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IL RINASCIMENTO E LA RIFORMA
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INDICE INTRODUZIONE
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IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
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L’UMANESIMO Dossier: Leonardo da Vinci
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GLI INIZI DELLA RIFORMA Dossier: La rivoluzione della stampa
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IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA Dossier: Il Rinascimento centroeuropeo
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LA RIFORMA CATTOLICA
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APPENDICI L’Europa della Riforma Cronologia comparata: Europa, Asia, Africa e America Elenchi dinastici Bibliografia Indice analitico Immagini
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PAGINA 2. Dettaglio del David di Michelangelo, conservato alla Galleria dell’Accademia di Firenze. ALLE PAGINE 4 E 5. Castello di Chenonceau, che il re di Francia Francesco I ordinò di costruire sul fiume Cher nel 1513. NELLA PAGINA ACCANTO. Ritratto di un uomo di novantatré anni, disegno realizzato nel 1521 (Grafische Sammlung Albertina, Vienna).
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INTRODUZIONE
I
ntorno alla metà del XV secolo, dopo mille anni di stabilità, le fondamenta della vita nel continente europeo iniziarono a traballare. Era l’annuncio del terremoto che si stava avvicinando. Dopo il suo passaggio, niente fu più come prima. Vecchie e nuove dinastie reali trovarono una strada diversa per consolidare il loro potere. Come conseguenza, le frontiere tra i Paesi ebbero la tendenza a stabilizzarsi, anche se, specialmente nelle regioni orientali, furono costrette a sopportare la pressione dei Turchi ottomani che, dopo l’occupazione di Costantinopoli, avviarono un’espansione aggressiva. Tanto nella Penisola Italiana quanto nei Paesi Bassi, gli artisti e gli scrittori appresero un nuovo modo di rappresentare il mondo che, in fondo, nascondeva un modo altrettanto nuovo di interpretarlo. Gli umanisti italiani rimasero affascinati dall’antichità classica. I pittori delle Fiandre, dalla natura che li circondava. Sembrò dunque che l’uomo aspirasse a occupare il posto che fino ad allora era appartenuto solamente a Dio. Ed era proprio così. Una serie di disgrazie sotto forma di guerre, peste e carestie portò molti cristiani a pensare che il Creatore si fosse dimenticato di loro. Furono tempi di spiriti travagliati ai quali la gerarchia cattolica non seppe dare consolazione. In questa situazione, un monaco tedesco, Martin Lutero, pensò che la Chiesa cattolica non era più il cammino della salvezza com’era stato in precedenza. Il suo messaggio riscosse un successo inaspettato. L’Europa si divise in due grandi fazioni, riformati e cattolici, che ben presto risolsero le loro differenze sul campo di battaglia. Roma tardò a reagire, ma lo fece con una forza tale che attraversò uno dei periodi più splendidi della sua storia. E come se tutto questo non bastasse, gli Europei scoprirono che il mondo conosciuto era solo una piccola parte del globo terrestre. Si apriva il cammino verso la prima globalizzazione, che ampliò in modo straordinario i loro orizzonti ma contribuì a mettere in discussione molte certezze in cui avevano vissuto fino ad allora.
ALLE PAGINE 8 E 9. Allegoria della dinastia Tudor, che appare con i suoi successori; olio realizzato da Lucas de Heere tra il 1570 e il 1575 (Sudeley Castle, Winchcombe). NELLA PAGINA ACCANTO Vista della città di Siena; nella parte superiore,
la Cattedrale di santa Maria Assunta, al cui interno sono conservate opere di Donatello e Michelangelo.
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FRANCESCO I DI FRANCIA. In questo
ritratto, dipinto nel 1525 da Jean Clouet, appare il re all’età di trentun’anni. Olio su tavola (Museo del Louvre, Parigi). Nella pagina successiva, corona di Isabella la Cattolica, conservata al museo della Cattedrale di Granada.
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IL NUOVO ORDINE MONARCHICO Nel 1450, la cartina politica dell’Europa somigliava a un mosaico multicolore, dai contorni incerti. Tuttavia alcune cose iniziarono a cambiare profondamente. Il numero dei Paesi indipendenti iniziò a diminuire, mentre i confini tra di essi si consolidavano. Questo fu il risultato dell’ascesa al trono di una serie di monarchi con un’energia insolita e un modo di intendere la loro missione molto diverso rispetto a quello dei loro predecessori.
I
monarchi che inaugurarono il nuovo modo di esercitare il potere reale furono Luigi XI e Francesco I di Francia, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, Enrico VII ed Enrico VIII d’Inghilterra, Mattia Corvino in Ungheria, Ivan III in Russia, Cristiano I di Danimarca, Casimiro IV di Polonia e, fino a un certo punto, Massimiliano I e Carlo V nel Sacro impero. Alcuni di questi appartenevano a lignaggi ormai esperti nell’arte di regnare, come i Valois in Francia, ma la maggior parte di loro era alle prime armi e proveniva dalle fila della nobiltà, che riuscì a cingere la corona, e non poche volte, dopo scontri violenti. Erano i Tudor inglesi, i Trastamara ca-
stigliani e aragonesi, gli Jagellone lituani, gli Oldenburg danesi, i Vasa svedesi e gli Asburgo austriaci. Tutti avevano degli obiettivi in comune e, anche se non li raggiunsero in egual misura, li perseguirono con un impegno simile. Si trattava di dominare i loro vecchi congeneri, la vecchia nobiltà latifondista, di espandere i propri territori, di trasmettere un’immagine solenne e di consolidare un sistema di governo che permettesse un esercizio più efficace del potere. Si trattò per questo dei re autoritari? Sicuramente furono l’unica cosa che, date le circostanze, potevano essere, se volevano conservare la corona sulla testa. Le famiglie reali europee furono sottoposte a un processo di sele13
IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
La guerre folle: la nobiltà di Francia contro il potere del monarca Nel 1581, nella sua opera Histoire des faicts, gestes et conquestes des roys de France, lo storico Paul Émile coniò il termine guerre folle, «guerra sconsiderata», per riferirsi alla lotta senza futuro iniziata dai grandi signori feudali francesi contro la monarchia gallica. Quest’ultima, guidata dalla reggente Anna di Valois, sorella di Carlo VIII, uscì rafforzata da questo conflitto, sia dal punto di vista politico sia territoriale. Prima di morire, il 30 agosto 1483, Luigi XI designò sua figlia Anna di Valois reggente del regno durante la minore età dell’altro suo figlio e successore, Carlo, che aveva tredici anni. La decisione non fu accolta per niente bene dall’alta nobiltà francese. Uno dei suoi membri più distinti, Luigi II, duca d’Orléans, dopo aver fallito il tentativo di impadronirsi di quella reggenza negli Stati Generali di Tours del 1484, organizzò con il duca Francesco II di Bretagna un’alleanza nobiliare, a cui si unirono rappresentanti guasconi, bearnesi e anche forze inviate da Massimiliano d’Austria e Riccardo III d’Inghilterra. Le ostilità, iniziate nel 1485, proseguirono fino al 28 luglio 1488, quando i ribelli furono sconfitti nella battaglia di Saint-Aubin-du-Cormier dalle truppe monarchiche comandate dal visconte Louis II de La Trémoille. La firma, un mese dopo, del Trattato di Verger confermò non solo il fallimento della sollevazione dei nobili, ma anche il rafforzamento del potere reale nelle mani di Anna di Valois e del marito Pietro II di Borbone. Il trattato significò inoltre l’inizio della fine della Bretagna come ducato indipendente, poiché la reggente fece sposare il fratello Carlo con Anna, la figlia ed erede del duca bretone. Nell’immagine, Anna di Bretagna in preghiera nel codice Libro d’Ore di Anna di Bretagna di Jean Bourdichon (Biblioteca Nazionale, Parigi).
zione naturale, in cui le più deboli si videro votate all’estinzione. È quello che successe con il ramo dei Valois che governava il Gran Ducato di Borgogna, con quello degli Jagellone che regnò in Boemia e in Ungheria o, prima di loro, con gli Angiò del regno di Napoli. Coloro i quali riuscirono a resistere inaugurarono un nuovo modo di esercitare il mestiere reale, che avrebbe segnato la vita politica europea nei tre secoli successivi.
L’unificazione della Francia Anche se il prestigio della casa di Valois uscì molto rafforzato dalla vittoria contro l’Inghilterra nella guerra dei Cent’Anni (1337-1453), sicuramente i domini della corona francese alla fine del conflitto erano sensibilmente ridotti. Nel 1461, Luigi XI ereditò una situazione in cui l’autorità reale era ancora sottoposta a diverse limitazioni in vasti territori, come la Provenza, la Languedoc, il Delfinato o la Bretagna, dove i nobili conservavano integra la maggior parte dei loro vecchi privilegi. Alla sua morte, nel 1483, solamente la Navarra, la Bretagna e i piccoli ducati di Borbone, Albret e Foix rimanevano al di 14
fuori del controllo diretto della monarchia. Il suo era stato un lavoro di unificazione territoriale come non lo si era mai visto dai tempi di Carlomagno, ma la minor età del figlio di tredici anni, il futuro re Carlo VIII, rese evidente che i passi avanti fatti dalla corona erano molto lontani dal loro consolidamento. Com’era prevedibile, la nobiltà fece di tutto per approfittare di questa situazione e recuperare il terreno perduto. Fortunatamente per la corona, la reggente Anna di Valois, sorella maggiore di Carlo, riuscì a contenere le loro aspirazioni durante la guerre folle, che si concluse nel 1488 con la cattura del leader dei nobili e cugino del monarca, il duca d’Orléans, futuro Luigi XII di Francia. Carlo VIII apparteneva ancora a un tempo in cui la mente dei re si nutriva di vecchi racconti cavallereschi. Decise quindi di consolidare il lavoro del padre, ma con altri mezzi: si trattava di unire la Francia intorno a un ambizioso progetto estero. Lo scenario scelto a questo scopo fu il regno di Napoli, dove la casata francese d’Angiò, dei cui diritti i Valois si ritenevano i continuatori, era stata cacciata alcuni anni prima da-
gli Aragonesi. La spettacolare cavalcata che portò Carlo ad attraversare l’Italia alla testa dei suoi eserciti, fino a raggiungere il regno meridionale, impressionò l’Europa. Ma si concluse con un clamoroso fallimento, quando le forze di Ferdinando il Cattolico, del papa Alessandro VI, del duca di Milano e della signoria di Venezia si unirono per fermarlo. La morte accidentale del re – dopo aver preso un colpo in testa passando dalla porta del castello di Amboise – senza discendenza, lasciò la monarchia francese in una situazione d’instabilità. Il trono ricadde allora sul cugino, il duca di Orléans, che regnò con il nome di Luigi XII, e che si rivelò un personaggio di singolare spessore politico. Il suo programma di riforme interne nell’ambito dell’amministrazione giudiziaria e della riscossione fiscale coincise con un periodo di pace interna e di prosperità economica e questo favorì notevolmente il consolidamento dell’autorità reale. Questo nonostante il fallito tentativo di impadronirsi del regno di Napoli, dove, ancora una volta, si scontrò con le aspirazioni di Ferdi-
nando il Cattolico. Anche il nuovo monarca francese morì senza lasciare una discendenza diretta, ma alla fine lasciò un Paese unificato in eredità al cugino Francesco I.
Il consolidamento della monarchia Il compito svolto dai Re Cattolici in Spagna fu realizzato da Francesco I in Francia. Al pari dei monarchi più energici del suo tempo, come Isabella di Castiglia, Mattia Corvino o il suo stesso predecessore, Luigi XII, Francesco era venuto al mondo senza quasi alcuna possibilità di cingere un giorno la corona. Forse per questo motivo la difese con singolare energia. Apparteneva alla linea dei Valois di Angoulême, un ramo collaterale della dinastia regnante e salì al trono dopo la morte senza eredi del suo predecessore. Era nato il 12 settembre 1494 a Cognac e aveva ricevuto una scrupolosa formazione cortigiana nel castello di Amboise, sulle sponde della Loira. Non riuscì a conoscere il padre, Carlo di Angoulême, cugino di Luigi XII di Francia, pertanto la sua educazione fu affidata alla madre, l’italiana Luisa di Savoia.
CASTELLO DI FONTAINEBLEAU.
Si tratta di uno dei più grandi palazzi reali francesi; ne ordinò la costruzione Francesco I, che incaricò dei lavori l’architetto Giles Le Breton, anche se invitò anche altri artisti, tra cui Leonardo da Vinci. La galleria d’arte che porta il nome del re, realizzata tra il 1533 e il 1539, è la prima nel suo genere costruita in Francia. I suoi affreschi sono opera di Rosso Fiorentino e Francesco Primaticcio (nell’immagine).
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IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
L’ultimo dei cavalieri in difesa del regno Francesco I vedeva sé stesso come un re intriso di vecchi ideali cavallereschi, gli stessi che lo portavano a partecipare a dei tornei e anche a mettersi al fronte dei suoi eserciti nel mezzo del campo di battaglia. Nel 1515, lo stesso anno della sua ascesa al trono, il re lasciò a intendere chiaramente che la sua politica estera sarebbe stata decisa in buona parte sul campo di battaglia. Così fece a Marignano quando, i giorni 13 e 14 settembre, le sue truppe e quelle dei suoi alleati veneziani sconfissero quelle della Confederazione Svizzera. Più tardi, a partire dal 1521, sarebbero arrivate altre guerre, soprattutto contro l’imperatore Carlo V, con sorte impari per le milizie galliche. Tanto che, in uno di questi episodi, la battaglia di Pavia, il re francese in persona venne fatto prigioniero dal suo rivale che lo obbligò a firmare il Trattato di Madrid. Nell’immagine, a sinistra, moneta d’oro francese con l’effigie di Francesco I; a destra, rilievo della sua tomba nell’abbazia di Saint-Denis a Parigi, che lo rappresenta mentre partecipa, come un cavaliere qualunque, alla battaglia di Marignano.
A otto anni, un incidente a cavallo fu sul punto di costargli la vita; a diciannove si sposò con Claudia, figlia di Luigi XII, matrimonio da cui nacquero sette figli; a venti, veniva eletto re di Francia nella cattedrale di Reims. Un mese dopo la sua incoronazione, Francesco I manifestò chiaramente le sue intenzioni: governare da solo senza la partecipazione degli organi collegiali del regno. L’anno successivo firmò con il papa Leone X un concordato che gli permetteva di nominare direttamente vescovi, abati di monasteri e priori dei conventi. La più importante istituzione di governo, il Conseil du Roi, conservò integre le sue funzioni. Perlomeno in teoria, poiché il re iniziò a lavorare sempre più con una sezione ridotta dei suoi membri più fedeli, conosciuta come Conseil étroit o Conseil secret. In linea con quello che stavano facendo altri monarchi del momento, le sue decisioni si orientarono verso una professionalizzazione dei compiti di governo. Al Conseil privé affidò la gestione della giustizia e al Conseil des finances le questioni economiche. 16
Il re intensificò la pressione fiscale attraverso la creazione di un’imposta diretta, la taille, che dovevano pagare tutti coloro che non godevano di alcun privilegio che li esentasse dal pagamento. A questa si aggiunse una serie di imposte indirette, come la gabelle del sale o le aides sul traffico di merci. In pochi anni le casse reali si riempirono come non era mai successo prima. Queste riforme ebbero il loro analogo in altri ambiti. A capo dell’esercito egli mise il conestabile, un incarico che riservò ai membri della più alta gerarchia nobiliare. Per quanto riguarda il controllo dei diversi territori, che nonostante gli sforzi dei suoi predecessori erano molto lontani dall’essere del tutto unificati, rimase nelle mani dei governatori, solitamente principi del sangue o membri dell’alta nobiltà, che incarnarono l’autorità reale grazie alla collaborazione dei commissari, poco dopo conosciuti come intendenti. Quello che il re cercava di fare era formare una classe dirigente docile alle sue richieste. Nel 1539, l’Ordinanza di Villers-Cotterêts stabilì che il francese era la lingua ufficiale al posto del latino.
Il regno di Francia intorno al 1530 Palazzi dei Valois Campagna militare Battaglie
INGHILTERRA Calais
Isola di Wight (1545)
Boulogne-sur-mer FIANDRE Canale della Manica (1544) Cambrai Amiens Mézières (1521) COUCY CREIL Se
Reims
C H A M PAG N E a
nn
N O R M A N D I A Chantilly SAINT-GERMAIN PARIGI B R E TAG N A Rennes -EN-LAYE VINCENNES
LUSSEMBURGO
CHATEAUDUN FONTAINEBLEAU Troyes BLOIS CHAMBORD LANGEAIS Lo i ra Nantes AMBOISE GIEN B O R G O G N A Bourges A N G I Ò CHENONCEAU Dijon
B E R RY P O I TO U
Angoulême
REIGNO DI FRANCIA Bordeaux
Clermont-Ferrand Lione
Ga
Fuenterrabía (1521)
N AVA R R A
MONARCHIA SPAGNOLA
r on
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Tolosa LANGUEDOC
P R OV E N Z A
TORINO
Avignone
(1515) Bicocca (1522) MILANO
Susa (1538) Landriano Pavia (1529) (1525)
S AVO I A
Genova
Montpellier Perpignan (1542)
Marsiglia (1524)
Nasce a Cognac, nella Francia occidentale all’interno di un ramo collaterale della dinastia reale francese dei Valois.
1515
Alcuni mesi dopo essere salito al trono, vince gli Svizzeri a Marignano e questo gli permette di prendere Milano.
Nizza (1543)
MAR MEDITERRANEO
FRANCESCO I A MARIGNANO. Il Ducato di Milano, porta d’ingresso in Italia da nord,
fu motivo di tensione tra Francia e Spagna durante la prima metà del XVI secolo. Re Luigi XII lo aveva conquistato nel 1499 difendendo i diritti della nonna Valentina Visconti, ma lo perse nel 1513, quando la Confederazione Svizzera rimise sul trono ducale gli Sforza, con il beneplacito papale. Due anni dopo, Francesco I, nella sua prima azione come sovrano, lo riconquistò dopo aver sconfitto gli Svizzeri in una battaglia, quella di Marignano, in cui il ruolo dell’artiglieria fu essenziale.
Naturalmente queste misure furono accolte non senza resistenze, ma tutti si piegarono allo slancio del monarca. In un celebre discorso pronunciato nel 1527, il presidente del Parlamento di Parigi, il principale organo giudiziario del regno e quello che più di tutti si era opposto alle decisioni reali, dovette riconoscere che il potere del re era assoluto, ovvero, che non era vincolato alle leggi anche se sperava, disse, che fosse almeno vincolato alla ragione. I giuristi al servizio del re dovettero lavorare intensamente per trovare delle buone argomentazioni che giustificassero le riforme. Jean Ferrault, Barthélemy de Chasseneuz e Charles de Grassaille furono i principali incaricati di compilare i diritti del re o regalie, un termine che iniziò a essere sostituito sempre più con “sovranità”. Parte fondamentale nel programma di rafforzamento dell’autorità monarchica fu la graduale trasformazione dell’immagine pubblica di Francesco. Fin dall’inizio, gli abitanti di Parigi rimasero impressionati dalla sua prima entrata solenne nella città. Agghindato con una vistosa giubba di seta bianca impreziosita da ricami d’argento,
1494
Besançon
Ceresole (1544) Novara
A LV E R N I A
D o rd ogna
GUIENNA
Bayonne
FRANCA CONTEA
CONFEDERAZIONE SVIZZERA Marignano
Ro d a no
Golfo di Biscaglia
SACRO ROMANO IMPERO GERMANICO
GLORIA E PRIGIONIA DI FRANCESCO I DI FRANCIA
in sella a un destriero impennato (una metafora meditata del dominio che pensava di esercitare sulla Francia), il monarca distribuì monete a piene mani tra la folla che lo acclamava. La tradizionale parata degli ordini religiosi e delle confraternite fu soppressa. Soltanto Francesco doveva essere al centro dell’attenzione. Negli anni successivi, i suoi collaboratori costruirono un’immagine del re che combinava la doppia componente cristiana e pagana. Per quanto riguarda la prima, fu presentato come il buon pastore che dava la vita per le sue pecore, un paragone con la figura di Cristo che gli permise di insistere sul messaggio delle sofferenze che subiva per il suo popolo e di presentare le sue campagne all’estero come crociate in difesa della fede. In riferimento invece all’immagine profana, dovette molto all’adozione del linguaggio visivo italiano debitamente adattato alla tradizione francese. Fu quindi presentato come il continuatore dell’eredità dei Franchi incarnata da Carlomagno, pur rivestito degli indumenti classici dell’iconografia imperiale romana.
1525-1526
Nella battaglia di Pavia è sconfitto e catturato da Carlo V. Rimane prigioniero a Madrid per nove mesi.
1539
Promulga l’Ordinanza di Villers-Cotterêts, con la quale il francese diventa l’unica lingua ufficiale ammessa nell’amministrazione.
1544
Si firma la Pace di Crépy, che mette fine alla quarta e ultima guerra tra Francesco I e Carlo V.
1547
Il re muore a Rambouillet. Gli succede il figlio Enrico II.
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CHAMBORD, IL GIOIELLO DI FRANCESCO I
Q
uando Francesco I compì venticinque anni, decise di regalarsi un palazzo che fosse l’espressione più perfetta delle sue due grandi passioni: l’architettura e la caccia. Il risultato fu il castello di Chambord (nell’immagine, la facciata nord), il più grande dei quasi 300 che si ergono nella valle della Loira. Leonardo da Vinci venne incaricato del progetto e, nonostante la sua morte quello stesso anno gli impedì di realizzarlo, la sua impronta si percepisce in elementi come la scala a doppia elica. 18
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7 1 2 3 5 FACCIATA NORD
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LA PIANTA. Chambord ha una forma rettangolare intorno a una pianta centrale quadrata, secondo uno schema tipico del Rinascimento francese.
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3 LA SCALA ELICOIDALE. In realtà sono due scale in una che mettono in comunicazione in modo indipendente gli appartamenti del corpo centrale.
4 I SOFFITTI. Ricoperti completamente d’ardesia, mostrano un fantastico groviglio di torrette, camini e occhi di bue.
L’ENTRATA NORD. La facciata misura 156 m di lunghezza. Chambord dispone di 426 stanze, 282 camini, 77 scale e 800 capitelli scolpiti.
6 IL PARCO. Il castello si trova in un parco alberato di 5.440 ha circondato da un muro di 32 km. Erano i terreni di caccia del re.
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I LUCERNARI. Le ampie
finestre sui cornicioni rispondono a una funzione pratica (forniscono luce naturale) ed estetica.
IL CORPO CENTRALE.
L’edificio principale del château ricorda un donjon, una grande torre quadrata con torrioni ai suoi quattro angoli.
GLI APPARTAMENTI DEL RE. Inizialmente situati nel
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donjon, si estesero nell’ala destra della facciata nord fino al torrione.
LA SALAMANDRA. L’animale araldico del re adorna il suo scudo in questo rilievo di pietra. 19
IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
CARLO IL TEMERARIO PRESIEDE IL PARLAMENTO DI BORGOGNA. Nel 1435,
la Borgogna si slegò dal vassallaggio con la Francia e da allora Carlo fu in guerra continua con Luigi XI. Arrivò persino ad allearsi con la Spagna e con l’impero contro il re francese. La seduta del parlamento si tenne a Malines il 4 luglio 1474. Olio su tavola di artista anonimo (Musée National du Château, Versailles).
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Sicuramente la parte più visibile del suo programma culturale fu in ambito architettonico. Già nel 1519 ordinò la costruzione del castello di Chambord, con un progetto in pieno stile rinascimentale italiano. Con quest’opera iniziò un profondo rinnovamento architettonico, che riguardò prevalentemente le fortezze medievali della Loira, trasformate in residenze di svago del monarca. Questo processo raggiunse senza dubbio la sua massima espressione nel palazzo di Fontainebleau, divenuto la sede della sua importante collezione d’arte. Gli artisti che vi lavorarono svilupparono uno stile raffinato e artificioso, dominato dal gusto per l’allegorico e il mitologico, con un tocco di squisito erotismo, che si può apprezzare nelle opere preziosiste di Jean Cousin, autore di nudi perfetti e di François Clouet, creatore di tele mitologiche i cui personaggi hanno le caratteristiche di alcuni membri della corte. Senza dubbio, un fattore che fu determinante nell’immagine di Francesco come principe umanista fu la sua capacità di circondarsi di alcuni dei principali artisti italiani del momento, come An-
drea del Sarto e Leonardo da Vinci, che durante la sua permanenza a Parigi dipinse alcune delle sue opere più celebri, come Sant’Anna, la Vergine e il Bambino e il San Giovanni Battista, oltre a ritoccare ancora una volta La Gioconda che, alla fine, sarebbe finita nelle mani del re.
Il Gran Ducato di Borgogna Al confine nordorientale, la Francia era circondata da un insieme eterogeneo di territori governati dal duca di Borgogna, un titolo che dal 1363 ricadeva su un ramo collaterale dei Valois. Ai loro domini originari, concentrati al centro della Francia, i duchi di Borgogna avevano unito, grazie ai loro opportuni matrimoni, le ricche regioni del nord: prima i ducati di Lussembugo, Fiandre, Brabante, Limburgo e Artois e, in seguito Olanda, Zelanda, Frisia e Hainaut. In realtà si trattava di un amalgama di culture, tradizioni, leggi, privilegi e giurisdizioni spesso sovrapposte, che necessitavano di un governante capace e tollerante. Esattamente quel che fu il duca Filippo il Buono. Durante il suo lungo governo, tutto por-
manovra: il Gran Privilegio, che oltre all’autonomia garantiva l’affidamento di tutte le cariche ai nativi e il Gran Consiglio, formato dall’aristocrazia che assumeva poteri di base sia in politica interna sia in quella estera.
Gli Asburgo
tava a pensare che la Borgogna fosse destinata a diventare una delle grandi potenze europee. Vantava alcune delle città più ricche del continente europeo, come Bruges, Gand e Anversa, una tradizione politica all’avanguardia e la sua corte era tra le più colte d’Europa. Tuttavia, aveva il grande inconveniente che i suoi territori erano molto dispersi e i suoi abitanti, che tra l’altro parlavano lingue diverse, non avevano sentimenti comuni che li unissero. Nel decennio del 1470 il figlio di Filippo, Carlo il Temerario, fu ossessionato dall’idea di saldare i due blocchi che componevano il Gran Ducato, strappando il ducato di Lorena ai Francesi, ma morì mentre cercava di farlo, durante la battaglia di Nancy nel 1477. Sua figlia Maria non ebbe altra scelta che negoziare la Pace di Arras, dalla quale si vide costretta a cedere alla Francia il nucleo originario dei suoi possedimenti, il ducato di Borgogna, rimanendo solo con la Franca Contea e i Paesi Bassi. Questi ultimi accettarono la sovranità di Maria in cambio di una serie di concessioni, che davano alle loro élite un ampio margine di
Alla fine del XV secolo, il Corpus Germaniae, come veniva chiamato in alcuni documenti dell’epoca, costituiva quello che alcuni storici hanno considerato uno Stato federale e altri, semplicemente, un progetto inconcluso. Era l’ultima traccia rimasta della vecchia aspirazione carolingia di un impero che vegliasse sulla difesa della cristianità. Accoglieva al suo interno praticamente tutte le forme di organizzazione politica possibili: territori estesi governati da principi o duchi che aspiravano a comportarsi come re, ampi domini ecclesiastici in cui il vescovo godeva delle prerogative di un governante secolare, città libere con uno statuto proprio che dava loro un ampio margine di libertà, confederazioni di popolazioni e valli e, infine, cavalieri imperiali a capo dei loro possedimenti di origine feudale. Alla guida di questo conglomerato c’era l’imperatore, un titolo che con il tempo era stato spogliato di molte delle sue antiche pertinenze. In gran parte questo fu dovuto al fatto che la corona imperiale non era ereditaria, ma che i candidati a cingerla dovevano sottoporsi in ogni caso allo scrutinio dei sette principi elettori: tre ecclesiastici, i potenti arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri, e quattro secolari, i principi del Palatinato, Sassonia, Brandeburgo e Boemia. Nessuno di loro era disposto a dare il suo appoggio senza ottenere in cambio delle onerose concessioni. Per cercare di stabilire dei minimi criteri comuni che giustificassero la sua carica, l’unico strumento a disposizione dell’imperatore era la Dieta, una camera massificata dove ognuno vigliava sui propri interessi e che, come il tempo avrebbe dimostrato, risultò ingovernabile. Nel 1452 Federico d’Asburgo riuscì a impadronirsi dello scettro imperiale, che in altri tempi era stato nelle mani degli Hohenstaufen, dei Wittelsbach o dei duchi di Lussemburgo. Iniziava così l’egemonia della famiglia che più avrebbe influito nel panorama politico europeo nei tre secoli successivi. E questo nonostante, di per sé, gli Asburgo non erano altro che uno dei tanti lignaggi aristocratici entrati in competizione con i loro simili per ampliare il loro raggio d’influenza, a partire dalle loro basi originarie nell’Alta e nella Bassa Austria che, a dire il vero, non appartenevano nemmeno alla Germania.
MARIA DI BORGOGNA.
L’unica figlia di Carlo il Temerario e della sua seconda moglie, Isabella di Borbone, si rivelò infine un elemento chiave nella strategia politica paterna, poiché il duca inclinò l’ago della bilancia nella lotta per la preminenza europea facendola sposare con Massimiliano d’Asburgo, futuro imperatore del Sacro romano impero germanico. Maria ereditò il ducato di Borgogna alla morte del padre nella battaglia di Nancy, e dovette difenderlo dalle pretese di Luigi XI, ansioso di dominare non solo la Borgogna (che non ottenne), ma anche i ducati dei Paesi Bassi, di cui Maria era proprietaria e che riuscì a preservare dalla voracità del re francese.
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IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
Gli Stati europei agli inizi del XVI secolo Il XVI secolo è un punto di inflessione nella storia di un’Europa che si lascia alle spalle l’eredità politica e spirituale dell’epoca medievale per affrontare nuove sfide. La costruzione dei primi Stati moderni sarà una di queste. L’Europa degli inizi del XVI secolo era un mosaico che comprendeva le forme più disparate di organizzazione statale. Da un lato, la presenza di tre grandi monarchie che, grazie a un’amministrazione molto evoluta e a un potere reale forte, iniziavano a svolgere un ruolo decisivo nel continente: la Spagna degli Asburgo, la Francia dei Valois e l’Inghilterra dei Tudor. L’Europa ospitava anche un Sacro romano impero germanico sul punto di trasformarsi, con gli Asburgo, in uno Stato dinastico; c’erano poi molti principati nella Penisola Italica e in Germania, monarchie elettive in Ungheria, Svezia o negli Stati Pontifici, repubbliche marinare come Venezia e Genova o città-Stato come Ragusa o Danzica. I territori baltici erano dominati dall’Ordine militare dei cavalieri teutonici e Lituania e Polonia si fusero nel 1569 nell’Unione di Lublino. A est e al centro dell’Europa l’impero ottomano continuava a essere una grave minaccia.
MASSIMILIANO D’ASBURGO E LA SUA FAMIGLIA. L’imperatore
appare ritratto con la moglie Maria di Borgogna, il figlio Filippo il Bello, i suoi due nipoti, i futuri Ferdinando I e Carlo V (al centro), e Luigi II d’Ungheria. Olio su tavola di Bernhard Strigel (1460-1528; Kunsthistorisches Museum, Vienna). La famiglia imperiale è rappresentata come se si trattasse della famiglia di Cristo; vicino a ogni ritratto c’è un’iscrizione che rimanda alla Sacra Famiglia.
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Durante il regno di Federico III d’Asburgo, il governo effettivo dell’impero ricadde sul vescovo di Magonza, Bertoldo di Henneberg, le cui aspirazioni di introdurre misure di unificazione nell’ambito della giustizia o del sistema monetario e fiscale si scontrarono sistematicamente con l’opposizione della Dieta. In questo senso, i risultati ottenuti da Federico furono molto lontani da quelli raggiunti dai monarchi francesi per ridurre il potere dei nobili. Il suo merito principale fu far sposare il figlio, il futuro imperatore Massimiliano, con Maria di Borgogna. Anche se il matrimonio durò pochi anni, poiché Maria morì nel 1482 cadendo da cavallo a Bruges, l’unione permise agli Asburgo di impadronirsi di territori importanti, tanto golosi quanto avvelenati. Massimiliano si mostrò molto più attivo del padre nell’impegno di ricomporre la malconcia autorità imperiale. Nel 1495 riunì la Dieta nella città di Worms e le presentò un programma di riforme che, sebbene comportassero la cessione di prerogative imperiali, aspiravano a un coordinamento più efficace in aspetti come l’ammini-
strazione della giustizia, la difesa dei territori o la gestione della fiscalità. Durante il suo regno si approvarono alcune delle misure proposte a suo tempo da Bertoldo di Magonza, ma lo scoppio della Riforma nel 1517 mandò all’aria tutti i progetti di unificazione. Applicando il motto di famiglia «Gli imperi che altri ricevono da Marte, a te vengono dati da Venere», fece sposare suo figlio Filippo, detto il Bello, con la figlia dei Re Cattolici, Giovanna di Castiglia, detta la Pazza. Questo avrebbe aperto la strada per lo sbarco degli Asburgo, o degli Austriaci, come li avrebbero conosciuti i loro futuri sudditi, nei regni ispanici. Il primo sovrano della casa fu suo nipote Carlo.
I regni orientali Allineata lungo la frontiera orientale dell’impero germanico c’era una serie di territori che con troppa superficialità sono stati considerati come un mondo a parte. Tuttavia, alla fine del Medioevo, molti di essi seguirono una dinamica paragonabile a quella dei regni occidentali del continente. Con la particolarità, però, che essi dovettero
DI PO
R EGNO DI NO RVEGIA
Confine del Sacro romano impero germanico Territori asburgici
Christiania
R EGNO DI SVEZIA
REG N O D I SCOZ I A
Stoccolma PRINC IPATO DI MOSCOVIA
Edimburgo R EGNO DI DANIMARCA
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Kalmar
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SACRO RO M ANO IMPERO GER MANICO Colonia
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NAVA RR A MO NARCHI A SPAGN OLA Saragozza CAST I GL I A AR AG O NA Toledo
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Genova Bologna Marsiglia R EPU B B L ICA Firenze Zara DI GENOVA STATI RE P U BB L ICA PO NTIFICI DI F I R ENZE
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VALACCHIA R EPU B B L ICA DI R AGU SA Ragusa
SARDEGNA
Napoli
R EGNO D I NAPOLI
Palermo
Algeri Tunisi
affrontare l’ingrato compito di frenare l’avanzata dell’impero ottomano, che dopo l’occupazione di Costantinopoli nel 1453 iniziò un veloce processo di espansione verso il centro Europa. Tra questi, il territorio più esteso era nelle mani della casata degli Jagellone, una famiglia di origine lituana che con Casimiro IV riuscì a unire sotto uno stesso dominio il regno di Polonia e il Gran Ducato di Lituania. In modo simile, e come fecero i re di Francia, Casimiro IV cercò di consolidare l’unione attraverso una politica espansionistica aggressiva, che gli permise di impossessarsi di territori nella Russia Bianca e in Ucraina, inclusa la capitale, Kiev. Parallelamente, combatté una lunga lotta con l’Ordine militare dei cavalieri teutonici, che controllava buona parte della costa del Baltico, allo scopo di ottenere uno sbocco sul mare. Nel 1466 riuscì a imporgli il Trattato di Toruń, con il quale guadagnò il porto di Danzica e la Pomerania Orientale. Come con altri monarchi del suo tempo, questa impressionante espansione territoriale fu anche il suo tallone d’Achille. I suoi numerosi vicini, Russi e Tartari a
Sofia IMPERO OTTO MANO
Durazzo
Istanbul
Salonicco
Otranto
Cagliari Ceuta
Belgrado
Adrianopoli
Valencia Siviglia
MOLDAVIA
Budapest ARC I DUCATO D’AUSTRI A
Roma
Orano
Riga
Messina
Atene
Smirne
SI C I LI A
est, Germani a ovest e Ottomani a sud, si mostrarono assolutamente contrari ad accettare questa nuova situazione. Lo scoglio principale degli Jagellone per far fronte a questa resistenza era simile a quello degli Asburgo – perché anche la loro monarchia era elettiva – o, da un certo punto di vista, a quello dei Valois, perché in fondo i loro possedimenti non erano altro che un insieme di territori, antichi domini feudali, mal assemblati. A peggiorare ulteriormente la situazione, i sospetti tra le élite lituane e polacche, due territori uniti dinasticamente come in seguito lo sarebbero state Castiglia e Aragona, ma non dal punto di vista sociale e politico, aumentarono con il passare del tempo. Alla morte di Casimiro IV, parte della nobiltà polacca si ribellò contro quella che considerava un’eccessiva ingerenza dei Lituani nelle questioni interne. L’unione si spezzò e il figlio di Casimiro, Giovanni I, fu eletto re solamente della Polonia. Il suo successivo tentativo di conquista della Moldavia fu un fallimento clamoroso tanto quanto quello del-
ANNA JAGELLONE.
Ritratto della regina di Polonia, ultimo membro della dinastia nel 1595; olio su tela di Martin Kober (Palazzo Reale di Varsavia).
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IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
la conquista del regno di Napoli, portato avanti sia da Luigi XI sia da Carlo VIII di Francia. Alla sua morte, Polonia e Lituania tornarono a unirsi sotto lo scettro del fratello Alessandro I, ma il prezzo che il nuovo monarca fu costretto a pagare fu un severo controllo da parte della Dieta, che era dominata dalla nobiltà, la quale non voleva perdere la sua quota di potere. Nel 1505 la Dieta si riunì a Radom per imporgli restrizioni molto severe in aspetti quali l’organizzazione dell’esercito, la creazione di nuove leggi e l’approvazione delle imposte. L’impossibilità di ottenere l’appoggio delle città, che aveva tanto beneficiato altre corone europee, fece perdere alla casa reale polacca la sua fermezza con la nobiltà. Quella che a volte è stata definita una monarchia costituzionale fu in realtà una repubblica aristocratica, più simile alla signoria di Venezia che alla monarchia francese o inglese. Con una consapevolezza però molto minore dell’interesse comune. Nonostante questo, i successori di Alessandro I, Sigismondo I e Sigismondo II, riuscirono a consolidare l’unione polacco-lituana 24
ma non la loro autorità, che continuò a essere nelle mani della nobiltà più egoista d’Europa. La situazione risultava ancora più convulsa nella vicina Boemia, che tra il 1408 e il 1415 era stata scenario di una rivolta religiosa contro gli abusi della Chiesa, guidata dal sacerdote Jan Hus. Il successivo intervento del papato scatenò una battaglia civile di cui approfittarono i vicini per appropriarsi di alcuni dei suoi territori più preziosi, come la Moravia o la Slesia, che finirono nelle mani dell’Ungheria. Casimiro IV sfruttò questo clima di confusione per mettere sul trono di san Venceslao il figlio Ladislao II (1471-1516), aumentando così ancora di più l’influenza degli Jagellone nella regione. Ma durò poco. Alla divisione interna si unì la pressione turca che contribuì a portare il Paese nel baratro. Il tentativo di frenare l’avanzata di Solimano il Magnifico verso il cuore dell’Europa finì nel 1526 con la disastrosa battaglia di Mohács, nella quale morì il figlio di Ladislao, Luigi II (1516-1526). L’occasione fu sfruttata in quel momento dagli Asburgo. L’arciduca Ferdinando d’Austria, fratello
L’opera di occidentalizzazione di Mattia Corvino Nei suoi trentadue anni di regno, Mattia Corvino non solo rafforzò il potere reale contro la nobiltà ungherese e le pressioni dei suoi vicini, ma trasformò anche il suo regno in una società rurale, in un centro di cultura umanistica. Figlio del nobile János Hunyadi, le cui vittorie contro i Turchi lo avevano reso un eroe e un reggente d’Ungheria durante la minor età di Ladislao V, Mattia Corvino non era inizialmente chiamato a regnare. Ma una serie di circostanze, come l’esecuzione del fratello László Hunyadi da parte del re e la conseguente insurrezione della nobiltà ungherese, guidata dallo zio materno Mihály Szilágyi, finì per aprirgli la strada verso il trono. Incoronato il 24 gennaio 1458, il giovane re latinizzò il suo cognome facendolo derivare da corvus (corvo),figura che appariva sullo stemma della sua famiglia e mise in chiaro da subito che le minacce al suo potere, sia dall’interno sia dall’esterno, non gli avrebbero impedito di trasformare il suo regno in un fiorente centro culturale di stampo italiano. Cosa che, d’altra parte, non era certo strana per una persona che aveva ricevuto un’accurata educazione umanistica. Così Mattia invitò numerosi artisti alla sua corte, costituì una grande biblioteca, diede incarichi ad artisti come il Verrocchio o Filippo Lippi e costruì e rimodernò edifici seguendo i principi di Alberti e Filarete. In questo compito ebbe come alleata la moglie Beatrice di Napoli, figlia del re di Napoli, che fu incaricata di introdurre a corte i gusti, i costumi e addirittura la gastronomia italiani. A sinistra, il castello di Hunyadi visto da Antal Ligeti, in un dipinto della metà del XIX secolo (Galleria Nazionale Ungherese, Budapest); in questa pagina, Mattia Corvino in un busto di Gian Cristoforo Romano, che lo rappresenta come un imperatore romano (Galleria Nazionale Ungherese, Budapest).
dell’imperatore Carlo V, fu eletto re di Boemia. Il Paese entrò così nell’orbita dell’impero. La pressione turca fu ancora più forte nel regno d’Ungheria, trasformato in territorio di marca tra la cristianità e l’Islam. Era un Paese in più tra quelli in cui la corona doveva competere con la voracità dei nobili. Anche se, con Mattia Corvino, questi ultimi si ritrovarono un osso duro da mordere. Corvino apparteneva al clan nobiliare degli Hunyadi ed era stato eletto dai suoi pari per guidare le sorti del regno dopo la morte di Ladislao V. Si accorse subito che gli era stato affidato un compito ingrato. Dovette far fronte non solo alle ambizioni territoriali dei Turchi, ma anche dei Cechi e dell’impero. Corvino si rivelò tuttavia un uomo straordinariamente capace. Quando si resero conto che egli non era disposto a essere un fantoccio nelle mani dei nobili, i suoi avversari offrirono la corona di santo Stefano all’imperatore Federico III. Corvino li sconfisse tutti: l’imperatore, i Turchi e gli avversari nobili. Riprese la Bosnia, che era stata occupata dagli Ottomani, ampliò i suoi domini fino alla Moldavia e alla Va-
lacchia, strappò la Slesia e la Moravia ai Cechi, mise in riga la Dieta e si dotò di un esercito permanente. Con la giustificazione che non collaborava abbastanza alla lotta contro gli infedeli, tolse all’imperatore i suoi territori patrimoniali nella Bassa Austria e nella Stiria, si impossessò di Vienna e trasferì la sua corte nella capitale degli Asburgo. Infine, per completare l’opera, sviluppò un ambizioso programma culturale destinato a occidentalizzare il Paese: creò università, fondò biblioteche e protesse gli artisti, molti dei quali erano giunti dall’Italia. Scottati dall’esperienza passata, dopo la morte di Mattia Corvino i nobili ungheresi si rifiutarono di accettare il figlio di questi e offrirono la corona al re di Boemia, Ladislao II Jagellone: pertanto, come succedeva con Polonia e Lituania o, all’altro estremo del continente, con Castiglia e Aragona, i destini delle due corone rimasero legati a una stessa dinastia. Con la battaglia di Mohács svanì tuttavia il sogno concepito da Mattia Corvino di trasformare l’Ungheria in una monarchia che fosse paragonabile a quelle che si stavano formando 25
IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
IVAN III CONTRO L’ORDA D’ORO.
In quest’olio su tela di Nikolai Semenovich (1838-1869 ca.), Ivan il Grande ordina la morte del khan dei Tartari. Rifiutandosi di pagare i tributi all’Orda d’Oro, Ivan provocò la fine del dominio tartaro nel sud della Russia, che era stato effettivo nel XIII secolo (Nikanor Onatsky Regional Art Museum, Sumy).
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nell’Occidente europeo. Il suo territorio rimase diviso in tre parti: la più estesa, che comprendeva le città di Buda e Belgrado, rimase nelle mani dei Turchi; le regioni del nord e dell’ovest, in quelle degli Asburgo; e l’est, la Transilvania, divenne un principato indipendente vassallo dei Turchi. Il regno di Mattia Corvino si era sviluppato quasi parallelamente a quello di Ivan III. Indubbiamente la situazione della Russia era diversa da quella dell’Ungheria, ma alcuni suoi comportamenti ebbero molti punti in comune. Fino alla fine del Medioevo, quella che in seguito sarebbe diventata la Russia era formata da ampie estensioni di domini feudali, dove i contadini vivevano male, in condizioni di semi-schiavitù, sottomessi a loro volta al vassallaggio dell’impero tartaro dell’Orda d’Oro. Il più potente di questi domini era il Gran Ducato di Mosca, che con Ivan III il Grande ruppe la dipendenza dai Tartari e iniziò il processo di unificazione di “tutte le Russie”. Per sottomettere i grandi principi territoriali, i boiardi, Ivan creò una nobiltà di servizio formata da uomini senza passato, che in cambio di conces-
sioni territoriali gli giurarono una fedeltà incondizionata. Al tempo stesso incoraggiò lo scontro dei contadini con i loro signori allo scopo di ridurne l’autorità. Di conseguenza, la Russia visse in quegli anni un periodo di agitazione nelle campagne, paragonabile a quello che stava vivendo la Catalogna con il conflitto dei remensas o che, anni dopo, avrebbe vissuto la Germania con le guerre contadine. Ma il risultato, in questo caso, non fu altro che un peggioramento, se possibile, delle generali condizioni di vita. Come già avevano fatto i re Luigi XI di Francia e Casimiro IV di Polonia-Lituania, Ivan avviò una campagna destinata a estendere la sua autorità sui territori circostanti: si impadronì dei principati di Yaroslavl, Rostov, Tver e della Repubblica di Novgorod e adottò il titolo di Gran Principe di tutte le Russie. Ivan fu un uomo di convinzioni messianiche; sposato con una nipote dell’ultimo imperatore bizantino della dinastia dei Paleologi, dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453), sentì la voce che lo chiamava a ricostruire l’impero crollato. Decise pertanto di trasformare Mosca nella “Terza Roma”, costruendo a questo scopo una corte nel più puro stile di Bisanzio, anche se, come Mattia Corvino, anche lui guardò verso Occidente per realizzare il suo progetto. Aristotele Fioravanti, che aveva lavorato precedentemente in Ungheria, andò a Mosca per progettare la Cattedrale della Dormizione nel cuore del Cremlino. La capitale russa divenne un punto di incontro di commercianti, ingegneri, militari e avventurieri ansiosi di fare fortuna. I pontefici romani decisero di appoggiare Ivan, nel quale videro il ponte per un avvicinamento alla Chiesa ortodossa. Certamente Ivan III dovette superare la ferrea resistenza da parte della nobiltà latifondista, ma fu più fortunato con la sua successione rispetto a Mattia Corvino: il suo progetto sarebbe stato portato a termine anni dopo dal nipote Ivan il Terribile.
L’Europa nordica Come nel caso della confederazione di Polonia e Lituania, l’esperienza dei Paesi nordici evidenziò le enormi difficoltà che comportavano le unioni dinastiche di territori molto diversi tra loro, soprattutto quando le loro élite non avevano, come successe nel ducato di Borgogna, una causa comune alla base dei loro interessi. Danimarca e Norvegia si erano unite nel 1397 alla Svezia, che comprendeva il territorio della Finlandia, per formare l’Unione di Kalmar. L’obiettivo di questa unione era quello di contrastare la competitività commerciale della confederazione di città tedesche unite attraverso la Lega Anseatica. Fu però subito evidente sarebbe stato necessario
qualcosa in più dei soli interessi commerciali per tenere insieme dei territori così eterogenei. La nobiltà svedese non smise mai di guardare con sfiducia quello che considerava un autoritarismo crescente dei re danesi del casato degli Oldenburg, la cui politica espansionistica li portò a impadronirsi dei territori di Schleswig e Holstein al confine con la Germania. Come anche pensarono i nobili aragonesi in riferimento alla Castiglia, questa espansione unilaterale di uno dei soci creava una situazione di squilibrio e costituiva una minaccia per i loro diritti. Il sollevamento separatista del 1449, guidato da Karl Knutsson – che per tre volte si fece proclamare re di Svezia con il nome di Carlo VIII e per tre volte fu deposto dai Danesi – aprì uno dei periodi più agitati della storia del nord Europa. Questa situazione proseguì fino al 1520, quando l’Unione di Kalmar si sciolse non senza lasciare nella memoria un vero e proprio “bagno di sangue”, come gli Svedesi definirono la conquista di Stoccolma da parte di Cristiano II di Danimarca in quello stesso anno, seguita da una crudele rap-
presaglia con esecuzione in massa dei suoi abitanti. La fine dell’Unione rivelò che da nessuna parte era scritto che la storia politica d’Europa dovesse necessariamente seguire il cammino dell’unificazione territoriale.
I Re Cattolici Negli Stati in cui i monarchi riuscirono a integrare domini e a consolidare la loro autorità, il loro successo si basò più sull’utilizzo della forza che sull’applicazione di un programma di governo strutturato. Questo fu il compito della generazione successiva, quella di Francesco I in Francia e di Enrico VIII in Inghilterra. A tutti questi si aggiunsero Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, i quali nel 1496 ottennero da papa Alessandro VI il titolo di Re Cattolici. In gioventù, condivisero non poche esperienze: erano cugini, appartenenti a due rami della famiglia Trastamara; erano figli di reali, anche se, quando vennero al mondo, nessuno dei due era destinato a sedere sul trono dei genitori; furono i successori di due monarchi deboli che ebbero
CASTELLO DI KALMAR.
Si iniziò a costruire nel XII secolo, quando Kalmar, situata sulle sponde del Mar Baltico, era una città di frontiera con la Danimarca. Lì la regina danese Margherita I si incontrò con i rappresentanti di Svezia e Norvegia per firmare i protocolli dell’Unione di Kalmar, nel luglio del 1397; i tre regni formarono una sola monarchia fino al 1523. Oggi, la città di Kalmar fa parte della provincia svedese di Småland.
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IL NUOVO ORDINE MONARCHICO
I Re Cattolici verso l’unità religiosa: la cacciata degli ebrei Lo stesso anno della conquista di Granada e della scoperta dell’America, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona decretarono l’espulsione dai loro regni di tutti gli ebrei che il 10 luglio 1492 non si fossero fatti battezzare.
Firmato a Granada il 31 marzo 1492, il cosiddetto Decreto di Alhambra mise fine al clima di convivenza e rispetto fra le tre grandi religioni monoteiste – cristiana, musulmana ed ebraica – che, in generale, si era mantenuto nella Penisola durante il Medioevo. Sicuramente le tensioni erano aumentate dalla fine del XIV secolo e avevano provocato violenti pogrom nei quartieri ebraici. Nonostante questo, la decisione della monarchia di prescindere da un gruppo che contribuiva in modo decisivo alla ricchezza del regno e che più di una volta l’aveva finanziata nelle sue imprese militari, sia di riconquista sia contro la nobiltà cristiana, fu tanto inattesa quanto sorprendente. Dietro questo provvedimento c’era l’Inquisizione voluta dagli stessi Re Cattolici nel 1478. Secondo quest’ultima, gli ebrei erano un pericolo, soprattutto perché potevano “corrompere” coloro che già si erano fatti battezzare, i convertiti. Con la loro espulsione e la conversione obbligatoria dei musulmani di Granada, la Spagna sarebbe diventata un regno unito dal collante della religione cattolica. In totale, si calcola che circa 50.000 ebrei dovettero imboccare la strada dell’esilio, spogliati dei loro beni. Molti di essi trovarono riparo nel nord Africa, in Italia, nell’Europa orientale e nei territori ottomani, portando con sé il ricordo di Sefarad, il nome che davano alla Penisola, e la lingua castigliana, conservata per secoli come segno distintivo della loro vecchia identità. Sopra, olio di E. Sala Francés (1889), allusivo all’intervento dell’inquisitore Torquemada nell’espulsione degli ebrei (Museo del Prado, Madrid).
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grandi difficoltà a fronteggiare l’anarchia dei nobili e vissero l’esperienza delle traumatiche guerre civili, che lasciarono un segno profondo nella loro personalità. Forse per tutti questi motivi furono ben consapevoli del valore della corona che avevano conseguito con tanto sforzo. Isabella e Ferdinando si sposarono a Valladolid il 18 ottobre del 1469, in segreto e senza la dispensa papale che era richiesta dalla loro consanguineità. Il loro matrimonio funzionò per quello che in realtà era: un’associazione politica per conseguire i loro rispettivi scopi. Si presentarono sempre atteggiandosi come una coppia solida. Uno dei cronisti ufficiali, Hernando del Pulgar, affermò: «Abbiamo un re e una regina, che né insieme né ognuno per conto proprio hanno una vita privata e questo è la causa dei disordini e anche degli scandali dei regni. Sapete che la vita privata del re è la regina e la vita privata della regina è il re». Il loro regno gettò le fondamenta del nuovo ordine su cui si sarebbe basato il potere dei monarchi tanto spagnoli quanto europei nei due secoli successi. Si misero subito al lavoro, addirittura prima che finisse la guerra che avrebbe garantito il trono a Isabella di Castiglia contro le aspirazioni della nipote Giovanna. Nel 1473 tennero un concilio provinciale, che fece emergere tutta la corruzione della vita ecclesiastica. Quella che fu definita una riforma morale del clero fu in realtà una vera e propria epurazione: tutti coloro che non furono considerati meritevoli della dignità che rappresentavano furono cacciati dai conventi e destituiti dagli incarichi parrocchiali. Così facendo, misero le basi del futuro splendore della Chiesa nei loro territori e la resero immune da tutti i disordini che negli anni successivi si abbatterono sul resto del continente. Per salvaguardare l’ordine nelle città e la sicurezza sulle strade crearono nel 1476 la Santa Hermandad, un corpo di polizia pionieristico nell’Europa di quel momento. Nel 1478 ottennero da papa Sisto IV una bolla che permise loro di creare il tribunale del Sant’Uffizio, uno strumento efficace e lugubre nelle mani della corona per perseguire l’eresia e, soprattutto, esercitare il controllo sociale. Nel 1480 istituirono la figura dei corregidores, attraverso cui miravano a supervisionare la fiscalità nelle città. Nel 1482 avviarono la conquista dell’ultimo regno musulmano che ancora rimaneva nella Penisola Iberica e dieci anni dopo entrarono vittoriosi a Granada. In seguito decisero di contribuire all’avventura del genovese Cristoforo Colombo, intrapresa con l’obiettivo di trovare una rotta che permettesse di raggiungere l’Estremo Oriente senza aver bisogno di attraversare i territori dell’Islam. L’arrivo di Colombo in una delle isole del Mar dei Caraibi, il 12 ottobre 1492, segnò
per sempre la storia del mondo. Quasi contemporaneamente decisero di cacciare gli ebrei dai loro regni e di iniziare la conquista delle isole Canarie che, portata a termine nell’anno 1496, avrebbe permesso ai Re Cattolici di stabilire un’importante base delle operazioni nell’Oceano Atlantico e una testa di ponte per il controllo del Nord Africa. Come ricompensa per la loro lotta contro gli infedeli, ottennero da Roma delle importanti concessioni, che permisero loro di verificare da vicino le nomine delle alte cariche della gerarchia ecclesiastica e le rendite delle principali diocesi e dei monasteri. Tuttavia, Isabella e Ferdinando non riuscirono a mettere da parte la nobiltà come avrebbero desiderato e per alcuni aspetti i loro privilegi di classe risultarono addirittura rafforzati. Instaurarono un sistema di governo basato su dei consigli altamente tecnicizzati, per il cui funzionamento assunsero eruditi formati nelle università che loro stessi avevano contribuito a riformare. I nobili non tornarono più ad avere il potere di coazione sulla corona di cui avevano goduto in passato. Tuttavia, il loro
successo sul piano politico non fu accompagnato dalla fortuna nella successione. I loro figli maggiori, Isabella e Giovanni, morirono prima di raggiungere la maggior età. Maria si sposò con il re Manuele I del Portogallo, da cui ebbe dieci figli. Ma Caterina e Giovanna ebbero una vita sfortunata. La prima si sposò prima con Arturo e poi con Enrico VIII d’Inghilterra, da cui fu poi ripudiata. La seconda, l’erede di Castiglia, si sposò con Filippo di Borgogna, figlio dell’imperatore Massimiliano. Rimase vedova giovane e questo le fece perdere la ragione e, a giudizio di molti, la rese incapace di esercitare le sue funzioni. Queste ultime passarono direttamente al figlio Carlo. Nelle sue mani si concentrò l’eredità più grande mai ricevuta da qualunque altro monarca: dal nonno materno, Ferdinando, ricevette la corona d’Aragona e i suoi possedimenti in Italia; dalla nonna materna, Isabella, la corona di Castiglia, con i nuovi domini di oltremare; dalla nonna paterna, Maria, il ducato di Borgogna e, infine, dal nonno paterno, Massimiliano, l’eredità tedesca e le aspirazioni al titolo imperiale.
I RE CATTOLICI ENTRANO A GRANADA.
La scena rappresentata in questo rilievo di Felipe Bigarny (1521 ca.) segna la fine della guerra contro i musulmani andalusi e l’unità territoriale della Penisola. In basso, spada di Ferdinando il Cattolico (Museo della Cattedrale di Granada).
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SANTA MARIA DEL FIORE. La meravigliosa
cupola ottagonale che Brunelleschi costruĂŹ tra il 1420 e il 1436 per la cattedrale di Firenze si innalza accanto al campanile di Giotto. Nella pagina successiva, la Madonna della Seggiola, un tondo di 71 cm di diametro realizzato da Raffaello intorno al 1513 (Palazzo Pitti, Firenze).
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L’UMANESIMO «Questo torpore di oblio non durerà per sempre. Quando l’oscurità si leverà, i figli dei nostri figli potranno di nuovo vivere nella luce». Queste parole, scritte da Petrarca nel 1338, contenevano un intero programma. La storia dell’Umanità era formata, secondo lui, da fasi di luce e fasi di buio. Un nuovo bagliore si scorgeva all’orizzonte dopo una lunga notte, lo stesso bagliore che aveva illuminato gli antichi.
