Storica National Geographic - novembre 2018

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LA RINASCITA DI UN SIMBOLO

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MEIJI

IL GIAPPONE SI SCHIUDE AL MONDO

LA PORPORA FENICIA

LA PIÙ PREGIATA DELLE TINTURE

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IL TEMPIO GRECO

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LA GRANDE RIBELLIONE DI BUDICCA

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LA BRITANNIA ARDE

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LA DIMORA DEGLI DEI

periodicità mensile

NOTRE-DAME

N. 117 • NOVEMBRE 2018 • 4,95 E

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BOTTICELLI

IL PITTORE DEI MEDICI




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EDITORIALE

[...] così si trattano da duecento anni le meravigliose chiese del Medioevo. Le mutilazioni vengono loro da ogni parte, così dal di dentro come dal di fuori. Il prete le intonaca, l’arcidiacono le gratta; poi arriva il popolo, che le butta giù». Con queste parole nel marzo del 1831, nell’incipit del suo romanzo Notre-Dame de Paris, si lamentava Victor Hugo. Lo scrittore fu senza dubbio uno dei maggiori paladini del movimento parigino che a metà dell’ottocento si batté per la conservazione del patrimonio medievale, nei secoli in gran parte abbandonato o cancellato. Come nel caso della cattedrale gotica alla quale dedica il romanzo, che era stata anche gravemente danneggiata durante la Rivoluzione francese. «E il leone di pietra che stava alla porta, la testa bassa, la coda tra le gambe, come i leoni del trono di Salomone, nell’atteggiamento di umiltà che si conviene alla forza quando è dinanzi alla giustizia? Che ha fatto il tempo, che hanno fatto gli uomini di queste meraviglie?» si chiede Hugo in un altro momento del romanzo. A Esmeralda, Quasimodo, Claude Frollo e agli altri personaggi della sua opera va in parte il merito di aver fatto conoscere la chiesa a grandi e piccini. A Eugène Violletle-Duc, il controverso architetto che oltre 150 anni fa ne concluse il restauro, va invece quello di averle dato il volto attuale. Troppo spartano secondo alcuni, poco rispettoso del suo passato più recente secondo altri, ma senza dubbio unico. ELENA LEDDA Vicedirettrice editoriale


10 PERSONAGGI STRAORDINARI L’incredibile storia della suora alfiere

Nel XVII secolo Catalina de Erauso decise di vestirsi da uomo e andarsene in America, dove visse peripezie degne di un romanzo.

18 ANIMALI NELLA STORIA Il giaguaro

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Con il suo fascino il felino conquistò le antiche popolazioni mesoamericane diventando protagonista di numerosi miti.

20 VITA QUOTIDIANA

26 MAPPA DEL TEMPO

Imola secondo Leonardo Questa mappa della città fu realizzata da Leonardo mentre lavorava come ingegnere militare al servizio di Cesare Borgia.

124 GRANDI ENIGMI

Lo stretto di Anian

Nel XVI secolo esploratori e navigatori andarono alla ricerca di un passaggio tra Asia e America descritto da Marco Polo.

128 LIBRI E MOSTRE

Il gelato moderno, una storia tutta italiana

Dalla conservazione del ghiaccio al cono, fondamentali sono state le intuizioni dei mastri gelatai nostrani.

24 OPERA D’ARTE

Il pettorale di Monte Albán

124 6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Lo splendido gioiello ritrovato in Messico rappresenterebbe un alto dignitario mixteco.

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86 BOTTICELLI, IL PITTORE DEI MEDICI SANDRO BOTTICELLI visse

da protagonista il fermento culturale della Firenze dei Medici. Tra gli artisti è forse quello più legato alla cerchia medicea, di cui rappresenta gli ideali umanistici di bellezza e armonia in un momento in cui Firenze vedeva il rinnovarsi della cultura classica e la scoperta del neoplatonismo, che affermava la supremazia dello spirito sulla materia. di alessandra pagano NASCITA DI VENERE. A LUNGO LA DEA È STATA CONSIDERATA UN IDEALE DI BELLEZZA FEMMINILE NELL’ARTE.

40 I templi in Grecia In Grecia i santuari non erano semplici luoghi di culto. Suddivisi in una cella riservata alla divinità e un porticato aperto a tutti, i templi rispecchiavano infatti l’organizzazione sociale della polis e la separazione tra uomini e dei. DI PEDRO AZARAS

56 La grande ribellione di Budicca Sotto la guida della regina degli iceni Budicca, tra il 60 e il 61 d.C. i britanni si ribellarono ai romani che, oltre a essere smodatamente avidi, avevano riservato un trattamento ignobile alla stessa sovrana e alle sue figlie, che erano state stuprate e umiliate. Roma schiacciò la rivolta con una brutale repressione. DI RICHARD HIGLEY

68 Notre-Dame, la nascita di un simbolo A metà del XIX secolo l’architetto Viollet-le-Duc intraprese il restauro della più emblematica cattedrale medievale di tutta Europa. Il suo lavoro rappresentò un modello per futuri interventi, ma fu anche al centro di numerose critiche. DI ALMUDENA B. VALLÉS

104 Il Giappone si schiude al mondo Costretti dai cannoni statunitensi ad aprire le proprie frontiere al commercio estero dopo secoli di totale chiusura, i giapponesi capirono di dover adattarsi alle regole dell’epoca moderna. Dal 1867 l’imperatore Meiji intraprese una serie di riforme che cambiarono il volto del Paese. DI JOSE P. ESPINOSA

28 Fenicia, terra di porpora La ricchezza dei fenici si basava sulla porpora, prodotto ottenuto da un umile mollusco, ma bramato dai re, e il cui peso aveva il valore dell’oro. La domanda superò le riserve esistenti. DI MÓNICA ANN WALKER VADILLO

MELQART SCOPRE LA PORPORA SUL MUSO DEL SUO CANE. RUBENS. 1636.


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IL PITTORE DEI MEDICI

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Pubblicazione periodica mensile - Anno X - n. 117

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LA FAMOSA STRIGE OSSERVA LA CITTÀ DI PARIGI DALLA CIMA DI NOTRE-DAME. FOTO: LUIGI VACCARELLA / FOTOTECA 9X12

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LA GRANDE RIBELLIONE DI BUDICCA

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Errata corrige • Storica 116 (ottobre 2018): Nel prossimo numero abbiamo scritto che la ribellione di Budicca è del 61 a.C. mentre è d.C.

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Qualità del prodotto e amore per la cultura sono alla base della collaborazione tra Storica National Geographic e il tour operator Parextour. A partire da questo numero Parextour proporrà itinerari di gruppo in esclusiva per i lettori di Storica, con l’obiettivo di trasformare in viaggi e in esperienze dirette i temi affrontati dagli esperti divulgatori del magazine. Le proposte di Parextour rivolte ai lettori di Storica includono incontri con artisti, scrittori o archeologi che renderanno ancora piÚ affascinante la scoperta di popoli e antiche civiltà .

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PERSONAGGI STRAORDINARI

L’incredibile storia della suora alfiere Nel XVII secolo divenne famosa Catalina de Erauso, una giovane basca che decise di vestirsi da uomo e andarsene in America, dove visse peripezie degne di un romanzo

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Eroina con cappa e spada 1585 La minore di sei figli di un militare, viene battezzata nella parrocchia di San Vicente, a San Sebastián, il 10 febbraio.

1603 Vestita da uomo, si fa chiamare Francisco de Loyola e si arruola in una nave dell’Armata con cui arriva nella Nuova Spagna.

1606 Prende il nome di Alonso Díaz ed entra al servizio del fratello Miguel. Combatte contro i mapuche in Cile.

1620 Dopo diversi omicidi, confessa la sua identità per salvarsi dalla forca e viene rinchiusa in un convento.

1650 Muore nell’anonimato in Messico dopo aver ricevuto dal papa la dispensa per firmare e vestirsi come un uomo. BRIDGEMAN / ACI

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ovizia trasformatasi in militare, assassina confessa di almeno dieci uomini, attaccabrighe, ludopatica, vergine, omosessuale e travestita da uomo. Catalina de Erauso è senza dubbio un personaggio romanzesco. Conosciamo molte notizie della sua vita grazie a un’autobiografia che era forse destinata, sotto forma di memorie, al re Filippo IV di Spagna e che era stata da lei dettata assieme alla richiesta di un vitalizio. Pieno di circostanze vere ma costellato di situazioni e coincidenze forzate quanto incredibili, quel suo racconto divenne famoso. Se ne fecero almeno due edizioni; e, nel 1626, il drammaturgo Juan Pérez de Montalbán, discepolo prediletto di Lope de Vega, scrisse e rappresentò a corte La suora alfiere, opera teatrale che consacrò definitivamente il personaggio alla fama. Contraddittoria perfino circa la sua data di nascita, nelle memorie assicurava di essere venuta al mondo a San Sebastián, nel 1585. Il suo certificato di battesimo della parrocchia di San Vicente, nella stessa città, indica invece il 10

febbraio del 1592. Figlia del capitano Miguel de Erauso, Catalina era la più piccola di sei fratelli. A quattro anni entrò nel convento domenicano di San Sebastián el Antiguo assieme a due sue sorelle. Dato che non si adattava ed era ribelle, venne trasferita nel convento di San Bartolomé, dalle regole e dalla clausura più rigide. Oppressa e vessata da una delle religiose, Catalina fuggì dal monastero a 15 anni, prima di prendere i voti.

Nei panni di un uomo La sua fuga durò diversi giorni, e Catalina vagò «senza aver mangiato niente più dell’erba che incontrava sul suo cammino» finché raggiunse Vitoria. Nell’odierna capitale dei Paesi Baschi la giovane iniziò a lavorare in casa di un medico, lontano parente, che non la riconobbe sotto gli abiti maschili: Catalina aveva infatti deciso di vivere e vestirsi come un uomo (molto probabilmente conscia del fatto che come donna non le sarebbe stato possibile muoversi liberamente). Tre mesi dopo scappò dalla casa con il denaro che aveva rubato al parente e si stabilì a Valladolid, dove divenne il paggio del segretario del re Juan Idiáquez, e si fece chiamare Francisco

In Perù finì in una rissa a causa del suo carattere litigioso. Esito: un cavaliere morto, un altro ferito e lei in manette STOCCO SPAGNOLO DEL XVII SECOLO. CLEVELAND MUSEUM OF ARTS.


L’ASPETTO CORAGGIOSO DI UN SOLDATO IN UNA LETTERA del 1626, lo scrittore Pedro della Valle descrive Catalina de Erauso, allora trentaquattrenne: «Alta e forte di taglia, dall’apparenza piuttosto mascolina, non ha più seno di una bambina […] Di viso non è molto brutta, ma alquanto sciupata dagli anni. Veste da uomo alla spagnola; porta la spada con disinvoltura […] ha più l’aspetto coraggioso di un soldato che di un galante cortigiano». Il ritratto qui a fianco, opera di Juan van der Hamen, con collare, collarina in ferro e giustacuore, mostra una donna dai capelli corti, lo sguardo severo, l’aria seria e un po’ assente. CATALINA DE ERAUSO RITRATTA DA JUAN VAN DER HAMEN NEL 1625. KUTXA FUNDAZIOA, SAN SEBASTIÁN. COLLEZIONE KUTXA

de Loyola. Nelle sue memorie racconta che lì incontrò il padre, il quale non la riconobbe. Catalina fuggì a Bilbao, dove prese a sassate alcuni ragazzi che la deridevano e ne ferì uno in modo talmente grave da essere imprigionata per un mese. Poi andò a Estella, nella Navarra, dove entrò al servizio di un signore in qualità di paggio. Due anni dopo tornò a San Sebastián, dove un giorno assistette alla messa accanto alla madre, che «non mi riconobbe», assicura nelle memorie. Alla ricerca di nuove esperienze, Catalina si arruolò nella flotta in partenza

per l’America. L’anno seguente, mentre i galeoni tornavano in Spagna carichi di oro e di argento americani, Catalina rubò cinquecento pesos dalla cabina del capitano e si nascose nel porto di Nombre de Dios, in Panama, finché le navi si furono allontanate. Sempre con il nome di Francisco si trasferì in Perù, dove lavorò come aiutante di un mercante spagnolo servendolo con lealtà e zelo, ragion per cui in breve tempo passò ad amministrare uno dei suoi magazzini nella città di Saña. Tuttavia l’indole spaccona la portò a essere coinvolta in una rissa, che si

concluse con un cavaliere morto, un altro ferito e lei in manette. Il padrone la tirò fuori dal carcere, deciso a sposarla con la sua amante, ma Catalina si rifiutò, e allora lui la spedì a seguire i suoi affari a Trujillo. Un paio di mesi più tardi, il cavaliere che Catalina aveva ferito a Saña andò a cercarla assieme a due compari. Una nuova zuffa culminò con un uomo trafitto dallo stocco della basca: Catalina fu costretta a chiedere asilo in una chiesa. Per allontanarla dall’imputazione di omicidio e dai numerosi debiti di gioco, il capo la mandò a Lima affinSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

SBARCO di Filippo III a San

ERICH LESSING / ALBUM

Sebastián, città natale di Catalina de Erauso. Monastero di San Lorenzo del Escorial.

ché lavorasse nella bottega di un suo amico. A quanto riferisce lei stessa, lì ebbe dei rapporti con la cognata del superiore, che la licenziò. Senza soldi e lavoro, si presentò in uno degli uffici di arruolamento che reclutavano soldati per combattere gli indios mapuche nel sud del Cile. Decisa a «partire e vedere il mondo», assieme a migliaia di soldati

sbarcò a Concepción sotto l’identità di Alonso Díaz Ramírez de Guzmán. E lì si verificò un’altra di quelle straordinarie coincidenze per cui sembra che le memorie di Catalina possano essere state parzialmente alterate da uno o più autori con l’intenzione di aggiungere tinte romanzesche al racconto originale. Solo così possiamo credere che

LA DECISIONE PAPALE CATALINA DE ERAUSO narra il suo incontro con il

papa Urbano VIII: «Gli raccontai in breve la mia vita e le mie avventure, il mio sesso e la mia verginità […] e con cordialità mi diede il permesso per continuare la mia vita in abiti maschili. Io mi impegnai a divenire onesta e a guardarmi dal recare danno al prossimo». PAPA URBANO VIII. MUSEO BOTTACIN, PADOVA.

DEA / ALBUM

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il soldato Alonso si ritrovò al cospetto del fratello Miguel, allora segretario del governatore del Cile. Senza confessargli il legame familiare e senza essere mai scoperta, ne divenne una buona amica ed entrò a far parte del seguito personale di Miguel, «mangiando alla sua tavola per quasi tre anni». Quando, però, Miguel venne a sapere che Alonso corteggiava una sua amante, la mandò al forte di Paicabí, un duro centro correttivo sul fronte araucano.

Promossa ad alfiere Catalina rimase quattro anni a combattere senza tregua contro i mapuche. Il soldato Díaz dimostrò grande coraggio nelle sue gesta, soprattutto quando riuscì a riprendere il vessillo del battaglione caduto nelle mani degli indigeni. Il fratello Miguel chiese quindi che venisse promossa a


PALAZZO EPISCOPALE

JUAN MANUEL BORRERO / ALBUM

di Lima. Il vescovo fece rinchiudere Catalina in un convento della capitale peruviana.

capitano. Tuttavia, a quanto sappiamo da lei stessa, divenne solo alfiere perché aveva fatto impiccare un capo mapuche, Quispiguaucha, invece di consegnarlo vivo perché venisse sottoposto a un interrogatorio. Una sera del 1609, mentre era a Concepción in attesa di poter tornare a Lima, in una delle molte risse dovute alla sua passione per le carte ferì con la spada un altro ufficiale e uccise la guardia che era accorsa ad arrestarla. Come in precedenza, chiese asilo in un convento, quello di San Francisco, dove rimase per più di sei mesi sotto il controllo delle truppe del governatore. Appena la vigilanza si allentò, decise di allontanarsi per fare da padrino al duello di un suo compagno d’armi. In una notte così scura «che non ci vedevamo le mani», si batterono non solo i duellanti, ma anche i padrini. E qui compare un’altra incredibile circostanza, e cioè che il padrino contro

cui Catalina si batté e che uccise era il fratello. Come se non bastasse, questi venne inumato nel convento di San Francisco, lo stesso in cui Catalina tornò a nascondersi per altri otto mesi prima di scappare a Tucumán assieme a due esuli, in un durissimo viaggio che li costrinse a mangiare uno dei cavalli. A Tucumán Catalina corteggiò e promise di sposare due donne, dalle quali si diede alla fuga prima che venisse svelato il suo genere. Per capire il personaggio e la sua storia bisogna anche tener conto del fatto che l’identificazione tra il sesso biologico e un unico modello di femminilità non era così chiara nel XVII secolo come sarà in epoche successive.

Condanna a morte La donna raggiunse il villaggio di Potosí a cavallo. In quella località visse un paio di anni per poi arruolarsi in una compagnia militare diretta alla

regione dei chunchos, dove affrontò gli indigeni con grande valore. L’alfiere racconta di uno scontro con questi – più di diecimila, secondo lei – in cui «ci battemmo con tale coraggio e facemmo una tale strage che dal campo scorreva il sangue come un fiume, e li inseguimmo uccidendoli fin oltre il Río Dorado». Dopo aver ammassato quanto più oro poteva, lasciò le truppe e si stabilì a La Plata (oggi Sucre, in Bolivia) in qualità di amministratrice di una ricca vedova. Di nuovo coinvolta in un losco affare, venne accusata di aver sfregiato il volto di una donna con una lama da chirurgo per vendicare la sua signora, pure lei colpita al volto con una scarpa durante un acceso battibecco tra le due. Ancora in fuga, si mise a commerciare grano tra Cochabamba e Potosí. Attaccabrighe e lupodatica, uccise due uomini in altrettante risse, e per il secondo delitto venne condannata STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GUERRA tra gli spagnoli e i mapuche, rappresentata in questo disegno accluso a una mappa del Cile del XVII secolo.

a morte. Quando aveva già il cappio al collo, riuscì a salvarsi la vita: due dei testimoni – condannati a loro volta – ritrattarono e assicurarono che «indotti e pagati, avevano giurato il falso» contro di lei. Quindi Catalina vagò senza meta per poi tornare a Cuzco, dove in un’altra zuffa mise mano alla spada. Venne colpita gravemente, ma ferì a morte l’avversario. Grazie all’aiuto di alcuni amici biscaglini, decise perciò «di cambiare aria». Ricercata in tutto il Perù, venne alla fine riconosciuta e fermata a Huamanga (l’attuale Ayacucho), non senza aver prima ucciso una delle guardie che la volevano arrestare e averne ferite altre due. Fu allora, davanti a una morte certa, che l’alfiere Díaz chiese di poter parlare con il vescovo, Agustín de Carbajal, a cui raccontò la propria vita e svelò l’inganno delle vesti. «La verità è questa: sono una donna». Il vescovo mandò due donne a verificare l’affermazio14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ne e, quando loro ebbero confermato il sesso dell’alfiere, Carbajal decise commosso che avrebbe scontato la pena nel convento delle clarisse di Huamanga. La straordinaria storia di Catalina divenne di pubblico dominio ed episodi eclatanti della sua biografia circolarono in tutto il vicereame.

memorie. Dopo essere stata ricevuta dal re Filippo IV andò in Italia, dove ebbe un colloquio con il papa Urbano VIII, che le concesse la dispensa di vestirsi e firmarsi come un uomo. Da quel momento la sua leggenda crebbe ulteriormente, ma lei scomparve dalla vita pubblica. A quanto pare, tornò nella Nuova Spagna e, con una Ricevuta dal papa mandria di muli, si mise a trasportare Ormai una celebrità, Catalina fu chia- passeggeri e merci dal porto di Veramata dall’arcivescovo di Lima e dal cruz a Città del Messico. Morì nel 1650 viceré, che erano ansiosi di conoscerla. nella località di Cuitlaxtla. Rimase nel convento delle Comenda—José María González Ochoa doras de San Bernardo per due anni, finché si venne a sapere che, diversaTESTI Per mente da quanto lei sosteneva, non della monaca alfiere saperne Storia scritta da lei medesima aveva mai preso i voti, perché a San di più Catalina De Erauso. Sellerio, Palermo, 1991. Sebastián era stata solo una novizia. SAGGI Pentita, perdonata ed esclaustrata, torIl soldato gentiluomo. Raffaele Puddu. Il Mulino, nò in Spagna nel 1624 come uomo, con Bologna, 1982. il nome di Antonio de Erauso. Durante Le donne erediteranno la terra Aldo Cazzullo. Mondadori, Milano, il viaggio iniziò a scrivere o a dettare 2016. i testi che oggi conosciamo come sue

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UNA FOTO STORICA 1

Chiesa di Santa Maria della Pietà, fotografata alle prime luci dell’alba. Calascio, L’Aquila.

2

Vista dal basso della cupola centrale della Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato. San Pietroburgo, Russia.


3

Due frati a confronto. Basilica inferiore di San Francesco d’Assisi. Assisi, Perugia.

Cari lettori Si è conclusa con successo la prima edizione del concorso fotografico “Una foto Storica”. L’iniziativa è stata premiata da una grande partecipazione dei lettori. La nostra giuria ha ricevuto oltre 600 foto inviate da fotografi amatoriali e professionisti che si sono cimentati con il tema proposto. L’obiettivo era quello di riuscire a mettere in luce attraverso le immagini l’enorme patrimonio paesaggistico, storico e architettonico del nostro Paese e del mondo intero. E con le vostre foto avete raccontato una storia straordinaria. Siamo lieti di pubblicare su queste pagine le foto vincitrici che si sono aggiudicate i premi messi in palio.

1° PREMIO

4 5

FRANCESCO MARIA ANTONELLI Viaggio in Turchia per due persone 2° PREMIO

FRANCESCO FRISONE

Fotocamera Fuji X-T2 con obiettivo XF18-55mm DAL 3° AL 5° PREMIO

DANILO FALCONE, BARBARA BINI, PAOLO BELOTTI “Gioielli d’Italia”. Un weekend per due persone per scoprire i borghi e le città più belle d’Italia

Ponte Sant’Angelo e la Basilica di San Pietro fotografati dal Ponte Umberto I al crepuscolo. Roma.

La Cappella Colleoni e la Basilica di Santa Maria Maggiore viste dal Campanone di Città alta. Bergamo.


ANIMALI NELLA STORIA

Con il suo fascino misterioso e temibile, il giaguaro conquistò le antiche popolazioni mesoamericane, diventando protagonista di numerosi miti

F

in da epoche remote le popolazioni mesoamericane cedettero al fascino del felino più grande e bello d’America, il giaguaro (Panthera Onca Linneus). Questo animale, presente solo nel continente americano, vive in ambienti umidi e selvatici, in uno spazio geografico che originariamente andava dal Messico all’Argentina. Tuttavia la presenza umana ha invaso e modificato questo corridoio naturale, provocando una notevole riduzione della popolazione di giaguari. Il suo nome deriva dalla denominazione dell’animale nella lingua degli indigeni tupi del Brasile, ovvero

januara. Gli aztechi lo chiamavano invece ocelotl. A partire dall’osservazione del suo comportamento, le antiche culture della Mesoamerica (la regione storica che comprende Messico e America centrale) collegarono il giaguaro a vari fenomeni naturali. Fu per esempio associato alla notte, per la vista eccezionale che gli permette di cacciare nell’oscurità. Simboleggiava anche la fine delle ere cosmogoniche, i cicli di fine secolo e il tramonto del re degli astri, perché si trasformava nel sole in cammino verso il mondo dei morti, dove si recava ogni notte per sconfiggere le tenebre. Dato che a volte fa la

LOTTA RITUALE TRA DUE PERSONAGGI, UNO DEI QUALI È UN GUERRIERO GIAGUARO. CODICE IXTLILXÓCHITL, XVII SECOLO. BNF / RMN-GRAND PALAIS

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SCALA, FIRENZE

Il giaguaro, felino sacro della Mesoamerica PELLE DI GIAGUARO. PARTICOLARE DI UN ELENCO DI TRIBUTI AZTECHI DEL CODICE MENDOZA. BODLEIAN LIBRARY.

sua tana nelle grotte e ama nuotare, come la tigre, il giaguaro era anche legato all’elemento acquatico e alla fertilità, come si può vedere nelle splendide pitture murali di Teotihuacán, dove appare circondato da simboli d’acqua. Era considerato inoltre un’incarnazione delle forze telluriche, fin nei suoi aspetti più terribili. La dea azteca Tlaltecuhtli viene rappresentata con artigli di giaguaro.

