA DIVERSA DA TUTTE LE PRECEDENTI
T
ra il 1914 e il 1918 si assistette a una piena trasformazione delle caratteristiche belliche, visibile nell’equipaggiamento militare: si diffuse l’uniforme mimetica, l’elmetto d’acciaio sostituì il berretto con la visiera, fu aggiunta la maschera antigas, fucili e pistole vennero integrati con lanciafiamme e pistole mitra, simili a mitragliatrici individuali. L’artiglieria, che assunse un potere distruttivo sconosciuto fino a quel momento e venne usata in grande scala, costrinse i soldati a nascondersi in trincee fortificate che potevano essere superate soltanto da un nuovo veicolo blindato: il carro armato. I combattimenti avvennero anche in aria, con apparecchi le cui funzioni si stavano specializzando: caccia, bombardieri, aerei per l’osservazione… E in mare nacque la guerra sottomarina, in cui la Germania sfruttò un vantaggio che avrebbe potuto risultare letale se avesse perfezionato quest’arma con più impegno e prontezza. A destra, un sottomarino tedesco affonda un peschereccio inglese, in un acquerello di Klaus Bergen (1885-1964), noto autore di grandi quadri bellici nel 1917.
CACCIA ALBATROS D-3. Con due mitragliatrici e una velocità massima di 176 km/h, questo aereo contribuì alla supremazia aerea tedesca nella primavera del 1917. 52
AEREI. Nel 1914,
SOTTOMARINI.
ARTIGLIERIA.
i Paesi belligeranti raggiungevano, in totale, circa 800 apparecchi, ma durante il conflitto se ne costruirono circa 150.000.
Nel 1914, i Tedeschi possedevano 28 unità sottomarine e durante la guerra ne misero in servizio circa 400, perdendone poi 178.
Se nell’agosto del 1914 l’esercito tedesco contava su 180 mortai di diversi calibri, nel gennaio del 1918 disponeva di 16.127 pezzi.
CARRI ARMATI. Il primo
carro armato fu il Mark I britannico, che comparve nel settembre del 1916, sulla Somme. Pesava circa 30 tonnellate, avanzava a 3,2 km/h e conteneva 8 uomini.
MANIFESTO PER IL PRESTITO PUBBLICO DI GUERRA FRANCESE. L' immagine propagandistica
mostra un carro armato di grandi dimensioni, ma il miglior carro armato francese era piĂš piccolo e manovrabile: il Renault FT misurava quasi 5 m di lunghezza e pesava 7 tonnellate; conteneva soltanto due uomini: il guidatore e un tiratore. 53
LA GRANDE GUERRA
Le munitionettes, le operaie della guerra Tra i vari cambiamenti sociali indotti dalla guerra, c’è quello della donna impegnata in lavori maschili, a causa della partenza degli uomini per il fronte. In questo ambito è rilevante il ruolo femminile nell’industria di guerra britannica fin dal 1915. Nella primavera di quell’anno, le offensive alleate ad Artois manifestarono la necessità di poter disporre di più munizioni: nei 35 minuti precedenti l’offensiva di Neuve-Chapelle vennero lanciati più obici che in tutta la guerra dei Boeri. La guerra moderna dipendeva dall’industria, ed essa passò a dipendere dalle donne; senza il loro lavoro, affermò Churchill, sarebbe stato impossibile vincere la guerra. Il numero delle donne impiegate nell’industria bellica passò da 212.000 a 923.000 durante il conflitto. Lavoravano in lunghi orari di lavoro con materiali che causavano gravi rischi per la salute, come i nitrati composti (il tetryl e il trinitrotoluene o TNT) che provocavano itterizia, rendendo la pelle giallognola (da cui l’appellativo di “ragazze canarino”, con cui erano prese in giro les munitionettes, dal colore del piumaggio di questo uccello) e provocavano dermatiti, vomito e dolori addominali fino all’anemia e all’epatite. A destra, operaia in una fabbrica di munizioni britannica durante la Prima guerra mondiale.
I BUONI AMERICANI.
La Statua della Libertà alla ricerca di fondi per telefono, in un manifesto di Z.P. Nikolaki che invita gli Americani a sottoscrivere buoni di guerra nel 1918.
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Il nemico collassò: 700.00 furono le vittime, tra cui 400.000 prigionieri, e retrocesse di un centinaio di km fino a metà luglio. L’incompetenza dell’esercito austro-ungarico costrinse la Germania ad assumerne il controllo, mentre la vittoria russa significò, paradossalmente, un fallimento visto che l’esercito zarista non riuscì a rifarsi delle perdite in termini di uomini: circa un milione di perdite. La Russia e l’Austria-Ungheria erano ormai vicine al collasso tecnico. Il successo russo aveva indotto i Romeni a entrare in guerra con gli alleati per conquistare la Transilvania ungherese; tuttavia, lo stallo dell’attacco russo permise a Tedeschi, Turchi e Bulgari di occupare a dicembre la quasi totalità della Romania. Gli alleati, quindi, persero un appoggio nei Balcani, ma ne guadagnarono un altro: a novembre, una Grecia divisa tra il re Costantino I, cognato del kaiser e filo-tedesco, e il primo ministro Eleftherios Venizelos, sostenitore degli alleati e da essi sostenuto, dichiarò guerra alla Germania e alla Bulgaria. Nonostante tutto, alla
fine del 1916, il conflitto continuava a essere in stallo mentre le retrovie sobillavano l’insoddisfazione della popolazione civile, colpita dalle ristrettezze del razionamento. A quel punto, la Germania volse il suo sguardo verso il mare.
1917: la rottura dell’equilibrio Nel Reich, all’inizio del 1917, il potere era in mano a Hindenburg e Ludendorff; entrambi dirigevano il Paese in ciò che di fatto era una dittatura militare. Lo stallo del fronte occidentale li condusse, da un lato, a concentrarsi dietro la linea Hindenburg, come gli alleati chiamarono l’imponente sistema di trincee e fortificazioni che, costruito con manodopera forzata, si estendeva per 160 km nella zona della Somme; tale ripiego diminuì l’estensione del fronte e permise loro di liberare 13 divisioni. Dall’altro lato, cercarono la vittoria su di un fronte privo di recinzioni di filo spinato: quello della guerra sottomarina. La Germania subiva il blocco navale da parte della flotta britannica, che le strangolava l’economia. E non si trattava solo di questo: grazie alla loro superiorità, gli
Inglesi trattenevano l’Armata tedesca confinata nei porti (non bisogna dimenticare che l’allestimento di tale flotta era stato una delle cause della guerra) dopo l’unica battaglia navale del conflitto, quella dello Jutland (maggio-giugno 1916). Gli strateghi tedeschi, allora, presero la decisione di soffocare a loro volta il Regno Unito per mezzo di una guerra sottomarina che lo privasse di cibo e materie prime che importava per mare: si stimava che, in sei mesi, i Britannici avrebbero dovuto essere costretti a chiedere la pace. Una tale situazione implicava la prevedibile entrata in guerra degli Stati Uniti, Paese che già nel 1915 aveva obbligato i Tedeschi a limitare la guerra sottomarina dopo l’affondamento del Lusitania, in cui erano morti 128 passeggeri statunitensi. I comandanti tedeschi prevedevano di piegare i Britannici prima che gli Stati Uniti riuscissero a entrare in un conflitto in cui, dal loro punto di vista, erano già stati coinvolti, concedendo crediti e inviando rifornimenti agli alleati. Il 1° febbraio 1917, la Germania dichiarò la guerra sottomarina senza restrizioni. Il tonnellaggio affondato au-
mentò in maniera esagerata e giunse a un massimo di 2.200.000 tonnellate nel secondo trimestre di quell’anno, ma i Britannici non si arresero. Idearono l’idrofono per localizzare i sottomarini, crearono cariche di profondità per affondarli e adottarono la navigazione in convogli molto ben protetti. Da quel momento, il totale delle operazioni di affondamento con risultato positivo si ridusse drasticamente. E a quel punto, una nuova potenza, gli Stati Uniti, entrò nel conflitto. L’opinione pubblica americana era reticente alla partecipazione alla guerra. Infatti, Woodrow Wilson aveva vinto le elezioni presidenziali l’anno prima con lo slogan «Ci ha tenuto fuori dalla guerra». Il 3 febbraio, però, a causa della campagna sottomarina senza restrizioni, aveva rotto le relazioni diplomatiche con il Reich. Nel mese di marzo fu reso pubblico il “telegramma Zimmermann”, con il quale la Germania proponeva al Messico un’alleanza contro gli Stati Uniti in cambio, in caso di vittoria, di quei territori che gli Statunitensi avevano strappato ai Messicani nel 1848. L’episodio alimentò lo spirito antitedesco negli
LA DICHIARAZIONE DI GUERRA DEGLI STATI UNITI. Il 2 aprile 1917,
Thomas Woodrow Wilson chiese al Congresso degli Stati Uniti che venisse dichiarata guerra alla Germania. Sebbene il presidente fosse un sostenitore della pace, la guerra sottomarina tedesca aveva indotto a entrare in guerra un Paese formato da immigrati che vivevano con grande intensità il conflitto bellico europeo: quelli di origine britannica sostenevano il Regno Unito, odiato da quelli di origine irlandese e tedesca, mentre i discendenti di ebrei e Polacchi aborrivano la Russia. 55
LA GRANDE GUERRA
Comincia la guerra chimica: l’impiego di sostanze letali Il progresso della chimica, che aveva dato impulso alla seconda Rivoluzione industriale alla fine del XIX secolo, si manifestò in maniera letale sui campi di battaglia della Grande Guerra con l’uso dei gas tossici, che testimoniava la trasformazione del conflitto in una disumana mattanza su larga scala. Vennero impiegati vari tipi di prodotti chimici: irritanti, come i gas lacrimogeni, paralizzanti, come il gas mostarda o iprite (ideato da un premio Nobel, Fritz Haber), che bruciava la pelle e le mucose per cui, se inalato, colpiva anche la trachea e i polmoni; gas asfissianti, come il fosgene e il cloro, che soffocavano le vittime, producendo una quantità eccessiva di liquidi nei polmoni (edema polmonare). I primi a usare i gas nel conflitto furono i Francesi, che nell’agosto del 1914 impiegarono agenti irritanti contro i Tedeschi. Questi usarono per la prima volta un gas mortale, il cloro, nella seconda battaglia di Ypres, nell’aprile del 1915: in quell'occasione l’avanzata di una nube tossica di color giallo-verdognolo causò lo sbando delle truppe francesi. Per prevenire gli attacchi chimici e difendersi da essi, le truppe furono costrette a dotarsi di maschere antigas, come quella indossata dal soldato australiano nella fotografia, scattata nelle Fiandre.
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Stati Uniti, che vedevano come le loro navi venivano affondate dai sottomarini tedeschi. Il 6 aprile, gli Americani dichiararono guerra ai Tedeschi, anche se, visto che non prevedevano il servizio militare obbligatorio, sarebbero stati pronti in maniera adeguata all’intervento soltanto nel 1918. Mentre gli Stati Uniti entravano in guerra, si svolse la prima fase della Rivoluzione russa, altro grande avvenimento che contribuì al pareggiamento bellico. In Russia, la scarsità di cibo e di combustibile, insieme alla chiusura delle fabbriche per mancanza di materie prime, diede luogo a una serie di scioperi e di ribellioni. L’8 marzo (il 23 febbraio nel calendario giuliano, che a quei tempi era ancora in vigore in Russia) cominciarono le manifestazioni operaie a Petrograd, nuovo nome dato a San Pietroburgo, e i cosacchi si rifiutarono di reprimere quelle proteste. Una volta perso l’appoggio dell’esercito, il regime era condannato. Lo zar Nicola II volle sciogliere la terza Duma ( l’ultimo dei parlamenti che si erano susseguiti dal 1906), ma il 12 marzo essa formò un governo provvisorio che costituiva un potere parallelo a quello rappresentato dai soviet o consigli eletti da operai e soldati, organi che controllavano di fatto la produzione industriale e il vitale sistema ferroviario del Paese. Uno screditato Nicola II, che aveva assunto il comando della guerra e ora appariva come il colpevole delle calamità che affliggevano la sua popolazione, abdicò il 15 a favore del fratello Michele, che rinunciò al trono il giorno successivo. Si concluse così la cosiddetta “Rivoluzione di febbraio”. Il governo provvisorio, presieduto dal principe Gueorgui Lvov con l’appoggio di gruppi liberali, continuò a voler combattere in guerra, un impegno che si scontrava con la realtà di un esercito minato dalle diserzioni e dalla scarsità di rifornimenti, in cui l’autorità degli ufficiali era contestata dai comitati presieduti dagli stessi soldati. La guerra, per di più, creava un forte rifiuto popolare e i partiti socialisti interpretavano questo sentimento come una richiesta di pace senza condizioni. I Tedeschi, a quel punto, volendo approfittare di una situazione così esplosiva e provocare una crisi interna al Paese, inviarono a Petrograd i leader bolscevichi, che si trovavano in esilio in Svizzera. A mezzanotte del 16 aprile giungevano nella capitale, guidati da un Lenin i cui messaggi di «Pane, terra e pace» e «Tutto il potere ai soviet», noti come le Tesi di Aprile, non avrebbero tardato a mostrare tutto il loro potenziale sovversivo.
Dal Chemin des Dames a Caporetto Diciotto ore prima che Lenin scendesse dal treno a Petrograd, gli alleati, a 2.600 km di distanza, avevano lanciato una grande offensiva nella regione del fiume Aisne. Era stata pianificata dal generale
Nivelle, a capo dell’esercito francese da quattro mesi. Come a Verdun, Nivelle contava sull’efficacia di una barriera di fuoco d’artiglieria dietro la quale doveva avanzare la fanteria, ma ora si trovava sull’eccezionale linea Hindenburg, contro cui si schiantarono le truppe francesi. L’attacco sferrato sulle alture del Chemin des Dames non fu altro che una carneficina: tra il 16 e il 29 aprile, i Francesi subirono 134.000 perdite, di cui l’80% il primo giorno. Nivelle venne destituito e sostituito dal generale Pétain. La mattanza era stata la goccia che aveva fatto traboccare la pazienza dei soldati, che si sollevarono in 68 delle 112 divisioni della fanteria francese. Pétain ristabilì la situazione con 43 esecuzioni (vennero condannati a morte 629 soldati), un miglioramento delle condizioni di vita dei combattenti e lo stallo delle offensive. La Francia passava alla difensiva in attesa dell’arrivo dell’esercito statunitense. Lo sfinimento dei Francesi e la crisi russa trasformarono i Britannici nell’unico alleato da attaccare. Haig tentò di raggiungere le basi sottomarine dei Tedeschi nella regione belga delle Fiandre
con un attacco sferrato a luglio nella zona di Ypres. La decisa difesa tedesca, sommata a un mese di agosto piovoso che trasformò le terre fiamminghe ricche d’argilla in una fangaia che ingoiava letteralmente soldati e veicoli, limitò il successo degli alleati alla conquista sanguinosa della cima di Passchendaele, per mano di soldati canadesi. Morirono 70.000 attaccanti fino a che Haig fermò quella nuova Somme all’inizio di novembre, quando Britannici e Francesi dovettero accorrere in aiuto degli Italiani. Questi ultimi, dopo aver ingaggiato varie battaglie sul fiume Isonzo dall’inizio del conflitto, erano usciti sconfitti dalla dodicesima, a Caporetto (l’attuale Kobarid, in Slovenia). Il 24 ottobre era cominciata una travolgente offensiva austro-ungarica, rinforzata da truppe tedesche provenienti dal fronte orientale, dove una Russia smarrita e confusa non era più un vero avversario per la Germania. Alla vittoria imperiale contribuì in grande misura lo stato d’animo abbattuto degli uomini sottomessi alla brutale disciplina di Cadorna: di fronte a 40.00 soldati che caddero feriti o che morirono, 280.000
ASSEMBLEA DEL SOVIET DEI SOLDATI.
La sala Caterina del Palazzo di Tauride, a Petrograd, fu la sede di questa riunione nel febbraio 1917. Questa stessa sala era stata lo scenario del fallimento dell’instaurazione della democrazia in Russia: lì si era riunita la Duma (il Parlamento che Nicola II privò di qualsiasi potere), dal 1906 al 1917, e l’Assemblea Costituente che i bolscevichi sciolsero con la forza nel gennaio del 1918.
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LA GRANDE GUERRA
MANIFESTO ANTIBOLSCEVICO DEL 1918. Trockij,
fondatore dell’Esercito Rosso, rappresentato come un orco che trasuda sangue al Cremlino; sono stati accentuati i suoi tratti fisici ebraici e indossa una stella di Davide.
SPARI PER LE STRADE DI PETROGRAD (pag. 60-61). La folla
si disperde all’inseguimento delle truppe del governo provvisorio lungo la Prospettiva Nevskij di Petrograd, il 4 luglio 1917. 58
si arresero e altri 350.000 disertarono. Il 9 novembre, Italiani, Francesi e Britannici riuscirono a stabilire il fronte a soltanto 30 chilometri da Venezia.
La Rivoluzione russa La disfatta di Caporetto coincise con la presa del potere da parte dei bolscevichi in Russia, azione che culminò con otto mesi di tensioni politiche e sociali crescenti. In maggio, Lvov aveva tentato di far uscire il governo provvisorio dall’imbottigliamento in cui si trovava attraverso la presenza di socialisti rivoluzionari in un nuovo esecutivo. Uno di loro, Aleksandr Kerenskij, occupò il ministero di guerra e avviò una nuova offensiva il cui fallimento, a luglio, portò allo sfinimento un esercito formato da contadini che desideravano soltanto tornarsene a casa e avere un pezzetto di terra da coltivare per vivere. L’opposizione alla guerra arrivò al culmine e a Petrograd ci fu una rivolta operaia alla quale si unirono i soldati acquartierati in città e i marinai della vicina base navale di Kronstadt. L’insurrezione fu repressa e i bolscevichi, accusati di averla organizzata, furono arrestati o
fuggirono. Lenin scappò in Finlandia. Kerenskij, l’unico ministro membro del Soviet di Petrograd e della Duma, successe a Lvov a capo del governo. Repressa la rivoluzione, sorse la controrivoluzione per mano del generale Lavr Kornilov che Kerenskij aveva nominato comandante supremo. A settembre, il suo tentativo di instaurare una dittatura militare, spinto dalla destra, fallì davanti all’opposizione armata dei bolscevichi e dalla Guardia Rossa. La fine del tentativo golpista animò questi ultimi e indebolì Kerenskij. Nel frattempo, i soldati disertavano (un milione abbandonò l’esercito tra marzo e ottobre), i contadini occupavano le terre e le minoranze nazionali (Polacchi, Ucraini, Finlandesi e Baltici,...) reclamavano l’autonomia o dichiaravano l’indipendenza. L’autorità del governo provvisorio stava evaporando. In un tale contesto, Lenin rientrò a Petrograd e riuscì a imporre ai dirigenti bolscevichi il proprio progetto di insurrezione armata. Nella notte tra il 6 e il 7 novembre (tra il 24 e il 25 ottobre secondo il calendario giuliano), la Guardia Rossa bolscevica, i marinai di Kronstadt e le unità militari che si erano aggiunte al movimento, con un colpo di Stato senza spargimento di sangue si impossessarono del Palazzo d’Inverno (l’antica residenza dello zar, trasformata in sede dell’esecutivo provvisorio) e degli altri edifici governativi della capitale. Durante l’assalto al palazzo, si inaugurò il secondo Congresso dei Soviet russi, dominato dai bolscevichi. I menscevichi e quei socialrivoluzionari che erano contrari al golpe, poiché lo ritenevano antidemocratico, abbandonarono il congresso in segno di protesta; in risposta a ciò Trockij proclamò: «Andate dove vi meritate di stare, nella pattumiera della storia». Con l’appoggio dei socialrivoluzionari di sinistra, i bolscevichi formarono il Consiglio dei Commissari del Popolo, un governo presieduto da Lenin, con Trockij a capo degli affari esteri e Stalin delle minoranze nazionali. Per accattivarsi il sostegno popolare, il nuovo potere promulgò due decreti in sintonia con le Tesi d’Aprile leniniste, con le quali si aboliva la grande proprietà e si approvava la negoziazione della pace con gli Imperi Centrali. Si stabilì in seguito il controllo operaio sulle grandi imprese industriali della Russia e il riconoscimento dell’uguaglianza e della sovranità di tutte le popolazioni che formavano l’impero. Nonostante tutte queste iniziative, nelle elezioni dell’Assemblea Costituente tenutesi a novembre, i bolscevichi ottennero soltanto il 24% dei voti e 168 seggi, di fronte ai 419 dei socialrivoluzionari, sostenuti dai contadini. Quando l’Assemblea si riunì il 5 gennaio 1918, i bolscevichi non esitarono a scioglierla con la forza. La Cheka, la sinistra e onnipresente polizia politica bolscevica, fondata un mese prima (che in
seguito sarebbe diventata la GPU, la NKVD e il KGB) cominciò a perseguitare liberali, menscevichi e socialrivoluzionari, così come la loro stampa. Nel frattempo, si organizzavano gli eserciti della controrivoluzione, i cosiddetti “eserciti bianchi”, che ricevettero il sostegno degli alleati dopo che i bolscevichi firmarono, il 3 marzo 1918, il Trattato di Brest-Litovsk con gli Imperi Centrali e abbandonarono la guerra. Lenin sapeva che i bolscevichi non potevano combattere contemporaneamente contro i “bianchi” e i Tedeschi, e accettò una pace che significava per la Russia la perdita del 34% della popolazione (55 milioni di persone), il 32% delle terre coltivabili, il 54% dell’industria e l’89% delle miniere di carbone. A questo punto, i bolscevichi avevano carta bianca per scontrarsi con il nemico. Tuttavia, ce l’avevano anche i Tedeschi, per attaccare sul fronte occidentale.
1918: la fine Hindenburg e Ludendorff trasformarono l’anno 1918 in una corsa alla vittoria su Francesi e Britannici prima che intervenissero gli Stati Uniti con
tutto il loro potenziale. Dall’altra parte delle trincee, per Francesi, Britannici e Italiani era giunto il peggior momento. Le disastrose offensive si erano accumulate alla stanchezza di una popolazione che subiva il razionamento e l’inflazione, alla fine della pace sociale, con scioperi sempre più frequenti e alle richieste di una pace incondizionata, sempre più desiderata dall’opinione pubblica. La prima offensiva tedesca cominciò a marzo sulla Somme, in cui i Tedeschi si erano aperti un varco al costo di 78.000 perdite, erano avanzati di 64 km e avevano anche bombardato Parigi con un cannone gigantesco della gittata di 120 km. Le truppe tedesche, però, erano sfinite, i rifornimenti erano appesi a un filo e gli alleati, ora coordinati dal comando del generale francese Ferdinand Foch, le fermarono prima della fine del mese. Arenatosi nella sua avanzata verso Parigi, in aprile Ludendorff attaccò nelle Fiandre per conquistare i porti del canale della Manica in mano agli alleati; riuscì a rompere il fronte, ma dopo 19 km fu nuovamente fermato. In maggio, i Tedeschi sferrarono una nuova offensiva sull’Aisne.
LENIN E IL CONGRESSO DEI SOVIET. Lenin si
rivolge al secondo Congresso dei Soviet russi l’8 novembre (il 26 ottobre, secondo il calendario giuliano) del 1917. Vladimir A. Serov ricreò in questo dipinto a olio la tumultuosa sessione in cui vennero approvati i decreti per i negoziati di pace e l’abolizione della grande proprietà agraria stilati da Lenin; ebbe luogo nella sala da ballo dell’Istituto Smolnyj in cui, prima della rivoluzione, venivano educati i giovani dell’aristocrazia russa.
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LA GRANDE GUERRA
Dolchstosslegende: il mito della pugnalata alle spalle Il 18 novembre del 1919, il maresciallo Hindenburg dichiarò di fronte a una commissione dell’Assemblea Nazionale che la resa della Germania era dovuta a un complotto che perseguiva la disgregazione delle forze armate tedesche, che erano state «pugnalate alle spalle», una tesi che discolpava i militari dalla sconfitta e che ebbe grande eco nel dopoguerra.
Quest’ultima li portò fino alla Marna, a una distanza di soli 90 km da Parigi. Ma vennero fermati ancora, ora con l’aiuto americano. Lì, sulla Marna, Ludendorff ingaggiò la sua ultima grande battaglia, la cui risposta fu una controffensiva sostenuta da carri armati e aerei. Queste nuove armi furono utilizzate in maniera massiccia dai Britannici e dall’ANZAC nell’offensiva di agosto ad Amiens, in cui, nel primo giorno, furono 27.000 le perdite tedesche, di cui 12.000 prigionieri, un dato che rivela la demoralizzazione dei combattenti ormai sfiniti. A settembre, una smisurata offensiva alleata su tutto il fronte permise il superamento della linea Hindenburg. Il cammino verso la Germania era spianato per gli alleati che trovavano sempre meno forze che si opponevano: le offensive del 1918 erano costate al Reich due milioni di soldati che non poteva rimpiazzare, mentre il numero dei suoi avversari continuava a crescere: a quel tempo giungeva in Europa una media di 10.000 Americani al giorno.
Gli Imperi Centrali si sgretolano
Alla fine del settembre 1918, l’esercito tedesco era al limite della sua resistenza. Ludendorff sollecitò a cominciare subito i negoziati di pace e manovrò i circoli più vicini al kaiser affinché il nuovo governo di Massimiliano di Baden includesse i socialisti. In questo modo, spiegò Ludendorff allo Stato maggiore: «Spetterà ai socialdemocratici firmare una pace che a questo punto è diventata ineludibile», e così successe. Ciò divenne terreno fertile per la Dolchstosslegende, la «leggenda della pugnalata alle spalle»: il mito che sostiene che l’esercito tedesco non fu vinto sui campi di battaglia, ma venne tradito da socialisti, rivoluzionari ed ebrei. Così la pensavano molti Tedeschi, come Hitler, che descrive con queste parole in Mein Kampf i suoi sentimenti quando seppe della resa: «Tutto era stato quindi inutile; vani erano stati i sacrifici e le privazioni; […] superfluo, alla fine, il sacrificio di milioni di vite. […] Doveva succedere tutto questo perché ora un mucchio di miserabili si impadronisca della Patria? […] Come potremmo giustificare alle generazioni future questa azione del presente? Miserabili criminali depravati!». La Dolchstosslegende privò di legittimità la Repubblica di Weimar, nata da un presunto complotto, e giustificò la violenza politica dell’estrema destra: dalle atrocità commesse dai Freikorps nel 1919 agli assassinii di Matthias Erzberger (1921), che aveva firmato l’armistizio del 1918 suo malgrado, e dell’industriale ebreo Walther Rathenau (1922), le cui capacità avevano mantenuta viva l’economia di guerra tedesca. In alto, allusione alla Dolchstosslegende in un manifesto elettorale del Partito Nazionale del Popolo Tedesco (DNVP) del 1924.
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La Germania non perdeva soltanto uomini e battaglie. Perdeva anche gli alleati. Il primo fu la Bulgaria che il 29 settembre firmò l’armistizio dopo un attacco sferrato dalla Grecia a cui parteciparono Italiani, Serbi, Francesi, Britannici e Greci. Anche in settembre, le truppe britanniche del generale Edmund Allenby e i suoi alleati hascemiti coordinati da Thomas E. Lawrence, il leggendario Lawrence d’Arabia, diedero il via in Palestina alla grande offensiva che a metà di ottobre gli procurò il controllo di quei territori che oggi sono la Siria e il Libano. Il giorno 30 dello stesso mese, la Turchia firmava l’armistizio. In quanto all’AustriaUngheria, un’offensiva italiana a Vittorio Veneto, nel mese di ottobre, diede la stoccata alle forze di un impero le cui minoranze si stavano dichiarando indipendenti e al cui sovrano, Carlo I (che era succeduto a suo nonno Francesco Giuseppe, morto il 21 novembre 1916) non rimase altro che firmare l’armistizio il 3 novembre. Mentre succedeva tutto questo, la Germania precipitava sempre più in basso. Ludendorff e gli alti comandi contavano di negoziare con gli Americani prima che con i Francesi e i Britannici, che ritenevano animati da desideri di vendetta. Ludendorff e il kaiser, quindi, avevano cercato qualcuno che fosse presentabile agli occhi degli Americani: si trattava del principe Massimiliano di Baden, aristocratico liberale che era stato nominato cancelliere il 3 ottobre. Il presidente americano Wilson, tuttavia, affermò che avrebbe negoziato soltanto con i rappresentanti di una Germania democratica, al che Ludendorff decise di continuare la resistenza. Questa volta, però, i capi militari non lo assecondarono e il kaiser lo costrinse a dimettersi il giorno 26.
L’ARMISTIZIO, 1918.
I firmatari dell’armistizio posano davanti al vagone in cui ebbe luogo questo evento, vicino a Compiègne. Quando la delegazione tedesca si presentò al generale Foch, egli ordinò a uno dei suoi membri, il generale Detlof von Winterfeldt, che si togliesse la Croce di Ufficiale della Legione d’Onore, onorificenza francese che aveva ricevuto prima del conflitto. Firmò Matthias Erzberger, dirigente del Partito Cattolico di Centro, che sosteneva il governo tedesco. Non aveva alternative: finché la Germania non avesse siglato l’armistizio, sarebbe continuato il blocco navale che condannava il suo popolo a morire di fame. I comandanti tedeschi non si assunsero la responsabilità (e il disonore) di arrendersi: Lundendorff era fuggito in Svezia dopo essersi dimesso e il kaiser stava negoziando la sua abdicazione.
Questo tuttavia non avrebbe risparmiato il Reich. Gli eserciti alleati avanzavano verso le frontiere, nello stesso momento in cui le popolazioni, sofferenti per qualsiasi tipo di privazione e fino ad allora ingannate dalla propaganda governativa, prendevano coscienza della sconfitta tedesca e, sia civili che soldati, si rifiutavano di sottoporsi a ulteriori sacrifici. La retroguardia crollò. Scoppiarono scioperi e sommosse che culminarono il 29 di ottobre, quando fu ordinato alla flotta di salpare per combattere contro quella britannica in una battaglia senza senso. Gli equipaggi si ammutinarono e la rivolta si estese attraverso la Germania nordoccidentale, seguita dall’elezione di consigli di operai e soldati come era appena accaduto in Russia. L’8 novembre, il socialdemocratico Kurt Eisner proclamò la Repubblica Socialista in Baviera. I capi militari, scottati dall’esperienza russa, si misero dalla parte della rivoluzione incombente, fatto che significava porre fine alla guerra, per cui dovevano emarginare il kaiser, simbolo dell’aggressivo militarismo tedesco. Il 9 novembre fu
dato l’annuncio dell’abdicazione del sovrano e i socialdemocratici proclamarono a Berlino la Repubblica tedesca. Guglielmo II fuggì nella neutrale Olanda, e Friederich Ebert, capo della maggioranza socialdemocratica al Reichstag, divenne il nuovo cancelliere. Mentre la Germania da impero diventava una repubblica, una delegazione tedesca presieduta da Matthias Erzberger, dirigente del Partito Cattolico di Centro, aveva cominciato i negoziati fin dal giorno 8 per concordare le condizioni dell’armistizio, presso il bosco di Rhetondes, vicino a Compiègne, nello stesso vagone ferroviario che il generale Foch utilizzava come ufficio durante i suoi trasferimenti. Passate le cinque del mattino del giorno 11 novembre 1918, Erzberger firmava l’armistizio, secondo cui la Germania doveva evacuare tutti i territori occupati ad est e a ovest, consegnare 5.000 locomotive, oltre 15.000 vagoni ferroviari, la flotta e i sottomarini, praticamente tutti i suoi armamenti e la sua aviazione. Il cessate il fuoco entrò in vigore alle undici della mattina di quello stesso giorno, dopo 1.568 giorni di guerra. 63
CONFERENZA DI PACE AL QUAI D’ORSAY (1919). Al centro, seduti,
da sinistra a destra, i leader della conferenza: Woodrow Wilson, Georges Clemenceau e David Lloyd George, in uno dei tre oli che Lloyd George commissionò a sir William Orpen per commemorare il trattato di pace di Versailles (Imperial War Museum, Londra). Nella pagina accanto, scudo della Ucraina sovietica, di recente formazione.
BORGHESIA E RIVOLUZIONE I trattati di pace rivelarono un’Europa impregnata di tensioni nazionaliste. Queste si aggiunsero all’inflazione e alla disoccupazione seguite alla guerra, e tutto alimentò l’avanzata del comunismo e i progressi del fascismo, che, prima della fine del decennio del 1920, giunse al potere in Italia. Nel frattempo, gli Stati Uniti, che avevano preferito rimanere lontani dai problemi dell’Europa, godevano di una prosperità distribuita in maniera diseguale.
N
el 1815, quando Napoleone venne sconfitto a Waterloo, venticinque anni di guerre in Europa avevano lasciato un bilancio di circa due milioni di morti. Un secolo dopo, nel 1918, quando infine si giunse all’armistizio che mise fine alla Grande Guerra, quattro anni di scontri avevano causato la morte di oltre 9,3 milioni di combattenti. Di questi, 3,6 appartenevano agli Imperi Centrali e ai loro affiliati (due milioni di Tedeschi e un milione di Austro-ungarici) e 5,7 milioni appartenevano agli alleati (di cui 2,3 milioni di Russi, quasi due milioni di Francesi, 800.000 Britannici, 450.000 Italiani, 126.000 Americani e 125.000 Serbi). La
violenza di quel conflitto non ebbe paragoni con nessun’altra guerra precedente: morirono il 16,8% dei Francesi mobilitati e il 14,5% dei Tedeschi, mentre il numero dei feriti di entrambe le parti raggiunse il 40% del totale di coloro che avevano imbracciato le armi. Soltanto in Francia, i feriti giunsero a cinque milioni, dei quali un milione rimase invalido per sempre; molti, i cosiddetti gueules cassées (“volti fracassati”), subirono delle deformazioni che li minarono psicologicamente. Nei dipinti degli espressionisti tedeschi, come Otto Dix e George Grosz, abbondano le rappresentazioni di esseri sfigurati e invalidi a causa della guerra: mezzo 65
BORGHESIA E RIVOLUZIONE
WOODROW WILSON CON LA COLOMBA DELLA PACE IN MANO.
Wilson riteneva Clemenceau un uomo profondamente vendicativo e questi a sua volta vedeva Wilson come un ipocrita arrogante: «Che ignoranza dell’Europa e quanto era difficile capirsi con lui! Anche lo stesso Dio si è accontentato di soli dieci comandamenti. Wilson invece ce ne ha appioppati quattordici, di punti».
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milione di combattenti tedeschi subì amputazioni. A tutto questo, bisogna anche aggiungere la morte di circa 12 milioni di civili.
Il disarmo della Germania, obiettivo di Versailles
La pace dei vincitori
Gli alleati vollero distruggere la spina dorsale dell’espansionismo tedesco, ossia le sue forze armate. Si cominciò con l’annientamento di sei milioni di fucili, oltre 15.000 aerei, 130.000 mitragliatrici e migliaia di cannoni.
Nel contesto di morte, devastazione e odio creatosi con la guerra, ebbe inizio il 12 gennaio 1919 la Conferenza di Pace di Parigi, le cui decisioni vennero praticamente prese dai quattro membri principali della coalizione vincitrice, rappresentati da Wilson, Clemenceau, Lloyd George e il primo ministro italiano Vittorio Orlando. Tra tutti loro, la voce principale fu quella di Wilson, i cui Quattordici punti furono la base per gli accordi. I Tedeschi, che avevano democratizzato il loro regime come era stato loro imposto, rimasero esclusi dai negoziati così come per gli altri Paesi sconfitti, fatto che costituì una novità in quel tipo di accordi. Le risoluzioni della conferenza, quindi, vennero interpretate in Germania come un diktat, un’imposizione. L’ideale della conferenza, e del presidente Wilson, era di pensare a un nuovo ordine internazionale più giusto che impedisse un’altra grande guerra, ma finirono per imporsi due obiettivi: controllare la Germania («Il mondo aveva il diritto morale di disarmare la Germania e costringerla a riflettere nel corso di una generazione», affermò Wilson) e frenare la rivoluzione che si diffondeva dalla Russia bolscevica. Per tutto questo era necessario rimodellare l’Europa, per cui si approfittò della profonda crisi degli imperi russo, austroungarico e ottomano, e si seguì il principio di autodeterminazione dei popoli difeso con fervore da Wilson, che prevedeva di creare Stati che corrispondessero alle nazionalità di chi li abitava. Un simile concetto non aveva senso nell’Europa centrale e orientale, dove le popolazioni e le religioni si erano mescolate per dodici secoli, ma si rivelò molto utile per isolare la Russia rivoluzionaria (che non fu invitata a partecipare a Parigi) dietro una serie di Stati-cuscinetto o, in linguaggio diplomatico, un “cordone sanitario”. Nel territorio che aveva occupato la Russia prima del Trattato di Brest-Litovsk furono istituiti vari Stati indipendenti: la Finlandia e le repubbliche baltiche dell’Estonia, Lettonia e Lituania, così come la Polonia, che rinasceva dopo centoventi anni e a cui la Germania concesse anche dei territori. Nel Caucaso, il tentativo di portar via alla Russia l’Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian sarebbe fallito con l’accordo che nel 1921 fu firmato dai nazionalisti turchi e i bolscevichi, entrambi in contrasto con l’imperialismo francese e britannico. Nel centro d’Europa si creò un nuovo Paese che raggruppò gli Slavi occidentali: la Cecoslovacchia, che riuniva le terre industrializzate ceche (ex territorio austriaco), quelle rurali della Slovacchia e della Rutenia (un tempo
Il Trattato di Versailles eliminò il servizio militare obbligatorio per un esercito che venne ridotto a 100.000 uomini, senza carri armati, gas o artiglieria pesante. Anche la flotta subì dei tagli: le vennero a mancare i sottomarini e alla fine era composta da sole sei corazzate, una trentina di navi da guerra minori e 15.000 uomini. Lo spirito, però, che animava i militari tedeschi era lo stesso di prima della guerra, rafforzato dalla Dolchstosslegende: senso di superiorità rispetto ai civili, disistima dei politici, rifiuto della democrazia, odio per il socialismo, ambizioni pangermaniche. Quando, nel gennaio 1919, il generale Walter Groener, al comando dell’esercito, aiutò il presidente socialista Ebert a reprimere la rivoluzione spartachista, garantì la sopravvivenza della Repubblica in cambio della trasformazione delle forze armate in un potere praticamente autonomo dello Stato. Nell’immagine, cannoni tedeschi distrutti in virtù delle condizioni fissate con il Trattato di Versailles.
ungheresi) e i Sudeti tedeschi. Nei Balcani, la vecchia Serbia fu ampliata per formare il regno di Jugoslavia (degli “Slavi del sud”) in cui vennero integrate anche la Slovenia e la Bosnia-Erzegovina (territori austriaci), la Croazia (che prima della guerra era ungherese) e il regno del Montenegro. La Romania raddoppiò la grandezza del territorio e il numero di abitanti con l’annessione della Bucovina austriaca e della Transilvania ungherese.
I trattati di pace La riconfigurazione dell’Europa – che da 9.000 km di confine giunse ad averne 15.000 – si decretò in vari trattati, il primo dei quali fu quello firmato con la Germania il 28 giugno (quinto anniversario dell’attentato di Sarajevo), nella Galleria degli Specchi del palazzo di Versailles, in cui nel 1871 era stato proclamato il Reich tedesco. La Germania fu obbligata a riconoscersi responsabile della guerra, fu costretta a pagare “riparazioni” per i danni causati, perse quasi 70.000 km2 e circa sette milioni di abitanti, ossia, il 13% del suo territorio e un decimo della popolazione rispetto alla
situazione antecedente al conflitto bellico. Ciò che i Tedeschi considerarono una violazione del diritto all’autodeterminazione proclamato dallo stesso Wilson fu l’aver impedito l’unificazione di Austria e Germania, l’aver integrato alla Cecoslovacchia la regione dei Sudeti, con 3,5 milioni di Tedeschi, e l’aver tagliato parte della Prussia orientale, per fornire uno sbocco sul mare alla Polonia, il cosiddetto “corridoio polacco”. L’Alsazia e la Lorena vennero restituite alla Francia, e i sogni imperialistici della Germania si conclusero di colpo quando le sue colonie passarono a Francia, Gran Bretagna, Belgio e Giappone. L’esercito tedesco venne ridotto a 100.000 uomini con funzione di polizia, ma senza avere a disposizione armamenti pesanti né l’aviazione, e la Renania fu smilitarizzata. La flotta, il cui allestimento aveva contribuito allo scoppio della guerra, venne affondata dai suoi stessi comandanti presso la base scozzese di Scapa Flow. Anche gli altri trattati previdero riparazioni di guerra e riduzione delle forze armate. Quello di Saint-Germain-en-Laye con l’Austria (10 settembre) vietava il nome Deutsch-Österreich o “Au-
stria tedesca” a un languente Stato alpino, nella cui enorme capitale si concentrava un terzo della popolazione. Il Trattato di Neuilly con la Bulgaria (27 novembre) tolse a questo Paese lo sbocco sul mare a favore della Grecia. Quello del Trianon con l’Ungheria (4 giugno 1920) la lasciò con un 32,7% del territorio e il 41,6% della popolazione rispetto ai dati prima della guerra. L’ultimo trattato fu quello di Sèvres con la Turchia (10 agosto 1920), firmato mentre Francesi e Britannici occupavano Costantinopoli e con il quale il sultano accettò lo smembramento dell’impero ottomano. Già nel 1916, la Francia e la Gran Bretagna avevano concluso l’accordo Sykes-Picot per spartirsi l’impero con il metodo dei “mandati”: la Francia ottenne la Siria e la Cilicia in Asia Minore, e la Gran Bretagna si impadronì dell’Irak (e del suo petrolio), di Cipro, Egitto e Palestina, come anche del protettorato d’Arabia. Da parte sua, la Grecia ottenne la Tracia orientale, le isole dell’Egeo (a eccezione di Rodi) e il controllo su Smirne (l’attuale Izmir) in Asia Minore; l’Italia ebbe l’arcipelago del Dodecaneso e l’isola di Rodi. 67
FIN
N O RV E G I A
Nel 1919 gli imperi zarista, tedesco e austroungarico erano scomparsi, mentre l’impero ottomano si stava smembrando. Questo permise alla Conferenza di Parigi di disegnare una nuova mappa dell’Europa secondo il principio di autodeterminazione proclamato da Woodrow Wilson nei suoi Quattordici punti. Tale principio fu applicato in maniera selettiva. Nel caso della Germania, si pose il veto alla sua unione con l’Austria, pur essendo di lingua tedesca. Allo stesso modo, parte della popolazione tedesca (come successe con quella della Bulgaria e dell’Ungheria) finì in altri Stati, in evidente contraddizione con le tesi wilsoniane. Più che per punire i vinti e ingrandire territorialmente i vincitori, il diritto all’autodeterminazione fu usato per isolare la Russia bolscevica, creando, nei territori che la Germania controllava dopo il Trattato di Brest-Litovsk, una cintura di nuovi Stati dei quali erano sopravvissuti Finlandia, le repubbliche baltiche e la Polonia; in quanto agli altri Paesi, i bolscevichi occuparono l’Ucraina, la Bielorussia, la Georgia e l’Azerbaigian, e si divisero l’Armenia con i Turchi di Atatürk. L’influenza sovietica venne limitata anche nel Vicino Oriente, dove Francia e Gran Bretagna misero le mani sui territori ottomani (Palestina, Transgiordania, Siria, Irak), dimenticando il principio di autodeterminazione.
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Nuovi Stati Territori temporalmente indipendenti Zone contese Zone occupate e demilitarizzate Città libere (a carattere temporale) Territori ceduti: Dagli Imperi Centrali e alleati Dall’impero russo-URSS
Prima del conflitto, la Turchia aveva un’estensione che raggiungeva 4.000.000 km2 e 22 milioni di abitanti: quando si firmò l’armistizio, quelle cifre vennero ridotte a due e a dieci milioni rispettivamente.
