Speciale Storica n°28 - Il Secolo dei Lumi

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IL SECOLO DEI LUMI




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INDICE INTRODUZIONE

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LA POLITICA DEGLI STATI

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IL DISPOTISMO ILLUMINATO Dossier: Le corti e l’età d’oro della musica

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L’ILLUMINISMO Dossier: L’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert

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LA SOCIETÀ ILLUMINISTA Dossier: La stampa: i primi quotidiani

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L’ESPANSIONE EUROPEA

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APPENDICI La suddivisione del mondo nel XVIII secolo Cronologia comparata: Europa, America, Africa, Asia e Oceania Re e statisti Bibliografia Indice analitico Immagini

146 148 150 152 154 155 159

PAGINA 2. Ritratto di Voltaire di Nicolas de Largillière (Istitut et Musée Voltaire, Ginevra). PAGINE 4 E 5. Palazzo d’Inverno lungo la Neva, San Pietroburgo. NELLA PAGINA ACCANTO. La Prunksaal della Biblioteca Nazionale

Austriaca di Vienna, opera del grande architetto barocco Johann Bernhard Fischer von Erlach.

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INTRODUZIONE

I

l XVIII secolo dà inizio al mondo contemporaneo e consolida la coscienza moderna. A metà strada fra la Rivoluzione scientifica e la grande riforma delle istituzioni accademiche, fra l’antico e il nuovo regime, questo secolo, chiamato “illuminato”, fu testimone della nascita di alcune istituzioni patrimoniali con caratteristiche moderne. Nacquero quindi il diritto naturale e il giornalismo, la libertà d’associazione, d’informazione e di credo, la proibizione della tortura e l’abolizione della servitù della gleba. Sebbene il movimento fu interessato da variazioni nazionali e generazionali, la credenza nella supremazia della ragione sul fanatismo e della conoscenza sulla superstizione costituì una della sue caratteristiche più generali. L’essere umano, libero dai suoi pregiudizi, doveva essere in grado di svelare i segreti della natura e di mettere le sue risorse al servizio del popolo servendosi solamente della sua ragione e dei suoi sensi. Nell’ambito politico, le relazioni internazionali diedero luogo alla diplomazia moderna e alla ricerca della pace attraverso la sola minaccia di usare la forza. Dal punto di vista militare, la guerra cominciò a interessare l’insieme delle classi dello Stato e non solo alcune fazioni della nobiltà. Nelle città apparvero le società scientifiche, letterarie e artistiche, legate al commercio e alla critica sociale, e la grande crescita demografica rese possibile lo sviluppo di una nuova borghesia urbana. L’opinione pubblica, la letteratura d’evasione, l’umanitarismo, le abitudini igieniche, la difesa della privacy e dei diritti delle donne, dell’infanzia o degli animali furono fenomeni appartenenti allo stesso ambiente sociale che sfociarono, verso la fine del secolo, nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, uno dei maggiori successi collettivi della storia. Alcuni degli elementi del mondo globalizzato attuale hanno dei chiari antecedenti nel XVIII secolo. L’uniformità nel vestire, la regolarità degli orari, la burocratizzazione della vita pubblica o l’internazionalizzazione dell’alimentazione interessarono in modo più o meno significativo la maggior parte degli abitanti delle grandi città europee, le Americhe, le colonie africane e la lontana Asia. La connessione fra la capacità scientifico-tecnica, lo sviluppo economico e il predominio politico crearono un mondo pieno di luci e di ombre, di enormi contraddizioni personali e collettive: portarono a un momento storico in cui il nuovo umanitarismo conviveva con il traffico degli schiavi, mentre il dispotismo illuminato combatteva i resti di un mondo feudale che, a sua volta, difendeva i suoi privilegi sotto la bandiera della libertà.

PAGINE 8 E 9. Le Verrou (Il chiavistello) (1776-1779), di Jean-Honoré Fragonard che si conserva nel Museo del Louvre (Parigi). NELLA PAGINA ACCANTO. Il sonno della ragione genera mostri, Capriccio 43 (1799), di Francisco Goya (Museo

del Grabado, Saragozza).

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APOTEOSI ROCCOCĂ’.

Il palazzo di Sanssouci, nei dintorni di Potsdam, fu costruito come residenza estiva ufficiale di Federico II il Grande di Prussia. Nella pagina accanto, ventaglio dipinto in stile Luigi XV (Museo Nacional de Artes Decorativas, Madrid). 12


LA POLITICA DEGLI STATI Durante il XVIII secolo la politica centralizzata degli Stati modificò sia le forme convenzionali della guerra sia i modi per finanziarla. La politica europea, generata per la maggior parte da conflitti successori da cui dipendeva anche l’equilibrio delle nazioni, così come dalla volontà di mantenere o conquistare nuove rotte commerciali, rese possibili nuovi sistemi di alleanze e lo sviluppo della diplomazia moderna.

L

e due grandi costanti della storia politica europea del Settecento sono state da un lato la presenza costante della guerra e, dall’altro, il mutevole sistema d’alleanze fra le diverse potenze del Vecchio Continente. La guerra di successione spagnola, quella di successione austriaca e quella di successione polacca, la Grande Guerra del Nord, la guerra franco-indiana, o, in particolare, la guerra dei Sette anni, sono solo alcuni dei conflitti che segnarono l’insieme del secolo, i sistemi di alleanze, e, per estensione, il futuro della storia globale. Per farci un’idea precisa delle dimensioni che raggiunsero i costanti conflitti armati in quest’epoca basterà

segnalare, per esempio, che durante i quarantatré anni di durata complessiva del regno dello zar Pietro I il Grande, il popolo russo non visse mai più di un anno di pace. Sia nella Russia degli zar sia nella Francia di Luigi XIV, circa i due terzi delle entrate dello Stato furono destinati integralmente a finanziare le ingenti spese militari. In modo simile, nel relativamente piccolo Stato della Prussia, che manteneva un esercito di circa 80.000 uomini per una popolazione di circa tre milioni e mezzo di abitanti, questo numero aumentò fino a raggiungere la cifra di 150.000 soldati durante la guerra dei Sette anni (17561763). Quando nel 1750 Voltaire visitò Federico II 13


LA POLITICA DEGLI STATI

I candidati alla successione di Carlo II: i Borboni contro il casato d’Austria Il 1 novembre del 1700 moriva a Madrid l’ultimo dei monarchi spagnoli del casato d’Asburgo, Carlo II lo Stregato (el Hechizado). La sua morte senza eredi diretti diede inizio a una nuova guerra in cui si decise chi avesse diritto al trono vacante tra i due pretendenti Filippo d’Angiò e Carlo d’Austria, le cui rispettive nonne erano infanti spagnole.

BORBONE. Sostenitori di Filippo

D’AUSTRIA. Sostenitori

d’Angiò o di Borbone.

dell’arciduca Carlo d’Austria.

Filippo III Re di Spagna

Anna d’Austria

Luigi XIII

Filippo IV

Re di Francia

Re di Spagna

Luigi XIV

Maria Teresa

Carlo II

Re di Francia

(d’Asburgo-Spagna)

Re di Spagna

Luigi Gran Delfino di Francia

Luigi (di Borbone) Duca di Borgogna

FILIPPO V. Busto di

Filippo V, primo re Borbone di Spagna, di Leonardo Capuz (Museo de Bellas ArtesColegio Pio V, Valencia).

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Filippo V di Spagna

Maria Anna d’Austria

Margherita Teresa

Massimiliano II di Baviera

Giuseppe Ferdinando di Baviera

Ferdinando III Imperatore del Sacro romano impero

Leopoldo I Imperatore del Sacro romano impero

Eleonora del Palatinato

Maria Antonia

Giuseppe I Imperatore del Sacro romano impero

il Grande, si rese subito conto che il monarca prussiano, nonostante il suo raffinato gusto musicale e la sua passione per la filosofia, aveva trasformato il suo Paese in un immenso quartiere militare, non solo per l’esagerato numero di soldati in esso presente, ma anche per la preminenza quasi universale dei valori militari in tutte le classi della società prussiana. La presenza dei conflitti armati nella storia del XVIII secolo è così importante che gli avvenimenti di natura politica possono essere narrati usando come filo conduttore la successione quasi interminabile di rivolte e conflitti armati, dalla guerra di successione per la corona spagnola all’inizio del secolo, fino all’invasione della Polonia da parte della Russia zarista nel 1792, alla fine del secolo. In alcuni casi queste campagne militari iniziarono fuori dall’Europa (come nel caso della guerra d’Indipendenza nordamericana) e in seguito interessarono anche il continente europeo. Molte altre volte, invece, le ostilità che erano inizialmente sorte in Europa coinvolsero anche i territori d’oltremare.

Arciduca * Carlo d’Austria

* Pretendente al trono spagnolo come Carlo III

La Pace di Vestfalia del 1648, che mise fine al più importante conflitto europeo del XVII secolo, non sfociò né in una monarchia universale, come ci si aspettava, né in una pace duratura. Al contrario, il XVIII secolo ereditò l’instabilità che aveva caratterizzato le guerre religiose del secolo precedente aggiungendovi nuove ragioni: i conflitti dinastici, i nuovi interessi economici e commerciali, così come la lotta per l’espansione territoriale nell’Europa centrale. In ogni caso, i conflitti armati interessarono più di uno Stato e si svilupparono per mezzo di deboli e mutevoli alleanze che potevano anche includere coalizioni di monarchi cattolici e protestanti. Il cosiddetto “concerto delle nazioni”, che implicava l’idea di un equilibrio di potere, si trasformava così in un principio fondamentale dell’ordine internazionale, sempre appoggiato dalla minaccia oppure dall’uso diretto della forza. La crescente capacità militare dei monarchi fu un’espressione del loro sforzo centralizzatore, dato che solo uno Stato altamente centralizzato poteva permettersi di riunire le risorse umane ed


economiche sufficienti a minacciare altre frontiere o a difendere i propri territori. La famosissima frase dell’ufficiale prussiano Carl von Clausewitz che «la guerra non è altro che un altro modo di fare politica», sottolineava il carattere dualista definito dal conflitto militare, perché la guerra se da una parte mirava all’equilibrio nelle relazioni internazionali, dall’altra riaffermava il potere del monarca in politica interna.

La guerra di successione spagnola Nella guerra di successione spagnola (17011714/15), il primo grande conflitto del secolo, le dispute dinastiche furono legate a interessi commerciali, così come a elementi ideologici relativi all’idea di un’unificazione territoriale europea sotto un’unica monarchia. La morte senza discendenti di Carlo II di Spagna il I novembre del 1700 condizionò sia la diplomazia europea sia il suo precario sistema d’alleanze. A mano a mano che il regno del cagionevole monarca spagnolo si ampliava, diventava evidente che la sua morte avrebbe portato a una lotta di interessi per la

successione di un impero che, sebbene in pieno declino, continuava ad avere grandi possedimenti in Europa e in America. Oltre ai vicereami americani e alle colonie caraibiche, i territori della corona spagnola includevano allora anche il Milanese, Napoli, la Sicilia, la Sardegna e il sud dei Paesi Bassi. Per via delle loro diverse relazioni con le infanti spagnole, sia Leopoldo I d’Austria sia Luigi XIV di Francia potevano legittimamente pretendere che l’eredità di un così vasto impero ricadesse sul ramo austriaco degli Asburgo o su quello francese dei Borbone. Il primo, Leopoldo I, non era solo cugino del re spagnolo, ma era anche sposato con una delle sue sorelle, Margherita Teresa. Il monarca francese Luigi XIV, da parte sua, era il nipote di Filippo III ed era sposato con l’infanta Maria Teresa d’Austria e Borbone, figlia maggiore di Filippo IV e sorellastra di Carlo II. Il conflitto scoppiò nel 1700, quando Luigi XIV accettò l’insieme delle proprietà che il secondo testamento di Carlo II aveva ceduto a suo nipote Filippo d’Angiò. Così, mentre proclamava suo

LA BATTAGLIA DI ALMANSA. Durante lo

scontro le truppe di Filippo d’Angiò (incoronato Filippo V), sconfissero quelle dell’arciduca Carlo d’Austria. Il risultato della battaglia significò l’occupazione del regno di Valencia da parte delle truppe borboniche. In alto, particolare dell’olio Batalla que se dio en los campos de Almansa por las armas de las dos coronas, contra las de los portugueses, ingleses y holandeses el día 25 de abril de 1707, di Buonaventura Ligli (Ministero degli Esteri, Madrid).

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LA POLITICA DEGLI STATI

TAPPE DELLA GUERRA DI SUCCESSIONE SPAGNOLA 1700

Fine di una dinastia. La morte senza eredi di Carlo II, avvenuta il I° novembre, segna la fine del casato d’Austria in Spagna. 1701

Filippo V a Madrid. Verso la fine di febbraio, Filippo V arriva a Madrid. A settembre si solleva contro di lui la Seconda Grande Alleanza. 1707

La battaglia di Almansa. Il 25 aprile le truppe borboniche ottengono una vittoria che aprirà la strada verso il Levante peninsulare. 1711

Il trono imperiale. Alla morte senza eredi di Giuseppe I, suo fratello, l’arciduca Carlo, eredita il trono dell’impero. 1713

Pace di Utrecht. Le potenze belligeranti firmano la pace, anche se Carlo non rinuncerà ai suoi diritti al trono spagnolo fino al 1725. 1714

Continua il conflitto. L’11 settembre Filippo V conquista Barcellona. Nel giugno del 1715, la conquista di Maiorca mette fine alla guerra.

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nipote re di Spagna, con il nome di Filippo V, il monarca francese s’impossessava delle proprietà dei Paesi Bassi. Per contrastare i desideri espansionistici francesi, di cui molti Stati europei avevano sofferto le conseguenze fin dall’arrivo al potere di Luigi XIV nel 1661, si costituì una Grande Alleanza, formata inizialmente dall’Inghilterra, dalla Repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi e dall’imperatore Leopoldo d’Austria. Più tardi si sarebbero unite anche la Prussia e il Portogallo. Questa Grande Alleanza, stretta a L’Aia nel 1701, si opponeva ai diritti successori di Filippo V, difendendo la candidatura al trono di Spagna dell’arciduca Carlo d’Austria. I principi elettori di Baviera e Colonia si schierarono, invece, con la Francia, così come fecero inizialmente i Savoiardi, che passeranno alla fazione opposta nel 1703. Mentre in Spagna il conflitto assumeva sempre più le caratteristiche di una guerra civile, che vedeva contrapporsi i sostenitori di Carlo d’Austria e di Filippo d’Angiò, le ostilità si estesero nel nord dell’Italia, lungo il Reno e nei Paesi Bassi. I primi scontri volsero a favore dei Francesi, mentre fra il 1702 e il 1709 gli alleati inflissero agli eserciti del monarca francese varie sconfitte, alcune particolarmente gravi, come quelle di Blenheim (1704) e Ramillies (1706). Da un punto di vista militare, l’attività congiunta dei due grandi strateghi, il duca Eugenio di Savoia (che aveva sconfitto i Turchi a Zenta) e il duca di Marlborough, riuscì a far retrocedere gli eserciti del Re Sole. Durante le sue operazioni, la Marina inglese s’impossessò della Rocca di Gibilterra nel 1704 e dell’Isola di Minorca nel 1708. Il punto di svolta del conflitto non dipese però da nessun successo militare, ma da un cambiamento nel sistema d’alleanze. La morte dell’imperatore d’Austria Giuseppe I nel 1711, che determinò il passaggio della corona al fratello minore, l’arciduca Carlo (che assunse il nome di Carlo VI), creò gelosie fra gli alleati, che vedevano la possibilità di accumulare il potere in un’unificata corona d’Asburgo. Con la salita al potere dei Tory, l’Inghilterra ritirò il suo appoggio all’Austria e iniziò a negoziare la pace con la Francia. Allo stesso tempo, la guerra nel territorio spagnolo si volgeva chiaramente a favore di Filippo V. Fra gli alleati, l’opposizione agli interessi espansionisti francesi fu rivendicata al grido della “libertà comune” contro la “monarchia universale” borbonica. La morte del monarca francese, avvenuta nel 1715, mise definitivamente fine a un conflitto estremamente sanguinoso, in cui morirono più di un milione di persone e che giunse a mobilitare, solo in Francia, circa 900.000 soldati. Di di-

Gli scenari della guerra di successione Sebbene si trattasse di dirimere la controversia per l’eredità della corona spagnola, la guerra fra i Borbone e il casato d’Austria ebbe un raggio d’azione europeo per quel che concerne i suoi contendenti e i campi di battaglia. La disputa per il trono spagnolo non solo divise lo stesso territorio della corona in una guerra civile fra i sostenitori dei due pretendenti, ma addirittura trasformò la stessa Europa in un campo di battaglia. Era inevitabile che fosse così, da un lato per via dei possedimenti della Spagna dislocati in punti così strategici come le Fiandre e l’Italia, e dall’altro per il peso dei regni di Filippo d’Angiò e dell’arciduca Carlo d’Austria, e delle alleanze internazionali intessute fra loro. Così, la guerra scoppiò lungo le frontiere della Francia con i Paesi firmatari della Seconda Grande Alleanza: il Sacro impero, l’Inghilterra e le Province Unite. Lo fece nel nord Italia, dove i Borbone e i sostenitori di Carlo d’Asburgo si scontrarono il 9 luglio 1701 nella battaglia di Carpi: vinsero i secondi. L’Alsazia, la Lorena, Napoli e la Baviera, dove nel 1704 a Blenheim i Francesi subirono una delle loro peggiori sconfitte, furono altri di questi scenari.

mensioni internazionali, dato che la guerra aveva chiare implicazioni nella suddivisione dei territori d’oltremare, il conflitto determinava non solo la successione al trono spagnolo, ma anche l’egemonia politica e militare europea dei decenni successivi. Allo stesso tempo, il sistema d’alleanze permetteva di intervenire in conflitti collaterali, come la guerra d’indipendenza ungherese o la rivolta dei camisardi francesi, appoggiati dall’Inghilterra. La guerra di successione spagnola, il cui campo di battaglia si estese a tutti i suoi territori europei e americani, si scatenò anche nell’ambito dell’opinione pubblica. Mentre lo scrittore satirico irlandese Jonathan Swift scriveva il suo libello La condotta degli alleati nel 1711, Voltaire pubblicava nel 1713 il suo Sur le malheurs du temps. Dal punto di vista imperiale, il filosofo e matematico Gottfried Wilhelm Leibniz pubblicò quello stesso anno la sua Paix d’Utrecht Inexcusable (L’ingiustificabile Pace di Utrecht), in cui metteva in discussione qualsiasi forma di espansionismo francese legata all’idea tirannica della


Limite del Sacro romano impero Trattati di Pace o Alleanze Battaglie con vittoria borbonica Battaglie con vittoria austriaca Coalizione dell’Aia Alleati della Francia

I RLA NDA

REGNO DI GRAN BRETAGNA Bristol Southampton

MARE DEL NORD

Londra

L’Aia

Malplaquet (1709)

Friedlingen (1702)

Lione

Bordeaux

Marsiglia

GRAN DUCATO DI TO S CANA

REGNO DEL MAROCCO

monarchia universale. In Spagna, mentre la maggior parte dei territori legati alla corona di Castiglia appoggiavano i desideri del monarca francese, coloro che erano vincolati alla corona d’Aragona si schierarono invece a favore dell’arciduca e della causa dell’Alleanza. Il Trattato di Utrecht (1713) e quello di Rastadt (1714) non solo significarono lo smembramento dei possedimenti della Spagna, ma anche la fine dell’egemonia francese. Sebbene il suo desiderio di portare al trono di Spagna il bisnipote Filippo fosse stato soddisfatto, il monarca francese uscì chiaramente sconfitto dal conflitto. Nonostante l’imperatore non riconoscesse Filippo V, che aveva in precedenza rinunciato ai suoi diritti sulla corona francese, la maggior parte dei domini spagnoli in territorio europeo passò in mani austriache: i Paesi Bassi, il Lussemburgo e il ducato di Milano, così come Napoli e la Sardegna. Allo stesso tempo, l’elettore di Brandeburgo fu riconosciuto come re di Prussia, mentre il duca di Savoia ricevette dalla Spagna il titolo di re di Sicilia. Si creò inoltre un

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Barcellona (1705) (1714)

Villaviciosa (1710)

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STATO PONTIFICIO

Brihuega CORONA DI ARAGONA (1710)

Malaga Gibilterra Ceuta

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Verona

Luzzara (1702) Carpi (1701)

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REPUBBLICA DI GENOVA

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Almenar (1710)

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Milano REGNO DI SAVOIA DUCATO

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REGNO DI POLONIA

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SACRO ROMANO IMPERO Norimberga

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Utrecht

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PROVINCE UNITE

Oudenarde (1708) Denain (1712)

Plymouth

REGNO DI DANIMARCA

Otranto

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Palermo

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nuovo elettorato imperiale, Hannover, che rimaneva vincolato all’Inghilterra. L’appena nata Gran Bretagna riceveva, assieme a Gibilterra e Minorca, un insieme di importanti vantaggi commerciali, come il cosiddetto derecho di asiento, per cui poteva monopolizzare il traffico di schiavi, e il navío de permiso, che gli permetteva di inviare, una volta all’anno, una nave da 500 tonnellate nelle Indie spagnole. Questi due diritti, che presupponevano la fine del monopolio ispanico sul commercio con il continente americano, torneranno ancora a essere motivo di conflitto durante il secolo.

M OR EA

Siracusa

DA PRETENDENTE A IMPERATORE. Moneta

con l’effigie dell’arciduca Carlo d’Austria, pretendente alla corona di Spagna e imperatore del Sacro romano impero col nome di Carlo VI (Museo Nacional de Arte de Cataluña, Barcellona).

Il regno di Luigi XV Luigi XV (1710-1774), pronipote di Luigi XIV, ereditò il trono di Francia a cinque anni. Nato a Versailles, il giovane monarca venne al mondo immerso nella magnificenza della corte e dei segni e degli emblemi del potere illimitato dei suoi predecessori. «L’autorità reale è assoluta», aveva scritto l’erudito Jacques Bénigne Bossuet nel suo libro dedicato alla rela17


LA POLITICA DEGLI STATI

Il giovane Luigi XV e i cambiamenti nella corte di Filippo d’Orléans Nel 1715, quando Luigi XIV morì, dopo 72 anni di regno, la corona francese passò al pronipote di Luigi, che aveva allora solo cinque anni, la stessa età del suo longevo bisnonno quando era salito al trono. Durante la sua minor età, la reggenza passò nelle mani del duca d’Orléans, che s’apprestò a riorganizzare il regno dal punto di vista politico ed economico. Per accedere alla reggenza, Filippo d’Orléans ebbe l’appoggio del parlamento, che non rispettò l’ultimo testamento del Re Sole, in cui si stipulava che il potere dovesse passare a uno dei suoi figli illegittimi, Luigi Augusto di Borbone, duca di Maine. Con pieni poteri già da allora, il reggente intraprese una profonda riforma dell’amministrazione, il cui primo provvedimento, di grande significato simbolico, fu lo spostamento della corte da Versailles a Parigi. Inoltre, instaurò come sistema di governo la polisinodia, con le segreterie sostituite da una serie di consigli integrati da aristocratici e tecnici, e cercò di mettere fine alla terribile crisi finanziaria che viveva il regno, anche se con scarsi risultati. Famoso per i suoi eccessi libertini, Filippo morì nel 1723, un anno dopo l’incoronazione di Luigi XV. Nell’immagine, ritratto del monarca di Alexis Simon Belle (Musée National du Château, Versailles).

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zione esistente fra la politica dei principi e le Sacre Scritture (La politique tirée de l’Écriture sainte, 1709). Al contrario che in Inghilterra, dove la guerra civile e la rivoluzione del secolo precedente avevano limitato il potere dei re, il resto delle corone europee, inclusi i piccoli Stati italiani, cercarono di emulare le caratteristiche della monarchia del longevo Luigi XIV, che, come è noto, passò alla storia per aver identificato se stesso con lo Stato. Sebbene forse la celebre frase «L’État, c’est moi» (Lo Stato sono io) non sia effettivamente sua, la politica di Luigi XIV riflette la concezione personale di un potere assoluto a cui ogni altra autorità doveva sottomettersi. Convinto dell’origine divina della sua posizione, la decorazione teatrale di Versailles lo rappresentava in atteggiamenti eroici, mentre il suo emblema, il Sole, appariva in numerosi oggetti decorativi. Dopo la morte di Luigi XIV, e come conseguenza di un regno che sembrava l’espressione più riuscita della tirannia, cominciò ad attecchire nel continente l’idea che l’autorità del monarca, qualsiasi fosse la sua giustificazione ultima, dovesse essere sottomessa alla ragione: il re doveva ostentare una condotta proporzionata, e in certa misura paterna, nei confronti dei suoi sudditi. Sebbene la Francia di Luigi XV avesse ereditato la difficoltà di definire i limiti del potere reale, che fino a quel momento si considerava una prerogativa della volontà divina, sarebbe sbagliato pensare che la relazione dei monarchi con i loro sudditi fosse diretta. Al contrario, la monarchia come forma di governo si relazionava con la popolazione attraverso un insieme di classi sociali o intermediari. Vale a dire, anche quando il sovrano volgeva i suoi sforzi alla centralizzazione delle imposte e alla razionalizzazione delle leggi, la sua capacità di realizzare i suoi desideri dipendeva sempre da limitazioni linguistiche o geografiche, così come dalla sua capacità d’imporre politiche centralizzate. Per questo motivo, gran parte dell’esercizio del potere reale doveva essere negoziato con autorità locali, per mezzo, per esempio, di parlamenti e di assemblee regionali. Verso la fine del secolo, la maggior parte delle monarchie continentali aveva sviluppato sistemi di governo capaci di abolire o limitare i poteri dei corpi di rappresentanza territoriale ereditati dalla vecchia struttura feudale. In molti casi, questi organi di rappresentanza poterono contare sulla presenza di funzionari qualificati che non provenivano dall’aristocrazia o dalla nobiltà locale. Solamente nel caso della Gran Bretagna si lavorò nella direzione contraria, ossia promulgando più poteri ai diversi organi di rappresentanza e limitando in quel modo l’autorità quasi assoluta dei monarchi.


L’arrivo al trono di Luigi XV diede inizio in Francia a un periodo di aspettative caratterizzato da uno sforzo volto ad attenuare l’arbitrario e assoluto potere reale detenuto dal suo predecessore. Il nuovo regno ebbe inizio con un periodo di reggenza, fra il 1715 e il 1723, di Filippo di Orléans che dimostrò nettamente di voler esercitare una politica chiaramente distanziata dal regime autoritario del Re Sole. Lo spostamento della corte da Versailles a Parigi o le nuove prerogative conferite al parlamento, implicavano, in pratica, una critica all’assolutismo e, allo stesso tempo, una speranza di rinnovamento. Dal punto di vista amministrativo, le segreterie di Stato in cui si era consolidato l’assolutismo di Luigi XIV furono sostituite da sette consigli (Finanze, Guerra, Marina, Affari esteri, Interno, Commercio e Coscienza), supervisionati da un Consiglio della Reggenza. Appoggiandosi al parlamento di Parigi e alle corti provinciali, Filippo d’Orléans tentò di avviare una ristrutturazione del potere monarchico che, tuttavia, sarebbe stata presto interrotta.

La Francia del XVIII secolo dovette affrontare sul piano politico ed economico tre grandi difficoltà: la prima fu il modo di gestire l’ingente debito dello Stato generato dalle costose campagne militari. Nonostante si trattasse di una delle economie più produttive d’Europa, i continui debiti amministrativi, così come le sue nuove figure fiscali, alimentarono un clima di progressivo scontro con altri poteri e gruppi sociali, incluso il parlamento di Parigi. La seconda difficoltà fu legata al sempre latente conflitto religioso, che si manifestò nell’opposizione di una parte del clero e della magistratura all’approvazione, nel 1713, della bolla Unigenitus di papa Clemente XI, che doveva, almeno all’inizio, porre fine al Giansenismo. La terza difficoltà fu rappresentata dall’aggravarsi della situazione economica e degli scontri sociali, provocati dalle guerre in cui la Francia si trovò nuovamente coinvolta. Alcune delle difficoltà economiche ereditate trovarono la loro risposta nel sistema basato sulle idee dello scozzese John Law. Questi, figlio di un banchiere di Edimburgo, aveva dovuto ab-

LUIGI XV, IL RE BAMBINO. Incoronato a

Reims il 25 ottobre del 1722, a dodici anni d’età, Luigi XV partecipò agli atti ufficiali fin dalla sua più tenera infanzia. Sopra, Luigi XV lascia il “letto di giustizia” tenutosi nel Parlamento il 12 settembre 1715, olio di Pierre-Denis Martin (Musée Carnavalet, Parigi). Il “letto di giustizia” era, nell’Antico Regime, una sessione straordinaria del parlamento di Parigi in cui il re, dopo aver pregato nella Sainte-Chapelle, presiedeva il tribunale adagiato su di un letto ornato da cuscini. Luigi XV recuperò questa tradizione. 19


LA POLITICA DEGLI STATI

LA COMPAGNIA DELLE INDIE. L’inflazione del

valore delle azioni della Compagnia Francese delle Indie Orientali giocò un ruolo determinante nel crac finanziario del 1720. Nell’immagine qui sopra, incisione (risalente al 1750 circa), che mostra i magazzini della Compagnia, l’ammiragliato e la casa del governatore a Pondichéry (India), il centro del commercio asiatico francese (Musée de la Compagnie des Indes, Lorient).

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bandonare Londra per dirigersi a Parigi avendo ucciso un uomo in un duello: propose la creazione di una banca statale che permettesse la capitalizzazione di parte del commercio coloniale attraverso la vendita di azioni. Lo Stato giunse ad attribuire alla nuova banca il privilegio di riscuotere le imposte indirette e di coniare moneta. Dato che le azioni erano garantite dallo Stato ed erano effettuate in condizioni di monopolio, il loro prezzo aumentò fino a raggiungere livelli speculativi, provocando una bolla finanziaria che scoppiò verso la fine del 1720. La rovina di molti speculatori e piccoli investitori causò la caduta in disgrazia di John Law e un grande discredito dell’attività bancaria.

Verso la crisi Con il raggiungimento della maggiore età di Luigi XV e la sua salita ufficiale al trono nel 1723, si facevano strada molte aspettative. Inizialmente noto come Le Bien Aimé (il Beneamato) ma chiamato, poi, in seguito, Le Détesté (il Detestato), iniziava a guidare un regno che subì molto presto

i contraccolpi delle crisi agricole del 1724 e del 1725, così come una politica di deflazione monetaria. L’imposizione di un nuovo sistema fiscale nel 1725, conosciuto come il “cinquantesimo”, un tributo che interessava le rendite e la produzione agricola, diminuì grandemente sia la sua popolarità sia quella del suo principale governante, il duca di Borbone, che venne destituito nel 1726 a causa sia del suo smodato arricchimento durante l’instaurazione del sistema Law, sia della sua eccessiva preoccupazione per il matrimonio e la posteriore discendenza del monarca. L’arrivo al governo del cardinal Fleury, che era stato il precettore del monarca (1653-1743), permise la creazione di un clima di consenso che, tuttavia, fu presto oscurato dai problemi finanziari ed economici che egli ereditò dal governo precedente. La soppressione del cinquantesimo provocò la bancarotta: una situazione economica che si aggravò considerabilmente a causa della politica internazionale, soprattutto con la partecipazione della Francia alla guerra di secessione austriaca e polacca. In questi momenti stra-


Lo spirito delle leggi, dal despotismo alla Repubblica Appartenente alla cosiddetta nobiltà di toga, Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, si fece conoscere nel 1721 con una satira dell’assolutismo di Luigi XIV. Anni più tardi avrebbe denunciato anche la tendenza verso il dispotismo della Francia di Luigi XV. La pubblicazione nel 1748 de Lo spirito delle leggi ebbe un grande impatto nella società europea. Il suo autore, il barone di Montesquieu, era già diventato celebre nel 1721 con le Lettere persiane, opera in cui un viaggiatore immaginario persiano faceva riferimento agli assurdi vizi della società francese. Senza dover ricorrere all’ironia, il nuovo saggio era il frutto dei viaggi che Montesquieu realizzò in tutta Europa, studiando i diversi sistemi di governo. In concreto, ne distingue tre tipologie: agli estremi appariva, da un lato la repubblica, sorta dalla virtù civica del popolo, che detiene il potere sovrano, dall’altro il dispotismo, che non è altro che quel sistema in cui, senza badare a nessuna legge e per mezzo del terrore, governa una sola persona; in mezzo si trova la monarchia, in cui governa il re appoggiandosi ad altri, secondo il principio della divisione dei poteri. Nell’immagine, ritratto anonimo (1728) del barone di Montesquieu (Musée National du Château, Versailles).

ordinari, i ministri di Fleury dovettero ricorrere all’aumento delle tasse, includendo anche le classi che fino ad allora erano state esenti, e ristabilire la cosiddetta “decima”, che era stata istituita ai tempi di Luigi XIV. La situazione risultava chiaramente paradossale, dato che la mancanza di liquidità era in contrasto con il crescente sviluppo economico che il Paese stava sperimentando, e che portò al consolidamento di una piccola borghesia urbana e mercantile. La morte del cardinale Fleury nel 1743 costrinse Luigi XV ad assumere personalmente le responsabilità del governo, fatto che portò a una politica dai fini altalenanti e dai metodi d’esecuzione poco ponderati. Influenzato dalla sua favorita, la marchesa di Pompadour, una donna proveniente da una famiglia di banchieri, Luigi XV parve sempre più preoccupato dagli intrighi di palazzo che dalle faccende di Stato. Per complicare le cose, la firma del trattato di Aquisgrana, nel 1748, che metteva fine alla guerra di successione austriaca, lasciava un debito di 1200 milioni di lire nelle casseforti francesi, circostanza che

portò nuovamente, nel 1749, alla creazione di una nuova imposta, chiamata “ventesima”. Questo tributo, che interessava tutte le rendite senza alcuna distinzione, provocò lo scoppio di gravi disordini a Parigi, così come l’opposizione del parlamento e del clero. Anche quando il monarca decise di esentare il clero dal pagamento dei tributi, le proteste della gerarchia ecclesiastica favorirono il clima di anticlericalismo che si visse durante il suo regno e a cui partecipò ampiamente il movimento filosofico che iniziava a distinguersi in quegli anni. Nel 1748 il barone di Montesquieu pubblicava L’esprit des lois (Lo spirito delle leggi), opera in cui si batteva in favore di una chiara separazione dei poteri, mentre nel 1751 vedrà la luce il primo volume dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert. Lo scoppio della guerra dei Sette anni nel 1756 aggraverà ancor più la situazione economica francese, così come lo scontro fra il monarca e il parlamento di Parigi; esso dichiarava che era necessario che il regno disponesse di intermediari del governo che, così come auspicato 21


LA POLITICA DEGLI STATI

GIORGIO I. Fu il primo

re di Gran Bretagna e Irlanda appartenente al casato di Hannover. Egli però non parlava fluentemente inglese ma tedesco, sua lingua materna, e questo era motivo di scherno da parte dei suoi sudditi. Il suo regno fu segnato dalla diminuzione del potere della monarchia, che di fatto passò nelle mani del primo ministro, Robert Walpole. Sopra, Giorgio I ritratto da Godfrey Kneller nel 1714 (National Maritime Museum, Greenwich, Londra)

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ne Lo spirito delle leggi, limitassero il potere reale. Tuttavia, la risposta del monarca fu la limitazione dei diritti dei magistrati del parlamento, fatto che lo fece considerare un despota. Il 5 gennaio del 1757, in un clima di crescente discredito verso di lui, l’ex soldato Robert-François Damiens attentò alla vita del monarca. La sua esecuzione, a cui assistette anche lo scrittore Giacomo Casanova, fu un chiaro esempio del potere reale oltre che un avvertimento per coloro che venivano considerati istigatori dal re o dai suoi ministri, che fossero i philosophes, i gesuiti o i Giansenisti. La morte del re nel 1774 lasciò il trono a un giovanissimo Luigi XVI, uomo dal carattere debole, sposato con Maria Antonietta d’Austria.

La guerra di successione austriaca La pace raggiunta dopo la guerra di successione spagnola nel 1714 non durò a lungo. Nel 1739 l’Inghilterra e la Spagna entravano di nuovo in guerra a causa dei diritti sul traffico di mercanzie provenienti dalle colonie. Anche se con il Trattato di Utrecht del 1714 la monarchia spagnola aveva

ceduto a quella inglese alcuni diritti concernenti la prospera attività del commercio di schiavi (il derecho de asiento), essa riteneva che le sue rotte commerciali fossero saccheggiate da trafficanti e corsari britannici. In un’occasione, quando una nave da guerra spagnola sequestrò una nave inglese, il capitano spagnolo fece tagliare un orecchio al capitano inglese, così come si faceva con ladroni e pirati. Venuta a conoscenza dell’incidente, l’Inghilterra dichiarò guerra alla Spagna. Durante un conflitto che prese il nome di “guerra dell’Orecchio di Jenkins”, l’Armata britannica attaccò diversi porti spagnoli in America, compreso L’Avana e Portobelo, nell’odierna Panama. La battaglia più drammatica avvenne a Cartagena de Indias, che resistette eroicamente all’assalto. La guerra contro gli Spagnoli non fu l’unico conflitto armato cui dovettero far fronte i britannici durante il resto del secolo. Al contrario, se la “guerra dell’Orecchio di Jenkins” servì a qualcosa, fu sicuramente dimostrare che le dispute dinastiche ingaggiate nel continente europeo avevano chiare ripercussioni sulle aspirazioni commerciali dei contendenti, soprattutto a proposito delle loro colonie d’oltremare. Allo stesso modo, anche le battaglie ingaggiate dall’altra parte dell’Atlantico producevano squilibri di potere nei sistemi di alleanze che si firmavano nel continente. La crescente rivalità fra Francia e Inghilterra, per esempio, si fece sentire specialmente negli scontri per il controllo dell’America del Nord, a partire dalla firma del trattato di Utrecht, fino all’appoggio francese all’indipendenza delle colonie americane a partire dal 1775. In un certo senso, se la guerra di successione spagnola fu la conseguenza dell’idea, estesasi a partire dalla Pace di Vestfalia, dell’“equilibrio delle nazioni”, che rendeva impensabile l’insediamento di una monarchia universale, le conseguenze dei trattati di Utrecht e Rastadt diedero adito a una lotta senza quartiere per il controllo delle rotte commerciali atlantiche. Dato che l’elettorato di Hannover era rimasto vincolato all’Inghilterra a partire dal 1714, il primo effetto del trattato di Utrecht nell’appena unificata Gran Bretagna fu che il suo XVIII secolo fu segnato dal regno di monarchi provenienti proprio da quel piccolo stato tedesco. A partire dal regno di Giorgio I (che durò soltanto 13 anni), un monarca hannoveriano che non parlava nemmeno l’inglese, fino a quello di Giorgio III, che soffrì di severi disordini mentali, la Prussia diventò un alleato strategico dell’Inghilterra, mentre l’Austria si avvicinò sempre più alla Francia. La guerra di successione austriaca (17401748), per esempio, fu conosciuta in Inghilterra come “la guerra del re Giorgio”, a causa della re-


lazione di parentela fra il monarca inglese e l’elettorato hannoveriano, che determinò l’entrata dell’Inghilterra nel conflitto. In modo simile a quello che si era verificato durante la guerra di successione spagnola, la morte improvvisa di Carlo VI del Sacro romano impero, che aveva preteso il trono col titolo di arciduca Carlo d’Austria, produsse una scossa militare nel continente, tenendo in conto che l’unico erede al trono era la figlia, Maria Teresa. Anche se lo stesso imperatore aveva cercato di assicurarsi una successione dinastica, la sua morte non poté evitare che sia il duca di Baviera sia l’elettore di Sassonia reclamassero i diritti di successione per le loro rispettive spose. Federico II di Prussia approfittò della confusione per occupare la Slesia, senza una vera e propria dichiarazione di guerra. Quest’occupazione, che più tardi darà luogo alla cosiddetta guerra dei Sette anni (1756-1763), rappresentava una sfida per l’erede Maria Teresa e obbligava l’insieme delle potenze europee a prendere una posizione, come per esempio la Francia, che inizialmente aveva riconosciuto i di-

ritti della figlia di Carlo VI, e decise poi di appoggiare Carlo Alberto di Baviera. Il reggente, il cardinale Fleury, si mosse per creare un’alleanza internazionale formata dalla Spagna, da Napoli, dallo Stato Pontificio e dall’elettore palatino. A quest’alleanza si aggiunse anche la Prussia. Sebbene Carlo fosse stato proclamato imperatore, col nome di Carlo VII, il 24 gennaio 1742 l’ingresso della Gran Bretagna nel conflitto modificò l’equilibrio delle forze. Durante i primi quattro anni la guerra vide diversi tentativi diplomatici di modificare il sistema di alleanze, ma l’inaspettata morte, avvenuta nel 1745, di Carlo VII, portò al riconoscimento da parte della Baviera dei diritti di Maria Teresa. Nel frattempo, l’arrivo al trono spagnolo di Ferdinando VI allentò la tensione nei territori italiani. Nel 1748 i contendenti si riunirono ad Aquisgrana e gli ambasciatori francesi, inglesi e austriaci presero l’iniziativa, raggiungendo un accordo parziale che includeva la spartizione tra Francia e Inghilterra delle rispettive conquiste. Sebbene la Prussia non avesse firmato l’accordo,

FONTENOY, LA BATTAGLIA DECISIVA.

Ingaggiata l’11 maggio del 1745, terminò con la vittoria degli eserciti francesi sulle forze alleate della Gran Bretagna, dell’Austria e dei Paesi Bassi e risultò decisiva nell’equilibrio delle forze della guerra di successione per la corona austriaca. Sopra, La battaglia di Fontenoy, olio di Pierre Lenfant, del 1757 (Museé National du Château, Versailles). In primo piano, a cavallo, il re Luigi XV e il maresciallo Maurizio di Sassonia.

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LA POLITICA DEGLI STATI

TAPPE DELLA GUERRA DI SUCCESSIONE AUSTRIACA 1740

Morte dell’imperatore. Maria Teresa succede al padre Carlo VI al trono, ma non viene riconosciuta da Prussia, Sassonia e Baviera. 1742

Invasione prussiana. Federico II di Prussia, che aveva iniziato le ostilità nel 1740, conclude la prima campagna di Slesia. 1743

Trattato di Worms. L’Austria firma un’alleanza con la Gran Bretagna e la Sardegna per la difesa dei possedimenti italiani della prima. 1744

Seconda invasione. Federico II di Prussia inizia la seconda campagna di conquista della Slesia, che termina con la firma del Trattato di Dresda del 1745. 1745

Muore il pretendente. Muore Carlo VII e il ducato di Baviera riconosce i diritti di Maria Teresa al trono imperiale. 1748

Trattato di Aquisgrana. La pace stabilisce la restituzione ai suoi proprietari dei territori conquistati.

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le era concessa, in ogni modo, la Slesia. L’Austria, da parte sua, guadagnava solo i diritti dinastici di Maria Teresa e del marito, Francesco di Lorena, come imperatore dell’impero. La Francia, invece, perdeva i Paesi Bassi, mentre la Spagna non recuperava né Minorca né Gibilterra. In realtà, il trattato di Aquisgrana che venne firmato nel 1748 somigliava più a una tregua che a una pace definitiva, come vedremo chiaramente con il ritorno alle ostilità del 1756 e con i continui scontri fra le truppe inglesi e francesi in India e in territorio americano. Il conte Kaunitz, ministro degli Esteri dell’imperatrice Maria Teresa, cominciò a cercare alleati che permettessero all’Austria di recuperare la Slesia. La corona britannica inizialmente si dimostrò riluttante a intervenire in faccende proprie del continente europeo. La Francia, invece, era interessata da una situazione fiscale molto difficile, così come dalla necessità di concentrare le sue forze militari nel continente americano, dove le ostilità fra le sue truppe e quelle inglesi si stavano inasprendo. La natura commerciale delle colonie francesi, al contrario degli insediamenti agricoli delle colonie britanniche, dava adito a meno conflitti e dispute territoriali con gli Indiani nativi delle regioni dei Grandi Laghi. I Francesi perciò potevano facilmente reclutare gli Indiani americani per le loro campagne contro gli Inglesi. Il conflitto, che scoppiò attorno al fiume Ohio, dove gli Inglesi inviarono George Washington, allora giovane ufficiale, per conquistare il posto francese di Duquesne (attualmente Pittsburgh), si estese in seguito ad altre regioni e colonie del fiume San Lorenzo, dei Grandi Laghi e della valle del Mississippi. Verso il 1756, la guerra coloniale, che i britannici chiamavano “franco-indiana”, fu ufficialmente dichiarata. I francesi presero l’iniziativa, e il duca di Choiseul arrivò addirittura a pianificare un’invasione francese delle isole Britanniche; il ministro inglese William Pitt manovrò la sua armata e nel 1759, nella baia di Quiberon, le navi da guerra britanniche riuscirono a decimare le forze francesi. La vittoria presupponeva il controllo delle rotte militari e commerciali nell’Atlantico e, di conseguenza, la supremazia militare nella guerra franco-indiana nell’America settentrionale. Incapaci di fornire navi di approvvigionamento, i Francesi furono sistematicamente sconfitti in quasi tutte le piazzeforti. Nel 1760, Montreal era caduta davanti alle truppe inglesi, e allo stesso modo fu invasa anche la colonia caraibica francese della Martinica. In quanto alleati dei Francesi, gli Spagnoli persero l’Havana, le Filippine e la Florida. In pochi anni la Gran Bretagna di Giorgio III, che era salito al trono nel 1760, diven-

Guerra franco-indiana per il controllo del Canada Sei anni dopo la firma del trattato di Aquisgrana, la Francia e la Gran Bretagna entrarono nuovamente in guerra, questa volta in territorio nordamericano, anche se il conflitto finì per estendersi al continente europeo nel 1756. Il 28 maggio 1754, l’attacco a un distaccamento inviato dal governatore della Nuova Francia per negoziare l’uscita dal territorio dell’Ohio di un contingente britannico agli ordini di George Washington comportò lo scoppio della guerra franco-indiana. Sebbene l’episodio fosse più che altro una scaramuccia, il successivo assassinio del militare francese Joseph Coulon de Villiers, signore di Jumonville, da parte di un capo indiano alleato con gli Inglesi, provocò i Francesi che, guidati da Louis Coulon, fratello dell’assassinato, attaccarono e distrussero Fort Necessity. Nel 1756 il conflitto, che fino ad allora si era mantenuto nell’ambito coloniale, si spostò alle madrepatrie, coinvolte in una guerra europea, quella dei Sette anni, dopo che la Prussia invase la Sassonia e la Boemia. Anche così, la guerra franco-indiana continuò fino alla firma, nel 1763, del Trattato di Parigi, in cui la Francia cedette la maggior parte dei suoi territori nordamericani alla Gran Bretagna.

tava la più grande potenza europea, quanto meno considerando il mondo coloniale. Nel frattempo, nel continente europeo, mettendo le basi di ciò che sarà considerata una “rivoluzione diplomatica”, il conte Kaunitz e il ministro degli Esteri francese, il duca di Choiseul, prepararono una nuova alleanza con l’Austria, a cui si aggiungerà più tardi la Russia.

La nascita della Prussia Dopo la guerra dei Trent’anni, il principe elettore di Brandeburgo ereditò la Prussia, un ducato del Baltico che era stato governato durante il Medioevo dai cavalieri teutonici. Il nuovo Stato di Prussia-Brandeburgo ricadde nelle mani di Federico Guglielmo. Conosciuto come il Grande Elettore in seguito alla Pace di Vestfalia, lui e i suoi successori riuscirono a trasformare quelli che durante il XV secolo erano stati i territori di due rami della famiglia Hohenzollern del nord e dell’est dell’Europa, separati da terre polacche, in uno Stato capace di generare importanti squilibri politici nei deboli sistemi d’alleanze dell’Eu-

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Territori popolati verso il 1755 da: Francesi Inglesi Forti (F): Francesi Inglesi Trattato di Parigi (1763): Limite della divisione della Louisiana fra l’Inghilterra e la Spagna Unici possedimenti francesi dopo la guerra Battaglie

ropa illuminista. Con una politica fiscale molto centralizzata e la garanzia della libertà religiosa, i nuovi monarchi prussiani riuscirono, inoltre, a costruire un esercito dalle dimensioni colossali con la capacità di annettere territori, come avvenne con la Slesia e in seguito con la Polonia, ma utile anche per la riscossione delle imposte e, di conseguenza, per incoraggiare e mantenere l’unità interna dello Stato. Il nipote di Federico Guglielmo, che portava il suo stesso nome e che regnò in Prussia fra il 1713 e il 1740, portò la militarizzazione al parossismo (tanto che fu chiamato Re Sergente), impregnando la società di valori militari, che a loro volta potevano essere utilizzati nel consolidamento dello Stato. Dal riconoscimento della monarchia prussiana e dalla salita al trono di Federico I, nell’anno 1701, la nuova dinastia doveva governare un territorio controllato da proprietari terrieri locali, noti come Junker, che a loro volta disponevano di assemblee e strutture amministrative contrarie a qualsiasi tentativo di centralizzazione. Come avvenne in Francia, anche i mo-

GEORGE WASHINGTON. Colui che sarà uno dei padri

dell’indipendenza degli Stati Uniti ebbe il suo battesimo di fuoco nella guerra franco-indiana. Nell’immagine George Washington nel 1772, con l’uniforme della milizia della Virginia.

narchi prussiani dovettero imporre i moderni sistemi fiscali attraverso nuovi corpi statali, i Landräte, formati quasi esclusivamente dai membri della nobiltà latifondista. Per tutto il secolo i diversi monarchi prussiani mostrarono una grande abilità nell’ottenere la complicità dei Junker, sia applicando sistemi fiscali che migliorassero le loro condizioni economiche, sia attraverso il riconoscimento pubblico delle loro mansioni al servizio della monarchia. Allo stesso tempo, gli sforzi di centralizzazione furono accompagnati da adesioni da parte sia di umanisti e filosofi, che riconoscevano una cultura tedesca fiorente, sia da parte di fazioni religiose legate al movimento conosciuto col nome di Pietismo. La salita al trono di Federico Guglielmo I nel 1713 provocò l’accelerazione del processo di unificazione e consolidamento politico. Di carattere arrogante e autoritario, il Re Sergente consolidò una somma comune per l’insieme del territorio, stabilì un sistema educativo religioso nazionale, e, soprattutto, creò lo Stato, in un Paese virtualmente sconvolto da una peste devastante, sulle fonda-

TOMAHAWK.

Originariamente in legno e pietra, verso la fine del XVIII secolo a quest’antico strumento indiano si aggiunsero parti in bronzo e ferro, trasformandolo in una piccola ascia. Fu molto usato come arma nei combattimenti corpo a corpo fra i nativi americani e le truppe coloniali (Ashmolean Museum, Oxford).

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LA POLITICA DEGLI STATI

La nuova Prussia: la militarizzazione ossessiva dello Stato del Re Sergente Federico Guglielmo I fu il grande artefice della trasformazione del giovane regno di Prussia in una potenza militare capace di imporre la sua voce sullo scenario politico europeo.

Eccetto la sua partecipazione nella campagna contro la Svezia, quando era ancora principe e poi nei suoi primi anni di regno, Federico Guglielmo I non fu un monarca che si distinse per uno spirito belligerante o espansionista. Tuttavia, fu lui che mise le basi del militarismo, che sarebbe diventato uno dei tratti caratteristici della Prussia fino al XX secolo inoltrato. Da quando salì al trono nel 1713, tutta la politica fu diretta a rafforzare il suo regno, a dotarlo di un’amministrazione economica efficace e a creare un esercito moderno e ben preparato su cui basare la proiezione della Prussia in Europa. La stessa corte doveva dare l’esempio: così, Federico Guglielmo bandì da essa lo sfarzo che aveva caratterizzato il regno del padre Federico I e optò per un’immagine austera, caratterizzata dalla disciplina e dal senso del dovere. Egli vestiva sempre l’uniforme militare ed esigeva dagli altri lo stesso impegno e la stessa attitudine al lavoro, guadagnandosi così il soprannome di Re Sergente, che l’accompagnò negli ultimi anni. Alla sua morte, nel 1740, lasciò un regno forte e fiorente, che con il figlio Federico II il Grande cominciò la sua espansione territoriale. Sopra, Federico Guglielmo I ritratto da Antoine Pesne nel 1733 (Palazzo di Charlottenburg, Berlino); a destra, decorazione dell’ordine dell’Aquila Nera, istituito nel 1701 da Federico I, padre di Federico Guglielmo I.

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menta di un potente esercito. In una nazione altamente militarizzata, promosse l’insieme di virtù castrensi associate da allora al popolo tedesco: l’efficacia, l’obbedienza, la disciplina, la capacità d’intervento e l’assenza di ostentazione. Il sistema di reclutamento si distribuiva in quote suddivise per distretti o circoscrizioni rurali, fatto che serviva anche ad aumentare il potere e l’autorità dei Junker e delle assemblee locali, conosciute come “diete”, sugli abitanti di quelle proprietà. La centralizzazione del sistema fiscale fu accompagnata dalla creazione di un Direttorio Generale delle Imposte, delle Guerre e dei Territori, una nuova agenzia statale incaricata di riscuotere le tasse e di monitorare scrupolosamente le spese che servivano anche per il mantenimento dell’esercito. La centralizzazione del potere nelle mani del monarca significava che il territorio poteva essere governato, nella pratica, dalle Camere del re. Per questo motivo il sistema di governo fu chiamato “cameralismo”. Per mezzo di funzionari leali, istruiti sui valori calvinisti del servizio e della lealtà, liberi dalle tentazioni di corruzione o di favoritismo, la macchina del potere si serviva di un procedimento burocratico che contava inoltre sulla presenza di ispettori interni, conosciuti come “fiscali”, la cui occupazione consisteva nel mettere al corrente dei comportamenti inappropriati di altri funzionari. Allo stesso tempo, sebbene molti dei nuovi ufficiali dell’amministrazione provenissero dalle élite locali, anche i monarchi prussiani utilizzarono la meritocrazia come una forma di ricompensa ai servizi prestati alla corona, sia sul campo di battaglia sia attraverso altre azioni degne di nota.

Il declino della Svezia Questo modello di Stato forte, con un esercito forte, fu seguito per un periodo anche dal regno di Svezia. Mentre era in atto la guerra di successione spagnola, la cosiddetta Grande Guerra del Nord interessava le regioni più settentrionali del continente europeo. Una coalizione formata da Polonia, Russia e Danimarca cercò di impossessarsi di alcuni territori della corona svedese. Il monarca svedese Carlo XII (1697-1718), sconfisse inizialmente sia Federico IV di Danimarca, sia le truppe di Pietro I, che capitolarono durante la battaglia di Narva. Nel caso della Russia il conflitto era motivato dal desiderio dello zar Pietro I di farsi strada nei Balcani. Il suo insuccesso militare lo spinse, però, a iniziare una politica di riforme, cominciando dall’imitazione del modello di reclutamento nordico. Introdusse così il servizio militare obbligatorio, così come avevano fatto gli Svedesi, ma su scala


molto maggiore. Nella nuova Russia, sia i nuovi nobili sia i boiari dovevano prestare servizio per tutta la loro vita nell’esercito oppure nel governo. Mentre centinaia di migliaia di contadini furono reclutati o obbligati a produrre gli alimenti necessari per l’esercito, le tasse triplicarono, per far quadrare i conti della guerra. Imbaldanzito dalla sua vittoria sui Russi, Carlo XII invase la Polonia e nel 1702 conquistò Varsavia. Ignorando la raccomandazione del re francese Luigi XIV di scontrarsi con l’impero di Giuseppe I, l’esercito svedese nel 1707 cercò di addentrarsi nella Russia per prendere Mosca, ma nel luglio del 1709 patì una durissima sconfitta nella battaglia di Poltava, che cambiò il corso della guerra e rafforzò la coalizione fra la Russia, la Polonia e la Danimarca. La monarchia danese aveva mantenuto un conflitto permanente con la Svezia, dovuto in parte al modo diverso di applicare le loro politiche territoriali, almeno dopo la guerra dei Trent’anni. A questa coalizione iniziale si aggiungeranno più tardi la Prussia e l’Inghilterra. I due Trattati di Stoccolma (1720) e di

Nystad (1721) confermarono il nuovo equilibrio di poteri, in cui la Svezia restava molto indebolita rispetto alla Prussia e alla Russia. La morte di Carlo XII al suo ritorno da Istanbul nel 1718, dopo aver perso tutti possedimenti della Svezia nel Baltico e in seguito al suo fallito tentativo di stabilire un’alleanza con l’impero ottomano durante la Grande Guerra del Nord, diede inizio a un periodo conosciuto come “l’epoca della libertà”, che sarebbe durato per circa mezzo secolo, dal 1719 fino al 1771 circa. Davanti all’inaspettata morte del monarca, l’assemblea legislativa nazionale, il cosiddetto Riksdag, svolse i compiti del governo: si trattava dell’unica camera di rappresentanti in Europa che includeva i contadini fra i suoi membri. La salita al trono di Gustavo III nel 1771 significò il ritorno all’assolutismo dopo un colpo di Stato. Sebbene la maggior parte dei membri del Riksdag furono imprigionati, lo stesso monarca fu assassinato nel 1792, mentre il successore Gustavo IV fu obbligato ad abdicare. Verso la fine del XVIII secolo, la Svezia aveva perso la Finlandia

BATTAGLIA DI POLTAVA.

Carlo XII di Svezia, ferito a un piede, con il suo alleato, il leader cosacco Ivan Mazepa, dopo la sconfitta di Poltava, in un olio del 1879 del pittore svedese Gustaf Cederström (collezione privata, Svezia). Per Mazepa, la sconfitta significò la fine delle sue aspettative di collocare l’Ucraina sotto il controllo del regno svedese, che gli aveva assicurato l’indipendenza in un trattato precedente. Così, con la sua vittoria, la Russia pose fine alla supremazia sulla Svezia e alle speranze dell’Ucraina.