S
eguendo l’esempio di Petrarca, alcuni contemporanei iniziarono a riferirsi alla loro epoca come a un periodo di luce dopo le tenebre, al risveglio dopo il sonno, al ritorno alla vita dopo la morte. Ovvero, a un Rinascimento. Francesco Petrarca era nato ad Arezzo nel 1304 e morì a Padova nel 1374. Si considerava innanzitutto un poeta, un secondo Virgilio, ansioso di essere incoronato d’alloro nel Campidoglio di Roma, una cerimonia classica che era stata reintrodotta di recente. Il suo poema epico Africa era un racconto della vita del generale romano Scipione l’Africano, scritto in latino seguendo le regole dell’epica classica. Nel suo
Canzoniere si mostrava come una persona solitaria e pensosa, tormentata dalla bellezza e dalla crudeltà della sua amata Laura, che gli faceva piangere amare lagrime. La sua natura erudita è riflessa nel De viris illustribus, una raccolta di trentatré biografie di antichi Romani e figure della Bibbia, che si aspettava fossero modelli di condotta per i suoi contemporanei. Tra questi si distingue Cicerone. Petrarca aveva letto le sue opere filosofiche e aveva scoperto varie delle epistole dell’oratore latino; egli stesso cercò di scrivere le sue con uno stile simile. Petrarca aveva il dono di contagiare con il suo entusiasmo quelli che incontrava. Tra questi c’era 31
L’UMANESIMO
Giovanni Boccaccio, che combinò la figura di erudito classico a quella di scrittore in lingua volgare. Boccaccio partecipò alla ricerca di manoscritti, scrisse una genealogia degli antichi dèi e come biografo fece con le donne la stessa cosa che Petrarca aveva fatto con gli uomini. Il suo trattato De mulieribus claris conteneva oltre un centinaio di biografie tra cui spiccavano quelle delle eroine dell’antichità, come Semiramide, Giunone, Venere, Elena, Artemisia, Porzia e Lucrezia. Il Decamerone, opera per cui Boccaccio viene ricordato oggi, fu solamente una delle sue tante creazioni. Petrarca e Boccaccio furono due profeti dei tempi nuovi. La sensazione di cambiamento che trasmettevano i loro scritti era indiscutibile. L’idea di rinnovamento o di riforma, applicata solitamente a un contesto ecclesiastico, iniziò a essere utilizzata anche per le attività profane. Ammirarono Giotto di Bondone, il cui stile monumentale impressionò i suoi contemporanei tanto quanto avrebbe fatto con i posteri. Nel suo Decamerone, Boccaccio affermò che il pittore Giotto possedeva «quella arte ritornata in luce, che molti secoli […] era stata sepulta».
L’Umanesimo fiorentino
DAVID DI DONATELLO.
Una delle opere più rappresentative del Quattrocento italiano è questa scultura di bronzo, il primo nudo a tutto tondo del Rinascimento, realizzata intorno al 1440 da Donatello su commissione di Cosimo de’ Medici. Donatello, che riprese i canoni classici, è considerato il rinnovatore della scultura europea di quel periodo (Museo Nazionale del Bargello, Firenze).
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Il loro seme germogliò con forza nella generazione successiva. Coluccio Salutati raccolse il testimone a Firenze, dove rivestiva l’incarico di cancelliere della Repubblica. Pensava che con Francesco Petrarca ci fosse stata una rinascita della letteratura e dell’eloquenza. Il suo entusiasmo lo portò ad affermare che il suo idolo superava la prosa di Cicerone e la poesia di Virgilio. Salutati divenne il centro di un circolo intellettuale di cui facevano parte Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini. La corrispondenza con il suo collega e amico, il cancelliere papale Niccolò Niccoli, è un inno alla loro sete di libri e alla loro ammirazione per l’antichità. Parlavano dell’entusiasmo che provavano dopo aver visto un manoscritto di Tacito o di Tito Livio, del libro di Lucrezio che uno aveva prestato all’altro e che l’altro non gli aveva ancora restituito, della scoperta di alcune opere di Cicerone. Salutati chiamò a Firenze il maestro Manuele Crisolora a insegnare la lingua e la retorica greche. Leonardo Bruni fu il suo discepolo più eccellente. Tradusse la Politica di Aristotele e vari testi di Demostene, Platone e Plutarco «per rifuggire da quelle orribili traduzioni di cui disponiamo», affermò. Grazie a Crisolora scoprì la grande storia della guerra del Peloponneso di Tucidide e divenne lo storico ufficiale della Repubblica fiorentina, di cui paragonò il passato a quelli di Atene e della Roma repubblicana, per la difesa a oltranza della libertà. Questo gruppo di fiorentini fu
definito, in modo retrospettivo, umanista. Il termine concorda con l’interesse che aveva mostrato Cicerone per gli studia humanitatis. Salutati scrisse: «Poiché l’apprendimento è la caratteristica dell’uomo e la persona colta è più umana dell’ignorante, gli antichi a ragione si riferirono al sapere come humanitas». In generale si capì che le discipline umanistiche comprendevano cinque materie: etica, poesia, storia, retorica e grammatica. Erano tutte arti legate in qualche modo al linguaggio che, a suo giudizio, era ciò che permetteva agli umani di distinguere la cosa giusta da quella sbagliata. Prima di essere una rivoluzione nel campo delle arti visive, il Rinascimento italiano fu una rivoluzione della parola. Si trattava di una cultura più attiva che contemplativa. Cicerone fu elevato a eroe di questa generazione: rappresentava il modello del latino elegante e del letterato che partecipa alla vita politica della Repubblica. Bruni divenne il principale promotore di quello che è stato definito l’Umanesimo civico, ovvero, lo studio dei valori dell’antichità ai fini della loro applicazione nella vita comunitaria.
Le critiche non mancarono. Soprattutto tra coloro che percepirono una contrapposizione tra gli studia humanitatis e gli studia divinitatis. Voleva dire che questa nuova visione avrebbe comportato una sorta di spostamento di Dio, per mettere l’essere umano al centro di tutti gli interessi? Non significava questo dare precedenza agli autori pagani rispetto a quelli cristiani? La pelle o la buccia potevano essere pagane, rispose Salutati ai suoi critici, ma il significato ultimo del pensiero morale degli antichi era profondamente cristiano. La sua risposta, tuttavia, non fu convincente per tutti. Un secolo dopo la giustificazione di Salutati, il frate domenicano Girolamo Savonarola urlava ancora contro la depravazione dei costumi causata da questo modo di vedere le cose.
Brunelleschi, Donatello e Masaccio Ci volle più tempo perché l’ammirazione per l’antichità si percepisse anche nel campo delle arti visive. Come nel caso della letteratura e dell’erudizione, nacque in un gruppo ridotto di persone, che avevano tra loro degli stretti legami. Questa
volta il ruolo di Salutati venne svolto dall’architetto Filippo Brunelleschi. Intorno a lui si radunarono il trattatista Leon Battista Alberti, gli scultori Donatello e Ghiberti e il pittore Masaccio. Il contrasto tra la tradizione gotica e gli edifici progettati da Brunelleschi (Spedale degli Innocenti, la Cappella Pazzi e le chiese di San Lorenzo e Santo Spirito a Firenze) risaltava subito alla vista: gli archi ogivali furono sostituiti con quelli a tutto sesto, le finestre e le porte avevano architravi dritti invece che curvi, gli spazi riccamente decorati lasciarono il posto a cavità spoglie. La semplicità e la purezza sostituirono il dettaglio sfarzoso del tardo gotico. Brunelleschi aveva letto l’architetto romano Vitruvio e aveva imparato da lui delle sorprendenti soluzioni tecniche. La prova del fuoco fu la cupola di Santa Maria del Fiore, la cattedrale di Firenze, la più grande cupola in muratura mai costruita fino ad allora. Nel prologo del suo famoso trattato De pictura, Alberti si profuse negli elogi più straordinari nei confronti del «nostro intimo amico Donato, lo scultore». Insieme a Brunelleschi, Donatello aveva
SEI POETI TOSCANI.
Nell’olio su tela con l’omonimo titolo, realizzato da Giorgio Vasari nel 1544, appaiono i letterati più importanti del primo Rinascimento: Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Guido Cavalcanti, Marsilio Ficino e Cristoforo Landino. Vasari, che come pittore fu molto influenzato da Michelangelo, fu uno degli artisti più celebri nell’Italia del suo tempo. Brillò soprattutto nella costruzione del palazzo degli Uffizi, a Firenze, e fu autore di Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani, opera di grande influenza nella Storia dell’Arte. 33
L’UMANESIMO
La Santissima Trinità di Masaccio e la nuova prospettiva nella pittura Il fondo dorato, piatto e simbolico di molti dipinti gotici inizia a essere abbandonato nel Trecento, quando artisti come Giotto cercano di dare ai loro lavori un maggiore realismo. E non solo alle figure, ma anche allo spazio in cui queste si muovono. Da allora, rompere il carattere bidimensionale della pittura per darle profondità sarà la sfida di molti pittori del primo Rinascimento, tra cui Masaccio. La prospettiva, ovvero, la capacità di esprimere i rapporti tra spazio e volume allo scopo di dare a una scena il senso di profondità, fu una delle conquiste della pittura rinascimentale. Tommaso di ser Giovanni Cassai, più conosciuto come Masaccio (1401-1428), diede una lezione magistrale sul suo utilizzo nell’affresco della Santissima Trinità della chiesa fiorentina di Santa Maria Novella (nell’immagine). La sensazione di profondità raggiunta in quest’opera è tale che, a detta del pittore Giorgio Vasari, «pare che sia bucato quel muro». Per ottenere questo effetto, Masaccio applicò i principi matematici sulla prospettiva stabiliti da Brunelleschi, che pare omaggiare nella cornice architettonica di stile classico che circonda le figure, tra l’altro solide e corporee.
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passato molte ore a scavare le rovine di Roma, con così tanta passione che entrambi diventarono famosi come “cercatori di tesori”. Il risultato si poté apprezzare nella portentosa statua equestre del condottiero Gattamelata, che si può vedere ancora oggi a Padova. E, soprattutto, nel suo David, la prima scultura nuda realizzata dall’antichità, che fu adottata dai Fiorentini come simbolo delle libertà della città. Nonostante la sua prematura e tragica morte, Masaccio fu nel campo della pittura l’equivalente di Brunelleschi e di Donatello nell’architettura e nella scultura. Quando venne scoperto l’affresco con la scena della Trinità, che dipinse nella chiesa dei domenicani di Santa Maria Novella, lasciò a bocca aperta coloro che lo contemplarono: lo spazio aveva assunto la profondità che gli era mancata per secoli. Naturalmente tutto questo non sarebbe stato possibile senza qualcuno disposto a riporre la sua fiducia e a investire il suo denaro in questo gruppo ridotto di visionari. Quelli che confidarono in Brunelleschi per la costruzione della cupola della cattedrale ebbero lo stesso merito dell’architetto stesso. Le opere più famose del primo Rinascimento fiorentino furono incarichi pubblici delle corporazioni della città e questo permise a tutti di poterle ammirare e furono addirittura erette a simboli della Repubblica. Le arti manuali, che erano state per molto tempo disprezzate dagli intellettuali, iniziarono a godere a Firenze di una considerazione maggiore rispetto a qualsiasi altro luogo. Questo fece sì che lo sviluppo artistico non si interrompesse quando l’influenza dell’Umanesimo civico iniziò a diminuire con la salita al potere dei Medici intorno al 1430.
L’ascesa dei Medici L’elemento più ammirevole del Rinascimento fiorentino è che esso si sviluppò in una situazione sociale e politica percorsa da forti disordini. Dal punto di vista costituzionale, la Repubblica di Firenze era uno dei sistemi più elaborati del continente, in cui tutto era studiato per mantenere l’equilibrio tra i diversi gruppi che partecipavano al governo. Nella pratica, era un campo di battaglia abbonato agli intrighi più violenti, alle alleanze deboli e ai fragorosi tradimenti. Fu questo il contesto in cui si impose e prosperò la dinastia de’ Medici. Le sue origini modeste le fecero guadagnare il disprezzo delle principali famiglie del patriziato fiorentino, ma grazie a una serie di operazioni, alcune delle quali di dubbia moralità, la banca Medici accumulò una considerevole fortuna durante i primi decenni del XV secolo. Il primo membro della famiglia che trasformò il denaro in influenza politica fu Cosimo il Vecchio. Anche se non volle mai assumere direttamente
delle responsabilità di governo, seppe tramare abilmente nell’ombra, per impadronirsi del controllo delle principali istituzioni della Repubblica. Il suo scontro con gli Albizzi gli valse nel 1433 un’accusa per malversazione di fondi pubblici, l’incarcerazione a Palazzo Vecchio e, in seguito, l’esilio dalla città. Da Venezia, dove si stabilì, continuò a fare il suo gioco. Solo un anno dopo fu accolto dai suoi concittadini come un vero e proprio salvatore; gli Albizzi furono esiliati e Cosimo iniziò a essere considerato il pater patriae. Utilizzò la sua grande abilità politica, la sua fortuna personale e l’ampia rete di legami della banca familiare per stringere alleanze con altri Stati, sia in Italia sia all’estero. Alla sua morte, i Medici erano diventati gli arbitri della politica fiorentina. Il testimone di Cosimo fu raccolto dal nipote Lorenzo, conosciuto come il Magnifico. Le difficoltà che dovette superare per esercitare la sua influenza non furono minori di quelle del nonno. Nel 1478, i suoi avversari, guidati dai Pazzi e da papa Sisto IV, ordirono una congiura allo scopo di mettere fine alla sua vita mentre ascoltava la
messa nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. Lorenzo riuscì miracolosamente a salvarsi, ma suo fratello Giuliano fu ucciso nell’imboscata. La reazione di Lorenzo fu terribile. I corpi morti dei suoi nemici penzolarono per giorni dalla facciata del Palazzo della Signoria. In seguito si giocò la vita in un rischioso viaggio a Napoli per stringere un’alleanza con il re Ferdinando I contro il papa. Al suo ritorno fu acclamato dai Fiorentini come Principe dello Stato. Il suo matrimonio con Clarice Orsini gli riservò un posto tra le grandi famiglie non solo di Firenze ma dell’Italia intera. Protettore di saggi e artisti, creatore di una vastissima biblioteca e introduttore della stampa nella sua città, è stato presentato spesso come il paradigma del principe del Rinascimento. Tanto Cosimo quanto Lorenzo sentirono una forte inclinazione per lo studio della realtà nascosta dietro l’apparenza delle cose. Questo fu l’argomento centrale dell’Accademia platonica, creata nel 1459 dal primo. Tra le sue figure più rilevanti si contarono Cristoforo Landino, Marsilio Ficino e Angelo Poliziano.
SANTA MARIA NOVELLA.
Nel 1456, il grande architetto rinascimentale Leon Battista Alberti (1404-1472) iniziò la facciata di marmo bianco e verde scuro di questa basilica fiorentina, paradigma della perfezione rinascimentale.
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“LE PORTE DEL PARADISO” DI LORENZO GHIBERTI
N
el 1401, fu indetto a Firenze un concorso per decorare le porte della facciata nord del battistero della Cattedrale di santa Maria del Fiore. I sette partecipanti, tra cui Ghiberti, Brunelleschi, Donatello e Jacopo della Quercia, dovevano presentare ciascuno i propri rilievi sulla storia biblica del sacrificio di Isacco, a delle condizioni molto rigide e secondo un formato preciso. Due anni dopo, fu Ghiberti a essere dichiarato vincitore. Per riuscire a soddisfare le richieste gli ci vollero più di due decenni di lavoro, ma ne valse la pena: le sue scene della vita di Cristo suscitarono così tanta ammirazione che gli incaricarono di realizzare dieci nuovi bassorilievi in bronzo dorato, questa volta su episodi dell’Antico Testamento, per un’altra porta del battistero, quella del lato est. Ghiberti concluse il lavoro nel 1452 e riuscì a superarsi. Quest’opera d’arte, la «più raffinata mai creata», secondo Vasari, fu chiamata da Michelangelo “le porte del Paradiso”, nome che ancora le è rimasto.
IL BATTISTERO. A pianta ottagonale, come quello di altre cattedrali italiane, quello di Firenze è un edificio isolato. Fu consacrato nel 1059 da papa Niccolò III. 36
LE SCENE DE “LE PORTE DEL PARADISO” Ghiberti creò dieci pannelli con scene dell’Antico Testamento che, con una prospettiva accurata, trasmettono la sensazione di profondità. Nell’immagine centrale, Salomone riceve la regina di Saba.
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Adamo ed Eva Noè Isacco, Esaù e Giacobbe Mosè Davide
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Caino e Abele Abramo Giuseppe Giosuè Salomone e Saba
LORENZO GHIBERTI. Fece il suo autoritratto sul-
le sue porte del Paradiso insieme ai busti dei profeti.
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Il lignaggio de’ Medici ne Il viaggio dei Magi Nel ciclo degli affreschi della cappella dei Magi, il pittore fiorentino Benozzo Gozzoli ritrasse i componenti della famiglia de’ Medici nel 1449, insieme ad altri personaggi contemporanei. Quest’opera, testimone meravigliosa di un’epoca agli inizi del suo splendore, è conservata al palazzo Medici Riccardi di Firenze. Gozzoli si ispira per il suo affresco al momento in cui i patriarchi della Chiesa latina e bizantina vanno a Firenze per partecipare al concilio del 1438. Anche se la composizione lascia ancora intravvedere dettagli propri del Gotico, le novità tecniche del Rinascimento sono molto presenti, soprattutto per quanto riguarda la capacità di trasmettere l’illusione della profondità dello spazio grazie alla prospettiva. Su uno scenario ricco di dettagli, Gozzoli fa sfilare dei personaggi che ritrae con accuratezza, iniziando dai suoi protettori, i Medici, e finendo con se stesso. Nell’immagine, affresco della parete est della cappella; a sinistra, medaglia di Clemente VII, uno dei tre papi appartenenti alla famiglia de’ Medici (Museo Nazionale del Bargello, Firenze).
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Sandro Botticelli fu l’incaricato di trasferire il loro pensiero in immagini. Tuttavia, il più influente tra gli autori che lavorarono per loro fu Giovanni Pico della Mirandola. È suo il libro che molti hanno considerato come la principale dichiarazione dei principi teorici del Rinascimento. Si tratta del Discorso sulla dignità dell’uomo (De hominis dignitate), che pubblicò nel 1486.
L’espansione dell’Umanesimo Le innovazioni fiorentine ebbero una rapida diffusione anche nel resto d’Italia. A questo contribuì sia la permanenza a Firenze di studiosi provenienti da altri luoghi della Penisola sia la diaspora di artisti e scrittori, in molti casi per motivi politici, formati al circolo fiorentino; tuttavia, la ricezione e l’interpretazione di queste novità passò sempre attraverso il filtro delle peculiarità locali. Di fatto, in alcuni dei principali centri italiani, l’interesse per l’antichità non era stato minore di quello suscitato a Firenze. Intorno alla metà del XV secolo, Roma divenne un centro di umanisti più importante di 38
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Firenze. Due di loro, Tommaso Parentuccelli ed Enea Silvio Piccolomini, giunsero al soglio pontificio con i nomi di Niccolò V e Pio II. La cancelleria papale era un’istituzione molto più grande di quella fiorentina e divenne un punto di incontro che offrì lavoro a un buon numero di umanisti giunti da tutta Italia. Uno di questi fu Flavio Biondo, che scrisse la sua De Roma instaurata, evocando gli edifici della città antica, i suoi templi, i teatri, le terme, porte e obelischi. Come solitamente succede con le grandi capitali, Roma era una città di stranieri. Solo uno dei suoi principali studiosi era nato e si era formato nella Città Eterna, Lorenzo Valla, che, tuttavia, sviluppò poi gran parte della sua attività alla corte del re Alfonso d’Aragona a Napoli. Valla fu l’enfant terrible dell’Umanesimo, famoso per la sua mordacità anche a quell’epoca di taglienti lingue erudite. I suoi dardi si scagliarono principalmente contro i filosofi scolastici, accusati di utilizzare un gergo incomprensibile che dava forma al pensiero degli autori, specialmente Aristotele, che dicevano di seguire. La ri-
1 LORENZO DE’ MEDICI, detto il Magnifico, anche se forse il suo vero ritratto è il numero 8 . 2 3
COSIMO IL VECCHIO.
PIERO DE’ MEDICI, IL GOTTOSO. CARLO DI COSIMO DE’ MEDICI.
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GALEAZZO MARIA SFORZA.
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SIGISMONDO PANDOLFO MALATESTA, signore di Rimini.
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COSIMINO DI GIOVANNI DE’ MEDICI, morto a sei anni.
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GIULIANO DI PIERO DE’ MEDICI, che, secondo altre fonti, appare ritratto nell’# .
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GENTILE DE BECCHI, protettore di Lorenzo e di Giuliano.
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GIOVANNI TORNABUONI, parente dei Medici.
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GIOVANNI DI COSIMO DE’ MEDICI.
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PAPA PIO II PICCOLOMINI, membro della famiglia Medici.
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BENOZZO GOZZOLI, nel suo autoritratto.
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proposizione del latino, la cui ignoranza aveva provocato a suo giudizio tante cattive interpretazioni degli antichi, fu l’obiettivo principale delle sue fatiche, riflesse nella Elegantiae linguae latinae (1444). La sua scoperta più scandalosa fu la manipolazione di cui era stata oggetto la famosa Donazione di Costantino, un documento secondo il quale il primo imperatore romano che si era convertito al Cristianesimo aveva donato al papa i territori che in seguito sarebbero diventati gli Stati Pontifici. Secondo Valla, si trattava di una evidente falsificazione medievale. Ma Valla non fu l’unico personaggio che si trasferì a Napoli; altri uomini di talento fecero la stessa cosa per saziare la sete di antichità del re Alfonso. Il siciliano Antonio Beccadelli, conosciuto come il Panormita, scrisse per lui una raccolta di aneddoti, secondo il modello di quelli che furono redatti da Senofonte su Socrate, nella quale presentava il suo signore come un principe perfetto; Bartolomeo Facio, giunto dalla Liguria, fu nominato storico ufficiale della corte e scrisse la vita del re, così come una raccolta di
biografie dedicate a diversi personaggi illustri, molto vicina allo stile di Francesco Petrarca. Le storie encomiastiche che presentavano i governanti del momento come continuatori degli imperatori saggi dell’antichità si diffusero ovunque. A Milano, rivale e allo stesso tempo imitatrice di Firenze, questo compito spettò al cancelliere Antonio Loschi. Durante il governo dei duchi sia della famiglia Visconti sia Sforza, la Lombardia smise di essere la terra dei barbari che osservavano i Toscani, per diventare un altro importante centro umanista. Gli stessi Fiorentini diedero a questo processo il loro contributo. L’architetto Antonio Averlino, chiamato Filarete, che in greco significa “amante della virtù”, giunse a Milano nell’anno 1451 per progettare lo Spedale degli Innocenti seguendo le tracce lasciate da Filippo Brunelleschi nello Spedale degli Innocenti. Senza dubbio, il grande apporto fiorentino allo sviluppo artistico della città di Milano fu quello di Leonardo da Vinci. In attesa di trovare un protettore che lo accogliesse e che lo lasciasse 39
L’UMANESIMO
lavorare come voleva, nel 1482 il genio toscano decise di tentare la fortuna alla corte di Ludovico Sforza, conosciuto come il Moro. Questi aveva bisogno di quello che a Firenze abbondava, cioè di artisti che creassero un’immagine regale del loro protettore. Vedendo il risultato finale, non v’è dubbio che Leonardo fosse proprio l’uomo adatto a questo scopo: naturalmente il suo protettore poteva essere più che soddisfatto di alcuni dei ritratti sublimi che gli incaricò. Anche se pare poco probabile che tanto La belle ferronière quanto La dama dell’ermellino, in realtà ritratti di due amanti del Moro, contribuissero molto a consolidare il suo potere. A suo favore, bisogna sottolineare la sensibilità e l’intelligenza di comprendere che il lavoro di Leonardo meritava una protezione incondizionata al di là della sua produttività politica.
Ferrara e Mantova
Il condottiero nel cuore della guerra rinascimentale Spesso i piccoli ducati e le repubbliche del nord Italia avevano bisogno di truppe per combattere o difendersi dai loro vicini, ma non disponevano della capacità sufficiente per mantenere dei propri eserciti permanenti. Per loro la soluzione fu assumere soldati professionisti, generalmente provenienti dall’esterno, che giungevano al fronte della loro masnada. Erano i condottieri. La parola condottiero deriva dal latino conducere, che diede origine al verbo condurre e al sostantivo condotta, che è il nome del contratto firmato tra un governo e un capitano indipendente assunto al suo servizio. Questi soldati di fortuna avevano origini sociali e geografiche molto diverse. Ce n’erano, come l’inglese John Hawkwood, di quelli che arrivavano da fuori dall’Italia, anche se la maggior parte di essi si reclutava tra i secondogeniti di famiglie nobili italiane oppure si trattava di nativi di regioni impoverite della Penisola, come la Romagna. Ce n’erano anche di origini umili, come Francesco Bussone da Carmagnola, di famiglia contadina, o Erasmo da Narni Gattamelata, figlio di un panettiere. Nell’immagine, il condottiero Bartolomeo Colleoni, di Verrocchio (Campo Santi Giovanni e Paolo, Venezia).
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Le nuove forme dell’arte e della letteratura attrassero anche i dirigenti di principati e repubbliche che cercavano di associare la loro storia al prestigio dell’antica Roma. Questo fu, tra gli altri, il caso di Ferrara e Mantova. Guarino da Verona, che aveva studiato a Costantinopoli, fu assunto nel 1429 dalla famiglia d’Este, principi di Ferrara, per organizzare una scuola di studi dell’antichità. Uno dei suoi discepoli, Vittorino da Feltre, fu invitato dai Gonzaga a fare la stessa cosa a Mantova. Grazie a Guarino e Vittorino, una generazione di governanti di piccoli centri del nord Italia con il passare del tempo prese dimestichezza con l’Umanesimo. Leonello d’Este componeva poemi e collezionava manoscritti, Ludovico Gonzaga, da parte sua, incaricò Leon Battista Alberti di progettare una chiesa a Mantova e offrì ad Andrea Mantegna il posto di pittore ufficiale della sua corte. Durante gli oltre quarant’anni di lavoro per la sua famiglia, Mantegna mostrò una padronanza impressionante della prospettiva, che rifletté in dipinti monumentali come la serie di tele intitolata Trionfo di Cesare. Anche Federico da Montefeltro, duca di Urbino, che era stato alunno di Vittorino, fu un condottiero che cercò di combinare le armi e le lettere, così come si vede nel ritratto che gli fece Pedro Berruguete, in cui appare mentre legge un libro vestito della sua armatura. La sua biblioteca di manoscritti fu famosa ai suoi tempi. Per decorare il suo studio fece dipingere un fregio che rappresentava ritratti di personaggi illustri, tra cui erano presenti Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, Omero e Virgilio, tra molti altri. Una figura familiare in queste corti umaniste fu quella del pittore e incisore Pisanello, che lavorò per i Gonzaga, gli Este e Alfonso d’Ara-
gona. Sua fu una serie di medaglie che seguivano il modello delle antiche monete romane, in cui era riprodotta l’immagine dei suoi protettori, in modo che questi potessero regalarle, orgogliosi, ai loro amici, familiari e clienti.
L’alternativa veneziana Contrariamente a quello che il tempo avrebbe portato a credere, la Repubblica di Venezia si mostrò inizialmente restia ad accettare i cambiamenti che avevano tanto successo in tutta Italia. E questo nonostante alcuni giovani delle principali famiglie patrizie che sostenevano il governo della Repubblica avessero studiato con Guarino a Verona in gioventù. Francesco Barbaro, per esempio, si intrise di insegnamenti umanisti e nel corso della sua vita combinò i compiti diplomatici con la ricerca di libri e manoscritti dell’antichità. Tuttavia, bisogna aspettare la fine del XV secolo perché i Veneziani inizino a realizzare contributi importanti agli studia humanitatis. E questi ultimi non sempre si produssero nella capitale stessa della Repubblica, ma in alcune città dipendenti, come
Verona o Padova, dove Ermolao Barbaro tradusse e studiò alcuni dei testi di Aristotele in modo simile a quello che Leonardo Bruni aveva applicato a Firenze nella generazione precedente. Anche nel campo delle arti visive, i Veneziani si opposero all’accettazione di certe novità. Di fatto, fino al decennio del 1470 i fratelli Gentile e Giovanni Bellini non incorporarono nei loro quadri le tecniche dei loro colleghi di altri luoghi della Penisola Italiana. Fu in quegli stessi anni che si iniziarono a costruire alcuni edifici “all’antica”, come quello della Chiesa di santa Maria Formosa, progettato da Mauro Codussi, che risultarono invece più impressionanti a causa dell’utilizzo dell’abbagliante marmo di Istria. Tuttavia, la Repubblica di Venezia gettò sempre un’occhiata a Oriente. Gli stretti legami che la Serenissima aveva mantenuto con Costantinopoli non si ruppero del tutto quando questa cadde nelle mani dei Turchi. Gentile Bellini era andato a Istanbul per dipingere il ritratto del sultano e tornò impressionato dalla magnificenza della sua corte. Poco dopo, la chiesa di San Gio-
LA FAMIGLIA GONZAGA DI MANTOVA. Nel torrione
nord-est del castello di San Giorgio di Mantova si trova una stanza, la Camera degli Sposi, e su una delle sue pareti Andrea Mantegna realizzò, tra il 1465 e il 1474, un affresco in cui ritrae i membri della famiglia Gonzaga in una scena della loro vita quotidiana. La coppia regnante era formata dal marchese di Mantova, Ludovico II, e dalla moglie Barbara di Brandeburgo.
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I fratelli Bellini, pittori della Serenissima e della corte di Istanbul Durante il Medioevo, Venezia fu un crocevia tra Occidente e Oriente. Il contatto con la Costantinopoli bizantina – dove approdavano le spezie che in seguito le navi veneziane distribuivano in tutto il Mediterraneo – era costante e basta vedere la cattedrale di San Marco per apprezzarlo. Ma tutto questo iniziò a cambiare nel XV secolo. Fondata sulla sua vocazione marittima, Venezia, grazie alla sua ricchezza economica, diede avvio a un’attiva produzione artistica che tradizionalmente aveva più a che vedere con i modelli estetici bizantini che con quello che si faceva nel resto della Penisola Italiana. E questo nonostante la presenza di Giotto, uno dei precursori del Rinascimento, nella vicina Padova. Nonostante questo, Venezia inizia a guardare all’Occidente a causa della caduta di Costantinopoli nelle mani degli Ottomani nel 1453. È allora che irrompono sulla scena i Bellini, Jacopo e i suoi figli Gentile e Giovanni. Il primo di loro aveva già fatto delle prove di prospettiva intorno al decennio del 1430 in un quaderno di disegni che ereditarono i suoi figli, che invece propenderono risolutamente nelle loro opere per questa tecnica nuova e moderna. Non fu il loro unico contributo, poiché a loro si deve anche la generalizzazione dell’uso della pittura a olio in Italia, ben nota nei Paesi Bassi. Tutto questo senza dimenticare il gusto per il colore e per la luce, che sarà una delle caratteristiche della scuola veneziana. Il successo dei fratelli Bellini fu tale che quando il sultano Maometto I chiese al Senato veneziano di mandargli un bravo pittore, il prescelto fu Gentile. I ricordi di quel viaggio si apprezzano nei minareti che si vedono nei paesaggi sullo sfondo dei suoi quadri e nei turbanti di alcuni suoi personaggi secondari. Nell’immagine, Processione in piazza San Marco, di Gentile Bellini (Galleria dell’Accademia, Venezia).
vanni Crisostomo fu progettata seguendo piani di ispirazione bizantina. Questa ammirazione per l’Oriente dava l’idea di un rifiuto dell’alternativa fiorentina e mise in evidenza che le rivalità tra le diverse repubbliche e città-Stato d’Italia potevano essere determinanti tanto quanto le eventuali collaborazioni.
La cornice politica peninsulare
LUDOVICO SFORZA.
Recto di un ducato d’oro di Milano con l’effigie di Ludovico il Moro (14521508), duca di Milano, che è passato alla storia soprattutto per essere stato il protettore di Leonardo da Vinci (Museo Civico, Padova). 42
Spesso si è affermato che le repubbliche e le città indipendenti offrirono un contesto particolarmente adatto alla creatività e all’innovazione. E in alcuni casi questa affermazione risulta indiscutibile. Da un lato, costituivano una cornice politica per cui i loro abitanti trovavano più semplice identificarsi con i Romani della Repubblica. Dall’altro lato, come successe specialmente a Firenze, la loro attività economica, prevalentemente manifatturiera, favorì la formazione degli artisti e l’innovazione. Tuttavia potrebbe risultare vera anche l’affermazione contraria: laddove i governanti autocrati, particolarmente a Roma e Napoli, si mostrarono inclini alle nuove tendenze
della letteratura e dell’arte, si svilupparono dei sistemi cortigiani che agirono come un rifugio sicuro per i talenti migliori. Come succedeva in altri luoghi d’Europa, alla fine del XV secolo la Penisola Italiana era frammentata in un mosaico di poteri, separati spesso tra loro da antagonismi ancestrali. Una serie di motivi rendeva molto difficile che lì si realizzasse un processo di unificazione territoriale simile a quello del resto del continente, poiché, innanzitutto, non esisteva un’autorità che fosse così forte da imporre la sua volontà agli altri. D’accordo con una logica strettamente politica, questa era una missione che sarebbe potuta appartenere agli Stati della Chiesa, che comprendevano gran parte della Penisola, da Bologna al sud di Roma. Dopo che Roma era stata ristabilita definitivamente come sede pontificia nell’anno 1447 e che aveva superato il difficile momento che comportò lo scisma d’Occidente per questa istituzione, i papi si dedicarono con tutte le loro energie a riorganizzare l’amministrazione del “patrimonio di san Pietro” e, nel mentre, a ristabilire la loro au-
torità. Pio II, il papa umanista, dovette lottare con gli indomiti signori feudali, le cui posizioni si erano molto rafforzate con l’assenza papale; Paolo II riuscì a recuperare vari feudi perduti e Sisto IV si infilò negli intrighi più complicati destinati a ridurre il potere di altri governanti italiani come il re di Napoli, Ferdinando I, i Medici di Firenze o la signoria di Venezia. Senza dubbio, i successi più importanti in questo senso furono raggiunti con Alessandro VI, il papa Borgia, fine politico e abile amministratore che si avvalse delle qualità militari di suo figlio Cesare per riconquistare la Romagna, e il suo successore Giulio II, il “papa guerriero”, che lanciò la sua offensiva contro Perugia, Ravenna, Venezia, Bologna, Parma e Piacenza, tra le altre città. Il risultato di questa condotta così aggressiva fu l’avversione di non pochi vicini di Roma e la sfiducia tra gli altri governanti europei generata dalla possibilità che al loro potere spirituale i papi unissero un forte potere temporale. D’altra parte, il fatto che i pontefici non potessero sviluppare una politica dinastica, nonostante qual-
cuno ci provasse, trasformò i loro territori in qualcosa che assomigliava più a una monarchia elettiva, dove ogni nuovo eletto al soglio pontificio significava un cambio di direzione dei suoi orientamenti politici. Un altro candidato in condizione di iniziare l’attività di unificazione era il re di Napoli. Ma tanto Alfonso il Magnanimo, che aveva strappato il regno alla dinastia francese degli Angiò nell’anno 1442, quanto i suoi discendenti furono visti dal resto dei principi italiani come degli stranieri nella loro terra. Inoltre, la presenza di un forte baronaggio, di radicate inclinazioni feudali rese i re di Napoli troppo occupati a conservare la loro corona per preoccuparsi anche di espandere i loro domini. La congiura ordita dai nobili contro Ferdinando I, il figlio naturale di Alfonso, fu sul punto di costargli il posto al governo; tuttavia, la sua abilità diplomatica e il mantenimento della fiorente corte che già era stata creata dal padre gli permise di riuscire a navigare senza naufragare in un mare molto agitato, cosa che non seppero fare i suoi eredi.
LA PRIMAVERA DI SANDRO BOTTICELLI (pag. 44-45). Quest’olio
su tavola conservato agli Uffizi di Firenze comprende una serie di allegorie nei suoi personaggi mitologici: Paride, le tre Grazie, Venere, Flora, Clori e Zefiro. 43
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CANTONI SVIZZERI
Ginevra
REGN O D I F RAN C IA
L’Italia rinascimentale, un rompicapo politico La Penisola che, insieme ai Paesi Bassi, vide fiorire il Rinascimento aveva come caratteristica quella di essere divisa in territori che ammettevano le più svariate forme di organizzazione politica, dalla monarchia alla repubblica commerciale.
Lione Chambéry DUCATO
Trento
DI SAVOIA
Grenoble
PRINCIPATO VESCOVILE Milano DI TRENTO
Marsiglia
Nizza
Aquileia Trieste
Pavia
MARCHESATO DI SALUZZO
Monaco
REPUBBLICA DI VENEZIA
Brescia Treviso Verona Padova Venezia DUCATO DI MILANO Mantova
Torino
Avignone
ARCIDUCATO D’AUSTRIA
Parma Modena Ferrara DUCATO DI FERRARA Genova DUCATO DI MÓDENA Bologna Ravenna Savona Asti Lucca Firenze Monferrato Pisa STATO Ancona Urbino
DI FIRENZE
Siena
Perugia
Zara
STATI PONTIFICI
Orvieto
L’Italia che entrava nel XVI secolo era molto lontana dall’essere un’entità politica unica. Era un rompicapo di Stati che lottavano tra loro per ottenere una posizione egemonica, e per sussistere, mentre dovevano far fronte alle smanie di espansione di Francia e Spagna. Prova di questo è il ducato di Milano, che agli inizi di questo secolo passò ripetutamente dalle mani francesi a quelle spagnole, fino a rimanere in queste ultime. Repubbliche commerciali come Firenze e quelle marinare di Genova e Venezia dominavano quel nord in cui erano presenti anche piccoli ducati come Mantova e Ferrara. Nel 1597, quest’ultimo passò nell’orbita del papato, egemonico al centro della Penisola, mentre a sud i regni di Napoli e di Sicilia erano aragonesi. Nell’immagine, piatto di ceramica con lo scudo del papa Giulio II, del 1508 (Metropolitan Museum of Art, New York).
CORSICA Ajaccio PRINCIPATO
DI PIOMBINO
REGNO DI NAPOLI Gaeta Alghero
Benevento
Napoli Salerno
REGNO SARDEGNA DI SARDEGNA Cagliari
M A R
M E D I T E R R A N E O Palermo
Trapani
Messina Reggio
REGNO DI SICILIA Bona
Il figlio primogenito di Ferdinando, Alfonso II, rinunciò al trono pochi mesi dopo averlo occupato, quando vide il quadro che si stava prospettando; lo stesso fecero il nipote Ferdinando II e il figlio secondogenito, Federico I. Il regno di Napoli divenne l’obiettivo più ambito dai monarchi francesi, che reclamavano per sé l’eredità degli Angiò. Questa prospettiva offrì il pretesto perfetto a Ferdinando il Cattolico, nipote di Alfonso il Magnanimo, per intervenire. Guidato da Gonzalo Fernández de Córdoba, il “Gran Capitano”, il suo esercito conquistò Napoli nell’anno 1503. Durante i due secoli successivi, il regno avrebbe fatto parte dei domini spagnoli. Al nord, il potere con le basi più solide era quello della città di Venezia che, oltre alla città della laguna, comprendeva un vasto hinterland sulla terraferma, con città importanti come Padova, Verona, Udine, Brescia o Bergamo. Ma la Serenissima era governata mediante un complesso sistema di equilibri attraverso diversi collegi che comprendevano le principali famiglie patrizie, all’interno delle quali si eleggeva il 46
Roma
Tunisi
SICILIA
doge, le cui funzioni erano principalmente di rappresentanza e non di governo vero e proprio. Inoltre, Venezia viveva più rivolta verso il suo piccolo impero commerciale nel Mediterraneo orientale – dove controllava importanti enclavi in Dalmazia, Istria e nelle isole di Cipro e Creta – che a una possibile espansione territoriale verso l’interno della Penisola Italiana. Genova aveva molti punti in comune con Venezia. Era una repubblica marinara organizzata intorno ai suoi interessi commerciali, in cui il potere era distribuito tra le principali famiglie di mercanti. Durante il XV secolo, i Genovesi fecero di tutto per evitare l’ascesa al trono di Napoli di Alfonso d’Aragona, il loro principale rivale nella lotta per il controllo del commercio nel Mediterraneo occidentale. Ma persero la partita e questo ebbe degli effetti molto negativi sulla loro posizione economica. Quando l’asse del commercio iniziò a spostarsi verso l’Atlantico, i Genovesi rimasero fuori dalle grandi rotte dominate da Castiglia e Portogallo. A peggiorare le cose, l’avanzata turca nel Mediterraneo orientale li cacciò da al-
Siracusa
Confine del Sacro romano impero germanico Territori degli Asburgo Marchesato del Monferrato Repubblica di Genova Contea di Asti Ducato di Mantova Stato di Firenze Repubblica di Lucca Repubblica di Siena
ara Split
Ragusa Cattaro
I
ssina
Durazzo
Taranto
I M PE RO OT TO M A NO
Brindisi Otranto
CORFÙ
CEFALONIA
ggio
ZANTE
cuni degli empori da cui erano soliti operare, come Focea, Lesbo, Famagosta o Samo. La sua posizione geografica, luogo di passaggio obbligato sulla rotta marittima che metteva in comunicazione la Penisola Italiana e il centro del continente, fu uno dei suoi grandi punti di forza e, al tempo stesso, una grande debolezza, poiché la rese un obiettivo molto ambito dai suoi vicini, che la costrinse a sviluppare una politica di alleanze mutevoli, con i Francesi, l’impero e gli Spagnoli, a seconda delle circostanze.
Il ducato di Milano A differenza di Genova e Venezia, il ducato di Milano, il cui raggio di influenza comprendeva la ricca regione della Lombardia, era privo di una posizione geografica che gli permettesse di competere nel commercio marittimo. Tuttavia, poteva contare su alcune condizioni molto favorevoli per lo sviluppo di una prospera attività economica. Disponeva di una terra molto fertile che permetteva di avere delle abbondanti risorse agrarie, un’eccellente sistema interno di comuni-
cazione fluviale e importanti industrie metallurgiche. La sua evoluzione politica aveva seguito una tendenza più simile a quella del resto delle monarchie europee che a quella delle altre repubbliche italiane. Dalla metà del XVI secolo, la famiglia dei Visconti era riuscita ad allontanare tutti i suoi rivali nel controllo del governo e, anche se dovette accontentarsi del titolo ducale, segnò di fatto il cammino futuro dei monarchi e degli autocrati in altri luoghi del continente. Quando l’ultimo discendente dei Visconti, Filippo Maria, morì senza eredi nell’anno 1447, la sua eredità fu raccolta da un soldato di fortuna imparentato indirettamente con la casa ducale: Francesco Sforza. Consapevole della debolezza della sua posizione, Francesco governò con moderazione e prudenza, due virtù di cui, invece, fu totalmente privo il figlio e successore Galeazzo Maria, che morì assassinato in una congiura organizzata dai suoi tanti nemici. Da quel momento, la famiglia Sforza divenne uno scenario di intrighi, in cui i suoi membri rivaleggiarono in maniera spietata per impadronirsi del potere. Il più abile di tutti fu Ludovico il Moro, che imparò la lezione da quello che i Medici stavano facendo a Firenze. Tuttavia questo non impedì che fosse vittima delle necessità espansionistiche della monarchia francese che, con argomentazioni poco consistenti, reclamava per sé l’eredità del ducato. Se Genova costituiva un passaggio obbligato per il traffico marittimo, Milano lo era per la circolazione terrestre tra l’Italia e il centro dell’Europa. Le aspirazioni di dominio continentale dei Valois e degli Asburgo marcarono il suo destino. Nel corso di tutta la prima metà del XVI secolo, il ducato di Milano fu il campo di battaglia delle cosiddette “guerre d’Italia” (1494-1559) che, alla fine, lo fecero diventare una piazza militare dell’impero spagnolo. Neppure i Medici, nonostante i successi di Lorenzo il Magnifico, riuscirono facilmente a conservare il loro potere a Firenze. Di fatto, l’eredità che ricevette il figlio Piero si rivelò estremamente fragile, poiché risiedeva più sul prestigio personale che su una posizione costituzionalmente solida. Come Ludovico il Moro a Milano, Piero si dovette scontrare con la pressione esercitata dai Francesi. I suoi nemici si unirono intorno a un frate domenicano, Girolamo Savonarola, che dal pulpito del Convento di san Marco infervorò i suoi concittadini contro la degradazione morale introdotta dai Medici e dai loro seguaci. Ottenne che questi fossero cacciati dalla città e che si ristabilisse la repubblica. Sotto la sua guida apocalittica, Firenze si trasformò in una dittatura teocratica, che attraverso un rigido controllo poliziesco depurò tutto quello che con-
GLI STATI PONTIFICI DURANTE IL RINASCIMENTO 1492
I Borgia. Rodrigo Borgia, di Valencia, diventa papa Alessandro VI. Cerca di stabilire un regno nel centro Italia. 1503
Il papa guerriero. Giulio II cerca di unificare l’Italia sotto l’egida del Vaticano. Il potere della famiglia Borgia nella Penisola crolla. 1506
I lavori in Vaticano. Inizia la costruzione della Basilica di san Pietro secondo un progetto originale di Bramante. 1513
I Medici. È eletto il primo dei tre papi della famiglia Medici, Leone X. Nel 1519, appoggia Carlo d’Asburgo per il trono imperiale. 1522-1523
Precettore imperiale. Adriano di Utrecht, vecchio precettore di Carlo V e reggente di Castiglia, diventa il papa Adriano VI. 1527
Sacco di Roma. Il 6 maggio, le truppe di Carlo V sono protagoniste del sacco di Roma, che comporta la fine del Rinascimento nella città.
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L’UMANESIMO
CARLO D’ASBURGO, RE DI SPAGNA E IMPERATORE 1500
Nascita. Carlo d’Asburgo nasce il 24 febbraio a Gand, figlio di Filippo d’Asburgo, duca di Borgogna, e di Giovanna di Castiglia. 1516
Accesso al trono. La morte dei suoi parenti più prossimi e la pazzia di sua madre Giovanna gli danno il trono di Castiglia e Aragona. 1519
Cesare d’Europa. Viene eletto imperatore del Sacro romano impero germanico e incoronato l’anno successivo ad Aquisgrana. 1529
Pace con la Francia. Firma della Pace di Cambrai con Francesco I. Carlo rinuncia ai suoi diritti sul ducato di Borgogna. 1547
Contro la Riforma. Carlo sconfigge i principi protestanti nella battaglia di Mühlberg. 1556
Ritiro a Yuste. Dopo aver abdicato a favore del figlio Filippo II, si ritira nel monastero di Yuste, dove muore il 21 settembre 1558.
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siderava immorale. I dardi di Savonarola iniziarono a mirare anche contro Roma e la condotta libertina del papa Borgia, Alessandro VI. Quest’ultimo reagì con la scomunica e minacciando di interdetto l’intera città se questa non si fosse liberata del predicatore. La reazione dei banchieri e dei mercanti, che ora vedevano i loro prodotti bloccati dagli Stati Pontifici, non si fece attendere. Savonarola fu imprigionato, torturato crudelmente e ucciso pubblicamente nella piazza della Signoria di Firenze il 23 maggio 1498. Mentre gli intrighi si impadronivano nuovamente di Firenze, i Medici aspettavano il momento del loro ritorno che arrivò nell’anno 1512 per mano di Giuliano, il figlio minore di Lorenzo il Magnifico, anche se il vero capo della famiglia era ora suo fratello maggiore, Giovanni, che nel 1513 salì al soglio di Pietro con il nome di Leone X. Niccolò Machiavelli, un cancelliere della repubblica che come loro aveva vissuto l’esperienza dell’esilio, gli indicò il cammino da seguire attraverso uno dei trattati di pratica politica più importanti della storia: Il Principe (1513). Ispirato all’esempio di Ferdinando il Cattolico, gli mostrò che la cosa più importante, ma anche la più difficile, per un governante, non era raggiungere il potere, ma mantenerlo. A questo scopo non servivano grandi principi, ma solo l’osservazione a partire dall’esperienza altrui, l’unico modo di distinguere le decisioni corrette da quelle sbagliate. Tuttavia, non sembra che i governanti avessero del tutto imparato la lezione. I Medici dovettero affrontare ancora un altro esilio nel 1527, prima di essere ristabiliti al potere e di ottenere il titolo di duchi di Toscana, il che avvenne nel 1530. Ma questo non fu un merito mediceo, ma dell’imperatore Carlo V, bisognoso com’era di avere degli alleati che gli permettessero di controllare un territorio situato tra il ducato di Milano e gli Stati Pontifici, strategico per le sue aspirazioni di dominio in Italia. Il primo de’ Medici a ostentare il titolo ducale fu Alessandro; era figlio illegittimo del futuro papa Clemente VII e morì assassinato da un suo cugino nel 1537. I patrizi fiorentini offrirono allora il titolo ducale a un ramo laterale della famiglia, poiché credevano che a causa della sua inesperienza avrebbero potuto controllarlo facilmente. Si sbagliarono di grosso. Cosimo I de’ Medici si rivelò un uomo di ferrea determinazione ed estrema abilità politica. Si liberò sistematicamente di tutti i suoi rivali e stabilì le basi per il dominio della famiglia nel corso dei due secoli successivi. Il suo matrimonio con Leonor Álvarez de Toledo, una nobildonna spagnola appartenente al lignaggio degli Alba, non solo gli permise di mantenere la sua alleanza con
l’imperatore Carlo V ma lo aiutò anche a sviluppare uno splendido mecenatismo culturale e artistico, che collocò la famiglia fiorentina tra le più grandi e illustri d’Europa.
La lotta per il dominio dell’Italia Seguendo la pratica dei suoi predecessori, Francesco I di Francia stese un programma di politica estera aggressiva, la cui finalità ultima consisteva nel deviare al di là delle frontiere le energie dei nobili. Ancora una volta, l’obiettivo era l’Italia. Ma in questo caso le sue aspirazioni si scontrarono con quelle dell’imperatore Carlo V. Quelle di Francesco e Carlo furono, per molti versi, due vite parallele. Il primo era salito al trono nel 1515 e il secondo nel 1516. Entrambi avevano rivaleggiato per lo scettro imperiale nel 1519 ed entrambi lottarono, nel corso dei loro rispettivi regni, per ottenere una posizione egemonica in Europa, che, infine, nessuno dei due raggiunse. L’ideale di una monarchia universale, che Carlo considerò parte della sua dignità imperiale, fece sì che la Francia si sentisse costantemente minacciata. Già nel 1521, Francesco aveva cercato di indebolire le posizioni del suo rivale, approfittando della rivolta dei comuneros di Castiglia per attaccare le sue frontiere in Navarra e nelle Fiandre. Ma il grande scenario della battaglia tra i due monarchi fu il ducato di Milano. Il grande cancelliere imperiale, il piemontese Mercurino di Gattinara, aveva progettato una strategia di dominio universale che aveva come pezzo forte il territorio del ducato di Milano, occupato da Francesco a pochi mesi dalla salita al trono con la sua vittoria nella battaglia di Marignano. Il piano di Gattinara, destinato a trasformare questa zona nel centro dell’impero, aveva anche una dimensione molto più pratica: era il pezzo mancante per unire i domini italiani e centroeuropei di Carlo, imprescindibile perché i soldati potessero transitare dall’uno all’altro con la velocità richiesta dagli eventi. In quello stesso anno, il 1521, approfittando della dispersione delle truppe francesi tra nord e sud, gli eserciti imperiali entrarono nel ducato di Milano con l’aiuto del pontefice Leone X, della casata de’ Medici, e incontrando una scarsa resistenza si impadronirono del ducato di Milano, a capo del quale misero un membro della famiglia alleata degli Sforza. Il successivo tentativo francese di recuperare il ducato fallì durante la battaglia della Bicocca nel 1522. A nulla servirono gli appelli del nuovo papa, Adriano VI di Utrecht – il vecchio tutore di Carlo – all’unità dei principi cristiani contro l’avanzata dei Turchi, che l’anno successivo si impossessarono di Rodi. Francesco fallì nel tentativo di riprendere il territorio in due episodi, alla fine del 1523 e agli inizi del 1524.
CARLO V, IL CESARE D’EUROPA
T
utta una serie di vicende successe tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI secolo mise le basi affinché il giovane principe fiammingo Carlo d’Asburgo guidasse la più grande confederazione dinastica mai vista dall’Europa. La morte dello zio, l’infante Giovanni di Castiglia nel 1497, quella di suo padre Filippo il Bello nel 1506, quella del nonno materno Ferdinando il Cattolico nel 1516 e quella del nonno paterno Massimiliano I nel 1519, oltre alla pazzia della madre Giovanna, diedero a Carlo la chiave dei regni di Castiglia, Aragona e Napoli, i Paesi Bassi e il Sacro romano impero germanico. Era l’idea della monarchia universalis, già anelata da Carlomagno e che si riferiva non tanto al dominio di tutto il mondo quanto all’universo europeo e cristiano. Nell’immagine, l’imperatore Carlo V in un ritratto dipinto da Tiziano nel 1533 (Museo del Prado, Madrid).
L’INCORONAZIONE A BOLOGNA Il 24 febbraio 1530, il giorno del suo trentesimo compleanno e dieci anni dopo la sua proclamazione come imperatore ad Aquisgrana, Carlo V ricevette nuovamente la corona imperiale da papa Clemente VII. La cerimonia, rappresentata in questo piatto di maiolica (Museo Civico, Bologna), si svolse nella Basilica di san Petronio a Bologna.
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L’UMANESIMO
Il sacco di Roma a opera delle truppe dell’imperatore Carlo V Il 6 maggio 1527, le truppe imperiali entrarono nella Città Eterna e per una settimana si dedicarono a saccheggiare e distruggere i suoi palazzi, le sue chiese e i suoi monasteri, con la sola eccezione dei templi spagnoli.
Durante la lunga agonia dell’impero romano, la sua capitale fu oggetto di numerosi saccheggi da parte dei popoli barbari. Ma questi episodi facevano ormai parte di un tempo lontano quando le truppe di Carlo V fecero il loro ingresso nella città il 6 maggio 1527, per questo lasciarono un ricordo indelebile e all’accaduto venne dato un nome proprio: il sacco di Roma. Gli antecedenti vanno cercati nella costituzione della Lega di Cognac, formata dalla Francia, da Firenze, Venezia e dal papa di origine fiorentina Clemente VII per combattere Carlo V e la sua monarchia universale. L’imperatore rispose inviando a Roma 45.000 soldati al comando del duca Carlo di Borbone, che incoraggiò le sue truppe a conquistarla e a prendere un bottino che li ricompensasse dei salari che non avevano ricevuto. Il duca morì nell’assalto (dice la leggenda, a causa di uno sparo dell’artista Benvenuto Cellini) e così, senza comandante, i soldati trovarono campo libero per saccheggiare, uccidere, incendiare e violare senza freno. Il papa riuscì a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo, dove resistette una settimana finché si vide costretto ad arrendersi all’imperatore a delle condizioni molto onerose: il pagamento di 400.000 ducati e la cessione di varie città italiane, come Modena. Apparentemente, Carlo V si mostrò indignato per gli atti commessi dai suoi uomini, che attribuiva alla mancata disciplina, ma ciò che è fuor dubbio è che da essi ottenne dei vantaggi. Il trionfo più importante fu che Clemente VII non si oppose mai più ad alcuna sua decisione. Nell’immagine, il sacco di Roma in un’incisione di Matthäus Merian, pubblicata a Francoforte nel 1630.
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Ma nel mese di dicembre di quell’anno avanzò di nuovo al fronte di un potente esercito che, in un’operazione lampo, riuscì ad attraversare la Savoia e a entrare vittorioso a Milano. La vicina città di Pavia riuscì tuttavia a resistere all’assedio per il tempo necessario ad attendere l’arrivo dei rinforzi imperiali che, nel febbraio del 1525, inflissero una pesante sconfitta ai Francesi. Milano tornò ancora nelle mani degli Sforza e lo stesso Francesco cadde prigioniero di Carlo. Trasferito a Madrid, fu costretto a firmare un trattato di pace umiliante che, oltre a obbligarlo a rinunciare a tutte le sue aspirazioni in Italia e nei Paesi Bassi, lo costringeva a sposarsi con Eleonora d’Asburgo, sorella dell’imperatore e vedova del re Manuele I del Portogallo. Come garanzia dell’adempimento dei suoi impegni, la sua libertà fu scambiata con quella dei suoi due figli maggiori e di dodici notabili del regno. Appena tornato in Francia annunciò la sua decisione di non rispettare un accordo che aveva dovuto accettare sotto coazione. Non passò neppure un anno prima che le ostilità scoppiassero di nuovo. Francesco ottenne questa volta l’appoggio di alcuni vecchi alleati di Carlo, come il papa e l’Inghilterra, allarmati dal suo crescente dominio. Nel 1526 si riunirono nella Lega di Cognac. L’obiettivo era cacciare gli Sforza da Milano per poi proseguire facendo la stessa cosa con gli Spagnoli a Napoli. Ma come ripicca per il sostegno pontificio alle aspirazioni francesi, le truppe imperiali, indisciplinate e mal pagate, saccheggiarono Roma nel maggio del 1527. Il mondo cristiano tremò e l’immagine di Carlo ne uscì seriamente danneggiata. Francesco approfittò della situazione per mettere l’assedio alla città di Napoli, con il sostegno della flotta genovese comandata da Andrea Doria. Ma l’inatteso voltagabbana dell’ammiraglio ligure mise fine alla campagna. Nel 1529, l’imperatore firmava la pace con il pontefice a Barcellona. Parallelamente, a Cambrai, la madre di Francesco, Luisa di Savoia, e la zia di Carlo, Margherita d’Austria, negoziavano quella che sarebbe diventata famosa come la Pace delle Dame. Quest’ultima consacrava l’egemonia imperiale in Italia, ma riconosceva al tempo stesso il dominio francese sulla Borgogna. L’anno successivo, Carlo veniva incoronato imperatore da Clemente VII a Bologna e Francesco otteneva la liberazione dei suoi due figli, prigionieri dal 1526. Cominciava un periodo di sette anni senza ostilità tra i due monarchi, ma non fu un periodo di completa pace. Francesco continuò a importunare le posizioni imperiali, dando il suo appoggio alla lega dei principi luterani che si era costituita nel 1530 a Smalcalda, nella regione tedesca della Tu-
ringia, mentre intensificava i suoi rapporti con l’impero ottomano, che nell’anno 1529 aveva posto l’assedio per la prima volta alla città di Vienna. Il re francese tornava ancora alla carica a Milano nell’anno 1535, cercando di far sposare uno dei figli con la vedova del duca Francesco II Sforza. Di fronte all’opposizione di Carlo, nel 1536 le truppe francesi invasero la Savoia e il nord del Piemonte. L’imperatore rispose con l’invasione della Provenza. La Pace di Nizza incoraggiata da papa Paolo III, della famiglia Farnese, riportò le cose allo stato precedente, anche se i Francesi non abbandonarono più la Savoia né il Piemonte. L’incontro tra i due monarchi nel piccolo paese di Aigues-Mortes, in Camargue, sembrò segnare l’accordo definitivo. Alcuni mesi più tardi, Francesco mostrò il suo cambio d’atteggiamento permettendo il transito dalla Francia delle truppe imperiali, destinate a reprimere la rivolta che era scoppiata a Gand. Tuttavia, era destino che qualunque accordo tra i due sovrani sarebbe risultato effimero. La decisione di nominare il figlio Filippo come
nuovo duca di Milano, così come l’appoggio di Francesco alle operazioni degli Ottomani nel Mediterraneo – dove Barbarossa aveva a disposizione i porti francesi per la sua azione contro Carlo – furono le scuse che trovarono i due per riaprire ancora le ostilità nel 1542. Mentre Francesco faceva pressione sulla frontiera spagnola nei Pirenei, Carlo penetrava nel nord della Francia con il sostegno degli Inglesi e riusciva ad arrivare alle porte di Parigi. Ma le casse dell’uno e dell’altro sovrano non erano più adatte a quel genere di velleità. Il denaro, o la sua mancanza, si dimostrò ancora una volta il motore della guerra. Nel mese di settembre del 1544, i due firmarono una nuova pace a Crépy.