Tra uomini e dei Il giaguaro svolgeva un ruolo molto importante nella cosmogonia degli aztechi. Nel mito, il primo sole a illuminare l’umanità fu il dio Tezcatlipoca, che per questo regnava nei cieli. Suo fratello Quetzalcóatl, geloso del suo potere, lo colpì con un bastone per prendere il suo posto. Però Tezcatlipoca non morì, ma divenne un giaguaro e annientò i giganti che all’epoca popolavano la terra. Gli aztechi dunque lo adoravano nelle invocazioni a Tezcatlipoca, e gli diedero l’epiteto di Tepeyóllotl, “cuore del monte”, perché i suoi domini erano all’interno delle montagne, cioè nelle grotte, nel mondo sotterraneo e nel cielo notturno. La sua pelle maculata divenne una metafora del cielo stellato: per questo era detto anche “stella giaguaro”.


RAFAEL MACIA / AGE FOTOSTOCK

IL CUAUHXICALLI era un recipiente, in questo caso a

forma di giaguaro, in cui venivano depositati il sangue e i cuori delle persone offerte in sacrificio per alimentare il sole e la terra. Museo di antropologia, Città del Messico.

Secondo la mitologia azteca, la caratteristica pelle a macchie del giaguaro era dovuta al fatto che, mentre creavano il sole e la luna, gli dei lo gettarono nel fuoco sacro. L’animale risorse tra le fiamme con il suo inconfondibile mantello bruciacchiato in ricordo di quel gesto. Il giaguaro aveva anche un significato politico: appare infatti nei bassorilievi e nelle sculture di templi e palazzi di tutte le culture mesoamericane. Si riteneva che regnasse sia sulla luce sia sulle tenebre. Questa ambivalenza gli permetteva di trasportare le energie sacre e trasmettere le sue qualità ai governanti, diventando così il loro

alter ego o nahual, l’animale protettore. Era anche un modello di cacciatore astuto e coraggioso: per questo motivo i guerrieri si vestivano con le sue pelli. Furono istituiti poi degli ordini militari di guerrieri ocelotl (o giaguari), i cui membri erano i più valorosi e insigni della comunità. Dei, re, guerrieri e sacerdoti associavano al proprio nome l’appellativo di giaguaro, come simbolo di prestigio e potere.

Una visione millenaria Ancora oggi i popoli indigeni rispettano e venerano questo maestoso felino. Nello stato messicano di Guerrero si svolgono dei riti propiziatori

per la pioggia in cui giovani vestiti da giaguari inscenano combattimenti rituali. Queste relazioni ancestrali con l’animale proseguono dunque ancora oggi, nonostante gli europei abbiano cercato di interromperle fin dal loro arrivo. Le popolazioni mesoamericane accettano l’egemonia del giaguaro sulla natura circostante e continuano a credere che l’ombra enigmatica e crepuscolare di questo animale controlli il sapere e le forze di un universo sacro che sfugge al controllo degli esseri umani. —Isabel Bueno STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Il gelato moderno, una storia tutta italiana

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icostruire chi inventò il gelato è una perdita di tempo: infatti sin dall’antichità più remota i tentativi di rinfrescarsi e dissetarsi con la neve o il ghiaccio, magari aggiungendo un sapore diverso (come il succo di frutti locali o il miele), furono pratiche comuni e intuitive in ogni continente. Le fonti sono comunque concordi nell’identificare gli italiani come gli inventori del gelato moderno. Stando a quanto riporta Quinto Fabio Gorgo, nel 62 d.C. Nerone introdusse a Roma i primi dessert elaborati a base di frutta, miele e neve. Tuttavia per passare dalle nivatae potiones di epoca imperiale a una forma più evoluta bisognerà attendere il XVI secolo. A contendersene la paternità sono un tal Ruggeri, pollivendolo fiorentino, e il suo concittadino Bernardo Buontalenti, di professione architetto.

Verosimilmente le cose andarono in questo modo: Ruggeri si aggiudicò la vittoria di un concorso indetto dalla corte medicea per l’invenzione del piatto più originale. Il suo «ghiaccio con acqua inzuccherata e profumata» ebbe un tale successo che nel 1533 Caterina de’ Medici lo portò con sé a Parigi, in occasione delle nozze con il duca d’Orléans, il futuro Enrico II. Questo narra la vox populi, ma la documentazione ufficiale scarseggia. L’architetto Bernardo Buontalenti invece sottopose a Cosimo il Vecchio una nuova ricetta: quella di una crema fredda a base di latte, tuorlo d’uovo, miele e vino aromatizzato con bergamotto, limone e arancio. L’invenzione venne offerta a un ospite di tutto riguardo, Carlo V di Spagna, e il successo fu travolgente. All’epoca il grande problema tecnico era la produzione del ghiaccio. In tutta la penisola italiana ci si ingegnava

NEL XVIII SECOLO il gelato aveva conquistato proprio tutti. Compreso Carlo Goldoni, che nel testo del dramma per musica Amore in caricatura scrive: «Due cose in questo mondo mertano il primo onore/il sorbetto gelato e il caldo amore».

BRIDGEMAN / ACI

GELATAIO napoletano con la sua bancarella di gelati e bibite. Fine del XIX secolo.

La conservazione del ghiaccio

GELATO LETTERARIO

GELATIERA IN LEGNO CON MANOVELLA MANUALE. XX SECOLO.

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HULTON ARCHIVE / GETTY IMAGES

Dalla conservazione del ghiaccio al cono, fondamentali sono state le intuizioni dei mastri gelatai nostrani

per conservare questo elemento preziosissimo, considerato dalle classi agiate un ingrediente di lusso ma che, al tempo stesso, era un prodotto indispensabile per la conservazione degli alimenti e per le attività ospedaliere. In Sardegna, ad esempio, ancora oggi si può percorrere il “Camminu de is niangios”: dal cinquecento all’ottocento operai stagionali portavano la neve ghiacciata conservata nelle domus de su nie, le case della neve, dai monti del Gennargentu fino alla pianura per poi rivenderla in blocchi. In Sicilia, invece, la neve veniva conservata in cavità naturali dette“neviere”durante l’inverno;


Il ghiaccio artificiale LA SUA PRODUZIONE fu una questione alchemica. Sin dal Medioevo veniva realizzato aggiungendo nitrato di potassio al ghiaccio naturale. L’altro additivo era l’anidride solforosa, che portava la temperatura a -30°C. NEL 1626 un tale Santoro riuscì a ottenere lo stesso risultato aggiungendo alla neve sale da cucina in proporzione di 1:3. NEL 1597 Galileo inventò il termometro, che consentì di perfezionare i dosaggi. Le prime macchine del gelo, chiamate sorbettiere, erano cilindri di terracotta rivestiti nei quali venivano messi ghiaccio e ingredienti chimici. Via via che il prodotto si cristallizzava, il gelataio lo raccoglieva con la spatola. Successivamente venne introdotta una manovella per facilitare la produzione di un gelato più fine.

solo dopo veniva portata in città su carri e coibentata con strati di cenere e felci. Il gentiluomo scozzese Patrick Brydone raccontava nel 1767: «Non c’è festa organizzata dalla nobiltà in cui la neve non rivesta un ruolo importante: la mancanza di neve, dicono loro stessi, sarebbe più grave della mancanza di grano o di vino». Più articolata era la situazione a Torino, il cui sottosuolo era percorso da gallerie sotterranee costruite per la difesa della città. Una mappa risalente al 1753 riporta che nella zona di porta Palazzo si trovava un’area adibita a ghiacciaia dove venivano conservati

i blocchi portati in estate dalle Alpi e successivamente utilizzati dagli ambulanti del mercato. Sul Carso triestino, invece, erano famose le jazere di Draga Sant’Elia, sviluppatesi a partire dal XVIII secolo. Si trattava di profondi pozzi in muratura, scavati in prossimità degli stagni, dai quali si intagliavano blocchi di ghiaccio di circa 80x20 cm, che poi venivano estratti con un particolare tipo d’ascia e uncini di ferro. Quindi i blocchi venivano depositati nelle jazere alternando strati di foglie secche. Un chilo di ghiaccio poteva arrivare ad avere lo stesso valore di un chilo

di carne e i maggiori acquirenti erano la più grande birreria della città, la Dreher, e gli ospedali. Carri carichi di ghiaccio partivano prima dell’alba dall’altipiano in direzione di Trieste, ma prima ancora di arrivare a destinazione avevano già venduto tutto il carico ai macellai che attendevano la carovana lungo la strada.

Gelato e migrazioni La storia del gelato è anche una storia di emigrazione, a partire dal già citato Ruggeri e fino ad arrivare a Procopio de’ Coltelli, pescatore siciliano il quale, dopo aver perfezionato una macchinetta STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Donne, gelato e isteria IN EPOCA VITTORIANA fiorirono gli studi sulla salute femminile e sull’isteria: le donne venivano considerate

TRANSCENDENTAL GRAPHICS / GETTY IMAGES

delle creature fragili e nervose. Pertanto, assicuravano gli esperti, necessitavano di una dieta adeguata: i trattati dell’epoca sconsigliavano cibi robusti ed evocativi, come la selvaggina o le spezie, mentre raccomandavano piatti leggeri e rassicuranti, come il brodo, le verdure e, appunto, il gelato.

TRE SORELLE si godono un gelato nella foto di un autore sconosciuto. 1920 circa.

per la produzione del ghiaccio inventata da suo nonno Francesco, decise di fare il grande salto trasferendosi a Parigi. Lì nel 1686 aprì il caffè Le Procope, destinato a diventare il locale più in voga della capitale francese. Al Le Procope si potevano apprezzare le acque gelate (le nostre granite) e i gelati di frutta diventati poi classici, come il gelato al succo di limone o di arancio. Ma era possibile provare anche gusti più partico-

lari, come i fiori d’anice, di cannella o la crema frangipane gelata. Il successo fu tale che Luigi XIV conferì al locale una concessione esclusiva per la produzione di questi dessert. Una migrazione dovuta invece alla povertà fu quella rappresentata dagli abitanti del Cadore e della Val di Zoldo, in Veneto. Alla fine dell’ottocento, con il crollo della Serenissima Repubblica di Venezia, questi si erano trovati a fronteggiare una grave crisi economica e demografica, che li aveva portati a

Nel XVIII secolo in tutta Europa fiorirono le sale da caffè, dove si potevano gustare bevande e gelati VASELLAME DA DESSERT. XVIII SEC. MUSEO NAZIONALE DELLA CERAMICA. NAPOLI. BRIDGEMAN / ACI

emigrare a nord percorrendo dalla primavera alla fine dell’estate i territori dell’impero asburgico e vendendo gelati come ambulanti sui propri carrettini. A loro va il merito di aver reso popolare un prodotto fino a quel momento destinato alle élite.

La moda nel settecento Fino al XVIII secolo il gelato fu curiosità e vanto dell’aristocrazia. Complici la diffusione dello zucchero e le nuove bevande coloniali (tè, caffè e cacao), conobbe da quel momento la sua epoca d’oro, tanto da venir citato persino nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert: «Nome moderno che si dà ai liquidi di gusto gradevole e preparati con abilità e congelati in


IL GELATO DA PASSEGGIO nacque con l’invenzione del cono. Diverse sono le ipotesi circa la paternità di questo supporto. Le più note sono legate ai nomi di Italo Marchioni, italiano emigrato negli USA che nel 1903 brevettò un macchinario per la produzione dei coni, e di Giovanni Torre, ligure di Bussana che qui impiantò il primo forno atto alla produzione di cialde, poi presentato all’Esposizione di Torino del 1919. Ma gli italiani non sono gli unici a rivendicare la scoperta del cono: Ernest A. Hamwi, emigrato siriano a New York e venditore di frittelle di cialda tradizionali cotte in una pressa per wafer e note come zalabia, ebbe l’intuizione di farcirle col gelato del suo vicino di chiosco durante la fiera di Saint Louis, nel Missouri. Era il 1904. Cominciava così l’era del cono da passeggio.

VENDITORE DI GELATI. SCUOLA ITALIANA. 1700. MUSEO NAZIONALE DI SAN MARTINO E CERTOSA. NAPOLI.

forma di teneri ghiaccioli; si possono congelare rapidamente tutti i liquidi ottenuti da succhi vegetali, servendosi di ghiaccio e di sale, oppure in mancanza di sale, con nitro e soda». In tutta Europa fiorirono allora le sale da caffè, dove si potevano gustare le nuove bevande e i gelati, e dove si riunivano intellettuali illuministi e galanti modaioli che fecero la fortuna di questo genere di locali. L’avventuriero veneziano Giacomo Casanova racconta nelle sue memorie che i gusti più diffusi erano cacao, caffè e limone. Quest’ultimo veniva proposto anche nella versione “gelo al limone”: si toglieva la polpa e la si sostituiva col sorbetto. Inoltre i gelati erano talmente apprezzati che venivano serviti dai venditori ambulanti anche a teatro, durante l’intermezzo fra un atto e l’altro.

BRIDGEMAN / ACI

IL GELATO DA PASSEGGIO

Nello stesso periodo cominciarono a comparire le prime pubblicazioni dedicate all’argomento: nel 1775 il medico napoletano Filippo Baldini pubblicò il trattato De’ sorbetti nel quale sosteneva la tesi della salubrità dei cibi gelati contro le precedenti generazioni di medici che, invece, li sconsigliavano. Ma già alla fine del XVII secolo il marchigiano Antonio Latini, capocuoco del viceré spagnolo di Napoli, aveva pubblicato Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, che comprendeva un capitolo dedicato ai sorbetti e alle acque ghiacciate. Fra le ricette, accanto ai classici come gli agrumi o i pinoli, ve n’erano anche alcune davvero insolite, come il gusto alla melanzana o alla zucca. Nel 1891 il gastronomo Pellegrino Artusi (considerato il padre della cucina italiana) pubblicò un libro

diventato successivamente un best-seller, ovvero La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene: la prima raccolta di ricette regionali dopo l’unificazione d’Italia. Fra i dessert proposti trovano spazio anche le novità come il gelato di torrone o di marroni, lo spumone di tè o il pezzo in gelo, una sorta di torta gelato. La ricerca della novità è tuttora una costante: anche oggi infatti i mastri gelatai continuano a sperimentare gusti singolari, dal gorgonzola fino al carbone vegetale. —Martina Tommasi Per saperne di più

SAGGI

La cucina italiana. Storia di una cultura Capatti-Montanari. Laterza, Roma-Bari, 2006. Le ghiacciaie: architetture dimenticate Aterini. Alinea, Firenze, 2007.

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OLIVER SANTANA / RAÍCES

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O P E R A D ’A R T E

arte mixteca

( 1 5 0 0 a . c . - 1 5 2 3 d . c .)

Il pettorale di Monte Albán Questo splendido gioiello in oro fu ritrovato in una tomba dell’antica città di Monte Albán, nell’attuale stato di Oaxaca, Messico, e rappresenterebbe un alto dignitario mixteco che attuò una riforma del calendario giaguaro e dal naso escono le piume dell’uccello quetzal 1. Attorno alla testa si vede un diadema sbalzato che termina in paraorecchie circolari, decorati con serpenti dalle fauci aperte 2. L’insieme culmina in un doppio pennacchio con due cerchi ai lati da cui pendono piume e spirali 3. Il copricapo può essere interpretato come l’unione della sfera terrestre, dei cieli e del mondo delle tenebre, incarnati rispettivamente dal serpente, dal quetzal e dal giaguaro.

Maschera dell’inframondo

Albán sino alla conquista mixteca, avvenuta verso il 1200. Vi è riportata una data precisa: il giorno 2 selce dell’anno 10 vento; il giorno è indicato con una selce e due punti 6, l’anno con dieci punti 7 e l’immagine del dio del vento, Ehēcatl 8, una delle sembianze di Quetzalcóatl. L’altro quadrato ricorre al calendario mixteco per indicare l’anno 11 casa. Qui i simboli sono associati a Cocijo, dio della pioggia e del calendario, di cui sono rappresentati i due occhi con le piume 9. —Isabel Bueno

Al centro compare il volto di una persona con grandi occhi, zigomi sporgenti e naso aquilino, che indossa una maschera simile a una mandibola scarna 4, grazie alla quale il defunto si trasformava in un signore delle tenebre per officiare qualche culto agli antenati. Dal collo pende una collana a tre giri, con quattro sonagli in oro e un uccello che scende in picchiata 5; tale rappresentazione rimarca la figurazione dell’inframondo. Sulle spalle compaiono due quadrati con simboli corrispondenti a due calendari diversi. Quello della spalla destra è in relazione al calendario degli zapotechi, la cui cultura dominò Monte

guerriero con pettorale. Questa statuetta mixteca in oro, datata tra il 900 e il 1521 e conservata nel British Museum, fu scoperta a Tehuantepec nel 1870, durante gli scavi dei resti di una residenza privata. Rappresenta un alto dignitario agghindato che regge uno scudo e porta al collo un pettorale antropomorfo, simile a quello di Monte Albán.

RMN-GRAND PALAIS

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orse l’effigie messicana in oro più bella mai conosciuta». Così qualificava l’archeologo Alfonso Caso il pettorale che, nel 1932, lui stesso aveva trovato nella tomba numero 7 della città di Monte Albán, nell’odierno stato di Oaxaca. L’oggetto faceva parte di un ricco corredo con cui, verso il 1330, data della morte del governante Señor 5 Flor (“Signore 5 Fiore”), venne sepolto un alto dignitario mixteco. Il corredo comprendeva anelli, braccialetti, unghie finte, collane e sonagli. Gioiello dalla raffinata lavorazione e bellezza, testimonia la fama che gli orefici di tale cultura precolombiana raggiunsero in tutta la Mesoamerica. Secondo i ricercatori, il pettorale potrebbe rappresentare il Señor 5 Lagarto (“Signor 5 Lucertola”), che attuò una riforma del calendario. E, infatti, il gioiello mantiene uno stretto rapporto con questa, visto che è noto pure come “Pettorale degli Anni”. Nei codici mixtechi, inoltre, il dignitario è raffigurato con lo stesso tipo di maschera. Il gioiello è costituito da tre parti: un copricapo decorato con piume, una maschera e due spalline. Il copricapo ha la forma di testa di serpente. La sua bocca aperta mostra dei canini di


MAPPA DEL TEMPO

1502

La mappa di Imola di Leonardo da Vinci Questa mappa della città fu realizzata da Leonardo mentre lavorava come ingegnere militare al servizio di Cesare Borgia

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tografica sviluppata dall’umanista fiorentino Leon Battista Alberti tra il 1443 e il 1455. Seguendo l’esempio di Alberti, Leonardo disegnò una rete di raggi e circonferenze orientata in base ai punti cardinali che si sviluppava a partire dal centro, in questo caso la piazza dell’Orologio. In tal modo era possibile misurare l’angolo di orientamento dei principali luoghi della città. Una volta stabilita la distanza tra il centro e questi siti, si tracciava una precisa rete di triangoli che diventava la base su cui disegnare la mappa. Leonardo usò una propria versione dell’odometro di Vitruvio, una carriola che permetteva di misurare le distanze attraverso un meccanismo di ruote dentate. Incluse inoltre le indicazioni dei tempi di percorrenza da Imola ad altre località per consentire a Cesare Borgia di pianificare al meglio i propri spostamenti. Il risultato è una mappa di inedita precisione in un’epoca in cui la maggior parte delle cartografie si concentrava più sugli aspetti simbolici della città che sul calcolo rigoroso delle distanze. —Manuel Saga

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ll’inizio del XVI secolo Leonardo da Vinci tornò a Firenze dopo aver trascorso quasi vent’anni a Milano. I primi tempi nella città toscana non erano stati molto fertili in campo artistico, perciò Leonardo aveva deciso di tentare la fortuna lavorando come consigliere militare. Nel 1502 Leonardo fu nominato architetto e ingegnere generale al servizio di Cesare Borgia, figlio del papa valenzano Rodrigo Borgia. In quello stesso anno realizzò per il mecenate una mappa della città di Imola, un documento tecnico con finalità militari oggi conservato nel Museo Leonardiano di Vinci, paese natale dell’artista. Imola era stata conquistata da Cesare Borgia nel 1499 ed era diventata uno dei punti strategici più importanti della Romagna. La città era difesa da un fosso e da una cinta muraria che nella parte sudorientale includeva una fortezza nota come Rocca Sforzesca, per la quale Leonardo realizzò un progetto di rinforzamento. Questa mappa di Imola è interessante perché costituisce un’applicazione pratica della tecnica car-

A, FIR

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BELLEZZA E UTILITÀ PRATICA

Oltre alla sua rivoluzionaria precisione, la mappa di Imola rivela la mano d’artista di Leonardo: gli acquerelli della composizione sono sfumati intorno al fiume Santerno per indicare le piene stagionali, mentre i colori più intensi in certe aree stanno a indicare rilievi del terreno o edifici.


MAPPA DI IMOLA DI LEONARDO DA VINCI. I COMMENTI IN SCRITTURA SPECULARE SONO MOSTRATI IN UNA POSIZIONE DIVERSA RISPETTO ALL’ORIGINALE.


I PADRONI DEI MARI

DEA / ALBUM. © ALBERT SEBILLE, VEGAP, BARCELONA, 2018

Abili navigatori e commercianti, i fenici solcarono il Mediterraneo sulle loro navi mercantili portando nelle stive ogni sorta di prodotto: legno, avorio, gioielli… e, ovviamente, preziosi tessuti di porpora. Nell’immagine, un nave fenicia passa davanti all’isola di Faro, in Egitto. Olio di Albert Sebille. XX secolo.


LA PORPORA FENICIA L A P I Ù PR EG I ATA DELLE TI NT UR E Nel I millennio a.C. i fenici crearono un vasto impero commerciale che si estendeva all’intero Mediterraneo. La loro ricchezza si basava sulla porpora, prodotto ottenuto da un umile mollusco, ma bramato dai re, e il cui peso aveva il valore dell’oro


BIBLO, GRANDE PORTO COMMERCIALE

Chiamata così dal nome greco del papiro, Biblo fu a lungo la più importante città commerciale della Fenicia. A partire dal X secolo a.C. venne sostituita da Tiro, la sua grande rivale. Sotto, rovine di Biblo, nell’attuale Libano.