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La suddivisione della Polonia fra le potenze europee Dalla morte del suo ultimo grande re, Giovanni III Sobieski nel 1696, la Polonia fu interessata da una lunga crisi di cui approfittarono i suoi vicini: nel 1722, la Prussia, la Russia e l’Austria si divisero i suoi territori. Non sarà l’unica volta: prima della fine del XVIII secolo, vi saranno altre due divisioni. Una delle ragioni di cui si avvalsero le potenze per suddividersi un trenta per cento del territorio polacco fu quella di preservare l’autorità di Stanislào II Augusto Poniatowski, re della Polonia dal 1764. Immerso in una lotta contro un gruppo di nobili raggruppati nella Confederazione di Bar, il monarca aveva chiesto aiuto alla Russia e alla Prussia, mentre i suoi rivali si erano rivolti all’Austria. La partecipazione di queste potenze, però, aveva un prezzo. Di fatto, le prime due avevano già sottoscritto, nel febbraio del 1722, un accordo segreto per cui il loro intervento sarebbe stato la scusa per conquistare alcuni territori polacchi, patto a cui aderirà molto presto anche l’Austria, dopo la rottura dell’alleanza con la Confederazione per mano di Maria Teresa. Fu così che, nell’agosto del 1772, le potenze entrarono in Polonia ufficialmente per appoggiare il re polacco, ma in cambio di una contropartita territoriale. I confederati furono sbaragliati nel 1773 dai Russi e, con l’esercito austriaco, russo e prussiano a Varsavia, a Stanislào II Poniatowski non restò altra opzione che cedere alle pretese degli occupanti. Anche così, la Polonia continuò a conservare la sua identità, perdendola solo nelle due suddivisioni successive, la prima nel 1793, in risposta alla proclamazione da parte dei riformisti della Costituzione del 3 maggio del 1791, e la seconda nel 1795, quando la sollevazione dei patrioti polacchi fu schiacciata. Nell’immagine, un’incisione che mostra la suddivisione della Polonia fra Caterina II di Russia, Federico II di Prussia e Giuseppe II d’Austria, in presenza di Stanislào II Poniatowski.

e tutti i suoi territori baltici. L’influenza nel nord Europa si concentrava ora sulla Prussia, da una parte, e sulla Russia, dall’altra.

La guerra di successione in Polonia Come nel caso della Svezia, nemmeno la Polonia fu in grado di sviluppare uno Stato forte. La nobiltà polacca, legata ai grandi latifondi, si negò sempre a qualsiasi tentativo di centralizzazione, e questo significò, in pratica, che le necessità di guarnigione delle sue immense frontiere erano trascurate. Il potere delle grandi famiglie nobiliari si esprimeva attraverso una camera di rappresentanti, il Senato e la Camera dei deputati, conosciute nel loro insieme col nome di “Dieta”, che si vedeva chiaramente ostacolata sia dalla necessità che le decisioni fossero approvate all’unanimità, sia dalla prerogativa che si concedeva alla nobiltà di utilizzare la forza per difendere i propri interessi. Minacciato dalle politiche espansionistiche dell’impero austriaco, della Russia di Pietro I e della Prussia di Federico II, il territorio polacco si vide sottomesso 28

per tutto il secolo a un insieme di divisioni del suo territorio fra le potenze circostanti. La morte di Giovanni III Sobieski, nel 1696, portò, come avvenne in altre situazioni simili, a un conflitto dinastico al quale parteciparono diverse potenze europee. Nel caso della Polonia, la pressione di Pietro I riuscì nell’intento di far salire al trono l’elettore della Sassonia Augusto II, che fu incapace non solo di difendere le sue frontiere durante la Grande Guerra del Nord, ma anche di garantire la corona al figlio. Al disastro umano ed economico della guerra si sommava, prima di tutto, la divisione della nobiltà polacca e, in seguito alla morte del re avvenuta nell’anno 1733, il problema della successione. La guerra che ebbe luogo fra il 1733 e il 1738 terminò con l’imposizione da parte della Russia, dell’Austria e della Prussia del nuovo monarca sassone, Augusto III, contro gli interessi della Dieta, che preferiva Stanislào Leszczynski, imparentato con la famiglia reale francese. Sebbene il nuovo monarca fosse teoricamente asceso al trono nel 1738, il suo fu un governo


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Prima suddivisione (1772):

Seconda suddivisione (1793):

Terza suddivisione (1795):

alla Russia alla Russia alla Prussia alla Prussia all’Austria Frontiere del regno della Polonia nel 1772 Insurrezioni Battaglie I SVE Z I A OD

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alla Russia alla Prussia all’Austria

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TRE SUDDIVISIONI IN UN QUARTO DI SECOLO. Nel 1795, la terza suddivisione della Polonia fra la Prussia, la Russia e l’Austria lasciò Stanislào II Poniatowski senza regno. La sua abdicazione e il successivo esilio a San Pietroburgo fu l’ultima conferma della disintegrazione della Polonia come Stato indipendente, iniziata nel 1772 e continuata nel 1793. Nonostante varie insurrezioni patriottiche che avvennero nel XIX secolo, la Polonia non riconquisterà la sua indipendenza fino al 1918, alla fine della Prima guerra mondiale.

chiaramente tutelato. Di fatto, il nuovo re non visse nemmeno in Polonia, ma a Dresda. L’arrivo al potere di Stanislào Augusto Poniatowski nel 1764 segnò un certo punto d’inflessione nel clima di malgoverno che aveva caratterizzato la prima metà del secolo polacco. Come antico amante di Caterina II di Russia, il nuovo monarca contava indubbiamente sull’acquiescenza della grande potenza russa, pertanto cercò di sviluppare una politica in parte indipendente. La sua forma di governo, vicina al dispotismo illuminato, fu molto simile a quella degli altri monarchi del continente, mentre la sua passione per l’illuminismo lo rese un “re filosofo”. Diversamente da altri monarchi europei, la pressione esercitata da parte della nobiltà polacca e la tutela della Russia di Caterina II, non permisero che questo riformismo illuminato acquisisse il carattere di una monarchia assoluta. Sotto l’egida di Federico II, la Prussia, l’Austria e la Russia nel 1772 procedettero alla prima divisione della Polonia, in cui la corona polacca avrebbe perso il trenta per cento del suo territo-

rio. Invocando l’equilibrio della zona, la Russia annesse la Bielorussia, l’Austria la provincia della Galizia e la Prussia riuscì a unificare i suoi due territori. Nel 1793 vi fu una seconda grande divisione del territorio polacco: la Prussia ottenne Danzica e la Posnania, mentre la Russia annetteva la Podolia, l’Ucraina e l’ovest della Bielorussia. La terza e ultima suddivisione avvenne nel 1794, col pretesto di evitare l’estensione del clima rivoluzionario di taglio giacobino, propiziato dal generale Tadeusz Kosciuzko. Quest’ultima suddivisione presupponeva, di fatto, la scomparsa della Polonia, il cui nome smise di apparire nel diritto internazionale nel 1795. Quello stesso anno abdicava il re, che sarebbe morto a San Pietroburgo nel 1798.

Il regno di Maria Teresa I Sebbene il casato d’Austria si potesse considerare (dal punto di vista territoriale) uno dei poteri più importanti d’Europa, la sua enorme diversità geografica e linguistica, così come la sua incapacità militare, agirono sempre contro i suoi interessi. 29


MARIA TERESA, LA GRANDE IMPERATRICE AUSTRIACA

N

onostante fosse la figlia maggiore dell’imperatore Carlo VI, Maria Teresa giunse al trono austriaco solo dopo una lunga guerra successoria che finì nel 1748 con la firma del Trattato di Aquisgrana, dovendo però accettare che la dignità imperiale fosse attribuita al marito, Francesco I, diventando così lei imperatrice consorte, regina d’Ungheria e di Boemia e arciduchessa d’Austria. Ciò nonostante, fu lei a tenere le redini del governo, favorendo misure riformiste, come l’unificazione e la centralizzazione amministrativa dei suoi territori, o la modernizzazione dell’esercito. Nell’immagine, l’imperatrice Maria Teresa seduta e accompagnata dai suoi figli, tra cui, all’estrema destra del quadro, il suo successore Giuseppe II (1765-1790), in un dipinto opera di Heinrich Friedrich Füger (Österreichische Galerie im Belvedere, Vienna).

CRONOLOGIA DI MARIA TERESA I D’AUSTRIA

PALAZZO IMPERIALE. Ampliato da Joseph Emanuel Fischer von Erlach, l’Hofburg di Vienna fu uno degli edifici con cui Maria Teresa volle esaltare Vienna. 30

1717

1736

1740-1748

La figlia dell’imperatore. Il 13 maggio nasce Maria Teresa, figlia dell’imperatore Carlo VI e della moglie Elisabetta Cristina di BrunswickWolfenbüttel. Sarà l’unica donna sovrana della casa Asburgo.

Matrimonio. Si sposa col duca Francesco Stefano di Lorena. Dei suoi 16 figli furono di particolare spicco: due imperatori, Giuseppe II e Leopoldo II, e una regina, Maria Antonietta di Francia.

Guerra successoria. La morte di Carlo VI lascia Maria Teresa come erede non riconosciuta da tutte le potenze europee. Nel 1745, il suo sposo Francesco Stefano viene eletto imperatore.


SPLENDORE IMPERIALE Oltre a distinguersi per le riforme sulla linea del dispotismo illuminato, il regno di Maria Teresa si distinse per una politica costruttiva che doveva dare un’immagine magnifica della monarchia austriaca. Si spiega così la riforma intrapresa nell’Hofburg viennese e, soprattutto, l’ambiziosa ricostruzione e ampliamento portati a termine nel palazzo di Schönbrunn, la residenza estiva della famiglia imperiale nei dintorni di Vienna. In alto, specchio e camino della Sala del Milione, a Schönbrunn, così chiamata per l’importo in fiorini che costò la sua decorazione; in basso, porcellana di Antonio Grassi, che rappresenta l’imperatrice (Palazzo Pitti, Firenze).

1756-1763

1765

1780

Guerra dei Sette anni. L’invasione della Sassonia da parte di Federico II scatena una nuova guerra, in cui l’Austria cerca di recuperare la Slesia, sottratta ai Prussiani nell’anno 1740.

Morte dell’imperatore. Francesco I muore in agosto. Maria Teresa dichiara coreggente il figlio Giuseppe II, sebbene la relazione fra i due non fosse delle più semplici.

Morte di Maria Teresa. L’imperatrice muore a Vienna il 29 novembre. Assieme a lei scompare la dinastia Asburgo, cui succede quella degli Asburgo-Lorena, nella persona del figlio, Giuseppe II.

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LA POLITICA DEGLI STATI

TAPPE DELLA GUERRA DEI SETTE ANNI 1756

Invasione prussiana. La Prussia invade la Sassonia, anticipando l’Austria che mirava a recuperare la Slesia, in mano prussiana. 1757

Sconfitta in Boemia. L’espansione prussiana prosegue in terre boeme, ma viene frenata il 18 giugno con la battaglia di Kolín. 1758

La Prussia sulla difensiva. L’esercito prussiano è attaccato su vari fronti. Riesce a vincere il 25 agosto sull’esercito austriaco a Zorndorf. 1759

Berlino occupata. Il 12 agosto Federico II subisce una grande sconfitta a Kunersdorf. I Russi si impossessano della Prussia orientale e di Berlino. 1762

L’abbandono della Russia. Alla morte di Isabella I, Pietro III firma la pace con Federico II, atto che viene ratificato da Caterina II. 1763

Pace di Parigi. Il 10 febbraio la firma del Trattato di Parigi conferma la Prussia e la Gran Bretagna come le grandi vincitrici.

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Lo storico tedesco Samuel von Pufendort descrisse questo Sacro impero come Irregulare aliquod corpus et monstro simile (un «corpo irregolare simile a quello di un mostro»), a causa della grande quantità di territori ed entità nazionali sconnesse che l’integravano. All’inizio del XVIII secolo l’impero governato da Carlo VI d’Austria comprendeva i cosiddetti Paesi ereditari (Boemia, Moravia, Slesia e Lusazia), il regno d’Ungheria, Croazia e Slovenia e il principato di Transilvania. In seguito alla firma dei Trattati di Utrecht e Rastadt, quest’impero riceverà anche i possedimenti spagnoli nei Paesi Bassi, il Ducato di Milano, Napoli e la Sardegna. L’insurrezione dell’Ungheria, guidata dal principe Ferenc Rákóczy, sebbene soffocata dagli eserciti dell’imperatore, scatenò una politica di concessioni che indebolirono il potere centralizzante dell’impero. Nel 1711, lo stesso anno in cui Carlo VI accedette al trono imperiale, la nobiltà magiara smise di pagare le imposte dirette, mentre l’assemblea ungherese fu interessata da un miglioramento della sua autonomia rispetto alle decisioni e alle politiche che si proponevano a Vienna. Fu in parte la resistenza ungherese a impedire lo sviluppo di una monarchia imperiale di taglio assolutista. In politica estera, nemmeno la guerra di successione spagnola si concluse in modo soddisfacente per l’Austria; al contrario, l’ascesa al trono di Carlo VI, che era stato proposto per sostituire Carlo II di Spagna, fu accompagnata da una logica paura della disintegrazione dell’impero. Questo spiega la promulgazione della Sanzione prammatica del 1713, che dichiarava il Sacro impero indivisibile, non solo rispetto alle possibili resistenze interne, ma anche rispetto alla prospettiva, sempre più probabile col passare del tempo, che non vi fosse un erede maschio al trono. Contrariamente ai principi della legge salica, l’unica figlia di Carlo VI, Maria Teresa, non poteva ereditare l’impero a meno che lo stesso monarca ottenesse il consenso dalle restanti potenze europee, che dovevano rinunciare espressamente alle rivendicazioni successorie. Durante i decenni del 1720 e del 1730, sia gli eredi di suo fratello sia l’Assemblea ungherese cominciarono una politica di cessione del territorio per far sì che le monarchie europee rispettassero la volontà successoria dell’imperatore. Il ducato di Lorena, per esempio, fu ceduto alla Francia, e i diritti commerciali d’esportazione dei Paesi Bassi del sud ricaddero sull’Olanda e sull’Inghilterra. Nulla impedì, tuttavia, che poche settimane dopo l’incoronazione di Maria Teresa nel 1740 Federico II di Prussia invadesse e in seguito annettesse la Slesia. Allo stesso tempo, la Francia, la Spagna e la Baviera si unirono all’attacco, con la chiara intenzione di divi-

dere i territori dell’impero. Le élite boeme proclamarono l’elettore di Baviera, Carlo Alberto di Wittelsbach, re di Boemia, mentre i restanti elettori degli Stati tedeschi (incluso Giorgio II di Gran Bretagna, anch’egli elettore di Hannover), minacciavano di insediare sul trono, per la prima volta nella storia, un imperatore che non appartenesse alla dinastia degli Asburgo. Nonostante Maria Teresa riuscì finalmente a ottenere l’appoggio dell’Assemblea ungherese, che formò un esercito capace di respingere l’attacco coordinato dei suoi nemici, la pace firmata nel 1748 sarebbe costata al Sacro impero il territorio della Slesia. Cosciente del pericolo di disintegrazione interna, l’imperatrice Maria Teresa intraprese una serie di profonde riforme politiche che inclusero, in primo luogo, l’integrazione della nobiltà magiara alla corte di Vienna. Seguendo sia il modello prussiano sia quello francese, divise l’impero in province amministrative, ognuna delle quali si trovava sotto il controllo di un ufficiale della corona (Kreishauptmann). Quest’ufficiale, una specie di intendant francese o di landrat prussiano, divenne


un elemento indispensabile per la riscossione delle imposte e, di conseguenza, per il consolidamento di uno Stato di fiscalità centralizzata. Mentre venivano portate avanti queste riforme amministrative, l’impero cominciava la ristrutturazione del suo esercito, con la formazione di una forza militare unificata di 175.000 soldati e la ricerca di un nuovo accordo internazionale. Per quest’ultimo compito, l’imperatrice Maria Teresa si fece guidare dal conte Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg. Quest’abile negoziatore riuscì a modificare il sistema di alleanze di modo che il tradizionale confronto fra la Francia e l’impero potessero trasformarsi in una collaborazione militare capace di venire incontro ai desideri espansionistici della Prussia e, per estensione, dei re hannoveriani inglesi. Il primo maggio del 1756, Von Kaunitz riuscì a portare a termine quella che si potrebbe definire una “rivoluzione diplomatica” grazie alla firma del primo Trattato di Versailles, che stabilì un’alleanza strategica fra l’Austria e la Francia contro le minacce espansionistiche della Prussia, della Russia e dell’Inghilterra.

Alla morte di suo marito nel 1765, Maria Teresa, che non poteva ostentare il titolo di imperatrice, nominò suo figlio erede dell’impero e divenne reggente fino all’arrivo di questi al potere nel 1780.

La guerra dei Sette anni La maggior parte degli Stati europei prese parte alla cosiddetta guerra dei Sette anni, che potrebbe essere considerata la prima “guerra mondiale”. Il conflitto bellico, provocato dall’Austria nel suo tentativo di recuperare la Slesia che le era stata sottratta dalla Prussia durante la guerra di successione austriaca, si sviluppò, effettivamente, su scala globale: vi furono infatti conflitti aperti nei territori europei, ma anche in Nord America, nei Caraibi, nel Pacifico e nel subcontinente indiano. Assieme all’Austria si schierò la Francia, (una volta smussate le discordie relative alla guerra di successione spagnola), la Russia, la Svezia e la Sassonia. Assieme a Federico II di Prussia combatterono le truppe della Gran Bretagna e dell’elettorato di Hannover.

SCHÖNBRUNN. Qui sopra, il palazzo in un quadro di Bernardo Bellotto (1759-1760). In basso, statua di Ferenc Rákóczi, leader dell’insurrezione ungherese contro l’impero.

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LA POLITICA DEGLI STATI

Giorgio III d’Inghilterra e la sua politica internazionale Terzo monarca della casa di Hannover, e il primo nato in terra inglese e pertanto di madrelingua inglese, Giorgio III diede impulso a una politica estera caratterizzata da grandi successi e insuccessi. Fra i primi, il consolidamento della Gran Bretagna come potenza marittima dominante in Europa e la sconfitta di Napoleone; fra i secondi, la perdita delle colonie nel Nord America, che formeranno gli Stati Uniti. Nel 1760 Giorgio III ereditò la corona di suo nonno Giorgio II. Aveva allora ventidue anni e nessuna esperienza governativa: ciò nonostante, si adoperò per rafforzare il potere reale a spese di un parlamento dominato dal partito whig, o liberale, a cui appartenevano personalità come William Pitt il Vecchio. Questi fu uno dei sostenitori dell’entrata della Gran Bretagna nella guerra dei Sette anni, conflitto da cui ben presto il nuovo re volle affrancarsi. Lo fece nel 1763 con la firma del Trattato di Parigi, duramente criticata da William Pitt il Vecchio, che pensava di lasciare alla Francia la possibilità di trasformarsi di nuovo in una minaccia, come effettivamente sarebbe avvenuto, nonostante il regno gallico avesse ceduto a quello britannico la quasi totalità delle sue proprietà nel Nord America. Da allora Giorgio III diresse una politica poco lineare, che visse una delle sue peggiori crisi nel 1776, quando lo scontento dei coloni nordamericani rispetto alla madrepatria sfociò in una guerra che terminò nel 1783 con l’indipendenza degli Stati Uniti. In quello stesso anno, William Pitt il Giovane diventò l’uomo di fiducia di un re dalla salute sempre più precaria, così come lo era anche la situazione nel continente a causa della belligerante Francia sorta dalla Rivoluzione del 1789. La Gran Bretagna entrò nuovamente in guerra, ma quando Napoleone fu sconfitto a Waterloo (1815), Giorgio III aveva già perso la ragione da quattro anni e viveva confinato a Windsor, avendo affidato al figlio Giorgio IV il ruolo di reggente. Il re morì nel 1820.

LA PAZZIA DEL RE.

Gli ultimi anni della vita di re Giorgio furono caratterizzati dalla pazzia. Secondo alcune ipotesi, gli alti livelli di arsenico scoperti nei suoi capelli, prodotti da un trattamento a base di antimonio per controllare gli attacchi di porfiria, avrebbero potuto causare i suoi disordini mentali. Nell’immagine, busto di Giorgio III realizzato da John van Nost il Giovane nel 1767 (Victoria & Albert Museum, Londra).

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Ai conflitti continentali si aggiunsero quelli che interessarono principalmente gli Inglesi e i Francesi nei loro possedimenti d’oltremare, soprattutto in Nord America e in India. In primo luogo, la guerra dei Sette anni presuppose un cambiamento nel tradizionale sistema di alleanze che durante il XVII secolo aveva visto la Francia contrapporsi agli Asburgo. Come si è già detto, l’inizio di questa “rivoluzione diplomatica” fu l’alleanza della Francia con l’impero di Giuseppe II, nel maggio dell’anno 1756, il preludio che si era prefissato l’impero per riconquistare la Slesia alla Prussia. La preoccupazione e la gelosia reciproca fra i Francesi e gli Inglesi riguardo alle loro colonie americane e gli interessi commerciali nei mercati atlantici fecero loro dimenticare, per esempio, che la Francia durante la guerra dei Trent’anni era scesa in campo con i protestanti. Di uguale importanza fu la comparsa di nuovi attori, come la Prussia, che era riuscita a formare un grande esercito, ben addestrato ed efficace, e la Russia, che aveva le sue mire espansionistiche e che, allo stesso tempo, guardava con diffidenza le politiche di espansionismo della Prussia. Il secondo Trattato di Aquisgrana, dell’anno 1748, che voleva concludere la guerra di successione austriaca, comportò anche un aumento della tensione fra gli interessi francesi e quelli inglesi circa i rispettivi possedimenti coloniali. La Francia, che aveva partecipato alla disputa con l’intenzione di recuperare i Paesi Bassi meridionali, si trovò però dopo la sua conquista militare a perdere nuovamente il Belgio. Anche l’avvicinamento che si produsse fra Inglesi e Russi ebbe una certa importanza, soprattutto quando la Russia cominciò ad assumere un ruolo più da protagonista nelle questioni continentali. Allo stesso tempo, la tradizionale inimicizia fra la Francia e l’Austria si sarebbe invertita nel nuovo sistema d’alleanze, davanti alla presenza di nuove minacce. I patti fra l’Inghilterra e la Prussia rendevano quasi obbligatoria una ristrutturazione e riconsiderazione della posizione francese rispetto all’impero asburgico. Allo stesso modo, anche il peso degli interessi coloniali, che permette di spiegare buona parte di queste rivoluzioni diplomatiche, ebbe importanti conseguenze nei territori americani. Nel continente europeo le ostilità cominciarono apertamente quando Federico II il Grande, prendendo l’iniziativa militare, invase la Sassonia. Nella prima grande battaglia della guerra, ingaggiata a Rossbach il 5 novembre 1757, le truppe prussiane sconfissero l’alleanza francoaustriaca. Tuttavia, il massiccio spiegamento militare prussiano lasciò sguarnite le sue frontiere,


e la Russia approfittò di questa debolezza per invadere il Brandeburgo e occupare la Pomerania. Per un breve periodo le truppe russe conquistarono anche Berlino. La morte, nel 1762, dell’imperatrice russa Isabella I, e la salita al trono del suo successore, lo zar Pietro III, modificò l’andamento degli eventi. Il nuovo zar, grande ammiratore di Federico il Grande e delle abitudini militari prussiane, restituì alla Prussia i territori conquistati e abbandonò l’alleanza con l’Austria per recuperare la regione Slesia. Allo stesso modo, l’arrivo di Giorgio III al trono d’Inghilterra modificò anche l’intervento britannico nel conflitto, poiché il monarca non voleva proseguire con una guerra nel continente europeo. Nel febbraio del 1763, in seguito alla firma del Trattato di Parigi, la Gran Bretagna ottenne il controllo dell’America del Nord, compresa la Florida, che fu ceduta dalla Spagna, così come l’India. La Prussia, invece, confermò i suoi possedimenti in Slesia. Oltre all’aspetto militare, la guerra dei Sette anni rese manifesta la necessità

di riforme in tutti gli Stati interessati dalla contesa. Per tutti gli Stati il costo della guerra fu troppo elevato. Per l’impero austriaco, per esempio, nel 1763 il debito dello Stato superava sette o otto volte le sue entrate annuali. In Prussia, dove avvenne la maggior parte delle battaglie, il livello di distruzione fu enorme. In seguito al trattato di Utrecht, le principali zone del conflitto fra i Francesi e gli Inglesi si spostarono dal nord Europa all’America. Sia grazie allo sviluppo del commercio, sia per l’occupazione di terre floride, la popolazione delle colonie britanniche crebbe rapidamente, fino a raggiungere un milione e mezzo di abitanti; una quantità decisamente importante se si pensa che verso la metà del secolo la popolazione completa della Gran Bretagna non superava i sette milioni. Se la popolazione francese arrivava a 22 milioni, in Canada c’erano quasi 50.000 coloni francesi. Gli Spagnoli, invece, non erano più in grado di resistere all’armata britannica, nonostante gli sforzi realizzati per far riorganizzare l’economia e l’esercito.

LA GUERRA DEI SETTE ANNI. Considerata per

molti anni la “prima guerra mondiale”, quella dei Sette anni spostò gli scenari militari fuori dal Vecchio Continente. Sopra, Defensa del Morro de La Habana, olio di Rafael Monleón y Torres, del 1890 (Museo Navale, Madrid). La scena racconta l’episodio della coraggiosa difesa del baluardo di Santiago, nel castello del Morro, attaccato da uno squadrone di quattro navi britanniche il primo luglio del 1762. In primo piano il Cambridge, disarmato, si sottrae alle fiamme grazie alle scialuppe di salvataggio. 35


IL DESPOTA MODELLO.

Federico II il Grande, modello ideale del despota illuminato, in un olio di Johann Heinrich Christian Franke (1763) che lo mostra decorato con il simbolo dell’ordine dell’Aquila Nera, creato dal nonno Federico I (Staatliche Schlösser und Gärten, Berlino). Nella pagina accanto, l’aquila imperiale russa del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, sede del Museo dell’Hermitage.

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IL DISPOTISMO ILLUMINATO A partire dal 1740, la maggior parte degli Stati europei iniziò ad applicare una politica di riforme economiche, sociali e amministrative volte ad aumentare il commercio, l’educazione o la scienza, ma anche a perfezionare il sistema giudiziario e tributario. Legata alle idee dell’Illuminismo, questa nuova forma centralizzata di governo prese il nome di “dispotismo illuminato”.

S

ebbene l’espressione “dispotismo illuminato” sia stata coniata solo verso la metà del XIX secolo, il suo uso, assieme a quello dell’espressione “assolutismo illuminato”, è servito fin dal Settecento per descrivere un metodo di governo che coniuga una politica di centralizzazione e di riforme con alcuni dei principi dell’Illuminismo, specialmente la pretesa di offrire la maggiore felicità al maggior numero possibile di persone. Intimamente connesso con la volontà di eliminare, o per lo meno limitare i privilegi del clero e dell’aristocrazia, il dispotismo illuminato viene solitamente considerato una caratteristica delle monarchie europee della seconda metà del

secolo, che comincerà con la salita al trono di Federico II di Prussia e Maria Teresa I d’Austria fra il 1740 e il 1745, e finirà con il regno dell’imperatore Giuseppe II d’Austria nel 1790. I principali monarchi illuminati furono il già citato re di Prussia, Federico II il Grande (17401786); l’imperatrice di Russia, Caterina la Grande (1762-1796); l’imperatore asburgico Giuseppe II (1765-1790); il monarca svedese Gustavo III (17711792), e lo spagnolo Carlo III (1759-1788). A questi monarchi si potrebbero aggiungere altri governanti, in particolare il marchese di Pombal, in Portogallo (1750-1777). In ogni caso, si può dire che l’esercizio del potere consistesse in un tenta-

XVIII

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IL DISPOTISMO ILLUMINATO

I GRANDI DESPOTI ILLUMINATI 1715-1774

Luigi XV di Francia. Il pronipote del Re Sole sciolse il Parlamento e si attribuì il potere esclusivo di promulgare leggi nel suo regno. 1740-1786

Federico II di Prussia. Uomo di cultura e con evidenti doti di statista e militari, incarnò l’ideale del monarca illuminato. 1759-1788

Carlo III di Spagna. Dalla sua salita al trono si circondò di una squadra di illuministi per riformare il Paese, ottenendo però scarsi risultati. 1762-1796

Caterina II di Russia. Sposa dello zar Pietro III, lo destituì con un colpo di Stato e rese la corte un centro cosmopolita. 1765-1790

Giuseppe II d’Austria. Figlio di Maria Teresa, promulgò la tolleranza religiosa e soppresse la servitù della gleba nel suo impero. 1771-1792

Gustavo III di Svezia. Nel suo tentativo di rafforzare il potere della monarchia, sciolse la Dieta e si scontrò con i nobili.

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tivo di trasferire sul piano politico l’ideologia illuminista con il miglioramento delle condizioni di vita, lo sviluppo dell’industria, dell’agricoltura e del commercio, e, in modo particolare, la promozione della scienza e dell’arte, così come quella dell’educazione civica. La politica di riforme includeva la modernizzazione del sistema legale e fiscale, lo sviluppo economico e commerciale, così come l’abolizione della servitù della gleba. Per portarla avanti i re europei optarono per aumentare i loro poteri con una politica di centralizzazione e di espansione militare, includendo riforme amministrative, fiscali e religiose. Sebbene molte di queste riforme ebbero un esito limitato e dipesero anche da altre misure militari in grado di perpetuare lo stesso governo, anche i piccoli Stati italiani o i regni che formavano il Sacro romano impero favorirono una politica di concentrazione del potere politico, giuridico e amministrativo. Con l’importante eccezione dei regimi più o meno costituzionalisti delle Province Unite dei Paesi Bassi e della Gran Bretagna, i governanti europei, dalla Russia al Portogallo, compreso in questo caso anche la Polonia, promossero una nuova forma d’autorità che limitava, o cercava di limitare, i privilegi della nobiltà e della Chiesa, espandendo l’attività e l’influenza dello Stato a settori fino ad allora regolati da interessi privati, come l’educazione, la sanità, la scienza, l’insegnamento universitario o la carità. Nella maggior parte dei casi questa concentrazione di potere era accompagnata da una profonda riforma fiscale volta all’unificazione delle imposte e dei tributi che dovevano soddisfare gruppi sociali che fino ad allora erano stati esenti. La pressione del potere assoluto dei monarchi e il loro desiderio di regolare ogni aspetto della vita pubblica interessò anche i costumi e i beni culturali, come la forma di vestire, di divertirsi o di morire. Lo zar Pietro I di Russia, per esempio, fu favorevole all’utilizzo di un abbigliamento all’occidentale, che includeva l’uso di giacche, ma anche di cappelli e biancheria intima. Gli uomini, inoltre, dovevano tagliarsi la loro lunga barba, o sarebbero incorsi in multe del valore compreso fra un rublo (per i più ricchi) e un copeco (per i più poveri). In Spagna nel 1766 i ministri di Carlo III promulgarono un bando che includeva un’ordinanza contro l’uso del mantello lungo e del cappello ampio. L’imperatore Giuseppe II volle che i suoi sudditi, nel momento del decesso, fossero sotterrati in tombe di legno riutilizzabili. Dal regolamento degli aspetti essenziali della vita pubblica fino ai più piccoli dettagli, relativi agli usi e ai costumi, i monarchi illuminati cominciarono a giustificare il loro potere, non tanto

I fasti delle corti illuminate Con Versailles come modello, la corte si trasformò nella vetrina dello splendore e della magnificenza delle monarchie assolutistiche, oltre che nel centro nevralgico del potere, con il sovrano come figura principale. Nonostante sovrani come l’austriaco Giuseppe II o il prussiano Federico II optassero per uno stile di vita semplice, le corti illuminate si distinsero per trasmettere un’immagine sontuosa che trovava la sua massima espressione nel palazzo. Così Versailles fu l’emblema della vittoriosa Francia di Luigi XIV, la cui ricchezza avrebbe attratto amici e nemici. Il suo esempio fu presto seguito, e fu così che Maria Teresa fece costruire Schönbrunn e Pietro I il Peterhof. La vita in questi palazzi era interessata da complesse norme d’etichetta, sontuose feste, cerimonie e magnifiche rappresentazioni teatrali e operistiche che avevano lo scopo di enfatizzare ancora di più lo splendore regio. Nell’immagine, il carosello delle dame, organizzato a Vienna il 2 gennaio 1743 per celebrare la ritirata dell’esercito francese e bavarese dalla Boemia. L’olio è di Martin van Meytens; nella carrozza sul fondo appare l’imperatrice Maria Teresa (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

con l’origine divina della loro autorità ma, così come aveva fatto per esempio Luigi XIV, con la loro disposizione a cercare un bene comune al di sopra degli interessi corporativi, la maggior parte delle volte opposti. Il monarca si presentava come un buon padre che cercava la riconciliazione dei suoi sudditi per ottenere una maggiore prosperità nel regno. Quest’ultima idea aveva chiari antecedenti storici, dato che, almeno dal XVI secolo, la teoria politica aveva considerato che i re condividessero la ricerca del bene comune. La differenza si trovava ora nell’indivisibilità del potere, che manteneva un carattere patriarcale. Investito da un’autorità assoluta, il monarca si comportava a tutti gli effetti come il saggio conoscitore delle necessità e delle tribolazioni di tutti i suoi sudditi. Invocando una legge naturale, e non un’attribuzione di origine sovrannaturale, Giacomo I d’Inghilterra proclamava nel parlamento che il re dovesse diventare un padre per i membri del suo regno. Anche Federico II di Prussia soleva dire che il re fosse il primo servo del suo popolo. Per Francesco Maria Gianni, uno dei


consiglieri del granduca Leopoldo di Toscana, il miglior governo era quello che esercitava il migliore sovrano, colui «che sa come condurre i suoi sudditi, con una buona legislazione e amministrazione, a una maggiore felicità». Mosso tanto da ragioni quanto da interessi, il governante era vincolato a una forma di contratto per cui si rendeva responsabile, razionalmente, del benessere dei suoi sudditi. Sebbene il termine “despota illuminato” fosse stato inizialmente utilizzato dal barone e scrittore Friedrich Melchior Grimm (amico di Diderot) nel 1758, il suo uso si estese soprattutto dopo la pubblicazione, nel 1767, di L’ordine naturale ed essenziale delle società politiche, dell’economista fisiocrate francese Pierre-Paul Lemercier de La Rivière. Questo libro, un manuale di buon governo, considerava che il governante dovesse diventare un «despota patrimoniale e legale», se voleva far valere le sue idee. Sebbene l’idea di “dispotismo” e quella di “illuminismo” sembrassero all’inizio opposte, questo doppio concetto fu già ben radicato negli ultimi decenni del secolo.

Sia i philosophes sia i fisiocrati favorirono la relazione di fratellanza fra il potere e la ragione, sia attraverso l’implicazione dei filosofi al governo, o, al contrario, mediante l’applicazione razionale di principi filosofici da parte dei governanti. In entrambi i casi, si trattava di porre le ragioni private al servizio del bene pubblico.

Giuseppe I e il marchese di Pombal Come successe in molti altri Stati europei, l’attività legislativa in Portogallo permise, a partire dalla seconda metà del secolo, di intraprendere una serie di riforme molto importanti. L’istituzione di un sistema d’educazione pubblica, il miglioramento dell’università, l’abolizione della schiavitù e della tortura, la diminuzione dei poteri dell’Inquisizione e l’accentramento delle finanze nelle mani del primo ministro furono il risultato di una politica di governo che appoggiava le sue decisioni, almeno parzialmente, sui principi della filosofia illuminata. Il caso del Portogallo si distinse per la presenza di Sebastião José de Carvalho e Melo (1699-1782). 39


L’apocalittico terremoto di Lisbona Sebbene non fosse il primo terremoto a colpire la capitale portoghese, quello del 1755 fu il più devastante. Il carattere arbitrario della distruzione ebbe un enorme impatto sul desiderio illuminista di costruire un mondo migliore e più giusto. L’1 novembre 1755, nel giorno della festività di Ognissanti, fra le 7 e le 9 della mattina la terra cominciò a tremare nella città di Lisbona, con una forza mai vista prima. Presa dal panico, la gente usciva per strada mentre gli edifici crollavano e scoppiavano incendi dappertutto. Nel porto, tre gigantesche onde di dieci metri d’altezza travolsero tutto ciò che trovavano sul loro tragitto, incluse le persone che vi si erano recate in cerca di riparo. L’immagine finale fu dantesca: tutta Lisbona era una rovina alla mercé delle fiamme, che sarebbero state domate solo dopo cinque giorni. L’85% degli edifici, fra cui anche il palazzo reale, fu distrutto dal terremoto (si calcola che la sua forza sia stata pari a una magnitudine 9 della scala Richter) o dagli incendi, e che persero la vita fra 20.000 e 60.000 persone. La catastrofe fu tale da intaccare l’ottimismo illuminista, ricordando a tutti quanto fosse fragile l’esistenza umana. Nell’immagine, incisione di Georg Caspar Pfauntz che rappresenta la distruzione di Lisbona a causa del terremoto.

Il marchese di Pombal non era nobile di nascita, ma così come altri piccoli proprietari terrieri portoghesi si rese meritevole del suo titolo, come ricompensa dei suoi servigi resi allo Stato. Tuttavia, il fatto decisivo che favorì la sua politica di riforme dispotiche e illuminate, non fu soltanto l’arrivo al trono di un nuovo monarca o il comportamento del suo primo ministro, ma il terribile terremoto che devastò Lisbona nel 1755. Quest’avvenimento di portata apocalittica, che scosse la fiducia europea nel progresso e nell’ordine naturale, permise non solo la ricostruzione della città seguendo i principi dell’ideologia illuminista, ma limitò anche il potere degli organi intermediari dello Stato. L’eccezionalità della situazione si trasformò nella scusa perfetta per iniziare una politica di profondi cambiamenti in tutto il regno. Mai fu così vera l’affermazione della massima medica secondo cui “a mali estremi, estremi rimedi”. Mentre filosofi e letterati europei, come Kant o Voltaire, scrivevano sulle implicazioni filosofiche del sisma, il marchese di Pombal ordinava di impiccare gli sciacalli che si davano al 40

saccheggio, di gettare nell’oceano i cadaveri delle vittime e di cominciare la ricostruzione di una nuova Lisbona seguendo i principi dell’utilità sociale e dell’efficienza razionale degli edifici.

Protezionismo e uso della forza Ambasciatore a Londra dal 1739 fino al 1744, nominato membro della Royal Society nel 1740 durante gli anni della guerra dell’Orecchio di Jenkins, Pombal aveva imparato dagli Inglesi che la difesa degli interessi economici degli imperi d’oltremare dipendeva dalla superiorità navale e dalle politiche commerciali. Pombal condivideva con gli illuministi inglesi il suo desiderio di spiegare gli effetti conoscendo le cause. Ciò era applicabile sia ai fenomeni naturali (per esempio, il terremoto), sia all’ordine politico e commerciale. Dovendo rendere conto della superiorità militare inglese e della debolezza commerciale e militare portoghese, il marchese Pombal, come Voltaire, si atteneva all’esito delle politiche commerciali che avevano fatto della Gran Bretagna la grande potenza navale nei due lati dell’Atlantico. Con-


LE TRACCE DEL TERREMOTO. Le rovine del Convento do Carmo, la cui

chiesa era la maggiore in stile gotico di Lisbona, furono preservate, per ricordare ai lisbonesi la gravità del sisma del primo novembre 1755.

vinto, pertanto, che il miglioramento delle relazioni commerciali portoghesi richiedesse che la nuova amministrazione applicasse misure urgenti nelle colonie, il marchese di Pombal creò un sistema fiscale legato alla produzione d’oro in Brasile, che evitava l’evasione e il contrabbando. Allo stesso tempo, spinse il governo a promuovere misure protezioniste relative al commercio di zucchero e tabacco. Verso la metà del secolo, stabilì delle case d’ispezione commerciale a Bahía, Rio de Janeiro e altre città del Brasile. Mentre promuoveva misure per aumentare la popolazione, Pombal offrì alla Compagnia Generale del Commercio di Grão-Pará e Maranhão privilegi di monopolio per il commercio di schiavi. Pensava che in questo modo i Portoghesi sarebbero riusciti a competere a parità di condizioni con i mercanti britannici. Lo stesso avvenne con il commercio del vino, con la fondazione della Compagnia Generale dell’Agricoltura delle vigne dell’Alto Duero, che segnava i limiti delle esportazioni di Porto. Sebbene questa impresa migliorasse considerevolmente le condizioni di

esportazione, aveva un effetto negativo sui piccoli viticoltori e commercianti, le cui proprietà non rientravano nei limiti indicati dalla Compagnia. La resistenza fu importante, specialmente nella città di Porto, che ospitava diverse gilde e gruppi di commercianti che vedevano i loro affari ridursi in modo apprezzabile a causa della Compagnia. Per questo motivo, il 23 febbraio del 1757, circa cinquemila persone insorsero contro le decisioni del governo. Senza esitare, Pombal considerò che l’insurrezione costituisse un caso di disobbedienza verso la corona, e delle 478 persone detenute e giudicate, solo 36 furono assolte. Senza voler dimostrare nessun segno di debolezza, tredici uomini e una donna furono impiccati nell’ottobre di quello stesso anno, e i loro corpi furono collocati su di una picca per i successivi quindici giorni. Il resto dei prigionieri fu frustato e mandato in prigione; i loro beni furono confiscati mentre la città di Porto veniva occupata dai militari. Questa non sarebbe stata l’unica occasione in cui il marchese di Pombal si mostrava favorevole all’uso della forza. 41


IL DISPOTISMO ILLUMINATO

L’espulsione dei gesuiti, una misura comune adottata dai re illuminati Dalla sua fondazione nel 1540 uno dei voti che distinguevano la Compagnia di Gesù da altri ordini religiosi fu quello d’obbedienza diretta al papa di Roma. Per questo motivo le monarchie assolute finirono per considerarla come una specie di Stato dentro lo Stato, che sfuggiva al loro potere. Confermata da papa Giulio III nel 1550, la formula che dovevano pronunciare i membri della Compagnia recitava: «Militare per Dio sotto la bandiera della croce e servire solo il Signore e la Chiesa, sua Sposa, sotto il Pontefice Romano, Vicario di Cristo in Terra». I gesuiti divennero un autentico esercito al servizio del papa, e in suo nome si sparpagliarono per l’Europa per lottare contro la Riforma. La difesa a oltranza del papato, però, unita alla loro influenza politica, il loro ruolo in aree come l’educazione e una considerevole ricchezza, finirono per procurar loro vari nemici, sia fra gli altri ordini religiosi, sia fra gli illuministi e i sostenitori della monarchia assoluta. Nel 1759, con la scusa di una cospirazione contro Giuseppe I, il marchese di Pombal li espulse dal Portogallo, esempio seguito nel 1763 dalla Francia e nel 1767 dalla Spagna e da Napoli. Inoltre, nel 1773 questi regni ottennero che Clemente XIV decretasse la soppressione dell’ordine, che però non scomparve: fino alla sua restaurazione, nel 1814, i suoi membri si rifugiarono in Prussia e Russia. Nell’immagine, incisione riguardante l’espulsione dei gesuiti dal Portogallo (Biblioteca Nazionale, Parigi).

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Anche alcune misure promosse da Pombal nell’America portoghese trovarono opposizione, sia fra i commercianti (che vedevano minacciata la loro posizione a causa dell’instaurazione dei monopoli), sia fra gli ordini religiosi, che fino ad allora si erano occupati della tutela degli indios. I gesuiti, in particolare, si riunirono in un’associazione commerciale, la Commissione del bene comune (la Mesa do Bem Commun), che attaccava duramente le pratiche riformiste in generale e la figura di Pombal in particolare. Come in Spagna, la lotta del marchese e la sua ideologia illuminata erano volte ad attenuare gli effetti negativi dei gruppi che, sia che fossero di natura religiosa o aristocratica, lottavano per consolidare o riacquistare posizioni di privilegio. A metà strada fra una forma di assolutismo non sottomessa a nessun controllo parlamentare e un dispotismo tipico di un regime dittatoriale, Pombal lottò coraggiosamente per attribuire alla corona portoghese il monopolio del commercio, della fiscalità, della giustizia e della forza. Quando nel 1758 vi fu un tentativo di regicidio Pombal non batté ciglio: il duca di Aveiro fu condannato al supplizio della ruota ed esposto alla folla con le membra fratturate, fu bruciato vivo e le sue ceneri furono sparse nell’aria. Un destino simile aspettava la famiglia del marchese di Tavora: la marchesa fu decapitata e la maggior parte dei membri furono strangolati e in seguito collocati sulla ruota. Nonostante fosse il secondo aristocratico più importante del Portogallo e il presidente della Corte Suprema il destino riservato al duca di Aveiro fu simile a quello subito poco prima dal soldato Robert-Francois Damiens che aveva cercato di uccidere Luigi XV. Assieme alla famiglia di Aveiro furono arrestati e condannati otto gesuiti. Uno di essi, padre Gabriele Malagrida, aveva passato la maggior parte della sua vita in Brasile, dove si era fatto una certa reputazione opponendosi alle misure dettate da uno dei due fratelli Pombal, capitano generale e governatore dello stato di Grão-Pará e Maranhão. Malagrida, che aveva anche pubblicato un libello nel quale considerava, contrariamente alle opinioni illuministe di Pombal, che il terremoto fosse stato frutto dell’ira di Dio, fu condannato e giustiziato nel 1761. I gesuiti, da parte loro, furono espulsi dai territori portoghesi subito dopo la fine del processo, nel 1759.

Il controllo economico Gli avvenimenti che circondarono il processo dei Tavora sono un chiaro esempio dell’intenzione di Pombal di far valere la sua autorità, sebbene per farlo dovesse impiegare misure crudeli contro i suoi nemici dell’aristocrazia o contro i gesuiti


che, d’altra parte, avevano sempre resistito in Brasile ai tentativi di centralizzazione del potere commerciale così come, soprattutto, ai tentativi di eliminare il loro monopolio relativo alle popolazioni indigene. Il cosiddetto trattato di Madrid, firmato nel 1750, stabiliva i diritti del Portogallo sulla selva amazzonica; in cambio il Portogallo prometteva di ritirare i suoi gesuiti dalle regioni dell’Uruguay, mantenendo una stretta osservanza della frontiera. La maggior parte di questo lavoro fu affidato al fratello di Pombal, Mendonça Furtado, che al suo arrivo in Brasile stabilì come priorità la creazione di una compagnia commerciale che agevolasse il traffico degli schiavi. La Compagnia Generale del Commercio di Grão-Pará e Maranhão fu infatti creata nel 1755, e le furono concessi diritti unici di sfruttamento per vent’anni. Dato che gli interessi della compagnia interferivano grandemente con le attività dei gesuiti, molto presto le missioni del sud del Brasile imbracciarono le armi contro il trattato di Madrid, e così si creò un esercito lusitano-spagnolo, formatosi allo scopo di reprimere la rivolta. L’esecu-

zione di Malagrida nel 1761 concluse una lotta malcelata contro Pombal e l’opposizione alle sue pratiche commerciali in Brasile. Le politiche di Pombal, che miravano a mantenere e aumentare il controllo sul commercio e le attività economiche portoghesi, in particolare in relazione ai possedimenti atlantici, gli procurarono nemici fra i piccoli commercianti (che restavano al di fuori delle pratiche di monopolio commerciale), fra i gesuiti (che dovettero essere sconfitti con le armi in Brasile) e, ovviamente, fra l’aristocrazia e l’alta nobiltà. Fra il 1760 e il 1770 il marchese cercò di consolidare buona parte delle sue politiche con la modifica del sistema di insegnamento, di quello fiscale e delle attività economiche legate alla manifattura. Si interessò anche dell’esercito e della Chiesa, così come degli usi e dei costumi popolari, che a volte gli sembravano incompatibili con uno scenario progressista. Queste riforme s’appellarono a un cambio di legge che si secolarizzò e si attualizzò. Molte attività che erano dipese dal diritto canonico e dalle decisioni della Chiesa erano ora rette da un co-

IL MARCHESE DI POMBAL. Sebastião José

de Carvalho e Melo Conte, marchese di Pombal, mostra la Lisbona ricostruita dopo il terremoto del 1755, in un dipinto a olio (1766) di LouisMichel van Loo e Claude Joseph Vernet (Museu da Cidade, Lisbona). Primo ministro di Giuseppe I, Pombal fu il demiurgo dell’illuminismo portoghese: a lui si deve la rapida ricostruzione della capitale, le riforme economiche, amministrative, educative ed ecclesiastiche che trasformarono il Paese in uno Stato moderno.

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IL DISPOTISMO ILLUMINATO

PALAZZO DI QUELUZ.

Conosciuto come la Versailles portoghese e costruito a partire dal 1747 per volere dell’infante, e in seguito del re Pietro III, il palazzo acquisì molta importanza come residenza reale dopo il devastante terremoto che distrusse la capitale lusitana nel 1755. Nell’immagine la facciata verso il giardino di cerimonia, in stile neoclassico. In primo piano la fonte rococò di Nettuno.

dice legale, sostenuto dai principi della razionalità illuminista. La perdita dell’autorità del Vaticano a Lisbona fu chiara soprattutto a partire dal 1760, anno in cui fu cacciato dal Portogallo il nunzio di Roma. La secolarizzazione della corona portò anche alla nuova regolazione dell’Inquisizione, che sarebbe stata diretta da un altro fratello di Pombal, l’arcivescovo Paulo de Carvalho, e interessò anche i nuovi metodi di censura, che smisero di essere controllati controllati dalla Chiesa. Nel caso dell’educazione, l’espulsione dei gesuiti rese necessaria non solo una completa riforma del sistema educativo (includendo anche l’università), ma anche la contrattazione di nuovi docenti. In entrambi i casi, i procedimenti utilizzati seguirono raccomandazioni utilitaristiche, facendo dell’educazione il cuore dello Stato.

La fine di Pombal La morte del re nel 1777 mise fine al governo di Pombal. Se il decennio del 1760 aveva visto il suo potere e il suo prestigio, ancor più, se possibile, 44

a partire dall’entrata del Portogallo nella guerra dei Sette anni, la morte di Giuseppe I fu immediatamente seguita dalla caduta in disgrazia dei suoi associati. Pombal dovette abbandonare Lisbona e recarsi in incognito nelle sue proprietà per paura di venire linciato, e l’esercito dovette intervenire affinché la sua casa di Lisbona non venisse bruciata dalla folla. Dopo aver abbandonato l’incarico di primo ministro, che aveva occupato con efficienza per un periodo durato più di vent’anni, si sparsero voci che lo accusavano di corruzione e di abuso di potere. Gli anni di governo avevano procurato a Pombal molti e potenti nemici. Gli interrogatori giudiziari a cui fu sottoposto durarono un anno della vita dell’anziano marchese, che aveva già compiuto ottant’anni. La sua difesa stabilì che nessuna delle sue decisioni fosse stata presa senza l’approvazione del re. Anche quando la nuova regina, Maria I (17771816) lo dichiarò colpevole e meritevole di un castigo esemplare, la sentenza segnalava che la sua età avanzata impediva l’esecuzione della


pena. Escluso tuttavia dai favori regali, dedicò l’ultima parte della sua vita a stilare testi assolutori, apologie che circolarono per tutta Europa a partire dalla seconda metà del decennio del 1780, in versioni ridotte e tradotte in diverse lingue. Per molti avversari politici, non fu difficile vedere nel declino dell’attività economica fra il 1770 e il 1780 il risultato delle politiche proposte da Pombal negli anni ’50 del XVIII secolo. Per questo motivo, assieme alla necessità di proteggere il marchese, il nuovo regime si vide obbligato a chiudere la Compagnia Generale del Commercio di Grão-Pará e Maranhão. Tuttavia, la liberalizzazione del commercio non portò affatto a un miglioramento delle condizioni economiche portoghesi, tranne forse per quei membri dell’oligarchia nobiliare che erano stati protetti dallo stesso marchese Pombal.

Il regno di Carlo III di Spagna La società spagnola cominciò a sperimentare segni di rinnovamento intellettuale fin dal 1860, quando la facoltà di medicina di Valenza aveva difeso la scienza moderna, reclamando anche l’aggiornamento dell’insegnamento universitario. Il movimento riformista, con la figura fondamentale di Gregorio Mayans e Siscar, si estese dal Levante spagnolo a Saragozza, Siviglia, Salamanca e Madrid. Il maggiore difensore delle nuove idee fu l’erudito frate Benito Jerónimo Feijóo, che nel 1726 pubblicò il suo Teatro crítico universal, un saggio sulla storica arretratezza spagnola. Durante il regno di Ferdinando VI la maggior parte di queste riforme di natura amministrativa, fiscale o economica fu portata avanti dal marchese de la Ensenada, che sognava di restituire all’impero spagnolo la sua antica potenza militare e la sua preminenza diplomatica. Gli Spagnoli sperarono che l’incoronazione di Carlo III nel 1759 avrebbe portato al compimento delle riforme necessarie per collocare la corona spagnola in prima linea nel concerto internazionale delle nazioni. Per il gesuita e novellista José Francisco de Isla, per esempio, l’arrivo del nuovo re avrebbe permesso una «rivoluzione felice». Bisogna sottolineare, però, che si trattò solo del compimento di un desiderio, perché dal punto di vista delle aspirazioni coloniali il XVIII secolo costituì per la monarchia spagnola un periodo disastroso, che terminò con la perdita della quasi totalità dell’impero nel 1808, e le politiche di modernizzazione intraprese dalla corte non furono affatto in grado di ridurre il disastro. Seguendo l’esempio di altri monarchi europei, la prima iniziativa di Carlo III consistette nel consolidare il potere della corona per evitare i problemi di coordinamento che avevano dan-

neggiato la relazione fra la Spagna e le sue colonie durante la prima metà del secolo. Per il politico e scrittore Pablo de Olavide, per esempio, la Spagna del tempo poteva essere considerata una «repubblica mostruosa, formata da piccole repubbliche in lotta l’una con l’altra a causa degli interessi di ognuna di esse e contro gli interessi generali». Una monarchia molto più forte, diceva, avrebbe permesso un miglioramento dell’economia per mezzo di un miglioramento del commercio. A questo compito dalle enormi proporzioni, volto a sostituire l’oscurantismo dell’impero con il dominio della ragione, dovevano contribuire tutti i corpi dello Stato. La monarchia spagnola, anche nei suoi possedimenti d’oltremare, si comportava a tutti gli effetti come una società dell’Ancien Régime, divisa fra una nobiltà e un clero che godevano di enormi privilegi e il resto della popolazione, che comprendeva non solo lavoratori di ogni condizione o gli agricoltori, ma anche le classi medie di commercianti e artigiani, oltre ai milioni di indiani, schiavi e uomini liberi delle Americhe,

IL RE ILLUMINATO.

Carlo III, il rappresentante del dispotismo illuminato in Spagna, favorì importanti riforme strutturali, politiche e amministrative che i suoi successori non riuscirono a portare avanti. In alto, il monarca ritratto da Anton Raphael Mengs (Museo del Prado, Madrid).

IL PALAZZO REALE (pag. 47). Fu ristrutturato,

decorato e terminato dall’architetto italiano Francesco Sabatini, incaricato da Carlo III, che lo adibì a sua residenza ufficiale. 45


IL DISPOTISMO ILLUMINATO

Gaspar Melchor de Jovellanos, politico e scrittore illuminato La biografia di Jovellanos è un esempio della frustrazione del movimento illuminista in Spagna, il cui tentativo di concludere una profonda riforma del Paese fu più volte destinato al fallimento a causa della paura della monarchia e della caparbia opposizione al cambiamento di aristocrazia e clero. La destituzione dagli incarichi pubblici, l’esilio e la prigione furono il premio per il suo impegno alla modernizzazione del Paese. Nato in una famiglia della piccola nobiltà asturiana, Jovellanos occupò dal 1767 diversi incarichi amministrativi che conciliava con la sua passione per la letteratura. La sua ammirazione per gli illuministi francesi lo portò a difendere misure di modernizzazione come la riforma agraria o il liberalismo economico, che furono causa del suo esilio da una corte terrorizzata da quello che stava avvenendo nella Francia rivoluzionaria. Questo non fece diminuire lo slancio riformatore di Jovellanos, che, stabilitosi nella sua terra natale, le Asturie, continuò a ideare progetti. L’alleanza fra il re Carlo IV e la Francia illuminata, proposta da Manuel Godoy, portò Jovellanos di nuovo in prima linea a livello politico, come ministro di Giustizia nel 1797. L’incarico durò nove mesi, periodo in cui dovette scontrarsi sia con l’Inquisizione sia con lo stesso Godoy, che nel 1801 ordinò che fosse messo in carcere a Maiorca. Fu liberato solo nel 1808, tre anni prima di morire. Nell’immagine, ritratto di Jovellanos nel 1798, di Francisco Goya (Museo del Prado, Madrid).

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dove le élite creole dominavano le istituzioni politiche e quelle commerciali e culturali. La mancanza d’integrazione fra i possedimenti della corona risultava particolarmente evidente nel caso dei territori d’oltremare. Durante la prima metà del secolo, il commercio con le colonie era stato lasciato in mani straniere, e la corruzione nell’ambito del commercio legittimo così come l’abuso della popolazione indigena, rendevano urgenti le riforme. Su questa linea il politico José del Campillo scrisse il suo Nuevo sistema de gobierno económico para la América. Dopo il suo regno a Napoli e in Sicilia (col nome di Carlo VII), l’arrivo di Carlo in Spagna fu inaugurato dal rafforzamento del potere e del sistema di finanziamento della corona. L’“unico contributo”, una nuova imposta che aveva lo scopo di unificarne molte altre e che fu introdotta nel 1760 permise, per la prima volta nella storia spagnola, di sottoporre la nobiltà e il clero a un regime fiscale che fosse proporzionale alle loro ricchezze. Allo stesso tempo fu eliminata una parte della cosiddetta tassa dell’“excusado”, con cui il clero era riuscito tradizionalmente a evitare il pagamento delle imposte. Buona parte di questa politica dipendeva dal recupero delle idee regaliste, che riunivano la teologia e il diritto che si batteva a favore della monarchia rispetto alla Chiesa. Per alcuni riformisti, come il conte di Campomanes, le idee illuministe dovevano giungere anche ai vescovi spagnoli, riuscendo così a eliminare la superstizione, i privilegi e il fanatismo, mantenendo l’essenza del Cattolicesimo. Considerato da molti storici il migliore monarca spagnolo dell’epoca moderna, Carlo III aveva già esperienza come governante. Figlio maggiore di Filippo V, era stato proclamato duca di Parma nel 1731, a soli quindici anni, e nel 1734, durante la guerra di successione polacca, entrò a Napoli e, l’anno successivo, fu incoronato re di Sicilia. Una delle sue migliori azioni fu quella di circondarsi di ministri esperti e spesso anche di brillanti pensatori, come il giovane Campomanes, il conte di Floridablanca, che divenne una specie di primo ministro, o Gaspar Melchor de Jovellanos, uno degli intellettuali meglio reputati del secolo. Alcuni di questi ministri provenivano da regioni periferiche della Spagna, come le Asturie o Murcia, e si trattava generalmente di hidalgos o membri della bassa nobiltà. La loro condizione sociale li rese propensi a ostacolare le richieste dell’aristocrazia terriera e a controllare i Grandi di Spagna, che avevano dominato i regni degli ultimi Asburgo. La politica spagnola di riforme fu ispirata anche dal flusso d’idee provenienti dall’Illuminismo, soprattutto da quello francese.