I PADRONI D’EUROPA.
Carlo V, imperatore e re di Spagna, è ricevuto a Parigi dal sovrano francese, Francesco I, nel gennaio del 1540. Papa Paolo III, noto come Alessandro Farnese, aveva favorito una nuova pace tra i due sovrani. Affresco di Taddeo Zuccari dipinto nel 1559 (Palazzo Farnese, Caprarola).
L’altro Rinascimento: le Fiandre Sicuramente nell’Europa del nord non ci fu una passione per l’antichità paragonabile a quella italiana. Le vestigia delle grandi civiltà del Mediterraneo erano giunte nelle terre settentrionali del continente in una forma molto più diluita. E, tuttavia, risulta sorprendente verificare che, per51
L’UMANESIMO
MADONNA CON BAMBINO. Si tratta di uno
dei capolavori di Jan van Eyck (1390-1441 ca.), il pittore che lavorò nella città di Bruges e che è considerato il principale esponente dei primitivi fiamminghi (National Gallery of Victoria, Melbourne).
BRUGES (pag. 53).
Case medievali sul molo del Rosario (Rozenhoedkaai) e, sullo sfondo, la torre del Campanile, che si erge nella Grand Place, Bruges. 52
correndo strade diverse, gli scrittori e gli artisti del nord giunsero a conclusioni simili. A questo contribuirono i rapporti commerciali, sempre più intensi, tra i due territori. Ma, fondamentalmente, il Rinascimento nordico ebbe uno sviluppo proprio. Il suo epicentro fu nei Paesi Bassi governati dai duchi di Borgogna e, in particolar modo, nel ducato delle Fiandre, che svolse una funzione paragonabile a quella di Firenze. Il fatto che non esistessero dichiarazioni di principi così esplicite come quelle degli umanisti italiani fece sì che, apparentemente, gli artisti fiamminghi furono meno dipendenti dalle grandi costruzioni teoriche. La loro fu una rivoluzione più silenziosa, anche se non meno profonda. I suoi pionieri si comportarono come profeti di tempi nuovi e annunciarono cambiamenti che solamente la generazione successiva fu capace di mettere per iscritto. Solitamente lo fecero attraverso un linguaggio molto sottile, quasi un sussurro, che solo le anime più sensibili furono in grado di percepire. Non stupisce quindi che, fino a non molto tempo fa, molti di
essi non figurassero neppure negli annali della storia. A differenza di quelle italiane, le loro creazioni, destinate per la maggior parte a clienti privati, sono rimaste per secoli fuori dalla portata della maggior parte degli spettatori. Tali opere furono scoperte solamente all’inizio del XX secolo. La grande esposizione che si tenne a Bruges nel 1902, con il titolo I primitivi fiamminghi, un termine che si è infine affermato e che in qualche modo rende giustizia al contributo dei suoi protagonisti, fu una vera epifania per gli studiosi dell’arte e della cultura, che per la prima volta poterono contemplare alcune delle creazioni di artisti come Hans Memling, Petrus Christus, Hugo van der Goes, Rogier van der Weyden o Jan van Eyck. Cosa apportarono questi uomini, che di primitivo non avevano niente? Innanzitutto un modo innovativo di contemplare il mondo e la realtà. E, per estensione, un modo diverso di osservare gli esseri umani come facenti parte di questa realtà, modo che anticipò di vari lustri il Discorso sulla dignità dell’uomo dell’umanista italiano Pico della Mirandola. Si trattava di una maniera di intendere la missione dell’uomo che era fortemente in contrasto con la tradizione dei secoli precedenti. Il mondo medievale aveva rinunciato alla rappresentazione della realtà così come veniva percepita dai sensi. Non era solo una perdita della capacità tecnica rispetto all’antichità. Era, prima di tutto, il risultato di una questione teologica e filosofica: «Se il mondo terreno è sottomesso completamente al mondo dell’Aldilà, perché perdere tempo nella sua apparenza?». Era una deduzione che alcuni avevano tratto dalla lettura di sant’Agostino; arrivarono ad affermare che la realtà meritava di essere rappresentata solo nella misura in cui era un simbolo della perfezione divina. Di conseguenza, la finalità principale della loro rappresentazione non era trasmettere le cose com’erano realmente, ma come avrebbero dovuto essere. E questo attraverso un’intricata raccolta di simboli. Perché queste trasformazioni si radicarono nell’ambito delle arti visive nelle Fiandre prima che in altri luoghi d’Europa, e anche, per alcuni aspetti, prima che in Italia? La risposta è che il contenuto dei dipinti dipende in modo diretto dal genere di rapporto che si stabilisce tra il committente e l’artista, dal gusto dei primi e dalla libertà dei secondi. Le Fiandre erano innanzitutto un insieme di fiorenti città commerciali come Bruxelles, Anversa, Gand, Bruges o Malines, nelle quali una borghesia giovane e istruita aveva bisogno di autoaffermarsi contro la nobiltà possidente. L’arte fu un ottimo modo per raggiungere questo scopo.
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L’UMANESIMO
Le potenti città fiamminghe nello sviluppo del Rinascimento
Paesi Bassi Principato vescovile di Liegi Ducato di Lussemburgo Linea costiera alla fine del XVI secolo Rivolta e divisione (1579): Unione protestante di Utrecht Unione cattolica di Arras
Come successe nella Penisola Italiana, lo sviluppo dei Paesi Bassi nel XV e XVI secolo fu guidato da alcune città dominate da una borghesia imprenditrice e di chiara vocazione commerciale. Questa prosperità economica fu presto accompagnata da una fioritura delle arti e delle lettere, che sotto alcuni aspetti arrivò a superare persino gli insegnamenti degli umanisti italiani. Prima del 1433, data in cui il duca Filippo III di Borgogna, su invito dei nobili olandesi, unificò buona parte dei territori che oggi compongono Olanda e Belgio, questi ultimi erano divisi in città, contee e piccoli ducati che si alleavano e scontravano tra loro sullo stile dei principati e delle repubbliche italiane. Già sotto il dominio borgognone iniziarono a distinguersi con forza alcune città, grazie al commercio. È il caso di Amsterdam, trasformata nel principale porto occidentale per il grano proveniente dal Baltico, di Anversa, dove nel 1460 si aprì la prima borsa, o di Bruges, la cui prosperità commerciale si mantenne fino al XVI secolo, quando i sedimenti chiusero il canale che le consentiva lo sbocco sul mare. Lo sviluppo economico di queste città ebbe il suo corrispondente sul piano culturale, grazie a città come Lovanio, universitaria dal 1426 e Deventer, dove già nella seconda metà del XVI secolo era stata aperta la scuola dei Fratelli della Vita Comune. Si trattava di una congregazione religiosa dedicata all’educazione che incentivò lo studio dei classici latini e greci dell’antichità. Ormai nel XVI secolo, il territorio passò nelle mani di Carlo V, egli stesso fiammingo, finché nel 1568 le province olandesi si ribellarono e si resero indipendenti dal dominio spagnolo.
Harlingen
GRONINGA DRENTHE
Alkmaar
Kampen OVERIJSSEL
Haarlem Amsterdam Oldenzaal Deventer OLANDA Leida Zutphen Utrecht L’Aia UTRECHT SACRO Delft Tiel Nimega IMPERO Brielle Rotterdam Breda ZELANDA Middelburg BRABANTE
Anversa Bruges Ostenda Gand Lier Nieuwpoort Lovanio Malines Ypres FIANDRE Bruxelles LIEGI Maastricht LIMBURGO Dunkerque NAMUR Liegi Lille Tournai Namur Mons ARTOIS Valenciennes Arras
Mentre la maggior parte della pittura medievale aveva avuto un carattere rituale e pubblico, commissionata da istituzioni religiose e, occasionalmente, politiche, per comunicare messaggi stereotipati che si dovevano adattare a convenzioni molto precise, i borghesi delle città commissionarono dipinti per il loro gusto personale. L’assenza di convenzioni permise agli artisti di avere un margine più ampio per la sperimentazione.
Erasmo, principe degli umanisti A differenza dell’Italia, il Rinascimento dei Paesi Bassi si espresse nelle immagini prima di essere formulato in parole. Ma quando lo fece, diede vita allo scrittore più fecondo del periodo. Si chiamava Erasmo, era nato a Rotterdam il 26 ottobre 1466 e morì a Basilea, a settant’anni, il 12 luglio 1536. Era figlio illegittimo di un sacerdote e di una domestica. Fu educato dai Fratelli della Vita Comune, l’associazione religiosa che meglio rifletteva lo spirito della Devotio moderna, un movimento promosso da scrittori e mistici del nord Europa, come Jan van Ruysbroek, Geert Grote o, il più famoso di 54
Groninga FRISIA
HAINAUT
LUSSEMBURGO
Lussemburgo
REGNO DI FRANCIA
tutti, Tommaso da Kempis (1380-1471). La loro proposta era una religiosità semplice, che cercasse Dio nel cuore di ogni persona. Erasmo entrò, come Lutero, nell’Ordine degli agostiniani, anche se ottenne subito una dispensa dai suoi obblighi clericali. Condivise con i suoi colleghi italiani l’ammirazione per l’antichità pagana e cristiana, così come il disprezzo per i filosofi scolastici con il loro «latino barbaro e sciatto» e le «intricate ragnatele dei loro pensieri». Credeva nel recupero del sapere, pertanto scrisse «le belle arti che erano quasi estinte, sono ora coltivate e abbracciate da Scozzesi, Danesi e Irlandesi» (che, per lui, era già tutto dire). Tuttavia, a differenza dei primi umanisti, Erasmo si formò in un’epoca in cui esisteva già la stampa. Godette di buoni rapporti con alcuni dei principali stampatori del continente, come il veneziano Aldo Manuzio e i Froben di Basilea. Grazie a questa nuova risorsa e alla sua capacità di articolare ideali umanistici nel modo più chiaro e convincente, divenne una specie di arci-umanista, il più rispettato di tutta Europa. Il suo Enchiridion o Manuale
ERASMO DA ROTTERDAM. Alla nascita
Geert Geerts (1466-1536), fu ordinato sacerdote nel 1490 e lasciò la sua città per studiare alla Sorbona di Parigi. Fu professore di Teologia a Cambridge, in Inghilterra, dove strinse una forte amicizia con Tommaso Moro e John Colet. Era estremamente critico con la Chiesa cattolica; anche se credeva negli insegnamenti di Cristo, voleva una riforma che permettesse maggiore libertà di pensiero. Erasmo mantenne una fitta corrispondenza con personalità della cultura e della politica. Pubblicò circa 15 opere, tra cui si distinguono le prime due, gli Adagia, pubblicati nel 1500 e il Manuale del soldato cristiano, del 1503, censurate dal Concilio di Trento e insultate dai pensatori riformisti. Ritratto di Erasmo di Hans Holbein il Giovane (Museo del Louvre, Parigi).
del soldato cristiano, un testo religioso a uso dei laici, raggiunse le ventisei edizioni tra il 1503 e il 1521 e fu tradotto in tedesco, ceco, inglese, olandese, castigliano, francese, italiano e portoghese. L’Elogio della pazzia, la satira per cui oggi è maggiormente conosciuto, ebbe trentasei edizioni tra il 1511 e il 1536 e fu tradotto in altrettante lingue. Di conseguenza a questi successi editoriali, Erasmo godette di una grande reputazione internazionale. Fu invitato in Spagna dal cardinale Cisneros, in Francia da Francesco I e in Inghilterra da Enrico VIII. Nonostante avesse proclamato che la sua intenzione non era incoraggiare degli “erasmisti”, ebbe eserciti di ammiratori e seguaci. Alcuni molto illustri come Tommaso Moro e John Colet in Inghilterra, Jacques Lefèvre d’Étaples, Margherita di Navarra e François Rabelais in Francia, o Juan Luis Vives e Juan de Valdés in Spagna. A Basilea e Rotterdam furono erette statue in suo onore, un privilegio riservato ai re, ai grandi guerrieri e ai santi. «Volevo essere cittadino del mondo», scrisse a Huldrych Zwingli. Per mondo, Erasmo intendeva la comunità europea del sapere e senza dubbio
centrò il suo obiettivo. Questo fu possibile grazie alla copiosa corrispondenza che ebbe con i principali pensatori della sua epoca. «Ho scritto così tante lettere che due macchine riuscirebbero a mala pena a sopportare tanto peso», arrivò ad affermare. La sua attività negli ultimi anni di vita fu così intensa che ebbe bisogno di assumere degli assistenti per assolvere a tutti i suoi doveri. Nonostante i suoi sforzi per tendere ponti in un’epoca di conflitti sempre più aspri, Erasmo fu rifiutato nella generazione successiva, molto più radicalizzata e sorda al dialogo che egli predicò, tanto da parte dei cattolici quanto da quella dei protestanti. Lutero e i suoi seguaci lo considerarono troppo ambiguo, un’“anguilla”, come lo definì uno di essi. Ironicamente, i cattolici lo considerarono troppo vicino a Lutero. L’università della Sorbona censurò alcuni dei suoi libri nel 1526, e a partire dal 1530 l’appellativo “erasmista” fu considerato sinonimo di “luterano” in Spagna. Queste reazioni miopi hanno portato alcuni a pensare che lo spirito del Rinascimento fosse già stato eliminato in quell’epoca. 55
LEONARDO DA VINCI
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Leonardo da Vinci «Preferirei la morte all’ozio». Così si esprimeva un uomo che dedicò tutta la sua vita a creare immagini, macchine e grandi progetti che furono precursori della sua epoca.
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er l’universalità dei suoi interessi, Leonardo ha assunto, più di qualunque altro suo contemporaneo, il ruolo di simbolo e mito del genio del Rinascimento italiano. Questo non sorprende, se si considera che per lui non esisteva aspetto della natura, della scienza o dell’arte che non lo spingesse a dedicare tempo e fatica a svelarne i segreti. Dall’architettura alla musica, dall’idraulica alla geologia, dall’anatomia alla botanica, dall’ingegneria alla poesia, tutto richiamava la sua attenzione, senza dimenticare, naturalmente, la pittura, a cui deve la sua fama. È anche per questo motivo che buona parte della sua straordinaria eredità ci appare in modo frammentario e inconcluso. Riuscì a darne una buona motivazione il pittore e biografo di artisti Giorgio Vasari, quando diceva: «Veramente mirabile e celeste fu Lionardo […] e nella erudizione e principii delle lettere avrebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario e instabile. Perciocché egli si mise a imparare molte cose; e cominciate, poi l’abbandonava». Nonostante questo, Vasari non aveva dubbi e vide nel soggetto della sua biografia qualcuno che era più vicino agli dèi che ai mortali. Tuttavia, in realtà, si dovette aspettare fino alla fine del XIX secolo, il momento in cui il Rinascimento assunse i tratti di categoria culturale, perché Leonardo fosse innalzato all’olimpo dei grandi geni. Da allora, le teorie più incredibili sulla sua attività creatrice e i presunti misteri che la circondarono non hanno fatto altro che moltiplicarsi.
Origini e formazione Tutto questo nonostante Leonardo avesse creato favolosi artefatti che non furono mai provati, progettato costruzioni che non furono mai erette, modellato AUTORITRATTO. L’artista ritrasse se stesso in
numerose occasioni. Questo disegno del 1512 ca. lo rappresenta già anziano. (Biblioteca Reale di Torino).
L’EVOLUZIONE DI UN GENIO 1452
Nascita. Leonardo nasce a Vinci (Firenze), figlio del notaio Ser Piero e di Caterina, una contadina. Rimane a Vinci fino al 1469, quando si trasferisce a Firenze. 1472
Apprendistato a Firenze. Completa il suo apprendistato nella bottega dello scultore Verrocchio ed entra nella corporazione dei pittori. Un disegno dell’Arno (1473) è la sua prima opera conservata. 1482
Alla corte di Milano. Invitato da Ludovico Sforza, si stabilisce a Milano, dove realizza ogni genere di lavori tecnici e artistici, come L’Ultima Cena. Nel 1499 lascia il ducato. 1503
Nuova tappa a Firenze. Dopo un periodo al servizio di Cesare Borgia, Leonardo torna a Firenze, dove rimane fino al 1506. Dipinge La Gioconda e studia l’anatomia e il volo degli uccelli. 1516
Alla corte di Francia. Suo grande ammiratore, Francesco I di Francia chiama Leonardo alla sua corte. L’artista si stabilisce nel castello di Clos-Lucé, ad Amboise. Lì muore il 2 maggio dell’anno 1519. LEONARDO INVENTORE. L’artista progettò un
gran numero di invenzioni, come questo congegno bellico, precursore della mitragliatrice moderna (Museo Leonardiano, Vinci).
sculture che non arrivarono a essere innalzate ed eseguito grandi affreschi che finirono per rovinarsi, alcuni completamente, perché gli esperimenti dell’artista con i pigmenti e le vernici semplicemente non funzionarono. In vita Leonardo fu già considerato una mente privilegiata, capace di trascendere la realtà sensibile. Per noi, quasi cinquecento anni dopo la sua morte, non solo continua a esserlo, ma rappresenta anche con particolare intensità il momento critico di transizione tra la fase del Quattrocento e il culmine del Rinascimento incarnato dalla figura di Raffaello. Leonardo fu il figlio illegittimo di una contadina e di un notaio della piccola località di Vinci, situata a circa 25 km da Firenze. Il bambino crebbe nella casa paterna e diede presto prova delle sue doti di osservazione e creazione. A questo proposito, Vasari racconta un aneddoto illustrativo, quello dello scudo della Medusa: un contadino di Vinci andò dal notaio Ser Piero a chiedergli uno scudo di legno dipinto. Leonardo, che lo sentì, si mise all’opera e, dopo aver pensato cosa avrebbe potuto disegnarci sopra, si decise per una testa di Medusa: «Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non egli solo – dice il biografo – lucertole, ramarri, grilli, serpe, farfalle, locuste, nottole ed altre strane spezie di simili animali; dalla moltitudine de’ quali variamente adattata insieme, cavò un animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco» e aggiunge «e penò tanto a farla, che in quella stanza era il morbo degli animali morti troppo crudele, ma non molto sentito da Lionardo per il grande amore che portava all’arte». Il risultato fu un successo, come dimostra il fatto che Ser Piero, scoprendo la mostruosa testa, prese un bello spavento. Non la diede però al contadino ma gliene comprò un’altra diversa mentre vendeva quella di Leonardo a dei com57
LEONARDO DA VINCI
IL CASTELLO SFORZESCO DI MILANO.
Francesco Sforza, padre del protettore di Leonardo, iniziò a costruire la fortezza nel 1450. mercianti fiorentini per i suoi bei cento ducati… L’aneddoto, in ogni caso, è prezioso, perché ci mostra il primo esempio di un Leonardo interessato dalla natura e la sua creazione artistica, che si astrae da tutto per concentrarsi solo su quello che ha tra le mani. È già lo stesso creatore che, anni dopo, difenderà il valore della pratica al di sopra della teoria: «Diranno che, per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienzia, che d’altrui parola, la quale fu maestra di chi ben scrisse, e così per maestra la piglio, e quella in tutti i casi allegherò». Nonostante questo precedente più o meno leggendario, la formazione ufficiale di Leonardo iniziò tardi, e si svolse nella 58
bottega di Andrea Verrocchio, insieme ad artisti del calibro di Sandro Botticelli, Perugino, Domenico Ghirlandaio e Filippo Lippi. Fu lì che si risvegliò il suo interesse per le diverse tecniche artistiche, una passione che fu in crescendo nel corso della sua vita professionale e che imparò a dominare mentre acquisiva una vasta formazione che non smise di arricchire durante la sua vita. La curiosità e la capacità di Leonardo da Vinci andavano molto al di là del terreno delle arti plastiche. Le prime opere che gli si attribuiscono, come un paesaggio del fiume Arno disegnato nel 1473 di cui, non senza un certo orgoglio, l’apprendista stesso annotò «sono soddisfatto», o l’olio intitolato L’Annunciazione, dipinto tra il 1472 e il 1475, mostrano i progressi dell’artista novello nelle discipline tradizionali, come il disegno, la prospettiva e l’anatomia, così come una particolare attenzione agli ef-
fetti della luce e alla natura, che inizia a delineare lo stile con cui Leonardo rinnovò il panorama artistico fiorentino.
I protettori Uno dei primi incarichi che furono affidati a Leonardo fu un quadro d’altare per la cappella dei priori del Palazzo della Signoria, la sede del governo comunale fiorentino. Tuttavia non riuscì mai a completarlo, fatto che sarebbe stato una costante nella sua carriera. Nonostante i suoi esordi promettenti, fu subito evidente che non era fatto per lavorare nel competitivo mercato fiorentino, dominato da borghesi e monaci abituati a rispettare con precisione i contratti. Leonardo ottenne però il favore di Lorenzo il Magnifico, grazie alla sua prodigiosa padronanza della viella, uno strumento a corde. Quello di cui l’artista aveva bisogno era un protettore che lo accogliesse e gli concedesse libertà di manovra. Così, all’età di trentadue anni,
La quintessenza della bellezza del Rinascimento Una delle aspirazioni degli artisti del Rinascimento fu creare un canone di bellezza femminile universale. Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Raffaello furono alcuni di quelli che si dedicarono a questa ricerca. Anche Leonardo sembra che vi abbia ceduto: di tutti i suoi ritratti che sono stati conservati, la maggior parte raffigurano donne.
GINEVRA DE’ BENCI. Opera della gioventù di Leonardo, ma già con dettagli geniali, come la sua strana luminosità, rappresenta una dama della nobiltà fiorentina molto ammirata nei circoli umanisti. Il quadro è conservato alla National Gallery of Art di Washington.
LA GIOCONDA. Conservata al Museo del Louvre, il quadro più famoso di Leonardo è molto più del suo celebre sorriso; è anche l’esempio più riuscito dell’uso dello sfumato. La sua modella fu Lisa Gherardini, moglie del commerciante fiorentino Francesco del Giocondo.
LA DAMA CON L’ERMELLINO. Realizzato a Milano, questo quadro raffigura una delle amanti di Ludovico Sforza, Cecilia Gallerani. L’ermellino che sostiene la giovane è proprio l’emblema degli Sforza. L’opera è conservata al Museo Czartoryski di Cracovia.
LA BELLE FERRONIÈRE. Anche se il suo nome fa riferimento a un’amante di Francesco I, questo quadro fu realizzato a Milano. Il nome della dama è sconosciuto, anche se è stata identificata con una delle amanti di Ludovico Sforza. È conservata al Museo del Louvre di Parigi.
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LEONARDO DA VINCI
Un’opera controversa L’Ultima Cena, dipinta tra il 1494 e il 1498, è l’unica opera murale conosciuta di Leonardo. Il gran numero di disegni preparatori esistenti rivela lo studio attento delle reazioni degli apostoli all’annuncio di Cristo del tradimento da parte di uno di loro. Il Cenacolo è centrato su questo evento e non sul momento della consacrazione eucaristica, come era d’abitudine tra i pittori contemporanei. La tecnica sperimentale utilizzata dall’artista ha rovinato l’opera a tal punto che possiamo immaginarla solo dai bozzetti che si sono conservati. Il restauro, che è durato più di ventiquattro anni, l’ha migliorata sensibilmente, ma non si può ritenere un campione fedele dell’originale. D’altro lato, la posizione di Giovanni, piegato verso Pietro, e la sua immagine tradizionale come un giovane senza barba e dalla lunga capigliatura, ha portato a identificazioni assurde con Maria Maddalena, diffuse da romanzi storico-fantastici presi troppo spesso per certi. L’affresco dell’Ultima Cena si trova nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie, a Milano. Si crede che fu Ludovico Sforza, il Moro, che nel 1494 commissionò a Leonardo quest’opera d’arte.
decise di tentare la fortuna a Milano, dove il duca Ludovico Sforza il Moro stava cercando proprio quello che a Firenze abbondava. E cioè, artisti che creassero un’immagine regale del loro protettore. A Milano, Leonardo ebbe l’opportunità di mettere alla prova le sue abilità come ingegnere militare, architetto e scultore, attività di cui, sfortunatamente, non si sono conservati neppure i bozzetti. Iniziò anche a redigere alcuni testi su temi scientifici e tecnici, anche se non arrivò mai a pubblicarli in maniera ordinata. Oggi costituiscono un patrimonio immenso e un insieme poco organizzato dei più svariati rami del sapere. Scrisse anche un trattato sulla pittura e sull’espressione del movimento umano che, raccolto in seguito da uno dei suoi discepoli, divenne famoso con il titolo di Trattato della pittura. Vedendo il risultato finale, è dubbio che Leonardo fosse proprio l’uomo di 60
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cui aveva bisogno il suo protettore. I pochi progetti di esaltazione della famiglia Sforza che egli avviò rimasero in bozzetti d’argilla, come la grande scultura equestre del padre del duca. Tuttavia, la prima versione de La Vergine delle rocce o l’affresco de L’Ultima Cena per il Convento di santa Maria delle Grazie furono il frutto mirabile del suo lavoro. Anche Ludovico poteva essere più che soddisfatto di alcuni dei ritratti che commissionò all’artista, come La belle ferronière e La dama con l’ermellino, in realtà due sue amanti.
Il periplo attraverso l’Italia Dopo l’occupazione francese di Milano e la caduta di Ludovico il Moro, Leonardo iniziò un periplo che prima lo portò a Mantova, dove dipinse il ritratto d’Isabella d’Este, e poi a Venezia, dove realizzò dei progetti per la difesa della città, all’epoca minacciata dai Turchi.
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Nel 1500 era di ritorno a Firenze, permanenza di cui approfittò per impressionare tutti con il cartone per il quadro di Sant’Anna, la Vergine e il Bambino. Nel 1502 entrò al servizio di Cesare Borgia, il figlio di papa Alessandro VI, che aspirava a creare uno Stato indipendente nella Romagna, appena conquistata. La sua nomina come architetto e ingegnere generale lo portò a supervisionare l’insieme delle fortificazioni e a tracciare cartine e mappe di diverse città della regione. Nel 1503, Leonardo tornò ancora una volta a Firenze. La motivazione fu l’incarico più importante che gli fu affidato nel corso della sua vita: la decorazione di uno dei muri del salone dei Cinquecento del Palazzo Vecchio, per commemorare la battaglia di Anghiari del 1440, in cui i Fiorentini sconfissero i Milanesi. In questo lavoro era in competizione con Michelangelo, incaricato di dipingere il muro opposto, dedicato alla battaglia di Cascina.
L’AFFRESCO DI LEONARDO. Questa
pittura murale consolidò la fama dell’artista tra i suoi contemporanei. In essa applicò in modo perfetto i principi della nuova pittura: la prospettiva, l’espressione dei sentimenti attraverso i gesti delle figure, il movimento drammatico. Nella sua ricerca del realismo, rappresentò un momento concreto dell’Ultima Cena, così fedelmente rispetto al racconto dei Vangeli che gli spettatori si sentivano immersi in esso.
1 CONFESSIONE DI GESÙ. Il Vangelo di Giovanni racconta che, alla fine della Cena, Gesù «fu profondamente turbato» e annunciò ai suoi discepoli: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». 2 LA REAZIONE INIZIALE. Il Vangelo aggiunge: «I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse». Leonardo mostra le reazioni degli apostoli, che vanno dall’incredulità all’indignazione. 3 PIETRO SUSSURRA A GIOVANNI. Il Vangelo racconta anche che Pietro fece un cenno a Giovanni, il discepolo preferito di Gesù, che era seduto accanto a lui, e gli disse nell’orecchio «di informarsi chi fosse quello di cui parlava». 4 IL PEZZO DI PANE. Gesù rispose a Giovanni: «È colui per il quale intingerò il boccone». Leonardo presenta il momento in cui Gesù prende il pezzo di pane mentre fa lo stesso il traditore, Giuda.
Ma la tecnica utilizzata da Leonardo diede un risultato così rovinoso che il dipinto iniziò a staccarsi e fu necessario sostituirlo con un altro, proprio del suo biografo Vasari. Ma questa permanenza fiorentina non fu inutile, poiché il genio iniziò una delle opere per cui impiegò il maggior numero di anni: il ritratto di Monna Lisa, moglie del mercante Francesco del Giocondo. I suoi tratti ambigui sembrano confondersi più con la rappresentazione delle idee sulla pittura dell’artista stesso che con la modella vera e propria. Nel 1506, l’inquieto Leonardo ottenne il permesso dei suoi protettori fiorentini di trasferirsi di nuovo a Milano, sicuramente allo scopo di completare La Vergine delle rocce. Ma il governatore francese della piazza non era disposto a lasciarsi sfuggire facilmente la preda. Scrisse così ai dirigenti di Firenze, chiedendo una proroga della sua permanenza. La risposta che ottenne lo lasciò
attonito: «[Leonardo] non si è comportato con questa Repubblica come avrebbe dovuto perché ha ricevuto una bella somma di denaro e ha appena cominciato un lavoro molto importante che ha l’obbligo di concludere; si è comportato come un fannullone». Indubbiamente, era chiaro che da Vinci non era nato per andare d’accordo con i suoi compatrioti. Quando, nell’anno 1513, i Francesi furono cacciati da Milano e gli Sforza rimessi al governo del ducato, Leonardo decise di andare a Roma per mettersi al servizio di Giuliano de’ Medici, fratello del papa Leone X. Non conosciamo quali fossero le aspirazioni del suo nuovo protettore, ma si sa che l’artista si dedicò in quegli anni a fare ricerche di anatomia, geometria e ottica, oltre a redigere un libro sui giochi geometrici e a portare a termine la ricostruzione del vecchio porto di Civitavecchia. Se consideriamo il racconto di Vasari, stava diventando
un uomo sempre più eccentrico, e «usava spesso far minutamente digrassare e purgare le budella di un castrato/ fece infinite di queste pazzie strani esperimenti con lacerti e budella di montone castrato». Lo stesso biografo ci riferisce che, poiché il papa gli aveva incaricato un’opera, si mise a distillare erbe e olii per produrre il colore: «Oimè! Costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera», si dice che affermò un compunto Leone X.
La fase francese Nel 1516, alla morte del suo protettore Giuliano de’ Medici, Leonardo accettò l’invito del nuovo re di Francia, Francesco I, e si trasferì nel castello di Amboise, dove fu nominato Premier peinctre et ingénieur et architecte du Roy. Ancora una volta, si dedicò a progetti di ingegneria, come le strutture per l’irrigazione di Tours e Blois. L’anno successivo al suo arrivo gli fece visita il cardinale Luigi d’Aragona. Secondo quanto scrisse poi il suo segretario, Leonardo gli mostrò tre quadri perfetti, «ma non ci si può più aspettare altro da lui a causa della paralisi che gli è venuta alla mano destra». Morì nel castello di Cloux, vicino alla residenza reale di Amboise, il 12 maggio 1519. Nel corso dei cinquant’anni di attività, Leonardo da Vinci iniziò non più di 20 dipinti e di questi ne concluse 16. Nonostante la scarsa produzione, che può essere considerata ridicola rispetto a qualunque altro suo contemporaneo, il Fiorentino considerò sempre se stesso, e prima di tutto, un praticante della pittura. Solo che a lui non interessava la quantità. Per Leonardo, «l’arte è una cosa mentale» oppure, che equivale a dire la stessa cosa, qualcosa il cui interesse è radicato nella proposta intellettuale dell’artista, di modo che una volta concepita l’opera nella mente e abbozzata sulla tela o sulla parete, tutto il resto non era più importante, posto che l’esecuzione dell’opera continuava a essere un lavoro meccanico di cui il genio si disinteressava subito, attratto da qualunque altra ricerca che richiedesse un nuovo inizio. Nonostante questo, questa “poesia muta” che per Leonardo da Vinci è la pittura, supera secondo lui qualsiasi altra arte e garantisce un piacere ineguagliabile a chi la pratica. 61
LEONARDO DA VINCI
Leonardo e la scienza Nel corso di tutta la sua vita, il genio toscano Leonardo da Vinci manifestò una curiosità vivacissima e insaziabile per i più svariati aspetti della conoscenza umana. Non si adoperò solamente nell’ambito delle arti, ma cercò anche di apportare soluzioni di straordinaria modernità a problemi legati all’anatomia, alla meccanica e alla fisica.
LA MERAVIGLIOSA MACCHINA DEL CORPO UMANO
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1 GESTAZIONE. Studiò la gestazione nelle vacche, finché riuscì ad analizzare un feto umano di sette mesi. Fece di quest’ultimo uno straordinario disegno, e scrisse: «È circondato da acqua viscosa e densa […], che distribuisce il suo peso e quello del bebè su entrambi i lati dell’utero».
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2 MUSCOLI E NERVI. Per Leonardo, il corpo non era altro che una macchina. Per quanto riguarda i muscoli, affermava che funzionavano come i cavi; le articolazioni erano cerniere e l’effetto leva poteva essere applicato al movimento degli arti.
ORGANI INTERNI. Descrisse in modo molto dettagliato gli organi interni del corpo umano, anche se non sempre comprese la loro funzione. Si accorse che la laringe e la trachea intervenivano nella voce, ma credeva che il cibo si muovesse per il corpo spinto dalla respirazione.
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LE INVENZIONI PIONIERISTICHE DI UN GENIO VISIONARIO Macchine volanti Leonardo da Vinci era convinto che l’uomo potesse imitare il volo degli uccelli: «L’uccello è uno strumento che si comporta secondo delle leggi matematiche, strumento che l’uomo, con tutte le sue conoscenze, è in condizioni di costruire», scrisse in uno dei suoi quaderni. Tuttavia, i suoi fantasiosi progetti si basavano su una convinzione del tutto erronea: quella che il corpo umano poteva, da solo, generare la forza motrice necessaria perché si librasse nell’aria e alzasse in volo.
ELICOTTERO. Leonardo fu la prima persona che progettò uno strumento di volo dotato di rotore elicoidale. Sulla base dell’apparecchio, una struttura mossa da quattro persone serve a muovere l’elica, un rotore ricoperto di stoffa di lino, leggera e flessibile.
ALA ARTIFICIALE. Questo prototipo doveva servire per verificare se un uomo aveva abbastanza forza per muovere un’ala. Per progettare questo apparecchio destinato al volo, Leonardo si ispirò alle ali dei pipistrelli, che gli sembravano più stabili di quelle degli uccelli.
Artefatti bellici Nel 1482, Leonardo offrì i suoi servigi a Ludovico Sforza, duca di Milano e mecenate, come ingegnere militare, assicurandogli che avrebbe potuto costruire qualsiasi genere di nuova arma: mortai, carri armati, catapulte, strumenti d’assedio… Tuttavia, Leonardo in fondo era un pacifista, e riteneva la guerra una «pazzia bestiale».
CARRO ARMATO. Questo carro d’assalto, precursore del carro armato moderno, ha una copertura conica per far sì che i proiettili scivolino sopra. Dovevano muoverlo otto uomini con delle manovelle e aveva 36 cannoni. Secondo Leonardo, avrebbe finito per sostituire gli elefanti negli assalti.
CATAPULTA. Questa balestra lancia proiettili è uno dei progetti più semplici ideati da Leonardo. Era in grado di lanciare due proiettili contemporaneamente, uno che partiva dalla punta del braccio e l’altro spinto da una fionda tesa legata a esso.
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IL GIOVANE LUTERO.
In questo ritratto, realizzato da Lucas Cranach il Vecchio nel 1525, Lutero appare con il volto emaciato e scavato proprio del penitente (Museum and Art Gallery, Bristol). Nella pagina accanto, bolla di indulgenza concessa a un monastero di Colonia nel 1512 (Zentrales Staatsarchiv, Potsdam). 64
GLI INIZI DELLA RIFORMA Anche se le loro molteplici differenze erano state la causa di continui scontri, nel Cinquecento i governanti europei erano tutti d’accordo su un punto: rappresentavano la cristianità contro la minaccia degli infedeli. La difesa della fede e della tradizione della Chiesa cattolica era uno degli impegni che avevano assunto al momento del giuramento della loro carica. Solo tre decenni più tardi, questo accordo sarebbe andato all’aria.
L’
Europa era divisa in due fazioni irriconciliabili, cattolici e riformati, che, dopo aver tentato di risolvere le loro differenze in lunghi dibattiti teologici, lo fecero sul campo di battaglia. Fino alla metà del XVII secolo, la religione divenne lo stendardo sotto il quale furono combattute guerre interminabili, che dissanguarono il continente e rovinarono l’economia di gran parte dei suoi Paesi. Tutto ebbe inizio il 1 novembre 1517, quando un monaco agostiniano tedesco, professore all’Università di Wittenberg, in Sassonia, di nome Martin Lutero, appese alla porta della chiesa del palazzo della città un lungo scritto, nel quale espo-
neva 95 tesi contro la dottrina cattolica delle indulgenze. Il tema non poteva essere più attuale: allo scopo di riuscire a ottenere fondi per la costruzione della Basilica di san Pietro, il pontefice Leone X aveva avviato una campagna destinata a offrire ai fedeli il perdono dei loro peccati, in cambio di un’elemosina. In Germania, per incentivare la generosità dei donatori, il papa si affidò alle parole persuasive del frate domenicano Johann Tetzel e per gestire la riscossione, e confidò nelle conoscenze finanziarie del principale banchiere del momento, Jakob Fugger. Certamente, l’azione del fratello Martin non aveva alcuna pretesa di rivolta. La porta della 65
GLI INIZI DELLA RIFORMA
FASI DEL MOVIMENTO PROTESTANTE IN EUROPA 1517
Le 95 tesi. Alla vigilia di Ognissanti, Lutero appende le sue 95 tesi contro le indulgenze nella chiesa del palazzo di Wittenberg. 1521
Dieta di Worms. Anche se viene scomunicato da Roma, Lutero si rifiuta di ritrattare le sue tesi riformiste davanti all’imperatore Carlo V. 1525
Rivolta contadina. Thomas Müntzer si pronuncia a favore di una riforma religiosa e sociale e si unisce ai ribelli. Muore sul campo di battaglia. 1534
Giovanni Calvino. Il teologo si rifugia in Svizzera. In Inghilterra, il re Enrico VIII firma l’Atto di Supremazia e rompe con Roma. 1547
Sconfitta riformista. L’imperatore Carlo V vince i principi protestanti della Lega di Smalcalda nella battaglia di Mühlberg. 1559
Anglicanesimo. Elisabetta I d’Inghilterra approva il Secondo Atto di Supremazia e diventa l’autorità suprema della Chiesa anglicana. 66
chiesa era il luogo in cui i professori dell’università erano soliti appendere gli scritti che venivano poi discussi con gli studenti in classe. D’altro canto, la sua argomentazione sembrava più diretta a risolvere le inquietudini personali sulla salvezza della sua anima, che tanto profondamente lo angustiava, piuttosto che ad aprire una controversia con le autorità della Chiesa.
Il cammino verso la rottura Appena un mese dopo, Lutero stesso inviò una copia dello scritto a uno dei principali dignitari ecclesiastici della Germania, il vescovo Alberto di Magonza, allo scopo di ottenere la sua approvazione. Speranza vana. Allarmato da quanto aveva letto, il prelato spedì una copia a Roma perché fosse debitamente esaminata, e il documento arrivò nelle mani del cardinal Caetani, uno dei principali teologi del momento, fedele seguace di san Tommaso d’Aquino. Non v’è dubbio che in quel periodo, agli inizi del 1518, il fratello Martin Lutero non avesse in mente un progetto alternativo a quello della Chiesa romana e, ancora meno, un piano strutturato per la sua riforma. Tutto indica piuttosto che il suo pensiero prese forma a seguito dei successivi dibattiti a cui partecipò. Nel Capitolo Generale dell’Ordine degli agostiniani, riunito nel mese di aprile del 1518, spiegò la sua dottrina sulla predestinazione. Il destino eterno dell’anima, disse, è solamente nelle mani di Dio, l’unico che può determinare la sua salvezza o la sua condanna. In quanto essere immutabile, Dio decide per ognuno di noi, pertanto confidare nelle opere buone per cambiare le sue decisioni non solo è inutile ma è anche una manifestazione d’orgoglio. Come se questo non bastasse – continuò ad argomentare Lutero – la natura umana, corrotta dal peccato originale, è incapace di per sé di realizzare delle buone azioni. Solo Dio può rendere buone le azioni malvagie degli uomini. L’unica cosa che resta da fare agli esseri umani è accettare il disegno divino mediante un atto di fede nella sua misericordia. In altre parole, come in seguito arrivò a consigliare ai suoi seguaci: «Pecca fortemente, ma credi ancor più fortemente». Anche se questo modo di pensare si collocava agli antipodi di quello che sosteneva la Chiesa, il teologo, spinto dai suoi superiori, accettò di scrivere una lettera di sottomissione all’autorità del papa in cui, misteriosamente, si rifiutava di ritrattare. Nell’ottobre di quello stesso anno, Lutero fu convocato a esporre le sue idee davanti alla Dieta Imperiale, che si era riunita nella città di Augusta. Roma mandò come osservatore proprio il cardinal Caetani. Dopo aver dibattuto pubblica-
Lutero, da monaco a riformatore Nulla faceva pensare che il giovane Martin Lutero, monaco dal 1505 e sacerdote dal 1507, sarebbe diventato l’artefice di uno scisma che avrebbe tenuto in scacco la Chiesa cattolica e l’Europa occidentale. In giovinezza, Lutero si distinse a stento da qualunque altra persona che abbracciava la carriera ecclesiastica. A dir tanto, si potrebbero segnalare i suoi brillanti studi di teologia a Wittenberg, la stessa università di cui divenne professore nel 1512. Il giovane agostiniano fu mandato anche a Roma per presentare uno scritto sulla riforma del suo ordine, un viaggio da cui ritornò carico delle stesse indulgenze contro cui, nel 1517, si scagliò con le sue 95 tesi. Fu a partire da questo momento che il suo pensiero iniziò a cambiare. Da un lato, la persecuzione di Roma nei confronti della sua idea dell’azione salvifica della grazia divina e, dall’altro, la protezione offerta dai principi tedeschi, che videro in lui uno strumento per combattere l’impero cattolico di Carlo V, lo spinsero al rifiuto della Chiesa stabilita e alla necessità di una rottura con essa. Nell’immagine, Le 95 tesi di Lutero, olio di Ferdinand Pauwels (Castello di Wartburg, Eisenach).
mente con lui, l’agostiniano finì per appellarsi a un concilio generale per dirimere le controversie. Come tutti compresero subito, si trattava di un colpo basso all’equilibrio dell’autorità pontificia. Per molti versi, i concili potevano essere considerati come il parlamento della Chiesa, che si riuniva in occasioni solenni per trattare principalmente le questioni legate alle minacce per l’integrità della fede cattolica. Questo voleva allora dire che l’autorità del concilio, quando si trattava di decidere sulle grandi questioni, era superiore a quella del papa? Era una domanda che molti interpretavano come un dibattito più generale sul potere dei parlamenti rispetto ai monarchi. Invocando la suprema autorità del concilio per dirimere la sua causa, Lutero si schierava decisamente tra i difensori dei parlamenti. Questo in Germania significava fare appello all’autorità della Dieta sull’imperatore, un fatto che sia i grandi principi sia molti piccoli nobili e città sostenevano già da un po’ di tempo. Intorno alla metà del 1518, era chiaro che il problema posto da Lutero superava l’ambito
strettamente religioso. Federico di Sassonia, uno dei sette principi elettori, ne assunse la protezione contro quella che considerò l’ingerenza di un potere straniero, Roma, in una questione interna alla Germania. Il problema si politicizzò definitivamente quando un gruppo di nobili con ferventi convinzioni nazionaliste, guidati da Franz von Sickingen e Ulrich von Hutten, chiese che Lutero fosse giudicato in Germania e che si evitasse di consegnarlo all’autorità pontificia. Nel mese di gennaio del 1519, Lutero accettò di discutere nuovamente le sue idee con un rappresentante di Roma. Questa volta si trattava di Johannes Eck, un prestigioso professore di teologia dell’università di Ingolstadt. L’incontro divenne poi famoso come la disputa di Lipsia. Nel corso della stessa, il monaco agostiniano espose la sua teoria del sacerdozio universale, secondo cui tutti gli uomini possono comunicare con Dio senza la necessità della mediazione della Chiesa. Alla fine, Eck stese un rapporto in cui esprimeva la sua convinzione che le vie di comunicazione con Lutero erano definitivamente interrotte. Que-
sto documento costituì la base per la redazione della bolla Exurge Domini, che fu pubblicata nel mese di giugno del 1520. Con quest’ultima, papa Leone X, Giovanni de’ Medici, condannava 41 errori della dottrina di Lutero e gli concedeva un arco di tempo di sessanta giorni per ritrattare. Se non lo avesse fatto, passato questo tempo, sarebbe stato considerato un eretico e cacciato dalla Chiesa. Il 10 dicembre 1520, il giorno stesso in cui scadeva il termine, Lutero organizzò con un gruppo di professori e studenti d Wittenberg un atto pubblico durante il quale furono dati alle fiamme i libri di diritto canonico che regolavano il governo della Chiesa. Tra questi figurava anche la stessa bolla Exurge Domini: era quello il primo atto di rivolta dichiarata. Circondato da un gruppo nutrito di sostenitori, nell’aprile del 1521, Lutero si presentò a fare la sua dichiarazione di fronte al nuovo e giovane imperatore Carlo V, nella Dieta riunita in quella occasione nella città di Worms. Concludendo la sua testimonianza, pronunciò la frase lapidaria tante volte ripetuta: «Non posso e non voglio ri-
CALICE DI LUTERO.
D’argento dorato, fu un regalo di nozze per Lutero e Katharina von Bora.È del XVI secolo (Collezione del Castello di Wartburg, Eisenach).
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GLI INIZI DELLA RIFORMA
La Dieta di Worms, il primo colpo di Lutero Il Lutero che nel 1521 si presentò alla Dieta di Worms non era più il giovane monaco che denunciava i peccati del papato, ma il leader di un movimento sempre più vasto desideroso di una rottura con Roma. Erano solo due anni che Carlo V era stato eletto imperatore quando, il 28 gennaio, Worms ospitò una solenne Dieta o assemblea dei principi del Sacro romano impero germanico. Sin dall’inizio fu chiaro che il protagonista non sarebbe stato il giovane imperatore che la presiedeva, ma Martin Lutero, convocato in quell’occasione perché ritrattasse le sue tesi di Wittenberg. Ma l’agostiniano, scomunicato dal 3 gennaio di quello stesso anno, non aveva intenzione di farlo. Sapeva di disporre dell’appoggio di vari principi, tra cui alcuni potenti, come Federico III di Sassonia, e che Carlo, con la corona appena indossata, non avrebbe osato prendere alcuna decisione che gli rendesse ostile la nobiltà imperiale. E non si sbagliò. I giorni 17 e 18 aprile Lutero pronunciò un manifesto della sua riforma, una sfida che giorni dopo si tradusse nella firma dell’Editto di Worms, che dichiarava il monaco esiliato nell’impero. Non fu mai applicato. Nell’immagine, Lutero alla Dieta di Worms, in base a un affresco del pittore romantico Hermann Wislicenus (Palazzo Imperiale, Goslar).
trattare nulla, perché non è giusto né salutare andare contro coscienza. Non posso diversamente, qui sto saldo, Iddio mi aiuti. Amen». Si tratta di un appello alla voce interiore dell’uomo rispetto all’autorità stabilita che molti, tra coloro che lo udirono, considerarono inaccettabile. Come può esistere una Chiesa organizzata se ogni fedele si lascia guidare unicamente dalla sua coscienza? Lutero stesso avrebbe avuto tempo di pentirsi di quello che aveva pronunciato. Ma non era più possibile fare marcia indietro. Pochi giorni dopo, la Dieta pubblicò un editto, l’Editto di Worms, mediante il quale Lutero era dichiarato eretico e cacciato dall’impero. Lungi dal rispettare la sentenza, il riformatore si rifugiò nel castello di Wartburg, proprietà del principe Federico di Sassonia, dove rimase nascosto fino al mese di marzo del 1522, con le sembianze del cavaliere Giorgio. Nel periodo in cui rimase a Wartburg scrisse le sue prime opere. Furono mesi di straordinaria attività letteraria. In Del papato romano (giugno 1520) definì la Chiesa visibile come un’istituzione 68
puramente umana, poiché la vera Chiesa si trova all’interno di ogni credente. In Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca (agosto 1520) chiamava i principi, i nobili e i magistrati a lottare contro la tirannia di Roma, che si attribuiva senza alcun fondamento una superiorità sul potere civile. In La cattività babilonese della Chiesa (ottobre 1520) presentava i sacramenti come un mezzo utilizzato dalla gerarchia per dominare la coscienza dei fedeli e rifiutava il miracolo della transustanziazione, per cui il pane e il vino diventavano il corpo e il sangue di Cristo, e la confessione dei peccati a un sacerdote. In La libertà del cristiano (novembre 1520) realizzava un canto all’uomo interiore, liberato dalle pratiche esterne che di per sé erano prive di qualsiasi valore. Infine, nel trattato Dei voti monastici (fine 1520) denunciava i vincoli di povertà, castità e obbedienza imposti ai religiosi. La castità, scrisse, è alla portata solo di pochi eletti e la sua imposizione generalizzata è una fonte di tensioni e ipocrisie. Dopo averlo letto, molti religiosi e religiose lasciarono i loro conventi.
Alla fine dell’anno 1520, la dottrina di Lutero era ormai definita nei suoi aspetti chiave. Nel corso dei venticinque anni successivi, l’ex-monaco avrebbe scritto soprattutto testi di carattere polemico al riparo dei molteplici dibattiti in cui intervenne. In questi utilizzò spesso un tono estremamente violento, in cui l’insolenza e gli insulti rivolti contro chi non era d’accordo con le sue idee riempirono molte delle sue pagine.
La diffusione della Riforma Dopo aver ottenuto l’appoggio di ampi settori della bassa nobiltà, la Riforma iniziò a guadagnare adepti tra i borghesi delle città. Nel 1521, la città di Costanza si rifiutò di applicare l’Editto di Worms. Nel 1523, Norimberga fece altrettanto e adottò ufficialmente la dottrina luterana. Tra l’anno 1522 e il 1525, questa stessa decisione fu presa da altre città, come Erfurt, Breslavia, Brema e Magdeburgo. Nel 1523, il vescovo di Königsberg stabilì il luteranesimo nella sua diocesi. Nel 1525, il Gran Maestro dei cavalieri teutonici, Alberto di Brandeburgo-Ansbach, profondo ammi-
ratore della teologia di Lutero, secolarizzò l’ordine e divenne duca di Prussia. In questo modo la Riforma si estese fino alle principali città del Baltico, da Lubecca a Riga. Inizialmente i principi e l’alta nobiltà furono dubbiosi nel seguire i passi di Federico di Sassonia, ma quando nel 1525 i nobili cattolici formarono un’alleanza per preservare l’autorità di Roma nei loro territori, i dubbiosi costituirono la Lega di Torgau, guidata da Giovanni di Sassonia, fratello di Federico, e da Filippo d’Assia. Un anno dopo, la Dieta di Spira, dominata dai nobili riformati, si rifiutò di applicare l’Editto di Worms. Quando nel 1529 una nuova Dieta cercò di reintrodurlo, sei principi e quattrodici città protestarono. Da allora, i sostenitori della Riforma presero il nome di “protestanti”. Nel marzo del 1531, questi principi e queste città riformate si organizzarono nella Lega di Smalcalda. L’espansione sembrava inarrestabile. Nell’anno 1543, il duca di Clèves si convertì al Protestantesimo e l’anno successivo lo fecero il duca di Brunswick e l’elettore del Palatinato, Federico II.
CASTELLO DI WARTBURG.
Situato vicino a Eisenach, in Turingia, fu il luogo in cui si rifugiò Lutero nel 1521 su consiglio dell’elettore di Sassonia, Federico il Saggio. In una lettera, il riformatore scrisse: «Ora mi trovo qui; mi hanno tolto l’abito e mi hanno messo dei vestiti da cavaliere. Mi sono fatto crescere i capelli e la barba… Qui vivo in libertà cristiana, libero da ogni tirannia». Fu durante la sua reclusione a Wartburg, tra il maggio del 1521 e il marzo del 1522 che Lutero tradusse il Nuovo Testamento in tedesco.
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GLI INIZI DELLA RIFORMA
CARLO V DOMINA IL FURORE. Nel 1551-1553,
gli scultori italiani Leone e Pompeo Leoni rappresentarono in bronzo la maestà di Carlo V, imperatore del Sacro romano impero germanico e principale personalità politica d’Europa. Il proposito iconografico fu alludere alle vittorie dell’imperatore e al suo carattere pacificatore (Museo del Prado, Madrid).
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Le divisioni interne furono sicuramente la causa delle molte difficoltà organizzative incontrate dalla Lega di Smalcalda. Filippo d’Assia, che con il consenso di Lutero era incorso nel reato di bigamia, punito nell’impero con la morte, fu catturato da Carlo V. Dopo aver cambiato diverse volte schieramento, suo genero, Maurizio di Sassonia, si alleò con l’imperatore per dividere i principi protestanti. Nell’aprile del 1547, questi ultimi subirono una pesante sconfitta nella battaglia di Mühlberg, immortalata da Tiziano. L’elettore Giovanni Federico di Sassonia fu fatto prigioniero. Trovandosi in una posizione di forza, le uniche concessioni dell’imperatore ai riformati furono la possibilità della comunione sotto le due specie e il matrimonio dei sacerdoti. Ma questa posizione ebbe vita breve. Nel 1552, i protestanti, aiutati questa volta dal re Enrico II di Francia, si erano riorganizzati e tornarono ancora alla carica. Carlo stesso fu sul punto di essere catturato a sorpresa a Innsbruck. La situazione era cambiata e l’imperatore non ebbe altra scelta che accettare le condizioni che gli furono presentate durante le negoziazioni di pace tenutesi nel 1555 nella città di Augusta. Si basavano sul principio Cuius regio, eius religio, secondo cui, da quel momento, ogni principe aveva la facoltà di decidere la religione ufficiale nei suoi domini. Nella pratica, significava la divisione della Germania in due grandi blocchi di cattolici e protestanti. Chiaramente in quel periodo gli unici seguaci su cui Roma poteva contare erano il ducato di Baviera, gli arcivescovadi di Treviri e Colonia, i principati vescovili di Münster, Paderborn, Magonza, Worms, Fulda, Wurzburg e Bamberga, oltre alla città imperiale di Aquisgrana. Nel frattempo, la nuova dottrina aveva superato i confini del territorio tedesco. Dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1523, la Svezia – che comprendeva anche il territorio della Finlandia – si spostò a poco a poco verso le idee riformate fino ad adottarle come religione ufficiale. Tra il 1526 e il 1536, queste ultime trionfarono in Danimarca e Norvegia. Tutto sembrava indicare che i Paesi Bassi sarebbero stati un terreno particolarmente fertile per il suo radicamento. Forse per questo motivo, già nel 1520 Carlo V dettò le prime ordinanze destinate a combattere l’espansione dell’eresia nella sua terra natale e a questo scopo vi stabilì il tribunale dell’Inquisizione. Nonostante tutto, il Protestantesimo fu particolarmente accolto nelle città commerciali, come Tournai e Anversa. In quest’ultima furono giustiziati nel 1523 i primi “martiri” della Riforma. Nel decennio del 1520, i principali cantoni svizzeri – Zurigo, San Gallo (Sankt Gal-
L’Europa divisa dalla religione Dopo la Dieta di Worms del 1521, la Riforma si propagò come un incendio in buona parte dell’Europa, provocando una crisi sconosciuta dalla cristianità, dallo scisma che nell’XI secolo separò la Chiesa cattolica da quella ortodossa. Che fosse per ragioni di calcolo politico o per una semplice motivazione religiosa, la Riforma fu un trionfo. In Germania, i principi della Lega di Smalcalda fecero propria la dottrina di Lutero come modo di opporsi a Carlo V. La Boemia, che aveva già ricevuto un assaggio di riforma nel XV secolo con Jan Hus, accolse con il medesimo entusiasmo le idee di Lutero e la stessa cosa avvenne per l’Ungheria. Neppure i monarchi scandinavi e i principi olandesi, in piena guerra con la cattolica Spagna, ci misero molto a seguire il loro esempio. Il seme riformista sbocciò anche in Svizzera, per mano di Huldrych Zwingli e Giovanni Calvino. Nel frattempo, in Inghilterra, Enrico VIII adottò una linea propria, l’Anglicanesimo, che faceva del re il capo visibile della sua Chiesa e la Francia, pur rimanendo fedele alla Chiesa di Roma, non esitò ad allearsi con i protestanti contro l’imperatore. Per quanto riguarda la Spagna, l’Inquisizione si incaricò di estirpare alla radice qualunque focolaio riformista.
len), Berna – abbandonarono la disciplina romana; nel 1529, Giovanni Ecolampadio, con il sostegno della borghesia della città, impose il culto riformato a Basilea; Guillaume Farel fece la stessa cosa nell’anno 1536 a Ginevra e Martin Bucer a Strasburgo. In Inghilterra, Thomas Cromwell, simpatizzante delle idee riformate, incoraggiava il monarca Enrico VIII a rompere i suoi legami con Roma. Nel 1528 fu condannato in Scozia il primo protestante. A Napoli, tutti i sospetti ricaddero sui seguaci del circolo umanista di Juan de Valdés. Nel 1523, era stato condannato il primo eretico protestante a Parigi. In Ungheria, Transilvania e soprattutto in Boemia, dove il terreno era già stato preparato dalle dottrine di Jan Hus, intere masse di popolazione passarono al Protestantesimo. Anche in Austria, la patria degli Asburgo, la Riforma guadagnava adepti giorno dopo giorno. Allo stesso modo, in Spagna, il Protestantesimo era guardato con simpatia nei circoli erasmisti di Valladolid, Valencia e Siviglia. Fino ad allora, mai un movimento religioso si era
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diffuso con così tanta rapidità. Il Cattolicesimo stesso aveva avuto bisogno di più tempo per radicarsi in Europa. Il riformatore di Wittenberg rimase ben presto travolto dal ritmo frenetico e inarrestabile degli eventi.
