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L’EUROPA MEDIEVALE
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INDICE INTRODUZIONE
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IL RITORNO DEI RE Dossier: Ravenna, grande capitale d’Occidente
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EREDITÀ DIVERGENTI Dossier: L’arte dei Visigoti
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TRA DUE EPOCHE
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L’IMPERO CAROLINGIO
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LA GRANDE PROVA Dossier: Vichinghi: guerrieri del mare
100 118
SPLENDIDO MULTILATERALISMO
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APPENDICI L’Europa dell’anno Mille Cronologia comparata: Europa, Mondo islamico, Altre civiltà Liste dinastiche Bibliografia Indice analitico Immagini
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PAGINA 2. Busto reliquiario di Carlomagno, datato intorno al 1350 (Tesoro della Cattedrale, Aquisgrana). PAGINE 4 E 5. Mosaici della navata centrale della basilica di San Vitale di Ravenna. NELLA PAGINA ACCANTO. San Gregorio Magno e tre
monaci copisti in una placca in avorio proveniente da Metz e datata tra il 968 e il 980 (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
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INTRODUZIONE
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l presente volume tratta un’epoca che va dall’ultimo terzo del V secolo fino all’inizio dell’XI secolo. Probabilmente, fu proprio il periodo in cui si formò l’Europa, un fatto storico di singolare importanza, corredato da grandi trasformazioni a livello mondiale: il crollo dell’impero romano d’Occidente, l’affermazione dell’impero bizantino e la fine della Persia sasanide, la comparsa dell’Islam e lo sviluppo delle reti commerciali nell’Oceano Indiano e persino nel Mar Cinese. I dettagli di questo capitolo della storia ci appaiono ricchi di luoghi comuni e pregiudizi che il lettore dovrà superare. Il più importante fra tutti i luoghi comuni è il ruolo svolto dai popoli che migrarono nell’impero romano: in effetti, il concetto di invasioni barbariche non sembra corrispondere alla realtà storica. Lo stesso vale per la funzione svolta dal Cristianesimo nella creazione di reti di scambi economici, culturali e politici che promossero le diocesi come unità amministrative a capo delle quali vi erano potenti vescovi, e l’emergere dei monasteri come centri di conservazione della cultura classica a capo dei quali vi erano abati colti e influenti. È difficile cogliere il modello sociale dell’epoca senza tenere conto dell’impronta del messaggio cristiano, sia per l’azione pastorale sia per l’evangelizzazione. Molti popoli entrarono a far parte dell’Europa una volta accettato il Cristianesimo come religione e legge morale. I numerosi conflitti provocati dalla diversità dei credo religiosi e dalle ambizioni politiche vòlte a controllare vasti territori dipingono un quadro che solo una narrazione può essere in grado di mostrare ai lettori contemporanei. Ecco l’obiettivo principale del presente volume: descrivere una serie di avvenimenti che trasformarono il mondo e diedero vita a quella realtà economica, sociale, culturale e politica che prende il nome Europa.
PAGINE 8 E 9. Rovine del monastero di Clonmacnoise, in Irlanda. NELLA PAGINA ACCANTO. Illustrazione tratta da
una pagina del manoscritto Vita, Passione e Miracoli di san Edmondo (1330 ca.), che rappresenta la scena della cattura del re per mano dei Vichinghi danesi (The Morgan Library & Museum, New York).
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IL MAUSOLEO DI TEODORICO Situato nella
periferia di Ravenna, fu costruito da Teodorico il Grande (520 ca.) affinché diventasse la sua futura tomba. Si tratta della più celebre costruzione funeraria degli Ostrogoti. Nella pagina accanto, figurina in bronzo che rappresenta un barbaro a cavallo (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
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IL RITORNO DEI RE L’epoca più violenta durante l’evoluzione dell’impero romano d’Occidente esplose nel momento in cui la sua organizzazione centrale si dissolse. Non appena veniva annunciata la ritirata delle legioni da un determinato territorio, subito si scatenava una cruenta lotta tra le élite locali rivali, per accaparrarsi il controllo dei guerrieri ormai liberi dal legame con le autorità politiche di Roma.
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a vita politica dei popoli barbari era guidata dai re, i quali erano responsabili dell’organizzazione di confederazioni composte da guerrieri provenienti da ogni angolo del vasto mondo germanico, molti dei quali non appartenevano al loro popolo, bensì ad antiche leve di liberti. Tali confederazioni erano note ai Romani con il nome del re che le guidava durante la migrazione. Lo storico Ammiano Marcellino, che svolse la propria attività durante la seconda metà del IV secolo, riporta le differenze sociali esistenti tra loro, tesi che fu poi avvalorata dai corredi funerari che furono rinvenuti dagli archeologi.
Le assemblee posero un limite al potere dei re. Le dispute si risolvevano seguendo un codice legale i cui punti controversi venivano dibattuti in assemblea, nonostante il limite imposto dall’idea germanica secondo cui i re godevano del favore divino al momento di prendere una decisione. Per secoli i barbari avevano scelto di trarre beneficio dai contatti economici con l’impero dell’Urbe mantenendo confini ben definiti, per lo meno sul versante romano. Le aree attorno ai grandi fiumi Reno e Danubio divennero veri e propri poli di sviluppo grazie al commercio di materie prime provenienti dalla Puszta ungherese, dall’Ucraina meridionale e dall’Asia centrale. 13
IL RITORNO DEI RE
MONARCHI OSTROGOTI Anni 494-526
Teodorico il Grande. Re degli Ostrogoti e dei Romani per trent’anni. Anni 526-534
Atalarico. Nipote di Teodorico. Regnò sotto l’influenza di Amalasunta. Anni 534-536
Teodato. Sposato con Amalasunta, figlia di Teodorico, la fece assassinare, provocando l’invasione bizantina. Anni 536-540
Vitige. Venne nominato re durante le guerre bizantine dopo l’omicidio di Teodato, che lui stesso aveva ordinato. Anni 540-541
Ildibaldo. Regnò per un anno, in sostituzione di Vitige, catturato dal generale bizantino Belisario. Anno 541
Erarico. Regnò cinque mesi, prima di morire assassinato per il sospetto che fosse sceso a patti con Bisanzio. Anni 541-552
Totila. Affrontò con successo gli eserciti bizantini, ma venne sconfitto e perse la vita nella battaglia di Tagina. Anni 552-553
Teia. Fu l’ultimo re ostrogoto in Italia. Morì nella battaglia dei Mons Lactarius.
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Tuttavia, intorno al 370, tutto cambiò. Gruppi di nomadi in sella ai loro cavalli – e quindi con grande capacità di movimento – attraversarono il fiume Nipro, facendo irruzione nel Caucaso e nelle valli armene. I Romani li chiamarono Unni. Terrorizzati dalla loro presenza, Alani, Ostrogoti e Visigoti chiesero asilo sul fronte romano del confine, con la pretesa di entrare nei territori dell’impero in qualità di foederati. La politica imperiale, però, non fu affatto all’altezza delle circostanze; vennero prese decisioni ostinatamente parsimoniose, se non sbagliate, e le autorità dell’area orientale lasciarono persino che la parte occidentale crollasse mentre preparavano la loro difesa. Nel giro di pochi anni, nel mondo romano fecero ritorno i re. La Repubblica e il suo corollario, l’impero, divennero storia passata. I centri di cultura si riempirono di eruditi pessimisti che parlavano dell’avvento di una nuova età delle tenebre, in cui le lettere classiche non avrebbero avuto la minima importanza. Ascoltiamo le parole di uno di questi saggi, che divenne papa con il nome di Gregorio Magno: «Le città sono distrutte, i castelli demoliti, i campi devastati, la terra è tutto un deserto. Nelle campagne non si trovano più coloni e le città sono vuote». I lamenti vennero accompagnati da oscure interpretazioni dell’Apocalisse, come se davvero la fine del mondo si stesse approssimando. Erano rimostranze per una civiltà che sembrava condannata a scomparire e per il timore che tutta quella babele di lingue parlate dai nuovi arrivati mettesse fine alla lingua latina, che la Chiesa aveva scelto come lingua per i rituali e le predicazioni. Nei successivi centoventi anni, la Chiesa dovette adattarsi a una confusa serie di leader militari, divenuti re tribali, decisi a imporre un proprio stile di governo, ben distinto dal modello romano. Fu un’epoca di adattamento, nella quale si colloca l’embrione della storia d’Europa.
Gli Ostrogoti: Teodorico e Boezio L’idea di un re padrone e signore di un territorio raggiunse una migliore definizione alla corte di Teodorico, capo degli Ostrogoti; ne troviamo testimonianza nelle Cronache del latino Cassiodoro e, indirettamente, nella Getica dello storico bizantino Giordane. In veste di re, Teodorico cercò la reconciliatio tra le diverse etnie presenti nel nord Italia alla fine del V secolo. Durante il suo regno, dimostrò di essere un grande monarca, e come tale è passato alla storia, anche se ciò non gli impedì di trovarsi immischiato nei numerosi intrighi di palazzo e di commettere un errore nel momento in cui affrontò la successione al trono. Ottenne la sua fama grazie ai poemi epici che, nella Germania del XIII secolo, ne celebrarono i
Teodorico visto da Procopio di Cesarea Teodorico creò una corte a Ravenna seguendo il modello imperiale di Costantinopoli. Decise di ingrandire la città; fece erigere un sontuoso palazzo vicino alla Basilica di Sant’Apollinare Nuovo – oggi andato perso – e si circondò di illustri personaggi della cultura e dell’arte. La fama dell’imperatore Teodorico fu talmente vasta e riconosciuta che una generazione dopo, a metà del vi secolo, l’influente storico bizantino Procopio, poco propenso a elogiare qualsiasi re barbaro, scrisse su di lui nel V libro della sua opera Storia delle guerre : «[Teodorico] si preoccupò moltissimo della giustizia […]; si segnalò per la saggezza e la grande umanità. […] Se pure Teodorico, in apparenza, fu un usurpatore, in realtà fu un vero sovrano, non inferiore a chiunque altro si sia più nobilmente distinto in tale carica fin dal principio; perciò crebbe sempre di più tra i Goti e gli Italiani l’affetto per lui […]. Quando morì, era non solo divenuto temibile per tutti i nemici, ma lasciò grande rimpianto di sé fra i sudditi». Parte dell’operato di questo re viene ricordato nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo; a destra, mosaico che raffigura il suo palazzo (VI secolo).
successi militari e gli diedero il nome di Dietrich von Bern, ovvero Teodorico da Verona. Un elogio dedicato alla vita e all’agire politico di un personaggio considerato il più intelligente e preparato di tutti i re barbari del suo tempo: basti pensare al fatto che sono giunti fino a noi i racconti tendenziosi sulla sua vita privata e sui sentimenti provati per la figlia Amalasunta. Ciò spiega le numerose versioni riportate riguardo la sua personalità, oltre al tono polemico con cui spesso gli storici raccontano le azioni di governo di questo monarca, e in particolare la sorte che toccò ad alcuni tra gli uomini più in vista del suo tempo. Nel 488, l’imperatore bizantino Zenone nominò Teodorico magister militum e lo autorizzò a sostituire Odoacre nell’incarico di delegato imperiale della zona. Da quel momento, Teodorico fu consapevole del fatto che la guerra tra i popoli germanici avrebbe avuto l’Italia come teatro principale. Le battaglie di Verona (489) e del fiume Adda (490) furono vittorie difficili, poiché gli costarono un terzo delle sue truppe; alla fine, però, si impossessò di tutto il territorio conteso, in-
clusa l’importante città di Ravenna, dove insediò la corte e fece costruire un mausoleo in onore suo e della figlia Amalasunta. Il successo di tali campagne si dovette in parte al fatto di essersi presentato in veste di delegato imperiale; per questo motivo, i vescovi cattolici gli prestarono aiuto, sebbene egli fosse un fervente ariano. Infine, Teodorico ricevette il titolo onorifico di console d’Occidente. Per trentuno anni, dal 494 al 526, fu re di due popoli: gli Ostrogoti, poco numerosi, amministrati dai propri tribunali, che godevano del particolare privilegio di poter prestare servizio militare, e i Romani – la maggior parte della popolazione – con le loro leggi: nel caso in cui, però, vi fosse stato un Ostrogoto implicato in una contesa, il giudice avrebbe dovuto appartenere a quel popolo. Le cariche dell’amministrazione civile e della prefettura del pretorio furono ricoperte da Romani, che erano noti per le loro origini familiari e le conoscenze giuridiche e amministrative. Ciò permise di mantenere il ritmo nella costruzione delle opere pubbliche e di stimolare la
cultura latina, grazie alla quale si ricordano nomi come Cassiodoro e Boezio. La rovina di Teodorico ebbe inizio nel 518, in corrispondenza con l’ascesa al trono bizantino dell’imperatore Giustiniano I il Grande. La persecuzione degli ariani a Costantinopoli provocò un sentimento di diffidenza nei confronti di alcuni illustri cattolici di Ravenna. Tra questi, vi fu il patrizio Albino, accusato di alto tradimento. Con un gesto che, a conti fatti, risultò essere molto importante, Boezio affermò che «se l’accusato era colpevole, lo era il Senato intero e lui stesso». Tale dichiarazione portò all’immediata reclusione in carcere, da dove avrebbe scritto uno dei libri più famosi e influenti di tutto il Medioevo: il De consolatione philosophiae. Infine, dopo un rapido processo, il 23 ottobre del 524 i boia gli legarono una corda attorno al collo, stringendola fino a fargli saltare gli occhi dalle orbite, e lo colpirono a morte. Pochi mesi dopo, Simmaco, suo suocero, fu giustiziato con metodi molto simili. Come conseguenza di tutto ciò, Teodorico distrusse la propria reputazione. Procopio racconta che egli 15
IL RITORNO DEI RE
Châlons: antefatti e conseguenze della battaglia
TESTA DI DONNA.
Porta il copricapo caratteristico dell’arte di Ravenna, durante l’epoca della reggenza di Amalasunta, elegante e colta figlia di Teodorico il Grande. Secolo VI (Museo della Civiltà Romana, Roma).
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La battaglia fu definita dei Campi Catalaunici o Mauriaci, poiché si svolse nei pressi del Campo Mauriaco. Durante gli scontri, Ezio e i suoi alleati si appostarono su una collina da cui riuscirono a respingere gli attacchi dei temibili cavalieri unni, sia dal fronte sinistro, dove si trovavano i Romani, sia dal destro, dove erano appostati i Visigoti, con Teodorico al comando. Non fu una battaglia decisiva, poiché, l’anno seguente, Attila condusse i suoi eserciti nel nord Italia e i Visigoti consolidarono la propria presenza in Aquitania. Fu una delle ultime vittorie della tattica romana sui mezzi militari, superiori, dei popoli barbari. Dagli scarsi esempi rinvenuti delle armi di questi popoli, emerge un pezzo di oreficeria longobarda del VII secolo. Si tratta della visiera dell’elmo di Agilulfo (nella pagina accanto), in rame dorato, su cui, con il pretesto di rendere omaggio all’incoronazione del re Agilulfo, sono raffigurati guerrieri e capi militari molto simili a quelli che combatterono la battaglia di Châlons (Museo Nazionale del Bargello, Firenze).
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A Châlons, nella regione della ChampagneArdenne, gli eserciti unni, composti da 451 uomini, al seguito del loro re Attila si scontrarono contro le legioni romane comandate da Ezio, appoggiate da Visigoti, Alani, Franchi Sali e Burgundi.
Accampamento di Attila
Attila
2 Teodorico
TRUPPE DI FLAVIO EZIO
TRUPPE DI ATTILA
Alani Romani Visigoti
Unni Popoli barbari (Gepidi) Ostrogoti
DISPOSIZIONE. Ezio spiegò i soldati romani sul fronte sinistro, su una piccola collina, dispose i Visigoti sul fronte destro e, tra i due, gli Alani.
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pianse sul male che aveva compiuto; tuttavia, forse si trattò solo di un atto politico anziché di autentico rimorso, poiché, con la morte di Boezio, il sovrano ostrogoto aveva toccato con mano i rischi insiti nell’attaccare i membri illustri della classe senatoria romana. Papa Giovanni I fece da mediatore nella crisi che era esplosa, e si diresse a Costantinopoli, a colloquio con l’imperatore. Al suo ritorno a Ravenna, tentò di convincere Teodorico, riportandogli la disponibilità dell’imperatore a firmare un’alleanza. Non ebbe successo: al contrario, fu fatto prigioniero e morì poco dopo in circostanze misteriose. Tutti gli sguardi furono puntati sul re, il quale cercò di risolvere la situazione preparando una campagna contro gli Alamanni, popolo di pagani. Tuttavia, non poté attuarla poiché morì di dissenteria nell’agosto del 526. Da quel momento in poi, la sua figura fu al centro delle polemiche. Teodorico lasciò il trono al nipote Atalarico, con la reggenza di sua madre, Amalasunta, una donna cresciuta con un’educazione classica. Atala-
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ATTACCO. Attila si scagliò contro gli Alani, mentre il conglomerato barbaro si scontrava con i soldati romani di Ezio.
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SCONFITTA. Attila percepì il pericolo della carica visigota: Ezio poteva circondarlo sull’altro fianco; perciò, fuggì nel suo accampamento.
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rico, però, non ebbe molta fortuna: regnò in un’atmosfera sempre più pesante a causa delle continue voci secondo cui il nuovo imperatore Giustiniano voleva trasformare Ravenna nella capitale della parte occidentale dell’impero bizantino.
I Visigoti in Aquitania Il re Eurico (466-484) consolidò il dominio dei Visigoti nella Gallia meridionale. Dopo aver sconfitto la resistenza del nobile gallo-romano Ecdicio, figlio dell’imperatore Avito, e dopo aver firmato un trattato di pace con l’imperatore Nepote, fece dei fiumi Loira e Rodano e del Mediterraneo i confini del suo vasto regno. Fu un re dal riconosciuto talento militare e politico, oltre che un ariano zelante, ostile alla dottrina cattolica e, di conseguenza, all’impero bizantino. Per questo motivo, si rifiutò di sottomettersi, anche solo nominalmente, all’imperatore; al contrario, lo sfidò promulgando un codice di leggi, il Codice di Eurico, adatto ai nuovi rapporti tra Goti e Romani. Il codice manteneva la separazione dei due popoli, i matrimoni misti erano dichiarati illegali e ogni popolo si ba-
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UN EMISSARIO REALE. Porta una croce verso il trono, come simbolo che evidenzia la conversione del popolo longobardo e del suo re al Cattolicesimo, con l’intervento di papa Gregorio Magno.
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UN ANGELO. Accompagna l’ingresso dell’emissario con la croce all’interno della sala del trono, dove il nuovo re aspetta di essere incoronato e consacrato alla nuova fede.
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sava sulle proprie leggi. Sembrava la miglior soluzione al problema – nato al suo arrivo in Aquitania – della coesistenza di due popoli con diversi modi di intendere la religione cristiana. Settant’anni prima, tra il 416 e il 418, era stato firmato un accordo (foedus in latino) che aveva permesso ai Visigoti di stanziarsi – in qualità di foederati, ovvero “associati” – nelle fertili terre della valle della Garonna, una regione molto più ricca di qualsiasi altro territorio dei Balcani. I loro re avevano ottenuto il pieno riconoscimento da parte delle autorità romane, sebbene non fossero riusciti a ottenere i pagamenti in oro né la capacità di nominare alte cariche nell’amministrazione imperiale. Il loro potere venne limitato, e furono relegati a una regione prospera, ma lontana dai centri decisionali dell’impero. In compenso, fu concessa loro la possibilità di combattere nel nome dell’impero e, così, nel 541 risposero alla chiamata di Ezio contro gli Unni nella battaglia dei Campi Catalaunici (o di Châlons), tra le odierne Reims e Troyes. Con tale accordo sembrava si fosse riusciti a mettere fine a una lunga migra-
AGILULFO. Incoronato nel 591, il monarca è in attesa, seduto sul trono, circondato da due guerrieri con lance e scudi tipici dell’armamento longobardo.
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LA REGINA. Teodolinda, figlia di Garibaldo I dei Bavari e moglie di Agilulfo, ha fabbricato una nuova corona: la Corona Ferrea, forgiata con i chiodi della croce di Cristo.
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UN EMISSARIO. Porta la Corona Ferrea per posarla sul capo del re: ciò conferirà al suo mandato un carattere divino, come accadeva per gli imperatori romani.
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zione, iniziata da quando erano stati cacciati dalle loro terre a nord del Mar Nero a causa della pressione dei popoli nomadi. Dopo anni trascorsi a spostarsi da un luogo all’altro, finalmente i Visigoti avevano trovato una terra di cui potersi impossessare, nella quale vollero costruire un regno con capitale a Tolosa. Eurico volle di più, e decise di occupare la provincia tarragonense (in Hispania). La Chronica Caesaraugustana, opera del vescovo Massimo, informa, in modo molto conciso, del fatto che nel 494 «Gothi in Hispanias ingressi sunt» («I Goti entrarono in Spagna»). L’estensione del territorio compensò la perdita di potere sul confine settentrionale, sulla Loira, e su quello orientale, sul Rodano, dove erano iniziati gli insediamenti di Franchi e Burgundi. Nel 484 Eurico morì lasciando il trono e il tesoro al figlio Alarico II. Fin dal primo momento, Alarico II fu cosciente della necessità di una fantasiosa azione di governo, se voleva affrontare i suoi potenti vicini, Franchi e Burgundi. Promulgò un codice legislativo per i propri “sudditi” romani, il cosiddetto 17
IL RITORNO DEI RE
MONARCHI MEROVINGI Anni 448-457
Meroveo. Re dei Franchi che diede il nome alla dinastia merovingia. Anni 457-481
Childerico I. Figlio di Meroveo, collezionò grandi successi militari. Anni 481-511
Clodoveo I. Si convertì al Cattolicesimo ed espanse il suo regno. Anni 511-561
Clotario I. Re di tutti i Franchi, conquistò diversi territori. Anni 561-584
Chilperico I. Figlio di Clotario I, ricevette in eredità il regno di Neustria. Anni 584-629
Clotario II. Figlio del precedente monarca, fu re dei Franchi, di Neustria e di Parigi. Anni 629-639
Dagoberto I. Re dei Franchi, firmò un trattato di pace con Bisanzio. Anni 639-657
Clodoveo II. Re dei Franchi, di Neustria e di Borgogna. Anni 657-673
Clotario III. Re dei Franchi, di Austrasia, Neustria e Borgogna. Anni 673-691
Teodorico III. Re dei Franchi, deposto da Pipino di Herstal.
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Breviario di Alarico, per ottenere il loro appoggio nella guerra che pareva ormai inevitabile contro i Franchi. Non si sbagliava. I primi scontri si verificarono a Tours e a Saintes, ma l’episodio più grave fu l’occupazione di Bordeaux nel 498 e la cattura del duca visigoto Sutrio. La pace del 502, auspicata dall’ostrogoto Teodorico il Grande, servì solo a rimandare l’inevitabile di qualche mese: la guerra contro i Franchi sull’altra sponda della Loira. La storia non interruppe il suo corso.
Consolidamento dei Franchi Nel 507, la confederazione di popoli germanici, noti come “Franchi” – cioè uomini liberi – che aveva raggiunto il controllo di buona parte della Gallia romana, ottenne una grande vittoria militare contro i Visigoti comandati da Alarico II nella battaglia di Vouillé, che fu combattuta nei pressi di Poitiers. I rappresentanti dell’impero si affrettarono a complimentarsi con il loro comandante, che rispondeva al nome di Clodoveo (l’equivalente dell’odierno Luigi). Clodoveo diceva di essere discendente di un tale Meroveo, personaggio mitico morto intorno al 457, che secondo la leggenda era figlio di un mostro marino: da lui proviene il nome di “Merovingi”. A Meroveo successe Childerico I, che aveva stabilito la propria corte a nord della città di Cambrai, dando inizio a una rapida carriera al servizio dei Gallo-Romani della regione tra le Fiandre e la Senna. Quando, nel maggio del 1653, venne scoperta la sua tomba presso la chiesa di St. Brice, a Tournai, nell’odierno Belgio, gli archeologi rinvennero una straordinaria collezione di oro e gioielli, tra cui un anello sigillo su cui spiccava il nome del proprietario della tomba: Childeric regis, re Childerico. Furono ritrovate alcune api d’oro, che Napoleone si fece cucire sul mantello nel giorno dell’incoronazione come imperatore dei francesi, il 2 dicembre 1804. Una tale magnificenza suggerisce l’idea di un signore della guerra in grado di accumulare ricchezze mediante la pratica del saccheggio. I successi militari di Childerico I resero più semplici gli obiettivi del figlio Clodoveo, che gli successe al trono nel 481. La sua storia personale è densa di leggende: non per niente, per secoli si pensò a lui come al re che aveva trasformato la Gallia romana nella Francia medievale. Il regno di Clodoveo iniziò con un successo militare di importanza simbolica, la campagna contro Siagrio, il governatore romano del nord della Gallia, e la successiva occupazione di Parigi. In seguito, la spettacolare marcia verso sud, in direzione della Loira. Nell’arco di tre anni, tutte le città a nord del fiume, fino ai confini della Bretagna e della Borgogna, erano state sottomesse.
La complessa mappa politica, nella quale ciò che restava del potere romano era stato ripartito tra vari principi indipendenti, diede luogo a un’egemonia indiscutibile e alla creazione di un potente apparato amministrativo, il più solido d’Occidente dalla scomparsa dei quadri amministrativi dell’impero romano. Le terre spopolate gli offrirono un ampio spazio per sistemare i numerosi coloni franchi come premio per le loro costanti vittorie, senza bisogno di confiscare terre. Infine, si impossessò di ciò che rimaneva dell’esercito di Siagrio. Nel 493, Clodoveo riuscì a piegare la volontà dei vescovi cattolici sposando la principessa cattolica Clotilde, figlia di Chilperico, re dei Burgundi ucciso dal fratello Gundobado. Clotilde portò con sé una pesante dote, il dovere di vendicare quell’omicidio: ciò gli offrì il pretesto necessario per dirigere il suo esercito contro i Burgundi; inoltre, la donna esercitò un forte ascendente morale, grazie al quale convinse il re a convertirsi al Cattolicesimo. Il vescovo Gregorio di Tours, il grande storico dei Franchi, riportò con dovizia di dettagli le conversazioni teologiche tra i due
sposi; grazie a tali confidenze, possiamo conoscere il pensiero e i sentimenti di un uomo e una donna di un passato così remoto. Un avvenimento fortuito diede l’impulso decisivo alla conversione cattolica di Clodoveo. Nel 496, un attacco degli Alamanni lo costrinse a dichiarare loro guerra tra il Reno e la Mosa, nei pressi di Tolbiacum (l’odierna Zülpich). In un momento di disperazione, Clodoveo rivolse al Dio dei cristiani una preghiera che Gregorio di Tours riportò nelle sue cronache: «O Gesù Cristo, che Clotilde predica come figlio del Dio vivente, tu che, dicono, presti aiuto a coloro che sono angustiati e che doni la vittoria a quelli che sperano in te, io devotamente chiedo la gloria del tuo favore, affinché, se mi concederai la vittoria sopra questi nemici e se potrò sperimentare quella grazia che dice d’aver provato il popolo dedicato al tuo nome, io possa poi credere in te ed essere così battezzato nel tuo nome. Perché ho invocato i miei dei ma, come vedo, si sono astenuti dall’aiutarmi». In seguito alla vittoria sugli Alamanni, Clodoveo si battezzò il giorno di Natale del 496, otte-
nendo così il sostegno dei vescovi e la lealtà della popolazione cattolica. Dopo il battesimo, si preparò a conquistare le fertili terre a sud della Loira, approfittandone per entrare in guerra con il visigoto Alarico II. Dopo averlo sconfitto senza mezzi termini, fece un’entrata trionfale a Tours vestito di porpora, ostentando il titolo romano di “console onorario” ricevuto dall’imperatore Anastasio; dopodiché, si diresse a Parigi, convertendola in capitale del regno, suo centro naturale e capitale di una prospera regione bagnata dalla Senna. Da quel momento si impegnò a consolidare il regnum Francorum. Tuttavia, alla sua morte nel 511, i quattro figli, seguendo la tradizione dei Franchi, decisero di dividerlo in lotti uguali, scegliendo quattro sedi episcopali come capitali dei rispettivi territori: Teodorico ebbe Reims; Clodomiro, Orléans; Childeberto, Parigi; Clotario I, Soissons. In seguito, si scatenò una fitta trama di intrighi di palazzo, omicidi e conflitti familiari che terminarono quando Clotario I rimase l’unico re dei Franchi. Clotario I seguì la politica del padre e ingrandì i territori con le conquiste militari. La campagna più
BATTESIMO DI CLODOVEO. La scena del
battesimo è rappresentata su questo reliquiario, detto della santa Ampolla, creato in occasione della consacrazione di re Carlo X di Francia (Palais du Tau, Reims). L’ANELLO DI CHILDERICO I.
Copia dell’anello sigillo di Childerico, re dei Franchi (Ashmolean Museum, Oxford).
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IL RITORNO DEI RE
la situazione fu diversa. L’amministrazione delle città scomparve; la società era suddivisa in tre gruppi: gli individui liberi, i liberti e gli schiavi. Nel mondo romano non vi era spazio per il secondo gruppo. Inoltre, troviamo indizi secondo cui l’aristocrazia latina fu gradualmente sostituita da un’élite sociale basata sulla guerra di conquista. Nel bel mezzo di queste trasformazioni si venne a formare una struttura politica che cedette il passo alla Francia della dinastia merovingia. Alla morte di Clotario I nel 561, il regno fu diviso in tre parti, che in un certo senso annunciano un’organizzazione definitiva del territorio, visto che il figlio Cariberto, che ricevette Parigi, morì molto presto: a Sigeberto lasciò Metz e Reims, la regione nota come Austrasia, ovvero “regno dell’est”; a Chilperico, la regione di Soissons, nota come Neustria, che significa “regno del nord-ovest”; a Gontrano, la Borgogna. La storia dei Merovingi aveva di fronte a sé una lunga strada da percorrere.
La Britannia e Ambrosio Aureliano
RADEGONDA E CLOTARIO.
Radegonda seduta al tavolo di Clotario. Miniatura di un manoscritto dell’XI secolo contenente la Vita di santa Radegonda (Biblioteca Municipale, Poitiers).
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decisiva fu contro i Turingi, stanziati nell’odierna Germania centrale. Radegonda, la figlia del defunto re dei Turingi, Bertario, fu fatta prigioniera. Venne portata alla corte di Soissons dove crebbe finché il re la prese in moglie (540). L’evento ebbe diverse conseguenze. Una di ordine interno, poiché Clotario I fu un marito despota che maltrattò la moglie; l’altra fu l’avvicinamento di Radegonda a un uomo della Chiesa, Venanzio Fortunato, una delle migliori fonti dell’epoca. Secondo i testi di Fortunato, il regno franco del VI secolo, sotto Clotario e Radegonda, era diviso in due regioni, più o meno separate l’una dall’altra dal fiume Loira. A sud del fiume, vi era una consistente continuità con il passato romano: le vecchie famiglie di proprietari terrieri conservavano i propri latifondi, oltre a parte della loro antica cultura e dei suoi valori. Erano persone che parlavano abitualmente in latino e conservavano un interesse per la cultura classica. Si ebbero cambiamenti importanti, per esempio la sostituzione di Arles come primo centro commerciale del Mediterraneo in favore di Marsiglia. A nord,
Nel 540, un monaco bretone che rispondeva al nome di Gildas scrisse un sermone sulla situazione del proprio Paese di fronte all’arrivo dei Sassoni, considerando l’adventus Saxonum il maggior evento della storia della Britannia. Il sermone, dal titolo De excidio Britanniae, ossia Sulla rovina della Britannia, illustra come effetto principale della migrazione dei popoli germanici la trasformazione della Britannia romana nell’Inghilterra anglosassone, esaltando l’ostilità tra l’invasore anglosassone e il nativo celta e la vittoria finale del primo sull’eroica resistenza del secondo. Oggi, però, gli archeologi hanno messo in dubbio tale interpretazione e hanno perplessità sulla pulizia etnica e persino sull’arrivo di invasori che misero tutto a ferro e fuoco dai tempi dei leggendari Hengest e Horsa. La Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile fece risalire il momento culmine delle migrazioni intorno alla metà del V secolo, basandosi sulla convinzione secondo cui i Britanni avessero chiesto aiuto a Ezio quando questi ricopriva l’incarico di console «per la terza volta»; oggi, però, si tende a credere che il momento culmine si ebbe con l’attacco anglosassone alla fine del V secolo, tra il 477 e il 491, epoca in cui l’archeologia moderna colloca il saccheggio di alcune città fortificate (oppida) come Anderida, l’odierna Pevensey. In tali scontri, pare che i Britanni avessero incontrato un comandante della classe senatoria romana di nome Ambrosio Aureliano, che ebbe nella propria discendenza il leggendario Artorio, divenuto nei racconti re Artù. Figlio di Uther Pendragon, Ambrosio Aureliano fu l’eroe della battaglia del Monte Badon (Badon Hill), intorno al 500, in cui i Britanni ottennero una grande vittoria sui Sassoni.
I GIOIELLI DEI RE MEROVINGI
L’
oreficeria si distinse come una delle manifestazioni caratteristiche dell’arte merovingia tra il V e l’VIII secolo. La tomba del re Childerico, scoperta nella città di Tournai nel 1653, offre una selezione molto varia di oggetti del suo corredo funerario. Gli oggetti d’oro che racchiudono granati al loro interno secondo la tecnica dell’intarsio, o cloisonné, monopolizzano la decorazione, divenendo una costante nell’arte dell’epoca. Attualmente, il tesoro è conservato nel Gabinetto delle Medaglie della Biblioteca Nazionale di Parigi. Sotto, disegno con una riproduzione degli oggetti.
I GIOIELLI DELLA REGINA AREGONDA Fibbia da cintura appartenente al corredo funerario della regina Aregonda, moglie del re merovingio Clotario I e madre di Chilperico I. L’oggetto, d’argento con decorazioni in oro, granato e perle di vetro, appartiene a una collezione di gioielli rinvenuta nel 1959 all’interno del sarcofago di pietra della regina, nella basilica di Saint-Denis, nei pressi di Parigi. Attualmente, il tesoro della regina Aregonda è conservato nel Museo Archeologico Nazionale di SaintGermain-en-Laye, Francia.
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FODERO DELLA SPADA. Presenta
FIBULE.
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ghiere d’oro intarsiate con pietre di almandini.
Decorazioni d’oro con intarsi di granato, grazie alla tecnica del cloisonné.
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BRACCIALETTO.
È d’oro e sancisce il legame del re con i capi militari dall’altra parte del confine.
4 SPADA. Ha il manico d’oro e presenta gli stessi intarsi delle fibbie o delle ghiere.
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MONETE.
Sono romane, d’oro, e sono il segno inequivocabile dei rapporti con l’impero. 21
IL RITORNO DEI RE
Decadenza e caduta del regno dei Vandali La storia del regno dei Vandali, il cui centro fu Cartagine, fu segnata dagli scontri religiosi che avvennero tra cattolici, ariani e donatisti. Alla morte di Genserico nel 477, i Vandali accantonarono l’arte della guerra e si dedicarono a una vita oziosa a imitazione dei patrizi romani, pur senza perdere un certo tocco barbaro in quanto a cibo e festeggiamenti. Nel giugno dell’anno 533, circa 500 navi da trasporto e 92 imbarcazioni da guerra ricevettero l’ordine dell’imperatore Giustiniano e la benedizione del patriarca di Costantinopoli e presero il mare, in direzione di Cartagine. Procopio, che faceva parte dello stato maggiore di Belisario, scrisse un vivido racconto sulla “guerra vandala”, preludio della fine del loro regno. Dopo essere sbarcati con solo 5.000 soldati di fanteria, Belisario travolse le difese improvvisate dei Vandali. Il regno scomparve in pochi giorni, anche se i soldati imperiali dovettero far fronte a un attacco delle tribù berbere che scesero dalle loro montagne. I Bizantini occuparono tutto il Nord Africa fino all’arrivo degli Arabi. A destra, una siliqua, piccola moneta d’argento coniata da Genserico.
MOSAICO FUNERARIO CRISTIANO. Al Museo
del Bardo di Tunisi sono conservati diversi esempi di mosaici romani con simbologia paleocristiana, come quello dell’immagine, prova dell’importanza ricoperta dalla questione religiosa nel regno dei Vandali. Il maggior conflitto vide lo scontro tra i cristiani fedeli a Roma, i cattolici e i cristiani donatisti, un distaccamento religioso che prende il nome dal vescovo di Cartagine, Donato; il movimento veniva considerato eretico perché il caratteristico rigorismo era in contrasto con il senso del perdono.
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La versione comune sottintende che i popoli di origine germanica, che raggiunsero le coste della Britannia a partire dalla fine del V secolo, fossero divisi in tre tribù alleate che parlavano lingue strettamente imparentate tra loro: gli Angli, provenienti dall’odierno Schleswig-Holstein, in cui ancora oggi una penisola ne conserva il nome, Angeln (Anglia); i Sassoni, oriundi dell’antica Sassonia sull’Elba e sul Weser; infine, gli Juti, che a un certo punto della loro esistenza occuparono le terre della Penisola dello Jutland. Le spedizioni erano isolate, senza una direzione continua, fatta forse eccezione per gli Angli, alle cui spedizioni si univano spesso vari popoli ed etnie. Le vie di penetrazione furono gli estuari del Tamigi, del Wash e dell’Humber; le continue incursioni diedero luogo a un’infinità di leggende e, com’era consueto in quell’epoca, alle lamentele dei Britanni letterati che denunciarono, senza tanti giri di parole, che tutta la Britannia era finita sotto il dominio dei Sassoni. Il costante flusso migratorio dal continente permise un movimentato “travaso culturale” tra i nuovi arrivati, in mino-
ranza, e la maggior parte della popolazione autoctona. Tale fenomeno, su cui cerca di far luce la moderna archeologia, spiegherebbe perché la missione romana a Kent del 597 parlasse già di una società anglosassone. Il collasso del sistema di ville e proprietà rurali di origine romana fu accompagnato da una lenta comparsa di modalità di occupazione del territorio di chiaro stampo germanico e dalla presenza dei loro costumi negli armamenti e negli accessori d’abbigliamento che furono rinvenuti nelle tombe. Il processo di osmosi culturale si concluse in questo modo. Era giunto il momento di mettere ordine in quel mosaico di popoli e di cultura materiale.
La talassocrazia dei Vandali Nel 530 una rivolta di palazzo a Cartagine portò al trono Gelimero, l’ultimo re dei Vandali. Dal ritiro forzato in un angolo dell’impero forse poté riflettere sul motivo che portò il nome del suo popolo a diventare sinonimo di distruzione e di caos. Un secolo prima, i Vandali avevano attraversato lo Stretto di Gibilterra da Tarifa e avevano
REGNO FRANCO
Genova
R E G N O BU RGU N D O Marsiglia
Narbona
Pisa
REGNO O S T RO G O T O Alalia
REGNO VISIGOTO
Corsica
Tarragona
(Aleria)
Roma
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Malaga
le
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Napoli
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Sardegna Cagliari
Cartagena
Almeria
MAR MEDITERRANEO
(Melilla)
Pomaria
MAURET
Messina
Caesarea
(Cherchell)
CESARIENSE ANIA
(Tlemcen)
Hippo Regius
Cuicul
Sitifis (Sétif)
Cirta (Costantina) AFRIC
MAURETANIA SITIFENSE
Cartago
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Domini vandali
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(Ippona)
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Septem Fratres (Ceuta)
(Susa)
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Tacape / Gabès
Malta e Gozo
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468 533 NUMIDIA Demarcazioni romane Cessione a Odoacre, re ostrogoto (476)
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Sabratha Oea (Tripoli)
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Leptis Magna
Indipendenza dei regni mori (480-520)
occupato la Mauretania, portando così a termine una massiccia migrazione dalla Grande Pianura ungherese fino alla punta meridionale della Penisola Iberica (quasi 2.500 km), che, tra le altre cose, li aveva portati ad attraversare il Reno nella notte di san Silvestro del 406. Ai tempi, i Vandali erano comandati dal re asdingo Genserico (428-477). La distanza, combinata con la pesante ostilità delle truppe romane, aveva reso lo spostamento estremamente traumatico per tutti loro, anche quando, alla fine, riuscirono a imporsi come la nuova élite delle province romane più ricche del Nord Africa, dalla cultura sofisticata e dalle tradizioni meno rigide, al punto che lo storico cristiano Salviano di Marsiglia li descrisse, con estremo rigore morale, sentina vitiorum, «ricettacolo di peccati». La rapida avanzata di Genserico in Numidia dallo sbarco del 429 fece riconciliare i generali romani, ma il potente Bonifacio subì una dura sconfitta nei pressi di Ippona, città che sant’Agostino si prodigò per difendere. Di fronte alle atrocità compiute, nel 435 l’impero firmò con lui un trattato, trasformandolo in federato e amico di Roma.
La presa di Cartagine e delle altre città fortificate, insieme alla potentissima flotta romana, gli consentì di creare una talassocrazia nel Mediterraneo occidentale, occupando le isole della Sicilia, Sardegna, Corsica e delle Baleari. A quell’epoca, ormai, ciò che restava del popolo vandalo era un gruppo di nomadi guerrieri con ben poche cose in comune, se non il fatto di essere ariani; ciò li portò fin da subito a scontrarsi con la popolazione autoctona e, soprattutto, con i Berberi dell’entroterra. Il conflitto religioso tra donatisti e cattolici distrasse un po’ lo sguardo dei successori di Genserico dai loro obiettivi. Suo figlio Unnerico (477-484) fu un tiranno sanguinario che dichiarava guerra a tutti, in particolare ai membri della propria famiglia e ai cattolici, cui furono imposte multe elevate e una feroce persecuzione. Guntemondo (484-496), nipote di Unnerico, cercò di accattivarsi i cattolici, senza riuscirci, mentre il fratello Trasamondo (496-523) dovette soffocare le rivolte dei Berberi con una dura guerra, che si concluse con la perdita dell’entroterra della Mauretania e della Nu23
La nascita del monacato occidentale e la regola di san Benedetto Il monacato occidentale fu un’importante istituzione religiosa dell’Europa medievale. Uno dei suoi principali pionieri fu san Benedetto da Norcia che, a tale scopo, ebbe cura di redigere una “regola”, ovvero un codice pratico e ordinato di norme per dirigere un monastero. San Benedetto nacque nel 480 a Norcia, località umbra, in seno a una famiglia senatoria. Si ribellò contro la dissoluta società romana e si ritirò in una grotta nei pressi di Subiaco, dove condusse una vita cenobitica. La sua fama si sparse nella regione, finché decise di recarsi a Montecassino con un gruppo di seguaci per trasformare quel luogo nella casa madre dei “monaci neri”,ossia l’ordine dei benedettini; in quel luogo morì nel 543. Non volle intervenire in altri monasteri, anche se la regola che aveva redatto veniva utilizzata in molti di essi. Per il monaco, il giorno era suddiviso in tre parti, dopo le otto ore obbligatorie di riposo. Innanzitutto, il dovere principale del benedettino era l’Opus Dei, ovvero le preghiere quotidiane comuni cantate in coro, che duravano circa quattro ore. Il secondo dovere era il lavoro manuale in campagna o nel chiostro, che impegnava altre sei ore. Il terzo e ultimo era la lettura delle Sacre Scritture e dei libri dei Padri della Chiesa, cui si dedicavano da tre a cinque ore. Era una vita tranquilla ma attiva, priva di ambizioni mondane, basata sull’umiltà e sull’obbedienza, che erano due tratti caratteristici e fondamentali del profilo di un monaco benedettino. Nell’VIII secolo, l’imperatore Carlomagno invitò tutti i monasteri dell’impero a seguire la regola di san Benedetto. A destra, cripta della Chiesa di San Benedetto di Malles Venosta (Bolzano) e dettaglio degli affreschi che la decorano, testimonianza dell’adozione della regola di san Benedetto durante l’epoca carolingia.
midia, nonostante l’aiuto prestatogli dal suocero, l’ostrogoto Teodomiro: Trasamondo, infatti, aveva sposato Amalafrida, la figlia minore del monarca. Successore al trono fu lo sciagurato figlio di Unnerico e della principessa bizantina Eudocia, Ilderico (523-530), il quale lasciò l’alleanza ostrogota, fece imprigionare Amalafrida, cercò un avvicinamento con l’impero grazie alla madre e fece infuriare tutti i suoi sudditi per i continui cambiamenti politici. Fu infine deposto grazie a una rivolta di palazzo che mise sul trono suo cugino Gelimero (530-534), l’ultimo re dei Vandali. La ribellione contro il figlio di una principessa imperiale fu il pretesto che portò l’imperatore Giustiniano a ordinare al suo esercito di avanzare contro il regno dei Vandali. Il generale Belisario fu inviato in Africa con un esercito di 10.000 fanti e 6.000 catafratti (cavalleria pesante), e una flotta di protezione. La battaglia di Ticameron fu l’inizio della fine per i Vandali; un anno dopo Gelimero si arrese. L’impero si era impossessato della potente talassocrazia dei Vandali, occupando tutte le isole che 24
erano cadute sotto il loro dominio. Si trattò di un successo militare ottenuto con un considerevole prezzo di risorse umane e materiali.
Il mondo slavo Intorno al 530 una confederazione di popoli slavi noti come Sclaveni intraprese un’incursione dall’odierna Valacchia e dal sud della Moldavia fino al confine dell’impero romano d’Oriente. Procopio, contemporaneo degli eventi, scrisse che quei popoli erano imparentati tra loro e che avevano attraversato il Danubio senza incontrare resistenza, per poi stanziarsi nelle province balcaniche controllate da Costantinopoli. Dai nomi dei capi che dirigevano la migrazione si evince che fossero di lingua slava. L’argomento in favore di quella prima migrazione slava è confermato dalla testimonianza dello storico Giordane che scrisse, all’incirca negli stessi anni di Procopio, il suo De origine actibusque Getarum, meglio conosciuto come Getica. Nella sua opera, Giordane descrive gli Slavi come un gruppo che si era allontanato dalla po-
L’OFFERTA. Un abate offre il monastero, in un frammento di un affresco di epoca carolingia della Chiesa di San Benedetto, a Malles Venosta (Bolzano).
polosa razza dei Veneti, sotto il nome di Sclaveni e Anti. Tale testimonianza, inoltre, coincide in parte con uno degli argomenti più famosi utilizzati negli studi sugli Slavi del VI secolo, derivato del campo della linguistica: il nome slavo usato per indicare il carpino (il cui nome scientifico è Carpinus betulus); non avevano, invece, nessun termine per definire il faggio o il tasso. Ciò farebbe supporre che il luogo d’origine degli Slavi sia nella regione paludosa di Pripyat, in Polesia, una zona umida situata circa 350 km a nord dei Carpazi. Tale indizio, di per sé misero, oltre che messo in discussione da alcuni archeologi contemporanei, è lo spunto di un evento davvero singolare: il processo di espansione che avrebbe reso i popoli di lingua slava la forza dominante in una grossa fetta del paesaggio europeo dal fiume Elba fino al Volga. Una delle ragioni che spiegano l’espansione slava fu la migrazione di centinaia di volontari che riempivano gli spazi vuoti precedentemente abbandonati dai Goti, dai Vandali e dagli Svevi. Alla fine del VI secolo, gli Slavi stabilirono un nuovo confine e penetrarono in
Boemia e in Pannonia, lungo la riva settentrionale del basso Danubio. Una parte importante di questo paesaggio era dominata fino ad allora da popoli di lingua germanica, pertanto l’ascesa degli Slavi comportò un cambiamento culturale e politico di importanza epocale. Diede luogo, infatti, alla creazione della terza grande area linguistica dell’Europa moderna, insieme alle lingue romanze e germaniche: i confini tra le tre aree sono rimasti, nel tempo, quasi inalterati.
San Benedetto e il Monachesimo Nel 529, mentre le scuole ateniesi di filosofia chiudevano, si aprivano le porte dell’abbazia di Montecassino. Il nome del suo fondatore era Benedetto da Norcia, rampollo di un’illustre famiglia senatoria romana. La sua vita fu una lotta senza quartiere contro ciò che egli considerava l’immoralità dell’epoca, compreso il rifiuto che aveva ricevuto da una donna all’età di quindici anni. Prese le distanze dall’idea di vita ritirata e solitaria, proponendo, invece, una vita in comunità, secondo delle regole severe che egli stesso aveva 25
IL RITORNO DEI RE
La guerra gotica: Bisanzio torna alla penisola italica Le campagne dell’esercito bizantino in Italia, che Procopio battezzò con il nome di “guerra gotica”, ebbero come conseguenza, oltre alla fine del regno degli Ostrogoti, la rovina delle principali città romane, a partire dalla stessa Roma. L’Urbe, presa cinque volte e saccheggiata tre, vide una forte riduzione della popolazione, giunta quasi al milione di persone, a 40.000 abitanti. Inoltre, circa la metà di questi viveva dell’elemosina papale.
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Regno ostrogoto alla morte di Teodorico il Grande (526): Pieno dominio Territori federati Fortezze bizantine (551) Conquiste bizantine (533) Impero bizantino Assedi
Reggio Siracusa
Campagne militari: Belisario (535-540) Narsete (552-553) Invasione burgunda in aiuto agli Ostrogoti (538-539) Linea di ripartizione degli imperi d’Occidente e d’Oriente Battaglie
Milano era stata distrutta e i suoi abitanti uccisi. Centinaia di città e villaggi caddero nell’insolvenza a causa delle riscossioni dei governanti e dei saccheggi delle truppe. Regioni prima coltivate furono abbandonate, e di conseguenza diminuì la produzione di viveri: solo a Piceno, 50.000 persone morirono di fame durante la guerra. L’aristocrazia venne smembrata: furono talmente tanti gli aristocratici che persero la vita durante le battaglie, i saccheggi o le fughe che non vi furono sufficienti sopravvissuti per la continuazione del Senato. I grandi acquedotti erano fatiscenti e trascurati, e la mancanza di acqua portò alla comparsa di focolai di malaria. Gli splendidi bagni, che dipendevano dagli acquedotti, caddero in disuso e in rovina. Centinaia di statue furono fuse per produrre proiettili e macchinari durante gli assedi. Della grandezza di Roma e di altre grandi capitali, fatta eccezione per Ravenna, restavano solo rovine. L’Italia tornò nelle mani dell’impero, ma a carissimo prezzo. Sarebbero dovuti trascorrere secoli perché ritornasse al livello di vita che aveva avuto precedentemente.
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scritto. Nacque così l’idea di riunirsi in cima al ripido monte nei pressi della città di Cassino, circa 130 km a sud di Roma. Vi avrebbe trascorso il resto della vita, fino al 543, anno in cui morì circondato dai “monaci neri”, l’ordine dei Benedettini, che furono la matrice di una ricostruzione spirituale e culturale in Europa. Sotto l’influenza dell’ordine, furono creati circa un centinaio di monasteri in tutta Europa e l’esempio di Benedetto fece sì che alcuni uomini di cultura decidessero di farsi monaci. Fu il caso di Cassiodoro, che a cinquant’anni abbandonò i negotia politici e la corte di Ravenna per rifugiarsi nel monastero di Vivarium, vicino alla sua città natale, Scolacium, l’odierna Squillace, in provincia di Catanzaro. Lì avrebbe trascorso quasi lo stesso numero di anni, contemplando, leggendo e scrivendo nella splendida biblioteca che lui stesso aveva fondato. Le sue Institutiones, un testo essenziale per la speculazione intellettuale di tutta l’Età medievale, raggiunsero una fama straordinaria. E non solo: se non fosse stato per lui e per la svolta che impresse nella missione dei Benedettini, forse non sarebbero state conservate le opere classiche complete greche e latine. Da quel momento in poi, la copiatura di manoscritti fu una delle principali attività dei monaci. Il mondo invecchia, come diceva sant’Agostino, ma era ancora possibile salvarlo dalla distruzione definitiva. Senza dubbio, un compito ammirevole.
La guerra gotica Mentre a Montecassino Benedetto e i suoi monaci pregavano e lavoravano pacificamente, ebbe luogo la grande guerra europea del VI secolo, la guerra gotica, così come fu chiamata dallo storico Procopio di Cesarea, contemporaneo agli eventi. Durò vent’anni (534-554) ed ebbe l’Italia come scenario del conflitto. Segnò la fine della civiltà antica a Roma e in altre importanti città d’Italia. L’evento scatenante fu banale come tanti altri nella storia. La figlia di Teodorico, Amalasunta, regnava sugli Ostrogoti in nome del figlio Atalarico, il quale morì nel 534 lasciando il regno nelle mani di Teodato, cugino della regina, un individuo intrigante e ambizioso che la fece imprigionare con l’accusa di alto tradimento e poco dopo la fece assassinare. L’imperatore Giustiniano reclamò, allora, il diritto di vendicare la propria pupilla e così mandò in Sicilia il generale Belisario, che si impossessò dell’isola senza incontrare resistenza, tranne quella – molto scarsa – di una guarnigione ostrogota a Palermo; nel frattempo, la flotta capitanata da Mundo occupava la Dalmazia. Teodato decise di opporre resistenza alle truppe imperiali, seguendo l’esempio dei Vandali. Tutta-
via, tale decisione fu la sua rovina: infatti non si era reso conto del fatto che l’ideale della restitutio, portato avanti dall’insonne imperatore bizantino, era una potente arma politica. L’ideale era la principale garanzia di persistenza nell’azione dell’esercito imperiale in Italia e, a conti fatti, significò la continuazione in Occidente di una politica indipendente dai costi umani ed economici. Giustiniano aveva progetti ambiziosi. Belisario sbarcò a Reggio e, con una rapida campagna, prese Napoli, dove la popolazione lo accolse come un liberatore. Allora si fermò a riflettere. L’inatteso e repentino successo indusse Belisario a trasformare la propria campagna militare nel primo Grand Tour d’Italia, con Roma incastonata insieme ad altre meravigliose città, quali Palermo, Cuma, Rimini, Urbino e Fermo, tramite operazioni militari nelle quali si mescolavano energia, astuzia e cautela, che gli garantivano il rispetto dei soldati, delle popolazioni sottomesse e anche dei nemici. Gli Ostrogoti passarono all’attacco. Deposero il goffo e intrigante Teodato e nominarono re il
valoroso Vitige. Dopo aver stretto un patto con i Franchi, cui dovette cedere la Provenza, Vitige sottopose Roma a un implacabile assedio. Tuttavia, la città non capitolò, dimostrando una decisa resistenza che permise lo sbarco di nuove truppe imperiali che occuparono Milano. Fu allora che la grande politica scese a patti con le decisioni di strategia militare. Giustiniano voleva applicare in Italia uno schema che imitasse l’ordine territoriale e politico orientale. La tradizionale funzione del fiume Eufrate come linea divisoria e confine sarebbe stata svolta nella Penisola Italiana dal Po. Vitige avrebbe regnato a nord del fiume, in un territorio che comprendeva Milano; il resto sarebbe rimasto all’impero bizantino, insieme a metà del tesoro reale degli Ostrogoti. Tale era il carteggio ufficiale, tali le condizioni accettabili per Vitige e confermate anche, a posteriori, da Procopio, il quale percepì la presenza di implicazioni difensive nel militarismo di Giustiniano. Tuttavia, Belisario si oppose. Era convinto di potere vincere la guerra a campo aperto e contava di portare Vitige prigioniero alla capitale imperiale,
TOTILA, RE DEGLI OSTROGOTI. Affresco di
Benedetto Bonfigli (1420 ca.-1496), raffigurante l’assedio di Perugia per mano di Totila. Appartiene al ciclo di affreschi Storie di san Ludovico e sant’Ercolano, dipinti per il Palazzo dei Priori di Perugia (Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia).
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IL RITORNO DEI RE
MONETA D’ORO DI GIUSTINIANO.
Questa moneta, nota nel Medioevo come “bisante”, termine che ne richiama l’origine bizantina, fu coniata in omaggio alle spedizioni del generale Belisario, che conquistò per l’impero il regno dei Vandali dell’Africa del Nord e quello degli Ostrogoti nella penisola italica dopo una guerra lunga e costosa. Qui viene mostrato nel suo ruolo di legislatore, uno degli aspetti per cui viene ricordato.
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proprio come aveva fatto con il vandalo Gelimero. E così, senza attendere ulteriori istruzioni da palazzo, decise di marciare su Ravenna. In quel momento, architettò quella che sarebbe stata la sua miglior mossa. Convinse i nobili ostrogoti del fatto che stesse agendo per conto proprio e che, probabilmente, la città non sarebbe stata consegnata all’impero. Gli si aprirono così le porte, ma ben presto l’inganno venne scoperto. Belisario mise il re Vitige sotto controllo militare, mentre proclamava apertamente che ogni sua azione era nel nome e per conto dell’imperatore Giustiniano. Belisario aveva preso la grande città d’Occidente senza perdere un solo uomo. Mandò Vitige alla capitale ma, mentre si preparava a organizzare il territorio, ricevette l’ordine di rientrare, lasciando in città nelle mani di un delegato civile con una scarsa guarnigione. Belisario stava diventando un pericoloso nemico. La marcia di Belisario su Ravenna fu un errore fatale per l’impero, per il futuro di Giustiniano e per il corso della storia del Mediterraneo. In pochi mesi gli Ostrogoti si ripresero dalla sconfitta e scelsero Ildibaldo come sovrano, mentre l’impero si logorava nella guerra contro i Persiani. Non fu d’aiuto nemmeno la politica fiscale, che fece piombare gli Italiani in un sentimento di nostalgia per i tempi di Teodorico. A quel punto fece la sua comparsa Totila, il quale divenne una figura decisiva per l’epilogo della guerra gotica. Il nuovo re – non solo un valoroso militare, ma anche un politico dalla forte grinta – ragionava in termini sociali, innanzitutto, di revolutio. Era conscio del bisogno di garantirsi l’appoggio e il sostegno della popolazione locale, ma non tentò di accattivarsela tramite la Chiesa o attraverso i grandi latifondisti rappresentati nel Senato, bensì con misure economiche volte a proteggere gli strati sociali più esposti al fisco imperiale. Con questo programma, marciò verso sud e riconquistò Napoli, ma senza saccheggiarla; fece lo stesso con Roma, anche se, in questo caso, ne cacciò gli abitanti, lasciandola deserta. Ciò accadeva il 17 dicembre dell’anno 541: in quel giorno si pose fine alla Roma classica. I nuovi abitanti che giunsero in città avevano ben pochi vincoli con la vecchia classe senatoria. La situazione era sempre più favorevole alla causa gotica e contraria all’impero. Giustiniano accantonò le altre preoccupazioni e costrinse la tesoreria imperiale a un ultimo sforzo, volto a organizzare un esercito di circa 35.000 uomini al comando di Narsete, che era un grande stratega ma un pessimo uomo politico. Nel 552, Narsete giunse a Ravenna e sconfisse Totila a Tagina (Gualdo Tadino), un villaggio nei pressi di Roma, sugli Appennini. Il re cadde du-
rante la fuga, ma gli Ostrogoti che si erano spostati verso l’Italia settentrionale elessero re Teia, il quale ebbe ancora il tempo di scontrarsi con le truppe imperiali nella battaglia dei Mons Lactarius (odierna catena dei Monti Lattari), nei pressi del Vesuvio. L’anno successivo, alcuni nobili ostrogoti riunirono un gruppo di guerrieri franchi e alamanni per marciare insieme a loro contro le truppe imperiali che incontrarono, infine, lungo il fiume Volturno, in Campania: lì ebbe luogo una di quelle classiche battaglie di fine epoca, in cui un esercito ben comandato si impone su una moltitudine di guerrieri superiori in numero e in bravura; con questa battaglia, da cui riuscirono a fuggire solo cinque uomini tra gli sconfitti, si concluse la guerra gotica, l’ultima guerra dell’antichità, o la prima del Medioevo.