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L’ammutinamento di Squillace, contro la politica illuminista in Spagna Le difficoltà di portare avanti una politica illuminista in Spagna trovarono la loro massima espressione nel cosiddetto “ammutinamento di Squillace”. Pur non essendo l’unico vissuto dal paese in questo periodo agitato fu però quello più famoso, per aver provocato la destituzione del ministro a cui deve il nome, Leopoldo di Gregorio, marchese di Squillace. Uno degli illuminati che Carlo III si portò con sé dall’Italia quando ereditò la corona spagnola fu il marchese di Squillace, conosciuto anche con il suo nome castigliano, Esquilache. Divenuto il braccio destro del re per aiutarlo a dirigere un governo riformatore, la sua condizione di straniero e i suoi progetti modernizzatori gli procurarono presto l’antipatia dell’aristocrazia e del clero, anche se sarà la popolazione di Madrid a provocare la sua caduta. La scintilla che provocò l’ammutinamento fu un decreto diretto a migliorare l’immagine di Madrid e dei suoi abitanti mediante la proibizione dell’uso del mantello lungo, sotto cui si poteva nascondere ogni tipo di armi, e dei cappelli a tesa larga, che aiutavano a nascondere gli autori di qualsiasi abuso. Così, fra il 23 e il 26 marzo del 1766, il popolo di Madrid, abilmente manipolato dalla Chiesa e dalla nobiltà, si ribellò alle autorità e provocò un tale caos da riuscire a intimidire Carlo III. Come risultato della rivolta, Squillace e tutti i membri del governo d’origine straniera furono espulsi dalla Spagna, ma la legge legata agli indumenti non fu annullata. Il re, però, trovò nell’ammutinamento la scusa per insistere sul consolidamento del potere regio. A pagare fu la Compagnia di Gesù, su cui si fece ricadere la responsabilità della rivolta: nel 1767 fu espulsa dalla Spagna. Nell’immagine, litografia rappresentante l’ammutinamento di Squillace (Biblioteca Nacional de Cataluña, Barcellona).

Per scrittori come Jovellanos, Meléndez Valdés o Valentín de Foronda, il contatto con le opere di Voltaire e Montesquieu, così come di altri autori inglesi e italiani, era frequente. La riforma delle università, delle istituzioni scientifiche, delle accademie e delle società economiche, si produsse sotto l’influsso delle nuove idee che arrivavano in Spagna da est, oltre i Pirenei. Fra esse, però, in nessun momento l’ateismo o il deismo raggiunsero i pensatori spagnoli. Sebbene la confusione d’idee, sia nei salotti sia nelle pagine dei nuovi periodici, avesse a volte dovuto evitare le proibizioni dell’Inquisizione, i riformatori erano persone di fede religiosa profondamente radicata, che non abbracciarono mai il radicalismo di alcuni dei loro ammirati francesi. Come l’anticlericalismo di Voltaire, l’attacco dei riformatori non era diretto alle idee religiose ma alla Chiesa, in quanto depositaria di privilegi ingiustificati. L’Illuminismo spagnolo perseguiva il trionfo di una forma di pragmatismo, conosciuto come “progettismo”, per cui l’applicazione di principi razionali di governo, legati a un raffor48

zamento del ruolo della monarchia, poteva sfociare in un miglioramento delle condizioni di vita dell’insieme dei cittadini spagnoli. La maggior parte di queste politiche, come quelle che misero fine ai privilegi dei Colegios Mayores e dei loro circoli d’influenza, o quelle che portarono alla conclusione delle pratiche di monopolio dei mercanti di grano, avvenne sullo sfondo della guerra dei Sette anni: un conflitto a cui il re Carlo III si aggiunse, sebbene senza grande convinzione, nel 1762, e da cui non ottenne altro che severissime sconfitte, tra cui la caduta di L’Avana e di Manila. D’altra parte, nel 1766 avvennero una serie di ammutinamenti e insurrezioni popolari appoggiate dai gesuiti e dagli oppositori della politica riformista. Nonostante il cosiddetto “ammutinamento di Squillace” avesse provocato la destituzione di questo ministro, a cui la popolazione si opponeva a causa delle sue misure di modernizzazione, vedendo come i mandatari del re legiferavano sulle loro tradizioni e costumi, la maggior parte delle riforme fu portata avanti, anche se con enormi dif-


IL CONTE DI ARANDA. Pedro Pablo Abarca de Bolea, conte di Aranda, successe a Squillace alla guida del governo riformista. Fu lui il responsabile dell’investigazione che portò all’espulsione dei gesuiti dalla Spagna. Nell’immagine, il conte di Aranda ritratto da José María Galván e Candela (Palazzo del Senato, Madrid).

ficoltà, con l’appoggio dal capitano generale, un governatore che estendeva l’autorità della monarchia ai diversi territori della corona spagnola. L’espulsione dei gesuiti nel 1766, inizialmente dalla Spagna e in seguito dalle colonie, permise di ampliare la politica di riforme legate al sistema d’insegnamento e alle università. Non senza difficoltà, verso la fine degli anni ’80 del 1700, un nuovo spirito di curiosità cominciava a manifestarsi nelle migliori università, come quella di Salamanca, che nasceva con le scienze sperimentali provenienti dalla Francia e dall’Inghilterra. Allo stesso tempo si aprirono nuove scuole medie e furono riformati i collegi per farmacisti e chirurghi. Le Sociedades Económicas de Amigos del País ebbero un ruolo centrale nella modernizzazione intellettuale spagnola: il principale scopo di queste società era quello di invitare le nuove élite a uno scambio libero di idee. Anche se inizialmente fu un’iniziativa appoggiata quasi esclusivamente dai Paesi Baschi, parzialmente ispirata alle accademie e società scientifiche provinciali della Gran Bretagna o della Francia, il riconoscimento arrivò da Campomanes

e dalla pubblicazione, nel 1774, del suo Discurso sobre el fomento de la industria popular (Discorso sopra il fomento dell’industria popolare). In quest’opera, il presidente del Consiglio di Castiglia esortava gli hidalgos a unirsi in gruppi che condividevano le stesse idee sul territorio al fine di servire gli interessi economici della Corona, mettendo le proprie ragioni private al servizio del bene pubblico. Alla morte di Carlo III nel 1788 esistevano in Spagna circa settanta società che in pochi anni attraversarono l’Atlantico per stabilirsi, per esempio, a Manila, Lima, o a L’Avana. Nelle colonie americane, la politica di riforme ebbe inizio immediatamente dopo la guerra, nel 1763. Il fatto più rilevante fu la creazione delle intendenze americane, che sostituivano in qualche modo gli antichi viceré. Con le intendenze furono modificate le condizioni di sfruttamento delle terre, fu riformata l’armata coloniale e fu proibito il cosiddetto repartimiento de indios (un sistema di lavori forzati imposti dagli Spagnoli alle popolazioni indigene), che obbligava i nativi americani ad acquistare terre a prezzi esagerati. 49


FRANCISCO GOYA: UN GENIO A CAVALLO DI DUE SECOLI

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alle opere di costume di origini Rococò alle pitture nere che preannunciano l’Espressionismo, la produzione di Francisco Goya y Lucientes rappresenta come poche altre le luci e le ombre di un’epoca segnata dagli entusiasmi e dagli insuccessi dell’Illuminismo. Un anno decisivo nella sua carriera fu il 1739, quando una grave malattia lo portò a esplorare un’arte molto più personale, che annunciava già ciò che sarebbe stato il Romanticismo. Quello fu anche il momento in cui iniziò la sua scalata sociale, una volta divenuto il pittore preferito dell’aristocrazia e degli intellettuali illuminati di Madrid. La stessa famiglia reale gli aprì le porte del palazzo e posò per lui. A destra, La famiglia di Carlo IV, ritratto di gruppo dipinto nel 1800, in cui appare anche il pittore, così come fece Velázquez nel dipinto Las meninas (Museo del Prado, Madrid).

GLI AUTORITRATTI Assieme a Velázquez, Goya occupa un luogo privilegiato fra i grandi ritrattisti dell’arte spagnola. Seppe applicare la sua capacità di catturare la psicologia più profonda dei modelli, che fossero re oppure plebei, anche ai suoi numerosi autoritratti, come questo Autoritratto con occhiali (Musée Bonnat, Bayonne).

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IL RE CARLO IV.

Questo ritratto della famiglia reale fu realizzato ad Aranjuez e presuppone l’apice di Goya come ritrattista della corte. Nell’opera il re appare in primo piano e resta unito alla regina attraverso l’infante Francesco di Paula. Per mettere in risalto la sua figura il pittore fece indossare al re il Toson d’Oro e le croci dei quattro ordini militari spagnoli.

LA REGINA MARIA LUISA DI PARMA. Assieme al suo protetto

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Godoy la regina fu la principale artefice di questo ritratto. Goya la posizionò sull’asse centrale del quadro, quasi alludendo al fatto che fosse lei, e non il marito, a tenere le redini del governo. L’abbraccio con cui circonda Maria Isabella, che allora aveva dodici anni, sembra volerla proteggere da un possibile matrimonio con Napoleone.


GOYA E I SUOI CAPRICCI L’aspetto più personale di Goya si trova nelle sue incisioni. La serie di Capricci del 1799 è una caustica denuncia dei vizi della sua epoca.

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N. 23. QUELLA POLVERE. L’Inquisizione, nemica

di tutto ciò che avesse a che fare con l’Illuminismo, fu una delle istituzioni attaccate da Goya. Qui denuncia l’aspetto crudele e sadico dell’autodafé nel suo“vulgo de curas y frailes necios”.

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IL PRINCIPE FERDINANDO.

Il primogenito della coppia reale, il futuro Ferdinando VII, appare con la stessa espressione seria e le decorazioni del padre. A sinistra vediamo il fratello Carlo Maria Isidoro mentre la ragazzina di profilo sulla sua destra è la futura sposa dell’erede. Dato che all’epoca non era ancora stata scelta ufficialmente, Goya decise di non darle un volto.

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IL PRINCIPE LUDOVICO.

Nel 1795, Ludovico di Borbone-Parma contrasse matrimonio con l’infanta Maria Luisa, che appare al suo fianco mentre sostiene fra le braccia loro figlioletto, Carlo Luigi. Nel 1801 Napoleone lo nominò re d’Etruria, un nuovo regno che era statp creato proprio quell’anno al posto del ducato di Toscana. Luigi morì a Firenze, la capitale, solo due anni più tardi.

N. 25. SI È ROTTA LA BROCCA. In questa stampa Goya volle criticare l’uso della violenza nell’educazione infantile e appoggiare le idee illuminate che affermavano che fosse possibile correggere i difetti umani senza ricorrere a essa.

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IL DISPOTISMO ILLUMINATO

Giuseppe II, il re illuminato dell’impero austro-ungarico Pervaso dalla filosofia razionalista dell’Illuminismo, Giuseppe II fu un altro esempio perfetto del despota illuminato, che non esitò a scontrarsi con la Chiesa per portare avanti i suoi progetti di riforma. Ciò non toglie che l’imperatore fosse anche un grande amante della musica e delle arti, capace di fare di Vienna la capitale culturale europea. Durante i dieci anni in cui regnò solo, dopo la morte della madre Maria Teresa, Giuseppe II dedicò tutti i suoi sforzi a trasformare l’impero con metodi autoritari che possono riassumersi nella frase: «Tutti devono saper servire lo Stato, che vede la sua personificazione nel monarca». Per tale motivo, per uniformare le diverse nazionalità che componevano il suo impero, diede impulso alla centralizzazione burocratica (con Vienna al centro), ridusse l’autonomia dei poteri locali e impose il tedesco come lingua ufficiale, misure che trovarono un’accanita resistenza in Ungheria e Boemia. Contemporaneamente, l’imperatore promosse nel 1781 la libertà di culto, scontrandosi così con la Chiesa, e abolì la servitù della gleba e la pena di morte. Eliminò l’ostentazione nella sua corte e condusse una vita semplice e laboriosa, con la musica e il teatro come uniche distrazioni. Nell’immagine, ceramica di Anton Grassi, che rappresenta Giuseppe II accanto al busto di Atena, la dea greca della guerra e della sapienza.

Anche il sistema fiscale venne completamente riorganizzato, mentre il Consiglio delle Indie ricevette un numero sempre maggiore di amministratori molto ben preparati. Non meno importante fu poi la perdita della posizione di predominanza del porto di Cadice, che permise di incrementare il commercio fra l’America e altri porti spagnoli.

Il regno di Giuseppe II d’Austria L’imperatore Giuseppe II, come Carlo III è apparso spesso come un rappresentante dell’assolutismo illuminato. Figlio minore di Maria Teresa d’Austria, regnò assieme a lei tra il 1765 e il 1780, diventando unico governante fra il 1780 e il 1790. Anche se molte delle riforme intraprese nell’impero furono introdotte dalla madre, le più importanti furono introdotte durante il suo regno. Tuttavia, allo stesso modo in cui Maria Teresa accettò le riforme più per necessità che per convinzione, il nuovo monarca manifestò un sincero interesse nella messa in pratica dell’assolutismo illuminato, così come altri re o governanti europei. 52

Nel momento in cui salì al trono, l’impero degli Asburgo si estese dall’Europa centrale fino a parte dei Paesi Bassi e alla parte centro-meridionale dell’Italia (Lombardia e Toscana). Comprendeva le province austriache, il Tirolo, le terre della corona di Boemia (che includevano la Boemia, la Moravia e la Slesia, sottratte alla Prussia), il regno d’Ungheria (riconquistato ai Turchi nel 1700) e la Transilvania. Questa diversità geografica comportava un’equivalente diversità sociale e legislativa. L’autorità di Vienna si lasciava sentire in modo diverso a seconda dei territori dell’impero, spesso in mano a governanti locali riluttanti riguardo le nuove misure politiche adottate dalla corona. Data la pluralità ed eterogeneità delle province che formavano il Sacro romano impero, i monarchi erano obbligati a negoziare con le autorità locali e a introdurre modifiche legislative adeguate a ogni territorio, sebbene ciò non garantisse la governabilità. Di fatto, sebbene la presenza dell’impero si manifestasse soprattutto nella distribuzione dei siti militari, le élite locali continuavano a riscuotere le tasse indipendentemente dalla corona. Inoltre, alla diversità geografica e legislativa si sommava la non meno importante diversità religiosa. I possedimenti del regno includevano regioni cattoliche ma anche calviniste e luterane; questo spiega perché i possedimenti del nord dell’Italia furono più inclini all’introduzione di modifiche nelle regolamentazioni religiose, mentre i territori tedeschi lo furono alle idee del mercantilismo cameralista esportate dalla Prussia. Dal punto di vista militare l’esercito imperiale era stato sconfitto sia nella guerra dei Trent’anni sia nella guerra di successione spagnola. Se nel caso del Portogallo uno degli incentivi della politica di riforme fu il terremoto di Lisbona del 1755, l’impero degli Asburgo visse con orrore le successive sconfitte militari, subite inizialmente contro i Turchi (fra il 1730 e il 1740) e in seguito contro la Prussia (fra il 1740 e il 1750). Davanti all’impossibilità di recuperare la Slesia nella guerra dei Sette anni, si trovò obbligato ad accettare misure che, imposte da Vienna, portarono a una modernizzazione dell’esercito, dell’economia e dell’educazione, e che si basavano sul modello promosso in Prussia da Federico II. La guerra, oltre ad aver avuto un effetto devastante sull’orgoglio nazionale, aveva anche provocato la rovina economica. La perdita della Slesia e delle sue industrie manifatturiere, presupponeva, inoltre, la rinuncia a una delle fonti d’entrata più importanti dell’impero. L’arrivo delle idee cameraliste favorì la creazione, durante gli anni ’60 del XVIII secolo, di una zona di libero commercio all’interno delle frontiere, che


richiedeva a sua volta un nuovo sistema fiscale e un miglioramento dei mezzi e delle condizioni di trasporto. Per quanto concerne le imposte, per esempio, l’autorità della monarchia si vedeva compromessa frequentemente, dato che il sistema fiscale che cercò di essere imposto da Vienna era in competizione con altre forme d’imposizione locale. A loro volta, erano le autorità regionali, e non gli amministratori della corona, a riscuotere le imposte sul territorio. L’arrivo al governo del conte Friedrich Wilhelm von Haugwitz, antico amministratore provinciale in Slesia e sostenitore delle correnti cameraliste, favorì un tentativo di centralizzazione politica e fiscale al fine di promuovere la creazione e il mantenimento di un esercito stabile di più di 100.000 soldati. Se i mali dell’impero erano stati attribuiti agli insuccessi in politica estera e alle debolezze di quella interna, ora i termini dell’equazione dovevano invertirsi, di modo che una disposizione più razionale delle risorse, inclusa l’amministrazione unica dei territori dell’impero, avrebbe dovuto manifestarsi in

una maggiore capacità militare. Questa, a sua volta, sarebbe servita a migliorare il recupero del territorio perso nei conflitti europei. Per far progredire queste misure, il cancelliere Von Haugwitz stabilì amministrazioni (Deputationen) nelle diverse province dell’impero al fine di aumentare il controllo dell’amministrazione centrale a danno delle autorità locali. Più avanti, nel 1749, durante quella che fu considerata una rivoluzione favorita dal governo, si cercò di centralizzare il sistema fiscale, con le importanti eccezioni dell’Ungheria, della Transilvania e dei Paesi Bassi austriaci (che corrispondono oggi al Belgio e al Lussemburgo), così come della Lombardia. L’impossibilità di recuperare la Slesia, che si era già verificata verso il 1760, e il conseguente costo per le casse dello Stato, fu un duro colpo per le politiche di centralizzazione. Le riforme furono in parte frenate, soprattutto a partire dalla creazione, nel 1761, di un Consiglio di Stato (Staatsrat), che sostituiva gli organi rappresentativi creati da Haugwitz nel 1749. Si mantenne invece il tentativo di centralizzazione e omogeneiz-

LA CHIESA E GLI ASBURGO.

Tradizionalmente cattolica, la corona degli Asburgo realizzò un brusco cambiamento di direzione negli ultimi anni del regno di Giuseppe II, che chiuse circa 700 monasteri. L’abbazia benedettina di Melk fu una delle poche che si salvarono a causa della sua fama e del suo grande prestigio accademico. In alto, sala della biblioteca dell’abbazia, decorata con affreschi del pittore Rococò Paul Troger.

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IL DISPOTISMO ILLUMINATO

L’imperatore Giuseppe II e lo slancio della sua riforma agraria Uno dei grandi obiettivi delle monarchie illuminate fu la riforma e modernizzazione dell’economia agraria, ancora legata a sistemi di produzione ereditati dal Medioevo. L’imperatore Giuseppe II non fu un’eccezione, e ciò lo portò a scontrarsi con l’alta aristocrazia. La riforma agraria mirava a un migliore sfruttamento delle risorse delle campagne ma si scontrava con gli interessi delle grandi famiglie della nobiltà e della Chiesa, proprietarie di estesi latifondi. Per questo motivo Giuseppe II affrontò la questione con grande determinazione: nel 1781 abolì la legge sulla servitù della gleba che vigeva in Boemia. Da quel momento i servi avrebbero continuato a obbedire e a rispettare i loro signori, ma avrebbero potuto realizzare, senza dover chiedere il permesso, alcune attività private, come sposarsi o affittare, vendere o ipotecare terre, o addirittura abbandonarle liberamente. Inoltre, erano ora esenti dall’obbligo feudale di lavorare gratuitamente le terre del signore e di eseguire lavori legati alle faccende domestiche. La nobiltà, ovviamente, considerò queste misure tremendamente ostili, perché sgretolavano il loro potere socio-economico, ma non per questo motivo Giuseppe II si diede per vinto. Infatti, i signori persero anche i poteri amministrativi e giudiziari che esercitavano nei loro domini, che vennero invece gestiti da funzionari reali. I risultati di queste misure non si fecero attendere, e l’alleggerimento delle fatiche che sopportavano i contadini e il forte protezionismo provocarono rapidamente un aumento della produzione agricola. Nell’immagine, olio anonimo che mostra Giuseppe II mentre si interessa ai lavori dei contadini del villaggio moravo di Slavíkovice (Wien Museum Karlsplats, Vienna).

zazione del sistema legale, relativamente al codice civile e penale. Nel 1766 apparve il Codex Theresianus, e tre anni più tardi la Nemesis Theresiana (o Constitutio criminalis Theresiana). Entrambi i codici costituivano un tentativo d’unificazione in ambito legale, in modo che, mentre venivano soddisfatti, almeno in parte, i tentativi corporativi della nobiltà, delle autorità locali dei territori dell’impero e della Chiesa, si dava spazio alle nuove idee illuministe. Come risultato, nel 1776 la tortura fu ufficialmente abolita, seguendo così la dottrina sviluppata dal filosofo lombardo Cesare Beccaria. Dopo la pubblicazione della sua opera Dei delitti e delle pene, il matematico D’Alembert preparò un’edizione francese dell’opera, che apparve nel 1766; Voltaire pubblicò un commento al libro e l’imperatrice Caterina II chiese a Beccaria di contribuire alla riforma del sistema legale russo. In Spagna, la prima traduzione dell’opera di Beccaria fu fatta da Juan Antonio de las Casas, nel 1774. Un testo che portò alla scrittura del Discurso sobre la tortura, che l’illuminista Juan Pablo Forner scrisse 54

nel 1793. Negli Stati tedeschi, Federico II compì una riforma radicale del diritto penale che includeva anche l’abolizione della tortura. Sotto l’auspicio e l’autorità di Giuseppe II, il Codice criminale (Allgemeines Gesetzbuch) del 1787 aboliva la pena capitale in tutto l’impero. Fra gli anni ’80 e ’90 del 1700, quando l’impero passò sotto il controllo esclusivo di Giuseppe II, s’accentuò anche il controllo dei temi ecclesiastici. Il Cattolicesimo dell’impero, ancorato fermamente alla Controriforma, affrontò un insieme d’importanti cambiamenti, alcuni dei quali erano già stati introdotti negli ultimi anni del regno di Maria Teresa, una donna dalle forti convinzioni religiose. Il cosiddetto “giuseppinismo”, un’espressione che si riferisce al tentativo di modernizzazione delle credenze e pratiche religiose proprie degli Asburgo, si manifestò nella soppressione della Compagnia del Gesù nell’anno 1773, nell’introduzione di idee gianseniste e nell’influenza delle idee dello storico italiano Ludovico Muratori (1672-1750), che proponeva una forma più intimista di devozione,


lontana dallo sfarzo e dagli sprechi della Chiesa riformata, con il suo crescente numero di processioni e feste, le sue innumerevoli cariche ecclesiastiche e la sua resistenza alla penetrazione di nuove idee, come quelle che proponevano gli illuministi francesi. Sebbene fosse cattolico, l’imperatore subì l’influenza di questa corrente di pensiero, che difendeva la tolleranza religiosa. Nel 1781 promulgò un Editto di Tolleranza, che migliorava notevolmente le prospettive dei protestanti e degli ebrei nei territori dell’impero. Tuttavia, per mettere in pratica le sue politiche, dovette revocare la maggior parte dei privilegi regionali, circostanza che si tradusse a sua volta in un numero importante di rivolte durante l’ultimo decennio del XVIII secolo.

Il regno di Federico II di Prussia Molte delle idee illuminate di Federico formavano già parte del patrimonio storico prussiano e, come lo stesso monarca riconobbe nella sua Storia del mio tempo, alcuni dei principali successi erano stati ottenuti durante il governo di suo

padre, Federico Guglielmo I. Il giovane monarca, che passerà alla storia come “il re filosofo”, aveva ereditato dal padre un’amministrazione e un sistema tributario centralizzato, e un sistema regolato di reclutamento e approvvigionamento delle truppe. Le finanze, i conti dello Stato e l’esercito meglio addestrato dell’Europa illuminata presero corpo durante il regno del Re Sergente. Lo stesso potrebbe dirsi riguardo al mercantilismo commerciale, alle politiche protezioniste o anche, sul piano sociale, alla riforma dell’educazione, all’abolizione della servitù della gleba o all’introduzione dell’insegnamento elementare obbligatorio, altre opere di cui fu responsabile Federico Guglielmo I. Il giovane Federico salì al trono all’età di ventotto anni, dopo una gioventù turbolenta, non priva di disaccordi familiari. A causa di un tentativo di fuga, allo scopo di scappare dal regno e dalle responsabilità politiche e matrimoniali che l’aspettavano, suo padre non solo lo fece rinchiudere nella fortezza di Küstrin, ma ordinò anche di giustiziare il suo accompagnatore, un giovane 55


IL DISPOTISMO ILLUMINATO

RE E FILOSOFO. Federico il Grande passeggia con Voltaire nel palazzo di Sanssouci, in una litografia (1900) di Georg Schöbel. I due, discepolo e maestro, re e cortigiano, mantennero una lunga e a volte tormentata relazione. La loro corrispondenza, che durò più di 40 anni, iniziò quando Federico era ancora il principe erede di Prussia. Il filosofo della ragione e della libertà passò alcuni anni alla corte del despota illuminato in qualità di ciambellano pensionato, ma nel 1753 si separarono a causa di vari litigi, mantenendo però la loro relazione epistolare. 56

chiamato Katte, con cui Federico manteneva probabilmente una relazione sentimentale. Diversamente dal padre, il giovane principe possedeva una cultura raffinata, così come una solida formazione storica e filosofica. Durante il suo regno mantenne buone relazioni con alcuni membri della cultura tedesca, come Leibniz, così come con rappresentanti dell’Illuminismo francese. La sua biblioteca, che arrivò a ospitare più di tremila volumi, comprendeva le opere più importanti della filosofia moderna. Lettore di Cartesio, Locke e Voltaire (che nominò ciambellano e che alloggiò nella sua corte fra il 1749 e il 1753), Federico conosceva bene il francese, e addirittura tradusse in questa lingua l’opera del filosofo tedesco più importante del momento, Christian Wolff, che nel 1723 era stato esiliato dal padre di Federico e rimosso dalla cattedra dell’Università di Halle nella Sassonia-Anhalt. Anch’egli autore di diversi trattati politici, come l’Antimachiavelli (1739) e il Saggio sulle forme di governo e i doveri dei sovrani (1777), Federico fondò, oltretutto, l’Accademia delle Scienze di Berlino, un’istituzione capace di

attrarre a corte alcune delle figure più importanti dell’Illuminismo francese. Assieme a Voltaire passarono da Berlino il naturalista Pierre Louis Moreau de Maupertuis, diventato il presidente dell’Accademia delle Scienze, l’abate Raynal, il medico Julien Offray de la Mettrie, il matematico e filosofo D’Alembert e lo scrittore e politico Honoré-Gabriel Riqueti, conte di Mirabeau, autore di un voluminoso trattato sulla monarchia prussiana sotto Federico il Grande. Forse per opporsi alla politica iniziata dal padre, Federico II non si concentrò tanto sulle questioni di politica interna quanto sulle relazioni internazionali. In quanto alla politica interna, potenziò le riforme dello Stato, mettendo fine alle vecchie strutture feudali e approfondendo le politiche di centralizzazione; ciò non impedì, tuttavia, che facesse in modo che la nobiltà non perdesse le sue ricchezze e la propria influenza. Senza voler rivendicare una piena idea di tolleranza, il nuovo re si mostrò molto più flessibile con le credenze religiose. Dal punto di vista giuridico, il regno di Federico II testimoniò l’abolizione della tortura e l’eliminazione della pena capitale. Ispirato, come tanti altri governanti dell’epoca, dalla lettura del giurista lombardo Cesare Beccaria, il monarca prussiano stabilì un sistema per cui il colpevole, nei casi di delitti gravi, veniva segretamente impiccato prima di essere sottomesso alla tortura pubblica. Dal punto di vista economico, sia le politiche fiscali sia l’aumento del numero degli immigranti permisero alla Prussia di sperimentare una crescita sostenuta. Da un lato, al controllo esaustivo delle spese si sommarono le nuove forme fiscali, che gravavano sia sulle proprietà sia sul consumo; dall’altro lato fu favorito lo sfruttamento agricolo e zootecnico, grazie a sovvenzioni statali. L’introduzione di nuove coltivazioni, come quella della patata, o di nuove specie animali nelle fattorie, si tradusse in una crescita economica sostenuta, accompagnata da una politica d’accoglienza dei coloni provenienti, in particolar modo, dall’Olanda e dalla Frisia. Anche l’annessione della Slesia, fattore scatenante della guerra dei Sette anni, ebbe un effetto benefico per la Prussia, dato che la regione fornì materie prime per l’industria metallurgica di Spandau. Per quanto riguarda l’ambito commerciale, la politica di Federico II fu chiaramente protezionista e, per sostenerla, creò nuovi ministeri e fondò la Banca di Stato, con filiali in tutto il territorio. Amico di filosofi e mecenati delle arti, il nuovo monarca diede al suo Paese la reputazione d’essere il più militarizzato d’Europa, poiché, sebbene in termini di popolazione fosse solo al tredicesimo posto, occupava il quarto quanto al


numero dei soldati. In un certo modo, si potrebbe dire che non si trattasse di un Paese con un esercito, bensì di un esercito con un Paese: una società militarizzata in cui i principali valori politici e morali trovavano la loro fonte di ispirazione nelle pratiche marziali. La carriera militare rappresentava l’unica forma di ascesa sociale, giacché per quanto i posti di rango superiore fossero riservati principalmente alla nobiltà, i ranghi intermedi potevano invece essere occupati da persone provenienti anche dagli strati inferiori della società. Sebbene si potesse dire, come affermava Voltaire, che Federico II il Grande aveva resuscitato Sparta mentre manteneva Atene nascosta nel suo studio, la società prussiana godeva di una parziale libertà di espressione e di pensiero; di fatto, era possibile trovarvi libri e scritti che non potevano attraversare altre frontiere. Malgrado il suo carattere autoritario, il monarca si considerava il primo servo dello Stato, i cui doveri rispetto ai sudditi non potevano essere trascurati o venire nascosti. Obbligato a sposarsi con Elisabetta Cri-

stina di Brunswick-Bevern, morì senza discendenza nell’anno 1786. In meno di cent’anni, il piccolo ducato di Prussia-Brandeburgo aveva quadruplicato la sua popolazione e duplicato il suo territorio, trasformandosi in questo modo una delle grandi potenze dell’epoca.

Il regno di Caterina II di Russia La morte di Pietro I nel 1725 e della moglie Caterina nel 1727 portò a regnare un insieme di familiari dello zar, fra cui il nipote, Pietro II, che perì di vaiolo nel 1730 e la nipote, Anna Ivanovna, che morì nel 1740. La corona quindi passò inizialmente alla figlia di Pietro I, Elisabetta, che fece cercare una principessa tedesca, Sofia Federica Augusta von Anhalt-Zerbst (battezzata in seguito col nome di Caterina) per sposare il nipote, che nel 1762 avrebbe preso il nome di Pietro III. Aiutata dall’amante, Grigorij Orlov, Caterina riuscì a sbarazzarsi del marito, Pietro III, mandandolo a San Pietroburgo incontro alla morte. Le politiche pro-prussiane di Pietro III, i suoi tentativi di introdurre la religione luterana in Russia, il suo de-

NEUES PALAIS. Situato nel parco reale di Sanssouci, a Potsdam, fu costruito a partire dal 1763 per volere di Federico II il Grande, per commemorare la vittoria della Prussia nella guerra dei Sette anni ed è il maggiore dei palazzi barocchi di Sanssouci. Dotato di duecento stanze, quattro grandi sale e di un teatro, il re lo utilizzò per gli atti di governo ufficiali e, dopo la sua morte, cadde in disuso.

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IL DISPOTISMO ILLUMINATO

Caterina di Russia, imperatrice, mecenate e protettrice delle arti

L’opera di modernizzazione e occidentalizzazione cominciata da Pietro il Grande trovò in Caterina II la sua migliore continuatrice, non soltanto a livello amministrativo ma anche a livello culturale. La zarina non nascose mai il suo disprezzo per le tradizioni russe, incluse quelle artistiche, per questo motivo rese la corte di San Pietroburgo un centro cosmopolita aperto verso Occidente. Manteneva, inoltre, una corrispondenza con alcuni dei più noti rappresentanti dell’Illuminismo, come Diderot e Voltaire, e cercò di introdurre nel suo vasto impero le loro idee sulla tolleranza religiosa o sull’educazione, mentre nell’ambito artistico fu in grado di accumulare una collezione capace di sminuire quelle di ogni altro casato europeo. Allo stesso modo Caterina si distinse come patrona della musica, invitando a Pietroburgo alcuni dei grandi nomi dell’opera italiana, come Domenico Cimarosa, o il valenciano Vicente Marín y Soler che, diventato compositore di corte, scriverà anche opere in russo, come Il disgraziato eroe Kosometovich (1789), il cui libretto fu scritto dalla stessa zarina. Nell’immagine Caterina II, ritratta da Giovanni Battista Lampi il Vecchio (Castello di Ambras, Innsbruck); a destra la corona imperiale di Caterina II.

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siderio di dichiarare guerra alla Danimarca, l’uscita dalla rete di alleanze della guerra dei Sette anni e forse anche la sua riconosciuta mancanza d’intelligenza e il suo desiderio di divorziare favorirono la sua morte, ordita e preparata in seno alla sua stessa famiglia. Niente di strano se si pensa che nel 1721 lo zar Pietro I aveva fatto arrestare, torturare e assassinare il figlio Alessio, che considerava responsabile di tradimento. Nella cattedrale di San Pietroburgo, dove fu proclamata imperatrice nel 1762, Caterina affermò anche d’avere agito per il bene del Paese. Fra il 1725 (anno della morte di Pietro I) e il 1762 (inizio del regno di Caterina II), la Russia fu governata da sei monarchi, incluso un ragazzo di dodici anni (Pietro II) e un bambino di pochi mesi (Ivan VI). Solo l’arrivo al trono della nuova zarina permise di continuare con la politica di espansione e di riforme politiche e amministrative che era iniziata con Pietro I il Grande. A grandi linee, dal lato economico imitava il sistema cameralista della vicina Prussia, mentre da quello militare, l’organizzazione dell’esercito svedese. Il consolidamento dell’impero russo durante la seconda metà del secolo fu dovuto all’espansione territoriale, sempre a spese della Polonia, a est, all’occupazione della Crimea e all’accesso al Mar Nero a sud, e a una politica molto centralizzata e dipendente da alleanze interne con la nobiltà russa. Sebastopoli e Odessa furono fondate allora. D’accordo con le politiche di Pietro I anche Caterina limitò il potere della Chiesa, controllando i suoi beni, incrementando i suoi tributi e sopprimendo molti dei suoi conventi. Assieme agli sforzi di centralizzazione interna e all’espansione territoriale, la nuova imperatrice continuava la progressiva integrazione della Russia nel contesto europeo, allontanandola dal suo passato più squisitamente asiatico. L’unico modo per controllare un territorio così vasto consisteva nel creare una maglia amministrativa costituita da dipartimenti di governo. Lo zar Pietro I aveva cercato di regolare l’attività economica e giuridica al di sopra delle élite locali, così come di centralizzare la fiscalità, di riformare e modernizzare l’esercito e di promulgare un codice penale e civile, chiamato Regolamento Generale. Diversamente da quello che avvenne in Prussia, in Francia e nell’impero asburgico, fra le élite locali russe non attecchì nessun senso del dovere verso lo Stato e nemmeno alcun sentimento di lealtà verso chi occupava il trono. Tra il 1730 e il 1750 solo la distanza geografica impedì ai nemici della Russia di invadere il loro territorio. L’arrivo al trono di Caterina II permise di avanzare nelle politiche di centralizzazione e di riforme.


Il Senato, camera di rappresentazione territoriale, fu diviso in soli sei dipartimenti, e le sue funzioni furono ridotte. La riforma amministrativa del 1775 divise il territorio in cinquanta province, distinte ulteriormente in cantoni e amministrate da governatori nominati dalla corona. Allo stesso tempo però, si preparava la Carta della nobiltà, che riconosceva i diritti di eredità e di esenzione dai tributi, così come le condizioni di monopolio relative al commercio, all’industria e alla possessione di terre e di servi. Come Federico di Prussia, il cui Stato era stato preso come modello per i piani di riorganizzazione russi, anche Caterina II si sentiva una regina illuminata, interessata alla filosofia, alle scienze e alle arti. Come Federico II si circondò di philosophes, che invitava alla corte di San Pietroburgo. In particolare è ben nota la sua relazione con Denis Diderot e con lo scultore Étienne Maurice Falconet, a cui commissionò la famosa statua equestre chiamata Il cavaliere in bronzo. L’Hermitage diventò un museo anche grazie al suo mecenatismo. I suoi due documenti pragma-

tici riguardo all’attività del governo, il Manifesto del 1762 e le Istruzioni del 1767, includevano continui riferimenti ai grandi luminari del pensiero illuminista, soprattutto a Montesquieu. La corte di San Pietroburgo attrasse e accolse numerosi scrittori, artisti e giuristi. Lo stesso Diderot incontrò la zarina dopo un lungo viaggio durato vari mesi per l’Europa. Sebbene la legge salica (che escludeva le donne e i loro discendenti dalla corona) non si applicasse in Russia, motivo per cui Caterina poté salire al trono, per tutto il secolo persistette l’idea che le donne che raggiungevano il potere diventassero licenziose, mettendo in pericolo la stabilità sociale. Si sparse perciò la voce che Caterina si lasciasse influenzare dai suoi numerosi amanti, così come era già successo a Maria Teresa d’Austria o come sarebbe successo alla figlia Maria Antonietta, sposa di Luigi XVI, finita sulla ghigliottina. Caterina ebbe vari figli naturali, ma pare che il grande amore della sua vita fosse stato il principe Grigorij Potemkin, con il quale si sposò segretamente nel 1774.

L’HERMITAGE.

La scalinata principale del Palazzo d’Inverno, ricostruita dopo un incendio secondo i piani originali di Francesco Bartolomeo Rastrelli, è una delle realizzazioni più impressionanti dell’insieme, ampliato e ristrutturato da Caterina II per ospitare la sua collezione d’arte, origine dell’attuale Museo dell’Hermitage.

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LE CORTI E L’ETÀ D’ORO DELLA MUSICA

Le corti e l’età d’oro della musica Il XVIII secolo è quello del Barocco pieno e del Classicismo, due correnti artistiche che coincidono con l’apertura della musica alla società e la maturazione e il consolidamento dell’opera e della sinfonia.

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el 1752 la rappresentazione a Parigi di un intermezzo comico di Giovanni Battista Pergolesi intitolato La serva padrona (1733) accese un’aspra polemica nella scena culturale francese. In quella che venne chiamata la Querelle des Bouffons (Disputa dei buffoni), si scontrarono dialetticamente i sostenitori dell’opera francese, rappresentata da Jean-Philippe Rameau, e quelli 60

dell’opera italiana, il cui polemista di spicco fu il filosofo (e compositore occasionale) Jean-Jacques Rousseau. Non si trattava di una semplice questione estetica: infatti anche la stessa corte si trovava divisa. Luigi XV e madame de Pompadour militavano a fianco dei primi, la regina Maria Leszcynska a fianco dei secondi. La polemica riguardava due concezioni dell’arte musicale: da un lato la credenza

Il trionfo di Euterpe Conosciuta per essere “molto piacevole” e “di buon carattere”, la musa della musica fu particolarmente amata dall’aristocrazia del Settecento. Nell’immagine, Euterpe dipinta da Johann Heinrich Tischbein il Vecchio (Neue Galerie, Kassel).


I GRANDI COMPOSITORI DEL XVIII SECOLO 1678-1741

Antonio Vivaldi. Sebbene abbia spaziato in tutti i generi del suo tempo, è passato alla storia per i suoi concerti per violino. 1683-1764

Jean-Philippe Rameau. Cominciò a farsi conoscere a cinquant’anni, come compositore d’opera, genere a cui regalò una trentina di titoli. 1685-1750

Johann Sebastian Bach. Per la sua perfezione tecnica e la sua bellezza, la sua opera costituisce uno degli esempi più spettacolari della storia della musica. 1685-1759

Georg Friedrich Händel. Musicista cosmopolita, lasciò il segno in Inghilterra con le sue opere serie italiane e i suoi oratori sacri. 1732-1809

Franz Joseph Haydn. Fu il compositore che perfezionò stabilì i modelli della sinfonia e il quartetto d’archi. 1756-1791

dei tradizionalisti che l’armonia, come espressione della ragione, fosse la base della composizione; dall’altro la convinzione da parte di Rousseau che la melodia fosse l’essenza stessa della musica, al di sopra di ogni regola armonica, fatto già accennato nell’opera scritta da Pergolesi e che preannunciava un cambiamento del gusto musicale. Così, la disputa divise, in modo quasi simbolico, due ere: quella del Barocco, che rappresentava il passato, e quella del Classicismo, che stava nascendo proprio in quei giorni. In altre parole, nel 1752 erano passati due anni dalla morte di Johann Sebastian Bach e uno dal ritiro, a causa della sua cecità, di Georg Friedrich Händel, mentre un ventenne Franz Joseph Haydn muoveva i suoi primi passi di compositore; mancavano, infine, quattro anni alla nascita di Wolfgang Amadeus Mozart. Barocco e Classicismo, quindi, definiscono un secolo, il XVIII, che occupa un

IL RE FLAUTISTA. Chiamato «re filosofo»

e «re musicista», Federico II il Grande fu uno stimato compositore e flautista. Sopra, Concerto per flauto di Federico II di Prussia, olio (1850) di Adolph von Menzel (Alte Nationalgalerie, Berlíno). luogo privilegiato nella storia della musica, per ragioni sociali e tecniche. Per quanto riguarda le ragioni sociali, è il momento in cui l’arte del suono conquista un’importanza e una diffusione mai raggiunte fino ad allora. Le case reali diedero l’esempio, e così Luigi XIV di Francia si circondò di ogni tipo di musicisti che dessero gloria alla sua corte, ed egli stesso partecipava a rappresentazioni di balletto. Non era da meno Leopoldo I, che non solo attirò a Vienna compositori italiani e tedeschi, ma addirittura si avvicinò, con buoni risultati, alla composizione; così come Federico II di Prussia, autore di sonate per il suo strumento, il flauto, e mecenate di compositori come Johan Joachim Quantz

Wolfgang Amadeus Mozart. Dotato di un talento eccezionale, si distinse in tutti i generi, dall’opera al concerto. 1770-1827

Ludwig van Beethoven. Partendo dalle forme ereditate da Haydn e Mozart, le sue composizioni preannunciano il Romanticismo.

STRADIVARI. Il XVIII secolo non è solo un

secolo di grandi compositori, ma anche di grandi liutai, come Antonio Stradivari. Nell’immagine, uno dei suoi celebri violini.

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LE CORTI E L’ETÀ D’ORO DELLA MUSICA

I teatri, centro della vita artistica delle corti illuministe

Fin dai suoi inizi a Firenze all’inizio del XVII secolo, l’opera si trasformò nel genere preferito delle monarchie che l’utilizzavano per ostentare potere e magnificenza. Per questo motivo costruirono teatri dotati dei più ingegnosi macchinari scenici con cui stupire il nobile pubblico, senza dimenticare, ovviamente, l’affluenza dei migliori compositori, poeti e cantanti. Alcuni di questi teatri barocchi di corte si conservano tuttora e ospitano ancora delle rappresentazioni, come il teatro della corte di Drottningholm (Svezia), il teatro di Cesky Krumlov (Repubblica Ceca), la sala dell’Opera del margravio di Bayreuth (Germania), il teatro Cuvilliés di Monaco (Germania) e l’Opera Reale di Versailles (Francia). Alcuni degli spettacoli che furono commissionati erano particolarmente onerosi, come Il pomo d’oro del veneziano Antonio Cesti, che l’imperatore Leopoldo I fece rappresentare nel 1668 in un teatro costruito appositamente all’aperto. Il montaggio, con una cinquantina di personaggi e una ventina di cambi di scenario, fece sfigurare l’Ercole amante, di Francesco Cavalli, che il cardinale Mazzarino organizzò nel 1662 e in cui ballò lo stesso Re Sole. In alto, l’Opera del margravio di Bayreuth, costruita verso la metà del XVIII secolo per la principessa Guglielmina di Prussia; a sinistra, scultura del Padiglione Cinese del palazzo di Sanssouci, a Potsdam (Germania).

o Carl Philipp Emanuel Bach (figlio di Johan Sebastian). Rappresentano entrambi uno stile galante, interpretabile come anticamera del Classicismo. Ovviamente, l’esempio di questi sovrani contagiò l’aristocrazia e l’emergente borghesia, che consideravano che leggere la musica e suonare uno strumento fosse un chiaro segno di un’educazione raffinata. Non solo: se nel periodo precedente era necessario recarsi in chiesa o essere invitato a casa di qualche nobile melomane per ascoltare la musica, verso la metà del XVII secolo aprirono i primi teatri pubblici dell’opera, e presto furono organizzati dei cicli di concerti messi in piedi da società musicali, un fenomeno in aumento a mano a mano che avanzava il secolo e diminuiva il mecenatismo reale, nobiliare ed ecclesiastico. Così, nel 1725, si fondò a Parigi il ciclo del Concert Spirituel, che si mantenne attivo fino alla Rivoluzione francese. Un’altra di queste società fu la tedesca Gewandhaus di Lipsia, fondata nel 1781 e ancora esistente. L’aumento della domanda musicale si fece notare anche con il raggiungimento dell’apice della produzione di partiture (e della conseguente pirateria) e con la nascita della critica e di una stampa specializzata, che non soltanto confermarono quell’interesse sociale per l’arte del suono, ma, inoltre, lo incentivarono alla critica. Nel 1711, per esempio, Joseph Addison fondò il periodico The Spectator, che sarebbe divenuto uno dei punti fermi contro l’opera italiana imposta in Inghilterra da Händel. In Germania, nel 1722 Johann Mattheson pubblicò il primo giornale di critica musicale, Critica musica.

Nascono le grandi forme Ciò nonostante, tutto questo non ci deve fare dimenticare che se il Barocco e il Classicismo sono importanti, è per il valore dei loro apporti prettamente musicali. Da un lato, trovò la sua piena forma la tonalità, il sistema d’organizzazione del suono che sarà alla base di tutta la creazione musicale occidentale fino alle avanguardie del XX secolo. Dall’altro, presero corpo e si consolidarono le grandi forme vocali e strumentali che avrebbe ereditato, più tardi, il Romanticismo, e che si sarebbero mantenute in vigore (nei loro tratti fondamentali), fino al secolo scorso. Tutto ciò, armonia e forma, fu il mezzo


La grande sintesi degli stili barocchi Nel 1740 il compositore e critico Johann Mattheson pubblicò un abbozzo biografico dei 149 compositori che considerava più importanti. In esso figuravano Georg Friedrich Handel e Georg Philipp Telemann, ma non Johann Sebastian Bach. La spiegazione è semplice: sebbene il maestro di Eisenach sia considerato uno dei geni dell’arte musicale, al suo tempo non raggiunse molta fama. Non lasciò mai la Germania, pubblicò poco in vita e non si occupò dell’opera, il genere mondano per eccellenza e quello che dava più benefici e fama ai compositori. La sua fama era dovuta alla sua maestria come organista mentre come compositore era considerato un conservatore troppo affezionato alla tecnica, così tedesca, del contrappunto. In un certo senso, era così, poiché Bach non aprì nessuna nuova strada: il suo merito fu quello di creare un’opera dove la maestria contrappuntistica si fondeva con la conoscenza della musica francese e italiana, che scoprì quando lavorò presso la corte di Weimar. È da qui che scaturì quella che può essere definita la sintesi creativa di tutte le possibilità del Barocco, incluse quelle più antagoniste, dando luogo a un’opera immaginativa e piena di possibilità armoniche di cui approfitteranno i musicisti successivi, come per esempio Mozart. Nell’immagine Bach, ritratto da Elias Gottlob Haussmann (Alte Rathaus, Lipsia).

d’espressione di una pleiade di compositori la cui opera continua a essere parte essenziale del repertorio. Si può situare l’origine del Barocco in Italia. È lì dove, in un tentativo di ricostruire il teatro cantato dell’antichità grecolatina nacque l’opera, per mano di Jacopo Peri (Euridice, 1600) e di Claudio Monteverdi (Orfeo, 1607). Si trattava di un genere rivoluzionario, perché rompeva con la polifonia vigente fino ad allora introducendo il canto a una sola voce accompagnata da un gruppo strumentale. Un secolo dopo, a Napoli, per merito di Alessandro Scarlatti e di molti altri, maturò il modello caratteristico dell’opera barocca, l’opera seria, caratterizzata da alcuni argomenti estratti dalla mitologia e da storie antiche, e da una struttura basata su recitativi e arie pirotecniche interpretate da soprani e castrati (uomini sottomessi all’evirazione durante la loro infanzia, allo scopo di mantenere il loro

timbro di voce, ma con la potenza di un adulto), che causavano autentico furore fra il pubblico soprattutto in Austria e in Italia, dove fu inoltre il genere prediletto per le grandi celebrazioni della corte. La prima, a Praga, nel 1791, de La clemenza di Tito, di Mozart, in occasione dell’incoronazione di Leopoldo II re di Boemia, è una prova della sopravvivenza di questa opera seria che lo stesso genio salisburghese considerava ormai antiquata. Per quanto riguarda l’ambito vocale, l’Italia vide nascere anche l’oratorio, strutturato come l’opera seria, di tematica sacra ma che non prevedeva una messa in scena, e la cantata, una piccola collezione di arie sacre o profane con i loro recitativi. Non tutto però si ridusse alla voce, perché nella Penisola iniziò anche l’emancipazione della musica strumentale. Il suo grande artefice fu Arcangelo Corelli, che stabilì le due forme caratteristiche del Barocco: la sonata e il

concerto grosso, un’opera in vari movimenti organizzati come un dialogo fra un piccolo gruppo di solisti, il concertino, e il resto dell’orchestra, il ripieno o tutti. I veneziani Tommaso Albinoni e Antonio Vivaldi portando questo modello alla massima evoluzione, crearono il concerto con solista. Grazie ai compositori stranieri che si recavano in Italia e a quelli Italiani che abbandonavano la loro patria, l’opera e la nuova musica strumentale si diffusero nel continente e trovarono una diversa sorte. È così che nacquero due altre grandi scuole, con una personalità propria: quella francese e quella tedesca. In Francia, i tentativi del cardinale Mazzarino di introdurre l’opera seria italiana nella corte furono un insuccesso, sebbene, paradossalmente, la variante autoctona operistica fosse opera di un italiano naturalizzato francese, JeanBaptiste Lully (Giovanni Battista Lulli). 63


LE CORTI E L’ETÀ D’ORO DELLA MUSICA

Mozart, il prodigio che volle essere un musicista libero “Un fenomeno come Mozart resterà per sempre come un miracolo che non si può spiegare”, diceva il poeta Goethe. E così è. Nato nel 1756 a Salisburgo, Wolfgang Amadeus Mozart scriveva piccoli minuetti per pianoforte all’età di appena cinque anni, sinfonie a otto, a dodici il singspiel in un atto Bastien und Bastienne e l’opera buffa in tre atti La finta semplice… A quel talento innato il prodigio aggiungeva una non meno sorprendente capacità d’assimilare gli stili della sua epoca, circostanza che si rese manifesta durante i viaggi che intraprese accompagnando il padre Leopold, un musicista della cappella arcivescovile di Salisburgo. Italia, Francia, Olanda, Germania e Inghilterra, oltre a Vienna, furono le sue tappe, potendo cosi entrare in contatto con tutti i tipi di musica che venivano scritti in Europa, assorbirli e, quasi immediatamente, migliorarli. È quindi comprensibile che la provinciale Salisburgo cominciasse a stargli stretta e che, provocando un grande scalpore, nel 1781 forzasse la sua espulsione dalla corte arcivescovile per tentare la sorte come compositore indipendente in quella che era allora la capitale della musica, Vienna. Gli inizi furono positivi, gli furono infatti commissionate dalla corte alcune opere, come il singspiel Il ratto del serraglio e i suoi cicli di concerti come pianista gli valsero un entusiastico uditorio. Il volubile pubblico viennese gli voltò però presto le spalle, mentre la corte, dominata da italiani come Antonio Salieri, gli concesse solamente una nomina onorifica mal remunerata. In ogni caso, furono le opere di quel periodo viennese il migliore esempio del genio mozartiano, per la perfetta sintesi fra forma e contenuto, fra tecnica e capacità d’emozione. Nell’immagine, la festa di matrimonio dell’imperatore Giuseppe II e Isabella di Parma, dipinto da Martin van Meytens (Palazzo di Schönbrunn, Vienna). Mozart, un bambino di quattro anni, è rappresentato sulla destra, assieme all’arcivescovo, vestito di bianco.

Si tratta della tragédie-lyrique, che attribuisce più importanza all’orchestra, attenua la differenza fra aria e recitativo e include nell’azione le danze, un fatto ancora più evidente nelle opere di un genere ibrido chiaramente francese e cortigiano, l’opéra-ballet. Il testimone di Lully fu passato a Rameau, che diede al teatro musicale francese opere maestre come Les Indes galantes (1735), Castor et Pollux (1737) e Platée (1745). La Francia però generò anche una prospera scuola strumentale con opere raffinate, eleganti, e dai titoli coloristici in cui il clavicembalo è lo strumento principale. È qui che brillò François Couperin. Nell’ambito della musica sacra, Marc-Antoine Charpentier e Michel-Richard de Lalande diedero la magnificenza adeguata alla corte del Re Sole, sebbene quest’ultimo sia passato alla storia soprattutto per la musica d’accompagnamento alle cene del sovrano. 64

L’altra grande scuola barocca, quella tedesca, fu dominata da due grandi personalità: Georg Friedrich Händel e Johann Sebastian Bach. Nati entrambi nel 1685, cominciarono la loro carriera come organisti e in seguito i loro destini seguiranno traiettorie completamente diverse. Nel 1705, Händel compose la sua prima opera, Almira, il genere a cui avrebbe dedicato quasi tutti i suoi sforzi, specialmente a partire dal 1706, anno in cui si recò in Italia, dove si immerse nell’opera seria e nei concerti grossi e fece sua la lingua musicale italiana, che portò in Inghilterra, dove si stabilì nel 1712. Opere come Giulio Cesare (1724), Tamerlano (1724) o Alcina (1735), lo resero celebre e ricco, così come gli oratori in inglese, genere a cui appartiene il suo famosissimo Messiah (1741), che iniziò a coltivare quando il gusto per l’opera italiana venne meno. Bach, invece, non si recò mai in Italia: fu comunque in grado di assorbire sia lo

stile italiano, nei suoi concerti per clavicembalo, sia quello francese nelle sue suites, un tipo d’opera che era costituito da un’apertura e da una serie di danze stilizzate. La sua opera più importante fu però quella per organo e clavicembalo, così come la sua produzione sacra, dominata dalle cantate e passioni scritte per la chiesa di San Tommaso di Lipsia, di cui era maestro di cappella. Vi furono anche altri centri musicali, d’importanza inferiore. Uno fu l’Inghilterra, nel periodo precedente l’arrivo di Händel, che vide come personaggio di spicco Henry Purcell, autore di opere ibride, fra il teatro e l’opera, come The Fairy Queen (1692) e l’opera Dido and Aeneas (1689). Un altro centro fu la Spagna, dove i tentativi di José de Nebra e Antonio de Literes, nella prima metà del XVIII secolo, di creare un’opera nazionale, non furono continui; essa fu invece interessata dalla nascita di una prospera scuola


UN BAMBINO PRODIGIO. I viaggi che Mozart realizzò da piccolo in Europa non solo servirono a sbalordire il mondo, ma anche a rivelargli cosa stava avvenendo sulla scena musicale, fuori da Salisburgo. Fu di particolare importanza il viaggio che fece in Italia, fra il 1769 e il 1773, fermandosi a Roma, Napoli, Bologna e Milano. Nell’immagine, Mozart a quattordici anni, ritratto a Verona da Saverio della Rosa (Casa di Mozart, Salisburgo).

strumentale a opera dell’italiano Domenico Scarlatti, musicista di corte di Ferdinando VI. Le sue brevi sonate per clavicembalo furono d’ispirazione per musicisti del calibro di padre Antonio Soler.

Una nuova sensibilità Verso la metà del XVIII secolo il Barocco cominciava a dare segnali di esaurimento, soprattutto l’opera seria. Christoph Willibald Gluck tentò una sua radicale riforma con Orfeo e Euridice (1762), ma il vero cambiamento fu introdotto da Pergolesi con la sua serva padrona. I personaggi della quotidianità e la freschezza della sua musica sedussero un pubblico sempre più urbano e stanco di arie da capo, cantate da eroi di cartapesta. È il primo accenno a un cambio di sensibilità che trova un riscontro nella querelle e che in Italia sfocia nella nascita dell’opera buffa, anch’essa con recitativi concisi, ma con una maggiore varietà di

numeri musicali (ancora arie da capo ma anche canzoni di tipo popolare o duetti) e personaggi e storie molto più vicine agli spettatori. In Germania e in Francia, la nuova sensibilità si espresse nel cosiddetto galante, una reazione allo stile severo, erudito, e basato sul contrappunto del Barocco pieno, che diede luogo a una musica più semplice dal punto di vista armonico e di carattere leggermente sentimentale. I concerti per tastiera di Carl Philipp Emanuel Bach (che consigliava di suonarli «nel modo più triste e lento possibile») e le opere di Johann Sebastian Bach appartengono già a quello stile, in cui muoverà i suoi primi passi di compositore Franz Joseph Haydn. La seconda metà del XVIII secolo è un momento di grande effervescenza creativa, il cui epicentro fu Vienna. L’ideale era ora una musica nobile ed elegante, oltre che divertente, espressiva e decorosa, saggia ma non tecnicamente pe-

dante: tutto si basava su una lingua universale, che non era limitata da frontiere nazionali. Mentre alcune forme musicali barocche come la suite scompaiono, o iniziano un interminabile declino (come l’opera seria), altre evolsero fino a trasformarsi in qualcosa di diverso e di particolarmente longevo. È il caso della sinfonia, che trae origine dal preludio operistico italiano; del concerto con solista; del quartetto d’archi, forma classica per eccellenza, e dalla sonata per uno o al massimo due strumenti. Ma non solo: negli anni fra il 1740 e il 1750, nella corte dell’elettore di Mannheim, si assistette alla nascita dell’orchestra moderna, mentre irrompeva con forza un nuovo strumento, il piano o forte-piano, così chiamato per la sua capacità di suonare forte e piano, una gradazione dinamica di cui era invece incapace il clavicembalo e che porterà a un rapido declino di quest’ultimo strumento. 65


LE CORTI E L’ETÀ D’ORO DELLA MUSICA

IL PADRE DEL QUARTETTO D’ARCHI.