Affronti, alleanze e assenze La Turchia fu l’unica tra le nazioni vinte che riuscì a cambiare le imposizioni dei vincitori. Dalla città anatolica di Ankara, Mustafa Kemal, l’eroe di Gallipoli, guidò una sommossa nazionalista che nel 1922 ebbe la meglio sulle truppe greche che avevano invaso l’Asia Minore da Smirne, inseguendo la Megali Idea, la Grande Grecia, e terminò con l’indipendenza di Armeni e Curdi, auspicata dagli alleati. Con il Trattato di Losanna (luglio 1923), la Turchia recuperò tutta la penisola dell’Anatolia, la Tracia orientale e guadagnò il controllo di Costantinopoli e degli stretti. Il caso turco mostra il senso di oltraggio che la Conferenza di Pace aveva lasciato dietro di sé. E non soltanto tra i Paesi sconfitti: l’italiano Orlando lasciò Parigi nell’aprile 1919 perché non aveva ricevuto l’Istria e la costa dalmata che erano state pro68
EST
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N O AT L A N T OCEA ICO
Nuove frontiere: l’Europa delle Nazioni
SV EZ I A
MARE DEL NORD
B Macedonia A L BA N I A Ko r ç ë GRECIA
MAR MEDITERRANEO
messe all’Italia in cambio della sua partecipazione alla guerra e che furono assegnate alla Jugoslavia; nacque così l’idea della “vittoria mutilata” che alimentò l’ultranazionalismo italiano. La nuova Europa centrale e orientale divenne fonte di discordie tra gli “Stati successori” degli imperi scomparsi. Sia l’Italia che le vinte Germania, Ungheria e Bulgaria incoraggiarono politiche revisioniste, che erano volte a modificare i confini stabiliti a Versailles e per questo motivo usarono le minoranze nazionali presenti in altri Paesi, come i Tedeschi dei Sudeti, all’interno della Cecoslovacchia, o gli Ungheresi della Transilvania che ora era rumena. Fu proprio il timore della Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania verso gli Stati revisionisti che le unì nella Piccola Intesa, costituita tra il 1920 e il 1921. La loro alleanza si valse del sostegno della Francia, preoccupata di fronte a una Germania che rifiutava all’unanimità lo Schandvertrag, il “trattato della vergogna”. In Francia, Paese inferiore alla Germania in termini di industrie e popolazione, il timore di questo rifiuto aveva indotto a discutere, durante la Conferenza di Parigi, della secessione
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della Renania per creare uno Stato-cuscinetto sul confine occidentale tedesco; inoltre, nel 1921 si concluse un’alleanza con la Polonia per assicurare la frontiera orientale tedesca. La Piccola Intesa e la Polonia non erano avversari per la Germania, ma alla Francia mancavano alleati di maggior entità di fronte al nemico: l’ordine mondiale risultato da Parigi non contava di nessun’altra potenza che volesse condividere il poco piacevole ruolo di gendarme di Versailles. Varie erano le cause. L’alterazione radicale della configurazione politica dell’Europa era stata accompagnata dalla creazione di un organismo che per il presidente Wilson, suo promotore, era un elemento chiave, dato che doveva portare alla fine della diplomazia segreta e delle alleanze bilaterali tra potenze, che, a suo giudizio, erano state le cause della Grande Guerra. E tale organismo avrebbe facilitato una diplomazia aperta e un nuovo principio di sicurezza collettiva che puntava alla protezione di tutti gli Stati, grandi e piccoli. Questo organismo prese il nome di Società delle Nazioni (SDN), nato con il Trattato di Versailles.
Sorto per evitare conflitti futuri, si bloccò a causa dell’unanimità necessaria in materia decisionale e della mancanza di mezzi militari per imporre quelle decisioni. Non solo, subì anche qualcosa di peggio: la non totale adesione, che minò la sua credibilità e capacità fin dall’inizio. In primo luogo, ci furono Paesi che si autoesclusero: alcuni Stati isolazionisti degli Stati Uniti, il cui Senato si rifiutò di ratificare il Trattato di Versailles, nonostante il loro presidente fosse il promotore di questo nuovo organismo. In secondo luogo, ci furono anche Paesi esclusi: quelli sconfitti e la Russia bolscevica. La prima conseguenza di una tale situazione fu che soltanto due delle potenze vincitrici in guerra parvero essere le garanti di Versailles: la Gran Bretagna e la Francia (il Giappone era troppo occupato con la sua espansione in Cina e sul Pacifico e l’Italia non era molto soddisfatta del risultato finale della conferenza). I Britannici, tuttavia, non erano tanto coinvolti dalla questione della Germania, dato che erano assorbiti dalla complicata gestione del loro impero che, con le colonie sottratte a Tedeschi e Turchi, si estendeva su quasi un quarto della superficie terrestre. Fu così che, prima della ritirata degli Stati Uniti dalla politica europea, e visto il disinteresse a riguardo da parte del Regno Unito, la Francia divenne l’unica custode del Trattato di Versailles. La seconda conseguenza dell’ordine creato a Versailles fu quella di trasformare la Germania e la Russia in due Stati paria che si lanciarono uno nelle braccia dell’altro per rompere il proprio isolamento. Nell’aprile del 1922, entrambi i Paesi, che erano d’accordo nel rifiutare i nuovi confini tracciati nell’Europa orientale (in particolare quelli che delimitavano la vicina Polonia), firmarono il Trattato di Rapallo, che consacrò la loro cooperazione economica e, soprattutto, militare.
Debiti e crisi futura I Tedeschi trovarono nelle riparazioni di guerra un altro motivo per non accettare Versailles. Nel mese di aprile 1921, l’ammontare del pagamento venne fissato in 132.000 milioni di marchi oro (goldmark, equivalente a 33.000 milioni di dollari), di cui il 52% spettava alla Francia e il 22% al Regno Unito. L’economista John Maynard Keynes, che formò parte della delegazione britannica a Parigi, constatava che una simile richiesta «spellerà viva la Germania anno dopo anno per l’eternità», idea che mostrava le differenze tra Britannici e Francesi riguardo la questione. Alla fine del conflitto, le infrastrutture della Germania erano intatte, mentre il Belgio e le regioni industrializzate della Francia nordorientale erano state devastate, per cui la Francia voleva ricostruire la sua malconcia economia con gli indennizzi (lo slogan di Clemenceau durante le elezioni francesi del 1919 era ben chiaro:
RIVOLUZIONE, FASCISMO, COMUNISMO, DISTENSIONE 1919
Conferenza di Parigi. Nuova mappa dell’Europa. La Germania, riconosciuta responsabile della guerra con il Trattato di Versailles, deve pagare le indennità di guerra. 1921
Rivolta di Kronstadt. Fine del comunismo di guerra e inizio della Nuova Politica Economica (NEP). 1922
Trattato di Rapallo. Russia e Germania: collaborazione economica e militare. Marcia su Roma: Mussolini al potere. 1923
Francia e Belgio occupano la Ruhr. Iperinflazione in Germania. Fallisce il putsch di Hitler e Ludendorff a Monaco di Baviera. 1925
Trattati di Locarno. Piani Dawes (1924) e Young (1929) riguardanti il pagamento delle indennità da parte della Germania. 1927
Stalin al potere. Si impone sui suoi avversari nel Partito Comunista e nell’URSS. Espansione degli Stati Uniti.
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BORGHESIA E RIVOLUZIONE
L’inflazione alle stelle in Germania Per pagare il deficit creato dai costi della guerra, gli Stati non aumentarono le tasse, ma emisero più moneta. L’emissione di moneta causò un’inflazione elevata in Italia e in Francia e subì un’impennata in Austria e Germania. In quest’ultimo Paese fu del 335% al mese tra agosto 1922 e novembre 1923. Finì sul lastrico chi aveva un reddito fisso: proprietari di immobili, di buoni di guerra o pensionati (vedove di guerra, veterani) e i lavoratori che non potevano negoziare mediante i sindacati, come gli impiegati. In basso, banconote di migliaia di milioni di marchi emesse in quegli anni.
100.000.000.000.000,00 10.000.000.000.000,00 1.000.000.000.000,00 100.000.000.000,00 10.000.000.000,00 1.000.000.000,00 100.000.000,00 10.000.000,00 1.000.000,00 100.000,00 10.000,00 1.000,00 100,00 10,00
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IPERINFLAZIONE. Il grafico mostra il prezzo di un’oncia d’oro in marchi tedeschi e mette in evidenza
il trend in ascesa dell’inflazione tedesca tra il 1919 e il 1923.
«la Germania pagherà!»). Per la Gran Bretagna, invece, il pagamento delle riparazioni avrebbe zavorrato la rinascita economica dell’Europa e mantenuto in letargo il commercio internazionale, da cui dipendeva l’industria del Regno Unito. La Francia considerava giuste le riparazioni mentre la Gran Bretagna le riteneva ingiuste e frutto dell’egoismo francese. Le critiche di Keynes al Trattato di Versailles nella sua opera Le conseguenze economiche della pace (1919) trovarono ampia eco nell’opinione pubblica degli Stati Uniti. Ray Stannard Baker, per esempio, portavoce di Wilson nella Conferenza di Parigi, qualificò gli alleati europei e la Francia in particolare, come «potenze avide, energiche e reazionarie che non meritano la comprensione o il supporto dell’America nel dopoguerra più di quanto lo meriti il nemico appena sconfitto». La Germania, comunque, tentò di rinviare l’inizio dei pagamenti e nel 1922 ne annunciò la sospensione per diversi anni. A quel punto, il primo ministro francese Poincaré non esitò a occupare la Ruhr insieme al Belgio, nel gennaio del 1923, per 70
rifarsi del debito con pagamenti in natura, come il carbone, la produzione industriale e le ferrovie della Renania. L’occupazione portò al parossismo un’inflazione che devastò la Germania. Nel Reich, la guerra aveva scatenato un processo d’inflazione con l’uso del papiermark, una moneta senza collegamento con l’oro, politica che continuò anche nel dopoguerra, quando si evitò di finanziare il deficit con l’innalzamento delle tasse. Quando i Francesi occuparono la Ruhr, il governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva e finanziò scioperi e serrate emettendo più banconote, provvedimento che diede luogo a un’iperinflazione: il 21 novembre 1923, un dollaro veniva cambiato con 4.210.500.000.000 marchi. Il valore delle banconote era minore della carta su cui venivano stampate. L’iperinflazione (che in Germania fu attribuita al pagamento delle riparazioni di guerra) portò alla cessazione della resistenza passiva nella Renania e alla ricerca di una risoluzione che evitasse il collasso economico mondiale. La Francia dovette accettare un nuovo accordo, visto che, dal momento che sperava nei pagamenti tedeschi e quindi si era
MARCHI PER ACCENDERE IL FUOCO, NEL 1922. Dall’estate
dell’anno precedente, la perdita di fiducia nel marco induceva chi riceveva denaro a spenderlo immediatamente, data la continua perdita di valore della valuta. La velocità di circolazione del denaro aumentò, e i prezzi si alzarono di conseguenza, fino a che il denaro perse completamente il suo valore. Il 13 gennaio 1923, un chilo di pane di segale (fondamentale nella dieta alimentare tedesca) costava 163 marchi; il 1° ottobre, nove milioni; il 5 novembre, 78.000 milioni e il 19 novembre 233.000 milioni. Il 9 ottobre, il giornalista, scrittore e professore Victor Klemperer, residente a Dresda, così scriveva sul suo diario: «La nostra uscita al cinema di ieri ci è costata 104 milioni, compreso il trasporto».
trattenuta dall’aumentare le tasse, la sua inflazione arrivò al 25% nel settembre del 1923. La soluzione fu il piano Dawes, del maggio 1924, con il quale si pattuì un nuovo calendario per i pagamenti che la Germania avrebbe effettuato mediante crediti soprattutto degli Stati Uniti, e il governo tedesco introdusse una nuova moneta più stabile, il reichsmark. Alla fine, le riparazioni di guerra coperte dalla nazione tedesca tra il 1918 e il 1932, anno in cui vennero interrotti i pagamenti, riuscirono ad arrivare a 22.000 milioni di marchi oro (4.500 milioni di dollari dell’epoca), probabilmente qualcosa di meno rispetto a quanto la Francia aveva dovuto pagare al Reich dopo la guerra del 1870. Da parte loro, gli Americani non avevano voluto reclamare “tributi” dalla Germania, invece vollero che Francia e Gran Bretagna restituissero i crediti concessi durante la guerra, cosicché il piano Dawes diede origine a un circolo vizioso. Si concedevano prestiti americani alla Germania, di cui aveva bisogno come il pane per riattivare la sua economia, perché l’iperinflazione aveva fatto volatilizzare il risparmio privato e aveva provocato
una grande penuria di capitale. Con i crediti, i Tedeschi pagavano le riparazioni al Regno Unito e alla Francia, e così entrambi questi Paesi soddisfacevano i debiti contratti con gli Stati Uniti; si eresse così un gigantesco castello di carte finanziario, che ingrandì gli effetti della Grande Depressione. La questione degli indennizzi, inoltre, sottolineò la perdita del potere economico dell’Europa, che cedeva agli Stati Uniti il ruolo di creditore mondiale e centro finanziario globale, che si confaceva con l’impressionante sviluppo raggiunto dalla galoppante economia americana. Con il piano Dawes cominciarono alcuni anni di prosperità economica, a cui contribuì un’iniezione di fiducia che significò il ritorno al tallone aureo abbandonato durante la guerra, anche se modificato. Il cosiddetto gold exchange standard (“sistema aureo di convertibilità”, adottato nel 1922, durante la Conferenza di Genova) poggiava sul dollaro e la lira sterlina come monete convertibili in oro a parità o a cambi fissi; a esse erano collegate le valute degli altri Paesi, i quali potevano avere riserve in oro o anche in dollari e sterline. 71
BORGHESIA E RIVOLUZIONE
La Germania occupata dagli alleati Per garantire il rispetto delle direttive del Trattato di Versailles, in vigore dal gennaio 1920, gli alleati occuparono la Renania, che sarebbe stata evacuata a scaglioni fino al 1935, e la riva destra del Reno fu smilitarizzata. I Francesi impiegarono truppe coloniali nella Renania per umiliare i Tedeschi. Questi ultimi le accusarono di violare le donne tedesche e la cosiddetta Schwarze schmach (“infamia nera”) rafforzò il razzismo tedesco. Nel gennaio 1923, sotto gli ordini del primo ministro francese Raymond Poincaré, l’occupazione si estese. La Germania aveva già pagato 1.480 milioni di marchi oro per le riparazioni di guerra, ma era in ritardo con i pagamenti in natura: aveva consegnato 65.000 metri di linee telegrafiche su 200.000 e doveva ancora 24 milioni di marchi oro in carbone. Truppe francesi e belghe occuparono il bacino della Ruhr, azione che sollevò un’ondata di risentimento nel Paese tedesco. I Francesi, oltre al proprio risarcimento con la produzione industriale della regione, volevano la secessione della Renania, ma non ebbero successo nei loro obiettivi politici. L’occupazione della Ruhr si concluse nel 1925, dopo l’accordo sul piano Dawes riguardante le riparazioni di guerra. A destra, manifesto del Partito Popolare Tedesco (DVP) contro l’occupazione francese della Ruhr.
Tale meccanismo favorì l’incremento del commercio internazionale e, con esso, alcuni anni di prosperità economica ai quali seguì ben presto la distensione politica.
Lo spirito di Locarno Americani e Britannici non avevano accettato l’occupazione della Renania da parte della Francia nel 1923. Un Wilson risentito tacciò Poincaré come “mascalzone” e disse che sperava che la Germania schiacciasse la Francia. Giunti a questo punto, i Francesi pensarono che il miglior modo per assicurarsi un po’ di tranquillità fosse giungere a un accordo con i Tedeschi. Dopo l’approvazione del piano Dawes nell’agosto 1925 si ritirarono dalla Ruhr e in ottobre firmarono i trattati di Locarno, con i quali la Germania avvallò i confini di Francia e Belgio, smilitarizzando la Renania. Anche la Gran Bretagna li avrebbe garantiti e avrebbe fornito supporto militare in caso di violazione. La situazione, tuttavia, era ben diversa a est. La Germania non voleva accettare i confini della Polonia e Cecoslovacchia. La Francia si im72
pegnò a offrire aiuto militare a questi due Paesi qualora fossero stati attaccati dai Tedeschi. Da parte sua, la Gran Bretagna non volle garantire le frontiere orientali: riteneva che la sua sicurezza fosse minacciata dall’espansione della Germania verso ovest e non a est. In cambio degli accordi, la Germania ottenne l’adesione alla Società delle Nazioni, una diminuzione del pagamento delle riparazioni di guerra, concretizzatasi nel piano Young (con il quale si dilazionavano i pagamenti nell’arco di 59 anni) e la ritirata francese dalla Sarre (che avvenne qualche settimana dopo l’approvazione del piano Young). La tensione internazionale si allentò. Locarno, però, aveva un aspetto inquietante. Costituiva una nuova sfida, come Rapallo, ai vincitori della Grande Guerra: fu chiaro che la Germania non riconosceva le frontiere orientali. A ogni modo, l’apparente conciliazione franco-tedesca diede luogo all’ottimista “spirito di Locarno”, con una volontà di distensione che si rafforzò nell’agosto 1923 con il patto di Parigi (o patto Briand-Kellog), che condannava la guerra come mezzo risolutivo per le
controversie internazionali; nel 1939 vi aderirono 63 Stati. Sembrava che l’Europa del dopoguerra, scossa dalle rivoluzioni, dalla confusione economica e dalle tensioni nazionaliste scegliesse la via della stabilità. La stessa Russia bolscevica pareva aver accantonato l’idea di estendere la lotta senza tregua al capitalismo, governata da un timoniere che la reggeva con mano ferma: Iosif Stalin.
Russia: rivoluzione e repressione All’inizio della Conferenza di Parigi, la vittoria dei bolscevichi era incerta. Il territorio russo era piagato dalla cruenta guerra civile tra l’Esercito Rosso e i Bianchi, comandati da generali contrari alla divisione delle terre che per questa ragione si inimicarono i contadini. I bolscevichi erano però lontani dall’indurre l’accettazione entusiasta della causa nel mondo rurale. Dopo essere giunti al potere nel novembre 1917, cominciarono a costruire la società socialista con il cosiddetto “comunismo di guerra”, che prevedeva anche la nazionalizzazione della banca (seguita dall’annullamento del debito estero e dei prestiti ricevuti), delle imprese
e delle grandi proprietà agricole, mentre lo Stato si assumeva l’incarico di distribuire i prodotti. In una economia stravolta dalla guerra civile, tali misure portarono al caos. La moneta perse valore, l’industria si paralizzò e la fame regnò nelle città. Con la scomparsa del mercato e del denaro si ricorse al baratto. La catastrofe si aggravò quando lo Stato procedette alla requisizione violenta del grano per mezzo di gruppi che spesso operavano come bande di fuorilegge. La fame si diffuse anche nelle campagne, in cui scoppiarono rivolte, mentre una repressione crudele si abbatteva su coloro che si opponevano alle requisizioni, tacciati di essere kulaki, proprietari abbienti. I Bianchi vennero sconfitti nel 1920, ma la vittoria non mise fine alla crisi: tra quell’anno e il 1923, la fame nera (che diede persino luogo a episodi di cannibalismo) si portò via circa cinque milioni di persone. Il pugno di ferro sui contadini fece parte della costruzione di un potere rivoluzionario che non tollerava alcuna discrepanza. Nel febbraio 1919 i bolscevichi erano rimasti in pochi, dopo che nell’estate del 1918, in seguito a un tentativo di
I MARINAI DI KRONSTADT.
Olio, opera di Viktor K. Samoresov del 1957, che ricrea la rivolta di marzo 1921 nella base navale di Kronstadt, nel Golfo di Finlandia (Museo Nazionale della Marina, San Pietroburgo). Reprimere questa insurrezione, socialista e bolscevica, costò all’Esercito Rosso oltre 10.000 morti. Circa 3.000 rivoltosi vennero fucilati e centinaia furono mandati alle isole Solovetsky, nel Mar Bianco, primo campo di concentramento sovietico.
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Lenin e la nascita del culto della personalità Il 30 agosto del 1918, una ex anarchica e in seguito militante socialista-rivoluzionaria, Fanny Kaplan, sparò per tre volte a Lenin, che fu sul punto di morire. A causa di quell’attentato, la figura del leader bolscevico acquisì una dimensione mitica, intrisa di reminiscenze cristiane. Zinoviev scrisse: «È l’eletto tra milioni. È dirigente per grazia di Dio. Un dirigente così nasce una volta ogni cinquecento anni nel corso dell’umanità». Lenin era sul punto di trasformarsi in un Cristo del proletariato: «Sei arrivato come dirigente per distruggere/i nemici del movimento operaio./Non dimenticheremo la sofferenza/ che tu, nostro dirigente, hai patito per noialtri», così recitava un poema dell’epoca. Lenin non approvava questo culto, che divenne esagerato alla sua morte, avvenuta il 21 gennaio 1924. Alla vigilia del funerale, Stalin (che era stato seminarista a Tiflis) recitò una sorta di giaculatoria bolscevica: «Il compagno Lenin, quando ci ha lasciato, ci ha ordinato di mantenere alta e conservare pura la grande vocazione dei membri del partito. Ti promettiamo, compagno Lenin, che onoreremo questo tuo ordine». Deciso a divenire il difensore unico di quella purezza comunista, Stalin si eresse a portavoce di Lenin con I fondamenti del leninismo. E decise che il modo migliore perché rimanesse vivo il leninismo era che lo stesso Lenin continuasse a vivere, cosicché venne disposto che se ne conservasse il corpo. La salma fu imbalsamata dalla cosiddetta Commissione per l’Immortalità e depositata in un mausoleo di legno nella Piazza Rossa di Mosca, sostituito nel 1930 da una costruzione in granito. Lì, le spoglie di Lenin ricevettero la visita di milioni di fedeli alla rivoluzione. A destra, manifesto del 1942 con Marx, Engels, Lenin e Stalin (Casa Museo di Brodskij, San Pietroburgo).
golpe dei socialrivoluzionari di sinistra in luglio e l’attentato che uno dei suoi militanti perpetrò contro Lenin in agosto, il “terrore rosso” si era abbattuto su di un’opposizione che era stata progressivamente cacciata via dai soviet. L’azione repressiva della polizia segreta, la Cheka, si aggiunse alle difficoltà economiche, e ciò fu motivo di allontanamento dal regime da parte degli operai, tanto che cominciarono a essergli anche ostili. Nel marzo 1921, il movimento sindacalista a San Pietroburgo fomentò la rivolta dei marinai della base navale di Kronstadt, che avevano svolto un ruolo fondamentale per il successo della rivoluzione. Chiedevano libertà politica e sindacale e denunciavano la «servitù morale che i comunisti hanno introdotto: hanno messo le mani sulla coscienza del popolo lavoratore, obbligandolo a pensare come piace a loro». La ribellione venne repressa da 50.000 soldati agli ordini del generale Tuchačevskij, che piazzò delle mitragliatrici della Cheka nelle retrovie delle fila bolsceviche per evitare che i suoi uomini dovessero retrocedere. 74
La rivolta di Kronstadt segnò la fine del comunismo di guerra, che aveva condotto il regime bolscevico al disastro. Dall’altra parte, la Komintern, (l’Internazionale Comunista o III Internazionale, fondata nel marzo 1919) aveva fallito nei suoi tentativi di diffondere la rivoluzione, il cui risultato era stato la divisione del movimento operaio tra socialisti e comunisti. Con la Russia sovietica isolata e disastrata, era d’obbligo un cambio di direzione. Nel X Congresso del partito, svoltosi mentre si combatteva a Kronstadt, Lenin annunciò l’adozione della Nuova Politica Economica (NEP), combinazione di imprese statali e iniziativa privata che permise che, nel 1926, la produzione agricola e industriale superasse quella del 1913. E nel 1922, il Trattato di Rapallo con la Germania ruppe l’isolamento diplomatico sovietico. La stabilità economica facilitò il consolidamento del regime. Nel dicembre 1922 fu fondata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’URSS, formata dapprima da Russia, Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia. La sua Costituzione, promulgata nel 1924, sanciva che al vertice dello Stato
LENIN SUL LETTO DI MORTE. Nel suo testamento, Lenin aveva manifestato il
desiderio di essere sepolto vicino alla tomba della madre, a Petrograd. Tale richiesta venne meno quando si decise di mummificare il suo corpo, iniziativa che disgustò la moglie di Lenin, Nadežda Krupskaja e fece orrore a Trockij. A quanto pare, l’idea rispondeva alla volontà di sfruttare la credenza tradizionale della Chiesa ortodossa russa, secondo la quale i resti dei santi non si guastano.
ci fosse il Consiglio dei Commissari del Popolo (equivalente ai ministri), e sopra di esso, istituiva un comando collettivo dello Stato, il presidium. Il vero potere, tuttavia, risiedeva nel Partito Comunista e nei suoi dirigenti.
Il successo di Stalin Il partito mise lo Stato al suo servizio e lo rafforzò: tra il 1917 e il 1921, il numero di funzionari aumentò da 576.000 a 2,4 milioni. In questo modo, lo Stato e lo stesso partito furono nelle mani di una burocrazia in cui si è rintracciata l’autentica base sociale del regime, al punto che si è parlato di “dittatura della burocrazia” più che di “dittatura del proletariato”. Mentre il carattere proletario del partito si dissolveva, la democrazia interna faceva acqua (nel 1921 ci fu la prima “purga” con l’espulsione di un quarto dei suoi militanti) e la sua struttura si centralizzava: tutto era diretto dal Comitato Centrale mentre il Comitato, a sua volta, era diretto dal Politbjuro, in cui Lenin godeva di un’autorità incontestata, circondato da Trockij, Stalin, Kamenev e Nikolaj Krestinskij. Nel maggio 1922,
Lenin fu colpito da ictus cerebrale, che lo lasciò parzialmente invalido, anche se rimase a capo del governo fino alla fine del 1923. Per tutto quel tempo, si scatenò una sordida lotta per il potere, che scoppiò definitivamente alla morte del leader, avvenuta il 21 gennaio 1924. Erano due i gruppi avversari. Uno, guidato da Trockij, difendeva la necessità di esportare la rivoluzione in tutto il mondo (la “rivoluzione permanente”), ritenendo che l’Unione Sovietica non avrebbe potuto sopravvivere isolata; l’altro gruppo, con a capo Stalin, sosteneva la necessità di limitare la costruzione del socialismo all’Unione Sovietica (il “socialismo in un solo Paese”). Trockij difendeva l’esistenza di più correnti d’opinione all’interno del partito, Stalin era contrario. Trockij denunciava il crescente sistema burocratico. Stalin, che dal 1922 era diventato segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), controllava tale burocrazia e la utilizzò contro i suoi avversari, che riuscì a dividere. Dapprima ottenne l’appoggio di Kamenev e Zinoviev contro Trockij. Quando questi si resero 75
BORGHESIA E RIVOLUZIONE
I FREIKORPS, FORZA DI REPRESSIONE.
Gli spietati membri di queste bande armate, formate soprattutto da giovani veterani della Prima guerra mondiale, odiavano la Repubblica di Weimar, nata dalla sconfitta tedesca, ma odiavano ancora di più i rivoluzionari, che consideravano colpevoli della sconfitta militare. Nell’immagine, membri dei Freikorps durante la repressione della rivolta spartachista del 1919 (uno, a destra, imbraccia un lanciafiamme).
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conto che Stalin voleva in effetti concentrare tutto il potere su di sé, era ormai troppo tardi. Formarono allora con Trockij l’«opposizione unita», con un programma di sinistra che prevedeva l’abbandono della NEP (in cui vedevano il germe di un nuovo capitalismo), la collettivizzazione forzata delle campagne e un programma di industrializzazione (nel 1923, Trockij richiedeva una «dittatura dell’industria» che doveva trovare nelle campagne il capitale necessario per lo sviluppo industriale del Paese). Nel dicembre 1927, Stalin trionfò nel XV Congresso del PCUS: Trockij e Zinoviev, accusati di non rispettare la linea del partito (ossia quella sostenuta da Stalin), vennero espulsi da Stalin, e Kamenev fu allontanato dal potere. Dopo aver concluso la questione della sinistra, Stalin attaccò quelli dell’“unione di destra”, guidati da Nicolaj Bucharin, contrari all’industrializzazione forzata perché ritenevano che avrebbe privato i bolscevichi dell’appoggio dei contadini. Nell’aprile 1929, davanti al Comitato Centrale, Stalin accusò il “gruppo di Bucharin” di aver intrapreso
«un’azione subdola e mascherata contro il partito, attraverso accordi dietro le quinte con i trozkisti». A novembre, Bucharin fu cacciato via dal Politbjuro. Cominciò così l’epoca stalinista: un solo uomo controllava il partito che, a sua volta, controllava lo Stato. Dieci anni dopo, la Russia era passata dall’assolutismo zarista a una nuova e più completa forma di autocrazia.
La Germania di Weimar La democrazia tedesca lottava per sopravvivere a un cumulo di difficoltà. Alla proclamazione della Repubblica, nel novembre 1918, seguì la convocazione delle elezioni di un’Assemblea Costituente da tenersi nel gennaio 1919 e in quell’ultimo mese culminò a Berlino la rivoluzione che era scoppiata alla fine del conflitto bellico. Nella capitale ci fu il confuso tentativo di destituire il governo del socialdemocratico Friedrich Ebert da parte della Lega spartachista, movimento di estrema sinistra, da cui nacque il Partito Comunista Tedesco (KPD), che voleva organizzare la nuova Germania secondo un sistema di consigli, stile Russia rivolu-
zionaria. La rivolta si concluse dopo duri combattimenti e una feroce repressione per mano delle unità militari e dei Freikorps o “corpi franchi”, gruppi paramilitari formati da ex-combattenti profondamente antisocialisti che appoggiarono i vertici dell’esercito tedesco. La Germania non sarebbe stata lo scenario di una seconda rivoluzione bolscevica in Europa, ma l’azione repressiva del governo aprì un abisso incolmabile tra socialisti e comunisti, circostanza che alcuni anni dopo avrebbe favorito l’ascesa e la vittoria di Hitler. L’assemblea sorta dalle elezioni di gennaio si riunì a Weimar, lontana dalla Berlino rivoluzionaria e adottò una Costituzione che concedeva il suffragio universale a uomini e donne, consegnava importanti poteri al presidente e consacrava il carattere federale dello Stato tedesco. Nei suoi primi passi, la Repubblica ebbe il sostegno della “coalizione di Weimar”, formata dall’SPD, che guidava Ebert (eletto presidente della Repubblica), dal Partito di Centro, diretto da Matthias Erzberger e dal Partito Democratico Tedesco (DDP), dell’industriale Walther Rathenau (artefice del Trattato di Rapallo con la Russia sovietica). La coalizione fu obbligata ad accettare il Trattato di Versailles (che lo stesso Erzberger liquidò come «opera del diavolo»), si scontrò anche con la rivoluzione e si trovò contro sia la destra nazionalista e ultranazionalista (che raccoglieva gruppuscoli come lo NSDAP di Adolf Hitler) sia i comunisti del KPD. Le agitazioni di sinistra vennero annientate in maniera sanguinosa: nel maggio 1919, i Freikorps spazzarono via un’effimera Repubblica Sovietica proclamata in Baviera e nel marzo 1920 l’esercitò soffocò una sommossa spartachista dei minatori della Ruhr. L’estrema destra si rese responsabile di due tentativi di golpe, entrambi sostenuti da Ludendorff, il generale che appena due anni prima era stato il padrone del Reich: quello guidato dall’ultranazionalista Wolfgang Kapp a Berlino, nel marzo 1920, e il “putsch della birreria” di Monaco, nel novembre 1923, con a capo Hitler, avvenuto nel contesto dell’occupazione francese della Renania e dell’iperinflazione (il giorno del golpe, una copia del giornale del partito di Hitler, il Völkischer Beobachter, costava 5.000 milioni di marchi). Sconfitto l’estremismo di sinistra e di destra e ristabilita l’economia con i prestiti americani, la lenta crescita economica favorì lo sviluppo di una politica sociale che, tra il 1925 e il 1926, permise di destinare il 26% del prodotto nazionale ad alloggi, istruzione e sanità. La Germania cessò di essere uno Stato paria con la firma del Trattato di Locarno (1925) e l’entrata nella SDN (1926). La relativa prosperità, tuttavia, e l’accettazione internazionale non eliminarono tutti i punti deboli
della Repubblica. La democrazia tedesca era minata dalla perdita di fiducia di una classe media che, caduta in bancarotta a causa dell’inflazione e dell’esperienza rivoluzionaria, accolse a piene mani l’estremismo di destra. Era inoltre stravolta dal clima di guerra civile sempre più evidente negli scontri urbani tra le milizie dei vari partiti. La Grande Depressione esacerbò questi antagonismi politici e diede impulso a una destra nazionalista perennemente risentita dal Trattato di Versailles, che non si riconciliò mai con la Repubblica e che nel 1925 giunse alla presidenza nella persona del maresciallo Hindenburg.
Gran Bretagna e Francia In Gran Bretagna, il dopoguerra aggravò i problemi economici anteriori al 1914. All’obsoleta struttura della sua industria si aggiunse l’indebitamento causato dal conflitto. Il Paese si trovò in una depressione economica e la disoccupazione divenne endemica: nel 1921, c’erano oltre due milioni di disoccupati. In tali circostanze, le elezioni di novembre del 1922 (in cui il voto degli uomini
«AIUTA A COSTRUIRE IL SOCIALISMO! UNISCITI ALL’USPD!»
Questo manifesto del Partito Socialdemocratico Indipendente della Germania, del 1919, mostra il Reichstag come una fortezza in costruzione. Frutto di una scissione a sinistra dell’SPD, l’USPD aspirava a una organizzazione politica basata su un sistema di consigli, in contrasto con la repubblica parlamentare che difendeva l’SPD. Nel 1922 i due partiti si riunificarono e formarono il VSPD.
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BORGHESIA E RIVOLUZIONE
LO ZIO SAM STRAPAZZA POINCARÉ.
La caricatura risale al 1924, quando Raymond Poincaré, stretto dall’inflazione e incalzato dagli Stati Uniti (Paese con il quale la Francia aveva contratto un debito enorme durante la guerra) dovette accettare il piano Dawes, che stabiliva un nuovo calendario di pagamenti per la Germania, ma non fissava l’ammontare totale da saldare.
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maggiori di ventuno anni, concesso nel 1918, si sommò a quello delle donne maggiori di trenta, deliberato nel 1921) videro la vittoria dei Tories e rimossero per sempre i liberali dal secondo posto, a vantaggio dei laburisti. Il leader di questi ultimi, Ramsay MacDonald, formò il governo con l’appoggio liberale dopo le elezioni di dicembre del 1923, anche se l’esecutivo ebbe una durata di meno di dieci mesi a causa dello scontento delle basi laburiste dovuto alla sua moderazione, così come per il fermento tra i Tories: nelle elezioni dell’ottobre 1924, dopo che MacDonald ebbe riconosciuto diplomaticamente l’URSS, i conservatori usarono una lettera falsa in cui Zinoviev, presidente della Komintern, inviava istruzioni ai laburisti. Seguì un governo conservatore diretto da Stanley Baldwin, che piegò i sindacati dopo il fallimento di uno sciopero generale di nove giorni e segnò la fine delle agitazioni sociali. Il Paese non si era radicato a sinistra, ma neanche a destra. Il governo conservatore mantenne l’assistenza sociale e addirittura l’ampliò (abbassò l’età richiesta per il pensionamento dai settanta ai sessantacinque anni e incrementò il sussidio di disoccupazione). Allo stesso tempo, il voto fu esteso alle donne maggiori di ventuno anni. In Francia, l’adozione di un sistema elettorale proporzionale impedì la formazione di maggioranze di un solo partito, fatto che contribuì all’instabilità della Terza Repubblica: tra gli armistizi del 1918 e del 1940 si succedettero 44 gabinetti, in gran parte coalizioni che ruotavano intorno al Partito Radicale. Tutte le forze politiche passarono almeno una volta per il governo o appoggiarono un esecutivo dal Parlamento, ad eccezione dei comunisti, nati dalla scissione della SFIO, che si rifiutarono di sostenere qualsiasi coalizione. La principale figura politica fu Poincaré, il quale, durante il governo del Blocco Nazionale, tra gli anni 1919 e 1924, richiese alla Germania il pagamento delle riparazioni di guerra e invase la Renania. Fu sempre Poincaré che, tra il 1926 e il 1929, al comando del governo dell’Unione Nazionale, aumentò le tasse e svalutò il franco per far fronte alla crisi finanziaria generata dal debito che aveva messo sul lastrico la Francia fin dai tempi della guerra, a causa del ritardo nei pagamenti delle riparazioni di guerra tedesche. Da parte loro, i socialisti avevano scartato l’idea di far parte dell’esecutivo del “Cartello delle sinistre” diretto dal radicale Édouard Herriot (che riconobbe l’URSS) tra il 1924 e il 1926, anche se diedero il loro pieno appoggio al Parlamento. Tuttavia, come era successo per MacDo-
nald in Gran Bretagna, il Cartello delle sinistre defraudò le speranze che aveva risvegliato tra i lavoratori. Sebbene, come succedeva anche nel Regno Unito, la democrazia liberale conservasse la fiducia delle classi medie, in Francia i membri di queste ultime sostenevano gruppi nazionalisti e antisemiti come Action Française e i suoi giovani miliziani, i Camelots du Roi. Questi gruppi rifiutavano il sistema, come facevano i comunisti, e l’esistenza di un tale estremismo politico, con un appoggio sociale non ampio ma significativo, differenziava la Francia dal Regno Unito.
L’Europa orientale La Conferenza di Parigi aveva voluto modellare una nuova Europa a partire dall’idea di democrazia liberale dei vincitori, ma la formula, che si appoggiava sull’esistenza di una classe media numerosa e un ampio spettro politico di centro, non ebbe fortuna al di fuori delle economie industriali del nord del continente. Nella nuova Europa orientale, soltanto l’industrializzata Cecoslovacchia avrebbe mantenuto (con la Finlandia) la democrazia liberale. La politica degli altri Paesi rimase condizionata al carattere rurale delle loro società e all’arretratezza industriale, così come alle tensioni con le minoranze nazionali e alle aspirazioni degli Stati revisionisti. La riforma agraria fu la trasformazione più evidente che conobbe l’Europa dell’Est, ed ebbe un potente stimolo nell’esempio russo, in cui l’espulsione dei latifondisti nel 1917 parve significare la vittoria per i piccoli contadini (la collettivizzazione delle campagne russe non ebbe inizio fino al 1929). Le proprietà terriere furono espropriate, ma tale operazione ebbe una chiara tinta nazionalista. In Cecoslovacchia e negli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) appartenevano a proprietari tedeschi. In Romania, in cui 1,4 milioni di contadini usufruirono della ridistribuzione delle terre nel 1918, gli espropriati furono gli Ungheresi e i Tedeschi: «Consideriamo la riforma agraria come lo strumento più potente per la romanizzazione della Transilvania», affermò il poeta e politico ultranazionalista Octavian Goga nel 1920. In Polonia e Ungheria, dove i latifondisti appartenevano alla nazionalità di maggioranza, la riforma non andò molto lontano. Con la riforma agraria, i partiti dei contadini si trasformarono in un’importante forza politica in molti Stati dell’Europa orientale (a volte propensi al socialismo, altre volte più schierati su posizioni di destra e nazionaliste) e fecero parte di un instabile panorama politico in cui gli attriti tra le varie nazionalità si intrecciarono ai conflitti sociali nelle città e nelle campagne, dando vita a un periodo di notevole incertezza.
L’ASCESA DEL FEMMINISMO NEGLI ANNI ’20
N
ella sua enciclica Casti connubii, del 31 dicembre 1930, scritta in un’epoca in cui le donne andavano acquisendo indipendenza personale e rilevanza sociale, il papa Pio XI denunciava il progresso del femminismo affermando: «I citati maestri di errori che offuscano il candore della fede e della castità coniugale, facilmente scalzano altresì la fedele ed onesta soggezione della moglie al marito. Molti di essi […] bandiscono superbamente come già fatta, o da procurarsi, una certa “emancipazione” della donna». La partecipazione alle fatiche della guerra aveva aperto alle donne il mercato del lavoro, sia nell’industria che in una serie di professioni considerate femminili, quali infermiera, telefonista e impiegata, che prevedeva anche l’impiego nella pubblica amministrazione: nel 1926 le donne occupavano il 45% dell’amministrazione centrale francese. La Grande Guerra aprì loro anche la strada alla politica: prima della fine del decennio del 1920 potevano votare in Russia, Germania, Austria, Stati Uniti e – ma solo quelle che avevano compiuto trent’anni – in Gran Bretagna. In Russia i bolscevichi nominarono un primo ministro donna: Aleksandra Kollontaj, sovrintendente del Welfare.
RIFIUTO DELLA NUOVA DONNA. Mussolini dichiarò a Emil Ludwig, suo intervistatore: «Le donne devono obbedire […] Io sono contro tutti i femminismi […] Ci possiamo già immaginare come finiranno gli Anglosassoni: in un matriarcato!». In alto, manifesto di un’opera di teatro italiana antifemminista.
NANCY ASTOR. Prima donna a occupare
VIRGINIA WOOLF. La sua sperimentazione
GABRIELLE COCO CHANEL. Creatrice
un seggio al Parlamento britannico (1919), con lo schieramento conservatore.
nell’ambito della letteratura la trasformò in riferimento per la cultura contemporanea.
di abiti, gioielli e profumi, diede un impulso decisivo all’industria della moda. 79
BORGHESIA E RIVOLUZIONE
Mustafa Kemal Atatürk e la costruzione della nuova Turchia Nel 1922, Mustafa Kemal sconfisse i Greci che, con appoggio britannico, avevano invaso l’Anatolia nel 1919, presumibilmente secondo il Trattato di Sèvres. Kemal ottenne la vittoria grazie all’alleanza dei bolscevichi (anch’essi, come lui, contro Francesi e Britannici) e al sostegno che ricevette dalla Grande Assemblea Nazionale turca. Questo Parlamento, che si riuniva ad Ankara dal 1920, corroborò tutte le iniziative di Kemal, come l’abolizione del sultanato nel 1922; l’ultimo sultano fu lo screditato Mehmet VI, che aveva tentato di rafforzare il suo potere appoggiandosi agli alleati. L’anno successivo, il Trattato di Losanna sancì l’esistenza della nuova Repubblica di Turchia, che Kemal rimodellò a partire dalla rottura totale con il passato ottomano. Scisse la religione dalla vita pubblica per evitare che l’Islamismo divenisse una colonna dell’opposizione: il califfato venne soppresso (1924) e le autorità religiose passarono a dipendere dallo Stato. Cominciò così la devrim, una rivoluzione che, oltre a essere laica era anche nazionalista (si obbligò, per esempio, a pregare in turco e non in arabo, e l’alfabeto latino sostituì quello arabo-persiano nella trascrizione della lingua turca) e moderna, in stile occidentale. Essa prevedeva infatti dall’emancipazione della donna, sancita in un codice civile simile a quello svizzero, fino alla sostituzione dei nomi musulmani con cognomi all’europea: Mustafa Kemal diventò Atatürk, “Padre turco”. A sinistra, ritratto di Mustafa Kemal, opera di Aleksandr Sytov (Museo Anitkabir, Ankara).
Nel 1925, per esempio, almeno 32 partiti erano rappresentati nel Sejm, la camera bassa della Polonia, con la presenza di Tedeschi, Ucraini, Bielorussi e Giudei. Tali tensioni, spesso accompagnate da dosi considerevoli di violenza, portarono a dittature come quella dell’ammiraglio Miklós Horthy in Ungheria, quella del generale Józef Piłsudski in Polonia o quella di Alessandro I in Jugoslavia.