L’esarcato di Ravenna Narsete riorganizzò il territorio della Penisola Italiana come una provincia dell’impero romano. Vi rimase per un periodo di dieci anni in veste di esarca. Questo periodo della storia d’Italia in cui
SANT’APOLLINARE IN CLASSE. Basilica edificata
nel VI secolo dal vescovo Ursicino e con il patrocinio del banchiere Giuliano Argentario, nel quartiere marittimo di Classe, a circa cinque chilometri dal centro di Ravenna. Fu consacrata nel 547; è formata da tre navate e un’abside poligonale con cappelle absidali. Davanti alla facciata troviamo un nartece, sotto il quale vi sono marmi e iscrizioni. Sopra il portico c’è una trifora. A sinistra della chiesa, troviamo la torre del campanile, del IX secolo, che si erge con una forma cilindrica, mentre le finestre, dal basso verso l’alto, sono prima monofore, poi bifore e infine trifore. Tale struttura rende la torre più stabile e leggera, impedendole di crollare. All’interno, sono notevoli i mosaici dell’abside, in cui viene rappresentata la figura di sant’Apollinare.
si amministrava il territorio da Costantinopoli, come provincia dell’impero bizantino, viene definito, a ragione, l’epoca dell’esarcato. In quegli anni, Narsete restaurò la preponderanza del clero cattolico, rimasto in ombra con le autorità ostrogote. Esaltò l’immagine dell’imperatore nel processo di restauro delle chiese di Ravenna: l’area del porto – dominata dall’imponente complesso architettonico di Sant’Apollinare in Classe – divenne il punto in cui si concentrò l’attività economica; infine, nel centro della città venne conclusa la Basilica di San Vitale, i cui lavori erano iniziati già durante il regno di Teodorico. La parte finale dell’opera fu finanziata dal banchiere Giuliano Argentario, sotto lo sguardo attento dell’arcivescovo Massimiano. L’enorme sforzo costruttivo, che fece risplendere Ravenna come la grande capitale d’Occidente nel VI secolo, fu ben poco utile a Narsete, o meglio: non gli servì proprio a nulla. Alla morte di Giustiniano, l’erede al trono – Giustiniano II – gli ordinò di rientrare a Costantinopoli e, una volta lì, fu trattenuto con la forza mentre si cercava di capire quali fossero le rimo-
stranze dei provinciali. Morì nel 567, quando l’Italia era alla vigilia di una nuova migrazione di popoli. Fu in quel periodo, probabilmente, che iniziarono i lavori dei celebri mosaici di San Vitale, in cui vengono rappresentati l’imperatore Giustiniano e l’imperatrice Teodora con i loro seguiti, sebbene nessuno dei due avesse mai messo piede una volta nella città. Quei bellissimi mosaici sono una risposta iconica al ritorno degli imperatori nei vecchi territori dell’impero romano d’Occidente. Un magnifico esempio di arte bizantina utilizzato come mezzo di propaganda politica. Ciò nonostante, la risposta era arrivata troppo tardi. La storia non avrebbe fatto marcia indietro. Rimaneva la possibilità di inventare un nuovo impero, uno europeo che potesse fare da contrappeso al crescente potere dei re. Sarebbe stata questa la grande sfida della successiva tappa della storia della formazione dell’Europa. Forse in questo senso sarebbe quindi corretto considerare l’anno 569 come la grande linea divisoria, non solo della storia politica italiana, bensì di due grandi epoche storiche. 29
RAVENNA, GRANDE CAPITALE D’OCCIDENTE
Ravenna, grande capitale d’Occidente
Ravenna, capitale dell’impero romano d’Occidente, fu l’unica città in grado di mettere in ombra Costantinopoli, come capitale del regno ostrogoto e, inoltre, come sede dell’esarcato bizantino.
L
o splendore di Ravenna ebbe inizio quando l’imperatore Onorio ne fece la sede dell’impero d’Occidente, nel 404. La ragione di quella scelta fu la sua eccezionale posizione geografica sulle rive dell’Adriatico: le sue paludi e lagune la rendevano inespugnabile via terra, mentre i banchi di sabbia la proteggevano via mare. Resistette meglio di Roma all’attacco dei Visigoti di Alarico I.
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Tuttavia, Ravenna tremò quando un altro condottiero germanico (questa volta pagano), di nome Radagaiso, attraversò le Alpi capitanando un esercito di Alani, Quadi, Ostrogoti e Vandali. Resistette all’assedio e Stilicone riuscì a risolvere la situazione con la vittoria a Fiesole nel 406 e la decapitazione di Radagaiso. Logicamente, sarebbe stato necessario proseguire la guerra e farla finita una volta per
Giustiniano Questo imperatore tentò, senza riuscirvi, di raggiungere l’unificazione politica e religiosa dell’Italia, eleggendo come capitale Ravenna. I suoi principali successi furono l’immensa opera giuridica e una grande eredità artistica, a metà strada tra la tradizione bizantina e il rinnovamento medievale.
I mosaici delle chiese di Ravenna L’artista bizantino fece del mosaico il suo mezzo preferito di espressione. Si serviva di pezzi di marmo colorato, oltre che di cubi di vetro o smalto di tutte le tonalità tagliati in diverse dimensioni, ma solitamente in piccolissime tessere. Le pietre preziose si mischiavano con gli altri materiali. Il mosaico fu impiegato per ritratti o icone in tutte le chiese di Ravenna. Nelle immagini, interno e mosaico dell’adorazione dei Re Magi di Sant’Apollinare in Classe.
tutte con quell’esercito sconfitto, tuttavia Stilicone preferì negoziare. Così facendo, Ravenna consolidò il proprio ruolo di capitale imperiale, attorno a una corte di patrizi, principesse, vescovi, eunuchi e generali, intrisa di lusso, venalità e intrighi. In una di queste cospirazioni cortigiane, Stilicone venne accusato del delitto di alto tradimento. Altro non era che un pretesto grossolano per provocare la caduta di un uomo che non era mai stato amato a causa delle sue origini sociali, e i cui successi l’avevano reso detestabile agli occhi ambiziosi delle personalità più in vista. I cortigiani non dovettero faticare molto per ottenere la testa di Stilicone dall’imperatore Onorio. E la sua scomparsa segnò la sorte di Roma.
L’imperatrice Galla Placidia Alla morte di Onorio, e dopo un tentativo di usurpazione da parte di un burocrate di nome Giovanni, salì al trono
dell’impero d’Occidente il giovane Valentiniano III e la madre, Galla Placidia, ottenne la reggenza. Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio il Grande, principessa che era stata sposata in prime nozze con il comandante visigoto Ataulfo, dopo la morte del marito nel 415 era tornata a Ravenna per contrarre un nuovo matrimonio con un ufficiale d’alto rango di nome Costanzo, padre del nuovo imperatore Valentiniano III. Durante la reggenza di Galla Placidia, la città di Ravenna prosperò e, al tempo stesso, divenne teatro di una vita ricca di tragici e burleschi intrighi, degni di una commedia d’intreccio. In uno di questi complotti, la figlia minore di Galla Placidia, Giusta Grata Onoria scrisse una lettera – non si sa con quali intenzioni e ispirata da cosa – al famoso re degli Unni, Attila, in cui gli proponeva di sposarla. Attila non si fece sfuggire l’occasione e prese alla lettera l’assurda proposta, re-
clamando per sé la giovane principessa e, ovviamente, il diritto al trono. Nel 450 Ravenna guardava al futuro con preoccupazione, dopo la morte di Galla Placidia, poiché era l’unica persona che avrebbe potuto contenere le velleità del figlio Valentiniano. Fu sepolta in un mausoleo che lei stessa aveva fatto costruire tra il 425 e il 430, unito a una basilica attualmente scomparsa. Con pianta a croce latina, il mausoleo presenta tutti i tratti di un edificio a carattere funerario, intriso di un forte senso del martirio, motivo per cui successivamente fu dedicato a san Lorenzo. All’esterno, è rivestito di mattoni e pietra, tenuti insieme dalla malta, con arcate cieche e un tetto ricoperto di tegole. L’interno è dominato dalla cupola e dalle volte a mezza botte dei bracci laterali. Le pareti sono decorate con bellissimi mosaici raffiguranti otto apostoli e alcune colombe mentre bevono da un vaso. Gli altri quattro apo31
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stoli sono rappresentati nelle volte del braccio trasversale. Sulla porta compare una raffigurazione di Gesù Cristo nel suo valore simbolico di “guida celeste”, vale a dire del Buon Pastore. Alcuni pannelli in pietra permettono alla luce di penetrare all’interno attraverso le finestre. Il mausoleo contiene tre sarcofaghi: il più grande, tradizionalmente attribuito a Galla Placidia, perse il proprio contenuto nell’incendio del 1577. Il secondo sembra appartenere all’imperatore Valentiniano III, figlio di Galla Placidia, o all’imperatore Onorio, fratello dell’imperatrice. L’ultimo viene attribuito al marito di Galla Placidia, Costanzo III. La morte di Galla Placidia turbò profondamente la vita politica di Ravenna; anche la carestia che si scatenò quello stesso anno fu attribuita alla morte di quella donna eccezionale. In realtà, invece, una piaga aveva decimato i campi di grano nei pressi della città; ciò coin32
cise, inoltre, con l’incursione di Attila che distrusse fino alle fondamenta la città di Aquileia, i cui abitanti fuggirono verso le vicine paludi e fondarono una città che con il tempo sarebbe diventata l’alternativa alla grande Ravenna: Venezia. Tuttavia, mentre la sede imperiale correva un imminente pericolo, fece la sua comparsa la provvidenziale figura di papa Leone I Magno: dopo un colloquio con Attila alle porte di Ravenna, lo convinse a ritirare l’assedio. Inspiegabilmente, il “flagello di Dio”, che non aveva mai fatto marcia indietro di fronte a niente, eccezion fatta per l’effimera sconfitta avvenuta nell’anno precedente nella battaglia di Châlons o dei Campi Catalaunici, fece ritorno con il bottino alla sua terra d’origine, la pianura pannonica. L’effetto della campagna di Attila sulla vita politica di Ravenna fu considerevole. I patrizi della città e gli eunuchi di corte accusarono il generale Ezio di non
averli difesi. Vi fu, allora, uno dei classici intrighi che caratterizzarono la vita cortigiana di Ravenna. L’imperatore Valentiniano III dovette cedere alla pressione dei suoi principali collaboratori affinché non venisse celebrato il matrimonio previsto di una delle sue figlie con Gaudenzio, figlio di Ezio, grazie al quale la corona sarebbe passata nelle sue mani, dato che l’imperatore non aveva figli maschi. Non potendo più fare conto sui consigli e sull’appoggio della madre, Galla Placidia, si lasciò convincere dal nobile patrizio Petronio Massimo ad assassinare Ezio. Per raggiungere tale scopo, nel settembre del 454 lo convocò per una riunione di palazzo e, dopo una feroce lite, Petronio Massimo lo colpì e l’eunuco Eraclio gli diede il colpo di grazia. In seguito a tale episodio, a Ravenna si sparse la voce secondo cui “Valentiniano si fosse tagliato la mano destra con la sinistra”. La decisione di appoggiare la cospirazione fu
Basilica di San Vitale La costruzione del tempio ebbe inizio durante il regno ostrogoto, anche se la maggior parte dell’opera fu finanziata successivamente dal banchiere Giuliano Argentario e conclusa dal vescovo Massimiano tra il 546 e il 556. La chiesa ha pianta centrale con un doppio anello ottagonale composto da un deambulatorio e una tribuna con pilastri che sostengono la cupola. Il presbiterio è sovrastato da una volta a crociera. Vi si accede da un nartece con due porte. La parte esterna è di materiali leggeri ma resistenti, con paramenti in mattoni rinforzati agli angoli da archi rampanti e contrafforti che terminano nella gronda del soffitto. La cupola è ottagonale con tubi di terracotta. Sotto, mosaico del presbiterio raffigurante Abele e il sommo sacerdote Melchisedec mentre compiono i loro sacrifici. A destra, pianta e prospetto dell’edificio.
fatale per Valentiniano, poiché Petronio Massimo non gli aveva mai perdonato il fatto di non aver raggiunto la posizione di Ezio; per tale ragione, progettò un nuovo intrigo, questa volta per assassinare l’imperatore in persona. E ci riuscì. Durante una sfilata delle truppe, alcuni soldati del suo seguito pugnalarono l’imperatore e il suo fedele servitore Eraclio. Il duplice omicidio, rimasto totalmente impunito, commosse la società di Ravenna, ma non successe niente più di questo.
La fine dell’impero d’Occidente Era lampante che la linea di successione ereditaria dell’impero fosse ormai chiusa e il trono rimaneva esposto a quelle personalità ambiziose che potevano contare sull’appoggio dei soldati. Petronio Massimo sposò in fretta Eudossia, la vedova di Valentiniano III, allo scopo di acquisire così il diritto ereditario grazie ai figli che avrebbero potuto avere.
Da quel momento in poi, Ravenna divenne lo scenario privilegiato da cui poter osservare la caduta dell’impero d’Occidente e soprattutto la rovina di Roma, con gli attacchi del vandalo Genserico che, dai suoi porti nell’Africa del Nord e in Sardegna, si impossessò del Mediterraneo occidentale. Grazie alla caratteristica inespugnabilità, solo Ravenna riuscì a resistere al suo impeto; non accadde lo stesso per le altre città imperiali, che caddero nelle mani di Genserico o furono saccheggiate. Durante una di queste incursioni, l’imperatrice Eudossia fu fatta prigioniera con la figlia Eudocia, che Genserico fece sposare con suo figlio Unerico. Tali eventi, pertanto, legarono sempre più Ravenna all’impero d’Oriente, che divenne con il tempo una delle tante città bizantine. Tuttavia, Ravenna sarebbe stata ancora testimone dell’ultimo atto dell’intrigo politico che pose fine all’impero romano d’Occidente.
Nel 455, alla morte di Petronio Massimo, venne proclamato imperatore un generale gallo di nome Avito che attirava il disprezzo dell’alta società di Ravenna e dell’influente gruppo di eunuchi di corte. Il suo regno durò meno di dodici mesi, con l’unico sostegno dell’esercito mercenario comandato dal barbaro Ricimero, un avventuriero senza scrupoli nato da uno Svevo e una Visigota, che ben presto, oltre tutto, gli si rivolse contro. Data la situazione, Avito considerò prudente abdicare. Secondo Sidonio Apollinare, Ricimero divenne in quel momento “l’Invincibile”, l’uomo da cui dipendevano le sorti dello Stato. Di fatto, lui stesso nominava e destituiva gli imperatori a suo piacimento. Con il suo avvallo, nel 457 salì al trono Maggioriano che, in realtà, fece tutto il possibile. Da quel momento in poi, Ravenna fu coinvolta in un intrigo senza fine per stabilire se la città dipendesse dall’Occidente o dall’Oriente. 33
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Costantinopoli inviò una potente spedizione militare comandata da Antemio, che dovette ben presto negoziare la propria posizione in città con Flavio Ricimero, quando, nel 467, divenne imperatore d’Occidente. La situazione, se non tragica, era comica. La convivenza tra Antemio e Ricimero presentava non poche difficoltà. I due signori non facevano che farsi “complimenti” l’uno alle spalle dell’altro. Antemio considerava Ricimero un «barbaro vestito di pelli», mentre questi giudicava Antemio un «galato irritabile». L’unico punto in comune, che teneva in bilico la società di Ravenna, era il desiderio di riconquistare il granaio di Roma, quei territori del Nord Africa in mano ai Vandali: dopo anni di pessimi raccolti avevano bisogno di grano. Tuttavia, la spedizione si rivelò un completo fallimento, un disastro militare e una rovina economica, visti gli investimenti di oltre 65.000 libbre d’oro e 70.000 d’argento, una vera fortuna. La sconfitta segnò la sorte di Antemio, il quale venne assassinato nel 472 dopo un tentativo di fuga travestito da vagabondo. Poco tempo dopo, morì Ricimero, lasciando il potere nelle mani di suo figlio (secondo altre fonti, suo nipote) Gundobado, crudele come il padre anche se meno abile nell’ordire intrighi. Infatti, si mosse male all’interno della società di Ravenna e ben presto sentì il fiato sul collo dell’imperatore d’Oriente, Leone I il Grande, che mandò Giulio Nepote in veste di imperatore per opporsi a un certo Glicerio, candidato di Gundobado. Dopo una resistenza iniziale, Glicerio rinunciò al trono. Ciò nonostante, Giulio Nepote fu imperatore per poco tempo, poiché uno dei suoi uomini di fiducia, di nome Oreste, si ribellò a lui autoproclamandosi imperatore nel 475; curiosamente, Oreste ebbe l’idea di far proclamare imperatore il figlio di dodici anni insieme a lui. Alcuni mesi dopo, nel 476, i soldati, stanchi delle troppo lunghe attese per ricevere una paga che tardava ad arrivare, scelsero come capo il generale Odoacre, che depose l’ultimo imperatore d’Occidente. Per ironia della sorte, l’imperatore destituito portava i due nomi più carichi di simboloLA CORTE BIZANTINA. L’imperatrice Teodora
circondata dal suo seguito nel mosaico del presbiterio di San Vitale a Ravenna. 34
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I battisteri A Ravenna esistono due battisteri, uno ortodosso e uno ariano. I due edifici, destinati alla stessa funzione – il battesimo – appartenevano a ciascuna delle due comunità cristiane. Quello ariano, vicino alla Chiesa di Santo Spirito, è una struttura ottagonale in mattoni, dentro la quale troviamo una cupola con mosaici raffiguranti il battesimo di Gesù per opera di Giovanni Battista; l’immagine è circondata da una processione dei dodici apostoli (a destra). Il battistero ortodosso, che fu costruito cinquant’anni prima su un edificio termale romano, si articola su due livelli tramite archi ciechi. Al centro della cupola appare un mosaico (sopra) raffigurante l’immagine di Gesù con la barba, immerso per metà nelle acque del Giordano, sul punto di essere battezzato dal Battista. Una pila monumentale e ottagonale indica che il battesimo veniva celebrato con la totale immersione in acqua.
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gia di tutta la storia di Roma: Romolo Augusto, o, più esattamente, Romolo Augustolo (piccolo Augusto), visto che era solo un adolescente quando fu nominato imperatore dal padre, il generale Flavio Oreste. In un simile contesto, Roma cessò di esistere e Ravenna fu a poco a poco sempre più legata all’impero d’Oriente: ambiva a diventare una città orientale. E fu quasi sul punto di farcela, sebbene la storia avesse in serbo per lei un ultimo episodio di indipendenza.
Capitale degli Ostrogoti Alla fine del V secolo, Ravenna divenne la capitale del regno ostrogoto. Le cause sono riconducibili anche alla storia politica della dissoluzione dell’impero d’Occidente. Il re di Costantinopoli, Zenone, temendo che il potente comandante ostrogoto Teodorico potesse turbare la pace nella parte orientale dell’impero, gli suggerì di conquistare l’Italia in suo nome. A tale scopo, lo nominò patricius; forte di questo titolo, Teodorico si presentò alle porte di Ravenna con circa 20.000 guerrieri. I vescovi sostennero il capo ostrogoto, sebbene fosse ariano, poiché ai loro occhi era un delegato del vero imperatore. Così, egli vinse Odoacre, il capo germanico che aveva messo fine all’impero d’Occidente e, una volta sconfitto, lo invitò a pranzare con lui nella città, dove, dopo un succulento banchetto, lo uccise con le proprie mani. Prese il titolo di rex (re), nonostante la promessa di rispettare le leggi. Una volta consolidata la sua posizione sul trono, ordinò la bonifica delle paludi pontine – a sud di Ravenna – riuscendo a rendere ancora coltivabili parte di quei terreni. Sostenitore di un’economia regolata, promulgò un editto sui prezzi da mantenere in città; al tempo stesso, ridusse lo stipendio dei funzionari, sospese le sovvenzioni statali alla Chiesa e abbassò le tasse. Nonostante ciò, le rendite furono sufficienti per riparare i danni provocati dalle guerre nella città. Teodorico fece costruire a Ravenna importanti edifici sia civili sia religiosi, tra cui si ricordano la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e quella di San Vitale; inoltre, recuperò il porto trasformando il quartiere marittimo di Classe in uno dei più prosperosi della città. Fece anche costruire il suo mausoleo in città. Si tratta di un edificio imponente, con forma decagonale
nella parte inferiore, con nicchie su ciascun lato, sotto archi a tutto sesto, e con una pianta a forma di croce; nella parte superiore, anch’essa di forma decagonale, osserviamo i resti di un antico deambulatorio con l’attaccatura di archi nelle pareti. Sul lato, troviamo una fascia decorativa “a tenaglia”, motivo decorativo ereditato direttamente dall’oreficeria gotica. Al centro, nel piano superiore, troviamo una tomba circolare di porfido in cui avrebbe riposato Teodorico; tuttavia, successivamente, i suoi resti furono spostati, quando il mausoleo divenne una cappella. La conquista di Ravenna da parte di Belisario nel 540 durante la guerra gotica anticipò la vittoria dell’arte bizantina in Italia. La Basilica di San Vitale fu consacrata, sebbene non fosse ancora terminata, nel 547 sotto il patrocinio dell’imperatore Giustiniano e sua moglie Teodora, che ne finanziarono le decorazioni e prestarono la propria immagine per il suo or-
MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA. Costruito
tra il 425 e il 430, più che per l’architettura esso è famoso nel mondo per i sontuosi mosaici, i più antichi di Ravenna. namento. Nel 549, due anni dopo la dedica a san Vitale, l’arcivescovo di Ravenna, Massimiano, consacrò anche Sant’Apollinare in Classe, una seconda basilica per il santo patrono della città, posta in un sobborgo marittimo che, tempo addietro, era stato la base adriatica della flotta (classis) romana. In essa, è evidente l’antica pianta romana; tuttavia, nei capitelli composti compare un tocco bizantino nelle foglie di acanto. Le lunghe file di perfette colonne, i mosaici colorati (del VII secolo) degli archivolti e agli inizi delle colonnate, le belle placche di stucco del coro e la croce di gemma su un fondo di stelle dell’abside fanno di questa chiesa uno dei templi più particolari di una penisola, quella italiana, che è un’infinita galleria d’arte. 37
SAN GREGORIO MAGNO.
Il papa Gregorio I in un dettaglio di un dittico in avorio appartenente al tesoro della cattedrale di Monza (VIII secolo). Nella pagina accanto, un fermaglio da spalla del tesoro anglosassone di Sutton Hoo, del VII secolo, conservato al British Museum di Londra. 38
EREDITÀ DIVERGENTI La creazione dei regni barbari sotto la tutela della Chiesa di Roma fu l’inizio della divisione d’Europa. In Occidente si impose la cultura latina, con sfumature derivanti da modi di vivere germanici; in Oriente, la matrice fu bizantina, ovvero di cultura greca, in grado di integrare i popoli delle steppe. Nel mezzo delle due aree ben differenziate venne a crearsi un territorio, la cosiddetta Mitteleuropa, focolaio di dispute per i secoli a venire.
T
ra l’autunno del 568 e la primavera del 569, una confederazione di popoli che conosciamo con il nome di Longobardi (o Lombardi), il cui sovrano all’epoca era Alboino, attraversò le Alpi Giulie verso il nord Italia. Oltre alle genti di origine longobarda, si unirono alla spedizione i Sarmati, i Gepidi, i Pannoni, i Norici e persino i Bulgari. Avevano lasciato il loro insediamento sul lago Balaton, nella pianura pannonica – l’odierna Ungheria – a causa della pressione esercitata su di loro dall’arrivo di un nuovo popolo della steppa noto con il nome di Avari. Durante il cammino verso l’Italia del nord, i Longobardi trovarono ben poca resistenza: Cividale,
Verona e Milano caddero piuttosto facilmente. Non accadde lo stesso con Pavia, città ben fortificata dall’esercito ostrogoto, assediata per circa tre anni e che, alla fine, capitolò. Padova, invece, resistette, rinsaldando la propria posizione sul corso del Po. Molti rifugiati della regione si spostarono verso le terre paludose e le lagune di Venezia, dove diedero vita a una prospera metropoli mercantile. Si trattava di una migrazione su larga scala, tra i centomila e i centocinquantamila uomini, donne e bambini, che ebbe nel cronista Paolo Diacono il suo migliore interprete. Il flusso migratorio era organizzato in sezioni al capo delle quali si trovavano 39
Storia e leggenda della regina longobarda Teodolinda Nell’anno 584, il re longobardo Autari tentò di assicurarsi il trono nel mezzo di una guerra con gli altri pretendenti organizzando le nozze con la principessa Teodolinda (talvolta chiamata anche Teodelinda), figlia di Garibaldo I, duca di Baviera e discendente, da parte materna, dei Letingi, l’antica casa reale longobarda. Teodolinda aveva il vantaggio di essere cattolica, il che la avvicinava agli influenti vescovi della regione, lontani dal nuovo re ariano; inoltre intratteneva rapporti amichevoli con Gregorio Magno. Nel 590, alla morte di Autari, Teodolinda contrasse un secondo matrimonio, questa volta con Agilulfo, duca di Torino, da cui ebbe un figlio, Adaloaldo, che fu il primo re longobardo a essere battezzato, anche se il Cattolicesimo si sarebbe consolidato in seguito, durante il regno di Ariperto I (653-661), il nipote cattolico bavarese di Teodolinda. Tutti questi legami forgiarono un’immagine di santità di questa donna, che divenne, inoltre, mecenate dell’arte e della letteratura del suo tempo, in particolare nella città di Monza (in Lombardia), dove fece costruire un sontuoso palazzo, e fondò una basilica dedicata a san Giovanni Battista e altri edifici religiosi che facilitarono la predicazione del missionario irlandese san Colombano in tutta la regione. Morì a Monza nel 627, venne sepolta con tutti gli onori nella basilica che lei stessa aveva fatto costruire e ben presto fu venerata come una vera e propria santa. Da quel momento ebbe origine la leggenda che sarebbe culminata nel XV secolo quando Franceschino Zavattari e i suoi tre figli dipinsero nella cattedrale della città brianzola in stile gotico internazionale, un famoso ciclo di affreschi dedicati alla Storia della regina Teodolinda (1441-1446). A destra, Sogno e partenza di Teodolinda, una delle 45 scene del ciclo.
MONARCHI LONGOBARDI Anni 560-572
Alboino Anni 572-574
Clefi Anni 584-590
Autario Anni 591-616
Agilulfo Anni 616-626
Adaloaldo Anni 626-636
Arioaldo Anni 636-652
Rotari
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dei capo clan (fara), che si auto nominarono duces (duchi), termine preso in prestito dalla politica bizantina. Alboino era uno di questi, eletto re dal gairethinx, l’assemblea di uomini liberi armati, per condurre il popolo nella lunga migrazione dalla Grande Pianura ungherese fino alle porte di Pavia. Gli uomini che formavano l’esercito longobardo erano chiamati exercitali o arimanni (dai vocaboli germanici heer, “esercito”, e mann, “uomo”); essi, una volta stabiliti nelle nuove terre, furono la chiave dell’organizzazione territoriale. Si contarono fino a 35 duces, ciascuno dei quali governava una civitas, il distretto sottomesso dal proprio esercito, senza costituire un vero e proprio regno. A nessuno importava diventare parte integrante dell’impero e forse questo agevolò l’estensione dei loro domini. Il problema principale fu la perenne tensione religiosa, poiché i Longobardi erano ferventi ariani, mentre la popolazione autoctona era sempre più cattolica. Oggi possiamo leggere le loro abitudini e il loro modo di intendere la vita politica come frammenti di poesia epica.
Ne abbiamo la miglior prova nelle circostanze che avvolgono la morte di Alboino. Paolo Diacono racconta che un giorno Alboino, ubriaco, costrinse la moglie gepida Rosmunda a bere dal cranio di suo padre, che aveva fatto assassinare. Rosmunda si vendicò cospirando con il suo amante Elmichi e il guerriero Peredeo per mettere fine alla vita del re. Così, un giorno, mentre Alboino dormiva, entrarono nella sua stanza e lo uccisero. L’assemblea reagì contro gli assassini. Rosmunda fuggì a Ravenna, dove convinse l’esarca Longino a prestarle protezione. Decise quindi di disfarsi del suo amante, cui diede da bere un veleno; tuttavia questi, accortosi dell’inganno letale, prima di morire la costrinse a bere il resto del bicchiere. È un racconto terribile, tra i più cruenti della letteratura epica derivante dalle grandi migrazioni dei popoli germanici. Non dobbiamo considerare solo i momenti più tetri, ma riflettere su come una dolce donna, trasformata dall’esperienza del male, diventi una feroce assassina che, alla fine, viene uccisa a sua volta. C’è ben poco cristiano in questo racconto; piuttosto una eco della tragedia indoeu-
ropea che non impedisce alla violenza di entrare in scena. In un simile crimine, in cui si intrecciano Alboino, Rosmunda e gli altri, si intravede il modo di essere dei Longobardi nei primi anni di occupazione di territori italiani. Successivamente, la storia tende loro una mano, poiché di lì a poco seguirono i tentativi di altri re di mettere ordine al territorio e al comportamento dei capo clan. È il caso di Autari, figlio di Clefi, che sposò una principessa franca, Teodolinda, fervente cattolica – notevole sia per l’educazione latina sia per la sua bellezza – la quale riuscì a trasmettere ai Longobardi la fede trinitaria propria dei cattolici, cui si opponevano gli ariani, vale a dire il credo secondo cui “Padre, Figlio e Spirito Santo sono tre persone e un solo vero Dio con uguale potere e uguale gloria”. Fu tale la sua influenza che, una volta vedova, si risposò con Agilulfo, eletto successore del suo primo marito dall’assemblea e i due si impegnarono nella costruzione di un regno stabile. Gli anni successivi furono decisivi per il consolidamento dei Longobardi in Italia. Nel 636 ebbe inizio la carriera del leggendario Rotari, duca di
Brescia, che sposò Gundeperga, figlia di Teodolinda, permettendo che il Cattolicesimo si stabilisse nel suo regno. Estese la propria autorità al Veneto e alla Liguria (giunse persino a conquistare Genova), e nel 643 promulgò un editto in latino, una codifica sistematica della legge. Furono così gettate le basi per una maggiore stabilità del regno e per la possibilità di abbandonare l’Arianesimo come religione ufficiale dei Longobardi. Tutto ciò avrebbe consolidato un modello europeo, se non fosse stato per la pressione esercitata dai Franchi della dinastia merovingia, che in quegli anni avevano raggiunto una vera a propria simbiosi tra l’eredità germanica dei loro antenati e il lascito romano delle classi più abbienti delle terre che avevano occupato.
L’esperienza merovingia La morte di Clotario I nel 561 provocò una nuova divisione del regno merovingio tra i suoi figli Cariberto a Parigi, Sigeberto a Metz, Chilperico a Soissons e Gontrano in Borgogna. La tensione tra i nipoti del grande Clodoveo sembrava non promet41
EREDITÀ DIVERGENTI
La legge salica, un codice legislativo innovativo e il giudizio divino La legge salica, o insieme di leggi dei Franchi Sali, fu compilata per iscritto e promulgata nel 511. Fu la lettera che portò alla fondazione del pensiero europeo in evoluzione, del quale furono precursori i Franchi. La maggior parte dei processi basati sulla legge salica erano regolamentati dal sistema della prova. Quando un individuo presentava una rivendicazione o una querela, il conflitto veniva risolto con una serie di prove accettate da entrambe le parti in causa. Tale sistema non era un modo per provare la verità, bensì la forza, il peso dell’importanza di chi doveva decidere. In primo luogo, vi erano prove stabilite in base allo status dell’imputato; in caso di errore, si ricorreva alla ordalia o giudizio di Dio. A quel punto, questi veniva sottomesso a prove durissime: per esempio, veniva legato mani e piedi e immerso sott’acqua a lungo. Se resisteva, era innocente, altrimenti era colpevole. Si ricorreva anche al duello giudiziario, che consisteva nel combattimento individuale tra due campioni. In questo caso, il diritto era un rituale di guerra. Tutti i delitti avevano un prezzo: pagando un Wergeld (il prezzo della vita) si evitava il castigo. La clausola più famosa della legge salica, la IX, 6, diceva: «Nessuna terra [salica] può essere ereditata da una donna, ma tutta la terra spetta ai figli maschi». In Francia tale principio non permise alle donne di trasmettere l’eredità della corona, dando origine a grandi diverbi politici durante il Medioevo. Sopra, il legislatore, disegno su pergamena proveniente da Besançon (Stiftsbibliothek St. Gallen, San Gallo).
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tere nulla di buono per il futuro del regno. Soprattutto se ci atteniamo al tono della vita politica che imposero a corte le regine di quel periodo, quel tipo di donna riprodotto nelle opere ottocentesche. Brunechilde e Galsuinda, figlie del re visigoto Atanagildo, sposarono rispettivamente Sigeberto di Metz e Chilperico di Soissons. L’alleanza, però, durò ben poco, poiché Chilperico, che già in precedenza aveva dato prova del suo carattere dissoluto, strangolò Galsuinda per sposare Fredegonda, la sua concubina, una donna di bassa estrazione sociale. La sorella Brunechilde giurò vendetta e convinse il marito ad assediare Tournai, ma sfortunatamente fu assassinato nei pressi di Arras da due servitori di Fredegonda. Così si concluse il primo atto della tragedia. Il secondo atto ebbe inizio quando Chilperico intraprese una politica di opposizione alla Chiesa cattolica: mise in dubbio il dogma trinitario, aggiunse lettere all’alfabeto e osò persino comporre inni. Gregorio di Tours approfittò dell’occasione per classificarlo come «Nerone ed Erode dei nostri tempi». Nel 584 Chilperico venne assassinato e Fredegonda governò in nome del figlio Clotario II. Nel frattempo, Brunechilde perseguiva il proprio piano di vendetta per la morte della sorella mentre si impossessava di tutto il potere tra i Franchi. Alla morte del figlio Childeberto II, governò nel nome dei due nipoti, Teodeberto II d’Austrasia e Teodorico II di Borgogna. Successivamente, tentò di nuovo di avere il controllo sul resto del regno merovingio. A quel punto, gli influenti nobili di Austrasia, Arnolfo di Metz e Pipino, chiamarono in aiuto Clotario II. Brunechilde fu catturata e morì torturata, trascinata da un cavallo. Morirono anche i suoi bisnipoti. Clotario II (584-629) divenne l’unico re dei Franchi, anche se dovette accettare il programma dei nobili, diminuendo così la propria autorità. Pubblicò una costituzione, seguita da una praeceptio, in cui veniva dichiarata la libertà di elezioni episcopali, si estendeva la competenza dei tribunali ecclesiastici, si prometteva di redigere testamenti in favore della Chiesa – che divenne così la maggiore latifondista – e si giungeva all’accordo di nominare per la carica di conte uomini originari del pagus o contea, consegnando così il titolo ai nobili locali. A parte tali decisioni, gettò le basi di un incontro tra il modello legislativo germanico, basato sulla legge salica, e il modello latino, basato sulla legge romana, con alcuni spunti dalla cultura del vecchio regno dei Burgundi. Riformò le istituzioni politiche: il re si circondò di alcuni uomini fedeli, i leudi, che formarono un gruppo stabilitosi a corte, detto trustis. I membri del trustis furono poi chiamati antrustioni: giuravano fedeltà rituale al re e venivano reclutati preferibilmente tra le famiglie nobili che
avevano accompagnato i sovrani nelle loro spedizioni. I funzionari della corte merovingia ricordano, con i loro nomi, la distribuzione dei servizi in una grande azienda agricola, in una “grande casa”: il siniscalco o servitore anziano, il maresciallo o palafreniere (comes stabuli), il cameriere (camerarius) e, soprattutto, il maggiordomo (maior domus), il maestro del palazzo. Quest’ultimo era un incarico di fiducia, poiché veniva scelto dal re tra i principali proprietari terrieri e nobili. Il suo potere crebbe a mano a mano che cresceva questa casa e il suo corteo, e quanto più cresceva tanto più si confondeva il governo della casa con il governo del regno.
San Gregorio Magno Il successo del monacato di Benedetto da Norcia in Occidente spiega la ragione per cui fosse giunto il momento in cui la sedia di san Pietro dovesse essere occupata da un monaco. Accadde con l’elezione al soglio pontificio di Gregorio I, che meritò l’appellativo di Magno. Apparteneva all’aristocrazia romana, era nipote di papa Felice IV e figlio del latifondista Gordiano.
Gregorio I ricevette una scrupolosa educazione classica, che comprendeva diritto e musica, ma non la lingua greca, che egli non apprese mai, un chiaro segno dell’epoca di allontanamento tra Occidente e Oriente. La letteratura gli piaceva poco e spesso si vantava dello stile trascurato dei suoi scritti. In età molto giovanile fece il suo ingresso nell’ordo honorum, serie di occasioni politiche cui aveva accesso grazie alla sua condizione di ricco latifondista dalla morte del padre. Così, nel 573, a trentatré anni, raggiunse la prefettura di Roma, la magistratura civile più ambita della città. Dopodiché, professò nel monastero di Sant’Andrea, che egli stesso aveva fondato in un palazzo di famiglia. In Sicilia furono istituiti altri sei monasteri nelle case ereditate dal padre. Gregorio studiò la patristica e la Bibbia. Nel 579 si trovava a Costantinopoli in veste di apocrisiario di papa Pelagio II, dove fece esperienza di diplomazia e politica imperiale, senza mostrare alcun interesse per la lingua o la cultura della città. Al suo rientro, fu eletto papa dall’aristocrazia romana e con il benestare poco entusiasta dell’imperatore.
I CODICI LEGISLATIVI.
I re barbari (Visigoti, Franchi, Longobardi e Alamanni) amavano legiferare e fondarono i propri regni su codici legislativi in cui si mischiava il diritto romano con le tradizioni germaniche. Alcuni di questi codici ebbero carattere territoriale, cioè interessavano in pari misura i Germani e i Romani. Sopra, pagine delle Leggi romanobarbariche (Biblioteca Capitolare, Modena).
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Il canto gregoriano e san Gregorio Magno Papa Gregorio I, altrimenti noto come Gregorio Magno, dominò la fine del VI secolo, così come Giustiniano ne aveva dominato l’inizio. L’influenza che esercitò sulla religione è paragonabile a quella di Maometto poco tempo dopo. Non fu un profondo teologo, ma un compilatore. Nella sua opera si nota il suo interesse per la musica. Intorno al 590, papa Gregorio Magno ordinò di compilare gli scritti degli inni cristiani primitivi noti come antifone o salmi, la cui origine è rintracciabile nell’antica liturgia dell’epoca delle catacombe o cantus planus, dando vita all’Antifonario dei canti gregoriani, così chiamato in suo onore. Era un modo per trovare parallelismi tra la forma musicale e la teologia, la filosofia e la storia. L’antifonario andò perso, sebbene ne rimangano resti in alcuni manoscritti medievali. Durante il pontificato di Pio X fu completata la ricerca e la compilazione del materiale esistente e i monaci benedettini dell’abbazia di Solesmes ne portarono a termine la ricostruzione. Questa venne pubblicata il 22 novembre del 1902 con il titolo di Edizione vaticana del canto gregoriano. A destra, manoscritto del XIII secolo con annotazioni musicali e una miniatura raffigurante il papa Gregorio Magno (Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
Iniziò così un pontificato di tredici anni e mezzo che segnò un’epoca (590-604). Gregorio Magno aveva cinquant’anni ed era calvo; uomo dalla testa grossa, carnagione scura, naso aquilino, dalla barba rada e castana, era una persona di forti emozioni ed eloquio affabile, con mire imperiali e sentimenti semplici. Espose la sua dottrina nel Liber pastoralis curae, un manuale di consigli per vescovi che divenne un’opera classica del Cristianesimo latino. Riformò l’amministrazione della Chiesa, mettendo un freno alla simonia del clero; regolò, inoltre, i rapporti tra il clero secolare e il papa. Migliorò il precetto della messa e contribuì allo sviluppo del canto che da lui prese il nome di “gregoriano”. Il suo apporto più notevole alla teologia fu l’opera Magna moralia, sei tomi sul Libro di Giobbe, una riflessione sull’effetto del peccato originale sulla vita umana. Alla fine dei suoi giorni si ammalò gravemente, riusciva a malapena ad alzarsi dal letto. In più di un’occasione Gregorio Magno disse alle persone a lui più vicine che «attendeva la morte con ansia». Che giunse nel 604. Era stato una figura dominante
della fine del VI secolo. Il suo avversario politico fu lo sfortunato imperatore Maurizio: in più di un’occasione, rivendicò per la Chiesa diritti che dal IV secolo avevano fatto parte delle competenze imperiali. Ottenne grandi successi in campo missionario e diplomatico. Nel primo, ricordiamo il sostegno ad Agostino di Canterbury perché integrasse la Chiesa inglese nella sfera cattolica; in campo diplomatico fu senz’altro notevole il sostegno alla conversione al Cattolicesimo degli ariani visigoti stanziati in Spagna. Il gesto di mandare il pallio (l’indumento di lana donato dai papi ai prelati prediletti) all’amico Leandro, arcivescovo di Siviglia, prova il suo coinvolgimento in quel decisivo evento storico.
Tra Leovigildo e Recaredo Con Leovigildo (572-586), il regno visigoto di Toledo giunse a un vero e proprio bivio. Dalle forti convinzioni ariane, Leovigildo portò avanti una serie di campagne militari per unificare le terre della vecchia Hispania romana. I suoi avversari erano sia dentro sia al di fuori la Penisola Iberica. C’erano gli Svevi a nord-ovest, l’odierna Galizia,
MINIATURA DELL’IMAGO LEONIS (pag. 44). Simbolo
dell’evangelista Marco, contenuto in un codice irlandese dell’VIII secolo noto come Vangelo di Echternach (Bibliothèque nationale de France, Parigi). L’impulso missionario irlandese raggiunse l’apice tra l’ultimo terzo del VII secolo e tutta la prima metà dell’VIII secolo, quando fece irruzione in terre germaniche. Il monaco Villibrordo fondò il monastero di Echternach in Lussemburgo. 45
EREDITÀ DIVERGENTI
MONARCHI VISIGOTI Anni 531-548
Teudi Anni 548-549
Teudiselo Anni 549-551
Agila I Anni 551-567
Atanagildo Anni 567-572
Liuva I Anni 572-586
Leovigildo Anni 586-601
Recaredo I Anni 601-603
Liuva II Anni 603-610
Viterico Anni 610-612
Gundemaro Anni 612-621
Sisebuto Anni 621
Recaredo II Anni 621-631
Suintila Anni 631-636
Sisenando Anni 636-639
Chintila Anni 639-642
Tulga Anni 642-653
Chindasvinto Anni 653-672
Recesvinto Anni 672-680
Vamba Anni 680-687
Ervige Anni 687-700
Egica Anni 700-710
Witiza Anni 710-711
Roderigo
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che erano piuttosto disgregati; i Vasconi sulle montagne cantabriche e i principi ispano-romani nel centro-ovest. I Bizantini erano a sud e i Franchi a nord. Da ogni parte, gruppi di cattolici scontenti e spesso ostili all’autorità reale. Leovigildo impiegò forza militare, confische ed esecuzioni sommarie per raggiungere l’obiettivo di unire il regno. Nel 578, ottenuto il suo proposito, cominciò a occuparsi della questione religiosa. Suo figlio Ermenegildo sposò la principessa franca Ingunda, cattolica, che con l’aiuto dell’arcivescovo Leandro gli fece abiurare l’Arianesimo per abbracciare il Cattolicesimo. L’evento ebbe luogo a Siviglia, che divenne da quel momento la capitale della scelta cattolica di fronte alla religione ufficiale dei re visigoti. Leovigildo tentò di placare il conflitto con la celebrazione di un sinodo di vescovi ariani e cattolici a Toledo nel 580, ma il suo intento fallì. Nel bel mezzo del dibattito, infuriò la guerra. Tralasciò quindi per quel momento le questioni religiose per far fronte al pericolo esterno. Fondò la città di Vitoria (oggi Vitoria-Gasteiz nei Paesi Bassi) per frenare i Vasconi e corruppe gli eserciti imperiali affinché rimanessero nei loro accampamenti levantini; dopodiché si diresse a Siviglia, che si arrese dopo due anni di assedio. Leovigildo fece prigioniero suo figlio Ermenegildo, che trasferì in un carcere di Tarragona; poco dopo, ordinò che venisse giustiziato, poiché non aveva ritrattato la propria decisione di aver abiurato alla fede ariana. Leovigildo morì nel 586, lasciando il regno al figlio Recaredo. Recaredo (586-601) preparò una vera e propria rivoluzione religiosa per porre fine alla divisione dei Visigoti per cause religiose. Convocò un concilio nella città di Toledo, il terzo tenutosi qui, e dopo un lungo dibattito dottrinale tra vescovi ariani e cattolici ottenne l’adozione formale del Cattolicesimo come religione ufficiale, che fu ratificata da tutti i presenti: cinque arcivescovi, 62 vescovi e molti nobili. Da quel momento in poi, la gerarchia cattolica fu il sostegno essenziale del potere reale e la sua influenza e autorità crebbero rapidamente. Al rito dell’incoronazione dei re visigoti si unì la cerimonia presa dall’Antico Testamento che consisteva nell’unzione del nuovo re che saliva al trono da parte dei vescovi. Da quel momento venne così conferito un alone ecclesiastico ai monarchi ispanici e fu segnata in questo modo tutta la vita politica del Medioevo spagnolo. Ciò nonostante, i nobili si riservarono il diritto della libera scelta, impedendo la creazione di una dinastia ereditaria. Il figlio di Recaredo, Liuva II, fu deposto in seguito alla reazione ariana capitanata da Viterico (603-610), anche se, alla fine, i cattolici riuscirono a ripristinare il proprio ordine. L’aspetto politico del
III Concilio di Toledo avrebbe segnato il futuro del regno visigoto per oltre un secolo. Nel decennio del 610 iniziò una nuova epoca.
Il regno di Toledo nel VII secolo Nel 612 fu il turno di Sisebuto, probabilmente il re visigoto con maggior carattere; eccellente guerriero e devoto scrittore di agiografie, la miglior prova della sua completa romanizzazione. Tuttavia, la sua devozione fu impegnata per decisioni difficili da comprendere, la più controversa delle quali fu la persecuzione della comunità ebraica, che costrinse alcune migliaia di ebrei a emigrare nel regno dei Franchi. I suoi successori intrapresero politiche più prudenti in questo senso. Recaredo II morì dopo pochi giorni di regno; Suintila si accontentò di conquistare il resto del territorio bizantino dell’Hispania; Sisenando consolidò il potere della Chiesa promulgando il IV Concilio di Toledo, sotto la direzione di sant’Isidoro da Siviglia, in cui venne fissato il principio della libera elezione alla corona per vescovi e nobili. Chindasvindo rafforzò l’autorità reale e suo figlio Recesvindo (653-672) diede impulso all’arte e alla cultura, anche se continuò a perseguitare gli ebrei. Tra i suoi lasciti, ricordiamo la promulgazione del Liber Judiciorum o Forum Iudicum, un codice a carattere territoriale obbligatorio per Visigoti e Romani. Ciò nonostante, non riuscì a modificare il carattere elettivo della monarchia. Con il codice si intensificò la creazione di fazioni e non poté mai esserci un’autorità forte. I grandi latifondisti visigoti, che disponevano di numerosi tributari – in altri termini, la casta militare dominante – si spesero in qualsiasi tipo di iniziativa per limitare l’autorità dei re. Il cosiddetto morbus gothorum, ovvero la propensione alla lotta politica senza quartiere, si insediò in Hispania nel VII secolo.
I regni in Britannia La conversione degli Anglosassoni al Cristianesimo ebbe inizio nel Kent, la regione più esposta alle influenze continentali e la più adatta a comprendere il messaggio evangelico. In seguito alla caduta di Ceawlin, fu concesso a Etelberto del Kent il titolo di bretwalda, re che esercitava temporalmente la supremazia sugli altri. Etelberto (560-616) fu ricompensato con un matrimonio di prestigio in seno alla comunità cristiana. La moglie prescelta era Berta, figlia di Cariberto di Parigi, una principessa descritta come tanto bella quanto devota. Questa giunse accompagnata da un influente seguito, tra cui si distingueva un vescovo cattolico; insieme spianarono la strada per la conversione della famiglia reale. Arrivò in loro aiuto anche il monaco benedettino Agostino, inviato sull’isola dal pontefice Gregorio
Magno. Tutti insieme riuscirono a convincere Etelberto del Kent che fosse opportuno decidere di battezzarsi. E anche gli uomini del suo seguito lo imitarono: tra loro figuravano Redwald dell’Anglia Orientale e Saebert di Essex. La Chiesa si insediò in terrirorio britannico grazie alla nomina del primo arcivescovo di Canterbury, il monaco missionario Agostino. Furono fondate sedi a Rochester e a Londra, nelle quali non si sapeva se adottare il rituale ecclesiastico romano o celtico. Trascorsero alcuni anni di accese discussioni su questioni apparentemente banali, ma di grande importanza iconica, come la tonsura, per esempio. La chiesa celtica rasava la parte anteriore del capo, mentre quella romana faceva un cerchio a forma di corona. Alla morte di Etelberto del Kent nel 616, la corona passò al nipote Redwald dell’Anglia Orientale, che in poco tempo conquistò il controllo dei territori a sud dell’estuario Humber. Uno dei suoi successori, in anni di guerre perenni, fece erigere il tumulo funerario di Sutton Hoo, nei pressi del palazzo reale di Rendlesham, particolarmente interes-
sante poiché all’interno sono stati rinvenuti utensili, armi, ornamenti e insegne propri di un bretwalda. All’inizio del VII secolo, il Wessex, la Mercia e la Northumbria furono i regni con più terre, che potevano richiamare un maggior numero di guerrieri, rivelandosi come le maggiori potenze dell’Inghilterra dell’epoca. Nella Northumbria, il re Edwin (616-633) annesse diversi popoli gallesi e riuscì a formare un’importante flotta; fu il quinto bretwalda dalla grande migrazione. Era solito portare uno stendardo reale detto tufa, come quello rinvenuto nel tumulo dell’Anglia Orientale. Il suo gesto più eclatante fu l’adozione del Cristianesimo, dopo il periodo di declassamento subito da quella religione dai tempi di Etelberto. I saggi (i witan) dibatterono nelle loro assemblee riguardo alla convenienza della conversione, facendone il tema di un lungo dibattito che condizionò la vita politica in Inghilterra per decenni. Nella Mercia, invece, le conversioni incontrarono l’ostilità del re Penda, un vigoroso guerriero che annesse l’ampio territorio che va dall’Humber e il Wash fino a Chester e a Hereford, con Tamworth
LA CONVERSIONE DI RECAREDO.
Riproduzione della famosa conversione di Recaredo realizzata nel 1888 in toni storicisti dal pittore Antonio Muñoz Degrain (Palazzo del Senato, Madrid). Nel 589 il re Recaredo si convertì dall’Arianesimo al Cristianesimo ortodosso romano e fu imitato dalla maggior parte dei Visigoti in Hispania; forse venne influenzato dalla storia di Alarico II, che fu sconfitto a Vouillé di fronte all’impeto del cattolico Clodoveo I.
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come capitale. Nel frattempo, il Wessex si stava espandendo verso ovest, verso un West Country che continuava a essere britannico, anche se la classe di latifondisti di quei territori valeva la metà rispetto a quella sassone, secondo quanto viene evidenziato nel codice legislativo del VII secolo, la Ine’s Law. In questo codice viene fissato il wergeld o “costo della vita” per un Britanno e per un Sassone: quello del primo è ovviamente la metà di quello del secondo. In tal senso sembra probabile che la differenza del wergeld tra latifondisti immigrati e nativi con ricchezze simili sia la ragione della scomparsa finale di questi ultimi, gli eredi di coloro i quali erano riusciti a resistere alla violenza dei primi contatti. In ogni caso, nei tre grandi regni, il ritmo della storia fu segnato dalla conversione e, in tal senso, un momento importante fu la nomina da parte del papa Vitaliano di Teodoro di Tarso come arcivescovo di Canterbury. Erudito greco, giunse all’isola con il preciso scopo di tirare le fila delle diverse chiese inglesi per riunirle in una sola, unificata e disciplinata. Nel 673 convocò il Sinodo di 48
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Uno dei grandi gruppi linguistici dell’Europa moderna – quello dei popoli di lingua slava – è una creazione del VI secolo. Da quella data in poi, in seguito all’irruzione degli Avari, un popolo della steppa, gli Slavi si estesero in vaste regioni d’Europa fino a occupare un immenso territorio che coincide con l’area in cui oggi vengono parlate le lingue slave. L’arrivo degli Slavi nei Balcani è noto grazie ai testi dei cronisti bizantini che riportano una prima grande incursione tra gli anni 547 e 548 proveniente dal Danubio e altre successive. Da quel momento in poi, la slavizzazione dell’Europa fu un dato di fatto. Nonostante la loro importanza storica, le diverse tappe della creazione e della formazione dell’Europa slava risultano estremamente difficili da ricostruire. Una delle ragioni principali di questa impresa problematica è che non esiste nessun racconto unico che le spieghi, ma si può solo ricorrere a fonti indirette, ovvero fondamentalmente quelle archeologiche.
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L’Europa slava è una creazione abbastanza recente. Ai tempi dei Romani, il territorio che era compreso tra il fiume Elba e la Vistola era dominato da popoli di lingua germanica. Durante quel periodo, i Balcani facevano parte dell’impero. Senza dubbio, lo scenario cambiò tra il VI e il VII secolo con l’espansione degli Slavi.
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Le migrazioni slave nel VI secolo
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Hertford, in cui chiarì il proprio programma d’azione, con il sostegno di uomini di cultura come l’abate africano Benedetto Biscop, originario della Northumbria, maestro del venerabile Beda. I monaci inglesi avrebbero creato nel tempo un’oasi di alta cultura e di riflessioni nel mezzo di un mondo alla deriva. D’altro canto, i re iniziarono a dividere i propri territori in modo catastale in hides (una hida era la proprietà normale di una famiglia: terra unius familiae). La Mercia, per esempio, era valutata 12.000 hides, in due sezioni di 7000 e 5000 hides. Il re e il clero beneficiavano dei tributi e delle leve militari dei territori.
La creazione di un territorio slavo L’espansione degli Slavi in Europa centrale tra l’Elba e la Vistola iniziò a metà del VI secolo e divenne un evento di enorme portata. Un testo anonimo piuttosto tardivo, il cosiddetto Geografo bavarese, documenta la loro presenza nella zona e cerca persino di fornire qualche indicazione sulla loro potenza, seguendo un modello simile a quello già visto nella loro espansione in Boemia
Popoli slavi: POLIANI Orientali CECHI Occidentali CROATI Meridionali
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LA GRANDE BULGARIA. Il risultato ultimo delle migrazioni slave del VI secolo fu il consolidarsi del regno della Grande Bulgaria del Khan Krum, il cui seme fu la confederazione nomade del Khan Kubrat. Sopra, miniatura del Codice Scilitze in cui compaiono il Khan Krum e l’imperatore bizantino Michele I (Biblioteca Nacional de España, Madrid).
Nicomedia
e in Moravia. Il profilo della migrazione slava si incastra anche in ciò che accadde al sud, dove, tra il 547 e il 548, un folto gruppo di saccheggiatori provenienti dal Danubio si estese nell’Illiria fino a raggiungere il porto di Dyrrhachium (oggi Durazzo), sull’Adriatico. Procopio racconta che essi riuscirono a conquistare numerose fortezze, un fenomeno mai visto prima. I successi ottenuti li spinsero a proseguire attraverso i Balcani in direzione Salonicco, città che, dopo una breve resistenza, fu conquistata. A metà del VI secolo uno dei testi più famosi dell’epoca, la Cronaca di Monemvasia, testimonia che in realtà quei saccheggiatori erano popoli slavi che avevano conquistato il Peloponneso, eccezion fatta per una striscia costiera a est, che rimase nelle mani dell’impero bizantino. La migrazione era diventata evidentemente una strategia di vita molto radicata in diverse popolazioni slave, così, a mano a mano che aumentavano le conoscenze sulle regioni vicine, ci furono nuovi migranti disposti a unirsi a loro. Dunque, favorito dal disastro dell’esercito bizantino del 614, un enorme
flusso migratorio presuppose il crollo definitivo del confine imperiale danubiano e la colonizzazione slava in tutta la regione ellenica. I Miracoli di san Demetrio dimostrano che a metà del VII secolo c’era una colonia slava di grandi dimensioni ben stabilita nella regione del fiume Strimone. Anche la Macedonia e le zone adiacenti del nord furono testimoni dell’espansione di tali popoli, di cui resta testimonianza in diversi siti archeologici in Serbia e Croazia: Bakar, Muntjac, Osijek, Stinjevac, Vinkovci. Allo stesso modo, più a est, in Tracia, sono stati ritrovate testimonianze dell’insediamento dei popoli slavi. Tutti quei gruppi finirono con il ristabilirsi nell’arco formato dagli altipiani che circondano quello che poi sarebbe diventato il cuore della Bulgaria, nella pianura del Danubio. Numerosi siti archeologici confermano tale evento, strettamente legato al crollo del confine nel 614. La situazione si modificò successivamente con l’arrivo dei Bulgari, un popolo di origini nomadi e di lingua turcica, che tuttavia seguiva gli insediamenti su grande scala dei popoli slavi. 49
IL TESORO ANGLOSASSONE RINVENUTO A SUTTON HOO
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li scavi sulle colline di Sutton Hoo, nel Suffolk, nel sud-est dell’Inghilterra, garantirono un’abbondante ricompensa grazie al ritrovamento, nel 1939, di uno spettacolare tesoro anglosassone composto da 263 pezzi, tra i quali figuravano una spada, lance, monete, oggetti in oro, fibbie, posate in argento ecc. Tutti questi oggetti, appartenenti a un corredo funerario, furono rinvenuti sulla collina 1 dopo la scoperta, da parte dell’archeologo Basil Brown, dei resti di una grande nave di 27 metri di lunghezza. Un elmo con maschera completa, in ferro con applicazioni decorative in bronzo, rivestito in stagno, divenne il pezzo forte del ritrovamento. Diversi studi sul tesoro, risalente al VI secolo, sostengono che probabilmente la tomba apparteneva al re Redwald dell’Anglia Orientale (600-624). Gli oggetti del tesoro di Sutton Hoo sono oggi conservati al British Museum di Londra.