U

na leggenda racconta che, durante una romantica passeggiata con la bella nereide Tiro, il dio Melqart scoprì per caso la pregiata tintura color rosso porpora che sarebbe poi divenuta il simbolo dei fenici. Intenzionato a sorprendere l’amata, Melqart mandò il suo fedele segugio lungo le spiagge del Libano alla ricerca di un

regalo per dimostrarle il suo affetto. Tuttavia, quando il cane finalmente tornò indietro, il dio si accorse che aveva il muso sporco di sangue. Melqart si avvicinò preoccupato, ma si rese subito conto che il sangue non era dell’animale, bensì proveniva dai resti di un mollusco, il murex, ovvero il murice, che il cane teneva ancora tra le fauci. Appena il composto di sangue del murice e di saliva del cane si fu seccato, diventò di un vivace color rosso porpora, che attirò l’attenzione della nereide Tiro. La ninfa accettò allora di sposare Melqart solo se questi le avesse confezionato un vestito dello stesso colore. Quindi l’ingegnoso dio raccolse un numero sufficiente di molluschi per soddisfare i desideri dell’amata. Fu così che nacque la cosiddetta “porpora di Tiro”. Secondo un’altra versione, l’abito di Melqart era destinato al leggendario re di Tiro, Fenice, il quale si invaghì tanto del colore da decidere che da allora i territori sotto il suo controllo si sarebbero chiamati Fenicia, che significava, infatti,“terra della porpora”, e che tutti i futuri sovrani avrebbero dovuto indossare quel colore in segno della loro regalità. Sebbene entrambe le leggende provengano

F8GRAPHER / ALAMY / ACI

C R O N O LO G I A

IL POTERE DELLA PORPORA

da tradizioni tardo antiche, l’immagine di un cane che addenta una conchiglia di murice è stata rinvenuta su diverse monete di Tiro: le leggende potrebbero avere, perciò, una derivazione fenicia.

Il popolo della porpora Al di là dei vari racconti mitologici tesi a spiegarne l’origine, la tintura giocò un ruolo fondamentale nella storia dei fenici. Lo stesso termine “fenicio”, usato dai greci per indicare alcune città-stato sorte lungo la costa che oggi appartiene a Libano, Siria e nord di Israele – come l’isola di Arwad, Biblo, Beirut, Sidone, Sarepta e Tiro –, riguardava sicuramente la porpora. In greco phoinix poteva pure riferirsi a un colore rosso porpora, e il fatto che fosse attribuito alle città fenicie sarebbe una voluta allusione alla produzione dei tessuti porpora che consacrò la loro fama. Nell’antichità una teoria altrettanto nota sosteneva che la parola si riferisse al leggendario Fenice che, come abbiamo visto, era per alcuni l’iniziatore dell’uso della porpora a Tiro. I fenici furono sempre legati indissolubilmente al commercio. Esportavano in tutto

Sec. XV-XIII a.C. Sec. IX a.C.

539 a.C.

332 a.C.

A Sarepta si raccolgono conchiglie di murice per ottenere una tintura pregiata.

La sconfitta di Babilonia a opera dei persiani offre ai fenici nuove opportunità di commercio.

La conquista di Tiro da parte di Alessandro segna la fine dell’indipendenza fenicia.

Tiro diventa il centro del potere. Comincia la fondazione delle colonie fenicie.

MELQART SCOPRE LA PORPORA SUL MUSO DEL SUO CANE. DETTAGLIO DI UN OLIO DI RUBENS. 1636. AKG / ALBUM

BENI DI LUSSO

Oltre al legname e ad altri beni primari, i fenici realizzavano e commerciavano beni di lusso in tutto il mondo antico. Sopra, una collana in pasta vitrea fenicia del IV o III secolo a.C. Museo archeologico di Villa Giulia, Roma. WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE


LA RETE COMMERCIALE FENICIA

Alla fine del V secolo a.C. le vie commerciali fenicie andavano dall’India, in Oriente, almeno fino a Mogador (l’attuale as.-S.awı̄ra), nella zona occidentale del Marocco, formando una trama di rotte che si estendeva per tutto il Mediterraneo, il mar Nero, il mar Rosso, il golfo Persico e il mar Arabico.

(Cartagena)

Mogador

(Essaouira)

0 km

200 200

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Argo

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Hippo Regius Cartagine

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Atene

Panormo Mozia

Kerkouane E Hadrumetum Malta

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Meninx

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(Gerba)

Città della Fenicia Zona di espansione fenicia Rotta commerciale Relitto fenicio Colonia fenicia Altre città (Nomi moderni tra parentesi)

Sabrata Oea

(Tripoli)

Colofone

C ETA CR

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RODI DI

CIPR CI P O Larnaca

Biblo Tiro

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Leptis Magna Alessandria

Area ampliata in basso

I re del commercio nel Mediterraneo nell’antichità i fenici erano considerati i mercanti per eccellenza, e si diceva fossero interessati soltanto ai propri traffici. Si guadagnarono così al tempo stesso sia il rispetto sia il rancore dei loro vicini. Secondo gli egizi, i sagaci re fenici erano uomini d’affari che ottenevano grandi profitti dal commercio e dalla rivendita di materie prime. La Bibbia descrive Tiro come una città controllata da mercanti che si comportavano al pari dei principi, mentre le fonti neoassire menzionano il fiuto per gli affari e la ricchezza dei commercianti fenici. Omero dal

canto suo li dipinge come un popolo di avidi e astuti imprenditori che viaggiavano per il Mediterraneo comprando e vendendo ogni sorta di prodotto. Sebbene queste descrizioni siano esagerate, sottolineano l’importanza del commercio nella percezione che gli altri popoli avevano dei fenici. Una sommaria analisi delle testimonianze letterarie e archeologiche esistenti appoggia la teoria secondo la quale l’economia delle città-stato fenicie dipendeva dalle rendite e dalle risorse che queste ottenevano dagli svariati commerci.

Porto fenicio Porto egizio

IN QUESTA RICOSTRUZIONE SONO EVIDENTI I DUE PORTI DELL’ISOLA DI TIRO.

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MAR NERO


IL PEPLO DI ECUBA. NEL BASSORILIEVO, OPERA DI ANTONIO CANOVA, LA SPOSA DEL RE PRIAMO DI TROIA OFFRE IL SUO PEPLO ALLA DEA ATENA. 17921793. MUSEO CIVICO CORRER, VENEZIA.

Migliaia e migliaia di molluschi Non si può oggi sottovalutare l’importanza culturale, economica e sociale di questi tessuti, la cui produzione artigianale richiedeva tantissimo lavoro. Le stoffe non garantivano solo la protezione dagli elementi, ma erano anche un indice di status sociale, venivano usate per immortalare eventi o storie sugli arazzi e, quando molto pregiate, potevano valere come moneta. Sfortunatamente non sappiamo molto del loro aspetto o del procedimento con cui venivano realizzate, perché ne sono rimasti pochi brandelli. Malgrado la mancanza di dati, le fonti antiche forniscono parecchie notizie sulla produzione e l’uso della tintura porpora. Inoltre, il ritrovamento di numerosi centri per la raccolta del murice e la sua lavorazione in località come Arwad, Beirut, Sidone, Sarepta, Tiro, Tell Keisan, Shiqmona, Dor e Akko indicano quanto la porpora fosse importante per i fenici. Nella sua Naturalis Historia del I secolo d.C. Plinio il Vecchio fornisce una spiegazione alquanto dettagliata circa la preparazione della tintura. La materia prima era un liquido vischioso e opaco ottenuto dalla ghiandola mucosa di due tipi di molluschi, il Murex trunculus e il Murex brandaris. Il primo si usava per ottenere un tipo di porpora blu conosciuta come “blu reale”, mentre il secondo per la “porpora di Tiro”. Erano entrambi indelebili, o meglio non

AKG / ALBUM

il Mediterraneo una grande varietà di prodotti: oggetti in metallo finemente lavorati, sculture in avorio, legno di cedro, athyrmata (chincaglierie), vino e olio d’oliva. Tuttavia i fenici divennero particolarmente celebri per i panni dai colori accesi e dalla pregiata fattura. Per esempio, Omero lodò le vesti colorate che producevano e indossavano le donne di Sidone. Anche gli annali assiri riportano diverse liste di tributi in cui compaiono con frequenza stoffe molto decorate e offerte dalla città fenicia di Tiro. Perfino nell’Antico testamento, in particolare in una lista di prodotti compilata dal profeta Ezechiele, si parla di questo tipo di tessuti.

I VESTITI DI UNA REGINA OMERO PARLA DELLA RICCHEZZA dei tessuti fenici in un passaggio dell’Iliade:

«[Ecuba] discese nel talamo tutto fragrante, dove erano riposti i pepli di mille colori, lavorati da donne sidonie. Da Sidone il vago Paride li aveva trasportati per mare nell’occasione in cui condusse a Troia Elena, l’attraente figlia di Zeus. Ecuba uno di questi scelse e l’offrì ad Atena: il più bello, il più sgargiante, il più grande, luminoso come un astro, riposto per ultimo nel fondo».

decoloravano facilmente, qualità rara tra le tinture antiche che rendeva queste particolarmente apprezzate. La prima fase del processo consisteva nel raccogliere enormi quantità di molluschi. Poiché entrambe le specie sono carnivore, si immergevano canestri di sparto (una graminacea) con conchiglie e avanzi di pesce come esca. Una volta raccolto, il murice veniva tenuto in vita in ampi contenitori o stagni artificiali pieni di acqua di mare finché se ne fosse ottenuta una quantità sufficiente. Quindi si procedeva a estrarre la ghiandola mucosa, che contiene i componenti chimici necessari per la tintura. In genere agli esemplari grandi si estraevano le ghiandole con uno strumento

MUREX BRANDARIS

Questo mollusco è una delle due specie raccolte dai fenici per la preparazione della pregiata porpora. G. CIGOLINI / GETTY IMAGES


KERKOUANE E LA PORPORA

Le rovine di questa cittĂ punica si affacciano sul mare nella penisola di capo Bon, lungo le coste della Tunisia. Nella Prima guerra punica, nel III secolo a.C., la cittĂ venne abbandonata e distrutta, e i romani non la ricostruirono mai. Kerkouane basava la sua economia sulla pesca e su una prospera manifattura della porpora.


MERCANTI FENICI IN BRITANNIA TRA I SECOLI IV-II A.C. INCISIONE DA HUTCHINSON’S HISTORY OF THE NATION, 1939.

speciale in ferro o in bronzo, mentre di quelli più piccoli si pestava il corpo, la ghiandola e la conchiglia sino a trasformare il tutto in un ammasso pastoso.

DALLAS AND JOHN HEATON / GETTY IMAGES

Dopo aver estratto un numero sufficiente di ghiandole, le si metteva in una grande vasca di stagno che conteneva acqua salata e che veniva riscaldata per dieci giorni. In tal modo a mano a mano filtrava la tintura: un composto incolore che, grazie a una complessa reazione fotochimica, diventava porpora non appena veniva nuovamente lasciato all’aria e alla luce del sole. L’esposizione del liquido alla luce, assieme all’uso prolungato del calore, provocava un odore talmente fetido da rendere particolarmente famosa e riconoscibile tale manifattura. Infatti la maggior parte degli stabilimenti per la produzione, nonché i cumuli di conchiglie putrefatte, si trovavano fuori dalle città o dai villaggi e, per quanto possibile, sottovento rispetto alle zone residenziali. Plinio il Vecchio ne fa riferimento nella sua opera: «Per questo sia scusata la follia della porpora. Ma da dove provengono i prezzi delle conchiglie, che hanno cattivo odore nel sugo, un colore grigiastro austero e simile al mare in tempesta?». Poiché ogni murice distillava poche gocce di queste pregiate secrezioni, la manifattura della porpora in quantità industriale richiedeva migliaia e migliaia di molluschi. Gli archeologi hanno calcolato che erano necessari circa 12mila molluschi di un murice medio (60-70 millimetri) per produrre circa 1,4 grammi di tintura, sufficienti a tingere il bordino di un vestito dalle dimensioni normali; quindi, per ottenere la tintura di un piccolo tessuto c’era bisogno di enormi quantità di murice. Per questo la porpora di Tiro era a volte più cara persino dell’equivalente in peso di argento e oro, e i tessuti potevano raggiungere cifre esorbitanti. Da quanto racconta Teopompo, uno storico del IV secolo a.C., gli uomini della città di Colofone, in Asia Minore, «erano

ALAMY / ACI

Un’industria molto lucrativa

FAMA DI BRAMOSIA SUL DESIDERIO DI LUCRO dei fenici si esprime lo storico Diodoro Siculo: «Gli indigeni [della penisola iberica] ne ignorano l’uso. Ma i fenici, che sono esperti nel commercio, compravano questo argento grazie a qualche piccolo scambio con altre mercanzie. E a tanto giunsero che, rimanendo loro dell’argento sulle navi, levato dalle ancore il piombo, vi sostituirono l’argento».

soliti passeggiare per la città con abiti di porpora, che al tempo era un colore raro pure tra i re; e molto richiesto, giacché la porpora era venduta regolarmente come equivalente all’oro». Difatti, i tessuti di porpora erano talmente ambiti che per soddisfarne la richiesta abili uomini d’affari crearono molti tessuti simili, ma di qualità inferiore. Prima che gli archeologi possano stabilire con esattezza se si tratti di esemplari genuini di “blu reale” o di “porpora di Tiro”, ceramiche e tessuti tinti

GLI OPERAI DELLA PORPORA

Questa lapide bizantina del VI secolo riporta un’iscrizione in fenicio che cita un raccoglitore di molluschi chiamato Zoilos. Beirut National Museum. AKG / ALBUM

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Uno stabilimento della porpora il disegno illustra la produzione della famosa tintura in un centro fenicio situato vicino al mare. Il lavoro era estremamente faticoso e molto spiacevole a causa dell’odore fetido emesso durante la lavorazione. Secondo alcuni studi recenti, per ottenere un grammo di porpora erano necessari all’incirca 8.500 molluschi, ai quali si estraeva la ghiandola che conteneva la porpora, se erano abbastanza grandi, o che altrimenti venivano tritati assieme alla conchiglia. All’impasto ottenuto si aggiungeva acqua salata – 26 litri per 500 grammi di impasto. Un papiro egizio della XIX dinastia parla così di chi si dedicava a tale lavoro: «Le mani dei tintori puzzano di pesce putrido».

1 la materia prima. Dopo aver pescato i murici grazie a un canestro con dentro un’esca, un uomo li trasporta nella manifattura perché vengano lavorati.

4 la tintura. Le stoffe di lana vengono immerse nella tintura per almeno cinque ore. Ne risulta un tono verdastro, che a contatto con l’aria e il sole diventa violaceo.

ALAMY / ACI. COLOR: SANTI PÉREZ

3 la cottura. L’ammasso di murici è posto in una grande tinozza di stagno con acqua salata, ed è sottoposto al calore per dieci giorni. I resti dei molluschi vengono eliminati con una schiumarola.


2 la triturazione dei molluschi. Un lavoratore pigia e mescola i molluschi o le ghiandole che contengono la porpora in un grande tino sino a trasformarli in un impasto vischioso.


LA PORPORA IMPERIALE

Durante l’impero bizantino, la porpora era un colore destinato solo ed esclusivamente ai regnanti, e quindi la sua produzione era controllata dallo stato con particolare rigore. Nel mosaico qui sopra l’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano, indossa una lussuosa tunica di colore porpora. VI secolo. Basilica di San Vitale, Ravenna.


UIG / GETTY IMAGES

Splendore e decadenza Le enormi quantità di frammenti di conchiglie rinvenute dagli archeologi a Almuñécar, Toscanos e Morro de Mezquitilla in Spagna, a Cartagine, Kerkouane e Meninx (Gerba) in Tunisia e a Mogador (as.-S.awı̄ra) in Marocco testimoniano una produzione della porpora su grande scala sia nella penisola iberica sia nel nord dell’Africa. Secondo Plinio, dopo Tiro era la città di Meninx a realizzare la tonalità di porpora più intensa. Si può quindi affermare che l’amore dei fenici per la porpora era pari a un altro grande obiettivo da loro conseguito: l’esportazione in tutto il Mediterraneo dell’alfabeto, che questo popolo diffuse al pari di altri beni. Sottomessi dal IV secolo a.C. alla Grecia ellenistica e successivamente a Roma, i fenici scomparvero gradualmente. Invece la manifattura della porpora, di cui avevano posto le basi, continuò a fiorire. I romani svilupparono proprie tecniche per l’allevamento artificiale del murice e di altri molluschi in conche scavate nella roccia. La produzione della tintura continuò nell’impero romano d’Oriente fin quando gli imperatori bizantini non ebbero più le risorse economiche per portare avanti una simile dispendiosa attività. La porpora continuò anche a essere il simbolo della regalità per molti secoli dopo la scomparsa dei fenici, sia in Oriente sia in Occidente. Alla sua morte, nell’814, anche l’imperatore Carlo Magno si fece seppellire in una tomba dentro la cattedrale di Aquisgrana

J.. REUTHER / AGE FOTOSTOCK

di porpora devono perciò essere sottoposti a particolari analisi chimiche. Sebbene l’ecosistema lungo le coste del Libano favorisse una grande concentrazione di murici, non appena la domanda superò le riserve esistenti si dovette importare i molluschi da altre regioni del Mediterraneo e dal golfo di Aqaba, nel mar Rosso. La diminuzione della fauna locale di murici, assieme al desiderio di acquisire sempre più molluschi, fece sì che i fenici iniziassero a fondare oltremare delle colonie che potessero garantire una simile produzione.

I FENICI IN SARDEGNA INTORNO ALL’VIII SECOLO A.C. i fenici, entrati in contatto con la civiltà

nuragica, fondarono in Sardegna diverse colonie, tutte sul mare per favorire le loro attività commerciali. Tra i primi insediamenti vi furono Tharros, sulla costa occidentale, Bithia, nel Sulcis (Sant’Antioco), Nora e Karalis (Cagliari) sulle coste sud occidentali. Legati alla presenza fenicia in Sardegna sono i tofet, delle aree sacre a cielo aperto.

avvolto in un sudario di seta confezionato a Costantinopoli, intessuto di fili dorati e tinto con la preziosa porpora dei re. Malgrado i progressi nella creazione delle tinture, che hanno permesso di produrre una porpora più economica rispetto al passato, ancora oggi in alcuni luoghi del mondo la porpora di Tiro viene associata alla regalità. MARK WOOLMER DURHAM UNIVERSITY. AUTORE DI UNA BREVE STORIA DEI FENICI

Per saperne di più

UNA COLONIA SUL MARE

Vista di Tharros. Con i cartaginesi nel VI secolo la città divenne un importante centro amministrativo, ma perse importanza con l’occupazione romana della Sardegna nel 238 a.C.

SAGGI

I fenici Corinne Bonnet. Carocci, Roma 2004. I fenici Michael Sommer. Il Mulino, Bologna, 2010. Il significato dei colori nelle civiltà antiche Lia Luzzatto, Renata Pompas. Bompiani, Milano,2005.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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TEMPIO “E” DI SELINUNTE

Selinunte fu fondata in Sicilia nel VII secolo a.C. da alcuni coloni provenienti da Megara Iblea, un’altra città greca dell’isola. A Selinunte furono costruiti diversi templi dorici, non sempre facilmente attribuibili a qualche divinità. In questo caso invece, la maggior parte degli studiosi concorda nel dire che fu dedicato a Era. ANTONINO BARTUCCIO / FOTOTECA 9X12


LA DIMORA DEGLI DEI

IL TEMPIO GRECO In Grecia i santuari non erano semplici luoghi di culto, ma rispecchiavano l’organizzazione sociale delle città e il modo in cui i suoi abitanti concepivano l’universo


UN COLOSSO DI MARMO

C R O N O LO G I A

Le dimore degli immortali VIII secolo a.C.

Nel 1836 August Ahlborn concluse questo grande olio, Veduta della Grecia dell’età aurea, che rievoca la costruzione del Partenone. Alte Nationalgalerie, Berlino.

A Eretria, sull’isola di Eubea, viene costruito il primo tempio greco conosciuto. È dedicato ad Apollo Dafneforo ed è fatto di legno.

VI secolo a.C.

Sull’isola di Samo compare il primo tempio greco in pietra di cui sono giunte tracce. È consacrato al culto di Era, moglie di Zeus.

500 a.C. circa

A Selinunte (Sicilia) inizia la costruzione del tempio “G”, dedicato ad Apollo o a Zeus. È uno dei più grandi della Magna Grecia.

450 a.C.

Consacrazione del tempio di Zeus a Olimpia, che diventerà il modello dei templi di ordine dorico del Peloponneso.

447 a.C.

Inizia la costruzione del Partenone, tempio dorico dedicato ad Atena e voluto da Pericle, leader della democrazia ateniese.

438 a.C.

Durante le feste panatenee viene inaugurato il Partenone, pur ancora privo di alcuni elementi della decorazione scultorea.

421-406 a.C.

Nell’Acropoli di Atene viene realizzato l’Eretteo, tempio di ordine ionico dedicato all’omonimo sovrano mitologico dell’Attica. BRIDGEMAN / ACI

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BPK / SCALA, FIRENZE

I PRIMI TEMPLI

Sotto, modello in terracotta del tempio dedicato alla dea Era ad Argo. 700 a.C. circa. Museo archeologico nazionale, Atene.

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opo il crollo della civiltà micenea attorno al 1100 a.C., la Grecia attraversò una lunga “età oscura”, il Medioevo ellenico, di cui sono rimasti pochi resti materiali. Di fatto, del primo tempio greco conosciuto non restano che alcune tracce sul terreno. Si sa però che fu eretto nell’VIII secolo a Eretria, sull’isola di Eubea, che era dedicato ad Apollo Dafneforo (“portatore di alloro”) e che era in legno. Aveva una navata centrale allungata, coperta da un tetto a due spioventi sostenuto da pilastri esterni anch’essi in legno. Significativamente la pianta di questo tempio sembra rifarsi a quella di un edificio pubblico di poco precedente, di cui sono state trovate tracce sulla stessa isola. La dimora della divinità seguiva insom-


ma il modello della casa degli esseri umani. Duecento anni più tardi, sull’isola di Samo, di fronte alle coste dell’Asia Minore, sorse il primo tempio greco in pietra del quale ci sono giunte tracce. Dedicato a Era, la moglie di Zeus, aveva una struttura simile ai templi arcaici e presentava già quella forma che avrebbe caratterizzato i santuari nel corso della storia: una cella (naos) con la statua del dio, circondata da colonne. Secondo alcune teorie, il tempio greco di pietra sarebbe stato influenzato dall’architettura religiosa egizia, anch’essa in pietra, ma non ci sono elementi sufficienti ad avvalorare quest’ipotesi. Se è vero che i templi egizi presentano spesso un gran numero di colonne, queste sono generalmente situate all’interno dello spazio sacro, del quale costituiscono la cosiddetta sala ipostila, e non all’interno, come invece avveniva in Grecia. Pertanto è molto probabile che il modello greco – un recinto circondato da

colonne – sia frutto di un’evoluzione autonoma. Lo sviluppo di questa struttura non può essere spiegato unicamente tramite la religione e le necessità del culto, ma è strettamente relazionato con le caratteristiche della società e del suo elemento più rilevante, la polis.

Il tempio e la città

DANZE PER LA DEA

La metopa era una lastra che decorava il fregio dei templi. Questa, del VI sec. a.C., proviene dal santuario di Era a Paestum. Museo archeologico nazionale di Paestum.