L’Italia e il fascismo Le dittature dell’Europa orientale erano un segno della deriva autoritaria in cui il continente finì dopo la nascita della Russia bolscevica, che incoraggiò i movimenti rivoluzionari. Tuttavia, il ricorso all’esercito da parte delle classi dominanti per puntellare il proprio potere non era una novità. Inconsueta, invece, era la nascita di movimenti politici che rifiutavano la democrazia liberale, in cui l’esaltazione nazionalista venata di xenofobia e di odio per il socialismo si sommava alla volontà di creare un nuovo ordine politico, sociale e morale. Si trattava di movimenti, la cui intenzione era di forgiare un uomo nuovo e una nuova comunità na80
zionale. In tal senso, erano rivoluzionari: i rivoluzionari della controrivoluzione. Dove ebbero successo, si impadronirono dello Stato e lo misero al servizio di tale progetto, e l’Italia fu il primo Paese in cui uno di loro giunse al potere. L’ascesa del fascismo italiano avvenne in un contesto di crisi economica e di turbolenze sociali che seguirono la fine della guerra, durante il “biennio rosso” del 1919-1920, in cui i sindacati della potente Confederazione Generale del Lavoro (CGL) passarono da 50.000 affiliati a due milioni. Le proteste per il costo della vita (tra marzo 1919 e dicembre 1920 la lira perse due terzi del suo valore) e per le condizioni lavorative sfociarono nella creazione di collettivi operai nelle fabbriche, soprattutto a Torino e Milano, e nell’occupazione delle terre, specialmente in Toscana ed EmiliaRomagna, il tutto accompagnato dalla formazione di guardie rosse armate. Una parte dei socialisti e sindacalisti vide in questa situazione l’incoraggiante inizio di una rivoluzione di stile sovietico, e così fu vista anche da alcuni allarmati imprenditori e proprietari di terre. Nello stesso tempo, aumentò il risentimento per la “vittoria mutilata”: nel settembre 1919, i “legionari”, comandati dal poeta ultranazionalista Gabriele D’Annunzio, occuparono la città di Fiume (l’attuale Rijeka, in Croazia), un tempo austro-ungarica, che era rivendicata sia dall’Italia che dalla nuova Jugoslavia. Di fronte a questi conflitti, i liberali si rivelarono incapaci. Alle elezioni del novembre 1919 fecero un passo indietro, così come in Gran Bretagna, superati dai socialisti e da un movimento di nuova fondazione: il Partito Popolare Italiano (PPI), di ispirazione cristiana, fondato dal sacerdote Don Luigi Sturzo. Nel gennaio 1921 nacque una nuova forza: il Partito Comunista Italiano (PCI), frutto di una scissione di sinistra del PSI. Il panorama politico si era trasformato e ora erano i partiti di massa ad avere il ruolo da protagonisti. Alle elezioni di maggio di quell’anno, con suffragio universale maschile, irruppe al Parlamento una nuova forza: quella dei fascisti comandati da Benito Mussolini. Il leader non era tipo da giri di parole. Nel suo primo discorso alla camera, il 21 giugno, definì la violenza come «una dura necessità a cui dobbiamo sottometterci». Era questa violenza che gli aveva garantito 35 seggi. Figlio di un fabbro e di una maestra, lui stesso formatosi come maestro, Mussolini aveva militato prima della guerra nell’ala rivoluzionaria del socialismo ed era poi arrivato alla direzione dell’Avanti, giornale ufficiale del PSI. Durante il conflitto bellico, passò dal neutralismo all’appoggiare la partecipazione dell’Italia alla guerra, cambio di posizione che gli valse l’espulsione dal partito. La sua retorica ultranazionalista e rivolu-
zionaria si concretizzò il 23 marzo 1919, quando presentò a Milano i Fasci italiani di combattimento, con un programma che prevedeva dal diritto di voto alle donne, unito al diritto di venire elette, fino all’espropriazione dei beni alle congregazioni religiose, passando dalla partecipazione degli operai alla gestione nelle fabbriche e all’imposta progressiva sui capitali. Mussolini, tuttavia, perse le elezioni del 1919 al Parlamento. Attenuò quindi l’impeto rivoluzionario a vantaggio del patriottismo, dell’antisocialismo e del ruolo degli “squadristi”, bande di violenti che ricevettero l’aiuto finanziario di industriali e latifondisti, così come l’appoggio della polizia e dell’esercito, sostegno che garantiva l’impunità dei loro attacchi terroristici contro la sinistra. Nel novembre 1921, i “fasci” si trasformarono in Partito Nazionale Fascista (PNF), che trasse vantaggio sia dalla divisione della sinistra tra socialisti e comunisti che dalla violenza degli squadristi, la quale esercitava una forte attrazione su ex soldati, classi medie preoccupate per il “terrore rosso” e giovani studenti.
Se nel dicembre 1919 c’erano soltanto 32 fasci o sezioni locali e meno di mille militanti, alla fine del 1921 i fasci erano diventati già 834 e i fascisti erano un quarto di milione. Nel maggio dello stesso anno, Giovanni Giolitti li integrò al Blocco Nazionale antisocialista, sotto la cui ala il PNF ottenne 35 deputati e passò a utilizzare il Parlamento come un’eccellente cassa di risonanza per diffondere le proprie idee. L’inarrestabile disgregazione della politica italiana e la pressione dei ras, ambiziosi capi fascisti provinciali, convinsero Mussolini a prendere il potere. Il 28 ottobre del 1922, 25.000 camicie nere entravano a Roma, semiarmate. L’azione sarebbe stata una semplice bravata se all’alba di quello stesso giorno il re Vittorio Emanuele III avesse firmato un decreto per dichiarare lo stato di assedio, come gli era stato chiesto dal primo ministro liberale Luigi Facta. Il sovrano però non lo firmò, l’esercito non si mosse contro i fascisti, Facta rassegnò le dimissioni e il sovrano incaricò Mussolini di formare il governo. Fu, quindi, il re a consegnare il potere nelle mani dei fascisti.
MUSSOLINI DURANTE LA MARCIA SU ROMA (1922). Nell’immagine, tra
due dei principali dirigenti fascisti: Cesare de Vecchi (a destra) e Italo Balbo (a sinistra), il violento e banditesco ras o capo fascista di Ferrara, le cui milizie terrorizzarono operai e contadini. La marcia di ottobre significò la fine della democrazia parlamentare e l’inizio del regime fascista delle camicie nere.
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AVIATORI: GLI EROI D’AMERICA
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e migliaia di piloti formati durante la Prima guerra mondiale fecero parte in seguito dell’aviazione civile, che vide un notevole incremento nella decade del 1920. Fu quella un’epoca di primati, che trasformò i piloti in icone della cultura di massa, soprattutto negli Stati Uniti. Tra di loro si distinse Charles Lindbergh, il primo uomo ad attraversare in solitaria l’Oceano Atlantico. A bordo dello Spirit of St. Louis partì da New York alle 7:52 del 20 maggio 1927, e dopo 33,5 ore di volo, atterrò alle 10:32 del giorno successivo all’aeroporto parigino di Le Bourget, dove il suo arrivo scatenò il delirio di decine di migliaia di spettatori che lo stavano aspettando. A destra, Lindbergh arriva all’aeroporto di Croydon (Londra) dal continente, il 29 maggio, e la folla lo acclama intorno al suo apparecchio.
«VITA PULITA, CORAGGIO, PREPARAZIONE».
Questo libro presenta il giovane Lindbergh come modello di valori ai ragazzi americani. 82
AMELIA EARHART Questa audace aviatrice americana, che dal 1922 accumulò record di altezza di volo e velocità, divenne il simbolo del progresso americano quando fu la prima donna ad attraversare in solitaria l’Atlantico, con un volo di 15 ore che nel maggio 1932 la portò da Terranova all’Irlanda e sulle copertine di tutto il mondo. Nel gennaio 1935, fu il primo pilota a fare la traversata in solitaria del Pacifico da Honolulu (Hawaii) fino alla California. E nel maggio 1937, a bordo di un Lockheed 10E Electra, con Fred Noonan come navigatore, intraprese il giro del mondo seguendo la linea dell’Equatore, dalla California verso est. Ormai sulla via del ritorno, il 2 luglio partì da Lae (Nuova Guinea) verso l’isolotto di Howland, situato a circa 3.000 km da Honolulu. Nessuno più la rivide e le navi della Marina che il presidente Roosevelt inviò alla sua ricerca non trovarono traccia di lei. Oggi si pensa che Amelia fosse coinvolta in una missione di spionaggio per il governo, per fotografare possibili basi giapponesi nel Pacifico. In qualsiasi caso, fu la prima eroina dell’aviazione civile. In alto, Amelia Earhart seduta sul suo paracadute, nel 1928.
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BORGHESIA E RIVOLUZIONE
Dall’esecutivo, Mussolini abbozzò una legge elettorale che, in aggiunta alla brutalità degli squadristi e al broglio nelle urne, gli aggiudicò l’egemonia nelle elezioni dell’aprile 1924. Quando, a giugno, il leader socialista Giacomo Matteotti denunciò la truffa, un gruppo fascista lo sequestrò e assassinò. Cominciò in questo modo una dittatura che prescrisse i partiti politici, restrinse il suffragio (nel 1928 il numero degli elettori passò da 10 milioni a tre), ridusse la libertà di stampa, sostituì i sindacati di sinistra con altri di stampo fascista, eliminò il diritto di sciopero, soppresse l’autonomia dei comuni, da quel momento diretti dai podestà e, infine, in virtù dei cosiddetti Patti Lateranensi, ottenne il beneplacito della Chiesa e dell’opinione pubblica cattolica per governare. Tali accordi, firmati nel febbraio del 1929, crearono lo Stato del Vaticano e imposero l’insegnamento della religione cattolica; Mussolini sembrò essere «l’uomo che ci ha inviato la Provvidenza», secondo le parole di papa Pio XI, allarmato dall’avanzata del comunismo. Mentre consolidava il suo potere all’interno, il Duce evocava le glorie dell’antica Roma con una politica estera volta a riparare l’ingiustizia storica della “vittoria mutilata”, e cominciò ad allinearsi con i Paesi revisionisti (che mettevano in discussione i trattati del 1919), cominciando dall’Ungheria nel 1927. Fino al decennio successivo, tuttavia, non trovò nella Germania, il maggiore tra questi Stati, un alleato all’altezza delle sue ambizioni. NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI. Nell’agosto
1927 morirono sulla sedia elettrica, condannati per due omicidi commessi durante una rapina nel 1920: la loro colpevolezza o innocenza non si è mai potuta accertare. Erano entrambi militanti anarchici e probabilmente collaborarono a una campagna di attentati intrapresa nel 1919, quando migliaia di immigrati cui si attribuiva un’ideologia radicale venivano arrestati e deportati dagli Stati Uniti. Uno di loro, l’anarchico Andrea Salsedo, arrestato nel 1920, venne torturato e la sua confessione portò all’arresto di Sacco (in alto) e Vanzetti (in basso). 84
Il razzismo negli Stati Uniti: il Ku Klux Klan Nel 1866 nacque nello Stato del Tennessee il Ku Klux Klan, movimento di veterani della sconfitta Confederazione, che si diffuse rapidamente in tutto il sud e che assaliva i neri emancipati da Abraham Lincoln. I membri del Klan terrorizzavano gli ex schiavi per impedire loro di esercitare i propri diritti civili. Attaccavano anche i bianchi che aiutavano i neri, appartenenti al Partito Repubblicano, il quale, diretto da Lincoln, aveva proibito la schiavitù. Siccome gli oppositori dei diritti dei neri militavano nel Partito Democratico, il Ku Klux Klan divenne un’arma di questi ultimi per ottenere il potere politico al sud. Quasi inesistente alla fine del secolo, tornò in auge durante la Grande Guerra con una nuova caratteristica: oltre a essere contro i neri, accentuò il suo fondamentalismo protestante e diventò anche antisemita e xenofobo. Tale espansione ideologica facilitò la sua diffusione negli Stati settentrionali e del Midwest (come l’Indiana, in cui era dominante), dove i lavoratori specializzati temevano la concorrenza della manodopera nera e degli immigrati. L’organizzazione razzista visse una vera età dell’oro tra gli anni 1921 e 1926. A destra, cerimonia del Ku Klux Klan nella Virginia Occidentale, nel 1924.
Gli Stati Uniti Mentre in Europa aumentava l’estremismo politico, gli Stati Uniti seguivano il proprio percorso. La riluttanza degli alleati a compensare i debiti di guerra, un’agitazione sociale interna che era considerata eredità del conflitto bellico e il rifiuto dei poteri straordinari che avevano assunto il presidente Wilson e il governo federale durante il conflitto furono elementi decisivi perché gli Stati Uniti si disinteressassero degli affari europei e le elezioni diedero ai repubblicani il governo del Paese fino al 1933. Con essi, secondo quanto promesso dal presidente Warren G. Harding, si realizzò «il ritorno alla normalità», segnata dall’isolazionismo, da un progresso economico accompagnato da profonde diseguaglianze sociali e da una forte reazione conservatrice. Sotto il governo di Harding e dei suoi successori, John Calvin Coolidge e Herbert C. Hoover, fiorirono i monopoli mentre si accantonavano le leggi antitrust e il progressismo del decennio precedente. Lo sfrenato liberalismo economico e la prosperità dell’industria e delle finanze furono paralleli a una dura repressione degli scioperi e delle sommosse di sinistra che, macchiate di violenza
anarchica, erano scoppiate alla fine della Grande Guerra. Come succedeva in Europa, le cause erano radicate nei prezzi alti, nei salari bassi e nelle lunghe giornate di lavoro. Molti Americani mettevano la conflittualità sociale in relazione all’arrivo di immigranti dal sud e dall’est dell’Europa con idee rivoluzionarie, come gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, giustiziati nel 1927. Tale convinzione favorì l’isolazionismo nei confronti dell’Europa e diede impulso alla xenofobia, con il risultato di nuove leggi che limitarono il numero degli immigrati e favorirono l’arrivo di Europei provenienti dal nord (1921, 1924). Alle agitazioni sociali si aggiunsero le trasformazioni razziali che la guerra aveva comportato: tra gli anni 1916 e 1919, circa 450.000 neri abbandonarono il sud segregazionista e si diressero verso le aree urbane del nord per lavorare nelle industrie di munizioni, fenomeno che alterò in maniera irreversibile la composizione etnica delle città: la popolazione afroamericana di New York crebbe del 66,6% e quella di Chicago del 148%. Molti appartenenti a queste comunità nere rifiuta-
vano la loro emarginazione sociale e il ritorno dei soldati afroamericani, che avevano lottato nella Prima guerra mondiale in difesa di una libertà e di un’uguaglianza che il loro stesso Paese negava loro, svolse un ruolo di primo piano nella presa di coscienza dei diritti della popolazione di colore. Neri, immigrati e gente di sinistra erano percepiti come una minaccia per i valori degli Americani bianchi, anglosassoni protestanti, gli WASP (acronimo di White Anglo-Saxon Protestant), che scatenarono una forte reazione conservatrice espressa in vari modi. Una di queste espressioni fu il Ku Klux Klan, organizzazione razzista che nel 1925 aveva cinque milioni di membri ed era contro neri, immigrati ed ebrei. Un’altra fu il culmine del fondamentalismo protestante, la cui interpretazione letterale della Bibbia diede luogo nel 1925 al clamoroso processo del professore John T. Scopes per aver contravvenuto al divieto, vigente nel Tennessee, di insegnare le teorie darwiniste. Un altro aspetto dell’offensiva conservatrice fu la proibizione nel 1920 delle bevande alcoliche (il cui traffico clandestino contribuì all’espansione della
criminalità organizzata). A ogni modo, coloro che stavano alla guida dell’America WASP potevano dormire sonni tranquilli. Una spinta economica sconosciuta in Europa si unì al progresso industriale dei beni di consumo per rimuovere ampi settori della classe operaia, i più specializzati, da tutte le utopie riformatrici e associarli invece al sogno americano del trionfatore, incarnato nelle stelle del cinema, nei cantanti, negli sportivi e negli uomini d’affari di successo. Nel dicembre del 1928, un compiaciuto Coolidge dichiarava così al Congresso: «La grande ricchezza creata dalle nostre imprese e dalla nostra industriosità […] è stata distribuita tra il nostro popolo nel modo più ampio […]. I consumi quotidiani hanno oltrepassato la soglia del bisogno per entrare nella regione del lusso». E aggiungeva: «Il Paese può considerare il presente con soddisfazione e prevedere il futuro con ottimismo. La causa principale di queste fortune senza precedenti risiede nell’integrità e nel carattere del popolo americano». Dieci mesi più tardi, gli Stati Uniti e il mondo sarebbero precipitati nell’abisso della Grande Depressione. 85
LE AVANGUARDIE: UNA NUOVA ARTE
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Le avanguardie: una nuova arte Nei primi tre decenni del secolo XX, le avanguardie scalzarono le basi dell’arte occidentale. Furono apprezzate da pochi, ignorate dalla maggioranza e represse dalle dittature.
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on il Manifesto del futurismo, pubblicato su Le Figaro il 20 febbraio del 1909, il poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti inaugurava le avanguardie artistiche del XX secolo. «La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. […] un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia.[…] Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. […] Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.» Il testo era un attacco provocatorio all’arte ufficiale consacrata da musei e accademie, simbolo del gusto della borghesia e della sua compiaciuta fiducia in una realtà dominata da ordine e progresso. Nel suo violento attacco sfociavano quaranta anni di rifiuto da parte dell’arte ufficiale di tutti coloro che uscivano dai canoni tradizionali e di orgogliosa affermazione di quel rifiuto da parte degli emarginati. Tale dinamica era cominciata con il parigino Salon des Refusés (“dei rifiutati”) del 1863, era passata per la Sezession (“secessione”) viennese del 1897 e giunse al primo decennio del secolo: nel Salon D’Automne di Parigi del 1905, una critica di Louis Vauxcelles in ARLECCHINO CON CHITARRA. Olio dell’artista madrileno Juan Gris (1917, Collezione privata). A Parigi, insieme a Braque e Picasso, Gris ideò il cubismo.
Gil Blas coniò il termine dispregiativo di “fauvista” (da fauve, “bestia”) che gli stessi pittori in questione assunsero come carattere identificativo. Nel 1908, un altro articolo sprezzante dello stesso critico battezzò il cubismo, quando, riguardo alla mostra di Georges Braque, organizzata nel 1908 dal mercante d’arte Daniel-Henry Kahnweiler, scrisse: «Disprezza la forma, riduce luoghi, figure e case a schemi geometrici, a cubi».
La crisi dell’arte
Fascino africano Nella loro lotta contro la tradizione artistica e i valori formali dell’Occidente (verosimiglianza, simmetria, proporzioni,…) le avanguardie si rivolsero all’arte “primitiva” dell’Africa e dell’Oceania. Le maschere e le sculture lignee africane, con la loro stilizzazione es-trema dei tratti umani, ispirarono i cubisti e lasciarono il segno nel volto di due figure di Les Demoiselles d’Avignon di Picasso. Allo stesso modo, l’emotività che sembra permeare queste opere e il loro carattere enigmatico agli occhi degli Europei influenzarono gli espressionisti e i surrealisti. Questi ultimi vi vedevano la libera espressione di sentimenti e istinti, anche se, in realtà, i caratteri di queste opere obbedivano a codici religiosi e magici, tanto convenzionali come quelli che vigevano nell’arte occidentale. In alto, maschera Grebo, appartenente alla collezione d’arte africana di Picasso (Museo Picasso, Parigi).
Il rifiuto, l’incomprensione e la perplessità costituivano la reazione alla ricerca di un nuovo linguaggio espressivo in un’epoca caratterizzata dalle innovazioni. Non si trattava soltanto di novità in campo tecnologico tanto care ai futuristi, bensì formavano anche parte della visione del mondo che offriva la scienza. Nel 1905, Albert Einstein espose la sua teoria della relatività spaziale, secondo la quale il tempo e lo spazio non sono valori assoluti, ma relativi: variano in funzione di come vengono misurati. Vacillava il concetto di universo. E anche quello di uomo: con L’interpretazione dei sogni, pubblicata nel 1900, il neurologo Sigmund Freud spalancò le porte al ruolo dell’inconscio nel comportamento umano. La sfida di Einstein e Freud a ciò che si dava per scontato aveva un potente parallelo in filosofia: Friedrich Nietzsche, morto nel 1900, sosteneva che Dio aveva perso la sua funzione di sostegno dei codici morali e che l’uomo (o il “superuomo”) doveva concedersi alla forza della vita con una «volontà di potenza» che gli avrebbe permesso di produrre i suoi stessi valori. In quel mondo in cui si dileguavano le antiche certezze, la minoranza dei creativi che militò nelle avanguardie mise in discussione le regole e i concetti che avevano tradizionalmente orientato il lavoro dell’artista: si lasciarono alle spalle oltre duemila anni di canone occidentale che, nel suo Manifesto, il futurista Marinetti 87
LE AVANGUARDIE: UNA NUOVA ARTE
FOTOGRAMMA DI UN CHIEN ANDALOU.
Questo film, il primo surrealista, fu realizzato in quindici giorni da Luis Buñuel in collaborazione con Salvador Dalì; uscì la prima volta a Parigi nel 1929. aveva identificato con la Vittoria di Samotracia, per percorrere strade diverse in una ricerca che diede origine a una vertiginosa successione di “ismi”. Da un lato, c’era chi dava la priorità all’emozione. Il fauvismo (Henri Matisse, André Derain, Maurice de Vlaminck) utilizzava colori stridenti, molto lontani dalla realtà, che creavano forti contrasti. Questo movimento aprì le porte all’espressionismo (Egon Schiele, Paul Klee, Vasilij Kandinskij, Oskar Kokoschka, Ernst Ludwig Kirchner, Karl Schmidt-Rottluff), che ricorreva a un impiego poco realistico del colore e alla deformazione di figure e ambienti per esprimere l’interiorità dell’artista, un sentiero che in certi casi, come in quello di Kandinskij (che a 88
quanto pare fu il primo) avrebbe portato al progressivo abbandono di qualsiasi elemento figurativo per giungere al completo astrattismo nel 1910. Dall’altro lato, c’era chi invece credeva nella forma. I futuristi (Umberto Boccioni, Giacomo Balla) aspiravano a captare il movimento, riflesso di una novità nell’era industriale: la velocità. I cubisti (Pablo Picasso, Georges Braque, Juan Gris, Fernand Léger) scomponevano il mondo reale per ricomporlo in forma arbitraria. Espressionisti, futuristi e cubisti facilitarono la strada all’astrattismo, che fu percorsa in maniera decisa dall’avanguardia russa, in cui si succedettero movimenti come il raggismo (Michail Larionov, Natalja Gončarova), il suprematismo (Kazimir Malevi ), il costruttivismo (Vladimir Tatlin, Aleksandr Rodchenko, Naum Gabo, Antoine Pevsner). In questo modo, prima della Prima guerra mondiale le avanguardie avevano messo alla gogna il realismo e l’ideale
classico di bellezza; avevano fatto saltare i valori della prospettiva, vigenti fin dal Rinascimento e plasmavano ora l’immateriale, sia che fosse la sensazione di dinamismo o una vibrazione spirituale. Pittori e scultori si erano liberati dei lacci formali e della sottomissione alla natura. La Grande Guerra, che distrusse i valori borghesi, avrebbe portato alla piena libertà dell’artista rispetto a qualsiasi regola indipendente da lui stesso.
Nichilismo e inconscio Dal contrasto tra la carneficina e gli alti ideali che si diceva il conflitto bellico dovesse difendere, nacque il dadaismo, che vide la luce nella Svizzera neutrale, a Zurigo, per opera di scrittori e artisti fuggiti dalla guerra: il rumeno Tristan Tzara, l’alsaziano Jean Arp e i tedeschi Hugo Ball, Richard Hülsenbeck e Hans Richter. Il nome che proviene da dadà, vocabolo infantile preso a caso da un dizionario di
francese, esprime il carattere non più iconoclastico, ma nichilista di un movimento che negava il concetto stesso di arte, compresi i canoni estetici delle stesse avanguardie. Una tale negazione si manifestò nei ready-made di Marcel Duchamp, la cui Fontana (1917), un orinatoio rovesciato, esprime che l’arte può essere qualsiasi cosa: si richiede soltanto che l’artista la consideri come tale. Il carattere negativo del dadaismo lo rendeva incapace di proporre nuovi linguaggi, tanto che uno dei suoi militanti, il poeta André Breton, fondò il surrealismo. Nel suo Manifesto del surrealismo, pubblicato nel 1924, lo definì come un «Automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza d’ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d’ogni preoccupazione estetica o morale». Scrittori (Louis Aragon, Philippe Soupault), artisti (Max Ernst, Yves Tanguy, André Masson, Joan Miró, Salvador Dalì, René Magritte) e cineasti (Luis Buñuel) aderirono a questo movimento che, a partire dal sogno, dalla pazzia e dal caso, trasformò l’inconscio rivelato da Sigmund Freud nel motore della creazione artistica.
Mercanti d’arte e pubblico La costante apparizione di nuovi linguaggi plastici insoliti, che si allontanavano dal gusto dominante o che rompevano con esso, richiese la presenza di un elemento chiave affinché le avanguardie trovassero il proprio pubblico, ossia i mercanti o commercianti d’arte. In Europa, prima della Grande Guerra, la capitale incontestata dell’arte era Parigi, e mercanti come Ambroise Vollard, Berthe Weill, Clovis Sagot, Paul Guillaume, Paul Rosenberg o Daniel-Henry Kahnweiler svolsero un ruolo fondamentale nel successo dell’avanguardia. La loro clientela d’élite era formata da milionari desiderosi di possedere un prodotto culturale nuovo, diverso, che rappresentasse uno status esclusivo e che li elevasse al di sopra di una borghesia in espansione, che a sua volta vedeva nell’acquisto di opere d’arte un simbolo di distinzione sociale. Tra i loro clienti c’erano personaggi come gli uomini
Esoterismo e astrattismo: l’avanguardia teosofica L’esoterismo impregnò l’attività dell’avanguardia, fornendo una spiritualità che rompeva con le religioni tradizionali e il razionalismo occidentale, per di più accompagnata da nuove chiavi iconografiche. Le credenze più influenti furono la teosofia creata da Madame Blavatski, che sosteneva l’esistenza di un contenuto spirituale ancestrale, accessibile soltanto agli iniziati, e la sua derivata, l’antroposofia di Rudolf Steiner, che creò una simbologia esoterica del colore e la sua corrispondenza con la musica. Entrambe influenzarono fortemente Kandinskij che, nel suo libro La spiritualità nell’arte, si riferiva all’impressione che i colori e le loro combinazioni producevano nell’animo dello spettatore: il colore diveniva il linguaggio della pittura e la porta verso una nuova dimensione spirituale. La teosofia svolse un ruolo significativo nell’introduzione dell’avanguardia in America: la stretta relazione della pittrice astratta e teosofa tedesca Hilla von Rebay con Solomon R. Guggenheim le permise di riversare sulla collezione di quest’ultimo opere d’arte “non oggettive” (come quelle di Kandinskij o di Piet Mondrian, teosofo convinto) che offrivano lo sguardo di un aldilà spirituale. La pittrice riuscì a far sì che Frank Lloyd Wright, anch’egli attratto dall’esoterismo, progettasse il Museo Guggenheim: una cupola dello spirito, la cui struttura a forma di spirale inversa lo mette in comunicazione nella sua parte superiore con il cosmo, che inonda il suo interno con la luce divina dell’ispirazione. In alto, interno del Museo Guggenheim, a New York, terminato nel 1959.
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LE AVANGUARDIE: UNA NUOVA ARTE
FORME UNICHE DELLA CONTINUITÀ NELLO SPAZIO. Opera del futurista Umberto Boccioni,
1913. L’allungamento dei volumi crea la sensazione di movimento (MOMA, New York). 90
d’affari russi Sergei Schchukin e Ivan Morozov che, agendo da veri mecenati, contribuirono a diffondere l’avanguardia in Russia; così come l’industriale e politico tedesco Walther Rathenau, o il magnate americano del rame Solomon R. Guggenheim, la cui collezione costituì la base della fondazione e del museo omonimi. Agli snob dell’alta società, affascinati dalla trasgressione (l’autobiografia di Peggy Guggenheim, nipote di Solomon e anch’ella collezionista, ha il significativo titolo di Una vita per l’arte. Confessioni di una donna che ha amato l’arte e gli artisti) erano dedicate le opere di Sergej Djaghilev e i suoi Balletti Russi, che furono gli spettacoli avanguardisti par excellence fino alla Prima guerra mondiale. Tra questi si ricorda il famoso balletto Parade, rappresentato in piena guerra (1917). Le scene e i costumi erano di Picasso, si basava su di un testo scritto da Jean Cocteau, il programma era com-
GIOCATTOLI, ACQUARELLO DI PAUL KLEE.
La sua opera si collega al mondo infantile e all’arte “primitiva” (1931, Collezione privata). mentato da Guillaume Apollinaire (scrittore e critico d’arte che nell’anno 1913 aveva documentato la nascita del cubismo con il suo libro I pittori cubisti. Meditazioni estetiche), la musica era opera del progressista compositore francese Erik Satie e conteneva i rumori della vita moderna: la battitura di una macchina da scrivere, una sirena di una nave, una pistola, il rumore di un aeroplano,…
Rivoluzione, repressione I puristi del balletto classico protestarono chiassosamente alla prima di Parade, risultato che senza dubbio Djaghilev si aspettava, dato che confidava nel fatto che uno scandalo, e indubbiamente lo fu, attirasse ancora più pubblico. Se le avanguardie erano rivoluzionarie in ambito
Lo scherno dell’avanguardia Agli inizi del Terzo Reich, alcuni dirigenti nazionalsocialisti come Goebbels, ministro dell’Istruzione Popolare e della Propaganda dal 1933, o Baldur von Schirach, dirigente della Gioventù Hitleriana, ritenevano che l’espressionismo tedesco fosse un’arte nazionale, che affondava le proprie radici nel gotico tedesco. Si impose, tuttavia, il gusto tradizionale e soprattutto pompier di Hitler, che in gioventù aveva cercato di guadagnarsi la vita lavorando come pittore e dal Terzo Reich furono cancellati l’espressionismo e tutti gli accenni alle avanguardie. Nel 1937, a Monaco di Baviera, si inaugurò l’esposizione di Entartete kunst (“arte degenerata”) con 650 opere di 112 artisti d’avanguardia, tra cui Klee, Kandinskij, Kirchner, Kokoschka e i rappresentanti della Nuova Oggettività degli anni Venti. Si trattava di ex dadaisti ed espressionisti come George Grosz, Otto Dix o Max Beckmann, che erano diventati antimilitaristi e avevano condannato il cinismo e la corruzione della società di Weimar con un realismo dalle tinte espressioniste. La mostra voleva screditare l’arte moderna e con questo obiettivo venivano esibite opere create da pazzi insieme a quelle di pittori avanguardisti, per sottolineare le somiglianze in comune. Fu una delle mostre più visitate della storia, dato che tra Monaco e il tour che fece per altre tredici città, fu vista da quattro milioni di persone. A destra, fotografia dell’esposizione dell’“arte degenerata” di Monaco di Baviera.
artistico – e, spesso, anche grandi amiche della provocazione – i suoi membri inizialmente furono apolitici o di destra, come lo stesso Apollinaire, ammiratore di Action Française, che in Orfeo (1917) si lamentava del «tempo della tirannia democratica», identificata con la mediocrità, oppure come lo furono i futuristi. Con la sua retorica del culto della guerra, del pericolo, dell’energia e dell’audacia, il suo disprezzo nei confronti della donna e del “moralismo”, il futurismo si legò profondamente fin dai suoi inizi al fascismo, che ebbe nell’ultranazionalista Marinetti uno dei suoi membri fondatori. Un tale sostegno da parte degli artisti moderni al fascismo di Benito Mussolini spiega la relativa autonomia della creazione culturale in Italia tra le due guerre. Il vincolo delle avanguardie con la sinistra prese corpo a causa dei sussulti rivoluzionari che colpirono il territorio europeo tra Berlino a Mosca dopo la Ri-
voluzione bolscevica del 1917. In Russia, la Rivoluzione significò l’abolizione delle convenzioni borghesi in tutti gli ambiti e cominciò un periodo di intensa sperimentazione artistica, fino a che agli inizi degli anni Venti, in coincidenza con la Nuova Politica Economica, trionfò il costruttivismo di Tatlin e Rodchenko, ma sotto un’ottica utilitaristica: l’artista si offriva alla società per costruire il futuro con i materiali e le tecnologie industriali, dal vetro all’acciaio fino alla fotografia. L’”arte industriale” a beneficio della collettività si imponeva all’”arte di laboratorio”, alla ricerca personale, in un processo la cui fine fu segnata dalla conferenza «per l’organizzazione di massa delle arti e della letteratura» tenutasi a Jarkov (Ucraina) nel 1930. Si stabilì che gli artisti dovevano abbandonare l’individualismo piccolo borghese e che la creazione artistica doveva sistematizzarsi, collettivizzarsi ed essere «portata a termine seguendo i progetti di
un’équipe centrale, come qualsiasi altro lavoro militare». A partire da quel momento, l’arte delle avanguardie venne proscritta e fu imposto il cosiddetto “realismo socialista”, che mostrava i successi e le gesta del regime comunista. Come per l’URSS di Stalin, anche la Germania di Hitler proscrisse le avanguardie, che stigmatizzò come «arte degenerata» e impose un’arte al servizio dell’ideologia, che esaltava un archetipo di bellezza ariana basato sulla Grecia classica e celebrava, in toni realistici, sia le bellezze di una vita bucolica, che la forza, la virilità e l’eroismo, valori del nazionalsocialismo. Represse dalle dittature nella maggior parte d’Europa agli inizi degli anni Trenta, le avanguardie prosperarono in Francia, dove i surrealisti divennero simpatizzanti della sinistra e, nella guerra civile spagnola, in cui manifestarono l’apice del loro impegno politico prima della Seconda guerra mondiale. 91
LA MARCIA VERSO L’ABISSO
E TU, COSA STAI FACENDO PER EVITARE TUTTO QUESTO? Manifesto promosso dal ministero
della Propaganda della Repubblica spagnola per richiedere aiuti internazionali di fronte ai bombardamenti di Madrid del 1937. Nella pagina accanto, particolare di un simbolo del NSDAP dedicato alla giornata del lavoro del 1935.
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LA MARCIA VERSO L’ABISSO Il crollo della borsa di New York nel 1929 si trasformò in crisi economica mondiale, la Grande Depressione. Le due conseguenze politiche furono enormi: favorì l’ascesa del fascismo e del comunismo in Europa, catapultò Hitler al potere e spinse il Giappone a una corsa all’espansione. Fu Hitler, sulla base di un’ideologia razzista e imperialista, che accese la miccia di una seconda conflagrazione mondiale, molto più distruttiva della prima.
L’
adozione del piano Dawes nel 1924 aveva favorito la ripresa economica dell’Europa: i dollari americani sotto forma di prestito alla Germania alimentavano le finanze del Vecchio Continente, rivitalizzando così l’attività industriale e il commercio internazionale. Il capitale americano (protagonista del 12,4% del totale degli investimenti mondiali) favoriva la crescita europea, che si aggiungeva allo spettacolare balzo in avanti degli Stati Uniti, la cui economia aveva sperimentato un impulso straordinario grazie alla domanda derivata dalla Grande Guerra. Nel 1928, il 44, 8% della produzione industriale mondiale proveniva
da questo Paese, seguito dalla Germania (con l’11,5%), dal Regno Unito (9,2%) e dalla Francia (7%): in questi quattro Stati si concentrava il 72,5% della produzione industriale del pianeta. Attraverso i prestiti e le importazioni, la potente locomotrice americana spingeva i vagoni europei e, con essi, l’economia di tutto il mondo. Ma la caldaia del treno si stava esaurendo, mentre i passeggeri seduti più confortevolmente se la spassavano senza preoccupazioni, a ritmo di jazz, e approfittavano del breve periodo di prosperità noto come i felici anni Venti o, come è definito nella versione americana, i Roaring Twenties (i “Ruggenti anni Venti”). 93
I giorni più neri di Wall Street Il mercoledì 23 ottobre 1929 si vendettero in borsa 6,5 milioni di azioni e si scatenò un’ondata di timori. Il giorno dopo, il “giovedì nero”, cominciò la crisi. I proprietari di azioni cominciarono a disfarsene e le grandi banche si organizzarono per arginare il panico: Richard Whitney, vicepresidente della borsa di New York (e agente della banca Morgan), acquistò titoli per un valore di 240 milioni di dollari. Ma il lunedì 28 si vendettero 9,5 milioni di azioni e il martedì 29 ci fu il crac, con la vendita di 16,5 milioni di azioni. A quel punto, le quotazioni si erano abbassate di un 40%. Quando nell’estate del 1932 la borsa arrestò la sua caduta, le quotazioni erano diminuite dell’83% rispetto al loro livello massimo del 1929. A destra, il “giovedì nero” di Wall Street. In basso, le fluttuazioni dell’indice borsistico di New York, il Dow Jones. Indice 100 = 1926 200
“Martedì nero” Fallimenti bancari
150
100
50
Abbandono del sistema aureo 1926
1930
1935
1939
Negli Stati Uniti, il lavoro in catena di montaggio e la vendita a rate, spinta dalla pubblicità, avevano portato all’aumento della produzione di beni durevoli, da case e automobili fino agli elettrodomestici, oltre alla crescita di vendite e prestiti ad aziende e privati. La fiducia diffusa in un’espansione illimitata si rifletteva nella borsa di New York, epicentro finanziario del Paese, in cui il capitale investito conobbe una crescita esponenziale.
Il “martedì nero” del 1929 La borsa newyorchese offriva un guadagno molto più alto di qualsiasi altro tipo di investimento, in un processo fomentato dalla continua domanda di azioni, che faceva lievitare il loro costo alle stelle. Tutti quanti, dai plutocrati ai semplici lavoratori, rimettevano le proprie entrate a un mercato di valori che non cessava di rigettare guadagni, e gli investimenti si tramutarono in irrefrenabili speculazioni: se il 1° gennaio 1925 il valore totale delle azioni superava i 27.000 milioni di dollari, il 1° gennaio 1929 raggiungeva quasi i 67.000 milioni. Nove mesi più tardi, il 1° ottobre, il suo valore 94
totale superò l’incredibile cifra di 87.000 milioni. Era troppo. Un così esorbitante aumento del mercato causò il timore della svalutazione dei titoli e in pochi giorni quel «nuovo mondo di fantasia», come fu definito da Keynes, scoppiò. Nella giornata del 24 ottobre, il “giovedì nero”, furono venduti 13 milioni di azioni. Il timore allora divenne panico, e il 29, il “martedì nero”, furono messi in vendita altri 16,5 milioni di azioni, il cui prezzo cadde a picco. La borsa crollò e il sistema finanziario trasmise la crisi al resto della economia. Gli investitori, che avevano comprato le azioni mediante prestiti, corsero in banca per richiedere crediti per poter saldare i propri debiti, ma alle casse non c’era denaro per nessuno, dato che le banche erano le finanziatrici della bolla speculativa. Non si garantirono più prestiti e l’industria subì l’asfissia economica. La paura si estese, il consumo interno si ridusse, gli stock si accumularono e caddero i prezzi industriali e agricoli. I debiti erano insolubili, gli investimenti, irrecuperabili. Fallirono dapprima centinaia di banche (642 nel 1929) e poi migliaia (4.004 nel 1933),
portando con sé i risparmi di decine di migliaia di persone. Le aziende, per mancanza di credito e di clienti, chiusero o ridussero la propria attività in maniera drastica: nel 1931, la Ford apriva soltanto tre giorni alla settimana. Tra il 1929 e il 1932, periodo in cui le entrate degli Americani furono più che dimezzate, la disoccupazione passò dal 3% al 25%, ossia da 1,6 milioni di persone a 12 milioni. La povertà si estese nelle città e giunse nelle campagne, dove, negli anni menzionati, un milione di fattorie furono vendute dalle famiglie che non potevano saldare i propri debiti. La posizione dominante degli Stati Uniti nell’economia globale esportò questo panorama cupo nel resto del mondo.
Da Wall Street al mondo La prosperità che il mondo industrializzato aveva vissuto nella seconda metà degli anni Venti aveva basi fragili, tra cui, molto importante, lo squilibrio tra una domanda limitata e l’aumento costante della produttività nell’industria e nell’agricoltura. Nell’ambito dei beni durevoli, il consumo di massa era condizionato dal potere d’acquisto
dei lavoratori. Negli Stati Uniti, gli anni Venti furono ruggenti soltanto per una minoranza abbiente che accumulava gli utili risultanti dalla crescita: di fronte all’incremento del 52% degli utili e del 65% dei dividendi (alcuni profitti che finirono a Wall Street furono i principali responsabili dello scoppio della bolla finanziaria), i salari della maggior parte della gente crebbero soltanto del 15%. Il mercato non poteva ormai più assorbire né case né automobili, e queste erano le due industrie più attive negli Stati Uniti. Alla produzione di massa mancava il mercato di massa. Nei Paesi industrializzati d’Europa, oltre ai salari bassi, anche la disoccupazione condizionava la domanda: tra il 1924 e il 1929, gli anni della prosperità, la disoccupazione si collocò tra il 10% e il 12% in Gran Bretagna e Germania. La depressione del mondo agricolo era un altro indicatore dell’eccedenza della produzione rispetto alla domanda. La meccanizzazione delle campagne e l’aumento delle terre coltivabili in Stati Uniti, Canada, Argentina e Australia avevano creato una superproduzione di grano con conseguente caduta del prezzo di questo cereale nei Paesi esportatori e in quelli acquirenti, cosicché si assistette alla rovina sia degli agricoltori americani che di quelli italiani e polacchi. Il fenomeno della superproduzione e il crollo dei prezzi colpì dai cereali ai prodotti delle zone tropicali: tè, caffè, cacao, zucchero, cotone. Materie prime come il rame o il caucciù, la cui produzione aveva registrato un’inarrestabile crescita fin dalla Grande Guerra, sperimentarono una crisi simile. L’economia mondiale, quindi, si trovava sull’orlo di un abisso dalla profondità sconosciuta. Se la domanda si fosse contratta, si sarebbe precipitati senza tregua fino in fondo, e la crisi diede uno spintone fatale a questo processo. Da un lato, gli Stati Uniti smisero di acquistare all’estero a causa della caduta del consumo interno e imposero dazi per proteggere i propri produttori. Siccome questo Paese assorbiva il 40% delle esportazioni degli Stati con maggior volume di commercio internazionale, l’improvvisa perdita del mercato americano ebbe un effetto devastante in tutto il mondo, dal Giappone, in cui l’industria della seta franò quando le donne americane smisero di acquistare calze in quella fibra, fino al Brasile, che vide polverizzato il prezzo del caffè nonostante il tentativo di mantenerlo stabile, utilizzando le eccedenze di produzione come combustibile per i treni. Dall’altro lato, il rimpatrio di capitali americani per tamponare i flussi negli Stati Uniti finì per soffocare economicamente la Germania e l’Austria, che dipendevano da questi prestiti e portò la crisi nel cuore dell’Europa. Nel maggio
GLI ANNI PRECEDENTI ALLA II GUERRA MONDIALE 1929-1931
Crolla la borsa di New York. Crisi finanziaria ed economica negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Crolla il sistema monetario e il commercio. 1933
La Grande Depressione in Germania. Hitler diventa cancelliere. Negli Stati Uniti, Roosevelt lancia il New Deal contro la crisi. 1934
Purghe nell’URSS di Stalin. Collettivizzazione forzata delle campagne e accelerazione dell’industria. 1936-1937
Colpo di Stato militare in Spagna. Guerra civile in Spagna. L’Italia conquista l’Abissinia. Il Giappone, già presente in Manciuria, invade la Cina. 1938
Annessione dell’Austria e accordi di Monaco di Baviera. La Cecoslovacchia cede un terzo del suo territorio al Terzo Reich tedesco. 1939
Hitler occupa Praga. Patto Ribbentrop Molotov. Hitler invade la Polonia. Regno Unito e Francia dichiarano guerra alla Germania.
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LA MARCIA VERSO L’ABISSO
Il fallimento delle ricette ortodosse in economia Nel 1931, le politiche economiche ortodosse applicate dai governi, le quali si basavano sulla conservazione del sistema aureo e sull’equilibrio di bilancio, avevano contribuito a trasformare il crack del 1929 in una depressione a livello planetario. Dopo la Grande Guerra ci fu un lento ritorno al sistema aureo (il gold exchange standard), dato che agli occhi di politici ed economisti aveva apportato una stabilità che a sua volta aveva facilitato la prosperità economica nel periodo prima della guerra; nel 1928 era stato adottato da 31 Paesi. Tale stabilità, però, aveva anche un altro risvolto: i governi, costretti a mantenere la parità monetaria e a disporre di riserve d’oro e di valute, dovevano offrire interessi alti per attrarre gli investitori (questo impediva che si svalutasse la moneta per rendere più competitive le esportazioni), dovevano intraprendere politiche fiscali restrittive per evitare l’inflazione e, quindi, erano obbligati ad attenersi a uno stretto equilibrio finanziario. Tutto questo sistema non solo legò le mani ai governi quando fu il momento di affrontare la crisi ma, anzi, la aggravò. Nel 1936, l’economista britannico John Maynard Keynes propose una nuova ricetta: fare della spesa pubblica il motore del recupero economico, il che significava un eterodosso deficit finanziario.