CIOTOLA IN ARGENTO. Fa parte di un servizio di dieci
ciotole e cucchiai in argento che venivano utilizzati come stoviglie, tutti con un’identica decorazione a forma di croce e un motivo floreale al centro. 50
L’elmo è decorato con incisioni in stile semi naturalista raffiguranti scene eroiche. La più caratteristica è nota come Dancing warriors, “guerrieri danzanti”; mostra due guerrieri con in mano pugnali e lance rivolte verso il basso.
Le sopracciglia della maschera facciale sono in bronzo, con incisioni di fili d’argento e granati. Su ogni estremità si può osservare una testa di cinghiale, simbolo di forza e coraggio.
L’elmo è composto da pannelli decorati con ornamenti in Stile animalistico II (parti dell’anatomia animale che si combinano formando un intreccio di linee e forme).
Con il crollo della camera funeraria, l’elmo si danneggiò. Dal ritrovamento sono state eseguite diverse ricostruzioni. Questa fotografia appartiene a quella più recente, scattata nel 1971 da Nigel Williams, curatore del British Museum.
ORNAMENTI PERSONALI E CORREDO DOMESTICO Le parti del corredo furono trovate disposte in un ordine molto preciso. Sulla parete orientale, oggetti di uso quotidiano; di fronte, ornamenti e armi e al centro oggetti di uso personale.
FIBBIA DI CINTURA. È in oro e appare decorata con un intricato disegno in rilievo formato da serpenti e altri animali mitici intrecciati tra loro.
Sopra il naso, due teste di dragone dorate si uniscono, formando la figura di un dragone che attraversa per intero la maschera.
COPERCHIO ORNAMENTALE. Era
destinato a coprire un portamonete in cuoio. La base in avorio è ornata con elementi d’oro; troviamo pasta di vetro e granati incastonati.
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Glendalough: uno dei centri monastici più importanti In irlandese, un glen è una valle formata da pareti rocciose: Glendalough è il glen dei due loughs (o laghi). Si racconta che nel VI secolo l’eremita Kevin decise di salire fino al lago superiore perché era quello più appartato e il più freddo.
In questo luogo inospitale visse l’eremita Kevin, all’interno di una grotta nella roccia, dalla quale usciva in inverno per immergersi nudo nelle acque gelide del lough e in estate per rotolarsi in un cespuglio di ortiche velenose. Dopodiché, si costruì un monastero che subì innumerevoli saccheggi e, tra il 775 e il 1071, fu distrutto da incendi per almeno nove volte. Sopra, le rovine del monastero in un’illustrazione di W.H. Bartlett (1841 ca.); a destra, il monastero di Glendalough oggi: le torri cilindriche sono gli unici resti della costruzione del VI secolo, mentre la chiesa è dell’XI secolo.
Tra il 630 e il 635, i Bulgari capitanati dal Khan Kubrat erano una potente confederazione nomade con le proprie tende piantate a nord della cordigliera del Caucaso, nei pressi dei fiumi Prut e Nipro, in una regione cui gli storici bizantini davano il nome “la Grande Bulgaria” e che oggi si tende a chiamare Onoguria, la cui capitale era probabilmente l’antica colonia greca di Fanagoria, nella Penisola del Taman.
L’Irlanda come rifugio A metà del VI secolo, l’Irlanda tenne in pugno la cultura classica. Dai suoi monasteri di Armagh, Kildare o Clonmacnoise – quest’ultimo fondato nel 548 – giungeva chiara la convinzione per cui i tempi avevano bisogno di spiriti fermi come quello di Patrizio, il missionario che un secolo prima era sbarcato sull’isola allo scopo di cristianizzarla. La situazione non era facile e molti cristiani colti optarono per la vita eremitica come gli anacoreti d’Egitto. Tale scelta li portò a costruire decine di eremi isolati, in cui affrontavano qualsiasi genere di avversità fisica e psicologica. 52
La vita di Manchan di Offaly, uno dei conversi di Patrizio, raccolta in un poema anonimo in irlandese antico, descrive quel mondo; un altro esempio è quello di Kevin di Glendalough, uno dei più famosi eremiti del VI secolo, la cui leggenda descrive con dovizia di dettagli la sua vita ascetica vissuta in una grotta scavata nella roccia di una scarpata. Tuttavia, con il passare del tempo, tutti questi eremiti cedettero all’arrivo di discepoli – incluso Kevin – trasformando così la vita anacoretica iniziale in una vita monastica comunitaria. Gli Irlandesi accolsero la vita monastica come ragione per affrontare la sfida dell’alfabetizzazione. Fino a quel momento, l’unico alfabeto che avevano conosciuto era il preistorico Ogham, un difficile intreccio di linee basato sull’alfabeto romano, che incidevano laboriosamente sugli angoli delle pietre dritte per trasformarle in lapidi. Tali iscrizioni, simili alle rune, di cui si trova testimonianza fino all’XI secolo inoltrato, non permettevano di immaginare ciò che sarebbe accaduto in meno di due generazioni di monaci irlandesi. In un così breve periodo, essi appresero a domi-
nare il latino, il greco e persino l’ebraico, mettendo per iscritto in bellissimi codici la letteratura orale natia, inclusi poemi epici sui grandi eroi irlandesi, come il re Cù Chulainn, che affrontano guerra e amore in centinaia di vigorose scene. Fin dalle sue prime manifestazioni, l’alfabetizzazione ebbe una sfaccettatura decorativa, e così, in tutti i pittogrammi, geroglifici e lettere c’è una certa estetica culturale, una certa risposta alla domanda su ciò che di più bello si possa esprimere in una pergamena. Per il corpo del testo, i monaci irlandesi svilupparono due grafie: una scrittura arrotondata, detta maiuscola irlandese (o semionciale) e una minuscola, più fluida e pertanto più leggibile. L’ispirazione per la miniatura giunse dalle tombe megalitiche di Brú na Bóinne, costruite in Irlanda intorno al 3000 a.C., nella stessa atmosfera in cui fu eretto Stonehenge in Inghilterra. Non vi sono linee rette, solo curve, e una predisposizione per inventare la forma definitiva di ciò che oggi chiamiamo libro. Si tratta del codex, il codice, un’orditura diversa dal papiro, che premiava il verticale rispetto all’orizzontale, e
il cui supporto era di pergamena, realizzata con pelle secca di pecora, materiale abbondante in Irlanda. La pelle di vitello – di un colore bianco più uniforme, una volta seccata – veniva utilizzata per i testi di maggior livello. Il prodotto più bello dell’arte irlandese è proprio un codice, il Libro di Kells, che contiene i quattro Vangeli su pergamena, con miniature dei monaci di Kells (nella contea di Meath) o forse di Iona, conservato al Trinity College di Dublino. Il cronista Gerardo di Galles, nel XII secolo, descrisse questo evangeliario come «l’opera di un angelo, e non di un uomo». I monaci vissero un’epoca di grandi conflitti tra clan che combattevano per il diritto di dominare tutto il territorio dell’isola, il regno di Tara, che nel VII secolo fu nuovamente considerato il centro politico della Britannia, grazie alla cronaca del re Milchu. In questa si racconta che, negli ultimi tempi, l’Irlanda era divisa in coiced, piccoli regni che avevano sostituito il “regno supremo”. Tutti i clan aspiravano a lui, in particolare i discendenti di Niall dei Nove Ostaggi 53
EREDITÀ DIVERGENTI
L’ABBAZIA DI IONA.
Costruita sull’omonima isola, sulla costa nordoccidentale scozzese, venne fondata nel VI secolo da san Columba; fu incendiata in diverse occasioni dai Vichinghi e ricostruita nell’XI e nel XII secolo. Sopra, la cattedrale del XII secolo.
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– Niall Noigíallach – l’eroe dei “vecchi tempi” della predicazione di Patrizio, cantato da Tírechán di Armagh: il clan dei Cenél Conaill.
Le reti monastiche scozzesi L’anno della partenza di Columba verso l’isola scozzese di Iona fu il 563, solo un secolo dopo la morte di Patrizio, l’apostolo d’Irlanda, un’epoca in cui ormai iniziavano a restare pochi Romani in Europa. Columba, noto in Irlanda come Colum Cille, “la colonna della Chiesa”, nacque nella contea reale di Gartan, nel Donegal, Irlanda, il 7 dicembre del 521; era un membro di rilievo – un principe, in realtà – del clan Cenél Conaill. Così lo raccontò uno dei suoi discendenti, re degli Uí Néill, il regno del nord. Columba, come Buddha, poteva diventare re, ma preferì farsi monaco. Secondo il racconto della sua vita scritto intorno al 697 dall’erudito Adamnano (627-704), uno dei suoi successori a Iona, sappiamo che da giovane egli viaggiò in Gallia per visitare la tomba di san Martino di Tours, la cui regola monastica fu per lui fonte di profonda ispirazione. Di ritorno in Irlanda, fondò
i monasteri di Derry, Durrow, Kells e un’altra cinquantina in meno di quarant’anni. Era un lottatore, oltre a essere un sant’uomo, e dunque un arbitro in un’epoca di incertezze; il suo temperamento vivace lo portò ad affrontare numerose liti e, infine, a impugnare le armi. I motivi sono quasi leggendari ed esprimono alla perfezione il modo in cui si risolvevano i conflitti nel VI secolo. Columba, uomo molto erudito, amava i libri e decise di proteggerli dal deterioramento. Prese la decisione di copiare vecchi manoscritti, facendolo personalmente di tanto in tanto. L’ardore che mise nella copia dei manoscritti, in pergamena o in pelle di vitello, lo portò alla guerra con il re Diarmaid per il controllo di una materia tanto raffinata. «A ogni mucca il suo vitello, a ogni libro la sua copia», gli disse il re nell’attimo in cui si stava appropriando di un prezioso codice; si pensa possa trattarsi del Libro di Durrow, oggi considerato il manoscritto miniato più antico esistente, che rappresenta, con il suo stile maturo, l’apice della perfezione artistica nella tradizione miniaturistica irlandese, soprattutto nelle pagine che illustrano i simboli degli evangelisti. In quel momento a Columba, a causa di questo affronto, riemerse la vena focosa dei Cenél Conaill: riunì i membri del clan e andò incontro a Diarmaid, che infine sconfisse nella sanguinosa battaglia di Cúl Dreimhne, che si svolse nel 561. In quell’occasione gli venne concesso l’epiteto di nia, campione. Tuttavia, Columba venne accusato di aver versato sangue durante la battaglia e, di conseguenza, fu scomunicato: a cinquant’anni, dovette abbandonare l’Irlanda per scontare un esilio punitivo. Nel 565 si stabilì sull’isola di Iona, dell’arcipelago delle Ebridi, sulla costa occidentale della zona oggi nota con il nome di Scozia. Correva lo stesso anno in cui morì Giustiniano a Costantinopoli. Tale gesto viene ricordato come “il martirio bianco”, poiché egli navigò sotto il cielo bianco del mattino verso l’ignoto per non tornare mai più. Così facendo, portò la tradizione monastica irlandese fuori dalle terre d’origine, raccogliendo un successo e proseliti. Quando Columba giunse in Scozia, scoprì che i suoi abitanti, i Pitti, erano un popolo ben poco interessato alla cultura scritta. Ciò nonostante, osservavano svilupparsi intorno a loro una comunità composta da un gruppo di monaci irlandesi che dedicavano tutto il loro tempo allo studio, alla preghiera, all’agricoltura e, ovviamente, alla copia dei libri. Gli elementi fondamentali del monastero di Iona furono costruiti in breve tempo: una piccola capanna per ciascun monaco, una per l’abate, un po’ più grande e posta su un’altura del terreno, un refettorio e una cucina, uno scripto-
Il Libro di Kells, l’opera più bella dell’arte irlandese I manoscritti irlandesi profusamente ornati rappresentano i fiori all’occhiello delle biblioteche europee. Hanno la forma di un codice, sono più alti che larghi, con un formato simile a quello dei libri odierni. Uno dei più noti è il Libro di Kells o Grande Evangeliario di san Columba. A metà del IX secolo, proveniente dalla minacciata abbazia di Lindisfarne – giunse al monastero di Kells il più grande codice evangelico, sopravvissuto ai saccheggi dei Vichinghi ai danni dei monasteri irlandesi: il Libro di Kells, oggi conservato nella biblioteca del Trinity College di Dublino. In epoca molto tardiva, nel XII secolo, il cronista Gerardo del Galles si vide costretto ad ammettere che il libro fosse «l’opera di un angelo, e non di un uomo». Il codice o codex fu un’invenzione degli scriptoria irlandesi dell’Alto Medievo; il suo nome venne inizialmente utilizzato per designare il libro, così come lo conosciamo oggi, e distinguerlo dal suo predecessore, il rotolo. Probabilmente il Libro di Kells fu l’opera di Eadfrith, successore di Aidan come abate di Lindisfarne; esso rappresenta l’apice delle arti calligrafiche che gli Irlandesi avevano appreso da altri popoli, tra i quali i Sassoni. A destra, frammento di una pagina del Libro di Kells (Trinity College, Dublino).
rium e una biblioteca, una fucina, un forno, un mulino con un paio di granai, e una chiesa modesta. E tutti al lavoro. Con il passare del tempo, fu necessaria una casa per gli ospiti, vista la quantità di abitanti locali che giungevano alla comunità di Columba per seguirne i consigli, per imparare o semplicemente per restare. Così facendo, Columba diede inizio alla creazione di un’estesa rete monastica strettamente legata a Iona. Alla sua morte, sugli irregolari isolotti e le alture montagnose di Scozia, erano state fondate sessanta comunità con oltre tremila monaci: tutti uomini dediti alla cultura scritta. Dopo di lui, molti altri monaci partirono da Iona in tutte le direzioni. Tra questi, figura il famoso Brendano il Navigante (il san Brandano delle leggende), che visitò l’Islanda, la Groenlandia e altri luoghi nel decennio del 570. Quel periplo favorì la stesura di uno dei testi più famosi del Medioevo, la Navigatio Sancti Brendani, elaborato molti secoli dopo le prodezze che lo ispirarono. Ad accompagnare il mitico Brendano vi erano missionari, monaciguerrieri, che seguivano le orme del principe dei
Cenél Conaill, San Columba. L’Irlanda era ormai sul punto di compiere il primo passo in direzione del continente europeo.
La missione di Colombano L’irlandese che si diresse verso il continente europeo fu Colombano. Nacque nella provincia di Leinster intorno al 540 e fu monaco per venticinque anni nella comunità ascetica di Bangor, un’enclave di insegnamento cristiano nel mezzo di un territorio ostile. Secondo la tradizione irlandese, fu adottato da un padre saggio in veste di fer léighinn, lettore, ovvero un maestro esperto nella nuova – ed esotica, in quel luogo e a quel tempo – abilità di leggere in latino. Spinto dal desiderio di ampliare le sue conoscenze, decise di abbandonare la propria terra d’origine e di dirigersi verso un vecchio regno cristiano. Colombano giunse in Gallia nel 585, rispettando il requisito di viaggiare con dodici compagni, proprio come aveva fatto Columba settant’anni prima quando era giunto alle isole Ebridi. Giunse a una terra cristiana, ma priva, secondo lui, dei me55
EREDITÀ DIVERGENTI
La leggenda del periplo marittimo di Brendano e dei suoi compagni
San Brendano o Brandano fu uno dei grandi monaci evangelizzatori irlandesi del VI secolo, seguace della tradizione missionaria di Columba o di Colombano. Nel 563 fondò il monastero di Clonfert, a Galway, del quale fu abate e dove sarebbe stato sepolto alla sua morte nel 577. Come molti altri monaci del suo tempo, san Brendano e i suoi compagni navigarono su curragh (barche fatte di cuoio incatramato) per predicare il Vangelo, secondo la testimonianza di Adamnano di Iona, che scrisse la Vita di san Columba, diversi anni dopo la morte di Brendano. Egli giunse all’isola di Iona e alle Faroe. Secondo le fonti storiche, i suoi seguaci arrivarono in Islanda e persino in Groenlandia, dove diedero vita a nuove comunità cenobitiche, spianando la strada per la successiva colonizzazione da parte dei Norvegesi. Tuttavia, san Brendano è noto soprattutto per la leggenda che narra il suo periplo fino alla Terra Promessa, di cui aveva sentito parlare un certo Barinto, un monaco che aveva visitato quei luoghi. La leggenda passò dalla tradizione orale a quella scritta nell’XI secolo, dando luogo a un testo molto celebre nel Medioevo, la Navigatio Sancti Brendani, che racconta di come san Brendano e i suoi compagni vagarono per sette anni nell’oceano, incontrando isole meravigliose, mostri marini e la terra in cui vivevano i condannati, per raggiungere infine il paradiso dei beati. Sopra, una pagina illustrata proveniente dalla Navigatio Sancti Brendani, manoscritto datato XIII secolo, British Library, Londra.
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dicamenta paenitentia, le cure della penitenza; in altre parole, la forte medicina della disciplina penitenziale. Fondò tre monasteri nella regione dei Vosgi: Annegray, Luxeuil e Fontaines. Visse a Luxeuil per vent’anni, tra il 590 e il 610, applicando le sue norme ascetiche e una rigida regola che lo portò a proporre severe punizioni corporali per le mancanze, solitamente il flagello: sei sferzate per chi tossiva all’inizio di un salmo, per chi dimenticava di pulirsi le unghie prima di dire messa, per chi sorrideva durante il rito religioso o toccava il calice con i denti durante la comunione; cinquanta sferzate per chi arrivava tardi alla preghiera, cento per chi interveniva in una disputa, duecento per chi parlava con toni familiari con una donna. Nonostante il regime durissimo, non mancarono i novizi, molti dei quali provenivano da famiglie benestanti. Vivevano di pane, verdure e acqua, diradavano i boschi, aravano i campi, seminavano e raccoglievano, digiunavano e pregavano. In quell’ambiente, Colombano introdusse il laus perennis o lode continua: giorno e notte, a turno, i monaci dovevano innalzare litanie a Gesù, alla Vergine Maria e ai santi. Colombano ebbe duri scontri con i vescovi, per il suo modo di interpretare il messaggio evangelico, e con i monaci benedettini, seguaci di Benedetto da Norcia, per la regola monastica imposta, incredibilmente dura. I vescovi in Gallia rimanevano saldi sul modello romano di città capitali, che garantiva loro di mantenere stretti legami con i re. Inoltre, si circondavano di un gruppo di funzionari istruiti, ma sempre più analfabeti. Erano uomini di Chiesa che non avevano mai pensato di avventurarsi oltre le poche strade ben curate per addentrarsi negli insediamenti rurali; per loro, il Cristianesimo doveva continuare a essere una religione delle élite urbane, lontana dai contadini. Colombano la pensava diversamente. Fu invitato al sinodo di Chalon-sur-Saône per chiarire la propria posizione. Ovviamente non si presentò all’appuntamento; bensì, mandò una lettera carica di ironia sulla funzione dei vescovi; l’epistola accese gli animi di questi ultimi, i quali ottennero l’appoggio della terribile regina visigota Brunechilde, che in quel momento governava in Borgogna. Colombano dovette fuggire dalla regione, lasciando, tuttavia, un’importante impronta in un luogo chiamato Lure, che, con il passare del tempo, sarebbe diventato un nuovo monastero storico della zona. Cercò di raggiungere Nantes e di imbarcarsi per l’Irlanda, ma la nave naufragò, costringendolo a cambiare programma. Interpretò il fatto come un segno che lo spingeva a proseguire con la sua missione. Si diresse, dunque, verso sud-est con l’intento di predicare ai pagani della Baviera; attraversò le Alpi e si fermò ad Arbon, nei pressi di
Bregenz, sul lago di Costanza, poiché Gall, o Gallo, il monaco esperto in lingue germaniche che lo accompagnava, si ammalò e si rifiutò di seguirlo. Proprio in quella zona, Gallo fondò un grande monastero che ancora oggi porta il suo nome: San Gallo. Infastidito dalla situazione, Colombano proseguì il cammino, addentrandosi nelle pianure della Lombardia, dove – all’età di oltre settant’anni – fondò Bobbio, il primo monastero italo-irlandese, con il sostegno del re longobardo Agilulfo. Tutto ciò accadeva nel 612, forse 613; di lì a poco, la sua nemica Brunechilde veniva deposta e giustiziata dalla nobiltà francese. Clotario II di Neustria gli propose di fare ritorno a Luxeuil con tutti gli onori. Tuttavia, Colombano rifiutò, rimanendo a Bobbio fino alla fine dei suoi giorni. In quegli ultimi anni (morì nel 615) mostrò qualche cenno di pentimento per il tremendo carattere che lo contraddistingueva; inviò il proprio bacolo al seguace Gallo, con cui aveva litigato quando questi aveva deciso di fermarsi nei pressi del lago di Costanza, e scrisse lettere al papa Bonifacio IV, rimproverandogli il fatto di mettere in pericolo la dottrina a causa del
suo temperamento indolente. Disapprovò anche la sua decisione di non intervenire con più fermezza nella controversia sul Nestorianesimo, una complessa discussione sulla natura di Cristo. Infine, si mostrò ironico e divertito, quasi beffardo, quando si trattò di orientare la Chiesa in quello che egli considerava un momento di confusione. Checché se ne dica di lui e del suo carattere, l’irlandese Colombano gettò le basi di un movimento monastico che, in sua memoria, fondò molti monasteri che con il tempo sarebbero diventati importanti città europee: Laon, Lumièges, Auxerre, Luxeuil, Liegi, Treviri, Würzburg, Ratisbona (Regensburg), Rheinau, Reichenau, Salisburgo, San Gallo, Vienna, Bobbio, Lucca e Fiesole, per citarne solo alcuni. Insieme alla diffusione dei monasteri, furono fondati anche i rispettivi scriptoria, dove vennero copiati i libri provenienti dall’Irlanda. In ciascun luogo in cui si trovarono, i monaci di Colombano testimoniarono l’interesse per l’apprendimento e le loro abilità nella realizzazione di libri. Così facendo, riscrissero la cultura classica e diedero un senso al futuro dell’Europa.
SAN COLOMBANO.
Rilievo in marmo di San Colombano nell’abbazia di Bobbio, opera dello scultore Giovanni dei Patriarchi (1480 ca.); in esso è rappresentata la scena dell’esenzione dalla giurisdizione episcopale dell’abbazia da parte di papa Onorio I.
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L’ARTE DEI VISIGOTI
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L’arte dei Visigoti I Visigoti svilupparono uno stile artistico altamente sofisticato che si manifestò nell’architettura, nella scultura, nei bassorilievi e nell’oreficeria dal V al IX secolo.
L’
arte dei Visigoti è lo stile artistico sviluppato dal popolo visigoto ai tempi del loro insediamento nella Penisola Iberica, a partire dal V secolo, quando compaiono le prime manifestazioni, fino al IX secolo, quando essa inizia a mischiarsi con l’arte della colonizzazione asturiano-leonese e con quella delle comunità dei Mozarabi, in fuga dalle persecuzioni del Califfato di Cordova ai tempi di Abderraman II. L’ampio specchio temporale e lo stile indefinito fanno di essa, secondo l’opinione del suo maggior studioso, Manuel Gómez Moreno, un’arte che «si muove senza una rotta fissa». L’epoca di massimo splendore dell’arte visigota viene fatta risalire tradizionalmente nel VII secolo, in concomitanza con lo sviluppo della cultura scritta per mano di sant’Isidoro di Siviglia. Tuttavia, negli ultimi anni è stata messa a punto una profonda rivisitazione delle principali opere artistiche attribuite ai Visigoti, che incide in buona parte con la loro cronologia e il loro raggio d’influenza. Si sottolinea il fatto che l’uso della pianta basilicale di ispirazione paleocristiana si protrasse persino oltre il 711 e, seguendo tale tesi, si insiste sull’importanza di focolai artistici legati all’Islam dei secoli IX e X nell’elaborazione di alcuni bassorilievi cruciali.
L’oreficeria I Visigoti prestarono un’attenzione molto speciale all’oreficeria. Le stesse officine che producevano brocche e patene liturgiche svilupparono nel VII secolo la produzione di fibule, nelle quali i modelli puramente germanici del VI secolo vengono semplificati, come nelle placche delle fibbie con decorazione traforata nelle quali si mescolano motivi bizantini orientali. Le fibule in bronzo realizzate in diversi formati e adornate con cabochon e intarsi in pasta di vetro mostrano la grande perizia degli orefici. Oltre alle popolari officine di oggetti in bronzo, la corte toledana promosse anche un’oreficeria aulica, dotata di officine proprie e con un artigianato ben specializzato, in cui si nota una decisa influenza bizantina, incanalata sia con l’importazione di oggetti, sia con l’arrivo di orefici, come si può notare nelle croci che caratterizzano il tesoro di Torredonjimeno (Jaén) o in quello di Guarrazar.
Splendore artistico I Visigoti svilupparono una articolatissima architettura, che fu tra le più avanzate d’Occidente, se si considerano gli elementi caratterizzanti e l’ampio ricorso ai bassorilievi, le uniche espressioni scultoree che sono giunte fino a oggi. Tuttavia, la manifestazione di maggiore importanza dell’arte visigota è senza dubbio l’oreficeria. In questo campo, oltre alle numerose fibule in bronzo, ricorCORONA DI RECESVINDO. Gioiello in oro
con zaffiri, perle e altre pietre preziose (Museo Arqueológico Nacional, Madrid).
FIBULA AQUILIFORME. Proveniente da Alovera,
questa fibbia d’oro è realizzata con la caratteristica tecnica del cloisonné.
diamo le corone votive che i re offrivano in occasione della propria incoronazione; inoltre, emergono le croci votive, gli anelli e altri oggetti in bronzo.
L’influenza nordafricana L’arte visigota fu profondamente influenzata dai movimenti artistici sorti nel Nord Africa. Le basiliche a doppio abside mostrano un modello in comune. La Basilica di Mértola, nel sud del Portogallo, risale al V secolo e pare essere una delle prime costruite nella Penisola. Ricordiamo quella di Casa Herrera, nei pressi di Mérida, la più completa e meglio strutturata; mostra resti di scultura architettonica e liturgica che, in sintonia con la cronologia della basilica, possono anche essere la dimostrazione dell’inizio dell’arte plastica del VI secolo in Hispania. Le cimase e i loro ornamenti, con semplici composizioni vegetali e geometriche e rappresentazioni di animali fantastici, sono gli elementi più significativi del complesso scultoreo; collocati in un contesto archeologico, possono essere effettivamente esempi della nuova e più precoce arte plastica creata in questa fase tardiva dell’arte paleocristiana. La rappresentazione geometrica è, allo stesso tempo, un indizio del legame con il Nord Africa. Nei mattoni disegnati a stampo, come quelli conservati al Museo Archeologico di Cordova o al Museo Archeologico di Susa (Tunisia), dominano segni di pianta centralizzata di origine preromana. Da tale tecnica nascono poi le stele di León, della conca del Duero e della regione di Lara. I segni rappresentati e le tecniche impiegate nelle stele (a due piani o con intagli a bisello) non sono diversi da alcuni dei rilievi della tappa visigota, ma, in realtà, si tratta di un tipo di manifestazione primitiva i cui codici nacquero nella preistoria e giungono alle espressioni popolari del nostro tempo, pertanto, con una diffusione globale. 59
L’ARTE DEI VISIGOTI
Tuttavia, in alcuni casi concreti – come quello dei mattoni citati prima – si possono stabilire dei legami. Il loro impiego nella tappa visigota mostra che quei segni centrati, di carattere astrale, assimilarono un significato cristiano. Ne sono esempi lampanti la sostituzione di un esagramma con la croce o il crisma ai piedi dell’altare, rinvenuto nella Basilica di Casa Herrera, a Mérida. Un altro aspetto della geometria rimanda alle composizioni continue, la cui origine viene ricercata nei mosaici romani, con le loro innumerevoli combinazioni, come alcune figurazioni come quella di una grondaia di Mérida, raffigurante pesci e animali acquatici. Definendo le origini dell’arte plastica dei Visigoti, questi esempi offrono una certa continuità con le radici autoctone.
Influenza bizantina
L’architettura visigota Gli edifici visigoti sono costruiti con conci di pietra perfettamente lavorata, archi a sesto acuto, volte a botte o a crociera e piccole cupole di influenza bizantina. Gli archi a sesto acuto sono più aperti rispetto a quelli dell’arte andalusa, perché, dai fianchi, l’estradosso (superficie esterna dell’arco) cade verticalmente sull’imposta e non segue la curva segnata dall’intradosso (superficie interna). Inoltre, tali archi sono generalmente di tipo encarjado, vale a dire che due archi contigui condividono la stessa linea d’imposta o cuscino. La volta a crociera adotta anche caratteri ben definiti e i costoloni sono evidenziati da mattoni, a formare il cosiddetto arco rialzato o a sesto oltrepassato. Le piante, di diverso tipo, adottano il modello della basilica cristiana, a volte ampliata con un grande transetto, che le avvicina di più a una pianta a croce latina, come accade nella Chiesa di San Giovanni Battista a Baños de Cerrato, a Palencia (Spagna), costruita da Recesvindo nel 661. In altri casi, risulta oltremodo ortodosso l’utilizzo della pianta a croce greca, di influenza bizantina. Gli edifici con questo tipo di pianta sono generalmente coronati da volte a crociera, come nella Chiesa di Santa Comba de Bande, nella provincia spagnola di Orense, che risale al VII secolo; l’interno presenta decorazioni a forma di corda, successivamente utilizzate nell’architettura asturiana. In alto, interno della Chiesa di San Pietro de la Nave; a destra, capitello visigoto (Museo Arqueológico, Cordoba).
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L’arte dei Visigoti ricevette anche l’influenza della cultura bizantina. Nel 551, l’imperatore Giustiniano il Grande mandò nella provincia della Hispania un esercito per aiutare Atanagildo, che aveva imbracciato le armi contro il re Agila I. Una volta che quest’ultimo venne assassinato, Atanagildo salì al trono e, in cambio del favore dei Bizantini, cedette loro parte delle province betica e tarragonense, in cui essi rimasero finché, nel 624, furono definitivamente espulsi dal visigoto Suintila. In quei settantatré anni, nella zona sudorientale spagnola, l’influenza esercitata dalla cultura bizantina fu probabilmente piuttosto importante e sembra indubbio che questa lasciò la propria impronta nelle costruzioni dell’epoca, delle quali ci è giunto quasi intatto unicamente il battistero di Gabia Grande, nei pressi di Granada, coperto da una cupola semisferica, con resti di decorazioni realizzate in marmo, vetro e onice, e figure ritagliate in placche piatte di pietra, stile che ricorda quello delle controporte della Basilica di Elche, della stessa epoca, di cui rimane solo la pianta con uno straordinario mosaico con iscrizioni greche. Sia il tipo di decorazione sia la forma delle coperture a volta si rifletteranno successivamente nelle costruzioni visigote. A ogni modo, il rilievo di Saamasas (Lugo) è considerato il modello di tali influenze; è possibile notarlo nella placca della Basilica di Casa Herrera o nell’im-
SANTA COMBA DI BANDE (VIII SECOLO).
L’edificio ha pianta a croce greca e perimetro rettangolare, da cui fuoriesce la cappella maggiore e il portico. ponente grifone alato in marmo della placca sulla controporta della Chiesa di San Miguel de Lillo, nelle Asturie. Oltre al grifone, scolpito su un lato, la placca presenta una schematizzazione arborea di carattere orientale sull’altro lato. Inoltre, poiché il rovescio del grifone mostra i segni di una modifica – essendo stati ribassati i bordi per adattarlo alla controporta – pare effettivamente che il grifone sia stato lavorato anteriormente. Lo storico dell’arte Helmut Schlunk aveva già sottolineato l’analogia di diversi particolari di Costantinopoli o di Ravenna con quelli ispanici, come le lesene del pozzo della cittadella di Mérida o un pilastro della stessa serie rinvenuto in un edificio scavato che è stato identificato come
lo xenodochio, un ospizio gratuito per forestieri e pellegrini, fondato dal vescovo Masona nell’ultimo terzo del VI secolo.
Due grandi tappe È possibile distinguere due periodi nell’arte visigota, in stretta relazione con l’evoluzione politica del regno. Il primo abbraccia il V e il VI secolo, fino alla conversione al Cattolicesimo di Recaredo nel 589 (egli era in origine ariano). Fino ad allora, la mancanza di unità politica e religiosa non consente di riconoscere uno stile definito. Si tratta piuttosto di una continuità con l’arte ispano-romana; di questa tappa restano solo alcune rovine nella città di Segóbriga (Cuenca) e a Toledo. Nell’Hispania del VI secolo, Mérida sembra essere un nucleo fondamentale; successivamente, alla fine del secolo, il regno visigoto consoliderà la propria unione e Toledo ne diventerà la sede centrale. Si spiega così lo status di Emerita
Augusta da cui deriva la posizione che conquistò alla fine dell’impero romano, a cominciare dalle riforme di Diocleziano, quando la città ottenne il titolo di capitale amministrativa di tutta l’Hispania; nonostante le alterazioni dovute alle invasioni germaniche, questo fu il fondamento della sua prosperità durante il primo periodo artistico. La potente Chiesa che dominò sulla città di Mérida, testimoniata nei documenti scritti, e la ricchezza dei materiali archeologici dell’epoca ne sono una prova. La sua grande collezione di oggetti visigoti è ancora oggi un tesoro imprescindibile per poter interpretare l’arte di questo periodo. Mérida e i nuclei situati nel sud della Penisola, tra cui figura certamente Cordova, furono i grandi iniziatori dell’arte del VI secolo che, nonostante sia ricordata come arte visigota, fu piuttosto una manifestazione della popolazione cristiana ispanica, in sintonia con le altre 61
L’ARTE DEI VISIGOTI
La Chiesa di Santa Maria de Quintanilla de las Viñas La costruzione di questa chiesa risale alla fine del VII secolo; si conserva di essa solo una parte del tempio primitivo, integrata con la cappella maggiore, a formare un’abside rettangolare, e il transetto. Mancano la navata centrale e le due laterali. Ha pianta basilicale con pietra concia e un arco attraverso cui la cappella maggiore si apre alla crociera: è ogivale sul lato interno e a tutto sesto rialzato sul lato esterno. Dalle imposte degli angoli si deduce che la cappella era coperta da una volta a vela adattata alla pianta quadrata. L’arco di trionfo dal quale si accede alla cappella dalla crociera presenta cunei decorati con grappoli, viticci e altri temi vegetali. Si notano i rilievi con allegorie del Sole e della Luna, rappresentati con busti umani all’interno di un cerchio sostenuto da angeli, probabilmente di influenza gnostica. Sopra la figura del Sole appare un’iscrizione che, tradotta, dice: «L’umile Flammola offre questo umile ossequio». A destra, tre blocchi con rilievi che comparvero ai piedi dell’altare maggiore, sebbene si pensi che potessero corrispondere a parte del sostegno del tamburo.
sue contemporanee che si svilupparono nell’area del Mediterraneo. Il secondo periodo va dall’unificazione religiosa di Recaredo fino al IX secolo, anche se l’invasione arabo-berbera del 711 cambiò le prospettive dell’arte, senza che questo significasse un’assoluta rottura, come spesso si è detto. A questo periodo appartengono la maggior parte dei monumenti conservati ancora oggi. I più notevoli si collocano nella parte settentrionale della Penisola. La Chiesa di San Giovanni Battista di Baños, nella provincia di Palencia, fu costruita nel 661. È un tempio con pianta basilicale con tre navate separate da colonne, anche se, a questa pianta, furono aggiunte tre absidi invece di una sola, quadrati e indipendenti. All’entrata, vi è un atrio che prolunga solo la navata centrale. La chiesa presenta una struttura proporzionata e solida, con pochissimi vani in piccole arcate e una scarsa deco62
razione all’esterno; al contrario, all’interno è notevole la qualità dei capitelli, perfettamente lavorati con scene bibliche. Della fine dello stesso secolo sono anche la Chiesa Santa Comba de Bande, a Orense, con pianta a croce greca e volta a chiglia, e quella di San Pedro de la Nave, a Zamora, sempre con pianta a croce greca, resa più complessa da stanze annesse. Nella Chiesa di Quintanilla de las Viñas, a Burgos, si può notare il caratteristico abside rettangolare e due fasce di rilievi che circondano l’esterno della chiesa. Abbondano i resti di rilievi scultorei dell’epoca, sparsi per i musei: capitelli, controporte, colonne, sarcofaghi ecc.; tuttavia, si conservano in situ solo alcuni di essi, in San Pedro de la Nave e Quintanilla de las Viñas. Gli studi più recenti mettono in evidenza le oscillazioni cronologiche di tutte le opere d’arte dei Visigoti. Le conclusioni su una serie di edifici a volta indi-
cano che non esistono ragioni definite per poterle inquadrare nell’uno o nell’altro periodo. In alcuni casi, lo studio realizzato attraverso l’archeologia rimanda a diverse fasi architettoniche che attualmente si possono riconoscere in un edificio; è stato provato che la maggior parte di essi ha subito interventi in epoca Alto medievale, oltre i limiti del regno visigoto, ovvero nel 711. Lo stesso accade con la scultura, in parte inclusa in quegli edifici incerti – per la maggior parte decontestualizzata – che pone una problematica simile di natura temporale. Così, lo studio comparato di una serie di immagini può darci ragione sul fatto che nemmeno ciò che è stato classificato come visigoto lo è. Evidentemente, l’arte visigota ebbe il maggior sviluppo durante il regno dei Goti, ma oggi si tende a sostenere che trascese il limite cronologico di quel regno, e segnò il futuro dell’arte ispanica almeno fino al IX secolo.
Il tesoro visigoto di Guarrazar Ritrovato tra il 1853 e il 1861 nel cosiddetto orto di Guarrazar, a Guadamur, Toledo, è un insieme di corone e altri oggetti offerti da Suintila e Recaredo alla Chiesa di Toledo. Sono in oro sbalzato, con pietre preziose e vetro non intagliato, perle e lettere appese che costituiscono le epigrafi.
CORONA D’ORO. Lo sbalzo di questa bella corona evidenzia l’influenza degli orefici del Mar Nero sugli artigiani visigoti.
CORONA VOTIVA. In oro, con intarsio di pietre preziose, mostra il sincretismo tra l’oreficeria bizantina e quella barbara.
CORONA DI RECESVINDO. I ciondoli che formano la frase Reccesvinthus rex offeret mostrano il carattere votivo dell’oggetto.
CROCE PETTORALE. Presenta numerosi intarsi di pietre colorate e altri dettagli di chiara influenza bizantina.
BRACCIO DI CROCE PROCESSIONALE. La decorazione del corpo centrale è realizzata a base di pasta di vetro.
PENDENTE A CROCE. Di chiara influenza bizantina, con pietre preziose, madreperla e vetro, fa parte di una corona votiva.
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BEDA IL VENERABILE.
Illustrazione della pagina di un manoscritto del XII secolo della Vita Sancti Cuthberti, di Beda il Venerabile (British Library, Londra). Nella pagina accanto, la Corona Ferrea della Lombardia (Museo e Tesoro del Duomo di,Monza). 64
TRA DUE EPOCHE La conquista del mondo da parte degli Arabi – che si spinsero fino in Indonesia a est e in Marocco a ovest – coincise con la migrazione dei popoli slavi che, iniziata come un’operazione militare dei nomadi della steppa, come gli Avari o i Bulgari, concorse a creare gradualmente in Europa un terzo grande territorio culturale e linguistico, della stessa grandezza dei due già esistenti, quello latino e quello germanico.
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l doppio movimento migratorio arabo e slavo fu alla base del grande cambiamento che portò alla formazione dell’Europa. Furono realizzati importanti adeguamenti sulle rotte marittime euroasiatiche – il Mediterraneo, il Mar Rosso, il golfo Persico, l’Oceano Indiano e i mari della Cina meridionale e orientale; contemporaneamente, l’estremità occidentale della Via della Seta si spostò dalla Cina a Baghdad, fino a fondersi con rotte alternative a ovest del Tigri e dell’Eufrate, verso Damasco e Costantinopoli. La prosperità commerciale favorì la creazione di un sistema bancario e monetario sofisticato, che concedeva crediti privati, danneggiando l’agri-
coltura e l’artigianato e, in un certo senso, anche l’ordine sociale. Le crepe esistenti tra i settori urbani a causa della comparsa di una nuova classe facoltosa che metteva in crisi i valori tradizionali provocarono la sensazione che il mondo stesse giungendo alla fine. Ed era vero, ma solo per i convinti fedeli all’ordine antico, rimasti insensibili ai grandi cambiamenti che erano sopraggiunti dopo la grande guerra tra Roma e i Persiani all’inizio del VII secolo. le più estese regioni del mondo erano alla vigilia di una rivoluzione verde, sostenuta dallo sviluppo dell’agricoltura islamica. La prosperità fece sì che la consueta povertà venisse percepita come crudele miseria, un prodotto delle 65
TRA DUE EPOCHE
IL TRONO DI DAGOBERTO I. Trono
in bronzo fuso, cesellato e, in parte, dorato, appartenuto a Dagoberto I (Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
calamità e delle guerre provocate dalla cupidigia dei governanti imperiali e dei loro imitatori barbari. Ormai non serviva più la certezza escatologica per spiegare i decenni di cambiamenti e di turbolenze che posero fine all’impero dei Sasanidi e che danneggiarono seriamente l’impero bizantino, che non tornò mai più a essere un impero universale. A metà del VII secolo iniziò un periodo di aspettative, segnato da avvenimenti importanti. L’arrivo dei musulmani e la migrazione degli Slavi furono l’ultima spinta per la formazione dell’Europa. Era inevitabile che prima o poi quelle due grandi maree culturali si sarebbero scontrate lungo un confine conteso, che si estendeva dall’alto Danubio fino alle montagne del Caucaso. La civiltà slava e l’Islam erano due universi in espansione che, entrando in contatto, producevano un grado di violenza pari all’esplosione dell’incontro tra materia e antimateria. Slavi e musulmani erano la sistole e la diastole di una corsa alla ricerca di uno spazio proprio in Europa ai danni dell’impero romano, sia in Occidente sia in Oriente, al punto tale da obbligare gli altri popoli, i nomadi della steppa, i Franchi, i Longobardi o i Visigoti, a partecipare al loro gioco nel VII secolo. Tale fenomeno non era assolutamente prevedibile quando alcuni saccheggiatori slavi avevano forzato le ultime difese danubiane dell’impero bizantino nel 614 o quando Maometto fuggì da La Mecca a Medina nel 622. La sensazione che il mondo degli ultimi trenta secoli avrebbe resistito dopo quel colpo di grazia fece sì che molti popoli conservassero le proprie tradizioni, senza perceprire che si era giunti a un punto di non ritorno nella storia; la consapevolezza giunse a metà del VII secolo, proprio nel periodo che stiamo analizzando in questo volume.
La leggenda dei Merovingi Nel 652 nasceva Dagoberto II, senza che nessuno della famiglia potesse presagire che sarebbe stato l’ultimo re merovingio di Austrasia. Era figlio di Sigeberto III di Austrasia e della principessa Inechilde e, pertanto, nipote di Dagoberto I (629-639), il re che era riuscito a tenere uniti i tre territori dell’eredità merovingia – Neustria, Austrasia e Borgogna – e la cui memoria restò per sempre immortalata sul trono di bronzo, noto come la “sedia di Dagoberto”, che oggi si trova nel Gabinetto delle Meraviglie della Biblioteca Nazionale francese. A metà del VII secolo quegli splendori erano solo un ricordo: la situazione ha portato alcuni storici francesi a classificare i re dell’epoca con l’appellativo, affatto positivo, di les rois fainéants, i re fannulloni. La scenografia, tratta dalla Cronaca di Fredegario, aggiunge una sfumatura me-
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I re fannulloni: Dagoberto I La tappa finale del regno merovingio fu caratterizzata dalla presenza di alcuni monarchi, conosciuti per essere dissoluti nella vita privata e negligenti nell’agire politico, e passati alla storia con il nome di “re fannulloni”. Figlio di Clotario II, Dagoberto I mantenne per un periodo il potere del maior domus (maggiordomo di palazzo) e dei grandi proprietari terrieri che lo sostenevano. Secondo lo storico Fredegario, «dormiva e mangiava poco, gli interessava solo agire in modo tale da lasciare tutti colmi di piacere e ammirazione». Una predisposizione positiva verso la politica che contrastava con la sua vita privata: «Aveva tre regine e un esercito di concubine» ed era «schiavo dell’incontinenza». I suoi successori mantennero lo stesso atteggiamento, cui si aggiunse una politica negligente. Il potere reale passò dunque ai maggiordomi di palazzo. Pipino II il Giovane sconfisse gli altri maggiordomi nella battaglia di Tertry (687), si accaparrò il titolo di duca e principe dei Franchi e governò tutta la Gallia, tranne l’Aquitania. Sotto Clotario IV (717-719), il vero potere finì nelle mani di Carlo Martello, figlio di Pipino il Giovane. A destra, tomba di Dagoberto I nella basilica di Saint-Denis.
lodrammatica alla situazione. Re poco più che bambini, condotti su carretti trainati dai buoi, davanti al popolo affascinato dall’aura sacra del lignaggio, rappresentata dalla lunga treccia che adornava le loro teste. Accanto a loro, un’aristocrazia seduta sui propri privilegi e una Chiesa che perseguiva gli stessi scopi di potere e controllo sulle terre e sui contadini. Nel 656, alla morte di Sigeberto III, il maggiordomo di palazzo Grimoaldo, figlio del facoltoso Pipino di Landen, fece tagliare la chioma all’erede Dagoberto II e lo mandò al monastero irlandese di Slane, nei pressi di Dublino. Lì, il giovane re deposto imparò tutto il necessario per recuperare il trono e trovò anche il tempo per sposare la principessa Matilde; dopodiché si trasferì con la moglie a York, su richiesta di san Wilfrid, ma non per molto, visto che la donna morì improvvisamente. Dagoberto II fece ritorno in Austrasia con grande sorpresa della madre, consapevole di quanto fosse difficile che suo figlio potesse uscire vincitore dallo scontro con la famiglia dei maggiordomi, capeggiati in quegli anni dall’astuto Pipino II
di Herstal (suo zio era il torvo Grimoaldo e suo nonno era Arnolfo, vescovo di Metz). La situazione era difficile e attorno a lui iniziarono gli intrighi. Pare che, nel frattempo, il giovane re si fosse sposato per la seconda volta con la principessa visigota Giselle, figlia di Bera II, conte di Razès – anche se questo sposalizio è oggetto di dibattito – ed era pronto ad affrontare i maggiordomi di palazzo. Infine, recuperò il trono del padre nel 676 e diede inizio a un regno che tendeva ad accentrare la sovranità della famiglia dei merovingi. Tuttavia, cinquant’anni di potere dei maggiordomi di palazzo non potevano scomparire all’improvviso, dunque Dagoberto II fu al centro di una rete di congiure, omicidi e tradimenti. Due giorni prima del Natale del 679, mentre era a caccia nella foresta di Stenay, nelle Ardenne, un sicario, probabilmente mandato da Pipino, lo colpì con una lancia e lo impalò su un albero. La Chiesa neutralizzò le voci che la ritenevano responsabile dell’accaduto proclamandolo martire ed elevandolo agli altari. Il giorno successivo alla sua morte, mentre il regno passava nelle mani di Pipino, ebbe inizio la
leggenda dei Merovingi di Austrasia (quella dei suoi nipoti, i re merovingi di Neustria, sarebbe iniziata di lì ad alcuni anni): una leggenda legata al suo potere taumaturgico (la cura dei malati mediante l’imposizione delle mani), al carattere sacro del lignaggio e, infine, all’evento non documentato riguardante il figlio di Dagoberto II, di nome Sigeberto (per i suoi seguaci Sigeberto IV, secondo il lignaggio della casa reale merovingia), rifugiato in casa del fratello di sua madre, Giselle di Razès. La leggenda vuole che uno dei suoi discendenti più famosi sia Goffredo di Buglione, il capo della crociata che conquistò Gerusalemme nel 1099. Tuttavia, la letteratura genealogica non fa luce sulla discendenza dell’ultimo re merovingio di Austrasia. Così, in mancanza di documenti reali si sono create alcune false credenze, materiale perfetto per romanzieri.
La fine del regno visigoto Durante l’ultimo terzo del VII secolo, il regno visigoto di Hispania mostrava segni di debolezza, nonostante l’imponente facciata di re, leggi e concili 67
TRA DUE EPOCHE
I concili di Toledo, una potente arma politica Un’assemblea ecclesiastica – i concili della Chiesa ispanica che fin dall’epoca romana si riunivano a Toledo – sostenne i re visigoti nella loro autorità legislativa e nelle questioni di governo dal 589, in seguito alla conversione di Recaredo al Cattolicesimo. Dal IV Concilio celebrato nel 633, per iniziativa di sant’Isidoro da Siviglia, i concili furono concepiti come un’istituzione al tempo stesso politica ed ecclesiastica, che agiva in sessioni distinte, a seconda che si trattassero temi religiosi o politici, attribuendosi, rispetto a questi ultimi, un’alta funzione decisionale e normativa sulle questioni di Stato. Per tale motivo i concili erano considerati come la suprema assemblea legislativa che regolò nella Hispania visigota l’orientamento della vita dello Stato e, al tempo stesso, come corte suprema del fisco. A destra, l’XI Concilio di Toledo, riunitosi nel 675, sotto il regno di Vamba, in una pagina illustrata del manoscritto Supremazia della Chiesa di Toledo (XIII secolo), conservato alla Biblioteca Nacional di Madrid. Nella miniatura si può osservare l’organizzazione delle riunioni conciliari convocate dal monarca (in alto a sinistra) e presiedute dall’arcivescovo di Toledo (a destra), a cui assistevano tutti i vescovi del regno.
di Toledo. Le inimicizie familiari si mischiavano alle antipatie regionali, e il carattere ribelle dei nobili alla resistenza dei contadini, stanchi di un sistema tributario asfissiante. La fine era vicina, ma nessuno sembrava rendersene conto. Di sicuro non se ne accorse il re Vamba (672-680) quando respinse una flotta musulmana che si era avvicinata alle coste della Penisola, o quando soffocò una ribellione capeggiata dal duca Paolo a nord dell’Ebro. La sua teatrale deposizione del trono era un chiaro riflesso della profondità della crisi. I grandi latifondisti visigoti, che disponevano di numerosi tributari – in altri termini, la casta dominante – si diedero a qualsiasi tipo di cospirazione e angheria che il re Egica (687-700) tentò di soffocare con scarso successo. Persino l’arcivescovo di Toledo subì un attentato, che lo portò a inasprire la politica contro gli Ebrei, accusati di tramare con i musulmani per porre fine al regno. Il XVII Concilio di Toledo promosse un editto che condannò tutti gli Ebrei alla schiavitù, ma in Settimania la legge non entrò in vigore. La frammentazione territoriale era iniziata. 68
Senza difficoltà, al re Egica succedette il figlio Witiza, che nel 700 rivendicò il potere reale e si propose di sottomettere l’alto clero alla corona. Ne derivò una congiura che portò sul trono il governatore della Betica, Rodrico o Roderico: don Rodrigo. Si nutrono dubbi sul suo ruolo nella congiura, probabilmente fondati. Il suo regno non sarebbe stato facile. Il re deposto aveva una potente famiglia alle spalle, e così suo figlio Agila e suo fratello Oppas chiesero aiuto al governatore arabo della Mauretania, Musa ibn Nusayr, il quale rispondeva direttamente al califfo Al-Walid ibn Abd al-Malik, a Damasco. Nella primavera del 711, Musa ordinò al nuovo governatore di Tangeri, un esperto guerriero di nome Tariq ibn Ziyad, di dare inizio ai preparativi per attraversare le acque che separavano l’Africa dall’Europa, appena quattordici chilometri e mezzo di mare verde e azzurro. Egli si preparò coscienziosamente e per farlo richiese il rapporto del responsabile di una spedizione di ricognizione che aveva avuto luogo mesi prima, Tárif Ibn Tâlib al Muâfir. Questi gli indicò i possibili punti per lo
sbarco, poiché Tárif e i suoi uomini, circa 400 Berberi, erano riusciti a trascorrere alcuni giorni in quelle terre e avevano fatto ritorno carichi di un grosso bottino e di molte donne. Il villaggio dell’odierna Andalusia, sorto nei pressi del punto di sbarco, porta ancora il nome del leader della spedizione: si chiama infatti Tarifa. Il rapporto del capo della spedizione Tárif al generale Tariq includeva, inoltre, alcuni dettagli sulla confusa situazione politica esistente tra i Visigoti, aggiungendo considerevoli informazioni a ciò che il generale aveva già saputo dal suo capo, il governatore della Mauretania. A questo punto, la storia oscilla tra favola e leggenda. Il re visigoto Witiza aveva lasciato il trono al figlio Agila, ma i clan rivali incoronarono don Rodrigo. I sostenitori del successore di Witiza decisero di contare sui Berberi per deporre colui che consideravano un usurpatore, di cui si diceva che avesse oltretutto sedotto e violentato una donna di nome Florinda, figlia del conte don Giuliano, governatore di Ceuta. Che si tratti di verità o di semplice leggenda, resta il fatto che il celebre storico arabo ibn Abd al Hakam fece pronunciare a don Giuliano la seguente frase: «Non vedo in che altro modo possa punirlo e restituirgli il torto se non aizzando gli Arabi contro di lui».
Il 711: Guadalete La spedizione arabo-berbera iniziò con l’occupazione di un promontorio roccioso che ricevette il nome di Jabal al-Tariq, “montagna di Tariq”, divenuta poi l’odierna Gibilterra. Il generale Tariq si appoggiò, per oltrepassare lo stretto, ai suoi due uomini di fiducia, l’esploratore Tárif Ibn Tâlib e l’avventuriero Maguit ar Rumí. Presa la testa di ponte, li mandò dall’altra parte della baia, un luogo costiero posto a 16 km a ovest e che chiamarono Al Jazira al Jadrá, l’odierna Algeciras (Andalusia). La notizia del loro sbarco giunse a Toledo, così l’esercito reale visigoto preparò una spedizione. Non era certo una novità, tuttavia l’importanza del contingente berbero che sbarcò nei giorni successivi alla presa di Gibilterra indicava intenzioni che andavano ben oltre del semplice saccheggio di alcune città del litorale. Il 19 luglio del 711 (28° giorno del Ramadan dell’anno 92), durante la marcia verso Algeciras, l’esercito visigoto comandato da don Rodrigo incontrò Tariq sulle rive del fiume Guadalete, o in un luogo vicino tra la Laguna de Janda e la città che gli storici arabi chiamano Chaduna, ovvero l’attuale Medina-Sidonia (Andalusia). Le scaramucce e gli scontri senza un vincitore dichiarato proseguirono per una settimana sugli altipiani che si estendono dal fiume Barbate fino al Guadalete. Il caldo era asfissiante. Finalmente giunse la
giornata definitiva, quella della battaglia vera e propria, il cui luogo esatto è oggetto di polemica: potrebbe essere uno qualsiasi dei due prescelti per le scaramucce iniziali. Don Rodrigo divise il proprio esercito, affidando il fianco destro e sinistro a due suoi duchi. Di fronte, la fanteria berbera di Tariq rimase ferma dietro ai propri scudi leggeri rinforzati da fasce di metallo. La loro cavalleria, la muyâfafa, facile da individuare per il caratteristico turbante posto sopra l’elmo di metallo, l’imama, indossava cotte di maglia leggera sotto giacche in pelle. I Visigoti, nelle cui fila si ebbe più di una diserzione a tradimento, persero la battaglia decisiva e persino il loro re morì annegato, stando ai romanzi che, successivamente, trassero ispirazione da quella sconfitta. Infatti, tutto ciò che riguarda l’arrivo degli Arabi-Berberi è tinto di leggenda. A cominciare proprio dalla figura del governatore di Ceuta, il conte don Giuliano, il personaggio che agevolò il passaggio sullo stretto agli “invasori”, fino a giungere ai motivi della disillusione dei Visigoti.
TARIQ IBN ZIYAD.
Litografia a colori del pittore e disegnatore tedesco Theodor Hosemann (1807-1875), raffigurante il comandante Tariq Ibn Ziyad a cavallo in testa alle sue truppe arabo-berbere.
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Guadalete: una sconfitta dalle conseguenze decisive Il 19 luglio del 711, il 28° giorno del Ramadan dell’anno 92 del calendario islamico, ebbe luogo la battaglia del Guadalete, nella quale le truppe visigote sotto il comando del re don Rodrigo furono sconfitte da un contingente di Arabi e Berberi capitanati da Tariq ibn Ziyad. Di fatto, l’invasione arabo-berbera era iniziata alcune settimane prima con uno spiegamento notturno sul monte Calpe. Tariq costruì la fortezza in mattoni, la cui struttura è ancora in piedi, su quella che oggi è la Rocca di Gibilterra o Jabal al-Tariq, “montagna di Tariq”. Nel giro di alcuni giorni, avanzò in direzione di Al Jazira al Jadrá, Algeciras. Nei primi giorni di luglio Tariq condusse i propri uomini dalla costa alle montagne. L’incursione era arrivata in un brutto momento per il re visigoto, che tentava di respingere una ribellione dei Vasconi e di frenare le tendenze secessioniste del duca Agila nella Settimania. Nonostante ciò, il re riuscì a fare in modo che la maggior parte dei nobili mandasse forze di cavalleria per cercare di fermare quella che ormai era, in realtà, un’invasione in piena regola. Con il tempo, la battaglia fu considerata il cardine di tutta la storia spagnola, anche se all’epoca né i musulmani né la nobiltà visigota capirono l’importanza storica della strage che stava per avere inizio. Ovviamente non era ancora possibile parlare di uno scontro di civiltà, anche se entrambe le parti maturarono tale pensiero dai rispettivi punti di vista nei secoli a venire. La battaglia che le cronache arabe chiamano di Chaduna (Medina-Sidonia) fu un insieme di scaramucce che per varie settimane precedettero la battaglia definitiva nell’altopiano che si estende dal fiume Barbate fino al Guadalete. A destra, La battaglia del Guadalete, olio su tela di Salvador Martínez Cubells (Museo de la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid).