La statua della divinità era sempre situata all’interno dell’edificio sacro, che era la casa del dio. Per questo il tempio era anche chiamato oikos, termine che indica la dimora e, per estensione, la famiglia. Il culto si svolgeva invece su un altare esterno, posto davanti alla facciata. Questo suddivideva il tempio in due aree distinte. Da un lato c’era la cella della divinità, in cui poteva entrare unicamente il

DEA / ALBUM


44 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

PER LA DEA AFAIA

Nel VI secolo a.C. gli abitanti dell’isola di Egina costruirono un tempio dedicato ad Afaia, identificata con la dea della caccia Britomarti. Questo capitello è conservato presso la Glyptothek di Monaco di Baviera. PRISMA / ALBUM

spazio pubblico del tempio rappresenta i cittadini intesi come collettività. I cittadini (uomini liberi di più di 30 anni) di una città-stato come Atene sono uguali tra loro: hanno gli stessi diritti e doveri e svolgono le medesime funzioni. Sono pertanto come le colonne del santuario, identiche ed equidistanti. Questa ripartizione del tempio tra la cella della divinità e il portico corrisponde alla struttura della polis, generalmente suddivisa in una città bassa e in una alta fortificata, l’acropoli, dov’erano situati gli spazi sacri. La città bassa era nelle mani della comunità e aveva il centro della sua vita sociale nell’agorà, la piazza pubblica in cui si svolgeva il mercato, si concludevano accordi commerciali e si discuteva di politica e di filosofia. Invece l’acropoli era dedicata al culto religioso. A differenza di quanto avveniva nella

LOREM IPSUM

personale addetto ai riti per lavare e vestire la statua sacra, e le cui porte erano sempre chiuse perché nessun altro potesse accedervi. Dall’altro, un’area porticata e colonnata che circondava la zona sacra ed era aperta a tutti. Il santuario greco, quindi, consiste in uno spazio privato e chiuso, circondato da uno spazio pubblico. La cella che ospita la divinità – o la sua rappresentazione terrena – non ha praticamente aperture, è una specie di luogo oscuro e segreto che appartiene esclusivamente agli dei. Invece il portico circostante è della collettività, e i suoi membri possono deambularvi liberamente. In questo senso si può dire che il santuario ha due proprietari, ognuno dei quali possiede una parte specifica dell’edificio: la polis controlla il portico, aperto ai cittadini, mentre la divinità domina la cella. Da un certo punto di vista lo


HERVÉ LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS

TEMPIO DI ATENA NIKE AD ATENE. SEZIONE DI LOUIS PHILIPPE-FRANÇOIS BOITTE. XIX SECOLO.

POSIZIONE DELLE COLONNE LA SOMMITÀ DELL’ACROPOLI

città mesopotamica, che apparteneva interamente agli dei, in Grecia le divinità risiedevano nel loro piccolo spazio separato da quello degli umani. In questo modo il tempio è espressione dell’organizzazione sociale della polis. Situato in cima all’acropoli, visibile da ogni punto della città, il santuario rende manifesta la presenza degli dei, indifferenti alla sorte dei mortali che si affannano ai loro piedi nella città bassa, intorno all’agorà. Ma allo stesso tempo testimonia l’autonomia degli esseri umani, che si prendono cura degli dei ma vivono indipendentemente da loro. Il tempio è la dimora della divinità, ma ricorda ai cittadini che la polis è loro.

Una nave per gli immortali A volte si è contrapposto il modello del tempio greco a quello delle chiese cristiane. In queste ultime l’edificio è organizzato attorno a uno spazio centrale che conduce all’altare e in cui le persone possono circolare libe-

L’ELEMENTO ESSENZIALE dei templi greci è la naos, la cella che ospita

NIKOS PAVLAKIS / ALAMY / ACI

Questa veduta notturna dell’Acropoli mostra il Partenone illuminato e, alla sua sinistra, l’Eretteo. I templi della roccia sacra di Atene non erano solo un simbolo di devozione, ma anche un’espressione della potenza della città.

la statua della divinità (qui sopra si può vedere quella di Atena Nike nell’Acropoli di Atene). Le varie tipologie di tempio si distinguono in base alla disposizione delle colonne che circondano la cella: anfiprostilo se ha un portico davanti e dietro la cella (come in questo caso), periptero se è circondato da un colonnato sui quattro lati.

ramente, a differenza di quanto avviene nel tempio greco. Gli edifici religiosi cristiani si configurano così come un luogo di accoglienza, in cui mortali e immortali trovano un punto di incontro e di condivisione dei valori. La chiesa, in quanto spazio che non rifiuta nessun essere vivente e in cui tutti si sentono protetti, diventa una riproduzione dell’Eden biblico e dell’arca dell’alleanza, la cassa in cui erano conservate le tavole della legge che Dio consegnò a Mosè; o della stessa arca di Noè. Non è quindi casuale che questo luogo di sovrapposizione tra l’umano e il divino abbia in alcuni casi la forma di un’imbarcazione rovesciata. Ma la metafora navale non è esclusiva del santuario cristiano. Anche il tempio greco presenta delle similitudini con una barca. L’immagine è resa ancora più evidente dalle file di colonne che lo circondano, simili a remi. Va notato che nell’antica Grecia WHA / AURIMAGES

I CONTI DELLA DEA

Fidia costruì la statua in oro e avorio della dea Atena, cui era dedicato il Partenone. Sotto, incisione con il costo dell’opera.


IL FRONTONE OVEST DI AFAIA

Nelle decorazioni dei templi greci avevano un posto di rilievo i frontoni, gli spazi triangolari che sormontavano le facciate anteriore e posteriore. Questo proviene dal tempio di Egina e raffigura un momento della Guerra di Troia. Il centro della composizione è occupato dalla dea Atena. Glyptothek, Monaco di Baviera. PRISMA / ALBUM



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sono conservate le rovine dell’Eretteo, dedicato al leggendario primo re dell’Attica. Il santuario sorge nei pressi del luogo dove, secondo il mito, Poseidone e Atena si sfidarono per il controllo della regione: Poseidone colpì il suolo con il suo tridente e fece sgorgare una fonte d’acqua salata; ma Atena si impose piantando il primo ulivo 1. Il tempio fu costruito tra il 421 e il 406 a.C. approfittando di una parentesi di pace nella Guerra del Peloponneso, che vedeva fronteggiarsi Atene e

NELL’ACROPOLI

Sparta. Di ordine ionico, l’edificio riunisce varie costruzioni precedenti dedicate al culto di Atena Poliade 2 – il cui tempio era stato distrutto dai persiani nel 480 a.C., durante l’occupazione di Atene – e di Poseidone, Eretteo ed Efesto 3 (che secondo il mito era il padre di Eretteo). Le cariatidi 4, sei colonne a forma di fanciulle, potrebbero rappresentare le sei figlie del mitologico sovrano. CARIATIDE DELL’ERETTEO. COME TUTTE LE SCULTURE DEI TEMPLI, QUESTA FIGURA ERA DIPINTA. BRITISH MUSEUM.

SOPRA: TRASANCOS 3D. SOTTO: BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

L’ERETTEO, UN COMPLESSO UNICO


I TRE ORDINI, O STILI, GRECI

i remi, per il loro modo rapido e sincronizzato di muoversi al di sopra dei flutti marini, erano spesso paragonati a uno stormo di uccelli migratori, come le gru che guidavano i marinai; e il termine che designa lo spazio porticato del tempio greco, pteron, significa “ala”. Si può vedere allora il tempio greco come una nave che supera lo spazio invalicabile tra immortali e mortali. È un’imbarcazione solida come una roccia, che sebbene sembri fluttuare nell’aria – soprattutto quando riverbera alla luce del sole, al di sopra delle nebbie umide che coprono la città inferiore e il suo porto – è in realtà saldamente ancorato per l’eternità. Gli edifici, come le barche, hanno bisogno di essere ormeggiati perché le correnti del tempo e dell’oblio non li trascinino via. E la nave di pietra è così solida e inamovibile da trasmettere sicurezza a quelle creature effimere che sono gli uomini. Il passaggio degli esseri umani sulla terra è fugace, ma il tempio è progettato e costruito

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per ispirare un senso di protezione di fronte alla precarietà dell’esistenza. Quella nave attraccata sopra la città ha la sua àncora nel cosmo. Anticamente gli architetti disponevano i templi secondo la posizione di pianeti, stelle o costellazioni particolarmente luminosi (come Venere, la Stella polare o le Pleiadi) e li orientavano in base ai punti cardinali. Il mondo greco non faceva eccezione in tal senso, e i suoi santuari avevano una corrispondenza con l’ordine cosmico.

ANTEFISSA CON TESTA DI LEONE

Le antefisse venivano collocate sulle cornici per nascondere le testate delle tegole. Questa risale al VI secolo a.C. e proviene dalla Basilicata.

Il tempio e l’universo La facciata principale del tempio, dov’era situata l’entrata, era rivolta a est. Così, quando le porte del santuario si aprivano, i raggi del sole nascente illuminavano il volto della divinità, permettendole di entrare in contatto con sé stessa. Anche le prime chiese cristiane erano orientate secondo i punti cardinali, ma l’ingresso era rivolto a ovest, affinché la luce dell’alba, A

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AKG / ALBUM

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li storici dell’arte definiscono “ordini” i diversi stili architettonici, che si distinguono essenzialmente per la disposizione degli elementi fondamentali – le colonne, i capitelli e la trabeazione (ovvero la struttura al di sopra delle colonne) – e per le relative proporzioni. I due ordini di base dell’architettura greca erano il dorico 1 e lo ionico 2, sorti tra il VII e il VI secolo a.C. Il terzo ordine, il corinzio 3, era una variante dello ionico apparsa nel IV secolo a.C. Il dorico e lo ionico proseguirono per tutta l’antichità classica, anche se con alcune variazioni delle proporzioni, in particolare dell’altezza e del diametro delle colonne, che si fecero a mano a mano più sottili, mentre la trabeazione divenne più leggera. Lo stile corinzio si differenzia dagli altri due in quanto utilizza elementi naturali, come le foglie d’acanto nei capitelli.

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I GRANDI TEMPLI DI PAESTUM

Poseidonia, localitĂ campana poi ribattezzata Paestum dai romani. Fondata da coloni provenienti da Sibari, fu una delle piĂš fiorenti cittadine della Magna Grecia e vi si trovano le rovine di tre grandi templi dorici. Nella foto si vedono i santuari di Poseidone (a destra, costruito attorno al 460 a.C.) e di Era (a sinistra, denominato anche basilica e risalente al 530 a.C. circa).


GUIDO BAVIERA / FOTOTECA 9X12


IL TEMPIO DI CAPO SUNIO

A una settantina di chilometri da Atene si trova questo santuario dedicato al dio del mare, Poseidone. A partire dal 449 a.C. il tempio originario, in pietra calcarea, fu integralmente ricostruito in marmo per volontà di Pericle.

penetrando attraverso le vetrate del coro, orientate a est, investisse il viso dei fedeli che procedevano verso l’altare. Questa disposizione e il ruolo giocato dalla luce evidenziano una differenza essenziale tra tempio cristiano e greco: il primo è la dimora di tutti gli umani; il santuario pagano ospita invece la divinità, e le persone non vi hanno accesso, a eccezione di re e sacerdoti. I templi greci non erano collegati al cosmo solo tramite i punti cardinali, ma avevano con esso una connessione matematica più profonda. Nella costruzione di un tempio l’importante non erano le dimensioni dei APOLLO SUONA LA LIRA. COPIA ROMANA DI UN ORIGINALE GRECO DEL III-II SECOLO A.C. MUSEO NAZIONALE ROMANO, PALAZZO MASSIMO ALLE TERME, ROMA. DEA / ALBUM

vari elementi ma le specifiche relazioni che questi intrattenevano tra di loro, come per esempio i rapporti tra l’altezza, la larghezza e la lunghezza di una sala, o tra l’altezza delle colonne e la loro distanza reciproca. Tutti i componenti architettonici dovevano attenersi a queste proporzioni. Nel caso del Partenone, la relazione tra larghezza e lunghezza della cella contenente la grande statua della dea Atena era di 3 a 4. Tali relazioni si ritrovano anche nella musica, nella quale gli intervalli armonici tra le note emesse da due corde dipendono dal rapporto tra le rispettive lunghezze. Di fatto, le colonne che circondavano la cella del tempio rievocavano le corde tese di uno strumento, pronte a vibrare per mano di un divino musicista. Per i greci le proporzioni musicali rimandavano a loro volta alle distanze tra i corpi celesti: il sole, la luna, la terra, gli altri pianeti allora conosciuti (Saturno, Giove, Marte,


ROMÁN GARCÍA MORA ED FREEMAN / GETTY IMAGES

BELLEZZA E OCCHIO UMANO

Mercurio e Venere) e la fascia delle stelle fisse. Se le posizioni degli astri erano governate dagli stessi rapporti che erano alla base della musica, allora i movimenti dei corpi celesti dovevano produrre armonie, la cosiddetta “musica delle sfere”. E i templi, che seguivano lo stesso modello di proporzioni, rappresentavano un’immagine perfetta del cielo. Erano un’immagine in scala ridotta dell’universo. Il santuario greco replicava il cosmo e allo stesso tempo si situava in esso, orientandosi secondo i punti cardinali.

In terra come in cielo Se il cielo e il tempio erano strettamente relazionati, quest’ultimo non poteva essere una struttura chiusa o isolata, ma doveva aprirsi alla volta celeste. Ecco perché era delimitato da colonne e non da pareti continue. Il santuario era organizzato secondo gli stessi rapporti che regolavano il firmamento e

LE PROPORZIONI dei templi greci rispecchiavano l’armonia dell’universo, e la matematica si poneva al servizio di questi rapporti armonici per evitare che fossero rovinati dall’imperfezione dell’occhio umano: gli architetti del Partenone, per esempio, calcolarono attentamente la curvatura da imprimere alla facciata del tempio per compensare la distorsione prospettica che fa apparire concave le lunghe superfici piane.

mirava a renderli manifesti. Da questo punto di vista era del tutto logico e comprensibile ritenere che la divinità dimorasse nel tempio, proprio come abitava nel cosmo. L’architettura sacra offriva un’immagine chiara e comprensibile del mondo, dissipava timori e incertezze, era uno specchio capace di svelare l’universo e di fugare l’ignoranza di fronte ai movimenti celesti. In definitiva, era una chiave per capire gli enigmi del cosmo. PEDRO AZARA UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLA CATALOGNA SCUOLA TECNICA SUPERIORE DI ARCHITETTURA DI BARCELLONA

Per saperne di più

SAGGI

Templi e fortificazioni in Grecia e Magna Grecia Lorenzo Capone. Capone Editore, Lecce, 2009. Atene Raquel López Melero. Collezione Archeologia National Geographic, RBA, Barcellona, 2018. Gli architetti del Partenone Rhys Carpenter. Einaudi, Torino, 2006.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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IL TEMPIO DI ZEUS A OLIMPIA L’area del santuario di Olimpia nel Peloponneso ospitava le famose gare di atletica che si tenevano ogni quattro anni in onore di Zeus. Durante i giochi i greci interrompevano ogni conflitto per permettere ad atleti e spettatori di raggiungere liberamente la città. Qui furono costruiti due imponenti templi dorici: uno dedicato a Zeus, terminato nel 456 a. C., e uno a sua moglie Era, risalente alla fine del VII secolo a. C.

TRASANCOS 3D

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Ordine matematico per Zeus Il progetto dell’edificio è opera dell’architetto Libone di Elide. Il tempio, largo quasi 27 metri e lungo 64, è di tipo esastilo, cioè con 6 colonne sui lati corti e 13 su quelli lunghi. Questo rapporto non è arbitrario, ma corrisponde alla formula 2·n + 1, dove n è il numero di colonne: 2·6 colonne anteriori + 1 = 13 colonne laterali. Le dimensioni di ogni elemento dell’edificio sono un multiplo di un modulo di base, costituito dalla distanza tra gli assi di due colonne. Il frutto di questi calcoli sono delle proporzioni perfette che ne fanno un esempio di tempio dorico canonico.


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La statua più affascinante La statua di Zeus 1 era crisoelefantina, cioè in oro e avorio, ed era alta più di 12 metri senza contare la base. Conclusa da Fidia nel 433 o nel 432 a.C., era considerata una delle sette meraviglie dell’antichità. La cella che la ospitava misurava quasi 13 metri di lunghezza per 29 metri di larghezza, ed era suddivisa in tre parti da due file di 7 colonne ciascuna 2, sormontate da una seconda fila di colonne 3.


LA BRITANNIA ARDE L A G R A N D E R I B E L L I O N E D I B U D I CC A


LA REGINA DAVANTI AL SUO POPOLO

Budicca incita i britanni a difendere le loro terre dagli invasori romani. Incisione di Thomas Stothard, stampata da William Sharp nel 1812. National Portrait Gallery, Londra. NATIONAL PORTRAIT GALLERY, LONDON / SCALA, FIRENZE. COLORE: SANTI PÉREZ

Sotto la guida della regina degli iceni Budicca, tra il 60 e il 61 d.C. i britanni si ribellarono al recente dominio dei romani i quali, oltre a essere smodatamente avidi, avevano riservato un trattamento ignobile alla stessa sovrana e alle sue figlie, che erano state stuprate e umiliate. Roma schiacciò la rivolta con una brutale repressione


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BUDICCA CON LE FIGLIE. STATUA DI THOMAS THORNYCROFT, FUSA NEL 1902. LONDRA.

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WERNER FORMAN / GTRES

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Fu ritrovato nel 1857 sul fondo del Tamigi. Realizzato in rame e vetro rosso, era in realtà il rivestimento di uno scudo di legno. 350-50 a.C. British Museum, Londra.

ANT

SCUDO DI BATTERSEA

ell’evocativo ritratto di Budicca tracciato per i lettori romani oltre cent’anni dopo la morte della regina guerriera, Cassio Dione scrive che la sovrana riunì sotto di sé un enorme esercito, quantificato dallo storico in 120mila uomini e donne. Da una tribuna rialzata, la britanna di sangue nobile parlò ai suoi seguaci esortandoli a prendere le armi. Molto alta e terrificante, con una massa di capelli ramati che le arrivavano sotto la vita, impugnava una lancia e portava una collana d’oro e una tunica colorata sotto un pesante mantello chiuso con una spilla. Questa è l’unica descrizione dettagliata di una persona britanna del periodo romano che sia arrivata fino a noi. Va però presa con le pinze. Non sappiamo da dove Dione abbia attinto le informazioni e il suo ritratto può essere per buona parte inventato. L’autore classico dipinge l’atteggiamento e le sembianze di Budicca – la sua attitudine al comando, il suo incitamento alla battaglia e la sua statura – come inconsueti in una donna secondo gli standard romani. La regina impugna una lancia che ne enfatizza l’aspetto marziale, cosa ritenuta poco appropriata per una domina. E le vengono attribuiti capelli sciolti e abiti colorati, che i lettori di Dione avrebbero percepito come culturalmente barbari. La collana, o

torque, un monile maestoso, nell’Età del ferro britannica era simbolo di uno status sociale elevato. Questo vivido brano di propaganda romana ha incontrato il favore dei lettori anche in epoche successive, ispirando artisti e poeti nei secoli a venire.

Fomentatrice della rivolta Nel discorso a lei attribuito da Cassio Dione, Budicca espone le ragioni della rivolta, in prima istanza l’avidità dei romani, che si impossessavano delle terre ed esigevano tributi onerosi. I britanni reagirono infuriandosi, sollevandosi in una resistenza armata che sfociò in un gran numero di vittime su entrambi i fronti e quasi causò la fine della provincia romana. Gli eventi in questione vengono convenzionalmente fatti risalire agli anni 60-61 d.C., anche se è probabile che la rivolta fosse già terminata alla fine del 60. Questo è quanto fanno pensare le informazioni ricavate dalle tavolette romane recentemente ritrovate durante gli scavi per la realizzazione del quartier generale di Bloomberg, a Londra, le quali indicano che, all’epoca in cui furono scritte, Londinium era già tornata a essere un fiorente centro commerciale. Gli scritti di Tacito della fine del primo secolo forniscono ulteriori dettagli sulla rivolta. Egli annota che Budicca era moglie di Prasutago, sovrano del popolo degli iceni. Quando il “re cliente” dell’impero romano morì, lasciò le sue ricchezze e le sue terre alle figlie e all’imperatore Nerone. Tacito scrive che gli amministratori imperiali, però, ignorarono le disposizioni del sovrano deceduto: confiscarono tutto ciò che gli era appartenuto e fecero picchiare Budicca e violentare le figlie. Spinti alla rivolta, gli iceni di Budicca si unirono a tribù confinanti come i trinovanti, anch’esse scontente dell’invasore, per ribellarsi ai romani. Nel 60 d.C. l’idea della Britannia come provincia romana era nuova. La campagna militare imperiale durava da circa 17 anni, cioè da quando nel 43 d.C. un ingente esercito era approdato nel Kent e aveva riportato un’importante vittoria, che si era conclusa con la resa di undici


LA SOTTOMISSIONE DELL’ISOLA

CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

La ribellione di Budicca (60-61 d.C.) Fortezza Forte XX Legioni e distaccamenti legionari Territorio sotto controllo militare romano Battaglia Movimenti dei ribelli Movimenti delle truppe romane

A

SIMBOLO LEGIONARIO CON L’ISCRIZIONE “IL SENATO E IL POPOLO ROMANO” ABBREVIATA CON LE INIZIALI IN LATINO.

OT OA IS

l’avanzata e stabilì il confine settentrionale della nuova provincia, la Britannia. Con Nerone riprese slancio la conquista delle aree occidentali e le legioni raggiunsero l’isola sacra di Anglesey, centro della resistenza dei britanni. L’espansione romana fu facilitata dalla collaborazione di capi tribù locali, come la regina Cartimandua o i re Cogidubnus e Prasutago. Ma nel 60 d.C. l’umiliazione subita dalla famiglia di Prasutago dopo la sua morte scatenò una ribellione guidata dalla vedova Budicca.

PH

anche se fu giulio cesare il primo generale romano a mettere piede in Gran Bretagna, l’effettiva occupazione dell’isola iniziò quasi cento anni più tardi, sotto l’imperatore Claudio. Nel 43 d.C. sbarcarono quattro legioni agli ordini di Aulo Plauzio, per un totale di 20mila ausiliari e 4 legioni, che riuscirono a sospingere i capi catuvellauni Togodumno e Carataco al di là del Tamigi. Poco dopo giunse sull’isola lo stesso Claudio, con altre truppe, ottenendo la resa di Camulodunum. Plauzio proseguì


LA STATUA DECAPITATA

Quando i ribelli presero Camulodunum decapitarono una maestosa statua dell’imperatore Claudio. Questa è la testa, ritrovata nel 1907. British Museum, Londra. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

re britanni a Colchester, nell’Essex. L’imperatore Claudio, predecessore di Nerone, era venuto di persona da Roma per vedere con i suoi occhi la vittoria, accompagnato da membri eminenti del senato romano e un seguito che includeva elefanti da guerra. La popolazione dell’antica Britannia non era unita nella resistenza contro i conquistatori, essendo composta da un gran numero di popoli e tribù indipendenti. Prasutago doveva essere stato nominato sovrano cliente dei romani nella provincia icena dopo l’invasione del 43 d.C. Questo significa che sia lui sia la sua famiglia si consideravano alleati di Roma. Fino al 60 d.C. le legioni romane avevano conquistato gradualmente buona parte della Gran Bretagna meridionale e orientale, dopodiché la rivolta di Budicca, con tutto ciò che comportò, ritardò ulteriori annessioni alla provincia. Nel 60 d.C. la Britannia era governata da Gaio Svetonio Paolino, console romano, responsabile della gestione del territorio e del suo controllo militare. Tacito racconta che Svetonio marciò contro la roccaforte druida sull’isola sacra di Anglesey, dove si trovò di fronte donne vestite di nero che, come furie, dalla riva opposta lanciavano maledizioni sui soldati romani che tentavano di attraversare le acque. L’attacco all’isola sacra infiammò probabilmente gli animi dei britanni. Comunque il governatore fu costretto a ritirare le sue truppe a causa di sviluppi legati alla rivolta di Budicca, nella Britannia meridionale.