LA GRANDE DEPRESSIONE
Accumulazione degli stock di merci (Sovrapproduzione)
Crac della Borsa
Caduta dei prezzi
Fallimento del sistema bancario
Tracollo per gli agricoltori
Aumento della disoccupazione
Crollo dei consumi
Intervento del governo per lenire la crisi
Programma di recupero dell’industria
Sovvenzioni all’agricoltura
Opere pubbliche
NEW DEAL
Controllo bancario
Misure sociali (sussidi ai disoccupati, aumenti dei salari,...)
NEGLI STATI UNITI, l’amministrazione Roosevelt ricorse a un deficit di quasi il 4% del PIL per
attenuare gli effetti della crisi, una grandezza insufficiente per stimolare l’economia così come riteneva John Maynard Keynes. Di fatto, nel 1936, pensando che l’economia fosse migliorata, Roosevelt mise fine a un deficit finanziario che credeva potesse condurre all’inflazione; ciò causò, l’anno successivo, una grave contrazione economica e l’aumento della disoccupazione.
1931 crollò la maggiore banca austriaca, il Creditanstalt, che si trascinò dietro le finanze e l’industria del Paese. Siccome in questa banca aveva riposto grandi interessi il sistema bancario tedesco, la crisi si estese alla Germania con il fallimento a luglio della Danat-Bank, la seconda banca tedesca. Si riprodusse quindi lo stesso circolo vizioso come negli Stati Uniti: mancanza di credito, contrazione dell’industria e del commercio, esplosione della disoccupazione. Alla perdita di produzione e alla caduta della finanza si aggiunse il crollo del sistema monetario internazionale, le cui valute di riferimento erano la sterlina e il dollaro. Nel settembre 1931, la Gran Bretagna abbandonò l’equivalenza sterlina-oro, fissata in 4,68 dollari e, in dicembre, il valore della sterlina era già sceso a 3,40 dollari, svalutazione che rese più competitive le esportazioni con il ribasso delle merci del Regno Unito; anche una ventina di Paesi, le cui monete erano vincolate alla sterlina, le svalutarono. Nel 1933, furono gli Stati Uniti ad abbandonare il sistema aureo, con lo stesso obiettivo in mente, e altri 96
Diminuzione degli investimenti
Chiusura di fabbriche
Stati seguirono la medesima tendenza, come fece ad esempio la Francia nel 1936. Mentre succedeva tutto questo, tutti i Paesi, compresa la Gran Bretagna, eterna capofila del libero commercio, adottarono misure protezionistiche, come già avevano fatto gli Stati Uniti. Vennero fissati dazi elevati e quote massime di importazione di prodotti. L’economia mondiale venne così frammentata in spazi in feroce concorrenza per una torta sempre più esigua: tra il 1929 e il 1932, il commercio mondiale crollò del 60%. Chi ne uscì fuori discretamente bene furono i Paesi con un impero (poiché significava avere mercati e materie prime), come la Francia e la Gran Bretagna. O come gli Stati Uniti, la cui egemonia economica si estendeva su Centroamerica e America del Sud. La mancanza di imperi, invece, rafforzò il risentimento di coloro che si sentivano ingiustamente privati del diritto all’espansione, come, per esempio, il Giappone (in cui la crisi parve ratificare la necessità del suo dominio sulla Corea, sulla Manciuria e soprattutto sulla Cina) o la Germania, spogliata delle
LA MADRE IMMIGRATA.
Migrant Mother è il titolo con cui si conosce l’immagine qui accanto, che la fotografa Dorothea Lange scattò nel marzo 1936; la famiglia di questa donna (Florence Thomson), senza altri beni che un’automobile, lavorava nella raccolta stagionale di prodotti agricoli in California. Questo Stato era la meta di molti agricoltori che, rovinati dalla crisi economica, dalla siccità e dalle tempeste di sabbia che colpirono le grandi pianure tra il 1932 e il 1935, lì emigrarono, con la speranza di trovarvi un’occupazione. Una volta perse le piccole proprietà in Arkansas e Oklahoma, gli impoveriti Arkis e Okies riempirono le strade del sudovest trasferendosi in accampamenti improvvisati lungo il viaggio. John Steinbeck fece un amaro ritratto di queste vite nel famoso romanzo Furore (1939).
sue colonie e delle sue conquiste nell’Europa orientale dopo la fine della Grande Guerra. La prostrazione economica tedesca indusse il presidente Herbert C. Hoover a proporre, nel giugno 1931, una moratoria di un anno per tutti i debiti intergovernativi, comprese le riparazioni di guerra, con l’intenzione di favorire il recupero economico internazionale. Quando terminò il differimento, la Germania e gli alleati, riuniti alla Conferenza di Losanna, concordarono nel ridurre i pagamenti tedeschi a 3.000 milioni di marchi, che si sarebbero cominciati a scontare nel giro di tre anni. La Francia, la Gran Bretagna, l’Italia e il Belgio, tuttavia, decisero di non ratificare il trattato fino ad arrivare a «un accordo soddisfacente» con i propri creditori, ossia, fino a quando non si fossero cancellati i loro stessi debiti con gli Stati Uniti. La Germania non provvide a nessun altro pagamento, come già aveva deciso ancor prima di partecipare alla Conferenza, e i Francesi anche, mentre la Gran Bretagna smise di pagare nel 1934. Come risposta, il congresso degli Stati Uniti, nell’aprile dello
stesso anno, approvò una legge che proibiva le transazioni finanziarie con quegli Stati che non avevano pagato i debiti di guerra.
Crisi ed estremismo politico In termini di politica internazionale, il bilancio della crisi economica fu desolante. Esacerbò il nazionalismo di alcuni Stati che cercavano nel protezionismo la soluzione dei loro problemi e portò a giustificare politiche aggressive di espansione territoriale. Il fatto che la Germania avesse deciso di non pagare più le riparazioni di guerra, diede coraggio a tutti quelli che aspiravano a modificare lo status quo internazionale sorto dalla Grande Guerra. Esasperò, inoltre, il disinteresse degli Stati Uniti nei confronti delle questioni europee. La crisi non sconvolse soltanto le relazioni internazionali. Nelle democrazie di massa, erano le masse che maggiormente soffrivano gli effetti della depressione. Le cifre della disoccupazione sono eloquenti: tra il 1932 e il 1933, i peggiori anni della crisi, la disoccupazione raggiunse il 22-23% in Gran Bretagna e Belgio, l’Austria raggiunse il 29% 97
LA MARCIA VERSO L’ABISSO
La politica di Roosevelt, una minaccia per l’America? Nella politica del New Deal e nell’appoggio dei lavoratori a Roosevelt, le élite della finanza videro una minacciosa rivoluzione socialista prendere piede dall’alto, fino al punto che, nel 1933, si pensò, a quanto sembra, alla possibilità di un colpo di Stato. Sia i magnati dell’economia che alcuni politici democratici e repubblicani ritennero che fosse un’intromissione nella libertà e nel diritto di proprietà l’ondata di provvedimenti del New Deal che avevano attribuito a un governo considerato di sinistra un ruolo insolito nell’economia americana. Tali considerazioni avrebbero condotto al business plot (“complotto degli affari”), denunciato dal generale dei marines in pensione Smedley Butler di fronte a una commissione d’inchiesta del Congresso nel 1934. Secondo la sua testimonianza, Gerald MacGuire si era messo in contatto con lui dall’estate del 1933, agendo come intermediario di industriali e finanzieri, tra cui c’erano personaggi come il gigante chimico DuPont e la potentissima banca Morgan. Essi gli avrebbero proposto di presentare un ultimatum a Roosevelt affinché, con la scusa di problemi di salute, abbandonasse il potere esecutivo nelle mani di un “segretario degli affari generali” che avrebbe agito secondo i dettami dei cospiratori. Nel caso Roosevelt non avesse accettato, Butler avrebbe marciato su Washington, in stile Mussolini, al comando di mezzo milione di veterani di guerra, dai quali il generale era molto ben visto. Ma le prove si limitarono alla testimonianza di Butler e si stabilì che non esisteva nessun complotto in atto. Accanto al testo, Roosevelt nel 1938.
e salì a uno spaventoso 44% in Germania. La disoccupazione significava una vera catastrofe per le famiglie operaie, visto che i sussidi di disoccupazione erano scarsi o inesistenti, come succedeva negli Stati Uniti. Questi servizi, inoltre, erano tra i primi che i governi volevano tagliare per contenere il deficit pubblico e raggiungere l’equilibrio che si proponevano, la ricetta ortodossa per far fronte alla crisi. Il crollo dell’economia, con i suoi strascichi di miseria e di disperazione, mise in discussione il parlamentarismo liberale, correlativo politico di un liberalismo economico che aveva modificato poveramente la vita di milioni di persone. Aumentarono vertiginosamente i seguaci dei movimenti che denunciavano i mali di quel sistema politico: i comunisti consideravano la Depressione come la tromba dell’Apocalisse che annunciava la fine del capitalismo, e i fascisti denunciavano sia l’inoperosità del parlamentarismo che la minaccia della rivoluzione. In Europa, il decennio degli anni Trenta vide l’avanzata incontenibile dell’estremismo, e quando scoppiò il nuovo conflitto bellico, 98
soltanto nove democrazie (Regno Unito, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, i tre Paesi scandinavi e la Cecoslovacchia) sopravvivevano alle sofferenze economiche e alla protesta sociale. Una tale distruzione della democrazia fu opera di destre di vario tipo, di cui il fascismo era la più nuova e la più radicale. Da parte loro, gli Stati Uniti superarono le tensioni sociali grazie a una politica economica in cui si vide sia una forma di fascismo che una via di occultamento del comunismo.
Roosevelt e il New Deal Alle elezioni di novembre 1932, il caos economico e l’inattività dell’amministrazione Hoover condussero alla vittoria di Franklin Delano Roosevelt. Nato nel 1882, suo padre era un ricco possidente terriero e senatore democratico di New York. Lui stesso era anche un cugino lontano del presidente Theodore Roosevelt, con la cui nipote Eleanor si sposò. La poliomielite gli paralizzò le gambe all’età di trentanove anni, ma ciò non gli impedì di seguire la sua carriera politica e nel 1928 diventò governatore dello Stato di New York, dove dovette affrontare le prime avvisaglie della crisi. Il 2 luglio 1932, durante la convention democratica di Chicago che lo nominò alla presidenza, promise un new deal for the American people, «un nuovo accordo per il popolo americano» e con questa promessa, che non si concretizzava in un programma organizzato, vinse le elezioni. Dopo aver assunto i poteri di presidente nel marzo 1933, compensò la mancanza di un programma con uno straordinario attivismo del governo federale, le cui competenze aumentò fino a un estremismo mai visto prima. Nel frenetico inizio della nuova amministrazione si cominciò a puntellare il sistema bancario. Lo Stato garantì la liquidità delle banche solventi; separò banche d’investimento e banche d’affari, una confusione che era complice dello scoppio della crisi e garantì i depositi dei piccoli risparmiatori fino a 5.000 dollari. Al fine di aiutare il penalizzato settore agricolo e sostenerne il reddito, che non avrebbe comunque recuperato il livello precedente alla crisi fino al 1941, istituì un sistema di sussidi e di crediti per gli agricoltori con ipoteche e un sistema di quote per limitare la produzione agricola ed evitare così la caduta dei prezzi a causa della sovrapproduzione. Aiutò gli stremati proprietari di case con una legge che permetteva di rifinanziare un’ipoteca su cinque. E lottò contro la disoccupazione con grandi programmi di opere pubbliche, come quello che riguardava la Tennessee Valley Authority (TVA) in una zona particolarmente depressa. Anche l’industria fu oggetto di nuovi provvedimenti. In giugno, il National Industrial Recovery Act (NIRA) fissò la settimana lavorativa in 40 ore e
con un minimo salariale, oltre a concedere ai lavoratori americani alcuni diritti di cui godevano già gli operai europei da molto tempo, come la rappresentanza sindacale e la contrattazione collettiva. La popolarità di Roosevelt continuò ad aumentare; l’operato del governo e la stessa immagine del presidente, i cui Discorsi al caminetto (Fireside chats) trasmessi alla radio erano seguiti da milioni di cittadini, contribuirono al grande trionfo dei democratici nelle elezioni al Congresso del 1934. L’offensiva conservatrice contro il New Deal arrivò dalla Corte Suprema, i cui giudici bocciarono il NIRA nel maggio 1935. Queste misure aumentarono l’impopolarità della Corte e la popolarità di Roosevelt ed egli ottenne, nel periodo noto come secondo New Deal, che il Congresso approvasse nel luglio di quell’anno il Wagner Act, che incorporava la legislazione del lavoro prevista dalla NIRA. La nuova legge spinse a grandi mobilitazioni del Congresso delle Organizzazioni Industriali (CIO) con l’appoggio del Partito Comunista (CUPSA), per favorire la rappresentanza sindacale tra i lavoratori dell’acciaio, dell’automobile e delle miniere. In agosto,
Roosevelt ottenne l’approvazione del primo Social Security Act americano, che riguardava l’indennità di vecchiaia, di invalidità e di disoccupazione. La creazione di un’assistenza sociale come quella che esisteva nei Paesi europei fece aumentare il consenso nei confronti di Roosevelt e, alle elezioni presidenziali di novembre 1936, ottenne la maggioranza più alta in alcuni comizi, dal 1820. Ora, però, Roosevelt non aveva contro di sé soltanto i repubblicani, ma anche i democratici conservatori, i quali si defilavano di fronte a un programma sostenuto dagli operai delle industrie (il CIO finanziò il 10% della campagna presidenziale), dai poveri e dai neri. Roosevelt non aveva più in mano la maggioranza del Congresso e il New Deal di fatto si concluse. Quale è stato il bilancio? Anche se tra il 1930 e il 1937, l’anno migliore prima della guerra, il PIL era passato da 99.000 milioni a 113.000 milioni di dollari, la disoccupazione si mantenne tra il 16% e il 20% per la maggior parte degli ultimi anni Trenta e nel 1939 colpiva ancora 9 milioni di persone. In realtà, fu la Seconda guerra mondiale a concludere la crisi,
LOTTA CONTRO LA DISOCCUPAZIONE.
Il New Deal non sviluppò un programma specifico di lotta contro la disoccupazione, ma la previde in ogni suo provvedimento: dalla riforestazione, che vide occupati due milioni di giovani, fino alle opere pubbliche, come il tunnel di Lincoln a New York, sotto il fiume Hudson. In alto, disoccupati in una mensa di beneficenza a Washington, nel 1934.
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LA MARCIA VERSO L’ABISSO
riducendo la disoccupazione al 1% nel 1943. D’altra parte, i costi finanziari del New Deal furono giganteschi: il debito nazionale salì da 22.500 milioni nel 1933 a 40.500 milioni nel 1939. Il New Deal, quindi, non risolse la crisi, anche se riuscì a contenerla, a lenirne gli effetti e a infondere negli Americani una fiducia veramente necessaria. L’incremento dell’attività del governo federale preparò il Paese alla guerra che si avvicinava.
L’URSS di Stalin
La legge sul proibizionismo: il fallimento dell’America puritana Lo spirito conservatore che si diffuse negli Stati Uniti dopo la Grande Guerra si espresse con la proibizione delle bevande alcoliche, sancita nel 18° emendamento alla Costituzione e basata sulla Legge Volstead del 1919, che proibiva la fabbricazione e vendita di bevande con oltre il 5% di alcol. Tale legge si proponeva di rendere illegale la bibita più consumata nel Paese, la birra, che regnava nei saloon frequentati dai lavoratori, molti di loro immigrati, per i quali questi bar rappresentavano una sorta di club sociale. In tal senso, la proibizione era un aspetto che riguardava più la paura dell’immigrazione come minaccia ai valori di un’America anglosassone e protestante. La Legge sul proibizionismo trasformò il mercato clandestino di bevande alcoliche in un affare fiorente per le bande criminali (Al Capone riuscì a guadagnare oltre 60 milioni di dollari all’anno con quell’attività) e la corruzione e la violenza si diffusero in America. Quando Roosevelt divenne presidente e aveva bisogno di fondi per combattere la crisi economica, li trovò nelle tasse sulle bevande alcoliche: la proibizione venne derogata nell’anno 1933. In alto, la fine della proibizione secondo La Domenica del Corriere.
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Nel momento più nero della Grande Depressione, c’era un Paese che non conosceva la disoccupazione: l’URSS. Anzi, pareva che stesse per raggiungere i livelli economici delle grandi potenze capitaliste. Tra il 1929 e il 1938, la sua partecipazione alla produzione mondiale di manufatti passò dal 5% al 18%, mentre quella di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia insieme scendeva dal 59% al 52%. Tali cifre tuttavia nascondevano una tragedia dalle dimensioni incalcolabili, risultato della politica promossa da Stalin, che diffuse dal 1928 l’idea del socialismo in un unico Paese, l’URSS. La sopravvivenza di quel bastione del proletariato mondiale significava accorciare le distanze con le potenze capitaliste, per non correre il rischio di essere schiacciato da quest’ultime. Così parlò nel 1931: «La Russia è sempre stata vinta a causa della sua arretratezza. […] Siamo indietro di cent’anni rispetto ai Paesi più avanzati. Dobbiamo colmare questa differenza». Con questo obiettivo si intrapresero due progetti che condussero a conseguenze ancor più decisive della stessa Rivoluzione del 1917: da una parte, la collettivizzazione dell’agricoltura; dall’altra, l’industrializzazione a marce forzate (che Trockij aveva difeso tenacemente), secondo gli obiettivi economici per cinque anni fissati dai piani quinquennali. All’industrializzazione, il cui ultimo obiettivo era il riarmo dell’URSS, fu destinato tra un terzo e un quarto del reddito nazionale, un’enorme quantità di risorse che poteva provenire soltanto dalla classe contadina. Con la collettivizzazione e la meccanizzazione delle campagne, la produzione agricola era nelle mani dello Stato, erano stati soppressi gli intermediari e i loro profitti, ed era assicurata la fornitura di alimenti alle città, mentre il surplus di manodopera contadina veniva riciclato nell’industria. Tali progetti grandiosi rispondevano anche a considerazioni ideologiche. Stalin e altri dirigenti diffidavano dei contadini, che erano la maggioranza della popolazione e nei quali vedevano una classe sociale ostinatamente incline all’idea di proprietà, refrattaria al socialismo e che non riusciva a entrare nel PCUS. Siccome il partito si occupava della “dittatura del proletariato” in nome degli operai
dell’industria, un aumento del loro numero significava ampliare la base sociale del regime. Stalin non rimase con le mani in mano. Nel dicembre 1929, quando ormai aveva destituito Bucharin, che si opponeva alla politica di industrializzazione a scapito della classe contadina, impostò la «liquidazione dei kulaki come classe» nel suo famoso articolo «Al diavolo con la NEP!». Una classe simile, quella dei contadini ricchi, non esisteva in quanto tale, ma il termine kulak fece parte degli strumenti propagandistici utilizzati per giustificare l’impiego del Terrore. Milioni di contadini persero le proprie proprietà. Si ripeterono gli orrori che avevano segnato il comunismo di guerra: disperati, i contadini uccisero i propri animali e distrussero il grano, mentre le rivolte si diffondevano dall’Ucraina fino al Caucaso. Centinaia di migliaia di ribelli furono deportati in Siberia, o internati in campi di lavoro, e la fame e le malattie ad essa associate falciarono altrettante vittime: soltanto nell’inverno del 1932-1933 morirono cinque milioni di persone. Il Terrore diede i suoi frutti: tra il 1928 e il 1933, il 60% dei contadini passò a far parte dello
sfruttamento collettivo. L’esodo verso le città fu la valvola di sfogo che allentò la pressione nel mondo agricolo: tra il 1913 e il 1939, la popolazione urbana passò dal 18 al 32%. La vita degli operai era migliore di quella dei contadini, ma di poco. Nel 1937, il salario dei lavoratori di Mosca era due terzi di quello del 1928. Una normativa durissima regolamentava i rapporti di lavoro, mentre la disponibilità sul lavoro assumeva dimensioni eroiche con le “brigate di lavoro”, l’“emulazione socialista” e il fenomeno degli stacanovisti, lavoratori che superavano di gran lunga le richieste pianificate e che presero il nome dal minatore Aleksej Stachanov il quale nel 1935 moltiplicò per 14 la sua quota, estraendo 102 tonnellate di carbone in sei ore, tanto da venir immortalato sulla copertina della rivista americana Time.
I processi e il Terrore
STALIN E BUCHARIN.
Nella fotografia datata 1929, Bucharin appare insieme a Stalin. Venne giudicato nel terzo processo di Mosca con altri 20 dirigenti del partito accusati di trozkismo di destra e di voler distruggere il potere sovietico; ad eccezione di tre, gli altri furono fucilati, tra i quali anche Genrich Jagoda, comandante della NKVD. Di fianco a Bucharin, il georgiano Sergo Ordžonikidze (si suicidò nel 1937) e il lettone Janis Rudzutaks (giustiziato nel 1938).
Se la collettivizzazione agraria risvegliò violente resistenze, l’industrializzazione richiedeva il compimento dei piani quinquennali, i cui obiettivi erano, a volte, impossibili da raggiungere. Oppo101
Il Gulag: settant’anni di lavori forzati nell’URSS La parola che definisce la vasta rete di campi di lavoro sovietici, Gulag, è l’acronimo di Glavnoe Upravlenie Laguerei, Direzione Generale dei Campi di Lavoro. Il Gulag sorse nel 1918, quando Lenin volle che gli “elementi insicuri” venissero reclusi in campi di concentramento nelle periferie dei principali agglomerati urbani. Nel 1921 c’erano già 84 campi destinati a “rieducare” i nemici del popolo. I campi vennero rivisti nelle loro dimensioni nel 1929, quando Stalin decise di ricorrere al lavoro forzato per spingere l’industrializzazione e sfruttare le risorse minerarie della Siberia; quello stesso anno la polizia segreta cominciò ad assumere il controllo del sistema penale sovietico, e così i campi e le prigioni restarono fuori dal sistema giudiziale. I campi aumentarono enormemente con le grandi purghe del 1937-1938, si diffusero durante la Seconda guerra mondiale (in quegli anni finì internato un giovane ufficiale e futuro premio Nobel, Alexandr Solženicyn, che descrisse la sua esperienza in Arcipelago Gulag) e arrivarono al culmine negli anni Cinquanta. Costituivano un elemento centrale dell’economia sovietica: erano integrati in molteplici settori produttivi, da quello minerario (producevano un terzo dell’oro e gran parte del carbone dell’URSS) fino all’aeronautica e alle armi. Nell’URSS sorsero almeno 476 sistemi di campi di lavoro, che tutti insiemi comprendevano migliaia di strutture. Tra il 1929 e il 1953, anno in cui morì Stalin, circa 18 milioni di persone passarono per il Gulag. La maggior parte dei campi fu poi smantellata dopo la morte di Stalin, e in quelli che rimasero attivi furono rinchiusi invece i dissidenti durante il decennio 1970-1980. Cominciò a smantellarli nel 1987 Michail Gorbačëv, lui stesso nipote di alcuni prigionieri del Gulag.
SERGEJ KIROV.
Il suo assassino, Leonid Nikolaev, membro del PCUS, venne processato e giustiziato prima di essere interrogato accuratamente. 102
sizione e inadempimenti cadevano sotto il reato di tradimento e per prevenirli o rimuoverli subentrò la pratica del Terrore. Dapprima applicato ai contadini, poi contro gli operai, in seguito contro i tecnici e gestori di imprese e infine contro la stessa burocrazia del partito e i vecchi dirigenti bolscevichi, il Terrore permise a Stalin di sopprimere qualsiasi accenno di opposizione alla sua autorità, divenuta autocratica. Le grandi purghe ebbero inizio dopo il primo dicembre 1934, data dell’omicidio di Sergej Kirov, capo del partito a Leningrado e unico dirigente la cui popolarità poteva oscurare quella di Stalin, del quale si dice che ne ordinò la morte (il successore di Stalin, Nikita Chruscev, era convinto che fosse Stalin il mandante). I cosiddetti “processi di Mosca”, che il massimo dirigente orientava e controllava, furono vere e proprie farse nelle quali gli accusati riconoscevano reati inesistenti, congiure e tradimenti inventati dai loro accusatori: «Dovrebbero uccidermi dieci volte per i miei crimini» arrivò a dire Bucharin. I vecchi compagni di Lenin vennero processati e condan-
Dudinka
Murmansk
Igarka
Vorkuta
ESTUARIO DELL ’ENISEJ
Kandalakcha Arcangel Onega
Salechard
VIA DEL NORD
Norilsk
NORYLAG
Tura
CANAL BELOMOR
Leningrado
Kotlas
CAMPI DEGLI URALI
Viatlag
Tobolsk
Perm Mosca
Kazan Samara
Minsk Kiev
Charkiv
Krasnojarsk Tomsk
Brats Novosibirsk Kemerovo YUZH KARLAG SIBLAG KRASLAG Irk Temirtau Öskemen Qarağandi
Stalingrado Astrachan Zhezkazgan Sebastopoli Baku
Narym
Balqaš
Tashkent
nati: Kamenev e Zinoviev, nell’agosto 1936; Karl Radek, nel gennaio 1937; Bucharin e Krestinskij, nel marzo 1938 (anche Jagoda, il capo della NKVD che aveva organizzato il primo processo, li seguì sul banco degli imputati). Durante i processi, trasformati in spettacoli istruttivi, i colpevoli erano oggetto di qualsiasi tipo di umiliazione, prassi in cui si distinse il pubblico ministero, generale Andrej Vyšinskij: «Bisognerebbe ucciderli con un colpo questi cani rabbiosi», affermò durante il processo a Kamenev e a Zinoviev. Di Bucharin dissero «un mucchio putrefatto di rifiuti umani» e «sprezzante incrocio di volpe e vipera». Il Terrore non faceva distinzioni tra grandi e piccole personalità. Si portarono in giudizio 1.108 dei 1.966 delegati del XVII Congresso del PCUS del 1934, e 98 dei 139 membri del comitato centrale. Furono colpiti anche i militari: nel giugno 1937 venne processato e giustiziato il maresciallo Michail Tuchačevskij, capo di Stato maggiore e repressore della rivolta di Kronstadt del 1921, accusato insieme ad altri comandanti di cospirazione trozkista e spionaggio in
Principali campi o gruppi di lavoro Opera pubblica realizzata: Diga Canali Linee ferroviarie Zone di deportazione: FIUME LENA Gruppi di campi KARLAG Divisioni amministrative (intorno al 1941-1942) Enclave amministrata dalla Polizia Segreta Zona di campi in completo isolamento Leninka
FIUME LENA
Kolymskaya
BERING FIUME KOLYMA
Tura Yakutsk
Nordvik DALSTROI
Magadan
Aldan
arsk
Bratsk o YUZHSIBLAG SLAG Irkutsk Chitá
BURLAG FIUME BUREIA
Oka Komsomolsk Sovetsakaya Gavan SACHALIN
Jabárovsk Nakhodka Vladivostok
GLI ANNI DEL “GRANDE TERRORE”. Nel 1937 e 1938 molti comandanti dei campi di concentramento condivisero la sorte del loro superiore Genrich Jagoda, capo della NKVD (la Polizia Segreta), giustiziato nel 1938: furono accusati di appartenere a un’”organizzazione trozkista di destra”, come Matvei Berman, direttore del Gulag tra il 1932 e il 1937.
favore della Germania. Le purghe uccisero tre dei cinque marescialli sovietici, otto dei nove ammiragli, 13 dei 15 comandanti in capo, 50 dei 57 capitani dell’esercito, 150 dei 186 capi di divisione e migliaia di ufficiali. Stalin aveva decapitato le forze armate proprio alla vigilia dell’aggressione hitleriana, motivo per cui nel 1941 l’URSS soccombette all’attacco iniziale nazista. I “nemici del popolo” che non venivano giustiziati o espulsi dal partito, il che significava la morte civile, venivano mandati ai campi di lavoro forzato del Gulag (acronimo in russo di Direzione Generale dei Campi di Lavoro). Essi erano sparsi su tutto il territorio geografico dell’URSS ed erano controllati dalla NKVD, e arrivarono a rinchiudere milioni di detenuti. Il bilancio delle vittime dell’era stalinista non è chiaro, ma si stima che le morti per la collettivizzazione delle campagne più quelle conseguenti per fame e malattie, quelle per i lavori forzati e per le esecuzioni possano essere state non meno di otto milioni nel decennio degli anni Trenta. L’altra faccia della medaglia di questa tragedia umana è costituita dalla trasformazione dell’URSS in terra
CANALI E MINIERE. In alto, prigionieri durante la costruzione del canale che
univa il Mar Bianco al Mar Baltico, nel 1933. In basso, il campo di Vorkuta, a 120 km a nord del Circolo Polare Artico, costruito dai prigionieri nel 1931 e creato per lo sfruttamento di un vasto giacimento di carbone della regione.
delle opportunità, se la si confronta con la società zarista di venti anni prima. Nel dicembre 1936, una nuova Costituzione dichiarava che l’Unione Sovietica era «uno Stato socialista di operai e contadini», stabiliva l’uguaglianza di razza e sesso e garantiva il diritto al lavoro, al benessere sociale, all’istruzione e all’alloggio. L’istruzione elementare, il lavoro nell’industria e l’entrata nel partito offrivano a milioni di giovani contadini opportunità di promozione sociale impensabili ai tempi dei loro nonni e persino dei loro padri. Il PCUS passò da 350.000 associati nel 1924 a 2.203.951 nel 1933. Per gran parte si trattava di membri del proletariato urbano e rurale, dalla scarsa formazione intellettuale e disposti ad accettare ciò che dettava l’efficace macchina della propaganda di regime, e Stalin trovò in loro un appoggio fondamentale. Nel 1941, quando Hitler attaccò l’URSS, il Paese era ormai la terza potenza industriale del pianeta, dopo Stati Uniti e Germania. A est degli Urali erano nate nuove città, come Magnitogorsk con le sue gigantesche acciaierie, e si erano costruite fabbriche immense, come quelle di Stalingrado. Un tale salto gigante103
LA MARCIA VERSO L’ABISSO
Il putsch di Monaco: il complotto di Hitler fallisce L’8 novembre 1923, sotto l’influenza della marcia di Mussolini su Roma, mentre la Francia occupava la Ruhr e l’iperinflazione giungeva al culmine, Hitler tentò di compiere un putsch a Monaco, capitale della Baviera. Questo succedeva in una situazione di scontro tra il governo tedesco e lo Stato della Baviera, presieduto da Eugen von Knilling. Knilling guidava il Partito del Popolo Bavarese (BVP), cattolico e monarchico, che anelava alla secessione della Baviera. Nel settembre 1923, davanti alla minaccia dei paramilitari di estrema destra bavaresi, tra cui le SA, e la formazione di gruppi militari dei governi di sinistra delle vicine Turingia e Sassonia, Knilling investì Gustav von Kahr di poteri dittatoriali, il quale si appoggiò al capo della Polizia Seisser e al generale Lossow per governare. L’8 novembre, mentre Kahr partecipava a un meeting nella birreria Bürgerbräukeller, Hitler occupò il locale con le SA e cercò di convincere Kahr, Seisser e Lossow a prendere il potere a Monaco per poi, in seguito, marciare su Berlino e formare un governo con Ludendorff, che nel frattempo era apparso sulla scena. I borghesi conservatori bavaresi, però, non avevano molto in comune con i proletari membri delle SA o con la loro retorica radicale. Il triumvirato fuggì e il giorno seguente soppressero il golpe di Hitler con la forza di polizia ed esercito. Hitler non lo dimenticò mai e, nella notte dei Lunghi Coltelli, nel 1934, le SS arrestarono Kahr e lo assassinarono. A sinistra, distintivo creato nel 1933, in commemorazione del golpe di Monaco.
sco, dal costo umano incommensurabile, portò a termine il progetto di Stalin: evitare che il fascismo annientasse l’URSS.
L’ascesa di Hitler La conquista dell’URSS faceva parte del mucchio di idee razziste e violente che formavano la visione del mondo di Adolf Hitler, che dal 1933 si mise alla guida della Germania. Nato nel 1889 nel vecchio impero austro-ungarico, era figlio di un funzionario di dogana e di una contadina. Tra il 1907 e il 1913 abitò a Vienna, con l’intenzione di avere successo come pittore. Fallì in questo campo, ma nella capitale dell’impero cominciò a covare ideali antimarxisti e antisemiti di cui la città, governata da Karl Lueger, gli forniva notevoli esempi politici. Allo stesso tempo, entrò in contatto con l’ariosofia, una credenza mistica che si basava sulla superiorità della razza ariana combinata con l’idealizzazione del passato tedesco e idee ultranazionaliste. Nel 1913 si recò a Monaco, capitale del regno di Baviera, per non assolvere al servizio militare, in un esercito che considerava 104
troppo generoso con i non tedeschi, e nel 1914, quando scoppiò la guerra, si arruolò nell’esercito bavarese. La sconfitta e la rivoluzione che seguì lo segnarono per sempre. Convinto sostenitore della teoria della “pugnalata alle spalle”, ritenne che ebrei e marxisti fossero i veri responsabili della sconfitta militare, e a Monaco – autentico vivaio dell’estrema destra tedesca dopo l’annientamento della Repubblica Sovietica di Baviera da parte dei Freikorps – seguì, come informatore dell’esercito, l’attività del Partito dei Lavoratori Tedeschi (DAP), un gruppetto alla cui radice c’era la società Thule, in cui convergevano ariosofismo, antimarxismo e antisemitismo. Hitler si affiliò ben presto al DAP, di cui divenne il principale portavoce e che, per sua iniziativa, nel febbraio 1920, assunse il nome di Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP). Nel luglio 1921 ne era già il presidente e un mese dopo creò le sue milizie, le SA (Sturmabteilung o “squadre d’assalto”), contraddistinte dalla camicia bruna che indossavano. Il NSDAP rifiutava il Trattato di Versailles, si basava sul razzismo e proponeva una rivoluzione sociale non ben precisata. A Hitler si unirono veterani della Grande Guerra come Hermann Göring, Rudolf Hess, Ernst Röhm (l’organizzatore delle SA) e Alfred Rosenberg (l’ideologo del nazismo). In quegli stessi anni, Hitler era in contatto anche con Ludendorff, il dittatore della Germania durante la guerra, desideroso di liquidare la Repubblica. Dopo il fallimento del putsch di Monaco nel 1923, Hitler venne condannato a cinque anni di carcere, ma rimase in prigione soltanto fino al dicembre 1924. In carcere scrisse Mein Kampf, in cui associò al racconto della sua vita luoghi comuni del darwinismo sociale e del pensiero völkisch, pregno della mistica dell’ariosofia. Per Hitler, la lotta razziale costituiva la sostanza della storia e la razza ariana, che era la superiore, doveva svolgere un ruolo dominatore sulle razze inferiori, come quella slava o ebrea. Per adempiere a tale compito, gli Ariani dovevano conservare la loro purezza fisica e morale, evitando la mescolanza di sangue con razze degradate e l’adozione di teorie dissolventi come il marxismo. Contro l’idea marxista che le relazioni economiche modulano la vita sociale, Hitler riteneva che il popolo tedesco non si riducesse a un semplice insieme di classi in conflitto, ma che invece costituisse una comunità razziale ariana basata sul sangue e sul suolo (Blut und Boden). La sua sopravvivenza richiedeva lo sradicamento del giudaismo e del marxismo dal cuore della Germania, l’unione di tutti i Tedeschi su uno stesso territorio e sotto uno stesso capo (da cui lo slogan ein Volk, ein Reich, ein Führer (“un popolo, uno Stato, un capo”) e la
conquista nell’Europa dell’est di uno spazio vitale o Lebensraum che fornisse alla Germania risorse agrarie, materie prime e una popolazione di razza inferiore che lavorasse per i padroni ariani. Era un modello imperialista tipico del secolo XIX, che Hitler sviluppò con l’appoggio dell’immenso progresso tecnologico raggiunto nel secolo XX.
L’avvento al potere Quando uscì di prigione, Hitler decise che sarebbe giunto al potere per la via politica. Non si sarebbe scontrato nuovamente con l’esercito. Incrementò le campagne di propaganda, che si basavano sulla sua straordinaria capacità oratoria e sulla sua leadership carismatica, uniche nel movimento völkisch, mentre, per guadagnarsi il dominio della strada, fomentò l’istituzione delle SA. Ad esse si aggiunsero le SS (Schutzstaffel o “squadre di protezione”) volute come sua guardia personale. Tuttavia, la stabilità economica della Repubblica grazie al piano Dawes non favoriva l’estremismo: nel maggio 1928, il NSDAP entrò al Reichstag con 12 seggi su 491, mentre lo SPD aumentò i voti e formò
un governo presieduto da un socialista, Hermann Müller, in coalizione con i nazionalisti liberali del Partito Popolare Tedesco (DVP). Poi scoppiò la Grande Depressione, che ruppe gli equilibri politici e fornì a Hitler la sua base elettorale. I dissensi sui tagli alle spese in campo sociale, soprattutto nel sussidio di disoccupazione, portarono alla rottura tra lo SPD e il DVP nel marzo 1930. La democrazia si indebolì. La Costituzione autorizzava il cancelliere a governare senza l’approvazione del parlamento, mediante decreti firmati dal presidente della Repubblica, incarico assegnato nel 1925 al settantenne maresciallo Hindenburg. Un tale meccanismo costituzionale fornì a Hindenburg, monarchico e contrario alla Repubblica, e al generale Kurt von Schleicher, rappresentante degli interessi dell’esercito, l’opportunità di dare una piega autoritaria e di destra a un regime che dovevano difendere ma che entrambi detestavano. L’ingovernabilità del Reichstag ne avrebbe facilitato le manovre. Hindenburg nominò cancelliere Heinrich Brüning, cattolico di centro, nel cui esecutivo i partiti
HITLER E HINDENBURG.
Entrambi i politici si rivolgono a un raduno giovanile a Berlino, il 1° maggio 1933; il giorno dopo, i sindacati vennero dichiarati fuorilegge. Pochi mesi prima, in gennaio, l’influenza del figlio Oskar e i maneggi di Franz von Papen avevano indotto l’anziano Hindenburg (di già ottantacinque anni) a nominare Hitler come cancelliere.
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LA MARCIA VERSO L’ABISSO
La fine delle sturmabteilung: la notte dei Lunghi Coltelli La predisposizione alla violenza dei militanti delle SA, il loro antisemitismo aggressivo e le voci su di una “seconda rivoluzione“ socialista (che avrebbe dovuto seguire la rivoluzione vittoriosa del “risveglio nazionale”) ripugnava gli ambienti conservatori e i vertici dell’esercito. Per assicurarsi l’appoggio di queste due forze, nel giugno del 1934, Hitler decise di concludere l’esperienza delle SA. Il suo luogotenente Rudolf Hess preparò il terreno con un discorso che denunciava i «provocatori» che volevano lo scontro civile tra Tedeschi e che «occultavano questo gioco criminale sotto la copertura del rispettabile nome di “seconda rivoluzione”». Hitler diffuse la voce che i comandanti delle SA stavano preparando un colpo di Stato e organizzò il loro assassinio per mano delle SS nell’operazione Colibrì, tra il 30 giugno e il 1° di luglio. Al comandante in capo delle SA, Röhm, che aveva preparato con Hitler il putsch di Monaco, fu lasciata una pistola nella sua stanza perché si suicidasse, ma lui non lo fece e due SS gli spararono. In alto, Röhm (a sinistra) e Hess; qui a fianco, il simbolo delle SA.
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di destra passarono a sostituire i socialisti. Il Reichstag tuttavia respinse il suo progetto finanziario e Hindenburg lo sciolse. Nelle elezioni tenutesi nel settembre 1930, il NSDAP ottenne 107 seggi. Era ormai diventata la seconda forza politica dopo lo SPD, con 143 seggi; i socialisti, spina dorsale della Repubblica, erano stati danneggiati alle elezioni dall’ascesa del KPD, che ottenne 77 seggi. Il NSDAP e il suo leader riunivano l’ultranazionalismo e il crescente scontento della popolazione nei confronti della crisi economica e sociale (a febbraio la disoccupazione aveva toccato il 38%) e le elezioni presidenziali del 1932 misero ben in chiaro la situazione: Hindenburg ottenne 18.651.000 voti e Hitler 11.300.000. A maggio, Brüning si dimise quando il suo progetto di riforma agraria fu respinto da Hindenburg, che era un latifondista. Lo sostituì il diplomatico Franz von Papen, del centro, a capo di una gruppetto di aristocratici, il “governo dei baroni”. Schleicher, i cui intrighi intorno a Hindenburg avevano portato alla caduta di Brüning a favore di Papen, era il ministro della Difesa. A luglio, in un vero colpo di Stato, Papen sciolse il governo dell’SPD in Prussia, Stato che includeva i due terzi della Germania. Alcuni giorni dopo, le elezioni al Reichstag nell’anno più difficile per la crisi in Germania consegnarono a Hitler oltre 13 milioni di voti e 230 deputati di fronte ai 133 dell’SPD, i 97 del centro e gli 89 dei comunisti. Considerato che né Hitler né i comunisti volevano entrare in un governo di coalizione, non era possibile una vera maggioranza. Seguirono altre elezioni a novembre, che però non modificarono la situazione. Papen non ottenne l’appoggio di una maggioranza nel Reichstag e rassegnò le dimissioni, mentre cospirava con Hindenburg per dare il via a una dittatura che restaurasse la monarchia. Schleicher annunciò che tali progetti, così come la preparazione di una rivoluzione bolscevica da parte del KPD, sarebbero sfociati in una guerra civile e, per scongiurarla, in dicembre riuscì a farsi nominare cancelliere da Hindenburg. Non fu tuttavia in grado di riunire sotto di sé una maggioranza e si dimise il 28 dicembre 1933. Era giunto il momento giusto per Hitler. Papen, contro Schleicher (che contava sull’appoggio dell’esercito), offrì a Hitler la presidenza di un governo in cui egli sarebbe stato vicecancelliere, pensando di poterlo manovrare a piacere. Il classista Hindenburg, che non stimava Hitler, accettò comunque la proposta di Papen. Il 30 gennaio 1933, Hitler fu nominato cancelliere a capo di un esecutivo in cui il NSDAP si aggiudicò il ministero degli Interni e di Prussia, ossia si assicurava il controllo di gran parte della polizia tedesca. Così come aveva fatto Mussolini dieci anni
prima, Hitler si accinse, dalla posizione di potere che aveva ottenuto, a distruggere la democrazia e a costruire la dittatura. Il 1° febbraio sciolse il Reichstag, con la speranza di ottenere una maggioranza più favorevole nelle elezioni successive.
La dittatura hitleriana Per scatenare la repressione contro i suoi nemici politici serviva un pretesto, che giunse con l’azione solitaria di un ex-comunista olandese, quando incendiò il Reichstag il 27 febbraio, che Hitler denunciò come complotto comunista. Il giorno seguente fu approvato il decreto per la protezione della Popolazione e dello Stato, che sospendeva diritti e libertà, garantiva a Hitler poteri straordinari e permetteva la repressione di qualsiasi atto “terrorista”. Le SA scatenarono una devastante ondata di violenza contro i comunisti, che passarono alla clandestinità, e contro gli affiliati di sinistra in generale. Il 5 marzo, le elezioni consegnarono ai nazisti una maggioranza minore di quanto sperassero: 288 deputati. I loro alleati nazionalisti del Partito Nazionale del Popolo Tedesco (DNVP) ne ottennero 52, i
socialisti, 120; i comunisti, 81 e il centro cattolico, 74. Il 23 marzo, con soltanto il voto contrario dei socialisti presenti e l’assenza dei deputati comunisti, culminò la “rivoluzione legittima” nazista: fu approvata la legge dei pieni poteri, che permetteva al cancelliere di prescindere completamente dal parlamento e di promulgare qualsiasi legge, anche qualora fosse stata incostituzionale. Con le porte aperte verso la repressione, in aprile fu istituito un nuovo strumento per esercitarla: la Polizia Segreta dello Stato (Gestapo), mentre le SA, che erano passate da 450.000 membri a gennaio a 2,9 milioni in agosto, dettavano legge per le strade. A Dachau era già stato aperto il primo campo di concentramento per i nemici del regime, e tra aprile e maggio furono sciolti i partiti e le organizzazioni democratiche. A luglio, il NSDAP diventò l’unico partito politico esistente e fu firmato il concordato con la Chiesa cattolica, che garantì l’appoggio dei fedeli al nuovo regime. Tuttavia, non c’era una piena adesione al regime da parte dei militari e dei poteri più conservatori della politica e della finanza, che diffidavano profonda-
HITLER SI RIVOLGE ALLE SA; DORTMUND, 1933. Utili per impadronirsi
del potere, le SA erano diventate un ostacolo per il cancelliere Hitler, che respingeva le loro aspirazioni rivoluzionarie: il 2 febbraio del 1934 dichiarò davanti ai capi di zona delle SA che nel movimento c’erano «persone che per rivoluzione non intendevano altro che uno stato di caos permanente».