La verità è che Tariq si trovò di fronte una sfida e una vittoria inaspettate. Condusse l’esercito senza sosta attraverso la provincia di Cadice, schivando prudentemente la fortificata città di Siviglia, e raggiungendo da Morón de la Frontera la città romana di Écija, nella valle del Guadalquivir, la località più calda di quelle terre, dove vinse nuovamente contro un esercito visigoto lì acquartierato. Siviglia e Mérida si difesero, e furono assediate; altre città, invece, capitolarono facilmente. L’obiettivo principale era la capitale, Toledo, definita dalla propaganda visigota la nuova Gerusalemme, dove si trovavano il tesoro reale e alcune misteriose reliquie. Gli Arabi-Berberi firmarono patti con l’aristocrazia visigota che lasciò loro carta bianca sul territorio. Nel luglio 712, Musa ibn Nusayr attraversò lo stretto fino ad Algeciras con un esercito regolare, composto per la maggior parte da Yemeniti, per sostituire Tariq e i Berberi che stavano diventando troppo potenti. Aveva intenzione di raggiungere Toledo il prima possibile, ma deviò per assediare e conquistare Siviglia. Ebbe così inizio 70
la vera e propria conquista del regno visigoto. Molti villaggi furono passati a fil di spada, come dimostrano i recenti scavi archeologici; altri, invece, cambiarono semplicemente riferimento politico, poiché non videro mai l’arrivo dei musulmani come una questione religiosa: tutt’al più venivano confusi con i monofisiti per la loro negazione della Trinità, cosa che, peraltro, continuavano a fare i numerosi ariani che rimanevano in silenzio dopo la conversione al Cattolicesimo dei re visigoti. Ecco perché molti proprietari terrieri rimasero dov’erano, Visigoti o Ispanici, grandi o piccoli, sebbene i principi di spartizione e colonizzazione restassero gli stessi di sempre. Le terre di campagna erano ancora coltivate dai coloni, liberi o servi, ascritti alla terra conformemente alle leggi romane ratificate da codici legislativi visigoti, soprattutto l’ultimo e il più influente: il Forum Iudicum di Recesvindo. Il regno dei Visigoti era caduto nelle mani dei musulmani; ben presto l’Hispania romana si trasformò in al-Andalus, una parte del Dar al-Islam. Rimasero alcuni focolai di resistenza nelle lande
DON RODRIGO. Copertina dell’edizione principe (Saragozza, 1603)
di La verdadera historia del rey don Rodrigo en la que se trata la causa principal de la pérdida de España, del medico moresco Miguel de Luna (Biblioteca de Catalunya, Barcellona).
del nord della Penisola; la loro permanenza, nonostante le difficoltà, creò un confine tra i due territori. In pochi anni, lungo tale frontiera spuntarono solide torri di vedetta erette dai musulmani per resistere agli attacchi dei cristiani; a nord delle torri di vedetta si estendeva la “casa della guerra”, territorio lugubre e feroce; a sud, un giardino fiorito come tutti quelli della “casa dell’Islam”, con raccolti abbondanti e magnifiche città, uno scenario quasi idilliaco che la monaca e poetessa Roswitha di Gandersheim definì, nel X secolo, «la perla del mondo».
La cultura di Luka Raikovetskaia All’estremità opposta d’Europa, nelle steppe russe, ebbe luogo una sintesi culturale e politica con tratti caratteristici. Non aveva nulla a che vedere con il regno dei Visigoti spagnoli, ma l’epoca fu la stessa. L’Europa del VII secolo accoglieva profonde differenze. La migrazione slava verso la Russia europea fino al Volga fu un prolungamento naturale dell’espansione degli “Slavi orientali” stanziati a est del Vistola, nell’odierna Bielorussia
e nella Volinia (Ucraina). La Prima cronaca russa, scritta vari secoli dopo gli eventi, descrive i Poliani stanziati nei pressi di Kiev. Tuttavia, il fenomeno più significativo, a metà del VII secolo, fu lo sviluppo di una nuova cultura, quella di Luka Raikovetskaia, basata su un incredibile predominio della metallurgia e della costruzione di fortezze. Nel pantheon di Kiev compare un dio di nome Simargl, che è stato identificato con il mitico uccello persiano, Simurgh o Sênmurw. Nella mitologia sarmatica, questo mostro alato è il guardiano dell’albero del seme di tutte le piante. Troviamo anche la dea Mokosh, che significa “umidità”, personificazione della “madreterra-umida”, che ricorda le grandi dee madri della tradizione, come Astarte e Afrodite. Infine, il dio Stribog, il cui nome che significa “il dispensatore di ricchezza”. Riguardo alle tradizioni funerarie, è opportuno segnalare che in quegli anni gli Slavi della cultura di Luka Raikovetskaia incenerivano i morti e ne seppellivano le ceneri in urne speciali di forma biconica, su cui ergevano dei monticelli. 71
TRA DUE EPOCHE
L’espansione degli Avari e il regno di Samo nel VII secolo Intorno alla metà del VI secolo, un popolo della steppa, noto come popolo avaro, iniziò a impossessarsi di terre e villaggi lungo il Danubio medio, nella Grande Pianura ungherese, nei dintorni del lago Balaton. In poco tempo gli Avari attraversarono coraggiosamente il fiume e avanzarono contro l’impero bizantino, mentre punzecchiavano a ovest i regni franchi. Vis
Zona di popolazione avara all’inizio del VII secolo Migrazioni e campagne militari Regno di Samo (623-658) Kanato avaro (VII-fine VIII secolo)
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NERO Costantinopoli Nicomedia
Gli Avari, provenienti dal Turkestan, attraversarono la Russia meridionale intorno al 558, sottomisero gli Slavi che incontrarono sul cammino, si inoltrarono fino al fiume Elba nel 562, confinarono i Longobardi in Italia nel 568 e devastaronocoì duramente i Balcani da annientarne – quasi – la popolazione e la lingua latina. Per un periodo, il potere degli Avari si estese dal Baltico al Mar Nero. Nel decennio del 620, si sommarono una serie di eventi che favorirono la decadenza degli Avari. Nel 626, essi assediarono e per poco non presero Costantinopoli, ma la sconfitta comportò una perdita di credibilità delle loro azioni militari. Fu dimostrato che gli Avari non erano invincibili. L’occasione permise a un comandante slavo di nome Samo di portare avanti il proprio intento, iniziato alcuni anni prima, di liberare la Boemia nel 562, e di trasformare la propria egemonia in un vero e proprio regno. Si scontrò persino con il re merovingio Dagoberto I, che sconfisse nella battaglia di Wogatisburg nel 631. Tali azioni gli permisero di consolidare un territorio di matrice slava che, tuttavia, non sopravvisse alla sua morte nel 658, anche se oggi viene considerato di diritto l’antenato della Slovenia e della Slovacchia. Alla morte di Samo, gli Avari tentarono di estendere il proprio dominio su tutta la regione, ma dovettero ben presto affrontare due grandi eventi storici: l’inarrestabile espansione slava su tutto il territorio e il dominio dei Franchi nell’est e sud-est di Austrasia. La fine del potere avaro giunse tra il 790 e l’805, quando Carlomagno li sconfisse e li disperse: da quel momento smisero per sempre di esistere come unità politica.
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Tali tradizioni svelano stretti contatti con le civiltà degli Iranici, dei Sarmati e degli Sciti, che diedero luogo a un’intensa attività commerciale che permise loro di conoscere bene l’utilizzo di tutti i metalli quali oro, rame, argento, stagno e ferro. Sono state individuate alcune fucine e officine in cui venivano fabbricati gli utensili necessari per l’agricoltura, la caccia e la guerra. Le loro principali occupazioni, comunque, erano il pascolo dei bovini, la pesca e l’apicultura. Mantennero uno stile di vita nomade: cambiavano frequentemente luogo di residenza in cerca di nuove terre da coltivare; per tale motivo, costruivano le proprie case con materiali leggeri, facili da trasportare in caso di migrazione o di fuga di fronte all’attacco di un villaggio ostile. Spesso si rifugiavano nei boschi circostanti. Ciò spiega, inoltre, che per loro la terra era una proprietà collettiva, della comunità intera; ciascun membro del gruppo partecipava ai lavori agricoli e la produzione apparteneva a tutti; tale regime era noto con il nome di zafruga. La proprietà privata esisteva, ma si limitava agli oggetti personali e agli utensili di lavoro, alle armi e ai gioielli. Tutti i coltivatori liberi venivano chiamati smerd e tra loro iniziò a formarsi il gruppo dei vitiaz, un’aristocrazia militare che impiegava i cavalli nel proprio esercito, probabilmente per influenza sarmatica.
Gli Avari: splendore e tramonto L’ascesa, lo splendore e il tramonto degli Avari è una delle storie più raccontate nella letteratura, in un’epoca in cui ve n’era ben poca. Gli Avari abbandonarono la grande steppa eurasiatica dopo gli Unni e crearono un impero nell’Europa centrale. Parlavano la lingua turcica, ed erano ormai integrati in una potente confederazione di popoli nomadi sui confini della Cina. Pressati dai Turchi occidentali, marciarono verso ovest e giunsero sul basso Danubio come rifugiati politici. Nel 558 si presentarono alla corte di Costantinopoli e, parlando all’imperatore, si offrirono, secondo lo storico Menandro, «di sterminare i loro nemici fino all’ultimo uomo». L’imperatore accettò l’offerta, utilizzandoli nella sua strategia per il controllo delle migrazioni dei popoli nomadi a nord del basso Danubio. Gli Avari, però, poco soddisfatti di quel ruolo subalterno, crearono, intorno al 568, un blocco di potere, stabilendosi nella Grande Pianura ungherese; ben presto alcuni popoli si unirono alla loro confederazione. Il potere degli Avari, come quello degli Unni, dipendeva sia dai servi agricoltori – schiavi, per la maggior parte – sia dai gruppi di guerrieri subordinati, ritenuti responsabili delle loro sconfitte militari. Così, lo storico bizantino Menandro descrive come un comandante avaro, vedendo fallito l’asse-
dio da lui deciso di Singidunum (Belgrado), chiese un abbondante donativo alle autorità per ritirarsi e mantenere salvo l’onore. Sugli stessi toni, ma più drastici, fu il suo gesto dopo il tentativo fallito di assaltare Costantinopoli nel 626, quando non esitò a uccidere la fanteria slava in fuga. La spedizione fallita su Costantinopoli incrinò il potere degli Avari a tal punto che per alcuni anni la regione fu nelle mani di uno strano personaggio di nome Samo, che creò l’effimero regno di Samo, tra l’attuale Moravia-Slesia e la Boemia. Esso ebbe vita breve: scomparve a causa degli attacchi subiti dal re merovingio Dagoberto I intorno al 631; il principale fu a Wogatisburg, cui seguirono le sconfitte subite nelle campagne sul confine della Turingia. Gli Avari ripresero il controllo della regione, conservando il loro regno nomade nella Grande Pianura ungherese, un vasto territorio che comprendeva una parte dell’odierna Austria e quasi tutta l’Ungheria. Proseguirono con i loro insediamenti di forma circolare formando grandi recinzioni fortificate, costruite con tronchi intrecciati e muratura, al cui
interno sorgevano diversi villaggi. Tuttavia, molti popoli guerrieri sotto il loro potere si emanciparono, come nel caso dei Serbi, dei Croati e di altri Slavi dei Balcani. Conservarono l’alleanza con il clan bulgaro Dulo e gli Eftaliti Uar. I tre gruppi riuscirono a unire le loro forze sotto il comando di Kubrat; alla sua morte, però, intorno al 634, gli Avari rimasero soli nella pianura. L’ascesa del re dei Cazari a est impedì loro di avere contatti con le steppe di cui erano originari. Iniziò, dunque, un processo di riduzione del territorio a ovest, dove i duchi di Baviera e altri grandi signori sarebbero riusciti a impossessarsi della regione compresa tra Wienerwald e l’Enns in seguito ad alcune campagne descritte nella Vita di sant’Emmerano, nel 713 e nel 714. Alla fine di tale processo, il regno degli Avari restò ridotto ai territori di Ungheria, Slovacchia e la valle del Drava e la Bassa Austria. La sua struttura si adattava ai nuovi tempi. Divisi in molteplici unità, ognuna retta da una sorta di “enarca”, gli Avari iniziarono dunque a tornare sedentari sotto l’influenza degli Slavi.
LE CRONACHE RUSSE.
La storia della formazione della Russia europea, a partire dal V secolo, viene raccontata in documenti come La prima cronaca russa o la Cronaca di Radzivill, rispettivamente del XII e del XIII secolo. Sopra, illustrazione di una pagina della Cronaca di Radzivill (Accademia Russa delle Scienze, San Pietroburgo).
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IL FAVOLOSO TESORO DI SÂNNICOLAU MARE
TESORO DI SÂNNICOLAU MARE. Vasellame composto da 23
recipienti in oro da 20 a 22 carati in media, e un peso totale di 10 Kg.
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el 1799, in una regione paludosa nei pressi di Nagyszentmiklós – l’odierna Sânnicolau Mare, in Romania – fu ritrovata una vasta collezione composta da 23 oggetti di vasellame in oro puro, riccamente decorati con rilievi e motivi figurativi. Le decorazioni di tale tesoro riflettono una grande varietà di influenze (tra le quali predominano quelle centroasiatiche, persiane sasanidi e bizantine), e sono accompagnate da iscrizioni greche, turche o runiche. Questa confluenza di stili decorativi ha complicato enormemente il compito degli specialisti nel definire con precisione il periodo storico a cui appartiene il tesoro, datato tra l’VIII e il IX secolo e collegato a popoli nomadi delle steppe, come gli Avari, gli Ungheresi o i Bulgari. Poco dopo la scoperta, il tesoro fu trasferito a Vienna – l’allora capitale dell’impero austriaco – ed è conservato al Kunsthistorisches Museum della città.
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MOSTRI MITOLOGICI Rilievo figurativo della decorazione di una delle anfore. Rappresenta un guerriero nomade che sta per scagliare un dardo contro una pantera, in groppa a un animale che ricorda i lamassu mesopotamici, con testa umana, corpo di leone, ali d’aquila e coda di serpente. Questo genere di animale compare in diverse occasioni.
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CIOTOLA PIATTA.
Provvista di manico, è decorata al centro con una croce, che la fa risalire ai tempi della cristianizzazione dei popoli magiari e bulgari.
ANFORE DECORATE. I rilievi
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figurativi rappresentano diverse creature mitiche (aquile, grifoni e centauri), oltre a guerrieri e cacciatori.
CIOTOLE. Ornate con una testa di toro nella quale si combinano i tratti di un toro con quelli di un leone, a formare una sorta di ibrido demoniaco.
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4 PIATTO. Di forma ellittica, con decorazioni interne che ricordano la struttura di una conchiglia. Il rilievo superiore mostra due leoni e due grifoni vicino a un albero floreale.
ANFORE CON MANIGLIA. Entrambe
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hanno una maniglia circolare e la struttura a pera, liscia in una, lavorata nell’altra; alcune zone sono decorate a motivi floreali.
6 RECIPIENTE. Tutta la superficie esterna è ricoperta di rilievi con motivi vegetali che racchiudono le figure di quattro animali mitici, un misto di grifone e di leone rampante.
RHYTON. È in oro a 12 carati ed è composto da due parti saldate a formare un angolo ottuso. Come altri oggetti del tesoro, presenta iscrizioni in caratteri runici.
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PATERA. Per uso cerimoniale, con fondo lobato, presenta al centro un mostro ibrido, un misto di leone e pesce, mentre i bordi e la maniglia sono decorati con motivi vegetali.
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TRA DUE EPOCHE
Poco a poco, gli Avari non furono più un pericolo e il loro regno entrò in uno splendide isolement fino alle spedizioni di Carlomagno. Risale a quell’epoca di splendido isolamento il magnifico tesoro di Sânnicolau Mare (in ungherese Nagyszentmiklós). Scoperto nel 1799 nel territorio ungherese della monarchia asburgica, è composto da 23 pezzi in oro, di una straordinaria qualità tecnica e artistica. La decorazione allude alle antiche tradizioni mediterranee e iraniane, così come ai motivi delle steppe asiatiche e dell’Europa orientale. Vengono rappresentate scene di guerrieri a cavallo, animali fantastici ed episodi narrativi, con una figura umana portata da un’aquila, una variazione del mito di Ganimede. Alcune iscrizioni, in turco antico, sono state incise solo posteriormente.
Gli ultimi Longobardi
CALICE DI TEODOLINDA. Figlia del
duca di Baviera e principessa di sangue reale, Teodolinda ebbe un ruolo chiave nella storia del regno longobardo, poiché contribuì in modo decisivo al consolidamento della fede cattolica. I conflitti del VII secolo non furono più intrapresi in nome dell’Arianesimo, bensì del Cattolicesimo. Sopra, calice di Teodolinda, del VI secolo (Tesoro del Duomo, Monza).
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L’unità longobarda fu raggiunta a metà del VII secolo, quando il duca di Benevento, Grimoaldo, divenne re dopo aver sconfitto i figli di Ariperto e aver sposato la sorella del re sconfitto. Riuscì persino a respingere attacchi dai Franchi e a limitare il potere imperiale. Tuttavia, fallì nel tentativo di fondare una dinastia, poiché, alla sua morte, Pertarito, figlio dello sconfitto Ariperto, si impossessò del trono lasciando Benevento al figlio maggiore di Grimoaldo, Romualdo. Il grande cambiamento del VII secolo consistette nel fatto che entrambi i re longobardi erano cattolici e l’Arianesimo sembrava condannato per sempre. Il potere della Chiesa era sempre più forte, come fu evidente con l’appoggio che essa prestò a Cuniperto, figlio di Pertarito, quando egli si sentì attaccato da tutti. La vittoria nella battaglia di Coronate, presso il fiume Adda, nel 689 fu quella di un re sostenuto dalla Chiesa contro i duchi e i grandi signori rimasti fedeli alla religione ariana. In seguito a tale scontro armato, lo stesso impero bizantino riconobbe che il regno dei Longobardi era diventato una potenza straniera. La progressiva italianizzazione di questo popolo comportò la diffusione dei matrimoni misti e l’adozione della lingua romanza proveniente dal latino come lingua standard del regno. Vi fu un ritorno di interesse verso l’arte romana e alcuni edifici vennero restaurati. All’epoca, ebbe inizio la politica di donazione delle terre tra i gasindi, gli uomini del seguito del re, ai quali era doveroso riconoscere una ricompensa; essi formarono una nuova nobiltà grazie alla maggiore tariffa di wergeld, il pagamento cui era costretto chiunque arrecasse loro un danno, inclusa la morte. Giunsero così i tempi in cui si sentì la necessità di nuove conquiste per distribuire terre come premi
e per dare una dimora ad altri arimanni che non ne avevano. Tali cambiamenti danneggiarono gli uomini liberi più poveri, che iniziarono a essere richiamati dai latifondisti come mezzadri (libellarii), alla maniera romana. In mezzo a tali mutamenti comparve la figura di Liutprando (712-744), che sarebbe stato un personaggio decisivo nel futuro di un’Italia longobarda. All’inizio dell’VIII secolo, la Corona Ferrea di Lombardia passò nelle mani di Liutprando, un re dalla forte personalità che si autodefinì christianus langobardorum rex nei documenti emanati dalla sua corte. Rinforzò il concetto di regno, grazie a un’opera legislativa e alla conquista dei ducati indipendenti di Spoleto e Benevento. Volle andare oltre e orientò le sue conquiste verso la zona imperiale. Cattolico convinto, trasformò la proibizione del culto delle immagini decretata nel 727 dall’imperatore bizantino nel pretesto per i suoi piani di conquista. Avanzò su Bologna, città nelle mani dell’esarcato di Ravenna, la assediò e la conquistò; successivamente, la stessa sorte toccò a Sutri. Stava marciando verso Ravenna
quando, per timore di un attacco dei Franchi nella retroguardia, firmò un trattato di pace con l’esarca nel 743. Liutprando era stato un re conquistatore e legislatore. Alla sua morte, il regno longobardo entrò in una fase di lotte interne ed esterne che, alla fine, dopo l’effimero regno di Rachis, duca del Friuli, nel 749 fece salire al trono il fiero Astolfo. Un re per un drammatico finale. La religione di Astolfo era la guerra, e gli veniva bene. Nel 751 il suo esercito conquistò Ravenna e tutta la Romagna. Fu la fine dell’esarcato imperiale. Di lì in avanti l’unico possedimento bizantino nel nord Italia fu il piccolo ducato di Venezia, nelle lagune. Convinto del proprio potere, Astolfo attaccò Roma e impose una tassa alla Chiesa. Tale gesto provocò la chiamata del papa ai Franchi. La sua sorte era segnata.
Carlo Martello e la battaglia di Poitiers Carlo detto “Martello” era figlio naturale di Pipino II di Herstal, maggiordomo di palazzo di Austrasia e reale fondatore della dinastia che, grazie a lui, riceve il nome di “dinastia carolingia”.
Alla morte del padre, nel dicembre 714, Carlo aveva ventisette anni ed era considerato il successore ideale sotto ogni aspetto, tranne per ciò che riguardava la sua nascita: era figlio illegittimo. Per tale motivo, non fu convocato sul letto di morte, sebbene i due fratelli, nati nel matrimonio, fossero morti poco prima e i diritti di successione passassero senza grandi problemi a bambini in tenera età. Il maggiordomo di palazzo di Neustria consigliò al roi fainéant di rifiutare la candidatura in Austrasia, definendolo “bastardo”. Ne seguì una guerra tra i diversi clan fu tanto crudele quanto inutile. Terminò nel 719 con il trionfo di Carlo, che depose il re di Neustria in favore del proprio re fannullone di Austrasia, Clotario IV e, infine, unì i Franchi sotto un unico e onnipotente maggiordomo dei Pipinidi. In quel momento accadde il fatto che lo portò a entrare per sempre nella storia. Una spedizione di Arabi e Berberi attraversò i Pirenei nel 732 e cominciò a saccheggiare le terre di Aquitania, dove il duca Oddone non poté fare altro che fuggire attraversando la Loira per chiedere aiuto al
L’ARTE LONGOBARDA.
Dettaglio (la Maestà Divina) del bassorilievo del frontale di marmo di un altare del VIII secolo, donato da Rachis, duca del Friuli e re dei Longobardi (Museo Cristiano – Tesoro del Duomo, Cividale del Friuli).
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Fiume Cla in
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RITIRATA. Quando nell’esercito arabo si diffuse la voce secondo cui la cavalleria franca minacciava il bottino che avevano ottenuto a Bordeaux, molti fecero ritorno all’accampamento. Mentre tentava di frenare la ritirata, il comandante arabo fu ucciso.
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Arabi-Berberi
Cavalleria franca
3 2 Arabi-Berberi
CONTRATTACCO. La carica della cavalleria franca, appostata nei boschi a nord della postazione di Carlo Martello, formò un movimento avvolgente che impedì nel modo più assoluto all’esercito nemico di riunirsi.
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Franchi
potente maggiordomo franco. Carlo capì l’opportunità che gli si presentava e riunì un esercito composto da diversi popoli germanici, Alamanni, Bavari, Sassoni e Frisi. In ottobre, l’esercito di Carlo avanzò da Tours verso sud sull’antica strada romana e, poco prima di giungere a Poitiers, il suo avamposto avvistò la colonna di Arabi e Berberi che aveva saccheggiato tutta la regione e si stava dirigendo verso la Loira. Osservò i suoi movimenti e propose alcuni scontri, per la maggior parte supportati dalle truppe del duca Oddone. Subito si rese conto del fatto che le sue truppe non potevano eguagliare la velocità e la capacità di manovra del nemico. Cercò un luogo appropriato, scegliendo, infine, un promontorio tra i villaggi di Vieux-Poitiers e Moussais-la-Bataille. In un freddo 11 di ottobre, Carlo ordinò ai suoi uomini di unire i propri scudi, formando fila di fanteria compatte estese per tutta l’ampiezza del pendio graduale e in parallelo alla via romana. I cavalieri arabi attaccarono dopo la preghiera del mezzogiorno, marciando verso la cima della collina dalla strada romana; la tattica del karr wafarr, 78
Cavalleria franca
Franchi
nne Vie me Fiu
La realtà fu che, in una delle loro scorrerie in Aquitania, gli Arabi-Berberi penetrarono fino alla regione a nord della Loira e dovettero affrontare i Franchi. Fu una sconfitta importante, ma non decisiva, poiché negli anni successivi si verificarono molte altre razzie. Nemmeno Carlo Martello riuscì ad aiutare il duca Oddone di Aquitania a liberarsi della presenza araba tra la Saona e il Rodano. Gli storici dell’epoca inventarono un altro scenario: trasformarono quella spedizione nel progetto dell’Islam di occupare la Gallia, così come aveva occupato la Penisola Iberica, e fecero di Poitiers un mito. Il mito della salvezza dell’Europa grazie ad alcune truppe che lottarono con lo stesso coraggio che i Greci avevano mostrato di fronte ai Persiani. In ogni caso, Poitiers servì affinché Carlo Martello conquistasse il potere in Austrasia e spianasse la strada a suo figlio Pipino perché diventasse re dei Franchi. Una battaglia vinta con la propaganda della famiglia dei maggiordomi di palazzo. Nella pagina accanto, guerrieri a cavallo, con il caratteristico armamento carolingio; miniatura del IX secolo del Salterio aureo di San Gallo (Stiftsbibliothek St. Gallen, San Gallo).
nne Vie me Fiu
Considerata una battaglia decisiva che salvò l’Europa dall’Islam, fu in realtà un episodio minore, uno scontro senza grande importanza tra una spedizione arabo-berbera e un contingente di fanteria franca.
ATTACCO. Per sei giorni i due eserciti si tennero d’occhio, intavolando solo scaramucce minori. La battaglia inizio il settimo giorno, con le violente e rapide cariche della cavalleria araba.
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Fiume Cla in
La battaglia di Poitiers: tra mito e realtà
con le sue ondate di cavalieri a grande velocità a formare sciami che si riformano e caricano di nuovo, aveva sempre dato eccellenti risultati, perciò era impensabile che non accadesse lo stesso in quell’occasione. Ondata dopo ondata, i cavalieri arabi rimbalzarono contro le fila di guerrieri franchi, che «rimasero fermi come un muro», per usare le parole dell’autore della Cronaca mozarabica, scritta nel 754. La sorprendente resistenza dei Franchi proveniva dalla loro potenza come gruppo e dalla loro destrezza nel corpo a corpo. Alla fine della giornata, Carlo ordinò di avanzare la linea contro gli Arabi. Si riversò sull’accampamento, uccidendo il capo e decine di cavalieri; gli altri fuggirono disperdendosi. E così tutto si concluse: il resto è il mito di Poitiers. La leggenda ha molti aspetti. Uno riguarda il successo della cavalleria franca e, soprattutto, l’importanza dei cavalieri nella battaglia, quando, in realtà, i Franchi di Carlo Martello furono soldati di fanteria la cui forza risiedeva nella disciplina, nella forza e nell’armamento, composto da asce e spade. Un altro aspetto riguarda la convin-
zione secondo cui tale battaglia salvò l’Europa e cambiò il destino del mondo. Sono iperboli che evidenziano la scarsa conoscenza di ciò che accadde in quella giornata, che altro non fu se non l’affermazione in tutto e per tutto del clan dei Pipinidi dei maggiordomi di palazzo e l’egemonia del dominio dei Franchi sul resto dei popoli germanici. Alla morte di Teodorico IV, il re fannullone di Austrasia, Carlo lasciò semplicemente il trono vacante. Grazie a Poitiers, il regno dei Franchi passò dall’essere un avamposto nella civiltà mediterranea al centro di una nuova civiltà cristiana. Lo prova il fatto che da quel momento in poi non vi furono più spedizioni musulmane al nord del fiume Loira, mentre iniziarono le spedizioni franche a sud dei Pirenei. Ecco ciò che quella giornata aveva reso possibile.
Il potere nobiliare tra i Franchi Carlo Martello costruì un potente regno franco sostenuto da uomini liberi, proprietari terrieri che risultavano divisi in due settori diversi. Il gruppo nobiliare noto con il nome di potentes, i
potenti, era composto da proprietari di vasti latifondi agricoli che partecipavano alle spedizioni militari a cavallo, anche se, al momento dello scontro, scendevano per unirsi alla fanteria di uomini liberi, contadini proprietari di piccoli allodi, che i testi dell’epoca chiamano pauperes, termine che in quegli anni faceva riferimento alla loro condizione di dipendenza: liberi ma non nobili. Dopo Poitiers si fece strada un gruppo speciale di guerrieri, i caballarii austrasiani, che si avventavano con grande strepito sui campi di battaglia con elmi di ferro rinforzati e tuniche di cuoio guarnite di chiodi, brandendo un giavellotto appuntito nella mano destra e una spada a doppio filo – che i Franchi consideravano un’arma segreta – legata al polso. Al tempo stesso, Carlo Martello si rese conto della quantità, davvero enorme, di terre che erano state intestate e trasmesse perennemente agli ordini e alle diocesi religiose negli ultimi anni. La situazione era intollerabile per chiunque volesse governare il Paese; Carlo non esitò dunque a riprendersi i beni ecclesiastici, azione necessaria, se 79
TRA DUE EPOCHE
Il Beowulf, il più bello e lungo poema medievale anglosassone
voleva mantenere un esercito con cui perpetrare i successi militari che lo avevano reso celebre. Una milizia formata per la maggior parte da uomini liberi e proprietari terrieri, che camminavano trascinando i piedi pesantemente, oltre che da zappatori e da tecnici del genio che maneggiavano con scioltezza catapulte, più o meno grandi, e altre macchine da guerra. La cavalleria – i caballarii austrasiani con il nuovo armamento – senza che avesse davvero l’importanza che talvolta le è stata attribuita, cominciò a guadagnare posizioni di privilegio sociale e di sviluppo tecnologico. D’altro canto, la rapida evoluzione di tutto l’apparato amministrativo, fiscale e militare mise in allerta i grandi ecclesiastici, che vedevano ridursi non solo le loro proprietà, ma anche la loro influenza politica. Una delle tattiche per accelerare tale processo consisteva nel nominare vescovi gli alleati, sebbene non avessero la qualifica necessaria per esserlo. Di fronte alla resistenza del ceto ecclesiastico davanti alla possibilità che, oltre tutto, venissero alienate le loro proprietà, Carlo Martello fece ricorso al precarium, ovvero alla concessione d’uso in usufrutto, strumento legale che permetteva a chi stava al governo di accedere alla ricchezza ecclesiastica ma non alla proprietà.
Beda il Venerabile e il Beowulf
Il Beowulf è considerato un’opera cruciale nell’ambito della letteratura d’Inghilterra, al pari della Chanson de Roland per la Francia o del Poema del mio Cid per la Spagna. Ciò lo trasforma a pieno diritto in una delle grandi epopee della storia e della cultura europee. L’azione del poema si sviluppa nel V e VI secolo, epoca delle grandi migrazioni dei popoli germanici, e narra le gesta di Beowulf, eroe della tribù dei Geati. Il racconto parte dalla difficoltà minore alla maggiore: all’inizio, Beowulf affronta il mostro Grendel come atto di eroismo giovanile, vincendolo senza bisogno di ricorrere alle armi; in seguito, potrà contare sulla spada «forgiata da giganti» che gli ha dato il re Hrothgar. In età adulta affronta il mostro come un dovere, per proteggere il proprio popolo, uccidendolo con l’aiuto di un suo vassallo. I due primi scontri hanno luogo in Danimarca, mentre l’ultimo si svolge nel Paese dei Geati. Questo farebbe pensare a due nuclei diversi racchiusi nel poema: il primo ha come sfondo la cultura danese, mentre il secondo quella dei Geati e il loro mondo politico e sociale. Esiste un nesso di unione tra le due parti, ovvero il racconto del ritorno di Beowulf alla corte del suo re Hygelac, in cui compaiono gli elementi storici più accurati di tutto il poema, poiché sono un’eco della spedizione di Hygelac contro i Frisi e i Franchi, citati anche da Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum. Sopra, pagina illustrata del manoscritto Cotton Vitellius (XI secolo), l’unica copia conservata del Beowulf (British Library, Londra).
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All’epoca del monaco e scrittore noto come Beda il Venerabile (673-735), la politica dei re anglosassoni si adattò ai cambiamenti sociali e culturali provocati dalla cristianizzazione; furono quei cambiamenti, infine, a portare alla fine del potente re Penda di Mercia e delle illusioni del paganesimo negli ambienti del potere isolano. Per la precisione, alla morte di Penda, suo figlio (secondo altre fonti suo fratello) Wulfhere (658-675), fervente cattolico, gli successe al trono; la sua prima decisione fu quella di espellere tutti i funzionari che non fossero battezzati. La vita sociale proseguì come prima. Le élite anglosassoni possedevano i due terzi del territorio; ogni città o villaggio importante si trovava compreso nei possedimenti di un thane, di un nobile, di un vescovo o del re. Si tenevano assemblee cittadine, le tun-moots o folk-moots, che a volte ricoprivano il ruolo del tribunale per lo shire, la contea. Tuttavia, solo i proprietari terrieri potevano assistere a quelle riunioni che, alla fine, elessero un’“assemblea di saggi”, il witenagemote, per tenere la situazione sotto controllo. Tale oligarchia aristocratica limitava il potere dei re e, pertanto, i re si avvicinarono alla Chiesa. Uno dei principali effetti di questo avvicinamento ebbe luogo nel Sinodo di Hertford convocato dall’arcivescovo di Canterbury, Teodoro di Tarso, nel 673. In quell’assemblea, la Chiesa pose
fine alla tradizione anglosassone di ripudiare la moglie senza alcun motivo, con la possibilità di risposarsi in continuazione. Le donne acquisirono un ruolo importante nella vita politica e furono fondamentali per la cristianizzazione della società. I re le corteggiavano pazientemente e consultavano le proprie mogli riguardo a questioni politiche. Esse protessero la Chiesa e resero possibile la restaurazione di edifici scolastici. In uno di questi, la scuola di Wearmouth-Jarrow, fondata dal vescovo Biscop, studiò Beda. Lo rivela lui stesso in uno scritto dal carattere autobiografico dove viene descritto il processo mediante il quale un bambino della regione diventava un monaco votato in grado di leggere commenti biblici, omelie e ogni tipo di classico, diventando l’uomo più saggio del suo tempo, autore della magnifica Historia ecclesiastica gentis Anglorum (733). L’opera, a differenza della maggior parte delle storie monastiche, non è una cronaca arida, seppur sovraccarica di miracoli: è una narrazione chiara e accattivante, che a tratti si eleva a una semplice eloquenza, come nella descrizione della
conquista anglosassone. Beda è rigoroso, ricco di dettagli e preciso nell’annotare le proprie fonti, poiché, come lui stesso scrisse, «non volevo che i miei bambini leggessero menzogne». Nell’autobiografia indica anche le cinque lingue parlate all’epoca nell’isola: inglese, britannico (celtico), irlandese, pitto (scozzese) e latino. L’inglese era la lingua degli Angli, che differiva molto poco dal sassone – erano di fatto interscambiabili. In questa lingua fu scritto il più importante poema epico anglosassone, il Beowulf, di cui si conserva un manoscritto degli inizi dell’XI secolo nella British Library di Londra. L’opera completa consta di 3183 versi e narra le gesta del principe dei Geati, Beowulf, della Svezia meridionale, che attraversa il mare per liberare il re danese Hrothgar dal mostro Grendel e dalla sua terribile madre. Dopodiché, regnerà per cinquant’anni nella terra recuperata dalla devastazione, finché apparirà un altro mostro che sputa fuoco dalla bocca. Dovrà affrontarlo, ferendosi a morte durante lo scontro. L’opera termina con la pira funeraria su cui l’eroe viene incenerito sotto gli occhi di tutto il popolo.
BEDA IL VENERABILE.
Pagine illustrate della Vita Sancti Cuthberti (manoscritto Yates Thomson, 1200 ca.), di Beda il Venerabile, che mostra san Cutberto di Lindisfarne mentre prega per salvare le genti di mare in pericolo (British Library, Londra).
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L’IMPERATORE CARLOMAGNO.
Ritratto di Albrecht Dürer (Germanisches Nationalmuseum, Norimberga). Nella pagina accanto, patena con lavorazione carolingia del IX secolo, attorno a un centro di serpentina e oro del I secolo (Tesoro della Basilica di Saint-Denis, Parigi). 82
L’IMPERO CAROLINGIO L’impero carolingio deve il proprio nome a Carlomagno, che volle scommettere su un modello territoriale che unisse Austrasia e Neustria con il Reno come asse, nel quale vi fosse un’organizzazione politica e amministrativa con un importante ruolo delle marche. In qualità di imperatore, Carlomagno aspirava a integrare l’Europa in un’unica entità politica, e riuscì a imprimere una profonda impronta nella storia del continente.
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viaggiatori eruditi della metà dell’VIII secolo che giungevano in Gallia dai centri monastici di Inghilterra e Irlanda vi trovarono un’eredità classica molto degradata. Molti di loro si impegnarono nel compito di creare una cultura comune che avrebbe dovuto essere latina, in contrapposizione a quella greca sostenuta dall’impero bizantino; in ogni caso, non romana. Così facendo, il papa correva il rischio di perdere importanza nell’ordine internazionale, nonostante lo sforzo compiuto per autoproclamarsi vicario di Cristo sulla Terra. A Costantinopoli, dove si trovava l’imperatore, che si credeva designato da Dio per dirigere la Chiesa, ciò non era molto impor-
tante, come c’era da aspettarsi: intorno al 750 venivano ancora emanate leggi per ordine imperiale, malgrado le proteste di Roma. Il dettaglio più particolare della situazione in Neustria, territorio franco d’Occidente, era il profilo politico dei re della dinastia merovingia, un misto di Cristianesimo e tradizioni pagane, tra cui spiccava l’ancestrale convinzione secondo cui i re fossero più che comuni mortali. Davano prova di tale convinzione grazie al potere taumaturgico, la cura dei malati per imposizione delle mani, la miglior prova della santità della loro dinastia. Tuttavia, senza offendere delle convinzioni tanto radicate nella popolazione, i membri di una famiglia 83
L’IMPERO CAROLINGIO
MAGGIORDOMI DI PALAZZO CAROLINGI Anni 616-629/639
Pipino di Landen. Dagoberto I gli tolse l’incarico, che recuperò con Sigeberto III. Anni 643-662
Grimoaldo I il Vecchio. Figlio di Pipino di Landen, venne giustiziato per tradimento. Anni 687-714
Pipino II di Herstal, il Giovane. Nipote e successore di Grimoaldo e padre di Carlo Martello. Anni 714-715
Grimoaldo II il Giovane. Figlio di Pipino di Herstal, morì prima del padre. Fu maggiordomo di Neustria, Austrasia e Borgogna. Anni 715-741
Carlo Martello. Fondatore della dinastia carolingia, cui deve il suo nome. Era figlio illegittimo di Pipino di Herstal. Anni 741-747
Carlomanno. Figlio primogenito di Carlo Martello, abdicò in favore del fratello Pipino per ritirarsi in monastero. Anni 747-751
Pipino il Breve. Ottenne di essere riconosciuto dalla Chiesa come re dei Franchi, dopo aver deposto l’ultimo re fannullone, Childerico III.
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nobile di Austrasia, che a cominciare da Pipino di Landen controllavano grandi possedimenti tra i fiumi Mosa, Mosella e Reno, resi grandi dai successi militari di uno di loro – Carlo Martello – iniziarono a chiedersi se fosse corretto che un re senza potere continuasse a regnare. In definitiva, si trattava di una realpolitik che avrebbe favorito una vera e propria rivoluzione in Europa. Il pretesto utilizzato – quello preferito dalla Chiesa – fu la fede pagana dei suoi re, quella leggenda secondo cui fossero discendenti di un mostro marino, Meroveo, che aveva generato la dinastia sulle rive del Rodano. Il conflitto politico fu tramato, come di consueto, con una serie di intrecci complicati, il cui sfondo era la guerra con gli Alamanni, che occupavano la regione di Svevia, con Odilone, duca di Baviera, al comando. Nel 747 l’abdicazione di Carlomanno, primo figlio di Martello – uno dei due maggiordomi di palazzo – e il suo ingresso nel monastero di San Silvestro sul monte Soratte, permise a Pipino, noto come “il Breve” per la bassa statura, secondo figlio di Carlo Martello e terzo tra i Pipinidi a portare quel nome, di fare il proprio ingresso nel grande scenario della storia. Si disfò con facilità (e crudeltà) degli avversari. Alla fine del decennio del 740, egli era padrone di una parte sufficientemente grande dei suoi rivoltosi domini: i duchi bavari, i capi sassoni, i signori frisi della guerra e gli emiri della Settimania studiavano con preoccupazione le proprie difese per capire se avrebbero resistito a un avversario così potente. Tuttavia, più che la guerra, gli interessava la politica, soprattutto risolvere una grave questione in sospeso nelle sue terre: era buona cosa che il re dei Franchi non esercitasse alcun potere reale? Inviò un’ambasciata a Roma, capeggiata dal vescovo Burcardo di Würzburg e dall’abate di Saint-Denis, per sottoporre al papa la chiave della politica franca, che il suo predecessore, il papa Zaccaria, non era riuscito a risolvere: se in Francia, di fronte allo stato delle cose, non fosse meglio che il titolo di re fosse concesso a chi deteneva il potere effettivo. Ottennero la risposta che il loro signore desiderava: rex venit a regendo, ovvero, «si diventa re regnando», un invito affinché Pipino III venisse incoronato re dei Franchi. Una risposta che scatenò reazioni radicali che non coinvolsero solo il papato e i Franchi, bensì tutta la cristianità e, per estensione, la formazione dell’Europa.
La rivoluzione di Pipino il Breve Nel 751 Pipino attaccò lo sfortunato re merovingio Childerico III di Neustria con l’approvazione del papa, preoccupato per l’avanzata in Italia dei Longobardi, che quello stesso anno avevano conquistato Ravenna, spazzando via ciò che rimaneva
delle vecchie insegne del potere imperiale. Così facendo, mise fine al regno dell’ultimo discendente di Clodoveo, e lo fece con un gesto molto simbolico: gli tagliò la treccia, in altri termini lo tonsurò, e lo richiuse insieme al figlio in un monastero. Successivamente, a trentasette anni, Pipino venne eletto re dall’assemblea dei potenti del regnum francorum; inoltre, si fece ungere da Bonifacio (Wynfrith), il più illustre missionario dell’epoca, in presenza dei vescovi franchi. Divenne così, per il proprio popolo e per la storia, re Pipino III. Bertrada, sua legittima sposa e madre dei suoi figli, divenne regina con l’approvazione dei signori laici ed ecclesiastici. La rivoluzione si era consumata. Mancava, tuttavia, ancora un passo. La decisione di cacciare il re dal trono avrebbe potuto offendere la comunità cristiana, per questo motivo Pipino il Breve invitò Stefano II, successore di Zaccaria, affinché accorresse in suo aiuto. Alla fine dell’autunno del 754, un papa di Roma viaggiò per la prima volta nella storia attraverso le inospitali terre della Gallia transalpina. Attraversò le Alpi Marittime tra tormente di neve e una fitta nebbia, pertanto sarebbe stato molto difficile per il potente guerriero austrasiano intervenire in difesa del papa in caso di bisogno. Ben presto, però, scoprì che si trattava di terre cristiane, zeppe di santuari, monasteri e abbazie in cui si respirava un’aria di convinta devozione per gli insegnamenti di Cristo. Sollevato da quella sensazione, raggiunse Pipino, il quale, onorato da una così insigne presenza, smontò dalla sella e gli fece da palafreniere, guidando il cavallo papale. Così facendo creò un precedente, poiché con quel gesto magnificò la dignità pontificia. In un momento di enorme difficoltà, l’autorità del papa era stata recuperata. Pipino sarebbe stato ricompensato. Nella Basilica di Saint-Denis, il papa Stefano II unse lui e i suoi figli, Carlo e Carlomanno, confermandoli come re dei Franchi, rendendoli patrizi dei Romani e vietando – pena la scomunica e l’interdizione – di eleggere re una persona che non fosse discendente da loro. Dunque, l’approvazione papale consacrò la nuova dinastia. Pipino il Breve rispose con un altro gesto altruista: invase l’Italia e sconfisse Astolfo, re dei Longobardi, nelle clusae, l’uscita fortificata dal valico del Moncenisio (755). Ciò nonostante, fu una vittoria incompleta, o piuttosto una falsa sconfitta. Poco dopo, Astolfo avrebbe assediato Roma, perciò Pipino dovette tornare in Italia due anni dopo; assediò Pavia e ottenne la resa definitiva del re. Si iniziò, allora, a intravedere una nuova idea che si diffuse per la cristianità latina, l’idea che Pipino fosse destinato da Dio per mettere ordine al disordine, per dare lustro ai secoli. I termini che
PIPINO IL BREVE. Disegno a inchiostro del Codex Legum Langobardorum in cui viene evocata la conquista del regno dei Longobardi da parte di Pipino dopo la resa della sua capitale, Pavia. I territori che i Longobardi avevano sottratto all’impero bizantino furono donati a carattere perpetuo alla Chiesa di Roma. In cambio, Pipino ricevette la Corona Ferrea e divenne re dei Longobardi (Archivio dell’Abbazia della Santissima Trinità, Cava de’ Tirreni).
gli scrivani di palazzo utilizzarono per descrivere quella missione fu correctio, poiché si trattava proprio di una correzione del corso della storia. Per tale ragione non gli importò di accettare per buono un documento che in realtà era assolutamente falso: la Donazione di Costantino. Secondo tale documento, l’imperatore Costantino il Grande aveva donato al papa Silvestro I (314-335) la sovranità su Roma, sull’Italia e su tutto l’Occidente, secondo la seguente e incredibile dichiarazione: «Noi riteniamo opportuno trasferire il nostro impero [… ] giacché dove è stato costituito dall’imperatore celeste il principato dei presbiteri e il capo della religione cristiana, non è giusto che in quel luogo l’imperatore terreno abbia potere. Concediamo e consegniamo [al papa] la città di Roma e tutte le province e città d’Italia e delle regioni occidentali, affinché siano governate da lui e dai suoi successori e siano sottomesse alla sua tutela». L’evento politico rilevante fu che da quel momento in poi i pontefici si rivolsero sempre ai re carolingi se si trattava di difendere gli interessi
territoriali di Roma. Non servì a nulla la protesta dell’imperatore bizantino; gli ambasciatori che si presentavano al cospetto di Pipino il Breve nel suo accampamento davanti a Pavia furono congedati insieme alle loro pretese. Con ciò il destino dell’Italia fu segnato per sempre. Pipino annientò i Longobardi e consegnò al papa le chiavi di Ravenna e delle altre città dell’esarcato, oltre alla Pentapoli, zona costiera da Rimini ad Ancona. La presenza dell’impero bizantino fu relegata – per poco – a Venezia e ad alcune piccole proprietà in cui rimasero i maestri dei soldati e i tribuni delle diverse circoscrizioni. Un’eco lontana di quello che era stato un importante dominio territoriale in Italia.
La Mercia ed Egberto del Wessex Nel 757, sei anni dopo che Pipino il Breve era diventato re dei Franchi, Offa ricevette la consacrazione come re di Mercia (757-796). Era stato eletto dai witan (nobili laici ed ecclesiastici) tra i membri della sua dinastia, in una witenagemot (assemblea) e, fin dal primo momento, assunse un’aura quasi magica, in ogni caso superiore al suo prede85
L’IMPERO CAROLINGIO
IL VALLO DI OFFA.
La lunga cicatrice costruita a scopi difensivi dal re Offa è ancora oggi chiaramente visibile, dopo oltre dodici secoli, nella verde campagna che si estende sul confine tra l’Inghilterra e il Galles.
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cessore al trono, Etelbaldo (716-757), anche se, in buona parte, proseguì il lavoro amministrativo, fiscale e organizzativo di quest’ultimo. Il potere personale di Offa favorì il compito di incorporare la vecchia aristocrazia nei thanes, una nuova classe di funzionari che aveva obblighi nei confronti del re mediante un vincolo di vassallaggio; tuttavia, ciò non impedì ai re di incoraggiare i propri sudditi liberi a diventare vassalli dei vecchi nobili che rimanevano fedeli al trono. Il re Offa divenne celebre per le sue conquiste nel Galles e per la costruzione del Vallo di Offa – esistente ancora oggi – che si estende dal fiume Dee al Wye, una protezione contro i ladri di bestiame. Inoltre, migliorò la moneta in uso nella Mercia coniando il penny d’argento, un’imitazione del denarius di Carlomagno, e il mancuso d’oro copiato invece dal dinaro arabo, a indicare un crescente traffico di schiavi. In più, fece sì che il papa Adriano istituisse a Lichfield l’arcidiocesi di Mercia, tra il Tamigi e l’Humber, senza tenere conto del fatto che ne esistesse già una a York più a nord. La ragione per cui ottenne il sostegno del
papa fu la decisione di esonerare le terre dei monasteri da qualsiasi onere pubblico, in modo che i tributi venissero pagati alle chiese e non al re. Su tali basi, Offa riuscì a trattare i re franchi al suo pari livello, sebbene, per farlo, avesse dovuto entrare in guerra più di una volta con i signori della Northumbria. La fragile organizzazione politica di questo Paese gli facilitò di molto il compito, anche se ciò non impedì ai monasteri di continuare a promuovere una brillante vita culturale, che fu iniziata grazie al lavoro del chierico aristocratico Benito Biscop, un fondatore delle case benedettine di Wearmouth e Jarrow. Il rivale non sottomesso della Mercia era il regno del Wessex, che in quegli anni aveva in scacco un buon numero di aetherling, principi della casa di Cerdic che godevano di rendite e giravano per tutto il regno sotto il nome di gesith, “nati bene”. La tendenza all’unificazione del Paese sotto un solo potere era talmente forte che il re Egberto del Wessex (802-839) costrinse i signori di Mercia e Northumbria, gli unici signori d’Inghilterra non sottomessi direttamente a lui, a
prestargli un giuramento di fedeltà, conferendo alla concezione del re un notevole impulso. Il movimento unificatore si rifletté di fatto nella comparsa degli shire, una nuova divisione amministrativa che andava a sostituire gli antichi distretti di tradizione romana. Fu determinante che i regni anglosassoni di Sussex, Essex e Kent fossero diventati shire del Wessex, accettandone la legislazione e l’autorità del suo re.
Roncisvalle: storia e leggenda Nel 768 il re Pipino il Breve morì lasciando il trono ai due figli, Carlo e Carlomanno. Come era tradizione tra i Franchi, i due si divisero le terre e governarono il regno per tre anni. Il fato ebbe un ruolo importante in quel momento, poiché nel 771 Carlomanno si ammalò e morì poco dopo, lasciando il fratello come unico re. Tuttavia, Carlo voleva di più; a dire il vero, voleva tutto. I posteri lo avrebbero conosciuto come Carlomagno. La sua storia ha inizio con una decisione azzardata, travestita da leggenda. Nella primavera del 777, Carlomagno tenne la prima dieta imperiale in terra sassone, nella città di Paderborn, in Vestfalia, per deliberare sul futuro della Sassonia occupata. Durante la riunione si presentarono tre importanti emissari musulmani che avevano viaggiato dai Pirenei con un salvacondotto. Gli emissari con il loro seguito colpirono molto profondamente i partecipanti alla dieta, i potenti laici ed ecclesiastici, stando ai commenti che vengono riportati negli Annali palatini. Era passata più di una generazione dall’ultima volta in cui l’aristocrazia franca aveva avuto contatti con il mondo musulmano. I corpulenti Germani, appartenenti a ciascuna tribù (Franchi, Alamanni, Sassoni, Frisi o Borgognoni), si alzarono dalle loro panche di legno, coperti con pelli di orso, mentre cercavano di capire il senso di un’ambasciata così insolita. Le notizie raccolte da Eginardo, biografo di Carlomagno, permettono di ricostruire gli eventi. L’ambasciata era composta da Suleiman ibn al Arabi, emiro di Barcellona e Girona, Al Husayn ibn Sad Ibn Ubada, valì di Saragozza, e il valì di Huesca, il cui nome non venne registrato. Carlomagno ascoltò le lamentele sulla pretesa dell’emiro di Cordova, Abderraman I, di controllare tutta l’Hispania. Il riassunto dello storico non è tanto una dissertazione di politica internazionale; è piuttosto l’occasione di adeguare il messaggio degli emissari ispanici agli interessi della corte franca. Carlomagno si vide costretto a scegliere, e lo fece a favore del califfo di Baghdad, Muhammad al-Mahdi (775785) e contro il califfato Omayyade di Cordova. Pertanto, non è altro che una grossolana manipolazione asserire che la spedizione carolingia
dell’anno successivo in Hispania rispondesse a un’esigenza religiosa, poiché essa obbedì in realtà solo a questioni di ordine strategico. La campagna fu preparata con attenzione. La macchina da guerra carolingia era superiore sia in complessità sia in disciplina. L’obiettivo era Cordova, sebbene, per arrivarci, fosse necessario attraversare l’Ebro da Saragozza, secondo il piano stabilito a Paderborn fra i tre emissari e il re. Tra gli ufficiali, i cui nomi sono citati da Eginardo, figura Hruodland, comandante della scara, la cavalleria d’élite bretone, che i poemi di gesta avrebbero reso un eroe universale con il nome di Orlando. Secondo i piani previsti, e con il morale alto, l’esercito franco e i suoi alleati (tra i quali si trovavano i conti di Bordeaux, Bourges, Tolosa, Limoges, Clermont e Narbona) entrarono nel territorio confinante tra la Marca di Spagna e alAndalus alla fine di giugno 778. Il califfato Omayyade di Cordova rispose in maniera decisa. Da una parte, fomentò l’idea che un esercito infedele attaccava per la prima volta la Dar al-Islam, la terra dell’Islam (fatto rigorosa-
POTENTE CAROLINGIO.
La società carolingia si articolava in due classi sociali ben definite, i potenti, potentes – un’aristocrazia territoriale – e gli uomini liberi, piccoli proprietari agricoli detti pauperes. Nell’immagine, nobile carolingio con la spada, caratteristica del IX secolo ed emblema del potere dei potentes, rappresentato come donante in un affresco della Chiesa di San Benedetto, a Malles Venosta (Bolzano).
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L’IMPERO CAROLINGIO
CARLOMAGNO VITTORIOSO. Dettaglio
di un dittico in avorio del IX secolo raffigurante un Carlomagno trionfante che calpesta i suoi nemici, i Sassoni (Museo Nazionale del Bargello, Firenze).
mente vero); dall’altra, intercettò e rifiutò l’appoggio proveniente da Baghdad nei pressi di Barcellona, dopo che un agente di Abderraman I aveva avvelenato il comandante delle forze della spedizione. Mentre Carlomagno riposava a Pamplona, cercando il miglior modo di raggiungere i propri scopi, l’emiro riunì il suo corpo d’élite, composto da Slavi dei Balcani e neri africani, sostenuti da una folta mescolanza di Siriani e Muladi, nella sua avanzata verso Saragozza. Il tentativo del valì di giocare su entrambi i lati fallì quando fu costretto a decidere tra l’emiro e il califfo di Baghdad, con le truppe cordovane alle porte della sua fortezza. La sua vita era ora in realtà appesa a un filo. Carlomagno aveva marciato in direzione Saragozza, convinto del fatto che Al Husayn gli avrebbe aperto le porte come avevano concordato. I pontoni e le macchine d’assedio non facevano parte dell’inventario, non erano necessari. A mano a mano che avanzava in direzione del fiume Ebro, le notizie erano sempre più allarmanti. In quel momento venne a sapere che il califfato Omayyade aveva firmato un patto on il re Alfonso II delle Asturie, pertanto non poteva contare su di lui, e che le truppe cordovane avevano preso Saragozza. Non c’erano macchine né tempo per un assedio e Carlomagno, che aveva appena assediato Pavia, ne era ben consapevole. Il fallito assedio di Saragozza lo convinse a cambiare rotta e si diresse perciò verso l’Aquitania, attraverso i Pirenei, forse passando per Roncisvalle, come vuole la leggenda. Ciò che accadde successivamente appartiene più all’epica che alla storia. In ogni caso, a giustificazione di una ritirata così sorprendente, gli Annali dei re franchi riportano che «i Sassoni si ribellarono di nuovo come d’abitudine e alcuni Frisi fecero la loro parte». Nella campagna di Saragozza, Carlomagno imparò alcuni principi base della politica internazionale di un impero.