A ferro e fuoco I britanni lanciarono l’attacco contro Camulodunum, la colonia romana a Colchester. L’insediamento era il principale simbolo culturale dell’occupazione romana in Britannia, dove Claudio aveva accettato la resa dei re locali nel 43 d.C. Camulodunum

I ribelli sterminarono tutti gli abitanti di Londinium che non si erano uniti alla colonna di Svetonio Paolino, il quale aveva rinunciato a difendere l’insediamento 60 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

L’ASSALTO FINALE

In questa ricostruzione i veterani di Camulodunum affrontano l’ultimo assalto dei ribelli sui gradini del tempio dedicato all’imperatore Claudio. PETER DENNIS / OSPREY PUBLISHING

era stata la più importante base militare romana fino al 50 d.C., quando la fortezza era stata rimpiazzata da una colonia romana: una città con case ed edifici pubblici e industriali, frequentati da commercianti. Lì era stato costruito il massiccio e imponente tempio in pietra in stile classico romano consacrato al culto dell’imperatore Claudio, per commemorarne la conquista. I seguaci di Budicca incendiarono l’edificio distruggendolo completamente, senza lasciare in piedi nemmeno una pietra. E decapitarono la statua bronzea dell’imperatore, che probabilmente si trovava esposta in un luogo pubblico, come il foro di Camulodunum. La testa fu ritrovata nel 1907 nell’Alde, un fiume del Suffolk a 60 chilometri da Colchester, ed è


ora in mostra al British Museum. Dopo avere sconfitto l’unità dell’esercito romano inviata a proteggere la colonia, i britanni si spostarono a occidente, verso Londinium. Rapidamente costruito sulle rive del Tamigi, l’insediamento romano dell’attuale Londra era il secondo centro urbano più importante della provincia imperiale in via di sviluppo. Con una popolazione presunta di circa novemila abitanti, era il secondo nucleo urbano più importante della provincia. Svetonio Paolino e i suoi soldati marciarono sulla città, ma decisero di non dare battaglia ai britanni in quel luogo. Gli abitanti fuggirono prima che l’insediamento fosse attaccato. Tacito racconta anche che Verulamium, la città romana sviluppatasi vicino a St Albans,

CAMULODUNUM, LA CITTÀ ODIATA TACITO RACCONTA che i legionari veterani insediatisi a Camulo-

dunum (l’odierna Colchester) suscitavano l’odio dei trinovanti – la popolazione che occupava quel territorio – perché «li cacciavano dalle loro case e li allontanavano dai loro campi, chiamandoli prigionieri e schiavi». I britanni vedevano il grande tempio della colonia dedicata all’imperatore Claudio come «la fortezza della dominazione eterna», tanto più che l’élite autoctona era costretta a spendere ingenti somme per il culto imperiale. I ribelli assalirono la colonia, che non era protetta da mura e aveva solo un piccolo contingente militare. Inoltre, per mancanza di lungimiranza, non erano stati scavati fossati né erette palizzate, e gli anziani, le donne e i bambini non erano stati portati in un luogo sicuro. I romani si rifugiarono nel tempio di Claudio, che forse era ancora in costruzione e cadde dopo due giorni di assedio.


UN SIMBOLO DI NOBILTÀ E CORAGGIO

Le torque facevano parte del corredo del guerriero celtico. Sopra, la Grande torque di Snettisham, realizzata con quasi un chilo d’oro misto ad argento. 150-50 a.C. British Museum. E. LESSING / ALBUM

nell’Hertfordshire, subì lo stesso destino. Se Camulodunum era una colonia di cittadini romani e Londinium il porto principale della provincia (con una popolazione che includeva molti commercianti d’oltremare), Verulamium era una città “indigena”, un insediamento in cui i britanni alleati dei romani stavano costruendo un nuovo centro urbano sul modello di quelli imperiali. A Londinium, Camulodunum e Verulamium gli archeologi hanno scoperto spessi strati di bruciato risalenti al 60 d.C., una testimonianza della furiosa reazione britanna alla dominazione romana. Tacito scrive del barbaro trattamento riservato agli abitanti di queste città dai rivoltosi, osservando che si stimava che a Camulodunum, Londinium e Verulamium fossero stati uccisi un totale di 70mila tra romani e abitanti della provincia.

La rivolta sedata Svetonio Paolino preparò il suo piano di battaglia per affrontare i ribelli di Budicca. In una valle protetta alle spalle da una foresta decise di schierare un esercito di circa 10mila soldati della quattordicesima e ventesima legione, supportati da ausiliari. I romani erano in netta ed evidente minoranza rispetto ai britanni, i quali a loro volta erano talmente sicuri della vittoria da sistemare le proprie famiglie su carri con vista sul sito della battaglia. È possibile che tra i guerrieri di Budicca ci fossero delle donne. Tacito narra che la regina si aggirava per il campo su una biga, incoraggiando i seguaci:«Passava davanti a loro proclamando che era già abitudine che i britanni lottassero al comando di donne, ma che in quell’occasione non si trattava di vendicare il suo regno e la sua fortuna, no-

Non è stato ancora identificato il luogo esatto in cui si svolse lo scontro decisivo, avvenuto probabilmente dopo il saccheggio di Verulamium 62 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

LOOK AND LEARN / BRIDGEMAN / ACI

nostante lei fosse figlia di grandi genitori, ma la sua libertà perduta, il suo corpo sfinito dai colpi, il pudore delle sue figlie schiacciato». Insomma, la regina si presentava come l’ennesima vittima dei romani e incitava i suoi guerrieri ricordandogli che in precedenza avevano sconfitto la legione che era venuta in aiuto a Camulodunum e che loro erano molti di più rispetto ai nemici. «Bisognava vincere, oppure morire. Questa era la sua decisione in quanto donna: se gli uomini volevano vivere come schiavi, affari loro». Il luogo esatto in cui si sarebbe svolta la battaglia tra l’esercito di Svetonio Paolino e i seguaci di Budicca è stato oggetto di molte speculazioni, ma del sito non si è mai trovata traccia. È probabile che la battaglia sia


LONDRA DOPO LA GUERRA

L’immagine rappresenta la città una volta ripresasi dall’assalto di Budicca, finalmente circondata da mura. La grande piazza porticata visibile al centro corrisponde al foro.

avvenuta da qualche parte nelle Midland inglesi, mentre i britanni, saccheggiata Verulamium, si accingevano a spostarsi verso qualche altra città romana. La descrizione di Tacito fa pensare che i seguaci di Budicca non fossero molto organizzati per gli standard romani. I britanni utilizzavano le bighe proprio come avevano già fatto un secolo prima, all’epoca delle campagne d’invasione di Giulio Cesare, nel 55 e 54 a.C. Sappiamo anche che nella società dell’Età del ferro britannica le persone di status elevato si facevano a volte seppellire distese in questi carri da battaglia (frammenti di allestimento di bighe sono stati ritrovati durante alcuni scavi archeologici nello Yorkshire orientale, dove questo tipo

LONDINIUM, IL PORTO DELL A BRITANNIA L’ATTUALE LONDRA fu fondata poco dopo il 43 d.C., data che segna l’inizio della conquista dell’isola da parte delle truppe di Claudio. Si trovava sulla sponda settentrionale del Tamigi, ed era collegata alla riva opposta da un ponte. Se Camulodunum (l’attuale Colchester, a circa 90 km di distanza) era un’enclave che evidenziava il prestigio dell’impero, Londinium era il centro dell’attività economica. Come Camulodunum, non era protetta da una cinta muraria, quindi era una facile preda. Nella Storia romana di Cassio Dione vengono descritte scene terrificanti di donne romane con il seno tagliato e poi infilato in bocca, impalamenti e crudeltà simili. L’inetto e rapace procuratore Catone Deciano, le cui smisurate pretese economiche avevano esasperato gli iceni, fuggì da Londinium per rifugiarsi sul continente. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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CARRI DA GUERRA CELTICI

Un guerriero celta combatte su un carro guidato dal suo auriga. Denario coniato intorno al 48 a.C. da Lucio Ostilio Saserna. Ashmolean Museum, Oxford. BRIDGEMAN / ACI

di sepoltura era una tradizione). In ogni caso, l’enorme superiorità numerica dei ribelli venne sconfitta dalla disciplina dei soldati dell’impero. Si calcola che nella battaglia siano stati uccisi 80mila britanni, tra uomini e donne, e altri ancora feriti. Tacito riporta che, dopo la battaglia, Budicca si avvelenò. E a seguito della vittoria, probabilmente, le truppe romane raccolsero tutte le armi rotte, seppellendo i nemici morti in grandi fosse o bruciandone i corpi. I loro morti furono verosimilmente cremati. L’unica traccia della battaglia potrebbero essere grandi fosse piene di scheletri smembrati, e forse un giorno questo sito verrà trovato. Il resoconto della battaglia finale di Budicca trasmessoci da Cassio Dione è alquanto diverso. Lo storico racconta che la regina si ammalò e morì, e che ebbe una cerimonia di sepoltura molto elaborata. Generazioni di archeologi, dal XVI al XIX secolo, hanno cercato il luogo di sepoltura della guerriera in svariate località, tra cui Stonehenge e la stazione di Charing Cross. Dei rituali funerari del popolo di Budicca, gli iceni, abbiamo poche testimonianze. In generale si sa che nella Gran Bretagna dell’Età del ferro molti cadaveri, invece di essere cremati o sepolti, erano posti in luoghi specifici dove venivano disseccati dagli elementi. Le rappresaglie romane per la ribellione dei britanni furono severe, e Tacito narra di insediamenti devastati dal fuoco e dalle spade. Anche se è stato difficile trovare prove archeologiche delle azioni dei romani dopo la sconfitta di Budicca, scavi recenti a Londra hanno localizzato una fortificazione a Plantation Place, costruita come base per le truppe fatte arrivare in aiuto a Svetonio Paolino dalla Germania, nell’ambito della sua campagna

I britanni che combatterono nello scontro finale contro le legioni utilizzarono anche carri da guerra, un tipo di veicolo ritrovato nelle tombe dell’epoca 64 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

per restaurare l’ordine nella provincia. Anche le tavolette trovate durante gli scavi fatti nel terreno dell’edificio Bloomberg a Londra testimoniano che, nel decennio successivo alla rivolta, le unità militari romane passavano dal porto ripristinato di Londinium. Una lettera dell’autunno del 62 d.C. facente riferimento a una consegna di prodotti da trasportare da Verulamium a Londinium indica che dopo la sua distruzione da parte dei ribelli il mercato della città era stato prontamente ricostruito. In ogni caso il forte impatto di questi scontri sulla Gran Bretagna ritardò l’avanzata romana di almeno un decennio.

Il lascito di Budicca I lettori dei racconti sulla rivolta scritti da Cassio Dione e da Tacito prendevano in genere le parti degli uni o degli altri. Tacito presenta entrambi i punti di vista, descrivendo le provocazioni alle quali i britanni venivano sottoposti da parte dei conquistatori. Pur essendo membro del senato romano, lo storico non era un ammiratore delle dittature e utilizzò la rivolta per mettere in discussione il modo in cui la provincia era gestita. Entrambi gli autori descrivono, d’altronde, la barbarie dei britanni e in particolare il trattamento disumano che riservavano alle donne e ai bambini prigionieri. Non c’è alcuna indicazione che la ribellione si fosse diffusa tra le popolazioni a sud del Tamigi. Alcune tribù britanne continuarono a collaborare con i romani anche durante la rivolta. Si ritiene, ad esempio, che Cogidubnus, che governò nel sud della provincia, abbia continuato a sostenerli, e che Nerone lo abbia ricompensato per questo aumentando la sua influenza dopo la sconfitta dei britanni e regalandogli il palazzo di Fishbourne, nel West Sussex. È possibile che, senza la lealtà di Cogidubnus, i romani avrebbero perso la Britannia. Non sappiamo se gli eventi scatenati da Budicca abbiano in qualche modo avuto influenza sui britanni, una volta sedata la rivolta. A parte quelle di Tacito e Dione non sono sopravvissute testimonianze scritte che possano informarci al riguardo. Dopo avere ripristinato la propria autorità, i romani ripresero la conquista della Britannia; nell’84


VERULAMIUM MUSEUM / BRIDGEMAN / ACI

d.C., il governatore Gneo Giulio Agricola aveva già annesso gran parte del nord. I romani non riuscirono però a conquistare le Highland scozzesi, cosicché, alla fine del I secolo, la provincia della Britannia arrivava a comprendere il territorio a sud del Vallo di Adriano. Nel corso dei secoli l’immagine della regina guerriera ha conosciuto nuove fortune. Dopo la riscoperta degli scritti di Tacito nel XVI secolo, durante il Rinascimento fu spesso associata a Elisabetta I d’Inghilterra. E se durante il XVII secolo venne considerata in modo molto più critico come una barbara senza controllo, i vittoriani reinventarono Budicca – o Boadicea, come era conosciuta all’epoca – come una valorosa paladina dell’autonomia della nazione britannica. Durante il XX secolo divenne

un’icona per le suffragiste e un simbolo della resistenza al potere imperiale. E per finire, nel 2017, Teresa May è stata soprannominata “la Budicca del Brexit”. Anche se un paragone tra l’Unione Europea e l’impero romano può considerarsi profondamente sbagliato, l’evocazione dimostra la forza che l’immagine di Budicca ancora possiede nella Gran Bretagna di oggi.

LA CITTÀ RISORTA

In alto, il teatro di Verulamium (St Albans) nel II secolo d.C., quando la ribellione di Budicca che aveva devastato la città era ormai un ricordo.

RICHARD HINGLEY UNIVERSITÀ DI DURHAM. COAUTORE DI BOUDICA. IRON AGE WARRIOR QUEEN

Per saperne di più

SAGGI

La rivolta in Britannia. Boudicca contro Roma Nic Fields. Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2016. I celti Alexander Demandt. Il Mulino, Bologna, 2003.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA SCONFITTA DEI RIBELLI Non si sa dove si svolse l’ultima battaglia tra le truppe romane e quelle di Budicca. Questa mappa sposa l’ipotesi che fosse avvenuta vicino a Manduessedum (odierna Manchester), lungo la Watling Street, la strada che collegava la costa con Viroconium, una grande fortezza romana al confine dell’attuale Galles.

3 L’ATTACCO ROMANO

Dopo aver scagliato tutte le lance a disposizione, i legionari partono all’attacco insieme agli ausiliari di fanteria e cavalleria. Le truppe a cavallo travolgono il nemico.

2

SCONTRO 1 LO Legionari e ausiliari,

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protetti dalla foresta, riescono a sostenere la carica in massa del nemico, frenandola con il lancio di giavellotti.

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2 1

2 1

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1

C B

A B

2

BRITANNICO 2 L’ASSALTO Organizzati in contingenti

tribali, i britanni assaltano le ordinate difese romane utilizzando anche dei carri. ILLUSTRAZIONE: PETER DENNIS / OSPREY PUBLISHING

C


LA FINE DELLA RESISTENZA I romani vittoriosi conclusero la giornata con una carneficina, un evento frequente nelle battaglie dell’antichità. Il maggior numero di vittime si registrò durante l’inseguimento del nemico sconfitto. Secondo Tacito «i soldati non risparmiarono la vita neppure alle donne, e i cavalieri feriti dalle lance fecero crescere il cumulo di cadaveri». Svetonio Paolino intraprese una dura campagna di repressione con il rinforzo di duemila legionari, otto coorti di ausiliari e mille cavalieri inviati dalla Germania da Nerone. Tuttavia subito dopo perse il favore dell’imperatore e fu sostituito da un nuovo capo, Publio Petronio Turpiliano.

3 AKG

L’INSEGUIMENTO

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4 Di fronte alla carica

/ A L B UM

nemica, i ribelli iniziano a scappare, ma le vie di fuga sono bloccate dai carri che avevano lasciato nella retroguardia affinché le loro famiglie potessero assistere alla battaglia.

FORZE RIBELLI 1 Carri da guerra 2 Forze tribali 3 Carri da trasporto

TRUPPE ROMANE A Legioni B Fanteria ausiliaria C Cavalleria ausiliaria

ELMO CELTICO DI BRONZO. SI È CONSERVATO IL COPRINUCA (LA SPORGENZA IN RILIEVO) MA SONO ANDATI PERDUTI I GUANCIALI CHE PROTEGGEVANO GLI ZIGOMI. I SECOLO D.C. BRITISH MUSEUM.


INTERNO DI NOTRE-DAME

Quest’immagine mostra uno degli aspetti più controversi del restauro della cattedrale: la differenza tra gli intercolumni a tre e a quattro livelli, ripristinata da Viollet-le-Duc a testimonianza della struttura originale della cattedrale. RENÚ SPALEK / AGE FOTOSTOCK


LA RINASCITA DI UN SIMBOLO

LA CATTEDRALE DI NOTRE-DAME Alla metà del XIX secolo l’architetto Viollet-le-Duc intraprese il restauro della più emblematica cattedrale medievale di tutta Europa. Il suo lavoro rappresentò un modello per futuri interventi, ma fu anche al centro di numerose critiche


IL COLOSSO DI PARIGI

In questa miniatura del XV secolo, opera di Jean Fouquet, la capitale francese è dominata da una rappresentazione fuori scala di Notre-Dame. L’ABSIDE DELLA CATTEDRALE

È

un monumento noto in tutto il mondo e tra i più visitati di Parigi insieme alla torre Eiffel e al Museo del Louvre. Deve in parte la sua aura romantica alla penna di Victor Hugo, che nel 1931 le dedicò un romanzo, Notre-Dame de Paris, in cui compariva la figura del celebre gobbo, poi ripreso da vari adattamenti cinematografici anche in versione animata. Ma non tutti i visitatori sono a conoscenza dell’opera di restauro cui questo edificio fu sottoposto dal famoso architetto francese Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc. Gaudí disse di lui – dopo averne apprezzato in uno dei suoi rari viaggi l’intervento di recupe-

PERIPEZIE DI UNA CATTEDRALE

70 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ro della cittadella di Carcassonne – che era tra i pochi da cui si poteva ancora imparare qualcosa. Secondo Viollet-le-Duc «restaurare un edificio non significa salvaguardarlo, ripararlo o ricostruirlo, ma ripristinarlo in uno stato di compiutezza che potrebbe non essere mai esistito». È quanto avvenne con la chiesa di Notre-Dame, la cattedrale gotica che il suo ampio lavoro di ristrutturazione ha trasformato in un punto di riferimento imprescindibile di Parigi e della memoria storica francese. Viollet-le-Duc si trovò di fronte a un edificio praticamente in rovina. I secoli trascorsi avevano seriamente pregiudicato un’opera la cui costruzione era iniziata nel 1163, con

1163

1643-1715

COMINCIA la costruzione

DURANTE il regno di Luigi XIV la cattedrale viene sottoposta ad ampie modifiche. Nel coro viene eretto un gruppo scultoreo dedicato alla Madonna.

di Notre-Dame, con il patrocinio del vescovo Maurice de Sully. I lavori si concludono nel XIV secolo.

BRIAN JANNSEN / ALAMY / ACI

MMA / RMN-GRAND PALAIS

Questa veduta di Notre-Dame da est mette in evidenza l’abside e la guglia, ricostruite da Viollet-le-Duc nel XIX secolo.

1793 LA RIVOLUZIONE

francese provoca gravi danni alla cattedrale, che per alcuni anni è sconsacrata e utilizzata come magazzino.


1844 SI AFFERMA l’importanza della conservazione del patrimonio medievale. Viollet-le-Duc viene incaricato del progetto di restauro di Notre-Dame.


LA GHIGLIOTTINA COLPISCE LE STATUE I DANNI PIÙ GRAVI riportati dalla cattedrale durante la rivoluzione

LA TESTA DI RE DAVID

A sinistra, testa di una statua di re David danneggiata durante la Rivoluzione francese. Musée de Cluny, Parigi. PRIMA DEL RESTAURO ORONOZ / ALBUM

interessarono le statue della facciata occidentale. Quelle situate al di sopra dei tre portali raffiguravano i sovrani del regno biblico di Giuda, ma già a partire dal Medioevo venivano scambiate per delle rappresentazioni dei re francesi. Così, in seguito all’esecuzione di Luigi XVI nel gennaio del 1793 e al decreto governativo che imponeva la distruzione di qualsiasi simbolo della regalità, le sculture di Notre-Dame furono prese di mira dalla furia rivoluzionaria. Nell’ottobre dello stesso anno vennero rimosse a centinaia, pur con una certa attenzione a non danneggiare il resto dell’edificio. Le teste delle 28 statue della Galleria dei re furono staccate a colpi di martello per riprodurre la decapitazione del sovrano. Nel 1977 vennero ritrovate 21 di queste teste in una casa di Parigi, con i segni della violenza ancora chiaramente visibili.

RENÉ-GABRIEL OJÉDA / RMN-GRAND PALAIS

cresciuta al ritmo dell’economia europea, in un momento di grande sviluppo agricolo che aveva drenato verso Parigi ingenti ricchezze. Poi, lentamente, Notre-Dame iniziò a deteriorarsi. Nel XVII secolo, quando i sovrani della dinastia Borbone stabilirono la propria residenza nel palazzo del Louvre, si iniziò a parlare di una sua possibile ristrutturazione. Ma il progetto restò in sospeso. Successivamente la vecchia cattedrale venne gravemente danneggiata durante la rivoluzione del 1789. Finalmente, anche in seguito alle forti proteste popolari iniziate nel 1830, si decise di procedere al compito titanico di restaurarla.

La crociata di Victor Hugo

AKG / ALBUM

Il paladino del movimento in difesa della chiesa fu il grande poeta e romanziere Hugo: non solo fece della cattedrale la cornice del suo famoso romanzo Notre-Dame de Paris, intrecciandone il destino con quello della bella gitana Esmeralda e del gobbo Quasimodo, ma lanciò anche una vera e propria crociata per salvare vari edifici del passato medievale francese. In un articolo di grande COPERTINA DI UN’EDIZIONE DEL ROMANZO NOTRE-DAME DE PARIS, DI VICTOR HUGO. MUSÉE DES ARTS DÉCORATIFS, PARIGI.

MONDADORI / ALBUM

la decisione del vescovo di Parigi Maurice de Sully di imitare quello «stile del regno di Francia» che l’abate Suger aveva impresso nel coro della basilica di Saint-Denis e che più tardi sarebbe stato definito “gotico”. I lavori proseguirono almeno fino alla metà del XIV secolo: nel 1351, infatti, si stavano ancora apportando gli ultimi ritocchi a varie parti della chiesa, tra le quali l’abside. Tutto questo aveva significato decine e decine di anni di impalcature, in un via vai ininterrotto di mastri muratori che levigavano le pietre, esperti vetrai che applicavano le ultime novità ottiche apprese all’università e scultori che scalpellavano i doccioni e i pinnacoli dei contrafforti. La cattedrale era

L’autore di questo dipinto del 1831 immaginò che il rosone ovest di Notre-Dame ospitasse un orologio. Palazzo Pitti, Firenze.



LOREM UPSIUM

IL ROSONE SUD

risonanza pubblicato nel 1832, intitolato “Guerra ai demolitori”, Hugo dichiarava: «Ogni genere di profanazione, degradazione e rovina minaccia il poco che ci resta di questi ammirevoli monumenti del Medioevo, su cui si è impressa la vecchia gloria nazionale […] Mentre si costruiscono con grande spesa non so che razza di edifici spuri, […] altre strutture, mirabili e originali, cadono a pezzi tra il disinteresse generale». E concludeva: «Un grido universale deve finalmente chiamare la nuova Francia in soccorso dell’antica». Nel Genio del Cristianesimo (1802) Chateaubriand aveva contribuito a una rivalutazione delle arti della cristianità medievale. Questa nuova sensibilità avrebbe influenzato gli scrittori romantici come lo stesso Hugo, Mérimée – nominato nel 1834 ispettore generale degli edifici storici di Francia –, Thiers o Gui-

zot, l’onnipotente ministro del re Luigi Filippo che si mostrò sempre interessato a «far entrare la vecchia Francia nella memoria e nell’intelligenza dei suoi contemporanei». Allo stesso tempo in tutta Europa esplose la moda dell’architettura medievale e sorse uno stile neogotico che ebbe tra i suoi principali esponenti Ruskin e Morris in Inghilterra, Reichensperger in Germania o Riegl in Austria.