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Norimberga” li privarono dei diritti civili e proibirono i matrimoni tra ebrei e Tedeschi. Prima della guerra, l’antisemitismo raggiunse l’apice nei pogrom della “notte dei cristalli”.
Cannoni e burro
BOICOTTAGGIO DEGLI EBREI. Dopo che Hitler
ebbe assunto il potere, cominciarono gli attacchi antisemiti, come il boicottaggio delle attività commerciali degli ebrei, il 1° aprile 1933; nelle loro vetrine furono collocate delle stelle di David e manifesti come quello dell’immagine («Tedeschi, difendetevi! Non comprate dagli ebrei!») che le SA obbligarono anche alcuni dei proprietari a portare. I pogrom cominciarono nel 1938, con la “notte dei cristalli”.
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mente delle SA a causa dei loro crimini, delle loro aspirazioni a diffondere la “rivoluzione” e dell’idea del loro dirigente, Ernst Röhm, di subordinare l’esercito a questa organizzazione nazista. Hitler, per mezzo delle SS, si liberò di Röhm e di altri gerarchi nazisti nella notte tra il 30 giugno e il 1° luglio del 1934, la “notte dei Lunghi Coltelli”, quando le SA contavano ormai 4,9 milioni di membri; ne approfittò anche per sbarazzarsi di politici conservatori come Schleicher. Nel giro di un mese, il 2 agosto, Hindenburg morì e Hitler assunse l’incarico di cancelliere e presidente del Reich. L’esercito gli giurò obbedienza incondizionata. Nel frattempo, era partita la persecuzione degli ebrei, che corrispondeva alla promessa di «estirpare» il giudaismo dal «corpo del popolo tedesco» prevista dal programma del NSDAP. Nell’aprile del 1933 furono boicottati i loro negozi e vennero esclusi dalla pubblica amministrazione, e nel settembre dello stesso anno vennero espulsi dall’insegnamento e furono proscritti dalle attività culturali. Infine, nel mese di settembre del 1935, le cosiddette “leggi di
Visto che, per Hitler, la supremazia del popolo tedesco e il suo benessere materiale passavano per la conquista dello spazio vitale ad est, l’economia fu orientata al riarmo, una politica che sigillò l’alleanza del Führer con l’esercito. Lo Stato passò a dirigere lo sviluppo economico ed eliminò sia il potere delle organizzazioni operaie che la libera concorrenza, anche se quest’ultimo divieto poco importò ad alcuni industriali che videro quanto aumentavano i propri utili. Gli investimenti nel riarmo, che generarono un enorme deficit, accuratamente tenuto nascosto, furono attivati a scapito della spesa per i beni di consumo, mossa che causò nell’economia tensioni sempre più forti. Lo squilibrio culminò nell’inverno del 1935-1936, quando le difficoltà di approvvigionamento e i prezzi alti di carne e grassi (burro e margarina) si aggiunsero ai salari bassi. Il Führer placò lo scontento con una mossa magistrale: nel marzo 1936 le sue truppe occuparono la Renania, che secondo il Trattato di Versailles doveva rimanere smilitarizzata. La misura fu accolta con grande entusiasmo dalla popolazione tedesca, mentre i fasti dei Giochi Olimpici celebratisi a Berlino nell’agosto di quell’anno suscitarono una notevole ammirazione internazionale verso il regime. Tutto ciò, però, non risolveva il problema di un’economia che si stava dirigendo verso il fallimento a causa delle grandiose spese militari, e nell’ottobre del 1936 fu approvato, su emulazione della tanto odiata URSS, un piano quadriennale il cui fine era di raggiungere l’autarchia nella produzione dei materiali sintetici, dal combustibile alle fibre tessili, che avrebbe permesso alla Germania di sferrare, intorno al 1940, una guerra di conquista per assicurarsi un futuro. In quel tempo, Hitler godeva di una popolarità indubitabile, alimentata da alcuni mezzi di comunicazione strettamente controllati da Joseph Goebbels, ministro dell’Istruzione Popolare e della Propaganda. In confronto agli anni più neri della Depressione, si registrava un leggero miglioramento del livello di vita, anche se gran parte del miracolo economico di Hitler si basava sui bassi salari della classe operaia, che tra il 1932 e il 1938 passarono dal 64 al 57% del reddito nazionale. Lo Stato offriva attività ricreative ai lavoratori attraverso un’organizzazione creata a tale scopo, la Forza attraverso la Gioia (KdF); potevano trascorrere il proprio tempo libero andando al cinema o a concerti, a ballare o in gite in cam-
pagna. Anche possedere l’automobile sembrava essere alla loro portata: un’«auto del popolo» per non più di 1.000 marchi, la Volkswagen. Avevano a disposizione scuole e assistenza medica gratuita. Le famiglie ricevevano sovvenzioni per i figli e così si allontanava la donna dal mercato del lavoro e diminuiva la disoccupazione. E la militanza nel NSDAP e la riattivazione economica offrivano opportunità di ascesa sociale; se non si era ebrei o di sinistra, il futuro pareva essere promettente.
La Francia, divisa e debole La crisi economica si presentò nel 1931 a una Francia governata dalle destre, la cui politica protezionista non fu in grado di evitare la conflittualità sociale che accompagnava la Grande Depressione. Le elezioni celebrate nel maggio del 1932 videro la vittoria dei radicali, ma i socialisti della SFIO non vollero formare un governo con i vincitori, in disaccordo con una politica economica che, volendo mantenere il sistema aureo, impoveriva il franco nei confronti delle monete svalutate, aggravando la recessione, e che aspirava a equili-
brare il bilancio senza ricorrere all’inflazione, il che equivaleva a tagli nella spesa sociale. Si succedettero cinque gabinetti fino a quando l’improduttiva azione del governo e la pressione sociale scoppiarono a causa del caso Staviski, un episodio di corruzione che riguardava politici radicali. Verso la sera del 6 febbraio 1934, l’estrema destra, raggruppata in leghe monarchiche, ultracattoliche, antisemite e antimassoniche come Action Française, i Camelots du Roi, le Jeunesses Patriotes e i Croix du Feu, fomentarono a Parigi, anche con la spinta della destra parlamentare, pericolose sommosse in cui gli esponenti di sinistra videro un tentativo di colpo di Stato. Una tale situazione condusse a un accordo tra socialisti e comunisti a luglio, a cui aderirono in seguito anche i radicali nel 1935. Era questo il germe del Fronte Popolare che vinse le elezioni nel maggio del 1936. A giugno dello stesso anno fu costituito un esecutivo radical-socialista presieduto da Léon Blum. Una serie di scioperi portò agli accordi di Matignon, che il padronato firmò malvolentieri e che prevedevano l’aumento dei salari, la settimana la-
LÉON BLUM. Presidente del Fronte Popolare francese tra il 1936 e il 1937, Blum era marxista, ebreo e massone. Era quindi l’uomo più odiato dall’estrema destra: lo scrittore Céline arrivò a dire che era preferibile Hitler a Blum. Charles Maurras scrisse: «C’è un uomo qui che si dovrebbe fucilare, ma di spalle». La caricatura lo rappresenta come un pagliaccio prigioniero dei comunisti, mentre la Germania segna il tempo del suo governo.
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Wallis ed Edoardo: il matrimonio che scatenò la crisi La peggior crisi istituzionale che subì la Gran Bretagna nel periodo tra le due guerre fu causata dalla rinuncia al trono da parte del re Edoardo VIII, che fu sovrano per un solo anno: dal 20 gennaio 1936, data della morte di suo padre, Giorgio V, fino all’11 dicembre 1936, quando gli succedette suo fratello Giorgio VI. Dal 1934, il principe Edoardo, donnaiolo e frivolo, si mostrò in compagnia di Wallis Simpson, un’americana sposata che aveva precedentemente divorziato. Dopo essere salito al trono, Edoardo continuò a frequentare Wallis e, nel novembre del 1936, fece presente al capo del governo, Stanley Baldwin, che desiderava sposare la signora non appena questa avesse divorziato dal marito. Edoardo, però, in quanto sovrano d’Inghilterra, era anche a capo della Chiesa Anglicana, che non riconosceva il divorzio. Baldwin, l’arcivescovo di Canterbury e i principali leader politici erano d’accordo che il principe non potesse sposarsi con Wallis, di modo che al re rimanevano tre opzioni: rinunciare a quel matrimonio, abdicare e sposarsi, o sposarsi senza abdicare, ma con quest’ultima opzione si metteva a rischio la vita stessa della corona, dato che l’esecutivo si sarebbe dimesso e l’opposizione non avrebbe accettato di formare il governo. Il 10 dicembre, Edoardo firmò l’abdicazione e, nominato duca di Windsor dal fratello, si sposò con Wallis nel giugno del 1937. Qui accanto, Edoardo e Wallis in quell’anno.
DECIMO CONGRESSO DEL PARTITO (pag. 111).
Nel 1938, il raduno del NSDAP a Norimberga, l’ultimo che si celebrò, fu chiamato “della Grande Germania”, in seguito all’unione di Austria e Germania. 110
vorativa di 40 ore, le vacanze pagate e vari diritti sindacali. L’industria bellica fu nazionalizzata e il sistema bancario tenuto sotto controllo. Mentre i lavoratori vedevano in queste operazioni l’inizio di una nuova era, il capitale abbandonava il Paese nel momento in cui, per effetto delle riforme, i prezzi salivano e diminuiva la produzione. In ottobre si svalutò il franco per rendere più competitiva la produzione nazionale e abbassare l’inflazione, ma anche questa soluzione non portò risultati e nel marzo del 1937 Blum frenò le riforme. La delusione si diffuse tra i lavoratori; i comunisti accusarono Blum di non aiutare la Repubblica spagnola – in guerra contro i militari ribelli dal luglio del 1936 – e accrebbe l’opposizione di imprenditori e dell’estrema destra, con l’irruzione del fascismo autoctono incarnato nel Partito Popolare Francese e l’antisemitismo che segnò una virulenta opposizione a Blum, di origini ebraiche. Nel Paese si diffondeva un clima di guerra civile che spiega l’appoggio ricevuto dal governo filotedesco di Vichy durante la Seconda guerra mondiale. La gran parte delle classi medie, rappresentate dal
Partito Radicale, tuttavia, continuò a sostenere la democrazia liberale, anche se non seguì più il Fronte Popolare: smise infatti di appoggiare Blum. Nell’aprile 1938, egli cedette il passo a Édouard Daladier, che governò con la destra e cancellò la settimana lavorativa di 40 ore. La crisi nazionale rimase sommersa dalla crisi internazionale quando socialisti e comunisti non sostennero il governo dopo la firma degli accordi di Monaco di Baviera di settembre, che la Francia, per la sua debolezza nei confronti della Germania, dovette accettare seguendo la Gran Bretagna. Dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte di Hitler nel marzo del 1939, Daladier ottenne per decreto parlamentare poteri per governare, con l’obiettivo di accelerare il riarmo. Divisa e demoralizzata, la Francia entrò in guerra.
La Gran Bretagna, fuori pericolo Nelle elezioni del maggio 1929, i laburisti ottennero 287 seggi di fronte ai 260 dei conservatori e Ramsay MacDonald prese il posto di Stanley Baldwin a capo dell’esecutivo, con l’appoggio dei liberali. La crisi che colpì il Regno Unito tra il 1930 e il 1931 con l’aumento della disoccupazione mise il governo davanti alla necessità di aumentare la spesa sociale o di tagliarla, come veniva richiesto dai tories. Il problema provocò una divisione interna al partito laburista e, nell’agosto 1931, MacDonald rassegnò le dimissioni per formare l’Unione Nazionale, con liberali, conservatori e laburisti. Il laburismo si divise e il cancelliere, accusato di tradimento, fu espulso dal partito laburista e la maggior parte dei deputati passò all’opposizione. Come esigeva l’economia ortodossa, il gabinetto incrementò la tassazione e tagliò la spesa sociale; venne abbandonato pure il sistema aureo, che era un simbolo di stabilità ma, allo stesso tempo, anche un macigno per l’economia britannica. Le elezioni dell’ottobre 1931 e quelle di novembre 1935 assegnarono la vittoria ai tories, i quali dominarono il governo, che continuava a chiamarsi dell’Unione Nazionale, con a capo, prima MacDonald fino a giugno del 1935, poi i conservatori Baldwin e il suo ministro della Finanza Pubblica, Neville Chamberlain, nel maggio del 1937. Chamberlain fu l’artefice del recupero con una politica commerciale protezionista e di “preferenza imperiale” con le colonie e i domini britannici, abbinata all’impulso industriale, all’edilizia (tra il 1933 e il 1937 vennero costruite 345.000 case all’anno) e al sostegno dei prezzi agricoli. Nel 1938, la produzione industriale era un 30% maggiore di quella del 1930 (a quel tempo la Gran Bretagna era diventata la seconda produttrice di automobili dopo gli Stati Uniti) e la disoccupazione si abbassò dal 23% al 10% tra il 1933 e il 1937.
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Manchukuo, l’impero giapponese in Cina Il 18 dicembre 1931, un’esplosione distrusse un tratto della ferrovia di una compagnia giapponese in Manciuria. Il Giappone attribuì l’attentato ai ribelli cinesi, servendosene come pretesto per occupare un territorio ambito. L’invasione della Manciuria fu un’iniziativa dei comandanti dell’esercito di Guangdong, con sede nell’enclave di Port Arthur (l’attuale Lüshunkou), che era passata nelle mani dei Giapponesi dopo la vittoria sui Russi nel 1905. L’esercito di Guangdong costituiva la punta dell’iceberg di una bellicosa mania espansionistica dei militari giapponesi, che lottavano per imporsi sul potere civile (e che nel 1936 tenteranno un colpo di Stato, poi fallito). L’imperatore Hirohito non si dichiarò contrario all’invasione, dato che implicava il dominio su di una regione con oltre 30 milioni di abitanti, giacimenti di carbone e di ferro, porti attivi e una fitta rete ferroviaria, poiché avrebbe significato avere a disposizione notevoli risorse per un Paese duramente colpito dalla Grande Depressione. Il territorio, divenuto l’impero di Manchukuo e governato da Puyi, ultimo imperatore cinese, non fu riconosciuto da nessuna nazione se non dal Giappone; lì si allestì una potente industria pesante, fondamentale per sostenere l’invasione giapponese della Cina nel 1937. A destra, Puyi nel 1932.
Tutto questo evitò che i comunisti e l’Unione Britannica Fascista di Oswald Mosley ottenessero seggi e credibilità. La stabilità istituzionale fu evidente quando il re Edoardo VIII abdicò per sposarsi con l’americana Wallis Simpson, già divorziata. Gli successe il fratello Giorgio VI. I disaccordi politici, tuttavia, si dovettero scontrare con le sfide che il Giappone, l’Italia e la Germania lanciarono all’ordine internazionale.
Manciuria ed Etiopia La crisi economica, sommata a un’opinione pubblica pacifista che si alimentava dell’atroce ricordo della Grande Guerra, portò la Gran Bretagna e la Francia a contenere le spese militari in un momento in cui le loro responsabilità acquisivano un’importanza enorme, in quanto a capo dei più grandi imperi della storia e sentinelle dell’ordine internazionale deciso a Versailles. Dall’altro lato erano in agitazione la Germania, l’Italia e il Giappone, gli Stati che Mussolini definì “spodestati” o “proletari” e che condividevano il rifiuto dell’ordine liberale. 112
Il Giappone fu il primo Paese a muoversi. La crisi economica aveva ingigantito un nazionalismo aggressivo che aveva come obiettivo le potenze occidentali, le quali gli negavano l’accesso a materie prime e ai mercati asiatici che loro stesse sfruttavano. L’esercito nipponico condivideva le idee nazionalistiche ed era un forte sostenitore delle conquiste sul continente. Nel 1931, i vertici delle forze giapponesi in Manciuria ordinarono l’occupazione di quei territori, davanti al riarmo sovietico e al deterioramento delle relazioni con i signori della guerra che controllavano la Cina settentrionale. Tokio vi stabilì lo Stato fantoccio di Manchukuo, governato dall’ultimo imperatore cinese, Puyi, di stirpe manciù. Di fronte all’aggressione giapponese, la Cina si appellò all’SDN, che però si limitò a condannare l’episodio. Tale reazione limitata mise in risalto l’incapacità dell’organizzazione di difendere i Paesi attaccati, segnando l’inizio della fine del sistema di sicurezza collettiva voluto nel 1919. Il Giappone si ritirò dall’SDN nel maggio 1933 e la Germania fece altrettanto in ottobre.
IL MARESCIALLO BADOGLIO ENTRA AD ADDIS ABEBA, MAGGIO 1936.
Con l’occupazione dell’Abissinia (Etiopia), l’Italia si toglieva la dolente spina della sconfitta che gli Abissini avevano inflitto alle sue truppe ad Adua, nel 1896, e aggiungeva un altro tassello alla costruzione dell’impero che Mussolini ambiva a realizzare intorno al Mediterraneo, in una sorta di emulazione dell’impero romano. Nonostante l’occupazione dell’Abissinia fosse una minaccia per gli interessi di Francia e Gran Bretagna nel Vicino Oriente, entrambi i Paesi cercarono di mantenere l’Italia a dovuta distanza dalla Germania e non adottarono nessun provvedimento drastico contro il Duce. Fu sufficiente un blando embargo contro l’Italia, decretato dalla Società delle Nazioni perché Mussolini, offeso, si avvicinasse a Hitler.
Mussolini prese nota dell’impotenza dell’SDN visto che, come stavano le cose, avrebbe potuto dare il via al suo sogno: aumentare i possedimenti italiani in Africa (Libia, Somalia, Eritrea) per creare una sorta di secondo impero romano. Il suo obiettivo era l’Abissinia (l’attuale Etiopia), l’unico Stato indipendente dell’Africa oltre alla Liberia; aveva attirato forti investimenti italiani e lo si pensava ricco in minerali. L’invasione cominciò dall’Eritrea, nel mese di ottobre del 1935. Dopo sette mesi di combattimenti con un esercito armato di vecchi fucili e di lance e, dopo aver bombardato la popolazione con gas velenosi, gli Italiani espugnarono la capitale Addis Abeba, nel maggio del 1936. Vittorio Emanuele III fu proclamato imperatore d’Etiopia. Mussolini riteneva che le potenze occidentali non sarebbero intervenute a favore di «un Paese africano, universalmente tacciato di essere indegno di occupare un posto tra i Paesi civilizzati» e non si sbagliava. L’SDN decretò un embargo commerciale che non includeva materie prime come il ferro e il petrolio, e l’unico risultato fu quello di scredi-
tare ancor più l’organizzazione e allontanare Mussolini dai Francesi e dai Britannici per spingerlo tra le braccia di Hitler.
L’espansione tedesca Mentre Mussolini, come disse nel 1932 lo scrittore Emil Ludwig, accarezzava l’idea di trasformarsi in un nuovo Giulio Cesare, «l’uomo più grande che mai fosse vissuto», Hitler assecondava le sue ossessioni, già rese evidenti nel suo Mein Kampf: farla finita con i provvedimenti di Versailles, creare un esercito potente e riunificare i Tedeschi in un unico confine. «Mi accingo a seguire, con la sicurezza di un sonnambulo, il cammino che ha segnato per me la Provvidenza», dirà nel marzo del 1936. All’inizio, il suo operato esterno, consistente nel riunire i Tedeschi all’interno di uno stesso territorio, fu considerato persino legittimo da Britannici e Americani. Nel gennaio 1935, un plebiscito nella Sarre, amministrata dall’SDN dopo la Grande Guerra, segnò un 90% di voti a favore dell’unione con la Germania; il suo reintegro, il 1° marzo, segnò l’inizio dell’espansione della Germania hitleriana. 113
LA MARCIA VERSO L’ABISSO
Il golpe militare e la guerra civile in Spagna, una faccenda internazionale I monarchici, la CEDA (la Confederazione delle Destre Autonome, primo partito di massa della destra spagnola), gruppi fascisti come la Falange e numerosi ufficiali delle forze armate denunciavano che, in seguito al trionfo elettorale del Fronte Popolare nel febbraio 1936, la Repubblica spagnola stava scivolando verso il comunismo e il caos. Lib 30 pag. 58
Gijón (1936)
Bilbao (1937)
FRANCIA
Huesca (1937)
PO
RT OG AL
LO
La Granja (1937) Navacerrada Belchite (1937) El Ebro (1938) Guadalajara (1937) Madrid Teruel (1937-1938) Brunete (1937) (1936-1939) Jarama (1937)
MAR MEDITERRANEO
Malaga (1937)
Battaglie Zone insorte (luglio 1936) Territori occupati dai ribelli: Ottobre 1936 Ottobre 1937 Fine del 1938 gennaio-marzo 1939
In un tale contesto, dal 17 al 19 luglio trionfò in una parte della Spagna un golpe militare con appoggio civile. Ancor prima del suo inizio, i cospiratori monarchici sapevano già di poter contare sulla collaborazione di Mussolini e quando cominciò la sollevazione, ricevettero anche quella di Hitler. Il trionfo dei ribelli avrebbe potuto fornire un altro appoggio al Duce nel Mediterraneo nei confronti di Francia e Gran Bretagna, e al Führer, alleato nella retroguardia di Francia, governata da un altro Fronte Popolare. Nel Regno Unito, i conservatori al potere diffidavano di questa Francia di sinistra ed erano ostili alla Spagna repubblicana in guerra, dove le organizzazioni operaie fomentavano la rivoluzione; vi si aggiungeva la politica di riconciliazione verso Hitler. In agosto, il governo francese, davanti all’atteggiamento britannico e a un’opinione pubblica divisa sul sostegno alla Repubblica, propose un accordo di non intervento, che proibiva la fornitura di materiali militari ai contendenti, con la speranza di evitare che i ribelli ricevessero aiuti da Hitler e da Mussolini. Questi lo firmarono, ma continuarono a sostenere gli alleati spagnoli, mentre l’accordo privò il governo repubblicano di aiuti esterni, che cominciarono ad arrivare dall’URSS soltanto in ottobre, quando Stalin giudicò che una vittoria dei ribelli avrebbe consolidato la posizione dell’Italia e della Germania sul continente: il suo sostegno permise alla Repubblica di resistere fino a marzo 1939. A destra, il generale Franco, capo dei militari golpisti.
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Quindici giorni dopo, si restaurò il servizio militare obbligatorio e Hitler denunciò le clausole del Trattato di Versailles che impedivano il riarmo tedesco, annunciando l’ampliamento dell’esercito. Le democrazie non solo non si mossero, ma la Gran Bretagna, con grande amarezza da parte della Francia, firmò persino un accordo navale con il Reich, che sanciva il divieto di aumentare la flotta più del 35% di quella inglese, e che in pratica significava il totale accantonamento del Trattato di Versailles. Nel marzo del 1936, mentre l’attenzione mondiale era rivolta all’invasione dell’Etiopia, Hitler denunciò i trattati di Locarno, che ratificavano la smilitarizzazione della Renania, e la occupò, avvantaggiandosi dell’insicurezza francese nel rispondere militarmente a tale azione. Quattro mesi dopo, a luglio, scoppiò la guerra civile spagnola, punto d’incontro del fascismo in espansione. Il sostegno di Hitler e di Mussolini ai militari ribelli permise all’esercito spagnolo d’Africa di attraversare lo Stretto di Gibilterra, e di trasformare una dichiarazione militare in guerra civile; in seguito, il loro aiuto militare al generale Franco garantì la vittoria dei ribelli. La mancanza di una risposta franco-britannica a tale azione confermò le idee di Hitler, che vedeva nelle democrazie liberali il declino dello Stato. Contro la Francia e l’Inghilterra, nell’ottobre del 1936, si costituì l’asse RomaBerlino, che consacrò la rivalità tra i Paesi “spodestati” e Paesi “possessori”, e dopo circa un mese Germania e Giappone firmarono il patto Antikomintern contro l’URSS. L’Italia aderì all’accordo nel 1937, e un mese dopo si decise ad abbandonare l’SDN. Gli Stati che aspiravano a un diffuso “nuovo ordine” mondiale si stavano alleando e mostravano il proprio gioco con sempre maggior chiarezza. Così fu per il Giappone, nel luglio di quello stesso anno, quando intraprese l’invasione della Cina, dissanguata da una guerra civile tra il Guomindang, partito nazionalista guidato da Chiang Kai-shek, e il Partito Comunista di Mao Zedong (essi si unirono per far fronte all’invasione giapponese). Fu così che Hitler si mosse verso l’annessione dell’Austria alla Germania. Nel marzo del 1938, la Wehrmacht invadeva l’Austria dopo una campagna terroristica dei nazisti austriaci, il cui leader, Arthur Seyss-Inquart, divenne governatore dell’Ostmark, nuova provincia del Reich, il nuovo nome dell’Austria. L’unione, Anschluss in tedesco, fu ben accolta dalla maggioranza della popolazione austriaca. In aprile, un plebiscito diede il 99,73% dei voti a favore dell’unione con la Germania. Il mese prima, una dichiarazione dell’episcopato austriaco aveva sollecitato i fedeli a votare «per un obbligo morale nei confronti della propria razza» e auspicava «il compimento del desiderio millenario del nostro popolo di unirsi in un grande Reich tedesco».
Con l’Anschluss il sistema di sicurezza collettiva costruito nel dopoguerra scomparve definitivamente. Gli accordi di Versailles si erano volatilizzati. La Gran Bretagna e la Francia non si trovavano nella condizione di contenere gli Stati “spodestati”, né tantomeno potevano contare sull’aiuto degli Stati Uniti per poterlo fare dato che, constatando un incremento di conflittualità a livello mondiale, il Congresso americano emanò una serie di leggi di neutralità che resero Britannici e Francesi più vulnerabili nel Pacifico e in Asia, aree in cui si pensava che gli Stati Uniti fossero più protagonisti.
La riconciliazione L’intensità del pacifismo, il timore di una nuova guerra e la consapevolezza che si era a corto di risorse economiche per poter affrontare minacce militari globali in Europa e in Asia furono le basi della politica di riconciliazione (appeasement) intrapresa dal primo ministro britannico Neville Chamberlain. La riconciliazione era alimentata dalla diffidenza storica della Gran Bretagna nei confronti dell’URSS, in cui i dirigenti britannici non vedevano un alleato,
ma piuttosto un nemico contro il quale la Germania nazista poteva innalzare una barriera. La riconciliazione era fomentata anche da una corrente d’opinione che (come già aveva chiarito Keynes) considerava ingiusto il Trattato di Versailles. Ecco quindi da dove nasceva l’idea che se si fossero considerate “ragionevoli” le pretese di Hitler sulla riunificazione dei Tedeschi, il Führer si sarebbe calmato. Per la Francia non restava altro rimedio che seguire questa politica, perché da sola non sarebbe stata in grado di far fronte alla Germania. Tuttavia, fino a che punto si poteva parlare di limite ragionevole? In realtà, negli interlocutori tedeschi di Chamberlain non c’era nulla di ragionevole. Prima di tutto, questi credevano nella guerra come il mezzo per soddisfare le proprie aspirazioni politiche. «La guerra è l’arma suprema con cui un popolo combatte per il suo pane quotidiano» annotava Hitler nel 1928, nella parte non pubblicata del suo Mein Kampf. «La guerra tra le nazioni plutocratiche e, dunque, egoisticamente conservatrici e quelle povere, densamente popolate, è inevitabile», scrisse a Mussolini nel 1939.
MAO ZEDONG. Il dirigente comunista cinese, a cavallo, durante la Lunga Marcia, la ritirata dell’Esercito Rosso, inseguito dalle truppe nazionaliste del Guomindang. Le truppe comandate da Mao percorsero più di 12.500 km tra il 1934 e il 1935, da Jiangxi, nella Cina sudorientale, fino a Shaanxi, al nord. Mao consolidò la sua leadership tra i comunisti cinesi dopo il raduno di tutti i contingenti dell’Esercito Rosso nel 1936.
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GUERNICA, UN MANIFESTO CONTRO LA GUERRA
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l lunedì 26 aprile 1937, la piccola città basca di Guernica subì un attacco devastante da parte della Legione Condor tedesca e dell’Aviazione Legionaria Italiana. Morirono tra 100 e 300 persone, e la località, di circa 5.000 abitanti, venne rasa al suolo. L’episodio ispirò a Pablo Picasso un capolavoro: un gigantesco dipinto a olio di quasi 3,5 m d’altezza per 7,8 m di larghezza, che il pittore eseguì nel maggio del 1937 per il padiglione della Repubblica spagnola all’Esposizione Internazionale di Parigi di quell’anno. Secondo quanto affermò Picasso: «La guerra civile spagnola è la reazione contro la gente, contro la libertà» e spiegò che: «nel pannello murale su cui sto lavorando che chiamerò Guernica, e in tutti i miei recenti lavori d’arte, ho chiaramente espresso il mio orrore per la casta militare che ha sprofondato la Spagna in un oceano di dolore e morte». Il dipinto non rientrò in Spagna fino al 1981, dopo l’instaurazione della democrazia.
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IL BOMBARDAMENTO.
Quando si diffuse la notizia dell’attacco, la propaganda franchista attribuì la distruzione della cittadina agli stessi repubblicani (i “rossi”) che si stavano ritirando: «La Spagna di Franco non appicca incendi».
PICASSO NEL 1937.
Ritratto dell’artista originario di Malaga, del periodo in cui stava lavorando a Guernica nel suo studio di Parigi. 116
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AUTORITÀ DELLA REPUBBLICA NEL PADIGLIONE SPAGNOLO. Al centro, con una sigaretta tra le dita, José Antonio Aguirre, presidente del governo basco; insieme a lui, a destra, il filosofo José Gaos, commissario del padiglione; al suo fianco, Ángel Ossorio y Gallardo, ambasciatore in Francia e Jaume Miravitlles, commissario della Propaganda della Generalitat de Catalunya.
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IL PADIGLIONE.
Inaugurato il 12 luglio 1937, venne progettato da Josep Lluís Sert e Luis Lacasa. Accoglieva sia Guernica che El segador, dipinto murale di Joan Miró, oltre a sculture di Calder e di Julio González.
6 CAVALLO AGONIZZANTE. Il corpo dell’animale mostra una ferita verticale ed è trapassato da una lancia di cui si vede la punta. Nitrisce di dolore con la testa rivolta a sinistra, come per il toro.
MADRE CON FIGLIO. Una donna
TORO.
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con occhi a forma di lacrima sostiene il corpo senza vita del figlio, mentre alza al cielo il viso sconvolto da un grido di dolore, con un’espressione straziante.
L’unica figura che guarda lo spettatore direttamente ha dato vita a varie interpretazioni: simbolo sia della morte, che della brutalità del fascismo o dell’eroica popolazione spagnola.
Non è facile intravvedere questo simbolo di pace, che sembra anch’esso gridare: la sua forma è stata disegnata sullo sfondo e Picasso le ha dipinto soltanto un’ala, di colore bianco.
8 DONNA CON LANTERNA.
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DONNA CHINA.
La sua posizione sembra suggerire che stia fuggendo dalla casa in fiamme. L’artista l’ha rappresentata mentre si trascina quasi senza forze, per liberarsi dall’orrore e dalla distruzione.
Affacciata alla finestra della casa in fiamme, la luce della sua lampada si sprigiona formando un triangolo chiaro, che si distacca dallo sfondo del dipinto, più scuro.
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COLOMBA.
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DONNA CHE URLA.
Con le braccia alzate verso il cielo, la bocca aperta in un grido interminabile, sembra essere avvolta dalle fiamme della sua casa; sullo sfondo si nota un altro edificio incendiato.
5 LUCE ELETTRICA. Solo una lampadina che perfora il buio con la sua luce, come il bagliore di un’esplosione; forse allude alle bombe incendiarie lanciate su Guernica.
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COLORI E FORME.
Per far risaltare la sofferenza, non c’è colore: soltanto il bianco, il nero e una vasta gamma di grigi. Le figure sono in stile cubista, ma presentano tratti espressionisti.
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LA MARCIA VERSO L’ABISSO
L’annessione dei Sudeti, uno strumento nelle mani di Hitler La presenza tedesca nei Sudeti risaliva al Medioevo, quando coloni tedeschi si stabilirono nel regno di Boemia. In seguito il regno fu assorbito dall’impero degli Asburgo, scomparso con la Grande Guerra. Parte dei Tedeschi Sudeti chiese l’annessione all’Austria, ma nel 1919, con il Trattato di Saint-German, vennero assegnati alla Cecoslovacchia. Le loro rivendicazioni filotedesche si sopirono negli anni Venti, ma rifiorirono nel 1933, quando Konrad Henlein, con l’appoggio di Hitler, fondò il Fronte Patriottico dei Tedeschi Sudeti, che nel 1935 divenne il Partito Tedesco dei Sudeti, le cui richieste furono strumentalizzate da Hitler per forzare la Conferenza di Monaco di Baviera. Accanto al testo, Neville Chamberlain tra Lib 30 P 118 Ribbentrop e Hitler, al loro arrivo a Monaco per negoziare gli accordi. Annessioni: Del Reich: Sudeti (1-10-1938)
O ESC
Della Polonia: Teschen (2-10-1938)
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Dell’Ungheria: Slovacchia meridionale e sud della Rutenia (2-11-1938)
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I valori dei leader e dei loro regimi erano radicati nell’esaltazione della guerra e dell’indotto che essa comportava. Il loro nazionalismo bellicoso non era solo di facciata, era la sostanza dei loro programmi. Le stesse personalità di Mussolini e Hitler li rendevano incapaci di riporre una qualche importanza negli accordi firmati; non era un caso che fossero personaggi arrivati al potere con la violenza dei propri sostenitori e con l’inganno delle proprie intenzioni. La loro politica internazionale non era altro che la trasposizione della violenza prepotente degli squadristi e delle SA nella sfera dei rapporti internazionali. E non si sentivano mai sazi. I dirigenti democratici erano incapaci di riconoscere la vera natura delle forze con cui si scontravano. «Quello che mi risultò più difficile – affermò Chamberlain dopo il suo incontro con Hitler a Monaco di Baviera – fu capire perché si mostrava così irrazionale».
Gli Accordi di Monaco Il momento decisivo giunse dopo l’Anschluss, che nel marzo 1938 lasciò la Cecoslovacchia circondata dal Reich su tre lati. La regione cecoslovacca dei Su118
deti era popolata da circa tre milioni di Tedeschi, e il Partito Tedesco dei Sudeti, diretto dalla Germania, era il più votato del Paese. A settembre, Hitler rimase fermo sulle sue richieste e rivendicò l’autodeterminazione dei Sudeti. I Cechi contavano sull’alleanza di URSS e Francia, ma l’appoggio sovietico dipendeva dalla mossa dei Francesi che non avevano intenzione di entrare in guerra senza i Britannici. E questi ultimi diffidavano più dell’URSS che di Hitler. Il Führer alzò il tono delle richieste e reclamò l’annessione dei Sudeti. La Gran Bretagna non fece nulla. Chamberlain si rivolse ai suoi cittadini per radio con queste parole: «È orribile, fantastico, incredibile che scaviamo trincee e ci proviamo maschere antigas per colpa di un alterco tra popoli di cui non conosciamo niente». Per discutere della questione, a Monaco di Baviera si riunirono Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia; Cechi e Sovietici furono esclusi. Durante la notte tra il 29 e il 30 settembre, Daladier, Chamberlain, Hitler e Mussolini firmarono un accordo che compiaceva le richieste di Hitler. La Cecoslovacchia perdeva un terzo dei suoi abitanti e del suo territo-
rio, il 40% della sua potenza industriale e le sue difese ad occidente. Quando fu discusso l’accordo alla Camera dei Comuni, Churchill affermò: «L’Inghilterra poteva scegliere tra la guerra e la vergogna; ha scelto la vergogna e otterrà la guerra». Le sue parole sarebbero state profetiche.
Verso la guerra Il restante territorio della Cecoslovacchia fu fatto a pezzi: alla Polonia toccò Teschen, l’Ungheria si impadronì di parte della Slovacchia e Rutenia e, infine, nel marzo del 1939, la Wehrmacht occupò Praga e fu istituito il Protettorato di Boemia e Moravia, mentre la Slovacchia diventava uno Stato fantoccio dei nazisti, governato da monsignor Jozef Tiso. L’occupazione di Praga rese evidente l’insaziabilità della Germania hitleriana, mise fine alla politica di riconciliazione e indusse Britannici e Francesi al riarmo a ritmo frenetico. La caduta di Praga significò, inoltre, l’allontanamento dell’URSS nei confronti del Regno Unito e della Francia, visto che Stalin riteneva che volessero spingere le ambizioni espansionistiche di Hitler verso est.
Hitler, in effetti, si rivolse alla Polonia e reclamò la città di Danzica. A maggio, durante una riunione organizzativa per la guerra con i vertici delle forze armate, il Führer affermò che non era Danzica la posta in gioco: «Per noi, la questione è espandere il nostro spazio vitale ad est e assicurarci il rifornimento di viveri». A quel punto fece la sua mossa. All’alba del 24 agosto 1939, Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri, firmò a Mosca un patto di non aggressione che conteneva un protocollo segreto con il quale Tedeschi e Sovietici si spartivano la Polonia, e che concedeva all’URSS il dominio sui territori della Grande Guerra: Finlandia, Paesi Baltici e Besarabia. L’invasione della Cecoslovacchia aveva aperto gli occhi a Britannici e Francesi: la Germania costituiva un vero pericolo. In un discorso alla Camera dei Comuni, Chamberlain dichiarò che la guerra, qualora ci fosse stata, non sarebbe cominciata «per il futuro politico di una città lontana [Danzica] in una terra straniera» ma per preservare i fondamenti dell’ordine stabilito dalla legge internazionale. Il Regno Unito e la Francia si impegnarono a collaborare sia reciprocamente che con la Polonia, in caso di invasione. Hitler, tuttavia, era convinto che non si sarebbero mossi e che si sarebbe trattato soltanto di una contesa locale limitata alla Polonia. «I nostri nemici sono vermiciattoli. Li ho visti a Monaco» aveva dichiarato ai suoi comandanti. Si era sbagliato. La sua ultima mossa per distruggere l’ordine stabilito a Versailles aprì la porta al più grande conflitto bellico mai visto prima. All’alba del 1° settembre, la Wehrmacht invadeva la Polonia. Il giorno dopo, Francesi e Britannici inviarono a Berlino un ultimatum in cui si richiedeva l’immediato ritiro dalla Polonia, e il giorno 3 dichiararono guerra alla Germania. A Varsavia, una grande folla si riunì davanti all’ambasciata della Gran Bretagna per applaudire gli Inglesi, mentre davanti agli uffici della delegazione francese si raccoglieva altra gente che lasciava fiori e biglietti davanti ai cancelli e cantava La Marsigliese. In realtà, i Polacchi avevano ben poco da festeggiare. Due giorni più tardi, il 5 settembre, Robin Hankey, funzionario dell’ambasciata di Gran Bretagna a Varsavia, scriveva al padre, che faceva parte del gabinetto di Chamberlain in qualità di ministro senza portafoglio: «I Polacchi combatteranno con coraggio, ma loro da soli non otterranno niente contro il teutone. Ormai è giunta l’ora che distruggiamo le fabbriche della Germania» e lo esortava: «Dobbiamo colpire la Germania prima che rompa il fronte orientale». La realtà dei fatti non tardò a imporsi: né la Francia, né la Gran Bretagna riuscirono a compiere azioni militari in aiuto dei Polacchi; erano entrate in guerra non a causa della Polonia, perché Hitler non aveva lasciato loro altra scelta.
CARICATURA DEL PATTO TEDESCOSOVIETICO DEL 1939.
Stalin e Hitler mentre ballano “il valzer dell’amore”, parodia del patto. Il caricaturista, però, si era sbagliato: Hitler non fu vittima dell’abbraccio asfissiante dell’orso sovietico, ma fu invece Stalin che cadde nella trappola del Führer: A Mosca, durante le ultime battute dei negoziati del 23 agosto, Ribbentrop partecipò a una cena al Cremlino, in cui Stalin propose un brindisi a Hitler.
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TOTALITARISMI: LEADERSHIP E REPRESSIONE
Totalitarismi: leadership e repressione L’Italia di Mussolini, la Germania hitleriana e l’URSS di Stalin annullarono l’individuo per metterlo al servizio di utopie politiche costruite sotto la guida di capi saldi nelle proprie idee.
N
ell’agosto del 1926, davanti a una folla riunitasi a Pesaro per ascoltare le sue parole, Mussolini dichiarò: «Il fascismo non è soltanto un partito, è un regime; non è soltanto un regime, ma una fede; non è soltanto una fede, ma una religione che sta conquistando le masse dei lavoratori del popolo italiano». È impossibile descrivere con maggior chiarezza a cosa aspiravano le dittature di 120
Mussolini, Hitler e Stalin, che sono state definite come “religioni laiche”: la loro evidente intenzione era di forgiare un uomo nuovo, partecipe di una comunità unita dalla fede in un’utopia (l’impero mediterraneo italiano, l’impero razziale tedesco, la società senza classi sociali), alla cui costruzione dovevano tutti consacrarsi. Modellare questo nuovo uomo e forgiare la necessaria (e unanime) connes-
La svastica Simbolo magico diffuso nell’antica Eurasia (swastika significa “buona fortuna” in sanscrito), dopo la Grande Guerra la croce gammata fu associata al misticismo ariogermanico e all’antisemitismo. Dei suoi colori, Hitler dichiarò: «Il rosso è sociale, il bianco è nazionale e la svastica è antisemita».
Padri del popolo e capi della guerra Per diffondere l’immagine di una figura paterna, Stalin si faceva rappresentare in mezzo a un popolo che gli rendeva omaggio e in compagnia di bambini, come Gelya Markizova, con la quale venne fotografato nel gennaio del 1936; il padre era stato fucilato come “nemico del popolo”, la madre era in prigione e in seguito si suicidò. A Stalin piaceva mostrarsi in uniforme, come anche a Mussolini e Hitler; i tre dittatori apparivano come la colonna bellica della nazione.
sione spirituale con i suoi simili, richiedeva il controllo assoluto dello Stato in tutti gli ambiti della vita. Così si esprimeva un libro di testo italiano di storia, pubblicato nel 1939 e destinato all’istruzione secondaria: «Lo Stato fascista è totalitario, in quanto aspira a impregnare tutta la nazione. Ecco, quindi, il senso del motto di Mussolini: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”». Era questo uno dei tratti fondamentali che condividevano le dittature menzionate e che va riassunto in tre punti: il ruolo centrale di un leader carismatico, oggetto di culto, che era a capo di un partito – il messia e la sua chiesa; l’esistenza di una ideologia onnicomprensiva, che spiegava il passato, giustificava il presente e mostrava l’ideale futuro, nonché il cammino per conseguirlo; la subordinazione assoluta dell’individuo a uno Stato diretto soltanto dal partito e governato da questa ideologia.