Gli anabattisti Fino al 1521, Lutero aveva avuto un solo nemico: il papa. Ma quell’anno gli anabattisti spuntarono ovunque. E non pochi emersero dalle sue fila. Aprì il fuoco uno dei suoi migliori amici, Andreas Carlstadt, compagno di trincea nella disputa di Lipsia, che in qualità di gran cancelliere dell’università di Wittenberg gli aveva conferito il titolo di dottore. Approfittando della permanenza del riformatore a Wartburg, utilizzò il suo potere per introdurre le sue disposizioni. Il suo temperamento esaltato lo portò a dare molta più importanza allo spirito che alla scrittura. A differenza di Lutero, le Scritture avevano per lui un’importanza relativa. L’aspetto decisivo era la chiamata interiore. Animato da questo principio, propose l’organizzazione di comunità di laici che riunis-
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sero gli schwarmer, gli “esaltati”, che si stavano moltiplicando in diversi punti della Germania e della Svizzera. Il clima di violenza superò i limiti e Lutero stesso dovette lasciare il suo rifugio per calmare gli animi e cacciare i provocatori. Tra questi c’era Thomas Müntzer, che si era convertito alla causa riformata durante la disputa di Lipsia. Lutero ebbe fiducia in lui sin dal primo momento e lo nominò pastore di Zwickau. Lì riunì intorno a lui un gruppo di illuminati, che furono presto conosciuti come i “profeti di Zwickau”. Gli mancò il tempo di considerare «effeminata» la teoria de «la signorina Martin», come arrivarono a definirlo, a cui opponevano la durezza della croce. Seguendo le idee di Carlstadt, Müntzer e i suoi profeti abbandonarono il primato delle Scritture e l’«autoritarismo dei suoi interpreti» per collocare al centro della loro azione la rivelazione interiore dello Spirito. Inoltre, recuperarono le tradizioni millenariste medievali, che annunciavano l’imminente fine del mondo, e organizzarono comunità di “santi”, in cui si sarebbe entrati grazie a un nuovo battesimo, e dove tutto sarebbe stato condiviso. 71
GLI INIZI DELLA RIFORMA
L’agitazione sociale in Germania: antecedenti della guerra contadina La Riforma prese piede non solo tra l’aristocrazia tedesca, ma anche tra le classi più popolari delle città e delle campagne, talvolta con un radicalismo che non tardò a sfuggire dal controllo di Lutero e ad andare oltre la sfera della teologia e della fede personale per mettere in dubbio le fondamenta stesse della società stratificata dell’epoca. Il desiderio di un mondo nuovo finì per tingersi di sangue. Prosciugata da carichi e tributi eccessivi, priva di partecipazione e di diritti nella vita politica dell’impero, la classe contadina tedesca, prima della Riforma, aveva già dato dimostrazioni del suo malcontento con delle rivolte. Una di queste fu quella della Bundschuh o Lega della scarpa, che prese il nome da una calzatura contadina e che ebbe luogo tra il 1493 e il 1517 nel sud-ovest della Germania. Oppure di quella conosciuta come il Povero Corrado (in tedesco Armer Konrad), che nel 1514 si oppose al duca Ulrich von Württemberg e alle sue pratiche illecite di riscossione dei tributi. Anche se furono represse violentemente, gettarono il seme delle guerre contadine del 1524 e 1525. Nell’immagine, Lamento di un artigiano che si aspettava di diventare ricco (1535), incisione satirica dell’artista filo-protestante Peter Flötner (Schlossmuseum, Gotha).
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Le loro concezioni religiose diedero origine a un vero e proprio programma sociale. I potenti del mondo bloccano il cammino del Vangelo ai poveri, troppo disgraziati o ignoranti per leggere la Bibbia, affermò Müntzer. La riforma religiosa non è possibile senza una riforma sociale. Cacciati da Zwickau, Müntzer e i suoi si fecero forti nella piccola località di Mülhausen, nella regione della Turingia. Lì si organizzarono bande di contadini scontenti della dominazione dei signori, a cui presto si unirono artigiani delle città, sacerdoti e frati esclaustrati. Città come Friburgo, Bamberga, Ulm ed Erfurt si unirono alla causa. Tra le rivendicazioni c’era l’assegnazione delle decime a beneficio della comunità, l’estensione del diritto di caccia ai diseredati e l’elezione dei pastori da parte dei fedeli. Quando chiesero aiuto a Lutero, quest’ultimo si rifiutò di concederlo: «Anche se i principi sono malvagi e ingiusti, nessuno vi autorizza a ribellarvi a loro», gli rispose. Ma gli scontri si fecero più sanguinosi. Lutero, che aveva avuto la protezione dei principali magnati ed era loro amico, prese posizione contro Müntzer e i contadini ribelli. «Bisogna ammazzare il cane imbizzarrito che si lancia contro di te, altrimenti ti ucciderà lui», disse a Filippo d’Assia. Una cosa era la libertà spirituale del cristiano e un’altra, molto diversa, la libertà sociale. E Lutero era un uomo dell’ordine, che accettava anche l’autorità di Carlo V nelle questioni civili. Nel mese di maggio del 1525, un esercito anabattista fu sconfitto dalle truppe della nobiltà a Frankenhausen. Il leader rivoluzionario dei contadini, Thomas Müntzer, fu catturato e giustiziato. Ma l’Anabattismo ebbe una effimera rinascita nel decennio successivo, quando i seguaci di Melchior Hofmann, che aveva predicato idee anabattiste nei Paesi Bassi e a Strasburgo, si impadronirono con la forza della città di Münster, che fu trasformata nella “nuova Sion”, da dove annunciarono i loro progetti per annientare tutti gli empi. Dopo orribili scontri, la città fu ripresa dal suo proprietario, l’arcivescovo. I capi anabattisti furono torturati in modo atroce prima della loro esecuzione e i loro corpi ingabbiati furono esposti alla vista di tutto il popolo.
La via svizzera verso la Riforma In realtà, accettando la stretta relazione tra il potere civile e quello religioso, Lutero non stava facendo altro che adottare il modello messo in pratica a Zurigo, anni prima, da uno dei sui seguaci che, alla fine, considerò come un altro dei suoi avversari: Huldrych Zwingli. Prima di abbracciare le idee luterane, Zwingli era stato predicatore nel santuario di Einsiedeln, famoso centro di pellegrinaggi mariani, dove si
HULDRYCH ZWINGLI.
Il leader della Riforma protestante e creatore della nuova Chiesa svizzera fu formato all’Umanesimo erasmista e, da questa posizione, giunse alle stesse conclusioni di Lutero nello studio delle Scritture; seguendo l’esempio di quest’ultimo, si sentì chiamato a realizzare la riforma nel suo Paese natale. Appoggiato dalle autorità, sostenne un ritorno ai riti e alle dottrine del Cristianesimo primitivo; le sue differenze con Lutero su temi come l’eucaristia provocarono la rottura tra i due leader. In Svizzera, la Riforma non riguardò solo la religione, ma anche una serie di norme sociali con cui il Consiglio della città di Zurigo voleva organizzare la vita dei laici, come l’insegnamento o il matrimonio. Ritratto del 1531 realizzato da Hans Asper (Kunstmuseum, Winterthur).
era distinto per aver denunciato certe pratiche popolari che egli riteneva superstiziose. Fu nel 1520, mentre rivestiva l’incarico di parroco della cattedrale di Zurigo, che unì queste critiche alle idee riformate. Aveva ricevuto una profonda formazione umanista, che lo portò ad avere un’alta considerazione di Erasmo da Rotterdam da cui, a suo dire, imparò ad amare le Sacre Scritture. Conosceva Platone, Aristotele, Pindaro, Seneca e Cicerone. L’ammirazione per le grandi figure del mondo classico lo portò alla conclusione che Dio doveva aver salvato questi uomini saggi e prudenti, che vissero prima della rivelazione cristiana. Egli dedusse che il peccato originale e il battesimo non potevano essere così decisivi da stabilire il destino eterno delle persone, come insegnava la Chiesa. La cosa davvero importante, secondo lui, era la predestinazione, per la quale Dio decideva di salvare i suoi eletti, a cui offriva i mezzi per vivere in modo conforme alle leggi della natura. Considerando che, per salvarsi, bastava adeguare l’esistenza alla retta ragione, il pensiero di Zwingli era più razionalista di quello di Lutero. Anche se
contemplava la Bibbia, per lui non era un testo imprescindibile. I sacramenti erano cerimonie simboliche e non, come pensava la Chiesa e, in un certo senso, Lutero stesso, mezzi indispensabili per ottenere la grazia divina. Il colloquio che i due riformatori ebbero nella città di Marburgo nel 1529 non si concluse con un accordo e la rottura tra i due si acuì negli anni successivi. Convinto che i temi civili e quelli religiosi dovessero essere guidati da una sola mano, Zwingli riuscì a impadronirsi del governo della città di Zurigo, da cui organizzò le milizie per lottare contro i cantoni svizzeri che erano rimasti fedeli al Cattolicesimo. Morì nella battaglia di Kappel, nella quale 700 suoi seguaci si scontrarono con 8000 cattolici. Venuto a conoscenza della sua fine tragica, Lutero dichiarò: «Zwingli ha avuto la morte di un assassino […] ha minacciato con la spada, ha ricevuto la ricompensa che si meritava». Similmente, i rapporti di Lutero con il riformatore di Basilea, Giovanni Ecolampadio, passarono dalla cordialità iniziale alla tensione degli ultimi anni. Come religioso ad Augusta, Ecolampadio 73
ENRICO VIII: MATRIMONI, SCISMA E SUCCESSIONE 1491
Il principe. Il futuro Enrico VIII nasce il 28 giugno nel palazzo di Greenwich. È il terzo figlio di Enrico VII ed Elisabetta di York. 1509
Accesso al trono. È incoronato re d’Inghilterra il 24 giugno. Nello stesso anno si sposa con Caterina d’Aragona, vedova del fratello maggiore Arturo. 1533
Secondo matrimonio. L’arcivescovo di Canterbury soddisfa il desiderio del re e annulla il matrimonio tra Caterina ed Enrico. Quest’ultimo si sposa con Anna Bolena. 1536
Esecuzione della regina. Anna Bolena è decapitata a Londra. Enrico si sposa con Jane Seymour, che nel 1537 gli dà un erede maschio, Edoardo. 1540
Altri due matrimoni. Enrico si sposa con Anna di Clèves e rompe l’unione sei mesi dopo per sposarsi con Caterina Howard, giustiziata nel febbraio del 1542. 1547
Morte e successione. Il 28 gennaio Enrico VIII muore a Londra. Gli succede al trono il suo unico figlio maschio, Edoardo VI, di dieci anni.
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ebbe un’esperienza simile a quella di Lutero, che lo portò a riporre tutta la sua fiducia in un Dio misericordioso e ad accettare la dottrina del sacerdozio universale. Ma durante la sua partecipazione al colloquio di Marburgo, le sue simpatie ricaddero al contrario dalla parte di Zwingli, specialmente in riferimento alla sua concezione dei sacramenti. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, Ecolampadio non era uno statista, e quando si stabilì a Basilea, si fece conoscere in qualità di pastore e predicatore. Inizialmente, la riforma inaugurata da Martin Bucer a Strasburgo si avvicinava di più a quella di Zwingli e di Ecolampadio piuttosto che a quella di Lutero, il cui pensiero era ritenuto troppo individualista, mentre egli era interessato innanzitutto alla dimensione sociale della religione. Allo scopo di far giungere il suo messaggio al maggior numero di persone possibile, semplificò al massimo le cerimonie di culto nella chiesa della città, eliminando quello che ritenne superfluo, come gli altari, le immagini e i paramenti sacri. Tuttavia, il modo di agire degli anabattisti, dei
quali una fazione si rifugiò a Strasburgo, lo portò, a partire dal 1527, ad avvicinarsi a Lutero. In realtà Bucer era, come Zwingli, un uomo di profonde convinzioni umaniste, che dedicò gran parte dei suoi sforzi a cercare l’accordo tra riformatori sempre più divisi tra loro.
Le tribolazioni di Enrico VIII Almeno a prima vista, il cammino seguito da Enrico VIII d’Inghilterra aveva poco a che vedere con le aspirazioni dei riformatori svizzeri per una religiosità più autentica e sincera. Tuttavia, per comprendere il suo modo di procedere, bisogna abbandonare l’immagine eccessivamente stereotipata di un monarca viveur e donnaiolo, preoccupato solo di dar sfogo alle sue passioni e di accrescere il suo potere. Era un uomo di profonde convinzioni religiose, che lo portarono a scrivere un furioso libello contro le dottrine di Lutero e in difesa della Chiesa cattolica e questo, nel 1521, gli valse il riconoscimento di Roma, che gli concesse il titolo di Fidei defensor. Ma le sue preoccupazioni politiche non erano minori di
quelle religiose. La sua famiglia, i Tudor, aveva ottenuto la corona d’Inghilterra dopo una faticosa guerra civile, che aprì una profonda ferita nel Paese. Nonostante questo, Enrico non sentì mai una particolare predisposizione per i compiti di governo e affidò così l’amministrazione quotidiana del regno alle mani dei suoi ministri. A partire dall’anno 1515, questa responsabilità fu assunta principalmente da Thomas Wolsey, un eccellente oratore educato, come lo stesso Enrico, alla lettura dei classici. La crescente influenza di Wolsey arrivò a mettere in ombra l’autorità del monarca. Allo scopo di fronteggiarla, quest’ultimo si circondò di un gruppo di giovani ambiziosi, tra cui si distinse Nicholas Carew, che divennero presto famosi come “i preferiti”. Il risultato principale di questo sistema di contrappesi fu che la corte si trasformò in un covo di intrighi. Tra i temi prediletti, iniziava a circolare con sempre maggior forza la questione della successione. Intorno al 1525, generare un erede maschio cominciò a diventare una vera e propria ossessione per il monarca.
Dopo diciassette anni di matrimonio con Caterina d’Aragona, cinque dei suoi figli erano nati morti e l’unica sopravvissuta, Maria, non poteva regnare, in virtù della legge salica che negava alle donne il diritto al trono. Enrico sapeva perfettamente che l’unico modo di consolidare l’autorità dei Tudor, ancora molto debole, era dare al mondo un erede che assicurasse continuità alla dinastia. Interpretò questa mancanza di discendenza come un castigo del Creatore. Caterina era stata sposata con suo fratello maggiore, Arturo, morto nel 1502 prima di salire al trono, e il loro matrimonio era stato celebrato senza chiedere alla Chiesa la dispensa prevista dalla legge canonica in questi casi. In fin dei conti, non affermava il libro del Levitico che se un uomo si sposa con la moglie di suo fratello commette empietà e non avrà figli? Il fatto che Enrico fosse innamorato di una damigella della regina non aveva molta importanza in un mondo in cui i rapporti extramatrimoniali dei monarchi costituivano una moneta di scambio. Nessun re rompeva il suo matrimonio per amore di una cortigiana.
HAMPTON COURT.
Questo straordinario palazzo del cardinale Wolsey passò alla corona dopo la caduta in disgrazia del prelato a causa della sua mancata efficienza nella soluzione della rottura matrimoniale di Enrico e Caterina. Il re lo trasformò nella sua residenza nel 1536. Nel 1689 venne ampliato a opera di Christopher Wren, mentre George London ed Henry Wise si occuparono di rimodellare i giardini.
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ENRICO VIII E LE SUE SEI MOGLI
L
a necessità di avere figli legittimi (e, possibilmente, maschi) a cui lasciare in eredità il regno e che, grazie a questa legittimità, allontanassero lo spettro delle guerre di successione, fu il motivo che spinse Enrico VIII ad annullare il suo matrimonio con Caterina d’Aragona e a contrarne altri cinque. Tuttavia, l’immagine che ci è rimasta di questo re lo mostra come un personaggio dominato dalle passioni. Sopra, Enrico VIII ritratto nel 1540 da Hans Holbein il Giovane (Galleria Borghese, Roma). LO STEMMA DEL RE. Rovescio di una moneta d’oro con lo scudo di
Enrico VIII (Centro Storico degli Archivi Nazionali, Parigi). 76
LE MOGLI CATERINA D’ARAGONA.
ANNA BOLENA. Si sposò
Enrico si sposò nel 1509 con la vedova di suo fratello maggiore, ed ebbe con lei una figlia, Maria. Il primo matrimonio di Caterina fu uno dei motivi per cui il re chiese l’annullamento del suo matrimonio. Ritratto di Juan de Flandes (Museo ThyssenBornemisza, Madrid).
con Enrico nel gennaio del 1533, anno in cui nacque sua figlia Elisabetta. Durante i suoi tre anni di regno, fu incline alla Riforma. Nel 1536 fu accusata di adulterio, incesto e tradimento, e fu giustiziata. Ritratto di autore anonimo (National Portrait Gallery, Londra).
JANE SEYMOUR. Undici giorni dopo l’esecuzione di Anna Bolena, Enrico si sposò con Jane Seymour, che morì nel 1537 dando alla luce il suo erede Edoardo. Enrico la considerò la sua «prima vera sposa». Ritratto di Hans Holbein il Giovane (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
ANNA DI CLÈVES. A causa
CATERINA HOWARD.
CATERINA PARR. L’ultimo
Cugina di Anna Bolena, la sua sorte fu simile a quest’ultima. Al servizio di Anna di Clèves, il re la sposò il 28 luglio 1540. Due anni dopo, il 13 febbraio 1542, la fece giustiziare per adulterio. Ritratto di autore anonimo (National Portrait Gallery, Londra).
matrimonio del re fu celebrato nel 1543. Questa sposa fu la prima regina inglese a ostentare il titolo di regina d’Irlanda e riuscì a riconciliare Enrico con le sue figlie Maria ed Elisabetta. Ritratto di autore anonimo (National Portrait Gallery, Londra).
MARIA I. Figlia di Caterina
EDOARDO VI. L’unico figlio maschio di Enrico salì al trono a dieci anni, nel 1547. Il suo breve regno (morì nel 1553) fu caratterizzato dalle lotte tra i nobili per il potere. Ritratto di Hans Holbein il Giovane (National Gallery of Art, Washington).
della delicata salute di Edoardo, Enrico si sposò di nuovo per avere altri figli. Anna, figlia del duca protestante tedesco, non piacque al re. Il matrimonio non fu consumato e si annullò dopo sei mesi. Ritratto del 1539 a opera di Hans Holbein il Giovane (Museo del Louvre, Parigi).
I DISCENDENTI d’Aragona, Maria salì al trono nel 1553 e lottò per recuperare il Cattolicesimo come religione ufficiale. Si sposò con Filippo II di Spagna, ma non ebbe figli. Ritratto del Maestro John (National Portrait Gallery, Londra). ELISABETTA I. La figlia
di Anna Bolena tornò all’Anglicanesimo come religione ufficiale d’Inghilterra. Durante il suo regno (15581603), il Paese divenne una potenza marittima e culturale. Ritratto di Isaac Oliver (Hatfield House).
TRE REGNANTI. Nella Legge di Successione del 1544,
Enrico VIII stabilì che il suo erede sarebbe stato il suo unico figlio maschio, Edoardo VI, ma la salute delicata di quest’ultimo gli suggerì di includere nella linea di successione anche le due figlie maggiori, Maria ed Elisabetta, considerate allora illegittime. Alla fine, i tre fratelli salirono al trono. La morte di Elisabetta senza discendenza nel 1603 comportò la fine del casato dei Tudor come dinastia regnante e Giacomo I, figlio di Maria Stuart, divenne così il nuovo monarca d’Inghilterra.
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GLI INIZI DELLA RIFORMA
Le vittime della secessione d’Inghilterra dalla Chiesa di Roma Quella che iniziò come una sfida di Enrico VIII al papato per ottenere l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona finì per aprire un nuovo scisma all’interno della Chiesa cattolica e per gettare le basi di una confessione, l’Anglicanesimo, che raggiungerà la sua massima espressione già durante il regno di Elisabetta I. Tommaso Moro e Thomas Cromwell furono alcuni dei protagonisti di questo periodo. Nonostante la rottura con Roma, Enrico VIII non era un monarca che aveva particolare simpatia per le tesi protestanti. Nel 1521 scrisse addirittura una furiosa difesa dei sette sacramenti in risposta agli scritti di Lutero. Seguiva invece con interesse le idee degli umanisti, che incoraggiavano una riforma della Chiesa ma dall’interno, senza rompere con Roma. È il caso di Tommaso Moro, che Enrico nominò cancelliere del regno al posto del cardinale Thomas Wolsey. La rottura, quindi, arrivò più come una conseguenza di un conflitto di poteri che come uno scontro di credenze e si iniziò a imporre con il successore di Moro alla cancelleria, Thomas Cromwell, un luterano convinto che fece tutto ciò che era in suo potere per fare di Enrico la guida visibile della Chiesa riformata inglese. In questo compito ebbe la collaborazione di Thomas Cranmer, che come arcivescovo di Canterbury portò a termine l’annullamento del primo matrimonio del re. Nonostante questo, la posizione di quest’ultimo nei confronti del Protestantesimo continuò a essere ambivalente e motivata più da questioni dinastiche e criteri di alleanza politica, che da convinzioni vere e proprie. Lo dimostra l’Inquisizione inglese, che si accanì tanto con i papisti quanto con i luterani che osarono mettere in discussione il potere reale.
SCRIVANIA DI ENRICO VIII. Opera
probabilmente di Lucas Horenbout (1492-1544 ca.), questa scrivania è decorata con lo stemma di Enrico e della moglie Caterina d’Aragona (Victoria and Albert Museum, Londra).
THOMAS WOLSEY. Fu nominato cancelliere del regno e proclamato cardinale nello stesso anno (1515). Ebbe grande abilità diplomatica. Cadde in disgrazia quando non riuscì ad annullare il matrimonio del re. Ritratto di Sampson Strong (Christ Church College, Oxford).
Quando il re chiese a Roma l’annullamento del suo matrimonio con Caterina, ottenne solo delle proroghe. È possibile che la Curia pontificia non si facesse carico della gravità della sua situazione e della determinazione della sua volontà. Ma il margine di manovra di cui disponeva Clemente VII, un altro papa della famiglia Medici, era molto limitato. Nel maggio del 1527, la Città Eterna era stata crudelmente saccheggiata da Carlo V e il pontefice stesso era stato costretto a rifugiarsi nella fortezza di Castel Sant’Angelo per non perdere la vita. Caterina era zia di Carlo e l’imperatore non era disposto in alcun modo a permettere che Roma annullasse il matrimonio che avrebbe comportato l’allontanamento di un membro della sua famiglia dalla corona d’Inghilterra e, di conseguenza, la perdita di un’importante occasione per i suoi progetti di dominio universale. Ma mentre Roma prendeva tempo sulla questione, la pazienza di Enrico VIII si andava esaurendo. Nel 1531, un’assemblea del clero inglese riunita a Canterbury riconobbe il monarca come “capo supremo della Chiesa e del clero d’Inghilterra”. Il
papa divenne un’autorità straniera senza diritto di intervenire nelle questioni interne dell’Inghilterra. L’anno successivo, il re proibì di consegnare a Roma le rendite dei benefici ecclesiastici del Paese. Queste misure provocarono importanti tensioni tra alcuni dei suoi principali ministri. Tommaso Moro, un umanista di solide convinzioni cattoliche e un amico di Erasmo da Rotterdam, rinunciò al suo incarico di lord cancelliere. Enrico si circondò di fanatici come Thomas Cranmer, che fu designato arcivescovo di Canterbury. Una delle sue prime decisioni fu la dichiarazione di nullità del matrimonio di Enrico e Caterina. Nel 1533, il re si sposò con Anna Bolena, che il primo giugno di quello stesso anno fu incoronata regina d’Inghilterra; pochi mesi dopo Roma lo scomunicò. La risposta del monarca arrivò nel mese di novembre di quello stesso anno con tre decisioni del Parlamento. Mediante la prima, il re era riconosciuto come capo supremo della Chiesa con il diritto di reprimere le eresie e di dettare scomuniche «nonostante gli usi e i costumi delle leggi straniere»; la seconda chiedeva a tutti gli adulti il giu-
TOMMASO MORO. Autore di Utopia, in cui difendeva la tolleranza religiosa, fu uno degli umanisti più rispettati. Il suo rifiuto di accettare la rottura con Roma gli valse la condanna a morte nel 1535. Ritratto di Holbein il Giovane (Frick Collection, New York).
ramento della supremazia reale e la terza definiva «alto tradimento» l’affermazione di un re «scismatico, eretico o tiranno». Il clero secolare, i religiosi, i magistrati delle città, i servitori della corona e i professori delle prestigiose università di Cambridge e Oxford prestarono giuramento senza fiatare. Tommaso Moro e il vescovo John Fisher, un altro famoso erasmista, furono decapitati nell’estate del 1535, perché si rifiutarono di farlo. Thomas Cromwell, un ammiratore di Machiavelli e Lutero, divenne il nuovo uomo forte del re dopo la crisi. Il primo incarico affidatogli fu la riorganizzazione della Chiesa in Inghilterra. I monasteri furono soppressi e i loro beni confiscati dal fisco regio. La loro successiva vendita, a un prezzo molto inferiore al loro valore reale, favorì la creazione di un’aristocrazia possidente, la gentry, che in seguito sarebbe diventata uno dei principali pilastri dell’autorità della corona e della Chiesa d’Inghilterra. Questo voleva dire che l’antico Fidei defensor aveva rinnegato le sue convinzioni per abbracciare la dottrina di Lutero? Nell’anno 1536, il monarca
THOMAS CRANMER. Come arcivescovo di Canterbury sviluppò la liturgia anglicana e fece della Chiesa uno strumento della corona. Maria I lo accusò di eresia. Morì sul rogo nel 1556. Ritratto di Gerlach Flicke (National Portrait Gallery, Londra).
inglese inviò una delegazione a Wittenberg per trattare con il riformatore. Quello stesso anno, un sinodo presieduto da Cromwell dettò una Confessione di fede che, se per certi aspetti si allontanava dalla dottrina romana, conservava molte vecchie cerimonie cattoliche come il culto per le immagini, l’invocazione dei santi o l’orazione per i defunti, oltre a riconoscere la validità della transustanziazione, per la quale il pane e il vino si trasformavano nel corpo e nel sangue di Cristo mediante l’eucaristia. Se potevano rimanere dei dubbi sul fatto che Enrico VIII continuasse a essere cattolico in quasi tutto quello che non comportava l’accettazione dell’autorità del papa, questi si dissolsero nel 1538. Mediante una serie di disposizioni si proibì il matrimonio dei sacerdoti e dei religiosi, si minacciò con il rogo chi rifiutava il sacramento dell’eucaristia, si ristabilì la pratica della messa e della confessione fatta all’orecchio del sacerdote, si raccomandò la devozione alla Madonna e ai santi e si proibì la lettura privata della Bibbia. Thomas Cromwell fu giustiziato nell’anno 1540. Non c’è da stupirsi che molti pensassero che morì 79
GLI INIZI DELLA RIFORMA
CISNEROS. Il cardinale
di Toledo, primate di Spagna, confessore e consigliere di Isabella la Cattolica e reggente di Castiglia, fu il terzo inquisitore generale. Ritratto di autore anonimo; olio su tavola del XVI secolo (Museo de Santa Cruz, Toledo).
ALESSANDRO VI, NELLA CARICATURA DEL DEMONIO (pag. 81).
Il papa Borgia fu oggetto delle critiche più dure dei protestanti, che lo consideravano il paradigma della corruzione. Incisione a colori del 1500 ca. (collezione privata, Parigi). 80
in realtà con un cuore cattolico e che il ritorno dell’Inghilterra all’interno della Chiesa era una mera questione di tempo.
I principi cristiani e Roma Reazioni come quelle del re Enrico VIII o del principe elettore Federico di Sassonia potrebbero lasciar intendere che la Riforma fu il canale attraverso cui i governanti di molti Paesi diedero sfogo alle loro aspirazioni di una maggiore indipendenza. E, in un certo modo, fu così. In sostanza, i monarchi e i principi cristiani di tutta Europa erano da tempo in conflitto con l’autorità di Roma, uno scontro che, in ultima analisi, rimandava alla querelle delle investiture, che aveva raggiunto l’apice nell’XI e nel XII secolo, quando entrambe le parti reclamarono la supremazia una sull’altra. Alcuni avvenimenti del Basso Medioevo, come lo scisma d’Occidente o la lotta contro l’Islam, avevano rafforzato le motivazioni dei principi secolari a intervenire in questioni religiose. Dopotutto pensavano: che fine avrebbe fatto la Chiesa, incagliata tra tanti scogli, se loro non fossero andati in
suo aiuto? Molti si sentivano autorizzati a intervenire nelle questioni ecclesiastiche tanto quanto il papa stesso, la cui condotta, talvolta, lasciava molto a desiderare. Senza andare tanto lontano, i Re Cattolici non solo avevano cacciato i musulmani dalla Penisola Iberica e stabilito un tribunale, l’Inquisizione, per la persecuzione dell’eresia, ma attraverso il loro principale incaricato per le questioni religiose, il cardinale Jiménez de Cisneros, avevano anche avviato una riforma interna della Chiesa e dei suoi ordini religiosi, che avrebbe garantito la più rigida ortodossia cattolica per molte generazioni. Loro, e non Roma, erano l’autorità suprema per le questioni religiose nei loro territori. Il mondo in cui si sviluppò la Riforma protestante era un mondo in cui tutti gli avvenimenti religiosi avevano una lettura politica. La distinzione tra i due ordini risultava estremamente confusa. Senza dubbio, quando nel 1555 fu consacrato il principio del Cuius regio, eius religio, il terreno era pronto per accoglierlo. Questa brama di una maggiore indipendenza da Roma non riguardava solo principi e re. Come avrebbe messo in evidenza l’esperienza degli anabattisti, in Germania molti contadini videro nelle dottrine riformate la strada per liberarsi dall’oppressione a cui erano sottoposti dai loro signori, e molte città, come successe nella Confederazione Elvetica, legarono tali dottrine al cammino per mettere fine ai privilegi dell’imperatore e della vecchia classe feudale. Tuttavia, anche se un buon numero di conversioni potevano rispondere a motivi apparentemente estranei alla religione, sicuramente molte altre furono sincere. Tra i loro principali leader ci furono alcuni degli spiriti più sensibili del momento, desiderosi di una purificazione che rimettesse il messaggio evangelico al centro della vita della Chiesa. Le loro diatribe furono indirizzate contro la condotta dei papi, alcuni dei quali appartenenti alle grandi famiglie italiane, come i Medici o i Borgia, che non avevano scrupoli quando si trattava di fare macchinazioni per ascendere al soglio di Pietro e agivano in un modo perfettamente paragonabile, quando non addirittura peggiore, a quello di qualunque principe secolare. Ebbero ambizioni territoriali, furono in guerra contro altri principi cristiani ed ebbero concubine e figli illegittimi con cui praticarono uno sfacciato nepotismo. Seguendo il loro esempio, molti vescovi e abati dei principali monasteri avevano smesso di utilizzare la mitra e il pastorale, che li distingueva come pastori del loro gregge, vestivano come grandi signori, risiedevano in palazzi lussuosi lontani dalle loro diocesi, non avevano cura del governo delle anime e celebravano a malapena la messa.
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GLI INIZI DELLA RIFORMA
Girolamo Savonarola, il flagello dei corrotti di Firenze I problemi della Chiesa non erano solo fuori dai confini dell’Italia. All’interno della stessa Penisola, alcuni predicatori gridavano contro la corruzione della società e la decadenza di Roma e dei suoi papi, mentre incoraggiavano i credenti a ribellarsi per ingraziarsi Dio. Neppure Firenze, la culla del Rinascimento, fu immune alle sue parole incendiarie. Nel 1491, i fedeli che andavano al convento domenicano di San Marco iniziarono ad ascoltare le prediche apocalittiche del suo priore, un ferrarese di nome Girolamo Savonarola, che denunciava la degenerazione e la corruzione delle élite della città e in particolar modo dei Medici. Secondo lui erano dei segnali di una fine del mondo vicina, che si sarebbe potuta evitare solo con il ritorno alla fede e il distacco dai beni terreni. La morte, un anno dopo, di Lorenzo il Magnifico e del papa Innocenzo VIII, che il frate aveva predetto, finì per dargli l’aurea di un profeta agli occhi dei suoi numerosi fedeli. La sua occasione arrivò nel 1494 con l’ingresso del re francese Carlo VIII nella città e questo favorì una rivolta della popolazione che cacciò i Medici e instaurò una repubblica teocratica guidata da Savonarola. Qualunque cosa evocasse piacere o vanità fu confiscata e distrutta. L’esperienza durò fino al 1498, quando i fiorentini stessi consegnarono il frate a papa Alessandro VI. Accusato di eresia, fu bruciato a Firenze il 23 maggio. Nell’immagine, busto di Savonarola di Giovanni Bastianini (Victoria and Albert Museum, Londra).
Una domanda crescente di attenzione religiosa coincise con una fase di scarsa offerta. La Chiesa aveva sacerdoti in abbondanza, ma a molti di loro mancava la formazione più elementare e i mezzi per il sostentamento personale; essi si mescolavano ai loro fedeli nel gioco e nel bere, vivevano in concubinato e celebravano la messa solo in rare occasioni. I migliori entravano direttamente al servizio dei potenti. Certamente, questo era un panorama che metteva in evidenza i comportamenti più stravaganti e ignorava quelli normali, e addirittura esemplari. Ma questo non riuscì a evitare un profondo turbamento tra non pochi cristiani che, sotto la guida di Erasmo, mostrarono il loro orrore per il modo in cui la Chiesa cattolica era disonorata da coloro che avrebbero dovuto esserne i principali protettori. Fu questa la causa principale del successo della Riforma? È dubbio. Anche se la condotta di alcuni dignitari ecclesiastici era veramente scandalosa, non lo era più che in epoche precedenti. Neppure lo scisma d’Occidente aveva causato una rottura di queste dimensioni. Le voci che invoca82
vano una riforma profonda della vita della Chiesa si facevano sentire ovunque, ma da nessuna parte era scritto che questa sarebbe passata necessariamente attraverso la rottura dell’unità. Al contrario invece, alcune delle più radicali, come quella avviata dal cardinal Cisneros e dai Re Cattolici, furono volte proprio a un rafforzamento della tradizione. Cosa che Lutero rifiutò completamente. La sua non fu una proposta per recuperare i buoni costumi abbandonati dall’iniquità dei governanti della Chiesa, ma un incitamento per creare una Chiesa nuova, che rinnegava la tradizione e non assomigliava in nulla a quella che era stata nei secoli precedenti. D’altro lato, era anche vero che la vita dissoluta riguardava principalmente l’alta gerarchia ecclesiastica, ma la maggior parte dei cattolici ignorava completamente questa situazione. Ci sono ragioni per pensare che nemmeno Lutero stesso si rese conto di questo durante il suo viaggio a Roma nel 1510. Infine, quando la Chiesa corresse gli errori dopo il Concilio di Trento, i riformati non tornarono al suo interno.
Il castigo divino La fine del Medioevo fu caratterizzata da un’infinità di catastrofi che lasciarono gli uomini in preda all’abbattimento e allo sconcerto: guerre come quella dei Cent’anni, quella delle Due Rose, quelle hussite o la lotta contro i Turchi furono seguite da lunghi periodi di cattivi raccolti, fame ed epidemie. La peste nera, che aveva iniziato a diffondersi nel 1348, decimò a tal punto la popolazione europea che questa impiegò più di un secolo per riprendersi. Predicatori come san Vincenzo Ferreri, san Bernardino da Siena e Girolamo Savonarola seminarono la credenza che queste catastrofi erano il castigo di Dio per il tradimento delle sue creature. Alcuni arrivarono anche a sostenere che dopo lo scisma d’Occidente le porte del cielo si erano chiuse definitivamente per gli esseri umani. L’accumulo di tante disgrazie trasformò la morte in una presenza quotidiana nella vita delle persone, offrendo loro delle buone ragioni per riflettere sulla fugacità della loro esistenza. La rappresentazione del macabro raggiunse delle dimensioni mai viste prima di allora: vecchi con la clessidra in mano incoronati dal motto tempus fugit, scheletri che gesticolavano agitando falci con le lame affilate per segare vite in fiore, danze della morte, come quella della Chiesa di santa Maria di Lubecca, in cui re, papi e grandi signori riccamente agghindati fanno coppia con i loro stessi cadaveri decomposti. Premesso che la morte era dietro a ogni angolo, gli autori dell’Ars moriendi pensarono che la cosa migliore fosse ricevere una buona preparazione per affrontare il momento del passaggio.
L’istante finale sarebbe stato caratterizzato, spiegano nelle loro pagine, da una terribile solitudine in cui l’anima sarebbe stata tentata violentemente dal demonio, ma, per coloro che rimanevano fedeli, anche confortata dagli angeli che il Creatore avrebbe mandato per l’occasione. Nelle esequie il defunto sarebbe stato accompagnato dagli accordi del Dies Irae mediante i quali la Chiesa evocava allo stesso tempo il giudizio implacabile di Dio, ma anche la sua misericordia. Ma che Dio era questo? L’Onnipotente, trionfante e dominatore dei pantocratori romanici, così come anche le rappresentazioni sorridenti del Gotico, che potevano essere contemplate in molti luoghi di culto, furono poco a poco sostituiti dal Cristo dolente, mortificato dal disprezzo umano, dalle crocifissioni e dalle pietà. Scene strazianti come quella di Matthias Grünewald dell’ancona di Isenheim, dove il sangue esce a fiotti dalle ferite aperte del corpo del Redentore, erano un rimprovero per la condotta di esseri depravati. Temi come il Giudizio Finale e l’Apocalisse divennero i prediletti di molti artisti dell’epoca. Le tele di Hie-
ronymus Bosch mostravano una moltitudine di omuncoli imbruttiti dalle loro passioni più infime e castigati, davanti all’indifferenza divina, da demoni spietati e disgustosi. Per cercare di calmare l’ira divina, ai buoni cristiani non rimaneva altro che mettersi sotto la protezione dei santi. Le confraternite di devoti che affidavano ai loro protettori la soluzione delle proprie necessità si diffusero ovunque: quella di san Raimondo Nonnato per invocare un buon parto, quella di san Rocco per proteggersi dalla peste, quella di santa Lucia conto i mali della vista, quella di san Marziale contro il vaiolo. E, al di sopra di tutti, Maria ausiliatrice, la madre da cui molti si aspettavano la soluzione miracolosa dei problemi. Nonostante le proibizioni della Chiesa, gruppi di flagellanti si lanciarono nelle strade e si radunarono nelle piazze pubbliche esponendo i loro corpi seminudi lacerati dalla penitenza. La giustizia civile ci mise del suo in questo processo di purificazione volto a placare l’ira divina. Ovunque i tribunali irrigidirono le pene, applicando ai delinquenti castighi esemplari, inflitti
CROCIFISSIONE DI ISENHEIM.
Nel pannello centrale dell’ancona di Isenheim, capolavoro del pittore tedesco Matthias Grünewald, un Cristo in croce rappresentato con crudo realismo segna la tendenza del Rinascimento centroeuropeo alla trattazione dei temi religiosi, a cui conferisce un’intensità drammatica poco comune per l’epoca. Fu realizzato per il monastero degli antoniani di Isenheim tra il 1512 e il 1516, con pittura a tempera e a olio su legno di tiglio e oggi è conservata al Museo Unterlinden di Colmar. 83
GLI INIZI DELLA RIFORMA
Il tema delle indulgenze della Chiesa di Roma L’opposizione al traffico delle indulgenze fu una delle cause che finirono per scatenare la Riforma protestante. Ma queste remissioni dei peccati non furono sempre viste di cattivo occhio. Durante il Medioevo, per esempio, erano perfettamente accettate da una società che le considerava un modo comodo per ottenere la salvezza delle anime. Mediante il pagamento di una certa quantità di denaro, le indulgenze davano ai cattolici la possibilità di redimere parte delle pene o il tempo che, alla loro morte, avrebbero trascorso in Purgatorio in ragione dei peccati commessi. In altre parole, si trattava di un modo di comprare la salvezza dell’anima che finì per diventare una lucrosa fonte di guadagni per la Chiesa. La costruzione della Basilica di san Pietro in Vaticano, per esempio, fu finanziata in buona parte con la vendita delle indulgenze. Già nel XIV secolo, alcuni riformisti come John Wycliffe e Jan Hus denunciarono l’abuso di questa pratica, strada che fu poi seguita da Lutero. Nell’immagine, incisione luterana del XVI secolo che fa satira della vendita delle indulgenze.
pubblicamente per edificazione e scherno della gente semplice. Joan de Canyamars, che il 7 dicembre 1492 a Barcellona aveva attentato contro la vita del re Ferdinando il Cattolico, che molti consideravano una persona mandata dal cielo per ristabilire il regno di Cristo, fu trascinato per le strade della città mentre veniva sottoposto a un crudele processo di amputazione, «delle mani con cui lo fece, dei piedi con cui lo stava per fare, degli occhi con cui lo vide e del cuore con cui lo pensò», come recitava il testo della sentenza. Quando nessuna di queste pratiche produceva il risultato desiderato, rimaneva sempre un’ultima soluzione: l’invocazione dei meriti acquisiti da Gesù Cristo e dai santi, uomini e donne, la cui vita esemplare era stata riconosciuta dalla Chiesa. Questo erano le indulgenze. Ma i singoli fedeli non potevano affatto appropriarsi di questi meriti, poiché essi facevano parte del patrimonio amministrato dalla Chiesa, che veniva distribuito solamente tra coloro che facevano opere buone, specialmente elargendo elemosine in favore di una delle opere benefiche. 84
Di fronte a questo panorama, molti fedeli iniziarono ad allontanarsi dalla devozione tradizionale e superarono la linea rossa che li portò alla superstizione. Dopo aver negato ripetutamente la sua esistenza, nel 1486 la Chiesa fu costretta a riconoscere, allarmata, che un numero crescente di persone stringeva patti con il demonio, con la speranza di ottenere una luce per la propria vita. Così autorizzò due frati domenicani, Heinrich Kramer e Jakob Sprenger, a iniziare un’implacabile persecuzione nelle valli alpine, dove, a quanto sembrava, si concentravano in gran quantità. Nel corso dei due secoli successivi, il loro libro, il Malleus maleficarum (Il martello delle streghe), si trasformò in un vero e proprio prontuario per i cacciatori di streghe.
Il seme degli umanisti In queste circostanze, gli spiriti migliori iniziarono a pensare che ben poco potevano aspettarsi dalla Chiesa. Inoltre, a cosa gli sarebbe servito il suo aiuto al momento della resa dei conti, in solitudine, davanti al tribunale divino? La sensazione che, in fin dei conti, l’esperienza religiosa era qualcosa di strettamente personale fondava le sue radici in un clima di crescente individualismo che, indubbiamente, non era sorto in maniera spontanea. Nel suo Discorso sulla dignità dell’uomo, pubblicato nel 1486, il pensatore fiorentino Giovanni Pico della Mirandola realizzò un’accesa esaltazione della capacità dell’essere umano di dominare la natura e di guidare il suo destino: in esso si abbandonava la concezione medievale dell’uomo come un essere inerme alla mercé della volontà del Creatore. Molti considerano questo testo come la magna charta della dottrina umanista; altri come una dichiarazione di antropocentrismo, cioè di una nuova concezione del mondo mediante la quale l’uomo sposta Dio dall’asse della creazione per mettere se stesso al centro. La determinazione nel volto di alcune delle principali personalità fiorentine che Benozzo Gozzoli ritrasse nella cappella di Palazzo Medici era una vera e propria dichiarazione di principi. Erano loro i padroni dell’universo. Certamente questo non significò che tutti gli umanisti furono ostili alla religione. Ce ne furono anche alcuni che, come Tommaso Moro e John Fisher, furono elevati agli altari dalla Chiesa. Ma, sicuramente, altri adottarono punti di vista che, come quelli di Pietro Pomponazzi nel suo De immortalitate animae, pubblicato nel 1516, sapevano di materialismo, quando non erano apertamente contrari alle regole morali difese dalla Chiesa, oppure come quelli esposti da Niccolò Machiavelli ne Il principe. Tuttavia, la maggior parte optò per una strada che, sebbene difese l’autonomia della ragione rispetto alla fede e lanciò severe invettive contro lo
stile di vita di determinati sacerdoti e la diffusione delle superstizioni, evitò il confronto diretto con la Chiesa. In fin dei conti, non era stato Dio a parlare direttamente agli uomini attraverso le Scritture? Stando così le cose, quello che bisognava fare era leggerle con attenzione e trarre delle conclusioni. Anche se per questo era fondamentale disporre di una versione attendibile. Lorenzo Valla fu il primo a denunciare alcune imprecisioni nella traduzione ufficiale della Chiesa cattolica, realizzata da san Girolamo e conosciuta come la Vulgata. Poco dopo, Pico della Mirandola arrivò ad affermare che la Vulgata era un testo incompleto ed Erasmo fece la sua traduzione, in cui la ignorava completamente. Gli anni successivi all’invenzione della stampa vissero un autentico fermento del libro religioso in generale e della Bibbia in particolare, di cui si fecero nientemeno che 156 edizioni tra il 1455 e il 1520. Questa domanda lasciava intendere che il numero di persone in grado di leggere direttamente il testo era sempre maggiore. Ma non di leggerlo in latino, la lingua in cui era circolato fino
ad allora. Sin dal primo momento, la Chiesa cattolica si mostrò reticente di fronte alla possibilità che il Testo Sacro cadesse nelle mani di coloro che non erano nelle condizioni di interpretarlo correttamente. Inoltre, se si diffondeva l’idea che i fedeli potevano accedere direttamente a Dio attraverso la sua rivelazione, cosa sarebbe rimasto della funzione mediatrice dei sacerdoti? Queste reticenze non impedirono la traduzione delle Sacre Scritture in italiano nel 1471, in olandese nel 1477, in castigliano nel 1485 e in francese nel 1487. Nel 1514 apparve la Bibbia poliglotta complutense, sotto la direzione del sivigliano Antonio de Nebrija. Quando Martin Lutero consigliò ai suoi seguaci la lettura della Bibbia per poter conoscere quello che Dio si aspettava da loro, il terreno era già fertile. La sua traduzione del Nuovo Testamento nel 1522, così come la sua versione della Bibbia in un tedesco semplice e accessibile a tutti, alla portata di un elevato numero di lettori, furono un successo senza paragoni. Già solo quando il riformatore era in vita, ne furono realizzate nientemeno che 84 stampe.
LUTERO TRADUCE LA BIBBIA IN TEDESCO.
Il riformatore sosteneva che chiunque aveva il diritto di studiare le Sacre Scritture senza dipendere dal magistero della Chiesa, che aveva il latino come unica lingua di comunicazione. Ne fu talmente convinto che tradusse la Bibbia in tedesco. Il pittore Gustav Adolph Spangenberg ricreò la scena in quest’olio del 1870, conservato all’Alte Nationalgalerie di Berlino.
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GLI INIZI DELLA RIFORMA
La Bibbia di Lutero, in tedesco e per tutti i fedeli Nel 1522, Martin Lutero pubblicò la sua versione in tedesco del Nuovo Testamento, a cui seguì nel 1533 quella dell’Antico Testamento. Con l’inestimabile aiuto della stampa, questa Bibbia si diffuse rapidamente in tutto il Sacro romano impero germanico, portando con sé il messaggio riformista di Lutero rendendolo accessibile a tutti coloro che parlavano il tedesco. Lutero non fu il primo a piegare a una lingua volgare le Sacre Scritture. Non fu nemmeno il primo a tradurle in tedesco, poiché prima della sua erano già comparse 18 traduzioni. La chiave del suo successo va cercata nel linguaggio utilizzato, molto vicino al tedesco vivo, agile e colloquiale che si parlava nei paesi e nelle città. Lutero diceva che «bisogna domandare alla madre che sta in casa, ai bambini per le strade, all’uomo che corre al mercato […]. Dopo aver fatto questo, è possibile fare la traduzione: sarà l’unico modo in cui si renderanno conto che si sta parlando in tedesco». Lutero ottenne inoltre un testo ideale, leggibile a voce alta per alcuni fedeli, per la maggior parte analfabeti. In questo modo la Bibbia non era più monopolio del clero ma si apriva a tutta la società. Copertina dell’edizione di Wittenberg del 1541, illustrata da Lucas Cranach il Giovane.
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Anche se per molti versi contribuirono a creare un clima favorevole all’espansione delle dottrine di Lutero, sicuramente pochi umanisti decisero di seguirlo. La loro concezione ottimista dell’essere umano si scontrava apertamente con il pessimismo antropologico del riformatore tedesco, che avevano buoni motivi per considerare, su questo punto, un uomo del passato. Nella sua Utopia, Tommaso Moro rifiutò apertamente l’idea luterana che sosteneva che l’uomo tendeva al male per natura. Gli umanisti sostennero una riforma della vita e delle pratiche della Chiesa. Ma la loro riforma non era quella di Lutero. Su questo punto, il Protestantesimo fu anche un anti-Umanesimo. Il rapporto di Lutero con Erasmo, il principe degli umanisti, mise in evidenza l’abisso che separava le loro rispettive concezioni del mondo. Nella lettera che Lutero scrisse nell’anno 1519, dichiarò nientemeno che «Martin Lutero è un tuo convinto ammiratore e desidererebbe la tua piena approvazione». Ma Erasmo gliela negò. Nonostante disapprovasse la reazione iniziale di Roma e la successiva scomunica del monaco tedesco, sentì una profonda inquietudine per la violenza delle sue proposte. Nel 1524, il riformatore ci provò di nuovo, anche se il tono questa volta era molto diverso: «Accontentati di seguire come spettatore la nostra tragedia; ti prego solo di non pubblicare opere contro di me e io, da parte mia, mi guarderò dallo scrivere contro di te». Ancora una volta, Erasmo rifiutò l’accordo. Poco tempo dopo, ruppe le ostilità con il suo opuscolo: Il libero arbitrio. Nel 1520, Lutero aveva scritto: «Dopo il peccato originale, il libero arbitrio non è altro che una parola vuota; quando l’uomo fa quello che può, pecca mortalmente». Questa era una cosa che l’ottimismo umanista di Erasmo non poteva accettare in alcun modo. In fin dei conti, argomentò, le Scritture erano piene di esortazioni a fare il bene, che sarebbero risultate assurde se l’uomo fosse stato predestinato prima. Il peccato originale ha castigato e corrotto la libertà umana, ma non l’ha eliminata. Lutero rispose nel 1525 con il suo De servo arbitrio. Alla gentile ironia del suo contraddittore oppose un linguaggio violento e brutale, ma con una logica forte: Dio è tutto, l’uomo non è niente. Con quale diritto possiamo giudicare Dio? Erasmo fu considerato «polemista velenoso», «porco di Epicuro», scrittore «ridicolo… irriflessivo… sacrilego… ciarlatano… sofista… ignorante» e le sue idee, tacciate di «spazzatura e spreco». Era questo il linguaggio del mistico di Wittenberg che fece inorridire gli umanisti. Ma non tutti. Molti umanisti tedeschi videro in Lutero un liberatore della vita religiosa. Tra questi c’erano
FILIPPO MELANTONE.
Pronunciò un discorso nell’atto di accettazione della cattedra di greco all’Università di Wittenberg, nel 1518, che attirò l’attenzione del collega Lutero, e finì per avere una grande influenza su di lui: insieme, scrissero la Confessione di Augusta nel 1530, che presentarono alla Dieta. Melantone voleva la comprensione tra protestanti e cattolici e quindi i seguaci più intransigenti del luteranesimo consideravano eretiche le sue teorie; nonostante questo, riuscì a riunire un numero considerevole di discepoli. Quando Lutero fu confinato nel castello di Wartburg, fu il leader della Riforma e, più tardi, l’elemento chiave nella traduzione della Bibbia in tedesco. Ritratto di Cranach il Vecchio, realizzato nel 1553 (Galleria degli Uffizi, Firenze).
Justus Jonas, Ulrich von Hutten e, soprattutto, Filippo Melantone, che divenne il suo discepolo prediletto e sintetizzò la sua dottrina nei suoi celebri Loci communes, apparsi nel 1521. Anche se la relazione tra il maestro e il discepolo continuò a essere cordiale per tutta la vita, sicuramente con il passare del tempo Melantone si allontanò pian piano da Lutero. Come umanista di solide convinzioni, gli costò sempre più accettare la visione pessimistica, convinto com’era che il fedele poteva contribuire alla sua salvezza realizzando delle opere buone e che nell’esercizio della sua libertà poteva accettare o rifiutare la grazia divina. D’altro lato, era giunto alla conclusione che l’abbandono drastico della tradizione cattolica da parte dei riformati era la causa principale dei loro dissapori interni. Questo atteggiamento fece di Melantone il principale interlocutore tra riformati e cattolici. L’imperatore Carlo V si rivolse ripetutamente a lui allo scopo di ristabilire l’unità religiosa in Germania. Così, durante la Dieta di Augusta dell’anno 1530, Melantone ricevette
l’incarico di redigere un testo, la Confessione di Augusta, che fu destinato a rappresentare i punti principali della dottrina riformata allo scopo di recuperare i rapporti con i cattolici. Anche se alla fine fu respinta da questi ultimi, sicuramente dimostrò uno sforzo notevole per attenuare il linguaggio, tendere ponti e avvicinare posizioni. Negli anni successivi continuò a lavorare nella stessa direzione, convinto che la difficoltà principale per l’accordo era la radicalità del linguaggio di Lutero. Nell’incontro che si svolse a Ratisbona nel 1541 con il legato pontificio Gasparo Contarini sembrò che questo accordo fosse quasi raggiunto. Ma Lutero, che era presente, si rifiutò ancora una volta di accettarlo. «Dio ha dato al mondo un medico rozzo», arrivò ad affermare Melantone durante la sua sepoltura. Peggio ancora: una persona che aveva aperto una crepa profonda all’interno della cristianità, ma si era dimostrato incapace di offrire un’alternativa unitaria. Provarci fu, in gran parte, il compito che si impose la generazione successiva guidata da Giovanni Calvino. 87
LA RIVOLUZIONE DELLA STAMPA
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La rivoluzione della stampa L’invenzione di Gutenberg ebbe come conseguenza la più grande diffusione del sapere mai conosciuta dall’umanità fino ad allora e la nascita della letteratura in lingua vernacolare.
S
arebbe molto difficile comprendere la rapidissima diffusione delle idee del Rinascimento in Europa senza considerare uno strumento che non avevano avuto altri movimenti culturali in passato: la stampa. Alcuni anni prima della sua invenzione, a Firenze e in altri luoghi era già nata la stampa di immagini, che attirò importanti artisti come Sandro Botticelli, il quale realizzò una serie di incisioni per l’edizione della Divina Commedia di Dante. Queste stampe erano relativamente economiche da produrre e consentirono all’opera dei loro creatori di raggiungere più rapidamente un numero maggiore di persone. La cosa più probabile è che la stampa a caratteri mobili sia stata inventata in Germania da Johannes Gutenberg intorno all’anno 1450. Da lì si diffuse rapidamente in tutta Europa. I primi tipografi giunsero a Basilea intorno al 1466, a Roma intorno al 1467, a Parigi circa nel 1468 e a Venezia nel 1469. Nel 1473 esistevano tipografie a Lovanio, Valencia, Cracovia e Buda; nel 1476, ce n’erano a Westminster (all’epoca una città ancora separata da Londra) e nel 1477 la nuova tecnica di stampa aveva raggiunto Praga. Intorno all’anno 1500, si potevano contare botteghe di tipografi in quasi 250 città del continente europeo. Molte di queste erano state fondate da compatrioti di Gutenberg. In effetti, nel 1500, i Tedeschi avevano aperto almeno 86 stamperie al di fuori dei confini nazionali, delle quali 37 si trovavano in Italia, 18 nella Penisola Iberica, 13 in Francia e sette nei Paesi Bassi. Il risultato fu un rapido aumento dei libri a partire dal 1450. Solo a Venezia, dove si ritiene che furono stampati più libri che in qualsiasi altra città europea, furono pubblicati circa 4500 titoli tra il
INTERNO DI UNA STAMPERIA. Incisione anonima del XVI secolo (Biblioteca Nazionale, Parigi).
1450 e il 1500, per un totale di mezzo milione di copie. Molti di questi erano di autori classici e, in questo ambito, primeggiò Cicerone. Titoli come De officiis o De amicitia trovarono nelle principali città europee lettori che, anni prima, nemmeno erano a conoscenza della loro esistenza. Grazie principalmente ad Aldo Manuzio, il tipografo veneziano, anche gli autori greci inondarono il mercato negli ultimi decenni del XV secolo. La sua edizione di Aristotele, in cinque volumi, apparve tra il 1495 e il 1498.
L’opera degli umanisti
Il profilo di un saggio: Johannes Gutenberg Originario di Magonza, dove nacque intorno al 1398, Johannes Gutenberg prese familiarità in gioventù con il mestiere di orafo e coniatore di monete, proprio della sua famiglia. Nel 1428 abbandonò la sua città natale, poiché i corporati allontanarono i patrizi dal potere. Approdò a Strasburgo, dove si dedicò a insegnare l’arte dell’intaglio delle gemme e a lavorare a un progetto che lo assorbiva notte e giorno e che, in seguito, risultò essere la stampa. Nel 1452, di nuovo a Magonza, fondò con un socio la prima casa editrice. Il suo primo capolavoro, la Bibbia a 42 linee, è datata 1454-1455. Nell’immagine, statua di Gutenberg a Strasburgo.
Per quanto riguarda le opere dei principali umanisti della Penisola Italiana, trovarono presto chi era disposto a stamparle. Le poesie di Petrarca furono pubblicate nel 1470 e furono ristampate più di venti volte prima del 1500. Il trattato di Leonardo Bruni sull’educazione fu stampato nel 1470, le sue lettere nel 1472 e la sua storia fiorentina fu tradotta e pubblicata in italiano nel 1476. La prima edizione delle Elegantiae di Lorenzo Valla apparve nel 1471 e divenne un manuale di grande successo tra le scuole umaniste. Poggio Bracciolini e Ficino pubblicarono anch’essi i loro libri nel decennio del 1470. Queste opere furono distribuite rapidamente in diverse parti d’Europa. Spesso si trattava di incarichi di commercianti italiani espatriati. Nel 1476, per esempio, furono inviate delle copie della Historiae Florentini Populi scritta da Leonardo Bruni ai mercanti fiorentini residenti a Londra. Con la straordinaria importanza che ebbe per l’aumento e la circolazione delle copie dei testi, la stampa fu più di un mezzo di diffusione. Contribuì in modo decisivo al processo di quello che potremmo chiamare il “distanziamento”. Ovvero, i testi scritti favorirono un atteggiamento riflessivo rispetto alle idee che presentavano, cosa che non sempre succedeva nella comunicazione orale. Il risultato di questo cambiamento fonda89
LA RIVOLUZIONE DELLA STAMPA
LA CITTÀ DI MAGONZA, CULLA DELLA STAMPA. Incisione a colori appartenente all’opera
Schedel’sche Weltchronik di Hartmann Schedel, pubblicata nel 1493 a Norimberga. mentale fu lo sviluppo della critica e una progressiva intensificazione dello scambio dei diversi punti di vista.