Joseph Haydn mentre dirige un quartetto d’archi, in un’incisione anonima del XIX secolo (Historisches Museum der Stadt, Vienna). Haydn è il grande protagonista di questo cambio, tanto che venne chiamato «padre del quartetto d’archi e della sinfonia». Sebbene quest’affermazione possa sembrare esagerata, la sua produzione fu decisiva nel momento di adeguare queste forme e stabilire un modello di valore universale. Ciò non deve però farci dimenticare che il compositore scrisse anche opere, sonate, trii, concerti e messe, oltre a rivitalizzare nei primi anni del XIX secolo l’oratorio, che Händel aveva portato alla pienezza. Mozart fece suoi gli insegnamenti di Haydn, essendo un genio capace di assimilare qualsiasi musica, dall’opera italiana al contrappunto del vecchio Bach, e renderla nuova, soprattutto, nel campo 66

dell’opera buffa e del singspiel, un tipo di opera in tedesco che sostituisce i recitativi con passaggi declamati. Alla prima regalò opere come Le nozze di Figaro (1786), il Don Giovanni (1787) e Così fan tutte (1790), che supereranno abbondantemente i limiti dell’opera buffa, con la loro perfetta fusione fra l’azione teatrale e la musica. Si può dire lo stesso de Il flauto magico (1791), un singspiel che ha gettato le basi dell’opera nazionale tedesca romantica.

La nuova epoca romantica La transizione dal Classicismo alla nuova sensibilità romantica, preannunciata da alcune opere di Mozart, come dai movimenti lenti dei suoi concerti per piano, trova il suo compimento con Ludwig van Beethoven. Le sue prime composizioni, però, rivelano l’influenza di Haydn e Mozart, ma soprattutto a partire dal 1805, anno della prima rappresentazione della

Sinfonia nº 3 “Eroica”, si apprezza un cambiamento decisivo. Da quel momento in poi, al compositore non basta più seguire lo schema fisso e riempirlo di musica, perché desidera far sentire anche agli altri ciò che sente. Pertanto ogni nuova opera, pur mantenendo la struttura base del Classicismo, era considerata unica, ed esigeva una soluzione diversa. Così, mentre Haydn scrisse centoquattro sinfonie e Mozart, nella sua breve vita, quarantuno, Beethoven ne scrisse solamente nove. Esse, assieme alle trentadue sonate per pianoforte e i suoi diciassette quartetti per archi aprono una nuova epoca nella storia della musica: il Romanticismo. Beethoven ottenne però anche un’altra cosa: la libertà. L’aspirazione dei musicisti del periodo precedente fu quella di lavorare o al servizio della corte o in una casa di aristocratici, o presso un’istituzione ecclesiastica. Bach e Händel non furono un’eccezione, e nemmeno Haydn,


Ludwig van Beethoven, verso il Romanticismo Nel novembre del 1792, un giovane e ambizioso pianista e compositore di Bonn si recò a Vienna, con l’intenzione di studiare con Haydn: si trattava di Ludwig van Beethoven. La capitale imperiale non gli era sconosciuta perché vi si era recato già cinque anni prima per conoscere il suo idolo, Mozart, ma questa volta aveva intenzione di restarvi. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1827, Beethoven visse a Vienna e lì raggiunse la sua indipendenza creativa, quella che Mozart aveva sognato per sé. All’inizio il giovane musicista seguì il consiglio che, ancora a Bonn, gli diede il conte Waldstein: «Ricevi lo spirito di Mozart per mano di Haydn». Questo contatto con i due grandi rappresentanti del Classicismo viennese fu presto interpretato da Beethoven in una forma molto libera, aperta a tutte le novità, non solo musicali, provocate dalla Rivoluzione francese. È questo che si apprezza nella Sinfonia nº3, ”Eroica” (1805) e nella Sinfonia nº 5 (1808), che aprono nuove strade al genere, sia nella forma sia nel contenuto, trasformando la partitura in una specie di dramma che rappresenta la lotta, la sottomissione e il trionfo di Beethoven. La sordità, che iniziò a colpirlo nel XIX secolo e che nel 1815 era già totale, segnò l’ultimo periodo creativo del compositore, che si chiuse in se stesso e diede vita a suoni che esistevano solo nella sua mente. Questo spiega il linguaggio più concentrato e astratto, che porta a limiti quasi irriconoscibili le strutture ereditate dal Classicismo, delle sue ultime sonate per piano e quartetti d’archi, o della Sinfonia nº 9, che il compositore coronò con un testo di Schiller, l’Inno alla Gioia.

che lavorò per la maggior parte della sua vita per i principi di Esterházy, componendo e dirigendo tutto ciò che gli veniva richiesto, da balli cortigiani a servizi religiosi o opere per burattini. Questo era anche il desiderio di Mozart, servire come il padre nella cappella della corte arcivescovile di Salisburgo. Mozart, tuttavia, abbandonò la sicurezza di quell’incarico per recarsi a Vienna e vivere della sua musica, libero da servilismi. L’avventura finì male, con il genio malato e rincorso dai creditori, ma vi riuscì invece Beethoven, che nella stessa Vienna seppe vivere e creare liberamente e indipendentemente. Così si spiega l’orgoglio con cui si rivolgeva al principe Lichnowsky: «Vostra Altezza, voi siete principe per nascita e per sorte; io sono ciò che sono per merito mio. Di principi ce ne sono, e ce ne saranno a migliaia: di Beethoven ce n’è uno solo». Una dichiarazione d’individualismo autenticamente romantico.

GLI EREDI. La generazione romantica fece di Ludwig van Beethoven il suo eroe. Per E.T.A. Hoffmann, la sua musica «mette in movimento la leva della paura, dell’orrore, della sofferenza, e risveglia quel desiderio infinito che è l’essenza del Romanticismo». Tuttavia, le sue ultime opere erano così personali che nemmeno i romantici seppero apprezzarle. In alto, busto di Beethoven, di Gustav Landgrebe (Archiv für Kunst und Geschichte, Berlino).

ORIGINALE. Partitura manoscritta della Sonata per piano nº 14 in do diesis minore “Quasi una

fantasia”, nota come Chiaro di Luna (Casa natale di Beethoven, Bonn). 67


LA SCIENZA DELL’ILLUMINISMO.

Antoine e Marie Anne Lavoisier, i genitori della chimica moderna, ritratti da Jacques-Luis David nel 1788 (Metropolitan Museum of Art, New York). Nella pagina accanto, tabacchiera del 1775 circa, con una miniatura di Voltaire (Wallace Collection, Londra).

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L’ILLUMINISMO L’Illuminismo fu un movimento politico e culturale che promuoveva una riforma radicale nella struttura ideologica dell’Antico Regime. Appellandosi agli esiti della nuova scienza e facendo dell’uso spregiudicato della ragione il motore del progresso, i suoi promotori cercarono, ciascuno nel proprio campo di competenza, di aumentare la felicità del maggior numero di persone possibile.

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e ora ci domandassimo: «Viviamo forse attualmente in un’epoca illuminata?», la risposta sarebbe: «No, bensì in un’epoca di Illuminismo», come scriveva il filosofo prussiano Immanuel Kant nel suo famoso testo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? che rispondeva alla domanda posta nel 1783 dalla prestigiosa rivista Berlinische Monatschrift. Per Kant l’Europa di allora non viveva in una condizione illuminata, ma in un «processo di Illuminismo». Questa visione progressiva della storia trasformava la fede in ragione, la quale doveva sostituirsi all’antica ragione della fede in un progetto sempre incompiuto. Il suo programma

ideologico, culturale e politico, basato sull’uso spregiudicato e pubblico della ragione, si estese in tutta Europa e nell’America coloniale permeando i valori del mondo contemporaneo. In opposizione alla visione teologica della storia, che la divideva in due periodi marcati dalla venuta del figlio di Dio in Terra, gli illuministi immaginarono se stessi come eredi legittimi dell’antichità, così come anche difensori della ragione contro la superstizione e il fanatismo. Benché non tutti i filosofi dell’Illuminismo fossero razionalisti e molti di essi combatterono i grandi sistemi filosofici legati a idee astratte, la maggior parte dei membri della “Repubblica delle 69


Voltaire, il modello del filosofo illuminato Nessun altro intellettuale dell’Illuminismo risvegliò tante adesioni e inimicizie come Voltaire. Fu sicuramente una delle figure più polemiche del suo tempo, soprattutto per la sua posizione furiosamente anticlericale e la sua penna aggressiva e pungente. François-Marie Arouet (era questo il vero nome di Voltaire) fu il grande polemista dell’Illuminismo grazie non solo a una cultura che comprendeva quasi tutti i campi del sapere del tempo (fu, per esempio, responsabile dell’introduzione in Francia delle teorie di Newton con madame de Châtelet), ma grazie soprattutto alla sua penna affilata che non si fermava davanti a niente e a nessuno. Per questo motivo fu rinchiuso nella Bastiglia (1717) e infine esiliato in Inghilterra (17261729), ma questo non impedì che fosse oggetto della stima di personaggi influenti come Caterina II di Russia e Federico II di Prussia, che però Voltaire riuscì a inimicarsi prendendolo in giro per le sue pretese letterarie. Sebbene si contraddicesse in molti dei suoi scritti, Voltaire si distinse per la sua difesa della tolleranza, il suo anticlericalismo militante (ma non ateismo) e per il suo entusiasmo per l’assolutismo, che lo portò ad assumere posizioni decisamente antidemocratiche. Nell’immagine a destra, Voltaire conversa con un gruppo di contadini a Ferney, olio di Jean Huber.

Lettere” mostrarono una chiara fiducia nell’uso critico della ragione come strumento del progresso. La critica doveva servire a combattere la superstizione e l’ignoranza, mettere fine ai principi infondati della tradizione e difendere un nuovo modello di convivenza. I nuovi illuministi non erano alla ricerca di vane utopie, ma bensì desideravano porre la ragione al servizio del bene comune. Su questo concordavano figure molto dissimili come Cesare Beccaria, il giurista lombardo che si batté in favore di un rinnovamento del sistema penale; lo scozzese Adam Smith, fondatore della moderna economia politica, i francesi La Mettrie o l’abate Étienne Bonnot de Condillac, le cui ricerche aprirono il campo della psicologia, o gli americani Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, responsabili della creazione di una nuova cornice costituzionale per la nascente nazione americana. Sebbene gli illuministi definissero spesso la loro epoca come una nuova età della ragione, il movimento può essere compreso solo all’interno della struttura sociale dell’Antico Regime, che stabilisce una chiara linea di discontinuità con il Me70

dioevo e il feudalesimo. I nuovi filosofi, i philosophes, come chiamavano se stessi gli illuministi francesi, disconoscevano il sapere rivelato attraverso i libri sacri. Al contrario, la necessità di cercare una nuova forma di conoscenza che dipendesse esclusivamente dalla ragione e dai sensi sorgeva proprio dalla loro convinzione nelle doti della natura umana. Il numero delle circa 1500 persone che si dedicavano allo studio di ciò che oggi chiameremmo genericamente “scienza”, e che allora era conosciuta con i nomi di storia o filosofia naturale, aumentò fino a raggiungere le 5000 verso la fine del secolo. I membri di questa crescente comunità illuminista condivisero nuove forme di comunicazione, e parteciparono alla creazione di accademie, musei e società.

Il pensiero filosofico Anche se molte delle idee di base dell’Illuminismo si trovano nei testi di Voltaire, Diderot, Montesquieu, Hume o Kant, l’Illuminismo non fu un movimento omogeneo. Questo avvenne perché non tutti i suoi membri provenivano dagli stessi ceti


IL VOLTAIRE DI HOUDON.

Lo scultore Jean-Antoine Houdon fu uno dei grandi ritrattisti del Neoclassicismo francese e Voltaire fu uno dei suoi modelli, di cui realizzò un busto e questa statua a corpo intero (Museo dell’Hermitage, San Pietroburgo).

sociali e, inoltre, perché non tutti si opponevano alle stesse forme di pensiero, già proprie della cultura popolare o delle pratiche e credenze religiose. Il pensiero illuminista non sempre si scontrò con la religione e l’autorità. Nemmeno la libertà di commercio difesa da molti dei suoi correligionari portò benefici alla totalità della popolazione, ma solo a minoranze provenienti dalla borghesia e dalla nobiltà. Voltaire, una delle figure più rilevanti, se da un lato difendeva la tolleranza religiosa, dall’altro si opponeva alle ricerche di molti naturalisti perché sembravano contraddire la necessità di un «essere supremo». Come molti altri filosofi e illuministi, il poeta di Francia, come lo chiamavano molti dei suoi contemporanei, pareva preferire il sistema newtoniano a quello cartesiano, poiché quest’ultimo, a suo giudizio, conduceva all’irreligione e all’ateismo. Alcuni dei nomi più eminenti dell’Illuminismo, come George-Louis Leclerc (conte di Buffon), Honoré Gabriel Riqueti (conte di Mirabeau) o Paul Henri Thiry (barone d’Holbach) provenivano dalla nobiltà. In molte occasioni, come nei casi di Anne Robert Jacques Turgot, che

fu ministro delle Finanze in Francia, o di Edward Gibbon, parlamentare nella House of Commons (Camera dei Comuni) inglese, i filosofi occuparono posizioni di una certa importanza nelle strutture di potere dell’Ancien Régime. Molte delle grandi figure del movimento filosofico mantennero relazioni con despoti riconosciuti: Voltaire, Maupertuis e Helvétius con Federico II il Grande di Prussia o Diderot con Caterina II di Russia. Per molti di loro, inoltre, la maggior parte della popolazione, illetterata e contadina, contava abbastanza poco all’interno della propria dottrina di riforma sociale. Da un punto di vista ideologico, la famiglia dei pensatori illuministi non andò mai troppo d’accordo e, nonostante gli attacchi da parte dell’ortodossia religiosa o del conservatorismo politico, che avrebbero potuto trasformarla in un fronte intellettuale omogeneo, i suoi membri mantennero sempre importanti disaccordi. Diderot, ad esempio, discusse con il suo collega filosofo ClaudeAdrien Hélvetius a proposito delle tesi sulla ragione contenute nel trattato pubblicato da quest’ultimo. Ugualmente aspro fu il suo scontro 71


L’ILLUMINISMO

UNA NATURA SORPRENDENTE. La

natura dei nuovi mondi scoperti dagli esploratori, con i suoi strani animali e piante mai viste prima d’allora, affascinò la società europea del XIII secolo. Sopra, Il Rinoceronte (1751), olio di Pietro Longhi (Museo del Settecento Veneziano – Ca’ Rezzonico, Venezia).

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con lo scultore Étienne Maurice Falconet in relazione al tema dell’immortalità delle opere e al riconoscimento futuro degli artisti. Il Materialismo del medico La Mettrie non aspirava, come quello del barone D’Holbach, a una riforma dell’educazione sociale, e nemmeno il Naturalismo di Jean-Baptiste-René Robinet, famoso per aver scritto un trattato che negava l’immutabilità delle specie, assomigliava all’esaltazione del piacere promossa dall’allora onnipresente letteratura libertina. Quando alla voce “Ginevra” dell’Enciclopedia, D’Alembert scrisse che alcuni pastori svizzeri non credevano più alla divinità di Gesù Cristo, ciò fu interpretato come una critica nei confronti della Chiesa ginevrina, la quale esigette un’immediata ritrattazione pubblica, e considerato inoltre un affronto anche da parte del suo collega filosofo Jean-Jacques Rousseau, che decise di interrompere i suoi rapporti con il matematico. Nonostante queste profonde differenze e le numerose contraddizioni il movimento filosofico mantenne comunque una certa unità nelle proprie proposte. Così, insieme all’uso critico della

ragione, che costituisce forse il suo proclama meglio articolato, una delle più grandi aspirazioni degli illuministi fu la ricerca di una “scienza dell’uomo”, che si basasse su considerazioni fisiologiche, come pretendevano i materialisti La Mettrie o Davis Hartley, sullo studio delle azioni dell’intelletto umano, come proposero David Hume o Condillac, o sull’analisi delle leggi e delle norme dalle quali dipendeva l’attività sociale, come proposero Edmund Burke, Adam Smith o Cesare Beccaria. In tutti i casi, questa nuova “storia naturale dell’uom”, come a volte veniva chiamata, non aveva niente a che fare con la storia sacra fino ad allora onnipresente in ogni piega della struttura sociale. Lontana dalle considerazioni religiose, in parte denunciate da Bernard le Bovier de Fontenelle nella sua Istoria degli oracoli (1686), la nuova filosofia promuoveva un’immagine dell’essere umano che dipendeva interamente dalla correlazione dei suoi tessuti e dalle necessità dei suoi organi. Si estese così l’idea che l’uomo fosse come un clavicembalo, capace di armonizzare il movimento cadenzato delle sue fibre, come un libro vivente in grado di leggersi da sé, come un ragno le cui tele erano parte del suo universo sensibile, o come un bulbo di radici filamentose. In tutti i casi le capacità intellettuali dipendevano dalla composizione morfologica e dai meccanismi di associazione cognitiva. Dal momento che l’intelligenza si rapportava ai sensi e la funzione si legava alla struttura, la conoscenza non poteva più essere guidata dalla rivelazione, bensì dall’osservazione e dalla sperimentazione. In molti casi la nuova filosofia morale e politica sulla quale si voleva edificare questa nuova scienza dell’uomo doveva seguire lo schema metodologico che il matematico e filosofo naturale Isaac Newton aveva sviluppato con tanto successo nell’ambito della meccanica. Il sottotitolo del Trattato sulla natura umana di David Hume, ad esempio, recitava molto graficamente: Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli soggetti morali; mentre la Theory of moral sentiments (Teoria dei sentimenti morali) di Adam veniva tradotta in francese (dal materialista D’Holbach) come Metafisica dell’anima. Si realizzava così la costruzione di una scienza dell’uomo fondata sulla contrapposizione, (nell’ambito della morale), a ciò che nell’universo newtoniano aveva rappresentato l’attrazione gravitazionale. Insieme alla sua scommessa su una scienza dell’uomo, il movimento filosofico mantenne, soprattutto in ambito francese, un notevole carattere anticlericale, rappresentato meglio che in qualunque altra riflessione, nella sentenza con la quale Voltaire firmava i suoi scritti “Écrasez l’infâme” (Schiacciate l’infame).


KANT: L’IMPERO DELLA RAGIONE

L

DOMANDE KANTIANE.

Anche se condusse una vita molto tranquilla, Kant rivoluzionò la filosofia occidentale determinando i limiti della conoscenza: «Che posso sapere?», «che devo fare?», «che posso sperare?»; in definitiva, «chi è l’uomo?».

a fiducia nella ragione, tipica dell’Illuminismo, vide come maggiore difensore il filosofo tedesco Immanuel Kant, soprattutto da quando, verso il 1770, la scoperta del pensiero del filosofo inglese David Hume lo risvegliò dal suo «sogno dogmatico». Per Kant, l’Illuminismo (o Aufklärug, in tedesco), «rappresenta per l’uomo lo scopo della sua minor età», provocata dall’incapacità di usare la ragione senza essere guidati da altri. Da ciò deriva il suo motto: Sapere aude che significa «abbi il coraggio di conoscere», oppure, similmente, di usare la tua ragione. A destra, monumento al filosofo nella sua città natale, Königsberg (l’attuale Kaliningrad, Russia), di Christian Daniel Rauch.

LA CRITICA DELLA RAGIONE Nel 1781 Kant pubblicò uno dei suoi lavori fondamentali, Critica della ragion pura (nell’immagine, copertina della sua prima edizione, stampata a Riga). In quest’opera indaga sulla conoscenza, che il filosofo vede come qualcosa che viene costruito dagli esseri umani partendo da alcune proposizioni o giudizi a priori.

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L’ILLUMINISMO

Jean-Jacques Rousseau e la sua teoria anti-illuminista del buon selvaggio A differenza di altri illuministi, che non misero mai in discussione un modello di società profondamente elitaria e ancor meno monarchica, il filosofo svizzero fece dell’attacco alla struttura sociale uno dei fondamenti della sua opera. La pubblicazione, nel 1755, del Discorso sull’origine e sui fondamenti della disuguaglianza fra uomini, seguita nel 1762 da quella de Il contratto sociale, provocò un grande scandalo in Francia. I due saggi riguardavano temi tabù, come l’origine della società e del potere politico, trattati da una prospettiva critica che si domandava quale fosse la validità della società dell’epoca. E non solo, perché Rousseau si scagliava inoltre contro la concezione illuminista dell’essere umano, introducendo l’immagine del "buon selvaggio", ovvero di colui che vive innocente e felice nella natura. Così, emerge che la civiltà e la cultura non portano la felicità, ma, al contrario, la corrompono portandola a tollerare l’ingiustizia e la disuguaglianza, soprattutto partendo dall’istituzione della proprietà privata. Tali idee distanziarono lo svizzero dal resto degli illuministi, ma furono basilari per i rivoluzionari del 1789. Nell’immagine, Rousseau di Allan Ramsay (Scottish National Gallery, Edimburgo).

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È necessario però precisare che questo succedeva soprattutto nel “mondo francese”, poiché in altri Paesi europei l’Illuminismo convisse invece con le rinnovate forme religiose, che si trattasse del Metodismo, del movimento di rivitalizzazione cristiana delle colonie americane conosciuto come Great Awakening (il Grande Risveglio), o del Pietismo degli Stati tedeschi. Molte delle proposte del movimento filosofico erano impregnate da una riscrittura laica degli antichi miti religiosi. L’enfasi sulla primordiale bontà dell’essere umano allo stato selvaggio difesa da Rousseau conservava importanti somiglianze con la visione idilliaca del Paradiso prima della caduta, mentre la forma di organizzazione sociale del movimento, articolato in piccole comunità di resistenza politica, ricordava il modo in cui lo storico Edward Gibbon aveva descritto i primi cristiani nella sua monumentale Declino e caduta dell’impero romano. La pubblicazione nel 1742 dell’opera Lo spirito delle leggi di Montesquieu pose le basi della separazione dei poteri sulla quale doveva poggiarsi lo Stato moderno, evitando allo stesso tempo la tirannia e il dispotismo. La maggior parte dei libri pubblicati durante il XVIII secolo non fu scritta dai grandi luminari dell’Illuminismo, bensì da individui che, scontrandosi con le nuove circostanze sociali, trovavano nella produzione letteraria una nuova forma di sopravvivenza. Diderot, ad esempio, iniziò la sua carriera a Parigi traducendo libri di medicina dall’inglese e scrivendo letteratura libertina. La circolazione delle idee durante il XVIII secolo non solo attraversava le frontiere economiche, ma annullava anche le barriere tra i gruppi sociali, modulando i sistemi di pensiero che si imposero nella seconda metà del secolo. L’enciclopedista Diderot, così come il materialista Maupertius o il filosofo e medico La Mettrie, facevano parte di un movimento interno all’Illuminismo che, raggiunta la massima visibilità verso il 1740, metteva in discussione l’ordine naturale e sociale, diffidava del ragionamento matematico, abbandonava la filosofia a favore della storia naturale e, con grande scandalo per medici, fisiologi e naturalisti, esaltava la diversità naturale davanti a un’opinione pubblica che cominciava a preferire le dimostrazioni anatomiche ai trattati di meccanica e iniziava ad approffittare del collezionismo e della catalogazione di animali, piante e minerali. Diderot aspirava quindi alla creazione di una “scienza popolare” che si sovrapponesse al tessuto sociale. In questo era simile a Buffon, che difese l’idea per cui la conoscenza della natura, anche se non necessariamente i suoi benefici,


fosse aperta alla totalità degli esseri umani. Nella sua monumentale Storia naturale, l’intendente del Giardino del Re di Parigi rispecchiò il deciso cambio di gusto sociale verso una forma di conoscenza altamente borghese, tanto nella forma quanto nel contenuto. Intorno al 1740 questa nuova sensibilità illuminista influenzava tutti gli strati e le attività della società francese. La crescente attrazione per la natura catturò l’immaginazione della nuova borghesia urbana, che non pretendeva più di lodare il disegno e le virtù della creazione, ma perseguiva l’appropriazione intellettuale, sociale e economica della diversità naturale. Osservando quegli aspetti che la vecchia storia naturale aveva giudicato come dei tabù fino ad allora, il nuovo Naturalismo non considerava più la natura come oggetto di lode, bensì di appropriazione intellettuale, poiché tanto l’identità personale quanto la coscienza collettiva variavano in accordo con la percezione delle nuove sensazioni. Si tratta della stessa natura, ovviamente, ma di una natura che è ormai diventata

oggetto di uso e consumo e il cui possesso non solo conferisce la conoscenza, ma al tempo stesso piacere e status sociale.

L’Illuminismo in Germania Mentre nella maggior parte del continente europeo l’Illuminismo conduceva a una certa forma di Sensismo, in Prussia e negli Stati tedeschi i pensatori più importanti svilupparono una forma di Idealismo. Uno dei suoi primi rappresentanti fu il filosofo, politico, matematico ed erudito prussiano Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), che si occupò della ricerca sugli elementi ideali che, a suo giudizio, costituivano la sostanza di tutte le cose: le monadi (i primi elementi, matematici, dell’universo). Le proprietà di tali monadi permettevano di rendersi conto della totalità dei problemi associati alla conoscenza della natura, inclusa la natura di Dio. Inventore, insieme a Newton, del calcolo infinitesimale, Leibniz sviluppò anche un sistema filosofico altamente speculativo, che giungeva alla conclusione che, sebbene il «sommo fattore» avesse potuto creare

STURM UND DRANG.

Considerati i maggiori drammaturghi della Germania, Goethe e Schiller furono due pilastri dello Sturm und Drang (tempesta e impeto), movimento estetico che si distanziò dall’Illuminismo e si erse a precursore della sensibilità romantica. L’amicizia che unì i due fra il 1794 e il 1805 (anno della prematura morte di Schiller), segnò uno dei periodi culminanti della storia culturale europea. In alto, i due poeti ne La corte delle muse di Weimar (1860), litografia basata su un olio di Theobald von Oer (Palazzo di Bellevue, Berlino). 75


I salotti dei filosofi dell’Illuminismo Per divulgare le loro idee, gli Illuministi furono aiutati dai salotti, trasformati in un punto d’incontro dove discutere liberamente riguardo a qualsiasi tema, sotto la protezione dell’ospitalità di un anfitrione. Fenomeno inequivocabilmente francese che avrebbe dovuto sopravvivere anche alla rivoluzione del 1789, i salotti furono la migliore espressione della vita culturale del regno francese durante il XVIII secolo. Queste riunioni, che prendevano il nome della residenza dell’anfitrione che le organizzava, erano frequentate da letterati, filosofi, artisti e scienziati, oltre che dai membri dell’alta società parigina. Per il proprietario della casa, il prestigio sociale fornitogli da questi incontri era evidente, ma questo prestigio non era inferiore per gli ospiti, che disponevano di un luogo dove relazionarsi con gli altri, stabilire scambi intellettuali o rendere note le opere a cui stavano lavorando. Fra i salotti più famosi possiamo contare quello di Julie de Lespinasse, quello di madame du Deffand e quello di madame Geoffrin, che aveva come corrispondente nientemeno che Caterina II di Russia. Nell’immagine, Une soirée chez madame Geoffrin (1812), olio di Anicet Charles Gabriel Lemonnier, che ricrea la lettura, nel 1755, della tragedia L’orfano della Cina di Voltaire, nel salotto di questa dama (Museo del Castello di Malmaison, Rueil-Malmaison).

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qualunque mondo, di fatto aveva creato il migliore dei mondi possibili. Quest’opinione fu duramente criticata da Voltaire nel suo racconto filosofico Candido, o l’ottimismo, così come da molti altri filosofi, soprattutto in seguito al devastante terremoto di Lisbona dell’anno 1755. «Se questo è il miglior mondo possibile - ironizzava Voltaire - come saranno gli altri?». Ancora più rilevante per quella che sarebbe stata la storia canonica della filosofia fu l’opera di Immanuel Kant. Dalla piccola Königsberg, la località della Prussia orientale (l’attuale Kaliningrad) in cui risiedette per tutta la sua vita, il filosofo prussiano mantenne una corrispondenza con le grandi personalità accademiche di quell’epoca. Nella sua città fu raggiunto da qualunque tipo di dubbio e di consultazione, dai problemi relativi ai diritti degli animali fino alla presunta localizzazione spaziale dell’anima. Interessato ai progressi della filosofia e della storia naturale, Kant acquisì fama universale per aver dato vita a un sistema filosofico che indagava la natura possibilista dell’esperienza. Anche se 76

non siamo in grado di conoscere il mondo delle cose in quanto tali, egli ragionava, possiamo comunque conservare delle rappresentazioni che siano adeguate al nostro mondo, l’unico che ci è concesso di conoscere. I suoi contributi alla teoria generale della conoscenza, ma anche all’etica o alla filosofia dell’arte, fecero sì che la sua opera diventasse fonte d’ispirazione per tutta la filosofia successiva. In una certa maniera è possibile sostenere che i suoi libri, e in special modo le sue tre Critiche, abbiano posto le basi di tutta la filosofia contemporanea. Ispirato in parte da alcuni dei presupposti dell’ultima delle grandi opere di Kant, la Critica del giudizio, e legato anche all’opera di Jean-Jacques Rousseau, il movimento letterario e artistico conosciuto con il nome di Sturm und Drang (tempesta e impeto) andava configurandosi come la risposta tedesca all’ascesa della sensibilità che si riscontrava anche nel resto del continente europeo. In parte come reazione al razionalismo neoclassico, e ispirato a sua volta dalle nuove scienze della vita, il movimento trovò l’appoggio di poeti


1 CONTE DI BUFFON. Intendente del Giardino del Re, una figura chiave dello studio della storia naturale nel XVIII secolo.

2 JEAN-JACQUES ROUSSEAU. Oltre alla filosofia coltivò il romanzo (Emilio e La nuova Eloisa) e la composizione musicale (L’indovino del villaggio).

3 JEAN-PHILIPPE RAMEAU. Compositore e teorico musicale, famoso per le opere-balletto, come Les Indes Galantes e per la sua opera teorica sull’armonia.

4 PIERRE DE MARIVAUX. Autore di commedie galanti e degli equivoci di grande successo, come Il gioco dell’amore e del caso o La doppia incostanza.

5 JEAN LE ROND D’ALEMBERT. Matematico e filosofo, diresse assieme a Diderot i lavori dell’Enciclopedia fino al 1758.

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6 BARONE DI MONTESQUIEU. Scrittore e pensatore politico, a lui si deve la teoria della separazione dei poteri.

7 VOLTAIRE. Il suo busto, al centro, presiede l’aristocratico salone. La lettura della sua tragedia in cinque atti, L’orfano della Cina (1755) è la scusa per la riunione degli illuministi. 8 MADAME GEOFFRIN. Dal 1749 e fino alla sua morte nel 1777, organizzò, nella sua residenza di rue Saint-Honoré, uno dei più famosi salotti letterari di Parigi.

come Friedrich Schiller (1759-1805) e filosofi come Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) o Johann Gottfried von Herder (1744-1803). Fu però soprattutto il genio di Johann Wolfgang von Goethe, e in special modo il suo romanzo I dolori del giovane Werther, pubblicato nell’anno 1774, a porre le basi di questo rinnovamento passionale della filosofia che, in una certa misura, anticipa il Romanticismo. Estraneo ai vuoti giochi della ragione e alle speculazioni cortigiane, l’uomo dai sentimenti naturali e nobili non avrà altra consolazione che la morte per mano propria. Speciale fonte di ispirazione per la generazione successiva, questo breve romanzo epistolare provocò una scia di suicidi in tutta Europa.

La sfera dell’opinione pubblica La circolazione delle idee necessitava nuovi mezzi di diffusione. Insieme alle accademie e alle società scientifiche già esistenti, lo spirito dell’Illuminismo si manifestò anche attraverso i giardini botanici, le gallerie e i musei d’arte e di storia naturale. Gli osservatori astronomici sostituirono

le “stanze delle meraviglie” o “gabinetti delle curiosità” privati caratteristici nel XVII secolo. Oltre a questi spazi di esposizione e apprendimento la borghesia trovò nuove modalità di riunione e scambio, per esempio durante conferenze pubbliche, in sale da caffè o da tè (coffeehouses), così come in biblioteche, in esposizioni di pittura e durante spettacoli teatrali di varia natura. In questo modo si delineò la sfera del pubblico, che smise di essere sinonimo di politico. Allo stesso tempo nacque l’intenzione di creare una repubblica indipendente e transnazionale, omogenea ed egualitaria nella sua composizione. In questa Repubblica delle Lettere, chiaramente manifesta verso l’anno 1780, la conoscenza non era più un’esclusiva degli strati sociali più privilegiati, bensì si adattava alla spinta sociale, demografica ed economica della nuova borghesia. Ciò fu testimoniato da innumerevoli manifestazioni, corsi e conferenze pubbliche, così come dalle attività delle istituzioni incaricate di diffondere le scoperte geografiche, scientifiche e filosofiche a mano a mano che avvenivano. 77


LA MASSONERIA E LE LOGGE SEGRETE

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urante tutto il XVIII secolo, gli ideali di fraternità e conoscenza della Massoneria attrassero molti illuministi, da monarchi come Federico II il Grande fino ad artisti come il compositore Wolfgang Amadeus Mozart. Fu in quest’epoca che si formarono le principali logge, con i loro simboli e rituali d’iniziazione. Nell’immagine in basso, riunione della loggia Zur gekrönten Hoffnung, presieduta dal principe Nicola Esterházy. Mozart appare seduto a destra, mentre conversa con Emanuel Schikaneder, il librettista del Flauto magico, un’opera di Mozart d’ispirazione massonica (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

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SIMBOLI MASSONICI La massoneria si definisce come un «sistema particolare di morale, spiegato con simboli» e questo esprime l’importanza che i suoi membri attribuiscono alla simbologia. Per loro il simbolo è il segno visibile di una realtà invisibile, spirituale e mentale, che l’iniziato, a seconda del livello del suo apprendistato, deve svelare. Dato che le origini leggendarie della massoneria risalivano ai costruttori delle grandi cattedrali medievali (i maçons, muratori in francese), la maggior parte di questa simbologia assorbì gli utensili e gli strumenti relativi alla costruzione. È il caso del compasso e della squadra, che alludono all’onestà che deve guidare il comportamento di ogni massone, e che in alcune rappresentazioni incorniciano la lettera G, che si riferisce al Grande Architetto dell’Universo. Il sole e la luce, che distruggono le tenebre dell’ignoranza, sono altri simboli frequenti, come in questo stemma massonico che identifica i membri della Grande Loggia di Londra (Library and Museum of Freemasonry, Londra).


Anche il teatro, i salotti, le gallerie, le feste galanti, la cultura del carnevale, della piazza pubblica o del viale formarono parte delle risorse collettive per la generazione e la divulgazione della conoscenza. Lo studio e la comprensione della natura, inclusa anche la natura umana, si articolarono intorno a nuove forme di osservazione, a nuove pratiche strumentali, alla produzione di prove, all’accettazione di testimoni o alle tecniche discorsive di ragionamento e persuasione. In maniera più particolare, la Repubblica delle Lettere fu, in primo luogo, una repubblica di lettori. Benché i dati sui livelli di alfabetizzazione nell’Europa dell’epoca non siano conclusivi, è necessario affermare che nel corso del XVIII secolo non solo aumentò il numero di persone in grado di leggere e scrivere, ma anche di quelle che disponevano del tempo e della possibilità di farlo. Per la prima volta nella storia i libri collezionati in vita diventarono parte integrante delle eredità testamentarie. Alcuni dei grandi intellettuali europei arrivarono a riunire biblioteche di molte migliaia di esemplari. Insieme ai romanzi, nei quali i lettori potevano sentirsi identificati con le vite, spesso miserabili, dei loro protagonisti, gli illuministi divoravano l’informazione periodica. Le notizie, non sempre comprovate, mescolavano la singolarità apportata dalla novità con la necessità sempre più pressante di ricevere informazioni da altri ambiti che a loro volta potevano essere utilizzate nelle interazioni sociali. Durante il XVIII secolo avvenne anche uno spettacolare incremento del commercio estero con le colonie americane, caraibiche, indiane e con l’attuale Indonesia. Prodotti rari o sconosciuti come lo zucchero, il tè, il caffè o il tabacco cominciarono a essere distribuiti in grandi quantità nelle città più importanti d’Europa e presto divennero un pretesto e una compagnia quasi obbligata delle riunioni sociali. Ciò che è certo è che la coffeehouse, il nuovo centro di riunione della nascente borghesia inglese, o le sale da tè della Francia di Luigi XV, non sarebbero state lo stesso senza quei due prodotti. Ad ogni modo, nelle coffeehouses e nelle sale da tè non si andava solo per bere caffè o tè, ma soprattutto a conversare riguardo le “notizie”, a leggere i periodici o a discutere i libri che venivano prestati ai clienti. I nuovi “prodotti”, caffè, notizie, periodici e libri, erano parte dello stesso processo. Di tutti questi beni di consumo legati alla diffusione della conoscenza, il materiale stampato (libri, periodici e altre pubblicazioni) fu quello che ebbe un maggiore impatto sociale. La stampa a caratteri mobili dell’epoca permetteva di produrre importanti quantità di libri e pamphlet, che potevano inoltre essere trasportati con

facilità, oltrepassando barriere geografiche e linguistiche. Da un punto di vista culturale, gli illuministi non solo leggevano di più, ma lo facevano in una maniera molto più attenta e consapevole. Questo cambiamento nel modo di leggere consente di parlare di una vera “rivoluzione della lettura” che, legata alla crescente alfabetizzazione degli strati sociali medi europei, ebbe come conseguenza un aumento della tendenza a leggere per se stessi e non per gli altri. I libri più popolari, ovviamente, furono opere di finzione, romanzi epistolari di grande successo come Pamela, dello scrittore inglese Samuel Richardson (1740), e Giulia, o la nuova Eloisa (1761), di Jean-Jacques Rousseau. In un clima di crescente mercificazione del libro, le opere di teologia e i libri di devozioni persero rapidamente lettori attratti dalla letteratura denominata “libertina”. Nel 1734 ClaudeProsper Jolyot de Crébillon aveva pubblicato L’Écumoire, ou Tanzaï et Néadarné, che si erse a indiscusso testo dell’erotismo francese ambientato in Oriente, dopo che Le mille e una notte

IL DOCTOR JOHNSON.

Figlio di un povero libraio e, nella sua maturità, frequentatore delle riunioni delle coffehouses, Samuel Johnson divenne la figura letteraria più importante dell’Inghilterra del XVIII secolo ed è considerato da molti il migliore critico letterario in lingua inglese. A lui si deve il famoso Dizionario (1755), che fino all’apparizione del Dizionario di Oxford, 173 anni dopo, fu considerato il principale riferimento della lingua inglese. In alto, ritratto del dottore Samuel Johnson, realizzato da Joshua Reynolds (collezione privata, Londra).

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L’ILLUMINISMO

LA LETTURA.

La trasformazione delle abitudini della lettura fu uno degli elementi fondamentali per la diffusione della conoscenza nel Secolo dei Lumi. Verso il 1775 in Francia furono pubblicati 4000 titoli l’anno (legalmente e clandestinamente) e alcuni, come quelli di Voltaire e Rousseau, ebbero numerose edizioni. In alto, Una lettura di Molière, olio (circa 1728), di Jean-Francois de Troy (Collezione dei marchesi di Cholmondeley, Houghton Hall, Regno Unito).

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erano state tradotte in francese tra il 1704 e il 1717. La sua opera Le Sopha, conte moral iniziò a circolare in forma manoscritta nel 1739; nel 1741 apparve Histoire de Dom Bougre, portier des Chartreux, di Jean-Charles Gervaise de Latouche; nel 1744 venne il turno del romanzetto Acajou et Zirphile, attribuito a Charles Pinot Duclos. Infine, nell’anno 1788, Diderot pubblicò in forma anonima il romanzo libertino I gioielli indiscreti. I personaggi di questo testo vengono sorpresi dai poteri di un anello che consente di forzare l’indiscrezione delle donne, obbligandole a parlare non esattamente con la loro bocca, ma con i loro sessi, i loro gioielli, attraverso i loro ciondoli. Il mito dell’erotismo si collega qui con la più rispettabile delle tradizioni filosofiche, dal momento che il bijou è «l’unico oracolo capace di parlare senza passione e di non aggiungere niente alla verità». Come molti altri illuministi Diderot si servì del sesso per denunciare i fondamenti dell’ordine su cui si basava quel regno di calunnie. In questo condivideva i principi di Rousseau, che difendeva la necessità di mettere fine alla conci-

liazione tra ciò che facciamo e ciò che diciamo, tra ciò che pensiamo e ciò che sentiamo, tra ciò che siamo e ciò che ci lasciano essere. La letteratura libertina francese diede alcuni frutti di grande peso nella storia della letteratura e delle idee. Tra loro spiccano due grandi nomi: Pierre Choderlos de Laclos (1741-1803) e Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814). Il primo pubblicò nel 1782 Le relazioni pericolose, considerata una delle opere maestre della letteratura francese nonché il maggiore esponente del cambiamento di costumi e mentalità che fu favorito dal progresso delle idee illuministe; il secondo, lo scrittore e filosofo marchese de Sade, autore tra le altre opere di Justine o le disavventure della virtù (1787) e La filosofia nel boudoir (1795), è uno degli autori che hanno maggiormento influenzato la letteratura successiva, al punto che è possibile trovare la sua impronta nell’opera di scrittori della levatura di Flaubert, Rimbaud, Dostoevskij o Breton. Al cambiamento delle abitudini di lettura si sommarono quelli legati al comportamento degli


autori, che iniziarono a sentirsi, a livello collettivo, come membri di una comunità che trascendeva le frontiere geografiche e politiche, e che rendeva possibile il sogno della mobilità sociale in funzione del merito e non della nascita. Ecco perché la maggior parte degli scrittori del secolo provengono da ciò che genericamente riceve il nome di Grub Street: un’espressione dispregiativa che fa riferimento al sottobosco dell’attività letteraria. Le vite di René Le Senne, di Jean-Paul Marat o di Jacques Pierre Brissot, che assumeranno il ruolo di protagonisti durante la Rivoluzione, saranno fortemente segnate da questo desiderio, a volte frustrato, di ascesa sociale. Molti nuovi scrittori volevano «essere come Voltaire o non essere niente»: alcuni furono sempre dei “nessuno”, nonostante le benedizioni di Voltaire, che li chiamava «scrittori di strada».

ANTOINE-LAURENT LAVOISIER. In questa

statua realizzata da Jules Dalou lo scienziato viene immortalato in un atteggiamento pensieroso (Museo d’Orsay, Parigi).

Il movimento enciclopedico Nata inizialmente come un progetto minore, ossia la traduzione dall’inglese di un dizionario, l’Enciclopedia curata da Denis Diderot e dal matematico Jean le Rond D’Alembert ottenne, fin dall’apparizione del suo primo volume nel 1751, un’enorme rilevanza culturale. In un periodo storico molto poco incline ai grandi trattati e nel quale il nuovo pubblico della scienza cercava soprattutto conoscenze che avessero un’applicabilità immediata, il progetto dell’Enciclopedia soddisfaceva abbondantemente entrambi i requisiti. Si trattava, in primo luogo, di una forma elegante e originale di mettere tutte le conoscenze più specialistiche “a disposizione del mondo”; inoltre, la maggior parte di questo sapere non faceva riferimento a sagaci questioni matematiche o a intricati problemi filosofici, ma a segreti corporativi legati alle industrie e alle botteghe. Il lettore dell’Enciclopedia, interessato in particolar modo a quelle sezioni che oggi passano maggiormente inosservate, nelle sue pagine poteva trovare anche altre voci collegate alla critica dell’autorità politica e religiosa, alla difesa dell’opinione pubblica o a una nuova visione della storia che lottava per la fiducia nella ragione e nel progresso. Senza divenire mai un corpo unificato di conoscenze, e nonostante le discrepanze che sorsero tra molti degli autori delle diverse voci, è certo che l’Enciclopedia acquisì un carattere decisamente combattivo, uscendo dai confini del meramente intellettuale e raggiungendo una dimensione politica. Il suo frontespizio, rappresentato da un’immagine emblematica dell’Illuminismo francese, che rispecchia anche la lotta della ragione moderna contro l’oscurantismo, rappresenta la Ragione nell’atto di denudare la Verità

Antoine Laurent de Lavoisier, il fondatore della chimica moderna Sebbene la tradizione familiare lo portò a studiare diritto a Parigi, Lavoisier decise di abbandonare la legge per la scienza, e in particolare per la chimica, di cui rivoluzionò i metodi di ricerca e quantificazione. Con i suoi articoli ottenne, a soli venticinque anni (nel 1768), l’ammissione all’Accademia delle Scienze francese. Il principale contributo di Lavoisier alla chimica fu il metodo quantitativo. Per lui era solo possibile verificare un’ipotesi a partire da una misurazione esatta realizzata in un laboratorio ben equipaggiato come ad esempio il suo, dove lavorava assieme alla moglie Marie (considerata la madre della chimica); ciò è dimostrato dalla validità delle sue ricerche sull’aria e la combustione, la fermentazione e la respirazione animale, che gli procurarono fama a livello mondiale e fecero della sua casa un luogo di pellegrinaggio per gli scienziati. Quel laboratorio, nondimeno, diventerà la sua perdizione: l’aveva installato grazie ai guadagni ottenuti dalla sua partecipazione alla Ferme Générale, una società che prestava denaro alla corona in cambio della riscossione indipendente delle imposte. Per questa ragione, durante il regime del Terrore, fu arrestato, e dopo un breve processo ghigliottinato, l’8 maggio del 1794.

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L’ILLUMINISMO

mentre la Teologia guarda dall’altra parte. Sebbene nel 1759 entrò a far parte della lista di libri proibiti, e nonostante le enormi difficoltà incontrate nel corso della sua redazione, l’ultimo dei diciassette volumi di testo vide la luce nel 1772. A partire dalla comparsa del primo volume nell’anno 1751 erano passati ben ventuno anni, durante i quali il non più giovanissimo filosofo Diderot era riuscito a riunire in una sola opera i segni identitari del movimento filosofico, delle sue conoscenze e del suo spirito critico, così come della sua lotta contro la credulità e il fanatismo.

La rivoluzione scientifica e tecnica

IL PRIMO VOLO DELL’UOMO. Il Secolo dei

Lumi fu prodigo di meraviglie e una delle più spettacolari fu il primo volo umano. In alto, la mongolfiera fabbricata dai fratelli Montgolfier, che il 19 ottobre 1783 fecero volare nell’aria, in due voli, Jean-François Pilâtre de Rozier (81 m) e Pilâtre e André Giroud de Villette (105 m).

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Nell’epoca moderna ciò che chiamiamo scienza (un termine che iniziò ad avere il significato attuale verso il 1830) costituiva la somma dell’insieme dei saperi e delle pratiche che, in molti casi, rientravano all’interno della voce “filosofia naturale”. Questo non vuol dire che la parola “scienza” non esistesse: in francese si disponeva del termine science; in tedesco, Wissenschaft, e, in inglese, knowledge. Tuttavia queste espressioni rappresentavano solo una forma di conoscenza che non sempre poteva relazionarsi all’esperienza empirica. La voce “scienza” dell’Enciclopedia, scritta dal prolifico gentiluomo Louis de Jaucourt (a lui si devono circa 18.000 articoli), viene presentata come «la conoscenza chiara e certa di una determinata cosa, basata su principi evidenti da sé o su dimostrazioni»; una definizione che escluderebbe tutte le conoscenze di carattere tassonomico, come quelle della storia naturale e della botanica, le scienze sperimentali, e le ricerche che hanno per oggetto l’uomo, la società o i modelli di organizzazione politica. Jaucourt divideva poi le scienze in quattro rami: l’intelligenza, la saggezza, la prudenza e l’arte. Sebbene il suo percorso nella storia della conoscenza avesse riprodotto ciò che il matematico D’Alembert aveva scritto alcuni anni prima nel Discorso preliminare dell’Enciclopedia, questo autore desiderava anche includere un paragrafo sulla scienza di Dio, o su un gioco di carte conosciuto allora proprio con quel nome: «scienze». L’assenza di criteri chiari su quelle che sono le “scienze illuministe” costituisce soltanto una parte del problema. Fino al XIX secolo non c’erano centri di formazione professionali come li conosciamo ora. Gli Europei potevano ovviamente contare sulle università e su luoghi di scambio di informazioni, vi erano però innumerevoli ricercatori del mondo naturale che lavoravano al di fuori delle istituzioni e, d’altro canto, c’erano anche molti falsi eruditi che possedevano un titolo universitario o che, per ragioni di nascita o privi-

legio reale, appartenevano alle accademie o alle società scientifiche. In molte occasioni le virtù sociali prevalevano sui talenti filosofici, facendo sì che la posizione più che il merito, o le relazioni più che le effettive conoscenze, propiziassero una carriera accademica. Infine, alcuni degli apporti che gli illuministi giudicarono allora più rilevanti, come i dibattiti sulle capacità rigenerative della materia nell’ambito della storia naturale, o gli usi dell’elettricità nel contesto della filosofia sperimentale, furono sviluppati da persone estranee alle istituzioni scientifiche. Inserito fra il modello universitario medievale e i centri di insegnamento del XIX secolo, il Secolo dei Lumi riformulò l’ordinamento dei saperi, completando il processo di istituzionalizzazione della scienza iniziato nel secolo precedente e maturando, inoltre, l’organizzazione scientifica moderna. La comunicazione delle ricerche mediante libri e riviste, l’istituzionalizzazione parziale della comunità accademica o della sua strutturazione esterna come impresa organizzata fecero dell’Illuminismo un momento storico privilegiato. Nel-


la maggior parte dei casi le ricerche si svilupparono nel contesto delle istituzioni scientifiche e furono sostenute dai principi o dai monarchi legati a questi centri del sapere. L’Accademia delle Scienze francese, la Royal Society di Londra o l’Accademia Prussiana delle Scienze di Berlino formarono parte di una rete di istituzioni che contribuirono a stimolare la sensazione di appartenenza alla Repubblica delle Lettere, in grado di attraversare le frontiere commerciali e politiche tra gli Stati. Subito dopo la nascita di queste accademie e società si svilupparono anche le accademie provinciali, come quelle di Montpellier o Edimburgo, che dalla periferia geografica avrebbero in seguito contestato ai diversi centri del potere reale molte delle conclusioni o dei presupposti della scienza ufficiale. Situato tra due riforme istituzionali, la creazione delle accademie che videro la luce agli albori del mondo moderno e i cambiamenti nel sistema di insegnamento della fine del XVIII secolo e, soprattutto, della prima metà del XIX secolo, l’Illuminismo fu caratterizzato dal progressivo

trionfo dei modelli cognitivi ereditati dalla rivoluzione scientifica: l’empirismo baconiano da un lato e l’introduzione della matematica nello studio delle leggi della natura, in particolare nell’opera di Galileo e Newton, dall’altro. Si trattava di un momento storico che presupponeva una prosecuzione delle ricerche sviluppate nel contesto dell’astronomia o della meccanica, così come un periodo effervescente dal punto di vista delle scienze sperimentali. Nel primo caso, non c’era che da aggiungere decimali alle leggi e ai principi di Newton. Nell’altro, quello degli studi sull’elettricità, sul magnetismo o sul comportamento dei gas, era necessario cercare dei procedimenti utili per poter quantificare le regolarità tra i fenomeni, conosciuti attraverso l’osservazione e la sperimentazione. Si può affermare lo stesso della presenza delle scienze nell’Enciclopedia. In questa sezione spiccarono certamente i contributi di Urbain de Vandenesse, che morì nell’anno 1753, dopo aver pubblicato il volume III, e di Pierre Tarin, che però abbandonò il progetto dopo il volume X.

LA RADCLIFFE CAMERA.

Costruito a Oxford (1737-1749) per ospitare la Biblioteca Scientifica Radcliffe, l’edificio è uno degli esempi dell’inarrestabile sviluppo delle istituzioni scientifiche durante il XVIII secolo. SPERIMENTAZIONE (pag. 84-85). L’olio

Esperimento con un uccello nella pompa pneumatica (1768) di Joseph Wright of Derby (National Gallery, Londra), considerato come una delle opere più importanti della pittura britannica, illustra con maestria la reverenziale curiosità scientifica caratteristica del Secolo dei Lumi. 83


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L’ILLUMINISMO

Il ruolo delle accademie nel progresso della scienza e dell’arte Fondate per la maggior parte nel XVII secolo, le accademie furono le protagoniste della spinta data alla scienza e alle arti durante il secolo successivo. In ambito scientifico furono esse a promuovere alcuni dei più importanti viaggi d’esplorazione, mentre nell’ambito artistico sostennero uno stile classico perfettamente codificato, che finì per essere chiamato dai suoi detrattori “accademico”. Lo sforzo per sistemare e organizzare la conoscenza, proprio del culto della ragione degli illuministi, trovò un alleato perfetto nelle accademie scientifiche e artistiche. Su iniziativa delle stesse monarchie illuministe si crearono in tutta Europa accademie reali delle scienze e delle arti, mentre si potenziavano quelle già esistenti, come l’Accademia delle scienze francese o la Royal Society di Londra. A esse ricorrevano i principali scienziati e artisti, di qualunque nazionalità, e ciò si tradusse in un proficuo scambio di idee e scoperte che non solo aumentavano il prestigio delle istituzioni ma anche quello dei monarchi che le patrocinavano, e che, nel caso di Federico di Prussia, suggerivano con molta convinzione le loro direttrici. Il progresso ottenuto nell’ambito scientifico fu evidente mentre nell’ambito delle arti plastiche non avvenne lo stesso. La riproduzione di modelli classici e del naturale, e l’osservazione di alcune regole sacrosante (equilibrio, forma e proporzione, con la bellezza come obiettivo), diedero luogo all’arte neoclassica, ma misero anche le basi del suo opposto, rappresentato dall’individualismo romantico che dominerà il XIX secolo. Nell’immagine, gli accademici della Royal Academy of Arts in un dipinto di Johann Zoffany (National Portrait Gallery, Londra).

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Solo Antoine Louis, Gabriel François Venel e Louis de Jaucourt rimasero fino all’ultimo volume. Louis si dedicò alla chirurgia, Venel si occupò della chimica e della medicina, e gli apporti di Jaucourt, più modesti, non raggiunsero i livelli di alcuni articoli, come quello dedicato alla “inoculazione”, del medico svizzero Théodore Tronchin, o quelli del dottor Menuret de Chambaud, impegnato con la dottrina sulla nuova filosofia medica di taglio vitalistico di Montpellier nei suoi articoli sull’“osservazione” e sull’“economia animale”. Anche nelle università le posizioni circa la filosofia naturale newtoniana suscitarono più interesse rispetto a quelle meramente cognitive. In molti casi, l’accoglienza del nuovo sistema fu fatta dipendere dalle relazioni politiche tra gli Stati. Le parti contendenti non solo discutevano sulla priorità o la pertinenza delle scoperte matematiche o sulla validità delle nuove regole di ragionamento, ma queste discrepanze, come spiegava Gottfried Leibniz, rispecchiavano anche le tensioni politiche tra l’Inghilterra, da un lato, e la Francia e gli Stati tedeschi dall’altro. In molti casi i 86

problemi sorsero con la successione protestante alla Corona che seguì la Gloriosa Rivoluzione del 1688, vale a dire, un anno dopo la pubblicazione dei Principia mathematica di Newton; cosicché, quando parve probabile che Leibniz, seguendo la corte di Hannover, avrebbe potuto trasferirsi a Londra, Newton iniziò una campagna di discredito della filosofia naturale tedesca. Dopo la morte di Newton nel 1727, i primi newtoniani, uomini come Richard Bentley, Jean Théophile Désaguliers o lo stesso Voltaire, coniugarono sempre i propri interessi accademici con la loro agenda politica. La filosofia newtoniana si dimostrò un’arma per combattere l’ateismo o il radicalismo politico. La connessione tra la nuova filosofia e l’ambito politico o religioso raggiunse l’apice, tanto che uno di questi liberi pensatori, il deista Anthony Collins (1676-1729), si lamentava amaramente del fatto che i nuovi conservatori, difensori della successione protestante, tentassero di sviare il dibattito politico verso la matematica e la filosofia naturale. John Toland (1670-1722), un amico di Collins molto apprezza-

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1 JOHANN ZOFFANY. D’origine tedesca, l’autore di questo ritratto di gruppo era nato in Germania ma risiedeva in Inghilterra dal 1760. Zoffany fu uno dei primi membri della Royal Academy. 2 RICHARD COSWAY. Si distinse nell’arte della miniatura realizzando numerosi ritratti dell’aristocrazia britannica e della famiglia reale, come Giorgio IV quando era ancora principe di Galles.

3 FRANCESCO ZUCCARELLI. Pittore italiano che godette di grande stima fra i collezionisti inglesi per la qualità dei suoi paesaggi e le viste del Tamigi. Membro della Royal Academy, vi insegnava disegno utilizzando modelli nudi.

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4 FRANCIS HAYMAN. Membro fondatore della

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Royal Academy e suo primo bibliotecario. Pittore e illustratore, divenne famoso grazie ai suoi lavori ispirati all’opera di Shakespeare.

5 JOSHUA REYNOLDS. Fu il grande ritrattista della pittura inglese della seconda metà del XVIII secolo. Nel 1768 divenne il primo presidente della Royal Academy. Un anno più tardi, re Giorgio III lo nominò cavaliere.