Il sistema delle marche Il dietrofront di Saragozza portò Carlomagno a consolidare l’idea di creare delle marche per organizzare il territorio del suo immenso regno. In primo luogo, dobbiamo ricordare la marca della Frisia, che si estendeva da quella regione fino alla foce del fiume Schelda. Tra costanti guerre e rivolte contro l’autorità dei Franchi, Carlo riuscì a sottomettere l’intrepido popolo frisone e a integrarlo alla cristianità. Sui confini della Sassonia, da poco incorporata nell’orbita cristiana, lungo le rive dell’Elba, il fiume dall’ampio letto che fungeva da confine alla Francia orientale, i guerrieri di Carlo erano appostati come sentinelle, fortemente convinti di non difen-
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L’organizzazione dell’impero carolingio Alla morte di Carlomagno, nell’anno 814, il sistema delle marche dell’impero correva dalla foce del fiume Elba fino ai Pirenei, direttamente sul mare, con due uniche interruzioni: la Guascogna e la Bretagna. Sui Pirenei venne creata un’enclave, la Marca di Spagna, come difesa contro l’Islam. Dall’estremità orientale dei Pirenei il sistema delle marche seguiva di nuovo il mare fino a sud di Roma. Le marche orientali vacillavano. L’Elba era il confine tra il mondo germanico e il mondo slavo; nell’area intermedia, tra i Monti dei Giganti, i Monti Metalliferi e la Foresta Boema, confinavano con i Cechi e gli Sloveni; a sud del Danubio confinavano con i Carantani, formando la potente marca dell’Est. Tutte le marche erano governate da un delegato che comunicava con il palazzo imperiale tramite alcuni documenti chiamati capitolari, o direttamente tramite gli ambasciatori, i missi dominici. L’obbedienza si otteneva mediante spedizioni periodiche dell’esercito imperiale, per sollevare dall’incarico i delegati indisciplinati o con smania di indipendenza. Con il passare del tempo, i delegati furono scelti all’interno della nobiltà locale, con forti legami di fedeltà con la popolazione autoctona.
dere semplicemente il corso del fiume: essi difendevano tutta la cristianità. Sulla sponda opposta dell’Elba, verso est, tra fitti boschi ornati con idoli e corni di animali, le tribù slave, di nome Venedi, si dedicavano ancora a ciò che, due secoli dopo, quando avrebbe recuperato questa parte della storia per il proprio popolo, il saggio cronista Tietmaro, vescovo di Merseburgo, avrebbe definito «vane superstizioni». Il centro delle difese erette da quel lato della cristianità era la sobria fortezza di Magdeburgo, fondata per ordine di Carlo, che con il tempo sarebbe diventata la capitale della Marca Sassone. Una città prospera grazie ai benefici ottenuti mediante il controllo del commercio, con il vanto di possedere un hof, un palazzo in cui viveva il duca a capo della guarnigione. Sul corso medio del Danubio fu fondata la Marca Pannonica per frenare le incursioni degli Avari. Questi ultimi, seppur debilitati dalle lotte intestine, avevano ancora il controllo di tutta la Pannonia, la Carniola e la bassa Stiria, oltre che dell’area che andava dalla sinistra del Danubio fino al Tibisco. La minaccia avara provocò l’inter-
R
E P TA R C H I A ANGLOSASSONE
Marca Danese
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FRISIA
Magdeburgo
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Tournai
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Treviri Verdun
NEUSTRIA Orléans
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SETTIMANIA Narbona Saragozza
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Salisburgo
CARINZIA Aquileia Verona
Marca Pannonia
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Marca del Friuli
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I
Pavia Ravenna
PROVENZA
Marca di Spagna Tortosa
BAVIERA
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LOMBARDIA Arles
Marca dell’Est
Augusta Basilea
Tolosa
Pamplona
Ratisbona
Milano
AQUITANIA
CCHI
A
Bordeaux
LA
Würzburg
ALAMANNIA
Strasburgo
BORGOGNA
O
Magonza
Bourges Poitiers
Marca Soraba
P
Parigi
Marca di Bretagna
Aquisgrana
AUSTRASIA
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BRETAGNA
REGNO DELLE ASTURIE
NI
CR Pisa
O AT I
DUCADO DI SPOLETO
Spoleto
Roma Benevento L’impero all’ascesa di Carlomagno (768)
Napoli
DUCATO DI BENEVENTO
Brindisi
Conquiste di Carlomagno Marche di confine
I M P E RO B I Z A N T I N O
Zone di influenza carolingia Territori pontifici
vento in Baviera e la creazione di una marca. All’epoca, al governo del Paese c’era il duca Tassilone III, che aveva messo in mostra le proprie abilità politiche nell’appoggiare il popolo sloveno della Carinzia minacciato dagli Avari; con questo gesto, ottenne che gli Sloveni fossero il primo popolo della loro etnia ad abbracciare il Cristianesimo. I successi del duca risvegliarono il sospetto di Carlomagno, ancor di più quando venne a sapere che Tassilone aveva firmato un accordo con i Bizantini e con gli Avari. La guerra era ormai imminente. Carlomagno vinse contro il duca e lo condannò a morte, per poi commutare la pena nella tonsura e la reclusione in un monastero, dove venne dimenticato dalla gente e dalla storia. A sud della Baviera si trovavano le terre che collegavano l’Italia con l’Istria e quindi con la scacchiera di terre creata dopo la caduta dell’ultimo re longobardo. Il problema principale era il ducato di Benevento, che cercava di ottenere l’egemonia di tutta l’Italia meridionale, alleandosi con Bisanzio che occupava ancora alcuni territori costieri nel sud e la sempre più importante Venezia.
A ovest, verso sud, Carlomagno dovette litigare con la potente famiglia dei duchi di Aquitania, con cui tentò diverse formule di accordo che non sempre diedero i risultati sperati. Sui confini meridionali vi erano i popoli Vasconi (o Gasconi), che poche volte accettarono l’autorità franca; verso est, invece, vi erano una serie di contee che i funzionari della corte di Aquisgrana riunirono nella Marca di Spagna, il cui obiettivo, mai raggiunto, era trasformare l’Ebro, un fiume dall’ampio letto, nel confine con l’emirato di Cordova, convinto avversario dei Franchi.
Il regno delle Asturie Solo un decennio più tardi dei fatti di Roncisvalle, Alfonso II (759-842), re delle Asturie e nipote di Pelayo, il leggendario combattente della resistenza visigota a Covadonga, iniziò a dirigere il proprio popolo verso la valle del fiume Duero, attraversando le fortezze che gli Arabi-Berberi avevano costruito per evitare proprio l’espansione verso sud. Soprannominato “il Casto”, Alfonso II cercò il modo di dare consistenza alla corte di 89
L’IMPERO CAROLINGIO
Alfonso II il Casto, re delle Asturie e alleato di Carlomagno Il matrimonio di Alfonso I con la figlia di Pelagio, Ermesinda, siglò un’alleanza che avrebbe trasformato il piccolo dominio di Cangas de Onís nel regno delle Asturie. Il regno divenne realtà ai tempi di Alfonso II il Casto, «principe amabile agli occhi di Dio e degli uomini», che si dimostrò favorevole alla politica dell’imperatore, sebbene fosse sostenuta da una Chiesa fortemente influenzata dalla cultura visigota, soprattutto nella liturgia e nella grafia. Sotto, Alfonso II il Casto inginocchiato, in una miniatura del Libro dei Testamenti, opera del vescovo Pelagio (Archivio della Cattedrale, Oviedo).
nato da una stella – campus stellae, il Campo della Stella – si trasformò in Compostela, punto di arrivo di un intenso pellegrinaggio che sarebbe durato per secoli. Sull’onda di un simile miracolo, i re asturiani rafforzarono la propria posizione sul confine e così Ramiro I decise di fronteggiare l’esercito dell’emiro e di combatterlo in campo aperto. Sebbene fossero favoriti da un terreno accidentato, non vi fu nulla da fare finché, secondo la leggenda, non comparve nelle terre aride di Clavijo l’apostolo san Giacomo su un cavallo bianco che brandiva una spada. La visione si fece realtà. Il pacifico pescatore del lago di Tiberiade divenne un prode cavaliere che si mise a capo di tutti i guerrieri cristiani del Medioevo. Nonostante i grandi avvenimenti sul confine tra il regno delle Asturie e il califfato di Cordova, e nonostante il nascente culto di san Giacomo come colonna di una profonda trasformazione religiosa e malgrado l’effetto che ebbe sulle comunità di cristiani mozarabi che lasciarono Cordova per stabilirsi a nord del Duero e dell’Ebro, lo scenario della storia d’Europa, in quell’epoca, era nell’asse che univa Aquisgrana e Roma. Lì avrebbe avuto luogo uno dei cambiamenti più inaspettati e di maggior importanza per il futuro.
Carlomagno, coronato imperatore
palazzo, resistendo alla pressione esercitata dai Franchi, mentre metteva in discussione l’egemonia dell’emiro nell’Hispania romana; egli si era impegnato perché almeno la terra cantabrica e asturiana non facesse mai parte dell’Islam. Tale convinzione, fortemente espressa nelle costruzioni religiose che fece erigere, lo incoraggiò tanto da attraversare il corso del Duero e richiamare a sé molti cristiani delusi dalla politica religiosa degli emiri (sempre più influenzata dai faqih, i teologi professionisti musulmani), che si ribellarono nelle città andaluse, soprattutto a Cordova; ricevettero il nome di Mozarabi e popolarono le terre semivuote tra il Duero e le Asturie. Tale audacia fu duramente punita dall’emiro Hisham I (788-796), figlio ed erede di Abderraman I, le cui truppe conquistarono e saccheggiarono Oviedo nel 793. Tuttavia, era ormai troppo tardi per sottomettere il regno delle Asturie. In quegli anni furono scoperte, in una lontana località della Galizia, le reliquie di un santo che fu prontamente identificato con l’apostolo Giacomo il Maggiore, figlio di Zebedeo. Quel luogo, illumi90
L’alleanza tra Carlomagno e il papa si rinsaldò negli ultimi anni dell’VIII secolo grazie alla personalità del nuovo pontefice, Leone III. Entrambi si impegnarono affinché diventasse legge ciò che era già una realtà da un decennio: fare di Carlomagno il governatore supremo dell’Occidente cristiano. L’impero romano d’Occidente era sotto il controllo papale da quando l’imperatore bambino Romolo Augustolo era stato deposto nel 476. Trecentoventiquattro anni dopo, la sola idea che potesse tornare a esserci un imperatore che non fosse colui che viveva a Costantinopoli era assurda. Ma tutto cambiò nel Natale dell’800. Fu l’atto finale di un processo di acquisizione di potere dei re franchi, un rito che si svolse secondo la buona regola bizantina: incoronazione dal vescovo metropolita, acclamazione del popolo, adorazione di tutti i presenti. Insomma, la restaurazione fu la coincidenza di varie volontà personali. Qui, una volta di più, un evento storico si intrecciò con la fantasia, nell’ambiente degli intrighi di palazzo. Ma vediamo che cosa accadde. Il 25 aprile del 799, solo tre anni dopo essere stato eletto, papa Leone III fu attaccato da un gruppo di uomini armati mentre era in processione verso la messa di Pasqua che doveva essere celebrata a Roma. Gli furono rivolte gravi accuse di tradimento e spergiuro, ma egli riuscì a fuggire sebbene si fossero sparse voci secondo le quali i
congiurati gli avessero strappato gli occhi e tagliato la lingua; tuttavia, la realtà fu che egli era scappato in cerca del re dei Franchi, l’unico che avrebbe potuto aiutarlo. In quei giorni, Carlomagno si trovava a Paderborn, ai confini più estremi della cristianità, dove venne a conoscenza degli scabrosi dettagli riguardanti la mutilazione del suo amico e alleato. Quando Leone III arrivò da lui, la verità venne a galla, e nella gioia del loro incontro il papa gli ricordò che era suo dovere difendere la Chiesa di Roma con tutti i mezzi e, pertanto, avrebbe dovuto dirigersi a Roma per imporre l’ordine cattolico. Carlomagno accettò la sfida, ma senza alcuna fretta, consapevole della difficoltà di fungere da arbitro tra il papa e l’aristocrazia romana. Il rapporto che aveva ricevuto sui presunti comportamenti di Leone III rendeva la situazione ancora più difficile. Finalmente, egli giunse a Roma nel dicembre dell’800 e si pronunciò a favore dell’innocenza del papa. Due giorni dopo, durante la messa di Natale che veniva celebrata nella Basilica di San Pietro, secondo quanto viene raccon-
tato negli Annali dei re franchi, Carlomagno si inginocchiò di fronte alla tomba dell’apostolo nel momento in cui la terza messa giungeva al termine. In quel momento, papa Leone gli posò una corona sulla testa e lo acclamò di fronte alle personalità riunite nel tempio ripetendo per tre volte la formula di incoronazione: «Salute, vittoria e felicità al grande e pacifico Carlo Augusto, incoronato da Dio imperatore dei Romani». Dopodiché, a riprova di quanto detto, il pontefice si prostrò ai suoi piedi, con il capo chino e le braccia allungate, un gesto che doveva essere fatto solo davanti all’imperatore di Costantinopoli. Con ciò, si volle dire urbi et orbi che l’Occidente aveva di nuovo un proprio imperatore. Carlomagno divenne imperatore. E l’Europa ebbe di nuovo un impero cristiano in Occidente, realizzando così il sogno di Agostino d’Ippona, secondo cui la città degli uomini preannunziava la città di Dio: un impero di oltre 30.000 km2, i cui confini erano a nord e a ovest l’Eider, il Mare del Nord e l’Atlantico, a sud l’Ebro, il Garigliano e la Drava, a est il Danubio e l’Elba.
L’INCORONAZIONE DI CARLOMAGNO.
Carlomagno viene incoronato imperatore da papa Leone III il giorno di Natale dell’800. Incisione all’acquatinta di carattere storicista, su un originale del pittore Johann Friedrich Dieterich (1787-1846). Opera datata intorno al 1827, fu colorata successivamente.
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CARLOMAGNO E LA CAPPELLA PALATINA DI AQUISGRANA
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oco prima di essere incoronato imperatore del Sacro romano impero il giorno di Natale dell’800, Carlomagno decise di stabilirne la capitale ad Aquisgrana, l’odierna Aachen, in Germania. Pertanto fece costruire un palazzo che fosse un riferimento per il nuovo centro di potere. Il complesso palatino, composto da spazi destinati a uso abitazione e a fini diversi, fu organizzato attorno a due grandi monumenti simmetrici: l’aula regia, o sala dell’assemblea, ispirata al modello della basilica romana, e la cappella palatina, che prese a esempio la Chiesa di San Vitale di Ravenna e il Crisotriclinio del palazzo imperiale di Costantinopoli. La costruzione della cattedrale di Aquisgrana viene attribuita al maestro Oddone da Metz. È giunta sino a noi soltanto la cappella, nella quale riposano i resti dell’imperatore e si trovano oggetti e svariate opere d’arte che concorrono a formare il tesoro della cattedrale. A destra, dettaglio dei rilievi dello scrigno di Carlomagno, raffigurante l’imperatore mentre offre la cattedrale alla Madonna (Tesoro della Cattedrale, Aquisgrana).
UN COMPLESSO PALATINO DI ISPIRAZIONE BIZANTINA
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Il complesso palatino dell’imperatore Carlomagno ad Aquisgrana avrebbe dovuto diventare il simbolo e la base di un ordine mondiale rinnovato. Il responsabile della realizzazione del magno progetto imperiale fu l’architetto Oddone da Metz, il quale si intrattenne in lunghe conversazioni con l’imperatore, che portarono spesso a modifiche rispetto al disegno iniziale. I lavori durarono dieci anni: il complesso avrebbe ricoperto l’area di venti ettari, con vari edifici tra cui ben presto avrebbe spiccato la cappella palatina, la Pfalzkapelle, un magnifico edificio dalla struttura ottagonale cui Eginardo diede il nome di Cattedrale di Santa Maria e che, secondo quest’ultimo, era una «struttura davvero notevole». Il modello utilizzato era chiaramente bizantino, proveniente tanto da San Vitale di Ravenna, quanto dal palazzo imperiale di Costantinopoli, con la sua favolosa stanza interna ottagonale, il Crisotriclinio, al tempo stesso cappella e sala del trono dorata.
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LO SCRIGNO DI CARLOMAGNO. Conserva i resti dell’imperatore. La struttura è in legno, ricoperta di argento dorato, con rilievi raffiguranti la leggenda di Carlomagno. Sulla parte frontale, lo si può vedere incoronato tra papa Leone III e l’arcivescovo Turpino di Reims.
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LA CAPPELLA.
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GLI ANNESSI.
IL CORPO DI GUARDIA. Seguendo
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A pianta ottagonale, circondata da un deambulatorio a pianta esadecagonale. La volta della cupola era decorata con un mosaico raffigurante i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse.
Il complesso della cappella e i suoi annessi presentano molti elementi costruttivi a carattere puramente ornamentale. Le colonne e i marmi furono portati direttamente da Roma e da Ravenna.
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LA GALLERIA DI COLLEGAMENTO.
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LA SALA DEL TRONO. La sala
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Misurava un centinaio di metri e univa la sala del trono alla cappella; al centro, un atrio monumentale fungeva da ingresso principale al complesso palatino.
dell’assemblea accoglieva la riunione annuale dei grandi del regno (e poi dell’impero), che discutevano le questioni giudiziarie e politiche di maggiore importanza.
nella torre annessa alla grande sala, e gestiti da un ciambellano o da un cancelliere, erano il cuore delle finanze e dell’amministrazione del palazzo e dell’impero.
lo schema classico degli accampamenti romani, la città-palazzo di Carlomagno aveva due vie principali, che si incrociavano in mezzo alla costruzione. IL TESORO E GLI ARCHIVI Posti
IL TRONO DI CARLOMAGNO. Si trovava nella tribuna
che corre sopra il deambulatorio, sopra il portico d’ingresso, e veniva utilizzato dall’imperatore durante le funzioni religiose. In marmo, è considerato una copia del trono di re Salomone del Tempio di Gerusalemme. 93
L’IMMAGINE IMPERIALE.
Statua equestre in bronzo dell’imperatore Carlomagno (o del nipote Carlo il Calvo) che tiene in mano il globo terracqueo, simbolo del suo potere. IX secolo (Museo del Louvre, Parigi).
LA CAPPELLA PALATINA (pag. 95). A pianta
ottagonale, è un edificio solido, massiccio e dinamico, in linea con gli ideali del popolo franco. Segue il modello del grande palazzo imperiale di Costantinopoli e di San Vitale a Ravenna. 94
In un ambito territoriale così ampio fu lanciata l’idea dell’unità politica imperiale, insieme all’unità religiosa pontificia. Per renderla possibile, fu necessaria una trasformazione nel campo della cultura, a cominciare proprio dalla cultura politica. A questo proposito, ricordiamo Alcuino e i suoi seguaci provenienti dall’Inghilterra.
L’impero carolingio La cristallizzazione dell’impero cristiano si consolidò, e fu sostenuta in parte, grazie allo slogan ideato da Alcuino di York, che a volte usciva anche dalla bocca di Carlomagno: renovatio Romani Imperii, ovvero restaurazione dell’impero romano. Dal loro incontro a Parma, avvenuto quando il saggio aveva ormai cinquant’anni e Carlo non era ancora colui che la storia avrebbe ricordato, Alcuino era stato una sorta di guardasigilli del sapere, in grado di progettare un programma per stimolare il progresso dell’educazione, di reclutare un gruppo di scribi e di presidiare quella che sarebbe stata ricordata come “scuola di palazzo”. Sempre a lui il biografo Eginardo deve la semplificazione del suo compito.
L’idea della renovatio dell’impero romano consisteva nell’assunto che il suddetto impero agiva soprattutto come il garante e il guardiano della pace universale tra i popoli, una pace che andava guadagnata e conservata giorno dopo giorno, sia nella vita delle nazioni sia nel cuore degli individui, allo scopo di far sì che l’ordine terrestre fosse il fedele riflesso dell’ordine celeste. Per riuscirvi, il popolo doveva essere pronto a mettersi in moto con le armi e a seguire l’imperatore ovunque fosse necessario. In tal senso, Carlomagno riuscì a disciplinare e a migliorare tutto, dalle abitudini del clero alla lega della moneta, dalla collezione dei testi giuridici alle canzoni epiche popolari. Diede impulso, inoltre, a un deciso rinascimento della cultura classica, che fu simboleggiato dall’adozione della gestualità e dell’abbigliamento romano, con grande disgusto – come era d’altra parte inevitabile e prevedibile – da parte dei tradizionalisti franchi. Il rinascimento carolingio rappresentò, senza alcun dubbio, uno sforzo enorme a sostegno della cultura latina, a cominciare dalla creazione della minuscola carolina a supporto della scrittura, per finire con lo studio delle lettere classiche. Grazie a tale sforzo, si sviluppò una notevole produzione artistica, la cui massima espressione e il cui maggior simbolo fu senza dubbio la Cappella Palatina di Aquisgrana, con una struttura ottagonale che ricorda la Basilica di San Vitale a Ravenna e il grande palazzo imperiale di Costantinopoli, che probabilmente ne furono i modelli. Carlomagno ammirava così profondamente il sontuoso salone del trono fatto costruire da Giustino II a Costantinopoli, che fece erigere una stanza in cui collocare il proprio trono, dal quale presiedere tutte le cerimonie. Da uomo pratico quale era, cercò un referente politico per la propria costruzione imperiale. Lo trovò nel passato e probabilmente fu una decisione inevitabile. Il fantasma della Roma dei Cesari brillava sempre davanti ai suoi occhi. Persino il suo sigillo ne portava incisa la restaurazione come dichiarazione della sua missione di vita. Fu in quella sala del trono, evidente copia della stanza dell’imperatore romano di Costantinopoli, che Carlomagno ricevette l’ambasciata bizantina nell’811. A ogni modo, la sua maldestra volgarità serviva solo per mettere in risalto la profonda crepa esistente tra i presuntuosi occidentali e i Bizantini. I diplomatici di Costantinopoli avevano una lunga esperienza nel decifrare la mente dei popoli barbari; essi si avvicinarono al “nuovo imperatore” con lo stesso atteggiamento. Lo lusingarono, accettandolo come imperatore, ma erano convinti che, prima o poi, le rozze usanze di questo popolo di origine germanica sarebbero venute a galla.
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L’IMPERO CAROLINGIO
L’alleanza tra l’imperatore Carlomagno e il califfo di Baghdad Nei primi anni del IX secolo, l’imperatore Carlomagno e il califfo Harun al-Rashid firmarono una serie di accordi per riunire le loro forze contro gli avversari politici, l’impero bizantino e l’emirato degli Omayyadi di Cordova. Dopo la prima ambasciata da parte dei governatori abbasidi di Hispania, giunsero i veri ambasciatori del califfo portando con loro regali importanti e lussuosi. Uno dei regali del califfo recapitati ad Aquisgrana da un mercante ebreo di origini franche fu un elefante, che rispondeva al nome di Abul-Abbas. Il viaggio dell’animale seguì un percorso via terra dal Nord Africa e dall’Italia fino a raggiungere la Germania dopo aver attraversato le Alpi, come si diceva avesse fatto Annibale in passato. Venivano così a galla due fatti importanti: la considerazione del califfo nei confronti dell’imperatore d’Occidente e la dimostrazione del fatto che le vie commerciali erano aperte senza difficoltà. Insieme all’elefante giunsero anche numerosi oggetti di oreficeria persiana e siriana, che abbellirono le sale dell’imperatore dimostrando ai suoi ospiti il potere del grande re d’Europa. Forse arrivarono anche alcuni pezzi di scacchi, il passatempo preferito di Harun alRashid. In quegli anni aveva inizio la rivoluzione scacchistica di al-Andalus che portò a sostituire il visir con la regina come pezzo più potente della scacchiera. A sinistra, un’anfora con pietre preziose incastonate, uno degli oggetti regalati dal califfo (Tesoro dell’Abbazia di Saint Maurice, Valais, Svizzera).
Prima che giungesse quel momento, erano accaduti alcuni fatti importanti. Il più decisivo ebbe luogo a Baghdad con la morte repentina del califfo Al Hadi, che spianò la strada per il califfato del fratello minore Harun al-Rashid, il quinto califfo di Baghdad della dinastia abbaside, il più famoso e il più colto di tutti; uomo appassionato di controversie filosofiche, di poesia bacchica, di vino e di ragazzi, e fervente sostenitore della fine di un’egemonia mondiale sugli altri popoli dell’Islam, soprattutto gli Omayydi di Cordova. Un altro evento fu la decisione di occupare la città di Barcellona e di farla divenire la capitale di una solida marca che avrebbe frenato l’espansionismo dell’emirato Omayyde. La concomitanza di tali eventi non fu casuale, ma intenzionale. Ne abbiamo la maggiore riprova nell’ambasciata inviata dal califfo ad Aquisgrana con magnifici regali per celebrare l’incoronazione imperiale di Carlomagno e la conquista di Barcellona. L’azione diplomatica tra il califfo di Baghdad e l’imperatore evitò un vuoto di potere che avrebbe portato a una vera e propria “età delle tenebre”. Così, il 20 luglio 802, 96
Carlomagno ricevette nella Cappella Palatina, appena costruita, un’ambasciata, giunta direttamente da Baghdad, con numerosi doni da parte del califfo Harun al-Rashid. Tra i molti regali, l’imperatore fu entusiasta di un elefante, di nome Abul-Abbas. Era stato condotto fin lì dal mercante Isacco l’Ebreo dopo un viaggio di 4000 km, che lo aveva portato da Baghdad a Genova, passando per il Nord Africa. Il regalo era una dimostrazione della diplomazia abbaside: una lusinga alla fedeltà carolingia a una strategia mondiale che legava gli interessi del califfo di Baghdad e quelli del nuovo imperatore d’Occidente, in risposta al fatto che l’esercito franco avrebbe preso la città di Barcellona dalle mani del califfato Omayyde quello stesso anno. Con l’elefante giunse un orologio ad acqua in ottone. La creazione di due poli imperiali, uno a Est e l’altro a Ovest, era simboleggiata dalla figura dell’elefante – mentre passeggiava per Aquisgrana sotto gli occhi meravigliati dei frequentatori della Cappella Palatina – e del bellissimo orologio.
Ludovico il Pio Carlomagno morì il 28 gennaio 814 nel suo palazzo prediletto ad Aquisgrana all’età di settantadue anni, e venne sepolto nella vicina basilica, per la cui costruzione egli si era impossessato di tutti i marmi di Ravenna. Un anno prima Carlo aveva nominato co-reggente il figlio Ludovico (l’unico sopravvissuto): un grosso sgarro al papa, che non era nemmeno stato invitato alla cerimonia, e una dichiarazione secondo cui il futuro sarebbe stato tanto imperiale quanto franco. Ludovico I il Pio o Luigi I era un uomo religioso, virtuoso e clemente, che – secondo il suo biografo ufficiale – non era mai stato visto ridere in pubblico, disprezzava le canzoni e la vita gioviale. Fu sottomesso all’influenza del clero e a quella delle sue mogli, Ermengarda di Hesbaye, Giuditta di Baviera e Teodolinda di Sens. Ciò fu chiaro fin dalla sua prima azione di governo: l’espulsione dalla corte di quegli elementi che egli considerava indecenti, comprese le sue sorelle, sostituendo le gioiose dame e i commensali dei banchetti che avevano circondato Carlomagno con chierici incredibilmente severi. Al tempo stesso si dimostrò favorevole a una limitazione degli abusi della politica imperiale: aveva ereditato un impero che non era disposto a governare allo stesso modo del padre. Ben presto propese per la parte più ascetica e rigorosa del monachesimo promosso dal nobile visigoto Witiza. In ambito religioso, il rispetto del papato e la presenza di numerosi chierici, come san Benedetto d’Aniane – che divenne il suo consigliere – caratterizzarono il suo regno. Tale decisione gli procurò nemici tra i nobili con una rapidità impressionante, a mano a
mano che le sue azioni di governo rettificavano la politica di suo padre: egli, infatti, non solo non restituì le terre ai nobili della Frisia e della Sassonia, bensì annullò il fodrum, il diritto dei nobili a farsi mantenere durante i loro viaggi. Nell’816, Stefano IV attraversò le Alpi per ungere Ludovico come imperatore a Reims, come fosse un secondo Davide. Dopo tale atto, il monarca promulgò una costituzione unitaria per l’impero: una legge di successione che avrebbe causato la profonda irritazione di tutti i suoi figli, eccezion fatta per il primogenito ed erede, Lotario I. Nei primi anni del suo regno, Ludovico mantenne i rapporti con l’estero ereditati dal padre. Ad Aquisgrana giunsero ambasciate bizantine e dei popoli barbari; inoltre, ottenne alcuni successi nelle guerre con gli schiavi. Ben presto, tuttavia, il carattere severo e gli errori legati ai rapporti matrimoniali provocarono una scissione nella corte imperiale. I problemi ebbero origine da un evento in apparenza banale. Alla morte della prima moglie, Ermengarda, Ludovico decise di sposarsi di nuovo, e per farlo organizzò una sorta di concorso di bellezza tra le giovani dell’impero. La scelta ricadde su Giuditta, la figlia del conte Guelfo di Altdorf. Il matrimonio fu il punto di partenza di una crisi politica che, con l’andare del tempo, sarebbe precipitata nella fine dell’impero. Nell’823, Giuditta diede alla luce il futuro Carlo il Calvo, custodito fino dal primo momento da Bernardo di Settimania, un energico personaggio che era stato conte di Barcellona. Questi fu nominato ciambellano e, pertanto, il più alto funzionario del Tesoro, il cui controllo era affidato, secondo l’antico uso germanico, alla regina. Così a corte si formarono due partiti contrastanti: quello della regina, suo figlio Carlo e Bernardo, e quello dei tre fratelli maggiori di Carlo, figli del primo matrimonio di Ludovico con Ermengarda. Iniziarono gli intrighi, sotto forma di guerre civili. Nell’830 si sollevò una ribellione nobiliare che costrinse Ludovico a decidere di cedere alle richieste del primogenito Lotario; Bernardo fu accusato di avere una relazione con l’imperatrice Giuditta, che fu costretta a prendere i voti, mentre al valoroso ciambellano furono cavati gli occhi. La pressione, però, andò ben oltre e i congiurati pretesero che Ludovico abdicasse. Era troppo. Durante una dieta che si tenne a Nimega all’inizio dell’anno successivo recuperò l’autorità con l’appoggio della nobiltà franca orientale e quella sassone; fece uscire sua moglie dal convento e restituì tutto il potere a Bernardo. Tuttavia, la pace durò solo pochi mesi. Nell’832 vi fu una seconda sommossa, capitanata questa volta dal figlio Ludovico, il quale iniziò a essere soprannominato “il Germanico”. Il conflitto si arenò e fu trovata una soluzione soddi-
sfacente per tutte le parti coinvolte, che terminò con le negoziazioni conclusesi a Rothfeld, con un astio tale che da quel momento il luogo fu chiamato Lugenfeld o “campo delle menzogne”. L’imperatore venne abbandonato dai suoi e si diresse all’accampamento del figlio primogenito Lotario, il quale gli impose condizioni durissime. Riuscì a recuperare il trono, ma il prestigio della corona fu irrimediabilmente danneggiato. Alla sua morte, nell’840, i tre figli che gli sopravvissero – Lotario I, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo – iniziarono una guerra civile molto crudele e virulenta, nella quale Lotario ebbe la peggio, sconfitto varie volte dai due fratelli alleati fra loro. La sconfitta più dura ebbe luogo a Fontenay, nei pressi di Auxerre, nella quale perse tutte le possibilità di mantenere unito l’impero che il padre e il nonno avevano costruito. Nell’842 gli eserciti dei due fratelli vincitori, Ludovico e Carlo, si riunirono a Strasburgo, dove Ludovico giurò in latino che avrebbe sostenuto Carlo se fosse stato necessario, come doveva fare un uomo degno di rispetto con suo fratello, e che non avrebbe raggiunto nessun accordo privato
LUDOVICO IL PIO.
Nell’813, l’anziano Carlomagno incoronò il figlio Ludovico come co-reggente. In questo modo, si assicurò di lasciare l’impero unito dopo la sua morte. Un unico erede avrebbe posto fine alla tradizionale divisione del regno tra i figli, caratteristica dei Franchi. Il suo regno fu lungo e non privo di discordie tra gli altri figli, i quali non accettavano che il maggiore, Lotario, avesse tutto l’impero per sé. Nell’immagine, Ludovico I in una miniatura della scuola di Fulda, del IX secolo (Österreichische Nationalbibliothek, Vienna).
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I trattati di Verdun e di Mersen: la fine dell’idea imperiale Nell’843 i tre figli di Ludovico il Pio si divisero il suo patrimonio sulla base di ragioni sia politiche sia linguistiche. Il maggiore tra i fratelli, Lotario, riuscì a conservare il titolo di imperatore e l’egemonia su Roma. Trattato di Verdun (843): A Regno di Carlo II il Calvo B Regno di Lotario I C Regno di Ludovico il Germanico Stati pontifici D Marche e zone d’influenza
Trattato di Mersen (870): E Regno della Francia orientale Marca Danese Regno della Francia F occidentale G Regno d’Italia FRISIA Linea di suddivisione del Trattato di Mersen SASSONIA
Marca Aquisgrana Sorabica Marca TURINGIA Parigi AUSTRASIA Magonza di Bretagna Marca B Verdun C Ratisbona dell’Est Toul NEUSTRIA Tours Strasburgo A Poitiers Dijon ALAMANNIA E BAVIERA Salisburgo CARINZIA BORGOGNA F REZIA Marca Bordeaux Lione LOMBARDIA Pannonica AQUITANIA Aquileia CARNIOLA Milano GUASCOGNA Pavia G Marca del Tolosa Avignone Ravenna Friuli PROVENZA Narbona Firenze Marsiglia D Marca di Spagna Barcellona Roma Mersen
IL TRATTATO DI VERDUN. Lotario I, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo si dividono l’impero.
Miniatura delle Grandi Cronache di Francia, XV secolo (Bibliothèque nationale de France, Parigi).
con Lotario; lo stesso fece Carlo, in lingua “tedesca” (teudisca lingua), rivolgendosi all’esercito di Ludovico. La situazione richiedeva un accordo definitivo dei tre fratelli, poiché gli ultimi tentativi di Lotario di ottenere la supremazia con la forza erano stati un completo fallimento. Si giunse, così, a un accordo per ripartirsi l’impero.
I trattati di Verdun e di Mersen Secondo il trattato di Verdun, firmato nell’843, i tre figli dell’imperatore Ludovico il Pio si divisero il patrimonio tra Francia, Paesi Bassi e Germania con i relativi possedimenti italiani. La ripartizione fu sia linguistica sia politica: il latino cedette il passo alle lingue romanze e germaniche. Con il trattato di Verdun, Lotario I ricevette il titolo di imperatore e gli venne assegnato un territorio che si estendeva dalla Frisia a nord fino al confine degli Stati Pontifici a sud, in cui si trovavano le grandi città di Roma, Milano, Marsiglia, Lione, Treviri, Aquisgrana e Colonia. Luigi il Germanico ottenne i Paesi a est del Reno e a nord delle Alpi, anche se si appoggiava a città sulla riva sinistra 98
del fiume, come Spira, Worms e Magonza. Infine, Carlo il Calvo ricevette le terre a ovest della linea formata dai fiumi Schelda, Mosa e Rodano. La suddivisione dell’impero fu di vitale importanza per la storia europea, poiché la metà orientale germanica rimase ben separata da quella occidentale romana, diventando così il punto di partenza di imperi e Stati fondati sulle differenze di nazionalità e lingua. Motivo per il quale la parte di Lotario, che inizialmente sembrava la migliore, divenne, a lungo andare, il Lotharii Regnum, un insieme particolarmente confuso di terre riunite in modo casuale, per il quale a nulla servì il titolo imperiale, divenuto ormai un’entità spettrale, che ben presto avrebbe raggiunto i più infimi livelli di svalutazione. Tanto è vero che, ventitré anni dopo, nell’870, un nuovo trattato che fu firmato a Mersen (Meerssen), un villaggio situato nei pressi di Maastricht, tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, assegnò a quest’ultimo la maggior parte della Lorena e della Frisia, riunendo, così, in un modo o nell’altro, tutti i territori di etnia germanica.
LA TERRA DI MEZZO. Dopo la morte del padre, a Lotario spettò la Terra di Mezzo, un’ampia striscia di terra eterogenea, senza comunione di lingua né di clima, divisa, anziché protetta, da confini naturali. Vi si trovava la capitale imperiale, Aquisgrana, e la parte centrale della Francia, nota come Lorena. ACCESSO AL MARE. Lotario ottenne anche la Borgogna e la Provenza, che gli garantivano l’accesso sul Mar Mediterraneo. Si trattava di un lungo elenco di città nei Paesi Bassi o in Italia che avevano un promettente futuro commerciale e mercantile, ma erano prive di obiettivi comuni. NEUSTRIA, AQUITANIA E LA MARCA DI SPAGNA. Carlo il Calvo ottenne il regno dei Franchi occidentali, il territorio che sarebbe diventato il nucleo del futuro regno di Francia. A poco a poco attirò a sé le province limitrofe, città e abbazie che rafforzarono questa parte di eredità. IL NORD ITALIA. Anche quei territori dell’impero che facevano parte della Penisola Italica finirono nelle mani di Lotario. In queste terre il monarca incontrò enormi difficoltà nel governare, poiché in esse si manteneva ancora molto vivo il ricordo del dominio longobardo. BAVIERA, SVEVIA, SASSONIA E TURINGIA. Ludovico il Germanico, infine, ricevette le terre settentrionali di lingua tedesca e la parte più orientale del regno dei Franchi, la Franconia, che si sarebbe in seguito chiamata Germania.
Il trattato di Verdun mostrò chiaramente che l’idea imperiale versava in uno stato di deterioramento cronico. L’impero di Carlomagno, che aveva toccato punte incredibili di magnificenza solo quarant’anni prima faceva inevitabilmente acqua da tutte le parti. Non appare strano che, in simili circostanze, nascessero voci critiche a indicare che ai tempi di Carlomagno l’impero era paragonabile a un manto di stelle brillanti, che, ormai, si stavano spegnendo una a una, fino all’oscurità. La situazione peggiorò ulteriormente, se possibile, quando l’imperatore Lotario ripartì le sue terre tra i suoi tre figli: diede l’Italia a Ludovico II, il quale fu incoronato imperatore di Roma nell’850; a Lotario II consegnò la Lotaringia, che comprendeva buona parte della Borgogna; al figlio minore, infine, diede la Provenza e Lione. La decisione portò gli zii Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico a cercare di ottenere le terre concesse ai nipoti. L’ispiratore di tale politica fu l’influente vescovo Incmaro di Reims, celebre all’epoca per i suoi trattati di diritto canonico sui matrimoni della nobiltà, che si accinse a mostrare la sua enorme
influenza di fronte ai re. L’occasione giunse da Lotario II, quando ripudiò, a causa della sua relazione con Waldrada, una donna di bassa estrazione sociale dalla quale aveva un figlio e di cui era profondamente innamorato, la moglie Teutberga. Incmaro censurò il re e si schierò dalla parte della regina ripudiata. Carlo il Calvo approfittò dell’occasione per entrare nelle terre del nipote Lotario II con l’intenzione di annetterle al suo regno. Ciò provocò la reazione dell’imperatore Ludovico II il Giovane, il più affabile tra gli eredi di Carlomagno, che provò un senso di vera compassione per il fratello di fronte all’atteggiamento subdolo dello zio. Invocò l’autorità di papa Nicola I. Tale decisione provocò l’entrata nel conflitto di Ludovico il Germanico, che era rimasto in disparte fino a quel momento. Carlo e Ludovico intravvidero l’occasione per accaparrarsi delle terre dei nipoti e per perseguire i loro scopi si riunirono nell’agosto dell’870 nella città di Mersen, dove firmarono un trattato di divisione del vecchio impero di Carlomagno in due parti, in base al principio di parti uguali degli Stati reali. 99
TORRE NORMANNA DI BRICQUEBEC.
La colonizzazione normanna della Penisola del Cotentin durante il X secolo venne facilitata dalla costruzione di torri di pietra, cilindriche o ottagonali come quella dell’immagine. Furono importanti bastioni che vennero poi restaurati per essere utilizzati come castelli feudali. Nella pagina accanto, elmo vichingo del X secolo proveniente da Gjermundbu (Collezione Nazionale di Antichità, Oslo). 100
LA GRANDE PROVA L’Europa dovette superare un’ultima prova quando, a metà del IX secolo, i Normanni giunsero sulle sue coste, depredando città e monasteri in numerose ondate di saccheggi. L’integrazione di questo popolo nomade, al quale ben presto si sarebbe unito da est quello dei Magiari, costituì un evento politico e religioso di grande portata che, alla fine, avrebbe definito l’identità del continente europeo.
N
el decennio dell’840, Scandinavia era sinonimo di pericolo. Potenti nazioni di cacciatori e pastori «disposti a tutto», così le avrebbe definite lo storico Giordane nei secoli successivi; un’opinione che tennero in grande considerazione gli storici franchi quando guardarono oltre gli emporia circondati da fossi fortificati, nel tentativo di comprendere gli «uomini del Nord», come erano soliti definirli. Le leggende risvegliavano l’interesse per il “territorio intermedio” che si apriva sull’Atlantico settentrionale. I missionari vi si addentrarono, pur consapevoli della forza della mitologia scandinava di Thor, Odino o Freia, che sosteneva le
credenze di quei popoli e il potere degli sciamani influenzati dall’Animismo. La storia conosce questi popoli nordici con il nome di Vichinghi. Il nome proviene dall’espressione, in nordico antico, fara í víking, cioè “andare in spedizione”, anche se non si è mai raggiunto un parere unanime su questo nome. Il vescovo Adamo da Brema, contemporaneo ai fatti, stabilì un’analogia tra vichingo e pirata in un famoso aforisma: «Ipsi enim piratae, quos illi Wichingos as appellant»; il grande scrittore islandese Snorri Sturluson, invece, parlò di un individuo che «aveva partecipato spesso a spedizioni vichinghe, a molti viaggi di commercio, e di conseguenza conosceva molti luoghi». 101
LA GRANDE PROVA
INCURSIONI E INVASIONI VICHINGHE IN EUROPA Anno 793
Saccheggio di Lindisfarne. Una spedizione vichinga assalta e saccheggia i monasteri di Lindisfarne e Jarrow. Seguiranno altri attacchi due anni dopo in Irlanda e in Scozia. Il periodo vichingo è iniziato. Anno 823
Tentativi di cristianizzazione. L’arcivescovo Ebbone di Reims giunge in Danimarca con la pretesa di evangelizzare gli abitanti del luogo. Nell’826 il vescovo Oscar di Brema segue le sue tracce; nell’852, egli visiterà anche la Svezia. Anno 844
Primo attacco nella Penisola Iberica. Dopo aver raso al suolo l’Aquitania, i Vichinghi raggiungono le coste della Galizia, arrivano a Siviglia e saccheggiano la città. Anno 874
Colonizzazione dell’Islanda. Alcuni coloni norvegesi iniziano a stabilirsi in Islanda. Nel 933 fondano uno stato di uomini liberi e uguali. Anno 1066
Fine dell’era vichinga. La morte del norvegese Harald Hardrada quando tenta di impossessarsi del trono d’Inghilterra pone fine al periodo vichingo.
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Se sembra complicato definirne il nome, lo è ancora di più analizzare e riportare la storia delle scorrerie dei Vichinghi tra il 793 e il 1103, periodo in cui si plasmò la loro solida civiltà.
La diaspora vichinga in Europa Nell’Europa occidentale, le incursioni vichinghe cominciarono come risultato di una vendetta. Qui si apre il dibattito sui motivi che portarono gli Scandinavi a intraprendere azioni ostili fuori dalle loro terre, in quelle che oggi sono Norvegia, Svezia e Danimarca. Tutto ebbe inizio l’8 giugno del 793 con il saccheggio dei monasteri di Lindisfarne e di Jarrow, nel regno della Northumbria; successivamente, sarebbe stato il turno di molti altri e nei luoghi più remoti. Tuttavia, la meta principale era a nord. Attaccarono e colonizzarono le isole Orcadi, per stabilirsi poi nelle Shetland e nelle Ebridi, che essi nominarono Isole del Sud (Sodor). In ogni caso cancellarono ogni traccia dei nomi antichi esistiti: tutti i toponimi odierni derivano dall’antica lingua nordica. L’archeologia conferma questo notevole livello di conquista e di occupazione di terre, che eclissò gli insediamenti edificati dai Pitti. Così, gli antichi stili costruttivi a forma circolare o a otto, tipici delle tradizioni native di Celti e Pitti, furono sostituiti rapidamente dalle abitazioni rettilinee degli scandinavi. L’isola di Man e l’ovest del Galles vissero incursioni e saccheggi simili, e vi si trova traccia di alcuni fra i primi insediamenti dell’epoca. Tuttavia, la città che ebbe la sorte peggiore fu Dorestad, un emporium commerciale situato sulle coste della Frisia, alla foce del Reno, che intorno alla decade dell’820 era il porto più grande dell’Europa settentrionale e con la maggiore attività commerciale. Trent’anni dopo scomparve, come effetto degli attacchi vichinghi. In sintesi, le diaspore vichinghe provocarono gravi danni in Irlanda, Galles, Inghilterra e Scozia; in pratica, distrussero l’orgoglioso impero carolingio. Tuttavia, un Vichingo era qualcosa in più di un semplice saccheggiatore; era un “imprenditore” che basava le proprie azioni sia sulla guerra sia sul commercio; un uomo alla ricerca di tributi, che interpretò l’economia del saccheggio come motore della società. Al tempo stesso, i Vichinghi erano individui permeabili, che si lasciarono ben presto conquistare dalla ricchezza spirituale del Cristianesimo e convincere dai missionari, al punto tale che in due o tre generazioni rinnegarono il pantheon dei loro antichi dèi per abbracciare il valore della Croce. Così, le diaspore vichinghe ebbero effetti paradossali, poiché servirono a integrare un mondo fino a quel momento isolato nelle strutture politiche dell’Europa del sud; contemporaneamente, si crearono importanti ponti di collegamento tra
L’espansione vichinga dei secoli VIII e IX A partire dal 793, per due secoli, i Vichinghi intrapresero numerose spedizioni dalla Scandinavia fino a luoghi remoti come il Mar Nero, la Sicilia o il Canada, sebbene il loro principale obiettivo fossero le isole britanniche. Nei secoli VIII e IX si assistette all’espansione dei popoli scandinavi che, in base alle origini e alle diverse diaspore, si possono suddividere in tre grandi gruppi: i Norvegesi, che seguirono la rotta del nord-ovest verso le isole Faroe ed Ebridi, e successivamente in Islanda e Groenlandia, fino alle coste del Labrador e di Terranova; i Danesi, che concentrarono la propria espansione in Irlanda, Scozia e Inghilterra, occuparono la Normandia e costeggiarono la Penisola Iberica fino a raggiungere il Mediterraneo, invadendo la Sicilia, dove fondarono un potente regno; infine, gli Svedesi, detti anche Variaghi, che si diressero verso il Mar Baltico in direzione ovest verso la foce del Vistola, e verso est, nella regione dei grandi laghi russi per raggiungere fiumi come il Volga, dal quale scesero fino al Mar Caspio per arrivare a Baghdad e in altre zone, o il Nipro, su cui navigarono fino al Mar Nero e, di lì, fino alla stessa Costantinopoli.
territori fino ad allora scollegati: da Dublino a Kiev, attraverso il Mare del Nord e il Mar Baltico, furono create delle solide reti di scambio di oggetti, ma anche di mercanzie, idee e persone. Con questi popoli, la mappa dell’Europa era quasi completa. Restavano solo alcuni ritocchi da ultimare sul confine orientale.
I Vichinghi nelle isole britanniche A metà del IX secolo, le isole britanniche erano il campo d’azione più vasto e il preferito delle incursioni vichinghe. I loro pacifici monasteri, ricchi di oggetti preziosi di fine oreficeria, rappresentavano un obiettivo tremendamente facile oltre che molto appetibile per una civiltà basata sul saccheggio. I monaci impararono a costruire torri circolari senza ingressi a raso terra, per mettere al riparo l’argento e l’oro nei piani superiori arrampicandosi su scale di corda. Uno dei luoghi che più di altri soffrì fu l’isola-monastero di Lindisfarne, nella contea del Northumberland, saccheggiata e distrutta più volte fino a quando venne abbandonata per sempre nell’875.
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Anche in Irlanda gli attacchi si intensificarono. Nel decennio dell’840, la Cronaca d’Irlanda registrò attacchi a una cinquantina di monasteri, tra cui Glendalough, Bangor, Movilla, Clonfert, Clonmacnoise e persino Kildare, la patria di banta Brigida. Negli stessi anni furono dati alle fiamme gli ampli edifici di Armagh, la città di san Patrizio. A mano a mano che cadevano nelle mani dei Vichinghi, le grandi civitates monastiche seppellivano in tutta fretta i libri e i prodotti di oreficeria, oppure li inviavano nell’entroterra. Forse proprio così giunse a Kells, proveniente dalla minacciata abbazia di Lindisfarne, il più grande codice evangelico sopravvissuto a quell’epoca di saccheggi e distruzione, il Libro di Kells. Tutto ciò provocò la fine del primato culturale che l’Irlanda aveva avuto per secoli, anche se proprio ai Vichinghi si deve la costruzione di alcune città come Limerick, Cork, Wexford, Waterford o Dublino. Di fronte a simili saccheggi, i re d’Irlanda risposero energicamente. Nell’848 Máel Sechnaill, re di Tara, sconfisse un gruppo di Vichinghi nel cosiddetto regno di Mide, dove morirono circa 700
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guerrieri. Quello stesso anno, i re di Munster e Leinster misero a segno un successo ancora maggiore a Castledermot, nei pressi di Kildare. Tuttavia, tali vittorie incitarono l’arrivo di nuove spedizioni. Abbiamo notizia dell’arrivo, nell’849, di un nuovo capo guerriero al comando di 20 navi, che i suoi chiamavano re, e che sottomise tutti i Vichinghi d’Irlanda al suo potere. Nel frattempo, i Vichinghi danesi, sempre più numerosi, si dimostrarono attivi nei loro campi d’azione preferiti in Inghilterra. Un chiaro indizio di insediamento fu la costruzione di un accampamento invernale nell’anno 851. Le prime incursioni sulle coste del Wessex erano avvenute cinquant’anni prima con uno sbarco nella zona di Portland. Il governatore della città li accolse come commercianti e disse loro che avrebbe informato il signore più vicino, ma i Vichinghi uccisero il governatore e i suoi uomini. Da quel momento, gli attacchi furono sempre più frequenti. Nell’835, un gruppo di Danesi era sbarcato sull’isola di Sheppey e un anno dopo il re Egberto di Wessex fu sconfitto da un esercito di Danesi giunti su 35
ELMO VICHINGO.
Il Romanticismo ricreò un’immagine del Vichingo che culminò nell’opera di Wagner, Il crepuscolo degli dèi, in cui si narra del Ragnarök, la fine del mondo nordico. L’immagine del guerriero biondo con un elmo dotato di corna aveva poco in comune con la realtà. In verità, questi elmi sono oggetti eccezionali, e i pochi che esistevano avevano probabilmente funzione cerimoniale (Museo delle Navi Vichinghe, Oslo). 103
LA GRANDE PROVA
I monasteri e le loro ricchezze, obiettivo vichingo A metà del IX secolo, i ricchi monasteri irlandesi e scozzesi erano assediati. I Vichinghi avevano scoperto i loro magnifici tesori e la loro vulnerabilità. I monaci non mostrarono mai molto entusiasmo per la resistenza, sebbene alcuni avessero costruito anche delle torri difensive. Nel giugno dell’anno 793 cominciarono i saccheggi dei Vichinghi ai danni dei monasteri delle isole britanniche. Il primo di cui si ha notizia fu il monastero di Lindisfarne, che rappresentava la culla dei più raffinati codici insulari. L’attacco venne descritto nella Cronaca anglosassone: «Il sesto giorno delle idi di giugno purtroppo gli strateghi pagani distrussero la chiesa di Dio di Lindisfarne». Non contenti, i Vichinghi torturarono e assassinarono i monaci. Nuove spedizioni, negli anni 801, 806 e 867, organizzate per dare fuoco all’abbazia ricostruita, rasero al suolo quel magnifico luogo. Con le loro razzie, i Vichinghi si impossessavano delle ingenti ricchezze custodite nei monasteri. Fu proprio tale ricchezza che rese i monasteri il principale obiettivo vichingo, poiché, a conti fatti, la loro società era basata sul saccheggio. A destra, rovine del monastero di Lindisfarne, costruito sull’omonima isola da Aidan, successore di Columba.
navi, anche se due anni dopo egli stesso riuscì a vincerli a Hingston Down, in Cornovaglia. Tali eventi furono il preambolo dei veri e propri attacchi che avvennero nel decennio dell’860, quando le forze vichinghe, per la maggior parte di origine danese – chiamate in anglosassone micel here (“grande armata”) – diedero inizio alla violenta conquista dell’Inghilterra. A questo punto, la storia si tinge di leggenda, grazie al grande capo vichingo Ragnar Lodbrok (ovvero “Calzoni villosi”), la cui morte nel pozzo dei serpenti del re Aelle di Northumbria segnò profondamente le saghe nordiche. Nell’865, una prima “grande armata”, diretta da Ivar il Senz’ossa e Halfdan, figli di Ragnar Lodbrok, fece la sua comparsa sulla costa dell’Anglia Orientale. Essa occupò York il 21 novembre dell’866, uccidendo il re Aelle di Northumbria, che secondo la leggenda era stato il responsabile dell’omicidio di Ragnar, gettato nel suo lugubre pozzo. Utilizzarono York come base per saccheggiare la Northumbria e pretendere dalla Mercia un riscatto, un Danegeld, un tributo che veniva pa104
gato ai Vichinghi per allontanarli dai regni sassoni; dopodiché si diressero verso sud e si stabilirono a Reading, città che trasformarono in un campo fortificato dal quale sarebbero usciti solo per radere al suolo il Paese. Il regno della Mercia fu la prima vittima. Nell’873 si accamparono nel centro di Repton. Il re Burgred I abdicò e fuggì a Roma, così i Vichinghi lo sostituirono con un re fantoccio, Ceolwulf II. Non si accontentarono di questo, così avanzarono verso nord, conquistando la Deira, odierno Yorkshire, le cui terre furono distribuite tra i loro uomini. Le colonie danesi di uomini liberi e liberti trasformarono la regione in un regno mezzo scandinavo. L’altra parte della grande armata danese accampata a Rapton avanzò verso est fino a Cambridge, condotta da tre re, a capo dei quali vi era Guthrum. Il Wessex era minacciato.
Alfredo il Grande Contiguo alla Cornovaglia e al Galles, a metà del IX secolo il piccolo regno di Wessex stava vivendo un periodo particolarmente difficile. Quella terra
di Sassoni a ovest dell’Inghilterra, un regno governato dagli eredi della stirpe di Cerdic attraverso interminabili guerre, sarebbe diventata il nucleo per il futuro della cultura anglosassone. I sovrani si sforzavano di consolidare il tessuto culturale, perciò intrapresero azioni che li avrebbero resi padroni di un territorio unito. Era un obiettivo audace, viste le circostanze grandemente sfavorevoli che dovettero affrontare. Dato che tutta l’isola era cosparsa di monasteri indifesi, automaticamente entrarono nelle mire degli Scandinavi. Per gli uomini di Wessex quegli invasori erano noti come wicingas, “ladri”, un nome molto azzeccato, poiché i wicingas o Vichinghi tentavano di saccheggiare il regno senza lasciare nulla alle loro spalle. Fu in quel contesto che emerse la figura di Alfredo, il primo re anglosassone. Le sue gesta lo resero meritevole del soprannome “il Grande”. E lo fu, senza alcun dubbio. Nell’autunno dell’865 un esercito di Vichinghi danesi si dedicò a saccheggiare le terre della Mercia, fino a prendere la città di York nel giorno della commemorazione dei defunti dell’anno seguente.
La guerra si espanse per tutto il regno, obbligando il re della Mercia a cercare alleati. Questi era sposato con una principessa del Wessex e, pertanto, poteva convocare i parenti della moglie. Ebbe fortuna, poiché Etelredo I, re del Wessex, accorse in suo aiuto. I Danesi evitarono la battaglia e la Mercia riuscì a ottenere la pace. Nell’867, il giovane fratello di Etelredo I e futuro re Alfredo il Grande sposò, all’età di vent’anni, Ealhswith, la figlia di un nobile della Mercia. Trascorsero alcuni anni di guerra senza sosta con i Danesi con risultati discontinui finché, un giorno di aprile dell’871, nella battaglia di Meretum (probabilmente Marton, nei pressi di Marlborough), i Danesi ottennero una vittoria clamorosa, il cui risultato fu la morte di Etelredo I. L’inizio del regno di Alfredo non poté essere più sfortunato. La sconfitta nella battaglia di Wilton quello stesso anno gli fece riconsiderare i rapporti con i Danesi. Nell’873 condusse i propri uomini a trascorrere l’inverno a Londra; seguirono anni durissimi nei quali il futuro stesso dei vari regni anglosassoni fu in pericolo. È di quegli anni una traduzione sassone del libro De philosophiae consolatione di Boezio, scritta – sembrerebbe – da Alfredo in persona. Nel testo, il re trova argomenti per scongiurare il pericolo mortale che minaccia lui e il suo regno; egli sa che ne uscirà in due modi: con le armi o con la legge. È sorprendente come egli trascenda dall’analisi concreta della realtà e trasformi le proprie riflessioni in una proposta astratta, in una teoria. Così, nell’878, per fuggire da quella che sembrava essere la fine del suo regno, Alfredo si rifugiò nelle paludi del Somerset, sull’isola di Athelney. La ritirata fu una dura prova, poiché lasciò tutto il regno in sospeso tra la perdizione e la redenzione. Ciò che accadde in seguito fa parte sia della storia sia della leggenda. Secondo quanto si racconta, un giorno Alfredo, travestito da bardo, giunse all’accampamento del re vichingo Guthrum, rimanendo lì mentre venivano discussi i piani di attacco. Il suo azzardo venne premiato: egli ottenne una decisa vittoria al comando degli uomini di Somerset, Wilthshire e Hampshire. I Danesi resistettero per quindici giorni a Chippenham, dopodiché accettarono che il loro re venisse battezzato e lasciarono Wessex, anche se per poco. Nell’autunno dell’878, un esercito danese arrivò risalendo il Tamigi e trascorse l’inverno a Fulham; Alfredo li sconfisse di nuovo, e fece lo stesso con altre spedizioni negli anni successivi. Lo stato di guerra costante lo convinse sempre di più che era il momento di impossessarsi di Londra. Fu un evento di importanza primordiale, sebbene non si conoscano i dettagli. In seguito a questa vittoria
CROCE IRLANDESE.
Le croci a tema narrativo furono utilizzate in Irlanda come strumento di evangelizzazione; ecco spiegato il motivo del gran numero di esemplari e della loro alta qualità artistica. Nell’immagine, croce dell’abbazia irlandese di Clonmacnoise.
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LA GRANDE PROVA
ALFREDO IL GRANDE.
Originario del Wessex, fu il primo della regione a proclamarsi re degli Anglosassoni. L’appellativo, Grande o Magno, gli fu concesso grazie alla lotta e alle vittorie ottenute contro le invasioni vichinghe. Nell’immagine, statua di Alfredo il Grande a Winchester, Inghilterra.
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adottò il titolo supremo. Dimostrò di volere rispettare le tradizioni di tutte le terre che sarebbero state soggette alla sua sovranità, mentre fissava i confini tra i diversi Paesi, inclusa l’area del Danelaw (diritto danese). Il suo dominio si estese fino al fiume Humber, nel nord. Nell’892 ricominciò la guerra. Una grande milizia danese si riunì a Boulogne-sur-Mer per invadere il Wessex. Alfredo capì che doveva creare una potente marina e ricostruire le fortificazioni costiere. Le leve per contea non erano più adatte, pertanto – permettendo che la metà dei contadini rimanesse a casa, mentre l’altra metà si arruolasse – riuscì a riunire un buon esercito, che mantenne unito molto più a lungo che in precedenza. Si occupò anche delle fortificazioni e costruì rifugi per il proprio popolo minacciato. In tal modo si formò un sistema coerente di difesa territoriale; nel giro di pochi anni, le città del Sussex, del Surrey e del Wessex a est del fiume Tamar erano circondate da fortificazioni e dotate di mercati allo scopo di introdurre imposte di guerra. Così facendo, Alfredo rinsaldò lo spirito del proprio popolo per renderlo resistente ai colpi di una battaglia continua. Quando morì il 26 ottobre dell’899, gli Inglesi erano ancora sulla difensiva, ma ormai era stata creata una base solida per fermare gli Scandinavi e per unificare, infine, le zone danesi e inglesi sotto un unico regno. I frutti di tale sforzo, raccolti dagli eredi di Alfredo nei decenni successivi, sono senz’altro spettacolari. Nel 937, in una sanguinosa e colossale battaglia, il re Atelstano, nipote di Alfredo il Grande, detto “il Glorioso”, si scontrò con una concentrazione di nemici provenienti da tutte le isole britanniche, sconfiggendoli. Sulle monete a lui dedicate gli veniva attribuito un titolo ancora più altisonante di “re degli Inglesi”: “re di tutta la Gran Bretagna”. I monaci irlandesi considerarono Atelstano «l’apice della dignità del mondo occidentale».