Gli incunaboli Intorno alla metà del Quattrocento, la disponibilità di carta economica in gran quantità si rivelò un fattore determinante per lo sviluppo della stampa, che finì per trasformarsi nell’evento tecnologico più importante e di maggiore influenza culturale del Rinascimento. La stampa attraverso matrici di legno era, di fatto, un’idea molto antica: i Romani l’avevano già utilizzata nell’attività tessile per lo stampaggio e, in India, l’impero mongolo la utilizzò per produrre cartamoneta. Intorno al 1400, a 90
Venezia e nel sud della Germania, questa tecnica era utilizzata per realizzare miniature e stampe. Pertanto la novità principale non fu, di fatto, nelle matrici, ma nei caratteri mobili, che potevano essere utilizzati finché non si consumavano, erano facili da rinnovare e, inoltre, garantivano una totale uniformità dei caratteri. La loro invenzione si dovette al lavoro di due orafi di Magonza, Johannes Fust e Johannes Gutenberg, tra il 1446 e il 1448; la ragione principale per cui è rimasta associata a quest’ultimo è perché fu proprio lui a stampare per la prima volta un libro. Il risultato è conosciuto come la Bibbia di Gutenberg o quella a 42 linee, poiché questo era il numero di righe che aveva ogni pagina. Fu pubblicata nell’anno 1455 e divenne il primo libro stampato al mondo. Gutenberg dovette risolvere molti problemi tecnici ma, sicuramente, ne valse la pena. Il risultato meravigliò tutti
quelli che lo videro e lo utilizzarono per la prima volta, sia per la sua qualità sia per la sua chiarezza. Fu anche il primo degli incunaboli, nome con cui sono designati tutti i libri realizzati tra il 1455 e il 1501. Si pensa che il primo a utilizzare questo termine fu Cornelius van Beughem nella sua opera Incunabula typographiae, pubblicata nel 1688, per riferirsi a un’epoca in cui la produzione di libri era agli esordi o ancora acerba. Per avere un’idea del successo di questo nuovo meccanismo basterebbe considerare che, al giorno d’oggi, si ritiene che il catalogo di incunaboli sia formato da circa 35.000 opere provenienti da 1.200 tipografie di 260 città. Non deve stupire, quindi, che la stragrande maggioranza di questi primi incunaboli fosse costituita da versioni del libro per eccellenza, la Bibbia, fosse questa nella sua versione completa, come quella di Schelhorn, pubblicata nel 1459,
La stampa degli incunaboli Gutenberg visse abbastanza per vedere come la sua invenzione, dalla Germania, si diffondeva a gran velocità in tutta Europa, come si può apprezzare nella cartina. E questo nonostante il giudizio di personaggi di grande cultura come il re ungherese Mattia Corvino o i Medici fiorentini, secondo cui la stampa non era altro che una moda passeggera che non avrebbe mai potuto sostituire il libro copiato e illustrato a mano. Non fu così e presto iniziarono a sorgere le tipografie e con esse le stampe di ogni genere di lavoro, da opuscoli e bolle fino a Bibbie voluminose e straordinarie. Intorno al 1500 si contavano non meno di 1200 tipografie in 260 città, con una produzione che a partire dall’invenzione della stampa si aggirava intorno alle 35.000 opere differenti. Fu l’epoca degli incunaboli, i libri stampati prima del 1501. Questa parola deriva dal latino incunabula, che significa “in culla” e con essa si allude all’origine dell’arte della stampa moderna, la stessa che rivoluzionò la diffusione del sapere. Oggi la più grande collezione di incunaboli del mondo si trova nella Biblioteca Statale Bavarese, a Monaco.
o in alcune delle sue parti, come il Salterio di Magonza, che apparve in questa città nell’anno 1457.
Rivalità tra editori Il successo dei libri generò una competizione spietata tra i diversi tipografi che, in generale, non badavano alle prerogative degli altri e pubblicavano spesso lo stesso libro dei loro avversari, con la motivazione che le loro edizioni erano più corrette o includevano materiale nuovo, anche quando non era così. Il tipografo più famoso, Aldo Manuzio, aveva la sua bottega a Venezia, città dove la carta arrivava facilmente. Divenne molto ricco con l’edizione dei classici greci e latini in formato piccolo e a basso prezzo, il che permetteva di trasportarli facilmente («si possono leggere camminando», disse uno dei suoi clienti) e di essere acquistati anche dagli studiosi con meno risorse.
Confini del Sacro romano impero germanico Edizione di incunaboli 1-100 100-1000 Più di 1000 Amsterdam Utrecht Rostock Zwolle Lubecca Oxford Westminster Deventer Delft Londra Anversa Magdeburgo Breslavia Gouda Bruges Lovanio Lipsia Gand Colonia Liegi Erfurt Rouen Bamberga Parigi Metz Magonza Norimberga Tours Strasburgo Ratisbona Ulm Reutlingen Vienna Augusta Poitiers Basilea Memmingen Ginevra San Gallo Verona Vicenza Angoulême Lione Brescia Treviso Vienne Milano Padova Pamplona Venezia Burgos Torino Pavia Tolosa Valladolid Bologna Ferrara Lucca Salamanca Logroño Firenze Pisa Lérida Siena Alcalá Orvieto Saragozza Lisbona Barcellona Toledo Roma Gaeta Valencia Napoli Siviglia
Messina
Se Manuzio si distinse per il suo istinto commerciale, il suo principale concorrente, Johann Froben, lo fece per il gusto e l’alta qualità delle sue produzioni. Non a caso il pittore Hans Holbein il Giovane lavorò per lui illustrando i testi che uscivano dalla sua tipografia a Basilea. Mentre Manuzio si specializzò nella pubblicazione di autori classici, Froben concepì un ambizioso progetto per la pubblicazione dei testi dei Padri della Chiesa. Anche se, senza alcun dubbio, il suo affare migliore fu l’amicizia che strinse con Erasmo da Rotterdam, di cui pubblicò le opere a partire dal 1514. L’umanista stesso si stabilì per vari periodi a Basilea, per curare insieme a Froben i dettagli minori della sua edizione.
Il nazionalismo linguistico Se nella fase iniziale della stampa il recupero del latino, che si utilizzava con l’eleganza dei classici, era stato uno dei tratti
distintivi degli umanisti, con il passare del tempo questa idea si perse a favore del desiderio di raggiungere un pubblico sempre più ampio, che ignorava la lingua dei Romani. Erasmo aveva elogiato la cura nell’uso del latino da parte di alcuni dei suoi interlocutori. Tuttavia, nel 1542, pochi anni dopo la morte dell’umanista romano Pietro Bembo, Sperone Speroni, un suo seguace, mise in bocca al suo maestro l’affermazione secondo la quale il latino era «solo carta e inchiostro». In quello stesso periodo, l’umanista fiorentino Benedetto Varchi scrisse in un dialogo che trattava il tema del greco e del latino come di lingue “morte” mentre il fiorentino era “vivo”. Per gli uomini della metà del Cinquecento, scrivere come Cicerone non voleva dire più scrivere in latino, ma nel suo stesso modo, però in lingua volgare. Un coro di voci si alzò a tessere le lodi 91
LA RIVOLUZIONE DELLA STAMPA
La stampa del XVI secolo
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Anche se tradizionalmente è stato considerato l’inventore della stampa a caratteri mobili, Johannes Gutenberg fu in realtà colui che perfezionò le primitive tecniche di stampa già in uso intorno alla metà del Quattrocento, fino a trasformarle in un efficiente mezzo di produzione che, praticamente, nei suoi principi di base non cambiò fino agli inizi del XX secolo. E qui sta il suo genio. Fu lui, per esempio, che ebbe l’intuizione di modificare e adattare all’ambito della stampa bibliofila il sistema dei torchi per il vino. O che offrì la soluzione per produrre su larga scala copie di caratteri, e non uno a uno come si faceva in precedenza, rendendo così più agevole la preparazione delle pagine da stampare. Grazie a contributi come questi, la stampa poté trasformarsi in un’industria dinamica, in grado di realizzare grandi tirature di esemplari di libri a un costo molto più ridotto sia per il tipografo sia per il compratore. La conseguenza più lampante di tutto questo non tardò a farsi notare: grazie a Gutenberg e alla sua stampa il sapere non fu più patrimonio esclusivo di un’élite benestante e la cultura si diffuse capillarmente nel mondo a un costo relativamente accessibile.
delle lingue vernacolari in quegli anni. La più famosa fu quella del poeta Joachim du Bellay che, nella sua Défense et illustration de la langue française (1549), rifiutò che il francese fosse considerato come una lingua barbara. Gli Spagnoli affermavano a loro volta che la loro lingua era la più vicina al latino, mentre gli Italiani esaltavano la “dolcezza” della loro rispetto all’”arrogante spagnolo”. Altre lingue si fecero sentire in questo dibattito europeo: l’inglese, il tedesco, l’olandese, l’ungherese o le diverse lingue slave trovarono chi ne cantava gli elogi. L’umanista di Anversa Johannes Goropius arrivò persino ad affermare che il fiammingo (e non l’ebraico, come pensavano i più) era la lingua originaria e primitiva degli esseri umani. Il nazionalismo linguistico si sviluppò a partire dal nazionalismo politico rappresentato dalle nuove monarchie che si consolidavano in lungo e in largo 92
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LA STAMPANTE DI GUTENBERG. Riproduzione di
una stampante a caratteri mobili tipica del XVI secolo e dei suoi componenti. Con una simile, Gutenberg riuscì a stampare la Bibbia a 42 linee.
per tutto il continente. Di conseguenza, il numero di traduzioni nelle lingue volgari aumentò in modo spropositato, causando un importante impatto culturale. Tra il 1525 e il 1599 furono pubblicate in Francia più di 600 traduzioni, principalmente dal latino, dal greco, dall’italiano e dal castigliano. Grandi autori come Cicerone, Virgilio, Vitruvio e Omero, accessibili fino ad allora a una minoranza, iniziarono a essere disponibili ovunque per un elevato numero di lettori. Alcuni dei Dialoghi di Platone furono tradotti in francese e in italiano intorno alla metà del XVI secolo. Le metamorfosi del poeta Ovidio, che avevano ispirato tanti artisti e pittori, furono pubblicate in italiano, castigliano, francese, inglese e tedesco. Non solo le opere di autori classici, ma anche molte opere dell’epoca che erano state redatte in latino, furono ora tradotte in diverse lingue. Prime fra
tutte, quelle di Erasmo, senza dubbio le più richieste, ma anche altre, come Utopia di Tommaso Moro, che apparve in tedesco nel 1524, in italiano nel 1548, in francese nel 1550, in inglese nel 1551 e in olandese nel 1562. Alcune di queste traduzioni raggiunsero un successo considerevole. Fu questo il caso della versione castigliana realizzata dal poeta e traduttore Juan Boscán dell’opera di Baldassar Castiglione, Il cortigiano, di quella che fece Johann Fischart in tedesco di Gargantua e Pantagruel di Rabelais, che arrivò alla settima edizione nel 1531, o dei Saggi di Michel de Montaigne, che furono tradotti in inglese dal lessicografo londinese di origini italiane Giovanni Florio. Erano spesso versioni creative in cui i traduttori ampliavano, tagliavano o modificavano intere parti, pensando ai gusti dei loro lettori. La fedeltà al testo originale non era ancora un’esigenza.
TELAIO. Il foglio di carta o pergamena che si voleva stampare si metteva su un telaio che si piegava sulla lastra coperta di caratteri mobili e già inchiostrata.
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PIETRA. Il telaio si piegava su una lastra, orizzontale e fissa, la pietra, su cui era collocato il vantaggio con il testo da stampare montato.
3 FOGLIO STAMPATO. Con la stampa, il foglio vince sulla pergamena come supporto per i documenti. Nonostante questo, inizialmente alcuni erano stampati ancora in pergamena.
CASSA O VANTAGGIO. Su questa lastra rettangolare con i bordi squadrati, il compositore disponeva i caratteri fino a formare il testo della pagina. Un buon operaio poteva collocare fino a 1500 caratteri in un’ora.
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BARRA O LEVA.
Attraverso una barra si riusciva a far girare la vite della pressa. Poiché per completare i giri, bisognava togliere molte volte la leva, il processo era lento.
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CARATTERI MOBILI.
Con Gutenberg, ogni carattere (lettera, segno o spazio) è un pezzo singolo che può essere unito ad altri fino a formare una pagina, oltre a poter essere cambiato e riutilizzato.
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VITE DEL TORCHIO.
Mossa dalla barra, la vite spostava verticalmente il torchio, che si appoggiava sopra il telaio e sopra il vantaggio.
8 TAMPONI PER INCHIOSTRARE. Gutenberg utilizzava un inchiostro grasso e spesso che si spargeva sui vantaggi mediante delle palline o dei cuscinetti di cuoio.
TORCHIO. L’uso del torchio migliorava la qualità e l’omogeneità della stampa rispetto alla tecnica di sfregamento caratteristica della xilografia.
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Tutte queste traduzioni arricchirono notevolmente le lingue volgari, che sperimentarono in quegli anni una grande vitalità. Nel prologo della sua traduzione di Virgilio, il poeta Juan de la Encina si lamentava della «grande mancanza di vocaboli nella lingua castigliana rispetto a quella latina». Questa stessa limitazione fu percepita da molti altri traduttori in diverse lingue, i quali dovettero affrontare il compito di creare parole nuove o di prenderle in prestito da altre lingue. La diffusione di libri nelle lingue volgari favorì la nascita di una nuova generazione di letterati poliglotti. Spinto dal desiderio di raggiungere un pubblico sempre più ampio, il poeta tedesco Martin Opitz imparò e scrisse in italiano, francese, inglese e olandese. Il compositore Roland de Lassus, un francese che si era formato in Italia e che svolgeva il suo lavoro in Baviera, scrisse canzoni in latino, italiano, francese e tedesco; il
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XILOGRAFIA CINESE.
Consisteva nell’incisione su legno di qualcosa che poi si inchiostrava. Si stampava mettendo sopra un foglio e premendo con un rullo.
LE LETTERE MAIUSCOLE. Con i primi libri nati dalla nuova stampa, non fu tanto facile far dimenticare ai lettori la ricchezza ornamentale caratteristica dei manoscritti delle miniature. Per questo, alcuni libri, come questo messale stampato a Barcellona nell’anno 1524, presentano ancora le lettere maiuscole dipinte a mano (Archivio Capitolare, Tortosa).
poeta ungherese Bálint Balassi conosceva italiano, tedesco e turco e il poeta tedesco Georg Rodolf Weckherlin scrisse invece in tedesco, francese, inglese e latino. Evidentemente, i lettori monolingui si perdevano molto, poiché l’era della stampa fu anche una delle epoche di maggiore fioritura della letteratura nelle diverse lingue europee. Il perché di quest’auge delle lingue nazionali nei testi scritti, la sua causa ultima, è una questione molto difficile da chiarire. È evidente che le traduzioni della Bibbia che accompagnarono la Riforma protestante furono molto importanti nello sviluppo delle lingue volgari. Tuttavia questo non ne dà una spiegazione del tutto esaustiva, perché fu proprio in Spagna, luogo in cui le traduzioni delle Sacre Scritture erano invece proibite, che si sperimentò un’epoca d’oro della letteratura in lingua castigliana, che non ebbe quasi paragoni in ambito europeo.
SUMA DE GEOGRAFÍA. Opera di Fernández de Enciso, stampata da Cromberger a Siviglia (1519). 93
ELISABETTA I D’INGHILTERRA A WHITEHALL. Ritratto
attribuito a Robert Peake (Sherborne Castle, Dorset). Nella pagina accanto, stemma degli Austria; dettaglio del fregio della porta d’ingresso del Pantheon Reale del monastero di El Escorial, realizzato da Giovanni Battista Crescenzi (1577-1635).
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IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA Quando Lutero morì nel 1546, la sua dottrina accusava sintomi di stanchezza e questo, insieme alle sfortune militari dei principi protestanti tedeschi contro l’imperatore Carlo V, faceva presagire una crisi profonda della Chiesa riformata. Fu allora che il pensiero di Giovanni Calvino portò un soffio di aria nuova al Protestantesimo. Alla sua morte, nel 1564, il Calvinismo era il pensiero prevalente tra i riformati.
I
l regno di Francesco I di Francia coincise con un periodo di forte agitazione religiosa. Le sue radici affondano nel secolo precedente, quando si ebbe una tendenza impulsiva alla depurazione di determinate pratiche, allo scopo di recuperare l’ortodossia originaria del Cristianesimo. Gli effetti si fecero sentire in Francia attraverso il movimento conosciuto come la Devotio moderna, proveniente dai Paesi Bassi. Il suo ideale era il superamento delle tentazioni del mondo mediante l’umile imitazione della vita di Cristo, l’esame di coscienza e la preghiera personale per riuscire ad andare oltre la formalità delle vecchie pratiche ritualizzate. In Francia ne fu il principale
diffusore l’umanista Jacques Lefèvre d’Étaples, che aggiunse a questo programma di vita cristiana la lettura delle Sacre Scritture, sulla linea di quello che in quegli stessi anni stava facendo Erasmo da Rotterdam. Il centro delle operazioni del nuovo movimento fu stabilito a Meaux, dove il vescovo della città Guillaume Briçonnet avviò un ambizioso progetto di riforme, che presto si scontrò con alcuni ordini religiosi e il clero regolare. Nell’estate del 1521, la Facoltà di teologia di Parigi denunciò la riforma di Briçonnet, per la sua somiglianza con le idee che arrivavano dalla Germania, promosse da Lutero. I dibattiti raggiunsero presto la 95
IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA
GIOVANNI CALVINO: VERSO LA RIFORMA 1509
Nascita. Jean Cauvin (seguendo la moda umanista latinizzerà il suo cognome in Calvino) nasce il 10 luglio a Noyon, figlio di un avvocato. 1532
Formazione. Diventa dottore in diritto all’università di Orléans. All’epoca è già entrato in contatto con le idee riformiste. 1536
Rifugio a Ginevra. La persecuzione contro i riformati lo costringe a lasciare la Francia. Si trasferisce a Ginevra, da dove viene cacciato nel 1538. 1538
Pastore a Strasburgo. Rimane tre anni in questa città come pastore di una comunità di Francesi. Nel 1539 si sposa con una vedova. 1541
La città di Dio. Torna a Ginevra, dove concretizza il suo ideale di società teocratica basata sulla stretta adesione alla Bibbia. 1564
Morte ed eredità. Calvino muore a Ginevra il 27 maggio. Il suo pensiero si diffonde in Francia, nei Paesi Bassi e in Scozia.
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sfera della famiglia reale stessa e Margherita, la sorella di Francesco, che era sposata con Enrico d’Albret di Navarra, divenne la principale protettrice di Briçonnet. Questa protezione salvò i suoi seguaci dal rogo, ma non impedì che il gruppo venisse sciolto. Lungi dal decretarne la fine, la decisione favorì la diffusione del movimento evangelico in tutta la Francia.
Giovanni Calvino a Ginevra Il colpo decisivo fu il discorso pronunciato da uno studente di diritto nel giorno di Ognissanti del 1533, a motivo dell’apertura dell’anno accademico all’università Sorbona. Il suo nome era Giovanni Calvino. Le sue parole, infarcite di riferimenti a Erasmo e Lutero, provocarono un forte turbamento. Il loro autore dovette fuggire a Parigi per evitare la persecuzione da parte della giustizia. In alcune delle principali città del regno, apparvero cartelli (placards), che denunciavano la messa cattolica e difendevano apertamente le idee riformate. Era ancora lontano il tempo in cui i suoi seguaci si sarebbero organizzati in quello che divenne un vero e proprio partito politico: gli Ugonotti. Tuttavia, il seme era già stato piantato. Nato nel 1509 a Noyon, una città situata a nord di Parigi, Calvino aveva mantenuto da giovane una stretta relazione con gli ambienti ecclesiastici, poiché il padre lavorava nella Curia del vescovo della città. Studiò teologia e diritto a Orléans e Parigi, dove entrò in contatto con gli umanisti francesi e gli ambienti favorevoli alla Riforma. Dopo la fuga dalla Francia, si rifugiò a Basilea, dove nel 1536 scrisse la Institutio Christianae Religionis, che, con il tempo, si trasformò nel vero e proprio catechismo calvinista. Da Basilea si trasferì a Ginevra, dove fu nominato ministro della dottrina riformata. Sostenne un rigido codice di condotta morale che implicava un controllo severo del comportamento dei cittadini e l’eliminazione di ogni genere di festeggiamenti. La sua dottrina si scontrò con quelli che lui stesso definì “libertini”. Questo gli creò molti nemici e nel 1538 fu cacciato da Ginevra. Si trasferì a Strasburgo, dove il teologo Martin Bucer aveva imposto un rigido codice di condotta, sottoponendo il consiglio della città alle norme dei teologi. Il periodo di Strasburgo fu fondamentale nell’evoluzione successiva di Calvino. Nel 1541, il municipio di Ginevra, allarmato dai disordini che si stavano verificando nella città, richiamò nuovamente la sua presenza. Rimase lì fino alla sua morte, nel 1564. Durante la sua seconda tappa nella città svizzera, Calvino ricevette pieni poteri per organizzare la vita dei suoi abitanti. Ginevra fu un vero e proprio laboratorio del Calvinismo. Quest’ultimo si basò sull’applicazione di due principi basilari. Il
Serveto contro Calvino: libertà di pensiero Anche se è conosciuto soprattutto per i suoi studi medici sulla circolazione polmonare, l’aragonese Michele Serveto fu anche un teologo con un pensiero originale che inquietò i riformati tanto quanto i cattolici. La pubblicazione nel 1531 di De Trinitatis erroribus fece di Serveto una figura polemica. La denuncia in esso contenuta, sulla mancanza di base biblica del dogma della Trinità fece sì che cattolici e protestanti si unissero nel desiderio di metterlo a tacere. Avrebbe raggiunto questo obiettivo Calvino – nonostante il suo rapporto con Serveto fu amichevole fino al 1546 – quando la critica dell’Aragonese alla sua istituzione della religione cristiana lo portò a denunciarlo all’Inquisizione cattolica. Serveto fuggì e il Sant’Uffizio dovette accontentarsi di bruciare la sua effigie. Ma nel 1553 approdò a Ginevra, il feudo di Calvino, dove fu riconosciuto, giudicato e bruciato per eresia. La sua esecuzione fu vista dai circoli umanisti come un attentato contro i principi di tolleranza e libertà di pensiero difesi da Serveto, secondo cui «ognuno esprima una parte di verità e una di errore». Nell’immagine, Calvino fa visita a Serveto in prigione, olio di Theodor Pixis (Pfalzgalerie, Kaiserslautern).
potere temporale non solo doveva proteggere quello ecclesiastico, ma anche sottomettersi alle sue norme. Nella pratica, questo significò che Ginevra passò a essere governata da un senato di teologi e anziani con poteri plenipotenziari. D’altro lato, la morale individuale fu considerata come condizione indispensabile per il buon funzionamento dell’ordine sociale. Per questo, i poteri pubblici dovevano avere la facoltà di giudicare le condotte personali dei cittadini. Per organizzare il suo governo, Calvino fondò nell’anno 1559, con la collaborazione del suo luogotenente Théodore de Bèze, la Scuola Teologica, che con il tempo divenne il vivaio dei futuri predicatori, che da Ginevra diffusero la sua dottrina in tutta Europa. Di quale dottrina si trattava? Sul piano teorico, Calvino stabilì alcune differenze sostanziali con Lutero. Prima di tutto, difese l’idea che la corruzione assoluta dell’essere umano giustificasse l’esistenza di un controllo ferreo da parte delle autorità pubbliche. La distinzione tra potere temporale e spirituale era così eliminata. Di fatto, la prova più lampante della predilezione
per determinati individui era il successo nelle questioni temporali, che alcuni arrivarono a interpretare come il successo negli affari. La pratica religiosa, d’altro lato, non aveva più quella dimensione principalmente individuale che gli aveva dato Lutero, ma divenne una questione sociale, poiché la condotta riprovevole di alcuni si ripercuoteva negativamente su tutta la comunità. Calvino incarnò il modello dei riformatori di seconda generazione, quando la passione iniziale iniziò a lasciare il posto a un atteggiamento freddo e razionale. A differenza di Lutero, fu anche un pensatore religioso, un ferreo organizzatore, pertanto le sue idee trovarono una struttura molto più solida su cui appoggiarsi.
Scozia: il Presbiterianesimo Alla vigilia della Riforma, la Scozia presentava un panorama religioso molto simile a quello di altri luoghi d’Europa: una devozione popolare, profonda e non controllata, un Umanesimo cristiano di alto spessore e innumerevoli abusi da parte della gerarchia ecclesiastica. Per cercare di met-
tere in qualche modo un freno a questa situazione, tra il 1450 e il 1550 la Chiesa cattolica avviò un ambizioso programma educativo e assistenziale: si crearono 14 collegiate con una scuola annessa e una dozzina di ospedali per i più indifesi. L’università di Saint Andrew continuò a dare segni di vitalità con l’edificazione di nuovi centri di docenza. Alcuni vescovi, come quello di Aberdeen, William Elphinstone, sono noti per aver condotto una vita austera ed esemplare. Ma, purtroppo, questa non era la tendenza dominante. L’arcivescovo James Beaton ebbe nove figli e il vescovo di Moray, Patrick Hepburn, ne ebbe 10; e tutti con madri diverse. D’altra parte, mettendo i loro protetti al fronte delle principali abbazie del Paese, i re del casato degli Stuart contribuirono in modo decisivo ad accelerare la decadenza della Chiesa. In questa situazione molti fedeli ebbero buoni motivi per sentirsi abbandonati. Delle poco più di 850 parrocchie scozzesi, 600 erano occupate da sostituti sacerdoti, che spesso erano poco istruiti e conducevano una vita poco esemplare. 97
IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA
La tragica vita di Maria Stuart, regina di Scozia La morte improvvisa del padre Giacomo V rese Maria regina di Scozia quando aveva appena sei giorni di vita. Fu incoronata pochi mesi più tardi: il suo regno fu segnato dai conflitti tra i sostenitori di Roma e quelli della Riforma. La Scozia di Maria Stuart era un territorio situato alla periferia dell’Europa, povero, arretrato e, inoltre, sotto la minaccia costante di invasione del suo potente vicino del sud, l’Inghilterra. Non stupisce, quindi, che cercasse l’alleanza della Francia e fu così che, a soli cinque anni, Maria si spostò nel regno gallo come promessa del delfino Francesco. Il matrimonio fu celebrato nel 1558 e un anno dopo la morte di Enrico II trasformò la giovane coppia in reali. Ma per poco tempo: nel dicembre del 1560, Maria rimase vedova e ritornò in una Scozia che trovò divisa dalla questione religiosa. Obbligata sia dalla mancanza di mezzi economici e militari sia dal fatto che una fazione della sua stessa famiglia era protestante, la cattolica Maria optò per un atteggiamento tollerante. Nonostante questo, nel 1567 fu costretta ad abdicare in favore di suo figlio Giacomo. Un anno dopo riuscì a scappare in Inghilterra, ma fu imprigionata dalla cugina Elisabetta I, che nel 1587 la fece decapitare. Nell’immagine, miniatura di Maria Stuart, di W. Bone.
JOHN KNOX (15051572). Ritratto del leader
riformatore scozzese; incisione a colori contemporanea (collezione privata).
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Il primo martire protestante scozzese, Patrick Hamilton, fu giustiziato tra penose sofferenze nel 1528. Ma dopo l’intransigenza iniziale, le cose cambiarono con la salita al trono di Giacomo V Stuart, che permise alle idee riformate di raggiungere il grande pubblico e diede il suo appoggio agli scritti contro il clero e le cerimonie cattoliche di George Buchanan, uno dei più prestigiosi umanisti del Paese. La figlia di Giacomo, Maria Stuart, era ancora molto giovane quando ereditò il trono. La reggenza ricadde sul conte di Arran, che autorizzò la Bibbia inglese di Enrico VIII e imprigionò il cardinale Beaton, anche se, poco dopo, i due si allearono per combattere gli eretici inglesi che nel maggio del 1544 incendiarono Edimburgo. Uno dei principali capi calvinisti in Scozia, il sacerdote e nobile George Wishart, fu mandato al rogo nel marzo del 1546. «Era un uomo cortese, umile, amabile, desideroso di insegnare e di imparare», scrisse uno dei suoi seguaci. Ma, come un nuovo Savonarola di Scozia, predicò nelle città e nelle campagne contro «i
serpenti di Satana», che ingannavano le anime. Per vendetta, Beaton fu assassinato poche settimane dopo e scoppiò una violenta rivolta. Il testimone di Wishart fu raccolto da John Knox, che, con il tempo, divenne il simbolo della Riforma in Scozia. Da sacerdote cattolico aveva letto sant’Agostino, che lo aveva allontanato dalle dottrine scolastiche dominanti nella Chiesa romana. Durante la rivolta successiva alla condanna del suo maestro, fu catturato dall’esercito francese, che era giunto in aiuto dei cattolici scozzesi, e mandato alle galee. Fu liberato a condizione di non fare ritorno in Scozia; si trasferì quindi prima in Inghilterra, dove partecipò attivamente alla resistenza alla regina Maria Tudor, poi a Ginevra e, infine, a Francoforte, dove si riunì con un gruppo di esiliati inglesi. Dopo un tentativo fallito di tornare in Scozia, andò nuovamente a Ginevra, dove strinse amicizia con Calvino, al cui lato figura oggi nel monumento in onore dei riformatori eretto nei pressi del lago Leman. Nel frattempo, i Protestanti scozzesi, guidati ora da un gruppo di nobili, adottarono il Prayer
Book inglese, fecero pressione sulla corona per ottenere la libertà di culto e organizzarono l’occupazione dei beni della Chiesa cattolica da parte dei poveri. Chiamato dai suoi compatrioti, Knox tornò in Scozia nel 1559. Nei mesi successivi, molti altari furono distrutti dalla folla e i conventi dei principali ordini religiosi – soprattutto francescani, domenicani e certosini – furono saccheggiati. Il parlamento adottò una professione di fede redatta da Knox. Era direttamente ispirata all’Institutio di Calvino, anche se mitigava l’enfasi sulla dottrina della predestinazione. Il passo successivo fu l’abolizione della giurisdizione papale in Scozia. Nel dicembre del 1560 si creò l’Assemblea Generale della Chiesa riformata scozzese, indipendente dal parlamento. La sua prima decisione fu la pubblicazione di un Libro di disciplina che organizzò la vita ecclesiastica del Paese. La funzione dei vescovi fu soppressa e si creò un corpo di ministri eletto direttamente dal popolo. Su questo punto, Knox si separò apertamente da Calvino che, poco incline a velleità democrati-
che, aveva rifiutato espressamente l’elezione dei pastori da parte dei fedeli. Il suo riferimento principale furono i primi scritti di Lutero e la Confessione francese redatta pochi mesi prima. Un’altra delle decisioni dell’Assemblea fu la creazione di un sistema d’insegnamento che comprendeva tutti i livelli, dall’educazione elementare fino all’università. Nel 1568, la regina Maria Stuart si vide costretta ad abbandonare la Scozia lasciando campo libero perché la nuova confessione, che fu presto conosciuta come Presbiterianesimo, mettesse radici.
La Chiesa anglicana in Inghilterra Il re Enrico VIII aveva sciolto i suoi legami con Roma al fine di preservare l’indipendenza della corona d’Inghilterra. Ma non si può affermare con certezza che abbia centrato il suo obiettivo. Gli succedettero tre dei suoi figli: Edoardo, nato dal matrimonio con la sua terza moglie Jane Seymour, Maria, figlia di Caterina d’Aragona e, infine, Elisabetta, avuta con Anna Bolena. Dopo di loro, la dinastia Tudor si estinse.
PALAZZO DI HOLYROOD. Situato a
Edimburgo, la capitale della Scozia, fu la residenza dei suoi reali dalla fine del XV secolo e il luogo in cui erano incoronati e dove riposano i resti di alcuni di loro. Perse il suo ruolo quando Giacomo VI, figlio di Maria Stuart, salì al trono d’Inghilterra nel 1603, anche se è stato frequentato da tutti i sovrani d’Inghilterra fino a oggi.
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IL LUNGO REGNO DI FILIPPO II, IL RE PRUDENTE 1527
Il principe. Figlio dell’imperatore Carlo V e di Isabella del Portogallo, il futuro Filippo II nasce a Valladolid il 21 maggio. 1554
Re consorte. Il matrimonio con la cugina di secondo grado Maria I Tudor rende Filippo, allora re di Napoli, re consorte d’Inghilterra. 1556
Re di Spagna. Filippo sale al trono spagnolo dopo l’abdicazione del padre. Nel 1560 fa di Madrid la capitale del regno. 1557
San Quintino. I tercios delle Fiandre sconfiggono l’esercito francese a San Quintino. Per festeggiare, Filippo ordina di costruire El Escorial. 1588
L’Invincibile. L’Invincibile Armata salpa per conquistare l’Inghilterra. L’azione congiunta della flotta inglese e delle tempeste ne decreta il fallimento. 1598
La fine di un re. Filippo II muore nella sua residenza di El Escorial il 13 settembre. Suo figlio Filippo III eredita un regno stremato e in decadenza.
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Sicuramente di questa sua decisione beneficiarono tutti quelli che videro crescere le loro fortune ottenendo i beni espropriati agli ordini religiosi. Furono coloro che mossero mari e monti per far sì che Edoardo VI, che era un bambino di appena dieci anni quando salì al trono, confermasse i loro privilegi e cercarono di evitare in tutti i modi l’incoronazione di Maria, una fervente cattolica, che minacciava di toglierglieli. Ottennero in pieno il primo risultato, ma non il secondo. Il nome di Maria Tudor è rimasto associato nella memoria degli Inglesi al soprannome di “sanguinaria”. Non lo fu più del padre e della sorellastra Elisabetta. Era traumatizzata dal modo spietato in cui l’avevano trattata quando era piccola. Cercò alleanze e commise il grande errore di sposarsi con Filippo II, evento che suscitò preoccupazione, anche tra i suoi seguaci, sulla futura indipendenza del regno. Con l’aiuto del cardinale Reginald Pole, restituì l’Inghilterra all’obbedienza romana e perseguì duramente i suoi avversari, non solo religiosi, ma anche, e soprattutto, politici. Ma per conservare la corona si vide costretta a confermare il possedimento delle terre monastiche ai suoi nuovi proprietari. Visse con l’ossessione di generare un erede che avrebbe garantito la permanenza del regno all’interno della Chiesa cattolica. Ma non ci riuscì. A differenza del padre e, fino a un certo punto, della sua sorellastra Maria, la regina Elisabetta d’Inghilterra non era né una teologa né particolarmente religiosa. Di fatto, durante i primi anni del suo regno, tanto Roma da un lato quanto il re di Spagna, Filippo II, dall’altro, nutrirono delle speranze che, seguendo il cammino percorso dal padre negli ultimi anni della sua vita, sarebbero riusciti a tornare all’ovile. Lungi dal riuscirci, queste aspettative le diedero il tempo necessario per mettere in atto i suoi piani. Infatti, fu la vera e propria fondatrice della Chiesa anglicana, una soluzione intermedia tra il Cattolicesimo e il Calvinismo, che concepì prima di tutto utilizzando criteri politici. Infine, si rifiutò di riconoscere l’autorità del papa, vero e proprio cavallo di battaglia per i re d’Inghilterra, ma, al tempo stesso, provò scarsa simpatia per alcuni riformatori radicali sorti a Ginevra, come Foxe, Knox e Goodman, le cui idee si erano radicate in Scozia. Era una donna dell’ordine, molto affascinata dalla sua autorità che, al contrario di questi ultimi, preferiva dei vescovi con grandi competenze ma nominati da lei stessa che svolgessero il compito di reprimere abusi come quelli perpetrati dagli anabattisti. A questi vescovi chiese di prestare un nuovo giuramento di accettazione della supremazia della corona. Di fatto creò una nuova gerarchia che, dopo il divieto di Maria Tudor, accettò nuo-
La fine dei Tudor: Maria ed Elisabetta Le due figlie maggiori di Enrico VIII incarnano la divisione religiosa che si creò nella società inglese del XVI secolo tra due fazioni antagoniste: da un lato, quella cattolica di Maria, dall’altro, quella riformatrice anglicana di Elisabetta. Pur essendo sorelle dal lato paterno, Maria ed Elisabetta avevano ben poco in comune. La prima, figlia di Caterina d’Aragona, rimase fedele al Cattolicesimo della famiglia materna e fu sempre considerata l’erede legittima al trono d’Inghilterra da parte del papato e delle potenze cattoliche, Spagna e Francia. Elisabetta dunque fu vista come un’usurpatrice: era figlia di Anna Bolena, il cui matrimonio con Enrico VIII non fu mai riconosciuto dalla Chiesa. Né Maria né Elisabetta lasciarono una discendenza, pertanto alla fine prevalsero i diritti di Maria Stuart e il figlio di quest’ultima, Giacomo, ereditò il trono d’Inghilterra. La certezza che le cose sarebbero andate in questo modo fu la ragione per cui Elisabetta serbava tanto odio per la cugina di Scozia. Nell’immagine di sinistra, ritratto di Maria I realizzato da Antonio Moro (Museo del Prado, Madrid) e, a destra, ritratto di Elisabetta I di scuola inglese (Palazzo Pitti, Firenze).
vamente il matrimonio dei sacerdoti. Nonostante la loro stretta dipendenza dalla monarchia, molti dei prelati che erano stati cacciati o erano stati vittime di Maria e a cui ora venivano restituiti gli incarichi, dimostrarono un elevato spessore spirituale. Fu loro la redazione della famosa Bibbia dei vescovi, a partire dalla Grande Bibbia di Enrico VIII, anche se seguiva da vicino quella di Ginevra. Nel sinodo del 1563 definirono i famosi 39 Articoli che presto si trasformarono nella professione di fede della Chiesa ufficiale. Anche se l’aspetto del culto continuava a essere cattolico per molti versi, questi articoli erano di chiara ispirazione calvinista. In sostanza, affermavano che le Sacre Scritture erano l’unico fondamento per la fede e che la Chiesa romana aveva sbagliato nella loro interpretazione. Contro quanto sosteneva quest’ultima, i concili non potevano essere considerati infallibili, poiché al di sopra di essi c’era la parola divina. Il Purgatorio, il culto delle reliquie, le indulgenze o le immagini nei templi dovevano essere rifiutati, così come l’uso del latino nelle cerimonie religiose. Dei sette
sacramenti cattolici ne sarebbero rimasti due, la cui efficacia sarebbe dipesa dalla disposizione di chi li riceveva. La sua condizione di donna impedì a Elisabetta di assumere il titolo di “capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”, che aveva sfoggiato il padre. Così, nel 1559 si fece proclamare «governatore supremo del regno, tanto spiritualmente quanto materialmente». Il parlamento votò l’approvazione del Prayer Book del 1552, la reintroduzione dell’Atto di Supremazia e il ristabilimento della legislazione anticattolica del 1534. Abbandonata la speranza di un ritorno in seno a Roma, nel 1570 papa Pio V scomunicò Elisabetta e liberò i cattolici inglesi dal dovere di obbedire alla loro regina. Il provvedimento, in molti sensi anacronistico, non fece altro che aumentare l’antipapismo in Inghilterra. La vittoria del 1588 sull’Invincibile Armata confermò la rottura definitiva.
Filippo II e l’impresa d’Inghilterra Se si considera che, dopo la morte di Maria Tudor, si arrivò addirittura a pensare alla possibilità di un matrimonio tra Elisabetta e Filippo, è
normale che il rapporto tra i due monarchi non fece altro che peggiorare con il passare del tempo. Elisabetta interpretò sempre quella che considerava una politica aggressiva di espansione cattolica da parte di Filippo come una minaccia per la sua indipendenza. Dopo la pacificazione dello scenario centroeuropeo con il Trattato di Augusta del 1555, Filippo considerò l’Inghilterra come la principale minaccia per il recupero della religione cattolica in Europa. L’aiuto, nascosto ma efficace, offerto dalla regina d’Inghilterra ai Calvinisti in Francia e nei Paesi Bassi finì per convincerlo di questo. La rottura arrivò nel 1585, quando Filippo decretò l’embargo di navi inglesi nei porti spagnoli ed Elisabetta rispose con la stessa moneta. Le azioni di Francis Drake contro i galeoni spagnoli nelle acque dei Caraibi non fecero altro che peggiorare le cose. In questo clima di crescente disaccordo, Filippo e i suoi consiglieri pensarono al progetto che chiamarono “l’impresa d’Inghilterra”. La flotta spagnola, guidata dal suo ammi-
GIACOMO I STUART. Re d’Inghilterra e Irlanda dal 1603 al 1625, salì al trono di Scozia nel 1567, all’età di un anno. Acquerello di Nicholas Hilliard realizzato nel 1614 (Collezione Privata della Regina d’Inghilterra).
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IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA
Filippo II di Spagna, il sovrano sui cui territori non tramontava mai il sole La monarchia universale perseguita da Carlo V diventò una realtà con Filippo II. E in un senso che superava i limiti di un concetto che originariamente si riferiva al mondo europeo e cristiano, poiché i domini del sovrano si estesero in tutti i continenti e in tutti gli oceani. Le guerre in cui si vide coinvolto per sostenere questo impero finirono per dissanguare la corona castigliana. All’eredità ricevuta dal padre Carlo (Castiglia e Aragona, con tutti i territori in Italia che dipendevano da loro e i Paesi Bassi, senza dimenticare la conquista del Nuovo Mondo), Filippo II aggiunse nel 1580 il regno di Portogallo, una volta che alla morte senza discendenza di Sebastiano I fece valere i suoi diritti come figlio di Isabella del Portogallo. In questo modo, Filippo aggiunse alla sua corona non solo i territori lusiadi della Penisola, ma anche i suoi vasti possedimenti di oltremare. Prima, nel 1554, il suo matrimonio con Maria I Tudor lo aveva reso re consorte d’Inghilterra, anche se in questo caso le clausole matrimoniali stabilivano che, in caso di morte della regina prima del marito, quest’ultimo non avrebbe potuto reclamare il trono. Nell’immagine, Filippo II ritratto da Sánchez Coello (Museo Nacional de San Carlos, Messico).
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raglio principale, il marchese di Santa Cruz, sarebbe partita da Lisbona con destinazione Paesi Bassi, dove era previsto che si sarebbe unita alle truppe del governatore Alessandro Farnese per dirigersi da lì verso le coste inglesi. Il punto più debole del progetto era che in questa zona gli Spagnoli non controllavano nessun porto con il pescaggio necessario a favorire lo sbarco delle truppe. Il fattore sorpresa svanì, d’altro canto, come conseguenza dei lunghi preparativi. Quando l’armata spagnola, chiamata con presunzione “l’Invincibile”, si mise finalmente in marcia, il marchese di Santa Cruz era morto. Tuttavia, far ricadere tutta la responsabilità del fallimento dell’impresa, come si fece tempo dopo, sull’inesperienza del suo successore, il duca di Medina Sidonia, fu a ogni modo un’accusa ingiusta. Il piano faceva acqua da qualunque parte lo si guardasse. Dopo essere stata costretta a rifugiarsi inaspettatamente a La Coruña a causa del maltempo, la flotta, formata da 130 navi e quasi 30.000 uomini, riprese il viaggio verso il Canale della Manica, ormai nel pieno del mese di luglio. Troppo tardi per la navigazione nelle acque del nord. L’obiettivo di imbarcare le truppe di Farnese in mare aperto era un’imprudenza. Francis Drake e i ribelli olandesi, che bloccarono tutti i porti disponibili, si preoccuparono di renderlo impossibile. Agli inizi di agosto, gli Inglesi riuscirono a rompere la formazione della flotta spagnola, deviandone una parte verso il Mare del Nord, obbligandola a percorrere le coste settentrionali dell’Inghilterra e quelle occidentali dell’Irlanda. Le tempeste e la persecuzione delle guarnigioni costiere inglesi trasformarono il suo ritorno in Spagna in una delle esperienze più penose della storia navale. Alla fine di settembre tornava nella Penisola Iberica quello che era rimasto dell’Invincibile. Poca roba. Vedendo il risultato, il re di Spagna aveva buoni motivi per riflettere se quella era la strada più giusta per diffondere la religione cattolica. L’esperienza avuta nei Paesi Bassi sembrava offrirgli una risposta molto chiara, ma Filippo non sempre fu in grado di coglierla.
I Paesi Bassi Quando il messaggio di Lutero fece la sua comparsa sulla scena internazionale, pochi luoghi in Europa sembravano ben disposti ad accoglierlo tanto quanto le terre che avevano fatto parte del ducato di Borgogna. In questa regione attiva e colta, dove era nato Erasmo e dove si era sviluppata la congregazione dei Fratelli della Vita Comune, le idee provenienti dalla Germania ebbero un successo spettacolare. Già nel 1520, molte delle opere di Lutero erano state tradotte in olandese. Le folle si am-
massavano intorno ai predicatori che si facevano eco di questi scritti. Le autorità cattoliche reagirono velocemente e in modo goffo. L’università di Lovanio guidò la lotta contro l’eresia. L’imperatore Carlo V, che nei suoi territori patrimoniali si sentiva molto più sicuro che in Germania, non esitò a organizzare, nel 1522, un sistema repressivo sul modello dell’Inquisizione spagnola. Nel 1523, due agostiniani di Anversa furono giustiziati, accusati di Protestantesimo. La rapida comparsa di cellule anabattiste in queste terre favorì la demonizzazione delle dottrine riformate. Gli editti di persecuzione, i placards, pubblicati tra il 1529 e il 1540, furono draconiani. Verso la metà del XVI secolo, gli anabattisti, tanto violenti quanto pacifici, erano stati brutalmente estirpati e tutto faceva pensare che in questo modo l’espansione della Riforma fosse definitivamente sotto controllo. Fuori da Anversa, con il suo porto in costante espansione, e dalla regione di Tournai, le posizioni protestanti risultavano ancora molto deboli. Nel 1557 un osservatore si permise di affermare che, a giudicare dalla folla che la dome-
nica andava in chiesa, in nessun altro luogo del continente il Cattolicesimo era florido come nei Paesi Bassi. Un’osservazione sicuramente ben lontana dalla realtà. L’attenuarsi della repressione dopo il 1540 permise una rapida diffusione dei messaggi di Calvino e di Bullinger. Prima di diventare successore di Zwingli nella direzione della Chiesa Riformata di Zurigo, Heinrich Bullinger (1504-1575) era stato alunno dei certosini olandesi di Emmerich. Era un luterano convinto; le sue opere principali, Dekaden (“Decadi”, o “Libro di casa”) e Summa Christenlicher Religion (“Compendio sulla religione cristiana”), furono tradotte in fiammingo e riscossero un grande successo nei Paesi Bassi. Ma il suo temperamento conciliatore, più incline alla devozione che alla polemica, era insufficiente ad alimentare la “teologia combattiva”, che avrebbe istigato la resistenza al dominio degli Spagnoli nei decenni successivi. Arrivò, logicamente, da Calvino. Più che in qualsiasi altro luogo, il Calvinismo si trasformò qui in un rigoroso teocentrismo e in una dottrina della predestinazione.
SAN LORENZO DE EL ESCORIAL. Monastero,
palazzo e pantheon dei re di Spagna, El Escorial fu ideato da Filippo II per commemorare la vittoria di San Quintino. Dedicato a san Lorenzo e lasciato nelle mani dei monaci dell’ordine di san Girolamo, i suoi architetti furono Juan Bautista de Toledo, Giovanni Battista Castello, Il Bergamasco, e Juan de Herrera, che avrebbe assunto il ruolo di principale protagonista. Iniziati nel 1563, i lavori durarono per oltre due decenni. La sua architettura sobria segna la transizione dal plateresco rinascimentale spagnolo al classicismo più spoglio. 103
L’INVINCIBILE ARMATA E LA SUA DISFATTA
A
nche se la frase di Filippo II «Non ho mandato le mie navi a lottare contro gli elementi» è apocrifa, illustra molto bene il disincanto e la frustrazione che l’esito della campagna dell’Invincibile Armata, o Felicísima Armada, provocò nella corte spagnola. La morte del suo ammiraglio Álvaro de Bazán, marchese di Santa Cruz, e la sua sostituzione con Alonso Pérez de Guzmán, duca di Medina Sidonia, che non era un marinaio professionista, tinse di fatalità l’impresa di invadere l’Inghilterra prima che le navi andassero in mare. D’altro lato, la formazione stessa della flotta lasciava molto a desiderare. Solo 25 delle 130 navi erano vere e proprie navi da guerra, il resto erano navi da carico riconvertite, galeazze napoletane e imbarcazioni leggere. Gli Inglesi non si lasciarono neppure impressionare dal loro numero e attaccarono l’Invincibile fino a distruggerla. Le tempeste fecero il resto e segnarono la sorte di una flotta né invincibile né felicísima. Nell’immagine, anonimo di scuola fiamminga che rappresenta il disastro dell’armata spagnola (Musée du Petit Palais, Parigi).
LA GRANDE NEMICA DI FILIPPO II Se Carlo V trovò il suo grande rivale in Francesco I di Francia nella sua lotta per l’egemonia del mondo, il figlio Filippo II lo trovò nella cognata Elisabetta I d’Inghilterra. Eppure, i due erano sul punto di contrarre matrimonio alla morte di Maria, sposa del primo e sorellastra della seconda. Il progetto non fu portato a termine e a partire da quel momento la relazione tra i due non fece altro che peggiorare. L’appoggio di Elisabetta I ai ribelli olandesi e fiamminghi che lottavano per liberarsi dalla dominazione spagnola, la difesa della Riforma anglicana, con tutto ciò che questo comportava, cioè la distruzione del lavoro di riconversione al Cattolicesimo della sorella, l’imprigionamento della cattolica Maria Stuart, la sua esecuzione del 1587 e la persecuzione delle navi corsare inglesi contro gli interessi spagnoli nelle Indie furono alcune delle ragioni che portarono Filippo II a dare ascolto al progetto di invasione dell’Inghilterra. Solo così avrebbe potuto imporre la sua pace nel continente. Nell’immagine, smalto con il ritratto di Elisabetta I di Nicholas Hilliard (Victoria and Albert Museum, Londra).
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Rotta dell’Invincibile Armata (maggio-settembre 1588) Dispersione della flotta a causa dei temporali Naufragi
Isole Shetland
Isole Ebridi
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1
2 GRAVELINES. L’8 agosto, davanti alle coste di Gravelines, gli Inglesi lanciano barche in fiamme (brulotti) contro l’armata spagnola, che si ritira in un fuggi fuggi generale verso il Mare del Nord.
4 SCOZIA. Il 12 agosto la flotta inglese abbandona l’inseguimento. Ma il vento e le tempeste fanno naufragare molte navi dell’Invincibile Armata sulle coste della Scozia.
5 IRLANDA. Altre navi dell’Invincibile naufragano sulle coste della cattolica Irlanda. Come era successo in Scozia, i naufraghi in molti casi vengono uccisi dalle persone del luogo.
3
IL MAR DEL NORD.
Dopo il disastro di Gravelines, quello che resta dell’Invincibile inizia una ritirata confusa, non attraverso il Canale della Manica ma costeggiando le isole britanniche.
Edimburgo
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1 PLYMOUTH. La flotta inglese di Francis Drake approda in questo porto del sud dell’Inghilterra. Da lì ostacola l’Invincibile Armata quando questa vuole attraversare il Canale della Manica.
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IL RITORNO.
Durante i mesi di settembre e ottobre le navi della flotta iniziano ad arrivare nei porti del nord peninsulare. Nell’avventura, si persero circa 60 navi. 105
IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA
Confessione francese del 1559, ricevette l’avvallo di Calvino e di Théodore de Bèze, nonostante fosse più democratica delle ordinanze ecclesiastiche ginevrine, poiché, in modo simile a quella della Scozia, contemplava l’elezione dei ministri da parte di fedeli, anziani e diaconi. Alla fine del decennio del 1560, il Calvinismo si era consolidato nella regione industriale di Lille, Valenciennes e Tournai, così come sulla linea costiera, che metteva in comunicazione Anversa con la Frisia, a nord. Il primo sinodo delle Chiese riformate vallona e fiamminga adottò come propria la Confessio belgica. In questo periodo, il Protestantesimo era già fortemente radicato nei Paesi Bassi e si trovava in condizione di resistere agli assalti del duca di Alba.
L’intransigenza di Filippo II
IL DUCA DI ALBA E LA LEGGENDA NERA SPAGNOLA.
Fernando Álvarez de Toledo (1507-1582), terzo duca di Alba (ritratto di Tiziano, Palacio de Liria, Madrid), fu uno dei generali più brillanti del suo tempo, poiché si distinse nelle lotte contro i protestanti e vinse il Portogallo per Filippo II. Tuttavia, il suo nome è passato alla storia in relazione alla crudeltà con cui represse le sollevazioni nei Paesi Bassi nel 1567, dove creò il Tribunale dei Torbidi, che mandò al patibolo molti protestanti, tra cui il conte di Egmont. 106
Scontrandosi sia con i riformati virtuosi sia con gli anabattisti, il riformatore di Ginevra offrì ai suoi discepoli dell’Europa del nord una precisa linea di azione. Molti giovani di Brabante imboccarono il cammino verso le scuole di Ginevra per tornare anni dopo come missionari clandestini. Erano istruiti, disciplinati e attivi, e la loro predicazione contrastava chiaramente con quella del mediocre clero cattolico del XVI secolo. Il lavoro di propaganda nascosta si intensificò. Nonostante i placards, le Bibbie e altre opere riformate circolarono di nascosto nelle stive delle navi o tra i magazzini dei commercianti di tessuti. Intorno al 1555, Guido de Brès iniziò a predicare nella regione di Lille. Fu il vero e proprio organizzatore della chiesa calvinista nei Paesi Bassi. Dopo una permanenza a Ginevra, dove si rifugiò fuggendo dalla persecuzione, riprese il suo apostolato, ampliato attraverso un’intensa corrispondenza, da Anversa a Tournai. Fu egli il redattore principale di quella che fu conosciuta come Confessio belgica, pubblicata in vallone nel 1561 e in fiammingo nel 1562. Ampiamente ispirata alla
La fortuna del Protestantesimo in questa regione fu quella di coincidere con un conflitto politico tra il sovrano di Spagna e una nobiltà desiderosa di difendere le libertà tradizionali delle Diciassette Province. Nel 1558, il cardinale Gran-vela, consigliere politico principale della reg-gente Margherita di Parma, sorellastra del re Filippo II, decise di chiudere definitivamente gli Stati Generali, che si erano trasformati in una piattaforma per i dissidenti religiosi, sempre più rivali politici della dominazione spagnola. Questo provvedimento provocò la formazione di un nucleo di opposizione guidato dal conte di Egmont, dal conte di Horn e da Guglielmo di Nassau, principe d’Orange. Nell’anno 1560 ottennero la ritirata completa delle truppe spagnole e nel 1564 la deposizione del cardinale Granvela. Anche se la minaccia di una sollevazione calvinista era all’orizzonte, Guglielmo d’Orange si mostrò più ferreo nelle questioni politiche che in quelle religiose. La sua sembrava piuttosto una proposta di religione sincretista, che conciliasse aspetti del Cattolicesimo e del Calvinismo per accontentare tutti. Ma l’intransigenza del re Filippo II spinse i suoi seguaci verso posizioni sempre più radicali. Molti si videro costretti a lasciare il Paese, tra cui non pochi artigiani dell’industria tessile, il cui allontanamento minacciò di provocare un’ecatombe economica. Per evitarla, Margherita chiese a Filippo di moderare la sua repressione. Il monarca le rispose con le famose lettere da Segovia, redatte nel mese di ottobre dell’anno 1565: «Perderei tutti i miei Stati e cento vite se le avessi, perché non penso né voglio essere signore degli eretici […] e se non si può rimediare tutto come voglio io, senza venire alle armi, sono disposto a impugnarle». La risposta generò un clima di crescente inquietudine. Vari nobili, cattolici e protestanti, si unirono per chiedere la moderazione degli ordini
reali. Il loro atteggiamento implorante di fronte alla governatrice li rese meritevoli del soprannome dispregiativo di “pezzenti”. Così, il 13 giugno 1566, giorno della festività del Corpus Christi, i riformati cercarono di impossessarsi della cattedrale di Anversa. Ad agosto scoppiò la furia iconoclasta. Cominciò in Vallonia, particolarmente colpita dall’espulsione degli artigiani, e da lì avanzò verso Gand e Anversa per lanciarsi in Olanda, Zelanda e Frisia. Centinaia di chiese furono saccheggiate e le loro immagini, considerate una manifestazione di idolatria pagana, furono oggetto di distruzione. Gli eccessi dei protestanti produssero un cambiamento nell’opinione pubblica, specialmente nelle regioni centrali delle Fiandre e di Brabante. Questo permise a Margherita di ristabilire l’ordine con la forza nelle città in cui i Calvinisti si erano impossessati del potere: Utrecht, Maastricht, Tournai e Valenciennes. Lo stesso Guglielmo d’Orange, chiamato il Taciturno, impedì che assumessero il controllo di Anversa. Molti dovettero fuggire, in particolare in Germania e Inghilterra.
Ristabilita la calma, la governatrice cercò di ricostruire la convivenza. Il suo piano era convocare gli Stati Generali, abolire l’Inquisizione e moderare il rigore delle punizioni. Quando lo seppe, Filippo II la destituì. Al suo posto fu nominato Fernando Álvarez de Toledo, terzo duca di Alba. Il nuovo governatore andò fin nei Paesi Bassi al fronte di un impressionante esercito che impiegò un anno per spostarsi, una dimostrazione della potenza spagnola. Il duca di Alba arrivò a Bruxelles il 28 agosto 1567 e il 5 settembre istituì il tribunale dei Torbidi. Più tardi gli Olandesi lo battezzarono come il “tribunale di sangue”. Tre giorni dopo convocò i principali leader del malcontento con la scusa di informarli degli ordini del re. Era la trappola per fermare i conti di Egmont e Horn, che nonostante la loro discordanza con la linea adottata da Filippo II avevano prestato dei preziosi servizi alla corona spagnola. Il 5 giugno dell’anno successivo sarebbero stati decapitati nella Grande Place di Bruxelles. Guglielmo d’Orange riuscì a scappare rifugiandosi in Germania. La caccia agli avversari religiosi e ai nemici politici risultò impla-
ICONOCLASTIA.
Il rifiuto di Filippo II di attenuare le punizioni verso gli eretici fu la goccia che fece traboccare il vaso. Interpretando alcuni passaggi dell’Antico Testamento, i predicatori calvinisti incoraggiarono i loro fedeli a distruggere le immagini delle chiese considerate come un esempio di idolatria pagana. Nell’agosto del 1566, scoppiò la furia iconoclasta, che iniziò in Vallonia, a Gand e Anversa per passare poi in Olanda, Zelanda e Frisia. Centinaia di chiese furono saccheggiate e le loro immagini distrutte. Incisione di un episodio di iconoclastia ad Anversa (Biblioteca Nazionale, Parigi). 107
IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA
I tercios delle Fiandre, l’esercito d’élite La posizione egemonica della Spagna durante il XVI secolo fu sostenuta in gran parte dall’efficacia dei tercios, considerati il primo esercito moderno d’Europa. Fino al 19 maggio 1643, quando la cavalleria francese li sconfisse a Rocroi, i tercios furono il corpo di combattimento più temuto sulla scena europea. Le sue origini vanno cercate un secolo prima, nel 1534, quando Carlo V decise di creare un esercito in grado di cavarsela bene nei numerosi campi di battaglia in cui difendeva il suo ideale di monarchia universale. E ci riuscì. Da Napoli e Milano fino in Germania e nei Paesi Bassi (dove i loro successi iniziarono a renderli famosi come i “tercios delle Fiandre”), i tercios si guadagnarono la fama di invincibili, grazie alle loro tattiche innovative di combattimento, basate sulla superiorità della fanteria e su una disciplina che permetteva di muovere e raggruppare i soldati in blocchi geometrici che respingevano facilmente gli attacchi della cavalleria. Ma non furono solo gesta: il saccheggio di Anversa del 1576 e altri vandalismi compiuti nelle Fiandre alimentarono la loro leggenda nera. Il tramonto arrivò intorno alla metà del XVII secolo, insieme alla decadenza della corona spagnola. Nell’immagine, l’assedio di Maastricht da parte dei tercios di Alessandro Farnese (Monastero di San Lorenzo de El Escorial, Madrid).