6 WILLIAM HUNTER. Medico e anatomista, entrò al servizio della regina Carlotta, sposa di Giorgio III. Nel 1768 entrò nella Royal Academy come professore d’anatomia.

to dai materialisti francesi, decise allora di invertire i termini e di servirsi di Newton per spiegare la condotta umana in termini materialistici. La nozione di “forza”, per esempio, fu utilizzata per spiegare il potere intrinseco della materia, dato che si considerò che, data la mancanza di una spiegazione sulla sua portata e natura, non c’era ragione alcuna per non usarla come attributo della materia, rendendo superflua la necessità di un dio. Alcuni anni prima il filosofo anche John Locke, uno dei grandi difensori di Newton, aveva formulato il pensiero che non fosse assurdo credere che Dio avesse potuto concedere alla materia la capacità di pensare. Argomento, quest’ultimo, che originò un’accesa disputa durante la prima metà del secolo illuminista. Ad ogni modo, la figura e l’opera di Newton permisero di prendere una posizione riguardo ad aspetti molto lontani dalle discussioni relative alla meccanica o alla dinamica. Il contenuto della sua filosofia naturale spaziava dai sistemi planetari alla scienza dell’uomo e dal movimento dei corpi al comportamento umano. Durante

il XVII secolo aveva preso piede l’equiparazione del corpo fisiologico alla società, metafora che risaliva a Platone. L’Illuminismo non dovette fare altro che cercare procedimenti diversi atti ad applicare i principi newtoniani ai sistemi di governo o ai problemi religiosi, secondo principi meccanici governati da regole immutabili. Sebbene la lettura dell’opera di Newton nel continente si fosse principalmente concentrata sull’ambito della meccanica, apparvero filosofie alternative, di natura sperimentale, che collocarono le sue opere al riparo della progressiva industrializzazione europea. In una delle prime recensioni dei Principia, attribuita a Locke, il periodico Bibliotèque universelle et historique di Jean Le Clerc attribuiva alla tradizione galileiana gli studi generali riguardanti peso, luce, forza elastica, resistenza dei fluidi, «così come i poteri chiamati attrattivo e impulsivo», e inoltre suggeriva la possibilità di riunire tali saperi frammentati ma interconnessi, in un corpo di conoscenza unificato. Uno degli esempi più chiari di simbiosi tra la scienza newtoniana e sviluppo dell’industria ar-

I PROGRESSI DELLA SCIENZA. Strumento

dell’équipe scientifica del laboratorio di Antoine Lavoisier, in un’incisione di D. Lizars. (1796).

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L’ILLUMINISMO

Madame de Châtelet, scienziata e amante L’Illuminismo favorì un nuovo protagonismo delle donne, oltre al loro ruolo di anfitrione nei salotti. Alcune furono artiste, come Angelika Kauffmann o Rosalba Carriera, compositrici, come Marianne von Martinez e scienziate come madame de Châtelet. Nata in una famiglia dell’alta aristocrazia, Gabrielle Émilie Le Tonnerlier, marchesa di Châtelet, dimostrò molto presto una singolare predisposizione per la filosofia e le scienze. Le scoprì nei salotti organizzati dal padre, il barone di Breteuil, frequentati da scienziati e scrittori. Furono essi a convincere il barone a dare alla figlia un’educazione liberale. Il suo interesse per il sapere e, in particolare, per le scienze matematiche, non terminò nemmeno in seguito al matrimonio con il marchese de Châtelet, avvenuto a diciannove anni. Così, Émilie non solo tradusse dal latino al francese i Principia di Isaac Newton, ma il suo castello di Cirey, dove accolse e visse in coppia assieme a Voltaire, si trasformò nel centro di diffusione delle idee dell’inglese nel continente. Inoltre, concluse studi sul calcolo infinitesimale e sulla natura del fuoco e della sua propagazione. Nell’immagine, Madame de Châtelet-Lomont, di Maurice Quentin de la Tour (collezione privata, Château de Breteuil, Choisel).

rivò dalla mano di Désaguliers (1683-1744), un protestante francese esiliato in Inghilterra e assunto dalla Royal Society per la realizzazione di esperimenti sull’elettricità. Come molti altri filosofi affascinati da Newton, questo illuminista si interessò agli aspetti pratici della conoscenza, all’incremento del commercio e del progresso. La sua insistenza nella pratica dell’esperimento lo portò a descrivere il sistema cartesiano come un «romanzo filosofico», mentre le sue attività si concentravano sulla fabbricazione di strumenti e macchine con i quali comprovare il contenuto di alcune dimostrazioni matematiche dei Principia. Fu grazie alle applicazioni di Désaguliers e di altri sperimentalisti che la filosofia naturale newtoniana contribuì a porre le basi dell’ingegneria civile e della Rivoluzione industriale. Non è strano che verso il 1730 in Inghilterra ci fossero più di un centinaio di macchine di Newcomen, il primo dispositivo pratico che utilizzò il vapore per generare lavoro meccanico. Un caso simile a quello di Désaguliers fu quello del newtoniano olandese Willem-Jacob Grave88

sande (1688-1742), che pubblicò un testo di divulgazione scientifica intitolato Elementi matematici di filosofia naturale, confermati da esperimenti. Un’introduzione alla filosofia di Isaac Newton. Quest’opera non solo rendeva accessibili i complessi calcoli dei Principia, ma metteva anche in relazione le sue dimostrazioni matematiche con le prove fornite per l’osservazione e l’esperimento, arrivando al punto di applicare i nuovi principi della meccanica ad aspetti che, come per esempio l’idrostatica, non erano stati studiati da Newton. Sulla stessa linea si colloca l’opera del medico, botanico e umanista olandese Herman Boerhaave (1668-1738), che si appoggiò ai principi newtoniani per spiegare il funzionamento dei corpi secondo l’attrazione e la repulsione. Dal punto di vista delle reti di divulgazione della nuova scienza, il pubblico femminile rivestì un ruolo molto importante. In Inghilterra veniva pubblicato l’annuario The Ladies’ Diary (Il diario delle donne), nel quale venivano rappresentati diversi procedimenti per il pompaggio dell’acqua dal barile. Fra il 1740 e il 1750 La donna spet-


tatrice, una pubblicazione che seguiva le orme di The Spectator (Lo spettatore), a cura dello scrittore e politico Joseph Addison (1672-1719), garantiva a qualunque donna di riuscire a padroneggiare i principi chiave della filosofia naturale nella durata di una sola estate. Un caso particolare nella relazione tra le donne e la conoscenza illuminista fu quello di madame du Châtelet (1706-1749), la quale, oltre a tradurre in francese i Principia di Newton e a promuovere le idee di Voltaire, scrisse le sue Istituzioni di fisica nel 1740. Ugualmente notevole fu il caso dell’italiana Laura Bassi (1711-1778), la prima donna in Europa alla quale venne offerta una posizione universitaria e che figura tra le filosofe e scienziate più importanti della sua epoca. Non soltanto insegnò la fisica di Newton, bensì realizzò anche vari esperimenti nella sua casa di Bologna. Dal punto di vista delle scienze della vita, il XVIII secolo vide nascere la moderna chirurgia, così come l’odontoiatria e l’ostetricia. Quelle che fino a quel momento erano state pratiche artigianali legate a un gruppo di persone distanti dai

centri del sapere, divennero professioni specialistiche, che necessitavano dell’uso di strumentazione così come di conoscenze anatomiche dettagliate. Gli antichi dentatores, i cavadenti, e le levatrici, furono soppiantati dal chirurgo dentale e dall’ostetrica, armati di nuovi strumenti tecnologici, lo scalpello, il forcipe e il pellicano. Una delle figure più rilevanti del secolo in questo ambito del sapere fu il chirurgo inglese John Hunter, che stabilì una rudimentale clinica di chirurgia e odontoiatria in una bottega di Covent Garden, a Londra. Formatosi, come tanti altri suoi contemporanei, nelle campagne belliche come chirurgo militare, Hunter scrisse uno dei primi trattati sull’odontoiatria, sviluppando allo stesso tempo una visione anatomopatologica della ricerca clinica. Convinto che tutte le malattie producessero lesioni organiche, Hunter tentava, a volte riuscendoci, di impossessarsi dei resti dei suoi pazienti una volta deceduti. Parte della sua impressionante collezione può essere ancora oggi osservata all’interno del Museo della Reale Accademia di Chirurgia di Londra.

IL MESMERISMO.

Conosciuto anche come la dottrina del magnetismo animale, fu usato come agente terapeutico dal medico Franz Anton Mesmer, considerato il padre dell’ipnosi moderna, e fu ben accettato dall’alta società europea del XVIII secolo. In alto, Le baquet de M. Mesmer ou Représentation fidèle des opérations du magnétisme animal, incisione del 1780 (Biblioteca Nazionale, Parigi).

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L’ENCICLOPEDIA DI DIDEROT E D’ALEMBERT

L’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert Considerata da molti come l’apice dell’Illuminismo francese, l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert rappresenta indubbiamente uno dei maggiori successi collettivi della storia.

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ra gli anni 1751 e 1772, l’Enciclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di Denis Diderot e Jean le Rond D’Alembert si convertì nella grande impresa di diffusione della conoscenza dell’Illuminismo europeo. La sua edizione in folio (il formato editoriale più grande) poteva contare su 25.000 abbonati, dei quali la maggior parte aveva la residenza fuori

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dalla Francia. Il testo includeva più di 70.000 voci ripartite in diciassette volumi e circa 2500 stampe con disegni e illustrazioni molto dettagliati, distribuiti in altri undici libri di tavole. In seguito, fra gli anni 1777 e 1780, furono aggiunti altri cinque tomi e altri due volumi di indici. L’insieme finale costituiva, oltre a un grande apporto alla cultura, un’opera intellettuale dalla stra-

Figlio illegittimo Figlio illegittimo di due membri della bassa aristocrazia, D’Alembert era già un matematico di prestigio quando nel 1746 accettò di partecipare all’Enciclopedia. In alto, D’Alembert ritratto da Maurice Quentin de La Tour (Museo del Louvre, Parigi).


Denis Diderot, l’anima dell’Enciclopedia Diderot dedicò venticinque anni alla supervisione dell’Enciclopedia, inizialmente con D’Alembert, e in seguito, dopo l’abbandono di questi nel 1757, da solo. In alto, ritratto di Diderot, di Louis-Michel van Loo; a sinistra, una falegnameria, secondo una stampa dell’Enciclopedia.

ordinaria portata imprenditoriale ed economica. Il peso intellettuale e professionale dei suoi più di cento collaboratori – fra i quali si potevano contare alcune delle migliori penne di Francia, come i filosofi Voltaire e Rousseau, il barone di Montesquieu, il ministro Turgot, il barone d’Holbach, il musicista Marmontel o il fisiocrate ed economista Quesnay – contribuì a far vendere più di 25.000 esemplari, una cifra realmente esorbitante per quell’epoca, in soli trent’anni, fra gli anni 1751 e 1782.

Un’enciclopedia “globale” La diversità del movimento enciclopedico si poteva sentire sia nella varietà dei suoi collaboratori sia nella pluralità delle sue voci. All’interno dei vari volumi appaiono articoli riguardo l’agricoltura, i minerali, l’architettura, la botanica, il commercio, l’astronomia, le arti meccaniche, la metallurgia, l’esegesi, la scherma, la critica ar-

tistica e letteraria, la geografia, la grammatica, il diritto o la giurisprudenza. Alcune figure molto importanti di quell’epoca, come lo scienziato ed esploratore Charles Marie de La Condamine, scrissero a proposito di temi abbastanza insignificanti come la “chirimoya”, mentre altri autori appena noti, come il filosofo Louis de Jaucourt, redassero decine di voci dedicate alla natura, alla scienza o alla religione. Alcune di queste voci, come nel caso di “anima”, “economia” o “animale”, componevano in realtà dei piccoli trattati al riguardo di temi considerati importanti, mentre molte altre contenevano soltanto poche frasi d’obbligo. Alcuni degli articoli si presentarono come una vera e propria macchina da guerra per l’espansione delle idee illuministe, tuttavia la maggior parte di essi toccava aspetti relazionati con le professioni, le arti e i mestieri. Lo stesso Diderot assicurò che il senso ge-

nerale della sua opera consisteva nel riunire le conoscenze sparse lungo la superficie terrestre, esporle e trasmetterle «affinché i lavori dei secoli passati non siano inutili per i tempi a venire, di modo che i nostri nipoti siano più istruiti, oltre che più virtuosi e felici, e per non morire senza esserci meritati la nostra appartenenza al genere umano». Nonostante il riconoscimento generale che troviamo nei confronti di uno dei più grandi successi collettivi della storia della scienza e del pensiero, non è facile catturare a una prima lettura di quest’opera il presunto carattere rivoluzionario del libro. Le critiche più mordaci alle rigide strutture e ai privilegi dell’Ancien Régime appaiono nei temi più insospettabili, dove è più difficile immaginare la loro presenza. Invece altre volte l’irriverenza si esprime in un sistema di rinvii e referenze incrociate, che comporta burle velate 91


L’ENCICLOPEDIA DI DIDEROT E D’ALEMBERT

La cena dei filosofi enciclopedisti di Voltaire Nel 1754, Voltaire si unì alla causa dell’Enciclopedia, sebbene, data la scandalosa fama di cui godevano i suoi scritti e la sua persona, Diderot decise di affidargli voci di scarsa importanza, come “eleganza”, “fantasia” o “galante”. Il progetto era già stato proibito nel 1752 e sebbene l’autorizzazione per continuare a pubblicare fu riottenuta nel 1753, non c’era bisogno di correre rischi non necessari. Inoltre, Diderot diffidava delle intenzioni di Voltaire e il tempo gli diede ragione, in particolare con la grande crisi vissuta a partire del 1757 dall’Enciclopedia: un mancato tentativo di assassinio di Luigi XV fu sfruttato dai monarchici e dalla Chiesa per rinnovare la loro offensiva contro gli enciclopedisti, che dovettero inoltre scontrarsi con lo scompiglio sollevato da un articolo del volume 7 dedicato alla voce “Ginevra”, scritta da D’Alembert sotto l’influenza di un Voltaire infastidito dal fatto che la città svizzera, in cui risiedeva, avesse rifiutato i suoi drammi. D’Alembert decise di abbandonare il progetto mentre Voltaire iniziò una campagna in cui denunciava la mancanza di libertà d’espressione in Francia ed esortava Diderot a proseguire la pubblicazione in un altro Paese, insistendo affinché gli fossero restituite alcune voci che avrebbero potuto comprometterlo nel caso in cui l’impresa fosse affondata del tutto. Diderot non fece nessuna delle due cose. Nell’immagine, cena immaginaria di filosofi a Ferney, presieduta da Voltaire, in una stampa di Jean Huber. Accanto a Voltaire, in senso orario, appaiono Diderot (che non si recò mai a Ferney), padre Adam Smith, Condorcet, D’Alember, l’abate Maury e La Harpe.

ai dogmi della Chiesa o dello Stato, ai loro rappresentanti o alle loro istituzioni. L’Enciclopedia costituisce una fonte inestimabile di conoscenza, ma offre anche una panoramica impagabile sulle tensioni sociali che interessarono le grandi nazioni dell’Europa dell’Ancien Régime. Nelle sue pagine si enumera una grande esposizione di conoscenze teoriche riguardo a temi astratti e complessi, come la geometria o la dinamica, ma si parla anche di fatti più vicini e reali, come la flora della Francia, la città di Parigi o le arti e i mestieri che configuravano la struttura della nuova rete urbana che preannunciava quella che sarebbe stata la Rivoluzione industriale. Alcuni degli indicatori più importanti delle agitazioni sociali dell’epoca si trovano nelle voci dell’Enciclopedia, pertanto l’insieme riesce a rispecchiare la confusione di persone e d’idee della società francese del secolo illuminista. 92

La curiosità, l’uso della ragione, il sapere più teorico e le attività sperimentali creano una fitta rete nella quale le tematiche economiche si mescolano con quelle scientifiche o con le preoccupazioni sociali. Le conoscenze teoriche, le pratiche tecnologiche legate allo sviluppo di professioni e di mestieri, gli sforzi di unificazione linguistica e di divulgazione fra corporazioni e comunità danno forma a un conglomerato culturale che fu intimamente legato alla transizione da una Francia divisa in classi e agraria alla nuova società industriale che si stava sviluppando.

Dalla teoria alla tecnologia Sarebbe inutile pretendere di trovare nelle pagine di questo libro collettivo una costruzione perfettamente ordinata, estranea alle vicissitudini della sua stessa storia o alla matrice culturale in cui esso fu ideato. Sebbene la maggior

parte dei documenti che testimoniavano la frenetica attività di Diderot portata avanti per arrivare a comprendere il mondo dei mestieri sia andata persa, ci resta ancora qualcosa. Sappiamo, per esempio, che Diderot entrò in contatto con Barrat, un operaio specializzato nel montaggio di telai di seta, così come con Bonnet e Laurent, che gli spiegarono invece il funzionamento della fabbricazione del velluto. Lo stesso vale per i procedimenti di distillazione delle bevande alcoliche, in particolare della birra, per i berrettifici, per le tecniche di stampa, per l’arte dell’incisione (con l’aiuto di un tale Louis-Jacques Goussier, che incontrò a Vincennes e che collaborò nella realizzazione di un buon numero di stampe), e per tanti altri mestieri e tecniche che sono descritti nell’opera. Molti di questi lavoratori, che trovavano così istruttivo e interessante ap-


prendere i segreti della concorrenza, mostravano allo stesso tempo un’enorme diffidenza nel rendere note le forme e le modalità dei loro mestieri. Diderot cercò a volte di giustificare la loro diffidenza con la paura delle imposte, dicendo «che gli artigiani guardano come guarderebbero un esattore delle tasse chiunque faccia loro domande sul loro mestiere»; tuttavia, quello che realmente prevaleva su di ogni cosa era il sospetto e la reticenza nei confronti della concorrenza corporativa, un comportamento che l’editore dell’Enciclopedia giudicava straordinariamente non solidale nei confronti dell’intera società, dell’umanità e della storia. Alla voce “enciclopedia” Diderot attaccava adiratamente quelle «teste grette, anime malnate, indifferenti alla sorte del genere umano e così concentrate nella loro piccola società da non vedere al di là dei propri interessi».

Nell’ambito delle idee religiose, la Chiesa cattolica si oppose decisamente allo spirito dell’Enciclopedia, ottenendo la proibizione della sua vendita nel 1752; sebbene la commercializzazione fu poi reintrodotta l’anno successivo, nel 1759 l’opera fu inclusa nell’Indice dei libri proibiti. Da parte loro, i gesuiti del Journal de Trévoux, si lamentarono amaramente per la pubblicazione di un’opera piena di informazioni che essi ritenevano irrilevanti e in cui ci si doveva «fermare ogni momento a leggere articoli che non interessano a nessuno». Immersi in una tradizione essenzialmente scolastica, questi critici erano convinti che nessuno dovesse sentire il minimo interesse per temi stravaganti come il modo in cui si fabbricano le carrette o i carri francesi, e che sarebbe stato preferibile dedicare alla storia di questi veicoli uno spazio e un’attenzione molto inferiore. Diderot non solo rispose a queste critiche con l’avvertenza che apre il terzo volume dell’opera, ma anche in uno dei suoi articoli teoricamente meno emblematici, la voce “cordaio” del quarto volume, scriveva che «se fosse possibile osservare qualche difetto nella descrizione delle diverse manifatture sarà quello della brevità, dato che, per quanto riguarda la fabbricazione, ogni aspetto è ugualmente essenziale e difficile da descrivere». Gli editori mostravano un’enorme preoccupazione nel riuscire a fondere la filosofia, la scienza e la società con la sfera del lavoro. L’Enciclopedia si sforzava di mettere in relazione coloro che avevano gli strumenti ma non le idee con coloro che non avevano gli strumenti ma avevano, in cambio, delle idee. Non per nulla il primo impulso del movimento enciclopedico proveniva da un’antica società delle arti e dei mestieri composta da membri di professioni diverse, come per esempio il matematico Clairaut, il costruttore di orologi Julien Le Roy, il musicista Rameau, il già menzionato viaggiatore La Condamine o il chirurgo Antoine Louis, fra gli altri. La società, che sarebbe rimasta in vita altri dieci anni, cercava, usando le parole dello stesso D’Alembert di «sposare ogni arte manuale con la scienza in grado di illuminarla: l’orologeria con l’astronomia, la fabbricazione di lenti con l’ottica». Per questo motivo non c’è

CRONOLOGIA DELL’ENCICLOPEDIA 1745

Il progetto. L’editore André Le Breton si propone di tradurre in francese la Cyclopaedia di Ephraim Chambers. 1747

Un’opera nuova. Le Breton assume Diderot e D’Alembert per dirigere la redazione di una nuova enciclopedia. 1751

Primo volume. Si pubblica il primo volume dell’Enciclopedia, con il Discorso preliminare di D’Alembert. 1752-1753

Proibizione. La chiesa proibisce l’Enciclopedia, poiché corrompeva i costumi. La pubblicazione riprende nel 1753. 1759

Senza privilegio reale. Il privilegio viene sospeso. D’Alembert si ritira e Diderot prosegue in segreto. 1772

Ultimo volume. Il progetto dell’Enciclopedia giunge alla fine con la pubblicazione dell’ultimo volume di stampe.

PRIMA EDIZIONE. Il primo tomo dell’Enciclopedia vide la luce a Parigi nel 1751 e immediatamente divise la società francese fra sostenitori e oppositori.

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L’ENCICLOPEDIA DI DIDEROT E D’ALEMBERT

Le incisioni dell’Enciclopedia, fra scienza, tecnologia e arte Nel 1762, undici anni dopo l’inizio della pubblicazione, apparve il primo volume di tavole dell’Enciclopedia, a cui seguiranno altri dieci, l’ultimo nel 1772. Il suo principale artefice fu Louis-Jacques Goussier, che non solo partecipò al progetto come disegnatore (si calcola che disegnò un terzo delle 2569 illustrazioni), ma anche come autore di 68 articoli sui mestieri e sulla musica. La sua importanza è tale che è stato considerato il terzo “autore” dell’Enciclopedia, dopo Diderot e D’Alembert, che lo assunse nel 1747 e lo cita nel suo Discorso preliminare. Per realizzare le illustrazioni, Goussier viaggiò nelle province per visitare atelier e imparare i diversi processi manifatturieri. Le migliaia di disegni in grandezza naturale che realizzò venivano ridotti in scala per essere consegnati agli incisori. La responsabilità da quel momento ricadeva su Diderot, che analizzava la qualità e il livello di realismo di ogni disegno per poi validarlo come adatto alla stampa. Sebbene le stampe furono ben accolte dal pubblico, divennero anche una fonte di problemi per gli editori, una volta che i nemici dell’Enciclopedia scoprirono che alcuni dei disegni erano stati ripresi da un’opera inedita chiamata Description des Arts et Métiers e interposero una denuncia per plagio.

bisogno di dire che il progetto enciclopedico sia stato l’unico dell’epoca e che non obbedisca a una concatenazione necessaria di cause ed effetti. La tenacia degli editori, e specialmente di Diderot, riuscì a portare avanti ciò che precedentemente non era stato altro che un tentativo fallito di tradurre un’opera minore, la Cyclopaedia, or an Universal Dictionary of Arts and Sciences, di Ephraim Chambers, pubblicata a Londra nel 1728 e una delle prime opere di questo genere in lingua inglese. Tutto ciò avveniva in un momento in cui in Francia non vi era nessun’altra opera simile. Alla fine questo progetto portò alla creazione di un libro che voleva essere un dizionario ragionato delle scienze ma anche delle arti e dei mestieri, che nacque con un’importante vocazione a mettere le conoscenze legate alla realizzazione di attività manuali alla portata di tutti e che reputava fosse neces94

L’INDICE DELLE IMMAGINI. Prima pagina dell’indice del primo volume di incisioni. In questo tomo si trovano dettagliate illustrazioni legate all’ambito dell’agricoltura e dell’economia della campagna, che completano il contenuto delle voci.

sario affrettarsi a rendere popolare anche la filosofia, in un mondo in cui l’insegnamento era limitato dagli ordini religiosi o dai privilegi reali.

Tutto un mondo illustrato C’è un aspetto dell’Enciclopedia che salta subito all’occhio: la consistente presenza di immagini. Nientemeno che tredici volumi di stampe, contando anche i supplementi. La grande presenza di immagini nel progetto enciclopedico non si deve intendere come un fatto episodico o meramente illustrativo. In primo luogo, le illustrazioni che accompagnavano il testo potevano servire a introdurre una prova nel caso si fosse in presenza di un fatto controverso. Come in molte altre immagini che proliferarono durante la seconda metà del secolo, il dettaglio serviva come garanzia di verosimiglianza, aprendo le porte all’idea che fosse possibile una rappresentazio-

TAPPEZZERIA. Le tavole dell’Enciclopedia

permisero di seguire dall’inizio alla fine il lavoro dei diversi mestieri. Questa stampa, la IX della serie, mostra come riparare una poltrona, mentre le precedenti mostravano solo gli strumenti necessari per realizzare quel compito e la stessa poltrona senza rivestimento o imbottitura.

ne oggettiva della realtà naturale. È questo il caso, per esempio, delle illustrazioni di ermafroditi, che furono introdotte nel secondo supplemento dell’Enciclopedia, così come delle molte altre stampe relazionate agli aspetti controversi dell’ambito, per lo più, dell’anatomia o della storia naturale. In secondo luogo, le tavole potevano servire per illustrare non solo un sapere, ma un’attività; collocavano il lettore in una sorta di visita immaginaria al laboratorio, dove egli poteva quindi apprendere non solo ciò che avveniva in quei luoghi, ma anche, fatto ancora più importante, vedere “come” si portavano a termine queste attività artigianali. Questo tentativo di spiegare e insegnare pratiche e tecniche locali, per renderle delle conoscenze universali e insegnabili, rappresenta uno dei maggiori successi dell’Enciclopedia. Non per niente in tutte le stampe relative ai diversi mestieri si


OTTICA. La voce sull’ottica presente

AGRICOLTURA. L’interesse a creare

nell’Enciclopedia fu scritta da D’Alembert e fu ampliata, nella sezione di immagini corrispondente, con una realistica rappresentazione del lavoro in un laboratorio ottico e con un elenco dei diversi tipi di lenti che vi si fabbricavano.

un’opera di portata universale portò gli enciclopedisti a studiare anche usi agricoli diversi da quelli francesi ed europei, come vediamo in quest’incisione dedicata alla coltivazione, alla raccolta e alla manifattura del cotone nel continente americano.

FABBRICA DI CARTA. Lo stesso autore

della stampa, Louis-Jacques Goussier, ebbe l’incarico di stilare la voce dedicata alla fabbricazione della carta. Allo scopo, passò varie settimane disegnando e lavorando con i lavoratori di una cartiera nei pressi di Montargis, a sud di Parigi.

include una rappresentazione del laboratorio, a cui spesso s’aggiunge quella degli artigiani immersi nelle loro attività. Per la prima volta nella storia del pensiero, un compendio di conoscenze include, considerandola una parte essenziale, la trasmissione di pratiche sperimentali legate allo sviluppo di industrie, laboratori e mestieri. Diderot insisteva così negli aspetti pratici della conoscenza, rompendo la tradizionale divisione, d’ispirazione aristotelica, fra la scienza e la tecnica e tra la conoscenza teorica e l’abilità manuale. Allo stesso modo, si mise fine all’eccessivo riserbo delle diverse corporazioni e società artigianali, mettendo le loro conoscenze alla portata di tutti. UN’OPERA MONUMENTALE. A fianco, alcuni

dei 35 volumi della prima edizione dell’Enciclopedia, nota come “edizione di Parigi” (1751-1772). (Biblioteca del Museo del Louvre, Parigi). 95


L’ARTISTOCRAZIA INGLESE. Il contratto,

primo della serie di sei quadri Matrimonio alla moda, di William Hogarth (1745), una denuncia delle nefaste conseguenze dei matrimoni combinati per denaro fra le classi alte inglesi del XVIII secolo (National Gallery, Londra). Nella pagina accanto, fruttiera di stile Barocco del XVIII secolo (collezione privata, Madrid).

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LA SOCIETÀ ILLUMINISTA La società europea, arricchita dall’esplorazione e dallo sfruttamento coloniale, nel XVIII secolo sperimentò profonde trasformazioni. La più nota fu l’ascesa progressiva di una nuova classe sociale, la borghesia, che fece sue le idee illuministe e guidò il cambiamento verso la società industriale, appoggiata su una popolazione che cresceva in modo sorprendente e cambiava i suoi costumi grazie ai progressi scientifici e tecnologici.

N

onostante la voce “Francia” dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert occupasse appena un paio di paragrafi e al contrario la voce “Parigi” si estendesse invece per diverse pagine, la società del cosiddetto Secolo dei Lumi era, essenzialmente, una società rurale, legata perlopiù alla produzione agricola e alla proprietà della terra, così come alle condizioni stagionali che dipendevano dagli imprevisti climatici e ad alcune condizioni sociali, che erano determinate inesorabilmente dalla nascita in una determinata classe. In Francia, per esempio, almeno l’80% della popolazione era contadina.

Tuttavia, sulla base di queste caratteristiche economiche, il XVIII secolo fu testimone di una spettacolare serie di cambiamenti che approfondirono la grande frattura economica, commerciale e militare già esistente fra l’Europa e il resto del mondo. L’espansione del mercato dei beni di consumo e, in generale, la sostituzione di un sistema che era basato sulla proprietà terriera con un altro vincolato alla proprietà del denaro o all’accesso al credito, furono i canali che permisero la trasformazione definitiva del mondo feudale in borghese e che gettarono le basi del futuro ruolo dominante svolto dall’Europa all’interno del mondo coloniale. 97


LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

La popolazione rurale nell’Europa del XVIII secolo Dopo la crisi demografica del XVII secolo, il numero di abitanti del continente europeo iniziò un lento recupero, favorito dal dissodamento di nuove terre e dall’impiego di innovative tecniche di coltivazione. In questo nuovo secolo, la maggior parte della popolazione continuò a vivere nelle campagne. L’Europa dell’Illuminismo vide crescere la sua popolazione rurale. Secondo alcune stime, tra l’inizio del XVIII secolo e la metà del XIX, il numero di persone che viveva in comunità rurali passò da 90 a 165 milioni circa. Tale incremento dipese dalla cosiddetta Rivoluzione agricola, che permise di aumentare le rendite agrarie a un livello sconosciuto fino ad allora. Tuttavia, anche se, secondo la teoria dominante dell’epoca, quella dei fisiocrati, la ricchezza del regno era effettivamente l’agricoltura, ciò non si tradusse affatto in un maggior benessere della classe contadina: la proprietà della terra non era dei contadini e molti di essi, soprattutto nei territori orientali del continente, come la Prussia, la Polonia, l’Ungheria e la Russia, erano ancora soggetti a una servitù che era poco lontana dalla schiavitù effettiva. Nell’immagine, L’Era o L’Estate, di Francisco Goya, cartone per arazzo del 1786 (Museo del Prado, Madrid).

In questo contesto, le idee illuministe ebbero un ruolo determinante e furono accettate dalla borghesia, la cui impareggiabile ascesa, sommata alla perdita di potere della nobiltà, sarebbe culminata, sul finir del secolo, con lo scoppio della Rivoluzione francese (1789) e con la diffusione dei suoi ideali di “libertà, uguaglianza e fraternità”, che diedero il colpo di grazia all’Ancien Régime e permisero l’ingresso nel mondo moderno.

La società rurale Nell’insieme dell’Europa del XVIII secolo, i diritti della proprietà della terra, da cui dipendeva quasi tutta la ricchezza, erano ereditari e ricadevano sulla monarchia, l’aristocrazia e il clero. I contadini e gli agricoltori europei non si trovarono quasi mai nelle condizioni di possedere la terra che lavoravano, sebbene le loro condizioni di vita potessero essere molto diverse, a seconda della loro posizione geografica. Nella maggior parte dell’Europa dell’est e centrale sussisteva ancora il sistema della servitù della gleba, e ciò significava, in pratica, che i servi non potevano 98

realizzare nessuna attività, come sposarsi o spostarsi, senza il permesso esplicito del loro signore. Sia sotto la monarchia degli Asburgo, sia nella Russia di Pietro I e Caterina II, per esempio, i proprietari terrieri locali potevano richiedere ai loro contadini di realizzare lavori extra non remunerati per coltivare altre terre oltre a quelle che affittavano per la loro sussistenza. È questa l’origine del nome robota, (“lavoro duro” in ceco e altre lingue slave, da dove deriva il termine “robot”), con il quale era conosciuta in queste regioni la classe contadina. Il controllo esercitato dai signori sull’Europa non si riferiva solo all’attività economica, ma si estendeva anche ad altri ambiti della vita sociale. Da una parte il proprietario terriero governava sulla popolazione che risiedeva e lavorava nelle sue terre, un governo diverso da quello della monarchia e del potere centralizzato dello Stato. Dall’altra questo stesso governo non era altro che un’estensione del potere reale, che gestiva i suoi sudditi attraverso corpi e classi intermedie. Soprattutto, era prerogativa dei proprietari della


terra assicurarsi che i contadini pagassero allo Stato le tasse da cui essi erano esenti. Poteva addirittura succedere, paradossalmente, che si raccogliesse più di quanto fosse richiesto, sicché il signore otteneva un beneficio addizionale sulle rendite che egli stesso incassava per l’affitto delle terre, che potevano essere in natura o in denaro. In secondo luogo, il proprietario terriero aveva la responsabilità di offrire reclute all’esercito. Infine, aveva anche il dovere, considerato privilegio, di impartire la giustizia d’accordo con la sua personale interpretazione della legge e della tradizione del suo territorio. La sottomissione dei contadini al controllo economico, politico e giudiziario dei proprietari terrieri poteva diminuire solo tramite l’applicazione, da parte del monarca, di politiche centralizzate suscettibili a diminuire i poteri di questi signori quasi feudali, per aumentare i propri. Dal punto di vista dei lavoratori della terra non possidenti, non restava altra soluzione che sottomettersi alla monarchia, che non rispettando i principi della tradizione e i costumi veniva trat-

tata con diffidenza e la cui legittimità era messa in dubbio, oppure al sistema patriarcale, i cui abusi furono sempre manifesti. La situazione dei contadini nell’Europa occidentale non era così difficile come in quella orientale, dove il sistema della servitù sperimentò il suo apice durante tutto il XVIII secolo, soprattutto in Russia, ma anche in Polonia, in Ungheria e in alcuni Stati tedeschi. A ovest del fiume Elba, in Francia, nei Paesi Bassi, nel nord dell’Italia, nella parte est dell’attuale Germania e in Spagna, così come in Inghilterra e Svezia, il mondo rurale dipendeva da un sistema misto di proprietà terriera. Assieme alla nobiltà possidente convivevano probabilmente alcuni nuovi ricchi che, provenienti dall’ambito bancario e commerciale, erano riusciti ad acquisire dei terreni. C’erano anche alcuni, seppur ben pochi, contadini possidenti. Nonostante tutto, la classe contadina europea, fatta eccezione per la Gran Bretagna, viveva ancora nelle condizioni che venivano dettate da un’élite privilegiata. In Francia, per esempio, il sistema prendeva il nome di 99


LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

Turgot, i fisiocrati e la circolazione delle ricchezze La pubblicazione nel 1766 delle Riflessioni sulla formazione e la distribuzione delle ricchezze rese la Fisiocrazia la dottrina economica dell’Illuminismo. Il suo autore era Anne-RobertJacques Turgot, che cercò di mettere in pratica i suoi principi durante i due anni in cui fu ministro delle Finanze francese. Gli intrighi dell’aristocrazia terriera nei confronti di Luigi XVI influirono negativamente sulla portata delle sue riforme. Per i fisiocrati, l’agricoltura era la vera ricchezza del regno, perciò la missione dello Stato era quella di proteggerla per incentivare così la sua produzione, che a sua volta muoveva l’ingranaggio economico rendendo possibile la circolazione e la distribuzione delle rendite. Si trattava, quindi, di ritornare al dominio della physis (la natura) o del ritorno all’agricoltura. La nobiltà terriera doveva dare l’esempio, tornando alla coltivazione delle sue terre, come era avvenuto in Inghilterra. Sebbene ritoccato e riadattato, era questo il programma che Turgot cercò di applicare da quando nel 1761 cominciò a rivestire ruoli amministrativi, prima a Limoges, come intendente, e in seguito come ministro del regno fra il 1774 e il 1776. Come tale, prese efficaci misure per controllare le spese, ridurre il deficit e stabilire il libero commercio del grano, ma il suo proposito fallì quando, nel gennaio del 1776, presentò al re un decreto che aveva l’obiettivo di abolire l’esenzione fiscale di cui godevano l’aristocrazia e il clero: in maggio, fu destituito. A sinistra, statua di Turgot (Château de Manneville, Lantheuil).

seigneurialism (signorilismo), ed era accompagnato da un sistema di imposte che i contadini dovevano pagare sia al loro signore, sia al monarca. Allo stesso tempo, il signore manteneva dei privilegi sia sulla produzione dei prodotti lavorati, come per esempio vini o formaggi, sia sulla caccia più o meno considerevole che veniva praticata nel suo territorio. In molti casi, i privilegi dei proprietari terrieri erano accompagnati anche dai diritti legali riguardanti l’amministrazione della giustizia nel loro territorio. In Inghilterra, per esempio, il numero di tribunali locali (manorial courts), raggiungeva i 60.000. Del loro mantenimento, tuttavia, erano responsabili i contadini, tramite il pagamento delle imposte. In opposizione alla vita della classe contadina, caratterizzata dall’instabilità, dalle condizioni di povertà nella maggior parte d’Europa, che includevano alloggi insufficienti e un’alimentazione inadeguata, l’aristocrazia e la nobiltà illuministe furono interessate da un notevole aumento dei loro privilegi. Innanzitutto, il semplice fatto di essere nati in una famiglia nobile assicurava una 100

distinzione sociale che si traduceva in un insieme di diritti acquisiti: diversamente dal resto della popolazione, i nobili non potevano essere castigati fisicamente o incarcerati, né giudicati se non dai pari. Le alte cariche delle gerarchie amministrative dello Stato, che si trattasse della magistratura o dell’esercito, erano a loro riservate, e anche i più umili fra loro, come gli hidalgo in Spagna, o la “nobiltà in sandali”, come erano chiamati in Ungheria coloro che non potevano permettersi di comprare delle scarpe, potevano sedersi nei luoghi privilegiati durante le funzioni e negli spettacoli pubblici; potevano inoltre circolare liberamente con la spada. Gli storici hanno calcolato che alla fine del XVIII secolo dovevano esserci fra i tre milioni e mezzo di nobili in tutta Europa, ossia quasi il 3% della popolazione locale. Questo gruppo includeva sia i principi e i grandi, che i nobili decaduti. La proporzione acquisisce sfumature quasi irreali in Spagna e Polonia, dove approssimativamente uno ogni dieci abitanti era nobile, almeno in teoria. Diversamente da quanto succedeva nell’Europa continentale, in Inghilterra assieme alla nobiltà ereditaria conviveva un altro tipo di nobiltà, basata sul merito (per esempio, chi portava il titolo di sir) o sulle concessioni del monarca, come i baronets e un gruppo ancora più consistente di gentlemen, che dovevano la loro posizione al denaro e, più nello specifico, al possedimento di terre e proprietà. Liberati dalle difficoltà legali che impedivano la mobilità sociale nel resto d’Europa, per questi nuovi ricchi fu molto più facile comprare proprietà nella campagna inglese e vivere come parte della gentry o della nobiltà latifondista inglese. In molti casi, la rendita delle loro proprietà permise loro una vita agiata, che essi dedicavano alla lettura, alla caccia o al viaggio: uno stile di vita a cui aspiravano i membri delle classi medie. In linea generale, la nobiltà costituì quasi sempre un ostacolo per la politica di riforme che le monarchie europee intrapresero durante la seconda metà del XVIII secolo. Tuttavia, ebbe anche l’effetto contrario. I parlamenti e gli Stati regionali, governati da nobili proprietari terrieri e controllati dagli aristocratici, operarono come un contropotere dell’assolutismo, sebbene molto lontano dalle richieste di una riforma sociale basata sul merito e sull’uguaglianza.

Un’economia preindustriale Fra il 1750 e il 1850 l’Europa giunse quasi a raddoppiare il suo numero di abitanti, che passò da 140 milioni a 265 milioni. La popolazione dell’Inghilterra fu quella che sperimentò una maggiore crescita, passando dai circa sei milioni della metà


del XVIII secolo ai quasi 17 milioni della metà del secolo successivo. Il miglioramento delle condizioni sanitarie, la riduzione delle malattie intestinali come anche il debellamento della peste bubbonica contribuirono all’incremento del tasso di natalità e della speranza di vita. Il vaiolo, una delle malattie che causò un maggior indice di mortalità in America, continuò a essere molto pericoloso in Europa, nonostante i primi intenti di vaccinazione. Lo stesso avverrà con il tifo, che si espanse nelle aree metropolitane più popolate. L’arrivo delle patate e del pomodoro dall’America, così come il miglioramento dello sfruttamento agrario e delle tecniche di pesca permisero di diversificare l’alimentazione degli Europei. Il clima, che era stato estremo e notevolmente freddo durante il XVII secolo, portando alcuni autori a parlare di una “piccola glaciazione”, in Europa divenne molto più mite durante il secolo illuminista, e questo favorì indubbiamente l’incremento della produzione agricola. Per i mercantilisti, l’aumento della popolazione era positivo, poiché supponeva un aumento

della produzione e del consumo. Anche i fisiocrati, sebbene contrari alle teorie che facevano dipendere l’economia dal commercio, vedevano quest’aumento di buon occhio. La fisiocrazia prendeva il suo nome dall’idea che tutta la ricchezza provenisse dalla terra e che l’unico modo per aumentare la ricchezza di un Paese dipendesse da un maggiore sfruttamento delle sue risorse agricole. Il suo principale rappresentante fu François Quesnay (1694-1774), che voleva portare nel continente ciò che a suo giudizio spiegava l’apparente prosperità degli Inglesi. In varie voci pubblicate nell’Enciclopedia di Diderot, Quesnay difendeva l’intervento dello Stato nel miglioramento delle infrastrutture, che a sua volta avrebbe prodotto una maggiore prosperità generale. Dato che la ricchezza di un Paese dipendeva, a suo giudizio, dai prodotti della terra, un maggiore numero di abitanti implicava necessariamente una maggiore produttività della campagna, e quindi che i piccoli sfruttamenti agrari potessero trasformarsi in piccoli latifondi. Allo stesso tempo, la fiscalità doveva orientarsi verso

LA LANDED GENTRY.

I coniugi Andrews, uno dei quadri più famosi di Thomas Gainsborough, dipinto verso il 1749, trasmette in modo magistrale il clima domestico e lo status di landed gentry, la nobiltà inglese proprietaria terriera del XVIII secolo (National Gallery, Londra). Si trattava di proprietari agricoli che vivevano di rendita. Spesso si dedicavano all’amministrazione o alla gestione delle loro terre. Era formata da quattro gruppi, che ricevevano i titoli di baronet, knight, esquire e gentleman.

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LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

ADAM SMITH. Faccia posteriore e anteriore di un penny scozzese coniato nel 1797, in commemorazione della vita e dell’opera di Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, considerata una delle pietre miliari dell’economia classica (British Museum, Londra).

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la proprietà agricola e non gravare sul consumo domestico, anche a costo di non contare sull’approvazione della nobiltà terriera. La sua unica grande preoccupazione, espressa chiaramente dall’economista inglese Thomas Malthus (1766-1834) nel suo Saggio sul principio della popolazione (1798), era che l’incremento della popolazione sorpassasse la sua capacità di produzione degli alimenti, fatto che Malthus considerava inevitabile se la popolazione avesse continuato a crescere in proporzione geometrica e la produzione di alimenti, invece, in proporzione aritmetica. Dal punto di vista economico, l’aumento della popolazione coincise con un miglioramento delle condizioni della produzione agraria, così come con l’aumento delle manifatture. Si produsse ciò che gli storici dell’economia denominano “protoindustrializzazione”: alcuni proprietari terrieri e commercianti assunsero nelle loro proprietà mano d’opera rurale a cui fornivano materie prime per la produzione di beni artigianali in cambio del pagamento per unità di produzione. In cambio dei loro manufatti, i contadini ottenevano un’entrata extra che serviva loro per ridurre le carenze del loro sostentamento. I commercianti, invece, riuscivano in questo modo ad aumentare la loro offerta di prodotti sul mercato. In un certo modo, questa protoindustrializzazione, che avvenne soprattutto nel campo delle manifatture tessili, si trovava a metà strada fra la produzione artigianale e l’industria delle successive fattorie meccanizzate. In questo contesto si possono capire le riforme di Jean-Baptiste Colbert nella Francia del secolo precedente, e i suoi tentativi di regolarizzare una nuova forma di produzione e di scambio. La realtà economica, tuttavia, sorpassava ampiamente questi primi tentativi di regolazione. Adam Smith (1723-1790), che pubblicò nel 1776 la sua opera più rappresentativa, An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni), si batteva per una flessibilità e una libertà di contrattazione e di mercato libera dalle restrizioni che alcune corporazioni o altri agenti sociali avevano creato. Prendendo in prestito dai fisiocrati l’espressione «laissez-faire» (lasciate fare), Smith pretendeva, come loro, che le attività economiche, eccetto le imposte, dovessero essere regolate solamente da leggi naturali. Lo Stato doveva garantire proprio quella legge naturale dell’economia, evitando i monopoli o la frode. Smith presentava i suoi argomenti contro le teorie mercantiliste che sostenevano che, data l’esi-

Protoindustrializzazione e nuove macchine Le innovazioni tecniche introdotte nella seconda metà del XVIII secolo gettarono le basi per la Rivoluzione industriale. Fu l’Inghilterra il principale scenario di un cambio che trasformò l’insieme delle società. Nel 1734, in una delle sue Lettere filosofiche, Voltaire parlava di un «istinto meccanico» comune agli uomini. Il suo commento fu ratificato dall’apparizione di una serie di macchinari e marchingegni che posero le basi di una nuova società industrializzata. Così, nella decade fra il 1730 e il 1740 sorsero i primi telai meccanici, seguiti nel 1765 dalla Spinning jenny di James Hargreaves (una macchina filatrice a fusi multipli) e tre anni più tardi, dalla Water frame di Richard Arkwright (la prima macchina da maglieria a utilizzare una forza motrice non umana, l’acqua). Queste novità, unite alla macchina a vapore, non solo permisero di aumentare la produzione e soddisfare così il fabbisogno di una popolazione che era cresciuta, ma inoltre segnarono la fine dei metodi manifatturieri tradizionali e delle organizzazioni corporative. Nell’immagine, incisione di un’illustrazione di William Hogarth, che mostra alcuni tessitori in un laboratorio di Spitalfields, Londra.

stenza di una quantità limitata di beni, il consumo avrebbe comportato sempre una diminuzione della ricchezza nazionale, e che inoltre erano volte a una produzione di sussistenza e alla limitazione dell’esportazione dei beni. Al contrario di quello che pretendevano i fisiocrati, per Smith la ricchezza di un territorio non dipendeva esclusivamente dall’agricoltura, ma anche dalla relazione tra il lavoro e il valore, vale a dire: il valore di un prodotto dipendeva anche dalla quantità di lavoro necessario per produrlo. In questo modo, un agricoltore che investiva in macchinari per migliorare la sua coltivazione avrebbe anche aumentato la sua produzione. La combinazione delle idee fisiocratiche relative al laissez-faire con questa nuova teoria del valore lo portò a sostenere che né le corporazioni né lo Stato avrebbero dovuto imporre restrizioni nel mercato dei beni. Secondo lui, la persecuzione di benefici privati avrebbe avuto ripercussioni sul bene pubblico. La ricchezza delle nazioni dipendeva dalla specializzazione della produzione e dalla divisione del lavoro.


Governato da leggi naturali, il mercato avrebbe operato, attraverso la ricerca dell’interesse degli individui o dello Stato, come una “mano invisibile”, capace di accelerare la prosperità delle nazioni: «È solo come conseguenza del proprio interesse che gli uomini utilizzano capitale per sostenere la loro industria [...]. Dirigendo questa industria in modo da far aumentare il più possibile il valore dei loro prodotti, l’uomo cerca unicamente il suo guadagno personale. Quando lo fa, però, come in molti altri casi, è mosso da una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle sue intenzioni. Nella ricerca del suo interesse, spesso promuove quello della società, in modo più efficace di quando pretende di raggiungere quest’ultimo obiettivo».

Le forme di vita urbana Sebbene la maggior parte della popolazione vivesse in campagna, l’Illuminismo fu un movimento urbano legato a una spettacolare crescita demografica così come alle nuove forme di produzione e di consumo. Verso la fine del XVIII se-

colo, circa venti città europee avevano superato i centomila abitanti, e altre, come Londra e Parigi, contavano più di mezzo milione di abitanti. Mentre nel mondo rurale la divisione in classi e la mobilità sociale erano molto più evidenti, la città illuminista permise la confluenza e la convivenza, non sempre pacifica, di gruppi sociali molto diversi. La nobiltà e l’aristocrazia rurale mantennero proprietà nelle grandi città, in parte come forma d’accesso allo svago e al consumo, ma anche per diversificare e vigilare sui loro affari. In alcuni casi, come quello dell’aristocrazia francese durante il regno di Luigi XIV, i nobili furono obbligati a stabilire la loro residenza nella corte, per non perdere influenza o privilegi. Buona parte della cultura illuminista, per quanto riguarda le arti o le lettere, non poteva concepirsi senza il patrocinio delle élite economiche che trovavano nelle fiorenti città svago, prodotti di consumo e nuovi spazi di civiltà. Assieme all’aristocrazia e alla nobiltà, si riunirono nelle città i membri delle professioni liberali, quali avvocati, architetti, medici, com103


LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

LA VITA NELLE CITTÀ.

Durante il XVIII secolo, le fiorenti agglomerazioni urbane divennero il laboratorio delle nuove idee e la nuova società emergente. Il mercato tradizionale continuava a essere un’insostituibile struttura di comunicazione e relazione sociale, a metà strada fra le fiere medievali e i mercati o mostre specializzate proprie dei secoli successivi. In alto, Un giorno di mercato, olio anonimo del 1765 (collezione privata).

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mercianti, banchieri e redditieri: l’alta borghesia urbana. La scala sociale continuava con i negozianti, gli scrivani, i sarti, gli ufficiali inferiori delle amministrazioni e i maestri artigiani. In quest’ultima categoria si dovevano aggiungere anche i librai, chiamati a svolgere un ruolo importante nella diffusione delle idee delle classi sociali emergenti. Molti dei membri di questa piccola o bassa borghesia godevano di alcuni privilegi corporativi, che non interessavano invece il popolo. Dopotutto, questo gruppo sociale aveva a disposizione le conoscenze e le arti proprie ed esclusive dei loro mestieri. Sebbene molti di quelli che migrarono nelle città dovettero affrontare difficili condizioni di vita, in esse aumentavano significativamente le opportunità di miglioramento economico e di mobilità sociale. Ai livelli inferiori della scala sociale si trovavano gli artigiani e i lavoratori non qualificati, nuovi stipendiati che lavoravano come domestici, nell’ambito dell’edilizia o dell’educazione. Questi ultimi gruppi, totalmente alle dipendenze dell’alta borghesia e della nobiltà, formavano il

nucleo più numeroso della popolazione urbana. I primi potevano formare gilde o associazioni professionali che a volte rappresentavano autentici monopoli sulla produzione e distribuzione dei beni. I lavoratori non qualificati, invece, si trovavano sempre al limite della povertà, soprattutto per l’insicurezza del loro impiego e le difficoltà nell’ottenere cibo e alloggio. Fu in questo contesto urbano che avvennero i principali cambiamenti sociali, culturali e commerciali provocati dall’Illuminismo. Nel nord dell’Europa, per esempio, apparvero società commerciali che avrebbero creato le reti coloniali, principalmente in America e nei Caraibi. Anche gli strumenti finanziari e creditizi raggiunsero livelli transnazionali, in modo che, per esempio, i banchieri olandesi investivano il loro capitale nella Compagnia Britannica delle Indie Orientali. La primitiva globalizzazione che nacque nel XVIII secolo si nutriva di un mercato urbano in cui le forze sociali potevano espandersi dal livello locale fino a quello internazionale. Il commercio di tè, tabacco e oppio (la prima grande espansione capitalista del mondo moderno) fioriva grazie alla domanda dei saloni da tè e dei nuovi locali pubblici dove si leggevano le pubblicazioni periodiche. La tratta di schiavi dell’Atlantico aveva lo stesso effetto, producendo un beneficio netto nel capitale mercantile, che manteneva a distanza la disumana crudeltà di quel commercio. Dalla seconda metà del secolo, le compagnie commerciali europee divennero una nuova forma d’espressione del potere statale. Il commercio dei beni d’oltremare dipendeva, tuttavia, dall’introduzione a livello sociale dei gusti aristocratici e borghesi, oltre alle loro consuetudini sociali. Il comfort, che Voltaire descrive nelle sue Lettere filosofiche come una delle caratteristiche della fiorente società inglese, era il risultato della confluenza d’interessi commerciali, investimenti di capitale e privilegi che i governi concedevano alle loro compagnie, così come di una classe sociale urbana desiderosa di utilizzare i prodotti “alla moda”. Importanti come i vincoli commerciali furono anche lo scambio di idee e la creazione di nuovi spazi culturali urbani. Nonostante il mecenatismo e la protezione da parte del re continuassero a mantenere un ruolo d’importanza, i club e le associazioni dipendevano da nuove forme di finanziamento che, a loro volta, si riversavano in nuove forme di relazione collettiva. Quest’espansione della socievolezza, legata alla creazione di nuovi spazi di relazione, favoriva allo stesso tempo lo sviluppo della critica dell’operato del governo, e di altre manifestazioni della vita pubblica, come le esposizioni di pittura o le rappresentazioni teatrali.


LA DITTATURA DELLA MODA NEL XVIII SECOLO

LA PARRUCCA, UN ACCESSORIO OBBLIGATO Fino alla rivoluzione francese la parrucca fu parte essenziale dell’acconciatura delle classi alte soprattutto fra gli uomini, perché le donne preferivano impolverarsi i capelli e aggiungere ricci posticci e forcine, ottenendo risultati fantasiosi e stravaganti. Nell’immagine, collezione di parrucche del XVIII secolo in un’illustrazione francese del XIX secolo.

N

ell’ambito della moda, il XVIII secolo vide la Francia come indiscussa protagonista, soprattutto per quanto concerne la corte e l’aristocrazia: per questo motivo i vestiti di moda erano considerati, semplicemente, “vestiti francesi”. Fra le donne causò furore il sellino, una struttura che ampliava la gonna ai lati e il cui uso si estese fino al XIX secolo inoltrato. Per gli uomini, invece, il vestiario era molto più semplice e si componeva di una casacca, un gilet e dei calzoni, senza dimenticare il cappello a tre punte. Nell’immagine in alto, La toilette di François Boucher (Museo ThyssenBornemisza, Madrid). 105


LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

L’AUGE DEL ROMANZO IN EUROPA 1719

Robinson Crusoe. Daniel Defoe è considerato il padre del romanzo inglese. Robinson Crusoe è la sua opera più nota e diffusa. 1726

I viaggi di Gulliver. La satira della condizione umana e della società del tempo scritta da Jonathan Swift continua a essere una grande opera letteraria. 1749

Tom Jones. In questo romanzo batte lo spirito del Don Chisciotte e del romanzo picaresco di Henry Fielding, uno dei maggiori successi dell’epoca.

Il club letterario e la nuova febbre della lettura I salotti e i caffè non erano gli unici spazi nei quali si riuniva l’intellettualità illuminata. Soprattutto in Inghilterra e in Germania sorse un altro fenomeno, quello del club letterario o società di lettura, il cui fine ultimo era quello di trasmettere la cultura a un pubblico più ampio possibile e sempre all’insegna dell’Illuminismo. Nel 1712, a Londra, aprì le sue porte lo Scriblerus Club, un club letterario che annoverava fra i suoi membri il romanziere Jonathan Swift, il poeta Alexander Pope e il drammaturgo John Gay. Sebbene il suo proposito fosse principalmente quello di satirizzare l’ansia d’erudizione dell’epoca, il movimento a favore della lettura e del sapere era inarrestabile, come è dimostrato dall’apparizione di società letterarie che funzionavano con l’acquisizione collettiva di libri. Ciò avveniva nonostante alcune diagnosi mediche poco favorevoli alla lettura, attività che era considerata funesta per la salute perché combinava l’immobilità del corpo con l’esaltazione dell’immaginazione. Persino un filosofo come Johann Gottlieb Fichte la definiva come un’attività «narcotica». Nell’immagine, incisione a colori del XIX secolo che mostra, fra i più, Samuel Johnson e il suo biografo James Boswell nel Literary Club di Londra.