Il progetto di Viollet-le-Duc L’opera più emblematica di questa grande impresa di recupero del patrimonio architettonico francese era naturalmente Notre-Dame, che ben esemplificava i dilemmi che poneva un monumento in simile stato di degrado: c’era chi voleva demolirla, sulla base di una malintesa idea di progresso, e chi sosteneva andasse lasciata così com’era, a testimonianza dei secoli trascorsi. Ma Victor Hugo difese con veemenza la necessità di recuperare l’edificio, potendo contare sul sostegno del conte Charles de Montalembert, scrittore e politico impegnato nella tutela e nella conservazione dell’arte me-

EUGÈNE VIOLLET-LE-DUC FOTOGRAFATO DA NADAR.

MÉDIATHÈQUE DU PATRIMOINE / RMN-GRAND PALAIS

ATELIER DE NADAR / RMN-GRAND PALAIS

GODONG / AGE FOTOSTOCK

Nel 1861 il maestro vetraio Alfred Gérente restaurò questo rosone del XIII secolo con un Cristo trionfante al centro e varie immagini di apostoli e profeti.

SAGRESTIA DI NOTRE-DAME. SEZIONE LONGITUDINALE DISEGNATA DA VIOLLETLE-DUC. MÉDIATHÈQUE DE L’ARCHITECTURE ET DU PATRIMOINE, CHARENTON-LE-PONT.


RESTAURI CONTROVERSI iollet-le-Duc fu accusato dai suoi contemporanei di aver esagerato con le licenze artistiche. Eppure l’architetto era ben consapevole dei rischi di un intervento eccessivo. Nel 1842, prima di iniziare i lavori di Notre-Dame, scrisse: «In un’opera del genere la prudenza e la discrezione con cui si agisce non sono mai troppe; siamo i primi a dirlo. Un restauro può essere più dannoso per un monumento che le devastazioni dei secoli e la fu-

ria popolare! Perché il tempo e le rivoluzioni distruggono, ma non aggiungono nulla». E quindi osservava: «L’artista deve eclissarsi completamente, dimenticare le proprie tendenze e i propri istinti per studiare il lavoro che deve svolgere, ritrovare e seguire il pensiero che ha informato l’esecuzione dell’opera che egli intende restaurare; perché in questo caso non si tratta di fare arte, ma semplicemente di sottomettersi all’arte di un’epoca che non c’è più».


LA NAVATA CENTRALE

Notre-Dame è composta da cinque navate. Quella centrale, visibile nell’immagine, si articola su tre piani. Le colonne sostengono degli archi a sesto acuto che si concludono in volte esapartite. ARNAUD CHICUREL / GTRES



LA CUSPIDE CHE CORONA NOTRE-DAME LA GUGLIA CHE SORGEVA sulla crociera del transetto venne rimossa alla fine del XVIII secolo. Viollet-le-Duc decise di erigerne una nuova, che venne costruita tra il 1858 e il 1861 e si caratterizza per le dimensioni imponenti: realizzata con 500 tonnellate di legno e 250 di piombo, raggiunge un’altezza da terra di oltre 90 metri. La base ottagonale è sostenuta dai pilastri del transetto ed è circondata da quattro gruppi di statue che raffigurano i dodici apostoli con i simboli degli evangelisti. La scultura di san Tommaso ha le fattezze dello stesso Viollet-leDuc. La guglia crea l’illusione ottica di raggiungere il cielo, il grande sogno dell’architettura gotica.

DURANTE I LAVORI

Come si può vedere in questa foto, la costruzione della guglia richiese un’impalcatura di dimensioni eccezionali. UNA SCALA VERSO IL CIELO

dievale. Notre-Dame non andava semplicemente preservata, ma riportata agli splendori iniziali. Fu a questo punto che entrò in scena Viollet-le-Duc, un architetto che aveva già raggiunto una certa fama grazie alla ristrutturazione della basilica di santa Maria Maddalena a Vézelay. L’intervento di restauro di Notre-Dame durò una ventina d’anni, dal 1844 al 1864. Iniziò, com’era prevedibile, tra le polemiche in merito al procedimento da seguire, anche perché nell’edificio si svolgevano ancora funzioni religiose. Il 31 gennaio 1843 Viollet-le-Duc e il suo collega architetto Jean-Baptiste Lassus presentarono un progetto di rinnovamento abbastanza moderato. Nel 1857, alla morte di quest’ultimo, Viollet-le-Duc assunse la piena direzione dei lavori, diventando il bersaglio principale dei detrattori dell’intervento ma

ricevendo anche un certo numero di elogi. Charles Garnier, architetto dell’Ópera di Parigi, liquidava così la figura del collega: «Il signor Viollet-le-Duc ha costruito molto, ma i suoi lavori migliori sono senz’altro quelli di restauro; ciò deve provocare una crudele sofferenza a questo eminente artista, cui sfugge quella gloria alla quale anela ogni architetto, ovvero poter esplicitare la propria capacità creativa». Nelle parole ironiche di Garnier è racchiusa la parabola di Violletle-Duc, l’uomo che con il suo eccezionale Dizionario ragionato dell’architettura francese offrì al mondo un metodo originale, audace e innovativo che non solo cambiò il concetto di restauro, ma influenzò anche vari movimenti architettonici a venire, come il Modernismo.

Un lavoro controverso Viollet-le-Duc si sforzò di attenersi alla teoria delle proporzioni e dell’equilibrio architettonico, ma la sua eccessiva passione per il neogotico finì per trascinarlo ad alcune scelte discutibili. Decise per esempio di situare un rosone e una finestra al di

DISEGNO DI UNA DELLE TORRI DELLA CATTEDRALE REALIZZATO DA VIOLLET-LE-DUC.

SUSANNE KREMER / FOTOTECA 9X12

AKG / ALBUM

MÉDIATHÈQUE DU PATRIMOINE / RMN-GRAND PALAIS

La guglia ha una base di due piani, decorazioni scultoree sui contrafforti e una cuspide piramidale.



L’ANTICO CORO

L’incisione di Viollet-le-Duc ricostruisce la forma del coro prima delle modifiche barocche, con il pontile (iconostasi) che fungeva da recinzione. L’ALTARE

sopra delle tribune in corrispondenza del transetto, una soluzione affascinante ma totalmente assente nell’idea primigenia dell’edificio. La volontà di ripristinare lo stile originario dell’opera lo spinse alla decisione altrettanto controversa di demolire ciò che non riteneva propriamente gotico, ovvero quegli elementi che erano stati inseriti nella cattedrale in epoche successive. Viollet-le-Duc riteneva aberranti, per esempio, le trasformazioni subite nel corso dei secoli dal coro della cattedrale, dove molti elementi originali erano stati sostituiti in epoca barocca e neoclassica. Si narra che una volta, per esplicitare la sua posizione, fece entrare nel coro un operaio in abiti medievali ma con una parrucca

rococò e dichiarò: «Quest’immagine non è più ridicola di come sarebbe Notre-Dame se preservassimo questo coro tanto ammirato». Quindi fece rimuovere i marmi classici che rivestivano le colonne gotiche, «la grossolana architettura» che occultava la primordiale bellezza medievale. Ma contraddittoriamente lasciò al loro posto i gruppi scultorei costruiti all’inizio del XVIII secolo per celebrare il momento in cui Luigi XIII aveva consacrato la Francia alla Vergine Maria. Le scelte dell’architetto suscitarono numerose polemiche. Nel 1880 Anthyme Saint-Paul affermò che Viollet-le-Duc aveva inventato «lo svuotamento delle chiese», aggiungendo in tono di scherno: «Sembra che da trent’anni una squadra di saccheggiatori si aggiri per la cattedrale di Notre-Dame, perché non è rimasto un solo capolavoro dei pittori e degli scultori degli ultimi due secoli. Né una tela, né un’offerta votiva, né un’ancona. Le cappelle sono spoglie, con i loro miseri altari e le alte pareti adornate di arazzi». Un dilemma analogo emerse in merito alla decorazione sculto-

DISEGNO DI UNA GARGOLLA DELLA CATTEDRALE DI NOTRE-DAME REALIZZATO DA VIOLLET-LE-DUC.

ARNAUD CHICUREL / GTRES

GRANGER / AURIMAGES

ARCHIVES CHARMET / BRIDGEMAN / ACI

Nel coro si trovano le statue di Luigi XIV, Luigi XIII e una Pietà, opere rispettivamente di Coysevox, G. Coustou e N. Coustou.



LA CHIMERA PIÙ FAMOSA DELLA CATTEDRALE IL VISITATORE che si avventuri fino all’ul-

IL NUOVO SIMBOLO

timo livello della facciata di Notre-Dame potrà ammirare quella che è forse la più celebre chimera al mondo, la Strige: una creatura alata con la lingua di fuori che osserva la città appoggiata alla balaustra. Non è una scultura medievale, bensì una delle tante ricostruzioni del XIX secolo: è infatti opera dell’incisore Charles Méryon, dalla cui prodigiosa immaginazione scaturirono alcuni celebri esempi di gotico fantastico. Walter Benjamin, nel suo Parigi, capitale del XIX secolo, interpretò l’aspetto beffardo di questa chimera come un’allegoria della modernità che stava distruggendo la capitale francese in base a un malinteso concetto di progresso.

Nella fotografia di sinistra si vede Viollet-leDuc accanto alla famosa Strige, disegnata dall’incisore Charles Méryon.

ORONOZ / ALBUM

OSSERVANDO LA CITTÀ

HERVÉ LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS

82 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

na Charles Méryon, che si ispirò ai modelli delle cattedrali di Amiens e Bordeaux per le sue fantasiose acqueforti in bianco e nero, realizzate nel 1854 e su cui si basò Violletle-Duc per far costruire determinate statue, come la celebre chimera Strige. Con questo importante e inatteso contribuito culminò l’opera di restauro della cattedrale di Notre-Dame, risultato dell’immaginazione creativa di una generazione di parigini dediti allo studio dell’arte da prospettive differenti, dall’architettura al disegno, passando per la scultura. Grazie a quest’enorme manifestazione di inventiva e rigore artistico, diretta e orientata da Viollet-le-Duc, la cattedrale di Notre-Dame è potuta diventare un monumento ammirato oggi da milioni di visitatori. ALMUDENA BLASCO VALLÉS SCUOLA POLITECNICA DI PARIGI

Per saperne di più

TESTI

L’architettura ragionata Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc. Jaca Book, Milano, 2002. SAGGI

E. E. Viollet-Le-Duc: innovazione e tradizione in architettura Maria Rita Campa. Gangemi, Roma, 2015. INTERNET

www.notredamedeparis.fr

LUIGI VACCARELLA / FOTOTECA 9X12

rea della cattedrale, gravemente danneggiata durante la Rivoluzione francese. Ignorando i consigli di Merimée, Viollet-le-Duc decise di rifare le statue ex novo, e a tal fine costituì un laboratorio sotto la direzione dello scultore e orafo parigino Victor Geoffroy-Dechaume. L’obiettivo principale di questa squadra di artigiani era ripristinare le figure degli archi rampanti dei portici e ricostruire le gargolle più deteriorate, che erano tra le opere che Victor Hugo aveva difeso con le parole più nostalgiche. Si trattava di interventi necessari? Viollet-le-Duc non aveva dubbi in proposito, anche se era consapevole che questa operazione gli avrebbe procurato più di una critica. Ma dal suo punto di vista, senza le sculture Notre-Dame sarebbe rimasta un edificio muto, incapace di comunicare: «Non si può lasciare incompleta una pagina così ammirevole senza rischiare di renderla inintelligibile». Come ha scritto uno storico recente, con Viollet-le-Duc si è passati «da un edificio in rovina, avvilito, limitato, a una chiesa rinata, arborescente, parlante». Del disegno delle sculture fu incaricato il brillante incisore ed ex ufficiale della mari-

La Strige, essere mitologico simile a un vampiro, osserva Parigi dalla sua postazione sulla cattedrale di Notre-Dame.



VIOLLET-LE-DUC, IL MAGO Oltre a Notre-Dame, l’architetto restaurò molte altre opere di epoca

Il restauro di Carcassonne Nel 1853 Viollet-le-Duc intraprese un accurato restauro delle torri, del castello e della cinta muraria della cittadella di Carcassonne. Gli esperti criticarono l’uso di materiali non caratteristici della zona, come l’ardesia, e le modifiche apportate alla struttura degli edifici ricostruiti, per esempio nel caso delle coperture coniche delle torri. MÉDIATHÈQUE DU PATRIMOINE / RMN-GRAND PALAIS

Il progetto per le torri di Notre-Dame Viollet-le-Duc propose di innalzare sulle torri della cattedrale, che misurano 69 metri di altezza, due gigantesche cuspidi di pietra più alte delle torri stesse. Alla fine il suo progetto fu scartato poiché si riteneva che avrebbe snaturato il monumento. FOTO: GRANGER / AURIMAGES. COLORE: SANTI PÉREZ


DEI RESTAURI

medievale, come la cittadella di Carcassonne

Il castello di Pierrefonds0

BEAUX-ARTS DE PARIS / RMN-GRAND PALAIS

Nel 1857 Napoleone III incaricò Viollet-le-Duc di restaurare l’edificio, ormai ridotto a un rudere. Il progetto divenne più ambizioso nel 1861, quando il sovrano decise di fare di Pierrefonds una residenza imperiale. Il risultato è un magnifico esterno, capace di far rivivere l’architettura militare del XV secolo. Gli interni sono stati invece criticati per il ricorso a pitture policrome che non erano proprie di quel periodo storico.

SOPRA, VEDUTA DI CARCASSONNE. DISEGNO DI VIOLLET-LE-DUC. A SINISTRA E SOPRA, CASTELLO DI PIERREFONDS PRIMA E DOPO IL RESTAURO. VIOLLET-LE-DUC. ALLA PAGINA PRECEDENTE, DISEGNO DEL PROGETTO DI VIOLLET-LE-DUC PER LE TORRI DI NOTRE-DAME.

DANIEL ARNAUDET / RMN-GRAND PALAIS


BOTTICELLI IL PITTORE DEI MEDICI

Universalmente conosciuto come Sandro Botticelli, Alessandro Filipepi è l’artista forse più legato alla cerchia medicea, di cui rappresenta gli ideali umanistici di bellezza e armonia ALESSANDRA PAGANO STORICA DELL’ARTE


NASCITA DI VENERE

Secondo alcuni, il dipinto illustra un passo delle Stanze di Poliziano in cui è descritto un rilievo collocato sulla porta del palazzo di Venere, 1482 circa. Galleria degli Uffizi, Firenze. ALBUM


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ltimo figlio di Mariano, un conciatore di pelli, e di Smeralda (della quale non si hanno notizie), Alessandro Filipepi nacque a Firenze, esattamente a Borgo Ognissanti, nel quartiere di Santa Maria Novella, nel 1445. Pare che da piccolo fosse cagionevole di salute: nel 1458 il padre affermò, in una sorta di dichiarazione dei redditi del tempo, che il figlio tredicenne era “malsano”, aggiungendo anche che il giovane “sta alleggere”. Molto si è detto sul significato di questa espressione: secondo una teoria, si tratta di un modo per dire “sta a leggere”, ovvero che era dedito agli studi; secondo un’altra, si tratta semplicemente di un errore di scrittura, perché il padre intendeva dire che Sandro “sta a legare” ovvero che montava pietre preziose, forse come apprendista in una bottega orafa. Probabilmente il nome Botticelli si ricollega alla professione di uno dei fratelli maggiori, “battiloro” (adoperava, cioè, una tecnica per realizzare l’oro in foglia). A Firenze si poteva dire “battoloro” come pure “battigello” e da qui il termine potrebbe essere stato deformato a livello popolare in “Botticello” e quindi in “Botticelli”. A ogni modo, Sandro doveva essere un giovane talentuoso perché fu presto notato dai facoltosi Vespucci, la famiglia di cui faceva parte anche il più ben noto Amerigo, il navigatore che diede il proprio nome al nuovo continente: erano, infatti, i vicini di casa dei Filipepi agli inizi degli anni sessanta. Furono probabilmente i ricchi confinanti a raccomandarlo al grande pittore Filippo Lippi. Il maestro, un ex carmelitano vicino alla famiglia dei Medici, aveva appena aperto una bottega a Prato, dove Botticelli realizzò le sue prime opere documentate come, per esempio, AUTORITRATTO DI BOTTICELLI. PARTICOLARE DI L’ADORAZIONE DEI MAGI. SCALA, FIRENZE 88 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

1445 Alessandro Filipepi nasce a Borgo Ognissanti di Firenze.

1481 Viene chiamato a Roma dal papa per lavorare alla Cappella Sistina.

1483 Esegue la spalliera con la storia di Nastagio degli Onesti.

1495 Comincia i disegni della Commedia di Dante per Lorenzo de’ Medici.

1510 Muore il 17 maggio ed è sepolto nella chiesa di Ognissanti.

una Madonna col Bambino e un angelo, oggi conservata ad Ajaccio. Quando poi nel 1467 il maestro si trasferì a Spoleto, Alessandro non lo seguì. Prese invece a frequentare la bottega di Andrea del Verrocchio, attorno al quale gravitavano i maggiori artisti della nuova generazione d’avanguardia, come Domenico Ghirlandaio e Leonardo.

Al servizio dei Medici Nel 1470, anno in cui dipinse la personificazione della Fortezza per il Tribunale della Mercanzia, Alessandro si era già messo in proprio aprendo una bottega direttamente nella casa paterna, dove abitava insieme al resto della famiglia. A differenza di molti artisti, non amava molto viaggiare. Infatti a eccezione di un soggiorno a Roma per lavorare alla Cappella Sistina su incarico del pontefice, e di pochi altri spostamenti, non lasciò mai Firenze. Intanto, la sua carriera progrediva rapidamente e in breve divenne una personalità di spicco nell’ambito della cultura umanistica promossa dalla Firenze medicea. La città in quegli anni vedeva il rinnovarsi della cultura classica e la scoperta del neoplatonismo: si trattava di una corrente che riproponeva alcuni temi della filosofia platonica e affermava la supremazia dello spirito sulla materia in un movimento ascensionale che conduceva l’anima, attraverso l’intelletto e l’amore, verso Dio. Nel 1459, su consiglio dello studioso greco Giorgio Gemisto Pletone, Cosimo il Vecchio aveva fondato l’Accademia neoplatonica fiorentina nella villa medicea di Careggi. Vi si riunivano intellettuali come Pico della Mirandola, Agnolo Poliziano e il filosofo Marsilio Ficino, traduttore delle opere di Platone e teorizzatore del neoplatonismo. L’adesione di Botticelli alla cultura fiorentina a lui contemporanea è evidente soprattutto in quattro opere a soggetto mitologico, ricche di riferimenti allegorici per


Vista della Galleria degli Uffizi, dove sono conservate numerose opere dell’artista fiorentino.

GIOVANNI SIMEONE / FOTOTECA 9X12

LA DIMORA DELLE OPERE DI BOTTICELLI


SCALA, FIRENZE

L’ADORAZIONE DEL BAMBINO

In questo affresco nella lunetta della controfacciata di Santa Maria Novella compare anche san Giovannino. Si tratta di un caso rarissimo in una raffigurazione della Natività. 1476-1477 circa.

certi versi ancora misteriosi, realizzate negli anni ottanta. La prima opera documentata per i Medici risale al 1475, quando realizzò per Giuliano uno stendardo per una giostra (uno spettacolo di intrattenimento cavalleresco), la stessa cantata dal Poliziano nelle celebri Stanze. Da allora il rapporto con la famiglia dei mecenati fu duraturo e probabilmente non solo professionale: il fatto che Lorenzo il Magnifico in un suo verso lo canzonasse come “ingordo e ghiotto”, fa pensare che i due fossero stati anche compagni di momenti goderecci.

Scapolo e burlone Botticelli fu uno scapolo impenitente e, a parte una denuncia anonima per sodomia nel novembre del 1502, non si hanno notizie sulle sue relazioni amorose. Era avverso al matrimonio e raccontava che una notte, avendo sognato di essersi sposato, si era risvegliato di soprassalto e, nel timore di riaddormentarsi e riprendere l’incubo, aveva passato il resto della notte a vagare per Firenze. Tuttavia non fu certo un solitario: Vasari racconta che era un uomo di compagnia e sempre pronto allo scherzo. Un giorno accanto alla sua bottega si era trasferito un tessitore che utilizzava dei macchinari tanto rumorosi da far tremare le pareti. Alle rimostranze dell’artista, questi aveva risposto che in casa sua faceva ciò 90 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

che voleva. Il caso volle che il muro della casa di Botticelli fosse più alto di quello della casa del tessitore, quindi pose in bilico una pietra, che a ogni vibrazione del muro rischiava di cadere in casa del vicino. Il tessitore allora gli chiese di toglierla, ma Botticelli replicò che in casa sua faceva ciò che voleva. In un’altra occasione si burlò di un suo allievo, Biagio, attaccando dei cappucci di carta sulle teste degli angeli che questi aveva dipinto per poi toglierli facendogli credere che avesse avuto delle visioni. Con la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 e la comparsa del predicatore Girolamo Savonarola, che attaccò la corruzione dei costumi dell’epoca, può dirsi conclusa la stagione dell’umanesimo quattrocentesco. Botticelli risentì del clima mutato: le opere di questo periodo evidenziano una crisi interiore che non scomparirà nemmeno dopo la morte del frate nel 1498. L’artista si spense nel 1510, dopo aver attraversato con uno stile unico e inconfondibile tutta la parabola artistica medicea, tanto da essere paragonato ad Apelle, il pittore di Alessandro Magno. Per saperne di più

SAGGI

Botticelli. Allegorie mitologiche Cristina Acidini Luchinat. Electa, Milano, 2001. L’ultima rosa di aprile. Simonetta Cattaneo Vespucci, la Venere di Botticelli Simonetta Bertocchi. Giovane Holden Edizioni, Viareggio, 2016.


GIOIELLO DEL GOTICO FIORENTINO

La basilica di Santa Maria Novella, dov’è conservato l’affresco della pagina a fianco, è l’emblema del quartiere omonimo nel quale nacque Botticelli. PAOLO GALLO / AGE FOTOSTOCK


R ITR AT TI DEL SUO TE MPO nel corso della sua carriera, Sandro Botticelli eseguì numerosi ritratti per i membri di ricche famiglie fiorentine, primi tra tutti i Medici. Nel dipinto raffigurante L’adorazione dei Magi rappresentò anche sé stesso, riccamente abbigliato, insieme a una rassegna di ritratti medicei, che probabilmente richiamarono l’attenzione dei mecenati sull’artista. Nel suo autoritratto, Botticelli volge lo sguardo

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verso lo spettatore: si tratta di una tecnica, diffusa tra gli artisti, per coinvolgerlo maggiormente nella scena. I ritratti di Botticelli sono basati sul giusto equilibrio tra la correttezza fisiognomica e una certa tendenza all’idealizzazione, come nel caso del ritratto del fratello di Lorenzo il Magnifico, Giuliano de’ Medici. Quest’ultimo fu rappresentato più volte dall’artista, così come lo fu Simonetta Vespucci, la donna amata da Giuliano.