GUGLIELMO I D’ORANGE. Membro
del casato di Nassau, fu governatore di Olanda, Zelanda e Utrecht. Statua di bronzo realizzata nel 1900 ed eretta a L’Aia.
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MAESTRE DE CAMPO Ufficiale di 10/12 compagnie
Sergente maggiore
Furriel maggiore
Cappellano maggiore
Colonnellia 4 compagnie
Aiutante di campo
Capitano 1 compagnia
Pifaro e tamburino maggiore
Alfiere (portabandiera)
Sergente Cappellano 10 capi squadra
250/300 soldati
150 picchieri
100 archibugeri
40 coseletes
Furriel Tamburino e pifaro
Altro personale
Curanderos o barbieri
L’ORGANIZZAZIONE DEI TERCIOS. Anche se la loro composizione variò nel corso della storia, in
generale i tercios erano divisi in 10 o 12 compagnie o battaglioni di 250 o 300 uomini, di cui otto erano di picchieri e due di archibugieri, anche se in realtà tutti avevano picche, archibugi e moschetti. Quattro di queste compagnie formavano un gruppo più grande, una colonnellia. Per quanto riguarda gli ordini, il tercio era comandato da maestre de campo, mentre ogni compagnia era comandata da un capitano, seguito nella gerarchia da un alfiere che faceva da portabandiera, un sergente incaricato della disciplina e dieci capi al fronte di gruppi di 25 o 30 uomini.
cabile nei mesi successivi. Tutto faceva presagire una repressione rapida della sollevazione. Ma si trattava di una pura illusione. Dal suo rifugio in Germania, il principe d’Orange finanziò e organizzò le forze anti-spagnole. Nel mese di aprile del 1572, i “Pezzenti del Mare” sbarcarono al porto di Brielle, vicino a Rotterdam. Immediatamente si sollevarono Olanda e Zelanda. Occuparono la città di Flessinga e minacciarono il commercio di Anversa mentre gli ugonotti francesi si impadronivano di Mons e Valenciennes a sud. Né il duca di Alba né i suoi successori, don Luis de Requesens prima e don Juan de Austria dopo, riuscirono a piegare la resistenza dei protestanti. Ma nemmeno Guglielmo d’Orange fu in grado di riunire le Diciassette Province sotto una stessa bandiera. Tuttavia fu sul punto di ottenerlo, dopo il terribile saccheggio di Anversa da parte delle truppe spagnole il 4 novembre 1576. Ma la pacificazione di Gand, firmata poche settimane dopo, riuscì a ricomporre, seppur per un breve periodo, l’unità del Paese. I suoi firmatari chiesero al monarca spagnolo la ritirata
completa dei tercios; il Cattolicesimo e il Calvinismo ricevevano piena libertà di culto nelle regioni in cui una delle due confessioni era quella preponderante. Ma i tumulti avevano alterato profondamente gli spiriti. I calvinisti si impadronirono del potere a Gand, Bruges e Ypres. Guglielmo d’Orange cercò di contribuire alla pacificazione invitando gli Stati Generali a proclamare nel 1579 la Pace Religiosa. In una città si sarebbe potuto celebrare il culto protestante a patto che ne facessero richiesta almeno cento coppie di sposi per oltre un anno. Non funzionò. Ad Anversa, i protestanti iniziarono a parlare di un’organizzazione militare che permetteva loro di difendere i propri diritti. I nobili cattolici reagirono costituendo l’Unione di Arras. Nonostante molti di loro non accettassero i metodi di Filippo II, grazie alla mediazione di Alessandro Farnese, figlio di Margherita di Parma, che nel 1578 aveva sostituito il duca di Alba come governatore, raggiunsero un accordo con il re. In risposta, i calvinisti si organizzarono nella cosiddetta Unione di Utrecht.
Il Paese camminava a passi lunghi verso la divisione, con i cattolici a sud e i protestanti a nord. Questo avvenne nel mese di luglio del 1581, quando i confederati calvinisti proclamarono a L’Aia la rivolta contro Filippo II e costituirono la Repubblica delle Province Unite. Ma tra il 1581 e il 1582, Alessandro Farnese ottenne dei celebri trionfi militari, che facevano presagire una vita breve per la repubblica e che culminarono con il suo ingresso trionfale ad Anversa nell’agosto del 1585. Guglielmo d’Orange era stato ucciso l’anno precedente e le prospettive si mostravano del tutto favorevoli ai cattolici. Ma Filippo II commise un errore tattico madornale disperdendo le sue forze. Farnese fu incaricato di appoggiare l’impresa assurda dell’Invincibile Armata oltre che di aiutare i cattolici francesi: troppa fatica, cadde in disgrazia e morì nel 1592. Sicuramente Filippo aveva dei buoni motivi per cercare di dare una lezione alla sovrana inglese. Tra il 1585 e il 1587, quando la situazione era più disperata per i calvinisti olandesi, Elisabetta I, che da tempo ostacolava i rifornimenti
spagnoli nelle acque dei Caraibi, mandò anche delle truppe a sostegno delle Province Unite. Maurizio di Nassau, figlio e successore di Guglielmo d’Orange, approfittò degli errori di Filippo II per riorganizzare le sue forze, creare un corpo di ingegneri e addestrare la fanteria. Occupò Breda nell’anno 1590 e Nimega, Zutphen, Deventer e Hulst nel 1591. Nel 1598, quando la sua morte sembrava ormai imminente, un Filippo II consapevole del suo fallimento prese la decisione di cedere alla figlia maggiore Isabella Clara Eugenia, sposata con l’arciduca Alberto d’Austria, figlio dell’imperatore Massimiliano II, il governo dei Paesi Bassi. O la parte che rimaneva ancora sotto il controllo degli Spagnoli, cioè Belgio e Lussemburgo. Il piano prevedeva che gli arciduchi, come furono solitamente conosciuti, avrebbero governato il territorio con un ampio margine di autonomia, di modo che i loro eredi potessero arrivare a farlo come governanti di un Paese indipendente. Contro ogni previsione, gli arciduchi ottennero un successo notevole nella loro missione. 109
La corte degli arciduchi a Bruxelles La missione che Filippo II affidò alla figlia Isabella Clara Eugenia e al marito, l’arciduca Alberto d’Austria, non era facile: far dimenticare l’immagine intransigente della corona spagnola nelle Fiandre e la sanguinosa repressione scatenata dal duca di Alba nel suo governo. A quanto pare, raggiunsero l’obiettivo. Da quando nell’anno 1599 fecero il loro ingresso come principi sovrani nei Paesi Bassi spagnoli, gli arciduchi si sforzarono di tendere ponti con la popolazione locale. Così, le élite e la nobiltà fiamminghe furono comprese nel circolo cortigiano mentre Isabella e Alberto approfittavano delle feste e delle celebrazioni per mostrare la loro vicinanza alla popolazione. Tutto questo si tradusse in un periodo di pace che favorì lo sviluppo delle arti, con incarichi ad artisti fiamminghi come Rubens o Jan Brueghel. Non sorprende quindi che il cardinale Bentivoglio, nunzio nelle Fiandre, dicesse della corte di Bruxelles, paragonandola a quella di Madrid, che era «più allegra, più piacevole, a causa di una maggiore libertà del Paese e della presenza di un incrocio di nazioni». Nell’immagine, Banchetto nuziale presieduto dagli arciduchi di Jan Brueghel (Museo del Prado, Madrid).
Sostituirono la forza con la persuasione e si circondarono di alcuni dei migliori artisti del momento per creare a Bruxelles un corte festosa, che per molti aspetti ricordava l’antico splendore del ducato di Borgogna. Ma i progetti furono interrotti dalla morte senza eredi degli arciduchi e i loro territori ritornarono sotto il controllo spagnolo. Dopo un periodo di tregua con gli Olandesi tra il 1609 e il 1621, che coincise con il regno di Filippo III e la protezione del duca di Lerma, i suoi successori, Filippo IV e il conte-duca di Olivares, decisero di tornare nuovamente alla carica. La tregua con gli Olandesi, pensarono, era servita solamente perché questi si riorganizzassero e, inoltre, minacciassero con sfrontatezza le posizioni commerciali spagnole nell’Atlantico. Era necessario recuperare la “reputazione”, parola magica in bocca al duca di Olivares. I tercios furono nuovamente inviati, e in quantità molto superiore, ai campi di battaglia del nord. Nonostante alcune clamorose vittorie, come quella che nel 1625 ottenne a Breda il generale genovese al servizio degli Spagnoli, Ambrogio Spinola, immorta110
lata da Velázquez, non c’è dubbio che la cosiddetta guerra delle Fiandre si trasformò in un incubo terribile. Nel 1648, il re di Spagna si arrese e non ebbe altra soluzione che riconoscere l’indipendenza dello Stato calvinista olandese. Per otto decenni, la monarchia spagnola impiegò tutte le sue forze per ristabilire il Cattolicesimo in queste prospere regioni dell’Europa del nord. Ci riuscì in Belgio, ma fallì clamorosamente in Olanda. Le Province Unite non solo si spostarono completamente dalla parte calvinista, ma ottennero anche la loro indipendenza e, con il tempo, si trasformarono in grandi rivali della Spagna per il dominio coloniale.
Gli ugonotti in Francia Probabilmente, se i vescovi francesi avessero adottato i metodi di Guillaume Briçonnet, la diffusione delle idee luterane avrebbe incontrato una maggiore resistenza. Conservando una stretta ortodossia, il vescovo di Meaux concentrò la sua attenzione sulla figura di Cristo, introdusse il francese nella liturgia e distribuì tra i suoi fedeli delle
traduzioni della Bibbia. Aiutato dal suo vicario generale, l’umanista Lefèvre d’Étaples, inviò le sue milizie nelle città in cui passava la corte a predicare il ritorno al Vangelo. Ma l’ostilità del parlamento di Parigi (un tribunale di giustizia con forti prerogative nel governo del regno), le assenze frequenti di Francesco I e l’allontanamento della sua principale protettrice, Margherita d’Angoulême, che nel 1527 era diventata regina di Navarra, misero fine alla sua esperienza. I diversi concili provinciali che si tennero negli anni successivi rifiutarono l’esempio di Briçonnet e, anche se cercarono di limitare le «preghiere inutili», si opposero alla diffusione delle Sacre Scritture tra tutti i fedeli. Come successe in Scozia, la Chiesa in Francia lasciò inconcluso il compito di rinnovamento che molti reclamavano e questo lastricò il cammino verso la rapida diffusione delle idee di Lutero. «Non ci sono libri che sino acquistati in Francia con maggiore avidità di quelli di Lutero», scrisse uno dei fedeli di Zwingli. Nell’anno 1525, “la peste luterana” era riuscita a penetrare in molte città francesi nonostante gli sforzi realizzati dal
parlamento di Parigi. A Bordeaux, a Lione, a La Rochelle o a Tolosa, ricchi e poveri, intellettuali e gentiluomini, borghesi e sacerdoti aderirono alla Riforma. Nel 1528 furono mutilate alcune immagini nella capitale. Calvino non fu l’unico a essere costretto ad abbandonare il Paese a causa delle sue idee, molti altri suoi compatrioti cercarono rifugio nella vicina Confederazione Elvetica. All’inizio, i gruppi eretici furono soprattutto seguaci di Lutero della prima fase, precedente al 1525, quando insisteva sul dialogo interiore dell’anima con Dio e disprezzava l’organizzazione esterna della Chiesa. Si trattava di comunità di devoti, senza quasi un’organizzazione né una relazione tra di esse. Nei loro incontri si leggevano con grande fervore le Sacre Scritture e si parlava appena dei sacramenti. Questi primi riformatori francesi ottennero di più con il loro esempio che con la loro propaganda. A causa della loro condizione semiclandestina, continuavano a partecipare alle cerimonie cattoliche e ricevevano i sacramenti. Ma Calvino vegliava su di loro da Ginevra. Bisognava evitare, pensava il riformatore, che la disgregazione sfociasse in anarchia. In gran misura, la Institutio, indirizzata espressamente al re Francesco I, fu scritta pensando a loro. I primi gruppi organizzati secondo le idee giunte da Ginevra apparvero in città piccole, come SainteFoy, Aubigny, Meaux, Tours o Pau, dove il controllo della giustizia era meno rigido. A partire dal 1555 iniziarono ad arrivare pastori da Ginevra per assumere la direzione di queste e altre comunità che si stavano organizzando in città più grosse. Il flusso di persone fu molto abbondante. Secondo il rapporto di uno di questi, alla fine del 1561 lavoravano in Francia 670 pastori riformati. La ferrea disciplina di Ginevra, tuttavia, non fu ben accolta da tutti. Un buon numero sentì la mancanza della libertà degli anni precedenti. I sostenitori di Calvino non esitarono a definirli anabattisti e libertini. La prima assemblea dei riformati francesi, tenutasi a Poitiers nell’anno 1557, decise di punire duramente coloro che alteravano l’ordine ginevrino. Il sinodo nazionale francese svoltosi a Parigi nel 1559 con una forte presenza di nobili, fece pressione al re per l’approvazione di una Confessione riformata strettamente francese. Il testo risultante ebbe un ruolo decisivo nello sviluppo successivo del protestantesimo, non solo francese. Il suo contenuto si allontanava in alcuni punti dalle formule di Ginevra. Contro quello che Calvino propugnava, si accettò la pratica nella clandestinità come un rimedio inevitabile in un paese in cui la struttura
FILIPPO III DI SPAGNA.
Durante il regno di Filippo III, i Paesi Bassi continuavano a far parte della corona spagnola. Ma la stanchezza che seguì tanti anni di guerra portò alla firma della Tregua dei Dodici Anni con le Province Unite, che fu sottoscritta nel 1609 e che comportò l’indipendenza de facto per gli Olandesi e l’inizio della loro espansione commerciale in India. Nell’immagine, statua equestre del monarca conservata al Museo del Prado di Madrid.
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IL CONSOLIDAMENTO DELLA RIFORMA
Caterina de’ Medici, regina e governatrice di Francia La morte del marito, Enrico II, e del figlio primogenito, Francesco II, trasformò l’italiana Caterina de’ Medici nella reggente di Francia durante la minor età dell’altro suo figlio, Carlo IX. Come tale, la sua partecipazione fu decisiva nelle lotte che opposero cattolici e protestanti, e che culminarono con la strage di san Bartolomeo del 1572. I genitori di Caterina, Lorenzo II de’ Medici e Maddalena de La Tour d’Auvergne, avevano sigillato con il loro matrimonio un’alleanza tra la Francia, Firenze e una Roma in cui regnava un papa mediceo, Leone X. Tutto questo allo scopo di combattere il Sacro romano impero germanico. Anche lei avrebbe fatto parte di un’alleanza simile: nel 1533, Francesco I e un altro papa Medici, Clemente VII, formalizzarono una nuova alleanza che comprendeva il matrimonio del primogenito del re, Enrico, con Caterina. Nessuno allora sospettava del ruolo che avrebbe avuto la giovane nel destino della Francia. La morte del suocero nel 1547 la rese regina e anche se il marito e il suo primogenito Francesco II le impedirono di intervenire in politica, seppe aspettare il suo momento. Quest’ultimo arrivò con l’ascesa al trono di Carlo IX nel 1560. Come reggente, Caterina iniziò a partecipare agli intrighi di un regno diviso dalla questione religiosa. E lo stesso fece all’inizio del regno del suo terzo figlio, Enrico III. Quest’ultimo sarebbe sopravvissuto solo pochi mesi alla madre, morta il 5 gennaio 1589: il 2 agosto il suo assassinio mise fine alla dinastia dei Valois. Nell’immagine, ritratto di Caterina de’ Medici, di autore anonimo (Palazzo Pitti, Firenze).
del potere continuava a essere prevalentemente in mani cattoliche. I ministri sarebbero stati eletti da un concistoro di notabili, ma i fedeli avrebbero potuto esercitare il diritto di veto. Anche se le diverse comunità avrebbero avuto un ampio margine di autonomia, nessuna avrebbe potuto prendere l’iniziativa su questioni fondamentali senza l’approvazione delle altre riunite in sinodi provinciali. Anche se il riformatore di Ginevra non mostrò mai grande entusiasmo per quella che considerava un’indipendenza eccessiva dei suoi compatrioti, sicuramente, nei contenuti, la strada imboccata dal Protestantesimo francese fu calvinista. Di fronte a questa avanzata inarrestabile dei riformatori, ben poco poté fare una corona sempre più debole. Lo sfortunato incidente che nel 1559 mise fine alla vita del re Enrico II, primogenito di Francesco I, lasciò come reggente la moglie, l’italiana Caterina de’ Medici. Sin dal primo momento, quest’ultima fece degli sforzi disperati per evitare una rottura tra riformati e cattolici dalle conseguenze imprevedibili, non solo per la convivenza pacifica tra i Francesi ma anche per 112
l’autorità stessa della monarchia. Il colloquio avuto a Poissy nel 1561, alla presenza della reggente e di Théodore de Bèze, cercò di avvicinare le posizioni. L’inviato di Calvino si mostrò persuasivo sulle forme ma implacabile sui contenuti. «Ha bestemmiato» si lamentò il cardinale di Lorena quando Bèze affermò che «il corpo di Cristo è lontano dal pane e dal vino come la terra del più alto dei cieli». Il generale dei Gesuiti, lo spagnolo Diego Laínez, fece appello alle decisioni del Concilio di Trento, riunito in quello stesso periodo, e minacciò con la scomunica coloro che avessero continuato a partecipare a quel dialogo di «scimmie e volponi». La speranza dei cattolici fu che le differenze interne tra i riformati minassero la loro capacità di combattere. Non fu così. I sinodi riformati degli anni successivi adottarono delle misure efficaci contro la dissidenza, che sfociarono in una struttura religiosa sempre più compatta.
Le guerre francesi di religione Nel decennio del 1560, tutto faceva pensare che il Calvinismo avrebbe infine trionfato in Francia. Sicuramente non fu così, ma il prezzo che la corona fu costretta a pagare per evitare che succedesse fu un lungo e faticoso conflitto, che giunse quasi al punto di far saltare per aria persino l’esistenza stessa del Paese. Dopo le sue prime esitazioni iniziali, la corona infine simpatizzò apertamente per il Cattolicesimo. Influenzato dalla sorella Margherita di Angoulême, Francesco I aveva dimostrato una certa tolleranza per le nuove idee. Con l’ascesa al trono del figlio Enrico II (1547-1559), l’atteggiamento della corona verso il Protestantesimo si irrigidì. Quello stesso anno, il 1547, il parlamento di Parigi dettò oltre 500 sentenze contro gli eretici. Due anni più tardi, nel 1559, ordinò l’esecuzione senza giudizio previo dei protestanti ribelli o profughi. Tutti quelli che mostrarono la loro discordanza con questo provvedimento furono arrestati. La firma del Trattato di Cateau-Cambrésis, il mese di aprile del 1559, che metteva fine alle guerre contro gli Asburgo per il controllo dell’Italia, diede speranze a Enrico II per una maggiore concentrazione nella persecuzione della dissidenza religiosa. Ma una lancia gli attraversò l’elmo durante uno dei tornei organizzati per festeggiare la pace: gli perforò l’occhio e pochi giorni dopo il re morì. Suo figlio Francesco aveva appena sedici anni quando successe l’incidente. Era sposato con Maria Stuart, figlia del re di Scozia e di Maria di Guisa, appartenente alla famiglia dei Lorena, uno dei clan nobiliari più potenti e ultracattolici di Francia. La prospettiva che offriva il nuovo
regno allarmò i Calvinisti, i quali diedero il loro appoggio all’azione armata che stava preparando il principe di Condé. L’attacco al castello di Amboise – uno dei feudi della famiglia dei Valois – fu un fallimento. Condé abbandonò i suoi alleati e la repressione risultò feroce. La stessa regina madre, Caterina de’ Medici, mostrò la sua preoccupazione per l’influenza dei Guisa e optò per la moderazione. Negli Stati Generali celebrati a Orléans nel dicembre del 1561, il cancelliere Michel de l’Hospital, uno dei suoi principali consiglieri per le questioni religiose, pronunciò il suo famoso discorso: «Occorre d’ora innanzi che ci muniamo di virtù e di buoni costumi e che assaliamo i nemici con le armi della carità, della preghiera, della persuasione e della parola di Dio che sono più adatte a questo scontro […] poco vale la lama contro lo spirito […] Preghiamo incessantemente Dio per loro e facciamo tutto il possibile fintanto che vi sia una speranza di ricondurli sulla retta via e convertirli: la dolcezza otterrà più che il rigore. Eliminiamo questi termini diabolici, nomi di parte, di fazione
e di sedizione, luterani, ugonotti, papisti: non cambiamo il nome di cristiani». Era un programma senza dubbio non adatto a un clima di animi sempre più accesi. Il Protestantesimo guadagnava terreno giorno dopo giorno e si mostrava sempre più disinibito. Alla fine di agosto del 1561, la regina di Navarra, figlia di Margherita di Angoulême, che si era convertita al Protestantesimo, fu accolta a Parigi da 15.000 correligionari. Nel gennaio del 1562, Caterina de’ Medici fece pubblicare un editto secondo il quale si permetteva per la prima volta la celebrazione del culto riformato, a patto che si svolgesse al di fuori dalle mura delle città. I pastori che avrebbero prestato giuramento alle autorità sarebbero stati inoltre riconosciuti da queste ultime. Quella che doveva essere una misura di pacificazione fu, in realtà, l’innesco della guerra. Il Parlamento di Parigi si rifiutò di adottare l’editto. Il primo di marzo, 74 ugonotti furono assassinati dagli uomini di Francesco di Guisa mentre ascoltavano un sermone a Vassy, con la
IL LOUVRE. Residenza
reale e sede del potere di Francia finché Luigi XIV si trasferì a Versailles, nel 1682, il Louvre nacque come una fortezza ai tempi del re Filippo Augusto. Anche se fu ristrutturato spesso durante il Medioevo, fu in realtà la regina Caterina de’ Medici a trasformarlo in un grande palazzo, mentre ordinava la costruzione del palazzo delle Tuileries, nel 1564. Iniziò il progetto l’architetto Philibert Delorme.
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La Lega Cattolica e gli eventi della strage di san Bartolomeo Anche se Francesco I rimase dalla parte cattolica, la sua rivalità con Carlo V lo portò a stringere alleanze con i principi protestanti tedeschi suoi avversari. Questa situazione favorì la comparsa di circoli riformatori sul suolo francese, le cui idee finirono per convincere importanti membri dell’alta aristocrazia, come il principe di Condé. La Francia su cui regnarono gli ultimi Valois, Francesco II, Carlo IX ed Enrico III, figli di Caterina de’ Medici, fu lo scenario di otto guerre di religione che insanguinarono il regno. Da un lato, i cattolici guidati dalla potente casa di Guisa e riuniti dal 1576 nella Lega Cattolica o Santa Lega di Parigi; dall’altro, gli ugonotti o calvinisti francesi, guidati da Luigi I di Borbone, principe di Condé. Tutto iniziò nel 1559 con l’ascesa al trono di Francesco II, sfruttata dal duca Francesco di Guisa e dal fratello, il cardinale Carlo di Lorena, per diventare padroni del regno e per instaurare una politica di repressione contro tutto ciò che sapeva di riforma. La comparsa sulla scena di Caterina de’ Medici come reggente di Carlo IX pacificò gli animi, ma con scarsi risultati. La breve tregua che seguì all’assassinio di Francesco di Guisa nel 1563 fu un’illusione. Il 22 agosto 1572, un attentato fallito contro l’ammiraglio calvinista Gaspard de Coligny provocò l’indignazione degli ugonotti. Fu il prologo della strage della notte di san Bartolomeo, una caccia sistematica all’ugonotto che dovette avere l’approvazione di Caterina e Carlo IX. Il 25 agosto 1572 oltre 2000 protestanti furono uccisi a Parigi e tra 5000 e 10.000 nel resto della Francia (secondo alcune fonti, fino a un totale di 30.000). Nell’immagine, la strage di san Bartolomeo in un’incisione di scuola tedesca (Biblioteca-Museo della Société de l’Histoire du Protestantisme Français, Parigi).
ENRICO IV. Chiamato il Grande, fu assassinato da François Ravaillac, un fanatico cattolico. Incisione a colori contemporanea di autore anonimo.
scusa che non si trovavano, come prescriveva l’editto, fuori dalla città. Giorni dopo, il duca di Guisa fu accolto in modo trionfale a Parigi. Da Fontainebleau, la regina fece chiamare il leader degli ugonotti, il principe di Condé, per negoziare. Guisa, accompagnato da uno squadrone di 1000 soldati, lo anticipò. Prese la reggente e il figlio ancora minorenne, il nuovo re Carlo IX, e li obbligò con la forza a trasferirsi nella capitale. Lì Caterina cambiò radicalmente atteggiamento e tornò alla carica contro i protestanti. Condé unì le sue forze con un altro celebre ugonotto, l’ammiraglio Gaspard de Coligny, e i due si impadronirono di Orléans. Iniziava in questo modo un lungo periodo di guerre civili.
La crisi dinastica dei Valois Nel corso delle settimane successive, le uccisioni aumentarono in tutto il Paese. Nella città di Sens, i cattolici sgozzarono e gettarono nel fiume un gran numero di ugonotti; allo stesso modo a Tours ne furono sgoz114
zati e affogati altri 200. I protestanti risposero con la stessa moneta. Nel Delfinato, il barone degli Adrets fece sgozzare le guarnigioni cattoliche che si arresero a lui e lanciò dall’alto delle torri gli sventurati prigionieri che riuscì a catturare. Nella città di Nîmes, i riformati rinchiusero celebri cattolici, religiosi e sacerdoti, nel patio del palazzo episcopale, dove 80 di loro furono decapitati. Anche molte tombe furono profanate in atti di rappresaglia. Nelle città di cui si impadronirono, gli ugonotti profanarono templi, distrussero i crocifissi, demolirono immagini e spogliarono gli altari. I paramenti sacri furono utilizzati per organizzare delle sacrileghe feste in maschera. Le campane delle chiese furono fuse e utilizzate per forgiare cannoni. Caterina fece firmare al figlio Carlo IX un ordine sanguinario, secondo il quale «laddove vedete che qualcuno si muove, anche solo per soccorrere o aiutare qualcuno della nuova religione, gli impedirete di muoversi con tutti i mezzi possibili e, se secondo voi oppongono resistenza, li farete a pezzi e li squarterete; perché quanti più
L’EDITTO DI NANTES. ll 13 aprile 1598, Enrico IV, il primo Borbone
sul trono di Francia, firmò l’Editto di Nantes allo scopo di mettere fine alle guerre di religione che avevano distrutto il Paese. Con esso si concedeva una certa libertà di culto agli ugonotti (il re stesso lo era stato fino alla sua conversione nel 1593).
morti, tanto meno nemici». Questo programma minaccioso fu applicato alla lettera nella cosiddetta strage di san Bartolomeo, il 25 agosto 1572. Sotto la direzione dei Guisa furono decapitati oltre 30.000 ugonotti che era arrivati nella capitale per assistere al matrimonio tra il re Enrico di Navarra e Margherita, la figlia di Caterina. Lo stesso re di Navarra, il futuro Enrico IV, fu costretto ad abiurare dalla sua fede riformata per ottenere di aver salva la vita. Le notizie giunte da Parigi accesero gli animi in tutto il regno. In Bretagna, a Poiteau, nel Maine e ad Angiò, i seguaci della Lega Cattolica inforcavano i prigionieri, li legavano con le corde alle pale dei mulini, li bruciavano, li lasciavano morire di fame oppure li lanciavano vivi negli stessi pozzi in cui marcivano i cadaveri dei loro correligionari. La guerra si trasformò in un vero e proprio esercizio di vandalismo. L’assassinio dei principali leader di entrambe le fazioni aumentò ancora di più la confusione: Luigi I di Borbone-Condé nel 1569, Gaspard de Coligny nel 1572, Francesco di Guisa nel 1563, suo
fratello Enrico nel 1588. Nel 1589 fu ucciso il monarca stesso, Enrico III di Valois. L’erede al trono più diretto era Enrico di Navarra, sposato con la sorella del re defunto, Margherita di Valois, più conosciuta come la regina Margot. Ma Enrico era calvinista e la possibilità che un eretico occupasse il trono di Francia era inaccettabile per la Lega Cattolica comandata dai Guisa. Allora la prospettiva di un conflitto interminabile si abbatté sulla Francia. Ma il Paese era allo stremo e non poteva sopportarla. Così Enrico decise di abiurare, ancora una volta, dalle sue credenze e di convertirsi al Cattolicesimo. Sicuramente non arrivò mai a pronunciare la famosa frase che gli si attribuisce, secondo la quale «Parigi val bene una messa», anche se senza dubbio entrò trionfante a Parigi dopo essere stato incoronato nella cattedrale di Chartres il 27 febbraio 1594. In questo modo rendeva evidente che in realtà, le cosiddette “guerre di religione” non erano tali. Furono guerre politiche in cui la religione servì come scusa per giustificare le aspirazioni di ogni fazione. 115
IL RINASCIMENTO CENTROEUROPEO
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Il Rinascimento centroeuropeo Dall’Italia, le idee rinascimentali raggiunsero l’Europa centrale e orientale con sorprendente rapidità, ma il loro risultato espressivo ebbe delle caratteristiche proprie, frutto della diversa sensibilità degli artisti.
F
u in Ungheria che gli edifici rinascimentali fecero per la prima volta la loro comparsa fuori dall’Italia. Il re Mattia Corvino, un guerriero e un grande conquistatore, fu anche entusiasta di tutto ciò che era antico. Si ispirò all’impero romano e si rivolse agli artisti italiani perché lo aiutassero a creare alcuni dei suoi progetti più ambiziosi. Nell’anno 1467 mandò a chiamare Ridolfo Fioravanti, conosciuto con il soprannome di Aristotele, che in precedenza aveva lavorato con l’architetto e trattatista fiorentino Leon Battista Alberti, affinché costruisse un ponte a Buda, la capitale del suo regno. Corvino ottenne anche i servigi di Antonio del Pollaiolo per progettare il salone del trono del suo palazzo, insieme a quelli dell’orafo, scultore e medaglista Cristoforo di Giovanni Matteo Foppa, Caradosso, per la produzione delle ancone della cattedrale di Esztergom e, secondo alcune testimonianze, anche di quelli di Filippo Lippi per la realizzazione di alcune tavole destinate alla sua devozione personale. Alcuni artisti italiani dimostrarono di avere una grande capacità di adattamento, mescolando le tradizioni locali ai modelli rinascimentali. Fioravanti stesso si trasferì da Buda a Mosca per lavorare alla costruzione della Cattedrale della Dormizione all’interno della fortezza del Cremlino. In Polonia, i regnanti del casato degli Jagellone mandarono a chiamare anche artisti italiani per istruire i nativi sugli stili e i metodi del Rinascimento. Il miglior esempio della collaborazione tra gli artisti dei due Paesi è la
AUTORITRATTO CON PELLICCIA.
Durante tutta la sua vita, Dürer si autoritrasse con una grande passione esplorativa. Con il passare degli anni, il suo corpo andò scomparendo mentre i suoi occhi si aprivano in modo smisurato fino a diventare finestre attraverso le quali contemplare il suo mondo interiore (Alte Pinakothek, Monaco).
I mille volti di un artista straordinario Pittore, incisore e trattatista, Albrecht Dürer (1471-1528) fu il genio che riuscì a conciliare nella sua opera le conquiste del Rinascimento italiano (la prospettiva, la proporzione classica, la luce, l’Umanesimo) con lo sguardo scientifico caratteristico degli artisti del centro e nord Europa, ancora radicati nel Gotico. I viaggi che fece in gioventù, specialmente quello che nel 1494 lo portò a Venezia, gli aprirono un mondo nuovo che segnò per sempre la sua arte. La consacrazione arrivò nel 1512, quando fu nominato pittore ufficiale della corte dell’imperatore Massimiliano I. Nell’immagine, Uomo del dolore, il suo ultimo autoritratto del 1522 (Kunsthalle, Brema). LA LEPRE. Disegnatore straordinario, Dürer diede prova di una grande capacità di osservazione e realismo (Grafische Sammlung Albertina, Vienna).
cattedrale di Wavel, a Cracovia, costruita tra il 1519 e il 1533. Nonostante questi inizi promettenti, la ricezione delle idee e le forme rinascimentali fuori dall’Italia non fu sempre priva di resistenze. Per i nordici e i centroeuropei, quella che gli Italiani definirono con disprezzo arte gotica era pienamente soddisfacente, pertanto non trovavano alcuna ragione per abbandonarla. In alcuni di questi Stati, il consolidamento delle organizzazioni monarchiche produsse uno dei periodi più attivi della sua storia nel campo delle arti, ma le opere realizzate, grandi cattedrali e splendidi castelli, come quelle che possiamo contemplare in Les Trés Riches Heures del duca di Berry, continuarono ad appartenere al “vecchio stile”. Sicuramente più raffinato, migliorato, con un più alto livello di decorazione, ma ancora completamente medievale. In Inghilterra, il cosiddetto Gotico perpendicolare continuò a dominare la scena durante il primo quarto del XVI secolo. In un certo senso ci fu un’assimilazione a due velocità: mentre gli eruditi di questi Paesi avevano iniziato a leggere avidamente i testi recuperati degli autori classici, la maggior parte degli artisti non cercava ancora la sua ispirazione nell’antichità.
Gli occhi di Dürer Il primo pittore tedesco che si dedicò seriamente a studiare quello che succedeva in Italia fu Albrecht Dürer. Era il figlio di un orafo di Norimberga che aveva imparato il mestiere di incisore sin da giovanissimo. Nell’anno 1494, a ventitré anni, andò a Venezia per completare la sua formazione sullo stampaggio. Percorse l’Italia da cima a fondo, segnando il suo itinerario con una serie di deliziosi acquerelli in cui rivelò la sua ammirazione per la luce e per le nuove forme che stava scoprendo. Una volta tornato, mise 117
IL RINASCIMENTO CENTROEUROPEO
I primitivi fiamminghi Ci sono denominazioni che ingannano e una di queste è quella utilizzata per riferirsi agli artisti che lavorarono nei Paesi Bassi e, in particolare, nelle Fiandre, alla fine del XV secolo: primitivi. E inganna perché non c’è niente di “primitivo” in questi creatori che seppero avvicinarsi alla realtà (e con essa, all’essere umano) in un modo originale, diverso rispetto all’approssimazione simbolica del Gotico e a quella che iniziava a muovere i primi passi nell’Italia del Quattrocento. In ogni caso, il concetto “primitivo” è da intendersi solo per il fatto che precede la grande arte fiamminga e olandese del XVII secolo, quella di Rembrandt, Vermeer, Rubens o Van Dyck. Come nel caso italiano, questo Rinascimento nordico ha le sue origini nell’ambito urbano, in concreto nelle città delle Fiandre come Gand, Bruges o Ypres, che l’industria e il commercio tessile avevano reso prospere. Ma a differenza degli Italiani, i Fiamminghi non ruppero totalmente con l’eredità dei loro predecessori, per questo gran parte delle loro opere ha un certo sapore gotico, per esempio nel gusto per il dettaglio più insignificante o per i colori brillanti, eredità della scuola fiamminga dei miniaturisti. Un’altra differenza è la mancanza di interesse per l’antichità classica, che sarà attenuata solo con il tedesco Albrecht Dürer. La pittura a olio invece della tempera, l’uso della tela al posto della tavola di legno, l’interesse per il quotidiano e la scoperta del paesaggio sono alcuni dei contributi di questi primitivi, tra cui si distinsero Rogier van der Weyden, Jan van Eyck, Robert Campin, Hans Memling, Petrus Christus e Dirk Bouts. Nell’immagine, Madonna in trono tra due angeli (1480 ca.) di Hans Memling (Galleria degli Uffizi, Firenze).
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per iscritto le sue impressioni. Secondo la sua opinione, la Germania era piena di pittori in stato embrionale, abbandonati alla loro sorte o nelle mani di maestri che si limitavano a insegnar loro a copiare. «In questo modo crescono nell’ignoranza, come un albero selvatico non potato». Tuttavia, in Italia aveva imparato l’importanza di misurare ognuna delle parti del corpo umano allo scopo di riprodurlo con totale precisione, così come la necessità di studiare scientificamente la prospettiva per poter collocare in modo appropriato le sue figure nello spazio. Per un pittore tedesco come lui, la visita in Italia fu un’autentica rivelazione artistica, quello che oggi chiameremmo uno scontro culturale. Dürer fu anche il primo pittore tedesco che rifiutò, perché falsa, l’arte che si stava sviluppando nella sua patria e proclamò la necessità di studiare le opere dell’antichità attraverso i testi e l’analisi di quelli che erano sopravvissuti. Fu senza dubbio uno dei pittori della sua generazione più consapevoli del fatto che le nuove tendenze italiane stavano cambiando il modo di vedere il mondo. Ma non fu nemmeno l’unico a farsi influenzare da esse. Un suo contemporaneo, Matthias Grünewald (1470-1528 ca.) lasciò trasparire in modo silenzioso le nuove idee riguardanti la prospettiva e la rappresentazione “scientifica” del corpo umano nella sua impressionante ancona di Isenheim, realizzata intorno al 1515. Albrecht Altdorfer (1480-1538 ca.) fece invece un uso splendido ed estremamente personale della mitologia classica ripresa dagli Italiani.
Cranach, il pittore luterano Tuttavia, fu un altro contemporaneo di Dürer, Lucas Cranach il Vecchio (14721553), che portò a termine una delle letture più personali del Rinascimento in chiave centroeuropea. Nel 1505 narrò la fantastica storia del martirio di santa Caterina con un mix di stravaganza e realismo che lasciò attoniti gli spettatori. Caterina, una dama di antico lignaggio, nata ad Alessandria nel IV secolo, era stata una santa molto famosa tra gli artisti medievali. Rifiutò la proposta di matrimonio che le fece l’imperatore Massenzio e sostenne una brillante controversia con cinquanta filosofi pagani sui valori
IL MARTIRIO DI SANTA CATERINA. Lucas Cranach esagera nel dettaglio nella rappresentazione delle figure e degli abiti di questa scena del pannello centrale dell’altare di santa Caterina, del 1506 (Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda). del Cristianesimo. Alla fine fu condannata a essere spezzata su una ruota. Ma fu questa a ridursi a pezzi per l’intervento di un fulmine che, al suo passaggio, bruciò molti dei pagani che partecipavano all’esecuzione. Esasperati, i giustizieri la decapitarono. Cranach mostra questo episodio sotto un cielo minaccioso tipicamente tedesco, illuminato dai lampi. La città di Wittenberg è rappresentata nell’angolo superiore sinistro con ogni genere di dettagli. Tra la moltitudine che circonda Caterina il pittore ritrasse l’élite della città, teologi, professori dell’università e nobili. Il famoso umanista, studioso di diritto romano,
Johann von Schwarzenberg, si vede mentre cade da cavallo; il principe elettore Federico di Sassonia contempla la scena pieno di perplessità. Cranach plasma amorevolmente i suoi amici e protettori nel mezzo della catastrofe: tutti finiscono per accettare la vera fede mossi dall’esempio e dal verbo scaturito da Caterina. Le loro anime si sono salvate quando i loro corpi erano sul punto di essere distrutti. Dei corpi che Cranach rappresenta con maestria. La santa appare al centro della scena come sposa di Cristo, nell’attesa serena della morte che doveva condurla all’unione con il suo amato. Indossa un magnifico vestito di velluto scarlatto, tutto ornato d’oro, con le maniche rifinite da delicati polsini di pizzo di Bruxelles: perle e rubini decorano uno scollo che più di una persona considerò probabilmente eccessivo e una collana d’oro le circonda il collo. La sua capi-
gliatura rossiccia è arricciata con cura. Il boia, sul punto di togliere la spada dal fodero, mostra la stessa eleganza. La sua bella testa bionda appartiene a quella di Degenhart Pfäffinger, cancelliere della corte del principe Federico. Questo personaggio è alto e magro e veste in maniera splendida, secondo la moda del momento, con calzoni a strisce rosse, nere e bianche legati al ginocchio con lacci di seta dorata e una giacca con maniche a palloncino e spacchi di seta di color oro con ricami di fiori. Anche se il tema è abbastanza sensazionalistico, quest’opera meravigliosa sprizza soprattutto allegria e santità. Costituisce un miscuglio fino a un certo punto incongruente, ma pienamente soddisfacente, dei valori medievali del nord Europa e dell’appassionante spirito nuovo proveniente da sud. I colori freschi, luminosi e abbaglianti, così come l’abbondanza di fiori, alberi, felci e 119
IL RINASCIMENTO CENTROEUROPEO
piante esotiche, costituiscono un inno all’allegria della Germania, suscitata dalla scoperta del Rinascimento.
L’iconografia protestante
La comparsa dello stravagante Il Rinascimento è caratterizzato dall’ottimismo. I suoi protagonisti sognavano di lasciarsi alle spalle la barbarie medievale per inaugurare una nuova epoca alla luce dell’antichità greco-romana. Almeno, questa era l’impressione dei pensatori e degli artisti italiani del Quattrocento. L’”altro” Rinascimento, quello centroeuropeo e fiammingo, sarebbe stato molto diverso, segnato come fu dalla permanenza di molti elementi del Gotico e da un interesse per svelare questo lato segreto, inquietante e crudele presente non solo nel mondo, ma anche nei suoi abitanti. Si tratta, quindi, di un Umanesimo dai tratti espressionisti, quando non ironici e grotteschi, esposto in due libri di grande successo: La nave dei folli di Sebastian Brant, con il suo catalogo di vizi umani, ed Elogio della pazzia, di Erasmo da Rotterdam, le cui pagine condensano tutto il gusto per lo stravagante e lo strano. Stessa cosa nella pittura del fiammingo Hieronymus Bosch, El Bosco, che in lavori come Il giardino delle delizie, La nave dei pazzi o Le tentazioni di sant’Antonio traccia con la minuzia di un miniaturista un universo più che irreale, allucinato, popolato da creature impossibili che sembrano sorte da un incubo. E il tutto con uno spirito che, anche se può arrivare a essere mordace e irriverente, lascia trapelare un fondo di grande pessimismo. Ma Bosch non è da solo. Tra quelli che gli fanno compagnia c’è Joachim Patinir, che dà libero sfogo alla sua fantasia nei paesaggi, Quentin Massys, con la sua capacità di unire dettagli realisti alla caricatura satirica e Pieter Brueghel il Vecchio, con scene apocalittiche come Il trionfo della morte e quadri sulla vita popolare come Nozze di contadini. Nell’immagine, Il carro di fieno, di Hieronymus Bosch (Museo del Prado, Madrid).
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Non bisogna dimenticare, tuttavia, che il mondo interiore di artisti come Cranach, Grünewald, Altdorfer o lo stesso Dürer era molto diverso da quello degli Italiani. Si trattava di un mondo forgiato dall’inquietudine provocata dalla persistenza di disgrazie collettive, sotto forma di epidemie, fame e guerre, che in quegli anni devastarono gran parte del continente lasciando dietro di sé una scia di morte e luoghi spopolati. Oltre a questo, il triste spettacolo di una gerarchia ecclesiastica divenuta mondana e incapace di dare un senso alle disgrazie, che si domanda: davvero Dio si è stancato della diffusa stoltezza degli esseri umani e per questo ci castiga senza pietà? Sembrava che solo i messaggi di intenso misticismo inviati da Jan van Ruysbroek, Geert Grote o Tommaso da Kempis potessero dare un po’ di pace alle anime tormentate. La loro proposta, che propugnava una nuova forma di religiosità interiore basata sul silenzio e sulla contemplazione, fu conosciuta come Devotio moderna e trovò un’accoglienza fervida nelle classi urbane. Queste stesse classi, in città come Norimberga, o Wittenberg, presero l’abitudine di comprare immagini per alimentare la loro devozione personale e in questi ambito misero fine all’egemonia che avevano esercitato le istituzioni religiose. L’arrivo di questi nuovi committenti si ripercosse direttamente sui contenuti di queste rappresentazioni, che si liberarono della rigida ortodossia visiva ecclesiastica. Allo stesso tempo, la stampa permise, attraverso le incisioni, la loro massiccia riproduzione. Si trattava di immagini a effetto che rispecchiavano la vulnerabilità dell’essere umano di fronte a una natura ostile e minacciosa, incarnata nei boschi con ombre tenebrose e fiere selvagge, dipinti da Johannes Wechtlin (1480-? ca.), rappresentazioni del passare del tempo e dell’arrivo inesorabile della morte, come quelle di Hans Baldung Grien (1484-1545 ca.), considerazioni sul peccato, motivo dell’ira divina e delle disgrazie umane, simboleggiato da Adamo ed Eva, manifestazioni degli effetti del male
che lasciavano la loro impronta nel corpo sanguinante di Cristo o nelle critiche pungenti ai pastori che avevano abbandonato il gregge per lasciarsi andare alle passioni più abiette. E, soprattutto, volti. Inquieti, sbalorditi, compunti, in attesa, dolenti. Volti che riflettevano il nuovo approccio all’individuo, in una cultura che fino ad allora era stata incentrata sull’ammirazione per la divinità. Tra questi, alcuni, come il ritratto che Matthias Grünewald fece di Margareth Pellwitz, con gli occhi chiusi con fierezza. La maggior parte però aveva le pupille molto aperte, quasi fuori dalle orbite. Per assorbire il mondo che le circondava? O, ancora meglio, per mostrarci gli abissi interiori che soggiacciono all’apparenza fisica? Il ritratto di una donna che fece Albrecht Altdorfer è, in sé, un vero e proprio trattato sulle pieghe dell’anima umana. Ancora una volta, nessuno come Albrecht Dürer si prodigò tanto nella con-
templazione del mistero del volto. Nonostante tutti i passi in avanti fatti fino a questo momento, il ritratto era rimasto sempre soggetto a una gran quantità di convenzioni, precetti metodologici sulla prospettiva lineare, le proporzioni o i canoni di bellezza. Nel centro Europa, fu anche in questo caso Dürer il primo a esprimere apertamente la convenienza di rappresentare un’immagine che fosse «il più possibile» vicina a quella reale. Con lui, il modello trovò piena libertà di spirito. La sua preoccupazione principale non fu più solo quella del meccanismo del corpo, ma anche di ciò che stava dietro all’«involucro carnale». Dürer provò una specie di passione divoratrice per la codificazione dell’intimo del suo modello, il che fa pensare a una vera e propria lotta contro ciò che aveva davanti. Con lui, il panorama interiore si impose completamente su quello esteriore. Dürer fu prima di tutto uno studioso
CARICATURA. Il corteggiamento è il tema di
L’amore ineguale o La coppia mal assortita, un’opera satirica di Quentin Massys. Olio su tavola del 1520 (Università di Liegi). della condizione umana. E il suo obiettivo principale fu il soggetto che aveva più vicino, ovvero, egli stesso.
La rappresentazione del reale Tra gli ultimi decenni del XV secolo e i primi del XVI, il mondo germanico generò alcuni degli artisti che hanno contribuito maggiormente a modellare il nostro modo di guardare la realtà. E, chiaramente, di guardare noi stessi. Condivisero con i loro contemporanei italiani l’interesse per l’individuo e il suo mondo circostante e cercarono di rappresentarlo con la massima fedeltà. Il Rinascimento tedesco creò, quindi, un nuovo modo di guardare il mondo, dominato da un senso di colpa che dà alle sue imma121
IL RINASCIMENTO CENTROEUROPEO
I maestri del ritratto Per i pittori del Rinascimento centro-europeo, l’essere umano non era altro che una piccola creatura nella maestosità dell’universo divino, ma questo non impedì che gli artisti lo rendessero uno dei loro principali interessi. Fu allora che al genere del ritratto fu dato un particolare impulso, soprattutto nella Germania protestante. Se nell’Italia del Quattrocento il ritratto assolveva ancora la funzione di trasmettere un’immagine maestatica e idealizzata del modello, in terra tedesca si impose ben presto un tipo di ritratto che, a ben guardare, coglieva la psicologia e la personalità della persona raffigurata. Lucas Cranach il Vecchio fu uno degli iniziatori con i suoi ritratti di Lutero, assecondato da un Albrecht Dürer che non solo dipinse personalità come l’imperatore Massimiliano I, ma divenne anche egli stesso uno dei principali modelli, attraverso una serie di autoritratti (il primo di questi realizzato ad appena tredici anni) che possono essere visti come un’esaltazione della propria personalità creatrice. Gli insegnamenti di entrambi furono ben sfruttati da Hans Holbein il Giovane, che fece gran parte della sua carriera in Inghilterra e contribuì in questo modo a internazionalizzare la concezione tedesca del genere. I suoi ritratti hanno una qualità quasi fotografica, mentre riescono a immortalare la personalità del modello ritratto. Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro ed Enrico VIII d’Inghilterra furono alcuni dei personaggi illustri che posarono per lui, anche se forse il suo capolavoro del genere è Gli ambasciatori (1533), doppio ritratto dell’ambasciatore francese Jean de Dinteville e del vescovo di Lavaur, Georges de Selve, in cui il pittore incluse anche il tema della vanitas. Nell’immagine, Dorothea Kannengiesser, seconda moglie del sindaco di Basilea Jakob Meyer, in un disegno di Hans Holbein il Giovane (Kunstmuseum, Basilea).
gini un’aria tormentata, sconosciuta nella raffinata, edonista e cattolica Italia. Ma ci furono più “rinascimenti” nel continente europeo. Un altro centro importante si ebbe nelle Fiandre, dove il nuovo stile seguì una rotta propria, senza tante preoccupazioni metafisiche e spirituali come nei territori tedeschi. Piuttosto il contrario: la prosperità economica sia della nobiltà sia di una potente borghesia urbana, arricchita dal commercio, favorì il successo di un’arte che si divertiva con quello che si avvicinava di più all’essere umano. Sicuramente non mancano i dipinti religiosi, ma ben presto iniziano a comparire anche tematiche che avrebbero finito per perdere la loro iniziale giustificazione sacra per lasciare spazio alla raffigurazione di paesaggi e alla pittura di genere. Ciò che renderà l’arte fiamminga simile a quella tedesca è il disinteresse pratico per le storie della mitologia classica, tanto utilizzate dagli artisti 122
transalpini. Ma il resto, la luce, il colore vivo, la passione per il dettaglio più insignificante, il senso della bellezza e anche l’umorismo esprimevano una concezione diversa dell’arte e del mondo, secondo la quale la vita umana è un’esperienza che merita di essere vissuta. La prima di queste tematiche, il paesaggio, trova nella figura di Joachim Patinir (1480-1524 ca.) il suo primo grande protettore. Nelle sue opere, le figure umane di provenienza biblica che ancora rimangono, in realtà, non sono altro che una scusa per il protagonismo raggiunto dalla natura. Di fatto, l’esecuzione di queste figure talvolta ricadeva in mani diverse rispetto a quella del pittore. Quello che a lui importava era lo stesso che i suoi predecessori consideravano qualcosa di secondario, un mero scenario: il paesaggio, nel quale mescola in maniera coerente l’osservazione della realtà delle sue campagne coltivate, con
la fantasia dei suoi inquietanti massicci rocciosi; in altre parole, il reale e il simbolico. Anche Dürer, che conobbe Patinir e lo definì come «il bravo pittore di paesaggi», avrebbe ceduto all’incanto della natura in opere che non hanno più bisogno di alcuna figura umana per avere valore già di per sé. Come l’acquerello La grande zolla d’erba, del 1503, così straordinariamente fedele alla realtà nella sua rappresentazione che i botanici hanno potuto identificare senza nessun problema le diverse specie vegetali riprodotte in essa. E lo stesso si può dire di altri artisti della medesima zona geografica, soprattutto di Altdorfer, che nel suo San Giorgio e il drago (1525) nasconde praticamente le minuscole figure sotto il fitto fogliame del bosco e in La battaglia di Isso (1529) fa sì che l’azione della natura rappresentata dal cielo, dall’acqua e dalle montagne renda minuscolo il drammatico conflitto umano.
Ma la scoperta della realtà, contributo dei Fiamminghi, non risiede solo nel dare valore al paesaggio, aspetto in seguito trasmesso ai Tedeschi. Gli artisti rivolgono lo sguardo anche alla vita umana. Da qui la fioritura del ritratto e il successo della pittura di genere, che farà del quotidiano la sua ragion d’essere. Uno dei suoi primi rappresentanti fu Quentin Massys (1466-1530 ca.), che si allontanò progressivamente dalla pittura religiosa per concentrarsi su temi di vita quotidiana, come in quello che forse è il suo quadro più famoso, Il cambiavalute e sua moglie (1514). Si tratta di un esempio perfetto dell’arte di questo creatore, che non si limita a ritrarre quello che vedono i suoi occhi ma intride i suoi lavori di chiaro senso critico. In quest’opera, per esempio, denuncia l’avarizia della coppia rappresentata, lui che afferra ogni moneta con mani che assomigliano ad artigli, come se avesse paura di lasciarsele scappare, e lei
che allontana lo sguardo dal suo libro di preghiere per svagarsi con quello stesso denaro. Con il passare del tempo, questa volontà critica darà spazio a successive creazioni con uno stile sempre più satirico fino a raggiungere direttamente quello caricaturale, come in L’amore ineguale (1525 ca.) e La duchessa brutta (1530 ca.). Anche se con un linguaggio diverso, anche Hieronymus Bosch (1450-1516 ca.) abbracciò la pittura di genere in opere come Estrazione della pietra della follia (1490 ca.) o Il venditore ambulante (1494 ca.), in cui illustra proverbi e storie allo scopo di denunciare i difetti umani. Ma è con Pieter Brueghel il Vecchio (1525-1569 ca.) che la pittura di genere si consolida in modo indipendente. Anche se l’influenza di Bosch più surrealista si apprezza in buona parte dei suoi lavori, come in Caduta degli angeli ribelli (1564), la grande specialità di Brueghel fu la rappresentazione di proverbi tradizionali in una lunga
LA MIETITURA DEL GRANO. È il tema di Estate, un olio di Pieter Brueghel il Giovane su una composizione del padre, Pieter Brueghel il Vecchio, creato tra il 1622 e il 1635 (Museo Nazionale di Storia della Romania, Bucarest). serie di opere che ricreano la vita dei contadini, in una cornice naturale che domina tutto, ma che non ha niente a che vedere con le idealizzazioni dei poeti pastorali dell’epoca. Da qui il sapore familiare e popolare, non esente da un amabile umorismo né da un’intenzione critica, di buona parte della sua produzione, tra cui si distinguono I cacciatori nella neve (1565), Il paese di Cuccagna (1567), Nozze di contadini (1567) o La parabola dei ciechi (1568). I suoi figli, Pieter il Giovane e Jan il Vecchio, seguirono la linea aperta dal padre con dei dipinti che abbandonano la critica dei vizi umani per dedicarsi senza riserve agli aspetti più pittoreschi della vita popolare, come le taverne, le feste e i balli popolari. 123
IL GIUDIZIO UNIVERSALE.
Nel 1536, papa Paolo III affidò a Michelangelo l’affresco per l’abside della Cappella Sistina con questa scena del Giudizio Universale basata sull’Apocalisse di san Giovanni. Nella pagina accanto, stendardo del tribunale del Sant’Uffizio di Siviglia. 124
LA RIFORMA CATTOLICA La Chiesa cattolica tardò a reagire alla sfida lanciata da Lutero. Senza dubbio i suoi sacerdoti, a cominciare dal papa, non erano pronti ad affrontare una sfida simile. Quando infine chi la guidava si rese conto della portata del problema, si creò una divisione tra coloro che parteggiavano per il dialogo e quelli che invece erano per una rottura. Il corso degli eventi evidenziò che la concordia era impossibile.
P
er molto tempo, gli storici hanno accettato, in modo abbastanza ingenuo, il termine “controriforma” per designare la religiosità derivata dal Concilio di Trento. Fino a un certo punto, si trattò di un’imposizione del Protestantesimo liberale tedesco del XIX secolo, che considerò la reazione belligerante contro il Luteranesimo come il principale motore di questa religiosità. Tuttavia, quando san Francesco Saverio evangelizzò l’India, la Malesia, le Molucche e il Giappone, lo fece come reazione al Protestantesimo. Così come san Vincenzo de’ Paoli quando andava a soccorrere i disgraziati e raccoglieva i bambini abbandonati. Le truppe
cattoliche, vittoriose a Lepanto (1571) e a Vienna (1683), non cercavano di eliminare gli eretici, bensì gli infedeli turchi, chiamati «nemici del nome cristiano». Si può attribuire all’ostilità verso la Riforma la corrente mistica che, con santa Teresa di Gesù e san Giovanni della Croce prese piede in Castiglia alla fine del XVI secolo? D’altra parte, l’alta spiritualità che fu promossa da san Francesco di Sales e san Giovanni Eudes, l’azione dei Gesuiti in Paraguay, lo sviluppo della teologia positiva all’università di Salamanca o lo sviluppo dell’arte barocca solo fino a un certo punto possono essere spiegati come pura reazione all’offensiva protestante. 125
LA RIFORMA CATTOLICA
FASI DELLA RIFORMA CATTOLICA ROMANA 1540
L’esercito di Dio. Il 27 settembre Paolo III riconosce la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola, come nuovo ordine religioso. 1545
Concilio riformista. Papa Paolo III promuove a Trento un concilio universale per discutere della risposta della Chiesa alla Riforma luterana. 1559
Libri che non bisogna leggere. Paolo IV pubblica l’Index librorum prohibitorum, un catalogo di titoli proibiti per i cattolici.