1759-1767

Tristram Shandy. Una pagina in nero, risorse tipografiche… Lawrence Sterne sperimentò tutte le possibilità del romanzo. 1774

I dolori del giovane Werther. Il romanzo di Johan Wolfgang von Goethe accese la febbre romantica in Germania. 1782

Le amicizie pericolose. Scritto in stile epistolare, Choderlos de Laclos ritrae con maestria la frivolezza dell’aristocrazia. 106

Pertanto, ciò che oggi definiamo “opinione pubblica”, fu una conquista legata ai cambiamenti operati nella vita urbana, alla progressiva sostituzione di una società agraria con un modello di città preindustriale, così come la discussione di un ordine sociale ed economico basato sul patrimonio e sui privilegi. Ai centri di aggregazione più tradizionali, come i teatri, si aggiunsero i salotti, le feste galanti, le gallerie, la piazza pubblica o il Corso. Fu in questi spazi che i nuovi borghesi scoprirono l’esistenza di un pubblico in grado di formulare delle opinioni riguardo l’interpretazione della natura. La nuova borghesia urbana voleva vedere e provare tutto: dagli elefanti che venivano esibiti nella menagerie del Giardino del Re, a Parigi, fino alle nuove prelibatezze tropicali che giungevano a Londra dalle Americhe. L’ananas, per esempio, causò furore, nel mezzo di una crescente sofisticazione dei piaceri della tavola che terminerà, verso la fine del secolo, in una nuova gastronomia. La delicatezza, la finezza, il sentimento che vennero così squisitamente ritratti da

pittori come Boucher o Fragonard, esprimevano le convinzioni delle nuove filosofie mediche e materialiste della scuola di Edimburgo, che aveva scoperto il “sistema nervoso”. Nel caso del medico e filosofo francese La Mettrie, l’esaltazione sensoriale doveva combinarsi con l’esaltazione della sensualità e delle passioni. Per quanto riguarda l’elevazione della sensibilità a valore di coesione sociale, che avvenne verso la metà del secolo, la presenza e influenza di Buffon in tutti i campi fu molto rilevante. Non fu un caso che anche l’illuminista Cesare Beccaria si riconobbe istantaneamente sostenitore di Buffon. Ciò che unisce gli uomini sono le passioni, non le ragioni, il loro desiderio non necessariamente razionale di trovare un nuovo ordine naturale e sociale, che la stessa ragione ripudia e considera utopico. Lo stesso Buffon, che aveva iniziato la sua carriera intellettuale interessandosi ai problemi della probabilità e del calcolo, ammise dal 1731 che le scienze matematiche non erano in grado di descrivere il mondo reale, che a poco serviva il rigore logico per risolvere i problemi della mo-


SAMUEL RICHARDSON. La passione per la lettura del XVIII secolo si

estese a tutti gli strati della società grazie a opere come Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson. Il suo straordinario successo confermò la comparsa di una nuova sensibilità per cui i sentimenti prevalgono sulla ragione, fatto accentuato dalla stessa struttura epistolare del romanzo, dove è la protagonista stessa a esprimersi, senza la mediazione del narratore. In alto Samuel Richardson ritratto nel 1747 da Joseph Highmore (Worshipful Company of Stationers and Newspapers Makers, Londra).

rale e che, a volte, erano in chiarissima contraddizione con il buon senso. Dopo essersi stabilito a Parigi nel 1732, iniziò la sua carriera accademica come professore associato nell’Accademia delle Scienze di Parigi. Il suo pubblico era composto da un tipo di uomo tout neuf, appassionato e orgoglioso di esserlo, appena approdato alla sfera politica e capace di creare un nuovo ordine sociale e naturale che gli apparteneva per diritto. Fu sempre a questo modello di uomo che Diderot, che non si considerava altro che un essere «immensamente sensibile» dedicò i suoi Pensieri sull’interpretazione della natura. Questa nuova “cultura della sensibilità” raggiunse la sua piena manifestazione verso la metà del secolo, sia per la riforma dei costumi sia per gli usi privati del corpo. Dato che la sensazione costituiva la base di ogni pensiero, fu facile concludere che le condotte morali e, in generale, le capacità cognitive, potessero spiegarsi attraverso le loro corrispondenti strutture anatomiche. La distanza che per secoli aveva separato i sentimenti dalle idee divenne sempre più diffusa, fino

al punto di confondere la capacità di provare delle sensazioni con la facoltà di giudicare più propriamente detta. Molte di queste dottrine si diffusero durante conferenze pubbliche, in sermoni latitudinari o nelle pagine di pubblicazioni periodiche che, come The Spectator (Addison e Steele, 1711-1712), The Gentleman’s Magazine o il Lady’s Monthly Museum, mantennero un’enorme popolarità durante il Secolo dei Lumi. Una nuova forma di comprensione dei comportamenti che, nell’ambito letterario, si rispecchiò soprattutto nelle novelle dello scrittore inglese Samuel Richardson come nelle opere di Henry Mackenzie, di Lawrence Sterne o Daniel Defoe. Queste novelle descrivono storie di dolore o di agonia, in cui i lettori provavano piacere nell’identificarsi con le vittime e nell’odiare gli aguzzini. Come nel caso delle opere di Horace Walpole o delle messe in scena dell’attore David Garrick in Drury Lane, la letteratura cercava di mettere il pubblico nella situazione di dover affrontare i pericoli della malattia o le miserie della morte. Giulia, o la nuova Eloisa di Rousseau è uno degli esempi più evi107


LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

denti di questa cultura della sensibilità per cui una società intera piange con sentimenti molto più reali il fallimento di un essere immaginario. La filosofia sensualista, d’ispirazione lockiana, divenne popolare in Francia attraverso l’opera dell’abate Condillac, e trovò la sua espressione più radicale nella filosofia vitalista di Diderot: «Sentir c’est vivre» (sentire significa vivere). Ciò che governa il gusto e la moda della società francese della metà del secolo è l’idea che si debba avere il coraggio di sentire.

La rivoluzione agricola e industriale

L’innovazione tecnologica nelle campagne e l’aumento delle eccedenze Il XVIII secolo portò con sé una serie di cambiamenti riguardanti le modalità di lavoro nelle campagne, prendendo in considerazione le coltivazioni e i mezzi. Nonostante l’iniziale opposizione dei proprietari e dei contadini, i risultati non si fecero attendere e trassero con sé delle eccedenze agricole che resero possibile l’aumento della popolazione. Sebbene varie zone d’Europa rimasero legate a usi e coltivazioni praticamente invariate dal Medioevo, l’Illuminismo cercò di trasformare l’intero ambito agricolo. Da una parte stimolò l’introduzione di coltivazioni che si fecero spazio negli ambiti gastronomici, soprattutto fra le classi popolari: è il caso della patata, del mais e del pomodoro. Allo stesso tempo, i governi diedero impulso alla costruzione di ambiziose infrastrutture, come canali che permettevano di bagnare grandi estensioni. Si dissodarono nuovi campi e in essi si applicarono tecniche innovative, come la rotazione quadriennale di Norfolk, che alternava rapa, trifoglio, orzo e grano. Non va inoltre dimenticata l’introduzione di macchinari come la seminatrice meccanica dell’agronomo Jethro Tull, del 1701. Nell’immagine, utensili agricoli in un’illustrazione dell’Enciclopedia.

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La produzione di beni in grandi quantità non fu un’invenzione del XVIII secolo e non è necessariamente legata all’introduzione di massa di macchinari. Durante la seconda metà del XVIII secolo, lo sfruttamento minerario e agricolo, e in alcuni casi anche la produzione di navi e armi da guerra, iniziarono a svilupparsi in grande scala. Nonostante l’industrializzazione fosse un elemento di sviluppo rilevante per quel secolo, dal punto di vista economico ebbero molta più importanza lo sfruttamento agricolo regolare e intensivo e la riorganizzazione della domanda conosciuta come “rivoluzione industriosa”. In Olanda, nel sud dell’Inghilterra, nel nord della Prussia e nelle colonie americane, l’apice dell’economia dipese in parte da modifiche nei modelli di consumo che, mentre determinavano forme più efficaci di produzione ed acquisizione di beni, aprivano il mercato a molti altri prodotti nazionali. L’arrivo massivo di tè o di caffè dalle colonie, per esempio, permise di “inventare” la colazione e ciò contribuì ad attivare il commercio di porcellane e biancheria da tavola. Il crescente interesse per l’intimità della vita domestica, gli onorari non regolati dalla sfera religiosa, che fino a quel momento era onnipresente, le nuove forme d’igiene del corpo e di relazione dei cittadini con le proprie malattie, la nascita e la morte, tutti questi furono fattori che favorirono la domanda di prodotti come il mobilio domestico, che non solo favoriva l’industria artigianale, ma incrementava la domanda di produzione e di importazione di materie prime. In funzione di queste caratteristiche, alcuni storici hanno parlato del XVIII secolo come del secolo in cui nacque la “società del consumo”. I cittadini, che difficilmente erano definiti dalla loro situazione politica (come sudditi) o dalla nascita in una determinata classe sociale, facevano parte di una grande massa di potenziali consumatori. Mentre queste “rivoluzioni industriose” della domanda favorivano il commercio e il movimento di capitali, l’industrializzazione aumentava l’offerta, come risultato della meccanizzazione.


A partire dall’ultimo quarto del secolo cominciarono a fiorire piccole fabbriche, soprattutto di tessuti, che permettevano di aumentare la produzione raggiungendo quantità molto maggiori rispetto alle manifatture artigianali proprie delle zone rurali. Sebbene molte delle nuove fabbriche esigessero un’assunzione di un numero maggiore di lavoratori, l’aumento della produttività iniziò a dipendere sempre più dall’uso dei macchinari. Fra il 1760 e il 1770 furono introdotte in Inghilterra varie macchine filatrici che potevano utilizzare diversi materiali, soprattutto il cotone e la lana. Alcune di queste macchine potevano essere azionate manualmente ma altre necessitavano di una forza esterna, come quella dei mulini ad acqua; per questo alcune città situate sulle rive di un fiume poterono incrementare la produzione e il commercio del cotone. Fu il caso di Manchester, dove l’industrializzazione provocò uno spettacolare aumento della popolazione: da 17.000 persone nel 1760 a 180.000 nel 1830. Allo stesso tempo, l’effetto combinato della protoindustrializzazione e dell’aumento dell’attività com-

merciale fece aumentare il tasso d’impiego, che ormai non dipendeva più dalla stagionalità, e permise l’assunzione di molti membri dell’unità familiare, indipendentemente dalle loro capacità, come forza lavoro. L’arrivo della macchina a vapore risolse le limitazioni della forza idraulica fluviale all’ora di muovere la macchina. Concepita nel 1712 da Thomas Newcomen (approfittando delle precedenti invenzioni di Thomas Savery) per pompare l’acqua accumulata nelle gallerie delle miniere di carbone, fu migliorata dall’ingegnere scozzese James Watt (1736-1819) di modo che fosse possibile applicarla a diversi usi. Il suo combustibile, il carbone, era allora molto abbondante e facile da ottenere dalle miniere, e la macchina poteva essere utilizzata anche per ottimizzare la produzione di tessuti e per introdurre altre migliorie sia nell’ambito dell’industria mineraria sia in quello delle fabbricazione di utensili. Perciò, i disegni risultarono sempre più efficienti e la produzione di carbone aumentò esponenzialmente. In una forma di produzione circolare, lo stesso funzionamento sempre più

NUOVE ATTIVITÀ.

La fucina (1772), olio di Joseph Wright of Derby, che in molti dei suoi quadri rappresentò lo spirito della nascente Rivoluzione industriale in Inghilterra (Tate Britain, Londra). In questo caso l’originalità dell’opera non sta tanto nella berta, mossa dall’energia idraulica (che non era una novità), ma nel fatto di considerarlo oggetto e motivo di una rappresentazione artistica.

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LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

La macchina a vapore di Newcomen e Watt La grande invenzione che gettò le basi della Rivoluzione industriale fu la macchina a vapore. Grazie a essa l’uomo poté contare su una forza motrice di una potenza sconosciuta fino ad allora, che permise di moltiplicare considerevolmente la produzione. La possibilità che la forza del vapore potesse essere sfruttata in modo pratico era già stata ventilata e sognata nell’antichità dall’ingegnere ellenico Erone di Alessandria. Ciò nonostante, si dovette aspettare fino alla fine del XVII secolo per trovare le prime macchine a vapore. Partendo dalle ricerche del nobile e appassionato inventore Edward Somerset, Thomas Savery brevettò nel 1698 una macchina che grazie alla forza del vapore era capace di estrarre acqua dalle miniere a grande profondità. Fu questo il modello che nel 1712 ispirò Thomas Newcomen a costruire un marchingegno più efficiente ma che continuava a perdere grandi quantità di vapore, e, pertanto, d’energia. Fu James Watt a trovare la soluzione, grazie a un condensatore separato che non solo evitava la perdita d’energia, ma riduceva il consumo di carbone. Fu sempre lui ad adattare la macchina a carbone all’uso industriale, per telai o mulini. Nell’immagine, uno stabilimento inglese di carbone con una macchina di Newcomen (Walker Art Gallery, Liverpool).

esteso della macchina portava necessariamente alla scoperta di nuove migliorie tecniche nel suo disegno, permettendo di produrre in grande scala beni che fino ad allora non era stato possibile produrre in serie, come per esempio la ceramica. Per la stessa ragione aumentò anche la produzione di ferro e acciaio. Assieme ai benefici effetti economici, il conseguente calo del prezzo di alcune materie prime rese accessibili a strati sociali sempre più estesi diversi beni che fino ad allora erano loro preclusi in quanto considerati articoli di lusso. Per quanto riguarda la produzione di tessuti, per esempio, l’aumento della fabbricazione di capi di seta facilitò il loro acquisto da parte della borghesia agiata, che iniziava a godere di uno dei grandi eventi del mondo contemporaneo: la moda. Ugualmente, l’apparizione sempre più frequente di nuovi macchinari favoriva l’assunzione di mano d’opera non qualificata oppure qualificata esclusivamente per azionare meccanicamente le macchine. Di conseguenza, l’antica industria artigianale, che s’appoggiava su tecniche d’ap110

prendistato corporativo e sulla specializzazione, fu sostituita progressivamente da laboratori che potevano impiegare uomini, donne e anche bambini che, senza distinzioni, venivano sottoposti a durissime giornate di lavoro intensivo.

La rivoluzione militare Nell’ambito militare, il costo della professionalizzazione delle forze terrestri e marittime e del loro mantenimento aumentarono in modo considerevole durante tutto il XVIII secolo. Furono impiegate nuove modalità di reclutamento, ma furono comunque creati corpi specializzati. Nella marina militare apparvero navi a esclusivo uso militare, diverse dalle imbarcazioni che, sebbene provviste di armamenti, potevano venire utilizzate anche per altri scopi. Il costo sempre maggiore delle riforme militari obbligò alla ristrutturazione delle finanze, un fattore decisivo per il successo militare. In Francia, per esempio, dove nel 1752 era destinato alle spese militari il 40% del bilancio generale dello Stato, all’inizio della guerra dei Sette anni (1756) la cifra rag-


JAMES WATT. L’ingegnere scozzese che portò l’applicazione pratica del vapore ad altri ambiti oltre a quello dell’industria mineraria, ha dato il suo nome all’unità di potenza, il watt. In alto, James Watt ritratto da Carl Fredric von Breda nel 1792 (Museo della Scienza, Londra).

giunse il 52%. Le risorse erano ottenute emettendo debito pubblico, i cui interessi crebbero con l’avanzare del secolo. Così, il maggior volume degli eserciti incrementava la spesa, che a sua volta aumentava il debito. Nel 1756 l’esercito francese contava 600.000 effettivi, fra truppa, mercenari e milizia, e durante il conflitto furono reclutati altri 3000 soldati. Allo stesso modo, l’esercito prussiano passò da circa 3000 soldati verso la metà del secolo a circa 80.000 effettivi all’inizio della guerra di successione austriaca. Alla fine della guerra dei Sette anni, Federico il Grande di Prussia poteva contare su un esercito di più di 200.000 uomini. Rispetto alle forme di reclutamento, invece, il sistema più efficace dal punto di vista militare fu quello introdotto da Federico Guglielmo I di Prussia. Partendo da una distribuzione cantonale del territorio, il cosiddetto Re Sergente dava a un ufficiale l’incarico di coordinare il reclutamento in ogni distretto o cantone, di modo che ciascun adolescente era tenuto a registrarsi, a passare un addestramento obbligatorio e ad arruolarsi in un

esercito di riserva, restando sempre disponibile a essere chiamato nelle file in caso di necessità. Sebbene esistessero alcune eccezioni a queste norme (i nobili proprietari terrieri e i commercianti facoltosi, per esempio, potevano pagare un sostituto che avrebbe occupato il loro posto), il sistema permise di mantenere un esercito che mobilitava all’incirca il 5% della popolazione della Prussia-Brandeburgo. La vita nell’esercito non era né comoda né facile per i soldati e gli ufficiali di basso grado. Nella seconda metà del secolo furono finalmente introdotte le baracche costruite per ospitare la truppa, ma in esse le condizioni erano estremamente insalubri, per via della scarsa igiene e dell’eccessivo affollamento. La paga era scarsa e la giustizia militare era solitamente crudele e arbitraria. Le uniformi fecero la loro apparizione fra gli anni 1760 e 1770, sebbene pochi soldati fossero in grado di permettersele. L’esercito, tuttavia, era una delle poche classi sociali inserite nella struttura dell’Ancien Régime, in cui era possibile la promozione e l’ascesa sociale.

LA LONDRA DEL XVIII SECOLO (pag. 112-113).

Particolare dell’olio (1747 circa -1748) Il fiume Tamigi e la cattedrale di San Paolo durante la festività del Lord Mayor, di Canaletto (Galleria Nazionale, Praga). Il pittore veneziano mostrò, in questa scena idealizzata, i fasti del giorno del Sindaco (mayor). In primo piano un’imbarcazione a vela con la Union Jack spara a salve in onore della flotta che accompagna la grande lancia di bordo del sindaco della città (con baldacchino azzurro). 111


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LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

L’aumento delle spese militari nei Paesi europei del XVIII secolo

1690

1700

1710

1720

1730

1740

Guerra d’indipendenza nordamericana

Guerra dei Sette anni

Guerra di successione austriaca

Guerre di successione spagnola

30 28 26 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2

Guerra della Lega d’Asburgo

Spese militari in Gran Bretagna (in milioni di sterline)

Le aspirazioni illuministe non poterono evitare che il XVIII fosse un secolo segnato dai conflitti bellici, pertanto una delle priorità della monarchia europea fu il possedere un esercito potente, moderno e ben equipaggiato. Per ottenere questo era necessaria un’economia stabile e forte. Stati come la Prussia e la Gran Bretagna, che seppero portare a termine riforme istituzionali volte a una gestione più efficiente delle loro risorse, furono quelli che riuscirono a imporsi. In basso, Ordine del Merito Prussiano del 1760 (Deutsches Historisches Museum, Berlin).

1750

1760

1770

1780

1790

Fonte: The Sinews of Power: War, Money and the English State 1688-1783, John Brewer.

In Francia, per esempio, chi non faceva parte della nobiltà poteva arrivare al grado di ufficiale pagando commissioni speciali alle casse del Tesoro. In Prussia, invece (e più tardi ci proverà anche Luigi XVI in Francia), il corpo degli ufficiali era destinato esclusivamente ai nobili. Dal punto di vista tecnico, le guerre del XVIII secolo furono accompagnate da importanti innovazioni tecnologiche, come l’estensiva applicazione del meccanismo flintitlock ai moschetti e alle pistole, e l’uso della baionetta d’acciaio che si poteva inastare sull’arma da fuoco e diverrà un simbolo dell’esercito prussiano. È necessario segnalare che lo sviluppo della chirurgia fu in gran parte legato alle tecniche praticate durante le campagne militari. Già nel 1754 l’Accademia di Chirurgia di Parigi aveva proposto un concorso pubblico per determinare come si dovessero realizzare gli interventi chirurgici sul campo di battaglia. Il celebre chirurgo inglese John Hunter (che aveva servito nel 1761 durante la guerra dei Sette anni) considerando le condizioni dei feriti da arma da fuoco nelle cam114

pagne, raccomandava un atteggiamento non interventista. Nella sua opinione, nel caso delle ferite da arma da fuoco, era meglio non cercare la pallottola; nel caso delle estremità che richiedevano amputazione, era meglio non praticarla sul campo di battaglia; nel caso delle ferite da mitraglia nell’addome o sul torace, proponeva di non fare nulla in assoluto. Al contrario, il chirurgo militare francese Dominique-Jean Larrey considerava che si potesse aspettare a operare solo quando, senza mettere in pericolo la vita del ferito, si poteva salvare qualche altro arto colpito.

La rivoluzione delle arti Lo sviluppo delle arti durante il XVIII secolo fu associato alla nascita di un’estetica del gusto che si diffondeva, soprattutto, a partire da Parigi. La pittura, per esempio, fu segnata dalle esposizioni biennali, conosciute come “saloni”, organizzate regolarmente dalla Reale Accademia di Pittura e Scultura a partire dal 1737. A questi concorsi, attorno a cui si costituiva la nuova “storia dell’arte”, il pubblico poteva partecipare per godere delle opere d’arte ma anche per giudicare ed esprimersi sulla qualità e l’abilità dei maestri che esponevano i loro lavori. Il numero di cataloghi venduti in questi salotti passò dai 7000 del 1759 ai quasi 18.000 del 1781. Inaugurando la critica dell’arte, il filosofo Diderot commentò questi salotti nella sua corrispondenza letteraria, e colui che è considerato il fondatore della storia dell’arte, oltre che uno dei grandi teorici del Neoclassicismo, ovvero il tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), pubblicò la sua Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte dell’antichità) nell’anno 1764. Almeno dalla fine del secolo precedente, Parigi rivaleggiava con Roma e Amsterdam come capitale culturale del mondo. La scomparsa di Luigi XIV nel 1715 segnò il declino del Classicismo e l’inizio di un profondo rinnovamento dei gusti artistici. Seguendo in parte, e in modo totalmente tangenziale, gli studi dei medici e fisiologi dell’epoca, che dicevano di aver scoperto la sensibilità dei muscoli e l’irritabilità dei nervi, le arti dell’Europa illuminata si appoggiarono nei gesti espressivi del corpo e nella dolcezza e trasparenza dei sentimenti che venivano trasmessi. Il Rococò (un termine coniato sul finire del XVIII secolo mescolando i concetti di “rocaille” e “barocco”, per designare complicate forme ornamentali ispirate alla natura e ai movimenti curvilinei) fu l’arte cortigiana che raccolse quella sensibilità e, dalla Francia e dall’Italia, si estese all’impero austriaco e agli Stati tedeschi del sud. Lo stile trova forse la sua massima rappresentazione nell’opera pittorica di Antoine Watteau


(1684-1721), ma anche in quella di Jean-Baptiste Greuze (1725-1805), di François Boucher (17031770) e di Jean-Honoré Fragonard (1732-1806). Affondando nei parametri estetici del Tardo barocco, questi nuovi artisti privilegiavano la luce, il colore e la delicatezza della decorazione. Uno dei quadri più famosi di Watteau, Pellegrinaggio all’isola di Citera, concorda con l’idea del recupero del passato classico in cui si danno appuntamento, rincontrandosi, le vecchie figure del Rinascimento e le nuove forme di civiltà. Anche Diana dopo il bagno (1742) di François Boucher, contiene questo adattamento delicato dei temi propri, e più innocenti, della mitologia classica. Legata in molte occasioni a una sensualità nascente, la pittura del Rococò non dissimula il suo gusto per le scene intimiste o addirittura passionali, come mostrano magistralmente alcune opere di Fragonard: Il catenaccio, dipinto fra il 1776 e il 1779, costituisce un magnifico esempio a cui potrebbe aggiungersi anche L’altalena (1776). Mentre il primo rappresenta il gesto dell’ultima resistenza all’abbandono dell’amore carnale, il

secondo si concentra sull’eccitazione passionale e sensoriale legata a uno dei nuovi intrattenimenti sociali. Dal punto di vista dei nuovi materiali, molti artisti, soprattutto francesi, decisero di usare la tecnica del pastello che, come in Bambina con un gatto (1745) di Jean-Baptiste Perronneau (17151783), serviva per plasmare in maniera delicata temi come il ritratto intimista. In Italia lo sviluppo della pittura fu legato alla proliferazione di accademie, che passarono da tre a quattordici durante il secolo, includendo anche l’Accademia Francese a Roma, che era stata fondata nel 1666 da Luigi XIV, il quale ne aveva affidato la direzione a Jean-Baptiste Colbert, Charles Le Brun e Gian Lorenzo Bernini, ma che sperimentò il suo apogeo durante il regno di Luigi XV. A Venezia, Canaletto (Giovanni Antonio Canal, 1697-1768), Francesco Guardi (1712-1793) e Bernardo Belloto (Canaletto il Giovane, nipote dell’anteriore, 1721-1780), coltivavano il genere del paesaggio urbano (le vedute); il veneziano Giambattista Tiepolo (1696-1770) il grande artista del Settecento italiano, riuscì ad amalgamare la

ROCOCÒ PIENO. Uno

degli emblematici quadri di Watteau e della pittura del XVIII secolo, Pellegrinaggio all’isola di Citera (Museo del Louvre, Parigi). Dipinto nel 1717, inaugurò il tema della fête galante, le riunioni ludiche all’aperto dell’oziosa aristocrazia. Questa scena campestre rappresenta un viaggio all’isola dell’amore (nell’antichità Citera possedeva un tempio dedicato ad Afrodite) ed è piena di simbolismo mitologico.

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LA SOCIETÀ ILLUMINISTA

IL NUOVO FIDIA.

L’ideale della bellezza femminile dell’epoca trovò la sua espressione più raffinata nei marmi neoclassici dell’italiano Antonio Canova, soprannominato il “nuovo Fidia”. Nell’immagine qui sopra Le tre Grazie, datato 1814-1817 (Museo dell’Hermitage, San Pietroburgo). Questa fu la prima delle due versioni dell’opera che fece Canova, ormai già scultore famoso, partendo da un dipinto del 1799 e da disegni e modelli realizzati in gesso.

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delicata pittura delle sue origini con la successiva drammaticità di scene religiose o profane. La sua fama oltrepassò le frontiere della Repubblica Serenissima e la sua attività si estese nelle più grandi corti europee, approdando infine anche a quella spagnola. Per quanto riguarda la scultura, si distinse l’opera di Jean-Baptiste Pigalle (1714-1785), come il suo magistrale mausoleo del maresciallo di Sassonia, nella chiesa protestante di San Tommaso a Strasburgo. A Roma, i discepoli di Bernini abbondavano nell’utilizzo del Barocco tardivo, presente per esempio nella Fontana di Trevi progettata da Nicola Salvi (1697-1751). A Genova, Francesco Queirolo (1704-1762) realizzò le sue opere facendo sfoggio di un virtuosismo fino ad allora sconosciuto. Le sue figure, agghindate con delicati veli, trasmettono l’insieme delle sue emozioni. Di particolare spicco è la sua statua del Disinganno, nella cappella Sansevero di Napoli. ln Francia le opere di Jean-Baptiste Lemoyne (1704-1778) e di Étienne Maurice Falconet (1716-1791), autore della famosa Statua equestre in bronzo di San Pie-

troburgo, (la statua dello zar Pietro I il Grande), oppure di Augustin Pajou (1730-1809) testimoniano bene il gusto per la natura raffinata e squisita nell’espressione e nelle forme. In Spagna, invece, il clima di riforma iconografica intrapreso a partire dalla salita al trono di Filippo V ebbe il suo apice nell’arte di rappresentare immagini sacre di Francisco Salzillo (1707-1783), che si focalizzava sulla produzione di immagini religiose realizzate in legno policromo. Se la prima metà del XVIII secolo fu dominata dal Rococò, nella seconda dominò il Neoclassicismo, nel quale predominava l’equilibrio e la proporzione delle figure. In Inghilterra o in Italia fu conosciuto come stile palladiano, in onore al grande architetto italiano del XVI secolo Andrea Palladio, che si caratterizzò per l’uso di forme geometriche semplici e per la preferenza per il bianco come elemento ornamentale. Le opere dell’architetto scozzese Robert Adam (1728-1792), ne costituirono il culmine. Dal punto di vista pittorico, si premiò la rappresentazione del paesaggio naturale, un elemento caratteristico delle opere del pittore inglese Thomas Gainsborough (1727-1788) e, più tardi, verso l’inizio del XIX secolo, di John Constable (1776-1837), così come dei costumi e della vita quotidiana. Il ritratto idealizzato vide uno dei suoi massimi esponenti in Joshua Reynolds (17231792), primo presidente della Royal Academy. Il capofila della pittura neoclassica fu, senza dubbio, il francese Jacques-Louis David (17481825), la cui opera segna la rottura con lo stile galante del Rococò e restituisce la pittura francese alla sobrietà degli ideali estetici greci e romani. Convinti della relazione fra la pittura e la sensibilità, gli illuminati potenziarono anche le scene domestiche. Possiamo constatarlo nelle opere di Jean-Baptiste-Siméon Chardin (16991779), nella pittura e nelle incisioni dell’inglese William Hogarth (1697-1764) e nelle cosiddette “pitture morali” di Jean-Baptiste Greuze. In Spagna questa tendenza costumbrista culminò con i cartoni per gli arazzi realizzati da Francisco de Goya (1746-1828). L’opera di questo pittore si apre anche al Romanticismo, come avviene con altri pittori della fine del secolo, specialmente William Blake (1757-1827) o Johann Heinrich Füssli (1741-1825). Nell’ambito della scultura, il Neoclassicismo fu rappresentato soprattutto dall’italiano Antonio Canova (1757-1822), che fu chiamato “nuovo Fidia”; egli seppe esprimere con grande forza il nuovo canone di bellezza femminile ideale di quell’epoca. Nell’ambito musicale, durante il XVIII secolo convissero due generazioni: quella di coloro che, come Antonio Vivaldi (1678-1741), Georg Philipp


Telemann (1681-1767), Johann Sebastian Bach (1685-1750) o Georg Friedrich Händel (1685-1759) erano nati nel secolo anteriore e quella di coloro che, come Joseph Haydn (1732-1809) o Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) erano già figli del Secolo dei Lumi, e apriranno le porte al Classicismo, allontanandosi dai gusti più barocchi. Così come avvenne con molte altre arti, l’Illuminismo seppe trasportare l’esperienza della musica dai recinti religiosi chiusi a nuovi spazi di socialità, come sale da concerti o teatri dell’opera. Inoltre, la professione musicale fu avvantaggiata da sviluppi tecnologici legati soprattutto a nuovi sistemi di notazione musicale, e alla fabbricazione e al miglioramento di strumenti, così come alle tecniche di armonia. Fu precisamente uno dei rappresentati più importanti del tardo Barocco, Jean-Philippe Rameau (1683-1764), a pubblicare nel 1772 il suo Trattato sull’armonia ridotta ai suoi principi naturali, considerato un’opera fondamentale per lo sviluppo della musica occidentale a causa del suo proposito di applicare l’arte musicale ai principi dell’analisi scientifica.

Dal punto di vista letterario, il XVIII secolo fu testimone della nascita del romanzo moderno, che veniva favorita dall’identificazione empatica dei lettori con i suoi protagonisti. Fra i grandi successi del secolo si distinguono sia il romanzo sentimentale sia, soprattutto nella sua seconda metà, quello di taglio libertino. Non è strano che i grandi scrittori del secolo, come Samuel Richardson, Henry Fielding, Henry Mackenzie o Daniel Defoe in Inghilterra, o Diderot, Jean-Jacques Rousseau o Pierre Choderlos de Laclos a volte facessero incursione in entrambi i campi. Molte volte scritti sotto forma di genere epistolare, i nuovi romanzi circolarono nei grandi nuclei urbani dell’Illuminismo. In alcuni casi questi romanzi servivano come forma di denuncia sociale o di critica politica. La religiosa di Diderot, o I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, che continuavano in parte la tradizione aperta dalle Lettere persiane di Montesquieu, contenevano durissime accuse contro ciò che fu una grande ossessione dell’epoca: la denigrazione collettiva e l’ipocrisia sociale.

KENWOOD HOUSE.

Un palazzo campestre ad Hampstead, Londra, ristrutturato da Robert Adam verso la fine del XVIII secolo. In basso, La Richmond Race Cup (1764), in argento, disegnata sempre da Adam (Museum of Fine Arts, Boston).


LA STAMPA: I PRIMI QUOTIDIANI

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La stampa: i primi quotidiani Durante il XVIII secolo ci fu un incremento del numero di lettori e un cambiamento nei gusti letterari. Fecero la loro comparsa anche nuovi spazi pubblici, tanto a livello locale quanto a livello transnazionale.

G

li inizi del giornalismo sono intimamente legati all’invenzione della stampa e alla conseguente facilità di riprodurre e diffondere testi. Sebbene sia possibile incontrare precedenti remoti nelle prime civiltà urbane (in Cina, verso l’anno 618 furono divulgate diverse pubblicazioni periodiche, e nella Roma imperiale venne raggiunto un importante sviluppo delle tecniche di informazione sociale), quel che è certo è che le prime forme di giornalismo si trovano negli almanacchi semestrali o annuali che divennero popolari con l’arrivo dell’età moderna. La periodicità dell’informazione, un elemento essenziale e caratteristico del giornalismo, fu condizionata da due fattori principali. Il primo di essi fu il fatto che il centro di ricezione delle notizie si trasformò nel suo stesso mercato di diffusione o area di commercializzazione. Il secondo fu l’esistenza di una rete di corrieri, per il servizio postale, che fece sì che le pubblicazioni stampate potessero essere distribuite regolarmente ed efficacemente.

1650

Einkommende Zeitungen. Pubblicato a Lipsia da Timotheus Ritzsch, uno dei padri della stampa scritta. 1702

The Daily Courant. L’11 marzo viene pubblicato il primo quotidiano inglese, che fin dall’inizio presenta una separazione tra ciò che è informazione e la pura opinione. 1711

The Spectator. Fondato da Richard Steele e Joseph Addison, questo quotidiano inglese raggiunse le 30.000 copie, sei giorni alla settimana. 1777

Journal de Paris. Con articoli di informazione letteraria, di spettacoli ed eventi di Parigi, è il primo giornale quotidiano francese e si manterrà fino al 1840.

I primi “giornali” Fino agli inizi del XIX secolo non esistettero pubblicazioni a periodicità giornaliera e, quando fecero la loro comparsa, ciò avvenne unicamente nei nuclei urbani dotati di strati sociali con un certo livello economico e culturale. Fino ad allora erano coesistite le pagine di informazione commerciale, realizzate nei centri economici, con le gazzette di contenuto più generale. Tra i primi giornali quotidiani europei si trova la Neue Zeitung aus Hispanien und Italien apparso a Colonia nel 1534. A ordinare la pubblicazione di gazzette mensili fu l’imperatore del Sacro impero Rodolfo II nel 1597. Agli inizi del LA STAMPA, IL “QUARTO POTERE”. La moda del giorno. Il pasto del politico, caricatura apparsa in un giornale satirico francese che mostra un politico “a pane e acqua” avido di notizie da mangiare.

secolo fecero la loro comparsa altre pubblicazioni di questo tipo ad Amsterdam, Augusta, Berlino, Strasburgo, Amburgo e Vienna. Dopo di esse trovò spazio l’espansione del gazzettismo ufficiale in tutta Europa e in America. Le gazzette erano costituite fondamentalmente da elenchi di notizie selezionate sotto il controllo del regime di concessione reale: dunque si trattava, in pratica, di giornali ufficiali che monopolizzavano l’informazione politica. Benché ne esistessero altre pubblicate in precedenza, la gazzetta che ebbe maggiore rilevanza (poiché servì da modello a tutte le successive) fu la Gazette de France, che apparve per la prima volta nel 1631; nel 1643 venne pubblicata la Gazzetta di Svezia, nel 1661 la Gaceta de Madrid e nel 1663 la Gazette d’Amsterdam. Queste gazzette furono il modello di pubblicazione più diffuso in Europa e America nel corso di tutto il XVII secolo. Tuttavia, le guerre di religione, le lotte nelle Province Unite dei Paesi Bassi e i conflitti sociali della crescente borghesia attivarono rapidamente l’apparizione di un giornalismo non ufficiale che appoggiò la diffusione di nuove idee e corpi dottrinali. Il processo di ascesa sociale della borghesia a nuova classe dominante fu determinato in gran parte dal documento che riscattò la propaganda clandestina nei confronti dei mezzi di informazione ufficiali, le gazzette. Il XVIII secolo non fu testimone della diffusione universale della stampa quotidiana, bensì della crescente creazione e circolazione di nuovi giornali. Nel mese di marzo del 1702 apparve in Inghilterra The Daily Courant, il primo quotidiano della storia d’Inghilterra, un onore che si disputa con il Norwich Post, dato che il primo numero di quest’ultimo apparve quasi in contemporanea. In questo modo il giornalismo, che era iniziato come un semplice servizio di notizie stampate portate da un posto a un XVII

LA NASCITA DEI PRIMI QUOTIDIANI

VENDITORE DI GIORNALI. Durante il XVIII e parte del XIX secolo la vendita

di giornali e riviste fu sostanzialmente ambulante, come mostra questa statuetta di porcellana di Capodimonte datata 1770.

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LA STAMPA: I PRIMI QUOTIDIANI

altro tramite poste e corrieri, si trasformò in un mezzo di diffusione culturale e ideologico molto importante, sia di opinioni (politiche, sociali, religiose...) sia di notizie di qualunque natura. Ciò nonostante, l’esplosione vissuta dal Secolo dei Lumi in relazione a questo tipo di stampa produsse rapidamente la necessità di regolarne il suo utilizzo. Sebbene in un primo momento i rivoluzionari francesi fossero favorevoli alla libertà di stampa, durante il Direttorio e l’impero le autorità diedero un’importanza sempre maggiore (esattamente come aveva fatto l’Ancien Régime) al controllo effettivo del flusso dell’informazione.

Una crescita esponenziale Gli storici del XVIII secolo hanno parlato di una rivoluzione nell’uso della stampa, così come di una crescita esponenziale nel consumo della stampa periodica durante questo lasso di tempo. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’Illuminismo vide svilupparsi il traffico di notizie, al punto che persone di condizioni sociali molto diverse e che talvolta non condividevano nemmeno uno stesso spazio geografico, erano in grado di scambiarsi e condividere opinioni, novità e pareri. Questa rivoluzione non era tuttavia dovuta alle costanti innovazioni tecnologiche, bensì all’incremento dell’alfabetizzazione, che fu seguito anche dal gusto per l’informazione. Nella Prussia rurale, ad esempio, si è stimato che, mentre a metà del secolo solo il 10% della popolazione sapeva leggere, alla fine del secolo questa percentuale era aumentata al 40%. In Inghilterra, durante lo stesso periodo, la percentuale passò dal 30% al 60%. La stessa importanza dei livelli di alfabetizzazione (un risultato diretto delle riforme educative legate alle idee illuministe), fu ricoperta dalla profonda modifica che avvenne nelle abitudini, nelle forme e negli interessi relativi alla lettura. Il nuovo pubblico di lettori non si conformava più alla sola lettura dell’onnipresente Bibbia o di altri libri di natura religiosa, bensì manifestava nuovi e molto variegati interessi. La letteratura di viaggio, i romanzi (sentimentali, filosofici o libertini), così come i libri di geografia, di storia e di filosofia naturale, figurano tra i grandi generi di let120

La diffusione delle notizie La progressiva ascesa sociale della borghesia portò con sé una domanda di informazione senza ostacoli né censure. Questa si realizzò nell’Inghilterra degli inizi del XVIII secolo. Fu lì che nel 1702 venne fondato The Daily Courant con lo scopo di “fornire notizie, fornirle quotidianamente e in modo imparziale”. Una vera e propria dichiarazione di intenti che segnò il cammino di altre pubblicazioni disponibili nelle sale di lettura e nei caffè di Londra. Presto nacque anche la stampa di partito, nella quale i politici dirimevano infuocati dibattiti. E non mancavano gli editori che, come Joseph Addison con The Spectator, sognavano un giornalismo che elevasse il livello morale dei suoi lettori. Ma non era solo la borghesia a pretendere di avere notizie: anche gli operai delle fabbriche si preoccupavano di essere aggiornati su ciò che dicevano i giornali, come osservava un sorpreso Montesquieu. Non c’è dunque da stupirsi se nell’anno 1787 la stampa venisse qualificata come “quarto potere” dal deputato conservatore Edmund Burke. A destra, un’incisione del secolo XIX, basata su un’illustrazione di Howard Pyle che mostra una sala di lettura ottocentesca.

tura consumati dalla nuova borghesia. A questi si dovrebbero aggiungere quelli legati agli interessi diretti dei consumatori: mercanti, banchieri, artigiani o altri professionisti che richiedevano soprattutto libri di consultazione e testi specializzati legati in modo specifico al proprio lavoro. Ciò nondimeno la maggiore domanda era quella degli almanacchi, la pubblicazione periodica più popolare nel mondo moderno, le cui vendite continuavano a contarsi a migliaia. Per quanto riguarda i giornali e i quotidiani, lo sviluppo fu anche in questo caso esponenziale. La città di Londra, ad esempio, che nell’anno 1704 contava soltanto nove giornali, solo cinque anni più tardi disponeva già di 19 pubblicazioni. Allo stesso tempo, le accademie scientifiche videro nascere il genere della stampa erudita. Così, l’Accademia delle Scienze di Parigi iniziò a pubblicare ininterrottamente il suo Journal des savants

(la prima rivista scientifica pubblicata in Europa, apparsa il 5 gennaio 1665), e le Memorie della propria Accademia; la Royal Society di Londra, dal canto suo, pubblicava le sue Philosophical Transactions of the Royal Society (che apparve ro due mesi dopo il Journal); entrambe le riviste sono all’origine delle grandi pubblicazioni scientifiche. In tutti e due i casi, il testo includeva informazioni e “notizie” provenienti da corrispondenti e fonti straniere, così come da comunicazioni o articoli scritti e firmati da ricercatori di prim’ordine. Sebbene in questi due casi i testi venissero pubblicati rispettivamente in francese e inglese, l’Accademia delle Scienze di Berlino optò per il latino per la sua Acta Eruditorum. Creata nel 1682 a imitazione della rivista dell’Accademia delle Scienze francese, Acta Eruditorum fu la prima pubblicazione con queste caratteristiche realizzata nell’ambito germanico.


LA COMPARSA DELLA PUBBLICITÀ. La crescente diffusione

della stampa fu sfruttata dai commercianti per divulgare attraverso di essa, a pagamento, i propri prodotti e la propria attività. Nell’immagine, l’annuncio di una vendita di schiavi in un giornale statunitense del 24 luglio 1769.

Alcuni dei più grandi ordini religiosi, come la potentissima Compagnia di Gesù, potevano contare anche sui propri mezzi di diffusione e distribuzione. Il Journal de Trévoux (conosciuto anche come Mémoires de Trévoux), ad esempio, venne pubblicato regolarmente durante quasi tutto il secolo, dalla sua fondazione nell’anno 1701 fino al 1782, e in molte occasioni funse anche da palestra pubblica per discutere e combattere le opinioni che erano espresse nell’Enciclopedia di Diderot o in altre pubblicazioni filosofiche illuministe. Contemporaneamente, serviva da megafono per le opinioni di natura politica dell’ordine. Dato che si trattava di una corporazione multinazionale, il Journal permetteva la confluenza e lo scambio di informazioni tra i vari corrispondenti che vivevano molto distanti tra loro. Di natura più generale fu la pubblicazione inglese The Gentleman’s Maga-

zine; or, Trader’s Monthly Intelligencer. Fondata nel 1731, questa pubblicazione, che per la prima volta utilizzava la parola di origine francese “magazine” nel suo titolo, conteneva articoli e commenti legati all’attualità, da notizie di terre lontane a rimedi contro certe malattie. Oltre a contare sul contributo di intellettuali della levatura di Samuel Johnson, era condita con ogni tipo di informazione che potesse essere considerata di interesse, per cui oggi le sue pagine costituiscono una preziosissima fonte di informazione sui gusti e le passioni della nuova borghesia britannica. Alla fine del secolo, nel 1798, apparve una versione femminile, chiamata Lady’s Monthly Museum; or, Polite Repository of Amusement and Instruction. Entrambe le riviste erano molto legate alla progressiva diffusione dei libri di consultazione su qualunque tipo di materia, che apparvero nel corso di tutto il secolo. Tra essi fu-

rono anche particolarmente popolari quelli che mettevano le conoscenze e i saperi complessi “a disposizione di tutto il mondo”, che si trattasse della meccanica newtoniana o dell’uso del microscopio. Un particolare interesse fu risvegliato dai libri di consultazione geografica, che non erano altro che guide su città, regioni o paesi più o meno esotici. Furono inoltre pubblicate antologie di tutti i tipi, dalle ricette di medicinali ai manuali pratici sugli argomenti più vari, come la calligrafia, il ballo o la scherma. Tra tutti questi manuali, due dei più popolari furono il Le grand dictionaire historique, ou Le mélange curieux de l’histoire sacrée et profane di Louis Moréri (pubblicato nel 1674, ma che visse una grande diffusione nel XVIII secolo, tradotto in spagnolo, italiano, tedesco, inglese e olandese) e il dizionario geografico The Gazetteer’s, or Newsman’s Interpreter (1703), opera dello storico inglese Lau121


LA STAMPA: I PRIMI QUOTIDIANI

rence Echard, tradotto in francese, italiano, spagnolo e polacco. Fu proprio come conseguenza a questo interesse per i dizionari che gli stampatori della Enciclopedia si avvicinarono a Diderot con l’idea di fare, inizialmente, una traduzione francese di un testo di riferimento dell’Inghilterra del XVIII secolo: la Cyclopaedia, or an Universal Dictionary of Arts and Sciences (1728), dell’enciclopedista Ephraim Chambers.

L’opinione pubblica Durante il XVIII secolo, il “pubblico” smise di essere sinonimo di politico, vale a dire delle azioni intraprese da governanti e mandatari. Seguendo la scia delle dichiarazioni programmatiche di molti dei grandi pensatori dell’Illuminismo, lo spazio pubblico consisteva ora in un luogo di riunione e di espressione libera di idee. Si trattava di uno spazio, quantomeno in linea di principio, che 122

non prevedeva una gerarchia e che veniva inoltre condotto seguendo le regole della civiltà più che quelle della tradizione. In molte occasioni questi nuovi spazi erano configurati intorno a luoghi fisici, come teatri, accademie o salotti. In altre, tuttavia, lo spazio pubblico nasceva intorno a luoghi immaginari legati, ad esempio, alle comunità formate dai lettori di determinati testi. Tra i primi, ha particolare rilievo quello di madame Geoffrin a Parigi. Vedova di un ricco artigiano, iniziò a ricevere a casa sua scrittori e filosofi una volta alla settimana. Alle sue riunioni accorreva il fior fiore dell’Illuminismo francese. Lì si leggevano poesie, si ascoltava musica e si parlava e discuteva di avvenimenti politici. In Inghilterra un fenomeno analogo fu quello sviluppato dalle bluestocking, un gruppo di donne guidate da Elizabeth Montagu (1720-1800), organizzatrice di un famoso salone lette-

LE ABITUDINI DI LETTURA. Incisione

(1700 circa) che mostra una scena domestica a New York, dove il capofamiglia è impegnato nella lettura di un giornale. rario londinese che contò sulla presenza di personaggi del calibro di Jonathan Swift, Joshua Reynolds, Alexander Pope, Horace Walpole e Samuel Johnson, le quali partecipavano a riunioni filosofiche organizzate nelle loro case. Questo tipo di associazioni, caratterizzate dall’indipendenza nei confronti del potere politico, generava anche un senso di appartenenza a un gruppo sociale che condivideva valori e progetti, fosse anche solo in modo occasionale. I circoli letterari o artistici, ad esempio, sentivano di poter esercitare il diritto di critica, a volte protetti dagli ombrelloni di vecchie taverne, come il Caveau, un club parigino e, in maniera più generale, di caffè o coffeehouses.


I precursori: le prime testate La diffusione della stampa diede luogo, fin dagli inizi, non solo all’edizione di libri, ma anche a un’intensa attività di stampa di almanacchi, gazzette e pagine di notizie che soddisfacevano il crescente desiderio di informazione del pubblico. Poco a poco alcune di queste pubblicazioni si consolidarono e acquisirono periodicità.

POST- OCH INRIKES TIDNINGAR. Fondato nel 1645 dalla regina Cristina di Svezia e dal suo cancelliere Axel Oxenstierna come mezzo ufficiale per riferire gli annunci governativi e le notizie relative alle società e alle bancarotte, è considerato il giornale più antico ancora attivo. Dal 2007 è disponibile solo su internet.

LA GAZETTE DE FRANCE. Auspicata da Luigi XIII e dal cardinale Richelieu, vide la luce nel 1631 e si trasformò nel giornale della monarchia e in un efficace strumento di propaganda reale, sopratttutto da quando il governo di Luigi XIV ne prese il controllo. La maggior parte delle sue informazioni riguardavano le notizie politiche e militari del Paese.

THE GENTLEMAN’S MAGAZINE. Attivo dal 1731 al 1922, fu la prima pubblicazione che utilizzò il termine “magazine”. Il suo fondatore, Edward Cave, voleva fare del giornale un luogo di incontro nel quale potesse trovare spazio qualunque tema di interesse generale, dalle notizie di attualità alla critica letteraria e artistica. Samuel Johnson fu uno dei suoi collaboratori più importanti.

LA GAZETTE D’AMSTERDAM. Le notizie di interesse politico furono il segno distintivo di questa pubblicazione olandese, le cui origini risalgono alla seconda metà del XVII secolo, sebbene raggiunse la sua massima diffusione nel secolo successivo. Veniva scritta in francese: niente di strano se si considera che fu fondata da rifugiati francesi fuggiti dalle persecuzioni religiose nel loro Paese. Fu pubblicata fino al 1796.

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IL FASCINO DELL’’ESOTICO.

Il gabinetto delle porcellane del palazzo di Charlottenburg, a Berlino, dell’architetto che realizzò l’ampliamento del palazzo ai tempi di Federico I, Johann Friedrich Eosander von Göthe. Nella pagina accanto, l’HMB Endeavour in un modello commemorativo del bicentenario della scoperta della Nuova Zelanda (Museum of New Zealand Te Papa Tongarewa, Wellington). 124


L’ESPANSIONE EUROPEA La storia europea nel XVIII secolo fu chiaramente una storia globale, che interessò molte altre zone geografiche del pianeta, in particolare le terre bagnate dal Pacifico. La guerra d’indipendenza nordamericana, le riforme delle colonie spagnole e portoghesi, il traffico di schiavi e la rivoluzione di Haiti furono avvenimenti strettamente legati al desiderio di un’espansione economica e culturale.

A

lla fine del XVIII secolo i possedimenti della corona spagnola e portoghese includevano tutta l’America del sud e la maggior parte dell’America centrale. Il Portogallo, inoltre, possedeva colonie anche sulle coste dell’Africa e dell’India. Sebbene la monarchia francese avesse sofferto una riduzione dei suoi territori d’oltremare in seguito alla guerra dei Sette anni (1756-1763), conservava ancora colonie nei Caraibi, nella Guyana, negli oceani Indiano e Pacifico e nelle coste atlantiche dell’Africa. L’Inghilterra, invece, sommava alle sue colonie americane quelle dell’Asia e del Pacifico. I Danesi, che controllavano la

pesca della balena in Groenlandia e Islanda, inviavano missioni evangelizzatrici in India. I benefici economici dei possedimenti coloniali ebbero un impatto profondo e decisivo nei sistemi d’alleanza e nelle relazioni internazionali del continente europeo, sotto forma di finanziamento degli Stati e del commercio dei beni e dei servizi. Mentre diveniva palese il valore strategico, militare e commerciale dei territori d’oltreoceano, gli Europei ampliarono le loro prospettive culturali entrando in contatto con altri costumi e forme di vita che sembravano mettere in dubbio le proprie, a volte in modo radicale. In questo modo, mentre nei palazzi delle corti europee si 125


L’ESPANSIONE EUROPEA

Sin dalla fondazione della Compagnia Olandese delle Indie Orientali nell’anno 1602 fino alla sua scomparsa nel 1799, l’Europa si posizionò nel mondo in almeno tre ambiti collegati l’un all’altro: i viaggi d’esplorazione, il commercio marittimo internazionale (incluso il traffico degli schiavi) e le relazioni con le colonie. La società illuminista si servì della scoperta e dell’esplorazione di nuovi territori per riflettere sui limiti della propria identità riscoperti sotto la nuova luce dell’”esotico” e del diverso. Così, mentre le grandi città europee si riempivano di notizie, di nuovi prodotti e di oggetti di ogni tipo provenienti da tutti i mari del mondo, le relazioni commerciali fra i diversi Stati si modificarono in maniera progressiva, e sorse la necessità di stabilire nuovi vincoli coloniali o di garantire la sicurezza del commercio attraverso la creazione di potenti armate. Dall’altra parte, l’impatto della colonizzazione europea si fece sentire pesantemente nei villaggi e nell’ambiente indigeno. Non si trattava solamente dell’estinzione di alcune specie animali, come le foche in Alaska o il “dodo”, un uccello colombiforme delle isole Mauritius: molte popolazioni indigene locali furono deportate o semplicemente annientate.

La scoperta dell’esotico

UNA “CURIOSITÀ” DEI MARI DEL SUD.

Omai, il primo tahitiano a mettere piede nel continente europeo, divenne un personaggio molto ammirato dall’alta società di Londra del XVIII secolo. Tornò a Tahiti con il capitano James Cook, accompagnandolo nel suo terzo viaggio nel Pacifico. In alto, ritratto di Omai realizzato da Joshua Reynolds (Castel Howard, Regno Unito).

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creavano piccoli salotti cinesi, si moltiplicavano le traduzioni e le edizioni di testi orientali. Nel 1711, il filosofo William Jones (1746-1794), ricercatore di lingue indoeuropee, pubblicò la prima Grammatica della lingua persiana e nel 1784 fondò la Società Asiatica del Bengala, che fu la prima istituzione europea dedicata allo studio delle lingue e civiltà orientali. Durante la prima metà del secolo, l’“esotico” faceva furore sia come prodotto di consumo sia come forma di riflessione personale, a partire dall’idealizzazione di ciò che era “sconosciuto”. Nacquero così le Lettere persiane di Montesquieu o I gioielli indiscreti di Diderot. Il tahitiano Omai, che era giunto in Europa con la seconda spedizione del capitano, esploratore e cartografo inglese James Cook (1728-1779), passeggiava come se rappresentasse una “curiosità” tra i circoli di Londra. Il pittore Joshua Reynolds fece di Omai un celebre ritratto (presentato per la prima volta alla Royal Academy nel 1776) che sarebbe diventato una delle icone dell’arte del Secolo dei Lumi.

La scoperta di Tahiti da parte del capitano Samuel Wallis nel 1767 e i successivi viaggi del comandante ed esploratore francese Louis-Antoine de Bougainville (1729-1811) e del capitano James Cook ebbero l’effetto di generare sulla coscienza europea il sentimento di un paradiso recuperato. Troviamo un esempio di questo sentimento con Bougainville, che nel 1768 scrisse una relazione riguardo allo stile di vita degli abitanti di quelle isole, che gli Europei considerarono “fortunate”, perché nelle isole non esistevano la proprietà privata e nemmeno i tabù sessuali che imperavano nel Vecchio Continente. Lontano dalle restrizioni morali imposte sia dalla tradizione sia dalla Chiesa, il luogo sembrava un paradiso perduto in cui gli esseri umani si trovavano in uno stato naturale originario. Per gli esploratori e i primi viaggiatori Tahiti rappresentava la Nuova Utopia (così la battezzò il dottor Philibert Commerson, un naturalista francese compagno di Bougainville nel suo viaggio di circumnavigazione del 1766-1769), la Nuova Arcadia (secondo Joseph Banks, naturalista del primo viaggio di Cook) o, come la chiamò lo stesso Bougainville, la Nuova Citera, un’isola i cui abitanti «non conoscono altra divinità che l’amore». Nel 1772, seguendo la vena d’ispirazione del Discorso sulle scienze e le arti e del Discorso sull’origine e i fondamenti della


disuguaglianza fra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau, Denis Diderot pubblicò il suo Supplemento al viaggio di Bouganville, in cui fece una revisione del buon selvaggio rousseauiano descrivendo i nativi del Pacifico come gli esseri più felici di tutto il pianeta. Il suo mondo esotico costituiva l’altra faccia della moneta della società europea, la cui evoluzione aveva prodotto un collasso dei costumi e un allontanamento progressivo dalla morale naturale. Anche quando i viaggi posteriori, specialmente quelli di Cook (che fu assassinato e successivamente divorato dai nativi delle Hawaii), offriranno una visione meno idealizzata delle condizioni di vita del nuovo paradiso del Pacifico, sia per Bougainville sia per Cook la conoscenza di altri popoli doveva essere affrontata prendendo seriamente in considerazione le loro circostanze socio-economiche e culturali per cercare di chiarire la questione della contrapposizione fra la loro condotta e la razionalità delle condotte sociali proprie delle città europee. Diderot, per esempio, indaga sulle condotte ses-

suali dei tahitiani per denunciare i fondamenti dell’ordine sociale su cui poggia e da cui è governato il «regno della calunnia». Anche i primi volumi dell’Enciclopedia contenevano, nascosti in luoghi teoricamente innocenti, durissimi riferimenti alla perdita dello stato naturale che condannava i cittadini europei a condurre una vita falsa rispetto ai loro desideri e alle loro tendenze naturali. Alla voce “Abianos”, per esempio, il filosofo scriveva che si trattava di un popolo sciita dalla straordinaria purezza di costumi, che non annoverava fra i suoi membri poeti, filosofi e oratori «senza che però fossero meno onesti, coraggiosi o saggi». In un’altra occasione si servì dei beduini per spiegare che «si deve supporre che, non avendo né medici né giureconsulti non abbiano altre leggi che quelle dell’equità naturale né altre malattie che la vecchiaia». Quest’interesse per l’esotico, legato alla colonizzazione delle terre lontane e allo sfruttamento della natura e degli abitanti dei tropici ha origini distinte: in primo luogo, un interesse per il “diverso” (e non semplicemente per il nuovo), in se-

IL PREZZO DELLA COLONIZZAZIONE.

Le popolazioni e l’ambiente dei nuovi mondi subirono l’impatto negativo della colonizzazione europea. In alto, Paesaggio con uccelli (1628), olio di Roelant Savery; a destra, in basso, si può notare un “dodo”, un uccello non adatto al volo, endemico dell’isola Mauritius, che si estinse verso il 1700, un secolo dopo la sua scoperta, a causa dell’attività predatrice umana (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

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L’ESPANSIONE EUROPEA

IL FASCINO DELL’HAREM. Gli harem

orientali (simbolo e rappresentazione di una cultura radicalmente diversa), furono per gli europei illuministi del XVIII secolo un forte motivo d’attrazione. In alto, Harem con turchi che bevono il caffè (1760) di Christian Wilhelm Ernst Dietrich (collezione privata).

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condo luogo l’arrivo in Europa delle notizie delle scoperte geografiche; infine, la stessa definizione dell’Europa. Le vecchie idee per cui l’Europa poteva definirsi unitariamente in termini di “cristianità”, vennero gradualmente meno. Con il progressivo declino del potere ottomano, a partire dall’ultima decade del XVII secolo, l’idea di un’Europa cristiana, baluardo contro l’Islam, svanì. Infine, anche il mutevole ambiente religioso generava problemi rispetto all’atteggiamento che si doveva avere nei confronti dell’esotico. L’Enciclopedia associava la parola “esotico”, usata esclusivamente come aggettivo, agli oggetti sconosciuti della fauna e della flora. Mai prima del Romanticismo si era parlato di ciò che oggi chiamiamo “esotismo”, ma solamente di oggetti o di costumi esotici. Gli elefanti o le giraffe che Luigi XIV faceva passeggiare per Versailles, possedevano la doppia caratteristica di avere un portamento straordinario e di simbolizzare il potere dei loro proprietari. Così come alcuni altri beni di consumo, gli oggetti esotici divennero dei chiari segni di ostentazione o, addirittura, strumenti diplomatici.