In effetti, le forze politiche di tali regimi volevano mobilitare i cittadini in maniera permanente per integrarli nella vita dello Stato, ma sempre sotto la guida del partito unico, vertice di una gerarchia di organizzazioni politiche, sociali e culturali facenti parte di una rete immensa che coinvolgeva l’individuo fin dall’infanzia. Il fanciullo veniva indottrinato a scuola e arruolato in organizzazioni giovanili, dove gli si inculcava il senso della gerarchia e gli si insegnava lo spirito militare e l’utopia (la costruzione di imperi fascisti o nazionalsocialisti, il trionfo del comunismo), inconcepibile senza la guerra. Sul lavoro, il cittadino era sottomesso all’inquadramento sindacale obbligatorio, e per il tempo libero aveva a disposizione attività proposte da organizzazioni come l’Opera Nazionale Dopolavoro italiana o la Forza attraverso la Gioia (Kraft durch Freude) tedesca. L’informazione che gli giungeva dai giornali che
poteva leggere, le notizie che ascoltava per radio, o ciò che vedeva al cinema, veniva elaborato dallo stesso Stato e attentamente manipolato dalla censura.
L’utopia scientifica La messa in pratica di una tale ambizione totalizzante non sarebbe stata attuabile senza i mezzi tecnologici della società industriale, che resero possibile creare una gigantesca rete di controllo della società. Nel caso del fascismo italiano, comunque, il dominio non fu completo, perché la Chiesa cattolica e la corona mantennero la propria autonomia. I totalitarismi nazionalsocialista e sovietico, invece, si svilupparono senza imbattersi in alcun ostacolo. Entrambi partivano da una base che si presupponeva scientifica. Uno si sosteneva su considerazioni biologiche che affermavano l’esistenza di una razza ariana, di cui difendevano la conservazione e la diffusione per mezzo di una stretta igiene 121
TOTALITARISMI: LEADERSHIP E REPRESSIONE
L’utopia hitleriana: una nazione di purosangue L’elemento che definiva la nazione nazionalsocialista non era il territorio, né la cultura o la lingua, bensì il sangue. Secondo quanto riteneva Hitler, l’esistenza del Volksblut, un unico “sangue della razza” in comune, era un prerequisito per l’esistenza della nazione tedesca, trasformata così in una comunità biologica. Da questo concetto derivavano le leggi per definire i Tedeschi in quanto razza, come quelle approvate il 15 settembre 1935 dal Reichstag, riunitosi a Norimberga: la legge per la Protezione del Sangue e l’Onore Tedesco, che vietò il matrimonio e i rapporti sessuali tra Tedeschi ed ebrei; oltre alla legge di Cittadinanza, che riguardava soltanto le persone di “sangue tedesco o affine”, sempre che fossero “disponibili e nelle condizioni di servire il Volk e il Reich tedeschi”. Con questa normativa, che non era diretta specificamente agli ebrei, furono privati della cittadinanza circa 600 bambini mulatti, nati da donne tedesche e soldati di colore francesi delle truppe di occupazione della Ruhr, che vennero poi sterilizzati nel 1937, affinché non contaminassero il sangue tedesco. Tale applicazione della legge faceva parte della politica eugenetica intrapresa dal regime, che costringeva alla sterilizzazione persone invalide (fisiche e mentali), mediante la legge del 1933 sulla Prevenzione nei confronti di Discendenti con Malattie Ereditarie. Oltre a evitare la contaminazione razziale, si voleva creare una razza pura tedesca con la Lebensborn, la maternità di giovani donne selezionate per la procreazione con uomini delle SS. In alto, manifesto di propaganda nazista per la costruzione di ostelli per la gioventù.
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razziale e la conquista dello spazio vitale necessario. L’altro si basava sul cosiddetto “socialismo scientifico” di Marx ed Engels, secondo cui le leggi dello sviluppo economico avrebbero creato le condizioni per un sistema sociale basato sulla scomparsa delle classi sociali e l’abolizione della proprietà privata a vantaggio di tutta la società; si sarebbe giunti al compimento di tale fase con la “dittatura del proletariato”. I leader di entrambi i regimi, inoltre, si ritenevano portatori di una missione storica: per Stalin, l’URSS avrebbe completato la distruzione della fase borghese della storia, la cui fine per mano del proletariato era stata già prevista da Marx; per Hitler, il Terzo Reich avrebbe evitato la vittoria di quelle forze che, sotto forma di giudeo–bolscevismo, minacciavano la civiltà e la razza ariana, perché, in caso contrario, come spiegava in un famoso memorandum del 1936, il mondo sarebbe sprofondato nella «più orripilante catastrofe razziale» da quando «erano tramontati gli stati nell’antichità». I fondamenti pseudo-scientifici e la giustificazione storica di entrambi i totalitarismi liberarono i dirigenti da remore morali, quando fu il momento di costruire la comunità ideale e di proteggerla dalla contaminazione sociale (l’URSS) o razziale (il Terzo Reich). Così si spiegano la carcerazione, la tortura, i campi di sterminio nazisti e di lavoro forzato sovietici, che costituiscono la prova del potere sull’individuo, ma che rispondono anche alla paura, al timore di una cospirazione ebrea mondiale che avrebbe distrutto il popolo tedesco, o di una controrivoluzione, che avrebbe annientato l’URSS e condotto alla vittoria della borghesia.
I capi Il culto del dirigente supremo si manifestò in modi diversi in Italia, in URSS e in Germania. Mussolini seppe usare le risorse offertegli da un’epoca che consacrava le celebrità della celluloide e della stampa, e proiettò di sé un’immagine che significava una rottura storica con i politici antiquati dell’Italia liberale, inamidati nelle loro finanziere e lontani dal popolo. Il Duce trasmetteva una sensazione di dinamismo e di inquieta modernità, in sintonia con lo spirito che animava i futuristi: si faceva ritrarre al volante di automobili (invece Hitler non sapeva guidare), pilotava
SCONTRO SIMBOLICO. Immagine dei colossali
padiglioni del Terzo Reich (a sinistra) e di quelli dell’URSS (a destra), all’Esposizione Internazionale di Parigi, nel 1937. aerei e guidava motociclette, praticava la scherma e lo sci, e il suo torso nudo nella “battaglia del grano” insieme ai contadini mostrava la sua virilità, associata alla forza, tutti valori fascisti. Questo aspetto frivolo dell’immagine mussoliniana era adattato ai legami, suoi e del regime fascista, con il passato imperiale di Roma. Hitler e Stalin non avrebbero mai avuto la familiarità di Mussolini con le masse. Stalin esasperò il suo ruolo di guardiano vigile dell’operato di Lenin, da cui aveva ereditato il ruolo di vozhd o capo, come esprime questa poesia: «Lenin è morto. Però più forte dell’acciaio,/ più saldo delle selci di montagna/ è giunto il suo discepolo Stalin./ Lui ci porterà alla vittoria e alla felicità». Appariva come un
essere lontano, che presiedeva le sfilate nei giorni solenni dalla tribuna della Piazza Rossa, sul mausoleo del creatore dell’URSS, ed era simile a uno zar che veglia sul popolo dal Cremlino, una figura paterna onnipresente grazie ai suoi ritratti: «Ed è così dappertutto. Nei laboratori, nelle miniere,/ nell’Esercito Rosso, all’asilo […] Guardi il suo ritratto ed è come se lui sapesse […]. Hai lavorato male… corruga la fronte, / ma quando hai lavorato bene, sorride sotto i suoi baffi». In quanto a Hitler, il suo ruolo centrale nella studiatissima liturgia ufficiale del regime aveva per obiettivo quello di evidenziare una duplice funzione: quella di profeta che determinava il fine ultimo della razza ariana – la missione redentrice dell’umanità – e quella di capo che l’avrebbe portato a termine. Le manifestazioni di massa costituivano una comunione collettiva tra il popolo e il Führer, la sua incarnazione. E così fu, per esem-
pio, durante i sette giorni del congresso annuale del partito celebrato a Norimberga agli inizi di settembre, la cui manifestazione più palesemente coinvolgente fu quella in cui Hitler consacrò le nuove bandiere del partito, accarezzandole con le dita mentre sosteneva la Blutfahne, la “bandiera del sangue”: la croce gammata macchiata con il sangue dei “martiri” nazionalsocialisti del putsch di Monaco di Baviera. L’IDEALE DI BELLEZZA ARIANA. Ispirato
alla Grecia classica, l’ideale di bellezza ariana appare raffigurato in quest’opera di Arno Brecker, scultore prediletto di Hitler.
I RUSSI CONQUISTANO BERLINO. La bandiera
sovietica sventola sul Reichstag, il 2 maggio 1945. Nella pagina accanto, il simbolo che gli ebrei del Terzo Reich furono obbligati a indossare dal 1941. 124
LA SECONDA GUERRA MONDIALE Tra il 1939 e il 1945, il mondo fu sconvolto dal conflitto più devastante mai conosciuto prima. Gli armamenti dall’immenso potere distruttivo e il disprezzo assoluto della popolazione civile trasformarono la guerra in un massacro planetario. Quando terminò, con l’Asia e l’Europa devastate, soltanto due dei combattenti si reggevano ancora in piedi: gli Stati Uniti intatti e l’URSS stremata, ma vittoriosa sul nazismo, suo nemico mortale.
C
on l’invasione della Polonia cominciò un nuovo tipo di combattimento, la Blitzkrieg o “guerra lampo”, basata sulla combinazione di aerei e carri armati (che sostituivano l’artiglieria tradizionale) con truppe motorizzate. Le unità tedesche si insediarono davanti a Varsavia in una settimana e la resistenza polacca finì quando, nella sorpresa generale e in accordo con il patto segreto tra la Germania e l’URSS, le truppe sovietiche invasero il Paese il 17 settembre. Il governo fuggì, la capitale cadde il 27 settembre e la Polonia come Stato scomparve, suddivisa tra Tedeschi e Sovietici, a causa di quella che fu la quarta spartizione del Paese dal 1772.
Tra settembre e ottobre, mentre il Reich creava la struttura del suo repressivo Governo Generale in Polonia, Stalin incorporò all’URSS la parte dell’Ucraina e della Bielorussia che gli spettava nella spartizione polacca, e impose la presenza del suo esercito nelle tre Repubbliche Baltiche, che finì per annettere all’URSS. La Finlandia fu un osso più duro: i Finlandesi si rifiutarono di cedere a Stalin il territorio che il dittatore richiedeva e, a novembre, i Sovietici invasero il Paese. La “guerra d’inverno” si concluse nel marzo 1940 con la sconfitta dei Finlandesi, ma questi ultimi inflissero all’Esercito Rosso un durissimo colpo, che confermò a Hitler la sua impressione che era possibile 125
Il regime di Vichy, o la collaborazione con l’invasore Dopo la firma dell’armistizio da parte della Francia nel mese di giugno del 1940, il suo territorio venne diviso. Due quinti furono governati da un regime presieduto dall’anziano maresciallo Pétain, l’area di Nizza passò in mano agli Italiani e il resto del Paese finì ai Tedeschi. La capitale di Pétain si trovava nella città balneare di Vichy, i cui trecento hotel potevano accogliere i centomila funzionari di alcuni organi ministeriali che ormai non avevano più senso in una Parigi occupata. Da Vichy si organizzava la produzione industriale e agricola francese a vantaggio della Germania e si pagavano i costi dell’esercito d’occupazione, secondo quanto disposto dai Tedeschi. Ma il regime di Vichy, corporativista, autoritario, antiliberale, antidemocratico e antisemita, fu ben più di un’amministrazione obbligata a collaborare. Godette di un forte appoggio popolare e politico: quando le due camere del parlamento francese si riunirono nel Gran Casinò di quella località come Assemblea Nazionale del 10 di luglio, concedettero pieni poteri a Pétain, con 586 voti a favore e soltanto 80 contro, dato rivelatore della profonda frattura che la società francese aveva sperimentato negli anni precedenti alla guerra. A destra, soldati tedeschi nell’Avenue de Friedland a Parigi nel giugno 1940.
MACCHINA TEDESCA ENIGMA. Serviva per
comporre messaggi cifrati; i Polacchi furono i primi a tentare di scoprirne il funzionamento.
sconfiggere Stalin. Da parte sua, la SDN condannò l’aggressione sovietica e, in un episodio unico nella storia, espulse l’URSS dall’organizzazione. Nel frattempo, uno stato di tensione pacata regnava a ovest. L’esercito britannico non era in condizioni di avviare una campagna militare via terra, e la Francia aveva adottato una strategia difensiva simile a quella del conflitto precedente, mettendosi al riparo dietro le fortificazioni della linea Maginot. Da parte loro, i Tedeschi attendevano barricati nei 630 km del loro muro occidentale, o linea Sigfrido; Hitler non voleva aprire un secondo fronte mentre combatteva ancora in Polonia. I Francesi sbeffeggiarono questa situazione chiamandola drôle de guerre (“guerra della menzogna”), dato che era priva di operazioni belliche importanti, mentre i Tedeschi la definirono sitzkrieg (“guerra seduta”).
L’Europa in fiamme Gli equipaggi dei mezzi blindati e dei bombardieri tedeschi si riposarono per sei mesi. Con l’arrivo della primavera, Hitler estese la guerra lampo a 126
tutta l’Europa. Il 9 aprile invase sia la Danimarca che la Norvegia, Paese attraverso il quale la Svezia esportava ferro in Germania, fornitura che la Gran Bretagna aveva tentato di interrompere. Era cominciata davvero la guerra, e questa durò soltanto 75 giorni. In un mese, il Führer inflisse un colpo distruttivo: il 10 maggio le sue truppe attaccarono i Paesi Bassi, il Belgio e il Lussemburgo e due giorni dopo arrivarono in Francia. Le formazioni corazzate tedesche irruppero al fronte sulla frontiera franco-belga delle Ardenne, i cui fitti boschi parevano impenetrabili dalle colonne blindate e in pochi giorni giunsero al canale della Manica, isolando migliaia di soldati britannici, francesi e belgi a Dunkerque, da dove la Marina britannica riuscì a farne evacuare 338.000 entro il 3 giugno. La ritirata riuscì bene, ma fu una magra consolazione per gli alleati, che assistettero impotenti alla resa dei Paesi Bassi (15 maggio), alla capitolazione del Belgio (28 maggio), alla dichiarazione di guerra dell’Italia a Francia e Gran Bretagna (10 giugno) e, infine, alla sfilata degli eserciti tedeschi lungo gli Champs-Élysées di Parigi (occupata il 14
giugno) a cui seguì la firma dell’armistizio da parte di una Francia vinta dal caos e dal disfattismo (22 giugno). Il Paese si trovò diviso in due: tre quinti furono occupati dalla Germania e il resto divenne lo “Stato francese” di Vichy, di destra, dipendente da Berlino e presieduto dall’ottuagenario maresciallo Pétain. La schiacciante vittoria sulla Francia eliminò le reticenze che gli alti comandi della Wehrmacht nutrivano nei confronti dei piani militari di Hitler. Un euforico Führer discusse i termini della capitolazione francese nello stesso vagone del treno in cui i rappresentanti tedeschi sconfitti avevano firmato l’armistizio del 1918; Hitler si accomodò sulla sedia che un tempo era stata occupata dall’inflessibile maresciallo Foch. Ora, soltanto la Gran Bretagna rimaneva irriducibile. Churchill, che il 10 maggio aveva sostituito Chamberlain a capo del governo, non aveva potuto promettere ai suoi compatrioti altro che «sangue, fatica, lacrime e sudore» durante il suo primo discorso di insediamento. E quello fu ciò che avvenne nei mesi successivi. Hitler volle invadere l’Inghilterra per mare, ma per riuscirvi,
doveva impadronirsi dei cieli, per proteggere le sue navi dalla molto più potente Armata britannica. La Luftwaffe, al comando del maresciallo del Reich Hermann Göring, sferrò una micidiale campagna di bombardamenti che la forza aerea britannica (la RAF) fermò, grazie ai suoi Spitfire e Hurricane, all’uso del radar e alla decrittazione dei codici segreti nemici, ottenuta grazie allo studio di macchine Enigma con cui i Tedeschi cifravano i loro messaggi. L’attacco non distrusse le infrastrutture britanniche, né abbatté il morale della popolazione civile, e il 17 settembre Hitler rimandò l’invasione, passando invece all’organizzazione di un’imminente campagna contro l’URSS. Dieci giorni dopo, il Führer firmò con Italia e Giappone un accordo di collaborazione reciproca in caso di aggressione: il cosiddetto Patto tripartito, con il quale nacque l’Asse Berlino-Roma-Tokio. A questo punto, la guerra cambiò di scenario per mano di Mussolini, desideroso di emulare i successi hitleriani e costruire il suo sognato impero mediterraneo. Il Duce ordinò a settembre che le sue forze in Libia attaccassero l’Egitto britannico, e ad ottobre ordinò che le sue truppe in Albania invadessero la Grecia. Entrambe le campagne terminarono in un fiasco, e i Tedeschi dovettero accorrere in aiuto del loro incompetente alleato, allo stesso modo in cui, durante la Grande Guerra, avevano dovuto sostenere l’Austria-Ungheria. In Africa, il maresciallo Rommel, a capo della mitica forza di spedizione Afrikakorps, sferrò nel marzo 1941 un’energica offensiva che obbligò i Britannici a ripiegare in Egitto. Nei Balcani, Hitler riuscì a far sì che Ungheria, Romania, Slovacchia e Bulgaria aderissero al Patto tripartito e il 6 aprile del 1941 attaccò la Jugoslavia e la Grecia, che contava sull’appoggio militare britannico. Ancora una volta si impose la Blitzkrieg: gli Jugoslavi capitolarono nell’arco di appena undici giorni, e i Greci in ventuno. Il Regno Unito era rimasto senza neanche un alleato sul continente. Ma tutto sarebbe cambiato due mesi dopo.
La campagna di Russia Alle tre del mattino del 22 giugno 1941 (lo stesso giorno in cui Napoleone aveva invaso la Russia nel 1812), cominciò l’operazione Barbarossa, l’attacco delle truppe hitleriane all’URSS. Fu un’operazione che previde l’impiego della più grande forza d’invasione di tutta la storia, con tre milioni di uomini (tra cui c’erano Tedeschi, Finlandesi, Ungheresi, Italiani e Romeni), 600.000 veicoli motorizzati, 625.000 cavalli, 3.600 carri armati, 2.500 aerei, 7.000 cannoni. Si è spesso ritenuto che l’attacco sia stato frutto di una decisione insensata, che obbediva soltanto al rabbioso spirito antibolscevico di Hitler.
EVENTI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 1939
Divisione della Polonia. L’URSS attacca la Finlandia e occupa l’Ucraina, la Bielorussia e le Repubbliche Baltiche. 1940
Invasioni. La Germania occupa la Danimarca, la Norvegia, i Paesi Bassi, il Belgio, il Lussemburgo e la Francia. Attacchi aerei senza successo contro la Gran Bretagna. 1941-1942
Guerra mondiale. Hitler invade l’URSS. Attacco giapponese a Pearl Harbor. Il Giappone, la Germania e i loro alleati entrano in guerra con gli Stati Uniti. 1943
Vittoria sovietica a Stalingrado. Invasione alleata dell’Italia. Caduta di Mussolini. 1944
Sbarco alleato in Normandia. Liberazione di Leningrado. Insurrezione di Varsavia. Il fronte orientale tedesco è abbattuto. 1945
Conferenza di Yalta. Suicidio di Hitler e caduta di Berlino. Resa della Germania. Bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Anche il Giappone si arrende.
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NORV EGIA
Il Reich tedesco alla fine del 1942 Territori occupati dall’Asse e dagli alleati Territori aggregati (protettorati e commissariati) Territori occupati sotto amministrazione civile Territori occupati sotto amministrazione militare “Zona libera” francese Sotto protezione tedesca e italiana Alleati del Reich
La soluzione finale: dalla migrazione allo sterminio della popolazione ebraica Dalla sua ascesa al potere nel 1933, Hitler adottò una politica di esclusione nei confronti dei 585.000 ebrei in Germania per costringerli ad emigrare. Nel 1935, le leggi di Norimberga proibirono i matrimoni e i rapporti sessuali con i Tedeschi e li privarono della cittadinanza tedesca; venne impedito loro di studiare e di svolgere varie professioni e, infine, dopo l’annessione con l’Austria nel 1938, si scatenò l’apoteosi della violenza antisemita nella notte dei cristalli. Con la guerra, la questione ebraica acquisì dimensioni colossali. L’invasione della Polonia mise in mano al Reich ben 3.300.000 ebrei (il 10% della popolazione di quel Paese) che furono emarginati in grandi ghetti. Tuttavia si trattava solo di una misura temporanea, in attesa di ciò che venne chiamata Endlösung der Judenfrage, la “soluzione finale della questione ebraica”. Nel 1940, dopo la vittoria sulla Francia, si pensò di portare gli ebrei europei nella colonia francese del Madagascar, ma il dominio britannico dei mari rese questa soluzione improponibile. Quando nel 1941 fu invasa l’URSS, milioni di esseri umani considerati di razza inferiore, ebrei e Slavi, finirono sotto il dominio del Reich, situazione che spianò la strada al ricorso al genocidio, dapprima con esecuzioni di massa eseguite dagli Einsatzgruppen (“gruppi operativi”) e in seguito con le gasazioni nei campi di sterminio di Chelmno, Majdanek, AuschwitzBirkenau (dove finì la maggior parte degli ebrei dell’Europa occidentale), Belzec, Treblinka e Sobibor. Venivano uccisi con il gas Zyklon B (a sinistra), cianuro d’idrogeno utilizzato come pesticida e prodotto dal complesso chimico IG Farben, che aprì una grande fabbrica di caucciù sintetico ad Auschwitz, ricorrendo alla manodopera di uomini ridotti a schiavi.
BOMBARDAMENTI SU LONDRA (pag. 128-129).
La battaglia d’Inghilterra, il duello tra la RAF e la Luftwaffe, cominciò il 13 agosto 1940, e dal 7 settembre al 21 maggio 1941 si trasformò in Blitz: bombardamenti su varie città che provocarono oltre 40.000 morti. La fotografia mostra la cattedrale di St. Paul a Londra sotto l’attacco del 29 dicembre 1940. 130
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Danica Jasenovac Jadovno
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CROAZIA
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Principali ghetti Principali massacri per mano dei gruppi operativi (Einsatzgruppen) Campi: Di concentramento e transito Di sterminio
E non di meno, alla sua idea di inferiorità degli Slavi (gli Untermenschen o “sottouomini”della propaganda nazista) e alla sua volontà di conquistare il Lebensraum (lo “spazio vitale”) necessario alla popolazione tedesca. Niente di più vero. Hitler e i gerarchi nazisti consideravano ebrei e bolscevichi una cosa sola (il “giudeo-bolscevismo”), e, secondo la loro idea di uno scontro mondiale inevitabile tra le razze, videro nel conflitto con l’URSS una guerra di annullamento, e così la concepirono anche i comandanti militari tedeschi. Tuttavia, al di là di tali considerazioni, invadere la Russia non sembrava essere un’idea così folle, visto come si era sviluppata fino a quel momento la Blitzkrieg: il Gruppo d’Armate Centro Tedesco (Heeresgruppe Mitte), il cui obiettivo era Mosca, doveva avanzare su di un territorio vasto come quello di Francia, Belgio e Paesi Bassi, e quei Paesi erano crollati davanti alle forze tedesche in meno di un mese e mezzo. Hitler, inoltre, contava sull’effetto sorpresa. Stalin non credeva che la Germania attaccasse: ignorò gli avvertimenti al riguardo di Churchill (a
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partire dalle intercettazioni di comunicazioni tedesche decifrate da Enigma) e di Richard Sorge, la celebre spia sovietica a Tokio. E non voleva neanche alimentare la diffidenza di Hitler: si era complimentato per la vittoria della Germania sulla Francia, non aveva mai interrotto l’invio di minerali strategici per l’industria tedesca e, già in giugno, si era rifiutato di mobilitare l’Esercito Rosso per evitare che Hitler vedesse in quei movimenti una provocazione. Quando lo svegliarono alle 4:45 all’alba del 22 giugno per comunicargli l’invasione, rimase di stucco. Non si rivolse al popolo se non dopo undici giorni, con un discorso trionfante in cui trattava il conflitto come “guerra patriottica” e così la chiamarono da quel momento in poi i Sovietici. Le difese dell’URSS furono annientate. Amareggiato davanti all’enormità della situazione, Stalin si autoproclamò a luglio commissario della Difesa, e in agosto si dichiarò comandante in capo delle forze armate. A quel punto successe qualcosa di imprevisto. Il 21 agosto, quando i Tedeschi si trovavano a circa 320 km dalla capitale, Hitler ritardò l’attacco a Mosca per dare la prio-
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IL CAMPO DI AUSCHWITZ. Fu scenario di atroci esperimenti di medici quali Josef Mengele, che aveva una particolare predilezione per utilizzare bambini gemelli, e Helmut Vetter, che realizzava esperimenti con donne. La ditta IG Farben forniva sostanze chimiche per i test e anche cavie umane: si sa, per esempio, che pagò 170 reichsmark per ciascuna delle 150 prigioniere di una partita di esseri umani che morirono per mano di Vetter. In alto, bambini prigionieri nel campo di Auschwitz.
G R EC I A
rità, al nord, alla conquista di Leningrado (la culla della Rivoluzione russa) e, a sud, all’avanzata verso l’Ucraina, il Caucaso (per privare l’URSS delle risorse agricole, industriali e minerarie di questi territori) e la strategica Crimea. Prima che terminasse settembre, Leningrado venne assediata, cadde la capitale dell’Ucraina, Kiev, e la Crimea fu occupata, a eccezione della fortezza di Sebastopoli. Con le vittorie militari, Hitler dava via libera alle sue fantasie: le frontiere tedesche si sarebbero ampliate di 1.000 km a est dal Baltico alla Crimea, e milioni di contadini–soldati tedeschi avrebbero formato una muraglia vivente lungo gli Urali. L’offensiva sulla capitale sovietica riprese il 2 ottobre, ma era ormai troppo tardi. Stalin trasferì truppe dalla Siberia al fronte moscovita, dopo aver ricevuto informazioni dall’entourage di Sorge a Tokio, che gli garantivano che il Giappone non avrebbe attaccato l’URSS, e il 5 dicembre diede il via a una potente controffensiva che allontanò i Tedeschi da Mosca, quando si trovavano a 24 km dal Cremlino.
Il 19 dicembre, di fronte a un tale fallimento, Hitler in persona assunse il comando supremo dell’esercito, come aveva fatto Stalin precedentemente, ma ciò non impedì che i Tedeschi retrocedessero fino a 300 km in alcuni punti. Un inverno molto duro, con temperature al di sotto dei -30°, favorì la vittoria dei Sovietici. Il Führer aveva scartato l’idea di un conflitto di lunga durata, cosicché le sue truppe non si erano attrezzate adeguatamente: gli uomini si congelavano, la stessa sorte toccava all’olio delle mitragliatrici e persino all’anticongelante dei veicoli. A questa situazione avevano contribuito le campagne balcaniche, che avevano assicurato la sponda meridionale dell’invasione dell’URSS, ma l’avevano ritardata di sei settimane, motivo per cui la Wehrmacht giunse nella capitale sovietica quando ormai stava già iniziando l’inverno. Mosca aveva resistito, ma il Terzo Reich si era impadronito di gran parte dell’Europa orientale: i Paesi Baltici, Polonia, Ucraina, Bielorussia. Lì, ebrei, zingari e Slavi furono le vittime della guerra razziale nazista. A est si cominciò a met131
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Combattere fino alla fine: gli orrori della guerra sulle coste del Pacifico Si può paragonare la guerra in Asia al conflitto in atto sul fronte orientale europeo, sia per la violenza giapponese contro i civili che per la ferocia dei combattimenti. A questa situazione contribuì l’implacabile codice d’onore militare giapponese: «Non sopravvivere nella vergogna come prigioniero», recitavano le Istruzioni per il servizio militare dell’ammiraglio Tojo. L30 p132
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Nagasaki (9-8-1945)
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Giappone (1933) Limite massimo di espansione giapponese (dicembre 1942) Territori occupati: 1933-1940 1941-1942
Isole Salomone
Midway (giu. 1942) Isole Hawaii Pearl Harbor (7-12-1941)
Tarawa (nov. 1943) Isole Gilbert
Guadalcanal (ago. 1942 - feb. 1943)
Battaglie principali Bombardamento atomico Avanzata americana: 1943 1944 1945
Una simile etica militare portava alla resistenza ad oltranza: la conquista americana dell’isola di Iwo Jima, lunga 7 km, durò un mese e si concluse con 6.821 marines morti e 19.217 feriti gravi; dei 21.000 nemici se ne catturarono soltanto 54 (e due si suicidarono). Sull’isola di Okinawa, i piloti suicidi, i kamikaze, svolsero un ruolo di primaria importanza. Di fronte all’invasione del Giappone, si pretese che anche la popolazione civile dovesse combattere fino alla fine: si formò un Corpo Patriottico di Lotta Cittadina senza altre armi che canne di bambù o esplosivi legati al corpo destinati ai carri armati. L’altra faccia della medaglia della volontà di immolarsi era il totale disprezzo del nemico, soprattutto se lo si considerava di razza inferiore, come era il caso dei Cinesi; contribuiva poi il processo di disumanizzazione delle reclute giapponesi, che durante la loro formazione sopportavano trattamenti brutali da parte dei loro comandanti, i quali speravano che così facendo i soldati avrebbero poi dato via libera alla loro aggressività contro il nemico. Una tale psicologia del combattente spiega le atrocità perpetrate a Nanchino, nel 1937, o il comportamento disumano nei confronti dei prigionieri di guerra, con cui, secondo un capitano americano in Birmania, i Giapponesi «avevano rinunciato al diritto di essere considerati esseri umani, e cominciavamo a vederli come vermi da sterminare». A destra, statua di kamikaze a Chiran (Giappone).
132
tere in pratica, in maniera sistematica, lo sfruttamento della manodopera in regime di schiavitù e lo sterminio metodico degli ebrei, il cosiddetto Olocausto, politica genocida dagli obiettivi e dalle dimensioni assolutamente sconosciuti fino a quel momento e che in seguito si estese al resto dell’Europa dominata dall’esercito nazista.
La guerra in Asia Mentre il destino dell’URSS era in balìa di tormente di neve e gelo, la guerra stava prendendo una nuova direzione nel mite inverno del Pacifico. In Asia, la situazione critica delle potenze coloniali (con la Francia e i Paesi Bassi sotto il dominio tedesco e una Gran Bretagna che lottava per sopravvivere) si era creato un vuoto di potere che il Giappone si apprestava a colmare, in uno scenario in cui gli Stati Uniti erano diventati il suo principale avversario. La rivalità tra i due Paesi aumentava sempre più, con la Cina sullo sfondo. In questo Paese, gli Americani avevano fornito materiale bellico ai combattenti dell’esercito nazionalista del Guomindang che lottavano contro i Giapponesi; nel maggio 1940 avevano trasferito la flotta del Pacifico da San Diego, in California, alla base hawaiana di Pearl Harbor, considerata «una daga puntata sulla nostra gola» dall’ammiraglio giapponese Isoroku Yamamoto, ex-studente di Harvard e futuro capo dell’attacco a questa enclave americana. Da parte sua, nel settembre dello stesso anno, il regime francese di Vichy autorizzò i Giapponesi a stabilire basi militari in Indocina, operazione che permise loro di stringere il cappio intorno ai Cinesi ribelli e disporre di una formidabile testa di ponte quando si lanciarono alla conquista dell’Asia. Come risposta, gli Stati Uniti restrinsero le attività commerciali con il Giappone. La firma del Patto tripartito da parte dei Giapponesi nel 1940 e l’aver stabilito “un protettorato congiunto” in Indocina tra la Francia di Vichy e il Giappone (che, di fatto, occupò quel territorio) nel luglio del 1941, furono le cause che indussero gli Stati Uniti a decidere l’embargo di petrolio, caucciù e ferro con destinazione Giappone (materiali vitali per la sua industria e per il dispiegamento delle forze militari in Cina), così come a congelare fondi giapponesi negli Stati Uniti, chiudere il canale di Panama alle navi giapponesi e rafforzare la guarnigione americana delle Filippine, a quel tempo Stato libero affiliato agli Stati Uniti; isole che, secondo quanto riferiva un messaggio cifrato del ministero degli Affari Esteri giapponese alla propria ambasciata a Berlino, erano «una pistola puntata al cuore del Giappone». Il Paese del Sol nascente riteneva che gli Stati Uniti voles-
sero strangolare la sua economia, e i vertici del governo si giocarono tutto con una carta, quella militare. Precedentemente, in aprile, si erano assicurati di non dover combattere su due fronti, firmando un trattato di neutralità con l’URSS. Il 7 dicembre, il Giappone, diretto dall’ammiraglio guerrafondaio Hideki Tojo, sferrò un attacco aereo a sorpresa contro la flotta del Pacifico a Pearl Harbor. Con questa mossa, il governo giapponese voleva mettere fuori combattimento gli Stati Uniti per un periodo di tempo sufficiente ad occupare territori che possedevano risorse particolari (il ferro della Malesia e delle Filippine, il petrolio delle Indie olandesi,...) e beneficiare di un vantaggio militare decisivo sul suo forte avversario. Quello stesso giorno, il Giappone dichiarò guerra agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, che fecero lo stesso il giorno dopo. Il giorno 11, la Germania, insieme all’Italia e agli Stati satelliti dell’Asse, dichiarò anch’essa guerra agli Stati Uniti. Ancora oggi costituiscono un’incognita i motivi per cui Hitler si sia affrettato a scontrarsi con gli Americani. Si sa che questo Paese, con Roose-
velt al governo, stava incamminandosi verso un coinvolgimento diretto nel conflitto europeo. Da marzo 1941, il lend-lease, la legge affitti e prestiti americana – che aveva trasformato gli Stati Uniti nel «grande arsenale della democrazia», come aveva dichiarato Roosevelt – permise di portare alla Gran Bretagna forniture belliche e industriali per mezzo di convogli protetti da navi americane. E nell’agosto 1941, in un incontro che ebbe luogo nelle acque di Terranova, Churchill e Roosevelt pianificarono la Carta Atlantica, un documento che, al sesto punto, parlava di «instaurare, dopo aver definitivamente abbattuto la tirannia nazista, una pace che consenta a tutte le nazioni di vivere sicure entro i propri confini e dia la certezza agli uomini di tutti i Paesi di poter vivere liberi dal timore e dal bisogno». Forse Hitler pensava che, dal momento che gli Stati Uniti sarebbero inevitabilmente entrati in guerra, le operazioni giapponesi li avrebbero tenuti lontani dall’Europa per un certo periodo di tempo. Fu così che conversero in un unico conflitto le due grandi guerre che si stavano combattendo sul pianeta: quella che il Giap-
L’ATTACCO GIAPPONESE A PEARL HARBOR.
Le corazzate della foto, la West Virginia e la Tennessee, vennero raggiunte dall’attacco a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. Quello stesso giorno, gli Stati Uniti persero anche le corazzate Arizona e Oklahoma; altre navi vennero riparate o risanate. Nel momento dell’attacco, le portaerei si trovavano fuori dalla base. Al di là delle perdite materiali, tuttavia, l’attacco toccò profondamente la popolazione americana e fu il detonatore dell’entrata in guerra a pieno titolo degli Stati Uniti. 133
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
La guerra nel deserto: i problemi di Rommel «La guerra qui non ha niente a che vedere con l’orrore, con quell’indescrivibile miseria della campagna di Russia – scriveva un sottufficiale tedesco nell’aprile 1942 dall’Africa settentrionale; non ci sono villaggi, né popolazioni distrutte». Quello che vedevano i soldati tedeschi in Africa era, soprattutto, sabbia e pietre, una vasta estensione di desolazione e campi minati attraverso cui il generale Erwin Rommel, al comando dei blindati dell’Afrikakorps tentava di avanzare per conquistare l’Egitto britannico. La sua grande offensiva del 1942 gli permise di conquistare lo strategico porto di Tobruk, in cui recuperò 4.000 tonnellate di combustile e i suoi soldati vi trovarono generi di ogni tipo, come scriveva un sottufficiale alla sua famiglia: «Abbiamo cioccolato, barattoli di latte condensato, conserve di verdura […]. Che bella sensazione mettersi camicie e calzini inglesi!» Perché era quello il maggior problema: la scarsità dei rifornimenti a causa dei riusciti attacchi dell’aviazione britannica sui convogli di rifornimento delle truppe dell’Asse in Africa. Rommel giunse a pensare che gli attacchi avvenissero a causa del tradimento degli Italiani, ma in effetti erano il risultato della decrittazione dei messaggi inviati dalle macchine Enigma tedesche. A destra, Rommel e il suo stato maggiore.
pone aveva scatenato in Cina nel 1937 e quella che aveva cominciato la Germania in Europa nel 1939. Prima dell’arrivo dei monsoni estivi, le cui piogge torrenziali rendevano complicate le operazioni belliche, i Giapponesi avevano intrapreso una loro versione di guerra lampo, con l’uso di portaerei, sulla falsariga di quella dell’esercito tedesco: una serie di audaci offensive che nel giro di cinque mesi era risultata nella conquista di Hong Kong, Malesia, Singapore, Indonesia, le isole Salomone e le Filippine; avevano anche invaso la Nuova Guinea, bombardato la città di Darwin e occupato la Birmania, da cui minacciavano l’India. I loro cannoni tracciavano le linee di confine di quell’area che venne chiamata sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale, un progetto di cooperazione, in teoria armoniosa, tra i popoli asiatici, con il quale mascherarono la loro brama di dominio e che valse loro la collaborazione dei nazionalisti di destra che si opponevano al colonialismo occidentale, come José P. Laurel nelle Filippine, Sukarno in Indonesia, Ba Maw in Birmania e Subhas Chandra Bose in India. Non 134
sembri strano che, dopo l’attacco di Pearl Harbor, il poeta giapponese Kotaro Takamura (che aveva studiato a New York, Londra e Parigi) abbia scritto questi versi: «Oggi ricomincia la storia del mondo./ Oggi cade il giogo imposto dagli Occidentali/ sulle terre e sui mari d’Asia».
1942: l’anno decisivo Durante la prima metà del 1942, le forze dell’Asse sembravano essere sul punto di stringere la loro morsa sull’Eurasia. Se le truppe del Terzo Reich sfiancavano la resistenza sovietica e riuscivano a superare le difese britanniche in Egitto, avrebbero anche potuto mettere le mani sul Vicino Oriente, mentre il Giappone minacciava direttamente l’India e quella gigantesca base aeronavale che era l’Australia. Di fronte al Patto tripartito, all’apice del proprio potere offensivo, si ergeva una coalizione di 26 Stati che il presidente Roosevelt chiamò le Nazioni Unite e che in quei mesi decisivi era concentrata a resistere al gigantesco assalto dell’Asse. Nell’Africa settentrionale, Rommel si impossessò a giugno del vitale porto libico di Tobruk,
ma un mese dopo la sua avanzata fu fermata in extremis, a un centinaio di chilometri da Alessandria d’Egitto, nella prima battaglia di El Alamein. In Europa, la situazione non era per niente buona per gli alleati. Hitler cominciò in estate una grande offensiva per impadronirsi dei granai dell’Ucraina e dei giacimenti di petrolio del Caucaso. A luglio cadde Sebastopoli, la capitale della Crimea, e alla fine di agosto la VI armata tedesca iniziò l’assedio della grande enclave industriale di Stalingrado (l’attuale città di Volgograd), che si estendeva per 50 km lungo la sponda occidentale del Volga ed era un nodo vitale per le comunicazioni. Mentre l’assedio a Stalingrado era sempre più serrato, gli abitanti e i difensori della martoriata Leningrado, 1.700 km più a nord, si chiedevano quanto tempo ancora avrebbero potuto sopportare tutte quelle sofferenze, dopo aver subito tutto lo strazio possibile e inimmaginabile con un anno di assedio. L’URSS, che sosteneva tutto il peso della guerra continentale, richiedeva l’apertura di un secondo fronte europeo, ma Americani e Inglesi,
che si erano accordati per concentrare tutti gli sforzi bellici sulla Germania, non erano ancora in condizione di affrontare una tale operazione e la loro offensiva sul Reich si manifestò con violenti bombardamenti aerei dalla Gran Bretagna, spietati con i civili ma (come era già successo nella battaglia di Inghilterra) di scarsa efficacia nella distruzione delle infrastrutture economiche e dei trasporti tedeschi. Nel frattempo, gli alleati erano indaffarati nell’Atlantico ad attaccare i sottomarini tedeschi e a favorire l’invio di truppe e di materiali dagli Stati Uniti in Gran Bretagna. A metà di quell’anno, i ruoli cominciarono a cambiare. Nel Pacifico, la vittoria degli Americani (comandati dal generale Douglas MacArthur e dall’ammiraglio Chester W. Nimitz) nella battaglia del Mar dei Coralli, combattuta a maggio, impedì la conquista della base alleata di Port Moresby, in Nuova Guinea e, con essa, la totale occupazione giapponese dell’isola, punto di partenza per un successivo attacco all’Australia. Si trattò della prima battaglia marittima sferrata mediante aerei che avevano come base le portaerei.
AMERICANI A GUADALCANAL.
La conquista di questa isola del Pacifico fu il risultato di sei mesi di feroci combattimenti terrestri contro un nemico che resisteva nonostante avesse soltanto radici ed erbe di bosco con cui nutrirsi; a volte, i Giapponesi attaccavano solo per assicurarsi il cibo.
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LA DECISIVA BATTAGLIA DI STALINGRADO
N
ell’agosto del 1942, la VI armata tedesca guidata da Paulus giunse a Stalingrado. Se avesse attraversato il Volga, l’URSS sarebbe stata divisa in due e i rifornimenti americani della Persia sarebbero stati minacciati. La battaglia che seguì divenne un duello personale tra Hitler e Stalin. Questi, con l’ordine di «Nemmeno un passo indietro» del 28 luglio, mise tutto in chiaro: «I disfattisti che seminano il panico e i codardi devono essere liquidati all’istante». Da parte sua, il 2 settembre, Hitler dispose, alla conquista della città, l’esecuzione di tutta la popolazione maschile. In alto, soldati sovietici a Stalingrado. A destra, La porta di Stalingrado, manifesto del 1942.
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UNA BATTAGLIA CASA PER CASA
3
) HUIKOV CITO (C LXII ESER
1
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Krasanaja Sloboda
Elsanka (periferia mineraria)
2
Linee del fronte: 12 settembre 26 settembre 13 ottobre
LE FABBRICHE.
In ottobre, i grandi complessi industriali della città furono l’obiettivo di Paulus, ma l’offensiva fallì.
25 km
R
A
D
O
Fabbrica Ottobre Rosso
N
piazzò l’artiglieria sovietica; il fuoco partiva dalle rovine di Stalingrado.
OTH) CITO (H IV ESER Collina di Mamaev Quartiere Kurgan dell’aeroporto
Fabbrica di trattori
3
Fabbrica Barricate
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LA SPONDA SINISTRA. Qui si
2
Quartiere di Spartanovka
a
Questo antico tumulo funerario di 102 m d’altezza dominava la città; fu l’obiettivo tedesco a settembre.
AULUS) CITO (P VI ESER
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MAMAEV KURGAN.
Vo lg
1
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Quando i Tedeschi bombardarono la città, riducendola a un mucchio di macerie, la resero impraticabile dai blindati e la trasformarono nello scenario perfetto per una feroce guerra di casa in casa (i tedeschi la chiamarono “guerra dei topi”) iniziata dal generale Vasilij Čujkov, capo della LXII armata sovietica. Il suo obiettivo era resistere e logorare i Tedeschi, senza far caso a quante perdite avrebbe subito: «Il tempo è sangue», avrebbe affermato in seguito; vennero fucilati oltre 13.000 Sovietici per codardia o per diserzione. Eppure riuscì a resistere fino a quando arrivò l’inverno a novembre e un’offensiva sovietica (l’operazione Urano) circondò l’esercito di Paulus, che si arrese nel gennaio del 1943.
18 novembre Attacchi tedeschi OV) (SUMIL ERCITO LXIV ES
Contrattacchi sovietici Complesso industriale Artiglieria sovietica
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LA SECONDA GUERRA MONDIALE
La Repubblica Sociale Italiana e l’esecuzione di Mussolini Il 12 settembre 1943, i Tedeschi liberarono Mussolini, prigioniero dalla sua destituzione in luglio. Sei giorni dopo, il Duce trasmetteva da Monaco di Baviera la sua decisione di punire il re e i suoi collaboratori: «Soltanto il sangue potrà cancellare una pagina così umiliante della storia della patria». La «plutocrazia parassitaria» avrebbe ricevuto ciò che meritava.