La Santa Inquisizione e la lotta contro la Riforma Il mondo cattolico nato dal Concilio di Trento si impegnò a fondo per correggere gli errori che avevano favorito lo sviluppo della Riforma e per fronteggiare le conquiste ottenute da Lutero e Calvino. Il Catechismo romano del 1566, l’uniformazione della liturgia nel 1568, la diffusione di rappresentazioni che esaltavano i dogmi principali della Chiesa romana e il Tribunale dell’Inquisizione sono alcuni dei mezzi principali che furono utilizzati. Le origini del tribunale del Sant’Uffizio risalgono al XIII secolo, quando le autorità papali combatterono in modo implacabile l’eresia catara. Nel XVI secolo, era ormai una realtà fondata in tutto il mondo cattolico e acquisì un’importanza sempre maggiore per la sua lotta contro i protestanti. Furono il tribunale romano e quello spagnolo a svilupparsi maggiormente. Anche se l’Inquisizione romana non raggiunse mai il livello di crudeltà di cui si servì quella spagnola, che fu un tribunale controllato dalla corona e non dalla Chiesa, fu però protagonista di alcuni casi clamorosi come quello di Giordano Bruno, che nel 1600 fu arso vivo a causa della sua interpretazione dell’universo. Tuttavia, l’intolleranza non fu solo di dominio cattolico, ma fu condivisa in parti uguali da cattolici e protestanti. Questi ultimi fecero un uso molto aggressivo delle arti visive per denunciare le pratiche del tribunale dell’Inquisizione come mostra l’immagine a destra. Anche se tra i metodi del Sant’Uffizio (che commise molti altri abusi) non c’erano né la crocefissione, né la forca, né la decapitazione, in Germania circolavano incisioni come questa destinate a mostrare la presunta crudeltà e il carattere sanguinario del tribunale cattolico.
1563
Chiusura del Concilio. Il 4 dicembre, con Pio IV come papa, si chiude il Concilio di Trento. I dogmi cattolici sono confermati. 1568
Una sola liturgia. Pio V ottiene l’uniformità liturgica della messa cattolica con l’edizione del Breviario e l’imposizione del Messale romano. 1618
Scoppia la guerra. Inizia in Boemia la guerra dei Trent’anni, un conflitto confessionale tra cattolici e protestanti.
126
Nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, Michelangelo rappresentò un tema anti-protestante, esaltando la comunione dei santi e la preghiera del rosario, grazie alle quali le anime erano allontanate dall’inferno. Tuttavia, ridurre l’arte cattolica del XVI e del XVII secolo a formule negative e non vedere in essa nient’altro se non il rifiuto dell’estetica calvinista e la glorificazione di tutto ciò che la Riforma rifiutava, risulterebbe una semplificazione insostenibile. Una delle ragioni che hanno maggiormente contribuito a questo errore di percezione è stata la considerazione delle condotte militanti come la manifestazione più genuina del Cattolicesimo, ignorando una dimensione meno vistosa ma non meno decisiva, come fu la crescente interiorizzazione dell’esperienza religiosa, legata direttamente alle correnti più rinnovatrici della fine del XV secolo, che le ha dato un carattere di modernità troppo spesso ignorato. In Paesi come la Spagna, il Concilio di Trento non fu un punto di partenza ma piuttosto il culmine di un vero e proprio processo di rigenera-
zione, che era iniziato con il programma di riforme avviato dal cardinale Cisneros durante il regno dei Re Cattolici. Per comprendere le proposte di Teresa di Gesù, Giovanni della Croce o dello stesso Ignazio di Loyola bisogna rivolgere lo sguardo a Tommaso da Kempis e alla sua Imitazione di Cristo (1471) o a Dionigi Certosino, il cui messaggio contribuì a delineare la Devotio moderna, più che alle formule stereotipate che furono diffuse dagli organismi ufficiali. La loro era una proposta il cui obiettivo principale era, innanzitutto, la rigenerazione interiore dell’individuo mediante un processo di purificazione dei sensi che avrebbe dovuto condurli all’unione affettiva con il Creatore. Senza dubbio questa era una proposta rivolta alle anime più sensibili, ma commetteremmo un grave errore se sottovalutassimo la sua capacità di valicare i muri dei conventi e permeare la condotta di ampi strati della società. Altrimenti non si può comprendere il successo di un libro come Libro dell’orazione e della meditazione di frate Luis de Granada, di cui furono realizzate non
I DOMENICANI E IL TRIBUNALE DEL SANT’UFFIZIO. Anche se san Domenico di Guzmán garantiva che «è inutile cercare di convertire la gente con la violenza», sicuramente l’Ordine dei predicatori, più conosciuto come i domenicani, da lui fondato, collaborò attivamente all’organizzazione del tribunale del Sant’Uffizio, tanto alle sue origini, per perseguire i catari nel XIII secolo, quanto nel XVI secolo, durante la riforma cattolica. Nell’immagine, il santo di Burgos in un busto di bronzo dorato e argento (Museo de la Santa Cruz, Toledo).
meno di 125 edizioni tra il 1545 e il 1680. Sicuramente, quando questo tipo di manifestazioni prese la forma di movimenti laici organizzati, la gerarchia cattolica giocò ancora la carta della diffidenza. Ma, nel complesso, e in modo non poco sorprendente, il suo atteggiamento fu molto più tollerante di quello delle autorità delle chiese riformate che, presumibilmente, avevano fatto della Bibbia e della dimensione personale la base dell’esperienza religiosa. Il risultato fu la vittoria di un tipo di religiosità che si avvicinava più a quella ascetica proposta da Ignazio di Loyola che a quella mistica di Teresa de Ahumada.
Un clima generale di intolleranza Occorre situare l’ostilità della Chiesa cattolica romana contro il Protestantesimo nel contesto generale di crudele intolleranza, in un’epoca in cui amare e servire la propria Chiesa spesso voleva dire combattere quella degli altri. L’azione strettamente contro-riformatrice della Chiesa cattolica ruotò su due assi. Da un lato, cercò di conquistare con le armi i territori controllati dai
protestanti e, dall’altro, laddove la vittoria militare lo permetteva, cercò di convertire le masse smarrite con tutti i mezzi possibili, come missioni, scuole o università. Quando si considera la Controriforma come riconquista delle regioni perse dalla Chiesa romana, sono necessarie alcune puntualizzazioni. In primo luogo, le ambizioni politiche si mescolarono sempre con i propositi confessionali. Pertanto, solo in modo abbastanza improprio queste guerre possono essere definite guerre di religione. Se l’Invincibile Armata (1588) avesse centrato i suoi obiettivi, non solo avrebbe reintrodotto il Cattolicesimo oltre il Canale della Manica ma sarebbe anche servita per eliminare la presenza inglese nelle acque dei Caraibi, fatto che a sua volta sarebbe stato di grande aiuto per le aspirazioni coloniali spagnole. Quando Caterina de’ Medici organizzò con la fazione dei Guisa la strage della notte di san Bartolomeo, non stava pensando solo all’ortodossia religiosa dei suoi sudditi ma anche, con la stessa intensità, al rafforzamento della tribolata corona 127
LA RIFORMA CATTOLICA
Maurizio, duca di Sassonia, l’ultimo elettore imperiale
Nella sua guerra contro i principi tedeschi protestanti, l’imperatore Carlo V ebbe tra i suoi alleati un ambizioso duca imparentato con i leader della Lega di Smalcalda, Giovanni Federico I di Sassonia e Filippo I d’Assia, egli stesso luterano. Era Maurizio, che fu ricompensato per i suoi servigi con il principato di Sassonia. Nel 1356, con l’approvazione della Bolla d’Oro da parte di Carlo IV, la Sassonia divenne uno dei sette elettorati del Sacro impero. Ai tempi di Carlo V, il trono di questo principato era occupato da Giovanni Federico I il Magnanimo, uno dei primi membri della nobiltà romana ad accettare la Riforma. Fu anche questo il caso di suo cugino Maurizio, duca di Sassonia-Meissen, solo che quest’ultimo rimase fedele alla fazione cattolica senza la necessità di abiurare dalle sue idee. E non gli andò male. Nel 1547, la sconfitta della Lega di Smalcalda, di cui faceva parte Giovanni Federico, fece sì che Maurizio ricevesse il titolo ambito di principe elettore di Sassonia. Ottenuto questo, la sua fedeltà agli eserciti cattolici cessò nel 1550, quando organizzò un esercito protestante che si unì alla Lega di Königsberg incoraggiata dal suocero, il duca d’Assia. Nemmeno questa avventura durò molto, poiché nell’agosto del 1552 firmò con Carlo V la Pace di Passau, che concedeva delle libertà ai luterani. Il duca morì un anno dopo nella battaglia di Sievershausen contro i nobili protestanti contrari a questa pace. Nell’immagine, il duca in un olio su carta di Lucas Cranach il Giovane (Museo di Belle Arti, Reims).
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francese. Se Ferdinando II d’Asburgo avesse trionfato nel resto della Germania come fece in Boemia all’inizio della guerra dei Trent’anni, non avrebbe solamente spazzato via i protestanti dal suo impero ma avrebbe ottenuto anche la coesione politica che gli era tanto necessaria per poter conservare il suo potere. Anche se furono presentate con ragioni confessionali, sicuramente tutte le azioni militari ebbero implicazioni politiche. Questo spiegava il gran numero di alleanze strette contro natura. Enrico III di Francia, che non aveva la minima intenzione di abbandonare il Cattolicesimo, fece uccidere Francesco di Guisa, il leader del partito cattolico, poiché vedeva nella sua forza una minaccia per la sua autorità e si alleò con un ugonotto relapso com’era il re Enrico di Navarra. In Germania, il luterano Maurizio di Sassonia lottò per un lungo periodo a fianco dell’imperatore Carlo V contro i principi protestanti. Senza dubbio, colui che si impegnò di più per “sconfessionalizzare” le guerre di religione fu il cardinale Richelieu durante la guerra dei Trent’anni. Nonostante fosse un principe della Chiesa, la sua politica, che Roma e, soprattutto, la monarchia spagnola, non si stancarono di denunciare, contribuì in maniera decisiva a salvare i protestanti tedeschi. D’altro lato, sarebbe un grave errore pensare che la Controriforma militare aveva come obiettivo principale quello di eliminare i protestanti dalla faccia della terra. Sicuramente Carlo V desiderava ristabilire l’unità religiosa nell’impero. Ma avrebbe fatto volentieri diverse concessioni ai protestanti se Roma non glielo avesse impedito. I re francesi combatterono gli ugonotti solo sporadicamente e in particolare quando videro minacciato il loro potere, non quello di Roma, cosa che non gli interessava minimamente. Inutile dire che Filippo II odiava gli eretici, ma non gli davano tanto fastidio quando si trattava di utilizzarli per aumentare il numero di effettivi dei tercios del suo esercito, sempre più numerosi. Naturalmente Roma approvò tutte le azioni militari intraprese dai principi cattolici contro i protestanti. In Francia accettò la vendita di beni ecclesiastici per finanziare l’estirpazione dell’eresia. Presentatasi l’occasione, inviò anche truppe e denaro per aiutarli. Ma sul piano materiale Roma possedeva mezzi abbastanza limitati e quando si trattava di azioni belliche doveva agire ricorrendo a intermediari. Come impresa militare, la Controriforma fu innanzitutto opera dei sovrani. Soprattutto di quelli del casato degli Asburgo. Si può comprendere il senso che aveva la guerra dei Trent’anni per gli Spagnoli evocando il clima religioso che il governatore Alessandro Farnese cercava di infondere alle sue truppe. Ogni
mattina le trombe dell’accampamento salutavano per tre volte la Vergine Maria. Prima di entrare in battaglia, il governatore faceva inginocchiare i suoi uomini per dire un’avemaria o una preghiera all’apostolo Giacomo. Si celebravano regolarmente delle messe di requiem per i soldati caduti sul campo dell’onore. A ogni compagnia era assegnato un cappellano e a ogni tercio, un predicatore. Molti di questi cappellani erano gesuiti. Un altro dei paladini della Controriforma militare, l’ultracattolico imperatore Ferdinando II d’Asburgo, era abituato ad ascoltare due messe al giorno nella sua cappella privata, si comunicava tutte le settimane e mangiava solitamente in compagnia di cappuccini e gesuiti. Ma contro Ferdinando si sollevò un altro crociato; in questo caso si trattava di un protestante. Era il re Gustavo II Adolfo di Svezia, che si identificava con sincerità alla causa di Dio. Sicuramente si aspettava delle ricompense materiali per il suo intervento nella guerra dei Trent’anni ma, al tempo stesso, come fervente luterano, voleva essere il salvatore e, se possibile, il conciliatore di tutti i protestanti. Gli
uomini che sbarcarono insieme a lui nel mese di giugno dell’anno 1630 alla foce dell’Oder per intervenire nella guerra formavano un esercito di “santi”, che volevano impedire il trionfo dell’Anticristo, cioè del pontefice.
La riconquista delle masse Nei Paesi recuperati dalle autorità cattoliche fu applicato il celebre programma di Ignazio di Loyola, esposto nel 1554 in una lettera a Pietro Canisio, l’apostolo della Germania: «Il re non dovrebbe accettare nel suo Consiglio alcun eretico né esprimere stima per questa classe di uomini» […] «sarebbe molto utile non permettere ad alcun uomo infettato di eresie di avere il potere». Nelle università bisognava cacciare i professori e gli studenti contaminati e bruciare i loro libri «anche se il loro contenuto non è eretico». «I predicatori e tutti che quelli che siano trovati colpevoli di infettare un altro con questa peste devono essere castigati molto severamente». Sant’Ignazio concludeva la sua missiva consigliando di promulgare i decreti dei concili e di nominare dei bravi vescovi.
LA BATTAGLIA DI LÜTZEN. Nel 1632,
Gustavo II Adolfo di Svezia condusse gli eserciti protestanti alla battaglia contro le forze del Sacro romano impero germanico e della Lega Cattolica comandate da Wallenstein. Il re svedese accorse in aiuto dei luterani tedeschi, ma si scontrò soprattutto con quelli imperiali, per prevenire un’aggressione cattolica contro il suo Paese. Gustavo Adolfo uscì vittorioso dalla battaglia di Lützen, ma vi perse la vita. La carica della cavalleria protestante, con il re in testa, è rappresentata in quest’olio di autore anonimo. (Biblioteca Nazionale di Svezia, Stoccolma). 129
IL PROCESSO INQUISITORIO A GALILEO GALILEI
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oco importava che nel 1611 Galileo fosse stato accolto a Roma con tutti gli onori dal cardinal Maffeo Barberini o che il gesuita Collegio Romano avesse elogiato le sue osservazioni astronomiche. Il rapporto dello scienziato con la Chiesa non per questo sarebbe stato facile. Quello stesso anno, l’Inquisizione iniziò a fare indagini su di lui, e anche se l’ascesa al soglio pontificio dell’amico Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII lo proteggeva, nel 1633 niente poté impedire che il Sant’Uffizio aprisse una causa con l’accusa di eresia. Il risultato è ben noto: Galileo fu costretto ad abiurare dalle sue idee sul movimento degli astri. In basso, scultura del pisano, opera di Andreus Boni (Museo della Scienza, Londra).
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1 GALILEO.
2 EL JUEZ. L’accusa
3 L’ACCUSA. I giudici
L’astronomo è giudicato come eretico per il suo libro Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Si dichiara innocente.
è mossa dal frate domenicano Vincenzo Maculani, che interroga in latino l’accusato. Egli risponde sempre in italiano.
accusano Galileo di difendere l’eliocentrismo non come un’ipotesi, ovvero ciò che era in quel momento, ma come un fatto scientifico.
4 CONSIGLIERI. I
5 LA SENTENZA.
6 L’ABIURA.
giudici erano cardinali nominati dal papa, presieduti da un rappresentante del Sant’Uffizio. Sette dei dieci giudici pronunciano il verdetto contro Galileo.
Galileo è condannato al carcere a vita a domicilio, ma non si arrivò ad applicare la condanna, e a vedere proibite le sue opere, che contestavano l’autorità della Chiesa.
Lo scienziato abiura da tutte le sue idee e giura davanti al tribunale di attaccare le decisioni della Chiesa. In questo modo la sua pena viene trasformata nel carcere a vita.
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EPPUR SI MUOVE... Il grande peccato di Galileo fu quello di proporre una nuova interpretazione delle Sacre Scritture a partire dalle teorie eliocentriche di Niccolò Copernico, che secondo alcuni teologi si scontravano con il passaggio biblico Salmi 93,1: «È stabile il mondo, non potrà vacillare». La sua sfrontatezza gli costò un lungo e faticoso giudizio inquisitorio. Secondo la leggenda, una volta che ritrattò le sue teorie, mormorò: «Eppur si muove». È dubbio che lo abbia fatto davvero, ma nonostante questo la frase esprime bene il dilemma con cui si scontrarono molti scienziati dell’epoca, di fronte alla scelta di divulgare quello che i loro esperimenti dicevano sul mondo oppure di limitarsi a una lettura letterale della Bibbia. Nell’immagine, il sistema copernicano secondo Andreas Cellarius nella sua Harmonia macrocosmica (1611).
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LA RIFORMA CATTOLICA
La censura cattolica: l’Indice dei libri proibiti Il tribunale del Sant’Uffizio perseguitò i cattolici che sostenevano idee contrarie all’ortodossia stabilita. Attraverso la censura o la proibizione, la sua attività si estese anche al controllo dei libri che, grazie alla stampa, si diffusero rapidamente e pericolosamente in tutto il mondo cristiano. La paura della libertà di pensiero portò sia i cattolici sia i protestanti a controllare il principale veicolo attraverso cui si diffondevano le idee: i libri. Così, nel 1559, sotto il papato di Paolo IV, fu pubblicato a Roma l’Index librorum prohibitorum o Indice dei libri proibiti. Come indica il titolo, si trattava di una lista degli autori e delle opere la cui lettura era considerata dannosa per i cattolici. L’elenco era esauriente e per farne parte non occorreva essere né un riformato né un eretico, poiché ci furono addirittura cattolici in seguito proclamati santi, come Francesco Borgia o Giovanni d’Avila, che figurarono in esso. Naturalmente anche umanisti come Erasmo da Rotterdam o scienziati come Copernico furono aggiunti nelle successive edizioni di questo indice, che rimase in vigore fino al 1966. A partire dal 1583 fu arricchito dall’Indice espurgatorio, in cui erano raccolti le parole, le righe o i capitoli che a giudizio del censore dovevano essere tolti da determinati libri. Il resto si poteva leggere, anche se non senza riserbo da parte del lettore. Nell’immagine, pagina censurata del De ratione conscribendi di Erasmo (Biblioteca della Catalogna, Barcellona).
Un’altra delle richieste di Ignazio di Loyola era quella di essere attenti alla concessione delle parrocchie, a inviare predicatori fin nei piccoli centri perché venisse impartito l’insegnamento del catechismo ai giovani e a creare scuole e seminari. Nello scrivere queste istruzioni, sant’Ignazio non faceva altro che seguire la direzione voluta dalla Chiesa romana del suo tempo. Nel 1542, Paolo III aveva creato la Congregazione dell’Inquisizione e nel 1559 Paolo IV pubblicò il primo tristemente famoso Indice dei libri proibiti.
La Compagnia di Gesù La rigenerazione della Chiesa cattolica dipese, in gran misura, dai nuovi ordini religiosi e dal rinnovamento delle comunità monastiche più antiche, organizzazioni che offrivano al papato delle energie che la Chiesa degli ultimi secoli del Medioevo non aveva mai avuto. Con la sua dichiarazione di guerra, personale e teologica, agli ordini religiosi, Lutero si era scagliato anche contro il sistema medievale di perfezione “per livelli”. Ogni cristiano, indipendentemente dalla sua condizione, affermò, 132
meritava lo stesso rispetto davanti a Dio. La risposta cattolica a Lutero fu uno sforzo maggiore di riformare il clero regolare e di fondare ordini più adatti alle necessità del momento. Al di là del loro contributo alla riforma della Chiesa, alcuni di questi agirono come veri e propri promotori della trasformazione della cultura e della società. La posizione più importante in questo panorama la occupò la fondazione avviata da Ignazio di Loyola, che nell’inverno del 1536 partiva a piedi da Parigi diretto a Roma, accompagnato dai suoi primi seguaci, con l’intenzione di ricevere l’approvazione dal papa. Íñigo López de Loyola apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà dei Paesi Baschi. Dopo essere stato ferito nel 1521 mentre partecipava alla difesa di Pamplona, nel regno di confine della Navarra, assediato dai Francesi, decise di lasciare la carriera militare. Nello stesso modo improvviso di Lutero quando credette di essere scampato a una morte certa, Ignazio nella malattia si convertì in un soldato al servizio di Cristo. In una grotta vicina alla città catalana di Manresa, rifletté su quella che fino ad allora era stata la sua vita. Il processo di autopurificazione mediante l’abbandono di se stessi prese corpo negli esercizi spirituali, una pratica destinata a garantire che l’anima fosse ben preparata per uscire a testa alta dallo scontro. La luce accecante che dava solidità alle sue convinzioni lo rese sospetto agli occhi dell’Inquisizione, che gli proibì di predicare per tre anni. Allora decise di trasferirsi a Parigi per studiare filosofia e teologia. Nell’anno 1528 entrò nel Collège Montaigu, dove fino a poco tempo prima aveva studiato Calvino. Con un piccolo gruppo di compagni si trasferì a Roma, dove fu costretto ad affrontare nuove accuse di eresia. Una delle prime mani amiche che trovò fu quella del cardinal Contarini che, impressionato dopo aver visto i gesuiti agire a Venezia, intervenne direttamente per ottenere l’approvazione papale per la nuova confraternita chiesta da Ignazio. Ignazio di Loyola non aveva mai letto uno scritto di Lutero. Non aveva alcun interesse per le dispute teologiche. Quello che desiderava era portare nuovi fedeli a Cristo. La sua proposta era quella di un ordine senza convento né cantici propri, con una grande mobilità dei suoi membri, con una sottomissione totale a un superiore eletto a vita e, innanzitutto, con un voto aggiuntivo di obbedienza al romano pontefice. «Per eseguire tutto quello che il romano pontefice potrebbe comandarci, per andare in tutte le terre, tra Turchi, pagani o eretici, dove ci voglia mandare, senza esitazione o ritardo alcuno, senza fare domande, senza porre condizioni e senza aspettarsi una ri-
compensa». La sua esperienza militare ebbe una profonda incidenza nella sua nuova vita come milites Christi. I membri della Compagnia di Gesù avrebbero dovuto mostrare che l’educazione e il soccorso ai poveri serve a salvare le anime. Questa era la missione dei gesuiti. I missionari stessi avrebbero ricevuto un’educazione conforme all’enorme portata del loro obiettivo, riassunto nel famoso detto, Ad maiorem Dei gloriam. I sacerdoti del nuovo ordine religioso arruolavano nelle loro fila sia quelli che lottavano sia quelli che pregavano per la causa di Cristo. E alla pratica della misericordia unirono anche la causa dei più deboli. E, soprattutto, arruolavano molti giovani. Uno di questi fu Francesco Saverio, che poco dopo si sarebbe imbarcato per l’India e avrebbe lavorato come missionario in Goa, Malacca e Giappone. Il rapporto dei Gesuiti con gli ultimi fece sì che molti li videro come dei superuomini, i cui miracoli di resistenza elevarono non pochi agli altari. Oltre a Ignazio di Loyola, Pietro Canisio, Francesco Saverio e anche un duca, appartenente al perfido lignaggio dei Borgia. Per
comprendere il cambiamento che i gesuiti avevano introdotto nella storia della Chiesa, il caso di questo grande religioso di Spagna costituisce uno degli esempi più affascinanti. Dopo aver portato avanti una brillante carriera politica agli ordini dell’imperatore Carlo V, nel 1545, alla morte della moglie, Francesco Borgia decise di mettere ordine nelle sue questioni familiari e prendere i voti dei gesuiti. Fondò nella sua città di Gandía la prima università dell’ordine, di cui nel 1565 divenne il terzo generale. L’ispirazione gesuitica fece sì che almeno una parte della fortuna acquisita in modo corrotto dal più infame titolare del trono di Pietro, il suo antenato papa Alessandro VI, fosse infine utilizzata per delle opere buone. Negli anni successivi, la Compagnia si allargò in modo vertiginoso. Parigi, Lisbona, Coimbra, Padova, Lovanio e Valencia ospitarono le prime comunità. Nell’Europa centrale, la Compagnia creò veri e propri campi di formazione per i suoi comandi spirituali. Fondò numerose scuole: a Colonia nel 1544, a Ingolstadt nel 1549, a Vienna nel
LOYOLA. La basilica
circonda la casa natale del fondatore della Compagnia di Gesù, ad Azpeitia. In basso, statua policroma di sant’Ignazio di Loyola (Museo Diocesano di Sant’Ignazio di Guazú, Paraguay).
133
LA RIFORMA CATTOLICA
PAESI BASSI GERM FRANCIA 17
L’espansione dei gesuiti e il loro impegno in difesa del Cattolicesimo
CORONA DI CASTIGLIA
Dalla sua fondazione nel 1540 da parte di Ignazio di Loyola, la Compagnia di Gesù divenne un vero e proprio esercito al servizio sia del papa sia della riforma della Chiesa cattolica, definita nel Concilio di Trento. Il suo lavoro sarebbe stato fondamentale nel trionfo del Cattolicesimo anche in territori come la Boemia, in cui era radicato il Luteranesimo. In linea con la sua formazione militare, Ignazio di Loyola fondò l’ordine dei gesuiti pensando a «uno squadrone di cavalleria leggera» al servizio del papa, allo scopo di lottare per «la salvezza e la perfezione del prossimo» in qualunque angolo del mondo. Per questo, praticamente dalla nascita della compagnia, i suoi membri erano disposti a partire immediatamente laddove ci fosse bisogno. Per dare all’ordine un carattere più agile ed efficace, sant’Ignazio arrivò persino a eliminare l’obbligo di alcune pratiche religiose tradizionali tra gli uomini della Chiesa cattolica, come la partecipazione quotidiana al servizio liturgico o determinate penitenze e digiuni. I risultati non si fecero attendere. Nel 1556, per esempio, i gesuiti arrivarono a Praga, dove fondarono una scuola universitaria che diffuse in modo efficace la riforma cattolica nelle terre boeme. Ma non ci misero molto nemmeno a portare a termine la loro attività evangelizzatrice oltre l’Europa. In America del Nord esplorarono il Mississipi e il Canada, e sotto la sovranità spagnola e portoghese mostrarono un rispetto sconosciuto per le comunità indigene guaranì, plasmato nella fondazione dei loro villaggi di convertiti o missioni. In Asia predicarono in India, Cina e Giappone, molte volte pagando il prezzo della loro vita, come in Africa, dove penetrarono attraverso i possedimenti portoghesi.
Bruxelles Le Havre FRANCA Parigi
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CONTEA
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PORTOGALLO Bordeaux
10 Quebec
Cicimechi Tepeuani
Monterrey
Santa Fe
New Orleans
Sinaloa Tarahumara
Florida
Panama Quito
OCEANO PA C I F I C O
Ceuta
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Callao
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SARDEGNA
Madrid 4 Lisboa CORONA Cádiz
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D’ARAGONA
Mes Messina
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Capo Saint Louis Verde
2
Freetown Accra
Pará Pernambuco Bahía
Lima
PERÚ 8
Charcas
3 BRASILE
La Paz San Paolo Rio de Janeiro Tucumán Guaranì Santiago Valparaíso Montevideo Buenos Aires CILE 2 Concepción 5
Araucania
Nap Roma
AT L A N T I C O
NUEVA GRANADA
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Venezia
OCEANO
Caracas Bogotà
Milano
Le Havre Barcellona
Madrid
Valencia Siviglia
New York
L’Avana Messico San Blas Acapulco Veracruz
NUEVA ESPAÑA 7
Lisbona
Maine
Vienna
Lione
Londres Genova Amsterdam Marsiglia Plymouth Firenze París Lyon Pavía Roma
Porto
1552, a Worms nel 1557, a Strasburgo nel 1558, ad Augusta nel 1559 e a Innsbruck nel 1563. Come risulta ovvio, queste città erano piazzeforti in cui il Protestantesimo era solidamente rinchiuso. Intorno al 1630, il Sacro impero disponeva di 2283 seminari, scuole e missioni gesuite. Quando Ignazio e i suoi seguaci iniziarono a predicare in un goffo italiano, la gente rise di loro. Dieci anni dopo si chiedeva ai gesuiti se potevano predicare almeno in due lingue, e loro si difendevano con cinque. In Boemia causarono un grande stupore quando impararono il ceco. Pietro Canisio percorse quasi 10.000 chilometri diffondendo la parola sacra: il percorso di Girolamo Natale lo portò in oltre 35 città, da Palermo a sud fino a Ratisbona a nord, da Lisbona a ovest fino a Vienna a est. Tanto i duchi di Baviera quanto i principi-vescovi dell’impero gli diedero il loro aiuto. Ma non trionfarono solo nelle città. A differenza dei calvinisti, i gesuiti ottennero un successo notevole nelle aree rurali sia in Europa sia al di fuori di essa. I suoi missionari portarono il Cattolicesimo nei boschi e nelle montagne in lungo e in largo 134
38
di B
RIO DE LA PLATA Stretto di Magellano
O C E A N O
Capo Horn
nel mondo: nel 1548 arrivarono in Congo, nel 1549 in Brasile e nel 1551 in Cina. Un percorso prodigioso che li rese protagonisti del processo di mondializzazione della religione cattolica.
Roma si riorganizza A Leone X, il papa de' Medici che aveva spedito la bolla di condanna di Lutero, succedette l’olandese Adriano di Utrecht, un tempo precettore del giovane imperatore Carlo V. Molti si aspettavano da lui che avviasse la riforma della Chiesa in capite et in membris. Attraverso il suo nunzio in Germania fece giungere alla Dieta imperiale riunita a Norimberga nel 1522 una dichiarazione commovente in cui ammetteva la responsabilità del papato nel degrado della Chiesa: «le Sacre Scritture stabiliscono chiaramente – scrisse – che i peccati del popolo hanno la loro origine nei peccati dei sacerdoti […] Sappiamo bene che in questa Santa Sede sono successi fatti riprovevoli da alcuni anni a questa parte: abusi in questioni spirituali e violazione dei comandamenti e così tutto è diventato irritante, per questo non deve stupire che la ma-
A
OCEANO
BASSI
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ANCA NTEA
POLONIA
Praga
Cracovia
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AUSTRIACI Moscú
Milano Venezia Genova Amsterdam
ITALIA
45 Cracovia
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Varsavia
Vienna
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A RT I C O
GERMANIA
Espansione della Compagnia di Gesù intorno al 1615 Contatti con altre chiese Orizzonte missionario: Tentativi falliti Fondazione di missioni Scuole: 1 da 2 a 10 da 11 a 25 più di 26
NAPOLI
Napoli Roma
Estambul
Mesina Messina
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Pechino
Mossul SICILIA Damasco 15 Gerusalemme Lahore Cina Ormuz Il Cairo Delhi Calcutta Guangzhou Macao Malabar Aden Goa Manila Capo Guardafui Cochin Etiopia Malacca
Accra
N O
Giappone
Kagoshima
Congo
Zanzibar
Mozambico
Batavia
OCEANO
Stretto d i To r r e s
INDIANO
1
ANGOLA Città del Capo
Sidney
Capo di Buona Speranza
SAN FRANCESCO SAVERIO. Conosciuto come l’apostolo delle Indie, questo
A N TA R T I C O
lattia, dalla testa, abbia contagiato gli arti, dal papa ai prelati. Tutti noi, prelati e sacerdoti, abbiamo deviato dal cammino del diritto ed è ormai da tempo che nessuno fa più il bene». Il nunzio confermò in nome del papa che quest’ultimo voleva mettere tutto il suo impegno nel miglioramento della Curia romana. Tuttavia, Adriano non riuscì mai a fare strada a Roma. Morì dopo un pontificato che durò appena tredici mesi. Il suo successore fu Clemente VII, un bastardo appartenente al casato de' Medici, che era rimasto orfano a causa della famosa congiura dei Pazzi a cui aveva partecipato il suo predecessore, papa Sisto IV. Era un uomo colto, amico di Raffaello, Michelangelo e Cellini, ma di una scandalosa frivolezza mondana. I suoi cambi di alleanza in un momento critico delle guerre d’Italia tra Carlo V e il re di Francia Francesco I misero in evidenza il disprezzo machiavellico che provava per gli scrupoli morali. Il frutto più iniquo delle sue macchinazioni fu la devastazione di Roma e la sua stessa umiliazione durante il sacco dell’anno 1527. La sua mancanza di autorità fu
navarrese fu uno dei primi collaboratori di sant’Ignazio di Loyola. Il suo entusiasmo missionario lo portò in India, Cina e Giappone, dove fondò varie comunità cristiane. Nell’immagine, san Francesco Saverio in un olio di Bartolomé Esteban Murillo (Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford).
anche determinante per il destino dell’Inghilterra. Durante il suo pontificato, nessuno tornò a menzionare le riforme promesse. Così, si dovette aspettare Paolo III perché una nuova linea d’azione si facesse strada a Roma e nella cristianità. Alessandro Farnese, membro di una delle famiglie più potenti d’Italia, imparentata direttamente con l’imperatore Carlo V, accedette al trono di Pietro all’età di sessantasei anni. Già come cardinale era conosciuto per il suo smodato nepotismo con i figli che aveva avuto da una dama dell’aristocrazia romana, che viveva in casa sua. Aveva fatto carriera all’ombra dei trafficanti di potere quali erano stati Alessandro VI e Giulio II. Nonostante questo, gettò le basi per il rinnovamento e la trasformazione della Chiesa cattolica, che avrebbero garantito una forte espansione nei decenni successivi. Anche se non aveva neanche lontanamente la forza di un riformatore, dovette piegarsi all’idea che solo un programma di riforme interne avrebbe potuto contribuire a ristabilire la decrepita autorità morale del pontificato. Sebbene per farlo avrebbe dovuto 135
LA RIFORMA CATTOLICA
IL PAPA PAOLO III.
Alessandro Farnese fu eletto papa nel 1534. Appartenente a un’influente famiglia italiana, fece una vita di lusso alla corte vaticana e beneficiò la sua famiglia. In quest’olio di Tiziano appare con i nipoti Ottavio e Alessandro Farnese (Museo di Capodimonte, Napoli).
IL CONCILIO DI TRENTO (pag. 137).
Così vide una sessione del concilio nella cattedrale di Trento un artista svizzero anonimo nel 1769, che si ispirò a un originale datato 1545. 136
superare la dura resistenza sia della Curia romana, dalle radicate abitudini mondane, sia della sua cerchia familiare. Il suo programma voleva concentrare il potere nelle mani del successore di Pietro e fare di Roma il centro della cristianità e il caput mundi, e questo suscitò non poca opposizione tra i vescovi residenziali. Ma tutti coloro che a Roma, in Italia e in Europa erano consapevoli di quanto la situazione fosse insostenibile, fossero essi membri degli ordini religiosi, dell’episcopato o di settori di laici, trovarono per la prima volta al soglio pontificio qualcuno disposto ad ascoltarli. Che genere di riforma bisognava quindi applicare? Di fronte a Paolo III si aprivano fondamentalmente due opzioni. Da un lato, quella incoraggiata dalla fazione guidata dal cardinale Gian Pietro Carafa, il futuro papa Paolo IV. Proveniente da una famiglia aristocratica napoletana, il suo pensiero si legava a quello dei riformatori del secolo precedente, come il cardinale spagnolo Jiménez de Cisneros. Confidava di eliminare i «rifiuti dalla Chiesa» mediante l’applicazione di un
rigorismo morale-disciplinare. Provava una profonda diffidenza per tutto quello che significava dialogo con le posizioni protestanti, così come per quella che considerava una condotta eccessivamente accondiscendente da parte dell’imperatore Carlo V. Nel 1542 fu il motore della rifondata Inquisizione romana, che inaugurò la sua attività perseguitando alcuni cardinali che considerava eccessivamente permissivi. Contro di lui c’era il veneziano Gasparo Contarini che, essendo stato servitore della diplomazia della Serenissima prima di diventare cardinale, aveva assistito nel 1521 all’intervento di Lutero nella Dieta di Worms. Da buon lettore di sant’Agostino, Contarini disponeva del ricco bagaglio dell'umanista cristiano. In contrapposizione a Carafa, la sua volontà di riforma era fortemente influenzata dagli ideali della chiesa primitiva come anche dalla patristica. Il piano di rinnovamento del cardinal Contarini fu guidato dalla speranza di vincere, attraverso riforme profonde, il grosso dei protestanti, allo scopo di una riunificazione. Contarini divenne il centro degli ideali riformatori. Sotto la sua direzione, una commissione di studiosi elaborò nel 1537 un rapporto destinato al papa: il Consilium de emendanda ecclesia. Con una franchezza poco comune, sviluppava un programma di riforme, «nella testa e negli arti», che mostrava apertamente la via per la soppressione di un gran numero di abusi. Un progetto audace che inaugurava l’offensiva del movimento riformista a Roma. La questione di fondo era se esisteva ancora la possibilità di una concordia generale con i Protestanti e se bisognava invitare questi ultimi a partecipare al grande concilio che in questo periodo iniziava a spuntare all’orizzonte.
Il Concilio di Trento La necessità di un concilio generale della Chiesa cattolica, che mettesse freno agli abusi e agli eccessi imperanti, era stata suggerita ripetutamente già dal secolo precedente. Ma Roma faceva orecchie da mercante per paura che fosse utilizzato per indebolire il potere del papa o, cosa ancora peggiore per il pontefice, che l’imperatore ne approfittasse per rafforzare il suo. Non a caso, Carlo V si era dimostrato un sostenitore entusiasta del concilio sin dallo scoppio della Riforma. Come riferiscono più avanti le sue memorie: «Bisogna sapere che, dall’anno 1529, che fu la prima volta che passò in Italia e si incontrò con papa Clemente, non smise mai di chiedere continuamente, ora in persona ora attraverso i suoi ministri, il concilio generale come rimedio della citata Germania e dei peccati che andavano moltiplicandosi nella cristianità».
137
Il papa Gregorio XIII e il nuovo calendario gregoriano La necessità di eliminare lo sfasamento tra l’anno solare e l’anno civile giuliano portò Gregorio XIII a promuovere la riforma del calendario che oggi porta il suo nome e che fu promulgata nel 1582 con la bolla Inter gravissimas. In questo modo si riuscì a soddisfare uno dei precetti del Concilio di Trento: la regolarizzazione del calendario liturgico. Nell’anno 325, il Concilio di Nicea adottò per il mondo cristiano il calendario giuliano, stabilito nel 46 a.C. da Giulio Cesare. Tuttavia, il passare dei secoli permise di osservare che c’era uno sfasamento tra l’anno liturgico e l’anno solare o anno tropico, ovvero, il tempo impiegato dalla Terra per fare un giro completo intorno al Sole. Ai tempi di Trento, lo sfasamento aveva raggiunto i dieci giorni poiché l’anno giuliano aveva 11 minuti e 14 secondi in più dell’anno solare. Per risolvere questo problema, Gregorio XIII costituì la Commissione del Calendario, di cui facevano parte l’astronomo gesuita tedesco Christophorus Clavius, l’astronomo italiano Luigi Lilio e il matematico spagnolo Pedro Chacón. La sua riforma fu approvata nel 1580 e messa in atto due anni dopo a partire dalla promulgazione della bolla papale Inter gravissimas. Si stabiliva così che al 4 ottobre 1582 sarebbe seguito il 15 ottobre. In questo modo, lo sfasamento di dieci giorni rispetto al calendario giuliano era risolto. Per evitare che questo problema si ripetesse di nuovo, si decise di eliminare tre anni bisestili ogni quattro secoli. Questo nuovo calendario finì per essere utilizzato non solo nei territori cattolici ma anche in quelli protestanti. In quelli ortodossi arrivò un po’ dopo: la Russia lo adottò a partire dalla Rivoluzione sovietica del 1917 e la Grecia nel 1923. Nell’immagine, Gregorio XIII alla commissione per la riforma del calendario nel 1582 (Archivio di Stato, Siena).
RELIQUIARIO SVIZZERO DEL XVI SECOLO.
Destinati a conservare reliquie o ricordi dei santi, i reliquiari sono stati in uso dai primi tempi della Chiesa (Historisches Museum, Basilea).
Quando infine Paolo III si decise a riunire il concilio, lo fece, in gran misura, forzato dalla situazione: era meglio prendere l’iniziativa che subire l’umiliazione di vedersela imporre. L’anno scelto per la sua apertura, il 1542, era indicativo dei suoi timori. Carlo V si scontrava in una nuova guerra contro Francesco I, quindi era poco probabile che si trovasse nelle condizioni di esercitare la pressione per imporre le sue tesi. Alla fine, la prima sessione del concilio non si tenne fino al mese di dicembre del 1545. Poco prima, Contarini aveva raggiunto un principio di accordo con Filippo Melantone sulla “doppia giustificazione” nella Dieta imperiale di Ratisbona. Eck e Calvino lo considerarono accettabile. Il mondo era a bocca aperta. Sembrava che le differenze si potessero risolvere solo a parole. Ma Lutero lo smentì. E poco dopo lo fece Roma. Il pessimismo sulle possibilità di comprensione si impadronì di entrambi gli schieramenti. Anche la Bolla di Indizione del Concilio redatta dal “moderato” Jacopo Sadoleto lasciava inten-
dere chiaramente che il tempo della concordia era ormai passato. Gasparo Contarini morì poco prima che il concilio si mettesse all’opera. Sin dall’inizio, tutto sembrava votato al fallimento. La rappresentazione dei padri conciliari era, per usare un eufemismo, impari. Nonostante gli sforzi che fecero i più moderati per convincerli, nessun Tedesco si presentò. Non si presentarono nemmeno i rappresentanti di quei territori che allora erano in guerra, come la Polonia, l’Irlanda o l’Ungheria. Con queste premesse, il concilio “generale” fu in realtà una riunione di meno di duecento vescovi provenienti per la maggior parte dalla Spagna e dall’Italia. In più, essi erano profondamente divisi. Gli Spagnoli ostentarono una superiorità morale che non favorì assolutamente lo scambio di opinioni. Avanzarono la ferma opinione che molti degli abusi che si cercava di correggere erano radicati da tempo nei territori peninsulari dei monarchi spagnoli. E in gran parte avevano ragione. Le riforme del cardinale Jiménez de Cisneros durante il regno dei Re Cattolici erano
state un vaccino efficace contro la “peste luterana”. Sostennero che la residenza dei vescovi nelle loro diocesi era una questione di ius divinum, cosa a cui si opposero molti Italiani direttamente coinvolti nel governo della Curia romana. Quando il tema fu sottoposto alla suprema autorità del papa, quest’ultimo, per paura delle conseguenze dell’appoggio all’una o all’altra fazione, si limitò a esigere che la questione fosse ovviata e destituì i suoi due principali legati, i cardinali Gonzaga e Seripando. «Sono caduti in disgrazia – scrisse un vescovo spagnolo presente a Trento – perché si sono rifiutati di difendere gli abusi della Curia. Tutti gli uomini buoni hanno perso la fiducia che il concilio raggiunga un risultato favorevole e temono che esso provochi un grande danno». Pertanto, le cose non sarebbero potute iniziare nel modo peggiore. Quando le sessioni del concilio si interruppero nel 1547, molti protestarono, perché in tutto quel tempo non era stata avviata alcuna riforma istituzionale né erano state tracciate delle prospettive chiare per combattere l’eresia. La pausa
permise appena di ricomporre l’unità. La riunione successiva, tenutasi tra il 1551 e il 1552, attirò pochi Tedeschi e i Francesi non furono presenti perché erano in guerra con l’imperatore. Papa Giulio III fu costretto a sospendere nuovamente le sessioni di fronte alla crisi attraversata dall’autorità imperiale in Germania. Il resto del decennio del 1550 rimase all’ombra poco piacevole di Paolo IV, il papa Carafa, acerrimo nemico della presenza spagnola in Italia, che fu sul punto di rovinare tutto dichiarando una guerra assurda all’imperatore: questa si risolse, infine, con una vittoria schiacciante delle truppe guidate dal duca di Alba, Fernando Álvarez de Toledo, che all’epoca era viceré di Napoli. Quando il concilio si riunì di nuovo, tra il 1562 e il 1563, tutto era cambiato drasticamente. Il focolaio principale dell’eresia in quel periodo non era più il Luteranesimo in Germania ma il Calvinismo in Francia. Filippo II spinse perché si prendessero decisioni drastiche. L’imperatore Ferdinando I, che aveva ereditato il trono imperiale da suo fratello Carlo, preferì imboccare per 139
LA RIFORMA CATTOLICA
L’arte religiosa come mezzo di propaganda e indottrinamento La riforma cattolica successiva al Concilio di Trento portò con sé una scommessa audace sull’arte come mezzo di trasmissione e propaganda dei valori della Chiesa. Pittori, scultori, architetti e compositori ce la misero tutta in questa impresa e crearono opere che offrivano un’immagine trionfale del Cattolicesimo, che doveva riempire di ammirazione l’animo del credente. Il Rinascimento lasciava così il posto al Barocco. Se nel mondo protestante alcuni riformatori arrivarono a discutere sulla necessità di avere immagini plastiche nelle chiese che avrebbero potuto incoraggiare l’idolatria, nel mondo cattolico la posizione della Chiesa fu molto diversa: l’arte era un mezzo di propaganda che doveva essere sfruttato al massimo per trasmettere la verità della fede in Cristo. Per questo, gli artisti misero anima e corpo per trovare un linguaggio che scuotesse l’animo di coloro che andavano in chiesa, rivelandogli tutta la grandezza e lo splendore del Cattolicesimo. E poco importava che quest’arte fosse teatrale e sensazionalistica. Inoltre, la scenografia, con la luce come protagonista, invase la concezione dello spazio mentre le pareti delle chiese si riempivano di dipinti in cui i santi mostravano il loro infinito repertorio di miracoli, quando non apparivano direttamente in estasi. La Basilica di san Pietro in Vaticano è il miglior esempio di questa brama di impressionare a partire dalla grandiosità. In Spagna, invece, si seguì una via più austera e drammatica, che cercava l’empatia dello spettatore attraverso la sofferenza dei santi e di Cristo stesso. Il naturalismo dell’arte delle immagini sacre è la sua migliore creazione. Nell’immagine, La pietà di Gregorio Fernández (Museo Nazionale di Scultura, Valladolid). LA VERGINE MARIA. Con le sue due mani
alzate, Maria reclama la compassione dello spettatore di fronte al suo dolore.
GESÙ. Le ferite del corpo
nudo di Cristo appaiono rappresentate con grande realismo.
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conto suo la strada del dialogo con i luterani e ritenne che questo concilio era ben poco ecumenico. Nonostante tutte le divisioni interne, gli accordi oscuri stretti dietro le quinte e i furiosi scontri personali, il Concilio di Trento fu tuttavia in grado di dare alla luce una risposta chiara delle posizioni cattoliche, cosa di cui fu sempre privo il Protestantesimo.
Il volto del Cattolicesimo rinnovato Riferirsi ai decreti tridentini come a una semplice risposta “dogmatica” presuppone una certa rigidità autoritaria che non rispecchia la realtà. Le caratteristiche principali del Consilium promosse da Contarini venticinque anni prima furono finalmente tenute in considerazione. La chiarezza risultò vivificante e la popolazione cristiana, che diffidava del papato, ma che era davvero confusa di fronte alle diverse alternative che le si presentavano, accolse con molto piacere il ritorno dell’autorità. Fu chiaro a tutti che il Protestantesimo era un’eresia che doveva essere estirpata completamente e distrutta. A partire dal 1564, a nessuno rimase alcun dubbio su quello che un cristiano cattolico doveva credere e praticare. Il Concilio di Trento fu uno dei momenti culminanti di tutta la storia del Cattolicesimo. Senza dubbio, il punto di incontro di tutte le forze cattoliche della riforma. Ma anche il rifiuto del dialogo con il mondo riformato. Per respingere con maggior forza la giustificazione mediante la sola fede, Trento enfatizzò il valore delle opere buone e sviluppò la nozione del merito che si otteneva con esse. Contro Lutero e Zwingli, che si erano burlati del valore delle indulgenze, o contro Calvino, che aveva ironizzato sul culto delle reliquie, i padri conciliari conservarono e rafforzarono tutte le vecchie tradizioni di devozione; e, naturalmente, mantennero anche il culto per le immagini, per quanto questo pesasse ai calvinisti olandesi. Per il timore di favorire l’idea luterana del sacerdozio universale, si stabilì una distanza marcata tra il celebrante e i fedeli che partecipavano alla messa. Si esaltò il cerimoniale e lo si giustificò con argomentazioni psicologiche. Non si concesse ai laici né la Bibbia né la messa in lingua volgare. Il concilio non solo conservò i sette sacramenti, ma rifiutò anche la comunione sotto le due specie voluta da Lutero e accettata in precedenza in determinate occasioni. La presenza reale di Gesù Cristo nell’eucaristia fu affermata con forza contro le teorie di Zwingli e Calvino. Altari monumentali e processioni grandiose simboleggiarono il trionfo del sacramento sull’eresia, «perché gli avversari siano confusi dalla sua gloria o portati a maledire i loro er-
rori». Per opporsi in maniera ancor più decisiva al Protestantesimo, il concilio diede origine al confessionale – che a sua volta diede poi luogo a impressionanti esempi di architettura nei mobili delle chiese della Baviera o del Belgio – esaltò il culto della Madonna e dei santi e oppose il “trionfalismo” cattolico alla modestia e alla nudità della Riforma. Il concilio impose anche riforme profonde nell’ordine disciplinare interno della Chiesa: moltiplicò le diocesi, specialmente in quei territori che erano reputati maggiormente minacciati, come il Belgio e la Boemia; costruì, o ricostruì i templi; creò seminari, università e scuole e utilizzò fino alla fine l’instancabile e fedele attività dei diversi ordini religiosi. Ci volle sicuramente un po’ di tempo perché il programma producesse sacerdoti degni e sufficientemente istruiti, capaci di misurarsi con i migliori predicatori protestanti. Ma, alla fine, essi arrivarono. Molto probabilmente, l’impresa del Concilio di Trento non si sarebbe conclusa in modo così fecondo se non avesse avuto il beneficio di
un’accurata programmazione. Nella sua fase finale, senza dubbio quella che si rivelò più produttiva, questo fu possibile grazie all’intervento di una figura che risultò determinante: l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo. Per molti versi, la sua carriera ecclesiastica poteva essere considerata come un esempio paradigmatico del nepotismo papale. Era nipote del pontefice Pio IV e questo gli permise di ottenere la mitra di Milano, una delle più importanti della cristianità, a soli ventidue anni. Amava straordinariamente la caccia e si dedicava a essa, secondo alcuni, con maggior entusiasmo di quello che conveniva alla sua dignità. Giocava a scacchi e si divertiva con la musica; lui stesso suonava il liuto e il violoncello. Gli piacevano lo sfarzo e la fastosità. Era molto attratto dalle serate letterarie e a questo scopo fondò un’accademia con il nome di Notti Vaticane. Ma la morte inattesa del fratello Federico lo turbò profondamente. Come successe ad altri uomini del suo tempo, anche Carlo Borromeo sperimentò la chiamata a un cambio di vita radicale.
LA PESTE DI MILANO.
Nel comportamento di Carlo Borromeo con il suo popolo durante i mesi terribili in cui la peste devastò la città si fonda la fama di uno degli ecclesiastici più brillanti del secolo. Olio di Giovanni Battista Crespi, detto Il Cerano (1602), conservato nel Duomo di Milano.
NAVATA CENTRALE DI SAN PIETRO A ROMA (pag. 142-143). Sotto
la cupola di Michelangelo, Gian Lorenzo Bernini eresse, tra il 1624 e il 1633, questo baldacchino sostenuto da colonne tortili di 26 m di altezza. 141
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LA RIFORMA CATTOLICA
Il Borromeo fece gli esercizi spirituali secondo le regole di sant’Ignazio e si trasformò in un uomo nuovo. A partire da quel momento praticò e impose ai suoi collaboratori una rigida disciplina. La sua preoccupazione principale fu la formazione di un clero capace e virtuoso, per questo dedicò al seminario la sua attenzione principale. Fu attento anche all’educazione dei giovani e fondò il Collegio Elvetico per Svizzeri cattolici, il Collegio Borromeo a Pavia, il Collegio dei Nobili di Milano e l’università di Brera, che affidò ai gesuiti. Sul piano sociale, creò un’infinità di strutture volte alla beneficenza, come rifugi di penitenti, orfanotrofi e case d’accoglienza per i bisognosi. Quando nell’agosto dell’anno 1576 giunse a Milano una terribile epidemia di peste, Carlo Borromeo capì qual era il suo compito. Fece chiedere l’elemosina per la città e lui stesso vendette il suo patrimonio e i paramenti del palazzo episcopale per servire i lazzaretti pieni di appestati. Dormiva due ore scarse al giorno per poter andare personalmente laddove c’era bisogno e visitava tutti i quartieri, dando conforto a coloro che si perdevano d’animo e impartendo gli ultimi sacramenti ai sacerdoti che soccombevano nell’assistenza ai malati. Fu incurante del pericolo di contagio e ordinò un triduo di preghiere pubbliche e processioni. Con la sua condotta personale, Carlo Borromeo spiegò meglio di qualunque altro decreto conciliare in cosa consisteva il nuovo volto della Chiesa. Fu senza dubbio uno dei giganti della riforma cattolica.
Santa Teresa di Gesù e l’esperienza mistica Di famiglia ebraica convertita, la fondatrice dell’Ordine delle carmelitane scalze passò dall’essere controllata inizialmente dall’Inquisizione a diventare il simbolo dei valori cristiani promulgati da Trento. Fu santificata nel 1622. In un’Europa assalita dalla Riforma, Teresa de Cepeda e Ahumada, santa Teresa di Gesù, fu una delle protagoniste del recupero del misticismo nell’ambito cattolico, ovvero, dell’unione del credente con Dio attraverso l’estasi spirituale. Queste esperienze mistiche, che Teresa iniziò a vivere a partire dal decennio del 1540, diventarono per lei una seconda vita. E se anche inizialmente suscitarono la diffidenza dei suoi superiori, finirono per imporsi come il simbolo di una nuova religiosità interiore in cui la preghiera apre la strada verso la divinità. Quindi, come lei stessa diceva in scritti come Cammino di perfezione o Las moradas (Le dimore): «Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace». Nell’immagine, quadro anonimo del XVII secolo, in cui santa Teresa stende il suo mantello protettivo su una comunità di carmelitane (collezione privata).
L’estetica del Barocco OSTENSORIO. Realizzato
in materiali preziosi, in stile rinascimentale con influenze plateresche, questo ostensorio del XVI secolo a forma di torretta fa parte del tesoro della cattedrale di Sigüenza. Fu realizzato dall’orafo Damián Castro. L’ostensorio è utilizzato nella liturgia cattolica per esporre l’ostia consacrata alla devozione dei fedeli.
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Quella posta da Trento non era una questione meramente teologica allo scopo di suscitare la discussione tra gli iniziati, ma faceva riferimento a dei modelli di religiosità collettiva che dovevano essere adottati. In particolare i gesuiti erano molto consapevoli del gran numero di problemi che poteva arrecare l’immagine di una divinità dominatrice, distante e inaccessibile, come quella proposta nel XIV secolo dal francescano inglese Guglielmo di Occam, che aveva tanto influito sugli errori di Lutero. Una divinità con queste caratteristiche provocava sconforto e favoriva la passività e il disinteresse per qualunque sforzo per meritare la salvezza. Per evitarlo, bisognava promuovere una religione vicina alle persone, basata sulla contemplazione dell’umanità di Gesù Cristo, che costituiva il modello per eccellenza. Il metodo più efficace per raggiungere questo scopo era quello della “composizione di luogo”, esposto da Loyola nei suoi esercizi spirituali, che consisteva nella meditazione delle scene principali della vita del Salvatore (la Passione, la Morte e la Risurrezione) per suscitare nell’anima senti-
menti di contrizione e lode verso l’Onnipotente. E il modo migliore per provare che questo era possibile consisteva nel mostrare l’esempio di coloro che dopo aver corso nello stadio avevano raggiunto la meta. In questo modo, i santi andarono a occupare il posto che gli eroi classici avevano avuto nel Rinascimento. Il loro eroismo si fondava sulla difesa della fede e i loro miracoli rivelavano il loro stretto contatto con la divinità. Se tra il 1523 e il 1588 non c’erano state canonizzazioni, a partire da quest’ultima data ce ne furono a valanghe e raggiunsero il culmine nel 1622 con l’elevazione agli altari di quattro santi spagnoli: Ignazio di Loyola, Francesco Saverio e Teresa di Gesù, oltre al patrono di Madrid, Isidoro l’Agricoltore. Per facilitare la “composizione di luogo”, la Chiesa cattolica ripose tutta la sua fiducia nella capacità persuasiva delle parole e delle immagini d’accordo con una teoria i cui principi fondamentali erano stati formulati nel Concilio di Trento: «E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa
ragione la Chiesa […] ha stabilito […] delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio». E, più avanti, esortava i vescovi affinché «attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con le pitture e con altre immagini, il popolo viene istruito e confermato nel ricordare gli articoli di fede e nella loro assidua meditazione. Ed inoltre, che da tutte le sacre immagini si trae grande frutto, non solo perché vengono ricordati al popolo i benefici e i doni che gli sono stati fatti da Cristo, ma anche perché nei santi sono posti sotto gli occhi dei fedeli le meraviglie e gli esempi salutari di Dio, così che ne ringrazino Dio, cerchino di regolare la loro vita e i loro costumi secondo l’imitazione dei santi, siano spinti ad adorare ed amare Dio e a esercitare la pietà».
Senza dubbio questo programma impiegò vari decenni per essere tradotto visivamente, ma quando ciò avvenne, intorno al 1600, ci fu un vero e proprio boom. Nel giro di pochi anni, le chiese cattoliche di tutta Europa si riempirono di quadri, affreschi, ancone, sculture o decorazioni nei quali gli artisti agirono come coloro che trasmettevano il messaggio concepito dai teologi, allo scopo di persuadere i fedeli e rafforzare gli aspetti principali del dogma messo in discussione dai Protestanti. Anche se non fu la loro unica fonte di ispirazione, la riforma cattolica contribuì in modo decisivo alla conformazione dell’estetica del Barocco. E la nuova arte costituì un genuino ed efficace mezzo propagandistico, un modo perfetto per trasmettere al popolo il contenuto dei dogmi sanciti a Trento, e per far conoscere il nuovo modello di virtù costituito dalle vite dei santi e dei mistici. Il dominio del chiaroscuro che caratterizza l’espressione pittorica del Barocco non è altro che lo specchio di un’epoca radicale, disegnata in bianco e nero, che diede origine a una nuova Europa politicamente polarizzata e spiritualmente nuova. 145
APPENDICI L’Europa della Riforma Cronologia comparata: Europa, Asia, Africa e America Elenchi dinastici Bibliografia Indice analitico Immagini
148 150 152 154 155 159
NELLA PAGINA ACCANTO. Ritratto presunto di Lucrezia Borgia, figlia del papa Alessandro VI, rappresentata come
Flora; opera attribuita a Bartolomeo Veneto, realizzata intorno al 1520-1525 (Städel Museum, Francoforte).