FOTO: SCALA, FIRENZE

Giuliano de’ Medici

Cosimo il Vecchio

R itratto virile

RITRATTO DI GIULIANO DE’ MEDICI, 1475-78 CIRCA. BERGAMO.

RITRATTO DI UOMO CON MEDAGLIA DI COSIMO, 1475 CIRCA. GALLERIA DEGLI UFFIZI, FIRENZE.

RITRATTO VIRILE, 1483-1484 CIRCA. NATIONAL GALLERY, LONDRA.

Nel gennaio del 1475 Giuliano partecipò alla giostra in piazza Santa Croce. In quell’occasione Botticelli realizzò per lui uno stendardo con l’immagine della dea Pallade con le fattezze di Simonetta. Morì pugnalato durante la congiura antimedicea dei Pazzi nel 1478.

L’uomo, identificato probabilmente con Antonio, fratello del pittore, veste secondo la moda borghese del tempo: una lunga veste di colore nero e un berretto rosso. Tra le mani regge una medaglia raffigurante Cosimo il Vecchio. Antonio si era infatti occupato della doratura di alcune medaglie per i Medici.

Questo giovane uomo è rappresentato frontalmente, contro uno sfondo scuro che esalta la luce proveniente da sinistra. Indossa una tunica marrone bordata da una pelliccetta e un berretto rosso. Gli occhi sono grandi e sembrano fissare lo spettatore con intensità.


R IVISITA ZIONE DI BOCC ACCIO nel 1483, poco dopo il ritorno da Roma, Botticelli illustrò l’ottava novella della quinta giornata del Decameron, Nastagio degli Onesti, per le nozze di Giannozzo Pucci con Lucrezia Bini. Ne ignoriamo il committente, ma la presenza dello stemma mediceo in una delle quattro tavole potrebbe far pensare a Lorenzo il Magnifico, parente della sposa. Nastagio è un giovane ravennate innamorato, ma non ricambiato, della figlia di Paolo Traversari. Vagando in una pineta si imbatte in una fanciulla inseguita da

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mastini e in un cavaliere. Si tratta di Guido, che si era ucciso perché rifiutato dalla donna. Ora i due sono costretti a riapparire nello stesso luogo dove ella lo rifiutò e a ripetere la stessa scena: lui deve catturarla e dare il suo cuore in pasto ai cani per tanti anni quanti furono i mesi in cui fu respinto. Nastagio, allora, organizza nella pineta un banchetto al quale invita i Traversari che, inorriditi dalla scena, acconsentono al matrimonio. La serie si conclude con un banchetto dove, cosa rarissima per quel tempo, i convenuti mangiano con le forchette.

ALBUM


IMMAGINE CENTRALE, LA VISIONE DELLA FANCIULLA IN FUGA. A SINISTRA, LA VISIONE DEL CAVALIERE. A DESTRA, IL BANCHETTO NELLA PINETA. LE TRE OPERE SI TROVANO AL PRADO. L’ULTIMA TAVOLA, CON IL BANCHETTO NUZIALE, APPARTIENE ALLA FAMIGLIA PUCCI.

ORONOZ / ALBUM

ALBUM


LE CHIAVI DI UN C APOL AVORO su la primavera, realizzata per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (detto “il Popolano”), esistono molte interpretazioni in chiave mitologica, allegorica, simbolica e storico-celebrativa della famiglia. Secondo l’interpretazione in chiave neo-

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Mercurio con la mano destra alzata agita un caduceo per scacciare le nubi, che non devono rovinare l’eterna primavera del giardino.

platonica dello storico dell’arte Ernst Gombrich, per esempio, il tema centrale dell’opera è l’amore che, sotto l’influsso di Venere, da sensuale diventa intellettuale. La scena è ambientata in un prato primaverile, circondato da alberi d’arancio e pieno di piante di ogni genere. Le Grazie, chiamate da Esiodo Aglaia, Eufrosine e Talia, danzano coperte da vesti trasparenti che sembrano mosse dalla brezza.


Cupido, con gli occhi bendati, sta scagliando una freccia verso la piĂš esterna delle tre Grazie, che intreccia le mani con le altre due.

Zefiro, il vento di ponente che annuncia la primavera, è raffigurato come un essere alato bluastro che tenta di ghermire la ninfa Clori.

Flora, dea della giovinezza, avanza verso il centro con la tunica decorata da fiori di vario genere. Regge un lembo della veste ricolmo di boccioli di rosa, che sparge nel cammino.

Clori cerca di fuggire terrorizzata. Come risultato dell’incontro fecondante con Zefiro vengono generati i germogli che le escono dalla bocca.

ORONOZ / ALBUM

Venere, vestita di bianco e con un mantello vermiglio, sembra seguire con il gesto della mano la danza delle Grazie. Vicino a lei il mirto, il suo simbolo.


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convenzionalmente si inseriscono nella serie mitologica quattro opere: oltre La Primavera e La Nascita di Venere, Botticelli realizzò anche Venere e Marte, distesi in un prato e circondati da satiri che cercano di disturbare il sonno del dio addormentato, e Pallade che doma il Centauro (1484 circa). Anche quest’ultimo dipinto (collocato come La Primavera nel palazzo di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici) si presta a varie interpretazioni: una teoria nata a fine ottocento legge in quest’opera un’esaltazione di Lorenzo il Magnifico, che si era alleato con il Regno di Napoli per scongiurare la partecipazione di questo alla lega antifiorentina promossa da papa Sisto IV. Quindi il centauro rappresenterebbe Roma, mentre Pallade Firenze. La dea ha infatti ricamato lo stemma mediceo sulla veste trasparente e regge un’ enorme alabarda. Sullo sfondo vi sarebbe il golfo di Napoli. In chiave neoplatonica, invece, il dipinto raffigurerebbe la vittoria della ragione sulla brutalità che, seppur armata, diventa docile al suo tocco.

PALL ADE E IL CENTAURO


PALLADE CHE DOMA IL CENTAURO (1484 CIRCA). GALLERIA DEGLI UFFIZI, FIRENZE.

MONDADORI / ALBUM


MADONNA COL BAMBINO. GALLERIA SABAUDA. TORINO.

durante la sua carriera, Botticelli rappresentò spesso il soggetto della Madonna conferendole sempre eleganza e spiritualità. Questo è evidente per esempio nel tondo della Madonna del Magnificat, datato tra il 1481 e il 1485. Realizzato probabilmente per la famiglia di Piero de’ Medici, si tratta di un vero e proprio esperimento ottico poiché le figure appaiono come riflesse in uno specchio convesso. Il titolo dell’opera rimanda a un passo del vangelo di Luca, che la Madonna sta scrivendo aiutata dagli angeli: Magnificat anima mea Dominum, l’espressione con cui Maria si rivolse a Dio durante l’incontro con Elisabetta. Un ulteriore riferimento all’incontro tra le due donne si trova nella pagina di sinistra del libro, dove si intravedono alcune parole della profezia circa la nascita di Giovanni Battista, il figlio di Elisabetta. Gesù, seduto sulle ginocchia della madre, regge in mano il melograno, simbolo della sua futura Passione. Qualche anno dopo Botticelli realizzerà un altro tondo, la Madonna del melograno.

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FOTO: SCALA, FIRENZE

L ADY M ADONNA


MADONNA DEL MAGNIFICAT, GALLERIA DEGLI UFFIZI, FIRENZE, 1481.


SINISTRA: AKG / ALBUM. DESTRA: BPK / SCALA, FIRENZE

RITRATTO DI GIOVANE DONNA, 1475-1480. STÄDEL MUSEUM, FRANCOFORTE.


RITRATTO IDEALE DI DAMA, 1475-1480. GEMÄLDEGALERIE, BERLINO.

MUSA E MODELL A considerata una delle donne più belle della Firenze rinascimentale, Simonetta Cattaneo nacque a Genova (o a Portovenere) nel 1453 per poi andare in sposa, a quindici anni, a Marco Vespucci. Si trasferì quindi a Firenze, dove morì giovanissima, tra il 1475 e il 1476. Alla sua morte divenne una vera e propria musa per artisti e letterati, che vedevano in lei la personificazione della bellezza. Lorenzo il Magnifico, che si era occupato delle cure di Simonetta durante la malattia che l’aveva portata alla morte (probabilmente la tisi) inviandole i migliori medici della sua corte, le dedicò ben quattro sonetti. Agnolo Poliziano, invece, la cantò nelle Stanze per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de’ Medici, nelle quali si alludeva a un amore platonico tra Simonetta e lo stesso Giuliano. Sandro Botticelli realizzò alcuni ritratti di dame in cui i critici hanno riconosciuto la fisionomia di Simonetta, che ravvisano anche in La Primavera come Flora, nonché nella Nascita di Venere e nella dea dell’amore in Venere e Marte.

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ILGIAPPONE S I

S C H I U D E

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IL TRENO DI YOKOHAMA

BRIDGEMAN / ACI

Il disegno di fine ottocento, opera di Hiroshige III, raffigura il treno che circolava lungo i moli di Yokohama, principale porto internazionale del Giappone Meiji e simbolo di modernità. Sotto, contenitore laccato con decorazioni in oro e argento. Museum of Fine Arts, Boston.

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Costretti dai cannoni americani ad aprire le proprie frontiere al commercio estero, i giapponesi capirono di doversi adattare alle regole dell’epoca moderna. Dal 1867 l’imperatore Meiji intraprese una serie di riforme che cambiarono il volto del Paese BR

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BRIDGEMAN / ACI

SCATOLETTA PORTAOGGETTI (INRO) DI HOSADA EISHI DECORATA CON UNA DONNA CHE SCRIVE UNA LETTERA. XIX SECOLO. ASHMOLEAN MUSEUM, OXFORD.

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ORPHEUS26 / GETTY IMAGES

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hi ha vissuto l’epoca di transizione al Giappone contemporaneo si sente prematuramente vecchio; perché anche se da un lato vive nella modernità, dove si discute di biciclette, bacilli e “sfere di influenza”, dall’altro ricorda con chiarezza il Medioevo. Il buon vecchio samurai che iniziò l’autore di questo libro ai misteri della lingua giapponese aveva il codino e due spade. Questa reliquia del feudalesimo riposa oggi nel nirvana». Questa citazione, tratta dall’introduzione che Basil H. Chamberlain scrisse per la sua opera Things Japanese (“Cose giapponesi”), condensa l’essenza dell’era Meiji: un periodo di rapido cambiamento che fece uscire il Giappone da un ordine praticamente feudale per lanciarlo tra le nazioni industrializzate. Una trasformazione di tale portata e velocità che ancor oggi sconcerta, ma che è imprescindibile per comprendere il Paese attuale. Dal XVII secolo le frontiere del Giappone erano chiuse in entrambe le direzioni. Agli stranieri era proibito l’ingresso e gli abitanti non potevano andarsene. Questa politica di isolamento (sakoku) era cominciata agli inizi del secolo con l’espulsione dei missionari cristiani per ordine di Tokugawa Ieyasu, fondatore di una dinastia di shogun (capi militari) che governò a lungo il Paese relegando l’imperatore a un ruolo puramente simbolico. Il sakoku lasciò


SANTUARIO MEIJI JINGU

In questo tempio scintoista situato nel centro di Tokyo si venerano gli spiriti dell’imperatore Meiji e di sua moglie, l’imperatrice Shoken (nome postumo della consorte), anche se le loro ceneri riposano a Kyoto. Eretto in segno di ringraziamento per il ruolo svolto dal sovrano nella restaurazione Meiji, il santuario fu completato nel 1920, diversi anni dopo la sua morte.


LA RIBELLIONE DI SATSUMA

Nel 1877 un gruppo di ex samurai guidati da Saigo Takamori si scontrò con il governo nella speranza di ripristinare il vecchio ordine e restituire alla casta guerriera un ruolo di primo piano. In questa illustrazione, alcuni ribelli in ginocchio si arrendono agli ufficiali dell’esercito imperiale, seduti su delle sedie e vestiti con uniformi in stile occidentale. Sullo sfondo si vedono tre bandiere: quella viola con il crisantemo bianco rappresenta la casa imperiale; la bandiera del sole nascente, al centro, era il vessillo di guerra dell’esercito giapponese, mentre la terza era l’insegna statale.


WHA / AGE FOTOSTOCK


EL MENÚ

DÍAP ER ATO R E L’DEL IM Medalla Dconmemora¡ EL L A M O D ER N ITÀ

Eiffel. 1875. Museo de Orsay, successione trono giapponese. Affrontò l’enorme París. Xeria al sunt sfida di trasformare estem eostiuntis una nazione con un ordine di beaevolectatio. sociale politico feudale in uno stato all’altezza Turpiù alitio endustia dei avanzati Paesi occidentali. Meiji era figlio non rae verferoKomei e di una delle sue concubine, dell’imperatore dis MEIJI (1852-1912) fu il 122° imperatore della linea di

Nakayama Yoshiko, e fu educato nella casa del nonno materno. Salì al trono a 15 anni e a 17 sposò Ichijo Haruko, figlia di un ufficiale imperiale, che non gli diede discendenti. Ebbe comunque quindici figli ufficiali con altre concubine, di cui solo cinque raggiunsero l’età adulta. Uno di questi, Yoshihito, gli successe al trono nel 1912, inaugurando il nuovo periodo Taisho.

per circa duecento anni il Giappone in una sorta di piacevole arretratezza, ma gli permise anche di sviluppare una specificità culturale percepibile ancor oggi: un’aura di Paese misterioso, quasi segreto, distante dal mondo occidentale e dai suoi tentacoli politici e commerciali. Con l’eccezione di una piccola enclave nei pressi di Nagasaki, l’isola di Dejima, dov’era stato autorizzato un insediamento di mercanti olandesi. L’isolamento nipponico non era visto certo di buon occhio dalle nazioni occidentali, interessate a creare delle basi per il traffico marittimo in Estremo Oriente. Per mettere fine a quella chiusura, gli Stati Uniti inviarono una piccola flotta agli ordini del commodoro Perry, le leggendarie Navi nere, che


QUINTLOX / ALBUM

minacciarono di bombardare la capitale, Edo (oggi Tokyo), se il Paese non avesse accettato un accordo commerciale. Dopo una breve resistenza iniziale, i giapponesi si resero conto che la loro unica via di uscita era scendere a patti. Nel 1854 firmarono un trattato di amicizia e pace che li obbligava ad aprire i porti di Shimoda e Hakodate ai mercanti stranieri e a consentirgli di stabilirvi i propri centri.

L’imperatore della modernità L’apertura al commercio creò negli anni successivi un clima di instabilità politica, che si concluse il 3 febbraio 1867 con l’ascesa al trono del giovane principe Mutsuhito, divenuto imperatore con il nome di Meiji (“regno illuminato”).

Mutsuhito capì che per avvicinarsi alle nazioni occidentali erano necessari dei cambiamenti profondi: bisognava modificare completamente la struttura sociale e politica del Giappone, lasciarsi alle spalle l’epoca feudale e sviluppare un sistema parlamentare. Per questo l’imperatore decise di assumere il potere effettivo. Il 9 novembre dello stesso anno l’ultimo shogun Tokugawa si dimise dal suo incarico, aprendo la porta alla cosiddetta “restaurazione”, con cui l’imperatore diventava il leader unico del Paese per promuoverne un’occidentalizzazione a tappe forzate. Il popolo giapponese dimostrò una capacità di adattamento straordinaria. Nel suo famoso libro Il crisantemo e la spada l’an-

LA FAMIGLIA IMPERIALE

Quest’incisione di Yoshu (Hashimoto) Chikanobu raffigura l’imperatore Meiji, sua moglie e il principe ereditario Yoshihito nel 1887. I due uomini sono in uniforme mentre l’imperatrice indossa un abito occidentale.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

111


Il Giappone nel 1875 Annessioni fino al 1914 Zone di influenza

LA BATTAGLIA DI WEIHAIWEI, CONCLUSA IL 12 FEBBRAIO 1895, DURANTE LA GUERRA SINO-GIAPPONESE. INCISIONE. BRIDGEMAN / ACI

L’ESPANSIONE DEL GIAPPONE MEIJI

tropologa Ruth Benedict mise in evidenza una peculiarità dei soldati nipponici: dimostravano un’estrema fedeltà alla patria, ma quando venivano catturati collaboravano senza problemi con l’esercito nemico. Alcuni autori hanno collegato l’origine di quest’attitudine allo shogi, un gioco di strategia simile agli scacchi in cui è possibile riutilizzare i pezzi “mangiati” al proprio avversario. Ma la verità è che l’era Meiji fu un prodigio di adeguamento alle forme occidentali da parte di una nazione che a lungo era rimasta isolata dal mondo.

la restaurazione meiji del 1867 inaugurò la politica espansionistica nipponica in tutta l’Asia orientale. Il Giappone, relativamente povero di risorse naturali, imitò l’Occidente anche nel tentativo di costruirsi un impero coloniale. Il suo grande avversario fu la Russia, che riuscì a espellere dalla Corea nel 1895 per poi sconfiggere nel 1905. La vittoria diede al Giappone il controllo su Port Arthur e la penisola di Liaodong. Cinque anni dopo il Paese del sol levante annetté la Corea e iniziò la penetrazione in Manciuria.

Al ritmo dell’Occidente

112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

IN D I TA I A NN IC A

GUARDIA DI UNA SPADA GIAPPONESE (TSUBA) A FORMA DI SERPENTE. XIX SECOLO. MUSEO D’ARTE ORIENTALE, GENOVA. DEA / ALBUM

periodo edo CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM. BANDIERE: BRIDGEMAN / ACI

Una delle prime modifiche introdotte fu quella del calendario. Nel 1873 Meiji impose a tutto il Paese il calendario gregoriano. Fino ad allora in Giappone il conteggio degli anni ripartiva da zero a ogni nuovo imperatore, e si seguiva il calendario lunare di origine cinese. L’anno era composto da dodici mesi (salvo le periodiche aggiunte di una luna per farlo coincidere con il calendario solare) e iniziava il primo giorno di primavera. Ancor oggi persistono tracce di questo calendario, per esempio nel caso dell’anno scolastico, che inizia in aprile e termina in marzo. Per realizzare la maggior parte dei cambiamenti e instaurare un sistema giuridico e politico equiparabile a quello occidentale furono assunti dei consiglieri britannici,

BR

(1603-1867)

1603

1633

1720

1854

Tokugawa Ieyasu si proclama shogun del nuovo governo a Edo (Tokyo).

I viaggi all’estero, i libri stranieri e il cristianesimo sono proibiti e puniti con la morte.

Vengono autorizzati nuovamente i libri stranieri. Problemi finanziari e disastri naturali.

Il commodoro Perry costringe lo shogunato ad aprire i porti giapponesi al commercio internazionale.


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INDOCINA FRANCESE

periodo meiji

(1868-1912)

periodi contemporanei

1867

1880

1894

1904

1910

1912

Ha luogo la restaurazione Meiji: l’imperatore assume il potere effettivo.

Riforma del sistema monetario e nascita della Banca del Giappone (1882).

Prima guerra sinogiapponese. Il Giappone intensifica il suo sviluppo militare.

Guerra tra Russia e Giappone. Vincono i nipponici, che controllano più territori.

Dopo 2 anni di conflitto con il Paese vicino, il Giappone annette la Corea.

Muore l’imperatore Meiji. I partiti politici iniziano a conquistare potere.

19121926

19261989

1989presente

Periodo Taisho

Periodo Showa

Periodo Heisei


UNA STRADA DI TOKYO NEL 1888

La stampa di Inoue Yasuji mostra la coesistenza di tradizione e modernità nel Giappone Meiji. L’edificio in stile occidentale sulla sinistra è il ristorante Azumatei, con un cartello in francese che reclamizza biliardo e vini. Nella strada si vedono una donna giapponese e suo figlio in abiti tradizionali, due uomini cinesi e altri personaggi vestiti all’europea. Anche i mezzi di trasporto sono misti: accanto al risciò – il taxi urbano dell’epoca, trainato da un uomo – compaiono una lussuosa carrozza occidentale e un velocipede con in sella un uomo con i baffi e in abiti francesi.


MEAD ART MUSEUM, AMHERST COLLEGE, MA / BRIDGEMAN / ACI


Una società in cambiamento

BRIDGEMAN / ACI

EROI DEL PASSATO

Questa fotografia a colori di un samurai in armatura è stata scattata intorno al 1890, quando la casta guerriera aveva ormai perso tutti i suoi privilegi.

francesi, tedeschi e statunitensi. Fu emanata una costituzione, istituito un sistema sanitario e creato un esercito moderno. Vennero abrogati i privilegi della casta dei samurai, ai quali fu imposto un termine entro cui consegnare le proprie spade (katana). Quando videro i loro signori cedere le rispettive terre al governo centrale, questi guerrieri dall’aria fiera e solenne deposero le armi senza opporre resistenza. Le katana, che un tempo avevano rappresentato l’a-

MOLTI SAMURAI CADDERO NELLA MISERIA PIÙ ASSOLUTA E CONTINUARONO A VIVERE NELLE LORO MALCONCE ABITAZIONI, COME VECCHIE ARMI DISMESSE, DIVENTATE INUTILI 116 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

I samurai non ebbero tutti la stessa sorte. Privati delle armi e dei loro simboli di appartenenza, inizialmente poterono beneficiare di una rendita simile a quella che prima riscuotevano dai loro daimyo. Al termine delle sovvenzioni, alcuni si erano perfettamente integrati nel nuovo ordine e occupavano ruoli di rilievo nel governo. Altri, invece, si ritrovarono in uno stato di assoluta indigenza, che tendevano a nascondere al resto della società. In numerose occasioni continuarono a vivere nelle loro abitazioni cadenti, come vecchie armi dismesse, ormai diventate inutili al mondo moderno. A trarre maggior beneficio dei cambiamenti in atto furono i commercianti. I nuovi porti internazionali divennero i centri di un’intensa attività mercantile e turistica, e il Giappone entrò rapidamente nel nascente circuito dei globe-trotter di tutto il mondo. Il Paese esportava soprattutto seta, lacche, porcellana, legno, mobili e oggetti d’arte. Inizialmente disprezzati dagli occidentali perché considerati poco affidabili, i mercanti giapponesi si costruirono ben presto una solida reputazione. Anche la vita quotidiana

FOTO: 1. BRIDGEMAN / ACI. 2. AKG / ALBUM. 3. SCALA, FIRENZE. 4. GETTY IMAGES. 5. AGE FOTOSTOCK

nima del samurai, ora si accatastavano in cumuli di ferraglia a ogni angolo di strada. Tutte le classi sociali furono interessate da questi cambiamenti. I clan nobiliari persero i loro possedimenti feudali (daimiati) e per sopravvivere dovettero modificare le proprie funzioni. Alcuni, come Satsuma, Choshu o Nabeshima, diventarono gruppi di pressione, mentre altri affiancarono all’attività politica le iniziative commerciali, gettando le basi dei grandi gruppi economici giapponesi, come Mitsubishi. I nobili (kuge) conservarono i loro titoli, ricevettero incarichi amministrativi e si videro assegnare una pensione.


1.

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5.