Quel linguaggio radicale, populista e socializzante, che evocava il primo fascismo, era quello della Repubblica Sociale Italiana (RSI) con capitale a Salò, stabilita nel territorio dominato dai Tedeschi, con il loro appoggio e sotto la loro pressione. I vecchi rapporti di Mussolini con Hitler e il timore di finire nelle mani degli alleati - che, forse, come diceva, lo avrebbero imprigionato nella Torre di Londra o lo avrebbero trasferito su di un’isola lontana (come Napoleone) - contribuirono all’assunzione del potere da parte del Duce di quello Stato fascista, che non era altro che uno strumento tedesco per mantenere il controllo sull’Italia e che adottò una politica aggressivamente antisemita. Venne quindi il momento di vendicarsi dei 19 gerarchi del Gran consiglio del fascismo che avevano spodestato Mussolini dal potere per garantirlo al re. Processati nel gennaio del 1944, a Verona, furono tutti condannati a morte, meno uno, e i cinque che a quel tempo si trovavano tra i vertici della RSI furono giustiziati; tra di loro c’era Galeazzo Ciano, genero del Duce, che agli occhi dei Tedeschi personificava il tradimento che aveva fatto perdere loro il dominio dell’Italia. Salò, tuttavia, non poteva sopravvivere senza l’appoggio tedesco: si sciolse nell’aprile del 1945, sotto l’attacco dei partigiani (combattenti antifascisti) e in piena offensiva sovietica su Berlino. Il 27 dello stesso mese, Mussolini fuggiva su di un convoglio tedesco che venne intercettato; una volta riconosciuto, venne incarcerato e il giorno dopo ucciso a colpi di mitraglia insieme alla sua amante Clara Petacci. In alto, i corpi di entrambi, insieme a quelli di altri del regime di Salò, appesi in segno di vendetta alla pensilina di una stazione di servizio in piazza Loreto a Milano.
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In giugno, durante una fallita operazione di conquista da parte dei Giapponesi delle isole Midway e dei loro aeroporti, ci fu un altro duello tra portaerei che terminò con l’affondamento di quattro di queste navi giapponesi. Una tale situazione arrestò la marcia del Giappone verso le isole Hawaii e segnò l’inizio della fine dell’egemonia giapponese nel Pacifico. In agosto, gli Stati Uniti cominciarono la conquista dell’isola di Guadalcanal, nell’arcipelago delle Salomone, che costituiva un trampolino per l’invasione giapponese dell’Australia; la campagna si concluse solo nel febbraio del 1943. Si erano invertiti i termini del conflitto nel Pacifico: ora erano gli Stati Uniti che passavano all’offensiva, con l’intenzione di combattere isola per isola. Già a Guadalcanal, gli Americani scoprirono che avrebbero dovuto affrontare un tipo di guerra molto cruenta, quella delle trincee, tipica della Prima Guerra Mondiale, contro un nemico disposto a immolarsi nel combattimento per il proprio imperatore e il proprio onore. Mentre i combattimenti per Guadalcanal arrivavano ad un punto algido, gli alleati ottenevano importanti vittorie su suolo africano. Tra ottobre e novembre del 1942, i Britannici, guidati dal generale Bernard L. Montgomery, sconfissero Rommel nella seconda battaglia di El Alamein, e la minaccia che incombeva sull’Egitto svanì. La Gran Bretagna, inoltre, conservava il dominio su Gibilterra e sulla bombardata Malta, basi aeronavali che furono punti chiave nella conquista dell’Africa settentrionale. La conquista cominciò l’8 novembre con lo sbarco di una forza angloamericana al comando del generale Dwight D. Eisenhower, che invase l’Algeria e il Marocco, all’epoca governati da Vichy. Come risposta, Hitler occupò la Francia di Vichy per essere protetto sul fianco meridionale in Europa, anche se i Tedeschi non riuscirono a impossessarsi della flotta francese che stazionava a Tolone, e che fu affondata dagli stessi marinai. Ad Algeri si insediò il Comitato di Liberazione della Francia, con a capo il generale Charles de Gaulle che, dal suo esilio nel Regno Unito, aveva esortato i Francesi a opporsi all’invasore nazista. Le forze tedesche in Africa settentrionale, intrappolate tra gli Angloamericani che erano sbarcati e i Britannici che provenivano dall’Egitto, furono sconfitte definitivamente a Tunisi, nel maggio del 1943, e gli alleati rimasero padroni del Nord Africa.
1943: il declino dell’Asse Nel 1943 anche l’URSS trasse un sospiro di sollievo. O meglio, godette di una vittoria che avrebbe segnato l’intero corso della guerra. Stalin aveva ordinato di resistere a oltranza nella città che portava il suo nome e, nonostante la VI armata tedesca, comandata da Friedrich Paulus, si
trovasse ormai a combattere dentro la città di Stalingrado nel settembre 1942, non riuscì ad attraversare il Volga e a completarne l’occupazione. In novembre, un contrattacco sovietico circondò le truppe tedesche. Hitler ordinò di proseguire la battaglia che però finì in una sconfitta colossale dopo che il Führer proibì la ritirata: Paulus si arrese nel gennaio 1943. Stalin, soddisfatto della vittoria, si autonominò maresciallo di campo. La vittoria ebbe un costo tremendo: in tutta la campagna di Stalingrado, l’URSS subì 1.100.000 perdite, con quasi un milione di morti (gli Americani persero circa 400.000 uomini in tutta la guerra), cui si deve aggiungere un mezzo milione circa di civili che morirono durante la battaglia. L’Esercito Rosso era pronto a sferrare l’offensiva con il supporto degli Stati Uniti in virtù della legge affitti e prestiti: attraverso l’Artico e il Golfo Persico affluirono camion, aerei, cannoni, carri armati, combustibile e macchinari e attrezzature, che includevano da 14.800 aerei a 15,5 milioni di paia di stivali. Mentre la battaglia di Stalingrado si avviava alla conclusione, Roosevelt, Churchill e De Gaulle
si riunirono a Casablanca nel gennaio 1943. Lì proclamarono la resa incondizionata di Germania, Italia e Giappone come principale obiettivo bellico; ciò significava che la Seconda guerra mondiale, a differenza della Grande Guerra, sarebbe stata una lotta fino alla morte. Data la difficoltà di aprire un secondo fronte in Francia, si decise di intraprendere un altro attacco nel punto debole dell’Asse, il Mediterraneo. Il 10 luglio cominciò l’invasione della Sicilia, che si avvalse dell’aiuto della mafia e terminò con l’occupazione dell’isola in agosto. L’avanzata degli alleati comportò la caduta immediata di Mussolini, il 25 luglio, quando la maggioranza del Gran consiglio del fascismo, desiderosa di rompere l’alleanza con una Germania senza prospettive di vittoria, decise di trasferire il potere al re. Vittorio Emanuele III ordinò l’arresto del Duce e la formazione di un nuovo governo presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, che sciolse il Partito Nazionale Fascista e negoziò la pace, mentre la Wehrmacht guadagnava il controllo dei passi alpini e del porto di Ostia. Il 3 settembre, gli alleati sbarcarono nella Penisola Italica,
LA CONFERENZA DI CASABLANCA.
Tenutasi dal 14 al 24 gennaio 1943, la conferenza, nel territorio del protettorato francese, riunì i generali Henri Giraud e Charles de Gaulle, il presidente americano Roosevelt e il premier britannico Winston Churchill. Giraud e De Gaulle rivaleggiarono per il comando della Francia libera, che a quel tempo era ridotta al territorio dell’Africa settentrionale. Dopo la riunione, gli alleati dichiararono che «la resa incondizionata di Germania, Italia e Giappone» era il loro principale obiettivo bellico.
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L’operazione Overlord: lo sbarco degli alleati in Normandia Lo sbarco in Normandia fu la maggior operazione anfibia della storia: previde oltre 5.000 navi e 8.000 aerei in prima battuta. Ebbe inizio nella notte dal 5 al 6 giugno, quando i Tedeschi non si aspettavano un’operazione marittima a causa del brutto tempo. Le truppe alleate sbarcarono all’alba del giorno 6 su cinque spiagge della penisola del Cotentin: Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword. Precedentemente, l’aviazione aveva bombardato ferrovie, ponti e strade della regione per impedire l’arrivo dei rinforzi tedeschi – un’operazione che costò la vita a 15.000 civili francesi – e allo stesso scopo furono lanciati migliaia di paracadutisti tra le linee tedesche. A Omaha, le difese tedesche non erano state danneggiate dai bombardamenti aerei e navali e ci fu una tale mattanza che indusse il generale americano Omar Bradley a pensare di abbandonare il luogo, in cui, come a Utah, combattevano truppe americane; i Britannici combattevano a Gold e a Sword, e i Canadesi a Juno. Nei giorni successivi, i Tedeschi resistettero ferocemente all’avanzata degli alleati. Gli ufficiali della divisione blindata SS Hitler Jugend, che difendeva Caen, capitale della Bassa Normandia, dissero ai propri uomini che qualora si fossero arresi senza essere stati feriti, sarebbero stati considerati traditori e che, quindi, qualora fossero stati catturati vivi, avrebbero dovuto rifiutare le trasfusioni di sangue straniero e morire per il Führer. Le loro esecuzioni di prigionieri nemici suscitarono la stessa reazione dall’altra parte. Le vere vittime della campagna di Normandia, tuttavia, furono i civili, che subirono danni e perdite per mano di entrambi i nemici. Quando gli alleati espugnarono Caen il 20 luglio, i bombardamenti britannici avevano distrutto il 70% della superficie della città. A destra, la spiaggia di Omaha come si presenta oggi e come era nel giugno 1944.
a Taranto, e Badoglio firmò l’armistizio. Come risposta, i Tedeschi occuparono Roma e si impadronirono di quasi tutto il Paese, ad eccezione dell’estremo sud, in cui, insieme agli alleati, combattevano anche la resistenza antifascista e le truppe italiane, motivo per cui Badoglio decise di dichiarare la guerra ai Tedeschi. Mussolini, liberato da un comando tedesco dalla sua prigione presso la stazione sciistica del Gran Sasso a settembre, fondò la Repubblica Sociale Italiana con capitale a Salò, sul Lago di Garda; si trattava di uno Stato fascista radicale e sanguinario, uno stato fantoccio della Germania. L’avanzata degli alleati in terra italiana risultò lenta a causa della tenace resistenza tedesca e al fatto che l’Italia era un fronte secondario, in vista di un’invasione dell’Europa attraverso il Canale della Manica, a cui si doveva dedicare il grosso delle risorse. Nonostante la caduta di Roma nel giugno del 1944, nell’autunno di quell’anno i Tedeschi controllavano ancora i territori a sud del Po. La Germania cedeva terreno in Italia, e altrettanto faceva a est. In Ucraina, l’avanzata russa cul140
minò nel luglio 1943 con la vittoria sovietica a Kursk, nella più grande battaglia di carri armati di tutta la storia, in cui 900.000 Tedeschi, 2.700 carri armati (inclusi i nuovi Panther e i mastodontici Tiger) e 2.100 aerei si scontrarono con 1,3 milioni di Sovietici, 3.400 carri armati e 2.900 aerei. All’inizio di novembre, i Russi ripresero Kiev, la capitale ucraina. Alla fine del 1943, le perdite tedesche a est superavano i tre milioni, più del totale delle forze che nel 1941 avevano attaccato l’URSS. A quel punto, gli effettivi della Wehrmacht sul fronte orientale arrivavano a malapena a due milioni, in confronto ai sei milioni di soldati che formavano l’Esercito Rosso, quasi tutti mobilitati contro i Tedeschi. A nord, il 27 gennaio 1944 fu liberata Leningrado, dopo 880 giorni di assedio; la sconfitta tedesca si aggravò perché Hitler di nuovo si rifiutò di autorizzare la ritirata delle truppe. La vittoria sovietica favorì una decisiva offensiva sulla Finlandia, alleata della Germania. I Finlandesi firmarono la pace con l’URSS a settembre, e le forze tedesche si ritirarono dalla Finlandia commettendo qualsiasi tipo di angheria, così come era successo in
Italia. La Germania perse il dominio delle importanti miniere di nichel finlandesi di Petsamo (l’attuale Pechenga), che passarono ai Sovietici. Nell’agosto 1944, i Russi erano avanzati fino alla periferia di Varsavia. Lì, davanti ai loro occhi, iniziò un’insurrezione antitedesca che durò due mesi e si concluse con la morte di 20.000 combattenti insorti e 200.000 civili, e con la città rasa al suolo per ordine di Hitler. La mancanza di aiuto sovietico ai ribelli è ancora oggi motivo di discussione tra gli storiografi. Non ci fu, per timore di un contrattacco tedesco, o piuttosto perché l’insurrezione dell’Esercito Nazionale Polacco, sostenuto dalla Gran Bretagna, voleva liberare Varsavia prima dell’Esercito Rosso, che avrebbe così potuto consolidare il dominio sovietico sulla Polonia?
1944-1945: la fine di Hitler Nell’estate 1944, alle sconfitte in Italia e all’est si aggiunse un nuovo motivo di preoccupazione per Hitler. All’alba del 6 giugno 1944, cominciò l’operazione Overlord, il gigantesco sbarco alleato in Normandia, il cui esito si deve in gran parte al
fatto che i Tedeschi furono indotti a pensare che sarebbe avvenuto molto più a nord, a Calais. Con contingenti umani notevoli (130.000 uomini il primo giorno, 800.000 alla fine del mese) e una quantità ingente di materiali (che comprendeva persino oleodotti marini per fornire combustibile ai veicoli sbarcati), gli alleati cominciarono l’operazione. Il 25 agosto, Parigi venne liberata in seguito a un’insurrezione che indusse Hitler a ordinare la distruzione della città, ordine a cui il governatore della città, Dietrich von Choltitz, disobbedì. In un tale contesto di riflusso tedesco si compì anche l’attentato a Hitler, il 20 luglio, al Wolfsschanze (la “Tana del Lupo”), suo quartier generale; in base alla cospirazione dell’élite militare prussiana, doveva impedire l’occupazione militare della Germania, e a essa il Führer rispose con una feroce rappresaglia nei confronti di coloro che ne erano coinvolti. A ovest, gli alleati sbarcarono sulla costa mediterranea francese nel mese di agosto, per unirsi con le forze militari che avanzavano dalla Normandia, mentre i membri della resistenza fran141
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
La Conferenza di Yalta e l’Europa del dopoguerra La conferenza di Yalta si tenne in questa città, la capitale della Crimea, sulla costa del mar Nero, su insistenza di Stalin, che aveva paura di volare e quindi giunse lì in treno, riunì Churchill, Roosevelt e Stalin, dal 4 all’11 febbraio del 1944. Le delegazioni si insediarono negli antichi palazzi estivi della nobiltà russa e in quello di Livadia, appartenuto agli zar, nel cui salone da ballo si tennero le riunioni. La leggenda su Yalta afferma che fu lì che si tracciarono i nuovi confini dell’Europa del dopoguerra, ripartita tra Sovietici e Anglo-americani ma, in realtà, fu la situazione militare che segnò il futuro dell’Europa: l’Esercito Rosso occupava la Polonia, i Balcani e metà Ungheria, e i Britannici e gli Americani occupavano la Francia, l’Italia e la Grecia. I Sovietici avevano collocato microfoni ovunque e conoscevano le posizioni di Churchill, per il quale la priorità era assicurare l’indipendenza della Polonia rispetto ai Sovietici, e quelle di Roosevelt, che avevano come obiettivo l’entrata in guerra dell’URSS contro il Giappone e l’appoggio di Stalin alla sua proposta di creazione delle Nazioni Unite, motivo per cui egli accettò le garanzie vaghe date da Stalin sul futuro della Polonia. Nell’immagine, i tre leader a Yalta.
FUNGO ATOMICO SU NAGASAKI, (pag. 144). La bomba
atomica di Hiroshima uccise circa 100.000 persone sul colpo e quella di Nagasaki, il 9 agosto 1945, ne uccise 35.000; le radiazioni ne avrebbero poi sterminato altre decine di migliaia. 142
cese, italiana e belga uscivano dalla clandestinità e attaccavano i Tedeschi e i loro collaboratori. A est, nei Balcani, gli alleati dei Tedeschi cadevano man mano che l’Esercito Rosso avanzava: in Romania, con un golpe il Paese passò all’alleato; in ottobre, l’ammiraglio Horthy fallì clamorosamente nel tentativo di cambiare il governo del Paese, cosicché i Tedeschi vi organizzarono un regime fantoccio diretto dal fascista Ferenc Szalasi; sempre in ottobre, cadde Belgrado e in Grecia si installò un governo filo-alleato. Mentre il potere militare tedesco si sbriciolava nel sud-est dell’Europa, a ovest la Wehrmacht riuscì ad iniziare un’ultima offensiva. A dicembre, un repentino contrattacco nelle Ardenne rallentò l’avanzata degli alleati: circa 400.000 uomini e 1.300 veicoli avanzarono sulla Mosa, ma non poterono spaccare in due le forze nemiche come era stato fatto nel 1940. Il Reich stava cedendo. Fu allora che, dal 4 all’11 febbraio del 1945, quando i Sovietici avevano ormai occupato Varsavia e stabilito teste di ponte a ovest del fiume Oder, a meno di 70 km da Berlino, Roosevelt, Churchill e Stalin si riunirono a Yalta, in
Crimea. In quell’incontro decisero la divisione della Germania in zone d’occupazione e la sua separazione dall’Austria, ma sul futuro politico della Polonia e del resto dell’Europa orientale, compresi i Balcani, attraverso cui avanzava l’Esercito Rosso, Stalin offrì poche e vaghe garanzie. Mentre i Sovietici occupavano Budapest (in febbraio) e Vienna (in aprile), le forze militari americane, guidate da Eisenhower, si impadronirono del ponte ancora intatto di Remagen e furono le prime truppe combattenti ad attraversare il Reno dai tempi di Napoleone. L’offensiva di Americani e Britannici era basata su di una fitta campagna di bombardamenti, che causò la morte di 22.700 cittadini di Dresda tra il 13 e il 15 di febbraio. Negli ultimi quattro mesi e mezzo di guerra caddero sulla Germania 471.000 tonnellate di bombe, ossia, il doppio di quelle lanciate in tutto il 1943; soltanto nel mese di marzo si lanciarono il triplo di bombe del 1942. In queste ore critiche, Hitler dava un’interpretazione della guerra mutuata dal suo inflessibile darwinismo sociale. A febbraio, davanti ai Gauleiter, i capi territoriali del partito nazista, convocati a
celebrare il 25° anniversario del primo meeting del NSDAP a Monaco di Baviera, il Führer aveva affermato che se il popolo tedesco avesse perso la guerra, la sua sconfitta sarebbe stata la prova che non possedeva il «valore interiore» che gli era stato attribuito, ed egli non avrebbe provato la benché minima pietà per un tale popolo. Che non avesse alcuna remora a sacrificarlo, lo aveva già dimostrato con la creazione della Volksturm, gruppo militare sotto il controllo del NSDAP in cui dovevano arruolarsi tutti gli uomini dai sedici ai sessanta anni che non servivano nelle forze armate, per opporre resistenza alle invasioni; in seguito ricorse anche agli adolescenti quindicenni. Avrebbe nuovamente dimostrato il suo disprezzo verso quel debole popolo tedesco, secondo la sua opinione, in marzo, quando ordinò di distruggere tutto ciò che del Reich poteva avere valore per l’esercito nemico (industrie, mezzi di trasporto, comunicazioni,…), anche se Albert Speer, ministro degli Armamenti, riuscì a impedire l’esecuzione di quel decreto. Il 16 aprile, due milioni e mezzo di combattenti dell’URSS, guidati dal maresciallo Georgij Žukov e
da Ivan Konev cominciarono l’offensiva su Berlino. Il giorno 25, truppe sovietiche e americane entravano in contatto vicino a Torgau, nei pressi dell’Elba, a 160 km a sud della capitale tedesca, spaccando in due ciò che restava del Reich. Il fronte occidentale e quello orientale si erano uniti in un cerchio di ferro e fuoco intorno al cuore della Germania, in cui Hitler ordinava di mobilitare eserciti inesistenti e accarezzava l’idea di una vittoria confidando su potenti armi segrete. L’impero dei mille anni promesso dal Führer si era ridotto alle dimensioni del bunker della Cancelleria, da cui Hitler non uscì fino al 20 aprile, giorno del suo 56° compleanno. Il giorno 29 si sposò lì con Eva Braun e venne a sapere della sorte che alcune ore prima aveva colpito Mussolini: giustiziato dai partigiani italiani, la sua salma era stata appesa per i piedi e oltraggiata. Hitler, che aveva deciso di suicidarsi con la moglie, diede disposizione che entrambi i corpi venissero cremati. Si uccisero il 30. «È un peccato che non siamo riusciti a catturarlo da vivo», affermò Stalin quando Žukov lo svegliò per comunicargli la notizia della morte di Hitler.
I BOMBARDAMENTI ALLEATI DI DRESDA.
Dal 13 al 15 febbraio del 1945, la città tedesca fu bombardata a tappeto affinché si creasse una marea di profughi che potesse turbare il traffico della Wehrmacht. In seguito ai bombardamenti britannici nella notte del 13, in attesa dell’arrivo delle fortezze volanti americane, il fumo saliva da Dresda a quasi 5.000 m d’altezza. Morirono 22.700 civili. In alto, veduta delle rovine della città dalla torre del municipio.
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Berlino, il cui comandante si arrese il 2 maggio, fu saccheggiata e la sua popolazione trattata con enorme brutalità: nella battaglia morirono circa 125.000 Berlinesi, e oltre 100.000 donne furono violentate. L’ammiraglio Karl Dönitz, che Hitler aveva nominato suo successore, decise di capitolare. Il 7 maggio, a Reims, il generale Alfred Jodl firmò le condizioni della resa in presenza di Eisenhower. Passata la mezzanotte del giorno 9, il maresciallo Wilhelm Keitel firmò la capitolazione davanti ai rappresentanti di URSS, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, nel quartier generale sovietico di Karlshorst, a est di Berlino. Nonostante la guerra si fosse ormai conclusa in Europa, in Asia proseguiva ancora. Nel più grande scontro marittimo della storia, la battaglia del Golfo di Leyte, nell’ottobre del 1944, gli Stati Uniti disalberarono l’armata nipponica. Riuscirono quindi ad avanzare verso il Giappone nel 1945 e, con cruentissime battaglie, poterono conquistare le isole di Iwo Jima (febbraio-marzo) e Okinawa (aprile-giugno). Quest’ultima isola, posizionata a 550 km dalle coste giapponesi, fu lo scenario di una terribile lotta, in cui i Giapponesi supplirono alla loro inferiorità numerica di soldati e armi con una strategia che si basava praticamente sul suicidio dei soldati, i kamikaze, che portarono a termine 1.900 missioni, sia per terra che per mare. Dalle isole conquistate e dalle portaerei americane partì una serrata campagna di bombardamenti sulle città giapponesi; soltanto tra il 9 e il 10 marzo morirono 120.000 persone a Tokio. Gli attacchi culminarono con il lancio di due bombe atomiche su Hiroshima il 6 agosto, e su Nagasaki il giorno 9; tra le due date, il giorno 8, l’URSS dichiarò guerra al Giappone e invase la Manciuria. I Giapponesi chiesero la pace e il 2 settembre fu infine firmata la resa incondizionata.
Una pace tesa La lotta su tre continenti (Europa, Asia e Oceania) e la scomparsa di un distinguo tra retrovie e fronti trasformarono la Seconda guerra mondiale in una vera “guerra totale”, tragica per la popolazione civile: tra il 1914 e il 1918, soltanto il 5% delle vittime era civile, mentre tra il 1939 e il 1945 si era passati al 66%. È impossibile stabilire il totale dei morti in tutto il mondo, si tratta di decine di milioni, forse 38 o forse 60. Nel Vecchio Continente, la Francia e la Gran Bretagna subirono meno perdite rispetto alla Grande Guerra (caddero circa 400.000 Britannici e 600.000 Francesi), mentre le perdite tedesche superarono i sei milioni. Tali cifre, terribili, impallidiscono di fronte al mostruoso numero dei morti caduti nella guerra di annichilamento a est. Perirono da 25 a 27 milioni di Sovietici, di cui tra i cinque e gli otto
erano Ucraini. Morirono anche oltre sei milioni di Polacchi (di cui più o meno la metà erano ebrei). La quantità di persone mobilitate fu enorme: tra il 1939 e il 1948, dai Pirenei fino oltre gli Urali, tra i 40 e i 50 milioni di Europei dovettero abbandonare il proprio Paese d’origine a causa delle deportazioni, della violenza e delle modifiche nelle linee di confine. Di loro, 15 milioni erano Tedeschi cacciati dall’est. La Germania, con cui mai si giunse a firmare un trattato di pace, venne divisa in zone occupate da URSS, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, e perse il 24% del territorio, quando si tracciò il confine con la Polonia e i fiumi Oder e Neiße. Sulle rovine dell’Europa devastata, con città rase al suolo, complessi industriali e mezzi di trasporto distrutti e con masse di esseri umani sradicati, affamati e moralmente abbattuti, sorse un nuovo ordine dominato dai due veri vincitori del conflitto: gli Stati Uniti e l’URSS. Dall’insieme mondiale delle grandi potenze prima della guerra, la Germania e il Giappone erano state annullate e la Francia e la Gran Bretagna erano in bancarotta. Ora si trovavano faccia a faccia i leader di due sistemi politici ed economici opposti: il capitalismo e la democrazia liberale da una parte, e il socialismo, dall’altra. Tuttavia, tra i due non ci fu lo scontro violento che aveva previsto Hitler, scontro nel quale pensava che il suo regime avrebbe avuto l’opportunità di sopravvivere come militante della parte anticomunista. Il successivo confronto tra i due colossi assunse le sembianze di una guerra fredda: una tensione che colpì l’intero pianeta e che si manifestò fin dalla fine del conflitto bellico con la divisione dell’Europa in due sfere di influenza; già nel 1946, Churchill aveva coniato l’espressione iron curtain, «cortina di ferro» per alludere a questa divisione del Vecchio Continente. In termini militari, la guerra fredda affondava le sue radici nel trauma del 1941, negli inaspettati colpi a sorpresa (l’invasione tedesca dell’URSS o l’attacco a Pearl Harbor), con cui i nemici dei Sovietici e degli Americani erano intenzionati ad annientarne le difese. Una tale situazione non si sarebbe ripetuta. “Americani “ e “Russi” avrebbero passato i successivi cinquant’anni allestendo vasti arsenali nucleari per annientare l’avversario nel caso fosse stato il nemico a fare il primo passo verso il conflitto. Infine, nel 1991, la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha messo fine alla guerra fredda e alla lotta durata settant’anni tra il capitalismo e il comunismo, sorta dagli scossoni della Grande Guerra. Con lo smantellamento sovietico si è concluso il “breve secolo XX” come è stata chiamata quell’epoca di guerre, rivoluzioni e totalitarismi cominciata nell’agosto del 1914.
L’EUROPA TRA YALTA E IL MURO DI BERLINO 1947
Alla Conferenza di Parigi (settembre) sedici Stati europei accettano il piano Marshall americano. 1948
Unione doganale del Benelux (gennaio). Golpe comunista a Praga (febbraio). Blocco sovietico di Berlino (giugno). 1949
Nasce la NATO (aprile). Vengono proclamate la Repubblica Federale Tedesca (maggio) e la Repubblica Democratica Tedesca (ottobre). 1951
Creazione della CECA (aprile). Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia mettono fine all’occupazione della Germania (settembre). 1953-1956
Morte di Stalin (marzo 1953). Nasce il Patto di Varsavia (maggio 1955). Insurrezione anticomunista ungherese (ottobre-novembre 1956). 1961
Costruzione del Muro di Berlino (agosto). Nel 1989 verrà abbattuto, e nel 1990 la Germania si riunificherà. 145
146
APPENDICI L’Europa tra le guerre mondiali Cronologia comparata: Europa, America, Asia, Africa e Oceania Statisti (1914-1945) Bibliografia Indice analitico Immagini
148 150 152 154 155 159
NELLA PAGINA ACCANTO. Copertina di un libro sulla crisi economica e le riparazioni di guerra imposte alla Germania
con il Trattato di Versailles. Amburgo, 1931.
147
APPENDICI
L’EUROPA TRA LE GUERRE MONDIALI MAR G L AC I A L E A RT I C O
GROENLANDIA
ISLANDA
REGNO UNITO
CANADA
IRLANDA
Paesi Bassi
Rep
Belgio
Svizz FRANCIA SPAGNA PORTOGALLO
OCEANO
STATI UNITI
AT L A N T I C O MAROCCO
Bermuda
Ifni MESSICO
Cuba
Bahamas
VENEZUELA Costa Rica Panama COLOMBIA
OCEANO
ALGERIA
RÍO DE ORO
rep. Domenicana Porto Rico Jamaica Honduras Haiti Guatemala El Salvador NicaraguaCuraçao
Hawaii
TUN
Capoverde
AFRICA OCCIDENTALE FRANCESE
GAMBIA GUINEA PORTOGHESE
Guyana britannica Guyana olandese Guyana francese
COSTA D’ORO
NIG
SIERRA LEONE LIBERIA GUINEA EQUATORIALE
ECUADOR
PA C I F I C O
Cab Ascensión BRASILE
PERÙ BOLIVIA
Marchesi
Santa Elena
PARAGUAY
SUD
DEL
Polinesia francese CILE Domini coloniali:
URUGUAY ARGENTINA
Spagnoli Portoghesi Francesi Inglesi Olandesi Danesi Belgi Italiani
148
Falkland
Stretto di Magellano Capo Horn
M A R
Georgia del Sud
G L A C I A L E
A
E
NCIA GNA
GERIA
A TALE ESE
OSTA ’ORO
LE
na
E
General 30 Capo Nord Organizzazione degli Stati americani (OEA) (1948) Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) (1945)
NORVEGIA
Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) (1949)
SVEZIA
Pesi comunisti (1950) FINLANDIA
Paesi Bassi
DANIMARCA
Polonia Rep. Dem. Tedesca Rep. Federale di Germania Cecoslovacchia Austria Ungheria Svizzera Romania Jugoslavia Bulgaria Albania ITALIA GRECIA TURCHIA
U R S S
MONGOLIA
Corea del Nord
GIAPPONE Corea del Sud SIRIA AFGHANISTAN Cipro IRAK LIBANO IRAN REP. POPOLARE CINESE ISRAELE GIORDANIA Nepal Kuwait Buthan LIBIA PAKISTAN EGITTO Oman Formosa/Cina nazionalista ARABIA Laos SUDAN INDIA SAUDITA Bahrein BIRMANIA Marianne Vietnam del Nord ANGLO EGIZIO Guam HADRAMAWT THAILANDIA Vietnam del Sud Eritrea YEMEN Socotra NIGERIA AFRICA FILIPPINE Cambogia Somalia francese Capo Guardafui EQUATORIALE ETIOPIA Somalia britannica Ceylon Brunei FRANCESE MALESIA SOMALIA Maldive Sarawak KENIA NUOVA CONGO GUINEA BELGA
TUNISIA Malta
Cabinda
TANGANICA
Seychelles
Nyasaland Comore ANGOLA RHODESIA DEL NORD MADAGASCAR RHODESIA AFRICA DEL SUD SUDOCCIDENTALE Mauritius MOZAMBIQUE PROTETTORATO Reunión DEL BECHUANALAND Swaziland
INDONESIA Timor
OCEANO
Stretto d i To r r e s
INDIANO AUSTRALIA
Basotholand UNIONE SUDAFRICANA (Lesotho)
Capo di Buona Speranza NUOVA ZELANDA
A N TA R T I C O
149
CRONOLOGÍA COMPARADA
CRONOLOGIA COMPARATA EUROPA 1900-1913
1914-1918
Francia e Gran Bretagna firmano l’Intesa Cordiale
Inizio della Grande Guerra. Battaglia della Marna
Sconfitta russa di fronte ai Giapponesi Intesa anglo-russa Guerre balcaniche Fatti culturali: Sigmund Freud: L’interpretazione dei sogni Albert Einstein: teoria della relatività speciale Pablo Picasso: Les Demoiselles d’Avignon
Germania e Bulgaria occupano la Serbia Battaglie di Verdun e della Somme. Offensiva di Brusilov. Insurrezione di Pasqua a Dublino Abdicazione dello zar, golpe bolscevico e guerra civile in Russia La Germania diventa una Repubblica e firma l’armistizio Fatti culturali: Albert Einstein: teoria della relatività generale Tristan Tzara: Manifesto dadaista
1919-1928 Trattato di Versailles Fondazione della Terza Internazionale Russia: inizio della NEP Mussolini al potere Iperinflazione in Germania. Putsch di Adolf Hitler a Monaco di Baviera Stalin si impone alla guida del Partito Comunista e dell’URSS Fatti culturali: Walter Gropius fonda la Bauhaus André Breton: Manifesto del surrealismo
AMERICA 1900-1913 Gli Stati Uniti auspicano l’indipendenza di Panama Emendamento Platt: gli Stati Uniti si riservano il diritto di intervenire a Cuba Rivolta di Madero contro Díaz: inizio della Rivoluzione messicana Ford introduce la catena di montaggio Fatti culturali: Upton Sinclair: La giungla Hiram Bingham scopre Machu Picchu E.R. Burroughs: Tarzan delle scimmie
1914-1918 Apertura del canale di Panama Occupazione americana di Haiti Truppe americane occupano la Repubblica Dominicana Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti, proclama iQuattordici punti Fatti culturali: D. W. Griffith: Nascita di una nazione
1919-1928 Gli Stati Uniti ratificano il Trattato di Versailles. Presidenza di Álvaro Obregón e fine della Rivoluzione messicana Trattato di Washington: Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Francia e Italia stringono un accordo per prevenire la corsa agli armamenti navali Occupazione americana del Nicaragua Negli Stati Uniti, esecuzione degli anarchici Sacco e Vanzetti Fatti culturali: Francis Scott Fitzgerald: Il grande Gatsby Il cantante di jazz segna la nascita del cinema sonoro
ASIA, AFRICA E OCEANIA 1900-1913 Asia: Fine della rivolta dei Boxer in Cina Guerra russo-giapponese: dominio giapponese di Corea e Manciuria Rivoluzione dei Giovani Turchi La Cina diventa una Repubblica Guerra italo-turca Africa: Prima crisi marocchina tra la Germania e la Francia Seconda crisi marocchina 150
1914-1918 Asia: La Turchia entra in guerra Sconfitta degli alleati ai Dardanelli, davanti alla resistenza turca guidata da Mustafa Kemal Accordo Sykes-Picot tra Francia e Gran Bretagna sulla ripartizione dei territori ottomani Dichiarazione Balfour favorevole alla creazione «di una nazione per il popolo ebraico» in Palestina La Turchia firma l’armistizio Africa: L’Egitto diventa protettorato britannico
1919-1928 Asia: Il Trattato di Sèvres limita l’impero ottomano a una parte dell’Anatolia Fonadazione del Partito Comunista Cinese Mustafa Kemal espelle i Greci dell’Asia Minore. Abolizione del sultanato e fine dell’impero ottomano Trattato di Losanna: la Turchia recupera tutta l’Anatolia e il controllo sui Dardanelli In Cina, frattura tra il Guomindang nazionalista e i comunisti cinesi Africa: Abd-el-Krim sconfigge gli Spagnoli nella battaglia di Annual
1929-1932 Piano Young per i pagamenti delle riparazioni di guerra da parte della Germania La Francia fa evacuare la Renania. Al Reichstag il NSDAP passa da 12 a 107 deputati Viene proclamata la Repubblica in Spagna. Crollo dell’economia austriaca e tedesca In Germania la disoccupazione arriva al 44%. Il NSDAP è il primo partito tedesco (230 seggi su 608) Fatti culturali: James Joyce: Ulisse. Erich Maria Remarque: Niente di nuovo sul fronte occidentale Sigmund Freud: Il disagio della civiltà
1929-1932 Comincia la Grande Depressione Due colpi di Stato conducono al potere Getúlio Vargas in Brasile e José Felix Uriburu in Argentina Dittatura di Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana Negli Stati Uniti, 25% di disoccupazione Guerra del Chaco tra Bolivia e Paraguay Fatti culturali: Prima consegna dei premi Oscar. Apertura del Museo d’Arte Moderna a New York
1933-1939 Hitler, cancelliere della Germania URSS: purghe staliniste Guerra civile spagnola. Si costituisce l’Asse Roma-Berlino Annessione dell’Austria al Terzo Reich. Accordi di Monaco di Baviera Trattato tedesco-sovietico. Invasione della Polonia e inizio della Seconda guerra mondiale Fatti culturali: John Maynard Keynes: Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta
1940-1945 Trionfo della Blitzkrieg tedesca in Europa; resiste soltanto la Gran Bretagna Hitler invade l’URSS ed entra in guerra contro gli Stati Uniti Battaglia di Stalingrado. Caduta di Mussolini Offensiva sovietica a est. Sbarco degli alleati in Normandia Conferenza di Yalta Comincia il processo di Norimberga Fatti culturali: Jean-Paul Sartre: L’essere e il nulla
Pablo Picasso: Guernica1
1933-1939
1940-1945
Il presidente Roosevelt lancia il New Deal; verrà rieletto nel 1936, 1940 e 1944. Fine del proibizionismo negli Stati Uniti
Legge americana degli Affitti e Prestiti a favore della Gran Bretagna
Presidenza di Lázaro Cárdenas in Messico: riforma agraria e nazionalizzazione del petrolio Il Wagner Act garantisce i diritti sindacali ai lavoratori negli Stati Uniti; prima Legge sull’Assistenza Sociale negli Stati Uniti Fatti culturali: Fa la sua prima apparizione Superman John Steinbeck: Furore
Blocco economico al Giappone da parte degli Stati Uniti. Attacco giapponese a Pearl Harbor e guerra contro gli Stati Uniti Conferenza di Bretton Woods: creazione del Fondo Monetario Internazionale Conferenza di San Francisco: fondazione dell’ONU Fatti culturali: Ernest Hemingway: Per chi suona la campana Charles Chaplin: Il grande dittatore Orson Welles: Quarto potere
1929-1932
1933-1939
1940-1945
Asia: Rivolta anticoloniale nell’Indocina francese
Asia: Durante la Lunga Marcia, Mao diventa leader supremo dei comunisti cinesi
Oceania: Il Giappone attacca Pearl Harbor e invade le enclavi europee e americane dell’Asia e del Pacifico
Patto Antikomintern tra Giappone e Germania; l’Italia vi aderisce nel 1937
Sconfitta giapponese nel Mar dei Coralli e alle Midway; offensiva degli Stati Uniti nel Pacifico