L’esotico si confonde anche con l’esplosione editoriale di un antico genere narrativo: la letteratura di viaggio. L’“oscenità” di questa letteratura non derivava solamente dai suoi vari riferimenti alla sessualità, ma anche dall’ubicazione delle scene in luoghi segreti e dalla mancanza di pudore nell’osservare senza essere visto o senza essere coinvolto nella scena. L’harem, per esempio, fu trattato come un oggetto esotico privilegiato in tre delle grandi opere prodotte dall’Illuminismo sull’Oriente: le Lettere persiane di Montesquieu, la traduzione francese de Le mille e una notte di Antoine Galland e I gioielli indiscreti di Diderot. In tutti e tre i casi, la donna è un oggetto di desiderio legato al lusso, all’opulenza, e, curiosamente, a una filosofia sperimentale di natura sensualista: «Ci presentiamo a te, Usbeck, dopo aver appurato quanti fronzoli e ornamenti potesse offrire l’immaginazione, affinché contempli soddisfatto i portenti della nostra arte», si diceva nelle Lettere persiane. Il libro di viaggi, reali o immaginari, è la contropartita dei libri di segreti che erano fioriti durante il Rinascimento come parte di una cultura erudita destinata alla difesa della verità. L’Oriente restava rappresentato ne Le six voyages de Jean-Baptiste Tavernier, écuyer baron d’Aubonne, qu’il a fait en Turquie, en Perse, et aux Indes, dell’avventuriere e commerciante Jean-Baptiste Tavernier, (1605-1689) o ne i Voyages de monsieur le chevalier Chardin en Perse et autres lieux de l’Orient, dello scrittore e viaggiatore Jean Chardin (1643-1713). Dal 1665 fino alla fine del XVIII secolo l’Illuminismo produsse una media di quattro grandi libri di viaggi all’anno. Alcuni di essi, come quello del viaggio del viceammiraglio John Byron (1723-1786), intitolato Il naufragio della fregata “Wager”, includevano ancora la descrizione di esseri immaginari, come i giganti patagonici. Questa connessione fra la conoscenza e la letteratura di viaggio produsse a sua volta nuove ambivalenze: da una parte l’esotismo, mettendo in discussione la normalità, la moralità o la religione, mise in dubbio la stessa idea d’umanità. La differenza geografica divenne un sinonimo di trasgressione dell’ordine sociale e morale. Il mondo estraneo alla civiltà europea si trasformò in un luogo di convinzioni eretiche e pratiche corrotte selvagge. «Avevamo navigato verso un’intera nazione di negri che si sarebbero sicuramente avvicinati con le loro canoe per circondarci e distruggerci, in modo che non potevamo mettere piede sulla riva senza essere divorati da bestie selvagge o da selvaggi dall’aspetto umano, ancora più selvaggi delle bestie stesse» diceva Robinson Crusoe, il personaggio di Defoe, di fronte alle coste della Guinea.


L’INGANNEVOLE PARADISO DEI MARI DEL SUD

S

e già nel suo primo viaggio Colombo aveva lasciato testimonianza della bontà naturale dei nativi, fu Rousseau che fece dell’idea del buon selvaggio uno degli argomenti del XVIII secolo. I grandi viaggi di James Cook e Louis Antoine de Bougainville sembrarono dargli ragione: essi infatti descrivevano incontri con indigeni affabili che non conoscevano la proprietà privata, quella che l’autore dell’Emilio considerava il principio di tutti i mali. Bougainville, per esempio, comparava Tahiti al giardino dell’Eden: «Era ovunque molto presente l’ospitalità, così come il riposo, una dolce allegria e tutti gli aspetti della felicità». Sebbene si trattasse di un’idealizzazione che sorvolava sull’esistenza di società fortemente gerarchizzate che a volte ricevettero i viaggiatori con ostilità, il mito attecchì e si mantenne in vigore per tutto il XIX secolo. In basso, HMS Resolution and Discovery in Tahiti, di John Cleveley the Younger (National Maritime Museum, Londra).

NUOVI ORIZZONTI Grazie alle spedizioni che solcavano gli oceani, nel XVIII secolo furono esplorati ignoti arcipelaghi del Pacifico, si riuscì a delimitare una mappa definitiva dei continenti e furono scoperte nuove specie botaniche e animali, oltre a razze, culture e relazioni che ampliarono la concezione del mondo. In alto, cartina delle isole Sandwich dell’atlante di Giovanni Maria Cassini (Roma 1789), realizzata a partire dalla scoperte di Cook; a destra, ottante di Bougainville (Museo della Marina, Parigi).

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L’ESPANSIONE EUROPEA

Il traffico di schiavi nel XVIII secolo: il grande affare dell’Europa

Durante tutto il XVIII secolo il commercio di schiavi africani continuò a essere un affare incredibilmente lucrativo, anche più dei secoli precedenti, dato che la Gran Bretagna, la Francia e l’Olanda espansero le economie delle piantagioni delle loro colonie in America del Nord e nei Caraibi. Nel XVIII secolo si produsse un cambiamento di supremazia nel continente americano. Le due grandi potenze della zona, la Spagna e il Portogallo, rimasero in secondo piano rispetto all’impulso di Gran Bretagna, Francia e Olanda, che presto crearono aziende agricole in cui si coltivavano prodotti molto richiesti, come lo zucchero, il tabacco, il cotone, il caffè o il cacao. La mano d’opera fu portata dall’Africa nello stesso terribile modo del secolo precedente: infatti, dei milioni di africani che furono sequestrati dalle loro case si calcola che una quarta parte non arrivò a destinazione. Anche così, l’affare generò un lucroso commercio triangolare in un’Europa che esportava prodotti manufatti, trasportava schiavi dall’Africa all’America e riceveva il frutto delle piantagioni. Ciò nonostante, la diffusione delle idee dell’Illuminismo e in particolare dell’uguaglianza fra gli uomini generò una crescente opposizione al commercio di esseri umani. Nell’immagine, Europa sostenuta dall’Africa e dall’America, illustrazione allegorica di William Blake per il libro Narrative of a five year’s expedition, against the revolted negroes of Surinam, in Guiana, di J.G. Stedman (British Library, Londra).

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All’incirca trent’anni dopo si pubblicava nell’Accademia delle Scienze di Parigi la relazione del capitano della nave L’Amazone, al suo ritorno dal Senegal, che descriveva un animale avvistato sulle coste del citato paese che fu battezzato col nome di Cani-apro-lupo-vulpes, per la sua somiglianza con gli animali che componevano questo strano nome. Con l’avanzare del secolo l’interesse per l’esotico cambiò ubicazione geografica, spostandosi da Oriente verso il Pacifico e concentrandosi in seguito nel continente americano. Per molti Europei, la guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti non rappresentò solamente e principalmente una contesa fra le colonie e la madrepatria ma rese anche possibile lo sviluppo di una società lontana, almeno idealmente, dalle strutture e dalle convenzioni dell’Ancien Régime. Allo stesso tempo iniziarono ad affiorare le voci che mettevano in discussione lo sfruttamento ad ogni costo delle risorse e delle terre d’oltremare. Per Rousseau, per esempio, la colonizzazione era una crudele forma di perpetuazione della disuguaglianza fra gli uomini. In modo contenuto, l’abate Guillame-Thomas Raynal (17131796), nella sua Storia filosofica e politica degli insediamenti e del commercio degli europei nelle due Indie (1770), sosteneva che il «diritto razionale» della colonizzazione trovava i suoi limiti nei diritti dei popoli indigeni e nella loro superiore qualità morale. Questa stessa ambivalenza morale si manifestò, per esempio, nei confronti del traffico degli schiavi, perché sebbene Raynal considerasse la compravendita di esseri umani un’attività del tutto crudele, totalmente inadeguata per un mondo come quello illuminista, sosteneva anche che non si dovesse concedere la libertà agli schiavi, che non avrebbero saputo come utilizzarla e che avrebbero potuto divenire, di conseguenza, un pericolo sociale.

La rivoluzione degli schiavi Gli storici hanno calcolato che, a partire dall’inizio del XVI secolo fino alle ultime decadi del XIX secolo, circa nove milioni di persone furono trasportate in qualità di schiavi dall’Africa fino all’America. Nel XVIII secolo, quando il traffico raggiunse il suo punto culminante, circa sette milioni di persone, uomini, donne e bambini, furono sequestrati nelle coste del golfo di Guinea, in Nigeria, Ghana, Zaire, nel bacino del fiume Congo e dell’Angola, e venduti come schiavi. Le navi salpavano dai porti europei cariche di armi e mercanzie dirette verso i porti dell’Africa occidentale, specialmente del Benin. Lì le scambiavano con gli schiavi che trasportavano in seguito attraverso l’Atlantico e vendevano nei porti dei


Caraibi. Infine, le navi ritornavano in Europa con le stive piene di prodotti americani, come zucchero, tabacco o caffè. Sebbene le voci contrarie al traffico di schiavi fossero presenti fin dagli inizi del secolo, sia i reali quanto i mercanti, i banchieri e i filosofi, addussero diverse ragioni per giustificare il loro essere in favore della schiavitù o, perlomeno, per considerare la schiavitù dei popoli africani necessaria per liberarli da altri pericoli e miserie. Direttamente o indirettamente il sequestro, la vendita o lo sfruttamento di questi africani offrivano ricchi benefici alle casse degli Stati europei, così come alle grandi compagnie commerciali. Non si trattava, pertanto, di un tema di poca importanza. Il trattato di Utrecht (1715) concesse alla Gran Bretagna il monopolio sul traffico di schiavi (il cosiddetto “diritto di asiento”), e la corona britannica lo rivendette alla South Sea Company (Compagnia dei Mari del Sud), che annoverava fra i suoi azionisti il fior fiore imprenditoriale e intellettuale dell’epoca. Oltre ai reali e ai parlamentari, c’erano anche intellettuali del calibro dello scrit-

tore e giornalista Daniel Defoe, scienziati come Isaac Newton o poeti come Alexander Pope. Per più di trent’anni la compagnia trasportò più di quattromila schiavi all’anno dalle coste africane all’America. Fra il 1730 e 1740 le compagnie inglesi vendettero circa settantamila schiavi, mentre la Compagnia Francese delle Indie Occidentali ne sequestrò e trasportò oltre centomila alle sue colonie. Le navi “negriere” salpavano dai porti francesi di Nantes, Bordeaux, Saint-Malo e La Rochelle; da Copenaghen in Danimarca e da Londra, Bristol e Liverpool in Inghilterra. Dal punto di vista coloniale, la Francia e l’Inghilterra mantennero un conflitto aperto per tutto il secolo: quando finì la guerra dei Sette anni, nel 1763, la parte occidentale dell’isola de La Hispaniola (l’isola che attualmente ospita Haiti e Santo Domingo), desiderata dagli Spagnoli e dai Britannici, rimase definitivamente in possesso dei Francesi (la Spagna gliel’aveva già ceduta nel 1697 in virtù del trattato di Ryswick). Si calcola che verso la metà del XVIII secolo nelle Antille francesi ci fossero più di 300.000 schiavi.

LA DIFESA DELL’INDIPENDENZA.

Costruita agli inizi del XIX secolo per volere

di Henri Christophe, la Citadelle Laferrière è la più grande fortezza dei Caraibi ed era destinata a difendere il nord di Haiti nell’eventualità di un ritorno dei Francesi. La rivolta haitiana degli schiavi (1791-1804), guidata da uomini come Toussaint Louverture, Jean-Jacques Dessalines e Henri Christophe, ottenne l’abolizione della schiavitù e la proclamazione dell’indipendenza della vecchia colonia di Santo Domingo (le attuali Haiti e Santo Domingo). 131


L’ESPANSIONE EUROPEA

DA SCHIAVO A GOVERNATORE. Busto

in bronzo di Toussaint Louverture nel castello di Joux, in Francia, sulla frontiera svizzera, dove Napoleone Bonaparte lo incarcerò fino alla sua morte il 6 aprile del 1803. Il suo principale lascito fu l’abolizione della schiavitù di Santo Domingo, il primo paese d’America a ottenerla, e la sua lotta contro l’oppressione coloniale, che diede luogo alla leggenda di “Spartaco nero”.

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Gli effetti economici più immediati dell’affare della schiavitù si lasciavano sentire profondamente nelle città portuarie europee, dove molte famiglie riuscirono ad arricchirsi grazie al traffico di esseri umani; ma le sue conseguenze economiche penetrarono anche strati più profondi ed interessarono inoltre i sistemi bancari e creditizi, oltre al mercato dell’esportazione e dell’importazione. Inoltre, incisero in maniera ugualmente importante su un fenomeno culturale del tutto nuovo, ossia l’aspirazione al “lusso”, una parola che fu inventata durante l’Illuminismo come frutto dell’impareggiabile aumento del traffico di oggetti che, provenienti dal Nuovo Continente, arrivavano in Europa a bordo delle stesse navi che servivano per trasportare esseri umani dalle coste dell’Africa. Nel 1791 ebbe luogo una ribellione a Santo Domingo (Haiti), isola considerata dai Francesi come la colonia più ricca del mondo. La capitale Cap-Français (oggi Cap-Haïtien, o Cabo Haitiano), riuniva probabilmente il maggior mercato di gioielli dell’America coloniale, e parte della

sua ricchezza proveniva dalle attività commerciali con la madrepatria. Inoltre, circa il 40% dello zucchero e la metà del caffè che si consumavano in Europa provenivano proprio dall’isola di Santo Domingo. Infine, bisognava considerare il fatto che il valore combinato degli schiavi che vivevano nell’isola rappresentava il triplo del valore di tutti gli edifici e le piantagioni della stessa. Sebbene la situazione commerciale non fosse negativa, i debiti contratti dalle élite commerciali e dai grandi proprietari terrieri con i banchieri e i commercianti francesi erano sempre più considerevoli. La crescente insolvenza degli amministratori dell’isola andava di pari passo con le aspirazioni d’indipendenza commerciale e fiscale dalla metropoli, che, soprattutto a partire dalla guerra dei Sette anni aveva cercato, senza riuscirvi, di far pagare a Santo Domingo delle tasse per la sua difesa. Le restrizioni commerciali imposte da Parigi, così come l’insaziabile pressione fiscale, risvegliarono un crescente sentimento nazionalista, basato sul desiderio di ottenere una maggiore libertà di commercio, soprattutto con il Nord America, così come l’odio verso i proprietari delle aziende agricole dell’isola che, però, vivevano comodamente in Francia. Fra il 1768 e il 1769, i proprietari terrieri locali, sia bianchi che creoli, in collaborazione con i lavoratori bianchi e mulatti, avevano già capeggiato la prima rivolta antifrancese: una prima rivoluzione che esigeva indipendenza e autogoverno. I suoi echi si sentivano ancora nel 1789, quando l’élite coloniale dell’isola, composta dai grands blancs (i grandi proprietari terrieri e i commercianti), ritenne che la Rivoluzione francese rappresentasse una chiara opportunità per ottenere diritti di autogoverno, e nel loro caso, una maggiore libertà di commercio. Dall’altra parte dell’Atlantico, tuttavia, i responsabili della colonia consideravano che alcuni dei documenti prodotti dalla Convenzione Nazionale, specialmente la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, non dovessero arrivare alle orecchie dei neri liberi e, soprattutto, degli schiavi neri. Poco dopo l’intervento all’Assemblea nazionale (avvenuto nel maggio 1791) di Jacques Pierre Brissot, fondatore della Società degli Amici dei Neri, che proponeva l’abolizione dello schiavismo, scoppiò una rivolta di schiavi nel nord di Santo Domingo. Il 22 agosto del 1791, un uomo a cavallo, inizialmente considerato matto, percorse le strade di Cap-Français annunciando che gli schiavi stavano assassinando i suoi fratelli e bruciando le sue terre. Mentre nella città la milizia si organizzava per reprimere la rivolta, gli schiavi e i neri liberi esigevano il compimento


della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, che, nonostante tutte le precauzioni, era giunta a conoscenza della popolazione nera. Verso la fine di settembre erano già stati uccisi circa mille Francesi ed erano state distrutte circa 1.200 piantagioni. La rivolta fu guidata da due ex schiavi: Jean-François e Georges Biassou. Gli schiavi liberi collaborarono inizialmente con i bianchi per soffocare la rivolta, ma le notizie che giunsero dalla Francia nel 1792, che comunicavano l’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale di una legge che concedeva ai neri gli stessi diritti civili dei bianchi, fecero sì che le loro strade si dividessero. Nel febbraio del 1794, Louis-Pierre Dufay, un funzionario giacobino a Santo Domingo, pronunciò un discorso presso la Convenzione Nazionale in cui, citando gli stessi schiavi, richiedeva l’abolizione completa della schiavitù in tutte le colonie francesi. Quando la Convenzione Nazionale accettò la petizione, circa 700.000 schiavi, contando anche donne e bambini, furono liberati, mentre gli antichi proprietari non avevano diritto ad alcun risarcimento.

Nel frattempo a Santo Domingo Toussaint Louverture, un ex-schiavo che aveva ottenuto la libertà all’età di trent’anni e che era divenuto il primo ufficiale dell’esercito, avrebbe dato una nuova svolta alla rivoluzione. Sulla scia di JeanFrançois, di Biassou e di altri leader neri, Toussaint Louverture riuscì a riunire un esercito indipendente composto da migliaia di exschiavi. Questa nuova milizia ricevette appoggio sia dagli Spagnoli, che controllavano metà dell’isola, sia dagli Inglesi, che volevano sottrarre Santo Domingo alla Francia. Nei primi anni del XIX secolo, un poderoso esercito guidato dal generale Rochambeau giustiziò circa ventimila ribelli, tra neri e mulatti.

RIBELLIONI CONTRO LA CORONA. Il 9 luglio del

1776, dopo la lettura pubblica della Dichiarazione d’Indipendenza di George Washington ai cittadini e alle loro truppe, la moltitudine demolì a New York la statua equestre di Giorgio III. In alto, la scena in un olio (1859 circa) di Johannes Adam Simon Oertel (New-York Historical Society, New York).

L’indipendenza degli Stati Uniti Il 1° luglio del 1776, rappresentanti delle tredici colonie britanniche d’America si riunirono a Filadelfia per discutere la loro possibile indipendenza dalla corona britannica. La loro guerra contro gli eserciti di Giorgio III era durata tutto l’anno, e, a pochi chilometri da dove erano riu133


L’ESPANSIONE EUROPEA

Il Boston Tea Party, la scintilla che scatenò l’incendio Le ingenti perdite economiche che la guerra dei Sette anni causò all’Inghilterra erano legate al movimento d’indipendenza delle sue colonie americane. Le nuove tasse provocarono lo scontento dei coloni, che si sentivano maltrattati da una madrepatria che avevano portato alla vittoria contribuendo economicamente e militarmente.

Nel 1764, il governo britannico approvò lo Sugar Act, per cui si tassava non solo lo zucchero, ma anche altri prodotti considerati di lusso come il vino, il caffè o la seta. Fu la prima di una serie di misure impositive con cui la corona cercò di rimettere in sesto le sue malridotte casse e finanziare l’annessione dei territori americani della Spagna e della Francia, che il trattato di Parigi aveva attribuito all’Inghilterra. Tuttavia, l’unica cosa che riuscì ad ottenere con questa misura fu sollevare l’animo dei coloni, sempre più scontenti della dipendenza delle tredici colonie dalla madrepatria. Sorsero così associazioni di commercianti che non solo si rifiutavano di pagare le imposte, ma che si opponevano anche alle importazioni. L’incidente più grave avvenne il 16 dicembre del 1773 in risposta all’approvazione della legge del Tè, che applicava una nuova imposta su questa bevanda, sebbene dispensasse dal pagamento della stessa la Compagnia delle Indie Orientali. Quel giorno, un gruppo di coloni travestiti da indiani mohawk si diresse al porto di Boston, entrò nelle tre navi della compagnia e lanciò in mare il contenuto delle 343 casse di tè, circa 45 tonnellate. Le rappresaglie del governo riuscirono solamente a esacerbare ancora più gli animi, fino ad arrivare, nell’aprile del 1775, alla guerra. In alto, incisione del 1807 che rappresenta il Boston Tea Party; a destra, foglie di tè di quella rivolta, conservate in una bottiglia (Massachusetts Historical Society, Boston).

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niti, una forza britannica di 30.000 soldati si preparava a dare inizio all’assalto a New York. La risoluzione dell’Assemblea, approvata il 4 luglio, costituiva un’autentica dichiarazione d’indipendenza: «Riteniamo che queste verità siano per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, e fra questi diritti si trovano la vita, la libertà, e la ricerca della felicità». Così, come affermava Benjamin Franklin (il delegato della Pennsylvania e uno dei grandi illuminati americani), o le tredici colonie restavano unite in ciò che poteva considerarsi il seme di una futura nazione, o gli Inglesi li avrebbero impiccati tutti, uno per uno. Le colonie, che si erano estese ed erano cresciute dai primi insediamenti dell’inizio del secolo precedente, avevano sviluppato un sistema primordiale di democrazia. Ogni città aveva un consiglio (council) e ognuna delle province possedeva un’assemblea di membri eletti con capacità legislativa. Sebbene queste assemblee fossero sottomesse, per lo meno teoricamente, al governatore britannico, il potere della corona era molto limitato in qualsiasi tema domestico. Malgrado i suoi tentativi di stabilire un monopolio sui prodotti americani che si sarebbero potuti commercializzare in Europa solo tramite intermediari inglesi, la corona quasi non poteva interferire sugli interessi commerciali e le relazioni internazionali delle colonie. Ancora più complicati risultarono i loro tentativi di stabilire un nuovo sistema fiscale. Dopo la costosa guerra dei Sette anni (1756-1763), la corona cercò di finanziare molte delle spese generate dal conflitto con le imposte delle colonie. In realtà le sue conquiste territoriali (il Canada, sottratto ai Francesi, e la Florida, agli Spagnoli), non aggiungevano vera liquidità alle casse nazionali. In seguito alla firma del Trattato di Parigi nell’anno 1763, iniziarono a susseguirsi le leggi che regolavano l’insieme delle nuove tasse destinate ai territori d’oltremare. Nel 1764 fu approvato il Sugar Act, una tassa legata alla produzione e al commercio del rum. Benjamin Franklin, consapevole che la nuova legislazione fosse unicamente volta all’aumento della pressione fiscale per arricchire le casse della corona britannica, realizzò un viaggio a Londra, con l’idea di proporre la creazione di una banca americana per mezzo della quale gli interessi generati dai risparmi dei coloni potessero essere destinati a pagare la loro protezione, che era la scusa principale che utilizzava la metropoli per incrementare le sue tasse. La sua proposta non fu ascoltata, e nel 1764 fu imposta lo Stamp Act (legge sul bollo), grazie a cui si stabi-


liva un tributo speciale per tassare qualsiasi tipo di documento, e, di conseguenza, qualsiasi forma di transazione commerciale. Le proteste delle colonie del Massachusetts e della Virginia riguardavano due fatti: da un lato si discuteva sulla necessità delle nuove tasse, dall’altro si metteva in dubbio l’aberrazione politica che supponeva la dipendenza da un parlamento che, a cinquemila chilometri di distanza, poteva prendere delle decisioni su cittadini che non erano rappresentati alla camera. Al grido di «No taxation without representation» (Niente tasse senza rappresentazione) si produssero le prime manifestazioni e i primi conflitti pubblici nelle strade di New York, Newport e Filadelfia. A Boston la moltitudine appese a un albero, in seguito chiamato “della libertà”, l’effigie del rappresentante britannico incaricato di far valere la legge e riscuotere le tasse. In un secondo viaggio a Londra, nel febbraio 1766, Franklin comunicò al parlamento britannico che qualsiasi tentativo di rendere effettivo lo Stamp Act senza garantire, allo stesso tempo, la

presenza di rappresentanti delle colonie negli organi decisionali, avrebbe inesorabilmente condotto alla ribellione. Nel maggio 1769, l’Assemblea della Virginia, conosciuta come House of Burgesses (Camera dei Cittadini), dichiarava solennemente che i suoi coloni avrebbero pagato le tasse solamente ai loro rappresentanti. Allo stesso tempo, iniziarono a boicottare i prodotti inglesi. Il 5 marzo ebbe luogo il primo “massacro di Boston”, un nome un po’ esagerato (vi furono solo tre morti fra la moltitudine) per mano dei soldati britannici, che, tuttavia, rifletteva il crescente clima d’animosità fra le parti. I cambi di governo in Inghilterra, con l’arrivo di lord North, produssero una riduzione del numero delle tasse, ma una minore flessibilità riguardo ciò che si doveva pagare per il tè. In realtà questa nuova legge concedeva condizioni di monopolio alla Compagnia Britannica delle Indie Orientali, liberandola dal pagamento delle tasse in Inghilterra, che sarebbero però state pagate dei coloni americani. Ad ogni modo, stabiliva un precedente, dato che il tè poteva essere sostituito

UN MOMENTO STORICO. La notte fra il

25 e il 26 dicembre del 1776 l’allora generale George Washington attraversò il gelato fiume Delaware con una brillante manovra che gli procurò la vittoria nella decisiva battaglia di Trenton. In alto, Washington attraversa il fiume Delaware, olio (1851) di Emanuel Gottlieb Leutze (Metropolitan Museum of Art, New York).

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L’ESPANSIONE EUROPEA

La firma della Dichiarazione d’Indipendenza nordamericana Il 4 luglio 1776 il congresso di Filadelfia, formato da rappresentanti delle tredici colonie inglesi dell’America del nord, proclamò formalmente l’indipendenza dalla corona britannica. Ciò nonostante, avrebbero dovuto passare altri sette anni prima che quest’indipendenza fosse riconosciuta dall’Inghilterra nel trattato di Parigi. L’atto della Dichiarazione d’Indipendenza delle colonie nordamericane fu principalmente opera di Thomas Jefferson, che si basò sulla Dichiarazione dei Diritti della Virginia, firmata un mese prima. Il testo approvato riconosceva il diritto all’insurrezione contro l’ingiustizia manifesta del governo, e raccoglieva anche alcune idee dei pensatori più avanzati del tempo, le stesse che pochi anni più tardi avrebbe ripreso la Rivoluzione francese. Fra di queste, «che tutti gli uomini sono stati creati uguali» e godono di alcuni diritti inalienabili, fra cui «la vita, la libertà e la ricerca della felicità», per concludere poi affermando: «Queste Colonie Unite sono, e devono esserlo per diritto, Stati Liberi e Indipendenti, libere da ogni lealtà alla corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e la Gran Bretagna resta e deve restare totalmente sciolto». Fra i 56 congressisti presenti si trovavano John Adams, Benjamin Franklin e George Washington. A destra, il Comitato dei Cinque in atto di consegna della Dichiarazione d’Indipendenza, rappresentato nell’olio di John Trumbull (Campidoglio, Washington DC); in basso, il testo della Dichiarazione (National Archives and Records Administration, Washington DC).

da qualsiasi altro prodotto. Il rifiuto dei coloni di Boston a scaricare la merce, seguito dal suo sabotaggio, con il tè che galleggiava sulle acque del porto, fece sì che il parlamento britannico stabilisse delle leggi, chiamate in Inghilterra Coercitive Acts (Leggi Coercitive) e in America Intolerable Acts (Leggi Intollerabili), che obbligavano a chiudere il porto di Boston e sopprimevano i poteri dell’Assemblea del Massachusetts come conseguenza del suo comportamento durante il Boston Tea Party (ricevimento del tè di Boston). L’assemblea rispose alla provocazione convocando una riunione congiunta, a Filadelfia, dell’assemblea delle tredici province. In questa riunione, alla quale presenziarono rappresentanti di tutte le colonie tranne la Georgia, si decise di istituire l’Associazione Continentale, che fu dedicata al boicottaggio dei prodotti inglesi. Dal punto di vista sociale, il territorio cominciava a dividersi fra i ribelli, che si facevano chiamare “patrioti”, e coloro che sostenevano l’obbedienza alle regole del parlamento 136

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britannico, i loyalist (leali) o tories, all’epoca il segno politico distintivo del parlamento. Nel 1755 la guerra, che durerà sei anni, divenne realtà.

Verso l’indipendenza La prima azione militare avvenne a Lexington, a circa venti chilometri da Boston. Il generale Thomas Gage, che aveva ricevuto istruzioni dal parlamento britannico per fare rispettare la legge, aveva inviato 700 soldati della fanteria con l’intenzione di impossessarsi delle riserve e delle munizioni che i patrioti avevano ricevuto a Concord. Andando a incrociare direttamente il proprio destino, gli Inglesi furono ricevuti da circa settanta volontari della milizia ribelle, guidata da John Parker, un agricoltore divenuto capitano delle milizie. Anche se teoricamente nessuna delle autorità militari presenti sul terreno aveva dato l’ordine di sparare, sia gli uni che gli altri erano convinti che la guerra potesse iniziare in quel luogo e in quel momento, come effettivamente poi avvenne. Durante la sparatoria furono uccisi almeno dieci miliziani e altrettanti risulta-


1 JOHN ADAMS. Fu uno dei promotori dell’unione delle tredici colonie e della candidatura di George Washington a comandante in capo. Nel congresso di Filadelfia rappresentò il Massachusetts. Nel 1789 divenne il primo vicepresidente statunitense e nel 1797 il suo secondo presidente, incarico che assunse fino al 1801. 2 ROGER SHERMAN. Avvocato di formazione, ebbe

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l’incarico di elaborare la Dichiarazione d’Indipendenza, nel suo caso in rappresentanza del Connecticut. Non solo firmò questo documento, ma anche altri tre testi fondamentali per il Paese: gli articoli dell’Associazione, quelli della Confederazione e della Costituzione.

3 ROBERT R. LIVINGSTONE. Partecipò al congresso provinciale di New York, a Filadelfia. Membro del Comitato dei Cinque, fu ritirato dal suo Stato prima che potesse firmare la versione finale della Dichiarazione d’Indipendenza. Fra il 1781 e il 1783 fu ministro degli esteri.

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4 THOMAS JEFFERSON. Fu incaricato di stendere la prima versione della dichiarazione. Nel 1801 divenne il terzo presidente degli Stati Uniti, incarico che occupò fino al 1809. La sottrazione della Louisiana alla Francia, avvenuto durante il suo mandato permise di duplicare la superficie del Paese.

5 BENJAMIN FRANKLIN. Politico, scienziato e inventore, partecipò al congresso di Filadelfia in rappresentanza della Pennsylvania. La sua abilità per la diplomazia lo portò in Francia a cercare appoggio per la lotta contro l’Inghilterra. Nel 1783 fu uno dei firmatari del trattato di Parigi, che confermò l’indipendenza.

rono feriti; tra loro figurava anche lo stesso Parker, che morì qualche giorno dopo. La colonna britannica si incamminò allora inizialmente verso Concord, e più tardi arrivò fino a Boston. Negli scontri successivi morirono 73 soldati inglesi e 49 americani. Allo stesso tempo, l’Assemblea del Massachusetts ordinò di assediare la fortezza britannica a Boston. La resistenza dei coloni ai reggimenti britannici rese possibile l’arrivo dei rinforzi richiesti da Gage. Il 25 maggio 1775 sbarcarono tre nuovi reggimenti; il 17 giugno, al comando di uno di essi, il generale John Burgoyne ordinò il bombardamento navale delle posizioni ribelli nelle colline di Boston. L’assedio dal mare fu seguito da un attacco di fanteria. Anche se le truppe leali riuscirono a conquistare le posizioni ribelli, il costo della battaglia fu molto maggiore di quanto ci si potesse aspettare. Nella battaglia di Bunker Hill, la prima azione militare di una certa entità fra le truppe inglesi e la milizia ribelle, morirono più di mille soldati britannici. In un certo modo, Bunker Hill modificò la percezione del nemico da

parte degli Inglesi, che a partire da quella sconfitta smisero di considerare i ribelli sprezzantemente come uno sconclusionato insieme di agricoltori che non avrebbe sopportato l’assalto di un grande esercito, uscito sempre vittorioso dalle grandi guerre europee. Due giorni dopo l’assalto di Bunker Hill, il Secondo Congresso Continentale aveva nominato un aristocratico della Virginia, George Washington (1732-1799), comandante in capo del suo esercito. Membro della House of Burgesses della Virginia, la maggiore delle tredici colonie, Washington aveva combattuto con successo nella guerra dei Sette anni, in qualità di aiutante di campo. Contrariamente alle truppe britanniche, composte da soldati professionisti e da 30.000 mercenari tedeschi, l’esercito di Washington era irregolare, mal pagato e mancava d’equipaggiamento. Solo nel 1776, grazie agli sforzi di Benjamin Franklin, i patrioti iniziarono a ricevere aiuti dalla Francia. Nell’ottobre di quello stesso anno arrivò la prima grande vittoria americana a Saratoga. Il generale Burgoyne, lo stesso che era

L’INDIPENDENZA E LE SUE TAPPE 1773

Boston Tea Party. Prima azione contro la politica britannica. 1776

Dichiarazione. Il 4 luglio viene firmata la Dichiarazione d’Indipendenza. 1777

Saratoga. Gli insorti sconfiggono l’esercito inglese. 1783

Trattato di Parigi. L’Inghilterra riconosce l’indipendenza.

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L’ESPANSIONE EUROPEA

Benjamin Franklin, scienziato e padre fondatore degli Stati Uniti Incuriosito dai più disparati campi del sapere, Franklin fu uno dei primi statunitensi a ottenere riconoscimento in Europa, anche prima dell’indipendenza del suo Paese. Ciò lo rese la persona adatta a cercare appoggi per continuare la lotta contro la madrepatria britannica e per negoziare, in seguito, le condizioni di pace. Anche se non ricevette alcuna istruzione, quindicesimo figlio di un fabbricante di saponi e candele di Boston, a soli quindici anni Franklin pubblicava già articoli per il New England Courant. Più tardi, nel 1727, aprì la sua tipografia, fondò un giornale, il Pennsylvania Gazette (1728-1748) e iniziò a pubblicare L’almanacco del povero Richard Saunders (1733-1752), il maggior successo editoriale delle colonie. Il suo grande apporto è però legato all’ambito scientifico e politico. Nel primo di questi campi si interessò specialmente all’elettricità e inventò il parafulmini; questa non fu però la sua unica invenzione: le lenti bifocali o il contachilometri sono anch’esse frutto della sua mente. Come politico fu uno degli artefici dell’Indipendenza statunitense, non solo come membro del comitato incaricato di stendere la Dichiarazione d’Indipendenza, ma soprattutto come rappresentante delle colonie in Inghilterra e negoziatore della pace con l’Inghilterra. Nel 1787, a ottant’anni, partecipò alla stesura della Costituzione. Nell’immagine, Franklin ritratto nel 1778 da Joseph-Siffred Duplessis (The Metropolitan Museum of Art, New York).

sbarcato facendosi beffe dei patrioti americani, fu obbligato a consegnare ai ribelli un esercito di 5700 uomini. La battaglia di Saratoga faceva pensare, nel continente americano e oltreoceano, che fosse possibile una reale vittoria dell’esercito di Washington sulla macchina militare del monarca inglese Giorgio III. I primi a riconoscere l’indipendenza nordamericana furono, ovviamente, i Francesi, che stabilirono rapidamente un’alleanza militare con le tredici colonie. Assieme ai Francesi, anche Spagnoli, Russi, Olandesi e Prussiani si affrettarono a intervenire in maggiore o minore misura, per preservare gli interessi commerciali dei rispettivi Stati. Dal punto di vista di quelli che avevano perso la guerra dei Sette anni, il conflitto americano permetteva di cercare un nuovo status quo, un riassetto del sistema d’alleanze che avrebbe loro permesso di affrontare l’egemonia britannica. L’arrivo nel 1780 di una flotta francese sulle coste americane avrebbe cambiato drasticamente il corso della guerra. Nell’inverno di quello stesso anno il generale inglese lord 138

Cornwallis fu obbligato a retrocedere fino a Yorktown. Incapace d’avanzare, sperava di ricevere rinforzi dall’esercito britannico appostato a New York. Il 20 giugno 1781 George Washington sferrò, assieme all’esercito francese, un doppio attacco alle posizioni britanniche, sconfiggendo prima la flotta inglese a New York per poi assediare le posizioni di Cornwallis. Il generale francese Lafayette, giunto dalla Francia per combattere gli Inglesi, dichiarò (immediatamente dopo la resa di Yorktown, il 19 ottobre), che la vittoria, non della battaglia ma della guerra, era nelle mani degli Americani, dicendo: «È la fine del quinto atto. È finito lo spettacolo». Nel 1783 fu firmato un secondo trattato di Parigi in cui la Gran Bretagna riconobbe ufficialmente l’indipendenza delle sue antiche colonie, che inizieranno a chiamarsi “Stati”. Le sue frontiere andavano dai Grandi Laghi, a nord, fino al sud della Georgia. Ad ovest si accordarono, inizialmente, sulla frontiera naturale del Mississippi. In un trattato a parte, la Spagna recuperò la Florida, che era stata presa dagli Inglesi durante la guerra dei Sette anni. La Francia, invece, acquisì alcuni piccoli possedimenti nei Caraibi, includendo l’isola di Tobago. Dal punto di vista politico, la tanto desiderata indipendenza apriva nuovi interrogativi riguardo a come si potessero finanziare le spese derivate dalla guerra o a quale sarebbe stata la formula adeguata per coniugare le legittime aspirazioni di ognuno dei tredici stati con la necessità, che si fece notare molto chiaramente durante il conflitto, di una struttura centralizzata. Allo scopo, il 25 maggio del 1787, si riunirono nella città di Filadelfia rappresentanti della nuova nazione, col proposito di dotarsi di una Costituzione. Le riunioni e i dibattiti durarono vari mesi, fino al 17 settembre, giorno in cui si firmò la versione finale della nuova Costituzione degli Stati Uniti d’America. Per Thomas Jefferson (1743-1826), uno dei relatori, era stato realizzato un compito da semidei. Lì, nella cosiddetta Convenzione di Filadelfia, si decise per un sistema bicamerale, in cui i rappresentanti di una delle camere, il Congresso, sarebbero stati eletti a seconda della dimensione del territorio. Nel caso della “camera bassa”, i rappresentanti politici sarebbero stati eletti dai cittadini, mentre quelli della “camera alta” sarebbero stati eletti dalle assemblee territoriali. Per il calcolo della popolazione si decise che gli schiavi avrebbero contato come tre quinti di un uomo. Fra i 55 delegati che parteciparono alla stesura della nuova Costituzione si trovavano i notabili più di spicco del processo che aveva portato all’indipendenza della nuova nazione: i famosi Padri Fondatori.


LA PRIMA NAZIONE DEMOCRATICA

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KANSAS OKL A

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VIRGINIA CAROLINA DEL NORD

CAROLINA DEL SUD GEORGIA

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RHODE ISLAND CONNECTICUT NEW JERSEY DELAWARE MARYLAND VIRGINIA OCCIDENTALE

PENNSYLVANIA OHIO

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COLORADO

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MASSACHUSETTS

Stati indipendenti nel 1783 Stati ammessi (1822) Stati ammessi (1855) Stati ammessi (1863) Stati ammessi (1865) Limite delle tredici colonie (1763) Limite della Louisiana comprata alla Francia (1803)

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Lib 27 pag. 139

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Aperta dall’espressione «Noi, il popolo degli Stati Uniti», la Costituzione degli Stati Uniti è la più antica fra quelle attualmente vigenti. Gli incaricati della sua stesura dovettero sforzarsi per trovare un testo che incontrasse il favore di tutti, a costo di sacrificare qualcuno dei loro principi. L’abolizionista Franklin, per esempio, transigette riguardo al tema della schiavitù davanti alla minaccia dell’abbandono degli Stati del Sud. Ad ogni modo, la carta magna fece suoi alcuni dei principi dell’Illuminismo dell’epoca, come quelli dell’uguaglianza e della libertà (eccetto che per gli schiavi) mentre consacrava gli Stati Uniti come una repubblica democratica. In alto, a sinistra, busto di Washington di Jean-Antoine Houdon (Museo del Louvre, Parigi); a destra, preambolo e primi articoli della Costituzione statunitense del 1787 (National Archives and Records Administration, Washington D.C.).

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UNA COSTITUZIONE DAGLI IDEALI ILLUMINISTI

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l trattato di Parigi del 1783 riconobbe l’indipendenza delle tredici colonie, che da quel momento in poi adottarono il nome di Stati Uniti d’America. C’era però ancora molto da fare in questo Stato appena nato, come per esempio decidere la sua modalità di governo. Non fu facile, soprattutto per le differenze fra le colonie: se quelle del Sud erano dominate da un’aristocrazia terriera che desiderava una Confederazione di Stati, in quelle del Nord erano protagonisti i borghesi e i piccoli proprietari terrieri, che preferivano un’entità statale più forte. Dopo vari anni di negoziazioni, nel 1787 Filadelfia ospitò nuovamente il congresso, che approvò la creazione di un governo federale con un presidente e due camere legislative, il Congresso e il Senato, eletti con un suffragio democratico. Inoltre, il 17 settembre fu approvata la Costituzione e furono indette le elezioni che nel 1780 resero George Washington il primo presidente del Paese.

N E A O C

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Trattato con la Gran Bretagna (1818) Cessione della Florida da parte della Spagna (1819) Annessione della Repubblica del Texas (1845) Trattato con la Gran Bretagna (1846) Trattato con il Messico (1848) Acquisto dal Messico (Gadsden) (1853) Acquisto dalla Russia del Territorio dell’Alaska (1859)

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L’ESPANSIONE EUROPEA

La Prammatica Sanzione e il meticciato americano Fin dagli inizi della colonizzazione, l’America ispanica fu di razza meticcia, ma ciò non toglie che la sua classe dirigente fosse formata da Spagnoli e dai discendenti bianchi dei conquistatori. Con la sua rappresentazione delle tipologie umane sorte dall’incrocio di diverse razze, la pintura de castas (dipinti che descrivevano le razze derivate dal miscuglio di etnie esistenti nel Nuovo Mondo) plasma il carattere meticcio della società ispano-americana, che Carlo III cercò di fermare mediante la Prammatica sanzione per evitare l’abuso di contrarre matrimoni tra persone di diverse origini. Come indica il suo nome, cercava di mettere ordine alle questioni matrimoniali nei territori del regno prendendo in considerazione tutti i sudditi. Uno sforzo interventista mosso dalla convinzione che i matrimoni fra persone di diverse classi (o razze), allora frequenti, provocassero «il turbamento dell’ordine dello Stato e le continue discordie e i pregiudizi fra le famiglie». Pertanto, fra le disposizioni figurava il rafforzamento dell’autorità paterna, senza il cui consenso gli sponsali non potevano celebrarsi. Sanzionata il 23 marzo del 1776, cominciò a essere applicata in America dal 1778. Nell’immagine, olio De español y mestiza, castiza (1763), esempio di pintura de castas di Miguel Cabrera (Museo de América, Madrid).

Per la loro grande rilevanza storica legata al futuro sviluppo della nazione americana, fra i fondatori ricordiamo (oltre al nuovo e primo presidente, George Washington) Benjamin Franklin, Thomas Paine (autore del famoso saggio L’età della ragione) John Adams (secondo presidente degli Stati Uniti), Thomas Jefferson (il terzo presidente), John Jay (primo presidente del Tribunale Supremo), James Madison (il quarto presidente) e Alexander Hamilton. I sostenitori della nuova Costituzione, denominati federalisti, appartenevano per la maggior parte a una nuova generazione, che non diffidava così tanto del potere centrale dello Stato come invece facevano gli antifederalisti, che erano cresciuti sotto l’oppressione britannica. Per vincere la disputa politica, la nuova Costituzione avrebbe dovuto garantire i diritti individuali dalle ingerenze dello Stato. Poco dopo l’emissione da parte dell’Assemblea del New Hampshire del voto decisivo a favore della nuova Costituzione, nel giugno del 1788 George Washington ricevette nella sua casa di Mount Vernon la notifica della sua 140

elezione unanime a presidente degli Stati Uniti d’America. Prestò giuramento il giorno dell’investitura, il 30 aprile del 1789, nella Federal Hall di Wall Street, a New York. Quello stesso emblematico anno, il 1789, dall’altro lato dell’Atlantico, in Europa, un’altra Assemblea Nazionale si riuniva per dibattere una nuova Costituzione. I rappresentati del Terzo Stato francese, ispirati dalle tre parole che aprivano la Costituzione americana (We, the people - Noi, il popolo) iniziarono la loro rivoluzione con la presa di uno degli edifici più significativi della tirannia: il carcere della Bastiglia di Parigi. Considerata da molti un punto di svolta nella storia dell’umanità, la Rivoluzione francese fu un evento sociale e politico straordinario, capace di abolire completamente la struttura feudale dell’Ancien Régime e di segnalare alcuni degli elementi fondamentali che avrebbero caratterizzato il mondo contemporaneo. Uno dei suoi principali successi fu la scrittura ed emanazione, da parte dell’Assemblea Costituente, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del citta-


dino, un documento steso pochi mesi dopo l’inizio della Rivoluzione e che sarebbe stato una importante fonte d’ispirazione per molti altri rivoluzionari durante i secoli successivi.

L’America spagnola Il governo dell’impero coloniale della corona ispanica dipendeva da una struttura amministrativa molto complessa. Agli inizi del XVIII secolo, la monarchia spagnola possedeva un insieme di organi e corporazioni che a mala pena permetteva il controllo efficace di alcuni territori mai visitati dai re spagnoli. Al vertice di questo sistema organizzativo si trovavano i viceré, che venivano eletti fra i membri dell’aristocrazia e della nobiltà. Il re, assistito dal Consiglio delle Indie, era incaricato di nominare sia i viceré sia i loro rispettivi tribunali. Il viceré, invece, era la massima autorità civile e militare dei territori sotto il suo dominio: i cosiddetti vicereami. I possedimenti della corona in America erano divisi in quattro vicereami: quello della Nuova Spagna, la cui capitale era città del Messico; quello del Perù, con

capitale Lima; quello di Nuova Granada, con capitale Santa Fe di Bogotá, e quello di Río de la Plata, che era diretto da Buenos Aires. Ognuno di questi vicereami si divideva a sua volta in udiencias (tribunali), controllate da alcaldes mayores o da governatori. Infine, le città erano governate da cabildos, assemblee dove si riunivano le élite locali, le quali erano composte fondamentalmente da proprietari, mercanti, avvocati ed ecclesiastici. Assieme a questi quattro vicereami, il maggiore dei quali era quello della Nuova Spagna, con una popolazione di circa sei milioni di abitanti, la corona doveva anche gestire le colonie dei Caraibi (Cuba, Portorico e Santo Domingo), che comprendevano, nel loro insieme, quasi un milione di abitanti. Il gruppo sociale predominante in questi territori era quello dei “creoli”, bianchi nati nei vicereami che condividevano responsabilità con i “peninsulari”, provenienti dalla Spagna, che occupavano diversi posti nell’amministrazione e che, nell’insieme, dicevano di difendere non solo gli interessi economici della corona ma anche le

LE CITTÀ COLONIALI.

Nel XVIII secolo le precarie città dei primi conquistatori erano divenute grandi città, con una grande attività sociale e commerciale. In alto, Potosí ne la Descripción del Cerro Rico e Imperial Villa de Potosí, olio di Gaspar Miguel de Berrio, dipinto nel 1758, un secolo dopo il massimo apogeo della città e prima che terminassero i ricchi giacimenti d’argento (Museo Universitario Colonial Charcas, Sucre).

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L’ESPANSIONE EUROPEA

CRONOLOGIA DELL’AMERICA SPAGNOLA 1718-1723

Nuova Granada. Filippo V crea il vicereame di Nuova Granada. Sospeso nel 1723 per problemi finanziari, fu ripristinato nel 1739. 1750

Trattato di Madrid.Firmato da Ferdinando VI di Spagna e da GiovanniV di Portogallo definisce i limiti dei possedimenti americani. 1767

I gesuiti. Un decreto espelle i gesuiti dai territori spagnoli. Essi abbandonano le comunità indigene che avevano convertito. 1776

Il meticciato. Carlo III promulga una Prammatica per evitare in tutti i suoi territori i matrimoni fra persone di diverse estrazioni e razze. 1780

Insurrezione indigena. Il leader Túpac Amaru II, discendente dei re incas, si ribella agli Spagnoli. Verrà giustiziato. 1781

Ribellione creola. Il malcontento per la politica fiscale della corona provoca un’insurrezione creola in Nuova Granada.

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loro virtù morali. Durante tutto il periodo coloniale, mentre aumentava il numero di meticci, gli schiavi neri continuarono ad avere una vita miserabile, mentre i neri liberi e i mulatti trovavano ancora numerosi ostacoli alla loro integrazione sociale, soprattutto come conseguenza dei pregiudizi relativi alla loro ascendenza. La Prammatica Sanzione del 1776 proibiva espressamente le unioni e il matrimonio fra bianchi e neri, indios e mulatti in condizioni di “notevole” disuguaglianza fra i contraenti. Solo alla fine del secolo la corona permise ai cosiddetti pardos (pardi), gli uomini liberi di origine africana, di acquisire lo statuto legale che li rendeva teoricamente uguali ai bianchi. L’iniziativa, però, trovò l’opposizione frontale del cabildo di Caracas e Buenos Aires. Secondo le élite locali, i pardi e i mulatti non dovevano esercitare le professioni e i mestieri propri dei bianchi, né partecipare alle loro funzioni religiose o seguire le loro tradizioni culturali. A Lima le autorità proibirono per legge le unioni fra neri e indios, dopo che alcune rivolte che videro protagonisti entrambi i gruppi tennero in scacco l’ordine sociale dominante verso la fine della decade del 1780. Anche in America si cercò di applicare il clima generale di riforme portate avanti dai ministri illuministi di Carlo III in Spagna mediante la messa in pratica di politiche che dipendessero più dalla razionalizzazione delle risorse che dal rispetto della tradizione e dei costumi. Le riforme borboniche iniziarono con Filippo V e Ferdinando VI, ma videro il loro apice durante il regno di Carlo III. Come nella madrepatria, la nuova politica, guidata principalmente da principi di razionalità, si mostrò specialmente intollerante verso le tradizioni e la religiosità locale, in particolare quella che si praticava in confraternite e associazioni. Sebbene d’ispirazione apparentemente religiosa, queste associazioni gestivano in realtà una parte importante delle risorse economiche locali, senza che vi fosse una forma regolata di stabilire tributi. Contrari a qualunque forma di privilegio, i riformatori si trovarono più volte a doversi scontrare col potere della Chiesa, che era divenuta il primo agente economico delle Indie. La guerra dichiarata dall’Illuminismo spagnolo alla Compagnia di Gesù, che culminò nella Prammatica Sanzione del 27 febbraio 1767, che ordinava l’espulsione dei gesuiti da tutti i territori della corona (inclusa ovviamente la Penisola Iberica), si deve immaginare inserita nel contesto più generale di lotta senza quartiere scatenata contro la Compagnia di Gesù in Europa (i gesuiti erano già stati espulsi dal Portogallo e dalle sue colonie, fra cui il Brasile, nel 1759, e dalla Francia nel 1764), ma anche come un tentativo di evitare il consoli-

La bolla speculativa dei Mari del Sud Il capitalismo degli inizi del XVIII secolo conobbe una delle sue prime grandi crisi nel 1720, quando il crollo delle azioni della Compagnia dei Mari del Sud lasciò in rovina gli investitori inglesi. Fondata nel 1711, la Compagnia era un’organizzazione privata cui il governo inglese concesse l’esclusività del commercio con le colonie spagnole nel continente americano in cambio del finanziamento del debito statale. Le guerre con la Spagna, però, e il rifiuto di questa di aprire i suoi porti ai prodotti inglesi, evento che ridusse l’attività della compagnia al traffico degli schiavi, fecero sì che i risultati non fossero quelli sperati. A ogni modo, la quotazione delle sue azioni salì alle stelle grazie alle voci interessate che gonfiavano il potenziale dell’impresa: se nel gennaio del 1720 un’azione costava 128 lire sterline, nell’agosto dello stesso anno il suo prezzo era già di 1.000 sterline. Fu allora che la bolla speculativa scoppiò. Le azioni affondarono e con esse anche i risparmi di migliaia di investitori, compreso Isaac Newton. La crisi travolse anche il parlamento, sciolto in dicembre. Nell’immagine, La bolla dei Mari del Sud, olio di Edward Matthew Ward (Tate Britain, Londra).

damento di uno stato transnazionale fra i territori d’oltremare, che avrebbe reso chiaramente più difficile la sua governabilità. L’offensiva contro la Compagnia di Gesù giunse al termine nell’anno 1773, con la sua definitiva soppressione ordinata dal papa, Clemente XIV. Unitamente alla riforma economica e religiosa, i ministri di Carlo III tentarono una razionalizzazione della giustizia, riuscendo a sostituire le élite locali con quelle della Penisola. Allo stesso tempo, misero in funzione una politica d’ispezioni o visite, che doveva favorire un clima di maggiore trasparenza nell’amministrazione locale. Le tasse, per esempio, furono aumentate in parte per ridurre gli effetti della guerra dei Sette anni. Una di queste imposte, l’alcabala, che gravava il commercio, fu applicata al tabacco, alla polvere e all’acquavite. L’aumento delle tasse, soprattutto in Nuova Spagna, provocò immediatamente un’enorme insoddisfazione sociale, che si materializzò in numerose rivolte popolari. Quella dei comuneros, in Nuova Granada, per esempio, mobilitò migliaia di persone,


fra creoli, meticci e indios e fu, di fatto, il primo passo del processo rivoluzionario che porterà all’indipendenza della colonia. Niente a che vedere, tuttavia, con la rivolta indigena di Tupac Amaru II (1738 circa-1781) in Perù, che avvenne fra il 1780 e il 1783. In questo vicereame, il numero di proteste era passato da solo cinque nel 1740 a quasi settanta alla fine del 1779. L’incremento dell’alcabala, che passò dal 4 al 6% nel 1776, produsse una reazione popolare contro l’amministrazione spagnola, condotta da un cacicco locale, Túpac Amaru I, giustiziato dagli spagnoli nel XVI secolo, che mirava a troncare tutte le relazioni con la corona spagnola. In un clima non privo di messianismo indigenista, Túpac Amaru II sognava un territorio governato da un discendente degli Incas, dove i Creoli, i mulatti, i neri e gli indios avrebbero potuto vivere in armonia. Basando il suo pensiero sul libero commercio, sosteneva l’abolizione delle tasse, in particolare dell’alcabala. Tuttavia la ribellione, placata dai creoli e dagli spagnoli, si chiuse con più di centomila indios morti e con

l’esecuzione pubblica nella Plaza de Armas di Cuzco del caudillo inca, che ebbe lo stesso destino del suo celebre predecessore.