La crisi dell’impero carolingio Le realtà sociali e culturali del vasto territorio che Carlomagno trasformò in un impero erano molto diverse tra loro. Le tensioni più profonde, che influenzavano anche i comportamenti più ordinari, provenivano dalla continuità con l’eredità romana. Il Trattato di Verdun certificò il fatto che la parte occidentale era diversa da quella orientale, in cui il peso della tradizione germanica era più forte. Altri contrasti giungevano dall’impronta lasciata dalle diverse tribù che, nei due secoli precedenti, si erano stanziate in quella parte di Europa, come evocano immediatamente i nomi di
Lombardia, Borgogna, Sassonia o Guascogna. Il ricordo degli antichi popoli da cui si discendeva supportava una vera e propria convinzione di superiorità razziale, sentimento che poteva essere percepito spesso quando si viaggiava da una cittadina o da un Paese all’altro per siglare un’alleanza matrimoniale. Nel seno di una geografia così complessa, le rivalità delle aristocrazie locali finirono con il danneggiare l’ordine politico della corte reale. Così, poco più di quarant’anni dopo che Carlomagno fu incoronato imperatore, suo nipote Carlo il Calvo (843-877) mostrava segni di fragilità politica, sebbene avesse ricevuto l’unzione e portasse avanti, quindi, la convinzione secondo cui la sua autorità era soprannaturale e la sua principale missione nel mondo – come celebrato nelle Laudes Regiae – fosse l’unione tra il visibile e l’invisibile. Sostenuto da vescovi influenti come Incmaro di Reims e saggi del calibro di Giovanni Scoto Eriugena “l’Irlandese”, cercò il modo per far fronte a un mondo che mostrava crepe secondo la sua concezione del potere. L’armonia cosmica proclamata dal saggio irlandese – che sedeva spesso alla mensa del re – era in contrasto con l’attacco di alcuni popoli del nord che sembravano non riconoscere lo splendore di sua maestà imperiale, né i valori sacri esposti nella grande opera di quegli anni di Eriugena, De divisione naturae (867), una solida riflessione sul potere di stampo neoplatonico. Non servì a molto nemmeno il tentativo di recuperare il senso artistico con l’ordine impartito dallo stesso Carlo di affrescare i palazzi di Aquisgrana e di Ingelheim, o di sostenere gli scriptoria monastici dediti alla composizione di salteri, come quello realizzato a Reims e che oggi conosciamo come Salterio di Utrecht – centootto pagine di pergamena con i salmi e il Credo, esuberantemente illustrati con un potente realismo che trasformò la rigida arte della miniatura. L’impero si piegò sia per il fatto di essere stato diviso in tre parti, sia perché i nuovi arrivati non sembravano voler rispettare i consensi politici ottenuti dal nonno dell’imperatore. Gli anni tra l’850 e l’878 furono segnati da una maggiore estensione delle devastazioni dei Vichinghi in Francia. I Danesi stabilirono quartieri sul Reno, sulla Schelda, sulla Somme, sulla Senna e la Loira. Bene armati, veterani e adattabili, mostravano un’imbarazzante superiorità militare sugli uomini del luogo reclutati in tutta fretta, sebbene alcuni fossero già guerrieri a cavallo con cotta di maglia. I loro movimenti erano rapidi perché, oltre a penetrare i fiumi con le imbarcazioni, utilizzavano cavalli che trovavano sul cammino per avanzare sulla terra ferma.
L’INVASIONE DEI POPOLI PAGANI
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LA LEGGENDA DEL RE SANTO
el momento in cui, alla fine dell’VIII secolo, l’Europa cominciò a modellare un impero territoriale per mano di Carlomagno, nessuno sospettava che ben presto sarebbe stata vittima delle ultime invasioni dei popoli pagani. Per due lunghi secoli, i Normanni saccheggiarono i monasteri irlandesi e inglesi, penetrarono dall’estuario della Senna fino ad assediare Parigi e giunsero a saccheggiare Cordova; dal canto loro, i Magiari si spostarono nelle terre a nord del Mar Nero fino al medio Danubio, sostituendo gli Avari, che erano stati sconfitti dai Franchi. Nuovi popoli pagani, come i Bulgari, che si stabilirono sul basso Danubio, e i Peceneghi, che controllavano i valichi del Caucaso, provocarono la percezione diffusa che la fine del mondo fosse vicina. Tuttavia, la fine non arrivò. Quell’invasione pagana, l’ultima subita dall’Occidente europeo, attivò le reti commerciali, con la creazione di porti navali che furono utilizzati successivamente per dare impulso allo sviluppo dell’economia europea.
La vita del celebre Edmondo si colloca durante la spedizione vichinga dell’865, organizzata dai figli di Ragnar Lodbrok: Ivar “il Senz’ossa”, Halfdan e forse Ubbe. Sbarcarono nell’Anglia Orientale, dove si dedicarono al saccheggio e distrussero il monastero di Coldingham. Edmondo riunì un esercito per fronteggiarli, ma fu sconfitto. Avendo rifiutato le condizioni di resa perché attentavano alla religione, fu giustiziato. La spedizione proseguì verso nord per occupare la valle di York, lasciando il ricordo del martirio di Edmondo. Le sue reliquie sono conservate a Bury, nella parte orientale della contea di Suffolk. Così nacque la leggenda. Tra il 985 e il 987, Abbone di Fleury scrisse la Passio sancti Edmundi, in cui Edmondo viene presentato come un santo, mettendo in risalto l’analogia con il martirio di san Sebastiano e sottolineando il fatto che dopo la sua morte il corpo rimase intatto. Secondo la leggenda, la testa di Edmondo, decapitato, fu custodita intatta nel bosco da un lupo e altre belve, finché non fu ritrovata dai suoi seguaci.
Sopra, scena della leggenda di sant’Edmondo raffigurata in una miniatura di un manoscritto del XV secolo (British Library, Londra).
LO SBARCO. Battaglia tra gli Inglesi
GLI ASSEDI ALLE CITTÀ.
IL MARTIRIO. Sant’Edmondo colpito dai
e gli invasori. Il re Edmondo lottò nell’865 contro il primo esercito danese, capitanato da Ivar “il Senz’ossa”.
I Danesi assaltano una città. Negli ultimi decenni del IX secolo, i Danesi occuparono molte città dell’Anglia Orientale.
Danesi con frecce. Le miniature appartengono a Vita, Passione e Miracoli di sant’Edmondo (Morgan Library & Museum, New York).
LA GRANDE PROVA
Il Salterio di Utrecht, una rivoluzione artistica
Dopo vari secoli nei quali l’arte della miniatura si era limitata alla decorazione con motivi geometrici, nel 754, quasi in contemporanea con l’inizio del regno di Pipino il Breve, si assistette alla nascita del libro illustrato carolingio grazie all’iniziativa del copista Gundoino. Le testimonianze più brillanti e numerose dell’arte pittorica carolingia si trovano nei libri, che sono anche i documenti meglio conservati, poiché molti affreschi e mosaici dell’epoca sono andati persi. L’arte della miniatura carolingia nacque ai tempi di Pipino il Breve e raggiunse la maturità durante il lungo regno di Carlomagno, essendo la Bibbia uno dei temi preferiti dai miniaturisti della corte di Aquisgrana. Una delle opere principali di quest’arte è il Salterio di Utrecht, così chiamato per il nome dell’università in cui è conservato oggi; fu scritto e illustrato nell’abbazia di Hautvillers, tra l’anno 820 e l’830. Realizzato con il patrocinio dell’arcivescovo di Reims, Ebbone, fratello di latte dell’imperatore Ludovico il Pio, segue modelli alessandrini per posizionare i personaggi e le scene in modo da non tagliarle tra loro, affermando così, per uno stesso salmo, l’unità degli episodi, delle immagini e delle allusioni al Nuovo Testamento. La vivacità leggera e spirituale e la precisione nel tratto permettono di creare disegni meravigliosamente agili, pieni di abilità narrativa e fermezza compositiva. Sopra, pagina del salmo 106 di una copia anglosassone del Salterio di Utrecht, conservata alla British Library di Londra.
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Carlo il Calvo lottò con lodevole energia contro quei vagabondi, ma i suoi desideri erano più grandi del suo effettivo potere. Faceva sempre molta fatica a riunire i suoi ingovernabili vassalli e, quando vi riusciva, gli risultava molto difficile mantenere l’ordine in battaglia. Tours fu saccheggiata nell’853. Nell’857, Björn Braccio di Ferro e un altro capo costruirono una fortezza a Oissel, sul fiume Senna, e da lì incendiarono Parigi. Carlo assediò l’isola nell’858. Nell’862, questi ricorse a un altro stratagemma: fece costruire ponti fortificati da una sponda all’altra dei fiumi per impedire il passaggio delle flotte vichinghe. Ottenne qualche successo, ma nell’866, dopo un altro attacco a Parigi, ottenne la ritirata dei Vichinghi solo dietro pagamento di un riscatto; ricorse al medesimo rimedio nell’877, nello stesso anno della sua morte. Lasciò sul trono il figlio Luigi II il Balbo, che non aveva la stoffa per essere re. Non furono all’altezza nemmeno i suoi eredi Luigi III, Carlomanno e Carlo il Grosso, anche se quest’ultimo ebbe l’opportunità di unificare nuovamente l’impero carolingio. Ma fu solo un miraggio. Nell’880 i Vichinghi occuparono e incendiarono Nimega, e in poco tempo trasformarono Courtrai e Gante in fortezze normanne; nell’881 incendiarono Liegi, Colonia, Bonn, Prüm e Aquisgrana; nell’882 invasero Treviri e uccisero l’arcivescovo, che ne dirigeva la difesa; nello stesso anno presero Reims, costringendo Incmaro alla fuga e alle morte. Nell’883 si impossessarono di Amiens; nell’885 di Ruan. In circostanze simili, la difesa del territorio ricadde nelle mani dei signori locali; il più efficiente di tutti fu il marchese di Neustria, Roberto il Forte, nonno di Ugo Capeto e primo fondatore della dinastia che avrebbe seduto sul trono di Francia. La nuova tendenza si manifestò tra il novembre 885 e l’ottobre 886 durante la difesa di Parigi in risposta a un attacco vichingo, il cui assedio fu il contenuto del poema di Abbone di Fleury. Il conte Oddone, governatore della città e figlio di Roberto il Forte, e il vescovo Gozlin diressero una valorosa resistenza; per tredici mesi Parigi riuscì a resistere all’assedio e i suoi difensori fecero una dozzina di uscite; infine, Carlo il Grosso diede ai Vichinghi 700 denari d’argento e il permesso di risalire la Senna e trascorrere l’inverno in Borgogna, che saccheggiarono con tutta calma, senza nessuna opposizione. Carlo III il Grosso fu deposto e morì nell’888. I successivi re carolingi furono uomini con buone intenzioni, ma pessime capacità di governare. Si acuì la lotta per il controllo delle terre imperiali, sempre più sottomesse alle aristocrazie locali, proprietarie di vasti territori chiamati “principati territoriali”. Ciò nonostante, in seno alla società
iniziarono ad affermarsi nuove classi sociali, soprattutto alcuni individui che i documenti riportano con il nome di “piedi polverosi”. Erano migliaia e si dedicavano a una nuova attività economica, il commercio. Perciò, il profilo della società europea era destinato ben presto a cambiare. I Vichinghi erano riusciti a spezzare le strutture del mondo antico; tutto ciò che sarebbe accaduto di lì in avanti avrebbe fatto parte di una nuova era. Si fondarono le prime colonie permanenti di Vichinghi su territorio imperiale. Fu una decisione presa da Carlo il Semplice (898-922), che consegnò ad alcuni Vichinghi i distretti di Ruan, Lisieux ed Évreux che, comunque, essi occupavano già illegalmente. Si venne così a creare un nuovo territorio, fondamentale per la formazione dell’Europa: la Normandia.
La creazione della Normandia Nel 911 i Vichinghi che avevano saccheggiato la Bretagna al punto tale da spingere le autorità politiche del luogo a rifugiarsi nel Wessex, si addentrarono lontano dalla costa verso Chartres, circa
100 km a sud-ovest di Parigi. Lì ebbero un incontro con i nobili locali, tra i quali si distingueva una famiglia che, con il passare del tempo, sarebbe diventata famosa in tutta la regione: la famiglia dei Capetingi. Entrambe le parti, alla fine, erano disposte a giungere a un accordo. I messaggeri del re dei Franchi ricorsero a un vecchio stratagemma degli imperatori. Si presentarono di fronte al capo più famoso dei Normanni, di nome Rollone, e gli proposero un accordo. In primo luogo avrebbe dovuto battezzarsi e, inoltre, accettare la condizione di vassallaggio rispetto al re e la responsabilità della difesa della bassa Senna. Rollone accettò l’offerta immediatamente. Non ne avrebbe mai potuta ricevere una migliore. A conti fatti, era esattamente quello che stava cercando da quando aveva lasciato la sua terra, la Penisola dello Jutland. Un anno dopo venne battezzato dal vescovo della città di cui egli sarebbe stato, da quel momento in poi, signore e padrone. Dalla dinastia di Rollone e da quella colonia sarebbe nato il ducato di Normandia. Poco dopo, venne concessa l’autorizzazione a fondare una nuova colonia vichinga a
CARLO IL CALVO.
L’imperatore rappresentato nel momento in cui riceve dai monaci e dall’abate di Marmoutier il manoscritto che gli hanno preparato, in una pagina della Prima Bibbia di Carlo il Calvo (Bibliothèque Nationale de France, Parigi). Sotto, effigie di Carlo il Grosso su un sigillo del IX secolo (Archives Nationales, Parigi).
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LA GRANDE PROVA
Il Vichingo Rollone e la creazione della Normandia
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Sedi episcopali all’inizio dell’XI secolo
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Avranches MontSaint-Michel D U CATO D I BRE TAGN A
Saint-Wandrille
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Coutances
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CON T E A D E L P E RCHE
DOMINIO REALE
Ducato di Normandia (alla morte di Riccardo II, 1026) Zona ceduta a Rollone (911) Estensioni del dominio nordico:
Abbazie Territorio con popolazione nordica importante
Nantes, sulla foce della Loira, sebbene questa ebbe vita più breve. Ne seguirono di meno importanti, sulla Penisola del Cotentin e nell’Alta Normandia, nei dintorni di Bayeux. Non sappiamo da dove provenissero queste ondate migratorie, se giungessero dall’Inghilterra o dall’Irlanda o, semplicemente, dalla Scandinavia. I rapporti tra Franchi e Vichinghi non furono facili. Nel 942, Guglielmo Lungaspada, figlio di Rollone, si presentò al cospetto di Arnolfo, conte di Fiandra, disarmato, come amico, senza sospettare minimamente che sarebbe stato trattato come un pirata e pugnalato a morte. Il suo mentore, l’abate Martino di Jumièges, costernato, scrisse, denunciando l’omicidio: «[…] perché l’uomo che aveva assassinato era un difensore della pace, amico e conforto dei poveri, difensore degli orfani e protettore delle vedove»; terminava poi il suo sermone dicendo: «Piangete per Guglielmo, morto innocente». Il fatto che un monaco come Martino si sentisse di scrivere un simile elogio dimostrava la chiara intenzione di segnalare che la restaurazione dello Stato doveva essere ricercata nei monasteri. 110
CONTEA D I PON THIE U
Dieppe
Vire
Nell’anno 911, una spedizione di Vichinghi norvegesi sotto il comando dell’imponente Rollone si addentrò fino a Chartres, in territorio franco. Affrontò il conte di Parigi, il nonno del futuro re Ugo Capeto, e dopo lo scontro si giunse a un accordo. Il capo della spedizione avrebbe salvaguardato la foce della Senna per evitare l’arrivo di altri pirati, e in cambio sarebbe stato riconosciuto come signore di Ruan. Partendo da quel momento, lo storico Dudone di San Quintino scrisse il racconto dei processi di assimilazione portati a termine per integrare i Vichinghi nella cultura europea, innanzitutto con il battesimo di Rollone e poi con le vicende del figlio, Guglielmo Lungaspada. A sinistra, un’immagine di Rollone; nella pagina accanto, incisione del XIX secolo che raffigura i Normanni, capitanati da Rollone, nell’assedio di Parigi dell’885.
Cherbourg
sle Bre
Il Vichingo Rollone fu una leggenda vivente nell’Alto Medioevo. Il suo assedio di Parigi fu narrato dal monaco e santo Abbone di Fleury in un magnifico poema in latino, anche se la sua impresa più duratura fu certamente la fondazione della Normandia.
A CA IC NA N L E DEL L A MA
Rollone (924) Guglielmo I (933)
Il comportamento tenuto contro i Vichinghi battezzati, come quello del conte di Fiandra, era molto significativo, poiché, per esempio, Riccardo, figlio di Guglielmo Lungaspada, temendo che gli accadesse ciò che era successo al padre, chiamò a sé i “parenti” scandinavi; di conseguenza, spuntarono nuovamente sulla foce della Senna le minacciose navi con la testa di drago. Lo strano risultato dell’era vichinga nel regno franco diede luogo a decenni complicati nella storia politica, i cui dettagli interessano solo a pochi specialisti in quanto molto difficili da seguire e da assimilare. In ogni caso, non deve stupire il fatto che trenta o quarant’anni dopo il battesimo di Rollone la gente insistesse a considerare quelle terre un covo di pirati stranieri. Inoltre, giravano voci in seno alla Chiesa che parlavano di pratiche pagane, leggende che insinuavano la paura rispetto a un modo d’essere difficile da capire, intriso di magia. Cento anni dopo il battesimo di Rollone, Dudone di San Quintino scrisse l’opera De moribus et actis primorum Normandiae ducum per suo nipote, Riccardo I, il quale veniva ancora definito «il
duca dei pirati». Nel libro viene descritta l’istituzione di un potere autonomo da parte del duca e dei suoi eredi; allo stesso modo, vengono elogiate varie qualità di alcuni uomini non considerati sacri come i re, ma che rispecchiano certi attributi e certe virtù che li avvicinano sempre di più ai valori promossi dalla monarchia.
I Variaghi che fondarono la Russia Negli anni in cui Rollone veniva battezzato a Ruan giunse la notizia di un colpo di scena diplomatico che ebbe una grande ripercussione nel mondo musulmano: i Bulgari del Volga proclamarono di essersi convertiti all’Islam. Tra loro e il califfato vi erano i Cazari, che dal VII secolo avevano occupato alcuni territori lungo il corso inferiore del Volga e nella zona compresa tra il Mar Nero e il Mar Caspio. In quel mosaico di culture ed etnie, il commercio divenne un’attività proficua. Nelle prospere città mercantili iniziarono ad arrivare alcuni individui che le fonti chiamano Rus. I geografi musulmani, impazienti di farne la conoscenza, non si accontentarono di andare nei
mercati bulgari o cazari, ma si spinsero a ovest e a nord per ispezionarne i territori e avere, così, una conoscenza di prima mano. I Rus vivevano in un’isola fortificata e avevano un re. Erano una sorta di aristocrazia guerriera, che dettava le leggi di vita in funzione dei propri interessi. Se un individuo avesse insultato un Rus, avrebbe potuto pagarla con la vita o con la metà dei suoi beni. Erano alteri, orgogliosi, forti. Chi erano e da dove venivano? Dopo lunghi dibattiti si è giunti alla conclusione che quei Rus fossero in realtà Vichinghi che provenivano dalla Svezia, i Vaeringjar o Variaghi, poiché scendevano con le loro navi dai grandi fiumi diretti verso il Mar Caspio o il Mar Nero. Un’opera successiva (ca. 1116), la cosiddetta Prima cronaca russa o Cronaca di Nestore, descrive i Vichinghi che iniziarono a penetrare nei boschi della Russia europea. A metà del IX secolo governavano a Novgorod (nome che significa “fortezza nuova”) e avevano esteso il proprio dominio verso il sud fino a Kiev. I grandi fiumi che attraversavano il paese univano il Mar Baltico con il Mar Nero, così 111
LA GRANDE PROVA
L’alfabeto cirillico, dal IX secolo ai giorni nostri A metà del IX secolo, i missionari bizantini Cirillo e Metodio si adoperarono per tradurre testi cristiani fondamentali ideando l’alfabeto glagolitico, la prima forma di lingua slava scritta. Un secolo dopo, Clemente di Ocrida creò su quelle basi l’alfabeto cirillico per facilitare la propria attività missionaria nel popolo bulgaro. Da quel momento esso divenne l’alfabeto ufficiale della Chiesa ortodossa tra i popoli slavi. Oggi viene utilizzato in oltre dieci lingue, tra le quali figurano il russo, il bulgaro e il serbo.
La conoscenza della scrittura non fece il suo ingresso nel mondo slavo fino alla conversione al Cristianesimo. Costantino Cirillo, originario di Salonicco, figlio di un alto ufficiale, o drungario, dell’impero, fu uno dei poliglotti e grammatici più celebri del Medioevo. Possedeva una perfetta conoscenza del dialetto slavo della Macedonia e decise di creare l’alfabeto glagolitico, con caratteri greci che potessero accogliere i suoni slavi. Dopodiché aiutò il fratello Metodio e i suoi discepoli in Moravia nel compito di tradurre in questo nuovo alfabeto i testi della Bibbia per l’uso dei nuovi fedeli. L’alfabeto ideato da Cirillo si evolse nel X secolo grazie all’erudito e scrittore Clemente di Ocrida – primo arcivescovo bulgaro – che lo trasformò nell’alfabeto cirillico propriamente detto. Nel secolo successivo, l’apprendimento della lettura e della scrittura sarebbe rimasto per la maggior parte limitato ai contesti religiosi; si dovrà attendere l’inizio del XII secolo affinché il mondo slavo iniziasse a produrre i racconti del proprio passato: la Cronaca di Cosma di Praga in Boemia (1120 ca.), il Gallus Anonymus in Polonia (1115 ca.) e la Prima cronaca russa o Cronaca di Nestore a Kiev (1116 ca.). L’alfabeto cirillico si espanse e viene impiegato ancora oggi; ne sono la prova le molteplici lingue che lo utilizzano attualmente, tra le quali troviamo l’abcaso, l’azero, il bielorusso, il bosniaco, il bulgaro, il ceceno, il kazako, il komi, il macedone, il moldavo, il mongolo, il russo, il serbo, il tartaro, il tagico, l’ucraino, l’uzbeco e lo iacuto, tra gli altri. Sopra, affresco della chiesa del monastero rumeno di Sucevita raffigurante Platone, Pitagora e Solone con i rispettivi manoscritti in cirillico.
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ben presto essi furono visti girovagare a Costantinopoli e persino a Baghdad. Una cronaca del XII secolo diede ragione all’arrivo di quegli Scandinavi con il suo racconto dei “tre principi”. La popolazione slava di Novgorod viveva tra costanti liti, così invitò uno dei Variaghi affinché portasse la pace e ne divenisse il reggente. Ciò accadde nell’863. Tuttavia, non arrivò un solo Variago, ma tre: Rurik, Sineo e Truvor. Tre fratelli che fondarono il primo stato russo. Forse si tratta di una leggenda, ma anche se così fosse, è una dimostrazione di quanto fosse importante la presenza dei Variaghi in quelle terre.
La Grande Moravia La prima entità slava che pretese il riconoscimento internazionale come Paese indipendente fu la Grande Moravia, che era nata dal crollo dell’antico regno degli Avari agli inizi del IX secolo. Il suo re più famoso, Svatopluk I (830-894), era nipote di Rastislav I, che aveva deposto per diventare sovrano unico del regno. La Grande Moravia ebbe un ruolo decisivo nell’espansione di altre entità politiche slave, come quella che si estese tra l’Oder e la Vistola, e che avrebbe dato poi origine alla Polonia. La Grande Moravia fu il primo stato slavo a convertirsi al Cristianesimo. Nel decennio dell’860 ricevette i famosi fratelli bizantini Costantino (meglio noto ai posteri con il cognome Cirillo) e Metodio i quali, cresciuti a Salonicco, parlavano slavo senza difficoltà. Furono bene accolti alla corte del re Svatopluk I, dove scoprirono che gli Slavi in Moravia non avevano un alfabeto che permettesse loro di esprimersi bene per iscritto; i pochi Slavi che sapevano scrivere utilizzavano caratteri greci e latini per rappresentare i loro suoni. Come soluzione, essi idearono un alfabeto e una scrittura adottando l’alfabeto greco con i valori che l’uso greco gli aveva conferito nel IX secolo e crearono lettere nuove per i suoni slavi che non potevano essere tradotti in caratteri greci. Con questo alfabeto, noto come glagolitico, Cirillo tradusse in slavo la versione del Nuovo Testamento detta “dei Settanta” e i testi liturgici greci, con i quali ebbe inizio un nuovo linguaggio scritto e una nuova letteratura. Ancora oggi viene insegnato questo alfabeto (ribattezzato con il nome di “cirillico”, in onore del suo creatore) nelle scuole che vanno dall’Adriatico alla Siberia. Nel frattempo, proseguiva la disputa tra Cristianesimo greco e latino per decidere quale dei due riuscisse finalmente a catturare il mondo slavo. Il papa Nicola I invitò Cirillo e Metodio a Roma, dove Cirillo prese i voti monastici, si ammalò e morì (869); dal canto suo, Metodio tornò in Moravia in veste di arcivescovo consacrato dal papa.
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LA GRANDE PROVA
La storia della Bulgaria narrata nel Codice Scilitze di Madrid
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Lo Scilitze è un manoscritto illustrato con 574 miniature a colori conservato alla Biblioteca Nacional de España a Madrid. Contiene un compendio della storia bizantina tra l’811, con l’imperatore Niceforo I, e il 1057, con l’arrivo sul trono dell’imperatore Michele VI, scritto in greco dal cronista e storico di corte, Giovanni Scilitze. Il Codice Scilitze di Madrid fu elaborato nella Sicilia della casata degli Altavilla nel XII secolo. Tale codice è suddiviso in 21 capitoli, ciascuno dei quali racconta le vicende del regno di un imperatore bizantino. Comincia con l’epoca turbolenta dell’impero che seguì la morte di Niceforo I nell’811, in una battaglia contro Krum, il Khan dei Bulgari, e l’ascesa al trono di Michele I. La narrazione di Giovanni Scilitze si concentra soprattutto sulla descrizione del lungo conflitto tra l’impero bizantino e i Bulgari soprattutto all’epoca della dinastia macedone, che viene normalmente divisa in due periodi: il primo va dall’867 al 1025, anno della morte dell’imperatore Basilio II; l’altro, più breve, va invece dal 1025 al 1056, anno in cui morì l’imperatrice Teodora, ultima rappresentante della dinastia. Gli eventi più significativi riguardano l’alleanza con i Bulgari, che sembrò semplice dal momento della conversione nell’anno 864 del Khan Boris, che adottò il nome biblico di Michele. La Bulgaria e l’impero cercarono un’alleanza, che si incrinò dalla presa di Adrianopoli nel 919. Il colloquio tra Simeone di Bulgaria e Romano I Lecapeno non risolse il problema; ne seguì la politica dell’imperatore Basilio II, noto come “l’uccisore di Bulgari”. Nel 1018 il primo regno bulgaro cessò di esistere, pur mantenendo la propria autonomia.
CIRILLO E METODIO (pag. 113). I due santi
fratelli, conosciuti anche come gli apostoli slavi, insieme all’arcangelo Michele mostrano i testi biblici tradotti in slavo antico in un dipinto bizantino (Museo Nazionale di Storia, Architettura e Arte, Pskov). 114
Alla fine di questa lunga contesa, il mondo slavo rimase diviso: Moravia, Boemia e Slovacchia – e, successivamente, Polonia – accolsero la Chiesa e i riti latini; Bulgaria, Serbia e Russia accettarono la liturgia e l’alfabeto slavi, aderirono alla Chiesa greca ed ereditarono la loro cultura da Bisanzio. A questi ultimi non interessò la diversità culturale e linguistica degli Slavi, anzi, vi si adattarono facilmente: molte lingue e una sola Chiesa era il segreto dell’ortodossia bizantina. La Grande Moravia si dissolse a metà del X secolo, in un’epoca in cui le diverse entità politiche dell’Europa orientale cominciarono a stabilire rapporti privilegiati con l’Impero bizantino o con il Sacro romano impero di Ottone I. La presenza dei Bulgari modificò l’ordine internazionale.
La Bulgaria entra nella storia I Bulgari, che originariamente erano un misto di popoli unni e turchi, avevano un glorioso passato sulle rive del Volga, dove avevano creato un impero attorno all’odierna città di Kazan, con capitale Bolgar, città molto prospera grazie al com-
mercio fluviale. Un ramo dei Bulgari attraversò il Danubio nel 679 e fondò un regno nell’antica Mesia, schiavizzò gli Slavi che vi abitavano e ne adottò lingua e istituzioni. Il nuovo regno raggiunse l’apice verso l’800 con Khan Krum, un personaggio dal coraggio singolare e dall’astuzia ereditata dai Bizantini. Krum invase la Macedonia, si impossessò di oltre mille libbre d’oro e incendiò la città di Serdica, che oggi è la capitale della Bulgaria, Sofia. Fu l’inizio di un periodo di guerre con l’impero bizantino che terminò con la cessione di metà della Tracia. Con il Khan Boris (852-888), la Bulgaria abbracciò il Cristianesimo; persino il re in persona decise di entrare in convento per poi uscirne quattro anni dopo per deporre il figlio maggiore, Vladimir, e incoronare il minore, Simeone. Un atto che rese possibile l’ingresso definitivo della Bulgaria nella storia d’Europa. Simeone I (893-927) fu uno dei grandi re della sua epoca; estese il dominio bulgaro fino alla Serbia e all’Adriatico, si autoproclamò imperatore e autocrate di tutti i Bulgari e i Greci; in-
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1 MICHELE I. Successore dell’imperatore Niceforo I, era sposato con sua figlia. Il suo regno fu segnato dalla vergognosa ritirata di fronte ai Bulgari, che si fermarono solo davanti alle mura di Costantinopoli. 2 LEONE VI IL SAGGIO. Leone VI il Saggio (886-912), figlio di Basilio I, ruppe la pace con i Bulgari. Non potendo contare sull’esercito regolare, occupato nella guerra contro gli Arabi, contrattò come merce i cavalieri magiari, raffigurati in questa miniatura mentre lanciano le loro terribili cariche. 3 GIOVANNI I ZIMISCE. L’imperatore Giovanni I Zimisce conquistò e saccheggiò la città di Preslav. Durante la battaglia, secondo uno storico, «la tagliente spada dell’imperatore si abbatteva come una falce».
grandì inoltre Preslav, la capitale del suo regno, con opere d’arte bizantina, rendendola la più ricca e prospera città dei Balcani. Alla sua morte, il regno si indebolì a causa di conflitti interni e alla comparsa del Bogomilismo, una setta eretica manichea, originaria della Persia, che esercitò un’enorme influenza nella cultura religiosa medievale. La Serbia riconquistò l’indipendenza nel 931. Intanto, l’impero bizantino iniziò la riconquista della Bulgaria, poiché la considerava una sua provincia; alla fine raggiunse lo scopo, ma rimase il ricordo indelebile dell’era di Simeone, epoca d’oro della cultura bulgara.
Il ducato di Sassonia e i suoi obiettivi Le vittorie del Wessex furono seguite con grande interesse in Sassonia, la terra natale del principe Cerdic, l’illustre antenato che anni prima aveva attraversato il Mare del Nord per raggiungere l’isola. Tanto è vero che, di fatto, all’inizio del X secolo si poteva affermare che il duca di Sassonia fosse un candidato deciso a diventare re, che condivideva con i legittimi eredi di Carlomagno
la convinzione del «potere della fede cristiana», come scrisse al riguardo lo storico dell’epoca, Vitichindo di Corvey. Enrico I (919-936), illustre discendente del duca Liudolfo (da cui deriva il nome della casata dei Liudolfingi), si fece ben presto l’illusione di poter essere nominato re. Liutprando di Cremona lo descrisse come «un signore ricco di saggezza, molto severo e dal giusto senno». Il suo talento spiccava in un territorio in rapida decadenza come la Francia orientale. Nemmeno Corrado, duca di Franconia, suo irritabile re in quegli anni, poté ignorare la fama di questo personaggio, sostenuto dai potenti del confine e da tutta l’influente famiglia vestfaliana di sua moglie Matilde. Alla fine, firmò una tregua con lui e, poco dopo, lo propose come successore al trono, consapevole del fatto che suo fratello Everardo non sarebbe stato in grado di sostenere tale ruolo e che, come disse il monaco e storico Vitichindo, tutti loro facevano parte di una «famiglia priva di sorte e di buone maniere (mores) nelle questioni di governo». Qualità, invece, ampia115
LA GRANDE PROVA
IL RE CACCIATORE.
Statua di stampo storicista di Enrico I l’Uccellatore, duca di Sassonia e capo della dinastia dei Liudolfingi o sassone (Castello di Albrechtsburg, Meissen).
mente possedute dal candidato sassone. Fu così che Everardo dovette rinunciare alle insegne imperiali, alla spada, alla corona dei re franchi, alla sacra lancia e al mantello reale. Nel 919 la nobiltà franca, alleata con quella sassone, proclamò re Enrico. Per la prima volta, la parte orientale dell’impero nata dal Trattato di Verdun aveva sul trono un uomo che non era franco. Il momento, paradossale, passò alla leggenda. I messaggeri che gli portarono la notizia della sua nomina inizialmente non trovarono Enrico, il quale, si diceva, era intenzionalmente impegnato nella sua passione preferita, la caccia alle anatre (da cui deriva il soprannome con cui viene ricordato nella storia, “l’Uccellatore”). Egli approfittò del suo nuovo titolo per fortificare un numero sufficiente di punti strategici e dotarli di guarnigioni, di modo che ognuna di esse avesse nove guerrieri e un guardiano, che sarebbe poi diventato il castellano. Inoltre, sperimentò, con un nuovo modo per fare la guerra, i loricati, una cavalleria corazzata cui ricorse già nella campagna del 928 intrapresa contro i popoli slavi sull’altra sponda del fiume Elba. Enrico conquistò Brennabor, la capitale dei Venedi, con «la fame, il ferro e il freddo», dopodiché sottomise le tribù degli Evelli e dei Dalmati, nel cui territorio stabilì la guarnigione che avrebbe dato origine alla città di Meissen; infine, si diresse verso sud e sottomise Praga. Quest’aria di cambiamento, che lasciava intravvedere il futuro della casata sassone, fu favorita inoltre nel 929 dall’arrivo di una delle sorelle del re Atelstano del Wessex, di nome Editta, per sposarsi con il figlio ed erede di re Enrico, un adolescente destinato a diventare un personaggio di rilievo per la storia d’Europa. Si chiamava Ottone, come il nonno. Il compito più difficile che dovette affrontare Enrico era la questione del confine sudorientale del regno, la pianura pannonica. Il luogo era governato da un bellicoso popolo della steppa, degno erede di Unni, Avari, Bulgari, Peceneghi, composto da uomini noti alla storia con il nome di Magiari o Ungheresi. È con loro che l’Europa compie l’ultimo passo verso la sua formazione.
I Magiari in Pannonia Intorno all’895 o all’896, i Magiari o Ungheresi, come venivano chiamati in Occidente, lasciarono il loro centro di attività sulla costa settentrionale del Mar Nero, attraversarono i Carpazi e occuparono la Grande Pianura ungherese. In termini generali, 116
L’espansione dei Magiari nei secoli IX e X I Magiari o Ungheresi attraversarono i Carpazi nell’895. Annientarono in breve tempo l’impero moravo, i cui abitanti caddero sotto il loro giogo. La loro cavalleria terrorizzò tutta l’Europa per oltre un secolo, fino al 955. Dall’899 in poi, i Magiari invasero periodicamente l’Italia e saccheggiarono le città più prospere della Lombardia. Poi sarebbe stato il turno della Sassonia e dell’Austrasia, e persino della Francia. I cronisti dell’epoca raccontano le distruzioni provocate dalle loro razzie, peggiori di quelle dei Vichinghi o dei Saraceni. Gli Annali di Fulda riportano che nella spedizione dell’894 uccisero uomini e donne di tutte le età, e si portarono via le fanciulle come fossero bestiame. Seminarono il terrore e la distruzione anche nella Pannonia, che sarebbe diventata con il tempo la loro dimora. Dal 926 in avanti, i Tedeschi furono loro tributari e almeno fino al 954 nessuna delle spedizioni contro di loro fu risolutiva. Ciò li incoraggiò, provocando però la loro rovina quando nel 955 si scontrarono a Lechfeld, in una battaglia decisiva con Ottone il Grande. Con la loro sconfitta, scomparve un pericolo che aveva minacciato l’Europa molto a lungo. L’epoca delle invasioni era terminata.
le conseguenze furono quelle che l’esperienza passata di altri popoli nomadi aveva insegnato. Essi separarono gli Slavi del sud-ovest da quelli dei Balcani, creando così una breccia tra l’Europa occidentale e l’Europa orientale. La Grande Moravia, il cui cuore era la Slovacchia, crollò. Il comandante che stava in testa alla spedizione, di nome Arpad, soprannominato “il Conquistatore”, fondò una dinastia di duchi e re che durò molto a lungo. Inoltre, si creò una leggenda politica sulle sue origini, anche se, in realtà, il modo di vivere nomade e pagano dei Magiari si basava sul saccheggio delle ricche città imperiali sull’altra sponda dell’Elba e del Danubio, giungendo persino in Italia. Nell’899 una spedizione saccheggiò infatti la Lombardia e sconfisse il re Berengario sul fiume Brenta. I Magiari, inoltre, riuscirono ad attraversare il Reno fino all’Alsazia e alla Francia. I loro atti erano di una ferocia implacabile, come non si vedeva dai tempi degli Unni di Attila; essi si abituarono a circondare impunemente le vittime prescelte, senza concedere tregua a nessuno, e dopo aver saccheggiato le
C
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934
Magdeburgo
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Parigi
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Tours
REGNO DI FRANCIA
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REGNO DI N AVA R R A
Bordeaux
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Aquileia
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Genova
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Marsiglia
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IMPERO GERMANICO Milano
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Pamplona
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Amburgo
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Barcellona
Roma
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928 937
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Durazzo
Costantinopoli
Adrianopoli Tessalonica
Taranto
934
RO BIZANTINO IMPE Atene
Migrazioni e campagne militari Battaglia Zona di popolazione magiara IX
secolo
Inizi del X secolo
città tornavano alle loro terre portando con sé un bottino composto da donne, oro e bestiame. Nel 911 i Magiari raggiunsero la Borgogna, seminando il panico in seno alla nobiltà imperiale. Assediarono Fulda, sede di un importante monastero, e incendiarono Brema dopo averla saccheggiata. Per peggiorare ulteriormente la situazione, sconfissero Enrico l’Uccellatore nel 919 nella battaglia di Puchen e lo costrinsero a pagare un tributo per oltre dieci anni. Tutto proseguì così fino al 932, quando il re si rifiutò di continuare a pagarlo: un anno dopo si trovò a dover fronteggiare una nuova spedizione magiara, anche se questa volta ebbe la meglio, sconfiggendola in un luogo chiamato Riade, nei pressi di Merseburgo (933). I Magiari, però, non erano un popolo che accettava bene le sconfitte. La situazione si fece di nuovo tesa. Aumentarono i saccheggi nei villaggi sul confine. Di uno di questi ci sono giunte notizie grazie al racconto di un contemporaneo che presenziò i fatti, fino a un certo punto, come testimone oculare. Engelberto, abate del monastero di San Gallo, convinto di un imminente attacco dei Magiari sul territorio, fece
costruire una fortificazione in un luogo ben preciso e di difficile accesso, nonostante l’opinione contraria di molti monaci che non ritenevano di correre dei rischi all’interno dei monasteri. Ma si sbagliavano: le spie che erano state inviate annunciarono l’arrivo del nemico, che presto confermò la sua presenza con le fiamme e il fumo provenienti dalle borgate e dai villaggi incendiati. In tutta fretta, i fratelli raccolsero tutto quanto potesse essere trasportato e si ritirarono nella fortezza per metterlo in salvo, insieme alle persone. Solo uno di loro, il buffone del gruppo, si rifiutò di seguirli, risentito – pare – perché non gli avevano dato la pelle per le sue scarpe. Le razzie e i saccheggi proseguirono nei territori sul confine con la Sassonia, la Baviera, la Francia e altre regioni. Tuttavia, quel modo di vivere e la dottrina politica che lo ispirava stavano per ricevere un duro colpo. La storia stava cambiando rapidamente verso altre forme di governo, con la presenza di un nuovo impero territoriale. Era il momento degli uomini audaci e visionari. Ve ne furono molti negli anni a venire. 117
VICHINGHI: GUERRIERI DEL MARE
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Vichinghi: guerrieri del mare I Vichinghi fondarono una civiltà che durò oltre trecento anni, tra il 793 e il 1103, estesa per tutto l’emisfero settentrionale dalla Russia al Canada, che rappresentò un fatto chiave nella formazione dell’Europa.
P
er capire i Vichinghi dobbiamo valutare l’espressione fara í víking, “andare in spedizione” in nordico antico. Per alcuni, come per il vescovo di Amburgo, Adamo da Brema, essa fa riferimento alla loro condizione di pirati, mentre per altri, come per esempio per lo storico islandese del XII secolo Snorri Sturluson, all’attività di alcuni uomini che andavano da un luogo all’altro in viaggi di commercio e conoscevano molti luoghi. I Vichinghi furono, pertanto, guerrieri e commercianti. Con il loro nome oggi designamo tre popoli differenti: i Danesi, il cui principale obiettivo fu l’Inghilterra con l’Europa carolingia; i Norvegesi, più interessati alla Scozia, alle isole Shetland, alle Orcadi, alla costa orientale e settentrionale dell’Irlanda, a Islanda e Groenlandia; infine, gli Svedesi, i quali si diressero a est attraverso il Baltico verso la regione dei grandi laghi russi, e dal lago Ladoga scelsero due rotte: da quella più orientale scesero verso Gnezdovo dal fiume Dvina e dal Volga, fino al Mar Caspio a Itil, dove incontrarono le carovane che viaggiavano verso le lontane città di Bukhara e Samarcanda; sarebbero anche arrivati, attraversando il Mar Caspio, fino a Gorgan e a Baghdad. Sulla rotta più occidentale, da Novgorod raggiunsero Kiev per poi discendere il Nipro fino al Mar Nero, a Odessa, e persino approdare sulle coste dell’impero bizantino. Le prime spedizioni ebbero luogo tra il 793 e l’850, e furono di prova. Trascorso l’anno 850, si organizzarono meglio: basti ricordare la spedizione dell’858 di Björn Braccio di Ferro sulle coste atlantiche per poi addentrarsi dal fiume Guadalquivir, passare lo Stretto di Gibilterra e Algeciras, fino a raggiungere Murcia e le Baleari, e, risalendo la costa catalana, L’INCURSIONE. Miniatura della Vita di sant’Albino
(1100 ca.), che mostra una spedizione navale vichinga (Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
La primavera sacra dei Vichinghi L’amore per la guerra fu introdotto in Europa dai Vichinghi, come un desiderio di partecipare a un rituale segreto, che i cronisti contemporanei chiamarono, in latino, ver sacrum, “la primavera sacra”. Una spiegazione risalente alla mitologia germanica, agli dèi della guerra, soprattutto a Odino, cui rendevano culto, e alla volontà di morire con la spada in mano per raggiungere il Valhalla. Saxo Grammaticus, nella sua opera Gesta Danorum, sostiene che questa pratica si lega alla razza di questi indomiti individui e al loro gusto per le rune. Alcuni autori moderni, come Régis Boyer, negano apertamente la pratica, anche se riconoscono che molte saghe leggendarie, le Fornaldarsögur, ne parlano in riferimento ai rituali di iniziazione di alcuni fanciulli. È il caso di Gunnarr Hámundarson, così come viene raccontato nella Njáls saga che, seppur tardiva, del XIII secolo, riflette alla perfezione il mondo vitale dei giovani Vichinghi in Islanda.
THOR. Testa vichinga del dio Thor (IX secolo), la
divinità del tuono della mitologia nordica.
toccare Narbona, Nîmes e Valence, persino Pisa e Roma. La reazione europea non si fece certo attendere. Bisognava impedire le razzie dei Vichinghi. Questo nuovo atteggiamento culminò nella difesa di Parigi da un attacco normanno, tra i mesi di novembre dell’885 e di ottobre dell’886, e nel recupero di Londra per mano di Alfredo il Grande. I Vichinghi promossero allora il terrore come elemento vincente nel “gioco” della guerra, eseguendo dei rituali cruenti come il blódörm: tale pratica consisteva nell’estrarre i polmoni di un uomo sdraiato bocconi, il cui sangue si spargeva come se l’uomo avesse le ali; di qui, anche il nome di “aquila di sangue” con cui questo rito è conosciuto. L’irrigidimento delle reciproche posizioni, tuttavia, favorì gli accordi politici. Per l’Occidente, gli scontri con i Vichinghi non potevano portare a nulla di buono, soprattutto perché l’economia si sviluppava nelle vecchie città del Mare del Nord, a Boulogne-sur-Mer, Quentovic, Arras o Saint-Omer, dove il denaro girava e, con esso, si produceva ricchezza.
La conversione al Cristianesimo Agli inizi del X secolo, il Cristianesimo latino non aveva quasi alcuna influenza tra i Vichinghi. Nel giro di cinquant’anni, però, tra il 930 e il 980, si poté assistere al grande fenomeno della conversione. In Danimarca, alla morte di Gorm, il figlio Aroldo Blatand, “Dente Blu”, si fece battezzare e con lui l’intero suo popolo, una decisione legata al fatto di diventare sovrano; in Norvegia, dopo un primo tentativo fallito con Haakon il Buono, fu il re Olaf I Tryggvason (sant’Olaf di Norvegia) a portare a termine la conversione nel Paese. Nello stesso periodo ebbe inizio l’avventura dei Variaghi in Russia, con Vladimir il Grande (980-1015) e il figlio Jaroslav, anch’essa legata alla cristianizzazione, in questo caso per mano della Chiesa bizantina. 119
VICHINGHI: GUERRIERI DEL MARE
La vita quotidiana nei villaggi e negli insediamenti vichinghi L’espansione vichinga creò degli stanziamenti di matrice scandinava nei luoghi più remoti della geografia europea, a riprova del fatto che essi possedevano un’avanzata cultura materiale, e che non erano i barbari di cui spesso si parla senza ragione. I più importanti sono quelli di Lindholm Høje, in Danimarca, di Bergborshvall, in Islanda, e soprattutto quello di Stöng, sempre in Islanda, ricostruito mirabilmente da Hördur Ágústsson. Dobbiamo anche ricordare, per la sua importanza storica, l’insediamento scoperto da Helge e Anne Ingstad nella località di L’Anse aux Meadows, nei pressi di Epave Bay, nel nord di Terranova. Un villaggio che ben presto servì per confermare la presenza dei Vichinghi in quella regione che le saghe chiamano Vinland, a ovest della Groenlandia. Il villaggio è composto da tre abitazioni, una forgia da fabbro e una segheria (smidjubud), che prova la grande importanza della costruzione e della riparazione delle navi; inoltre, vi sono vari magazzini per la conservazione dei viveri nei lunghi inverni. Durante gli scavi, furono trovati utensili di cucito e di cucina, indizio dell’arrivo di donne scandinave. Sotto, illustrazione che ricostruisce la località commerciale di Birka nel X secolo.
L’ANSE AUX MEADOWS. Ricostruzione dell’insediamento vichingo a L’Anse aux Meadows, sulla costa settentrionale dell’isola di Terranova. Composto da vari edifici, risale all’XI secolo.
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LA PALIZZATA.
Alcune barde circondavano i villaggi a mo’ di palizzata. All’interno, le persone conducevano una vita dedita al lavoro, poiché la stagione delle coltivazioni era breve ed era essenziale accumulare provviste per l’inverno.
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2 LE CASE. La costruzione vichinga più caratteristica è la skemma, una piccola casa composta da un solo arco, in legno di quercia, pareti in mattone e tetto di paglia, tra i 10 e i 30 metri di lunghezza. La skáli era una casa più grande.
3 I TERRENI. I Vichinghi lavoravano la terra con un semplice aratro (ardr) in legno, ma conobbero anche la carrucola in ferro (plogr) con griglia e il rastrello (herfi). Coltivavano verdure come piselli e cavoli, e allevavano capi di bestiame.
4 LA FORTEZZA. Fyrkat è una delle poche fortezze vichinghe circolari che sono state ritrovate in Danimarca. Diventata oggi un museo, risale alla fine del X secolo. È circondata da una muraglia in creta e conteneva 16 lunghe case.
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IL PORTO O WIK.
Era un luogo speciale per un popolo costruttore di navi e composto soprattutto da marinai. Le navi avevano uno scafo adatto a navigare lungo i fiumi e ad attraccare sulla sabbia delle spiagge. Il porto principale fu Hedeby.
La corte dei Variaghi si stabilì sulla rotta commerciale che univa il Baltico con il Mar Nero, la religione ortodossa si introdusse nei bazar di Novgorod o Kiev e Vladimir firmò un’alleanza con l’imperatore Basilio II, che gli offrì sua sorella in matrimonio. Il fiero spirito russo iniziò a insinuarsi nelle azioni di questa indomita famiglia. Jaroslav (1019-1054) si scontrò con i Peceneghi (popolo della steppa appena arrivato che aspirava a occupare il vuoto lasciato dai Bulgari), che sconfisse nel 1030; sorprendentemente, Jaroslav cambiò rotta e chiese l’appoggio del Paese d’origine dei suoi antenati paterni (la Scandinavia), contrasse matrimonio con una principessa norvegese e cercò di sposare i suoi figli con re o principi dell’Europa occidentale (Anna, la più graziosa, andò in Francia per sposare Enrico II). Fece inoltre erigere la prima cattedrale russa, Santa Sofia a Kiev, seguendo modelli bizantini, e promosse due grandi spedizioni per conoscere in profondità della Via della Seta: la spedizione di Ingvar il Viaggiatore nel 1040, che assediò Baghdad, e quella di Harald Ingvar, che organizzò le rotte della Vistola, attraverso l’odierna Polonia. Tutte queste azioni rispondevano a un meticoloso piano politico. Risultava sempre più evidente che l’obiettivo di Jaroslav era Bisanzio. Lo vediamo, dunque, dirigersi in quella direzione, nel 1043, in un azzardato attacco per mare a Bisanzio, che terminò con una sonora sconfitta e la perdita dell’intera flotta, un evento che fa presagire la fine di questa civiltà. I Variaghi furono lentamente assorbiti dalla cultura “russa”, persero i punti di contatto con la Svezia e, in seguito a un intervento dei Peceneghi, il mondo slavo restò lontano dal Baltico per svariati secoli. I Danesi non ebbero una sorte migliore, anche se i loro obiettivi erano ambiziosi tanto quanto quelli dei loro parenti svedesi. Intorno al 980, stimolati dalla cristianizzazione e spronati dalla riunificazione del Paese realizzata da Aroldo Blatand, noto con l’epiteto “Dente Blu” (940-985), che organizzò il proprio territorio dalla capitale Jelling, nello Jutland, e, soprattutto, grazie all’efficacia degli emporia come centri di scambi commerciali molto avanzati, i Danesi sognavano di edificare un impero attorno
Il vero volto di un guerriero vichingo Questa testa di Vichingo proviene da Sigtuna, un villaggio nei pressi del lago di Mälaren, vicino a Stoccolma. L’insediamento fu fondato dal re Eric il Vittorioso intorno al 98. Quando, verso la fine del X secolo, fu abbandonato il dinamico stanziamento commerciale di Borka, sulle rive dello stesso lago, Sigtuna ne assunse parzialmente le funzioni come centro di scambio, fino a quando, decenni più tardi, venne saccheggiata. Uno dei difensori di questo centro era probabilmente l’individuo che presta il suo volto a questa scultura. L’elmo conico con protezione nasale, la barba e dei baffi pronunciati offrono un’immagine più aderente alla realtà rispetto alla solita – e spesso deformata – immagine delle leggende romantiche, e che corrisponde meglio al termine nordico antico vikingr. Infatti, il termine vikingr (dove -ingr è un suffisso di appartenenza) indica l’uomo che partecipa a una spedizione militare o commerciale, o di entrambi i tipi contemporaneamente: in qualsiasi caso, una missione di carattere collettivo e con finalità di lucro, tramite il saccheggio o il baratto (Museo delle Antichità Nazionali, Stoccolma).
al Mare del Nord, una vera e propria talassocrazia come non se ne erano mai viste prima a quelle latitudini. Tutto sembrava a loro favore: il figlio di Aroldo, Svend I, soprannominato “Barba forcuta” (985-1014) cominciò a comportarsi come se il mondo dovesse inchinarsi alle sue esigenze. L’avvicinamento tra Danesi e Norvegesi gli permise di unire le forze e le abilità per portare a termine l’azione. Nel 991, il famoso Olaf Tryggvason preparò loro il terreno, capitanando i Norvegesi nella decisiva battaglia di Maldon contro gli Inglesi al comando di Byrhtnoth dell’Essex (il quale sarebbe poi stato oggetto di un poema che racconta il suo eroismo). Maldon fu l’inizio del sogno imperiale danese. Grazie al potere conferitogli dall’unione tra Danimarca e Norvegia, Svend I decise di attaccare l’Inghilterra nel 1002: il re Etelredo gli offrì un riscatto di 24.000 denari, che salirono a 36.000 nel 1007, ma fu tutto inutile, poi-
ché tra il 1009 e il 1010 Svend decise di attaccare gli Inglesi faccia a faccia. La battaglia di Ringmere consegnò nelle mani dei Danesi tutta la regione dell’Anglia Orientale. Il secondo figlio di Svend, Knud (Canuto il Grande), portò a termine l’impresa e fece di tutto per renderla possibile: egli divise l’isola in modo quadrangolare, come un’ultima disposizione per facilitarne la conquista. Ciò avvenne tra il 1014 e il 1027, anno quest’ultimo in cui fu ritrovata una lettera enigmatica in cui si alludeva a Canuto come «re di tutta l’Inghilterra e di Danimarca, di Norvegia e del Paese degli Svevi».
L’integrazione definitiva Alla fine, la civiltà vichinga si integrò nella cultura europea. In Normandia o in Sicilia era tutto pronto perché ciò avvenisse. Anche nella stessa Scandinavia, una volta abbandonati i sogni di conquistare il mondo. All’epoca, in pochi col121
VICHINGHI: GUERRIERI DEL MARE
sero l’importanza che avrebbe avuto la tenacia con cui Guglielmo il Conquistatore organizzò l’Inghilterra secondo il modello feudale, o la sagacia di Roberto il Guiscardo nel conquistare Reggio Calabria, Bari e la Sicilia nel 1060. Il progetto ormai realizzato somigliava a quello degli altri grandi aristocratici europei dell’epoca, addirittura sembravano confondersi. Tuttavia, osservandolo più da vicino, nei meandri delle loro azioni si può scoprire una concezione politica leggermente diversa che distingue questi due personaggi dai loro contemporanei e che, inoltre, intimoriva i nemici. Dopo l’occupazione normanna, Londra comincia a vivere la sua preistoria mercantile, ricalcando le impronte di un mondo che non sarebbe mai tornato a essere quello di prima. Così come per la fondazione normanna di Palermo, prima che si potesse cogliere l’importanza che avrebbe avuto la città al momento di ridefinire i confini internazionali, si percepisce una posizione dura e tenace di fronte ai grandi imperi dell’epoca (l’Islam e Bisanzio). Se Londra servì da impulso a un rinnovamento dell’attività commerciale in tutto il Baltico, Palermo si faceva strada sulle rovine di Bisanzio e dell’Islam occidentale, e in entrambi i casi si intravvedeva un mondo molto diverso, caratterizzato principalmente dalla fine del sogno vichingo. Infatti, l’avventura qui tramata è fondamentalmente un’avventura economica: alcuni dominatori docili, immersi nel ritmo inappellabile del beneficio commerciale, non esitavano ad abbandonare i loro vecchi tratti distintivi, mentre scoprivano affinità nascoste con gli imperatori della Franconia (e soprattutto con i futuri signori del casato degli Staufen). Alcuni, gli Inglesi, con la dinastia dei Guelfi con cui finiranno per intrecciare rapporti alla maniera dell’epoca: consegnando una donna normanna d’Inghilterra a un “rampollo” dei Guelfi, Enrico il Leone, signore di Lubecca, in altri termini, colui che aveva in pugno le chiavi del Baltico; gli altri, i Siciliani, alla ricerca, nel Sacro romano impero, di un protettore che li difendesse dalla tenaglia che li stringeva, da un lato dalle grandi città mercantili come Genova e Pisa, dall’altro da Bisanzio. Pertanto, l’integrazione fu un evento decisivo: senza di esso non potremmo spiegare la formazione dell’Europa. 122
KNARR. L’imbarcazione (a destra) era una nave da carico che, essendo più ampia e profonda, risultava più lenta e meno manovrabile rispetto al drakkar, ma, in cambio, aveva più spazio al centro per immagazzinare mercanzie e animali.
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DRAKKAR. Era la nave
da guerra (sotto) e prendeva il nome dalla polena a forma di testa di drago. Lunga, stretta e con un basso pescaggio, poteva percorrere grandi distanze nei fiumi o essere trasportata facilmente a terra in un’incursione.
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Le navi vichinghe Le imbarcazioni vichinghe divennero uno dei tratti identificativi più caratteristici di questo popolo di mare. Erano navi di legno, dotate di un’unica vela quadrata e un albero centrale, ed equipaggiate con remi. Nonostante le tante differenze in termini di dimensioni, pescaggio e sagoma, tutte le imbarcazioni furono costruite utilizzando assi longitudinali intere sovrapposte, collegate le une alle altre, che andavano da prua a poppa formando lo scafo della nave. Le prove archeologiche di questa tecnica ci sono giunte grazie all’abitudine di seppellire i morti su navi che, quando non venivano incendiate, venivano sigillate con cumuli di terra o argilla. La famosa nave di Gokstad, di cui possiamo ammirare la copia nella fotografia della pagina accanto, viene considerata l’archetipo delle navi da guerra vichinghe. La copia, battezzata The Viking, fu concepita nel 1893 da Magnus Andersen nell’ambito di un progetto che aveva l’obiettivo di attraversare l’Atlantico e visitare la Fiera Mondiale Colombiana di Chicago.