Il Giappone occupa la Manciuria e vi stabilisce lo Stato fantoccio di Manchukuo Mao Zedong, Zhu De e Zhou Enlai stabiliscono una Repubblica sovietica a Jiangxi La Manciuria diventa protettorato giapponese. Assassinio del primo ministro giapponese Inukai e dominio militare sul governo giapponese Africa: Haile Selassie, imperatore dell’Abissinia (Etiopia)
I Giapponesi invadono la Cina; il Guomindang e il Partito Comunista si coalizzano contro i Giapponesi Africa: L’Italia conquista l’Abissinia
Gli Stati Uniti occupano Guadalcanal Asia: Nel Golfo di Leyte, gli Stati Uniti disalberano l’Armata nipponica Bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Il Giappone si arrende Africa: Vittoria britannica di El Alamein sui Tedeschi
151
APPENDICI
STATISTI (1914-1945)
Presidenti della Repubblica Karl Seitz Michael Hainisch Wilhelm Miklas (Annessione al Terzo Reich, Anschluss)
GERMANIA IMPERO TEDESCO Imperatore Guglielmo II
1888-1918
Cancellieri Theobald von Bethmann-Hollweg Georg Michaelis Conte Georg von Hertling Principe Massimiliano di Baden Friedrich Ebert
1909-1917 1917 1917-1918 1918 1918
REPUBBLICA DI WEIMAR Presidenti della Repubblica Friedrich Ebert Paul von Hindenburg
1919-1925 1925-1934
Cancellieri Friedrich Ebert Philipp Scheidemann Gustav Bauer Hermann Müller Konstantin Fehrenbach Joseph Wirth Wilhelm Cuno Gustav Stresemann Wilhelm Marx Hans Luther Wilhelm Marx Hermann Müller Heinrich Brüning Franz von Papen Kurt von Schleicher Adolf Hitler
1918-1919 1919 1919-1920 1920 1920-1921 1921-1922 1922-1923 1923 1923-1925 1925-1926 1926-1928 1928-1930 1930-1932 1932 1932-1933 1933-1934
TERZO REICH Capi di Stato Adolf Hitler (Führer) Karl Doenitz
1934-1945 1945
Cancellieri Adolf Hitler (Führer) Joseph Goebbels Conte Lutz Schwerin von Krosigk
1934-1945 1945 1945
AUSTRIA-UNGHERIA Imperatori di Austria-Ungheria Francesco Giuseppe I Carlo I
152 152
AUSTRIA
1848-1916 1916-1918
Cancellieri Karl Renner Michael Mayr Johann Schober Walter Breisky Johann Schober Ignaz Seipel Rudolf Ramek Ignaz Seipel Ernst Streeruwitz Johann Schober Carl Vaugoin Otto Ender Karl Buresch Engelbert Dollfuss Kurt Schuschnigg Arthur Seyss-Inquart
1919-1920 1920-1928 1928-1938
1918-1920 1920-1921 1921-1922 1922 1922 1922-1924 1924-1926 1926-1929 1929 1929-1930 1930 1930-1931 1931-1932 1932-1934 1934-1938 1938
FRANCIA TERZA REPUBBLICA Presidenti Raymond Poincaré Paul Deschanel Alexandre Millerand Gaston Doumerge Paul Doumer Albert Lebrun
1913-1920 1920 1920-1924 1924-1931 1931-1932 1932-1940
Primi ministri Gaston Doumergue Alexandre Ribot René Viviani Aristide Briand Alexandre Ribot Paul Painlevé Georges Clemenceau Alexandre Millerand Georges Leygues Aristide Briand Raymond Poincaré Fréderic François-Marsal Édouard Herriot Paul Painlevé Aristide Briand Édouard Herriot Raymond Poincaré Aristide Briand André Tardieu Camille Chautemps André Tardieu Théodore Steeg Pierre Laval André Tardieu Édouard Herriot
1913-1914 1914 1914-1915 1915-1917 1917 1917 1917-1920 1920 1920-1921 1921-1922 1922-1924 1924 1924-1925 1925 1925-1926 1926 1926-1929 1929 1929-1930 1930 1930 1930-1931 1931-1932 1932 1932
Joseph Paul-Boncour Édouard Daladier / Albert Sarraut Camille Chautemps Édouard Daladier Gaston Doumergue Pierre-Étienne Flandin Fernand Bouisson Pierre Laval Albert Sarraut Léon Blum Camille Chautemps Léon Blum Édouard Daladier Paul Reynaud / Philippe Pétain
1932-1933 1933 1933-1934 1934 1934 1934-1935 1935 1935-1936 1936 1936-1937 1937-1938 1938 1938-1940 1940
STATO FRANCESE (REGIME DI VICHY) Capo di Stato Philippe Pétain
1940-1944
GRAN BRETAGNA 1910-1936 1936 1936-1952
Zar Nicola II
1894-1917
Primi ministri del governo provvisorio Principe Gueorgui Y. Lvov Alexandr Kerenski
1917 1917
RUSSIA SOVIETICA Capi di Stato Presidenti del Comitato Esecutivo Centrale del Congresso dei Soviet di tutte le Russie Lev Kamenev Yakov Sverdlov Michail Vladimirski Michail I. Kalinin
1917 1917-1919 1919 1919-1922
(Formato da quattro membri che esercitano la presidenza in maniera collettiva tra il 1922 e il 1938) Presidente del Presidio del Soviet Supremo dell’URSS Michail I. Kalinin
1938-1946
Capi di governo
Primi ministri Herbert Henry Asquith David Lloyd George Andrew Bonar Law Stanley Baldwin James Ramsay MacDonald Stanley Baldwin James Ramsay MacDonald Stanley Baldwin Neville Chamberlain Winston Churchill Clement Atlee
IMPERO ZARISTA
Presidio del Comitato Esecutivo Centrale dell’URSS
Re Giorgio V Edoardo VIII (non incoronato) Giorgio VI
RUSSIA
1908-1916 1916-1922 1922-1923 1923-1924 1924 1924-1929 1929-1935 1935-1937 1937-1940 1940-1945 1945-1951
Presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo della RSFSR Vladimir Ilič Uljanov, Lenin
1917-1923
Presidenti del Consiglio dei Commissari del Popolo dell’URSS Lenin 1923-1924 Aleksej Rykov 1924-1930 Vjačeslav Molotov 1930-1941 Iosif Vissariónovich Dzhugashvili, Stalin 1941-1946 Presidente del Consiglio dei Ministri dell’URSS Stalin
1946-1953
Governante effettivo
ITALIA
Stalin (segretario generale del Comitato Centrale del PCUS)
1922-1952
REGNO D’ITALIA Re Vittorio Emanuele III
1900-1946
Primi ministri Giovanni Giolitti Antonio Salandra Paolo Boselli Vittorio Emanuele Orlando Francesco Saverio Nitti Giovanni Giolitti Ivanoe Bonomi Luigi Facta Benito Mussolini (Duce) Pietro Badoglio Ivanoe Bonomi REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA Duce e capo di governo Benito Mussolini
1911-1914 1914-1916 1916-1917 1917-1919 1919-1920 1920-1921 1921-1922 1922 1922-1943 1943-1944 1944-1945
STATI UNITI Presidenti William McKinley (repubblicano) Theodore Roosevelt (repubblicano) William H. Taft (repubblicano) Woodrow Wilson (democratico) Warren G. Harding (repubblicano) Calvin Coolidge (repubblicano) Herbert C. Hoover (repubblicano) Franklin D. Roosevelt (democratico) Harry S. Truman (democratico)
1897-1901 1901-1909 1909-1913 1913-1921 1921-1923 1923-1929 1929-1933 1933-1945 1945-1953
GIAPPONE Imperatori
1943-1945
Yoshihito (imperatore Taisho) Hirohito (imperatore Showa)
1912-1926 1926-1989 153
APPENDICI
BIBLIOGRAFIA
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INDICE ANALITICO
A
Abdul Hamid II 32 Abissinia 95, 112, 113 vedi anche Etiopia Action Française 78, 91, 109 Addis Abeba 113 Adler, Victor 15 Afghanistan 30 Africa 14, 18, 28, 30, 32, 46, 47, 87, 112, 114, 127, 134, 138, 139 Afrikakorps 127, 134 Agadir 30 Aguirre, José Antonio 117 Albania 14, 32, 33, 127 Alessandria 134 Alessandro I di Serbia 32 Alessandro I di Jugoslavia 80 Alessandro II di Russia 18 Algeciras, Conferenza Internazionale di (1906) 14, 30 Accordo 30 Algeri 138 Algeria 138 Allenby, Edmund 62 Alsazia 23, 43, 44, 45, 67 Alsazia-Lorena 43, 45 Alta Slesia 23 America Latina 14, 28, 29, 39 Amiens (terza battaglia di Piccardia), battaglia di 62 Anatolia 68, 80 Angola 32 Ankara 68, 80 Anschluss 114, 118 Antikomintern, Patto 114 ANZA C Australian and New Zealand Army Corps (Corpo di spedizione Australiano e Neozelandese) 48, 62 Apollinaire, Guillaume 90, 91 I pittori cubisti. Meditazioni estetiche 90 Aragon, Louis 89 Arana, Sabino 18 Ardenne 43, 126, 142 Argentina 95 Arkansas 97 Armenia 66, 68 Arp, Jean 88 Artico, Oceano 139 Artois 48, 54 Asia 14, 17, 26-30, 46, 47, 67, 68, 115, 125, 132, 134, 145 Asia Minore 67, 68 Asquith, Herbert Henry 25 Astor, Nancy 79 Atatürk, Mustafa Kemal 49, 68, 80 Atlantico, Oceano 32, 46, 82, 83, 135 Auschwitz-Birkenau 130, 131 Australia 14, 95, 134, 135, 138
Austria 15-17, 24, 30, 32, 33, 41, 42, 46-48, 51, 62, 67, 68, 70, 79, 95, 96, 98, 110, 114, 118, 127, 130, 142 Austria-Ungheria 17, 24, 30, 32, 33, 41, 42, 46-48, 51, 62, 127 vedi anche impero austroungarico Aviazione Legionaria Italiana 116 Ayala, piano di 29 Azerbaigian 66, 68
B Ba Maw 134 Badoglio, Pietro 113, 139, 140 Baker, Ray Stannard 70 Balbo, Italo 81 Balcani 13, 14, 30, 32, 33, 41, 47, 48, 54, 66, 127, 141, 142 Baldwin, Stanley 78, 110 Balfour, Dichiarazione 18 Ball, Hugo 88 Balletti Russi 90 Baltico, Mar 103, 131 Barbarossa, operazione 127 Barcellona 35, 39 Barrès, Maurice 16 Baviera 63, 77, 104 Bebel, August 15, 18 Beckmann, Max 91 Belgio 22, 43-45, 51, 67, 69, 70, 72, 97, 98, 126, 127, 130 Belgrado 32, 41, 46, 142 Belzec 130 Bergen, Klaus 52 Berlino 22, 24, 30, 32, 35, 36, 42, 44, 63, 76, 77, 91, 104, 105, 108, 114, 119, 127, 132, 138, 142, 143, 145 Conferenza del 1884-1885 24 Congresso del 1878 32 Muro 145 Berman, Matvei 103 Bernstein, Eduard 15 Bessarabia 119 Bethmann Hollweg, Theobald von 42, 44 Bianco, Mar 73, 103 Bielorussia 68, 75, 125, 127, 131 Bilu 18 Birmania 132, 134 Bismarck, Otto von 17, 22, 30 Blavatski, Helena 89 Blocco Nazionale (Francia) 78 Blocco Nazionale (Italia) 81 Blum, Léon 109, 110 Boccioni, Umberto 88, 90 Boemia 24, 118, 119 bolscevichi 15, 26, 39, 41, 56-59, 66, 68, 73, 74, 76, 79, 80, 102, 130
Bonaparte, Napoleone 65, 127, 138, 142 Bosnia-Erzegovina 32, 41, 42, 66 Boulanger, Georges 22 Boxer, rivolta dei 29, 30 Bradley, Omar 140 Braque, Georges 87, 88 Brasile 95 Braun, Eva 143 Brecker, Arno 123 Brest-Litovsk, Trattato di 59, 66, 68 Breton, André 39, 89 Manifesto del surrealismo 89 Briand-Kellog, patto 72 British Expeditionary Force (Corpo di Spedizione Britannico) 45 Brüning, Heinrich 105, 106 Brusilov, Aleksei 42, 51 Bryan, William Jennings 28 Bucharin, Nikolaj 76, 101, 102 Bucovina 66 Budapest 142 Bulgaria 32, 33, 42, 48, 54, 62, 67, 68, 127, 142 Buñuel, Luis 88, 89 Burdeos 46 Burroughs, Edgar Rice 38 Burundi 32 Butler, Smedley 98
C Cadorna, Luigi 48, 57 Caen 140 Calais 141 Calder, Alexander 117 California 20, 83, 97, 132 Camelots du Roi 78, 109 Camerun 32 camicie nere 81 Canada 14, 95 Canudo, Ricciotto 39 Capone, Al (Alphonse) 100 Caporetto, battaglia di 56, 57 Caraibi 29 Carlo I d’ Austria e IV d’Ungheria 62 Carranza, Venustiano 28 Carta Atlantica 133 Casablanca, Conferenza di 139 Caucaso 47, 66, 101, 131, 135 Cavell, Edith 44 CECA, Trattato 145 Cecoslovacchia 66-68, 72, 78, 95, 98, 110, 118, 119 Céline, Louis-Ferdinand 109 Chamberlain, Houston Stewart 17 Chamberlain, Neville 110, 115, 118, 119, 127 Champagne 16, 48 Chandra Bose, Subhas 134 Chanel, Gabrielle “Coco” 38, 79
Chantilly 49, 50 Chaplin, Charles 20, 39 Chelmno 130 Chemin des Dames, battaglia del 56, 59 Chiang Kai-shek 114 Chicago 35, 84, 98 Chiran 132 Chiun, secondo principe 30 Choltitz, Dietrich von 141 Chotek, Sofia 42 Chruscev, Nikita 102 Churchill, Winston 48, 54, 119, 127, 130, 133, 139, 142, 145 Ciano, Gian Galeazzo 138 Cina 26-30, 46, 69, 95, 97, 112, 114, 115, 132, 133 Cipro 67 Cilicia 67 Cirenaica 32 Cisleitania 24 Cixì (imp.) 30 Clemenceau, Georges 16, 23, 44, 64, 66, 69 Cocteau, Jean 90 Comitato di Liberazione della Francia 138 Comitato di Rappresentanza del Lavoro (LRC) 25 vedi anche Partito Laburista (Regno Unito) Compiègne, armistizio di 42, 63 Confederazione Generale del Lavoro (CGT) 16, 23 Confederazione Generale del Lavoro (CGL) 80 Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT) 16 Confederazione Spagnola delle Destre Autonome (CEDA) 114 Congo 24 Congo belga 32 Connolly, James 50 Consiglio dei Commissari del Popolo 58, 75 Constantinopoli vedi anche Istanbul Controassicurazione, Trattato di 30 Coolidge, John Calvin 84, 85 Corea 27, 29, 30, 97 Costantino I di Grecia 54 Cotentin, penisola di 140 Coubertin, Pierre de 39 crack del 1929 96 Cremlino 12, 58, 119, 123 Crimea, penisola di 131, 135, 142 Croazia 66, 80 Croix du Feu 109 Croydon 82 Cuba 29 cubismo 87, 88, 90 Čujkov Vasilij Ivanovič 137 155
APPENDICI
D
D’Annunzio, Gabriele 80 Dachau 107 dadaismo 88, 89 Daladier, Édouard 110, 118 Dalì, Salvador 88, 89 Danimarca 22, 126, 127 Danzica 119 Dardanelli, stretto dei 42, 47, 48 Darwin (Australia) 134 Darwin, Charles 17, 85 Dawes, piano 71, 72, 78, 93, 105 De Gaulle, Charles 138, 139 De Vecchi, Cesare 81 Derain, André 88 Dernburg, Bernhard 24 Djaghilev Sergej 90 Díaz, Porfirio 28 Dinant 44 Dix, Otto 65, 91 Dodecaneso, isole del 33, 67 Dönitz, Karl 145 Dortmund 107 Douaumont, forte di 48, 49, 50 Doucet, Jacques 38 Dresda 71, 142, 143 Dreyfus, Alfred 16 caso 16, 18, 22 Drumont, Édouard 16 Dublino 50 Duchamp, Marcel 89 Dunkerque 126
E Earhart, Amelia 83 Ebert, Friedrich 63, 66, 76, 77 Edoardo VIII del Regno Unito 110 Egeo, isole del Mar 67 Egitto 30, 67, 127, 134, 138 Einstein, Albert 87 Eisenhower, Dwight D. 138, 142, 145 Eisner, Kurt 63 Ejzenštejn, Sergej M. 21 El Alamein 135, 138 Ellis Island 14, 15 Emilia-Romagna 80 Engels, Friedrich 74, 122 Enigma (macchina) 126, 127, 130, 134 Eritrea 112, 113 Ernst, Max 88, 89, 104, 108 Erzberger, Matthias 62, 63, 77 Esercito Bianco 59, 73 Esercito Rosso 58, 73, 115, 125, 123, 130, 139-142 espressionismo 88, 91 Estonia 66, 68, 78, 119, 125, 127, 131 Etiopia 112, 113, 114 Europa 13, 14, 16-20, 22-26, 30, 35, 38, 41, 42, 44, 45, 47, 62, 65, 66, 68-71, 73, 77, 78, 80, 84, 85, 89, 91, 93, 95-98, 105, 115, 125, 126, 130-133, 135, 140, 142, 145 156
F
Facta, Luigi 81 Fairbanks, Douglas 20 Falange Spagnola 114 Falkenhayn, Erich von 42, 46, 47, 48, 49, 50, 51 Fasci italiani di combattimento 81 fauvismo 88 Fédération Internationale de Football Association (FIFA) 39 Ferrara 81 Fiandre 40, 48, 56, 57, 59 Filippine 29, 30, 132-134 Finlandia 58, 66, 68, 73, 78, 119, 125, 127, 140 Fiume (Rijeka) 80 Fleury 48 Foch, Ferdinand 59, 63, 127 Ford, Henry 35, 36, 95 Ford Motor Company 36 Formosa (Taiwan) 27 Forza attraverso la Gioia (Kraft durch Freude - KdF) 108 Fox, William 20 France, Anatole 16 Francia 14-17, 19, 20, 22-24, 30, 32, 33, 37, 42-45, 48-50, 57, 65, 67-72, 77, 78, 91, 93, 95-98, 100, 104, 109, 110, 112-115, 117-119, 126, 127, 130, 132, 138, 139, 141, 142, 145 Francesco Ferdinando d’Austria 41, 42 Francesco Giuseppe I d’Austria 23, 24, 41, 42, 62 Franco, Francisco 114, 116 Freikorps 62, 76, 77, 104 Freud, Sigmund 87, 89 L’interpretazione dei sogni 87 Fronte Patriottico dei Tedeschi Sudeti 118 Fronte Popolare (Francia) 109, 114 Fronte Popolare (Spagna) 114 Frontiere, battaglia delle 45 futurismo 87, 88, 91, 122
G Gabo, Naum 88 Galizia 14, 39, 46 Gallieni, Joseph 46 Gallipoli battaglia 68 penisola 49 Gaos, José 117 Generalitat de Catalunya 117 Genova, Conferenza di 71 Georgia 66, 68 Gericht, operazione 49 Germania 12-14, 16, 23, 24, 30, 32, 42-44, 46-48, 51, 52, 54, 55, 57, 62, 63, 66-71, 72, 74, 76-79, 84, 91, 93, 95-98, 102-106, 108-110, 112-115, 118-120, 122, 125-127, 130, 133, 135, 139-143, 145 Gerusalemme 18 Gestapo 107
Giappone 14, 19, 26, 27, 29, 30, 32, 33, 37, 46, 67, 69, 93, 95, 96, 112, 114, 127, 131-134, 138, 139, 142, 145 Gibilterra, Stretto di 114, 138 Giolitti, Giovanni 81 Giorgio V del Regno Unito 110 Giorgio VI del Regno Unito 110, 112 Giovani Turchi 32, 47 “giovedì nero” 94 Gioventù Hitleriana 91 Giraud, Henri 139 Gish, Lillian 21 Goebbels, Joseph 91, 108 Goga, Octavian 78 Gončarova, Natalja 88 González, Julio 117 Gorbačëv, Michail 102 Göring, Hermann 104, 127 Gran Bretagna 12, 14, 16, 18, 22, 24, 25, 29, 37, 39, 42-49, 51, 67-72, 77-80, 95-97, 100, 110, 112-115, 118, 119, 126, 127, 132, 133, 135, 138, 141, 145 vedi anche Regno Unito Grande Depressione 71, 77, 85, 93, 95, 96, 100, 105, 109, 112 Grande Guerra vedi guerra mondiale, Prima Grecia 17, 33, 42, 48, 54, 62, 67, 68, 91, 123, 127, 142 Grey, Edward 42, 44 Grey, Zane 38 Griffith, David W. 21 Gris, Juan 87, 88 Groener, Walter 66 Grosz, George 65, 91 Guadalcanal 135, 138 Guam 29 Guangdong 112 Guardia Rossa 58 Guernica 116, 117 guerra balcanica, prima 14, 33 guerra balcanica, seconda 14, 33, 48 guerra civile spagnola 91, 114, 116 guerra franco-prussiana 14, 44, 51 guerra fredda 145 guerra ispano-americana 29, 37 guerra mondiale, Prima 14, 16, 17, 20, 23, 24, 26, 28, 30, 32, 35, 38-40, 42, 44, 46, 54, 56, 65, 69, 72, 76, 79, 82, 84, 85, 8890, 93, 95-97, 100, 104, 112, 113, 118-120, 127, 139, 145 “corsa verso il mare” 46 Marna, prima battaglia della (“miracolo della Marna”) 46 guerra cino-giapponese, prima 27, 29 guerra mondiale, Seconda 91, 100, 102, 110, 139, 145 guerra russo-giapponese 14, 26, 27, 30, 32 guerra russo-turca 32 guerra serbo-bulgara (1885) 32 guerre balcaniche 14, 32, 33, 42, 48 Guesde, Jules 15
Guggenheim, Peggy 90 Guggenheim, Solomon R. 89, 90 Guillaume, Paul 89, 90 Guglielmo I di Germania 17 Guglielmo II di Germania 13, 16, 17, 23, 24, 30, 42, 43, 54, 62, 63 Gulag 102, 103 Guomindang (Partito Nazionalista Cinese) 114, 115, 132
H Haber, Fritz 56 Haig, Douglas 50, 57 Haiti 29 Hankey, Robin 119 Harding, Warren G. 84 Harmsworth, Alfred 37 Hawaii 83, 138 Hearst, William Randolph 37 Henlein, Konrad 118 Herero, ribellione degli 24 Herriot, Édouard 78 Herzl, Theodor 18 Lo Stato ebraico 18 Hess, Rudolf 104, 106 Hindeoinburg, Oskar von 105 Hindenburg, Paul von 42, 47, 50, 51, 54, 56, 59, 62, 77, 105, 106, 108 linea Hindenburg 42, 54, 56, 62 Hirohito (imperatore Showa) 112 Hiroshima 127, 142, 145 Hitler, Adolf 18, 38, 44, 62, 69, 77, 91, 93, 95, 103-110, 113-115, 118-123, 125-127, 130, 131, 133, 135, 136, 138-143 Mein Kampf 18, 62, 104, 113, 115 Hollywood 20, 21, 39 Home Rule 18, 50 Hong Kong 134 Honolulu 83 Hoover, Herbert C. 84, 97, 98 Horthy, Miklós 80, 142 Hötzendorf, Franz Conrad von 33, 41, 42 Hovevei Zion 18 Howland 83 Huerta, Victoriano 28 Hülsenbeck, Richard 88
I Iglesias, Pablo 15 impero austro-ungarico 18, 23, 24, 104 impero degli Asburgo 118 impero ottomano 13, 17, 19, 32, 67, 68 impero tedesco 16, 17, 23, 30 Imperi Centrali 47, 58, 59, 65 India 29, 134 Indiana 84 Indianapolis 39 Indiano, Oceano 32 Indocina 132 Indonesia 134 Inghilterra, battaglia di 130, 135
Internazionale Comunista (III Internazionale) 74 Intesa anglo-russa (1907) 14, 30 Intesa Cordiale (1904) 14, 30 Irak 67, 68 Irish Citizen Army 50 Irish Republican Brotherhood (Fratellanza Repubblicana Irlandese) 50 Irlanda 14, 18, 26, 50, 83 Israele 18 Istanbul 17, 35, 67, 68 Istria 68 Italia 14, 15, 30, 32, 33, 37, 42, 4749, 65, 67-70, 80, 91, 95, 97, 112-114, 118, 120, 122, 126, 127, 133, 138-140 italica, penisola 139 Iwo Jima 132, 145
J Jagoda, Genrich 101, 102, 103 Jaurès, Jean 15, 16, 23 Jeunesses Patriotes 109 Jiangxi 115 Jodl, Alfred 145 Joffre, Joseph 45, 46, 50 Jugoslavia 66, 68, 80, 127 Junker 24 Jutland, battaglia dello 42, 46, 55
K Kahnweiler, Daniel-Henry 87, 89 Kahr, Gustav von 104 Kamenev, Lev 75, 76, 102 Kandinskij, Vasilij 88, 89, 91 La spiritualità nell’arte 89 Kaplan, Fanny 74 Kapp, Wolfgang 77 Karadjorjevic, dinastia dei 32 Karlshorst 145 Kautsky, Karl Johann 15 Keitel, Wilhelm 145 Kerenskij, Aleksandr 58 Keynes, John Maynard 69, 70, 94, 96, 115 Le conseguenze economiche della pace 70 KGB 58 Kiev 131, 140 Kirchner, Ernst Ludwig 88, 91 Kirov, Sergej 102 Kishinev (Chisinau) 18, 19 Klee, Paul 88, 90, 91 Klemperer, Victor 71 Knilling, Eugen von 104 Kokoschka, Oskar 88, 91 Konev, Ivan S. 143 Kornilov, Lavr 58 Krestinskij, Nikolaj 75, 102 Kronstadt, rivolta di 58, 69, 73, 74, 102 Krupp, Bertha 50 Krupskaja, Nadežda 75 Ku Klux Klan 84, 85 kulaki 73, 101 Kurgan, Mamaev 137 Kursk, battaglia di 140
L
“La Mano Nera” 41 Lacasa, Luis 117 Lae (Nuova Guinea) 83 laghi Masuri, battaglia dei 42, 47, 51 Lange, Dorothea 97 Larionov, Michail 88 Lateranensi, Patti 84 Laurel, José Paciano 134 Lavoratori Industriali del Mondo (IWW ) 27 Lawrence, Thomas E. 62 Le Bon, Gustave 22 Psicologia delle folle 22 Léger, Fernand 88 Legione Condor tedesca 116 Leningrado 102, 127, 131, 135, 140 vedi anche San Pietroburgo Lenin, Vladimir Ili 15, 39, 56, 58, 59, 74, 75, 102, 123 Tesi di Aprile 56, 58 Lettonia 66, 68, 78, 119, 131 Lettow-Vorbeck, Paul von 46 Leyte, battaglia del Golfo di 145 Liaodong, penisola di 27 Libano 62 Liberia 112 Libia 32, 112, 127 Liebknecht, Karl 15, 22 Liebknecht, Wilhelm 15, 22 Liegi 51 Lincoln, Abraham 84, 99 Lindbergh, Charles 82 Linz 18 Lipsia, battaglia di 27 Lituania 66, 68, 78, 119, 131 Lloyd George, David 25, 64, 66 Locarno, Trattati di 69, 72, 77, 114 Londra 30, 35, 36, 38, 42-44, 64, 82, 130, 134, 138 Trattato del 1839 43 Lorena 23, 43-45, 67 Losanna, Conferenza del 1932 97 Losanna, Trattato del 1923 68, 80 Lossow, Otto von 104 Ludendorff, Erich 47, 50, 51, 54, 59, 62, 63, 69, 77, 104 Ludwig, Emil 79, 113 Lueger, Karl 18, 104 Luftwaffe 127, 130 Lumière, Auguste 38 Lumière, Louis 38 Lunacharski, Anatoli 39 Luxemburg, Rosa 22, 126, 127 Lvov, Gueorgui 56, 57, 58
M MacArthur, Douglas 135 MacDonald, James Ramsay 78, 110 Macedonia 32 MacGuire, Gerald 98 Madagascar 130 Madero, Francisco Ignacio 28, 29 Madrid 35, 39, 92 Maginot, linea 126 Magnitogorsk 103 Magritte, René 89
Majdanek 130 Malesia 133, 134 Malevič, Kazimir 88 Malta 138 Manica, canale della 43, 59, 126, 140 Manchukuo 112 Manciuria 30, 95, 97, 112, 145 Manhattan, isola di 35 Mao Zedong 114, 115 Mar dei Coralli, battaglia del 135 Marinetti, Filippo Tommaso 87, 91 Manifesto del futurismo 87 Markizova, Gelya 121 Marna prima battaglia della (“miracolo della Marna”) 46 seconda battaglia della 62 Marocco 23, 30, 32, 41, 138 Marshall, piano 145 Marx, Karl 15, 74, 122 Masson, André 89 Matignon, accordi di 109 Matisse, Henri 88 Matteotti, Giacomo 84 Maurras, Charles 16, 109 Massimiliano di Baden 62 May, Karl 38 Mayerling 42 Mediterraneo, Mar 33, 48, 113, 114, 139 Mehmet VI 80 Mehring, Franz 22 Meiji, epoca 19, 27, 30 Mengele, Josef 131 menscevichi 15, 58 Mesopotamia 7, 47 Messico 28, 29, 55 Mezzogiorno 14 Midway, isole 135 Milano 80, 81, 138 Miravitlles, Jaume 117 Miró, Joan 89, 117 Moldavia 18 Moltke, Helmuth von 42, 43, 44, 45, 46 Monaco di Baviera 44, 69, 77, 91, 104, 106, 110, 118, 119, 123, 143 accordi del 1938 95, 110, 118 Mondrian, Piet 89 Monroe, James 29 Mons 45 Montenegro 32, 33, 66 Montgomery, Bernard L. 138 Moravia 119 Morelos 29 Morozov, Ivan 89 Mosca 12, 26, 35, 42, 74, 91, 101, 102, 119, 130, 131 Mosley, Oswald 110 Mozambico 32 Mucha, Alfons 36 Mukden, battaglia di 27 Müller, Hermann 105 Mussolini, Benito 69, 79-81, 84, 91, 98, 107, 112-115, 118, 120123, 127, 138
Mutsuhito (imperatore Meiji) 26, 27
N Nagasaki 127, 142, 145 Namibia 24, 32 Nanchino, massacro di 132 Napoleone vedi Bonaparte, Napoleone Nazioni Unite 134, 142 Nero, Mar 33, 142 Neuilly, Trattato di 67 Neuve-Chapelle, battaglia di 54 New Deal 95, 98, 99, 100 New York 14, 15, 35, 37, 82, 84, 89, 90, 93-95, 98, 99, 134 Nicaragua 29 Nicola II di Russia 12, 19, 26, 42, 56, 57 Nietzsche, Friedrich 87 Nikolaev, Leonid 102 Nimitz, Chester W. 135 Nivelle, Robert 50, 56, 57 Nizza 126 Noonan, Fred 83 Nord, Mare del 46 Norimberga 108, 110, 122, 123 leggi 108, 130 Normandia, sbarco di 127, 140, 141 Norvegia 126, 127 “notte dei cristalli” 108, 130 “notte dei Lunghi Coltelli” 104, 106, 108 Nuova Guinea 83, 134, 135 Nuova Oggettività 91
O Obregón, Álvaro 28 Obrenovic, dinastia degli 32 Oceania 87, 145 Okinawa 132, 145 Oklahoma 97, 133 Olanda 63 Olocausto 132 Organjira, battaglia di 24 Ordžonikidze Sergo 101 Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) 145 Organizzazione sionista mondiale 18 Orlando, Vittorio Emanuele 64, 66, 68 Orpen, William 64 Ossorio y Gallardo, Ángel 117 Ostia 139 Overlord, operazione 140, 141
P Pacifico, Oceano 26, 27, 29, 46, 69, 83, 115, 132, 133, 135, 138 Paesi Bassi 98, 126, 127, 130, 132 Palestina 18, 62, 67, 68 Panama 14, 29, 132 canale 132 Pangermanica, Lega 16, 17 Panturania 17 Papen, Franz von 105, 106 157
APPENDICI
Parigi 13, 18, 24, 35, 36, 38, 39, 42-46, 50, 59, 64, 66, 68-70, 72, 73, 78, 87-89, 109, 116, 123, 126, 134, 141, 145 Conferenza del 1947 145 Conferenza di Pace del 1919 64, 66, 68, 69, 70, 73, 78 Esposizione Internazionale del 1937 116, 123 Partigiani 138, 143 Partito Tedesco dei Sudeti 118 Partito Comunista Tedesco (KPD) 22, 76, 77, 106 Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) 75, 76, 100, 102, 103 Partito Comunista Italiano (PCI) 80 Partito Conservatore (Regno Unito) 25, 110 Partito di Centro (Germania) 63, 77, 106, 107 Partito dei Lavoratori Tedeschi (DAP ) 104 Partito del Popolo Bavarese (BVP) 104 Partito Democratico degli Stati Uniti 28, 84 Partito Democratico Tedesco (DDP) 77 Partito Laburista (Regno Unito) 25, 78, 110 Partito Liberale (Regno Unito) 16, 19, 25 Partito Nazionale del Popolo Tedesco (DNVP) 62, 107 Partito Nazionale Fascista (PNF) 81, 139 Partito Nazionale Socialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP) 77, 92, 105-110, 143 Partito Nazionalista Irlandese 50 Partito Operaio Socialdemocratico di Russia (POSR) 15 Partito Popolare Francese (PPF) 110 Partito Popolare Italiano (PPI) 80 Partito Popolare Tedesco (DVP) 72, 105 Partito Radicale (Francia) 19, 22, 78, 110 Partito Radical-Socialista (Francia) 19 Partito Repubblicano (Francia) 19 Partito Repubblicano degli Stati Uniti 84 Partito Sociale Cristiano (Austria) 18 Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) 15, 22, 24, 77, 105, 106 Partito Socialdemocratico Indipendente di Germania (USPD) 77 Partito Socialdemocratico Unito di Germania (VSPD) 77 Partito Socialista Americano 28 Partito Socialista Italiano (PSI) 80 158
Partito Socialista Rivoluzionario (PSR) 26 Passchendaele, battaglia di vedi Ypres: terza battaglia (o di Passchendaele) Pathé 20 Paulus, Friedrich 136, 137, 139 Pavlovič, Dmitrij 26 Pearl Harbor, attacco a 27, 127, 132, 133, 134, 145 Pearse, Patrick H. 50 Pennsylvania 39 Penzig 23 Persia 29, 30, 136 Persico, Golfo 139 Pesaro 120 Petacci, Clara 138 Pétain, Henri Philippe 49, 50, 57, 126, 127 Petit-Breton, Lucien 39 Petrograd vedi San Pietroburgo Petsamo (Pechenga) 141 Pevsner, Antoine 88 Picasso, Pablo 87, 88, 90, 116, 117 Guernica 116, 117 Piccola Intesa 68, 69 Pickford, Mary 20 Pietro I di Serbia 32 Piłsudski, Józef 80 Pio XI (papa) 79, 84 Poincaré, Raymond 16, 44, 70, 72, 78 Poiret, Paul 38 Polonia 48, 66, 67-69, 72, 78, 80, 95, 119, 125-127, 130, 131, 141, 142, 145 Port Arthur (Lüshunkou) 27, 112 Port Moresby 135 Porto Rico 29 Praga 95, 119, 145 Princip, Gavrilo 41, 43 proibizionismo 100 Proust, Marcel 16 Prussia 16, 22, 23, 30, 47, 67, 106 Pulitzer, Joseph 37 putsch di Monaco di Baviera 69, 77, 104, 106, 123 Puyi (imperatore Xuantong) 30, 112
R Radek, Karl 102 RAF 127, 130 Rapallo, Trattato di 69, 72, 74, 77 Rasputin, Grigorij Efimovič 26 Rathenau, Walther 62, 77, 90 Rebay, Hilla von 89 Reich, Secondo 16, 23, 30, 32, 41, 42, 54, 55, 62, 63, 66, 70, 71, 77, 91, 104, 108, 113, 114, 118, 122-125, 127, 130, 131, 134, 135, 142, 143 Reich, Terzo 91, 122, 131 Reims 145 Regno Unito 24, 30, 32, 35, 54, 55, 69-71, 78, 93, 95, 96, 98, 110, 113, 114, 119, 127, 138 Remagen 142
Renania 67, 69, 70, 72, 77, 78, 108, 114 Repubblica Democratica Tedesca 145 Repubblica di Weimar 62, 76, 77, 91 Repubblica Dominicana 29 Repubblica Federale Tedesca 145 Repubblica Sociale Italiana (RSI) 138, 140 Repubblica spagnola 92, 110, 114, 116 Restaurazione borbonica 18, 22 Rivoluzione industriale 14, 56 Rivoluzione messicana 28 Rivoluzione russa del 1905 14, 21, 22 Rivoluzione russa del 1917 26, 55, 57, 100 Ribbentrop, Joachim von 118, 119 Ribbentrop-Molotov, Patto (1939) 95, 119, 125 Richter, Hans 88 Rivolta di Pasqua (Easter Rising) 50 Rodi 33, 67, 68 Rodchenko, Aleksandr 88, 91 Röhm, Ernst 104, 106, 108 Roma 69, 81, 84, 104, 114, 127, 139, 140 Marcia su Roma 69, 81, 104 Romania 32, 33, 42, 48, 54, 66, 68, 78, 127, 142 Romanov, Aleksej Nikolaevič (Nicola) 26 Romanov, Michail (Michele) 56 Romanova, Aleksandra Fëdorovna 26 Romanova, Anastasija Nikolaevna 26 Romanova, Marija Nikolaevna 26 Romanova, Olga Nikolaevna 26 Romanova, Tatjana Nikolaevna 26 Rommel, Erwin 127, 134, 138 Roon, Albrecht von 17 Roosevelt, Eleanor 98 Roosevelt, Franklin Delano 83, 95, 96, 98-100, 133, 134, 139, 142 Roosevelt, Theodore 19, 28, 29, 98 Rosenberg, Alfred 104 Rosenberg, Paul 89 Ruan 39 Ruanda 32 Rudzutaks, Janis 101 Ruhr 23, 69, 70, 72, 77, 104, 122 Russia 14, 15, 18, 19, 24, 26, 27, 29, 30, 32, 33, 37, 41-44, 47-49, 51, 55-59, 63, 66, 68, 69, 73, 74, 76, 77, 79, 80, 90, 91, 100, 112, 119, 127, 130, 134 Rutenia 66, 119
S Saar 23, 72, 113 Sacco, Nicola 84 Sagot, Clovis 89 Saint-Cyr 45 Saint-Germain-en-Laye, Trattato di 67, 118
Salò 138, 140 Salomone, isole 134, 138 Salsedo, Andrea 84 Samoresov, Viktor K. 73 San Pietroburgo 26, 35, 42, 44, 56-58, 73-75 Istituto Smolny 59 Palazzo d’Inverno 58 Sarajevo 41, 42, 66 attentato 42 Sassonia 104 Satie, Erik 90 Scapa Flow 67 Schchukin, Sergei 90 Schiele, Egon 88 Schirach, Baldur von 91 Schleicher, Kurt von 105, 106, 108 Schlieffen, Alfred von 43, 45, 46, 47 piano Schlieffen 43, 45, 46, 47 Schmidt-Rottluff, Karl 88 Schutzstaffel (SS) 104, 105, 106, 108, 122, 140 Scopes, John T. 85 Sebastopoli 131, 135 Seconda Internazionale 15 Seisser, Hans von 104 Serbia 14, 17, 24, 32, 33, 41, 42, 46, 48, 66 Serov, Vladimir A. 59 Sert, Josep Lluís 117 Sèvres, Trattato di 67, 80 Seyss-Inquart, Arthur 114 Sezession 87 Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (SFIO) 15, 23, 78, 109 Shaanxi 115 Siberia 26, 101, 102, 131 Sicilia 39, 139 Sigfrido, linea 126 Simpson, Wallis 110 Singapore 134 Sinn Féin 50 Siria 62, 67, 68 Slovacchia 66, 119, 127 Slovenia 57, 66 Smirne 67, 68 Sobibor 130 Società delle Nazioni (SDN) 69, 72, 77, 112-114, 126 Società Fabiana 25 Società Thule 104 Solovetsky, isole 73 Solženicyn, Alexandr 102 Arcipelago Gulag 102 Somalia 112 Somme, battaglia della 42, 47, 49-51, 53, 54, 57, 59 Sorel, Georges 16 Considerazioni sulla violenza 16 Sorge, Richard 130, 131 Soupault, Philippe 89 spartachista, rivoluzione 66, 76, 77 Speer, Albert 143 Stachanov, Aleksej 101
Stalingrado (Volgograd) 104, 127, 135-139 battaglia (1942) 136, 139 Stalin, Iosif 58, 69, 73-76, 91, 95, 100-104, 114, 119-123, 125, 130, 131, 138, 139, 142 I fondamenti del leninismo 74 Stati Uniti 14, 19, 20, 27-30, 35-39, 42, 46, 55, 59, 65, 6971, 78, 79, 82, 84, 85, 93-98, 100, 103, 110, 115, 125, 127, 132, 133, 135, 138, 139, 145 Staviski, Alexandre 109 Steinbeck, John 97 Furore 97 Steiner, Rudolf 89 Sturmabteilung (SA) 104, 105, 106, 107, 108, 118 Sturzo, Luigi 80 Sudeti 66, 67, 68, 118 Sukarno, Kusno Sosrodihardjo 134 Sun Yat-sen 30 surrealismo 89 Svezia 63, 126 Svizzera 46, 56, 88, 98 Sykes-Picot, Trattato di 67 Sytov, Aleksandr 80 Szálasi, Ferenc 142
T Taft, William H. 28, 29 Takamura, Kotaro 134 Tangeri 30 Tanguy, Yves 89 Tannenberg, battaglia di 42, 47, 51 Tanzania 32 Taranto 139 Tatlin, Vladimir 88, 91 “telegramma Zimmermann” 55 Tennessee 84, 85, 98, 133 Terza Repubblica francese 22, 78
Terranova 83, 133 Teschen 119 Tibet 30 Tiflis 74 Tirpitz, Alfred von 24 Tiso, Jozef 119 Tobruk 134 Togo 32 Tojo, Hideki 132, 133 Tokio 112, 127, 130, 131, 145 Tolone 138 Torgau 143 Torino 80 Toscana 80 Tracia 32, 67, 68 Trade Unions 16, 25 Transcaucasia 75 Transilvania 54, 66, 68, 78 Transgiordania 68 Transleitania 24 Treblinka 130 Trianon, Trattato di 67 Tripartito, Patto 127, 132, 134 Triplice Alleanza 13, 30, 46, 48 Triplice Intesa 13, 30, 42, 46, 48 Tripolitania 32 Trockij, Leon (Lev) 58, 75, 76, 100 Tuchačevskij, Michail 74, 102 Tunisi 138 Turati, Filippo 15 Turingia 104 Turchia 28, 33, 42, 47, 62, 67, 68, 80 Tzara, Tristan 88
U Ucraina 14, 16, 64, 68, 75, 91, 101, 125, 127, 131, 135, 140 Ungheria 17, 20, 24, 30, 32, 33, 41, 42, 46-48, 51, 62, 67, 68, 78, 80, 84, 119, 127, 142
Unione Britannica Fascista 110 Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) 69, 74, 75, 78, 91, 95, 100, 102-104, 108, 114, 115, 118-120, 122, 123, 125-127, 130-133, 135, 138-140, 142, 143, 145 Urano, operazione 137
V Valentino, Rodolfo 20 Vanzetti, Bartolomeo 84 Varsavia 119, 125, 127, 141, 142, 145 Patto 145 Vauxcelles, Louis 87 Venezia 57 Venizelos, Eleftherios 54 Verdun, battaglia di 42, 47, 48, 49, 50, 51, 56 Verona 138 Versailles, Trattato di (1919) 66, 68, 69, 70, 72, 77, 104, 108, 112-115, 119 Vetter, Helmuth 131 Vichy, governo di 110, 126, 127, 132, 138 Vicino Oriente 30, 68, 113, 134 Vittoria del Regno Unito 25 Vittorio Emanuele III d’Italia 81, 113, 139 Vienna 18, 35, 41, 42, 44, 104, 142 Villa, Francisco “Pancho” 28, 29 Virginia Occidentale 84 Vittorio Veneto, battaglia di 62 Vladivostok 26 Vlaminck, Maurice de 88 völkisch, movimento 18, 104, 105 Vollard, Ambroise 89 Volstead, Legge 100
Vorkuta 103 Vyšinskij, Andrej 102
W Waldeck-Rousseau, Pierre 16, 22 Wall Street 94, 95 Washington 98, 99 Waterloo, battaglia di 65 Wehrmacht 114, 119, 127, 131, 139, 140, 142, 143 Weill, Berthe 89 Welfare State (Stato del benessere) 25 Wells, Herbert George 38 Wilson, Thomas Woodrow 28, 55, 62, 64, 66-70, 72, 84 Winterfeldt, Detlof von 63 Woolf, Virginia 79 Wright, Frank Lloyd 89 Wuchang, rivolta di 30
Y Yalta, Conferenza di 127, 142 Yamamoto, Isoroku 132 Young, piano 69, 72 Ypres prima battaglia 46 seconda battaglia 40, 56 terza battaglia (o di Passchendaele) 40, 57 Yuan Shikai 30
Z Zapata, Emiliano 28, 29 Zetkin, Clara 22 Zinoviev, Grigorij 74, 76, 78, 102 Zola, Émile 16 Žukov, Georgij K. 143 Zurigo 88 Zweig, Stefan 14 Il mondo di ieri 14
IMMAGINI Fotografie: Aci Online: 79bi, 84a, 84b, 103a, 119; Age FotoStock: 4-5, 8-9, 21b, 43a, 48, 60-61, 86, 132, 133, 136-137; Aisa: 49, 57, 114, 116-117; Alamy/Aci Online: 112, 143; Album: 26, 28-29, 39, 55, 73, 75, 77, 79a, 80, 90b, 100, 118-119; Album/adoc-photos: 81, 101; Album/akg-images: 16, 22, 30, 33, 52, 54b, 59, 62, 63, 65, 67, 90a, 92, 93, 102, 103b, 104, 105, 106, 116i, 122, 123b, 126, 151; Album/ Oronoz: 27; Bridgeman/Index: quarta di copertina, 12, 13, 18, 24, 29i, 35, 44, 45, 50a, 53, 64, 70a, 76, 78, 82, 91, 94-95, 113, 115, 116d, 139, 146; Corbis: copertina, 6, 54a, 70b, 71, 83, 126-127, 128-129; Cordon Press: 2, 37,
72, 79bd, 99, 120-121, 124; Cordon Press/The Granger Collection: 10, 17, 19, 29d, 31, 34, 36, 51, 56, 66, 74-75, 85, 98, 107, 108, 110, 111, 121, 125, 131, 135, 136, 142; Cordon Press/Mary Evans: 20, 38i, 50b; Getty Images: 23, 82-83, 123a, 144; Gtres/Hemis.fr: 15b, 89, 140; Erich Lessing/Album: 41, 52-53, 58; Photo Scala, Florence: 87, 134, 138; The Art Archive: 38d, 40, 46, 97, 109; The Kobal Collection: 20-21, 21a, 88; Paul Thompson/ NGS: 15a. Cartografia: Víctor Hurtado (documentazione), Merche Hernández, Eosgis. 159
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numero26 luglio2016 €9,90
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Pubblicazione periodica bimestrale - Anno VI - n. 26
PRESIDENTE
RICARDO RODRIGO CONSEJERO DELEGADO
EDITORE: RBA ITALIA SRL
LE GUERRE MONDIALI
LA FINE DELLA BELLE ÉPOQUE E LA “GRANDE GUERRA” CHE CAUSÒ 20 MILIONI DI VITTIME. LE LOTTE DI CLASSE E LA CRISI ECONOMICA CHE PORTARONO ALLA NASCITA DEI REGIMI TOTALITARI E ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
BOMBARDIERI LANCASTER DURANTE LA BATTAGLIA D’INGHILTERRA, SECONDA GUERRA MONDIALE. FOTOGRAFIA: MATT GIBSON / SHUTTERSTOCK
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civiltà italiche
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ENRICO BENELLI Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico (Iscima) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Monterotondo (Roma) Curatore della seconda edizione del Thesaurus Linguae Etruscae, Fabrizio Serra editore Autore di: Le iscrizioni bilingui etrusco-latine, Olschki
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PAOLO MATTHIAE Professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico, Università di Roma La Sapienza; direttore della Missione Archeologica Italiana a Ebla; membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei Autore di: Ebla, un impero ritrovato, Einaudi Storia dell’Arte dell’Oriente Antico, Electa Mondadori
VITTORIO BEONIO BROCCHIERI Professore di Storia moderna presso l’Università degli Studi della Calabria; membro del collegio della scuola di dottorato Andre Gunder Frank Autore di: Storie globali. Persone, merci e idee in movimento Celti e Germani. L’europa e i suoi antenati Encyclomedia Publishers
MARINA MONTESANO Professore di Storia medievale, Università di Messina e VitaSalute San Raffaele, Milano; membro fondatore della International Society for Cultural History Autrice di: Da Figline a Gerusalemme. Viaggio del prete Michele in Egitto e in Terrasanta (1489-1490), Viella Editore Caccia alle streghe, Salerno Editrice
COLOPHON_STORICA_UNIVERSAL.indd 4
YULIA PETROSSIAN BOYLE Senior Vice President, ROSS GOLDBERG Vice President, Digital, RACHEL LOVE, Vice President, Book Publishing, CYNTHIA COMBS, ARIEL DEIACO-LOHR, DIANA JAKSIC, JENNIFER LIU, RACHELLE PEREZ COMMUNICATIONS
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08/06/16 10:30