147
APPENDICI
L’EUROPA DELLA RIFORMA
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Edimburgo
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Dublino
Copenhagen Königsberg
R EG N O D ’ I N G H I LT E RRA
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Firenze RE P UBBL I CA D I G E N OVA STATI STATO DI F I RENZE PO N TI FI CI
Barcellona
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REGNO D I NAPO LI
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M E D I T E
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148
R R A N E O
Messina Palermo
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Napoli
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Ceuta
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Confini del Sacro romano impero germanico Domini di: Asburgo spagnoli Asburgo austriaci
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Konya
Atene
S IR IA Rodi
Famagosta
Candia Damasco
149
CRONOLOGIA COMPARATA EUROPA 1450-1475
1476-1500
1501-1525
• Scoppia in Inghilterra la guerra delle Due Rose tra la casa dei Lancaster e quella degli York • Rivolta in Catalogna contro Giovanni II d’Aragona • Matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona • Isabella la Cattolica è proclamata regina di Castiglia alla morte di Enrico IV
• Carlo il Temerario muore nella battaglia di Nancy • Maria di Borgogna si sposa con Massimiliano d’Asburgo • Predicazione di Savonarola a Firenze • Fine della guerra delle Due Rose e inizio della dinastia Tudor • I Re Cattolici conquistano Granada • Muore Lorenzo il Magnifico a Firenze • Trattato di Tordesillas: Spagna e Portogallo si dividono il Nuovo Mondo
• Lega di Cambrai: Giulio II, Ferdinando il Cattolico, Luigi XII di Francia e Massimiliano d’Asburgo contro Venezia • Carlo V viene eletto imperatore di Germania • Prima guerra d’Italia tra Carlo V e Francesco I • Scoppia la “guerra contadina” in Germania
1450-1475
1476-1500
1501-1525
• Costantinopoli cade nelle mani dell’imperatore ottomano Maometto II • Inizio della guerra di Onin in Giappone • I Turchi sconfiggono Skanderbeg e mettono fine alla resistenza albanese
• Pace tra l’impero ottomano e Venezia • Nasce Babur, fondatore della dinastia mongola e creatore dell’impero
• Albuquerque arriva in India come viceré di Portogallo • Babur conquista la città di Kabul e si mette alla testa di un regno prospero • A Chaldiran, Selim I sconfigge Ismail I e strappa il territorio dell’Anatolia orientale ai Persiani safavidi • Magellano scopre le Filippine
Fatti culturali:
• Invenzione della stampa • Nicola Cusano inventa le lenti concave per la correzione della miopia
Fatti culturali:
• Martin Lutero pubblica le sue 95 tesi contro le indulgenze • Leonardo da Vinci dipinge La Gioconda • Michelangelo dipinge la Cappella Sistina • Machiavelli scrive Il principe
ASIA
Fatti culturali:
• Maometto II inizia a costruire il palazzo di Topkapi • Costruzione della Moschea blu di Istanbul • Inizio della costruzione della Muraglia Cinese nella Cina del nord
mongolo in India In Asia centrale, Dayan Khan •si impadronisce del potere Primo sollevamento della setta • Ikko-ikki in Giappone • Vasco da Gama arriva a Calicut Fatti culturali:
• Lo shogun Yoshimasa costruisce il Padiglione d’argento (Ginkakuji) nella città giapponese di Kyoto
Fatti culturali:
• Inizia lo sfruttamento delle miniere d’argento di Yunnan, in Cina
AFRICA E AMERICA 1450-1475
• Africa: Il portoghese Pedro de Sintra arriva sulle coste della Sierra Leone • Sonni Ali, del regno di Songhai, inizia l’espansione del suo impero. I Portoghesi attraversano l’Equatore • America: Montezuma I inizia la Guerra dei Fiori • Gli Incas si annettono al regno Chimú • Pachacútec abdica a favore del figlio Túpac Yupanqui
150
1476-1500
• Africa: Vasco da Gama doppia il Capo di Buona Speranza • America: Cristoforo Colombo arriva a Guanahani • Giovanni Caboto attraversa l’Atlantico e scopre Terranova • Fondazione di La Isabela, prima città spagnola in America Fatti culturali:
• Si intaglia la Pietra del Sole, con il calendario azteco
1501-1525
• Africa: I Re Cattolici occupano Orano • I pastori oromo invadono l’Etiopia • America: Álvares Cabral arriva
sulle coste del Brasile
• Balboa scopre il Pacifico • Hernán Cortés arriva a Tenochtitlan, capitale dell’impero azteco Fatti culturali: • Martin Waldseemüller pubblica la sua Universalis cosmographia, dove per la prima volta chiama America il Nuovo Mondo
1526-1550
1551-1575
1576-1600
• Saccheggio di Roma da parte delle truppe di Carlo V • Pace delle Dame o di Cambrai tra Francesco I e Carlo V • Clemente VII incorona imperatore Carlo V a Bologna • Enrico VIII si dichiara capo della Chiesa in Inghilterra • Terza guerra tra Francesco I e Carlo V • Apertura del Concilio di Trento
• Trattato di Augusta tra cattolici e luterani in Germania • Vittoria spagnola a San Quintino sui Francesi • Elisabetta I d’Inghilterra consolida la Chiesa anglicana • Chiusura del Concilio di Trento • Filippo II vince i Turchi a Lepanto • Strage di san Bartolomeo in Francia
• Comincia la guerra degli Ottant’anni, chiamata anche delle Fiandre • Esecuzione della regina di Scozia, Maria Stuart • Disastro dell’Invincibile Armata • Editto di Nantes e libertà religiosa in Francia • La Compagnia Britannica delle Indie Orientali ottiene la carta reale dalle mani di Elisabetta I
Fatti culturali:
• Muore Erasmo da Rotterdam a Basilea
Fatti culturali:
• Nascita di William Shakespeare l’edizione più antica • Appare conosciuta del Lazarillo de Tormes
Fatti culturali:
• Francesco Bacone pubblica i suoi Saggi Comparsa di Ornithologiae tomus alter, •di Ulisse Aldrovandi
1526-1550
1551-1575
1576-1600
• Solimano I sconfigge a Mohács Luigi II di Ungheria e Boemia • I Portoghesi arrivano nell’isola di Tanegashima e introducono le armi da fuoco in Giappone • Prima battaglia di Panipat, vittoria assoluta di Babur contro Lodi. Ingresso trionfale ad Agra • Nasce a Urmakot il futuro imperatore mongolo Akbar il Grande • Primo utilizzo in Cina dei cannoni comprati ai Portoghesi • L’imperatore mongolo Humayun prende Kabul y Kandahar
• Scoppia il grande incendio di Istanbul • Akbar è incoronato imperatore • I Portoghesi sono autorizzati a stabilirsi a Macao • I pirati giapponesi si stabiliscono in Cina e risalgono il Fiume Azzurro • Conquista del Bengala da parte delle truppe mongole
• Trattato di Istanbul tra l’impero ottomano e la dinastia safavide Hideyoshi caccia •dalToyotomi Giappone i missionari gesuiti • Akbar introduce il sistema dashala nell’amministrazione • Regno di Wanli e decadenza della dinastia Ming Conquista del Kashmir •indostano da parte dei Mongoli
1526-1550
1551-1575
1576-1600
• Africa: Presa di Tunisi da parte di Carlo I di Spagna
• Africa: Inizia la tratta degli schiavi tra l’Africa e l’America
• Africa: Ceuta è occupata dalla Castiglia
• America: Esecuzione di Cuauhtémoc, ultimo imperatore azteco
• Inizia l’espansione dell’impero Kanem-Bornu con Idris III
America: Fine del regno inca di •Vilcabamba. Esecuzione di Túpac Amaru
• Francisco Pizarro cattura l’inca Atahualpa e si impossessa del Perú
• America: Francis Drake attacca
• Juan de Garay fonda Buenos Aires • Missioni francescane in America
• Nasce il vicereame della Nueva España
Fatti culturali:
• Sen no Rikyu stabilisce i quattro principi fondamentali della cerimonia giapponese del tè
i possedimenti spagnoli a Panama Fatti culturali: de las Casas pubblica • Bartolomé Brevissima relazione della la sua distruzione delle Indie
Fatti culturali: Pubblicazione del Viaggio in •Occidente , attribuito allo scrittore cinese Wu Cheng’en
Fatti culturali: Hernando de Alvarado scrive la Cronaca •messicana
151
APPENDICI
ELENCHI DINASTICI INGHILTERRA Dinastia dei Tudor Enrico VII Enrico VIII Edoardo VI Maria I Elisabetta I
SACRO ROMANO IMPERO GERMANICO 1485-1509 1509-1547 1547-1553 1553-1558 1558-1603
FRANCIA Dinastia dei Valois Luigi XII Francesco I Enrico II Francesco II Carlo IX Enrico III
1498-1515 1515-1547 1547-1559 1559-1560 1560-1574 1574-1589
Dinastia dei Trastamara Isabella I di Castiglia (1474-1504) e Ferdinando II d’Aragona (1479-1516) e V di Castiglia (1474-1504) Giovanna I la Pazza (1504-1555) e Filippo I il Bello (1506)
1516-1556 1556-1598 1598-1621
PORTOGALLO Dinastia degli Avis Alfonso V Giovanni II Manuele I Giovanni III Sebastiano I Enrico I
152
Dinastia degli Oldenburg Cristiano I, re di Danimarca (1448-1481), di Norvegia (1450-1481) e di Svezia (1457-1464) Giovanni I, re di Danimarca (1481-1513), di Norvegia (1483-1513) e di Svezia (1497-1501) Cristiano II di Danimarca e Norvegia 1513-1523 Federico I di Danimarca e Norvegia 1523-1533 Cristiano III di Danimarca e Norvegia 1534-1559 Federico II 1559-1588 Cristiano IV 1588-1648
SVEZIA Dinastia dei Vasa Gustavo I Eric XIV Giovanni III Sigismondo Carlo IX
1523-1560 1560-1568 1568-1592 1592-1599 1604-1611, reggente dal 1599 a 1604
POLONIA 1438-1481 1481-1495 1495-1521 1521-1557 1557-1578 1578-1580
NAPOLI Dnastia degli Aragona Alfonso I il Magnanimo Ferdinando (Ferrante) I Alfonso II Ferdinando II Federico I
1452-1493 1493-1519 1520-1558 1558-1564 1564-1576 1576-1612
DANIMARCA E NORVEGIA
MONARCHIA SPAGNOLA
Dinastia degli Asburgo Carlo I Filippo II Filippo III
Dinastia degli Asburgo Federico III Massimiliano I Carlo V Ferdinando I Massimiliano II Rodolfo II
1442-1458 1458-1494 1494-1495 1495-1496 1496-1501
Dinastia degli Jagellone Casimiro IV Giovanni I Alberto Alessandro I Sigismondo I Sigismondo II
1447-1492 1492-1501 1501-1506 1506-1548 1548-1572
Monarchia elettiva Enrico di Valois Stefano I Báthory Sigismondo III
1573-1574 1576-1586 1587-1632
UNGHERIA Dinastia degli Hunyadi Mattia Corvino
1458-1490
Dinastia degli Jagellone Ladislao II Luigi II
1490-1516 1516-1526
Dinastia degli Szapolyai Giovanni I Giovanni II
1526-1540 1540-1570
Dinastia degli Asburgo Ferdinando I Massimiliano I Rodolfo I Mattia II Ferdinando II
1526-1564 1564-1572 1572-1608 1608-1619 1619-1637
RUSSIA Dinastia dei Rjurik Ivan III il Grande Basilio III Ivan IV Teodoro I
1462-1505 1505-1533 1533-1584 1584-1598
FIRENZE E LA TOSCANA Dinastia de’ Medici Lorenzo il Magnifico Piero il Fatuo Restaurazione della Repubblica Alessandro il Moro Cosimo I Francesco I Ferdinando I Cosimo II
1469-1492 1492-1494 1494-1530 1530-1537 1537-1574 1574-1587 1587-1609 1609-1621
MANTOVA (Dinastia dei Gonzaga) Marchesato di Mantova Ludovico II Federico I Francesco II Federico II
1444-1478 1478-1484 1484-1519 1519-1530
Ducato di Mantova Federico II Francesco III Guglielmo I Vincenzo I Francesco IV Ferdinando I Vincenzo II
1530-1540 1540-1550 1550-1587 1587-1612 1612 1612-1626 1626-1627
MILANO Dinastia degli Sforza Francesco I Galeazzo Maria Gian Galeazzo Maria Ludovico il Moro
1450-1466 1466-1476 1476-1494 1494-1499, corregente dal 1480
Alternanza delle dinastie di Sforza e Valois Luigi XII di Francia Ludovico Sforza Luigi XII di Francia Massimiliano Sforza Francesco I di Francia Francesco II Sforza
1499-1500 1500 1500-1512 1512-1515 1515-1525 1525-1535
Dinastia d’Austria Filippo II di Spagna Filippo III di Spagna
1540-1598 1598-1621
PAPI Martino V (Oddone Colonna) Eugenio IV (Gabriele Condulmer) Niccolò V (Tomaso Parentucelli) Callisto III (Alfonso Borgia) Pio II (Enea Silvio Piccolomini) Paolo II (Pietro Barbo) Sisto IV (Francesco della Rovere) Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo) Alessandro VI (Rodrigo Borgia) Pio III (Francesco Todeschini Piccolomini) Giulio II (Giuliano della Rovere) Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici) Adriano VI (Adriaan Floriszoon Boeyens) Clemente VII (Giulio di Giuliano de’ Medici) Paolo III (Alessandro Farnese) Giulio III (Giovanni Maria Ciocchi del Monte) Marcello II (Marcello Cervini degli Spannocchi) Paolo IV (Gian Pietro Carafa) Pio IV (Giovanni Angelo Medici di Marignano) Pio V (Michele Ghislieri) Gregorio XIII (Ugo Boncompagni) Sisto V (Felice Peretti) Urbano VII (Giovanni Battista Castagna) Gregorio XIV (Niccolò Sfondrati) Innocenzo IX (Giovanni Antonio Facchinetti) Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini) Leone XI (Alessandro di Ottaviano de’ Medici) Paolo V (Camillo Borghese)
1417-1431 1431-1447 1447-1455 1455-1458 1458-1464 1464-1471 1471-1484 1484-1492 1492-1503 1503 1503-1513 1513-1521 1522-1523 1523-1534 1534-1549 1550-1555 1555 1555-1559 1559-1565 1566-1572 1572-1585 1585-1590 1590 1590-1591 1591 1592-1605 1605 1605-1621 153
APPENDICI
BIBLIOGRAFIA
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INDICE ANALITICO A
Aberdeen 97 Adriano VI (papa) 47-48, 134135 Africa 28-29, 31, 134 Aia, L’ 108-109 Aigues-Mortes 51 Alba, dinastia degli 48 Alberti, Leon Battista 25, 33, 35, 40, 117 De pictura 33 Alberto di Magonza (Alberto di Hohenzollern) 66 Alberto I di Prussia 69 Alberto VII d’Austria 109-110 Albizzi, dinastia degli 35 Albret, ducato di 14 Alessandro I Jagellone 24 Alessandro VI (papa) 15, 27, 43, 47-48, 60, 80, 82, 133, 135 Alfonso II di Napoli 38, 39, 40, 46 Alfonso V d’Aragona (il Magnanimo) 43, 46 Alhambra, Decreto di 28 Altdorfer, Albrecht 118, 120-122 La battaglia di Isso 122 San Giorgio e il drago 122 Álvarez de Toledo y Pimentel, Fernando 106, 107, 139 Álvarez de Toledo, Leonor 48 Amboise, castello di 15, 57, 61, 113 Amsterdam 54 Anghiari, battaglia di 60 Angiò, dinastia degli 14, 43, 46 Angoulême 15, 111, 112, 113 Anna di Bretagna 14 Anna di Francia (Anna di Valois) 14 Anna Jagellone di Polonia 23 Anversa 21, 52, 54, 70, 92, 103, 106-109 Aquisgrana 48, 49, 70 Aragona 13, 23, 25, 27, 28, 29, 38, 40, 46, 48, 49, 61, 74, 75, 76, 77, 78, 99, 100, 102 Aragonesi dinastia degli 13, 15, 27, 46 Arezzo 31 Aristotele 32, 39, 40, 41, 73, 89, 117 Politica 32 Arras, Pace di 21 Artois 20 Asburgo, dinastia degli 13, 21-26, 47, 70, 112, 128 Asper, Hans 73 Atene 32 Atlantico, oceano 29, 46, 110 Aubigny 111 Augusta 66, 70, 74, 134 Dieta (1530) 87 Trattato (1555) 101 Austria 14, 22, 25, 50, 70, 108-110 Austria, dinastia di 22, 94 vedi anche Asburgo, dinastia degli Avila, Giovanni di 132 Azpeitia 133
B
Balassi, Bálint 93 Baldung Grien, Hans 120 Baltico, Mar 23, 27, 54, 69 Bamberga 70, 72 Barbara di Brandeburgo 41 Barbaro il Giovane, Ermolao 41 Barbaro, Francesco 41 Barbarossa, Khayr al-Din 51 Barberini, Maffeo vedi Urbano VIII (papa) Barcellona 50, 84, 93, 132 Basilea 54-55, 70, 73-74, 89, 91, 96, 122 Baviera 70, 91, 93, 134, 141 Bazán, Álvaro de 101-102, 104 Bearnesi 14 Beaton, David 97, 98 Beatrice di Napoli 25 Beaumont, François de 114 Beccadelli, Antonio 39 Becchi, Gentile de’ 39 Belgio 52, 54, 109, 110, 141 Belgrado 26 Bellay, Joachim du 92 Défense et illustration de la langue française 92 Bellini, Gentile 41-42 Processione in piazza San Marco 42 Bellini, Giovanni 41- 42 Bellini, Jacopo 42 Bembo, Pietro 91 Bentivoglio, Guido 110 Bergamo 46 Berna 70 Bernardino da Siena 82 Bernini, Gian Lorenzo 141 Berruguete, Pedro 40 Beughem, Cornelius van 90 Incunabula typographiae 90 Bèze, Théodore de 96, 106, 112 Bicocca, battaglia della 48 Biondo, Flavio 38 De Roma instaurata 38 Bisanzio 26 Blois 61 Boccaccio, Giovanni 31-33 De mulieribus claris 32 Decamerone 32 Boemia 14, 21, 24-25, 70, 126, 128, 134, 141 boiardi 26 Bolena, Anna 74, 77-78, 99-100 Bologna 42, 43, 49-50 Basilica di san Petronio 49 Bone, William 98 Boni, Andreus 130 Bora, Katharina von 67 Borbone, ducato di 14 Bordeaux 111 Borgia, dinastia dei 43, 47-48, 57, 60, 80, 133 Borgia, Cesare 43, 57, 60 Borgia, Francesco 132, 133 Borgia, Rodrigo vedi Alessandro VI (papa)
Borgogna, Gran Ducato di 14, 20, 21-22, 26, 29, 48, 50, 52, 54, 102, 110 Borromeo, Carlo 141, 144 Boscán Almogávar, Juan 92 Bosch, Hieronymus 83, 120, 123 Estrazione della pietra della follia 123 Il carro di fieno 120 Il giardino delle delizie 120 Il venditore ambulante 123 La nave dei pazzi 120 Le tentazioni di sant’Antonio120 Bosco, El vedi Bosch, Hieronymus Bosnia 25 Botticelli, Sandro 38, 43, 58-59, 89 La primavera 43 Bouts, Dirk 118 Brabante 20, 106, 107 Bracciolini, Poggio 32 Bramante, Donato d’Angelo 47 Brandeburgo 21, 41 Brant, Sebastian 120 La nave dei folli 120 Brasile 134 Breda, assedio di 109-110 Brema 69, 117 Brera, università di 144 Brès, Guido de 106 Confessio Belgica 106 Brescia 46 Breslavia 69 Bretagna 14, 115 Breton, Giles Le 15 Briçonnet, Guillaume 95-96, 110-111 Brielle 108 Brueghel il Giovane, Pieter 123 Brueghel il Vecchio, Jan 110, 123 Brueghel il Vecchio, Pieter 120, 123 Caduta degli angeli ribelli 123 I cacciatori nella neve 123 Il paese di cuccagna 123 Il trionfo della morte 120 La parabola dei ciechi 123 Nozze di contadini 120, 123 Bruges 21-22, 52, 54, 108, 118 Brunelleschi, Filippo 30, 33-34, 36, 39 Bruni, Leonardo 32, 41, 89 Historiae Florentini Populi 89 Bruno, Giordano 126 Bruxelles 52, 107, 110, 119 Bucer, Martin 70, 74, 96 Buchanan, George 98 Buda 26, 89, 117 Bullinger, Heinrich 103 Compendio sulla religione cristiana 103 Il libro di casa 103 Bundschuh o Lega della scarpa 72 Buonarroti, Michelangelo 33, 36, 60, 124, 126, 135, 141 Bussone da Carmagnola, Francesco 40
C
Caetani, cardinale 66
Calvino, Giovanni 66, 70, 87, 95-99, 103, 106, 111-112, 126, 132, 138, 140 Institutio Christianae Religionis 96, 99, 111 Cambrai (o delle Dame), Pace di 48, 50 Cambridge 55 università di 79 Campin, Robert 118 Canada 134 Canarie, isole 29 Canisio, Pietro 129, 133, 134 Canterbury 74, 78-79 Canyamars, Joan de 84 Caradosso (Cristoforo di Giovanni Matteo Foppa) 117 Carafa, Gian Pietro vedi Paolo IV (papa) Caraibi 28, 101, 109, 127 Carew, Nicholas 75 Carlo d’Orléans (conte di Angoulême) 15 Carlo I di Valois (il Temerario) 20-21 Carlo III (duca di Borbone) 50 Carlo IV di Lussemburgo 128 Carlo V (imp.) 13, 16-17, 22, 25, 29, 47-51, 54, 66-68, 70, 72, 78, 87, 95, 100, 102-104, 108, 114, 128, 133-136, 138 Carlo VIII di Francia 14-15, 24, 27, 82 Carlo VIII di Svezia 27 Carlo IX di Francia 112, 114 Carlomagno 14, 17, 49 Carlstadt, Andreas (Andreas Bodenstein von Karlstadt) 71 Cascina, battaglia di 61 Casimiro IV di Polonia 13, 23-24, 26 Castello, Giovanni Battista (Il Bergamasco) 103 Castiglia 13, 15, 22-23, 25, 27-29, 47-49, 80, 102, 125 Castigliani 13 Castiglione, Baldassarre Il cortigiano 92 Castro, Damián 144 Catalogna 26 Cateau-Cambrésis, Trattato di 112 Caterina d’Aragona 29, 74-78, 99-100 Cavalcanti, Guido 33 Cechi 25 Cellarius, Andreas 131 Cellini, Benvenuto 50, 135 Cesare, Gaio Giulio vedi Giulio Cesare Chacón, Pedro 138 Chambord, castello di 18, 19, 20 Chartres, cattedrale di 115 Chasseneuz, Barthélemy de 17 Christus, Petrus 52, 118 Cicerone, Marco Tullio 31-32, 40, 73, 89, 91-92 De amicitia 89 De officiis 89 Cina 134-135 155
APPENDICI
Cisneros, cardinale vedi Jiménez de Cisneros, Francisco Civitavecchia 61 Claudia di Francia 16 Clavius, Christophorus 138 Clemente VII (papa) 38, 48-50, 78, 112, 135 Clèves, Anna di 74, 77 Clouet, François 20 Clouet, Jean 12 Codussi, Mauro 41 Cognac 15, 17, 50 Coimbra 133 Colet, John 55 Coligny, Gaspard de 114-115 Colleoni, Bartolomeo 40 Colombo, Cristoforo 28 Colonia 21, 64, 70, 134 comuneros, rivolta dei 48 Confederazione Svizzera (o Elvetica) 16-17, 80, 111 Contarini, Gasparo 87, 132, 136, 138, 140 Controriforma 125-145 Copernico, Niccolò 131-132 Coruña, La 102 Costantinopoli 23, 26, 40-42 Costanza 69 Cousin il Vecchio, Jean 20 Cracovia 59, 89, 117 Cranach il Giovane, Lucas 86, 128 Cranach il Vecchio, Lucas 64, 118-120, 122 Cranmer, Thomas 78-79 Crépy, Pace di 17, 51 Crescenzi, Giovanni Battista 94 Crespi, Giovanni Battista 141 Crisolora, Manuele 32 Cristiano I di Danimarca 13 Cristiano II di Danimarca 27 Cromwell, Thomas 70, 78-79
D
Dalmazia 46 Dame, Pace delle vedi Cambrai (o delle Dame), Pace di Danesi 13, 27, 54 Danimarca 13, 26-27, 70 Dante Alighieri 33, 89 Divina Commedia 89 Danzica 22, 23 Delfinato 14, 114 Della Rovere, Giuliano vedi Giulio II (papa) Delorme, Philibert 113 Demostene 32 Deventer 54, 109 Dinteville, Jean de 122 Dionigi Certosino 126 dodici anni, Tregua dei 111 Donatello 32- 34, 36 Gattamelata 34 David 32, 34 Doria, Andrea 50 Drake, Francis 101-102, 105 Dürer, Albrecht 117-118, 120-122 Dyck, Anton van 118
E
Eck, Johannes 67, 138 Ecolampadio, Giovanni (Johannes Oekolampad) 70, 73-74 Edimburgo 98, 99 palazzo di Holyrood 99 156
Edoardo VI d’Inghilterra 74, 77, 99, 100 Egmont, conte di 106-107 Einsiedeln 72 Eisenach 66-67, 69 Eleonora d’Austria 50 Elisabetta di York 74 Elisabetta I d’Inghilterra 66, 77-78, 94, 98-101, 104, 109 Elphinstone, William 97 Émile, Paul 14 Emmerich am Rhein 103 Encina, Juan de la 93 Enrico II di Francia 17, 70, 98, 112 Enrico II di Navarra 96 Enrico III di Francia 112, 114-115, 128 Enrico IV di Francia 114-115, 128 Enrico V di BrunswickLüneburg 69 Enrico VII d’Inghilterra 13, 74 Enrico VIII d’Inghilterra 11, 13, 27, 29, 55, 66, 70, 74-80, 98-100, 122 Atto di Supremazia 66, 101 Erasmo da Rotterdam 40, 54-55, 73, 78, 82, 85-86, 91-92, 95, 96, 102, 120, 122, 132 Adagia 55 De ratione conscribendi 132 Elogio della pazzia 55, 120 Enchiridion (Manuale del soldato cristiano) 55-56 Il libero arbitrio 86 Erfurt 69, 72 Escorial, monastero di San Lorenzo de L’ 94, 100, 103, 108 Este, Isabella d’ 60 Este, Leonello d’ 40 Esztergom 117 Eudes, Giovanni 125 Europa 13, 15, 21-24, 26-28, 42, 47-49, 51-52, 54-55, 65-66, 70, 80, 89, 91, 96-97, 101102, 106, 108, 117, 119, 133-134, 136, 144-145 Eyck, Jan van 52, 118
F
Facio, Bartolomeo 39 Famagosta 47 Farel, Guillaume 70 Farnese, Alessandro (cardinale) 136 Farnese, Alessandro (duca di Parma) 102, 108-109, 128 Farnese, dinastia dei 51 Federico I di Napoli 46 Federico II del Palatinato 69 Federico III d’Asburgo (imp.) 21-22, 25 Federico III di Sassonia (il Saggio) 67-69, 80, 119 Feltre, Vittorino da 40 Ferdinando I d’Asburgo (imp.) 22, 25, 139 Ferdinando I di Napoli 35, 43 Ferdinando II d’Aragona (il Cattolico) 13, 15, 27-29, 46, 48-49, 84 Ferdinando II d’Asburgo (imp.) 127, 129 Ferdinando II di Napoli 46 Fernández de Córdoba, Gonzalo 46 Fernández de Enciso, Martín 93 Fernández, Gregorio 140
Ferrara 40, 46 Ferrault, Jean 17 Ferreri, Vincenzo 82 Fiandre 20, 48, 51-52, 77, 100, 107-108, 110, 118, 122, 128 Ficino, Marsilio 33, 35, 89 Filarete (Antonio Averlino) 25, 39 Filippo I d’Assia 69-70, 72, 128 Filippo I di Castiglia (il Bello) 22, 29, 48, 49 Filippo II di Francia (Augusto) 113 Filippo II di Spagna 48, 51, 77, 100-104, 106-110, 128, 139 Filippo III di Borgogna (il Buono) 20-21, 54 Filippo III di Spagna 100, 110-111 Filippo IV di Spagna 110 Finlandia 26, 70 Fioravanti, Ridolfo (Aristotele) 26, 117 Firenze 30, 32-36, 38-43, 46-48, 50, 52, 57, 60-61, 82, 87, 89, 100, 112, 118 Cappella Pazzi 33 Cattedrale di santa Maria del Fiore 30, 33, 35, 36 Chiesa di santa Maria Novella 34-35 Palazzo degli Uffizi 33 Palazzo della Signoria 35, 58 Palazzo Medici Riccardi 38 Palazzo Vecchio 35, 60 Spedale degli Innocenti 33, 39 Fischart, Johann 92 Fisher, John 79, 84 Flessinga 108 Florio, Giovanni (John Florio) 92 Focea 47 Foix, ducato di 14 Fontainebleau, palazzo di 15, 20, 114 Foxe, John 100 Franca Contea 21 Francesco di Sales 125 Francesco I di Francia 12-13, 1518, 27, 48, 50-51, 55, 57, 59, 61, 95, 104, 111-112, 114, 135, 138 Francesco II di Bretagna 14 Francesco II di Francia 14, 98, 112, 114 Francesco Saverio 125, 133, 135, 144 Francesi 14, 15, 21, 22, 46, 47, 50, 51, 61, 96, 108-112, 114, 128, 132, 139 Francia 7, 12-17, 20-24, 26-27, 46, 48, 50-51, 55, 57, 61, 70, 89, 92, 95-96, 98, 100-101, 104, 110-115, 128, 135, 139 Francoforte 50, 98 Frankenhausen, battaglia di 72 Fratelli della Vita comune, comunità dei 54, 102 Friburgo 72 Frisia 20, 106, 107 Froben, Johann 54, 91 Fugger, Jakob 65 Fulda 70 Fust, Johannes 90
G
Galilei, Galileo 130, 131 Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 130
Gallerani, Cecilia 59 Gand 21, 48, 51-52, 107-108, 118 Gattamelata vedi Narni, Erasmo da (Gattamelata) Gattinara, Mercurino Arborio di 48 Genova 22, 46-47 Germania 22, 26-27, 65-67, 70-72, 80, 87, 89-91, 95, 102-103, 107-108, 118, 120, 122, 127129, 134, 139 Gherardini, Lisa 59 Ghiberti, Lorenzo 33, 36, 37 Ghirlandaio, Domenico 58-59 Giacomo I d’Inghilterra e VI di Scozia 77, 98-101 Giacomo V di Scozia 98, 112 Giappone 125, 133-135 Ginevra 59, 70, 96, 98, 100, 106, 111-112 Giocondo, Francesco del 59, 61 Giotto di Bondone 30, 32, 34, 42 Giovanna di Castiglia (la Beltraneja) 28 Giovanna I di Castiglia (la Pazza) 22, 29, 48-49 Giovanna III di Navarra 113 Giovanni d’Aragona e Castiglia (1478-1497) 29, 49 Giovanni della Croce 125-126 Giovanni di Sassonia (il Costante) 69 Giovanni Federico I di Sassonia (il Magnanimo) 70, 128 Giovanni I Alberto di Polonia 23 Giovanni I di Berry 117 Giulio Cesare 138 Giulio II (papa) 43, 46, 135 Giulio III (papa) 139 Goa 133 Goes, Hugo van der 52 Gonzaga, dinastia dei 40-41 Gonzaga, Ercole 139 Gonzaga, Ludovico II (o III) 40-41 Goodman, Christopher 100 Goropius Becanus, Johannes 92 Gozzoli, Benozzo 38, 39, 84 Il viaggio dei Magi 38 Granada 12, 28-29, 126 Granvela, Antonio Perrenot de 106 Grassaille, Charles de 17 Gravelines 105 Greenwich 74 Gregorio XIII (papa) 138 Grote, Geert 54, 120 Grünewald, Matthias 83, 118, 120, 121 ancona di Isenheim 83, 118 guaranì 134 Guarino da Verona 40-41 Guasconi 14 guerra degli Ottant’anni o guerra dei Cent’anni 14, 82 guerra dei remensas 26 guerra dei Trent’anni 126, 128-129 guerra delle Due Rose 82 guerra delle Fiandre 110, 128 guerre contadine 26, 72 guerre d’Italia 47 guerre folle 14 guerre hussite 82 Guglielmo di Occam 144 Guglielmo I d’Orange-Nassau 106-109
Guglielmo V di Clèves 69 Guisa, Carlo di Lorena 114 Guisa, dinastia dei 113, 115, 127 Guisa, Enrico di 115 Guisa, Francesco di 113-115, 128 Guisa, Maria di 112 Gustavo II Adolfo di Svezia 129 Gutenberg, Johannes 89-93 Guzmán Garcés, Domenico di 127 Guzmán y Pimentel, Gaspar de 110
Iberica, Penisola 28-29, 80, 89, 102
H
K
Hamilton, Patrick 98 Hawkwood, John 40 Henneberg, Bertoldo di 22 Hepburn, Patrick 97 Herrera, Juan de 103 Hofmann, Melchior 72 Hohenstaufen, dinastia degli 21 Holbein il Giovane, Hans 55, 76, 77, 91, 122 Gli ambasciatori 122 Holstein 27 Horenbout, Lucas 78 Hospital, Michel de l’ 113 Howard, Caterina 74, 77 Hulst 109 Hunyadi, dinastia degli 25 Hunyadi, János 25 Hunyadi, László 25 Hus, Jan 24, 70, 84 Hutten, Ulrich von 67, 87
I
Ivan III di Russia 13, 26 Ivan IV di Russia (il Terribile) 26 Italia 15, 17, 22, 25, 28-29, 33, 35, 38, 40-42, 46-48, 50, 52, 54, 60, 82, 89, 93, 102, 112, 117118, 122, 135-136, 138-139 Istria 41, 46 Istanbul 41-42 vedi anche Costantinopoli Isidoro l’Agricoltore 144 Isabella I di Castiglia (la Cattolica) 12-13, 15, 27-29, 80 Isabella di Borbone 21 Isabella del Portogallo 100, 102 Isabella d’Aragona 29 Isabella Clara Eugenia 109-110 Irlandesi 54 Irlanda 77, 101-102, 105, 138 Invincibile Armata 100-101, 104-105, 109, 127 Inquisizione spagnola (Tribunale del Sant’Uffizio dell’Inquisizione) 28, 70, 80, 96, 103, 107, 124, 126-127, 130, 132, 136, 144 Innsbruck 70, 134 Innocenzo VIII (papa) 82 Ingolstadt, università di 67, 134 Inghilterra 13-14, 22, 27, 29, 50, 55, 66, 70, 74-75, 77-80, 98-102, 104-105, 107, 117, 122, 135 Indiano, Oceano 111 India 90, 125, 133-135 impero tartaro 26 impero ottomano 22, 23, 51 impero mongolo 90 Ignazio di Loyola 126-127, 129, 132-135, 144
J
Jagellone, dinastia degli 13-14, 23-25, 117 Jiménez de Cisneros, Francisco 55, 80, 82, 126, 136, 138 Jonas, Justus 87 Juan de Austria 108 Juan de Flandes 77 Kalmar 26, 27 Kannengiesser, Dorothea 122 Kappel, battaglia di 73 Kiev 23 Knox, John 98-100 Königsberg 69, 128 Kramer, Heinrich (Henricus Institor) 84
L
Ladislao II Jagellone d’Ungheria e Boemia 24-25 Ladislao V d’Ungheria e Boemia (il Postumo) 25 Laínez, Diego 112 Landino, Cristoforo 33, 35 Languedoc 14 Lassus, Roland de (Orlando di Lasso) 93 Lefèvre d’Étaples, Jacques 55, 95, 111 Lega Anseatica 27 Lega Cattolica o Santa Lega di Parigi 114-115, 129 Lega di Cognac 50 Lega di Königsberg 128 Lega di Smalcalda 50, 66, 69-70, 128 Lega di Torgau 69 Leone X (papa) 16, 47-48, 61, 65, 67, 112, 134 Leoni, Leone 70 Leoni, Pompeo 70 Lepanto, battaglia di 125 Lerma, duca di vedi Sandoval y Rojas, Francisco de Lesbo 47 Ligeti, Antal 25 Liguria 39 Lilio, Luigi 138 Lille 106 Limburgo 20 Lione 111 Lippi, Filippo 25, 58, 117 Lipsia 67, 71 Lisbona 102, 133-134 Lituani 13, 23 Lituania 22-26 Loira, fiume 15, 18, 20 Lombardia 39, 47 London, George 75 Londra 89 Lorena 21, 112-114 Lorena-Guisa, Carlo di 21, 112-114 Loschi, Antonio 39 Louis II de La Trémoille 14 Louvre, palazzo del 113 Lovanio 54, 89, 103, 133 università di 103 Lubecca 69, 82 Chiesa di santa Maria 82
Lucrezio Caro, Tito 32 Luigi d’Aragona 61 Luigi I di Borbone-Condé 113-115 Luigi II d’Ungheria 22, 24 Luigi II di Francia 14 Luigi XI di Francia 13-14, 20-21, 24, 26 Luigi XII di Francia 14-17 Luis de Granada, frate 126 Libro dell’orazione e della meditazione 126 Luisa di Savoia 15, 50 Lussemburgo 20-21, 109 Lutero, Martin 54-55, 64-74, 78-79, 82, 84-87, 95-97, 99, 102, 111, 122, 125-126, 132, 134, 136, 138, 140, 144 Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca 68 De servo arbitrio 86 Dei voti monastici 68 Del papato romano 68 La cattività babilonese della Chiesa 68 La libertà del cristiano 68, 95 tesi 65-66 Lützen, battaglia di 129
M
Maastricht 107-108 Machiavelli, Niccolò 48, 79, 84 Il principe 48, 84 Maculani, Vincenzo 130 Maddalena de la Tour d’Auvergne 112 Madrid 16-17, 49, 50, 70, 77, 100, 108, 110-111, 120, 126, 144 Trattato 16 Magdeburgo 69 Magonza 21-22, 66, 70, 89-91 Maine 115 Malacca 133 Malatesta, Sigismondo Pandolfo 39 Malesia 125 Malines 20, 52 Manica, Canale della 102, 105, 127 Manresa 132 Mantegna, Andrea 40, 41 Trionfo di Cesare 40 Mantova 40-41, 46, 60 castello di San Giorgio 41 Manuele I del Portogallo 29, 50 Manuzio, Aldo 54, 89, 91 Maometto I 42 Marburgo, colloquio di 73, 74 Margherita d’Austria 50 Margherita di Angoulême 96, 111-113 Margherita di Navarra 55 Margherita di Parma 106, 108 Margherita di Valois (regina Margot) 115 Margherita I di Danimarca 27 Maria d’Aragona 29 Maria d’Austria 22 Maria di Borgogna 21-22, 29 Maria I d’Inghilterra (Maria Tudor) 75, 77, 79, 98-102, 104 Maria I di Scozia (Maria Stuart) 77, 98-100, 104, 112 Marignano, battaglia di 16-17, 48
Masaccio 33, 34 Santissima Trinità 34 Massimiliano I d’Asburgo (imp.) 13-14, 21-22, 29, 49, 117, 122 Massimiliano II d’Asburgo (imp.) 109 Massys (o Matsys), Quentin 120, 121, 123 Il cambiavalute e sua moglie 123 La duchessa brutta 123 L’amore ineguale 123 Mattia I Corvino d’Ungheria (Mátyás Hunyadi) 13, 15, 25-26, 91, 117 Maurizio di Sassonia 70, 128 Meaux 95, 110-111 Medici, Alessandro de’ (Il Moro) 48 Medici, Carlo di Cosimo de’ 39 Medici, dinastia dei 34-35, 38-39, 43, 47-48, 80, 82, 91 Medici, Caterina de’ 112-114, 127 Medici, Cosimino di Giovanni de’ 39 Medici, Cosimo de’ (il Vecchio) 32, 34-35, 39 Medici, Cosimo I de’ 48 Medici, Giovanni di Cosimo de’ 39 Medici, Giovanni di Lorenzo de’ vedi Leone X (papa) Medici, Giuliano di Lorenzo de’ 48, 61 Medici, Giuliano di Piero de’ 35, 39 Medici, Lorenzo de’ (il Magnifico) 35, 39, 47-48, 58, 82 Medici, Lorenzo II de’ 112 Medici, Piero de’ (il Fatuo) 47 Medici, Piero de’ (il Gottoso) 39 Mediterraneo, Mar 42, 46, 47, 51 Melantone, Filippo 87, 138 Confessione di Augusta 87 Loci communes 87 Memling, Hans 52, 118 Merian il Vecchio, Matthäus 50 Meyer, Jakob 122 Michelangelo vedi Buonarroti, Michelangelo Milano, ducato di 15, 17, 39, 42, 46-48, 50-51, 57, 59-61, 63, 108, 141, 144 convento di Santa Maria delleGrazie 60 Ospedale Maggiore 39 Mississipi, fiume 134 Modena 50 Mohács, battaglia di 24-25 Moldavia 24, 25 Molucche, isole 125 Monna Lisa vedi Vinci, Leonardo da: La Gioconda Mons 108 Montaigne, Michel de 92 Saggi 92 Montefeltro, Federico da 40 Montmorency, Philippe de 106, 107 Moravia 24-25 Moray 97 Moro, Antonio 100 Moro, Tommaso (Thomas More) 55, 78- 79, 84, 86, 92, 122 Utopia 79, 86, 92 157
APPENDICI
Mosca Cattedrale della Dormizione 26, 117 Cremlino 26, 117 Mosca, Gran Ducato di 26 Mühlberg, battaglia di 48, 66, 70 Mülhausen 72 Münster 70, 72 Müntzer, Thomas 66, 71-72 Murillo, Bartolomé Esteban 135
N
Nancy, battaglia di 21 Nantes, Editto di 115 Napoli, regno di 14-15, 24-25, 35, 38, 39, 42-43, 46, 49-50, 70, 100, 108, 136, 139 Narni, Erasmo da (Gattamelata) 40 Nassau, Maurizio di 109 Natale, Girolamo 134 Navarra 14, 48, 55, 96, 111, 113, 115, 128, 132 Nebrija, Antonio de 85 Niccoli, Niccolò 32 Niccolò III (papa) 36 Niccolò V (papa) 38 Nicea, Concilio di 138 Nimega 109 Nîmes 114 Nizza, Pace di 51 Nord, Mare del 102, 105 Norimberga 69, 90, 117, 120, 134 Norvegia 26-27, 70 Novgorod, Repubblica di 26 Noyon 96
O
Oder, fiume 129 Olanda 20, 54, 107-108, 110 Oldenburg, dinastia degli 13, 27 Olivares, conte-duca di vedi Guzmán y Pimentel, Gaspar de Omero 40, 92 Opitz, Martin 93 Orda d’Oro 26 Ordine teutonico 22-23 Orléans, università di 96 Orsini, Clarice 35 Ottomani 23, 25, 28, 42, 51 Ovidio Nasone, Publio 92 Le metamorfosi 92 Oxford, Università di 79
P
Paderborn 70 Padova 31, 34, 41, 42, 46, 133 Paesi Baschi 132 Paesi Bassi 21, 42, 46, 49-50, 52, 54, 70, 72, 89, 95-96, 101-103, 106-111, 118 Palatinato 21, 69 Paleologi, dinastia dei 26 Palermo 134 Pamplona 132 Paolo II (papa) 43 Paolo III (papa) 51, 124, 126, 132, 135-136, 138 Paolo IV (papa) 126, 132, 136 139 Indice dei libri proibiti 132 Paraguay 125, 133 Parigi 16, 17, 51, 55, 70, 89, 95, 96, 111-115, 132-133 Parma 43, 106, 108 158
Parr, Caterina 77 Passau, Pace di 128 Patinir, Joachim 120, 122 Pau 111 Pauwels, Ferdinand 66 Pavia 50, 144 battaglia 16-17 Pazzi, dinastia dei 35, 135 Peake il Vecchio, Robert 94 Pellwitz, Margareth 121 Pérez de Guzmán, Alonso (il Buono) 102, 104 Perugia 43 Perugino, Pietro 58 Petrarca, Francesco 31-33, 39, 89 Pfäffinger, Degenhart 119 Piacenza 43 Piemonte 51 Pietro II di Borbone 14 Pico della Mirandola, Giovanni 38, 52, 84-85 Discorso sulla dignità dell’uomo (De hominis dignitate) 38, 84 Pindaro 73 Pio II (papa) 38-39, 43 Pio IV (papa) 126, 141 Pio V (papa) 101, 126 Pirenei 51 Pisanello (Antonio di Puccio Pisano) 40 Pixis, Theodor August Ludwig 96 Platone 32, 40, 73, 92 Dialoghi 92 Plessis de Richelieu, Armand-Jean du 128 Plutarco 32 Plymouth 105 Poggio Bracciolini, Giovanni Francesco 32, 89 Poissy 112 Poiteau 115 Poitiers 111 Pole, Reginald 100 Pollaiolo, Antonio del 117 Polonia 13, 22-26, 117, 138 Pomerania Orientale 23 Pomponazzi, Pietro 84 De immortalitate animae 84 Portogallo 29, 47, 50, 100, 102, 106 Povero Corrado, rivolta del 72 Praga 89, 134 Primaticcio, Francesco 15 Provenza 14, 51 Pulgar, Hernando (o Fernando) del 28
Q
Quercia, Jacopo della 36
R
Rabelais, François 55, 92 Gargantua e Pantagruel 92 Radom 24 Raffaello vedi Sanzio, Raffaello Ragusa 22 Rambouillet, castello di 17 Ratisbona (Regensburg) 87, 134, 138 Ravaillac, François 114 Ravenna 43 Re Cattolici 15, 22, 27-28, 80, 82, 126, 138 Reims 16, 128 Religiosa, Pace 108
Rembrandt 118 repubblica di Firenze 32-34 repubblica di Genova 22 repubblica di Venezia 22, 41 Requesens y Zúñiga, Luis de 108 Riccardo III d’Inghilterra 14 Richelieu, cardinale vedi Plessis de Richelieu, Armand-Jean du Riforma protestante 22, 48, 69, 70, 72-73, 77, 80, 82, 84, 87, 93, 95-98, 103-104, 111, 125126, 128, 136, 141, 144 Riga 69 Rimini 39 Rochelle, La 111 Rocroi, battaglia di 108 Rodi 48 Roma Campidoglio 31 Castel sant’Angelo 50, 78 sacco di Roma 47, 50 Romagna 40, 43, 60 Rosso Fiorentino (Giovanni Battista di Jacopo) 15 Rostov, principato di 26 Rubens, Peter Paul 110, 118 Russia 13, 23, 26, 138 Ruysbroek, Jan van 54, 120
S
Sacro Romano Impero Germanico 21-22, 48-49, 68, 70, 86, 112, 128-129 Sadoleto, Jacopo 138 Saint Andrew, università di 97 Saint-Aubin-du-Cormier, battaglia di 14 Sainte-Foy 111 Sala Francés, Emilio 28 Salamanca, università di 125 Salutati, Coluccio 32-33 Samo 47 san Bartolomeo, strage di 112, 114-115, 127 San Gallo (Sankt Gallen) 70 San Quintino, battaglia di 100, 103 Sánchez Coello, Alonso 102 Sandoval y Rojas, Francisco de 110 sant’Agostino 52, 98, 136 Sant’Uffizio vedi Inquisizione spagnola, tribunale dell' Santa Hermandad 28 Sanzio, Raffaello 30, 57, 59, 135 Sarto, Andrea del 20 Sassonia 21, 65, 67-70, 80, 119, 128 Savoia 15, 50, 51 Savonarola, Girolamo 33, 47-48, 82, 98 Schedel, Hartmann 90 Schedel’sche Weltchronik 90 Schleswig 27 Schwarzenberg, Johann von 119 Scipione l’Africano, Publio Cornelio 31 Scozia 70, 96, 97-101, 105-106, 111-112 Scozzesi 54, 98 Sebastiano I del Portogallo 102 Segovia, lettere da 106 Selve, Georges de 122 Seneca, Lucio Anneo 40, 73 Senofonte 39
Sens 114 Seripando, Girolamo 139 Serveto, Michele 96 De Trinitatis erroribus 96 Seymour, Jane 74, 77, 99 Sforza, dinastia degli 17, 39, 48, 50, 59, 61 Sforza, Francesco I 47, 58 Sforza, Francesco II 51 Sforza, Galeazzo Maria 39, 47 Sforza, Ludovico (il Moro) 15, 40, 42, 47, 57, 59-60, 63 Sicilia 46 Sickingen, Franz von 67 Sievershausen, battaglia di 128 Sigismondo I di Polonia 24 Sigismondo II di Polonia 24 Sigüenza, cattedrale di 144 Sisto IV (papa) 28, 35, 43, 135 Siviglia 70, 93 Slesia 24, 25 Småland 27 Socrate 39 Solimano I il Magnifico 24 Sorbona, università della 55, 96 Spagna 15, 17, 20, 22, 28, 46, 51, 55, 70, 77, 80, 93, 100, 102-103, 106, 108, 110, 126, 133, 138, 140 Spagnoli 47, 50, 92, 101-104, 109, 110, 128, 138, 144 Spangenberg, Gustav Adolph 85 Speroni, Sperone 91 Spinola Doria, Ambrogio 110 Spira, Dieta di 69 Sprenger, Jakob 84 Stati Pontifici 22, 39, 48 Stiria 25 Stoccolma 27, 129 Strasburgo 70, 72, 74, 89, 96, 134 Strigel, Bernhard 22 Stuart, dinastia degli 97 Svedesi 13, 27 Svezia 22, 26, 27, 70, 129 Svizzera 16-17, 66, 70-71, 73 Szilágyi, Mihály 25
T
Tacito, Gaio Cornelio 32 Tartari 23, 26 Teresa di Gesù (Teresa de Cepeda e Ahumada) 125-127, 144 Cammino di perfezione 144 Las moradas 144 Tetzel, Johann 65 Tito Livio 32 Tiziano, Vecellio 49, 70, 106 Toledo, Juan Bautista de 103 Tolosa 111 Tommaso d’Aquino 66 Tommaso da Kempis 54, 120, 126 Torbidi, Tribunale dei 106, 107 Tornabuoni, Giovanni 39 Toruń, Trattato di 23 Toscana 48 Tournai 70, 103, 106-107 Tours 14, 61, 111, 114 Transilvania 26, 70 Trastámara, dinastia dei 13, 27 Trento, Concilio di 55, 82, 112, 125-126, 134, 136, 138, 140-141, 144 Treviri 21, 70 Tucidide 32
Tudor, Arturo 29, 74-75, 77 Tudor, dinastia dei 13, 22, 75, 77 99-100 Turchi 25-26, 41, 48, 60, 82, 125, 132 Turingia 69, 72 Tver, principato di 26
U
Ucraina 23 Udine 46 Ulm 72 Ungheria 13-14, 22, 24-26, 70, 117, 138 Unione di Arras 108 Unione di Kalmar 26, 27 Unione di Lublino 22 Unione di Utrecht 109 Urbano VIII (papa) 130 Utrecht 47, 48, 107-109, 134
V
Valacchia 25 Valdés, Juan de 55, 70 Valencia 70, 89, 133 Valenciennes 106-108 Valla, Lorenzo 38-39, 85, 89 Elegantiae linguae latinae 39, 89 Valladolid 28, 70, 100, 140
Valois, dinastia dei 13-15, 17, 20, 22-23, 47, 112-114 Varchi, Benedetto 91 Vasa, dinastia dei 13 Vasari, Giorgio 33-34, 36, 57, 61 Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani 33 Vaticano, Città del 47, 84, 140 vedi anche Stati Pontifici Basilica di san Pietro 47, 65, 84, 140-141 Cappella Sistina 124, 126 Velázquez, Diego 110 Venere 22, 32, 43 Venezia 15, 22, 24, 35, 40-43, 46-47, 50, 60, 89-91, 117, 132 Cattedrale di san Marco 42 Chiesa di san Giovanni Crisostomo 41 chiesa di santa Maria Formosa 41 Veneziani 16, 41 Verger, Trattato di 14 Vermeer, Johannes 118 Verona 40-41, 46 Verrocchio, Andrea del 25, 40, 57-58 Vienna 22, 25, 51, 125, 134 Villers-Cotterêts, Ordinanza di 16-17
Vincenzo de’ Paoli 125 Vinci, Leonardo da 15, 18, 20, 39-40, 42, 57-63 Ginevra de’ Benci 59 L’Annunciazione 58 La belle ferronière 40, 59-60 La dama con l’ermellino 40, 59-60 La Gioconda 20, 57, 59 L’ultima cena 57, 60 La Vergine delle rocce 60-61 Sant’Anna, la Vergine e il Bambino 60 Trattato della pittura 60 Vinci, Ser Piero da 57 Virgilio Marone, Publio 31-32, 40, 92-93 Visconti, dinastia dei 39, 47 Visconti, Filippo Maria 47 Visconti, Valentina 17 Vitruvio Pollione, Marco 33, 92 Vives, Juan Luis 55
Weyden, Rogier van der 52, 118 Wise, Henry 75 Wishart, George 98 Wislicenus, Hermann 68 Wittelsbach, dinastia dei 21 Wittenberg 65-68, 71, 79, 86, 119-120 Wolsey, Thomas 75, 78 Worms 22, 69, 134 Dieta 66-68, 70, 136 Editto 68, 69 Wren, Christopher 75 Württemberg, Ulrich von 72 Wurzburg 70 Wycliffe, John 84
W
Z
Wallenstein, Albrecht von 129 Wartburg, castello di 66-69, 71, 87 Wavel, cattedrale di 117 Wechtlin, Johannes 120 Weckherlin, Georg Rodolf 93 Westminster 89
Y
Yaroslavl, principato di 26 Ypres 108, 118 Yuste 48 Zelanda 20, 107, 108 Zuccari, Taddeo 51 Zwingli, Huldrych 55, 70, 72-74, 103, 111, 140 Zurigo 70, 72, 73, 103 Zutphen 109 Zwickau 71, 72
IMMAGINI Fotografie: Age FotoStock: 6, 16, 20-21, 35, 38-39, 58, 60-61, 81, 93b, 98a, 103, 116, 124, 130, 133a; Aisa: 28, 49d, 63bi, 63bd, 80, 83, 87, 89, 94, 95, 101ai, 107, 109, 110-111, 114-115, 115, 125, 127, 132, 133b, 140; Album: 41, 52, 82, 84, 93a, 114; Album/akg-images: quarta di copertina, 15, 21, 31, 32-33, 34, 50, 51, 62i, 65, 67a, 68, 72, 73, 76a, 86, 97, 98b, 108, 112, 118, 122, 123, 137, 138; Album/Oronoz: 12, 13, 23, 29a, 29b, 70, 79i, 101ad, 111, 117b, 120, 136, 144; Bridgeman/ Index: 8-9, 14, 26, 63ad, 64, 67b, 76b, 78a, 78b, 79d, 101b, 121, 128, 129; Corbis: copertina, 25, 27, 37a, 44-45, 56, 57, 59ad, 59bi, 62i, 62da, 63ai, 69, 74-75, 99; Gtres/Hemis.
fr: 2, 4-5, 10, 18-19, 30, 40, 53, 113, 142-143; Getty Images: 36; The Granger Collection/Cordon Press: 88, 90, 117a; Erich Lessing/Album: 22, 37b, 49i, 119, 130-131; Photo Scala, Florence: 19, 32, 36-37, 38, 42-43, 46, 55, 59bd, 85, 104-105, 126-127, 135, 138-139, 141, 145, 146; The Art Archive: 16-17, 24, 42, 59ai, 102, 104; Werner Forman Archive/Gtres: 151. Disegni: Gabriel Martín: 92-93. Cartografia: Víctor Hurtado (documentazione), Merche Hernández, Eosgis. 159
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COLLABORATORI ENRICO BENELLI Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico (Iscima) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Monterotondo (Roma). Curatore della seconda edizione del Thesaurus Linguae Etruscae, Fabrizio Serra editore. Autore di: Le iscrizioni bilingui etrusco-latine, Olschki.
NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY Per l’incremento e la diffusione delle conoscenze geografiche National Geographic Society fu fondata a Washington nel 1888. È una delle più importanti organizzazioni non profit in campo scientifico ed educativo al mondo. Essa persegue la sua missione sostenendo gli studi scientifici, le esplorazioni, la salvaguardia del patrimonio naturale e culturale.
GARY E. KNELL President and CEO Executive Management TERRENCE B. ADAMSON, TERRY D. GARCIA, BETTY HUDSON, CHRIS JOHNS, DECLAN MOORE, BROOKE RUNNETTE, TRACIE A. WINBIGLER BOARD OF TRUSTEES
JOHN FAHEY Chairman, DAWN L. ARNALL, WANDA M. AUSTIN, MICHAEL R. BONSIGNORE, JEAN N. CASE, ALEXANDRA GROSVENOR ELLER, ROGER A. ENRICO, GILBERT M. GROSVENOR, WILLIAM R. HARVEY, GARY E. KNELL, MARIA E. LAGOMASINO, JANE LUBCHENKO, NIGEL MORRIS, GEORGE MUÑOZ, REG MURPHY, PATRICK F. NOONAN, PETER H. RAVEN, EDWARD P. ROSKI, JR., FREDERICK J. RYAN, JR., B. FRANCIS SAUL II, TED WAITT, TRACY R. WOLSTENCROFT INTERNATIONAL PUBLISHING
EVA CANTARELLA Professore di Istituzioni di Diritto Romano e di Diritto Greco Antico, Università Statale di Milano; global visiting professor New York University. Autrice di: L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nel mondo greco e romano, Feltrinelli.
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PAOLO MATTHIAE Professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico, Università di Roma La Sapienza; direttore della Missione Archeologica Italiana a Ebla; membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Autore di: Ebla, un impero ritrovato, Einaudi.
VITTORIO BEONIO BROCCHIERI Professore di Storia moderna (Università degli Studi della Calabria); membro del collegio della scuola di dottorato Andre Gunder Frank. Autore di: Celti e Germani. L’europa e i suoi antenati Encyclomedia Publishers.
MARINA MONTESANO Professore di Storia medievale, Università di Messina e VitaSalute San Raffaele, Milano; membro fondatore della International Society for Cultural History. Autrice di: Da Figline a Gerusalemme. Viaggio del prete Michele in Egitto e in Terrasanta (1489-1490), Viella.
YULIA PETROSSIAN BOYLE Senior Vice President, ROSS GOLDBERG Vice President, Digital, RACHEL LOVE, Vice President, Book Publishing, CYNTHIA COMBS, ARIEL DEIACO-LOHR, DIANA JAKSIC, JENNIFER LIU, RACHELLE PEREZ COMMUNICATIONS
BETH FOSTER Vice President RESEARCH AND EXPLORATION COMMITTEE
PETER H. RAVEN Chairman JOHN M. FRANCIS Vice Chairman PAUL A. BAKER, KAMALIJIT S. BAWA, COLIN A. CHAPMAN, KEITH CLARKE, J. EMMETT DUFFY, CAROL P. HARDEN, KIRK JOHNSON, JONATHAN B. LOSOS, JOHN O’LOUGHLIN, NAOMI E. PIERCE, JEREMY A. SABLOFF, MONICA L. SMITH, THOMAS B. SMITH, WIRT H. WILLS
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