9 8 NAVE DI GOKSTAD. Fu rinvenuta durante gli scavi in un tumulo nei pressi di Sandefjord, Norvegia, nel 1880. Misura 23,33 m di lunghezza per 5,25 m di larghezza, e pesa circa 20 tonnellate. Fu costruita intorno all’850 (Museo delle Navi Vichinghe, Oslo).
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I BERSEKER. Erano guerrieri vichinghi, molto feroci, che combattevano seminudi o coperti con pelli di orso.
1 ALBERO. Era in legno di pino. La base si posava su un blocco di quercia, il kerling, incastrato in modo tale da evitare che si muovesse.
2 VELA. Era in lana, quadrata, di circa 10 m di lunghezza. A volte era rinforzata con fasce di tela aggiuntive, a formare un disegno di linee.
3 CARICO. Era riposto nel centro dell’imbarcazione, coperto da una tela impeciata per tentare di proteggerlo il più possibile in acqua.
4 TIMONE. Montato su una
5 REMI. Servivano per le manovre
6 CHIGLIA. Era leggermente
fiancata della nave, vicino alla poppa, era molto manovrabile grazie al perno in legno di salice. Si pensa che il posto di timoniere si trasmettesse ereditariamente.
in acque costiere o nei fiumi. Le diverse lunghezze consentivano ai remi di colpire l’acqua simultaneamente. Una nave poteva avere da 20 a 50 rematori.
curva sui lati, per aumentarne lo spessore nella zona centrale, più pesante. Con forma aerodinamica, l’estremità era a punta per un maggiore scivolamento.
7 SCUDI. Venivano collocati sulla
8 POLENA. Si pensa che la testa di drago avesse il compito di spaventare i landvættir, gli spiriti protettori della terra verso cui si stavano dirigendo.
9 CORDE. Erano in pelle di tricheco. Alcune corde corte legate all’estremità inferiore della vela permettevano di girarla durante la navigazione.
frisata della nave, affinché i guerrieri potessero raggiungerli facilmente; avevano anche una funzione intimidatoria verso gli aggressori.
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L’IMPERATORE OTTONE II CON SUA MOGLIE.
Placca in avorio raffigurante Gesù Cristo che benedice l’imperatore e sua moglie, Teofano, conservata al Museo di Cluny di Parigi. Nella pagina accanto, croce gotica con un’incisione che rappresenta la battaglia di Lechfeld, proveniente da Augusta.
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SPLENDIDO MULTILATERALISMO Il X secolo non fu per l’Europa un secolo di ferro, bensì un vero e proprio rinascimento basato sullo sviluppo dell’economia agricola e sulla creazione di diversi regni che compensarono il potere crescente del Sacro romano impero, nato dalla vittoria di Ottone I sui Magiari. Una tale fioritura culturale e politica in tutti gli ambiti permise di affrontare la sfida dell’arrivo del millennio, con tutte le paure che avrebbe comportato.
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ell’estate del 955, la Sassonia era in fiamme. I Magiari avevano attraversato il confine a gruppi e avevano fatto ritorno all’impero, in una quantità mai vista prima. L’insolito contingente delle forze d’invasione e la presenza di arieti facevano pensare a qualcosa in più di una spedizione di saccheggio come le altre: sembrava piuttosto una conquista militare in piena regola. La crisi mise a dura prova il carattere di Ottone I di Sassonia. A ventiquattro anni, Ottone I successe al padre, Enrico l’Uccellatore, al governo del ducato di Sassonia e del regno di Germania; all’epoca, era già sposato con Editta, nipote di Alfredo il Grande e
sorella di Atelstano del Wessex, e aveva saputo costruire una fitta rete di alleanze, sostenuto dal fratello Bruno, arcivescovo di Colonia, l’ideatore del nascente Stato che si sarebbe creato intorno a lui. Dopo essere rimasto vedovo, si dedicò – come scrive ammirato un cronista – a «dominare pienamente la lettura e a capirla». Parlava slavo e latino, oltre ad alcuni dialetti germanici. Dopo alcuni, pacifici, primi anni di governo, la vita politica si rabbuiò a causa dell’antica rivalità tra Sassoni e Franchi, dei problemi di successione nel ducato di Baviera, per le ambizioni dei famigliari più stretti, della situazione in Italia e, infine, per l’inasprimento del conflitto di frontiera con gli Slavi della 125
SPLENDIDO MULTILATERALISMO
La battaglia di Lechfeld: Sassoni contro Magiari
Sassoni, Turingi e guardia del re Franchi Bavaresi
La battaglia di Lechfeld, il giorno di san Lorenzo nel 955, fu una delle più importanti nella storia della formazione d’Europa. Rinsaldò la presenza dei Magiari in Ungheria e consolidò il Sacro romano impero. L’8 agosto del 955, Ulrico, vescovo di Augusta, incitò la propria gente a rimanere salda nella difesa della città di fronte all’attacco dei Magiari, che volevano occuparla e utilizzarla come base di una grande offensiva contro le terre di Ottone I, duca di Sassonia. Questi, però, aveva raggiunto la regione a marcia forzata con un piccolo esercito di circa 3000 soldati. I Magiari, informati di questo, levarono l’assedio e si diressero verso la sponda del fiume Lech con l’intenzione di tagliare loro la strada. Prima della battaglia, Ottone I definì i Magiari “nemici di Cristo”, palesando, così, la volontà di battersi in difesa della cristianità contro un avversario ostinatamente pagano. La vittoria, ottenuta grazie ai cavalieri loricati, fece arretrare i Magiari verso l’Ungheria, dove, infine, si stabilirono. Sotto, copia della Lancia Sacra, di origine carolingia, che gli imperatori portavano nelle loro spedizioni contro i popoli pagani. A destra, loricati come i soldati che intervennero nella battaglia, in una miniatura del Codex Perizoni (Biblioteca dell’Università, Leida).
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Suevi Boemi
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La carica delle truppe imperiali disperde i Magiari
2 Ottone I
Corrado fa marcia indietro e vince i Magiari
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Unità magiara inviata per tendere un’imboscata
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Truppe magiare
ATTACCO. Ottone I prese l’iniziativa e avanzò sulle rive del Lech, ma i Magiari si scagliarono sulla retroguardia, abbattendo tre delle sette divisioni.
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riva opposta del fiume Elba, i Vendi, che tornarono ad attaccare le fortezze imperiali. Quando Ottone I si stava dirigendo a soffocare una di quelle campagne, giunse la notizia dell’invasione dei Magiari a sud-est.
La battaglia di Lechfeld Per Ottone, scontrarsi con i Magiari era pericoloso, poiché non disponeva che di una ridotta legione di guerrieri a cavallo. Molti duchi non risposero alla sua chiamata; solo pochi, infatti, accorsero in suo aiuto, più per paura di ciò che poteva succedere loro che per lealtà verso il re. Comunque, riuscì a riunire circa 3000 uomini, Suevi, Franchi e Bavari, oltre ai Sassoni, attorno alla Lancia Sacra. Ottone I cavalcò con loro fino alla battaglia. Il 9 agosto 955, mentre avanzava verso sud lungo la riva del fiume Lech, un affluente del Danubio, scorse all’orizzonte il fumo nero dell’accampamento magiaro. A pochi chilometri di distanza si trovava la città di Augusta, i cui abitanti stavano cercando invano di frenare l’attacco ungherese. L’inizio 126
Arcieri magiari dispersero le truppe boeme, provocando anche la fuga dei Suevi
TRUPPE DELL’IMPERO FRANCO ORIENTALE
RESISTENZA. La resistenza franca capitanata da Corrado evitò che lo scontro si concludesse in poche ore. Ottone I si unì al gruppo.
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CONTRATTACCO. Ottone formò una linea di battaglia con i loricati, si mise a capo della truppa, alzando la Lancia Sacra, e sconfisse i Magiari.
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della battaglia non poté essere più sfavorevole per Ottone I e i suoi. I Magiari, con il loro classico movimento avvolgente, si gettarono sulla retroguardia sassone, uccidendo buona parte dell’esercito di Ottone. Resistettero soltanto i cavalieri loricati, quelli che vestivano un’armatura pesante, che Ottone incitò, secondo il racconto di Vitichindo di Corvey, con parole che, ovviamente, annunciavano gli effetti della loro possibile vittoria: «Chi siamo noi per arrenderci davanti a un nemico come quello? Noi, che dovremmo vergognarci per il solo fatto di averlo pensato! Noi, che siamo i padroni di quasi tutta l’Europa!». Non li incitò in nome della Sassonia, e nemmeno della Germania, ma della cristianità. Riuscì, così, a esortare il suo esercito di mercenari loricati, caricò contro i Magiari e li obbligò a fuggire disordinatamente. In quel momento, mostrò tutta la crudeltà possibile, poiché li inseguì con accanimento: i prigionieri non ottennero nessuna grazia, e ovunque si scovassero plotoni rifugiati in qualsiasi nascondiglio, veni-
vano uccisi con lance e frecce. Chi riuscì a fuggire all’affannoso inseguimento morì annegato nelle acque del Lech. Per i Magiari fu questo accanimento contro gli sconfitti il vero disastro, molto più della battaglia in sé. Ottone non ebbe nemmeno pietà dei principi, i quali furono fatti prigionieri: infatti li portò a Ratisbona, insieme al fratello moribondo, dove li fece impiccare nel cortile del palazzo. Senza nemmeno il tempo di assaporare la vittoria, Ottone si diresse subito verso nord con il suo esercito, carico ed esaltato dal sangue, per affrontare gli Slavi che avevano invaso le loro terre capitanati dal leader Stoinef. Li trovò nei pressi del fiume Recknitz e li sconfisse, decapitando il loro capo. In quell’annus mirabilis, il 955, i guerrieri di Ottone I lo salutarono come imperator, titolo latino dalla forte ambiguità: poteva significare un omaggio al re che li aveva portati al trionfo militare, ma poteva anche essere una richiesta di tornare a “restaurare” l’impero in Occidente. Le circostanze si disposero in suo favore. La si-
tuazione in Italia, soprattutto a Roma, era critica, poiché il rinnovato regno di Berengario viveva un momento di grande agitazione politica e sociale. L’elezione del papa Giovanni Ottaviano, figlio e successore di Alberico, un giovane impetuoso che indossò la tiara con il nome di Giovanni XII, permise a Ottone I di intervenire nelle questioni italiane. Occupò con facilità il Regnum Italicum nel 961, mentre Berengario si era barricato nel castello di San Leone. Poco dopo il 2 febbraio 962, Ottone I ricevette dal papa la corona imperiale e fu consacrato imperatore nella Basilica di San Pietro. Così facendo, Ottone I restaurò l’impero d’Occidente, che successivamente sarebbe stato chiamato Sacro romano impero e sarebbe diventato uno dei nuclei della struttura europea per secoli. Esso era composto dalla Germania, dal Regnum Italicum e dalla dignità secolare preminente di un imperatore che si proclamò espressamente protector del papa. Restavano solo da fissare gli obiettivi diplomatici, in particolare con l’impero bizantino; Ottone si dedicò a questo compito con 127
SPLENDIDO MULTILATERALISMO
un’attenzione estrema. Cercò l’alleanza mediante il matrimonio del figlio primogenito con una principessa greca. Un gesto che avrebbe cambiato il senso della storia d’Europa.
Ottone II e il pericolo saraceno
OTTONE III E PAPA SILVESTRO II. Oggetto in
avorio della fine del X secolo con varie scene riguardanti la Gerusalemme Celeste, insieme alle quali vengono raffigurati l’imperatore e il papa (Tesoro della Cattedrale, Aquisgrana).
OTTONE I E LA REGINA EDITTA (pag. 129).
La statua è nota come Herrscherpaar (coppia reale) poiché si è solito identificarla con Ottone I e la moglie Editta. Scultura realista, datata intorno al 1250, che si trova nella cappella esadecagonale della Cattedrale di Magdeburgo, tempio in cui si trova anche la tomba del monarca. 128
Nel 972 una giovane con indosso una tunica pesante, da vera principessa bizantina, ricoperta d’oro e pietre preziose, e accompagnata da un’intimidatoria comitiva di servitori, scrigni con testori e abiti di ricambio, viaggiò fino alla Sassonia per sposare Ottone II, erede del trono del Sacro romano impero. Si chiamava Teofano. Il viaggio era il risultato finale di un elaborato accordo diplomatico tra Ottone I e l’imperatore bizantino Giovanni Zimisce. Il fidanzato, così come suo padre, rimasero ammaliati da quella donna a prima vista. Il contratto matrimoniale, iscritto su un rotolo di pergamena, era dipinto affinché sembrasse seta porpora, e annunciava quelle che sarebbero state senza dubbio le nozze più splendide della storia dei Sassoni, inclusi i loro ricchi parenti inglesi. La Basilica di San Pietro fece da cornice all’unione, ufficiata dal papa in persona. Solo un piccolo inconveniente turbò quel momento memorabile. Un cortigiano linguacciuto, frequentatore assiduo della corte, insinuò il dubbio che la sposa non fosse figlia dell’imperatore, bensì semplicemente la nipote. L’insidia fu smascherata. Ottone I la uccise sul nascere a suo modo: con violenza. Gli era costato troppo concordare quell’unione per rovinare tutto a causa di un dettaglio insignificante. Inoltre, la sposa gli piaceva: era la compensazione perfetta per suo figlio, un giovane fragile, tozzo e dai capelli rossi. Alla sua morte, appena un anno dopo le nozze, Ottone I lasciò un impero consolidato con dei confini sicuri, al quale mancava solo un tocco di dignità reale, e a ciò provvide l’elegante Teofano, la cui sola presenza al fianco del marito, il nuovo imperatore Ottone II, era sufficiente per ricordare ai Sassoni e ai Franchi uno stile politico normale a Bisanzio, ma esotico in Sassonia. Era necessario volgere di nuovo lo sguardo a Roma, che era come dire il labirinto italiano. Le rovine del favoloso passato imperiale romano (palazzi, templi, teatri, bagni) dominavano ancora il paesaggio, anche se si notava il deterioramento dovuto alla scarsa attenzione dei nobili locali, preoccupati per la pirateria proveniente sia dal Nord Africa sia da un enclave posta a sud delle Alpi, nei pressi di Marsiglia, un villaggio di nome La Garde-Freinet, in quella che oggi conosciamo come Costa Azzurra. L’idea che i pirati potessero entrare e distruggere Roma terrorizzava molte persone. Ecco che intervenne l’imperatore. Dopo aver respinto gli attacchi di Magiari e Slavi, era
giunto il momento di rimettere al loro posto quel popolo che gli eruditi a corte chiamarono “Saraceni”, nuovi nemici della cristianità. Ottone II decise di avanzare contro i Saraceni senza tenere conto dei Fatimidi in Egitto che forse non avrebbero visto di buon occhio l’attacco ad alcune basi di questi pirati, che erano al tempo stesso prospere città commerciali. Nell’estate 982, l’esercito imperiale avanzò contro i Saraceni e li accerchiò a Crotone, vicino al mare. Ottone offrì loro battaglia e, sebbene nessuno se lo aspettasse, tranne forse la sua intelligente moglie bizantina, ne uscì sconfitto. Ottone ebbe la fortuna di riuscire a scappare, secondo la leggenda, raggiungendo a nuoto la costa dopo essere stato salvato dalla disfatta da una nave greca. In realtà, riunì una dieta a Verona cui partecipò la famiglia reale al completo: la madre Adelaide, la sorella, la badessa Matilde, la moglie e il figlio, oltre a un gran numero di principi sassoni, franchi e italiani. Era un’illusione: i conflitti sul confine nord dell’impero, dopo la spinta dei Danesi, mostrarono il volto di invasori per i quali avevano già sofferto, in grande misura, i loro parenti delle isole britanniche. Vinto dallo sforzo e dallo sfinimento, Ottone contrasse la malaria, che ne provocò la morte il 7 dicembre 983, quando aveva appena ventotto anni. Lasciò l’impero a un bambino di quattro anni, sotto la reggenza della madre Teofano, «l’imperatrice sempre augusta, sempre amata, sempre apprezzata», come scrisse il vescovo e storico Tietmaro di Merseburgo. Nell’educazione del giovane imperatore ebbero una certa influenza anche la nonna Adelaide e sua zia, la badessa Matilde, senza dimenticare il suo educatore Bernardo, vescovo di Hildesheim, il quale era stato incaricato dall’influente Villigisio, arcivescovo di Magonza. Dal canto suo, Teofano poté sempre contare sull’appoggio di uno dei grandi saggi dell’epoca, il monaco Gerberto di Aurillac, uomo provvidenziale, il quale dimostrò che, alla fine del X secolo, i monaci potevano avere ancora molta voce in capitolo, soprattutto quelli che si riunivano nella grandiosa abbazia di Cluny.
Le riforme monastiche: Cluny Lontano dalla terra del re, in Borgogna, la mancanza di un potere forte aveva scatenato un’anarchica età delle tenebre. Alla violenza dei guerrieri si aggiunse l’avidità di un’aristocrazia locale che aveva bisogno di raggruppare un solido patrimonio in terreni per poter raggiungere la dignità che all’epoca venne definita nobilitas, la nobiltà. Era il dominio su terre e uomini, basato sul concetto familiare per il quale predominava il lignaggio sul clan, vale a dire l’eredità di padre in figlio, seguendo un modello che ben presto sarebbe diventato un assunto politico.
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SPLENDIDO MULTILATERALISMO
L’abbazia di Cluny e la riforma monastica Agli inizi del X secolo, il movimento di riforma monastica iniziò con la fondazione di Cluny. Il suo secondo abate, Oddone, ebbe un ruolo decisivo nel consolidamento del monastero. Nel 910 il duca Guglielmo I di Aquitania cedette un grande possesso fondiario dove l’abate Bernone di Baume decise di costruire un’abbazia in pietra anziché in legno, come si era soliti fare nella regione. Da quel maestoso edificio, generazioni di monaci riformati secondo gli ideali di Cluny, i cluniacensi, irradiavano rettitudine, dimostrando di essere eccellenti propagandisti e consumati praticanti di una politica obbediente a Roma. Il loro obiettivo era diffondere la vera fede affinché divenisse il Credo universale.
COSTRUZIONE A TAPPE.
L’abbazia fu costruita in tre tappe durante il X, XI e XII secolo; con i suoi 187 m di lunghezza, fu il più grande edificio della cristianità del suo tempo.
In quell’atmosfera di cambiamento sociale, veramente rivoluzionario per gli effetti che avrebbe avuto sulla concezione del mondo, fu realizzata una serie di riforme monastiche volte ad attualizzare il messaggio benedettino per adattarlo alle nuove circostanze. La riforma compiuta a Cluny fu decisamente la più importante. Cominciò in modo semplice, quasi in silenzio. L’11 settembre 910, Guglielmo I, duca di Aquitania, cedette all’abate Bernone di Baume un grande possesso fondiario nella diocesi di Mâcon, dove fu eretto il monastero di Cluny. Seguendo l’esempio di Fleury, celebre abbazia sulla Loira, fu deciso di costruirlo in pietra, come se fosse una fortezza, anche se nessuno doveva avere nulla da temere. Il suo secondo abate, Oddone, gli conferì il massimo splendore in un momento in cui era necessario mostrare al mondo il perdurare di una norma antica e scritta, che promuoveva l’esercizio dell’umiltà come una scala che portava a Dio. Per quel motivo, i monaci cluniacensi portavano i capelli ancora più corti di un contadino, tonsurati, e indossavano orgogliosi una tunica nera, 130
semplice e senza ornamenti, avevano sempre il capo chino e lo sguardo fisso a terra, secondo la regola di san Benedetto. Ciò nonostante, il segreto di Cluny, raramente confessato, risiedeva nell’ordine: una vita regolata, in cui si fissavano i cantici di lode al Signore ora dopo ora, i compiti di scriptorium e i lavori agricoli realizzati da decine di contadini assegnati alle terre. La loro sicurezza risiedeva nel potere che il soprannaturale doveva esercitare sui guerrieri violenti e sugli avidi signori della regione, poiché, in virtù della lettera del duca Guglielmo I di Aquitania, l’abbazia era stata dichiarata «libera dal dominio di qualunque re, vescovo, conte o parente del suo fondatore», sotto l’unica protezione di san Pietro e del vicario di Dio sulla Terra. Naturalmente, il papa era troppo lontano per potere assistere i monaci in caso di necessità, pertanto l’abate si trovava da solo di fronte al mondo. Fu questa la sfida più grande del monastero, poiché, nonostante il persistere dell’epoca oscura e l’avvicinarsi del millennio, permise a esso di uscire a testa alta dalle pressioni di quei tempi.
LA DISTRUZIONE.
L’abbazia originale fu distrutta durante la Rivoluzione francese. L’immagine permette di farsi un’idea di come fosse il prodigioso complesso architettonico.
CLUNY III. L’ultima fase della costruzione dell’abbazia, conosciuta come Cluny III – cui appartiene questo deposito
con archi a sesto acuto e il dettaglio di un musicista su un capitello nell’immagine della pagina precedente – fu realizzata sulle fondamenta delle chiese abbaziali di Cluny I e Cluny II.
L’abate Oddone recuperò l’ideale di arbitrato, ereditato dai santi anacoreti e, da quella posizione di neutralità, fu considerato l’intermediario perfetto per dirimere le innumerevoli controversie di un’epoca priva di un’autorità pubblica forte. Questo non riuscì a impedire più di un’aggressione guerriera, persino l’assassinio di alcuni monaci; tuttavia, la fermezza delle sue convinzioni determinò il loro futuro. Questo abate, che la Chiesa elevò agli altari, legittimò l’uso della forza tra quei nobili disposti a sguainare la spada per aiutare chi non l’aveva, i poveri e i viaggiatori che venivano aggrediti nei villaggi e per le strade. Il potere di questo abate e dei suoi seguaci fece reagire i vescovi, invidiosi dell’efficacia di un discorso basato sulla parola. Reagirono promuovendo un movimento di pace e tregua in assemblee dove si riuniva tutto il popolo di Dio. Nella reazione episcopale, furono evidenti le crepe della Chiesa, poiché quei vescovi provenivano da famiglie aristocratiche i cui antenati, dai tempi di Roma, si erano accollati la responsabilità di preservare la so-
cietà cristiana. Reclamavano quella tradizione e il fatto che fosse stata convalidata dagli imperatori romani dai tempi di Costantino. Bisognava convincere gli aristocratici della regione del fatto che la loro proposta fosse più solida di quella dei monaci. Parlando di pace, mettevano in discussione un modo di vivere basato sul saccheggio e sul controllo della violenza armata. L’argomento secondo il quale solo i vescovi erano in grado di esercitare detto controllo, a causa della debolezza del re (imbecillitas regis), diede vita a un movimento in favore della restaurazione del potere reale. In Francia il movimento era diretto dal conte di Parigi, e avrebbe portato alla fine della dinastia carolingia. Fu un evento politico importante, alle porte dell’anno Mille.
Ugo Capeto, re di Francia Il problema politico più significativo sorto negli anni della reggenza di Teofano – anni in cui si consolidarono il monacato cluniacense e i movimenti di pace e tregua di Dio – fu il cambiamento di dinastia tra i Franchi occidentali.
LA TORHALLE, ABBAZIA IMPERIALE DI LORSCH (pag. 132-133). Questa
piccola abbazia è una delle più belle, tra le scarse testimonianze architettoniche che si conservano dell’epoca carolingia. Fu fondata nel 764 e la chiesa venne consacrata con il sostegno di Carlomagno in persona. L’edificio ospitò una grande biblioteca, da cui uscirono importanti codici e documenti. Nell’abbazia furono sepolti alcuni re carolingi. 131
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SPLENDIDO MULTILATERALISMO
Ugo Capeto, il primo re di una nazione di nome Francia REGNO DI INGHILTERRA
Bruges
CONTEA DI FIANDRA
Lilla
CONTEA DI VERMANDOIS IMPERO GERMANICO
Ruan
CONTEA DI TROYES
DUCATO DI NORMANDIA Parigi DUCATO DI BRETAGNA Rennes
Troyes
CONTEA D’ANGIÒ
Digione
Blois
Angers
DUCATO D’AQUITANIA
OC EA NO
DUCATO DI BORGOGNA
CONTEA DI BORBONE
Limoges
CONTEA DI ROUERGUE
ATLANTICO Bordeaux
DUCATO DI GUASCOGNA
REGNO DI NAVARRA
CONTEA DI TOLOSA
CONTEA DI BLOIS
Rodez Tolosa
CONTEA DEL GÉVAUDAN MARCHESATO DI GOTIA
Narbona
MAR
Confine del regno di Francia (987) CONTEA DI MEDITERRANEO Dominio reale BARCELLONA Territori di grandi magnati Altre contee Barcellona
Nel 987, alla morte di Luigi V, soprannominato dai suoi sudditi il Fannullone, i nobili di Francia elessero come nuovo re Ugo Capeto, l’uomo che si faceva chiamare dux francorum. Ugo Capeto discendeva da una lunga dinastia di eroi di guerra, sebbene fosse anche il nipote, da parte della madre (Edvige di Sassonia), del re Enrico I l’Uccellatore. Ciò nonostante, non era carolingio. Lo era, invece, un certo Carlo, duca della Lorena e zio del defunto Luigi V, il quale, quindi, gli dichiarò guerra. Dopo tre anni di scontri cruenti, Ugo ne uscì vincitore e poté finalmente realizzare una nazione di nome Francia, la cui capitale fu Parigi. Per questo, poté contare fin dal primo momento sull’appoggio dell’influente vescovo Adalberone di Laon, che in questa guerra ebbe il ruolo di traditore della causa carolingia. Fin dalle prime fasi del suo regno, Ugo Capeto dovette fare i conti con le leggende che parlavano della fine del mondo visto l’approssimarsi della fine del millennio; le combatté efficacemente ed esse rimasero delle dicerie senza eccessive conseguenze. Nel giorno di Natale del 987 associò al trono e nominò co-reggente il figlio maggiore, Roberto (futuro Roberto II il Pio), il quale, alla morte di Ugo nel 996 gli successe senza esitare, appropriandosi di tutto, sia delle terre sia della corona. Il figlio maggiore del re sarebbe diventato, da quel momento in poi, l’unico erede, una pratica che pose fine alla tradizione franca di dividere il regno tra tutti i figli, premiando solo il primogenito
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Nel 986 morì il re Lotario che, dalla sconfitta subita nove anni prima, era rimasto al potere grazie all’appoggio dei Sassoni; era infatti sposato con Emma, sorella di Ottone II. Gli successe il figlio Luigi V, un giovane frivolo e di scarse capacità che morì pochi mesi dopo essere stato incoronato al trono. La situazione era complessa, poiché l’ultimo discendente carolingio legittimo era il duca della Bassa Lorena, di nome Carlo, come l’illustre antenato Carlomagno. Tuttavia, Carlo non era che un’ombra rispetto al grande predecessore: un uomo incapace di governare, verso il quale i nobili provavano una viva repulsione, nonostante fosse lo zio del re deceduto e avesse, quindi, ragione di reclamare il trono. Pertanto, essi si sentirono autorizzati a cercare un nuovo re tra di loro, contando anche sull’appoggio del vescovo Adalberone di Laon, della famiglia reale, che in quel momento giocò il ruolo del traditore nei confronti della famiglia carolingia per ragioni di Stato. Venne eletto un aristocratico, proprietario di terre a nord della Loira, che si faceva chiamare dux francorum, duca dei Franchi. Il suo nome era Ugo Capeto. In realtà, Ugo era anche padrone di numerose terre a est della Senna e controllava alcune importanti abbazie, come Saint-Martin o Saint-Denis; controllava anche la città di Parigi in qualità di “conte di Parigi”. Era il più ricco e potente tra i signori senza corona. L’elezione e l’incoronazione di Ugo Capeto a Noyon il 3 luglio 987 diedero inizio a una lunga guerra con Carlo, convinto del suo diritto al trono, anche se non poté evitare la sconfitta. Troppi erano gli interessi a favore del suo rivale. Anche la Chiesa aveva deciso di appoggiare il conte di Parigi, nonostante la parola che il papa aveva dato a suo tempo, secondo cui il trono di Francia era destinato solo agli eredi di Pipino e di Carlomagno. Non fu così; Carlo fu imprigionato nel castello che i Capeti avevano a Orléans, dove morì nel 991, lasciando di fatto estinta la dinastia carolingia. Nonostante i disperati tentativi di Ugo Capeto di reclamare l’eredità politica di Carlomagno, compresi i valori dell’impero (era nipote da parte della madre di Enrico I l’Uccellatore), la sua ascesa al trono, in realtà, fu accompagnata da una profonda crisi politica. Ovviamente, come dux francorum aveva una personalità intimidatoria, superba, con un potere smisurato, ma come re non arrivava a equivalersi ai suoi pari sull’altra sponda del Reno. In più di un’occasione gli fu ricordato il trattamento umiliante che dovette sopportare durante l’udienza concessagli da Ottone II a Roma nel 981 quando questi insisté a parlare in latino pur sapendo che Ugo non conosceva quella lingua; invano egli rispondeva con la frase che una volta gli aveva detto l’ultimo re dei Carolingi, che
NOBILI E VESCOVI.
Miniatura degli inizi del IX secolo appartenente a un manoscritto del Breviario di Alarico, raffigurante un nobile e un vescovo ai tempi di Ugo Capeto. La rappresentazione dei tre ordini fa parte dell’immaginario politico sostenuto dai vescovi Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai, propugnatori della sovranità del re di fronte all’ordine feudale (Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
lui era «il secondo dopo il re in tutto il regno». In ogni caso, Ugo Capeto sfruttò la corona per accrescere il proprio potere e la propria ricchezza. Il suo trono delineò in modo graduale e doloroso, seppur decisivo, una concezione della famiglia che distava molto da quella carolingia. Più del clan contava il lignaggio, la discendenza maschile, pertanto non risultò strano che Ugo Capeto incoronasse co-reggente il figlio maggiore, il primogenito. Un modo sgradevole di agire per i fratelli del principe ereditario, ma molto buono per le prospettive della propria dinastia. Così, si venne a creare un modello secondo cui il regno doveva passare di padre in figlio, di generazione in generazione, ampliando il controllo delle alleanze matrimoniali e provocando, pertanto, un lungo dibattito con la Chiesa sul grado di consanguineità che dovevano avere i futuri sposi.
L’anno Mille: Ottone III e Silvestro II Teofano resistette a tutte le pressioni per mettere fine all’impero. Nel 984 i potenti aristocratici si ribellarono con le armi contro di lei, ma tre anni
più tardi furono tutti costretti – compreso il loro capo, il duca Enrico – a servire alla mensa di suo figlio Ottone III, sebbene egli fosse ancora minorenne. La donna morì nell’anno 991, senza riuscire a vedere il suo successore compiere la maggiore età, che giunse solo tre anni dopo, quando gli consegnarono infine le armi e poté indossare definitivamente la corona. Nel 995 Ottone III guidò gli uomini del suo esercito durante il tradizionale rito di passaggio di qualunque re sassone: una campagna contro gli Slavi. Lo videro attraversare l’Elba con orgoglio, come avevano fatto il nonno e il bisnonno. Un gesto che rafforzava l’idea di razza. Fu accompagnato dal margravio Eccardo di Meissen, eroe di quelle terre, un leader sul campo di battaglia, un uomo fedele a un ragazzo che mostrava un’esaltazione smisurata per la sua missione nel mondo. Preso dall’ansia, egli volle essere incoronato imperatore il prima possibile. Nella primavera del 996 si diresse a Roma con quello scopo. La fortuna lo assisteva. Il papa era appena morto e i consiglieri suggerirono il nome di suo 135
SPLENDIDO MULTILATERALISMO
OTTONE III. L’imperatore
ricevette l’appellativo di Mirabilia mundi ed ebbe come tutore politico il monaco Gerberto di Aurillac, futuro papa Silvestro II; sopra, Ottone III in una miniatura del X secolo proveniente da Reichenau (Bayerische Staatsbibliothek, Monaco). Sotto, la corona imperiale (Domschatzkammer, Essen).
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“cugino” Bruno, figlio del duca di Carinzia, uomo di soli ventisette anni ma di elevata cultura e devozione. Fu eletto papa con il nome di Gregorio V, e ricoprì un ruolo chiave in un momento storico decisivo. Egli si incaricò di incoronare imperatore Ottone III, anche se ben presto i due si allontanarono e l’imperatore cercò invece l’amicizia del vecchio consigliere di sua madre, il monaco Gerberto di Aurillac, il quale era diventato vescovo di Reims. Emise un mandato affinché l’uomo diventasse il suo mentore e gli fece recapitare una lettera che creò malcontento intorno a lui («Dimostrate la vostra avversione per l’intolleranza sassone»); Gerberto accettò volentieri: un Franco stava per dettare la politica di un imperatore sassone. Non vi fu un giorno in cui l’abile Gerberto non ricordasse al giovane imperatore qualcosa che lui desiderasse sentire sopra ogni cosa: «Voi siete il Cesare Augusto, imperatore dei Romani, nato dal nobilissimo sangue dei Greci, padrone e signore dell’Italia, della Germania e, sì, anche delle indomite terre degli Slavi. L’impero romano è nostro, nostro!».
Nel 997, Ottone III attraversò le Alpi per la seconda volta per intervenire in un conflitto a Roma, dove un individuo di nome Crescenzio aveva deposto il papa Gregorio V. Giunse fino alla Città Eterna, fece catturare l’usurpatore e ordinò che venisse decapitato insieme a dodici suoi compagni che non si erano mostrati all’altezza di difendere la fortezza di Sant’Angelo. Tuttavia, papa Gregorio V era stato talmente colpito dalla crisi che morì poco dopo. Quella fu l’opportunità tanto attesa dal giovane imperatore. Senza nessun ostacolo, spinse il monaco Gerberto di Aurillac a indossare la tiara, facendolo diventare papa Silvestro II. La mistica di Ottone III giustificò la decisione per lo speciale significato delle tre lettere R che ricorrevano nella carriera dell’insigne monaco: Reims, Ravenna, Roma. In quei mesi di soggiorno romano, mentre si compivano i mille anni dalla nascita di Cristo, Ottone III e Silvestro II pianificarono ogni genere di progetto politico. Parlarono della renovatio (rinnovamento) della “repubblica romana” e promossero un cerimoniale preso dai Bizantini, in ricordo dell’imperatrice Teofano. All’imperatore piaceva indossare un manto ricamato con figure dell’Apocalisse e dei segni dello zodiaco, e non si oppose alla decisione dei membri della sua amministrazione di adottare i titoli dell’epoca romana: persino il suo vecchio maestro, il vescovo Bernardo di Hildesheim, si faceva chiamare primiscrinius. Sognarono di far tornare Roma a essere la capitale del mondo. Inoltre, l’imperatore si interessò alla cabala del papa. In un’occasione affermò: «I numeri codificano le origini dell’universo e servono per spiegarne il funzionamento». Un’espressione che era perfettamente in linea con la principale preoccupazione del momento: conoscere il vero significato del numero magico 1000. L’intero progettò fallì molto rapidamente. Ottone si ammalò di malaria e morì prima della fine del mese di gennaio 1002. L’amico papa Silvestro II si spostò a Ravenna, senza nemmeno sperare che il successore seguisse il progetto di recuperare un impero universale. Morì a Roma solo un anno dopo, in mezzo alle forti pressioni della famiglia di quel Crescenzio che aveva sfidato il potere imperiale sassone. Dei vecchi sogni restava ben poco. Un’idea si propagò ovunque: Ottone III era stato senza dubbio l’ultimo imperatore romano. Ormai si apriva un’altra epoca, con altri personaggi.
Wessex, tra Edgar ed Etelredo II Il regno di Edgar, re del Wessex (959-975), fu insolitamente tranquillo; infatti, il re venne soprannominato “il Pacifico”. Era un uomo sufficientemente coraggioso per dominare la violenza dei guerrieri e prudente al punto giusto da riunire i grandi signori
per una causa comune, che non poteva essere altro che la difesa di fronte agli attacchi dei micel here, le “grandi armate” vichinghe. Inoltre, lui e i suoi figli erano gli unici discendenti del grande Alfredo (rispettivamente bisnipote e trisnipoti); Edgar il Pacifico mantenne questo ricordo vivo in ogni momento, motivo per il quale la Chiesa lo appoggiò sempre. Fu una fortuna, poiché in quegli anni comparve la figura di Dunstano, primo vescovo di Worcester, poi di Londra e, infine, arcivescovo di Canterbury, l’uomo chiave di una profonda riforma della Chiesa sassone, cui alla fine concesse oltre la metà di tutte le terre del regno. Edgar si fece consigliare circa le numerose ordinanze con le quali organizzò i procedimenti dei tribunali che avrebbero esercitato nelle contee. Finché Edgar fu al governo, si mantenne la pace; egli riuscì anche a intervenire nelle terre del nord, del Danelaw, con la nomina di Osvaldo come arcivescovo di York. Tuttavia, il suo regno finì con un gesto mal riuscito. Nel 973, quando volle trarre beneficio dal buon ricordo di Alfredo il Grande e si preparò a incoronarsi imperatore come aveva fatto in Sasso-
nia Ottone I – sposato con Editta, sorella del padre di Edgar, Edmondo I – scelse Bath, una città sparsa di ricordi romani e con un’aura celtica. Il gesto risultò tremendamente mediocre, sebbene fosse riuscito a fare colpo sui contadini che sgomitavano sul fiume per vedere passare la maestosa nave del re. L’impero di “tutta la Gran Bretagna” non era che una chimera. Gli Scandinavi erano ancora forti e la nobiltà manteneva sempre le distanze dagli interessi della corona. Alla sua morte, il witenagemote, l’assemblea di saggi, si riunì senza sapere chi scegliere, dato che il re scomparso aveva lasciato due figli a confronto. Il primo, Edoardo, era debole; il secondo, Etelredo, figlio di Elfrida, la donna più potente del regno, aveva solo sette anni, ma aveva già dato segni di una condotta aggressiva e instabile. La scelta ricadde su Edoardo, ed Elfrida se ne andò risentita. La situazione si aggravò quando Edoardo fu assassinato a tradimento a sangue freddo nel 979, due anni dopo la sua incoronazione; i sospetti si rivolsero all’ambiziosa Elfrida, poiché suo figlio era l’unico altro candidato al trono.
SAN MICHELE DI HILDESHEIM.
La Basilica di San Michele fu un’opera personale di Bernardo, vescovo di Hildesheim, consigliere dell’imperatrice Teofano e mentore di Ottone III. La meticolosa restaurazione permette di scoprire come era un edificio ottoniano: volumi esterni rotondi e massicci, che contengono una luminosa e ampia diafanità spaziale interna. Le due absidi contrapposte (quella occidentale sopra una grande cripta con deambulatorio) ricevono un trattamento identico, essendo articolate sulle relative crociere. 137
L’ARTE OTTONIANA, FUSIONE DI TRADIZIONI
A
rte ottoniana è la definizione utilizzata per descrivere le opere prodotte nel Sacro romano impero tra il X e l’XI secolo. Considerata la continuazione dell’arte carolingia, deve il proprio nome ai tre imperatori germanici, gli Ottoni, che salirono al potere in successione. Il punto di partenza del periodo artistico viene fatto coincidere con i primi successi militari di Ottone I, intorno all’anno 955. All’interno, si fondono tradizioni della tarda antichità, il periodo carolingio e l’arte bizantina. Regioni come la Sassonia, la Baviera o la Lorena divennero centri di produzione di bellissimi manoscritti illustrati, di avori e piccole sculture in bronzo adornate con gemme, cammei e rilievi.
CROCE DI LOTARIO. È incastonata con il cammeo di
Augusto e, sotto, con il sigillo di Lotario in cristallo di rocca. È in oro, filigrana e pietre preziose. È dell’anno Mille e appartiene al tesoro della cattedrale di Aquisgrana. 138
GLI AVORI OTTONIANI.
A sinistra, placca in avorio dell’XI secolo, proveniente da Colonia, Germania. Misura poco più di 12 cm di altezza e circa 9 cm di larghezza, e rappresenta Cristo in Maestà circondato dai simboli degli evangelisti (Museo del Louvre, Parigi). Sotto, scrigno reliquiario del IX secolo, appartenente al tesoro della collegiata di San Servazio di Quedlinburg (Tesoro della Cattedrale, Quedlinburg).
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CORONA IMPERIALE.
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PERSONAGGI BIBLICI. Su quattro
Corona del Sacro romano impero, dell’XI secolo. In oro, con smalti, perle e pietre preziose.
delle placche della corona sono rappresentati personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
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L’APOCALISSE DI BAMBERGA , UN GIOIELLO DELLA MINIATURA Prodotto nello scriptorium di Reichenau tra gli anni 1000 e 1020, l’Apocalisse di Bamberga è un manoscritto di 106 pagine contenente l’Apocalisse di san Giovanni e il Vangelo e appartiene alla categoria di quelli che si conoscono come manoscritti miniati. Attualmente si trova all’interno della Staatsbibliothek di Bamberga, Germania.
2
MINIATURE A PAGINA INTERA.
Queste immagini appartengono alla prima parte del manoscritto, contenente il testo dell’Apocalisse o Rivelazione di san Giovanni, con 50 miniature a pagina intera o inserite nei passi scritti.
LE FIGURE. Presentano una schematizzazione il cui proposito è di mettere in evidenza il contenuto spirituale degli avvenimenti; illustrazioni a pagina intera e la sobrietà della decorazione fanno risaltare il personaggio come centro dell’azione.
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SPLENDIDO MULTILATERALISMO
La battaglia di Maldon, evento storico e letterario Nell’agosto dell’anno 991, a Maldon, a nord dell’estuario del Tamigi, si svolse un’importante battaglia nella quale Olaf Tryggvason sconfisse il conte sassone Byrhtnoth, che morì come un eroe nazionale. La battaglia di Maldon fu una delle tante conseguenze della disastrosa politica dei regni sassoni alla morte di Alfredo il Grande. Le continue liti e cospirazioni favorirono l’arrivo di spedizioni vichinghe, fomentate da esiliati sassoni scontenti. In una di queste, una potente flotta comandata da Olaf Tryggvason percorse la costa fino a raggiungere Londra: una dura sconfitta per la casa reale sassone. La battaglia venne cantata in un poema epico di 325 versi di grande bellezza descrittiva, sebbene sia arrivato a noi senza inizio né fine. La parte conservata comincia con i Sassoni che si preparano alla battaglia; dopodiché segue una lunga descrizione dell’eroe, il conte Byrhtnoth. Il poema fu conservato in un unico manoscritto, che fu distrutto dalle fiamme nel 1731 insieme a due importanti codici della Biblioteca Cottoniana. Per fortuna esisteva una trascrizione realizzata alcuni anni prima e pubblicata da Thomas Hearne nel 1726. A destra, illustrazione dell’Esauteco di Aelfric, dell’XI secolo, proveniente dalla Biblioteca Cottoniana (British Library, Londra).
Così Etelredo II (979-1014) divenne re d’Inghilterra. I suoi sudditi si burlavano di lui in modo pungente, storpiandone il nome, che significava “nobile consiglio”, per chiamarlo “l’Indeciso”. Una volta cresciuto, indolente e malaticcio, con frequenti scatti di collera, non fu in grado di comprendere la situazione che si stava creando lungo il Mare del Nord.
La figura di Olaf Tryggvason In questa atmosfera di rilassatezza, entrò nello scenario della storia inglese la singolare figura di Olaf Tryggvason, un capitano vichingo di origine norvegese, con la fama di essere un indovino e un negromante. Era tale il suo prestigio che nell’anno 991 riuscì a riunire una grande flotta per saccheggiare le coste del Kent e dell’Essex. In agosto, mentre si trovavano accampati nei pressi di Maldon, a nord dell’estuario del Tamigi, Tryggvason e i suoi guerrieri vennero aggrediti dagli Inglesi; sfidati ad attraversare l’isola in cui erano ormeggiate le loro navi, lottarono ferocemente. Così ebbe inizio, il 10 agosto, la decisiva battaglia 140
di Maldon, nei pressi del fiume Blackwater, una battaglia che fu immortalata nelle cronache sassoni, nelle miniature dei manoscritti medievali e anche in un famoso poema epico. La sconfitta dei Sassoni capitanati dal conte Byrhtnoth dell’Essex per mano dei Vichinghi diede inizio a una nuova epoca nella storia dell’Inghilterra. Alle loro spalle, sul campo di battaglia, si erano lasciati il cadavere di Byrhtnoth, un valoroso conte dai capelli biondissimi che era rimasto al suo posto con tutti i suoi uomini in mezzo alla carneficina, allo scambio di frecce e di asce, rifiutandosi di abbandonare il luogo. La sconfitta sassone a Maldon lasciò a Etelredo II poche opzioni. Riuscì a riscuotere diecimila denari in imposte – il cosiddetto Danegeld – che consegnò ai Vichinghi per conservare la pace. Il tipo di governo voluto da Etelredo II era sotto gli occhi di tutti. Nel 994, Olaf Tryggvason fu cacciato da Londra dai tenaci abitanti della città; durante la fuga, devastò il Wessex finché non ricevette un sostanzioso tributo. Fortunatamente, quello stesso anno, il 994, egli abbracciò il Cristianesimo e fece ritorno
L’unione tra Etelredo II ed Emma avrebbe dato una svolta insospettabile alla storia, poiché, prima del primo anniversario di nozze, per guadagnarsi la fedeltà della nobiltà sassone, Etelredo fece uccidere i nobili normanni al servizio della regina. Il massacro provocò una feroce vendetta, un'invasione vichinga capitanata dal re danese Svend I, il quale nel 1013 conquistò l’Inghilterra creando un’importante dinastia danese nella regione.
La politica di Canuto il Grande
in Norvegia con la promessa di non attaccare più i regni sassoni d’Inghilterra, promessa che mantenne, anche se questo non significò che molti altri Vichinghi avrebbero fatto altrettanto. Etelredo resistette grazie all’impegno di due uomini della Chiesa che si mostrarono particolarmente interessati a prestare il proprio aiuto al monarca: il monaco e grande scrittore Aelfrico, che si spostava nel Wessex credendosi il nuovo Alcuino e dedicava il suo tempo a dissertare sulla composizione perfetta della società cristiana, ternaria ovviamente; in secondo luogo, Vulstano, vescovo di Londra (996-1002), successivamente di Worcester (1002-1016) e, al tempo stesso, arcivescovo di York, che si dedicò personalmente a promulgare la lex per il rex. Fu probabilmente quest’ultimo a convincere Etelredo a sposarsi per la seconda volta. La donna scelta per lui non poteva essere migliore: si trattava di Emma, una sorella del duca Riccardo II di Normandia, sulla quale, poi, sarebbe stato scritto l’Encomio della regina Emma, un’opera importante per seguire da vicino e capire gli avvenimenti di un periodo così decisivo.
L’errore di Eltelredo II incoraggiò Svend I, noto come “Barba forcuta”, figlio di Aroldo Blatand “Dente blu”. Egli godeva di una terribile fama tra i Sassoni del continente. Il vescovo Tietmaro di Merseburgo lo accusò di essere «un distruttore, non un governante». Ciò significava, però, mal interpretare l’agire politico di Svend, sebbene fosse vero che ricorresse al saccheggio e alla distruzione come modo di governare. Fu chiaro durante la guerra che combatté contro Olaf Tryggvason per il controllo della Norvegia. Nell’anno 1000, senza dare alcun peso alle dicerie sulla fine del mondo, un esercito di navi guidato da alleati scandinavi, Norvegesi inclusi, si unì alla flotta di Barba forcuta allo scopo di sottrarre a Tryggvason ciò di cui qualsiasi capo vichingo aveva bisogno per sopravvivere: il controllo delle rotte marittime del Mare del Nord. La battaglia fu un totale successo per gli alleati e si concluse con la morte di Tryggvason alla maniera vichinga: si raccontò che, cadendo dalla sua nave, si mise lo scudo sulla testa per scomparire tra le acque. Rimasero dunque faccia a faccia Etelredo II, re del Wessex, e Svend, l’eroe vichingo del momento. Le prime azioni dimostrarono che cosa fosse la guerra in quegli anni: distruzioni di monasteri – compreso quello di Wilton, dove riposavano i corpi dei numerosi membri della famiglia reale sassone, tra cui quello di Editta, la sorella di Etelredo II, da poco proclamata santa; razzie indiscriminate di città e villaggi; granai dati alle fiamme, morte e desolazione. Tuttavia, a poco a poco, si fece largo l’idea che fosse possibile un dialogo tra i due contendenti: uno saccheggiava, l’altro esercitava il potere sui contadini, che venivano impoveriti affinché si potesse pagare un enorme Danegeld. La situazione si fece tesa al massimo quando Etelredo approfittò della diserzione di un capo vichingo di nome Thorkell per sfidare Svend. La risposta fu tremenda, come tutti potevano aspettarsi tranne, forse, il confuso re sassone. Nel 1013, Barba forcuta sbarcò a York, città che si era dimostrata fedele alla sua causa, e riuscì a sottometterla immediatamente. Marciò contro Etelredo II, il quale si rifugiò con moglie e figli, insieme al cognato Riccardo, il
IL CONTE BYRHTNOTH.
Rappresentazione storicista dell’eroe sassone che affrontò i Normanni nella battaglia di Maldon, perdendo la vita.
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SPLENDIDO MULTILATERALISMO
LA FORTEZZA DI FYRKAT. È la fortezza
circolare vichinga più piccola della Danimarca. Si trova sulla Penisola dello Jutland. Originariamente, era in legno e blocchi di paglia. Le muraglie e il fortino circolare sono stati restaurati, come anche il tracciato antico delle strade. All’interno della muraglia si trovavano 16 case, raggruppate di quattro in quattro attorno a un cortile.
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duca di Normandia. Così facendo ebbe salva la vita, ma disonorò il nome della dinastia. Non l’avrebbe mai più recuperato. Nel 1014, alla morte di Svend, si intravvide una via d’uscita e molti nobili sassoni scorsero la possibilità di rifarsi, esaltando ciò che ancora restava del casato di Cerdic: una politica mistica, fuori dal tempo e, sicuramente, fuori luogo. Svend I aveva lasciato un figlio primogenito che lo superò in tutto, Knud, Canuto il Grande. Ancora più adatto del padre e del nonno – il che è tutto dire – per incutere terrore con la sola presenza. Prima di decidersi a sbarcare in Inghilterra, rimandò in patria tutti gli ostaggi mutilati. La scena non poteva essere più terrificante. Così era pronto a governare il nuovo signore del Mare del Nord, un altro capo vichingo leggendario. Nel frattempo, l’arcivescovo di York, il devoto e colto Wulfstan, avvertì che i Danesi potevano essere le truppe dell’anticristo, aggiungendo: «Sarà un mondo crudele, con una sfrenata idolatria, un’era di asce, un’era di spade, di scudi distrutti, un’era di vento, un’era di lupi, prima che l’età dell’uomo si distrugga».
Tuttavia, Canuto il Grande (1016-1035) decise di non interpretare quel ruolo: non era la reincarnazione di Odino né dell’anticristo, per quanto fosse spietato. Non aveva intenzione di rendere il proprio regno «un’era di lupi», sebbene non mancasse al suo impegno di riscuotere imposte e di impoverire i proprietari terrieri, seguendo il modello vichingo. Questa presa di posizione, però, durò finché non si convinse del fatto che la politica fosse meglio della guerra. La figura chiave in questo cambiamento decisivo fu proprio Wulfstan, negli stessi anni in cui il saggio stava scrivendo un trattato di morale politica, una riflessione sulle responsabilità di coloro che devono guidare il popolo sulla buona strada. Ascoltandolo, Canuto iniziò a comprendere qualcosa che per molti risulta ovvio: in qualsiasi conflitto culturale, la Chiesa aveva sempre la carta vincente. La teoria del buon governo del vescovo lo portò a rispettare tutte le leggi di Edgar e di Etelredo II; ciò significava riconoscere la memoria del grande Alfredo e, con essa, la supremazia del casato dei Cerdic. Per legittimare il cambiamento di posizione, sposò Emma, la vedova di Etelredo II, per acquistare privilegi e classe. Ed era questo ciò di cui, a conti fatti, Canuto aveva bisogno, molto più che di navi, anelli d’oro o grandi elogi da parte dei poeti; ne aveva già, a decine. Da quel momento si convertì alla Chiesa e divenne un uomo di pace. Arricchì tutti i monasteri e ne fondò di nuovi, facendo dell’Inghilterra la sua dimora preferita. Ottenne il suo momento di gloria durante il viaggio a Roma nel 1027, in occasione dell’incoronazione dell’imperatore. Lì, circondato dai massimi esponenti del momento, poté dunque esercitare il ruolo di uomo di Stato internazionale. Nella città che un tempo era stata il centro del mondo, mostrò che all’estremità nordoccidentale d’Europa, nelle misteriose regioni di Islanda, Norvegia, Danimarca o Svezia, viveva una civiltà che aveva abbracciato il Cristianesimo ed era diventata europea. Il mondo era sul punto di cambiare in modo decisivo. Con Canuto si chiudeva un’epoca e ne iniziava un’altra, completamente diversa.
Enrico II e Roberto il Pio Mentre tutto ciò accadeva in Inghilterra agli inizi dell’XI secolo, nel continente gli occhi erano fissi su due personaggi determinati: l’imperatore sassone Enrico II e il re di Francia, Roberto; gli altri nobili non contavano molto, all’epoca. I due personaggi avevano lo stesso sangue, cugini di un bisnonno in comune; avevano la stessa età, pochi mesi in più o in meno; nell’anno 1000 avevano ventisette e ventotto anni, rispettivamente, ed entrambi avevano poco tempo per seguire le fanta-
sie dei loro predecessori sul trono. Furono pratici, e consegnarono le redini della società ai vescovi, i veri signori del momento. Enrico II il Santo (1002-1024) era duca di Baviera, figlio di Enrico II il Litigioso e nipote di Enrico I, progettava da sempre un piano su come sottrarre la corona al fratello Ottone I. Fu eletto a Magonza durante una dieta convocata a tale scopo dai potenti di Franconia, Alta Lorena e Baviera, e proprio lì venne incoronato dall’arcivescovo Willigis, ricevendo in seguito gi omaggi dei signori sassoni. Dovette attendere, però, circa dieci anni per essere unto con il crisma imperiale dal papa. Affinché capisse l’importanza di tale evento, gli fu recapitato un globo a forma di mela divisa in quattro parti da pietre preziose e coronata con una croce d’oro, insieme agli abiti per l’incoronazione, tra cui un magnifico mantello, lo scettro e la corona imperiale. Sposò Cunegonda e fin dal primo momento fu presentato come un modello di marito cristiano; un’idea che crebbe con il passare del tempo per il modo esemplare in cui conduceva la sua vita co-
niugale. Questa fu l’immagine restituita dalla biografia scritta un secolo dopo la sua morte, in occasione della sua canonizzazione, e confermata dalla figura che venne descritta della moglie Cunegonda, la cui Vita, scritta intorno al 1200, insistette sui valori che elevarono anche la donna agli altari. Valori di castità forse esasperati dal fatto che l’imperatore Enrico morì senza figli, lasciando il trono nelle mani della casata di Franconia, meno sensibile alle idee dei papi di Roma, anzi, apertamente contraria a esse. Gli anni d’oro dell’imperatore Enrico II e della moglie Cunegonda furono anche gli anni d’oro del potere dei monaci dell’abbazia di Cluny e dei vescovi, che gestivano la vita sociale. Enrico era stato educato nella cattedrale di Hildesheim e fu amico personale degli abati Odilone di Cluny e Riccardo di Saint-Vanne. Roberto, re di Francia, non fu canonizzato come Enrico, suo cugino, ma alcuni fecero di tutto per farlo passare per santo e, perlomeno, riuscirono a dargli il soprannome di Pius, “il Pio”; in particolare, il monaco Helgaud dell’abbazia di Saint-Be-
ROBERTO IL PIO.
La scomunica di Roberto il Pio, olio su tela di Jean-Paul Laurens (1875), ricrea con spirito storicista il momento in cui Roberto II, figlio di Ugo Capeto, fu scomunicato da papa Gregorio V dopo essersi rifiutato di ripudiare la seconda moglie e lontana cugina, Berta di Borgogna (Musée d’Orsay, Parigi).
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Enrico II, imperatore di Germania e santo
1
L’imperatore Enrico II fu incoronato dall’arcivescovo Willigis dopo che i grandi di Franconia, Alta Lorena e Baviera lo elessero alla morte di Ottone III.
6
Enrico II era un uomo colto, che dominava in modo poco comune l’arte della parola e della persuasione; fin dal primo momento manifestò grande attenzione verso la Chiesa, posizione che si accentuò dopo il matrimonio con Cunegonda. Per il modo esemplare in cui vissero il loro matrimonio furono venerati come santi dalla Chiesa. Eugenio III canonizzò Enrico nel 1146. Alcuni anni dopo, intorno al 1200, fu scritta un’opera sulla vita di Cunegonda, in cui si afferma che ella «consacrò la sua verginità al re dei cieli e la conservò fino alla fine con il consenso del suo casto sposo». A destra, mantello decorato con stelle dell’imperatore Enrico II. Sotto, dettaglio di un rilievo della tomba che il re condivide con la moglie Cunegonda nella Cattedrale di Bamberga.
5 MANTELLO DELL’INCORONAZIONE. Per desiderio dell’imperatore Enrico II Bamberga, in Franconia, divenne il centro culturale da cui si diffondeva l’arte regia. Ne è una prova il sontuoso mantello di stelle confezionato per l’incoronazione del re, conservato in questa località.
noît-sur-Loire (o di Fleury), negli anni che seguirono la morte del re, scrisse la sua biografia come fosse la vita di un santo. Nel 1016, Roberto Capeto ne lodò la magnificenza in tutte le città che decise di visitare. Fu mostrato come un santo, che faceva sedere i poveri alla propria mensa, e si rincorsero addirittura voci secondo cui potesse curare la lebbra. Andava tutto alla perfezione nel suo regno finché non si ritrovò nel bel mezzo del conflitto ideologico del momento. I vescovi erano costernati e, poiché il loro antico legame con i Franchi e persino la loro familiarità con i re carolingi permetteva loro di alzare la voce più del consentito, si lamentarono davanti al re dei monaci di Cluny, in particolare dell’abate Odilone, il quale venne accusato di essere il «signore di un ordine bellicoso». Ne approfittarono anche per protestare contro le assemblee di pace e tregua di Dio che venivano celebrate al sud, poiché ritenevano si trattasse dell’espressione di una pericolosa demagogia. Il principale sostenitore di questo movimento era l’anziano vescovo di Laon, Adalberone, le cui 144
azioni politiche avevano fatto sì che Ugo Capeto salisse al trono. Ora, in un testo di elogio al re Roberto, Carmen ad Robertum regem, avvertiva del pericolo rappresentato da Cluny, dalle assemblee vescovili del sud e dalle eresie urbane, proponendo di risuscitare l’ordine carolingio, che lui stesso aveva contribuito a seppellire alcuni decenni prima. Il passato era chiuso per sempre. Il vecchio Adalberone aveva ben ragione di lamentarsi: «Tutti gli ordini sociali sono cambiati!». Quelle parole erano la risposta ad altre parole, quelle dei monaci e dei visionari che parlavano della fine del mondo; ma erano anche la risposta a un mondo in trasformazione: avvertivano di qualcosa che si stava davvero muovendo all’interno della società che, irrefrenabilmente, si stava affermando in silenzio. Una rivoluzione.