1. EDO DI NOTTE. SCUOLA GIAPPONESE, MUSEO D’ARTE ORIENTALE EDOARDO CHIOSSONE. 2. RITRATTO DI CHIOSSONE. 3. ARMATURA E ARCO, MUSEO D’ARTE ORIENTALE EDOARDO CHIOSSONE. 4. FRANCOBOLLO COMMEMORATIVO DELL’INCISORE ITALIANO. 5. MENUKI IN AVORIO A FORMA DI MASCHERA. XIX SECOLO. MUSEO D’ARTE ORIENTALE EDOARDO CHIOSSONE.

della gente subì profondi mutamenti. I luoghi pubblici divennero il punto d’incontro di due mondi differenti. Se fino alla seconda metà del XIX secolo i giapponesi vestivano esclusivamente in modo tradizionale, con kimono e sandali di legno (geta), le strade improvvisamente si riempirono di uomini in giacca e cravatta, scarpe in pelle e bombetta. Sulle tavole, accanto alle bacchette fecero la loro comparsa forchette e coltelli mentre le abitazioni di cemento affiancarono le tipiche costruzioni di legno con pavimento in tatami. Cambiarono le pettinature, l’alimentazione e le forme di intrattenimento. Le città e l’intero Paese furono invasi da treni e tram, e le stazioni si trasformarono in centri commerciali. Gli studenti delle scuole in-

U N ITA L I A N O N EL G I A P P O N E M EI J I EDOARDO CHIOSSONE fu forse il più importante consulente straniero italiano dell’epoca Meji. Dopo una formazione in belle arti a Genova, si specializzò nelle tecniche di incisione e stampa dei valori. Nel 1875 fu invitato a Tokyo dal governo giapponese per fondare e dirigere l’Officina carte e valori del ministero delle finanze. Oltre a dare un importante contributo alla modernizzazione del Paese, eseguì una serie di ritratti dei personaggi principali dell’epoca, tra cui l’imperatore Meiji, e redasse una monumentale rassegna illustrata del patrimonio culturale nipponico. L’ampia collezione di arte che raccolse in quel periodo fu trasferita a Genova dopo la sua morte, dov’è tutt’ora esposta al Museo d’arte orientale Edoardo Chiossone, nella Villetta Di Negro.


L’ALTA SOCIETÀ SI DIVERTE

Quest’incisione mostra una scena di ballo in uno dei saloni del Rokumeikan, un magnifico edificio in stile occidentale costruito a Tokyo nel 1883 per impressionare i visitatori stranieri. Il Rokumeikan si trovava vicino al palazzo imperiale e divenne ben presto famoso per le sue feste vivaci, in cui si riuniva la crema della società giapponese dell’epoca per danzare ai ritmi occidentali di valzer, polke o mazurche. Ospiti locali e stranieri andavano vestiti all’ultima moda e degustavano gli elaborati piatti della cucina francese.


BPK / SCALA, FIRENZE


BRIDGEMAN / ACI

UCCELLO APPOLLAIATO SU UN RAMO. PARTICOLARE DI UN DIPINTO GIAPPONESE DEL XIX SECOLO.

UNA STRADA A OSAKA

Questa fotografia a colori è stata scattata nella via Dotonbori alla fine del XIX secolo. Costruita nel XVII secolo per volontà di un mercante di nome Yasui Doton, la strada fu distrutta da un terremoto nel 1707 e poi completamente ricostruita. Dotonbori recuperò presto la sua importanza ed è ancor oggi una delle principali vie dello shopping di Osaka, nonché importante zona di svago, rinomata per i teatri, i ristoranti e i caffè.


BROOKLYN MUSEUM OF ART, NEW YORK / BRIDGEMAN / ACI


dossavano divise simili a quelle dell’esercito prussiano e le donne passarono rapidamente dalle infradito alle scarpe col tacco. Il Giappone cambiò, ma senza staccarsi completamente dal suo passato. Il tradizionale stile orientale continuò a convivere con le nuove usanze occidentali, riservate a determinati ambienti e a occasioni particolari. I giapponesi non dimostrarono solo una grande capacità di adattamento, ma seppero anche operare una sintesi tra due culture profondamente differenti.

L’anima del Giappone Durante il periodo Meiji cambiò anche la condizione delle donne. La nuova enfasi posta sul ruolo di moglie e di madre portò paradossalmente a un peggioramento della condizione femminile rispetto alle epoche precedenti. Nel nuovo ordine giuridico le donne erano completamente sottomesse al marito in forme prima sconosciute. Anche la nuova istruzione universale era discriminatoria da una prospettiva di genere: le donne non potevano effettuare gli stessi studi degli uomini, ma la loro educazione era circoscritta alle mansioni familiari e sociali che rientravano nel nuovo concetto di ryousaikenbo (“buona moglie e madre saggia”). Il sistema pedagogico giapponese era stato gestito fino ad allora dai templi buddisti e dai clan. Meiji creò scuole militari e civili per lo studio del commercio, dell’industria o delle lingue straniere, che in seguito sarebbero diventate università. Istituì anche un programma per inviare alunni giapponesi a studiare in Europa. Uno di loro fu Natsume Soseki, il grande romanziere giapponese di quel periodo, che seppe catturare come nessun altro lo spirito convulso, diviso e tormentato del suo tempo. L’autore di Io sono un gatto e Il signorino

LAVORATRICE E MADRE

Una donna tiene in braccio un bambino mentre lavora nel suo negozio di curiosità in una città giapponese durante il periodo Meiji. Fotografia a colori scattata nel 1890.

NELL A NUOVA SOCIETÀ MEIJI LE DONNE VIDERO DIMINUIRE I PROPRI DIRITTI RISPETTO ALL’EPOCA PRECEDENTE E SI RITROVARONO TOTALMENTE ASSOGGETTATE AI MARITI 122 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

fu il maggior esponente di quel dualismo Oriente-Occidente caratteristico del periodo Meiji: studiò in Inghilterra, ma non amava la vita britannica; scriveva poesie in cinese indossando i tradizionali abiti giapponesi, ma lavorava vestito all’occidentale ed esprimendosi in inglese. Gli insegnanti assunti dal governo nipponico erano per lo più anglosassoni. Alcuni di loro furono acuti osservatori e cronisti di quell’epoca, come Lafcadio Hearn, conosciuto anche come Koizumi Yakumo. Trasferitosi in Giappone nel 1890, Hearn sposò Koizumi Setsu – una ragazza proveniente da una povera famiglia di samurai – e prima di morire, nel 1904, scrisse alcune delle pagine più belle che un occidentale abbia mai dedicato al Paese del sol


MARY EVANS / SCALA, FIRENZE

levante. A Matsue, una cittadina tradizionale situata sull’isola di Honshu, Hearn conobbe gli aspetti meno noti del vecchio Giappone e della sua gente e scrisse la cronaca di un mondo che stava scomparendo, quello del wabi, l’arte dell’umile e dell’incompiuto. Secondo Hearn quel Giappone non rappresentava una rottura radicale con il passato: «Ciò che è accaduto non è una trasformazione, ma semplicemente l’applicazione di vecchie competenze a nuovi ambiti», scrisse nel saggio Kokoro. Nel 1912, alla morte di Meiji, salì al trono suo figlio Taisho. Il Giappone si era radicalmente occidentalizzato, mentre le guerre contro Cina e Russia e l’annessione della Corea gli avevano permesso di affermarsi militarmente. Le pulsioni belliche si

diffondevano nella società, riflesso di quella corsa agli armamenti che in ultima istanza avrebbe portato a nuovi conflitti con la Corea e la Cina, e poi allo scontro con gli Stati Uniti. Pur con le sue ombre, il periodo Meiji sarà sempre ricordato come un esempio unico di cambiamento sociale. JOSÉ PAZÓ ESPINOSA SCRITTORE E TRADUTTORE DAL GIAPPONESE. PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID

Per saperne di più

SAGGI

Il Giappone moderno. Una storia politica e sociale Elise K. Tipton. Einaudi, Torino, 2011. Storia del Giappone e dei giapponesi Robert Calvet. Lindau, Torino, 2017. ROMANZI

Io sono un gatto Natsume Soseki. BEAT, Milano, 2018.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI ENIGMI

Lo stretto di Anian: la ricerca di una chimera Nel XVI secolo esploratori e navigatori andarono alla ricerca di un passaggio tra Asia e America descritto da Marco Polo lano risolse parzialmente il problema attraversando lo stretto a sud del continente americano che oggi porta il suo nome. Ma la lunghezza e la pericolosità della tratta la rendevano poco attraente, così molti navigatori iniziarono a cercare un passaggio alternativo a nord.

Il leggendario stretto Sebbene le latitudini settentrionali fossero più avverse alla navigazione di quelle australi, si credeva che nell’estremo nord dell’America ci fosse un passaggio interoceanico. Nel XVI secolo prevaleva la visione dei geografi antichi, i quali concepivano la terra come un insieme di masse

terrestri circondate dall’acqua. E la teoria sembrava trovare conferma, nell’emisfero sud, dalla scoperta della rotta attraverso il capo di Buona Speranza in Africa e di quelle attraverso lo stretto di Magellano e il canale di Drake (il tratto di mare che separa l’America dall’Antartide). La stessa situazione doveva presentarsi a nord, non a caso uno dei principi dell’alchimia recitava: «Ciò che è sopra è sotto». Per questa ragione a partire dal XVI secolo iniziò la ricerca di un passaggio settentrionale tra l’Atlantico e il Pacifico. Gli inglesi partirono dall’Atlantico e si addentrarono negli immensi stretti e baie dell’attuale

CARTA IMMAGINARIA L’IMPORTANTE carta geografica del nord America

pubblicata a Venezia nel 1566 è stata a lungo attribuita a Bolognino Zaltieri ma un recente studio ha identificato come autore lo stampatore Paolo Forlani. Il dettaglio della carta qui accanto mostra chiaramente il passaggio tra America e Asia, detto stretto di Anian. GRANGER / ALBUM

124 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

GALEONI

ORONOZ / ALBUM

N

el 1513 Vasco Núñez de Balboa avvistò da una collina di Panama «un’enorme distesa di acqua» che battezzò mare del Sud e che poco più tardi fu chiamata anche Pacifico. Ciò confermava che l’America era un immenso continente e gettava le basi per un’ovvia sfida: trovare una rotta marittima che, costeggiando quella vasta massa di terra, unisse gli oceani Atlantico e Pacifico. L’idea era particolarmente appetibile per la corona spagnola, che dominava l’America e sperava di raggiungere le ricchezze dell’Asia passando per questa rotta. Nel 1520 Magel-

spagnoli del XVI in un’incisione dell’epoca.

Canada in cerca del “Passaggio a Nord-Ovest”. Gli spagnoli invece avanzarono dal Pacifico, dall’altra parte del continente, seguendo la costa a nord della penisola della California, che all’epoca si riteneva fosse un’isola. Fu questa la via che tra il 1540 e il 1543 seguirono Francisco de Ulloa, Pedro de Alvarado e Juan Rodríguez Cabrillo. Le tempeste – e in un caso, un moto di ribellione – intralciarono le spedizioni, che non an-


GEOGRAFIA MITICA IL BRANO di Marco Polo che ispirò i carto-

viglie del mondo pubblicata nel 1559, in cui si fa riferimento a un «golfo [che] dura di lunghezza per lo spazio di due mesi, navigando verso la parte di tramontana, il qual per tutto confina verso scirocco con la provincia di Mangi e dall’altra parte con Ania, e Toloman […] Questo golfo è tanto grande, e tante genti abitano in quello, che par quasi un altro mondo». Da qui si dedusse che il golfo in questione era lo stretto che separava

MINIATURA DEL LIBRO DELLE MERAVIGLIE DEL MONDO. XV SECOLO.

DEA / ALBUM

darono oltre il 43° di latitudine nord, raggiunto nel 1543 da Ferrelo, marinaio di Cabrillo. Le esplorazioni si interruppero ma la curiosità aumentò. Tanto che intorno al 1560 si iniziò a pensare che America e Asia fossero separate da uno stretto che diede origine a uno dei miti geografici più longevi: quello dello stretto di Anian. Il nome deriva da Marco Polo, più precisamente da un brano presente in un’edizione italiana del Libro delle mera-

grafi veneziani intorno al 1560 si considera un’aggiunta postuma e non è inclusa nelle edizioni attuali del Libro delle meraviglie del mondo. In queste si parla piuttosto della terra di Annam, situata a est della Cocincina, nell’attuale Vietnam.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI ENIGMI

Lo stretto tra Asia e America I CARTOGRAFI della fine del XVI secolo – come Hondius nella carta riprodotta qui sotto – indicarono

ALAMY / ACI

a nord-est del continente americano, all’altezza del circolo polare artico, una “terra di Anian” che corrisponderebbe allo stretto di Bering, scoperto nel XVIII secolo.

l’Asia dall’America e che Anian, Aniu o Anina era una regione del Nuovo Mondo. Così lo raffigurò il cartografo veneziano Giacomo Gastaldi in una mappa del 1561 che, sebbene non sia arrivata a noi, ispirò probabilmente quella di Paolo

Forlani del 1566, in cui viene indicato lo stretto di Anian. Anche altri cartografi dell’epoca adottarono questa denominazione.

Realtà o finzione? La pubblicazione di queste opere risvegliò l’interesse per l’esplorazione della costa americana a nord della California alla ricerca del misterioso stretto. L’inglese

Drake la percorse nel 1579 e alcuni anni più tardi ripeterono l’impresa due spagnoli, Cermeño (1595) e Vizcaíno (1602) ma nessuno di loro si spinse oltre quel 43° parallelo già raggiunto da Cabrillo nel 1543. Lo stretto di Anian sembrava lontano dalla portata dei marinai. Tuttavia, nel 1596 il greco Apóstolos Valeriános, più noto come Juan de Fuca,

Nel 1728 Bering attraversò lo stretto tra Asia e America in cui si sarebbe trovata la mitica terra di Anian VITUS JONASSEN BERING. RITRATTO DELL’ESPLORATORE E NAVIGATORE DANESE. XVIII SECOLO. INTERFOTO / AGE FOTOSTOCK

raccontò a Michael Lok, il console inglese di Aleppo, una strana storia da cui si deduceva che avesse raggiunto lo stretto di Anian. Fuca sosteneva di aver affrontato due viaggi in qualità di pilota incaricato dal viceré della Nuova Spagna. La prima spedizione era fallita a causa di una rivolta ma, durante la seconda nel 1592, al comando di una caravella e di una lancia aveva raggiunto quello che chiamò stretto di Nova Hispania, a 47° di latitudine nord. Fuca diceva di aver navigato in quelle acque per venti giorni fino a raggiungere il mar Settentrionale. Descriveva una


STRETTO DI JUAN DE FUCA,

KEVIN SCHAFER / GETTY IMAGES

situato tra l’isola di Vancouver e il continente americano, dove sarebbe arrivato Juan de Fuca.

terra calda, popolata da gente ricca di oro, di argento e di perle. Tornato ad Acapulco non ottenne alcun riconoscimento dalla corona spagnola e, sentendosi truffato, si ritirò nella sua Cefalonia, dove cercò di ottenere un finanziamento dagli inglesi tramite il console Lok, ma morì prima di riuscirvi. Gli sforzi per confermare la veridicità dei viaggi di Fuca si rivelarono vani. Nel 1802 fu condotta un’esaustiva ricerca nell’Archivio generale delle Indie di Sevilla senza che fosse trovato alcun riferimento a Fuca, fatto strano considerata l’efficienza dell’amministrazione co-

loniale spagnola. Viene da pensare, dunque, che la sua sia stata un’invenzione.

Il passaggio a nord-est Un caso più eclatante di impostura è quello di Lorenzo Ferrer Maldonado. Nel 1609 questo navigatore di Granada presentò al governo di Felipe II alcuni resoconti in cui narrava un sensazionale viaggio effettuato nel 1588. Sosteneva di essere partito da Lisbona con una nave diretta a Terranova, di essere entrato nell’attuale baia di Hudson per poi sfociare nel Pacifico dopo un lungo viaggio, a 60° di latitudine nord. Assicurava che du-

rante l’ultimo tratto aveva navigato in un passaggio stretto e limpido circondato da terre fertili che riteneva perfettamente adatte alla colonizzazione. Il passaggio era il famoso stretto di Anian. Molti dettagli del suo racconto non risultano credibili. Per esempio, che avesse viaggiato in febbraio e in meno di due mesi senza aver mai perso di vista il sole, nemmeno a 66° di latitudine nord, cosa impossibile a causa del freddo e dell’inclinazione dei raggi solari. Lo stretto di Anian rimase nei pensieri dei governanti europei fino al 1728, quando

il danese Vitus Bering attraversò per la prima volta lo stretto che separa l’Alaska dalla Siberia e che oggi porta il suo nome. Tuttavia il mistero del Passaggio a Nord-Ovest lungo la costa canadese sopravvisse a lungo. La sua esistenza venne dimostrata nel 1906 dal viaggio del norvegese Roald Amundsen a bordo del veliero Gjøa. Ma questa è un’altra storia. —Xabier Armendáriz Per saperne di più Il nuovo mondo nella coscienza italiana e tedesca del Cinquecento A. Prosperi, W. Reinhard. Il mulino, Bologna, 1993.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA MEDIOEVO

Percorsi affettivi tra Alto e Basso Medioevo

N Damien Boquet, Piroska Nagy (traduzione di Gian Mario Cao)

MEDIOEVO SENSIBILE Carocci 2018; 388 pp.; 27,20 ¤

on solo di gerarchie, comando e obbedienza vivevano gli uomini e le donne del Medioevo. Non solo di scambi economici, ritmi di produzione e tassi d’imposta erano costellate le loro vite. Alla base di queste pratiche e azioni c’era infatti tutto un cosmo interiore fatto di sospiri e fiati sospesi, di palpiti emozionali. Questa dimensione intima, privata è stata per troppo tempo trascurata dagli storici.

Medioevo Sensibile esplora i percorsi dell’affettività dal III al XV secolo: una sorta di “tour” negli animi umani, a cominciare da Luigi IX di Francia, meglio conosciuto come “il Santo”. Il cronista inglese Matthew Paris descrive il sovrano al ritorno dalla fallimentare crociata nel 1254 come un uomo «costernato nel cuore e nel viso», depresso, prostrato dalla tristezza ma anche dalla vergogna di aver fallito la sua missione di re cristiano. I principi piangevano le

sfortune dei propri regni suscitando nelle folle sentimenti d’umana compassione, oppure lasciavano la loro ira abbattersi sui ribelli da punire. In tal senso, pur essendo noto per la propria saggezza e benevolenza, il re dei Franchi e imperatore carolingio Ludovico il Pio nell’818 fece imprigionare e accecare il nipote Bernardo d’Italia, che aveva osato sfidare la sua autorità. «Tutte le emozioni possono animare il teatro politico e alimentare gli equilibri sociali», dato che attraverso di esse «si negozia e si governa». È quanto affermano gli storici Damien Boquet e Piroska Nagy nel tracciare una storia culturale dell’affettività nell’Occidente medievale cristiano.

ENIGMI SURREALISTI

LA VITA QUOTIDIANA NELLA MESOAMERICA ALLE SOGLIE del quinto centenario della conquista

del Messico, la cultura materiale dei cosiddetti “vinti” – aztechi, maya e inca – è presentata attraverso un’esposizione di 300 pezzi unici in ceramica tra i quali giare, bottiglie antropomorfe e altri oggetti d’uso quotidiano della Mesoamerica e dell’area peruviana, custoditi nei depositi del MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza) e mai esposti. A detta dei curatori Antonio Aimi e Antonio Guarnotta, uno degli obiettivi della mostra è l’eliminazione di stereotipi riguardo alla posizione tutt’altro che marginale delle donne in alcune società guerriere e solo apparentemente maschiliste della costa nord del Perù. MIC, FAENZA Fino al 28 aprile 2019 • micfaenza.org

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INSIDE MAGRITTE Fabbrica del Vapore, Milano fino al 10 febbraio 2019 insidemagritte.com

che galleggiano nel cielo delle metropoli, corpi umani con la testa di pesce e la famosa “pipa non pipa”. Sono queste le figure più significative delle opere del pittore belga René Magritte. «Il suo significato è UOMINI IN BOMBETTA

sconosciuto, poiché il significato della mente stessa è sconosciuto», affermava egli stesso a proposito della propria arte. Il “mondo enigmatico” di Magritte è reso per la prima volta per mezzo di una mostra digitale e multisensoriale, un percorso espositivo tra il reale e l’immaginario curato dalla storica dell’arte Julie Waseige. Grazie al sistema Matrix X-Dimension, un imponente apparato di proiettori laser in grado di trasmettere dalle pareti al pavimento oltre 40 milioni di pixel, sarà restituita al pubblico una selezione di 160 opere del maestro surrealista. Un itinerario che attraverserà tutte le fasi della carriera dell’artista, dalle prime opere surrealiste fino al periodo post bellico.


IN ED ICO LA

Storia dell’Universo

Speciale Storica

è stato rilevato un tipo nuovo di materia, radicalmente differente da quella tradizionale, che si estende in tutto l’universo. Viene chiamata oscura in quanto risulta difficile rilevarla anche se è presente in quantità molto maggiore rispetto alla materia ordinaria. Assieme alla non meno misteriosa energia oscura, costituisce il 95% del contenuto totale del cosmo. La sua densità è tale che da essa dipende il destino di tutto l’universo. Le ricerche in merito alla sua natura potrebbero aprire orizzonti nuovi aiutandoci a comprendere la realtà. Prezzo 9,90¤

ALLA FINE DEL I SECOLO,

LA MATERIA OSCURA N EG L I U LT I M I D EC E N N I

ROMA DOMINA IL MONDO i Flavi (Vespasiano, Tito e Domiziano) protessero le frontiere dell’impero e concessero la cittadinanza agli abitanti delle province. A loro succedettero gli “imperatori buoni” (gli Antonini Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Lucio Vero e Marco Aurelio), che nel II secolo portarono l’impero alla sua massima estensione. Con Commodo ci fu di nuovo la guerra civile fino a che i Severi cercarono di ristabilire l’ordine e contenere la pressione alle frontiere, prima di cadere nel periodo di anarchia militare che caratterizzò la crisi del III secolo. In edicola dal 5 ottobre. Prezzo 9,90¤


Prossimo numero LA VITA NELL’ULTIMO PERIODO GLACIALE PER 100MILA ANNI il clima

SPL / AGE FOTOSTOCK

del Vecchio Mondo fu sensibilmente più freddo di quanto non lo sia oggi. Fu in quel periodo che il continente venne popolato dalla nostra specie, l’Homo sapiens, che riuscì ad adattarsi alle dure condizioni climatiche e a colonizzare il continente partendo dalle caverne e dagli anfratti rocciosi in cui abitava, le cui pareti conservano tuttora la testimonianza pittorica di quell’epoca.

BELLE ÉPOQUE: PARIGI, LA PRIMA CAPITALE MODERNA ALLA FINE del XIX secolo Parigi, una città abituata ai cambiamenti, si lanciò in una corsa verso la modernità che non avrebbe più avuto fine. L’elettricità, i moderni mezzi di trasporto alla portata di tutti e le nuove forme di intrattenimento fecero della capitale francese un emblema dell’”epoca felice” che l’Europa visse prima dello scoppio della Prima guerra mondiale. FINE ART IMAGES / ALBUM

I trionfi di Cesare I successi militari davano a Cesare il diritto di celebrare tre trionfi, come aveva fatto Pompeo prima di lui. Ma il nuovo padrone di Roma voleva superare il suo rivale.

Le congiure contro Alessandro Nel corso della sua marcia trionfale in Asia Alessandro Magno non dovette affrontare solo nemici esterni, ma anche gli intrighi nel proprio seguito.

La morte di Riccardo Cuor di Leone Il 26 marzo del 1199, mentre il re d’Inghilterra controllava l’evolversi dell’assedio di un castello dell’Aquitania, un balestriere ferì a morte il monarca.

Elisabetta I versus Filippo II La religione e la politica trasformarono i due sovrani da quasi sposi in rivali, in una lotta senza tregua per la gloria e il potere sul palcoscenico mondiale.


10-11 novembre 2018 Ferrara Fiere sabato ore 10-19 • domenica ore 10-18

tracce.com

viaggio nel tempo tra luoghi, sapori e rievocazioni storiche in contemporanea:

www.usiecostumi.org



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