L’America portoghese Nel caso dell’America coloniale portoghese, due circostanze inquadrano e configurano il suo sviluppo storico nel corso del XVIII secolo; la prima è l’alleanza economica tra Portogallo e Gran Bretagna, la seconda sono i numerosi conflitti con gli Spagnoli relativi alle frontiere stabilite dal trattato di Tordesillas. Da una parte, l’alleanza economica con gli Inglesi si materializzò nel trattato di Methuen (1703), in base al quale il Portogallo si impegnava a concedere all’Inghilterra il monopolio esclusivo del commercio in Brasile, scatenando l’appoggio incondizionato di Luigi XIV di Francia alla pratica della pirateria nei territori portoghesi dell’America coloniale, con personaggi come i corsari Jean-Fraçois Duclerc e René Duguay-Trouin. In ogni modo, la presenza inglese servì ad attivare il commercio nelle colonie e contribuì a dare nuovo impulso alle coltivazioni 143


Brasile, gioiello dell’impero coloniale portoghese Alla fine del XVII secolo la scoperta delle miniere d’oro in quello che oggi è lo stato di Minas Gerais fece del Brasile un’autentica terra promessa verso la quale accorrevano genti di tutta la colonia e della madrepatria. La febbre dell’oro fu tale che finì addirittura per dare il nome alla regione, Minas Gerais, e facendosi notare in toponimi come Ouro Preto (Oro Nero), città fondata nel 1711 che presto si vide ornata da splendidi edifici barocchi che rispecchiavano la sua ricchezza. Ciò nonostante, lo sfruttamento dei giacimenti auriferi condusse presto a conflitti come la guerra degli Emboabas, che tra il 1707 e il 1709 fece scontrare i coloni di San Paolo, i quali reclamavano per sé le miniere, con i vicini di altre zone del Brasile o della stessa madrepatria. In ogni caso l’oro trasformò non solo la regione ma anche tutta la colonia. Così, nel 1763 la stessa amministrazione coloniale si trasferì da Salvador de Bahia a Rio de Janeiro, da dove era possibile controllare più facilmente la strada verso Minas Gerais. Curiosamente, l’oro che veniva imbarcato verso il Portogallo non si fermava lì, ma proseguiva verso l’Inghilterra come pagamento per i tessuti inglesi che il regno lusitano era tenuto a comprare in virtù del trattato di Methuen (1703). Alla destra, la chiesa di Nostra Signora del Carmine, a Ouro Preto, gioiello dell’arte coloniale mineraria.

di riso, tabacco, indigofera, canna da zucchero, cotone e cacao. Inoltre, per quanto riguarda la corona spagnola, l’espansione nei territori coloniali costituì una fonte di conflitti quasi permanenti tra Portogallo e Spagna. Sebbene la colonizzazione portoghese si fosse limitata alle zone del litorale fino alla prima metà del XVI secolo, dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Spagna e durante il XVIII secolo la sua espansione cominciò a dirigersi fino all’interno del continente, seguendo il corso dei fiumi. Questa nuova espansione, i cui protagonisti furono i cosiddetti bandeirantes, spostò le frontiere dell’America portoghese molto oltre le linee tracciate inizialmente nel trattato di Tordesillas, fino a fissare i limiti attuali del Brasile. Uno dei centri del conflitto fu la Colonia del Sacramento (sulle sponde del Río de la Plata, nell’attuale Uruguay), fondata nel 1680 dai Portoghesi e situata proprio davanti a Buenos Aires, territorio coloniale spagnolo. La reazione spagnola non si fece attendere e si scatenò un lungo conflitto tra le due metropoli. Tanto il Trattato di 144

Lisbona (1701) quanto quello di Utrecht (1714) stabilivano che la corona spagnola dovesse cedere il territorio al Portogallo, dal momento che il Río de la Plata era riconosciuto come la frontiera meridionale del dominio portoghese. Ciò nonostante, il conflitto non si risolse definitivamente fino alla firma del trattato di Madrid (1750) e la sua ratifica nel trattato di San Ildefonso (1777). In virtù di tali accordi, il Portogallo si impegnava a cedere alla Spagna la Colonia del Sacramento, però in cambio otteneva il territorio delle Siete Misiones e il riconoscimento della sua occupazione dell’Amazzonia e del Mato Grosso. Questi vantaggi per la corona portoghese furono promossi dal Marchese de Pombal, figura dominante nel corso del regno di Giuseppe I (1750-1777), la cui politica rinnovatrice in Brasile si tradusse in un’organizzazione amministrativa e nel grande impulso dato all’agricoltura e all’industria mineraria nelle colonie. Tra i profondi cambiamenti che portò a termine nell’America portoghese va citata la realizzazione delle opere pubbliche, l’organizzazione dell’immigrazione e


Lib. 27 pag. 145

ND GRA E DO S U

Maracaibo Caracas Cumaná Panama Angostura GUIANA Mérida Georgetown Santa Fe VICEREAME Paramaribo Caienna de Bogotá DI NUOVA GRANADA Quito Belém San Luís de Maranhão Manaus PARÁ Guayaquil Ceará MA Tabatinga R A N HÃ O VICEREAME Pernambuco DEL BRASILE Trujillo PERNAMBUCO Lima VICEREAME Mato Grosso DEL PERÚ Villa Boa BAHIA Salvador Callao de Bahia MATO GROSSO Cuzco La Paz MINAS GERAIS Porto Seguro Cuiabá Goiás Sucre (Charcas) Ouro Preto Diamantina Espírito Santo RIO Potosí São Paulo Río de Janeiro São Vicente San Miguel de Tucumán Asunción Santa Catarina Corrientes Córdoba Santa Fe Porto Alegre Rio Grande do Sul Valparaíso VICEREAME Colonia del Sacramento Santiago del Cile Montevideo DEL RÍO DE LA PLATA Buenos Aires Concepción L

Limiti del Trattato di Tordesillas (1494) Confini del Trattato di Permuta (1750) Variazioni del Trattato di San Ildefonso (1777) Frontiere del Brasile nel 1829 Comunità gesuite (di indigeni convertiti al Cristianesimo) Possedimenti: Spagnoli Francesi Inglesi Portoghesi Olandesi

LE FRONTIERE DEI DUE IMPERI. Nel 1750, la necessità di delimitare chiaramente le

frontiere dei propri possedimenti in America da parte della Spagna e del Portogallo, confuse dopo sessant’anni di unione dinastica con gli Asburgo, spinse il re spagnolo Ferdinando VI e quello portoghese Giovanni V a firmare il trattato di Madrid. Entrambi i regni dovettero cedere territori, benché le disposizioni non furono sempre rispettate. Fu questo il caso delle comunità gesuite di Misiones Orientales, che la Spagna conservò.

l’attenzione all’insegnamento. Nel 1759 la Compagnia di Gesù venne espulsa dalle colonie portoghesi perché ritenuta responsabile dell’insurrezione degli indios guaranì nel territorio di Misiones. Allo stesso modo, nel 1775 fu abolita la schiavitù degli indios, sebbene questa misura andò di pari passo con l’intensificazione del traffico degli schiavi di origine africana e il loro impiego come mano d’opera. Nel corso del XVIII secolo l’economia brasiliana si basò principalmente sull’agricoltura (soprattutto sullo sfruttamento della canna da zucchero e, successivamente, del cotone) e sull’industria mineraria. La scoperta di giacimenti auriferi e di pietre preziose nella zona di Minas Gerais (Ouro Preto), nel Mato Grosso (Cuiabá) e a Goiás ebbe come conseguenza immediata l’afflusso massiccio in queste regioni di ondate di immigranti, che a sua volta sfociò nel brusco calo della produzione di canna da zucchero nella zona del nord-est della colonia e in quella di San Paolo. Il contesto minerario ebbe un ruolo decisivo nella formazione del sentimento nazionalista e nell’organizzazione po-

litica della colonia, perlomeno in due direzioni. In primo luogo, lo sviluppo di questo settore determinò lo spostamento della capitale della colonia a Rio de Janeiro nel 1763; in secondo luogo, furono i proprietari delle miniere che, stanchi di versare tributi alla madrepatria, promossero la prima insurrezione indipendentista. La cosiddetta Inconfidência Mineira (Cospirazione delle Miniere) del 1789, guidata da Joaquim José da Silva Xavier, detto Tiradentes, fu soffocata con energiche misure di repressione. Tiradentes si assunse la responsabilità della rivolta e fu condannato alla forca nel 1792. Con l’invasione del Portogallo da parte di Napoleone nel 1808, il principe reggente Giovanni VI stabilì la sua residenza in Brasile con tutta la corte (circa 10.000 persone), dove rimase fino al 1821. Il destino dell’America portoghese durante questo periodo sarà legato all’esistenza del Regio Decreto, firmato già nel territorio brasiliano il 28 gennaio 1808. In esso era riconosciuto il controllo economico del Brasile, trasformato da colonia in metropoli, da parte della Gran Bretagna. 145



APPENDICI La suddivisione del mondo nel XVIII secolo Cronologia comparata: Europa, America, Africa, Asia e Oceania Re e statisti Bibliografia Indice analitico Immagini

148 150 152 154 155 159

NELLA PAGINA ACCANTO. Jeanne-Antoinette Poisson, marchesa di Pompadour e favorita di Luigi XV, in un celebre

ritratto di Maurice Quentin de La Tour (Museo del Louvre, Parigi).

147


APPENDICI

LA SUDDIVISIONE DEL MONDO NEL XVIII SECOLO

MAR G L AC I A L E A RT I C O TERRITORI DEL NORD-OVEST

S

O

AG MP

N

CO NI

A

DEL

LA BAIA

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GRAN BRETAGNA

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Santa Fe

ACADIA NUOVA FRANCIA Montreal Boston New York San Luis Filadelfia SI

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NUOVA INGHILTERRA A Charleston New Orleans

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VICEREAME DELLA NUOVA SPAGNA Monterrey

FRANCIA

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L’Avana CUBA San Blas Messico Veracruz SANTO DOMINGO GIAMAICA PORTORICO BELIZE Acapulco HAITI Santo Domingo Guatemala ANTILLE COSTA DEI MOSQUITOS Cartagena de Indias GUI Panama A Georgetown VICEREAME Bogota Paramaribo Caienna DI NUOVA Quito Belém OCEANO GRANADA Manaus

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VICEREAME DEL BRASILE

La Paz

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Domini: Spagna Portogallo

Valparaíso Santiago del Cile

Sacramento Buenos Aires

Francia Regno Unito Province Unite Danimarca Russia Stati Uniti d’America

Stretto di Magellano Capo Horn

148

O C E A N O

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General 27 Capo Nord

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Stoccolma San Pietroburgo

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La Mecca

Surat

Calcutta

Capo Guardafui

Manila

Madras Puducherry

Cochin Colombo

FORMOSA

Macao

Goa

Aden

Accra

Mombasa

SUMATRA

SULTANATO DI ZANZIBAR

Zanzibar

Batavia GIAVA

ANGOLA

Mozambico

OCEANO

MOZAMBICO

Sofala Fort Dauphin

FILIPPINE

CEYLON

Malacca

Luanda

GIAPPONE

IA

CELEBES

Macassar

Ambon

TIMOR

Stretto d i To r r e s

INDIANO

COLONIA DEL CAPO Città del Capo

Capo di Buona Speranza

A N TA R T I C O

149


CRONOLOGIA COMPARATA EUROPA 1700-1715

1716-1730

1731-1750

Ha inizio la guerra di successione spagnola La Pace di Utrecht mette fine alla guerra di successione spagnola Muore Luigi XIV, il Re Sole Fine dell’assedio di Barcellona da parte delle truppe borboniche. Decreto di Nueva Planta Inizio della Grande Guerra del Nord Le corone di Scozia e Inghilterra formano il regno di Gran Bretagna

Formazione della Triplice Alleanza Scoppia la bolla finanziaria della Compagnia dei Mari del Sud La peste bubbonica uccide più di 100.000 persone a Marsiglia Robert Walpol, primo ministro della Gran Bretagna Firma del Trattato di Nystad e fine della Grande Guerra del Nord Guerra anglospagnola: blocco di Portobello e assedio di Gibilterra

Guerra di successione austriaca Firma del Trattato di Madrid fra Spagna e Portogallo, suddivisione dell’America del Sud Guerra di successione polacca Maria Teresa d’Austria sale al trono come imperatrice del Sacro romano impero

Fatti culturali: Isaac Newton pubblica la sua Ottica Appare The Daily Courant, il primo giornale inglese

Fatti culturali: Appare Lo spirito delle leggi di Montesquieu Cominciano gli scavi di Pompei ed Ercolano

14-

AMERICA 1700-1715 Boston, primo porto del traffico di schiavi intercontinentale Le autorità coloniali portoghesi del Brasile distruggono gli ultimi insediamenti di schiavi liberi Guerra di Yamasee fra i coloni della Carolina del Sud e le tribù indigene Rivolta di schiavi a New York

1716-1730 L’impero spagnolo annette il territorio del Texas Fondazione di New Orleans La spedizione militare spagnola di Villasur viene annientata nell’attuale Nebraska dai Pawnee e i loro alleati francesi Seconda rivolta dei comuneros del Paraguay Il portoghese Manuel de Freitas da Fonseca fonda il forte di Montevieu (Montevideo)

1731-1750 La seconda spedizione di Vitus Bering arriva in Alaska dopo aver attraversato lo Stretto che porta il suo nome Insurrezione quechua di Juan Santos Atahualpa nel vicereame del Perú Guerra dell’Orecchio di Jenkins tra Spagna e Gran Bretagna Ribellione di Stono, degli schiavi contro i coloni britannici della Carolina del Sud Un violento terremoto rade al suolo Lima e il maremoto che ne consegue distrugge completamente El Callao

AFRICA, ASIA E OCEANIA 1700-1715

1716-1730

Africa: Indipendenza e consolidamento dell’impero ashanti

Africa: Si intensifica il traffico di schiavi dai Paesi della costa atlantica

Fine della guerra civile del regno del Congo

Asia: Trattato di Kiachta fra i Qing cinesi e l’impero russo

Asia: Un grande terremoto mette fine alla era Genroku in Giappone. Eruzione del monte Fuji

Riforme Kyoho da parte dello shogunato in Giappone

Guerra fra la Birmania e il Siam I primi missionari ortodossi russi arrivano in Manciuria I maratha dell’India espellono i Moghul

150

1731-1750 Africa: Nascono i primi Stati fulani Asia: Prima e seconda guerra del Karnataka fra il Regno Unito, la Francia e i maratha Ribellione contro le autorità cinesi a Lhasa In India il potere maratha passa nelle mani dei peshwa o primi ministri


1751-1770

1771-1785

Caterina la Grande occupa il trono di Russia Trattato di Parigi del 1763 Guerra fra la Russia e l’impero ottomano Guerra dei Sette anni Il terremoto di Lisbona provoca quasi centomila morti

Prima suddivisione della Polonia fra la Prussia, la Russia e l’Austria Firma del Trattato di Parigi del 1783 e fine della guerra d’Indipendenza nordamericana Ribellione dei cosacchi di Pugachov contro Caterina di Russia

Fatti culturali: Pubblicazione del primo volume dell’Enciclopedia Pubblicazione del Candido di Voltaire e dell’Emilio di Rousseau

L’impero russo annette la Crimea Fatti culturali: Adam Smith pubblica La ricchezza delle nazioni Appare la Critica della ragion pura, di Immanuel Kant

1786-1800 Il popolo di Parigi assalta la Bastiglia Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino Esecuzione di Luigi XVI e Maria Antonietta alla ghigliottina Bonaparte scioglie il Direttorio e ottiene il Consolato Seconda e terza suddivisione della Polonia Fatti culturali: Fondazione dell’Istituto di Francia Muore Mozart Lavoisier pubblica il suo Trattato elementare di chimica

1751-1770

1771-1785

1786-1800

Guerra franco-indiana nel nord America per motivi espansionistici Battaglia della Piana di Abraham: il Québec cade nelle mani dei Britannici Con la firma del Trattato di Parigi del 1763 la Spagna cede ai Britannici la Florida e i territori del Mississippi Viene promulgato lo Sugar Act Rivolte contro lo Stamp Act del 1765 in Massachusetts e Virginia

Boston Tea Party, a Boston Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America Coloni spagnoli fondano Los Angeles Insurrezione dei comuneri nel vicereame della Nuova Spagna La Spagna soffoca l’insurrezione di Túpac Amaru II nel vicereame del Perù

George Washington, primo presidente degli Stati Uniti Spagna e Regno Unito firmano le Convenzioni di Nutka per risolvere la disputa riguardo i territori della costa nordoccidentale del Pacifico Cospirazione dei Machetes contro la corona spagnola nel vicereame della Nuova Spagna La Russia degli zar prende il controllo dell’Alaska

Fatti culturali: Thomas Paine pubblica L’età della ragione

1751-1770 Africa: Espansione degli insediamenti boeri in territorio sudafricano Ha inizio in Etiopia l’Era dei Giudizi, di grande instabilità politica Asia: Guerra fra la dinastia Qing cinese e la dinastia Konbaung di Birmania Oceania: Samuel Wallis scopre Tahiti. Primo viaggio del capitano Cook

1771-1785 Africa: Massacro dei Xhosa Invasione fallimentare di Algeri da parte delle truppe di Carlo III Asia: Controllo del subcontinente indiano da parte della Gran Bretagna Prima guerra anglo-maratha in India Oceania: Secondo e terzo viaggio del capitano Cook

1786-1800 Africa: Mungo Park esplora il fiume Niger I britannici occupano l’olandese Colonia del Capo Campagna di Napoleone in Egitto e in Siria Asia: Lord Wellesley inizia la conquista del sud dell’India L’Indonesia viene amministrata dall’Olanda dopo la bancarotta della Compagnia Olandese delle Indie Orientali Rivoluzione del Loto Bianco in Giappone Dinastia Tay Sôn in Vietnam 151


APPENDICI

RE E STATISTI FRANCIA

SACRO ROMANO IMPERO

Re Luigi XIV Luigi XV Luigi XVI

1643-1715 1715-1774 1774-1792

Comitato di Salute Pubblica Direttorio

1793-1795 1795-1799

Leopoldo I Giuseppe I Carlo VI Carlo VII Maria Teresa I Francesco I (coreggente con Maria Teresa I) Giuseppe II (coreggente con Maria Teresa I) Leopoldo II Francesco II

1658-1705 1705-1711 1711-1740 1742-1745 1745-1780 1745-1765 1765-1790 1790-1792 1792-1806

GRAN BRETAGNA RUSSIA

Re Guglielmo III Anna Giorgio I Giorgio II Giorgio III

1689-1702 1702-1714 1714-1727 1727-1760 1760-1800

Primi ministri Charles Montagu Charles Howard Robert Walpole James Stanhope Charles Spencer Robert Walpole Spencer Compton Henry Pelham Thomas Pelham-Holles William Cavendish Thomas Pelham-Holles John Stuart George Grenville Charles Watson-Wentworth William Pitt il Vecchio Augustus FitzRoy Frederick North Charles Watson-Wentworth William Petty-FitzMaurice William Cavendish-Bentinck William Pitt il Giovane

1714-1715 1715 1715-1717 1717-1718 1718-1721 1721-1742 1742-1743 1743-1754 1754-1756 1756-1757 1757-1762 1762-1763 1763-1765 1765-1766 1766-1768 1768-1770 1770-1782 1782 1782-1783 1783 1783-1801

Pietro I Caterina I Pietro II Anna Ivanovna Ivan VI Isabella I Pietro III Caterina II Paolo I

1682-1725 1725-1727 1727-1730 1730-1740 1740-1741 1741-1762 1762 1762-1796 1796-1801

POLONIA Augusto II il Forte Stanislào I Augusto II il Forte Stanislào I Augusto III Stanislào II Augusto Poniatowski

1697-1706 1704-1709 1709-1733 1733-1734 1734-1763 1764-1795

SVEZIA Carlo XII Ulrica Eleonora Federico I Adolfo Federico Gustavo III Gustavo IV Adolfo

1697-1718 1718-1720 1720-1751 1751-1771 1771-1792 1792-1809

SPAGNA Filippo V Luigi I Filippo V Ferdinando VI Carlo III Carlo IV 152

1700-1724 1724 (gennaio-agosto) 1724-1746 1746-1759 1759-1788 1788-1808

DANIMARCA Federico IV Cristiano VI Federico V Cristiano VII

1699-1730 1730-1746 1746-1766 1766-1808


PORTOGALLO Pietro II Giovanni V Giuseppe I Maria I (coreggente con Pietro III fino al 1786)

VICEREAME DELLA NUOVA SPAGNA 1683-1706 1706-1750 1750-1777 1777-1816

PIEMONTE-SARDEGNA Vittorio Amedeo II Carlo Emanuele III Vittorio Amedeo III Carlo Emanuele IV

1720-1730 1730-1773 1773-1796 1796-1802

NAPOLI E SICILIA Re di Napoli Carlo VII Ferdinando IV Repubblica Partenopea Ferdinando IV

1735-1759 1759-1799 1799 1799-1806

Re di Sicilia Carlo V Ferdinando III

1735-1759 1759-1816

Juan de Ortega y Montañés Francisco Fernández de la Cueva Fernando de Alencastre Noroña y Silva Baltasar de Zúñiga y Guzmán Juan de Acuña y Bejarano Juan Antonio Vizarrón y Eguiarreta Pedro de Castro Figueroa y Salazar Pedro de Cebrián y Agustín Juan Francisco de Güemes y Horcasitas Agustín de Ahumada y Villalón Francisco Cagigal de la Vega Joaquín Juan de Monstserrat y Cruïlles Carlos Francisco de Croix Antonio María de Bucareli y Ursúa Martín de Mayorga y Ferrer Matías de Gálvez y Gallardo Bernardo de Gálvez y Madrid Alonso Núñez de Haro Manuel Antonio Flórez Maldonado Juan Vicente de Güemes Miguel de la Grúa Talamanca Miguel José de Azanza

1701-1702 1702-1710 1710-1716 1716-1722 1722-1734 1734-1740 1740-1741 1742-1746 1746-1755 1755-1760 1760 1760-1766 1766-1771 1771-1779 1779-1783 1783-1784 1785-1786 1787 1787-1789 1789-1794 1794-1798 1798-1800

PRUSSIA Federico I Federico Guglielmo I, il Re Sergente Federico II il Grande Federico Guglielmo II Federico Guglielmo III

1701-1713 1713-1740 1740-1786 1786-1797 1797-1840

IMPERO OTTOMANO Mustafá II Ahmad III Mahmud I Osman III Mustafá III ´Abd ul- am ´d I Selim III

1695-1703 1703-1730 1730-1754 1754-1757 1757-1774 1774-1789 1789-1807

STATI UNITI Presidenti George Washington John Adams

1789-1797 1797-1801

VICEREAME DEL PERÚ Juan Peñalosa y Benavides Manuel de Oms y de Santa Pau Miguel Núñez de Sanabria Diego Ladrón de Guevara Mateo de la Mata Ponce de León Diego Morcillo Rubio de Auñón Carmine Nicolao Caracciolo Diego Morcillo Rubio de Auñón José de Armendáriz y Perurena José Antonio de Mendoza Caamaño José Antonio Manso de Velasco Manuel de Amat y Junient Manuel de Guirior Agustín de Jáuregui y Aldecoa Teodoro de Croix Francisco Gil de Taboada Ambrosio O’Higgins

1705-1707 1707-1710 1710 1710-1716 1716 1716 1716-1720 1720-1724 1724-1736 1736-1745 1745-1761 1761-1776 1776-1780 1780-1784 1784-1790 1790-1796 1796-1801 153


APPENDICI

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INDICE ANALITICO A

Abarca de Bolea, Pedro Pablo (conte di Aranda) 49 Accademia delle Scienze di Berlino 56, 83, 120 Accademia delle Scienze di Parigi (Académie de Sciences) 81, 83, 86, 107, 120, 130 Adam, Robert 116-117 Adams, John 136, 140 Addison, Joseph 62, 89, 107, 119-120 Africa 125, 130, 132 Aia L’, Trattato dell’ 16 Alaska 126 Albinoni Tomaso 63 Almansa, battaglia di 15-16 Alsazia 16 Amazzonia 144 Amburgo 119 America 15-16, 22, 24, 33, 34, 35, 42, 46, 49, 52, 69, 79, 101, 104, 119, 125, 130-133, 136, 138-145 Amsterdam 114, 119 Ancien Régime 19, 45, 69-71, 91, 92, 98, 111, 120, 130, 140, 154 Angola 130 Anna Ivanovna di Russia 57 Antille francesi 131 Aquisgrana, Trattato di 21, 24, 30, 34 Aranda, conte di vedi Abarca de Bolea, Pedro Pablo (conte di Aranda) Aranjuez, palazzo di 50 Arkwright, Richard 102 Asburgo 114, 119 Asburgo, dinastia di 14-16, 30-32, 34, 52-54, 58, 98, 145 Asia 125 Asturie 46 Augusto II di Polonia (il Forte) 28 Augusto III di Polonia 28 Austria 13-17, 22-24, 28-35, 3738, 52, 59, 63 Austria, casato d’ 14, 16, 29 Avana, L’ 22, 24, 35, 48, 49 Aveiro, duca di vedi Mascarenhas da Silva e Lencastre, José de (duca di Aveiro)

B

Bach, Carl Philipp Emanuel 62, 65 Bach, Johann Christian 65 Bach, Johann Sebastian 61-66, 116, 117 Bahia vedi Salvador de Bahia Baltico, Mar 24, 26, 27 Banks, Joseph 126 Barcellona 16-17, 48 Bassi, Laura 89 Baviera 14, 16, 23-24, 32 Bayreuth 62

Beccaria, Cesare 54, 56, 70, 72, 106 Dei delitti e delle pene 54 Beethoven, Ludwig van 61, 66-67 Belgio 34, 53 Belle, Alexis Simon 18 Bellotto, Bernardo 33, 115 Benin 130 Bentley, Richard 86 Berlino 26, 32, 35-36, 56, 61, 67, 75, 83, 114, 119-120, 124 Palazzo di Charlottenburg 124 Bernard Le Bovier de Fontenelle 72 Storia degli oracoli 72 Bernini, Gian Lorenzo 115-116 Berrio, Gaspar Miguel de 141 Biassou, Georges 133 Bielorussia 29 Blake, William 116, 130 Blenheim (o di Höchstädt), battaglia di 16 Boemia 24, 30, 32, 38, 52, 54, 63 Boerhaave, Herman 88 Bologna 65, 89 Bonaparte, Napoleone 34, 50-51, 132, 145 Bonn 67 Borbone, dinastia dei 14-16 Bordeaux 131 Bossuet, Jacques Bénigne 17 La Politique tirée de l’Écriture sainte 18 Boston 117, 134-138 Boston Tea Party 134, 136-137 Boswell, James 106 Boucher, François 105-106, 115 Bougainville, Louis-Antoine de 126-127, 129 Bracci, Pietro 116 Brandeburgo 17, 24, 35, 57, 111 Brasile 41-43, 142-145 Breda, Carl Fredric von 111 Breteuil, Louis Auguste Le Tonnellier de 88 Breton, André 80 Brissot, Jacques Pierre 81, 132 Bristol 131 Britanniche, isole 24 Buenos Aires 141-142, 144 Buffon, conte di vedi Leclerc, George-Louis (conte di) Bunker Hill, battaglia di 137 Burgoyne, John 137 Burke, Edmund 72, 120 Byron, John 128 Il naufragio della fregata “Wager” 128

C

Cabrera, Miguel 140 Cadice 52 Campillo y Cossio, José del 46 Nuevo sistema de gobierno económico para la América 46

Campomanes, conte di vedi Rodríguez de Campomanes, Pedro Canada 24, 35, 134 Canaletto (Giovanni Antonio Canal) 111, 115 Canova, Antonio 116 Cap-Français (Cap-Haïtien) 132 Capuz, Leonardo 14 Caracas 142 Caraibi 15, 33, 79, 104, 125, 130131, 138, 141 Carlo II di Parma 51 Carlo II Re di Spagna (lo Stregato) 14-16, 32 Carlo III di Spagna 37-38, 45-46, 48, 52, 140, 142 Carlo IV di Spagna 46, 50 Carlo Maria Isidoro di Borbone (Carlo V di Borbone) 51 Carlo VI d’Asburgo 14-17, 23-24, 30, 32 Carlo VII di Wittelsbach 23-24, 32, 46 Carlo XII de Svezia 26-27 Carlotta di Meclemburgo-Strelitz 87 Carpi, battaglia di 16 Carriera, Rosalba 88 Cartagena de Indias 22 Cartesio 56 Carvalho e Melo, Sebastião José de (marchese di Pombal) 37, 39-45, 144 Carvalho e Mendonça, Paulo António de 44 Casanova, Giacomo 22 Casas, Juan Antonio de las 54 Cassini, Giovanni Maria 129 Caterina I di Russia 57 Caterina II di Russia (la Grande) 28-29, 32, 37-38, 54, 57-59, 70,-71, 76, 98 Cavalli, Francesco 62 Cave, Edward 123 Cederström, Gustaf 27 Cesky, Krumlov 62 Cesti, Antonio 62 Chambers, Ephraim 93-94, 122 Chardin, Jean 128 Voyages de monsieur le chevalier Chardin en Perse et autres lieux de l’Orient 128 Chardin, Jean-Baptiste-Siméon 116 Charpentier, Marc-Antoine 64 Châtelet, Emilie du 70, 88, 89 Istituzioni di fisica 89 Châtelet, Florent Claude du 88 Choderlos de Laclos, Pierre 80, 106, 107 Le amicizie pericolose 80, 106 Choiseul, Étienne-Frençois duca di 24 Churchill, John duca di Marlborough 16

Cimarosa, Domenico 58 Cina 76-77, 119 Clairaut, Alexis-Claude 93 Clausewitz, Carl von 15 Clemente XI (papa) 19 Clemente XIV (papa) 42, 142 Cleveley, John the Younger 129 Colbert, Jean-Baptiste 102, 115 Collins, Anthony 86, 87 Colombo, Cristoforo 129 Colonia 16, 119, 144 Colonia del Sacramento 144 Commerson, Philibert 126 Commissione del bene comune (la Mesa do Bem Commun) 42 Compagnia Britannica delle Indie Orientali 104, 134-135 Compagnia dei Mari del Sud (South Sea Company) 131, 142 Compagnia di Gesù 22, 42-44, 4849, 54, 93, 121, 142, 145 Compagnia Francese delle Indie Occidentali 131 Compagnia Francese delle Indie Orientali 20 Compagnia Generale del Commercio di Grão-Pará e Maranhão 41, 43, 45 Compagnia Generale dell’Agricoltura delle vigne dell’Alto Duero 41 Compagnia Olandese delle Indie Orientali 126 Concord 136-137 Condillac, Etienne Bonot de 70, 72, 108 Condorcet, Nicolas de 92 Confederazione di Bar 28 116 Consiglio delle Indie 52, 141 Constable, John 116 Cook, James 126-127, 129 Copenaghen 131 Corelli, Arcangelo 63 Cornwallis, Charles 138 Corona britannica 14-18, 24, 26, 29, 33, 41-42, 44-46, 48-49, 52-53, 59, 81, 86, 131, 133134, 136, 141-144 corona d’Aragona 17 corona di Castiglia 17 corona francese 18 corona portoghese 14-17, 45-46, 141-144 corona spagnola 14-17, 45-46, 141-144 Cosway, Richard 87 Coulon de Villiers, Joseph 24 Coulon de Villiers, Louis 24 Couperin, François 64 Crébillon, Claude-Prosper Jolyot de 79 L’Écumoire, ou Tanzaï et Néadarné 79 Le Sopha, conte moral 80 Crimea 58 155


APPENDICI

Cristina (regina) di Svezia 123 Croazia 32 Cuba 141 Cuiabá 145 Cuzco 143

D

D’Alembert, Jean le Rond 21, 54, 56, 72, 77, 81, 90-95 Discorso preliminare dell’Enciclopedia 82 Enciclopedia 21, 72, 77, 81-83, 90-95, 97, 101, 108, 121-122, 127 Dalou, Jules 81 Damiens, Robert-Francois 22, 42 Danimarca 26-27, 58, 131 David, Jacques-Louis 68, 116 Deffand, marchesa di vedi VichyChamrond, Marie Anne de Defoe, Daniel 106-107, 117, 128, 131 Robinson Crusoe 106, 128 Désaguliers, Jean Teophile 86, 88 Dessalines, Jean-Jaques 56 D’Holbach, barone vedi Thiry, Paul Henri Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti 133, 136138 Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino 132, 140 Diderot Denis 21, 39, 58-59, 70-71, 74, 77, 80-82, 90-95, 97, 101, 107-108, 114, 117, 121, 122, 126-128 Enciclopedia 21, 72, 77, 81-83, 90-95, 97, 101, 108, 121-122, 127 I gioielli indiscreti 80, 126, 128 La religiosa 117 Pensieri sull’interpretazione della natura 107 Supplemento al viaggio di Bouganville 127 Dietrich, Christian Wilhelm Ernst 128 direttorio, il 26, 120 Dostoevskij, Fedor Michajlovic 80 Dresda 24, 29 Trattato di 24 Ducato di Milano 15, 17, 32, 65 Duclerc, Jean-François 143 Duclos, Charles Pinot 80 Acajou et Zirphile 80 Dufay, Louis-Pierre 133 Duguay-Trouin, René 144 Duplessis, Joseph-Siffred 138 Duquesne (Pittsburgh) 24

E

Echard, Laurence 122 Edimburgo 19, 74, 83, 106 Eisenach 63 Eleonora del Palatinato 14 Elisabetta Cristina di Brunswick-Bevern 57 Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel 30 Emboabas, guerra degli 144 Eosander von Göthe, Johann Friedrich 124 156

Erone d’Alessandria 110 Esterházy, dinastia di 67, 78 Esterházy, Nicola 78 Eugenio di Savoia 16

F

Falconet, Étienne Maurice 59, 72, 116 Federico Guglielmo I di Brandeburgo (Grande Elettore) 24-25 Federico Guglielmo I di Prussia (il Re Sergente) 17, 25-26, 55-56, 111 Federico I di Prussia 25-26, 36, 124 Federico II di Prussia (il Grande) 12-13, 23-24, 26, 28-29, 3132, 34-39, 52, 54-57, 59, 61, 70-71, 78, 86, 111 Antimachiavelli 56 Saggio sulle forme di governo e i doveri dei sovrani 56 Storia del mio tempo 55 Federico IV di Danimarca 26 Feijóo, Benito Jerónimo 45 Teatro crítico universal 45 Ferdinando III (Imperatore del Sacro romano rmpero) 14 Ferdinando VI di Spagna 23, 45, 65, 142, 145 Ferdinando VII di Spagna 51 Ferenc, Rákóczy 32, 33 Fiandre vedi anche Paesi Bassi 16 Fichte, Johann Gottlieb 106 Fielding, Henry 106, 117 Tom Jones 106 Filadelfia 133, 135-139 Filippine 24 Filippo II d’Orleans 18, 19 Filippo III Re di Spagna 14, 15 Filippo IV Re di Spagna 14, 15 Filippo V di Spagna (Filippo d’Angiò) 14-17, 46, 116, 142 Finlandia 28 Firenze 31, 51, 62 Fischer von Erlach, Joseph Emanuel 30 Flaubert, Gustave 80 Fleury, André Hercules de 20-21, 23 Florida 24, 35, 134, 138 Floridablanca, conte di vedi Moñino y Redondo, Jose (conte di Floridabianca) Fontenoy, battaglia di 23 Forner, Juan Pablo 54 Discurso sobre la tortura 54 Foronda, Valentín de 48 Fort Necessity 24 Fragonard, Jean-Honoré 106, 115 Francesco I (imp.) 24, 30-31 Francia 13-25, 30, 32-35, 38, 42, 46, 49, 58, 61-65, 70-71, 74, 79-80, 86, 90-94, 97, 99, 102, 105, 108, 110, 114, 116, 119, 130-134, 137-138, 142-143 Franke, Johann Heinrich Christian 36 Franklin, Benjamin 70, 134-138, 140 Frisia 56

Füger, Heinrich Friedrich 30 Füssli, Johann Heinrich 116

G

Gage, Thomas 136, 137 Gainsbourough, Thomas 101, 116 Galilei, Galileo 83, 87 Galizia 29 Galland, Antoine 128 Galván e Candela, José María 49 Garrick, David 107 Gay, John 106 Genova 116 Geoffrin, Marie-Thérèse Rodet 76-77, 122 Georgia 136, 138 Germania 62-65, 75, 87, 99, 106 Gervaise de Latouche, JeanCharles 80 Histoire de Dom Bougre, portier des Chartreux 80 Ghana 130 Giacomo I d’Inghilterra 38 Gianni, Francesco Maria 39 Gibbon Edward 71, 74 Declino e caduta dell’impero romano 74 Gibilterra 16-17, 24, 150 Giorgio I di Gran Bretagna 22 Giorgio II di Gran Bretagna 32, 34 Giorgio III del Regno Unito 22, 24, 34-35, 87, 133, 138 Giorgio IV del Regno Unito 34, 87 Giovanni III Sobieski 28 Giovanni V di Portogallo 142 Giovanni VI di Portogallo 145 Giroud de Villette, André 82 Giulio III (papa) 42 Giuseppe Clemente di Baviera 16 Giuseppe Ferdinando di Baviera 14 Giuseppe I d’Asburgo 14, 16, 27 Giuseppe I del Portogallo 39, 4244, 144 Giuseppe II di Asburgo-Lorena (imp.) 28, 30-31, 34, 37-38, 52-54, 64 Gluck, Christoph Willibald 65 Godoy, Manuel 46, 50 Goethe Johann Wolfgang von 64, 75, 77, 106 I dolori del giovane Werther 77, 106 Goiás 145 Goussier, Louis-Jacques 92, 94, 95 Goya y Lucientes, Francisco de 46, 50-51, 98, 116 Gran Bretagna 17, 18, 22-24, 32, 34-35, 38, 40, 49, 99, 114, 130-131, 136, 138, 143, 145, 150-151 Grande Alleanza 16, 17 Grande Alleanza, Seconda 16 Grande Guerra del Nord 13, 26, 27-28 Grandi Laghi, regione dei 24, 138 Grassi, Antonio 31, 52 Gravesande, Willem-Jacob 88 Gregorio, Leopoldo de (marchese di Squillace) 48 Greuze, Jean-Baptiste 115, 116

Grimm, Friedrich Melchior von 39 Guardi, Francesco 115 Guayana 125 guerra d’indipendenza degli Stati Uniti 14, 125, 130 guerra d’indipendenza ungherese 16 guerra dei Sette anni 13, 21, 2324, 31-35, 44, 48, 52, 56-58, 111, 114, 125, 131-132, 134, 137-138, 142 guerra dei Trent’anni 24, 27, 34, 52 guerra dell’Asiento 22, 40 guerra dell’orecchio di Jenkins vedi guerra dell’Asiento guerra di successione austriaca 13, 20-24, 30, 33-34, 111 guerra di successione polacca 13, 20, 28, 46 guerra di successione spagnola 13-16, 22-23, 26, 32-33, 52 guerra franco-indiana 13, 24, 25 Guglielmina di Prussia 62 Guinea 128, 130 Gustavo III di Svezia 27, 37-38 Gustavo IV Adolfo di Svezia 27

H

Halle, università di 56 Hamilton, Alexander 140 Hampstead 117 Händel, Georg Friedrich 61-64, 66, 117 Hannover, dinastia di 22, 34 Hannover, elettorato di 17, 22, 32, 34, 86 Hargreaves, James 102 Hartley, Davis 72 Haugwitz, Friedrich Wilhelm von 53, 54 Haussmann Elias Gottlob 63 Hawaii 127 Haydn, Franz Joseph 61, 65-67, 117 Hayman, Francis 87 Helvétius Claude-Adrien 71 Henri Christophe, Henri I di Haiti 131 Herder, Johann Gottfried von 77 Highmore, Joseph 107 Hispaniola, La 131 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus 67 Hogart, William 96, 102, 116 Hohenzollern, dinastia di 24 Houdon, Jean-Antoine 71, 139 Huber, Jean 70, 92 Hume, David 70, 72-73 Trattato sulla natura umana 72 Hunter, John 89, 114 Hunter, William 87

I

Illuminismo 37, 40, 43, 46, 48, 50, 52, 56, 58, 69-71, 73-77, 81, 83, 87-88, 90, 98, 100, 103104, 106, 108, 117, 120, 122, 128, 130, 132, 142 impero austriaco 28, 35, 114 impero ottomano 27


impero russo 58 impero spagnolo 45 India 20, 24, 34, 35, 79, 125 Inghilterra 16-18, 22, 23, 27, 32-35, 38, 49, 61-62, 64, 70, 79, 86-88, 99, 100, 102, 106, 108-109, 116-117, 119-120, 122, 125, 131, 134-138, 143-144 Inquisizione 39, 44, 46, 48, 51 Irlanda 22 Isabella di Borbone-Parma 64 Isabella I di Russia 32, 35, 57 Isla, José Francisco de la 45 Islanda 125 Istanbul 27 Italia 16, 48, 52, 63-65, 99, 114-116 Ivan VI di Russia 58

J

Jaucourt, Louis de 82, 86, 91 Jean-Jacques Dessalines (Jaques I di Haiti) 131 Jefferson, Thomas 70, 136, 138, 140 Jey, John 140 Johnson, Samuel 79, 106, 121-123 Jones, William 126 Grammatica della lingua persiana 126

K

Kant, Immanuel 40, 69, 70, 73, 76 Critica della ragion pure 73 Critica del giudizio 76 Risposta alla domanda: cos’è l’Illuminismo? 69 Kauffmann, Angelika 88 Kaunitz-Rietberg, Wenzel Anton, conte 24, 33 Kneller, Godfrey 22 Kolín, battaglia di 32 Königsberg 73, 76 Ko ciuzko, Tadeusz 29 Kunersdorf 32 Küstrin, fortezza di 55

L

La Condamine, Charles Marie de 91, 93 La Fayette marchese di vedi Motier de La Fayette, Gilbert du La Harpe, Jean-François de 92 Lalande, Michel-Richard de 64 La Mettrie, Julien Offray de 56, 70, 72, 74, 106 Lampi, Giovanni Battista (il Vecchio) 58 Larrey, Dominique-Jean 114 Lavoisier, Antoine Laurent 68, 81, 87 Lavoisier, Marie Anne 68, 81 Law, John 19, 20 Le Breton, André 93 Le Brun, Charles 115 Le Clerc, Jean 87 Bibliotèque universelle et historique 87 Le Roy, Julien 93 Le Senne, René 81

Leclerc, George-Louis (conte di Buffon) 71, 74, 77, 106 Storia naturale 75 Leibniz, Gottfried Wilhelm 16, 56, 75, 86 Paix d’Utrecht Inexcusable 16 Lemercier de La Rivière, PaulPierre 39 L’ordine naturale ed essenziale delle società politiche 39 Lemonnier, Anicet Charles Gabriel 76 Lemoyne, Jean-Baptiste 116 Lenfant, Pierre 23 Leopoldo I d’Asburgo (imp) 14-16, 61, 62 Leopoldo II d’Asburgo-Lorena (imp.) 30, 39, 63 Lespinasse, Julie de 76 Lessing Gotthold Ephraim 77 Leszczy ska, Maria 60 Leutze, Emanuel Gottlieb 135 Lexington 136 Lichnowsky, Karl 67 Ligli, Bonaventura 15 Lima 49, 141-142 Limoges 100 Lipsia 62-64, 119 Lisbona 40-41, 43-44, 52, 76, 144 Convento do Carmo 41 Palazzo di Queluz 44 Trattato di 144 Literes, Antonio de 64 Liverpool 110, 131 Locke, John 56, 87 Lombardia 52, 53 Londra 20, 22, 34, 40, 68, 78-79, 83, 86, 89, 94, 96, 101-103, 106-107, 109, 111, 117, 120, 126, 129,-131, 134-135, 142, 154, 160 Literary Club 106 Longhi, Pietro 72 Loo, Louis-Michel van 43, 91 Lorena 16, 24, 30-32, 157 Louis, Antoine 86, 93 Luigi Augusto di Borbone, duca di Maine 18 Luigi d’Etruria (Ludovico di Borbone-Parma) 51 Luigi di Francia 14 Luigi di Francia (Gran Delfino) 14 Luigi Enrico di Borbone, principe di Condé 20 Luigi XIII di Francia 14, 123 Luigi XIV di Francia 13-19, 21, 27, 38, 61-62, 64, 103, 114-115, 123, 128, 143 Luigi XV di Francia 12, 17-21, 23, 38, 42, 60, 79, 92, 115, 147, 152 Luigi XVI di Francia 22, 59, 100, 114 Lulli, Giovanni Battista 63-64 Lusazia 32 Lussemburgo 17, 53

M

Mackenzie, Henry 107, 117 Madison, James 140

Madrid 12, 14-16, 35, 43, 45-46, 48-50, 96, 98, 105, 119, 140, 142, 144-145 Palazzo Reale 45 Trattato 43, 142, 144-145 Maiorca 16, 46 Malagrida, Gabriele 42 Malthus, Thomas Robert 102 Saggio sul principio della popolazione 102 Manchester 109 Manila 48, 49 Marat, Jean-Paul 81 Margherita Teresa d’Austria 14-15 Maria Anna d’Austria/d’AsburgoAustria 14 Maria Antonia d’Austria 14 Maria Antonietta d’Austria 22, 30, 59 Maria I di Portogallo 44 Maria Isabella di Borbone 50 Maria Luisa di Borbone (regina d’Etruria) 51 Maria Luisa di Parma 50 Maria Teresa d’Austria e Borbone 14, 15 Maria Teresa I d’Austria 23-24, 28-33, 37-38, 52, 54, 59 Marivaux, Pierre 77 Il gioco dell’amore e del caso 77 La doppia incostanza 77 Marmontel, Jean-François 91 Martín y Soler, Vicente 58 Martin, Pierre-Denis 19 Martinez, Marianne von 88 Martinica 24 Mascarenhas da Silva e Lencastre, José de (duca di Aveiro) 42 Massachusetts 134-137 Massimiliano II di Baviera 14, 16 Mato Grosso 144-145 Mattheson Johann 62-63 Critica musica 62 Maupertuis, Pierre Louis Moreau 56, 71, 74 Mauritius, isole 126, 127 Maurizio di Sassonia 23 Maury, Jean-Siffrey 92 Mayans e Siscar, Gregorio 45 Mazepa, Ivan Stefanovic 27 Mazzarino, Giulio 62, 63 Meléndez Valdés, Juan 48 Melk, abbazia di 53 Mendonça Furtado, Francisco Xavier de 42-43 Mengs, Anton Raphael 45 Menuret, Jean-Joseph (Menuret de Chambaud) 86 Menzel, Adolf 61 Mesmer, Franz Anton 89 Mesopotamia 7, 147-148 Messico 141 Methuen, Trattato di 143-144 Meytens, Martin van 38, 64 Minas Gerais 144-145 Minorca 16, 17, 24 Mirabeau, conte di vedi Riqueti, Honoré-Gabriel (conte di Mirabeau)

Mississippi 24, 138 Monaco 62 Monleón y Torres, Rafael 35 Montagu, Elizabeth 122 Montargis 95 Montesquieu, barone di vedi Secondat, Charles-Louis de (barone di Montesquieu) Monteverdi, Claudio 63 Montgolfier, fratelli 82 Montpellier 83, 86 Montreal 24 Moñino y Redondo, José (conte de Floridablanca) 46 Moravia 32, 52 Moréri, Louis 121 Mosca 27 Motier de La Fayette, Gilbert du (Lafayette) 138 Mozart, Leopold 64 Mozart, Wolfgang Amadeus 61, 63-67, 78, 117 Muratori, Ludovico Antonio 54 Murcia 46

N

Nantes 131 Napoli 15-17, 23, 32, 42, 46, 63, 65, 116 Narva, battaglia di 24 Nebra, José de 64 New Hampshire 140 New York 68, 122, 133-135, 137-138, 140 Newcomen, Thomas 109, 110 Newport 135 Newton, Isaac 70, 72, 75, 83, 86-89, 131, 142 Principia mathematica 86-89 Nigeria 130 Norfolk 108 North, Frederick 135 Nost, John van 34 Nuova Francia 24 Nuova Granada 141, 143 Nuova Spagna 141-142 Nuova Zelanda 124 Nystad, Trattato di 27

O

Odessa 58 Oer, Theobald von 75 Oertel, Johannes Adam Simon 133 Ohio 24 Olavide, Pablo de 45 Ordine dell’Aquila Nera 26, 36 Orlov, Grigorij 57 Ouro Preto 144-145 Oxenstierna, Axel 123

P

Padri Fondatori 138 Paesi Baschi 49 Paesi Bassi 15-17, 23-24, 32, 34, 38, 52-53, 99, 119 Paine, Thomas 140 L’età della ragione 140 Pajou, Augustin 116 Palladio, Andrea 116 157


APPENDICI

Parigi 11, 18-21, 24, 32, 34-35, 42, 60, 62, 74-75, 77, 81, 89, 90, 92-93, 95, 97, 103, 106-107, 114-115, 119-120, 122, 129130, 132, 134, 136-140, 147, 151, 154, 160 Bastiglia 70, 140 Sainte-Chapelle 19 Trattato (1763) 24, 32, 34-35, 134 Trattato (1783) 136-139 Parker, John 136-137 Pennsylvania 134, 137 Pergolesi, Giovanni Battista 6061, 65 Peri, Jacopo 63 Perronneau, Jean-Baptiste 115 Perú 141, 143 Pesne, Antoine 26 Pietro I di Russia (il Grande) 13, 26, 28, 38, 57-59, 98, 116 Pietro II di Russia 57, 58 Pietro III di Portogallo 44 Pietro III di Russia 32, 35, 38, 57, 58 Pigalle, Jean-Baptiste 116 Pilâtre de Rozier, Jean-François 82 Pitt (il Giovane), William 34 Pitt (il Vecchio), William 24, 34 Platone 87 Plessis de Richelieu, Armand-Jean du 123 Podolia 29 Poisson, Jeanne-Antoinette (Madame de Pompadour) 21, 60, 147 Polonia 13-14, 25-29, 38, 58, 98-100 Poltava, battaglia di 27 Pombal, marchese di vedi José de Carvalho e Melo, Sebastião José di (marchese di Pombal) Pomerania 35 Pompadour, madame de vedi Poisson, Jeanne-Antoinette (madame de Pompadour) Pondichéry (Puducherry) 20 Pope, Alexander 106, 122, 131 Porto Rico 141 Portobelo (Panama) 22 Portogallo 16, 37-39, 42-44, 52, 125, 130, 142-145 Posnania 29 Potemkin, Grigorij 59 Potosí 141 Potsdam 12, 57, 62 Palazzo di Sanssouci 12, 56-57, 62 Praga 63, 111 Prammatica Sanzione 140, 142 Prima guerra mondiale 29 Province Unite dei Paesi Bassi 16, 38, 119 Prussia 12-13, 16-17, 22-29, 32-35, 37-38, 42, 52, 55-59, 61-62, 70-71, 75-76, 86, 98, 108, 111, 114, 120 Pufendorf, Samuel 32 Purcell, Henry 64 Pyle, Howard 120 158

Q

Quantz, Johann Joachim 62 Queirolo, Francesco 116 Quentin de La Tour, Maurice 88, 90 Quesnay, François 91, 101 Quiberon, battaglia 24

R

Rameau, Jean-Philippe 60-61, 64, 77, 93, 117 Ramillies, battaglia di 16 Ramsay, Allan 74 Rastatt, Trattato di 17, 22, 32 Rastrelli, Francesco Bartolomeo 59 Rauch, Christian Daniel 73 Raynal, Guillaume-Thomas François 56, 130 Storia filosofica e politica degli insediamenti e del commercio degli europei nelle due Indie 130 Reims 19, 158 Reynolds, Joshua 79, 87, 116, 122, 126 Richardson, Samuel 79, 107, 117 Pamela, o la virtù ricompensata 107 Richelieu, cardinale vedi Plessis de Richelieu, Armand-Jean du Rimbaud, Arthur 80 Rinascimento 115, 128 Rio de Janeiro 41, 144-145 Río de la Plata 141, 144 Riqueti, Honoré-Gabriel (conte di Mirabeau) 56, 71 Ritzsch, Timotheus 119 Rivoluzione francese 62, 67, 81, 98, 105, 132, 136, 140 Rivoluzione industriale 88, 92, 102, 109-110 Robinet, Jean-Baptiste-René 72 Rochambeau, conte di vedi Vimeur de Rochambeau, JeanBaptiste Donatien de Rochelle, La 131 Rodolfo II d’Asburgo (imp.) 119 Rodríguez de Campomanes, Pedro 46, 49 Discorso sopra il fomento dell’industria popolare 49 Roma 42, 44, 65, 114-116, 119, 129 Romanov, Alessio 58 Romanticismo 128 Rosa, Saverio dalla 65 Rossbach, battaglia di 34 Rousseau, Jean-Jacques 60-61, 72, 74, 76-77, 79-80, 91, 108, 117, 127, 129-130 Discorso sulle scienze e le arti 74, 127 Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini 126 Emilio 77, 129 Il contratto sociale 74 La nuova Eloisa 77, 79, 107 Royal Academy of Arts di Londra 86, 87, 116, 126 Royal Society 40, 83, 86, 88, 120

Russia 13-14, 24, 26-29, 32-35, 37-38, 42, 57-59, 70-71, 73, 76, 98-99 Ryswick, Trattato di 131

S

Sabatini, Francesco 45 Sacro romano impero 14, 16-17, 23, 32, 38, 53, 119, 150, 158 Sade, Donatien-AlphonseFrançois de 80 Justine o le disavventure della virtù 80 La filosofia nel boudoir 80 Saint-Malo 131 Salamanca 45, 49 università di 49 Salieri, Antonio 64 Salisburgo 64, 65, 67 Salvador de Bahia 41, 144 Salvi, Nicola 116 Salzillo, Francisco 116 San Ildefonso, Trattato di 144 San Paolo 144-145 San Pietroburgo 29, 36, 57-59, 71, 116 Palazzo d’Inverno 36, 59 Peterhof 38 Sandwich, isole 129 Santa Fe de Bogotá 141 Santo Domingo (Haiti) 131-133, 141 Saragozza 45 Saratoga 137-138 Sardegna 15, 17, 24, 32 Sassonia 23-24, 28, 31-32, 34, 116 Savery, Roelant 127 Savery, Thomas 109, 110 Scarlatti, Alessandro 63 Scarlatti, Domenico 65 Schikaneder, Emanuel 78 Schiller Friedrich 67, 75, 77 Schöbel, Georg 56 Scriblerus Club 106 Sebastopoli 58 Secolo dei Lumi 82, 83, 97, 117, 120 Secondat, Charles-Louis de (barone di Montesquieu) 21, 48, 59, 70, 74, 77, 91, 117, 120, 126, 128, 150 Lettere persiane 21, 117, 126, 128 Lo spirito delle leggi 21, 74, 150 Senegal 130 Sicilia 15, 17, 46 Siete Misiones 144 Silva Xavier, Joaquim José da 145 Siviglia 45 Slavíkovice 54 Slesia 23-25, 31-35, 52-53, 56 Slovenia 32 Smith, Adam 70, 72, 92, 102 Theory of moral sentiments (Teoria dei sentimenti morali) 72 An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni) 102

Società Asiatica del Bengala 126 Società degli Amici dei Neri 132 Sofia Federica Augusta von Anhalt-Zerbst vedi Caterina II di Russia (la Grande) Soler, Antonio 65 Somerset, Edward 110 Spagna 14-17, 22-24, 32, 35, 38, 42, 45-46, 48-49, 52, 54, 64, 99-100, 116, 130-131, 134, 138, 141-142, 144-145 Spandau 56 Spitalfields 102 Squillace, ammutinamento di 48 Squillace, marchese di. vedi Gregorio, Leopoldo di (marchese di Squillace) Stanislao Augusto Poniatowski 28-29 Stanislào I Leszczy ski 28 Stato Pontificio 23 Stedman, John Gabriel 130 Steele, Richard 107, 119 Sterne, Lawrence 106, 107 Tristam Shandy 106 Stoccolma, Trattato di 27 Stradivari, Antonio 61 Strasburgo 116, 119 Sturm un Drang 75-76 Svezia 26-28, 34, 38, 58, 62, 99, 119, 123 Swift, Jonathan 16, 106, 117, 122 I viaggi di Gulliver 106, 117 La condotta degli alleati 16

T

Tahiti 126, 129 Tarin, Pierre 83 Tavernier, Jean-Baptiste 128 Le six voyages de Jean-Baptiste Tavernier, écuyer baron d’Aubonne, qu’il a fait en Turquie, en Perse, et aux Indes 128 Tavora, Francisco de Assis de 42 Tavora, Leonor Tomásia de 21, 42, 88 Telemann, Philipp 63, 116 Terrore, regime del 81 Thiry Paul Henri (barone d’Holbach) 71-72, 91 Tiepolo, Giambattista 115 Tirandentes vedi Silva Xavier, Joaquim José da Tischbein, Johann Heinrich (il Vecchio) 60 Tobago, isola di 138 Toland, John 87 Tordesillas, Trattato di 143-144 Toscana, ducato di 39, 51, 52 Toussaint Louverture, PierreDominique 131-133 Transilvania 32, 52, 53 Trenton, battaglia di 135 Troger, Paul 53 Tronchin, Théodore 86 Troy, Jean-Francois de 80 Tull, Jethro 108 Túpac Amaru I 143 Túpac Amaru II 142-143


Turgot, Anne-Robert-Jacques 71, 91, 100 Riflessioni sulla formazione e la distribuzione delle ricchezze 100

U

Ucraina 27, 29 Ungheria 30, 32, 52-53, 98-100 Uruguay 43, 144 Utrecht, Pace di 16-17, 22, 32, 35, 131, 144

V

Valenza, regno di 15 Vandenesse, Urbain de 83 Varsavia 27-28 Velazquez, Diego Rodríguez de Silva y 50 Venel, Gabriel François 86

Venezia 115 Vernet, Claude Joseph 43 Verona 65 Versailles 17-19, 21, 23, 33, 38, 44, 62, 128 Trattato di 33 Vestfalia, Pace di 14, 22, 24 Vichy-Chamrond, Marie Anne de 76 Vienna 30-32, 38, 52-54, 61, 64-67, 78, 119, 127 Hofburg 30, 31 Palazzo di Schönbrunn 31, 33, 38, 64 Vimeur de Rochambeau, JeanBaptiste Donatien de 133 Vincennes 92 Virginia 25, 135-137 Vittorio Amedeo II di Savoia 17 Vivaldi, Antonio 61, 63, 116

Voltaire (François-Marie Arouet) 13, 16, 40, 48, 54, 56-58, 68, 70-72, 76-77, 80-81, 86, 88, 89, 91-92, 102, 104 Candido, o l’ottimismo 76 Lettere filosofiche 102, 104 L’orfano della Cina 76-77 Sur le malheurs du temps 16

W

Waldstein, Ferdinand Ernst Gabriel von 67 Wallis, Samuel 126 Walpole, Horace 107, 122 Walpole, Robert 22 Ward, Edward Matthew 142 Washington, George 24-25, 135, 140 Waterloo, battaglia di 34 Watt, James 109-111

Watteau, Antoine 115 Weimar 63, 75 Winckelmann, Johann Joachim 114 Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte dell’antichità) 114 Wolff, Christian 56 Worms, Trattato di 24 Wright of Derby, Joseph 83, 109

Y

Yorktown 138

Z

Zaire 130 Zenta, battaglia di 16 Zoffany, Johann 86, 87 Zorndorf, battaglia di 32 Zuccarelli, Francesco 87

IMMAGINI Fotografie: Aci Online: 94i; Age FotoStock: 41, 132; Aisa: 17, 19, 31b, 34, 42, 48-49, 50, 50-51, 52, 56, 67b, 68, 72, 73i, 88, 91, 110-111, 116, 118, 125, 139d, 140, 141, 144-145, 150c; Alamy/Aci Online: 33, 82-83; Album: 20, 27, 28-29, 63, 66, 71, 84-85, 100, 101, 129b, 134a, 136-137; Album/akgimages: 2, 25a, 26a, 26b, 30, 35, 40-41, 58b, 59, 60-61, 61, 62b, 64-65, 67a, 73d, 75, 81, 82, 89, 90-91, 94d, 95ai, 95ac, 98-99, 103, 104, 105a, 106-107, 112-113, 120-121, 122, 123ad, 128, 130, 136; Album/Oronoz: quarta di copertina, 10, 13, 14, 15, 46, 49, 51a, 51b, 78b, 92-93, 95ad, 97, 108; James P. Blair/NGS: 131; Sisse Brimberg/NGS: 4-5;

Bridgeman/Index: 25b, 60, 69, 74, 78a, 79, 80, 86-87, 87, 93, 105b, 107, 109, 114, 117b, 121, 123bd, 129c, 129a, 133, 134b; Corbis: 22, 47, 53, 117a, 138; Getty Images: 12, 57; Gtres/Hemis.fr: 37, 44; Erich Lessing/Album: copertina, 6, 8-9, 18, 21, 23, 30-31, 31a, 32-33, 36, 39, 54-55, 58a, 62a, 65, 76-77, 90, 95b, 96, 111, 124, 127, 139i, 146; The Art Archive: 43, 70-71, 102b, 102a, 119, 126, 143.

Cartografia: Víctor Hurtado (documentazione), Merche Hernández, Eosgis. 159


SPECIALE

numero28 novembre2016 €9,90

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Pubblicazione periodica bimestrale - Anno VI - n. 28

PRESIDENTE

RICARDO RODRIGO CONSEJERO DELEGADO

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IL SECOLO DEI LUMI

IL XVIII SECOLO MODELLÒ IL MONDO CONTEMPORANEO: IL DOMINIO DELLA RAGIONE, IL TRAMONTO DELL’ASSOLUTISMO, IL DISPOTISMO ILLUMINATO CONTRO L’ANTICO ORDINE FEUDALE, LE RIVOLUZIONI IN AMERICA E FRANCIA, LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO

DETTAGLIO DEL QUADRO DI A.CH. G. LEMONNIER NEL SALONE DI MADAME GEOFFRIN NEL 1755 (1812), MUSEO DEL CASTELLO DI MALMAISON (RUEIL, FRANCIA). FOTOGRAFIA: BRIDGEMAN / ACI

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