I signori della guerra La debolezza dei re era solo un aspetto di ciò che, all’epoca, venne definito res novae, “cose nuove”, e che alcuni storici moderni classificano come rivoluzione feudale. L’aspetto più evidente, tuttavia,
3
1 SOVRANO SUPREMO. L’iscrizione che circonda il mantello è l’espressione del sovrano supremo. La simbologia ne rafforza il carattere magico, che pone l’imperatore sopra tutti gli altri sovrani.
3
IL SUCCESSO MILITARE. I rimandi alle fatiche di Ercole simboleggiano i successi militari dei Carolingi e degli Ottoniani come mezzo di cristianizzazione dei popoli pagani.
2
3 IL MITO DELL’IMPERO. La figura centrale circondata dagli emblemi dei quattro evangelisti simboleggia il mito dell’impero, l’aspirazione all’universale in un mondo in piena disgregazione.
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LE COSTELLAZIONI. Rivestono il corpo dell’imperatore come se si trattasse di un grande firmamento, allo scopo di rafforzare l’idea esposta da Scoto Eriugena per cui la vita politica è un riflesso del cosmo.
4
Il mantello è il racconto simbolico delle insegne del potere imperiale, nella sua aspirazione a trasformare l’impero nel mito per il quale l’Occidente trova di nuovo l’unità secondo il disegno divino (Museo Diocesano, Bamberga).
era il devastante impulso di erigere fortezze ovunque fosse possibile, una tendenza che gli Italiani, nel loro latino imbastardito, definirono incastellamento. Un’ossessione che rifletteva qualcosa in più del semplice timore verso le aggressioni vichinghe, magiare o saracene: era un modo per indicare una terra senza re. I castelli, con le loro imponenti difese merlate, furono costruiti espressamente per dare rifugio alle loro guarnigioni e a nessun altro. Le piccole dimensioni di queste prime fortificazioni non permettevano affatto, in caso di attacco, di poter dare riparo alla popolazione rurale, che rimaneva di conseguenza totalmente alla mercé dei saccheggiatori. Costruiti inizialmente in legno, ben presto i castelli furono eretti in pietra. La loro sagoma in cima a qualsiasi poggio solitario cambiò il paesaggio, dando un senso a porzioni di territorio che fino a pochi anni prima sarebbero state considerate inservibili. Costruiti come avamposti, i castelli divennero il simbolo di un’occupazione militare. Per renderla effettiva, i nobili dovettero fare conto su individui armati che
LO ZODIACO. I segni dello zodiaco, legati alle costellazioni, mostrano la dimensione sacra e liturgica che governa la condotta del monarca.
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4
LA CROCE. Rappresenta un altro simbolo del potere invincibile del monarca.
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montavano a cavallo, definiti nei testi milites, cioè cavalieri. La loro immagine terrificante segnò la storia europea agli inizi dell’XI secolo. L’identità reale di questi cavalieri variava a seconda della regione; evidentemente, molti di loro provenivano dai gradini bassi della nobiltà, o addirittura dal mondo contadino. I nobili li riunirono nei castelli e diedero loro vitto e alloggio, e un compito. In cambio dovevano prestare loro omaggio e diventare loro vassalli. Il loro primo dovere era provvedere, con il nobile della regione, alla perlustrazione del distretto, mostrando dall’alto della sella la superiorità degli uomini armati su coloro che non potevano avere armi: i poveri, pauperes in latino. Nelle ronde, essi sorvegliavano i contadini, imponendo loro riscossioni sempre più pesanti. Era una coercizione, per impossessarsi della parte più sostanziosa delle rendite agricole. Non contenti, i nobili si servivano di questi cavalieri per radunare i contadini nei villaggi, realizzando così il vecchio sogno di ogni proprietario terriero: avere tutti i lavoratori riuniti e controllati. 145
146
APPENDICI L’Europa dell’anno Mille Cronologia comparata: Europa, Mondo islamico, Altre civiltà Liste dinastiche Bibliografia Indice analitico Immagini
148 150 152 154 155 159
NELLA PAGINA ACCANTO. Illustrazione raffigurante l’invasione danese in Inghilterra contenuta nel manoscritto Vita,
Passione e Miracoli di sant’Edmondo, del 1130 circa (Morgan Library & Museum, New York).
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APPENDICI
L’EUROPA DELL’ANNO MILLE
S
I
Confini del Sacro romano impero (Ottone III, 983-1002)
I E TT TI I P OT C S
SV ED E S I Popolazioni Capitali e centri urbani Spedizioni scandinave Battaglie
E G E V R Kaupang NO
MA R E DE L
REGNO DI SCOZIA
NOR D
I R L A N DA Dublino Limerick
REGNO DI DA N I M A RCA
York
Cork
Roski
Chester
GALLES
REGNI ANGLOSASSONI Maldon
Londra
DUCATO DI NORMANDIA Ruan B R E TAG NA Parigi
A T L A N T I C O
Nantes
Tours
Poitiers
Poitiers
Santiago di Compostela León
REGNO DI LEÓN
REGNO DI N AVA R R A
Roncisvalle
Pamplona
C A L I F FAT O D I C O R D O VA
Siviglia Guadalete
Reims
Magonza Treviri Strasburgo
C O N TE E CATA L A N E
BAV IERA
Ginevra Lione
Marsiglia
Pisa
Tarifa Tangeri Ceuta
Ravenna Firenze
S TAT I PONTIFICI Sassari
DU DI SP Roma
Nap
SAR D E G NA Murcia
Almería
Milano Verona Venezia Genova
Cordova Malaga
Mon Lactar
Oristano Cagliari
M A R M E D I T E R R A N E O Palermo
Salé Fes
M A U R E TA N I A
148
Salis
CAR
REGNO D ’ I TA L I A
Arles
Barcellona
Valenzia
Ratisbona Lechfeld
REGNO DI BORGOGNA Tolosa
BO
Verdun
Châlons
Tarragona
Toledo
IMPERO TEDESCO
Aquisgrana
REGNO DI FRANCIA
CAS T I G L I A Saragozza
Mérida
Orléans
DUCATO D I AQU I TA N I A Bordeaux
Oviedo
Porto
Paderborn Magdeburgo
Maastricht Colonia
O C E A N O
Braga
Lubecca Amburgo
NUMIDIA
Tunisi
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I
ICI NN FI
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REGNO DI POLONIA Breslavia
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Praga
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Teodosia (Caffa)
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S E R B I DUCATO D I S P O L ETO
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IMPERO BULGARO
Sinope
M AC ED O N I A
Adrianopoli Napoli
Bari Brindisi
Mons Lactarius
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Serdica
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Novgorod Pskov
cca
O CO
Ladoga
Durazzo
Trebisonda
Costantinopoli Nicomedia
Tessalonica
IMPERO BIZANTINO Smirne Atene Reggio
Efeso Mileto
Antiochia
Siracusa
RO D I
149
CRONOLOGIA COMPARATA EUROPA 476-569
569-656
656-751
• Fine dell’impero romano d’Occidente • Teodorico il Grande si impadronisce
• I Visigoti conquistano l’Andalusia ai Bizantini
• Pipino di Herstal, maggiordomo
dell’Italia
• Battesimo di Clodoveo I
• La Chiesa istituisce la decima
• Clodoveo I sconfigge i Visigoti a Vouillé • Regno di Giustiniano I il Grande • I Longobardi invadono l’Italia
• Pontificato di Gregorio Magno
Fatti culturali:
Fatti culturali:
• Morte di Boezio • San Benedetto fonda il monastero di Montecassino • Costruzione di San Vitale a Ravenna
• Regno di Dagoberto I San Colombano •fonda i monasteri di Luxeuil (Francia) e di Bobbio (Italia)
di palazzo di Austrasia Martello sconfigge •gliCarlo Arabi nella battaglia di Poitiers • L’imperatore Leone III sconfigge gli Omayyadi nella battaglia di Akroinos Restrizioni al commercio •degli Ebrei nella Hispania visigota Ultima grande peste del Medioevo • Fatti culturali: Ultimi atti dei re merovingi riportati • sui papiri
• Morte di Beda il Venerabile
MONDO ISLAMICO 476-569
569-656
656-751
• Diffusione del Mazdeismo nell’impero sasanide
• Guerre dell’imperatore Eraclio contro i
• Inizia la conquista del Maghreb da parte degli Arabi
• I Ghassanidi rilevano la tribù di Salih nello Stato vassallo della Siria
• Egira di Maometto: inizio del calendario
• Gli Arabi conquistano la Penisola Iberica
• I Persiani cacciano gli Etiopi dallo Yemen • Fondazione di una Chiesa nestoriana • Regno
di Cosroe I, il più celebre dei re sasanidi
Persiani Sasanidi islamico
• Gli arabi conquistano Siria, Palestina, Iran ed Egitto
• Fondazione di al-Fustat, la prima capitale d’Egitto sotto il controllo arabo
• Dinastia degli Omayyade di Damasco • Ha inizio il califfato abbaside
di Baghdad
• Morte di Maometto
• Inizia l’espansione militare islamica verso l’Asia. Conquista di Bukhara e Samarcanda
Fatti culturali:
Fatti culturali:
• Stesura del Corano
• Prime monete arabe
ALTRE CIVILTÀ 476-569
569-656
656-751
Asia: Introduzione dei primi scritti •buddisti in Giappone
Asia: In Cina finisce il regno •delle dinastie del Nord e del Sud.
Asia: Regno di Song-Yuan: apogeo •della letteratura cinese
• Gli Unni controllano il nord dell’India Giunge in Cina Bodhidharma, •il fondatore del Buddismo Zen Compare il Yupian, uno dei primi •dizionari della lingua cinese Prospera la matematica in India: •Aryabhata inventa il sistema decimale
Il Paese viene riunificato sotto la dinastia Sui
Costruzione del Gran Canale •in Cina Diffusione del Buddismo •in Giappone Si consolida l’impero •tibetano
• America: Apogeo della civiltà dei Maya 150
Morte del grande matematico •indiano Brahmagupta Buddismo, religione •diIlStato in Giappone America: Splendore di Copán, •grande centro scientifico dei Maya, e di Tikal, la città più grande d’America in quel periodo
751-843
843-955
955-1020
• Il papa Stefano II incorona Pipino il Breve, re dei Franchi
• Gli Arabi conquistano Bari e giungono a Roma
• Sconfitta di Carlomagno nella battaglia di Roncisvalle
• Parigi viene assediata dai Normanni
• Prime incursioni scandinave in Inghilterra
• I Magiari attaccano la Baviera e occupano la pianura pannonica
• Incoronazione di Ottone I • Battesimo di Stefano d’Ungheria • Ugo Capeto, re di Francia Invasione dell’Inghilterra •per mano danese
• Incoronazione di Carlomagno imperatore • Trattato di Verdun • Nell’Admonitio generalis, Carlomagno
regola per la prima volta il prestito a interessi Fatti culturali:
• Vittoria di Ottone I sui Magiari a Lechfeld • I Normanni di Rollone si stabiliscono in Normandia Fatti culturali:
• Costruzione della Cappella palatina di Aquisgrana
• Guglielmo di Aquitania fonda il monastero di Cluny
751-843
843-955
• Gli Arabi conquistano Bari e Palermo • Il califfo abbaside Al-Mansur
fonda la città di Baghdad
• Muore Harun al-Rashid,
il quinto e più famoso dei califfi abbasidi
• Fondazione di Fes Fatti culturali:
• Traduzione in arabo delle opere di Euclide • Gli Arabi adottano i numeri indù • Trattato del matematico Al-Khwarizmi
commerciali •di Trattati Venezia con l’impero d’Oriente
Fatti culturali:
• Viene imposta la legge della Pace di Dio in Aquitania un grande movimento •di Inizia costruzione di chiese in Occidente
955-1020
• Gli Arabi invadono la Corsica • I Carmati saccheggiano
• Distruzione di Santiago di Compostela per mano di Almanzor
• Abderraman III, primo califfo Omeya
egiziana come Al Qahira, Il Cairo
La Mecca e si impossessano della Pietra Nera della Kaaba di Cordova
Fatti culturali: Traduzione in arabo •della Metafisica di Aristotele Costruzione della moschea •di Ibn-Tulum, al Cairo
• Traduzione in arabo della Geografia di Tolomeo
• Dinastia dei Fatimidi in Egitto • I Fatimidi rinominano la capitale
• I Turchi mettono fine alla dinastia dei Samanidi iraniani • Tappa finale del califfato degli Omayyadi a Cordova Fatti culturali:
• Fondazione dell’Università del Cairo, la più antica del mondo
751-843
843-955
955-1020
L’imperatore cinese sottomette •a unAsia: monopolio di Stato la cartamoneta,
Formazione dello Stato •deiAsia: Karmatici a nord dell’India
Asia: Avvento della dinastia •Song in Cina
• Epoca d’oro del regno dei Kitan in Mongolia (dinastia Liao)
Il sultano ghaznavide Mahmud di •Ghazna conquista l’India e il Pakistan
• Viene deposto l’ultimo imperatore Tang Il Vietnam ottiene l’indipendenza •dalla Cina
• Nascita dell’impero Khmer in Cambogia America: Arrivo dei Vichinghi •scandinavi a Vinland (Nord America)
detta moneta volante
La carta si diffonde dalla Cina fino •al mondo musulmano e in Europa
• Primo libro stampato in Cina • America: I Toltechi dominano la maggior parte del Messico centrale
primi Inca si stabiliscono •neiI pressi di Cuzco
• La Chiesa ortodossa diventa la Chiesa ufficiale russa
151
APPENDICI
LISTE DINASTICHE RE VISIGOTI Ariarico Aorico Geberico Alavivo Fritigerno Atanarico Alarico I Ataulfo Sigerico Vallia Teodorico I Torismondo Teodorico II Eurico Alarico II Gesalico Amalarico Teudi Teudiselo Agila I Atanagildo Liuva I Leovigildo Recaredo I Liuva II Viterico Gundemaro Sisebuto Recaredo II Suintila Sisenando Chintila Tulga Chindasvindo Recesvindo Vamba Ervige Egica Witiza Roderigo 152
RE OSTROGOTI 257-300 300-330 330-350 350-376 376-380 380-381 395-410 410-415 415 415-418 418-451 451-453 453-466 466-484 484-507 507-511 526-531 531-548 548-549 549-551 551-567 567-572 572-586 586-601 601-603 603-610 610-612 612-621 621 621-631 631-636 636-639 639-642 642-653 653-672 672-680 680-687 687-700 700-710 710-711
Teodorico I il Grande Atalarico Teodato Vitige Ildibaldo / Erarico Totila Teia
494-526 526-534 534-536 536-540 540-541 541-552 552-553
RE VANDALI Genserico Unnerico Guntemondo Trasamondo Ilderico Gelimero
428-477 477-484 484-496 496-523 523-530 530-534
COMANDANTI E RE FRANCHI Faramondo (comandante dei Franchi Sali nella regione del Reno) Clodione (re dei Franchi Sali fino al 448) Re franchi della dinastia merovingia Meroveo Childerico I Clodoveo I
448-457 457-481 481-511
Regno di Austrasia Teodorico I Teodeberto I Teodebaldo
511-534 534-548 548-555
Regno di Austrasia sotto i re di Neustria Sigeberto I Childeberto II Teodoberto II Teodorico II Sigeberto II Sigeberto III Childeberto III (l’Adottado) Childerico II Clodoveo III Dagoberto II
561-575 575-595 595-612 612-613 613 634-656 656-661 662-675 675-676 676-679
Regno di Neustria e regno di Soissons Childeberto I Clodomiro Clotario I Cariberto I Chilperico I Clotario II Cariberto II Chilperico di Aquitania Dagoberto I Clodoveo II Clotario III Teodorico III
511-558 511-524 511-561 561-567 561-584 584-629 Anche Austrasia dal 613 629-632 632 623-639 639-655 655-673 673, 675-691 In Austrasia dal 679
Regno di Neustria sotto i re di Austrasia Clodoveo IV Childeberto III il Giusto Dagoberto III Chilperico II Clotario IV Teodorico IV Interregno Childerico III
691-695 695-711 711-715 715-720 717-718 720-737 737-743 743-751
RE LONGOBARDI IN ITALIA Alboino Clefi Interregno Autario Agilulfo Adaloaldo Arioaldo Rotario Rodoaldo Ariperto I Pertarito (o Bertarido) Grimoaldo Cuniberto Liuperto Ragimberto Ariberto II Ansprando Liutprando
560-572 572-574 574-584 584-590 591-616 616-626 626-636 636-652 652-653 653-661 661-671/ 688 662-671 688-700 700-701 701 701-712 712 712-744
Hildebrando Rachis de Friuli Astolfo Didier di Istria o Desiderio
744 744-749 749-756 756-774
RE E IMPERATORI CAROLINGI Carlo Martello Carlomanno Pipino il Breve Carlomanno I Carlomagno Ludovico il Pio Lotario I Ludovico II il Giovane Carlo II il Calvo Luigi II il Balbo (re della Francia occidentale) Luigi II il Germanico (re della Francia orientale) Luigi III (re della Francia orientale) Carlomanno II (re della Francia occidentale) Carlo III il Grosso Oddone I (re della Francia occidentale) Carlo III il Semplice (re della Francia occidentale) Roberto I (re della Francia occidentale) Rodolfo di Borgogna (re della Francia occidentale) Luigi IV d’Oltremare (re della Francia occidentale) Lotario II (re della Francia occidentale) Luigi V (re della Francia occidentale)
715-741 741-747 747-768 768-771 768-814 814-840 840-855 855-875 875-877 877-879 843-876 876-882 879-884 881-887 888-898 898-922 922-923 923-936 936-954 954-986 986-987
RE CAPETI Ugo I Capeto Roberto II il Pio
987-996 996-1031
DUCHI E IMPERATORI SASSONI Arnolfo di Carinzia Luigi IV il Bambino Corrado I il Giovane Enrico l’Uccellatore Ottone I Ottone II Ottone III Enrico II il Santo
887-899 899-911 911-918 919-936 936-973 961-983 983-1002 1002-1024 153
APPENDICI
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INDICE ANALITICO A
abbaside 96 Abbone di Fleury 107, 108, 110 Abbone di Fleury Vita, Passione e Miracoli di San Edmondo 107 Abderraman I 87, 88, 90 Abderraman II 59 Adalberone di Laon 134-135, 144 Adaloaldo 40 Adamnano di Iona 54, 56 Vita di San Columba 56 Adamo da Brema 101, 119 Adda, bataglia di (490) 14 Adelaide d’Italia 128 Adriano di Canterbury 48 Adriano I (papa) 86 Adrianopoli 114 Aelfrico di Eynsham 141 Aelle di Northumbria 104 Africa 22-24, 28, 33-34, 59, 68, 96, 128 Agila I 46, 60 Agila II 68-70 Agilulfo 16-17, 40, 41, 57 Agostino d’Ippona 23, 26, 91 Agostino di Canterbury 45-47 Ágústsson, Hördur 120 Aidan di Lindisfarne 55, 104 Al Hadi 96 Al Husayn ibn Sad ibn Ubada 87-88 Al Jazira al Jadrá vedi Algeciras al-Andalus 70, 87, 96 Al-Walid ibn Abd al-Malik (Walid I) 68 Alamanni 16, 19, 28, 43, 78, 84, 87 Alani 14, 16, 30 Alarico I 30 Alarico II 17-19, 47 Breviario di Alarico 18, 135 Alberico II di Spoleto 127 Albino di Angers 119 Alboino 39-41 Alcuino di York 94, 141 Alfonso I delle Asturie (il Cattolico) 90 Alfonso II delle Asturie (il Casto) 88-90 Alfredo il Grande 104-106, 119, 125, 137, 140, 142 Algeciras 69, 70, 119 Alovera 59 Alsazia 116 Amalafrida 24 Amalasunta 14-16, 26 Ambrosio Aureliano 20 Amiens 108 Ammiano Marcellino 13 Anastasio I (imp.) 19 Ancona 85 Anderida (Pevensey) 20 Andersen, Magnus 122 Anglia 22, 47, 50, 104, 107, 121 Angli 22, 81
Anna di Kiev 121 Annegray 56 Annibale 96 Antemio, Procopio (imp.) 34 Aquileia 32 Aquisgrana 89, 90, 92, 94, 96-99, 106, 108, 128, 138 Cappella palatina 92-96 Aquitania 16-17, 66, 77-78, 88-89, 99, 102, 130 Arbeo di Frisinga Vita di Sant’Emmerano 73 Arbon 56 Ardenne 16, 67 Aregonda di Turingi 21 Argentario, Giuliano 29, 33 Ariperto I 40, 76 Arles 20 Armagh, monastero di 52, 54, 103 Arnolfo di Metz 42, 67 Arnolfo I di Fiandra 110 Aroldo Blatand “Dente Blu” 119, 121, 141 Arpad il Conquistatore 116 Arras 42, 119 Asia 13, 76 Astolfo 77, 84 Asturie 61, 88-90 Chiesa di San Miguel de Lillo 61 Atalarico 14, 16, 26 Atanagildo 42, 46, 60 Ataulfo 31 Atelstano di Wessex 106, 116, 125 Athelney, isola di 105 Attila 16, 31-32, 116 Augusta 124, 126 battaglia vedi Lechfeld Austrasia 18, 20, 42, 66, 67, 72, 77-79, 83, 84, 116 Austria 73 Autari 40, 41 Auxerre 57, 97 Avari 39, 48, 65, 72-74, 76, 88, 89, 107, 112, 116 Avito, Eparchio (imp.) 16, 33
B
Baghdad 65, 87, 88, 96, 102, 112, 119, 121 Bakar 49 Balcani 17, 48-49, 72-73, 88, 115-116 Baleari, isole 23, 119 Bamberga 144 Apocalisse di Bamberga 139 cattedrale di 144 Bande 60-62 Chiesa di Santa Comba 60-62 Bangor, monastero di 55, 103 Barcellona 87-88, 96, 97 Bari 122 Barinto 56 Basilio I il Grande (imp.) 115 Basilio II Bulgaroctono (imp.) 114, 121
Bath 137 Bavari 17, 78, 84, 126 Baviera 40, 56, 73, 76, 84, 89, 96, 99, 117, 125, 138, 143-144 Bayeux 110 Beda il Venerabile 20, 48, 64, 80-81 Historia ecclesiastica gentis Anglorum 20, 81 Vita Sancti Cuthberti 64, 81 Belgio 18 Belisario (generale di Giustiniano I) 14, 22, 24, 26-28, 37 benedettini 24, 26, 45, 56 Benedetto d’Aniane vedi Witiza Benedetto da Norcia 24-26, 43, 56, 130 Benevento 76, 89 Beowulf 80-81 Bera II di Razès 67 Berberi 23-24, 69-70, 77-78, 89 Berengario del Friuli 116 Berengario II d’Italia 127 Bernardo di Hildesheim 128, 136-137 Bernardo di Settimania 97 Bernone di Baume 130 Berta del Kent 46 Berta di Borgogna 143 Bertario 20 Bertrada di Laon 84 Betica 60, 68 Bielorussia 71 Birka 120 Bisanzio 14, 18, 26, 37, 114, 121, 122, 128 vedi anche Impero romano d'Oriente Biscop, Benito 48, 81, 86 Bizantini 22, 46, 60, 89, 94, 114, 136 Björn Braccio di Ferro 108, 119 Bobbio, monastero di 57 Boemia 25, 48, 72-73, 88, 112, 114 Boezio 14-16, 105 De consolatione philosophiae 15, 105 Bolgar 114 Bologna 76 Bonfigli, Benedetto 27 Bonifacio (governatore africano) 23 Bonifacio (Wynfrith) 84 Bonifacio IV (papa) 57 Bonn 108 Bordeaux 18, 78, 87 Borgogna 18, 20, 41-42, 56, 66, 84, 99, 106, 108, 117, 128 Borgognoni 87 Boris I di Bulgaria 114 Boulogne-sur-Mer 106, 119 Bourges 87 Boyer, Régis 119 Bregenz 57 Brema 101-102, 117, 119 Brendano il Navigante 55, 56 Navigatio Sancti Brendani 55-56
Brennabor 116 Bretagna 18, 88, 109 Bricquebec 100 Brigida d’Irlanda 103 Britanni 20, 22 Britannia 20, 22, 46, 53 isole 102, 104, 106, 128 Brown, Basil 50 Brú na Bóinne 53 Brunechilde 42, 56-57 Bruno (arcivescovo) 125 Bukhara 119 Bulgari 39, 49, 52, 65, 74, 107, 111, 114-116, 121 Bulgaria 49, 52, 112, 114, 115 Grande Bulgaria 49, 52 Burcardo di Würzburg 84 Burgos 62 Burgred di Mercia 104 Burgundi 16-18, 42 Bury 107 Byrhtnoth dell’Essex 121, 140-141
C
Cadice 70 Cambrai 18, 135 Cambridge 104 Campania 28 Campi Catalaunici, battaglia dei vedi Châlons Canada 102, 119 Cangas de Onís 90 Canuto il Grande 121, 141-142 Carantani 88 Cariberto I 20, 41, 46 Carinzia 89, 136 Carlo di Lorena 134 Carlo di Provenza 99 Carlo II il Calvo 94, 97-99, 106, 108, 109 Carlo III il Grosso 108-109 Carlo III il Semplice 109 Carlo Martello 66, 77, 78, 79, 80, 84 Carlo X di Francia 19 Carlomagno 24, 72, 76, 82-83, 86-94, 96, 97, 99, 106-108, 115, 131, 134 Carlomanno (figlio di Carlo Martello) 84 Carlomanno I (figlio di Pipino il Breve) 84, 87 Carlomanno II di Francia 108 Carniola 88 Cartagine 22, 23 Casa Herrera, Basilica di 59-61 Cassino 26 Cassiodoro 14-15, 26 Cronache 14 Institutiones 26 Castledermot 103 Catanzaro 26 Caucaso 14, 52, 66, 107 Cazari 73, 111 Ceawlin di Wessex 46 Cechi 88 155
APPENDICI
Cenél Conaill 54, 55 Ceolwulf II di Mercia 104 Cerdic (stirpe) 86, 105, 142 Cerdic di Wessex 115 Chaduna vedi Medina-Sidonia Chalon-sur-Saône 56 Châlons 16, 17, 32 battaglia dei Campi Catalaunici 16, 17, 32 Champagne-Ardenne 16 Chanson de Roland 80 Chartres 109-110 Chester 47 Childeberto I 19 Childeberto II 42 Childerico I 18, 19, 21 Childerico III 84 Chilperico I 18, 20-21, 41-42 Chilperico II 18 Chindasvindo 46 Chintila 46 Chippenham 105 Cina 65, 72 Cirillo di Salonicco 112, 114 cittadella 61 Cividale 39, 77 Clefi 40, 41 Clemente di Ocrida 112 Clermont 87 Clodomiro (figlio di Clodoveo I) 19 Clodoveo I 18-19, 41-42, 47, 84 Clodoveo II 18 Clonfert, monastero di 56, 103 Clonmacnoise, monastero di 52, 103, 105 Clotario I 18-21, 41 Clotario II 18, 42, 57, 66 Clotario III 18 Clotario IV 66, 77 Clotilde di Burgundia 18-19 Cluny, abbazia di 128, 130-131, 143-144 Coldingham, monastero di 107 Colombano di Luxeuil 40, 55-57 Colonia 98, 108, 125, 138 Columba di Iona 54-56, 104 Cordova 59-61, 87, 89-90, 96, 107 Cork 103 Cornovaglia 104 Corona Ferrea 17, 64, 76, 85 Coronate, battaglia di 76 Corrado I il Giovane 115 Corrado il Rosso 126 Corsica 23 Cosma di Praga 112 Cronaca 112 Costantino I il Grande (imp.) 85, 131 Donazione di Costantino 85 Costantinopoli 14-16, 22, 24, 29, 30, 34, 37, 43, 54, 61, 65, 72, 73, 83, 90-92, 94, 102, 112, 115 palazzo imperiale 92, 94 Costanzo III (imp.) 31, 32 Cotentin, Penisola del 100, 110 Courtrai 108 Covadonga 89 Crescenzio II il Giovane 136 Croati 73 Croazia 49 156
Cronaca anglosassone 104 Cronaca d’Irlanda 103 Cronaca di Nestore vedi Prima cronaca russa Cronaca di Radzivill 73 Cronaca mozarabica 78 Crotone 128 Cù Chulainn 53 Cuenca 61 Cúl Dreimhne, battaglia di 54 Cuma 27 Cunegonda del Lussemburgo 143-144 Cuniperto 76 Cutberto di Lindisfarne 81
D
Dagoberto I 18, 66, 72-73, 84 Dagoberto II 66-67 Dalmazia 26 Damasco 65, 68 Danesi 102-107, 119, 121, 128, 142 Danimarca 80, 102, 119, 120, 121, 142 Dar al-Islam 70, 88 Deira 104 Derry 54 Diarmaid mac Cerbaill 54 Dietrich von Bern vedi Teodorico il Grande Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio (imp.) 61 Donato Magno 22 Donegal 54 Dorestad 102 Dublino 53, 55, 66, 102, 103 Dudone di San Quintino 110 De moribus et actis primorum Normandiae ducum 110 Dulo (clan bulgaro) 73 Dunstano di Canterbury 137 Dürer, Albrecht 82 Durrow 54 Libro di Durrow 54 Dyrrhachium (Durazzo) 49
E
Eadfrith di Lindisfarne 55 Ealhswith di Mercia 105 Ebbone di Reims 102, 108 Ebridi, isole 54-55, 102 Eccardo di Meissen 135 Ecdicio Avito 16 Écija 70 Edgar il Pacifico 136-137, 142 Editta di Wessex 116, 125, 128-129, 137 Editta di Wilton 141 Edmondo I il Magnifico 137 Edmondo dell’Anglia Orientale 107 Edoardo il Martire 137 Edvige di Sassonia 134 Edwin di Deira 47 Egberto di Wessex 85-86, 103 Egica 46, 68 Eginardo 87, 92, 94 Annali dei re franchi 88, 91 Egitto 52, 128 Elche, Basilica di 60 Elfrida 137
Elmichi 40 Emerita Augusta vedi Mérida Emma d’Italia 134 Emma di Normandia 141, 142 Encomio della regina Emma 141 Engelberto (abate) 117 Enrico I l’Uccellatore 115-117, 125, 134 Enrico II di Francia 121 Enrico II il Litigioso 135, 143 Enrico II il Santo (imp.) 142, 143 Enrico il Leone 122 Eraclio (eunuco) 32-33 Erarico 14 Eric il Vittorioso 121 Ermenegildo 46 Ermengarda di Hesbaye 96-97 Ermesinda 90 Ervige 46 Essex 47, 87, 121, 140 Etelbaldo di Mercia 86 Etelberto del Kent 46-47 Etelredo I di Wessex 105 Etelredo II l’Indeciso 121, 136, 137, 140-142 Eudocia (figlia di Valentiniano III) 24, 33 Eudossia, Licinia (moglie di Valentiniano III) 33 Eugenio III (papa) 144 Eurico 16, 17 Codice di Eurico 16 Evelli 116 Everardo di Franconia 115-116 Évreux 109 Ezio, Flavio (c. 432) 17, 20, 32, 33
F
Fanagoria 52 Fatimidi 128 Felice IV (papa) 43 Fermo 27 Faroe, isole 56, 102 Fiandra 18, 110 Fiesole 30, 57 Fleury, abbazia di 130, 144 Florinda (figlia di don Giuliano) 69 Fontaines 56 Fontenay 97 Franchi 16-19, 27-28, 41-43, 46, 66, 72, 76-80, 84-91, 94, 97, 99, 101, 107, 109-110, 116, 125-126, 128, 131, 134 Francia 18-21, 42, 66, 80, 84, 88, 98-99, 106, 108, 115-117, 121, 131, 134-135, 142-143 Franconia (Germania) 99, 115, 122, 143-144 Fredegario 66 Cronaca di Fredegario 66 Fredegonda 42 Freia 101 Frisi 78, 80, 84, 87-88 Frisia 88, 97-98, 102 Fulda, monastero 97, 117 Annali di Fulda 116 Fulham 105 Fyrkat 120, 142
G
Gabia Grande, battistero di 60 Galizia 45-46, 90, 102
Galla Placidia 31-32, 37 mausoleo 37 Galles, Paese del 53, 55, 86, 102, 104 Gallia 16, 18, 54-56, 66, 78, 83-84 Gallo (Gall), San 42, 48, 57, 78, 117 Galsuinda 42 Galway 56 Ganimede 76 Gante 108 Garde-Freinet, La 128 Garibaldo I di Baviera 17, 40 Gasconi 89 Gaudenzio 32 Geati 80, 81 Gelimero 22, 24, 28 Genova 41, 96, 122 Genserico 22, 23, 33 Gepidi 39 Gerardo del Galles 53, 55 Gerardo di Cambrai 135 Gerberto di Aurillac vedi Silvestro II (papa) Germania 14, 19, 92, 96, 98, 125-127, 136, 138-139, 144 Gerusalemme 67, 93, 128 Tempio di 93 Giacomo il Maggiore 90 Gibilterra, Stretto di 69, 70, 119 Gildas il Saggio 20 De excidio Britanniae 20 Giordane 14, 24, 101 De origine actibusque Getarum (Getica) 14, 24 Giovanni I (papa) 16 Giovanni I Zimisce (imp.) 115, 128 Giovanni XII (papa) 127 Giovanni Apostolo 139 Giovanni Battista 36, 40 Giselle di Razès 67 Giuditta di Baviera 96, 97 Giuliano, don 69 Giulio Nepote (imp.) 16, 34 Giustiniano I il Grande (imp.) 15, 16, 22, 24, 26-30, 37, 45, 54, 60 Giustiniano II Rinotmeto (imp.) 29 Giustino II il Giovane (imp.) 94 Gjermundbu 100 Glendalough 52, 103 Glicerio (imp.) 34 Gnezdovo 119 Goffredo di Buglione 67 Gómez Moreno, Manuel 59 Gontrano I 20, 41 Gorgan 119 Gorm il Vecchio 119 Goti 14, 16-17, 25, 27, 62 Gozlin (vescovo) 108 Grande Pianura ungherese 23, 40, 72-73, 116 Grandi Cronache di Francia 98 Gregorio di Tours 18, 19, 42, 80 Historia Francorum 80 Gregorio I Magno (papa) 14, 17, 38, 40, 43, 45, 47 Antifonario dei canti gregoriani 45 Liber pastoralis curae 45 Magna moralia 45
Gregorio V (papa) 135-136, 143 Grimoaldo I di Benevento 76 Grimoaldo I il Vecchio 66, 67, 84 Grimoaldo II il Giovane 84 Groenlandia 55-56, 102, 119-120 Guadalete, battaglia del fiume 69-70 Guadamur 63 Gualdo Tadino 28 Guarrazar, tesoro di 59, 63 Guascogna 88, 106 Guelfi 122 Guelfo di Altdorf 97 guerra gotica 26, 28, 37 Guglielmo I di Aquitania 130 Guglielmo il Conquistatore 122 Guglielmo Lungaspada 110 Gundemaro 46 Gundeperga 41 Gundobado di Burgundia 18, 34 Gundoino 108 Gunnarr Hámundarson 119 Guntemondo 23 Guthrum I dell’Anglia Orientale 104-105
H
Halfdan Ragnarsson 104, 107 Hampshire 105 Harald III di Norvegia 102 Harun al-Rashid 96 Hautvillers, abbazia di 108 Hearne, Thomas 140 Helgaud di Fleury 143 Hengest 20 Hereford 47 Hertford, Sinodo di 48, 80 Hildesheim 137 Basilica di San Michele 137, 143 Hingston Down 104 Hisham I al-Andalus 90 Hispania 45-47, 59, 61, 67-68, 70, 87, 90, 96 Horsa 20 Hruodland (Orlando) 87
I
Iberica, Penisola 23, 45, 59, 78, 102 ibn Abd al Hakam 69 Ilderico 24 Ildibaldo 14, 28 Illiria 49 impero austriaco 74 impero bizantino vedi Impero romano d’Oriente impero carolingio 83, 88, 94, 99, 102, 106, 108 impero moravo 116 impero romano d’Occidente 13, 29-31, 33, 37, 90, 127 impero romano d’Oriente 15-16, 24, 27, 29, 33, 37, 49, 66, 72, 76, 85, 89, 96, 114-115, 119, 127 Incmaro di Reims (vescovo) 99, 106, 108 Ine’s Law 48 Inechilde 66 Ingelheim 106
Inghilterra 20, 47, 50, 53, 80, 83, 86-87, 94, 102-104, 106, 110, 119, 121-122, 128, 140-142 Ingunda 46 Ingvar il Viaggiatore 121 Iona, abbazia di 53-56 Ippona 23, 91 Iranici 72 Irlanda 52-57, 83, 102, 103, 105, 110, 119 Isidoro di Siviglia 46, 59, 68 Islam 59, 66, 71, 78, 88, 90, 96, 111, 122 Islanda 55, 56, 102, 119, 120, 142 Istria, Penisola di 89 Italia 14, 16, 25-30, 37, 39, 41, 72, 76-77, 84-85, 87, 89, 96, 99, 116, 125, 127, 136 Italiana, Penisola 26-28, 99 Itil (Astrakhan) 119 Ivar Ragnarsson (“il Senz’Ossa”) 104, 107
J
Jabal al-Tariq vedi Gibilterra Jaroslav il Saggio 119, 121 Jarrow, abbazia di 81, 86, 102 Jelling 121 Juti 22 Jutland 22, 109, 121, 142 Penisola 22, 109
K
Kazan 114 Kells, monastero di 53-55, 103 Libro di Kells 53, 55, 103 Kent 22, 46, 47, 87, 140 Kevin di Glendalough 52 Kiev 71, 102, 111-112, 119, 121 Cattedrale di Santa Sofia 121 Kildare, monastero di 52, 103 Krum (Khan) 49, 114 Kubrat (Khan) 49, 52, 73
L
L’Anse aux Meadows 120 Laon 57, 134-135, 144 Lara 59 Leandro di Siviglia 45-46 Lechfeld, battaglia di 116, 124, 126 legge salica 42 Leinster 55, 103 León (Spagna) 59 Leone I il Grande (papa) 32, 34 Leone III (papa) 90-91, 93 Leone VI il Saggio (imp.) 115 Leovigildo 45-46 Lichfield 86 Liegi 57, 108 Liguria 41 Limerick 103 Limoges 87 Lindholm Høje 120 Lindisfarne, monastero di 55, 102-104 Lione 98-99 Lisieux 109 Liutprando (re longobardo) 76-77 Liutprando di Cremona 115 Liuva I 46 Liuva II 46
Lombardia 40, 57, 64, 76, 106, 116 Londra 38, 47, 50, 56, 64, 80-81, 105, 107-108, 119, 122, 137, 140, 141 Longino (esarca di Ravenna) 40 Longobardi (Lombardi) 39-41, 43, 66, 72, 76-77, 84-85 Lorena 98-99, 134, 138, 143, 144 Lorenzo (martire) 31 Lorsch, abbazia imperiale di 132-133 Lotaringia 99 Lotario I (imp.) 97-99 Lotario II di Francia 134 Lotario II di Lotaringia 99, 138 Lubecca 122 Lucca 57 Ludovico I il Pio 96-98, 108 Ludovico II il Germanico 97-99 Ludovico II il Giovane 99 Lugenfeld (Rothfeld) 97 Lugo 61 Luigi II il Balbo 108 Luigi III di Francia 108 Luigi V il Fannullone 134 Luka Raikovetskaia 71 Lumièges 57 Luna, Miguel de 71 La verdadera historia del rey don Rodrigo en la que se trata la causa principal de la pérdida de España 71 Lure 56 Lussemburgo 45 monastero di Echternach 45 Luxeuil 56-57
M
Maastricht 98 Macedonia 49, 112, 114 Mâcon 130 Máel Sechnaill 103 Magdeburgo 88, 128 Maggioriano, Giulio Valerio (imp.) 33 Magiari 74, 101, 107, 115-117, 125-128, 145 vedi anche Ungheresi Magonza 98, 128, 143 Maguit ar Rumí 69 Maldon, battaglia di 121, 140-141 Malles Venosta 24-25, 87 Chiesa di San Benedetto 24-25, 87 Manchan di Offaly 52 Man, isola di 102 Maometto 45, 66 Marca della Frisia 88 Marca dell’Est 88 Marca di Spagna 87-89, 99 Marca Pannonica 88 Marca Sassone 88 Marco l’Evangelista 44 Marlborough 105 Marmoutier, abbazia di 109 Marsiglia 20, 23, 98, 128 Martino di Jumièges 110 Martino di Tours 54 Masona (vescovo) 61 Massimiano (vescovo) 29, 33, 37 Massimo di Saragozza Chronica Caesaraugustana 17
Matilde di Ringelheim 115 Matilde (moglie di Dagoberto II) 66 Matilde (sorella di Ottone II) 128 Mauretania 23, 24, 68, 69 Maurizio I (imp.) 45 Meath 53 Mecca, La 66 Medina 66 Medina-Sidonia 69-70 Meissen 116, 135 Melchisedec 33 Menandro Protettore 72 Mercia 47-48, 80, 85-86, 104-105 Meretum (Marton), battaglia di 105 Mérida 59-61, 70 Meroveo 18 Merovingi 18, 20, 21, 66, 67 Merseburgo, battaglia di 117 Mersen, Trattato di 98, 99 Mértola, basilica di 59 Mesia 114 Mesopotamia 7 Metodio di Salonicco 112, 114 Metz 20, 41-42, 67, 92 Michele I Rangabe (imp.) 49, 114, 115 Michele VI Stratiotico (imp.) 114 Milano 26, 27, 39, 98 Mokosh (dea) 71 Moldavia 24 Mons Lactarius, battaglia dei 14, 28 Monte Badon (Badon Hill), battaglia del 20 Montecassino 24-26 monastero 25 Monte Soratte 84 monastero di San Silvestro 84 Monza 40 Basilica di San Giovanni Battista 40 Cattedrale 38, 40 Moravia 49, 73, 112, 114, 116 Grande Moravia 112, 114, 116 Morón de la Frontera 70 Moussais-la-Bataille 78 Movilla, monastero di 103 Mozarabi 59, 90 Muhammad al-Mahdi 87 Muladi 88 Mundo, Illiria 26 Munster 103 Muntjac 49 Murcia 119 Musa ibn Nusayr 68, 70 musulmani 66, 68, 70, 71, 87, 90, 111
N
Nagyszentmiklós vedi Sânnicolau Mare, tesoro di Nantes 56, 110 Napoli 27, 28 Narbona 87, 119 Narsete 28, 29 Neustria 18, 20, 57, 66-67, 77, 83, 84, 99, 108 Niall Noigíallach 54 Niceforo I il Grande Logoteta (imp.) 114-115 157
APPENDICI
Nicola I (papa) 99, 112 Nimega 97, 108 Nîmes 119 Njáls saga 119 Norcia 24-26, 43, 56 Norici 39 Normandia 102, 109-110, 121, 141 Normanni 101, 107, 109-110, 141 Northumbria 47, 86, 102, 104 Norvegesi 56, 102, 110, 119, 121, 141 Norvegia 102, 119, 121, 123, 140, 141, 142 Novgorod 111-112, 119, 121 Noyon 134 Numidia 23
O
Oddone da Metz 92 Oddone di Cluny 130-131 Oddone di Francia 108 Oddone il Grande 77-78, 92, 130-131 Odessa 119 Odilone di Cluny 143, 144 Odilone I di Baviera 84, 143, 144 Odino 101, 119, 142 Odoacre 14, 34, 37 Offa di Mercia 85, 86 Olaf I di Norvegia (Olaf Tryggvason) 119, 121, 140, 141 Omayyade 87, 88, 90, 96 Onoria, Giusta Grata 31 Onorio (imp.) 30, 31, 32 Onorio I (papa) 57 Oppas 68 Orcadi, isole 102, 119 Orense 60, 62 Oreste, Flavio 34, 37 Orléans 19, 134 Oscar di Brema 102 Osijek 49 Ostrogoti 12, 14-15, 26-28, 30, 37 Osvaldo di Worcester 137 Ottone I il Grande 114, 116, 125-128, 137, 138, 143 Ottone II il Sanguinario 124, 128, 134 Ottone III 128, 135-137, 144
P
Paderborn 87, 91 Padova 39 Paesi Bassi 98-99 Palencia, San Giovanni Battista di Baños 60, 62 Palermo 26, 27, 122 Pamplona 88 Pannoni 39 Pannonia 25, 32, 39, 88, 116 Paolo (duca visigoto) 68 Paolo Diacono 39-40 Parigi 18, 19, 21, 41, 45-46, 66, 82, 94, 98, 107-110, 119, 124, 131, 134-135, 138, 143 Basilica di Saint-Denis 21, 66, 82, 84, 134 Parma 94 Patrizio d’Irlanda 52, 54, 103 Pavia 39-40, 84-85, 88 Peceneghi 107, 116, 121 158
Pelagio (vescovo di Oviedo) 90 Libro dei Testamenti 90 Pelagio II (papa) 43 Pelayo, don 89 Peloponneso 49 Penda di Mercia 47, 80 Pentapoli 85 Peredeo (assassino di Alboino) 40 Persia 65, 115 Persiani 28, 65, 78 Pertarito (o Bertarido) 76 Perugia 27 palazzo dei Priori 27 Petronio Massimo, Flavio Anicio (imp.) 32-33 Piceno 26 Pio X (papa) 45 Pipino I di Landen 42, 66, 83, 84 Pipino II di Herstal o Pipino il Giovane 18, 66, 67, 77, 84 Pipino III il Breve 84-85, 87, 108, 134 Pisa 119, 122 Pitti 54, 102 Poema del mio Cid 80 Poitiers 18, 20, 77-79 battaglia di 77-78 Polesia 25 Polonia 112, 114, 121 Portland 103 Praga 112, 116 Preslav 115 Prima cronaca russa o Cronaca di Nestore 71, 73, 111-112 Pripyat 25 Procopio di Cesarea 14, 16, 22, 24, 26-27, 49 Provenza 27, 99 Prüm 108 Puchen, battaglia di 117
Q
Quadi 30 Quedlinburg 138 collegiata di San Servazio 138 Quentovic 119 Quintanilla de las Viñas 62 Chiesa di Santa Maria 62
R
Rachis del Friuli 77 Radagaiso 30 Radegonda 19, 20 Ragnar Lodbrok 103, 104, 107 Ramiro I delle Asturie 90 Rastislav I di Moravia 112 Ratisbona (Regensburg) 57, 127 Ravenna 12, 14-16, 26, 28-34, 36, 37, 40, 61, 76, 77, 84, 85, 92-94, 96, 136 battisteri 36 Chiesa di Santo Spirito 36 Mausoleo di Galla Placidia 37 Mausoleo di Teodorico il Grande 12, 37 quartiere di Classe 29, 37 Sant’Apollinare in Classe 29, 31, 37 Sant’Apollinare Nuovo 14, 37 San Vitale 29, 33, 34, 37, 92, 94 Reading 104 Recaredo I 46-47, 61-62
Recaredo II 45-46 Recesvindo 46, 60, 63, 70 corona 59, 63 Liber Judiciorum o Forum Iudicum 46, 70 Recknitz, battaglia di 127 Redwald dell’Anglia Orientale 47, 50 Reggio Calabria 27, 122 Reichenau 57, 136, 139 Apocalisse di Bamberga 139 Reims 17, 19-20, 93, 97, 99, 102, 106, 108, 136 Repton 104 Rheinau 57 Riccardo di Saint-Vanne 143 Riccardo I di Normandia 110 Riccardo II di Normandia 141 Ricimero, Flavio 33-34 Rimini 27, 85 Ringmere, battaglia di 121 Roberto II il Pio 134, 142-144 Roberto il Forte 108, 110 Roberto il Guiscardo 122 Rochester 47 Rodrigo, don 46, 68-71 Rollone 109-111 Roma 16, 22-23, 26-28, 31, 33-34, 37, 39, 43, 65, 77, 83-85, 88, 90-91, 93-94, 98-99, 104, 112, 119, 127-128, 130-131, 134-136, 142-143 Basilica di San Pietro 128 Castel Sant’Angelo 136 Romania 74 Romano I Lecapeno (imp.) 114 Romolo Augustolo (imp.) 37, 90 Romualdo I di Benevento 76 Roncisvalle 87-89 Rosmunda 40-41 Roswitha di Gandersheim 71 Rotari 40-41 Ruan 108-111 Rurik 112 Russia 71-73, 111, 114, 119, 121
S
Sacro romano impero 92, 114, 122, 125-128, 138, 139 Saebert di Essex 47 Saint-Benoît-sur-Loire, abbazia di 144 vedi anche Fleury, abbazia di Saint-Omer 119 Saintes 18 Salisburgo 57 Salomone (re d’Israele) 93 Salonicco 49, 112 Salterio di Utrecht 106, 108 Salviano di Marsiglia 23 Samarcanda 119 Samo 72-73 regno 72-73 San Gallo, monastero di 57, 78, 117 San Pietro 43, 130 Sandefjord 123 Sânnicolau Mare, tesoro di 74, 76 Santiago di Compostela 90 Saraceni 116, 128 Saragozza 17, 71, 87, 88 Sardegna 23, 33
Sarmati 39, 71 Sasanidi 66, 74 Sassoni 20, 22, 55, 78, 84, 87-88, 104, 125-126, 128, 140-143 Sassonia 22, 87-88, 97, 99, 106, 115-117, 125-126, 128, 137, 138 Saxo Grammaticus 119 Gesta Danorum 119 Scandinavia 101, 102, 110, 121 Schleswig-Holstein 22 Schlunk, Helmut 61 Scilitze, Giovanni 114 Codice Scilitze 49, 114 Sciti 71 Sclaveni 24-25 Scolacium (Squillace) 26 Scoto Eriugena, Giovanni 145 De divisione naturae 106 Scozia 54-55, 102, 119 Sebastiano (martire) 107 Segóbriga 61 Serbi 73 Serbia 49, 114-115 Serdica (Sofia) 114 Settimania 68, 70, 84, 97 Sheppey, isola di 103 Shetland, isole 102, 119 Siagrio 18 Siberia 112 Sicilia 23, 26, 43, 102, 114, 121-122 Sidonio Apollinare 33 Sigeberto (figlio di Dagoberto II) 67 Sigeberto I 20, 41, 42 Sigeberto III 66, 84 Sigtuna 121 Silvestro I (papa) 85 Silvestro II (papa) 128, 135-136 Simargl (dios) 71 Simeone I di Bulgaria 114-115 Sineo 112 Singidunum (Belgrado) 73 Siriani 88 Sisebuto 46 Sisenando 46 Siviglia 45-46, 59, 68, 70, 102 Slane, monastero di 66 Slavi 24-25, 48-49, 65-66, 71-73, 76, 88, 97, 112, 114, 116, 126-128, 135-136 Slovacchia 72-73, 114, 116 Sloveni 88-89 Slovenia 72 Snorri Sturluson 101, 119 Soissons 19, 20, 41, 42 Somerset 105 Spira 98 Spoleto 76 Staufen 122 Stefano II (papa) 84 Stefano IV (papa) 97 Stilicone, Flavio 30-31 Stinjevac 49 Stiria 88 Stoinef 127 Stonehenge 53 Stöng 120 Strasburgo 97 Stribog (dio) 71 Subiaco 24
Sucevita, monastero di 112 Suffolk 50, 107 Suintila 46, 60, 63 Suleiman ibn al Arabi 87 Surrey 106 Sussex 87, 106 Sutri 76 Sutrio 18 Sutton Hoo, tesoro di 38, 47, 50-51 Svatopluk I 112 Svedesi (Variaghi) 102, 119, 121 Svend I Barba forcuta 121, 141-142 Svevi 25, 46, 121 Svevia 84, 99 Svezia 81, 102, 111, 121, 142
T
Tagina vedi Gualdo Tadino Tamworth 47 Tangeri 68 Tárif ibn Tâlib al Muâfir 68, 69 Tarifa 23, 69 Tariq ibn Ziyad 68-70 Tarragona 46 tarragonense 17, 60 Tassilone III di Baviera 89 Teia 14, 28 Teodato 14, 26, 27 Teodeberto II 42 Teodolinda di Baviera 17, 40-41 Storia della regina Teodolinda 40 Teodolinda di Sens 96 Teodomiro (padre di Teodorico il Grande) 24 Teodora (moglie di Giustiniano I il Grande) 29, 34, 37 Teodora Porfirogenita (imp.) 114 Teodorico I (re dei Visigoti) 16 Teodorico I di Austrasia 19 Teodorico II 42 Teodorico III 18
Teodorico il Grande mausoleo 12, 37 Teodorico il Grande 12, 14-16, 18, 26, 28-29, 37 Teodorico IV 79 Teodoro di Tarso (arcivescovo) 48, 80 Teofano (imp.) 124, 128, 131, 135-137 Terranova 102, 120 Tertry, battaglia di 66 Teudi 46 Teudiselo 46 Teutberga di Lotaringia 99 Thor 101, 119 Ticameron, battaglia di 24 Tietmaro di Merseburgo 88, 128, 141 Tírechán di Armagh 54 Tolbiacum (Zülpich) 19 Tolbiacum, battaglia di 19 Toledo 45-46, 48, 61, 63, 67-70 Tolosa 17, 87 Torredonjimeno, tesoro di 59 Totila 14, 27, 28 Tournai 18, 21, 42 Chiesa di St. Brice 18 Tours 18-19, 42, 54, 78, 80, 108 Tracia 49, 114 Trasamondo 24 Treviri 57, 98, 108 Truvor 112 Tulga 46 Tunisi 22, 59 Turchi 72, 114 Turingi 19 Turingia 73, 99 Turkestan 72 Turpino di Reims 93
U
Uar (Eftaliti) 73 Ubbe Ragnarsson 107 Ucraina 13, 71
Ugo I Capeto 108, 110, 131, 134-135, 143, 144 Ulrico di Augusta 126 Umbria 24 Unnerico 23-24, 33 Ungheresi 74, 116, 117 Ungheria 13, 39, 73, 126 Unni 14, 16-17, 31, 72, 114, 116 Urbino 27 Ursicino (vescovo) 29 Uther Pendragon 20
Vitichindo di Corvey 115, 126 Vitige 14, 27, 28 Vitoria 46 Vivarium, monastero d 26 Vladimir di Bulgaria 114 Vladimir I di Kiev (il Grande) 119, 121 Volinia 71 Vosgi 56 Vouillé, battaglia di 18, 47
V
Waldrada di Lotaringia 99 Walid I vedi Al-Walid ibn Abd al-Malik (Walid I) Waterford 103 Wearmouth, abbazia di 81, 86 Wexford 103 Wilfrid di York 66 Williams, Nigel 51 Willigis di Magonza 128, 143-144 Wilthshire 105 Wilton, battaglia di 105 monastero di 141 Winchester 106 Witiza 46, 68-69 Wogatisburg, battaglia di 72-73 Worcester 137, 141 Worms 98 Wulfstan di York 141, 142 Würzburg 57
Valacchia 24 Valence 119 Valentiniano III (imp.) 31-33 Vamba 46, 68 Vandali 22-25, 27-28, 30, 34 Variaghi (Svedesi) 102, 111-112, 119, 121 Vasconi 46, 70 Venanzio Fortunato 20 Vendi 116, 126 Venedi 25 Veneto 41 Venezia 32, 39, 77, 85, 89 Verdun, Trattato di 98-99, 106, 116 Verona 14, 39, 128 battaglia di (489) 14 Vestfalia 87 Via della Seta 65, 121 Vichinghi 54-55, 101, 102-111, 116, 119-120, 122-123, 136, 140-141, 145 Vienna 12, 57, 74, 97 Vieux-Poitiers 78 Villibrordo di Utrecht 45 Vinkovci 49 Vinland 120 Visigoti 14, 16, 18, 30, 43, 45-47, 59-61, 63, 66, 68-71 Vita di sant'Emmerano 73 Vitaliano (papa) 48 Viterico 46
W
Y
Yemeniti 70 York 66, 86, 94, 104-105, 107, 137, 141-142 Yorkshire 104
Z
Zaccaria (papa) 84 Zamora 62 San Pedro de la Nave, Chiesa di 60, 62 Zebedeo 90 Zenone (imp.) 14, 37
IMMAGINI Fotografie: Aci Online: 106; Age FotoStock: 2, 4-5, 22, 28-29, 30-31, 31, 32, 36b, 36a, 37, 52-53, 57, 62, 67, 92-93, 125, 132-133, 144, 144-145; Aisa: 42, 76, 85, 88, 101, 103, 118; Alamy/ Aci Online: 95, 104-105; Album: 12, 34-35, 51a, 52, 55, 70-71, 71, 76-77, 98-99, 150, 151; Album/akg-images: 18-19, 21b, 27, 44, 45, 51b, 54, 56, 64, 65, 69, 80, 81, 91, 105, 109a, 124, 126, 128, 129, 130, 131, 136a, 136b, 138-139, 138b, 140-141; Album/Oronoz: 30, 47, 58, 60b, 60a, 61, 63bi, 63ad, 63ac, 63bc, 68, 90, 93a; Bridgeman/Index: 19, 20, 59, 63bd, 66, 82, 96, 110, 123b, 130-131, 138a, 139c, 139b; Corbis: 86, 116, 120, 123a, 142; Cordon Press/ The
Granger Collection: 39, 50, 50-51; Getty Images: 8-9, 40-41; Gtres/Hemis.fr: 24-25, 100; Erich Lessing/Album: quarta di copertina, 6, 13, 15, 21a, 28, 33, 63ai, 73, 74, 74-75, 94, 137, 143; Prisma: copertina, 111, 119, 139a, 146; Photo Scala, Florence: 10, 25, 87, 107a, 107bi, 107bc, 107bd, 108, 113, 135; Ted Spiegel/NGS: 121; The Art Archive: 16, 17, 38, 83, 93b, 109b, 112, 151. Disegni: Santi Pérez: 120; MB Creativitat: 122-123. Cartografia: Víctor Hurtado (documentazione), Merche Hernández, Eosgis. 159
Pubblicazione periodica bimestrale - Anno VII - n. 29
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L’EUROPA MEDIEVALE
TRA LA FINE DEL V E L’INIZIO DEL XI SECOLO SI VERIFICARONO PROFONDE TRASFORMAZIONI ECONOMICHE, SOCIALI, POLITICHE E CULTURALI, CHE DIEDERO FORMA A QUELLA CHE OGGI CONOSCIAMO COME EUROPA
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